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Tuesday, July 22, 2025

LUIGI SPERANZA, PEL GRUPPO DI GIOCO DI H. P. GRICE, "GRICE ITALO" A-Z F

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabiani: l’astuzia della ragione conversazionale nell’Italia --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice e Fabiani. garbarti College Hxav^ OIKT OF THE DANTE SOCIETY H Ivo, l>i 0. 1 X:u l'io. IS~ IL PENSIERO FILOSOFICO ITALIANO X)A X)ANT AI TSMtPX NOSTKX RAVENNA ZIRARDINI ^v/'i^./iT : ' f ; r'. DEC 4 Y .r, .\ / oSeni^fto ^^Uolt Oliando in questo scorcio del secolo nostra io trovo la mente acuta e profonda dell' On, BoviOy gigante del moderno pensiero filosofico italiano ali* Universit di ^N^apoli, chiamare t dimostrare il nostro T)ante il primo dei protestanti e V uU timo dei cattolici ( Vedi Bovio. Saggio Critico del Diritto Penale). Quando trovo un Ministro italiano della Pubblica h stru^ione, V On. Voselli, che osa, con %,. Decreto // 7)e cemhre iSSp, fondare un laboratorio di psicologia sperimentale presso V Universit di Roma; Quando vedo il giovine imperatore di Germania Gugliel mo IL che annusando la nuova aura e il nuovo sole d' Eu- ropa e del mondo civile, mira arditamente a Prometeo incolume e trovasi novello Fetonte^ nel voler destra e generosamente prendere le redini del movimento ascendente, per non esserne travolto; Quando infine, e proprio di questi giorni^ rilevo il primo filosofo d' Inghilterra, il rappresentante attuale del positivismo filosofico inglese, V illustre Herbert Spencer essere pervenuto^ nelle sue ultime pubblicazioni sociologiche, alla conseguenza della collettivit della terra; Quando, dico, in questo secolo che muore, questi quattro fatti e criteri importantissimi nel mondo del moderno pensiero filosofico io considero^ mi sento incoraggiato a superare e rompere in parte, con la presente pubblicazione ^ quel naturale riserbo e quella peritanza, che ^finora m' impose la coscienza della mia pochezza Mi sia adunque concesso e perdonato l'osare che ora faccio, pubblicando la conferenza circa il pensiero ftlosofteo italiano da Dante fino ai tempi nostri, che io avea gi apparecchiato, sebbene non potesse poi aver pi luogo, in occasione delle feste dantesche del passato Maggio qui in Ravenna. Questa mia pubblicazione poi intendo di fare a favore del primo fondo per il test costituito Patronato di soccorso in vesti e calzature, per gli scolari poveri delle scuole elementari di questo Comune, specie dei sobborghi, avendo potuto nel passato anno scolastico toccare con mano V impellente hiso ^^^1^f Hi^ll' A r - fi tl^r"n-d^i, ^0 i fnm i^ rt d tv La filosofia patristica invece, o dei Padri della Chiesa, erasi sviluppata m Oriente da due centri rivali, Alessandria ed Antiochia. La patristica, incominciata col Cristianesimo, fiss la parte dogmatica della cristiana religione, e giunge fino a S. Agostino, morto il 450 dell' era volgare. Di S. Agostino  celebre il modo strano d'accordare assieme nell' uomo il libero arbitrio e la predestinazione, merc la grazia divina. Ma qui m'accorgo che a meglio dilucidare il nostro punto di partenza convien pure rif^irci un pochino addietro, per intuire almeno d'un tratto il lungo cammino percorso dalla filosofia prima di Dante. Tutta la filosofia anteriore al mondo cristiano si pu dividere in quattro grandi epoche, i. La filosofia orientale che ebbe sua culla tra i primi popoli civili, che la storia ricordi, quali i Fenici, gli Assiri, i Medi e gli Egiziani: Feticismo in religione. 2. La filosofia italo-greca incominciata con Pitagora a Cotrone nella Magna Grecia od Italia meridionale: Sabeismo e metempsicosi in religione. 3. La filosofia greca che conta tre immensi giganti del pensiero, luminari di tutte le nazioni e di tutti i tempi, e questi sono Socrate, Platone ed Aristotele, i quali senza dubbio si possono considerare siccome primi e pi remoti fondatori del* la civilt cristiana stessa: Politeismo ed antropomorfismo in religione. 4. La filosofia romana; ma in quest' epoca non abbiamo veramente alcuna nuova scuola filosofica div/ersa dalU greca. La filosofia romana non  perci originale, ma pratica, politica, eclettica e giuridica sopra tutto. Segui in parte la scuola epicurea, ma pi e meglio la scuola stoica di Zenone che poneva il fine (iell'uomo nell'onest e nella virt; di qui la meravigliosa sapienza della romana giurisprudenza, nobile vanto del mondo romano. A capo della filosofia romana  posto Cicerone, celebre oratore e filosofo eclettico per eccellenza: Panteismo e scetticismo in religione. Parimente quattro sono le principali epoche 4clla filosofia dell' ra cristiana, i. La filosofia patrstica seguace in buona parte della filosofia di Platone o della A^cade(pia, per quanto poteva condursi al dogma crispano. I p^t - ij dri fissarono dapprima il gran caposaldo della cristiana religione col dogma della creazione divina fino dal 325 dell' ra volgare, nel celebre concilio ecumenico di Nicea, indetto dall' imperatore Costantino. In quel concilio ed in altri parecchi stabilirono successivamente i padri della Chiesa le basi dogmatiche della cristiana dottrina: Monoteismo cristiano in religione. 2. La filosofia scolastica o dei Dottori di scuola, seguaci specialmente d'Aristotele o del Peripato, principe dei quali S. Tommaso d* Aquino, che mitig la teoria della grazia di S. Agostino, onde V apotegma teologico: ngustiius egei Thoma interprete. Ma in questo lungo periodo, che giunge fino alla Riforma, la filosofia gi circoscritta dalla dottrina dogmatica della patristica,  ormai ancella della teologia; laonde il pensiero filosofico  chiuso in un ristretto campo trincerato da anatemi. 3. La filosofia della Riforma religiosa in Germania e del cosi detto Risorgimento in Italia.  questo periodo il pi fecondo di splendidi ingegni e di illustri filosofi e pensatori in Italia e nelle nazioni civili d' Europa. Il pensiero filosofico emancipato d per reazione la scalata al cielo e giunge trionfante per evoluzione e per irruzione fino a nostri tempi, sfondando le dogmatiche barriere di Bisanzio. 4. La filosofia del Rinnovamento sarebbe quella della 4. epoca dell' era cristiana, e sarebbe quella appunto de nostri giorni, divisa in due campi opposti; cio dellaffermazione in un nuovo mondo soprannaturale o nel gi posto da una parte, e della negazione pi o meno esplicita dall'altra. Quest' ultima nel cammino dell' umanit caratterizza sempre un periodo di transizione a nuove riforme o costruzioni. Delineate cosi brevemente le grandi tappe della filosofia pagana e della filosofia cristiana patristica, noi e i vedremo ora meglio rischiarato il cammino passando dalla filosofia scolastica a quella della Riforma e del Risorgimento e quindi alla filosofia odierna del Rinnovamento. Nella esplicazione della vita dei popoli accade quello stesso che noi osserviamo nella vita dell'uomo individuo. Le potenze dell' animo una volta educate un po' a lungo, pare si sveglino, chiaro appare ci che innanzi era oscuro, si ordina nel pensiero quanto si ha imparato, si ripensano le cose apprese, se ne parla, se ne ragiona e si passa quindi all'azione con tenace operosit. Cosi avviene nei popoli quando la civilt loro e la precedente educazione sieno giunte a poco a poco alla portata dei pi : questi provano insieme la stessa necessit di pensiero e la corrispondente esplicazione, ed il moto si propaga irresistibilmente nelle moltitudini. Tale vigore si pales appunto nel popolo italiano, uscito gi dalle tenebre del medio evo e dal paventato finimondo, nel secolo dodicesimo e giunse al colmo nel secolo decimo terzo in ogni maniera del vivere civile, nella letteratura e nelle arti, mentre fioriva la filosofia scolastica. Col secolo decimo terzo noi siamo all'apice della nostra rinascenza ed alle porte dell' umanesimo; onde pi tardi l' Europa da noi ridesta trarr lume ed energia a risveglio ancor maggiore con la Riforma religiosa e politica. Dante  il principe di questa nostra rinascenza. La sua filosofia  quella di S. Tommaso il Dottore Angelico, autore delle due Somme, una contro i Gentili e l' altra detta Teologica, sebbene non ultimata. In queste due Somme si adunano ed ordinano le dottrine precedenti dei Padri e Dottori, quali specialmente Sant' Agostino, Sant'Anselmo, Pier Lombardo, Alberto Magno, San Bonaventura e gli altri, con la scorta di Aristotele. Tutte le opere di Dante, quale sommo letterato, teologo e filosofo, hanno non piccola importanza nella storia della filosofia, procedendo gradatamente dalla Vita nuova, dalle poche Lettere .scoperte e pubblicate dal prof. Carlo Witte in Germania verso il primo quarto di questo secolo, dalla Monarchia^ dall' Eloquio volgare e dal Convito fino alla Divina Commedia. La filosofia di S. Tommaso e di Dante si pu distinguere, come nei precedenti filosofi Socratici, e come in Cicerone ed in Sant'Agostino, in due parti distinte; Tuna che sale agli universali, V altra che scende alle conseguenze. Per mentre la prima parte muove dall'esame de' fatti interiori, Dante in essa non esclude talora il dubbio almeno inquisitivo, quale mezzo di ricerca del vero. Cosi nella 3. cantica al canto 4. del Paradiso, dove egli si fa guidare da Beatrice, che rappresenta la filosofia cristiana, e dove con mano maestra tratta profonde tosi teologiche e filosofiche, egli dice a proposito del nostro naturale desiderio di sapere: ^Hjdsce a ^uisa di rampollo tAppi del vero il dubbio; ed  natura, Che al sommo pinge noi di collo in collo. Quivi Dante, per quanto serrato nella filosofia scolastica mancipia della teologia, parrebbe furiere del dubbio sistematico inquisitivo del Cartesio. Ma per me dove giunge al colmo la valentia filosofica ed insieme teologica di Dante i al canto 17. del Paradiso, dove egli tocca e circoscrive la sempre scottante questione speculativa e trascendentale dell' umana libert e responsabilit conciliata con la predestinazione, nella prescienza ed onniveggenza divina, merc le due semplici quanto stupende terzine, che vi riassumono S. Agostino e S. Tommaso: La contiti gen^ia, che fuor del quaderno Della vostra materia non si stende. Tutta  dipinta nel cospetto eterno. Necessit pero quindi non prende. Se non come dal viso in che si specchia Nave che per corrente gi discende. La fede, la religione  per Dante, come per tutti gli uomini di genio e veramente grandi, una esigenza della stessa ragione; e questo in lui appare luminosamente al canto 3. del Purgatonio, l dove dice: Matto  chi spera che nostra ragione Tossa trascorrer la infinita via Che tiene una sustan^^a in tre persone. State contenti, umana gente^ al quia; Che se potuto aveste veder tutto, ihCestier non era portorir Diaria. Cosi egli ragiona del dogma della Trinit introdotto nella nostra religione durante T impero di Teodosio i. sul cadere del secolo 4. La qual Trinit del resto, come  noto,  una imitazione, un plagio religioso tolto dalle precedenti religioni orientali, e pi specialmente dalla Trimurti di Bralima, Visn e Siva nelle Indie Orientali. IIL Avendo fin qui accennato della filosofia teoreticamente scolastica di Dante, consideriamone ora alcun poco la filosofia pratica e politica. Intendimento primario e scopo finale della Divins Commedia  certamente la Rigenerazione morale, mediante una grande riforma politica, per la quale nella mente ^1 poeta dovea farsi luogo ad una monarchia nniversale con un solo Dio, un solo papa preposto al semplice governo spirituale ed un solo imperatore pel governo civile e politico. Per lui il Guelfismo  disordine necessario, solo Timpero conduce il mondo a virt, come apparisce datla stessa sua Monarchia e dal Convito. Nobile utopia d' universalismo questa di Dante, come ben disse l* On. Bovio, la quale per non cessa di far capolino nella storia. Perci quanto Dante  filosofo scolastico, reverente e devoto al papa, come vicario di Cristo e capo della Chiesa universale, altrettanto  allo stesso avverso, come principe temporale. E poich uscendo dalle tenebre del medio evo, la Chiesa romana avea trovato forse comodo per il proprio diritto acquisito, di ripetere da Costantino stesso, gi satificato presso la Chiesa Ortodossa d'Oriente, la donarzione del dominio temporale; il nostro Dante accetta la tradizione popolare del suo tempo, senza beneficio d'inventario storico, e riprende sdegnosamente queir imperatore nel canto 19. dell' Inferno dicendo: Ahi, Cotitantitty di quanto mal fu matre, ^on la tua conversion, ma quella date Che da te prese il primo ricco patre, cio il papa Silvestro. Ma qui, come ben avvert T illustre Bovio, la tradizione popolare, allora forse messa innanzi a meglio rassodare il dominio ten>porale della Chiesa, fa a pugni affatto con la storia, che pi tardi giunse a galla. Ed in vero  risaputo da tutti che solo nel secolo ottavo comfinciarono in Roma i pontefici ad emanciparsi dalla soggezione verso gli Imperatori di Costantinopoli in seguito al dissidio insorto fra r imperatore Leone Isaurico, detto l'Iconoclasta, e papa Gregorio II, per il culto delle imagini.  risaputo che fino allora, come qui ramment lesimio prof. Rava, gli stessi esarchi di Ravenna, d' ordine dell' Imperatore d'oriente, poteano opporre il veto all' elezione del pontefice, che si faceva in Roma dal clero e dal popolo.  parimente risaputo che, mentre i Longobardi divenuti cattolici ed italianizzati stavano per unire in un sol regno potente tutta r Italia, i Carolingi, cio Carlo Martello, Pipino e Carlo Magno, invocati dai pontefici contro i Longobardi stessi costituirono in Italia solo sul cadere dell' 8. secolo e sul pricinpio del 9. il dominio temporale dei papi. Ed  appunto contro questo cosi detto Patrimonio di S. Pietro e contro gli scandali ed i vizii della curia papale, che tanto tuon Dante qua e l nella sua Divina Commedia, servendosi pur talvolta di simjjoli e figure allegoriche con evidente allusione. E fu per questo che, come opportunamente ramment V illustre rappresentante di questo Municipio Avv. Conte Tulio Corradini nella nobile presentazione al pubblico ravennate dell' On. Bovio, il cardinale Poggetto, per ordine del papa, ne ricercava qui le ossa per maledirle e disperderle. Ma questa postuma e frivola vendetta, contro il noto aforisma della romana giurisprudenza ptirce sepulto, non potea avere in s alcuna buona ragione giustificativa, n anche in tempi posteriori. In fatti, non il solo ALIGHIERI (vedasi) ripeteva la massima parte dei vizii e dei mali d' Italia e della Chiesa dalla corruttela della curia romana e della corte ponteficia; ma uomini santissimi altres prima di lui e con lui insorsero contro la vita irreligiosa ed il mal costume dei maggiori prelati e del clero di quei tempi. E primo tra questi va citato il ravennate S. Pier Damiano, egregio filosofo dello studio di Ravenna e poi vescovo di Ostia, meritamente a voi rammentato dal suUodato Prof. Rava e daUProf. Regoli; quindi un S. Bernardo di Chiaravalle, una Santa Caterina da Siena, lo stesso Petrarca ed altri parecchi; dagli scritti dei quali chiaro apparisce come non sia il caso di meraviglia alcuna per tanto meno che di quella potest ecclesiastica ne disse il nostro poeta, considerandola nel riguardo civile e politico. La pazza misura del cardinal Poggetto, non avea quindi ombra di giustificazione contro i resti mortali di Dante. Ed io penso ancora, per gli effetti moraH e psicologici in me provati dallo studio e dalla lettura della Divina Commedia fino da studente, che V incremento dato in tutta Italia, in questa seconda met del secolo nostro, allo studio accurato di questo insigne monumento della nostra letteratura, abbia potentemente contribuito alla emancipazione degli spiriti) e quindi alla stessa unificazione della patria nostra. In fatti, con un crescendo di immagini odiose e d vibrate riprovazioni il poeta giunge al colmo alla fine del canto 32. del purgatorio, designando la romana curia ed il papa, quale principe temporale, con termini cosi obbrobriosi e di tanto vitupero, che io ben mi riguardo dal ripetere quivi. Lo stesso Lutero, io credo, a cui nella rinascenza Dante preluse, non giunse a tal segno di esecrazione per il papa e per la curia romana. Ed ecco perch io penso ed aflfermo che quel maggiore culto per la Divina Commedia pia estesamente ci addit la vera sede cancrenosa, la vera fonte dei mali d' Italia ripetutamente confermata dalla storia fiii a nostri tempi, fino al 1848-49; e ci ridest meglio lo spirito di nazionalit ed il desiderio di vedere V Italia nostra ancora una volta comunque unita e padrona di s. Perciocch come noi vedemmo lo stesso Machiavelli approvare ed encomiare pi tardi il famigerato Valentino Borgia, perch in lui potea ripromettersene V unificatre d* Italia ; Dante pure alla sua volta, pur di vedere la patria politicamente riunita, non esitava d' invocare all' Italia per fino un principe straniero, V imperatore Arrigo 7. di Lussemburgo. E quell'imperatore accatt l'invito dei ghibillini e di Dante, ma mori il 13/3 in Toscana a BuoncoU' vento, avvelenato, dicesi, d'un' ostia sacrata. Cosi sebbene Dante e poi Machiavelli fossero cresciuti in libero reggimento democratico, non dubitavano di accettare e di preferire quel principato qualunque che avesse lor dato speranza di voler raccogliere in un sol corpo le sparse membra d' Italia. Ed un tale ammaestramento della nostra storia non dovea andar pi a lungo perduto. Noi abbiamo veduto a' nostri giorni Mazzini e Garibaldi, innanzi al pi alto iaele della patria da costituirsi ad unit, sacrificare in silenzio od apertamente, almeno pr tempore^ al loro nobile ideale repubblicano, di cui erano pur stati 1' uno la mente direttrice e 1' altro il braccio possente. Dante dunque non  solo altamente benemerito della patria, quale principe dell'italica letteratura, ma lo  altres  davvantggio per averci appresa e divinata la sorgente perenne de' nostri danni politici, e per averci insegnato  voler l' Italia tutta unit in un sol corpo ad ogni cost, additandocene h via col solo additarci il maggiore ai. E poich dalla nostra rinascenza e quindi da Dante che solo basta a rappresentamela, quasi tutta V Europa fu desta pi tardi a vita libera e civile, ben sorga qui a Ravenna, che ne custodisce le sacre ossa, un degno mausoleo e nazionale ed internazionale, un tempio sacro per noi Italiani, che rapresenti come ben disse il mio collega ed amico Prof. Regoli a nome del Comitato, il simbolo della conseguita nostra unit ed indipendenza. Ed ora per esser breve, o gentili uditori, noi faremo come vi ho promesso una corsa vertiginosa fino a' tempi nostri, inseguendo per le sole maggiori vette il pensiero filosofico italiano. Non molto dopo la morte dALIGHIERI (vedasi) la fisolofia scolastica cominci a dissolversi con Guglielmo Occam d'Inghilterra, con Michele di Cesena, con Buona Grazia di Bergamo e con Marsilio di Padova. La rinascenza avea avvivato un movimento intellettuale che pi o meno apertamente rifmtava a poco a poco ogni appoggio e difesa al dogma. Si cominci a sostenere che il contenuto della fede non era razionale, ed in appresso si cominci a distinguere la verit di fede dalla verit di ragione. Per ultimo sofisticando si asseriva che in buona fede ed in buona coscienza si poteva benissimo con la ragione intendere in un modo, e con la fede credere in un altro. Con questo movimento del pensiero filosofico noi giungiamo fino all' epoca della Riforma o della Protesta in Germania nel secolo XVI. contemporanea al nostro Risorgimento letterario e scientifico, tra la fine della scolastica e r inizio del moderno pensiero filosofico. Essen io stato fino allora doppio il giogo delle menti, il dogma e la scuola, contro quello insorge la Germania, contro questa V Italia; coli protestando contro Roma papale, qua rinnovando ed instaurando gli studi classici ed umani. Aristotele il gran campione del Cristianesimo con la scolastica, fu tosto proscritto di qua e di l dall' Alpe. Per gli umanisti d* Italia, mentre si scagliavano pure contro le istituzioni della Chiesa non meno che contro la barbarie della scuola, non intaccarono il dogma. L' Italia contentavasi di rinnovare la scienza, auspici gli stessi pontefici i quali ne reggevano il movimento destramente, da Nicol V. a Leone X. che, non ostante il distacco per lui avvenuto della Germanta dalla Chiesa romana, diede il suo nome al secolo per la magnificenza e per lo splendore del suo pontificato, sebbene cosi rovinoso alla Chiesa cattolica. Ma se l'Italia rinnovava la scienza, la Germania rinnovava la coscienza, protestando appunto contro le indulgenze messe a mercimonio, contro la giustificazione per mezzo delle opere, contro la costituzione gerarchia della Chiesa ed altro. La filosofia che con la patristica e la scolastica era passata dal naturalismo alla teologia, ora incomincia per r Eurcpa occidentale un processo inverso; dalla teolagia ritorna al naturalismo. Le verit di fede e di ragione non pi si conciliano negli intelletti colti, ma si escludono. Non  pi permesso in buona fede con la mente intendere in modo e con la religione credere in altro. In questo stato del pensiero filosofico scoppia in Italia una fiera controversia sulla natura dell'anima umana, specialmente nelle universit di Padova e di Balogna. Si - a3 impugna da una parte e si difende dall'altra la stessa immortalit deir anima . Chi formul e mise in chiaro la presente situazione fu il mantovano Pietro Pomponazzi o Pomponaccio, nato il 1462 e morto 1524, con una pleiade di seguaci ed oppositori. Il Pomponaccio avea menato gran rumore col libro de immortalitate anitnae. Il primo periodo del nostro Risorgimento avea mirato a scristianeggiare Platone ed Aristotele; il secondo incomincia con Bernardino Telesio di Cosenza a ricostruire, filosofando non pi secondo principii teologici n aristorelici, ma secondo principii propri, accedendo al naturalismo. A questo secondo periodo appartengono Francesco Patrizzi, Pietro Ramo, Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Di questi due ultimi almeno, ecco un breve cenno. BRUNO (vedasi) nasce a Nola. Questo sventurato ingegno, come ormai tutti sanno, E BRUCIATO VIVO A ROMA PER AVER OSATO FILOSOFARE FRANCAMENTE. Tolse da Copernico il sistema eliocentrico pel quale Galileo Galilei pi tardi fu pure ammonito, processato, condannato dal Santo Ufficio di Roma, relegato ad Arcetri, e dicesi fin anco torturato. Ammise inoltre il Nolano nella astronomia una innumerevole moltitudine di sistemi planetari simili al nostro. Il perno della sua dottrina filosofica  l'infinit della natura contro la teoria aristotelica e teologica. Nella spiegazione delle comete prov come nel cielo pure sempre qualche cosa di nuovo si generi, in contraddizione alla dottrina d* Aristotele sulla incorruttibilit dei cieli. Ammise inoltre nel sole dei movimenti di rotazione e di rivoluzione, bench poco sensbili; di che il padre Denza, direttore dell'Osservatorio romano e successore del celebre astronomo^ il gesuita padre Secchi, in un manuale intitolato Le *Artnonie dei Cieliy gli fa merito insigne insieme a Copernico. E questo fo ed  ancora di grande sorpresa per me, come certo lo sar anche per voi, o benigni uditori, considerando da una parte la pi fervente devozione cattolica del padre Denza, come apparisce luminosamente dalla stessa lettura di quel libro, e dall' altra la generale alzata di scudi e le tante pastorali al clero italiano per esecrare dagli altari sotto ogni aspetto, il nome del Nolano. Ma il padre Denza forse non avea preveduto, nel pubblicare quel libro, n l'apoteosi dei monumento in Campo di Fiore, n il conseguente putiferio della diffamazione. Molto sarebbe ancora a dire delle altre filosofiche speculazioni del Bruno, ma la via lunga incalza. Passiamo al Campanella. Tommaso Campanella, nato a Stilo in Calabria il 1568 e morto il 1639 a Parigi, fu pure avversario di Aristotele e seguace del naturalismo di Telesio. Al pari del Bruno appartenne all'Ordine domenicano; ma fattosi promotore di una cospirazione contro il pessimo Governo spagnuolo, E INCARCERATO PER BEN XXVII. Con BRUNO (vedasi) e CAMPANELLA (vedasi) si chiude il nostro ri-sorgimento, e si chiude con lo scetticismo e razionalismo di VANINI (vedasi), ALTRO FILOSOFO ITALIANO, BRUCIATO VIVO A TOLOSA DI FRANCIA, SOTTO LACCUSA D’ATEISMO. In Germania invece, ove ernsi iniziato il libero esame con la nuova Riforma, si diffuse ben presto il misticismo, del quale non sono in vero ammiratore. Ma questo fatto a me prova della bont dell'Evangelio e della Cristiana Rteligione, una volta spoglia e sciolta della infarcita suppellettile cottolica nella parte dogmatica. Noi pure fummo testimoni di due nuovi dogmi proclamati durante il ponteficato dello stesso Pio IX. La filosofia moderna dell'Europa, continuazione dell'epoca che dicemmo della Riforma, incomincia con Bacone o con Cartesio. Entrambi criticano il passato ponendo nel dubbio il loro criterio di ricerca filosofica; ma Bacone dubita per giungere al vero ed alla scienza mediante l* esperienza, Cartesio dubita per raggiungere uguale scopo mediante il puro pensiero. Bacone fonda il Realismo che continua poi in Inghilterra ed in Francia; Cartesio fonda l' Idealismo che si trapianta in Olanda ed in Germania. Il Realismo segue la via dell'induzione, l'Idealismo quella della deduzione. Cosi restano segnati i due sistemi e i due metodi che si incontreranno pi tardi nella Critica della ragione pura di Emanuele Kant. Ci premesso riguardo al movimento generale della filosofia moderna europea, noi seguiamo ora il pensiero italiano in VICO (si veda). Nato a Napoli, VICO (si veda) nella storia della filosofia merita un posto distinto specialmente per la sua opera d'incontestato valore intitolata: I principii di Scienza Nuova. Egli critica il cogito cartesiano, perch, dice, nelle ricerche non si muove dal vero ma dal CERTO. Il vero  conseguito solo all'ultimo quale risultato finale del processo logico di ricerca. Il CERTO poi non si ottiene nella coscienza singola, ma nel senso comune. Per VICO (si veda) il fare 6 condizione indispensabile del sapere, e la sua Scienza Nuova  una storia delle umane idee. L'ordine delle idee procede secondo l'ordine delle cose, e r ordine delle cose umane ebbe per lui il seguente processo: Prima le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le citt e finalmente le accademie. Cosi VICO (si veda) e lo stesso nostro GALILEI (si veda) di PISA, celebre fisico, astronomo, letterato e filosofo, onore d'Italia e del mondo  di cui ho gi fatto cenno altrove a proposito dell' impostagli abiura, sulla scoperta scientifica del sistema eliocentrico  integrano e compiono il metodo induttivo di Francesco Bacone. Ed ora, o Signori, fino al pi grande filosofo moderno di Germania Emanuele Kant, nato a Knisberg il 1724 e morto il 1804, vi sarebbe da enumerare e considerare una lunga serie di sistemi filosofici sorti in Iqghilterra, in Francia ed in Germania, ma per essere brevi noi li sorvoleremo. Solo su Kant credo necessario soffermarci alquanto, essendo esso meritamente considerato nella filosofia, quale il moderno Aristotele. Egli  V autore, tra molti altri lavori filosofici, della cosi detta Critica della ragione pura. Con quest' opera egli ammette la conoscenza matematica merc le intuizioni pure, e la conoscenza fisica merc i concetti puri, e questo  1' ufficio positivo della sua critica; ma chiarisce V impossibilit della conoscenza metafisica, cio di oggetti che trascendono il tempo e lo spazio e sono fuori dell' esperienza, e questo ne  1' uffici negativo. Il suo processo logico  veramente rigoroso e senza grinze; ma V ufficio negativo suddetto fa tabula rasa del mondo psicologico e morale; la metafisica cade interamente demolita, V uomo  ridotto nella pi semplice espressione di misero mortale, terrestre il suo destino . Di fronte alla sua critica della ragione pura, Kant, che si era proposto il semplice problema della conoscenza, avea poscia veduto sfasciarsi ogni umana trascendenza d'oltre tomba; onde avvis tosto al bisogno di riparo, e die mano a ricostruire il demolito, mediante una seconda critica, la Critica della ragione pratica, in cui si propose il problema della moralit. In questa il suo celebre imperativo categorico della legge morale, sciolta per lui d' ogni egoismo,  il seguente: Opera in modo che la massima della tua volont possa valere come principio d'una legislazione universale. Cosi nella prima Critica Kant, che si era proposto il problema della conoscenza, raggiunge un ideale teoretico; e nella seconda, in cui si era proposto il problema della moralit, raggiunge un' esigenza, un postulato pratico della slessa ragione pura; n logicamente parlando, pu essere tacciato d' Incoerenza nelle due Critiche. Ma, come ognun vede, l'edificio della ragione pratica pur troppo mal si regge sui ruderi arenosi lasciatile a fondamento dal tremendo conquasso della Critica della ragione pura. Questo filosofare, a mio debole giudizio, fa degno riscontro alla dissoluzione della Scolastica, quando in essa era permesso pensare ed intendere in un modo, e credere e governarsi in un altro, per salvare capra e cavoli; cio per salvare allora la ragione e la fede, ed ora per salvare l' esigenza dell' intelletto ed insieme V esigenza dell'animo e del sentimento, a tutela della compagine associale. Molto sarebbe a dire di Fichte, Schelling, Hegel, Herbart, Schopenhauer e d' altri seguaci ed oppositori di Kant in Germania, ma il tema noi comporta. Per trovo necessario di dare un pi breve cenno anche di Augusto Comte, altro celebre capo-scuola della moderna filosofia positiva francese; non che di Spencer, capo-scuola ancor pi celebre del moderno positivismo inglese; e quindi passeremo senza pi ai nostri ultimi filosofi italiani, per summa capita. La filosofia positava di Augusto Comte trae lasuadoppia origine e dalla scuola fisiologica del Broussais e dalla socialistica del Saint-Simon, di cui fu prima collaboratore. Nasce il Comte a Montpellier il 1798 e mori il 1857. Staccossi dalle dottrine sansimoniane, con la mira di promuovere una riforma sociale. Il suo positivismo si fonda sulla famosa legge de' tre stati dell' uomo, cio dello stato teologico, metafisico e positivo^ seguendo il cammino deir umanit dalle selve alle accademie. Prima in fatti di conoscere il legame degli effetti fisici tra loro, niente vi ebbe di pi naturale ne' tempi eroici, che di supporli prodotti da esseri intelligenti, simili a noi. Tutto ci che succedeva di. arcano tra gli uomini, senza che essi vi avessero parte, ebbe il suo Dio. Questo lo stato teologico. Passiamo ora al secondo, allo stato metafisico. Quandoi filosofi riconobbero V assurdit di queste favole mitolo* giche, non avendo tuttavia acquistato veri lumi sulla storia naturale, immaginarono di spiegare le cause dei fenomeni per via di espressioni astratte, comt essenze e facolt; espressioni che intanto rton ispiegavano, nulla e di cui si ragionava come se fossero state degli esseri, delle nuove divinit sostituite alle antiche  tali i dogmi. Ed ora passiamo al terzo, allo stato positivo. L'uomo per ultimo, osservando V azione meccanica che i corpi hanno gli uni sugli altri, ne ricav ben altre ipotesi, che le matematiche assodano per realt, e V esperienza verifica via via  tale lumanesimo. Questa legge dei tre stati,  certo molto specios.a ed attraente. BOVIO (vedasi) la riassume ancor pi conciso: Gli Del, r uomo-Dio, r uomo . Il Comte ne sviluppa V ultimo stato, il positivo, 1' uomo. Va da s che egli detesta la teologia e la metefisica per le quali l'uomo  gi passato e passa nei primi due stati. Bisogna ora giungere alla cognizione positiva con le scienze positive appunto, quali la Matematica, l'Astronomia, a Fisica, la Chimica, la Biologia e la Sociologia, divisa in Statica e Dinanlica; di cui la' prima tratta dell' ordine sociale, dello Stato; l'altra del progresso. Ed ora diamo uno sguardo al positivismo inglese. Il pi grande rappresentante della filosofia contemporanea inglese  certamente Herbert Spencer. Per va notato che il positivismo inglese  alquanto diverso dal francese. Il positivismo francese non si propone punto un problema filosofico^ l'inglese si. Il primo esamina il legame delle scienze positive sopra accenr.atc, passando dalle pi generali alle pi particolari, rispetto al loro oggetto di studi, per giungere fino all' oggetto-uomo; il secondo, l'inglese, esamina nelle scienze stesse l'origine ed il valore della loro conoscenza, e questa trattazione soltanto  d'indole veramente filosofica. Inoltre Spencer non accetta la legge de* tre stati surriferita, n la gerarchia delle scienze, perch egli non ammette figliazione tra scienza e scienza, ma solo una scambievole influenza. Contro il positivismo del Comte egli ammette ancora V analisi psicologica ed una causa prima quale fondamento di ogni religione . Inoltre vuole V attivit individuale sciolta il pi possibile dalla subordinazione assorbente nella vita sociale, sciolta dal collettivismo e dalle pastoie dello Stato, in cui il Comte pone invece la perfezione del Governo. Nella dottrina dello Spencer distinguonsi poi tre maniere di sapere: il saper non unificato, formato dalla pi semplice conoscenza; il saper parzialmente tfliificato, formato dalla scienza; ed il sapere completamente unificato formato dalla filosofia. Per egli njctte iu dubbio che possa conseguirsi la perfetta unificazione del sapere: rimarr sempre, ci dice, qualche cosa di assolutamente inconoscibile, dove si spazier il sentimento religioso. n perno poi in cui tutta s' aggira la filosofia dello Spencer  Tevolazione; che anzi tutto l'universo in lui evolve, ed ammette nella natura una triplice evoluzione; organica, supero:ganica ed inorganica. Delle prime due estesamente egli tratta nella sua Biologia, Psicologia, Sociologia e Morale; ed ha solo accennato all'evoluzione inorganica nella Astronomia, nella Cosmologia e nella Geologia. Nella teorica dell' evoluzione ha quindi molti punti di contatto col non meno celebre scienziato naturalista il suo connazionale Carlo Darwin, circa specialmente le esigenze della natura organica e superorganica nella sele zione, mentre afferma n a poter l'uomo, per suo avviso, concepire e meno conoscere il processo reale delle cose - 31 che si presentano fuori dell'ambito della sua coscienza. Nello Spencer va inoltre segnalata, in cos vasta dottrina, una rara modestia: nessuna baldanza dommatica neir affermare, nessuna nel negare. Finalmente eccoci anche a' nostri moderni filosofi . L'Italia meridionale  sempre stata la parte pi feconda d' ingegni speculativi della nostra patria. Questo fatto  addimostrato dalla storia della filosofia a partire dai tempi della Magna Grecia con la scuola di Pitagora, fino ai nostri . Il clima pi dolce, il cielo pi sereno, i colli ubertosi e ricchi di viti e di agrumi, le mirabili e piacevoli marine, in fine la vita facile e gaia nei pi copiosi beni di natura, tutto questo forse meglio contribuisce ad eccitare di preferenza in quei nostri connazionali lo spirito delle filosofiche ricerche e meditazioni. Mentre a NAPOLI insegna ancora VICO (si veda), di cui sopra accennai, nella stessa universit professava filosofia e saliva in gran fama Antonio Genovesi. Egli nacque a Castiglione di Salerno il 17x2 e mori a Napoi il 1769. Sebbene naturalmente inclinato alla libera filosofia il padre lo volle prete, malgrado di lui. Pubblic molti lavori filosofici di merito in italiano, sostenendo che una nazione che non abbia libri di scienza, scritti nella propria lingua, meglio che civile va chiamata barbara. A questa novit egli teneva anche dalla cattedra, a cui traeva in folla la citt; come pure ad un'altra d'insegnarvi per primo nel corso di filosofia l'etica e la politica. Per consiglio di lui Bartolomeo Intieri istitu del pr~ }2_ prjO Beli* U::;Ter5:ti d: Xapc*^ ima csneiri Ji comiDcrco, a :;9 .i^.one cbi ri si l^>^^ii^*>^ in hu'::::; e t:^3 dss^ Tiia'i c:r j irrita a frid. Q.i^ni: T Inrleri on^nn* d^ re Carlo UL che lasse ca::irii2 T>^r r>rirD3 a'.'. 3 si^sso G^^aoresi . QatHa cvat^TZ fj ina-ogorata il 1754, rem' anni primi C'^t salisse in tanta faaia il filasofj ed cjonanijstj scozze\>^ \tzzno Smiih col sao celebre li^ro d^ccanooiia poSitica, d^l.a quale scienza oggid s: can>idera padre e fondatore.  Studiate il mondo, coltivate le lngue e le matematiche, pensate un poco meglio agli uomini che alle cose che sono sopra di noi, lasciate gli arz:i::go: meta^ici ai frati *; tali erano i franchi consigli del Genoveo] un i;raQ rumore; ma egli godeva la protezione di Tanacci, celrbre ministro liberale e riformatore, com- tutti sanno. Per il suo vero pensiero filosofico appare meglio dalle lettere {amigliari e private, che da* sui lavori ufficiali;  quali non ostante le maggiori precauzioni e la protezione della corte, gli fruturono non piccole molestie. Per quanto riservato egli prenunziava gii la famosa Critica Kantiana. Altro illustre filosofo napoletano fu Gaetano Filangeri, sebbene morto a soli 58 anni il 17SS. Ma i' grande riformatore delia filosofia italiana  il calabrese GALLUPPI (vedasi). Egli nacque a Tropea e mori a Napoli. Scrive moltissime saggi, di cii le principali sono: Saggio filosofico sulla critica ddla c^nosctn^j ;;li EUnunti di filosofia^ Lettere filosoficbt sulle vicende della filosofia da Cartesio fino a Kant, Legioni di logica e metafisica Fisolofia della volont ecc: senza gli opascoli sulla libert di srampa ecc. Djal ^.82^ CQjfiiin^^ il QV*ggiO; tt^ Gajlwppi ^RjO$mini, forge ii du(5 primi filosofi italiani della prima met di qui^sto secolo., Il Qomis di GALLUPPI (vedasi) si diffuse in Europa, ed il i&^&, a proposta del Cousin, fu nominato socio corrispondente dell'^ Accadjemia disile scienze in Francia,, in concorrenza dell' Hamiiion ; ed, dietro proposta di Guizot, fu insignito della croce della legion d'onore. La sua filosofia  dieir esperienza, mediante i rapporti soggettivi 4' identit e di differenza. Ma quantunque il Galluppi abbia sempre disconosciuto la parentela della sua filosofia con Kant, vi apparisce l'inftusso del Criticismo. Per questa attinenza la dottrina del Galluppi  combattuta da GRAZIA (vedasi) e COLECCHI (vedasi), pure meridionali, sebbene, almeno per me, un po' parenti del filosofo Carneade, vi^) ?.enso m.a.Moniano . Meritano quindi distinta menzione ^a^dpjnenico ROMAGNOSI (vedasi) di Salso Maggiore e Meicbi^r^ G04 GIOIA (vedasi) dii Piacenza, ambi seguaci in parte pi o meno loptana ^Ua filosofia di Condijilac che insegna a Parma, e si considera quale capo della scuola sensualista. Ma accanto a Galluppi per valore filosofico va posto Aji^?iirigine delle idee, si jffiQ^Q^^ U problema della conoscenza, ricercando il ppni(9 4aMe s.eoisibtiUt ed intelletto si congiungono per pcodutla.  per dubbio se egli abbia raggiunto il compito pjcapQ&tosi: le sue soluzioni in questa e nelle altre aue opere farono impegnate da GIOBERTI (vedasi), ingegno non meno acato.Dopo il Nuovo Saggio suiderto, si hanno di lai il RinfUK' amento della niosona italiani, i FnnsiTti della filosofia morale, la S:-W-2 c:*k7S'':::j: iti sistemi relativi al principio della morale, V ^nt^cpcls^jy I-i fi.Ji.yfj (Ul TH* ritto, la TsL:ck;:j, li Lc^^^a e la Tisssjzs, opera postuma. Per ia tutte queste pabblicazioai egli tenne d'occhio dapprima alla critica, poi alla costruzione dialettica ideale.  poi risapuco il dissidio insorto, or non  molto, tra i Rosminiani  sequaci di SERBATI -- da una parte e tra  Tomisti  sequaci dAQUINO -- dalP altra nel clero italiano; dissidio terminato con la vittoria dei Tomisti dAQUINISTI dAQUINO, e su cui non si  per anco pronunciata la serena imparzialit della storia. Gioberti  altamente benemerito della nazione italiana, non meno che della filosofia. Egli merita davvero on posto d' onore ed un culto d' ammirazione nella mente; V. V-SP e nel cuore d' ogni buon italiano, come filosofo politico e patriota. Chiunque di noi abbia cara la nostra patria, deve nutrire in cuore un senso di rispetto e di venerazione al nome ed alla memoria di tant' uomo. GIOBERTI (vedasi) nasce a Torino di modesta  se non modestissima  condizione. Abbraccia il sacerdozio ed  cappellano di corte. Esiliato per opinioni politiche e non filosofiche, vive in Francia e nel Belgio. Rimpatria in gran trionfo ed  ministro di Carlo Alberto, appena data la costituzione. CADUTA LA FORTUNA DITALIA, GIOBERTI (vedasi) ri-torna a Parigi, dove pubblica V ultimo suo lavoro di molto polso, Del Rinnovamento Civile d'Italia, e poco dopo muore povero e glorioso. Ecco segnate le tappe della sua vita breve ed immortale ; ma a dire degnamente di lui troppo qui ora ci vorrebbe, troppo mi sento inferiore al compito. La filosofia del Gioberti non si limita al problema della conoscenza come nel Galluppi specialmente, ed ancora nel Rosmini. Essa gira^pi largo ^ e campeggia nella politica che ne  la mira costante, e dalla genesi della conoscenza si dilata alla genesi delle cose. L polemica del Gioberti contro Rosmini si limita a cercare se alla genesi della nostra conoscenza basti la forma dell' essere ideale. Nega Gioberti ed afferma SERBATI (vedasi). Solo pi tardi quest'ultimo parve capacitarsi delle difficolt del suo formidabile avversario. Ma le opere di Gioberti vanno considerate e studiate nel riguardo "pratico, politico e nazionale anche l dove meno traspare questo nobile ideale. Per ampiezza ed acutezza d' ingegno filosofico sarebbe potuto forse divenire il Platone o 1* Aristotele d'Italia, ma egli pi che al titolo j-3 di informatore elk^ filosofia volle ambire a quello' ji Pater patria. Egli volle farsi il bailo della Nazione italiana, e ben lo fu. La vita civile ed intelletiivar dei popoli, come la vita fisica e morale degli individui, corre per tre distinte et che sono: la puerizia-, la giovent e la maturezza o virilit. Ebbene, le opere del Gioberti in soli dieci anni circa, percorrono T inrero ciclo, destando l' Italia fino a spingerla a resurrezione politica, alla guerra d'indipendenza. Il suo intento fallito materialmente e temporaneamente, era gi raggiunto moralmente, che nel volere dun popolo mai manca il volere di Dio. Le sue opere tutte, verso k fine di quel decennio, erano divenute la Bibbia degli Italiani da un capo all'altra d' Italia; ma pi spezialmente quelle d' indole pohtica diretta, qualt Tkl Primato morale e civik thgli Italiani^ I Prolegomeni al Primato, Il Gesuita moderno. Il suo ideale politico era trasfuso nella Nazione, era diventato un bisogno imperioso universalmente sentito-, ed il suo nome velava benedetto dalle Alpi al Boeo. Lo st-esso Pio IX., sperando di governare il movimento nazionale, benedisse dapprima all'impresa ed alla guerra d'indipendenza, tra* scfi^iifato diAa forza irresistibile dell' opinione pubblica in Italia; riservandosi coi primi rovesci a maledire. Per a discolpa va notato che il papa allora non era per anco in fallibile. Fallifta r impresa nazionale, cadde il favore popolare di Gioberti, ed alquanto freddamente fu accolta ormai r tritima sua opera suddetta Del rinnovamento civile d' Italia, un anno prima della sua morte. Ma con qaestopera ponderosa, onde forse rimase fisicamente esaorito, egli compie e 'finisce la sua missione politica, per r Italia, k quale  destinata a sorgere senz'altro ad unit ed indipendenza. E qui piacerai, a proposilo di questo VJnnovamento del Gioberti, riportare il commento e la chiosa che ne fa per siiitesi PAusonio ^Franchi ntlk celebre sua Ultima Critica, in cui bruscamenre e solennemente disdice al suo passato di scettico e razionalista, per ritornare in Cattolicismo con 'S. Tommaso, in quel Cattcdicismo che aveva prima sfolgorato con logica irrefragabile. Nel Rinnovamento del Gioberti, dice il Franchi, rimane ancora qualche cosa di cattolico e di monarchico, ma coperto e soverchiato da dottrine affatto razionalistiche e democratiche, e continua:  Non  pi l' Italia che deve acconciare la sua esistenza al reggimento della Chiesa e del Principato, ma tocca a loro di adattare i loro istituti a servizio d'Italia. Se no, peggio  per loro; che d'ora innanzi nell'ordine teoretico il principio e criterio d'ogni vero si  la sovranit della ragione, e nellordine pratico la regola e misura d' ogni bene si  la sovranit della nazione. Laonde o la Chiesa si piega a rendere razionale il suo insegnamento, ed il principato a rendere nazionale il suo governo ; e allora troveranno l' una e l' altro in Italia una ra nuova di potenza. e di gloria. O invece prosegue Tuna a deprimere la ragione con credenze da fanciulli, e l'altro ad opprimere la nazione con leggi da barbari; ed allora tutti e due avranno finito di regnare e d' esistere in Italia. Fin qui il commento del Franchi resipiscente. Ed ecco come, maturata l'educazione .politica del ppolo italiano, Gioberti con franco e libero linguaggio si rivolge ai rettori della Chiesa e dello Stato per patrocinare la causa del popolo stesso, per abilitare lItalia a sorgere a libera Nazione. Possa il suo esempio d' amor indomato per il paese nativo ispirare sempre la giovent nostra a nobili e generosi sentimenti adeguati; possa il suo esempio vivificare la presente e le future generazioni italiane. Tutto ci, parlando del Gioberti, sia detto naturalmente senza punto detrarre ai meriti eminenti di tanti altri nostri pensatori e campioni che pi o meno immediatamente contribuirono con lui e. dietro lui alla nostra unificazione e libert; pur militando con lo stesso proposito in campo diverso, quali specialm.entc tra i pi illustri MAZZINI (vedasi) e GARIBALDI (vedasi). Cosi, o signori, restra fin qui alia meglio abbozzato il nostro Sant' Antonio; ma rimane ancora a dire qualche cosa della quarta ed ultima epoca della filosofia cristiana, della filosofia che ho chiamato del Rinnovamento. Fin qui la parte oggettiva ed accademica: ora la parte soggettiva o meglio pratica e politica. Seguitemi per qualche altro tratto, e voi vi scorgerete un contorno del quadro forse abbastanza originale e pi attraente. O PRATICA E POLITICA I.  ancor dubbio}se lepoca del Rinnovamento filosofico sia ancora incominciata; non crederei lecito n affermarlo n negarlo. Egli  per certo che^ dopo tante contraddizioni e dopo tanto sfacelo morale di sistemi filosofici in alterna demolizione,  generalmente sentito il bisogno di nuove costruzioni filosofiche a pi razionale soddisfazione delle esigenze della mente e del cuore. Tutti i yari sistemi filosofici, che ora tengono il campo, si possono dividere in due grandi schiere: V una che prescinde affatto dalla metafiisica, da ogni idea trascendentale e costruisce, per mio avviso, suU' arena, se pure avvertendo gi al lavoro di Sisifo si cura di costruire pi oltre: V altra che tende alla riforma della metafisica e vi prova nuove costruzioni; ovvero, come V ostrica aggrappata allo scoglio, resta immobile nella metafisica gi posta. In una parola tutta la sequela dei diversi sistemi filosofici, con tutte le rispettive gradazioni e sfumature, si pu ormai dividere in due campi troppo ben distinti; r uno dei pensatori credenti, e V altro dei pensatori non credenti. I primi sono ispirati e guidati dalla mente e dal cuore, dalla ragione e dal sentimento; i secondi solo dalla mente, solo dalla ragione. Per lo passato trattavasi di credere in un modo piuttosto che in un altro, di accettare o non accettare questa o quella parta di religione monoteista o cristiana, questa o quella parte di metafisica in filosofia. Oggid la differenza  ben pi marcata: credere o non credere nel mondo d' oltre tomba, nel mondo dello spirito. Ma infine anche la dogmatica, sebbene fuori del campo filosofico, non  che una rigida esigenza della stessa filosofia che aflFerma. I I ligmi religlMi fi&ii sod cA Iti ^r^du%itA simbolica delle afferma'Mtfl! della filosofia sA 'dio delle firbe che rifuggono dalla fredda ^ectlaiiohe della rgltit, e s'appassionano fn^e^e della '|)Sedia ^ 'di ^^a'f edipee l' immaginazione ed il seflfiiri'ehtft. Abbattiamo ^uf 'Ogni tngtiJera 'di - sdpemfeion e pregiudizi, di cui iloi tiilitni e 'ih 'ba^^O'e iti alto^'h^too troppo famosi -^ ~i\ito che nulla credehti ! 'Abbass pure ogni tnaniera di rozzo "feticismo  'd'Idolatria; iiia l^nSo e francamente sostengo che il berte dell'umanit e quello stsso del nostro paese, della nstra -patria, reclamaiio Vivamente la vittoria, la rii^0^tipunto -per 'la IbrO ^pinfa 'e tollt'ihzla in questo terreno, divennero pot tanto grattai '^ot^t. l^a, ^e io tdo -e tWriro assai cdmttwnvdt dicroismo dlta ritirata di Cristoforo Bonvitto, 4jella filosofia AHi^ii^to Frtfbct, non 1' approv nf k) -itgitb mai tillo scolto 4o^^ egli hn riparato. Tb si per la ikortruifdne nfdla nuVa Riforma che raccgjtrer tutte !fe ^nfessioni d^ll religitie dfistiafiii, titortiaiido per ^tnto possile atta primitiva dottrina evacifgelica;, che 46 ravviso pi cbnfaed allo stsso idjflc 3' an?vfersalisnoR). -Per nife ^i ^gu^ci di Cripto 'llvon essfei'e pure in Cristo tutfti fratelli davvero; altrittfeiiti la ^bubna no velia  ifrtra itegli effetti prtttiicJi della ^tesjJa sua efnunciaz Ine, 'fitto 'nella prima sua -tse, con coi pfocTama gli 'Ul5miti tutti ti1i 'fro eguali, tutti 'tra loro fratlli, tutti gUrflmente fi'j^li xli fo; Qjafest 41 Vro GaHttlici^tno deir avvehire. L'ideale cristiano, con Cristo principe del socialismo, cfeve an i rivoluzione sociale con graduali riforme, -per ispontanea evoluzione. Ecco il nuovo ideale cristiano. Il Cattolidsmo Vizioso attuale ha per gli Italiani il torto gmvbsimo, gi consegnato nella storia troppe volte ed a caratteri indelebili, d'aver sempre osteggiato per lunghi secoli, cio fino dal reame longobardo, T unificazione e r indipendenza della patria -nostra. E ci a semplice tutela del dominio temporale, puntellato per ultimo dalla infallibilit pontificia, senza smettere ancora ogni maniera d' ostilit al presente stato di cose; in onta -alla vantata provvidenza che per ultimo ci volle uniti e liberi, malgrado il sedicente Cattolicismo stesso. Sebbene la retta applicazione della dottrina evangelica, negli ordin^rmenti sociali dei popoli cristiani, sia pur troppo ancor di l dal venire, per s stessa e bene interpretata la religiose cristiana  certamente la religione della civilt e del progresso. Considerata ne' suoi effetti pratici, lla pu dirsi santissima ed  veramente di sommo confono all' umanit sofferente, nei mali materiali e morali ineluttabili della vita preseilte. Cristo cl suo eroico sacrificio pose tra gli uomini la postuma sanzione e spezz ed infranse per primo l'orrtbile catena della schiavit, sciogliendo un problema sociale coltro cui emsi -fiaccata tutta la sapienza antica, con a dapo lo stesso Aristotele. Ma agli Italiani che vedono pil della semplice  buccia e sentono e provano amor di patria, per necessit di iHMi pu -a iftieno di destare, -massime a tempi 'nostri. un senso, di nausea; e di ripugnanaa il soddisfare catolicamente a' doveri religiosi accedendo nella Chiesa ai divini uffici. E perch mai ci? Perch vi fungono sacerdoti che, in ossec^uio al pontefice non pi re, pi che della, stessa loro missione religiosa, sono preoccupati della loro missione politica, e rimpiangendo il passato della terra der morti, maledicono pi o meno ecclesiasticamente alla patria unit. Perch Italia, Nazione, Patria, libert ed unit politica da una parte, e Cattolicismo e Religione dall' altra, si escludono per dir poco necessariamente. Cosi stando le cose, se mai mi fsse permesso di dir franco il mio pensiero, per me io credo che^arebbe tempo di troncare il dissidio in Italia tra Chiesa e Stato, e di tagliar corto orni ai da pame del Governo nazionale. Sarebbe ti^mpo che cessasse la conseguente demolizione religiosa e odorarle,, la cui responsabilit, per le mondane nair^ delle somme chiavi,  certo assai maggiore nella Chiesa stessa^ a contronto dello Stata Sarebbe tempo in una parola che gli italiani iniziassero un movimento di ensrgica $, decisiva- secessione dal Cattolicismo^ per essew. pi credenti ^ pi cristiani nei limiti e nelle misure de^i ctistiani e della Germania e dell' Inghilterra e della Svizzera in parte, non che dell'Olanda e della Danimarca e della Svezia e della Norvegia e della stessa Russia in Europa, come ahrave in Oriente ed in America.Tale secessione pu effettuarsi pel bene del popolo e della Nazione italiana, con quei secerdoti, che non mancano, i quali coscienti del divino loro mandato, si spogliano francamente^ e sostenuti dal Governo e dal popolo meglio si spoglierebbero, d' ogni veste politica antinazionale, per occuparsi serena ed esclusivamente della sola loro missione religiosa. Cesserebbe cosi in Italia la perenne incompatibilit tra Cattolicismo e Patriottismo; ed inoltre questo sarebbe il primo passo alla necessaria fusione di tutti i popoli cristiani, in una sola e comune dottrina dogmatica, di cui noi avremmo il merito dell' iniziativa. Ed in vero, non  egli assurdo che i cristiani cattolici insegnino e pretendano che Cristo morendo, solamente per loro abbia meritato il premio della vita celeste, il premio del Paradiso, luogo di quasi uguaglianza ? Non  egli assurdo che altrettanto si ascrivano e sostengano per loro conto i cristiani protestanti^ con pari accanimento; non che alla loro volta gli stessi cristiani d' oriente greco-ortodossi, con tutte le divisioni e suddivisioni di questi e di quelli? Non  ben pi logico, civile ed umanitario laflfermare invece che Cristo merit come volle meritare, il premio d' una vita tutura ben pi felice della vita presente a tutti indistintamente i suoi seguaci che da Lui prendono nome, a tutti indistintamente i buoni Cristiani? Questa nuova affermazione cristiana  per me tanto evidente e necessaria che io non dubito che, come i popoli cristiani un giorno non lontano s'accorderanno insieme direttamente e fraternamente a comune soddisfazione de' comuni bisogni economici e politici; s' accorderanno altres direttamente e con razionale unitormit per soddisfare fraternamente a lor biso^^fni relimoii e cristiani. E ci senza ulteriori esclusivismi, fonti d' odii e dissidii politici bene spesso, senza ulteriori reciproci anatemi che fanno a' pugni con la progredita civilt e col buon senso de' tempi nostri. La dotrina cristiana in fatti, e precisamente la cattolica viene pur troppo male infrpfetata dal clero che ne fa una palestra politici in odio segnatamente all' ideale d'autonomia ed unit degli Italiani. Ed  parimente avversata dal moderno socialismo non ostante la teoria socialista collimi eminentemente con la dottrina cristiana stessa e quasi ne promani perch il clero torcendone il senso ed interpretandola a rovescio, ne fa strumento quasi di polizia a tutela della propriet illipiitata e del capitale proprio ed altrui, contro il precetto cristiano: Quod superest, date pauperibus. Ma per s la religione cristiana  immune affatto da queste macchie, onde il clero la rende abborrita. Tutto questo  cosi chiaro che splende di luce meridiana, e prova una volte di pi il bisogno d'una comune Riforma tra i popoli civili, la quale purghi e scevri la Religione Cristiana da queste mende, estranee al patrimonio della fede, come da ogni ulteriore feticismo nel culto. Ma qui forse da taluni mi si opporr: Meglio stare o passare nel campo de' non credenti; meglio attenersi all' umanesimo: basta cristianesimo; basta religione. Per, dico io, bisogna pure rilevare e misurare per tempo le serie e gravi conseguenze che fatalmente ci si affaccerebbero per tal via. Ed in fatti, levata al popolo la vita dell' anima senza premio e senza pena in una vita fatara, ogni promessa d'alleviamento de' suoi travagli e delle sue miserie  derisoria e vana. Una volta indotto a rinunciare alla felicit futura per la felicit presente, il popolo giustamente la pretender di presente. Se la felicit umana consiste tutta  e sola nei beial d fortuna, nei godimonU 4eli 3^,9^ il popolo senzaltro vorr^, ed a ragione, qq^^tj be^ni; ^ vajrr per s 1q ricchezze ch^. appiiuto ^ono fon^ e n^^zso. e condizione di tali beni. Il popolo ha pure diritto inplpr^ dj, l^VjOraire. q^^lchQ ora di meno, di guadagnare qualchj^ lira d^ pii> di ni>ingiare, di abitare c^ di vestire un po' meno n^jsQramepte; e suquesto noi tutti d'accordo, m^ baster questo a f.irIo ricco e felice ? E come potr4 lin^it^rQ le ^w aspi.ra;sQQ, se non gli resta altra speranza che la felicit della ricchezza, n altra legge che la soddisfazione dei suoi desideri, n altro fine che 1' ebbrezza dei piaceri ? Non. mi par necessario addurre altre considerazioni e ragionamenti per dimostrare, o benigni uditori, come in questo campo, tra le diverse condizioni sociali, npn vi pos^a essere 2\ltrsi equazione possibile, che una liquidazione universale della civilt non solo, ma anche della societ stessa. Del resto il popolo stesso queste cose vede, misura, intuisce e saggiamente scongiura, se i rettori non sono da menp. Per contrario, T istintivo sentimento religioso nel popolo, se bene indirizzato^  il pi saldo fondamento d'p|;pi ordine sociale, la pi alta espressione del i^pado un^anp, la consacrazione della dignit individuale, la fonte delle virt private o pubbliche, V ispiratore de* pi granai specifici e degli stessi eroismi, si particolari che collettivi. Ecco perch nel nostro dissidio tra Chiesa e S,tato, io penso che commette un vero sacrilegio chi da una fV* te, per sostenere il dominio temporale, lo f^ elemento essenziale della religione,perturbando le cos^cienze; e com? mette grave imprudenza pure chi dall' altra parte, pier oppugnare quel potere, attacca la religione. f titM lo Stato ha il diritto >4*ft(Fln il dovere di ten'^' cnto del stiiimtiiq fcti^s, hiit  te defia niratit  della rttitf  jptlvt ' e pi col diflFonderlq e coj pfoteggrlo"; t p\i8 dsittt^sarsi decita moralit pbblica. Il sentimnto refi^osp, quando  forte, pv^fo e bne applicato, forma la potejiz  la grandezza delle nazini. Ma ci cbe pii lo combat  lo stsso divorzio della Chiesa e del saceMzio cattolico dal sapere, dal movimerito del progresso umano in tutte le parti dello scibile, ih una parola il divorzio cattolico dall' evoluzione del pensiero moderno. Divorzio che, cme accennai, lamenta gi il Griobiti net Rinnovamento, e che in seguito fino a noi pi saccrebbe; noa potendo pi oltre assoggettarsi gli studiosi allinteftettUal evirazione. A questo saggiunge r accennato a^anhai'^i degli ecclesiastici stssi, pi& cne pet glMnteres^ spirtriali, pei ntrali vantggi dgfi individui e dli Casta; non cle il lf'o disconoscere "qflo che  pure nobilissimo sentimento deir animo umai^o^ l'atnof di patriiy pigliado in tutto questo il mal esempio dallalto. La storia d^ ogni popolo e dogni tempo ci aiiUQa,estf icfae la fede, l'a religione  un bisgno in^vid^ale e sociale. Lo stesso Voltaire afferma, dietro il prprio roTtlo, che se Dio non fbsse, bisognerebbe inventari. Ma  altre's ui bisgno individuale e sodiate il progresso civile, economico e scientifico, anzi un bisogn pi immediato e sensibile  Ora, ctne ognun ved^  necessario che le soddis^aziohf d? questi due bisgni, del sentimento e delT^ ihtlletto, per lo meno Dn si'esdudiioV S la storia ci dice: Gua alla Societ civile che opprime e distrugge la propria fede religiosa! essa ci dice pure: Guai a quella societ religiosa che rinnega il progresso della civilt ed insulta alle conquiste della scienza! Per tanto  per il benessere sociale che in Italia tra Chiesa e Stato vuoisi eliminare ogni dissidio, come ogni vincolo d'alleanza. Solo richiedonsi libert, rispetto e tolleranza reciproca per ciascuno dei due Istituti, giusta la formola cavouriana: Libera Chiesa^ in libero Stato. Ma se non  pi possibile uscire dal diuturno dissidio, dal conflitto attuale e passare alla formola cavouriana; se chi regge le coscienze, non curando il conseguente sfacelo morale, non cessa mai di rimpiangere e di imprecare per rivendicazioni che offendono il senso patrio degli Italiani; io penso che ormai lo Stato  diritto ed insieme dovere di provvedere ad un tale stato di cose, senza pi oltre disinteressarsene; ha diritto e dovere di provvedere e riparare ormai alla presente demolizione morale e religiosa, merc la secessione ricosiruttrice, di cui accennai. Per tutte le ragioni fin qui addotte, io non esito, come dissi, nella duplice schiera in cui si possono dividere i moderni sistemi filosofici, di attenermi alla schiera dell' a^rmazione ^ alla schiera dei credenti; e precisamente a quella pa,rte di credenti che nella loro affermazione mirano ad una nuova Riforma, ad una nuova ricostruzione che insieme abbracci tutti i seguaci della cristiana religione. Cosi se il mio concetto  in proposito assai ardito, il mio linguaggio non sar per questo meno franco. Per me la parola orale o scritta non  fatta mai per mentire il pensiero, n mi piacciono quelle circonlocuzioni e quegli eufemismi che lo coprono o peggio lo travisano. Ecco perch altrove, ne ftiie Problemi Sociali mentre parea venisse a cessare in Italia o per lo meno si mitiga il conflitto tra Chiesa e Stato; mi sono augurato in Leone XIII. il ristoratore e riparatore dei danni gravissimi recati all'ovile di Cristo, dai troppo superbi ed incauti suoi predecessori omonimi, Leone III. e Leone X.; onde il distacco da Roma della Chiesa d' oriente col primo, e la Riforma Protestante nella Chiesa d'occidente col secondo. Ma pi dotto che sapiente Leone XIII, che di quei fatali Leoni riunisce addizionalmente gli ordinativi, pare ormai ne riunisca fatalmente anche gli esiziali diftti. Tuttavia lideale di questa fusione, di questo universalismo cristiano,  un bisogno inlperioso dell' et moderna, la quale pi non tollera privilegi, differenze, monopolii ed esclusivismi di alcuna guisa. Laonde la realizzazione ne avverr/ io non dubito, quando i presenti popoli cristiani, insieme meglio affratellati, fra non molto avranno imparato sui dettami d'una giustizia arbitrale che esclude ogni prepotenza particolare od oligarchica a comporsi tra loro e per semplice loro conto le gravi questioni proprie ed iaternazioiuli non solo economiche, ma anche civili, politiche ed etnografiche, e quindi morali e religiose. E ci senza intervento delle rispettive autorit politiche ed ecclesiastiche, e magari loro malgrado. Finora la storia ci ha sempre rappresetitati i governi degli stati e delle nazioni sempre pronti a guerreggiitirsi materialmente e moralmente, mossi da particolari interest si di espansione, di conquista e di predominio esterno o ja da panicolari e dinastiche nlecessit di equilibrio e di ap CfnbafUmo int^riiO. Per tl guisa y^c^mim qu^ sempre Mila storia y da inccigbi e da sa^t^ dj private a$9Jl^zioiPii arbi^ariaoieQite gipc^arsi e n^?ie^^r$i a rey^fildagUo gli iai^re^i generali j e I0 stes^jp %vvmm dei popoli e delle nazioliL Ma ormai esultUaio., oaaimiama ed allelajflio pare chfe l'umamt^. sta per uscire di questo brutto circolo viaiojSO di fiinoata tutela in cui i popoli fratelli sono ai^sati ed avventati a combattersi in :onsciamente gli uni contro gjyi alt^i, per ]!agk>m e mire particolari . La stioria ci ap.e ora una b^Ua 9 gloriosa pagina; incomincia quest' airao una nuota. tea di mtaa^una civilt cristiana;, i popoli ormal s'intendono ffa loro, e dt^ s provvedono fraternanoiite aUe loro Usc^nc. Cos s'^Ttsicin ormai il .gkncno del nnu) vo Eyas^elo  in cui le Nazioni e gU Stati uditi d'Husopa, non pi& tentiti a balk, regletanao armonica e direttamonte le cose loro, anch^ senza e contro, i mpetcrv goverm, finch nan sin meglio trab tonnati a base democratica 0i nelle due Americhe il reggimento repubblicano, fi^mdo io^ion viso alla propaganda per la Pace e per V ArJHttxtD Imarnazionale a cui ormai formalmente aderarcuo ^at qugli Stati in numero di ben diciotto, unici tnttt iofiieme in> una potentissima lega h^ ora saggiamente resi inuttli tutti i dispendi per la guerra e per gli eserciti.  ci sebbene non tutti quegli Stati vadano sempre immuni da qualche interno turbamento* Gii in Eu* nq) pure, la propaganda per la Pace e per V Arbitrato ha pittUzato in pochi anni. la politica armigera ed aggressiva degU Stati pia potenti. Gi nella stessa opinione pubblica europea si fai strada ognor fh V ideale ddl* Aclmrato, e gli stessi eserciti permanenti vengono nniversaimente considerati quali inndli sanguisughe e vampir delle stremate nazioni . in onta al reg^pmento monarchico ed  rstocratico. E mentre il nuovo continente di leziose al vecchio y noi vediamo ora i governi eorcpei sempre intenti con inauditi sforzi ad accumular armi ed armati per meglio aggredirsi o difendersi costretti meritamente da imperioso quanto sovrano volere dei popoli^ a scambiarsi cortesemente le destre. La gran pagina della nuova storia, la nuova raglo rosa  stata inaugurata nei due continenti. Tutti i popoli civili del mondo cristiano, nella no merosa classe che li rappresenta, cio negli operai del lavero sudato, s'accordano insieme per festeggiare il loro lavoro in un giorno convenuto, il i. Maggio. Questo grorno tutti concorrono per discutere e per regolare insime ed internazionalmente a tempo e luogo la rispc:tl/a quistione economica, la questione del lavoro, quale primo avviamento alla graduale soluzione della complessa questione sociale Per me  questo un fatto grandissimo,  questo il gran prodromo, T inizio della nuova ra, in cui i popoli rappresentati pi direttamente nelle classi operaie  gradatamente tra loro stabiliranno non solo gli interessi im terali ed economici, ma eziandio gli interessi civili, politici, emc^rafici, religiosi e morali, come ripeio; tagliando fuori e riducendo all'impotenza i Governi,coi formida* bili loro eserciti, ormai non pi formidabili, ma inutili. Ed ecco come i popoli affiratellati fonderanno pure in una sola e pi razionale confessione cristiana i aspettivi bisogni religiosi  morali, come sopra accennai. E ci in onta alle attuali diverse confessioni in lotta ed anatema tra loro, vantando ciascuna per s il monopolio del vero e sacro patrimonio della dottrina di Cristo, a mezzo di inconsulti corifei affatto esclusivisti. Quind' innanzi i popoli civili meglio educati al giusto concetto ed all' uso moderato della libert il sommo tra i beni morali individuali e colletti vi, la massima conquista della civilt moderna imporranno agli stessi governanti i propri voleri, a semplice soddisfazione dei propri bisogni. E questo essi faranno per mezzo di imponenti quanto misurate dimostrazioni pubbliche, con solenni e popolari imperativi categorici, senza uscire dai limiti legalitari con atto alcuno di vandalismo o di sedizione, senza torcere altrui un capello. N paia questa un'utopia. Noi vedemmo test a Londra, e precisamente la festa del lavoro, il i. del passato Maggio, uno spettacolo nuovo e quasi incredibile del pi equilibrato uso della libert, in mezzo ad un immenso popolo di parecchie centinaia di migliaia di dimostranti. Si  calcolato che tutti quegli operat, con interminabili processioni di migliaia e migliaia di associazioni, precedute da bandiere e stendardi d'ogni maniera e gradazione, oltrepassassero il mezzo milione; n la cifra pu sorprendere per chi sappia che Londra conta circa quattro milioni d'abitanti. Tutte le principali e pi contigue piazze ne rimasero letteralmente stipate, mentre centinaia di oratori saliti sopra improvvisate tribune, arringavano ad un tempo in diversi luoghi e da' punti principali quell'interminabile folla. Ebbene, in mezzo a tanta moltitndine di dimostranti, tra quali certo chi sa mai quanti allora affamati e digiuni, niente di sedizioso, ordine perfetto; contenti e paghi qoe gloperai che il governo prendesse atto delle loro domande a soddis&zione dei loro bisogni, votando i loro desiderati con immensi urri, e &cendoU alle competenti aatoriti da apposite commissioni presentare. Questo solenne esempio di franca concessione di popolari libert da una parte, e di moderato uso delle stesse dall' altra, quanto non d di che pensare ed arrossire agli altri popoli del continente europeo; ed a noi Italiani in particolare! Quanta distanza di contegno nelle popolari adunanze per noi, troppo nuovi ed inesperti del modico e retto uso della libert, ma quanta restrizione ancora in alto, neiraccrdar e nell* interpretare le stesse libert statutarie. Ci pensino a tempo^ ci pensino i paladini dellistituzioni in Italia al timone dello Stato; che anche il nostro popolo, come V inglese, ha bisogno di educarsi al sacer^ dozio della libert. Pensino che  sempre fresco d'attualit il celebre aforisma dOVIDIO (si veda), in proposito: Nitimur in vetitum semper cupimusque negata. Pensino che accanto alla soppressione ed all'oppressione germoglia appunto rigogliosa e fiera la reazione, quanto spontanea e naturale. Certe situazioni vogliono essere francamente affrontate, quando non torni punto corretto il sopprimerle o lo spostarle. Coii il popolo Stesso viene poi educato all'onesto uso della libert; che se ne sar tenuto lontano, non . sopra tanto apprezzarla da valersene rettamente e contenersi all' occorrenza. j I Si d3&e e si va ogni giorno diceQ4o q proclatnando -r^ sfc^it dz cbi mira al potere ^ vi s'aggrappa o tende a riaggrapparvi^i -n- ch^ la monarchia k il nostro unica t^Us^na^p,, la sola tavola ^i salv^^^a per la conservazione delia nostra upit, come lo f^ gi per il conseguimento d^lla nostra um^azione. E sia pur: io qui uol contester; m^. non posso a tf^nf^ ii const^;i,re che $i f^ prmaii in omaggio alla forma, troppo fipre9P d^Ua stessa sostanza. E4 a v^rci^ se ci.  proprio necessaria la iorma per la nostrfi cpesipx^e,, perch tanta profusione d' armi e di armati e di pi^licp deiv^ro per su0lcQrla? Non sarebbe .g4i questp in vece un vero compronpt^tterla e minarla? In fatti. un biMncio di me:^zo miliardo annuo circa per U Qu^rra e per la Marina, un ben quattordici milioni an^ui per la Usta civili^, la n^aggiore in Europa se non,^rrp, e tuqre le amqynistr^ipai e le liberta stesse statuta^ rie subprdin^te a qi^es^o ^cces$prio di forma; via, non pc^ corre dissimularlo, tutto questo  un lussp da una pa^fte. e \;i,i;i, sa^ri^co 4^11* Altra, che diventano ognor pi iiisopports^bili a, popolo italiano; ^ giova in buona fede pro^ clamarlo altamente, perch sia meglio avvertito T abisso e P^r tempo provveduto. Che se si continua alla forma immolare siffattamente Ut sostanza^ v^gg^^no i nocchieri che un qualche giorno un' irjrompente volont 4i popolo ridesto non trovi pi logico di sacrificare la forma stessa alla sostanza anche sup .tn^lgca^P ^4 a malincuore. 1\ Brasile \ informi; che diversamente, fatto il loro tempo anche gli dei conviene se ne vadaAPi daj mercato degji interpreti e sacerdoti ini^nzi al popolo una volta compromessi. K giova Taddurte T esempio diegH zhriSV^tiifmt^txh nestare la mala via; noi dok V'amo seaz'altfo.i^quUbrttre' i bilanci pubblici coi mezzi e coi bisogni de ll}|l!ili^on^;40bjstanza saVii. e ignarda^ ghi in vece inribus nnitis. Ed anche qui, dove ci vengono,n\e^o i tpezzi 6nffir ziari,  proprio il casp di prendere e^snp^pio Itmbo d^ Italia irredenta; la patria nostra, in un tempo piii niella lontano, sar fatalmente quanto pacificamente integr^^ta^ in tutta la sua pienezza geografica^ ed etnografico imptrciocche, giova ripeterlo, ci che una nas^ione, ci cheati p* polo intero vuole, Dio stesso lo vuole sena*a.kro. Ed ecco come e perch io vorrei conciliata td soluzione del nostro scottante problema economico e militn stra peregrinatliofte, dopo il lungo e vorticoso viaggio accademica-poUti'., per yli scolari poveri delle Scuole Elementari dri Gomi'--e di Ravenna.) k Mm I.'^i'">'; M ptniiwa niouHco llailano d* lllllililii j . Fabiano. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabiano,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabiano: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Maestro di Seneca, il quale testimonia che Fabiano Papirio non è un filosofo ex his cathedraris, sed ex veris et antiquis. Seneca ricorda la doti di F. di conferenziere -- le declamazioni, le pubbliche letture sono alla moda --, ne loda il nobile carattere e le doti di filosofo. Seneca rifere che la produzione filosofica di F. non e meno ampia di quella di CICERONE. Di lui si ricordano "De causarum naturalium", "De amimalibus", e “De civilium". Rimangono poche sentenze di F., conservate da Seneca e da STOBEO che confermano il giudizio di Seneca, che la dottrine di quell’indirizzo e caratterizzata da VIGORE ROMANO. Si allontana dal Portico, quando limita le loro ricerche all'etica e in questa trascurano la parte teorica. Si avvicina alla posizione del Cinargo, e insieme alle preferenze dello SPIRITO ROMANO per ciò che serve all’azione. Mira non a sviluppare teorie, ma a esercitare un influsso personale sulla condotta degl’umini e condanna le dottrine che non mirrano a un’azione etica. In F. in si manifesta l’eclettismo perchè accoglie anche teorie pitagoriche -- la norma di rendersi conto ogni giorno della propria condotta, l'astinenza da cibi carnei -- e, platonico-aristoteliche -- la natura incorporea e non spaziale dell'anima. Nulla di filosoficamente importante si trovarsi in F., che però e interessante in quanto mostrano come la romanità si potessero collegare e fondere in alcune anime nobili e vigorose. He makes his career in public speaking and becomes interested in philosophy after meeting SESTIO (si veda). He writes a number of essays and is greatly admired by Seneca who mentions him in on a number of occasions. Seneca describes him as someone who lived a philosophical life without being distracted by details of doctrine. Nome compiuto: Fabiano Papirio. Fabiano. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabiano,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabio: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Philosopher and friend of Boezio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabio: la ragione conversazionale al portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. MHe writes a number of essays on philosophy. Nome compiuto: Fabio Massimo. Fabio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabio,” The Swimming-Pool Library, Vlla Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei lizii -- i peripatetici – scuola della Spinata di Brisighella—filosofia ravennese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Speranza (Spinata di Brisighella). Filosofo brisighellese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Spinata di Brisighella, Brisighella, Ravenna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Fabri; especially the ardour by which he fought Duns Scotus – a furriner! – and his malignant influence on the Continent – he was a thoroughbred Aristotelian, like me!” Insegnò a Padova. Critica Pico e Galilei, in difesa di Aristotele, dell'unità della metafisica e della separazione di matematica e fisica. Altre opere: Disputationes theologicae de restitutione et extrema unction (Venezia). “Adversus impios atheos”F. n Universitate Patauina Olim Sacrae Theologiae Professoris EXPOSITIONES, ET DISPVTATIONES In XII. Lib. Arist. MATAPHYSICORVM; QVIBVS DOCTIRNA IO. DVNS. SCOTI Magna cum facilitate illustratur, [et] contra Aduersarior omnes tam Veteres, quam Recentiores defenditur His Praeijt Auctoris Vita a MATHEO VEGLENSI, Nunc Sacrum Theologiam in eadem Vniuersitate Publice docente, Conscripta. Cum Duplici Disputationum, [et] Rerum Memorabilium Indice. Ad EMINENTIS. ET REVERENDIS. PRINCIPEM D. Dominum FRANSCISCVM CARDINALEM BARBERINVM Vicecancellarium. Il valore della "Metafisica" di Aristotele e la distinzione delle scienze speculative. In: Innovazione filosofica e università. F. His comment on Aristotle’s metaphysics is a gem. It’s divided in dissertatio – and chapters for each little unit. The following should serve as kewyords.  contrarium solution, Yorum appetitus addat aliquid supra facultatem, cuius De Structura Metaphysicorum est appetitus, et idem de concupicibile, et irascibile. BIECTIO. Adversariorum Aristotelis contra scientiam Metaphy sicorum. Excellentia Metaplıyl. explicatur. V trum inter omnes senſus magis senſum visus diligamus, o hoc quia vilusfaciat nos Excellentia Merappyf. inductine din magis scire. scurrendo per diversas (ciencias, et questa varia pub. Cap. III pag. Is Rationes, quibusallata propositio Aristoteli videtur Adraciunes Adversariorum Arist. falla Declaratur alata propositio, et soluuntur rationes adduciæ. Inscriptione, Сар. Рnicит, Utrum in Brutis sit prudential. Utrum. Metaphys. sit scientia subalternans, Quid sit dicendum reiectis opinionibus contrariis, Рівіскі. De Subiecte Metaphysicorum. Utrum ex experimentis generetur ars, siue scientia. Aliorum opiniones adducuntur, et reijciuntur, cap.1. Opinio Arist. et Scoti cum suis fundamentis brevi. ter explicatiil'. Vera Opinio cap.nl p.21 Obiectiones contra opinionem Aristot.ex! Antiquis Heraclito, Platone, et Avicenna, et earum confutatio, et Solutio. Obiectiones aliorum contra quædam dicta inVtrum ens habeat peras causas, principia. et eorum solutio Vtruy verum sit quod expertus non habens artein, Quid sit dicendum. cap. 1 p. 22 nec scientiam certius operetur habente, et scienti. Obiectiones aliorum præfertim contra distinctionem ang, sed inexpertè, formalçın soluuntur. Vtrum AEtiones sint circa singularia. Vtrum illa propositio Aristot. Omnes homines Diput. natura scire dederant, sit vera, de quo auctitu Opinio Thomist. et quorumdam aliorum adducitur, Vtrum aliquis SENSVS INTERNVS dividat, come et refellitur ponat, a discurrat, Opinio Scoti, et eius Comprobatio, et rationum in P.Opinietur. Opinio D. Tho. ac Sectatorum refellitur, et Opinio Quid sit dicendum.c. vnic. Scoti explicatur.c. Vdic Vtrum detur Regressus, yorum obiectum per se sensus sit aliquid fub ra. tione singulariiatis.Vtrum sit ponere Stutum in omni genere catfitri... ptrum ad Metaphyf. pertineat cognoscere omnes Quæ fine causæ essentialiter ordinatæ, et quæ acci. quidditates rerum in particulari. dentaliter, et quæ per se, et quæ per accidés. Resolutio quæstionis secund. Scotum.Aliotum Opiniones adducuntur, et refelluntur. Obiectiones contrarationes Scoti, et Propoſitioné Arift.& carundem folutio. Opinio Scoti explicatur, et rationes in oppofitum Coluuntu. Vtrum cauſæ ſecunde pendeant in sua causalitate ab aliis causis secundis superioribus, vt Vtrum magis universalia sint difficiliora cogni agentia hæc inferiora d cælo. Opinionibus Contrariis conſideratis, quid sit dicendum Itatuitur. Quomodo Celum sit causa lucis, luminis, et caloris trum metaphyſicæ sit scientia practica, vel Spe. permotum, vbi de generatione caloris quoque culatiúl, ego idem de logica. agitur. Quid sit dicendum de Metaphyſ. breviter explica- Quomodo Cçlu producat calore per lumé.c.z. SS Quid sit dicendum de Logica. Vtrum infinitum possit à nobis cognolci. An poßit à nobis cognosci infinitum esse in rebus Vtrum prima principia Complexa vel illud de quo- An intellectus creatus poflit infinitum secundú quod libet perum est AFFIRMARE, VEL NEGARE, de nullo infinitum cognoscere. Opinio Suarez cun fais amboſimul, sint nobis naturaliternota. fundamentis Opinio allata reijcitur. Opinio Scoti explicatur, et ra Quid sit dicendum. ciones in oppositum foluuntur.An A Genfus principiorum sit actus distinctus ab apprehensione, et quædam alia dubia mota a Scoto in hac quæst.&non soluta, Coluuntur. Utrum immobilitas sit causa efficiens, o finalis Vtrum difficultas cognoscendi resfit ex parte intellectus, vel ex parte rerum cognoscibilium. Quid sit dicendum breviter explicatur. Opinio Averr. Thomist. et aliorum cum suis fundamentis Opinio Scoti comprobatur, et allaræ refelluntir. Vtrum genus prædicetur de differentia per se, Opinio Scoti explicatur, &rationes Aduerfariorum Quid sit dicendum. Cap. Vnicum ſoluuntur rio.  Utrum substantiæ abstracta immateriales possint cognosci secundum suas quidditates ab Vtrum ens uni-voce prædicetun de Deare creaturis intelle &tu nostro pro Aatu iſto. Opinio Thomist. adducitur substantia, e accidente: vbiquæ ad hancmate, et refellitur riam spe &tent quæq; tractata sint explicantur, Thomist. responsiones refelluntur. quædam observanda adduntur. Opiniones Auerr.Themistij, simplicii et Platonicorum, ac Avicennæ adducuntur, et refelluntur Utrum ců Univocatione entis stet ANALOGIA An Analogum mediet inçer UNIVOCVM et æquivocu. Explicatur Opinio Scoti, et rationes in oppositum Vtrum Privatio, Negatio sit ens rationis, In quo sit felicitas, et summum bonum hominis se iundum Aristotelem, alios Philosophos. Opinio Aucrc.D. Thoin, et sectatorium.c Cap. 2 soluuntur Opinio untur.C.2 IX. E Opinio Scoti, et solutio rationum pro Adversariis Vtrum vniversale pro prima intentione sit in solo intellectu, an in rebus, a quo fiat, ứ quid sit. Vtrum cognitionem negatio habeat ab affirmatione diftinétamcuiformalitatem opponitur., ca Status quæftionis aperitur, et opinio Nominal. addu citur, et confutatur Quid sit formalitas Opinio Thomiſt. et multorum aliorum adducitur, et Quomodo formalitas ſeù conceptibilitas negationis refellicur.c.2 189 Te habeat ad formalitatein affirinationis Opinio Scoti Quomodo privatio per affirmatione, et privatio An intellectus agens, vel possibilis faciat universale, per positiuuin cognoscatur solutio trium quæftionum à Porphirio excitata rum in Proemio Prædicabil.  Rationes pro aliis opinionibus adductæ soluuntur. De ente rationis, e fecundis intentionibus. An fir ens rationis, et quotuplex sit Quotuplex sit ens rationis, Aliorum opiniones reijci Utrum verum ſit paſſio entis, et quid fit Opinio Scoti explicatur, et rationibus primo capite addictis reſpondetur Quid fit ens rationis,& fecundaintentio. Opinio A. Vtrum bonum sit passio entis, et quid sit liorum, et eorumdem confutatione Quid sit ens rationis, et secunda intentio secundum DScorú, et quomodo formatur,& an formetur a voluntate, et fenfitiua potential Vtrum preter vnum, verum, bonum den An: prædicametu undecimú debcat constitui, in quo tur aliæ passiones entis entia rationis reponantur Quid sit dicendum breviter declaratur. c. vnic virum ens habeat veras paſſiones, cproprietates. Vtrum iftud principium,impoſſibile eſt id eniſimul Variæ opiniones cum eorum fundamentis eſje; non efje fit firmiſſimim. Allara opinio refellitur Opinio Scoti explicatur, et rationes Aduerſarlorum Veritas breviter explicatur, et quædam obicctiones ſoluuntur soluuntur.c.vnic Vtrum propria paſio distinguatur realiter vtrum hoc principium inpossibile est idem fimulef à Juo subiecto. fes nonesse sit simpliciter primum principi um, e prima omnium dignitatum. Opinio et Auerroiſt Nominal. quorumdam. breuiter reijcitur cum fuis, et opinio fundamentis Thom.. Au principiun iſtud ſit diuerſum ab alijs principijs, et explicatur.c. præſertim ab illo, de quolibet verum eft affirmare 201 velnegare.c.1 Allata opinio reijcitur, et opinio Scoti, quæ eft etiam Auert. Comprobatur Opinio Allerentium primum principium ſimpliciter Rationes Aduerſariorum foluuntur elle illud de quolibet verum ett affirinare,vel nega Rationes Aduerſariorum contra diftinctionem for re, retellitur. malem inter ſubiectuin, et paflionem adducuntur, ConGdecancur opinio Antonij Andreæ, obiectiones et foluuntur.Aduerfarioruin, et quæfituin reſolutur.V trum vnü quod eft paffio entis, dicat quid poſitivi Vtrum inter contradictoria detur medium. Opinio Auicennæ reijcitur, et opinio AQUINO (si veda).& re. Quomodo vera fit hæc propofitio, et aſſertio, inter ctatorum explicatur cum ſuus fundamentis.c.1.177 contradictoria datur mediam explicatur, et ebie Opinio D.Thom. et ſectatorum refellitar. ctiones quædamin contrario foluuntur.Opinio Scoti explicatur, et rationes pro Aduerſarijs Argumenta quædam contraria toimuntur.c.2. foluuntur De Vnitate indiuiduali, seu de principio individuationis. Vtrum cauſæ ſint tantum quatuor. Quierlain adduntur ad ea, quæ in Philoſopbia naturali Quæ fit diffinitio propria principij, et caufæ, et quod dicta ſunt de principio indiuiduationis contra Sua corum difcrimen. Suarez, et opinio Scoti magis confir. Vtrum fint plura quá quatuor genera cauſarú,vbide caula caufi fine quanon,decauſa diſpoſitiua, obiectiva cxemplaridiecimur Vera explicatio difficultatis propofitæ,& rationen in oppofitum folutio. Verum cauſa exemplaris fit genas diſtinctuin caufæ à quatuorgeneribuscaularum pofitis ab Aristotelis. Vtrum caufe ſint ſibi inuicem cauſa. in quo conſiſtat cauſalitas cauſamaterialis, forma. Quæſtio breuiter reſoluitur, &quædam obiectiones lis, efficientis. in contrarium foliuntur.c.vnico Opinio aliorum.com Allatæ Opinio opiniones vera cuin luis refelluntur fundamentis, et folutio racionú verum neceſſaria habeant caufam fui esse Aducrſariorum. Vtrum ens diuidatur in decem prædicamenta per De cauſa finali. modos prædicandi, vel per modos eßendi. Caula finalem ele caulam realem, et caulam caliſa- Quid fitmodus rei, et quid modi intrinſeci, aliorum fum opinionibus reiectis,explicatur An finis caufct, et moueat fecundum fuum elle rea. Opinio Scoti. le, an secundum elle cognitum in inente, Antinis caulec Meraphorice,vel efficienter Viruin ratio formalis conftitutiua finis in proxiina di ſpoſitione ad caufandam larbonitas tin:s,& Ancau Vtrumſecunda diuiſio vnius, quæ eft in vnum nu lalitas tinis babeat lociun in diuinis actionibus, in mero, unum specie, unum genere, et vnum propor mediis relationibus prusacion.bus, et in naturali tione sit conveniens.bus Vtrum plura accidentia solo numero diucrſapoſfint De causa instrumentali ere simul in eodem fubie& to Opinio D. AQUINO (si veda) et Thomist., cum suis fundamen- Opinio Thoiniſt. cum fuis fundamentis Alaca opinio celicitur, et opino Scoti explicatur,  et conriimtur Allaca opinio refellitur, et opinio Scoti explicatur Obectiones quęd.ım ex Suarez adducuntur, et folur Vtrum inſtrumenta Artium habcant vim activa n. tur, et ndiciva deeius speratione fertir Plures relaciones diltiactis numcroelli dc facto in co Opinio Scoti adducitur,& rationes Aduerſariorun, dei lubiecto contraaduerfarios prob cap.adductæ Coluuntur Rationes Aduerfariorum primo capite adducte lol muntur Vtrum onus effe &tus poſſit prouenire à pluribus caufis. V trum propria ratio quantitatisſit diuiſibilitas. Quaeslio quoad criamembra, et tres fenfus,breuitcr Diffinitio quantitatis explicatur cxplicatur Virum quantitas molis fit entitas distincta à ſubstan. Vtrum idem effectus poflit effe fimul a pluribus cull cia materiali, et qualitatibusillius ſis totalibus eiuſdeni generis, et ordinis sive speci Viruin ratio menſuræ fit ratio torinalis quantitaris.De principali quæfito, An divisibilitas sit ratio esé. cutis quantitates  Qienum fic excentio in quanticate, et quomodo ina Anidem indiuiduum poſſit produci à diue'ſis agen Ten yenda dit.c.s tibus, idem numero reproduci naturaliter. An idem effectus poflit eſſe à pluribus saufis rotali bus divisim, seu Anidem indiuiduum numeio por Vtrum punctum linea, superficies sint entia rear fit produci à diuerſis agentib ila vel railonis, An idem numero tam in fubftantia, quam in acciden te poflit reproduci naturaliter Opinio nominalium negantiuneſſe entiz realia cum iuus fundamcntis. Opin o alaia reiicitur, et finul appo.iti, quod iint evtia rcalia, que elt com 10HS comprobitiir Vtrum cauſa particularisin a&u, &ſuus effe &tius in aftuſimulfint, et non fint:vel fub alio titulo. Opinio Sco: i, et folutio rationum in oppoſituin. Vtrum caufa fitprior ſuo effectu Quorundam opiniones adducuntur, &reijciuntur DISPV pas T Opinio Scoti cum fuis fundamentis. Rationes crietani contra hanc opinionem, et rationem Scoti so trum quantitas discreta ſit proprieſpecies Opinio allata caietani cum suis fundamentis, et re. quantiiati, sponſionibus refellitur Soluuntur rationes aliorum.c4 Opinio negatiua cum fuis fundamentis Allata opinio refellitur et oppofita comprobatur, Opinio Scoti, et communis explicatur, et rationes Vtrum ad relationem realem tria fuffi in oppofitum foluunturçiant, Virum in ſpiritualibus tie quantitas diſcreta, et in dili nis fit numerus  Relationem habere cauſam efficientem, et finalem, quæ sunt extrema et relationem multiplicari ad multiplicationcm fubicctorum, et potentialem el fercaliter diftinctam ab actuali. Vtrum qualitas rectè diftinguatur in qua., De Distinctione fubiecti, et fundamenti in relation tuor ſpecies ne.c.2 393 Vtrum fundamentum, et terminus in relatione reali Proponuntur difficultatesquædam generales circa do neccfiario diftingui debeant realiter. Vbi opinio ctrinam Ariftotelis de qualitatis ipecicbus.c.de Gregorij, Auscoli, et Okan apperiuntur, et rejciuntur Quid dicendum circa allatas difficultates Vtrum dentur Relationes extrinfecus ad V trum locus fit quantitas. menientes, Explicatur quęnio 2. Q.101.b. Scoti, vbi de distin- Opin o Scoti explicatur cum ſuis fundamentis ctione loci, de existenia duorum corporum in eo dein oco difertur, et obicctiones Aducrtariorum Rationes aliorurn adduantur, et rcfelluntur retelluntur Locum non cfle vacuum, quamuis vacuum poflit da Rationes allaræ foluuntur leteffe ipeciem quantitates Solutio argumentorum conrra fecundam, et tertiam opinionemVtrum motus, tempus fint species quantitatis.VNICUMI. Vtrum una relatio possit fundari in alia keliiione. Opinio D. Thomæ cum ſuis fundamentis refellitur, Utrum relatio distinguatur à fundamento, vbi de distinctione reail, mondo, contra hea Opinio Scoti, et folutio rationum pro præcedenti opi cenciures un puitur. nioneadductorum Opinio eorum, qui aſſerunt relationein non distingui a fundamento. Opinio præcedenci capite allata, et doctrina de ditın Virum tres modi relativorum sint reétè clione reali Suarez iciclisur. allignati ab Aristotele. Opinio alionum allerenijum relaciones non diſting.is realiter à fundamento. Anomncs relationes fufficienter contineantur in his Opinio alioulin aflerenuun relationes eſſe idenirea a b smodis Tejatiliorum.c. I liter cuin fundamento, led dittingu rationc addu Vuum primus modus relatiuorum Git ſufficienter ani citur, et refellilur. gnaliis Opiniones aliorum foluuntur Yorum lccundus, et tertilis modus relatiuorum fic rectè aſiignatus.C.) Vtrum omnis relatio contineatur in predica mento relationis, an rerò aliqui fint Transcandentales. Per quid scientia speculatina distingua. Opinio aliorum qui allerunt relationes rationis repo tur à Practica. nu in prædicamento relationis adducitur, et reijci tul Adversariorum ſententiæ; An açtus intellectus sie Que tint relationes prædicamentales, et quæ tran praxis adducuntur, et refellunur scendentales. Opinio Thomittarun a quo habitus, et scientia di. catur practica cum lius fundamentis Allaca opinio retellicur, et rationes pro ça Coluuntur, Virum relatiuum terminetur ad ſuum correlatiuum. Scou one CRUCI DI De conexione virtutum moralium acqui ſitarum inter fe. Opiniones aliorum refelluntirr.c.i SOI Opinio D. Tho. et aliorum refelluntur. Opinio Scoti, et dolutio rationuin sos Utrum scientiam sit una qualitas simplex. Opiniones aliorum refelluntur, et opinio Scoti ex plicatur Verum scientia: n totalis vt Philoſophia naturalis, vel Mertaph fit vna nuinero fimplex qualitas Opinio D. AQUINO (si veda) Opinio Suarez Quomodo opinio nominalium Gt vera, Relponſio caierani retellitur Pugna inter Suarez et Vaſquez  De connexione virtutum moralium cum prudentia, Opinio Henrici, et aliorum reijcitur, et opinio Scou ti explicatur CI sog Opiniones Aliorum refutantur, et opinio Scoti con firmatur.  i foluuntur. 6.4 vtrum trimembris diuifio.ſcientia ſpeculatiuæ in Phisicam Mathematica, de methaphysicam, fut bona. Vtrum necesse sit ponere charitatem creatam for maliter inherentem naturæ Beatifica Rationes quibus prædicta diuifio Arist, non vide Diſput. merè Thologica, cur conueniens Resolucio Difficultatis, et folutio rationum. cap.z. Homines iuſtificari per iuftitiam inherentem animæ formaliter, non autem per imputatiuain, contra hæ feticos breuiter probatur Opinio Magiſtri adducitur, et refellitur. Opinio catholica explicatur, et comprobatur ex Do Vtrumfit necefle ponerein habiturationem (trina Scoti. principi a &tiui reſpectu actus Quid fit dicenduin deſententia Magiſtri quo ad fubftantiam. Rationes pro opinione Magiftri adductæ coluntur cos 531 Duiz opinioncs adducuntur, et refelluntur.c. Opinio D. AQUINO (si veda) Aureoli, et Durandi' refellitur. R. Opin o Scoti explicatur, et probatur. Utrum gratia fit virtus, quæ eſt charitas. Obiectiones contra opinionem Scoti adducuntur, et 469 Exponitur opinio D. Thomæ Vaum habitusgeneretur per a et tus, et quomodo opi Allara opinio reijcitur. nio alioruni.cos 474 Exponitur opinio Scoti, &rationibus aliorum tisaltir. Vtrum habitus moralis in quantum virtusſit aliquo modo principium aétiuum refpectu bo Vtrum gratia fit in eſentia animæ tamquam in ſur nitatis in actu, biecto vel in potentys. Opinio Scoti cum ſuis fundamentis. Exponitur opinio illorum qui dicunt gratiain effe in Obiectiones caictani,& ipfius Scoti contra fe: c. 2 effentiam animæ.c, I 540 480 Rationes in oppofitum foluuntur Rationes caietani, et aliorum adducuntur, et refeilun 484 Virum in patria remaneat habitus fidei. Opinio aliorum refellitur, et Scoti explicatur. cap. SAS De ſubię to babituum, Opinio Scoti defenditur, et comprobatur, C. vnic. pag. 486 De connexione vtrum intelleétualium inter fe, et Moralium cum Theologicis, Theologicarum inter fe. De subiecto virtutum. Quod fit dicendum. In quo conueniant Scoti D Tho. et alij. Opinio ai lara refellitur, et fimulopinió Scotiproba 492 Vtrum an anıma dertur alij habitus preter virtue Opinio Scoti explicatur, et rationes aliorum ſolaun tes morales intelectuales, C Theologicas. vbi de damnis Spiritus Sanéti beatitudi nibus ex fruitibus, pofiiis a Theo Logis differitur, Opinio 1 pag. cur.c.4 vnic.  Opiniones aliorum refelluntur Vtrum accidens in concreto primo ſignificet fubięz Opinio Scoti explicatur.c.. čtum vt eft lub tali forina; et an accidens in abftrą cto Gt ens incompletum. Utrum angumentum cum intentionefiat fema per per ačtum intenfiorem. Vtrum ſubstantia fit prior accidente tempore Opinio D. AQUINO. c.1. $ 57 Opiniones aliorum refelluntur Opinio Scou explicatur. Opinio Scotiexplicatur, et aliorum ſoluitur De modo augumenti, et remissionis, et Utrum substantia prior sit accidente diffinitione coruprionis -habitus Opinio Thomiſtarum fefellitur.com ili Opinio aſſerentium in intentione habitus nihilpræ Opinio Scou explicatum ibid. exiftentis habicusremanere, et eiuldem confutae  Opino D. Thomæ, et aliorum refellitur Opinio Suarez ieiicitur. y trum ſubſtantia fit prior accidente cognitione. Quomodo habitus dimmuttur, et corumpitur.cap. Cina ini' 4: S75 Subſtanțiam,effe priorem cognitione accidentibus Vtrum de e ne per accidens detur fcientia, Quid fit dicendum de ente per accidens quod prijat Dediuigone ſubſtantiæ in primam, et ſecundam, et perlelden neut a.c. cil 577 diferentiam inter prim.im fullt untiam, et ſuppoſi Deente per accidens quod contingenter non necetafio caulatur. De comparatione primæ subftantiæ ad suppositum, et ad lubfiftçocian leu perionalitatem Quomodo inteligaty wla propofitio, actiones funç uppulitoruim.c.3 651 Vtruinens verum debe at ſeparari a, confideratione Quomodo mielligatur Axioma illud, actiones fins Merhapbojica. c.vnico lingubahuinVtrum formafit prior compoſito: V trạm inherentia ſit de eſſentia accidentis. Aduerfario rum opinio fefélitur, et vera comproba. 664 Quid fit dicendum de inherentia accepta pro per ſe Rationes in oppofitum ſoluuntur.c.2 Tignificato, ieu pro accidentalitate quæ circuit no nein piedicaincnta. Quud lii dicendum de accidente pro denominaco quod eit relatio. Vtrummateria ſitens, Vtrum inherentia actualis fit de ejentia ac, DISPY TATIO cidentis abjoluti. V trữ quod quid est sit idein chillo cüius ejt.c.1.667 Opinio Scoti, et aliorum reiicitur.C.3 Inherenţiam actualem non ele de jellentia acciden- Explicatur fenllis verus illius proportionis,c.2. 669 usabloluti Vtrum genita ex putri, “ſemine ſint eiufdem ratio y trum ens finitum Prima ſui diuiſione diuidatur in dccem preurcamenta, o qualisfit bac diuifio, Ü eius analogia Opiniones aliorum adducuntar Vtrum Cælum in generatione animalium ex putri Allara opinioncs refeliuiiur, et opinio Scoti expli materia ſit principale a cris. ibido Callir.c.2 633 Au rationes adversariorum Vtrum compositum per se generetur Veritas questionis explicain et opinio Scoti defendi Vtrum accidens in ſe confideratum fit ens. tur.C.2 673 Rationes pro aliis opinionibus foluuntur, et opinio Veritas aperitur confutata opinione aliorum Suare, et Zimaræ diluuntur.c.3 ** 31 tur hos 624 nis Opinio quorundam refellitur. Allaca opinio refelitur, opinio Scoti explicatur, et ra De Ideis platonis an ſint Admittende. tiones in oppofitum foluuntur.c.2 720 Germina opinio Platonis.Rationes Arift. contra Platonem, et solutio rationú in oppositum.C.2 691 De ſubie &to accidentium. An hoc fit potentia qnæ lam paſſiua in. herens (abſtantiæ. Vtrum forme niturales de potentia matteriæ educantur Opinio AQUINO refellitur Opiniones illorum qui formas naturales produci ab Opinio quorumdam aliorum.c.2 725 agence leparatu, velab intelligentia vel a Celo ale runt.C.2 688 Vtrum poum accidens poffit effe fubie &tum Opinio Sco.& Solutio rationum alterius accidentis. Opinio Scoto, et folutio rationum. C.3 Vtrum materia fit pars quidditatis rerum naturaliuin. Vtrum ad formationem prolis mater concurrat Quid sit dicendum. ci vnic. 694 active Vtrum fingulare ſitper ſe a nobis cognoſcibile. Vtrum cælum fit compoſitum ex mate. rid, forni. Næc Celum, nec animam rationalem, nec Angelam eiſe compoſica exmateria, et forma contra quoſ daw recentiores Scouſtas. C. Vnic. 731 Vtrum conceptus generis fit alius à concept u diffe rentie, speciei.Thomiltarú, et aliorú opinio, et confutatio Opinio Scoto, et folutio aliorun. Vtrum omnis creatura fit compoſita ex materia, como foruba, ex potentib, autu Virum differentia diuifiuig? neris inferioris inclu. Opinio afferentium omnes creaturas eſſe compoſi. dat differentiam gencris juperioris formaliter. tas ex materia, et forın potentia et actu refellitur et opinio Scoti explicatur Opiniones alioruin. Obiectiones A tucrinorum contra doctrinam alli Alata opinio retellitur, et vin statutis.c. 733 cam Scoti lefel iniur, Virum universale sit aliquid in rebus. Utrum ex materia, e forma fiat unum per se. Aliorum opinionibus confutatis exponitur opinio Scou.c. Voici XXI Utrum in compoſito ſubstantiali fint plures forme ſubſtantiales.Verum totum eſſentiale diſtinguatur a luis partibus; De diuiſione entis in potentiam, actum, in ef fimulfunptis. Seniamy w exiſtentiam, Vitum potentia, et actus opponantur, &quaoppo tucione; vbi op.no Henrici de cflentia, et exItentia conturauir Opinio Thomiſt. de diſtinctione en is in potentia, Vtrum in motu alterationis oporteat manere idem et actum retelitur, et opinio Scoti explicatur. fubie &tum fiinpliciter ſub zeroq; terminorum, 757 Rationes Aduerſariorum primo, &ſecundo capite Quid fit dicendum, et reſoluțio objęđionum in con adductæ foluuntur Obiectio ex Saclano,&corundem reiectio Vtrum essentia, existentia in ente creato actuanter onijiente distinguuntur. Utrum accidens sit compoſitum intrixſece Eficntiam trariuin Blora afikas JIPEL " SI Essentiam, et existentiam non realite, nec ratione c'tantum, sed formaliter distingui, et opinionem Scoti elleveram defenditur. c. I Quid ſit exifteptia creaturæ, et an habeat aliquas causās, et causalitates, et quædam aliæ quæstiones de existentia enodantur Utrum verum ſit illud Axioma,primum invnogue que genere eft metrum, o menfura omnium, que ſuntin illo genere: y trum potentia ſuficienter diuidat!ır in actiuam, Quid Ge menſura,& quæ conditiones eius vbi de du o paſiuam, earum diffinitiones ſint ratione,de æternitate, et to, et aliis inenfuris agi reita aſſignatæ. tul Verus intellectus propofitiAxiomatis Obicctiones cótra vtráq; partem adducútur Diuifionem potentiæ in actiuam, et pafſiuain eſte difficientem, et diffiniționės vtriuſq; potenciæ ef de l'ecrè allignatas Vtrum vnum, multa opponantur contrarie, vbi de paſſionibus entis agitur: 1 Firew.idem moreripoſſit à ſeipſo,velvt alij loquit Quomodo vnum lic paflio ſimplex, et difuncta en tir', Vtrum potentia actiua, et paffiua jem tis, qualis fit diuitio entis in vnum, et multa, et qua per ré, ú ſubiecto differant. lis ipforum oppofitio.c.vbic, 819 Opinio AQUINO et aliorum tenenrium parcein negatiua,nimirú ide à feipfo moueri non pofle Allata opinio refellitur V ti un,ptáralitas ſei diuifibilitas fit prior Rationes pro Aduerfariis primo capite a iductæ ſol vno, jer indiuiſibílı, oc. uunub.Quid fit dicendum breuiter aperitur. c.vnic. Vtrum omnis potenti 1.fite tantum attina, veltātum paliud,vel aliqua fit fimul actiua, o pajuna. V trum à priuatione ad habitum ſit poſibilis Quedamquæſtiunculæ de potentia tractaræ à Scoto regreſſus jeù tranſmutatio: an hoclibro Nono breuiter explicantur ic. i 784 Eamdem potentiam poffe efle actiuam, et paffiuan Ruid fit dicendup. c.ynic, i $ 23 nedyn selpecriducrforum,led relpectu tuijpfi us, et quomodoVtrum identitas abſoluta, a relatiua fint eadem V tim potentia paſina diuidatur in potentiã notu. entitas an distinci e realiter. i ralerno upernaturalé,jei obediétialé,a violétă. Opinio Aduerſariorum refellitur cum ſuis fundansé Diftinctionem allatam eſſe de potentia paffiua, non tis, et opinio Scoti explicatur, et prob.c.ynic, 8.24 actina. L'orenciain obedientialem acuvam non da. ri, et membra omnia fecundum doctrinam Scori elle intelligenda. C. vnic. Vtrum idem, et diuerſuin habeant inediú. c.vnic.V trum aétus ſit prior potentia.. V triem media cõt: ariorū ſint cöpoſita ex terninis: 10 cuo ſenſu ſit vera, et quid dicendum explicatur. Duæ contrariæ opiniones adducuntur in propoſita questione, et an duo contraria poflint elle in co. dem fubiecto.c.I 828 Vtrum actio fit in agente, vel in paflor 791 Quid fit dicendum de vtraque, opinio allata, et opiu nio Scoti explicatur. Quodam alia adducuntur ad majorem declaratione; Kanduio contaria in fumino de potentia Dei ab y trum differentia,quam alignat Philofophus inter ſoluta pollint elle fimul. c.; potentias rationales, e irrationales fit conuenienter poſita. Rationes contra allaraw differentiam aßignatam ab Vtrum formæ ſubſtantiales formaliter repugnantes, Anttotele opponantur oppoſitione contrarietatis. Resolutio quæstionis. Arguincita primo capite adducta ſoluiuntur. Opinio aferens formas ſubstantiales eſſe contrarias cțiin tus fundamencis. Fundamenta quædam pro veritate inueftiganda, vbi de natura oppofitorum agitur. Utrum detur aliquis aétus malus in voluntate ſine Solutio principalis dubitationis, et rationes pro pri vlla ignorantia in inielletin maopinione Obiectio quid tun'ex Scoto ipfo,& ex recentioribus aduerſus ſecundam partem quartz conclufionis fit l'trum corruptibile, e incorruptibile differant perius probatæ, probans rarionc naturali pode de pluſquam genere monftrari Deum eſtepropriè omnipotentem,reij. Citur  Alixrationes exrecentiotibiis ad idem adducuntur, et foluuntur. An verum sit Deum posse saccreomze illud, quot non implicat contradictionem. Vtrum primæ quatuor qualitates fint for, An Deus ponit facere fimul omnia quæ poteft, et an me ſubſtancialeselementorum. poſit facere in infiniçum Opinio affirmatiua cu niluls fundamentis  i Fundamenta pro opinione Græcorum.c Primaratio contra opinionem Græcoram adduci- vtrum potentiæ in Deo diſtinguatur abtur.C.3 tia,& voluntatealiquomodo,fie cius fcien Aliæ rationes ad idem. C.4 8.46 Intellectum, &voluntatem detur potentia efe Quædam ali rationes ad idem.c.s 848 cutiua in Dco, quid in Angelis. 0 Solutio rationum in oppoſitum Deopinione Auerroes.c.7, s'agi ! 855 Opiniones aliorum cum fuis fundamentis.c.r924 Explicatio opinionis Scoti; et confutatio aliarum Vtrum generatio, corruptio fiant in inftanti Opinio áfferentium ſubſtantiam?ſucceſſiuélgenera. Quid comprahendati fub'obie et o omnipotentiæ: ricum ſuis tuntamientis Opinio allata refellitur, et omnem generationem An omnipotentia se extendar'adactis notionales ſe ſubſtantialem fieri in inſtanci cum Arift.defendi cundum Theologos. cLimas. Anomnipotentia fe extendat ad creationem Angelo Rationes aduerfariorun foluuntur. C32.862: rum, et quid fit dicendum fecunduin Theologos, 00061: Jorcu et quid fecundum Philosophos.c.2 VM. Lupe pie  Vtrum Deusfit ſimplex, et omnis creatura ſit com politan. Utrum omnis productio, velindu &tio cuiufcumque forma sit univoca, ſoue à fuo ſimili perrun solum Deus sit inmutabilis. Quid sit dicendun aperitur. Rationes in oppositum foluantur, et quomodo meti13 Deum in ſe ele irmutabilem probatut rationibus fit caula caloris Philofophorum, et Theologorum. co.Analiquid aliud á Deo habeat immutabilitatem, IWA quid lenſerincPhilofophi Obiectiones contra determinata tisperivis, et opinio Vtrum animarationalis it'immortalis. eorum, qui dicunt Deum agere libere ad extraie cundum Philosophos, et endem confutatio Rationes pro' opinione Philoſophorum, quod Deus Venum detur vnum primum ens infinitum, quod eſt agat necefario ad extra,& quod dcntiraiiqua ca Deus,in qua rationibusnaturalibus demonftratiuis tia ex fe neceffe eiſe,adducantur, et eadein opinio proceditur, contra Atheiſtas. retelliill's Cof Quædam præambulæ conclufiones ad probanda'n Deum effe immutabilem quoad intellectun, et volú primamens ex triplici primitate prædicta elle in tatem, et quomodo. finitum præmittunur. Rationes pro Philofophis foluuntur. Primum ens triplici primitate præmiffa effe infinitú Quæ virtutes cx ijs que conſequentar voluntatein $ erat fecundum principale intencū prob.c.7. 399 Tint in Deo. Rationes D. Thom. et aliorum, quibus probant Deā elle infinitum,adducuntur, et reijciuntur. V trum dctur infinitum actu in permanenti bis, c filceclivis. Vtrum Deum eſſe omnipotentem poſſit natnrali ratione, neceſjaria demonſtrari. Status queſtionis, et rationes quaſdam recentiorü, quod mundus non pocucrit elle ab æterno, non có Explicatur çitalis quæftionis, et quid fit dicendan. cludcre oftendicar, c. 960 quoad demonſtrationem propter quid. Opmio eorunqai affcrun dari infinitum aétu tam Quid dicendum quoad demonftrationem quia, tam in permanentibus,gratia fuccelifuis adducitur, et fecundum Philoſophos, quam fecundum Theolo reijcitur et quoinodo diſcrepent Philosophi à Theolo. Pofitio Scoti, et folutio rationum in contrariain. gis Vtrum attributa diſtinguantur inter ſe, ab eſſentia Dei De voluntate Dei. Aſignantur loca in quibus præcipuię difpufationes pertinentes ad voluntatem Dei ab Auctore tracta. tur, et oftenditur Deum amare le, et alia extra ſe, et quomodo. Caput Vnicum. i Utrum Deus fit Immenſus. An voluntas Dei semper implicatur  INDI Diſputatio primacontra Atheos. Diſputatio ſecunda contra Atheos. An Deus contingenter velit, et eius voluntas abalie quo determinetur.Diſputatio tertia contra Atheos. De alijs fubjt antiis.è prima distinctis. Naturalitatione porce probari dari ſubftantiasabſtra et tas, et rationes in oppofiuum efle nullas Diſputatio quarta contra Atheos. Si Aristoteles demonstravit Mundum elle æternum Devi Utrum Angelus, Anima rationalis dif ibi serant specie, OS Opiniones aliorum. Opinio Scoti, et AnimcellectualitasAngeli, et Ani mæ rationalis ſpecie diſtinguantur, &An potentiç ſpecie diftinctæ poflint veulari circa idem object. Utrum primum cælum moueatur immediate a primo motore Utrum Philosophus posuerit omnes intelligentias ejse vigoris infiniti. Utrum Anima intellectiva in corpore habeat pro priumeße existentiæ diſtincim ab elle compos Jiii, len vtaly ducuntsAn in corpore fubfiftatvel vt quo, vel vt quod. Opinio D. Thomæ ratiqpibus Scoti confutatur, et eiuſdein ſententia explicatur, cap.I Defenſio Thomiliarlim. cap. 2 Allata opinio refellitar, cap.3 Virum Cælum ſit animatum. Utrum Deus sit invisibilis, incompræbensibilis, et ineffabilis.Nils An Deus fit viſbilis oculo corporeo, et quid de his tribus attributis sit dicentum.Urum separatio Anime rationalis a corpor, cu Status animæ rationalis exiia corpus violenter, an naturaliter.compeiani animæ rationali;. Opinio Thomiftarum, et Sequaciun cum liris fun damnentis Opinio Scoti explicatur, et præcedens refellitur. cap.2 V trum Dcus ſit ſubstantia viuens intellectua lis, felicissima Attributa prædicta competere Deo probatur De scientia dei. Utrum omnes potentiæ animæ rationalis inſint anim et icparita Quid Git dicendum de Vegetativa, et Sensitiva, reiecta opinione affirmativa. cap. Vnic.  Quomodo scientia ponatur in Deo, quomodo Intellectus, Intellectio, et intellectuin in eo sint idem An scientia sit de cilentia Dei in primo modo dicendi per se Vtrum secundum Aristotelem Deus habeat cognitio nein aliarum rerum extra se. De cognitione animæ separate. An anima separata cognoscat quidditates, et res, quas coniuncta cognoscebat, et quid dicendum reiectis opinionibus opposiris.   Ricerca Liceo di Aristotele luogo della scuola di Aristotele ad Atene Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Peripato" rimanda qui. Se stai cercando l'antica strada alla base dell'Acropoli di Atene, vedi Peripatos. Liceo di Aristotele Athens Lyceum Archaeological Site 2.jpg CiviltàAntica Grecia Localizzazione StatoGrecia Grecia ComuneAtene Altitudine108 m s.l.m. Amministrazione Visitabilesi Sito webodysseus. culture.gr/h/3/eh355.jsp?obj_id=20744 Mappa di localizzazione  StreetMap Il Liceo (Λύκειον Lykeion) era un luogo dove Aristotele fondò la scuola che fu chiamata Liceo e anche peripatetica.  Geografia ed etimologia Sito alle pendici meridionali del Licabetto, era un luogo esteso tanto da essere adatto alle esercitazioni militari. Pericle vi aveva fondato un ginnasiosuccessivamente ampliato da Licurgo. Il nome della località derivava da un santuario dedicato ad Apollo Licio. "Licio" – o LIZIO -- e un epiteto attribuito ad Apollo o perché riferito al termine «lupo» (λύκος) O AL FATTO CHE IL DIO APPENA NATO E PORTATO IN LICIA (Λυκία, LIZIA), o, infine perché si vuole indicare la sua caratteristica di divinità solare -- dalla radice λευκ-, λυκ-, candore, luce. Quando Alessandro divenne reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che era intanto rimasto vedovo e conviveva con la giovane Erpillide, da cui aveva avuto il figlio Nicomaco, nell'ultimo periodo della sua vita tornò forse a Stagirae, da lì si trasferì ad Atene dove si dedicò all'insegnamento della sua dottrina, ormai matura e del tutto distaccata da quella platonica, che costituisce quasi interamente il corpus aristotelicum a noi pervenuto. Il nome peripatetica della scuola aristotelica deriva dal greco Περίπατος, «la passeggiata» (da περιπατέω «passeggiare», composto di περι «intorno» e πατέω «camminare») cioè quella parte del giardino dove era un colonnato coperto dove il maestro e i suoi discepoli camminavano discutendo. Secondo Spadolini  il Liceo, come l'Accademia di Platone, non avrebbe avuto nessuna finalità religiosa e i suoi discepoli sono divisi come in un tiaso tra quelli che erano iniziati e frequentavano la scuola come interni (gli "esoterici") a cui erano riservate le lezioni più specialistiche e complesse e coloro che partecipavano come discepoli esterni ("essoterici"), uditori a cui era dedicata la parte divulgativa della dottrina.   Gli scavi Il piano di studi probabilmente si basava sull'insegnamento:  delle scienze teoretiche dedicate all'osservazione degli enti e del loro divenire (fisica, zoologia, psicologia) e degli enti immobili (metafisica e teologia); delle scienze pratiche, che dovevano guidare all'azione (etica e politica); delle scienze poietiche (retorica e poetica). La logica non compariva come scienza, ma come strumento propedeutico allo studio di qualsivoglia scienza. Alla morte di Aristotele, avvenuta nel 322 a.C., Teofrasto gli succedette nella direzione del Liceo. Nel 287 a.C., alla morte di Teofrasto, la direzione fu assunta da Stratone di Lampsaco.  Il Liceo fu depredato da Filippo V di Macedonia e successivamente da Lucio Silla. Il nome continuò ad essere usato per indicare la scuola peripatetica e in seguito fu riferito a quei luoghi pubblici dove si tenevano dissertazioni letterarie e filosofiche.  NoteModifica ^ Dizionario di filosofia Treccani (2009) alla voce "Liceo". ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Aristotele". Vocabolario Treccani alla voce "Peripato". ^ Rebecca Solnit, Storia del camminare, Pearson Italia S.p.a., 2005 p. 16. ^ Cfr. qui. ^ Bianca Spadolini, Educazione e società. I processi storico-sociali in Occidente, Armando Editore, 2004 p. 68. BibliografiaModifica The Lyceum, in Encyclopedia of Classical Philosophy, Westport, Greenwood, 1997. John Patrick Lynch, Aristotle's School: a Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California Press, 1972. Voci correlateModifica Scuola peripatetica Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Liceo Collegamenti esterni The Lyceum da The Internet Encyclopedia of Philosophy.   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Placentinus Teofrasto filosofo e botanico greco antico  Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele  Eudemo da Rodi filosofo e storico della scienza greco antico. Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento scuole e correnti filosofiche è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La scuola peripatetica (in greco Περιπατητική Σχολή Peripatetiké Scholé) fu una delle grandi scuole filosofiche greche, fondata da Aristotele. I suoi membri erano detti peripatetici.   La scuola di Aristotele, di Gustav Adolph Spangenberg La scuola in origine deriva il suo nome Peripato, Περίπατος, dai περίπατοι, colonnati dei porticati del GINNASIO d’Atene, dove i membri si riunivano, che si trova presso il santuario dedicato ad Apollo Licio o LIZIO da cui deriva l'altro nome della scuola: il Liceo, o LIZIO. Una parola greca simile, περιπατητικός si riferisce all'atto di camminare e, come aggettivo, "peripatetico" è spesso usato per indicare itinerante, errante, in movimento. Dopo la morte di Aristotele, nacque la leggenda che egli fosse un docente "peripatetico" - che camminasse intorno insegnando - e la designazione Peripatetikos è venuta a sostituire il Peripatos originale.  StoriaModifica La scuola risale quando Aristotele intraprese l'insegnamento nel Liceo. Si trattava di un'istituzione informale, i cui membri conducevano indagini filosofiche e scientifiche. La scuola peripatetica diede inoltre grande impulso all'indagine storica come strumento di indiscussa validità per la conoscenza e la comprensione delle manifestazioni religiose, artistiche, poetiche e letterarie.  Teofrasto e Stratone, i successori di Aristotele, continuarono la tradizione di esplorare teorie filosofiche e scientifiche, ma la scuola cadde in declino, per rinascere non prima del periodo romano. In seguito i membri della scuola si concentrarono sulla conservazione e sul commento delle opere di Aristotele, piuttosto che estenderle, e la scuola alla fine morì nel III secolo d.C.  Anche se la scuola si estinse, lo studio delle opere di Aristotele fu proseguito da studiosi che vennero chiamati peripatetici attraverso la tarda antichità, il Medioevo ed il Rinascimento. Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, le opere della scuola peripatetica andarono perse in Occidente, ma in Oriente furono incorporate nella prima filosofia islamica, svolgendo un ruolo importante nella rinascita delle dottrine aristoteliche nell'Europa medioevale e rinascimentale. Si riflessero nel doppio filtro applicato all'aristotelismo dapprima da Alessandro di Afrodisia e poi continuato nell'eredità spirituale di Al-Farabi, Avicenna e Averroè.  Scolarchi ed altri PeripateticiModifica Maggiori esponenti della Scuola peripatetica, Aristosseno Teofrasto. II scolarca Eudemo da Rodi Prassifane di Mitilene Demetrio Falereo Dicearco Ieronimo di Rodi Stratone di Lampsaco scolarca Licone (peripatetico) scolarca Aristone di Ceo scolarca Critolao scolarca Diodoro di Tiro scolarca Cratippo di PergamoI secolo a.C.Andronico di Rodi Boeto di Sidone Senarco di SeleuciaI secolo d.C.Ario DidimoI secolo d.C. Nicola di Damasco. Gigante, Kepos e Peripatos. contributo alla storia dell'aristotelismo antico, Napoli, Bibliopolis, Lynch, Aristotle's School: A Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California Press, Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, Sharples, Peripatetic Philosophy, An Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura di): Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare. Basel Edizione (raccolta dei frammenti). Voci correlate Liceo di Aristotele Peripatetici antichi Peripatos Scolarca Liceo di Aristotele luogo della scuola di Aristotele ad Atene  Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico, peripatetico  Peripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia  Wikipedia Il contenutoPeripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia Lingua Segui Modifica Questa è una lista dei filosofi peripatetici antichi in ordine (approssimativamente) cronologico.Eraclide Pontico Wehrli lo ha inserito nel VII volume della sua opera, ma si tratta di un discepolo di Platone Aristosseno di TARANTO (si veda) Uno dei principali allievi di Aristotele, scrisse diverse opere sulla musica Teofrasto Secondo scolarca del Peripato, autore di libri di botanica e logica Eudemo di Rodi Collaboratore di Aristotele ed autore di opere di storia della geometria e della teologia Dicearco da Messina Discepolo di Aristotele, autore di opere filosofico-politiche e geografiche Cameleonte di Eraclea Pontica Edizione: "Chamaeleontis Heracleotae fragmenta" a cura di Giordano, Bologna, Patron Fania di Ereso Allievo di Aristotele, filosofo e scienziato Clearco di Soli Autore di scritti sulle culture orientali e di un'opera Sull'educazione Prassifane di Mitilene Allievo di Teofrasto, ebbe come discepolo Callimaco Demetrio Falereo Oratore, scrisse opere di etica, retorica e letteratura Stratone di Lampsaco Fu maestro di Aristarco di Samo, importante la sua teoria del vuoto Licone (peripatetico) Autore di un'opera Sui caratteri. fu rivale di Ieronimo di Rodi Ieronimo di Rodi Fu avversario di Arcesilaoe fondò una scuola a indirizzo eclettico Sozione il Peripatetico Autore delle Successioni dei filosofi di cui restano solo pochi frammenti Ermippo di Smirne Seguace di Callimaco, scrisse le Vite degli uomini illustri Aristone di Ceo Allievo di Licone Critolao Scrisse sull'etica, avvicinandosi allo Stoicismo Diodoro di Tiro Discepolo di Critolao Aristone il Giovane Allievo di Critolao Stasea di Napoli Il primo Peripatetico che soggiornò a Roma, secondo Cicerone maestro di Calpurniano Apellicone di Teo Bibliofilo, comprò i manoscritti di Aristotele che Neleo di Scepsi aveva ricevuto da Teofrasto Aristone d'Alessandria Discepolo di Antioco di Ascalona, aderì alla Scuola Peripatetica Cratippo di Pergamo Amico di Cicerone, che ne parla nel suo De divinatione Erinneo Secondo Paul Moraux Probabile scolarca del Peripato dopo Diodoro di Tiro Tirannione il Vecchio Grammatico, noto per avere messo in ordine la biblioteca di Cicerone I e II Secolo d.C.Alessandro di Ege Insieme allo stoico Cheromonte fu maestro di Nerone Andronico di Rodi Ha curato l'edizione del Corpus aristotelicum Boeto di Sidone (peripatetico) Discepolo di Andronico di Rodi Ario Didimo Filosofo romano, insegnante di Augusto la sua opera è una sintesi di stoicismo ed aristotelismo Nicola di Damasco Autore di una Storia universale e di un'opera Sulla filosofia di Aristotele Senarco di Seleucia(I secolo d.C.)Negò l'esistenza dell'etere Adrasto d'Afrodisia Scrisse sull'ordinamento degli scritti di Aristotele e commentò alcune su opere Aristocle di Messene(II secolo d.C.)Scrisse un'esposizione delle scuole filosofiche di cui restano alcuni frammenti Aspasio Commentatore di alcune opere di Aristotele, in particolare l'Etica nicomachea Ermino Allievo di Aspasio e maestro di Alessandro di Afrodisia Sosigene Autore di uno scritto Sulle sfere dei pianeti Tolomeo Efestione o Chenno La sua opera Storia nova è riassunta da Fozio di Costantinopoli nella sua Biblioteca Alessandro di Afrodisia Il più importante dei commentatori delle opere di Aristotele BibliografiaModifica Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, Sharples, Peripatetic Philosophy, An Introduction and Collection of Sources in Translation, Cambridge. Wehrli (cur.): Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare. Basel Edizione Voci correlate Platonici antichi Stoici antichi Liceo di Aristotele Scuola peripatetica   Portale Antica Grecia   Portale Antica Roma   Portale Ellenismo   Portale Filosofia Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele  Prassifane di Mitilene filosofo peripatetico ed erudito greco antico  Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico, peripatetico. Nome compiuto: Filippo Fabri. Filippo Fabbri. Fabbri. Keywords: lizii, accademici, i peripatetici, The 34 disputationes. Galilei, Pico, aristotelismo, anti-aristotelismo, platonismo, l’unita della metafisica, distinzione tra matematica e fisica.  Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabri” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Luigi Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fabro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Senone di Velia, l’innamorato di Parmenide -- per la porta di Velia – scuola di Flumignano – filosofia flumignese – filosofia talmassonese – filosofia udinese – filosofia friulese. filosofia italiana – Luigi Speranza (Flumignano). Filosofo italiano. Flumignano, Talmassons, Udine, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Fabro; my favourite of his essays is on Giorgio Hegel, “La dialettica,” which is really about Socrates and Alcibiades! My Athenian Dialectic which I turned into Oxonian!”. Studia al seminario degli stimmatini. Si laurea a Roma sotto Reverberi con “Il concetto di ‘causa’” e la critica di D. Hume. Insegna a Roma. Si dedica quindi allo studio della biologia filosofica. Pubblica “La partecipazione”. Insegna a Napoli e Perugia. Si inscrive nell'alveo della neoscolastica, o, più precisamente, del neotomismo. Il suo apporto più profondo alla metafisica classica, sulle orme di san Tommaso d'Aquino, è la distinzione reale tra "essenza" e "atto d'essere”. È questa tesi che lo porterà a riconoscere con sicurezza le debolezze e le aporie dall'immanentismo del cogito cartesiano, che sfocia ineluttabilmente nell'ateismo. Trova l'origine dell’ateismo in Cartesio e Spinoza, nasce nel concetto di "immanenza" contro "trascendenza”.Critica Severino e Rahner. Valorizza l’esistenzialisto anti-idealista di Kierkegaard. Altre opere: “Partecipazione in Platone, Aristotele e Aquino, S.E.I., Torino); “Neotomismo” Piacenza) “La fenomenologia della percezione, Vita e Pensiero, Milano); “Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano), “L’esistenzialismo, Vita e Pensiero, Milano); “Esistire” (Vallecchi, Firenze); “Dio” (Studium, Roma); “L'Assoluto nell'esistenzialismo” (Miano-Catania); “L'anima” (Studium, Roma); “Dall'essere (essuto, suto) all'esistente” (Morcelliana, Brescia); “Il Tomismo” (Desclée, Roma); “Hegel: La dialettica, La Scuola Editrice, Brescia); “Partecipazione e causalità, S.E.I., Torino); “Feuerbach-Marx-Engels. Materialismo dialettico e materialismo storico (La Scuola Editrice, Brescia); “L’ateismo” Studium, Roma); “L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma); “Esegesi tomistica, Pontificia Università Lateranense, Roma); “Tomismo” Pontificia Università Lateranense, Roma); “La svolta antropologica di Rahner” (Rusconi, Milano); “L'avventura del progressismo” Rusconi, Milano); “La fede di Kierkegaard” La Scuola Editrice, Brescia); “La trappola del compromesso storico: da Togliatti a Berlinguer, Logos, Roma); La preghiera” Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “L'alienazione dell'Occidente. Osservazioni sul pensiero di Severino, Quadrivium, Genova); Momenti dello spirito I, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», AssisiS. Damiano; Momenti dello spirito II, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», Assisi S. Damiano); Aquino, Ares, Milano); La libertà, Maggioli, Rimini); Gemma Galgani), Il sopra-naturale, Cipi, Roma); L'enigma Rosmini, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); Le prove dell'esistenza di Dio, La Scuola, Brescia); Commento al Pater Noster” Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino, Città del Vaticano); Cristianesimo, L'Aquila, Japadre). Essere e libertà. Studi in onore di Cornelio Fabro, Maggioli, Rimini); Giuseppe Mario Pizzuti, Veritatem in caritate. Studi in onore di C. Fabro, Ermes, Potenza); Rosa Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, Marsilio, Venezia); Federico Costantini, Fabro e il problema della libertà, Forum, Udine); Elvio Celestino Fontana, Fabro all'Angelicum, EDIVI, “Segni (EDIVI)  Fabro e l'Esistenzialismo, EDIVI, Segni. Rosa Goglia, Fabro. Profilo biografico, cronologico, tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI, Segni,. Ariberto Acerbi, Crisi e destino della filosofia. Studi su Fabro, EDUSC, Roma,. Note  Goglia, Rosa, Fabro: profilo biografico cronologico tematico da inediti, note di archivio, testimonianze, EDIVI,  Kierkegaard Neotomismo Ateismo. Fondo Fabro presso la Biblioteca della Pontificia Università della Santa Croce., su pusc.ZENO ELEATES.   J5. Z^vwv 'EXeaTTj;. xouxov 'A7toXXoo«pd'; ^Y)otv «T- i 25* ^ n0 Eleates. Hunc Apollodorus ait in Chronicis na-  vat Iv Xpovixot; ^puoei piv TeXeuxaYopou, OsVet Si tura quidem Teleutagorae, adoptione autem Parmenidis  20 IlapaEviSou. irspl xooxou xal MeXfoaou TCjmov cpyjol 2 filium. De hoc atque Melisso Timon haec ait :  xauxa*   'AfxcpoTipoYXwacou xe {xffa ffOivcx; oux aXawaSvov Andpitis linguae vis maxima cuncta secantis   Z^vcdvo? rcavxtov smXiiTrxopoc ^Ss MeXiaaou, Zenonis, qui corripit omnes, atque Melissi;   TroXXwv <pavTa<T|xwv Indvb), rcaupwv ft fiiv eiaw. plurima visa errant in summo, rara sed intus.   25 *0 §•?) Zr,vci)v Stax^xos IIap[ievi5ou xal yeyovev autou 3 FjiimveroZeno Parmenidis auditor erat,abeoqueamatus est.  TzonBixa. xal eo^XTj? ^v, xa6a cpTjai nXarwv iv tw Fuit autem procerae staturae, quemadmodum Plato in Par-  IlapfAevCoTi, 6 8' auxb; Iv xw 4>a(5pw xal 'EXeaxixov menide notat, idemquein Phaedro ipsum VELIA [si veda] Pala-  IIaX*jji^5yiv autov xaXel. {pr,dl 8' 'AptaxoxsXy,? Iv xw 4 medem vocat. Aristoteles autem in Sophista auctor est in-  2otpiax7J eupex^v auxbv yeveaOai ^taXExxiXTJ;, (ocircp ventorem ipsum fuisse dialectics, quemadmodum Empe-   30 'EixweSoxXfia firixopiXT)?. yeyove Si av^.p y^vvaio- doclem rhetoric®. Fuit et in philosophia et in republixaxo^ xal Iv cptXoao^fa xal Iv 7roXixe(a* cpipexat youv ca vir sane nobilissimus : feruntur nempe ipsius volumina  auxou pi^Xta 7roXXrj<; ffWato*; YCfxovxa. xaOeXsTv SI Oe- 5 sapientiae plenissima. Is quum Nearcbum tyrannum seu, ut  Xifaac N^ap^ov xbv xupavvov — ot Se, Aiof/iSovxa — alii volunt, Diomedontem imperio exuere voluisset, com-  ouveX^cpOy), xa6d cp^atv 'HpaxXe^Tj; Iv x9j 2axupoo prebensus est, ut in Satyri epitome ait Heraclides : quo   36 lirixopuj. 6xe xal l;6xa£o'[Aevoc xou<; auveiSoxa^ xal 7T£pl tempore quum de consciis et armis qua; Liparam ad vexerat,  xwv oVXmv 5v ^y 6V eAiirotpav, iravxa? Ip.>5vu«v au- inquireretur, volens ipsmndesertum destitutumquereddere,  xoo xooc cpiXou;, pouXo(X£vo<; auxov ^aov xaxaaxyjaar omnes illius amicos conjurationis esse conscios dixit ; deinde  •Txa 7cep( xtvwv efceiv e^ttv auxw wpbc xb o3<; IXeye xal quum de quibusdam dixisset quiddam ipsi ad aurem loqui  xu^avxo? Saxwv xb wxiov oux av9jx£v Tok imwrffiri, velle, earn mordicus apprehensam non ante dimisit quam \o lautbv'AptoxoYeCxovtxtoxupavvoxxovwTraOtov. (27) Ar,u^- confoderetur ; quod idem accidit Aristogitoni tyrannicidae. biba. e, Q. AEVKinnos. rpto? Se ^r,aiv ev xoi< ojawvuu.oi; xbv puxxTJpa auxbv  diroTpaYeiv. 'AvxiaOevrj; 5' ev xal; SiaSo^al? ^r,<jt fJLExdc   TO (JLTjVUffai XOU? <p(X0UC IpWX1f]09ivai 7TpO? XQU XUpaVVOU   e? ti? aXXo? eiYj • xbv 8i eiireiv, « au 6 xyfc woXews aXi-  6 tiqpio^. » 7rpo; x£ xou$ 7capE<rcwxa; ©avai, « Oauuut£w  6fxwv r?)v SeiXCav, et xouxwv Ivsxev wv vuv e*Y&> ^Trofxe-  vw, SouXeuexe xw xupavvw* * xal xeXoc aitoxpayovxa  tJjv yXwxx«v 7rpo<;7mj<iai auxw, xou? 8i TroXfxac 7rapop-  (i.r,0£VTa<; auxixa xbv xupavvov xaxaXsuaat. xauxa oe  io oyeSbv of irXe(ou<; Xe'Youaiv. "Epu.nnroc S§ <piQctv eU 6V  fxov auxbv pXTjO^vat xal xaxaxo7c9jvai. (2§) xal eU auxbv  ^)(jlcT< efarofxev oSxciK*   *H8eXe<;, w Z^vwv, xaXbv ^OeXe< avSpa xupavvov  xxe(va? IxXuaai SouXoouvtjs 'EXe'av.  15 dXX' ISau-Ttf- 5^1 yap « Xa€u>v 6 xupavvos ev 5Xu.w  xo^c. x( xouxo Xs*y<«> ; ffWfAa yap, ofyl 8s «.   yiyove Se xa t* £XXa aya6b<; 6 Zi^vwv, dXXa xal &ict p-  oicxixb? xwv (xtt^vtov xax' fcov 'HpaxXetxw* xal yap  o5xo« xV wpoxepov p.ev 'YeXTjv, (Saxepov 5* 'EXfov, <I>w   20 xaiwv ouaav airoixtav, auxou Se 7raxp(Sa, ttoXiv eoxeXri  xal |xo'vov avSpacoYaOoucxpscpetv ^taxafjLEvrjv ^YaTrrjae  |xaXXovx9i? 'AOTjvaiwv iuyxXoLuyia^ oux iTriSYi^aa? xb  icapaTrav Trpb? auxouc, aXX' auxd8i xaxa&ouc [29) ou-  xo? xal xbv 'Ax^ca irpwxo? Xoyov ^pwxTjffE- <I>a6o>pT-   25 voc Se' <prjo-t napfX£v(Sr,v xal aXXou<; cuyvouc. 'Aplaxet  S f auxw xaSe* Koauou? eJvai xevo'v xe u^ eTvar Y £ Y 6 "  V7j<r8ai Se x^,v xwv wavxwv <puatv ex Gep|AOu xal ^u/pou  xal fopou xal uypou, Xau.€avovxwv eU aXXrjXa x^v jxe-  xa€oXr,v • Y^vEdtv x' avOpo)7TO)v ix yr;? eTvai xal tfu^v   30 xpS{ia &Trap/6iv Ix xwv 7rpo£ipT)asvwv xaxa |XYiSevb<;  xouxcov iTrixpaxTjaiv. xouxov cpaai XoiSopoutxevov aya-  vaxxTJaat- aixiaaa|X£vou 8e xtvo<;, cpavai, « £av X01S0-  poujxevo? (jl^j 7rpo<;Tcoiw(xai, ouS' ItuaivoujAEvoc ^aG^ao-  (xat. » tf Oxt S£ Ysyo'vaai Zr,vo)V£<; 6xxw ^v xw KixieT   65 StetX^UEOa. fixiLOiZi oSxo; xaxa x9jv Ivax^v xal  £6$ou.Y)xo<rri:v 'OXujjLiriaoa. Demetrius vero in Cognominibus nasutu ei morsu  abstuJfssc ait. Porro Antisthenes in Successionibus ait ilium, quum amicos tyranni detulis et, rogalum a tyranno  essetne alius quispiam, dixisse, Tu civitatis> pernicies. Deintle  astantibus ita locutumesse, Admiror equidem vestram socordiam, si horum gratia quae nunc ego tolero, tyranno  servire sustinetis. Deniquc praecisam linguam in ora tyranni  conspuisse, cives autem continuo facto impetu lapidibus  tyrannum obruifise. Usee ferme pleriquc tradiderunt. Cc-  terum Hermippus ilium in mortariuro injectum contusumque fuisse ait.  Et in hunc nos sic diximus: Tentasti, Zeno, crudelis canle tyranni   Eleus ut populus libera turba foret.  At prensiim in pita te content articulatim   iste : imo non te, sed tua membra terit. Praeclarus et in ceteris fuit Zeno potentiorumque non secus  atque Heraclitus quadam animi altitudine contemptor r nam  hie prius quidem Hyelen, postea vero Eleam nominatam  Phocaeensium coloniam suamque patriam, civitatem humi-  lem bonosque tantum virosnutrirc solitam, dilexitmagis  quam Atheniensium magnificentiara : ad quos nunquam profectus est, domi assidue commorans. Hie etiam  primus syilogismo usus est qui Achilles appellatur, quamvis Favorinus Parmenidem et alios plures proferat. Placent  autem illi lieecce: Mundos esse plures et inane non esse;  naturam omnium re rum ex calido et frigido aridoque et  humido fuisse ortam, quum ista in se invicein commutentur. Generationem hominum e terra esse, animamque ita  ex his omnibus commixtam quae praediximus, ut a nullo eorum plus quam a ceteris obtineatur. Hunc aiunt quum  conviciis laceraretur, indignari solitum : et vituperante  quodam dixisse, Si maledicta me non tangunt, nee laudes   I ome delectabunt. Octo vero fuisse Zenones, quum de Citieo loqueremur, diximus. Floruit autem hie Olympiade nona  et septuagesima.  KE4>. Q'.AETRinn02. AEuxtirircx; 'EXeaxTi;, w? U xtve;, 'A6Sv)piti}C 9 I  xax' lvtou<; bl MiiXio;. oSxcx; ^xouae Ztivwvoc. "Hptdxs  o* auxw dWpa fitvat xa uavxa xal ik aXXYjXa fxexa- SaXXetv. x<^ xe Ttav Jvai xevbv xal TrXripec <iw|a<xxwv.  tou? te xdff[A00s yivtafai <jw(jloitwv tU to xevov I|xtti-  ttxovxwv xal aXX^Xotc 7reptwX£X0|xivwv ^x xe xtk xtv^-  «&k xaxa xtjv aufow auxwv YtveaOat x^jv x(ov dW-  pwv ^uffiv. cpe'peffOai 8e xbv ^Xtov Iv fiet^ovi xuxXw wapa B Tf^v <ieX^vy|V t^v y^v ^ewOat Trepl *rb jieaov Stvouui-  vvjv ffX^H^ f' auxTJ? TujiTcavoetSe^ elvai. «pwxd< x'  dxouou^ap/a? uxwffx^aaxo.xalxecpaXaiwSwsfxiv xauxa*  Zenone lleate. I. Zenone eleate. Era costui, al dire di Apollodoro, a5  nelle Cronache, p«r natura, figlio di Teleutagora, per  adozione, di Parmenide. II. Di lui « di Melisso dice Timone queste cose :   // prò ed il contro a disputar potente,  Zenone, invitto, riprensor di tutti;  E Melisso di molte fantasie  Superiore, di poche inferiore. Zenone di VELIA è veramente discepolo di Parmenide e suo bar-  dassa.  È grandissimo della persona, secondo che, nel  Parmenide, scrive Platone, che, nel Fediv, lo chiama  anche  Palamede di VELIA. Afferma Aristotele nel Sofista, eh 9 e 9 è l’inventore della dialettica, siccome GIRGENTI (si veda) della retorica ; che è uomo e in filosofia e in politica assai prestante ; e che vanno attorno suoi libri pieni di molta a g  sapienza. Volendo Zenone rovesciare il tiranno Nearco -  secondo alcuni Diomedonte - è, al dire d’Eraclide, Epitome di Satiro, sostenuto e quando lo si inquisì circa i complici e l’armi, che sono state portate a Lipara, afferma, onde colui rimane solo, che di tutto  consapevoli sono i suoi amici. Poscia soggiugnendo che intorno a taluno qualche cosa avea da dirgli all’orecchio, addentandoglielo, non prima il lasciò che cade trafitto; lo che ha in comune col tirannicida  Aristogitone. Demetrio, negl’omonimi, afferma che gli  morsica il naso; ma Àntistene racconta, nelle successioni, che dopo di averne denunciati gl’amici, interrogato dal tiranno, se alcun altro vi è, egli rispose: Tu,  peste della città! e che dopo di aver detto agl’astanti: Meravigliomi della vostra codardia, se, in grazia di  ciò ch’io patisco, servirete al tiranno, spiccatosi finalmente la lingua coi denti la sputò ad esso in faccia; e  che i cittadini concitati a quel fatto lapidarono il tiranno. Queste cose, presso a poco, si vanno narrando dai più. Ma Ermippo asserisce che gettato Zenone di VELIA (si veda)in  un mortaio, vi è pestato. Sopra di lui noi parliamo così:  Tu volevi o Zenon di VELIA (si veda), volevi torre, a8  Uomo egregio, la patria dal servaggio, il tiranno uccidendo. Ma cadesti oppresso, perocché tosto il tiranno,  Presoti, in un mortaio ti pesta. Che dico! Te non già, ma il corpo solo. Zenone di VELIA (si veda), se in altre cose preclaro, il è eziandio, al pari d’Eraclito, nel guardare con ispregio i più  grandi; poiché egli, quella che prima è Iele e da ultimo VELIA, colonia fenicia e sua patria, città meschina e solo  ZENONE di VELIA (si veda) atta a nutrire uomini dabbene, ama di preferenza ai vanti degl’ateniesi, per lo più non recandosi presso di  loro, ma abitando in essa. Usa primo nelle dispute l’argomento detto l’Achille (sebbene Favorino dice ciò di Parmenide) e molti altri. Credette che vi è mondi, e non vuoto. Che la natura di tutte le cose viene prodotta dal caldo  e dal freddo dal secco e dall' umido mutantisi a vicenda. Che la generazione degl’uomini deriva dalla  terra, e l’anima è una mescolanza dei prefati senza  prevalenza di alcuno. Narrano che sentendo di essere biasimato, se  ne impazienta, e che taluno condannandolo dice; Se  comporto le contumelie, neppure mi accorgera l’esser lodato.  Che vi sono otto Zenoni già è detto nella vita del cizieo. Il nostro fiorisce nella settantesima nona Olimpiade. Cornelio Fabro. Fabro. Keywords: per la porta di Velia, essere, e, essente, esuto, suto. L’uomo allo specchio. Dialettica di hegel, tomismo, essere atto d’essere – immanenza – trascendenza -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabro,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Facciolati: la lingua di Cicerone nella pittura italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Torreglia). Abstract. Grice: I was fortunate to be brought up at Oxford, and thus I became an Aristotelian; I would have most likely become a Cambridge Platonist alla Cudworth in the other place! Keywords: Grice, Guastella, Facciolati, il Lizio. Ritratto di Jacopo Facciolati. Jacopo Facciolati, o Giacomo Fasolato, latinizzato come Iacobus Facciolatus. Torreglia  Padova --  stato un filosofo italiano. Poeta, scrittore e latinista italiano cittadino della Repubblica di Venezia. Nasce a Torreglia sui Colli Euganei, in provincia di Padova.  ammesso al collegio del Tresto, collegato al seminario padovano, grazie a Barbarigo, vescovo della citt. Dopo l'ordinazione presbiterale, consegue la laurea nel seminario, dove divenne docente di UMANE  non divine -- lettere  cf. Grice: literae humaniores -- e prefetto degli studi.  chiamato a insegnare logica a Padova. Pubblica edizioni migliorate dei maggiori lavori di filologia, come il Thesaurus di CICERONE (vedasi) di NIZOLIO (vedasi), e amplia ed emenda il Lexicon, un dizionario latino  cf. Grice on Austin on going through the dictionary -- chiamato anche il calepino dal nome dell'autore, Calepio. Uno dei suoi lavori  compiuto con FORCELLINI (vedasi): il Totius latinitatis lexicon, dizionario di latino, vera pietra miliare nella storia della lessicografia,  redatto da FORCELLINI (vedasi) per incarico ricevutone da F. Divenne il successore di Papadopoli nella stesura della storia di Padova. Pubblica infatti Fasti Gymnasii patavini un'opera storico-celebrativa delle glorie accademiche dell'ateneo patavino. Nello scrivere F. ama la brevit, che esagera fino alla scarsit di notizie. Famose sono anche le sue satire lucianesche contro i detrattori. Ma ha anche amici, a cui manda, coi lavori, ortaggi del suo orto, che coltiva volentieri. F.  conosciuto e stimato pella sua conoscenza delle opere classiche, soprattutto grazie alle sue Orationes.  anche invitato dal re del Portogallo a dirigere l'istituto superiore di Lisbona pei nobili. Muore a Padova. Opere: Orationes latinae, accademiche, reputate di valore; Logicae disciplinae rudimenta o Logica tria complectens rudimenta, institutiones, acroases; Ortografia moderna italiana, a cui aggiunse gli Avvertimenti grammaticali di Pallavicino, da lui disposti in ordine alfabetico e arricchiti di aggiunte; Exercitationes su due orazioni di CICERONE (vedasi); Annotationes criticae a vari lessici, Raccolta calogeriana; Scholia in libros CICERONE (vedasi) de officiis contro di lui ROTA (vedasi) scrive il Dialogo dei morti; Epistolae latinae; Commentariolum de vita, interitu, etc. linguae latinae; dialoghi lucianeschi, contro chi aveva criticato una sua orazione in morte di Pisani; Viatica theologica adversus dissidia, brevi e concisi; Il cortese cittadino istrutto nella scienza civile; Acroases; Vita di Ges e Vita di Maria, e un loro compendio in italiano; Animadversiones; Lettere inedite, con annotazioni di Silvestri; Vita CICERONE (vedasi) litteraria; De gymnasio patavino syntagmata: coi fasti dell'universit; Calepinus septem linguarum; Fasti Gymnasii patavini. Negro. Facciolati undertakes the continuation of Papadopoli's history of Padua, carrying it on to his own day Encyclopdia Britannica. Pasqualin, Le sommosse degli studenti a Padova, su Historia Regni, Serianni, Norma dei puristi e lingua d'uso nella testimonianza del lessicografo romano Azzocchi, Accademia della Crusca, Firenze. Marazzini, Lessicografia, in Enciclopedia dell'italiano, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casati. Dizionario degli scrittori d'Italia, Ghirlanda, Milano; Boscaino, F. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Negro (cur.), Clariores. Dizionario biografico dei docenti e degli studenti dell'Universit di Padova, Padova, Padova. F. su Treccani.it  Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Zardo, F. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F,, su Be Web, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di F., su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. F., in Catholic Encyclopedia, Appleton. Chisholm (a cura di), F. in Enciclopedia Britannica, Cambridge University Press,Portale Biografie Portale Letteratura Portale Lingua latina Categorie: Poeti italiani del XVIII secoloScrittori italiani del XVIII secoloLatinisti italianiNati nel 1682Morti nel 1769Nati il 4 gennaioMorti il 26 agostoNati a TorregliaMorti a PadovaScrittori in lingua latinaLessicografi italianiProfessori dell'Universit degli Studi di PadovaPresbiteri italiani del XVIII secoloNobili e cittadini della Repubblica di VeneziaFilologi classici italiani[altre]JACOBI FACCIOLATI INSTITUTIONES I LOGICA PERIPATETICA editio altera RETRACTATIOR. VENETUS Apad JO. BAPTISTAM ALBRITIDM HIER. FIL. MDCCXXXVII. SUPERIORUM PERMISSU AC PRIVILEGIO EPISTOLA PRMMISSA E DITIONI Plini AD 111. T1R0S litterarios GTMNASII PATAVINI. r J i XaSlo jam fixenuio y m quod mhi ^ ad Logicam puUve, profitendam diploma dediftis , Viri amphffbm. , fiudu mei atque indujlrue ^vobis rationem, red- do . JEquum eft enim , id njos a nabis requirere , quod nos ab a dole fi entibus nofiris requirere f olemus . Etfi autem mihi m hac dijciplina tradenda aliquid pro f a culi more A a li~ Digitized by Google qui memoria fericulum facere malunt . Si- quid efl. apud illos , quod probari debeat, ut efl fane multum , finae ex hoc ipj o fonte ma- nant yfwe aliunde , non fuit nobis difficile, partim Rudimentis anno fupericre editis , partim Inditutionibus ijlis afpergcre . 'Neu . opus efl pluribus , ut intelligatis , quid rei fit, quod  ut ejus difcend* confuetudini non ni* hil concedatur  Noftri homines numquam in pu- blicum prodire fblent , gravius aliquid fufcepturi , quin femoralia quaedam fibi circumdent , fuperne crifpata , inferne aperta v quae neque hieme frigus arcent , neque aeftate calorem : atque iis quidem ita oculos aftuefecitnus  ut quamvis plus incommo- di , quam commodi ferant ; attamen nefeio quid audboritatis ac dignitatis habere videantur , haud temere violandae . Siquid eft , quod tempore & ufu facrari potuerit , ea profero eft Ariftotelis Logica, quam qui iinibus coercet , ne dlfputandi libidine crefeat in immenfum , plane fapit ; qui eam pror- fus tollere conatur , is quaefo de femoralibus cogi- tet  Accedic , quod nos in ea Civitate docemus , ubi qui velit Philofophiae infignia referre , harum quoque rerum rationem reddere debet, & publicum examen fubire . Proinde non. decet in tanto diferi- mine miferos adolefcentes deferere , fortunaeque im- paratos committere  Hinc Topica vix attingimus , quod hujus partis , ceteroquia non inutilis , nullum experimentum in noftris exercitationibus ad ingenia judicanda comparatis fieri foleat . Ceterum ex his pleraque in Rudimentis velut adumbravimus : nunc A * fu- . i fufius lingula perfequemur . Tametfi eum tenebi- mus modum , ut illi ipfi , qui ifta faftidiunt , in tanta libelli exiguitate quiefcere poftint. Eorum po- tius offenfionem metuo , qui Scholafticis ftudiis af- fueti, & multa & fubtilia poftulant  His ego Scho- laftici hominis judicium oppono . Ita enim fcribit Fonfeca lib. 8 ., Logic. Inft. c. 19 . Adeo inculta funt , horrida y & ab ufu remota , quae fuperioris ectatis ho- mines in hifce commenti funt , ut nifi plurima rejician- tur y fatius fit y ea potius non attingere . Quemadmo- dum autem nobis eam veniam petimus , ut omitte- re iftiufmodi fcripta liceat , ita iis venia eft conce- denda , qui fcripferunt . Tempora ita ferebant . Cumhomines ifti & ingenio valerent, & otio abun- darent ; nec ullum tamen praeterea tenerent littera- rum genus, in quo fe ja&arent , hoc tamquam or- be conclufi , meditationes meditationibus cumularunt, & in infinitas ambages abierunt  Siquis eorum vo- lumina verfare & cognofcere voluerit , non. omnem prorfus operam perdet , fed cani fimilis erit , qui propter pauxillum cibi in magnis oflibus dentes tigat . Nobis non tantum eft otii * Vale. Digitizad > :  -i, TABULA SYNOPTICA HARUM INSTITUTIONUM. PROTHEORIA De Operis nomine , ratione , atque ordine .  . ... v PARS I. DE PRAEDICABILIBUS EX PORPHYRIO . 1. De Praedicabilibus in univerfum . 2. De Genere. 3. De Specie. >.' t 4. De Differentia. 5. De Proprio. 6 . De Accidente. 7. De modo & ratione praedicandi . m .DE CATEGORIIS, SEU PRAEDICAMENTIS PROTHEORIA VULGO A NTEPRiEDICAMENTA. De Categoriis, feti Praedicamentis in univerfum. De Subftantia. De Quantitate. De Qualitate. De Relatione. De A&ione, & Paflione.De Ubi, Quando, Situ, Habitu. HY-  IO TABULA STNOPTICA. . HYPOTHEORI/E, FULGO POSTPR^EDICAMENTA MANTISSA De Platonicorum , & Stoicorum Categoriis .   P A R S III. DE ANALTTICIS POSTERIORIBUS. i. De Operis ratione & materia. a. De Praenotionibus demonftrationis Ariftotelicar  $. De Platonis , Epicuri , & Stoicorum Praeno- tionibus  4. De Principiis. j. De modo cognofcendi Principia. . De Praejudiciis. 7. De Dubitatione. 8. De Auftoritate. 9. De Demonftrationis natura & ratione. xo. De Demonftrationis neceffitate , ejufque gradibus, xx. De reliquis Demonftrationis conditionibus. De Demonftrationis exemplis. De Demonftrationis formis. De Demonftratione in orbem. DE SIGNIS QVIBVS SIT DEMONSTRATIO A POSTERIORI De Demonftrationis effeftu , . ideft fcientia. x 7. De veterum Phyficorum, & Platonis fcientia. 18. De Scepticorum , Academicorum  Epicureo- rum, & Stoicorum fcientia. De Scientiae origine* ao. De Ignorantia. si  TABULA STNOPTIC A. ii ai. De Sapientia 22. De Opinione. 23. De Sagacitate. 24. De Materia , & inftrumento demonft rationis, ay. De Caufiis ad definiendum, & demonftrandura idoneis . 26 . De Definitionis natura , & partibus. 27. De Locis definitionis, qua: eflentiam rei aperit, a 8. De Locis definitionis, quae cauflam rei continet. 29. De iis, quae definitionem capiunt. 30. De Quaeftionibus. PARS IV. DE TOPICIS. j. De nomine , & materia Topicorum. . De Syllogifmo diale&ico. 3. De Problemate. 4. De Propofitione . 5. De locis Problematis, & Propofitionis .  . De loco Generis. 7. De loco Definitionis. 8. De loco Proprii. 5. De loco Accidentis. PARS V. DE ELENCHIS SOPHISTICIS . * De nomine , natura , 4 c fu doftrinae Sophiftice. 2. De Fallaciis vocum  3. De Fallaciis rerum. 4. De fine Elenchi Sophiftici . j. De folutione vera, & fucata Elenchi Sophiftici. * De Inexplicabilibus* Digitized by Google NOI RIFORMATORI *  DELLO STUDIO DI PADOVA. * Vendo veduto per la Fede di Revifione, ed Ap- provazione dei P. F. Tommafo Maria Gennari Inquifitore nel LiSro intitolato : Jacobi Facciolati In- ftitutiones Logica Peripatetica  Editio altera retra&a - tior , non vi eflere cofa alcuna contro la Santa Fede Cattolica , e parimente per Atteftato dei Segretario Noftro , niente contro Principi , e buoni coftumi , concediamo Licenza a Giambatifla Albrizzi q.Girolamo Stampatore , che pofla eflere ftampato , oflervando gli Ordini in materia di Stampe , e prefentando le folite copie alie Pubbliche Librerie di Venezia, e di Pado* va.      Dat. Ii 8. Maggio 1729. ( Gio: Francefco Morofini Kay. Rif.  r  0 ( Andrea Soranzo Proc. Rif. ( Pietro Grimani Kav. Proc. Ri . Agoftino Gadaldint Segr. LOGICAE PERIPATETICAE  P K O T H EO R 1 A DE OPERIS NOMINE, RATIONE, ATQUE ORDINE. t QUID INT ELLIG1S LOGICAE PERIPATETICAE NOMINE ? * * . * - JJL! 1 X more veterum Peripateticorum Logicam ap- 1 ^ pello totam difierendi artem ; quamvis Arifto- -d teles ad eam folam partem hoc nomen adhi- beat , quae difputat ex probabilibus . Peripateticam vo- co, ideft Ariftoteleam : nam qui funt ab Ariftotele, Peripatetici dicuntur ; quia olim ( ut fcribit Cicero in Academ. x. c. 4. ) dil^utabant inambulantes, in Ly- ceo . , Boethius in Topica Cicer. Hac e fi difciplina quafi dif- ferendi quadam tnegiftra , quam Logicam Peripatetici vete- ret appellaverunt . Hanc deero definient differendi diligen- tem rationem vocavit . Hac vario modo a plerifque traSiata efi , varioque etiam vocabulo nuncupata . Ut enim ditium eft , a Peripatetici t hac ratio diligent differendi Logica vo- catur , continent tn fe inveniendi , judicandique peritiam . Stoici vero hanc eamdem rationem differendi pat/llo anguftiue traHavere . Nibil enim de inventione laberantet , in fola tantum judicatione conftfiunt ; de eoque pracepta multiplici - - ter dantes , DialeSHcam nuncupaverunt , Plato , etiam D ia- le Ricam vocat facultatem , qua id , quod unum eft , pojfit in plura partiri , vclut filet genus per propriat differentiae tifque ad ultimat fpeciet feparare ; atque ea , qua . multa funt , in unum genui ratione colligere . Quinque DialeIicx fu partes Plato fecit, definitionem, divilionem , refolutionem , induftionem , ratiocinationem } de quibus vide Alcinoum de dotr, Piat, ca, 5, -  T J4 LOGICAE PERIPATETICAE Qua in re Logica Peripatetica verfatur ) Campus , in quo Logica Peripatetica verfatur, eft oratio quaevis, per quam quaeritur, quid de quo dicatur ; uno verbo , quseftiQ omnis . Et quia in quaeftione eft fubjeflum de quo quaeritur , & praedica- tum quod quaeritur , de utroque Logicus praecipit. Ex. g. cum quaero , num anima fit immortalis , du- bito , num primae voci ultima conveniat ., ideft num immortalifas de anima dici poffit. Utraque igitur vox . eil cognofcenda . . ( z ) 9 Quot nam pars verfatur in fubjedo, quae nam in praidicato? % Subjeflum eft res omnis \ quia de re omni quaf- ri aliquid poteft : ideoque de fubjebo agitur in Ca- tegoriis , quae omnia , rerum genera , per fimplices notiones diftributa , complebuntur . Praedicatum ad Topica pertinet , quae locos aperiunt inveniendi , quid- quid de re aliqua dici poteft  Topicis accedunt Analytka , & Sophifiica , in quibus oftenditur , quo- modo praedicata dijudicentur, & ad fidem vel bene, vel male faciendam accommodentur  Igitur a Ca- tegoriis incipere debemus, quae erit Pars Prima ha- rum Inftitutionum . ( \ ) ( % ) Res , de quibus , & per quas in contrpveriia qua- libet diTputamus , funt proprios ejus artis ac difciplin , cujus eil controverfia ipfa j modus autem & ratio diipu* tandi pertinet ad Logicam  Itaque Phyiici eil oftendere $ num anima conveniat immortalitat : at Logici eil prsefcfi- bere , qua via inveniri & conii rui argumenta poilint ad jrede oilendendum , ddemque parandam  ( 3 ) Quidquid eil , dc quo qusri * aut pronunciari ali- quid Digitized by Google PROTHEORIA . *S Cur C a tegor iis promittitur Vorphyril commentariolum - de Vradicabilibus ? PradicablUa cum fint aliud nihil, quam modi prardicandi , rebe ab Ariftotele explicantur in To- picis  ideft i ea Logicae parte , quas praedicata complebitur . Attamen nos ab his exordimur , tum Icholarum confuetudine dubi , tum etiam ratione aliqua, ut mox apparebit. (4) quid poflit , eft unum aliquid cat : quidquid eft , quod Qu*ri , aut pron undari de re aliqua poffit , eft unum aliquid ex pmdicahilibut . ( 4 ) Porphyrius libellum fcripfit de Prxdicabilibus , cu- jus van* feruntur infcriptiones } fed maxime Criticis probatur tamquam genuina , t int yuyi Wr *.w*/s* , i*, troduilte ad Cbyfaorium . Hujus enim gratia fcripta eft , ut mox dicemus. Audivit Porpbyrius Longinum Se PJotiaum 5 floruitqoe Rom foculo Chrifii tertio ; fed impietatis fama laboravit. Vitant ejus fcripfit Lucas Holftenius , quam vide ia Gtm- ca Fabricii Bibliotheca lib.4, cap.ay. DE PRAEDICABILIBUS EX PORPHYRIO.  # 4 *l *  '  f   tffe ridendi & philosophandi capaeem  Siquidem haec de illo dicuntur , & ad ejus .naturam aperiendam adhibentur  ( 1 ) *  Quot funt Praedicabilia ? * Quinque funt Praedicabilia , genus , fpecies  * differentia , proprium , accidens : cujus numeri ea . ratio eft > quam attulimus in Rudimentis Syntagm# 3. Par. 1. c. 3. (2) / V   Praedicabilia Stoici confiderant ) ut funt in rebus ideaque nnpn rx vocant , ideft notiones . Peripatetici ea conO* derant , ut de rebus Sicuntur $ ideoque appellant xccri yopvjdjv*, pr a di cata . Philoponut 1 vocat , fimplices voces 1 Grasci alii vspts $&***  quinque voces. ( 1 ) Quidam rem ita explicant ; Pnedicabilo eft notio ttni- Digitized by Google *7 P APS I. CAPUT I. Quinam e fi Prcdicabilium ufus ? $. Magnus eft Prcdicabilium ufus in definiendo , dividendo , & argumentando . Sed ea prcfertim Ca- tegoriis inferviunt; atque adeo in harum gratiam fcripta funt a Porphyrio, ut apparet ex ejus Pra> fatione. Cum enim Chryfaorius Patricius Romanus in Ariftotelis Categorias incidiflet, nec eas, poflet facile intelligere ; obtinuit a Porphyrio praeceptore fuo , ut hanc fibi Introdu&ionem componeret , colle- gis velut in unum corpus, que in tota Ariftotelis Logica, maxime vero in Topicis & Metaphy ficis difperfa funt. ( $ ) Praedicabilia quomodo differunt a Praedicamentis ? Categoriae vulgo appellantur Praedicamenta . Differunt autem a Praedicabilibus , quia Praedicabilia funt modi praedicandi; Praedicamenta funt res, quae, praedicantur. Itaque Praedicabilia funt fecundae notio- nes, per quas fignificantur, & explicantur primae; (prima: autem funt ipfa Praedicamenta  B . . Prae - * univerfalis , qua; convenit multis; convenire autem poteft Vel ut aliquid infitum , vel ut aliquid ajfumtum , Infixa funt Genui , Differentia , Specie!, Proprium . Affumtum eft Ac- cidant , quia extrinfecus advenit. Alii hoc modo: Quid- quid eft prxdicabile , vel prsdicatur in quid ut part : &c eft Genut ; vel in quid ut totum , & eft Speciet ; vel in quale per ejfentiam , & eft Differentia $ vel in qnale nec/f- fario , & , eft Proprium ; vel in quale fortuito , & eft Ac- cident . Duas has rationes oppugnat Voflius de natura Lo- gic* cap. 10. n. 19. Sed iftiufmodi pugna; numquam exitum invenient . ( 3 ) Totam przdicabilium doflrinam ex Platonis diwis collegide Porphyrium , Amonius feribit . Fuit ille quidem phiiofophus Platonicus ; fd in hoc opufculo , ut DE PRAEDICABILIBUS EX P0RPHTR10. C . ' r ; 'i * "i/'.  ; , j DE PRAEDICABILIBUS IN UNIVERSUM . QUID EST PRAEDICABILE? T)R*dicabile eft , quod poteft praedicari , hoc A. eft, dici & enunciari de aliquo . Quo no- mine fignificantur communes quaedam notiones & vocabula , quibus res quaelibet continetur , & per fuas partes explicatur ; velut in Socrate praedicabi- lia funt , effe animal , effe rationalem , effe hominem > effe ridendi & philosophandi capacem . Siquidem hxc de illo dicuntur , & ad ejus naturam aperiendam adhibentur . Quot funt Trtedtcabilia? * R Quinque funt Praedicabilia , genus , [pedes , differentia , proprium , & accidens : cujus numeri ea ratio eft , quam attulimus in Rudimentis Syntagm. 3. Par. 1. c. 3. ( a ) /- ( 1 ) Pratdicabilia Stoici confiderant * ut funt io rebus j ideaque raipvTx vocant, kleft nationes. Peripatetici ea con fi- derant , ut de rebus dicuntur $ ideoque appellant xrrxyopii'^* p radicata . Philoponus vocat ***** Quitis , / implieet voets a Grseci alii tstrs Quivit , quinque vocet. {%) Quidam rem ita explicant ; Prxdicabile eft notio uni- Digitized by Google 17 PARS I. CAPUT I. Quinam e fi Predicabilium ufus ? $. Magnus eft Prardicabilium ufus in deiiniendo , dividendo , & argumentando  Sed ea pnefertim Ca- tegoriis inferviunt; atque adeo in harum gratiam fcripta funt a Porphyrio, ut apparet ex ejus Prae- fatione. Cum enim Chryfaorius Patricius Romanus in Ariftotelis Categorias incidiflet , nec eas t poflet facile intelligere ; obtinuit a Porphyrio praeceptore fuo , ut hanc fibi Introduftionem componeret , colle- gis velut in unum corpus, quae in tota Ariftotelis Logica, maxime vero in Topicis & Metaphyficis difpcrfa funt. (?) Praedicabilia quomodo differunt a Praedicamentis ? ' - ** > $. Categoriae vulgo appellantur Praedicamenta * Differunt autem a Praedicabilibus , quia Praedicabilia funt modi praedicandi; Praedicamenta funt res, quae praedicantur. Itaque Praedicabilia funt fecundae notio- nes, per quas fignificantur, & explicantur primae ; rrimau autem funt ipfa Pr  Species, Proprium  Ajfumtum eft Acr sidens, quia extrinfecus advenit. Alii hoc modo: Quid- quid eft prodicabile , vel prodicatur in quid ut pars : & eft Genus  vel in quid ut totum , & eft Species  vel in quale per ejfentiam , & eft Differentia $ vel in qnale nectf- fario , &.eft Proprium ; vel in quale fortuito , & eft Ac - eidens. Duas b*s rationes oppugnat Voflius de natura Lo- gico cap. 10. 11.19. Sed iftiufmodi pugno numquam exitum invenient . (3) Totam prodicabilium doftrinam ex 'Platonis *U6Us collegae Porphyrium , Amonius fcribit . Fuit ille quidem philofophus Platonicus ; fed in hoc opufculo , uc |8 P. Praedicabilia nonne dicuntur univerfalia ? I. Ita appellantur , quia funt communia multis, & late patent. Nam genus dicitur de multis fpecie- bus; fpecies de multis individuis; differentia , & pro - prium de illis omnibus , de quibus dicitur fpecies ; accidens de multis rebus, quibus ineft. ( 4 ) * Suntne omnia aque univerfalia? $. Singula enunciantur de multis , ut modo dixi- mus; ideoque dici debent univerfalia. In hoc enim fita eft natura univerfalis , ut una cum fit , multis tribui poflit . Ceterum fingula tribuuntur diverfo modo: & hic modus conftituit eorum diferimen. Ita prorfus ut circulus, & quadratum conveniunt in eo, quod fint figura; fed differunt modo, quia alterius figura eft rotunda, alterius quadrata. Quid efl univerfale ? $. Quid fit univerfale, & quomodo formetur, di- ximus in Rudimentis Syntagm. 3. Par. Ii c. 2. In fcholis quadrifariam dividi folet. Primum dicitur uni- verfale effefiione , & funt ideae archetypae, per quas efficitur, quidquid efficitur. Secundum reprafentatio* ne , & eft notio communis, quae multa reprafentat ; tertium fgnificatione , & eft nomen commune , quod mul- mihi videtur, magis Ariftotelem , quam Platonem fecutus eft. Quamquam in eo certe Platonicus eft, quod Dialefti- , cam a Metaphyfica non diftrahit , fed fua hzc univerfalia modo definit per id, quod eft, modo per id, quod praedi- catur, modo per utrumque. ( 4 ) Vocabulum univerfale valde difplicet cultioribus Logicis , non tam ipfuni per fe , quam quod nimis mul- ta & abftrufa de illo Scholaftici feriptitarunt . Acerrime oppugnatur a Nizoiio in lib, i, de veris principiis , cap* 7 . 8. & 9. . i 9 multa fignificat ; quartum ejjentia , & praedicatione , & eft natura communis , quai ineft in multis , & de multis dicitur . Exemplum fecundi , tertii , & quarti univerfalis poteft efie animal ; quod quidem , ut notio univerfalis , multa repraefentat ; ut vox uni- verfalis , multa fignificat ; ut natura univerfalis , in multis eft ; ut attributio univerfalis , de multis pra*- dicatur . Primum, dicitur univerfale Platonicum , fe- cundum Stoicum & Epicureum , tertium Nominale , quartum Peripateticum . Nam Plato per ideas ar- chetypas philofophatur ; Stoici & Epicurei per com- munes notiones \ Nominales per nomina communia ; Peripatetici per id , quod in multis eft , & de mul- tis praedicatur . ( j ) Quid eft igitur univerfale Peripateticum ? Univerfale Peripateticum nihil eft aliud, quam communis quaedam notio , ex multarum rerum fimi- litudine collecta , & m unam formam effidta . Vul- go definitur Unum aptum inejfe multis fecundum eam- dem rationem : vel unum aptum praedicari de multis . ( 6 ) Prima definitio eft Metaphyftca , quia Metaphyfica confiderat eflentiam rerum ; fecunda Logica , quia Lo- gica confiderat praedicandi modum .  * B a Cur . ( 5 ) Ide* archetyp* funt univerfalia quaedam rerum fi- mulacra & exemplaria, per qua: Plato omnia fieri putabat, Sc omnia cognofci; de quibus poffea dicemus. Univerfale dicitur unum , ideft natura quadam fim- plex 5 qu* de multis quidem lingularibus prxdicatur , & in multis e(l , fed concipitur per modum uniut , unitate qua- dem eflentix, non numeri , ut Scholaftici loquuntur . ( 7 ) Diftin&fo h*c non habet locum apud Platonico : quia Plato eam partem Metaphyfici ftudii , quam noftri Ontologiani dicunt , Dialetlicx nomine nuncupat , uc appare tj ex lib, 7. deRep, ex Politico , & ex Parmenide.  L Cur Logici non difputant potius de ftngulari y quam de universali ? Quia compendia laboris quaerunt. Itaque cum lingularia fint innumera , res omnes in clafles uni- verfales conjiciunt pro varia earum natura & cogna- tione: quas clafTes poftea contemplantur , & qua- cumque in illis cognofcunt, ad lingularia ejufdem rationis , cum opus eft , facile transferunt . Ita qui naturam hominis univerfe cognofcit , lingulos homi- nes cognofcit. ( 8 ) Quid funt Platonis idc qua divi- na quadam facultar eft , entia cognofcent , quatenus entia funt . Adde Alcinoum de do&rina Platonis c. Plotinum Ennead. x.l. 3. c. 4. cujus hic titulus eft ex editione Ficini : D**- leSiica , ideft Metapbyfica , totam entium latitudinem contem- platur , &c. (8) Qui fubtilius philofophantur , ajunt fola univerfalia proprie efle, quia funt immutabilia ; ideoque ea fola fciri . x hoc philofophi genere fcribit Pindarus Nemeor. od. 6. Homines nihil ejfe . Vide quae fequuntur de ideis Platonicis , & Sex. Empiricum lib, i, adverfus Logic, c. x. n. 7.  t. tt fpecies rerum omnium : quas fpecies mentibus ho- min um ex divinitate delibati/ infitas dixit . ( 9 ) In quo Platonis ideae fimiles funt notionibus & formis , quas Peripatetici & Epicurei per impulfionem rerum externarum in animo gigni dicunt  Nam ex ho- rum Philofophorum dobrina per has formas & no- tiones de rebus omnibus judicamus , & alias ab aliis diftinguimus. , . ' Nonne ideas quafdam pofuit a rebus omnibus feparatas ?  Pofuit enimvero ideas quafdam per fe conflan- tes, & a rebus omnibus feparatas , ex quibus ideas aliae funt expreflae , quas nos animo complebimur . Et quemadmodum per illas & ad illas omnia gignun- tur & formantur ; ita per has omnia a nobis cogno- fcuntur . Sed ideas feparatas Ariftoteles labefaba- vit. ( 10 ) B 3 Non- f 9 ) In has quoque ideas videntur Ciceronis verba con- venire , qu* hic apponam $ quamquam magis proprie ad fe- paratas pertinent. In Orator, c. 3. Has Perum format appel- lat ideas ille non intelltgendi folutn , fed etiam dicendi gra - vijjimvs auflor & magifter Viato ; eafque gigni negat , ait femper ejfe , ae ratione (2 intelligentia contineri : cetera nafci , occidere > fuere , labi  nec diutius e(fe uno & eodem flatu . Seneca epift. 38 . Tertium genus eft eorum , qua pro* prie funt . Innumerabilia hac funt , fed extra noflrvtn pofita confpefium. Qua fint , interrogas ? Propria Platoni fupellex eft . Ideas vocat , ex quibus omnia > quacumque videmus , fiunt ; & ad quas cunfla formantur , Ha immortales , im- mutabiles , inviolabiles funt . Quid fit idea , ideft quid Via - toni ejfe videatur , audi ; Idea eft eorum > qua natura fiunt y PARS 1. CAPUT /. I . Kcnne etiam in mente divina eas pofuit ? !. Pofuit formas iftas in mente divina, tamquam in fonte fuo, ut eflent illi exemplaria rerum omnium condendarum . ( 1 1 ) Nibilne infuper de universalibus doces ? I Nihil aliud neceflarium duco , atque adeo ne utile quidem nifi otiolis ad fallendum tempus  Qui plura cupit , Scholafticos adeat , qui hac in parte co- piofillimi funt , eas quoque qutfftiones ( ut feribit Ca- nus de loc. Theol. 1 . 9. c. 7. ) latijftme perfequentes , quibus Porpbyrius abfiinuit , homo impius , fed inhaere prudens tamen , ut Platonis Arijiotelifque difcipulum c 1. Enus eft notio maxime communis, qua? a- \J lias notiones minus communes ab fe pro- pagatas comprehendit , deque illis enunciatur . A Porphyrio dicitur notio univerfalis , qua de pluribus pra- dicatur fpecie differentibus , cum , quid Jint , quatitur . ex. gr. Animal, hominis &equi genus eft, quia no- tionem utrique communem defignat ; & afferri folet a^jto, qui refpondet interroganti, quid homo, quid equus fit. ( i ) B 4 Efine ( I ) Cicero lib. i. de Orat. c.\l, Genus id eft , quod fui fimilet communione quadam , fpecie autem differentes , duae plure fve compleHitur partes. Idem in Topic. c. 7. Genus eft notio ad plurer differentias pertinens . Seneca ep. 58. Horno fpecies eft , ut Ariftoteles ait , equus fpecies eft , canis fpe - ciet p ergo commune aliquod quarendum eft bis omnibus vin- culum , quod illa comple flatur , & fub 'fe babeat . Hoc quid eft ? Animal . Ergo genus effe coepit omnium horum , qua mo- do retuli , Animal. Sed funt quadam , qua animam habent , animalia . Placet enim fatis arbuftis animam inejfe i itaque vivere illa & mori dicimus . Quadam a- nitna carent , / //* 1  . '  Vulgo Scholaflici dicunt Genus generali fimum , / 3 - alternum , Cf fpeeialifimum . Verba fibi formarunt cx hoc Laertii loco: v 0 ykv@ 09 , 'ygva* x g v ^/  i/SntTNT9r V/V,  er, oihs x *. Seneca ep. 58. QUOD ST, 0; corporale ejl , *0f incorporale . Hoc ergo genur eft primam tif amiquijjimum , , 0; dicam , g***- cetera genera quidem lunt , / pedalia  Loquitur ex do&rina Stoicorum. ( 6 -) Latini feriptores faepe utuntur voce genetis pro/pr- *** ^ ra Cicero 2. de Fio. c. 9 genera cupiditatum . In 5 fufcul. c. 13. Natura quidquid genuit , in fuo quodque ge nere perfeftum ejfe voluit ln I. de Leg. c. 7. E* m */m- mantium generibus atque naturis . Ita de offic. Juftitra gene- rj genera quatuor officii $ duplex jocorum genus , &c. Nam quidquid habet rationem univerfahs multa comprehen- dentis, etiam ab Ariiloteie in Topicis gr/w/ dicitur  DE SPECIE.  U I D V E S T SPECIES ? #. C Pecks, quo fenfu a Dialeflicis accipitur, tri- w3 bus modis definiri pofie videtur ex Porphyrii do&rina . Primo fpecies eft id, quod generi fubjicitur  cujufmodi eft homo , qui fubjicitur animali . Secun- do fpecies eft id, de quo genus refpondetur fcifcitanti , quid fit : nam fcifcitanti, quid fit homo , refpondetur animal . Tertio fpecies eft univer falis notio , qua: de pluribus dicitur numero differentibus ; cum , quid res fit, quaeritur \ ut homo , qui enunciatur de Petro, de Paulo , & aliis humana: natura individuis . Duas priores definitiones fpeciebus omnibus conveniunt tum mediis , tum infimis ; tertia infimis tantum , qua: individua attingunt, (*) uid * ' ' ' > ( i ) Cicero in voce fpeciet duos cafus non probat , fpeeierum , & fpeciebus . Itaque in Topic. c. 7 . Nofiri ( inquit ) fpecies appellant , non pejfime id quidem , fed inutiliter ad mutandos cafus in dicende . Nolim enim , ne fi Latine quidem diei poffit , fpeeierum & fpeciebus dice- re ; it fape bis cafibus utendum eft: at formis & forma- rum velim . Cum autem utroque verbo idem fignifieetur , commoditatem in dicendo non arbitror negligendam . Spe- ciem definit ibidem : Forma eft notio , cujus differentia ad Caput generir quafi fontem ref rri poteft . Et paul- lo poft ; Forma funi ba , in quas genut fine ulliut prater- Digitized by Google PARS L CAPUT 111. aS Quid efl fpecies media & infima? Species medi* idem efl: ac genus medium , feu inter] e 8 um , de quo in fuperiori capite diflum efl ; videlicet quae ita efl fpecies , ut poffit efle genus . Nam fi comparetur cum fuperiori , fpecies efl ; fi Cum inferiori , efl genus . Ex. gr. Animal , fi re- feratur ad corpus , fpecies efl ; fi ad hominem , efl genus . Species infima ita efl fpecies , ut non poffit efle genus : proxime enim attingit individua , ut homo ; ac proinde neceflario praedicatur de pluribus differentibus numero . ( a ) Quid fignificat praedicari de pluribus differentibus numero f #. Significat , fpeciem efle nomen commune pluribus individuis , quae folo numero differunt . Ex. gr. homo communis appellatio efl Socratis , Democriti , Platonis , & aliorum ; qui fcilicet eamdem hominis rationem habent , & homines atque dicuntur , fed per quafdam individuas pro- prie- UrmijJiene dividitur. Nam ex. gr. prudentia > judicis  tem- perantia  fortitudo dicuntur efle fpttitt virtutis  quia vir- tus quod genut efl in eas dividitur* (z) Species infima a Grzcis dicitur tiSnturr re  z Scholaflicis fpttitt fptcialijfima . Hsec una vere ac proprie fpeciet efl: nam mtdia quidem non efl hujufinodi nifi com- paratione quadam . Igitur notio quaelibet communis  qu* continet alias communes  proprie genut efl  notio comma* i qu continet alias Angulares > proprie efl fpedt f  Digitized by Googl PARSJ.CAPVTIIL 29 prietates numerum diverfum faciunt . Et quia , fi ab iis hominis rationem tollas , non fimplicem affe- &ionem tollis, fed eflentiam ipfam & naturam; ex hoc fit , ut quaeftio inftituatur per quid , non per quale , quoties de fpecie quaerimus , quid ejl Socrates ? quid Democritus ? &c. (3) * * Quid eft individuum ? Individuum , ut ex nomine ipfo patet , eft id , quod in plura talia , quale ipfum eft > dividi nequit , ut Petrus , qui dividi non poteft in plures Petros  Bi- fariam definiri pofle videtur . Primo individuum eft id , quod de uno tantum enunciatur  Secundo individuum eft id , quod proprietatibus quibufdam conflat , qua omnes eadem convenire alii nullo modo pojfunt . Proprietates iftae carmine comprehenduntur memoriae caufla : For- ma , figura , locus , ftirps , nomen , patria , tempus  ( 4 ) Quotuple x eft individuum ? Triplex : definitum , quod exprimitur nomi- ne proprio , vel demonftratur per pronomen hic , ut Petrus , hic homo : vagum , quod effertur per nomen particulare Syncategorematicum , ut quidam homo : % ( 3 ) ScholafUci ajunt , qusefiionem fpeciei fieri per quid > quia fpecies conflit uitur per prsdicata efftntialia 5 quod eodem recidit  ( 4 ) Per has defcribitur Cacusab Ovidio Fa{lor.I.i.veFf,55i* Cacut Aventi na timor atque infamia ftlva , Non leve finitimis bofpitibufqtte malum , Dira viro faciet , viret pro corpore , eerpor Grande} pater monftri Mulciber hujus erat  $0 . homo : ex hypothefi , per antonomafiam , aut per peri * phrafim , ut cum lingulare aliquid certis (ignis de- fcribitur; ex. gr. cum dico Romana eloquentia prin- cipem , Filium Sophronifci , & fimilia , qua: certas perfonas deiignant . ( J ) .. A Quid eft , quod efficit rem aliquam fi figularem & indit- iduam ? \ $. Ejus exiftentla . Sola enim fingularia & in- dividua exiftunt . Itaque cujuslibet rei exiftentia dici potefl: individuationis principium , ut fchola- rum verbis utamur  Proprietates porro illae > quas paullo ante memoravimus, individuum non faciunt, fed martifeftant . Hinc collige , quidquid exiftit , e (Te individuum ; five per fe , five per aliud exi- flat ; five natura , five arte fit fadum . Ab his porro individuis retfe perceptis mens imaginem quamdam ducit , & informat , quam fpeciem dici- mus : & in hac quidem omnia conveniunt , & per hanc fingula cognofcuntur . ( 5 ) ' Species ( 5 ) Lib. 12. Dig.tit. 1, 1 . 6 . Rodius Miro primo de Stipula- tionibut nihil referre ait , proprio nomine nt appelletur , an digito oflendatur , an vocabulis quibufdam demonfiretur . (6) Speciet pro individuo ufurpafur a Lucretio 1 . 2 . 3 ^ 4 . Nec vitulorum alia fptcies tue. I oquitur de Vacca , quSe a- miflo vitulo uno, ita dolet, ut per alios curam levare notr poffit. Cererum Individuum definitur a Volfio in Philofi Ra tien. p. 1. fel. 2. c. 3. n. 74. Ens omnimode determinatum : prin- cipium autem individuationis definitur n. 75, Omnimoda de  terminatio eorum y qu( rebus in funi *  Species poteftne conflare uno individuo , & genus fpecie una ? Nihil prohibet , quominus tota fpeciei natura uno individuo comprehendatur, ex. gr. tota homi- nis natura fit in Socrate \ qui & animal , & ratio - nale eft . Nihil item prohibet , quominus tota ge- neris ratio fit in unica fpecie , ex. gr. tota ratio animalis in homine . Neque vero necefie eft , ut genus , & fpecies de multis reipfa enuncientur .* fatis eft , fi enunciari poffint . Ratio fiquidem uni- verfalis & praedicabilis non in attu , fed in pote- ftate pofita eft . . . , *  . t Quid docent Scbolaftici de fpecie fubjicibiii, & praedicabili/ $. Quia fpecies fubjicitur generi , & praeeft in- dividuis , de quibus enunciatur , illam duplici nomi- ne appellare , ac diftinguere folent ; nam ut fpecies fubeft generi , vocant fubjicibilem ; ut piaeeft indivi- duis , appellant praedicabilem . Primo modo non eft quid univerfale , quia refpicit unum tantum , cui fub- jicitur ; & habet rationem partis : altero inter uni- verfalia loctim habet, quia enunciatur de pluribus, & habet vim rationemque totius. ( 7 ) Quo- ( 7 ) Species pradicabilis dicitur genus a Seneca epifi. 58. Homo genus ejt . Habet enim in fe nationum fpecies , Gra- tos , Romanos f "Parthos $ habet finguloty Catonem , Cicero- nem , Lue retium , Itaque qua multa (enfinet > in genus ta - ei it ; qua fub alio e fi , in [pedem. Digitized by Google PARS I. CAPUT n, I* Quomodo fubeunt animum notiones generis , fpeciei , individui ? * ,  fi. Ita prorfus . Si videam procul venientem Pam- philum , ea forma oculis oblata , continuo generis notionem in animo informat , tum fpeciei , poftremo individui . Primum enim corpus efle intelligo ; deinde ut propius accedit , agnofco efle animal ; tum efle ho- minem \ denique Pamphilum . Sed individua quidem fenfibus; genera, &fpecies cogitatione percipio . Ita- que illa dici folent in fcholis entia natur* , hzc entia rationis .  CA - ( t ) DialeSici ScholafUci tria h*c , uni ver f ale , fecundam intentionem  8c ent rationi t pro uno eodetnque habent j idque in plura cogitata dividunt , Sc per varias qusflio- aes agitant. DE DIFFERENTIA.' VOT MODIS ACCIPITUR A PORPHTRIO ; DIFFERENTIA ? . , "T"'Ribus. Alia eft enim differentia communis , X alia propria , alia maxime propria . Commu - yix eft , qua res una differt ab alia , aut a feipfa per communem aliquam affectionem ; quomodo ho- mo feribens, differt a fe ipfo  & ab alio non feri- bente . Propria eft , qua unum ab alio differt per af- feCtionem rei propriam , quomodo latrans differt a non latrante. Maxime propria eft illud ipfum praedi- cabile > de quo difputamus ; ideft id , quod generi jun&um fpeciem conftituit ; x. gr. ratio , quae addi- ta animali , efficit hominem , hoc eft animal quoddam a reliquis omnibus diftinftum . ( i ) In quo conveniunt differentia ifta , & i* quo differunt i %t. In eo conveniunt , quia fingulae varietatem tribuunt At multis rebus differunt Primum diffe- rentiae communes , & propria adveniunt rei jam con- ftitutae ; faciuntque alteram , ut in fcholis dicitur , C hoc ( t ) Per differentiam communem Tigellius dicitur ab Horatio lib. t. fat. 3. impar fibi , quod alia alio tempore vellet, & faceret. . fioc eft diverfam ; differentia maxime propria rem conftituit, facitque aliam , Jioc eft natura eflen- tia a rebus aliis difcrepantem . Deinde differenti* haec vulgo fpeclfica appellatur y quia fpeciem . facit ; illae dicuntur accidentales , quia funt adventitiae > nec eftentiam attigunt . Tum differentia maxime pro- pria genus in ipecies dividit , & a i accurate , defi- niendum valet : illae autem ad. rudes & imperfe&as defcriptiones dumtaxat appofitae funt , ; , *  ,  #  i W altera a fpecie  Prima uti genus ipfiim  enunciatur de pluribus fpecie differentibus  Hujufibaodt eft ex. gr. fenfus in homine > per quem differt ab *iis viventibus > quae non fentiunt Secunda uti fpc ' ,  cies fi) Differentia exprimitur per modum adjiedm; genus > r Jpecies per modum fubftantivi  Proinde non ell mirum* fi duo haec praedicantur in f id,, illa in quale.* , c Pars i. caput ir. cies ipfa , enunciatur de pluribus numero differentibus , ideft de individuis . Hanc Scholaftici appellant dif- ferentiam fpecrficam , illam geneticam . Quomodo differentia dicitur notio univerfalis? T. Dicitur univerfalis ratione individuorum , de quibus per fpeciem enunciatur . Ceterum fi refera- tur ad genus , quod dividit , vel ad fpeciem , quam conftituit , dici nequit univerfalis . Nam genus qui- dem unum quid eft , ipfaque differentia diffufius ; fpecies item eft notio una , tamque diffufa , quam differentia ipfa : uni verfale autem debet efle aliquid late patens , quod de pluribus enuncietur ipfi fub- jefti s . Quomodo differentia genus dividit , & fpeciem conftituit ? T Genus dividit fecafido in fpccies illi fub}eas . Ita rationale fecat animal in hominem , & brutum . Speciem conftituit j quia differentia eft pars rei maxi- me propria , quae partem communem contrahit per modum formae , & in certam naturam compellit . ^Nam genus , ex. gr. animal , eft veluti materia va- ga & communis, qua; per rationem coercetur, unde homo extat. (3 J C * dif-  Cum differentia fpeciem conflituat, apparet cur d illis omnibus prodicetur , de quibus fpecies ; hoc eft de plu- ribus differentibus numero . Praedicatur autem non per le , fed per -fpeciem ; quia fola fubftantiva , quippe res com- plet* , praedicantur p*r fe . ' - '    Differenti# , qu nec omnia pervadere mente poffumus, quafdam re- rum fpecies per unam differentiam aperimus , alias per plures  Nam fi circulum definire velim , aut triangulum , video unam illam differentiam , per quam utriufque natura confKtuitur : at fi mihi ada- mas fit deferibendus , Cogor multas ejus affe&iones & proprietates congerere \ quia intimam ejus naturam & ra- . >   Quas differentiae a nobis diverfa dicuntur , vulgo in fc holis vocantur dijparatce * Sed vox hsec illis potius tri- bui debet j quae a nobis eppofita: funt appellat . Siquidem Cicero in lib. t. de 1 nvent. c. 28. ea utitur ad fignifican- da contradicentia ; qualia funt rationale , Sc non rationale ; ferjus particeps , Sc non particeps a 1  & rationem non video , per quam ab aliis gemmis diftinguitur . DE PROPRIO. PROPRIUM UOT MODIS DICITUR APUD PORP HTRIU M? /"A Uatuor dicitur modis. Primo proprium eft, quod foli fpeciei accidit , fed non toti i ut efle medicum accidit foli homini , neque tamen qui- libet homo medicus eft . Secundo proprium eft e converfo , quod toti fpeciei accidit , fed non foli ; ut efte bipedem convenit quidem omnibus hominibus , non tamen folis. Tertio proprium eft , quod foli , & toti fpeciei accidit, fed non femper ; ut canefcere convenit quidem omnibus hominibus , & folis ho- minibus, non tamen quavis *tate. Quarto proprium eft , quod foli , & toti fpeciei , & femper accidit . Hoc modo convenit homini efte rifibile , quod ejus naturam confequitur , tamquam proprietas necefla- ria; & cum ea reciprocatur : nam quidquid eft ra C 3 tiona- ( 5 ) Tanta eft differentiarum ignoratio, 6 c vocabulorum inopia ad eas explicandas, uc interdum fpecies fui generis nomine appelletur. Ica Caefar initio lib. 1. Bel. Gal. divi- dit Gallos in tres fpccies, quarum primam appellat Belgas , alteram Aquitanos , tertiam Gallos , adhibito generis nomi- ne ob inopiam proprii . Idem -f pe accidit in Phyiicis rc- . tionale , eft rifibile quidquid eft rifibile , eft rati* cale . ( i ) Quodnam ex his eft quartum Pradicablle ad hunc locum pertinens ? I. Poftremum; quoti proinde definiri poteft, No- tio univerfalis , qua fpeciei naturam jam conftitutam ne- cejfario confequitur , & per eam pradicatur de pluribus differentibus numero . Difcrepat a differentia , quia illa fpeciem conftituit ; ab accidente , quia accidens rei natu- ram fequitur, tamquam aliquid adventitium. Quodnam judicium ferendum eft de exemplis a Porphyrio allatis ? Homines contentionum ftudiofi cum Polphy- rii dottrinam oppugnare non pollent , in exempla ftilum exacuerunt. Nos ne tempus line caufla tera- mus , dicimus exempla adhiberi ad manifeftandam veritatem, neque opus efle, ut ipfa vera fint. Qui ha?c non probat , alia reponat , fed pergat porro fi- ce litibus, (a) C A- ( i ) Proprium a Lucretio dicitur Conjungium lib. x. v. 452. ConjunHum eft id , quod numquam fine perniciali , Difcidio potis eft fejungi , Jeque gregari , Pondus uti faxis , calor 'ignibus , liquor aquai . * * r * 1 '  i *ARS I. CAPUT K DE ACCIDENTE. &UQTUPLEX EST ACCIDENSl *%** - *  f. A Ntequam Porphyrii divifionesaflferam , anim-  jlJL adverto , accidens in toto genere fum- tura , vel eflfe Categorkum , vel Pradicab/le . Illud eft , quod Categoriam conftituit fubftantiai oppofitam ; ideoque per fe confiftere nequit , ut figura , & mo- dus quilibet. De eo difputabitur in Categoriis. Prae- dicabile eft attributio quaedam Logica , quae rei ad- venit , per eftentiam & intimas proprietates jam con- llitucar, five fit aliquid per fe confiftens , five non fit i ut veftis , quae quamvis fubftantia fit , alteri ta- C 4 men ( * } Haec maxime referri volumus ad facultatem riden- di y de qua ita Ladantius in lib. de ira Dei > cap. 7* Eifus homini proprius eft ,  quod deceat] in f adis diSif- que quis modus , , > Digitized by Google 4 o PARS I. CAPUT Vlj mcn fubftantia: adjefta , convenit illi ut accidens  Hoc igitur quintum Praedicabile dicitur , efle toga- tum, efle doftum efle album. ( i ) Quomodo definitur? $. Notio univerfalis , quae pluribus adefle & abe fe poteft, incolumi eorum natura; deque iis praedica- ri , ut efle armatum , efle coloratum . (Accidens nonne dividitur a Porphyrio in fepara- bile, & infeparabile? Ita videlicet, nifi nos nova nomina offendunt, quae funt ab interpretibus . Sed nomine accidenti infeparabilis id idtelligit Porphyrius, quod reipfe le- parari nequit; per mentem tamen feparatur, quotiei cogitamus, adventitium quid efle , reique naturani fme illo confiftere . Hujufmodi eft color niger ia corvo, albus in cycno.  '' Nonne hoc modo etiam Proprium feparatur } w ~ \ Proprium feparari cogitando poteft , non t* quia eft accidens : at crocitandi facultas negari de corvo non poteft , quia eft proprietas , quas ne- pedario eflentiam ejus confequitur, & cum ea reci- procatur* Cedo mihi alias accidentis divifiones , Qt. Accidens vel eft externum , vel internum , Ex ternum eft, quod rem extrinfecus denominat ; quo- modo laus dicitur accidens ejus, qui laudatur  in- ternum dicitur , quod eft in re ipfa , ad quam perti- net: idque vel eft Pbyficum , vel Metapbyficum . Vh?  ficum rem vere ac naturaliter afficit , ut motus : Me- tapbyficum rem dumtaxat denominat, ut relatio , op- pofitio , & fimi lia. Solet etiam accidens dividi in ab folatum , & relatum . Illud eft , quod rem afficit ab omni alia folutam , & in ipfa natura fua confide ra- tam , ut figura ; hoc relationem & comparationem exprimit unius rqi ad aliam , ut aequalitas, (*) Qua ratione dicitur univerfale & praedicabile ? :  / j , . * * ' * ' Bt. Quia eft totum logicam , quod ineft variis fubje&is , & praedicatur de illis . Praedicatur autesor in quale fortuito , ut formula fchoiarum eft*  t _ _ _ ( 1 ) Tota haec divido transferri poteft etiam ad acci- dens categoricum , Nam hoc ipfum comprehenditur in pne- IMiir. ( 3 ) Accidens, quatenus accidens, praedicatur de fubje- lis, in quae fpargitur. Cum prodicatur de formis fuis, ut figura de quadrata , & rotunda } generis ratione induit , C A. Digitized by Google 4* Vk \ . L DE MODO ET RATIONE PRAEDICANDI. f . . k * 1 % 4  % V  A 4  b  4 ANTEQUAM PRAEDICABILIA DIMITTAS , DIC ALIQUID DE MODO PRAEDICANDI? Jjk Ti4" Odus pr^dicandi > cujus gratia tam. mul- * aXVX ta de Praedicabilibus > . & Praedicamentis t-ogici.difputant > dicitur ab iis Praedicatio , idefl e- nunciatio unius rei de alia:, ut cum. dico.,. Avaritia $ .ifi vitium , praedico &,enuncio vitium de avaritia , ideft genus de. fua fpccie. ( i ) l * .* i r  ) 1 ' ^  .1 > 3*  . i : I ** * Quot up lex e fi pr qui nullum dividendi linem fa- ciunt , dividere folent ordinatum praedicandi modum in internum & externum , in ejfentialem & accidentalem , in ufitatum & inuf\tatum > in necejfarium & continge n - in pojjibilem & impojftbilem , quale : quas quidem omnia divifionum genera ex ipfis voci- bus , quibus efferuntur , manifefta funt ; fiquidem quale eft prsedicatum , talis dicitur praedicandi mo- dus. ( 3 ) PAR- I * f  Vv \ ' .jr   *- a ' ' ( 3 ) Si quis dividere velit ordinatum praedicandi modum . in proximum , remotum , non inepte dividet . ad tollendas difficultates , quae contra praedicabilium definitiones afferri folent . Nam g?# j ex. gr. proxime praedicatur de pluribus differentibus fpecie, remote de pluribus differentibus numero . .  . . * 4 i PARTIS SECUNDAS PROTHEORIjE. vu l c o . ANTEPRAEDICAMENTA. a OVID SVNT ANTEPRA.D1C AMENTA , E7* QVO SPECT ANTt "O OR modum praedicandi , ordine fequitur id , JL quod praedicatur * Explicandae funt igitur nobis Categoriae , qua; vulgo dicuntur Praedicamenta ideft clafles rerum , quae poffunt praedicari . Id ut commode fiat, praemittuntur ab Arifiotele Protheo- riae, quae in fcholis Antepradic amenta vocantur. Sunt autem praenotiones quaedam neceffariae ad inteliigenda Praedicamenta . Continentur tribus definitionibus , dua* bus divifionibus , & regulis item duabus .  f ' . ( i ) Idem Porphyrius , a quo fumfimus fuperiorem Prae- dicabilium doRrinam , Ariftotelis Pr medicamenta expofiut exiguo libello , ,cui titulus : '$ . ideft, In Ariftotelis Cate- gorias expofitio per interrogationem & refponfionem . Eadem ipfa expolitione Antepradic amentorum doctrina comprehen- ditur . Nos tamen hic Porphyrio dimiflo, Ariftotciem ipfum aggredimur ad explicandum . Quanam funt definitiones ? . . > I > ]. Prima eft Homonymorum. Homonyma , feu Am- bigua , fune ea , quorum nomen commune eft , fed notio & natura, qua; nomine fignificatur , plane di- verfa ; ut aries , qua; vox modo belluam fignificat , modo fignum calefle , modo bellicam machinam . H arc in Scholis dicuntur AZquivoca , de quibus vide plura in Rudimentis Diale#. Par. i. cap. 4. Secunda defi- nitio eft Synonymorum. Synonyma autem funt, quorum nomen, & ratio, quae nomine fignificatur, eft ea- dem; ut animal , quse vox arque hominem , ac belluam fignificat . Harc a Scholafticis dicuntur Univoca , a Ci- cerone Cognominata . Tertia eft Paronymorum. Varony - ma funt nomina concreta , qua; denominantur ab ea forma, a qua oriuntur; ut juflus , quod oritur a jufti- tia ; fortis , quod a fortitudine ducitur. Ab Ariftotele dicuntur ea , qua ab aliquo , a quo cafu differunt , ap- pellationem habent ; a Latinis Grammaticis vocantur Denominativa , a Cicerone Conjugata. Habent ne omnia locum in Categoriis ? I. Sola Synonyma in Categoriis locum habent , quia harc fola unius rationis funt , & una clafle coer- ceri poliunt. Quot ( t ) Cicer. Topic. c. 3. Conjugata dicuntur , qua; funt ex verbis generis e juf dem . Ejufdem autem generis verba funt , qua orta ab uno varie commutantur , ut fapiens , fapienter , fapientia . Ex quo genere faepe argumentari folemus , ut idem Cicero 1 . 3. de Nat. Deor. c.i i.Si omnis cera commutabilis ef- fet , nihil effit cereum , quod commutari non pojfet .  ? RsDICJiMENTA. Quot funt divifiones ? r \ I. Duas funt divifiones , prima vocum , *kera re- %um . Dlvifio vocum eft hujufmodi . Voces jtfix funi complex 4 ( * rv^TXex ) quas plura fignificant > ut figura pltna : alise fmplices (  ut accides* univtrfalia , v. gr. color , qui femper cft ip aliqu* aftantijt , & de multis colorum formis enunciatur. r d neque in fubjeSo funt , neque de fubjeSo dicuntur * t lingulares fubftantix , Petrus, Socrates x &c. Res IA fubje&o fchemate clarior apparebit. v, r /  f-H ", ' Eft Digitized by Google 4*  ANTE E& In (iibjcclo . Subjc fiunt quot modis dicitur}  I ! I I      k .  > i I \Z>  : rjfcfi ji U   Non eft in lubje- elo (A C te (A H > H M > A o c r-*  (A Non di* citur de fubiefto . 1 Jt. Subje&um aliud dicationis , aliud inb^Jtonis  Primum eft , de quo aliquid praedicatur ; fecundum eft* in quo aliquid inhaeret  Ex. gr. homo habet fubjedum pr de quo homo enun- ciatur: figura habet fubje&um inhafionis ; eftque cera * lignum , marmor , & alia * quibus figwr* inhaerere folei . ATiTE PRODIC AME NT A. 49 ' . >  Quo fpeflant brec ?  Eo nempe ut intelligamus , quidquid eft , vel fle [ubftantiam , vel accidens , Hoc habet fubje&um in- ftafion/s , & in [ubjeflo effe dicitur ; quia per fe confi- fle re nequit : illa non item. Praeterea ut intelligamus, tum fubftantiarum , tum accidentium alia efte univer- salia , alia fingularia . Illa habent fubje&um praedica- tionis , tc de [ubjefto dicuntur , quia enunciantur de multis : haec non item  1  m Quanam funt Regula ?  1 Prima regula eft , Cum quippiam de quopiam dicitur y qua de pradicato enunciantur , ea poffunt etiam de fubjefto enunciari : ex. gr. quia Grammatica dicitur ars y quaecumque arti tribuuntur , etiam Grammatica tribui pofTunt . Itaque quoniam ars dicitur habitus > etiam Grammatica habitus eft . ( i ) Secunda regula duas habet partes. Prima eft. Omnium generum y quo- rum nec alterum fub altero pofitum eft , nec ambo fub eo- dem tertio y differentia ftngula prorfus diffident : ut ani- malis y Sc [cientia differentiae nullam affinitatem ha- bent, quia animal fubeft fubftantiae, [cientia accidenti. Secunda pars hujus regulae eft. Eorum generum , quo- D rum ( 1 J Ratio regulae eft, quia in cnunciatione ajente prae- dicatum debet omnino fubjefto convenire, in negante de- bet omnino diferepare ; ne fallaciae locus fit . Porro fi quid * praedicato conveniat, non proprie & per fe , feJ .fortuito , id non debet de fubjefto enunciari : v. gr. Ars dicitur ge- nus; non tamen iccirco Grammatica dici genus debet . Vi- de fallaciam accidentis in Eiench. Sophilt. 90 ANTE PRAEDIC AMENT A. rum alterum fub altero collocatur , vel ambo fub eodem tertio , quadam funt communes differentia: ut planta & animal conveniunt in differentia corporea , quia utrum- que corpori fubeft . Ratio eft , quia natura fuperioris continetur in inferiori, eique attribuitur, fi reclus fit praedicandi modus ; veluti cum dico , planta eft corpus , animal eft corpus . ( a ) PARS . * 4 \ ( t ) Quidam excipiunt Corpus Sc Spiritum ; quae cum fint fub eodem genere Subftantia , in nulla tamen differen- tia conveniunt* Porro autem quae no s Antepradic amentorum nomine com- plexi fumus, ea Ariftoteles explicuit in capite primo , fe- cundo , & tertio Categoriarum . Ex quo fit , ut quod proxi- me fequitur , Sc a nobis primum dicitur , in Ariftotelico Organo quartum fit . Eumdem ordinem fequentes , fex po- firema Categoriarum capita uno nomine comprehendemus , & Pojlpradic amenta vocabimus ex inveterato fcholarttm more. DigRizenv Google ft . PARS II. DE CATEGORIIS fete PRALDIC AMENTIS C A P V T P I M V M. DE CATEGORIIS IN UNIVERSUM, (i)  - c  . ' [ riD EST CATEGORIA ? 1. /'"A Uid fit Categoria , fatis notum eft ex Ru- i Umentis . ( z ) Et numerum Categoriarum, & nomen ipfum quidam referunt ad Archytam Ta- rentinum: quia de re nobis laborandum non eft, mo- do fciamus , haec efle fumma rerum omnium genera , quorum cognitio Diale&ico neceflaria eft ad dilputan* D z dum , ( i ) Inlcriptio haec non eft Ariftoteiis ipfius , i deoque faepe variata eft. Nam ( ut fcribit Simplicius in Prolegom. G'a tegor. ) ab aliis Ante Topica liber infcriptus eft ; ab a- Iiis T)e Generibus entis i ab aliis De decem Generibus ; ab aliis Categoria decem ; ab aliis Categoria. Porro Ante To- pica infcripfit Adraftus Aphrodilaeus , quia iis Topica fub- jecit. ^ ( z ) Categoria difta eft a verbo Graeco x*Tiyp*7r$i , enttnciari ,pradicari. Hinc Categoriae, vulgo Pradicamenta dicuntur ; a Quinttiliano vocabulorum elementa ; ab Ale- xandro Aphrodifienfi rparx t 7( $r\9rovl*f , principia Philofo- phia . Sunt enim clafles rerum omnium , quibus natura coercetur . Cladis porro quaeque dividitur in fua genera * fpecies , atque individua ; nihilque eft in Categoriis , quod non uno aliquo ex iis nominibus appelletur , quae Predica- bilia diximus . Ex quo apparet , quomodo Pr^dicabilia ad,.'.,.-, Predit amenta pertineant, & qua ratione ab iis differant': - " qua de re fatis diximus in Rudimentis Par. i. cap. 3 .  L dum , ne fubftantias cum modis earum , aut modos jpfos inter fc , aut relata cum abfolut is confundat . * Quaenam conditiones ccir.it ari debent voces & notiones Categoricas ? -  Quod in Categoria aliqua rede collocatur , primo debet efle verum ens ; qua ratione excluduntur entia rationis, privationes, & negationes. (4 ) De- inde debet . efle ens per fe unum , non ex pluri- bus conflatum ; qua ratione excluduntur voces com- plexae , & concreta quadibet . Tum debet efle ens completum y perfedumque ; qua conditione excludun- tur entia omnia , quae partis rationem habent . Hinc habes, cur differentiae in arbore Porphyriananon col- locentur in reda Categoriae cla fle , fed latera teneant ; jquia fcilicet non tota quaedam , fed partes funt . Poftea debet efle ens jynonymum , hoc eft unius nominis & rationis ; qua conditione excluduntur homonyma , & paro-  Boethius in Pra?fit. lib. 1. Praedicam. Archytas et - iam duos compefuit libros , quorum in primo h$c decem prq- dic amenta difpofuit . Unde pojleriores quidam , non ejje A riftotflem hujus diviftonis inventorem , fufpicati funt , quod Pythagoricus vir eadem fcripfijfet ; in quafententia Jamblicus Philcjophus eft non ignobilis ; cui non confentit Thcmiftius > neque concedit , eum fuijfe Arcbytam , qui Pythagoricus Ta - rentinufquc ejfet , quique cum Platone aliquantulum vixif- fet 5 fed Peripateticum aliquem Archytam , qui novo operi auctoritatem vetuftatc nominis conderet . Vide Voflium de natura Art. 1 . 4  c. 8.$, 3.  Per entia rationis hoc loco fig,nificantur notiones il- is , quibus nihil in natura refpondet , ut Centaurus, Chi- maera , & fimilia   1 . paronyma [cf. Grice, “ARISTOTLE ON THE MULTIPLICITY OF BEING, AUSTIN ON PRICHARD ON PARONYMY] . Poftremo debet e (Te ens cert vel el per fe , vel per accidens : fi per fe , conftituit fubfiantiam ; li per accidens , vel eft abfolutum , vel relatum ; fi abfolu- tum , vel fluit a materia , & conilituit quantitatem ; vel a forma , & conftituit qualitatem  fi relatum , conftituit rela- tionem ; ad quam , tamquam ad genus referuntur reliquas Ca- tegoria . Nam agere  tamquam iri fub jeffo . Efle autem in fubje&o , eft inhxrere alteri $ Sc ab eo pendere ; quomodo fola accidentia fnnt in fubje&o. ( 1 )  "  * Quid eft accidens ? Accidens ( quo nomine ftgnificantur apud Peri- pateticos reliqux novem Categoriae ) eft id, quod per fe ( 1 ) Ariftotelica definitio fit per negationem; quia cum fubftantiae natura nota non fit , explicatio fumitur ab eo , quod eft notum, Ecce , quomodo ex veteri hac definitione juniorum Philofophorum definitio nata fit .  JS fe non condat; vel quod eft in alio tamquam in fub- jefto; uno verbo Accidens eft id , quod non eft fub- ftantia, fed fubftantia: inha:ret. Nonne etiam pars rei efl In re} Pars non eft in fubje&o , fed componit fubje- dum. Itaque anima hominis ex. gr. non eft in homi- ne , fed eft pars hominis , eumque componit . Quomodo dividitur fubftantia hoc loco ab Ariftotele ? Dividitur in primam, & fecundam. Quid eft fuhftantia prima l 1. Eft fingularis fubftantia , & individuum quodli- bet, ut Plato, hic liber . Grseci dicunt vel **$**. Definitur autem ab Ariftotele , quod neque in fubje- So eft , nec de fubjeSo dicitur . Per primam conditio- nem diftinguitur ab accidente ; quod eft in fubje&o , ideft alteri inhasret. Per fecundam diftinguitur a fub-- ftantiis univerfalibus , quae de fubjefto dicuntur, ideft de aliis multis enunciantur. ( a ) Quid eft fubftantia fecunda} Subftantia univerfalis, ut genus , & fpecies , vocatur ab Ariftotele fubftantia fecunda , quia pendet ' ' f , D 4 a pri- ( x ) Quidam non probarunt definitionem hanc;, quia non reputarunt cfle loicatn. I Digitized by Google 5 6 1* ARS Ii: CAPUT II. a prima. Univerfalia enim ipfa per fe nihil funi, fed 2 lingularibus cogitando eliciuntur. Ex quo fit ut fub- ftantia prima dicatur ab Ariftotele princeps , & maxi- me fubftantia , * /liKif* Ktyofkin in* . Et quia fpecies propinquior eft lingularibus , quam gentis , ea dicitur magis fubftantia. Definiri igitur potell fubftan- tia fecunda per ipfa Ariftotelis verba, quod in fubjeflo non eft, fed de fubjeflo dicitur  Quanam funt fubftantia proprietates ? IjL Multae numerantur ab Ariftotele , quarum qui- dem aliqua: communes funt aliis Categoriis, aliqua: vero nullius parne ufus , li credimus aetatis noftrae Dia* lefticis . Quanam eft prima} v Subftantia de omnibus fibi fubjeftis enunciatur rwripm 9 ideft univoce , ut verbo fcholarum utar . Con- venit enim unicuique fecundum unam eamdemque ra- tionem. Proprietas ha:c non cadit nili in fubftantiam fecundam ; nam prima non dicitur de fubjefto . Ita- que homo eodem modo praedicatur de Petro & de Paul- lo: Petrus non dicitur nifi de Petro . Cedo mihi proprietatem fecundam  $. Subftantia prima lignificat t$*t/ , hoc ce , ideft rem certam, lingularem, per fe conflantem , qu* veluti digito oftendi poteft . Substantia secunda significat quale aliquid , ideft unirerfale quid , quod de fifcgularibus enunciatur , atque iis veluti adjicitur* tamquam praedicatum commune . Hinc apparet , qua- re fubftantia prima dicatur ab Ariftotele maxime fub~ ftantia . Secunda enim praedicatur per modum acci- dentis ( 3 ) . v Cedo tertiam . Subftantia per fe , & ratione fuae naturae nihil habet contrarium . Neque enim fubftantia opponitur fubftantiae nifi ratione qualitatum , quibus afficitur . Probari poteft ex definitione contrariorum , quorum ca ratio & natura eft, ut fe expellant a fubje&o: at- qui fubftantia non eft in fubjedo : non habet igitur contrarium . Quare ignis contrarius eft: aquar , non qua ignis, fed qua calidus , ficcus; Ariftoteles diffidet a Democrito * non qua homo , fed qua Philofophus. (4) Ctdo quartam  Subftantia neque intenditur, neque remittitur . Extendi tamen poteft , quod fit per quantitatem . Ita- que unus equus non eft magis equus, quam alius, fed major . Scholae dicunt fufeipere magis , minus . fedo quintam  Subftantiae maxime proprium eft , ut una ea- dem- . ( 3 ) Doftrina haec contra Heraclitum , & Platonem eft , qui ajebant , folas ideas efle , hoc eft uuiverfalia . ( 4 ) Ovidius lib. x. Metamorph. Frigida pugnabant calidis , humentia ficcis , Mollia cum duris . y8 , flemque permanens, fufeipiat contrarias qualitates . Nam eadem manus ex. gr. modo calida eft, modo frigi- da. f s ) Nonne quidam fex faciunt fubftanti* proprietates ? Faciunt enimvero, quia numerant inter fubftan- tiac proprietates e(fe fubjeffum accidentium . Verum harc non proprietas dici debet , fed ratio & natura fubftan- tia*. Nain quidquid in natura eft , vel eft fubjc&um* vel eft in fubjefto: fubftantia eft fubjc&um, accidens fft in fubjedo . Cedo mihi gradus omnes fubftantiee C at egoricee . Habes ex Arbore Porphyriana in Rudimentis Par. j.cap. j. Eam feriem quidam exordiuntur ab en- te , quod dividunt in fubftaneiam , & accidens . Pla- cuit nobis incipere a fubjlantia , quia fola fubftantia eft : accidens autem vocatur modus ejus, & dicitur nonef- fe , fed inejfe . (6) Deus continetur ne in Categoria fubftantia} * I. Divina natura nimis excedit humanae mentis aciem . Attamen de ea quatrentibus non defunt Dia  le&i- ( 5 ) Saepe inculcat Aciftoteles e, *' tutd'  p/fl/w-Sr  , unum idemque numero permanens :qu\z hoc quoque contra Heraclitum, & Platonem eft , qui docebant lingulares fubftantias omnino non efle, ob perpetuas mutationes ex contrariis ortas. ( 6 ) Quod ego Subftantiam dico , Seneca appellat quod eft, v   j epift. j8. illud genus QUOD EST generale , fupra Je nibil habet ; initium rerum eft ; omnia fub illo funt  Efi paullo poft . QUOD EST , in has fpeeies divido , ut fint cor- poralia, aut incorporalia . Nihil tertium eft. Corpus quomo- do dividi  aut inanimantia. \ i PARS 11 . CslPUT II- '59 leftici, qui cxlum terramque mifceant. De his Pru- dentius in Apotheofl Prarfgt. 2. Statum lacejfunt omnipollentis Dei Calumniofis litibus: Fidem minutis dijfecant ambagibus , Ut quifque lingua nequior: Solvunt , ligantque quaftionum vincula Per fyllogifmos plcBilcs . Nobis optime locutusvidetur D.Dionyfius,qui Deum ait e fle Jvif/mr , ideft fupra fubftantiam . Ipfe unus vere ac proprie eft , quia nihil eft , nifi per illum : at- tamen quid fit , explicari non poteft . Nugatur igitur, fi quis ejus naturam & eflentiam aperire definiendo conatur (7). Nos tamen, ne nihil dicamus , audemus eam per efle&a quardam nobis nota defcribere hoc fer- ine paflo: Mens a fe & per fe conflans , ab omni concretione rerum fegregata , infinita vi ac virtute prxdita , omnia regens , & per omnia fine ulla men. fura diffufa (l). CA-  A Proclo 1 . 2. Platon. Theol. c. 11. Deus dicitur omni filentio longe inexplicabilior , tJ fvbjlantia omni longe ig notior. Alludit autem, nifi fallor, ad Oracula Zoroaftri u. 41. ubi mens divina dicitur fil entium . ( X ) Cicero 1 . 1. de nat. Deor. c. 22. Roges me , quid % aut quale fit Deus . Au ciere utar Simonide , de quo cum qu deliberandi caujfa fibl unum diem pofiulavit . Cum idem ex eo pofiridie qucereret , biduum petivit . Cum feepius duplicaret numerum dierum , admiranfque Hiero requireret , cur ita faceret ; quia quanto , ' inquit , diutius confiaero , tanto mihi res videtur obfcurior . Quod Cicero Simonidi tribuit , Tertullianus in A pol. c. 46. tribuit Thaleti, quem facit de re hac interrogatum aCroe- fo Lydorum rege. DE QUANTITATE. QUANTITAS QUOT MODIS SUMITUR ? TTVUobus . Vel enim fignificat extenfionem mo- JL/ lis , vel extenfionem virtutis . Prima perti- net ad res corporeas , fecunda ad incorporeas . Hic non agemus nili de quantitate molis. * Quid eft igitur quantitas hoc modo fumta > \ A Jfc. Eft modus , & menfura fubftantiae ; hoc eft Id, per quod fubftantia eft extenfa , & menfurari poteft Ex quantitate igitur manat rerum dimenfio ac dinu- meratio  Quotuple x eft quantitas ? Jfc. Duplex ; Continua , & Difcreta . Continua dici- tur, cujus partes continuantur, id eft communi nexu copulantur , atque una cohaerent ; ut linea , & ma- gnitudo quarlibet ( i ). Difcreta dicitur, cujus partes disjunguntur : quia nullum habent nexum ipfis inter fe communem , per quem fimul coalefcant j ut nume- rus y & multitudo quaevis* Conti - ( i ) Seneca natur, quaeft. 1. 2 . c. i. Continuam eft partium inter fe non intermijfa conjunttio . Igitur contigua dici potiunt ea inter quae nihil eft ; continua , quorum e'l pars communis: ut in linea hac A BC D partes AC , & BD continuat lunt ; partes BC contigus . V \ . Si Continua eftne unius rationis ? Minime vero  Alia enim efl Permanens , alia Fluetis . Illa dicitur Permanens , cujus partes funt fimul; ut linea , fuper fides , corpus . Litte a fola longitudine con- flat : fuperficies conflat longitudine , & latitudine : cor - pus longitudine, latitudine , & profunditate . Fluens eft , cujus partes in fucceflione quadam pofitae funt ; cc magis fieri , quam efle dicuntur , ut tempus , & motus . ( 2 ) Quid intelligit Ariftoteles nomine communis nexus} Intelligit individuum quid , quod pars rei non efl , fed partes nedit tamquam finis unius , & prin- cipium alterius. Hujufmodi efTe putat punfta in linea, momenta in tempore . Quo-   Ad lineam refertur omne menfurae genus , in quo ni- li 1 fpedatur praeter longitudinem; ut ftadium. superficies complebitur ea menfune genera , perquse longitudo, & la- titudo indicatur ; ut jugerum . Corpori fubjiciuntur illa omnia, in quibus ratio triplex menfuras confideratur , longitudo , la- titudo , crafiitudo ; ut cubus . .  Empiricus lib. 1. adver. Log. n.^9. Fluente punHo , lineam imaginamur , que efl longitudo carens latitudine . Flu- ente linea , fingimus fuperficiem , que eft longitudo , & latitudo fine profunditate . Fluente fuperficie , gignitur corpus folidum . Macrobius in fomn. Scip. 1 . 2. c. 2. Dicunt punRum corpus ejfe individuum , in quo neque longitudo , neque latitudo , neque altitudo deprehendatur ; quippe quod in nullas partes dividi pojfit . Hoc protractum efficit lineam > Digilized by Google PARS IL CAPUT ZIL (% Quomodo corpus cenfetur inter fptcles quantitati : ? SfL. Corpus in fchola Peripatetica vel Phjficum eft * ideft compofitum quoddam ex materia , & forma , 8 c pertinet ad fubftantiam : vel Mathematicum , ideft ter- gemina rei extenfio > qua res corporeas metimur i & pertinet ad quantitatem . ( 4 ) Nonne etiam locus [pedes quantitatis eft ? 51. Ariftoteles etiam locum recenlet inter fpecies quantitatis continuae , fecutus opinionem illorum , qui putant locum efte fpatium quoddam inane * quod a corpore occupetur . Ceterum revera locus in fchola Peripatetica ad fuperficiem revocatur . ( y J Nonne quidam excludunt tempus ? 3 t. Excludunt fane , fed injuria .. Nam tempus eft modus quidam rei durantis ab ea dtftin&us, ac veluti externa ( 4 ) Corpus Mathematicum folet etiam interdum appel- lari f olidum , vel corpus fclidum , Macrobius in Somn.Scip.l.z* c. *. Omne corpus [olidum trina dimenfione difienditur : ha- bet enim longitudinem, latitudinem , profunditatem . In hac ter- gsraina dimenfione naturam & eflentiam corporis Phyfici ponit Cartefius Princip. Philof. P. 1 . .  Lucretius lib. 1. iterum ac faepius milcet locum , fpatium y inane tamquam voces fynonymas . In libello  qui tribuitur Archytae Tarent. J   ^ -rit&f r jinx*ty linea autem , fpatium , & locus , con- tinui funt . . $$ externa ejus menfura . Defcribitur a Cicerone lib. j. de Invene. cap. 26* Tempus eft pnis quadam . aternita- tis cum alicujus annui > menftrui , diurni , notturhlve [patii . certa fignificatione . Sed de natura temporis Phyfici cer- tent; Logico fatis eft, efle notiones aliquas, per quas refponderi poffit interroganti per quando* ( 6 ) .1 *  \ Quomodo oratio refertur ab Ariflotele ad quantitatem dif cretam?  oratio ad qualitatem referenda eft. ( 7 )  * . . .  reprehendi folet ab junioribus Dialefticis/ qui non reputant , conjugata ita fe habere, ut concretum valeat ad definiendum abltra&um , quia notius eft. Itaque Ariftoteles in lib.2.Pofter. c. 13. docet ex viris magnanimis cogqofcendam effe naturam & rationem magna ni mi tatis ad definiendum  * * &c. ( 1 ) inanem rejiciunt f E ditur ; Digitized by Google 66 PARS II. CAPUT IV. ditur ; cum difputanti commoda fit atque opportuna ad tolerabilem aliquam eorum effe&orum explica- tionem, quae clare diftin&eque manifeftare nequimus. Logico certe neceflaria eft, qui refpondere debet in- terroganti per quale . Quot funt qualitatis fpecies?' ! Quatuor veluti paria recenfet Ariftoteles* Pri- mum eft habitus , & difpofitlo. Secundum naturalispo- ttntia , & impotentia . Tertium paffio , & patibilis qua- litas . Quartum forma , & figura . Explica mihi primam qualitatis fpeciem . Habitus eft firma quasdam facilitas agendi aliquid, longo ufu comparata ; cujufmodi eft ars quaelibet . Dif- pofitio eft progreftio ad habitum , ideft expedita quas- dam animi , aut corporis ad aliquid faciendum com- moditas & proclivitas. Differunt , non natura , fed gradu ; quemadmodum paria duo , quae fequuntur. Igitur habitus eft qualitas firma & permanens ; difpofi- tio mobilis & infirma . Haec afliduo ufu & exercita- tione in illum migrat .  Ex- ( z ) Ab Ariftotele dicuntur , )| Ivrttuix , koiotus , rylu . quibus fideliter refpondent quatuor ufitatx formula a nobis allar . Ab eo, qui Latine loqui velit , primum par. dici poceft habitus, perferus 6 imperfeBus , ut ars quaelibet abfoluta , vel inchoata; fecundum naturalis vis ,   Ii . re, collocatione, proportione, & colore orta; ut for- ma hominis.^ Itaque figura (ut Boethius monet ) fe- re ad res artefa&as pertinet, fonpa ad naturales.. ( 6) - * '   i  Nonne etiam rarum , & denfum , afperum , & leeve funt f pe cies qualitatis }   * * . . 4 * I. Movet difficultatem hanc Ariftoteles / fibique ipfe refpondet , rarum y & denfum , afperum , & latve pertinere ad Categoriam fitus , cum variam partium politionem fignificent . ( 7 ) Jgu quas in nobis excitant afperum , & laeve , ad qualitatem referuntur; non fecus atque illae, quas excitant ignis ,  finitionis , Sc qualitatis  ' N . . E 3 C A- . '   * , ( 8 ) Haec ex Ariftotele . Illud vero etiam inter proprietates qualitatis numerari poife videtur , quod res per qualitates inter fe agunt. . Neque enim fubfcantia ipfa cer ie agendi , aut patiendi vim habet ,* fed eatenws agit , aut patitur , quatenus eft qualitatibus praedita . I t. DE RELATIONE. &UID EST RELATIO ? Elatio eft ordo & affe&io quaedam rei ad rem Itaque relata dicuntur a Graecis T * 'V* ' ** > qu & explicari abfque ulla com- paratione poffunt . Hoc modo pes , & manus relata dicuntur quia alterum cum altero interdum confer- tur , quamvis etiam fine collatione cognofci poffit . Relatio rei eft, quas fecundum ejfe in fcholis vocatur; ideft quse datur in rerum natura citra cogitationem ( i ) Scholaftici relativa dicunt : Cicero , & Quinti- lianus modo coli at a , modo comparata , mo&d affella , modo  ut ab altis /eparetur , alio modo eam definire debemus , 7te femper parum conficter antibus error oriatur .Tunc ergo, c it vere , it proprie ad aliquid dicitur , cum Jub uno ortu , atque cccaju , it id, quod jungitur t it id, cui jungitur , inverrur ; ut puta fervus , it dominus  utrumque fimul efl> vel fimul non eft . , . ( ) Seneca 1 . 5. de Benef. c. io.^.aod comparatur , fi- ne altero non intelligitur . Digitized by G & paflio habent contrarium. Secunda, utraque intendi poteft , ac remitti . Nam calefacere, & frigefacere , itemque calefieri , & frigefieri fibi inter fe opponuntur  Jam vero poteft aliquid magis * & minus calefacere ; magis, & minuS calefieri . .Utra- que proprietas, oritur ex qualitate , * per quam fub- ftantia quaelibet agit, & patitur. CA- . *   * r ( i ) Multas praeterea efle poflunt a&ionis divifiones . nam alias funt corporis , alias animi ; .alias liberas > ali* neceflarias , Scc.Sed ad noftram hanc difciplinam non pertinent ; quamvis eas Dialeftici multi augendi voluminis ftudio complexi fint .  v  DE UBI, QUANDO, SITU, HABITU. JOUID DE QfJATUOR HIS CATEGORIIS DOCET AR 1ST0T ELES? TJAullo plus, quam di&um eft a nobis in Ru- JL dimentis Logic. Par. i.cap. 3. Illud in primis animadvertendum eft, vocibus iftisnon fignificari res ipfas , fed ordinem quemdam , modum , & affe&io- nem ad res . Nam ubi eft affeclio rei , prout eft in loco; quando, prout eft in tempore; fitus , prout col- locatur; habitus , prout veftitur & ornatur. Sunt ne in loco res omnes eodem modo} t . . *   . $. Ajunt Seholaftici fua quadam lingua, corpora efle in loco circumfcriptive , fpiritus definitive , Deum repletive . Efle in loco circumfcriptive , ut ipfi expli- cant , eft ita locum occupare , ut totum toti , & pars parti refpondeat ; quo modo eft in hac fchola qui- libet noftrum . Efle definitive , eft ita in loco efle , & ab eo definiri , ut tamen totum fit in toto loco , & totum in qualibet parte. Efle repletive , eft loca omnia pervadere ac replere , ea ratione , qua Deum defcripfimus in fine eap. 2. PAR.  | PARTIS SECUNDA HYPOTHEORIjE. VULGO, POSTPR-/EDICAMENTA.  '  QV/D S V NT P OSTP R/E DICA ME NT Ai > % '  , ' * * * * i I. TTa appellantur in fcholis hypotheoria? quardam, * X .quas c Ariftotelcs fubjicit Praedicamentis. , **t/ ) funt ea , quae fub eodem genere pofita, maxime inter fe diffident. Contrariorum porro alia medio carent , x tit par , &i/w- par in numero; eaque ita fe habent, ut alterutrum femper fubje&o infit : alia medium habent, eaque t funt ejufmodi , ut utrumque abefle poffit a fubje-  ra inus  7 S ,P ,0  Si T -i , ^ ' res omnes e fle albas , aut nigras , cum multae, .medio quodam colore tingantur . Porro medium aliud dicitur per participationem utriufque extremi, ut color fufcus\ aliud per negationem utriufque, ut virtus , quae medium vitiorum eft , fed utrimque te - duflum, ut ait Horatius lib. i.epift. 18. (}) , guot funt conditiones Contrariorum? Quinque conditiones Contrariis tribuit Arifto- teles . Et prima quidem duabus partibus conftat , quae funt hujufmodi : Bono contrarium eft malum dum- taxat \ malo contrarium eft tum bonum tum malum . Nam virtuti opponitur vitium ; vitio autem opponi- tur non foium virtus, fed vitium ipfum. Exemplum fit avaritia , cui adverfatur Sc liber alitas , & prodigen- tia . (4) Secunda conditio eft; Uno contrario pofito , non ( 3 ) Cicero ibid.Contrqriorum genera funt plura. Unum eorum t qu Sc ejus privatio in fubje&o utriufque capaci , ut vifus , Sc ta- citas . Si fubje&um alterius capax non fit , dicitur ne- gatio    * . 0 , ( 5 ) Id fieri non pofle contendit Gellius Noh Attic. 1  neteffe eft tumul- tum , f belli non fit > pacis efie . * * c So  P o 5 T i gatio , non privatio ; ut excitas in animali dicitur privatio vifus, in lapide negatio. (7)  ut fapit t . non fapit . Et quia hic agitur de contradi&ione^ fimpUcis vocis, non enunciationis , oppofitio contradicens dici poteft eadem vox ajens , negans. (9) f   *    # y Prioris quot funt ? , : * Quinque modis aliquid  dicitur prius . Primo aliquid eft prius tempore , hoc eft vetuftius ; ut So- crates eft prior Ariftotele. Secunda aliquid eft prius natura ; ut quod ratiocinando infertur ex alio eft prius illo  Ita genus eft prius, fpecie , quia polita fpecie infertur genus, non contra  Nam fi- dicas ,  '  eft * , 'i ( 7 ) Vim iftiufmodi negationis deferibit Cicero TufcuU i.cap. 36 . Cum non habeas > quod tibi nec ufu> nec natura fit aptum y non c areas , etiam fi fentias , te non habere . Idem de privantibus Topic. c. 1 1 . Sunt alia contraria > qu hoc modo f aper e , 6* non / aper e  .In Topicis dicuntur negan - tia . Sic enim feribit cap. 1 1 . Sunt etiam illa valde con- traria , quot appellantur negantia . Ea xxovxti* Gr contraria ajentibus : ut , fi hoc eft , illud non eft . i 9 J Oportet, ut non modo eadem iit vox , fed etiam em vocis fignihcatio, non ambigua . In quo luiit Mar- tialis L 8 . epigr. 20. ... Cum facias verfus nulla non luce ducentos , Vare y nihil recitas. Non fapis , atque /apis . Digitized by Google I PRsEDlC AMENT A. Si eft platanus, retfe infers , ergo arbor : fi dicas, e Jl ar- bor , non potes inferie , ergo platanus . Tertio aliquid eft prius ordine, ut in oratione exordium eft prius nar- ratione. Quarto aliquid eft prius dignitate , ut rex po- pulo , dux milite . Quinto aliquid eft prius cauffa , ideft quod efficit, ut alterum ftt . Hoc modo veritas rei eft prior veritate orationis; quia hxc oritur ab il- la. Difticho memoria; caufta rem totam comprehendo: i ' *  e  \ Dicitur effc prius natura , tempore , honore , Ordine cum caufta dicitur ejfe prius . -   * *  : . t Quinam funt modi , quibus dicitur Simul ? 1. Tribus modis aliqua dicuntur efte fimul. Primo tempore ea funt fimul , quorum ortus eodem tempore eft , cujufmodi funt gemelli . Secundo natura ea funt fimul, quorum unum necefle eft efte, fi alterum fit, fed neutrum eft caufta alterius ; ut duplum , & dimi- dium . Nam ft duplum eft , dimidium quoque eft , & contra* Tertio divifione ea funt fimul , quae ejufdem generis partes funt; ut hotno , Sc bellua , qua; animal dividunt io duas fpecies . ( i o ) Cur tradit Ariftoteles dottrinam hanc de modis t .Prioris,  (9 ) Quae a nobis immutatio dicitur , vulgo in ScholisPe- ripateticis vocari folet alter atio , a graeca voce A 'htoiuns . Porro nutritionem non memorat Arilloteles , quia refertur ad generationem , & eodem modo fufctfantiam mutat ; ideoque ea- dem ratione refpondetiir interroganti de illa .  Digitized by Google VX^EDICRMENTA. ut fcientia. Secundo quantitas ut magnitudo bipeda-- Jjh . Tertio ea , quot circa corpus funt , ut gladius . Quarto ea, quee in parte corporis funt , ut annulus in digito* Quinto pars haberi dicitur , ut pes . Sexto id, quod in alio continetur , haberi dicitur ab illo, ut vinum a dolio. Septimo res poffeffa , ut domus. Otfta- vo uxor haberi dicitur , qui modus eft maxime im- proprius .(io) . . .  Cur reetnfentur fignificationes hujus verbi? 1 I. Ut liberetur ab ambiguitate Categoria Habitus , & cognofcatur germana ejus ratio: tum etiam ut lux accedat 'reliquis Categoriis , quarum eft habere , & haberi .  F i PAR - ( io ) Huc pertinet illud , quod eft apud Laftantium lib. c* 1 5. Ariftippo Cyrenaicorum magiftro , cum Laide nobili fcorro fuit confuetudo : quod flagitium gravis ille philej ephi de doftor fic defendebat > ut diceret , multum inter fe , r ceteros Laidis a- matores interejfe , quod ipfe haberet Laidem , alii vero a Laide haberentur : (11) Si proprie loquamur , foli fubftantiae convenit habere , reliquia haberi .  * .  * c  l i .   1 H PARTIS SECUNDA MANTISSA DE PLATONICORUM , ET STOICORUM CATEGORIIS . Quartam funt Platonicorum Categoria l > * w i Q Eptem funt , quae multis aetatis noftrae Dia- l3 le&icis fupra Ariftotclicas placucrlint ; fpiritus , corpus , quantitas , figura , motus , , fitus  Atque duae quidem primas ad fubftantiam referuntur , reli- quae ad fubft antiae modos feu affectiones  ( t ) Corpus SUBSTANTIA Spiritus 'Vit* caper* Vita pttdimm t tmium &c. Non dentiens iit pldnta* /\   Petfeflus ImPtrftdus it Dttu . - - Sentiens Atitlus Mens hunutu ut nnxnuU 1 j\ Irrationale ut Mina. Rationale ut hema Ex* ( i ) Alcinous in Inflitut.ad doflrin. Platon, c. 5. fcribit , Platonem in Parmenide & in aliisDialogis decem Categorias ? quas haftenus ex Ariftotelis dodlrina explicuimus , quanadum- brafTe . Plotinus in libro de generibus entis quinque confutuit ex Platonis lententia Categorias , ejfsntiam > fubftantiam , mo- tum c ftatum > quietem  Digitized by Google P ARTIS SECUNDAE. pf Explica mihi fingulas , earumque gradus . Subftantia apud Platonicos vel eft cogitans , & dicitur mens , feu fpbritus ; vclextenfa, & dicitur ma- teria y feu corpus. Spiritus rei eft fumme perferus , & dicitur Deus; vel imperfe&us, ifque duplex ; vel corpori adjunftus , ut mens humana , vel a corpore li- ber , ut Angelus . Corpus vel eft vitae expers , ut coelum > & elementa; vel vita praeditum > non tamen fenfu, ut planta i vel vita > & fenfu , ut bellua ; vel vita  fen- fu , & ratione , ut homo . Quinam funt [ubflanti Stoicorum Categorias, atque adeo tota illorum differendi ars olim dominata in fcholis ?ff. Quo tem- pore Peripateticos ipfos , a quibus optima qu*que Stoi- ci fumferant , conticefcere coegerunt ; nomenque com r mune ita (ibi fecere proprium, urffoli per quamdam excellentiam Dialectici vocarentur . Itaque & Cicero hac in parte fere totiis Stoicus eft f  & ipfi quoque nobiliffimi Academici Arcefilas A Carneades a Stoi- cis, tametli adverfariis fuis , Dialefticam didicerunt. Nunc Stoicus dillerendi modus penitus intercidit. (4) .  :    ' . -ii' -t F 4 PARS- . 1 * ( 4 ) Cicero audivit a puero Diodorum , 8c poftea familiarem habuit Poflidonium , utrumque Stoicum . Arcefilas auditor fuit Diodori , Carneades Diogenis Stoici . Non eft autem mirum , Stoicos tantopere excoluiffe Diale&icam , quia ( ut feribtf A- lexander Aphrodif. ad lib. t . Topic. ) proprium thilofofhi exifii * mabant bene differ ere , idque perfeci iffnue effc pbilofophi a j arta- bant : i deoque ex illorum Jentent i a philffophus non craty ni fi Dialeiticus  ' . L \ v , , . / * *. / . , t  * f 4 +' * + *  M * * . .  V' J>E ANALTTICIS POSTERIORIBVS . - - \ * '   * ' '  ; -  ' '  , E Go in hac Organi Ariftotelici parte aliquantum Se mihi Se fseculo indulfi . Itaque textus , ut ap- pellant , fuis notis fignavi , nequis Ariftotelis ftudio- fus inter aliena Ariftotelem quaerat. Tum ipfam quo- que Ariftotelis do&rinam alia quadam via & ratione diftribui , quae mihi ad docendum Sc difeendum com- modior vifa eft . Ceterum moneo , in Pofterioribus Analyticis principia contineri totius Peripateticae Phi- lofophix. Harc, nifi fallor j adverfus Academicos ea tempeftate late dominantes feripta eft ; quorum alii plane Socratici nihil fciri pofte dicebant , alii ***- t* >>>* una quae dicitur confequentia , altera confequentis . Confequentia porro eft notionum atque enunciationum inter fe colligatio ad perfe&um fyllo- gifmum componendum. Confequtns funt notiones ipfse & enunciationes perfe&um fyllogifmum componentes. Illa refpicit formam, hoc materiam. Refolvimus igi- tur fyllogifmum per analyfim confequenti  elementa pervenia- mus . Digitized by Google tfo PARS III. CAPUT I. ftm consequentis , cum , ejus materia eocfem. modo ex- cufla , firmum e fle oftendimus ; propterea quod notio- nibus atque enunciationibus confiet veris ac necefla- riis, ex quibus tamquam cauflis oriatur conclufio, & ex conclufione fcientia . Hi ncAnalytici AriftoteJis libri Priores ac Pofteriores . In Prioribus agitur de analyfi con- fequentia , in Pofterioribus autem de analyji confequen- tis: quia confequentia cft prior & latius fufa, quam con- fequensy cum illa ad omnem fyllogifmum pertineat , hoc dumtaxat ad demonftrativum & neceflarium . Priorum dodtrinam in tertia Rudimentorum parte con- clufimus ; nunc de Plerioribus . (2 J Quanam ejl Pofieriorum Analyticorum materia ? Nobilifiima fyllogifini fpecies , ideft Demon- ftratio . Et in primo quidem libro de natura & ra- tione Demonftrationis agitur j inaltero de Definitio- ne, quatenus Demonftrationis medium & inftrumen- tum eft . ( 3 ) , . . . ( z ) Priorum & Pojferiorum titulus increbuit aetate Galeni . Ceterum Arilloteles cum Priorum meminit , libros dejyllogifmo dicit; cum Pofteriores nominat , libros de Demon firatione vo- cat . ( 3 ) Demonftrationis nomen plerumque refertur ad mate- riam , nomen fyllogifmi plerumque ad formam . Ex utroque fit Jyllogifmus Demonjtrativus . Porro demonftrarc eft rem veluti digito oftendere ; quia enunciata,ex quibus demon f trano confiat, ita debent efle perlpicua , ut nulla probatione nulloque teftimo- nio indigeant . A Grxcis dicitur , a Cicerone argu- menti conclufio in Acad, 4. c. 8. Argumenti conclufio , qua eft Grace ita definitur : ratio i qua ex rebus perceptis ad id , quod non percipiebatur , adducit . . &t ' i ' { s  panem quoq. ipfam aliquo modo teneri ? ARS III. CARUT II. $1 Quid & quot up! ex efi Vrxnotio f  1 !. Prxnotio eft anticipata cognitio  Dux autem funt praenotiones , an fit, & quid fit. Utraque bifariam dividitur . Nam quid fit modo nomen rei fignificat , modo rei eftentiam . Hinc formulas apud Scholafticos quid nominis , ic quid rei . Ita an fit modo refertur ad rei exiftentiam , modo ad veritatem. Nam fi res fit una & fimplex, de ea praenofcitur, an fit in rerum na-* tura ; ut an fit eclipfis . Sin autem fit complexa , cu- jufmodi eft enunciatum quodlibet ,, de ea praenofcitur, m fit vera  Cedo mihi rationem aliquam hujus divi/tonis  fy. Cum omnis praenotio referatur ad quxftionem , tot poliunt praenofci , quot pofliint quaeri . ( 3 ) At de re qualibet vel quaeri poteft exiftentia ? ideft an fit ; vel eflentia , i itii quid fit \ vel affectio f ideft qualis fit, & cur talis fit. Si quaeratur exiftentia, praenofci debet nomen ; quia ante exiftentiam nihil eft nifi nomen  Si quaeratur edentia, praenofci debet an fit, ideft exi- . .  '*  .. : ften-  *  ( 3 ) Ad quaeftionem folvendam in ea ipfa inveniendum eft a- liquid > quod nobis fit notum ; ut ex eo perfpicuum faciamus , quod nobis eft ignotum  Si refoluta quaeftione in elementa fua r nihil eft ex illis , quod praenofcamUs > caremus inftrumento ad aperiendum quod quaeritur : velut fi caecus quacftionem de colo* ribus refolyat dc examinet . , .. flentia . Si quaeratur affe&io , prarnofci debet quid fit ideft eflentu* ( 4 ) . Quartam funt Pr Recognita) Quemadmodum praenotiones^ unt modi praenofcen- di , ita pr a cognita funt res , quae praenofcuntur  ( 1 1 1 ) Tria autem in qualibet ratiocinatione funt prscognita: Subjcflum conclufionis ; Praedicatum ejus ; & Principia , ex quibus aliquid concludendo efficitur ; quae uno no- mine dicuntur antecedens . De principiis prarnofcete o- portet , an fint vera , quia funt enunciata . ( y ) De pradicato prsenofcere oportet quid fit . De fubjcBo prae- nofcere oportet, quid fit , & an fit . (6) C A- ttt L. i. t. 76. ( 4 ) H*c ex fententia Themiftii ; quo uno nemo felicius Analyticam doftrinam ex Interpretibus Grsecis explicuit . Ce- terum de ordine praenotionum, & quaeftionum inter fe alii a- liter . rilud animadvertendum eft , nominis cognitionem, ita fle pratnotionem , ut numquam poflit efle quadtio ; quia nihil illam praecedit , per quod folvatur.- quadiionem cur fit ita efle quseftionem , ut numquam poflit efle prxnotio: quia nihil illam confequitur. -T*"" v ( 5 ) Haec funt praecognita , quae a Cicerone vocantur per- fpicua lib. 4. deFin. c.4. Jam argumenti ratione conclufi ca- put effle faciunt ea , qua per/picua dicunt . In his tamquam fe- . munibus latent cetera , quae cognofcuntur dilputando . .  Ex.gr. fitquaeftio, num materia cogitet . Regitur hoc principio: Q_uod extenjum eft , cogitare nequit. Dehocprat- nofcere oportet , an fit verum . Subjedum eft materia , de qua praenofci debet , an fit , & quid fit . Praedicatum eft cogitatio , de qua fatis eft praenofcere quid fit . Nam an fit in mate- ria, debet apparere per iplam demonftrationem . Porro cusi praedicatum fit femper affeftio aliqua , ut poftea apparebit , idem eft de ea quaerere an fit , ut nos dicimus j atque an infit , ut quidam dicere malunt . DE PLATONIS, EPICURI, & STOICORUM PR/ENOTIONIBUS. PLATO ADMITTIT NE PRAENOTIONES ? : ' / /^Um Platonis fcientia nihil fit aliud, quam reminifcentia , ut poftea dicemus , non indi- get praenotionibus , fed notionibus . Admittit igitur Plato in hominum animis notiones rerum omnium , quas vocat ; eafque in illis confignatas fuifle putat , antequam in corpora migrarent . Ex quo ap- paret difcrimen (ciendae Platonicae , & Ariftoteleas . Nam mens, ut Platoni videtur, non cognofcit ra- tiocinando ignotum per notum , nec efficit unum ex alio; fed quafi admonita per ha;C fenfibilia , fefe colli- git; & agnofcit reminifcendo , quae in corpus attule- rat . Qua nam funt Epicuri pranotiones ? 1. Epicurus totam Diale&icam fuam paucis regu- lis . lis complexus eft , quos Canonas dixit . ( r ) Ex his quofdam refert ad fimpticem perceptionem , quofdam ad ratiocinationem . Qui ad ratiocinationem pertinent , praenotiones complertuntur ; quia nemo poteft nifi ex praecognitis ratiocinari. Praenotio igitur , Graece  , - ex doftrina Epicuri eft fpecies quxdam animo comprehenfa , & quafi monumentum ejus rei , qua: fenfibus noftris aliquando objefta eft, aut ope fenfuum a nobis formata; ut ex illa rem quamlibet individuam generis ejufdem cognofcere, nominare, diftinguere , judicare poflimus .  Cedo Neque enim contemfit Epicurus Dialefticam omnem, fed Stoicam dumtaxat, tamquam Sophillicam & coptiofam. Sex.Em- piricns 1 . 1. adverf.Logicm.i4.$*jV , /ut *o/w5 ivrst mV hiynuir tKfiTt&iu, Si' t' t ai 2 tuttiur .Attamen Diogenes Laert. in Vita Epie, feribit , Dialefticam artem ab epicureis tamquam fupervacaneam fuifle rejettam . Coah' tamen ea uti ad refte dilputandum , ne leves viderentur , nomen mutarunt , & Phy- fic* partem fecerunt . Seneca epill. 8g. Deinde cum rebus ipfis cogerentur ambigua fecernere , falja fub fpecie latentia veri co- arguere , ipfi quoque locum , quem de. judicio , & nomine apel- iant , Rationalem induxerunt : fed eam accejjionem ejfe na- turalis partis exiftimant . (2 ) Notitia dicitur a Cicerone in Acad.4. c. 7. Quo e genere nobis notitia: rerum imprimuntur , fine quibus nec in- telligi quicquam , nec quari aut difputari poteft. Quod fi ef- fent falf a notitia: (1 /** enim notitias appellare tu vide- bare ) fi igitur e/fent ha falf a : , aut ejufmodi vifis imprejfa , qualia vifa a falfis difeerni non poffent , quo tandem his mo- do uteremur ? Admifit etiam Epicurus Deorum , quae eflet a natura, non ab exercitatione fenfuum, fi Vei- lejo credimus apud Ciceronem 1 . 1. de nat. Deor. c. 16. Solus vidit primum ejfe Deos , quod in omnium animis eorum notionem imprejfijfet ipfa natura . Qua eft enim gens , aut quod genus ho- minum , quod non habeat fine doElrir.a anticipationem quam- dam Deorum? quam appellat Epicurus , ideft anttee- / tam animo rei quamdam informationem , fine qua nec inrelligi fuidquam , nee quari , nec difputari poteft . 7 i * t *  _  j Cedo mihi quomodo gignatur in nobis ;  , .. , forma. ^ **'* * ,  # *  feu honorariam ftntcntiam : qua de re vide Muretum var. ledi. 1 . 6. c. 2. Stoici quamlibet enunciationem axioma voca- bant , ut ed apud Gellium lib. 16. c. 8. apud Ciceronem de Fato c. 10. & in Acad. 4. c. 29. Id faciebant , opinor, quia omnis Dialedtica enunciatio judicium continet . / DE MODO COGNOSCENDI PRINCIPIA. QUOMODO PRINCIPIA COGNOSCUNTUR ? TJRincipia neque innata dici debent , ut putant JL Platonici: (f) nam fi innata eflent , infantes quoque ea tenerent ( i ) . Neque ratiocinando acqui- fita: nam cognitio, qua: hoc modo comparatur, ex anticipata notitia fit ; nihil autem eft ante principia notum . Inductione igitur quadam & experientia re- rum lingularum formatur intelligentia principiorum. Nam fenfus lingularia percipit, & memorise commit- tit ; deinde r^tio ea componit & comparat ; unde ori- tur univerfale iliud , quod axioma & commune cogno- fcendi principium dicitur. (2) Quomodo a fenfu , qui belluis communis eji , talia ducis ? $. Tres funt animalium gradus, (tt) Primus ell G 5. eo- t L. 2. t, ion 10;. tf L. x. 1. 103. 104. ( 1 ) Totum hoc Joannes Lokius furafit ab Ariftotele , & ingenio fe amplificavit in l.z.de humana intelligentia c. 1.  Principia fyllogifmij quia funt univerfalia , cogno- fcuntur indu&iooe ; priucipia inductionis , quia funt lingu- laria , cognofcuntur fenfu. Hinc Arilloteles lib. 6. Ethic.c.3 feribit , univtrfale r(J'e ex indufiione , fyllogifmutn ex uxittr- fali t Digitized by Google I t os PARS III. CAVUTU. -eorum, qua; fenfum habent, non memoriam ; ideft quae praefentia fentiunt , fed praterita non tenerit; cujufmodi funt infcfta. Secundus eft eorum, qua non prafentia modo fentiunt , fed & praeterita recordan- tur, ut bruta reliqua * Tertius eft eorum, qua: praeter fenfum rerum prarfentium, & memoriam praeterita- rum , habent nobiliorem quamdam facultatem , ideft rationem, qua; res perceptas comparans & expendens, ind e principia univerfalia deducit. Nonne faltem notiones quadam funt innata ? Plato, 5 c qui Platonis philofophiam hac tetate inftaurarunt, ideas quafdam mentibus noftris configna- tas exiftimant, quae fint veluti rudimenta omnis co- gnitionis aefeientiae. Nos ratum habemus Ariftoteli- cum illud , Nihil eft in intelle&u , quin prius fuerit in fenfu: ac proinde notiones omnes , cujufcumque fint generis, per fenfum & experientiam acquiri dicimus. Cum enim natura dederit nobis facultates ac vires ad quamlibet notionem comparandam ; argre admodum intelligi poteft , quomodo notiones ipfas in animis noftris infculpferit : quafi vero , datis oculis ad co- lores videndos, aliquas infuper colorum formas indi- derit. Ex hoc ipfo colligimus , cognitionis principia & axiomata non efte in nobis a natura informafa . Nam ubi non funt notiones , ne ipfa quidem poliunt efte principia , quae ex iis conftant ; quemadmodum -gaon poteft efte exercitus, ubi non funt milites. JguiJ Digitized by Google Pars hi. c aput V. toj *  * . . jQuid cum SaCri Scriptores invata quadam effe dicunt > 9 Reverentia Sacris Scriptoribus debita pofclt * tiC quoties innata quaedam dicunt ad cognofcendum vel agendum, ex aequo & bono illorum verba interpre- temur 4 Interdum enim rationis & ingenii lumen , quod revera innatum cft , capiunt pro notionibus & veritatibus illis, quae maxime huic lumini confenta- neae funt. Hinc fit , ut non aliquas modo nojoncst, fed etiam axiomata interdum vppent innata quod naturae in primis conformia fi nt > quod omnibus npta Sc perfpicua , quod ipfo pame cum lacie a teneris tui* guiculis arrepta, & memorias cortfignata * ( 3 ) \ Cur Platonici ideas innatas admittunt .a Cur Plato & veteres illi a Platone , ideas in- natas admitterent, facile intelligitur ; quia cum fibi perfuaderent , animas hominum ante corpora conditas fili fle , & in mundo quodam intelligibili collocatas, oportebat eas intelligendo Sc contemplando viguifle- At non apparet , cur noftri , qui fatentur quamlibet animam in fuo corpore condi , optiones quafdam illi affigant * divinitus confignatas \ quibus nullus homo G 4 uta* ( 3 ) Sacrorum Scriptorum verba de Dei notione nobis innata, referri etiam pofTunt ad naturale quoddara & inge- nitum caudarum cognoicendarum defiderium ; ex quo fit, ue mundum-afpicerenon poflimus , quin de ejuscaufa cogitemus De hoc defiderio multa multis locis D.Thomas, . utatur , nifi cum ad eam aetatem pervenit , in qua eas ipfas notiones fuis viribus fibi comparare poteft.  f 1 ) D.Auguftinus , ut Platonis reminifeentiam icjcnfque nnatas cum religionis veritate conciliaret , ita fcripfit lib.i.Re- ra&.c.8.I libro de Anima quantitati quod dixi , omnes artet 'animam fecum attulijfe mihi videri , nec aliud quidquam effe , id quod dicitur difeere , quam reminifei ac recordari , non ftc accipiendum eft , quafi ex hoc approbetur, animam vel hic in alio corpore , vel alibi , five in corpore , ftve extra corpus , ali- quando vixijfe ; & ea , 00* interrogata refpondet , eum hic non didicerit, in alia vita ante didici ffe . Fieri enim potzfi, ftcut jam in hoc Opere Cupra diximus, utbocideo pojftt , quia natura intelligibilis eft, & connedlitur non folum intelligibi- libus , verum etiam immutabilibus rebus ; eo ordine fatta , ut cum [e ad eas res movet, quibus connexa efl , vel ad fe ipfam , in quantum eas videt , in tantum de his vera refpondeat . DE PRAEJUDICIIS. CUR HIC DE PR/t JUDICIIS AGIS ? I. Uia multi loco principiorum adhibent prarju-  dicia': cc quia conclufiones principiis refpon- dent,pro fcientia germana & firma fallaces opiniones difputando colligunt.   * ' i  a natur a que defciffimut . Digitized Google 'J 07 CAPUT VII. DE DUBITATIONE.  s  * . I I .gt/ID EST DUBITATIO ? I p 1 St cogitatio qusedam fluduans , qua mens in : JLj re aliqua hseret , nec videt , quo fit inclinan- dum ; tamdiuque fe revocat & aflenfum fuftinet , donec inftaurato farpius examine, veritas illucefcat. Philosophus debet ne de rebus omnibus dubitare ? IjK. Quidam de rebus omnibus dubitant, & undique rationes dubitandi quserunt ; ut lucem rebus eripiant , nodemque offundant: unde Aporetiei didi funt a Grae- co Tapsu. Sed horum inflitutum jam obfolevit . A- lii de rebus omnibus fibi dubitandum putant , ut prarjudicia tollant^ profitentes fe initio dubitare , ut tandem aliquando dubitare definant . Atque ifti qui- dem qui hodie multis in fcholis regnant , videntur nobis fimiles Medicis illis, qui ut humores noxios ab humano corpore expellant , animam expellunt . Nos quidem primum dicimus , non efle dubitandum nifi de rebus illis, quas nos per nos ipfos cognofcere vo- lumus. Nam fi quis de re aliqua fibi imperavit cre- dere alteri , is in ea minime debet efle dubius . Pro- inde ftulte facit Chriftianus , qui de fux religionis arcanis dubitat ; cum jam conftituerit in facrarum lit- Digitized by Google ioS III. CAPUT VII. litterarum teftimonio conquiefcere  Deinde dicimus* fiqua funt evidentiffima, de iis dubitari neque debe- re, neque omnino pofle  Quis enim dubitare potefl , num fit , num rivat , num cogitet ? Poftremo dici- mus, utiliflimum efTe, atque adeo neceflarium phi- losophari volenti , illa omnia in dubium revocare , qu nondum perfpicue cognofcit . Philofophi enim cft fcire, non credere. ( i ) CA- ( i ) Ufum & utilitatem dubitationis ad re&e philofophan^ dum explicat Ariftoteles in cap. i. lib. 3. Metapjiyf.^quod infcribitur , AVop/cc* Xi^ Tt ^ * ^ ' Ks ? k Kvspwtct 5 x^utop  Dubitationis ufus , us au&oritatem prin- cipii loco habent. Hujufmodi fuere vetuftiflimis tem- poribus Pythagorei, poftea vero ipli quoque Peripa- tetici, qui quali facramento adacti nihilo plus quae- rebant in qualibet controverfia , quam quid magifter fenfififet . ( i ) Quid igitur fentis de auBorttate ? I. Au&oritas principii loco eft, quoties de rebus agitur ad religionem pertinentibus ; quas quidem non ratione , fed teftimonio nituntur . At cum res in controverfiam veniunt, qua: funt a ratione haurien- da:. ( i ) Plato & Platonici aliam viam inibant. Clemens A- lexandr. !. i. Strom. p. m. 290, 0 ' TXa-r*! , omv j iym TO/a -ni; , pin , tittti >i tZ X - ys/i 7j9-a5t, ot r /u. 3 i rxovtvu 8 /ju >Xt/s-o?0u's/to. Veritatit (ludi oitit Plato , tamquam a Deo conei tatut , ego , inquit , ita comparatur fum , ut nulli credam ni fi rationi , qua miti ctnfidcranti optima videatur.  L dx , nihil eft obtufius, quam folas auftoritates quae- rcrc , & pro hominibus pugnare , era . Si enim fal ia; eflent , non pare- rent fcientiam , fed errorem; fi verifimiles, parerent opinionem , Tum debent eflTe prima  ftris f L. x. t. i y. t t L. i. f. 11. 22. 2 3. (i) PraimiiTa; hujufmodi dicuntur a Griccis irp*r / , zus- o-3/, xvxralhnizs e . Non eft tamen nece (Te , ut utraque fit o- mnino prima, St medio careat . Nam aftumtio interdum non eft hujufmodi , nifi virtute quadam & poteftate , quatenus proxime refolvitur in primam & medio carentem. Videcap. I2.de Exempli: . Ratio porro prarcepti ea eft , quia fi pra> miftas demon ft ratio ne indigerent , iretur in infinitumjquod fieri neque debet, neque poteft , ut docet Ariftoieles lib. i.t. 145. 152. & iib. a, t. 14. Hanc eatndem in rem Clemens Alexandr. Strom. 1 . 8 .  cc/t H yass , xt&piv ix. 3 ws'ps$x  Cujuslibet demonftraiionis demonftrat ionern pe- tentes y ibimus in infinitum  PARS IIL CAPUT IX. ij ? . flris fenfibus propiora funt, ideft fingularia. Omnis au- tem demonftratio, quae fcientiam parit , ex univerfa- libus conflatur. (*)(t) Denique debent efle caujf Ouarto fi praedicatum fit propria fubjech caufla ; cui opponitur caufla minus propria & fortuita , qua: vul- go caufla per accidens dicitur. Ex. gr. Titius jugulatus interiit , & dum interiret , fulguravit. In hac enuncia- tione interitus cum jugulatione proprie & per fi con- jungitur, quia jugulatio propria ejus caufla eft-, cum fulguratione minus proprie & fortuito, quia fulgura- tio nihil ad Titii interitum facit .    ' /e sjis Da mihi tertium gradum pradicationis necejfari*  Tertius gradus dicitur ( i* ) universe primum \ eftque in eo pofitus, ut praedicatum fit univerfale & reciprocum ; ideoque tantum pateat , quantum fubje- r ftum ( t i* i* r jj s .. . ft * i  t  34 t L. i. r. i6. O* 0  /ai Prsdicata, qua neque primo, neque fecundo modo infunt, ideft qus neque effentiam coniUtuunt , nec eam ne- ce fla r io confequuntur, funt communes affeftiones, ut fi di- cam, canis  de qua in Rudimsnt, Logic. P,i.c.ide Enunciat. nat. PARS ITT CAPUT X, 117 um ipfam , eique primo conveniat . ( ; )In hoc igl* tur tertio neceflitatis gradu , qui reliquos complebi- tur, tres requiruntur conditiones : prima /eft, ut prae- dicatum conveniat toti fubjefto , & femper ; fecun- da ut infit per fc; tertia ut infit illi, quatenus ipfum eft , primo , proxime , nullaque re media . Kx. gr. cum dico, homo eft rationis particeps y enunciatio eftuniver- fe prima; quia ratio convenit omnibus hominibus , femper, perfe, proxime, Sc quatenus homines funt  At cum dico , homo fentit , enunciatio non eft hu- jufmodi ; quia fentire convenit quidem omnibus ho- minibus, & convenit femper, & convenit per fe > non tamen quatenus homines funt , fed quatenus a- nimalia. Neque enim homo eft primum , & proxi- mum fubjedtum, cui conveniat praedicatum fentiens y fei primum hoc fubjeftum eft animal. ( 6 ) Confer in pauca dotrlna?ft hanc . I. Summa fummarum haec eft. Praedicatum enun- ciationis apodifticas dici debet de toto fubjedo fuo , H 3 & quo- ( 5 ) Hujufmodi praedicatum z quibufdara folet appellari Catholicum , a graeca voce xx^Aa. Magis proprie & Lati- ne dicitur rfiiprocum . Quamquam & vox Catholicum ferri poteft, qua ufus eft Plinius in lib. i. nat. hifu ad Elenchum lib. i. n. 15. & 53. Apulejus in Trifmeg. p, 100. & Tertullia- nus inultis in locis. Sunt qui dicant, per vocem urtiverfc , figni- ficari praedicatum , quatentis refertur ad fubjeftum $ per vo- cem TJfuTov , primum , fignificari fubje&um , quatenus com- pleftitnr prsdicatum. Prasdicatum enim debet inefle fubje&o ut univerfale quid $ fubjeftum debet excipere praedicatum pri mo > per fe } quatenus tale eft , fine ope aliena. n8 P ARS lll CAPUT X. & quovis tempore dici; deinde dici debet proprie per fe; poftremo dici debet tamquam aequale ipfi reciprocum  Id fi fiat , enunciatio erit neceflaria , ad fcientiam parandam idonea . ( 7 ) CA~  *  (7 ) Differt primus neceffitatis gradus a tertio ; quia per primum quidem totum fubjelum efl intra ambitum praedi- cati 5 per tertium autem totum praedicatum efl intra ambi- tum fubjelti. Exemplum primi fit . Omnir planta eft putre - di ni obnoxia : exemplum tertii > Omne forput mixtum eft pu~ tredini obnoxium .   \ . ? 1 DE RELIQUIS DEMONSTRATIONIS CONDITIONIBUS. CEDO MIHI RELIjQUAS CONDITIONES ET NOTAS DEMONSTRATIONIS. - / . . *  I. T} X iis , quae difla funt , colligit Ariftoteles X _ j demonftrationem conflare primum ex propriis deinde ex uni verfalibus & aeternis* Quomodo debet conflare ex propriis ? I?. Cum dicit Ariftoteles demonftrationem conflaro ex propriis , excludit tum aliena , tum communia: a- liena quidem , quia non licet fine fallacia tranfire de genere in genus (f)i communia , quia probationes ex communibus Dialeflicas funt; ideoque opinionem pa* riunt , non fcientiam. (ff) (i) i   H 4 Cur t L. f . t. f6. tt L. u f . *6, (y [tqq.  Axiomata^ quibus utimur in demonftrando > dici fo- lent aliquando enunciata communis non alia ratione , nili quia multa continent. Dicuntur etiam interdum communia , quod in duabus * vel pluribus difciplinis locum habeant  quarum altera alteri fubjicitur. Qualfacumque fint, non va- lent ad fcientiam gignendam > nifi coerceantur ad genus rei  quas demonfiracur  & fiant plane propria * Digitized by Google TARS III CAVUT XI. - Cur demonftratio confiat ex univerfaIibus-& aternh? IJt. Quia debet conflare ex iis , quae pariant fcien- 'tiam , hoc eft cognitionem certam , & firmam rei ne~ ceflariac. Sola autem univerfalia funt hujufmodi ; quia fiunt orttis, & interitus expertia , & fiemper tino mo- do fe habent. Ex.gr. ratio & efflentia hominis artema & immutabilis eft ; humana individua modo funt , mo- do non funt ; modo uno modo fe habent , modo a- lio. (f)  CA- t L. f. t. 61. (a) Etiam Plato ajebat , fiola univerfali* vere ac proprie efle , ideoque fola cognofci pofle . Hac de cauffa ideas fuas excogitavit. Id acceperat ex antiqua Heracliti difciplina , qui negabat fingulariaeflfe . Seneca ep. 58. Quacumq\ videmus ac tangimur > Viato in illis non numerat , qua e /fe proprie putat. F luunt enim , & in ajfltdua di minutione , atque adje- Slione funt . Nemo noflrum idem eft in feneflute , qui fuit juvenis; nemo eft mane , qui fuit pridie . Corpora noflra ra- piuntur fluminum more : quidquid vides , currit cum tempor rt : nihil exiit t qua videmur , manet. F go ipfe y dum Itquo- tnutari i fla , mutatur fum . Hoc eft , quod ait Heraclitus , In idem flumen bis non defcenditnut . Manet idem flum nu nomen , aqua traenflmiffla eft . DE DEMONSTRATIONIS EXEMPLIS. - \ * * t % *  ( D>A MIHI EXEMPLUM PERFECTISSIMA, DEMONSTRATIONIS. I  ' * >  V t T7 Tfi nullum afferri poflet exemplum perfe&if- JLj fimx demonflrationis , non tamen idcirco re- prehendendus Ariftoteles effet . Nam quidquid eft.(in~ quit Cicero in Orat, cap. 2 . ) de quo ratione & via difpu - tetur , id efi ad ultimam fui generis formam fpeciemque redigendum . ( 1) Attamen exemplum poteft effe hu- jufmodi : Quacitmque habent infitam vim contrariorum perpetuo inter fe pugnantium , necejfe efi aliquando diffoU vi\ omnia mixta habent infitam vim contrariorum perpe- tuo inter fe pugnantium : necejfe efi igitur omnia mixta a- Trquando diffohi  Hoc petitum eft ex caufla interna af. feftionis, quas demonftratur . Siquis per cauilam ex- ternam demonftrare aliquid velit , fumat e-clipfim Lu- nas, eamque demonftret per interje&ionem terrx inter ipfam & folem , & habebit plenam abfolutamque de- monftrationem*  * { x ) Sententiam Ciceronis pluribus expreifit QuinlIiamrs in procem. 1 , i*Inftit. & in cap, 10. Injuria igitur Ariflote- lera reprehendunt hac in parte Patritius, Ramus, Nizolius; quafi vero ejufmodi demon Arationem commentus fit , cujus exemplum invenirineque apud ipfum> neque apud alios pof- Digitized by Googls ili PARS III C A PVT XI. Debetur utraque demonfl rationis perfefta enuntiatu ejfe  ( f ) quarum altera vulgo dicitur a . priori , altera a pofteriori . Haec oftendit rem ede per ligna & effecia; illa rationem affert ^ cur fit* Itaque a Scholafticis prima dicitur demonftratio pro - fecunda demonffratio quia ; a Graecis voci- bus hSrtp atque 9  * .   I. Caufta remota nimis infirma eft; (f) & valet quidem in argumentationibus negantibus, at in ajen- tibus minime valet. Siquidem fublata caufta remota , tolli ttt lbid. t . 06 , , ' t T i. t. 09 * Eftctus allata; demonflrationis proximus eft, qui re- ciprocatur cum fua caufta; ideoque demonftratio iftiufmodi facile convertitur in fuperiorem , fi propofitionis prasdicatum ponatur loco fubje&i , fub;elum loco pradicati. Sin autem demonftretur per effe&a remota , hujufmodi demonflratio nullo modo converti in alteram poteft . Ex.gr. Rijur eft ef- fe&us remotus ani malis ; ideoquere&e dico, Ridet , ergo eft animali non refte , eft animal , ergo videt . Colligitur hac dotrina ex cap. 13. lib. i. Pofter. (2) Plerique Dialedtici ajunt, unam tantum efte demon- ftrationem a priori , quse hoc nomine digna fit; quia illi u- ni convenft definitio demonflrationis /Iiperius aliata & ex- plicata; reliquas probationes, cujufcumque fint ordinis, ap- pellari demonflrationes minus proprie per quamdam analo- giam & fi mi! i 7u di nem . 1 TT. i if tollitur effe&us ab ea pendens; pofita, non ponitur 5 ut fi dicam , paries anima caret ; recte colligo > ergo non rejpirat : at fi dicam, paries animam habet , non re&e colligo, ergo refpirat . (3) Quia anima efl cau fa remota refpirandi, ideoque animata funt quaedam, quae non refpirant ; quamvis nihil fit , quod refpiret fine anima. ( 4 ) CA- ( 3 ) Argumenta per caudam remotam fiunt in fecundo fecundae figurae modo, qui dicitur Camefirer , ut colligitur ex cap. 13. lib. 1. Pofler. Quod refpirat , habet animam  pa- rier non habet animam ; ergo non refpirat * Cauda proxima refpirandi efl habere pulmones 5 & per hanc quidem fieri pof- funt argumenta tum ajenria , tum negantia . (4 ) CaufTa remota interdum lubet urbanitatem  Hinc Anacharfis Scytha interrogatus a Graecis , num in Scythia edent tibicines, refpondit per caufTam valde remotam , in Scythia non efle vites. Scilicet eorum intemperantiam urba- ne caftigavit : quia ubi non funt vites , ibi non efl vinum  ubi non efl vinum, ibi non funt ebrii > ubi non funt ebrii , ibi non funt tibicines & faltatores. Ceterum in gravi difpu- tatione ipfe quoque Rhetor Quinflilianus monet libf5.cap* 10. ne caujfa ab ultimo repetantur  \   * } * V *   t  - ^ . * '    * I. T^\ Emonftratio in orbem modo a Logicis dici- jlJ tur Regrejfus, modo Circulus  Ilia utilis eft , hxc inutilis* . V   Quinam eft Regrejfus } Cum ab eflfe&u nobis noto progredimur ad cauf- fam latentem cognofcendam ; (f^) deinde vero ab ea jam cognita regredimur ad effeftum , ejufque ratio- nem per cauflam demonftramus; tum dicitur fieri de- monftratio per regrejjum : ( i ) ex. gr. ex eo quod Lu* na illuftretur a Sole, non tota fimul , fed per gra- dus , colligo eam efte orbicx figuras , quas quidem or- bica figura caufta eft, ut Luna gradatim illuftretur . Inventa igitur hac caufta, per eam demonftro, Lu- nam neceftario illuftrari per gradus, nec aliter fieri pofte . Non eft autem vitiofus hic regreftus , quia non fit per t L. I. t. 23 *  (t) Efferus dicitur notus cognitione ccnfufa; cum autem per caudam demonftratur , fit notus cognitione di fl infla i qui ordo pertinet ad Phyficum procedentem a toto ad par- tes, ab effe&is ad caudas, ut docet Ariftotelesin 1. 1. Pbyf.  per idem demonftrationis genus, nec eamdem parit fcientiam . Prima demonft ratio eft a pofieriori , altera a priori; prima parit fcientiam confufam & imperfe- dam , altera diftin&am & perfe&am  ( 2 J Quinam efi Circulus ? I. Argumentatio , quae proprie in orbem recurrit , circulus dicitur ab, Ariftotele, (f) & damnatur tam- quam vitiofa. Procedit enim ab eodem ad idem per eamdem demonftrationis formam ; Sc cognitio utrim- que orta nugatoria futilifque eft : ut fiquis dicat ; So- crates efi homo ) quia rationalis ; efi rationalis , ' quia ho- mo. ( 3 ) Quid , cum termini funt reciproci ? HjU Quemadmodum in natura , ita in Logica , quaedam redprocari videntur, & ab eodem in idem redire: ( f) ut cum dico, ex pluvia oriri terrae ma- dorem, ex terras madore oriri vapores, ex vaporibus nubes , ex nubibus pluviam  Movet difficultatem hanc Ariftoteles, quae facile folvitur, fi dicamus, non eam- dem t L, I. t L. 2. t . 66 . (2) Ejufdetn ordinis deroonftratio eft , cum quis probat, aliquod animal efle rationale , quod (it ridendi capax ; rur- fus autem efle ridendi capax , quod (it rationale , ut eft in ' 1. 2. Prior, c. 5. Scientia porro per regreffum parta dicitur ab Ariftotele exquifitiflima omnium in lib. 1. 1. 178. Pofter. 0 n Ito t / n  uti , una atque eadem per ejfeflvm & caujfam . (3) Per hujufmodi argumentationem nihil efficitur. Kinc dicitur oTtepx rpori , piflilli verfatioz & adhibetur proverbii loco a Philemone in Heroib. adverfus eos, qui eadem fa- ciendo nihil promovent  V, Elench, Sophift, de Petitione principii  n 8 pars iir e apvt xnr f dem numero efle pluviam, qua& terram madefacit r atque illam, quae ex terra madefafta oritur ideoque re vera regreffum efle, qui circulus videtur. ( 4/ CA- ' .  ( 4 ) Quemadmodum circulus Geometricus perfeftitiiman* rotunditatem requirit , ita circulus Logicus abfolutam per- fe&amque reciprocationem. Minima quasque rariatiflt utriuf- que naturam corrumpit - Tres igitur funtcirctillconditiones prima, ut utraque demonflratio fit per cautiam; fecunda , ut utraque fie per idem genus cautis; tertia, ut idem neti folum specie fed etiam numero iit id, quod probat, & quod-, probatur. t  DE SIGNIS, QUIBUS FIT DEMONSTRATIO A POSTER IQRI. QV 1 D EST SIGJVVMi i , : R?. O lgnum efi ( ut fcribit Cicero 1 . 1, de Invent. Ci 30 .) quod sub senfum aliquem cadit ; et quiddam SIGNIFICAT } quod ex ipso profetlum videtur. Ita fumus GRICE DARK CLOUDS dicitur signum ignis GRICE RAIN, gladius cruentus signum caedis. Quotuplcx cjtl Duplex .neceffarium, quod graeci vocant ts xpn'p/9; et non necessarium, quod illi dicunt. Quodnam efi signum necessarium? RU Est illud, quod numquam aliter sit, certumque declarat. Neceffarle ( inquit CICERONE 1 . de Invent. c **. ) demonfirantur ea, qua aliter a- dicuntur , nec fieri, nec probari pejfunt , hoc modo : fi peperit, cum viro cen* I cubuit. Signum non necessarium ab Aristotel Rhet, c. iz. dicitur itot-ofi.tr , canat ntmint. Ego fumfi a Quintiliano, cujui hac sunt verba in lib. 5. ltrflit., Dividuntur signa in lat duat primas fpteits, quia torum a liqua rvetjfaria [nat, qua Grati votant Tixuip/e ,, alia non nectjfaria, qua .  ijo. rubuit. Hoc utuntur Philosophi, quoties demonstrant cujufmodi sunt pori corporis nostri, quos per signa rationalia demonftrando aperimus CA-  Has rerum obscurarum differentias vide apud Sextum Empiricum adverf. Logic. Pyrr. byp. . Porro ea qu sunt perpetuo obscura, magis proprie di ci poiliint ignota .  u? DE DEMONSTRATIONIS EFFECTU, IDES T SCIENTIA, f I !  m  QUIXAM EST DE MOMST R AT IONlf EFFECTUS ? O Cierttia , non tamen quaelibet * fed quae deii- LJ nitur , Cognitio firma & evidens rei neceffaria per demonftratlonem ac qui fit a , Ver firmitatem ab opinio- ne differt, quae eft afifenfus infirmus; ( i ) per evi- dentiam a fide , quae obfcuritate non vacat : per rei necefiitatem a prudentia & arte ; quae in lingularibus & fortuitis vertantur; per dtmonfirationem denique di- ftinguitur ab intelligentia , quae eft cognitio princi- piorum & axiomatum ipfa per fe perfpicua . Quotupkx eft firmitas & evidentia ? Triplex: Moralis , Pbjfica , & Metapbyfica . Mo- I 3 ralis \ ( i ) Ob hanc firmitatem ficientia a Graecis dicitur ittrt- ft \ , ut feribit Clemens Alexandr. 1. 4.. Strom. V/ 'Usnt >i / uue o 73i? Xfttyvu tn 7 a> vfuyi , quod nofiratn in tebas fi fi at men- tem , Itaque Iciens ab Ariftotcle dicitur KeTVr*>T@- , & a Platone , inconcufftst (3 quadratus . Quo perti- nent illa D.Auguftini 1. 3, contra Acad. c- 19. S denti a no n fo/um eomprebenfis , fed ita eomprebenfis rebus confiat j ut ae- que in ea quit umquam errare , net quibuslibet adverfaatibue impulfut nutare debeat , Digitized by Google ; 4 P ARS /II. C APUT XVI. miis eft firma & evidens perfuafio ejus rei, quz ple- rumque vera eft, more & eonfuetudine fulta : ex.gr. certum mihi eft , vacationes a ftudiis proxima aeftate luturas . Pbyfica eft firma & evidens ejus rei perfua- fio, quae fecundum naturae ordinem aliter fe habere non poteft , quamvis aliter poflit cogitari : ita certum eft, hieme dies cfle breviflimos, aeftate longi lTimos. Metapbyfica eft firma & evidens perfuafio ejus rei , qua; ne cogitari quidem aliter poteft : quo modo cer- tum mihi eft, eum qui difputat, efle . Quxnam ex bis ad f dentiam requiritur ? Metapbyfica , fi fieri poflit , aut faltem \Phyfica . Moralis Diale&icis probationibus apta eft, Analyticis inepta  Quotuplex efi fidentia ? : . i 15?. Duplex: altera, quae vulgo dicitur a pofterhriy feu quia y altera, quae a priori vocatur , feu propter quid. Secunda haec vere ac proprie fcientia eft ; quia per potiflimam demonftrationem acquiritur, hoc eft per cauffx proximx cognitionem . Prima vix fcientix nomen retinere poteft; quia oritur ex demonftratio- ne imperfetta, qux fit per figna & effe&a, vel per cauflas remotas; ideoque rem eflc eftendit , cur fit non oftendit. Digitized by Google PARS III, CAPUT XVI. M5 , Quomodo definitur [cientia ab Ariflotele ? i' f i . Ille [cit( inquit Ariftoteles) Qf) proprie aefim-, pliciter , non ex parte aliqua ut Sopbifta [olent , qui cau[- [am co?no[cit , cur res fit\  non quatenus habitus & difciplina ell, fed ut cert* alicujus rei coghitio* quae ra- tiocinando comparatur. Difputat enim adverfus illos ; qui ajebant, nihil fciri pofle  aut fciri dumtaxat per reminifeen- tiam . Ipfilfima ejus verba , quorum interpretationem dedi- mus y funt ha?c in cap. 2. lib. r. E 'vtsxT^xt oilue^x ixxrar Xthut , kAKX MI 73  trtQrSIKlt Tp 31 T 3  , T  XXTZ y  7 * 1 TU T OfTMt Oli jdcS-X yttdrxOO J/ i' T' TfatyMie' *?/ y 97 / sxdtu tuTitc esi y fti etSt^ea-d-tu t7t' x\Xuf,e\f vocant tujrvut  IT*  (5) In Metaphyfica tres fnnt rationes, quibus Piato ideas probat .Primo enim ait,abfurdum videri, fi fit fingulare, in quo occupetur fenfus , non efle univerfale , in quo occupe- tur intelle&us : deinde , ficuti multitudo quasvis ad unitatem revocatur , ita formasfir naturas omnes ad univerfalem quam- dam & fimplicera formam revocari debere : poftremo non ap- parere, quomodo fingularia ejufdem rationis convenire inter fc poflint , & ab aliis differre , nifi admittatur communis 'tjusdam forma , tamquam menfura convenientias omnis ac diferiminis . Labe&SUutur ab Ariftotcle praefertim ia lib. 1. Metaph,c.7 . .13? tamen hinc colligi Platonicas ideas. Nam Plato hoc nomine intelligit univerfale ante multa & prater mul- ta , ideft rerum fimulacra quardam & exemplaria , ex quibus omnia fiant & cognofcantur . Satis eft autem ad demonftrandum , fi fit univerfale Peripateticum , quod dicitur pcft multa c in multis , ideft genera & fpecies , quae a rebus finguiis effinguntur , & in ipfis funt .  Quomodo ex doBrina Platonis fenfibilia cognofcuntur ? Platonici hanc omnem partem opinabilem appellant , inquit Cicero in Acad. i.c. S.Senfibilia igitur opinione ftare dicunt, & opinando cognofci. Quibus [ciendi inflrumcntis Platonici utuntur ? I. Platonici libentiflime adhibent in difputando de- finitionem tum rei , tum nominis , idque habent tam- quam princeps fciendi inftrumentum . Secundum de- finitionem argumentis utuntur & conclufionibus . Qui- dam ( 6 ) Adde quod univerfale Platonicum eft ambiguum , ut ' dicitur in textu ; quippe a rebus demonftrandis feparatum > & alia quadam natura prseditum . Demonftratio autem per ambigua fieri nequit , Hac ipfa ratione utitur iu cap.6. lib. i.Ethic, ad excludendam Platonicam boni ideam.  t40 PARS inCAPUTXVlL dam ex Illis etiam divifionem inter modos fciendi re- tulerunt, quar tamen re vera pediflequa defini tioniseft, eique fervit, ut poftea declarabimus. (q J C A- * x - *** , "i  1 / * Cicero Acae!. i.c. S. Scientiam Platonici tiufquam ef- [e anfebant nifi in animi notionibus atque rationibus . Qj*a Ai caujja definitiones rerum probabant , & has ad omnia , de quibus difceptabatur , adhibebant . Verborum etiam explicatio probabatur  idefi qua de cauffa quaque ejfent ita nominata  quam etymologiam appellant . Vofl argumentis & quafi rerum notis utebantur ad probandum concludendum id > quod ex- planari volebant  , A / \ * . * 9 t- -A , I > 1 r'  4 1.  1 v> n 1 It * * t*-  * * # I X r :v:& 1 M  DE SCEPTICORUM , ACADEMICORUM j EPICUREORUM, ET STOICORUM SCIENTIA. &U/ENAM EST SCEPT ICORVM OPINid D E SCIENTIA f ]. OCepticorum opinio de fcientia grandi volumi- ne explicatur a Sexto Empirico . Gellius rem totam paucis verbis complefti voluit I. xr. c. 5. jQuos Pyrrbonios , inquit , Philosophos vocamus , ii Grac 0 co- gnomento  1 Princeps fciendi fundamentum infenfuum fide ponit Epicurus , quos nec fallere umquam , nec falli pofle putat, Vifa igitur omnia apud ipfumvera funt i fed opiniones, quae viforum judicia continent , aliae funt vera? , aliae falfae . Exempli gr.cum oculi remum infradum in aqua vident, & infradum effe menti nun- ciant , ita prorfus vident & nunciant , ut eorum pofeit officium . Nam fpecies remi eo modo ad oculos ve- jiiunt ; ac proinde eo modo recipi ac reprarfentari de- bent . Error autem in judicio mentis efl , fi fibi perfuadeat , remum efiTe re vera fradum ; neque re- putet , ubi fit , & quomodo fui fpecies effundat . Ex f  D. Auguflinus contra Acad.I.j.c.io. Cicero ait ? illit morem fuijfe occultandi fententiam fuam , nec eam cuiquam , ftifi qui fetum ad feneflutem ufque vixijfet , aperire confue- vijfe . Fortaflfe [locus Ciceronis efl in Acad. 4. c. 1 %.Reflat illud , quod dicunt veri inveniendi cauffa contra omnia dici oportere , & pro omnibuf . Volo igitur videre , quid invene- rint > Non f ciemus , inquit , oftendere , Qua funt tandem ifl* myjleria? Aut cur celati f qua fi turpe aliquid fententiam ve - firan t? Ut qui audient , inquit , ratione potius , quam au - dloritate ducantur. ( 4 ) Rem eamdem alio exemplo explicat Sex . Empiric. I. U adverf. Log. n. 208.& feq. Vide etiam lib. 2.n.9.Hinc Ti- magoras Epicureus ajebat apud Ciceronem in Acad. 4. c. 25. Siquid aliter cerneretur, atque effet , opinionis effe menda- cium , non oculorum . Et D. Auguflinus de vera Relig. 0,33. Si qui e rernum frangi in aqua opinatur , & cum aufertur , in- tegrari , non malum labet internuntium > fcd malus efl j udex a . Ex his porro perceptionibus ac judiciis oriuntur no- titia;, de quibus didium eft in cap. 3. Ex notitiis fit ra- tiocinatio & fcientia. Admittuntne Epicurei demonjlr at ionem ? Admittunt demonftrationem , eamque adverfus Scepticos tueri conantur . Sed nihilo plus demon- ftranti praecipiunt , quam ut ex eo, quod eft: evidens, efficiat & iliuftret id, quod non eft evidens. Eviden- tia autem colligitur per fenfus re&e adhibitos, ( 5 ) & per notiones, quibus fenfus non repugnent . Ex.gr. Epicurus dicit efse vacuum , quod non eft evidens. Probat autem per id , quod fenfibus eft evidens , ideft per motum hoc modo : fi eft motus , eft va- cuum; nam ubi plena funt omnia, corpus mobile de- ftituitur loco , in quem fe recipiat ; efi autem motus : igi- tur vacuum . ( 6 ) Quartam efi fcientia Stoicorum ?  / \ Scientiam Stoicornin explicat Cicero his verbis fri Academ.i.c.i a.Z , eno, quod erat fienfiu comprebtnfum idipfurn fenfum appellabat :& fi ita erat comprebenfium , ut convelli ra- tione non pofifiet , fidentiam', fin aliter , inficient iam nominabat: ex qua exifieret etiam opinio y qua effiet imbecilla , & cum falfio incognitoque communis > Scientia igitur eft firma cognitio, opinio infirma; comprehenfio autem men fura ( 5 ) Quomodo fenfus adhibendi fint , docet Lucullo* apud Ciceronem in Acad.4. c. 7. quem locum attulimus ia Rudimtntit Syntagm. 1. ( 6 ) Tota h*c do&rina explicatur a Sex. Empirico lil* i.adver.Log. 1^213, & fe q. . i 4 jr fura utriufque. Itaque ajebant Stoici fcientiam e fle ir* fapientibus , opinionem in fluitis : comprehenfionem neque inter re&a > neque inter prava numerabant > ut ibidem Cicero declarat . ( k  4 i * Efine demonflratio apud Stoicos ? i    * , * Yft. Eft fane y & definitur ab iis. Argumentatio, qu quia* con- clufionem obfcuram declarat  . - - "i w; Quomodo dividitur Stoica demonftratio ? I. Stoici dividunt demonftrationem in primariam , & fecundariam . Primaria illa eft , quas id , quod con- cludit, ratione manifeftat; ut cum dico, fi {udor es flu- unt ex humano corpore , porifunt ; fied f udor es fluunt \ ergo fiunt pori . Secundaria, & minus perfe&a eft illa, cujus tota virtus pendet ex fide , & memoria *, ut cum dico , fi Deus pronuntiavit fore utditeficam , certe ditefcam \ fed Deus pronuntiavit fore ut ditefcam ; ergo ditefcam. Vis argumenti hujus cogit nos aflentiri rei manifeftae per fidem , quam habemus Deo praenuntianti DE SCIENTIAE ORIGINE. SCIENTIA VNDE ORITVR TAMQVAM A C A V I T E? QI quis (cienti* originem altius qu*rat * inve- v 3 niet eam a fenfibus efle , ideft a rerum fingu- larium induttione atque experientia* Nam primo qui- dem ex. gr. oculis luflramus hunc & illum colorem in fingulis corporibus ; deinde vero per quamdam indu- ctionem colligimus, quid fit color in univerfum; po- (tremo per univerfalem hanc cognitionem demonftra- tiones conficimus ad coloris naturam & rationem a- periendam. (f) Hinc Ariftoteles fcribit , eum, qui caret fenfu , carere (cientia  Nam fi quis oculis careat , numquam coloris fcientiam acquiret . Tota Ariftotelis doctrina hoc Sorite concludi poteft: : fi fenfus deficit , deficit indutio ; fi deficit indudtio , deficit univerfa- le ; fi deficit univerfale , deficit (cientia \ ergo fi fenfus deficit , deficit fcientia * ( 1 ) K 2 Scicn - t L. 1. r. 1J4. & L. x. t  ioz ( 1 ) Idem docet homo Platonicus , Clemens Alexandr, I* 8. Stroni, p. ra. 778, xxtk tiv wVJwv iy, hxT gV.xs** xcpx- Xcmktcw T5 . ocp^i yx? tvt izjxyoy^s i curd-ir/s y Wpx* $s To Per fenfurn ex fingularibut colligitur univerfa - le $ XnduSlionis enim principium eft fenfu r y finit univerfale , Vide etiam Maxim, Tyrium differt  . * . \y?i Scientia igitur eftne fingulariiim an univerjaliutn ? * Scientia non eft nifi univerfalium , (t) qua? de- finita funt , & femper eodem modo fe habent . Nam fingularia & innumera funt , & mutabilia ; ideoque fenfu percipi po fiunt , fcientia comprehendi non pof- funt. Quidam fingularia iccirco excludunt a fcientia, quod non fint : qua de re vide c. 1 1. ( * ) r. : CA- t L . l. T. 61. 6j. ( 2 ) Idem confirmat Arilloteles in lib. i Rhetor, cap i^i. idemque feribie Clemens Aiexandrin. 1 . 8. Strom. p. m. 7 82. t y# V L ?jtl ecrwpwv orreo9> u. i ntt gir/WfUl*. ''$'*> issnri/W xxSiJuw* eopy.x quod nefciam . . : m; 1 ftfili; ; 31 S' >i / f'  * , *rr.;r r  ffltf !.'V f . i. itr.   * ,n * i vir , . ^ + a ' 2   i*,  t*"    ii 9 ^ 4 .!*> ^ T . * *V M |i  L % * f / >   *'  :  ? ; 90 t 4 I 3 , ' '-T*'. \J * * >* * ) / . 'AUiqcsZ q:M c 1 A P U T XXI. DE SAPIENTIA. gUID EST SAPIENTIA? OUm fcientia ad faftigium pervenit , nobiliu# V.J nomen induit , & vocatur fapientia . Nam Sc Dialedlicus , & Phyficus , & Mathematicus , fi ma- xime excellat , fapiens dicitur . Hinc veteres illi au- dtores artium ac difciplinarum fapientes a Gra:cis fune nominati . ( i ) Efine alia fapientia /tgnificatio ? Nulla vox eft in orbe difciplinarum, quae plura fignificet . Sed ut fignificationes minus proprias omitta- mus, interdum fapientia eft habitus quidam fimplex , a cereris diftindtu* & ceterorum princeps, qui per altifilmas cauflasingrediens, & fua fibi principia conftituit , &cu- juslibet fcientiae principia dijudicat: quo nomine infcho- iis Peripateticis fignificaturMetaphyfica. ( 2 ) Interdum K 4 fapien- ( 1 ) Interdum traducitur nomen hoc etiam ad excellente* artifice* , ut ad Phidiam & Polycletum , ut fcribit Atiftote- leS lib.6. Ethic.cap. 7. (x) Hac ab Ariftotele ibidem vocatur iTr/yffti ravr,fxia~ rxruv y f cienti* rerum bonoratijfimarum , & dicitur haberera- tionem capitis. Sine hac Plato fcribit in lib. 7. de rep. reli- quas difciplinas efle cxas . Quamquam a Platone non Me- taphyfic*, fed Dialeftica vocatur tura eo lo$o , tum alibi fis pe . . lapientia efl cumulus quidam multorum habituum , ideft: perfeba & abfbluta omnium comprehenfio difciplina- rum , per quam de rebus omnibus difleri poteft  quibus ha res continentur , [den- tiam . ( 3 ) c - *  i**  Quid efi fapientia Stoicorum ? +? Rebe quxris, & loco quseris; fed nihil eft, de quo minus refpondere veiim : quia Stoici hoc nomine invidiofo &obfcuro( ut dicitur a Cicerone de Amicit, c. 5. ) nimis multa complebuntur ; & quidem ejufmo- di , ut quaedam vix in hominem cadere poffint  Qui modum fervant , fapientiam efle dicunt excellentem quamdam & prxftabilem intelligendi & agendi virtu- tem, qux nullo tempore, nullo loco, nullaque con- ditione varietur. Ceterum qui dicunt , fapientem in quovis fortunae flatu ede liberum , ede fanum, efle for- mofum , efle divitem , efle regem , efle beatum ; Sc o- mnia, quae ubique funt, efle fapientisi abeunt ad ex- trema. (4) Sa - 1 j  -j-l * ,    . % . . J -J i'  : . ^ 1 J Jk ** .  J  A j* 1 (3) Seneca idem habet multis in locis, nifi quod cenfet tollendam efle vocem cauffaram ; Ita epift. 89. Supervacua ( inquit ) mihi videtur hac adjetUo , quia c au (fa divinorum humanorumque partet funt . Ego opinor cauffar contineri in voce f cientia : quia nihil f ciri potell nifi per cauflas.  De hoc genere fapientia Stoicse > quce in hominem cadere nequit, vide Ciceronem in Orat, pro Muraena, & in principio de Amicit. Horatium lib. i, Serm, Sar, 3. & lib. 1. epift. i.  * i Sapienti* nomen nonne etiam prudentia tribuitur } * $. Sapientia vulgo ufurpatur pro prudentia. Nam qui in rep. adminiftranda , in regenda familia , & in totius vita; morumque cultu plurimum prxftat , fapiens nominatur. Ceterum Thales & Anaxagoras ( ut feri- bie Ariftoteles in lib. 6 . Ethic. c. 7.) cum minime pru- dentes eflent, attamen ob eximiam do&rinam fapien- tes funt appellati. Ex quo apparet , fapientiam fepa- rari a prudentia pofle . ( 5 ) CA- ( 5 ) Ad hoc fapientbe genus referenda funt Afranii carmi- na apud Gellium lib/ 13, c. 8, Ufut me genuit ^ mater peperit memoria. Sophiam vocant me Graji , vot fapientiam. Carmina hc pertinere dicit Gellius ad eum 5 qui fapient ejfe rerum humanarum velit . Cicero quoque fapientiam pro prudentia ufurparit in Orat, c, 21, n. 70, % t ' ( j t * > c *V  4 . *S 4 C A DE OPINIONE. QUID EST OPINIO ? f -  * T7 St imbecilla aftenfio cum metu partis adverfae JLi conjunda. (f) Differt a fcientia tura ratio- ne materia: , quia fcientia verfatur in rebus univerfali- bus ac neceffariis , opinio in Angularibus & mutabili- bus; tum ratione modi& cauflae, quia fcientia oritur ex demonftratione , opinio ex probatione communi ; ideoque illa firma eft , hac infirma . Differt a fide hu- mana; quia hsec non ratione, fed audoritate nititur : & interdum quidem audoritas tanti eft apud nos , ut omnem formidinem excludat .  Differt demum a fufpicione ; quia haec eft levis quaedam credulitas , ex conjedura orta. Opinio pote fine confijiere cum fcientia ? Opinio non poteft in eodem de re eadem cum fcientia confiftere ; ( ft ) quia mens non poteft fimul efte certa & incerta , firma & infirma . Nam qui fcit , evi t L.i.r. 194.197. 196. tt L 1. r. 195. iso. toi. (t) Ob hanc rationem feribit Ariftoteles in lib. * Topic. cap. 5 . Fidem tjft opinionem vcbtmtnum , Digitized by Google PARS III CAPUT XXII. JSf evidentiflimecognofcit , rem aliter fe habere non pofle ; qui opinatur, metuit, neres aliter fe habeat . Id Stoi- ci adeo ratum habebant , ut qui femel ad fapientiam perveniflet, eum de re nulla amplius opinari polle di- cerent. Nos fapienti concedimus , ut aliquando opi- netur , non tamen de re, quam fcientia comprehen- dit .  Potcfine fimul ejfe cum fide ? #. Opinio cum fide humana coalefcere poteft ; mo- do hacc ab ejufmodi oriatur au&oritate , qua; non o- xnnem prorfus dubitationem excludat: at cum fide di- vina nullo modo poteft confociari ; quia fides divina immutabilem animi firmitatem fine controverfia re- quirit . CA- (2) Stoici ingentem imaginem rei vanse fingentes , fapien- tem fuum fupra communem humana vitz neceflitatem pone- bant. Cicero pro Muraena cap. 29 .Sapienttm nihil opinari , nullius rti panittr* , nulla in n falli , f inttntiam mutaro nunquam .  / Y'i ij 6 * . o m l R KMi r>i f  CAPUT XXIII. DE SAGACITATE. iiiii.: b r :nt non t 'tustft QUID EST SAGACITAS? 'C St naturalis qua;dam follertia & calliditas ad C/ inveftigandas celeriter caufias, (f) qua; ad- hibentur in demonftrando : ut fiquis videns Lunam , qua parte Solem afpicit , valde fulgere , ftatim conji- ciat, eam non fuo, fed alieno lumine illufhari. ( \) Sagacitas pertinet ne ad fcientiam , an ad . opinionem ? R. Tota fagacitatis vis & natura in acuta celeri- que inventione cauffie feu argumenti pofita eft . Itaque fi argumentum fit neceflarium , fagacitas pertinet ad fcientiam ; fi fit probabile , pertinet ad opinionem . Dif- fert autem ab utraque , non re , fed ratione & mo- do quodam. CA- t Lib. I t. lOi. (i ) Cicero de Divinat. I. i.c. }r. Sagire^ fentire acute eft : ex quo Saga anus > quia multa /cire vtlunt ; (tf fagacet di fit canet , .-.t : - . ... r  tjfi 1 tr ~ -'jn-., nteas .DE MATERIA ET INSTRUMENTO DEMONSTRATIONIS . QUID EST, QUOD DEMONSTRATUR ? T D , quod cauflam habet neceflariam, perquam A demonftretur; (f) ideffc propria rei aflfedlio . Nam res ipfa feu fubflantia, cum fit per fe, demon- ftrari non potefl . Itaque in homine ex. gr. facultas ridendi demonflrationem capit, ratio non capit. ( i ) Quodnam efi demonflrationis medium ? I. Demonflrationis medium Definitio efl , qusrcauf- fam rei demonflrandx continet, five fit definitio fubje- ti , five praedicati , five utriufque  Ita fi probare velim , hominem pofie ridere , medium erit hominis definitio, idefl animal rationale : fi probare ve- lim , Lunam deficere per eclipfim , medium erit ecli- pfeos t Ls *. t,  Nomine proprias affe&ionis intelligitur non ca tan- tum , quas caufsam habet internam, ut eft facultas ridendi  fed etiam illa , qu caufsam habet externam ) modo fitcauf- fa propria & neceflaria* ut eclipfis Luna , quas demonftra- tur per interjeftionem terrse . Utraque demonftratur percauf- fam  illa per materiam > haec per efficientem .  pfeos definitio , ideft interjeiSio terra inter Solem & Lu- nam . ( 2 ) Definitio poteftne demonflrari ? I efl ejus definitio ; bdec efl oratio conflans ex genere & differentia hominis \ efl igi- tur hominis definitio  Sed hoc fyllogifmo idem proba- tur per idem, & principium petitur . Nam medium non differt a prsedicato conclufionis. Quid efl enim defini- tio , nifi oratio conflans genere & differentia ? Duo hxc verbo differunt , re idem funt .  Num faltem demonflrari poteft per definitionem contrarii ? I. Sunt qui definitionem contrarii fumant ad rei de- finitionem demonflrandam . ( ff ) ex. gr. ut probent , bonum efle id , cujus ratio 6* natura efl individua , fumunt definitionem mali, cu)usratio  nec differta fyllogifmo nifi ordine verborum. DE CAUSSIS AD DEFINIENDUM ET DEMONSTRANDUM IDONEIS. JOVID EST CAUSSA IU UN /VERSUM? ^ I * I / I. Aufla efi , quae fua vi efficit id , cujus efi Vw/ caufla . ( f ) Quatuor porro numerantur , ma- teria , forma , efficiens , & finis  Materia dicitur id , ex quo aliquid fit ; forma per quod ; efficiens a quo *, finis propter quod . ( i ) Qudenam cauffa adbibetur in affeflionis definitione ? Scilicet illa , a qua atfeciio proxime oritur - Et fi forte multxfint x una tamen efi: propria & proxima y L quae* t  quo , forma efi 5 qua aptatur illi  id . 47// quod > exemplar efi ^ quod imitatur it 9 qui facit * id 9 propter quod 9 facientis propofitum efi  id y quod ex iflit efi , ipfa fiatua, Qnintum genus cauff admittebat Plato propte* ideas fuas 9 quas putabat exemplaria effe rerum omnium r Alii quidam nullam cauflam admittunt praeter efficientem. y quia huc una vere & proprie facit . Finit non facit 9 fect allicit: materia & forma non faciunt 9 fed conflit uunc & com- pouunt  mms&mms M 62 . PARS 111. CAPUT XXV. quae in definitione collocatur , & ad demonftrandum valet  AffeBio a quanam cauff a proxime oritur ? Affecliones quaedam oriuntur a fubje&o, in quo funt, & dicuntur habere cauflam internam; ut facul- tas ridendi in homine, quae oritur ab ipfa hominis na- tura: quaedam oriuntur aliunde , & dicuntur habere cauflam externam ; ut eclipfis Lunse , quae oritur ab Snterje&ione terrae ; mercatorum labores , qui oriuntur a contemplatione divitiarum . ( ij 4 A  *   Quomodo appellatur cauff a interna ? Modo 7nateria dicitur, (f) modo 'necejfitas ma- teria y quia , quae ita oriuntur , necefTario oriuntur . ( 3 ) Quo- t L, 1 . t . 53. (2) In iis, quas cauflam externam habent, cauda non dif- fert  re, cujus eft cauda, nifi quatenus pars differt a par- te. Itaque quoties demonftrantur , demonftratio non differt a medio fuo , idefl a definitione , nifi per ordinem verbo- rum ; ex. gr. Eclipfis Lunas definitur : obfcuratio Luna ob inter jcftionem terra. Per eadem h&c verba formatur demonftra- - tio , adhibita intexfeBione loco antecedentis , obfcuratione \o- co confequentis. Hoc modo pars definitionis dicitur demon- ftrari per partem , ac veluti materia per formam; In iis , quas cauffam habent internam, demonftratio differt a medio fuo; ut cum facultas ridendi detnonftratur per definitiorem - hominis . Hz c pertinent ad inteiligenda obfcura qujedam & involuta a tex. 37. ufque ad t.47. ( 3) Cauflit igitur interna in demonflrando una eft, ideft fubjeBum afieftionis , quas demonftrarur : quod fubjeBum mo- do materia (dicitur , modo materia necejfitas , modo efficient per emanatronem . Porro materia dicitur ; quia affeHonis rna- teria non eft alia y quam fubjedluin ipfum , unde oritur, & cui ineft .  16} ,   Quomodo* appellatur externa? . I    . -* % Modo efficiens , cujufmodi eft in primo exem- plo inter jejftio terrx ; modo finis r cujufmodi eft divi- tiarum contemplatio in altero^ Queenam ex bis potijfitna eft ? \ . ^  * v i *  Pro rerum diverfitate ea eft omnium potiffima , quae proxime effedlum attingit, five fit interna, ftve excerha   , * lg. Forma in demonftrando locum non habet  Nam forma quidem ipfius- aflfe&ionis demonftrandae inepta eft: fiquidem nihil demonftratur per fe ipfum . For- ma vero fubjecli , in quo eft affe&io , gaudet materia: nomine: fiquidem totum fubje&um , Sc quidquid in fubje&o eft , unde affe&io oriatur , materia ejus dici- tur .  -   ; ' v * * \ ' * * * > L \ 2 . C A- s   X f r*  * f - , t / - j . M ^ * 1 * pr " , *  ^ r 1 'l*.* * - . {3) Hinc apparet 5 cur ridendi facultas dicatur ab Ariflo* tele oriri ex neceffitate mate ria 2 fciHcefc quia oritur ex toto fubjela* inquoeft ; eoque pofico , neceilario fequitur. Ap- paret etiam tres tantum caudas habere locum in demonflran- dOj videlicet externas duas , efficientem^ & finem $ internam unam, quocumque appelletur nomine , five materia , five ne- ceffitat materia. Sicubi formam nominat Ariftoteles , hac vo- ce definitionem fignificat; i   1^4 C A P U T ' XXVI. r  DE DEFINITIONIS- NATURA- ET P ARTIB USi Vji !: QUOMODO ARISTOTELES DEFINITIONEM EXPLICATI , *  ' . *  "   . + t . '  > lg. Uod attinet ad rem praefentem , .definitio i. in tres formas dividitur ; atque ita divifa cum demonftratione ab A riftotele comparatur . I.AJia eft definitio, quas vulgo effentialis dicitur-, alia, quas vocatur 'cauffdiis\ alia denique plena 6* perfefta . Ef- fentialis eft, quse eflentiam aftedionis aperit, ut cum eclipfis .Lunas dicitur efle defeSus luminis Jn Luna . Caujfalis , quas caufifam exprimit, a qua pendet affe-; dio, ut cum eclipfis Lunas. dicitur interjeftio terra in? ter Solem & Lunam . Perfefla & abfoluta , quae utram- que compleditut; ut cum; eclipfis Lunas dicitur de- feBus luminis in luna ob interj e Bionem terra inter tpfam & Solem . Prima appellatur ab Ariftotele conclvjio de- mon fi rationis ; ( t ) quia cum eclipfis Lunas ratione de- monftratur , hoc eft per fuam cauftam veram & pro- priam, locum tenet conclufionis. Secunda appellatur principium demonflrationis , quiafumitur tamquam prin- cipium & argumentum ad oftendendum defedum lu- minis in Luna. Tertia appellatur oratio pofitione tan* tum a demon flratione differens Y Nam cum contineat r * *  - . . j . rei t i A 64 & l. l. t, 4Jo 46 47* , Digitized by Google PARS III. CAPUT XXVI. 16? rei eflendam & cauflam , continet totam demonftra- tionem , verborum dumtaxat ordine diverfam , qua- tenus prima definitionis pars occupat locum poftre- mum in demonftratione. ( i) Porro tota ha;c doctri- na pertinet ad definitionem affeCHonis> quaj fimul de- clarat quid fit y 3 c cur fit; non ad definitionem fub- fiantiar, qua? caufla caret , & fignificat dumtaxat quid fit. Id monet Ariftoteles ipfe in t. 46.I. . , L 5 CA . . ( i ) Syllogifmus , qui huic do!rinae refpondet  & defini- tionem continet, eft hujufinodi : Quoti tt interjicitur terra inter Salem & Luuam , totiet efl J.>feFit lumini t * n > nunc interjicitur terra inter Solem & Lunam ; nu jjf eji defeSlut lumini t in Luna . Luna enim ( inquit Cicero lib. 2. de nat. Deor. c.49. ) incidens in umbram terrz > -um elt e regione foiis , interpofitu interjeluque terra repente deficit . ...   ' . : v. . ' 1  m t66 i t '> * i * * . . I 1 I ' 'J * . .  i r DE LO CIS DEFINITIONIS , QU.E ESSENTIAM REI APERIT. UBI AGIT DE LOCIS DEFINITIONIS ARISTOTELES ? * 1 *. n E Locis definitionis inveniendae incipit age- (i.-JL J re Ariftpteles in cap. 13.L2.quae pars To- pica demonftrationis dici poteft . Ac .primum quidem docet, quomodo invenienda fit  V ^ # . * Xr Cedo mihi quomodo inveniatur colligendo . * ^  4 . yv Modus jhic appellatur Induflio ( t ) Quoties igitur alicujus rei definitionem inveftigare volumus , quae res univerfalis fit ( neque enim definiri poliunt jiifi univerfalia J confiderare oportet, quomodo con- ve- t Z  t, J* I Digitized bjtGoogle PARS III. CAPUT XXVII. 167 veniant, & quomodo differant fingula quae in ilra continentur j donec inveniatur communis quxdam rap- tio ; quae ratio inventa cum fuerit, habebitur defini- tio. Quod fi ratio haec rebus fingulis communis in- veniri non poterit , argumento erit , eas genere diver- fo contineri , nec una definitione comprehendi pof- . ( Fac ut explices exemplo aliquo . i Exemplum ab Ariftotele fumo. ( f ) Si mihi inveftiganda fit magnanimitatis definitio, quxro qui- nam dicantur viri magnanimi ; cumque inveniam ? magnanimos dici Achillem , Ajacem , & Alcibiadem , quia injurias ferre noluerunt ; tum vero etiam Ly- fandrum, & Socratem, qui xquum animum in utra- que fortuna fervarunt ; diligenter examino, num duo haec, non ferre injurias , & aquum fervar c animum in utraque fortuna , ad unam aliquam communem ratio- nem revocari poffint. Sipofliint, habeo definitionem unam & perfe&am : fi non poflunt , flatuere oportet > L 4 g e - . , . ' t L . 2. r. 81. ' ' , *  4 (. 3 ) Modum hunc invenienda definitionis non alienum e(Te a do&rina Platonis, contendit Patritius in DifcuffiPe- ripat. t. 3. L 4. p. 319. & quidem jure , ut colligiturex Alcinoi Inftitut ad do&r. Platon. c. 5. 1*8 PARS III C APUT XXVII . geminam efle magnanimitatis rationem, ideoque -defi- nitiones duas poftulare. (4) Cedo nunc quomodo inveniatur definitio dividendo  ' > 1. Primum quidem videre oportet , res definienda cujus fit categoriae : ( t ) deinde illius categoriae ge- nera per oppofitas differentias dividenda funt ; donec ea differentia inveniatur, per quam conflet rei defi- nitae natura: tum ex hac & genere proxime divifo conficitur oratio, quam definitionem dicimus. Ex.gr. definiendus fit homo . Statim apparet, hominem com- prehendi in categoria fubftantiae . A primo igitur fub- flantiar genere exorfus , dividendo progredior ufque ad animal , quod ipfum dividens in rationis particeps , & ra~ t I. 2. r, 7Z. 7 }, 74 ly feq . \  (4) Ariftoteles in lib. 4 .Ethic.c. 3.fcribit, magnanimi ef- fe quum animum in utraque fortuna fervare; quod fece- re Lyfander, & Socrates: at de intolerantia injuriarum non meminit  quas proinde alio revocanda videtur. Quamquam hsec ipfa ad magnanimitatem eo nomine traduci poteft , quod qui magno eft animo. & magna omnia fpeftat , non patitur ie contemni. Non defunt qui putent, quidquid magnum & eximium eft in virtutibus omnibus-, ad magnanimitatem re- ferri $ ideoque ejus rationem efle multiplicem & ambiguam. Porro ex hujus loci do&rina apparet , quomodo conjugata concreta adhibeantur ad aperiendam naturam abftra&orutn : qua de re vide Parr.2. c. 4. de qualitate*  . 1 6) Sc rationis expers , facile cognofco me in hominis dif- ferentiam incidifle , quae ratio eft . Ex hac igitur & proximo genere hominis definitionem compono ita pror- fus , animal rationis particeps . ( j ) Nonne hic e fi modus quidam demonfiranda e fj e Miae ? Ita vifum eft Platonicis quibufdam , qui pro- inde demonftrandi vim divifioni tribuerunt. ( f ) A- junt autem, hoc ferme pafto fieri lyllogifmum: Ani- mal vel eft rationis particeps , vel rationis expers ; homo eft animal; ergo vel rationis particeps, vel ex- pers : non eft autem expers , ergo particeps . At hic argumentandi modys peccat ea fallacia , qua; dicitur petitio principii , iv Sumit enim tam- quam notum Sc conceftum , hominem non effe rationis expertem , quod ipfum erat probandum. Divifio igitur fer- 4 L i . t. ij. 24. if. ( 5 ) Vide modum hunc inveftigandte definitionis apud Cle- mentem Alexandrinum lib. 8, Stromat. pag. ni. 779. Monet autem Arilloteles, utilem efle methodum hanc inveftigand definitionis , tum quia facit ut omnes rei definita partes fumamus, quas funt *VJ7fsf, h. e. ejfentiales , ut fchol vocant; tura quia facit, ut folas fumamus ; tum demum quia facit, ut eas refte atque ordine collocemus. Digitized by Google r-Tr-Bga . , 7 o v ars m caput xxra fervit definitioni, & vakt ad invefligandas partes e, lentiae , non ad probandas  ( 6 ) C Ar ( 6 ) Inde etiaro colligi poteft vitium fyllogifprf hujus > ouod fubjeaura propofitionis latius patet prsdipato  Nara rationir partiteps , & raliutU expers , cum disjungantur per mrticulam veU non potfunt aquare animal . Hoc autem con- tra leges enunciandi eft. Prxterea cum animal , & rationi t partifepr fint partes definitionis, in hac argumentatione de- eft medium, quo partes ifta; conjungantur. Ubi autem de- eft medium, non poteft efle dempnftratio. Totum id eo lpe- * at ut appareat definitionem efle mraSeucV, hoc eft de- mon ji ratione carere , quia ipfa debet efse demon Arationis medium* V*Cap. 2,4 k T * *  i DE Locrs DEFINITIONIS, QU^E CAUSSAM REI CONTINET. , .. ***'* . * , ' . ) ' . QVOMODO INVENITUR I) E F I NIT IO PER C AV SS A M defeendere debemus a genere ad fpeciem, a fpecie ad individua f ;,ut ea demum detegatur * q^a^offe&ui pro- xima eft , .propria , & reciproca . ( 3 ) ,> ; i - CA- , * I  '1 > * >  Ov> . V tii :v. r ' . 1 >  k Digitized by Google V T 7$ C -  4 DE IIS, QU 7 E DEFINITIONEM CAPIUNT. . J  ' *  * ' v ' * t CUR DIXISTI PAULLO ANTE SOLA UNIVERSALU DEFINIRI ? fjL. /~\ Uia ficuti res lingulares non capiunt demon- ftrationem ( f ) ita neque definitionem . ( i ) Uno verbo eorum efl definitio, quorum eft fiden- tia i fidentiam autem non efle nifi rerum univerfa- lium , oftendimus in cap. 1 9. hujus Partis , & in Par. x. cap. i. Poffuntne 'Universalia omnia definiri ? " Ea fola definiri pofliint , quse certo genere & certa differentia confiant; aut cauflas habent nqtas at- que exploratas , per quas aperiantur . ( 2 } "e *   * Natura fimplices poffuntne definiri ? Animadverterunt juniores Dialettici , naturas fim- t L. r. t. 64. ( 1 ) Cum quis res fingulares, earumque naturam oratio- ne aperit, non definitione, fed defcriptione uti dicitur. (2) Definitio dici poteft refolutio alicujus rei in partes , ex quibus confiat: ut cum dico, hominem efle animal ratio- nali , refolvo hominem induas partes, ex quibus ejusnatu- ra componitur. Qu igitur partibus carent , cujtffmodi e fi Deus, definiri non pofiunt . . plices definiri non pofle ; quia quod partes non habet, non poteft per partes explicari, ideft per genus & dif- fererftiarrr. ttijufmodi funt apud illos* motus , dolor , voluptas , . lux , color , & fimilia , quae fenfibus quidem percipi polfunt , at explicari per definitionem non pof- funt . Ariftoteles tamen in his ipfis aliquid invenit , quod partium loco eft, & Scholafticam definitionem capit. Itaque ab eo* definitur motus, attus entis in pa- tentia protc^efi in patentia .* Nam revera quod movetur , in aliu eft, fed in aftu porro pergente, ideoque cum potentia quadam conjunfto. Extra fcholam , ubi quid fit alius & potentia non plane conftat , haec definitio minus videtur idonea . : [ \) 'CA- ' i *    t x * r (3) Plutarchus dc Placit; Philofoph. I. i.e. 23. feribit , mer* .tum ab Ariftotele duobus verbis definiri , bvt eKsyelxp at/var** alium perpgtem t rei mobilis. Ceterum ideas fimpiices definiri non pofle , magna contentione probat Lokius 1. 3. de hum. intell.c.4.& eum fequutus Clericus in. Logic part. 1. cap. 2. . 11. & fe q. Uterque autem loquitur de definitione ptena Sc perfe&a . Nam imperfefta cadit in fimplicia quaelibet \ qu** tenus cauflas habent & effe&a , antecedentia & confejquen- tia, adjunfta & conjun&a , attributionefque alias , per quas deferibi poliunt y & ab aliis rebus feparari: modo cum^co di/puremus , qui ih/egm fenfibus prarditus fit . * Digitized * 75 Z1U-: CAPUT XXX. DE QUAESTIONI BUS. QV ID .EST UJEST 10 > I Uaeftio, ut definitur a Cicerone in Acad. 4. VV c. 8. eft appetitio cognitionis ,  quse modos affe&ionefque com- plectuntur  Per fimplices quaero ex. gr. an fit , 6*  nec propriam ha- bet . ( 4 ) Quodnam e fi modium compofitaruml Medium quseftionum compofitarum modo defi- nitio rei eft , modo definitio ipfius affe&ionis demon- ftrandae, ut eft a nobis explicatum in cap.24.de ma- teria demonftr. , & in cap.25.de Cauffis. ( 5 ) Vnum idemque medium poteflne folverc quafiiones omnes ? V/L. Cum affe&io quoque habeat efTentiam fuam > fi confideretur ut eft , non ut ineft , capere poteft dua$ quseftiones fimplices, an fit , & quid fit \ ut cum quad- ro an fit Eclipfis, kquid fit . Hinc fit, ut cum Ecli- pfis demonftratur per definitionem plenam , quas rei efTentiam & cauflam continet, omnes qua-ftionesTol* M vat , (4) Cum dicimus *n fit , modo quodam me taphy fico loqui- mur, non phyficoy proindeque cum definimus, non necefte eft id a&u efle, quod definimus, modo efle poflit. (5) Definitionis eft patefacere, quid nt fit . Regit enim primam mentis cognitionem , qu perceptio dicitur . Atta- men nihil repugnat, quin adhibeatur tamquam medium de* monftrationis , ideoque per demonftrationem ipfam folrat qtwe* ftionem compofitara cur fit. aa atms . Vat , oftendens an fit Eclipfis , quid fit , qualis fit , turfit. (f) (O PARS (6) Ha&enus quoeftiones Logicas numeravimus , & qui- dem ex difciplina Peripatetica. Ceterum univerfe quaefliones dividi poffunt vel pro rerUm, de quibus quaeritur, differen- tia,- qua ratione alia quaeflio Analytica dici potcft , quae ver- fatur in rebus neceflariis ; alia Dialeftica , quae verfatur in probabilibus : vel pro vario quaerendi modo / qua ratione alia quaeft/o quae unum de uno quaerit  alia cotn - fefita , quae de uno quaerit plura; vel pro artium) ad quas pertinent , diTcrimine ; qua ratione quaefliones ali funt co- gnitioni* , duae ex Phy fica & Metaphyfica ; aliae aflionit cx Ethica & Politica; aliae modia ex iis artibus * quae ad 0- rationem formandam pertinent , Grammatica , Rhetorica * Diale&ica . Etiam Auftor artis cogitandi fuam quamdaw quaeftionum divifionem affert ex Cartefio part, 4 . c. 2, t I, 1 . t* 6 ..t DE TOPICIS. 4 * 1 *  T Opica Ariftoteles fufe explicuit libris oiflo : ego paucis pagellis complexus fum. Attamen ope- ra tam exigua , ni me amor rerum mearum fal- lit , partem potiflimam & pulcherrimam dodlrin* hu- jus in ea luce collocavi quam jamdiu deflderabat r Si plura dare voluiflem , ad exilia veniendum erat . & noftris adolefcentibus minus commoda . Proxime fequuntur Elenchi Sophiftici; qui , fi verum quieri- mus , ne feparandi quidem funt, fed unum idemque opus efficiunt. Societas & conjunftio hatc apparet ex poftremis Elenchorum verbis, quibus Ariftoteles de- clarat , fe omnia perfecifle , qua: initio Topicorum pro- pofuorat; totamque hano dotfrinam uno epilogo con- cludit.-  M a CA- \ 1 ;r  .  . i , * \ '  ' ) >! . c  - DE NOMINE, ET MATERIA TOPICORUM. TOPICA UNDE DI CUNTV ) - 1 *'T"' Opica dicuntur a gratca voce t 1  5 , idefl locus . 1 Eft autem locus communis qusedam nota , cnjus admonitu , quid in quaque re probabile fit , in- - veniri potefl ad problemata Dialectica conftituenda > & folvenda . Quanam eft Topicorum materia ? i Triplex ; Problemata , de quibus difputatur ; Propofitipnes , ex quibus difputatur ; Loci tum Pro- blematum , tum Propofitionum . Quinam eft Topicorum finis ? Difputatio redta & idonea de rebus omnibus in partem utramque . ( a ) Dijpu- ( i ) Cicero in Topic. c. I. Ut tarum rerum , qua abfeondi- ta funi , dttni nftratod metat e leco , fatilit tft intentio \ fit eum pervejhgare argumentum ait quod volumnt , letet nefit df bemut . ... -n  Hujus difputationis utilitates recenfet Ar lU otele* ia Li. Top,c.a.&Cic. in Tufcul, a.c. 3,  1. iSz Difputatio bac quibus fit inftrumentis ? Inftrumenta, quibus Dialecticus utitur in dis- putando , duo funt , Indu&io, & Syllogifmus. At- que Igdu&io quidem facilior eft, &ad vulgi fenfum accommodatior ; Syllogifmus majorem vim habet , & dodorum virorum difputationibus magis convenit. ( 3 ) M 3 CA- Difcrimen hocaflfert Ariftoteles in I. 1. Top. cap. 12. Ratio in promtu eft > quia indubio progreditur ex lingu- laribus, qu* fenfibus proxima funt; fyllogifmus ex univer- falibus, qua; funt a fenfibus remota . Ramus in Animad- verf.AriftoteIJ.il. p. m. 17. contendit unam efle argumen- tandi rationem , fyllogifmum > indu&ionem autem non dif- ferre a fyllogifrno feci efte fyllogifmum quemdam ex parti- bus . Digitized by Google iSt .V r   M C It . DE SYLLOGISMO DIALECTICO. U % * r   EST STLL0G1SMUS VULECT1CUS? Q Yllogifmus Dialefticus ( qui uno nomine E- pichirema vocatur ) eft ille > qui fit ex pro-' habilibus , & parit opinionem ; quemadmo- dum demonftrativus fit . ex neceflariis, & parit fcien- tiam . Quomodo igitur differt. Epichirema a . . demonftratione f V/U Demonftratio eft probatio perfeftiftima per cauf- fam rei propriam & neceftariam ; Epichirema eft pro- batio quaedam per figna & effefta . Itaque illa ad A- nalyticum , hoc ad Dialecticum pertinet , ut docet Ariftoteles Topic. 1. 8. c. 1 1. ( i ) Con -  Epichirema Grsca vox eft , qu* aggrejftonem fignifi- cat ivi t Diale&icus enim) qui epichiremate u- titur) rem non pervincit) fed quodammodo aggrediendo ten- tat. Et quia hoc genus argumentandi pertinet etiam ad O- ratores ) Jbrinc Rhetoricas artisMagiftri nomen ipfum fibi fu- munt. Vide Auctorem ad Herenn. !. 2, cap. 2. Clemens A- lexandrinus lib. 8 . Strom. mavult Epichirema efle opus Rhe- toricas artis > Agonifiua Dialecticas. Digilized by Google PARS IV. CAPUT TI. :iS$ t * ' Conclufo ex probabili eftne firma ? Firmifliraa eft ad difputandum , fi concedatur propofitio & aflumtio ab adverfario . Itaque veteres Dialedici fingulas enunciationes prius interrogabant; deinde vero ex concedis fyllogifmum conficie- bant .  Quid eft probabile ? Ig. Probabile ( definitur ab Ariftotele lib. i. Topic. c. i. quod probatur omnibus , vel pluribus , vel fap tentibus ; hifque vel omnibus, vel plurimis , vel maxi- me notis & illuflribus . Itaque tota ratio probabilitatis pendet ab judiciis hominum , quemadmodum veritas pendet a natura rerum . Eft porro probabile omni- bus , v. g. parentes colendos efte ; eft probabile pluribus , M 4 mun- (z) Difcrimen inter modum concludendi ex concedis > & ex demonftratis explicat Clemens Alexandr. 1 . 8 . Strom. p. m.  771. K*4>' to (jSj) xc r tuv 6   |S 4 P ARS ir CA PVT l!. mundum non e fle nifi unum ; eft probabile Rapientibus  terram moveri . Rurfus eft probabile Rapientibus omni- bus , fine virtute beatum efle neminem ; eft probabile plurimis , foiam virtutem fufficere ad beatitudinem ; eft probabile maxime notis 6* illuftribus , quidquid pla- cet Ariftoteli , aut Platoni , aut aliis, quorum fapien- tia maxime cognita & perfpe&a eft . ( Quomodo definitur probabile a Cicerone ? R. Probabile eft /'inquit Cicero Ilb. i.de Invent. c. 29. ) quod fere fieri Rolet ; aut quod in opinione pofitum eft \ aut quod habet ad bite quamdam fimilitudinem ; five id falfium fit , five verum . Itaque probabile neque fal- fum eft, neque verum; fed ita in alteram partem in- clinat, ut tamen alteri non plane repugnet. Triafunt ejus genera . Nam primo probabile eft , quod fere fieri Rolet: qua ratione dicimus filium a matre diligi; quia ita plerumque fit. fj) Deinde probabile eft , quod in communi opinione pofitum eft ; ut Philofophos efle incre- dulos ; quia ita vulgo fertur . Denique probabile dicitur , quod iftiufmodi probabilibus fimile eft ; ex. grat. fi filius a ma- (4) Videndum tamen eft, ne quod probatur rapientibus, Tepugnet communi opinioni, ut monet Arifloteles Topic. 1. cap. 10. Huc pertinet illud Ciceronis lib. 1. Offic. cap. 41. Nec quem quam boc errore duci oportet , ut fiquid Soereetet , aut Ariflipput contra morem ccnfuetudinemque  quod Diale- flicus projiceret in medium quseftionem bipartitam , fumtu- rus utraui partem fibi dediffet adverfarius , Digitized by Google . 187 Secunda divifio: Aut nulla eft de problemate ho- minum opinio; (a) aut in eo diffentit vulgus a fa- pientibus; aut fapientes ipfi inter fe diffident ; aut vulgus fecum. Tertia divifio: Alia funt problemata vere ac pro- prie Diale&ica , quia rationes probabiles habent in partem utramque : alia funt problemata , qua; re ve- ra Apodi&ica funt , & capiunt demonftrationem ; fed tamen Dialeftico more pertrahantur , ad quam- dam animi praeparationem . ( 3 ) v Qua in re problema ver fatur 1 Problema Dialefticum nullis finibus coercetur : attamen non debet efte exlex. Itaque illi conditio- nes quafdam pracfcribit Ariftoteles. Prima eft, nefit improbum & poena dignum ; ut fi quis quarrat , num Deus fit colendus . Secunda , ne de iis rebus inftitua- tur, quae funt fenfibus manifeftae, v. gr .utrum nix fit alba . Tertia, ne de iis fit, quar vel nimis facilia vi- deantur, vel nimis difficilia: nam priora nullam du- bitationem afferunt, pofteriora nimiam. CA- ( 1 ) Velut fi quzratur, utrum ift Luna fint animalia ; utrum Stellae fint pares , an impares ; & fimiiia , qus ignota potius, quam dubia dici poflunt .  Efl etiam quadam problematis fpecies , quam tbtfim vocat. Hoc nomine fignificatur fententia , qua: omnium ho- minum opinioni adverfatur ; quamvis levi aliqua ratione ni- tatur, aut etiam aiicujus Philofophi auftoritate : cujufmodi erat thefis Zenonis , nihil moveri . Attamen aliquando tbefit late fumitur pro quovis problemate. Digitized by Google tU CAPUT IV. DE PROPOSITIONE. &UID EST PROPOSITIO ?  * % A Lterum materiae genus , in quo Topica Ari- XA ftotelica yerfantur, eft Propofitio . Eft au- tem propofitio generalis fententia per quam brevi- ter locus is exponitur, ex quo omnis vis emanat ra- tiocinationis ad problema folvendum . Haec ipfa ef- ferebatur a veteribus Diale&icis per interrogationem , & conflabat parte una : ex. gr. nonne quod dele fiat , eft expetendum ? Apud nos primam Syllogifrai partem conftituit , quam majorem Scholaflici dicunt , & caret interrogatione pro modo difputandi noftro . ( i ) Quinam eft ptopofitionis ufus ? $. Inventa propofitione ad ' problema folvendum ido- ' .. (i) A Cornificio dicitur expofitio in lib. 2. ad Herenni, c. 20. A Quintiliano modo intentum , modo intentio > habita ra- tione grseci vocabuli irpalzJ/?, quod eft a tfsl&i intende- re , quia intenditur ad problema. Itaque Ariftoteles fcribit , propofitiones & problemata effe paria numero, quod fibi in- vicem refpondeant . Pofito enim problemate , ponitur propo- iitio, qua; illud folvat. Et fi quod problema propofitione caret fibi refpondente , problema dici nequit > fed dicitur thefis per fe nota, vel inexplicabilis. Digitized by Google PARS IV. CAPUT IV. 189 idonea , faeile cft addere fumtionem , & fyllogifmum conficere : ideoque prseftantiflimus quifque difputator propofitionum copia abundare debet. Unde fumitur propofitionum copia ? #. Ex communi fermone , ex difputationibus > ex libris dodorum virorum . Hinc enim fiunt appara- tus , quibus pro re nata ad propofitiones formandas uti poffumus. Quomodo fit Apparatus ? #. Quinque regulas faciendi apparatus tradit A- riftoteles in libr. 1. Topic. capit. 14. Prima eft , ut diverfa rerum capita feparatim notentur , v. gr. de Bono , de Natura , de Arte. Secunda , ut unum- quodque definiendo explicetur, in partes tribuatur , & affedionibus fuis ornetur  Tertia, ut adfcriban- tur fingulisfententiae illuftrium virorum . Quar- ta , ut diftinguantur tria fumma genera. Logicum , Ethicum , Phyficum  Quinta , ut incipiamus a com- munibus & late fufis , ordine defcendentes ad fingu- laria & angufta . ( 3 ) Qu & Tenebra i ub relatis Emptio , & Venditio , &c. I$0 . t Quanam funt inflrumenta paranda propojit tonis} Tria recenfentur ab Ariftotelc , diftin&io am- biguitatis , ' declaratio differentia , inventio Jimilitudi - TUS  Explica mihi primum , ejufque commoda  T. Primum parandae propofitionis inftrumentum eft diftin&io ambiguitatis  Hoc enim valet ad perfpi- cue cognofcendum , quid fit id , de quo difleritur , ut differamus de rebus, non de vocabulis ; tum fa- cit , ut facile diflolvamus adverfariorum argumenta ex ambiguo du&a; denique ut adverfarios ipfos am- biguitatibus implicemus. Quamquam tertium hoc ma- gis Sophiftae convenit, quam Diale&ico . Porro am- biguorum diftin&io fumi poteft ex oppofitis , ex con- jugatis, ex generibus, ex categoriis , ex definitioni- bus, ex comparatis. Ex. gr. illud eft ambiguum 6c multiplex, cujus oppofitum multiplicis naturae eft ; cujus conjugata funt ambigua ; quod refertur ad va- ria genera proxima ; quod pertinet ad diverfas ca- tegorias; cujus definitio multiplex eft; cujus membra inter fe comparari non poliunt. (4) Ex- ( 4 ) Exemplum hujus poftremi articulielTe poteft acutum , quod ambigue dicitur de fapore , voce. Quamvis enim & fapor acutuf dicatur, & vox acuta ; attamen vox fle fapor nul- lo modo inter fe comparantur. Neque enim fapor dici po- teft acutior voce , aut vox fapore . Exempla reliquorum fa- ciliora funt) & peti poliunt ab ipfo Ariftot, 1, i, c, 15, Digitized by Google PARS IV CAPVT IV. ~* 9 * , . Explica fecundum* * . * -i Secundum propofitionis parandae inftrumentum eft inveftigatio differentia , qua fit., ut. cognofcamus naturas rerum , quas per differentias conftituuntur ; .& problemata folvamus de eodem ac diverfo ( 5 ) . Por- ro ut differentiae cognofcantur , fpe&anda genera funt : & primum quidem cognofci debent differentiae eorum, quae funt fub eodem genere , ut fortitudo , & jufti- tia; deinde eorum, quas cum generibus diverfiscon- tineantur, tamen aliquo modo fimilia funt, ut fen- fus, & f cientia. (6J Cedo mihi tertium  A % i I Tertium inftrumentum eft explicatio pmilitudi - nisy quae plurimum confert primo quidem ad indu- Iliones Dialedlicas, per quas. tx pluribus fimilibusfi- mile concludimus : deinde ad fyllogifmos hypothe- ticos ; quia v. gr. cum firmatum eft , eumdem efle con- trariorum fenfum; ex hypothefi efficio , eamdemefte contrariorum fcientiam, ob fimilitudinem , quae inter- cedit inter utrumque : denique ad inveniendas defi- nitiones; nam quae in aliquo genere fimilia efle de- prehenduntur , unam definitionem capiunt; quae ad varia genera pertinent , pluribus definitionibus funt ex- pli- ( $J Hoc eft, ttt probemus, alia effe eadem, alia effe di- verfa 5 quod apparet ex differentiis , quas generibus additas conflituunt fpecies, C 6) Juvat etiam cognofcere differentias quaslibet , ex quibus fumi poliunt propofitiones minus firma;, . plicandi. Monet autem Ariftoteles, ut fimilia quae- rantur non modo in eodem genere, fed etiam in di^ verfis & valde diftantibus ; idque tum per particu- lam ad y ut cum dico, ita fe habere fcientiam ad ea , quas fciuntur, ut fe habet fenfus ad ea , quas fentiun- tur ; tum per particulam in , ut cum dico , ita eile mntem in anima, ut eft vifus in oculo. CA+ i \ DE LOCIS PROBLEMATIS, ET PROPOSITIONIS. QUINAM SUNT LOCI PROBLEMATIS ? #. A D locos ventum eft ; quod ordine tertium JlX facimus, fed natura princeps eft Topico- rum argumentum * Loci igitur Problematis fumun- tur ab ejus praedicato . Praedicatum autem fpeCtari po- *eft, vel ut prima notio, vel ut fecunda.. Ut prima notio, dividitur per decem Categorias, ut aliud fit Problema fubftantiae, aliud quantitatis, aliud quali- tatis , &c. Sed hac ratione non pertinet ad Dialecti- cum* Ut notio fecunda, dividitur in genus , defini- tionem , proprium , & accidens : atque hi quidem funt principes loci Dialectici , qui recenfentur ab Arifto- tele in 1 * i.Topic.c. 4. Nam quidquid alicui rei tri- buitur, vel eft aliquid communius, & dicitur genus \ vel eft aliquid ex aequo refpondens , & dicitur defi- nitio ; vel eft affeCtio neceflaria, & dicitur proprium ; vel eft affeCtio communis, & dicitur accidens . Hinc problemata DialeCtica quatuor , generis , definitionis , proprii y accidentis .   N Quod - \  Quoties igitur quaero quid iit aliquid, qua/e , quan- tum , &c, problema phyficum eft. Aliiajunt, decem Catego- rias conftituere fubjeftum problematis ' a genere autem , de- finitione ) proprio , & sf eidem t fumi prxdicatum *  ij4 . Quodnam eft Problema Definitionis ? Problema Definitionis , ut etiam aliorum loco- rum , vel expreflum eft , vel tacitum : expreflum eft . fi quaeram ex* gr. utrum habitus rationi confentaneus fit virtutis definitio , necne : tacitum eft > fi ita quaeram > utrum virtus fit habitus rationi confentaneus , necne . Ad problema definitionis revocat Ariftoteles quaeftionem, utrum fit idem , an diverjum . Nam hoc nihil eft a- liud, quam quaerere, utrum eadem definitione compre- hendatur > an diverfia. Quodnam eft problema Generis ? \ Problema Generis eft , cum quaero , utrum prae- dicatum conveniat fubje&o tamquam commune ali- quid ad eflentiam & naturam pertinens . Illa quoque ad problema Generis referuntur , quo in Genere fit ali- quid y & utrum duo quapiam fint in eodem , an diverf* genere. Quanam funt problemata Proprii , it Accidentis \ Proprii problema eft , cum quaeritur , Utrum prae- dicatum conveniat fubjefto tamquam propria affe&io ; Accidentis , cum quaeritur , utrum conveniat tam- quam afle&io communis . Ad Accidentis problema refert Ariftoteles comparationem quamlibet , utrum ex duobus fit utilius , utrum fit jucundius , utrum honeftius Cur t  . *9f Cur non memorat Ariflotcles problema fpechui l Speciem non memorat, quia fpecies eft id, de quo quaeritur , ideoque fubje&um qua?ftionis confli- tuit : problemata autem fumuntur & nominantur a praedicato  ( 2 ) Cur non memorat problema differenti* ? * rju Quia differentia , fi generis eft , refertur ad ge- nus ; fin autem fpeciei eft , vel eft pars ipfius effentiar, qua ratione ad definitionem pertinet ; vel eft congeries quaedam affettionum , quae fimul con- proprium aliquid efficiunt ; ideoque problema proprii conftituit  Quinam funt hei Vropcfitionh i I. Cum omnis Propofitio referatur ad problema folvendum, idem eft quaerere locos propofitionum , atque argumentorum ad folvendum problema  Por- ro autem iifdem locis % problema folvitur , quibus N a con- ( 2 ) Si quaeras utram fpecies aliqua fubjiciatur generi , vel cui generi fubjiciatur , v. gr. utrum homo fit fpeetet ani- malis ; qtueftio generis eft  Incidit enim ia illam , utrum animal fit &enut bminit , t9 g . conftituitur , genere , definitione , proprio , acciden- te. {*,) CA- * i  V ( 1 HaQenus fideliter exprimo Ariftoteli* libro. Iniis ouse fequentur, aliquanto liberius verfati fumus , ut Ari- flotelicam doirinam per reliquos libros fufam , in pauca co- geremus. 1  DE LOCO GENERIS. Quid G cruris nomine intelligitur ? T T Ic Generis nomine intelligitur quidquid to- X X tius rationem habet ; cui refpondet quidquid habet rationem partis . Et quia totum vel eft aliquid Logicum, ut diximus in Rudimentis Par. i. cap. 6 . quod partes habet fibi fubjeftas; vel Phyficum, quod partes habet, ex quibus re ipfa componitur; ex utro- que argumenta fumuntur , tamquam a loco Generis . Attamen proprie Genus dicitur totum Logicum , cui refpondent fpecies & individua tamquam partes . Et in hoc quidem fpecies non differt ab individuo , fed utrumque fignificat aliquid Generi fubjedum , veluti partem ejus. Quod fi a fpecie tamquam a fuperlori ar- gumentum ducatur , tum fpecies induic rationem Ge- neris, & argumentum a Genere dicitur. ( ij Quomodo fumantur argumenta ex toto * Logico ? Valet hic locus, qui proprie dicitur a genere , ad refellendum; regiturque hoc axiomate: Sublato ge- nere , tollitur quidquid generi [abjicitur . Verbigr. Si non N 3 ejl ( i ) Hinc apparet, cur Ariftoteles non pofuerit locum Jpe* citi : qua de re tam multa divinant ejus Interpretes. . eft virtus , neque prudentia eft , neque juftitia , neque tempe - * tantia , neque fortitudo . In confirmando non valet, nifi quatenus pofito genere , ponitur aliquid ex iis , quae ge- nere continentur : ut fi dicam, Virtus eft; ergo vel pru- dentia , vel juftitia , vel temperantia , vel fortitudo  Nul- la tamen ex his per fe fola concludi poteft . Quod fi non a genere ipfo , fed ab iis , quae genus neceflario confe- quuntur, argumenta ducere velimus ; omnino valet difputatio, tum ajendo, tum negando. Ex.gr. Virtus eft laudanda \ ergo tum prudentia , tum juftitia , tum tem- perantia , tum fortitudo laudari debent : Virtus reprehen- di non poteft ; ergo nec prudentia 9 nec juftitia , nec tempe- rantia , nec fortitudo . Laudari enim , & non reprehendi funt confequentia quaedam virtutis . Ex partibus Logicis quomodo difputatur ? f % * R. Si ex formis ad genus progrediamur , argu- mentatio in confirmando valet , in refellendo non i- tem . Nam pofita parte aliqua generis , ponitur genus ; fub- . lata, non tollitur. Ita fi dicam, juftitia eft , ergo virtus eft , re&e difputo : non tamen re I. Vofito toto Pbyfico , ponuntur partes omnes: ut fi eft: homo , confiat mente , & corpore . At fublato toto , non Jlatim tolluntur partes . Nam pereunte homine , pars ejus potiffima non perit. Id vero locum habet non mo- do in totis naturalibus, fed etiam in arcefadis. Itaque pofita domo, ponitur fundamentum , paries , & te- dum : ac ea everla , non necefte eft , everti partes omnes . (1 N 4 Quo- (3) Ad hunc locum pertinet illud Virgilii 4.. AELneid. verf. 534. ubi Dido, exclufis omnibus doloris fui remediis prster mortem , demum concludit ; Quin morere y ut merita et  ferro que averte delerem , (4) Videndum tamen , ne pars aliqua omittatur, quod fa- cile contingit. Nam fiquis verbigr. contendat , mortem non cflfe malum, ut eft apud Ciceronem Tufcul. 1. quod neque morituris malum fit , quia nondum eft j neque mortuis, quia amplius non eft; incidit in fallaciam partis ornifTs : fiquidem mors malum eft morientibus . (5) Id accidit, quia partes Phyfics in rei cujuslibetcon- ftitutione vel primaria funt , fine quibus nec efle res , nec 1 nominari poteft ; vel funt fecundari a , qus ad eam abfolven- dam & perficiendam valent . Rurfus alis funt cognats , h. e. ejufdem generis & nominis, qus Grsca voce bomogenea 1 dici folent alis generis fir nominis diverfi , qus beteroge  nex vocantur. Utramque hanc differentiam qui non relete- fi- . ( 1 ) Quidam ad locum Accidenti* referunt Oppofita , p*+ ria , fimi lia , conjugata 9 effetta^ &c. Sed hae notas qua- dam funt , quas per omnes locos vagantur ad diftinguendas propofitiones a propofitionibus , & argumenta ab argumen- tis . Rhetores prsefertim locos appellant , deque iis inulta praecipiunt.  a6 T ARS IV C APUT IX. ftgnum neeeffarium , Jignum commune . Sunt autem loci illi communes omnibus generibus ; fed fingnla genera proprios habent locos; Judiciale juftum & injuftum ; De- liberativum utile 6 inutile \ Exornati vum boneftum inboneftum . Ciceronem lib.i. de Orat. c. 31. Porro hl funtloci argumentorum infitorum . Nam qua; etlexvx Greci vocant , hoc eft ab arte remota (3 ajjumta , non debent inveniri ab Oratore . Antonius apud Cic. lib. 2. de Orat. c. 27. Ad proban- dum duplex eft Oratori fubjeda materier  una rerum earum , qua non excogitantur ab Oratore , fed tradantur , ut tabula > teftimonia ( 3 c. altera ejt j qua tota in difputatione , t 3 argu- mentatione Oratorit collocata eft . Ita in fuperiore genere de tradandit argumentis , in hoc autem etiam de invenienda cogitandum eft. DE SOPHISTICIS. DE NOMINE, ET NATURA ELENCHI SOPHISTICI. QV1D EST ELENCHVi? JJL "C St Syllogifmus , qui arguit enunciatum ali- JL-/ quod , eique contrarium concludit . ( i ) Quid eft 'Elenchus Sophifticus 1 Jft. Eft Syllogifmus fallax , oppofitus Dialettico , Grae- ce : fitque vel ex iis, quae probabilia vi- dentur , fed non funt ; vel ex iis , quae probabilia funt , fed praeter leges fyllogifticas componuntur . Pri- mo modo dicitur peccare maneria , altero forma . Quamquam is , cujus forma deficit , & ad concluden- dum ( i ) Ducitur a Grzco iKsyy t trgme . Itaque condici- tur uti Elenchis, nifi qui difputat adverfus aliquem, Sc ra- tiocinando difputat, ut colligitur ex Ariftotele lib. a, Prior, cap, zo.  TARSVCAPVTL dura inepta eft, proprie neque Syllogifmus , neque E* lenchus dici debet , fed Paralogifmus . Cur dicitur Sophiflicus? lg. Quia Sophiftac videri malebant fapientes , quam efle, ut fcribit Ariftoteles cap. i. hujus libri: ideoque per ea difputabant, quibus fallerent, (a) Jjifftrtne Elenchus Sophiflicus a Contentio fi? Differt fine & inftituto, non re. Nam Conten - tbfi illi dicebantur uti , qui oftentationis caufla difpu- tabant , & viftoriae gloriolam quarrebant ; Sophiflico autem , qui ex difputatione quaeftum aucupaban- tur.  * In quo differt ah Apatetico? R. Syllogifmus Apateticus , feu Pfiudograpbus ( nam utroque modo vocatur ab Ariftotele ) fit ex falfis , fed propriis ejus difciplinar, in qua difputatur . Itaque op- po- {%) Dicitur etiam Sophisma : quamquam SopHfma eft quae- libet cavillatio , quocumque modo fiat . Nomina Graeca funr , quia res ipfa apud Romanos non valde in ulu erat , ideo- que nominibus Latinis carebat , ut fcribit Seneca epift, 1 1 1.  Haec fumfi ex Elenchis Ariftotelis cap. 11. Attamen etiam oftentatio Soph iftam facit , Si Ciceroni credimus, qui ita fcribit in Academ. 4. cap. 23. Sophi fla appellantur ii , f ui cfientationis , aut quaflus caujfa pbilofopbamur , Digitized by Google PARS V. CAPUT I. Z09 ponitur demonftrationi . Sophiflicus fit ex commu- nibus, & opponitur epichiremati . Cur de Elenchis Sophifticls agit Diale&icus ? * Ut viam & rationem fibi comparet , qua poffit Sophitis refiftere. Nam, ut feri bit Quintilianus lib. I2.1nftit. c. 1 .Remedia melius adhibebit , cui nota , qua nocent , fuerint . ) Clemens Alexan. !ib.6. Strom.cap. io.jfy/ , yxV V/ J/x- XsxTfxV , fi' r.xTxTxr&eStu vtfot nuv troQicZv riv Didi fllca vallum e fi , / veritae aSopbiftit conculcetur . Nam  ut feribit Cicero in Acad. 4. c. l 5. Fallacibus it capti t/it inter- rogationibus circumfcripti atque decepti quidam , cum eat dtp folvere moti pejfvn : , defeifeunta veritate . Primus autem omnium fuit Protagoras Abderites, quiconfulto adhibuit Sophifticos elenchos, & per eos ad fallendum difputavit $ ut feribit Sui- das , dc Diogenes Laertius in ejus vita. 2X0 . - - %  *   * * 4 DE FALLACIIS VOCUM,  f  .  . UNDE SUMUNTUR ELENCHI SOPHISTICI ? i | * M * t I ,  * #v ITA Uo fdnt eorum fumma genera ; alterum JL/ verfatur in voce , alterum in re  In voce fex poliunt efle fallacias x lu re feptem  * * i * - ' ,  #  , ' 4 , 4 r * * -***. * -  r I Tres pertinent ad vocem unam ac fimplicen*, accentus , diftionis , 6* bomonymia : tres autem ad voces plure?s limul compolitas , amphibolia , compofitio , & divifio  Quanam efi fallacia accentus? Accentus fallacia valet prasfertim apud Grar- cos, quorum vocabula, variato accentu , aut fpiritu , mirum in modum variantur* Apud Latinos fallacia haec ex fyllabarum quantitate ducitur  Hoc modo lud e bat Nero ( ut efl apud Sueton. in ejus vita* cap. ,33. ) cum ajebat , Claudium defiifle inter homines tno- r ii 11 1 Digitized by Google V ARS V. CAPUT II. mi morari  Nam moror prima fyllaba correpta, figniiicat manere ; produfta , fignificat infanire . ( i ) Quaertam eft fallacia figurae diftionh ?  Cum quis fimili politione deceptus, eafdemYO- cabulis diverfis affe&iones tribuit . Hinc Ariftotelesait , Sophiftas interdum fpe&are foloecifmos . ( z ) Quid efl homonymia ?   $. Eft ambiguitas orta vel ex neceflitate , .vel ex infcitia , vel ex fraude ejus, qui uno verbo plura fi- gnificat . ( 3 ) O 2 Quo- i -( i ) Ad hanc fallaciam pertinet prnnunciandi vitium , cum conjun&a feparantur , aut feparata conjunguntur; quo fit, ut varietur accentus . Hujus generis eft illud Capitolini in M. Antonino Philofopho ca p- 29 ^Crimini ei datum tfl , quod adulteror uxoris promoverit , inter quot Tertullum  Huic al- ludens Mimus in theatro , ipfo fpe&ante Antonino , fcifci* tatus a fervo eft , auifnam eflet uxoris fu* adulter . Cum is refpondiflet , Tuitur , T 'ullus y Tullur ; & adhuc Mimus querendo pergeret , tum fervus quafi fubiratus , nonne di- xi ( inquit ) ter Tullur ? Duo poftrema verba eodem ac- cenru & pronunciandi modo conjun&a efficiunt nomen a- dulteri . Per hanc fallaciam ludebat Diogenes Cynicus , cum Euclydis Diale&ici  fed alienis commodati f que , 2 I 2 P ARS V. CAPUT II. * . Quotuplex e fi bomonymia ? % $. Duplex. Nam vox interdum res plures fignifi- cat nulla fibi proportione refpondentes ; ex. gr.fi fidus latrare dicas,- quod fidus quoddam canis vocetur Interdum vox pluribus rebus tribuitur analogia & pro- portione quadam ; cujufmodi funt metaphorae omnes > ut cum caput defummo diverfarum rerum faftigio di- citur ; & ex hac fimilitudine fallaces ducuntur elenchi . - Quid cfi amphibolia ? J. Eft fallacia, quae oritur ex conjuntione ambigua multarum vocum, quarum fingulae ipfae per fe ambi- guitate carent. Hujufmodi eft Apollinis oraculum , Pyrrho redditum , quod refertur a Cicerone lib. a. de Divinat, cap. 56.de a Quintiliano lib. 7. cap. 10. Ajo te y sEacida , Romanos vincere pojfe  Cafus fimiles faciunt, ut non magis in Pyrrhum va- leat , quam in Romanos r QuidHujus homonymis habemus exemplum apud Cicero- nem de Fato cap. 3. in Daphita, qui praecipitatus eft ex ru- pe , quae vocabatur Equur , quemadmodum illi ab Apolline Delphico per ambiguam hanc vocem prainunciatum fuerat . Q*id enim , inquit, fi Vapbita fatum fuit , ex equo cadere y atque ita perire ? Ex bocne equo , qui cum equus non effet , nomen habebat alienum? Exempla paflim occurrunt apud Oratores & Poetas . Sed funt apud Philofophos quoque. Nam per ambiguamin- finiti fignificationera peccafte MelifTum in argumentando 9 oftendit Ariftoteles Phyf. lib. 1. cap. 3.  Alia exempla habes ibidem apud Ciceronem & Quin- tilianum ; itemque in lib. 1. ad Herennium cap. 12. Porro i- ftiufmodi Oracula ancipiti errore involuta urbane irridet Lu- cianus in Jove confutato  PARS V. CAPVT II. **3 Quid e fi compofitio ? Ij. Eft fallacia, qua: oritur ex conjunftione earum vocum & notionum, quae refte intelligi nequeunt , nifi disjungantur: ut fiquis dicat, fedentem non pojfefta - re . Nam fedens fedendo non poteft ftare ; at fi fo- dere definat, ftare poterit.  Quid e fi divifio ? Eft fallacia , quas ea dividit , quas dividenda non funt : ut liquis dicat , quinque effie numerum parem , & imparem , quod quinque fint duo , & tria ) duo au- tem fint paria, tria imparia. (8 ) O 3 CA-  Hac fallacia peccaret , fiquis contenderet , neque cas- cos videre, neque claudos ambulare, neque furdos audire/ ac proinde reprehenderet, quod eft apud Lucam cap. 7. C(ci vident^ tUmdi ambulant , fardi audiunt . Scilicet caeci vident , cum delinunt efte caeci, 3 cc. (8) Fallacia haec a Scholafticis dicitur fenfut divifi , fu- perior ftnjut comptfiti . Huc revocari poteft illa Zenonis (ut eft apud Ariftotelem Phyfic. lib.7.cap. 5.) qua contendebat , fingula milii grana in terram dejeda ftrepitum edere, quod edat milii modiusuno impetu effuftu. Digilized by Google p u T III C A ' DE FALLACIIS RERUM. . R. 'O Opliiftarum finis vel remotus eft, vel proxi- O mus. Remotus eft duplex, de quo initiodi- ximus , quteflus , Sc visoria. Proximus eft in rebus, vel in fermone . In rebus funt pugnantia , falfa , pa- radoxa ; in fermone foloecifmus , & battologia . Sophifta igitur eo fpeftat , ut compellat eos , quibufcum di- fputat , ad concedenda modo pugnantia , modo falfa , modo paradoxa . Interdum etiam eos compellit ad foloecifmum & battologiam , ut opinionem fcientix & e- legantias ftbi comparet   \ * Quid eft Varadcxum ? 1 - - R. Paradoxum ( *p iV ) eft id , quod re- pugnat communi opinioni , quemadmodum falfum re- pu- ( i) Exemplum battologi* poteft efle illud Gracchi apud Gel- lium lib, II. c. 13 . Qua vos cupide per bofce armos appetiflis atque volui fti s , ea fi temere repudiaretis , aiejfe non poteft * quin aut olitn cupide appetijfe , aut nunc temere repudiaffe di- camini. Vides, id quod antecedit , & quod confequitur , efle idem. . pugnat veritati . Itaque Paradoxum poteft efle ve- rum, quamvis nUn appareat. Immo Socratica omnia dicuntur longe veriffima a Cicerone in ipfo Parado- xorum initio. (2) Sophiftas tamen non laborant, ut- 'rum paradoxa vera fint, an falfa' , modo admiratio- nem moveant  ( $ ) CA- ( 2 ) Arrianus de Sermon. Epiteli lib. 2 . cap. i. & 25. Pa- radoxa dicit efle illa, qua; Tolis Sapientibus videntur vera. A Cicerone vocantwr Mirabilis in 4 # Academ. cap. 44. & Admirabilia in Paradox. cap. 1. ( l ) Itaque Clemens Alexandr.l. i.Strom. p.m. 289. finem Sophifl* vocat tiV mxvKiZ fluportm. / - x 2ZI DE SOLUTIONE VERA, ET FUCATA ELENCHI SOPHISTICI . . QUOMODO SOLVENDVS EST ELENCHUS SOPHIS TICUS? *  ft  R. OUm Elenchus Sophifticus peccet vel forma, quia non re&e concludit , vel materia , quae fucata eft ; utramque confiderare oportet . Si peccet forma , neganda conclufio eft : fi materia , diftinguere oportet pronunciatum; & oftendere, quatenus verunl fit, & quatenus falfum. Poteflne umquam adhiberi folutio fucata ? R. Solutio fucata non folum adhiberi poteft , fed interdum etiam verae ac folidse praeferenda eft , fi cum iis difputemus, quos redarguere praeftat, quam doce- re. Quemadmodum enim contentiofa quaedam ingenia funt, quae nihil aliud qua-runt, quam redarguendi glo- riolam ; ita qui contra difputat , non tam curare de- bet, ne redarguatur, quam ne redargui videatur. Do- lus , an virtus , quis in hofte requirat ? ( i ) &u qpodgft- nutdraci oerspsv vocant , Latine id non n : mif inco*ntnode in- explicabile dici poteft , Vide Ciceronem 1 . 2. de Divin,c.4. &c Acad,4. c. 16. & 29, C A P VI fane '* Digitized by Google  ajunt procedente Jermone oportere infiftere & fuftinere fe , ne incidant in abfurdum . (3) Vide Acroafim noftram deTfeudemeno . Nam res eft ejufmodi , ut paucis verbis explicari non poftit . Hinc certe apparet, locum Cireronis in Acad. 4. c. 29. ita legendum ef- fe; Site mentiri dicis j idque verum dicit , te mentiri : ve- rum dicis . Vel tria poftrema verba ita funt legenda : men- tiris , verum dicit. Vel it a: mentiendo verum dicit , Si poftrema hzc leQh> retinenda ftt , oportebit Sophifmaita ef- ferre : Si, dum verum dicis , te mentiri dicis , mentiendo ve- rum dicis i dum autem verum dicis , te mentiri dicit i men- tiendo igitur verum dicis . Digitized by Google VARS V. CAVVT Vh Si fatum tibi e fi , ex hoc morbo convalefcere , five medicum adhibueris , five non , convalejces : item , fi fatum tibi e fi , ex hoc morbo non convalefcece , five medicum adhibueris , five non , ac# convalefces : at alterutrum fatum eft : medicum ergo adhibere nihil attinet  Siquid interrogatio ifta vale- ret , omnis e vita tolleretur a&io . Sed refpondendum eft , in fola divina mente , quae futura omnia fibi prae- fentia videt , res ede fatales , & modos earum confa- tales . Alterutrum igitur , quod rogatur , procul dubio futurum eft ; quamvis nec modus agendi & cognofcen- di nofter , nec ipfa rei natura patiatur , ut fit necefla- rium , & poflit definiri , antequam fit . Ejufdem ordinis fallacia eft "Dominans ratio 9 de qua Arrianus de Serm. Epite&. L 2. cap. 19. Per hanc colligebant > fatum in rebus omnibus dominari * unde illi nomen fortafie eft. Ejufdem item eft ordinis Uie ens ^ Graece > unde efficiebant 9 nullam mejfit curam efle fufeipiendam 9 quae fata- libus cauflis regeretur. Vide Acroafim noftramde Ignava ra* ticne : ubi tota ha;c controverfia 9 qu* de Futuris eontin* gentibus vulgo dici folet , abunde explicatur . F 1 $1 1 s.  INDEX RERUM, ET VERBORUM. A Cademicorum fcientia p. 141. Accentus fallacia 210. Accidens , vox Scholaftica 40 Ufurpatur a Seneca 1 6 . Quid & quotuplex fit 99. & feq. & 54. Qua ra- tione dicatur univerfale 41. Quomodo fit in fubje- &o , & dicatur de fubje&o 49. Ejus locus in arte Topica 205. Ejus problema 194. Ejus fallacia 214. A&io quid & quotuplex fit 73. Ejus proprietates 74. sEquivoca vox Scholaftica 46. Agonifma 182. Alcibiades, Ajax, Achilles num magnanimi 167, Altcratio vox Scholaftica 82. Ambigua 4$. Quomodo diftinguantur 190. Amphibolia qua; . Anacharfis mj, Analyfis quid fit , & quotuplex 85. vox Geometri- - ca. 91 Analyticis libris continentur principia totius Peripate- ticae Philofophiae . " 8JL Analytici libri quomodo dividantur 90. cur dicantur Priores, & Pofteriores ibid. Eorum finis. 91. P Ana-   t*6 I 2 \? D E X Anaxagoras fapiens , non prudens  i^, Animalium gradus in cognofcendo ioi. 102, Anteprsedicamenta quae 41 - & 5 C. Antoninus Philofophus irrifus a Mimo per fallaciam 211 * Apparatus ad copiam difputationis quomodo fiat *>9. Archytas Tarentinus num auCtor Iit Categoriarum 51. & $2. Auctoritas quem habeat ttfbm in probando 109 i to. Axioma quid fit, & quomodo differat ab aliis principiis. Cur Axiomata dicantur communia 1 ' : : .  : . ; B **.. *  * %  * * *  '  Bellum generis rationem lubet , tumultus fpeciei . hibeatur in definiendo  & dexnonfirando 161. Sc t feq. Cauffa remota quanti valeat 124* 125. Caufla una multorum effectuum 172, Parit fallaciam 116 4 * Ison caufla pro caufla ialiacia efl - . . * Ci- RERUM , ET VERBORUM . Uj Cicero Stoicos audivit , & Stoicus eft 87. Circulus in argumentando quinam fit rifi. & feq. Ejus conditiones a8. Cleanthes & Chryfippus principes feholae Stoicae 98, Cognominata 4$. Compofitio Epicurea fj. Comet* non funt caufl rerum 2it. Compolitionis fallacia . Comprehenfio quid fit apud Stoicos 1 & 147. Conclufio ex probabili quam firma fit' . 183. Conjugata quarnam fint  . 4 6, Confequens quid fit x 89 Gonfequentia quid 89. Confequentis fallacia 21$. Contiguum quid 60. Continuum quid 60. Contradicentia qua; ,  . 7 . : 0. Contraria quae 77; Contrariorum conditiones 78. & feq. Corporalia & incorporalia apud $tokos 86. Corpus quid ii* & 6. Corvi albi , * 40. Cynici in propatulo coibant a 15. D D Aphita deceptus ab Oraculo per fallaciam 21 a. Definitio quid & quotuplex 99. & 164. Eli me- dium demonftrationis i t 7 Ipfe non demonftratur - nec demonftrat , ibid. & likNurofit modus fcien- di ibid. Quinam fint definitionis loci' 1 66. & feq. Quae capiant definitionem 172. & feq. Quomodo P 2 de- Digitized by Google li% 1 'K D E X . definitio adhibeatur iu Topicis 194* 2C>J * Demo nftrare. quid fit 9 Demonftratio quid m. Demonftratio in orbem x *. Demonftratio Stoica J 45 Demonftrationis praemifla? quibus conditionibus prae- dita? m. & feq. Demonftrationis neceffitas 1 14* Demonftrationis exempla iai. & feq. Demonftra- . tinnis materia & medium jj 7. Demonftratio a priori , & a poficriori 123. & feq. Ex quibus fiat 1 19. 120. Deus quid fit 5^. Num collocetur in Categoria fub- ftantiae 55. Definiri non poteft. ibid. Quomodo fit in loco , y 7 5 m Dialedica quid fit apud Stoicosic Platonicos 13. & 15^ Dialedicus per excellentiam Dici de omni > 1 i? Didi non fimpliciter fallacia **5 Differentia quid & quotuplex H- & feq. Dividit & conftituit 35. Differentia propria una efle videtur 36. Ejus magna eft ignoratio, ibid. & 17* Differentia quomodo inveftigetur 19* Differre fpecie & Differre numero a 4.15. & 34 Diogenes m* Difparata qua; fint - !$ Difpofitio quid fit Diverfa qua; dicantur 1^* Divifio fervit definitioni 1 j 8. Divifionis fallacia 2 1 3* Divifiones vocum & rerum 4 47 Dubitatio quid fit> & quando adhibenda 107. & feq. RERVM , ET VERBORUM. 2 )^ E FfeAa quomodo cognofcantur . . Efficiens fola vera cauffaeft . Elenchus Sophiflicus quid fit *o 7 . A quo primum adhibitus ao9 v Quomodo differat ab elencho con- tentiofo , & apatetico ao8. Cur de eo difputetur ao 9 . Unde fumatur zro. Elenchi Sophiftici finis *o8. a 19. Ejus folutio vera, & fucata **i & feq. Entia rationis , . Epichirema quid fit * * f | Epicureorum fcientia& demonftratio 14*. & feq Epicurus non contemfit Dialedicam a*. Admifit no- tionem Deorum a natura impreffam 9 6 .hen> p Z notiones aliarum rerum fenfibus comparatas Euclides Dialedicus irrifus per fallaciam   * >JO I ' M J D E X G / G Enus quid fit 2 3. 19 7. Perperam definitur a Scho- lafiicis 24. Quotuplex ay. & feq. ' Interdum pro fpecie ufurpatur atf. Quam pr*dtcationerrt ca- piat 44. Generum differentiae 49. Sc feq. A gene- re quomodo fumantur argumenta* 198. ic feq. Ge- neris problema Generum differenti & $0, Gracchi battologia . 19. H H Abire quot inodis dicatur -8 a. dt feq. Habitus quid fit 66, & yy. Homonyma qur 4 6. Homonymia quid & quotuple* fit ' atr *ra. Hypothefis quid fit % % I Deae Platonicas quid 19* 6c feq. Ideas innatas cur  a Platone admifl 102. 128. Ideas quomodo a * Platone probentur * 4 V * " ^ -  Ignava ratio quid fit -  Ignorantia quid & : ;quotuplex " . Individuationis principium : 30. Individuum quid & iquotuptex fit Ejus necas v. ,ibid. -?*>  y * Indubio fervit definitioni 154, Ejus^prmcijtia^ ior  Inexplicabilia qua: ,v 0 o> Interrogationis geminat fallacia juxjjlu sfc ^ Leib-  J IERVM, ET VERBORVM, aji . l L 1 . 1 1 J Eibnitii demonflratio . .. . A Isi. Line quid fit 6 1, Refla , & curva non finit . . contraria. - ; . i.' r; :   . 1 4 M ' . * * f M Agnanimitas quid fit -: * 6 j,t 6 t* Materia , & Materi* neceffitas caufTa eft j 6 Medium demonfirationis 177 . Quomodo Latine vo- cetur jf8. Medium folvend* quxfiionis quodnam fit 17 6. & feq. Metens , qu*nam fit argumentatio . . 224. Momentum quid fit  & diffe- rentiae cur non fif  - 195* Pro- 79. & 8o # 79. &  A  i 134 rvN-0 B X . / Propofitio quid apud ArittotelCm 188. Unde furnax r i . tur pf opofitioncs ; 184: 190. 141* 195. Proprium quid & quotuplex 37. Proprium hominis quid fit 39. Locus proprii in arte Topica 104. Ejus problema ' : ;; 194. Protagoras Abderites .209. Pfeudomenos 23* Pfeudographus fyllogifmus 208. Pun&um quid fit > . 6 1. Pyrrhus deceptus ab Oraculo per fallaciam 212 r 1 - ^  V- r# ^ *  Uaeftio omnis ad Logicam pertinet - - i>4. ^Quaeftio quid & quotuplex ' '  i r *. i. * R Arum & denfum num fpecies fint qualitatis 62 . :* ; : * :*  > . Regreffus quid fit ii$. & feq. Regulae Antepntdicamentorum > .  r *   ; 58* Superficies quid fit , & quomodo gignatur 61, Syllogifmi principia r ; . f r fOk' Syllogifmus Dialefticus quinam fit > v 1 .-r8a#.. Synonyma quae 46. Sola habent locum in Categoriis 4 *.  *  r ..  0 % * | 1 > >f, .i  't }  V >   * r .1^1 J ci- / ' ' . . -  0 ,1 % ... n * l V ,\ol. , j '*' *t* inal r;*  i c  * * <+* * # t . 't 3 1 i  - ) r   -*A < V JU 0 ' IY i ,  <* f. *    *  RERUM, ET FERRORUM. 237 T Empus 6 i. & feq. f Termini reciproci X Termini reciproci 1*7. Thales fapiens, non prudens 153. Themiftius optimus Analyticorum interpres 94. Thefis 98. 187. Topica conjungenda cum Elenchis fophifticis 179.' Unde dicantur; quas fit eorum materia , qui finis 180. Topicx difputationis inftrumentum 181. Topica Rhetorica quomodo differant a Dialefticis 205. Totum Logicum , & totum Phyficum quomodo ad- hibeantur in argumentando 197. & feq. Tranfcendentia quar dicantur  73. Tumultus fpecies belli 198. U Bi 75. Velleji Epicurei fallacia 214. Verifimile 184. Veritas odium parere dicitur per fallaciam a 16. Vifum apd Stoicos & Epicureos quid fit 96.97.98. Univerfale qnid & quotuplex 18. Univerfale Peri- pateticum 19. De Univerfali cur agatur in Logi- ca e a;8 INDEX ea 20. De illo mulca Scholaftici 22. Sola Univerfa- lia fcientiam capiunt 148. Sola capiunt definitionem * 7 3  Vniverfe primum quid fignificet Ilff. & feq. "Univoca quomodo Latine dicantur Voces quomodo dividantif 4 *. 47 - z Enonis fallacia Zenonis fcientia *?  FINIS. Facciolati. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Facciolati,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Faccioli – il deutero-esperanto – da Harborne a Villa Franca – la scuola di Villa Franca – il villa-francese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Albani IL VENETO  COME LINGUA UNIVERSALE. Il sogno di una lingua universale, cioè di una lingua ausiliaria parlata da tutti gl’uomini della terra, non è mai svanito. Periodicamente ricompare, nelle forme più strane, vagheggiato spesso da paladini di utopie in pensione o da linguisti della domenica. Alcuni anni fa questo sogno ha attraversato la vita di F.. Di F. non sappiamo nulla, se non che, sotto il cielo di Volpare, un sobborgo di Villafranca di Verona, elabora un progetto di  lingua universale basato sul dialetto veneto, il «dialeto più simile al latin, più breve di esto e d’on’i lingua sorela. – Grice: “I tried to construct my Deutero-Esperanto according to the grammatical idiosyncrasies of the vernacular of my native Harborne, in Staffordshire, to no avail! Not even my mother (who was from Warwickshire) could understand it!” --.  Secondo la “teoria scientifica della parola” di F. la parola vera è quella che meglio ritrae l’armonia imitativa e il senso interno delle cose e la lingua "milior" è quella più in armonia con le leggi dell’arte e del pensiero. Una lingua non è un’invenzione arbitraria, ma una creazione dello spirito umano che apprende con facilità quello che è vero secondo la logica o la filosofia del linguaggio. La lingua universale dev’essere la lingua più logicamente vera, la più adatta all’arte oratoria e letteraria. Dev’essere semplice e viva, nata dalla lingua morta migliore, cioè il latino di CICERONE (morto), e non del Papa! --, corretta secondo i princìpi fondamentali dell’idioma naturale, abbellita, sostenuta dal pensiero forte degli scrittori (vale dire, filosofi) abili. Il dialetto veneto - ben parlato, pulito, ingentilito, senza doppie, con troncamento delle parole che rende poetico, vivace e robusto un idioma, oltre che telegrafico per la soppressione quasi completa dell’articolo - si presta perfettamente al compito di lingua universale. Ed e anche operatico (La Fenice!). F. stampa una serie di periodici, intitolati “Lingua de nazioni e la lingua universale,” per propangandare l’italiano moderno, cioè il suo “italiano-veneto”. In un opuscolo stampato idall’Editrice “Estremo Oriente” di Villafranca di Verona e conservato nel Fondo Bruno Migliorini presso la Crusca a Firenze, F. annuncia «il più grande avvenimento filosofico de’tutti i tempi dopo la distruzione di Babele – che mai ha essistito --, ovvero la nascita della vera lingua universale, la cui culla è il mio veneto, e propriamente il vernacolare di Villafranca dove si parla il più musicale e semplice dialetto italiano. I fondamenti dell’Italiano moderno sono tutti razionali. Quante unità di suono, tante unità di segno. Per solo suono, solo segno.A suono eguale, segno eguale – cf. Grice on the annoyance of perceiving some idiolect-ers pronouncing ‘suit’ when they mean ‘soot’ and vice versa (‘Studies in the Way of Words’).  L’alfabeto della lingua universale è costituito da XXII lettere:  a, be, che, de, e, fe, ge, ce, i, le, me, ne, gne, o, pe, ghe, re,  se, te, u, ve, e ze  Il suono, sempre invariato, si ottiene semplicemente levando la “e” – tanto alto come e possibile. F. sottolinea che il dialetto veneto non ha “alcun suono aspirato come in Toscana e altrove, né la doppia”, ma solo suoni “chiari, precisi, ben definiti -- inconfondibili”. È breve e armonioso come si deduce da questo esempio. La frase “Sono andato al mercato e ò comperato un paio di buoi”  assume la forma abbreviata – sincopatta --: “Son andà al mercà e ò conprà un par de bo”. Il dialetto veneto di Villa-Franca ha una grafia perfetta, degna di essere imitata. Troppe ascendenti o discendenti, segni diacritici, o dis-armonici, come “j” – comune in siciliano --, “k” – mai usato dai Romani --, “x” – stravaante per Cicerone --, ed “y”, -- deprecativamente chiamata la i reca -- deformano totalmente la grafia “ch’è scienza e arte pedagogica a servizio della vita – della vita felice, se si vuole”. F., come Grice, è molto sensibile all’estetica grafica perché essa si risolve in igiene visiva (“And Faccioli had beautiful handwriting” – Grice). In caso di omonimi l’italiano moderno adopera l’accento grave per la voce più forte (fatto fato; fato fàto; mese meze; mezze mèze). Sono omesse la “i” atona in "cia, cie, cio, ciu, gia, gie, gio, giu”. Società divenne ‘socetà’; igiene ‘igene’) e la “i” e la “d” eufoniche; è naturale poi che non si scriva la “g” di "gli" se muta – ‘figlio’ si scrive ‘filio’.  Il dialetto veneto di Villa Franca non usa “passato e tra-passato remoto, il più irregolare e difficile tempo dei verbi italiani.” Questi due tempi si traducono col passato e trapassato prossimo, o con una locuzione equivalente, così “nacque” è "nato" oppure “quando ebbe ricordato” diventa "cuando aveva ricordato". La parte morfologica -remmo del modo cosedetto condizionale è sostituita dal veneto -ésimo. Cosi, ‘saremmo’ e ‘avremmo’ si trasformano in ‘saresimo’ ed ‘avresimo’. Ancora. OGNI vocale forma sillaba (questo: 1 cu- 2 e- 3 sto). L’accento circonflesso, non esistendo nel Veneto vocale lunga, è abolito. Le pre-posizioni, articolate con “ll” e “gli” conviene smembrarle: ‘dello’ s’analizza come ‘de + lo’; ‘degli’ come ‘de + li’. Per non dare luogo a errore o incertezza di pronuncia, nel vocabolario della lingua universale portano l’accento tutte le sdrucciole e bisdrucciole e le vocali “e” “o” – ma solo quando sono aperte. Le parole d’altre lingue si pronunciano all’italiana e si scrivono come suonano, non coem i forestieri le scrivono. ‘Bordeaux’ si pronuncia e scrive ‘Bordò’. ‘Shakespeare’ si pronuncia e scrive ‘Sèspir.’ Nella lingua universale da lui inventata, F. scrive lettere a suoi amici di Villa Franca ed altrove, poesie metrica e con rima, traduzioni di passi biblici, incluso quale di Babele. Ecco un breve testo in Italiano moderno. La vera lingua universale è la baze de la hiviltà. Le invenzioni e le scoperte atuali non consentono più oltre la sciavitù de la parola. Le comunicasioni fra nasione e nasione – o comune (come Villa Franca) e comune --, ogi ance istantànee mediante la radio, riciedono una linqua comune, per non dovere ignorare o aver bizogno di traduzioni. Frequentissima nel Veneto è la terminazione in “l”, “n”, “r”, pregio che - fa notare F. - conferisce musicalità ‘allo stile della Fenice’ -- e robustezza alla lingua, così da renderla adatta alla migliore poesia – attamente messa a musica e cantata alla Fenice.  In conclusione F. dichiara che il dialetto veneto, non come lo parla il popolo innorante, ovviamente, ma come lo deve parlare un filosofo erudito come lui o Grice (professore di Oxford), vale dire, lo scienziato della parola, nella sua chiara semplicità e vigorosa bellezza, si presta “a essere tornito per farne uscire il capolavoro della lingua universale”. Quest’ultima, una volta affermatasi come lingua LEGALMENTE e obbligatoriamente UFFICIALE di tutte le nazioni del mondo civilizzato – o al meno dell’unione europea, cioè fra 400-500 anni, diffonderà nel mondo dei filosofi dotti – come vuoleva Platone – quella filosofia chi F. – seguendo Kant -- denomina “universalismo” – cf. Kennan, “The Universality of Conversational Implicature” --, dalla quale discenderà naturalmente il democratico governo universale dell’avvenire. Perciò si raccomanda di conservare accuratamente tutti gli “incunaboli” della vera lingua universale perché nei secoli lontani “saranno ricercati come preziosi cimeli”. Al termine di questo documento storico” dell’Italiano moderno F. annuncia che «nel luogo [vale dire, Villafranca], donde è uscita la prima voce nella lingua universale, è costruita la SEDE o capitale della lingua universale – e non una isola deserta, come vuoleva Campanella. I nomi di coloro che, per la sua costruzione, liberamente donano da 1.000 a 10.000 Lire, sono tramandati alla storia a mezzo delle pubblicazioni documentarie. Quelli che elargino somme maggiori, hanno inoltre l’onore del marmo nel campidoglio della sede stessa, destinata certo a divenire “monumento e ricordo presso le età future”».    «il Caffè illustrato», Lingue de nazioni e lingua universale. Nome compiuto: Angelo Faccioli. Faccioli. Keywords: Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza,  pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Faccioli,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fadio: la ragione conversazionale a Roma antica – l’orto a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Garden. Friend of Cicerone. Nome compiuto: Marco Fabio Gallo. Marco Fadio Gallo. Fadio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fadio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Faggin: la ragione conversazionale dei bei -- metrica filosofica – inno orfico – scuola di Vicenza – filosofia vicentina – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Isola Vicentina). Filosofo italiano. Isola Vicentina, Vicenza, Veneto. Grice: “I like Faggin: he is obsessed with love; he translated Fedro, he selected some passages from the Roman philosopher Plotino and titled it, implicaturally “Dal bello al divino,” but surely for Plotino, via hypernegation, the divine IS beautiful – and finally, being an Italian, he became interested in “Dutch Protestantism” – “il Pellegrino cherubico”!” Si laurea a Padova sotto Troilo. Insegna a Padova, Bassano del Grappa, Campobasso, Vicenza.  Studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo, commenta le Enneadi di Plotino. Altri suoi lavori riguardano Eckhart e la mistica medioevale, Schopenhauer, la stregoneria e l'occultismo rinascimentale.  Altre opere: “Van Gogh, Padova, MILANI); Plotino, Milano, Garzanti); “Eckhart e la mistica” Bocca, Milano); “Schopenhauer: il mistico senza Dio, Firenze, La nuova Italia); “Le streghe: trentatré incisioni dell'epoca, Milano, Longanesi et C.); “Gli occultisti dell'età rinascimentale, Milano, Marzorati); “Storia della filosofia: ad uso dei licei classici, Milano, Principato); “Dal Rinascimento a Immanuel Kant, Milano, Principato); “La filosofia antica” (Milano, Principato); “Diabolicità del rospo” (Vicenza, Neri Pozza); “Dal Romanticismo alla scuola di Francoforte, Milano, Principato); “Enneadi” Milano, Istituto Editoriale), “Sulla libertà del volere”; “Sul fondamento della morale” (Torino, Boringhieri); Eckhart, Trattati e prediche, Milano, Rusconi); Inni orfici, Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā).  Platone Fedro  Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)   Platone Fedro  SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico, arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa.Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo. E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua. SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa. Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico», e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros. Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga. L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani. Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo. E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.  I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio. La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco, affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo; perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? 16  Platone Fedro  SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui. FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi, senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. 19  Platone Fedro  FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no. FEDRO: Cosa? Platone Fedro  SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone.Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via. Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro  Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera) Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulmina e lo scaglia sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie) Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade) Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo, autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler (citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra "ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. Platone Fedro) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. L'arte divinatoria, "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. è il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34) L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'), probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade, versi; libro, verso; libro, verso in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. 38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros". L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte) Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario, re di Persia., fu il promotore della prima guerra greco-persiana. Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. Platone Fedro) Omero, Iliade. Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario. I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie. LEONZIO (si veda) fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica. Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i quali cerca di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga. Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate.  Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose». Nulla ci rimane delle sue numerose opere) Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie) Anassagora di Clazomene visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di Cos fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco.) Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione,che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica) «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone») I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore ignoto) Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate era fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani) Pan, figlio di Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza.  Wikipedia Ricerca Orfeo personaggio della mitologia greca Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orfeo (disambigua). Orfeo - Orfeo (epoca romana) - Foto G. Dall'Orto.jpg Orfeo circondato dagli animali. Mosaico pavimentale romano, Museo archeologico regionale di Palermo. Nome orig.Ὀρφεύς Specieumana SessoMaschio Luogo di nascitaTracia Professionecantore e argonauta Orfeo (Ὀρφεύς [or.pʰeú̯s]: Orpheus) è un personaggio della mitologia greca. Bassorilievo in marmo di epoca romana, copia di originale greco, che rappresenta Ermes, Euridice e Orfeo. L'opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l'esito negativo della catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso Euridice, le alza il velo, forse per verificare l'identità della donna e quindi la perde. Secondo l'opinione di Cristopher Riedweg sarebbe infatti evidente che Ermes a questo punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge quindi il piede destro per tornare indietro.  Orfeo ritratto in un kratēr (κρατήρ) attico a figure rosse risalente al V secolo a.C. e oggi conservato presso il Metropolitan Museum di New York. Orfeo, che siede a sinistra impugnando la lira (λύρα), veste un abito tipicamente greco, a differenza dell'uomo che gli si pone in piedi davanti che invece indossa un costume tracio. Questo particolare, unitamente alla presenza, a destra, della donna che impugna una piccola falce, può rappresentare una delle varianti della sua leggenda che lo vuole missionario greco in Tracia, ucciso lì dalle donne in quanto escludendole dai suoi riti induceva i loro mariti ad abbandonarle:  «Dicono poi che le donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva persuaso i loro uomini a seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare all'azione per paura dei loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino, attuarono la scellerata impresa. E da quel momento invalse per gli uomini il costume di andare ebbri alle battaglie.»  (Pausania, Periegesi della Grecia) Mappa dei luoghi che, secondo la mitologia, Orfeo avrebbe visitato e legato a sé. Il nome di Orfeo è attestato a partire dal VI secolo a.C., ma, secondo Mircea Eliade, «non è difficile immaginare che sia vissuto 'prima di Omero'». Si tratta dell'artista per eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni, ma anche di uno «sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell'anima lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore dell'Orfismo. I molteplici temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico - sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria, filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi.  Orfeo e l'Orfismo Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel frammento del lirico di Rhegion (REGGIO (si veda) Reggio Calabria) Ibico vissuto nella Magna Grecia, nel quale appare già famoso. Attorno alla sua figura mitica, capace di incantare persino gli animali, si assesta una tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica, bensì la psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro di Derveni, rinvenuto vicino a Salonicco, offre un'interpretazione allegorica di un poema orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i morti.  Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i quali rappresenta, da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia l'elemento divino o "anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è la figura centrale dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel mondo occidentale, introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima immortale.  Il mito  Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse, conservato al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la morte di Orfeo secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da questo dio a lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l'ardore religioso che il poeta conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte Pangaio (anche Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva:  «[Orfeo] Non onorò più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò anche Apollo; e svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato, gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra.»  (fr. in Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern; traduzione di Elena Verzura. Milano, Bompiani) Le originiModifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sugli argomenti religione e mitologia greca è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Secondo le più antiche fonti Orfeo è nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto la Pieria, terra nella quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici operanti sul mondo della natura, capaci tra l'altro di provocare uno stato di trance tramite la musica.  Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro (o, secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene alla generazione precedente degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia, tra i quali ci sarebbe stato il cugino Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu il sesto discendente di Atlante e nacque undici generazioni prima della guerra di Troia. Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto, placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura.  Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo.  Orfeo fonde in sé gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale, benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso; in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli Inferi di una fanciulla (Euridice nel caso di Orfeo e la madre Semele in quello di Dioniso). Orfeo domina la natura selvaggia e può addirittura sconfiggere la morte temporaneamente (anche se alla fine viene sconfitto perdendo la persona che doveva salvare, a differenza di Dioniso).  La letteratura, d'altra parte, mostra la figura di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli Inferi, Orfeo abbandona il culto del dio Dionisorinunciando all'amore eterosessuale. In tale contesto si innamora profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia, seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta nelle Georgiche di Virgiliola causa della sua morte è invece da ricercarsi nell'ira delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la morte di Euridice.  Le imprese di Orfeo e la sua morteModifica  Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo di Waterhouse. Secondo la mitologia classica, Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi, addormentò il drago e superò la potenza ammaliante delle sirene.  La sua fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide separato dalla driadeEuridice, che era sua moglie. Come Virgilio narra nelle Georgiche, Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora negli inferi per riportarla nel mondo dei vivi. Raggiunto lo Stige, fu dapprima fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era, era stato condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira per fermare momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smise di suonare, cominciò di nuovo a girare.  L'ultimo ostacolo che si presentò fu la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope (antenato di Agamennone) per dare la sua carne agli dei e aveva rubato l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a rimanere legato a un albero carico di frutta ed immerso fino al mento nell'acqua: ogni volta che prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i frutti con la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato rimane immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento. A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontrò Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina).  Ovidio racconta nel decimo libro delle Metamorfosi come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Il discorso di Orfeo fece leva sulla commozione, richiamando alla gioventù perduta di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo assicurò anche che, quando fosse venuta la sua ora, Euridice sarebbe tornata nell'Ade come tutti. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non fosse stato accontentato.   Paesaggio con Orfeo ed Euridice di Poussin. Mossi dalla commozione, che colse persino le Erinnistesse, Ade e Persefone acconsentirono al desiderio. «Intonando al canto le corde della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi, dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole, irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso. Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico rapimento, anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice! Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e chiamarono Euridice.»  (Ovidio, Metamorfosi) Essi posero però la condizione che Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il cammino fino all'uscita dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente sulla soglia degli Inferi, temendo che lei non lo stesse più seguendo, Orfeo non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò per assicurarsi che la moglie lo stesse seguendo. Avendo rotto la promessa, Euridice viene riportata all'istante nell'Oltretomba.  Orfeo, tornato sulla terra, espresse il dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo VIRGILIO (si veda), ]mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni. Sa che non potrà amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui. Secondo la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai culti bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne sparsero i resti per la campagna. Un po' diversa è la rivisitazione del poeta sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo, coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico (questo elemento non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i fanciulli, facendo innamorare anche i mariti delle donne di Tracia, che venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta, nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella virgiliana. Piatto con Orfeo circondato da animali presso il Museo Romano-Germanico di Colonia. In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo OVIDIO (si veda)) fino al mare e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III secolo Filostrato nell'Eroico racconta che la testa di Orfeo, giunta a Lesbo dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e aveva il potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Tornando a Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere. Orfeo vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più. Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un'orgia dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus, toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le Fabulae di Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo quanto afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta nei Campi Elisi.  Evoluzione del mitoModifica  Ragazza tracia con la testa di Orfeo, di Moreau. «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi "sia finita" e mi voltai»  (Orfeo ne L'inconsolabile di Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947) Il mito di Orfeo nasce forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del riscatto della Kore e dello σπαραγμος (sparagmòs) al greco antico "corpo fatto a pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il riportare la vita sulla terra dopo l'inverno.  La prima attestazione di Orfeo è nel poeta IBICO (si veda) di REGGIO (si veda), che parla di Orfeo dal nome famoso. In seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce le prime informazioni attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i riferimenti di Euripide, che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccantirende manifesta la potenza suasoria dell'arte di Orfeo, mentre nell'Alcesti spuntano indizi che portano in direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto fine, sconosciuta ai più, non si limita a Euripide, dato che è possibile intuirla anche in Isocrate (Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio). Altri due autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio.  Nel discorso di Fedro, contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi un phasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiori dell'eros. Apollonio Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche qui come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo attribuito a Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini: attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra gli argonauti cantando una personale cosmogonia. Nell'Alto Medioevo Boezio, nel De consolatione philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si chiude al trascendente, mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot, rappresenta l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il Medioevo vedrà in Orfeo un'autentica figura Christi, considerando la sua discesa agli Inferi come un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore come un trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi, con El divino Orfeo di Barca). Dante lo colloca nel Limbo, nel castello degli "spiriti magni" (Inf.). Compare la prima rivoluzionaria avvisaglia di un tema che sarà caro soprattutto al secolo successivo: il respicere di Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma matura da una precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del poeta inglese Robert Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in quello sguardo l'immensità del tutto, in una empatia tale da rendere superfluo qualsiasi futuro.  Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il gesto di Orfeo sarebbe stato volontario. Come è d'uopo, i primi casi non sono italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la propria parabola artistica, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo capovolge il mito; decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa, ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice.  Nel dialogo pavesiano L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò), Orfeo si confida con Bacca: trova sé stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio destino. Euridice, al pari di tutto il resto, non conta più nulla per lui, e non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle fattezze ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia innocente con cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene un'esigenza ineludibile.  «L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto, lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare. Ho capito che i morti non sono più nulla»  Più cinico, l'Orfeo delineato da Bufalino intona, al momento del "respicere", la famosa aria dell'opera di Gluck (Che farò senza Euridice?). La donna così capisce: il gesto era stato premeditato, nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso una (finta) espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità artistiche.  Opere in cui appare o è trattata la sua figura Letteratura Simposio (discorso di Fedro) - opera filosofica di Platone. Argonautiche - poema epico di Apollonio Rodio. Elegia n.1 Powell - Orfeo e Calais - elegia contenuta ne Gli amori o i belli di Fanocle. Georgiche - poema di Virgilio. Eneide - poema di Virgilio (Orfeo è tra gli spiriti dei Campi Elisi; Virgilio lo chiama sacerdote di Tracia, senza dunque nominarlo) Metamorfosi - poema di Ovidio. Fabula di Orfeo - Opera teatrale di Angiolo Poliziano. Orfeo - idillio di Marino. Euridice ad Orfeo - epistola lirica di Antonio Bruni. Sonetti a Orfeo - raccolta poetica di Rainer Maria Rilke. Orfeo, Euridice ed Hermes - poesia di Rainer Maria Rilke La persuasione e la rettorica - saggio di Carlo Michelstaedter (il rimando al mito di Orfeo è centrale anche nel ciclo di poesie A Senia, del medesimo Michelstaedter). Canti orfici - raccolta poetica di Dino Campana. Orfeo Vedovo - opera teatrale di Alberto Savinio. Tutte le cosmicomiche di Italo Calvino (racconti Senza Colori, Il cielo di pietra, L'altra Euridice). Il ritorno di Euridice (da L'uomo invaso) - racconto di Gesualdo Bufalino. Eurydice to Orpheus - poesia di Robert Browning. Eurydice (da Collected Poems) - poesia di Doolittle. Orphée - opera teatrale di Jean Cocteau. Eurydice - opera teatrale di Jean Anouilh. Orfeo - poema di Juan Martinez Jáuregui. Racconto di Orfeo - poema di Robert Henryson (o Henderson). Bestiaire ou Le cortège d'Orphée - raccolta poetica di Guillaume Apollinaire. La presenza di Orfeo - prima raccolta poetica di Alda Merini. Orfeo emerso - romanzo di Jack Kerouac. La terra sotto i suoi piedi - romanzo di Salman Rushdie. Il lamento d'Orfeo - opera teatrale di Valentino Bompiani. Dialoghi con Leucò - raccolta di racconti di Cesare Pavese (Orfeo appare nel dialogo L'inconsolabile). La discesa di Orfeo (Orpheus Descending), opera teatrale di Williams. La Saga dei Mitago - Il Tempio Verde - di Robert Holdstock. Orfeo africano - romanzo breve di Werewere Liking. Lei dunque capirà - monologo di Claudio Magris. Orpheus - opera teatrale di Giuliano Angeletti. "Schatten" Euridyke sagt - opera teatrale di Elfriede Jelinek Poema a fumetti, (racconto per immagini del mito di Orfeo in chiave moderna) di Buzzati, Mondadori. La Musica, Orfeo, Euridice – Il mitema e l'adeguamento al contemporaneo, di Francesca Bonaita, Virginio Cremona Editore Orfeo sconsacrato. Viaggio nelle vite di Orfeo, Danilo Laccetti, Jouvence, Musica Lo stesso argomento in dettaglio: Orfeo (musica). Euridice (opera) - opere teatrali su libretto di Rinuccini musicate da Iacopo Peri e da Giulio Caccini (1600). L'Orfeo - Melodramma di Monteverdi. Orfeo dolente - Opera musicale di Domenico Belli. La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Landi. Orfeus und Euridice - Opera-ballo di Schütz. Orfeo - Opera musicale di Rossi  Orfeo (Sartorio) - Opera musicale di Antonio Sartorio, su libretto d’Aureli Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e Louis Lully. Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Gluck. Orfeo ed Euridice - Ballo di Deller. Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Naumann. L'anima del filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Haydn. Orpheus - Poema sinfonico di Liszt. Orfeo all'inferno - Operetta di Offenbach. Orfeo - Mimodramma di Ducasse. Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Krenek. La favola di Orfeo - Opera in un atto di Casella Orpheus - Balletto di Stravinskij. Orfeu da Conceiçāo - Dramma musicale di Moraes. Orfeo - Opera rock di Schipa Jr. Orpheus - Canzone di David Sylvian contenuta nell'album Secrets of the Beehive. Euridice - Canzone di Roberto Vecchioni dall'album Blumùn Orfeo - Singolo di Carmen Consoli contenuta nell'album Stato di necessità. Orfeo a Fumetti - Opera da camera di Filippo del Corno. Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus – album di Cave and The Bad Seeds, che contiene la traccia The Lyre Of Orpheus. Metamorpheus - Concept album dedicato al mito di Orfeo di Hackett. Eurydice - singolo d'esordio del progetto Sleepthief. Orfeo Coatto - Mp3dramma di Francesco Redig de Campos. Caliti junku, canzone dell'album Apriti sesamo di Battiato. Awful Sound (Oh Eurydice) e It's Never Over (Hey Orpheus), canzoni dell'album Reflektor degli Arcade Fire. King of Shadows - track 1 dell'album R-Evolution - Martiria featuring ex Black Sabbath Vinny Appice. Pittura Orfeo morto - Dipinto di Delville. Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo - Dipinto di Waterhouse. Orfeo - Dipinto di Tintoretto. Orfeo solitario - Dipinto di Chirico Orfeo all'inferno - Dipinto di Rubens. La leggenda di Orfeo - Trittico di Luigi Bonazza. Ragazza tracia con la testa di Orfeo - Dipinto di Gustave Moreau. Orfeo - Dipinto di Pierre Marcel-Béronneau Scultura La morte di Orfeo di Michele Tripisciano a Caltanissetta. Orfeo, Euridice ed Hermes - Rilievo fidiaco. Orfeo, formella di Luca della Robbia per il Campanile di Giotto. Orfeo ed Euridice, scultura di Auguste Rodin, New York, Metropolitan Museum of Art. La morte di Orfeo scultura di Michele Tripisciano, Caltanissetta, Museo Tripisciano di Palazzo Moncada. Cinema Le sang d'un poète, di Jean Cocteau Orfeo (Orphée), di Cocteau Il testamento di Orfeo (Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!), di Cocteau Pelle di serpente (The fugitive kind) di Sidney Lumet, dal dramma di Tennessee Williams Orpheus Descending Orfeo negro (Orfeu Negro), di Camus; dal dramma di Moraes. Harry a pezzi di Woody Allen Tre colori - Film blu (Film bleu) di Kieslowski Al di là dei sogni (Where dreams may come, di Vincent Ward Solaris di Steven Soderbergh Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma Fumetti e animazione Orfeo della Lira è un personaggio del manga e anime Saint Seiya (I cavalieri dello zodiaco).  Orfeo è figlio di Sogno nei fumetti Sandman scritti da Neil Gaiman.  VideogiochiModifica Orfeo (Orpheus) è il Persona iniziale del protagonista del videogioco Shin Megami Tensei: Persona 3  Orfeo (Orpheus) compare anche nel viodeogioco Hades come personaggio secondario, legato ad una questline che, riprendendo il mito greco, coinvolge anche il personaggio di Euridice. Modifica ^ Cristopher Riedweg, Orfeo, in Salvatore De Settis (cur.), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani, Milano-Torino, Il Sole 24 Ore – Einaudi Pausania, Viaggio in Grecia, traduzione di Rizzo, Milano, Rizzoli, Anche Conone (Frammenti orfici, nella edizione di Otto Kern). ^ «Orfeo, fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce nell'Oxford Classical Dictionary (trad. it. Dizionario di antichità classiche, Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo,, voce firmata da Nilsson, Croon e Robertson. La voce dell'Oxford Classical Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di cantore nella mitologia greca deriva dalle composizione nelle quali erano esposte le dottrine e le leggende orfiche». In modo analogo la Encyclopedia of Religion ( NY, Macmillan, avvia la voce Orpheus a firma di Detienne e Bernabé: «In the sixth century BCE, a religious movement that modern historians call Orphism appeared in Greece around the figure of Orpheus, the Thracian enchanter.». Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La teologia dei primi pensatori greci, traduzione di Ervino Pocar, Firenze, La Nuova Italia, Orfeo, Pitagora e la nuova escatologia, in Storia delle credenze e delle idee religiose, Milano, Rizzoli, Detienne e Bernabé, Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan, Thus, before he becomes the founding hero of a new religion or even the founder of a way of life that will be named after him, Orpheus is a voice—a voice that is like no other. It begins before songs that recite and recount. It precedes the voice of the bards, the citharists who extol the great deeds of men or the privileges of the divine powers. It is a song that stands outside the closed circle of its hearers, a voice that precedes articulate speech. Around it, in abundance and joy, gather trees, rocks, birds, and fish. In this voice—before the song has become a theogony and at the same time an anthropogony—there is the great freedom to embrace all things without being lost in confusion, the freedom to accept each life and everything and to renounce a world inhabited by fragmentation and division. When representatives of the human race first appear in the presence of Orpheus, they wear faces that are of war and savagery yet seem to be pacified, faces that seem to have turned aside from their outward fury. Guidorizzi, Il mito greco, Milano, Mondadori, La sapienza greca, traduzione di Giorgio Colli, Milano, Adelphi ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν. Orfeo dal nome famoso.»  (Ibico) Orfici. Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, traduzione di Elena Verzura, Milano, Bompiani  «τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ κεφαλᾶς, ἀνὰ δ'ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος ἃλλοντο καλᾶι σὺν ἀοιδᾷι»  Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto.»  (Simonides; PLG IBetegh, G., The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge. REALE (si veda), La novità di fondo dell'Orfismo, in Storia della filosofia romana, Milano, Bompiani, DK Georgiche Metamorfosi Virgilio Nel libro XI delle Met. Il mito è narrato. Jacquemard e Brosse, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla,  Rodighiero, Gli autori e i testi, in Ciani e Rodighiero, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Discorso di Fedro, in Platone, Simposio, Siamo nel racconto Il ritorno di Euridice, ne L'uomo invaso; per questo e tutti gli altri riferimenti cfr. A. Rodighiero; per una panoramica dettagliata delle riprese novecentesche della vicenda del cantore tracio cfr. M. di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Michele Tripisciano, su storiapatriacaltanissetta.it, Caltanissetta, Società Nissena di Storia Patria, Jacques Brosse e Simone Jacquemard, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla, Cannas, Lo sguardo di Orfeo, Roma, Bulzoni, Ciani e Rodighiero, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente, Firenze, Libri liberi, Guidorizzi e Melotti (et al.), Orfeo e le sue metamorfosi, Roma, Carocci, Lonardi, Alcibiade e il suo demone. Parabole del moderno tra D'Annunzio e Pirandello, Verona, Essedue Edizioni, Schuré, I grandi iniziati, traduzione di Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1 Charles Segal, Orfeo. Il mito del poeta, traduzione di Morante, Torino, Einaudi, Sorel, Orfeo e l'orfismo, traduzione di Luigi Ruggeri, Nardò, Besa, Orphée et l'orphisme, Parigi, Presses Universitaires de France, Euridice (ninfa) Orfeo (musica) Orfismo Decapitazione. Orfeo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Rostagni, ORFEO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Orfeo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Letteratura   Portale Mitologia greca Orfeo (nome) prenome maschile  Euridice (ninfa) driade della mitologia greca, moglie di Orfeo  Fabula di Orfeo. Nome compiuto: Giuseppe Faggin. Faggin. Keywords: metrica filosofica, Lucrezio, inno orfico, inni orfici, philosophy of the toad – rospo – l’orfismo nella Roma antica; filosofia antica – l’antico nel rinascimento italiano – occultismo – misticismo – protestantismo italiano – Italia contro Roma. Fedro, ovvero del bellow, Dal bello al divino – Il peregrine cherubico – l’arbero come simbolo – il fuoco come simbolo – la luce come simbolo – canti orfici – sul bello -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Faggin,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Falciglia: la ragione conversazionale del senso e la sensibilità – scuola di Salemi – filosofia trapanese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo salemese. Filosofo trapanese. Filosofo siciliano Filosofo italiano. Salemi, Trapani, Sicilia. Grice: “I like Falciglia; for one, he took dialectic seriously, as any Aristotelian does! So he wrote on sensus compositum, on ‘definitio,’ on ‘demonstratio,’ and he even ventured on moral philosophy – in a nutshell, the perfect Aristotelite!” --  Studia a Salemi per essere poi trasferito a Padova per proseguine negli studi sotto Paolo da Venezia e Giovanni di Cipro. Insegna a Siena, Bologna, Rimini. Altre opere: “Statuta pro conventu Parisiensi”; “De sensu composito”; “De medio demostrationis”, “De sophistarum regulis, Terminorum moralium, tractatus singularis, Definitiones et additions super constitutions, necnon formularium et privilegia ordinis -- Dizionario biografico degli italiani. Grice: Falciglia’s “De sensu composito” should  not be mistaken with “De sensu composito et diviso” by another Philosopher – Paolo di Pergamo --  sensus compositus: composite or compounded sense. The term has two applications. A logical application, as distinguished from a divided or isolated sense (sensus divisus). In the composite sense (in sensu composito), a subject is understood in necessary connection with or as conditioned by its predicates or attributes; in the divided sense (in sensu diviso), the subject is understood in a hypothetical or contingent relationship to its predicates or attributes. Thus in the composite sense, it is necessary that a blind man cannot see or that a man who is running is in motion; whereas in the divided sense, a man is now blind, but it is possible that he could see; a man is now running, and it is possible that he stand still. The sensus compositus can be used to indicate a necessity of the consequent thing (necessitas consequentis), while the sensus divisus can be used to indicate a contingency, namely, a necessity of the consequence (necessitas consequentiae). And a rhetorical or exegetical application, also identified as the sensus literalis compositus: composite or compounded literal sense; viz., either the literal meaning understood as a figure or type, with the allegorical, mystical, or moral sense embedded figuratively in the text as part of the literal meaning, or the literal sense of a larger unit as distinguished from the sense of an individual term, particularly in cases where one term is in itself unclear or subject to multiple interpretations but capable of a clear, unitary sense in its context. When the composite sense of a text rests on figurative meaning or on a type that is fully understood only with a view to its antitype, the Protestant exegesis stands in positive relation to the medieval quadriga, albeit capable of denying multiple meanings.  sensus divisus: the divided sense; i.e., the meaning of a word or idea in itself apart from its general relation to other words of a text or apart from its logical relation to another term or thing; the opposite of sensus compositus and fear of death. Thus physics is entirely subordinate to ethics, being merely the necessary means whereby the ethical goal is achieved. This is a point which it is particularly important to remember when reading the DRN, for although LUCREZIO is a perfectly orthodox memberof L’ORTO and is not concerned with scientific inquiry for its own sake, the great bulk of his subject-matter is scientific and he gives no systematic account of Epicurean ethical theory. His reasons for concentrating on physics will be considered in § 3.  As Diogenes Laertius points out, the system of L’ORTO “is divided into three parts: Canonic, Physics, and Ethics.”  The Canonic44 is his theory of knowledge. There are three criteria of truth: sensation, preconceptions, and feelings. Sensation (αἴσθησις, sensus) is the primary standard of truth (LUCREZIO). If an error is made, that is not because the sensation is not true, but because the reason draws a wrong conclusion from the evidence which the sensation provides (Lucrezio). With the repetition of sensations, images of each class of things accumulate in the mind to form a general idea or preconception (πpόληψις, notities, anticipatio, praenotio) to which other examples are referred (.Lucrezio). Without these preconceptions, attainment of scientific  xxx knowledge would be impossible, for sensation by itself is “irrational and incapable of memory” (Diogenes Laertius). As for the third criterion of truth, “there are two feelings (πάθη), pleasure and pain, which affect every living creature, the former being congenial to it, the latter repugnant; it is through these that choice and avoidance are determined” (Diogenes Laertius). Thus the feelings of pleasure and pain are the supreme test in matters of morality and conduct, and since they are a part of sensation, it is true to say that Epicurus’ ethical theory, like his physical theory, is founded on the validity of sensation. Epicurus derived his physical theory from Democritus, who had adopted and elaborated the atomic theory invented by Leucippus. However, he made some important alterations to Democritus’ theory, and differed from him in making physics subservient to ethics.  The first principles of Epicurean physics are that “nothing is created out of nothing” (Lucrezio) and “nothing is destroyed into nothing” (Lucrezio). In other words, Epicurus shared the belief of other ancient physicists in the conservation of matter. The universe (τὸ πᾶν, omne) consists of matter (σῶμα, corpus) and void (τὸ κενόν, inane). These are the only ultimate realities: nothing that is distinct from them can exist (Lucrezio). That matter exists is proved by sensation; and if there were no void, matter would be unable to move (Lucrezio), whereas sensation tells us that it does move.   Mentre nella storia della filosofia la parola sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele, per indicare la facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti. [1] Aristotele, De anima aveva dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un essere umano come caratteristica peculiare della sua individualità. Nome compiuto: Giuliano Falciglia. Falciglia. Keywords: sensus, sentiment, sense and sensibilia, sentient, sensus divisus, sensus compositum – philosophy of the ‘senses’ – the use of Roman ‘sensus’ in Boezio.  Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Falciglia,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Falcone: la ragione conversazionale e la lingua universale -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. He thought it would be a good idea to translate PORTA (si veda)’s Ars reminiscendi into ‘L’arte del ricordare’, and he did! Se yendeno per Marco Antonio P affari  d Sergio Capuano, Josephus Tavjplona. V.lJ),  ir- V y   ; H T :51 A.   AK-HDia jaq a^Aa-'iooia  i a T A T 2 I T T A a .O l.S : -1 O ‘I A J aaa   P.tfATUO'IAM '.'7 • a CIÌCTIkA «UlM WJOIlillttV V-. A^jO 0»5^2Ì!>  .fi .1.^ .iKcViWtfT CHS? C O'fA; SIA!- MEMO  o reminiscenza [Cf. Grice, “Personal Identity,” Grice on Benjamin on Remembering] ./ r ‘">•,-v   E L L E cofi^«alùnqK€Ìefifianttd)dhU * ò memorilo remtmfeer^ap Che, cose ft firn è  l’una,è l'altra il dichiareremo, y fendo ncHofcriut  re{ come fi dice ) vnafiu craffit M inerba, accio che le hofìre regole con piu chiare zsa si intenda ifOilàfdando' dtffifctè le varie}dtjjicfli opinioni de Etltfefe^hehimìòfefira ctbftrtfàyptf'nènefo luoghi di raggioname-. Vujjki*delaimagmami là qtMa-Ufud flanta nel capo )fi è di femore per me^zo delle finefireftejhffetógUoCchifym chiede l nafe t cjalti efimilifiguifà d’ un pittore eccettcntcjvti ritratto deli  le cofe materiali r dtiìfignàt Wlfió permèìlo neÙajdemìm, che come  vna muoia ben acconcia lejìa dinanzi-accio che venendoci poi uolunti di  ricordarci di qttcUo,per mezzo dell'intelletto, che tpflo alla memoria ricor*  te* qui quella r-jcor^mo delle cofe che rft» vogliamo à punto come feci fijfero prefcntlfiglioixhiyE'vòm^mlfr  veggia w,cbeh per difetto della molalo pur di cduiyìhedfegnando non  preparane compartì bene i coloricene dopo qualche tempo quella littori  a [conciar fi, fi ella farà talmente guafia,cbe non ui appaiano punto ifuoi  prifìini lineamenti, noi ci ritrouiqmohauerpeifo il ritratto di quella cofe  if téme con la me^oriarMtfemto^y^in piè, che il pittore con Va*  iu:o di quel pòco circonfcridendò htoàrgm intorno^ tjimdo da vn capò  ali' altro lalìnèà.nepub rfferciredxpttu'ra^ùr ilritrattofenereintegra,  la memoria riprende vita : E qufioèfeeHo’chevhtamiamo il ricordarci D f*fi Con $* vriairitìera finora enfio fo ÌH quella tou'daàtimmitfo m zhimiamo:0erebro ; ttcminejcenz}  trtcorjdrtfoi}' quello] ài qigfc ftcvfàJJéohipftJu&ri jiio ejftpfjftomf farò veglio intens  dere, Io imparai qqejló yerfi. ' ' iì -   Nel tempo che rinuoua i miei fijfiiri.; Se le i magmi di cfuejìe parole mi JLinno cofi chiare nel cerebro, confi i  prima ve le difcgnciimaginatiu,fe pur nqnVh^owfi chiamata dal fine, poi che il tuttofi fa per accrescere la memoria, perche pojfiamo   S\. n? zH. ’.r; a Y : j r?i ù Z \\ f.y i  !rA5i«y.V;;55 vroìjjtwta';.- « >\wh  àm>i o, Chela Renrtiwfcensa ila naturale et, 5 j j-artificiale.  •' Il f; f•*?? I* •  j.t*c ' Q VeflaReminificenza edi'due maniere, l'unac naturale, l'atra e artficiefe, la naturale^ quella thcconwiijlfffi najcej’ artificiale  che còn-regp1é.m  ibi, e la caggione, onde fi fia introdotte à pori » t r Onde fi a nato il poi de luoghi in quella   :;"ìv ^aite di Reminiscenza. P Er mojfrare che queJT arti di ricordare fa tolta dalle naturali ifi  rieme faremo qui chiaro, come non Jènza caggione gli antichi cojlia  tuironojchc fi debbano primieramente el igere i luoghi . Noi vediamo no  ruralmente >che chiunque vuole ricorda fi di vn lungo fotti) fi forza  fempre di ricor darfi de luoghi prima, doue quel fittigli auetàjfe ; e poi    ari    K. gii Jkmh T ordine^ luoghi} fitto intier amento racconta . Introduce limai  rmgliofc Poeta non fcrtza mifìerio ENEA, che battendo h raccontare a Di  (Ione ciò, che accaduto li fijfi doppò la prej S di Troia, per ricordarft di tut  te le cafri puntola rimemorandofi i luoghi prima, dotte quelle accadute  particolarmente li fino . Partito di Troia fine viene in Tracia. Qmktra  ra la crudel morte di Polidoro . Indi ne viene in’ Deio, doue defcriùe d  empio, c fi mentione del vaticinio di Apollo. Ne viene apprejfo in Gre  ta,e quella bombile peJlilenzaracconta.Comc pòi nell'lfde Strofidi rag*  giona delle Har pie. Nella Città del monte Leucate, attacca alle pone deb  Tempio il feudo jebe tolfr ad Ab ante greco. Neita Cifrò di Buti-oto riuc#  de Andromaohejùr Hàlcno . Ne va in Sicilia \ vede Bina, i ciclopi, gli more il padre . Simonide Melico ( come Cicerone, è Quintiliano firi^  uono) per che fi ricordo l'ordine^ il luogo de corniti iti > cb’eran inòrti'  nella rouina di quella cajà, venne ageuolmente à ricordarf di tutti’cbe al cimenti non fipeuemoi parenti riconofcerlijper frpelirli. E di qui ne uens  tleegli inpenjiero di firnef arte del ricordare.Ne mi ptjjò imagginare  htomò cojì infinfato efàocco^chépaj] andò per un luogo non uenga tofloi  foieord'arfianchcrjcbe ejfi non uogliaji cofrche qui gli accadevo fi#  ceffi fé àie di molto piacere,}) difiiacere li fijfi. li caùallo di D ario pafi  findo per quel luogo,doue la fira innanzi hauea della Caualla goduto,  tofìo fi ricordò del fitto,ir annu endo fi caggione } che il fio Gaualiero  nefiljc, corte vuol T rogo, della corona di Perfia adornoMediamo ancho  che ciafcbuno che vuole ricordarft di vn detto, i fitto yfi u^fempre firz  randa incominciar da capo, e figuir poi per ordine : per ciocbe da quello  come da vn filomene à poco à poco à ricordarft del tutto. Ci ricordiamo  con maggior agevolezza delle cofe di Mathematica, le quali fi feguorm  luna l'altra, che non degli A pborifmi di Hipocratt,che fino finza ordine.  Le fiuolèfi le bijìorie^per^uejìacaggior.e fi imparano à mente ancho dui  dònnkctuokfida contodini,ppr che fi comincia daun-espo,efiuàpmpft\ tardine fine al fini ; Dice Atriflohle nel libre (Idia Rèmmfcema,(he Vm  nimo nojlro fi motte con molta ageuolezza ne’ luoghi, E quantunque ab-  etini per h luoghi iute ridano, l? interpretino i luoghi T opic t ; non dimeni  T bemiflio eccellente Veripantico intende di qufiìi luoghi materiali . M«  che cofi potrà far maà.che con piu ordine un ricordo proceda, che ojjei  guari o a i luoghi de fi figliano l’un l’altro }. Per che dotte non e ordine j  iut e confusione. Ei poi che fi trouano tutte quefie cofi ne’ noflri luoghi,  incominciamo à dijhnguerli,&- à raggioname particolarmente  1 ..'-l V r u \ «3 rM "iCome si debbano elegere i luoghi fine flra, angolo# filmile. Nella ekttione di quejlo luogo ymuerfale bifegna  éuertire alcune conditiom. Prima che in cfi'o noi halinamo } o uerfidmé ontinouamente,e che ne jappiamo ogni minima particella \ I peregrini eli  ganfi quello, doueefìnati fieno} douehabliano battuta qualche lor dolce  fidtsfimoneyche quefli piu de gli altri ci fighono refìar impreft nella mea»  moria. Apprejfo, che le parti fue fumo dfifitenttl'una dall'altra, come fis  nò camere, file, fiale, i loggia, palchi^entratr, portichì,0' altri fimili ; Ori*  de debbiamo fiiggire 17 beatici Colonnat i,! giardini le firade, 1? altri "  cofi fimiglianti, poi che non è cofi doue tanta varietà fi ricerchi, quanto  in quefila . Di più che fiano figuenti l’un ì* altra, ciò e che dalle ficaie fi fa*  glia in filabile camere, djr da quefie alle loggie, e palchi fienza intvrromi  pimento alcuno fra loro,? finalmente fiano quefìi luoghi chiari, et lumia  nofi, perche hauendo à locarui dentro le pitrure delle parole, la poca luce 1  farebbe lorjòfichi i colori,e le pitture infieme con la luce ifltffa monchi    #4    Imi 9 r  e fitr ciò tante uolte, finche gU  habbiamo ottimamente in memoria, tal che firmi in un luogo con gli occhi  chiufi, e AifcorrenAo con la imaginatiua It vaiamo come fi prefinti ci  fijjero . Nc cirincrefca reiterarli trenta, e cinquanta uolte il giorno, che  quejìo è il fendamene dell'opera . Per ciò che non ejjèndo quefii luoghi  ben fondati, e fijji nella memoria,fi nói ui Jnbrichcremo [opra altre ima a  gimmonifiuno fiera caufa della deflruthone fie rouina dell’altro Quelle  lofi, chcgiouano d Jàrci ricordare di quello che non Zappiamo, btfigtta  ohe elle ottimamente fi fippianojaltrimente fi fibrica f òpra l'arena’   Di alcune opinioni confutate r#   j   SI potrà adunque per do raggioneuolmente incolpare MetroAoro di vanagloria, è di pazziajpoiche uolendo manififì arci gli unii precetti  della memoria, fi ( come fcriue Quintiliano )i fiuoi luoghi nelle dodeci  imagtni del Zodiaco, doue trecento fijfantn luoghi vi defifie, ponédone un $  per grado : E chi non fi } che ejfindono tutti quefii luoghi filmili, Lr urna  firmi turberanno non poco la memoria nel recitare f e che cfji filano mos  bili, e luoghi tuli, che mai fu huomo che li uedejfie ? Vuole Cicerone, che fi  non potrà alcuno ritrouare tutte le già dette conditioni ne’ luoghi, che fi  •hdnoda cllcgerc,fingafii da fi JleJJòutta Città in una fiolitudine,e quiui a  fi a uolutotà i fuoi luoghi fi eìega } et imagini . la quale opinione aedo io  che dislaccia à tutti coloro, die hanno qualche ifperienza di quefii’ arte, per  t io che potendo noi ritrouare le già dette conditioni reali in ogni luogo, per  de fiopra le imaginationi ordinarie uogliamo noi aggrauar dtpiula memo % di altre Soie ìmagìnatiorn )Ì phantafini l Die? parimente) che per  ogni decimo luogo fi finga una mano d'oro : le quali coffe a me paiono fu perflitioni difutili . Che fi pur ci aggrada far quefile difl in fiotti, potremo  in ogni camera/o fiala locar diece luoghi, òr bauremo d medefimo coma  m odofinza ingombrarci luoghi d'altre nuoue imaginatìont . Se alcuno  in Cicerone legejfcji luoghi douer ejfier lontani trenta piedi l’uno dall'ala  irò, òr alcune altre regole dalle nofìre differenti, non fi ne marauigli, poi  che il suo intento, è fiato affai differente dal nofìro . bjfo fi Jèruiua di que  fila arte ne’giudttij,doue bifogna recitar concetti,e non parole ; òr haueg  di bifigno t di luogo ampio, doue hauejfe potuto accomodare diucrjc perfioa  ne, che rapprefèntaffèro ilfitto;&à noi ha mqjlro laijferienzajche co'l  nojlro modo poJJiamo fruirci dell'arte j Lr perii concetti, ir perle paa  rele,òr per ogni (Atra coffa occorrente ; quello,chc non potrà firfii col fiuo. Onde Ha natoli porre delle persone ne’luoghi.  P lEr ciò che io fino il primo,fie non twi inganno che uoglb.chc ne y hot  ghigia eletti fi accomodino le perfine, quello, di che gli altri ne fin nodi fienza;parmi di fir beneà mo/lrar alcune caggioni,che m'hanno i/iof  fio i ciofire. Coloro, che fiorifero di quejl'arte } quafi per tutte le 'magmi)  ehe figurano per dimofìrar un fatto, ò ungejlo, uanno cercando fra i lo*  ro amici, quale fiia piu attojche fi debba à quello ufi accomodare, et in  porre in cjficutionc quefiio penJiero,ui fi tr amette # fende fitiga, e tema  po;la doue noi ritrouando una perfino dritta in quel luogo, e Rapendone  tutti icoJìumi,e conditi oni ( come diremo appreffò) in un punto nell’atto  de fiderato Accomodiamo ; e potremo fogliarla, e ueflirla ; e figurarla in  tutte quelle ; tozze, e modi che parrà che bifigni. Vediamo anchora, cìie fi  nel luogo Me cofi piemie, et inanimate non fit pone alcuna perfim uiua. de le dimoflri} fitdaparerqqgeudtmenié tette dimentichiamo, la dotte  con quefia ne trrrannofimpte la memoria e piu defilale piu uiua . A ppref  fi chi non fi, de a figure un luogo ji firlo dagl' altri differente ( de in  quefia arte è molto necejfttrio ) non fi potrebbe ntrouaec cofi piu utile ne  piu commoda, che illocarci perfine utue,che ne djflinguano i luohit\c  drà ancho chi fitrrà delle noflre regole ifferienza con quanta aUegrczza$  e chiarezza fi uiene al luoco.ouefia collocata alcuna pei fina goduta} o dea  fiderata ; che doue le altre perfine ci danno il ricordo d’urta fola parola >  quefia ne mofirarà un uerfi # e duo uerfi ««(imi : E come in quefìo luogo  ci parrà quefia imaginc uiua,rifilei]e noi  riprendiamogli altri, per che noi aggrauiamo la memoria di molte nuoue  iaaginationi . Alche non accade eh’ io rifionda altro, fe non che fi noi,  grauiamo la memoria di cofi alcuna per una uolta, la difgr aitiamo all'ino  contro d’ \nfimte altre nclfeJfirciào,che noi lodiamo. Come si debbano locare le persone. Noi porremo ne’già detk luòghi alcune perfine da noi piu conofiiu  tejnongia qualunque ci capiterà per le mani jìici uerrà in finta (io,  ma firemo una feelta de piu cari amici, di dieceo uentt donne beh fiime,  'le quali habbiamo godutelo amate, 0 reuerite, e di altre tante perfine ridia '  cole, come fino bufoni, e fimilifC ini mefcolarcmo matrone } perfine no lih ffime,e perfine uilifftme e con cofloro ancho infìeme firati, preti, fra*  tcelli, fanciulli,1? altri, che fra loro facciano uarta mcfcolanza, e di tutti  quefii Infogna fiperne i cofiumi,eilor fitti à pieno con le cofi di loro oc*  cadutecele giocofi principalmente. E ne porremo un per luogo nt?  già difegnati prima, in gu\ fi, che fra loro uengano mefcolaU inficine, £ * V»i dorma, un ’gmanèìvn fraterna finte, un parente : un uecchto finche,  tutti i luoghi riempiamo .E fi non pojjiamo di quefhhauer tanto numeroy  effendo poveri di amici;empiendo i luoghi di perfine communi rijcrberca \  mo per ogni terzo/) quinto luogo una di quelle, accio che in effe la memo a.  ria come fianca armando ui fi ripofi . guffìe perfine fi uogliono cotto?  care in piè dritte nel luogo con le fratte al muro, e con le braccia pendentif  accio che poffiamo noi poi accomodarle in quelle atooni f cbe ne farà necefis -  firio, Hor locate, die le hauremonel luogo, bifigna con gli occhi detta  mente stempiarle al quanto, cpme fi uiue fiffero, ir poffeggtare loro  molte uolte ùicinof toccarle con mano,è chiamarle per dritto, e per rouera  feto tante uolte >che ritrouandoci poi lontani dal luogo ce ne ricordiamo, eoa  me fe prefintiui fòjftmo . 1/ quale effercitio faremo noi per duo giorni  contmoui. Quando vedremo poi che la memoria finza fruga alcuna Jè  ne ricor da, e dopp'o befferemo non ne refla turbata, potremo ben dire, che  quefìoèfigno ch’ella ottimamente le fippia. i. . > . à. *. Come si debbano fingere rimaglili  de concetti. Abbiamo ragionato detuoghi, è delle perfine ;ragg\omeifìo  JLl h ora dette imagini, (he è la terza parte e la piu difficile delnojlto  effercitio ; e doue confijle l’accortezza,el giudicio del recitare. Chiamo io IMAGINE, similitudine, idea, forma, o simulacro, che cosi leri trovo chiamate dagl’antichi quella pittura animata che recamo nella imaginauua  per RAPPRESENTARE cosi un fitto, come una PAROLA. Parlaremo prima come  ' ft fingono i fotti, O CONCETTI, e poi passaremo à dire dette parole, che è piu  difficile, per ciò che ogni cosi che si può fireft puo DIPINGERE,  ma non eoa si UNA PAROLA che non fippiamo come sia fatta. Queste imagni di concetti sono o fimpìiafi composite. Chiamo simplici quelle che si potino una parola diptngcre. Composte quell’altre, che con piu d’una favela, quara  io bifigna raccontarsi il fatto inaero. Per essempiom s’io voglio raccordate  mi Jòlo della fauoltt d’Andromeda, fingerà la perfina del luocò ignuda,  legata a un fioglio con catene di fèrro, tutta tramortita piangente. Ma si io vorrò ricordarmi d’una fauola ò btjloria intiera, dove intervengono piu persone, ridurrò il fitto in quella breue fcmma, e di perfine, e di cosi chi  Jta pojftbile, accomodandola al luogo. Ed in questo mi piace imitar i pitto?  ri^ouero gli poeti Xragici, o Comicide Jctpprerappre fintano la lor fiìh la con quelle piu puocbe perfine che poffonoi Ne ehij hria cofì piena di  varietà di cosi che diece perfine non b fiino a rappre fintarla . Se a me  piace di ricordarmidella hijloria degli Ke,quàndofurono cacciati di R ot  ma. Tingo rieia prima imagine T arquinio inbabim reale ò con vna ffada  •n manose ch’habbia vna donna ignuda infino nel fecondo luogo, la quale  fingerò che fia L ucretia,che piangendo uolgagliocchi al dèlo in atto, che  dimoflri cedere à fòrza alla voglia dtshonejla fila. Tingeremo, terza pefia  n a parimente LUCREZIA afflitta ir dogliofàraggionareaUa quarta per fia  ttaufiita da Collcttino, il quale fla attonito ad ofiolatria; Ir ella cauacofi  Impugnata difètto la utflè y fincfcrifcamomlmente il petfo.lAquinta per  fina wimagincanchi Realc con la corona toltali di tejlafe dal fuo folio dea  poflafiràmedefmamcnte T arquinio. E coft nel medefmo modo firn*  pre ci onderemo dipingendo la bifloria tutta Philomena in queflo modo  iifinfiintolaUhfioriàde’fioifùcceJftjquandolamfirQà Progne fua  fittila ; doue ejfireffi. tutti quegli atti principaliirte* quali confifleua la ina  telligentia del fiuto. Di qufia maniera è LE MEMORIA DI CICERONE, berta  thè egli in un luogo filofingefft [a hifloria tutta; la douenot col nojlrt  ordine Tbabbiamoancbo effreffad firfi con piu ordine racconterajfi, Paffiamo bora A RAGGIONAR DELLE PAROLE., i [' et fileremo alt  A. V A quanto per trattar di cosi non poco necessaria alle nostre regole;  E firkyche avendo insegnata, e mojlra l’arte del ricordare } magniamo  qui anebo L’ARTE DEL DIMENTICARE. Di questo nostro esscrdtio una parte ne  è jhbilcjunaltra mobile. Stabde fino i luoghi, e le perfine. Mobile fino limagini cosi de concetti, come delle PAROLE « Uluoco fa quello effetto in  questo esserctio che fa la caria inuernicatv, o pietra de compositori di musica. Le perfine fino le righe, che iui fino, le imagini fino le note, che ui fi  fanno di fipra cfiruito chcfièil compofmre di quelle, firegadole con  fi uto,b con un panno humido le manda via, per firuirfi della carta per l'altra wlta. Noi delle cosi che recitiamo, di alcune vogliamo a fatto dimena  tic arci te altre uogliamo che tomamente ne refiino nella memoria. Vos  Aliamo dimenticarci di quelle parole, ò concetti, cheti poniamo in memoria  ’éarà di per affidar art,e difi orzar l’ingegno, e recitate che l habiamo y non  te ne firuiamo piu dirimente . Il medefmo dico di quelle cofi, che redo  Homo a pompdfa ai oJ1entmonc,quafi per vn gran miracolo / una tana  ta fiUati, di memoria. E ne ho ueduti io non pochi farne le marauiglie.  Vogliamo anelo dimenticarci delle comedie f deHeletuniy delle Orattoni, e  Prediche/percbe fatta U rapprefintatione poco adiriamo, che elle ci rea  fiino ; anzi procuriamo dliauer i luoghi uacùi.e netti per poter firuirccne  deir altre uoltr, Il per che bifigna imitare i pittori,i quali dijfiaccndo loro  il ritratto,con ingejfire di nuouo la tcuola y la redono bianca r preparati  per la nuoua pittura . A quejìo modo bfigna,clje noi con vnaffogrta in*  tinta di rubrica tfcancelhamo tutte k imagini fatte, e con gli occhi della  mente vediamo tutte le perfine ignudo, e con le braccia penderti, o rac a  coltela lenzuola biancheirte andiamo difeorrendo con la memoria tre fa  quattro volte } facendo penfiero,tomc fi mai noi figurate l’hauejjimo f €  che mai ptù nonjvi ritornino. Di quefiiprecctà banca di bjfigno The a  melode ( come feriti^ Cicero**) che ejfindg dimandato da S moiude, fc egli volata imparare Torte ài ricordarft, rjfiofi > eh ejfo lenirebbe  piu volentieri l’arte di dimenticar fi apparati, per potere di quelle cofi  dimenticar fi, che ejfo defideraua di [[cancellar fi dalla memoria . Ma  quelle cofi che vogliamo ricordarci, che ci paiono vtili j e necejprrie : bis  j legna doppo di hauerle recitate in quefo modo otto, e dieci volte, indi à  poche bore far il medefmo, cofi per alquanti giorni, e la notte in quel fts  lenti o, che gli occhi fin riuocati dalle cofi finfibili, à vero la mattina per  far il cercbro meglio dijfojlo, per ejferegia digejìi, e confumati i va*  pori del cibo, bifigna far ancho firmo penfiero alle imagini recitando*  accio che s’imprimano bene nella memoria ; che poi fi ben vogliamo, non  ce ne pofftamo dimenticare ; per non ejfir altro memoria, ch’un habito  di tener firmo le imagini . Però veggiamo i tardi di memoria dopp'o, che  hanno imparata vna cofi non dimenticar {eia più : per ciò che confidando  poco a fi Jlejft, fanno con tutto il penfiero all’effetto 4 el ricordare, la dos  ucgli ingenioft confidati nella bontà dell’ingegno, poco dopp'o d'kauera  ! recitato fi ne dimenticano. Come possiamo ricordarci delle parole dal proprio. H Orrt raggionaremo, come pojffimo ricordarci delle parole, opri  più difficile dalla pajfata . A ciò fare terremo vna regola da Aris  Jloicle nel libro della remmjcenm, che ci ricordiamo delle cofi > ò dal  proprio * ò dal fimile * o dal contrario . Noi di ciafcbeduna di quejle fi  remo particolar raggionamento, cominciando dal Proprio * Le parole,  che ci occorrono à ricordare, altre hanno le loro imagini, altre ne fan*  Hodifinxa . Chiamo io quelle parole bauereje imagini, che DENOTANO cosi materiali jome TAVOLA, che è un legno piano, ò PIETRA, che  Jèra calce marmo,'ocrtta cotta: A kun altre ne faranno di finita  ft come qoefla proli PERCHE,\yw T £ N T O,  àieTun dinota v« dimandar cè cominciaremo da quef1e>cke fi fon dette) per ejfer piu fk t  cili: per che ciascuno avendo à dipingere queste nella memoria, sa meglio dipingere una mola o pietra che un perchefo tanto j che non fa come fumo fitti. Co/i l'ingegno di colui che fi eserciterà, s auezzerà à pocojà  poco a ricordarsi. Ajcolta: Not della PRIMA PAROLA CHE VOGLIAMO RICORDAR esporremo l’imagine in mano della prima persona che habbiamo lacata nel primo luogo e la dipingeremo qui con la imaginatiua, come diremo Off  prejfofe fingeremo quella persòna tenerla in quello atto che si con sa più  Con l’età, co'l portamento, e co’cuoi cofium 't che come abbiamo prima  ietto bijògna hauerli lenijfimo conofciutì Se da per caso UCCELLO.j  e toccherà ad un FIGLIUOLO, ci imaginaremo un UCCELLACCIO GRANDE che lo tiene abbracciato, e cinto, come habbtam visto L’AQUILA CON GANIMEDE. Se toc?  cherà il medesimo ad UNA MERETRICE, la fingeremo tenerlo nel grembo Jlret  lo, come habbtam visto LEDA tener GIOVE MUTATO IN CIGNO. Se toccherà ad  un cuoco che lo Jlia, ad arrojlire . Ma jè per case dice TORO; è toccherà ad vngiouanc gagliardo, lo fingeremo Jìarin quell’atto co*/ toro, che  habbiamo uifio in più-ritratti d’ERCOLE con Acheloo Se ad un uillano, nella  gufa che Argo pafceua lo vacca. Se ad una vergine 3 che ui feda fipra, e  ut Jcherzi, e lo inghirlandi) come fi legge di EUROPA. Se ad una MERETRICE qual ne deferiueno i Poeti, Pafifi congionta con quello. Daremo urialà tro essempio, Se dirà CORNO, e tocca ad un sacerdote)Ct imagmere  ino un sacerdote antico che tiene una uitnma per unxprno. Una vergine>  (he l’habbia pieno di fiori, e di fiuta ncliaguifà che le ninfi Notaci tengo#  no il CORNUCOPIA che unànergine fi-fàccia dormir nel grembo un LEO a  corno ) che co’l fùono della Citerà, ue lo halite indotto,‘Vn cacciatore 4  qual habbiam visto ADONE per le seluv. Vn infime detia moglie, come  A leeone lacerato da-Qm; e filmili imaginano ni cfxpvffpno ejjert infinte^- « fr.U fr. Il mete fimo firn ALLA SECONDA PAROLA, dipingendola aìU seconda Peri  fina, co ft della terza in fino all‘ulama, Jìn die fiano ripieni i luoghi Dopo comincieremo a recitarle da capo tutte, e dimenticandoci di akunajlcjvres  mo di nuouo LA FIGURAZIONE; apprcJfi le reciteremo a rouerfeio, poi traladaremo le Jparijpoi reciteremo le trdafàate : ne penfire che fia piu dijji  àie dirle a rouerfcio t che a dritto,per che auendo le parole dipinte ne’luoghi come colui che ha le parole deferitte sopra una carta poco li fard cofi dal capOiCome dal fine recttarlc; e do farai il giorno tante volte, finche eoa  nqfcerai, che db ft faccia poi finza fatica veruna. t >, *MÌk « • Hs'*« it-   ik - Alcune condizioni che (i ricercano alle  r imagini. Perche aviene Mora che dipingendo l’imagine d’una parola, o  fatto non ne fouuiene con quella ageuolezza che noi vorremo, o no ce ne ricordiamo punto; per do che non di tutte LE FIGURAZIONI che fingia 0 no, ci poffiamo noi ricordare;rcnderemo noi la caggione onde possa accadere, aedo che effircitandod in qucflo, ricorriamo fimprc in quel modo di  imaginare che ne tenga la memoria e piu defla, e piu yiua ; e non dicano  gli poco esercitati al ricordare che piu lofio si ricorderanno da per loro di  una parola finza l’aiuto diqucfl’arte jche per quella fila parola non farano  no in ricordar fi del luogo, detta per fina, e dell’imagine. Noi per confa  guir qurflo lamineremo per quella firada per la quale LA NATURA iflcjfi c guida jn tutte le cofi ARTEFICE maravigliosa. Mediamo naturalmente che  dette cosi prime e nuove d ricordiamo assai volctiticri. Io mi ricordo me  gito dette fiuolc mal composte } cbc mi recitava la bada mia qua/tdo io era  fnnciullo t cbe di quelle che leggo ogni di ne’poeti. Pcr affimi in quel tempo ogni cosi prima è nuova, come dice il LIZIO, e non come dice Attieni: i fanciulli Uno lantani da oem {enfierò Jt   C da noiofc fàjlidió, Veliamo anchórd:che ri ricordiamo Ielle eojè marauta gl iofejper che la marauiglia najce Ma nouita, Ci ricordiamo anchora dei  le cose rare, ir inufitare per che ne taufino maraviglia, eia furo fi ricora  Aera piu d’un Cometn apparsele delle stelle, che habbia vifìe Ceffate dia  Jtorrere per lo (telo, piu d’un eclisse del Solere della Luna; ptu d’ur, ara  co celejle di notte, che dt giorno, per ejjere cofe più rare. Per ciò che delle  eojc.che ogni giorno facciamo ci dimentichiamo assai uoluntieri. Ci ria  cordiamo ancho delle cose fàcilmente che ne muouono à giuoco, i i rt(è;  Per che il rifi najce dalla marauigUa, e le cose piu tofìo dishonefìe e bruto te ci fanno ridere che le buone. Ci ricordiamo piu della gentil dorma, e  dell’asino, die ne defenue Apuleio, cìie delHionorato atto di Regolo j ò di  Mutio Scevola. Ci ricordiamo anchora delle cose che ne piacciono, ir anchora, che non voglidmo la memoria ce le rapprefinta dinamica dove de fate cose che ne diffiacciono gonfilo non ce ne ricordiamo, ma le alhorrfa  mo ancho co'l pensiero, e fuggmo piu che pojfamo il ricordo di loro coll’imaginatiua. Le cose bombili e ffaucnteuoli ci danno anchora caufa di ricordo; per che l’horribiltà del fatto, d tiene per qualche tempo l’animo  fercoffo, e foJfefo, e cbicordiamo piu di coloro, che muoiono per fet^a di gtrocijfmcgiuflitic che di coloro che muoiono di film, ò d’altre malattie. Ci ricordiamo anchora delle cose varie fra loro e differenti, che fe ne  òli 3 e nella Mufuacida piu diletto la varietà che l’abondanza nelle cose della natura, e della martoria fono non filo vtdi, ma necessarie; di una pittura di BUONARROTI (si veda), o di Tiziano ci ricordiamo meglio che  di quella d’un pittore comun; perche dove in quejìe fi veggono ogni:  giorno cofè filamenti Ordinane, cofi in quelle fi veggono dtuerfi mouia  menti, ir infilile attitudini. Se adunque ciò conojciamo, per che non -,  debbiamo noi figuir quello, thè fa Natura ifleffa ri rnofìra 1 Hora con  ogni noflro penfiero alfigurarc facciamo le imaginationi nelle perfine »  de gagliardamente muouano le membra, che imitinogli atti degli Ijlria . ni, piu del fiUito granii, ornati ii colori splendenti l e viui,  t bruttezze incomparabili, e di altri p radicamenti, che  ne rapprefintmo all'animo una nuoua forane, marauigliofi, mu finita +  piaceuole, varia, c faauenteuole pittura. Si io voglio ricordarmi ii  INNAMORATO; non fingerò la perfino del luogho ben ve a  fiita, ir acconcia fijjnrare > e fir fintili altre co fi conuementi ad vn  gentiluomo innamorato ; ma la dipingerò qual deferiue OVIDIO (si veda) Polifit  mo innamorato, con la falce raderfi la barba, co’l rajìro pettinar fi la tea  fia;ffacchiarfi nell’acqua; con vnflr omento di mufica forano finare,e  cantare . Per che ejfinio cofi ridicola timagine, mi defiera con maga  gior ageuolezza il ricordo nella memoria . Il fonile farai ancho nettale tre cosi Onde fia nato il ricordar dal Simile; e  come fi faccia S Jamogiontìiraggionarc, come fi pojfano dipingere quelle parole J  chejìanno finza le loro imagini ; il che è opra dijficiùjfima, e doue  fia tutta l'importanza dell’arte. Per do che dice il LIZIO, ejjer net  eejfario k ciafauno j che faecola che vada fae colando l’imagim et queU  la cofi t ne può l'intelletto noflro vfir il fuo vfacio, fi £ intorno non fi  gli rapprejènta Immagine di quella . Onde non confijlcndo in altro quet  fi* arte > che nello cfarimerc intieramente in difigno nella memoria il rittratto delle parole; come potrà chi far il volefie a gufi di eccellente pitt  tore fi ngcrc con l'imaginatiua,ò mojhrar in difigno cofajche egliifìcjfi  no fàppia come fatta fi fiaitìora duque forziamoci di moflrar molte rego  kjc uie, accio che hauédole J’esercitate dindzi tutte ) fi uada firuendo di  quelle, che più proto li uegono, e più comode fi le ritrouaie co queflo fi reco  f c/i la fatiga del faito.U feudo modo adùque, che babbiamo detto di [opra    Jìc il ri cordar/ dal Sfatile, e queflo modo daremo noi a quelle parole, che  non hanno imagmi . Chiamo io queflo modo dal fimile.per ciò che non ha  uendo le lor proprie imagini quefìeparolejaremo loro le propinque, affini, e fi non in tutto, almeno raffomiglianti in qualche parte. Ma prima, che  di quejlojàcciamo parola, parmi conueneuole a narrare alcune caggiìrà, onde filmiamo noi che queflo modo ne pojfa efiergioucuole in qualche parte. Che un simile ci fa ricordare d'uri altra cefi fimile/ecofi funda  tu fui naturale, e l if peri mentiamo ogni giorno. Ogni madre, che uedrà  un JìgUuolotch’habligliocchiye la faccia, e le mani,e'lgeJlo di alcun fio,  figlio^chegia gran tempo non hahbia ueduto,fine ricorda fibitv. Andro  machc uedendò Afcanio figliuolo dt F neaper la simiglianza degl’occhi, delle mani, e del volto si ricorda del suo Ajhanatte, onde piange, egli (à prefinti. Sempre che veggo una donna che quando parla lo ride fi certi  mpuimenti di labbra, e di facciami ricordo dt un’altra donna conosciuta, che ridendo, o parlando ficea fimiì atti. Sempre thè fintiti) cantare l'aria  Sun madrigale, ch’hablia alcuna fimiglianza con alcun altro, mi ricordo  di quello di chi lo cantaua. La fimiglianza c nel predicamene della ree,  lattone : conofciuto un e [Iremo, e fòrza che Ji conofca l’altro. Cosa di  troppo gran fiocco, e finza mente firia,che hauendo locata una parola fio  mile ad un'altra, e finttndo,o ueggendo quella non cene fitiuenga fibito. E fi ben fintiamo in noi un cere che di /confidarci, non ce ne /marnami  però punto. per che la memoria nofira ancbora, chc non uogliamo, lo ci torà  ita per fina fa mente. Come possiamo ricordarci dall’Aggiuns, - ti od e L itfr » * ' a   H Oro trattiamo k flette detSimileJe quali fino molte, e le Jiuideo  remo in due parti una terremo dalla intesone della parola? l'dtrp. dalla frittura, dai con fiderando come ellafìl, cmincktremo h quefìa,  che e lene afficurarààn quella, ch‘è piu certa dell’ altre. La chiamo dalla  fcrit tura, per che occorrendo una parola, la cui fignificatione non ajjomiz  glia ad alcuna altrado alterando quelle lèttere, ò frllabe > che la componga  no de darò famigliatila nel suono. De’ modi d‘ alterarla non mi fi untene  bora piu di cinque. Aggiungere, Mancare, Trajjwrre, Mutare,}: Parure.  Cominciaremo dall’aggiungere j il (piale può ejftrc nel principio, è nel mezzo, e nel fine della ditaone. Chiamo io aggiungere nel principio  della ditti onestila figura cb’igr ematici chiamano Prolhefis, de fifa  aggiungendo una fillaba, b al meno una lettera al principio, come con magi  gtor prontezza,ò comodità ne occorre in mente . S’io uorro ricordarmi di  CH E, non fitprei,chc imaginarmi da porre in mano delle perfine, ò ne*  luoghi, ma, aggiungendo una lettera O nel principio della ditaone diri  OCHE, che fino le Papere, quejìi animali in mano della perfetta mi fa  ranno ricordare di ChE.llmcdcfimo faro a LOMBO, per aggeuolan  mi tifilo ricordo, per che fi io aggiungo la fillaba CO nel principio, barn  rbCOLOMBO,quefìo animale adunque mi farà ricordare dùLO M  BO. Farò amhora nel mezzo della dittione l’aggiuntone di una fillabafi  lettera, Ì7 4 e da grammatici chiamata quefla figura epentesi. Se io cera  co ricordarmi di R I A, che non si come fìtafitta, aggiungendo un V nèl  mezzo dirà RIVA, vna rtua adunque, b vero vn colie fiorito in quel  luogo mi darà il ricordo di RI A; cofi per ricordarmi di INSTRQ,  porrò nel mezzo CHIO.è dirà INCHIOSTRO) le manilla fàccia  dela per fina del luogo imbrattata di inchitni firà ricordare di IN* STRO. Qucflo parimente faremo nel ultimo, aggiungendoui pur una  fillaba come per ricordami di FINE aggiungerò STRA, e fà T h  NESTR A, che fi bene come fia fittmeoft à DI aggiungerò vn O fedi  ÙDIO, chiamata pur da grammatici Proparalejfifi Paragoge. Come portiamo ricordarci dal nancamento S Egutil Mancamento, che e il contrario di (fucilo, che habbiamo dettò,  mancando dal principio ; dal mezzo, edal fine della dittione alcuna  lettera,ò fillaba ; e prima ragioneremo del principio y chiamando tfuejìa  figura con i Granatici Apherefijir auerra,chc terremo al principio del  la dittione.lncontrandomi a ricordar di SPERO j togliendo il primo e dirà COSCIE: fingerò aduna  ape la perfina del luoco moftrarmi le cofcie, e mi Jòuucrrà ancho fubito di CONOSCE, e da Grammatici c chiamata quejla figura di torre di  mezzo la dittione Sincopa. Atterrii il medesimo alla fine della dittione. Occorre CAN IT ferrò l’ultima, e dina CANI. Ecco duo cani insieme mi daranno C ANIT. Se vorrò ricordarmi di SOLEMO, un SOLE mifirà ricordar di SOLEMO: togliendo parimente quella sillaba MO tire detta questa apocope  k ' r v.,et *  rv V v ì -‘‘-t Come possiamo ricordarci pet lottai  sponimento. I L traffonimcnto auiene ogni uolta,che le lettere, ò filiale della dittione  mutano luogo fia loro. Prima diremo del traffonimcnto delle lettere. Ciò è della prima all’ultima, della feconda alla penultima, e cosi di mona,  in mano dell’ due. Se mi vorrò ricordar di ROMA vvolgerò tutte le fd  tale al touerfciofi irta AMOR, vrt Cupitine m mattò, curro all'ract  àato con la persona del luogo mi porràinmentoj ROMA. Si trafiongos  no medefimantfnto le filiale, cóme dicendo REGO; che non si come fa  fittvìvolgo In seconda fittala al primo luogo } t la prima àtt’t ihma, e dirò CORE, potrà meglio dipingerfi un CORE che un RECO. Cefi di  R 1SEM I, porro fióre MISERI ; che ficn le filiale riuolte.Si potranno  anchora trofporre le lettere altiimcnte ponendo la fecondò al primo luogo  • non mutando le ah e } come vedendo ricordarmi di ALTO, porrò la Jet  tonda lettere L al primo luogo poi quelle, che figuono, e dirà LATO, la  perfino del luogo tvccandofi il lato, mi fitrà ricordar di ALTO . Il me*  dejmo porremo far attefittabe: Se per tifo eeicarò ricordarmi LO ME*  N l, pongo la feconda fittala M E manzi,e dirà cofi trafijwfiìa MELONI, Ecco due meloni in mano delt afifidente del luogo, mi fiora ricordare  del primo . Il fimile fiorai degli altri traff>oriimenti,ché pofifono effereim  Jmti t e bqfimo quefiìi effempi.per non efijèr piu lungo. Come polliamo ricordarci per la ' '  mutatione. Cap. ier cafi ricordarmi di SELO, utdo ìb  mutando le uocali potrà dir SOLO, anchora SALE, e SOLE. Se narrò  gncborn ricordarmi di una donna chiamata MENICA, me ne ricorderò  fingendo vn MANICO di fiata/* di Qppa, fingendo parimente vn  i MONACO,e ftmiU.Per SA GG IO ; SEGGIA, per BENCHÉ  vn BANCO, per PARLA, PERLA : tAa pajiamo alla divisione. Il dividere che faremo della dittione in piu fillttbee una di quelle par? tijche fono ytìlifftmc a farci ricordare pcr che ne nafcenonjolo il por?  te a memoria ogni cosa che occorre j ma di qualunque nomejìrano, bar?  laro,& inulto, che fùffe. Ma parliamo prima come fi fàccia quefìa dia  ui fotte in partì fignificatìue, per che fegliono occorrere, alcuni nomi, de  ancho diuift figtòfi canone poi riforniremo di quelli, le cui parti nonfàps  piamo a chi aJfomigliarle. Occorrendo per.auentura AMOROSA >s'io  {fluido per mezzo questa parola diri) AMO, ROSA J fìngendo dunque vn Amoda prender pefc i, et yna pùnta di Kofi mi fòri ricordar  AMOROSA, che, fi intiero fife non faprei ritromlo. Il medesimo frrcmoà SOLE KE'Chediufodirà SQLE ieKE'VnReaiun que yefìito col Scettro^ conia corona, e con yn Sole di legno, quale ftam  filiti veder dipinto, ci farà ricordar di quello. Coftanchora di APOLLODORO Vn A polline indorato. Vegliamo b era all’altra parte . Di*  uidaft il nome Jlranoin tutte le Jueftllabe, c daremo per ognifillaba alcun sogno mannaie in mano dela perfina del luogo, il cui nomo cominci da, % quella ftlkka r Con yneffimpio mi farò meglio intendere Volendomi t Come possiamo ricordarci dalla divisione. U /empiici A Diofcòtidc, 'cfimAi Cmè STÀEfLODEttDR A}  li prima fillaba e STA. trio fingerò la prima perfona tener in mani  una Jìatua A marmo. FI nell’altra un ramo A fico : LO > ne* pick una  locujìa. DEN, chef altra perfona co una mano fi tocchi uniente.DRA  e con l’altra abbracci un D ragoneionde legenda le prime fiUabe di 1.! - j t o. r ; Coti che fegno debbiamo fegnaile ^ n, jff  Z'm  un   ATA perche patria dir colui, chela da fir effreitio A epuffarte, à  1’ Ichcfcgno potrò conofcereio t fi in la figura ui è aggiunto, mancar  io jfrdjpojlo.fò altramente alterato i perciò che guardandoti mfap  ri piu Affetti à ricordarmi A ciò che-mi magmi che della sola parola ifìeffa. A queflp noi ripareremo con uuabreue regola, che dobbiamo cefi  figurarci la pittura come è la co fa ifìeffa . S e io ho aggiunto alla dittione torri alla figvra,efi ho tplfp ui aggiungerò,ò la mtarò mediche parte,  come pcreffempio, (colendo ricordarci di CHE mifinfi 3ueOCHE>  per Amojlrart chefa letterati capo, della ditone c fouerchiaj smammi  Capo all’oche,e le fingeremo cofi, acfipchc il mancamento Alle teff alti pH !  muttrafi parimente ifs  tUnW fiu VnfliENNAflratmdinmaccn le piume ritcrte^un BAN*  CO rifinito, un SO L E cdifjaàjt tenebrò fc, òr una PERLA tqal con  da in quella parte mutata, doue habbiamo di lei fitta la mutotione.La Db  uifione fi una   ROSA cui manchilo aktyfìe^altdti’jÀPQÌ&QtndoratD: rotto per  mezzo, et fimili figurati ori come piu n piacciono^ ti uegono à uerfo.Ne ti    w r* jy m j „ jti '*jri i » o   pensi » tfijnd’ u tòtrinciàua c irosi 'in fcr mt&c | .‘^1 ri ©drtfcfofà lafctitttì£i regole che altro noi non vogliamo xth'uftre interini in uece delle le t ter e t  per patrie depingcrc nella memoria. Il Tempo lo dipingeano figurane  Jo il Sole, x là, Lurknii faggif* cbequtflì fmetmrù o emfdfe m   fo ..Perii Moruk dipittgeanavo Serpe.lon inbocca-jjl Serpe è  punteggiate di oro 3 òr dipinte dt fiutane, che r effe mkaH jietvtm la  jlelle, è rotondo fenkh 'principio 3 e fcn^ofne^Qmé tl 'cmkofd&klo:}  rinuoua di fiogUa alla primauera, v-Và 1 V é* :5 **>$• i . r r- m iwfci&t "t\r: o* T "yOtremo parimente col Gejlo effimere alcune fgwfimonidi paro  A le ; e ne diremo piu particolarmente quache non barbiamo fitto rag ?  gionando delle I magini de* concetti, e dtquejlo potremo fruirci con molta  comodità, per ciò che à firci ricordare la perfino del luogo figurata inquel  gffio; ne porge molto vtile, e quella pittura figurata in un decente gefìoj quantunque taccia, che non paia che raggioni, ed efjrimi « fio con  detti piu che la voce vma tVn muto effitme coi Gejlo ciò che egli de fiz  dera,'V fóndo le mani in uecedi lingua Philomena efireffi col gejlo  dia ferrila più chiaramente la violenza vfatde daTereo, che non fice  con la pittura* N efil cifignificano quijli atti nelli hnomini, ma neUi  animali ondo, che io*i filo mouerfi ci accennano ciò che ejfi defiderano. Chi non giudica /thè dinoti humiltà vn capo chef a inchinato alla dea  fira, vnritto arroganza, piegato innanzi accetta, ti pendente in dietro  neghi deche con bocca, mani, e con ogni altro membro del corpo non fi  fojfino dimjk'are infinite pajfmi fi parole ì Chi non giudicara mejlo,  et di mah voglia vno,che ft veggSpalhdonel volto,con la fronte dea  prefiy col collo languido, e pigró intuiti ifinfi,e nelle fòrze dir un’altro infiammato (tira, thè hahbiail colore gli occh gonfi,cr (facondo,  t rutre le membra nfiritite, e fiia èon tutta la perfimtin moto gagliar difi  fimod Jf of occorrendoci adunque (come per cafifi IMBRIACO a 'V* * - a I •• # ^ v - fìngeremo quella perfètta in imagine, quale veliamo deferita Sileno da  VIRGILIO (si veda); Jìar dijlefo in terra me^go finnacchiofi, con le vene gonfie di  vino, con vna corona difirondi di vite, con yn fiafeo, che gli fenda via  cino, a cui la Ninfa Egle dipinga la faccia di mora rojjc  V cigliamo ria  cordarci di INVIDIOSÒ, fingeremo quella perfena guaine deferiite  O uidio l’invidia, Jederin terra facendofi cibo de jer penti,femprc meta  ero, fofairando, e piangendo } di faccia pallida, col guardo torto, co denti  ruggmosi ) egli difiilli veleno dalla bocca. Se anchora dicejli OCCI DE j qual ancho VIRGILIO (si veda) ne dejcriue ENEA fipra TURNO, il quale confe  braccia JòpplicheuolijCt djflejò interra chieda perdono ENEA minaccia  te gli habiiafittu la spada nel petto. Il filmile farai nell’ altre parole, che  ft potranno efarimcrc co’lgejlo.Cosi chi con le braccia aperte,chi con dia  Jlefi t chi dritti, chi piegati,et finalmente tutti in diuerfe attioni faggen a  do quanto fi pojfa ? atto dell’uno rajfomigliarfi con l’altro, acciochcal rea  àmre non pigliammo errore. Come ci possiamo ricordare dal contrario. j   Vf 7 % . 0», Efìami quejla terza j Ir vltima parte a trattare, ciò e come ci pof  fi amo ricordare dal contrario > il che io promifi al principio, quatta  io infegnai et ricordar dal proprio . Il ricordar dal contrario ci porge non  piccola vnlità ;per ciò che ciafcuno per vno ejìremo fi ricorda dcllaltro  eferemo . 1/ color nero mi farà ricordar del bianco, nella infamità mi  ricorderò della finita e nella infelicità fempre della pajfita felicità . Ina  Produce Euripide tìccuba nella fra T rageìta, che ritrouandofi nel colmo  della infelicità che hauea dt bifogtto d’ognt cafi, rtcordarfi del colmo della  Jùa felicità ; dclrcgno dejf flfia> de cinquantafigli, e cinquanta nuore,  del Marito, della cafi tonto ricca : ir iHuflre .Nel caldo ci ricordiamo  Helfeido, 1 caualierì Tranztfi combattendo neU'cJferdto di Morto  Craffo contro i Parthijper lo caldo che fintiuano fi ricordauanodelfed  do di Francia, e per lafite che papuano j fi ricord auano di tutte quelle ac 0  guef’iui haueano vfie.,   Ma prima, che mi parta di raggiane di queflo, racconterò anchora un al  tira regola, che non fife la debbo dal contrario, ò da altro chiamare, che fi fi  ra fra quante ne babbiamo raccontate digrandiffimogiouamcntv. La refi  gobi c quejla,che colui haura da fcruirfi di quefl'arte, elegaft primierafi  •niente in de vfifi nt haura a firuire, ciò e fi in predicare, b in ree idre  O rationifi altre co fi fé pojforìo ejfcrc tafanitele fra queflo fio v o eleggasi da duecento o trecento parole, che ptìtgli firuorw, e piu gli intinte#  rgono, e che meno fi pojfino ajsomgliare, per ciò .che quejìe parole piu  dell’ altre ci f cglione effir molefic al ricordare . Soia ci fama di quelle  daremo un figno manale jò dal contrio/o dui diffamile, a come a lui meglio  piacerà elegerle, e quefie notarle in un librone porfile beniffimo à memo;  tiaytedo che occorrendo al ricordare le potigli in mano delle perfine del  luogo in uece defle'parolé . Fingerò fa me j che una gran 'Zucca dica  POI CHE, vn Melone dica POSCIA, vn Ccdruolo DAL, vw  Tomo P ER y e fmilijcofi con molta prefie^a locaremo le imagini alle  parole fenza andar molto vagando con l'tmaginatiua per porle, e pat irne»  te con molta prefezza uedendole con l'intelletto ci ricordiamo delle parò*  le . Quel la regola è tolta da coloro f e raccogiicuano le orationi antica  mente dalli vtua voce mentre fi recitauanont’l Senato f e con certe tifica^  refi caratteri da loro imaginati alle parole piu occorrenti } le Jcriueuano  (on molta jtgeuole^za.e.Fu quefia regola molto commendata da Greci  per mio parere fé fcrijfero dt qu fi’ arte, ammonendo coloro f e hauea*  noà fr tpieflja profcJfione,ne haucjfcro à memoriiynagran moltttydi fi,  La quaU opinione à torto Cdcerom. la ri prende, intendetiJojtfpiwenfy  U da quello f che faa.penfindofi., che 'a tutte le Rarefi che,pq^ Falcone. Keywords: caratteristica universale. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Falcone,’ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Falzea: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM – il sentimento condiviso – scuola di Messina – filosofo messinese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo messinese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “I like Falzea; for one he applies Apollonian principles to H. L. A. Hart’s analysis of ‘discorso giuridico’ – alla ‘discorso musicale’ – after all, there is ‘armonia’ in justice!” – Si laurea sotto Pugliatti a Messina. Insegna a Messina. Lincei. Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare, sempre ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica con quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine giuridico indispensabile alla co-esistenza pacifica di vita materiale, vita spirituale e vita sociale. Fra i suoi maggiori risultati, la centralità della nozione dell’’intersoggettivo”, “l’interazione” – “l’interpersonale” -- pensato sia astrattamente che in relazione alle correlative persone la fondazione di una etica giuridica e l'elaborazione di una assiologia del diritto, frutto rispettivamente della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione concettuale delle nozioni di ”valore“ da porre, al centro della sua filosofia giuridica, assieme a quello di “interesse” (cf. Prichard), e di “categoria giuridica” formale, quali nuclei fondanti del corpus dottrinario della giurisprudenza. Da qui, la constatazione di principio secondo cui “il giuridico”, nella sua accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e non statico, si analizza nelle sue due componenti principali, quella ”formale“ e quella “materiale”, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale equilibrio co-relativo garante di quella realtà umana fattuale del interesse e del valore. Il perno epistemologico dell'impianto teorico, quale presupposto ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi “stato di diritto”, è quello che fa leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (forma), quel nucleo affettivo-emotivo (materia) insito in ogni fatto umano consuetudinario della vita. Il diritto, come realtà assiologica, è quella naturale concezione cui si perviene allorché si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della giurisprudenza la quale, invece, deve guardare alla realtà fattuale ed alle sue dinamiche complesse e multi-fattoriali, ai suoi contenuti pragmatici, di valore ed d’interesse. Da qui, la necessaria interdisciplinarità cui deve sottostarepur mantenendo la propria autonomia la costante giurisprudenza per non cadere in un anacronistico e sterile formalismo privo di materia. La forte, quasi esasperata dimensione teoretica (ma mai grettamente dogmatica) espressa non solo da un punto di vista meramente logico-formale ma sempre contestualizzata alla variegata problematicità e storicità della realtà umana, si evince, in tutta la sua evidenza, dagli scritti dedicati ai problemi di teoria generale del diritto, affrontati, oltre che in alcuni suoi lavori monografici, in certe voci la lui redatte per l'Enciclopedia del Diritto, sì da costituire dei classici della letteratura giuridica contemporanea: fra queste, accertare, apparire, efficacia giuridica, fatto giuridico. Fra i molti contributi dati da Falzea all'elaborazione teorica dell'ordinamento giuridico, in raccordo a quanto detto sopra, degno di nota è l'aver egli richiamata l'attenzione nella voce ”I fatti del sentimento“, sulla scia di parte del pensiero di Pugliatti sulla rilevanza giuridica del sentimento, inteso non come un principio generale dell'ordinamento, bensì come un vero e proprio sentimento soggetivo ed intersoggetivo – shared feelings -- fattualmente rilevante per l’interazione interpersonale, che la norma giuridica, specie quelle del diritto civile, classificano come un valore positivo, da rispettare dunque, o negativo (“disvalore”), da reprimere invece. Da questa presupposizione quindi, con metodo contraddistinto da ampiezza dell'indagine storica e improntato al rigore concettuale, consegue uno dei suoi maggiori risultati, riguardante l'analisi del concetto generale di diritto, quale diritto positivo, cioè effettivamente vigente, incardinato entro un sistema assiologico fondato su un ordine razionale intersoggetivo che rispetta il valore di una determinate intersoggetivo in un assegnato luogo ed in un certo tempo (storicità del diritto), secondo una scala della loro importanza. Quest'ordinamento razionale è un tratto distintivo sia del sistema intersoggetivo che dei suoi sottosistemi, fra i quali preminenti son oil sistema di comunicazione, e quello giuridico, che è il sistema normativo attualizzato dell'interazione. Da questa prospettiva, anche sulla base di un parallelo analogico-concettuale con la struttura della logica, perviene, tra l'altro, ad una elementare quanto fondamentale distinzione meta-giuridica fra teoria generale del diritto e dogmatica giuridica, argomentando solidamente a favore della tesi per cui la teoria generale del diritto opera ad un livello superiore di generalità rispetto a quello in cui si colloca la dogmatica giacché quest'ultima è sempre inerente a diritti positivi storicamente attualizzati, oggetti di studio della teoria generale che, in quanto tale, non discende dunque da alcun diritto positivo particolare, e quindi neppure dalla dogmatica. La teoria generale del diritto è piuttosto riflessione meta-teorica su quei particolari sistemi vigenti di diritto positivo, sistemi che verranno quindi interpretati speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione giuridica) tramite metodi centrati sulla individuazione e ordinazione concettuale. Solo in questi termini, si può allora più propriamente parlare di ”filosofia del diritto”. Altre opere: “L’intersoggetivo giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); “L’intersoggetivo giuridico, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); La separazione personale, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); L'offerta reale e la liberazione co-attiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il fatto naturale, MILANI-Casa Editrice Dott. Antonio Milani, Padova); Voci di teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il gene giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano, Introduzione alle giurisprudenza filosofica”. “Il concetto di diritto” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica,  Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano,  Scritti d'occasione, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano.  giuscivilista. Il civilista. Il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa normativa (ovvero, il caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il suo possibile effetto giuridico.  norma giuridica Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto. Il diritto può essere consuetudinario. consuetudine. Antropologia giuridica. diritto civile, Oltre il ”positivismo giuridico“, regola giuridica. Motivi volontaristici e imperativistici sono presenti nel pratico e volitivo spirito dei romani. Nemmeno tra i romani tuttavia troviamo formulate dottrine filosofiche che si propongano di ricondurre compiutamente il diritto alla volontà o al comando. Il lato imperativistico del diritto emerge piuttosto in singole tesi o massime di giuristi. Si ricordi il noto passo di Modestino riportato nel Digesto: « Legis virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire" (Digesto); o l'altro detto, di Ulpiano, ancora piu indicativo sotto il profilo volontaristico che sottolinea l'importanza della volonta del sovrano per la validita della legge: "quod principi placuit legis habet vigorem" (Digesto). Ma le espressione forse piu significative si trovano in un luogo di Gaio, nel quale egli, dopo aver distinto varie fonti del diritto romano, le caratterizza cosi: "Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit... Senatusconsultum est quod Senatus iubet atque constituit" (Gaio). Il rapporto regola giuridica-commando risulta ormai fissato in maniera esplicita, mentre e IMPLICITAmente enunciato il rapporto tra il comando (iubere) e l'imperativo (constituere). Rientra in questa configurazione  volontaristica e imperativistica del diritto la concezione della consuetudine come iussum populi, un comando del popolo alla stessa stregua della legge: lex lata sine suffragio. Ma e con la compilazione giustinianea che, associato al processo politico dell'epoca imperiale, il volontarismo giuridico ottiene la sua prima grande e compiuta affermazione. A cio concorsero due fattori strettamente collegati. La volonta d'onde promana la regola giuridica e adesso individuata e circoscritta nella persona dell'imperatore. La netta separazione, su piano empirico, tra interpretazione e applicazione della legge e la regolar rigorosa che riservava allo stesso imperatore il POTERE INTERPRETATIVO (nel senso di risoluzione dei casi dubbi) esaltano il peso della volonta imperiale, impedendo che altri, giurista o giudice che sia, possa sustituirsi, alterandola o integrandola, a quella volonta. E ben noto il monito che Giustiniano, sulla presunzione della completezza e perfezione della propria opera di legislatore, rivolgeva ai giuristi: nullis iuris peritis in posterum audentibus commentarios  illi adplicare et verbositate sua supra dicti codicis compendium confundere: quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est, cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum subtilitatem quae paratitla nuncupantur quaedam admonitoria eius facere nullo ex interpretatione eorum vitio oriundo"; e quello ancor piu energico e perentorio che gia in precedenza era stato fato ai giudici da Valentiniano e da Marciano: "Si quid vero in idsem legibus latum fortassis obscurius fuerit, oportet id imperatoria interpretatione patefieri duritiamque legum nostrae humanitati incongruant emendari". La prassi non poteva non smentire questo ambizioso proposito, la cui formulazione, tuttavia, giova a chiarire come una concezione volontaristica possa trovare un effetivo riscontro nella realta solo a patto che la VOLONTA legistlativa venga aggiunta a fonte unica del diritto al di fuori di ogni condizionamento esterno e risultati garantita nella sua fedele applicazione ed esecuzione.   Può il diritto penale di una moderna democrazia liberale essere invocato a tutela di sentimenti? L’idea della protezione penale sembra di primo acchito stridere nell’accostamento a oggetti come i sentimenti. Eppure, il problema non è estraneo alla realtà normativa italiana: nel codice Rocco il sen- timento religioso, il pudore, la pietà dei defunti, il sentimento per gli animali sono gli esemp i più evidenti. Di fronte all’impiego legislativo di suddetta terminologia, si apre il problema della definizione dell’oggetto di tutela: il presidio è rivolto a stati psicologici individuali? Oppure l’evocazione di sentimenti va ri- ferita alla collettività, quale salvaguardia di una sensibilità che si as- sume come propria della maggioranza dei consociati? La definizione in termini di sentimento comunica, in prima istan- za, l’attenzione verso aspetti non strettamente materiali della vita de- gli individui: riconosce la possibilità di recare offesa alla persona su versanti che trascendono la mera fisicità. Un richiamo a fenomeni che interessano la sfera psichica, e che si pongono di fronte al diritto come realtà da decifrare. La prima parte dell’indagine sarà dedicata a una mappatura del- l’orizzonte conoscitivo, attraverso contributi di conoscenza esterni al mondo del diritto. Cercheremo di sviluppare un dialogo interdisciplinare esteso non soltanto alle scienze lato sensu psicologiche, ma anche alle discipline sociologiche e filosofiche, secondo un’apertura che dà rilievo ai ca- noni metodologici elaborati in seno alla branca di studi della dottrina statunitense denominata ‘Law and Emotion’. A seguito di tale sintetico ma importante excursus, entreremo nel- la dimensione normativa, analizzando sia le fattispecie penali del- l’ordinamento italiano in cui l’oggetto di tutela viene definito come ‘sentimento’, sia le peculiari sfumature di significato che emergono dai discorsi dei giuristi. Culminata tale parte della ricerca, la quale è finalizzata a delinea- Tra sentimenti ed eguale rispetto re il quadro di riferimento normativo e a fissare le coordinate meto- dologiche di fondo, cercheremo di analizzare una specifica declina- zione del problema della tutela di sentimenti: i rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione. L’approfondimento di tale questione assume oggi una peculiare ri- levanza dovuta alla crescente conflittualità che si registra nel discor- so pubblico delle società occidentali, con particolare riferimento ad argomenti ad alto tasso emotivo dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. L’asserita impossibilità che il diritto possa muoversi all’interno di coordinate eticamente neutrali impone di riflettere attentamente sul- la dimensione politica del problema penale, all’interno di una dialet- tica i cui poli opposti sono rappresentati da posizioni di individuali- smo democratico contrapposte a concezioni di tipo comunitarista- identitario. La parzialità dei sentimenti, la loro mutevolezza, la loro essenzia- lità per la persona acutizzano il problema degli equilibri fra coerci- zione e libertà. L’obiettivo è riuscire a bilanciare esigenze di rispetto per le persone con la salvaguardia di forme e contenuti comunicativi la cui libertà è anch’essa parte essenziale del reciproco rispetto dovu- to da ciascuno a tutti. Una misurata e accorta diffidenza verso il tessuto affettivo- emozionale è la premessa per un approccio critico che metta il diritto penale in condizione di distinguere richieste di riconoscimento da tentativi di sopraffazione, per «non confondere il pensiero e l’auten- tico sentimento – che è sempre rigoroso – con la convinzione fanatica e le viscerali reazioni emotive» 1. In questo senso, un confronto con i sentimenti sarà forse utile a meditare sugli spazi per una convivenza tra le diverse libertà che chiedono ascolto nella società pluralista.  1 MAGRIS, Laicità e religione, a cura di Preterossi G., Le ragioni dei laici, Roma-Bari. EMOZIONI E SENTIMENTI TRA FATTO E NORMATIVITÀ. Tra sentimenti ed eguale rispetto   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica. I FENOMENI AFFETTIVI E DIMENSIONE GIURIDICA: COORDINATE EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE se trascuriamo tutte le reazioni emozionali che ci legano a questo mondo, noi trascuriamo anche gran parte della nostra umanità, e precisamente quella parte che sta alla base del perché noi abbiamo una legislazione civile e penale, e di quale aspetto essa prenda» NUSSBAUM. Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge. L’orizzonte di indagine. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi.  Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela. Oltre il lessico legislativo. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi «Anche se nel diritto penale domina il fenomeno oggettivo ed esterno del comportamento, si trovano in esso frequenti espliciti ri- chiami ai fenomeni soggettivi e interiori del sentimento. Purtroppo si tratta di semplici richiami, dai quali nessuno finoggi ha tentato di as- surgere a una trattazione sistematica unitaria. Il peso di queste lacu- ne non può non accusarsi in sede di teoria generale perché sono gli  [Tra sentimenti ed eguale rispetto istituti penalistici a offrire a uno studio giuridico del sentimento gli esempi più numerosi e più importanti» Con queste parole Falzea richiama l’attenzione sulla rilevanza che i fenomeni affettivi assumono nella dimensione penalistica, lamentando l’assenza di stu- di specifici che avrebbero potuto giovare a un più esaustivo inqua- dramento teorico dei fatti di sentimento nella sfera giuridica. A distanza di decenni le parole di Falzea mantengono inalterato il loro valore di impulso a riflettere su ruolo e significato del sentimen- to nel diritto penale. Ad oggi il tema non è stato ancora compiuta- mente indagato in una prospettiva di sistema, per quanto l’attenzione della dottrina penalistica italiana sia andata crescendo negli ultimi decenni. I limiti dell’approfondimento, quasi una ‘presa di distanza’ dai fat- tori affettivi, non costituiscono una peculiarità del microcosmo pena- listico ma sono da contestualizzarsi in un atteggiamento del pensiero occidentale che ha considerato sentimenti ed emozioni come un fat- tore di distorsione del pensiero cognitivo e, conseguentemente, anche come elemento distonico in rapporto all’asserita ‘razionalità’ degli isti- tuti giuridici e delle riflessioni ad essi inerenti 2. 1 F., I fatti di sentimento, in Studi in onore di Passarelli, Napoli.  «Si è soliti associare al concetto di “decisione” il qualificativo “razionale”, come garanzia di esattezza dei presupposti da cui promana e di “bontà”/coerenza delle ripercussioni che intende provocare. Ragione/razionalità come promessa di succes- so, di eliminazione dell’errore, di metodo fondato su argomentazioni logiche e su- scettibili di controllo critico», così CAPUTO, Occasioni di razionalità nel diritto penale. Fiducia nell’“assolo della legge” o nel “giudice compositore”?, Jus. Il tema della razionalità giuridica e penalistica affiora in innumerevoli scritti che non appare possibile menzionare esaustivamente; per un quadro di sintesi v. LA TORRE, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità, ragionevolezza, Napoli; con riferimento all’ambito penalistico, v. ex plurimis, LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, in AA.VV., Logos dell’essere Logos della norma. Studi per una ricerca coordina- ta da Luigi Lombardi Vallauri, Bari, Un eloquente monito a non dare per scontata la razionalità del giuridico si deve a GRECO, Premessa, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurisprudenza, Bari: «nel mondo del diritto l’attenzione è tradizionalmente rivolta ai contenuti strettamente giuridici delle leggi e della giurisprudenza e v’è una propensione ad attribuire significati razionali o ideali non soltanto al reale giuridico, ma anche a quello che tale non è. Ora in un mondo ampiamente dominato da leggi economiche e dai corrispondenti dinamismi socio-politici, la pretesa di considerare il fenomeno giuridico in linea generale negli stretti limiti della scienza giuridica propriamente detta è illusoria e illusionistica. Per un’interessante prospettiva sui rapporti tra razionalità dell’intervento penale ed emozioni mo-  [ Fenomeni affettivi e dimensione giuridica [Il modo di intendere le dinamiche del diritto, soprattutto del diritto penale, si è fondato implicitamente, forse anche inconsciamente, su una narrazione convenzionale che ha attribuito a sentimenti ed emozioni un ruolo negativo, quasi antagonistico rispetto alla ragione, e che ha portato in questo senso a marginalizzare il ruolo dei fenomeni affettivi, sia riguardo alla dimensione di razionalità della condotta del reo, sia soprattutto in relazione al modo di concepire l’agire delle figure tecniche cui sono affidate le dinamiche applicative del diritto: soggetti, questi ultimi, idealmente assimilati, anche a livello di immaginario collettivo, a modelli di razionalità pura, secondo veri e propri stereotipi che caratterizzano il modello culturale di diritto radicato nel mondo occidentale. Tale vulgata influisce tutt’oggi sull’insegnamento per la preparazione di giudici e avvocati, tendenzialmente, e forse talvolta ingenuamente, proiettati alla ricercadi una non ben definita razionalità, ma forse non ancora adeguatamente messi in condizione di conoscere, studiare e gestire la complessità delle euristiche del pensiero e dei rapporti con l’emotività 6. rali v. MURPHY, Punishment and the Moral Emotions, Oxford. Quale testo di riferimento per un inquadramento in chiave socio-psicologica della razionalità umana, v. ELSTER, Ulisse e le Sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità, Bologna. Definizione di BANDES, Introduction, in ed. Bandes, The Passion of Law, New York. Il tema è sviluppato principalmente in ambito criminologico; per una sintesi v. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano.; cfr. PALIERO, L’economia della pena (un work in progress), in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Marinucci, Milano,  il quale, in superamento di tale teorica, afferma che ormai non è pensabile immaginare un attore della scena penalistica che sia contemporaneamente affekt-, tradition- e wert-frei». È la critica di BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, in  Review of Law and Social Science, HARRIS, “Another Critique of Pure Reason”: Toward Civic Virtue in Legal Education, in Stanford Law Review; per la critica al modello di pensiero sotteso all’insegnamento del diritto nel panorama occidentale vedi il saggio. Emblematica è la figura del giudice, il quale per definizione si dovrebbe differenziare da figure atecniche, prive di una formazione giuridica e che dunque dovrebbero essere più esposte a condizionamenti emotivi (testimoni, imputato, pubblico), ma che andrebbe più realisticamente inteso, e studiato, anche come soggetto emotivo. Judges are human and experience emotion when hearing cases -- v. MARONEY, Emotional Regulation and Judicial Behaviour, in California Law Review; si veda soprattutto per il discorso sulla gestione delle emozioni; EAD., Angry Judges, in Vanderbilt Law Review; cfr. BANDES, Introduction. Sul tema delle emozioni del giu-  [Tra sentimenti ed eguale rispetto I tempi sembrano però essere cambiati: i saperi sul mondo, e dunque le scienze con cui anche il mondo del diritto deve confrontar- si utilizziamo il termine ‘scienze’ in un’accezione lata che comprende sia le scienze c.d. ‘dure’, sia le scienze sociali e le discipline filosofiche – inducono oggi a un ripensamento di fondo: non solo relativamente alla distinzione dicotomica ragione/emozioni, ma più in generale al ruolo che emozioni e sentimenti assumono anche in rapporto alla qualità morale delle scelte di un individuo dicante si veda anche WIENER-BORNSTEIN-VOSS, Emotion and the Law: A Framework for Inquiry, in Law and Human Behaviour, L’emotività del giudice viene analizzata anche nel panorama italiano: fra le monografie v. FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Bologna.; CALLEGARI, Il giudice fra emozioni, biases ed empatia, Milano. Fra gl’articoli v. CERETTI, Introduzione, in Criminalia; LANZA, Emozioni e libero convincimento nella decisione del giudice penale, in Criminalia.; BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale alla prova del processo, Napoli. Per una critica all’attuale formazione dei giuristi, e la proposta di introdurre le scienze cognitive nel percorso di studi universitario v. PASCUZZI, Scienze cognitive e formazione universitaria del giurista, in Sistemi intelligenti; si sofferma sulla debolezza del modello di azione razionale fatto proprio dal diritto, in una prospettiva mirata principalmente al diritto civile, CATERINA, Processi cognitivi e regole giuridiche, in Sistemi intelligenti. Traggo tale definizione da PULITANÒ, Difesa penale e saperi sul mondo, in Carlizzi-Tuzet, La giustizia penale tra conoscenza scientifica e sapere comune, Torino, in corso di pubblicazione. La bibliografia sul tema è sterminata. Ci limitiamo a indicare alcune opere che, anche in virtù dell’attitudine divulgativa, hanno contribuito a favorire un dialogo interdisciplinare. Un autore che in tempi recenti ha impresso una svolta, anche dal punto di vista comunicativo, per la confutazione della dicotomia ragio- ne/emozioni è Damasio, a partire del cele- bre studio intitolato L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, al quale si sono aggiunti successivamente Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Milano,  e Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Milano. Si vedano anche i saggi di  Doux, il quale pone lo studio delle emozioni come base per la conoscenza della mente umana, DOUX, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano. Per una prospettiva interdisciplinare, di taglio socio-filosofico, opera di riferimento è NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Bologna. Per un quadro di sintesi di taglio prettamente divulgativo v. EVANS, Emozioni. La scienza del sentimento, Roma. Il problema non è mai stato, soprattutto da Hume in poi, ammettere che le emozioni possano essere motivi dell’azione umana, ma semmai ammettere che ne siano ragioni morali, che abbiano un’autorità, una forza normativa, pari a quella che il razionalismo classico attribuiva a principi della ragione incontaminati dalle Fenomeni affettivi e dimensione giuridicaNon è possibile in questa sede addentrarci nello sconfinato dibattito. Riteniamo però di poter sintetizzare lo stato dell’arte con un’eloquente affermazione di Haidt, psicologo di matrice intuizionista, e dunque incline a riconoscere la primazia dell’intuizione emotiva nell’economia dell’agire umano. La razionalità umana dipende in maniera cruciale da un’emotività sofisticata: è solo perché il nostro cervello emotivo lavora così bene che i nostri ragionamenti possono funzionare. Un’emotività sofisticata: se la razionalità umana è il risultato di una complessa combinazione in cui anche la dimensione emotiva ha un ruolo importante, ne deriva l’esigenza di un ridimensionamento delle pretese di razionalità pura che ci si ostina o ci si illude a ricercare nei prodotti legislativi e anche nelle condotte degli operatori del diritto (giudici, avvocati). In altri termini, appare tutt’altro che inscalfibile la plausibilità dell’impostazione veteror-azionalistica cui la tradizione giuridica occidentale ha conformato i propri paradigmi e alla cui ombra sembra ancora coltivare l’autor-assicurante illusione della legge e del sistema giuridico come dominio della razionalità’ passioni e che il sentimentalismo, d’altra parte, finiva per trattare solo nella contingenza del loro incidere su una ragione pratica, v. PAGNINI, Il rispetto al centro della morale, in Il Sole-24Ore; sul rapporto fra emozioni e ragioni morali, un’opera che riassume lo stato dell’arte è Bagnoli, Morality and the Emotions, Oxford, HAIDT, Felicità. Un’ipotesi, Torino; per un’esplicazione più dettagliata v. The Emotional Dog and Its Rational Tail: A Social Intuitionist Approach to Moral Judgment, in Psychological Review. Il tema è sconfinato; per una sintesi del dibattito v. MACKENZIE, Emotions, Reflection and Moral Agency, in Langdon-Mackenzie, Emotions, Imagination and Moral Reasoning, London; OATLEY, Psicologia ed emozioni, Bologna. Una posizione che afferma l’esigenza di non trascurare l’effetto di possibile alterazione della razionalità da parte delle emozioni è quella di ELSTER, Emotions and Rationality, in Mansted-Frijda- Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge. Un’efficace sintesi, anche sul piano comunicativo, è il saggio di GOLEMAN, Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Milano. Da ultimo, v. MORIN, Sette lezioni sul pensiero globale, Milano. Per un interessante quadro di sintesi sull’atteggiamento del pensiero giuridico occidentale teso a prendere le distanze dalla dimensione emotiva (senza peraltro riuscirci), v. MUSUMECI, Emozioni, crimine e giustizia. Un’indagine storico-giuridica, Milano. The main-stream notion of the rule of law greatly overstates both the demarcation between reason and emotion, and the possibility of keeping reasoning processes free of emotional variables. It is also likely that emotion, by its very nature, threatens much of what law hopes to be. To the extent legal systems  Tra sentimenti ed eguale rispetto È emblematico l’assunto con cui la giurista Bandes apre un importante studio collettaneo intitolato ‘The Passions of Law’. Le emozioni pervadono il diritto. Possiamo dire che ne impregnano sia la fase genetica sia la dimensione applicativa. la domanda cruciale non è se emozioni e sentimenti diano luogo a forme di interazione con la realtà giuridica, bensì in quali termini essi interagiscano e come possano essere gestiti a livello teoretico e in ambito applicativo. L’osservazione di Bandes vale in misura ancora maggiore per il diritto penale, il quale intrattiene con le emozioni un rapporto di problematica contiguità, poiché coinvolge, e spesso travolge, beni che rivestono un ruolo importante nella scala dei bisogni e delle preferenze soggettive: per proteggere interessi rilevanti per la sopravvivenza e lo sviluppo della persona umana è chiamato a incidere su interessi altrettanto essenziali (le libertà) 1thrive on categorical rules, emotion in all its messy individuality makes such categories harder to maintain. The notion of the rule of law is based, at least in part, on the belief that laws can be applied mechanically, inexorably, without human fallibility, v. BANDES, Introduction. Nella cospicua letteratura si vedano, ex plurimis, BRENNAN, Reason, passion, and the progress of the law, in Cardozo Law Review; DEIGH, Emotions, Values and the Law, Oxford; KARSTED, Emotion and Criminal Justice, in Theoretical Criminology; MARONEY, The Persistent Cultural Script of Judicial Dispassion, in California Law Review; BANDES, Introduction. Per una panoramica di taglio generale si vedano anche i contributi pubblicati in Palma-Silva Dias-de Sousa Mendes, Emoções e Crime. Filosofia, Ciência, Arte e Direito Penal, Coimbra. Il problema della razionalità del punire si identifica con anche l’esigenza di un equilibrato rapporto con la dimensione affettiva. Nella sua versione più primitiva e brutale, la pena si manifesta come reazione istintiva a un torto. Definendo la pena primitiva come ragione cieca, determinata ed adeguata soltanto agl’istinti ed agl’impulsi – in una parola, come azione istintiva – volevo innanzitutto ed in primo luogo porre con ciò in rilievo, nella maniera più efficace possibile, una caratteristica negativa della pena primitiva. LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale,  Milano. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Roma-Bari. Il diritto penale costituisce il ramo dell’ordinamento in cui è maggiore è il rischio di assecondare istanze vendicative o bramosie punitive slegate da una razionalità strumentale e guidate da una cieca emotività, esso vive in una continua dialettica con l’irrazionale: cfr., ex plurimis, DONINI, “Danno” e offesa nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a margine della categoria dell’offense di Feinberg, Riv. it. dir. proc. pen.; v. anche Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, in Stortoni-Foffani, Critica e giustificazione del diritto penale: L’analisi critica della scuola di Francoforte, Milano; BARTOLI, Il diritto penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen.; Fenomeni affettivi e dimensione giuridica; L’azione dello strumento penale è di per sé ‘emotigena’, ossia fat- tore di stimolo a emozioni 15. Vale per la fase precettiva, ossia l’espressione di divieti che, a se- conda degli interessi coinvolti, possono suscitare negli individui atteg- giamenti emotivi di diverso tipo 16 i quali finiscono per influire sul gra- do di adesione alla norma e dunque sulle condizioni di osservanza del precetto, in una dimensione che potremmo definire come ‘risvolto emozionale’ del problema della legittimazione delle norme penali 17. E vale, forse in modo più rilevante, per la fase applicativa, in cui si accertano le responsabilità e la sanzione ‘prende corpo’. Non è un ca- so che la dimensione emotiva nel diritto penale venga convenzional- mente collocata, e sovente circoscritta, a fasi e momenti in cui emo- zioni e sentimenti risultano più ‘visibili’: la realtà delle aule di tri- ss.; PADOVANI, Alla ricerca di una razionalità penale, in Riv. it. dir. proc. pen.,  «In effetti, il reato è la mistura di un fatto che suscita reazioni immediate negative e di un’imputazione dalle origini spesso motivate politicamente e dagli effetti sempre stigmatizzanti», LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale. Per uno studio ad ampio spettro sulle emozioni suscitate dal fatto crimina- le, con particolare riferimento al sublime, v. BINIK, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza nella società contemporanea, Milano, 2017. 16 Sul richiamo ad atteggiamenti emotivi della collettività come parte di un più ampio problema concernente adesione a valori, consenso sociale e normazione penale, v., per tutti, PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., Nella letteratura italiana v. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., Sui rapporti fra la dimensione sociale delle emozioni e le scelte di politica del di- ritto si soffermano BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. Sui rapporti tra dimensione ‘visiva’ del crimine e ruolo delle emozioni v., per un’ampia panoramica,a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimi- ne, Milano, 2005; per l’analisi di un caso emblematico, v. CERETTI, Il caso di Novi Ligure nella rappresentazione mediatica, in AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimine; sul tema v. anche PALIERO, Verità e distor- sioni nel racconto mediatico della giustizia. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., a cura di Forti-Mazzucato-Visconti A., Giustizia e letteratura, vol. II, Milano, 2014, pp. 671 ss.; più diffusamente, ID., La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen.; PALAZZO, Mezzi di comunicazione e giustizia penale, in Politica del diritto; volendo, v. BACCO, Visioni ‘a occhi chiusi’: sguardi sul problema penale tra immaginazione, emozioni e senso di realtà, in The Cardozo Law Bulletin, Sull’approccio ‘visuale’ in criminologia v., per una sintesi globale e per le coordinate di fondo, v. BROWN, Visual Crimonology, criminology. oxfordre. com/view/10.1093/a crefore/ 9780190 264079.001.0001 /acrefore-97801902 64079-e-206? Tra sentimenti ed eguale rispetto bunale e la dialettica spesso tumultuosa fra i soggetti del processo 19. E infine il carcere, il dramma umano della pena, da sempre intriso di atteggiamenti emotivi che si dividono fra vendetta, odio per il tra- sgressore e compassione 20. Siamo solo alla punta affiorante di un intreccio che affonda le proprie radici in un substrato per lo più invisibile 21. È bene riflettere non solo sulle emozioni che il diritto penale su- scita, ma anche sugli atteggiamenti emotivi e di pensiero che sono alla base e che modellano la fisionomia dell’intervento punitivo22, nelle forme e nei presupposti23. L’esigenza di riconoscere e proble- Sulle emozioni della vittima, v. da ultimo BANDES, Share your Grief but Not Your Anger. Victims and the Expression of Emotion in Criminal Justice, Abell-Smith, The Espression of Emotion. Philosophical, Psychological an Legal Perspectives, Cambridge. Richiamiamo, nella sconfinata letteratura, alcune opere in cui viene affron- tato lo specifico tema delle matrici affettive; per una sintetica ricognizione filoso- fica, a partire da un’analisi etimologica, v. CURI, I paradossi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.,; nella letteratura angloamericana, SOLOMON, Justice v. Vengeance. On Law and the Satisfaction of Emotion, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law.; POSNER, Emotion versus Emotional- ism in Law, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law; MURPHY, Punishment and the Moral Emotions, cit., pp. 94 ss.; NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni; EAD., Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it., Bologna. Emotions pervades not just the criminal courts, with their heat-of-passion, and insanity defenses and their angry or compassionate jurors but the civil court- rooms, the appellate courtrooms, the legislatures. It propels judges and lawyers, as well as jurors, litigants, and the lay public. Indeed, the emotions that pervade law are often so ancient and deeply ingrained that they are largely invisible», v. BANDES, Introduction, Cfr. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, in 94 Minnesota Law Review. Secondo l’istanza razionalistica che è alla base del diritto penale postillumi- nistico, le emozioni sembrano subire una sublimazione che ne rende più difficol- toso riconoscerne la presenza pur avvertendone gli effetti: «The institutions of criminal justice thus find themselves in a paradoxical situation. They offer a space for the most intensely felt emotions – of individuals as well as collectivities – while simultaneously providing mechanisms that are capable of ‘coolig off’ emotions, converting them into more sociable emotions, or channelling them back into reasonable and more standardised patterns of actions and thought», v. KARSTED, Handle with Care: Emotions, Crime and Justice, Karsted-Loader-Strang, Emotions, Crime and Justice, Oxford and Portland, 2011, p. 2. 23 Nella dottrina penalistica italiana è stata avviata una riflessione concernente il raffronto fra la logica razionalistico-consequenzialista e una diversa prospetti- va, più marcatamente intuitiva e a base emozionale, nell’approccio a problemi di   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 11 matizzare il ruolo della dimensione emotiva si pone dunque anche in rapporto al processo di deliberazione delle politiche penali e più in generale all’esercizio delle scelte pubbliche 24. Appare opportuna una tematizzazione delle connessioni fra diritto penale e dimensione affettiva, in relazione non solo al funzionamento di istituti del diritto vigente, ma più in generale all’assetto logico e te- leologico delle categorie penalistiche, le quali sono frutto di atteg- giamenti di pensiero e di cultura intrisi di emotività. In altri termini, il ruolo delle emozioni e dei sentimenti va concepito non solo come elemento da ‘incastrare’ all’interno di geometrie concettuali tradizio- nali, ma soprattutto come fattore che contribuisce, e ha contribuito fino ad oggi, a influire sulle geometrie. Le relazioni tra emozioni, sentimenti e diritto penale non sono dunque confinabili a singoli territori della c.d. ‘dogmatica’, né posso- no circoscriversi a particolari settori della parte speciale del codice. Il rapporto fra dimensione affettiva e diritto penale appare in defini- tiva come un intreccio di questioni che si dispiegano da monte (fase genetica) a valle (fase applicativa) dell’ordinamento normativo. Più radicalmente, è l’idea stessa della responsabilità penale, il suo dover essere e i suoi obiettivi, a essere in buona parte co-determinati da at- teggiamenti emotivi, dalla sensibilità sociale e dal sentire dei legisla- tori: un presupposto fondamentale per ogni riflessione penalistica, e che giustamente viene oggi evidenziato come dato preliminare nella presentazione del problema penale. regolamentazione normativa e a casi concreti: v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Diritto penale, bioetica, neuroetica, Torino, 2009, passim; EAD., Una let- tura evoluzionistica del diritto penale. A proposito delle emozioni, in AA.VV., a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, Padova, WESTEN, La mente politica, tr. it., Milano; più recentemente, sul ruolo della componente emotiva nelle scelte politiche e nell’adesione a orientamenti va- loriali, fedi, ideologie, si veda HAIDT, Menti morali. Perché le brave persone si divi- dono su politica e religione, tr. it., Milano, 2013, pp. 93 ss.; una sintesi dei proble- mi in ROSSI, Emozioni e deliberazione razionale, Sistemi intelligenti. Un’analisi del ruolo del fattore emotivo nel contesto applicativo evidenzia come il richiamo a emozioni sia ben presente nelle argomentazioni giurispruden- ziali anche al di là di un definito inquadramento in particolari istituti, e rappre- senti in questo senso un ausilio argomentativo polivalente, adoperato soprattutto in relazione alla colpevolezza e ai criteri soggettivi dell’art. c.p., v. AMATO, Di- ritto penale e fattore emotivo: spunti di indagine, in Riv. it. med. leg. FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari. Tra sentimenti ed eguale rispetto 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela La dottrina penalistica parla oggi espressamente di ‘ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali’, proponendo una classificazione dei profili di interazione fra stati affettivi e diritto penale basata su cinque piani prospettici i quali possono a nostro avviso sintetizzarsi in due macrocategorie: 1) profili pertinenti la genesi del diritto, della legge penale, e il dover essere della pena (ruolo della dimensione affettiva nelle scelte di politica del dirit- to e riflessi sulla configurazione del bene oggetto di tutela penale; in- fluenza sul modo di concepire i concetti o le categorie della teoria del reato, riflessi sul modo di concepire significato e scopi della pena); profili concernenti la dimensione applicativa (ruolo di emozioni e sen- timenti nel giudizio di colpevolezza; influenza della dimensione affet- tiva nella riflessione del giudicante) 27. Questioni come l’influenza della dimensione affettiva sulla teoriz- zazione dei concetti della categoria del reato, sul modo di concepirele funzioni della pena e sulla graduazione della colpevolezza costitui- scono tematiche che, secondo un gergo ‘endopenalistico’, orientano la riflessione verso temi più vicini alla ‘parte generale’; appaiono maggiormente pertinenti a problemi di ‘parte speciale’ profili riguar- danti il ruolo di sentimenti ed emozioni nella configurazione di og- getti di tutela. Una prima ricognizione può essere condotta attraverso uno sguardo al diritto penale vigente, al testo prima che al contesto 28, alla ricerca di norme in cui vengano evocati fenomeni psichici lato sensu riconducibili a sentimenti ed emozioni; ed effettivamente nel codice penale italiano tali richiami non mancano. Un’avvertenza: partire da una lettura delle norme è funzionale a fornire delle coordinate di base per l’inquadramento delle questioni 27 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e nell’ap- plicazione delle leggi penali,  a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neu- roetica, cit., pp. 215 ss. 28 Adoperiamo la diade testo/contesto per indicare due distinti livelli di analisi: il primo relativo alla dimensione letterale delle norme, il secondo, che non affron- teremo nella presente indagine, relativo all’emersione del lessico emotivo nelle applicazioni giurisprudenziali anche in relazione a disposizioni e istituti che non richiamano espressamente stati affettivi. Sul rapporto fra testo e contesto v. PALAZZO, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione penalistica, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Marinucci. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 13 che sono più strettamente legate al diritto vigente, evidenziando in questo modo le connessioni più immediate, ma non traduce una scel- ta metodologica tesa a ‘ontologizzare’ il lessico legislativo e a farne la chiave di lettura prioritaria. Al contrario, il lessico delle norme, con le sue approssimazioni, deve indurre a chiedersi quale sia, al di là delle formule, il ruolo dei fenomeni affettivi richiamati nelle dinami- che della penalità. Prendiamo le mosse dalla parte generale del codice penale29. Ri- chiami al lessico dei sentimenti e delle emozioni emergono in istituti relativi alla graduazione della colpevolezza: nel titolo relativo all’im- putabilità, l’art. 90 c.p. parla di stati emotivi e passionali 30; fra le cir- costanze del reato spiccano il riferimento allo ‘stato d’ira determinato da un fatto ingiusto altrui’ e la ‘suggestione di una folla in tumulto’ (artt. c.p.). Menzioniamo le suddette norme poiché contengono richiami testuali, senza allargare il campo a ulte- riori situazioni in cui gli stati affettivi rappresentano un elemento che può concorrere a integrare, o a influire dal punto di vista naturalisti- co, sulla configurazione di importanti istituti: pensiamo al dolo e alla 29 Menzioniamo gli istituti e le fattispecie in cui vengono richiamati espressa- mente fenomeni psichici definiti come sentimenti ed emozioni, o comunque a essi riconducibili; non si tratta quindi dell’elencazione di tutti gli istituti che rimandi- no a concetti psicologici; per una sintesi in tal senso vedi di recente NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, Torino. La norma che stabilisce che gli stati emotivi e passionali non escludono l’imputabilità è una disposizione controversa e dibattuta fin dalla genesi; per una sintesi v. MUSUMECI, Emozioni, crimine, giustizia; FORTUNA, Gli stati emotivi e passionali. Le radici storiche della questione, in Vinci- guerra-Dassano, Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli. La rigidità della disposizione normativa viene oggi criticata, fino a farla definire da attenta dottrina come una delle finzioni più odiose del sistema, v. DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso comune, penalecontemporaneo.it; BARTOLI R., Colpevolezza: tra persona- lismo e prevenzione, Torino; ma è tuttora ben solida nella giuri- sprudenza, v., ex plurimis, Cass. pen., sez., con nota di VISCONTI A., in Riv. it. med. leg.; cfr. Cass. pen.L’unico spazio di rilevanza per stati emotivi e passionali viene ammesso nel caso di fenomeni già radicati in un pregresso quadro di infermità, v. EAD. In relazione alle circostanze dello stato d’ira e della suggestione della folla, secondo la giurisprudenza, nel primo caso lo stato emotivo deve corri- spondere a un impulso incontenibile, v. Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez.; per le spora- diche applicazioni dell’attenuante della suggestione della folla v. Cass. pen., sez. VI, 27/02/2014, n. 11915; Cass. pen., sez. Tra sentimenti ed eguale rispetto colpa e, più in generale, a tutta la materia dell’imputazione soggettiva. È oggetto di discussione se e in che misura la componente affettiva (emo- zioni e sentimenti) sia da prendere in considerazione quale fattore costitutivo dei coefficienti psichici che il diritto penale definisce ‘dolo’ e ‘colpa’, e, più in genera- le, si discute sul grado di rispondenza fenomenica della categoria della colpevo- lezza in rapporto allo stato soggettivo della persona; in relazione a tale aspetto il concetto di colpevolezza assume un ruolo che è stato definito ‘ambiguo’: «da un lato presidio del rilievo da attribuirsi allo stato soggettivo reale dell’imputato, on- de evitare una condanna che si fondi su mere istanze di esemplarità sanzionato- ria; ma nel contempo fattore che autorizza, quando la colpevolezza non viene esclusa, l’insignificanza di quel medesimo stato soggettivo (cioè della condizione vera in cui versi il soggetto agente) rispetto al contenuto della condanna», così EUSEBI, Le forme della verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità come «approssimazione», in Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della sanzione penale. L’impostazione dominante in dottrina tende a escludere una rilevanza degli stati affettivi sul piano normativo: «Estranei alla natura del dolo sono affetti, emozioni, motivi di qualsivoglia natura che stan- no ‘a monte’ della decisione di agire. In via di principio, elementi emozionali non servono a fondare il dolo, né valgono a escluderlo», così PULITANÒ, Diritto penale, Torino, Cauta è l’apertura di FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Cor- te d’Assise, il quale osserva che «[o]ccorrerebbe evitare, invero già nell’individuare l’essenza generale o nucleo centrale del dolo nella coscienza e vo- lontà del fatto, di concepire tali requisiti psicologici in termini eccessivamente razionalistici e idealisticamente depurati da corrispondenti componenti emotive». Appare difficilmente contestabile che a livello naturalistico la componente affetti- va sia un fattore costitutivo degli stati psicologici che fondano dolo e colpa; gli spazi per una eventuale considerazione del ruolo degli stati affettivi nella fisio- nomia del dolo e della colpa penale potrebbero eventualmente ampliarsi o re- stringersi a seconda che si propenda per una concezione ‘normativizzante’ dei coefficienti psichici oppure per una concezione più ‘naturalistica’, tema in rela- zione al quale il dibattito nella dottrina penalistica italiana è amplissimo: si veda- no, ex plurimis, VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino; EUSEBI, Formula di Frank e dolo eventuale in Cass., S.U., (Thyssen- krupp), in Riv. it. dir. proc. pen.,, e più ampiamente ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993; DE VERO, Dolo eventuale, colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Romano, Napoli; DONINI, Il dolo eventuale, fatto-illecito e colpevolezza, Diritto penale; 103 ss.; FIANDACA, Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, Diritto penale; DEMURO, Il dolo. II. L’accertamento, Milano; PULITANÒ, I confini del dolo. Una riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., Per una riflessione sulla consistenza psicologica del dolo eventuale alla luce delle più recenti acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze v. BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura di Forti-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 15 Si tratta di norme problematiche il cui specifico approfondimento non sarà oggetto della presente indagine; nondimeno va dato conto della rilevanza di tali disposizioni nell’impianto della responsabilità penale. Nella parte speciale del codice la definizione di oggetti di tutela in termini di sentimento rappresenta un’evidenza palmare: si parla di ‘sentimento religioso’, di ‘pietà dei defunti’, di ‘sentimento per gli ani- mali’, di condotte atte a ‘deprimere lo spirito pubblico’ (art. 2c.p.), a ‘distruggere o deprimere il sentimento nazionale’ (artt. dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale -- c.p.) e a istigare all’odio fra le classi sociali (art. c.p.), di atti finalizzati a incutere ‘pubblico timore’ (art. c.p.), di ‘comune sentimento del pudore’ (art. c.p.), di ‘perdurante e grave stato di ansia o di paura e timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto’ (art. c.p.), di ‘passioni di una persona minore’ (art. c.p.). Allargando lo sguardo al di là del codice, la legislazione comple- mentare offre ulteriori esempi: la legge nota come Legge sulla stampa, parla di sensibilità e impressionabilità di fanciulli e adolescenti e incrimina condotte idonee a offendere il loro ‘sentimento morale’ (art.); sempre nell’ambito del medesimo testo normativo, è considerata penalmente rilevante la pubblicazione di stampati i quali descrivano o illustrino, con particolari impressionan- ti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche sol- tanto immaginari, ‘in modo da poter turbare il comune sentimento della morale’ (art.). Estremamente significative sono infine le nor- me contro la discriminazione razziale (legge), nelle quali la tipicità della condotta è fondata sulla nota caratterizzante di ciò che comunemente è definito come un sentimento, ossia l’odio. Abbiamo constatato che «nel linguaggio legislativo penale il rife- rimento a sentimenti è ben presente»  e che «sentimenti e stati emo- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale; DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso co- mune, cit.; per una sintesi del ruolo delle scienze extranormative in rapporto al problema dell’imputazione soggettiva, v. da ultimo FIANDACA, Prima lezione. Nondimeno, nelle motivazioni dei giudici il richiamo alla dimensione affettiva figura quale corollario argomentativo in relazione all’elemento soggetti- vo, all’ipotesi di concessione di attenuanti generiche e più in generale in ordine alla commisurazione della pena; per un quadro di sintesi v. AMATO, Diritto penale e fattore emotivo, C. cost. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale, Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto tivi non sono certo realtà sconosciute al diritto penale»34: «i “senti- menti”, [...] ancorché di natura psichico-emozionale, sono [...] delle realtà personalistiche innegabili. Le disposizioni della parte speciale (sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti, sentimento per gli animali, sentimento nazionale) rappresentano la rispondenza più univoca e immediata di ciò che si suole definire ‘tutela di sentimenti’, con una formula tanto accatti- vante quanto ambigua e problematica nei contenuti, la quale soprat- tutto nell’attuale momento storico sta riscuotendo un inedito interes- se da parte della dottrina penalistica italiana 36. Le norme codicistiche forniscono una prima cornice, un panora- ma dalla capacità esplicativa simile a quella di una visione in contro- luce: sostanzialmente definiti appaiono i contorni, il tratteggio ester- no che inquadra il teatro dei fatti oggetto di interesse normativo; più nebuloso è il nucleo interno, legato al retroterra dei fenomeni e alle loro dimensioni di significato. Un primo ordine di problemi ha a che fare col profilo fattuale, legato all’inquadramento e alla decifrazione di ciò che i saperi sul mondo, e in particolare le scienze empirico-sociali, definiscono ‘sen- timenti’, soprattutto in rapporto ad altri fenomeni affettivi, come ad 34 FIANDACA, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Torino, PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, in Quaderni co- stituzionali, 2/2010, p. 441. 36 Menzioniamo gli scritti che si sono dedicati ex professo al tema, lasciando al momento da parte la cospicua produzione letteraria in cui l’argomento viene tocca- to in modo incidentale. Oltre al già menzionato saggio di FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, si segnala del medesimo Autore un ulte- riore approfondimento in occasione dello studio sul bene giuridico: v. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 81 ss. Si vedano quindi DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti; GIUNTA, Verso un rinnovato romantici- smo penale? I reati in materia di religione e il problema della tutela dei sentimenti, in Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Mario Romano, vol. III, Napoli; CAPUTO, Eventi e sentimenti nel delitto di atti persecutori, in Studi in onore di Mario Romano; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica; PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto penale; volendo, BACCO, Sentimenti e tutela penale: alla ricerca di una dimensione liberale, in Riv. it. dir. proc pen., 3/2010, pp. 1165 ss. Fra i costituzionalisti v. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero tra fatti di senti- mento e fatti di conoscenza, in Quaderni costituzionali, Per un’analisi del sentimento quale elemento che concorre a fondare ragioni e struttura di di- sposizioni normative non solo penalistiche, v. ITALIA, I sentimenti nelle leggi, Milano, 2017. Per una sintesi delle più recenti posizioni della dottrina continentale, nel con- testo di un’analisi incentrata sull’ordinamento spagnolo, v. ALONSO ALAMO, Senti- mientos y derecho penal, in Cuadernos del polìtica criminal, Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 17 esempio le emozioni. In termini complementari si pone un problema concettuale che riguarda le regole d’uso dei termini sia nell’ambito extragiuridico e, di riflesso, nella specifica dimensione giuridico-pe- nalistica: si tratta di prendere in considerazione le tassonomie scien- tifiche in rapporto alle esigenze di normatività, alla chiarezza defini- toria e alla funzionalità comunicativa del diritto. Un secondo ordine di problemi concerne gli spazi di legittimità di norme finalizzate a una tutela penale di interessi legati alla sfera affettiva degli individui: tema che proietta verso percorsi differenti a seconda del significato e del senso normativo attribuibile all’evoca- zione del peculiare sentimento o dell’emozione, in un discorso che chiama in gioco pregiudiziali di tipo filosofico, morale, politico. In questo senso la problematica si presta a essere sviluppata ad un pri- mo livello su un piano generale (la tutelabilità di sentimenti come problema di principio), e, successivamente, in una prospettiva più circoscritta concernente lo specifico problema di tutela che sia dato individuare dietro il richiamo alla dimensione affettiva della persona. Come detto, prendere le mosse dalle norme positive è volto a facilitare l’inquadramento dei problemi; una volta fotografato l’esistente, il lessico dei legislatori è destinato a divenire oggetto di analisi criti- ca, nel tentativo di superarne la cortina di artificialità. 2.1. Oltre il lessico legislativo Un primo obiettivo è dissolvere l’alone di retorica e guardare ‘in trasparenza’, oltre le formule. La tendenza a costruire norme penali attraverso richiami alla di- mensione affettiva, pur manifestatasi in momenti storici differenti, rivela una sostanziale continuità 38, animata da variabili che si legano a fattori sociali e culturali i quali hanno concorso a dare stimolo a una sensibilità dei legislatori39. Si tratta di scelte culturalmente 37 Più remoti sono il codice penale e la c.d. legge sulla stampa, distanti anche culturalmente dall’attuale momento storico; più prossima cronologicamente è la c.d. ‘Legge Mancino’ (incriminazione di condotte d’odio razziale), mentre è relati- vamente recente la scelta di dare riconoscimento a esigenze di tutela di animali non umani attraverso la formula ‘Delitti contro il sentimento per gli animali’. Una panoramica in MUSUMECI, Emozioni crimine, giustizia. I testi legislativi, che parlano di sentimenti, sono spia di un sentire dei legislatori che, ieri come oggi, hanno adottato quel lessico, così PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. Tra sentimenti ed eguale rispetto orientate, nel contesto di una complessità di fondo 40 che è confluita in determinazioni di politica del diritto le quali, secondo un processo ricorsivo 41, si caratterizzano a loro volta per un elevato grado di pre- gnanza culturale e una forte valenza simbolica, nel senso che le nor- me giuridiche a loro volta contribuiscono a modellare atteggiamenti di pensiero ed emotivi. Seguendo le traiettorie del pensiero di Edgar Morin troviamo un efficace quadro riassuntivo della complessità di ciò che chiamiamo ‘cultura’: «La cultura, peculiarità della società umana, è organizzata/organiz- zatrice attraverso il veicolo cognitivo costituito dal linguaggio, a parti- re dal capitale cognitivo collettivo delle conoscenze acquisite, dei saper-fare appresi, delle esperienze vissute, della memoria storica, delle credenze mitiche di una società. Così si manifestano “rappresentazio- ni collettive”, “coscienza collettiva”, “immaginario collettivo”. E la cul- tura, sfruttando il suo capitale cognitivo, instaura le regole/norme che organizzano la società e governano i comportamenti individuali. Le regole/norme culturali generano processi sociali e rigenerano global- mente la complessità sociale acquisita dalla stessa cultura» 42. In che termini il giurista penale deve rapportarsi a tale complessità? Solo se lo si considera da una prospettiva esterna, il diritto penale è un coacervo di norme: se si guarda con più attenzione, però, esso si ri- vela come una parte della cultura in cui viviamo», ricorda Winfried 40 Nel senso in cui il concetto è stato sviluppato da Morin: «Complexus significa ciò che è tessuto insieme; in effetti, si ha complessità quando sono inse- parabili i differenti elementi che costituiscono un tutto (come l’economico, il poli- tico, il sociologico, lo psicologico, l’affettivo, il mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente, interattivo e inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto, le parti e il tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità è, perciò, legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della nostra era planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le sfide della complessità», v. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, tr. it., Milano; sempre Morin afferma che «Il problema della complessità è quello che pongono i fenomeni non riducibili agli schemi semplici dell’osser- vatore», v. ID., Scienza con coscienza, tr. it., Milano; cfr. più diffusamente, ID., Introduzione al pensiero complesso, tr. it., Milano. I prodotti e gli effetti generati da un processo ricorsivo sono contempora- neamente co-generatori e co-causanti di tale processo», MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi, tr. it., Milano, MORIN, Le idee: habitat, vita, organizzazione usi e costumi. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 19 Hassemer43. L’osservazione dello studioso tedesco è un invito a riflet- tere sul diritto penale munendosi di ‘lenti’ che sappiano mettere a fuo- co non solo norme ma anche la cultura che fa loro da sfondo: gli uni- versi fattuali, valoriali, simbolici ed emotivi che la formano. Il giurista penale dovrebbe volgere il proprio sguardo verso i fe- nomeni al fine di costruire esplorazioni ‘a partire dal capitale cogni- tivo collettivo delle conoscenze acquisite’: delle conoscenze che han- no contribuito a dare un’impronta alla cultura, e dunque anche alla sensibilità dei legislatori; e del panorama di conoscenze del tempo presente, con l’annesso potenziale epistemico. Un approccio critico al lessico del diritto significa in questo senso presa di distanza da ‘ontologismi giuspositivistici’ o da riduzionismi pangiuridici’ della realtà, e traduce l’esigenza di tenere ben presente la distanza tra il diritto, inteso come ideale regolativo, e i fatti della vita L’‘inemendabilità’ di cui parla il filosofo Maurizio Ferraris, «il fatto che ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasforma- to attraverso il mero ricorso a schemi concettuali»45, suona per il giurista come un monito aprendere sul serio la distinzione tra di- mensione ‘costruttivistica’ degli schemi del diritto e il piano ontologico dei fenomeni HASSEMER, Perché punire è necessario, tr. it., Bologna. Non è vero e completo giurista colui che, pure conoscendo con scientifica precisione il diritto positivo di un determinato paese, non si rende conto della in- colmabile distanza tra il diritto e la vita, ossia della assoluta impossibilità di sod- disfare totalmente l’esigenza, presente in tutte le società, di razionalizzare le azioni degli uomini dando a esse un ordine stabile mediante regole». v. CESARINI SFORZA [si veda], Filosofia del diritto, Milano;  FERRARIS, Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari; si veda an- che la riflessione di un filosofo del diritto di matrice analitica SCARPELLI, Filosofia analitica, norme e valori, Milano: le norme e le asserzioni svolgono nell’esperienza dell’uomo una differente funzione, ma le une e le altre possono svolgere la loro funzione solo se si riferiscono a stati ed eventi dentro l’esperienza e distinguibili dagli altri stati ed eventi dentro l’esperienza». 46 Non intendiamo prendere posizione sui rapporti tra ontologia ed epistemo- logia, addentrandoci nel ginepraio di problemi legati alla dialettica fra concezioni ‘realiste’ e ‘postmoderne’. Nella letteratura italiana, oltre al citato ‘manifesto’ di Maurizio Ferraris, si veda ID., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari, 2009, pp. 62 ss.; per una cristallina sintesi del dibattito sul realismo vedi D’AGOSTINI, Realismo? Una questione non controversa, Torino. In termini generali, segnaliamo come tale produzione letteraria sia da inquadrarsi quale risposta al trend postmoderno che nella seconda metà del Novecento ha sottoposto i concetti di ‘verità’ e di ‘realtà’ a tentativi di destruttura- zione da parte di correnti filosofiche che possiamo approssimativamente definire Tra sentimenti ed eguale rispetto Nella dottrina penalistica italiana si parla di vincoli di realtà, e si potrebbero definire tali istanze anche attraverso il richiamo a con- cetti meno abituali ma oggi non più alieni al discorso penalistico, come quello di ‘verità’ 48. Lo specifico caso dei sentimenti come pro- blema di tutela porta a riflettere sulla «verità dei presupposti su cui si fonda il ragionamento funzionalistico all’origine dei precetti»49. Si tratta di un impegno anche sul piano metodologico: come approccio di studio che pone la conoscenza dei fenomeni a fondamento di ana- lisi volte a testare la qualità delle scelte e delle possibili risposte da parte del diritto, emancipandosi dalla prospettiva di patenti ‘ontolo- giche’ alle formule coniate dal legislatore 50. Il punto di osservazione dello studioso non dovrebbe pertanto col- locarsi in un’ottica del tutto interna al linguaggio e agli schemi con- cettuali del diritto posto, ma, come ogni punto di osservazione, ne- cessita di una collocazione anche esterna rispetto all’oggetto che si come relativistico-ermeneutiche. La bibliografia è sterminata; ci limitiamo a menzionare il testo forse più emblematico, e raffinato, del trend postmoderno, ossia RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, tr. it., Milano, 2004. 47 «Come impresa ‘di ragione’, il diritto è vincolato al principio di realtà. Il le- gislatore deve fare i conti con la realtà che intende regolare, nella quale ha da ri- tagliare gli oggetti e cercare le condizioni di una regolazione possibile e razionale rispetto agli scopi. Nei concreti orizzonti storici, i vincoli di realtà (ontologici) si traducono in vincoli epistemologici di razionalità rispetto al sapere disponibile», v. PULITANÒ, Il diritto penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2006, pp. 798 ss. 48 Le questioni di fondo sono oggi compendiate nell’importante volume a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione pena- le, cit.; si veda inoltre il denso scritto di DI GIOVINE O., A proposito di un recente dibattito su “Verità e diritto penale”, in Criminalia, 2014, pp. 539 ss., quale tentati- vo di superamento,  nella prospettiva giuridica, della radicalità insita nell’alter- nativa tra teorie corrispondentiste e pragmatiste. PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione. Fatti e valori nella formulazione del precetto penale, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p. 101. 50 Umberto Vincenti afferma la necessità di «combattere ogni formalismo in- terpretativo che ha la pretesa, per malintese aspirazioni di autonomia della scien- za giuridica, di risolvere ogni questione – e gli stessi casi della pratica – ragionan- do esclusivamente all’interno del testo normativo, levigando e combinando le sua parole, per comporre un certo prodotto linguistico – una certa massima di decisione – da accollare all’esperienza: alla nuova esperienza da conoscere e, nei fatti, destinata a rimanere, non volendosi andare oltre le parole di un testo (o, anche, di molti testi), di necessità sconosciuta (o quasi) perché impenetrabile attraverso il solo strumento verbale», v. VINCENTI, voce Linguaggio normativo, in Enciclopedia del diritto, Annali, vol. VII, Milano. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 21 vuole indagare: «a partire dall’insopprimibile “eccedenza” della vita rispetto a tutte le forme», e nella consapevolezza che il diritto, rispet- to ai fenomeni che ne costituiscono il campo applicativo, costituisce ormai una semantica influente in cui quello di cui si parla è molto di più di quello che si dice.  Le citazioni sono tratte da RESTA, Diritto vivente, Bari. Si veda anche RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, il quale sembra farsi sostenitore di istanze simili quando afferma che il ri- chiamo alla ‘verità’ dei presupposti implica che è in gioco qualcosa di più profon- do della precisione linguistica e dell’efficacia descrittiva di una norma: osserva Rodotà che «In realtà il diritto è più che una regola. Prima di tutto è un linguag- gio. Si può davvero dire tutto con le parole del diritto o è proprio la grammatica dei diritti a dimostrarsi povera di fronte alla complessità sociale e alla sua ric- chezza? Il radicarsi del diritto nella realtà segue itinerari complessi, e meno lineari, di quello che misura l’effettività della norma unicamente da una sua diret- ta e immediata applicabilità in una situazione determinata. Già la sola trascrizio- ne nell’ordine giuridico di un valore o di un principio o di un fine pubblico porta con sé una variazione del contesto in cui collocare gli atti della vita, del discorso giuridico a cui fare riferimento, del sistema normativo con il quale misurarsi». Tra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Percorsi concettuali e interdisciplinari SOMMARIO: 3. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio. Quale concezione di emozione per il giurista? Sull’uso del termine emozione. Spunti di riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’ Un approccio orientato a problematizzare il profilo ontologico- fattuale dei fenomeni affettivi, e dunque a dialogare con ambiti disci- plinari diversi dalla scienza giuridica, trova un importante punto di riferimento dal punto di vista metodologico nel campo di studi di matrice statunitense denominato ‘Law and Emotion’ Si tratta di un’area di discussione orientata a rimeditare i termini dell’interazione fra diritto e dimensione emotiva per ragioni che si le- gano non solo a un complessivo aggiornamento delle conoscenze ex- tragiuridiche sul tema, ma soprattutto per favorire una maggiore con- sapevolezza e un ‘uso’ più intelligente delle emozioni nel campo giuri- dico («intelligent and responsible engagement by law») Secondo i teorici di ‘Law and Emotion’ i giuristi tendono a non prendere sufficien- temente in considerazione le acquisizioni delle scienze extragiuridiche sugli stati affettivi, rivelando un’autoreferenzialità frutto di mentalità chiusa e una riluttanza ad apprendere da altre discipline Per un inquadramento dei temi trattati e delle diverse impostazioni v. BANDES- BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., passim; MARONEY, Law and Emotion: A Proposed Taxonomy of an Emerging Field, in 30 Law and Human Behavior.; cfr. anche ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions? ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions? BANDES, Introduction. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica Gli studi di ‘Law and Emotion’ mirano a mettere in luce l’influenza che la dimensione affettiva esplica sul modo di concepire ratio e struttura di istituti di diritto positivo e, più in generale, sulle ragioni addotte per legittimare l’essere e il dover essere del diritto, soprattutto del diritto penale. Si approfondisce la conoscenza dei fenomeni affettivi attraverso una base epistemica che non si limita alla dimen- sione bio-psicologica, ma che si apre alla sfera sociologico-umani- stico-letteraria, attraverso la filosofia, la letteratura, l’antropologia, la sociologia, in una prospettiva volta a dischiudere orizzonti di senso e a guardare ai fenomeni affettivi attraverso un filtro interpretativo multidisciplinare. Ciò che sembra meglio riassumere l’istanza sottesa agli studi di ‘Law and Emotion’ è la ricerca di un dialogo finalizzato non solo a in- crementare consapevolezza e competenze dei giuristi sul tema delle emozioni, e dunque a favorire una maggiore attendibilità scientifica dei lavori dei giuristi, ma anche a promuovere un feedback virtuoso fra scienza giuridica e saperi empirico-sociali sugli stati affettivi 58. I contributi di ‘Law and Emotion’ non si identificano con una linea teorica univoca, ma si articolano in diverse correnti; una fra le BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law; MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss.; ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions? Sotto tale profilo sembrano esservi sostanziali differenze rispetto ad altre branche di studi, affini ma distinte da ‘Law and Emotion’: in particolare ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’, le quali, peraltro, sembrano essere tenute in maggiore considerazione dai giuristi. Una possibile chiave di lettura di tale atteg- giamento è il fatto che ‘Law and Economics’ e ‘Law and Neuroscience’ sembrano basarsi su assunzioni che sono più vicine al modello di razionalità ‘classica’ con cui i giuristi hanno maggiore confidenza, v. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, MARONEY, Law and Emotion: «We see as well a persistent divide between empiricists and theorists. The lack of dialogue across these dividing lines lessens opportunities for cross-fertilization. We therefore would do well to foster dynamic collaborations among social scientists, those trained in the life sciences, philosophers, lawyers, and legal scholars. The exercise of forging such collabora- tions would encourage creation of a common language, and resulting scholarship would be both more complex and more accessible to those across the range of implicated disciplines. Quali caratteristiche deve avere uno studio per potersi inquadrare come contributo su ‘Law and emotion’? Questa la risposta di MARONEY, Law and Emo- tion, cit., p. 124: «The question as to at what point any given project is sufficiently about both “law” and “emotion” to productively be claimed for this particular en- Tra sentimenti ed eguale rispetto più autorevoli studiose, la giurista Terry Maroney, individua ben sei tipologie di approccio60. Tale schematizzazione assume in primo luogo un valore descrittivo, individuando snodi concettuali che carat- terizzano le peculiarità dei singoli contributi nel contesto della pro- duzione scientifica sul tema; sotto un diverso profilo, la tassonomia degli approcci possiede anche la funzione di canone metodologico volto a evidenziare questioni fondamentali con cui il singolo studioso che intenda approfondire il tema delle interazioni fra diritto e dimen- sione affettiva si troverà a fare i conti 61. I percorsi individuati da Ter- ry Maroney fissano in questo senso delle coordinate che possono con- tribuire a suggerire al singolo studioso l’impostazione che meglio si attaglia al tipo di indagine che intende affrontare: la conoscenza dei nodi teorici fondamentali e, correlativamente, della possibilità di percorsi e di approcci alternativi, dovrebbe costituire un impegno ad acquisire consapevolezza riguardo l’impostazione adottata, anche al fine di renderne esplicita l’adesione. clave is worthy of greater exploration than is possible here. I offer, nonetheless, two premises, one pertaining to motivation and the other to method. First, contemporary law and emotion scholarship is based on the beliefs that human emo- tion is amenable to being specifically and searchingly studied, that it is highly relevant to the theory and practice of law, and that its relevance is deserving of clos- er scrutiny than it historically has received. Second, such scholarship explicitly directs itself to both sides of the “and”; it takes on a question regarding law and brings to bear a perspective grounded in the study or theory of emotions. MARONEY, Law and Emotion. Nel dettaglio, si parla di: emotion centered approach’, come approccio che si focalizza su una singola emo- zione e ne analizza le possibili interazioni con la dimensione giuridica; emotional phenomenon approach, il quale muove dallo studio di processi mentali e comportamentali che non corrispondono propriamente a emozioni, ma che rap- presentano condizioni per l’elicitazione o la esternazione di stati emozionali emotion theory approach’, approccio porta a sviluppare riflessioni in linea con una o più teorie interpretative delle emozioni; legal doctrine approach, il quale mira a far interagire il sapere su emozioni e stati affettivi con aree determinate del diritto o con particolari istituti; theory of law approach, il quale studia i nessi tra emozioni e diritto a un livello puramente teoretico, facendo interagire teorie sulle emozioni con teorie generali sul diritto; legal actor approach, il quale si occupa di analizzare come la dimensione emotiva influisce sull’attività dei soggetti che operano nell’ambito applicativo: giudici, avvocati, ecc. MARONEY, Law and Emotion, careful consideration of the analytical approaches potentially implicated in any given project will help identify blind spots or force unstated assumptions to the surface, and may further encourage scholars to justify why they make the choices they do. Thus, academic inquiry into the intersection of law and emotion should identify which emotion(s) it takes as its focus; carefully distinguish be- tween those emotions and any implicated emotion-driven mental processes or   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 25 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di studio e questioni di linguaggio Gli studi su ‘Law and Emotion’ mettono in evidenza questioni teo- riche le quali riteniamo debbano essere prese in considerazione an- che nella presente indagine: in particolare, un importante step è rappresentato dalla ricerca di punti di convergenza fra contributi di ma- trici scientifiche eterogenee, e dunque dall’esigenza di uno sguardo d’insieme alle acquisizioni elaborate dalle discipline che studiano gli stati affettivi. Sentimenti ed emozioni sono fenomeni relativi al sentire della persona: per comprenderne i profili di rilevanza nella dimensione del singolo e l’incidenza nelle dinamiche relazionali il giurista penale de- ve necessariamente rivolgersi a saperi esterni al diritto che potremmo definire lato sensu ‘psicologici’, ma che non si limitano alla sola psicologia. Nell’attuale momento storico le dinamiche interiori dell’individuo sono poste sotto osservazione da una molteplicità di punti di vista: un’interazione fra discipline che dà luogo a complesse mappe epistemiche. Difficilmente potrà trovare appagamento la bramosia di defini- zioni che spesso anima le operazioni intellettuali dei giuristi quando si addentrano in campi di conoscenza diversi dal proprio. La lettera- tura sugli stati affettivi non è semplicemente una sovrapposizione di varianti tassonomiche e definitorie; differenti sono le discipline coin- volte, con angolazioni prospettiche e linguaggi che valorizzano profili differenti e complementari: non esiste un’unica ‘scienza dell’emozio- ne e dei sentimenti’. Come modello di approccio penalistico alle scienze extranormati- ve si è recentemente parlato di una prospettiva ‘separatista’ e di una ‘dialogante’64. La soluzione a nostro avviso preferibile è la seconda; nel presente caso, il dialogo si caratterizza per una particolare com- plessità, poiché le voci che il giurista si trova di fronte rappresentano una variegata polifonia da cui emergono prospettive di ricostruzione behaviors; explore relevant and competing theories of those emotions’ origin, purpose, or functioning; limit itself to a particular type of legal doctrine or legal determination; expose any underlying theories of law on which the analysis rests; and make clear which legal actors are implicated», v. MARONEY, Law and Emotion. Condividiamo in questo senso l’impostazione metodologica di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, FIANDACA, Prima lezione. Tra sentimenti ed eguale rispetto e di classificazione alquanto diverse. Sarebbe segno di chiusura cul- turale se ci si accontentasse di identificare le rispondenze fenomeni- che del richiamo a sentimenti sulla base del senso comune, senza ap- profondire le articolate classificazioni proposte dai diversi saperi sul mondo 65; nondimeno, la non omogeneità del panorama di conoscen- ze grava il giurista di un compito severo. In primo luogo appare opportuno individuare le branche della co- noscenza che oggi tracciano le coordinate di riferimento. Al fine di delineare i presupposti di un’interazione fra scienza penale e saperi sugli stati affettivi, nella dottrina penalistica italiana è stata proposta una schematizzazione utile a mappare l’orizzonte conoscitivo. Tre le tipologie di approccio evidenziate: approccio psicologico;  approccio neurofisiologico e neuroscientifico; approccio filosofico La dimensione biologica e quella psicologica offrono un quadro in- centrato sulle dinamiche interne alla persona, ossia relativo a come gli stati affettivi si manifestano e a quale influenza possono avere sul- l’agire, sull’autodeterminazione individuale e dunque nella globale eco- nomia di vita di un soggetto. Prospettive come quella filosofica e so- ciologica forniscono chiavi di lettura differenti, facendo luce non solo sulla dimensione soggettivo-interiore e solipsistica dei fenomeni af- fettivi, ma proiettandoli nelle complesse dinamiche della vita di rela- zione e dunque nella sfera interpersonale. Nella prospettiva penalistica sono importanti entrambi i profili, sia quelli più legati al ruolo degli stati affettivi nella dimensione indi- viduale, sia quelli concernenti l’intersoggettività e la dimensione col- lettiva, i quali potranno assumere una maggiore o minore pertinenza a seconda dei problemi esaminati dal giurista. Rispetto ai temi oggetto della presente indagine, la parte definitoria è in larga pare debitrice di contributi di ambito psicologico; quanto al- lo sviluppo che riguarderà la specifica connessione della tutela di sen- timenti al tema del rispetto reciproco e dei limiti penali alla libertà di espressione, le traiettorie di pensiero a nostro avviso più feconde risul- tano intrecciate alla filosofia politica e a recenti sviluppi della filosofia fenomenologica. Non va infine dimenticata un’ulteriore branca del sa- pere che si focalizza su dinamiche di intersoggettività nella dimensione Per una critica all’habitus culturale del penalista, talvolta poco propenso al confronto con il mondo dei fatti, e una conseguente esortazione a fare proprio uno spirito scientifico e una modalità di pensiero diversi dal mero senso comune, v. FORTI, L’immane concretezza, FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti; cfr. NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 27 sociale: parliamo della sociologia delle emozioni, un campo di studi relativamente giovane e alquanto promettente per le prospettive di interazione con la riflessione giuridica 69. Nel prosieguo cercheremo di compiere un excursus, necessaria- mente approssimativo, al fine di fare maggiore chiarezza sui tratti che distinguono in particolare il sentimento da un’altra manifesta- zione del sentire: l’emozione. Si tratta di un compito spinoso. Eloquente è quanto affermato nella letteratura psicologica italiana. Nell’affrontare lo studio della vita emotiva si resta colpiti dal disaccordo che vi è tra gli psicologi sull’uso e sul si- gnificato dei termini fondamentali, sulla classificazione e sui caratteri differenziali degli stati affettivi, sul meccanismo della loro produzione. L’ambiguità e la vaghezza presenti nel linguaggio comune non do- vrebbero rinnovarsi nel linguaggio scientifico, e, soprattutto, quan- do si tratta di gestire l’interazione fra discipline differenti «le parole [non dovrebbero essere] introdotte in un sistema di linguaggio scien- tifico, serbando a tradimento il significato che loro viene dal modo in 67 Sul tema, amplius, v. a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, tr. it., Milano. TURNATURI, Introduzione, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni, BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. SCHERER, What are emotions? And how can they be measured?, Social Science Information. ZAVALLONI, La vita emotiva, in Ancona, Questioni di psico- logia. Principi e applicazioni per psicologi, medici, insegnanti ed educatori, Milano. Problemi di natura terminologica sono posti in evidenza anche da ABBAGNANO [si veda], Storia filosofica delle emozioni, in GALATI, Prospettive sulle emozioni e teorie del soggetto, Milano. [cf. H. P. Grice, “Grice ed Abbagnano”]. Oltre ai complessi rapporti tra definizioni scientifiche, l’inquadramento di profili di rilevanza giuridica di sentimenti ed emozioni richiede di non trascurare il vocabolario tramite cui gli attori sociali connotano gli stati affettivi, e dunque le sfumature del linguaggio che possono concorrere a illuminare dimensioni di sen- so dei fenomeni. In altri termini, la ricerca di una tendenziale coerenza tra cate- gorie giuridiche e concettualizzazioni scientificamente fondate dovrebbe essere veicolata anche attraverso un esame di usi linguistici che, pur caratterizzati da approssimazioni e da una logica comunicativa incline al ‘senso comune’ o alla c.d. ‘psicologia ingenua’, possono nondimeno contribuire ad additare problemi di fondo e a identificare l’area di significato dei termini. Sul ‘senso comune’ come categoria che definisce ciò che è ritenuto ovvio e condiviso all’interno di una cer- chia sociale, v., per tutti, JEDLOWSKY, “Quello che tutti sanno”. Per una discussione sul concetto di senso comune, in Rass. it. sociologia, Tra sentimenti ed eguale rispetto cui sono usate in un altro sistema, o nel linguaggio comune» 73. Tale monito, proveniente da un filosofo italiano del diritto, trova rispondenza in ambito anglo-americano proprio negli scritti legati a ‘Law and Emotion’ il lessico degli stati affettivi muta a seconda dei contesti di studio, e l’opera di consultazione di saperi esterni da parte del giurista penale dovrebbe essere accompagnata da una rielabora- zione dei contenuti, poiché le ipotesi definitorie e classificatorie pro- poste in ambito extragiuridico possono non assumere una corrispon- dente rilevanza nella prospettiva della valutazione penalistica. I concetti di emozione e di sentimento vanno conseguentemente mo- dulati sulla dimensione giuridica, tenendo ben presente la base epi- stemica alla quale si sta facendo riferimento, ma senza vincoli sul piano strettamente lessicale né concettuale. Il problema non è certo inedito, e può essere ricollegato agli inter- rogativi formulati, ormai qualche decennio fa, da autorevole dottrina, relativi a come rendere metodologicamente compatibili il punto di vista normativo e quello delle scienze empirico-sociali di fronte al- l’esigenza di definire la rilevanza giuridica di fenomeni psichici Scarpelli richiama l’attenzione sull’esigenza di pulitura, ed eventualmente di ri-strutturazione, del lessico giuridico, con l’importante avvertenza di non limitarsi a importare terminologie esterne in modo pedissequo e irriflessivo, senza procedere a un’adeguata concettualizzazione: v. SCARPELLI, Scienza del diritto e ANALISI DEL LINGUAGGIO, a cura di Scarpelli-Di Lucia, Il linguaggio del diritto, Milano, MARONEY, Law and Emotion; BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti: «il giurista contemporaneo, se da un lato non può fare a meno di rivisitare i concetti di emozione e sentimento alla luce delle acquisizioni scientifiche e della riflessione filosofica più recenti, rimane per altro verso pur sempre vincolato all’esigenza di ri- pensare i concetti elaborati in altri ambiti disciplinari secondo la sua specifica ottica». Dello stesso avviso, BANDES, Introduction, cit., p. 8, secondo la quale it is also true that law has its own set of purposes, demands and limitations. The knowledge we gain about emotion is usable in a legal context only if it can be translated in light of law requities». 76 FIANDACA, I presupposti della responsabilità penale tra dogmatica e scienze so- ciali, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere: ragionamento sul metodo, Padova. L’analisi di Fiandaca è in questo caso incentrata sui presupposti soggettivi della responsabilità penale, e pone in evidenza due distinti ordini di problemi: da un lato, il grado di affidabili- tà del sapere metagiuridico, che, specie con riferimento alle scienze psicologiche, offre contributi i cui esiti si prestano a letture non univoche. Dall’altro lato, evi- denzia come determinate acquisizioni in ambito psicologico siano tali da porre in dubbio la base fattuale di principi normativi come la colpevolezza, esponendone   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 29 Nello scenario contemporaneo, l’ampliamento dell’offerta epistemi- ca, ossia l’incremento delle branche della conoscenza che oggi si sof- fermano sullo studio dei fenomeni affettivi, rende ancora più com- plesso tale compito. A fronte di tali difficoltà, e nella consapevolezza che sia opportuno tenere distinte le finalità delle categorizzazioni dei saperi sul mondo dalla teleologia delle categorie penalistiche77, resta l’obiettivo di ridurre la distanza fra l’artificialità delle concettualizzazioni giuridiche e la realtà dei fenomeni 78, sia al fine di individuare re- gole d’uso dei termini non ‘arbitrarie’, ossia fondate su connessioni fra le diverse proposte in ambito extragiuridico le quali siano adeguata- mente esplicative rispetto ai problemi in gioco; sia nella prospettiva di dare anche un impulso alla rivisitazione di categorie e di modelli con- cettuali presenti nel discorso giuridico 79 – non solo dei teorici ma an- che, soprattutto, degli applicatori – che risentono di schemi di pensiero legati al senso comune e alla cosiddetta psicologia ingenua 80. però a rischio anche il ruolo individual-garantistico; oppure, con riferimento a un possibile allineamento con quanto espresso da determinate teorie sociologiche, rimarca il rischio di una funzionalizzazione del diritto penale all’ascolto di istanze di mera difesa sociale. 77 Rileva tale problema, con riferimento al tema dell’imputabilità, BERTOLINO, L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, pp. 25 ss., 44 ss. Sul tema della costruzione di un modello di scienza penale integrale, non asservi- ta ai saperi empirici ma comunque attenta a limiti epistemologici, v. DONINI, La scienza penale integrale fra utopia e limiti garantistici, a cura di Moccia- Cavaliere, Il modello integrato di scienza penale di fronte alle nuove questioni socia- li, Napoli, 2016, pp. 26 ss. 78 Anche aprendo la riflessione verso un’eventuale ‘rivisitazione’ di categorie che dovessero risultare mero riflesso di una psicologia cosiddetta ‘esoterica’: su tale definizione v. FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle categorie; cfr. VENEZIANI, Motivi e colpevolezza. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, cit., p. 165. 80 Si è osservato che «il diritto può venire considerato un caso particolarmente brillante di scienza “ingenua”. Esso infatti impiega massicciamente una propria concezione della psicologia ma senza dichiararne i teoremi ed i postulati», v. PE- RUSSIA, Criteri giuridici e criteri psicologici: note sullo scambio epistemologico fra psicologia e diritto, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere, cit., p. 89. Per un quadro generale sulla ‘psicologia inge- nua’, con cui si intende la capacità spontanea degli esseri umani «di interpretare i comportamenti di un agente attribuendogli stati mentali quali credenze, desideri, piacere, interesse», v. MEINI, Alle origini della psicologia ingenua: interpretare se stessi o interpretare gli altri?, Sistemi intelligenti; con riferimento alla dimensione giuridica, v. di recente FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. Per una sintesi del ruolo della commonsense psychology nel di- ritto penale, in una prospettiva tesa a non demonizzarne il ruolo ma ad analiz- Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.1. Quale concezione di emozione per il giurista? Non si tratta dunque di effettuare un travaso lessicale che intro- duca nomenclature e classificazioni ab externo; le diverse ‘emotion theories’ si prestano a sviluppi fra loro profondamente differenti, e il giurista non può limitarsi a importazioni passive di saperi 81. zarne i risvolti positivi quale alternativa a prospettive ‘comportamentiste’ e ‘ridu- zioniste’, v. SIFFERD, In defense of the Use of Commonsense Psychology in the Cri- minal Law, in 25 Law and Philosophy, 2006, pp. 571 ss.; per un’opinione differen- te v. COMMONS-MILLER, Folk Psychology and Criminal Law: Why We Need to Repla- ce Folk Psychology with Behavioral Science, The Journal of Psychiatry and Law. Quando si parla di psicologia folk ci si riferisce a un terri- torio che non corrisponde a un sistema armonico di concetti (peraltro si tende anche a distinguere folk psychology da commonsense psychology), ma che è un campo variegato, caratterizzato anche da incongruenze interne, nel quale i saperi scientifici costituiscono l’humus di concettualizzazioni che vanno ad assumere forme differenti in relazione ai momenti storici; è più corretto parlare al plurale di ‘folk conceptions’ piuttosto che di un’unica visione ‘folk’ dei fenomeni affettivi. La dimensione folk resta eminentemente esplicativa, ma non descrittiva: è condi- zionata da un sapere approssimativo sulla fisiologia degli stati affettivi, e accom- pagna tale gap epistemico con congetture che rivelano un approccio tendenzial- mente valutativo del fenomeno emotivo, il quale trova espressione in immagini significative che traspongono in termini metaforici i caratteri del fenomeno. In generale possiamo affermare che la vita di relazione è in larga parte regolata da deliberazioni interiori assunte sulla base di postulati di ‘folk psychology’, in parte come frutto di competenze innate, e in parte effetto di deduzioni influenzate della cultura. Si osserva che nella dimensione penalistica la ‘folk psychology’ può rap- presentare un formante in relazione a tre distinti profili: influisce sulla confor- mazione categorie generali del diritto penale; influenza le argomentazioni degli studiosi di diritto; si insinua concretamente nel sistema legale attraverso argo- mentazioni che gli operatori pratici adoperano nella loro professione (giudici, av- vocati, e, con riferimento al sistema americano, giurati), v. FINKEL-GERROD PAR- ROT, Emotions and culpability. How the Law is at Odds with Psychology, Jurors, and itself, Washington, 2006, p. 48. Sull’interazione fra senso comune e studio delle emozioni, in una prospettiva che ne rimarca le reciproche implicazioni, v. GALATI, Prospettive sulle emozioni. Si veda anche CALABI, Le varietà del sentimento, in Sistemi intelligenti, la quale afferma che la psicologia del senso comune contribuisce a fornire una rappresentazione del fe- nomeno emotivo che ne comunica la complessità in modo più coerente e attendi- bile rispetto alle tendenze riduzioniste o eliminativiste. 81 Per il giurista, oltre alla necessità di riuscire a districarsi fra gli ‘overlap- ping fields’ sulle emozioni (secondo la definizione di BANDES, Introduction, cit., p. 8) si pone l’esigenza di non introdurre tali conoscenze in termini meramente strumentali alla costruzione delle proprie teorie, importandoli e magari ‘co- stringendoli’ all’interno di argomentazioni giuridiche senza renderne manifesto il margine di opinabilità e la possibilità di ricostruzioni alternative, e senza dunque osservare il dovuto rispetto per la complessità a cui si sta facendo ri-   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 31 Il richiamo a vincoli di realtà si potrebbe così articolare: un primo livello, relativo all’esplorazione del panorama di conoscenze disponi- bili, all’esame di nozioni, di tassonomie e di differenti prospettive di ricostruzione; un secondo livello, incentrato su una concezione di sentimento e di emozione che sia suscettibile di entrare in connes- sione con i fatti e con le dinamiche che interessano i problemi di re- golamentazione penale. Nel complesso, a una fase di ricognizione epi- stemica si aggiunge un processo interpretativo e al tempo stesso ‘crea- tivo’, nel senso che il giurista finisce per concepire una particolare idea di emozione e di sentimento. Una critica mossa ad alcuni fra i primi contributi sul tema di ‘Law and Emotion’ è stata quella di non aver adeguatamente problematiz- zato ed esplicitato un importante passaggio metodologico, ossia di- scutere apertamente quale sia la concezione di emozione assunta alla base delle riflessioni 82. Parallelamente a tale critica, riteniamo che si attaglino anche al giurista le osservazioni del sociologo Sergio Manghi, quando afferma che per lo studioso di scienze sociali non è possibile limitarsi a de- scrivere il modo in cui le emozioni vengono socialmente definite: allo stesso modo per il giurista non è possibile far interagire la dimensio- ne giuridica con le diverse prospettive attraverso cui emozioni e sen- timenti vengono socialmente e scientificamente definiti, senza pren- dere al contempo una posizione che traduca maggiore o minore pre- ferenza per una determinata impostazione. Va dunque inoculato an- che nella riflessività dello studioso di diritto l’interrogativo di natura epistemologica su quale sia la concezione di emozione alla base del proprio discorso: «attraverso quale idea di ‘emozione’ parlo di ‘emozioni’? Essere o me- no dotati di un’idea di ‘emozione’, o per dirla con una parola più im- pegnativa, di una teoria delle emozioni, non è questione di scelta, per nessun essere umano che ricorra alla parola ‘emozione’. A maggior ra- gione, non è una questione di scelta per uno scienziato sociale. Una teoria c’è comunque. Possiamo scegliere solo se mantenerla implicita, colludendo con il senso comune, o possiamo cercare di esplicitar- mando: «Legal scholars, as well as lawyers, legislators, judges, need to guard against this temptation to pillage other fields without regard for their full com- plexity and to use the spoils selectively to make legal arguments», v. BANDES, Introduction, LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, in 86 Cornell Law Re- view. Tra sentimenti ed eguale rispetto la: ben sapendo, beninteso, che l’esplicitazione non tocca che uno scam- polo del vasto sistema delle nostre premesse implicite. L’assunzione di un’idea da altri ambiti testuali rimane comunque un gesto attivo, un atto linguistico generativo, del quale non possiamo non assumerci la responsabilità epistemologica» 83. Il problema non è solo definitorio ma implica una presa di posi- zione sul piano epistemologico, con conseguenze sul merito delle ri- flessioni84: tematizzare problemi concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva porta anche il giurista a prediligere e a identifi- carsi con una o più proposte ricostruttive. Formarsi un’idea di cosa siano l’emozione e il sentimento, e in quale accezione si intenda in- trodurre tali concetti nel discorso penalistico, rappresenta in primo luogo un’acquisizione importante dal punto di vista della qualità epistemica dell’indagine e delle proposte eventualmente avanzate, e co- stituisce un impegno sul piano metodologico. 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’ Esigenze di chiarezza e di coerenza con le fonti bibliografiche ri- chiedono una puntualizzazione sul piano lessicale, o più precisamen- te, meta-lessicale. Nella lingua italiana i termini che definiscono gli stati affettivi so- no diversi: ‘sentimento’ ed ‘emozione’ sono quelli probabilmente più noti, cui si affiancano anche vocaboli come ‘passione’, ‘sensazione’, ‘impressione’, ‘affezione’, ‘stato d’animo’. In lingua inglese il termine di uso più comune e dal significato più ampio è ‘emotion’, il quale, a seconda dei diversi contesti, sembra po- tersi tradurre in italiano sia con ‘emozione’, sia con ‘sentimento’. Più circoscritto appare l’uso del termine ‘feeling’, il quale si presta a esse- re tradotto letteralmente come ‘sentimento’, al pari dell’ancor più univoco, ma meno frequente, ‘sentiment’. Diffuso è inoltre l’uso del termine ‘passion’, il quale sembra connotare un particolare modo 83 MANGHI, Le emozioni come processi sociali. Considerazioni teorico-epistemo- logiche, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale, Milano. LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and Emotion, cit., p. 982: «The tax- onomy issue is not a battle just about what goes on the list; the issue also goes to the core of what constitutes an emotion and how emotions emerge and transform».   Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 33 d’essere degli stati affettivi, ossia l’effetto condizionante nei confronti dell’agire umano 85. Se si cerca una corrispondenza in lingua inglese con la formula ‘tutela di sentimenti’ non si trova praticamente mai il vocabolo ‘fee- ling’: il discorso giuridico sugli stati affettivi è fondamentalmente in- centrato sul termine ‘emotion’. Quando si parla di ‘Law and Emotion’, tale ultimo vocabolo non si riferisce solo ai fenomeni psichici che possono ricondursi a emozioni in senso stretto, ma comprende anche gli stati che, come avremo modo di osservare, in lingua italiana corrisponderebbero a ‘sentimen- ti’. Le questioni che nel panorama di studi giuridici in lingua italiana richiamano espressamente ‘sentimenti’ trovano dunque nella dottrina nordamericana una rispondenza col termine, più generico e com- prensivo, ‘emotion’ 86. Tale ambivalenza, se da un lato appare foriera di ambiguità, da un altro lato mostra una compenetrazione fra i due fenomeni che sugge- risce, in fase di esposizione e di impostazione dei problemi, l’uso del termine ‘emozione’ quale traduzione di ‘emotion’ in tutta la sua porta- ta semantica87, e dunque in modo sostanzialmente intercambiabile col termine ‘sentimento’. 85 Una panoramica in DIXON, “Emotion”: The History of a Keyword in Crisis, in Emotion Review. Da notare l’interessante equivoco linguistico nella traduzione del titolo del celeberrimo romanzo di JANE AUSTEN, Sense and Sensibility, tradotto, come noto, in italiano come Ragione e sentimento. In realtà in inglese ‘sensibility’ indica la sensibilità come emotività; sarebbe stato preferibi- le, come segnalato da Griffith e Davies, autori di un saggio sull’opera di Jane Austen citato in http://www.unteconjaneausten.com/senno-e-sensibilita- piu-che-ragione-e-sentimento/, intendere ‘sense’ come risposta ragionata o pratica a una situazione, mentre ‘sensibility’, come percezione emotiva di tale situazione. Debbo la segnalazione di tale interessante questione all’amico Alessandro Corda, che ringrazio. Sull’uso del termine ‘passione’ v. anche infra, cap. II, nota 1. 86 Un’eccezione da noi riscontrata è relativa a un saggio di FEINBERG, Senti- ment and Sentimentality in Practical Ethics, in 56 Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, nel quale il termine ‘senti- ment’ è utilizzato per indicare stati affettivi non episodici, distinti dall’‘emotion’ sia per la durata, sia per la presenza di un oggetto cognitivo. In controluce a tale impostazione emerge un complementare uso del termine emotion volto a indicare stati psicologici privi un oggetto cognitivo definito, in controtendenza dunque all’opinione di autori come Kahan e Nussbaum. Osserva DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Milano, 2008, pp. 21 ss. che «nella lingua franca della filosofia contemporanea la parte del leone affettivo la fa oggi la parola “emozione”. È questo il termine che viene di pre- ferenza usato con la stessa generosità onnicomprensiva di “passioni” in Cartesio, anche se a volte l’uso italiano è stridente, come lo sono spesso, prima che l’abitu-   34 Tra sentimenti ed eguale rispetto Il problema di un uso più sorvegliato si porrà al momento di in- quadrare i profili naturalistici che caratterizzano il sentimento e l’emozione al fine di verificare, nella prospettiva giuridica, il senso di una distinzione fra una ‘tutela di sentimenti’ e una ‘tutela di emozio- ni. Sinossi Il significato e il ruolo del sentimento nel diritto penale costitui- scono un argomento poco esplorato, il quale può inquadrarsi all’in- terno di un macroambito riguardante i rapporti fra diritto penale e stati affettivi. L’insufficiente attenzione ad oggi riservata a tali temi si motiva anche come effetto di un più generale atteggiamento del pen- siero occidentale tendente a relegare la dimensione affettiva nella sfe- ra dell’indominabile e dell’irrazionale; una vulgata attualmente in fa- se remissiva alla quale sta subentrando una nuova considerazione di sentimenti ed emozioni come elementi dotati di una peculiare forza non necessariamente negativa, ma anche potenzialmente virtuosa, nelle dinamiche del pensiero e dell’agire umano. Fra i diversi problemi concernenti il ruolo degli stati affettivi nella genesi e nell’applicazione delle leggi penali, quello che ci sembra di più immediata evidenza, quantomeno se si ha riguardo al lessico dei legislatori, ha a che fare con la c.d. ‘tutela penale di sentimenti’, o, in termini meno retorici, con il ruolo del sentimento quale oggetto di tutela. Per tematizzare tale problema, e più in generale tutte le questioni concernenti i rapporti fra diritto e dimensione affettiva, si rendono necessarie delle riflessioni preliminari sul piano epistemologico e me- todologico, profili teorici su cui si è mostrata particolarmente sensi- bile la dottrina giuridica statunitense attraverso il filone di studi noto come ‘Law and Emotion’. Seguendo i percorsi tracciati dai contributi afferenti al suddetto ambito, riteniamo che la presente indagine debba prendere le mosse da un inquadramento dei fenomeni cui le norme fanno richiamo. Un impegno che non dovrebbe limitarsi a un’importazione passiva di sa- peri e definizioni, e che sollecita piuttosto il giurista a interrogarsi su quale sia la concezione di emozione e di sentimento più funzionale e dine spenga il disagio, gli anglicismi (sospettiamo infatti che il senso del termine inglese “emotions” sia più lato di quello del suo falso amico italiano. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 35 meglio esplicativa rispetto ai diversi problemi in gioco. Vedremo nel prossimo capitolo quali siano i principali criteri di differenziazione fra stati affettivi, e quali profili distintivi appaiano più funzionali al discorso sul problema del sentimento come oggetto di tutela.   36 Tra sentimenti ed eguale rispetto  SENTIMENTI ED EMOZIONI: CLASSIFICAZIONI E DISAMBIGUAZIONI «Capire tu non puoi Tu chiamale se vuoi Emozioni» BATTISTI L.-MOGOL, «Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio... una specie di cinghiale laureato in matematica pura» DE ANDRÈ F., intervista tratta dal documentario ‘Dentro Faber, l’anarchia’  Definire gli stati affettivi: una sfida continua.  Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze. Le emo- zioni come giudizi di valore: la concezione di Nussbaum. Concezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative dell’emozione: profili di rile- vanza giuridica. La dimensione sociale delle emozioni. – 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpretazione fenomenologica. Emozioni e sen- timenti: il senso della distinzione concettuale. Definire gli stati affettivi: una sfida continua I termini ‘sentimento’ ed ‘emozione’ definiscono fenomeni appar- tenenti alla categoria dei cosiddetti ‘stati affettivi’, e additano in que- sto senso differenze fattuali il cui approfondimento richiede di attin- gere da saperi esterni al mondo del diritto, tenendo presente che ri- spondere alla domanda ‘che cosa sia un’emozione o un sentimento’ rappresenta ancora oggi una sfida continua 1, data la difficoltà di cri-  1 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law; cfr. SCHERER, What  38 Tra sentimenti ed eguale rispetto stallizzare nozioni univocamente condivise a livello interdisciplinare. Nella prospettiva giuridica è opportuno avere chiaro a quali fini si intenda evidenziarne le differenze2: non si tratta di perseguire una fedeltà al linguaggio dei legislatori ove adoperino una terminologia più o meno dettagliata, ma piuttosto di dotarsi di strumenti episte- mici per un’adeguata interpretazione delle situazioni descritte in eventuali norme e per una comprensione delle questioni di fondo, anche in una prospettiva de jure condendo 3. Il rinvio alle scienze psicologiche è funzionale a elaborare delle definizioni operative idonee a essere impiegate quale chiave di lettura di problemi penalistici. Ad esempio, in relazione a un interrogativo particolarmente rilevante nella presente indagine: per quale motivo si tende a parlare di tutela di ‘sentimenti’ e non di ‘emozioni’? Da un la- to vi è il riflesso condizionato dal lessico delle disposizioni, ma si tratta ovviamente di una spiegazione insufficiente ad accreditarne la coerenza. Appare invece necessario fare chiarezza sulla distinzione fattuale tra i suddetti stati affettivi e sulle conseguenti ripercussioni sul piano concettuale, al fine di chiedersi quali differenze possano di- scendere dall’orientare un’eventuale prospettiva di intervento sulle emozioni piuttosto che sui sentimenti. are emotions? And how can they be measured? Non adoperemo il ter- mine ‘passione’, il quale è spesso utilizzato quale sinonimo d’emozione soprat- tutto in relazione agli aspetti di reattività e di passività, ma assume un significato più esteso, il quale non si limita al piano psicologico e fenomenico ma tende a includere una dimensione sociale e culturale, specie nel discorso che storicamen- te contrappone ‘passione’ e ‘ragione’. Come osserva BODEI, Geometria delle passioni, Milano: «“Ragione” e “passioni” [fanno] parte di costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate sono cioè termini pre-giu- dicati, che occorre abituarsi a considerare come nozioni correlate e non ovvie, che si definiscono a vicenda (per contrasto o per differenza) solo all’interno di de- terminati orizzonti concettuali e di specifici parametri valutativi»; cfr. CURI, Pas- sione, Milano. Il termine passione connota in definitiva una tipologia di stati affettivi caratterizzati dalla durata transitoria, fra cui rientrano an- che le emozioni, ma non, ad esempio, i sentimenti; per una ricostruzione in tal senso v. GOZZANO, Ipotesi sulla metafisica delle passioni, a cura di Ma- gri, Filosofia ed emozioni, Milano. Nella dottrina penalistica si soffermano sulla distinzione fra sentimento ed emozione FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica; volendo si veda anche BACCO, Sentimenti e tutela penale, cit., pp. 1186 ss. 3 Si veda l’indagine di NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, il quale procede a una distinzione fra emozione e sentimento nell’ambito di una più ampia analisi volta a definire i tratti identificativi della ‘sofferenza’ come categoria esplicativa dell’offesa dei processi psichici.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni Non si possono sviluppare adeguatamente tali problemi affidan- dosi alla sola psicologia del senso comune, senza tener conto di come i saperi sugli stati affettivi configurano oggi il rapporto fra emozioni e sentimenti, e, più in generale, il ruolo della dimensione affettiva nella vita della persona. Cerchiamo pertanto di procedere a una di- sambiguazione che evidenzi i tratti distintivi fra i fenomeni definiti ‘emozione’ e ‘sentimento’. 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze Prendiamo le mosse dalle emozioni; la definizione di altri stati af- fettivi viene formulata spesso in termini di comparazione e di differen- za con l’emozione, la quale mostra pertanto una rilevanza primaria. Ripercorreremo in estrema sintesi alcuni degli snodi fondamentali della storia delle emozioni, con particolare attenzione alle teorie del- l’età moderna e contemporanea, ossia quelle elaborate a partire da quando la psicologia ha assunto lo statuto di disciplina autonoma 4. Non va però dimenticato che l’interrogativo su cosa siano le emozioni ha interessato il pensiero umano fin dall’antichità, ed è a partire dai classici del pensiero filosofico che si aprono oggi buona parte delle trattazioni sulle emozioni 5. Osserva lo psicologo Dario Galati che lo studio delle emozioni na- sce come indagine filosofica; i fenomeni affettivi sono stati conside- rati da sempre una fondamentale chiave di lettura per lo studio della natura umana, e anche nell’attuale variegato panorama di branche della conoscenza la matrice filosofica mantiene una rilevanza pecu- liare: non si può fare psicologia delle emozioni senza avere un’opi- nione generale – e diciamo pure filosofica – su ciò che le emozioni sono, sul valore che hanno e sul ruolo che svolgono nell’esistenza quotidiana degli esseri umani» 6. 4 RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, tr. it., Bologna, 2008, p. 29. 5 Un importante esempio è l’opera di GRIFFITHS, What Emotions Really Are. The Problem of Psychological Categories, Chicago; SOLOMON, The Philosophy of Emotions, in The Psychologists’ Point of View, Lewis–Haviland- Jones, Handbook of Emotions, London. Per un’in- teressante prospettiva sulla ‘priorità’ delle emozioni da un punto di vista filosofico si veda VECA, Sulle emozioni, in Iride. GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., p. 29. Sulla stessa linea di pensiero v.  40 Tra sentimenti ed eguale rispetto In questa sede possiamo solo limitarci a rinviare alle belle pagine con cui il filosofo Nicola Abbagnano riassume la storia filosofica del- le emozioni, descrivendo la concezione platonica del Filebo (la pri-ma analisi delle emozioni che la filosofia occidentale ci ha dato) e la teorizzazione aristotelica della Retorica («una delle più interessanti analisi di cui la filosofia dispone»)7. Ai fini della presente indagine appare opportuno compiere un salto cronologico a epoche caratte- rizzate da una più definita differenziazione tra approcci di studio, e a prospettive che si estendono anche ai profili fisiologici e ‘corporali’ dei fenomeni affettivi. Arriviamo dunque all’Ottocento, cioè quando lo studio delle emo- zioni viene a focalizzarsi su un approccio empirico-sperimentale in relazione a movimenti corporei e pattern comportamentali. L’opera di Charles Darwin segna in questo senso uno spartiacque e la sua teoria evoluzionistica dell’emozione rappresenta il primo studio pro- priamente moderno 8. Ma è soprattutto un articolo di William James 9 a consolidare l’approccio empirico, con la celebre teoria secondo cui lo stato emotivo scaturisce dalla percezione dei cambiamenti biologi- ci e neurovegetativi innescati da uno stimolo emotigeno. Il carattere innovativo, ma anche l’aspetto più criticato di tale teoria, è l’inver- sione del rapporto tra elaborazione cognitiva e stimolo viscerale: l’espe- rienza emotiva come esito dalla percezione di mutamenti a livello corporeo, e non viceversa. Altrettanto importante, ma di opinione opposta, è la posizione di Walter Cannon, il quale, al contrario di James, riteneva che i centri di attivazione dei processi emotivi siano localizzati in regioni periferi- che del corpo (da cui la denominazione ‘teoria periferica’), propo- nendo un radicamento del processo di elaborazione emotiva nella re- gione talamica, in un’area che interessa principalmente le strutture dell’ipotalamo e dell’amigdala. Su tale ultima regione del sistema limbico si sono concentrati gli studi in epoca contemporanea; in particolare, secondo il neuroscien- FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, in Enciclopedia delle scienze sociali, Roma, Sono parole di ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni. DARWIN, L’ESPRESSIONE DELL’EMOZIONE NELL’ANINMALE E NELL’UOMO. Torino, JAMES, What is an emotion, Mind. CANNON, The James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative Theory, The American Journal of Psychology. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 41 ziato Joseph LeDoux, è l’amigdala ad assumere un ruolo primario nelle dinamiche dei fenomeni emozionali: non solo nella generazione delle emozioni, ma anche nella gestione della vita emozionale di un soggetto 11. Questi, in estrema sintesi, alcuni dei contributi più significativi che orientano verso una descrizione che pone in primo piano aspetti di attivazione a livello corporeo. Una prospettiva più genuinamente psicologica 12 si deve agli studi condotti da Stanley Schachter con la teoria c.d. ‘cognitivo-attivazio- nale’ 13. Lo psicologo statunitense riconduce l’emozione all’attivazione di una componente di tipo materiale-corporeo compresa fra due atti cognitivi: il primo è rappresentato dalla percezione e dalla valutazio- ne di uno stimolo elicitante; il secondo, successivo all’attivazione dell’arousal14, è costituito dalla riflessione sul legame causale fra lo stimolo esterno e l’attivazione emozionale interna, secondo un pro- cesso che viene letteralmente definito come ‘etichettamento’ (label- ling) e che corrisponde a un’elaborazione e a un’interpretazione del rapporto tra stimolo emotivo ed arousal. Si tratta di un significativo passo oltre la dimensione fisica delle emozioni, nel quale viene in considerazione l’esperienza cognitiva del soggetto: l’emozione assu- me una fisionomia complessa e multifattoriale rivelandosi come mo- mento dialettico fra mente e corpo, secondo un’interazione guidata da processi non meramente istintuali. Su tali premesse troveranno sviluppo teorie che assegnano impor- tanza centrale alle elaborazioni cognitive e alle valutazioni di cui si compone l’esperienza emotiva, meglio note come ‘teorie dell’appraisal’. Opera di riferimento è uno studio di Magda Arnold15, che definì 11 LE DOUX, Emotion circuits in the brain, in Annual review of neuroscience.; ID., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit., pp. 49 ss. 12 Sulla definizione del punto di vista psicologico sulle emozioni v. FRIJDA, The Psychologists’ Point of View, Handbook of Emotions, SCHACHTER-SINGER, Cognitive, Social and Psychological Determinants of Emotional State, in Psychological Review. L’arousal (eccitazione, risveglio) rappresenta il risvolto più propriamente fisico dell’emozione, ossia l’attivazione nervosa che viene per- cepita dal soggetto a seguito di uno stimolo emotigeno, la quale può avere diverse gradazioni di intensità e provocare differenti stati affettivi: ad esempio nell’emo- zione vi sarebbe un intenso arousal provocato da eventi edonicamente rilevanti che sollecitano una risposta comportamentale, v. voce Arousal, in Enciclopedia della scienza e della tecnica, Roma. ARNOLD, Emotion and Personality, New York. Tra sentimenti ed eguale rispetto l’emozione come una spinta tendente all’attrazione o all’allontana- mento da un determinato oggetto a seguito di una valutazione di es- so; tale fase, cosiddetto ‘appraisal’, è seguita da una valutazione se- condaria, detta ‘reappraisal’, la quale di fatto implica una riflessività sugli stati che il soggetto ha percepito. Nel solco tracciato delle teorie dell’appraisal si sviluppano le elabo- razioni di Nico Frijda, secondo il quale le emozioni costituiscono ri- sposte modulate sulla struttura di significato di una determinata situa- zione: ‘significato’ da intendersi come attribuzione di senso in termini di positività o negatività da parte di un individuo. Elemento centrale dell’esperienza emotiva è la soggettività: la dimensione individuale è chiave di lettura della complessità e della variabilità delle emozioni 16. Le considerazioni di Frijda, e più in generale le teorie dell’appraisal, conducono verso l’inquadramento delle emozioni come «mediatori complessi fra il mondo interno e quello esterno che variano secon- do alcune dimensioni continue, quali la valenza edonica (piacevolez- za o spiacevolezza), la novità (o meno) degli eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento. La prospettiva intrapsichica si apre in questo modo all’inclusione di aspetti cognitivo-valutativi che sono esito del continuo processo di giudizio che il soggetto compie nel suo rapportarsi alla realtà: «l’indi- viduo è continuamente impegnato in operazioni di valutazione cogni- tiva, con le quali egli mette a confronto la sua percezione della situa- zione attuale con una sorta di visione prospettica, che gli deriva dalla conoscenza del mondo, dalle sue credenze di base, dalle norme a cui si conforma e dai diversi obiettivi temporanei e permanenti che persegue. Negli anni a noi più vicini il panorama di conoscenze e di approc- ci di studio è andato arricchendosi, anche a seguito dell’avvento delle neuroscienze cognitive, una disciplina che nasce all’inizio degli anni Ottanta del Novecento e che porta a una nuova auge la dimensione neurobiologica19, grazie a innovative tecniche che consentono di vi- FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, cit., p. 568; più ampiamente v. ID., Emozioni, tr. it., Bologna, ANOLLI-LEGRENZI, Psicologia generale, Bologna, RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni. DAMASIO, Emotions and feelings: a neurobiological perspective, ed. by Mansted-Frijda-Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 43 sualizzare l’attività del sistema neurale delle emozioni. Si deve soprattutto all’opera scientifica e divulgativa del neuro- scienziato Antonio Damasio un importante tentativo di definire l’emo- zione e di studiarne le strette connessioni con il ragionamento e con l’agire che definiamo ‘razionale’. L’articolata proposta di Damasio per dare una fisionomia all’emozione è la seguente: «l’insieme dei cambiamenti dello stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle cellule nervose, sotto il controllo di un apposito sistema del cervello che risponde al contenuto dei pen- sieri relativi a una particolare entità, o evento. Per concludere, l’emo- zione è frutto del combinarsi di un processo valutativo mentale, sem- plice o complesso, con le risposte disposizionali a tale processo, per lo più dirette verso il corpo, che hanno come risultato uno stato emotivo del corpo, ma anche verso il cervello stesso che hanno come risul- tato altri cambiamenti mentali. Per un quadro generale v. DE PLATO, Il modello delle emozioni, a cu- ra di De Plato, Psicologia e psicopatologia delle emozioni, Bologna; BELLODI-PERNA, Emozioni e neuroscienze, in AA.VV., a cura di Rossi, Psichiatria e neuroscienze, in Trattato italiano di psichiatria, Milano, 2006, pp. 35 ss. Fra gli studi sulle emozioni che si avvalgono di tecniche neuroscientifiche possiamo includere i già citati contributi di Antonio Damasio e di Le Doux (v. supra, nota 11); di quest’ul- timo ricordiamo inoltre LE DOUX, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diven- tare quello che siamo, tr. it., Milano, 2002. L’oggetto di studio delle neuroscienze co- gnitive si estende anche al di là delle emozioni, e le acquisizioni delle neuroscienze sono sempre più frequentemente oggetto di interesse da parte dei giuristi penali: per una sintesi v. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016; BERTOLINO, Il vizio di mente tra prospettive neuro- scientifiche e giudizi di responsabilità penale, in Rass. it. criminologia; EAD., Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale, in AA.VV., a cura di Pa- lazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze. Non “siamo” i nostri cervelli, Torino, 2013, pp. 145 ss.; EAD., L’imputabilità penale fra cervello e mente, in Riv. it. med. leg.; GIOVINE O., Chi ha paura delle neuroscienze, in Arch. pen.; EAD., voce Neuroscienze (diritto penale), in Enciclopedia del dirit- to, Annali VII, 2014, pp. 711 ss. EUSEBI, Neuroscienze e diritto penale: un ruolo diver- so del riferimento alla libertà, in AA.VV., a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze; CORDA, Riflessioni sul rapporto tra neuroscienze e im- putabilità nel prisma della dimensione processuale, in Criminalia, 2013, pp. 497 ss.; ID., Neuroscienze forensi e giustizia penale tra diritto e prova (Disorientamenti giuri- sprudenziali e questioni aperte), in Arch. pen. (Rivista web), 3/2014, pp. 1 ss.; ID., La prova neuroscientifica. Possibilità e limiti di utilizzo in materia penale, Ragion Pratica; FUSELLI, Le emozioni nell’esperienza giuridica: l’impatto delle neuroscienze, in AA.VV, a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze, cit., pp. 53 ss.  21 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit., pp. 201 s.  44 Tra sentimenti ed eguale rispetto Com’è evidente anche da questa sintetica trattazione, la mole di approcci e di contributi è tale da rendere difficoltoso definire l’emo- zione: è possibile individuare dei punti di convergenza tali da poter indicare al giurista dei tratti caratterizzanti? Nella dottrina giuridica americana gli studiosi Bandes e Blumen- thal, dopo aver formulato il caveat metodologico di non avventurarsi alla ricerca di ‘definizioni universali’, propongono una sintesi di ciò che a loro avviso può ritenersi condiviso nei diversi ambiti disciplina- ri, inquadrando le emozioni come: «un insieme di processi valutativi e motivazionali, che coinvolgono completamente il cervello, i quali ci aiutano a valutare e a reagire agli stimoli, e che prendono forma, significato e vengono comunicati in un contesto sociale e culturale. Le emozioni influiscono sul modo in cui selezioniamo, classifichiamo e interpretiamo informazioni; influenza- no le nostre valutazioni sulle intenzioni e sulla credibilità degli altri; e ci aiutano a decidere cosa sia importante o abbia valore. Cosa forse più importante, ci guidano nel fare attenzione ai risultati del nostro agire e forniscono motivazioni per agire o per astenersi dall’agire nelle situazioni che valutiamo. Riteniamo tale definizione una buona base per il prosieguo dell’in- dagine, in quanto l’ampiezza è tale da coinvolgere diversi profili del- l’esperienza affettiva: è presente la dimensione neurobiologica, si fa riferimento all’interazione col contesto sociale e culturale, viene evi- denziato che le emozioni contribuiscono a guidare sia il pensiero co- gnitivo sia, conseguentemente, l’azione umana. Approfondiamo alcuni dei suddetti aspetti, a partire dal chiari- mento di cosa si intenda per emozione come ‘giudizio di valore, analizzando di seguito due prospettive di approccio alle emozioni nel discorso giuridico, ossia la concezione meccanicistica e quella valutativa. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. Ex plurimis, v. VECA, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni Le emozioni come giudizi di valore: la concezione di Nussbaum Un’opera che a nostro avviso sintetizza emblematicamente la ri- scoperta della dimensione emozionale nella vita di relazione, e so- prattutto nella dimensione politica, è il saggio di Nussbaum ‘Upheveals of Thought’, autentico esempio di approccio interdisciplinare allo studio dei fenomeni emotivi: psicologia cognitiva, neuroscienze, antropologia, etologia, filosofia morale vengono convogliate in un flusso epistemico nel quale non si avverte disomo- geneità ma sincretismo. Uno studio non collocabile in una corrente definita, il quale interseca differenti campi e prospettive al fine di in- terpretare il ruolo delle emozioni nelle scelte del singolo e nella di- mensione collettiva. Il titolo italiano si distacca dalla traduzione letterale (sommovimenti del pensiero), e con enfasi retorica forse eccessiva recita ‘L’intelligenza delle emozioni’; il messaggio dell’opera è più comples- so, ma il tema di fondo può essere sostanzialmente identificato con una ricerca sull’intelligenza nelle emozioni: un dato non scontato ma da valutarsi con attenzione, intendendo con intelligenza un giudizio sulla ‘bontà’ e sull’affidabilità dell’emozione. Secondo Martha Nussbaum l’emozione si fonda su un giudizio di valore: ha cioè un contenuto proposizionale di tipo valutativo e una componente intenzionale-cognitiva26 che la pone in relazione con un oggetto (c.d. ‘oggetto intenzionale’). Non è un evento prettamen- te fisico, ‘meccanico’ e viscerale, ma si articola in un giudizio sulla realtà esterna il quale è a sua volta modulato sulle credenze del sog- getto. Sono le credenze a influire in modo determinante sulla qualità dell’emozione, la quale non è giudicabile in sé come vera o falsa, bensì come più o meno appropriata. Credenze errate possono gene- NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit. 25 Viene fatto notare come tale traduzione avrebbe consentito di salvare la ci- tazione di Proust, il quale definì le emozioni ‘soulèvements géologiques de la pen- sée’, v. FURST, Sommovimenti del pensiero: la teoria delle emozioni di Nussbaum, athenenoctua.it/sommovimenti-del-pensiero. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni. Ciò che può essere valutato in termini di verità o falsità sono le credenze re- trostanti l’emozione; credenze false generano emozioni che possono essere valu- tate come più o meno appropriate, ma si tratta comunque di emozioni ‘vere’, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni. Tra sentimenti ed eguale rispetto rare emozioni inappropriate a seconda dei contesti: le emozioni pos- sono essere dunque, a loro volta, valutate. Questo rapporto fra ‘nor- matività interna’ e ‘normatività esterna’ all’emozione risulta cruciale per l’evoluzione degli sviluppi del pensiero della studiosa americana: è infatti su tale presupposto che si fondano i successivi studi sull’affi- dabilità politica delle emozioni. A quali condizioni un determinato atteggiamento emotivo dei sin- goli e, soprattutto, della collettività – inteso come emozione social- mente diffusa – può essere assecondato dalle istituzioni e ‘riconosciu- to’ anche attraverso norme giuridiche? L’interrogativo rimanda al raffronto tra il giudizio di valore sulla base del quale l’emozione si genera, e l’orizzonte assiologico che si assuma a riferimento per gli assetti sociali e istituzionali. Martha Nussbaum ha il merito di aver messo a tema la dimensio- ne politica delle emozioni evidenziandone le profonde connessioni con l’etica pubblica, con i valori costitutivi di un ordinamento e dun- que con la genesi e le ricadute applicative di istituti giuridici, in un discorso che attraversa numerose discipline ma che cerca costante- mente nel diritto e nella teoria politica gli interlocutori privilegiati. La sua opera, dall’eloquente titolo ‘Emozioni politiche’, rappresenta in questo senso una proposta teorica ispirata ai canoni del liberali- smo, nella quale si esorta al buon uso delle emozioni in sede pubblica quale strumento di pedagogia civile. Non vanno però dimenticati ulteriori contributi della studiosa americana, incentrati su profili più vicini alla dimensione giuridica, e in particolare sulla concezione di emozione che dovrebbe essere adottata dal giurista come punto di partenza nelle riflessioni perti- nenti Law and Emotion, alla luce dell’alternativa fra un modello bio- logico-meccanicistico e un modello cognitivo-valutativo. Vediamo in dettaglio quanto osservato in tale studio. NUSSBAUM, Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, tr. it., Bologna, 2014. 29 Anche in relazione alla figura del giudicante e alle sue emozioni, e con par- ticolare riguardo alla giusta compassione che dovrebbe accompagnarne le deci- sioni, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni; NUSSBAUM, Giu- stizia poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, tr. it., Milano. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, in 96 Co- lumbia Law Review, Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni. Concezioni ‘meccanicistiche’ e concezioni valutative del- l’emozione: profili di rilevanza giuridica Nella prospettiva giuridica è fondamentale interrogarsi sull’alter- nativa fra interpretazioni dell’emozione legate a paradigmi stretta- mente fisicalistici e concezioni incentrate sull’emozione come giudi- zio di valore. Dan Kahan e Martha Nussbaum riassumono tali ap- procci nella diade composta da concezione meccanicistica e concezione valutativa (mechanistic and evalutative conception). Secondo la visione meccanicistica, le emozioni sono equiparabili a forze ‘non pensanti’ che spingono una persona all’azione; per la ‘evalutative conception’ invece l’emozione scaturisce dalla relazione, definibile in base a un valore edonico (ossia di maggiore o minore piacere), con un oggetto cosiddetto intenzionale. Le emozioni sono rivolte a un quid materiale, cognitivo o immaginativo: non sono energie naturali prive di oggetto ma sono in relazione about a qualcosa. In secondo luogo l’oggetto è intenzionale: ovvero, esso appare nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la per- sona che prova l’emozione stessa. L’approccio valutativo mostra una migliore rispondenza in rap- porto ai fenomeni e trova oggi un maggiore consenso rispetto all’al- ternativa meccanicistica. Ma quali conseguenze discendono dall’aval- lo di concezioni valutative piuttosto che meccanicistiche in relazione ai problemi penali? Ragionare in termini di approccio meccanicistico, e trattare le emozioni come meri impulsi senza considerarne la componente co- gnitiva, non offre strumenti per spiegare come le emozioni si possano differenziare ‘qualitativamente’ e dunque valutare. Come abbiamo precedentemente osservato, il nucleo della concezione valutativa po- 31 «without embodying ways of thinking about or perceiving objects or situa- tions in the world», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, «thought of a particular sort, namely appraisal or evaluation and, moreover, evaluation that ascribes a reasonably high importance to the object in question», v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion; il concetto è ripreso in NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 50 ss.; cfr. CALABI, Le varietà del sentimento, cit., pp. 276 ss., la quale ricostrusce il concetto di ‘razionalità’ del- l’emozione in base al rapporto tra fondamenti cognitivi e antecedenti cognitivi. Sulla definizione di ‘cattive emozioni’ intese come fallimentari dal punto di vista cognitivo, v. TAPPOLET, Le cattive emozioni, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni- Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima. Pensare le emozioni negative, tr. it., Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto stula che l’emozione nasca da un giudizio che il soggetto elabora sul- la base di credenze; si può parlare in questo senso di una ‘razionalità’ dell’emozione in termini normativi, ossia modulata su pretese e aspettative che hanno a che fare con gli equilibri della convivenza 33. Secondo Kahan e Nussbaum il significato, e il disvalore, di una condotta non coincidono semplicemente con le conseguenze prodotte ma sono l’esito di una contestualizzazione che deve prendere in esame anche le motivazioni, e dunque, la matrice emozionale dell’agire 34. Un’implicita adesione alla concezione valutativa è alla base del modello di responsabilità che fa leva sul principio di colpevolezza e sulla rieducazione36: è l’idea di emozione come giudizio di valore piuttosto che come moto irriflessivo a porsi come criterio per la valu- tazione della responsabilità penale e anche come chiave di lettura criminologica delle condotte. La concezione meccanicistica non riesce a dar conto dell’intreccio fra stati soggettivi e percezioni di valore, e configura una sensibilità meramente epidermica senza coloriture di senso, la quale non appare funzionale a tematizzare la problematica dell’attendibilità del giudi- zio sulla situazione che abbia cagionato un’emozione negativa. Rileva Nussbaum che il diritto definisce l’adeguatezza di una rea- zione emotiva adottando una prospettiva basata sull’immagine di ‘uomo ragionevole’, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it., Bari. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 352. 35 La concezione normativa della colpevolezza come ‘atteggiamento antidove- roso’ sottende la possibilità di un giudizio concernente ciò che è stato fatto in rapporto a ciò che si sarebbe dovuto fare. Le diverse articolazioni di questo giudi- zio, soprattutto il nesso psichico (dolo e colpa) e la verifica dell’imputabilità, non funzionerebbero se si attribuisse all’agente un’emotività priva di contenuti cogni- tivi apprezzabili sotto il profilo della normatività, ossia ‘giudicabili’ in base a cri- teri di ragionevolezza e adeguatezza alle situazioni; per una sintesi, v., ex pluri- mis, BARTOLI R., Colpevolezza. L’approccio valutativo apre alla possibilità che le emozioni di un soggetto si prestino anche a percorsi rieducativi, v. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion. Per un’analisi criminologica dei rapporti tra emozioni, riflessività ed agire violento v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Milano. È emblematico il saggio di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality, avente ad oggetto problemi del tutto collimanti con la tutela di sentimenti del codice penale italiano, nel quale l’Autore dichiara espressamente che la nozione di ‘sentimento’ da lui adoperata si caratterizza per il fatto di avere un oggetto cogniti- vo, di essere ‘riguardo a qualcosa’: «there is an irreducible “aboutness” to it». Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 49 Anche con riferimento al problema della tutela di sentimenti (e/o di emozioni), assumere come presupposto la concezione meccanici- stica non avrebbe semplicemente senso, poiché non consentirebbe di focalizzare l’attenzione sulla cause emotigene e sugli oggetti inten- zionali, e non sarebbe pertanto funzionale allo sviluppo di un discor- so sui criteri di rilevanza normativa (di adeguatezza e di meritevolez- za) di un determinato atteggiamento del sentire. La dimensione sociale delle emozioni Analizzata l’emozione come giudizio di valore, è importante prenderne in considerazione la dimensione sociale: una prospettiva incentrata non sul versante solipsistico bensì sul piano interperso- nale e collettivo, e dunque sul ruolo cognitivo e comunicativo delle emozioni 39, considerate come oggetto di costruzione sociale il quale è in grado di influenzare, a sua volta, l’esperienza delle situazioni sociali 40. La principale disciplina che si occupa di questi temi è la sociolo- gia delle emozioni, la cui nascita viene convenzionalmente collocata a metà degli anni Settanta 41. Ciò non significa che i sociologi avesse- ro ignorato le emozioni, ma fino ad allora gli studi ad esse specifica- mente dedicati risultavano di pertinenza di altre discipline. Il muta- mento di paradigma coincide con una diversa considerazione del fe- nomeno emotivo, visto non più come espressione irrazionale e di- storsiva dell’organizzazione sociale, ma come fattore indispensabile per la comprensione dei fatti sociali. L’attore sociale si sveste dell’aura di pura razionalità per divenire anche attore emozionale, il quale non è in contrapposizione con l’attore razionale «ma ne è invece un’altra faccia, una sua parte costi- tutiva e ineliminabile e non va inteso come un soggetto spontaneo, 39 Per una panoramica di sintesi e per richiami bibliografici su approccio in- tra-personale e inter-personale, v. VELOTTI-ZAVATTINI-GAROFALO, Lo studio della regolazione delle emozioni: prospettive future, in Giornale italiano di psicologia, 2/2013, pp. 249 ss.; PULCINI, Per una sociologia delle emozioni, in Rassegna italiana di sociologia. RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, WENTWORTH-RYAN, L’equilibrio fra corpo, mente e cultura: il posto dell’emozione nella vita sociale, La sociologia delle emozioni. CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni nella riflessione sociologica, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale. Tra sentimenti ed eguale rispetto libero da vincoli e costrizioni»42. Da un lato le emozioni vengono considerate come un importante elemento per la comprensione del- l’agire sociale 43, e simmetricamente l’ambiente sociale si pone a sua volta come chiave di lettura di atteggiamenti emozionali dei singoli, in un rapporto di influenza reciproca 44. Questa prospettiva rappresenta un importante contributo non solo allo studio delle emozioni45, ma anche in relazione all’approfondi- mento dei temi di Law and Emotion, poiché gli approcci focalizzati sulla dimensione individuale rischiano di essere limitanti, in ragione del fatto che esistono emozioni la cui genesi e le cui dinamiche sono meglio definibili attraverso il riferimento all’ambiente sociale 46. Uno sguardo alla dimensione sociale e culturale dei fenomeni emotivi può favorire un più esaustivo approfondimento delle intera- zioni fra emozioni e diritto, aprendo la strada a molteplici traiettorie di ricerca, come sottolinea la dottrina statunitense 47. Basta uno sguar- do ad alcuni dei capisaldi teorici che la sociologa Gabriella Turnaturi inquadra come linee conduttrici dell’analisi sociologica delle emo- zioni48 per individuare questioni che possono intrecciarsi virtuosa- mente con la riflessione giuridica. Qualche cursorio esempio: ci sem- 42 TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni. DOYLE MCCARTHY, Le emozioni sono oggetti sociali. Saggio sulla sociologia delle emozioni, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La sociologia delle emozioni. Il termine sociale, molto semplicemente, vuole qui richiamare l’idea che la parola “emozioni” possa/debba evocare eventi e processi che hanno luogo entro contesti interattivi e comunicativi, piuttosto che eventi e processi che hanno luo- go entro i confini del singolo organismo e/o della singola psiche», v. MANGHI, Le emozioni come processi sociali, cit., p. 40. 45 La sociologa Arlie Hochschild identifica quale ostacolo a un serio studio sul- la natura delle emozioni la tendenza a considerarle esclusivamente come un fe- nomeno affettivo individuale, v. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. Osserva KEMPNER, Social Models in the Explanation of Emotions, Handbook of Emotions, che lo sviluppo di una larga parte di ciò che chiamiamo ‘personalità’ è un prodotto sociale. 46 Pensiamo ad esempio alla vergogna, e al radicamento che essa può raggiun- gere fino a connotare la fisionomia di una società; si parla di questo senso di ‘cul- ture della vergogna’ in alternativa alle cosiddette ‘culture della colpa’. Su tale di- stinzione, originariamente elaborata dall’antropologa statunitense Ruth Benedict, v., sintenticamente, CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni. Per un’analisi della dimensione pre-sociale della vergogna, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni bra di particolare interesse l’osservazione secondo cui ogni società ha delle regole implicite concernenti le situazioni attivanti e le modalità espressive delle emozioni: le cosiddette feeling rules. Ebbene, il te- ma potrebbe assumere rilevanza anche in relazione al problema del sentimento quale oggetto di tutela: le regole, più o meno implicite, che definiscono quali emozioni siano giustificate, accettabili, dovero- se o immotivate rappresentano una coordinata importante, forse l’elemento più significativo, per la definizione di quello che il diritto penale ha spesso evocato sotto le forme del ‘sentire comune. Potremmo in questo senso parlare di feeling rules come elemento del contesto sociale che contribuisce a imprimere una fisionomia a ciò che i legislatori hanno definito ‘sentimenti’. Ma sono diversi, e non analizzabili in questa sede, gli ulteriori profili in rapporto ai quali l’analisi sociologica dell’emozione può fornire importanti chiavi di lettura di problemi afferenti al diritto pe- nale 51. Si tratta quindi di non limitare l’angolo visuale alla dimensio- ne soggettiva del fenomeno emotivo, soprattutto in relazione a temi in cui risulta fondamentale la riflessione sugli equilibri politico- deliberativi e sulla ‘normatività’ delle emozioni. 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale Veniamo ora a esaminare il sentimento, e prendiamo le mosse dalla dimensione neurobiologica. Sono d’aiuto ancora una volta gli spunti di DAMASIO (si veda), il quale nel suo ‘L’errore di Cartesio’ define l’emozione come processo valutativo mentale che induce cambiamenti a livello corporeo, e ha successiva- mente distinto i sentimenti in due categorie: ‘sentimenti delle emo- zioni’ e ‘sentimenti di fondo’. I primi, strettamente legati alle emozio- ni, sono costituiti dall’esperienza che il soggetto prova a seguito dei Sulla genesi del concetto, v. HOCHSCHILD, Emotion Work, Feeling Rules, and Social Structure, in American Journal of Sociology. In questo senso si potrebbero teorizzare connessioni anche con il tema pe- nalistico delle c.d. Kulturnormen; v., per tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Profili introduttivi e politico criminali, Padova. Si veda ad esempio NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica, quando afferma che strutturare le emozioni, a partire dal tipo di situazione sociale in grado di generarle, può aiutare, nell’analisi delle norme penali, ad indi- viduare una soglia di rischio illecito all’interno della condotta tipica. Tra sentimenti ed eguale rispetto cambiamenti indotti dalle emozioni: «l’essenza del sentire un’emo- zione è l’esperienza di tali cambiamenti in giustapposizione alle im- magini mentali che hanno dato avvio al ciclo» 52; mentre i ‘sentimenti di fondo’ appaiono come stati duraturi, radicati nel soggetto e non legati a emozioni contingenti. La distinzione viene affinata in uno studio successivo, ove si os- serva che nel sentimento vi è qualcosa di più che la percezione di un oggetto intenzionale; secondo Damasio ad essere oggetto di perce- zione è lo stato edonico che si manifesta a seguito del contatto con un determinato stimolo emotigeno: «un sentimento è la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. Le emozioni sono movimenti in larga misura pubblici, ossia percepi- bili e visibili; i sentimenti appaiono invece come moti di pensiero di tipo riflessivo, «invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo pro- prietari. Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i senti- menti in quello della mente. Al di là delle osservazioni sul piano neuroscientifico, ciò che in questa sede è bene sottolineare sono le implicazioni su un piano più propriamente antropologico-filosofico56, e in particolare sul ruolo che i sentimenti assumono nelle dinamiche comportamentali. L’ipo- tesi di Damasio è che il sentimento rappresenti una guida nei proces- si decisionali, e risulta particolarmente interessante l’osservazione secondo cui tale fenomeno affettivo assume una funzione riflessiva in grado di fornire coordinate e criteri di demarcazione fra piacere e do- lore più complessi e stratificati rispetto a quelli che la mappe neurali trasmettono sulla base delle sole funzioni vitali a livello biologico: «I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno anche un sé autobiografico – il senso di un passato personale e di un DAMASIO, L’errore di Cartesio. DAMASIO, L’errore di Cartesio. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Per la verità tutt’altro che trascurate dallo stesso Damasio, il quale inquadra la propria opera come ideale prosecuzione del pensiero di Baruch Spinoza, v. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza.  Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 53 futuro anticipato, senso noto anche come coscienza estesa – lo stato del sentimento induce il cervello a porre in posizione saliente gli og- getti e le situazioni legate all’emozione. Se necessario, il processo di stima che porta dall’isolamento dell’oggetto al sorgere dell’emozione può essere rivisitato e analizzato. Poiché hanno luogo in uno scenario autobiografico, i sentimenti generano un interesse per l’individuo che li sperimenta. Il passato, il presente e il futuro anticipato ricevono la giusta attenzione e hanno maggiori possibilità di influenzare il ragio- namento e il processo decisionale» 58. La teorizzazione di Damasio descrive sentimenti ed emozioni co- me parti complementari di un processo, non come fenomeni dicoto- mizzati: richiamare l’emozione significa additare l’esteriorità e la di- namicità di uno stimolo, le contingenze dovute al contatto con un certo tipo di fattori emotigeni; richiamare il sentimento significa en- trare ‘in interiore homine’, confrontarsi con l’elaborazione che analiz- za lo stimolo emotivo e ne valuta il peso nella soggettività dell’indi- viduo: «un sentimento è la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti» 59. Il sentimento appare in definitiva come esito di una mediazione riflessiva che può avvenire non in tutti gli organismi, ma solo in quel- li che posseggono la capacità di rappresentarsi il proprio corpo all’in- terno di sé stesso. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpreta- zione fenomenologica Quanto osservato in ambito neuroscientifico sembra accreditare la portata del tutto peculiare che il sentimento assume nella dimen- sione affettiva dell’individuo come momento di incontro tra perce- zione e riflessione, ossia come «medio necessario tra il sentire sensi- tivo e l’intelligenza concettuale. Passando ora a un approccio incentrato più sulla dimensione teo- retico-concettuale che sulla distinzione fenomenica, va specificato DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. MASULLO, voce Sentimento, Enciclopedia filosofica, Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto che l’inquadramento di una specifica nozione di sentimento non fi- gura nei classici della filosofia, da Aristotele, a Cartesio e fino a Hume [cf. Grice, HUMEIAN PROJECTION], ma comincia a delinearsi a partire dal XVIII secolo. Sottolinea Aldo Masullo che un simile affinamento è legato anche a sviluppi del- la teoria politica: «L’assunzione da parte del sentimento di una sua specificazione forte è promosso dalla diffusa tensione della cultura illuministica che, per la nuova esigenza storica di fondare un’etica cosmopolitica, è assillata dal bisogno di scoprire un principio coesivo razionalmente argomen- tabile e nient’affatto razionalmente relativistico, generalmente ricono- scibile ma non dommaticamente irrigidibile» 63. Sono soprattutto alcuni studi dei cosiddetti filosofi moralisti in- glesi a definire il sentimento ‘forma sintetica dell’universale’ e fon- damento dell’umana convivenza, ossia principio coesivo nei rapporti umani, come recita l’opera di Adam Smith sui sentimenti morali 64. Si tratta di un indirizzo filosofico che ha come esponente di spicco Da- vid Hume, e che affonda le proprie radici nel sentimentalismo inglese di Shaftesbury e Hutcheson 65. Idea portante è la riconducibilità della moralità dell’agire a una matrice affettiva (per Hume, il cosiddetto PRINCIPIO DELLA SIMPATIA). CURI, Passione, cit., p. 9. 63 MASULLO, voce Sentimento/ SMITH, Teoria dei sentimenti morali, tr. it., Milano; per una riflessione sulle interazioni fra le teorie smithiane, in particolare il concetto di ‘simpatia’, e il diritto penale, v. CADOPPI, Simpatia, antipatia e diritto penale, a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica. MORRA-BONAN, voce Sentimentalismo, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, vol. XVI, Milano. Per una sintesi v. LECALDANO, Prima lezione di filosofia morale, Bari L’Autore osserva che «non bisogna confondere il piano della rico- struzione genealogica o genetica della nostra capacità di trarre distinzioni mo- rali, con la riflessione su quali siano i giudizi morali corretti». L’opzione per una teoria sentimentalistica ha una valenza in primo luogo metaetica; a livello di etica sostantiva si apre infatti il problema di «[affiancare] una concezione normativa sul contenuto da privilegiare come moralmente rilevante», v. ID., Prima lezione. Da ciò, la critica a concezioni che, sulla base degli studi di neuroscienze, si sono mosse nella direzione di offrire una ricostruzione in termini ‘realistico-emozionali’ del sentimentalismo morale: «queste ricerche [...] suscitano dubbi laddove accampano la pretesa di aver identificato una base fisiologica o biologica a cui l’etica può essere ridotta nella sua interezza. Il sentimento morale non va caratterizzato sostantivamente, anche per non con-   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni. Venendo a sviluppi più recenti, relativamente ai rapporti tra senti- re e dimensione morale appare a nostro avviso particolarmente inte- ressante per il giurista uno studio di matrice fenomenologica di Monticelli, nel quale il tema del sentire diviene oggetto di un problema etico in relazione sia alla formazione del singolo individuo (l’etica del sentire intesa come qualità etica – maggiore o minore ‘correttezza’ – delle disposizioni del sentire di un soggetto) sia ad aspetti relazionali (la ricerca del giusto spazio – e dunque di limiti eticamente tollerabili – alla fioritura dell’individuo, intesa come realizzazione della sua personalità, resa unica e peculiare dalle disposi- zioni del sentire). Secondo tale studio, l’esperienza affettiva è riconducibile a due di- mensioni essenziali: il sentire e il tendere. Il sentire implica un recepi- re, il tendere è invece un vettore d’azione: «se diciamo che una persona è sensibile non intendiamo affatto dire che è eccitabile, e neppure che manca di obiettività, al contrario intendiamo dire che è più di altri ca- pace di discriminazione, e quindi di verità nell’esercizio del sentire» 68. Negli individui non è infatti riscontrabile il medesimo livello di matu- razione affettiva: «una sensibilità si attiva per strati o segmenti – e in- tendiamo dire con questo che uno sentirà più o meno realtà a se- conda che più o meno “strati” della sua sensibilità siano attivati» 69. Ta- le soglia può variare ed essere incrementata positivamente durante l’esistenza; nondimeno, la diversità insita nelle molteplici varianti di sviluppo del sentire fonda le diversità di ordini assiologici dei singoli, quella che è in definitiva la loro identità morale 70. fonderlo con qualche emozione immediata: è invece proprio del sentimento morale il punto di vista riflessivo su tutte le passioni che si presentano senza qualificazione valutativa nella mente di una persona», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 42 s. Per una differente impostazione, non propriamente ‘riduzionista’ ma comunque orientata a ricercare dei fondamenti naturalistici della morale v., ex plurimis, CHANGEUX, Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale, tr. it., Milano. La fenomenologia del sentire e l’approccio fenomenologico ai sentimenti sono debitori dell’opera di SCHELER, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., a cura di Guccinelli, Milano, 2013, il quale inquadra il sentimento come fattore costitutivo nell’ontologia della persona e come interfaccia tra sogget- tività e valori. Per una sintesi dei tratti caratterizzanti la fenomenologia come corrente filosofica v. GALLAGHER-ZAHAVI, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it., Milano. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 26. 69 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 79. 70 «L’ethos di una persona è la sua identità morale, ma questa identità morale Tra sentimenti ed eguale rispetto Così definito il fenomeno del sentire e delle sue manifestazioni, si pone il problema di inquadrare specificamente il sentimento: è uno stato momentaneo? un evento? un atto? Roberta De Monticelli af- ferma che esso è: «una disposizione reale – e non semplicemente virtuale – del sentire. È una disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita, un più o meno profon- do dissentire da questo, e un atteggiamento caratteristico nei confron- ti di questo essere, capace di motivare altri sentimenti, emozioni, pas- sioni, scelte, decisioni, azioni, comportamenti. Il sentimento è ciò che forma le risposte all’esperienza dei valori: in questo senso viene definito ‘matrice di risposte’. Le emozioni sono maggiormente legate all’attualità contingente, poiché costituiscono un’alterazione reattiva e presuppongono l’attivazione di uno strato minimo di sensibilità, anche di livello puramente sensoriale. I sentimenti hanno un ruolo fondante nell’approccio dei singoli alla realtà, agli eventi, e, soprattutto, al rapporto con i propri simili: i sentimenti costituiscono lo strato del sentire propriamente diretto sulla realtà personale. Se il sentire, in generale, è percezione di valore, i sentimenti sono, o perlomeno implicano, disposizioni a sentire gli altri sotto l’aspetto dei valori che la loro esistenza realizza o delle esi- genze che essa pone. si manifesta primariamente nella vita affettiva che queste scelte e comporta- menti motiva, e nella quale si esprime infine il modo di sentire che le è irrepeti- bilmente, inconfondibilmente proprio. Il modo di sentire è segnato da una storia individuale, ancorato agli incontri di una vita: è, come vedremo, il profilo stesso dell’individualità essenziale»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. MONTICELLI, L’ordine del cuore. MONTICELLI, L’ordine del cuore. In presenza di una sensi- bilità strutturata la quantità di reazioni affettive è maggiore, ed è anche possibile che da emozioni scaturiscano risposte strutturanti, ossia che le emozioni stesse inducano alla formazione di nuovi sentimenti. Diverso discorso per le passioni, le quali costituiscono una manifestazione del volere e del tendere, e presuppongono la strutturazione di sentimenti, v. MONTICELLI, L’ordine del cuore. La tradizionale contrapposizione delle passioni alla ragione non è intrinseca alle passioni stesse, ma risale a un livello precedente, ossia al sentimento di cui quelle passioni sono manifestazione: «“irrazionali” sono dunque le passioni nella misura in cui sono “disordini del cuore”, ovvero ordinamenti assiologici perversi o inadeguati – per quanto difficile sia stabilire in positivo lo standard rispetto a cui definire la deviazione»: v. MONTICELLI, L’ordine del cuore. MONTICELLI, L’ordine del cuore. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni Emozioni e sentimenti: il senso della distinzione concettuale In questa sede non è nostro obiettivo individuare un’esaustiva on- tologia dei fenomeni, bensì intendiamo verificare se vi siano diffe- renze che possano assumere una rilevanza concettuale nella prospet- tiva giuridica. Sentimenti ed emozioni hanno la funzione di classificare, in base al binomio piacere-dolore, le esperienze del sentire individuale. Un punto di contatto utile al fine di ricercare coerenza nella complessità delle de- finizioni, è il fatto che entrambi i fenomeni – naturalisticamente distin- guibili in base a criteri basati sull’intensità e la durata – da un punto di vista adattivo-funzionale rappresentano ‘proiezioni del sé’, ossia marca- tori dell’originalità che rende unico ogni individuo: «le emozioni guar- dano al mondo dal punto di vista del soggetto, e ordinano gli eventi in base alla cognizione della loro importanza o valore per il soggetto. Relativamente alle differenze, una prima, fondamentale, distinzione tra sentimento ed emozione è relativa ad aspetti di tipo ‘fisico-quan- titativo’, legati alla durata e all’intensità dell’esperienza affettiva: più bre- ve e accentuata nell’emozione, più duratura, ma meno intensa, nel sentimento. Secondo una definizione offerta da uno studio di psicologia: sentimento e umore si riferiscono a stati affettivi di bassa intensità, durevoli e pervasivi, senza una causa direttamente percepibile e con la capacità di influenzare eventi inizialmente neutri. Il sentimento, come stato affettivo ‘radicato’, non si esaurisce in stimoli momentanei. Un tratto caratterizzante l’emozione è la componente reattiva: «il termine emozione dovrebbe indicare, in accordo anche con il senso comune, stati affettivi intensi di breve durata, con una causa precisa, esterna o interna, un chiaro contenuto cognitivo e la funzione di rio- rientare l’attenzione» 77. Uno stato affettivo di durata limitata, diverso dunque da stati duraturi NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni. Si veda anche OATLEY, Psicologia ed emozioni, il quale parla di ‘condizioni di elicitazione’ per indicare che le emozioni insorgono sulla base della valutazione soggettiva di un evento da parte dell’agente in relazione alla sua condizione e ai suoi scopi. Cfr. OATLEY, Breve storia delle emozioni, tr. it., Bologna. D’URSO-TRENTIN, Introduzione alla psicologia delle emozioni, Bari; cfr. CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni, PIETRINI, Dalle emozioni ai sentimenti: come il cervello anima la nostra vita, a cura di Colombo-Lanzavecchia, La società infobiologica, Milano. Per un esempio di tassonomia degli stati affettivi e per una conseguente ap- Tra sentimenti ed eguale rispetto Passando a un piano di lettura differente, non limitato alla ‘di- mensionalità’ (intensità, durata), richiamiamo quanto osservato in ambito neuroscientifico da Damasio, secondo il quale il sentimento costituisce il momento della rappresentazione cosciente dell’emo- zione: la percezione che il soggetto ha di sé stesso. Viene evidenziata in questo modo una dimensione riflessivo-speculativa che trova ri- scontro anche nell’analisi di un altro neuroscienziato, Joseph Le Doux, il quale osserva le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per permettere agli animali di sopravvivere in un am- biente ostile e di riprodursi; i sentimenti invece sono un prodotto del- la coscienza, «stati di consapevolezza legati all’esperienza interna dell’emozione. Emerge qui una differenziazione che attiene a un piano funzionale, e che vede il sentimento come fenomeno che ha più a che fare con la sfera cognitivo-riflessiva del soggetto. E veniamo infine a un terzo criterio distintivo, quello forse più importante ai fini della presente indagine. L’analisi fenomenologica di Monticelli ha richiamato il carattere disposizionale del sentimento, l’essere una matrice che può generare e formare ulteriori stati affettivi. Introduciamo dunque l’importante distinzione tra fe- nomeni affettivi ‘in atto’ e ‘disposizioni’ del sentire: «un’emozione in atto è un episodio nel quale proviamo effettivamente collera, paura, gioia o altro. Una disposizione emotiva è la suscettibilità a provare emozioni in atto» 81. Cosa significa ‘disposizionale’? Il concetto è stato approfondito in particolare da Ryle, secondo il quale le espressioni disposi-zionali contengono l’affermazione che un uomo o un animale o una plicazione a un tema penalistico-criminologico, v. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, Milano, DOUX, Feelings: What Are They et How does the Brain Make Them?, in Daedalus Si osserva che le concezioni speculative del sentimento, da Platone a Vi- co, sottolineandone l’ambiguità di regione “intermedia” tra il senso e l’intelletto, cioè il suo partecipare marginale tanto all’uno quanto all’altro, tematizzano il sen- timento come una delle categorie o generi sommi della vita umana. Questa infatti è tale – umana –, solo in quanto è “soggettività”, il modo di essere che consiste nel- l’avvertire stimoli dal mondo esterno (senso) e ordinare gli avvertimenti in rap- presentazioni generali e ben connesse (intelletto), avendo come necessaria condi- zione il riferimento dei primi e delle seconde a un chiaramente o oscuramente avvertito “sé”, ossia comportando un sentimento fondamentale», v. MASULLO, voce Sentimento. ELSTER, Sensazioni forti, tr. it., Bologna, il quale cita, quali esempi di disposizioni emotive, la misoginia e l’antisemitismo.   Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni 59 cosa ha una certa capacità o una certa inclinazione, o è esposto ad una determinata tendenza. Le definizione ‘disposizionale’ può rap- presentare in questo senso un’antitesi rispetto a ‘episodico’, poiché «possedere una proprietà disposizionale non vuol dire trovarsi in un certo stato particolare o essere soggetto a un certo cangiamento» 83. Più in generale la distinzione fra stati ‘episodici’ e ‘disposizionali’ descrive una diversità funzionale nella complessiva esperienza affet- tiva della persona, e si presta a evidenziare il rapporto fra mera reat- tività soggettiva contingente e carattere fondativo e ‘personologico’ (vedi infra, cap. IV) degli stati affettivi, i quali appaiono in questo senso come strutture di base della soggettività. È questa a nostro avviso un’importante chiave di lettura per la presente indagine: ciò che appare decisivo nel problema della tutela di sentimenti non è capire se si debba far riferimento a emozioni in senso stretto o ad altri fenomeni affettivi, ma è invece importante de- cidere se il fulcro dei problemi debba riguardare la reattività emozio- nale, oppure se si debba assumere quale vettore di senso l’affettività come base di stati disposizionali non episodici, ossia come strutture portanti della identità morale degli individui. Un richiamo alla sfera affettiva intesa come ‘struttura disposizionale’ orienta l’attenzione sul sentire quale marcatore della personalità, e pone in questo modo sen- timenti ed emozioni al centro di questioni concernenti la diversità di preferenze e di ordini assiologici fra individui. Tale ultima opzione è quella a nostro avviso più funzionale a in- staurare connessioni con le accezioni del termine ‘sentimento’ che emergono nel discorso penalistico: l’uso dei legislatori e della dot- trina. Nel prosieguo dell’indagine approfondiremo entrambi gli aspetti. 5. Sinossi Il panorama di fenomeni che costituiscono il tessuto affettivo de- gli individui è oggetto di definizioni dall’uso non univoco e talvolta polisenso. Il rimando a saperi lato sensu psicologici, pur assumendo 82 RYLE, Il concetto di mente, tr. it., Roma-Bari, RYLE, LO SPIRITO COME COMPORTAMENTO, tr. it., Roma-Bari; cfr. ID., IL CONCETTO DI MENTE [citato da H. P. Grice]: Le tendenze sono cosa diversa dalle capacità e dalle suscettibilità. RYLEIAN AGITATION. Tra sentimenti ed eguale rispetto una notevole complessità, sembra nondimeno costituire per il giuri- sta penale un indispensabile tassello. Lo studio di contributi prodotti in ambito neuroscientifico, psico- logico e filosofico evidenzia come, al di là di possibili aree di contat- to, sentimenti ed emozioni non siano fenomeni del tutto accomuna- bili. Vi è una connessione di fondo relativa al fatto che entrambi, pur in modo differente, sono funzionali a classificare in base al binomio piacere-dolore le esperienze e le inclinazioni del sentire individuale, e contribuiscono così a definire l’identità e la peculiare originalità di ogni individuo. Da un altro lato, emergono differenze relative sia al- l’intensità, sia alla consistenza e alla durata. La distinzione che sembra maggiormente funzionale alla riflessio- ne sul problema del sentimento come oggetto di tutela concerne la nozione di stati episodici e disposizionali: con la prima accezione si definiscono fenomeni che si esauriscono in una contingente reattività psichica, con la seconda si indicano stati duraturi a loro volta matrici di ulteriori reazioni, i quali si intrecciano con le trame costitutive del- la personalità. Alla luce di tale ultimo distinguo cercheremo di trovare connes- sioni con le categorizzazioni che emergono dal diritto positivo e dal discorso dottrinale. DIMENSIONE CODICISTICA E FUNZIONE DISCORSIVA DELLA FORMULA ‘TUTELA PENALE DI SENTIMENTI’ SOMMARIO: ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula. Le tipologie di interessi dietro le norme codicistiche: sentimenti-valori e disagio psichico. La tutela di sentimenti-valori. Il sentimento religioso. Il pudore. La pietà dei defunti. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali.  Il sentimento per gli animali. Il comune sentimento della morale. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emozioni? Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodeterminazione. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali. –  Sinossi. ‘Tutela di sentimenti’: usi e significati della formula Volgiamo ora lo sguardo alla dimensione giuridica e cerchiamo di inquadrare le rispondenze della formula ‘tutela di sentimenti’. Sono a nostro avviso distinguibili due accezioni: la prima, di tipo descrittivo-classificatoria, è strettamente legata al diritto positivo, e si presta a sintetizzare le disposizioni in cui l’interesse protetto viene de- finito nei termini di un sentimento o di un’emozione: si pensi alle nor- me codicistiche che parlano di sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti et similia. La seconda accezione, che definiamo connotativa, è funzionale a tematizzare norme e problemi di tutela in cui la matrice emozionale non traspare da definizioni normative, ma emerge nei discorsi della dottrina penalistica in sede di speculazione teorica o di interpreta- zione, tendenzialmente per richiamare beni dalla fisionomia protei- forme, suscettibili di ricostruzioni profondamente differenti in quan-  62 Tra sentimenti ed eguale rispetto to esposte al condizionamento emotivo: interessi parificati dunque a sentimenti per via di un’intrinseca inafferrabilità 1. L’accezione connotativa enfatizza in chiave critica l’associazione tra fenomeni affettivi e oggetti di tutela dai confini incerti, disancora- ti da una base oggettiva e tendenti a sfociare in ricostruzioni di ma- trice soggettivistica. Parlare di sentimenti attiva nel lettore e nell’in- terprete frames psicologici che risentono della nebulosità epistemica che caratterizza le condizioni di conoscenza dei fenomeni psichici, contribuendo in questo modo a comunicare una sostanziale diffiden- za: «[le] parole non sono semplicemente dei mezzi per individuare gli oggetti. Le parole intervengono nella nostra percezione degli oggetti, e infatti trasmettono interpretazioni e attribuiscono senso ai loro referenti. Associare un oggetto di tutela penale a un sentimento equivale a sottolinearne il potenziale di criticità, come coacervo di interessi ‘su- blimati’ che non rispondano a requisiti di razionalità e coerenza ri- spetto a principi ‘di sistema’ 3. Menzioniamo, per ora a titolo esempli- ficativo, il richiamo alla dignità umana, e pensiamo anche alla cosid- detta ‘sicurezza pubblica’ la quale è stata in tempi recenti associata criticamente a uno stato di tranquillità soggettiva dei singoli; si può inoltre ascrivere a tale categoria anche il concetto di onore, ben noto ai penalisti e da sempre oggetto di faticosi sforzi ermeneutici. Si trat- ta di interessi che non a caso vengono additati come ‘problematici’ dalla dottrina4, i quali evidenziano tutti una forte connessione con matrici emotive, tale da indurre a definirli anche come ‘sentimenti’. Nel prosieguo approfondiremo gli ambiti e i problemi connessi sia all’accezione descrittiva, sia a quella connotativa, a partire da una panoramica sulle fattispecie dell’ordinamento italiano in cui il senti- 1 Con riferimento alla dottrina tedesca si veda la ricostruzione di NISCO, La tu- tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 84, il quale sottolinea come anche in Germania l’espressione ‘Gefühlschutzdelikte’ sia intesa in chiave essenzialmente critica. 2 SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali, Bologna. Sulla specifica accezione del diritto penale come ‘sistema’ – definizione che attiene al piano del dover essere piuttosto che alla descrizione della realtà del- l’ordinamento – e sulle distinzioni tra principi di rilevanza normativa che entrano in gioco nel diritto penale, v. per tutti FIANDACA, Diritto penale, in FIANDACA-DI CHIARA, Un’introduzione al sistema penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli. FIANDACA, Sul bene giuridico. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 63 mento figura testualmente come coordinata descrittiva dell’interesse protetto Le tipologie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘senti- menti-valori’ e disagio psichico Nel codice penale il sentimento viene espressamente evocato dalle norme poste a tutela del sentimento religioso, del pudore, della pietà dei defunti, del sentimento nazionale; nella legislazione complemen- tare viene menzionato come oggetto di tutela il ‘comune sentimento della morale’ 6. Oltre a tali ipotesi, riteniamo, in accordo con autorevole dottrina, che la problematica del sentimento come oggetto di tutela investa, pur con i dovuti distinguo, anche una norma di più recente introdu- zione, ossia l’art. 612 bis c.p., la quale incrimina il delitto di atti per- secutori. Si tratta di una fattispecie la cui tipicità appare fortemente improntata in senso emotivistico: ‘perdurante e grave stato d’ansia e di paura’, ‘fondato timore’ sono eventi di tipo psichico, e precisamen- te sono assimilabili a emozioni negative. Anche il delitto di atti per- secutori appare orientato a tutelare un sentire, o, più propriamente, 5 Non analizzeremo in questa sede ulteriori fattispecie codicistiche il cui so- strato di offensività sembra rimandare a un retroterra di tipo emozionale. Al di là dell’onore, che è unanimemente riconosciuto come interesse della persona caratterizzato da un’evidente componente ‘di sentimento’ che la dottrina si è impegnata a razionalizzare mediante il richiamo, comunque problematico, alla ‘dignità sociale’, v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, vi sono altre norme la cui afferenza al tema in esame appare meno uni- voca. Una recente ricostruzione include ad esempio il vilipendio alla bandiera (come forma di offesa al sentimento nazionale), la corruzione impropria susse- guente (offesa al sentimento di onestà che dovrebbe guidare i pubblici ufficiali), l’ingiuria semplice, l’incesto (offesa al sentimento della morale familiare), la pedopornografia (sentimenti moralistici inerenti la sessualità) e infine il nega- zionismo: si tratta di un panorama variegato ed eterogeneo, il quale meritereb- be una dettagliata analisi volta a verificare in che termini dietro i casi menzio- nati si possa davvero parlare di sentimenti, v. GIUNTA, Verso un rinnovato ro- manticismo penale?, cit., pp. 1556 ss. 6 Si pongono al di fuori dell’area concettuale della tutela di sentimenti le pro- blematiche concernenti gli stati emotivi e passionali e le circostanze attenuanti fondate su emozioni; il profilo che viene qui in gioco è il ruolo che i fenomeni af- fettivi possono assumere in relazione alla graduazione della responsabilità pena- le, attraverso gli istituti dell’imputabilità e delle circostanze del reato (vedi anche supra, cap. I, nota 30).   64 Tra sentimenti ed eguale rispetto presidia l’equilibrio emotivo di un soggetto in chiave strumentale rispetto alla libertà di autodeterminazione. È plausibile definire tale ultima fattispecie come una forma di tu- tela di sentimenti8 (fatte salve le criticità che possono derivare da un’interpretazione meramente emozionale e soggettivistica degli even- ti), ma è altrettanto evidente che rispetto alle ipotesi precedentemen- te menzionate in cui il legislatore parla espressamente di ‘sentimento’ vi sono delle differenze: nel caso della religione, del pudore, della pie- tà dei defunti et similia, la parola ‘sentimento’ viene associata a ulte- riori concetti che indicano valori e oggetti significativi per il singolo e per la collettività, dando vita a un’entità in parte psicologica e in par- te di consistenza prettamente socio-valoriale. Nel caso dello stalking lo stato psichico assume una rilevanza autonoma, senza alcuna cor- relazione con specifici oggetti del sentire, ed è proprio il turbamento emotivo a rivestire importanza centrale nell’economia della fattispe- cie, precisamente come evento tipico 9. Si tratta di due diverse declinazioni del sentimento come oggetto di tutela, le quali necessitano di una trattazione distinta. 2.1. La tutela di ‘sentimenti-valori’ Con riferimento ai delitti contro il sentimento religioso, contro il pudore e contro la pietà dei defunti, sia l’interpretazione oggi do- minante in dottrina sia la realtà applicativa depongono per una linea depsicologizzante, secondo la quale il disvalore del fatto non dipende dall’impatto della condotta tipica sullo stato psichico del soggetto passivo. Si è osservato che l’ordinamento penale non tutela sentimenti, 7 Sul tema, pur con diversità di accenti, v. MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino; NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica; COCO, La tutela della libertà indivi- duale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli FIANDACA, Sul bene giuridico. Uno tra gli aspetti più discussi della fattispecie di atti persecutori concerne l’alternativa fra reato di danno o di pericolo; per un’interessante prospettiva in- terpretativa MAUGERI, Lo stalking; sulla stessa linea di pensiero, CADOPPI, Efficace la misura dell’ammonimento del questore, in Guida dir. In giurisprudenza tende a prevalere la qualificazione come reato di danno; v., ex plurimis, Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 65 «anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini, ma tutela la loro obiettivazione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescindere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato» 10. Tale osservazione è ineccepibile, e trova riscontro nel panorama applicativo: la prova di un effettivo turbamento psichico soggettivo non è mai venuta seriamente in considerazione. Le situazioni de- scritte nelle disposizioni codicistiche non richiedono la verifica di una concreta elicitazione della sensibilità di singoli individui: l’asserita attitudine lesiva della sensibilità costituisce esito di un proces- so interpretativo di elementi di fatto e di condizioni di contesto esa- minati alla luce di criteri di adeguatezza e di tollerabilità modulati su parametri di tipo socio-culturale, in base a un’ipotizzata sensibilità media dei consociati. Come osserva Angelo Falzea, non è il mero fatto emozionale ad assumere ruolo decisivo, ma è piuttosto la sua traducibilità in valori e disvalori secondo un punto di vista sociale. Nel complesso, il senti- mento assume rilevanza sub specie iuris e non sub specie facti: «Non ogni volta che il diritto pone a base delle sue regole il sentimen- to si è in presenza di un fatto giuridico affettivo. Vi sono norme giuri- diche ispirate all’esigenza di tutelare un sentimento condiviso dalla 10 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. Si prendano a riferimento gli ambiti della tutela penale della religione e del pudore, nei quali si registra un congruo numero di pronunce. Per una panorami- ca sulla tutela del sentimento religioso in Italia fino agli anni Ottanta v. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione. Beni giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano; per uno sguardo sugli sviluppi più recenti v. BASILE, art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale commentato, diretto da Dolcini-Gatta, Milano; PECORELLA, Delitti contro il sentimento religioso, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, II ed., Torino; per una panoramica della giurispruden- za in materia di offese al pudore v. PROTETTÌ-SODANO, Offesa al pudore e all’onore sessuale nella giurisprudenza, Padova; PULITANÒ, Il buon costume, in BIANCHI D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio- culturali della giurisprudenza; FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon costume, Padova, 1984, pp. 33 ss.; sugli sviluppi più recenti sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. I reati contro la persona. In psicologia è d’uso il termine ‘elicitazione’ per indicare l’azione di stimolo volta a suscitare emozioni e/o a indurre comportamenti. Tra sentimenti ed eguale rispetto comunità o di reprimere un sentimento che la comunità disapprova, ma nelle quali la considerazione del fenomeno emozionale resta al livello dell’interesse normativo e non si traduce in elemento della fatti- specie: il sentimento tende allora a svincolarsi dalla necessità di una sua specifica manifestazione e a confondersi coi valori etici ogget- tivi» 13. Ciò che rileva è la ‘personalità affettiva comune’, ossia «l’insieme dei fatti biologici e psichici che influiscono sul comportamento emo- zionale affettivo e reattivo della persona» definito «in relazione al pa- trimonio sentimentale e alla sensibilità che sono propri in linea di principio dell’intero gruppo sociale. Il sentimento viene in questo modo proiettato in una dimensione collettiva come modo di sentire diffuso che accomuna più individui (c.d. ‘atmosfera emozionale’). Alla luce di tale fisionomia dell’oggetto di tutela, il sentire indivi- duale viene filtrato «in funzione e sotto l’angolo visuale del sistema dei valori di un gruppo diverso e più comprensivo la valutazione contenuta nel sentimento di certe persone o comunità diventa ogget- to di un’altra valutazione contenuta nel modo di sentire o comunque nel sistema dei valori di altre persone o comunità» 15. In definitiva, attraverso le «regole e gl’istituti con cui il legislatore predispone una tutela penalistica a salvaguardia di sentimenti che nel- l’animo e nel costume dei consociati assumono un alto valore» 16, il di- ritto penale finisce per tutelare non un stato soggettivo della persona, bensì l’oggetto e il valore impersonale che fonda quel dato modo di F. I FATTI DI SENTIMENTO. L’Autore inoltre distingue fra ‘reati di sentimento’, ossia quelli in cui il diritto «punisce il disprezzo verso valori ritenuti fondamentali», ossia le varie forme di vilipendio alle istituzioni (Repubblica, nazione, bandiera), dai casi in cui il sentimento dell’agente è tale da influire sulla gravità della pena in funzione di circostanza (crudeltà, futilità dei motivi etc. A ben vedere, una simile prospettazione potrebbe creare fraintendimenti: nella definizione del vilipendio quale reato di sentimento (la cui ragion d’essere trova dunque spiegazione nella mera censura di uno stato interiore considerato contrario a valori ‘oggettivi’) l’occhio del penalista non può fare a meno di riscon- trare una sottile caratterizzazione soggettivistica, secondo tecniche di incrimina- zione tipiche del Gesinnungsstrafrecht. Il suddetto schema non sembra inoltre funzionale ad una prospettiva di bilanciamento, poiché se l’aver provato disprez- zo diviene motivo di incriminazione tout court, relegando in secondo piano i pro- fili di turbamento del sentimento di altri, risulta assai più difficoltoso procedere sulla strada di un equilibrio tra posizioni. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula sentire. Il lessico degli stati affettivi si rivela dunque un orpello retorico volto a porre sotto protezione penale gli oggetti del sentire, ossia valori e simboli ritenuti socialmente significativi nella comunità: «nell’apprestare tutela a determinati sentimenti, il codice non tende a proteggere stati affettivi duraturi in quanto tali: si tratta, piuttosto, di sentimenti – individuali e/o collettivi – concepiti altresì come atteg- giamenti intrisi di valore in una accezione culturale e normativa. Sic- ché si può dire, da questo punto di vista, che la legge penale mira a proteggere più che sentimenti in sé, sentimenti-valori, se non valori tout court» 17. Vediamo nel dettaglio quali sono i valori che, dietro le effigie del sentimento, sono entrati nel catalogo dei beni tutelati dal diritto penale italiano. Il sentimento religioso I delitti in tema di religione sono un elemento sintomatico del tas- so di secolarizzazione del sistema 18. Nelle legislazioni penali moder- ne, la religione è stata di rado identificata come bene di esclusiva per- tinenza del singolo, e più frequentemente come forma di adesione collettiva o come sentimento istituzionalizzato, ossia entità storica- mente e culturalmente determinata nella quale sono trasfusi valori e patrimoni propri di una o più confessioni. Il codice Rocco parla di ‘sentimento religioso’ 19, ma la legislazione del 1930, fedele nelle rubriche e nella sostanza alla sola religione di Stato, si identificava nel modello di tutela definito come bene di civiltà: era la religione cattolica, affiancata dalla timida presenza dei culti ammessi, e non un qualsiasi sentimento religioso individual- FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, FIANDACA, Laicità del diritto penale e secolarizzazione dei beni tutelati, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, pp. 180 ss.; SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del fattore religioso nell’ordinamento italiano, a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Torino. Per una panoramica, v. a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino, Cfr. MARCHEI, Sentimento religioso e bene giuridico. Tra giurisprudenza costi- tuzionale e novella legislativa, Milano; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose dopo la legge, Milano. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione, cit., Milano Tra sentimenti ed eguale rispetto mente avvertito, a godere di un privilegiato regime di tutela 21. L’impianto codicistico ha subito profonde modifiche ad opera del- la Corte costituzionale, la quale, nel corso degli anni, ha ‘rabbercia- to’ 22 il sistema dei reati riducendo le distonie con i principi codificati nella Carta costituzionale. Particolarmente significativa è la linea giu- risprudenziale inaugurata con la pronuncia n. 440/1995 (sulla con- travvenzione di bestemmia) e seguita dalle pronunce (equiparazione del trattamento sanzionatorio fra religione di Stato e culti ammessi, in relazione all’art. 403 c.p.) e soprattutto n. 508/2000 (ablazione della fattispecie di vilipendio della religione di Stato, art. c.p.): decisioni che attuano un cambio di rotta rispetto alla giu- risprudenza costituzionale che, fino a pochi decenni prima, ancora legittimava il trattamento privilegiato della religione cattolica sulla base di criteri quantitativi e sociologici 25. Argomentando sulla base del principio di laicità, la Corte ha iden- tificato nella dimensione religiosa individuale il corollario di una li- 21 In linea con l’afflato statocentrico che ispira l’intera codificazione, le fatti- specie in tema di religione sono espressione di autoritarismo etico da parte del governo fascista, congeniale al sodalizio politico con la Chiesa Romana formaliz- zato nei Patti Lateranensi: La religione dice Rocco è non tanto un feno- meno attinente alla coscienza individuale, quanto un fenomeno sociale della più alta importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato», v. Codice penale, illustrato con i lavori preparatori, a cura di Mangini-Gabrieli-Cosentino, Roma. Per una sintesi, v., ex plurimis, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose. L’espressione è di FIANDACA, Altro passo avanti della Consulta nella rabbercia- tura dei reati contro la religione, in Foro it. Per un’ampia e pun- tuale sintesi della giurisprudenza costituzionale vedi il saggio di VISCONTI C., La tutela penale della religione nell’età post-secolare e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen. Sul tema v., ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della bestem- mia), in Cass. pen.; DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it. dir. proc. pen. Ex plurimis, VENAFRO, Il reato di vilipendio della religione non passa il vaglio della Corte Costituzionale, in Legislazione penale. Cfr. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, entro la nuova tipici- tà dei delitti contro le confessioni religiose, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa, Torino; MORMANDO, Religione, laicità, tol- leranza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.; MARCHEI, Sentimento religioso e bene giuridico. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 69 bertà costituzionale 26; parametro costituzionale decisivo che ha sup- portato le modifiche più rilevanti è stato il principio di uguaglianza. La riforma, nel dichiarato intento di superare l’anacro- nistico e illiberale modello del codice fascista, ha eliminato il riferi- mento alla religione introducendo il concetto di ‘confessione religio- sa’. In merito all’interesse protetto, la lettura critica offerta dalla pre- valente dottrina individua una sostanziale continuità con la vecchia normativa28, identificando l’oggetto di tutela in una prospettiva che oscilla tra il bene di civiltà ‘pluriconfessionalmente articolato’ e il sentimento collettivo della pluralità dei fedeli che si riconoscono in una determinata confessione religiosa29. Non mancano però letture alternative che cercano di armonizzare la duplice natura, individuale e collettiva, del bene protetto, sottolineando come «la nozione di sen- 26 Pur aderendo sostanzialmente al principio di laicità dello Stato, la giuri- sprudenza costituzionale presenta sensibili oscillazioni circa l’effettiva portata del concetto: cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici del discorso pubblico, Torino; ID., La tutela penale della religione, cit., p. 1050. Istanze personalistiche sono emerse quando si è parlato di «sentimento religioso, il quale vive nell’in- timo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune», v. C. cost.; cfr. MARCHEI, Sentimento religioso. Così PULITANÒ, Laicità e diritto penale, a cura di Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, Milano; cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici. Sui rapporti tra uguaglianza e diritto penale, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Uno studio di giurisprudenza costituzionale, Milano, 2013; FIANDACA, Uguaglianza e diritto penale, a cura di Cartabia-Vettor, Le ragioni del- l’uguaglianza, Milano. Si rileva che la Corte non ha assunto decisioni dirompenti, tali da condur- re all’abbattimento del sistema esistente, talvolta riducendo a un semplice pas- saggio ermeneutico, secondo alcuni Autori, lo stesso richiamo alla realtà reli- giosa individuale, nei fatti seguito dalla rilegittimazione del paradigma esi- stente: cfr. l’analisi di MARCHEI, Sentimento religioso, cit., pp. 143 ss. Osserva PIEMONTESE, Offese alla religione e pluralismo religioso, Religione e re- ligioni: prospettive di tutela, tutela delle libertà, a cura di De Francesco-Piemontese-Venafro, Torino, che «la libertà individuale parrebbe valoriz- zata, qui, solo in chiusura e ad abundantiam, all’interno di un iter argomentati- vo volto a preservare comunque l’originaria dimensione pubblica ed istituziona- le della tutela»; cfr. PADOVANI, Un intervento normativo scoordinato che investe anche i delitti contro lo Stato, in Guida dir.; BASILE, art. c.p. Nel primo senso SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori; per la seconda opzione v. BASILE, art. c.p. Cfr. anche VISCON- TI C., Aspetti penalistici. Ritiene che la riforma abbia fatto assurgere il sentimento religioso individuale a bene protetto in via diretta e immediata, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose Tra sentimenti ed eguale rispetto timento è solamente un connotato – innegabile quanto imprescindibile – di un ben più articolato valore di libertà religiosa. Il pudore Il richiamo al sentimento è centrale nella definizione delle osceni- tà penalmente rilevanti: sono da considerarsi osceni gli atti e gli og- getti che ‘secondo il comune sentimento’ offendono il pudore (art. c.p.). L’elemento normativo ‘comune sentimento del pudore’31 attinge da un fenomeno di reattività interiore dell’individuo: il pudo- re, genericamente definibile come disposizione soggettiva che induce al riserbo su quanto attiene alla vita sessuale, fonda la soglia sogget- tiva di eventuale disagio avvertibile di fronte a manifestazioni della sessualità. Inteso nella dimensione comunitaria il pudore si emancipa dal rapporto di implicazione emotiva individuale e dalla sua concreta sussistenza, scivolando verso un’identificazione con concezioni della morale sessuale: la valorizzazione normativa del pudore diviene in questo modo funzionale a introdurre soglie atte a delimitare manife- stazioni e rappresentazioni aventi contenuto sessuale 33. Il problema del buon costume e della pubblica moralità quali beni di categoria in ambito penalistico ha finito per tradursi nel richiamo a canoni di moralità sessuale, concetto quest’ultimo la cui delimita- 30 È la condivisibile notazione di FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, cit., p. 48, la quale definisce l’interesse protetto dalle norme post riforma 2006 come sentimento religioso collettivo e al contempo individuale. Sul tema degli elementi normativi, e in particolare sui rapporti fra il coeffi- ciente di certezza degli elementi normativi culturali e giuridici, v. lo studio di BONINI, L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e costitu- zionali, Napoli, 2016, pp. 320 ss.; sul tema v. anche RISICATO, Gli elementi norma- tivi della fattispecie penale. Profili generali e problemi applicativi, Milano Per un’analisi in chiave psicanalitica v., ex plurimis, APPIANI, Tabù. Elogio del pudore, Milano, Fondamentale FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 4 ss. Sul proble- ma definitorio del pudore, nella letteratura penalistica più risalente v. ALLEGRA, Il “comune” sentimento del pudore, in Iustitia.; LATAGLIATA, voce Atti osceni e atti contrari alla pubblica decenza, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Mi- lano; VENDITTI, La tutela penale del pudore e della pubblica decen- za, Milano; GALLISAI PILO, voce Oscenità e offese alla decenza, in Dig. disc. pen., Torino; FARINA, Il reato di atti osceni in luogo pub- blico: tensioni interpretative e prospettive personalistiche nella tutela del pudore, in Dir. pen. proc. Cfr. FIANDACA, Problematica dell’osceno, cit., pp. 78 ss.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 71 zione è però nondimeno ardua, al punto da costituire classicamente un luogo di forti tensioni tra il diritto punitivo e i principi liberali. Ad oggi gli sviluppi giurisprudenziali, incentivati e affinati da im- portanti contributi della dottrina 36, depongono per una riconversione dell’interesse di tutela, il quale è identificato nel diritto a essere pro- tetti da indebite violazioni del proprio riserbo sessuale: esempio tipi- co, l’assistere a manifestazioni di contenuto erotico senza avervi pre- ventivamente acconsentito. Ciò ha condotto a un modello di interven- to incentrato non più su una lesione astratta e potenziale del pudore collettivo, ma teso a reprimere solo le manifestazioni oscene che si impongano a determinati soggetti senza che questi abbiano prestato un preventivo consenso 37. È il carattere della pubblicità più o meno indesiderata dell’atto o della pubblicazione, inteso come capacità di diffusione e percepibilità da parte di soggetti non consenzienti, a fondare l’illiceità, e non la sua natura eventualmente oscena. Si tratta di un ragionevole distacco da modelli di intervento non 35 Sul punto rimarca FIANDACA, Problematica dell’osceno, che il principio della tolleranza ideologica e della tutela delle minoranze impediscono di trasformare il diritto penale di uno Stato democratico in tutore della virtù. Ciò induce a dover giustificare sotto ogni aspetto l’assunto, secondo il quale la punizione dell’immoralità non può rientrare tra gli scopi del diritto penale con- temporaneo. Tanto più che l’esplicito riferimento, contenuto nella Costituzione, alla tutela del buon costume potrebbe essere da taluno interpretato – come di fat- to è avvenuto – appunto in chiave di “copertura” costituzionale all’incriminazione di fatti lesivi di semplici valori morali». Cfr. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico? Pro- blemi di legittimazione da una prospettiva europea continentale e da una angloame- ricana, a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale. Culture europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino Il riferimento è sempre a FIANDACA, Problematica dell’osceno In giurisprudenza, sentenza capostipite è quella del Tribunale di Torino, 2/04/1982, in Foro it. Nella giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., sez. in Foro it.; v. anche Cass. pen., SS. UU., 24/03/1995, in Foro it., 1996, II, c. 17 ss. Da ultimo, v. Cass. pen., sez. e Cass. pen., sez., che conferma la per- cepibilità dell’osceno da parte del pubblico come elemento costitutivo della fattispe- cie il cui onere probatorio deve essere fornito dall’accusa. Per un avallo del suddetto orientamento da parte della Corte costituzionale, v. la sentenza n. 368/1992, secon- do cui «la misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di questo verso gli altri, considerata in relazione alle modalità di espressione e alle circostan- ze in cui l’osceno è manifestato», v. C. cost., n. 368/1992; sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale Tra sentimenti ed eguale rispetto compatibili con uno Stato liberale e pluralista38. Ad oggi l’ordina- mento italiano non tutela un moralistico pudore collettivo 39, ma ap- presta gli strumenti affinché le persone non assistano a manifesta- zioni della sessualità per loro indesiderate: l’equilibrio si fonda su po- tenzialità nell’agire che trovano un limite nell’altrui pretesa di non subire contatti sgraditi. Vi è sì una depsicologizzazione dell’interesse protetto, presentato nelle fogge di una libertà negativa, ma va non- dimeno riconosciuto che il problema della tutela del pudore resta profondamente legato, nella sua matrice, anche a una sensibilità di tipo ‘epidermico’40, non semplicemente morale, ma saldamente in- trecciata alla reattività emotiva della persona.  La pietà dei defunti Pochi termini denotano un’appartenenza al lessico emozionale come la pietà: traduzione del latino pietas, essa, al di là dell’uso gene- rico che connota il sentimento di solidale comprensione nei confronti della sofferenza altrui, designa ancora oggi la dimensione psicologica che scaturisce dall’esperienza della morte dei propri simili, e fa la sua comparsa nel codice penale al capo II del titolo IV. 38 Esigenze di riforma sono state invocate evidenziando un ormai critico rap- porto tra il diritto vivente e la tipicità formale, sottolineando come lo stesso rein- quadramento in termini personalistici del bene giuridico disveli, in definitiva, un’irragionevole disparità sanzionatoria tra l’offesa al pudore (rectius, libertà da visioni indesiderate) e altre offese alla persona: v. FARINA, Il reato di atti osceni I sentimenti individuali rimangono sullo sfondo, preservati nella loro auto- nomia e senza dover render conto dei propri contenuti: le generalizzazioni e i giudizi su base quantitativa dovrebbero rimanere al di fuori della norma, poiché la libertà del singolo è anche libertà di usufruire e concedersi quello che per molti dei suoi simili potrebbe apparire indecoroso o ripugnante, ovviamente senza in- vadere le altrui sfere di libertà. Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno affermato in questo senso la necessità di una politica ‘anticollettivista’, nella quale cioè «gli interessi della maggioranza non possono mettere a tacere i diritti fon- damentali dell’individuo, se non in circostanze eccezionali, solitamente laddove siano ipotizzabili danni ad altre persone o qualche grave pericolo per l’intera na- zione», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, tr. it., Milano; cfr. H. L. A. HART [citato da H. P. Gice], Diritto, morale e libertà, tr. it., a cura di Gavazzi, Acireale È stato osservato come sia doveroso un approfondimento delle ragioni psi- cologiche alla base di atteggiamenti repulsivi dell’altro, al fine di disvelare (e ar- ginare) l’irrazionalità di fondo che, se trasfusa in dettami normativi, potrebbe condurre a esiti discriminatori: un tipico esempio sono istanze di tutela che tro- vino la propria motivazione in un mero ‘disgusto collettivo’, v. NUSSBAUM, Na- scondere l’umanità Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula L’interpretazione consolidatasi in dottrina individua in tali norme un presidio a un sentimento universale, non una forma di difesa della salute pubblica . La tutela è incentrata su oggetti materiali e postula la rilevanza simbolica delle res: oggetti la cui violazione integra il pa- radigma delittuoso in quanto la materialità delle azioni assuma il si- gnificato di dileggio alla memoria 42. Al di là della topografia codicistica, pare opportuno rimarcare l’autonomia concettuale del sentimento di pietà per i defunti dalle eventuali caratterizzazioni religiose43: è sul presupposto di una di- mensione laica di tale sentimento 44, oltre il manto di ritualità cultua- li, che si pone la discussione sulla legittimità e opportunità di un pre- sidio sanzionatorio. Autorevole dottrina è critica nei confronti della scelta politico criminale del codice Rocco: «la previsione autonoma di delitti contro la pietà dei defunti non appare, nell’attuale momento storico, perfet- tamente congrua con la funzione propria di un diritto penale di uno Stato democratico e secolarizzato: il mero sentimento non sembra infatti poter assurgere al rango di bene giuridico, non intaccando la sua semplice violazione quelle condizioni minime della vita in comu- ne la cui salvaguardia legittima l’uso dello strumento penalistico» 45. L’osservazione ha il merito di evidenziare uno dei punti critici del rapporto tra sentimenti e tutela penale: libertà che rischiano di essere soggette alla coercizione di fronte a moti dell’animo umano, il cui turbamento, pur intenso, non dovrebbe essere destinatario di una priorità assoluta all’interno di un contesto pluralista. 41 FIANDACA, voce Pietà dei defunti (Delitti contro la), in Enc. giur., Roma; per l’orientamento incline all’interpretazione della norma come tutela della salute pubblica, v. GABRIELI, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso i defunti, Milano, ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti (delitti contro), in Dig. disc. pen., Torino Ex plurimis, cfr. FIANDACA, voce Pietà dei defunti, cit., p. 1; ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti, Non potendo in questa sede offrire un quadro della sconfinata bibliografia, ci limitiamo a segnalare le intense riflessioni contenute nella pubblicazione di AA.VV., a cura di Monti, Che cosa vuol dire morire, Torino, 2010. Argomentazioni condivise da parte di autori di estrazione laica e autori cattolici emergono nei saggi di BODEI, L’epoca dell’antidestino MONTICELLI, La libertà di divenire sé stessi, pp. 83 ss.; per i secondi, v. REALE, L’uomo non si accorge più di morire; MANCUSO, Se si ha paura della morte, si ha paura della vita, pp. 109 ss. 45 FIANDACA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, vol. I, IV ed., Bologna, Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’attuale configurazione normativa, tuttavia, la tutela del de- funto evoca sentimenti, ma non ha ad oggetto stati psicologici di pa- renti o delle persone ad esso affettivamente legate. Si tratta di un ri- conoscimento dovuto all’essere umano in quanto tale, a prescindere da metafisiche ultraterrene, ma anzi ben ancorato a una concezione secolare dell’esistenza, secondo cui il soggetto può e deve meritare rispetto anche dopo il trapasso 46. È in quest’ottica che può eventual- mente valutarsi l’opportunità del mantenimento di un presidio e i suoi limiti: secondo logiche non pervasive ma ragionevolmente orien- tate alla salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto verso chi ha abbandonato la dimensione fisica dell’esistenza. 2.1.4. Il sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi sociali Fra i delitti contro la personalità dello Stato troviamo menzionati lo ‘spirito pubblico’ e il ‘sentimento nazionale’. Si tratta di fattispecie cadute ormai nel dimenticatoio e sostanzialmente inapplicate: l’am- bito di operatività dell’art. 265 (disfattismo politico) è circoscritto, per espressa previsione legislativa, al tempo di guerra; gli artt.  (nella parte in cui faceva riferimento al ‘sentimento nazionale’) sono stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità con le senten- ze n. 87/1966 e n. 243/2001 47. Al di là del valore di ‘archeologia giuridica’, fra gli elementi costi- tutivi delle suddette fattispecie troviamo il cosiddetto ‘spirito pubbli- co’ e il ‘sentimento nazionale’: concetti strettamente legati, i quali evocano una disposizione affettiva, ossia l’atteggiamento di fede e di attaccamento del cittadino alla nazione. 46 GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale? ; cfr. DONINI, “Danno” e “ offesa”nella c.d. tutela penale dei sentimenti, il quale sot- tolinea la possibilità che dall’assenza di tali presidi scaturiscano esiti negativi per la stessa pace sociale; ERONIA, La turbatio sacrorum tra legge e cultura: il caso del- la riesumazione della salma di S. Pio, in Cass. pen. Nella relazione al progetto di riforma del codice penale elaborato dalla commissione Pagliaro era stato osservato che: «il bene personalistico della dignità della persona defunta appare costituire l’oggetto primario e costante della tutela contro gli atti irriguar- dosi delle spoglie umane e dei sepolcri, mentre il pur rilevante bene collettivo del suddetto sentimento si presenta come bene secondario ed eventuale», v. Relazione alla bozza di articolato per un progetto di riforma del Codice Penale, consultabile in http://www.ristretti.it/ areestudio/giuridici/riforma/relazionepagliaro.htm. 47 L’art. 272 c.p. è stato poi integralmente abrogato dalla legge n. 85 del 2006. Sul tema, v. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave costituzionale, Milano, 2006, pp. 275 ss.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula  Il concetto di spirito pubblico appare più generico e va delimitato a contesti in cui, a causa dello stato di guerra, viene richiesta al citta- dino fiducia nelle sorti del Paese. Non si tratta di una disposizione da accertarsi in capo a singoli soggetti, bensì di un atteggiamento di col- lettiva partecipazione al sostegno morale della nazione, il quale, se- condo il legislatore del 1930, poteva essere frustrato dalla diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose così da menomare la resisten- za della nazione di fronte al nemico. Il ‘sentimento nazionale’, secondo le parole della Corte costituzio- nale, è da intendersi come corrispondente «al modo di sentire della maggioranza della Nazione e contribuisce al senso di unità etnica e sociale dello Stato» 48. Anche in questo caso il pensiero giurispruden- ziale rifugge da interpretazioni emotivistiche e incentra la tutela pe- nale su un nucleo di valori asseritamente condivisi. La natura puramente ideologica di tale oggetto di tutela ne ha de- cretato l’incompatibilità con la libertà di manifestazione del pensiero. Va però evidenziato che, mentre nella prima parte della motivazione della sentenza n. 87/1966 la Corte descrive tale interesse in termini col- lettivistici, al momento di decretare l’illegittimità della norma incrimi- natrice la fisionomia dell’oggetto di tutela viene riproposta ponendo l’accento in chiave critica sulla componente soggettivo-emozionale: di- ce infatti la Corte che «è pur tuttavia soltanto un sentimento, che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e delle idealità». Facendo leva su tale carattere impalpabile 49 viene affermata l’ille- gittimità anche dell’art. nella parte in cui incrimina la propa- ganda per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, salvando invece (fino alla formale abrogazione del 2006) l’incriminazione della propaganda per l’instaurazione violenta della dittatura, per la sop- pressione violenta di una classe sociale e per il sovvertimento violen- to degli ordinamenti economici o sociali costituiti nello Stato, rico- noscendo in tali norme una tutela del metodo democratico da forme di pensiero prodromiche ad azioni violente. Diversamente da altri ambiti in cui il richiamo a un sentire collet- 48 C. cost. n. 87/1966. 49 Lo sottolinea, ex plurimis, CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo, i principi di offensività e libera manifestazione del pensiero e la funzione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.Mero reato di opinione, sia pure in senso lato» secondo VASSALLI, Propaganda sovversiva e sentimento nazionale, in Giur. cost., 1966, II, p. 1100.   76 Tra sentimenti ed eguale rispetto tivo è stato riconvertito dagli interpreti in una prospettiva di tutela della persona, il sentimento nazionale non è riuscito a beneficiare di alcun maquillage ermeneutico, e, dissipatosi il manto della retorica di regime, è scomparso dai beni penalmente tutelati in quanto non in grado di sostenere il confronto con la libertà di espressione. Una vicenda similare ha caratterizzato la problematica disposizione dell’art. c.p. (istigazione all’odio fra le classi sociali), che la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere at- tuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». L’eccezione sollevata con riferimento al contrasto con l’art. 21 Cost. viene accolta dalla Corte motivando che la norma, poiché non indica come oggetto dell’istigazione un fatto criminoso specifico o un’attività diretta con- tro l’ordine pubblico o verso la disobbedienza alle leggi, ma sempli- cemente l’ingenerare un sentimento senza nel contempo richiedere che le modalità con le quali ciò si attui siano tali da costituire perico- lo all’ordine pubblico e alla pubblica tranquillità, «non esclude che essa possa colpire la semplice manifestazione ed incitamento alla persuasione della verità di una dottrina ed ideologia politica o filoso- fica della necessità di un contrasto e di una lotta fra portatori di op- posti interessi economici e sociali» 51. Si tratta di una piana applicazione di principi già evidenziati nella sentenza, che culmina in questo caso in una pronuncia additiva la quale di fatto espunge dall’ordinamento l’incri- minazione dell’istigazione all’odio fra le classi sociali, riconoscendo la preminenza del diritto di libertà alla manifestazione di «teorie del- la necessità del contrasto e della lotta tra le classi sociali che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza e delle concezioni e convinzioni politiche, sociali e filosofiche dell’individuo appartengo- no al mondo del pensiero e dell’ideologia Il sentimento per gli animali Un ambito del tutto peculiare è costituito dalle norme codicistiche a tutela del cosiddetto ‘sentimento per gli animali’. Èstata introdotta nel codice penale la disciplina che sanziona, in forma di delitto, le condotte di uccisione e maltrattamento di animali; stando alle parole del legislatore, l’interesse tutelato sarebbe il sentimento  C. cost., n. 108/1974. 52 C. cost., n. 108/1974.   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula per gli animali, ossia l’umana compassione che scaturisce dal rapporto con la sofferenza dell’animale. L’evidenza testuale suggerisce una connessione con i problemi og- getto della presente indagine, ma l’inquadramento dell’interesse pro- tetto in ossequio al verbo legislativo appare una lettura superficiale. Le tesi dottrinali nel panorama italiano sono espressione di diversi orientamenti53: il primo tendente a dare rilievo alla definizione del legislatore; il secondo proiettato all’affermazione di una soggettività giuridica dell’animale; un terzo orientamento di compromesso, e infine una quarta soluzione che appare protesa al riconoscimento di una tutela diretta dell’essere non umano, senza scivolare in proble- matiche (soprattutto da un punto di vista filosofico) ‘soggettivizza- zioni’ dell’animale, ma rimarcando come la tutela diretta dell’animale non umano sia da contestualizzarsi all’interno di un quadro di inte- ressi e controinteressi umani 57. Non potendo approfondire nel corso della presente indagine l’amplissima questione, ci limitiamo ad alcune osservazioni finalizza- te a definire il senso e la peculiarità dell’impianto normativo della tu- tela del sentimento per gli animali in rapporto agli altri ‘sentimenti- valori’ presenti nel codice penale. In primo luogo la tipicità delle fattispecie di cui agli art. 544 bis e 53 Secondo la ricostruzione di FASANI, L’animale come bene giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen. Così GATTA, Art. c.p., in AA.VV., diretto da Dolcini-Gatta, Codice penale commentato,; PISTORELLI, Così il legislatore traduce i nuovi sentimenti e fa un passo avanti verso la tutela diretta, in Guida dir. Per una sintesi della problematica, v. VALASTRO, La tutela giuridica degli ani- mali, fra nuove sensibilità e vecchie insidie, in Annali di Ferrara. Va evidenziata la posizione di MANTOVANI F., Diritto penale, Padova, il quale individua la ratio della tutela penale degli animali in una prospettiva promozionale della stessa dignità umana, in quanto «la riduzione dell’immensa crudeltà verso gli animali attenuando la crudeltà complessiva del mondo, se non rende l’animale più uomo, rende l’uomo meno animale e migliore la Terra.  POCAR, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, Bari; RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino. Testo di riferimento per l’introduzione alle teorie animaliste è SINGER, Liberazione animale, tr. it., Milano. MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della relazione uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, ia cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto-La questione animale, Milano. FASANI, L’animale come bene giuridico, Tra sentimenti ed eguale rispetto ss.58 non lascia spazio a valutazioni in termini emozionali; al senti- mento umano di rispetto per gli animali può essere riconosciuto un ruolo propulsivo nei confronti della scelta politico-criminale, ma per ricondurre l’oggetto della tutela ad una sorta di pietas verso gli esseri non umani, dovrebbe essere necessario richiedere nelle condotte quantomeno un grado di pubblicità tale da riflettersi sul sentire col- lettivo. Ciò che fonda la tipicità degli artt. 544 bis e 544 ter è aver uc- ciso con crudeltà un animale o averlo maltrattato con carichi di lavo- ro insopportabili: azioni che possono senz’altro indurre sentimenti negativi nella gran parte degli esseri umani, ma che rilevano norma- tivamente per il semplice fatto di essere state realizzate, e dunque quale offesa ad animali non umani Per una panoramica v. VALASTRO, La tutela penale degli animali: problemi e prospettive, in AA.VV., a cura di Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto – La questione animale. Sul tema, prima della riforma, vedi i saggi contenuti in a cu- ra di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, Milano. Sottolinea FIANDACA, Prospettive di maggiore tutela penale degli animali, a cura di Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, che, al di là della possibile disputa circa un’ipotetica soggettività giuridica animale, per legittimare una tutela penalistica possa essere sufficiente «parlare di “interessi animali” degni di riconoscimento e tutela: interessi considerati in una dimensione oggettiva, a pre- scindere dal problema di una loro riferibilità all’animale come soggetto giuridico», ritenendo plausibile che «gli animali [siano] portatori di due interessi fondamentali: l’interesse alla sopravvivenza e l’interesse alla minore sofferenza possibile». Il di- stacco da un’ottica antropocentrica, con implicita emancipazione da una ratio di tutela incentrata sul sentimento umano per gli animali, appare peraltro ravvisabile anche nella giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, relativa all’art., il quale, prima dell’introduzione del titolo IX bis, incriminava le condotte di maltrat- tamento di animali: v., in particolare, Cass. pen., sez., in Cass. pen., 1992, p. 951, la quale afferma che «in via di principio l’art., in considerazio- ne del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove si parla non solo di sevizie ma anche di sofferenze e di affaticamento) tutela gli ani- mali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la soglia di normale tollerabilità. La tutela è, dunque, rivolta agli animali in considerazione della loro natura»; in senso conforme, v. Cass. pen., sez., in Dir. giust.; Cass. pen., sez., in Nuovo dir., secondo cui «La “ratio” della disposizione di cui all’art. c.p. è quella di voler perseguire condotte caratterizzate da un’apprezzabile componente di lesività dell’integrità fisi- ca e-o psichica dello animale». Più contraddittoria appare invece la giurisprudenza di legittimità dopo la novella: si veda, ad esempio, Cass. pen., sez., ove si afferma che «La norma è volta a proibire comporta- menti arrecanti sofferenze e tormenti agli animali, nel rispetto del principio di evitare all’animale, anche quando questo debba essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà ed ingiustificate sofferenze», rimarcando tuttavia che «in   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula L’identificazione dell’oggetto di tutela in un (non meglio identifi- cato) sentire comune costituisce una lettura pregna di risvolti pro- blematici60, e sono in questo senso condivisibili interpretazioni più ragionevoli che suggeriscono di configurare l’interesse tutelato in termini di relazionalità e ‘interspecificità’: «andare oltre la dicotomia radicale e guardare nel mezzo [...] cioè nel rapporto tra l’uomo e l’animale; lì si rinviene il bene giuridico davvero tutelabile dal diritto penale, nel quadro delle garanzie costituzionali. L’animale non riempie, non esaurisce, l’orizzonte di tutela penale. L’uomo (che prova qualcosa davanti all’animale e che invoca per quest’ultimo un dignitoso trattamento) non scompare dalla scena» 61. Nel complesso, i problemi connessi alla tutela del sentimento per gli animali non sembrano propriamente accomunabili a quelli riscontrati in relazione agli altri ‘sentimenti’ tutelati dalle norme pena- li. Una differenza di fondo è che le disposizioni a tutela della religio- ne o del pudore chiamano in gioco un bilanciamento fra interessi in- terno al confronto fra esseri umani e basato su entità immateriali come i valori normativo-ideali; dall’altra parte, per quanto il ricono- scimento di una soggettività giuridica all’animale sia un problema aperto, in sede di ricostruzione dell’oggetto di tutela appare preferibi- le tenere conto della soggettività animale senza sublimarla né in un impalpabile sentire dell’uomo né in un mero contenuto ideale, ma piuttosto come problema che sollecita un approfondito studio delle condizioni di compatibilità fra esigenze umane e rispetto della vita di esseri non umani. Per tali ragioni, il tema del sentimento degli animali pone que- stioni non inquadrabili nella tutela dei cosiddetti ‘sentimenti-valori’, né appare accostabile al tema del disagio emotivo, rivelandosi piutto- sto la proiezione di un problema antico e ancora attuale, concernente gli equilibri di vita e sopravvivenza fra uomo ed ecosistema. tali disposizioni l’oggetto di tutela è il sentimento di pietà e di compassione che l’uo- mo prova verso gli animali e che viene offeso quando un animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze. Scopo dell’incriminazione è quindi di impedire manifesta- zioni di violenza che possono divenire scuola di insensibilità delle altrui sofferenze. Ben evidenziati da MAZZUCATO, Bene giuridico e “questione sentimento. MAZZUCATO, Bene giuridico e questione “sentimento”, cit., p. 703. 62 Un’interessante lettura sulla complessità del rapporto fra uomo e animali non umani è il libro di HERZOG, Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali, tr. it., Torino. Per un inquadramento dell’impianto di tutela penale degli animali nel più ampio contesto dei reati contro l’ambiente e  Tra sentimenti ed eguale rispetto. Il comune sentimento della morale Passando all’ambito extracodicistico, le disposizioni normative in cui è più evidente ed univoco il richiamo al sentimento quale oggetto di tutela sono gli artt. 14 e 15 della legge: l’art. stabilisce la rilevanza penale, ai sensi dell’art. c.p., di pubblicazioni destinate ai fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità e l’impressionabilità ad essi proprie, siano idonee a offendere il loro sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al delitto, al suicidio; l’art. 15 si rivolge parallelamente alla tutela di soggetti adulti, vietando la pubblicazione di stampati i quali descri- vano o illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il ‘comune sentimento della morale’ 63. Punto centrale delle fattispecie, che ne determina (fortunatamente) anche le difficoltà applicative, è l’esigenza di accertare l’idoneità delle condotte alla causazione di eventi determinati («favorire il disfrenarsi di istinti di violenza, diffondersi di suicidi o delitti»). Al fianco di tali eventi si pone l’offesa o il turbamento al sentimento morale, formula tanto eloquente quanto indeterminata: «fondata sopra un presupposto empirico e nebuloso di morale corrente, essa reca con sé tutti i pericoli che le norme ispirate a concetti vaghi, a intuizioni, a sentimenti porta- no sempre nella loro applicazione concreta» 64. L’accostamento esplicito fra il sentire e la morale trova probabil- mente la sua ragione nell’intento di introdurre una disposizione il più possibile assonante con l’art. c.p. (comune sentimento del pudore), rielaborando in termini più estensivi i divieti stabiliti in tema di buon costume sessuale65; una connessione che si motiva anche con l’obiettivo di trovare un aggancio costituzionale esplicito a un inte- resse che deve essere bilanciato con la libertà di espressione 66. l’ecosistema v. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino. Per una prospettiva socio-criminologica sul rapporto uomo-ambiente v. NATA- LI, Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Milano. Sul tema, per tutti, NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova; ID., I limiti della libertà di stampa nell’art. della legge, Arch. pen. NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, cit., p. 234. 65 Parla di ‘triplice oggetto del reato’ (sentimento della morale, ordine familia- re, ordine pubblico) NUVOLONE, I limiti della libertà di stampa. La connessione fra sentire, morale e buon costume emerge anche in C. cost., n. 9/1965, la quale ha ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sol-   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 81 Le sporadiche applicazioni confermano la centralità a livello teo- rico del nesso fra turbamento emotivo e offesa alla morale: appare significativa ad esempio una pronuncia della Corte di Appello di Ro- ma nella quale si nega la sussistenza della fattispecie in relazione alle immagini di una donna col cordone ombelicale attaccato, sulla base della motivazione che simili immagini non potrebbero provocare tur- bamento o orrore, e pertanto non offendono la morale. Il più eloquente contributo alla definizione dell’interesse protetto dall’art. 15 è la sentenza n. 293/2000, con la quale la Corte costituzio- nale ha ritenuto inammissibile l’eccezione di incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 21 Cost.: «L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema radiotelevisivo pubblico e privato dall’art. della legge, non intende andare al di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a “turbare il comune senti- mento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò che è comune alle di- verse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale contenuto mi- nimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la previsione incriminatrice denunciata. La descrizione dell’elemento materiale del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appa- re escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza» 68. Come è stato osservato in dottrina, tale sentenza ha compiuto un’operazione di rivisitazione/trapianto, finendo per concepire come vasi comunicanti il comune sentimento del pudore e il comune sentimento della morale attraverso il passepartout della dignità uma- levate in relazione all’art. c.p. (incitamento a pratiche contro la procreazione), osservando in motivazione che non diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei quali comporta in particolare la violazione del pu- dore sessuale, sia fuori sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità perso- nale che con esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può com- portare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di comportamenti contrari ed opposti. App. Roma, 13 maggio 1958, in Arch. pen. C. cost., n. 293/2000. Tali conclusioni sono state confermate in una succes- siva ordinanza che ha dichiarato la manifesta infondatezza della medesima ecce- zione di costituzionalità, v. C. cost. Tra sentimenti ed eguale rispetto na69. La chiosa della Corte, quando esclude censure di genericità e indeterminatezza, è alquanto frettolosa, per non dire superficiale, e fonda il discorso su un valore sì fondamentale, ma tutt’altro che definito nei risvolti applicativi. Merita attenzione la triade concettuale ‘sentimento-morale-di- gnità’: l’evocazione del sentimento è disgiunta da profili di reattività psichica, e dunque dall’aggancio a una dimensione individuale, po- nendosi come sinonimo di minimum etico. Il delitto di cui all’art. 15 della legge sulla stampa, pur essendo sostanzialmente inapplicato, riveste a nostro avviso importanza centrale, dal punto di vista teorico, nel ‘microsistema’ delle disposizioni a tutela di ‘sentimenti’; ne rivela i tratti più problematici, poiché attribuisce a stati affettivi come disgusto e orrore il ruolo di parametro etico per la valutazione di cosa possa considerarsi moralmente adeguato, riconoscendo dunque a tali emozioni un ruolo cognitivo-valutativo che oggi sappiamo essere tutt’altro che attendibile (vedi infra, cap. IV). 2.2. Lessico delle norme e piano fenomenico: sentimenti o emo- zioni? Un passaggio concettualmente importante consiste nel decodifica- re il richiamo giuridico a emozioni e sentimenti in rapporto all’alternativa fra concezioni meccanicistiche e concezioni valutative. A nostro avviso la chiave di lettura più funzionale all’analisi delle norme che l’ordinamento italiano pone a tutela di ‘sentimenti’ è la concezione valutativa: gli interessi denominati dal legislatore ‘senti- menti’ acquistano rilevanza normativa in virtù di una peculiare tra- iettoria dell’intenzionalità dello stato affettivo. Si tratta di un modo di concepire il sentimento del tutto simile al significato che Joel Feinberg propone quando analizza il cosiddetto ‘appello ai sentimen- VISCONTI C., Aspetti penalistici. Cfr. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, bilanciamento e propa- ganda razzista, Torino. Intendiamo il concetto di intenzionalità secondo l’accezione proposta da Searle, ossia «quella proprietà di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso, o sono relativi a oggetti e stati di cose del mondo, SEARLE, Sull’intenzionalità. Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Milano. In termini generali, sul concetto di intenzionalità v. GALLAGHER- ZAHAVI, La mente fenomenologica, cit., Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 83 ti’ nelle questioni etiche: il filosofo americano ritiene infatti che ciò a cui si fa riferimento non sia un mero stato emotivo, ma la peculiare risposta soggettiva che gli individui possono provare nel rapporto con determinati oggetti. È bene distinguere tra l’oggetto del sentire e la sindrome affettiva, quali elementi costitutivi delle entità psico-sociali che il diritto pren- de in considerazione. L’uso giuridico, in accordo col senso comune, adopera la categoria del sentimento in un modo che tende a fondere il profilo soggettivo dell’affettività con la sua proiezione esterna e dunque con l’oggetto del sentire 73. La distinzione fra sindrome affet- tiva e oggetto del sentire permette di tematizzare in modo separato i profili pertinenti da un lato alla selezione degli ‘oggetti emotigeni’, e dall’altra alla tipologia di stati affettivi che potrebbero eventualmente venire in gioco. L’oggetto del sentire è ciò che definisce il substrato materiale o ideologico dell’offesa: ad esempio si parla di sentimento religioso per dare rilevanza non a un astratto sentire ma quel genere di esperienza emotiva che ha a che fare con la fede religiosa. Stesso discorso per altri interessi definiti ‘sentimenti’: il sentimento del pudore come di- sposizione a provare un certo tipo di reazioni soggettive in rapporto a manifestazioni della sessualità; oppure il sentimento nazionale quale FEINBERG, Sentiment and sentimentality: «Unlike some emotions, sentiments are not mere objectless perturbations with subtle but neutral affective colorings. They too have an essential polarity to them (pleasant-unpleasant, friendly-unfriendly, postive-negative), though unlike attitudes, the positive or negative character of sentiments is not simply a “pro” or “con,” “for” or “against” posture. Some of the terms we apply to the objects of positive or negative sen- timents are themselves definable not in terms of the inherent properties of those objects but rather in terms of the sentiments they are thought naturally or properly to awaken. È significativo quanto osservato in ambito psicologico: in genere, le persone dichiarano sentimenti patriottici più o meno intensi in momenti diversi del- la loro vita; come sono tali sentimenti? L’ovvia risposta a tale domanda è che que- sti sentimenti non hanno alcun senso di esistere, per lo meno non al di fuori della tendenza del singolo a provare altri tipi di sentimenti (orgoglio, dolore, vergo- gna), nei quali la sua vita affettiva appare in linea con sorti della nazione. In tal senso, da un patriota ci si aspetta che provi gioia e orgoglio quando la sua nazione vince, dolore o compassione quando essa è in crisi, rabbia se è ingiustamente diffamata, e disperazione nella sconfitta umiliante. Pertanto, osservando attentamente la vita interiore e le abitudini di un patriota, non vi si troverà mai una traccia di quel sentimento particolare chiamato “patriottismo” al di fuori di quanto scritto sopra, v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro mo- di di pensare all’odio, a cura di Sternberg, Psicologia dell’odio. Cono- scerlo per superarlo, tr. it., Gardolo. Tra sentimenti ed eguale rispetto forma di partecipazione affettiva, ‘patriottica’, alle vicende della pro- pria nazione. Veniamo ad analizzare il versante della sindrome affettiva: qual è il fenomeno che appare più aderente alle situazioni descritte nel con- testo codicistico? Una importante differenza fra emozione e sentimen- to è identificabile nella consistenza e nella durata: l’emozione, secon- do quanto abbiamo precedentemente osservato in accordo con le ela- borazioni delle diverse branche dei saperi lato sensu psicologici, rap- presenta una componente dinamica del sentire, ossia uno stato men- tale di breve durata, caratterizzato da una predominante componente reattiva; il sentimento è uno stato più durevole e radicato. Parlare di una tutela di emozioni in senso stretto è improprio; ma appare non del tutto corretta con anche un’eventuale associazio- ne degli oggetti tutelati dal codice a stati psichici più duraturi. L’accezione che in relazione ai ‘sentimenti-valori’ consente di in- staurare una connessione ‘non irrealistica’ con la dimensione feno- menica è rappresentata a nostro avviso dal concetto di ‘disposizione individuale del sentire’: non un accostamento a emozioni in senso stretto e neanche a stati duraturi in quanto tali, ma piuttosto ad at- teggiamenti che delineano l’orientamento affettivo e assiologico della persona in conseguenza della maggiore o minore partecipazione emotiva nel rapporto con determinati oggetti e situazioni. Entità come il sentimento religioso, il sentimento del pudore et similia, appaiono funzionali a richiamare disposizioni soggettive a provare emozioni. Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di autodetermi- nazione Parlando di sentimenti come ‘disposizioni del sentire’ si potrebbe intendere il problema di tutela anche come protezione delle condi- zioni di formazione del sentire, e dunque come assenza di forme di coartazione psichica. In questo modo si finirebbe però per identificare nella libertà morale l’interesse di fondo, accomunando in modo improprio ambiti di intervento che restano ben distinti nel codice Cfr. FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti. Si veda anche l’impostazione di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula penale e che la dottrina ha contribuito anche di recente a definire nelle rispettive sfere di autonomia. Ci sembra più adeguato tenere in evidenza la distinzione concettuale e collocare la problematica dei ‘sentimenti-valori’ e delle dispo- sizioni del sentire a uno stadio nel quale la libertà morale, intesa come libertà di conservare la propria personalità psichica, di ragionare con la propria testa, di formarsi una propria fede religio-sa politica e di conservarla come di mutarla, sia da considerarsi elemento acquisito, e dunque come precondizione delle situazioni in cui possono eventualmente crearsi conflitti relativi al piano dei ‘sentimenti-valori’. Il tema della tutela da forme di turbamento emotivo e di coarta- zione psichica viene in gioco in relazione a un’altra fattispecie del codice italiano, anch’essa formulata attraverso il richiamo a stati af- fettivi, ossia il delitto di ‘atti persecutori’. La condotta tipica consiste nel porre in essere azioni di minaccia o molestia tali da ingenerare un perdurante e grave stato d’ansia e di paura, ossia stati psichici caratterizzati da un tono edonico negativo e dunque in grado di alterare l’equilibrio emotivo dell’individuo e la sua tranquillità 78. Si può parlare di tutela di sentimenti in un senso che contribuisce a rimarcare che l’interesse protetto ha a che fare in primo luogo con la dimensione affettiva del singolo; in questo senso si è ben sottoli- neato che il delitto di atti persecutori rappresenta l’avvio di un trend politico criminale «attento a consolidare la finora striminzita tutela codicistica dei sentimenti di stampo individuale, in luogo della classi- ca e per certi aspetti controversa tutela dei sentimenti di tipo collettivo virando verso una maggiore concretizzazione personologica del bene giuridico. La rilevanza giuridica dello stato affettivo non è però qualificata dall’oggetto del sentire, ma piuttosto dall’impatto 76 NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica; VITARELLI, Manipolazione psicologica e diritto penale, Roma. Quest’ul- tima si sofferma in particolare sulle interferenze fra tutela della libertà psichica e della libertà di manifestazione del pensiero osservando che il semplice utilizzo della parola, in assenza di violenza e inganno, resta comunque resistibile e dun- que non può considerarsi come forma di compressione della libertà morale. 77 È la cristallina definizione di VASSALLI, Il diritto alla libertà morale, in AA.VV., Studi giuridici in memoria di Filippo Vassalli, vol. II, Roma. Ex plurimis, MAUGERI, Lo stalking. COCO, La tutela della liber- tà individuale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli. CAPUTO, Eventi e sentimenti. Tra sentimenti ed eguale rispetto sull’equilibrio psico-fisico del soggetto. Non sono in gioco ‘sentimen- ti-valori’: nella fattispecie di atti persecutori il bene-sentimento as- sume una connotazione più psicologica che simbolico-valoriale. Il richiamo a stati affettivi nel delitto di stalking ha una funzione rilevante sul piano della tipicità: gli eventi emotivi descritti nella fat- tispecie devono essere oggetto di prova. L’alternativa di fondo è fra una concezione patologica, secondo la quale è necessario un accer- tamento medico-legale della sussistenza (quantomeno nel caso dello stato d’ansia) di disturbi diagnosticabili secondo un paradigma me- dico-psicologico80, e un orientamento differente secondo il quale è sufficiente un disagio accertabile in autonomia dal giudice 81. Appare comunque riduttivo appiattire il disvalore dello stalking sullo stimolo di sensazioni negative identificate attraverso standard cognitivi basati sul senso comune. La tipicità penale è imperniata su un’interazione di tipo psicologico e sulle conseguenti reazioni in- dotte nella vittima, e gli eventi psichici assumono rilevanza in un’ot- tica strumentale all’evento finale, sostanziandosi «in percorsi motiva- zionali diretti all’assunzione di una decisione da parte del soggetto passivo. Nel delitto di atti persecutori il fatto emozionale assume rilievo quale causa potenzialmente condizionante il comportamento e la vita di un soggetto. Non dovrebbe essere sufficiente un mero stato edoni- co negativo, ma si dovrebbe, a nostro avviso, verificare la sussistenza di stimoli emotivi tali da produrre alterazioni della funzionalità di scopo nella complessiva economia di azione dell’individuo: forme di turbamento psicologico che la dottrina penalistica ha collocato nella 80 BRICCHETTI-PISTORELLI, Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida dir., 10/2009, pp. 58 s.; cfr. BARBAZZA-GAZZETTA, Il nuovo reato di atti persecutori, in Altalex. VALSECCHI, Il delitto di atti persecutori (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen. A favore di una concezione intermedia si pongono FIANDA- CA-MUSCO, Diritto penale. Parte speciale, Bologna; CAPUTO, Eventi e sentimenti. In giurisprudenza è discusso se debba trattarsi di uno stato tale da integrare gli estremi di una malattia mentale; per ora sembra prevalere l’orientamento che non richiede l’accertamento di uno stato patologico, ritenendo sufficiente che gli atti ritenuti persecutori «abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima», così Cass. pen., sez.; cfr. Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez. In questo senso la condivisibile posizione di NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica. Così li definisce efficacemente CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1400.  Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 87 categoria della ‘sofferenza psichica’, corrispondenti a «un’alterazione della mente nella sua consistenza, né più né meno di quanto possa accadere ad una macchina danneggiabile; ed un’alterazione del fun- zionamento di questa ‘macchina’ come entità diretta ad uno scopo, secondo una prospettiva nella quale la sofferenza emerge come misu- ra eccessiva di frustrazione di tale scopo, a prescindere dal danneg- giamento della macchina La definizione di sentimento come connotazione simbolica negativa nel discorso penalistico Attraverso un excursus sulle norme di diritto positivo abbiamo cercato di dare una dimensione al versante descrittivo della formula ‘tutela penale di sentimenti’. Passiamo ora a considerare il profilo che abbiamo definito ‘connotativo’ e che attiene alla dimensione teoreti- co-speculativa. Nel discorso penalistico è oggi frequente l’uso della parola ‘senti- mento’ per definire in termini critici oggetti di tutela la cui fisiono- mia appare difficilmente determinabile, esposti al rischio di interpre- tazioni soggettivistiche e suscettibili di incentivare problematiche espansioni dell’intervento penale; il lessico dei sentimenti non emer- ge in questo caso da norme, ma dai discorsi dei giuristi. L’interrogativo concernente la tutelabilità di sentimenti per mezzo del diritto penale ha tradizionalmente suscitato la diffidenza della dot- trina penalistica, non solo nel panorama italiano ma anche nel conte- sto europeo-continentale85: più in generale, il pensiero penale che NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica. Ampio consenso sussiste circa il fatto che l’utilizzo di norme penali è il- legittimo quando si tratti di tutelare sentimenti o rappresentazioni morali o di valore», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico? Nella dottrina tedesca, il richiamo a sentimenti è presente nello storico saggio di BIRNBAUM, Über das Erfoderniß einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts, Neue Folge, Vi è poi l’analisi di MISCH, Der Strafrechtliche Schutz der Gefühle, Frankfurt am Main. Le opere successive mantengono il focus sul problema della configurabilità come bene giu- ridico (Rechtsgut) soffermandosi su un’analisi che privilegia l’aspetto dogmatico piuttosto che la dimensione di politica del diritto; cfr. VOLK, Gefühlte Rech- tsgüter?, in FS für Roxin, Berlin; SEELMAN, Verhaltensdelikte: Kulturschutz durch Recht?, in FS für Jung,  Tra sentimenti ed eguale rispetto identifichi la propria guida assiologica nei principi liberali ha da sempre un rapporto problematico con le norme a tutela di sentimenti. Le motivazioni non si limitano a questioni di tassatività e deter- minatezza delle fattispecie, ma hanno a che fare con ragioni di politi- ca del diritto: dietro gli oggetti di tutela definiti ‘sentimenti’ i legisla- tori hanno di fatto apprestato forme di presidio a valori, ossia a con- cezioni della vita buona, o della morale sessuale, o in generale a con- cezioni normativo-ideali. Le norme a tutela di sentimenti hanno dunque un altissimo coefficiente di pregnanza etica e riflettono at- teggiamenti valoriali di fondo la cui tutela per mezzo del diritto pena- le può rappresentare un fattore di alterazione degli equilibri fra mag- gioranze e minoranze in un contesto pluralista. Non deve dunque sorprendere il fatto che il problema della tu- tela di sentimenti rappresenti un capitolo importante nel discorso sulla legittimazione delle norme penali, per quanto spesso non venga richiamato attraverso la formula che qui stiamo analizzan- do, ma si trovi inserito all’interno di altri macrotemi; ad esempio nel discorso concernente i rapporti fra diritto penale e morale 88 o Baden-Baden; più diffusamente HÖRNLE, Grob anstößiges Verhalten. Strafrechtlicher Schutz von Moral, Gefühlen und Tabus, Frankfurt, Nella dottrina spagnola v. ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal.; GIMBERNAT ORDEIG, Presentaciòn, a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo- Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Fundamento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, Madrid-Barcelona. Cfr. HÖRNLE, La protecciòn de sentimientos en el StGb, a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo-Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Funda- mento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico? Cfr. TESAURO, La propaganda razzista tra tutela della dignità umana e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen. Il richiamo a sentimenti ed emozioni intrattiene un legame particolarmente stretto con i problemi relativi al rapporto tra diritto penale e morale; nella pro- spettiva liberale l’incriminazione di condotte ritenute contrarie a dettami morali o a tabù in assenza di veri e propri danni viene motivata, in termini critici, quale violazione di un sentire. Se da un lato le incriminazioni, o le ipotesi di incriminazione, di violazioni morali vengono definite criticamente come offese a sentimen- ti, non bisogna tuttavia inferire frettolosamente la veridicità dell’eventuale per- corso logico inverso, ossia che anche tutte le ipotesi di tutela di un particolare sentimento costituiscano delle proiezioni del più ampio problema della punizione della mera immoralità: sarebbe infatti una conclusione che pecca di genericità e non consentirebbe di riservare la dovuta attenzione ai diversi problemi di tutela, anche non meramente ‘moralistici’, che potrebbero ragionevolmente emergere dietro l’evocazione di un sentimento. Sul tema della punizione dell’immoralità, in una prospettiva che mette in dialogo i criteri di legittimazione di matrice euro- peo-continentale e anglo-americana, v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 89 in relazione al problema del paternalismo penale 89. Nella dottrina italiana le perplessità di fronte a istanze di tutela caratterizzate da una componente emozionale sono inizialmente formulate in contesti di analisi incentrati su temi di diritto positivo o di teoria generale del reato, e mantengono un angolo visuale definibi- le come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’. Risulta particolarmente significativo il richiamo che viene fatto al sentimento in un autorevole studio sul bene giuridico 90: nell’esporre Un vecchio interrogativo che tende a riproporsi, a cura di Cadoppi, Lai- cità, valori, e diritto penale. The Moral Limits of The Criminal Law. In ricordo di Joel Feinberg, Milano; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, in Riv. it. dir. proc. pen., CADOPPI, Paternalismo e diritto penale: cenni introduttivi, in Criminalia; ID., Liberalismo, paternalismo e diritto penale, a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale; CANESTRARI- FAENZA, Paternalismo penale e libertà individuale: incerti equilibri e nuove prospettive nella tutela della persona, a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale; CORNACCHIA, Placing care. Spunti in tema di paternalismo penale, in Criminalia; PULITANÒ, Paternalismo penale, a cura Forti- Bertolino-Eusebi, Studi in onore di Romano; ROMANO, Danno a sé stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.; SPENA, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibat- tito sui principi di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen. Con riferimento al tema del potenziamento cognitivo, v. ZANNOTTI, Potenziamento umano: le considerazioni di un penalista, a cura di Palazzani, Verso la sa- lute perfetta. Enhancement tra bioetica e biodiritto, Roma. ANGIONI F., Contenuto e funzioni del concetto di bene giuridico, Milano. Sul tema è d’obbligo il riferimento a BRICOLA, Teoria generale del reato, in Noviss. dig. it., Torino; v. anche MAZZACUVA, Diritto penale e Costituzione,  a cura di Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti, Intro- duzione al sistema penale, III ed., Torino, 2006, pp. 83 ss. Fra le opere che hanno avuto maggiore rilievo per l’elaborazione di un concetto di bene giuridico costitu- zionalmente orientato v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit.: anche in questo caso il problema nasce dalla problematica fisionomia dell’oggetto di tute- la, il quale secondo alcune correnti interpretative viene fatto coincidere con un sentimento soggettivo. Per una panoramica sui differenti sviluppi della teoria del bene giuridico nei rapporti con la Costituzione, v. FIANDACA, Il bene giuridico come problema teorico e come criterio di politica criminale, a cura di Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, Milano; DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Padova; ID., Ragioni e limiti della fondazione del diritto penale sulla Carta costitu- zionale, in ID., Alla ricerca di un disegno. Scritti sulle riforme penali in Italia, Padova; per un raffronto con la giurisprudenza costituzionale, v. PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia costituzionale, a cura di Stile, Bene giu- ridico e riforma della parte speciale, Napoli.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto la problematica relativa a fattispecie penali che sembrerebbero rivol- gersi esclusivamente alla tutela di principi etici, si osserva che «con la realizzazione di un fatto che contrasta con quelle norme etiche si ur- ta in pari tempo, o si può urtare, contro i sentimenti di quella parte della popolazione che in quei principi morali crede, o che addirittura attribuisce loro tale rilievo da averne, come forza politica o culturale organizzata, difesa la conservazione al rango di valori penali. Offendere valori può significare offendere i sentimenti di chi crede in quei valori: questa, in sintesi, la motivazione che, secondo Angioni, sarebbe a fondamento di norme quali, ad esempio, quelle a tutela del pudore e del sentimento religioso. Il riferimento a sentimenti appare in questo caso finalizzato a in- centrare il fuoco del disvalore su un bene della persona, così da poter rinvenire una base di legittimità ancorata a una prospettiva persona- listica di danno, o comunque non meramente moralistica. Non si tratta però di una soluzione appagante, in quanto, rileva successiva- mente lo stesso Autore, resta aperto il problema della necessità e del- la meritevolezza di pena: la considerazione che l’offesa a un senti- mento sia un criterio di per sé sufficiente a fondare il ricorso allo strumento penale sembra cozzare contro un naturale senso di proporzione e di misura. L’argomentazione che Angioni espone tramite categorie endopenalistiche (principio di proporzione) rimanda in ultima istanza a ra- gioni che hanno a che fare con valori di fondo della democrazia libe- rale e con i principi costituzionali: ritenere che l’offesa a meri senti- menti non sia sufficiente a fondare una criminalizzazione legittima è l’esito di un ragionamento che assume a presupposto un pacchetto di principi di ispirazione liberale, laicità ed uguaglianza in primis 93. Ciò mostra come il discorso sia tutt’altro che limitabile a un piano tecnico-giuridico, ma investa in pieno la dimensione politica del pro- blema penale, anche in forza dei profondi nessi che legano, in termini di interdipendenza, la presenza di oggetti di tutela ad alta pregnanza etica, come i ‘sentimenti’, in rapporto alla laicità dell’ordinamento. ANGIONI F., Contenuto e funzioni. ANGIONI F., Contenuto e funzioni.  È stato messo in evidenza come, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, la riflessione sul dover essere del diritto penale si sia fondata non tanto sull’affinamento di principi ‘endopenalistici’, compreso il c.d. ‘bene giuridico’, ma piuttosto sul principio di uguaglianza, il quale ha assunto un ruolo decisivo nel contribuire a delineare i cardini del costituzionalismo penale: v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 91 Sulla base di questa consapevolezza la dottrina penalistica si è impegnata in un’opera di reinterpretazione delle diverse disposizioni del codice Rocco, offrendo un importante contributo al consolida- mento di un ideale di democrazia penale laica e costituzionalmente orientata 94. Esempi emblematici sono gli studi sui delitti di religione e sui rea- ti a tutela del pudore, ad opera rispettivamente di Placido Siracusano e di Giovanni Fiandaca. Con riferimento ai delitti di religione, Siracusano sottopone a cri- tica il modello del cosiddetto ‘bene di civiltà’ e del sentimento religio- so collettivo: «al bene giuridico sentimento religioso individuale si addice, di regola, una protezione penale dalle caratteristiche fonda- mentalmente “liberali”; o perlomeno dai tratti più aperti e tolleranti possibile» 95, tale dunque da attribuirgli un respiro costituzionale che invece non è riconducibile al paradigma del cosiddetto ‘bene di civil- tà’. L’approdo finale è di segno abrogazionista, ossia a sostegno di un ordinamento penale che non contempli fattispecie poste specifica- mente a presidio del sentimento religioso. Siracusano lascia comun- que intravedere la possibilità che attraverso un riorientamento in senso personalistico si possa realizzare una intervento penale compa- tibile con i principi costituzionali, e precisamente come apertura ver- so qualsiasi ideale di trascendenza, in quanto manifestazione della coscienza ed espressione della personalità dell’individuo 96. Anche i reati contro la cosiddetta ‘moralità pubblica’ e il comune sentimento del pudore sono stati oggetto negli anni ’80 di un’analisi che, orientata a spezzare i legami con l’impostazione del codice, so- stiene una riconversione in termini personalistici dell’interesse pro- tetto: dalla moralità pubblica alla riservatezza sessuale di quanti non intendano fruire di un certo tipo di manifestazioni. Si deve a uno studio di Giovanni Fiandaca la critica decisiva al moralismo conservatore che impregnava l’universo applicativo delle fattispecie a tutela del cosiddetto ‘comune sentimento del pudore’, a sostegno di un cambio di direzione per il rispetto di diritti di libertà 94 Come autorevolmente osservato, «la laicità del diritto penale esprime in qualche modo addirittura la sintesi e in un certo senso il coronamento del costi- tuzionalismo penale essa evoca lo “spirito” più profondo del costituzionali- smo penale», V. PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia sostanziale, SIRACUSANO, I delitti in materia di religione. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione. Tra sentimenti ed eguale rispetto che trovano riconoscimento nella Carta costituzionale, e che risulta- vano compressi dai modelli di intervento del codice Rocco e da orien- tamenti illiberali della giurisprudenza. Presupposto di fondo è che in una società liberale e pluralista lo Stato non debba ergersi a tutore della virtù 97. Il legame col sentimen- to – schermo retorico che ammanta di una patina personalistica l’impianto di tutela – viene radicalmente confutato: «non sarebbe suf- ficiente asserire che il danno provocato dai comportamenti contrari al buon costume consiste nell’“offesa ai sentimenti nel passaggio dal bene moralità al bene sentimento, il mutamento della dimen- sione qualitativa dell’oggetto della tutela è appena percepibile: quest’ul- timo finisce infatti col trasferirsi nel riflesso psicologico di una regola etica di condotta» 98. Sotto un profilo metodologico l’angolo visuale adottato nei sud- detti studi appare ancora definibile come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’: in altri termini, la tematizzazione del pro- blema resta incentrata su profili che attengono precipuamente le scelte di intervento del codice. In questo senso, l’approccio muove dalla so- luzione normativa, e tende a seguire un percorso d’analisi che man- tiene come referente primario gli schemi d’intervento descritti nelle fattispecie di reato. Fulcro dell’interesse è la risposta normativa; più circoscritto è lo spazio per l’analisi della dimensione extragiuridica del fenomeno. In tempi più recenti, a partire dagli anni Duemila, il tema dei sen- timenti è divenuto oggetto di un rinnovato interesse da parte della dottrina, caratterizzato da mutamenti nell’apparato concettuale e da una maggior propensione a estendere lo studio a profili extragiuridi- ci. Si tratta di un ammodernamento che porta a superare lo statico quesito sulla configurabilità o meno del sentimento come oggetto di tutela, andando a tematizzare in termini più complessi la questione dell’incidenza dei fattori emotivi sulle scelte di politica penale, ossia del rilievo della componente affettiva come elemento che concorre a integrare l’oggetto di tutela anche senza identificarsi espressamente con esso 99. In questo senso l’orizzonte di problemi additato dalla formula ‘tu- tela di sentimenti’ viene esteso al di là degli ambiti tradizionali, favo- rendo una riflessione critica sulla consistenza di interessi di tutela FIANDACA, Problematica dell’osceno. FIANDACA, Problematica dell’osceno. Si veda, ad esempio, ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 93 che apparentemente non evidenziano una matrice affettiva, ma che ad uno sguardo attento rivelano una forte pregnanza emozionale. È emblematico un saggio di Giovanni Fiandaca dedicato ai rap- porti tra bioetica e diritto penale, nel quale, definendo criticamente delle innovazioni legislative come riflesso di un clima sociale e politi- co italiano tendente a una rieticizzazione del diritto, l’Autore rileva che ai sentimenti e ai fenomeni a essi correlati spetti un ruolo tut- t’altro che secondario nell’economia del dibattito pubblico e soprat- tutto nelle scelte di politica del diritto volte a disciplinare i cosiddetti ambiti ‘eticamente sensibili’. Il terreno della bioetica si trova infatti a essere soggetto a contrapposizioni fondate su «timori e reazioni emo- tive che hanno a che fare con la sfera più irrazionale ed oscura di ciascuno, ossia reazioni di orrore, spavento, raccapriccio, disgusto, definite dall’Autore «sentimenti e sensazioni»; reazioni emotive che possono indurre un uso distorto della politica penale tramite divieti assimilabili a mero palliativo psicologico per i cittadini. La parificazione di istanze di tutela penale a meri sentimenti è una strategia di critica argomentativa che diverrà sempre più frequente. Prendiamo ad esempio il discorso sulla dignità umana 102. Si tratta di un valore caratterizzato da una spiccata componente emozionale che la rende strumento retorico particolarmente efficace, ma che la 100 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, tra laicità e “post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen. FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 554. 102 Ad oggi nel panorama penalistico lo studio più approfondito è quello di TE- SAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 89 ss. Il tema della dignità umana come bene penalmente tutelabile è oggetto di riflessioni critiche in FIAN- DACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali; ID., Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione, in Jus; più favorevole a un recupero (tramite un uso accorto e non inflazionistico) del concetto di dignità umana, PULITANÒ, Etica e politica del diritto penale ad 80 anni dal Codice Rocco, in Riv. it. dir. proc. pen. Nella dottrina tedesca si veda l’importante saggio di HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, in Ars interpretandi; profili critici del concetto di dignità in ambito pe- nalistico sono evidenziati anche in ZIPF, Politica criminale, tr. it., Milano. Nel panorama statunitense, per una sintesi del dibattito v. MCCRUDDEN, Human Dignity and Judicial Interpretation of Human Rights, in The European Journal of International Law; per una panoramica di taglio più divul- gativo v. ROSEN, Dignità. Storia e significato, tr. it., Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto espone contemporaneamente al rischio di tramutarsi in un «bene- ricettacolo dei sentimenti di panico morale o delle reazioni emotive sgradite da cui veniamo sopraffatti di fronte a fatti o eventi insoliti o nuovi che contraddicono modelli morali consolidati ovvero esulano da una radicata autocomprensione antropologica dell’identità dell’essere umano» 103. Definire la dignità umana è certo impresa ardua, ma è ragionevole ritenere che tale valore e il suo universo di significato non debbano es- sere intesi come mero riflesso di percezioni soggettive (vedi infra, cap. V). Si tratta di un rischio che trova esemplificazione in una incrimina- zione oggi fortemente discussa, ossia il divieto di propaganda razzista, definita «norma che si colloca a metà strada tra ‘tutela penale dei sen- timenti’ e ‘funzione (pedagogico-)promozionale del diritto penale. Altro interesse che rivela una problematica osmosi con la dimen- sione affettiva è la cosiddetta ‘sicurezza’, la cui fisionomia è alquanto nebulosa e rischia di essere intesa come «fonte di obblighi legislativi di penalizzazione in funzione ansiolitica. Anche dietro il problema che nel discorso penalistico è stato definito come ‘sicurezza pubblica’ si può scorgere una matrice emotiva: la paura della criminalità, intesa come emozione di risposta a una minaccia, reale o semplicemente percepita. Tale argomento è oggetto di studio soprattutto in ambito criminologico107, nel quale è stato osservato come la pervasività in ambito collettivo della paura non sia dovuta tanto alla percezione dei singoli cittadini, ma finisca per essere esito di un’insicurezza sovente manipolata108 attraverso stereotipi e modelli culturali che si incardi- FIANDACA, Sul bene giuridico. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 95. 106 Benché non vada dimenticato che dietro le istanze securitarie mobilitate dalla collettività vi possono essere, oltre a pretese meramente emotive, anche bi- sogni reali di tutela, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale. Sul tema, in un’ottica critica riguardante le manifestazioni del trend securitario a partire dagli anni Duemila, v. CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Milano; HASSEMER, Sicurezza mediante il diritto penale, tr. it., in Critica del diritto; DONINI, Sicu- rezza e diritto penale, in Cass. pen., 10/2008, pp. 3558 ss.; PULITANÒ, Sicurezza e di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.; per uno sguardo d’insie- me v. a cura di Donini-Pavarini Sicurezza e diritto penale, Bologna. Per tutti, CORNELLI, Paura e ordine nella modernità. DURANTE, Perché l’attuale discorso politico-pubblico fa leva sulla paura?, FILOSOFIA POLITICA – non POLITICA FILOSOFICA, Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 95 nano nelle strutture istituzionali o che vengono diffuse attraverso i mass media 109, in un processo di circolarità dove l’insicurezza è al con- tempo motivo di crisi e motore di legittimazione per le istituzioni 110. Il problema della tutela di sentimenti ha portato la riflessione penali- stica a meditare anche sugli strumenti concettuali per lo sviluppo del di- scorso: da un lato la teoria del ‘bene giuridico’ di matrice continentale, dall’altra lo Harm e l’Offense Principle di matrice anglo-americana. È emblematico in questo senso un saggio di Massimo Donini il qua- le evidenzia come anche il ricorso alle categorie anglo-americane sem- bri deludere aspettative di oggettività delle scelte di criminalizzazione, in quanto tali categorie «sono spesso definite mediante un utilizzo ambiguo della categoria dei sentimenti. Troppi sentimenti sia nell’Of- fense (che si definisce proprio in quanto più sentimentale che dannosa, più irritante che dolorosa) e sia anche nello Harm, che si fonda pur sempre (specialmente in Feinberg) sul postulato che la lesione dell’in- teresse produca un dolore, una sofferenza nel suo titolare. Sullo specifico punto concernente la tutela di sentimenti la con- clusione dell’Autore è netta: «la tutela specifica dei sentimenti costituisce un esempio incon- gruo di diritto penale orientato all’irrazionalità delle funzioni il di- ritto penale non tutela meri sentimenti anche se talora lo stesso codice penale si esprime in questi termini, ma tutela la loro obiettivazione in situazioni sociali, in interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto che essi vengono tutelati a prescin- dere dalla prova di quella percezione in capo a un qualche individuo determinato. La ragione per la quale non è possibile la tutela di- retta ed esclusiva come oggetto “giuridico”, dei sentimenti, neppure ovviamente dei sentimenti “morali”, è costituita dal fatto che essi non sono un oggetto giuridico, e non possono esserlo per carenza di tassa- tività. È infatti necessario che il sostrato umano fondamentale in cui si sostanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle persone, si ancori a realtà socio normative più afferrabili e gestibili» 112. Così formulata tale osservazione sembrerebbe fondarsi prevalen- CORNELLI, Paura e ordine nella modernità. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti.Tra sentimenti ed eguale rispetto temente su ragioni epistemologiche: carenza di tassatività come ‘non afferrabilità’ e dunque sostanziale ‘non verificabilità’ secondo i prin- cipi che sovrintendono la responsabilità penale. Diverse le obiezioni avanzate in dottrina, le quali convergono so- stanzialmente nell’osservare che il pur ragionevole argomento della non-tassatività dei sentimenti non è decisivo, e rischia di anticipare troppo con interrogativi sul piano della tipicità che paiono non offri- re adeguato spazio alla problematica questione dei bilanciamenti che dovrebbero fondare la legittimazione dei precetti. Si rischia, insom- ma, di «chiudere la partita prima che cominci. Il monito circa la carenza di tassatività coglie un aspetto rilevante ma che non pare sufficiente a escludere in via di principio la legitti- mità di interventi penali. La questione cruciale è «se e quale tutela [sentimenti ed emozioni] possano chiedere, a fronte di comporta- menti e manifestazioni espressive del sentimento di altri, nel contesto di una società aperta. Tirando le fila del discorso, appare evidente come il mainstream penalistico mostri una sostanziale diffidenza nei confronti del tessuto emotivo. Si tratta di caveat condivisibili, ma che riteniamo non deb- bano essere letti, frettolosamente, come avallo di posizioni ‘veterora- zionalistiche’ che ancora concepiscano in termini dicotomici i rapporti fra emozioni, sentimenti e diritto penale, o che intendano negare gli influssi della dimensione affettiva sull’impianto teorico e prati- co della criminalizzazione. La plausibilità di tali cautele trova una solida base in studi che hanno evidenziato la possibile inaffidabilità delle emozioni a causa di contenuti cognitivi falsi, abnormi o più semplicemente incompatibili con i valori di un ordinamento liberale. Così TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana; cfr., FIANDA- CA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti. A ben vedere, va ricono- sciuto che l’argomentazione di Donini sembra andare oltre la questione della me- ra tassatività quando richiede «che il sostrato umano fondamentale in cui si so- stanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle per- sone, si ancori a realtà socio-normative più afferrabili e gestibili: non solo da par- te della magistratura, ma prima ancora da parte del legislatore, onde evitare i ri- schi immanenti di un diritto penale irrazionale». Il richiamo a realtà socio-nor- mative, e non meramente empirico-fattuali, lascia intendere un disvalore leggibile non solo in termini di suscettibilità individuale, ma misurabile alla stregua di va- lori che lo facciano apparire ragionevole e non semplicemente riflesso di un so- lipsistico puntiglio. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. La studiosa che di recente si è impegnata a rivendicare l’‘intelligenza   Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 97 Si tratta di prendere atto di una complessità di fondo, riflettendo su quali siano i contenuti di pensiero che possono rendere l’emozione e il sentimento interlocutori inaffidabili per il diritto penale, riser- vando però la dovuta attenzione anche a prospettive differenti, orien- tate a vagliare anche il potenziale di interazione virtuosa che potreb- be generarsi da un intelligente ‘ascolto’ delle emozioni e dei senti- menti. Tale ultima istanza trova oggi riscontro anche nel panorama pena- listico italiano, grazie a contributi che hanno messo a tema ipoteti- che, auspicabili interazioni fra diritto penale e dimensione affettiva quale coordinata per una più realistica e consapevole attenzione al profilo umano delle questioni oggetto di interesse penalistico. 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali Vi sono opere, di taglio differente, che fanno espresso riferimento alla dimensione affettiva e al ruolo positivo dell’emozione e del sen- timento quali elementi di comunanza e quali possibili vettori di rico- noscimento reciproco fra essere umani; non si tratta si riflessioni propriamente incentrate sul sentimento come problema di tutela, ma di profili legati al rapporto fra emozioni, sentimenti, genesi e struttu- ra dei precetti penali. delle emozioni’, affermandone l’imprescindibile ruolo anche nelle strategie di politica penale, ha d’altro canto fornito una delle più approfondite e convin- centi analisi sul potenziale anche negativo che determinati atteggiamenti emotivi possono assumere in rapporto alla legiferazione e all’applicazione di norme penali, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, Merita menzione, per quanto sui generis, la posizione espressa diversi de- cenni fa da Giuseppe Maggiore, la quale, pur derivando da un retroterra episte- mico ed ideologico profondamente differente dalle elaborazioni degli autori contemporanei, costituisce nel panorama penalistico italiano una emblematica af- fermazione del ruolo positivo del sentimento. In una serrata critica al pensiero che vorrebbe ricondurre il diritto a mero sillogismo, a puro «congegno di giudizi logici», lo studioso siciliano rivendica l’importanza di una ‘vocazione affettiva’, di un quid che possa offrire un senso alla mera logica formale. Ogni mediocre interprete sa bene che l’applicazione del diritto non si riduce a un accostamento meccanico tra la legge e il caso concreto: ma che occorre valutare, ossia sentire giuridicamente la fattispecie – in tutti i suoi lineamenti, in tutte le sue ombre e sfumature – per ridurla sotto l’impero della norma un giudizio puramente e freddamente logico può essere iniquo: nel clima della nuda logica il jus può trali- gnare facilmente in injuria», v. MAGGIORE (si veda), Il sentimento nel diritto, in Giornale critico della filosofia italiana. Tra sentimenti ed eguale rispetto Ad esempio, in relazione alle condizioni di osservanza della legge penale si è definita la forma idealtipica del diritto penale come dirit-to del comune sentire (declinato rispettivamente in forma di principi e di regole/precetti) che dovrebbe trovare cioè nei consociati il più alto grado di corrispondenza ideale, di consonanza soggettiva e dunque di adesione spontanea. Muovendo da presupposti differenti, si è invece osservato, con ri- ferimento allo specifico ambito della regolamentazione normativa in materia bioetica, che la ricerca di risposte normative dovrebbe assu- mere a riferimento anche l’emozione che scaturisce nei soggetti di fronte a un fatto bioeticamente rilevante. In altri termini, viene ipo- tizzata una relazione tra la componente emotiva che caratterizza le scelte individuali e la possibilità che, valorizzando nelle statuizioni normative elementi fattuali suscettibili di attivare una comune reatti- vità emozionale, sia possibile addivenire a una maggiore condivisibi- lità dei precetti. In risposta all’opinione di chi non ritiene che il diritto penale pos- sa tutelare sentimenti viene obiettato che «non può escludersi che, quanto meno in materia di bioetica, il diritto penale, se vuole trovare la sua legittimazione, ben possa, anzi debba, tutelare, in un certo senso, i sentimenti ed addirittura il sentimento del caso concreto, senza per ciò trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovvi- ste di sostrato empirico, ma recuperando, al contrario, insieme alla concretezza, altresì la prospettiva di un giudizio, se non condiviso, quanto meno diffuso. Nelle linee tracciate da tali Autori viene attribuita al sentimento la funzione di parametro per l’‘accreditamento etico’ delle norme penali MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti: il lungo cammino del di- ritto penale incontro alla democrazia, in MAZZUCATO-MARCHETTI, La pena in castigo. Un’analisi critica su regole e sanzioni, Milano. GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Si tratta di un programma teorico che propone «una rinuncia, pur con tutte le cautele del caso, a parte della rigidità e della predeterminazione del precetto, per consentire a quest’ultimo di plasmarsi sul fatto concreto, di valorizzarne le nuances» Un ango- lo visuale che assume il fenomeno del sentire in una accezione che potremmo de- finire ‘naturalistico-emozionale’. La funzionalità del precetto sembra infatti legar- si alla condizione che esso arrivi a contenere elementi fattuali ad ‘alta carica emo- tiva’: «si porrebbero così le condizioni perché giochi una empatia che, facendo un punto di forza della sua natura prosaicamente biologica ed umana, possa svolgere la funzione di coordinata epistemologica nei suddetti ambiti del penale», v. EAD., Un diritto penale empatico? GIOVINE, Un diritto penale empatico? Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 99 e più in generale per la legittimazione dell’intervento penale. Tra le due posizioni sussiste però una profonda differenza: nella prospettiva di Claudia Mazzucato il ‘comune sentire’ pare doversi intendere in termini normativi, ossia quale richiamo a valori condivisi modellati su «dati umani, stabili, trasversali, da sempre validi»120; la strada suggerita da Giovine fa riferimento a un sentire ‘natura- listico’, ossia a un sostrato di reazioni emotive condivise che dovreb- bero costituire punto di riferimento per le scelte del legislatore nelle materie eticamente sensibili. A tali studi va affiancato un importante contributo dedicato al tema delle ragioni extrapenali della legittimazione della legge penale, il quale, sulla base di recenti acquisizioni della filosofia morale che evidenziano come le emozioni siano fra le condizioni della nostra ri- cettività alle considerazioni razionali e morali, afferma che ogni concretizzazione del giudizio penale, dalla previsione edittale fino al- la applicazione della sanzione comminata, se non vuole limitarsi a pretendere la pura «obbedienza degli uomini-bambini», debba espri- mere una qualche coerenza rispetto a un tale ‘comune sentire. Vediamo come anche in questa teorizzazione le emozioni figurino in una veste emancipata da negatività e irrazionalità, e si propongano nel ruolo di coordinata epistemica per la ricerca di un terreno di incontro tra la forza motivazionale del giudizio morale e le ragioni di un’osservanza dei precetti che sia ‘sentita’ e non solo imposta. Il rinnovato, e per certi versi inedito, interesse che i fenomeni del sentire assumono oggi in diverse branche del sapere – dalla psicolo- gia, alle neuroscienze, alla filosofia morale – sta avendo dunque riflessi anche nel pensiero penalistico: la prospettiva di analisi incen- trata sul sentimento come oggetto di tutela resta tema classico, ma i suddetti ulteriori spunti rappresentano un’importante base di rifles- sione che arricchisce, con promettenti intrecci con la dimensione morale, il discorso sulla legittimazione delle norme penali e sull’os- servanza dei precetti. 120 Così lo definisce MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti, FORTI, Le ragioni extrapenali, BAGNOLI, Introduction, Bagnoli, Morality and the Emotions, FORTI, Le ragioni extrapenali, Tra sentimenti ed eguale rispetto 4. Sinossi Addentrandoci nel microcosmo giuridico, emergono due possibili accezioni nel significato della formula ‘tutela di sentimenti’: la prima, descrittiva, concerne il panorama delle disposizioni in cui il senti- mento è espressamente evocato quale oggetto di tutela; la seconda, connotativa, coincide con l’uso che della categoria del sentimento viene fatto nel discorso penalistico, ossia in una funzione prevalentemente critica. L’accezione descrittiva ci conduce verso l’analisi delle fattispecie codicistiche ed extracodicistiche: un panorama variegato che con- templa due differenti declinazioni del sentimento. La prima, del tutto tendente alla ‘depsicologizzazione’, nella quale non entrano in gioco fenomeni psichici bensì sentimenti-valori; la seconda, più vicina alla dimensione naturalistica del sentire, si ricollega a fattispecie come gli ‘atti persecutori’, volte a tutelare la tranquillità psicologica come bene strumentale rispetto alla libertà di autodeterminazione. Relativamente all’accezione connotativa e ai discorsi dei giuristi penali, il tema della tutela di sentimenti ha rappresentato uno dei terreni in cui si è giocata la sfida culturale per il superamento dei modelli illiberali di incriminazione del codice Rocco, fungendo in questo senso da ‘trampolino teoretico’ per il consolidamento dell’in- terpretazione costituzionalmente orientata degli interessi di tutela penale. Attualmente i rischi di torsioni illiberali veicolate dall’appello a sentimenti ed emozioni si legano alla incerta fisionomia di beni e in- teressi caratterizzati da una marcata componente emozionale (digni- tà, sicurezza). A fronte di tali istanze di tutela il mainstream penali- stico tende a mantenere una forte diffidenza. Non vanno tuttavia trascurate anche le prospettive di interazione virtuosa fra dimensione affettiva e diritto penale, concernenti in par- ticolare il ruolo di sentimenti ed emozioni nelle dinamiche di adesio- ne e di osservanza del precetto. FRA DIRITTI ED EMOZIONI: ITINERARI E PROSPETTIVE Tra sentimenti ed eguale rispetto  Sensibilità individuali e libertà di espressione SENSIBILITÀ INDIVIDUALI E LIBERTÀ DI ESPRESSIONE Espressioni ed emozioni: prospettive di approccio «Troppo spesso ci capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un re- pertorio emozionale adatto alle esigenze del Pleistocene» GOLEMAN D., Intelligenza emotiva: Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuove pro- spettive di analisi. Approccio ‘naturalistico-emozionale. La prospet- tiva dell’Offense secondo Feinberg. Approccio razionalistico-normativo: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Nussbaum. Libertà di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuo- ve prospettive di analisi Le disposizioni del codice italiano nelle quali l’oggetto di tutela viene definito in termini di sentimento, pur presentando affinità sul piano del comune rimando a interessi legati alla sfera affettiva, pon- gono l’interprete di fronte a questioni eterogenee. I problemi relativi al sentimento religioso, al pudore, al sentimento nazionale, al comu- ne sentimento della morale, si collegano a un comune substrato in quanto basati su conflittualità di tipo espressivo-comunicativo e su forme di offesa ‘immateriali’; appare invece differente il sentimento per gli animali, a tutela del quale vengono incriminate aggressioni fisiche e maltrattamenti a esseri non umani. Riteniamo preferibile accantonare per il momento il tema del sen- Tra sentimenti ed eguale rispetto timento per gli animali e focalizzare l’attenzione sul retroterra che accomuna i restanti ambiti. Filo conduttore è il coinvolgimento del piano comunicativo, in un senso non limitato a espressioni verbali, ma esteso a comportamenti in grado di veicolare significati1 e di esternare in termini simbolici prese di posizione che vanno a interagire con aspetti profondamente radicati, potremmo dire ‘costitutivi’, della personalità individuale e dell’identità morale di un soggetto. Tali profili rimandano, in ambito giuridico, al tema della libertà di espressione, ampiamente dissodato dalla dottrina non solo penalisti- ca 2. Nell’impianto del codice Rocco, limiti alla libertà di espressione sono posti in primo luogo a tutela di interessi dello Stato, mentre i risvolti personalistici dei conflitti limitati al piano comunicativo trovano formale riconoscimento esclusivamente nelle disposizioni sull’ingiuria oggi abrogata e sulla diffamazione: le uniche collocate nel titolo dei reati contro la persona. Al di là delle etichette legislative e della voluntas del legislatore, dietro reati come quelli contro il senti- Sull’equiparazione fra condotte verbali ed espressioni fondate sul valore simbolico dei comportamenti, v. BERGER, Symbolic conduct and freedom of speech, in Russel, Freedom, Rights and Pornography. Berger, Amsterdam. Adotta tale impostazione nella recente letteratura sulla libertà di espressione BROWN A., Hate Speech Law. A Philosophical Examination, New York Nel panorama italiano si sofferma su tale di- stinzione STRADELLA, La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e prassi, Torino. Fra gli scritti più significativi di taglio generale, provenienti, relativamente al contesto italiano, dall’ambito costituzionalistico, v. ESPOSITO, La libertà di manife- stazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano; BARILE, Libertà di mani- festazione del pensiero, Milano; GIOVINE A., I confini della libertà di manife- stazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e profili di diritto comparato come premessa a uno studio sui reati d’opinione, Milano; PALADIN, Libertà di pensiero e libertà d’informazione: le problematiche attuali, in Quaderni costituzionali; PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale, penalecontemporaneo.it; CARUSO, La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna; fra i penalisti, v. BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà di manife- stazione del pensiero, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova.; NUVOLONE, Il problema dei limiti della libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento, in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero; FIORE, I reati d’opinione, Milano; PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia?; ALESIANI, I reati di opinione, cit.; SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, in Riv. it. dir. proc. pen.; VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit. Si vedano inoltre, quale contributo collettaneo più re- cente, gli Atti del IV Convegno dell’Associazione Professori di Diritto Penale dedica- to al tema ‘La criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti’, pubblicati in Riv. it. dir. proc. pen. Sensibilità individuali e libertà di espressione 105 mento religioso e contro la moralità pubblica sono in gioco fenomeni relativi all’universo interiore dell’individuo, alla sfera del sentire co- me nucleo da proteggere in positivo e in negativo, ossia favorendone la ‘fioritura’ e la libera espressione, e anche, eventualmente, preser- vandolo da forme di offesa. Ci sembra che il rispetto della reciproca sensibilità in rapporto a contenuti espressivi in grado di offenderla rappresenti il problema che con maggiore immediatezza logico-comunicativa può identificar- si anche come ‘tutela di sentimenti’. Le questioni che possono celarsi dietro il richiamo a stati affettivi sono molteplici, ma i rapporti tra forme di espressione e sensibilità soggettive sembrano costituire oggi una priorità nell’agenda penalistica. A suggerire un attento sguardo alle ‘guerre per la libertà di espressione è soprattutto l’importanza nello scenario socio-politico con- temporaneo, il quale rivela un’inedita complessità derivante dalla consistenza pluralista della società occidentale, anche di quella ita- liana. È cresciuta la diversità sul piano quantitativo e parallelamente sono aumentate le sensibilità, incrementando la possibilità di attriti e portando a emersione, quale riflesso di difficoltà di integrazione in rapporto agli ingenti flussi migratori, una conflittualità fortemente radicalizzata in senso identitario4 e minacciata dal rischio del fon- damentalismo: «l’esperienza comune della diversità e tanto più la comparazione cul- turale specialistica mostrano che i modi stessi della sensazione e i ri- sultati della sensibilità sono variabili da cultura a cultura e all’interno stesso di società complesse, fino ai modi e ai risultati delle sensibilità individuali, così importanti nella cultura occidentale moderna» 5. Si è detto che è difficile trovare un argomento su cui si registri un accordo maggiore di quello relativo alla libertà di espressione, almeno finché non ci mette mano la ricerca della saggezza»6. Nella SULLIVAN, Free Speech Wars, in 48 SMU Law Review. Sul problema vedi MANCINA, Laicità e politica. Prove di ragione pubblica, a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Per una critica alle tendenze identitarie e al concetto di identità, definita ‘parola avve- lenata’, v. REMOTTI, L’ossessione identitaria, Roma-Bari. ANGIONI G., Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle culture, Nuoro, BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un’indagine su quanto le parole mettono in gioco, Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto prospettiva delineata dal filosofo Ermanno Bencivenga tale ricerca coincide con una paziente opera di analisi filosofica che allontani lo spettro dei luoghi comuni, nella consapevolezza di non poter risolve- re i problemi con sentenze o ricette. Per quanto il giurista senta l’onere di fornire una prestazione in- tellettuale che in qualche modo si identifichi in una ‘sentenza’ o in una ‘ricetta’, intese come proposte ‘risolutive’, riteniamo che in rela- zione ai problemi in esame tale ambizione debba essere accompagna- ta dalla consapevolezza del carattere contingente e parziale delle risposte che potranno essere eventualmente avanzate8. Non vi sono rimedi taumaturgici e indolori: se un atteggiamento di tipo repressi- vo potrebbe portare a comprimere un diritto essenziale delle demo- crazie contemporanee, la prospettiva opposta di evitare una regola- mentazione lascia aperta la possibilità di ricadute comunque pro- blematiche. Condividiamo quanto osservato da attenta dottrina, ossia che per rapportarsi a tali problemi occorra mettere da parte l’ambizione di elaborare criteri di selezione del penalmente rilevante di tipo assio- matico-deduttivo, e vada pertanto considerato se «l’approccio tradi- zionale possa risultare decisivo nel circuito comunicativo delle de- mocrazie contemporanee; oppure se non vada piuttosto ricalibrato, rivisto, o quantomeno accompagnato da analisi e valutazioni che si facciano seriamente carico della complessità culturale, sociale e poli- tica dei contesti locali e globali in cui risultiamo oggi calati» 9. In altri termini, il tema dei conflitti in materia di libertà di espres- sione è un significativo banco di prova che impegna a rendersi fauto- ri di «una scienza non già autoreferenzialmente chiusa nel giuoco elegante di una dogmatica formalistica, bensì intenzionata a prende- re in qualche modo posizione sul merito contenutistico delle questio- ni spinose che il tempo presente prospetta BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Parla di carattere ‘contestuale’ ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili: paradigmi e nuove frontiere, in Ars interpretandi, VISCONTI C., Aspetti penalistici. FIANDACA, Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e democrazia, in Foro it. Afferma la necessità di un’analisi calata nel contesto socio- politico BOGNETTI, La libertà di espressione nella giurisprudenza americana. Con- tributo allo studio dei processi dell’interpretazione giuridica, Milano; cfr. da ultimo ROIG, Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili. Sia consentito il rinvio a BACCO, Dalla dignità all’eguale rispetto: Sensibilità individuali e libertà di espressione 107 Riteniamo che occorra dunque provare a immaginare nuovi per- corsi, mettendo in conto l’irriducibile ‘politicità’ del tema, la quale mette a disagio il giurista che ancora oggi coltivi l’ambizione illusoria di riuscire a concepire proposte e modelli di interpretazione asseritamente neutrali e avalutativi. È ricorrente in sede teorica prendere le mosse dall’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia importante. Il livello di reattività emozionale, e purtroppo anche di violenza fisica, che hanno caratterizzato alcuni recenti episodi nel contesto eu- ropeo11, suggeriscono di affrontare il tema attraverso prospettive di analisi che non si limitino a una, pur problematica, riflessione su norme e principi. La complessità dei problemi esige un avvicinamento anche al sub- strato umano dei conflitti e dunque alle emozioni e ai sentimenti che si agitano sullo sfondo e che sono di fatto i vettori di senso che concor- rono a guidare le preferenze e le scelte degli individui, e dunque la loro posizionalità assiologica 13: un discorso che vale non solo per i destina- tari di espressioni avvertite come offensive, ma che è funzionale a in- quadrare e definire anche la posizione di chi esprime un pensiero14. libertà di espressione e limiti penalistici, in Quaderni costituzionali. Su tutti, i violenti disordini seguiti alla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana in Danimarca, e il tragico attentato contro il settima- nale francese Charlie Hebdo, colpevole, agli occhi dei fondamentalisti, di aver pubblicato vignette blasfeme sull’Islam. Il piano prettamente giuridico, ossia il riconoscimento di libertà nelle Carte costituzionali nazionali e in fonti sovranazionali, rappresenta una premessa del problema; né del resto sembra essere risolutivo l’appello a teorizzazioni classiche, come quella milliana, il cui pur apprezzabile ottimismo di fondo dalle coloriture utilitaristiche appare oggi forse troppo irenistico. Ci riferiamo all’obiezione di fondo con cui Mill critica la prospettiva di limiti alla libertà di espressione, ossia che la compressione della libertà limiterebbe la circolazione di eventuali verità che potrebbero arricchire il patrimonio intellettuale di un popolo, v. MILL, Sulla libertà, tr. it., a cura di Mollica, Milano. Traggo questo concetto dalla teorizzazione fenomenologica di MONTICELLI (si veda): definito il sentimento come disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo all’essere di ciò che la suscita, v. MONTICELLI, L’ordine del cuore, è importante a nostro avviso legare tale concetto al tema della posizionalità, per evidenziare come l’atto del consentire e dell’espri- mere rappresenti una presa di posizione nella quale la persona è coinvolta in quanto soggetto, v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Milano. Non può essere condiviso l’assunto secondo cui la caratterizzazione di un’espressione di critica in termini affettivo-emozionali la renderebbe per ciò solo Tra sentimenti ed eguale rispetto Anche in tempi in cui la considerazione della dimensione emotiva non poteva avvalersi degli studi che oggi ne affermano la rilevanza nelle scelte decisionali, e che ne riabilitano in buona parte anche la salienza morale, nella dottrina penalistica italiana fu osservato che «è il senti- mento, l’atteggiamento di adesione o indifferenza per questo o quel valore, e non la ragione raziocinante che di per sé è uno strumento “neu- tro”, a indicare all’azione i suoi possibili scopi e modi, e in tal modo addirittura a caratterizzare diverse forme di civiltà. L’atteggiamento dominante della dottrina penalistica esorta con- divisibilmente alla cautela quando si tratta di valutare input di politi- ca del diritto che rivelano una componente emotiva. Ciò non significa cadere nell’eccesso opposto, ossia immaginare o ipotizzare un diritto penale sordo e cieco rispetto a qualsivoglia istanza di matrice emoti- va: un ideale ben poco plausibile, poiché la risposta penalistica è ne- cessariamente anche una risposta a emozioni che si legano inevita- bilmente ai fatti di vita su cui il diritto interviene, e dovrebbe in que- sto senso cercare di acquisire una «capacità di rispettoso governo del- le emozioni e dei sentimenti, come tale autenticamente liberale, ossia costantemente sostenuta dalla consapevolezza di come lo stesso si- stema di regolazione debba rassegnarsi, ma anche trarre vantaggio, da questa sorta di “passività buona”» 16. Da ciò la rilevanza, in primo luogo per la riflessione teorica, delle risonanze emozionali che trapelano dai conflitti interrelazionali, fra cui anche quelli legati alla libertà di espressione. L’obiettivo non è assecondare ciecamente le pretese di una delle incompatibile con una vera manifestazione del pensiero; tale posizione è esplicitata in NUVOLONE, Reati di stampa, Milano, poiché critica significa dissenso ragionato dall’opinione o dal comportamento altrui, sarà estraneo all’at- tività critica ogni apprezzamento negativo immotivato o motivato da una mera animosità personale, e che trovi, pertanto, la sua base in un’avversione di caratte- re sentimentale e non in una contrapposizione di idee». Il problema divise la dot- trina penalistica: si vedano a sostegno di un’apertura liberale PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi; più recentemente, PELISSERO, Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli; per l’opinione opposta v. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della li- bertà di pensiero, Legge penale e libertà di pensiero, Padova. Tale distinzione si lega alla categorizzazione fra manifestazioni del pensiero ‘pure’ e forme di sollecitazione all’azione, utilizzata anche dalla Corte costituzio- nale ad esempio nella sentenza n. 87/1966; per una critica vedi CARUSO, La libertà di espressione in azione, PULITANÒ, Spunti critici in tema di vilipendio della religione, in Riv. it. dir. proc. pen. FORTI, Le ragioni extrapenali. Sensibilità individuali e libertà di espressione  parti, bensì riuscire ad avere una migliore visuale sulle sfumature as- siologiche che ogni singola vicenda lascia emergere. Come osservato da autorevole dottrina, vi è l’esigenza di «riuscire a gettare luce al di là del magma dei sentimenti, nel tentativo di trarre da essi ragioni argomentabili nella discussione pubblica e nel dibattito politico cri- minale. Riteniamo che affrontare problemi concernenti la libertà di espres- sione anche attraverso una ragionevole attenzione alla dimensione affettiva, possa arricchire i contenuti del dibattito. In primo luogo, un attento sguardo alle dinamiche emozionali porta a non perdere di vista la dimensione socio-antropologica dei conflitti, a non perdersi nel ‘cielo dei concetti’ ma piuttosto a cercare di indagare le matrici umane del dissenso, le eventuali cause e i potenziali effetti di una conflittualità che oggi presenta tratti fortemente degenerati, con pre- occupanti echi che attingono da un inquietante repertorio di odio e di contrapposizioni. Sul piano della definizione dell’offesa, guardando i problemi at- traverso la prospettiva dello scontro fra sensibilità emerge un dato di fondo: non sono coinvolti beni primari quali la vita, l’integrità fisica o la libertà di autodeterminazione; si attinge un livello non esiziale ma comunque significativo, poiché dietro un’offesa a sentimenti si profi- la la possibilità di una sofferenza – in termini di emozione negativa nel venire a contatto, o anche semplicemente a conoscenza, di for- me di contrasto o di disapprovazione che hanno ad oggetto idealità, visioni del mondo, valori. Con le parole si possono toccare corde sen- sibili dell’animo, quando vengono criticati o irrisi simboli, dogmi nei quali un individuo si riconosce, anche a prescindere dal fatto che una data espressione sia rivolta a lui e quando colpisce in modo indistinto una molteplicità di soggetti accomunati da una credenza. Qual è l’elemento che può legittimare interventi normativi? È il disagio emozionale soggettivo che scaturisce di fronte a manifesta- zioni di pensiero che sostengono valori e visioni del mondo opposte a quella in cui ci si identifica? O l’attenzione va posta su ragioni ulte- FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale. Giusto il contrario, dunque, di un uso populistico e meramente retorico dell’appello a sentimenti ed emozioni, il quale peraltro è assai frequente nel dibattito pubblico come osserva D’AGOSTINI, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino. Sul concetto di ‘polarità’ delle emozioni, o ‘valenza’, v., ex plurimis, TERONI, Più o meno: emozioni e valenza, a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, Tra sentimenti ed eguale rispetto riori che non hanno un’univoca corrispondenza con il contenuto co- gnitivo delle reazioni emotive suscitate? Le risposte a tali interrogativi possono condurre ad approcci pro- fondamente diversi, sintetizzabili a nostro avviso in forme paradigmatiche: da un lato un modello di intervento giuridico che potrem- mo definire ‘naturalistico-emozionale’, e dall’altra un modello razionalistico-normativo. Nel primo caso il sentire individuale è preso in considerazione nella dimensione fisico-naturalistica, come coefficiente di reattività psichica nelle interazioni relazionali e dunque come problema di so- glie di sensibilità soggettiva da verificarsi sul piano empirico, secondo un’impostazione che individua il bene finale nella tranquillità emotiva della persona. L’approccio alternativo, ossia il modello ‘razionalistico-normativo’, cerca di identificare, attraverso le emozioni manifestate e i sen- timenti chiamati in gioco, istanze e rivendicazioni che possano essere tradotte in concetti razionalmente e normativamente filtrati, e valuta- te dunque in rapporto a cornici assiologiche di riferimento 20. In altri termini, l’approccio ‘razionalistico-normativo’ si propone di inquadrare i problemi in una prospettiva nella quale la dimensione pret- tamente emozionale costituisce elemento da tradurre in un contesto Utilizzo il concetto di modello-paradigma nell’accezione di SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali. Si tratta di modelli di approccio che evocano alla memoria del penalista soluzioni metodologiche e interpretative elaborate in relazione all’inquadra- mento dell’interesse protetto nella tutela penale dell’onore: le concezioni ‘fattua- le’ e ‘normativa’. La prima configura l’onore come sentimento individuale, o, in riferimento alle condotte di diffamazione, come elemento sociopsicologico su base collettiva; secondo la concezione normativa, cui possono affiancarsi le successive rielaborazioni in chiave di concezione ‘mista’, l’onore è da intendersi come riflesso del valore dell’individuo in quanto tale, ossia come proiezione del- la dignità umana. Nel discorso penalistico sull’onore emergono in nuce que- stioni di fondamentale importanza: il rapporto tra dimensione fattuale e proie- zione normativa dello stato psicologico associabile al concetto di onore non è altro che la ricaduta settoriale di un nodo problematico che ricorre di fronte a ogni tipo di sentimento evocato dal diritto come oggetto di tutela. Nella dottri- na italiana, ex plurimis, MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi, prospettive, Milano; GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma; per un’originale riela- borazione del tema, v. TESAURO, La diffamazione come reato debole e incerto, Torino. Sensibilità individuali e libertà di espressione di diritti di libertà e doveri di rispetto, con tutte le complessità che ne discendono in termini di bilanciamento. Esporremo i tratti salienti di tali modelli sulla base del pensiero di due autorevoli studiosi che hanno a nostro avviso contribuito a mostrarne le coordinate fondamentali. 2. Approccio ‘naturalistico-emozionale’ Intendiamo come ‘naturalistico-emozionale’ un modello di inter- vento che assuma a riferimento primario la dimensione naturalistica del sentire, identificata in manifestazioni di reattività emotiva cui il diritto attribuisca rilevanza tramite la costruzione di precetti fondati su eventi di tipo psichico. Una simile prospettiva, nel caso sia volta a preservare la sfera psi- cologica degli individui da turbamenti emotivi dovuti alla semplice cognizione o al contatto ravvicinato con esternazioni di opinioni, comunicazione di contenuti di pensiero o più in generale con atteg- giamenti che suscitino contrasto fra sostenitori di visioni del mondo diverse, appare un’opzione fortemente problematica, e con buona probabilità impraticabile. Obiettare la mancanza di un’offesa significativa dal punto di vista penalistico è però un argomento non decisivo se si apre la riflessione alle concettualizzazioni di matrice anglo-americana dei cosiddetti Harm Principle e Offense Principle 21: da questo punto di vista non è af- 21 Constatata la crisi del cosiddetto ‘bene giuridico’, anche nella dottrina italiana si è fatto sempre più concreto l’interesse per le categorie dello Harm e dell’Offense, ricostruite soprattutto sulla base del pensiero di Feinberg. Nella letteratura italiana il pensiero di Feinberg è stato fra i temi privilegiati di recenti studi collettanei dedicati al tema della legittimazione del diritto penale: v. a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit.; a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit.; si veda lo studio monografico di FRANCOLINI, Ab- bandonare il bene giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del di- ritto penale, Torino; fra gli articoli in cui si ‘dialoga’ con le categorie feinberghiane v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale.; ID., Presentazione. Principio del danno (Harm Principle) e limiti del diritto penale, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit., pp. VII ss.; FORTI, Principio del danno e legittimazione “personalistica” della tutela penale, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale; FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 18 ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e tipi di democrazia, a cura di Fianda-  Tra sentimenti ed eguale rispetto fatto scontato che una tutela di meri sentimenti, o, più propriamente, volta a evitare emozioni negative, sia estranea all’ambito della penaliz- zazione legittima, ma si tratta al contrario di un problema aperto. Le categorie del pensiero giuridico anglo-americano sono partico- larmente efficaci nell’illustrare la stratificazione di soglie di offesa che possono ipoteticamente essere addotte per legittimare interventi penali: il discorso è infatti aperto non solo al danno, lo Harm, ma anche a forme di interferenza con interessi della persona meno incisive, ossia l’Offense, traducibile come ‘molestia’ 22. In particolare, è l’Offense Prin- ciple la categoria che meglio si presta a riassumere il tipo di offese che si legano al contatto sgradito con determinati atteggiamenti e contenuti espressivi. ca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale, cit., pp. 153 ss. DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., ROMANO, Danno a sé stessi, pa- ternalismo legale e limiti del diritto penale, cit.; PULITANÒ, Paternalismo penale, cit.; ID., voce Offensività del reato (principio di), in Enciclopedia del diritto, Annali VIII, Milano; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali? L’approccio feinberghiano ha suscitato interesse anche in Germania, per quanto, come espressamente affermato da Tatiana Hörnle, fino ai primi anni Duemila non sia stato oggetto di particolari approfondimenti, forse anche, secondo la Hörnle, per la mancata traduzione dei testi di Feinberg in tedesco, v. HÖRNLE, Offensive Beha- viour and German Penal Law, in 5 Buffalo Criminal Law Review, anche per una sintetica analisi delle concettualizzazioni feinberghiane in rapporto al diritto penale tedesco. 22 Va specificato che l’atteggiamento di maggiore o minore apertura a principi di legittimazione diversi dallo Harm Principle discende da pregiudiziali politico- filosofiche: ad esempio, secondo una posizione di ‘liberalismo estremo’ solo il principio del danno (Harm) dovrebbe costituire criterio legittimo di incrimina- zione. In questo senso la posizione di Joel Feinberg si presenta più aperta, poiché non esclude che fra le ‘buone ragioni’ vi possano essere criteri complementari allo Harm: è Feinberg, sostanzialmente, che amplia il discorso al c.d. offense principle, v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo; cfr. FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di morale, cit., p. 156. 23 Il concetto di Harm di matrice feinberghiana non corrisponde in toto a quel- lo che ha trovato successivamente applicazione nel sistema statunitense: lo Harm è stato oggetto di una dilatazione che ha portato ad allargarne lo spettro di rilevanza, e molti dei problemi collocati da Feinberg nell’Offense sono ricollocati oggi in una versione più estesa dello Harm; per una sintesi v. DE MAGLIE, Punire le con- dotte immorali?, cit., pp. 947 ss. Si veda anche infra, nota 65. Sull’applicazione dello Harm a problemi concernenti la libertà di espressione v. COHEN, Psychologi- cal Harm and Free Speech on Campus, in 54 Society. Harm e Of- fense non sono incompatibili fra loro, ma come principi di sistema possono inte- ragire in termini di complementarietà, ossia è possibile che alcune norme dell’or- dinamento penale si legittimino in nome dello Harm Principle e altre in norme dell’Offense Principle. Non va peraltro dimenticato che «I principi compendiano le ragioni morali che possono sostenere le proibizioni penali [...] servono a circo-   Sensibilità individuali e libertà di espressione 113 Illustriamo tali concetti attraverso un cursorio richiamo alla più importante elaborazione sul tema, ossia lo studio di Joel Feinberg dedicato ai limiti morali del diritto penale e in particolare al tema dell’Offense Principle. La prospettiva dell’Offense secondo Joel Feinberg Cominciamo da un’importante distinzione: secondo Feinberg quando si parla di tutela della tranquillità psichica volta a evitare reazioni di disgusto, di rabbia e altre emozioni negative, bisogna di- stinguere fra molestie in cui vi è la compresenza di soggetto attivo e vittima, fondate su percezioni di tipo visivo, uditivo o olfattivo, e altre condotte tali da poter suscitare sensazioni sgradite pur senza un rap- porto di diretta percezione, ma semplicemente a seguito della presa di conoscenza. Nel primo caso si tratta della cosiddette ‘nuisance’, ossia offese ai sensi: nelle ‘mere offensive nuisance’ il torto (wrong) coincide ed è in- scindibile dall’esperienza di percezione visiva, uditiva, olfattiva o tattile. Nel secondo caso si tratta di forme di molestia, cosiddette profound offenses’, le quali attingono una sensibilità di ordine più elevato e sono tali da indurre sofferenza e disagio anche quando non vi sia percezione sensoriale diretta. Le ‘profound offenses’ si differenziano dalle nuisances in quanto potrebbero continuare a provocare fastidio anche dopo l’iniziale presa di conoscenza: esempi addotti da Feinberg sono il voyeurismo, la propaganda nazista e razzista in generale, le offese a simboli civili e religiosi, l’oltraggio a cadaveri; una dimen- scrivere l’ambito all’interno del quale la restrizione della libertà dei consociati è, secondo la concezione che li sostiene, moralmente legittima: ma non escludono le ulteriori valutazioni di utilità sociale e di effettiva opportunità che un determina- to legislatore positivo dovrà compiere prima di decidere se dovrà emanare o meno una norma penale», v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico, cit., p. 78. 24 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, New York-Oxford, 1985. Una versione in nuce dell’elaborazione feinberghiana sullo Harm e Offense Principle, precedente alla tetralogia sui limiti morali del diritto penale, è contenuta in FEINBERG, Filosofia sociale, tr. it., Milano. It is experiencing the conduct, not merely knowing about it, that of- fends», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others. Tra sentimenti ed eguale rispetto sione che potremmo definire di ‘sensibilità morale’ nella quale la le- sione si lega a qualcosa di esterno al soggetto e viene definita ‘pro- fonda’ a causa del suo impatto su una sensibilità non meramente ‘epidermica’, e che non dipende dall’effettivo coinvolgimento emotivo di individui determinati. Quanto all’eventuale rilevanza penale, per Feinberg le profund offenses che non siano contemporaneamente anche nuisances, ossia commesse in un luogo pubblico e percepite da soggetti terzi, non do- vrebbero rientrare nell’area di criminalizzazione legittima coperta dall’Offense Principle. Con un’importante conseguenza: se le offese a sensibilità di alto livello non vengono realizzate attraverso condotte in grado di colpire anche la sensibilità di soggetti presenti, potrebbe escludersi la loro incriminabilità secondo il criterio dell’Offense, e si dovrebbe far ricorso a principi di legittimazione differenti, e del tutto distonici rispetto alle prospettive liberali: il moralismo giuridico 28. In secondo luogo, anche se si interpretasse il pensiero feinber- ghiano ammettendo che le cosiddette ‘profund offenses’ possano teo- ricamente costituire oggetto di incriminazione in quanto riconducibi- li all’Offense Principle, resta il fatto che i criteri di bilanciamento che Feinberg enuncia come ‘massime di mediazione’ porrebbero un serio ostacolo all’incriminazione di offese a sensibilità di ‘alto livello’ 29. Fra 27 Per una sintesi v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico? È l’opinione di FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico. Sui rapporti tra Offense Principle e Harmless Wrongdoing v. FEINBERG, The Moral Limits of Criminal Law, Harmless Wrongdoing, Oxford; ID., Filosofia sociale. Per una sintesi v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?MAGLIE, Punire le condotte immorali? FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others. Nella teorizzazione feinberghiana il provare un’emozione negativa non è requisito che esaurisce gli elementi costituitivi dell’offense: condotte in grado di suscitare nei terzi sensazioni sgradevoli possono scaturire da attività che fanno parte dell’agire quotidiano di ogni individuo, attività comprese nella normale vita di relazione, e che tuttavia possono produrre quelli che sono dei cosiddetti ‘stati mentali sgraditi’. Per ovviare a possibili eccessi, Feinberg rimarca l’esigenza di elaborare dei criteri di bilanciamento che operino nel senso di restringere l’ambi- to di criminalizzazione della molestia. Secondo le ‘massime di mediazione’ da lui elaborate, va esaminato il limite della cosiddetta seriousness della molestia, e del- la reasonableness della condotta attiva: in sintesi, la serietà della molestia dipende dalla sua intensità, dalla durata; dall’estensione; dal grado di evitabilità (la difficoltà di sottrarsi senza inconvenienti alla situazione in cui si è assistito alla mole- stia è un parametro per la gravità della condotta attiva); dalla massima del con- senso, per cui l’assunzione volontaria del rischio di incorrere nelle condotte di   Sensibilità individuali e libertà di espressione i parametri di selezione vi è infatti quello della ‘ragionevolezza’ del- l’offesa, valutabile attraverso i criteri dell’importanza che la condotta riveste per l’agente, e dell’eventuale utilità sociale della condotta stes- sa, con la conseguenza che azioni pur offensive, ma che siano al con- tempo forme di espressione dell’individuo, potrebbero essere consi- derate lecite in forza del valore individualistico (importanza per l’agen- te) e collettivistico (utilità sociale) della condotta 30. In relazione alla suscettibilità individuale, Feinberg è categorico nel porre un’obiezione alla tutela di soggetti caratterizzati da un’ab- norme emotività, definendoli ‘cavalli capricciosi’ (skittish horses): quan- to più un soggetto è emotivamente suscettibile, tanto meno potrà pre- tendere che il diritto penale assecondi le sue pretese 31. Fin qui la teorizzazione di Feinberg sembrerebbe sostanzialmente contraria all’incriminazione di condotte che offendano valori e sensi- bilità di ordine elevato. Se dovessimo proiettare le categorie feinberghiane nel diritto ita- liano potremmo associare tendenzialmente la c.d. tutela di ‘sentimen- ti-valori’ alle ‘profund offenses’, come offese ad aspetti concernenti il piano dei valori costitutivi dell’identità morale che attingono strati profondi e relegano in posizione marginale, anche se forse non del tutto irrilevante, il profilo della nuisance 33. offense esclude la rilevanza penale di queste, v. ID., The Moral Limits of the Crimi- nal Law, vol. II, Offense to Others,  «no amount of offensiveness in an expressed opinion can counterbalance the vital social value of allowing unfettered personal expression», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, Offense to Others, FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, Offense to Others. Negli Stati Uniti d’America si è recentemente sviluppato un dibattito avente ad oggetto la libertà di espressione nei campus e nei college, in relazione alla sensibi- lità degli studenti e alla possibilità che un’assoluta deregolamentazione della li- bertà di manifestare il proprio pensiero si riveli loro pregiudizievole: il tema è no- to come ‘Snowflakes’ (letteralmente ‘fiocchi di neve’, appellativo per gli studenti sensibili). L’orientamento maggioritario tende a ritenere illegittime eventuali re- strizioni alla libertà di espressione nei campus, adducendo il fatto che il plurali- smo delle idee, e il confronto anche aspro, è ciò che deve contribuire a formare e rafforzare la personalità degli studenti; per una sintesi di tale posizione v. COHEN, Psychological Harm and Free Speech. Cfr. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione., il quale richiama le sensibilità di alto livello quale chiave di lettura dei c.d. reati d’opinione. Il profilo del turbamento da contatto visivo o comunque fisico assume una rilevanza, quantomeno sul piano della costruzione del tipo di reato, nel caso degli atti osceni; per quanto non si richieda la verifica di un disagio concretamente esperito da qualcuno, la fisionomia del fatto tipico resta basata su un’esperienza Tra sentimenti ed eguale rispetto Inferire dalle teorie feinberghiane l’illegittimità tout court di in- criminazioni come ad esempio la propaganda razzista sarebbe però affrettato: va infatti rimarcato che Feinberg introduce una deroga espressa (ad hoc amendment) alla sua costruzione teorica al fine di dare un fondamento di legittimazione alla criminalizzazione di con- dotte di insulto rivolte a minoranze etniche, razziali, e religiose. Se infatti in linea di principio egli afferma che fra le massime di media- zione vada contemplato anche il cosiddetto ‘standard di universalità’, ossia la verifica che il comportamento offensivo sia ritenuto tale da una considerevole maggioranza di persone prese a campione dall’in- tera popolazione34, e dunque che l’offensività non debba essere dedotta dal capriccio di pochi, nondimeno egli ritiene che vada fatta una deroga nel caso di offese indirizzate a certe minoranze, cui la mag- gioranza potrebbe restare indifferente ma che, agli occhi di Feinberg, dovrebbero meritare una rilevanza normativa. Se da un lato tale eccezione sembra introdurre una falla nella complessiva coerenza dell’impianto teorico feinberghiano, dall’altro lato la deroga evidenzia come anche all’interno di posizioni fortemente li- berali sia avvertita l’esigenza di lasciare aperta la possibilità di limiti a determinate forme e contenuti espressivi: la motivazione non risiede nell’eventuale turbamento emotivo (diversamente ricadrebbe nel di- scorso delle nuisance), ma le ragioni sono più plausibilmente da ricer- carsi sul piano dei principi normativi e, in particolare, in relazione alle modalità tramite le quali una democrazia liberale dovrebbe tutelare le minoranze in una cornice di uguaglianza sostanziale. Appare evidente che la partita decisiva si gioca su valori; sia il principio dello Harm, sia il principio dell’Offense, non possono fare affidamento una base oggettiva e neutrale al punto da poter prescin- dere da una preliminare scelta assiologica su quali siano gli interessi la cui lesione deve essere considerata rilevante 36 e soprattutto su co- visiva, e che dunque richiede un contatto fra soggetti e non può limitarsi alla semplice presa di conoscenza. FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, Offense to Others. Per un’attenta critica v. MANIACI, Come interpretare il principio del danno, Ragion pratica. FORTI, Per una discussione sui limiti morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Marinucci; sulla componente valoriale del concetto di danno cfr. FIANDACA, Punire la semplice immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a ri- proporsi, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori, diritto penale. Sensibilità individuali e libertà di espressione 117 me debbano essere bilanciate le opposte pretese. Nell’impostazione feinberghiana, comunque incentrata su aspetti di sensibilità soggetti- va, tale ruolo è svolto, come detto, dalle c.d. ‘massime di mediazione’; va però osservato che dopo Feinberg l’evoluzione dell’Offense Principle sarà caratterizzato da un processo di depsicologizzazione, il quale conduce a definizioni normativamente più pregnanti, per quanto ancor problematiche, come ad esempio quella proposta da Hirsch. Tirando le fila del discorso, un approccio puramente naturalisti- co-emozionale al problema della tutela di sentimenti appare difficilmente praticabile poiché finirebbe per incrementare la conflittualità. Secondariamente, anche le declinazioni a nostro avviso più vicine all’approccio naturalistico rivelano l’ineludibilità di un filtro norma- tivo delle pretese, volto a distinguere fra atteggiamenti ragionevoli e irragionevoli secondo una prospettiva di tollerabilità sociale. Il passaggio al piano di una considerazione delle emozioni e dei sentimenti da un punto di vista normativo è dunque inevitabile, così come è ine- vitabile far confluire le diverse istanze in una prospettiva di bilan- ciamento. Tale esigenza viene approfondita in particolar modo da Nussbaum, e proprio a partire dalle sue elaborazioni cercheremo di illustrare le coordinate di un approccio alternativo. HIRSCH, The Offence Principle in Criminal Law: Affront to Sensibility or Wrongdoing?, in 11 King’s Law Journal. Il correttivo adottato da Hirsch – il quale ritiene che, inteso come ‘affront to sensibility’, l’Offense Principle sia troppo espansivo – consiste nel valutare la condotta ritenuta offensiva sia secondo parametri di adeguatezza sociale, sia soprattutto includendo nel giudizio il principio morale del reciproco rispetto: «All three reasons invoke convention to give social meaning to the conduct, but entail a further reason of a moral kind, concerned with treating others with proper respect»; v anche ID., I concetti di “danno” e “molestia” come criteri politico-criminali nell’ambito della dottrina pena- listica angloamericana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini. Nel complesso, l’Offense feinberghiana è stata sottoposta a un graduale processo di depsicologizzazione che ne ha ridotto in buona parte il divario con lo Harm; osserva icasticamente HÖRNLE, Offensive Behaviour and German Penal Law, che «If one does not view offense to others as a psychological phenomenon, as does Feinberg, but as a normative concept, the conceptual difference between harm and offense disappears. Tra sentimenti ed eguale rispetto 3. Approccio ‘razionalistico-normativo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha Nussbaum Definiamo ‘razionalistico-normativo’ un approccio teorico che su- bordini la rilevanza giuridica di atteggiamenti emotivi e di fatti di sentimento alla valutazione dei relativi contenuti cognitivi, e in parti- colare alla verifica dell’adeguatezza del giudizio di valore alla base dell’atteggiamento emozionale, intesa come consonanza o compatibi- lità rispetto a principi base della convivenza. Martha Nussbaum assume come presupposto l’innegabile rilevan- za del fattore emozionale nel diritto e nelle questioni di etica pubbli- ca, sostenendo la necessità di un ‘buon uso’ delle emozioni, non di un avallo acritico, alla luce di ragioni che si intrecciano con profili di psicologia sociale e con valori di fondo connessi ai sistemi politici e ai modelli di democrazia. Per ora ci limitiamo a sintetizzare il cuore della prospettiva politi- co-normativa della Nussbaum, al fine di evidenziare come, rispetto alla teorizzazione di Feinberg, la componente sensoriale-emotiva ri- sulti decisamente in secondo piano. L’obiettivo che emerge dalle ope- re della Nussbaum è l’educazione dei legislatori e dei giudici a un ascolto critico e consapevole delle emozioni individuali e collettive, finalizzato a gettare luce sul riconoscimento di diritti e a non asse- condare atteggiamenti fondati su generalizzazioni e stereotipi di- scriminatori che collidono con i valori di una democrazia liberale. Secondo la Nussbaum, l’emozione ha un ruolo rilevante nella for- mazione delle opinioni e dei giudizi dell’individuo, non è un moto cieco e irriflesso ma implica credenze che possono essere più o meno attendibili o ragionevoli. È fondamentale inter- rogarsi sui contenuti di pensiero alla base delle emozioni per poter maturare un atteggiamento selettivo sul piano giuridico: «[i] giudizi sulle credenze valutative sono essenziali per il ruolo giocato dalle emozioni nel diritto»38. Conseguentemente, l’etica pubblica non do- vrebbe essere fondata su una matrice puramente emotiva: risulta es- senziale un filtro normativo, ossia un passaggio di confronto fra l’emozione in senso psicologico, i fondamenti cognitivi e un’assiologia [H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE] di riferimento. È emblematico il caso di un’emozione particolarmente radicata nelle società umane come il disgusto, il quale nella sua dimensione primaria ha la funzione di proteggere l’essere umano da fattori con-  38 NUSSBAUM, Nascondere l’umanità, cit., p. 53.  Sensibilità individuali e libertà di espressione 119 taminanti, rappresentando un fondamentale strumento di sopravvi- venza in rapporto a un’importante sfida adattiva 39: quella di evitare il contatto con sostanze pericolose o nocive per la salute, stando ad esempio lontano da corpi in decomposizione, non abbeverandosi o nutrendosi da fonti di potenziali malattie et similia. Il disgusto esiste per condurre l’essere umano a un approccio se- lettivo, la cui traiettoria era, in origine, rivolta a oggetti cosiddetti ‘pri- mari’ (sangue, feci, sperma, urina, muco, cadaveri), e che con l’evolu- zione dei contesti culturali e delle norme sociali ha subìto un riadat- tamento in termini di proiezione40. Si parla di disgusto ‘proiettivo’ per indicare il caso in cui tale emozione si rivolga a individui o a gruppi di individui in virtù di un’associazione immaginativa deter- minata da norme sociali o dallo stretto contatto del gruppo con og- getti ‘primari’ del disgusto 41. In questo modo esso rischia di farsi por- tatore di una carica discriminatoria poiché si lega a idee di contami- nazione e a un rifiuto dell’animalità (e dunque della limitatezza e del- la mortalità) umana che conduce all’emarginazione e alla stigmatiz- zazione di ciò che può essere percepito come anomalo o ‘diverso’42, fino all’avversione verso soggetti riconducibili a cosiddetti ‘gruppi impopolari’ (minoranze razziali, ebrei, omosessuali, ecc.). Le riflessioni di Martha Nussbaum rappresentano un’importante coordinata riguardo al problema della tutela di sentimenti, per quan- to vadano fatte alcune precisazioni: l’oggetto principale delle analisi della studiosa sono gli atteggiamenti emozionali collettivi e i loro riflessi sul piano delle scelte di politica del diritto e, in particolare, di politica penale. In che termini tali indicazioni possono essere utiliz- 39 HAIDT, Menti tribali.Come osservano gli antropologi Sperber e Hirschfeld, citati da Haidt, bisogna distinguere tra fattori di attivazione originari, ossia gli oggetti per i quali la funzione adattiva è stata progettata dall’evoluzione, e fattori scatenanti che possono accidentalmente attivare quella reazione, anche in assenza di pericoli reali, in forza di percezioni erronee dovute a distorsioni sensoriali o a condizionamenti socio-culturali. Osserva Haidt che le variazioni cultu- rali della morale si possono in parte spiegare con il fatto che le culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il numero di fattori scatenanti attuali di un qual- siasi modulo», v. HAIDT, Menti tribali. NUSSBAUM, Disgusto e umanità. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Per una diversa opinione, volta a sottolineare aspetti in relazione ai quali l’emozione del disgusto può risul- tare importante nel giudizio morale e, secondo gli esempi riportati dall’Autore, anche nelle dinamiche del giudizio penale, v. KAHAN, The Progressive Appropria- tion of Disgust, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law. Tra sentimenti ed eguale rispetto zate relativamente ai problemi concernenti la libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti altrui? Il suggerimento traibile dalle riflessioni della Nussbaum concerne l’esigenza di verificare in quale misura eventuali richieste di tutela per un dato sentimento trovino la propria matrice in atteggiamenti che, ad un’attenta valutazione sul piano cognitivo-razionale, rivelano una tendenza al rifiuto dell’altro, e dunque una portata sostanzial- mente discriminatoria. Ci sembra un avvertimento quantomeno opportuno e ben spendi- bile in rapporto alle odierne politiche penali, in cui l’ascolto di emo- zioni collettive si è talvolta rivelato strumentale all’emanazione di provvedimenti volti a raccogliere consenso43, senza valutare, o me- glio omettendo talvolta volutamente di considerare, se e in che misu- ra certe emozioni siano il riflesso di atteggiamenti che una democra- zia basata su libertà e uguaglianza non dovrebbe assecondare. Il punto nodale per addivenire a un modello di intervento orientato in termini non puramente emozionali è la previa ‘interpretazione’ delle dimensioni di significato di determinante emozioni e sentimen- ti, da considerarsi dunque non nella loro ‘bruta’ naturalità, bensì soppesandone la rilevanza soggettiva e sociale, e bilanciandola con un sistema di diritti di libertà il quale è a sua volta il precipitato di scelte di valore. La questione dell’orizzonte assiologico cui fare riferimento è cen- trale sia per inquadrare la fisionomia del modello normativo sia per il successivo sviluppo del discorso concernente gli equilibri relativi ai rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione.  43 Il problema rimanda al tema del cosiddetto ‘populismo penale’: per una pa- noramica v. PULITANÒ, Populismi e penale. Sull’attuale situazione spirituale della giustizia penale, in Criminalia, 2013, pp. 125 ss.; FIANDACA, Populismo politico e populismo giudiziario, in Criminalia. Sensibilità individuali e libertà di espressione SEZIONE II Coordinate assiologiche «Quando sento parlare di idee liberali mi meraviglio sempre di come gli uo- mini giochino volentieri con parole vuote: un’idea non può essere liberale! Deve essere vigorosa, efficace, in sé compiuta, in modo da adempiere alla sua divina missione di riuscire feconda. Ancor meno può essere liberale il concetto; infatti ha un compito completamente diverso» GOETHE Massime e riflessioni. Non possiamo mai né atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o dell’individualismo, né essere semplicemente comunitaristi o liberali, modernisti o postmodernisti; dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora l’altra, a secon- da delle circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio WALZER Sulla tolleranza. E NON ABBIAMO CIASCUNO LO STESSO SENTIMENTO? PIRANDELLO (si veda), Il fu Mattia Pascal SOMMARIO: 4. Orizzonte costituzionale e spazio della politica. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste. Dai valori collettivi all’individualismo democratico. Sentimenti ed emozioni come richiamo metonimico’e personologico. Orizzonte costituzionale e spazio della politica Il modello ‘razionalistico-normativo’ appare quello più funzionale allo sviluppo delle nostre riflessioni, e pone in primo piano la que- stione di quali debbano essere gli assunti valoriali e i principi-guida in rapporto ai quali valutare se determinati ‘sentimenti-valori’ possa- no ragionevolmente accreditarsi come meritevoli di una qualche pro- tezione. Tale problema si articola in diversi piani di analisi: a un primo li- Tra sentimenti ed eguale rispetto vello l’inquadramento di una cornice assiologica è funzionale all’in- terpretazione delle fattispecie vigenti, e trova nella Carta costituzio- nale il referente primario. Come abbiamo avuto modo di osservare, l’impronta ideologica che connota la fisionomia dei reati a tutela di ‘sentimenti’ presenti nel codice penale mostra una distonia rispetto ai principi della Costi- tuzione italiana: nei casi più evidenti ciò ha condotto alla caduta di importanti disposizioni (si pensi all’art. 402 c.p.44), mentre in altri ambiti vi è stata una radicale reimpostazione, a livello giurispruden- ziale, della prospettiva di tutela (si pensi ai reati a tutela della pubbli- ca moralità e del buon costume 45). Negli esempi menzionati si è trattato di eliminare contrasti la cui evidenza ha reso sostanzialmente agevole all’interprete capire quale potesse essere la strada ‘giusta’, o, più cautamente, la soluzione meno in contrasto con la Carta fondamentale, facendo leva in particolare sul connubio fra uguaglianza e laicità: l’uguaglianza ha costituito il parametro costituzionale fondamentale46, mentre attraverso il prin- cipio supremo di laicità 47 la Corte ha delineato la cornice assiologica di base, riconoscendo espressamente il pluralismo come un valore, non solo come un dato di fatto. V. supra per i riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale. 46 Si basa sul principio di uguaglianza il nucleo motivazionale della sentenza C. cost., n. 508/2000; per una contestualizzazione di tale pronuncia nel quadro della giurisprudenza costituzionale in materia di uguaglianza, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Relativamente al tema del buon costume, la giurisprudenza costituzionale non è mai arrivata a pronunce di illegittimità, ma solo perché «il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più in casi in cui la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe, quanto- meno per qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il legislatore considera inequivocabilmente come illeciti penali – impone il mantenimento in vita di una norma di legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato conforme a Costituzione»: con queste parole la Corte, con la sentenza, ha salvato la norma che incrimina le pubblicazioni oscene rimar- cando la necessità di un’interpretazione adeguatrice coerente con gli artt. 21, 27, 2, 3, 13 e 25 Cost. Sulla laicità come principio supremo, o più precisamente come ‘meta- principio’, v., nel contesto penalistico, PALIERO, La laicità penale alla sfida del ‘se- colo delle paure’, in Riv. it. dir. proc. pen. Questo il messaggio fondamentale che ci sembra leggibile nel richiamo al principio di laicità che «[caratterizza] in senso pluralistico la forma del nostro Stato, entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture e   Sensibilità individuali e libertà di espressione Vi è poi un secondo livello in cui l’individuazione di coordinate assiologiche ‘vincolanti’ a livello costituzionale diviene più sfumato, e meno univoco: il problema emerge sia in relazione al quadro di in- criminazioni oggi vigenti in cui vengono in gioco bilanciamenti con la libertà di espressione – non solo l’ambito del sentimento religioso ma anche le discusse norme sulla propaganda razzista – e si proietta, con ulteriore complessità, nella riflessione de jure condendo. Il sospetto di una illegittima compressione di spazi di libertà sem- bra richiedere un onere argomentativo più gravoso poiché, pur te- nendo sempre ben presente la bussola assiologica della Costituzione, il giurista penale si trova a doverne constatare la limitata precettività, ossia la compatibilità con un ventaglio di prospettive di segno diverso le quali potrebbero risultare tutte ‘non illegittime’ 49. Proprio quando si fanno più stringenti le esigenze di individuare soluzioni che ambiscano a una legittimazione costituzionale ‘forte’, e specialmente quando le materie da regolare chiedano al diritto prese di posizione che implicano l’assunzione di un punto di vista ideologi- camente pregnante, la speranza di trovare nel testo costituzionale tradizioni diverse», testualmente contenuto nella sentenza (ma si veda anche l’inciso finale della sentenza sulla parziale illegittimità costituzionale dell’incriminazione della bestemmia). Per la distinzione tra pluralismo come fatto e come atteggiamento v. MARCONI, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino.; BARBERIS, Etica per giuristi, Bari.Per una sintesi della portata assiologica e costituzionale del principio di laicità v., ex plurimis, BARBERA, Il cammino della laicità, a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale, Bologna; nell’ambito penalistico, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Laicità del diritto penale; PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., pp. 283 ss.; PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale; CANESTRARI, Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in AA.VV., a cura di Dolcini- Paliero, Studi in onore di Marinucci; EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale (pena, elementi del reato, biogiuridica), in AA.VV., a cura di Bertolino-Forti, Scritti per Federico Stella, Napoli; FORTI, Alla ricerca di un luogo per la laicità: il “potenziale di verità” nelle democrazie libera- li, in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale; ROMANO, Principio di laicità dello Stato, religioni, norme pe- nali, a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale. Sul tema della laicità del diritto penale e delle connessioni con l’etica cattolica, v., per tutti, STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale, in AA.VV., a cura di Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione. FIANDACA, Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno. FIANDACA, I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen. Tra sentimenti ed eguale rispetto una risposta definitiva deve fare i conti con una vocazione pluralisti- ca della Carta 51, la quale non addita soluzioni univoche ma è «suscet- tibile di subire più interpretazioni e più modalità di attuazione, entro uno spazio di discrezionalità politico-valutativa all’interno del quale nessuna interpretazione o modalità di attuazione può vantare titoli per imporsi come l’unica corretta o, al contrario, essere censurata perché scorretta» 52. Va dunque ridimensionata l’ambizione di usare il testo costituzio- nale come strumento di precisione chirurgica’ per tratteggiare diret- tive univoche che consentano al giurista positivo di accreditare da un punto di vista intraordinamentale risposte concernenti conflitti fra libertà di espressione e sensibilità soggettive. Alla luce di tale panorama si è esortato a fare un uso ‘avveduto e parsimonioso della Costituzione. A nostro avviso, tale uso prudente potrebbe essere accompagnato, financo ‘compensato’, da una rifles- sione che esplori un ulteriore livello di normatività, trascendente sia il contesto codicistico sia l’orizzonte costituzionale, nella consape- Sul pluralismo della Carta costituzionale italiana, in termini problematizzanti, v. ANGIOLINI, Il «pluralismo» nella Costituzione e la Costituzione per il «pluralismo», a cura di Bin-Pinelli, I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costituzionale, Torino. Fra i penalisti, con particolare riferimento al carat- tere non esaustivo dei principi costituzionali per la scelta degli oggetti di tutela, v. PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione, a cura di Pisani, Studi in memoria di Nuvolone; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale.VISCONTI C., Aspetti penalistici; cfr. DONINI, “Danno” e “offesa” nel- la c.d. tutela penale dei sentimenti: «la fondazione positiva di ciò che può essere reato, esige una ricostruzione più complessa, che trova nella Costi- tuzione, per es., solo alcuni, pur rilevanti parametri che convergono insieme nel dare al reato anche un volto positivo di matrice costituzionalistica.Sulla teorizzazione di diversi modelli di rapporto e di conflitto fra principi costituzionali (modello ‘minimalista’ e modello del bilanciamento, a sua volta su- scettibile di essere declinato come modello ‘irenistico’ e modello ‘particolaristi- co’), v. CELANO, Diritti, principi e valori nello Stato costituzionale di diritto: tre ipo- tesi di ricostruzione, in Diritto e questioni pubbliche, Sono parole di VISCONTI C., Aspetti penalistici. Tale istanza metodologica viene tematizzata ad esempio in FIANDACA, I temi eticamente sensibili, quando parla di ‘coordinate teoriche e assio- logiche’ del diritto penale contemporaneo facendo riferimento ai concetti di pluralismo, ragione pubblica, costituzionalismo e laicità. Con riferimento all’ambito costituzionalistico v. SILVESTRI, Dal potere ai princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Bari. Sul ricorso ad argo- mentazioni morali sostanziali nell’applicazione di disposizioni costituzionali, v. CELANO, Diritti, principi e valori. Sensibilità individuali e libertà di espressione volezza che l’interpretazione delle disposizioni costituzionali sui di- ritti non è questione di pura tecnica giuridica: è questione politica in senso pieno» 56. Tuttavia, anche una volta che ci si spinga al di là dello spazio normativo della Costituzione per far riferimento all’offerta teorica proveniente dall’ambito filosofico-politico i problemi non svaniscono. Nel discorso penalistico è d’uso il richiamo al liberalismo quale teoria politica di riferimento, ma anche tale soluzione non è suffi- ciente a definire prospettive univoche: si parla oggi di «pluralità di liberalismi. Un generico richiamo al liberalismo rischia di dar luogo oggi a una ‘comfort zone’ teoretica la quale non favorisce il confronto fatico- so, e quasi traumatico, con teorie filosofico-politiche che esorbitano da una prospettiva dicotomica ‘liberale-illiberale’. La diversità di vedute concerne principalmente, ma non solo, gli equilibri di priorità fra ‘giusto’ e ‘bene’59, riflesso dell’alternativa fra un liberalismo propriamente politico e un liberalismo eticamente più spesso. PINTORE, I diritti della democrazia, Bari. Malgrado l’aspetto ossimorico dell’espressione ‘diritto penale liberale’, v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo, in DWORKIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, Bari. L’osservazione si riferi- sce in primo luogo alla coesistenza di correnti diverse interne all’idea liberale, ma evidenzia come le distinzioni possano dipendere anche dal contesto e dall’ambito disciplinare in cui viene spesa la nozione di ‘liberalismo’: esiste, ad esempio, an- che un «liberalismo dei giuristi più attento alle caratteristiche legali e istituzionali. È il problema nel quale si inscrive la dialettica fra posizioni à la Rawls, so- prattutto il Rawls dell’opera ‘Liberalismo politico’, e posizioni comunitariste. Te- sti di riferimento sono da un lato RAWLS, Liberalismo politico, tr. it. a cura di Fer- rara, Roma, 2008, e per le posizioni comunitariste v. per tutti SANDEL, Il liberali- smo e i limiti della giustizia, tr. it., Milano, 1994. Per una panoramica, v. VECA, La filosofia politica, Bari. In estrema sintesi, si definisce come ‘liberalismo politico’ la teoria che ritie- ne che lo Stato debba assumere a proprio fondamento una concezione morale minimale su cui sia possibile trovare un punto di incontro e di intersezione fra le diverse teorie morali presenti nella società plurale. In questo senso lo Stato do- vrebbe tendere a una neutralità. Dalla parte opposta, si argomenta come la ricer- ca di una neutralità possa portare da un lato a una eccessiva ‘asetticità valoriale’ e finisca per riservare un’attenzione insufficiente al discorso sulle preferenze e sul benessere degli individui, concependo un idealtipo di essere umano eccessiva- mente ‘vuoto’ e poco realistico. Nell’ampio panorama si vedano le declinazioni del Tra sentimenti ed eguale rispetto Nel prendere atto di tale realtà, il giurista penale è chiamato ad adottare uno sguardo più disincantato anche di fronte all’assioma co- stituito dal richiamo a valori liberali. Dire oggi ‘liberalismo’ equivale ad aprire un discorso gravido di implicazioni problematiche: l’Oc-cidente considera oggi scontato il liberalismo, ma fra tutti i concetti etico-politici odierni, forse, non ve n’è uno che sia più di- scusso del concetto di liberalismo» 62. Il liberalismo rappresenta la cornice culturale, più meno consoli- data, nella quale il pensiero giuridico occidentale, e anche il pensiero penalistico italiano, contestualizzano le proprie riflessioni, ma «L’opzione per la democrazia liberale lascia aperti i problemi della po- litica, anche della politica del diritto. Non addita soluzioni obbligate di questioni eticamente sensibili, o anche solo politicamente sensibili. Delinea, e non è poco, una cornice nella quale chiunque può con- frontarsi con ragioni presentate nel quadro di concezioni comprensive anche molto diverse, ma che possano avere qualcosa da dire su punti che interessano specificamente la politica del diritto» 63. È come dire che il rifugio sotto l’ampio ombrello della dizione ‘li- berale’ non è sufficiente a esaurire gli oneri argomentativi con cui il giurista contemporaneo dovrebbe sostenere una posizione di fronte a temi ad elevato tasso di pregnanza etica ed esposti a una marcata di- screzionalità politica 64. problema elaborate da DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, in DWOR- KIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo. (strategia della discontinuità e della continuità), e da MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo. (liberalismo critico e liberalismo realista). Sul tema si ve dano inoltre, ex plurimis, NUSSBAUM, Perfectionist Liberalism and Political Libera- lism, Philosophy and Public Affairs; KYMLICKA, Liberal Indivi- dualism and Liberal Neutrality, Ethics; per una sintesi del dibattito a partire dalle critiche di Dworkin a Rawls v. VIOLA, Liberalismo e liberalismi, in Per la filosofia/ Sul tema della neutralità, o maggiore in- clusività del liberalismo politico rawlsiano, v., ex plurimis, DEL BÒ, La neutralità politica in John Rawls, in Materiali per una storia della cultura giuridica. In ambito penalistico, per un’approfondita rielaborazione di tali problemi v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, BARBERIS, Etica per giuristi, PULITANÒ, Diritto penale, V ed., Torino. Più diffusamente, FIANDACA, I temi eticamente sensibili; con approccio simile, sebbene con accenti differenti che lo pongono più vicino alle posizioni rawlsiane, PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale, in Riv. it.   Sensibilità individuali e libertà di espressione A ben vedere un mero richiamo al liberalismo assume oggi una funzione metaetica, ossia è un presupposto per avviare un discorso su problemi pertinenti la dimensione etica sostanziale: le questioni più spinose prendono corpo in un contesto che dà per acquisiti diritti di libertà, ma è sui contenuti e sulle modalità di esercizio di determi- nati diritti nei rapporti fra individui che si annidano le complessità. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste Alla luce del quadro descritto, è comprensibile che lo studioso di problemi penali sia chiamato in definitiva a elaborare proposte ‘poli- tiche’ nel senso nobile del termine, ossia a disegnare prospettive di politica del diritto e a emanciparsi da abiti mentali «che postulano una sorta di obbligo di prestazione scientifica consistente nel conce- pire modelli dogmatici di interpretazione del (presunto) sistema su- scettibili in quanto tali di fissare a priori, con nettezza e definitività, quel che è o non è legittimo trarre penalmente ai sensi della Costitu- zione» 66. L’individuazione di traiettorie assiologiche è l’esito di scelte che riflettono inevitabilmente le precomprensioni e la posizione valo- riale dell’interprete, in un contesto di non-neutralità. Cercheremo a questo punto di formulare ipotesi e proposte a par- tire da quella che ci sembra essere l’alternativa di fondo su cui si è imperniata fino ad oggi la discussione sul sentimento come problema di tutela nel contesto italiano, ossia se esso debba intendersi come richiamo ad atmosfere emozionali diffuse, e che si traducono in for- me di presidio a ideologie e concezioni valoriali proprie della mag- gioranza, oppure se nel richiamo al sentire umano sia rintracciabile dir proc. pen., rimarca l’esigenza di tenere ben pre- sente a livello concettuale la distinzione fra valori politici e valori morali, pur ri- conoscendo l’impossibilità di posizioni neutrali. Tale processo di complessificazione della prospettiva liberale si riflette an- che su categorie del pensiero giuridico. È importante notare come il principio del danno, lo Harm, abbia subito un graduale ampliamento dovuto non a una rifor- mulazione della struttura del concetto, bensì legato all’accentuarsi della proble- maticità delle premesse politico-filosofiche che ne guidano l’applicazione: è la ‘mappa del liberalismo’ a essere cambiata, osserva HARCOURT, The Collapse of the Harm Principle, The Journal of Criminal Law and Criminology, passando da un orizzonte basato sull’alternativa liberale-illiberale, a una pro- spettiva modulata su differenti modelli di liberalismo (Harcourt parla espressa- mente di ‘liberalismo progressista’ e ‘liberalismo conservatore. VISCONTI C., Aspetti penalistici. Tra sentimenti ed eguale rispetto una istanza normativa differente, in grado di dare risalto alla dimen- sione del singolo e al connotato personalistico della Costituzione sen- za necessariamente confluire in un approccio ‘naturalistico-emozio- nale’ modulato su soggettivismi. Come osservato, nelle fattispecie dell’ordinamento italiano i ‘sen- timenti’ tutelati sono parte di una sfera emotiva sociale, ossia ‘atmo- sfere emozionali’ legate a valori assunti in un’ottica collettiva. Il sog- getto portatore degli interessi tutelati è un’entità plurale, una molti- tudine impersonale caratterizzata da valori asseritamente comuni. Nell’attuale momento storico la reificazione di entità definite come ‘valori collettivi’ non appare più legata a una retorica statocentrica, ma si presenta piuttosto come possibile reazione a un indebolimento del- l’omogeneità etica e culturale indotto dal pluralismo fattuale. Il principio di massima è che il sentimento, anche quando rileva come fatto di coscienza individuale, rileva nella misura in cui è collegato ad un fatto non individuale, appunto a un modo di sentire sociale, a un’atmosfera emoziona- le socialmente diffusa e divisa in più o meno larghi ambiti da un’intera comuni- tà», v. FALZEA, I fatti di sentimento, cit., p. 320. Si valuti ad esempio l’interesse de- nominato ‘sentimento religioso’: il codice Rocco si pone a tutela, nelle rubriche e nella sostanza, alla sola ‘religione di Stato’. È interessante notare come anche do- po l’entrata in vigore della Carta costituzionale, l’oggetto di tutela viene ricostrui- to in un’ottica prettamente collettivistica che privilegia il dato dell’adesione quan- titativa. Pensiamo agli argomenti che la giurisprudenza costituzionale italiana ha adoperato per motivare il differenziato regime di tutela penale del culto cattolico, sia precedentemente sia successivamente alla modifica del Concordato: la Corte parla di «antica ininterrotta tradizione del popolo italiano, la quasi tota- lità del quale ad essa sempre appartiene», e ne legittima la tutela penale in quanto «professata nello Stato italiano dalla quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di particolare tutela penale, per la maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette in quanto l’universalità di tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popo- lo italiano è rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l’avvento della Costituzione», C. cost., n. 79/1958. Per una riflessione penalistica sul pluralismo delle fedi in Italia v. VISCONTI C., La tutela penale della religione; per una panoramica extragiuridica v. GARELLI, Il sentimento religioso in Italia, in Il Mulino. L’impatto della pluralità nella società contemporanea è parte di un processo «che vede la graduale erosione del fondamento tradizionalistico e religioso dei co- stumi e delle istituzioni a vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’am- bito delle opzioni soggette al libero esame e all’adesione interiore, e assottigliarsi, per così dire, lo spessore di oggettività degli oggetti sociali. Questo processo di “umanizzazione” – di riconduzione ai suoi soggetti ultimi, le persone umane – della vita sociale corrisponde anche a una progressiva estensione dell’ambito delle opzio- ni soggette alla scelta e responsabilità degli individui, e alla giurisdizione della ra- gione», v. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano. Sensibilità individuali e libertà di espressione  In ambito sociologico si riassume tale fenomeno affermando che la modernità pluralizza e deistituzionalizza69. La pluralizzazione na- sce dall’incontro di gruppi diversi, chiamati a condividere territori e spazi comuni in situazioni di mescolanza nelle quali diviene più dif- ficile, se non addirittura impossibile, addivenire a un consenso cogni- tivo e normativo, ossia a una visione del mondo omogenea e condivi- sa. L’allargamento del mercato delle idee moltiplica la possibilità di approcci alternativi alla realtà e contribuisce in questo senso a rende- re la costruzione della propria identità una questione di scelte e non l’esito scontato di programmi socialmente precostituiti. A seconda delle cadenze, l’appello a valori comuni giustificati sulla base di un sentire condiviso può rivelare sfumature di autoritarismo etico, soprattutto quando il ‘sentire comune’ sia addotto per sottoli- neare contrapposizioni sul piano valoriale: paradossalmente l’appello a un substrato di emozionalità condivisa può essere adoperato al fine di marcare differenze in termini di esclusione piuttosto che di inclu- sione. Fino a che punto ciò risulta compatibile con i valori di una demo- crazia liberale? Anche in questo caso l’appello al paradigma liberale non è suffi- ciente a definire risposte univoche, mantenendo aperti spazi di di- screzionalità politica, e in particolare rimandando alla discussione concernente l’alternativa fra un liberalismo di tipo ‘individualistico’ e un liberalismo di marca ‘comunitarista’. Le differenze fra le due cor- renti investono diversi profili della teoria politica; in estrema sintesi, secondo le teorie comunitariste «la comunità viene assunta ora come nucleo centrale di un paradigma normativo, a carattere etico o politi- co, ora come uno standard meta-etico, un parametro per la giustifi- cazione dei valori [cf. H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE – AXIOLOGY]; l’approccio individualista, più vicino al modello BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio. Come avere convinzioni senza diven- tare fanatici, tr. it., Bologna. Di fronte alle dinamiche di relativizzazione indotte dall’incremento di plura- lità nel tessuto sociale gli individui tendono a erigere delle ‘difese cognitive’, ossia ad affidarsi a esercizi mentali e strategie per mantenere alta la visione del mondo e l’approccio alla realtà a cui si dà credito. Nelle società contemporanee tale fe- nomeno può avere riflessi nelle determinazioni di politica del diritto: per placare l’ansia scaturita dall’irrompere della relativizzazione si erigono difese cognitive istituzionali, strumentalizzando il diritto quale veicolo promotore di valori identi- tari, v. BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio. PARIOTTI, voce Comunitarismo, in Enciclopedia filosofica. Tra sentimenti ed eguale rispetto liberale classico, pone al centro dell’orizzonte etico e normativo l’in- dividuo, non la comunità. A partire da queste premesse, si riflette anche nella prospettiva giuridica l’alternativa fra una declinazione del problema di tutela del sentimento incentrato sul momento di condivisione collettiva, ancor- ché parziale e non universalistica, e una diversa prospettiva che met- ta al centro l’individuo e le sue libertà da bilanciarsi in un’ottica di reciprocità egualitaria con i propri simili. 4.2. Dai valori collettivi all’individualismo democratico Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno criticato a fondo l’evocazione di valori collettivi [H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE – AXIOLOGY]: uno Stato che assegni rilevanza 72 Per un quadro ricostruttivo si vedano i saggi contenuti in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, Roma, 2000; FERRARA, Introduzione, in AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo; per una definizione d’individualismo comprensivo e una ricostruzione critica v. LARMORE, Dare ra- gioni. Il soggetto, l’etica, la politica, Torino, 2008, pp. 119 ss. La distinzione fra li- beralismo di marca individualista e comunitario emerge anche nel discorso di Joel Feinberg. L’Autore specifica che la sua aderenza all’idea liberale va conte- stualizzata: Feinberg sembra prendere con cautela, financo negare, la propria aderenza all’idea liberale classica secondo la quale autonomia dell’individuo e comunità costituirebbero due antitesi; nel discorso sulla legittimazione del diritto penale il filosofo americano dichiara di adoperare una concezione di liberalismo ‘in a narrow sense’ che non si identifica con un liberalismo estremo inteso quale contrapposizione a un’idea di comunità, v. FEINBERG, Harmless Wrongdoing. Ricordiamo le parole di H. L. A. Hart [citato da H. P. Grice]. “Sembra terribilmente facile pensare che la lealtà verso i principi democratici esiga che si accetti ciò che possiamo chiamare populismo morale: l’idea che la maggioranza ha un diritto morale a stabilire come tutti devono vivere. L’errore fondamentale consiste nel non distinguere il principio accettabile secondo il quale il potere politico è meglio affidato alla maggioranza, dalla pretesa inaccettabile che ciò che la maggioranza fa con quel potere, sia al di sopra di ogni critica e che non ci si possa mai opporre ad esso. Nessuno può dirsi democratico se non accetta il primo di questi principi, ma nessun democratico è tenuto ad accettare il secondo. v. H. L. A. HART [citato da H. P. Grice], Diritto, morale e libertà. Si tratta della ben nota risposta che il FILOSOFO OXONIESE da a Devlin, e al suo ‘The Enforcement of Morals’, nel quale si riconduce la moralità all’atteggiamento etico dominante nella popolazione: «Every moral judgement, unless it claims a divine source, is simply a feeling that no right-minded man could behave in any other way without admitting that he was doing wrong. It is the power of a common sense and not the power of reason that is behind the judgements of society, v. DEVLIN, The Enforcement of Morals, New York-Toronto. Sensibilità individuali e libertà di espressione 131 normativa a un particolare modo di dar valore a oggetti e idee in quanto condiviso dalla maggioranza, sta di fatto considerando gli appartenenti alla maggioranza in una condizione privilegiata rispetto agli altri cittadini. In altri termini, è ben possibile che il principio di maggioranza trasmodi in un principio di tracotanza. Più recentemente, nell’ambito della filosofia analitica, si è affer- mato che il tema dei valori condivisi è una «questione relativa alle credenze o alle opinioni condivise, secondo le quali una o più cose pos- siedono un certo valore» 76. Quando si cerca di spiegare a quali condi- zioni un certo valore possa dirsi ‘condiviso’, la motivazione più sem- plice e più immediata è la cosiddetta ‘teoria sommativa’: si ha condi- visione quando la maggior parte dei membri di un dato contesto o di una comunità assegnano valore alla medesima cosa. La domanda a questo punto è se una spiegazione sommativa sia sufficiente per affermare che in una società vi è realmente condivi- sione di valori, e, di conseguenza, per ritenere che ciascun soggetto abbia lo status, ossia la legittimazione, per pretendere che il compor- tamento dei propri simili debba essere rispettoso e coerente con i va- lori condivisi dalla maggioranza. Si è osservato che «se due o più persone hanno una certa opinio- ne, esse possiedono, evidentemente, un certo grado di identità quali- tativa. In generale, tuttavia, tale identità fornisce agli individui umani soltanto una forma superficiale di unità. I valori condivisi in senso sommativo uniscono soltanto in un modo superficiale. In altri termini, un riscontro storico-quantitativo della massiva adesione a un determinato valore in una società non dovrebbe esse- re considerato elemento sufficiente a fondare alcun tipo di pretesa nei confronti dei cittadini, salvo il caso di un impegno espresso Ex plurimis, VIOLA, Il principio di maggioranza e la verità in una democrazia, in Dialoghi. H. L. A. HART [citato da H. P. Grice], Diritto, morale e libertà, GILBERT, Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, tr. it., Milano. GILBERT, Il noi collettivo. Una critica alla concezione ‘sommativa’ della democrazia è leggibile, a no- stro avviso, anche nelle parole di chi, nella dottrina penalistica, ha sottolineato che aderire al metodo democratico non significa acconsentire alle idee dei più, bensì optare per una modalità collettiva, comunitaria, consensuale di creazione delle regole – valide poi per tutti – non fondate sul fattore-forza. La legalità democratica richiede ben oltre complesse tecniche di calcolo, l’adesione convinta a principi formulati in modo condiviso e perciò corresponsabilmente vincolanti»,  Tra sentimenti ed eguale rispetto che le parti accettino consapevolmente. Il sentire umano, nelle forme del sentimento e dell’emozione, è fattore di diversità, ma è anche, di base, il correlato fenomenico di un’uguaglianza di fondo fra individui resi al contempo uguali e diver- si dalle disposizioni del sentire: uguali in potenza, diversi in atto. La varietà di soglie di sensibilità, di assiologie personali e di repertori emotivi dei singoli sono parte di una dotazione universalmente con- divisa: tutti gli esseri umani (in assenza di condizioni patologiche) provano emozioni e sentimenti, e sulla base di tale potenzialità co- mune prende successivamente corpo la diversità. Per cercare di dare rilievo alla dimensione del sentire quale con- notato a vocazione universalistica, e non semplicemente quale base di frammentazione e di rivendica, ci sembra ragionevole prendere le distanze da strumentalizzazioni del sentimento in chiave identitaria, per riorientare la prospettiva a partire da diritti di libertà funzionali a consentire a ciascun cittadino di vivere la propria ASSIOLOGIA [cf. H. P. GRICE, THE CONCEPT OF VALUE] vocazionale. La sfida che sentimenti ed emozioni pongono oggi al diritto pena- le si focalizza sul riconoscimento di un’eguale dignità fra persone concretamente diverse, nella consapevolezza della varietà di preferen- v. MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti. Anche EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale, sottolinea che il principio di laicità richiede che le regole giuridiche di uno Stato non siano configurate secon- do ciò che è comprensibile solo nell’ambito di una specifica concezione morale anche se maggioritaria. L’elemento dirimente, e necessario, affinché si passi da una semplice condi- visione in senso sommativo a una condivisione tale da poter generare unità socia- le, è, secondo Margaret Gilbert, il cosiddetto ‘impegno congiunto’: «l’impegno congiunto è l’impegno a credere come un corpo unitario che una certa cosa C ab- bia un determinato valore V», v. GILBERT, Il noi collettivo. Gilbert, pur non discostandosi da un piano analitico-concettuale, non tralascia considerazioni su profili più propriamente politici: «[e]videntemente, il fatto che si abbia lo sta- tus per fare pressione sugli altri, se gli altri agiscono nell’inosservanza di un certo valore, non implica né che, in fin dei conti, si debba esercitare questa pressione, né che, in virtù di un impegno, si abbia ragione di farlo». Il caveat più significati- vo si rivolge, non a caso, all’ipotesi di adoperare il diritto penale quale strumento per la salvaguardia di valori collettivi. Anche in presenza di valori che possono dirsi ‘collettivi’ in virtù di presupposti assimilabili all’idea di ‘impegno congiunto’, e non solo di una mera spiegazione sommativa, la legittimità della pretesa di im- porre il rispetto di tali valori con strumenti normativi dipende da considerazioni sostanziali sul merito dei valori assunti a riferimento, sulla loro ‘correttezza’. ‘Va- lore collettivo’ non è di per sé sinonimo di un sentire corretto. Traggo l’espressione e il concetto da DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Sensibilità individuali e libertà di espressione 133 ze e dei molteplici, possibili stili e concezioni della vita buona. In questo senso appare importante evidenziare la matrice indivi- dualistica dei diritti di libertà: significa che prima viene l’individuo, si badi, l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato e non viceversa, che lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato» 81. Col richiamo al momento individualistico non intendiamo adom- brare la vocazione solidaristica e la proiezione relazionale dei diritti di libertà, ben leggibile nelle trame della Carta costituzionale. Riteniamo però che il problema della tutela di sentimenti debba essere oggetto di un deciso cambio di prospettiva che rompa con la tradi- zione del passato, nella quale il richiamo alla socialità era divenuto sinonimo di ‘statualità’, di dominio della collettività sul singolo, di assorbimento dell’individuo nel gruppo. Si rende in questo senso ne- cessario rinsaldare la connessione fra il sentimento e il principio per- sonalistico che pone «a base di tutto il sistema di rapporti fra stato e singoli l’esigenza di rispetto della persona, della ‘dignità’ corrispon- dente alla qualità dell’uomo come tale, quale che sia la posizione sociale rivestita. Rispetto alla retorica comunitarista-identitaria, un’alternativa che emerge oggi nel pensiero politico e che a nostro avviso si candida come sintesi ragionevole tra individualismo e ottica solidaristica, è il cosid- detto ‘individualismo democratico’ elaborato da Nadia Urbinat: una 81 BOBBIO, L’età dei diritti, Torino. Nel panorama penalistico si sof- ferma sul fondamento individualistico dei diritti PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale. Il rapporto fra liberalismo e attenzione alle differenze è teorizzato in modo peculiare da Rosenfeld, il quale contrappone il liberalismo in senso classico, di marca individualistica, a una posizione politica che riconosce valore alla pluralità, da Rosenfeld definita ‘pluralism’, e che saremmo portati a tradurre con ‘liberalismo pluralista’. La distinzione di Rosenfeld non ci sembra però tesa a confutare la matrice individualistica dei diritti di libertà, ma a sottoli- neare come l’attenzione alla dimensione del singolo, tipica del liberalismo classi- co, risulti poco funzionale alla tematizzazione delle appartenenze e dell’identità: v. ROSENFELD, Equality and the Dialectic between Identity and Difference, in AA.VV., ed. by Payrow Shabani, Multiculturalism and Law: A Critical Debate, Wales, Ex plurimis, RIDOLA, Diritti fondamentali. Un’introduzione, Torino. In ambito penalistico si è sottolineato l’intreccio e la reciproca interdipen- denza tra profilo personalistico e collettivistico di determinati interessi di tutela, v. DE FRANCESCO, Costituzione, persona, comunità: beni giuridici e programmi di tutela nella dinamiche della vicenda penale, in Dir. pen. proc. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova. Si tratta di un concetto che sottende una ben definita visione antropologica:   134 Tra sentimenti ed eguale rispetto reinterpretazione del concetto di individualismo classico, volta a distinguerlo dal negativo accostamento all’idea di egoismo, di ‘anarchia soggettiva’, di motore disgregativo a livello sociale. Il concetto di ‘individualismo democratico’ implica rispetto reci- proco e non-omologazione; una visione che si pone in antitesi sia con un individualismo egoistico che traduca disinteresse per la cosa pub- blica, sia con forme di comunitarismo identitario che comprimereb- bero l’individualità attraverso politiche di assimilazionismo e di im- posizione di ideali della vita buona. Come osserva la Urbinati: «Il problema sta quindi nel modo di concepire la comunità, poiché è evidente che le comunità totalizzanti e ascrittive sono in conflitto con l’individualismo democratico come lo sono con l’eguale diritto alla di- gnità e all’eguaglianza della legge. Rispetto alla reificazione dei legami identitari, il richiamo alla “divinità” di ciascun individuo e al di- ritto che ciascuno ha di contraddirsi per restare coerente a se stesso suona come un invito tutt’altro che anacronistico a situare la supre- mazia nella ragione e nel carattere, rovesciando i criteri di selezione dei valori, facendo cioè della persona stessa il fulcro senza il quale nessuna comunità potrebbe esistere» 85. In quest’ottica, il legame fra sentimenti e individualità può acqui- stare una valenza normativa come presupposto del riconoscimento dovuto agli uomini in quanto agenti morali 86. Vi sono diversità fat- tuali che derivano dalla eterogeneità nel sentire, le quali invocano un sostegno normativo come riconoscimento di libertà e uguaglianza in la democrazia non è solo una forma di governo ma anche e prima di tutto una ricca cultura dell’individualità. L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale ed economico perché non pensato come un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni diverse in una condizione ipotetica di perfetta informazione e libertà; e nemmeno come un individuo neutro, vuoto di specificità culturali, economiche o di genere. È invece una persona che ha un senso morale della propria indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed emozioni al- trettanto forti delle ragioni e degli interessi; che non è soltanto concentrata sulle proprie realizzazioni, ma anche emotivamente disposta verso gli altri per le ragioni più diverse, come l’empatia, la curiosità, la volontà imitativa, il piacere di sperimentare» URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia individualista, Roma- Bari. URBINATI, Liberi e uguali. Sul tema è fondamentale l’approfondita analisi di un Autore tendenzialmen- te vicino alle posizioni comunitariste: TAYLOR, La politica del riconoscimento, in HABERMAS-TAYLOR, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it., Milano. Sensibilità individuali e libertà di espressione 135 dignità e diritti87. La tutela delle libertà è la dimensione prioritaria; nondimeno, in nome di esigenze legate al riconoscimento, e in parti- colare tese a evitare il disconoscimento, si può porre il problema di interventi normativi al fine di salvaguardare equilibri di rispetto È su questo crinale che si impernia la questione che definiamo ‘tu- tela di sentimenti’ 89. 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metonimico’ e personologico Cercando di tirare le somme del discorso, date le suddette pre- messe filosofico-politiche, quale può essere la sostanza normativa da identificarsi con il ‘sentimento’? Esclusa l’ipostatizzazione di atteggiamenti emozionali su base maggioritaria, riteniamo che una visione alternativa dovrebbe incen- trare la prospettiva sul significato del sentimento come marcatore dell’originalità individuale che si interlaccia con le trame costitutive della personalità morale di un soggetto. Definiamo tale prospettiva come ‘personologica’ per evidenziarne la peculiarità rispetto a una più generica definizione come personalistica. Il termine personologia in uso nelle discipline psicologiche e filosofiche, designa, nel suo significato minimale, il discorso sulle caratteristi- che dell’individuo inteso come soggetto non riducibile alle dimensioni mentale e corporea 90, ma come esito di un’interazione con gli altri e con la realtà, all’interno di un percorso biologico e biografico unico e irripe- tibile. Questa impresa conoscitiva trova sviluppo soprattutto in seno alla Sul rapporto tra dati di natura e dimensione dei diritti, fondamentale HER- SCH, I diritti umani da un punto di vista filosofico, tr. it., a cura di De Vecchi, Milano. L’individuo delle democrazie si ciba [di riconoscimento e per questa ragione ha bisogno di essere circondato da simili, da chi è parte di una comunità di significato e di riferimento e con cui è possibile condividere una lingua, dei se- gni convenzionali che consentano una comunicazione immediata, delle tradizioni che facciano sentire sicuri e protetti», v. URBINATI, Liberi e uguali. Condivisibilmente, nella dottrina penalistica, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. Testo di riferimento è MARGOLIS, Persons and Minds. The Prospects of Nonre- ductive Materialism, Boston. Tra sentimenti ed eguale rispetto psicologia e alla filosofia; non intendiamo però ricalcare le categorizzazioni elaborate in ambito filosofico sui rapporti fra personologia e personalismo. Nel discorso giuridico, e in particolare penalistico, si usa parlare di personalismo e di concezioni personalistiche per indi- care prospettive teoriche che mettono al centro dell’orizzonte assio- logico la persona umana92 e che si impegnano conseguentemente a riconoscere in essa il punto di riferimento ultimo di norme e di problemi di tutela. Perché allora parlare anche di ‘personologico’? Dalla prospettiva filosofica riteniamo utile mutuare la definizione di personologia come ‘discorso su ciò che una persona è’93, in un quadro che non si riduce alle funzioni psichiche, concependo dunque sentimenti ed emozioni non solo come addentellato fenomenico che rimanda a stati contingenti e a moti interiori, ma come elementi co- stitutivi che concorrono a definire le disposizioni individuali e la complessiva ‘fisionomia morale’ della persona. È di secondaria importanza l’eventuale puntualizzazione se si stia in questo modo richiamando il sentimento in senso stretto ovvero l’emozione; è invece importante evidenziare che la rispondenza col mondo dei fenomeni affettivi deriva dalla connessione con ciò che abbiamo definito ‘stati disposizionali’: disposizioni del sentire, ossia coordinate costitutive della personalità morale dell’individuo, e non semplicemente reazioni episodiche. Nella prospettiva giuridico-penalistica, e con particolare riferi- mento ai rapporti fra libertà di espressione e reciproco rispetto, il ri- chiamo a sentimenti ed emozioni può ragionevolmente costituire una coordinata descrittiva dell’oggetto di tutela in senso simbolico, trasla- to, o meglio metonimico, come elementi che rimandano al substrato In ambito filosofico si distingue tra personologia e personalismo: Roberta De Monticelli intende col primo termine «una teoria della realtà di ciò che noi siamo», mentre il personalismo «è una tendenza più che una teoria» e i per- sonalismi del secolo scorso possono definirsi come «visioni del mondo cui “sta a cuore” una certa interpretazione della condizione umana», v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 30. La distinzione appare più sfumata nella definizione di MIANO, voce Personalismo, in Enciclopedia filosofica, secondo il quale IN SENSO LATO (cf. H. P. Grie, LOOSE] è personalistica ogni filosofia che rivendichi la di- gnità ontologica, gnoseologica, morale, sociale della persona, contro le negazioni materialistiche o immanentistiche. In senso rigoroso si dice filosofia personalisti- ca o personalismo la dottrina che accentra nel concetto di persona il significato della realtà». 92 Per una sintesi, v. CANALE, Persona, a cura di Ricciardi-Rossetti- Velluzzi, Filosofia del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma. Sensibilità individuali e libertà di espressione 137 più profondamente identificativo dell’essenza individuale: si menzio- na la parte (il sentimento o l’emozione), per additare il tutto (la per- sona) 94. Dire ‘tutela di sentimenti’ equivale a dire ‘tutela della persona e della sua libertà di vivere ed essere riconosciuto come soggetto di pari dignità nella propria personale ‘assiologia vocazionale’ 95. Non ci si deve dunque limitare alla presa in considerazione di fe- nomeni psichici ‘bruti’, ma si deve guardare ad essi come segno di individualità che chiedono di essere tutelate nelle libertà e che al con- tempo non possono ritenersi titolari di prerogative assolute: l’indi- viduo è uno, ma è al contempo anche ciascuno96, ossia vive in un contesto di relazioni che implicano diritti e doveri. 94 L’antropologia alla base del pensiero di Martha Nussbaum è basata sul fatto che «le emozioni sembrano essere eudaimonistiche, ovvero concernenti il prosperare della persona», v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, Il legame tra sentire e sviluppo della persona, inteso come realizzazione del sé, emerge anche in altri filosofi, quando si definiscono le emozioni come ‘atti di base’ che esprimono ‘posizionalità assiologica’, ossia il «realizzare la salienza, o valenza o valore negativo o positivo della data cosa o situazione», v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno, cit., pp. 195 ss.; non dunque risposte automatiche bensì posizionali, le quali possono es- sere più o meno appropriate, ma comunque rappresentano una parte fondamentale di ciò che una persona è, della sua struttura morale, «che è insieme velata e svelata dall’espressività personale: la quale indica infine lo stato in cui la persona si trova rispetto alla fioritura nuova che solo lei poteva portare al mondo» EAD., La novità di ognuno. In particolare attraverso il concetto di ‘posizionalità’ si osserva che la persona umana si costituisce nella propria individualità essenziale attraverso ‘atti’: con tale termine si vuole porre una fondamentale distinzione fra ciò che la persona ‘compie’, rispetto agli ‘eventi’ in cui un soggetto è coinvolto; l’atto comporta sempre un presa di posizione relativamente a un dato oggetto, e «[m]ediante le pre- se di posizione, e dunque, mediante gli atti, noi rispondiamo alla realtà circostante. Una risposta si distingue da una reazione precisamente in virtù della presa di posi- zione in essa contenuta. In ogni presa di posizione, pulsa, per così dire, l’individuo personale che mediante le sue prese di posizione costantemente si costituisce e si definisce», v. EAD., La novità di ognuno. Si è parlato di costituzionalizzazione della coscienza delle persone per sottolineare la rilevanza di «tutto ciò che la persona considera in coscienza come strettamente richiesto per la propria realizzazione, riconoscendo diritti collegati alle richieste d’identità e di libertà di scelta», v. VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Vi è un termine che ci sembra possa definire la portata accomunante e al contempo differenziante dei fenomeni affettivi: ciascunità. Lo prendiamo in prestito dal lessico psicanalitico, in particolare da HILLMAN, Il codice dell’anima, tr. it., Milano. In questo caso ci atteniamo però a un senso più let- terale-etimologico che all’accezione specifica elaborata dallo psicologo statuni- tense: ‘ciascuno’ è pronome che indica la totalità in modo non indistinto e sper- sonalizzante, bensì richiamando l’attenzione sui singoli. Tra sentimenti ed eguale rispetto In assenza di tale filtro normativo fondato sul valore dell’ugua- glianza, il richiamo a sentimenti ed emozioni può rappresentare una china scivolosa, poiché il debordare del discorso sul piano emozionale rischia di innescare un processo che altera la fisionomia delle questio- ni, relegandole a una dimensione di micro-conflittualità soggettiva. Si rischia in altri termini di alimentare ciò che la sociologa Isabel- la Turnaturi ha eloquentemente definito ‘rivendicazionismo psicolo- gico’: «un nuovo campo di battaglia in cui gli individui oppongono l’uno al- l’altro le proprie emozioni. Vissuti, percezioni, sensibilità si confrontano e si scontrano quotidianamente e conflitti sociali, di genere e culturali si spostano sul piano dei rapporti interpersonali. L’uguaglianza dei di- ritti si sposta sul campo emozionale, ciascuno è sempre più attento alle proprie emozioni e pretende per queste rispetto, attenzione e libertà di espressione-esibizione. La valorizzazione della sofferenza psicologi- ca e le narrazioni di sé affidate a un linguaggio esclusivamente psicolo- gico mentre pongono l’accento sull’individuo cercano l’origine di torti e offese subiti nell’appartenenza a un gruppo etnico, di genere, o nella condivisione di preferenze sessuali. Se sono i sentimenti a riscrivere la storia tutto può essere ri-narrato e ri-costruito secondo i punti di vista di chi sente offesa oggi la propria sensibilità. Tutto viene affogato in un confuso mare magnum sentimentale, in un apparente coinvolgimen- to emotivo che soffoca ogni forma di distanza al rispetto e riconosci- mento reciproco. Quel diritto di ciascuno alla propria narrazione, giu- stamente rivendicato, andrebbe forse declinato in un linguaggio meno psicologico e psicologistico, imposto nel discorso pubblico con la forza dell’argomentazione, ancorato a una cultura dei diritti liberata dalla co- lonizzazione emotiva. Il discorso politico mostra una sempre più accentuata tendenza al linguag- gio psicologistico ed emotivo, e più in generale tutta la comunicazione pubblica è problematicamente invasa da «confessioni, narrazioni, biografie, programmi e proclami politici che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui discrezione e della distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso emozionale, il di- scorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata nel mare di un presunto coinvolgimento», v. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, prefazione a ILLOUZ, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, tr. it., Milano. Eloquente è l’espressione con cui ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., p. 64, sintetizza il problema di una soggettivizzazione incentrata su aspetti di rettività emotiva: «¿Un derecho penal de sujetos pasivos? TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura. Sensibilità individuali e libertà di espressione L’approccio del diritto non può assecondare il rivendicazionismo psicologico ma deve essere declinato in termini ‘razionalistico-nor- mativi’ facendo riferimento a «norme o principi che si difendono e argomentano in quanto dotati di universalità, cioè in linea di prin- cipio valevoli per tutti coloro che si trovano nella medesima situazio- ne esistenziale» 99. Identifichiamo dunque sentimenti ed emozioni come ‘matrici di diversità’ tali da sollecitare la prospettiva penalistica in relazione al- l’esigenza di gestire equilibri di rispetto reciproco nella società plura- le di fronte a condotte in cui si manifesta l’‘originalità’ degli individui in quanto caratterizzati da culture, concezioni di valore, stili di vita, che ne identificano la personalità: da una parte richieste di libertà per poter affermare le proprie visioni del mondo e per vivere confor- memente a ciò in cui si crede; dall’altra parte istanze simmetriche, fondate sui medesimi contenuti ma di segno opposto, che chiedono a loro volta riconoscimento e rispetto attraverso l’altrui astensione da un certo tipo di espressioni e di comportamenti. Sinossi Delineate le coordinate teoriche per lo studio dei rapporti fra di- mensione emotiva e diritto penale e, in particolare, del sentimento quale problema di tutela, l’indagine si focalizza sui rapporti fra sen- sibilità soggettive e libertà di espressione. A suggerire l’approfondimento di tale specifica questione sono sia ragioni concernenti gli interessi emergenti dalle norme codicistiche, sia esigenze legate alla sempre viva, e per molti versi crescente, conflit- tualità che si registra nel discorso pubblico delle società occidentali. Il richiamo a sentimenti ed emozioni può costituire un’utile coordinata esplicativa, a patto di chiarire in che termini i problemi legati alla libertà di espressione possano essere intesi anche come ‘fatti di sentimento’. Gli approcci di fondo sono a nostro avviso fondamen- talmente due: il primo, che definiamo ‘naturalistico-emozionale’, è incentrato sul turbamento psicologico che può discendere dall’essere oggetto di determinate espressioni o dal contatto con determinate manifestazioni espressive; il secondo, che definiamo ‘razionalistico- normativo’, mette al centro l’analisi critica dell’emozione o del senti- VIOLA, Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale. Tra sentimenti ed eguale rispetto mento addotti quale ragione di potenziali divieti, al fine di verificarne la razionalità e la consonanza in rapporto ai valori e ai principi as- sunti quale riferimento per la regolamentazione politica. La partita decisiva si gioca sul piano delle alternative filosofico- politiche che concorrono a definire i tratti dei differenti, possibili modelli di democrazia. Con riguardo alla tutela di sentimenti, la scelta di fondo – probabilmente quella logicamente prioritaria – è fra l’avallo di interpretazioni del problema in chiave collettivistico-co- munitarista oppure in chiave soggettivo-individualistica. Sulla base delle istanze evidenziate dalla teorica dell’individua- lismo democratico, come elaborato da Nadia Urbinati, riteniamo che si debba in primo luogo emancipare la tutela di sentimenti da forme di presidio al sentire della maggioranza, interpretando il richiamo a fenomeni affettivi come forma metonimica tesa a evocare simboli- camente la persona nella sua dimensione di soggetto morale, riassu- mendone contemporaneamente, quale duplice faccia nello stesso ele- mento, la dotazione universalmente condivisa in termini egualitari (il provare sentimenti ed emozioni di ciascun individuo) e gli esiti po- tenzialmente conflittuali (la diversità nel sentire). La pretesa normativa definita ‘tutela di sentimenti’ viene così a identificarsi con un progetto teso a garantire il reciproco rispetto a partire da una cornice assiologica di libertà e pari dignità. FISIONOMIA DELL’OFFESA Oltre i sentimenti: gli interessi in gioco SOMMARIO Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida. Sensibilità religiosa. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale. Apparte- nenza e gruppalità. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca. Pari dignità ed eguale rispetto. Bilanciare le pretese. Dignità e capacità umane. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Margalit. Ai confini fra critica e discriminazione. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Waldron. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma. Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida Cerchiamo a questo punto di dare una fisionomia più definita ai conflitti legati alla sensibilità degli individui. In un importante studio di fine anni Novanta, il giurista Richard Abel parlava emblematicamente di ‘lotte per il rispetto’ per indicare il tipo di contesa dialettica che contraddistingueva il dibattito sulla pornografia, il contrasto al discorso razzista e le prese di posizione seguite alla pubblicazione di opere ritenute blasfeme in quanto criti- che o irridenti verso temi religiosi 1. Storie che hanno un nucleo co- mune, le definisce Abel, poiché «investono valori che ispirano emo-  ABEL, La parola e il rispetto, tr. it., Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto zioni profonde» 2. In relazione a temi di questo tipo eventuali espres- sioni di critica o di scherno sono in grado di attivare reazioni anche su scala collettiva, estendendo la dimensione dei problemi fino a coinvolgere l’ordine pubblico di singole realtà nazionali e anche del panorama globale. Lo scenario contemporaneo non si discosta più di tanto dal quadro tracciato qualche decennio fa da Abel: razza/etnia, fede religiosa/cre- denze, modi di concepire e vivere l’identità sessuale, sono ancora oggi ambiti tematici in grado di accendere conflittualità esorbitanti da un ordinario dissenso, dando luogo a un tipo particolare di scontro fra soggetti che ha a che vedere con la concrezione di affetti, interessi, ragioni e pregiudizi contrastanti che si fronteggiano e che paiono o sono fortemente vitali per coloro che ne sono portatori o portati» 3. Una dialettica ad alto tasso emotivo, nella quale emergono veri e propri ‘campi minati’ che potremmo definire ‘argomenti-trigger’, i quali hanno contribuito a riportare oggi il tema della libertà di espressione al centro del dibattito pubblico prima ancora che scientifico. Per meglio contestualizzare i problemi esporremo in modo sinte- tico alcune vicende tratte dal panorama nazionale ed europeo. In questa fase dell’indagine non ci concentreremo sulla qualifica- zione giuridica dei fatti, ma riteniamo preferibile individuare una ca- sistica ‘tipologica’ che possa fungere da palestra concettuale per riflettere sulle istanze di tutela che vengono associate a offese a senti- menti. Riportiamo anche episodi di rilevanza non strettamente pena- listica, i quali evidenziano come l’appello a sentimenti non sia conno- tato esclusivo della penalità ma possa presentarsi anche quale giusti- ficazione, più o meno esplicita, di forme differenti di intervento normativo. Attingeremo dal tema della critica/satira su temi religiosi e da epi- sodi concernenti le manifestazioni della sessualità. Riteniamo di non dover introdurre, per il momento, esempi legati al discorso razzista: in questa fase dell’indagine presentare il discorso razzista come pro- blema di sentimenti può essere fuorviante perché limitativo. Nel di- ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 27. 3 CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, in AA.VV., a cura di Scaparro, Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni al- ternative delle controversie, Milano, definisce tali conflitti ‘di seconda generazione’ per sottolinearne la diversità da quelli che toccano le sfere della ri- produzione materiale-economica e della sfera politica. 4 Per le medesime ragioni, in termini ancora più stringenti, non si presta a fungere da esempio prototipico il problema dell’incriminazione del c.d. negazio-   Fisionomia dell’offesa 143 battito sullo hate speech, categoria nella quale rientra la propaganda razzista, la lettura dell’incriminazione come forma di rassicurazione collettiva e come tutela della sensibilità del soggetto offeso assume una funzione sostanzialmente critica e confutativa rispetto a un mainstream che individua quale interesse di fondo la pari dignità, in- tesa come pericolo di discriminazioni e come offesa a valori sul piano simbolico5. A prescindere dalle diverse formulazioni mediante le quali lo hate speech assume rilevanza normativa nelle singole realtà nazionali, non si tratta a nostro avviso di un esempio prototipico di ambito normativo in cui il sentire, individuale o collettivo, possa concorrere a definire l’oggetto di tutela, per quanto le connessioni ri- spetto al tema in esame siano numerose e feconde, ma necessitino di essere contestualizzate a un livello successivo dell’analisi (vedi infra). nismo, il quale «non può essere inquadrato soltanto come una specie del discorso razzista, v. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa: tensioni at- tuali e profili penali, in Riv. it. dir. proc. pen. Fra le diverse istanze addotte a sostegno dell’incriminazione è ravvisabile anche l’offesa a un sentire condiviso, come evidenziato anche da BRUNELLI, Attorno alla punizione del nega- zionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., il quale sottolinea in questo senso la differenza fra ‘negazionismo-vilipendio’ e ‘negazionismo-istigazione’; cfr. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero. Si veda anche FRONZA, Criminalizzazione del dissenso o tutela del consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir. proc. pen., la quale mette in evidenza la natura del reato di negazionismo come ‘modello di crimina- lizzazione altamente consensuale’, rispondente ad aspettative e a emozioni della collettività. L’ampiezza e la pluralità di argomenti e controargomenti lascia però in secondo piano la lettura del problema come mera tutela della sensibilità; per una panoramica v. ex plurimis, FRONZA, Il negazionismo come reato, Milano; VISCONTI C., Aspetti penalistici; PULITANÒ, Di fronte al negazioni- smo e al discorso d’odio, in penalecontemporaneo.it, CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di umanità, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale. Per un’accurata sintesi delle strategie di legittimazione e degli interessi pro- tetti dall’incriminazione dello hate speech nel panorama internazionale, v. BROWN A., Hate Speech Law; la questione del danno alla sensibilità sogget- tiva e alla tranquillità psichica è trattata. Si è osservato che nella trattazione della tematica delle restrizioni normative allo hate speech sarebbe be- ne evitare generalizzazioni, non solo in relazione alla fenomenologia delle con- dotte, ma anche con riferimento all’individuazione, nella realtà dei diversi ordinamenti, del sistema di prodotti normativi che vanno a costituire ciò che gli stu- diosi definiscono ‘hate speech laws’; si tratta infatti di un insieme eterogeneo, non limitabile ai soli divieti penali, ma composto da statuizioni di diverso tipo che ne- cessitano di strategie di legittimazione differenti.Tra sentimenti ed eguale rispettoSensibilità religiosa Le contingenze storico-politiche suggeriscono di prestare partico- lare attenzione alla questione dei rapporti fra libertà di espressione e rispetto della sensibilità religiosa. L’attuale momento storico si caratterizza per una peculiare aura di passionalità, e purtroppo anche di violenza, che accompagnano una conflittualità per molti versi inedita 6. Le fonti mediatiche ci mettono oggi in condizione di ascoltare la ‘voce’ delle emozioni e di formularne interpretazioni con immedia- tezza; come ha scritto il filosofo Ermanno Bencivenga, dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo «[i]nsieme con le emozioni esplosero contenuti intellettuali di ogni genere: commenti e chiarimenti, diagnosi e previ- sioni, giudizi e proposte. Da un lato le emozioni di chi, avvertendo una ferita al proprio sentire religioso, ha agito con brutale violenza; dall’altro un’onda emotiva che di rimando ha stimolato riflessioni e prese di posizione che si sono rivolte non solo contro la condotta omicida, ma talvolta, più radicalmente, anche contro la religione e l’etnia di appartenenza dei soggetti autori del massacro. Per quanto le due posizioni siano del tutto incomparabili, prendere sul serio le emozioni di entrambe le parti è utile per provare a decodificarne le pretese. Le violente reazioni che negli ultimi tempi sono scaturite dalla pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana rap- presentano uno fra i tanti casi in cui la causticità di determinate forme di satira ha urtato la sensibilità di credenti di varie fedi religio- se. Riportiamo di seguito una sintesi di alcuni episodi tratti dalle cronache. 6 Una panoramica storica in HARE, Blasphemy and Incitement to Religious Hatred: Free Speech Dogma and Doctrine, in AA.VV., ed. by Hare-Weinstein, Ex- treme Speech and Democracy, Oxford; nella letteratura italiana, v. a cura di Melloni-Cadeddu-Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Una discussione dopo le stragi di Parigi, Bologna, 2015; FLORIS, Libertà di religione e liber- tà di espressione artistica, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica; OZZANO, Il fondamentalismo religioso: implicazioni politiche, in Nuova infor- mazione bibliografica. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Fisionomia dell’offesa 145 Caso 1: da una vignetta rispunta l’accusa di deicidio al popolo ebraico Nell’aprile 2002 un gruppo di palestinesi si rifugia all’interno della Basilica della Natività di Betlemme per sfuggire a una rappresaglia dell’esercito israeliano. I militari israeliani minacciano di entrare nel- la chiesa; chiedono che vengano consegnati loro quattro palestinesi, accusati di aver assassinato Rehavam Zeevi, ministro del governo Sharon. Giorni dopo, nel quotidiano italiano ‘La Stampa’ compare una vi- gnetta di Giorgio Forattini dal titolo ‘Carri armati alla mangiatoia’: la vignetta raffigura un tank israeliano contrassegnato con la stella di David mentre punta il cannone verso una mangiatoia sulla quale un bambino impaurito, chiaramente identificabile con Gesù, esclama: ‘Non vorranno mica farmi fuori un’altra volta?!’. La vignetta provoca lo sdegno e le proteste dell’allora presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzatto. Queste in sinte- si le motivazioni, così riportate da fonte giornalistica: «[u]na vignetta che non esito a definire orripilante. Ritorna così a galla, come da- to indiscutibile a monte della caricatura stessa, l’accusa di deicidio che pareva esser scomparsa dopo il Concilio Vaticano II. E questo proprio nel momento in cui l’Europa è scossa da una nuova ondata di attentati contro le nostre sinagoghe alla valutazione politica si aggiunge la teologia, ovvero la peggiore delle soluzioni. Cresce in modo nascosto e strisciante l’avversità per gli ebrei... Si attribuisce a una fantomatica malvagità giudaica la responsabilità di quanto sta succedendo a Betlemme» 8. Caso 2: le vignette danesi e l’insurrezione del mondo islamico per la rappresentazione del Profeta Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese Jyllands Posten pubblica nella versione on line dodici vignette satiriche su Maometto, in una delle quali il Profeta è raffigurato con una bomba al posto del turban- te. Le vignette vengono successivamente ripubblicate da diverse te- state giornalistiche europee, fra cui, il settimanale satirico francese Charlie Hebdo. Le proteste sono immediate sia nel continente europeo sia nei paesi di religione islamica 9: il direttore del giornale danese viene mi- 8 L’Unità. In Danimarca viene avviato un procedimento penale, poi archiviato, per bla- Tra sentimenti ed eguale rispetto nacciato di morte, e nelle settimane successive alla pubblicazione vengono organizzate manifestazioni di protesta da parte di cittadini islamici e anche da parte di esponenti governativi che chiedono al governo danese di formulare delle scuse ufficiali. Dure le prese di po- sizione dei governi di paesi arabi. Una significativa sintesi delle ragioni della protesta si trova nel cosiddetto dossier Akkari-Laban pubblicato da due Imam immigrati in Danimarca. Queste le principali rivendicazioni avanzate dagli Imam: viene chiesto un contatto costruttivo con la stampa ed in particolare con soggetti delle istituzioni (relevant decision makers), non sbrigativo, ma condotto con meticolosità e lungimiranza (with a scientific methodology and a planned and long-term programme) per rimuovere i malintesi tra le due parti. Si afferma che i musulmani non vogliono apparire arretrati e limitati, e non vogliono neppure accusare i danesi d’ideological arrogance. Obiettivo è avere relazioni sicure e stabili, e una Danimarca prospera per tutti. Si lamenta che i fedeli musulmani soffrono la mancanza di un riconoscimento ufficiale della fede islamica, circostanza che ha fra le immediate conseguenze la mancanza del diritto di costruire moschee. Si afferma infine che i musulmani non abbiano bisogno di lezioni di democrazia, e si ritiene ‘dittatoria- le’ e inaccettabile l’attuale modo europeo di concepire e gestire la democrazia 11. Caso 3: una discussa opera teatrale e l’offesa alla religione cattolica Viene presentato in Italia, dopo una tournée densa di polemiche in Francia, lo spettacolo teatrale di CASTELLUCCI (si veda) dal titolo ‘Sul concetto di volto del figlio di Dio’. L’opera rappresenta la storia di un figlio che accudisce il padre, non più autosufficiente. Sullo sfondo della scena, una rappresentazione del volto del Cristo (il famoso ritratto di Antonello da Messina), che a fine spettacolo viene lacerato e fatto oggetto del lancio di varie cose, fra cui del liquido nero da molti interpretato come feci. Malgrado i tentativi dell’autore di spiegare il significato della prosfemia e vilipendio di gruppi di persone. Anche in Francia viene aperto un procedimento contro Charlie Hebdo, poi concluso con un’assoluzione. Una sintesi delle vicenda processuali in BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette satiriche sull’Islam costituisce reato in Italia?, in Notizie di Politeia, La Repubblica; La Repubblica 11 Informazioni tratte dalla voce Wikipedia ‘Akkari-Laban dossier’, nella cui pa- gina si trova il link alla versione originale del dossier in lingua araba.   Fisionomia dell’offesa 147 pria opera, lo spettacolo è bersaglio di forti polemiche: si registrano manifestazioni di protesta da parte di alcuni esponenti del mondo cattolico, e anche il Vaticano arriva a definirla «un’opera che offende Gesù e i cristiani. Particolarmente significative le parole usate dal- la Curia milanese in un comunicato ufficiale per criticare la messa in scena al teatro Parenti: si richiama l’esigenza che sia «riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti cittadini milanesi vedono nel Volto di Cristo l’incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la ragione della propria esistenza [...]», criticando in questo senso una scelta che «avrebbe potuto farsi carico più attentamente della “dimensione sociale” della libertà di espressione Sentimento del pudore e pari dignità sessuale In relazione alle manifestazioni della sessualità emergono problemi differenti rispetto al passato in cui Abel si soffermava sul tema della liceità della pornografia; oggi assumono maggior rilevanza que- stioni legate all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità degli orientamenti sessuali sul piano del discorso pubblico e anche della regolamentazione normativa. Al centro dell’attenzione è il fenomeno della cosiddetta ‘omofobia’; nella Risoluzione sull’omofobia in Europa del gennaio del 2006 essa viene definita come «una paura e un’avversione irrazionale nei con- fronti dell’omosessualità e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, basata sul pregiudizio e analoga al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». La rilevanza penale di espressioni omofobiche è legge in diversi Paesi europei, non ancora in Italia14. Il modello di incriminazione privilegiato fa confluire il discorso omofobico nello hate speech; per Affermazioni di Wells, all’epoca assessore agli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, cui possono affiancarsi, per identità di contenuto, le opinioni di Padre Federico Lombardi, v. Corriere della Sera, Stralcio del comunicato della Curia milanese, così riportato in Avvenire. Una panoramica in GOISIS, Omofobia e diritto penale. Profili comparatistici, in penalecontemporaneo.it; DOLCINI, Omofobia e legge penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in Riv. it. dir proc. pen.; ID., Omofobi: nuovi martiri della libertà di manifestazione del pensiero?, in Riv. it. dir proc. pen.; RICCARDI, Omofobia e legge penale. Possibilità e li- miti dell’intervento penale, in penalecontemporaneo.it. Tra sentimenti ed eguale rispetto tali ragioni riteniamo che anche l’insulto omofobico non si presti a essere presentato in prima istanza come condotta offensiva di senti- menti: stati affettivi vengono certo in gioco nelle condotte omofobi- che, ma, come osservato per lo hate speech razzista, adottare come ipotesi di lettura primaria l’offesa a sentimenti rischia di incentrare la prospettiva sulla mera reattività emotiva. Con riferimento al tema della sessualità e della pari dignità degli orientamenti sessuali, si rivelano particolarmente problematiche le invocazioni dell’intervento penale che adducano offese al pudore mo- tivate non dal livello di particolare esplicitezza di condotte sessuali tenute in pubblico, ma in ragione dell’orientamento sessuale dei sog- getti 15. Detto in altri termini: può capitare, ed è capitato, che si invo- chino divieti per condotte sessuali dove il motivo dell’offesa è ricon- ducibile esclusivamente alla tipologia di relazione e dunque al- l’identità e alla dignità sessuale dei soggetti 16. Anche in Italia la stam- pa ha dato notizia di denunce per atti osceni a seguito di semplici ba- ci realizzati in pubblico nel contesto di un rapporto fra soggetti dello stesso sesso, benché nessuno dei procedimenti, per quanto ci è noto, sia giunto a una pronuncia di condanna 17. Caso 4: censura televisiva per un bacio gay Riteniamo particolarmente significativo, per quanto non sia inte- 15 Si veda il vasto, e grottesco, panorama di incriminazioni in vigore negli anni Ottanta in alcuni Stati americani. Definirle ‘leggi antisodomia’ appare improprio poiché i divieti attengono al tipo di atto piuttosto che al contesto della relazione. Ad esempio, in Arizona era penalmente rilevante la condotta di «un individuo che commetta volontariamente e senza costrizione, in qualunque modo innaturale, qualunque atto osceno libidinoso sul o con il corpo o qualunque parte o membro del corpo di un adulto di sesso maschile o femminile, con l’intento di eccitare, solleticare o gratificare la lussuria, la passione, o il desiderio sessuale di una qua- lunque delle persone coinvolte», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità. Le radici storiche del problema riportano alle leggi antisodomia, diffuse so- prattutto in ambito angloamericano; su tale tema in Inghilterra si sviluppò il ce- lebre confronto dialettico tra il filosofo di Oxford Herbert Hart e il giudice Patrick Devlin. Hart si oppose alle tesi moralistiche di Devlin con un’opera divenuta un manifesto del liberalismo giuridico: v. H. L. A. HART [citato da H. P. Grice], Diritto, morale e libertà, cit., 1968; per una sintesi, v. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto inglese), in Dig. disc. pen. Si tratta di episodi narrati da organi di stampa; a titolo esemplificativo si veda http://www.umbria24.it/cronaca/perugia-bacio-gay-tra-le-sentinelle-in-piedi- alfano-riferisce-in-aula-diretta-streaming; tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/- ContentItem-81e83656-04b5-4485-ac45-e4e5d912bc58.html.   Fisionomia dell’offesa ressato il piano penalistico, un episodio di vera e propria censura nel- la televisione italiana di Stato, espressamente motivata da un ‘eccesso di sensibilità’, che ha portato al taglio e alla mancata messa in onda di una scena comprendente un bacio omosessuale. Viene trasmesso sul canale nazionale italiano Rai 2 la serie tv statunitense ‘Le regole del delitto perfetto’. La puntata va in onda con dei tagli rispetto alla versione origi- nale: vengono infatti rimosse le sequenze ritraenti un bacio fra sog- getti di sesso maschile. A seguito delle polemiche levatesi contro una simile censura, la direttrice di Rai Due commenta «Non c’è stata nes- suna censura, semplicemente un eccesso di pudore dovuto alla sensi- bilità individuale di chi si occupa di confezionare l’edizione delle se- rie per il prime time» 18. 2. Appartenenza e gruppalità Negli argomenti addotti da coloro che lamentano un’offesa rico- nosciamo un’evidente componente emozionale, soprattutto con rife- rimento alla vignetta sulla religione ebraica e nell’opera teatrale con- testata da una parte del mondo cattolico. Nel primo caso lo si può desumere dal lessico (pensiamo alla parola ‘orripilante’ che evoca una sensazione di disgusto); nell’opera teatrale si è criticato soprat- tutto il gesto del lanciare materiali assimilati a feci contro l’immagine del Cristo, azione il cui significato iconoclasta sarebbe stato, forse, percepito in termini più attenuati senza il richiamo (peraltro non univoco) alle feci, e che invece ha indotto nei fedeli una sensazione di ‘disgusto morale’. Nel caso della censura televisiva, la giustificazione offerta in sede pubblica parla di ‘eccessiva sensibilità’ volta a evitare l’offesa al pudore, mentre appaiono più complesse le motivazioni ad- dotte in sede pubblica dai fedeli musulmani con riferimento alle vi- gnette danesi 19. Tutti i suddetti conflitti possono a nostro avviso inquadrarsi in Corriere della Sera.  La reazione all’offesa religiosa si unisce ad argomenti inerenti la situazione politica e le condizioni di vita dei musulmani in Danimarca; al di là della cautela con cui è bene accogliere tali istanze, resta il fatto che la rappresentazione attra- verso le vignette si presta a essere interpretata anche come etichettamento dell’in- tera comunità musulmana nei termini di ‘terrorista’, in questo senso andando ol- tre la semplice irrisione sul piano religioso. Tra sentimenti ed eguale rispetto contrapposizioni di carattere gruppale, nelle quali cioè le ragioni del- lo scontro si legano a profili che sono identificativi di un particolare gruppo o categoria di persone da cui si vuole prendere una ‘distanza’. Intendiamo il concetto di gruppo in un significato più esteso della sola appartenenza etnico-culturale, e che non è limitato a gruppi c.d. ‘minoritari’ o contrapposti alla cultura dominante, ma che è fun- zionale a designare tensioni tra forme di appartenenza che attraver- sano i confini delle singole realtà geopolitiche 21. Un’appartenenza che si radica nel sentire dell’individuo, la cui de- finizione può a nostro avviso esser fatta coincidere con il termine ethos, il quale rimanda letteralmente ai concetti di abitudine e di usanza, intesi come elementi costitutivi della diversità fra popoli e fra individui, e che nella filosofia contemporanea è adoperato per desi- gnare «una complessiva, non necessariamente esplicita, concezione del be- ne, o uno stile di vita, che può anche avere una radice religiosa, e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche comunità di appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme di questa comunità: in questo senso un ethos può definire l’identità culturale o religiosa, e lato sensu morale di una persona. Un’ulteriore connessione può trovarsi nei concetti di categorizzazione e di autocategorizzazione. Secondo quanto osservato in psicologia sociale, il sistema cogniti- vo umano per far fronte alla complessità del mondo esterno sviluppa la tendenza a pensare gli oggetti raggruppandoli in insiemi, accomu- nandoli sulla base di informazioni e di dati estendibili alla totalità di A questo livello non vi sono, a nostro avviso, esigenze penalistiche di delimi- tazione del concetto di appartenenza, le quali invece appaiono evidenti quando il richiamo al gruppo o alla cultura sia funzionale a introdurre eventuali fattori di attenuazione della responsabilità penale, come nel caso dei c.d. ‘reati cultural- mente motivati’. In tale ultimo caso la rilevanza sul piano penalistico è necessa- riamente subordinata a una specificità che deve consentirne l’accertamento in sede processuale: v., per tutti, DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, pp. 25 ss.; EAD., voce Reati culturalmente condizionati, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano; in senso lato, il problema può riconnettersi alla categoria generale della c.d. inesigibilità, v., per tutti, FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel diritto penale, Padova. Accenna a tale distinzione KYMLICKA, La cittadinanza multiculturale, tr. it., Bologna, MONTICELLI, La questione morale. Fisionomia dell’offesa essi. Tale processo classificatorio può avere a riferimento anche le persone, e si tratta di un momento essenziale del rapporto con l’altro: «Il mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in insiemi omogenei di persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste suddivisioni sono più importanti e cariche di significato, come l’appartenenza etnico culturale, la lingua, la religione, la famiglia, le ideologie, l’orientamento politico; ma anche il genere, l’età, l’orientamento sessuale, l’occupazione, la zona di residenza, e perfino aspetti molto più marginali come gli hobby, gli stili di consumo o la preferenza per una squadra di calcio, sono in grado di diventare potenti elementi di identificazione collettiva. La tendenza alla gruppalità induce una propensione a classifi-care gli altri individui, e si manifesta anche in senso riflessivo come percezione di sé basata sul sentirsi parte di una categoria, ossia come autocategorizzazione; più in particolare, l’autocategorizzazione si pone come fondamentale momento di costruzione dell’identità sociale relativamente all’edificazione dell’immagine di sé e al modellamento delle sfere relazionali. Tale assunto ricorre anche in ambito antropologico: «l’esperienza della diversità di modi di vivere porta spesso a dare giudizi di valore, sulla base del sapere garante dell’identità del proprio gruppo, su di noi rispetto agli altri e sugli altri rispetto a noi. Categorizzazione e autocategorizzazione rappresentano dunque concetti essenziali per la comprensione di dinamiche relazionali e comunicative in cui vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo, tali da renderlo particolarmente sensibile a ciò che vie- LEONE-MAZZARA-SARRICA, La psicologia sociale. Processi mentali, comunica- zione e cultura, Roma-Bari, HAIDT, Menti tribali. Si vedano, ex plurimis, CRISP-TURNER, Psicologia sociale, tr. it., a cura di Mosso, Torino; BROWN R., Psicologia sociale del pregiudizio, tr. it., Bologna; CARNAGHI-ARCURI, Parole e categorie. La cognizione sociale nei contesti intergruppo, Milano; TAJFEL, Gruppi umani e categorie sociali, tr. it., Bologna; RAVENNA, Odiare. Quando si vuole il male di una persona o di un gruppo, Bologna, ANGIONI G., Fare, dire, sentire, Ci riferiamo a caratteristiche costitutive dell’identità che siano particolar- mente totalizzanti o ‘dispotiche’, nel senso che, pur essendo oggetto di scelta, ten- dono ad assumere una portata fortemente invasiva della sfera personale, anche fino a generare situazioni di concorrenza e incompatibilità con altre appartenen- Tra sentimenti ed eguale rispetto ne detto28 sia riguardo alla sua appartenenza a un gruppo, sia ri- guardo al gruppo in sé e a ciò che lo identifica 29, e anche riguardo a fatti di conoscenza che si pongono a confutazione o in contrasto con il patrimonio di conoscenze tramandato e acquisito dal gruppo 30. Secondo la ricostruzione dello psicologo sociale Jonathan Haidt, l’uomo ha una natura sia egoista sia gruppista, e possiede una mente ‘tribale’: l’aderenza al gruppo ‘unisce e acceca’, nel senso che crea i presupposti per la socialità e al contempo può intrappolare le perso- ne nelle matrici morali del gruppo di appartenenza, ingenerando conflittualità fra gruppi contrapposti. Un risvolto di tale relazione è l’accentuata emotività che si lega al- le questioni inerenti l’appartenenza: ma qual è la pretesa che acco- muna le parti in conflitto? cosa ‘chiedono’ le emozioni in termini di reciprocità? ze. L’esempio principale è l’identità religiosa; sul tema della costruzione dell’iden- tità e del particolare ruolo ‘dispotico’ dell’identità religiosa v. PINO, Identità perso- nale, identità religiosa e libertà individuali, in Quad. di diritto e politica ecclesiasti- ca. Il linguaggio trasmette l’interazione con gli altri. Narra le categorizzazioni sociali di cui ci serviamo. Reiterandoli consolida gli stereotipi. Partecipa alla costruzione e all’alimentazione dei pregiudizi. E così facendo influenza in modo rilevante la percezione sociale di un determinato gruppo, v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I discorsi d’odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale, in penale contemporaneo.it Quali sono queste appartenenze e in base a quali criteri il diritto può attribuire una rilevanza? L’interrogativo, nella sua estrema complessità, non può essere affrontato nel presente lavoro; nondimeno va tenuto conto che sia nelle scienze sociali, sia, di riflesso, nella prospettiva giuridica, si tratta di un problema aperto che può influire in modo determinante sull’approccio agli eventuali limiti alla li- bertà di espressione, v. BROWN A., Hate Speech Law. Il tipo di identità che sembra assumere una rilevanza peculiare sul piano politico è ciò che CA- STELLS, Il potere delle identità, tr. it., Milano, definisce come resistenziale’, ossia quella «generata dagli attori che sono in posizioni o condizioni svalu- tate e/o stigmatizzate da parte della logica del dominio». Nondimeno, il valore politico dell’identità può risultare condizionato anche dal grado di ‘dispoticità’ e della conseguentemente combattività nella sfera pubblica, v. supra, nota 27. 30 Si soffermano su tale ultima tipologia di conflitto, tra fatti di sentimento e fatti di conoscenza, GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero, analizzando in particolare, in riferimento al contesto statunitense, il tema dell’opposizione all’insegnamento delle teorie evoluzionistiche negli istituti di istruzione di orientamento creazionista. HAIDT, Menti tribali. Sul particolare profilo che Haidt definisce ‘principio di sacralità’, il quale porta a ritenere determinate cose (non semplicemente materiali ma anche teorie e ideologie) come identifica- tive della moralità del gruppo.   Fisionomia dell’offesa Rispetto, riconoscimento, stima reciproca Il concetto che meglio definisce l’atteggiamento relazionale che ciascuno esige dai propri simili è il rispetto. Ogni individuo si forma una propria intuitiva nozione di rispetto, la quale può fondarsi su istanze più o meno giustificate; non è però a una tale solipsistica concezione che il diritto può fare riferimento. La parola ‘rispetto’ ha assunto nel corso della storia significati differenti, ma ciò che ci interessa oggi è ricostruirne il contenuto dal punto di vista politico, non solo come atteggiamento individuale, ma soprattutto come principio per la convivenza nella diversità. Che cosa vuol dire rispettare le persone? Il pensiero filosofico ha riservato particolare attenzione a tale que- stione, e soprattutto nell’epoca attuale il tema ha assunto un’innovativa importanza: il rispetto per le persone e fra le persone rappresenta una aspetto costitutivo della qualità morale delle democrazie moderne. Si parla oggi non di un generico rispetto, ma di un rispetto democratico, non gerarchico, che assume come presupposto l’uguaglianza e la pari dignità: l’eguale rispetto, definito da un’autorevole interprete «ragione morale alla base dell’ordinamento democratico» 33. Sia chiaro: l’eguale rispetto rappresenta un’idea che riconosce im- portanza morale alla ricerca di ragioni comuni (nel senso di ‘meno comprensive’) 34 da porre a fondamento di scelte normative, ma non è una teorizzazione neutrale o dai caratteri meramente procedurali. È una concezione eticamente ‘spessa’ che sintetizza il cardine assiologi- co della democrazia: «un principio morale che richiede il riconosci- mento degli altri come pari in virtù della comune umanità. Quando si parla di ‘eguale rispetto’ si intende un atteggiamento di necessario e aprioristico riguardo di cui ogni essere umano è con- temporaneamente titolare e debitore nei confronti degli altri indivi- Per tutti v. MORDACCI, Rispetto, Milano. Si sottolinea che l’eguale rispetto rappresenta un principio comune alle principali strategie di giustificazione della legittimità democratica, v. GALEOTTI, La politica del rispetto. I fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari. GALEOTTI, La politica del rispetto. Sulla definizione di ‘concezione comprensiva’, v. VECA, La filosofia politica: si usa dire che una teoria morale è comprensiva quando essa include e si estende sull’intero dominio di ciò che per noi vale. GALEOTTI, La politica del rispetto. Tra sentimenti ed eguale rispetto dui, secondo una reciprocità fra pari. Lo si definisce ‘rispetto- riconoscimento’ per distinguerlo dal cosiddetto ‘rispetto-stima’ «che consegue alla considerazione positiva del carattere, delle condotte, dei risultati conseguiti da una particolare persona» 38, e che è connes- so a una valutazione di meritevolezza che può mutare. La distinzione fra le due forme di rispetto esprime anche un’indi- cazione sul valore e sull’importanza che esse assumono in un oriz- zonte democratico: l’impegno prioritario è il rispetto-riconoscimen- to 39, mentre l’atteggiamento di stima è quello che più risente di emo- zioni contingenti e di inclinazioni individuali, e non è un obiettivo proponibile in un contesto pluralista e culturalmente disomogeneo, nel quale un dissenso intersoggettivo, anche aspro, tra opinioni e orientamenti etici, dovrebbe considerarsi fisiologico 40. Le oscillazioni del rispetto-stima rappresentano in definitiva un risvolto della libertà 36 Viene sottolineato che il rispetto come riconoscimento non può venir meno di fronte a nessuno, neppure di fronte al criminale più efferato o a chi si sia reso autore di azioni che travalicano ogni idea di umanità. Chi afferma che rispetto a determinati comportamenti esiste l’eventualità che un soggetto perda tale status, procede sulla base di un’ulteriore specificazione, la quale individua nel rispetto- riconoscimento due componenti distinte: il sentimento di riguardo e la dispo- sizione ad agire. La perdita del rispetto come riconoscimento può intaccare solo il sentimento di riguardo: «mentre possiamo sospendere l’atteggiamento di ri- spetto – smettendo di considerare quell’uomo degno del nostro riguardo – non possiamo ignorare i vincoli morali delle nostre azioni nei suoi confronti, v. GALEOTTI, La politica del rispetto, È sulla reciprocità che si impernia la dimensione morale del rispetto: pensare moralmente, costruire un ragionamento morale, significa intrattenere con gli altri una relazione di mutuo riconoscimento, cioè dar loro pari dignità e pretendere da loro il rispetto e il riconoscimento della nostra dignità», così BAGNOLI, L’autorità della morale, Milano, GALEOTTI, La politica del rispetto; DARWALL, Two Kinds of Respect, Ethics. Sottolinea come la nozione stessa di democrazia apra «a un concetto del rapporto secondo giustizia con l’altro fondato sul suo riconoscimento, e non sul giudizio inerente alle sue capacità o alle sue qualità EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale. Sull’importanza del principio dell’eguale rispetto-riconoscimento nel diritto penale, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 26 ss. 40 Si apre qui il problema, sconfinato, della tolleranza e degli eventuali limiti alla tolleranza: sul tema v., ex plurimis, GALEOTTI, La tolleranza. Una proposta plu- ralista, Napoli; WALZER, Sulla tolleranza, tr. it., Roma-Bari; sul tema dei limiti, v. BOBBIO, L’età dei diritti; POPPER, Tolleranza e responsabili- tà intellettuale, a cura di Mendus-Edwards, Saggi sulla tolleranza, Milano, Fisionomia dell’offesa di critica, diritto da considerarsi fondamentale in una democrazia ispirata al pluralismo assiologico. A nostro avviso le categorie della stima e del rispetto-riconosci- mento ripropongono con un diverso lessico l’esigenza di distinguere tra offese alla sensibilità soggettiva e forme di offesa che appaiano orientate a minare qualcosa di più radicale, ossia il rapporto di rico- noscimento reciproco fra persone: nel secondo caso emozioni e sen- timenti entrano in gioco non solo da un punto di vista esteriore/feno- menico, bensì quale tratto della personalità che si presta a strumen- talizzazioni in chiave discriminatoria. Ed è in questi termini che si è affermata l’assoluta rilevanza del rispetto-riconoscimento per una società: «Fare del riconoscimento il tema centrale di un ragionamento filosofi- co-politico significa quindi che le società devono impegnarsi a pro- muovere delle regole capaci di creare e costituire istituzioni tali da non discriminare alcun soggetto – persona, famiglia, gruppo inclusivo – considerandolo oggetto, o non umano. Per approfondire tale ultima prospettiva di significato ci appog- giamo all’elaborazione di Axel Honneth, il quale definisce il ricono- scimento: «un processo nel quale il singolo può pervenire ad una identità pratica nella misura in cui abbia la possibilità di accertarsi del riconoscimento di se stesso attraverso una cerchia sempre più vasta di partner della comunicazione. Al mancato riconoscimento può conseguire, secondo Honneth, un vulnus definibile come ‘spre- gio’ o ‘offesa’, il cui effetto è l’alterazione dell’immagine che una per- sona ha di sé 43. Secondo Honneth le forme di mancato riconoscimento possono avere differenti gradazioni: si può avere uno spregio che coinvolge la dimensione fisica, conculcando la libertà di autodeterminazione; e si CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 66; nell’elaborazione di Ceretti la centralità del concetto di riconoscimento si inqua- dra in una prospettiva di applicazione della mediazione ai conflitti legati all’ap- partenenza. Più diffusamente sul tema del riconoscimento nella mediazione e nel- la giustizia riparativa, v. ID., Mediazione. Una ricognizione filosofica, in AA.VV., a cura di Picotti, La mediazione nel sistema penale minorile, Padova; MANNOZZI-LODIGIANI, La Giustizia riparativa. Formanti, parole, metodi, Torino, HONNETH, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post- tradizionale, tr. it., Messina. Sul tema vedi anche TAYLOR, La politica del riconoscimento. Tra sentimenti ed eguale rispetto possono avere forme di umiliazione che influiscono sulla cosiddetta ‘autocomprensione normativa’ della persona, escludendola struttu- ralmente dal godimento di diritti, oppure – ed è questa la forma per la quale il termine ‘spregio’ viene più comunemente in uso – negandole valore sociale tramite lo svilimento di modi di vita individuali o collettivi 44. Riguardo a tale ultima dimensione di significato si è detto che la questione del riconoscimento è cruciale nella costituzione dell’iden- tità personale, la quale si forma attraverso una «negoziazione che av- viene via dialogo, in parte esterno e in parte interiore, con altre per- sone», con l’importante conseguenza che «sia sul piano intimo sia su quello sociale (quello della politica dell’uguale dignità) la nostra iden- tità si forma (o deforma) in relazione ai nostri incontri con “altri si- gnificativi. Ebbene, è fondamentale il passaggio dal piano intimo a quello so- ciale, in un percorso che deve tenere ben presenti e ben distinti en- trambi i profili: nella individuazione di un’offesa il piano intimo en- tra in gioco ma non può rappresentare un criterio assoluto; il richia- mo al piano sociale, e a una dimensione di normatività oggettivabile, risulta cruciale. Honneth afferma che «ciò che lo spregio qui sottrae alla persona, in termini di riconoscimento, è l’approvazione sociale di una forma di autorealizzazione, alla quale essa stessa ha prima dovuto faticosamente pervenire attraverso l’inco- raggiamento della solidarietà di un gruppo, v. HONNETH, Riconoscimento e di- sprezzo. CERETTI, Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione. È in base a tale distinzione, tra piano intimo e piano sociale, che possono eventualmente essere tematizzate questioni relative a quali siano gli ideali, le cre- denze, le concezioni valoriali, e più in generale quali profili dell’identità morale della persona possano essere presi in considerazione dal diritto, v. HÖRNLE, Prote- zione penale di identità religiose?, Ragion pratica. La studiosa lascia volutamente in sospeso la questione della soglia al di là della quale uno Sta- to dovrebbe adoperarsi per promuovere il mutuo riconoscimento, pur non na- scondendo notevoli perplessità sull’eventuale ricorso al diritto penale, e si limita a rimarcare che il dare rilevanza a particolari profili dell’identità morale, come ad esempio la fede religiosa, crei problemi di disuguaglianza rispetto ad altre forme di propensione alla trascendenza, e pertanto, non potendosi ragionevolmente ga- rantire a tutte lo stesso regime di tutela, lo Stato dovrebbe mantenere un atteg- giamento di neutralità astenendosi dal tutelare l’identità religiosa.   Fisionomia dell’offesa Pari dignità ed eguale rispetto Il disconoscimento è anche un’offesa al sentire, nella misura in cui tocca corde significative dell’animo; ma non è scontato che un’offesa al sentire possa anche considerarsi come negazione del riconoscimento. Il rispetto-riconoscimento non è il riflesso univoco di reazioni emotive, ma ha più a che fare, naturalmente, con quella dignità ultima che non si inchina, che pretende il rispetto in forza di un valore intrinseco della persona, un valore che ciascuno rivendica per sé stesso come inviolabile: si tratta, in definitiva, della proiezione relazionale del valore della dignità umana. Parlare di violazione del rispetto-riconoscimento ricalca prima fa- cie le cadenze dell’offesa alla dignità: un accostamento tutt’altro che risolutivo, e anzi assai problematico poiché rimanda alle profonde criticità che sono state espresse con riferimento alla configurabilità della dignità umana come oggetto di tutela penale 48. L’indeterminatezza penalistica è la ricaduta di una più generale difficoltà di dare alla dignità un contenuto e una dimensione oggetti- vi. La forte pregnanza emotiva che innerva tale concetto lo rende par- ticolarmente esposto a ricostruzioni di parte, e dunque a un uso che sul piano della politica del diritto appare problematico in rapporto alle dinamiche di una società pluralista. Il rischio è che il contenuto del concetto di dignità umana si tramuti nel mero riflesso di concezioni comprensive, le quali, ove tra- sfuse nella dimensione giuridica, incrementerebbero dissensi e frammentazioni. In altri termini, la dignità umana è un concetto «fondamentale ma “manipolabile. Si tratta di obiezioni che hanno il merito di mettere a nudo da un lato la forza retorica, e dall’altro la fragilità contenutistica di un ri- chiamo alla dignità umana tout court, probabilmente anche fino al MORDACCI, Rispetto. Per una panoramica sul dibattito a livello internazionale v. ROSEN, Dignità. Storia e significato; per un’approfondita critica dell’appello alla dignità v.CARMI, Dignity – The Enemy from Within: A Theoretical and Comparative Analysis of Human Dignity as a Free Speech Justification, in 9 Journal of Constitutional Law. Per una sintesi v. VERONESI, La dignità uma- na tra teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quaderni costituzionali, RAWLS, Liberalismo politico. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa. Tra sentimenti ed eguale rispetto punto di non passare il vaglio dei principi penalistici; ma sono ragio- ni sufficienti a espungere radicalmente il valore della dignità dal di- scorso sui problemi di tutela? Il richiamo alla dignità umana non sembra un postulato da cui prendere le mosse per l’elaborazione di argomenti di parte, bensì dovrebbe essere considerato come la dimensione di senso di ogni di- scorso che abbia a che fare con problemi di convivenza fra uomini. Le difficoltà, financo l’impossibilità, di un utilizzo del concetto di dignità sul piano tecnico-giuridico non ci sembrano una ragione suf- ficiente a mettere da parte l’orizzonte simbolico e semantico che ruota intorno alla dignità. Anche le critiche più radicali ci sembrano rivolte all’uso piuttosto che al valore sostanziale e alla pertinenza rispetto alle questioni in gioco53: si sta maneggiando un ‘superconcetto’ che sarebbe necessario introdurre nel discorso con maggiore cautela, per ragioni di tipo epistemico ed etico. Pur partendo dal presupposto che il concetto di dignità «è intuiti- vo, nient’affatto chiaro di per sé», pare difficile poterne fare del tutto a meno: sebbene sia un’idea imprecisa, il cui contenuto va appro- fondito in rapporto a nozioni correlate, l’idea di dignità fa comunque la differenza» 55. Martha Nussbaum esorta a non abbandonare le co- È fuorviante contrapporre in modo meccanico e astratto la dignità uma- na ai diritti che la Costituzione riconosce», v. AMBROSI, Costituzione italiana e manifestazione di idee razziste o xenofobe, a cura di Riondato, Discri- minazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova. Condivisibilmente, VERONESI, La dignità umana, sostiene che la dignità non debba essere identificata né con un diritto, né con la piana conseguenza della violazione di un diritto, né come un principio auto- nomamente azionabile, evidenziando in questo senso ragionevoli obiezioni a un appiattimento della dignità sulla dimensione del diritto positivo. La distinzione fra il concetto di dignità (concept) e le plurivoche concezioni che da esso derivano (conceptions) è evidenziato da MCCRUDDEN, Human Dignity, in un discorso che cerca di evidenziare il rapporto fra il ‘nucleo duro’ del significato (core value) e le diverse declinazioni che emergono dal discorso giuridico. 54 Per tutti, v. HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. Pretendere di dare una veste conchiusa e definita della dignità, identifican- dola univocamente in un interesse ‘a senso unico’, rischia di essere una mossa azzardata sul piano epistemico e anche una forzatura sul piano etico, ove si pre- tenda di identificare il contenuto della dignità con istanze fondate su concezioni comprensive. NUSSBAUM, Creare capacità, tr. it., Bologna. Nel panorama italia- no, si veda la difesa del valore e del ruolo della dignità proposta da FLICK, Elogio della dignità (se non ora, quando?), in Politica del diritto, Fisionomia dell’offesa ordinate tracciate dal concetto di dignità, e a trovare delle nozioni correlate e specificative che possano aiutare a renderlo meno liquido e più aderente ai contesti. Un importante suggerimento è quello di focalizzare l’attenzione sul concetto di rispetto: «La dignità è un’idea difficile da definire con precisione, e probabil- mente non dovremmo cercare di farlo nell’ambito politico, poiché di- verse religioni e prospettive laiche la descrivono in modi differenti. Probabilmente dovremmo evitare che la dignità abbia un conte- nuto specifico tutto suo: sembra essere un concetto che acquista for- ma attraverso i legami con altri concetti, come quello di rispetto, e una varietà di principi politici più specifici. Riteniamo tale passaggio di fondamentale importanza poiché con- tribuisce a ridisegnare la fisionomia della dignità in termini relazio- nali e non come valore assoluto, scisso da un rapporto fra individui. Parlare di rispetto reciproco significa chiamare in gioco non un valo- re esterno alla relazione, ma focalizza l’attenzione su un bilancia- mento. Le dinamiche del rispetto-riconoscimento non esauriscono lo spa- zio etico della dignità ma evidenziano il rapporto di simmetrica reci- procità nel quale devono essere collocate le pretese avanzate dagli at- tori nella dialettica pluralista, le quali appaiono tendenzialmente in- terpretabili come riflesso di due esigenze di fondo: il rifiuto dell’imposizione, sia essa in nome della neutralità e della verità e il rifiuto di una considerazione diseguale che deriverebbe dal trionfo della posizione politica avversa» 57. Una ridefinizione dell’orizzonte di tutela nei termini dell’eguale e reciproco rispetto può rappresentare a nostro avviso un’opzione epi- stemicamente più cauta di un’asserita ‘tutela della dignità’: a risultare decisiva non è una ricerca di fondamenti ontologici del superconcet- to ‘dignità’, ma l’elaborazione di criteri di bilanciamento fra opposte posizioni secondo una prospettiva di uguaglianza. NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, tr. it., Milano. GALEOTTI, La politica del rispetto. A chiosa della posizione della Galeotti, si è osservato che «il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamen- to verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Tra sentimenti ed eguale rispetto Bilanciare le pretese Dignità e capacità umane In merito al problema dei limiti alla libertà di espressione, la digni- tà umana mal si presta ad assumere le vesti di argomento ‘a senso uni- co’, tale da offrire univoca giustificazione a una sola delle pretese che si confrontano, ma è potenzialmente in grado di valere su più fronti. Parlare di tutela della dignità assume in primo luogo il significato di un sostegno alle libertà, in quanto l’attenzione e la cura nei con- fronti della dignità costituiscono da un lato la condizione generativa «di un “pensiero critico, eterodosso, collidente con pensieri e senti- menti dominanti”» e dall’altro lato «la condizione nei soggetti istitu- zionali, della stessa capacità di resistere alla tentazione di soffocarne la manifestazione. Secondariamente, va tenuto in considerazione che nella dialettica fra istanze di libertà e richieste di rispetto vi sono più dignità che en- trano in gioco: quella di colui che manifesta il proprio pensiero e quella che si considera offesa dalla manifestazione espressiva 59. An- che nel linguaggio può essere importante esplicitare la connessione fra dignità e uguaglianza richiamando non semplicemente la dignità di ognuno, ma la pari dignità come presupposto di una relazione di eguale rispetto 60. Resta aperto il problema di contestualizzare pari dignità ed eguale rispetto in relazione a esigenze concrete dell’essere umano, e dunque di limitare la distanza fra la metafisica di tali concetti e le situazioni da cui scaturiscono problemi di convivenza. FORTI, Le tinte forti del dissenso nel tempo dell’ipercomunicazione pulviscola- re. Quale compito per il diritto penale?, in Riv. it. dir. proc. pen. Evidenzia tale ambiguità SCHAUER, Speaking of Dignity, ed. by Meyer-Paren, The Constitution of rights. Human Dignity and American Values, London, the conflation of dignity and speech, as a general proposition, is mistaken, for although speaking is sometimes a manifestation of the dignity of the speaker, speech is also often the instrument through use which the dignity of others is deprived»; cfr. AMBROSI, Libertà di pensiero e manifesta- zione di opinioni razziste e xenofobe, in Quaderni costituzionali. Cfr. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio razziale, Padova. Si veda anche l’icastica osservazione di Nadia Urbinati, secondo la quale «eguale libertà è dunque il nome della difesa della dignità umana nel tempo della modernità, v. URBINATI, Ai confini della democra- zia. Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma.Cfr., con diversità di accenti, CARUSO, La libertà di espressione in azione. Fisionomia dell’offesa. Nel contesto penalistico italiano si è fatto di recente carico di tale onere Gabrio Forti, il quale, attingendo da una recente pubblicazione di Aaron Barak61, ha definito la dignità umana come «principio complesso che, necessariamente sganciato da visioni o concezioni fi- losofiche unilaterali, è suscettibile di scomposizione in entità valoria- li che devono essere rapportate tra loro. Il richiamo alla distinzio- ne di Barak tra dignità-madre e diritti-figli è funzionale, per Forti, a evidenziare che la libertà d’espressione potrebbe incontrare limita- zioni volte alla tutela di altri ‘diritti-figli’ della stessa ‘dignità-madre’, a patto di uscire da un ragionamento meramente astratto e di procedere a una ‘lettura situazionale’ che sappia decifrare i contesti e gli specifici bisogni che possono emergere quale interesse da contrap- porre a eventuali manifestazioni espressive. Si tratta in altri termini di dare spessore e pregnanza personologi- ca all’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia così impor- tante, al di là del riconoscimento che le è dato nelle carte costituzionali; e correlativamente, di chiedersi quale possa essere il peso delle parole nell’economia di vita sia di chi le esprime sia dei destinatari. Per abbozzare delle coordinate prendiamo le mosse dal pensiero di John Searle che individua la caratteristica fondamentale dell’essere umano nell’attitudine a porre in essere atti linguistici («we are speech act performing primates»), e fa conseguentemente derivare la piena dignità di un individuo dalla sua capacità di espressione. A nostro avviso non basta tuttavia configurare una semplice pro- pensione ad atti linguistici, ma sono necessarie ulteriori connessioni che ne mettano in luce la strumentalità rispetto a un quadro più va- riegato di capacità e di prospettive concernenti la realizzazione della persona. Nella riflessione filosofica contemporanea, il discorso sulle capaci- tà trova una fondamentale elaborazione nel ‘capability approach’ di BARAK, Human Dignity. The Constitutional Value and the Constitutional Right, Cambridge, FORTI, Le tinte forti del dissenso. Sulle istanze partecipative legate al discorso pubblico v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, SEARLE, Social Ontology and Free Speech, The Hedgehog Review: «we attain our full dignity, our full stature as speech-act peforming animals, when we exercise our capacities for expression. The need for dignity, self-esteem, and autonomy come with the genetic territory, and a healthy society has to recognize these needs and recognize that verbal self-expression is an essential component in their satisfaction. Tra sentimenti ed eguale rispetto Martha Nussbaum: si tratta di un’antropologia dei bisogni dell’uomo pensata come riferimento per le strategie politiche e di organizzazio- ne della società, basata sull’individuazione di un novero di capacità le quali integrano e danno sostanza umana all’idea di dignità 65. L’importanza di tale riflessione nella prospettiva penalistica è stata messa in luce quale criterio di interpretazione dei bisogni e degli aspetti di vulnerabilità degli esseri umani al fine di tracciare le coor- dinate per un apporto del diritto penale alla difesa, al rispetto e an- che alla ‘costruzione’ della dignità umana. Nel condividere la suddetta impostazione, riteniamo che attraver- so il linguaggio delle capacità si possano meglio definire anche i con- torni delle istanze di libertà e delle richieste di rispetto che animano la dialettica sulla libertà di espressione. Ci sembra che un’immer- sione nelle note caratterizzanti la natura e la socialità umane possa contribuire a tradurre le pretese in una dimensione meno astratta, per verificare se e in che termini siano reciprocamente esigibili 67. Entrando nel dettaglio del catalogo della Nussbaum individuiamo un novero di capacità che definiscono una base di contenuti funzio- nale non solo alla ricognizione dei contorni di un’ipotetica dignità of- fesa, ma che si prestano a dare senso e sostanza alla posizione di chi chiede rispetto per la propria libertà di esprimere contenuti pur ‘di- scutibili’, fungendo in questo senso da connessione giustificativa an- che per la posizione di chi invoca il diritto alla libertà di espressione: 65 «Consideriamo la persona, proprio perché caratterizzata da attività, mete, progetti, in qualche modo capace di suscitare un rispetto che trascende l’azione meccanica della natura, eppure bisognosa di sostegno per portare a compimento molti progetti importanti», v. NUSSBAUM, Diventare persone, tr. it., Bologna, FORTI, «La nostra arte è un essere abbagliati dalla verità». L’apporto delle di- scipline penalistiche nella costruzione della dignità umana, in Jus.L’approccio delle capacità può rappresentare un’importante coordinata de- scrittiva e una chiave di lettura delle istanze di tutela; in questo senso condivi- diamo e rilanciamo quale buon esempio la proposta di ‘lettura situazionale’ basata sull’approccio delle capacità formulata da Caputo in tema di repressio- ne penale del negazionismo,  CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz. A un livello successivo, relativo al problema della soglia di intervento normati- vo, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 108 ss., evidenzia in termini critici come anche tale chiave di lettura non sarebbe però sufficiente a configurare un substrato di offensività verificabile in termini conformi allo standard di bilanciamento che dovrebbe supportare eventuali norme basate sullo schema applicativo del pericolo concreto.   Fisionomia dell’offesa 163 «Sensi, immaginazione, pensiero. Essere in grado di usare l’imma- ginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzio- ne di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente in modi protetti dalla garanzia delle libertà di espressione rispetto sia al discorso politico, sia artistico, nonché della libertà di pratica religiosa. Sentimenti. Poter provare attaccamento per cose e persone oltre che per noi stessi. Non vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie o paure eccessive. Ragion pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita. Appartenenza. Avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come persona dignitosa il cui valore eguaglia quello altrui. Questo implica, al livello minimo, prote- zione contro la discriminazione in base a razza, sesso, tendenza sessuale, religione, casta, etnia, origine nazionale. [...]» 68. Le suddette capacità appaiono connaturate a una società aperta, presupposto e obiettivo di una tutela delle libertà strumentale a mettere ogni individuo nella condizione di formarsi una concezione di ciò che è bene potendo usare la propria mente in modi protetti dalla libertà di espressione. Emerge però anche un livello minimo di protezione il quale sem- bra richiamare l’esigenza di un fare attivo da parte della politica e del- l’ordinamento giuridico, fra le cui finalità viene messo in evidenza il contrasto alla discriminazione: significa che uno Stato dovrebbe im- pegnarsi per garantire «le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere umiliati; poter essere trattato come una persona dignitosa il cui valore eguaglia quello altrui». Ritorna anche nel pensiero della Nussbaum l’esigenza di prestare attenzione al problema del mancato riconoscimento, qui richiamato attraverso i concetti del ‘rispetto di sé’ e dell’‘umiliazione’. In altri ter- mini, quando si creano le condizioni perché un soggetto venga umi- liato si potrebbero incrinare gli equilibri che costituiscono l’humus per le capacità umane fondamentali, e potrebbe rendersi necessario un intervento dello Stato per cercare di ripristinarle; libertà non può si- gnificare umiliazione dell’altro. Per quanto ispirato alla massima apertura liberale, anche il di- NUSSBAUM, Diventare persone. Tra sentimenti ed eguale rispetto scorso di Martha Nussbaum pone il problema di eventuali limiti e suggerisce un approfondimento del concetto di umiliazione. Rispetto di sé e umiliazione: la concezione di Avishai Margalit Un tentativo di elaborare una nozione politicamente spendibile – non soggettivistica o emotivistica – dei concetti di ‘rispetto di sé’ 69 e ‘umiliazione’ si deve ad Avishai Margalit e alla sua teorizzazione sulla ‘società decente’, da intendersi come ‘società che non umilia. La nozione di umiliazione proposta da Margalit è, per stessa ammis- sione dell’Autore, di tipo normativo e non psicologico: umiliazione è ogni comportamento o condizione che costituisce una valida ragione perché una persona consideri offeso il proprio rispetto di sé. È di particolare importanza, ai fini della presente indagine, la di- stinzione fra insulto e umiliazione: pur essendo situati lungo un con- tinuum, rappresentano forme di offesa qualitativamente differenti, la prima delle quali si rivolge all’onore sociale, mentre la seconda lede il rispetto di sé inteso come percezione del valore intrinseco della persona. L’insulto è contraddistinto da contenuti che possono essere in un certo senso razionalizzati dal destinatario (ad esempio anche in relazione alla verità o falsità degli asserti), l’umiliazione è più gravo- sa: riprendendo la distinzione di Williams fra emozioni bianche e rosse, Margalit ritiene che l’umiliazione sia associabile a un’emozione bianca, la quale comporta che il soggetto umiliato si 69 Sul concetto di ‘rispetto di sé’, con un’impostazione differente, si veda anche BAGNOLI, L’autorità della morale; DWORKIN, Giustizia per i ricci, tr. it., Milano, MARGALIT, La società decente, tr. it., Milano. MARGALIT, La società decente: questo è un significato normativo piuttosto che psicologico dell’umiliazione. Il significato normativo non comporta per sé che la persona che abbia una buona ragione per sentirsi umiliata, di fatto si senta tale. D’altra parte, il significato psicologico dell’umiliazione non compor- ta che la persona che si sente umiliata abbia una buona motivazione per questo sentimento. La sottolineatura è sui motivi per provare umiliazione come risultato di un comportamento altrui». Nel panorama italiano, cfr. l’ampia analisi critica di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, MARGALIT, La società decente. WILLIAMS, Vergogna e necessità, tr. it., Bologna, 2007; un’emozione rossa è un’emozione in cui ci si vede attraverso gli occhi dell’altro, e perciò si arrossisce. Con un’emozione bianca una persona si vede attraverso l’‘occhio interno’ della propria coscienza, che può farla impallidire.   Fisionomia dell’offesa 165 guardi col proprio occhio interno ma applicando al contempo il pun- to di vista del soggetto umiliante, e dunque senza riuscire ad assume- re una distanza critica dall’addebito, poiché l’umiliazione attecchisce in contesti di squilibrio fra umiliatore e vittima, e assume l’effetto di una ‘minaccia esistenziale L’umiliazione è più che un semplice insulto: «rifiutare un essere umano umiliandolo significa rifiutare il modo in cui egli esprime se stesso come umano»75, radicalizzando l’addebito su modi di essere costitutivi dell’individuo e negando l’umanità dell’altro a causa di un’ap- partenenza significativa 76 che concorre a definirne l’identità. Risulta perciò fondamentale distinguere quando un’espressione abbia il significato di forte critica e quando invece sottenda un’umi- liante esclusione e, di fatto, una discriminazione. 5. Ai confini fra critica e discriminazione Dal punto di vista concettuale la differenza fra critica e discrimi- nazione ricalca le due varianti del rispetto: rispetto-stima come at- teggiamento le cui oscillazioni in positivo o in negativo possono dar luogo a forme di critica legittima; rispetto-riconoscimento come va- lore che può essere negato attraverso manifestazioni espressive volte a umiliare e a marginalizzare. Si aggiunge in questo modo un ulteriore, importante, tassello al- l’itinerario concettuale che ha preso le mosse dall’esigenza di distin- guere offese ai meri sentimenti da condotte, e in particolare, da for- me di espressione, che, non limitandosi a offendere l’emotività sog- gettiva, si facciano veicolo di umiliazione e di negazione dell’eguale libertà e dignità delle persone. MARGALIT, La società decente. MARGALIT, La società decente. MARGALIT, La società decente, cit., pp. 165 ss. Secondo l’Autore, ciò che rende più pregnante l’umiliazione è la connessione con il concetto di ‘gruppo inclusivo’: si intende con tale definizione «un gruppo che ha un comune carattere e una comune cultura, che include molti importanti e vari aspetti della vita [nel quale] le persone che crescono nel gruppo ne acquisiscono la cultura, e possiedono le sue particolari caratteristiche». Un tratto particolarmente significativo riguarda il fatto che l’appartenenza al gruppo è in parte materia di mutuo riconoscimento, nel senso che l’inclusione nel gruppo non è determinata da una scelta personale: «esse appartengono [al gruppo] a causa di quello che sono».   166 Tra sentimenti ed eguale rispetto È però assai problematico trovare le rispondenze di tali distinzioni all’atto pratico: «non è così netta, nella percezione viva, la differenza fra l’offesa alla stima e l’offesa al riconoscimento come semplice per- sona, perché le persone si identificano non solo con la propria umani- tà, ma soprattutto con le loro qualità, le loro storie individuali» 77. Sia la critica sia la discriminazione possono definirsi come forme di espressione ‘irrispettose’, e il sottile confine che le separa a livello fenomenico espone al rischio, nella prospettiva giuridica, di continue oscillazioni tra vuoti di tutela ed eccessi di intervento. Come osserva Michael Rosen, «[è] evidente che il diritto a comportarsi in maniera irrispettosa debba essere maneggiato con cura. Probabilmente vi sono dei limiti a ciò che dovrebbe essere permesso ma dovremmo rifiu- tare l’idea che il linguaggio volto a irritare o insultare violi automati- camente l’essenza intrinseca di ciò che ha valore nelle persone con la conseguenza di “deprivarle della loro dignità di esseri umani”» 78. All’inizio del capitolo abbiamo riportato alcuni episodi tratti dalle cronache per identificare il tipo di conflitti in cui appare a nostro av- viso più evidente il coinvolgimento di sensibilità soggettive, esclu- dendo da tale apparato esemplificativo il tema del discorso d’odio (c.d. hate speech) e della propaganda razzista. Ora, alla luce dell’esi- genza di distinguere fra critica ed esclusione/discriminazione, il ri- chiamo al discorso d’odio diviene di importanza centrale poiché è proprio l’elaborazione teorica in materia di hate speech 79 a fornire in- teressanti spunti in tal senso. 77 MORDACCI, Rispetto. In questi termini Michael Rosen rimarca l’esigenza di procedere con cautela nelle restrizioni a forme di espressione: ROSEN, Dignità.Il tema dello hate speech è indagato in modo particolarmente approfondito nel panorama anglo-americano, nel quale l’orientamento maggioritario è di con- trasto alle limitazioni alla libertà di espressione. In questo senso vi sono forti dif- ferenze rispetto al panorama europeo, le cui ragioni affondano nella storia geopo- litica dei due continenti. Quali esempi di contrarietà ai cosiddetti ‘hate speech bans’, pur con diversità di accenti, v. HEINZE, Hate Speech and Democratic Citizenship, Oxford; cfr. DWORKIN, Foreword, ed. by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit., pp. V ss.; POST, Hate Speech, ed by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy. Nella vasta letteratura, v., fra le opere collettanee, ed. by Hare- Weinstein, Extreme Speech and Democracy, cit.; AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech: Rethinking Regulation and Responses, Cambridge, 2012. Per un quadro di sintesi sulle differenze emergenti fra la giu- risprudenza statunitense ed europea v. KISKA, Hate speech: a Comparison between the European Court of Human Rights and the United States Supreme Court Juris- prudence, in 25 Regent University Law Review, Fisionomia dell’offesa La connessione della problematica della tutela di sentimenti al tema della discriminazione si lega a ragioni di maggiore selettività, mirate a differenziare offese alla sensibilità, le quali dovrebbero con- siderarsi come ricaduta di un fisiologico e pluralistico dissenso e co- me evento collaterale alla libertà di critica, da manifestazioni di ne- gazione della pari dignità e dunque del rispetto-riconoscimento. 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron Un importante contributo viene dal giurista Jeremy Waldron il quale argomenta sulla dannosità del discorso d’odio a partire da quel- la che considera una fuorviante commistione fra hate speech e tutela di sentimenti. Lo studioso sostiene che il disvalore dello hate speech non vada identificato nello stato psichico negativo concretamente o potenzial- mente indotto da manifestazioni espressive, e adotta in questo senso una posizione di contrasto a incriminazioni fondate sulla logica dell’offense di feinberghiana memoria; la protezione di sentimenti è un effetto solo indiretto, così come l’induzione di stati psichici nega- tivi è un elemento collaterale che non esaurisce il disvalore del di- scorso d’odio. L’orizzonte dello hate speech dovrebbe coincidere con offese alla dignità del singolo in quanto appartenente a determinati gruppi o credente in determinati ideali; le forme di critica anche aspre e irriverenti che non rappresentino una stigmatizzazione dell’individuo in ragione di suoi specifici tratti, dovrebbero considerarsi al di fuori dell’area di interventi normativi 81. 80 Waldron si caratterizza per un approccio più disincantato nei confronti del- la libertà di espressione: l’Autore è aperto a prospettive di regolamentazione nor- mativa del discorso pubblico e in questo senso si distingue nel panorama statuni- tense in virtù di una posizione minoritaria, espressa in particolare negli studi raccolti in WALDRON, The Harm in Hate Speech, Harvard. Per un quadro generale e un excursus storico sulla libertà di espressione negli Stati Uniti, v. KALVEN, A Worthy Tradition: Freedom of Speech in America, New York; per una sintesi del dibattito su pornografia e blasfemia v. POST, Cultural Heterogeneity and Law: Pornography, Blasphemy, and the First Amendment, in California Law Review. Interessanti spunti sul tema sono offerti anche da Robert Post il quale inter- preta la distinzione tra espressioni tollerabili e intollerabili come riflesso di di- namiche di egemonia sociale delle classi dominanti: secondo Post il discorso Tra sentimenti ed eguale rispetto Ricondurre la questione dello hate speech a un problema di offesa a sentimenti significherebbe sminuirne la portata 82, poiché una con- cezione emotivistica dell’interesse protetto non dà adeguatamente conto del radicamento del discorso d’odio e di come esso possa con- taminare l’ambiente sociale anche al di là del turbamento emotivo indotto su singoli individui. Lo hate speech non appare pertanto riducibile a un mero insulto dal forte impatto emotivo, ma piuttosto a un discorso che può intac- care la considerazione sociale dei destinatari dell’offesa, a detrimento di interessi come l’inclusività (inclusiveness) e la garanzia (assurance) di non essere discriminati 84. Il punto fondamentale, secondo Waldron, è distinguere fra espres- sioni che suscitano emozioni e dunque ‘offendono’ in un senso affine all’offense principle, ed espressioni che ‘aggrediscono’ la dignità del d’odio è ritenuto illegittimo poiché esorbita da standard che rinviano a norme so- ciali dettate dai gruppi dominanti: quando il diritto impone una determinata di- stinzione, come quella che richiede di non accomunare espressioni di fisiologico disaccordo a manifestazioni d’odio, sta in definitiva imponendo egemonicamente standard sociali di decorosità nei rapporti intersoggettivi: «This suggests that whenever law chooses to enforce cultural norms, as for example by enforcing norms that distinguish hate speech from normal disagreement, law hegemonical- ly imposes a particular vision of these norms. Hate speech regulation imagines itself as simply enforcing the given and natural norms of a decent society, á la Devlin; but from a sociological or anthropological point of view we know that law is always actually enforcing the mores of the dominant group that controls the content of law», v. POST, Hate Speech, cit., p. 130. Sembra fondarsi invece sulla ‘non astinenza epistemica’ che accompagna i divieti in materia di hate speech, e che sarebbe dunque incompatibile con una dimensione democratica del discorso pubblico, la critica di fondo di HEINZE, Hate Speech. Nella letteratura italiana, con diversità di accenti, sul problema della (tendenzialmente impossibile) ‘astinenza epistemica’ del legislatore in materia di regolamentazione del discorso pubblico VISCONTI C., Aspetti penalistici; TESAURO, Ri- flessioni in tema di dignità umana. La differenza risiede nella distinzione «between undermining a person’s dignity and causing offense to the same individual [...] to protect people from of- fense or from being offended is to protect them from a certain sort of effect on their feelings. And that is different from protecting their dignity and the assurance of their decent treatment in society», WALDRON, The Harm in Hate Speech. WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 116; per un approfondimento critico sul rischio di interpretazioni soggettivistiche, e un riorientamento della categoria degli hate crimes in una prospettiva incentrata su dissenso politico e rispetto per le differenze v. PERRY, A Crime by Any Other Name: The Semantics of Hate, in 4 Journal of Hate Studies. WALDRON, The Harm in Hate speech. Fisionomia dell’offesa soggetto («offending people and assaulting their dignity»), intesa come basic social standing, the basis of their recognition as social equals and as bearers of human rights and constitutional entitlements. Il turbamento che un soggetto possa eventualmente avvertire, e dunque le emozioni negative che plausibilmente si accompagnano alle parole87, non sono del tutto irrilevanti (e testimoniano come l’offesa coinvolga qualcosa di importante per la persona), ma enfatizzarne il rilievo significherebbe, secondo Waldron, esporsi alla critica che lo hate speech tuteli meri sentimenti. L’offesa emotiva rappresen- ta una proiezione soggettiva, ‘metonimica’ nel senso che descrive solo una parte della dimensione del danno. Perché un’espressione di negazione del riconoscimento dovrebbe essere ritenuta più grave di una critica irridente che offende il sentire soggettivo? Fra le ragioni addotte a sostegno della diversa gravità di tali forme di offesa, anche Waldron richiama l’insondabilità delle emozioni soggettive e la mutevolezza delle soglie di suscettibilità individuale, the basic distinction between an attack on the body of beliefs and an attack on the basic social standing and reputation of a group of people is clear. In every aspect of democratic society, we distinguish between the respect accorded to a citizen and the disagreement we might have concerning his or her social and political convictions. Defaming the group that comprises all Christians, as op- posed to defaming Christians as members of that group, means defaming the creeds, Christ, and the saints», WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 120. 86 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 59. 87 Assumiamo come presupposto che le parole possano ferire, quantomeno in- ducendo emozioni negative; il fatto che tali conseguenze possano non essere con- siderate rilevanti in quanto non integrino la dimensione normativa del danno, è un problema successivo, ma che non dovrebbe portare a disconoscere una di- mensione di lesività a livello naturalistico. Sul punto risulta interessante la posi- zione di Schauer, il quale sostiene che definire aprioristicamente come ‘minore’ il danno provocato da parole, solo perché ‘non fisico’ o meno visibile, sia altamente opinabile. Riconoscere che un danno, inteso come sofferenza fisica, possa crearsi, non significa automaticamente inferirne la rilevanza sul piano giuridico in termi- ni di compressioni di libertà: «If there is a free speech principle, then a conse- quence will be that a range of distresses and negative outcomes produced by the relevant category of speech act will be considered not to have caused harms in the legally redressable sense, but that is very different from saying pretheoretically that it is a characteristic of the acts that they are as category less harmful», SCHAUER, The Phenomenology of Speech and Harm,Ethics. WALDRON, The Harm in Hate Speech. WALDRON, The Harm in Hate Speech. Tra sentimenti ed eguale rispetto ma non appaiono queste le ragioni decisive. L’offesa discriminatoria fa leva sulla diversità per comunicare esclusione da ogni prospettiva di dialogo: in questo senso realizza un’interazione con lo status sociale e relazionale delle persone attraverso la negazione del patto etico su cui si fonda la convivenza, ossia la pari dignità dell’altro 90. L’intru- sione nella sfera di libertà altrui si realizza attraverso una potenziale compromissione delle trame sociali e relazionali, e più in generale dell’ambiente sociale in cui dispiegano la propria esistenza gli indivi- dui destinatari di determinate espressioni. Un’ulteriore importante precisazione avanzata da JWaldron concerne la distinzione a livello concettuale tra offese alla reputazio- ne del gruppo ed espressioni discriminatorie che si riflettono sul sin- golo individuo in quanto appartenente al gruppo. Troppo spesso, os- serva Waldron, la c.d. ‘diffamazione di gruppo’ (defamation group) Si è osservato che l’incriminazione di tale tipologia di espressioni potrebbe essere l’unica eccezione al principio secondo cui in uno Stato liberale non si do- vrebbero incriminare concezioni di valore e modi di pensare: «[d]iversamente ac- cade, eccezionalmente, soltanto quando certi comportamenti manifestano e/o realizzano modi di pensare, convinzioni e concezioni di valore con i quali viene propagandato e/o trasformato un certo stile di vita che esclude in modo combat- tivo altre concezioni del bene, oppure addirittura nega a certi gruppi all’interno della società lo stato di membri aventi gli stessi diritti», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di orientamenti sociali di carattere assiologico [cf. H. P. Grice, CONCEPTION OF VALUE – AXIOLOGY]? ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 101 ss., il quale individua la c.d. ‘riproduzione della disuguaglianza di status’ come uno dei possi- bili danni realizzabili dalle parole. D’obbligo il richiamo alla cosiddetta ‘Critical Race Theory’ quale esempio di teoria che ha esposto con dovizia argomentativa, per quanto non immune da obie- zioni, le ricadute dannose del discorso denigratorio basandosi sulle espressioni a sfondo razziale: in estrema sintesi si sostiene che la diffusione dell’odio, e in parti- colare l’odio razzista, produrrebbe a livello individuale fenomeni di ansia, disagio psichico e perdita di autostima tali da poter influire sulla vita relazionale degli individui, mentre a livello sociale porterebbe alla formazione di un clima culturale di ostilità fino a poter generare anche il c.d. ‘Silencing Effect’, ossia l’effetto silenziatore consistente nello screditare socialmente le minoranze offese fino a minare il loro status di partner a livello comunicativo in ambito sociale. Per un’ampia e dettagliata sintesi v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana; cfr. PINO, Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto; si veda anche a cura di Thomas-Zanetti, Legge razza diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, Reggio Emilia. Il lessico inglese distingue fra individual defamation e group defamation intendendo con il secondo termine l’area di problemi che viene comunemente identificata come hate speech. In many countries, a different term or set of terms is used by jurist: instead of “hate speech”, they talk about “group libel” or “group defamation”», v. WALDRON, The Harm in Hate Speech. Mal-   Fisionomia dell’offesa 171 viene intesa come offesa che, indirizzandosi ai valori che fondano l’identità del gruppo, coinvolgono il singolo solo in termini di disagio emotivo: non è questa la prospettiva con cui identificare lo hate speech. L’offesa che dovrebbe rilevare come discorso discriminatorio è quella che strumentalizza l’appartenenza al gruppo come fattore di degradazione e di inferiorità della persona. In altri termini, una prospettiva di intervento normativo non do- vrebbe avere ad oggetto principi o concezioni valoriali in sé, neppure nella forma mediata di carattere identificativo di un gruppo, e dunque nella loro dimensione sovraindividuale e impersonale. I cosiddetti ‘va- lori’, intesi come principi su cui un soggetto impronta la propria vita specie con riferimento alla sfera morale, possono assumere rilevanza in quanto elementi costitutivi del modo d’essere degli individui. Al termine di tale complessa disamina, un dato di fondo sembra difficilmente contestabile: distinguere fra espressioni di odio e di cri- tica, tra offese alla dignità del singolo in quanto aderente a un grup- po e offese alla reputazione del gruppo stesso, e più in generale stabilire la portata offensiva di un’espressione verbale o simbolica, è un’operazione ermeneutica che necessita di un’attenta lettura di contesti e situazioni, e che non può essere imbrigliata in categorizzazioni di carattere ‘assoluto. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma Prima di verificare la rispondenza di tali distinzioni nelle eventuali prassi applicative, si pone l’esigenza di una riflessione sul piano dei presupposti del ragionamento. L’individuazione di un confine fra critica e discriminazione si ri- grado la sostanziale identità sul piano lessicale, la defamation group non appare perfettamente sovrapponibile a ciò che nel contesto italiano viene definito diffamazione di gruppo come variante plurisoggettiva del reato di diffamazione semplice, la quale è volta, quantomeno in via teorica, a reprimere le medesime offese che rileverebbero ex art. 595 c.p., ossia un novero più ampio rispetto a ciò che si potrebbe definire ‘discorso d’odio’ (v. infra, nota 120). 93 WALDRON, The Harm in Hate Speech. Sul tema, v. DE MONTICELLI, La questione morale; cfr. RAZ, I va- lori fra attaccamento e rispetto, tr. it., cur. di Belvisi, Reggio Emilia. Osserva GALEOTTI, La politica del rispetto, che «culture e tradizioni possono avere un valore estetico, storico e archeologico, ma non intrinsecamente morale. Il loro valore morale deriva dal fatto che sono importanti e fonti d’ispi- razione per i loro membri e non in sé. Tra sentimenti ed eguale rispetto flette sul raggio applicativo di norme giuridiche, sia vigenti sia in prospettiva de iure condendo, e dipende in primo luogo dall’interpre- tazione di dinamiche intersoggettive e di aspetti fattuali: non sempli- cemente conoscenza di fatti, bensì attribuzione di significato ad azioni ed espressioni. La distinzione fra questi profili non sembra adeguatamente ap- profondita in sede teorica95, ed è del tutto trascurata nel contesto giurisprudenziale, ove l’interpretazione del fatto finisce per essere as- sorbita, e data per scontata, rispetto alla sussunzione normativa, sen- za riconoscere che le peculiarità del fatto possono dar luogo a pro- blemi logicamente autonomi e complementari all’ermeneutica della norma giuridica: problemi «di interpretazione del fatto, e che si riflet- tono sulla applicazione del diritto» 96. In questa sede ci limitiamo a evidenziare come la distinzione fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma si ponga a livello concettuale quale richiamo, a nostro avviso necessario, per eviden- ziare fasi differenti nella gestione epistemica del ragionamento giu- diziale 97. La soglia di rilevanza penale di manifestazioni espressive costitui- sce un tema in relazione al quale i rapporti fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma appaiono fortemente compenetrati; co- me osservato da Richard Abel: «gli sforzi giuridici per regolare l’espressione sprofondano nell’inelimi- nabile ambiguità dei significati. Il senso e la valenza morale dei sim- 95 Un’opera dedicata ex professo al rapporto fra giudicante e interpretazione di elementi extragiuridici, e più in generale, al tema del ruolo dei valori culturali quale fattore di influenza nelle decisioni giudiziali, è lo studio di BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giuri- sprudenza, cit. 96 PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche,a cura di Biscotti-Borsellino-Pocar-Pulitanò, La fabbrica delle interpretazioni, Milano. Problema differente è se la distinzione fra ermeneutica del fatto ed erme- neutica della norma sia meramente concettualistica, finendo per restare assorbita nella spirale ermeneutica e nell’intreccio tra fatto e diritto; sul tema, con diversità di accenti, v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, Padova; DI GIOVINE O., L’in- terpretazione nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano DONINI, Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, La fab- brica delle interpretazioni; PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche; PALAZZO, Testo e contesto. Fisionomia dell’offesa 173 boli variano radicalmente a seconda di chi parla e di chi ascolta e pos- sono capovolgersi rapidamente, perfino istantaneamente. Quando si ha a che fare con forme di espressione non si pone tan- to un problema di conoscenza di fatti, quanto di selezione e valuta- zione di elementi di contesto chiamati a definirne la dimensione di significato: l’interpretazione di una manifestazione espressiva non si riduce a un esame della lessicalità o a un riscontro oggettivo di gesti simbolici senza tenere in considerazione la relazione intersoggettiva di base e il contesto di sfondo. Lo studioso, ed eventualmente il giudice, si trovano alle prese con una complessa ermeneutica finalizzata a concretizzare il volto del fatto punibile, complementare rispetto all’ermeneutica della norma. Problemi simili sono emersi con riferimento anche ad altri ambiti, ad esempio nell’interpretazione del concetto di osceno in rapporto alla libertà di creazione artistica 100, in relazione all’accertamento del- l’appartenenza culturale di un soggetto quale eventuale causa di attenuazione della responsabilità101, e anche in relazione all’interpretazione del gesto del bacio come condotta sessualmente pregnante piuttosto che come approccio confidenziale e innocente. Come è stato osservato in dottrina, la ricostruzione del fatto è probabilmente il momento più delicato del procedimento interpretativo, avvinto in un intreccio col diritto che è stato definito diabolico: l’interprete non è un semplice spettatore che importa passiva- ABEL, La parola e il rispetto. FIANDACA, Problematica dell’osceno. FIANDACA, Problematica dell’osceno. Una caso emblematico è la vicenda giudiziaria relativa al film ‘Ultimo tango a Parigi’ di Bertolucci, oggi riassunta nel volume di AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo. Osceno e comune sentimento del pudore tra arte cine- matografica, diritto e processo penale, Roma; v. in particolare il saggio di MASSARO, Lo spettacolo cinematografico osceno tra elementi elastici e difetto di determinatezza. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. In relazione a tale ultima questione si è osservato come l’interpretazione del gesto non possa limitarsi a una statica rispondenza con pattern comportamentali, ma richieda piuttosto una prospettiva ermeneutica «incline a prendere in consi- derazione anche il contesto in cui il contatto fisico si realizza e dunque la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa nell’ambito della situazioni coartanti, v. FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale. GIOVINE O., Considerazioni su interpretazione, retorica e deontologia in di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen. Tra sentimenti ed eguale rispetto mente e acriticamente elementi della realtà all’interno del proprio procedimento cognitivo, ma opera una selezione determinata dalle peculiari modalità di apprendimento che caratterizzano in modo dif- ferente ogni singolo individuo, sulla base di fattori che comprendono il corredo neurobiologico, la dimensione delle esperienze personali, la matrice culturale 104 e, piaccia o non piaccia, l’ideologia 105. In altri termini, il giudicante non si limita a prendere atto di ele- menti di fatto, ma interpreta i significati del fatto selezionando gli aspetti rilevanti per la decisione. In fase applicativa tali questioni finiscono per restare assorbite, e non sufficientemente distinte, dal piano strettamente giuridico, e si espongono in questo senso a una gestione epistemica sulla quale in- combe il rischio di un uso non adeguatamente sorvegliato di nozioni e di concetti che attengono al piano socio-psicologico. In altri termini, sarebbe opportuno far sì che determinate interpre- tazioni dei significati del fatto divenissero oggetto di analisi ed even- tualmente di confutazione, «piuttosto che essere semplicemente fatte passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono esse- re, non sempre correttamente, e non sempre indipendentemente dal 104 Per tutti, DI GIOVINE O., L’interpretazione nel diritto penale. Per un’approfondita riflessione, ancora attuale, sull’ideologia del giudice v. GRECO, Premessa, Cfr. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Nel panorama italiano il problema di una perizia relativa ai profili socio- culturali del fatto si è posto, soprattutto in passato, con riferimento ai rapporti fra valore artistico e oscenità, e ad oggi è discusso prevalentemente in relazione ai c.d. reati ‘culturalmente motivati’; in riferimento al tema della perizia artistica v. LUCIANI, La nozione penalistica di “opera d’arte” di cui all’art. 529 c.p. Considera- zioni di diritto sostanziale e processuale, a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi. In relazione alla perizia culturale, oltre al citato studio di Cristina de Maglie, va menzionato un ulteriore importante contributo proveniente dall’ambito costituzionalistico nel quale viene tematizzata la necessità di un avvaloramento epistemico del ragionamento giudiziale attra- verso l’elaborazione un percorso volto a rendere tendenzialmente più oggettivo l’accertamento di un conflitto culturale: v. RUGGIU, Il giudice antropologo. Costitu- zione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano. Sempre in tema di reati culturalmente motivati, con riferimento alla valutazione della motivazione culturale, è frequente riscontrare nella giurisprudenza di legittimità argomentazioni carenti e approssimative, sovente esito di posizioni ideologiche pur benintenzionate ma nondimeno fortemente discutibili: per un esempio v. Cass. pen., sez., con nota di FERLA, Il pugnale dei Sikh tra esigenze di sicurezza e divieti normativo-culturali, in Giur. it. Fisionomia dell’offesa  loro retroterra culturale, la saggezza comune dell’umanità» 108. Per tali ragioni ben si comprende che la valutazione del margine di confine fra espressioni tollerabili ed espressioni non consentite, anche ove sia tenuta a distanza dalla sensibilità della vittima, finisca poi per essere esposta, e dipendere in larga misura, anche dalla sen- sibilità dell’interprete, sia esso studioso teorico o applicatore di even- tuali norme 109. Si tratta di un fattore problematico del quale va tenu- to conto sia come chiave di lettura delle oscillazioni riscontrabili nel- la casistica giurisprudenziale, sia quale elemento di riflessione in rapporto al ruolo che i giudici assumono, o potrebbero assumere, nel farsi arbitri della soglia di intervento penale 110. In relazione a un ulteriore profilo, sempre legato alla ricerca di SCHAUER, Il ragionamento giuridico, tr. it., Bari. Sottolinea con chiarezza TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel ragionamento del giudice, in ID., Sui confini. Scritti sulla giustizia civile, Bologna, che il ragionamento del giudice non è determinato da criteri o norme di carattere giuri- dico, bensì, quando supera i confini di ciò che convenzionalmente si intende per ‘diritto’, risulta impregnato anche del cosiddetto ‘senso comune’. Da ciò la neces- sità che il giudice sia «consapevole della frammentazione e della variabilità delle coordinate conoscitive e valutative che ormai sono i tratti dominanti della società attuale. In ambito penalistico, HASSEMER, Perché punire è necessario., osserva, con realismo, che il giudice fa ricorso a teorie del senso comu- ne sia per questioni inerenti al contenimento dei tempi del giudizio, ma anche perché il suo ruolo deve restare comunque centrale rispetto ai pareri della scien- za; nondimeno egli deve assumersi tale responsabilità epistemica: il giudice penale ha il diritto e il dovere di apportare il suo sapere fattuale e di assumer- sene la responsabilità. Da questa responsabilità non può liberarlo alcun pare- re». Sul cosiddetto ‘senso comune’ v. Supra. Esempio emblematico di ermeneutica del fatto impregnata di discutibili principi di psicologia del senso comune, per lo più riflesso di precomprensioni del giudicante, sono le sentenze relative alla vicenda del film ‘Ultimo tango a Parigi, Ultimo tango a Parigi. Un’altra pronuncia, più recente, in cui risulta altamente opinabile l’ermeneutica del fatto è Trib. Latina, riportata in SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira: “nuove” incriminazioni e nuove soluzioni giurisprudenziali, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale; per una critica v. VISCONTI C., Aspetti penalistici. Il fenomeno è evidente soprattutto in quelle disposizioni che hanno un’importanza politica, che regolano cioè, in senso lato i rapporti fra lo Stato e i cittadini, e che – naturalmente – consentano più di un’interpretazione. E, nella possibilità di una duplice interpretazione, l’una e l’altra certamente, per così dire, politica, può stabilirsi, attraverso l’esame di una decisione, l’indirizzo ideo- logico del giudice», v. BIANCHI D’ESPINOSA, Introduzione, in BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali della giurisprudenza. Tra sentimenti ed eguale rispetto una soglia oggettiva di tollerabilità delle forme di espressione e, più in generale riferibile alle norme che richiamino, implicitamente o espressamente, fatti di sentimento, è stato condivisibilmente osserva- to in dottrina che quando vengono in gioco interessi di tutela assimi- labili in tutto o in parte a sentimenti la tipicità diviene prevalente- mente valutativa, rimettendo al giudice bilanciamenti che, teorica- mente, il diritto avrebbe dovuto cristallizzare in astratto 111. Un caso emblematico è l’onore personale, in relazione al quale si è osservato come esso non si presti a una predeterminazione esaustiva, ma sia in definitiva co-determinato dall’incidenza che i diritti costituzionalmente rilevanti esercitano nel determinarne i limiti di estensione. Si è parlato di una ‘tipicità on balance’ «nel senso che la figura criminosa in questione, lungi dall’essere ricostruita una volta per tut- te in modo stabile e definitivo assume una fisionomia variabile che dipende dalle caratteristiche del caso concreto. In altri termini, un intreccio simbiotico tra fatto e antigiuridicità, alla luce del quale non è appropriato parlare di un giudizio di tipicità del tutto indipendente dalla eventuale sussistenza di cause di giustificazione, con la conse- guenza che le operazioni di bilanciamento sottese al momento giusti- ficativo finiscono per avere una funzione indispensabile al fine di integrare la tipicità stessa. Fattispecie così strutturate, prive cioè di una dimensione lesiva compiutamente apprezzabile in sede di tipicità, scaricano sul momento applicativo la definizione di requisiti strutturali, imponendo in via surrogatoria al giudice di tracciare autonomamente i confini dell’illi- ceità attraverso tecniche di bilanciamento a vocazione “tipologica. GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale? TESAURO, La diffamazione. TESAURO, La diffamazione. TESAURO, La diffamazione. TESAURO, La diffamazione. Oltre a tale profilo, e alle connesse implicazioni di teoria del reato, un simile intreccio fra tipicità e giustificazione rappresenta a nostro avviso la conferma che l’interpretazione dei conflitti in tema di libertà di espressione si sottrae a una logica binaria, tale per cui o vi è offesa o vi è esercizio di libertà; si tratta di un ambito dominato da situazioni in cui il con- fine tra lecito e lecito non solo non appare predeterminabile in chiave di tipicità astratta, ma è poroso, labile. Si è osservato che uno dei limiti della giurispruden- za italiana sul vilipendio alla religione è quello di adottare, con discutibili percor- si argomentativi, un’impostazione secondo la quale l’operatività della scriminante dell’esercizio di un diritto rappresenta un’alternativa che si pone in rapporti dico-   Fisionomia dell’offesa L’incardinamento dei bilanciamenti sottesi alla giustificazione fra le trame di una tipicità ‘di matrice giudiziale’, se da un lato può ac- crescere il potenziale di discrezionalità degli applicatori, dall’altra parte produce l’effetto di concepire il fatto tipico come struttura in fieri, aperta alla presa in carico di problemi e di istanze sociali che trovano voce attraverso le cause di giustificazione 116, ricollocandone il raggio d’azione non semplicemente come elementi tali da neutra- lizzare una precedente offensività, ma come fattori che influiscono sul disvalore del fatto in concreto. In questo senso si potrebbe ipotizzare che l’intreccio fra tipicità e giustificazione finisca per assegnare alle scriminanti un ruolo di ‘re- spiro’ della fattispecie astratta simile a quello svolto dagli elementi normativi di matrice culturale. Le norme limitative della libertà di espressione appaiono in questo senso ‘a geometria variabile’117, ossia modellate su bilanciamenti che risentono dei mutamenti dei costumi e delle soglie di tollerabilità so- ciale, non fissabili aprioristicamente ma da determinarsi in relazione a un quadro di contingenze storiche e culturali. A conferma del fatto che non si possono affrontare tali questioni senza una chiara messa a fuo- co del contesto che fa da sfondo alle espressioni, ai mondi morali a confronto e alle contingenze storico-politiche: «[l]a apparentemente distaccata, analisi di diritto positivo su libertà di parola e repressione penale è [...] insidiata e talora travolta dal calore dell’urgenza della realtà così com’è, e quindi dal confronto politico tout court» 118. tomici con eventuali interessi concorrenti; in questo modo la ricognizione dei conflitti finisce per adagiarsi su una logica binaria, trascurando, o negando, che ciò che rende legittimo l’esercizio di una libertà o di una eventuale limitazione non è la radicale inconfigurabilità di un eventuale controinteresse, ma si tratta invece di un giudizio legato a contingenze del caso concreto e a criteri di oppor- tunità della sanzione; v. VISCONTI Aspetti penalistici.Come osservato da Donini, il mondo dei diritti riflesso nelle cause di giustificazione riguarda la continua evoluzione della società civile una varietà ed evoluzione che sottostà all’apparente staticità delle incriminazioni e produce a volte nuove fattispecie di reato create in via legislativa, ma è capace di bilanciare tali diritti anche dentro e contro le vecchie incriminazioni, le quali non sanno darci un’immagine della società se non attraverso il mondo dei diritti, che cambiano il vero contenuto dei beni protetti dal codice penale, anche se questo può restare apparentemente invariato per decenni, v. DONINI, Critica dell’antigiuridicità e collaudo processuale delle categorie. I bilanciamenti d’interessi dentro e oltre la giustificazione del reato, in Riv. it. dir. proc. pen. Traggo l’espressione da PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., p. 126, il quale la usa per definire gli elementi normativi di valutazione culturale.  118 VISCONTI C., Aspetti penalisticiTra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Alla prova dei fatti: blasfemia e propaganda razzista Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che mi spaventa WOODY ALLEN SOMMARIO: 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibilità religiosa. L’ambiguità dell’art. c.p. Le vignette di Charlie Hebdo: diritto di offendere o offesa tollerabile?  Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discriminatorio. Sinossi. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il tema della potenziale dannosità a livello sociale di determinati contenuti espressivi chiama in causa l’orizzonte comunicativo del di- scorso pubblico, il quale per definizione caratterizza il livello di liber- tà e di apertura della democrazia in rapporto al pluralismo delle idee e ai margini di tolleranza e di repressione del dissenso. Si tratta dell’area in cui la legittimazione di eventuali restrizioni normative è più problematica: offese circoscrivibili alla dialettica fra persone fisiche possono essere ricomprese nella tutela dell’onore in- L’oggetto della libertà di espressione è il discorso. Non qualsiasi tipo di di- scorso, bensì il discorso pubblico. L’esercizio della libertà di espressione ha una vocazione di pubblicità, di trascendenza nella sfera pubblica. La libertà di espressione è, in questa misura, il requisito fondamentale della comunicazione politica in democrazia», v. ROIG., Libertà di espressione, cit., p. 36. Sull’etica del discorso pubblico come strumento volto alla realizzazione, e non solo all’affermazione, di valori, v. VIOLA, La via europea della ragione pubblica, in AA.VV., a cura di Trujillo- Viola, Identità, diritti, ragione pubblica in Europa, Bologna. Fisionomia dell’offesa 179 dividuale120, eventualmente come condotte qualificate da contenuti tali da aggravare la responsabilità, situandosi in un’area di crimina- lizzazione che, per quanto problematica 121, non è mai stata messa se- riamente in discussione dal punto di vista della legittimità costitu- zionale 122. Maggiori criticità si addensano su altre fattispecie tese a incrimi- nare manifestazioni del pensiero, in primo luogo la propaganda raz- zista di cui all’art. 3 comma 1, lett. a, della legge n. 654 (introdotto dalla c.d. Legge Mancino, cronologicamente successiva): non atti di istigazione alla discriminazione o alla violenza 123, ma pa- L’ambito applicativo della fattispecie di cui all’art. 595 c.p. (diffamazione semplice) non si estende, secondo giurisprudenza costante, a offese rivolte a col- lettività, anche se circoscritte, di persone. Per una panoramica della giurispru- denza della Corte Edu e della giurisprudenza italiana v. CUCCIA, Libertà di espres- sione e identità collettive, Torino; Nella giurisprudenza italiana, v. Cass. pen., sez. V, 04/04/2017, n. 16612; cfr. Cass. pen., sez. V, 09/12/2014, n. 51096; più datata è Cass. pen., sez., in Giur. it., con nota di LARICCIA, Sulla tutela penale delle confessioni religiose acattoliche; in senso favorevole, v. Cass. pen, sez. V, 16/01/1986, in Dir. inf., Per una sintesi del problema v. LA ROSA, Onore, sentimento religioso e libertà di ricerca scientifica, nota a Trib. Mondovì, 22 febbraio 2007, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Da ultimo, FIANDACA, Sul bene giuridico. Si veda C. cost., n. 86/1974. Cfr. ROMANO, Legislazione penale e tutela della per- sona umana (Contributo alla revisione del Titolo del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/1989, p. 61; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, Verso un nuovo codice penale, Milano; DONINI, Ana- tomia dogmatica del duello. L’onore dal gentiluomo al colletto bianco, in Indice pena- le, 2000, pp. 1080 ss.; per una sintesi, nel quadro di una posizione non radicalmente abolizionista ma tesa a limitare l’intervento penale a offese particolarmente gravi (attribuzione di fatti non corrispondenti a verità in contesti comunicativi estesi a più persone), v. GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Fra i costituzionalisti v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre?, cit., p. 15; MANETTI, Libertà di pensiero e tutela delle identità religiose. Introduzione ad un’analisi comparata, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p. 46. La legittimità del- la tutela dell’onore individuale non è messa in discussione dalla Corte Edu, la quale si è limitata, fino ad oggi, a rilevare gli eccessi della risposta penale dell’ordina- mento italiano, in quanto, secondo la Corte Edu, non dovrebbe essere prevista, sal- vo casi eccezionali, la sottoposizione a pena detentiva; v. per tutte, Corte eur. dir. uomo, Sez. II, sent. 24/09/2913, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10; per una sintesi del problema e per un’analisi della giurisprudenza italiana più recente sul tema del trattamento sanzionatorio della diffamazione v. GULLO, Diffamazione e pena detenti- va, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2016, pp. 1 ss. 123 Incriminati ai sensi dell’art. 3 della legge n. 654/1975 lett. seconda parte –, e lett. Tra sentimenti ed eguale rispetto role e discorsi che possono costituirne un volano. Secondariamente, vengono in gioco le residue ipotesi di vilipendio alla religione, soprattutto l’art. 403 c.p., il quale si presenta nelle fogge di un’offesa al- l’onore personale ma sembra assumere nelle applicazioni giurispru- denziali un ruolo dai contorni più ampi. È soprattutto con riguardo a tali tipologie di incriminazione che oggi la dottrina penalistica fa ricorso al lessico dei sentimenti per sot- tolineare in chiave critica un’asserita impalpabilità del substrato dell’offesa: valga, come sintesi, il rilievo di Tesauro il quale si chiede se tramite l’incriminazione della propaganda razzista non si finisca per tutelare emozioni collettive (di scandalo, imbarazzo, disgusto, inquietudine o paura), e se, dunque, non assomigli molto da vicino alla tutela penale di un sentimento a cavallo tra solidarietà e allarme sociale. Insomma, un impasto a metà strada fra sentimenti individuali di umiliazio- ne pubblica, reputazione di gruppo, uguaglianza formale senza distinzioni di razza, ordine pubblico ideale, universalismo morale anti-discriminazione. È plausibile ritenere che dietro tale norma vi siano anche, in buo- na parte, input che promanano da un disagio socialmente diffuso di fronte al fenomeno razzista, e che dunque la norma in un certo senso finisca per assumere anche la funzione di tutela di un sentire democratico. Tale rilievo, per quanto difficilmente confutabile, non sembra però sufficiente a chiudere il discorso sulla legittimazione. Al di là delle indiscutibili criticità, è lo stesso Tesauro a riconoscere che la que- stione non va declinata in termini meramente concettualistici ma è «irriducibilmente etico-politica e dagli esiti altamente controvertibili e resta aperta a opposte soluzioni che convogliano giudizi di valore, preferenze culturali e scelte di politica criminale. TESAURO, La propaganda razzista; si veda anche SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione. L’analisi destrutturante di Tesauro evidenzia inoltre come il ricorso al cor- rettivo ermeneutico del pericolo concreto non appaia sufficiente a contenere l’ambito di applicazione della disposizione entro una ragionevole area di oggettività, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. TESAURO, La propaganda razzista. Nella dottrina statunitense si è osservato criticamente che i discorsi a favore o contro il disvalore degli hate crimes sono affetti da un elevato grado di concettualismo, poiché, attraverso la ricerca di un danno oggettivo riconducibile all’odio, cercano di rendere meno  Fisionomia dell’offesa È una questione politicamente e costituzionalmente aperta, non archiviabile frettolosamente dietro l’invocazione, pur benintenziona- ta, dell’art. 21 Cost.: sono in gioco valori costitutivi della democrazia costituzionale, la cui protezione ha importanza rilevante anche (non solo) da un punto di vista simbolico. Il problema di un equilibrio con la libertà di espressione finisce per scaricarsi sul momento applicativo, alla ricerca di una ragionevolezza con mitezza attenuata, secondo una formula che è stata adoperata per indicare che il bilanciamento costituzionale fra valori confliggenti, e l’eventuale sacrificio di uno di essi (questo il senso della ‘non mitezza’), devono essere comunque accompagnati da ragionevolezza 128. Previsioni incriminatrici ‘non illegittime’ come quelle che l’ordina- mento italiano annovera nella legge Mancino necessitano di un regime di sorveglianza speciale: la loro tollerabilità è legata al grado di ragionevolezza applicativa. Un problema di qualità delle decisioni giudiziali, i cui esiti di giustizia non possono darsi per scontati: il ri- spetto del principio costituzionale della libertà di espressione richiede che le interpretazioni e le applicazioni siano fortemente selettive, calibrate su criteri fra i quali deve a nostro avviso essere tenuta ben presente, quantomeno a livello concettuale, la necessità di distingue- re tra espressioni che offendono la mera sensibilità ed espressioni che veicolano contenuti di umiliazione. Tale delega alla phronresis giudiziale è motivata dalla constatazione, a nostro avviso, di una non eliminabilità dall’ordinamento di fattispecie pur discutibili come quelle che incriminano la propaganda razzista: troppo forte la risonanza etica e la consustanzialità dei beni in gioco in rapporto ai valori che la democrazia riconosce come proprio fondamento. evidente il portato assiologico della scelta di politica del diritto al fine di restare coerenti con un liberalismo asseritamente neutrale: v. KAHAN, Two Liberal Falla- cies in the Hate Crimes Debate, in 20 Law and Philosophy. Si veda anche WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mante- nimento di orientamenti sociali di carattere assiologico?, secondo il quale rappresentazioni di valore e convinzioni possono essere considerati come legittimi beni da proteggere nel caso in cui la loro lesione metta in discussione l’«intesa sociale-normativa dominante. Traggo l’espressione da SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espres- sione e della libertà di religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, la quale sottoli- nea che il bilanciamento fra valori costituzionali potrebbe portare al sacrificio di uno di essi, non ‘mite’ dunque, ma pur sempre (necessariamente) ragionevole; vi può essere ragionevolezza senza mitezza, ma non mitezza senza ragionevolezza. Tra sentimenti ed eguale rispetto Non si tratta però di un assunto risolutivo, bensì di un fattore che rende ancora più complesso il gioco di equilibri e che, soprattutto, responsabilizza la figura del giudicante quale anello ultimo e decisivo di una ‘catena della ragionevolezza’129 necessaria per affrontare il problema di limiti alla libertà di espressione. A risultare determinanti saranno doti di sensibilità culturale e ca- pacità interpretativa dei fenomeni da parte del giudice, nel quadro di una sapienza non ‘algoritmica’ 130 bensì auspicabilmente vicina a una saggezza pratica. È tutt’altro che scontato, e sarebbe ingenuo pensare, che tali doti risiedano in misura sufficiente nella totalità dei giudici, ma sarebbe forse altrettanto frettoloso dare per scontato che non vi siano margini per una intelligente e ‘non intollerabile’ gestione dell’arsenale penali- stico in materia di libertà di espressione. Il problema è aperto, e sollecita l’intero mondo della cultura giuridica a meditare su percorsi di studio e di formazione funzionali a dare ai soggetti giudicanti gli strumenti per un’attenta lettura delle vicende e dei contesti fattuali, non semplicemente delle norme 131. Nel prosieguo compiremo una sintetica disamina di alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali in relazione alla tutela del sentimento reli- gioso e alla normativa sulla discriminazione razziale. Il tema del discorso razzista rappresenta la palestra concettuale più significativa per verificare la tenuta della distinzione fra critica e discriminazione. 129 Sul tema della ragionevolezza nel diritto penale v. per tutti PULITANÒ, Ragionevolezza e diritto penale, Napoli, ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della ragionevolezza, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, in Atti del Seminario svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, Milano. Osserva FIANDACA, Il giudice tra giustizia e democrazia nella società complessa, in ID., Il diritto penale tra legge e giudice, che sarebbe necessario un affinamento culturale nella preparazione dei magistrati, attraverso uno studio specifico delle logiche del ragionamento giudiziale e di altri aspetti che regolano il giudizio di fatto oltre che il giudizio di diritto. Istanze che vengono rimarcate da VINCENTI, Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Roma, quando descrive criticamente il giudice contemporaneo come «funzionario o burocrate, vittorioso in un concorso a cui segue una progressione in carriera pressoché automatica, formatosi su di una letteratura accademica di stampo ma- nualistico, spesso obsoleta e comunque aliena dal ricercare il perché delle regole, abituato a ragionar per massime, naturalmente assai poco curioso di andare oltre le rappresentazioni istituzionali e poco propenso ad assumere il dubbio metodico quale cifra del proprio agire.   Fisionomia dell’offesa Quanto alla residua fattispecie di vilipendio di cui all’art. 403 c.p., non si richiede che le espressioni siano discriminatorie; lo schema tipico rimane quello della condotta di insulto, del tenere a vile. Nondimeno, si pone l’esigenza di distinguere tra offese al patrimonio ideale delle confessioni, plausibilmente foriere di affronti alla sensibi- lità dei credenti ma che oggi dovrebbero considerarsi penalmente ir- rilevanti, da offese all’onore della persona. Iniziamo dai rapporti fra religione e libertà di espressione con particolare riferimento alla satira, per sondare alcuni recenti ap- prodi giurisprudenziali nel contesto italiano e per dedicare una ri- flessione al caso delle pubblicazioni del settimanale francese Charlie Hebdo, al centro dell’attenzione dopo i tragici episodi. Il dibattito sui rapporti fra libertà di espressione e sensibili- tà religiosa In nome di sentimenti religiosi è stato di recente versato del san- gue; l’esercizio di una libertà che è cifra simbolica dell’occidente libe- rale ha attivato spirali di violenza e generato un clima di terrore al cospetto del quale la riflessione sui modi d’uso della libertà non può abbandonarsi a cliché morali, pur benintenzionati, o a ingenui ireni- smi. Su un piano fattuale non sembra esservi ragione più immediata e plausibile della suscettibilità emotiva per dar conto delle conflittuali- tà emerse; se pure nella prospettiva penalistica i sentimenti possono difettare di tassatività, dall’altro lato, essi sono però in grado di pro- durre conseguenze ben visibili, a conferma della loro rilevanza indi- viduale e sociale. 132 PROSDOCIMI, voce Vilipendio (reati di), in Enciclopedia del diritto, Milano. Sul vilipendio religioso v. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso e contro la pietà dei defunti, in Trattato di diritto penale. Parte speciale, diretto da Marinucci-Dolcini, vol. V, Padova, 2005, pp. 148 ss.; ID., «Lai- cità penale» e determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano. Per un’accurata e ben documentata silloge di episodi in cui sono emersi at- triti fra satira e religione v. RUOZZI, Piccolo manuale di blasfemia audiovisiva. Dal Mistero Buffo televisivo a Southpark, in AA.VV., a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Tra sentimenti ed eguale rispetto Il traumatico ritorno in scena della sensibilità, o forse, più pro- priamente, della suscettibilità religiosa nel contesto occidentale costituisce un attacco frontale alla libertà di espressione per mano di for- ze che hanno usato il linguaggio della violenza e dell’annientamento dell’altro. A prescindere da quello che sia il giudizio sul merito delle rappre- sentazioni satiriche danesi e di Charlie Hebdo, va detto in premessa che le reazioni suscitate «non possono essere assunte a parametro di un “sentimento religioso” rilevante per il nostro ordinamento. Proprio le caratteristiche che ne fondano il forte e preoccupante rilievo politico, sullo sfondo di un te- muto “scontro di civiltà”, e sollecitano adeguate valutazioni e risposte politiche, impongono di tenere ferma la valutazione di estraneità e per così dire irricevibilità giuridica. Il sentimento religioso, che può porre un problema di tutela, non può essere misurato sulle fatwe né su vio- lenze aizzate politicamente in altri paesi» 134. L’agire violento esclude ogni prospettiva di considerazione giuri- dica per le istanze avanzate; resta tuttavia in piedi l’interrogativo su come sia più ragionevole oggi configurare una tutela del sentimento religioso ‘a misura liberale’. Uno dei nodi di fondo si identifica nell’al- ternativa fra tutela della/e religioni e tutela delle persone che profes- sano una religione 135: se la prima ipotesi rappresenta un retaggio del passato incompatibile con i principi del pluralismo assiologico e di laicità136, la seconda è aperta a diverse declinazioni. Riorientare la tutela sulla persona del credente esclude la prospettiva del bene di civiltà; meno scontato è l’approdo ultimo. Vediamo in che termini la distinzione fra tutela della confessione e della persona del credente entra oggi in gioco nel panorama appli- cativo dell’ordinamento italiano. 134 PULITANÒ, Laicità e diritto penale. Cfr. FERRARI, La blasfemia in Europa, dalla tutela di Dio alla tutela dei credenti, in resetdoc.org,; CIANITTO, Libertà di espressione liber- tà di religione: un conflitto apparente?, a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, Ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione. Fisionomia dell’offesa L’ambiguità dell’art. 403 c.p. La distinzione tra offesa alle credenze e offesa alla persona trova un punto di riferimento nell’art. 403 c.p. La fattispecie costituisce, in- sieme all’art. 404 c.p., un residuo delle ipotesi di vilipendio origina- riamente previste, fra le quali l’art. 402 c.p. (dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza) costituiva la norma più emblematica e dai risvolti più critici. Davvero il vilipendio alla religione può dirsi decriminalizzato sul piano della sostanza? L’art. 403 c.p. e l’art. 404 c.p. ne recuperano in parte l’eredità residua, circoscrivendo le ipotesi di rilevanza penale a una casistica più definita (quantomeno formalmente) di azioni le quali dovrebbero avere a oggetto le persone che professano una religione o cose destinate al culto 140. Dopo la caduta dell’art. 402 c.p., è l’offesa alla persona che potrebbe rendere legittima una restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero, lasciando fuori dall’area di intervento le forme di critica al patrimonio ideale di una confes- sione. In realtà l’art. c.p. appare caratterizzato da una formulazione non particolarmente felice, la quale persiste nella rubrica e nel te- 138 L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica è caduta sotto la scure della Consulta non per contrasto con l’art. 21 Cost., bensì per violazione degli artt. 3 e 8 Cost., in linea con un trend interpretativo che non ha mai asseconda- to le pochissime richieste di illegittimità dei vilipendi alla religione per violazione dell’art. 21 Cost. Risulta solo un ordinanza, la n. 479/1989, nella quale è stata sol- levata questione di legittimità costituzionale dell’art. 403 c.p. per contrasto anche con l’art. 21. In quel caso la declaratoria della Corte è stata la manifesta inammis- sibilità per la non pertinenza della questione rispetto al giudizio in corso, senza alcuna riflessione sul merito dei rapporti tra l’art. 403 c.p. e l’art. 21 Cost. Per una panoramica della giurisprudenza costituzionale sull’art. 402 c.p., v. SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espressione. Sembra aderire a un recupero pressoché pieno della portata dell’art. c.p. FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, la quale, adesiva- mente alla giurisprudenza, osserva che il vilipendio generico a una confessione religiosa, anche in assenza del riferimento a persone determinate, possa rientrare nell’art. 403 c.p., e che anche l’offesa a simboli, come ad esempio il crocifisso, possa assumere rilevanza penale ai sensi della medesima disposizione. Di diverso avviso PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, in AA.VV., a cura di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, cit., pp. 245 s. 140 Le condotte descritte dalle fattispecie non sono del tutto simmetriche: nel caso dell’art. 403 c.p. il vilipendio esprime la modalità di lesione, mentre nell’art. 404 c.p. è l’offesa alla confessione religiosa a costituire l’evento strumentale alla realizzazione del vilipendio a cose che formino oggetto di culto. Tra sentimenti ed eguale rispetto sto141 a riconoscere la centralità del vilipendio alla confessione reli- giosa 142, relegando in una posizione strumentale l’offesa a chi la pro- fessa: «l’offesa alla religione resta il criterio ermeneutico essenziale del settore. Non sono mancate applicazioni in cui la Corte di Cassazione ha optato per un approccio repressivo, sostenendo che ai fini dell’inte- grazione dell’art. 403 c.p. sia sufficiente che le espressioni di vilipen- dio siano genericamente riferite alla indistinta generalità dei fedeli «tutelando la norma il sentimento religioso e non la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una determinata confes- sione religiosa» 144. Tale pronuncia si esprime con nettezza a favore di un’interpretazione impersonale del vilipendio; sentenze successive, pur senza la medesima univocità, ne hanno ricalcato gli itinerari logico-argomentativi, rivelando nel complesso un’adesione (inconscia?) all’impostazione del defunto art. 402 c.p. In un caso un soggetto è stato condannato per aver esposto «nel centro di Milano un trittico da lui realizzato – tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela – raffigurante, rispettivamente, il Pontefice in carica, un pene con testicoli e il segretario personale del Pontefice, con la didascalia, Chi di voi non è culo scagli la prima pietra. E anche nel regime della perseguibilità, prevista d’ufficio, la quale enfatizza la dimensione istituzionale dell’interesse protetto. 142 Un problema ben noto alla dottrina penalistica già negli anni Settanta; per un’approfondita critica agli orientamenti giurisprudenziali che operavano una sostanziale commistione fra artt. 402 e 403 c.p., applicando quest’ultimo anche a casi di offesa impersonale a contenuti di fede v. PULITANÒ, Spunti critici. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso; sulla stessa li- nea di pensiero v. FLORIS, Libertà di religione; MANETTI, Libertà di pen- siero e tutela delle identità religiose, cit., p. 65; PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, cit., pp. 39 ss. Cfr. ROMANO, Principio di laicità dello Stato, cit., p. 214: «il fatto vietato e punito resta il vilipendio delle religioni». Viene fatto notare come il trattamento sanzionatorio più grave per il vilipendio del ministro di culto con- fermi l’orientamento della tutela verso l’assetto istituzionale delle confessioni re- ligiose, così SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori. La di- sposizione è dunque ambigua e si presta a usi discutibili; in dottrina si è rilevato che per salvarla sul piano della legittimità costituzionale occorrerebbe prendere sul serio la direzione personale del vilipendio e il legame da accertarsi in concreto, non in via presuntiva, del vilipendio alla confessione con l’offesa alla persona, v. PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 313; cfr. SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, Cass. pen., sez. Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa 187 In un secondo episodio vi è stata condanna per aver esposto un cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma costituita dall’im- magine del Pontefice in carica, e, in primo piano, un bersaglio costituito da una serie di cerchi concentrici con l’indicazione di punteggi vari, riportante in calce la scritta: «1.000 punti, caramelle, preservati- vi, vino e ostie sconsacrate se centri quel buco di culo da cui quoti- dianamente vomita fiumi di merda» 146. La Corte di Cassazione sembra riproporre la teoria dei limiti logici, quando afferma che in materia religiosa la critica è lecita quando – sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella espres- sione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di meto- do, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione: mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudi- zio sommario e gratuito – manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa rico- nosciute dalla comunità. In entrambi i casi menzionati la rilevanza penale delle condotte non appare in discussione; si pone però la questione se l’offesa sia da considerarsi rivolta alla persona del Pontefice o piuttosto al ruolo istituzionale e dunque al legame con un certo tipo di opinioni espres- se dall’istituzione ecclesiastica in tema di etica sessuale; l’integrazione della diffamazione appare pacifica, meno scontato è il vilipen- dio alla religione ex art. 403 c.p. Secondo la lettura proposta dalla Corte tale fattispecie non sem- brerebbe configurarsi come delitto contro l’onore e la dignità della persona, ma assumerebbe piuttosto le vesti di un mero surrogato del vecchio vilipendio ex art. 402 c.p., orientato alla tutela di un interesse affine al bene di civiltà. In occasione della condanna per il trittico 146 Cass. pen., sez. Per una ricostruzione del panorama giurisprudenziale sul punto v. SIRACU- SANO, I delitti in materia di religione; PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 111 ss.; in termini generali, sulla teoria dei limiti logici v. CARUSO, Tecniche argomentative della Corte costituzionale e libertà di manifesta- zione del pensiero, in forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/- pdf/documenti_forum/paper/0360_caruso. Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n. 41044. 149 Cfr. SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira. Tra sentimenti ed eguale rispetto raffigurante il Pontefice, la Cassazione ha osservato che: «ai fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa. Perciò il vilipendio di una reli- gione, tanto più se posto in essere attraverso il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21» 150. Si tratta di un orientamento che inverte il rapporto tra offesa alla persona e offesa al credo: la religione non appare come elemento qualificante l’offesa alla persona ma è il bene ultimo di un’incrimi- nazione che concepisce l’offesa individuale in termini strumentali ed episodici. Appare in questo senso avvalorata la tesi di chi ha individuato l’interesse protetto dalle nuove norme, post riforma, in un bene «a carattere superindividuale, la cui “consistenza” si gioca prevalentemente sul piano ideale, così come sul medesimo piano si pone la condotta espressiva ritenuta lesiva del bene protetto. Possiamo in definitiva affermare che l’offesa alla persona del credente resti ancora oggi marginale, pur in presenza di una disposizione che, nel suo tenore formale, si presenta come un delitto contro l’onore qualificato dallo status della persona offesa, ma che di fatto 150 Cass. pen., sez. VISCONTI C., Aspetti penalistici; cfr. PELISSERO, La parola perico- losa. Il confine incerto del controllo penale del dissenso, in Questione giustizia. Nel complesso si rimane ancorati a un sistema che differenzia tra forme di religiosità classiche e forme di religiosità diversa o c.d. negativa. Il legislatore conferma un favor verso manifestazioni della spiritualità ancora- te a un’ottica tradizionale che si identifica nelle forme di organizzazione delle religioni; sul punto gli orientamenti nella dottrina divergono: da un lato SIRACUSA- NO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori,  rileva che «siamo ben lontani dall’unica possibile prospettiva di tutela nello Stato laico: quella che si fonda su una considerazione paritaria di tutte le opzioni individuali in materia di fede, quindi anche delle opzioni agnostiche ed atee»; diversa è l’opinione di ROMANO, Principio di laicità dello Stato, il quale riconosce il completo silenzio serbato dal legislatore «su forme di agnosticismo o di ateismo attivo, prati- cato con personali accenti di doverosità morale», concludendo tuttavia che esso «non porterebbe ad alcuna “discriminazione ideologica perché per eventuali offese arrecate a forme associative ispirate a pur radicate convinzioni areligiose o agnostiche non è parso seriamente evocabile, nella situazione del nostro Paese, un qualsiasi rischio per la tranquillità».   Fisionomia dell’offesa 189 guarda più alla matrice dello status che a colui che ne è il rappresentante: la tutela di un’asserita sensibilità collettiva, legata all’offesa del patrimonio ideale di una confessione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento principale 152. La casistica esaminata appare tutto sommato non particolar- mente problematica, quantomeno sul piano della rilevanza penale: vi è il coinvolgimento di soggetti concretamente individuabili, e a fronte di espressioni ingiuriose resta tutt’al più aperto il problema se si tratti di vilipendio alla religione o di offese tali da integrare la diffamazione. Problemi più complessi sorgerebbero se le forme di espressione avessero ad oggetto non persone reali, ma simboli, icone, e in generale i dogmi di una confessione. Nel contesto italiano la caduta del vili- pendio ex art. 402 c.p. dovrebbe deporre per l’irrilevanza penale; il problema merita però di essere analizzato anche in un’ottica extraor- dinamentale, in riferimento a episodi dove l’irrisione satirica ha su- scitato reazioni violente, con un’evidente sovraesposizione del fattore emotivo. Le vignette di Charlie Hebdo: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile? Prendiamo in esame quello che è stato definito uno ‘stress test’ per i modelli di tutela, ossia il caso delle vignette pubblicate dal setti- manale francese Charlie Hebdo e, originariamente, dal settimanale danese Jyilland Posten. Anche la dottrina penalistica italiana si è po- sta l’interrogativo se tali manifestazioni espressive possano assumere rilevanza penale nell’ordinamento italiano; la risposta, condivisibil- mente argomentata, è stata di segno negativo 154: nell’attuale panora- ma normativo le vignette irridenti la religione islamica non sarebbero incriminabili poiché non rivolte a soggetti determinati ma orientate a ironizzare su dogmi e contenuti di fede 155. 152 Per un’approfondita disamina del problema della diffamazione delle reli- gioni in ambito internazionale v. ANGELETTI, La diffamazione delle religioni nella protezione ultranazionale dei diritti umani, in AA.VV., a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa. CIANITTO, Quando la parola ferisce. Blasfemia e incitamento all’odio religioso nella società contemporanea, Torino, BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette. Tra sentimenti ed eguale rispetto Al di là della riconducibilità a una norma incriminatrice, è oppor- tuno chiedersi se i contenuti delle vignette siano accostabili a un’of- fesa ai sentimenti o al venir meno del rispetto-riconoscimento. Le vignette danesi (oggi facilmente visualizzabili su internet) non sembrano operare una vera e propria critica o messa in discussione di asserti religiosi, ma adoperano uno stile comunicativo particolar- mente forte nelle rappresentazione di figure sacre, violando in primo luogo il divieto di rappresentazione del Profeta. Si può a nostro avviso parlare di blasfemia, nel senso di rappre- sentazioni empie per l’ottica di un fedele, e dunque plausibilmente offensive del sentimento religioso. Non sembra però potersi chiamare in causa una vera e propria discriminazione assimilabile a hate speech: solo nel caso di un’unica vignetta, raffigurante il Profeta con una bomba in testa, si è osservato, a nostro avviso in modo forse un po’ forzato, che potrebbe veicolare un messaggio discriminatorio in forza di un’assimilazione dell’Islam a una religione di guerra e a una considerazione di tutti gli islamici come terroristi. Il discorso sulle vignette pubblicate nel corso degli anni dal settimanale francese Charlie Hebdo necessiterebbe di essere sviluppato attraverso un’analisi dettagliata delle singole immagini: non essendo possibile in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni di li- vello generale sui rapporti fra libertà di satira ed eguale rispetto. Partiamo da un presupposto: l’interpretazione dei contesti, gli at- tori delle vicende e le contingenze storico-sociali sono fattori coessenziali nella configurazione degli equilibri di rispetto. Conseguen- temente l’interrogativo sulla tollerabilità di un’espressione satirica appare destinato a ricevere risposte differenti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contesti e delle epoche. L’umorismo e la satira possono essere gravemente irrispettosi a seconda delle cadenze adoperate e degli aspetti della persona che mettono in ridicolo. Si tratta di un buon punto di partenza per uscire dalla ingannatoria ricostruzione che vorrebbe distinguere tra ‘satira buona’ o vera satira, e ‘satira cattiva’: il fine della satira è toccare cor- de sensibili, e l’irrispettosità non è un aspetto patologico, bensì è connaturato al fenomeno satirico. È plausibile che la satira offenda dal punto di vista emotivo chi ne è oggetto, nel senso che a nessuno piace essere preso in giro e che l’essere irrisi induce tendenzialmente emozioni negative. 156 CIANITTO, Libertà di espressione e libertà di religione: un conflitto apparente?; amplius, v. EAD., Quando la parola ferisce. Fisionomia dell’offesa. Pensiamo alla solidarietà che il nostro Paese ha giustamente tributato al giornale francese Charlie Hebdo per l’inaccettabile e brutale aggressione subita: rimarchiamo che il gesto criminale non ha atte- nuanti, e l’affermazione della libertà di satira rappresenta un princi- pio fondamentale. Nondimeno, va considerato che l’appoggio solidale a Charlie è frutto di un’intrinseca parzialità, poiché concernente un fatto (le vignette sull’Islam) che non aveva un impatto emotivo pari a quello provato dai fedeli di religione musulmana. Basta cambiare esempio per accorgersi come anche nel nostro Paese l’atteggiamento nei confronti della satira muti radicalmente ove vi sia un diverso coinvolgimento. Si pensi alle vignette pubblicate sempre da Charlie Hebdo in occasione del terremoto avvenuto nel- l’Italia centrale ad agosto 2016: le risposte dell’opinione pubblica so- no state ben differenti, fino ad arrivare, da parte di soggetti delle isti- tuzioni, alla definizione di schifo. Ben diverso era il clima emoti- vo che aveva indotto molti cittadini ad adottare come effige dei propri profili telematici il logo ‘je suis Charlie’. Rispetto alle vignette sull’Islam cambia l’atteggiamento perché so- no diverse le emozioni suscitate nei destinatari, ma la sostanza dei fatti appare non dissimile: in entrambi i casi la satira ha colto nel se- gno, stimolando sensazioni forti, probabilmente offendendo emoti- vamente, e suscitando reazioni sdegnate da parte dei diretti destina- tari, ma sempre di satira si tratta. A partire da queste premesse, forse poco politically correct ma ade- renti alla realtà dei fenomeni, si pone il problema su come legittima- re l’esercizio della satira in quanto potenzialmente irrispettosa e in grado di dare fastidio 158. Nel contesto penalistico si è talvolta tracciato il confine fra espres- sioni tollerabili e non tollerabili attraverso una ricerca ‘ontologica’ di cosa sia satira e cosa invece si collochi al di là di essa, al fine di far derivare da tale ricostruzione effetti sul piano normativo, adottando. Così le ha definite il Presidente del Senato della Repubblica; la notizia è re- peribile su tgcom24.mediaset.it/politica/vignetta-charlie-su-sisma-gras- so-libero-di-dire-che-fa-schifo.Diritto di satira e libertà di religione godono entrambi di protezione a li- vello costituzionale, e sono pertanto «due beni, dunque, destinati ad una convi- venza mite, senza sopraffazioni dell’uno rispetto all’altro», così COLAIANNI, Dirit- to di satira e libertà di religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Per una definizione e una panoramica ricostruttiva del genere espressivo della satira, v. RATANO, La satira italiana nel dopoguerra, Messina- Firenze. Tra sentimenti ed eguale rispetto una concezione ‘deontologica’ della satira. Un simile modo di argomentare si caratterizza a nostro avviso per una fallacia che possiamo ricondurre alla violazione della Legge di Hume in senso inverso, ossia come ricostruzione fattuale a partire da un presupposto normativo: sarebbe satira ciò che non viola una certa soglia di continenza e che dunque non offende. Tale modo di procedere non consente di scindere adeguatamente i confini identificativi della satira da quelli che debbano essere, eventualmente, i limiti normativi. Come è stato efficacemente osservato: «Alla fine, sembra dunque non si possa fare a meno di accettare che la satira non abbia confini, benché in un senso diverso rispetto a quello che intendono quanti declinano questa tesi come tesi morale libertaria (“la satira non deve avere confini”); nel senso, invece, di una tesi con- cettuale che afferma che la libertà di satira non ha confini certi, poi- ché ci manca la possibilità di realizzare una precisa delimitazione teori- ca, attraverso la quale stabilire in maniera incontrovertibile quando ci si è mossi nell’alveo della libertà di satira e quando invece si è trasceso e si è entrati in un altro terreno, che, per quanto lo si possa continuare a considerare satirico, diventa sanzionabile dall’ordinamento. Ciò non significa postulare una ‘amoralità’ della satira, ma al con- trario pone le condizioni per giudicare in modo distinto il fine dell’espressione satirica dalle modalità con le quali essa si manifesta: il fine positivo della satira non è incompatibile con un umorismo par- ticolarmente caustico tale da essere financo irrispettoso e desacraliz- zante. Quale argomento a sostegno della libertà di satira si è osservato che una politica di tolleranza, e dunque non restrittiva, rappresenti un mi- Si veda ad esempio Trib. Latina, quando osserva che «[l]a satira è, dunque, un punto di vista che si distingue dal dileggio, dal vilipendio, dall’offesa, perché fornisce una lettura diversa della realtà e manifesta un giudizio di valore»; e ancor più netta è Cass. pen., sez. I, 24/02/2006 n. 9246: «La satira, notoriamente, è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene». Per una panoramica sulla giurisprudenza v. FLORIS, Libertà di religione; INFANTE, Satira: diritto o delitto?, in Dir. inf.; CAROBENE, Satira, tutela del sentimento religioso e libertà di espressione. Una sfida per le moderne democrazie, in Calumet. BÒ, Col sorriso sulle labbra. La satira tra libertà di espressione e dovere di rispetto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale.   Fisionomia dell’offesa 193 gliore humus per l’attecchimento di principi fondamentali che hanno una base dialettica e che, ove venissero cristallizzati in una teca al ri- paro da aggressioni, rischierebbero di trasformarsi in dogmi. Un simile modo di argomentare è stato definito come ‘utilitarismo delle regole’: l’atteggiamento di chi ha risolto la ‘questione Charlie’ af- fermando sì la presenza di un’offesa, ma optando per il pieno risco- noscimento della libertà di espressione, sarebbe viziato dal fatto che «nel dirigere l’attenzione verso le regole, l’utilitarismo insinua il so- spetto che le conseguenze di un atto o di una regola non siano in fondo determinanti per i giudizi e i valori etici di una persona: che lo siano invece le regole in quanto tali, in quanto vengono considerate intrinsecamente giuste, quali che siano le conseguenze della loro appli- cazione» 162. Si può riassumere tale critica anche come un’obiezione di ‘disinte- resse alle conseguenze’: «la sicurezza con la quale si proclama tale opinione è totalmente aliena dai calcoli pazienti e minuziosi che sa- rebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione (e ne rivela la vanità. L’argomento definito come ‘utilitarismo delle regole’ è da tenere in seria considerazione anche nella prospettiva giuridica; tuttavia, ciò che agli occhi del filosofo appare come un disinteresse alle conseguenze può rappresentare nella prospettiva penalistica una scelta di prudenza in rapporto a eventi offensivi la cui prevedibilità non appaia supporta- ta da una base nomologica sufficiente a legittimare divieti penali. Tenderemmo quindi a ritenere preferibile come opzione ultima la non restrizione della libertà di satira, ma al di là dell’atteggiamento BÒ, Col sorriso sulle labbra. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Tutt’altro che risolutivo si rivela anche il ricorso a criteri di selezione delle condotte ben consolidati nel pensiero penalistico e avallati dalla Corte costituzionale: ci riferiamo allo schema del pericolo concreto, in merito al quale, come è stato efficacemente rilevato da Alessandro Tesauro, anche la selezione delle pro- prietà universalizzabili del caso concreto da utilizzare come criteri indiziari di una pericolosità effettiva della condotta, costituisce un’attività ‘normativamente compromessa’, nel senso che non porterà comunque a individuare criteri di corri- spondenza suscettibili di verifiche empiriche, ma il ruolo determinante sarà pur sempre giocato da scelte di valore dell’interprete, v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. Ciò che allora deve spingerci a non censurare quelle espressioni satiriche che, pur non istigando alla violenza, mancano gravemente di rispetto ai gruppi deboli e svantaggiati non è una generica libertà di espressione (questo, in alcuni   194 Tra sentimenti ed eguale rispetto prudenziale, riteniamo che la soluzione liberale possa trovare legit- timazione anche attraverso un ragionamento che si richiami al criterio dell’eguale rispetto e al bilanciamento fra reciproche pretese. Quando si analizzano i disaccordi in materia di satira religiosa bi- sogna individuare dei presupposti valoriali per impostare la discus- sione, ossia dei compromessi sul cui equilibrio ciascuna delle parti possa avere voce in capitolo: anche «coloro che credono in una reli- gione presa di mira possono dover considerare che il diritto di ridere di qualunque religione può esso stesso essere considerato dagli altri come un articolo di fede» 166. La sostanza di tale argomento è condi- visibile, anche se il percorso concettuale, con una ‘moltiplicazione di articoli di fede’, rischia di tramutarsi in un pendio scivoloso. Eguale rispetto dovrebbe significare preservare la libertà di pro- fessare una religione da un lato, e la fede nella libertà di satira, dal- l’altra: un impegno a far sì che nessun pregiudizio venga arrecato alle due libertà. Ebbene, la pretesa di coloro che chiedono restrizioni alla libertà di satira appare in questo senso sproporzionata poiché mentre vignette ed espressioni anche ‘urticanti’ non arrecano un vero e pro- prio pregiudizio alla libertà del credente e alla sua identità religiosa, la pretesa di comprimere la libertà di espressione altrui risulte- rebbe un vulnus sproporzionato. Si potrebbe a questo punto prendere in esame un ulteriore argo- mento, basato sulla maggiore suscettibilità che determinati fedeli, come ad esempio quelli di religione islamica, adducono sostenendo che ogni offesa alla propria religione è anche, intrinsecamente, un’of- fesa alla dignità delle persone che la professano. Ebbene, quale spazio di legittimità può essere riconosciuto a tale obiezione? Abbiamo introdotto il problema parlando della suscettibilità sog- casi, come abbiamo visto, è sbagliato) e nemmeno il fatto che quelle espressioni contribuiscano in qualche modo al raggiungimento della “verità” (in molti casi, questo è falso); piuttosto, a caldeggiare una politica di tolleranza nei loro con- fronti è il fatto che consentono ai principi che ci sono cari di difendersi sempre meglio e mantenersi vivi e tonici, e con essi il tipo di società nella quale aspiriamo a vivere», v. BÒ, Col sorriso sulle labbra. TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, Milano. Utilizzo tale concetto nell’accezione sviluppata da PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale dell’identità religiosa, in Ragion pratica, ossia come «l’insieme delle credenze, dei valori, delle appartenenze che un individuo ha in materia specificamente religiosa», e dunque come aspetto specifico della sfera della coscienza.  168 WALDRON, The Harm in Hate Speech. Fisionomia dell’offesa gettiva nella trattazione di Joel Feinberg; in questo caso il discorso è però differente, poiché riguarda non la suscettibilità di un singolo soggetto, ma di un gruppo: l’interrogativo è se si tratti di una vulne- rabilità meramente emozionale o se, diversamente, sia anche ricon- ducibile a una particolare debolezza sociale del gruppo. Con riferimento a tale seconda ipotesi, esponiamo le tesi di due Autori già incontrati nel corso dell’indagine. Da un lato, Margalit osserva che un gruppo vulnerabile, con una storia di umiliazione e sospetto da parte di coloro che lo circondano, specialmente da parte della cultura dominante, è suscettibile di interpretare ogni critica come umiliazione. Waldron tematizza il problema senza richiamare l’eventuale debolezza di un gruppo, ma incentrando il discorso sulla totale identificazione fra soggetto e ideologie/credenze. Di fronte all’interrogativo sul peso che possa essere riconosciuto alla percezione soggettiva nel caso di gruppi vulnerabili, e dunque al- la rilevanza della vulnerabilità nell’interpretazione dell’offensività di un’espressione, le posizioni di Margalit e Waldron divergono: biografia personale e matrici culturali sono fattori che probabilmente in- fluiscono su prese di posizione concernenti ‘scelte ultime’170, la cui argomentazione in termini razionali è particolarmente difficoltosa. Il filosofo israeliano propone i seguenti criteri di soluzione:  un primo criterio, basato sulla reciprocità secondo cui dovreb- be essere considerato critica qualunque cosa si desideri offrire ad altri e che si accetterebbe ove venisse offerta a noi stessi; un secondo criterio, in favore dell’interpretazione del gruppo vulnerabile, si lega alla «necessità morale di far pendere la bilancia dell’errore nell’interpretazione verso la parte del debole», e va però bilanciato da un altro principio secondo cui «qualunque cosa fosse considerata critica piuttosto che umiliazione se avvenisse “in fami- glia”, cioè all’interno del gruppo, dovrebbe pure essere considerata tale se proveniente dall’esterno del gruppo. Diversamente da Margalit, il quale dunque non esclude una carità interpretativa a favore dei gruppi vulnerabili, Waldron rimarca la ne- cessità di non assecondare normativamente pretese avanzate in forza di un’identificazione fra persona e ideali religiosi o politici: richieste MARGALIT, La società decente. Traggo questo concetto da BOBBIO, L’età dei diritti, Torino, MARGALIT, La società decente. [H. P. GRICE, principle of conversational helpfulness: what a decent chap does!] MARGALIT, La società decente. Tra sentimenti ed eguale rispetto di tutela di questo tipo sono da considerarsi esorbitanti in un conte- sto pluralista. Vi è l’esigenza di una limitazione delle pretese sogget- tive, pur tenendo conto che il legame identificativo fra individuo e ideali può essere così intenso da essere assimilabile a una ‘seconda pelle’; ma ciò non può giustificare sul piano politico provvedimenti normativi che limitino le libertà di tutti per preservare la serenità interiore di alcuni . Sintetizzando: sia Margalit sia Waldron concordano sulla necessi- tà di prendere atto che determinate espressioni meritino una partico- lare attenzione da parte del diritto poiché possono esorbitare dall’or- dinario range della critica e del mero insulto e divenire forme di umi- liazione e discriminazione della persona. Per Margalit il discrimine fra insulto e umiliazione può essere diverso a seconda del tipo di de- stinatari in quanto di fronte a un gruppo cosiddetto vulnerabile l’interpretazione delle espressioni dovrebbe essere condotta tenendo conto anche, eventualmente, della peculiare sensibilità; secondo Wal- dron tale differenziazione non è mai normativamente giustificabile e si presterebbe a divenire un problematico moltiplicatore di divieti sulla base di pretese soggettivistiche. Concordiamo con Waldron che l’identificazione fra critica a fedi e valori e offesa alla persona, rappresenti un argomento knock-out che sbilancerebbe le posizioni in gioco. Il credente il quale esige che i propri principi non vengano mai irrisi, adducendo che ciò significherebbe automaticamente offendere lui come persona, sta implicitamente cercando di sottrarre le proprie posizioni assiologico-religiose dal dibattito, ponendosi in questo senso in una posizione di supremazia, limitando la libertà di espressione altrui secondo criteri che non sono confutabili poiché si sottraggono per definizione a ogni ti- po di confronto. La prova di tale incommensurabilità fra posizioni emerge in relazione a un ulteriore test secondo il quale dovrebbe essere ritenuta of- fensiva un’espressione che nessun membro del gruppo avrebbe rite- nuto divertente, anche se a pronunciarla fosse stato uno del grup- po stesso. Tale test trascura a nostro avviso un dato fondamentale, ossia che i conflitti fra sensibilità nascono proprio dal fatto che vi possono essere gruppi che non accettano un certo modo di fare ironia tout court; non è un problema di qualità della satira, ma semplicemente la WALDRON, The Harm in Hate Speech. TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, Fisionomia dell’offesa satira su certi temi potrebbe non essere ritenuta mai ammissibile. Un test di questo tipo non appare ad esempio risolutivo se applicato alle vignette sul Profeta Maometto poiché la religione islamica non sem- bra tollerare alcun tipo di ironia in questo senso. Bisogna dunque prendere atto che tali test sono poco funzionali quando pretendono di mettere a confronto pretese fra loro incompatibili poiché ricondu- cibili a gruppi che non si riconoscono nei medesimi valori. L’analisi filosofica di Ermanno Bencivenga è in questo senso spie- tata quando osserva che dal fedele di qualsivoglia religione non si può esigere un atteggiamento lassista e compromissorio sul rispetto della propria fede. Il carattere radicale del vincolo è tale per cui l’al- trui libertà di satira non potrebbe mai essere ritenuta tollerabile. In definitiva, il tema dell’identificazione fra soggetto e credenze spinge verso esiti illiberali: pretese modulate su una simile rigidità non possono essere accolte in un contesto pluralista, nel quale un in- teresse, pur di rango elevato, va comunque calato in una prospettiva di bilanciamento. Sintetizzando, la risposta all’interrogativo sulla libertà di satira, anche quando consista in vignette dissacranti come quelle pubblicate in Danimarca e come alcune di quelle pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo, deve essere a nostro avviso positiva: nessuna rilevanza penale secondo l’attuale normativa italiana, ma anche nessuna futu- ribile prospettiva di censura. Attenzione però a non fare della satira un dogma: parlare di libertà di deridere è una formula schietta ma che rischia di prestar- si a distorsioni. Esprimersi a favore della libertà di satira non signifi- ca ritenerla insindacabile; da un lato il riconoscere l’irrispettosità del- la satira può non essere elemento sufficiente per inferirne l’opportu- nità di una criminalizzazione; dall’altro l’irrilevanza penale non im- plica la certificazione di un buon uso della libertà di espressione BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Cfr. PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale dell’identità religiosa. Concordiamo in questo senso con CANESTRARI, Libertà di espressione e liber- tà religiosa. TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, Problema che si riconnette al più ampio tema dei valori e di un’etica della convivenza le cui polarità non dovrebbero essere determinate dalle dicotomie del- la liceità e illecità penale: «un’etica non legale e non penalistica di comportamen- to», come condivisibilmente osservato da DONINI, Il diritto penale come etica pub- blica, Modena, Tra sentimenti ed eguale rispetto Non appare opportuno diffondere a livello comunicativo formule come ‘libertà di offesa’ o ‘diritto di offendere’, mentre è bene riflettere su come gestire da un punto di vista sociale e comunicativo quelle che possono essere definite ‘offese tollerabili’, o meglio offese che i cittadini devono (imparare a) tollerare. La liceità dell’irrispettosità umoristica lascia aperto il problema di una ricostituzione del rispetto reciproco, di luoghi simbolici in cui possa essere offerta una compensazione a offese che, come nel caso delle reli- gioni, toccano strati profondi della persona. Riconoscere che le vignette di Charlie Hebdo possano ferire e abbiano offeso credenti di religione islamica non significa avallare la bestialità omicida dei terroristi, né comporta quale immediata implicazione quella di invocare lo strumento penale quale saracinesca. È però un punto importante per avviare un riconoscimento a soggetti che abbiano avvertito soggettivamente un’umi- liazione per la derisione ai propri simboli, anche in virtù del fatto che si tratta di appartenenti a gruppi deboli o comunque a minoranze, nei confronti dei quali l’irrisione satirica può comunque rappresentare una forma di amplificazione della disuguaglianza di status sociale. 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a sentimenti? Sentimenti, pari dignità e discriminazione rappresentano concetti che concorrono a identificare il retroterra delle norme sulla propaganda razzista, ossia lo hate speech a sfondo razziale che in Italia è incriminato 180 Si è osservato che l’impatto sociale dell’irrispettosità satirica e la conse- guente tollerabilità della satira dovrebbe essere correlata alla categoria di soggetti sui quali la satira va a incidere: massima libertà ove l’irrisione si rivolga a soggetti che hanno una posizione di supremazia a livello sociale, mentre più problematico appare il caso in cui si faccia satira nei confronti di categorie deboli, specie fa- cendo leva su stereotipi e luoghi comuni. Questo criterio, definito come frutto di una «precomprensione egualitaria del discorso pubblico», v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, appare in definitiva un bilanciamento tra il fine morale della satira e la sua ‘moralità interna’, vista attraverso l’egida assiologica del principio di uguaglianza. Per un interessante commento a una pronuncia del- la Corte Edu che, tramite l’art. 17 CEDU ha respinto il ricorso per violazione dell’art. 10 a seguito della condanna di un noto comico francese per uno spettaco- lo satirico sull’Olocausto, v. PUGLISI, La satira “negazionista” al vaglio dei giudici di Strasburgo: alcune considerazioni in «rime sparse» sulla negazione dell’Olocausto, in www.penalecontemporaneo.it, Fisionomia dell’offesa ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge. Cominciamo a interrogarci su quale sia l’effettivo rilievo del sentimento nel richiamo all’odio quale elemento di fattispecie dell’art. della legge, il cui presupposto è la sussistenza di un’idea di- scriminatoria fondata sulla diversità determinata da una pretesa su- periorità razziale o da odio etnico 182. Ad una prima lettura emerge come nel corpo della disposizione normativa il sentimento non definisca l’oggetto di tutela, bensì rappre- senti la nota caratterizzante il tipo di espressioni che la legge intende vietare. La prospettiva appare invertita rispetto alle norme che abbia- mo precedentemente analizzato con riferimento agli altri ‘sentimenti- valori’ menzionati nel codice: piuttosto che parlare di tutela di senti- menti, l’assetto delle norme tratteggia una tutela da sentimenti, in rap- porto alla quale l’odio rappresenta lo stato affettivo da ‘disinnescare’ 183. 181 In un’ottica più ampia, sono pertinenti al discorso d’odio a sfondo razziale anche altre norme: l’apologia di genocidio di cui all’art. 8 della legge e le disposizioni della c.d. ‘Legge Scelba’ che aggravano la cornice sanziona- toria per l’apologia di fascismo nel caso in cui venga realizzata attraverso ‘idee e metodi razzisti’. Nella letteratura penalistica, v. a cura di Riondato, Di- scriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela pena- le, cit.; DE FRANCESCO, Commento a D.L. conv. con modif. dalla legge. Misure urgenti in materia di discriminazione razziale, etnica, religiosa, in Leg. pen.; FRONZA, Osservazioni sull’attività di propa- ganda razzista, in Riv. int. dir. dell’uomo; VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista. Per una panoramica sulle applicazioni della normativa v. PAVICH-BONOMI, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione normativa recente, sui principi e va- lori in gioco, sulle prospettive legislative e sulla possibilità di interpretare in senso con- forme a Costituzione la normativa vigente, in www.penalecontemporaneo.it; FERLA, L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., Evidenzia la peculiarità delle incriminazioni contro la diffusione e l’incita- mento all’odio, rispetto al problema generale della cosiddetta ‘tutela penale di sen- timenti’, anche ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 59 ss. In realtà, secondo le indicazioni che emergono principalmente in ambito anglo-americano, va considerato che l’uso del termine odio, oltre a essere approssimativo, appare er- rato: «[w]hat has become clear is that the word ‘hate’ is really a misnomer. An of- fender need not actually hate his victim in order to have committed a ‘hate crime’; indeed he may feel no personal hatred towards that particular individual at all», v. WALTERS, Hate Crime and Restorative Justice, Oxford; cfr. PAREKH, Is There a Case for Banning Hate Speech?, in AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the Context of Hate Speech, cit., p. 40. Si veda anche PERRY, A Crime by Any Oth- er Name, Il concetto di ‘crimine d’odio’ sconta oltretutto un’indeter- minatezza di fondo: si tratta di una definizione cosiddetta ‘ostensiva’, ossia che pro- cede non attraverso un’esaustiva esplicazione del definiens (l’odio), ma attraverso   200 Tra sentimenti ed eguale rispetto Tale precisazione non risolve ma rilancia l’interrogativo se dietro le norme sulla propaganda razzista si ponga effettivamente un pro- blema di sentimenti negativi. Nelle pronunce della giurisprudenza italiana, la maggior parte del- le quali relative all’applicabilità della circostanza aggravante (art., d.l.), la risposta è negativa, in quanto è decisamente pre- valente l’orientamento che interpreta il requisito dell’odio non come tratto affettivo del soggetto attivo, bensì come sfondo valoriale dei contenuti espressivi e simbolici legati alle condotte 184. Come osservato dalla Corte di Cassazione: «non può considerarsi sufficiente che l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione delittuosa, occorrendo invece che que- sta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come intenzionalmente diretta e almeno poten- zialmente idonea a rendere percepibile all’esterno ed a suscitare in al- tri il suddetto, riprovevole sentimento o comunque a dar luogo, in fu- turo o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discri- minatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o religione» 185. una individuazione del definiendum (l’esempio concreto) il quale viene successiva- mente ricollegato al definiens. Si tratta delle cosiddette definizioni mediante esempi, suscettibili di convogliare istanze normative e culturali che tendono a ricondurre all’odio azioni e condotte le più diverse: «[c]lassificare un gesto criminale come crimine d’odio è compatibile in quest’ottica con un’ampia gamma di stati psicologi- ci, dalla rabbia alla noia, alla paura; perché non parlare, allora, di crimini di rabbia? Nascosto dietro al concetto di crimine d’odio sembra dunque esserci un altro significato culturale dell’odio, ossia ciò che motiva gesti di violenza insensata (normativamente ingiustificati) l’insistenza sul termine “odio” in una data si- tuazione, più che un fatto descrittivo, è il riflesso dell’impegno normativo a identificarsi con le sventure della vittima e a prendere le distanze dal punto di vista dell’aggressore», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro modi di pensare all’odio. Cass. pen., sez.; si vedano, ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 12/06/2008, n. 38217; Cass. pen., sez. Un diverso orientamento si pone a sostegno di un’applicazione più ampia, e in particolare estesa a comprendere anche situazioni in cui vi sia solo la presenza di soggetto attivo e vittima: «Non è, dunque, richiesta la plateale ostentazione di tali motiva- zioni sì da ingenerare il rischio di reiterazione di analoghi comportamenti, essen- do sufficiente che l’azione rechi, in sé, le prescritte connotazioni, immediatamen- te percepibili nel contesto in cui è maturata, avuto riguardo al comune sentire ed alla comune accezione dell’espressione usata» v. Cass. pen., sez. V, 11/07/2006, n. 37609; ulteriori pronunce sono analizzate in PAVICH-BONOMI, Reati in tema di di- scriminazione, Cass. pen., sez.; cfr. Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa. L’orientamento della giurisprudenza italiana sembra aderire alla concezione dello hate speech come fattore in grado di alterare in ne- gativo il clima sociale e di inoculare il germe della discriminazio- ne186. Non viene riservato spazio allo stato soggettivo dell’agente né alla verifica di un’effettiva diffusione del pensiero razzista e di un ‘contagio emotivo’, adottando un modello di intervento basato sul pe- ricolo astratto 187 e orientato alla tutela della dignità umana 188. Un’eloquente evocazione dei sentimenti la troviamo invece in una pronuncia ormai datata, relativa alla legge (at-tuazione della Convenzione internazionale per la prevenzione e la repressione del crimine di Genocidio), e in particolare all’art. 8 che in- crimina l’istigazione e l’apologia di genocidio 189. Ebbene, nel 1985 la Corte di Cassazione ebbe a definire la ratio di tutela del reato di pro- paganda come contrasto della «intollerabile disumanità odioso culto dell’intolleranza razziale che esprime, orrore che suscita nelle coscienze civili ferite dal ricordo degli stermini perpetrati dai nazisti e dai calvari tragicamente attuali di talune popolazioni africane e asiatiche. L’idoneità della con- dotta ad integrare gli estremi del reato non è già quella generale di un improbabile contagio di idee e di propositi genocidiari, ma quella più SPENA, La parola odio. Sovraesposizione, criminalizzazione, interpretazione dello hate speech, in Criminalia; sul tema, in termini generali, cfr. WALDRON, The Harm in Hate Speech. L’assunto è presente in Cass. pen., sez. Un’interpre- tazione correttiva è proposta da FRONZA, Osservazioni sul reato di propaganda razzista; cfr., per un differente percorso argomentativo volto a rico- noscere che la propaganda di idee razziste è già di per sé concretamente pericolosa per la dignità della persona, v. PICOTTI, Diffusione di idee razziste ed incitamento a commettere atti di discriminazione razziale, ss., nota a Tribunale Verona, in Giur. merito; contra, v. SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione; più ampiamente, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. Per tutti v. DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con modif. dalla legge; cfr. AMBROSETTI, Beni giuridici tutelati e struttura delle fattispecie: aspetti problematici della normativa penale contro la di- scriminazione razziale, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso; PICOTTI, Istigazione e propaganda della discri- minazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di mani- festazione del pensiero, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., pp. 134 ss. 189 Sul tema v. CANESTRARI, voce Genocidio, in Enciclopedia giuridica, Roma. Tra sentimenti ed eguale rispetto strutturalmente semplice di manifestare chiaramente l’incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di Genocidio. Attraverso un lessico ad alto impatto emotivo, la Corte afferma la legittimità dell’incriminazione dell’apologia di genocidio quale argine all’‘orrore che suscita nelle coscienze’. Si tratta del caso più emblema- tico in cui una norma penale italiana finalizzata al contrasto al razzismo e alla discriminazione viene declinata alla stregua di una vera e propria tutela di sentimenti; un profilo che è stato puntualmente, an- corché sinteticamente, messo in evidenza nei commenti critici della dottrina dell’epoca, che ne ha rilevato altresì la profonda distonia con i principi enunciati dalla Corte costituzionale in tema di apologia ed istigazione, del tutto disattesi dalla pronuncia della Cassazione. Tale orientamento rimane un caso isolato nell’ambito della esigua giurisprudenza, e viene espressamente sconfessato dall’unica pronun- cia successiva, ad opera della Corte di Assise di Milano che ne confu- ta l’intero impianto motivazionale al fine di restringere l’operatività della norma alle sole ipotesi in cui l’apologia sia una «forma di istiga- zione indiretta, caratterizzata dalla nota interna che in essa l’induzio- ne alla commissione di un certo fatto si realizza attraverso l’esaltazione di un fatto analogo. Il discorso razzista fra estremismo politico e insulto discri- minatorio Veniamo infine ad analizzare alcuni profili di ermeneutica del fat- to che ricorrono nell’analisi della casistica sul discorso razzista. La giurisprudenza specifica che affinché siano integrati gli estremi del- l’espressione discriminatoria deve trattarsi di consapevole esteriorizzazione di un sentimento di avversione o di discriminazione fon- data su di un pregiudizio: ma cosa consente di distinguere a livello esteriore una critica da un pregiudizio? Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it., La vicenda è relativa all’esposizione di striscioni inneggianti all’Olocausto durante una manifestazione sportiva: Mathausen reggia degli ebrei, ‘Una cento mille Mathausen’, ‘Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato. FIANDACA, nota a Cass. pen., sez., in Foro it., Corte di Assise di Milano, in Ius explorer. Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa Nelle applicazioni della norma sulla propaganda razzista la giuri- sprudenza ha più volte adoperato il criterio basato sulla distinzione fra considerazioni che fanno leva sulla diffusione di determinati com- portamenti presso determinate etnie, e l’offesa all’etnia tramite inde- bite generalizzazioni. Risultano particolarmente problematiche le vicende riguardanti contesti di dialettica politica, nei quali è frequente il ricorso a stereo- tipi che, a seconda delle circostanze, possono assumere le vesti di veri e propri pregiudizi discriminatori. Il processo ai leghisti di Verona rappresenta un significativo leading case: sinteticamente, il fatto ri- guarda l’iniziativa di alcuni consiglieri comunali finalizzata a mandare via gli zingari dal comune scaligero attraverso un coinvolgimento della popolazione allertata da un volantino che recitava No ai campi nomadi. Firma anche tu per mandare via gli zingari. Fra le diverse questioni affrontate dai giudici, è importante ai fini della presente indagine rilevare quanto osservato dalla Corte di Cas- sazione in occasione dell’ordinanza di annullamento con rinvio: «La discriminazione si deve fondare sulla qualità del soggetto (zingaro, nero, ebreo, ecc.) e non sui comportamenti. La discrimina- zione per l’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legitti- mamente discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere diverso. Tale trend interpretativo rimane costante nella giurisprudenza successiva avente ad oggetto le dichiarazioni di soggetti politici nel- l’ambito dell’attività istituzionale e della campagna elettorale. Emergono tuttavia notevoli criticità in una recente pronuncia della Corte di Cassazione riguardante una condanna della Corte di Appello di Trieste per un volantino di promozione elettorale stampato e diffuso in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, il quale secondo i giudici di merito 194 Un riassunto della vicenda in CARUSO, Dialettica della libertà di espressione: il caso Tosi e la propaganda di idee razziste, a cura di Tega, Le discriminazioni razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, Roma; si veda anche VISCONTI C., Il reato di propaganda razzista. Cass. pen., sez. Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez. Tra sentimenti ed eguale rispetto «propagandava idee fondate sulla superiorità di una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo ricorso, in particolare, allo slogan “basta usurai – basta stranieri” con sottinteso, ma evidente riferimen- to a persona di religione ebraica ed esplicito riferimento a persone di nazionalità non comunitaria e, sul retro del volantino, alla rappresen- tazione grafica esplicativa dello slogan di un’Italia assediata da sogget- ti di colore dediti allo spaccio di stupefacenti, da un Abramo Lincoln attorniato da dollari, da un cinese produttore di merce scadente, da una donna e un bambino Rom sporchi e pronti a depredare e da un soggetto musulmano con una cintura formata da candelotti di dinami- te pronti per un attentato terroristico. La Corte di Cassazione dispone l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste, argomentando proprio sulla base dell’asse- rita differenza del caso trattato rispetto alla condanna dei leghisti ve- neti, nel quale, secondo la Corte, appariva invece palese la discrimi- nazione degli zingari per il solo fatto di essere tali, in quanto il do- cumento diffuso non indicava alcuna plausibile ragione a sostegno dell’allontanamento, mentre il diverso caso in esame, «ad avviso del Collegio, in maniera alquanto grossolana, vuole veicola- re un messaggio di avversione politica verso una serie di comporta- menti illeciti che, con una generalizzazione che appare una forzatura anche agl’occhi del destinatario più sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate razze o etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che spaccia stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che si fa esplodere in un atten- tato terroristico. E poi Abramo Lincoln, con i suoi dollari, a rappre- sentare la finanza e le banche, probabilmente da mettere in relazione alla scritta “basta usurai”». Cass. pen., sez.: secondo la descrizione riportata in sentenza, «su un lato compariva la propria foto sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto la quale si leggeva, a grandi caratteri, la frase “BASTA USURAI, BASTA STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di appartenenza (Destra Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone una croce e scrive di fianco “ S.”. Più in basso, l’URL del blog del candidato; sull’altro lato, in alto la scritta: “Elezioni Europee DIFENDI L’ITALIA – VOTA S.”. Più sotto, sei caricature che raffigurano: un cittadino dai tratti somatici asiatici che vende prodotti “made in China;  un Abramo Lincoln con tanti dollari che gli svolazzano intorno;  un uomo di colore che offre droga; un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a farsi esplodere; una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una mendicante rom che allunga le mani in direzione dello stesso. Fisionomia dell’offesa Non sono però solo considerazioni legate al merito delle afferma- zioni, definite ‘grossolane’, a far propendere la Corte verso un atteg- giamento di indulgenza, bensì risulta decisiva l’analisi del quadro contestuale e in particolare il particolare clima nel quale si svolgono le competizioni elettorali. Ora, la condivisibile apertura della Corte a una lettura dei fatti il più possibile aperta alla valutazione di tutti i fattori di contesto e alle prassi comunicative, anche quelle meno ortodosse, conferma in pri- mo luogo il carattere storicamente e socialmente condizionato delle soglie di liceità e di tollerabilità del discorso pubblico. Sul merito dell’interpretazione offerta dal Collegio, possiamo rite- nere avverato il vaticinio di Costantino Visconti riguardo l’elevata complessità di scindere, a livello di critica, la persona dal proprio comportamento: la nitidezza della distinzione è solo apparente, in quanto vi sono ambiti in cui il discorrere sulle differenze in rapporto a un contesto pluralistico e multiculturale può condurre a un punto in cui «il profilo della diversità in sé e quello dei comportamenti costituiscono un tutt’uno, e non è possibile, né verosimilmente avrebbe senso separarli» 198. In relazione a tale profilo, l’argomentazione dei giudici appare frettolosa e superficiale. Ciò che desta a nostro avviso perplessità non è tanto l’esito assolu- torio, il quale, pur opinabile, può trovare ragioni in un complessivo atteggiamento di favor libertatis; sorprende però che sia la stessa Cor- te ad riconoscere che siamo di fronte, evidentemente, ad un messaggio politico che risente di un pregiudizio per cui determinate atti- vità delittuose vengono poste in essere prevalentemente dai membri di determinate etnie». Ebbene, parlare di pregiudizio evoca una connessione immediata con la discriminazione: come ammonisce Norberto Bobbio, «la conseguenza principale del pregiudizio di gruppo è la discriminazio- ne»200. In altri termini, quanto affermato dalla Corte depone per un VISCONTI C., Aspetti penalistici Abel osserva che «è impossibile distinguere le espressioni illegittime dall’opportunismo di routine dei politici quando vanno incontro ai pregiudizi popolari, v. ABEL, La parola e il rispetto. Il legame tra pregiudizio e discriminazione non deve tuttavia portare a inferire automaticamente la sussistenza di un atteggiamento razzista: pregiudizio e razzismo, per quanto connessi, non sono sovrapponibili, ma si tratta di concetti distinti, v. RAVENNA, Odiare. Per tutti, BOBBIO, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto univoco accostamento delle opinioni del volantino al pensiero di- scriminatorio: sono frutto di pregiudizi razziali. Difficile a questo punto negarne il disvalore, quantomeno se si abbia a cuore un certo rigore concettuale. L’atteggiamento della Corte lascia perplessi, in quanto la circo- stanza legittimante l’esercizio della libertà di espressione è così espli- cata: «si tratta, peraltro, di un pregiudizio che da sempre viene agita- to nelle campagne elettorali al fine di recuperare consenso in situa- zioni locali in cui da parte dell’elettorato viene una richiesta di maggiore sicurezza. Un’indulgenza indotta dalla consuetudine: ma quale dovrebbe es- sere il ruolo del diritto penale in rapporto a prassi comunicative becere? La constatazione di una degradazione del linguaggio e di una brutalizzazione della dialettica in ambito politico è una buona ragione per chiudere un occhio di fronte a casi come quello preso in e- same? La risposta travalica i confini della questione e riporta all’inter- rogativo se il diritto penale debba limitarsi a un’azione di conserva- zione dei valori o possa anche costituire uno strumento di ‘pedagogia sociale’. Resta il dubbio se in questo caso l’atteggiamento della Corte di Cassazione sia da avallare per essersi astenuta dal sindacare il merito di un discorso politico, o sia invece da criticare per non aver adeguatamente stigmatizzato la diffusione di pensieri offensivi che essa stessa ha implicitamente ammesso essere frutto di pregiudizi a base razziale. Sinossi La connessione fra tutela di sentimenti e rispetto reciproco risulta particolarmente evidente nella dialettica avente ad oggetto argomenti ad alto tasso emotivo, dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. Nell’attuale scenario socio-politico del mondo oc- cidentale gran parte dei conflitti orbitano intorno al tema dell’appar- tenenza etnica, della fede religiosa, della identità e pari dignità sessuale. Fra le ragioni dell’effetto emotigeno vi è il fatto che nel discorso Tale principio viene esplicitato anche in Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa concernente le appartenenze possono emergere problemi di mancato riconoscimento dell’altro e di categorizzazioni denigratorie. Ne deriva l’esigenza di distinguere fra espressioni di mera critica o irrisione, pur emotivamente fastidiose ma comunque espressione della libertà del dissenso, da forme di diniego del riconoscimento: la priorità politica è la dimensione del rispetto definita ‘rispetto-riconoscimento’, diversa dal ‘rispetto-stima’. L’eguale rispetto-riconoscimento costituisce la ricaduta relaziona- le più immediata del valore della dignità umana. Per quanto tale richiamo possa risultare problematico agli occhi del penalista, esso rappresenta comunque una bussola assiologica se ci si impegni a modularne l’uso attraverso una lettura non metafisico-concettuali- stica ma volta a identificarne le proiezioni relazionali ed esistenziali, ad esempio attraverso la cosiddetta ‘teoria delle capacità’ elaborata da Martha Nussbaum. Il non facile obiettivo di bilanciare istanze di libertà e richieste di rispetto porta a identificare un livello minimo di protezione il quale sembra poter coincidere con l’esigenza di non essere umiliati e poter essere trattati come persona dignitosa il cui valore eguaglia quello al- trui. Nell’approfondimento del concetto di ‘umiliazione’, viene rimarca- ta l’esigenza di distinguere fra espressioni di insulto ed espressioni che umiliano. La distinzione, comunque afferrabile sul piano concettuale, appare sfumare nei suoi contorni essenziali al momento delle applicazioni in ambito giuridico: il processo interpretativo dipende in larga misura dall’ermeneutica del fatto, ossia dai diversi significati che determinate espressioni possono assumere a seconda dei contesti e dei soggetti coinvolti, e si espone a precomprensioni e a usi poco sorvegliati di inferenze logiche e valoriali. Un rapido riscontro relativo alle norme italiane a tutela del senti- mento religioso e della pari dignità mostra come il richiamo a sentimenti sia residuale nelle argomentazioni della giurisprudenza: pre- sente in minima parte nelle forme di vilipendio, comunque ancorate a un modello di tutela incentrato sulla religione piuttosto che sulla dignità del credente, e assente con riguardo alla normativa sul di- scorso razzista. Un ambito, quest’ultimo, nel quale meritano particolare attenzione, quale esempio di ermeneutica del fatto, le argomen- tazioni elaborate per tracciare la linea di confine fra discorso politico ‘estremo’ e discorso discriminatorio. Tra sentimenti ed eguale rispetto   DILEMMI SOMMARIO: Tutela di sentimenti’: una formula a più significati. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà. Tutela da sentimenti. Idealtipi antropologici e realtà umana dei conflitti. Dissensi ed estremismo. Quale ruolo per il diritto penale? Il tormentato pensiero della dottrina penalistica. Precetti pedagogici? Sinossi. Tutela di sentimenti: una formula a più significati Cerchiamo di riannodare le fila di un discorso che ha preso le mosse dall’esigenza di riservare attenzione ai rapporti fra sentimenti, emozioni e diritto penale non solo come problema esegetico-inter- pretativo ma, più radicalmente, come coordinata per la riflessione sull’essere e sul dover essere del diritto penale. L’osservazione di Mar- tha Nussbaum posta in epigrafe al I capitolo ci ricorda che uno sguardo alla dimensione affettiva è fondamentale per non perdere di vista il substrato umano dei problemi e soprattutto gli aspetti di vul- nerabilità della persona che possono motivare il ricorso allo strumen- to giuridico. Parlare di tutela di sentimenti rimanda al problema del rispetto per le diversità coesistenti nella società pluralista: alla varietà di pre- ferenze e di assiologie personali. Il sentimento viene in gioco non semplicemente come stato psicologico, ma in termini normativi qua- le richiamo metonimico al ‘tutto della persona’ e al valore di cui sen- timenti ed emozioni rappresentano il correlato fenomenico, ossia la personalità e l’‘unicità’ del singolo. L’eventuale orizzonte di tutela dovrebbe in questo senso focaliz- zarsi non su risvolti contenutistici di stati affettivi o su oggetti (ideali, concezioni, fedi) caratterizzati da peculiari connotazioni valoriali, ma assumere a riferimento eventuali attacchi alla persona che adope-  210 Tra sentimenti ed eguale rispetto rino strumentalmente il sentimento (rectius, il modo d’essere e l’iden- tità dell’individuo) come fattore degradante per la negazione della pari dignità 1. Abbiamo individuato nell’eguale e reciproco rispetto-riconosci- mento l’atteggiamento che meglio si presta a definire sia il dover es- sere dei rapporti fra singoli, sia la tendenziale equidistanza che do- vrebbe caratterizzare eventuali interventi normativi 2. Sarebbe corretto parlare di eguale rispetto come ‘bene giuridico’, per riportare il discorso sul piano dei concetti endopenalistici? Al di là della scarsa risolutività che una tale formula assumerebbe sul pia- no teoretico, la sostanza dei problemi appare diversa: in primo luogo il rispetto non definisce un oggetto di tutela a sé stante ma si pone piuttosto come parametro per valutare sia i rapporti tra singoli sia la qualità di eventuali risposte normative che abbiano come riferimento finalistico la tutela della persona. In secondo luogo, quando si analizzano le dimensioni sociologica, psicologica e filosofica del rispetto emerge una complessità che non appare comprimibile e ‘isolabile’ nell’involucro concettuale che si è soliti definire ‘bene giuridico’3. Possiamo sì parlare di ‘diritto al ri- 1 Cfr. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. Nelle moderne democrazie liberali, le ricadute effettuali del valore del rispet- to-riconoscimento coinvolgono due differenti profili. In primo luogo l’atteggia- mento dello Stato verso i cittadini: il rispetto-riconoscimento è da intendersi co- me aspetto complementare del principio di eguaglianza, indicando l’approccio che la normazione statuale dovrebbe assumere nei rapporti con le diverse voci dello scenario pluralista e nelle dinamiche fra maggioranze minoranze: «l’eguale rispetto appare in questa luce come una generalizzazione della dignità e dell’onore è come l’esito di un processo di costituzione di una comunità di pari, di una comunità di mutuo riconoscimento: la comunità dell’eguale status di cittadi- nanza» v. VECA, Dizionario minimo. Le parole della filosofia per una convivenza democratica, Milano; per uno studio sul tema delle discriminazioni attuate verso individui o gruppi mediante lo strumento giuridico, v. SALARDI, Di- scriminazioni, linguaggio e diritto. Profili teorico-giuridici, Torino; per un quadro, e un’analisi critica, di interventi normativi nel contesto italia- no che sembrano potersi definire come ‘discriminatori’, v. BARTOLI C., Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Roma-Bari; per un approfondimen- to sull’atteggiamento della Corte costituzionale in rapporto a questioni in cui so- no venuti in gioco profili di discriminazione, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Sono numerose le voci che nella dottrina italiana hanno constatato la crisi di tale costrutto teorico. In termini generali v., per tutti, FIANDACA, Sul bene giuridico; in relazione a profili più specifici è stato acclarato il «ruolo di strumento metodologico di chiarificazione concettuale più che di base cogente- mente normativa delle scelte di criminalizzazione», così PALAZZO, Tendenze e prospetto’ per descrivere l’interesse della persona a non essere offesa, ma si tratta di una formula da prendere con cautela e che necessita di specificazioni. Il filosofo Darwall osserva che rispettare un individuo significa prendere sul serio le sue richieste e le sue aspettative sul pia- no morale in forza non di un dovere impersonale ed esterno alla rela- zione, bensì in virtù dell’autorità morale che è inerente alla persona stessa, alla quale si deve rispetto per ragioni di uguaglianza (c.d. rispetto in seconda persona). In altri termini, le richieste di rispetto traggono legittimazione morale dalla persona in sé, ed è la persona ad essere destinataria dell’atteggiamento di riguardo fondato sull’ugua- glianza di status nella relazione di reciprocità. Di fondamentale importanza è lo sviluppo che Anna Elisabetta Galeotti ha dato al pensiero di Darwall, contribuendo a illuminare la distinzione tra rispetto e diritti. Riportiamo per esteso un importante passaggio: «Quando si dice “tutti hanno diritto di essere rispettati dagli altri” non stiamo parlando di diritto in senso proprio, perché il diritto al rispetto non ha uno specifico contenuto. Certamente di fronte a una violazione di diritti, si dice che il trasgressore non ha rispettato il titolare di dirit- ti. Però non possiamo concludere che il rispetto sia una qualificazione dell’ottemperamento dei diritti tale che, ogni qualvolta una persona fa il proprio dovere verso qualcun altro, il rispetto si manifesta come una qualità intrinseca e inestricabile del dovere morale ottemperato. Non possiamo concludere in quel modo perché, tra le altre cose, non siamo contenti di essere rispettati per dovere. Il fatto è che non solo non vogliamo essere rispettati per un dovere in terza persona, ma neanche spettive nella tutela penale della persona umana, in AA.VV., a cura di Fioravanti, La tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano. Altri Autori hanno evidenziato la dissoluzione della funzione critica, sul presup- posto della negazione di una preesistenza dei beni oggetto di tutela alle scelte del legislatore, v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?, rimarcando inoltre l’appannamento della capacità descrittiva del concetto, e suggerendone una dismissione o un sostanzioso restyling, v. FORTI, Le tinte forti del dissenso. Si veda anche PALIERO, La laicità penale, il quale rimarca il perdurante ruolo di orientamento del ‘bene giuridico’ in rapporto al formante legislativo e giurisprudenziale, pur confermando la crisi sostanziale del costrutto in relazione ai suoi confini. DARWALL, Respect and the Second-Person Standpoint, in Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association. Si è osservato che il rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamento verso una persona, prima ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti, così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Tra sentimenti ed eguale rispetto per uno in seconda persona. Non vogliamo essere rispettati per dovere, punto e basta. In effetti credo che la prospettiva diritti/doveri collassi sempre in qualche forma di morale impersonale che non soddisfa pro- priamente le nostre aspettative circa l’essere rispettati. La richiesta reciproca di rispetto pur se avanzata in termine di diritto non può mai essere soddisfatta per dovere, anche se ciascuno di noi ha l’obbligo di rispettare gl’altri. La mancanza di rispetto non si rimedia attraverso l’imposizione di rispettare gli altri, ma solo attraverso una comprensio- ne autentica di ciò che la richiesta reciproca implica. Solo allora chi ha mancato di rispetto può riparare il suo torto, non già facendo per dovere qualche atto, ma riconoscendo la propria mancanza e riparando l’offesa con un atto individualizzante di riconoscimento. La natura del rispetto ‘in seconda persona’ implica che il rapporto di reciproco riconoscimento debba avvenire tramite un atto ‘indivi- dualizzante’, la cui sostanza è quella di dare valore morale a un soggetto considerandolo nella sua concretezza di persona umana, non dunque come mera proiezione di una comune appartenenza di genere che prescinde dalle particolarità che lo caratterizzano. Un realistico disincanto suggerisce a questo punto una constatazio- ne: il rispetto, inteso come disposizione comportamentale dell’individuo, non è coercibile: «[l]a prospettiva dei diritti e dei doveri è una prospettiva impersonale, che non soddisfa compiutamente le aspettative di ricono- scimento e rispetto morale. Non le soddisfa perché se il rispetto deve essere ‘in seconda persona’, un eventuale divieto rappresenta invece una fonte eteronoma di doveri. Un rispetto giuridicamente imposto può es- sere una componente importante negli equilibri della convivenza, ma non esaurisce lo spazio morale delle relazioni e soprattutto non è da considerarsi strumento prioritario da un punto di vista politico. Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive sulle quali influi- scono strumenti di controllo sociale fra i quali può rientrare anche, eventualmente, il diritto penale; ma se prendiamo sul serio la matrice affettiva dell’atteggiamento di rispetto8, e dunque la sua natura an- GALEOTTI, La politica del rispetto. Questa diversa prospettiva dell’atteggiamento di rispetto viene approfondita in GALEOTTI, Rispetto come riconoscimento, in AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. BAGNOLI, L’autorità della morale; MORDACCI, Rispetto. Dilemmi che di sentimento, ne consegue che l’obiettivo del rispetto per le per- sone discende in primo luogo dalle possibilità di uno sviluppo sogget- tivo di tale sentire 9. Emerge un’importante indicazione per definire il progetto norma- tivo della ‘tutela di sentimenti’: la strategia dei divieti è del tutto residuale, certo non prioritaria. Il giurista penale è portato a pensare al concetto di tutela prevalentemente in chiave negativa o ‘difensiva’, come protezione di un dato oggetto da danni o da pericoli, ma si trat- ta di un’accezione che rispetto ai problemi in esame appare limitante, e che è preferibile scorporare in traiettorie differenti. Possiamo individuare una prima prospettiva che declina il concet- to di tutela come agire positivo, un ‘aver cura’ di sentimenti ed emo- zioni nella dimensione sociale, inteso come coltivazione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco rispetto. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà Cura dei sentimenti è un concetto estraneo al tradizionale repertorio di categorie non solo penalistiche, ma più in generale giuridi- che. Perché si dovrebbe aver cura dei sentimenti nella società con- temporanea? Una eloquente risposta è fornita da Nussbaum in una cri- tica al pensiero liberale, reo di non aver adeguatamente tenuto in considerazione sentimenti ed emozioni, vedendoli come destabilizzanti e più confacenti a visioni politiche orientate in senso populista, ai fascismi e alle forme dittatoriali. C’è chi pensa che soltanto le società fasciste o aggressive siano intensamente emotive e che solo tali società abbiano bisogno di coltiva- re emozioni. Sono convinzioni sbagliate e pericolose. Cedere sul terreno delle emozioni, permettere che le forze illiberali vi trovino Non basta dare l’ordine di farlo perché la gente sia trattata effettivamente con rispetto. Il riconoscimento reciproco va negoziato, e questo vuol dire coinvol- gere in tutta la loro complessità il carattere degli individui tanto quanto la struttura sociale, v. SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, tr. it., a cura di Turnaturi, Bologna. Traggo questo termine dal lessico di Nussbaum. NUSSBAUM, Emozioni politiche. Tra sentimenti ed eguale rispetto spazio significa dare loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste pensino ai valori liberali come a qualcosa di noioso e inefficace. Tutti i principi politici, buoni e cattivi, necessitano di supporto emotivo per consolidarsi nel tempo, e ogni società giusta deve guardarsi dalle divisioni e dalle gerarchie coltivando sentimenti appropriati di amore e simpatia» 12. La critica di fondo della studiosa statunitense si può articolare in due profili. Su un piano filosofico, l’ambizione a un liberalismo politico (il quale cioè cerchi di mantenere una tendenziale equidistanza senza promuovere una particolare concezione del bene) avrebbe prodotto teorizzazioni eccessivamente asettiche sul piano dei valori, o comun- que non adeguatamente esplicite nell’affermare il sostegno a un pac- chetto di principi. Conseguentemente, l’immagine di un liberalismo troppo preoccu- pato di presentarsi come neutrale14 ha disincentivato la riflessione sulle ragioni delle scelte valoriali degli individui, trascurando le emo- zioni e i sentimenti come fattori che influenzano gli atteggiamenti verso i valori. La seconda carenza di fondo è non aver adeguatamente riflettuto sulla ‘psicologia di una società dignitosa. . Secondo Nussbaum è fondamentale che una riflessione filosofico-politica prenda le mosse dalla psicologia umana, che cerchi chiavi di comprensione dei com- portamenti per evitare di elaborare teorie fondate su immagini stereotipate dell’essere umano. Lo studio delle emozioni e dei sentimen- NUSSBAUM, Emozioni politiche. Secondo la Nussbaum, quando invece i liberali hanno tentato di addivenire a un liberalismo più ‘comprensivo’, si è arrivati a teorizzare una sorta di ‘religione civile’, ossia pacchetti di principi non adeguatamente inclusivi, bensì escludenti (come esempi vengono riportati la religione civile di Mill e Comte). Nel panorama statunitense la critica al tentativo liberale di mostrarsi come asseritamente neutrale ha avuto ad oggetto anche il pensiero penalistico, visto come del tutto incentrato sul piano funzionalistico e consequenzialistico, e ten- dente non offrire il giusto risalto alla componente valoriale nella definizione del danno e della responsabilità, v. KAHAN, Two Liberal Fallacies. Da tale critica non sono esenti pensatori fra i più importanti della tradizione liberale, con la sola esclusione di Rawls, al quale si deve, nello studio intitolato ‘Giustizia come equità’, un fondamentale richiamo alla psicologia morale ragionevole, v. NUSSBAUM, Emozioni politiche; cfr. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it., a cura di Veca, Milano. Dilemmi ti si pone in questo senso come passo per identificare matrici di atteggiamenti di pensiero e di comportamenti che possono rivelarsi problematici, e vieppiù dissonanti, in rapporto ai principi liberali. Il buon uso pubblico delle emozioni costituisce il nucleo di una strategia politica che riconosce al fattore affettivo una peculiare forza normativa e una salienza morale le quali dovrebbero contribuire a dare sostanza e a vivificare i principi guida del paradigma liberale attraverso un intelligente stimolo delle coscienze basato su virtuose interazioni con la sfera emotiva18. Si configura in questo senso un vero e proprio progetto culturale volto a ‘reinventare la religione civile’ 19, e a rendere la compagine sociale permeabile a emozioni positive al fine di dare al rispetto reciproco una dimensione più pregnante. Solo a uno sguardo superficiale la teorizzazione di Martha Nus- sbaum potrebbe risultare accomunabile a una sorta di moralismo au- toritario, come tentativo di porre le fondamenta di un ‘pensiero uni- co’. La studiosa, consapevolmente, ne prende le distanze: una cultura critica vigile è fondamentale per la stabilità dei valori liberali. Un’intensa cura delle emozioni può coesistere, anche se talvolta a fatica, con la presenza di uno spazio critico aperto» 21. Una simile prospettiva sembra di primo acchito esulare rispetto al campo del diritto penale. In verità essa contiene un messaggio impor- tante anche per la prospettiva penalistica: la ‘cura’ dei sentimenti de- Da questo punto di vista, il percorso additato dalla Nussbaum pare potersi accostare a obiezioni critiche di altri Autori che hanno rimproverato al pensiero liberale un’eccessiva ‘asetticità’: in altri termini, un punto di vista troppo restritti- vo e ‘astensionistico’ dal punto di vista etico, a esclusivo vantaggio della prospet- tiva di giustizia e a detrimento di una riflessione sul bene, sia collettivo sia indivi- duale, v., per tutti, DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale. Un progetto politico normativo si legittima se può essere stabile. Le emozioni sono interessanti perché giocano un ruolo in questa stabilità» NUSSBAUM, Emozioni politiche. Le strategie proposte da Martha Nussbaum si ba- sano su esempi tratti dalla storia recente: discorsi pubblici, sostegno alle arti, educazione alla lettura e alla frequentazione di testi letterari sono alcune delle parti di un vasto programma che la studiosa pone come base per favorire lo sviluppo di un ‘sentire democratico’, predisponente all’ascolto reciproco e alla capa- cità di immedesimarsi nell’altro, per stimolare negli individui emozioni consone ai valori liberali e per tenere di conseguenza sotto controllo la tendenza «radicata in tutta la società e, in ultima analisi, in tutti noi, a proteggere un Sé fragile deni- grando e mettendo in secondo piano gli altri», v. NUSSBAUM, Emozioni politiche. NUSSBAUM, Emozioni politiche. NUSSBAUM, Emozioni politiche. NUSSBAUM, Emozioni politiche. Tra sentimenti ed eguale rispetto finisce un progetto che dà priorità alle libertà, alla promozione di una dialettica pubblica aperta al confronto anche aspro fra le idee, volta a creare per i cittadini la possibilità di costruzione di un’IDENTITÀ DIALOGICA. Tutela da sentimenti Da un altro lato, si pone il problema di quale strategia politico- sociale debba adottarsi di fronte a spinte emotive negative: vi sono emozioni e sentimenti per i quali si può porre un problema di tutela non nel senso di cura, bensì in termini opposti, come presidio disin- centivante che definiamo ‘tutela da sentimenti’. Si tratta della pro- spettiva più suscettibile di creare tensioni con i diritti di libertà, e che riguarda in modo più diretto l’eventuale coinvolgimento dello stru- mento penale. È abbastanza immediato pensare all’odio come atteggiamento emotivo che contrasta con l’eguale rispetto; esso rappresenta già oggi, a prescindere dalla concreta rilevanza assunta in fase applicativa, l’elemento caratterizzante condotte che molti ordinamenti vietano sotto l’appellativo di hate speech e hate crimes. Si tratta di un nucleo di atteggiamenti che, per quanto non definiti esaustivamente dalle fonti normative, presentano quale minimo comune denominatore l’avversione verso gruppi e categorie di persone che patiscono una debolezza e una marginalizzazione socialmente significativa. La formula tutela da sentimenti può assumere un significato più esteso dell’accezione descrittiva degli ambiti normativi di contrasto all’odio: la si potrebbe intendere come istanza focalizzata non su at- teggiamenti emozionali definiti, bensì funzionale alla messa a tema di profili inerenti, più in generale, la dimensione psico-sociale delle matrici e delle ragioni dei dissensi. In altri termini, un’istanza che riassume l’esortazione all’approfondimento della ‘psicologia di una società dignitosa’. Parlare di odio come tratto univocamente identificativo di manife- stazioni offensive è un’approssimazione che rischia di peccare per eccesso. Anche nella quotidianità emerge come l’odio venga usato per definire e per connotare atteggiamenti di dissenso radicale frequen- temente riscontrabili nel contesto mediatico: ad esempio, in riferi- mento all’ambiente dei social network, si parla frequentemente di  22 SPENA, La parola(-)odio, cit., pp. 598 ss.  Dilemmi 217 ‘haters’23, ossia ‘odiatori’, termine col quale si indicano soggetti che aggrediscono verbalmente gli altri internauti escludendo ogni possi- bile approccio di mediazione con l’interlocutore. L’atteggiamento emotivo che definiamo ‘odio’ appare particolar- mente sovraesposto; la tendenza a focalizzare l’attenzione su di esso può però indurre a trascurare il ruolo di ulteriori atteggiamenti emo- tivi, altrettanto meritevoli di attenzione come fattori di degradazione del discorso e della dialettica pubblica. In altri termini, la realtà psico-sociale è probabilmente più complessa e stratificata e le contrapposizioni anche estreme non dovrebbero essere ricondotte tout court all’odio, il quale è forse una componente che, se presa sul serio, potrebbe essere residuale in rapporto ad altri atteggiamenti antago- nisti dell’eguale rispetto, quali rabbia, paura, vergogna, invidia, disgusto: più diffusi, e difficili da riconoscere e da ammettere, anche nei confronti di sé stessi. A nostro avviso si pone l’esigenza di pensare alla tutela da senti- menti come istanza normativa che suggerisca di «coltivare una certa attenzione verso i fattori in grado di favorire la conoscenza delle libertà e le condizioni che permettono di farne concretamente uso, individuando come punto nodale della questione l’interrogativo sui «margini di flessibilità di cui dispongono, di fatto, e soprattutto di cui hanno reale coscienza, le persone nell’espressione di un “dissenso” rispetto al senso, o meglio, ai sensi che vengono trasmessi nei rispettivi contesti di vita. In altri termini, il giurista penale deve oggi considerare che per la Una panoramica in ZICCARDI, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete, Milano. Si tratta di odiatori o semplicemente di stupidi? L’equiparazione fra intol- leranza, specie in ambito razziale, e stupidità, proposta in un breve saggio sul- l’analisi psicologica del razzismo ad opera di BLUM, Razzismo e stupidità, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima, sembra da un lato suggerire il ridimensionamento della portata di un richiamo all’odio quale matrice dell’intolleranza, e dall’altro lato sposta sul piano culturale e della decostruzione dialettica, soprattutto tramite lo strumento del- l’ironia, il contrasto al discorso razzista. Rabbia e odio sono due emozioni autonome, per quanto non prive di forti connessioni. Osserva RAVENNA, Odiare, che la rabbia è sperimenta- ta più di frequente rispetto all’odio, e che quest’ultimo presenta delle caratteristi- che peculiari che lo rendono distinguibile sia a livello psicologico che psico- sociale. Sul ruolo politicamente negativo della vergogna, dell’invidia e del disgu- sto v., per tutti, NUSSBAUM, Emozioni politiche, FORTI, Le tinte forti del dissenso, Tra sentimenti ed eguale rispetto comprensione dei percorsi attraverso cui il potere pubblico esprime le sue istanze repressive, occorra alzare e allargare lo sguardo al con- testo socio-culturale complessivo in cui i sensi e i relativi dissensi trovano il loro terreno di generazione. Coerentemente con la suddetta esortazione, riteniamo che una ra- gionevole attenzione al versante affettivo, orientata a sondare la dimensione umana dei conflitti e soprattutto lo sfondo antropologico, possa rappresentare un tassello importante per addivenire a un qua- dro fenomenicamente più realistico degli atteggiamenti degli indivi- dui e, conseguentemente, anche a una più dettagliata base di rifles- sione per la politica penale e per un razionale orientamento alle conseguenze. Appare infatti poco sensato, in una riflessione sulle dinamiche del reciproco rispetto a livello espressivo-comunicativo, non prendere in considerazione le matrici dei dissensi, i canali di diffusione, e più in generale un’idea realistica di essere umano con cui il diritto si trova a interloquire, anche attraverso eventuali precetti. Più in generale, si tratta a nostro avviso di ricercare degli adden- tellati sul piano socio-fenomenico per sondare in modo non concet- tualistico margini di opportunità, oltre che di legittimità, circa la pro- spettiva di interventi normativi. Idealtipi antropologici e realtà umana dei conflitti Sia la ‘cura’ dei sentimenti, sia la tutela ‘da’ sentimenti presup- pongono che negli individui vi sia la capacità di recepire un certo ti- po di stimoli cognitivi ed emotivi. Viene da chiedersi quale sia il riscontro che una tale ambizione trova oggi nella compagine sociale: se si tratti di una prospettiva rea- listica o se invece presupponga un modello ideal-tipico di cittadino eccessivamente ottimistico. FORTI, Le tinte forti del dissenso. Osserva PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della persona umana, cit., p. 404, che «nel configurare il sistema di tutela penale della persona, sarà del tutto legittimo prestare ascolto alle suggestioni anche di tipo antropolo- gico che possono provenire dalle convinzioni sociali sull’essere umano; ma, dal- l’altro, una razionale scelta politico criminale sulla tutela della persona e sui suoi limiti dovrà necessariamente essere ispirata ai princìpi di ultima ratio, di tolleranza e di laicità del diritto penale.   Dilemmi La possibilità che la riflessione teorica finisca per fare affidamen- to su modelli non del tutto aderenti alla realtà sociale costituisce un avvertimento che la dottrina penalistica non ha mancato di evidenziare. Alberto Cadoppi in uno scritto sul paternalismo giuridico dall’impronta fortemente liberale, in tendenziale accordo con la posizione di Feinberg propensa alla massima valorizzazione dell’autonomia di scelta e della volontà dell’individuo, evidenzia come il discorso sull’autonomia personale vada preso con molta attenzione e serietà, per non cadere nell’errore, attribuito anche a Mill, di elaborare teorie assumendo quale prototipo di persona un soggetto apparentemente immune da inciampi cognitivi e da condizionamenti emotivi che potrebbero gettare un alone di problematicità sulla reale consapevolezza delle scelte adottate 29. Solleva problemi simili con riferimento al tema della libertà di espressione Visconti, quando si chiede se gli argomenti volti a ridimensionare l’impatto delle parole offensive, e a metterne in dubbio la dannosità, siano dettati anche (soprattutto?) da un irenisti- co, e tutt’altro che giustificato, affidamento su un modello di cittadi- no ‘ragionevole, colto e tollerante’, in grado di elaborare l’insulto e di non patirne gli effetti. Tale categoria personologica non appare del tutto rispondente alla realtà; ed è per tale motivo che Visconti osser- va, condivisibilmente, che è con riferimento alla tipologia di soggetti che non hanno la ca- pacità di controllare razionalmente e dialetticamente la potenziale pe- CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale. L’osservazione di Cadoppi è volta a sottolineare in modo puntuale e condivisibile il ri- schio di una tendenza semplificante nella teorizzazione giuridica, e rilancia la problematizzazione dell’idea di essere umano, dei modelli di scelta razionale, de- gli interessi finali che dovrebbero idealmente rappresentarne il fine delle condot- te, tema pregno di ricadute sul piano politico. Ad esempio, si veda la questione relativa al benessere individuale, all’ideale normativo di vita buona, alla distinzione fra interessi volizionali e interessi critici, presente in DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, e ripreso, con diversità di vedute, in FIAN- DACA, Diritto penale, tipi di morale, e FORTI, Per una discussione sui limiti morali. A un livello successivo, la problematizzazione del ruolo delle emozioni, della riflessività, della consapevolezza delle proprie scelte da parte dell’individuo, si pone in termini funzionali alla lettura e all’interpretazione delle condotte umane, nel tentativo, sempre fallibile, di trovare dei signi- ficati: per una tematizzazione di tale problema in ambito criminologico, e sul rapporto fra riflessività e opacità, v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente, e bibliografia ivi citata. Tra sentimenti ed eguale rispetto ricolosità di certe forme di discorso pubblico, o che – peggio – ne strumentalizzerebbero intenzionalmente i possibili effetti sociali dannosi, che si prospetta di fatto il problema di una scelta politico-criminale tra l’intervento e l’astensione. Emerge da tali notazioni una necessità di realismo, di problematizzazione del modello antropologico di individuo che il diritto pena- le assuma a punto di riferimento, nella consapevolezza di non poter e non dover dare per scontate caratteristiche che finiscono per condur- re ad astrazioni perfezionistiche. Ricollegandoci a quanto osservato da Visconti, il discorso sui limi- ti alla libertà di espressione sembra talvolta presupporre la presenza di determinate capacità dell’essere umano le quali appaiono oggi non condivise dalla totalità degli individui. Tale rilievo si pone in primo luogo per i destinatari di espressioni offensive, ma è bene allargare la riflessione anche al versante degli autori, e dunque alle particolari di- sposizioni emotive e di pensiero che li caratterizzano: il carico emoti- vo della vittima e la spinta emotiva che anima chi offende sono en- trambi esposti al rischio di atteggiamenti radicali. All’interno del macro tema del dissenso intersoggettivo riteniamo che le traiettorie di ricerca per il giurista debbano focalizzarsi su differenti aspetti, uno dei quali, concernente le matrici cognitive del dis- senso e la qualità del flusso epistemico che alimenta le opinioni, è stato sinteticamente messo in luce nel saggio di Gabrio Forti poc’anzi citato. L’Autore evidenzia come il contesto generativo del senso e del dissenso versi oggi in condizioni alquanto problematiche, che mettono a dura prova le risorse cognitive dei singoli e alimentano un gri- giore epistemico il quale si accompagna a uno sbiadimento globale dell’etica della comunicazione. L’avvento del web, oltre a indurre la percezione di una deresponsabilizzazione del discorso pubblico, ha portato a un «sovraccarico informativo che espone ognuno al rischio di mobilitare non risorse cognitive adeguate, bensì una “ca- VISCONTI C., Aspetti penalistici; cfr. FORTI, Le tinte forti del dissenso, il quale parla criticamente di credo neo-liberale, costruito a mi- sura di soggetti capaci di farsi robustamente valere nell’agone socio-culturale (ivi compresi storici e intellettuali in grado di rintuzzare con gli argomenti della loro scienza le farneticazioni negazioniste. Tematizza il problema di una tendenza a elaborare modelli ‘deontologici’ di persona umana poco rispondenti con la realtà sociale anche FIANDACA, Diritto penale, tipi di morale. AGOSTINI, Verità avvelenata. Dilemmi pacità attentiva deteriorata”, generando così risposte meccaniche, “comportamenti automatici che evitano la paralisi al prezzo della qualità decisionale. A costituire un rischio per il pensiero critico, e dunque per la qua- lità etica ed epistemica del discorso pubblico, sarebbe, secondo Forti: «il manifestarsi in tale contesto di voci che si distaccano — solo perché rumorose, violente, sorprendenti — dal magma confuso dell’over- crowding informativo, riuscendo così a incanalare tunnel visions di schiere di followers a conseguire quella che potremmo definire una ve- ste “istituzionalizzata mediaticamente” L’aspettativa di poter trar- re da tali voci “salienti” rassicuranti semplificazioni del complesso e angosciante overcrowding informativo che ci stringe, sarà potenziata laddove esse si sostengano su una violenza espressiva che sembri ap- pagare altresì, sia pure con un sortilegio illusorio, quella nostalgia di fisicità e corporeità che l’immersione quotidiana nei mondi virtuali e artificiali non può che acutizzare. Come emerge da tali considerazioni, le cause dell’alterazione della dialettica pubblica e la conseguente canalizzazione della violenza e dell’aggressività verbale sembrano doversi ricondurre a una stratifi- cazione di fattori, non a un univoco atteggiamento emotivo. Dissensi ed estremismo A nostro avviso si può inquadrare un secondo ambito di problemi legati alle matrici generative dei dissensi, riguardante più da vicino i microcosmi soggettivi e concernente l’analisi dei fattori psico-sociali che possono portare un individuo ad aderire in modo più o meno marcato, se non addirittura ‘estremo’ a certe idee e a convinzioni fino a porsi in radicale conflittualità con opinioni concorrenti e con i sog- getti che vi aderiscono. Perché anche soggetti ragionevoli sono spesso protagonisti di con- trapposizioni radicali? A un primo livello, relativo a uno stadio che potremmo definire ‘fi- siologico’ del dissenso, una buona chiave di lettura ci sembra quella proposta di recente da Jonathan Haidt, il quale rimarca come l’ade- sione a ideologie e credenze sia frutto di scelte basate su matrici pret-  FORTI, Le tinte forti del dissenso. FORTI, Le tinte forti del dissenso. Tra sentimenti ed eguale rispetto tamente emotive: gli individui decidono quali idee appoggiare sulla base di emozioni che sono modellate dall’appartenenza gruppale, e tendono a elaborare narrazioni e adattamenti per riuscire a trovarsi in sintonia, inconsciamente e intuitivamente, con le proprie idee, svi- luppando dunque una tendenza a ricercare conferme alle proprie opinioni la quale rischia di tramutarsi in una cieca ottusità verso ra- gioni concorrenti. La morale unisce e acceca: ci unisce in schie- ramenti ideologici che si danno battaglia come se il destino del mon- do dipendesse dalla vittoria della nostra squadra. Ci acceca rispetto al fatto che ogni schieramento è composto da brave persone che hanno qualcosa di importante da dire» . Lo studio di Haidt si attesta su un piano prettamente descrittivo: esplica le ragioni per le quali le persone tendono a dividersi su argo- menti importanti come la politica e la religione, ma non fornisce proposte per limitare i dissidi, affermando, con disincanto, che la no- stra parte intuitiva è alquanto difficile da dominare. Il fatto che gli esseri umani siano portati ad allinearsi in schiera- menti che si identificano nei valori del gruppo di appartenenza, svi- luppando una conflittualità su base gruppale, contribuisce a fornire delle spiegazioni, corroborate da evidenze sperimentali, sul ruolo dominante giocato dalla componente emotiva piuttosto che da un’as- serita dimensione ‘razionale’. Se bene intendiamo la posizione di Haidt, riteniamo si possano instaurare virtuose connessioni con i percorsi di crescita emotiva che Martha Nussbaum individua quale impegno per uno Stato liberale: per quanto i disaccordi possano essere forti, Haidt invita a non radi- calizzare le alternative in senso manicheo ma a leggerle come ricadu- ta di un’emozionalità istintuale che può essere educata a un maggio- re rispetto delle ragioni altrui37, in una prospettiva dunque che sa- HAIDT, Menti tribali. Si veda anche FROMM, Marx e Freud, tr. it., Milano: «l’individuo deve chiudere gli occhi e non vedere quello che il suo gruppo dichiara inesistente, o deve accettare come vero ciò che la maggio- ranza considera tale, anche se gli occhi lo convincessero che ciò è falso. Il gruppo è di importanza così vitale per l’individuo che per lui le opinioni, le convinzioni e i sentimenti del gruppo costituiscono la realtà, una realtà più valida di quella che gli trasmettono i sensi e la ragione. La metafora utilizzata da Haidt è quella dell’elefante e del suo portatore. Sinteticamente, l’elefante rappresenta la parte emotiva dell’uomo, il portatore il pen- siero riflessivo, v. HAIDT, Felicità: un’ipotesi; ID., Menti tribali. Noi tutti siamo risucchiati in comunità morali tribali. Gravitiamo attorno a valori sacri e condividiamo argomentazioni post hoc sul perché noi abbiamo ra-   Dilemmi remmo portati a ricollegare alla ‘cura dei sentimenti’. Eccoci però giunti a un ulteriore profilo problematico: il tipo di conflittualità che oggi desta maggiore preoccupazione si manifesta attraverso cadenze espressive, e anche attraverso condotte, che rive- lano un attaccamento a ideali e a credenze in forme tendenti all’esclusione di ogni tipo di confronto e all’annullamento della posizione contrapposta. Si tratta di un fenomeno definito come ‘pensiero estremo’, nel quale l’individuo moderno rischia di scivolare anche a causa di una destabilizzazione soggettivamente avvertita di fronte al pluralismo etico e informativo, e dalla quale cerca rifugio e rassicurazione affidandosi a morali e visioni del mondo autoritarie. Prendiamo a riferimento uno studio del sociologo francese Gèrald Bronner, il quale identifica quali caratteristiche di fondo del pen- siero estremo la debole trans-soggettività e l’attitudine sociopatica39 delle idee. Alla base della concezione di Bronner vi è la convinzione, ampia- mente argomentata nel corso dell’opera, che le derive estremiste del pensiero, spesso legate anche a tragici esiti sul piano delle condotte, non siano affatto da considerarsi come frutto di anomalie sul piano psichico, ma al contrario possiedano una solida, inquietante raziona- lità. Partendo dalla consapevolezza che nelle considerazioni e nelle azioni di un estremista vi è una logica, si possono indagare le matrici di determinate forme di pensiero. È importante notare come una fra le diverse modalità di adesione a forme di pensiero estremo sia strettamente legata al contesto de- mocratico: col concetto di adesione ‘per frustrazione’ si indica il rifu- giarsi di un soggetto in una convinzione fanatica volta a compensare l’insoddisfazione dovuta al non possedere o possedere meno di ciò che ritiene di meritare. Bronner afferma che la democrazia, a causa all’essenza competiti- gione e gli altri torto. Pensiamo che nell’altro schieramento siano tutti ciechi alla verità, alla ragione, alla scienza e al buonsenso, ma in effetti siamo tutti ciechi quando parliamo di ciò che è sacro. E se davvero volete aprire la vostra men- te, prima di tutto aprite il vostro cuore, v. HAIDT, Menti tribali, BRONNER, Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici, tr. it., Bologna. La trans-soggettività di un’idea sta a indicare la capacità di essere accolta da altre persone a parità di condizioni; la sociopatia viene definita come una carica agonistica intrinseca che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere insieme ad altri, e per un’idea, di poter coesistere con altre idee, v. BRONNER, Il pensiero estremo. Tra sentimenti ed eguale rispetto va che stimola e delle aspettative che non può compiutamente soddi- sfare, possa in un certo senso favorire la proliferazione e l’adesione a ideologie estremiste le quali si proiettano in un rapporto di competizione ad excludendum con il restante mercato delle idee, stimolando forme di particolare aggressività e di disprezzo nei confronti degli in- terlocutori: «la frustrazione e il desiderio di affermazione costitui- scono un mix esplosivo in un sistema in cui troppi si sentono eleggibili benché il numero degli eletti non aumenti, dobbiamo aspet- tarci di osservare le conseguenze negative che l’amarezza condivisa non mancherà di produrre. Tirando le fila del discorso, questo breve excursus a metà fra psicologia sociale e sociologia vorrebbe provare a offrire un quadro me- no astratto e disincarnato del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti, al fine di contestualizzare i conflitti legati ad appartenenze significative, e dunque ad alto grado di pregnanza emotiva, sia in relazione all’ambiente di diffusione delle idee, sia al sub- strato personologico dei dissidi 41. Sarebbe infatti ingenuo e irenistico costruire un discorso soltanto su principi, levando gli occhi al cielo senza cercare di assumere reali- sticamente consapevolezza dei mondi sociali che si pongono alla base dei fenomeni. Diversamente, si rischia di cadere nel rischio paventato da Benci- venga, quando afferma che in discussioni su temi del genere, è abba- stanza comune prendere posizioni nette, a incrollabile sostegno di de- terminate regole», mostrando dunque un’aderenza quasi dogmatica a principi, nella convinzione, o nella speranza, che portare avanti una battaglia in nome di valori giusti conduca a decisioni anch’esse giuste. L’esperienza storica mostra come tale aspettativa possa rivelarsi fallace, non a causa del travisamento etico di regole che riteniamo  BRONNER, Il pensiero estremo. Utilizziamo il termine ‘dissidio’ nell’accezione proposta da CERETTI-GARLATI, Presentazione, cur. Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, i quali citano in senso adesivo la teorizzazione di Lyotard: dissidio come conflitto fra interessi contrastanti e orientati a sistemi di riferimento non condivi- si, in totale asimmetricità. Col concetto di mondo sociale vogliamo evidenziare ulteriormente come le dinamiche dei conflitti vadano interpretate prendendo in debita considerazione il concetto di gruppo e l’importanza che esso riveste nella sfera affettiva e decisio- nale del singolo; per una sintesi, v. STRAUSS, Il concetto di mondo sociale, tr. it., a cura di Toscano, Milano, BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Dilemmi abbiano autorità su di noi, bensì poiché l’esistenza di un conflitto fra regole entrambe ‘giuste’ porta comunque a violarne una, la quale avrebbe potuto (forse) indurre esiti differenti sul piano fattuale. Non potendo però sapere quale sia all’interno di un dilemma etico l’al- ternativa migliore, bisogna realisticamente accettare che qualsiasi scelta ci pone di fronte a responsabilità: «l’aderenza a un principio non ci assolve; la nostra anima dovrà portare il carico della scelta che abbiamo fatto. In altri termini, quale esercizio di onestà intellettuale appare preferibile immergere i principi nel contatto con la realtà, non perché in questo modo si possa risolvere un dilemma, ma quantomeno perché così facen- do si può avere una migliore percezione delle contingenze, sostituendo l’ambizione a cristallizzare una scelta con un più umile discorso che as- suma a propria bussola le categorie della necessità e della opportunità: è per le strade tortuose, e spesso fra i detriti e le macerie, della vita quotidiana che le leggi universali vanno applicate, con tutta l’incertezza che compete a tali applicazioni; e non dobbiamo dimenticarlo. Quale ruolo per il diritto penale? Il ‘tormentato’ pensiero della dottrina penalistica Il monito responsabilizzante formulato da Ermanno Bencivenga induce una comprensibile prudenza, e la complessità del dilemma di fondo si manifesta in modo evidente anche nel discorso penalistico, dove le riflessioni recenti sul tema dei rapporti fra libertà di espressione e reciproco rispetto sono confluite in prese di posizione in bili- co fra il recondito ottimismo in uno spazio comunicativo senza limi- ti, e la sofferta apertura verso la possibilità di risposte penali. Un atteggiamento profondamente combattuto, potremmo dire ‘tor- mentato’, di fronte a scelte che comporterebbero in ogni caso il sacrificio di principi fondamentali; lo ha ben sottolineato Alessandro Te- sauro quando, in tema di limiti alla propaganda razzista, ha parlato di un ‘Io diviso’, in senso psicanalitico, tra impegno antirazzista e passione liberal per la libertà di espressione BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. Tra sentimenti ed eguale rispetto Nell’orizzonte penalistico prevale una linea di forte cautela, spesso con posizioni ‘ibride’: anche le opere che hanno approfondito con maggiore dovizia obiezioni demolitorie rispetto a eventuali incrimina- zioni, sembrano escludere un atteggiamento di completa chiusura Nel complesso sembra essersi affievolita la tendenza a voler elabo- rare modelli interpretativi orientati alla ricerca di conclusioni assio- maticamente deducibili dal diritto positivo, sia con riferimento a norme ordinarie che al testo costituzionale. Rispetto al mainstream tradizionale, nel quale l’emancipazione dall’AUTORITARISMO del CODICE FASCISTA puo ragionevolmente identificarsi come rinascita in senso liberale, l’approccio odierno si scontra con la complessità delle diverse declinazioni del liberalismo contemporaneo, ragion per cui è av- vertita l’esigenza di non scivolare in un uso dei principi liberali emotivamente appagante ma proprio per questo ad alto contenuto retorico. L’esito ‘scontatamente liberale’48 del dibattito, coincidente con l’assoluto diniego a ogni forma di responsabilità per l’uso della libertà di manifestazione del pensiero, è oggi una risposta che rischia di ar- chiviare troppo prematuramente le questioni. Al fine di ‘guardare in faccia’ i problemi, autorevoli voci della dot- trina penalistica hanno sollevato interrogativi in una chiave meno convenzionale: ad esempio riorientando l’attenzione sugli effetti ne- Ci sembra interpretabile in questo senso lo studio di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., e soprattutto il contributo di VISCONTI C., Aspetti pena- listici, cit. Anche il lavoro di SPENA, La parola (-) odio, riconosce che il diritto alla libertà di espressione nel caso del discorso d’odio è comunque più de- bole e più bilanciabile con interessi confliggenti; cfr. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa. Più netta la chiusura di Autori come CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo; FRONZA, Criminalizzazione del dissenso. Più univoche sono invece le aperture di PULITANÒ, Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio; FORTI, Le tinte forti del dissenso. La dottrina penalistica manifesta con sostanziale univocità, anche se con diversità di accenti, la contrarietà a restrizioni penalistiche alla libertà di espressione, quale reazione all’auto- ritarismo delle fattispecie del codice Rocco, v. la sintesi di VISCONTI C., Aspetti penalistici. Nell’ambito costituzionalistico sembra prevalere una linea di contrarietà a regolamentazioni del discorso pubblico, sia con riferimento allo hate speech, sia al negazionismo, v. ex plurimis, CARUSO, La libertà di espressione in azione; ID., L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema convenzionale, in Quaderni costituzionali; PUGIOT- TO, Le parole sono pietre?; PARISI, Il negazionismo dell’Olocausto e la sconfitta del diritto penale, in Quaderni costituzionali; in tema di hate speech una posizione di non chiusura ai divieti è quella di SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. FORTI, Le tinte forti del dissenso.  Dilemmi gativi di un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico (par- lando di dilagante, confuso ‘overcrowding informativo), o facendo ricorso a distopie immaginative fondate sulla possibilità che deter- minati atteggiamenti di pensiero possano effettivamente acquisire consenso 50. Per quanto i profili di disvalore che si accompagnano alle condot- te comunicative possano apparire sfuggenti rispetto alle esigenze di concretezza e di verificabilità empirica richieste dal diritto penale, in sede di speculazione teorica il giurista ha il compito di dar conto di una complessità di fondo, anche prendendo laicamente atto che ci si trova di fronte a «grandezze valoriali difficilmente contenibili nei no- stri beni giuridici» 51. Coglie nel segno, a nostro avviso, chi ha definito la questione dei limiti penali alla libertà di espressione come ‘sfida o scommessa’ 52, evidenziando la prospettiva del tutto aleatoria che si lega sia alle concezioni libertarie sia a quelle regolazioniste. L’incertezza empi- rico-cognitiva sugli effetti pericolosi o dannosi di determinati con- tenuti espressivi53 si accompagna al fatto che non è dato sapere quali conseguenze possano scaturire nel breve e nel lungo periodo da un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico; e ove si voglia propendere per un intervento del diritto penale resta da chie- dersi quali possano essere i metodi e gli effetti di un’eventuale cri- minalizzazione, sia essa solo minacciata, tramite precetti, o anche applicata. La ragione dell’impasse nella quale ci si trova al cospetto delle suddette alternative si motiva in primo luogo con il fatto che il richiamo al diritto penale è, plausibilmente, percepito come minaccia di sanzione e, in particolare, di una sanzione che si identifica con la pena detentiva. Ma proprio in merito a tale ultimo profilo, ossia alla prospettiva lato sensu ‘sanzionatoria’, la dottrina penalistica più aperturista – che non esclude radicalmente l’eventualità di interventi penali in materia di libertà di espressione – si fa portatrice di un dif- ferente modo di intendere, in prospettiva futura, le dinamiche dello 49 FORTI, Le tinte forti del dissenso. PULITANÒ, Cura della verità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Forti- Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale. FORTI, Le tinte forti del dissenso.VISCONTI C., Aspetti penalistici. Per tutti, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. Tra sentimenti ed eguale rispetto strumento penale. Sono emerse riflessioni volte a non limitare lo sguardo all’angusto orizzonte della pena, proiettate verso nuovi itine- rari, financo eclettiche ed ‘eterodosse’ rispetto al tradizionale reperto- rio concettuale penalistico. Ci riferiamo in particolare a interessanti proposte formulate in relazione ad ambiti specifici (sentimento religioso, negazionismo), il cui filo conduttore, pur con i dovuti distinguo, appare potersi individuare in una rivalutazione dell’efficacia ‘virtuosamente simbolica’ del precetto penale. Precetti pedagogici? Con riferimento alla tutela del sentimento religioso si è avanzata la proposta di una protezione giuridico-penale «costruita prevalen- temente (se non esclusivamente) attorno alla capacità di orien- tamento culturale svolta dai precetti, mettendo finalmente da parte la forza inutile ed espressiva delle pene in senso stretto» per addivenire a un sistema di tutela «più mite e ‘relativo’ in quanto radicato sugli spazi di confronto dischiusi dal precetto penale che sancisce, ma non punisce. In altri termini, uno strumento normativo che agisca al di fuori dell’ottica retributiva e di deterrenza, seguendo le coordinate della prevenzione generale cosiddetta ‘positiva’, ossia quella funzione della pena tesa a rinsaldare e a confermare valori già acquisiti e (più o me- no) radicati nei processi di socializzazione dell’individuo, tema ampiamente dibattuto nella dottrina italiana e non affrontabile nell’eco- nomia del presente lavoro. Al precetto viene in questo senso assegnata una funzione centrale, sulla base del presupposto che la prevenzione di forme di offesa lega- te al sentire religioso debba consistere in un rispetto volontario e spontaneo. Dal piano dei semplici propositi si passa a una teorizza- 54 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa e scelte di criminalizzazione. Riflessioni de iure condendo sulla percorribilità di una politica mite e democratica, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese-Venafro, Religione e religioni. Per tutti, PULITANÒ, Diritto penale; PALAZZO, Corso di diritto penale, Torino; FORTI, L’immane concretezza. Per una sintesi si rinvia a DE FRANCESCO, La prevenzione generale tra normativi- tà ed empiria, in AA.VV., Scritti in onore di Alfonso M. Stile, Napoli. Dilemmi 229 zione più dettagliata ipotizzando una norma che faccia coincidere la sanzione con una formale declaratoria del contenuto del precetto: il giudice sarebbe chiamato, ove l’agente si rifiuti di riparare le conse- guenze del reato attraverso percorsi di mediazione con la persona of- fesa, a «enunciare il disvalore del fatto colpevole nel dispositivo della sentenza, dandone conto nella motivazione», e ordinandone even- tualmente la pubblicazione nei casi più gravi. La prospettiva appena descritta sembra fondarsi su una connes- sione tra proposta dialogica e stigma penale58, finalizzata a una re- sponsabilizzazione dell’autore in assenza di rimedi prettamente coer- citivi, cercando di salvaguardare il pluralismo delle parti dalla violen- za di provvedimenti autoritativi, e delegando alla forza del precetto la funzione espressiva di un richiamo responsabilizzante 59. Si inscrive in una traiettoria similare uno studio dedicato al tema del negazionismo, il quale si distingue nel mainstream penalistico per una esplicita apertura alla criminalizzazione di condotte che neghino l’Olocausto. Rileviamo come anche in questo caso le conclusioni di non contrarietà a interventi penali siano correlate alla proposta di una tipologia di intervento che non si inquadra nella canonica diade ‘pena detentiva-pena pecuniaria’, ma che cerca di elaborare soluzioni che valorizzino il dato simbolico del precetto, veicolato dalla portata dichiarativa della vicenda processuale e dall’eventuale, conseguente, provvedimento del giudice. Con le parole dell’Autore: «Si tratterebbe, già nella comminatoria edittale, di pensare a qualcosa di diverso dalla classica “caditoia” verso la reclusione. Per quanto la proposta possa spiazzare, e determinare un ripensamento del catalogo delle pene principali, il calibro della reclusione andrebbe accompa- gnato con l’immediata conversione in una pena di sostanza espressiva e reputazionale. Perché non approfondire, ad esempio, la soluzio- MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa. Per una panoramica sul tema v. AA.VV., a cura di Mannozzi-Lodigiani, Giu- stizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna. L’ipotesi della mediazione come ‘risposta istituzionalizzata’, ossia elemento necessario di un percorso processuale di responsabilizzazione, è oggetto di dibattito in dottri- na; in merito a tale soluzione appare scettico PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen.; di opinione opposta DONINI, La situazione spirituale della ricerca giuridica penalistica. Profili di diritto sostanziale, in Cass. pen. Di recente, VISCONTI A., Contenuti ‘informativi’ della sanzione penale e coe- renza del ‘sistema’, cur. Forti-Varraso-Caputo, Verità del precetto e della sanzione penale. Tra sentimenti ed eguale rispetto ne della lettura in udienza di un dispositivo munito di una speciale narrativa, da cui traspaia – con formulazioni più estese ed efficaci del- l’ordinario – la disapprovazione dell’ordinamento all’indirizzo del- l’autore delle espressioni negazioniste, al quale ricollegare, ove possi- bile, una sanzione accessoria di natura inibitoria/interdittiva e la pub- blicazione della sentenza di condanna? Una pena/giudizio, dal caratte- re accentuatamente didascalico e “simbolico” per rispondere al “dia- bolico” del negare, volta a rendere il dispositivo una sorta di sanzione veritativa che renda giustizia, oltre all’esistenza delle camere a gas e dei forni crematori, all’esperienza della discriminazione e al senso di umanità. In tal modo, al contro-logos dell’annientamento, agito dai negazionisti, verrebbe opposto, con la solennità delle forme del pro- cesso penale, un potere di nominazione che, sancendo il limite, il confine tra libertà di espressione e abuso della possibilità di offendere, impedisce che l’ultima parola sia di menzogna» 60. Anche in questo caso sullo sfondo delle argomentazioni si pone un modo di pensare al potenziale simbolico del precetto come risorsa positiva che può contribuire a una responsabilizzazione non tramite il consueto binario repressivo, ma impegnandosi a contrastare de- terminate forme di discorso pubblico sul terreno comunicativo, senza cadere in eccessi punitivi che si esporrebbero a obiezioni sul piano della proporzionalità. Per quanto si tratti di posizioni che in definitiva avallano la pro- spettiva di interventi penali quale forma di contrasto alla diffusione di determinati contenuti di pensiero, collocarle sotto il segno di un trend repressivo sarebbe a nostro avviso un’approssimazione che non rende giustizia alla profondità delle opinioni espresse. La sanzione, CAPUTO, La Menzogna di Auschwitz. Netta è la presa di distanza di DI MARTINO, Assassini della memoria: strategie argomentative in tema di rilevanza penale del negazionismo, cur. Cocco, Per un manifesto del neoilluminismo penale, Padova, il quale definisce Meno convincente, anzi deleteria la sanzione accessoria della pubblicazione della sentenza: essa finirebbe con l’offrire ancora l’arena che i negazionisti desiderano, trasmettere l’idea del martirio, risultare paradossalmente co-funzionale all’offesa: conse- guenze, queste, suscettibili di controbilanciare pesantemente il perseguito effetto di stigmatizzazione. Ben vengano, dunque, caveat e ammonimenti sui pericoli di strumentaliz- zazione dei singoli per bisogni di utilità sociale, purché non si finisca per disco- noscere, tra i caratteri della norma penale, il connotato di profonda stigmatizzazione di un fatto, di affilato giudizio etico-sociale, e un’attitudine a sollecitare, più di ogni altra norma, l’attenzione diffusa per i valori tutelati e la conseguente di- sapprovazione sociale per l’offesa che li riguardi», v. CAPUTO, La ‘Menzogna di Auschwitz. Dilemmi pur restando contrassegno formale della norma penale, viene rivesti- ta con fogge che ne mutano la natura prettamente afflittiva per dare luogo a forme narrativo-pedagogiche tese a potenziare la dimensio- ne contenutistica e comunicativa del precetto. Non si può a nostro avviso parlare di una vera e propria opzione a favore della soluzione penalistica dei conflitti, quantomeno ove si in- tenda il diritto penale nel senso tradizionalmente sanzionocentrico. In realtà, le suddette proposte ci sembrano da inscrivere all’interno di un più complesso movimento di pensiero, quale ricerca di percorsi che diano pratica attuazione a quella che per ora sembra ancora rimanere solo una massima elaborata dalla dottrina, ossia che la ragione del penale non è, solo, l’inflizione della pena: «sul piano delle norme, la ragione del penale è l’osservanza dei precetti, Quale corollario alle riflessioni sul ruolo pedagogico dei precetti, riteniamo importante dar conto di uno studio che il giurista statuni- tense Fredrick Schauer ha dedicato al tema della forza del diritto, e in particolare al legame fra diritto e forza: si tratta di un indissolubile nesso di implicazione reciproca o è immaginabile un diritto senza coercizione? L’interrogativo porta in luce una questione fondamentale anche (soprattutto) per il giurista penale. Va detto anticipatamente che lo studio di Schauer non giunge a esiti ‘sconvolgenti’, in quanto la con- clusione non è nel segno di una superfluità del momento coercitivo; individua però importanti argomenti a confutazione del fatto che la coercizione e le sanzioni debbano essere al centro dell’idea di diritto. Bisogna distinguere due profili: il primo di tipo concettuale, il secondo di tipo empirico. Dal punto di vista concettuale, Schauer sostiene che l’esistenza dell’obbligo giuridico sia logicamente distinta dalla sanzione, e l’in- teriorizzazione di un obbligo non accompagnato da sanzione sia possibile. Se però ci si sposta sul piano dei riscontri empirici e ci si chiede se la gente obbedisca, o sarebbe disposta a obbedire, a un di- [Per una critica all’atteggiamento sanzionocentrico, che cioè assume la pena come principale e ineluttabile dimensione di senso cui orientare la attività di elaborazione concettuale», e la controproposta di prediligere una riflessione guidata dalla precomprensione che la pena non è lo scontato punto di partenza e di arrivo, ma è e non può non essere il problema (iniziale e finale) che pone le domande fondamentali, v. FIANDACA, Rocco: è plausibile una de-specializza- zione della scienza penalistica?, in Criminalia, PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica. SCHAUER, La forza del diritto, tr. it., Milano-Udine. Tra sentimenti ed eguale rispetto ritto privo di sanzioni il problema diviene più articolato; vi sono studi di psicologia sociale che affermano che, in assenza di sanzioni, il li- vello di obbedienza alle leggi con cui le persone dissentono è alquanto basso. Ora, se da un lato ciò conferma che un apparato coercitivo resta importante per assicurare effettività al diritto, Schauer invita però a considerare che una statuizione giuridica dispiega comunque effetti, anche quando il diritto si trovi a fare da ‘apripista’ culturale: «Sarebbe ingenuo credere, senza una prova evidente, che una semplice modifica legislativa possa ottenere un alto livello di obbedienza senza il supporto della coercizione e di sanzioni di vario genere. Ma le dinamiche psicologiche e sociologiche sono complesse. La semplice approvazione di un divieto giuridico, solo perché enunciato dal dirit- to, può indurre sia un cambiamento di attitudine che di comportamento. L’Autore prosegue osservando che tale cambiamento sarà più fa- cilmente verificabile in relazione ad argomenti su cui i cittadini non hanno un’opinione consolidata piuttosto che su temi oggetto di divi- sione; nondimeno, anche in assenza di vere e proprie sanzioni il diritto può avere il potere di modificare comportamenti sociali. Senza addentrarci ulteriormente nel denso scritto di Schauer, ci sembra che tali osservazioni rappresentino un input sufficiente per guardare al diritto, e in particolare al diritto penale, anche come strumento che tramite i precetti, piuttosto che con le sanzioni, può contribuire a veicolare un messaggio di forte disapprovazione. Diritto penale ‘simbolico’? È innegabile che si avverta più di una remora ad avallare questa discussa formula; il termine ‘simbolico’ associato al penale suscita una condivisibile diffidenza, ma non si può negare che l’aspetto simbolico, che pure è terreno di pericolose (o inutili) deformazioni del sistema penale, è un aspetto non trascurabi- le per una efficace comunicazione politica, anche a livello legislativo. SCHAUER, La forza del diritto. SCHAUER, La forza del diritto; sul tema, più diffusamente, v. MCA- DAMS, The Expressive Powers of Law. Theories and Limits, Harvard.Per la precisazione del concetto v. SCHAUER, La forza del diritto. SCHAUER, La forza del diritto. PULITANÒ, La cultura giuridica e la fabbrica delle leggi, penalecontemporaneo.it; in termini adesivi a tale posizione v. FORTI, Le tinte forti   Dilemmi Ebbene, il disagio connesso all’opzione sanzionatorio-detentiva quale eventuale risposta penale in tema di libertà di espressione, induce a chiedersi se la dimensione simbolica possa assurgere anche al rango di ‘funzione primaria’, tramite norme costruite in modo da relegare la restrizione di libertà a semplice minaccia disinnescabile in virtù di percorsi alternativi per il reo, o, in termini più radicali, tra- mite un aggiornamento del catalogo delle pene principali che introduca nuove forme di stigmatizzazione dotate di una specifica efficacia sul piano comunicativo, come ipotizzato dai contributi preceden- temente menzionati. Si tratta, com’è evidente, di percorsi innovativi la cui complessità esigerebbe un’analisi distinta rispetto ai nuclei tematici del presente lavoro. Riteniamo però che non sia irrealistico pensare al giudizio pena- le anche quale luogo di confronto e rettifica in un contesto di dialettica sorvegliata, funzionale a far emergere e a dichiarare i profili di disvalore di determinate espressioni attraverso la sottolineatura in sede pubblica del carattere intrinsecamente fallace o della grossolana offensività dell’eguale rispetto, magari avvalendosi del contribu- to di esperti che ne analizzino la portata sul piano sociologico e psicologico. Siamo al confine estremo della legittimità dell’intervento penale: problemi di eccezionale delimitazione di una libertà che in linea di principio è anche di libertà di ferire, e che per questo suo potere può tuttavia rendere opportuna una responsabilizzazione, la quale non do- vrebbe tracimare in censura autoritaria, bensì dovrebbe essere finalizzata a un’eventuale declaratoria di responsabilità concepita come del dissenso. Sembra essersi affievolita l’ostilità della dottrina per la funzione simbolica, rivalutando in tal senso proprio quella ‘finalizzazione enun- ciativa’ che era stata fortemente stigmatizzata in sede di prima lettura della nor- mativa sulla repressione penale delle condotte di discriminazione, v. STORTONI, Le nuove norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto. Sul tema dell’uso simbolico del diritto penale, v. per tutti, nella letteratura italiana, v. BONINI, Quali spazi per una funzione simbolica del diritto penale?, in Indice penale. Abel ha parlato di ‘trattamento informale delle dispute’ per indicare il modo in cui la comunità dovrebbe reagire ai danni della parola, in un procedimento che sembra voler evitare il ricorso al potere coercitivo ma che appare nondimeno fondato su una proceduta normativizzata: si parla di una ‘conversazione istituzionalizzata’ ma informale fra vittima e offensore, nel quale quest’ultimo deve «riconoscere la norma, ammetterne la violazione ed accettarne la responsabilità, nella convinzione che un simile scambio sociale di rispetto possa neutra- lizzare l’insulto, ABEL, La parola e il rispetto. Tra sentimenti ed eguale rispetto confutazione delle espressioni proferite dal reo, cercando dunque di disinnescarne il potenziale offensivo sul piano dei contenuti. Di primo acchito tale prospettiva potrebbe apparire come una sor- ta di ‘tribunale delle opinioni’, esposto al rischio di torsioni illiberali; tale obiezione, è però ben applicabile anche all’attuale situazione ordinamentale. Di fatto il sindacato su forme di espressione è presente anche oggi: un giudizio su opinioni il quale risulta prevalentemente affidato alla sensibilità culturale del giudicante, senza potersi sottrar- re alle relative precomprensioni. Si tratta di un procedimento molto delicato poiché, come osserva Judith Butler, l’uso che lo Stato, attraverso il potere delle sentenza, fa del linguaggio offensivo e discriminatorio dà luogo a una ripetizione dello stesso, contribuendo, pur con finalità differenti, a una sua reiterazione. Nondimeno: [Prendiamo atto della critica formulata da DI MARTINO, Assassini della memoria: «l’idea della pena-giudizio in quanto tale è intrinsecamente pro- blematica. La paternale didascalica finisce con l’essere risibile di fronte ai delin- quenti per convinzione ed ai fanatici; ed è una ipocrita autoassoluzione dell’ordinamento per le omissioni od i fallimenti delle sue agenzie educative, di fronte ai miserandi frustrati, reietti e falliti». La sfiducia verso una prospettiva rieducativa può essere anche condivisa, ma, più radicalmente, va osservato che l’eventuale approntamento di sanzioni di tipo ‘espressivo-pedagogico’ non dovrebbe essere letto in una prospettiva di prevenzione speciale, bensì quale strumento di preven- zione generale positiva; la ‘risibilità’, che assumiamo come impossibilità fattuale di indurre un cambiamento di opinione, è un aspetto comunque secondario poiché l’obiettivo del diritto, nel rispetto della libertà morale della persona anche quando delinquente per convinzione o fanatico, non è indurre un cambiamento di opinione coattivo nel reo. Non condividiamo però l’afflato rinunciatario il qua- le rischia di condurre a un vero e proprio vicolo cieco, e significherebbe consentire che davvero l’ultima parola sia di menzogna, o di insulto, o di umiliazione. Pur essendo sostenitori di uno spazio comunicativo libero e aperto, facciamo fatica a immaginare il diritto spettatore del tutto inerte di fronte al potere performativo delle parole, soprattutto in tempi in cui l’indominabilità delle capacità di diffu- sione dei messaggi dovrebbe rendere più accorti nel formulare prognosi di perico- losità. Un terreno comunque scivoloso e che necessita di attente riflessioni, senza nutrire eccessiva fiducia nello strumento normativo, ma anche senza restare avvinti in un disincanto rinunciatario che amplificherebbe le asserite mancanze del- le agenzie educative primarie. Si osserva provocatoriamente che «è la decisione dello Stato, l’enunciazione ratificata dallo Stato, che produce (produce ma non causa) l’atto dello hate speech, v. BUTLER, Parole che provocano. Per una politica del performativo, tr. it., Milano. L’atto di produzione a cui si riferisce la BUTLER riguarda il fatto che prima che una sentenza definisca come hate speech delle semplici paro- le, queste non erano hate speech; più che una vera e propria produzione sembra potersi intendere come effetto del potere di nominazione. La stessa BUTLER specifica successivamente che le parole che lo Stato adopera per emettere una sen- [Dilemmi «Nessuno ha mai elaborato un’ingiuria senza ripeterla: la sua reitera- zione rappresenta sia la continuazione del trauma sia ciò che segna una presa di distanza all’interno della struttura stessa del trauma, la sua possibilità costitutiva di essere qualcosa di diverso. Non c’è possibilità di non ripetere. La sola questione che rimane aperta è: come av- verrà quella ripetizione, in quale sede – giuridica o non giuridica – e con quale dolore e quali speranze? Una questione aperta e complessa, la quale carica di responsabilità il momento giudiziario e la produzione narrativa del giudice. Dovendo fare i conti con la reimmissione in circolo di parole offensive, ritenia- mo che sarebbe opportuno riflettere su forme di ritualità che possano dare un valido supporto epistemico all’autorità giudiziale, contribuen- do a dare la giusta rilevanza e il necessario approfondimento all’erme- neutica del fatto, con l’auspicio di trasformare il processo in un mo- mento anche educativo e di apprendimento. Da penalisti, e dunque da studiosi delle possibilità negative del- l’umano, ci sembra doveroso interrogarci sul ruolo che lo strumento penale potrebbe eventualmente assumere in una prospettiva di cura degli equilibri di rispetto, cercando di privilegiare non la dimensione interdittiva e censoria ma facendo leva sulle potenzialità di quello che, tra le diverse manifestazioni del giuridico, rappresenta, piaccia o non piaccia, il più formidabile, e terribile, ‘marcatore etico’. Sinossi Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di tutto un atto sentito che discende da disposizioni soggettive. Il progetto normativo definito ‘tutela di sentimenti’ può essere scorporato in due distinte traiettorie. La prima, definibile come ‘cura dei sentimenti’, è da intendersi come promozione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al reciproco rispetto. La seconda, definibile ‘tutela da sentimenti’, può identificarsi co- tenza sullo hate speech non sono certo la stessa cosa del discorso pronunciato dai soggetti di cui si sta giudicando la posizione; nondimeno, le due cose appaiono «indissociabili in maniera specifica e consequenziale»; cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 99.  73 BUTLER, Parole che provocano. Tra sentimenti ed eguale rispetto me strategia politica di contrasto a spinte emozionali negative, l’odio in primis, ma non solo. Più in generale, ciò che definiamo come ‘tute- la da sentimenti’ rappresenta un’istanza funzionale alla messa a tema di profili inerenti la dimensione psico-sociale delle matrici dei dis- sensi, e dunque all’approfondimento delle concezioni antropologiche che guidano la riflessione penalistica. Obiettivo di fondo è addivenire a una visione meno astratta e disincarnata del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti. Tale atteggiamento di ‘realismo antropologico’ tende oggi a emergere anche nella dottrina penalistica. Riguardo il tema dei limiti penalistici alla libertà di espressione e ai problemi dell’eguale e reciproco rispetto, i penalisti mostrano un atteggiamento meno ‘concettualistico’ rispetto al passato; emergono posizioni di cauta apertura alla prospettiva di interventi normativi, modellati sul distacco da prospettive eminentemente sanzionatorie e fondati sulla valorizzazione del simbolismo positivo del precetto.  «[...] la mentalità sociale è in movimento, ciò che prima si diceva gratis oggi ha un costo etico, ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono nuo- vi problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo» SERRA M., Amaca, Repubblica Bilanci e prospettive. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della dignità del creden- te. – 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole. Bilanci e prospettive Recuperiamo l’interrogativo di fondo da cui è partita la presente indagine, ossia se il diritto penale di una moderna democrazia libera- le possa essere invocato a tutela di sentimenti. La tentazione di opporre un assoluto, per quanto benintenzionato diniego, appare destinata a scontrarsi con un maturo senso di realtà. Beninteso, non stiamo in questo modo cercando di assegnare fretto- lose patenti di legittimità a una delle più controverse modalità di esplicazione dell’intervento penale, ma riteniamo che nell’analisi del problema si debba cercare di andare oltre le etichette retoriche, senza farsi abbagliare né in positivo né in negativo dalla ambigua parola ‘sentimento’. Il percorso compiuto finora riteniamo abbia mostrato come un’asserzione netta, sia in termini affermativi sia in termini negativi, peccherebbe per approssimazione. Sarebbe dunque più opportuno partire da una più articolata formulazione dell’interrogativo: in rela- zione a quali fenomeni e in quali accezioni, al di là delle scelte dei le- gislatori storici, sentimenti ed emozioni possono essere ragionevol- mente evocati quali elementi costitutivi e/o integrativi nella descrizione dell’oggetto di tutela penale?  238 Tra sentimenti ed eguale rispetto Le incrostazioni di matrice collettivistica, che nel contesto italiano hanno ammantato gli interessi definiti dai legislatori ‘sentimenti’, hanno contribuito ad acutizzare, in modo giustificato, la diffidenza della dottrina penalistica di stampo liberale. Il senso di un nuova tematizzazione del sentimento quale problema di tutela deve essere in primo luogo funzionale a svincolare dalle ‘col- lettivizzazioni normative’ un fenomeno legato all’interiorità dell’indivi- duo e che invece si è prestato, con evidente slittamento di significato, a divenire veicolo di incriminazioni di stampo moralistico-identitario. Riteniamo che debba essere presa in considerazione, quale ulte- riore sfaccettatura, una dimensione di significato che valorizzi la proiezione universalistica e, per certi versi egualitaria, dei fenomeni affettivi: sentimenti ed emozioni come ‘addentellato fenomenico’ di una dotazione universalmente condivisa dagli esseri umani. In base a quest’ultima prospettiva, declinare determinate questio- ni di interesse penalistico, come ad esempio i rapporti fra manifesta- zioni espressive e sensibilità, anche come problema di sentimenti acutizza i dilemmi, poiché il sentimento non può esser limitato all’eventuale, problematica, identificazione con l’interesse di una sola delle parti, col rischio di modulare eventuali, ipotetici, interventi normativi sulle cadenze di uno sterile rivendicazionismo psicologico soggettivo. Il risvolto di reciprocità egualitaria assume il significato di una pretesa ‘responsabilizzante’ nei confronti di tutti individui, quale do- verosa, e in primo luogo spontanea, autolimitazione: «Se ognuno ha diritto alla propria narrazione individuale, ugualmente non può, in nome dei propri sentimenti, dichiararla “intoccabile”, af- fermarla come pretesa di verità assoluta e non metterla in discussione e confrontarla con quella degli altri» 1. È nella distinzione tra ethos ed etica che si inquadra uno dei fon- damentali tratti costitutivi del pluralismo: ethos come ordine valoriale costitutivo del singolo, ed etica come limite che tutti i diversi ethe de- vono osservare, nel rispetto di «ciò che è dovuto da ciascuno a tutti. Lo stesso diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» 2, secondo dinamiche di simmetrica reciprocità che uni- scono profili di diversità fattuale e accenti di doverosità normativa. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura, DE MONTICELLI, La questione morale, Osservazioni finali La focalizzazione sul problema di un eguale e reciproco rispetto porta a emersione la duplice prospettiva di una tutela di sentimenti intesa come ‘cura’ del sentire individuale e collettivo, e come forma di contrasto a espressioni tese al disconoscimento dell’altro. Nell’atto di formulare delle osservazioni finali al presente lavoro emerge l’esigenza di distinguere fra linee di politica legislativa di va- lenza generale e spunti più dettagliati che richiedono di essere circo- scritti a singoli campi di materia. Il problema della tutela di senti- menti non può essere fatto confluire in un unico prospetto di model- lizzazione normativa, ma necessita di essere affrontato attraverso percorsi differenti: solo in rapporto al profilo della ‘cura’ si possono a nostro avviso proporre delle linee generali, mentre il tema, più stret- tamente penalistico, della tutela da sentimenti richiede di essere più attentamente contestualizzato. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze Come abbiamo già specificato, il rapporto fra ‘cura’ e ‘tutela da’ è di complementarietà, per quanto sia la ‘cura’ a definire la declinazio- ne primaria del problema di tutela. La dimensione ‘ostativa’, ossia quella della ‘tutela da’, resta una parte residuale e strumentale al profilo della ‘cura’, finalizzata even- tualmente ed esclusivamente, al mantenimento di equilibri. Obiettivo di fondo, probabilmente non raggiungibile mediante il solo strumen- to giuridico, resta quello di un’adeguata formazione del sentire degli individui, intesa come capacità di rapportarsi all’altro nelle forme dell’ascolto, del confronto e anche della critica, da contestualizzarsi in un’arena polifonica aperta alla pluralità, poiché «di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto più esatto sarà, da un la- to, il sentimento delle differenze e delle priorità» 3. Il ruolo delle agenzie educative diviene in questo senso cruciale, a partire dalle istituzioni scolastiche: l’arricchimento della giustizia da una condizione essenzialmente normativa a una condizione etica è l’esito (un’aspirazione più che un traguardo certo) di un lavoro lungo e 3 DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, Si veda ad esempio la pubblicazione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Abc: Teaching Human Rights – Practical Activities for Primary and Secondary Schools, disponibile in http://www.ineesite.org/- en/resources/abc_teaching_human_rights_-_practical_activities_for_primary_and_se- condary. Tra sentimenti ed eguale rispetto lento di educazione dei sentimenti, al quale partecipano le istituzioni politiche e quelle sociali, la vita pubblica e quella privata» 5. Qual è il messaggio di fondo che dovrebbe essere veicolato quale coordinata etica di una cura dei sentimenti? L’atteggiamento che ragionevolmente si pone a monte del recipro- co rispetto è la capacità di immedesimazione 6 e soprattutto di usare l’immedesimazione in modo da includere la differenza. In altri termini, «il rispetto basato sull’idea di dignità umana risulterà insufficiente a includere tutti i cittadini in termini di uguaglianza, a me- no che non sia nutrito da uno sforzo immaginativo nei confronti della vita degli altri e da una comprensione più intima della loro piena e comune umanità. Ritorna anche in questo caso l’esigenza di non ridurre la dignità umana a un simulacro dispotico declinato in termini deonto- logici, bensì a modularne l’essenza su cadenze il più possibile inclusive. L’attenzione alle differenze può maturare attraverso percorsi di crescita emotiva finalizzati a migliorare la capacità di apertura all’altro 8, soprattutto ove si riesca a riconoscere e a dominare un’emo- zione che è tanto tremendamente umana quanto problematica nelle dinamiche di una società pluralista: la paura. La funzione primordia- le della paura è la difesa dell’essere umano da fonti di pericolo, ma la sua attuale variante sociale e adattiva corrisponde a un’emozione repulsiva e narcisistica, che si declina come una «pre- occupazione offuscante [e] un’intensa concentrazione su di sé che getta gli altri nell’ombra URBINATI, Liberi e uguali. L’Autrice rimarca che tale passaggio è propriamente ciò che denota la cultura dell’individualismo democratico. 6 Richiamiamo il tema dell’empatia, soprattutto in relazione al suo valore etico per la vita di relazione: v., per tutti, BOELLA, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, NUSSBAUM, Emozioni politiche, Riteniamo sia da accogliere positivamente l’iniziativa del governo italiano che ha presentato, per voce della Ministra dell’Istruzione, il ‘Piano nazionale per l’educazione al rispetto’, ossia un progetto teso a introdurre nella formazione scolastica momenti di apprendimento per «promuovere nelle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado un insieme di azioni educative e for- mative volte ad assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e civiche, che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadi- nanza attiva e globale» e per «promuover[e] azioni specifiche per un uso consa- pevole del linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con l’obiettivo di arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei pregiudizi, coinvol- gendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le famiglie».  9 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 67.  Osservazioni finali 241 Si pone dunque l’esigenza di non cedere alle chiusure indotte dalla paura, al fine di «adottare uno sguardo diverso, che dia rilevanza a mentalità, valori, idee, convinzioni e sensibilità culturali capaci di conferire significati inediti alle nostre paure» 10. In uno studio dedicato all’intolleranza come effetto della paura dell’altro, Martha Nussbaum afferma che l’eguale e reciproco rispetto richiede lo sviluppo dei cosiddetti ‘occhi interni’, ossia dello sguardo immaginativo, non corporeo, che consente di vedere l’altro 11: è preci- samente ciò che manca nell’odio, dove il sentire è cieco12 davanti all’individualità altrui. La promozione di un orizzonte di rispetto si gioca in primo luogo a un livello che ha a che fare con lo sviluppo di tale profondità di sguardo e di immaginazione: per rispettare l’altro bisogna ‘sentirlo’ 13, attraverso capacità di apertura, di ascolto, di discernimento. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili problematici e spunti di riformulazione per la tutela della di- gnità del credente Venendo al profilo più strettamente penalistico, un primo bilancio può essere stilato in relazione al panorama normativo italiano vigente. L’impressione è che nel complesso il lavoro di rielaborazione concettuale e di riassetto etico compiuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina abbia condotto a norme il cui coefficiente di compatibilità con le libertà costituzionali è tutto sommato accettabile. Come già osservato, non appare possibile in questa sede procedere all’enucleazione di prospettive de jure condendo calibrate su ogni singolo ambito in cui il codice fa riferimento a sentimenti come oggetto di tutela. Ci limitiamo a prendere in analisi il settore in cui, a nostro avviso, CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, NUSSBAUM, La nuova intolleranza, DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. In questo senso la dimensione della ‘cura’ si proietta verso un rispetto non meramente ‘passivo’, bensì guarda anche, soprattutto, a un rispetto ‘attivo’. Con la prima accezione si indica un atteggiamento di astensione dall’ostilità e dalla violenza; il rispetto ‘attivo’ si traduce in qualcosa di più: «un’attenzione per i bisogni, le esigenze, gli obiettivi e anche i progetti esistenziali delle persone, il riconoscimento del fatto che esse attribuiscono valore a qualcosa che sta loro a cuore e che intendono realizzare», v. MORDACCI, Rispetto, Tra sentimenti ed eguale rispetto emerge maggiormente l’esigenza di procedere a una disambiguazione tra forme di intervento a tutela della sensibilità e presidi contro di- scorsi discriminatori. In quest’ottica l’impianto dei reati a tutela del sentimento religioso presenta delle criticità che si addensano nella portata applicativa dell’art. 403 c.p., ossia l’offesa a una confessione religiosa mediante vili- pendio di persone. Partiamo dal presupposto che sia ragionevole che lo stato laico tuteli lo spazio umano-personale e sociale in cui si dispiega la dimen- sione religiosa dell’individuo: il problema è con quali modalità. Una delle più acute posizioni a difesa della tutela del sentimento religioso osserva che «discussione non è offesa. A maggior ragione quando il bene tutelato diventa la dignità e la personalità dell’essere umano sotto lo specifico profilo della dimensione religiosa», e formula con- seguentemente la propria proposta normativa, a superamento delle attuali disposizioni, elaborando una fattispecie che incrimina «i comportamenti o le espressioni oltraggiose tenuti in pubblico che le- dono intenzionalmente la dignità delle persone a causa delle loro convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza. Ebbene, concordiamo con le ragioni di fondo di tale proposta, la quale ci sembra coerente con l’intenzione di circoscrivere l’impianto di tutela alla dignità della persona e non al prestigio e al patrimonio ideologico della confessione Resta a nostro avviso il dubbio se sia opportuno mantenere una disposizione dedicata al fenomeno religioso, la quale potrebbe espor- si al rischio di assumere nuovamente le vesti di incriminazione surrogatoria del vilipendio, come del resto oggi sembra capitare per l’art. 403 c.p., il quale tende a estendersi all’insulto alla confessione MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, La proposta di norma parla di ‘Offese alla libertà religiosa’, ma il richiamo alla dignità ‘a causa delle convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza’ sem- brerebbe aprire anche alla tutela della dignità del non credente. Su tale ultima prospettiva si veda, anche per richiami comparatistici, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose, Benché non compaia il termine ‘vilipendio’, anche il modello di norma ipotizzato dalla Mazzucato parla, con formula rischiosa, di «comportamenti o espressioni oltraggiose tenuti in pubblico, anche rivolti a cose che formino oggetto di culto o siano consacrate al culto». Ad un’attenta lettura, l’emancipazione dal modello del vilipendio della confessione emerge però dalla traiettoria dell’offesa, la quale deve «[ledere] intenzionalmente la dignità delle persone», v. MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, Osservazioni finali piuttosto che limitarsi a sanzionare l’offesa alla persona 18. A nostro avviso, un riassetto e, soprattutto, una decisa disambiguazione della linea di intervento penale potrebbe aversi attraverso un’abrogazione secca dell’art. 403 c.p., accompagnato da una parallela modifica dell’art. della legge che estenda ai motivi religiosi il tipo di discorso discriminatorio suscettibile di assumere rile- vanza penale, secondo una formula che incrimini «chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso. Ciò non porterebbe, ci sembra, ad alcun vuoto di tutela: si tratte- Anche partendo dal presupposto che la libertà di espressione non sia assoluta, ma incontri limiti espressamente riconosciuti dall’ordinamento interno e anche da fonti sovranazionali, incriminare una manifestazione del pensiero consistente nel ‘tenere a vile’, e dunque nel formulare critiche anche sferzanti e in grado di ferire la sensibilità del credente, è esposta al rischio di tracimare in una forma di illegittima compressione della libertà di critica e di satira; come osserva SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12, il vilipendio del credente è costantemente a rischio di trasformarsi in «vilipendio teologale, più prossimo alla iper-sensibilità del credente rispetto al contenuto della verità di fede, al rigore della sua Autorità religiosa contro le critiche (anche satiriche) rivol- te a danno della Divinità, dei suoi simboli e dei suoi ministri di culto». Si è osservato criticamente che ipotetiche interpretazioni estensive della norma sul vilipendio ex art. 403 c.p., alla luce del dettato codicistico post riforma 2006, e dunque nel segno dell’uguaglianza fra confessioni religiose, sono da ritenersi applicabili anche alla tu- tela di religioni come l’Islam: un esito definito «non nello spirito dei tempi» da PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale,, plausibilmente per evidenziare come l’estensione della tutela, doverosa in quanto sancita dal principio di uguaglianza, rischi di introdurre uno strumento giuridico invasivo a disposizione di fedeli di religioni particolarmente suscettibili. Esprime contrarietà rispetto all’ipotesi di un presidio penale specifico del fenomeno religioso VISCONTI C., La tutela penale, cit.,.; si pone a favore di una tutela incentrata sulle fattispecie comuni, senza necessità di norme ad hoc sulla religione, anche MANTOVANI M., L’oggetto tutelato nelle fattispecie penali in materia di religione, in AA.VV., a cura di De Francesco- Piemontese-Venafro, Religione e religioni, Per una posizione favorevole al mantenimento del vilipendio, considerato prototipo dell’insulto all’atteggiamento individuale verso il problema religioso, v. STELLA, Il nuovo Concordato fra l’Italia e la Santa Sede: riflessi di diritto penale, in Jus. Per un’analisi dei modelli di tutela imperniati sulla persona del credente e che si identificano nel paradigma dello hate speech, v. CIANITTO, Quando la parola ferisce, Si veda in particolare il caso della Gran Bretagna, Paese nel quale non esiste più l’incriminazione per la condotta di Blasphemy (abolita), e che ha introdotto (Racial and Religious Hatred Act) una fattispecie di reato che incrimina le manifestazioni di incitamento all’odio religio- so, v. EAD., Quando la parola ferisce,.; GIANFREDA, La blasphemy nell’ordinamento inglese di Common Law e la tutela penale della “religione”: problemi aperti e nuove prospettive, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese- Venafro, Religione e religioni, Tra sentimenti ed eguale rispetto rebbe di una più netta ridefinizione di confini tra fattispecie, senza intaccare la soglia ‘inferiore’ dell’intervento penale (il nucleo duro delle offese alla persona e alla sua dignità), lasciando univocamente al di fuori offese limitate al piano ideologico, e incentrando l’intervento su espressioni discriminatorie basate su motivi religiosi Da un lato le offese al singolo potrebbero assumere rilevanza come delitti contro l’onore (oggi, dopo l’abrogazione dell’ingiuria, resi- duerebbe la sola diffamazione), eventualmente aggravati ai sensi dell’art. del d.l. n. (aggravante relativa alle finalità di discriminazione); dall’altro lato, l’orizzonte del discorso pubblico in mate- ria di critica e satira religiosa si troverebbe affrancato dall’incom- bente censura del vilipendio, fermo restando il limite, comunque pro- blematico ma ben più selettivo, di non tracimare in propaganda discriminatoria. Un impianto di tutela così strutturato consentirebbe a nostro avvi- so di mantenere aperto uno spazio di illiceità per forme di espressio- ne volte a negare la pari dignità del credente, le quali chiamano in gioco un profilo altamente significativo della condizione esistenziale umana come l’identità religiosa. Al contempo, la necessità di valu- Si veda in questo senso il parere rilasciato dalla Commissione Europea per la democrazia attraverso il diritto (c.d. ‘Commissione Venezia’, organo consultivo del Consiglio d’Europa), nel quale si suggerisce agli Stati membri l’abrogazione delle leggi sulla blasfemia e il mantenimento di presidi basati sulle generiche norme che incriminano ingiuria e diffamazione e, soprattutto, sulle norme che incriminano la diffusione di idee fondate sull’odio religioso, v. Compilazione di pareri e rapporti della Commissione di Venezia riguardante la libertà d’espressione e i media, La strada della tutela antidiscriminatoria è additata anche da DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., p. 1586, il quale sembra però aprire alla prospettiva di un’applicazione dei delitti contro la discriminazio- ne solo nei casi di incitamento alla discriminazione o ad atti discriminazione nei confronti di persone, lasciando fuori dal raggio dell’intervento penale le offese collettive che potrebbero, a nostro avviso, essere invece vagliate come eventuali forme di propaganda razzista, previa opportuna modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975. Richiama la prospettiva di una tutela tramite le norme antidiscri- minazione proprio al fine di tutelare anche i gruppi, e non solo i singoli, MAZZOLA, Diritto penale e libertà religiosa dopo le sentenze della Corte costituzionale, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica,; cfr. PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, Nella dottrina penalistica italiana l’autorevole e cristallina posizione di ROMANO, Principio di laicità dello Stato, a sostegno di un presidio penale speci- fico per le religioni si basa su argomenti i quali possono, a nostro avviso, essere re- cuperati anche nella prospettiva da noi delineata. Secondo Romano, la non inopportunità dell’intervento penale deriva dall’esigenza di mantenere all’interno del si-   Osservazioni finali tare l’illiceità attraverso lo stretto filtro dell’incriminazione della propaganda discriminatoria potrebbe portare a un più cauto uso del diritto penale nei rapporti con la libertà di espressione e in particolare con la satira. Ci sembra questa una futuribile modifica che potrebbe contribuire a fissare in modo più definito spazi di libertà nella salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto che tenga conto del diritto liberale di critica e della necessaria distinzione con l’orizzonte della discriminazione. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole Dietro il velo retorico dei sentimenti si pongono questioni di vitale importanza per la convivenza, non liquidabili dietro affrettate declaratorie di irrazionalità, e che richiedono un serio impegno in primo luogo nella prospettiva che abbiamo definito come cura. Resta aperto, in via residuale, il problema di interventi limitativi delle libertà. Il giurista penale avverte il disagio di un’alternativa dilemmatica tra la fedeltà a principi di libertà e la violazione che potrebbe scaturire dall’avallo di politiche di intervento; sì, perché di violazione si tratta in quanto un dilemma non ammette vie di fuga ma costringe, piaccia o non piaccia, ad accollarsi le conseguenze del cosiddetto male minore. Condividiamo l’atteggiamento combattuto che altre voci, ben più autorevoli, hanno confessato. Non lo diciamo semplicemente a nostra discolpa, bensì a conferma della profondità del dilemma che ci attanaglia, nella convinzione che proclamare in questi casi un’asserita soluzione rischi di sfociare in una hybris intellettuale, e che sia stema strumenti per marcare l’essenziale differenza fra libertà di critica, anche in forme aspramente satiriche, e pura e semplice denigrazione o dileggio: differenza che deve modellarsi su quanto comunemente accolto per le ingiurie rivolte ai singoli. Il richiamo all’offesa che caratterizza l’ingiuria contribuisce a connotare in termini personalistici l’interesse protetto, avvicinandolo univocamente alla, pur problematica, dimensione della dignità del credente. Fermo restando che le fatti- specie a tutela dell’onore restano comunque un presidio attivo per le offese ai singoli, l’estensione dell'art. della legge nella parte relativa alla propaganda si presterebbe, a nostro avviso, a perseguire l’auspicabile risultato teorizzato da Romano. Se intendiamo denigrazione o dileggio come forme di disconoscimento della pari dignità delle persone in quanto credenti in una determinata fede o visione del mondo, l’incriminazione della propaganda discriminatoria, debitamente estesa nella formulazione lessicale, può, a nostro avviso, assolvere in modo meno ambiguo dell’art. c.p. ai predetti scopi di tutela.  Tra sentimenti ed eguale rispetto invece preferibile affrontare i problemi col dovuto rispetto per la complessità: Un dilemma comporta un’oscillazione infinita; in quanto la nostra esperienza è teatro di continui dilemmi, la sua struttura è infinitamen- te provvisoria e le si fa torto ogniqualvolta si cerchi di rinchiuderla nello steccato di un arrogante e definitivo pronunciamento, nella superba convinzione di aver già sempre (prima che un qualsiasi problema si ponga) visto giusto. È comprensibile la tendenza a optare per la soluzione in grado di lasciare in sospeso il più possibile le conseguenze di uno dei due mai, per evitare una violazione certa (delle libertà) nella speranza che il male alternativo non trovi realizzazione. Riteniamo che questa sia una possibile chiave di lettura, come autorassicurazione psicologica, di ciò che la filosofia ha definito utilitarismo delle regole, ossia l’atteggiamento con cui si risponda all’incertezza di fronte a un conflitto cercando l’applicazione di una regola ritenuta giusta in quanto tale, quali che siano le conseguenze della sua applicazione, accettando il rischio di affidarsi a ragionamenti talvolta anche non adeguatamente orientati sul piano delle possibili conseguenze. Ed è altrettanto comprensibile che il cultore delle discipline pena- listiche, nella consapevolezza dei mali insiti nella coercizione, faccia il possibile per evitare di dare impulso e fornire ragioni allo strumento penale, cercando piuttosto di contenerne la pervasività. Vorremmo essere sicuri che la fede liberale ci porti nel giusto; ma un sano senso critico esorta a mettere in conto che potremmo anche aver torto. In linea di principio, sarebbero da evitare alcuni degli errori attribuiti a un pensiero irenisticamente liberale, che talvolta finisce per esaltare la forma a discapito del contesto, magari erigendo steccati intellettualistici esibiti come fieri esercizi di democrazia. Quello che a nostro avviso va tenuto presente, e che parte della dottrina penalistica ha ben messo in luce, è il fatto che non vi sono risposte che possano considerarsi come esito indefettibile di un’ade- [BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, ABEL, La parola e il rispetto, Così, efficacemente, BRUNELLI, Attorno alla punizione del negazionismo, Osservazioni finali] sione ai principi liberali (quale tipo di liberalismo?) o come soluzione ricavabile ‘a rime obbligate’ dal testo costituzionale, ma ogni eventua- le prospettiva resta legata a opzioni politiche che vanno attentamente commisurate sia a criteri di legittimità sia a criteri di opportunità. La posta in gioco è estremamente significativa. La difesa dell’eser- cizio di una libertà del pensiero critico, aperto anche a manifestazioni disturbanti è ciò che identifica e distingue il nostro mondo liberale, pur con tutti i suoi difetti, dalle oscurità del fondamentalismo: non dobbiamo dimenticarlo. La costruzione di una campana di vetro al fine di garantire immunità emotiva agli individui suscettibili non può far parte dello strumentario giuridico di una democrazia liberale, la quale può (deve) esigere dai cittadini responsabilizzazione e capacità di elaborazione della limitata efficacia pratica delle proprie convinzioni, o, più icasticamente, una certa dose di robustezza. Si tratta in altri termini di favorire l’interiorizzazione di un onere di tolleranza consistente nella consapevolezza di poter realizzare il proprio ethos solo nei limiti di ciò che compete parimenti a tutti». Il richiamo alla robustezza vale sia come monito a non cadere in uno sterile e polemogeno sentimentalismo vittimocentrico, acriticamente proclive ad avallare doglianze di animi suscettibili, ma costituisce a nostro avviso anche un monito a non dare per scontata tale condizione di tenuta etica nelle persone, dovendosi mantenere l’occhio vigile e l’orecchio proteso a captare segnali in grado di mostrare le crepe prima che si arrivi a un collasso. È di tutta evidenza come nell’attuale momento storico le dinamiche del reciproco rispetto stiano subendo una particolare curvatura, probabilmente una deformazione, sia sul piano dei contenuti, sia sul piano dei canali espressivi. Rispetto al passato, anche recente, siamo oggi portati a constatare quasi quotidianamente, grazie ai o a causa dei media, condotte che sono dettate da atteggiamenti di repulsione dell’altro. Se è vero che rinvenirne la dannosità immediata risulta operazione assai complessa, la quale molto difficilmente riesce a soddisfare appieno i filtri dell’armamentario concettuale penalistico, non può essere però escluso che volgere gli occhi al cielo, confidando sul fatto che lo spirito critico e gli ideali di tolleranza riescano ad avere la meglio, possa rivelarsi un atteggiamento totalmente alieno dai calcoli PULITANÒ, Laicità e diritto penale, HÖRNLE, Protezione penale di identità religiose?, HABERMAS, Tra scienza e fede, tr. it., Roma-Bari Tra sentimenti ed eguale rispetto pazienti e minuziosi che sarebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione. Tali riflessioni ci vengono suggerite dall’esigenza di non sottovalutare un repertorio ormai troppo consistente di fatti che rimandano a un passato non del tutto trascorso e con preoccupanti echi nel tempo presente. Le ragioni del diritto si intrecciano con un tessuto anche emozionale, il quale costantemente ci ricorda che il diritto è prioritariamente una risposta alla memoria del male, che esseri umani possono fare ad altri esseri umani. Tenere ben ferma l’attenzione sui mondi umani e sulla realtà sociale è un impegno necessario per monitorare la qualità delle libertà in un contesto pluralista. Il diritto penale non rappresenta lo strumento più idoneo a svolgere una funzione promozionale, ma riteniamo non debba essere aprioristicamente tacciato di vena illiberale il proposito di immaginare strumenti perché vi possa essere anche, eventualmente, un redde rationem sull’uso della libertà di espressione, non quale forma di soffocamento ma quale chiamata a dare spiegazioni e ad assumersi la responsabilità di un certo uso del linguaggio, il quale è performativo non solo nei confronti della realtà esterna ma anche di sé stessi. Non intendiamo avallare forme di democrazia protetta, bensì evitare di chiudere aprioristicamente il discorso su ciò che il diritto, e anche eventualmente il diritto penale, potrebbe fare nelle forme non BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, VECA, La priorità del male e l’offerta filosofica, Milano FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia. Secondo quanto osservato da Michele Serra in esergo a questo capitolo, di fronte a nuove libertà e a nuove dignità conseguono nuovi problemi, di pensiero e di linguaggio, e le parole che usiamo definiscono gli altri ma al contempo ci definiscono. Concetto che peraltro rischia di prestarsi a usi retorici. Cosa vuol dire democrazia protetta? Una democrazia liberale di tipo aperto ha dei valori da difendere? Certamente non può dirsi che la democrazia sia una forma di governo relativistica; al contrario, essa «non ha fedi o valori assoluti da difendere a eccezione di quelli su cui essa stessa si basa. Nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica non può essere relativistica», v. ZAGREBELSKY, Imparare democrazia, Torino. A partire da queste premesse, si può concordare con quanto osservato da SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espressione, ossia che non esistono democrazie indifese, cioè impossibilitate a difendersi se vogliono rimanere fedeli a se stesse, dovendo semmai distinguersi tra Costituzioni dotate di un sistema di protezione meno appariscente e quelle che, invece, ne esibiscono uno maggiormente strutturato». di una censura autoritaria, ma quale veicolo, tramite i precetti, di richiamo simbolico a valori della convivenza liberale, nella convinzio- ne che lo strumento giuridico debba essere pensato non soltanto come un mezzo di giustizia, ma possa anche assumere le vesti di un luogo di scoperta del giusto. È l’idea che l’istituzione del diritto nella sua essenza sia precisamente il mezzo che la nostra ragione ha indi- cato non solo per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire attraverso il confronto e non più lo scontro delle diverse concezioni del bene sempre nuovi aspetti di questo dovuto. DE MONTICELLI, La questione morale. Grice: “Falzea interprets, correctly, Roman law as imperativistic or better, volitive – volontarismo giuridico – My reflections on “Aspects of Reasons” point to the same direction. Indeed my focus is on the conversational IMPERATIVE!”. Nome compiuto: Angelo Falzea. Falzea. Keywords: QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM, interesse, valore, disvalore, assiologia, accertare, apparire, efficacia, interesse, does moral philosophy rest on a mistake, duty cashes on interest, on desire. ‘sentimento condiviso’ -- H. L. A. Hart. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Falzea” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fannio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Fanc. Fannio conosce Panezio di Rodi per mezzo di C.Lelio, e ne segue l’insegnamento. C. Fannio combattè contro Cartagine, e tribuno della plebe e si distingue contro Viriato.C. Fannio e pretore e console. C. Fannio oppose alla proposta di C. Gracco di concedere la piena cittadinanza romana ai meri latini e i diritti di questi ai meri italici, con una orazione famosa, di cui però, gli e contestata la paternità. C. Fannio scrive un saggio storico spesso ricordata da Cicerone ("Annales"), che forse comincia con le origini di Roma -- e orazioni.  Gaio Fannio Gaius Fannius. Gaius Fannius is a Roman republican philosopher and politician who was elected consul and was one of the principal opponents of Gaius Gracchus. Fannio is a member of the Scipionic Circle. Gaius Fannius was the son of Marcus Fannius (whose brother was probably Gaius Fannius Strabo, the consul). On the assumption that this Gaius Fannius is not the historian who fought in the Punic War, he was a member of Quintus Caecilius Metellus Macedonicus’s staff in Macedonia, who sent him as part of an embassy to the Achaean League to convince them not to enter the war against Rome. After the embassy was insulted and their warnings disregarded, Fannius left and went to Athens. Fannius next appears, serving with distinction as a military tribune in Hispania Ulterior under Quintus Fabius Maximus Servilianus in his war against Viriathus. Fannius was elected as Plebeian Tribune. Then he was elected to the office of Praetor, during which time he was mentioned in a decree responding to the request for Roman assistance by John Hyrcanus, the ruler of the Hasmonean Kingdom. With the support of the Tribune of the Plebs Gaius Gracchus, Fannius was elected consul, serving alongside Gnaeus Domitius Ahenobarbus. However, once he was in office, he turned against Gracchus, opposing his reforming measures and supporting the traditional senatorial group who were against any reforms which impacted upon their wealth and status. During his consulship he obeyed the Senate's directive and issued a proclamation commanding all of the Italian allies to leave Rome. He also spoke against Gracchus's proposal to extend the franchise to the Latins. Fannius's speech was regarded as an oratorical masterpiece in Cicero's time, and was widely read. Gaius Fannius married Laelia, the daughter of Gaius Laelius Sapiens. On the advice of his father-in-law, Fannius attended the lectures of the Stoic philosopher, Panaetius, at Rhodes. There has been a long-standing debate over whether this Gaius Fannius was the historian who served under Scipio Aemilianus during the Third Punic War, and together with Tiberius Gracchus were the first to mount the walls of Carthage on the capture of the city. Cicero, from whose letters much of this is derived, was incorrect in identifying Fannius the consul as the son of Gaius. Inscriptions clearly reveal that his father was Marcus Fannius. It is now generally accepted that Cicero, although mistaken about some of the details, was probably not mistaken when he distinguished between Gaius Fannius, the Consul and Gaius Fannius, the historian who served under Scipio Aemilianus. See Cornell, T. J. The Fragments of the Roman Historians, for a detailed analysis of the evidence. References  Cornell, Broughton, Broughton Broughton Cornell, Broughton Smith Broughton Smith Cornell Smith Smith Sources Broughton, T. Robert S., The Magistrates of the Roman Republic, Broughton, T. Robert S., The Magistrates of the Roman Republic, Cornell, The Fragments of the Roman Historians, Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Smith, William, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Political offices Preceded by Q. Caecilius Metellus Balearicus T. Quinctius Flamininus Roman consul With: Gnaeus Domitius Ahenobarbus Succeeded by Lucius Opimius Q. Fabius Maximus Allobrogicus FASTISNIVIAF NationalGermanyUnited States People Deutsche Biographie Categories:  Roman augurs Roman consuls Fannii. Nome compiuto: Gaio Fannio. Fannio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fannio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della glossogonia – imago acustica e immagine sensibile – scuola di Trieste – filosofia trestina – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Trieste, Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Fano; for one, he took very seriously Plato’s Cratilo – “origine e natura del linguaggio,’ he has also explored a rather extravagant trend for Italian philosophers, when philosophy is reduced to ‘analisi del linguaggio’!” Neo-idealista, appartene a quel gruppo di artisti, letterati, e scrittori che hanno reso famosa Trieste. Legge in modo originale l'opera di Croce e Gentile. Sottolinea l'importanza delle scienze naturali e della matematica, che nel suo sistema non sono governate dagli pseudo-concetti. Da molta importanza agli aspetti più semplici e ferini dello spirito seguendo le riflessioni di Vico. Suo padre Guglielmo era un medico affermato, sua madre Amalia Sanguinetti. Il padre fu uno dei pochi ebrei di allora che passano al cattolicesimo per sincera fede. Ma tale conversione e accompagnata da manie religiose e disordini mentali precoci. Fin dall'adolescenza F. ha un impulso di rivolta contro gli adulti, il loro conformismo, il loro spirito oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia di Ettore Cantoni si parla di due ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore Ettore e Fano, che viaggiano e arrivano addirittura in Africa, appunto per sfuggire all'atmosfera pesante instaurata dagli adulti. Fu un ragazzo ribelle, non volle accettare la disciplina della scuola. Un episodio contraddistingue il suo carattere, quando getta nella stufa il registro di classe. Frequenta la scuole austriaca con scarso profitto. Afferma che una parte delle sue difficoltà era dovuta al fatto di avere poca memoria (non quella concettuale, in cui eccelleva, ma quella specifica, dettagliata, necessaria ad es. nello studio della storia e della geografia). Così abbandona gli studi assai prima di aver conseguito la maturità. Ritiratosi da scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto di impiegato. Ma abbandonò l’impiego e affitta, assieme ad alcuni coetanei, una cameretta sul colle di Scorcola, dove si dedica non solo a discussioni senza fine con gli amici, ma passò ore e ore a studiare filosofia. Più tardi a Vienna poté sentire le lezioni universitarie di alcuni luminari del tempo. Fu la lettura dei classici tedeschi, da Leibnitz a Schopenhauer, da Kant a Fichte e Hegel, a dare al suo pensiero un indirizzo al quale sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, a fargli trovare le armi per la sua personale battaglia contro il dogmatismo, il fideismo, il clericalismo del proprio ambiente familiare. Certo alla formazione di F. ha contribuito anche l'ambiente eccezionale della Trieste di allora. Fu suo amico Poli, il cui pseudonimo, Saba, fu inventato proprio da lui.  Si ispira certamente alla figura di F. anche il sesto de I prigioni di Saba: «L’Appassionato/Natura, perché ardo, m’ha di rosso/pelo le guance rivestite e il mento./ Non è una brezza lo spirito: è un vento /impetuoso, onde anche il F. è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse d’Egitto, / ed ho sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia Maometto». Saba e F. comprano in società la libreria antiquaria Mayländer, la futura "Libreria antica e moderna", ma non andano d’accordo, perché Fano non era persona da accollarsi diligentemente troppi compiti "noiosi". Così i due decisero di separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere proprietari, Fano propose di giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma Saba, che era amante e cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della sorte e convinse l’amico a cedergli ugualmente la libreria. Un'altra persona dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Giotti. E un incontro come di un artista toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un grande giovamento. Egli leggeva a quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io non conosco. Per il suo carattere indolente, in molte cose esteriori della vita fece ciò che gli consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la famiglia a Firenze e cose simili. Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo contraccolpo a causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella di Virgilio, che F. sposa. Ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che fu ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita. È una tragedia che scosse profondamente tutto Trieste. Sposa Anna Curiel, da cui ha un figlio di nome Guido. Durante il periodo della grande guerrafu irredentista, come molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e altri. In seguito il suo atteggiamento e molto simile a quello di Croce, e per analoghi motivi ideologici. Gli ideali egalitari non facevano presa su di lui e gli sembrava utopistico, e comunque non desiderabile, l’instaurare una società comunista. Anzi si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento di allora, tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione per la reazione fascista. Ma, già prima di Croce, divenne un antifascista, che non perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le sue opinioni.  Si laurea in filosofia a Padova con “Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di una filosofia solipsistica” pubblicata sulla Rivista d’Italia. Probabilmente non frequenta le lezioni universitarie a Padova, anche perché era già sposato e dove pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la sua formazione si compì, oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva trascorso qualche anno prima della guerra e dove aveva frequentato l’ambiente de La Voce. Professore di filosofia presso vari licei di Trieste, F. aspira tuttavia all’insegnamento universitario, a cui giunse dopo molte traversie causate da intralci posti dalle autorità. Il motivo di queste difficoltà si deve alla fama di antifascista che egli si procurò quando, commemorando il cugino  Elia, volontario nella grande guerra e morto sul Podgora, tenne un discorso in cui traspariva, in maniera non molto velata, la convinzione che il sacrificio di tante vite per la libertà veniva rinnegato dal regime politico allora dominante. Questa sua presa di posizione gli costò alcuni giorni di carcere nella fortezza di Capodistria e la fama di antifascista si ripercosse sulla sua carriera universitaria. Attorno a quegli anni a Trieste si andavano diffondendo le idee della psicoanalisi di Weiss, discepolo di Freud. A F. non piaceva questa teoria, affermando che si basava su supposte attività del pensiero immaginarie e non verificabili. Il concetto di inconscio non posse venir accettato da chi come lui basava tutto sull' ‘auto-coscienza’. Studioso di Croce, che conosce, pubblicò vari articoli sulla filosofia crociana. Il saggio “La negazione della filosofia nell’idealismo” gli procurò l’attenzione di Radice, che gli offrì un posto di assistente a Roma. Da notare che nel suo primo saggio viene esposto organicamente il suo pensiero, Il sistema dialettico dello spirito. Dopo l'invasione tedesca trova rifugio a Rocca di Mezzo, in Abruzzo. La tranquilla sicurezza, la noncuranza dei pericoli non gli vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai tedeschi (lui e la moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i bombardamenti alleati. I tedeschi lo usarono spesso come interprete e poiché la sua casa stava proprio sulla strada maestra, spesso la cucina era piena di soldati che avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella cucina mal riscaldata, incurante dei rischi immediati, lavora forse più di quanto non avesse mai fatto in precedenza e portò a termine l'opera: La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito. Finita la guerra ritrovò il suo posto a Roma. Nel saggio sul Croce aveva rivendicato l'importanza delle scienze empiriche, che nella filosofia crociana non avevano dignità conoscitiva. In Teosofia orientale e filosofia greca  troviamo una descrizione dello sviluppo storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza della matematica, mentre Croce sostene che la matematica è uno pseudo-concetto. Inoltre cura la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni futura metafisica di Kant. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle origini del linguaggio, poi riedito accresciuto a cura di F..  Altre opere: “Il sistema dialettico dello spirito” *Roma, Servizi editoriali del GUF/); “La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un sistema dialettico dello spirito” (Milano, Istituto editoriale italiano); “Teosofia orientale e filosofia greca. Preliminari ad ogni storiografia filosofica” (Firenze, La nuova Italia); “Saggio sulle origini del linguaggio. Con una storia critica delle dottrine glottogoniche” (Torino, Einaudi); “Origini e natura del linguaggio” (Torino, Einaudi); “Neo-positivismo, analisi del linguaggio e cibernetica” (Torino, Einaudi);  “Prolegomeni ad ogni futura metafisica” (Firenze, G. C. Sansoni). Ettore Cantoni, Quasi una fantasia: romanzo, Milano, Treves, Cantóni, Ettore, su treccani. Voghera su Il Piccolo. Viene venduta a F. e Poli, Saba, che ne diventa proprietario unico. Dice che una teoria può essere accettata solo se si prospettano anche delle ipotesi — che poi appariranno assurde e non si verificheranno concretamente — nelle quali essa dovrebbe venir respinta. La psicanalisi, invece, si mette accuratamente al coperto da ogni prova contraria. L'estetica nel sistema di Croce, L'Anima, da filosofia di Croce, Giornale critico della filosofia italiana, Un episodio illustra bene sia l’importanza che egli annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio. Una mattina, scendendo in cucina, che e diventata il suo studio, la trova invasa da soldati tedeschi che cercano acqua ed altro. Con l’abituale tono tranquillo, dimenticando con chi aveva a che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta, addita ai soldati della Wehrmacht la porta. Prego, dice in tedesco se lor signori avessero la compiacenza di andare da un’altra parte. Io ho da lavorare. Senza fiatare, i soldati infilano la porta ed egli si rimise tranquillamente al suo tavolo di lavoro per battagliare con Croce, dimentico che la più superficiale inchiesta e sufficiente a convogliarlo assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio. L'ottimismo di Fano e il pessimismo di Voghera. Brani da lettere e testi, Milano, Mimesis, Silvano Lantier, La filosofia del linguaggio (Trieste, Riva); Silvano Lantier, “Vico e Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del Bianco); Dizionario biografico degli italiani, Roma.  The ‘signifier’, drawn from Saussurean linguistics, was arguably the central concept in Jacques Lacan’s engagement with psychoanalysis. As indicated in its programmatic texts, the effort to develop a ‘logic of the signifier’ that would account for the relations between subject, science, and ideology, was one of the guiding concerns of the Cahiers pour l’Analyse.  See also: Linguistics, Logic, Meaning, Speech, Structure, Subject, Unconscious Three conceptual distinctions lay at the heart of Ferdinand de Saussure’s innovative structural linguistics, the science that was foundational for twentieth-century French structuralism. The first was the distinction between langue [language] and parole [speech]. For Saussure, the former was to be considered in synchronic terms and as the primary terrain of linguistic analysis; in this it was opposed to the diachronic reality of the latter, which put language to use in time in spoken form. In his synchronic analysis of language, Saussure insisted on another distinction, that between the sign and the referent. For example, the sign ‘cat’ may in multiple instances refer to an actual cat which would be its real world referent, i.e., this cat. Most crucial, however, was the third distinction, that within the sign between the ‘signified’ and the ‘signifier’. The former was the conceptual content of the sign, in this case the idea of a cat, as a four-legged mammal, often domesticated, distinct from ‘dogs’ and other domestic pets. Opposed to this mental concept or ideational content, was the signifier ‘cat’ – as an ‘acoustic image’ or phoneme, a sequence of letters, i.e., the word itself apart from its meaning or content. For Saussure, meaning was produced through a sequence of differential relations in which signifiers were correlated to signified contents; in all instances, it was the difference between signifiers that allowed them to function as linked to specific signifieds or contents. In this regard, the production of the signified was the locus of Saussure’s linguistic concerns.  Jacques Lacan’s meeting of Roman Jakobson (a follower of Saussure’s, via their mutual friend Claude Lévi-Strauss) in 1950 was arguably the central event in Lacan’s own intellectual itinerary. His introduction to structural linguistics moved him away from the Hegelianism of his youth, and paved the way for his later concern with mathematics, formalisation, and systems theory analysis. Inspired by Saussure, Lacan nonetheless departed from him on several significant points. First, the sign/referent distinction was of minimal concern for Lacan. Second, where Saussure tended to denigrate parole in favour of a thoroughly synchronic approach to language, Lacan, as a psychoanalyst, was eminently concerned with speech, itself the medium of psychoanalytic practice and the crucial mechanism for the emergence of the subject of the unconscious. Finally, and most importantly, Lacan reversed the priority of the signified/signifier relationship found in Saussure’s example. For Lacan, meaning was the result of the play of signifiers apart from any synchronic correlation to fixed signified contents. Lacan introduced his new structural interrogation of Freud in his famous ‘Rome Discourse’, reprinted in the Écrits as ‘The Function and Field of Speech and Language in Psychoanalysis’. The increasing pertinence granted to the signifier would be evident in the later texts of this volume, culminating in ‘The Subversion of the Subject and the Dialectic of Desire in the Freudian Unconscious’, wherein Lacan claims that ‘[s]tarting with Freud, the unconscious becomes a chain of signifiers that repeats and insists somewhere (on another stage or in a different scene, as he wrote), interfering in the cuts offered it by actual discourse and the cogitation it informs’.  For Lacan, the primacy of signifier was what accounted for the uniqueness of the human and distinguished its relationship to language from any notion of mere communication or the simple transfer of meaning. In his third seminar, on the psychoses, Lacan provides an illuminating example of this phenomenon that deserves to be quoted at length:  I’m at sea, the captain of a small ship. I see things moving about in the night, in a way that gives me cause to think that there may be a sign there. How shall I react? If I’m not yet a human being, I shall react with all sorts of displays, as they say – modelled, motor, and emotional I satisfy the descriptions of the psychologists, I understand something, in fact I do everything I’m telling you that you must know how not to do. If on the other hand I am a human being, I write in my log book – At such and such a time, at such and such a degree of latitude and longitude, we noticed this and that.  This is what is fundamental. I shelter my responsibility. What distinguishes the signifier is here. I make a note of the sign as such. It’s the acknowledgment of receipt [l’accusé de réception] that is essential to communication insofar as it is not significant, but signifying. If you don’t articulate this distinction clearly, you will keep falling back upon meanings that can only mask from you the original mainspring of the signifier insofar as it carries out its true function. Indeed, it isn’t as all or nothing that something is a signifier, it’s to the extent that something constituting a whole, the sign, exists and signifies precisely nothing. This is where the order of the signifier, insofar as it differs from the order of meaning, begins.  If psychoanalysis teaches us anything, if psychoanalysis constitutes a novelty, it’s precisely that the human being’s development is in no way directly deducible from the construction of, from the interferences between, from the composition of, meanings, that is, instincts. The human world, the world that we know and live in, in the midst of which we orientate ourselves, and without which we are absolutely unable to orientate ourselves, doesn’t only imply the existence of meanings, but the order of the signifier as well.1  Lacan will ultimately link the ‘signifier, as such, signifying nothing’ to the Oedipus complex, and argue that the entry to the symbolic order of language is a result of a submission to the ‘law’ of the phallic signifier, grounded in the ‘Name-of-the-father’. More broadly, the signifier, distinct from meaning, lacking fixed signified or referent, will for Lacan come to be the concept for sexual difference as such – the integral incompleteness or indeed lack that constitutes the subject.  In the Cahiers pour l’Analyse Much as in Lacan’s teaching, the signifier is a ubiquitous concept in the Cahiers pour l’Analyse. In the inaugural article, ‘La Science et la vérité’, Lacan develops his theses concerning lack and ‘truth as cause’ in scientific discourse. After making a distinction between the formal and material cause along Aristotelian lines, Lacan specifies that psychoanalyse is concerned with the latter and its relation to the former:  This material cause is truly the form of impact of the signifier that I define therein.   The signifier is defined by psychoanalysis as acting first of all as if it were separate from its signification. Here we see the literal character trait that specifies the copulatory signifier, the phallus, when – arising outside of the limits of the subject’s biological maturation – it is effectively (im)printed; it is unable, however, to be the sign representing sex, the partner’s sex – that is the partner’s biological sign; recall, in this connection, my formulations differentiating the signifier from the sign.  Conveyed by a signifier in its relation to another signifier, the subject must be as rigorously distinguished from the biological individual as from any psychological evolution subsumable under the subject of understanding.  The primacy of the signifier in Lacan’s teaching, and his attempt to provide a ‘rigorous’ account of it, are the inspiration behind Jacques-Alain’s Miller’s attempt in ‘La Suture’ to provide, as the subtitle suggests, the ‘elements for a logic of the signifier’. Note, however, that in ‘La Science et la vérité’ Lacan is already gesturing toward tying the signifier back to the body, without however reducing it to anything that could be confused with biology. Miller’s contribution to the Cahiers will emphasize the formal elements of Lacan’s account, whereas others, chiefly André Green and Serge Leclaire will work to bring the body back in to analysis in response to Miller’s ultra-formalism.  Miller presents the ‘concept of logic of the signifier’ in clear terms at the outset of ‘La Suture’:  What I am aiming to restore, piecing together indications dispersed through the work of Lacan, is to be designated the logic of the signifier - it is a general logic in that its functioning is formal in relation to all fields of knowledge including that of psychoanalysiswhich, in acquiring a specificity there, it governs; it is a minimal logic in that within it are given those pieces only which are necessary to assure it a progression reduced to a linear movement, uniformly generated at each point of its necessary sequence. That this logic should be called the logic of the signifier avoids the partiality of the conception which would limit its validity to the field in which it was first produced as a category; to correct its linguistic declension is to prepare the way for its importation into other discourses, an importation which we will not fail to carry out once we have grasped its essentials here. The analysis that follows is a reading of Frege’s Grundlagen der Arithmetik, based around a demonstration that Frege’s attempt to give a logical construction of the series of whole natural numbers is predicated on this prior logic of the signifier. Frege’s concept of zero involves a simultaneous ‘summoning’ and ‘annulment’ of the non-identical that Miller claims can be related to Lacan’s account of primary repression and metonymic displacement in the ‘signifying chain’. For Miller, Frege does not recognize that the truth of his own discourse is predicated on a suturing over of an inaugural non-identity. He misrecognises ‘the paradox of the signifier’, that ‘the trait of the identical represents the non-identical’.   In the concluding section of this article, Miller ties the logic of the signifier to the subject (CpA). In effect, Miller follows Lacan in defining the subject as ‘the possibility for one signifier more’:  In order to ensure that this recourse to the subject as the founder of iteration is not a recourse to psychology, we simply substitute for thematisation the representation of the subject (as signifier) which excludes consciousness because it is not effected for someone, but, in the chain, in the field of truth, for the signifier which precedes it.  The key point is that the signifying chain, in which the subject ‘flicker[s] in eclipses’, is marked by a constitutive lack that is sutured over. It is this lack, in its determinant capacity, that accounts for the persistence of the subject in his own discourse.  The signifier is a crucial concept in the first segment of Serge Leclaire’s seminar ‘Compter avec la psychanalyse’ that concludes Volume 1 (CpA 1.5). According to Leclaire, the analyst does not obey a logic of meaning [logique du sens], but in listening for the unconscious must rather follow the formal paths opened up by the signifier.   In a discussion of clinical approaches to fantasy, Leclaire says that ‘two references are essential for the determination of the structure of the fantasy’. On the one hand, fantasies are tied to an emotion that is corporeally localized. He gives examples: anal excitation, oral or dental excitations, or ‘sensations of threshold or passage [émoi de seuil, de passage]’. On the other hand, they are attached to signifiers; and more particularly to ‘signifiers as such’, that is, signifiers detached from their relation to the signified. This is how one should understand Freud’s suggestion that fantasies are ‘made up from things that are heard, and made use of subsequently’. Leclaire gives examples of how certain signifiers used by the mother (proper names and pet names) can become detached from their common significance for the child and become sites for unconscious signifying chains.  Later, Leclaire turns to the notion of the ‘unconscious concept’, emphasizing its role in the constitution of signifiers which mark the body. Indeed, the chain created by the unconscious concept, the concept of the ‘small piece’ detached from the body, as Freud says, ‘in order to gain the favour of some other person whom he loves’ is the libidinal condition for the emergence of the signifier. Leclaire goes on to elaborate that ‘this wandering piece that can be separated, by figuring the place of separation, transgresses, in the literal sense of the term, the surface’s function of limit. And as a limit itself, it marks difference, thus transcending the effaceable trace of the sensible: the pain of the wound becomes an ineradicable mark’. This initial transgression, he says, is rediscovered in orgasm and in sadistic jouissance. It is, says Leclaire, ‘the void or hole around which fantasy turns’.  In his ‘Réponse à des étudiants en philosophie sur l’objet de la psychanalyse’ which opens Volume 3, Lacan insists that, while posing a challenge to dialectical materialism, his theory of language is nonetheless materialist; the signifier, he claims, is ‘matter transcending itself in language’. This is in fact a crucial moment for the legacy of the Cahiers, e.g. in the work of Badiou and Slavoj Žižek, in that the symbolic nature of the signifier, as it well as its transcendentalizing character, remains grounded in a materialism irreducible to an account of raw inchoate matter.  In a section titled ‘The Suture of the Signifier, its Representation and the Object (a)’ from his contribution to this volume, André Green further develops some of Leclaire’s criticisms of Miller and also seeks to link the logic of the signifier to a more robust account of affect and the body. The signifier plays a key role in Irigaray’s contribution to Volume 3 as well. Developing Miller’s arguments from ‘La Suture’, and supplementing them with a more extensive engagement with linguistics, Irigaray focuses on the family romance of the Oedipus complex and the emergence of subjectivity out of this scene. Irigaray maps out and explains the linguistic and intersubjective features of the transformation produced by the entrance of a third term into the original dyad of child and Other. In his or her very first relationship with the first Other, the child starts out as a fluid entity, ‘not yet structured as “I” by the signifier’. ‘At the introduction of the third party into the primitive relation between the child and the mother, “I” and “you” are established as disjunction, separation’. The mere presence of a third term, however, is insufficient for a radical break with the imaginary dyad, since the third initially appears in the form of a rival. ‘This opposition of “I” and “you”, of “you” and “I” remains “one” [on], without potential for inversion or permutation - the father being only another “you” - if the mother and the father do not communicate with each other’.  Later, Irigaray develops some of Lacan’s theses concerning the crucial role of the phallic signifier. The ‘fundamental fantasy’ of the hysteric is that they ‘did not get enough love’. With regard to his or her mother’s desire, he or she experiences themselves as marked by the sign of incompleteness and rejection, ‘unable to sustain the comparison with the phallic signifier’. For the male hysteric, ‘the confrontation with the mirror is like the test of his insignificance’.  The obsessional neurotic, on the other hand, suffers from an early excess of love. ‘His mother found him too appropriate a signifier for her desire’. The phallic reference is attributed to some absent hero, an all-powerful figure, whose death (as with the death of the father of the primal horde in Freud’s Totem and Taboo) would only in any case guarantee the subject’s ongoing acquiescence. The neurotic’s problem comes down to the adequacy of his signified to his signifier; he remains ‘riveted to what he has been’, unable to become. He is trapped in an empty ‘metonymy’, unable to metaphorise, and thus enter a ‘true temporal succession’.  As the title suggests, the ‘signifier’ is the central concept of Jean-Claude Milner’s reading of Plato’s Sophist in Volume 3, ‘Le Point du signifiant’. For Milner, deeply inspired in this instance by Miller’s ‘La Suture’ the key movement in Plato’s text is the vacillation of non-being as alternately function and term in the chain of Plato’s discourse, a movement which evokes the summoning and annulment of the subject that Miller found in Frege’s discourse. The signifying chain is the ‘sole space suited to support the play of vacillation’. Wherever an element in a linear sequence is replaced by an element which, as element, transgresses this linearity (as in the mechanism of structural causality identified by Miller in ‘Action de la structure’, CpA), a ‘vacillation’ is produced within the chain. Milner gives the examples of (1) the founding exception of a chain, and (2) any marking of the place of an erasure. The institution of a linear sequence is governed by a vacillation that testifies to a ‘double formal dependence’, and which ‘retroactively defines the signifier as a chain’ (CpA). Plato’s chain of genera thus points towards the possibility of an ‘order of the signifier in which being and non-being would regain those traits whose very coupling guarantees truth and authorizes discourse’.  Milner speculates that the notions of being and non-being might borrow their traits from the order of the signifier itself in its basic constitution. In a passage cited by Leclaire, Milner mentions three aspects of vacillation. First, there is ‘the vacillation of the element’, which is ‘the effect of a singular property of the signifier’, and develops in a space ‘where the only laws are production and repetition: being and non-being recover this relation through their inverse symmetry, dividing themselves between term and expansion, between mark and abyss’ (CpA). There is also a ‘vacillation of the cause’ insofar as both being and non-being cannot posit themselves as cause except by revealing themselves to be the effect of the other. Finally, there is the movement of vacillation whereby the term that initially ‘transgresses the sequence’ calls up a transgression that annuls the whole chain.  Milner claims that grounding Platonic ontology on the logic of the signifier also makes possible a new understanding of the opposition between being and subjectivity. On the one hand, there is being as the order of the signifier, the ‘radical register of all computations’, totality of all chains, and on the other hand, the ‘one’ of the signifier, the unity of computation, the element of the chain, non-being, as the signifier of the subject (CpA). This latter reappears as such every time that discourse deploys its power to ‘annul’ signifying chains.  In the next segment of his seminar, Leclaire focuses on the concept of drive [pulsion]. He asks: is the object of the drive a signifier or the objet petit a in Lacan’s sense? Leclaire explains that these two are indissociable: insofar as it is the terminus of sought-for satisfaction, it is the objet petit a, but insofar as it is connected with a differentiation in the body, it is a signifier. The difference between the objet petit a and the obtained corporeal satisfaction is ‘lived’ as an ‘antinomy of pleasure’, and through ‘the representation of the splitting of the subject’ [la schize du sujet].  Derrida’s contribution to Volume 4, on the ‘writing lesson’ in Claude Lévi-Strauss’s Tristes Tropiques, presents his general case for a concept of ‘arche-writing’ that is in many respects distinct from the logic of the signifier (CpA). For Derrida, the metaphysical tradition and classical linguisticshave always presented writing as secondary to and dependent upon speech, which they understood as the absolute immediacy of meaning, of the signified to the signifier. Nevertheless, the rigorous development of linguistics by Saussure and his followers demonstrated that spoken language was structured not by a referential relationship to a signified but rather by the homology of the differences between signifiers and the differences between signifieds. In this situation, despite Saussure’s continued and classical disdain for writing, the traditional understanding of writing provided a better model for structural linguistics, because it also forewent the immediate presence of a signified to its signifier. The general structure of language then could be named ‘arche-writing.’ From this perspective, ‘the passage from arche-writing to writing as it is commonly understoodis not a passage from speech to writing, it operates within writing in general’ (CpA).  In the first section of his reading of Freud’s ‘Wolf Man’ case in Volume 5, ‘On the Signifier’, Leclaire distinguishes the psychoanalytic signifier from the linguistic signifier, which he describes a ‘psychic entity with two faces:’ a combination of two elements - signifier (Saussure’s ‘acoustic image’) and signified - that together constitute the sign; as such, it refers to the signified object it denotes. According to this definition, ‘the signifier is the phonic manifestation of the linguistic sign’ (CpA). As used by Jacques Lacan, however, the signifier cannot be considered as an element derived from the problematic of the sign, but rather as a fundamental element constituting the nature and truth of the unconscious (CpA). While Peirce famously defined the signifier as what ‘represents something for someone,’ Lacan declares that the psychoanalytic signifier ‘represents a subject for another signifier.’ Their functions of representation thus differ radically.  To elucidate this function, Leclaire cites two important essays from previous issues of the Cahiers, Jacques-Alain Miller’s ‘La Suture’ (CpA) and Jean-Claude Milner’s ‘Le Point du signifiant’. For Miller, the central paradox of the Lacanian signifier is that ‘the trait of the identical represents the non-identical, from which can be deduced the impossibility of its redoubling, and from that impossibility the structure of repetition as the process of differentiation of the identical’. Milner adds that ‘The signifying order develops itself as a chain, and every chain bears the specific marks of its formality’: the vacillation of the element, the vacillation of the cause, and ultimately the vacillation of transgression itself, ‘where the term that transgresses the sequence, situating as a term the founding authority of all terms, calls the one to be repeated as term transgression itself, an agent [instance] which annuls every chain’ (CpA). Leclaire embraces these formulations, but points out that they do not explain how the psychoanalyst can distinguish a given signifier. While any element of discourse may be a signifier, the psychoanalyst must be able to differentiate between signifiers, to privilege some over others. He warns against ‘the error of making the signifier no more than a letter open to all meanings,’ and argues that ‘a signifier can be named as such only to the extent that the letter that constitutes one of its slopes necessarily refers back to a movement of the body. It is this elective anchoring of a letter (gramma) in a movement of the body that constitutes the unconscious element, the signifier properly speaking’ (CpA).  Its development of a kind of prototype of the sought-after ‘logic of the signifier’ accounts for the inclusion of Dumézil’s ‘Les Transformations du troisième du triple’. DUMEZIL argues that the multiple references in ROMAN legend to figures named ‘ORAZIO’ (for instance, the story of ORAZIO Cocles in LIVIO) ‘have a signifying trait in common’ [un trait significatif]. All the narratives concern single combatants performing feats of extraordinary military prowess. The recurrence of these narratives, suggests Dumézil, indicate the remnants of a ritual function. This emphasis on a recurrent function resonates with Milner’s insistence to Leclaire on the homogeneity of places, as opposed to the heterogeneity of terms, in the ‘Compter avec la psychanalyse’ segment in Volume 3 (CpA).  In his analysis of Freud’s ‘A Child is Being Beaten’, also in Volume 7, Jacques Nassif arrives at an account of ‘the place assigned to the subject in the signifying order’ (CpA). He suggests that the model can also help to explain the process of the overdetermination of symptoms, which can be thought as a ‘co-presence in the same archaeological disposition’ of superseded phases (CpA). Fantasy thus becomes the privileged site where the unconscious, structured like a language, ‘communicates with the signifying order that is language properly speaking’ (CpA).  In their questions to Foucault which open Volume 9, the Cercle d’Épistémologie enquires into Foucault’s method for reading texts, navigating his conception of language and the signifier. ‘What use of the letter does archaeology suppose? This is to say: what operations does it practice on a statement in order to decipher, through what it says, its conditions of possibility, and to guarantee that one attains the non-thought which, beyond it, in it, incites it and systematises it? Does leading a discourse back to its unthought make it pointless to give it internal structures, and to reconstitute its autonomous functioning?’ (CpA).  In his ‘Remarques pour une théorie générale des idéologies’ in Volume 9, Thomas Herbert [Michel Pêcheux] develops an Althusserian account of ideology in which the logic of the signifier plays a key role. Herbert establishes how operations which take place within the ‘ideology of the empirical form’ are ‘fascinated by the problem of the reality to which the signifier must adjust’ (CpA). In establishing these semantic adjustments, the process itself is never forgotten or hidden. Indeed, it is the very process of adjustment itself that is the motor of ideological operations, and ruptures, at this level. By contrast, with ideologies of the speculative form, the operation takes place at the level of syntax, that is, in the relation of signifier to signifier, not in the ‘adjustment’ of signifier to signified. In Herbert’s reading, the ‘social effect’ is well described by Lacan’s description of the mechanism in the signifying chain which produces the subject effect in language: ‘the signifier represents the subject for another signifier.’ What is essential to this Lacanian formulation is that the sequence is one that covers its own traces; unlike the adjustment between signifier and signified that occurs out in the open in type ‘A’ ideologies (empirical form), in type ‘B’ (speculative form) the subjectification that occurs is constitutively forgotten. The ‘subject effect’ covers over the rupture that was its own condition. The ideas of Nicos Poulantzas serve Herbert in the following formulation: ‘let us say briefly that the putting into place of subjects [i.e., the syntactic chain] refers to the economic instance of the relations of production, and the forgetting of this putting into place to the political instance’ (CpA). In other words, what goes by the name of ‘politics’ in this social formation, i.e., the ‘State’, is the sign of the forgetting of the social ordering itself, which is anterior to ‘politics’.  In their preamble to the dossier on the ‘Chimie de la Raison’ which concludes Volume 9, the Cercle d’Épistémologie presents the ‘chemistry of reason’ – found in the works of D’Alembert, Lavoisier, Mendeleev, or Cuvier – in a manner that evokes the ‘logic of the signifier’ that has been the journal’s guiding concern:  To construct a chemistry of reason is thus to refer the sciences to the jurisdiction of the whole [tout], but this is also by the same stroke to submit them to another necessity. For this whole is also substantial since, being the science of the simple and the compound [composée], chemistry must direct its effort toward generating, through the sole operation of combination, all the materials that make all the things of the world; saving phenomena thus requires that chemistry constitute them as such, as a plenitude and liaison of substances. We see here that the crucial relation [relation] to the whole is but the reverse of a relation [rapport] to the representation to which chemistry is so intimately tied, namely that, given that anything representable is an object of analysis, all analysis is thus deduction from a representable body (CpA).Grice: “Fano is too obsessed with the ‘acoustic image’ (imagine Acustica) whereas Saussure is careful to add “acosutique ou sensible” – ‘immagine Acustica o imagine sensibile” – if we allow for imagine sensibile, the priority of the sound evaporates, and so does that of the tongue – and all the glossological societies of Europe!” – Nome compiuto: Giorgio Fano. Fano. Keywords: Fano insists that the semiogonia, i. e. the origin of meaningful gestures will provide a clue as to the essence of the semiotic communication. He relies on Morris, Ferruccio Landi, Peirce, and Croce. He is interested in Croce’s views on ‘expression’ and Landi’s views on ‘lavoro.’ Fano is critical of Peirce. This is going on at the same time as Grice is giving seminars on Peirce at Oxford. Grice: “I agree with Fano that ontogenesis repeats phylogenesis, and that we should concentrate on utterances which are meaningful generally – ‘signare’ is a good verb in Italian for that.’ Grice: “In my view, it is the agent who signs that… ‘signa che’ – signat quod. The ‘-ficare’ only complicates things. A dark cloud ‘signa’ rain. And, by my hand gesture, I sign that going out is not a good day in view of the coming rain. Keywords: glossogonia, glottogonia, teoria glottogonica, dottrina glottogonica, teoria glossogonica, dottrina glossogonica, semiotics of the tongue, Croce. La glossogonia. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fano”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fardella: all’isola – FILOSOFO SICILIANO, NON ITALIANO -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del sensuale -- sensismo, sensualismo – romano – scuola di Trapani – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trapani). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Trapani, Sicilia. Grice: I like Fardella; for one, he is a systematic philosopher; for another, he compares Aristotle (demonstratio peripatetica) with Cartesio, as the Italians call him (demonstratio cartesiana)  And while Italians consider him a reactionary Cartesian, I deem him a closet Aristotelian!. Studia a Messina sotto BORELLI (si veda), dal quale accetta latomismo di LUCREZIO, ma abbraccia il pensiero di Cartesio, dopo averne appreso glinsegnamenti durante il suo soggiorno a Parigi, grazie alle conversazioni con Arnauld, Malebranche e Lamy. Insegna matematica a Roma, Modena, e Padova. Tenne corrispondenza con Leibniz e polemizza con Giorgi attacca il cartesianesimo. Il suo razionalismo, per quanto riconosca che solo Cartesio trova, fra glantichi e i moderni, il retto e naturale metodo di filosofare,  tuttavia relativo, adeguato com' al platonismo. Il mondo  organizzato secondo principi daritmetica e geometria. Ogni cosa ha peso, numero e misura, ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche. Mediante laritmetica e la geomtria si comprende il mondo e si comprende cos la logica. Nel punto, che non ha peso, non ha grandezza, non  divisibile,  tuttavia l'origine di ogni estensione. Nel punto, come il numero nell'unit, si risolve l'estensione. L'anima, che non ha estensione (non e res extensa),  un punto. Non  possibile dimostrare l'esistenza indipendente della realt materiale. La stessa esperienza ci insegna che spesso nel sogno percepiamo oggetti che veramente non possiamo ammettere realmente esistenti. Quante volte, la notte, mentre dormo, vedo splendere il sole sopra l'orizzonte e vedo muoversi in vari modi moltissime cose prodigiose, che non sono niente extra ideam? Dunque, quel che sento e *vedo* non pu in nessun modo essere dedotto come realmente esistente. E se si obbietta che una cosa  sognare, altra cosa  la veglia, per lui le cose che percepiamo nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose percepite con maggiore chiarezza, distinzione e ordine, bench non siano niente in s. I sensi non danno certezza del mondo, la quale pu ritrovarsi soltanto in la legge dellaritmetica e della geometria. Altre opere: Universae philosophiae systema, in qua nova quadam et extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta explanantur (Venezia); Universae usualis mathematicae theoria (Venezia); Utraque dialectica rationalis et mathemathica; Animae humanae natura ab Augustino detecta in libris de Animae Quantitate, decimo de Trinitate, et de Animae Immortalitate (Venezia); Pensieri (Napoli); Lettera antiscolastica (Napoli). Recensito immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico volume sulla rivista scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema, Descartes e l'eredit cartesiana in Italia Dizionario biografico degli italiani. Fardella elaborated a Cartesian philosophy of language, pretty much avant Chomsky, but using the same sources: Arnauld. While Chomsky focuses on Harris and others, he could at least have dropped the Fardella name! Grice: He possibly did have some Italian friends in the Bronx! Wikipedia Ricerca Sensismo Lingua Segui Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sensazione (filosofia). Infatti, dato che ogni sensazione  necessariamente gradevole o sgradevole, si  interessati a godere delle prime e a sottrarsi alle seconde. Questo interesse  sufficiente a spiegare le origini delle operazioni dell'intelletto e della volont. Il giudizio, la riflessione, i desideri, le passioni e via dicendo, non sono altro che la sensazione stessa, la quale si trasforma in diverse maniere (E. Condillac, da Trattato sulle sensazioni) Il sensismo  un termine che designa quelle dottrine filosofiche che riportano ogni contenuto e la stessa azione del conoscere al sentire, ossia al processo di trasformazione delle sensazioni, escludendo in tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia riportabile ai sensi. A volte viene usato come suo sinonimo sensualismo, che per trova definizione diversa. Mentre nella storia della filosofia la parola senso compare, a partire dalla  di Aristotele, per indicare la facolt di "sentire" (cio di percepire l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti. Gi Protagora affermava che l'anima non fosse altro che un complesso di sensazioni: fu una tesi ripresa in maniera pi approfondita dagli stoici e dagli epicurei. La cultura romana e quella medievale hanno conservato il concetto riduttivo di senso, proprio della definizione aristotelica:  solo nei tempi moderni, con Locke prima e poi specialmente con Kant, che la parola senso assume il significato di sentire insieme alla consapevolezza di ci che avviene sentendo. I sensisti moderniModifica La dottrina sensista si precisa nella filosofia moderna, con il pensiero rinascimentale, nella filosofia della natura di TELESIO (si veda), che d vita a una prima forma di metodologia scientifica basata sull'esperienza, e poi in CAMPANELLA (si veda) e PERSIO. Quest'ultimo intende la natura come un complesso di realt viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio fine (in base al concetto aristotelico di entelechia), e d'altra parte tutte unificate e armoniosamente dirette verso un fine universale da una comune Anima del mondo, secondo la concezione tipicamente neoplatonica. La visione campanelliana  detta per questo pansensismo cosmico, (dal greco , pn, che significa tutto, e sensismo) a indicare una specie di sensibilit cosciente di tutto l'universo: il grande bestione vivente nella visione di BRUNO (si veda). Caratteristiche del sensismo, che lo accostano al materialismo, si trovano in Hobbes il quale negli Elementi e nel De corpore sviluppa il suo sistema materialistico, meccanicistico onnicomprensivo, basandolo sull'elemento sostanziale corpo e su quello accidentale di moto. La sensazione  il risultato del moto dei corpi che generano le immagini, le sensazioni di piacere e dolore e le passioni. Tutto si origina da un moto, da un'azione a cui corrisponde un contromovimento, una reazione, che produce immagini fenomeniche; tutta la vita teoretica e morale pu essere ricondotta alla sensazione. Pur da una posizione di deciso rigetto della filosofia di Hobbes, anche Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury esprimer una teoria di tipo sensista. Il sensismo di CondillacModifica Condillac Il termine "sensismo"  stato attribuito prevalentemente alla dottrina di Condillac espressa nel Trait des sensation, la quale riprende molte formulazioni che erano state proprie delle teorie di Locke, eliminandone per gli aspetti pi propriamente psicologici, e sottolineando come tutte le facolt conoscitive si sviluppino, in modo pi o meno diretto, dall'azione dei sensi. In questo senso,  famoso l'esempio di Condillac, il quale suggerisce di immaginare una statua dalle fattezze umane, la quale progressivamente si anima a mano a mano che prendono vita i vari sensi, e in particolare il tatto, il quale le permette la consapevolezza della realt propria e del mondo circostante. Ci che finora veniva attribuito all'attivit spirituale, al giudizio, al desiderio e alla volont non sono che "sensazioni trasformate". Va sottolineato che il sensismo non coincide con il materialismo, giacch il primo si limita a esprimere la posizione di chi afferma il primato della conoscenza sensibile, senza tuttavia determinare in alcun modo i contenuti che questa conoscenza possa raggiungere. La posizione sensista riguarda quindi esclusivamente la forma della conoscenza, in particolare il modo in cui si formano e si espletano le varie facolt conoscitive. Dire che la nostra conoscenza si origina dalla sensazione non vuol dire che la materia di per s sia causa di movimento e sensazione per cui l'uomo alla fine sia un essere completamente materiale. Proprio in ragione di questo, Condillac pot teorizzare l'esistenza di Dio e l'immortalit dell'anima, congiungendo sensismo gnoseologico e spiritualismo. La via del materialismo su base sensistica venne intrapresa invece da Mettrie, Helvtius e Holbach, pi conosciuto con lo pseudonimo di Mirabaud. Per Mettrie estensione, movimento e sensibilit caratterizzano tutto ci che  materiale; l'uomo stesso  una macchina ("L'homme machine") condizionata da leggi biologiche. Helvetius condivide con Condillac l'idea che la conoscenza derivi dalle sensazioni ed estende quindi, nell'opera Lo Spirito (1758), la natura sensibile anche alla moralit riducendola a pure motivazioni utilitaristiche. Per Holbach l'affermazione decisa del materialismo  collegata all'ateismo e alla negazione di ogni libera volont nel comportamento dell'uomo. Il materialismo in effetti era negato dagli illuministipoich essi vi vedevano il mascheramento della vecchia pretesa metafisica di spiegare in maniera onnicomprensiva e totale l'universo. Si pu affermare che, da molti di loro, il materialismo era sostenuto non tanto per ragioni gnoseologiche quanto per fini politici e morali come una polemica protesta, cio, nei confronti dell'autoritarismo politico e religioso dei loro tempi. NoteModifica ^ Aristotele, De anima aveva dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilit specifica di un essere umano come caratteristica peculiare della sua individualit. Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu. (Locke Saggio sull'Intelletto Umano. Ed aggiungeva Leibniz: excipe: nisi intellectus ipse (Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto umano) fatta eccezione per l'intelletto stesso. Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Intuito Sensibilit (filosofia) Senso comune Pensiero Percezione Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario sensismo Collegamenti esterniModifica sensismo, su Treccani.it  Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Guido Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1936. sensismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (Sensismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopdia Britannica, Inc.Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Materialismo concezione filosofica tienne Bonnot de Condillac filosofo, enciclopedista e economista francese Sensazione (filosofia) concetto filosofico Wikipedia Il contenuto Sessualit nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti e i comportamenti riferibili alla sessualit nell'antica Roma sono stati variamente descritti nell'arte romana, nella letteratura latina e nel Corpus Inscriptionum Latinarum; in misura minore anche da reperti di archeologia classica, quali manufatti di arte erotica (vedi ad esempio l'arte erotica a Pompei e Ercolano) e di architettura romana. Rapporto sessuale in posizione con donna sopra, calco in gesso di un medaglione in terracotta del I secolo. L'iscrizione dice: "guarda come mi stai aprendo bene".  stato talvolta ipotizzato che la "licenza sessuale illimitata" fosse una delle caratteristiche pi peculiari del mondo Romano antico: "La sessualit degli antichi Romani non ha mai avuto buona stampa in Occidente, da quando si  verificato il predomino culturale del cristianesimo. Nella fantasia popolare e nella cultura di massa questa  sinonimo di licenziosit e abuso sessuale. Tuttavia la sessualit non  stata affatto esclusa dalle preoccupazioni del mos maiorum, il nucleo della tradizione etica della civilt romana; ci si  verificato attraverso consolidate norme sociali che hanno interessato la vita pubblica, privata e finanche militare. "Pudor", ossia vergogna-pudore,  stato un fattore di regolazione del comportamento, oltre che parte di sentenze legali riguardanti casi di trasgressioni sessuali avvenute sia durante il periodo della repubblica romana che in quello dell'impero romano[6]. Il censore, pubblico ufficiale nonch magistrato adibito alla supervisione della "moralit pubblica", era anche atto a determinare il rango (ossia la classe sociale) degli individui; egli aveva tra gli altri anche il potere di rimuovere quei cittadini ritenuti colpevoli di cattiva condotta sessuale dal senato romano e/o dall'antica casta aristocratica del patriziato, ed in alcuni casi ci  effettivamente avvenuto. Lo studioso e filosofo francese Foucault, nella sua opera Storia della sessualit, ha considerato la realt sessuale in tutto il mondo greco-romano come severamente disciplinata dalla moderazione e dall'arte di gestire il piacere sessuale[8]. La societ romana era fortemente intrisa di patriarcato(vedi la figura del Pater familias), e il concetto di mascolinit si basava essenzialmente sulla capacit di governare se stessi e gli altri, cio oltre che gli schiavi e i sottoposti anche la propria persona, e ci valeva pure nell'ambito delle relazioni sessuali. "Virtus", la virt-il valore,  stato un ideale mascolino di auto-disciplina attiva e che si viene direttamente a riferire alla parola latina indicante il maschio-Vir (la virt  pertanto caratteristica dell'uomo inteso come rappresentante mascolino della societ). Un satiro in compagnia di una ninfa, simboli mitologici della sessualit. Mosaico rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei. L'ideale corrispondente al termine "Vir" per la donna era la pudicitia, spesso tradotta come castit o modestia; ma essa rappresentava in realt anche una qualit personale pi pro-positiva e finanche competitiva, che doveva ben raffigurare sia il fascino che l'auto controllo di cui doveva essere dotata per Natura la matrona romana. Le donne delle classi superiori avrebbero dovuto essere colte, forti di carattere, ed attive nell'impegnarsi a mantenere la posizione del proprio clan familiare all'interno della societ civile. Ma, tranne pochissime eccezioni, la letteratura ha conservato nei riguardi della sessualit solamente le voci dei colti patrizi di sesso maschile;  sopravvissuta quindi soltanto una parte del "discorso sessuale" presente nell'antica Roma. L'arte visiva era invece solitamente creata da individui di status sociale inferiore e rappresentanti di una gamma etnica pi ampia di quella pi prettamente letteraria; ma essa si  anche trovata a doversi adattare al gusto ed alle inclinazioni di coloro che erano abbastanza ricchi da permettersela e che potevano includere durante l'epoca imperiale anche alcuni liberti; pertanto, anche in tal caso, non risulta essere completamente affidabile. Alcuni atteggiamenti e comportamenti di natura sessuale ben presenti all'interno della cultura romanadifferiscono notevolmente da quelli della successiva cultura occidentale[13]. La religione romana ad esempio promuoveva la sessualit come uno degli aspetti fondamentali di prosperit per l'intero Stato; singoli individui potevano rivolgersi alla pratica religiosa privata, o anche alla magia, per migliorare la loro vita erotica o la salute e capacit riproduttiva; inoltre la prostituzione nell'antica Roma era legale, pubblica e diffusa. Soggetti artistici che oggi definiremmo senza esitazione come pornografia erano ampiamente presenti tra le collezioni d'arte delle famiglie pi rispettabili e di elevato status sociale. Si riteneva del tutto naturale, e il fatto in s era "moralmente" irrilevante, che un uomo adulto potesse essere attratto sessualmente da adolescenti di entrambi i sessi; la pederastia veniva tranquillamente accettata fintanto che essa riguardava partner maschili - anche giovanissimi - che non fossero cittadini romani, quindi coloro che non erano nati liberi o attualmente in una condizione di schiavit. La dicotomia moderna di eterosessuale ed omosessualenon costituiva in alcuna maniera la distinzione primaria del pensiero romano nei riguardi della sessualit ed in lingua latina non esistono neppure parole indicanti gli attuali termini che vengono a distinguere nella sua totalit l'identit di genere o l'orientamento sessuale. Nessuna censura morale vigeva contro l'uomo che godesse degli atti sessuali compiuti con donne o altri uomini di livello inferiore al suo; a patto che questi comportamenti non venissero a rivelare carenze o eccessi nel carattere, n violassero i diritti e le prerogative degli altri coetanei maschi. Era invece la caratteristica dell'effeminatezza a venir percepita in maniera unanimemente negativa, con casi divenuti celebri di denuncia letteraria pubblica a mo' di scherno e invettiva; questo poteva accadere particolarmente all'interno della retorica politica, quando si accusavano spesso e volentieri gli avversari di essere effemminati, cio affetti da forti carenze caratteriali e pertanto del tutto inaffidabili anche per quel che concerneva la gestione della cosa pubblica. Il sesso praticato con moderazione con prostitute o giovani schiavi maschi non  mai stato considerato come improprio o un rischio che potesse "viziare" l'intrinseca mascolinit, costitutiva dell'uomo romano adulto; l'importante era che il cittadino assumesse sempre il ruolo sessuale attivo e mai quello passivo (vedi attivo e passivo nel sesso). L'ipersessualittuttavia  stata d'altro canto condannata sia moralmente che come patologia medica, questo sia negli uomini che nelle donne. La componente femminile della societ era solitamente tenuta ad un codice morale pi rigoroso rispetto alla sua controparte maschile; relazioni omosessuali tra donne sono scarsamente documentate, ma la sessualit femminile in genere  stata ampiamente celebrata o insultata, a seconda dei casi, in tutta la letteratura latina. Nella sua generalit, gli antichi Romani si trovarono ad avere categorie di genere, se cos si pu dire, pi flessibili rispetto all'antica Grecia. Anche se analizzare la sessualit nell'antica Roma in rigidi termini di opposizione binaria "penetratore-penetrato" pu risultare in parte fuorviante e dunque pu oscurare la pienezza dell'espressivit sessuale antica tra individui presi nella loro singolarit, l'assenza d'una qualsiasi altra "etichetta" per l'interpretazione culturale dell'esperienza erotica fa s che tale distinzione continui ad essere utilizzata[19]. Anche la rilevanza stessa data alla parola "sessualit" nella cultura romana antica  stata da alcuni contestata ed  oggetto di disputa. Arte e letteratura eroticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica e Letteratura erotica. Pan che insegna al suo eromenosDafni a suonare il flauto. La letteratura antica concernente la sessualit romana rientra principalmente in quattro categorie: testi giuridici, medici, poetici e politici. Riferimenti a tipologie di espressivit sessuale ci provengono dalla commedia del teatro latino, dalla satira, dalla poesia amorosa e dall'invettiva, dai graffiti, dagli incantesimi magici e dalle iscrizioni; tali forme culturali considerate come minori nell'antichit hanno avuto molto pi da dire nei riguardi della sessualit che i generi cosiddetti pi elevati della tragedia e dell'epica. Varie informazioni sulla vita sessuale della popolazione  sparsa anche nella storiografia (nei riguardi di personalit conosciute), nell'oratoria e in alcuni testi filosofici, oltre che negli scritti di medicina, agricoltura e di altri argomenti tecnici. I testi di diritto romanosi soffermano su quei comportamenti che si volevano disciplinare o vietare, senza necessariamente indicare quel che le persone realmente facevano o meno. I principali autori latini le cui opere hanno contribuito significativamente alla comprensione della sessualit nell'antica Roma comprendono: Il commediografo Tito Maccio Plauto, le cui opere ruotano spesso su trame concernenti casi sessuali, con giovani amanti ad esempio tenuti separati dalle avverse circostanze. Lo statista e moralista Marco Porcio Catone(detto "il Vecchio") il quale offre scorci sulla sessualit vigente in un momento storico che successivamente fu considerato come epoca avente gli standard morali pi elevati, di tutta la storia latina. Il poeta e filosofo LUCREZIO (si veda), che presenta un lungo trattato sulla sessualit epicurea nella sua opera De rerum natura. Gaio Valerio Catullo, le cui poesie esplorano tutta una serie di esperienze erotiche avvenute verso la fine dell'epoca repubblicana; esse spaziano da un pi delicato sentimento romantico (l'amore verso le donne-Lesbia e nei confronti dei ragazzi-Giovenzio) per giungere fino alle invettive pi brutalmente oscene ("Pedicabo ego vos et irrumabo"-io ve lo metto in culo e in bocca). CICERONE (si veda) con numerosi interventi avvenuti in Senato in cui attacca il comportamento sessuale degli avversari politici, a cominciare da Gaio Giulio Cesare pi volte additato come sessualmente ambiguo e quindi anche pericoloso per l'incolumit statale; ma anche con lettere disseminate di pettegolezzi contro l'lite romana che gli si opponeva. I poeti Sesto Properzio e Albio Tibullo, che rivelano alcuni degli atteggiamenti sociali dell'epoca quando descrivono le loro storie d'amore avvenute con giovani donne e adolescenti maschi. Publio Ovidio Nasone, in particolare con i suoi Amores e Ars amatoria i quali, secondo la tradizione, hanno contribuito notevolmente ad affrettare la decisione dell'imperatore romanoAugusto di esiliare il poeta; ma anche tramite la sua raccolta epica Metamorfosi la quale presenta tutta una serie di miti a forte impronta sessuale (e ancora una volta sia con esempi di amori tra uomini e donne che tra uomini e ragazzi) riguardante figure divine ed esseri umani, con un'enfasi particolare data allo stupro - alla violenta aggressione di tipo sessuale - attraverso la lente della lettura mitologica. Marco Valerio Marziale, le cui osservazioni sulla societ in genere sono spesso e volentieri arricchite e rinforzate da invettive sessualmente esplicite. Decimo Giunio Giovenale, che inveisce contro i costumi sessuali del suo tempo, attaccando con particolare fervore le donne e gli uomini effeminati. Ovidio elenca anche un certo numero di scrittori molto noti al tempo per il materiale salace contenuto nelle rispettive opere, nessuna delle quali  per riuscita a giungere fino a noi. Manuali sessuali greci, ma anche semplici testi di natura pornografica sono stati pubblicati sotto il nome di famose etere (-cortigiane) e diffusi ampiamente. Le novelle erotiche di Aristide di Mileto, i Milesiak furono tradotte da Sisenna, uno dei pretori; Ovidio definisce il libro come una raccolta di misfatti-crimina e ci dice che l'intera narrazione era infarcita con "barzellette sporche". A seguito della battaglia di Carre i parti sarebbero rimasti scioccati nel trovare proprio quel libro nel bagaglio ufficiale appartenente a Marco Licinio Crasso. L'arte erotica a Pompei e Ercolano, rinvenuta solamente a partire dal tardo XVIII secolo,  una ricca fonte di indizi sulla natura della sessualit nell'antica Roma, anche se non del tutto priva di ambiguit; alcune delle immagini paiono difatti contraddire almeno in parte le preferenze sessuali sottolineate in letteratura, ma potevano queste essere destinate ad un intento satirico, per provocare quindi il riso o alternativamente per sfidare gli atteggiamenti convenzionali seguiti. Oggetti di uso quotidiano quali specchi e vasi in ceramica sigillata potevano essere decorati con scene decisamente erotiche le quali potevano andare dalle eleganti danze compiute in abiti succinti a disegni espliciti di penetrazione sessuale. Dipinti erotici sono stati trovati nelle case pi rispettabili della nobilt romana, come nota Ovidio: "vi  un piccolo dipinto (-tabella[30]) raffigurante varie tipologie di accoppiamenti... ma anche una Venere bagnata che si asciuga i capelli gocciolanti con le dita, a malapena coperta dalle acque. Questa Venere carica di erotismo appare tra le vari immagini che un intenditore d'arte potrebbe sicuramente apprezzare. Tutta una serie di dipinti rinvenuti all'interno delle terme suburbane di Pompei, pubblicati in riproduzione, presentano una variet di scenari erotici che paiono destinati a divertire lo spettatore con rappresentazioni sessuali assai scandalose, tra cui un ampio numero di posizioni sessuali, sesso orale e sesso di gruppo eterosessuale, omosessuale e lesbico a scelta[33]. L'arredamento di una camera da letto romano poteva riflettere letteralmente il suo uso sessuale: il poeta augusteo Orazio possedeva presumibilmente una stanza con le pareti interamente ricoperte di specchi, di modo che quando aveva la compagnia di una prostituta poteva osservarla da tutte le angolazioni possibili[34]. L'imperatore Tiberio aveva le camere da letto decorate con i pi lascivi e sconci dipinti e sculture, ma veniva rifornito costantemente di "guide del sesso" ricche di consigli e proposte scritte appositamente per lui dal medico greco Elefantide. Si verifica un autentico boom di testi riguardanti la sessualit, scritti sia in lingua greca che in lingua latina, assieme ai romanzi d'amore; ma questo discorso franco e sincero sulla sessualit scompare quasi del tutto dalla letteratura successiva, con i temi sessuali che vengono riservati alla scrittura medica o alla teologia cristiana. Il celibato era divenuto un ideale per un crescente numero di fedeli cristiani; gli stessi padri della Chiesa come Tertulliano e Clemente di Alessandria hanno disquisito sul fatto che anche il sesso coniugale dovesse essere consentito solamente per la procreazione. Nel martirologio la sessualit viene descritta come una delle peggiori torture rivolte contro la santa castit del cristiano, soffermandosi anche sugli atti di mutilazione sessuale (in particolare i seni) a cui venivano sottoposte in special modo le donne. L'umorismo osceno di Marziale  stato per breve tempo fatto rivivere nel IV secolo dallo studioso e poeta Ausonio, seppur nominalmente cristiano, evitando per la predilezione dell'autore latino nei confronti della pederastia. Sesso, religione e StatoModifica Cos come per gli altri aspetti della vita romana, anche la sessualit  stata sostenuta e regolata da precise tradizioni religiose (vedi religione romana), sia per quanto concerne il culto pubblico statale sia per quel che riguarda le pratiche religiose private e magiche. La sessualit  in ogni caso una categoria importante del pensiero religioso romano[40]. Il complemento di maschile e femminile  stato di particolare importanza per la definizione del concetto romano di divinit. I Dei Consenti erano un consiglio di coppie divine maschio-femmina equivalenti in qualche misura alle dodici maggiori divinit Greche (vedi gli Olimpi). Almeno due tra i "sacerdozi statali" erano svolti congiuntamente da una coppia di coniugi. Le vergini Vestali, uno status sacerdotale riservato alle donne, prendendo il voto di castit perenne, si vedevano riconosciuta una relativa indipendenza dal controllo maschile; tra gli oggetti religiosi di maggior pregio che avevano in custodia vi era anche il "fallo sacro. il fuoco di Vesta doveva evocare l'idea della purezza sessuale nella femmina e contemporaneamente rappresentare il potere procreativo del maschio. Gli uomini che servivano nei vari collegia di sacerdoti (vedi pontefice (storia romana)) avrebbero dovuto in ogni caso sposarsi e crearsi una famiglia. Cicerone ha dichiarato che il desiderio di procreare era il vivaio della repubblica, causa prima per l'esistenza di quella forma di istituzione sociale chiamata matrimonio; a sua volta la casa-domus rappresentava l'unit familiare ch'era il mattone della vita urbana. Molte delle festivit romane stagionali contenevano in s degli elementi sessuali: i Lupercalia del mese di febbraio sono stati celebrati fino al V secolo ed includevano un rito arcaico di fertilit; mentre i Floraliaerano caratterizzati da danze che si svolgevano tra persone nude. In alcune tra le pi importanti feste religiose del mese di aprile, partecipavano e venivano ufficialmente riconosciute anche le prostitute. Le connessioni esistenti tra riproduzione umana, prosperit generale e benessere dello Stato vengono ben incarnate dal culto romano di Venere, che si differenzia dalla sua controparte Greca Afrodite soprattutto per il suo ruolo di madre dell'intero popolo romano, questo attraverso il figlio per met mortale Enea. Durante il periodo delle guerre civili Silla, in procinto d'invadere il proprio stesso paese con le legioni assoggettate al proprio comando, ha fatto emettere una moneta raffigurante una Venere incoronata in qualit di suo personale nume tutelare, affiancata da un Cupido in possesso di un rametto di Palma (segno di vittoria). Sul retro vi erano tropaion (trofei militari) assieme a simboli degli uguri, sacerdoti statali che svelano il volere degli dei. L'iconografia collega quindi la divinit dell'amore col buon augurio di successo militare e con l'autorit religiosa. Il dittatore romano assunse anche il titolo di Epafrodito-appartenente ad Afrodite. Il fascinus fallico era onnipresente nella cultura romana ed appare praticamente su ogni tipo di oggetto, dai gioielli agli antichi campanelli eoliche o tintinnabulum fino alle lampade; era inoltre un potente amuleto atto a proteggere i bambini e ai generali che celebravano il proprio trionfo. Cupido  colui che ispira il desiderio erotico; Priapo invece, importato dalla Grecia, rappresenta pi la vera e propria lussuria, intrisa per d'un fondamento fortemente umoristico; Mutunus Tutunus promuoveva infine il sesso coniugale. Il dio Liber (versione latina di Dioniso) si prendeva cura, tra le altre cose, anche delle "risposte fisiologiche" durante l'atto sessuale. Vi erano infine tutta una serie di divinit atte a supervisionare ogni aspetto della relazione amorosa, dal concepimento fino al parto. Quando un maschio assumeva la toga virile Libero diveniva il suo patrono; secondo quel che raccontano i poeti, in questo momento egli lasciava la modestia innocente (-pudor) caratteristica dell'infanzia per acquisire la libert sociale (-Libertas) e poter iniziare cos la sua personale vita sessuale. La mitologia classica tratta spesso di temi sessuali anche molto impegnativi, quali adulterio, incesto e stupro; l'arte e la letteratura hanno proseguito con la scuola alessandrina la trattazione di figure mitologiche erotiche le quali compivano in modo molto umano, ma anche umoristico, atti sessuali in seguito del tutto rimossi dalla dimensione religiosa. Concetti morali e giuridiciModifica CastitasModifica La parola latina castitas, da cui deriva l'attuale castit,  un sostantivo astratto che denota "una purezza morale e fisica di solito in un contesto specificamente religioso" e a volte, ma non sempre, riferendosi specificatamente alla castit sessuale. Il relativo aggettivo castus-puro poteva esser usato sia per riferirsi a luoghi ed oggetti, cos come anche alle persone; l'aggettivo "pudicus" (da cui pudicizia, pudore) descrive in maniera pi particolareggiata una persona che  sessualmente morale. I rituali di Cerere concernevano sia la castitas che la sessualit, incarnando la Dea anche la maternit; la torcia portata in suo onore in processione durante lo svolgersi del corteo nuziale era associata alla purezza sessuale della sposa. Vesta era la divinit primaria del pantheon romano associata al concetto di castitas, ed era essa stessa una Dea vergine; le sue sacerdotesse vestali dovevano mantenersi vergini per tutta la vita, avendo fatto voto di rimanere nubili. IncestumModifica L'incestum, da cui deriva l'attuale incesto, ossia ci che  "non castum",  un atto che viola la purezza religiosa, forse sinonimo di ci che  "nefas" (nefasto) ovvero religiosamente inammissibile. La violazione ad esempio del voto di castit professato da una Vestale era considerato come incestum: la punizione riguardava sia la donna che l'uomo che la rendeva impura attraverso il rapporto sessuale, sia che l'atto fosse stato consensuale che ottenuto con la forza. Lei veniva seppellita viva, lui lapidato nel Foro. La perdita di castitas di una vestale equivaleva alla rottura del patto stipulato tra Roma e gli dei, la pax deorum e veniva generalmente accompagnata dall'osservazione di cattivi presagi (-prodigia). L'accusa d'incestum che veniva a coinvolgere una vestale poteva spesso coincidere con una situazione di agitazione politica e con pericoli di sommosse. Marco Licinio Crasso venne assolto dall'accusa d'aver commesso incestum con una vestale che condivideva il proprio nome di famiglia. Quello che oggi s'intende per rapporti incestuosi erano solo una delle forme di incestum, a volte tradotto anche come sacrilegio. Quando Publio Clodio Pulcro si travest da donna, violando cos i riti della Bona Dea rivolti esclusivamente alla componente femminile della societ, si attir l'accusa di incestum. Nel diritto romano, ma anche nella morale vigente comune, lo stuprum  il rapporto sessuale illecito, traducibile come depravazione criminale o crimine sessuale; esso viene a comprendere diversi reati di natura sessuale, tra cui vi  anche "l'atto sessuale illegale ottenuto con la forza e l'adulterio (uno stupro morale rivolto contro il coniuge). Inizialmente col termine stuprum  stato considerato un atto vergognoso in generale, o qualsiasi disgrazia pubblica, il che includeva ma non si limitava alla sessualit considerata illecita, ma ai tempi della commedia romana di Tito Maccio Plauto la parola aveva gi acquisto il suo pi ristretto significato sessuale: innanzitutto uno stuprum pu avvenire solo tra cittadini, in quanto qualsiasi violenza sessualecommessa contro la schiavit era perfettamente lecita e quindi non punibile. Proprio la protezione contro la cattiva condotta sessuale  sempre stato tra i diritti legali che maggiormente contraddistinguono il cittadino dal non-cittadino. Raptus Derivante dal verbo latino rapio/rapere, significa "strappar via, portar via, rapire". Nel diritto romano il termine raptio viene utilizzato principalmente per indicare il rapimento o sequestro. Il mitico ratto delle Sabine rappresenta un sequestro della sposa o rapimento a scopo matrimoniale in cui la violazione sessuale delle donne diviene un problema del tutto secondario. Il sequestro di una ragazza non sposata dalla casa di suo padre era in certi casi una "fuga di coppia" messa in atto in quanto non vi era il permesso paterno alla celebrazione delle nozze. Leggi relative alla violenza sessuale (azioni sessuali commesse con violenza o coercizione) sono state codificate per la prima volta solo verso la fine dell'era repubblicana, mentre il rapimento avvenuto con lo scopo di commettere un reato sessuale  emerso come distinzione giuridica. Offerte votive di Pompei: peni, seni e un utero. Guarigione e Magia L'aiuto divino poteva essere ricercato anche tramite rituali religiosi privati che avvenivano, associati a lunghi trattamenti medici, col compito di migliorare o bloccare la fertilit, o per cerar di curare malattie degli organi riproduttivi Teorie della sessualitModifica Antiche teorie riguardanti l'ambito sessuale sono stati prodotti da e per un'lite istruita. La misura in cui queste teorizzazione del sesso abbia effettivamente interessato il comportamento quotidiano rimane discutibile, anche tra coloro che fossero stati attenti agli scritti filosofici e medici che hanno presentato tali opinioni. Questo si presenta come un discorso elitario, mentre spesso deliberatamente critica i comportamenti pi tipici o comuni, ma allo stesso tempo non pu essere assunta per escludere la possibilit che questi valori fossero pi o meno ampiamente seguiti nella societ. Una coppia eterosessuale, lampada a olio. Nel IV libro di Lucrezio, il De rerum natura viene fornito uno dei passaggi pi estesi sulla sessualit umana nella letteratura latina. Yeats descrivendo la traduzione da John Dryden l'ha definita la pi bella descrizione del rapporto sessuale mai scritto. Lucrezio  contemporaneo di Catullo e di Cicerone(verso la met del I secolo a.C. ed il suo poema didattico  una presentazione della filosofia epicureaall'interno della tradizione della tradizione della poesia latina di Ennio. L'epicureismo era materialista e dedito all'edonismo; il sommo bene qui  il piacere, definito come l'assenza di dolore fisico e stress emotivo. L'epicureo cerca di gratificare i suoi desideri con il minimo dispendio di passione e fatica. I desideri sono classificati come quelli che sono naturali e necessari, come la fame e la sete; quelli che sono naturali ma non necessari, come il sesso; e quelli che non sono n naturali n necessari, compreso il desiderio di dominare sugli altri e glorificare se stessi.  in questo contesto che Lucrezio presenta la sua analisi dell'amore e del desiderio sessuale, che contrasta l'ethos erotico di Catullo e ha influenzato i poeti d'amore del periodo augusteo. La sessualit maschileModifica Durante tutta l'epoca repubblicana la libert politica di un cittadino romano ("Libertas")  stata definita in parte dal diritto come un preservare il corpo dalla costrizione fisica, il che comprendeva sia la punizione corporale che l'abuso sessuale. Il valore-virtus era quella cosa che rendeva un uomo adulto ancor pi completamente uomo/maschio-vir ed era questa una delle principali tra le virt considerate attive. Gli ideali romani di mascolinit furono cos la premessa per l'assunzione di un ruolo attivo e dominante in ogni campo e sfera della vita; questa era anche la prima tra le direttive imposte al comportamento sessuale maschile: "lo slancio verso l'azione potrebbe esprimersi pi intensamente in un ideale di dominio che riflette la gerarchia della societ patriarcale romana. La mentalit di conquista faceva parte di un vero e proprio culto della virilit che, in particolare, dava forma alle "regole" riguardanti le pratiche omosessuali. Un tal accento posto sull'idea di sottomissione e dominio ha portato gli studiosi a vedere le espressioni della sessualit maschile degli antichi romani esclusivamente in termini di modello binario penetratore-penetrato; cio l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello d'inserire il suo pene nel/nella partner. Permettere di lasciarsi penetrare invece rappresentava una minaccia contro la sua libert in quanto cittadino e contro la propria integrit sessuale: l'attivit sessuale definisce cos, almeno in parte, la definizione di libero cittadino rispettabile dallo schiavo o dalla persona "libera ma sottomessa-passiva". Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un maschio romano nato libero il voler intrattenere rapporti intimi con partner di entrambi i sessi, questo almeno fintanto che egli prendeva ed assumeva su di s il ruolo dominante. Oggetti consentiti del desiderio erano quindi le donne di qualsiasi condizione sociale o giuridica, coloro che esercitavano la prostituzione maschile o gli schiavi, mentre i comportamenti sessuali al di fuori dal vincolo matrimoniale dovevano essere limitati a schiavi e prostitute o, meno frequentemente, ad una concubina. La mancanza di autocontrollo, anche nella gestione della propria vita sessuale, era un'indicazione che quell'uomo era incapace di governare gli altri[76]; il puro e semplice godimento dato dal "basso piacere sensuale" minacciava pertanto di erodere l'identit maschile elitaria della societ, cos come la stima ed il rispetto rivolti naturalmente alla persona istruita. Era un punto di orgoglio per Caio Gracco il sostenere che durante il suo mandato come governatore provinciale rimase senza alcuno schiavo scelto tra i ragazzi di pi bell'aspetto, che nessuna prostituta visit la sua casa, e che non avvicin mai gli schiavi-bambini appartenenti ad altri uomini. In epoca imperiale, preoccupazioni circa la perdita della libert politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore sono stati espressi da un percepibile aumento di comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato ci anche da una crescita documentata di punizioni corporali inflitte ai cittadini[79]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di interit fisica in relazione alla Libertas contribuisce e viene riflessa dalla licenza sessuale e dalla decadenza associata con l'Impero[80]. Nudo eroico rappresentante Eurialo e Niso, esempio di omoerotismo maschile in linea con la morale romana a detta di Publio Virgilio Marone. Jean-Baptiste Roman. Nudit maschile Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudit. Mostrarsi nudi in pubblico poteva essere offensivo o sgradevole anche in ambienti tradizionali; Cicerone deride Marco Antonio come indegno di apparire quasi nudo come partecipante al Lupercalia, anche se ci veniva ritualmente richiesto. La nudit  uno dei temi principali di questa festa religiosa che attira l'attenzione di Ovidio nei Fasti, il suo lungo forma poema sul calendario romano[82]. Augusto, durante il suo programma di revivalismo religioso, tent di riformare i Lupercalia, in parte sopprimendo l'uso della nudit, nonostante il suo aspetto di fertilit/ Connotazioni negative di nudit includono la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri sono stati spogliati, e la schiavit, dal momento che gli schiavi in vendita sono stati spesso esposti nudi. La disapprovazione nei confronti della nudit era quindi nei tutta nei confronti della "marcatura" ch'essa dava al corpo (esser nudi marchiava d'indegnit il corpo deprivandolo della nobilt che lo caratterizza in quanto cittadino; questo significato era molto pi presente rispetto a quello d'esser una mera questione di cercare di reprimere il desiderio sessuale considerato inadeguato. L'influenza proveniente dall'arte greca tuttavia ha portato sempre pi a creare ritratti di nudit eroicariferibili sia agli uomini che alle divinit romane, pratica questa che ha avuto inizio nel II secolo a.C. Quando le statue dei generali romani nudi alla maniera del culto rivolto ai sovrani ellenistici cominciarono per la prima volta a diffondersi, vi fu da parte della popolazione una forte reazione "scandalizzata", non tanto o non semplicemente perch veniva esposta la figura maschile nuda, ma soprattutto in quanto evocante concetti di regalit e divinit che si trovavano in contrasto con gli ideali repubblicani di cittadinanza cos com'era incarnata dalla toga. Il dio Marte si presenta come uomo barbuto maturo in abito di generale, ci quando viene concepito come padre del popolo in tutta la sua dignit, mentre le sue raffigurazioni giovanili, senza barba e nudo, mostrano tutta l'influenza proveniente dalla rappresentazione greca di Ares. Nella prima arte augustea e giulio-claudia l'adozione programmatica dello stile neoatticoe dell'arte ellenistica ha portato alla pi complessa significazione del corpo maschile mostrato nudo, parzialmente nudo oppure indossante una lorica musculata (o corazza eroica). Una notevole eccezione nei confronti della nudit in pubblico riguardava le terme, purtuttavia anche in quest'ambito gli atteggiamenti sono cambiati nel corso del tempo. CATONE (si veda) il Vecchio preferiva non fare il bagno nudo alle terme in presenza del figlio, mentre Plutarco pare sottolineare il fatto che nei suoi tempi e in quelli immediatamente precedenti poteva esser ritenuto assai vergognoso per gli uomini maturi esporre i loro corpi davanti a maschi pi giovani. In seguito vi fu addirittura la possibilit per uomini e donne di fare il bagno assieme. Fallicismo Lo stesso argomento in dettaglio: Simbolismo fallico. La sessualit romana, cos com' ripetutamente rappresentata in letteratura,  stata descritta come essenzialmente fallocentrica. Il "fallo" (simbologia del pene in erezione) doveva avere il potere di scacciare il malocchio ed altre forze soprannaturali malefiche;  stato utilizzato come amuleto dalle capacit "fascinatorie" (fascinus), di cui sopravvivono molti esempi in particolare sotto forma di tintinnabulum. Il fallo dalle dimensioni e dalla lunghezza esagerata  stato associato nell'arte romana col dio Priapo, divinit itifallica per eccellenza). La raccolta poetica di autori anonimi intitolata Carmina Priapea fa parlare direttamente il "dio dei giardini", che minaccia allegramente di stupro tramite sesso anale qualsiasi ladro potenziale e chiunque si azzardi ad oltrepassare i confini della casa quando non ben accetto dai padroni. La maledizione scagliata da Priapo pu causare sia l'impotenza che uno stato tormentoso di eccitazione perenne senza alcuna possibilit di remissione, il priapismo. Ci sono all'incirca 120 termini latini registrati per indicare metaforicamente l'organo sessuale maschile e nella stragrande maggioranza dei casi questi vengono a descrivere il sesso del maschio come uno strumento d'aggressione, quando non come una vera e propria arma. L'oscenit pi comune per chiamare il pene  "mentula", molto utilizzato da Marziale al posto di termini pi gentili o soft. Virga, come altre parole significanti ramo, asta, palo, trave erano metafore comuni, cos anche vomere o aratro. Castrazione e circoncisioneModifica Alcuni romani, bramosi di conservare il pi a lungo possibile la bellezza pre-adolescenziale e femminea dei propri schiavi (considerati e chiamati come deliciae o delicati-"giocattoli, delizie") a volte li facevano sottoporre poco dopo la pubert alla castrazione, cio all'asportazione dei testicoli nel tentativo di preservare l'aspetto androgino della loro giovinezza. L'imperatore Nerone aveva il suo castrato preferito di nome Sporo, che giunse fino al punto di sposarlo in una cerimonia pubblica. Effeminatezza e travestitismo Quella di effeminatezza era tra le accuse preferite rivolte agli avversari nel corso dell'invettiva politica; essa colpiva soprattutto coloro che difendevano le istanze dei populares, quella fazione politica i cui capi si presentavano come difensori del popolo (democratici), che si trovava perennemente in contrasto con gli ottimati, l'lite conservatrice nobiliare. Negli ultimi anni della repubblica varie personalit tra i populares sono state tacciate d'esser irrimediabilmente effeminate, oltre a Gaio Giulio Cesare anche Marco Antonio, Publio Clodio Pulcro e Lucio Sergio Catilina assieme a tutti i suoi amici cospiratori (vedi congiura di Catilina): venivano tutti derisi in quanto eccessivamente curati (ben vestiti e profumati) o perch giravano voci insistenti su loro trascorsi sessuali con altri uomini nei cui confronti avrebbero assunto il ruolo denigrato della femmina; allo stesso tempo per l'effeminato era anche il donnaiolo, il Don Giovanni impenitente in possesso di fascino e carisma superiori alla norma e che amava vestirsi elegantemente ed esser sempre profumato. Forse l'episodio pi celebre di crossdressingnell'antica Roma si  verificato quando il succitato Clodio Pulcro viol i riti annuali della Bona Dea e che erano riservati alle sole donne; essi si svolsero nella casa di Cesare, nell'epoca in cui questi si trovava quasi al termine del suo mandato di pretoree s'apprestava ad assumere l'investitura di pontefice massimo. Clodio si travest come una flautista per riuscire ad entrare, come viene descritto da Cicerone che lo addita come sacrilego Togli il suo vestito color zafferano, la sua tiara, le sue scarpette dai lacci viola, il suo reggiseno e il suo Salterio, togli il suo comportamento sfacciato e il suo crimine sessuale, ed ecco che allora Clodio si rivela improvvisamente come un democratico. Le azioni di Clodio, che era stato appena eletto questore ed era in procinto di compiere trent'anni, sono spesso state considerate come un ultimo scherzo giovanile. La natura tutta femminile di questi riti notturni ha attirato nel corso del tempo molta speculazione pruriginosa negli uomini; sono state fantasticate come enormi orge lesbiche compiute tra i fumi dell'alcol e che potevano pertanto anche essere molto divertenti da osservare. Clodio si suppone che avesse avuto lo scopo di sedurre la moglie di Cesare, ma la sua voce maschile lo ha smascherato prima di poter riuscire ad averne la possibilit. Lo scandalo ha spinto Cesare a cercare di ottenere un divorzio immediato per poter in tal maniera tenere sotto controllo i danni sopravvenuti alla propria reputazione, dando origine alla famosa frase divenuta proverbiale "la moglie di Cesare deve essere sopra di ogni sospetto." L'incidente ha riassunto comunque il disordine vigente durante gli ultimi anni della repubblica romana. L'ambiguit sessuale  poi una caratteristica peculiare dei sacerdoti della dea Cibele conosciuti come Galli, il cui abbigliamento rituale includeva capi femminile. Essi sono a volte considerati come una specie di sacerdozio transgender, in quanto veniva richiesto loro di sottoporsi ad auto-evirazione ad imitazione di Attis. La complessit dell'identit di genere nella religione di Cibele e Attis e nel relativo mito sono ben esplorate da Catullo in una delle sue poesie pi lunghe, il Carme .Rapporti omosessualiModifica mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Omosessualit nell'Antica Roma. Lato della Coppa Warren che mostra il "conquistatore erotico" del puer delicatus (ragazzino), incoronato. Gli uomini romani erano del tutto liberi di avere rapporti sessuali con maschi di status inferiore, senza per questo aver alcuna percezione di una qualche perdita di mascolinit; soltanto coloro che prendevano il ruolo passivo nel rapporto (a volte indicati come sottomessi) venivano fortemente denigrati come deboli e privi di virilit. I cittadini romani che erano solitamente contrassegnati come "maschile" potevano attuare la penetrazione sessuale di uomini sia verso coloro che esercitavano la prostituzione maschile che nei confronti degli schiavi i quali solitamente erano ragazzi sotto i vent'anni d'et. La letteratura comprende molte opere che parlano di omoerotismo; comprende le poesie di Catullo dedicate al suo ragazzino quattordicenne di nome Giovenzio, le elegie di Tibullo e Properzio, la seconda egloga delle Bucoliche di Virgilio e diverse poesie di Orazio. Lucrezio affronta il tema dell'amore provato nei confronti dei ragazzi nel suo De Rerum Natura . Sebbene OVIDIO (si veda) includa di trattare esempi mitologici di omoerotismo nelle sue Metamorfosi, egli risulta altres prendere al riguardo una posizione che  insolita fra i poeti d'amore latini, ed in effetti tra i Romani in generale, quando esprime opinioni aggressivamente eterosessuali. Il Satyricon di Petronio Arbitro  talmente permeato di erotismo culturale di tipo omosessuale che nei circoli letterari europei, il suo nome  diventato addirittura un sinonimo di omosessualit. Anche se il diritto romano non riconosceva il matrimonio tra uomini, nel periodo imperiale alcune coppie maschili celebrarono riti matrimoniali tradizionali. Tali forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che li deridono; i sentimenti dei partecipanti non sono registrati. Lo stupro sugli uominiModifica Gli uomini che erano stati violentati perdevano la legittimazione all'agire sociale, ne venivano esentati; acquisivano lo status di infamia, lo stesso degli uomini dediti alla prostituzione maschile o di quelli che assumevano volontariamente il ruolo passivo nell'atto sessuale. Secondo il giurista Pomponio, dopo che l'uomo  stato violentato con la forza dai ladri o dal nemico in tempo di guerra, dovrebbe sopportarne lo stigma. I timori di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare veniva esteso anche ai maschi oltre che alle potenziali vittime di sesso femminile. Il diritto romano ha affrontato lo stupro di un cittadino di sesso maschile gi nel II secolo a.C., quando venne emessa una sentenza riguardante una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale; anche se un uomo che aveva lavorato nell'ambito della prostituzione non poteva essere violentato per una questione di diritto,  stato stabilito difatti che anche un uomo poco raccomandabile e discutibile fosse in pieno possesso degli stessi diritti degli altri uomini liberi di non avere il proprio corpo sottoposto da una sessualit forzata. In un libro sull'arte della retorica lo stupro di un maschio nato libero (ingenuus)  equiparato a quello di una matrona ed in quanto ci trattarsi di un crimine capitale. La Leges Iuliae#Lex Iulia de vi publica et privata definisce lo stupro come il sesso forzato contro un ragazzo o una donna e lo stupratore era oggetto di esecuzione, una sanzione alquanto rara nel diritto romano. Costituiva inoltre un delitto capitale per un uomo rapire un bambino nato libero per utilizzarlo in scopi eminentemente sessuali; la corruzione del protettore del ragazzo per averne l'opportunit ne rappresentava un'aggravante: in questo caso la negligenza degli accompagnatori poteva essere perseguita sotto varie leggi, riversando patte della colpa su coloro che non erano riusciti nelle loro responsabilit come guardiani, piuttosto che sulla vittima. Anche se la legge riconosceva l'irreprensibilit della vittima, la retorica utilizzata dalla difesa indica che i cosiddetti "atteggiamenti colpevoli" avrebbeto potuto essere sfruttati fra i giurati. Nella sua collezione di codici aneddotici che si occupavano d assalti alla castit, lo storico Valerio Massimo dispone in egual misura di un numero di vittime di sesso maschile rispetto a quelle di sesso femminile. Sessualit militare. Il soldato romano, come ogni romano libero e rispettabile dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina in materia di sesso. Ai soldati colpevoli di adulterio veniva dato un congedo disonorevole, mentre agli adulteri condannati era impedito l'arruolamento, con condanne rigorose che potevano vietare le prostitute e i magnaccia dal campo, Anche se in generale l'esercito romano, sia in marcia che in un forte permanente (castra) mantenevano tra i partecipanti un numero di seguaci di campo che potevano includere anche le prostitute. La loro presenza sembra essere data per scontata e menzionata soprattutto quando poteva diventare un dato problematico; per esempio quando Scipione Emiliano stava partecipando all'assedio di Numanzia respinse i seguaci sessuali del campo come una delle sue misure per il ripristino della disciplina. Forse la cosa pi singolare  il divieto contro il matrimonio romano mentre si faceva parte degli effettivi dell'esercito imperiale. Nel suo primo periodo, Roma aveva un esercito di cittadini che avevano lasciato le proprie famiglie per prendere le armi, quando ve ne fosse stato bisogno. Durante l'espansionismo della media repubblica romana, Roma inizi ad acquisire vasti territori da difendere come le province (vedi la provincia romana), ma nel corso dell'epoca di Gaio Mario l'esercito era stato sempre pi professionalizzato. Il divieto di matrimonio per i soldati in servizio inizi sotto Augusto,forse per scoraggiare le famiglie al seguito dell'esercito e compromettendone cos la sua mobilit. Il divieto di matrimonio era applicato a tutti i ranghi fino a quello del centurione; mentre per gli uomini delle classi dirigenti c'era l'esenzione. Con il II secolo la stabilit dell'impero conosciuta come pax romana ha costretto la maggior parte delle unit a forti permanenze in terre lontane, cosicch si potevano spesso sviluppare rapporti anche con donne locali. Sebbene legalmente queste unioni non potevano essere formalizzate in matrimonio legittimo,  stato riconosciuto che il loro valore stava nel fornire un supporto emotivo. Dopo che un soldato fosse stato dimesso, alla coppia era concesso il diritto di matrimonio legale in quanto cittadini (il connubium) e tutti i bambini che gi eventualmente avevano veniva loro concesso lo status di esser nati cittadini. Settimio Severo revoc il divieto augusteo. Altre forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati erano l'uso di schiavi, gli stupri di guerra e la relazione tra persone dello stesso sesso. Il comportamento omosessuale tra i soldati  stato oggetto di sanzioni, compresa la pena la morte in quanto violazione della disciplina e del diritto militare. Polibio riferisce che l'attivit omosessuale all'interno delle forze armate era punita con la fustuarium, una fustigazione fino a morte. Il sesso tra commilitoni violava il decoro romano in quanto s'intratteneva un rapporto sessuale con un altro maschio nato libero. Un soldato aveva sopra ogni altra cosa il dovere di mantenere la propria mascolinit, non consentendo in nessun caso pertanto che il proprio corpo potesse essere utilizzato per scopi sessuali. Questa integrit fisica era in contrasto con i limiti imposti sulle sue azioni come uomo libero all'interno della gerarchia militare; pi sorprendentemente, i soldati romani erano i soli cittadini regolarmente sottoposti a punizioni corporali, riservate al mondo civile soprattutto agli schiavi. L'integrit sessuale ha contribuito a distinguere lo status del soldato, che altrimenti avrebbe sacrificato molto della sua autonomia civile rispetto a quella dello schiavo. Nella guerra, subire lo stupro equivaleva alla sconfitta, un altro motivo per il soldato di non compromettere il proprio corpo sessualmente. La sessualit femminile A causa dell'enfasi romana data alla famiglia, la sessualit femminile  stata considerata una delle basi per l'ordine sociale e la prosperit. Ci si aspettava che le donne romane esercitassero la propria sessualit all'interno del matrimonio, e venissero premiate per la loro integrit sessuale (pudicitia) e fecondit. Augusto concesse onori e privilegi speciali alle donne che avevano dato alla luce almeno tre bambini, attraverso lo Ius trium liberorum; la sua legge morale era incentrata sullo sfruttamento della sessualit delle donne. Il controllo della sessualit femminile era considerata necessaria per la stabilit dello Stato, tanto che era sancito nella forma pi vistosa data dalla verginitassoluta delle Vestali attendenti al sacro fuoco. Una vestale che avesse violato il proprio voto sarebbe stata sepolta viva in un rituale che avrebbe imitato per alcuni aspetti le pratiche funerarie romane ed il suo amante l'avrebbe seguita. La sessualit femminile, sia disordinata sia esemplare, spesso poteva avere impatti anche profondi sulla religione di Stato in tempo di crisi per la repubblica romana. Come avveniva per gli uomini, anche per le donne libere che si fossero esposte sessualmente, come prostitute od esecutrici di lenocinio, o che si fossero rese disponibili indiscriminatamente, sarebbero state escluse dalla protezione legale dovuta loro nonch dalla rispettabilit sociale. Molte fonti letterarie romane approvano le donne rispettabili che esercitano la passione esclusivamente all'interno dell'istituzione matrimoniale; mentre la letteratura antica prende con prepotenza una visione fortemente maschilista della sessualit, il poeta augusteo Publio Ovidio Nasone esprime invece un interesse esplicito e praticamente unico del modo in cui le donne subiscono il rapporto sessuale (ci innanzi tutto nellArs amatoria ma anche negli Amores). Il corpo femminileModifica Gli atteggiamenti morali nei confronti della nudit femminile differivano, almeno in parte, da quelli dei Greci, pur essendo notevolmente influenzati da loro; questi ultimi avevano idealizzato il corpo maschile nudo - il nudo eroico - mentre ritraggono sempre le donne rispettabili coperte. La parziale nudit delle de nell'arte imperiale romana, tuttavia, poteva mettere in evidenza il seno come parte fisica dignitosa, ma in quanto per renderne un'idea piacevole d'immagine di nutrimento, abbondanza e tranquillit. L'arte erotica sopravvissuta di questo periodo indica che le donne con seni piccoli e fianchi larghi raffiguravano l'ideale forma del corpo umano femminile. Dal I secolo d.C. l'arte romana comincia a mostrare un vasto interesse per il nudo artisticofemminile impegnato in varie attivit tra le quali anche la sessualit (vedi l'arte erotica a Pompei e Ercolano); l'arte pornografica rappresentante donne in qualit di presunte prostitute nel momento in cui svolgono atti sessuali poteva mostrare il seno coperto da uno "strophium" (una sorta di reggiseno) anche quando il resto del corpo era nudo. Nel mondo reale, cos come viene descritto in letteratura, le prostitute a volte si presentavano nude all'ingresso del cubicolo del bordello a loro riservato, oppure si mostravano indossare abiti di seta trasparente; gli schiavi (e schiave) in vendita sono stati spesso esposti nudi per consentire agli acquirenti d'ispezionare i loro eventuali difetti, ma anche per simboleggiare che non avevano il diritto di controllare il proprio corpo. Seneca il Vecchio descrive il momento della vendita di una donna: "lei si present nuda sulla riva, a piacere dell'acquirente: ogni parte del suo corpo  stato esaminato e ritenuto. Volete ascoltare il risultato della vendita? Il pirata ha venduto, il protettore ha comprato, che la si potesse impiegare come una prostituta. La visualizzazione del corpo femminile lo rendeva maggiormente vulnerabile, Varrone ha detto che la vista era il pi grande dei sensi, perch mentre gli altri sono in un modo o nell'altro limitati dalla vicinanza, la vista poteva penetrare anche fino all'altezza delle stelle; egli pensava che la parola latina per vista-lo sguardo intenso, "visus", fosse etimologicamente collegato a vis-forza/potere. Ma il legame tra visus e vis, continua, implica anche la possibilit sempre presente di violazione (tramite quindi lo sguardo maschile), come Atteone guardando nuda Diana ne aveva violato la divinit. Il corpo femminile completamente nudo come viene ritratto nella scultura romana  stato pensato essenzialmente per incarnare un concetto universale di Venere, la cui controparte greca Afrodite  la Deapi spesso dipinta in stato di nudit nell'arte greca. Genitali femminili Il termine basilare osceno per i genitali femminili  "cunnus"-fica, anche se forse non cos fortemente offensiva come per la moderna lingua anglosassone. Marziale utilizza la parola pi di trenta volte, Catullo una volta e Orazio tre solo nei suoi primi lavori; appare anche nei Priapea e nei graffiti. Una delle parole gergali usate dalle donne per i loro genitali era "porcus", in particolare quando donne mature discutevano di ragazze; Varrone collega quest'uso della parola al sacrificio di un maiale alla dea Cerere nel corso dei riti preliminari di nozze. Le metafore di campi, giardini e prati sono anch'esse comuni, come lo  l'immagine dell'aratro maschile riferito al solco femminile; altre metafore includono la grotta, la fossa, il sacchetto, il vaso, la stufa, il forno e l'altare. Anche se i genitali delle donne appaiono spesso nelle invettive e all'interno dei versi satirici come oggetti di disgusto, sono invero raramente presenti nell'elegia d'amore. OVIDIO (si veda), il pi eterosessuale dei poeti classici d'amore,  l'unico che si riferisce al dare un piacere alla donna attraverso la stimolazione dei genitali; Marziale invece scrive dei genitali femminili solamente in una maniera offensiva, descrivendo la vagina di una donna come fosse l'esofago di un pellicano. e la paragona inoltre al sedere del ragazzo come ricettacolo per il fallo. La funzione della clitoride ("landica")  stata ben compresa[135]; nel latino classico il termine era di un'oscenit altamente indecorosa ritrovato solo nei graffiti e nei Priapea. Il clitoride era solitamente indicato come una metafora, come ad esempio fa Giovenale quando lo chiama "crista" (cresta) Omosessualit femminile Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. Le parole greche indicanti una donna che preferisce il sesso con un'altra donna includono l'hetairistria (da confrontare con hetaira-cortigiana/compagna), tribas (plurale tribadi) e lesbia Sessualit e gioventModifica Sia i maschi che le femmine nati liberi potevano indossare la "Toga praetexta", una toga bianca normale con una larga striscia viola sui bordi; era riservata ai ragazzi cittadini che non avevano per ancora raggiunto la maggiore et. Questa toga assegnava chi la portava lo status di inviolabilit; lo stupro di un ragazzo nato libero costituiva un crimine capitale. Riti di passaggioModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sessualit  ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Sesso, matrimonio e societModifica Relazione padrone-schiavoModifica L'attrattiva sessuale era una delle caratteristiche principali richieste negli schiavi in quanto considerati propriet oggettiva, il loro padrone poteva utilizzarli sessualmente a piacimento o anche richiederli in prestito se appartenevano ad altri. Le lettere di Cicerone hanno suggerito ad alcuni studiosi che egli potesse aver avuto una relazione omosessuale a lungo termine col proprio schiavo, e poi liberto, di nome Marco Tullio Tirone. Prostituzione Lo stesso argomento in dettaglio: Prostituzione nell'antica Roma. Atti sessuali e relative posizioniModifica MasturbazioneModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della masturbazione. Ermafroditismo e androginiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ermafrodito, Afrodito e Androgino. NoteModifica ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge Verstraete and Vernon Provencal, introduzione a Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Per una pi estesa discussione su come la percezione moderna della decadenza sessuale romana sia stata prodotta ad arte dalla polemistica cristiana nei suoi strali anti-pagani, vedi Blanshard, "Roman Vice," in Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome (Cambridge Hlkeskamp, Reconstructing the Roman Republic: An Ancient Political Culture and Modern Research (Princeton Langlands, Sexual Morality, p.17. ^ Langlands, Sexual Morality, Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome", in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, Richlin, "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men", Journal of the History of Sexuality. Under the Empire, the emperor assumed the powers of the censors Foucault, Storia della sessualit vol. II: la cura di s (New York: Vintage (in contrasto con la visione cristiana della sessualit come "legata al male") et passim, e come viene sintetizzato da Inger Furseth and Pl Repstad, An Introduction to the Sociology of Religion: Classical and Contemporary Perspectives (Ashgate, Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico (Yale, originariamente in italiano Langlands, Sexual Morality, Cantarella, Bisessualit nel mondo antico, Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art (California Press, Langlands, Sexual Morality; Clarke, Looking at Lovemaking, McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World (University of Michigan Press, 2004), p. 164. ^ Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, Nussbaum, "The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman", in The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome (University of Chicago Skinner, introduction to Roman Sexualities (Princeton Langlands, Sexual Morality, Edwards, The Politics of Immorality, Clarke, Looking at Lovemaking, p. 8, sostiene che gli antichi romani "non hanno un'idea consapevole della loro sessualit". Vedi anche Diana M. Swancutt, "Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity and the Roman Invention of the tribas", in Mapping Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, e la discussione di costruttivismo sociale contrario all'essenzialismo di Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome", in The Roman Cultural Revolution (Cambridge Clarke, Looking at Lovemaking, Richlin, "Sexuality in the Roman Empire", in A Companion to the Roman Empire (Blackwell, Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," Ovid, Tristia Griffin, "Propertius and Antony", Journal of Roman Studies Ovid, Tristia Hofmann, Latin Fiction: The Latin Novel in Context (Routledge, Plutarco, Vita di Crasso Clarke, Looking at Lovemaking, p. 3 et passim. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, La "Tabella" era un piccolo dipinto portatile, distinto dalla pittura murale permanente. ^ Ovidio, Tristia 2, cos com' citato da Clarke in Looking at Lovemaking, Clarke, Looking at Lovemaking, Clarke, Looking at Lovemaking, quotation. L'osservazione critica proviene da Svetonio, Vita di Orazio: Ad res Venerias intemperantior traditur; nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque respexisset ibi ei imago coitus referretur; Clarke, Looking at Lovemaking, Svetonio, Vita di Tiberio Clarke, Looking at Lovemaking, Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," Richlin, "Sexuality in the Roman Empire, Ad esempio, Agatha of Sicily e Febronia of Nisibis; Sebastian P. Brock and Susan Ashbrook Harvey, introduction to Holy Women of the Syrian Orient (University of California Harvey, "Women in Early Byzantine Hagiography: Reversing the Story," in That Gentle Strength: Historical Perspectives on Women in Christianity (University Press of Virginia,. I racconti di mutilazione del seno si trovano nelle fonti e nell'iconografia cristiana, non nell'arte e nella letteratura romana.. ^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire, Anche se non vi sono dubbi sul fatto che Ausonio fosse un cristiano, le sue opere contengono molte indicazioni che dimostrano un notevole interesse - forse addirittura ne  stato un praticante - nei riguardi delle religioni tradizionali romane e celtiche. Come sostenuto da Ariadne Staples in tutto il suo From Good Goddess to Vestal Virgins: Sex and Category in Roman Religion (Routledge, Schultz, Women's Religious Activity in the Roman Republic (University of North Carolina Lipka, Roman Gods: A Conceptual Approach (Brill, See Flamen Dialis and rex sacrorum. Beard, North, and Price, Religions of Rome: A History (Cambridge Wildfang, Rome's Vestal Virgins: A Study of Rome's Vestal Priestesses in the Late Republic and Early Empire (Routledge, Staples, From Good Goddess to Vestal Virgins, CICERONE (si veda), De officiis: nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium reipublicae; MacCormack, "Sin, Citizenship, and the Salvation of Souls: The Impact of Christian Priorities on Late-Roman and Post-Roman Society," Comparative Studies in Society and History Com' espresso nella prima invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro nel De rerum natura: "Begetter (genetrix) of the line of Aeneas, the pleasure (voluptas) of human and divine." ^ J. Rufus Fears, "The Theology of Victory at Rome: Approaches and Problem," Aufstieg und Niedergang der rmischen Welt. Silla poteva in quel momento essere o meno stato un ugure. Williams, Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity (Oxford Henig, Religion in Roman Britain(London: Batsford, PLINIO (si veda), Naturalis historia, dice che quando un generale celebrava un trionfo, le Vestali appendevano l'effigie del Fascinus nella parte inferiore del suo carro per proteggerlo dall'invidia. Turcan, The Gods of Ancient Rome (Routledge; originally published in French; Rpke, Religion in Republican Rome: Rationalization and Ritual Change (University of Pennsylvania Iter amoris, "journey" or "course of love". See Propertius; Ovidio, Fasti;George, "The 'Dark Side' of the Toga," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture, Toronto; Palmer, "Mutinus Titinus: A Study in Etrusco-Roman Religion and Topography," in Roman Religion and Roman Empire, Pennsylvania, ha sostenuto che quello di Mutunus Tutunus fosse un sotto-culto di quello che era dedicato a Libero; Agostino di Ippona, De civitate Dei, ha detto che un fallo era un oggetto divino utilizzato durante la Liberalia per respingere le influenze malevoli dalle colture. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, Langlands, Sexual Morality, Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press,, citing Festus (87 in the edition of Mller) parlando della torcia, rileva che le sacerdotesse devote e dedicate al culto di Cerere nelle province romane nordafricane fanno voto di castit come avviene tra le Vestali (Tertulliano, Ad uxorem 1.6 Oehler). Ovidio nota che Cerere  soddisfatta anche da piccole offerte, purch siano caste (Fasti). Statius dice che Cerere stessa  casta (Silvae). La preoccupazione di associare la dea con la "castitas" pu avere a che fare con la sua funzione di tutelare i passaggi oltre i confini, compresa quindi anche la transizione tra la vita e la morte, come avviene nelle religioni misteriche. Brouwer, Bona Dea: The Sources and a Description of the Cult (Brill; Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus; Rasmussen, Public Portents in Republican Rome (L'Erma di Bretschneider, Wildfang, Rome's Vestal Virgins, Crassus's nomen was Licinius; the Vestal's name was Licinia (see Roman naming conventions). His reputation for greed and sharp business dealings helped save him; he objected that he had spent time with Licinia to obtain some real estate she owned. For sources, see Alexander, Trials in the Late Roman Republic (Toronto; Plutarch, Life of Crassus, implies that the prosecution was motivated by political utility. One or more Vestals were also brought before the College of Pontiffs for incestum in connection with the Catiline Conspiracy (Alexander, Trials, The sources on this notorious incident are numerous; Brouwer, Bona Dea, p. 144ff., gathers the ancient accounts. Frier and McGinn, A Casebook on Roman Family Law, Oxford Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford Stuprum cum vi or per vim stuprum: Richlin, "Not before Homosexuality, For instance, in the mid-3rd century BC, Naevius uses the word stuprum in his Bellum Punicum for the military disgrace of desertion or cowardice; Elaine Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties," p. Moses, "LIVIO (si veda)s Lucretia and the Validity of Coerced Consent in Roman Law," in Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies (Dunbarton; Gillian Clark, Women in Late Antiquity: Pagan and Christian Life-styles (Oxford Moses, "Livy's Lucretia, Gillespie and Hardie, introduction to The Cambridge Companion to LUCREZIO (si veda) (Cambridge). A scholiast gives an example of an unnatural and unnecessary desire as acquiring crowns and setting up statues for oneself; see J.M. Rist, Epicurus: An Introduction (Cambridge Hardie, "Lucretius and Later Latin Literature in Antiquity," in The Cambridge Companion to LUCREZIO (si veda); McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford. See the statement preserved by Aulus Gellius that " it was an injustice to bring force to bear against the body of those who are free" (vim in corpus liberum non aecum adferri). Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and Statius' Thebiad," Arachnion; Bell, "Cicero and the Spectacle of Power," Journal of Roman Studies Ramage, Aspects of Propaganda in the De bello gallico: Caesars Virtues and Attributes, Athenaeum Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic (Cambridge); Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge, Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, p. xi; Skinner, introduction to Roman Sexualities, Richlin, The Garden of Priapus, Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, Edwards, "Unspeakable Professions, Aulus Gellius; Williams, Roman Homosexuality, Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire.The law began to specify harsher punishments for the lower classes (humiliores) than for the elite (honestiores). ^ This is a theme throughout Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton Heskel, "Cicero as Evidence for Attitudes to Dress in the Late Republic," in The World of Roman Costume (University of Wisconsin Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," in American Journal of Archaeology Ovid, Fasti Newlands, Playing with Time: Ovid and the Fasti (Cornell Williams, Roman Homosexuality, Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus (Michigan; Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, Plutarch, Life of Cato 20.5; Williams, Roman Homosexuality, Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus, p. 6. ^ Fino alla tarda Repubblica, un bagno di casa probabilmente offerto le donne un'ala o struttura separata, o ha avuto un programma che permetteva alle donne e agli uomini di fare il bagno in tempi diversi. Dalla tarda Repubblica fino alla prevalenza del cristianesimo nel tardo impero, non vi  una chiara evidenza di balneazione mista. Alcuni studiosi hanno pensato che solo le donne delle classi inferiori si bagnassero con gli uomini, o le prostitute che erano infames, ma Clemente di Alessandria ha osservato che le donne delle pi alte classi sociali potevano essere viste nude ai bagni. Adriano vietata la balneazione mista, ma il divieto non sembra fosse rigorosamente rispettato. In breve, i costumi variavano non solo nel tempo e nei luoghi, ma anche rispetto alla struttura sociale predominante; vedi Garrett G. Fagan, Bathing in Public in the Roman World (University of Michigan Clarke, Looking at Lovemaking, p. 84; David J. Mattingly, Imperialism, Power, and Identity: Experiencing the Roman Empire (Princeton Richlin, "Pliny's Brassiere," in Roman Sexualities, Mattingly, Imperialism, Power, and Identity, Williams, Roman Homosexuality, citing Suetonius, Life of Nero. ^ Edwards, The Politics of Immorality, Edwards, Politics of Immorality, The case, which nearly shipwrecked Clodius's political career, is discussed at length by his biographer, Tatum, The Patrician Tribune: Publius Clodius Pulcher, North Carolina; Clodius, a crocota, a mitra, a muliebribus soleis purpureisque fasceolis, a strophio, a psalterio, a flagitio, a stupro est factus repente popularis: Cicero, the speech De Haruspicium Responso, given a Lacanian analysis by Leach, Gendering Clodius, Classical World Williams, Roman Homosexuality, Edwards, The Politics of Immorality see also Tatum, Always I Am Caesar (Blackwell Murray, Homosexualities (University of Chicago Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford See also "Hermaphroditism and androgyny" below. ^ Williams, Roman Homosexuality, Catullo, Carmina Tibullus, Book One, elegies Propertius McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, Potter, "The Roman Army and Navy," in The Cambridge Companion to the Roman Republic, Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford; Phang, The Marriage of Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial Army (Brill, Phang, The Marriage of Roman Soldiers Il [[De Bello Hispaniensi|]], circa la guerra civile di Cesare sul fronte della Spagna romana, parla di un ufficiale che ha una concubina di sesso maschile (concubinus) che si porta appresso. Polibio, Storie (translated as bastinado). Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge See also "Master-slave relations. Phang, Roman Military Service, Roman law recognized that a soldier was vulnerable to rape by the enemy: Digest, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality, Severy, Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire (Routledge, 2003), p. 39. ^ Hans-Friedrich Mueller, Roman Religion in Valerius Maximus (Routledge; Langlands, Sexual Morality; See further discussion at Pleasure and infamy below. Clarke, Looking at Lovemaking, Gibson, Ars Amatoria (Cambridge Cohen, "Divesting the Female Breast; Cameron, The Last Pagans, p. 725; Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," passim. See discussion of the iconography of breastsfollowing. Olson, "The Appearance of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture (University of Toronto Clarke, Looking at Lovemaking, Clarke, "Look Who's Laughing at Sex," in The Roman Gaze, Blanshard, Sex: Vice and Love from Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, Harper, Slavery in the Late Roman Mediterranean, Cambridge Seneca, Controversia VARRONE (si veda), De lingua latina, citing a fragment from the Latin tragedian Accius on Actaeon that plays with the verb video, videre, visum, "see," and its presumed connection to vis (ablative vi, "by force") and violare, "to violate": "He who saw what should not be seen violated that with his eyes" (Cum illud oculis violavit is, qui invidit invidendum); David Frederic, "Invisible Rome," in The Roman Gaze. Ancient etymology was not a matter of scientific linguistics, but of associative interpretation based on similarity of sound and implications of theology and philosophy; see Davide Del Bello, Forgotten Paths: Etymology and the Allegorical Mindset (Catholic University of America Clement of Alexandria, Protrepticus; Allison R. Sharrock, "Looking at Looking: Can You Resist a Reading?" in The Roman Gaze; Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Adams, The Latin Sexual Vocabulary; VARRONE (si veda), On Agriculture; Hersch, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity (Cambridge Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press, Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Adams, The Latin Sexual Vocabulary; Richlin, The Garden of Priapus. Throughout the Ars Amatoria ("Art of Love"); Gibson, Ars Amatoria Martial, Epigrams: tam laxa ... quam turpe guttur onocrotali; Richlin, The Garden of Priapus, Richlin, The Garden of Priapus, Clarke, Looking at Lovemaking, Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Juvenal; Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Il bordo viola appare anche sulle toghe dei magistrati tra le cui funzioni vi  anche quella di presiedere ai sacrifici; era inoltre la toga indossata da un figlio in lutto dopo aver effettuato i riti funebri, ed infine lo stesso colore appariva sui veli delle Vestali; Judith Lynn Sebesta, "Women's Costume and Feminine Civic Morality in Augustan Rome," Gender et History and "Symbolism in the Costume of the Roman Woman; Adams, J.N. The Latin Sexual Vocabulary. Johns Hopkins Brown, Robert D. Lucretius on Love and Sex. Brill; Cantarella, Eva. Bisexuality in the Ancient World. Yale Clarke, John R. Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art University of California Edwards, Catharine. The Politics of Immorality in Ancient Rome. Cambridge; Fantham, Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in Republican Rome." In Roman Readings: Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian. Gruyter, Frederic, David, ed. The Roman Gaze: Vision, Power, and the Body. Johns Hopkins Gaca, Kathy L. The Making of Fornication: Eros, Ethics and Political Reform in Greek Philosophy and Early Christianity. University of California Gardner, Women in Roman Law and Society. Indiana Hallett, Judith P., and Skinner, Marilyn, eds. Roman Sexualities. Princeton Hubbard, Thomas K. Homosexuality in Greece and Rome: A Sourcebook of Basic Documents. University of California Langlands, Rebecca. Sexual Morality in Ancient Rome. Cambridge McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome. Oxford; McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World. Michigan Press, Nussbaum, The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman." In The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome. University of Chicago Phang, The Marriage of Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial Army. Brill, Richlin, Amy. "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men." Journal of the History of Sexuality Richlin, Amy. The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor. Oxford; Verstraete and Provencal, Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition. Haworth, Williams, Craig A. Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. Oxford Younger, Sex in the Ancient World from A to Z. Routledge; Ancona, Ronnie, and Greene, Ellen eds. Gender Dynamics in Latin Love Poetry. Johns Hopkins University Press, Skinner, Marilyn. Sexuality in Greek And Roman Culture. Blackwell Publishing. Voci correlateModifica Arte erotica a Pompei e Ercolano Omosessualit nell'Antica Roma Sessualit nell'antica Grecia Storia della sessualit umana. Portale Antica Roma Portale Erotismo. Baraldini Omosessualit nell'antica Roma Irrumatio tipo di pratica del sesso orale Lex Scantinia Wikipedia Il contenuto Omosessualit nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli atteggiamenti sociali nei confronti dell'omosessualit nell'antica Roma e i comportamenti relativi differiscono - spesso in una maniera assai notevole - da quelli assunti della contemporanea civilt occidentale e presenti in essa; il tema deve pertanto essere affrontato necessariamente attraverso la visione del mondo e della sessualit tipica della maggioranza delle societ antiche, molto diversa da quella moderna. Graffito in versi proveniente da Pompei antica. Lo scrivente, bruciato dalle fiamme d'amore, incita il mulattiere a smetterla di bere e a pungolare semmai i muli per arrivare prima a casa, dove un bel ragazzo, di cui egli  innamorato, lo attende (l ove l'amore  dolce). Il ruolo passivo come discriminante moraleModifica Per le antiche civilt precristiane intrise di paganesimo, soprattutto per quelle del mondo classico (antica Grecia e antica Roma), non esisteva un'autentica differenziazione individuale basata sull'orientamento sessuale o di identit di genere. Piuttosto, questa esisteva in base al ruolo assunto all'interno del rapporto sessuale: l'identificazione e le leggi che regolavano le relazioni e le varie pratiche amorose non si fondavano sull'oggetto del desiderio (una persona dello stesso sesso o di quello opposto), ma la discriminante era bens data dal fatto che quella persona ricoprisse un ruolo attivo e associato quindi alla virilit e alla mascolinit, oppure uno passivo, generalmente considerato come estremamente degradante e tipico della femminilit (era dato cio dall'atto che poteva essere dominante o sottomesso, come viene indicato anche nell'uso dei termini catamite e irrumatio). Agli antichi romani era peraltro completamente sconosciuta anche la dicotomia del concetto moderno tra un'esclusiva omosessualit e un'altrettanto esclusiva eterosessualit, proprio per il fatto che l'identificazione sessuale avveniva per lo pi in base al ruolo svolto durante l'atto intimo (vedi attivo e passivo nel sesso); la stessa lingua latina manca di parole traducibili con eterosessuale o omosessuale come un'identit consapevole di chi prova attrazione solo nei confronti di persone dell'altro o del proprio stesso sesso. Antinoo, il giovane di cui s'innamor l'imperatore romanodel II secolo Publio Elio Traiano Adriano. Quando l'amato mor, Adriano ne fece letteralmente un dio, innalzandogli decine di statue in tutto l'impero. La societ romana seguiva i dettami del patriarcato, un sistema impregnato da forti connotazioni di maschilismo; per i maschi adulti ingenui, quelli che possedevano cio a tutti gli effetti la cittadinanza romana (la Libertas-libert politica e il diritto di governare s stessi e la propria familia con l'autorit derivante dal pater familias), la Virtus  stata sempre intesa come una delle qualit attive per eccellenza e attraverso la quale l'uomo-vir si viene maggiormente a definire. Gli uomini erano liberi d'intrattenere rapporti sessuali con altri maschi senza alcuna percezione di perdita di virilit o di status sociale, fintanto e a condizione che avessero assunto la posizione di comando (sessualmente penetrativa). Il ruolo attivo come segno di virilit Modifica La mentalit di conquista e il culto della virilit formano nel corso del tempo anche le relazioni omoerotiche; la pratica omosessuale a Roma si afferma molto presto come rapporto di dominazione, ad esempio del cittadino sopra lo schiavo, il tutto a conferma della decisa virilit mascolina dell'uomo romano; la schiavit nell'antica Roma contemplava difatti anche una decisiva sudditanza sessuale nei confronti di chi deteneva il potere sopra altre persone. L'ideale romano di mascolinit funge in tal modo da premessa all'assunzione di un ruolo attivo sempre e comunque, preso e innalzato a valore supremo: ci costituiva "la prima direttiva del comportamento sessuale maschile per i Romani. Partner maschili accettabili erano sia gli schiavi sia tutti coloro che si dedicavano alla prostituzione maschile ma anche quelli il cui stile di vita li immetteva nel nebuloso campo sociale dell'infamia, gli esclusi dalle normali protezioni accordate a ogni cittadino, questo anche se fossero stati tecnicamente liberi. Pur preferendo nella generalit dei casi la pederastia(compagnia intima con giovani di et compresa tra i 12 e i 20 anni), con i minori di sesso maschile nati liberi agli uomini adulti era rigorosamente proibito qualsivoglia tipo di approccio, mentre i prostituti di professione e gli schiavi potevano essere anche molto pi vecchi[4]. Omosessualit femminileModifica Le relazioni omosessuali tra le donne sono meno documentate. Anche se le donne nell'antica Romaappartenenti alle classi pi alte (come le matrone) erano solitamente istruite e vi sono esempi noti di scrittura poetica e vaste corrispondenze con parenti di sesso maschile, molto poco e frammentario  ci che  sopravvissuto rispetto a quello che potrebbe essere stato effettivamente scritto da mani femminili. Gli scrittori maschi hanno mostrato ben poco interesse al modo in cui le donne hanno sperimentato e vissuto la sessualit in generale; il poeta latino dell'era augustea (vedi Storia della letteratura latina Publio Ovidio Nasone risulta qui un'eccezione, dimostrandosi particolarmente acuto e sensibile al riguardo; ma egli  anche uno dei pi strenui sostenitori di uno stile di vita fortemente improntato all'amore verso le donne e in opposizione alle norme sessuali romane alternative a esso. Durante la repubblica romana e nel corso dell'epoca costituita dal principato e dall'inizio dell'alto impero romano assai poco viene registrato riguardo a relazioni sentimentali tra donne, mentre prove migliori e di pi ampio genere sussistono, anche se variamente disperse, per il successivo periodo del tardo impero romano e della tarda antichit. Excursus storicoModifica Quando si parla di omosessualit nella romanit antica bisogna necessariamente distinguere almeno tre grandi periodizzazioni storiche, in cui spesso cambia la concezione e la visione e accettazione stessa dei rapporti omosessuali: il periodo dell'Et regia di Roma e quello repubblicano antecedente al 146 a.C. (Grecia romana); il periodo repubblicano successivo alla conquista della Grecia fino all'Alto Impero romano; infine il periodo del basso Impero. Busto antico romano di ignoto adolescente, conservato all'Ermitage di San Pietroburgo e datato al II secolo d.C. Periodo antecedente la conquista della Grecia Lo stesso argomento in dettaglio: Vizio greco (antica Roma). Nel periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali erano osteggiati e visti con sospetto. I Romani identificavano infatti il rapporto tra persone dello stesso sesso come il vizio greco, sostenendo che nei loro antenati non esistesse l'omosessualit, ritenuta un'offesa al costume degli avi (il famoso mos maiorum), contraria al rigore del "civis Romanus" e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della societ romana stessa. La libert politica di un cittadino  stata definita in parte dal diritto di preservare il proprio corpo da qualsivoglia costrizione fisica, comprendente pertanto sia la punizione corporale sia l'abuso sessuale; il sentimento di mascolinit era la premessa imprescindibile della capacit di governare sia s stessi sia altre persone di status inferiore e la Virtus, come gi sottolineato,  il valore che rende l'uomo pi pienamente uomo: la virt attiva per eccellenza, quindi. Periodo successivo alla conquista della Grecia e Alto ImperoModifica Con la conquista della Grecia, assieme alla cultura della Grecia classica, Roma assorbe anche molte usanze, tra cui il cosiddetto "amore greco". Ma i civesromani praticavano l'omosessualit solamente con gli schiavi e con i liberti. Era deprecabile che un cittadino assumesse il ruolo passivo in un rapporto omosessuale, perch questo era in conflitto con una certa ideologia virile e dominatrice presente in tutta la societ romana. La conquista sessuale diviene presto metaforacomune, utilizzata spesso nell'arte retorica romana pi favorevole all'imperialismo[9], e la mentalit da conquistatori, inerente anche alla sfera della sessualit nell'antica Roma, faceva parte di un culto generico della virilit il quale poteva condurre anche a particolari forme di pratiche omosessuali tra gli uomini. Gli studiosi contemporanei tendono pertanto a vedere le espressioni inerenti alla sessualit maschile umana all'interno della civilt romana in termini di opposizione binaria nel modello penetratore-penetrato; cio l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione sessuale era quello di inserire il suo pene nel/nella partner: permettere di lasciarsi penetrare avrebbe invece minacciato la propria libert come cittadino, oltre che la sua intrinseca integrit sessuale. Il ruolo passivo indicante sottomissione era sommamente disprezzato e visto come sintomo di mollezza, di rinuncia alla virilit e perci deprecabile e vergognoso, specialmente se era un cittadino romano a ricoprirlo. Ci si aspettava ed era socialmente accettabile per un uomo romano nato libero di voler consumare esperienze sessuali con entrambi i tipi di partner, sia maschili sia femminili, l'importante era mantenere un ruolo dominante[13]. La moralit del comportamento dipendeva poi anche dalla posizione sociale del partner, indipendentemente dal fatto che fosse un uomo o una donna; le donne e i giovani uomini sono stati entrambi considerati normali oggetti del desiderio, ma fintanto che si manteneva al di fuori del vincolo matrimoniale un uomo avrebbe dovuto cercare di soddisfare i propri desideri solo con schiavi, prostitute (che spesso erano schiave o ex-schiave anch'esse) e gli infames (i succitati sottoposti a infamia). Il sesso di un partner non determinava se questa relazione fosse accettabile o meno, sempre per a patto che il godimento di un uomo non usurpasse l'integrit di un altro uomo: era altamente immorale ad esempio avere una relazione con la moglie di un altro uomo nato libero, con una ragazza in et da marito o con un ragazzo minorenne di buona famiglia, o con lo stesso cittadino libero adulto; mentre l'uso sessuale degli schiavi di un altro uomo doveva sottostare al permesso del proprietario. La mancanza di autocontrollo, anche nell'ambito della gestione della propria vita sessuale, indicava platealmente che quell'uomo era del tutto incapace di governare gli altri; troppa indulgenza nei confronti dei "bassi piaceri sensuali" minacciava di erodere l'identit del maschio dell'lite nella sua qualit di persona istruita (quindi migliore e destinata a governare). Particolare della tomba-monumento di un giovane che mostra un antico ragazzo romano con indosso una bulla, l'amuletopensato per proteggere un bambino nato libero da influenze sovrannaturali malevoli e lo segnava come sessualmente indisponibile/intoccabile. La Lex Scantinia condanna espressamente l'uomo nel caso di rapporti omosessuali tra un adulto e un puer o praetextati (da praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi che non avevano ancora raggiunto l'et della piena maturit sessuale (fino ai 15-17 anni)), mentre nel caso di rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva punito quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva ammontare fino a 10.000 sesterzi. La Lex Scantinia, di cui non ci  pervenuto il testo ma che abbiamo solamente attraverso citazioni tratte dagli scritti del filosofo Marco Tullio Cicerone, di Decimo Magno Ausonio, dello storico Gaio Svetonio Tranquillo, del poeta Decimo Giunio Giovenale e infine da parte degli autori cristiani Tertulliano e Prudenzio,  un'importante testimonianza a dimostrazione del fatto che l'omosessualit veniva praticata in tutti gli ambienti sociali. Stele funebre dell'adolescente Philetos, del demo di Aixone che indossa la toga. Esposta nel cortile interno coperto del "Museo archeologico del Ceramico" ad Atene. In et imperiale, le ansie circa la perdita della libert politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore si sono espresse nella percezione di un aumento del volontario comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato da una crescita documentata nell'esecuzione di punizioni corporali sui cittadini. La dissoluzione degli ideali repubblicani di integrit fisica in relazione alla "libertas" contribuisce alla licenza sessuale e si riflette nella decadenza associata con l'impero. A ogni modo, analizzando i testi e i poemi degli scrittori antichi, non si pu fare a meno di notare alcune contraddizioni, almeno dal punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualit: se da una parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta omoerotiche, vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi e liberti (in molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo, o addirittura dando consigli su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo); dall'altra altri scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento, contro chi si macchia di effeminatezza (gli uomini che ricoprono il ruolo passivo nei rapporti omosessuali maschili) soprattutto se cittadini romani, scherniti e derisi quando non violentemente attaccati come causa di decadimento sociale (lo stesso Catullo nei Carmina). Questa apparente contraddizione  in un certo senso giustificata dalla visione che della societ avevano i romani, tipicamente e prettamente maschilista, dove il ruolo attivo in un rapporto sessuale, sia con donne sia con uomini, era sintomo di virilit e veniva esaltato, in rapporto anche alla superiorit della Gens Romana sopra gli altri popoli, destinata quindi a dominarli anche sessualmente. Statua di Giulio Cesare, esempio di nudo eroico. Anche molti uomini illustri tra i pi noti e stimati, uno fra tutti Gaio GIULIO (si veda) Cesare - membro autorevole della Gens Giulia e capostipite della dinastia giulio-claudia - provavano una forte attrazione nei confronti di persone dello stesso sesso: l'omosessualit, o meglio la bisessualit, di Cesare  ben testimoniata da Cicerone secondo cui egli era "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti". I suoi gusti nella sfera sessuale furono spesso motivo di pettegolezzo e canzonatura da parte sia dei detrattori sia degli stessi soldati a lui sottoposti; Plutarco e Svetonio narrano approfonditamente della sua relazione omoerotica avuta in giovent con l'ultimo sovrano del regno di Bitinia Nicomede IV; non vi fu nemico o personaggio pubblico che non cogliesse l'occasione, anche a distanza di anni, per fare della maldicenza a proposito dei rapporti particolari intercorsi fra il giovane Cesare e il re. Cesare veniva di volta in volta definito "rivale della regina di Bitinia", "stalla di Nicomede", "bordello di Bitinia". Marco Campurnio Bibulo, collega di Cesare nel consolato, riprendendo la vecchia accusa che lo dipingeva come regina di Bitinia, per attaccare la sfrenata ambizione di Cesare che manifestava tendenze monarchiche afferm: "Questa regina, una volta aveva voluto un re, ora vuole un regno". I legionari, il giorno del trionfo di Cesare sui Galli, seguendo il costume che consentiva ai soldati di indirizzare il giorno del trionfo versi piccanti e scurrili al proprio comandante, intonarono un canto che suonava pi o meno cos. Gallias Caesar subegit, Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem. (Svetonio, Vita di Cesare.) Lo stesso Cicerone, riferendosi ai fatti di Bitinia, scriveva nelle sue lettere che con Nicomede Cesare ha perso il fiore della giovinezza e un giorno, in Senato, durante una seduta in cui Cesare per perorare la causa di Nisa, figlia di Nicomede, ricorda i benefici ricevuti da quel re, Cicerone pubblicamente lo interruppe esclamando. Lascia perdere questi argomenti, ti prego, poich nessuno ignora che cosa egli ha dato a te e ci che tu hai dato a lui. Gaio Valerio Catullo ebbe a sostenere che Cesare e il suo ufficiale Mamurra durante la campagna di Galliaavessero avuto una relazione, ma pi tardi si scus: in quest'episodio Cesare dimostr tutta la sua clementia, concedendo al poeta il suo perdono e lasciandogli frequentare la sua domus. Marco Antonio, infine, insinu, nel tentativo di diffamare il suo avversario durante la guerra civile, che Cesare avesse avuto un rapporto anche con il nipote Ottaviano, e che la causa della sua adozione fosse stata proprio la loro relazione amorosa. Ottaviano Augusto da giovinetto. Omoerotismo tra gli imperatoriModifica D'altra parte, tra i primi imperatori romani tutti (tranne Claudio) ebbero predisposizione ad abituali e ripetute esperienze omoerotiche: dopo Cesare, soprannominato con dileggio la "Regina di Bitinia" e la "moglie di tutti i mariti"; Augusto, il quale quand'era chiamato ancora solo Ottaviano veniva additato con disprezzo dai detrattori col nome di Ottavia: Marco Antonio ebbe modo in seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato la sua adozione da parte di Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre dire che Svetonio descrive l'accusa rivoltagli da Antonio come pura calunnia politica. Dopo che Marco Favonio fu catturato e giustiziato a seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquist uno dei suoi schiavi, un certo Sarmento, quando tutte le propriet del nemico sconfitto vennero messe in vendita:  stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello stesso futuro imperatore. Quinto Dellio dir in seguito a Cleopatra che, mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino acido da Antonio, Ottaviano si stava gustando il "catamite Falerno" a Roma. Busto di Tiberio. Tiberio a Capri predilige i ragazzini appena puberi raccolti tra i figli della comunit locale e li chiamava i suoi "pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina o intrattenevano rapporti sessuali tra di loro;  sempre Svetonio a dirci, forse volutamente esagerando (tanto da fargli commentare: "si rese colpevole anche di azioni ancora pi turpi e infamanti, che a mala pena si possono riferire e ascoltare, o addirittura credere"), che l'anziano imperatore avesse addestrato dei fanciulli in tenerissima et per andare in seguito a vivere con lui nella residenza di Villa Jovis, li invitava poi a scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a risvegliare i suoi sensi con baci e morsi. Nelle ville capresi infine, le orge sarebbero state all'ordine del giorno e si sarebbero svolte davanti a una collezione di dipinti erotici di arte greca da prendere a modello. Caligola era bisessuale e incestuoso; Neronesottopose a castrazione il suo schiavo adolescente Sporo per poi incoronarlo come propria sposa reale, ma spos anche un uomo di nome Pitagora. Anche i successivi imperatori pare non fossero immuni dall'amore tutto maschile: Servio Sulpicio Galba, che amava gli uomini grandi e grossi; Vitellio, soprannominato spintria ("marchetta") per esser stato tra i favoriti di Tiberio quando si trova alla sua corte a Capri; Domiziano, accusato dagli avversari di essersi prostituito per far carriera al pretore Clodio Pollione e poi per interesse al predecessore Marco Cocceio Nerva, fu accusato anche di mollezza e di essere un dissoluto. Ebbe varie relazioni con uomini, come del resto anche il fratello Tito: il grande amore provato nei confronti dell'eunuco Flavio Earino, suo schiavo affrancato, fu celebrato sia da Stazio sia da Marco Valerio Marziale. Traiano era noto per la sua predilezione nei confronti dei bei ragazzi; Publio Elio Traiano Adriano fece diventare il suo giovane amante Antinoo dopo la morte niente meno che un dio, innalzandolo in apoteosi; Eliogabalo a 18 anni promise met dell'impero a chi fosse riuscito a dotarlo di genitali femminili per poter cos diventare una donna a tutti gli effetti, scandalizzando l'intera Roma che lo vide sposarsi con un auriga, un certo Ierocle di Smirne. I busti di Adriano e Antinoo al British Museum. Adriano e AntinooModifica Il caso riguardante la relazione d'amore tra Adriano e Antinoo  particolarmente significativo; l'imperatore ebbe per anni come suo amasio preferito questo giovinetto di origini greche (che molto probabilmente non era uno schiavo) proveniente dalla Bitinia. Dopo la sua morte, avvenuta in circostanze rimaste in parte oscure, Adriano innalz in apoteosi l'amato Antinoo e fond un culto organizzato dedicato alla sua persona che si diffuse presto a macchia d'olio in tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il proprio diletto, fond la citt di Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo dove il ragazzo aveva trovato la sua prematura fine terrena e che divenne un centro di culto per l'adorazione del "dio Antinoo" in forma di Osiride. Infine Adriano, per commemorare il ragazzo, organizz dei giochi che si tenevano in contemporanea ad Antinopoli e ad Atene, con Antinoo divenuto simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore. Busto di Polideuce, allievo e amante di Erode Attico; quando egli mor in giovane et divenne un autentico oggetto di culto da parte di Erode. Erode Attico e Polideuce. Il filosofo di origini greche ed esponente della seconda sofistica Erode Attico (Lucius Vibullius Hipparchus Tiberius Claudius Herodes Atticus),  stato un retore e politico al servizio dell'impero; amico personale di Adriano, tra i suoi allievi vi fu anche il giovane erede al trono Marco Aurelio. Erode era noto, oltre che per la ricchezza e munificenza (fece costruire tra gli altri anche l'Odeo di Erode Attico) nella sua qualit di filantropo e mecenate di opere pubbliche, anche per i numerosi rapporti amorosi con i propri discepoli, in riferimento alla tradizione della pederastia greca. Il suo affetto nei confronti del figlio adottivo Polideuce (Polydeukes/Polydeukion, da "Polluce") ha creato uno scandalo, non per il rapporto omosessuale intercorrente tra i due o per la giovane et del ragazzo, ma per l'intensit della passione dimostrata, considerata smodata e del tutto sconveniente. Quando l'adolescente mor prematuramente Erode - come gi precedentemente l'imperatore Adriano aveva fatto con Antinoo - incominci un plateale culto della personalit del defunto e proclamandolo "eroe", facendo costruire tutta una serie di statue e monumenti in suo onore. L'anziano visse in un parossismo di disperazione pubblica alla morte del suo eromenos, arrivando a commissionare giochi sontuosi, iscrizioni e sculture su ampia scala, Rilievo votivo in marmo pentelico del II secolo raffigurante l'apoteosidi Polideuce, il ragazzo amato da Erode Attico. Qui  mostrato con attributi eroici: il serpente e la sua nudit. Lo scrittore Luciano di Samosata racconta, nella sua biografia del filosofo esponente del cinismoDemonatte che questi afferm di avere in suo possesso una lettera proveniente dal defunto giovinetto; quando Erode chiese di essere informato su che cosa vi fosse scritto, Demonatte gli disse che il ragazzo dichiarava di essere triste perch il suo amante non era ancora giunto a fargli visita (nell'aldil). Demonatte vuol qui criticare come eccessiva e indegna di un filosofo l'espressione dei sentimenti di dolore di Erode: soltanto l'enorme ricchezza e l'enorme potere di Erode gli permisero di esprimerlo in modo pubblico, anzich celarlo nel silenzio. Arte erotica e oggetti di uso quotidiano. Lo stesso argomento in dettaglio: Arte erotica a Pompei e Ercolano e Simbolismo fallico. Le rappresentazioni della sessualit omosessuale maschile e lesbica sono meno rappresentate nell'arte erotica dell'antica Roma rispetto a quelle che mostrano atti sessuali tra maschio e femmina. Un fregio di Pompei antica presente alle Terme Suburbanemostra una serie di sedici scene di posizioni sessuali, in cui ve n' una omosessuale e un'altra lesbica, oltre ad abbinamenti omosessuali in rappresentazioni di sesso di gruppo. Due uomini e una donna che si accoppiano. Pittura parietale pompeiana, da una delle Therms (bagni), parete sud degli spogliatoi - dipinta intorno al 79 a.C. Il sesso a tre (o threesome) nell'arte romana mostra solitamente due uomini che penetrano una donna, ma in una delle tante scene presenti nei muri delle "Terme suburbane" si vede un uomo penetrare una donna in posizione da dietro mentre a sua volta viene penetrato da un altro uomo posto dietro di lui: questo scenario viene descritto anche da Catullo nel Carmen 56ritenendolo un fatto umoristico. L'uomo in mezzo potrebbe essere un cinaedus-cinedo, un uomo cio a cui piace subire il sesso anale ma che al contempo  anche considerato attraente dalle donne[44]. Anche l'attivit sessuale a quattro (foursome o "quartetto") appare, in genere composta da due donne e due uomini e a volte in coppie composte da persone dello stesso sesso. Gli atteggiamenti romani verso la nudit maschile (vedi storia della nudit) differiscono anche in maniera notevole se confrontati con quelli assunti dagli antichi Greci, che hanno sempre considerato le rappresentazioni idealizzate del nudo maschile come espressione di eccellenza, ad esempio attraverso il nudo eroico. L'uso della toga virile designa un uomo romano come libero cittadino; connotazioni negative della nudit includono anche la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri venivano spogliati, e la schiavit, poich gli schiavi messi in vendita in piazza erano spesso esposti nudi. Amuleti fallici della fertilit e della buona fortuna. Al tempo stesso il Phallus-fallo  stato visualizzato ubiquitariamente in forma di fascinus, ossia un "fascino magico" pensato per allontanare le forze maligne (come i moderni cornetti portafortuna), ed  divenuto col tempo una decorazione facente parte delle consuetudini e che si ritrova ampiamente tra le rovine pompeiane, in particolare sotto forma di speciali campanelli eolici detti Tintinnabulum. Il fallo eretto e smisurato del dio Priapo potrebbe originariamente essere servito per uno scopo apotropaico, ma in arte il suo aspetto grottesco ed esagerato provoca spesso una grande risata. L'ellenizzazione tuttavia ha influenzato la rappresentazione della nudit maschile all'interno dell'arte romana, portando a una pi complessa significazione della forma del corpo umano maschile mostrato nudo, parzialmente nudo o indossando la lorica musculata. La coppa Warren, skyphos romano d'argento che rappresenta una scena erotica omosessuale. Warren CupModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Warren Cup. La Coppa Warren  una coppa d'argento raffigurante due scene di atti omosessuali in ambiente di simposio(pratica socio-rituale della convivialit collegata al banchetto), di solito datata al tempo della dinastia giulio-claudia. Si  sostenuto che i due lati di questo calice rappresentino la dualit nella tradizione presente nel mondo classico dell'istituzione della pederastia greca in contrasto con la forma esistente all'interno della cultura romana. Sulla parte della coppa che rappresenta l'ideale greco vediamo un uomo maturo con la barba mentre si unisce in posizione da dietro a un giovane maschio gi sviluppato e muscoloso il quale gli sta seduto sopra. L'adolescente si tiene in equilibrio rimanendo attaccato con la mano sinistra a un sostegno, cos da mantenere una posizione sessuale altrimenti imbarazzante o scomoda. Uno schiavo bambino osserva la scena di nascosto attraverso una porta socchiusa. L'uomo con la corona del "conquistatore erotico" e il suo puer delicatus. Lato B della Warren Cup Il lato romano della coppa invece mostra un puer delicatus, all'incirca di 12 o 13 anni, mentre viene tenuto saldamente stretto tra le braccia di un maschio pi anziano, ben rasato e in perfetta forma fisica. Mentre il primo uomo con la barba pu essere greco, con un partner che partecipa pi liberamente all'incontro e con uno sguardo di piacere, la sua controparte, che ha un taglio di capelli pi grave, sembra a tutti gli effetti essere romano e quindi utilizza uno schiavo; la corona di mirto che indossa simboleggia inoltre il suo ruolo di conquistatore erotico. La coppa potrebbe essere stato concepita come un ritratto atto a stimolare la conversazione su quel tipo di ideali di amore e di sesso, che avevano luogo durante i banchetti simposiali tradizionali greci. L'antichit della Coppa Warren  stata per contestata e potrebbe invece rappresentare la percezione dell'omosessualit greco-romana com'era al momento della sua ipotetica fabbricazione. Busto di Publio Virgilio Marone. Letteratura omoeroticaModifica Numerose testimonianze riguardanti la presenza dell'omosessualit e dell'omoerotismo in generale ci vengono da poeti e scrittori dell'epoca. Il tema omoerotico viene introdotto in letteratura latina a partire dal II secolo a.C. con la crescente ellenizzazione e una sempre maggior influenza Greca sulla cultura romana. Il console nonch letterato Quinto Lutazio Catulofaceva parte di un circolo letterario frequentato da poeti che componevano brevi strofe richiamantesi alla moda della poesia ellenistica; uno dei suoi pochi frammenti superstiti  costituito da una poesia d'amore rivolta a un maschio con un nome greco. L'innalzamento della letteratura greca, ma anche dell'arte greca in generale a modello espressivo in ambito poetico ha promosso tra le altre cose anche la celebrazione dell'omoerotismo come uno dei segni distintivi delle personalit urbanizzate e maggiormente sofisticate[56]. Nonostante ci non vi sono prove o ipotesi generali su come questo abbia potuto avere un qualsiasi effetto sull'espressione del comportamento sessuale nella vita quotidiana reale tra i romani. L'amore greco ha influenzato esteticamente i latini in relazione ai mezzi di espressione, molto meno nei riguardi della natura dell'omosessualit romana in quanto tale. L'omosessualit nell'antica Greciadifferiva da quella Romana principalmente nell'idealizzare dell'eros tra i cittadini maschi nati liberi di pari status, anche se di solito con una differenza di et (vedi pederastia greca) inserita nell'istituto erastes-eromenos. L'esistenza di un rapporto erotico-sentimentale tra un ragazzo e un adulto al di fuori della famiglia, visto come un'influenza positiva tra i Greci, nella societ romana avrebbe minacciato l'autorit del paterfamilias. Poich le donne romane erano attive nell'educazione dei figli e si mescolarono con gli uomini socialmente, e le donne delle classi dirigenti spesso continuavano a consigliare e influenzare i loro figli e mariti anche nella vita politica, l'omosocialit non era cos diffusa a Roma cos come lo era stata ad esempio nell'antica Atene la quale ha indubbiamente contribuito a produrre il pi avanzato livello di cultura pederastica, quella della pederastia ateniese. La poesia neoterica dei Poetae novi si concretizza preminentemente con l'opera poetica di Caio Valerio Catullo (i Liber o Carmina) la quale include diverse poesie che esprimono il suo forte desiderio nei riguardi di un giovane nato libero chiamato esplicitamente "Giovenzio; il poeta, oltre ad amare l'amica Lesbia non era quindi meno ambiziosamente desideroso dei baci del suo bel ragazzo quattordicenne, che esalta in vari versi di volta in volta amorosi o ironici, definendolo effeminatoe passivo. Il nome latino e lo status di cittadino libero del ragazzo amato da Catullo sovverte totalmente la tradizione romana, ma contemporaneamente a lui anche Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura riconosce esplicitamente la propria attrazione nei confronti dei "ragazzi"-pueri, il che pu designare invero un partner sottomesso accettabile e non necessariamente ragazzino appena adolescente; vi si pu leggere inoltre che il piacere sublime consiste nel trasferire il proprio seme in un'altra persona, preferibilmente in un ragazzo piuttosto che in una donna. Si agita in noi questo seme, appena l'adolescenza rafforza le membra. Dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme Cos dunque, chi riceve i colpi dai dardi di Venere lo trafigga un fanciullo di membra femminee tende l ove  ferito e anela a congiungersi e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo. Eurialo e Niso, Louvre. A testimoniare il fatto che il fenomeno omosessuale stava divenendo sempre pi un rapporto di desiderio e amore, interviene anche VIRGILIO (si veda), il quale racconta nell'Eneide le storie di due coppie di guerrieri, gli appartenenti al popolo dei troiani Eurialo e Niso e i latini Cidone e Clizio, che nel reciproco amore trovano la forza per combattere da autentici eroi (soltanto Cidone scamper alla morte); coppie di giovani uniti da un tenero legame omoerotico. Di Clizio, Virgilio ci dice che  ancora un giovinetto, solo una leggerissima barba bionda incornicia il suo bellissimo volto; su Cidone invece il poeta non d una descrizione fisica: scrive invece che prima di Clizio ha amato altri adolescenti, sicch  da ritenere che rispetto al compagno egli abbia un'et leggermente superiore (Eneide). Il particolare rapporto che lega Eurialo e Niso  definito dall'autore "amore", ci che nel contesto dell'epoca va inteso come serena manifestazione di continuit tra l'amicizia fraterna e l'affettuosit omoerotica. Qui il poeta si avvale della tradizione dell'omosessualit militare nell'antica Grecia, ritraendo apertamente il rapporto amoroso esistente tra questi giovani il cui valore militare li segna solidamente come autentici uomini romani (viri). Virgilio descrive il loro legame come "pius", collegandolo alla virt suprema della "pietas", in egual modo posseduto dallo stesso eroe Enea; una relazione avallata come "onorevole, dignitosa e collegata ai valori della centralit di Roma. Ancora nelle Bucoliche il poeta latino canta e descrive numerosi amori omosessuali e riconducibili alla pederastia greca, come la vicenda riguardante il giovane schiavo Alessi che viene concupito sia dal suo padrone Iolla sia dal bel pastore Coridone (Ecloga II), o quella di un altro pastore di nome Menalca il quale elogia la bellezza di Aminta (Ecloga). Il mito di Ciparisso e Apollo, tratto dal racconto di Ovidio descritto nelle Metamorfosi (Ovidio). Temi omoerotici appaiono anche nelle opere di altri poeti del periodo augusteo (vedi Storia della letteratura latina: Albio Tibullo, Sesto Properzio e ORAZIO (si veda) fra tutti. A schierarsi invece decisamente a favore dell'amore femminile sar OVIDIO (si veda): avere una relazione sessuale con una donna  pi piacevole perch, a differenza delle forme di comportamento omosessuale ammesse all'interno della cultura romana, qui il piacere  reciproco. Non mancano comunque anche in questo autore descrizioni di amori omosessuali, tutti appartenenti alla tradizione della mitologia greca: Ati e Licabas, il dio Apollo con Giacinto e Ciparisso. Habinek fa infine notare che il significato di rottura presentato da OVIDIO (si veda) nella categorizzazione delle preferenze sessuali  stata oscurata nella storia della sessualit umana dal concetto di eterosessualit (considerata normale e innata) sopravvenuto nella pi tarda cultura occidentale. Nella letteratura del primo periodo dell'impero romanoun posto privilegiato spetta al Satyricon di Petronio Arbitro; la narrazione  talmente permeata da riferimenti al comportamento omosessuale che nei circoli letterari europei il nome dell'opera fin col divenirne un sinonimo. Anche il poeta e autore di epigrammi Marco Valerio Marziale spesso deride le donne come uniche partner sessuali preferendo di gran lunga i bei ragazzi-pueri. Atti sessuali Modifica Oltre al sesso anale, che viene frequentemente descritto sia nell'arte figurativa sia in quella letteraria, era comune anche il sesso orale. Uno dei graffiti di Pompei  in questo caso inequivocabile: "Secundus felator rarus" ("Secundus  un fellatore di rara abilit. A differenza che nell'antica Grecia, il pene di grandi dimensioni era un importante elemento d'attrattiva; Petronio ne descrive uno veduto in un bagno pubblico. Molti imperatori vengono raffigurati circondati da uomini con grandi sessi. Il poeta Ausonio fa una battuta su un trio sessuale maschile in cui "quello che sta nel mezzo compie il doppio dovere. Il sostantivo astratto impudicitia (aggettivo impudicus) raffigura la negazione assoluta della pudicitia (morale sessuale, castit); come caratteristica dei maschi spesso implica la volont e il desiderio di essere penetrati sessualmente[80]. Ballare era espressione, per un maschio, di impudicitia (la danza era difatti caratteristica della prostituta e dell'effeminato). L'impudicitia pu anche essere associata a comportamenti in quegli uomini giovani che avevano conservato un certo grado di fascino da ragazzini, ma che erano comunque abbastanza grandi da esser tenuti a comportarsi secondo le ferree regole maschili e a sottostare alle sue normative. GIULIO (si veda) Cesare  accusato di portare l'infamia su di s perch quando aveva circa 19 anni assunse per un certo periodo di tempo il ruolo passivo in una relazione pederastica con Nicomede re di Bitinia e in seguito anche per i molti "affari sessuali" avuti con donne adultere. Lucio Anneo Seneca il giovane (il tutore di Nerone) ha osservato che "l'impudicitia  un crimine per colui che  nato libero, una necessit in uno schiavo, un dovere per il liberto. La pratica omosessuale a Roma afferma il potere del cittadino sopra gli schiavi, confermandone al di sopra di ogni dubbio la propria mascolinit. Ganimede rapito dall'aquila di Giove. Scultura romana copia di un originale greco, esposta nel Palazzo Grimani a Venezia. Il termine catamite, indicante per lo pi un giovane prostituto,  una derivazione latina del nome "Ganimede". Ruoli sessuali Un uomo o un ragazzo che assumeva il ruolo passivo all'interno della relazione omosessuale poteva venir denominato in vari modi, tra cui i pi comuni e frequenti erano cinaedus, pathicus, exoletus, concubinus (prostituto), spintria (marchetta), puer(ragazzo), pullus (pulcino), puso, delicatus(specialmente come puer delicatus-ragazzino squisito), mollis (molle, utilizzata in genere come qualit estetica in contrapposizione alla naturale aggressivit maschile), tener (tenero, in opposizione alla durezza mascolina), debilis (debole), effeminatus(effeminato), discintus (discinto, volgare come una prostituta) e morbosus (malato). Come si pu notare, il significato del termine moderno gay (come anche di omosessuale) non  contemplato in quest'elenco, in quanto nel pensiero antico non v'era alcun'idea di identit sessuale: la persona era invece definita solo dal ruolo svolto all'interno dell'atto sessuale (attivo=maschio; passivo=femmina). Alcuni di questi termini, come exoletus, vengono a riferirsi specificamente a un adulto: gli antichi romani, fra cui vigeva il valore sociale contrassegnato come mascolinit, limitavano genericamente la penetrazione anale ai prostituti maschi o agli schiavi di et inferiore a 20 anni (chiamati ragazzi). Alcuni uomini pi anziani potevano a volte preferire il ruolo passivo; Marco Valerio Marziale descrive ad esempio, nella sua solita maniera molto schietta, il caso di un uomo che aveva assunto il ruolo passivo facendo occupare al suo giovane schiavo quello attivo: Mentula cum doleat puero, tibi, Naevole, culus Non sum divinus, sed scio quid facias. Epigrammi (Marziale) Il desiderio di un maschio adulto di essere penetrato sessualmente veniva considerato un morbus, una malattia; il desiderio di penetrare un bel ragazzo era invece considerato del tutto normale. Cinaedus Cinedo  una parola dispregiativa che denotava un maschio con una identit di genere considerata deviante dalla norma, per la sua scelta di determinati atti sessuali o per la preferenza di certi partner sessuali; tali preferenze erano percepite come una carenza di virilit. Catullo definisce cinedo (cio un effeminato senza attributi virili) il collega poeta Marco Furio Bibaculo che si trova in compagnia d'un suo amico, nel famoso Carme osceno numero 16, in cui afferma senza tanti giri di parole che "pedicabo ego vos et irrumabo" (io ve lo metto prima nel didietro e poi direttamente in bocca). Anche se in alcuni contesti il cinedo pu denotare l'omosessuale passivo, ed  il termine pi frequentemente usato per indicare un maschio che si  lasciato penetrare analmente[89], un uomo chiamato cinedo poteva bens, in certi determinati casi, anzi esser considerato molto attraente e desiderabile per le donne (non necessariamente quindi equivale al termine dispregiativo inglese faggot o agli italiani frocio-checca, tranne per il fatto che tutti questi termini vengono usati per deridere e insultare un uomo considerato carente di virilit): con caratteristiche cos ambiguamente androgine che le donne possono trovare sessualmente anche molto eccitanti). L'abbigliamento, l'uso di cosmetici e i manierismi (atteggiamenti, movimenti, modi di parlare) di un cinedo lo contrassegnavano inequivocabilmente come un effeminato: ma la stessa effeminatezza che gli uomini romani potrebbero trovare allettante in un puer, diventa assolutamente poco attraente nel maschio adulto e anziano. I cinaedus rappresentano quindi l'assenza generalizzata fatta persona di quello che i Romani consideravano un vero uomo, e la parola rimane di fatto intraducibile nelle lingue moderne. In origine un cinaedus (parola derivante dal Greco Kinaidos) era un ballerino professionista generalmente poco pi che adolescente, di origini persiane o comunque orientali, la cui performance era caratterizzata da una danza accompagnata dal suono di tamburelli e timpani e da movimenti ancheggianti del sedere che mimavano il rapporto anale. Alcuni uomini romani tenevano un concubinus (concubina maschio) in casa fino a quando non si sposavano con una donna: Eva Cantarella ha descritto questa forma di concubinato come "una relazione sessuale stabile, non esclusiva ma privilegiata. All'interno della gerarchia degli schiavi domestici, il concubinus sembra essere stato considerato in possesso di uno status speciale o comunque abbastanza elevato, e che veniva minacciato con l'arrivo di una moglie. In uno dei suoi inni nuziali (Ephitalamium) Catullo il concubinus dello sposo si ritrova ansioso per il suo futuro e con la paura d'esser abbandonato: i suoi lunghi capelli saranno tagliati e dovr d'ora in poi ricorrere alle schiave per la sua gratificazione sessuale, il che indica ch'egli prevedeva di dover presto cambiare ruolo sessuale da passivo ad attivo. Al concubino poteva poi anche capitare di intrattenere relazioni sessuali con le donne della casa, diventando magari anche padre di qualche bambino, questo almeno a seguire le invettive di Marziale (Epigrammi. I sentimenti e la situazione del concubino sono trattati nella citata poesia matrimoniale di Catullo e occupano 5 strofe: egli svolge un ruolo attivo durante la cerimonia, distribuendo le noci tradizionali che poi i ragazzi dovevano lanciare in segno di buon augurio (un po' come il riso nella tradizione occidentale moderna). Il rapporto di un cittadino romano col proprio concubino poteva essere sia discretamente tenuto nell'ombra sia manifestato in modo pi aperto: i concubini maschi a volte partecipavano anche alle cene (convivium) indette dal padrone di casa e rappresentar ufficialmente la parte di compagno, un ruolo particolarmente ambito e pregiato. Marziale sembra anche suggerire che il concubino del padrone di casa poteva esser ereditato dal figlio alla morte de padre. Un ufficiale poteva anche essere accompagnato durante le campagne militari dal proprio concubino. Come il catamite e il puer delicatus (vedi sotto) il ruolo del concubino  stato regolamentato ispirandosi al mito greco di Ganimede (il cui nome in latino diventa Catamitus), il principe adolescente troiano rapito da Zeus affinch lo servisse sull'Olimpo come coppiere. La concubina femminile, che poteva anche essere una donna libera, manteneva uno status legale tutalato dal diritto romano, ma i concubinus no dal momento che erano tipicamente degli schiavi, Pathicus  una parola un po' soft per indicare l'uomo che  stato penetrato sessualmente; deriva dall'aggettivo greco phatikos (verbo paskhein) ed equivalente al latino patior-pati-passus (subire, sottomettersi, sopportare e soffrire): il termine passivo deriva proprio dal latino passus. Pathicus e cinaedus non sono spesso cos distinti nell'uso che ne fanno gli scrittori latini, ma cinedo pu essere indicativamente il termine pi generale per indicare un maschio non conforme al suo ruolo di vir - vero uomo; mentre pathicus denota precisamente un maschio adulto che ha assunto il ruolo passivo da donna all'interno di un rapporto, che desidera essere usato cos. Nella cultura romana sodomizzare un altro maschio adulto esprime quasi sempre disprezzo e desiderio d'umiliazione; il pathicus pu essere interpretato allora, ancor pi che come omosessuale passivo, come un masochista a cui piace farsi umiliare (da un uomo o da una donna indifferentemente): potrebbe anche esser penetrato da una donna tramite un dildo o essere costretto a eseguire cunnilingus, senza dimostrare alcun desiderio di assumere un ruolo attivo o alcuna eccitazione sessuale. Con la parola puer s'indicava sia un ruolo nell'ambito sessuale sia uno specifico gruppo d'et, Sia puer sia il suo equivalente femminile puella-ragazza possono riferirsi al partner sessuale di un uomo. Il cittadino romano nato libero all'et di 14 anni assumeva la toga virile e questo era il primo rito di passaggio oltre l'infanzia, ma doveva attendere poi fino a 17-18 anni prima di poter cominciare a prender parte attivamente alla vita pubblica. Uno schiavo, che non veniva mai considerato un vir, un uomo vero, sarebbe stato chiamato puer, ragazzo, per tutta la vita. I pueri venivano utilizzati come alternativa sessuale alle donne, cosa che non si poteva assolutamente fare con gli adolescenti maschi nati liberi: accusare un uomo romano d'essere un puer era un insulto contro la sua virilit, soprattutto in campo politico. Un cinedo anziano, un omosessuale passivo potevano anche voler presentare s stessi come puer. Il puer delicatus era uno "squisito" schiavo giovanissimo, scelto dal padrone per la sua bellezza come giovane amante, citato anche al plurale come deliciaem 'dolcetti' o 'delizie', A differenza dell'eromenos greco, che era protetto dal costume sociale, il romano delicatus rimaneva sempre invece, sia fisicamente sia moralmente, inferiore rispetto all'adulto che ne disponeva. La relazione spesso coercitiva, di sfruttamento e non certo alla pari, tra il padre di famiglia e il delicatus (il quale poteva benissimo anche essere un minore di 12 anni), pu essere definita come pedofila a differenza della pederastia greca. Il ragazzino, appena compiuti 13 anni, veniva a volte castrato nel tentativo di preservare intatti nel tempo i suoi caratteri giovanili: l'imperatore Nerone fece questo nei confronti del suo puer Sporo, che fece evirare per poterlo poi sposare. Vari pueri delicati sono stati idealizzati nella poesia latina: nelle Elegie erotiche di Tibullo il delicatus di nome Marathus indossa abiti sontuosi e molto costosi. La bellezza che doveva caratterizzare il delicatus  stata misurata mediante le norme e misure apollinee, soprattutto per quanto riguardava i lunghi capelli i quali avrebbero dovuto sempre essere ondulati e profumati. Il tipo mitologico per eccellenza del delicatus era rappresentato da Ganimede, il principino troiano rapito da Zeus per diventare il proprio compagno divino nonch coppiere alla corte olimpica. Nel Satyricon, il ricco liberto Trimalcione parla del puer delicatuscome di un bambino-schiavo al servizio sia del padrone sia della padrona di casa. Il termine pullus indica genericamente un piccolo animaletto e in particolare il pulcino:  una parola affettuosa usata tradizionalmente per un ragazzo-puer che era stato amato da qualcuno in senso osceno. Il lessicografo Sesto Pompeo Festo ne fornisce la definizione illustrandola con un aneddoto comico: Quinto Fabio Massimo Eburno, console e censore  molto noto per il suo rigore morale, tanto da guadagnarsi il soprannome (Cognomen) di Eburno che significa avorio (l'equivalente moderno pi simile potrebbe essere anche porcellana); questo a causa del suo candido e avvenente aspetto. Si diceva fosse stato colpito tempo addietro da un fulmineproprio sulle natiche (riferimento a una voglia che aveva sul sedere. Si scherz quindi sul fatto che fosse stato contrassegnato da Zeus signore dei fulmini che s'era accorto della sua bellezza tanto da farne il proprio pullus/pulcino pensando anche al rapporto esistente tra il re degli Dei col giovanissimo coppiere catamite Ganimede. Anche se l'inviolabilit sessuale dei cittadini maschi minorenni era di solito molto ben sottolineata, quest'aneddoto  una prova che anche i giovani romani di buona famiglia avrebbero potuto passare attraverso una fase in cui potevano esser veduti come oggetti sessuali. Forse colpito dal destino, questo stesso membro della illustre Gens Fabia ha dovuto concludere la sua vita in esilio come punizione per aver ucciso suo figlio dopo averlo incolpato di impudicitia[130]. Nel IV secolo il poeta Ausonio registra la parola pullipremo e dice che per primo tale termine  stato utilizzato dal poeta satirico Lucilio. Etimologicamente relazionato a puer, anche pusio significa ragazzetto; spesso aveva una connotazione spiccatamente sessuale e umiliante. Giovenale indica che il pusio era desiderabile in quanto pi compiacente e al contempo meno impegnativo di quanto fosse una donna. Scultimidonus Questo  un relativamente raro termine gergale tra i pi volgari (equivalente a pezzo di m. o buco di c.) che appare in uno dei frammenti di Lucilio e glossato come: "coloro che elargiscono gratuitamente il proprio orifizio anale-scultima" (cio la parte corporea pi intima di s, come fosse la parte interna di una prostituta/scortorum intima. Iolao assieme all'eroe e amante Ercole. Mosaico dalla Fontana del Ninfeo di Anzio, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Sottoculture Il mondo e la cultura latina hanno avuto una tale ricchezza di parole per indicare gli uomini al di fuori della norma maschile-vir, che alcuni studiosi sostengono l'esistenza di una vera e propria sottocultura di tipo omosessuale a Roma. Plauto menziona una strada che era conosciuta come luogo d'incontro con giovani che praticavano la prostituzione maschile, e anche i bagni pubblici sono indicati come uno dei luoghi pi usuali quando si voleva andar in cerca di partner sessuali maschi: Giovenale indica il grattarsi la testa con l'indice come segno di riconoscimento reciproco (nella II delle sue Satire). Apuleio dice che i cinaedi formavano una vera e propria alleanza sociale allo scopo di realizzar il piacere generale, soprattutto organizzando banchetti e feste: nelle Metamorfosi (Auleio) (o Asino d'oro) descrive un gruppo che ha acquistato e condiviso un concubinus; mentre in un'altra occasione hanno invitato un giovane molto ben dotato (rusticanus iuvenis) alternandosi subito dopo nel sesso orale su di lui, Altri studiosi, soprattutto quelli che sostengono il punto di vista del costruttivismo socio-culturale, sostengono invece che non vi  mai stato un gruppo sociale identificabile di maschi che si sarebbero auto-identificati come appartenenti a una qualche "comunit omosessuale. Matrimonio omosessuale Liceat modo vivere; fient, fient ista palam, cupient et in acta referri, Giovenale, Satira. Anche se, in generale, i romani consideravano il matrimonio come unione eterosessuale al fine di generare figli, durante il periodo imperiale si sono verificati episodi in cui coppie maschili hanno celebrato il rito tradizionale del matrimonio romano in presenza di amici; queste forme di matrimonio tra persone dello stesso sesso sono riportati da fonti che ne deridono gli intenti, mentre non vengono registrati i sentimenti dei partecipanti. Il primo riferimento nella letteratura latina di un matrimonio avvenuto tra uomini si trova nelle Filippiche di CICERONE (si veda), il quale si trova a insultare MARCANTONIO (si veda) per essere stato in giovent "la sgualdrina" di Gaio Scribonio Curione e aver "stabilito con lui un matrimonio vero e proprio (matrimonium), come se avesse indossato una stola(l'abito tradizionale di una donna sposata) da matrona. Anche se le implicazioni sessuali a cui vuole alludere Cicerone sono chiare, il punto fondamentale del passaggio oratoriale del filosofo stoico latino  quello  di gettare discredito su Antonio indicandolo nel ruolo di sottomesso all'interno del rapporto omosessuale, mettendo cos in tal maniera in dubbio la sua virilit di cittadino; non vi  alcun motivo di pensare che siano stati effettivamente eseguiti riti matrimoniali ufficiali. Sia Marziale sia Giovenale - nelle sue Satire - si riferiscono al matrimonio tra uomini come a un fatto che non accade di rado, cio come qualcosa di usuale e diffuso, abbastanza ricorrente all'interno della societ dell'epoca, anche se poi i due autori citati si ritrovano a disapprovarlo. Il diritto romano non ha mai ufficialmente riconosciuto il matrimonio tra uomini, ma uno dei motivi principali di disapprovazione espressi nella satira datata alla prima met del II secolo  che continuare a celebrarne i riti avrebbe anche potuto condurre a un'aspettativa di registrazione ufficiale per tali unioni. Giovenale si scaglia contro la diffusione dei rapporti omosessuali, identificati dal poeta con l'effeminatezzae il vizio in generale; passa a descrivere coloro che mascherano i propri vizi sotto il mantello della filosofia greca: i pervertiti si vestono effeminatamente in pubblico, vi  poi chi difende la sua causa in vesti trasparenti, chi giunge fino al punto di sposare un qualche "suonatore di corno"... ma peggio ancora sono coloro che partecipano ai misteri della Bona Deavestiti e truccati come fossero delle donne (satira). Busto di Nerone. Nerone Varie fonti antiche (tra cui Svetonio, Tacito, Dione Cassio, e Aurelio Vittore) affermano che l'imperatore romano del I secolo Nerone abbia celebrato ben due matrimoni pubblici con degli uomini, una volta assumendo per s il ruolo della moglie (questo accadde col liberto chiamato Pitagora), un'altra volta invece prendendo il ruolo del marito (con l'eunucoSporo); vi sono poi indizi su un terzo caso in cui sembra aver avuto ancora la parte della moglie. Le cerimonie neroniane includevano elementi tradizionali come la dote e l'indossare il velo da sposa romana. Anche se le fonti al riguardo si trovano a essere nella loro generalit pregiudizialmente ostili, lo stesso Dione Cassio fa implicitamente notare che gli atti pubblici e politici di Nerone venivano considerati molto pi scandalosi dei suoi matrimoni con degli uomini. Sporo rimase accanto a Nerone fino all'ultimo giorno, e si tramanda che fu presente anche alla sua morte (Vita di Nerone), e, addirittura, secondo Sesto Aurelio Vittore (Epitome de Caesaribus), sarebbe colui che resse il gladio con cui egli si dava la morte. Un ruolo di rilievo al suo personaggio compare viene dato anche in varie opere teatrali che descrivono tale evento (ad esempio Martello). Alcuni studiosi considerano quella effettuata su Sporo come la prima operazione di cambiamento di sesso storicamente descritta. Profilo dell'imperatore Eliogabalo. EliogabaloModifica Agli inizi del III secolo il giovanissimo imperatore di origini siriache Eliogabalo  indicato per esser stato la sposa in un matrimonio che ha voluto celebrare col suo partner maschile; ma anche molti altri uomini maturi della sua corte sembra avessero dei mariti ufficiali, facendo per lo pi notare che ci era fatto a imitazione dei matrimoni imperiali. L'orientamento sessuale di Eliogabalo e la sua identit di genere sono stati origine di controversie e dibattiti; va notato, per, che in Eliogabalo l'aspetto religioso e quello sessuale erano profondamente intrecciati, come normale nella cultura orientale, ma la societ romana non comprese questo aspetto a essa alieno e dunque consider stravaganti e scandalose le pratiche sessuali del proprio imperatore, tra cui le orge, i rapporti omosessuali e transessuali, la prostituzione, all'interno delle quali va intesa la ricerca - nella figura dell'androgino - del desiderio di castrazione. Stando a quanto ne dice il membro del senato romanoe storico contemporaneo Cassio Dione Cocceiano, la sua relazione pi stabile sarebbe stata quella con un auriga, uno schiavo biondo proveniente dalla Caria di nome Ierocle, al quale l'imperatore si riferiva chiamandolo suo marito. La Historia Augusta, scritta un secolo dopo i fatti, afferma che spos anche un uomo di nome Zotico, un atleta di Smirne, con una cerimonia pubblica svoltasi nella capitale. Cassio Dione scrisse inoltre che Eliogabalo si dipingeva le palpebre, si depilava e indossava parrucche prima di darsi alla prostituzione nelle taverne e nei bordelli di Roma, e persino all'interno del palazzo imperiale: Infine, riserv una stanza nel palazzo e l commetteva le sue indecenze, standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro, mentre con voce dolce e melliflua sollecitava i passanti. (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana, lxxx.13) Erodiano commenta che Eliogabalo sciup il suo bell'aspetto naturale facendo uso di troppo trucco. Venne spesso descritto mentre si deliziava di essere chiamato l'amante, la moglie, la regina di Ierocle, e si narra che abbia offerto met dell'Impero romano al medico che potesse dotarlo di genitali femminili. Di conseguenza, Eliogabalo  stato spesso descritto dagli scrittori moderni come transgender, molto probabilmente transessuale. Proibizioni legali chiare e nette contrarie al matrimonio omosessuale cominciarono ad apparire durante il IV secolo, via via che la popolazione dell'impero romanostava sempre pi convertendosi al cristianesimo. Sileno ed Eros abbracciati. Bassorilievo in terracotta degli inizi del I secolo. Lo stupro omosessuale Il diritto romano ha affrontato la questione relativa allo stupro di un cittadino di sesso maschile, quando venne emessa una sentenza all'interno di una causa che potrebbe aver coinvolto un maschio di orientamento omosessuale.  stato stabilito che anche un uomo "disdicevole e discutibile" (infamis e suspiciosus) aveva lo stesso diritto appartenente a tutti gli altri uomini liberi che il proprio corpo non fosse sottoposto al sesso forzato. Nella Lex Julia de vi publica, risalente al tempo del dittatore romano Gaio GIULIO (si veda) Cesare lo stupro viene definito come un forzare al rapporto sessuale un ragazzo o una donna e lo stupratore  oggetto di esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto romano. Gli uomini che erano stati stuprati venivano esentati dalla perdita dello status giuridico e sociale subita da coloro che concedevano volontariamente il proprio corpo per dare piacere agli altri (soprattutto attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane che si dedicava alla prostituzione maschile o che comunque intratteneva sessualmente altri uomini  sottoposto a infamia e pertanto escluso dalle protezioni legali di regola concesse ed estese a tutti gli altri cittadini. Considerata come una questione di diritto, uno schiavo o una schiava non avrebbero potuto essere violentati, ma in quanto oggetto di propriet e non in quanto persone il proprietario dello schiavo poteva tuttavia perseguire il violentatore per danni alla propriet. Il timore di stupri di massa a seguito di una sconfitta militare si estendeva anche a tutte le potenziali vittime di sesso maschile (in primis i bambini) oltre che alle donne. Secondo il giurista Pomponio qualunque cosa l'uomo abbia subito (compresa la violenza sessuale a causa della forza soverchiante dei ladri o da parte del nemico in tempo di guerra),  una cosa che si deve sopportare senza alcuna stigmatizzazione. La minaccia di un uomo di sottoporne un altro alla pedicatio (rapporto anale) o irrumatio (rapporto orale)  un tema assai frequente delle invettive poetiche, particolarmente famosa quella espressa da Catullo nel suo "Carmen ed  stata anche una forma comune di millanteria maschile; lo stupro  stato inoltre una delle punizioni tradizionali inflitte su un uomo adultero da parte del marito offeso, anche se forse pi come fantasia di vendetta che effettivamente realizzato nella pratica[166]. In una raccolta di dodici aneddoti che si occupano di "assalti subiti dalla castit" lo storico Valerio Massimodispone le vittime di sesso maschile a parit di numero se confrontate con le donne. In un caso di processo farsa (esempio processuale) descritto da Seneca il Vecchio, un adulescens (un giovane che non ha ancora formalmente incominciato la propria vita da adulto) viene violentato da dieci suoi coetanei; anche se il caso  ipotetico Seneca qui presuppone che la legge contempli la possibilit effettiva di un tal accadimento. Un'altra ipotesi immagina un caso estremo in cui la vittima di stupro venga indotta al suicidio; qui il maschio nato libero (appartenente agli ingenui) che ha subito violenza si uccide: i romani consideravano lo stupro su un ingenuus come uno tra i peggiori crimini che potevano essere commessi, assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ancora in condizione di verginit e il furto all'interno di un tempio romano. Relazioni omoerotiche nelle forze armate Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualit militare nell'antica Grecia. Il soldato romano, come ogni altro cittadino maschio libero e rispettoso dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina anche in materia sessuale. Augusto aveva vietato ai militari di sposarsi e questa proibizione  rimasta in vigore per l'esercito romano imperiale per quasi due secoli; le forme di gratificazione sessuale a disposizione dei soldati rimanevano quindi la prostituzione e l'utilizzo di persone ridotte in schiavit, lo stupro di guerra e le relazioni tra persone dello stesso sesso. Il Bellum Hispaniense, narrante gli eventi della guerra civile romana nella Spagna romana, cita un ufficiale che tiene con s un concubinus/prostituto durante tutta la campagna militare. Il sesso tra commilitoni tuttavia violava il decoro romano, contrario a ogni tipo di rapporto sessuale tra cittadini liberi; di primaria importanza per un soldato era mantenere intatta la propria virilit (da vir, la sua condizione di uomo) non permettendo mai quindi che il suo corpo potesse venir utilizzato da altri per soddisfare scopi sessuali. In guerra lo stupro simboleggiava la sconfitta, un motivo che rendeva il corpo del soldato costantemente vulnerabile sessualmente. Durante il periodo della repubblica romana gli atti omosessuali tra commilitoni erano soggetti a sanzioni severe, che potevano comprendere anche la condanna capitale, in quanto violazione della disciplina militare; Polibio riferisce che la punizione per un soldato che volontariamente avesse acconsentito a essere sottomesso sessualmente, quindi sottoposto a penetrazione, era il fustuarium(ossia la bastonatura a morte). Gli storici romani registrano racconti cautelativi di ufficiali che abusano del loro potere per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali e quindi a subire conseguenze disastrose. Agli ufficiali pi giovani, che ancora potevano mantenere alcune delle caratteristiche attrattive adolescenziali favorite maggiormente nelle relazioni tra maschi, era consigliato di rinforzare le proprie qualit maschili e non usare profumi, n tagliarsi i peli alle narici e non radersi le ascelle. Un episodio riferito da Plutarco nella sua biografia di Gaio Mario illustra il dovere del soldato di mantenere la propria integrit sessuale nonostante le pressioni che potevano provenire dai suoi superiori. Una bella e giovane recluta di nome Trebonio ha subito molestie sessuali per un certo periodo di tempo dal suo ufficiale superiore, che si trovava anche a essere il nipote di Mario, Gaio Luscius. Una notte, dopo essersi nuovamente difeso, in una delle numerose occasioni in cui era stato sottoposto alle attenzioni indesiderate dell'uomo, Trebonio  stato convocato alla tenda di Luscius. Incapace di disobbedire al comando del suo superiore, si trova cos a essere improvvisamente l'oggetto di una violenza sessuale e, a questo punto, sfoderata la spada uccide Luscius. La condanna per l'uccisione di un ufficiale tipicamente provocava l'esecuzione immediata. Quando  stato portato a processo, il ragazzo  stato per in grado di produrre testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere Luscius, e che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno, nonostante le profferte di regali costosi". Marius non solo ha assolto Trebonio dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma gli ha consegnato una corona (vedi ricompense militari romane) per il coraggio dimostrato. Diana e Callisto, di Jollain. Lesbismo Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. I riferimenti al sesso tra donne non sono frequenti nella letteratura latina della repubblica romana e dell'inizio del principato (storia romana). Ovidio, che  uno dei massimi sostenitori d'uno stile di vita generalmente rivolto all'amore per le donne, descrive e nota poi con partecipazione la storia di Ifi (o Ifide, cresciuta e allevata come fosse un maschio) che s'innamora di Iante e in seguito anche di Anassarete: si tratta di uno dei pochissimi miti lesbici presenti nella tradizione classica. Scena di sesso lesbico. Terme Suburbane (Pompei). In epoca imperiale successiva le fonti riguardanti relazioni omosessuali tra donne divengono via via pi abbondanti, in forma di ricette mediche, incantesimi e pozioni d'amore, tesi di astrologia e interpretazione dei sogni. Un graffito rinvenuto nei muri di Pompei antica esprime il desiderio di una donna nei confronti di un'altra: "vorrei poter tenerla stretta al collo, abbracciandola ed accoglier tutti i suoi baci sulle mie labbra. Parole di lingua greca indicanti una donna che preferisce la compagnia intima di un'altra donna includono hetairistria (in parallelo a hetaira-compagna (l'etera o cortigiana), tribas (tribade, da cui deriva tribadismo) e lesbia (dall'isola di Lesbo patria della poetessa Saffo). Alcuni termini della lingua latina sono tribas (per prestito linguistico, fricatrix-colei che strofina o sfrega (i propri genitali su quelli di un'altra) e virago (da vir-uomo, quindi una donna-maschio). Saffo e le sue amiche a Lesbo, dipinto erotico di douard-Henri Avril. Un primo riferimento ai rapporti omosessuali tra donne definito come lesbismo si trova nello scrittore greco del II secolo Luciano di Samosata: "dicono che ci sono donne come quelle di Lesbo, di aspetto maschile e che si prendono come consorti altre donne, proprio come se fossero uomini. Dato che il modo di pensare romano nei riguardi del rapporto sessuale era eminentemente fallocratico e richiedeva in ogni caso un partner attivo dominante gli scrittori uomini immaginavano che nella sessualit tra lesbiche una delle due donne avrebbe dovuto utilizzare un fallo finto (dildo) oppure avere una clitoride eccezionalmente grande tanto da consentire con essa la penetrazione sessuale; per entrambe sarebbe stata un'esperienza piacevole proprio in quanto si verificava l'atto penetrante. Raramente menzionati nelle fonti romane, oggetti a forma di fallo da utilizzare al posto del reale penemaschile sono un popolare elemento di comicit nella letteratura greca e nell'arte in genere, anche attraverso la tradizione del simbolismo fallico; esiste invece una sola raffigurazione nota nell'arte romana di una donna che penetra con questo sistema un'altra donna, mentre l'utilizzo di un fallo artificiale da parte di donne  pi comune nella pittura vascolare greca. Marco Valerio Marziale descrive le lesbiche come aventi appetiti sessuali fuor di misura che, prese da quest'esagerazione di desiderio, potevano giungere a eseguire atti sessuali con penetrazione su altre donne, ma anche su bambini; i ritratti imperiali di donne che sodomizzano ragazzi, che bevono e mangiano come i maschi e che s'impegnano in vigorosi regimi fisici, possono riflettere in parte le ansie culturali circa la crescente indipendenza delle donne romane. Identit di genereModifica Mosaico che mostra Ercole mentre porta un abbigliamento femminile ed  in possesso di un gomitolo di lana (a sinistra), mentre Onfaleindossa la pelle del Leone di Nemea. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Temi transgender nell'antica Grecia. Travestitismo e crossdressing Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del crossdressing. Il crossdressing appare nell'arte e nella letteratura latina in vari modi per contrassegnare l'incertezza nell'identit di genere: come invettiva politica, quando un uomo pubblico  accusato di indossare abiti eleganti e seducenti al modo degli effeminati. come tropo mitologico, come nella storia di Ercole e Onfale che si scambiano gli abiti e con essi anche i ruoli sessuali. come una forma di investitura religiosa, ad esempio nel sacerdozio degli adoratori di Cibele. molto raramente come feticismo di travestimento. Ulpiano categorizza l'abbigliamento romano sulla base di coloro che possono pi opportunamente indossarlo: l'abbigliamento virilia-da uomo e caratteristico dei paterfamilias-i capi famiglia; puerilia  invece l'abbigliamento che marca chi lo indossa come bambino o minore; muliebria sono i capi d'abbigliamento della materfamilias; communia quelli che possono essere indossati da entrambi i sessi; infine i familiarica ovvero gli abiti per i famigli, i subalterni e gli schiavi di una casa. Un uomo che volesse indossare abiti adatti alle donne, osserva sempre Ulpiano, rischierebbe di farsi oggetto di scherno: le prostitute erano le uniche donne a cui era concesso d'indossare a piacere anche la togamaschile, essendo loro di fatto al di fuori della categoria sociale e legale normativa indicante la donna. Un frammento del commediografo Accio sembra riferirsi a un uomo che indossava segretamente "fronzoli pi adatti a una vergine. Un esempio di travestitismo  riferito in una causa legale, in cui "un certo senatore era abituato a indossare di sera vestiti da donna. In una delle lezioni di diritto lasciateci da Seneca un giovane-adulescens viene violentato mente indossava abiti da donna in pubblico, ma il suo abbigliamento  spiegato come atto di sfida compiuto davanti agli amici, non come una scelta basata sulla ricerca del piacere erotico. L'ambiguit di genere era una caratteristica dei sacerdoti della Dea Frigia Cibele: conosciuti come Galli, il loro guardaroba rituale comprendeva capi di abbigliamento femminile. Essi sono a volte considerati come un'autentica casta sacerdotale transgender o transessuale: durante la celebrazione pi importante in onore della Dea, a imitazione di Attis si auto-eviravano presi da smania e follia sacra. La complessit della religione e del mito di Cibele e Attis viene esplorata in una delle poesie pi lunghe di Catullo. L'Ermafrodito dormiente, conservato al museo del Louvre. Ermafroditismo e androginia Il termine ermafroditismo viene riferito a una persona nata con caratteristiche fisiche di entrambi i sessi (vedi intersessualit); nell'antichit la figura dell'ermafrodita era una delle questioni primarie riguardanti l'identit di genere. Plinio il Vecchioosserva nella sua Naturalis historia che "ci sono anche coloro che sono nati con entrambi i sessi, sono quelli che noi chiamiamo ermafroditi, un tempo detti androgini" (dal Greco Andr-uomo + Gyn-donna; un uomo che  anche una donna quindi). Lo storico Diodoro Siculo del I secolo a.C. scrisse che "alcuni dichiarano che il nascere di creature di questo tipo sia un evento meraviglioso (teratogenesi) in quanto, essendo un fatto molto raro, sia annunziatore del futuro, a volte con profezie benevole e altre con previsioni pi malevoli. Isidoro di Siviglia descrive in maniera abbastanza fantasiosa un ermafrodito come colui "che ha il seno destro di un uomo e quello sinistro di una donna e dopo l'atto sessuale possono diventare sia il padre sia la madre dei loro eventuali figli. Secondo il diritto romano un ermafrodito doveva essere classificato o come maschio o come femmina, non esistendo una terza possibilit all'interno della categorizzazione giuridica: l'ermafrodito rappresenta cos una "violazione dei confini sociali, in particolare di quelli fondamentali per la vita quotidiana, come l'essere maschio o l'essere femmina. Nella religione romana tradizionale la nascita di un ermafrodito rientrava nell'ambito del prodigium, un evento cio che segna un'interruzione nella pace tra Dei e umani; ma Plutarco osserva anche che mentre una volta erano considerati dei presagi divini, ora gli ermafroditi erano diventati oggetto di piacere-deliciae e venivano ampiamente contrattati e venduti al mercato degli schiavi. Ermafrodito in un dipinto murale di Ercolano (prima met del I secolo). Nella tradizione mitologica classica Ermafrodito era un ragazzino molto avvenente e grazioso figlio di Mercurio e Venere. OVIDIO (si veda) ne ha scrive in dettaglio il racconto pi famoso e influente, nelle sue Metamorfosi sottolineando che, anche se il bel giovane  nel pieno della sua bellezza e attrattiva adolescenziale, respinse l'amore che gli veniva offerto esattamente come gi aveva fatto Narciso. La ninfa Salmace che lo aveva scorto lo desider immediatamente: rifiutata lei finse di ritirarsi ma poi, appena il ragazzo cominci a spogliarsi per poter fare il bagno nel fiume, si slanci su di lui abbracciandolo stretto e nel contempo pregando gli Dei di non essere mai separati. Gli spiriti benevoli accolsero la sua richiesta supplicante e cos i due corpi, quello del ragazzo e quello della ninfa, si fusero in uno dando luogo a un essere fisicamente bisessuato. Come risultato tutti gli uomini che andavano a bere dalle acque di quella sorgente avrebbero sentito sempre pi crescere dentro s caratteri da effeminatoe il morbo dell'impudicitia. Il mito di Ila, il giovane compagno e amante maschio di Ercole che venne rapito da una ninfa delle acque (Lympha), condivide con Ermafrodito e Narciso il tema dei pericoli che si affacciano sul maschio adolescente nell'et della transizione che lo dovrebbe portare alla riconosciuta virilit adulta, e che invece ha esiti differenti per ognuno. Raffigurazioni di Ermafrodito erano molto popolari tra i romani: "Rappresentazioni artistiche di Ermafrodito portano in primo piano le ambiguit concernenti le differenze sessuali costitutive di uomini e donne, nonch l'intima ambiguit esistente in tutti gli atti sessuali... Gli artisti trattano sempre Ermafrodito in qualit di spettatore di s stesso, che scopre improvvisamente la sua pi autentica identit sessuale... La figura di Ermafrodito  una rappresentazione altamente sofisticata, invadendo i confini esistenti tra i due sessi che sembra essere cos chiara nel pensiero classico. Macrobio descrive infine una forma maschile della Dea Venere la quale aveva il suo culto principale nell'isola di Cipro: dotata di barba e genitali femminili, indossava invece abiti femminili. Gli adoratori di tale divinit travestita erano uomini vestiti da donna e donne vestite da uomini. Il poeta latino LEVIO (si veda) parla dell'adorazione di una Venere che non si sapeva bene se fosse maschio o femmina (sive femina sive mas); questi  stato talvolta chiamato Afrodito e in diversi esemplari di scultura questi si tira su le vesti rivelando d'avere genitali maschili, gesto tradizionalmente riconducibile a un rito magico dal potere apotropaico. La transizione da paganesimo a cristianesimoModifica Infine non va sottovalutato il fatto che,  vero, nel tardo impero romano fu la condanna cristiana a rendere l'omosessualit un reato (cio uno stuprum) sempre e comunque; tuttavia la terminologia usata per giustificare la condanna non  cristiana, ma  ripresa dalla filosofia greca e non dalla teologica ebraica. Il concetto di "contro natura", per esempio, viene da Platone, non dalla Bibbia. Per l'ebraismo, l'omosessualit non  contro natura, ma semmai impura, abominazione (to'ebah) Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualit ed Ebraismo. Tuttavia  innegabile che il cristianesimo e la morale giudaica e testamentaria funzionarono da base e fulcro alle leggi che, successivamente adottate dagli imperatori cristiani come Costante, Teodosio I e Giustiniano, proibirono e punirono con la pena capitale il nuovo reato di omosessualit. Teodosio era infatti fortemente influenzato dal vescovo di Milano Sant'Ambrogio, tanto che quando promulg la legge che condannava gli atti omosessuali passivi era sotto una penitenza assegnata dallo stesso Ambrogioin un contesto in cui si stava svolgendo una lotta tra ariani e cattolici e in cui gli "eunuchi", molto influenti nella corte imperiale, erano schierati per la maggior parte con gli ariani affermando la natura umana di Ges, ed esercitavano pressioni nei municipi contro i cristiani niceni, cio cattolici, che sostenevano la duplice natura, divina e umana di Ges, figlio di Dio. Un anno prima del decreto che puniva gli atti omosessuali, un decreto di Teodosio tolse agli eunuchi neo-ariani il diritto di fare e ricevere testamento. Sotto il dominio cristiano Nel Basso Impero il modo di concepire l'omosessualit cambia via via in modo sempre pi restrittivo, fino ad arrivare al codice Teodosiano che, recependo due leggi precedenti, reprimeva l'omosessualit passiva e l'effeminatezza con la pena capitale o la mutilazione, mentre con Giustiniano ogni manifestazione di omosessualit, anche attiva, fu bandita perch in ogni caso offendeva Dio, con riordino del sistema della persecuzione criminale e con pena di morte per infanda libido, formulando anche un giudizio morale ("infanda" = letteralmente che non pu esser detta, innominabile). Le cause di questo cambiamento legislativo, di irrigidimento e intolleranza sempre pi crescente verso l'omosessualit sono ancora oggi dibattute da alcuni storici e studiosi. Indubbiamente un ruolo importante fu svolto dalla morale cristiana e dal passaggio del Cristianesimo da religione segreta e proibita a religione di Stato, unica ammessa in tutto l'Impero. La morale cristiana infatti, a differenza di quella pagana greco-romana, considerava comunque peccato l'atto omosessuale, di l dal ruolo svolto, contrapponendo, alla visione maschilista tipica della societ romana sul sesso, una visione pi ascetica e distaccata in cui il sesso era sempre considerato un peccato e un atto impuro, al di fuori della finalit di unione nella complementarit sessuale evocata in Genesi e della apertura alla procreazione, e quindi dividendo le pratiche sessuali in lecite (rapporto tra uomo-donna atto alla riproduzione, sacralizzato a Dio tramite il matrimonio) e in illecite (tutto il resto, cio gli atti sessuali non atti alla riproduzione, tra cui anche l'omosessualit attiva e passiva, oltre che la masturbazione). Alcuni studiosi tuttavia ritengono che l'irrigidimento fosse stato coadiuvato, senza niente togliere alla morale cristiana sempre pi dominante, anche a un certo puritanesimo pagano sempre pi crescente di fronte alla decadenza dei costumi tipica del Tardo Impero. Apollo tra gli amati Giacinto (mitologia) e Ciparisso, del pittore Ivanov. Scultura di Bissen che ritrae Ila, bellissimo giovinetto amato da Ercole. Uno dei tanti busti dedicati dADRIANO (si veda) ad Antinoo. Rapporto sessuale tra Antinoo e l'imperatore Adriano in uno dei tanti dipinti erotici di douard-Henri Avril. Corteo trionfale del dio Bacco. Mosaico del II secolo. Busto romano di ragazzo (forse Polydeukes amato da Erode Attico), conservato all'Ermitage di San Pietroburgo Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico, Williams, Roman Homosexuality (Oxford Williams, Roman Homosexuality, passim; Elizabeth Manwell, "Gender and Masculinity," in A Companion to Catullus (Blackwell, Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman Cultural Revolution (Cambridge McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford. Si veda la dichiarazione conservata in Aulo Gellio sul fatto che vim in corpus liberum non aecum adferri). Cantarella, Secondo natura. 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Skinner, introduzione a Roman Sexualities (Princeton Langlands, Sexual Morality in Ancient Rome (Cambridge Per un ulteriore approfondimento su come l'attivit sessuale definisce il libero cittadino rispettabile dallo schiavo considerato non-persona e quindi passibile di qualsiasi abuso, vedi anche la voce Sessualit nell'antica Roma nella parte riguardante la relazione schiavo-padrone. ^ Amy Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman Empire (Blackwell La legge ha cominciato con l'indicare pene pi severe per le classi pi basse (humiliores) rispetto all'elite (honestiores). ^ Questo  un tema esposto da Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the Monster (Princeton Liber (Catullo) Carmina Elegie (Tibullo) Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico (Yale, originariamente in italiano) Svetonio, Vita di Cesare; Carmina, Svetonio, Vita di Cesare, (Vita di Augusto) Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, CUP, in books.google. com Plutarco, penelope. uchicago. edu/Thayer/E/ Roman/Texts/ Plutarch/Lives/Antony Vite parallele: Antonio] Fraquelli Omosessuali di destra Svetonio, Vite dei Cesari: Tiberio Svetonio, Vite dei Cesari: Vitellio III. Cassio Dione,; Tacito, Agricola, Cassio Dione, Pollione&source= bl&ots=ma--4gCTxi&sig= BLfjJsIiqk0vwvEuu2 VA Qh45m2Q&hl=it &sa=X &ei= UQ2vVOTfHMf7 ygOVl4K4 CA&ved=0CCYQ6A EwAQ#v= onepage&q= Clodio%20 Pollione& f=false ^ Silvae, Marziale Epigrammi (Marziale) NAr3Riy4EYMC &pg =PA60&lpg= PA60&dq= Clodio+Pollione& source=bl&ots= FTuncuSDtC&sig= Hwrnh0vVLuL C6digxZLfe KFhMyE&hl =it&sa= X&ei=UQ2vVO TfHMf7 yg OVl4K4CA&ved= 0 CDAQ6AEw Aw#v=onepage &q= Clodio%20 Pollion e&f=false M. Fraquelli Omosessuali di destra; Mambella, Antinoo. 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CICERONE (si veda), Pro Balbo; VALERIO (si veda) Massimo; Pseudo-Quintiliano, Decl; Paolo Orosio; Broughton, The Magistrates of the Roman Republic (American Philological Association, Kelly, A History of Exile in the Roman Republic (Cambridge; Richlin, The Garden of Priapus. Williams, Roman Sexuality. As at Apuleio, L'asino d'oro; Cicerone, Pro Caelio (in riferimento al suo nemico personale Publio Clodio Pulcro); Adams, The Latin Sexual Vocabulary (Johns Hopkins Geffcken, Comedy in the Pro Caelio (Bolchazy-Carducci, Giovenale, Satire; Erik Gunderson, "The Libidinal Rhetoric of Satire," in The Cambridge Companion to Roman Satire, Cambridge Richlin, The Garden of Priapus, Glossarium codicis Vatinici, Corpus Glossarum Latinarum IV p. xviii; see Gtz, Rheinisches Museum Primarily Amy Richlin, as in "Not before Homosexuality. Plautus, Curculio Williams, Roman Homosexuality, As summarized by Clarke, "Representation of the Cinaedus in Roman Art: Evidence of 'Gay' Subculture," in Same-sex Desire and Love in Greco-Roman Antiquity, Cicerone, Fillippiche, citato da Williams, Roman Homosexuality Williams, Roman Homosexuality, Martial; Juvenal. Williams, Roman Homosexuality, Hersh, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity (Cambridge Vout, Power and Eroticism in Imperial Rome (Cambridge, Williams, Roman Homosexuality, Le fonti sono citate da Williams, Roman Homosexuality, Dione Cassio; Williams, Roman Homosexuality. Tra gli altri: Durant; Koranyi Williams, Roman Homosexuality, citando Dione Cassio e Elio Lampridio. Cassio Dione, Historia Augusta, Cassio Dione, Erodiano Cassio Dione, Benjamin Godbout Richlin, "Not before Homosexuality,". As recorded in a fragment of the speech De Re Floria by CATONE (si veda) the Elder (frg. Jordan = AULO GELLIO (si veda), as noted and discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," Digest Richlin, "Not before Homosexuality,". See also Digest on legal definitions of rape that included boys. Richlin, "Not before Homosexuality," Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law, Williams, Roman Homosexuality. Digest, as noted by Richlin, "Not before Homosexuality," Richlin, The Garden of Priapus, in Marziale, Williams, Roman Homosexuality; Skinner, introduzione a Roman Sexualities; Richlin, "The Meaning of irrumare in Catullus and Martial," Classical Philology. Williams, Roman Homosexuality (con un esempio proveniente da Marziale Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome (Cambridge) Valerio Massimo; Richlin, "Not before Homosexuality," Richlin, "Not before Homosexuality," Quintiliano, Institutio oratoria; Richlin, "Not before Homosexuality," Richlin, "Not before Homosexuality, citando il passaggio proveniente da Quintiliano. ^ Men of the governing classes, who would have been officers above the rank of centurion, were exempt. Pat Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, Phang, The Marriage of Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial Army (Brill, Phang, The Marriage of Roman Soldiers, Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge University Press, Phang, Roman Military Service. See section above on male rape: Roman law recognized that a soldier might be raped by the enemy, and specified that a man raped in war should not suffer the loss of social standing that an infamis did when willingly undergoing penetration; Digest, as discussed by Richlin, "Not before Homosexuality, McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford Polibio, Storie (metodo antico di bastinado). Phang, The Marriage of Roman Soldiers, Phang, Roman Military Service, citing among other examples Juvenal, Satire Lo stesso nome  citato anche altrove in Plozio Tucca. Plutarco, Vita di Mario; vedi anche Valerio Massimo; Cicerone, Pro Milone, in Dillon e Garland, Ancient Rome,; in Dionigi di Alicarnasso 16.4. Discussione di Phang, Roman Military Service, e The Marriage of Roman Soldiers, Cantarella, Secondo natura. 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Rizzoli, RAYOR, Homosexuality in Greece and Rome: A sourcebook of basic documents. Univ of California Press, Voci correlate Storia LGBT Omosessualit nell'antica Grecia Omosessualit nel Medioevo Pederastia Pederastia greca Storia dell'omosessualit in Italia Collabora a Commons Commons contiene immagini o altri file su omosessualit nell'Antica Roma Portale Antica Roma Portale LGBT Lex Scantinia Sessualit nell'antica Roma Terminologia dell'omosessualit  Grice: And then theres Roman sex. Grice: Like me in Some remarks about the senses, Fardella with Giorgi follow Lucrezios materialism, -- and Ciceros sensible terminology on sensibilia! Nome compiuto: Michelangelo Fardella. Fardella. Keywords: metafisica, ontologia, razionalismo, aritmetica, geometria, solipsismo, percezione, vedere  sentire  atomismo di lucrezio, sensismo di Giorgi  Cartesio is actually borrowing it all from Platones Timeo  for whom the world is also only interpretable more geometrico. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fardella,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fariano: la ragione conversazionale e il circolo di Giuliano -- Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Friend of Giuliano. Studies  philosophy with Giuliano and Eumenio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fassò: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Igitur est RES PVBLICA RES POPVLI – l’implicatura di Bruto – scuola di Bologna – filosofia bolognese – filofosia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I like Fassò; for one, he was, like my friend H. L. A. Hart, a philosophical lawyer! But unlike Hart, Fassò, being a Roman, knew what he was talking about!” “My favourite is his explication of Bruto’s reaction when being brought the corpses of his two sons!” Fassò, mi viene a conforto col suo ottimo lavoro, che dà una diligentissima ed acuta interpretazione ed esposizione del corso non già logico ma storico, o per meglio dire, psicologico della formazione della Scienza nuova; esposizione che è utile possedere e che si segue con curiosità. Con pari bravura è condotta la ricerca di quel che VICO attinse o credette di attingere ai quattro suoi autori. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori,). Figlio di Ernesto, generale dell'esercito, e Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie Barbieri (il di lei nonno è Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia, moglie di Lodovico, era sorella di Alberto e Alfredo Dallolio), trascorre i suoi primi anni, fino all'adolescenza, fra il Piemonte (Mondovì), l'Emilia-Romagna (Parma) e la Lombardia (Mantova). Temperamento religioso, ereditato dall'educazione famigliare e dalla frequentazione con un anziano sacerdote, si caratterizza sempre per il rigore negli studi (perciò Mazzetti, suo compagno di gioventù, poté definirlo schivo degli incontri e quasi della società, teso in un impegno di chiarezza mentale, di serietà e finezza di sentire. Conseguita la maturità classica al Virgilio di Mantova, si laurea a Bologna, sotto Borsi con “L'elemento demografico nelle provvidenze assistenziali a favore dei lavoratori: la legislazione del lavoro”. Dopo aver rinunciato ad impiegarsi come funzionario nell'unione industriale, ottiene anche la laurea in Filosofia, sotto SAITTA (si veda), con “Vico e Michelet”. Confide poi al suo allievo,Pattaro, che la scelta della filosofia, lungi dall'essere redditizia, è un matrimonio con «madonna povertà», cui egli, tuttavia, non volle sottrarsi, non essendo versato, come rivelò a Nicolini, nella «professione forense. Svolse, quindi, l'attività di docente di storia e filosofia, inizialmente come supplente al "Galvani" di Bologna, poi a Forlì e, infine, al Liceo Righi di Bologna. Il suo saggio, dedicato a Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese, che, però, a causa dell'indisponibilità degli editori, sarebbe stato pubblicato, grazie all'intervento di Saitta come memoria dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Vicino al Partito Liberale Italiano, a guerra conclusa accetta di candidarsi, per il medesimo partito, alle elezioni comunali bolognesi.  Divenuto assistente volontario di Filosofia del diritto nell'Ateneo felsineo, fu convinto da Felice Battaglia a concorrere per la libera docenza, che ottenne. Nel medesimo anno, al Parma, gli viene quindi assegnato l'incarico in Filosofia del diritto. Aggiudicatosi l'ordinariato, si trasferì successivamente a Bologna, dove insegnò filosofia giuridica, presso la Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine politiche, nella Facoltà di Lettere e Filosofia.  Si occupa di studi vichiani (della cui validità scientifica è testimonianza una epistola di Solari, in cui si apprende che l'interpretazione giuridica della Scienza nuova proposta da F. supera la visione Croce-Nicolini, ponendosi al livello qualitativo di quelle di Fubini e di Donati) e groziani, della cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio e scrisse VICO (si veda) e Grozio, nonché, la Storia della filosofia del diritto in tre volumi, giudicata da Bobbio come la storia della filosofia del diritto più completa» esistente sulla faccia della terra. Oltre Croce, F. criticò anche GENTILE (si veda), autore di una concezione speculativa indubbiamente grandiosa, che si risolveva, però, in vana retorica, negante, entro la dialettica dello spirito, la realtà del fenomeno giuridico. Fra le altre opere, La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; dello stesso anno è La legge della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia del diritto uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata rivalutazione» del diritto naturale; Società, legge e ragione, apparso nell'anno della morte (i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono scritti precedenti). Le pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza l'ispirazione teoretica di F. sono, invece, La storia come esperienza giuridica  (in cui, ha commentato BOBBIO (si veda) si dimostra che tutti i rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un germe di organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche») e Cristianesimo e società, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico, incontrando financo il favore di Prezzolini. Il suo testament disponeva funerali semplici, «senza fiori e senza seguito di estranei. In un codicillo, inoltre, soggiungeva che, se si trovassero miei scritti incompiuti, manoscritti o dattilografati, non si stampino, perché non possono essere stati riveduti come avrei ritenuto necessario», congiuntamente all'invito a non raccogliere «in volume opuscoli sparsi o scritti minori, operazione che non dovrebbe mai esser fatta se non dall'autore». Alla memoria di F., oltre che a quella di Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica a Bologna,. Benché F. abbia apprezzato il Romano sostenitore della concezione non normativistica del diritto, egli non poté tacerne il limite, consistente nell'assenza di una «definizione esauriente» dell'istituzione, dovuto alla volontà di Romano di tenersi «fuori dal campo della filosofia». Il più limpido storico del giusnaturalismo». Formatosi filosoficamente nella temperie culturale neoidealistica, Fassò se ne distaccò, rifiutandone soprattutto l'immanentismo, con La storia come esperienza giuridica, opera ispirata dalle suggestioni istituzionalistiche di Romano (ma di questi deplorerà, nella successiva Storia della filosofia del diritto, il circolo vizioso, per cui una istituzione è giuridica solo quando è giuridica. A Croce, che faceva coincidere storia e filosofia, F. replica con l'identificazione di storia e giuridicità, estendendo il concetto di istituzione — contrariamente a quanto aveva fatto Romano, e risolvendone così il circolo vizioso — a tutti gli aspetti della vita sociale, cioè della vita dell'uomo nella storia, che è sempre vita dell'uomo in società. L'elisione dell'identità fra realtà storica e razionalità filosofica non implica la rimozione dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità conoscitiva, ricadendo la «concreta unità del reale» (sotto l'aspetto gnoseologico) nell'ambito del privo di senso, sebbene restasse attingibile in uno slancio mistico, descritto, in una pagina de La legge della ragione, come partecipazione dell'«uomo al valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli Dio per unirsi a lui, trascendendo la propria umanità, la propria soggettività empirica, storica». È importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia legato l'Assoluto a uno slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo misticheggiante, ma — giusta l'osservazione di Vallauri — abbia formulato un «dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità dell'etica intesa come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione essenziale della ragione giuridica nel mondo. Proprio il riconoscimento della centralità della ragione giuridica nel governo della «concreta molteplicità del reale» costituì, per F., un ulteriore motivo critico nei confronti dell'anti-gius-naturalismo crociano, da cui, dopo l'approfondimento della storia del giusnaturalismo, prese più convintamente le distanze. La concezione giusnaturalistica fassoiana, infatti, cerca di non cadere nell'errore proprio della tradizione precedente (errore che nella Storia della filosofia del diritto, non esitò a indicare quale «difetto capitale» della scuola del diritto naturale, consistente nell'astrattismo e nel conseguente antistoricismo), intendendo il diritto naturale quale ordine che nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere inserito proprio per la sua dimensione storica, che è la sua dimensione essenziale. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte. Croce, Illusione degli autori sui “loro” autori, su Quaderni della Critica, Laterza, Ora anche in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Savorelli, Napoli, Bibliopolis, Cfr. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza. La sua ricerca di Saitta, anche storica, sembra inscindibile da una polemica e da una protesta. Polemica e protesta che attraversano ugualmente l'attività così di Calogero come dello Spirito, annoverati talora col Saitta fra gli esponenti della sinistra gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo benevolmente, di crocianesimo». Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F.. F. segue con particolare attenzione i corsi di Saitta, che gli suggerì di approfondire Michelet, che lo avrebbe condotto a Vico.  Scheda senatore Dallolio, su Scheda senator Dallolio, su senato. Le parole di Mazzetti sono riportate in Faralli, Il maestro e lo studioso, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino, Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico, Bologna, Società Tipografica già Compositori,Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico. Bologna, Tipografia Compositori, Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni sulla gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di F., in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino. “Mi disse che ci sarebbe stato un concorso per assistente ordinario alla cattedra e mi chiese se fossi interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due avvertimenti sui quali avrei dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi sono: "chi fa filosofia del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa madonna povertà e nell'università occorre sapere ingoiare amaro e sputare dolce perché l'intelligenza degli accademici è di regola superiore a quella dei comuni mortali, e ciò implica che essi siano capaci di cattiverie più raffinate e perfide di quelle di cui sono capaci i comuni mortali. La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini, richiamato da E. Pattaro, nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F., premesso. In altre lettere allo stesso Nicolini, scrive di non sentire nessuna vocazione per la professione forense. Curriculum vitae di Andrea Fassò, Consiglio Nazionale del Notariato.. Gli studi vichiani di F., in Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida, Ha ultimato VICO nel pensiero del suo primo traduttore francese nel ma causa la difficoltà di trovare un editore — non gli fu possibile pubblicarlo allora: soltanto poté presentarlo all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Saitta. Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F., in F., Scritti di filosofia del diritto,  Pattaro, Faralli, Zucchini, Milano, Giuffrè.  Dopo i disagi della guerra, aveva ripreso le proprie ricerche incoraggiato da Battaglia, che lo convinse ad affrontare l'esame di libera docenza in filosofia del diritto. Conseguita la libera docenza in filosofia del diritto, F. ebbe il suo primo incarico in questa materia, a Parma. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Battaglia,  F.: in memoria, in Rivista di filosofia del diritto [giunse] alla libera docenza, e nello stesso anno lo abilitarono a tenere l'incarico della filosofia del diritto nella Parma, ove divenne professore della materia. Passa all'Bologna, dove rimase titolare della disciplina, tenuta con alto prestigio e qualificata dignità fino alla morte che ne chiuse la laboriosa giornata».  Pattaro, Gli studi vichiani di F., in Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida. Tra le carte personali di F. ho trovato una cartolina postale, vergata fitta fitta da Solari. In essa, tra le altre cose, è scritto: ‘Da tempo ero convinto della verità della interpretazione giuridica della Scienza Nuova: ma Lei ne ha dato ampia, profonda, persuasiva dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta è frutto della Sua modestia, e della Sua serietà di studioso. Il suo saggio sui quattro autori può stare a paro cogli scritti vichiani di Donati e Fubini e supera la visione Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della scienza nuova stanno ancora sulle generali. Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più complete. Così Bobbio saluta la Storia della filosofia del diritto. In tutta la filosofia del Gentile si ha una concezione speculativa indubbiamente grandiosa, ma che si risolve in vana retorica, negante l'esperienza della realtà effettuale. Non è tuttavia dalla negazione della molteplicità dei soggetti che discende la negazione della realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come in quella del Croce, essa è compiuta in relazione alla dialettica dello spirito, cioè del soggetto assoluto. È importante, infine, sottolineare il valore di impegno civile che il filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso venne riconosciuto dalla traduzione greca. Thessalonike, Poseidonas], all'epoca della dittatura militare in Grecia».  Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, prefazione di Ferrajoli, Roma-Bari, Laterza,  Bobbio, La filosofia del diritto in Italia, in Jus, Milano,  Faralli, I momenti della riflessione critica su F., Prezzolini chiosa Cristianesimo e società sia in un articolo su Il resto del carlino sia nel libro Cristo e/o Machiavelli. Conservo la prima edizione di Cristianesimo e società, egli scrive. La volli come compagna perché dovevo moltissimo a quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la conferma dotta, serena, eppure appassionata di un punto di vista importante. Prezzolini ritiene di aver trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al corrente della produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi filosofici, quelle stesse idee che anch'egli aveva manifestato ‘lanciate piuttosto da un intuito che da un sapere storico Annuario, Bologna, Tipografia Compositori, Pattaro, Ricordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica, sStoria della filosofia del diritto, edizione aggiornata Faralli,  Roma-Bari, Laterza. Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della filosofia, non sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti quello del Croce, che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è sostenuta unicamente sul terreno della considerazione empirica del diritto, e non vuole avere né premesse né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra di essa. Neppure il Romano dà del concetto di istituzione una definizione esauriente».  Marini, Il giusnaturalismo nella cultura filosofica italiana del Novecento, in Storicità del diritto e dignità dell'uomo, Napoli, Morano, Cfr. Matteucci, recensione a F., Cristianesimo e società, Giuffrè, Milano, in Il Mulino,  «L'esigenza filosofica fondamentale che si palesa nei lavori del F. è quella di uscire dallo storicismo immanentistico dei Croce e dei Gentile che vedeva nella storia la manifestazione di un principio assoluto (lo Spirito, l'Atto. Cfr. Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale, in appendice a F., La storia come esperienza giuridica, Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino. L'esperienza che Fassò aveva avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima metà del secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani, condotti in chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva un'ipoteca con cui dover fare conti precisi, in sede teoretica, sia pure di filosofia del diritto, venne chiamata ad un inevitabile redde rationem. F., Storia della filosofia del diritto, Faralli, Roma-Bari, Laterza, Il giudizio, tuttavia, è già presente in F., La storia come esperienza giuridica. È proprio questo, del resto, il punto debole della dottrina del Romano, che fu subito rilevato dai suoi critici: il circolo vizioso in cui egli si aggira, presupponendo la giuridicità di quella istituzione che poi identifica con il diritto. In altre parole, Romano afferma che sono istituzione, ossia ordinamento giuridico, ossia diritto, quegli enti o corpi sociali che hanno carattere giuridico. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Farnetti, con una nota al testo di Sasso, Napoli, Bibliopolis, Croce, La storia come pensiero e come azione, Conforti, con una nota al testo di Sasso, Napoli, Bibliopolis, «Si può dire che, con la critica storica della filosofia trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica. Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia: la filosofia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. La storia come esperienza giuridica. L'esperienza giuridica non è altro che l'esperienza umana nella sua totalità, la storia stessa insomma dell'uomo. In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di F., «La concreta unità del reale, l'universale concreto, è un residuato della grandiosa retorica metafisica idealistica. F., con l'onore delle armi, lo colloca nella dimensione che gli compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile, incomunicabile per definizione: dell'indiscutibile che è tale non perché sia vero o certo di là da ogni ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile oggetto di discorso, non è suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni comprensione e spiegazione razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di senso. Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale. Resti chiaro, peraltro, che F. rinvia sì al piano mistico l'unità del reale, l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma che, non per questo, egli professa una filosofia mistica intuizionistica. Il giudizio di Vallauri è espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè, Milano. Considerata nel suo arco complessivo, forma un dittico, che da un lato ribadisce rigorosamente la sopragiuridicità della esperienza cristiana giunta al suo culmine (identificato nella carità), e dall'altro lato riconosce la funzione preziosa della ragione giuridica nel mondo, dove ogni individuo limita e contraddice l'altro e dove una norma di coesistenza è indispensabile’») e accolto in F., Società, legge e ragione, Milano, Comunità, Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di F., La concreta molteplicità del reale, il flusso eracliteo dei particolari concrerti, l'eterogeneo continuum di cui parla richiamando Ross, è la realtà empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili, non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente identici. Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr., per esempio, Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Tarantino, con una nota al testo di Sasso, Napoli, Bibliopolis. Contraddittorio è altresì il concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello, di un diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori, si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di colpo lo svolgimento, concludersi la Storia, morire la vita, disfarsi la realtà. Sulla presa esplicita di distanza di F. da Croce, cfr. Società, legge e ragione. Ho continuato a ripetere la stessa cosa. Il diritto nasce dalla natura umana, la quale è natura storica e natura sociale. Ho rifiutato dapprima, sotto la suggestione dell'anti-gius-naturalismo del tempo in cui ero cresciuto, di chiamare naturale un siffatto diritto. Più tardi, dopo avere approfondito la conoscenza storica del gius-naturalismo ed essermi meglio chiarito la parte che esso ha avuto nella difesa della libertà contro l'assolutismo politico, mi sono deciso a designare con quell'aggettivo in realtà equivoco il diritto che la ragione trova nella natura della società. Laddove, invece, si è riscontrata coincidenza cronologica, si è preferito seguire l'ordine alfabetico. Altre saggi: “I quattro auttori del Vico: saggio sulla genesi della Scienza nuova” (Milano, Giuffre); “La storia come esperienza giuridica, Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristianesimo e società” (Milano, Giuffrè); “La democrazia in Grecia, Faralli, Pattaro e Zucchini (Milano, Giuffrè); “Il diritto naturale” (Torino, ERI, “La legge della ragione, Faralli, Pattaro e Zucchini (Milano, Giuffrè); “Storia della filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza); “VICO e Grozio” (Napoli, Guida);  “Società, legge e ragione” (Milano, Edizioni di Comunità); “La flosofia del diritto” (Milano, Giuffrè); Diritto della guerra” (Napoli, Morano). Dizionario biografico degli italiani, Gli studi vichiani di F., Centro Studi Vichiani,  Napoli, Guida), “Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F.”, “In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di F.”, “Lo storicismo di F.”, “Sulla annosa e ricorrente disputa tra positivisti e giusnaturalisti”, “Un itinerario filosofico tra diritto e natura umana”.  L'iniziativa di raccogliere gli scritti di filosofia del diritto di F. è altamente opportuna e meritoria. Gli studiosi ne debbono essere grati ai curatori: Pattaro (che al Maestro è succeduto sulla cattedra bolognese), Faralli, Zucchini. Con questi tre ricchi volumi diviene facilmente accessibile una produzione, altri- menti sparsa in riviste e in atti occasionali, che sta a testimoniare il cammino limpido e coerente di una tra le personalità intellettualmente più vive ed oneste della nostra cultura del secondo dopoguerra, purtroppo strappata anzi tempo agli studi. I curatori avvertono che del- l'opera di F. rimangono escluse da questa pur ampia raccolta le opere pubblicate quali volumi separati, articoli occasionali che sono parsi non riconducibili alla filosofia del diritto, e scritti di letteratura e di critica cinematografica. Si può convenire sull’opportunità di preservare la purezza e omogeneità scientifica della raccolta, escludendo gli scritti delle due ultime categorie menzionate; giudicheranno i curatori, o altri studiosi interessati, se non sia opportuna la pubblicazione separata degli scritti minori ora esclusi, per dare un’immagine completa della cultura e dell’evoluzione di F., ovvero di uno studioso che, alieno quant’altri mai da digressioni e dilettantismi, mostra però in ogni pagina la vastità e classicità delle proprie conoscenze. Evidente è invece la necessità di escludere le opere apparse quali volumi separati. Tra esse sono opere a tutti note, che hanno saldamente stabilito il prestigio scientifico di F. Basti ricordare gli studi vichiani e groziani (da I (( quattro auttori D del VICO. Saggio sulla genesi della Scienza nuova, alla cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio, dello stesso anno, a Vico e Grozio, e la fondamentale STORIA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO – DA CICERONE A CICERONE. Sono anche da ricordare: La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; La legge della ragione, dello stesso anno; Società, legge e ragione, apparso nell’anno della morte (ma i due ultimi volumi raccolgono e rifondono scritti precedenti, che si trovano in questa stessa raccolta). Ricordiamo per ultimi, non per caso, i due scritti in cui è documentata la fisionomia teoretica di F., il quale, se fu grande storico del pensiero, ebbe anche un’impronta filosofica originalissima, e una chiarezza ideale che diede senso unitario ai molti interventi su problemi teoretici, oggi raccolti nei presenti volumi. Ci riferiamo alle opere L a storia come esperienza giuridica, e Cristianesimo e società. Oltre agli scritti di F., la raccolta contiene: una Nota dei curatori, che spiega i criteri seguiti;un’ampia Introduzione di Pattaro, dal titolo Sull’assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F.; na Bibliografia degli scritti filosofico- giuridici di F., a cura di Zucchini; uno studio di Faralli dal titolo I momenti della riflessione critica su F.. Di modo che questi volumi offrono una base per chiunque si accosti criticamente all’opera e al pensiero di F.: lo status quaestionis è chiaramente delineato. È ancora da dire che gli scritti di F. sono ripartiti in tre categorie: saggi e articoli,  voci di enciclopedia, e recensioni. Saggie articoli occupano la maggior parte dei volumi, notevole è però anche la mole delle voci di enciclopedia: un genere che F. coltiva con assiduità, e che era particolarmente congeniale alla sua mente storica, e alla chiarezza concettuale alla quale egli era sempre solito congiungere rigorosamente la ricostruzione storica: poche pagine sono in grado, in queste voci, di dare le linee maestre di Milano un tema, o dell’opera di un autore (esemplari ci sembrano, tra le voci su temi teoretici, Democrazia,e Giusnaturalisrno;tra le voci su temi storici, quelle sui due autori di F. per eccellenza, Groot, e VICO Non molte sono invece le recensioni in chi pure e studioso di larghissime letture. Se si tolgono le recensioni legate agli esordi scientifici e ai loro temi, rimangono pochi interventi; tra questi dobbiamo ricordare, per l’interesse oggettivo e per la luce che portano sulla personalità di Fassò, le recensioni dedicate ad autori coi quali egli fu in singolare vicinanza spirituale: come le recensioni a volumi di BOBBIO su temi filosofico-giuridici, o al volume di PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica moderna -- la recensione. Peraltro, per valutare la presenza attiva, insieme critica e costruttiva, di F. nella filosofia italiana, si deve pensare alle molte discussioni che egli costantemente e con passione sollevava su temi storici e teoretici: più della recensione, lo attraeva la discussione ampia che ruotasse intorno a un problema a lui congeniale. Si pensi alle osservazioni che egli svolse su due saggi di COTTA, ancora uno studioso col quale egli fu in profondo dialogo: i libri di questo su AQUINO e su AGOSTINO sollecitarono la meditazione di F. in due articoli: AQUINO giurista laico? e Agostino e il giusnaturalismo.Inoltre, tutta l’attività di . fu segnata dalla polemica, spesso anche dura o sarcastica, che egli rivolgeva ad autori grandi e piccoli, lontani e vicini. Polemizza su temi filologici ed eruditi, riprendendo e correggendo; polemizzava su problemi teoretici, dove non trovasse chiarezza di pensiero, egli che era scrittore limpido e rifuggiva da qualsiasi ambiguità o da compiacenti silenzi. Talvolta colpisce, ancor oggi, la durezza della polemica; ed egli ne era certo consapevole, e scrisse una volta queste parole, che valgono a spiegare un tratto della sua personalità: nella sua connaturata avversione ai radicatissimi luoghi comuni nella ricerca scientifica come nei modi del pensare politico, egli replica sempre con vigore, e talora con troppo vigore, e metteva in luce componenti opposte a quelle Comunemente accettate, Seri- veva: (Forse, nel cercare di metterle in luce, ho calcato troppo sulla loro importanza? Se questo è avvenuto, è stato (per ricorrere ancora una volta a Grozio e prendere a prestito da lui l’immagine di cui si serve a proposito di Erasmo con l’intenzione con cui si piegano in senso opposto gli oggetti incurvatisi, per cercare di farli tornare nella posizione giusta D. In quell’occasione, egli parlava delle convinzioni diffuse sulle componenti originarie dell’etica laica, di solito vista derivare dal protestantesimo e dai suoi moti preparatori; mentre egli vedeva componenti più ampie, e radici che egli individua per gran parte proprio in AQUINO (si veda).. Egli era quindi in uno dei campi prediletti della sua indagine; ma quell‘intenzione lì dichiarata e illustrata, con l’immagine degl’oggetti incurvatisi vale a farci comprendere la intransigente vena polemica, strumento per riportare alla  posizione giusta, che nel suo caso era la posizione della verità scientifica e del rigore metodologico. Di quella vena polemica, gran parte degli scritti qui pubblicati sono testimonianza, talora vivacissima. C’e in F. tutta la serietà intellettuale di chi conosce la fatica della paziente ricerca quotidiana. Non solo la storia del pensiero propriamente detta, con le sue regole filologiche; anche la filosofia aveva i suoi canoni e le sue conoscenze tecniche. Nel corso di una polemica, su uno dei temi che più gli stettero a cuore, quello del rapporto fra cristianesimo e società, egli scrisse, sulla dignità della filosofia, parole di sapore hegeliano, che hanno la loro permanente e ritornante validità. Allora, ammoniva disinvolti (( giuristi cristiani a starsene nei propri confini di giuristi; il cristianesimo era altra cosa, e scrive. E strano, ma mentre tutti fanno a gara a dire che LA FILOSOFIA  è cosa astrusa, non v’è nessuno che non si senta legittimato a discuterne senza alcuna preparazione: ciò che non si sognerebbe di fare riguardo a qualsiasi altro argomento scientifico o tecnico. Perché egli, che era in senso proprio e fino in fondo FILOSOFO del diritto, ha chiara la dimensione filosofica e CONCETTUALE della propria ricerca, e non intese mai che la propria controversa disciplina fosse riducibile a riflessione o generalizzazione di giuristi dotati di vocazione, temperamento, sia pure cultura, Opportunamente, gli scritti di F. sono riprodotti in ordine cronologico -- all’interno delle tre categorie citate sopra: saggi e articoli; voci di enciclopedia; recensioni. Se si tengono presenti anche i saggi pubblicati come volumi a parte, e sopra ricordati, ne viene la possibilità di giungere ad una periodizzazione. Pattaro, nel suo studio intro- duttivo, suggerisce la quadripartizione seguente: il periodo dedicato alla STORIA della filosofia, in particolare a VICO. Il periodo che comprende La stovia come esfierienza giuridica e Cristianesimo e società, caratterizzato precipuamente dalla tematica, che potrebbe dargli il nome, ‘Assoluto e storia e il periodo culminante nei volumi primo e secondo della Storia della filosofia del divitto che potrebbe intitolarsi a ‘ I1 diritto naturale, il periodo nel quale si conclude la grande opera storiografica, che potrebbe di converso intitolarsi a ‘il diritto positivo.’ Così Pattaro, e con buone ragioni. Ma egli stesso ricorda che il Maestro (( riconobbe valida in uno dei suoi ultimi scritti la distinzione-periodizzazione suggerita da Vallauri, il quale vedittico affermante - così riferiva F. consentendo intesa come esperienza religiosa, e dall’altro la funzione essenziale della ragione giuridica nel mondo. Società, legge e vagione. Vallauri formula quel suggerimento deva nella sua opera come un da un lato la sopragiuridicità dell’eticità in Amicizia, carità, diritto, Milano. Tenendo presenti i punti di vista espressi dai due studiosi, saremmo propensi a vedere una tri-partizione, che è insieme una partizione temporale e tematica, una periodizzazione e una distinzione di interessi scientifici; dove i periodi si collegano l’un l’altro per affinità e per approfondimenti in- terni. Il primo periodo vede nascere gli studi su VICO e su Grozio, e che è segnato dalla presenza di motivi neo-idealistici e dall’emergere dell’originale storicismo di F. Il secondo periodo vede apparire il dittico di cui parla Vallauri, quel dittico a cui Pattaro dà il nome di assoluto e storia. In questo, è enunciata la filosofia di F.; gli anni successivi approfondiranno e talora ritoccheranno, ma i pilastri sono già posti saldamente. Dove la periodizzazione di Pattaro sembra meno giustificata, perché forse c’è soltanto accentuazione all’interno di un’unità, è in una cesura che pone. Sembra di poter dire che tutta l’attività e che muove, come Pattaro ricorda, dall’articolo ‘AQUINO, giurista laico?’, è dedicata alla meditazione integrale, per estensione dia-cronica e sin-cronica, del problema della ragione giuridica nel mondo storico-sociale: è ripercorso tutto il pensiero occidentale; si ha la progressiva accettazione di un diritto di ragione, il quale ha una sua autonomia di fronte al diritto tradotto in leggi. Anche la riflessione politica di F. e più, certamente, dopo gli sconvolgimenti, rientra in quella visione di una ragione che opera nella storia con i suoi equilibri e meccanismi. Gli scritti raccolti in questi volumi consentono di ritrovare gli aspetti salienti della meditazione di F., di ripercorrerla nelle singole tappe del suo maturarsi, di seguire, come in una fuga a più voci, l’accedere di nuovi motivi a quelli di datazione più antica. In questo senso, come s’è già detto all’inizio, grande è l’utilità di questa raccolta per chi studi l’opera di F.; non solo, ma per chi si dedichi a ricostruire la vita intellettuale e morale, la cultura politica di quegli anni, I n questa occasione, a chi scrive interessa porre in luce alcuni essenziali aspetti teoretici di quella riflessione. Ma ciò non intende certo sminuire il rilievo che si deve riconoscere a F. storico delle idee. Lo studioso di VICO e di Grozio, del diritto naturale classico, cristiano e moderno, è tale che ogni suo contributo è degno di attento studio vuoi per l’oggetto trattato, vuoi per ricostruire in modo più adeguato l’evoluzione dello stile di ricerca storiografica del suo autore, vuoi infine per gli apporti d’ordine teoretico che esso fornisce. In quest’ultimo senso, quello che qui interessa maggiormente, molti studi storici apportano argomenti per la visione della storia e della sua organizzazione giuridico-politica. Ma per fermarsi al solo rilievo storiografico, si deve ricordare che in questi volumi tornano studi su molti temi tipici e prediletti dell’attività di F.. Si vedano i vari ritorni su VICO: Vico nel pensiero del suo primo traduttore francese (dedicato al rapporto Vico-Michelet); al quale si ricollega, ventun anni dopo, U n presunto discepolo di Vico. Michelet; e inoltre vari interventi critici sulla Scienza Nuova e su temi vichiani, a cominciare dalla Genesi storica e genesi logica della filosofia della Scienza nuova, per finire con lo  Il problema del diritto e l’origine storica della Scienza Nuova. Si vedano anche gli scritti vari su Grozio: Grozio tra medioevo ed età moderna, e il saggio, assai significativo per l’evoluzione personale di F., Ragione e storia nella dottrina di Grozio. Accanto a tali studi dovrebbero esserne menzionati molti altri, a cominciare da quello su Sociologia e diritto nella filosofia civile di ROMAGNOSI, fino ai molti studi su temi storici, sulla laicità immanente in pensatori cristiani, o sull’evoluzione del pensiero giuridico in senso più stretto, come nel saggio postumo, scritto per la Storia delle idee politiche, economiche e sociali diretta da FIRPO, dal titolo La scienza e la filosofia del diritto: ricostruzione storica ammirevole nella sua lucida sinteticità, frutto maturo di una mente storica che aveva già prodotto le sue opere maggiori. Né si devono dimenticare i ritornanti interessi per il mondo greco, e per la forma democratica che in esso si realizzò: valga l’esempio dello studio dLa democrazia nell’antica Grecia e la riforma agraria. Si può dire che non manchi, in questa raccolta, nessuno dei grandi temi storiografici di Fassò: VICO e Grozio, il pensiero cristiano, l’affermarsi della ragione giuridica, la grecità. Chi voglia ricostruire l’itinerario scientifico di F. storico delle idee, avrà ora a disposizione un materiale imponente, qui riunito dalle varie sedi in cui egli usava pubblicare i suoi saggi e articoli, e che erano quasi sempre riviste giuridiche: singolare e significativa predilezione in un autore che non ridusse mai la filosofia del diritto a teoria generale del diritto, ne volle preservata la filosoficità, ma volle anche mostrare come non si potesse prescindere dalla cono- scenza dei problemi scientifici del diritto. In questo senso si può esser certi che F. ebbe profonda e genuina dimestichezza con i problemi dei giuristi. Anche lo stile del suo pensiero e il suo stesso modo di esprimersi, serio e sobrio, tutto attento alle prove e ai nessi concettuali, risentiva beneficamente della formazione giuridica e degli interessi giuridici, anche se questi non furono peculiari ad un ramo specifico del diritto, ma si rivolsero piuttosto alla teoria generale, e semmai ai modi procedurali del divenire del diritto - si pensi all’interesse per il problema del giudice - come a quelli in cui meglio si scorge l’originalità della ragione giuridica nel suo affermarsi. Si può anche dire che la cultura giuridica di F. influì sull’originale forma del suo storicismo, al quale, fino agli ultimi anni, egli non venne mai meno, Gli scritti appartenenti al primo periodo mostrano F. che, movendo dall’interno della prospettiva neoidealistica, ne esce con una propria visione della realtà come storia, e della storia come struttura in sé organizzata, razionale, scandita in istituzioni. Lo stori- cismo assoluto di Croce (un autore che, pure, F. ha ben conosciuto) è estraneo a questa forma di storicismo, tutto fatto di cose e di nessi reali, Vico e Grozio sono stati i fondamenti filosofici di questa visione della storia, Pattaro pone bene in luce come l'avversione di F. a un razionalismo astratto divenga visione storicistica nei primi studi vichiani riferisce quanto F. stesso scriveva, sull’esser vichiani per il fatto di avere una visione della storia come concreta razionalità. Pattaro prosegue illustrando il passaggio di F. dagli studi vichiani, condotti in quell'atmosfera speculativa (non necessariamente o integralmente condivisa), alla personale visione storicistica del diritto. Qui influirono le nuove correnti che si affacciavano in Italia. Le suggestioni del neoempirismo che si affaccia nella nostra cultura trovarono un'accoglienza non ostile in un F. convinto che, nella filosofia del diritto, molto spesso l'empirismo non è lontano dallo storicismo, La specifica tematica giuridico-filosofica, lo fa incontrare con le correnti sociologiche ed istituzionalistiche, ma nel contempo lo induceva, per superarne 1’oggettivismo naturalistico, ad adottare un'impostazione filosofica di fondo lato sensu kantiana, così Pattaro. In queste parole è detto l'essenziale sulla visione filosofica di F. I1 quale descrive egli stesso come vede la crisi dell'idealismo, provocata da varie correnti di pensiero, che egli enumera: il marxismo, l'esistenzialismo, lo spiritualismo cristiano, il neopositivismo. Empirismo e storicismo, egli li accosta nelle parole prima citate, tratte dall'Introduzione ai Prolegomeni di Grozio e nuovamente li accosta, parlando dell'opera di Levi, quando ritene utile muovere, sia pur con misura e senso delle sfumature, dalla constatazione delle affinità tra storicismo idealistico e sociologismo positivistico. In quello stesso scritto su Levi, F. avverte un'analogia tra due generazioni in crisi, quella di Levi, che usce dal positivismo, la sua, che usce dall'idealismo: due generazioni accomunate da una posizione che conduce ad apprezzare, non già i beati possessori della verità, ma coloro che sono andati faticosamente fabbricandosene una, senza cieche fedeltà a dogmi e senza chiudere gli occhi davanti alla storia in cammino. Quello scritto su Levi vede, come altri scritti, lo sgretolarsi dell'idealismo per l'irruzione di nuove tendenze di pensiero, più legate all'osservazione diretta dell'esperienza. Rientrano in questo quadro anche le polemiche che F. conduce contro le facili riesumazioni del diritto naturale, talora troppo coerenti, e inconsapevoli nella loro professione di un diritto astorico, talora troppo incoerenti e disinvolte nella loro combinazione di diritto naturale e storia. Lo storicismo era così diffuso in quegli anni, e senza effettiva consapevolezza critica, che si ebbero anche coloro che F. chiama i giusnatural-storicisti. Lo storicismo di quegli anni, e specialmente all’interno della cultura filosofico-giuridica (una cultura, in quel periodo, assai vivace, in ricambio con altri àmbiti filosofici e culturali), è uno storicismo di origine, più che filosofica, empiristica, o addirittura empirica: fu lo storicismo di chi era cresciuto nell’indagine delle teorie giuridiche sociologiche e istituzionalistiche, e medita sul diritto e sui modi del suo farsi.I1diritto come sistema storicamente progrediente, avrebbe detto Savigny; e in modi affini pensano Romano, Gurvitch, Capograssi, per fare soltanto pochissimi ma influenti nomi (per la valutazione dell’influenza di Capograssi, si può qui vedere la recensione di F. alla IntevFYetazione di Capograssi, pubblicata da Carnelutti). Anche lo storicismo di F. si modellò in aspetti affini, pur nella indubbia sua penetrazione filosofica. Ma quello storicismo, se aveva le sue basi in Vico e in Grozio, si approfondì e dispiegò nella visione istituzionalistica del diritto. Tra gli autori di . non è Hegel (né in sé né nelle scuole che a lui si richiamarono), e non sono gli autori del moderno storicismo indivi- dualistico, da Dilthey in poi, che tanta influenza avrebbero avuto su Piovani, pure affine a F. per più interessi ed aspetti. Si può dire allora che lo storicismo professato da F. fu di impronta giuridica. Ebbe tratti affini allo storicismo post-crociano da molti condi- viso in quegli anni; ma non derivava tanto da precise correnti filosofiche, quanto dai giuristi non strettamente positivisti: la scuola storica del diritto in Germania; ma molto di più le correnti istituzionalistiche; e infine la tradizione di common-law, da F. ammirata come esem- plare organizzazione giuridica e politica e presidio del valore liberale della dignità deli’individuo. La storia era, secondo il titolo dell’opera, ESPERIENZA  giuridica; e non era questo un pensiero da poco, ma anzi una robusta e meditata posizione storicistica, perché il diritto, come struttura razionalizzatrice e regolatrice della convivenza, mo- strava la ragione immanente alla storia, che era anche l’unica ragione accessibile all’uomo. Avverso al razionalismo omnicomprendente - fosse la metafisica metastorica della tradizione o la metafisica della storia come totalità (idealismo, materialismo storico) -, F. crede in una razionalità che guida la convivenza, che nasce dall’interazione di individui e di gruppi, che è garanzia di libertà per gli individui. I valori nltimi, invece, non sono accessibili agli uomini per via razionale; la ragione non può che fermassi a questo mondo terreno, e studiarlo nelle strutture che in esso si formano e variano. Era una visione, se vogliamo parlar filosoficamente, neokantiana, nel senso di tanto neokantismo diffuso nella filosofia del diritto e nelle scienze sociali. Conoscibile razionalmente il mondo dei fenomeni come mondo storico; non-conoscibile, ma soltanto sperimentabile emozionalmente, il mondo del valore. Cade la fondazione pratica della morale; restava la inconoscibilità dei valori ultimi. In questo senso, Radbruch o Weber non pensano diversamente. Quel che ebbe F., a differenza di questi autori (ma non del neokantismo in genere), è l’interesse per quel sopramondo che egli affermava non-conoscibile, e che vede tradotto, nella forma più pura, nel cristianesimo, è questo l’altro versante della filosofia di F., che si tradusse in Cristianesimo e società, opera tra le più alte della nostra cultura recente. E forse interessante notare quel che scrive F., recensendo Piovani sul giusnaturalismo. Piovani fa sua la proposizione (la personalità stessa è l’assoluto), che d’altronde traeva da Kierkegaard, e la svolgeva nel senso di un individualismo visto come unico coerente sbocco dell’etica moderna. Scrive F. E qui si potrebbe, naturalmente, discutere a lungo  e del resto anche chi, come me, davanti alle affermazioni di una presenza, che non sia totalmente mistica, dell’assoluto nell’individuo, rimanga perplesso, e non veda come un ipersoggettivismo quale quello professato da Piovani possa sfuggire al relativismo, non può non apprezzarne il profondo significato morale: assai più alto in ogni caso di quello delle etiche oggettivistiche, che, coprendosi della retorica dei valori eterni, conducono all’alienazione dell’uomo, e lo privano di ciò che costituisce la sua umana essenza morale. Tre affermazioni sono da rilevare in questo passo: v’è il rifiuto della retorica dei valori eterni, giudicata alienante e tale da privare l’uomo della sua essenza morale, che è, evidentemente, collegata alla ricerca e all’irrequietezza; l’iper-soggettivismo (ma tanto varrebbe dire soggettivismo) non può sfuggire al relativismo, sentito da F. come pericolo. F. si dichiara perplesso davanti alle affermazioni di una presenza dell’assoluto nell’individuo, ma con l’eccezione che si tratti di una presenza a totalmente mistica B. Rifiutate un’etica oggettivistica e un’etica soggettivistica, che cosa rimane nella visione morale di F.? Rimangono: la razionalità formale del diritto come ragione vivente nella storia e l’esperienza mistica come unica via di accesso all’assoluto. Questi due piani sono privi di relazione; ma essi appaiono tali da produrre queste conseguenze: è salvata l’irrequietezza che è condizione della morale; è evitato il pericolo del relativismo; è consentito l’accesso all’assoluto. Il mondo dei valori assoluti è accessibile soltanto all’esperienza mistico-religiosa. La carità, intesa in senso teologico, ovvero come virtù teologale, è proprio questa capacità di inserirsi nella vita divina, La simpatia di F. va agli spiriti capaci di questa immedesimazione: da Paolo a Kierkegaard, va a coloro che hanno ben chiara la distinzione tra mondo della terra, della legge, della ragione, e mondo divino, della carità. Quella linea del cristianesimo aveva contrapposto il mondo, regno del peccato e della legge, al regno della carità, dell’immedesimazione in Dio quel mondo che non conosce diritto. Tra cristiaizesimo e società v’è quindi un contrasto ineliminabile, come tra generi diversi e inconciliabili, come tra santità e peccato, come tra l’assolutezza dei valori e il mondo degli uomini comuni, I1 saggio in cui queste tesi erano argomentate fu quello che sollevò le maggiori polemiche. Sul piano più propriamente filosofico, BAGOLINI è il critico più attento - come PATTARO ricorda a lucida analisi quella divisione netta tra la realtà e il valore, per affermarne l’insostenibilità: gli appare inconseguente negare la conoscibilità razionale del valore e allo stesso tempo parlarne. Ma si può dire - prosegue Pattaro che F. (intenzionalmente rinvia tutti i valori che si pretende siano di questo mondo nel cielo indefinito e indefinibile dell’assoluto). F. conobbe e trattò il mondo imperfetto e relativo; non dimenticò - è la strada della mistica - il mondo perfetto e assoluto del quale ci hanno dato testimonianza grandi spiriti, e che noi stessi avvertiamo nel nostro desiderio di perfezione. Ma quella divisione così recisamente affermata provocò le polemiche più accese al di fuori del campo propriamente filosofico, e se è discussa e rispettata da teologi e da uomini di fede e di chiesa (questa raccolta ne reca più tracce: dai giudizii Lener fino a quelli espressi nel colloquio di Strasburgo, dedicato proprio al tema tipico di F.: L a révélation chrétienne et le droit), è trattata invece con non altrettanta serietà e consapevolezza da giuristi, e da coloro che, professandosi i giuristi cristiani o, o (( giuristi cattolici)), si fondano proprio sulla tesi opposta a quella sostenuta da F. nel suo libro. Sono due tesi teologiche a confronto, dov’era conoscenza dei problemi; ma F. ha buon gioco a spiegare ai suoi interolcutori giuristi che la carità e la giustizia di cui parla il Vangelo riguardano il rapporto con Dio, rispetto al quale tutto il resto vien dato per soprappiù, e non il rapporto con gli uomini, che è soltanto una conseguenza del vivere in Dio. Se carità e mondo sono in un tale contrasto, non si può parlare, senza cadere in contraddizione, di diritto cristiano, di giuristi cristiani, di politica cristiana, di cristianesimo sociale. Ripetutamente F. polemizza con i giuristi cristiani, innanzi a tutti con CARNELUTTI; e ricorda che carità non è filantropia, e che la giustizia, nel vangelo, sta a indicare una situazione d’ordine esclusivamente religioso, l’elezione, la perfezione, la santità – cf. H. P. Grice on J. O. Urmson, eroi e santi --, e non è la virtù sociale pur teorizzata da teologi e filosofi morali cristiani, e che AQUINO definisce IVSTITIA METAPHORICE DICTA. Rispondendo a Carnelutti è lo stesso scritto nel quale deplora, con parole prima ricordate, che tutti si sentissero autorizzati a parlar di filosofia), F. precisa: Ciò di cui non posso ringraziare l’illustre maestro è d’aver pensato che a me non garberebbe d’aggiungere al mio titolo di filosofo del diritto l’aggettivo cristiano il che mi fa ritenere che anche a me, anzi soprattutto a me egli si rivolga, quando, nell’intitolare il suo scritto garbatamente parodiando l’intitolazione del e sottopose mio, parla di pericoli per i filosofi non cristiani Non vedo in verità perché quell’aggettivo non dovrebbe garbarmi, né che cosa abbia potuto far sospettare ciò al pur benigno lettore: forse perché ho criticato qualche giurista cattolico il quale mostrava di non conoscere con troppa esattezza alcuni termini usati nei testi cristiani? Quei concetti venivano organicamente presentati, dal punto di vista storico e teorico, nel saggio “Giustizia, carità e filantropia,” e sono anche inseriti negli scritti in onore di JEMOLO (si veda), grande giurista storico e grande spirito religioso, uno degli spiriti più congeniali a F., se non forse il più congeniale. La separazione di cristianesimo e società era pure destinata a scontrarsi con l’opinione dominante nel mondo religioso, e di coloro che, richiamandosi al cristianesimo, intendevano tradurlo nella società. F. dissente in maniera totale dalle idee di BALBO (si veda). Ritorna il sufposto cristianesimo sociale, e il titolo di una nota polemica come pure, naturalmente, dalle idee di chi nutrisse progetti politici meno radicali. Ribade che il cristianesimo è una religione, e che la religione ha per oggetto Dio e soltanto Dio, e che la novità, e quindi l’essenziale significato del cristianesimo rispetto alla filosofia ed alla morale greca ed alla morale ebraica sta tutta in questa sua proiezione totale verso Dio, che consuma e supera ogni interesse umano e mondano e perciò anche sociale. Non nega certo un ideale di vita cristiano; nega che il cristianesimo potesse tradursi in dettami politici. Facciamo cristiani noi stessi, dice; ma guardiamoci dall’a immischiare Dio nei problemi di Cesare. E conclude quelle pagine ammirando la scelta religiosa di Dossetti, che così commentava: a Questo sì è il vero ideale cristiano; ed è bello vedere che c’è chi, riconosciutolo, ha - o riceve - la forza di realizzarlo. 1 superficiali interpreteranno tutto ciò come una rinuncia, come l’accettazione dolorosa di una sconfitta. Io penso che sia una grande vittoria, la sola vera vittoria cristiana. Questa visione del problema andava risoluta- mente, e con insofferenza dichiarata, contro la sintesi politico-religiosa di Maritain, che tanto ha influenzato nel nostro tempo il cristianesimo sociale (si vedano in proposito i vari cenni di F. E anda contro le soluzioni e conciliazioni dello spiritualismo cattolico del quale spesso si trova menzione in queste pagine), nel quale ultimo F. svelava (( una grave contraddizione nello sforzo di assumere una posizione che sia ad un tempo religiosa e razionalistica, trascendentistica e storicistica, salvando in pari tempo, e connettendoli e conciliandoli, il valore (trascendente) e la storia, la moralità e la giuridicità, la città di Dio e quella città terrena, che è pur sempre, per chi senta davvero religiosamente, la città del demonio e del peccato: soddisfacendo ecletticamente due istanze pienamente legittime e valide, certo, ma irriducibili fra di loro. Tutto un periodo della vita di F. - quello che sopra si è detto il secondo - gravita intorno a questi pensieri; ma è il periodo in ogni senso centrale della vita di F.. Quel che vale per il problema religioso vale per L’ÀMBITO FILOSOFICO generale, Di qui anche l’avversione di F. alle facili combinazioni di diritto naturale e storia, e ai teorici di un diritto naturale razionalmente deducibile e perciò anche applicabile (si vedano le ripetute e dure critiche a Strauss, e particolarmente lo scritto Diritto naturale e storicismo, appunto in polemica con questo). L’assoluto non è conoscibile; conoscibile è soltanto il mondo della storia, e ad essa, come a mondo pervaso da strutture e istituzioni che si formano, volge lo sguardo lo studioso del fenomeno giuridico, La storia, aveva scritto F. nell’opera è esperienza giuridica; e su quella visione egli avrebbe fondato negli anni le sue riflessioni, le sue ricerche storiche, i suoi interventi sui prblemi politici e culturali. Di lì nascevano la sua concezione del diritto e la sua concezione della vita associata. La storia del pensiero giuridico occidentale conduceva a una visione razionalistica, che poteva ben dirsi laica e liberale. Questi due attributi sono usati da Pattaro, e si può esser d’accordo con quella definizione; naturalmente non dimenticando tutto quel che s’è detto finora sulla com- plessità e ricchezza del pensiero di F.: nel senso, in ogni modo, nel quale se ne potrebbe parlare per JEMOLO (si veda), ma anche per studiosi prima menzionati, e a lui in quel tempo vicini per affinità di sentire su molti temi, come BOBBIO (si veda), PIOVANI (si veda), COTTA (si veda). In questo senso può dirsi che la meditazione di F. sia tutta rivolta alla inve- stigazione storiografica e teoretica di quella visione razionalistica, laica e liberale della storia, I1 diritto diviene, allora, la ragione conoscibile agli uomini, la ragione che salva la convivenza degli individui. L’assoluto può essere attinto da invididui eccezionali o in momenti eccezionali, è un dono concesso e non una strada consentita alla ragione; ma il mondo della storia ha una sua dimensione razionale proprio nel diritto, che assicura istituzioni in grado di garantire gli individui nel loro vivere in comune, Se Cristianesimo e società insegna che non si può mescolare Dio a Cesare, le opere, insistendo sull’indagine del mondo storico-giuridico, già avviata nell’opera, insegnano che neppure si può, né si deve, trasformare Cesare in Dio, e vedere nella storia valori e significati immanenti. Questa etica e questa visione politica si chiariscono e arricchiscono via via nella ricerca di F.. I1 problema si intreccia con quello del rispetto della legge, e quindi con la valutazione del positivismo giuridico. F. si domandava, e concludeva senza risposte perentorie: Dobbiamo insegnare l’obbedienza assoluta alla legge. È il problema del fondamento della convivenza e del fondamento dell’obbligatorietà della legge. Diventa anche il problema se fosse razionalmente deducibile la democrazia, F. nega, e con chiarezza in uno scritto, LETTURE, che fra diritto naturale e democrazia ci fosse nesso necessario, contraddicendo in tal modo diffuse concezioni. Conveniva invece su di un fondamento morale della forma democratica (che per la cristal- lina mente di F. volle sempre dire forma democratico-liberale) della convivenza. È un diritto che puo magari esser detto naturale, ma ricordando la storicità della natura umana: il diritto naturale sul quale la libertà e la democrazia possono fondarsi non può essere un astratto dogma esterno alla storia dell’uomo: esso non può consistere che nell’idea di giustizia che l’uomo ritrova nella propria coscienza morale, il cui valore è sì certamente assoluto, ma il cui con- tenuto può essere soltanto quello che lo sviluppo storico di questa coscienza comporta. La limpida relazione su Stato di diritto e stato di gizlstizia, rivendicava il valore dello stato liberale di diritto, che non ha fra i suoi scopi – F. conclude con i versi di Holderlin - di far dello stato il paradiso dell’uomo, col risultato di farne un inferno, Si richiamava all’esperienza costituzionale inglese, che avrebbe ribadita come modello di sviluppo giuridico, civile e politico nella prolusione bolognese, La legge della ragione. In quell’occasione, contemporanea al saggio dallo stesso titolo, F. afferma che non possiamo, oggi, rifiutare il giusnaturalismo, quando il giusnaturalismo si propone come appello alla legge della ragione. È un modo di affermare, più che un diritto naturale, il diritto di giudicare le circostanze storiche al lume della ragione; al modo seguito dai giuristi inglesi di common law. Le leggi, il diritto positivo, avevano il loro valore, e si doveva loro obbedienza, ma la ragione giuridica non si limita a sistemare i loro dettami, in un modo che sarebbe anch’esso astratto, pur se in modo opposto a quello tenuto dal giucnaturalismo meta-storico ma se continuiamo a rifiutare - obietta F. a SCARPELLI (si veda) come abbiamo sempre rifiutato, l’idea di un diritto naturale extra-storico, immutabile ed eterno, dobbiamo per questo abbracciare il culto di un diritto positivo altrettanto extrastorico e astratto?. Sta avvenendo in F. un passaggio dal rifiuto dell’espressione diritto naturale ove non fosse coerentemente inserita in una metafisica soprastorica, ad un’accettazione della medesima espressione in un senso più lato, come diritto di una natura dell’uomo che è ragione operante nella storia. In questo senso si poteva anche affermare un diritto naturale, che giudicasse razionalmente, in modo storico, fatti, istituzioni, leggi, ma senza sistemazioni assolute. Era il sistema pragmatico, empirico, storico, anche antiilluministico, seguito dalla civiltà giuridica anglosas- sone, la quale, non a caso, era anche quella che aveva dato il più duraturo esempio di stato democratico-liberale. Su questa base, scientifica e politico-morale, si sarebbe espresso F. negli ultimi anni della sua vita, durante i sussulti e degli anni seguenti, durante quegli avvenimenti e quelle teorizzazioni che tanto avrebbero influito sulla [Giuffrè, Milano] nostra ultima storia, e che da lui furono giudicati senza le incertezze, le ambiguità, i silenzi, le fragili adesioni, di cui molti si resero responsabili. In verità, tutta la formazione culturale, oltreché l’intransigenza morale, garantiva F. di fronte alla crisi di quegli anni. Era stato sempre convinto che il diritto è il momento razionalizzatore nella storia, e che è esso stesso fenomeno storico. I1 riferimento all’esperienza anglosassone gli permetteva di criticare con misura il positivismo giuridico-legalistico si veda Il positivismo giuvidico, contestato; ma lo faceva anche accorto, sul piano politico, del valore irrinunciabile dello stato democratico-liberale, coi suoi valori di tutela della libertà individilale attraverso metri comuni a tutti gli individui e attraverso misure inevitabilmente repressive. Contro la riduzione del diritto a politica, egli non cedette alle nuove idee che si diffondevano tra giuristi e magistrati, e che pretendevano di richiamarsi a una democrazia sostanziale; seppe subito additare le fonti teoriche di quelle idee, e le rintraccia in Schmitt, nelle parole, certo, di un insigne giurista; il giurista più insigne del Terzo Reich. Puo parlare, per quelle correnti, di nazismo giuridico, e dovendo scegliere tra Positivismo e nazismo giuvidico, egli potè richiamarsi tranquillamente ai suoi autori, e a quella ragione artificiale di cui aveva parlato Coke. Si tratta, come egli intitolava un saggio, di vedere in modo razionale e insieme storico il rapporto tra giudice e legge (si veda Il giudice e l’adeguamento del diritto alla realtà storico-sociale, ampia indagine teorica e storica del problema). Vede i pericoli insiti nel rifiuto del principio di legalità; rifiutava che si potesse parlare del diritto di resistenza nella società democratico-liberale, e vedeva nella contestazione di quegli anni non il riferimento a una ragione diversa per stabilire un ordine più giusto, ma la negazione di qualsiasi ordine, di qualsiasi istituzione repressiva, della stessa ragione, in nome di un atteggiamento che definiva anarchico e religioso; ripeteva che diritto è necessariamente repressione, e che si trattava soltanto di fare in modo che quella repressione fosse frutto della ragione (si veda, Società, diritto e repressione. Da questi stessi principi e preoccupazioni era ispirato l’ampio saggio postumo già menzionato su La sciefiza e la filosofia del diritto, viste nel loro sviluppo storico. Questa indagine, come d’altronde tutta la Stovia della filosofia del divitto, ribadiva la visione del diritto come F. era venuto maturandola negli anni della sua coerente meditazione. In queste occasioni, di fronte ai problemi più gravi dei tempi, Fassò poteva richiamarsi a quanto aveva pensato, sul rapporto fra cristianesimo e storia, nel suo periodo teoretico. Nella società che non è società, e neppure comunità, ma comunione dei santi, come si è liberi dal diritto, così lo si è dalla ragione. Siccome invece purtroppo non siamo guidati dallo spirito, siamo, come ci ricorda San Paolo, sotto la legge; e l’unica cosa che possiam fare per non sentirne troppo la repressione è cercare che essa sia conforme alla RAGIONE. Ma è riduttivo vedere l’ultimo periodo della riflessione di F. nella luce di queste polemiche contro idee effimere; anche se si dove ricordarle per rendere onore alla coerenza e alla rettitudine dello studioso. In realtà, alla base di quelle polemiche è la meditazione di tutta una vita, nella quale è sempre stato operante l’amore per la distinzione: distinzione tra Dio e GIULIO (si veda) CESARE, tra esperienza religiosa ed ESPERIENZA GIURIDICA, tra assoluto e STORIA. Ricerca Lucio Giunio Bruto politico romano Lingua Segui Modifica Lucio Giunio Bruto Project Rome logo Clear. png Console della Repubblica romana Capitoline Brutus Musei Capitolini MC1183. jpg Busto di Bruto, nei Musei Capitolini in Roma. Nome originale Lucius Iunius Brutus Nascita Roma Morte Roma GensIunia Consolato Lucio Giunio Bruto è stato il fondatore della Repubblica romana e secondo la tradizione uno dei due primi consoli. Il nome di Bruto è legato alla leggendaria cacciata dell'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.  Secondo la narrazione di Livio, rafforzata da Ovidio, Bruto aveva molti motivi di ostilità contro il re, di cui era nipote in quanto figlio di una sorella: nel corso degli eccidi familiari che spesso accompagnano la presa di potere di un despota, Tarquinio aveva disposto fra l'altro l'omicidio del fratello di Bruto, il senatore Marco Giunio. Bruto, temendo di subire la stessa sorte, allora si mimetizzò nella famiglia di Tarquinio, impersonando la parte dello sciocco (in latino brutus significa sciocco).  Lui accompagnò i figli di Tarquinio, Tito ed Arrunte, in un viaggio all'oracolo di Delfi. I figli chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma e l'oracolo rispose che la prossima persona che avesse baciato sua madre sarebbe diventato re. Bruto interpretò la parola "madre" nel significato di "Terra" così, al ritorno a Roma, finse di inciampare e baciò il suolo. In seguito Bruto dovette combattere in una delle tante guerre di Roma contro le tribù vicine e tornò in città solo quando venne a sapere della morte di Lucrezia.   Lucio Giunio Bruto da giovane  Il giuramento di Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, I littori portano a Bruto i corpi dei due figli, Jacques-Louis David. Secondo la leggenda, la cacciata dell'ultimo re da Roma ebbe inizio con il suicidio di Lucrezia, moglie di Collatino e parente di Bruto, perché costretta a cedere con le minacce alle richieste amorose di Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo. Livio racconta che, suicidatasi davanti ai suoi occhi, del marito Collatino e del padre di lei Spurio Lucrezio, Bruto estrasse il coltello dalla ferita e disse:  «Su questo sangue, purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né alcun altro possano regnare a Roma.»  (Tito Livio, Ab Urbe condita libri) Bruto, il padre ed il marito di Lucrezia giurarono di vendicarne la morte. Quindi trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l'attenzione della folla, che dopo aver saputo dell'accaduto si indignò per la protervia di Sesto Tarquinio.  Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per condurre una guerra contro i Tarquini. Le truppe ora riunite riconobbero in Bruto il loro comandante, facendo rotta su Roma per conquistarne il potere. Giunti a Roma, Bruto si rivolse al popolo romano riunito nel Foro, raccontando della triste sorte toccata a Lucrezia.  Aggiunse quindi della superbia del re, Tarquinio, e della miseria della plebe romana, costretta dal tiranno a costruire ed a ripulire le fogne, invece che portata a combattere come era nella natura dei Romani. Ancora ricordò dell'indegna morte di re Servio Tullio, calpestato da sua figlia, moglie di Tarquinio, con un cocchio. Invocò infine gli dei vendicatori, infiammando gli animi del popolo romano alla rivolta contro il tiranno, tanto da trascinarlo ad abbattere l'autorità regale e a esiliare Lucio Tarquinio, insieme alla moglie ed i figli. Partì quindi per Ardea, dove il re era accampato, per ottenere che anche l'esercito si schierasse dalla sua parte, dopo aver lasciato il comando di Roma a Lucrezio (in precedenza nominato praefectus della città, da parte dello stesso Superbo). Frattanto, Tullia, moglie di Lucio Tarquinio riuscì a fuggire dalla città. Quando la notizia di questi avvenimenti arrivò ad Ardea, Tarquinio il Superbo, allarmato dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta. Bruto, allora, informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro, fece una breve diversione e raggiunse l'accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con entusiasmo da tutti i soldati, i quali espulsero i figli del re, mentre a quest'ultimo venivano chiuse in faccia le porte di Roma e comunicata la condanna all'esilio. Due dei figli seguirono il padre in esilio a Cere(Cerveteri), Sesto Tarquinio invece, partito per Gabii, qui fu assassinato, da coloro che si vendicarono delle stragi e razzie da quello compiute.  In seguito a questi eventi, il prefetto della città di Roma convocò i comizi centuriati, che elessero i primi due consoli della città: Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino. Busto conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli I primi provvedimenti di Bruto furono: evitare che il popolo, preso dalla novità di essere libero, potesse lasciarsi convincere dalle suppliche allettanti dei Tarquini, costringendolo a giurare che non avrebbe permesso più a nessuno di diventare re a Roma; rinforzare il senato ridotto ai minimi termini dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il totale a trecento, nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista anche dell'ordine equestre. Da qui l'uso di convocare per le sedute del senato i padri (patres) ed i coscritti (dove è chiaro che con questo termine si alludeva agli ultimi eletti). Il provvedimento aiutò notevolmente l'armonia cittadina ed il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale. Durante il consolato i suoi figli, Tiberio e Giunio, complottarono con il deposto re Tarquinio il Superbo, per farlo tornare a Roma come re, ma furono scoperti grazie ad uno schiavo. Incatenati, chiesero pietà e il popolo, impietosito, ne chiedeva la loro liberazione. Ma Bruto fu irremovibile, e li fece uccidere, assistendo personalmente senza versare una lacrima per la loro morte.  In seguito alle dimissioni forzate del collega Lucio Tarquinio Collatino, Bruto chiese al popolo di nominare un altro console in sua sostituzione, così da non dare adito al sospetto che volesse governare sulla città come un monarca. Allora i cittadini riuniti elessero Publio Valerio Publicola. Il suo consolato terminò con la battaglia della Selva Arsia, combattuta contro gli Etruschi, che si erano alleati con i Tarquini, per restaurarne il potere. Durante la battaglia Bruto si scontrò con Arrunte Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo e cugino di Bruto; i due, spronati i loro cavalli al galoppo, si trafissero vicendevolmente con le loro lance, perdendo la vita nello scontro.  Il console superstite, Valerio, dopo aver celebrato un trionfo per la vittoria, tenne un funerale di grande magnificenza per Bruto, che fu pianto dalle nobildonne per un anno.  Altro Servilio Ahala e Bruto in un denario di Marco Giunio Bruto. Marco Giunio Bruto, il cesaricida che si vantava di essere un discendente di Lucio Giunio Bruto, nel 54 a.C., dieci anni prima delle Idi di marzo quando Giulio Cesare rimase ucciso, emise un denario con al diritto la testa di Lucio Giunio Bruto, il fondatore della repubblica romana e la scritta BRVTVS ed al rovescio la testa di Gaio Servilio Strutto Ahala e la scritta AHALA. Secondo Crawford (Roman Repubblican Coinage) il denario fu emesso quando a Roma corse la voce che Pompeo volesse diventare dittatore.  Critica storica Il racconto proviene dall'Ab Urbe condita di Livio e tratta di un punto della storia di Roma che precede le annotazioni storicamente affidabili (praticamente tutte le annotazioni precedenti furono distrutte dai Galliquando saccheggiarono Roma) La figura di Bruto nell'arte Il busto di Bruto si trova nel palazzo dei Conservatoridi Roma. Proveniva dalla collezione privata del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che la donò alla città nel XVII secolo. Trafugato da Napoleone che lo fece esporre al Louvre, fu riportato a Roma. ALIGHIERI (si veda) lo cita nel limbo, nell’Inferno, quando scrive. VIDI QUEL BRUTO CHE CACCIÒ TARQUINO (Alighieri, Divina Commedia, Inferno) Shakespeare, nella sua tragedia Giulio Cesare, fa un riferimento a Lucio Giunio, quando fa ricordare a Cassio che parlava a Bruto, l'altro cesaricida, lo spirito repubblicano dei propri antenati.  Lucio Giunio Bruto è uno dei personaggi principali de Il ratto di Lucrezia, un poema sempre di Shakespeare, e nella tragedia di Nathaniel Lee, Lucius Junius Brutus; Father of his Country.  A Giovan Francesco Maineri è attribuito un dipinto, databile tra il 1490 e il 1493, dal titolo Lucrezia, Bruto e Collatino.  Nel 1789, all'alba della rivoluzione francese, il pittore francese Jacques-Louis David realizzò il dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, oggi esposto al Louvre di Parigi. Il dipinto provocò grandi timori nelle autorità, poiché si temeva un paragone tra l'intransigenza del console Lucio Giunio Bruto, che non esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro la Repubblica, e la debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d'Artois, favorevole alla repressione dei rappresentanti del Terzo Stato.  Giunio Bruto è anche un'opera seria musicata da CIMAROSA (si veda), libretto di ACANZIO (s veda) Matyszak, Eutropio, Breviarium ab Urbe condita Eutropio, Breviarium ab Urbe condita Livio, Ab Urbe condita libri Santillana e Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi Livio, Periochae ab Urbe condita libri, Livio, Ab Urbe condita libri, Livio, Ab Urbe condita libri Livio, Ab Urbe condita libri Livio, Periochae ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Livio, Ab Urbe condita libri Livio, Ab urbe condita libri Livio, Ab urbe condita libri Dionigi racconta che furono due i figli accusati ed uccisi da Bruto, Antichità romane, Libro VIII, 79. ^ Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Livio, Ab Urbe condita libri Iunia e Servilia; Sydenham; Crawford.Fonti primarie Livio, Ab Urbe condita. Fonti secondarie William Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Taylor, Walton and Maberly, London. Matyszak, Chronicle of the roman Republic, New York, Thames et Hudson. Carandini, Res publica: Come Bruto cacciò l'ultimo re di Roma, Milano, RCS Libri S.p.A. Voci correlate Bruto capitolino Consoli repubblicani romani Gens Iunia Lapis Satricanus Elenco degli oracoli di Delfi. Bruto, Lucio Giunio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Lucio Giunio Bruto, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Lucio Giunio Bruto nel Dizionario delle antichità greco-romane di William Smith Portale Antica Roma   Portale Biografie PAGINE CORRELATE Tarquinio il Superbo settimo e ultimo re di Roma  Lucrezia (antica Roma) figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino  Lucio Tarquinio Collatino politico romano. Nome compiuto: Guido Fassò. Fassò. Keywords: RES PVBLICA RES POPVLI, ius, Grice on Hart, Hart’s failure as a jurisprudentialist – “La filosofia romana” “La giurisprudenza romana” la genesi logica della scienza nuova di Vico, la genesi storica della scienza nova di vico, Michelet, filosofo uganotto discipolo di Vico, Croce su F., F. su Gentile, F. su Romano – iurisprudenza, ius-naturalismo – legge e raggione, legge raggione, societa – positivismo – storia come esperienza giuridica, l’assoluto giuridico – natura umana – grozio e vico – lo stato fascista di Gentile. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fassò” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fausto: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano– Riez --. Contra Claudiano Mamerto. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fausto,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Favonio: la ragione conversazionale a Roma antica – il portico a Roma – il cinargo a Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo del portico, amico e ammiratore di CATONE (si veda) Uticense. Fugge con Pompeo. E giustiziato per essere proscritto. Dopo che Marco F. E catturato e giustiziato a seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquistò uno dei suoi schiavi, un certo Sarmento, quando tutte le proprietà del nemico sconfitto vennero messe in vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello stesso futuro imperatore. Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, Cambridge. Marcus F., a Roman politician during the period of the fall of the Roman Republic. Noted for his imitation of Catone the Younger, his espousal of the Cynic philosophy – CINARGO --, and for his appearance as the Poet in William Shakespeare's play Julius Caesar.  Life  Aerial view of Terracina with the Circeo promontory in the background Favonius was born in around 90 BC[1] in Tarracina (the modern Terracina), a Roman colony on the Appian Way at the edge of the Volscian Hills.[2] Favonius in Latin means "favourable"; in Roman mythology Favonius was the west wind, whose counterpart in Greek mythology was Zephyrus.[3]  Political career Favonius, with the support of Cato, was chosen aedile at some time between 53 and 52 BC.[2] According to Plutarch,  Favonius stood to be chosen aedile, and was like to lose it; but Cato, who was there to assist him, observed that all the votes were written in one hand, and discovering the cheat, appealed to the tribunes, who stopped the election. Favonius was afterwards chosen aedile, and Cato, who assisted him in all things that belonged to his office, also undertook the care of the spectacles that were exhibited in the theatre.[4]  As well as being chosen aedile, he was also chosen quaestor and served as legatus in Sicily, "probably after his quaestorship".[2] Although many classical reference works list Favonius as having been a praetor in 49 BC, it is a matter of some controversy whether or not he was a praetor at any time between 52 and 48 BC. According to F. X. Ryan, in his 1994 article 'The Praetorship of Favonius', the matter hinges on the meeting at the senate at which he bade Pompey "stamp on the ground". "When we are forced to decide whether a man who spoke at a meeting summoned by consuls was a praetor or a senator, all we can say is that probability greatly favors the latter alternative."[2] Cassius Dio wrote of Favonius' relation to Cato that Favonius "imitated him in everything",[5] while Plutarch wrote that Favonius was "a fair character ... who supposed his own petulance and abusive talking a copy of Cato's straightforwardness".[6] An instance of his imitation of Cato's plainspeaking that was ruder and more vehement than the behaviour of his model might have allowed came in 49 BC; in a dispute in the Senate, Pompey, challenged as to the paucity of his forces when Julius Caesar was approaching Rome from Gaul, answered that he not only could call upon the two legions that he had lent to Caesar but could make up an army of 30,000 men. At which Favonius "bade Pompey stamp upon the ground, and call forth the forces he had promised".[6]  According to Plutarch, Favonius was known amongst his fellow Roman aristocrats as a Cynic because of his outspokenness,[7] but a modern writer on Greek philosophy labels him as an "early representative of Cynic type" who fell short of the (possibly unattainable) ideal cynicism of the earliest Greek proponents of the doctrine (a slightly later example of the type was Dio Chrysostom). Despite his wild, vehement manner, F. is capable of acts of humility, such as he performed to Pompey when he entertained Deiotarus I of Galatia aboard ship.  Pompey, for want of his servants, began to undo his shoes himself, which Favonius noticing, ran to him and undid them, and helped him to anoint himself, and always after continued to wait upon, and attended him in all things, as servants do their masters, even to the washing of his feet and preparing his supper. Against the triumvirate F. was a member of the optimates faction within the Roman aristocracy; in a letter to Caesar on ruling a state (Ad Caesarem senem de re publica oratio), traditionally attributed to Sallust but probably by the rhetorician Marcus Porcius Latro, Caesar is told of the qualities of some of these nobles. Bibulus and Lucius Domitius are dismissed as wicked and dishonourable while Cato is someone "whose versatile, eloquent and clever talents I do not despise." The writer continues,  In addition to those whom I have mentioned the party consists of nobles of utter incapacity, who, like an inscription, contribute nothing but a famous name. Men like Lucius Postumius and Marcus F. seem to me like the superfluous deckload of a great ship. When they arrive safely, some use can be made of them; if any disaster occurs, they are the first to be jettisoned because they are of least value.  Like Cato, F. opposed the corruption of many of Rome's leading politicians in general and the rise of the First Triumvirate in particular. When Caesar returned from his praetorship in Spain and successfully stood for consul, he allied himself with Pompey (to whom he gave his daughter Julia in marriage) and Clodius. Following an incident in which Cato prevented Caesar from both having a triumph and standing for consulship by a filibustering tactic, after which Cato and Bibulus were physically attacked by Caesar's supporters, Caesar's party demanded two things of the senate: first, that it sign a law concerning the distribution of land; second, that all senators swear an oath promising that they would uphold the law. Silver denarius of Cato the Younger. According to Plutarch, "heavy penalties were pronounced against such as would not take the oath", which in this case meant exile. A party led by Cicero, Lucullus and Bibulus, to which Cato and F. allied themselves, opposed these measures, but eventually either swore the oath or abstained. Cato, however, feared these laws and the oath as not being for the common good but as extensions of the power of Caesar and Pompey; Plutarch writes of Cato that "he was afraid, not of the distribution of land, but of the reward which would be paid for this to those who were enticing the people with such favours." Eventually all senators except Cato and F. agreed to Caesar and Pompeys's measures, whereupon Cicero made an oration urging Cato to soften his attitude. According to Plutarch,  The one who was most successful in persuading and inducing him [Cato] to take the oath was Cicero the orator, who advised and showed him that it was possibly even a wrong thing to think himself alone in duty bound to disobey the general will; and that his desperate conduct, where it was impossible to make any change in what had been done, was altogether senseless and mad; moreover, it would be the greatest of evils if he should abandon the city in behalf of which all his efforts had been made, hand her over to her enemies, and so, apparently with pleasure, get rid of his struggles in her defence; for even if Cato did not need Rome, still, Rome needed Cato, and so did all his friends; and among these Cicero said that he himself was foremost, since he was the object of the plots of Clodius, who was openly attacking him by means of the tribuneship. Finally Cato was persuaded to give up his opposition, followed by F., the last to submit. Plutarch writes, "By these and similar arguments and entreaties, we are told, both at home and in the forum, Cato was softened and at last prevailed upon. He came forward to take the oath last of all, except F., one of his friends and intimates. Upon hearing the news that of the members of the Triumvirate, Caesar was to be given a fresh supply of money, and Pompey and Crassus were to be consuls again the following year, F., "when he found he could do no good by opposing it, broke out of the house, and loudly declaimed against these proceedings to the people, but none gave him any hearing; some slighting him out of respect to Crassus and Pompey, and the greater part to gratify Caesar, on whom depended their hopes. Assassination of Caesar Despite the fact that he opposed Caesar, F., like Cicero, was not invited by Brutus and Cassius to participate in the plot to assassinate Caesar. In his Life of Brutus, Plutarch wrote,  As indeed there were also two others that were companions of Brutus, Statilius the Epicurean, and F. the admirer of CATONE (si veda), whom he left out for this reason: as he was conversing one day with them, trying them at a distance, and proposing some such question to be disputed of as among philosophers, to see what opinion they were of, Favonius declared his judgment to be that a civil war was worse than the most illegal monarchy. Execution after Philippi After Caesar's death, F. became an opponent of his successors in the Second Triumvirate. According to Cicero's letter to Atticus, F. was present at a meeting of the Liberatores who opposes Antony's near-dictatorial regime. Also present at this meeting were Cicero, Brutus, Cassius, Porcia Catonis, Servilia and Junia Tertia. Along with Cicero, his brother Quintus Tullius CICERONE (si veda), and Lucius Julius Caesar, F. is proscribed by the triumvirate, and imprisoned after Antony and Octavian (later Augustus) defeated the forces of Brutus and Cassius at the Battle of Philippi. His imprisonment did little to assuage his intemperate behaviour. According to Suetonius, "Marco F., the well-known imitator of Cato, saluted Antonius respectfully as Imperator when they were led out in chains, but lashed Augustus to his face with the foulest abuse. F.’s abuse was apparently as a result of Octavian's brutal treatment of the prisoners captured at Philippi.  Of his death Cassius Dio wrote,  Most of the prominent men who had held offices or still survived of the number of Caesar's assassins or of those who had been proscribed straightway kill themselves, or, like F., are captured and put to death; the remainder escaped to the sea at this time and later joined Sextus. F.’s slave Sarmentus, who was bought after his master's death when his estate was sold, is claimed to have become a catamite of the emperor Augustus. Osgood says this might have been as a slander planted by supporters of MARC’ANTONIO, but both ancient and contemporary students of Roman sexuality have observed that a man's sexual use of his own slaves, male or female, is not a target for social condemnation. Sarmentus was the subject of Quintus Dellius' complaint to Cleopatra that while he and other dignitaries were served sour wine by Antony in Greece, Augustus' catamite was drinking Falernian in Rome. Legacy Shakespeare's GIULIO (si veda) CESARE  Facsimile of the first page of Julius Caesar from the First Folio. F. is the character known as the Poet who appears in Shakespeare's play GIULIO (si veda) CESARE. Shakespeare takes the details of this scene from Plutarch's Parallel Lives, in which, on Brutus' journey to Sardis, Plutarch writes that Brutus and Cassius fell into a dispute in an apartment (Shakespeare assigns this scene to Brutus' tent), which ultimately led to their sharing angry words and both of them bursting in tears. Their friends attempted to break into the room to see what the dispute was about and forestall any mischief, but were prevented from doing so by a number of attendants. F., however, was not to be stopped. According to Plutarch, Marcus F., who had been an ardent admirer of Cato, and, not so much by his learning or wisdom as by his wild, vehement manner, maintained the character of a philosopher, was rushing in upon them, but was hindered by the attendants. But it was a hard matter to stop F., wherever his wildness hurried him; for he was fierce in all his behaviour, and ready to do anything to get his will. And though he was a senator, yet, thinking that one of the least of his excellences, he valued himself more upon a sort of cynical liberty of speaking what he pleased, which sometimes, indeed, did away with the rudeness and unseasonableness of his addresses with those that would interpret it in jest. F., breaking by force through those that kept the doors, entered into the chamber, and with a set voice declaimed the verses that Homer makes Nestor use – "Be ruled, for I am older than ye both." At this Cassius laughed; but BRUTO (si veda) thrust him out, calling him impudent dog and counterfeit Cynic; but yet for the present they let it put an end to their dispute, and parted. Cassius made a supper that night, and Brutus invited the guests; and when they were set down, F., having bathed, came in among them. Brutus called out aloud and told him he was not invited, and bade him go to the upper couch; but he violently thrust himself in, and lay down on the middle one; and the entertainment passed in sportive talk, not wanting either wit or philosophy. In Shakespeare's version of this encounter in Julius Caesar, Favonius' opening lines in his role as Poet are: POET. [Within] Let me go in to see the generals; There is some grudge between 'em, 'tis not meet they be alone. Forcing his way into Brutus' tent, he addresses Brutus and Cassius: POET. For shame, you generals! what do you mean? Love, and be friends, as two such men should be; For I have seen more years, I'm sure, than ye. To which, Cassius replies: CASSIUS. Ha, ha! how vilely doth this cynic rhyme![20]  and Brutus drives him from his tent. Here Shakespeare departs from Plutarch's account of the scene, as F. does not feature in Brutus and Cassius' subsequent drinking bout.  Dudley, A History of Cynicism – From Diogenes on, Read Books, at books.google.com, Ryan, The Praetorship of F., at accessmylibrary.com, Brewer, E. Cobham, Brewer's Dictionary of Phrase and Fable at Bartleby Plutarch, Life of CATONE (si veda) the Younger  Cassius Dio, Roman History, at uchicago Plutarch, Life of Pompey Plutarch, Life of Brutus  Dawson, D. Cities of the Gods: Communist Utopias in Greek Thought OUP, Pseudo-Sallust, Letter to Caesar on the State, at uchicago Dillon, M. and Garland, L. Ancient Rome, Taylor e Francis, Plutarch, Life of Caesar  CICERONE (si veda), Letters to Atticus, Suetonius, Life of Augustus, Cassius Dio, Roman History, at uchicago Osgood, GIULIO (si veda) CESARE’s Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, CUP, books.google Osgood, GIULIO (si veda) CESARE’s Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, CUP, books.google.com, Craig Williams: Roman Homosexuality: Oxford Plutarch, Life of MARC’ANTONIO (si veda),  Shakespeare, GIULIO (si veda) CESARE, cur. Danniel, editorial note, GIULIO (si veda) CESARE at books.google.com, Shakespeare, Julius Caesar, Geiger, Favonius: three notes". RSA. Linderski, J.  "The Aedileship of Favonius, Curio the Younger and CICERONE (si veda)’s Election to the Augurate". Harvard Studies in Classical Philology. Ryan, F. X. "The Praetorship of Favonius". American Journal of Philology. Ryan, The Quaestorship of Favonius and the Tribunate of Metellus SCIPIONE (si veda)". Athenaeum. vte Cynic philosophers Greek eraAntisthenes Diogenes Onesicritus Monimus Philiscus Hegesias of Sinope Anaximenes of Lampsacus Crates Hipparchia Metrocles Cleomenes Bion Menippus Menedemus Cercidas Teles Meleager Roman eraFavonius Demetrius Dio Chrysostom Agathobulus Demonax Peregrinus Proteus Theagenes Oenomaus Pancrates Crescens Heraclius Asclepiades Maximus I of Constantinople Horus Sallustius Categories: births deaths People from Terracina Romans Ancient Roman politiciansSenators of the Roman Republic People executed by the Roman Republic Roman aediles executions Roman-era Cynic philosophers Roman governors of Macedonia. A Cynic. He attached himself to CATONE Minore, whom he sought to imitate. He was also a friend of Marco BRUTO, but they fell out and Bruto told him that while he only PRETENDED to be a Cynic, he really WAS a dog! Favonio. Keywords: implicature. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Favonio”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Favonio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italianao. Eulogio. F. Eulogio. Cartaginese, ha come maestro di retorica Agostino, dal quale risulta che esercita quell’arte in Africa, Dedicò la sua "Disputatio de sommio Scipionis" a Superio, consolare della provincia di Bizacena. Questa disputazione in ultimo deve derivare dal commento posidoniano al "Timeo," mediato da Varrone, al quale si ritengono attinte le fonti citate. La prima parte della disputazione presenta la teoria dei numeri, essenza delle cose e tratta del significato simbolico di essi, dall’I al IX. La seconda parte della disputazione si occupa dell’armonia delle sfere. Queste teorie sono pitagoriche in generale.Ma il Neo-Pitagorismo appare in ciò che Favonio Eulogio dice della monade, in cui espone in modo poco chiaro una teoria monistica che deriva da essa ogni realtà. Il numero è eterno, intelligibile, incorruttibile, e include con la potenza tutto ciò che è.Ma inteso in senso proprio è una pluralità unificata e divisibile e perciò comincia con la diade.Invece la monade, l’unità assoluta e indivisibile e identica al divino, è il seme e l’inizio dei numeri. I numeri poi sì distinguono dalle cose corporee numerabili che sono accidenti e sostrati dei primi, che sono riducibili alla monade. Però le cose numerabili non sono altro che tale unità assoluta, che è prima, entro e dopo tutte le cose. Infatti, ogni quantità proviene dall’uno e in esso mette capo ed esso permane immutabile quando periscono le altre cose che possono accoglierlo in sè. Retore romano, discepolo d’Agostino ed operò a Cartagine.  È noto per un episodio narrato dal suo maestro, che lo rende identificabile con F. autore dell'operetta Disputatio de somnio Scipionis. Il suo scritto lo pone fra gli studiosi neopitagorici e neoplatonici.  La Disputatio, dedicata a Superio, vir clarissimus atque sublimis, è suddivisa in due parti: la prima è dedicata all'aritmologia; la seconda espone in breve la teoria musicale greca. Holder, F. Disputatio de Somnio Scipionis, Lipsiaem Weddingen, F. Disputatio de Somnio Scipionis, édition et traduction, Collection Latomus, Bruxelles; Scarpa, Favonii Eulogii Disputatio de Somnio Scipionis, Accademia patavina di Scienze, Lettere e Arti, Università di Padova. Istituto di filologia latina, Padova; Lukas J. Dorfbauer: Überlieferung und historischer Kontext der Disputatio de Somnio Scipionis des Favonius Eulogius. Latomus. Marcellino, F. Disputatio de Somnio Scipionis, edizione critica, traduzione e commento, Napoli, D'Auria, Camille Gerzaguet - Béatrice Bakhouche - Mylène Pradel-Baquerre; Drelon: F.  Exposé sur le songe de Scipion. Les Belles Lettres, Paris, edizione critica con annotazioni Heberlein: F., Abhandlung über das Somnium Scipionis. Mit einem Essay von Lukas J. Dorfbauer. Steiner, Stuttgart, edizione critica con traduzione e commento. F. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1932. Opere di F., su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive.  Portale Biografie: accedi alle voci di che trattano di biografie Categoria: Retori romani[altre]. Favonio Eulogio was a pupil of Agostino and wrote an analysis of Cicero’s Dream of Scipione. Favonio Eulogio. Favonio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Favonio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Favorino: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiano – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Comes from Arelate. Said by Flavio Filostrato to have been a hermaphrodite. Pupil of Dion Cocceianos. Achieves fame as a sophist. Writes many books on philosophy, including works on Epitteto. He is exiled by Adriano. Favorino. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Favorino,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fazio: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- l’implicatura conversazionale della colloquenza – scuola di Palermo – filosofia palermitana -- filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo palermitano. Filosofo siciliano. Filosofo Italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman philosophy when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable beginning: that infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the younger ones, such as Scipione!” --  Grice: “Due to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and Gentile allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s pragmatics is Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico recognises another soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ – for this he appeals to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I imply, it is the UTTERER’s expression and implication that is primary, but I INTEND my implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not ‘alienate’ my concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely re-invoked by the other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is what the ‘assoluto’ stands for, that terrified Bradley!” --  Grice: “I love the fact that Allmayer taught the history of logic, with a focus on ‘stoic’ logic – and it’s only natural that ‘stoicismo’ was his favourite stage in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly, Allmayer has a genial commentary on my favourite of Arisotle’s treatises and the foundation of my method in philosophical psychology – “De Anima””! Insieme a GENTILE (si veda), e altri filosofi, uno degl’esponenti di spicco della corrente filosofica detta attualismo. Nacque da Giuseppe Emanuele FAZIO, originario di Alcamo (ex garibaldino e in servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si interessa alla storia dell'arte. Si laurea in giurisprudenza ma poiché è appassionato alla filosofia, inizia subito gli studi filosofici e a frequentare la biblioteca filosofica di Palermo, dove ha modo di conoscere GENTILE (si veda). Si laurea. Insegna al liceo "Umberto I" di Palermo, dove comincia la sua ricca produzione saggistica che lo rende famoso in Italia.  La sua carriera continua a Roma. Subito dopo la caduta del fascismo, F. è sospeso dall'insegnamento; per essere reintegrato dopo la fine della guerra.  Dopo un periodo travagliato della sua vita riprende la molteplice attività di saggista e critico, oltre che di docente.  Si sposa con Concettina Carta, con cui ha tre figli. Rimasto vedovo, si sposa in seconde nozze con Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i maggiori critici di Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere (Firenze).  F., colpito da infarto tre anni prima, muore a Pisa.  In memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di origine alcamese, il liceo delle Scienze Umane, Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed autorizzato per le Arti coreutiche) è stato intitolato al suo nome. Professore presso il liceo di Matera: professore al liceo di Agrigento, vince una borsa di studio per perfezionamento presso l'Roma docente presso il liceo "Umberto I" di Palermo: libero docente di storia della filosofia a Roma trasferito a Palermo, è condirettore del Giornale critico della filosofia italiana, fondato da GENTILE (si veda) e diretto dallo stesso prima di essere ministro: docente di filosofia a Palermo: docente di storia della filosofia (con corsi su Bacone e sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in sostituzione di GENTILE (si veda) e incaricato di pedagogia al magistero di Roma: collaboratore di GENTILE (si veda) per la riforma scolastica e, con l'incarico di ispettore centrale degli istituti medi di istruzione, ha affidata la redazione dei programmi della scuola media: professore non stabile di storia della filosofia medievale e moderna: ha la cattedra di filosofia teoretica in sostituzione di CARABELLESE (si veda): preside della facoltà di lettere: commissario per l'amministrazione straordinaria della sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e industriale di Palermo in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle Arti: sospeso dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra: cattedra di storia della filosofia dell'Pisa: direttore dell'istituto di filosofia. Il tramonto del positivismo e l'amicizia con GENTILE (si veda) lo portano a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che sembra poter portare a un rinnovamento culturale e civile. Secondo l'attualismo, è l'atto del pensare in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto immaginazione, a definire la realtà.  Assieme a GENTILE (si veda) e RUGGIERO (si veda), è uno dei sostenitori di quell'attualismo che ha tutta la seduzione romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a séi migliori dei scontenti, quelli che non si muovevano verso ANNUNZIO (si veda) o MARINETTI (si veda), e appoggia apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare.  Nelle parole di Boldrini, che tende a sottolineare la sostanziale autonomia della ricerca del F. dalla metafisica di GENTILE (si veda), F. giunge a giustificare l'esperienza storica come vita concreta, in cui le molteplici e diverse forme confluiscono in un rapporto intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di ciascuna. D'altronde, anche CROCE (si veda) in una recensione del saggio Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere), mettein dubbio che si puo parlare ancora di idealismo attuale per F. Nel secondo dopoguerra, in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente dell'attualismo, che è accusato di connivenza col FASCISMO, la posizione di F. è di aperta difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio pensiero. Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma entrare in un processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su questa certezza di F., si basa una spinta pedagogica di tipo socratico, per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più giovani, ma protesi verso il nuovo. L'educatore, nel suo farsi persona, diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia.  Quindi il senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io. Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e quest'ultimo nel particolare.  Per F. la speranza è nella certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che, presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente, e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si chiama vecchiaia.  Fondazione La Fondazione Nazionale F.  è sorta a Palermo, creata da Giambalvo e F., che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per la filosofia.  Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi, Studi sul pensiero antico; Sansoni, Galilei; R. Sandron,  Galilei, Palermo, poi in Opere, GALILEI (si veda); Sansoni, Novum organum: Bacon; Laterza, Dell'anima Aristotele; Laterza,  la formazione del problema kantiano, in Annali della Bibl. filosofica di Palermo, poi in Opere) La scuola popolare e altri discorsi ai maestri: Battiato, Introduzione allo studio della storia della filosofia; Zanichelli; Materia e sensazione (Sandron, Palermo, in Opere) Materia e sensazione; Sansoni, Introduzione alla filosofia; Sansoni, La teoria della libertà nella filosofia di Hegel (Messina, in Opere) Saggio su Bacone (Palermo, in Opere) Saggio su Bacone; Il problema morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze, Monnier, in Opere) Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi; Sansoni, Il significato della vita; Sansoni, Il significato della vita; Divagazioni e capricci su PINOCCHIO; G.C. Sansoni, Divagazioni e capricci su PINOCCHIO; Fondazione nazionale F., Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, Ricerche hegeliane; Fondazione nazionale F., Storia della filosofia; Palumbo, Storia della filosofia; Sansoni, I vigenti programmi della scuola elementare: Commento e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, Morale e diritto; Sansoni, Discorsi, lezioni; Sansoni, Saggi e problemi; Sansoni, Recensioni e varie, La Pinacoteca del Museo di Palermo e altri saggi; notizie dei pittori palermitani, Palermo, Prolusioni e discorsi inaugurali; Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, Spunti di storia della pedagogia Moralita dell'arte: rievocazione estetica e rievocazione suggestiva (con postille); Sansoni, Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. Logica e metafisica; Sansoni, La storia; Sansoni, Lettere a Bruna; Fondo F. Lettere a GENTILE (si veda); Fondo F., Introduzione allo studio della storia della filosofia e della pedagogia; Sansoni, La teoria della liberta' nella filosofia di Hegel; Principato, Opere; Sansoni, Commento a PINOCCHIO; G. C. Sansoni, Il problema PIRANDELLO (si veda); Firenze, Belfagor,  treccani/ enciclopedia f. (Dizionario-Biografico GARIN (si veda), Cronache di filosofia italiana., Bari, ad Indicem; f. treccani, treccani enciclopedia vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. F.,//faf. /index//. Vita e pensiero di F., Firenze, Palermo, con  degli scritti del e sul F., alle  Massolo: F. e la logica della compossibilità, Giornale critico della filosofia italiana, LUPORINI (si veda), Ricordo di F. in Belfagor, Francesco: Intenzionalità ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di F.: implicazioni pedagogiche; Fondazione F., A. GUZZO (si veda), F. e ROSSI (si veda), Filosofia, Giornale critico della filosofia italiana, (scritti di SAITTA (si veda), MASSOLO (si veda), CARAMELLA (si veda), ALBEGGIANI (si veda), MINEO (si veda), F.); SANTUCCI (si veda), Esistenzialismo e FILOSOFIA ITALIANA, Bologna, Negri, In ricordo di F., in Filosofia, GARIN (si veda), Cronache di filosofia italiana, Bari ad Indicem; F. Esistenza e realtà nella fenomenologia di F., Bologna, Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di F., in Per una storiografia filosofica, Urbino  Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e l'esigenza della metafisica in F., Palermo, SINI (si veda): Studi e prospettive sul pensiero di F. il Pensiero, ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del Congresso di filosofia F., oggi, Palermo Atti del Convegno su l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo  (con interventi di Lugarini, Mirabelli, Russo. Attualismo (filosofia) GENTILE (si veda) RUGGIERO (si veda) Alcamo  treccani, treccani/enciclopedia vito-fazio-allmayer Dizionario-Biografico Filosofia Filosofo Filosofi italiani Pedagogisti italiani Insegnanti italiani Insegnanti italiani Professore. Lezione sulla logica. LORENZINI (si veda). Vito Fazio. Fazio. Keywords: colloquenza, colloquio, dialettica, dialogo, hegel – fascism – he was forced to retire after the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier, LORENZINI, PIRANDELLO. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fazio” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fazzini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Vieste – filosofia viestese – filosofia foggiana – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vieste). Filosofo viestese. Filosofo foggiano. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Vieste, Foggia, Puglia. Grice: “I like Fazzini; he can be too theological, but that’s okay!”  Divulgatore di materie  filosofiche e il fondatore dell'omonima scuola private a Napoli, una delle più celebri nel regno delle Due Sicilie. Figlio di Tommaso e Porzia Medina, che apparteneno a due delle famiglie più agiate della città. Il suo talento per la filosofia e la matematica è notato fin dai primi anni. I genitori decisero quindi di far proseguire i suoi studi in ambienti che potessero garantire una formazione adeguata. F. si trasferì a Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco. Qui trascorse l'adolescenza approfondendo anche lo studio dei classici. Terminato il seminario, torna a Vieste. Lì, poco dopo il suo rientro, recita in duomo un'orazione in lode dell'Arcangelo Michele che è molto apprezzata dal clero e dai fedeli.  Il rientro nella città natale è comunque di breve durata. Desiderando continuare i suoi studi, si trasfere a Napoli. Venne ordinato sacerdote e nello stesso anno ha come insegnante FERGOLA (si veda). La scuola di quest'ultimo è un rinomato centro per la formazione e un punto di incontro per studiosi e ricercatori del Mezzogiorno. Ne è uno degl’allievi più illustri. Prosegue anche gli studi in filosofia. Si avvicina al sensismo (empirismo). Ottenne dalla chiesa il permesso di acquisire testi proibiti sul sensismo, a patto che non ne divulga i contenuti. Questo aspetto della formazione filosofica influe sulla sua docenza e sulla sua personalità, determinando una contraddizione che, secondo le testimonianze d’allievi e amici, lo accompagna per tutta la vita. Apre una scuola privata in cui venivano insegnate filosofia, matematica e fisica. La scuola ha sede nella Strada nuova dei Pellegrini, nel quartiere di Montecalvario, e divenne uno dei centri di studio più rinomati di Napoli.  Nel periodo di maggior successo La F. arriva a contare tra i 300 e i 400 allievi. In una data non precisabile, dovette quindi spostare la scuola in una sede più grande, in via Magnacavallo, nello stesso quartiere. Anche dopo aver aperto la propria scuola, comunque, insegna presso altre scuole private. Dedica all'insegnamento sei o sette ore al giorno. La maggior parte del tempo di insegnamento di F. è dedicata alla matematica. Al servizio di questa attività F. pubblica aritmetica, geometria piana e geometria solida. Oltre all'insegnamento della filosofia, si dedica alla ricerca e alla divulgazione. Al servizio di queste tre attività allestì anche un laboratorio scientifico, considerato uno dei migliori di Napoli. Per F. venne composta da DONIZETTI (si veda) una messa da Requiem oggi perduta, mentre PUOTI (si veda) recita un elogio di F., di cui è amico. Si occupa a lungo di ricerche scientifiche in vari campi della fisica. In particolare, studia l'induzione elettromagnetica, il magnetismo in generale e la relazione tra luce e magnetismo. Non pubblica però quasi nulla a proposito di queste ricerche, che sono note soprattutto attraverso le testimonianze di TELLINI (si veda) e di F.  È convinto che diverse delle forze naturali allora note, e in particolare il calorico, la luce, l’elettricismo, il galvanismo e il magnetismo, sono in realtà diverse manifestazioni di un'unica forza. Partendo da questa idea di base, studia soprattutto il magnetismo, e in particolare due fenomeni d’induzione, oggi spiegati in base alla legge di Faraday, scoperta negl’anni immediatamente precedenti:  il magnetismo di rotazione, scoperto d’ARAGO (si veda)-- il fenomeno per cui un ago magnetico posto sopra un disco di rame in rotazione inizia a sua volta a ruotare -- l'induzione tellurica, scoperta da Faraday: la generazione di una corrente elettrica indotta in un circuito che si muove attraverso il campo geo-magnetico. Per quanto riguarda il magnetismo di rotazione, ripeté e approfondì le esperienze d’ARAGO (si veda) notando che la rotazione dell'ago magnetico si verifica anche quando al di sopra del disco di rame si sovrappone materiale isolante, mentre non si verifica se il disco di rame vienne sostituito da un disco di materiale isolante.  Per quanto riguarda l'induzione tellurica, ne identifica con maggiore chiarezza le modalità. Cerca poi di combinare lo studio di questo fenomeno con quello del magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre diversi apparecchi. Una ricostruzione dettagliata del modo in cui gli apparecchi operano è fornita sulla base delle testimonianze lasciate da CIRELLI (si veda) e F.. Descrie una dvelle sue esperienze sull'induzione tellurica in una lettera a Faraday. Questa lettera è l'unica descrizione lasciata da F. in persona riguardo ai propri esperimenti. Esegue inoltre esperimenti sul rapporto tra luce e magnetismo, proiettando raggi di luce su un ago magnetico. Le testimonianze rimaste, tutte indirette, non permettono però di ricostruire in modo sicuro le intenzioni di F. e i risultati dei suoi esperimenti. Altri saggi:: “Elementi di geometria piana” (Napoli), “Geometria solida: la sfera e il cilindro (Napoli); Elementi di aritmetica (Napoli). Dizionario biografico degli italiani. La terna dei numeri primi dispari entro la decade. Il pentalfa pitagorico e la stella fiammeggiante. La tavola tripartite. La Grande Opera e la Palingenesi. La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico II - La quaterna dei numeri composti o sintetici. Il numero e le sue potenze  REGHINI (si veda). Il matematico ed erudito fiorentino REGHINI (si veda), alto dignitario della Massoneria prima del suo scioglimento ad opera del FASCISMO, è il più noto esponente del neo-pitagorismo nel XX secolo e teorico dell’“lmperialismo Pagano”. Amico di AMENDOLA (si veda) e di PAPINI (si veda), personaggio di punta della scapigliatura fiorentina all’epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La Voce”, fu a sua volta fondatore delle riviste “Atanòr”, “Ignis”, e - con EVOLA (si veda) - “UR” - Alla sua opera sono legate la riproposizione della “magia colta”, neo-platonica e rinascimentale, che contrappose al Cristianesimo come via d’accesso al divino, ed una critica radicale dell’occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In collaborazione con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente attraverso la formazione di un’élite iniziatica nel quadro di un processo di rigenerazione della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica organizzazione ermetico-pitagorica, d’origine pre-cristiana ed erede degli antichi Misteri. Polemista efficacissimo; fu interventista e fautore del primo fascismo, ma ruppe con Mussolini all’epoca del delitto Matteotti e con l’instaurazione della dittatura, ritirandosi nello studio della geometria e della matematica pitagoriche. Già in vita, sul suo conto s’era formata una corposa leggenda di “mago” e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo di altre fantasiose aggiunte». In questi termini, icastici ma sostanzialmente esatti, una recente biografia (1) presentava la complessa figura di Arturo Reghini. La storia della presente opera, l’ultima scritta da Reghini prima della morte, è stata brevemente narrata dal suo discepolo PARISE (si veda) nella “Nota” di presentazione ad un opuscolo postumo dello stesso REGHINI (si veda): Chiesi ad A. R. lo sviluppo filosofico ed iniziatico della opera sui numeri pitagorici; poté condurre a termine, in circa due mesi, un volume su I numeri sacri nella tradizione pitagorica massonica. LUCA, Reghini. Un intellettuale neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma, REGHINI A., Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore con una nota sulla vita e l’attività massonica dell’Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi Iniziatici, Napoli. Il saggio è finito di stampare per i tipi dello stab. tip. S. Barbara di Ugo Pinnarò, Roma – Via Pompeo Magno. Editore è il già citato PARISE (si veda), attraverso Ignis, la medesima che pubblica il saggio reghiniano Per la restituzione della geometria pitagorica. REGHINI (si veda) muore sei mesi prima. Nell’elaborazione del testo elettronico si è provveduto ad operare le correzioni indicate dall’Editore nell’Errata Corrige in allegato alla prima edizione, nonché quelle di errori di stampa individuati nel corso della trascrizione, come pure a rettificare talune (rarissime) imprecisioni bibliografiche sparse qua e là ed indubbiamente dovute alle particolari condizioni in cui Reghini si trovò a lavorare nell’immediato dopoguerra, senza la possibilità di effettuare gli opportuni riscontri. Con ciò il Curatore ha inteso assolvere un debito di riconoscenza contratto esattamente 40 anni fa nei confronti di PARISE (si veda), sebbene all’insaputa di quest’ultimo. Cosmopoli. REGHINI  I NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA. Reghini. I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Premesse Libertà va cercando ch'è sì cara Come sa chi per lei vita rifiuta. DANTE, Purg.,Secondo quanto affermano concordemente gli antichi rituali e le antiche costituzioni massoniche, la Massoneria ha per fine il perfezionamento dell'uomo. Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola, tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre vostro che è nei cieli, sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che nessuno è perfetto ad eccezione del Padre mio che è nei cieli. La definizione che abbiamo riportato sembrerebbe esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa ha subìto una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario etimologico del Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il perfezionamento dell'umanità; e non soltanto molti profani ma anche molti massoni accettano questa seconda definizione. A prima vista può sembrare che perfezionamento dell'uomo e perfezionamento dell'umanità significhino la stessa cosa; di fatto si riferiscono a due, concetti profondamente diversi, e l'apparente sinonimia genera un equivoco e nasconde una incomprensione. Altri adopera l'espressione: perfezionamento degli uomini, anche essa equivoca. Ora, evidentemente, non è possibile sentenziare quale sia l'interpretazione giusta, perché ogni massone può dichiarare giusta quella che si confà ai suoi gusti, e magari può compiacersi dell'equivoco. Se però si vuole determinare quale sia, storicamente e tradizionalmente, la interpretazione corretta e conforme al simbolismo muratorio, la questione cambia aspetto e non è più questione di gusti. Il manoscritto rinvenuto dal Locke nella Biblioteca Bodleyana e pubblicato solo nel 1748 e che è attribuito alla mano di Enrico VI di Inghilterra, definisce la Massoneria come «la conoscenza della natura e la comprensione delle forze che sono in essa»; ed enuncia espressamente l'esistenza di un legame tra la Massoneria e LA SCUOLA ITALA, perché afferma che Pitagora, un greco, viaggiò per istruirsi in Egitto, in Siria, ed in tutti i paesi dove i Veneziani (leggi i Fenicii) avevano impiantato la Massoneria. Ammesso in tutte le loggie di Massoni, acquistò un grande sapere, tornò in Magna Grecia e vi fonda una importante loggia in CROTONE. A vero dire il manoscritto parla di Peter Gower; e, siccome il cognome Gower esiste in Inghilterra, Locke rimase alquanto perplesso nella identificazione di Peter Gower con Pitagora. Ma altri (1) HUTCHINSON, Spirit of Masonry; PRESTON, Illustrations of Masonry; DE CASTRO, Mondo segreto, REGHINI, Noterelle iniziatiche. Sull’origine del simbolismo muratorio, Rassegna Massonica, REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  manoscritti e le stesse Costituzioni dell'Anderson fanno esplicita menzione di Pitagora. Il manoscritto Cooke dice che la Massoneria è la parte principale della Geometria, e che fu Euclide, un sottilissimo e savio inventore, che regolò quest'arte e le dette il nome di Massoneria. E delle reminiscenze pitagoriche nelle Old Charges è traccia anche nel più antico rituale stampato il quale attribuisce un pregio speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica. Gli antichi manoscritti massonici concordano dunque nell'indicare come fine della massoneria quello del perfezionamento dell'uomo, del singolo individuo; e le prove iniziatiche, i viaggi simbolici, il lavoro dell'apprendista e del compagno hanno un manifesto carattere individuale e non collettivo. Secondo la concezione massonica più antica, la «grande opera» del perfezionamento va attuata operando sopra la «pietra grezza», ossia sopra l'individuo singolo, squadrando, levigando e rettificando la pietra grezza sino a trasformarla nella pietra cubica della Maestria, ed applicando nella operazione le norme tradizionali dell'Arte Regia muratoria di edificazione spirituale. Con perfetta analogia una tradizione parallela, la tradizione ermetica che compare anche innestata a quella puramente muratoria, insegna che la grande opera si attua operando sopra la «materia prima» e trasformandola in «pietra filosofale» seguendo le norme dell'Arte Regia ermetica. Essa è compendiata nella massima di Basilio Valentino: Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem oppure nella Tabula smaragdina attribuita da moderni arabisti al pitagorico Apollonio Tianeo. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica, il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo modo all'ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio della massoneria, cioè il perfezionamento dell'individuo, viene posto in seconda linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La concezione tradizionalmente corretta è sicuramente la prima, e nella letteratura massonica di due secoli fa ebbero grande voga esagerati e fantasiosi avvicinamenti ed identificazioni dei misteri eleusini e massonici. Senza ombra di dubbio il patrimonio ritualistico e simbolico dell'Ordine muratorio è in armonia soltanto con la concezione più antica del fine della massoneria; infatti il testamento dell'iniziando, i viaggi simbolici, le terribili prove, la nascita alla luce iniziatica, la morte e resurrezione di Hiram, non si capisce quale relazione possano avere coi lavori massonici e con lo scopo della Massoneria se tutto si deve ridurre a fare della politica. Storicamente l'interessamento e l'intervento della Massoneria nelle questioni politiche e sociali si manifesta solo in alcune regioni europee col trapiantamento della Massoneria inglese nel continente. Quel poco che si conosce delle antiche loggie muratorie mostra la presenza e l'uso nei lavori massonici di un simbolismo di mestiere, architettonico, geometrico, numerico; il quale per sua natura ha un carattere universale, non è legato ad una civiltà determinata e neppure ad una lingua particolare, ed è indipendente da ogni credenza di ordine politico e religioso. Per questa ragione il massone, secondo il rituale, non sa né leggere né scrivere. Un elemento ebraico compare nella leggenda di Hiram e della costruzione del Tempio, e le parole sacre del novizio e del compagno (i soli gradi allora esistenti) che si riferiscono a questa leg(2) The Grand Mystery of Free-masons discovered wherein are the several questions put to them at their Meetings and installation, London. VERGILIO VIRGILIO (si veda) Bucolicon, Eglo: Numero impari Deus gaudet. Le iniziali di questa massima formano la parola vitriol, il solvente universale degli alchimisti, detto ancor oggi acqua regia. REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  genda sono ebraiche. Questa leggenda non fa parte del patrimonio tradizionale dell'Ordine; la morte di Hiram non figura negli antichi manoscritti massonici, e le costituzioni dell'Anderson ignorano il terzo grado. Comunque la presenza di elementi e parole ebraiche non deve stupire in un tempo in cui l'ebraico era considerato una lingua sacra, anzi la lingua sacra in cui Dio aveva parlato all'uomo nel Paradiso terrestre; è una presenza di cui non va esagerata l'importanza ed il significato, e che non basta certo a giustificare l'asserzione del carattere ebraico della Massoneria. La lettera G dell'alfabeto greco-latino, iniziale di geometria e dell'inglese God, che compare talora nella Stella Fiammeggiante o nel Delta massonico, sembra che sia una innovazione (senza utilità per chi non sa né leggere né scrivere), mentre quei due simboli fondamentali dell'Ordine non sono altro che i due più importanti simboli del pitagoreismo: il pentalfa o pentagramma e la tetractis pitagorica. L'arte muratoria od arte reale od arte regia, termine di cui fa uso il filosofo neoplatonico Massimo di Tiro, era identificata con la geometria, una delle scienze del quadrivio pitagorico, e non si capisce come Wirth, il dotto massone ed ermetista, possa scrivere che i Massoni hanno potuto proclamarsi adepti dell'Arte reale perché dei re si interessarono un tempo all'opera delle corporazioni costruttive privilegiate del Medio Evo. Gli elementi di carattere muratorio puro costituiscono, insieme al simbolismo numerico e geometrico, il patrimonio simbolico e ritualistico arcaico e genuino della fratellanza. Non diciamo patrimonio caratteristico perché questi elementi compaiono, almeno parzialmente, anche nel compagnonnage, del resto assai affine alla Massoneria. In seguito, quando le loggie inglesi principiano ad accettare come fratelli anche gli accepted masons, vale a dire anche persone che non esercitano la professione di architetto od il mestiere di muratore, compaiono anche elementi ermetici e rosacroce, ad esempio Elia Ashmole, come mostra il Gould nella sua storia della Massoneria. Questo contatto tra la tradizione ermetica e quella muratoria avviene anche fuori dell'Inghilterra presso a poco nel medesimo tempo, il che naturalmente implica l'esistenza nel continente di loggie massoniche non derivanti dalla Gran Loggia d'Inghilterra. Il frontespizio di un importante testo di ermetismo contiene accanto a simboli ermetici (il Rebis) anche i simboli prettamente muratori della squadra e del compasso, ed altrettanto accade in un libretto italiano di alchimia impresso in lamine di piombo e che risale presso a poco a quel periodo. In questo libretto è raffigurato, tra l'altro, Tubalcain che tiene nelle mani una squadra ed un compasso. Ora Tubalcain è nella Bibbia il primo fabbro; e per un errore etimologico allora accettato ed assai diffuso, per esempio dall'erudito Vossio, venne identificato con Vulcano, il fabbro degli Dei e Dio del fuoco, che secondo il concetto degli alchimisti ed ermetisti presiedeva al fuoco ermetico (od ardore spirituale), fuoco il quale compiva da solo la grande opera della trasmutazione. In un nostro lavoro giovanile (9) abbiamo dato una errata interpretazione della parola di passo Tubalcain, non conoscendo la errata identificazione di Vulcano con Tubalcain accettata dagli ermetisti ed in generale dagli eruditi del seicento e del settecento. Ci sembra oggi manifesto che questa parola ed altre parole di passo traggano la loro derivazione dall'ermetismo, e riteniamo probabile che siano state introdotte in massoneria e poste a lato delle parole sacre a testimonianza del contatto stabilito tra le due tradizioni, la muratoria e l'ermetica. Le parole di passo non esistono TYR, Discours Philosophiques, FORMEY, Leida. Cfr. WIRTH, Le Livre du Maître. Si tratta della Basilica Philosophica MYLII, Francof. (NEGRI, Un codice plumbeo alchemico italiano, nella rivista UR  [“Pietro Negri” è lo pseudonimo impiegato dallo stesso REGHINI (si veda) sulla rivista «UR»] REGHINI, Le parole sacre e di passo ed il massimo mistero massonico, Todi. Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nel rituale del Prichard. Ermetismo e Massoneria hanno per fine la «grande opera della trasmutazione», e le due tradizioni trasmettono il segreto di un'arte, che entrambe designano con il termine di arte regia, già usato da Massimo di Tiro. Era quindi naturale che si riconoscessero mutuamente affini. Osserviamo come l'adozione del simbolismo ermetico non avvenga a detrimento della universalità massonica e della sua indipendenza dalla religione e dalla politica, perché anche il simbolismo ermetico od alchemico è per sua natura estraneo ad ogni credenza religiosa o politica. L'arte massonica e l'arte ermetica, detta anche semplicemente l'arte, è un'arte e non una dottrina od una confessione. Ogni loggia massonica è libera ed autonoma; i fratelli di una officina erano ricevuti come visitatori nelle altre purché sapessero rispondere alla tegolatura, ma ogni maestro Venerabile era l'autorità unica e suprema per i fratelli di una officina. Si ha un mutamento con la costituzione della prima Grande Loggia, la Grande Loggia di Londra, e poco dopo venivano compilate per opera del pastore protestante Anderson le Costituzioni massoniche per le Loggie all'Obbedienza della Gran Loggia di Londra; e, sebbene teoricamente un'officina potesse e possa mantenere la propria autonomia o mettersi all'Obbedienza di una Gran Loggia, nella pratica vengono oggi considerate loggie regolari quelle che direttamente od indirettamente sono emanazione e derivazione della Gran Loggia di Londra, supponendo che questa derivazione e soltanto essa possa conferire la regolarità. Ora è molto importante notare che le Costituzioni dell'Anderson affermano esplicitamente che per essere iniziato ed appartenere alla Massoneria si richiede solo di essere un uomo libero e di buoni costumi, ed esaltando (a differenza delle varie sette cristiane) il principio della tolleranza reciproca di ogni fratello per le altrui credenze, aggiungendo solo che un massone non sarà mai uno «stupido ateo. Taluno potrà forse pensare che l'Anderson ammetta che il massone possa essere un ateo intelligente, ma è più verosimile che l'Anderson da buon cristiano ammetta che un ateo è necessariamente uno stupido, seguendo la massima che dice: Dixit stultus in corde suo: Non est Deus. Bisognerebbe qui fare una digressione ed osservare che in questa disputa tanto chi afferma quanto chi nega non ha in generale nozione alcuna di quanto afferma esistere o no, e che la parola Dio viene adoperata di solito con un senso talmente indeterminato da rendere vana qualunque discussione. Comunque le Costituzioni della Massoneria sono esplicitamente teistiche; e quei profani che accusano la Massoneria di ateismo sono in mala fede od ignorano che essa lavora alla gloria del Grande Architetto dell'Universo; ed osserviamo ancora che questa designazione oltre ad essere in armonia col carattere del simbolismo muratorio ha un significato preciso ed intelligibile a differenza di altre designazioni vaghe o prive di senso come quella di «Nostro Signore», di «Padre di tutti gli uomini» ecc. Maggiore interesse offre il requisito di uomo libero fatto al profano per iniziarlo ed al massone per considerarlo fratello. L'Anderson non fa che continuare a chiamare liberi Muratori i FreeMasons, e resta solo da esaminare in che cosa consista questa freedom dei Free masons. Si tratta solo di franchigia economica e sociale che esclude gli schiavi o servi e delle franchigie e dei privilegi di cui godeva la corporazione dei liberi muratori rispetto ai governi degli stati e delle varie regioni in cui essa svolgeva la sua attività? Oppure questo appellativo di liberi muratori va inteso anche in altro senso di non schiavo dei pregiudizii e delle credenze che non era il caso di ostentare? Se cosi fosse sarebbe vano cercarne le prove documentate, e la questione resterebbe indecisa. Pure è possibile dire qualche cosa in proposito grazie ad un documento del 1509 la cui esistenza od importanza sembra non sia stata finora avvertita, (10) O. WIRTH esprime categoricamente questa opinione (Livre du Maître).  REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Si tratta di una lettera ad Agrippa da un suo amico italiano, certo LANDOLFO (si veda), per raccomandargli un iniziando. Scrive LANDOLFO (si veda). È un tedesco come te, originario di Norimberga, ma abita a Lione. Curioso indagatore degli arcani della natura, ed uomo libero, completamente indipendente del resto, vuole sulla reputazione che tu hai già, esplorare anche lui il tuo abisso. Lancialo dunque per provarlo nello spazio; e portato sulle ali di Mercurio vola dalle regioni dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove; e se questo neofita vuole giurare i nostri statuti, associalo alla nostra confraternita». Si tratta di una associazione segreta ermetica fondata da Agrippa ed è manifesta l'analogia tra questa prova dello spazio da fare affrontare all'iniziando e le terribili prove ed i viaggi simbolici della iniziazione massonica, sebbene qui la prova si effettui sulle ali di Ermete; Ermete psicopompo, il padre dei filosofi secondo la tradizione ermetica, è la guida delle anime nell'al di là classico e nei misteri iniziatici. Anche qui compare la qualifica di uomo libero, sufficiente ad aprire le porte a chi bussa profanamente alla porta del tempio; anche qui compare in sostanza il principio della libertà di coscienza e conseguentemente della tolleranza; le due tradizioni parallele muratoria ed ermetica pongono la stessa unica condizione al profano da iniziare: quella di essere un uomo libero; e ne deriva che presumibilmente essa non si riferiva alle franchigie particolari delle corporazioni di mestiere, che sarebbe stato del resto fuori di luogo pretendere dagli accepted Masons che non erano muratori di mestiere ma liberi muratori. Il carattere fondamentale delle Costituzioni massoniche d’Anderson sta adunque nel principio della libertà di coscienza e della tolleranza, che rende possibile anche ai non cristiani di appartenere all'Ordine. Nelle Costituzioni dell'Anderson la Massoneria conserva il suo carattere universale, non è subordinata ad alcuna credenza filosofica particolare né ad alcuna setta religiosa, e non manifesta alcuna tendenza a lavori di ordine sociale e politico; può darsi che questo carattere aconfessionaJe e libero inspirasse anche la Massoneria e che Anderson non abbia fatto altro che sancirlo nelle Costituzioni. Trapiantandosi in America e nel continente europeo la Massoneria conserva in generale questo suo carattere universale di tolleranza religiosa e filosofica e resta aliena da ogni partecipazione ai movimenti politici e sociali, talora accentuando, come in Germania, il suo interesse per l'ermetismo. Sorgono per altro i nuovi riti e gli alti gradi, i quali però hanno cura di mantenere intatti il rito ed i rituali dei primi tre gradi, ossia della vera e propria massoneria detta anche massoneria simbolica od azzurra. I rituali di questi alti gradi sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram, oppure si riattaccano ai Rosacroce, all'ermetismo, ai Templari, allo gnosticismo, ai catari, vale a dire non hanno un vero e proprio carattere massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono assolutamente superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere superiori dei varii riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla corretta interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente comprensione ed applicazione del rito ossia dell'arte regia. Naturalmente questo non significa che si debbano abolire gli alti gradi perché i fratelli insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi in riti e corpi per svolgere lavori non in contrasto con quelli massonici debbono avere la libertà di farlo. Però dal punto di vista strettamente massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed a camere superiori non li pone in alcun AGRIPPA, Epistol. Cfr. anche la monografia di REGHINI premessa alla versione italiana della Filosofia Occulta di Agrippa.  Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  modo al di sopra di quei maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello della universale massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti distinti, come quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta Osservanza, quello di Memphis... appunto perché differenti non sono più universali, oppure lo sono solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi. Dimenticarlo o tentare di snaturare il carattere universale, libero e tollerante della Massoneria, per imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di vista ed obbiettivi, sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione muratoria e contro la lettera delle Costituzioni della Fratellanza. La prima alterazione appare in Francia, simultaneamente alla fioritura degli alti gradi. Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell'Enciclopedia, si ripercuotono nella Massoneria, che si diffonde largamente e rapidamente; ed accade cosi per la prima volta che l'interesse dell'Ordine si dirige e si concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che ciò non avvenisse, l'influenza del grande movimento profano che condusse alla rivoluzione e culminò poi nell'impero. La Massoneria francese divenne e rimase anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata come la tradizione massonica, sebbene sia tutt'al più la tradizione massonica francese, ben distinta dalla antica tradizione. Questa deviazione e questa persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni e della conseguente disunione e debolezza della Massoneria di fronte agli attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. Comunque anche i fratelli che seguono questa tradizione massonica francese non hanno dimenticato il principio della tolleranza, e nelle loggie massoniche italiane, anche prima della persecuzione fascista, si trovavano fratelli di ogni fede politica e religiosa, compresi i cattolici ed i monarchici. Va anche ricordato che nel periodo di poco precedente lo scoppio della rivoluzione francese non tutti i massoni dimenticarono la vera natura della Massoneria, sebbene disorientati dalla pleiade di riti diversi e contrastanti; e si tenne il Convento dei Filaleti allo scopo di rintracciare quale fosse la vera tradizione massonica, ossia, la vera parola di maestro che, secondo la stessa leggenda di Hiram, era andata perduta. Al Convento dei Filaleti convennero massoni di ogni rito, tutti desiderosi di ristabilire l'unità. Il solo Cagliostro, che aveva fondato il rito della Massoneria Egiziana in soli tre gradi, dedito esclusivamente all'opera della edificazione spirituale, rifiutava di partecipare al Convento dei Filaleti per ragioni che sarebbe lungo esporre. L'influenza massonica francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l'impero, anche in Italia; la presenza anche oggi di alcuni termini tecnici nei «travagli» massonici come il «maglietto» del Venerabile, versione poco felice del maillet ossia del martello, ne fa testimonianza La massoneria francese e quella italiana ebbero durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la voga filosofica del tempo. Non si può dire per altro che la massoneria divenne in Italia una massoneria materialista, perché non soltanto fu sempre tollerante di tutte le opinioni, ma venerò in modo speciale la grande anima di MAZZINI (si veda); ed i grandi massoni italiani come GARIBALDI (si veda), BOVIO (si veda), CARDUCCI (si veda), FILOPANTI (si vda), PASCOLI (si veda), TORRIGIANI (si veda) ed AMENDOLA (si veda) sono tutti idealisti e spiritualisti. È riserbata alla TEPPA FASCISTA la selvaggia furia di devastazione dei Cosi pure pietra polita invece di pietra levigata dal francese pierre polie; lupetto ed anche lupicino che è una versione di louveton, a sua volta trasformazione fonetica e semantica da Lufton, figlio di Gabaon, nome generico del massone secondo i primitivi rituali inglesi e francesi.  REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  nostri templi, delle nostre biblioteche ed il vandalismo che fece a pezzi i ritratti ed i busti dei grandi spiritualisti come MAZZINI (si veda) e GARIBALDI (si veda) che decorano le nostre sedi. D'altra parte bisogna riconoscere che, se la massoneria anglosassone ha sempre mantenuto il carattere spiritualista e non ha mai pensato a dichiarare la inesistenza del Grande Architetto dell'Universo, essa è stata spesso incline, e lo è ancora, a conferire un colorito cristiano al suo spiritualismo, allontanandosi dallo spirito di assoluta imparzialità ed aconfessionalità delle Costituzioni dell'Anderson. Non si può negare che l'imporre il giuramento sul Vangelo di Giovanni sia una manifestazione non troppo tollerante rispetto a quei profani ed a quei fratelli che, essendo agnostici, o pagani, od ebrei o liberi pensatori, non sentono particolare simpatia per il Vangelo di Giovanni e non sanno nulla della tradizione gioannita. L'intolleranza si accentua con l'andazzo di infliggere la lettura ed il commento di versetti del Vangelo durante i lavori di Loggia. Questo mal vezzo, qualora si affermasse, ridurrebbe i lavori di Loggia al livello di un service di una chiesa quacchera o puritana, ad una specie di rosario e vespro fastidioso, inconcludente, e ripugnante alla libera coscienza dei moltissimi fratelli i quali, anche in Inghilterra, ed in America, non solo non vanno alla messa, e non accettano l'infallibilità del Papa, ma non accettano più neppure l'autorità della Bibbia. Vale la pena di provocare il disagio e l'insofferenza tra le colonne senza sensibile compenso? Si crede proprio con simili mezzi di convertire gli altri alla propria credenza, e di arginare la potente ondata dell'agnosticismo inglese ed americano? Queste considerazioni inducono a mantenere alla Massoneria il suo carattere universale al di sopra di ogni credenza religiosa e filosofica e di ogni fede politica. Il che non vuol dire che si debba fare astrazione dalla politica. Occorre infatti difendersi. L'intolleranza non può lasciare prosperare la tolleranza; e la tolleranza tutto può tollerare salvo l'intolleranza dichiaratamente ostile. Appena comparvero le Costituzioni dell'Anderson col loro principio della libertà e della tolleranza la Chiesa cattolica scomunicò la Massoneria rea appunto di tolleranza; e l'accanimento contro la Massoneria non si è mai più smentito. In Italia la persecuzione contro la Massoneria in questo ultimo ventennio è stata iniziata e sostenuta dai gesuiti e dai nazionalisti; ed i fascisti per ingraziarsi questi messeri non esitarono a provocare l'avversione del mondo civile contro l'Italia con le loro gesta vandaliche contro la massoneria. I gesuiti hanno perduto questa guerra; ma la peste dell'intolleranza non è finita, anzi si affaccia sotto nuove forme e ne segue la necessità di prevenirla. D'altra parte giunge l'ora, se non erriamo, di spargere la Massoneria sopra tutta la superficie della terra e di stabilire una fratellanza tra gli uomini di tutte le razze, civiltà e religioni; e per assolvere questo compito è necessario che la Massoneria non abbia una fisionomia ed un colorito che appartiene solo alla minoranza dell'umanità a cui le grandi civiltà orientali, tutta la Cina, tutta l'India, il Giappone, la Malesia, il mondo dell'Islam si sono dimostrati refrattarii. La cosa è possibile sin tanto che la Massoneria non si circoscrive in una qualunque credenza e resta fedele al suo patrimonio spirituale che non consiste in una fede codificata, in un credo religioso o filosofico, in un complesso di postulati o pregiudizii ideologici e moralistici, in un bagaglio dottrinale in cui si creda contenuta ed espressa la verità cui convertire i miscredenti. Bisogna pensare che, anche se esiste la vera religione o la vera filosofia, è una illusione il credere di poterla conquistare o comunicare con una conversione o con una confessione od una recitazione di formule determinate, perché ognuno intende le parole di questi credi e formule a modo suo, conforme alla sua cultura ed intelligenza: ed in fondo esse non sono, come diceva Amleto, che words, words, words. Fin tanto che non ci si ragiona sopra, permane l'illusione di comprendere queste parole nello stesso modo; appena si comincia a ragionare, sor Cfr. gli art. Di BODRERO nell'organo della Compagnia di Gesù, la Civiltà cattolica, ed il giornale Roma Fascista; cfr. et.: Ignis e Rassegna Mass., annata REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica – Premesse] gono le sette e le eresie, ciascuna persuasa di possedere la verità. La sapienza non può essere razionalmente intesa, espressa e comunicata; essa è una visione, una vidya, essenzialmente e necessariamente indeterminata, incerta; e, aprendo gli occhi alla luce con la nascita alla nuova vita, ci si avvia a questa visione. L'arte muratoria od arte regia è l'arte di lavorare la pietra grezza in modo da rendere possibile la trasmutazione umana e la graduale percezione della luce iniziatica. Il che non significa naturalmente che la Massoneria abbia il monopolio dell'arte regia. Durante questi ultimi due secoli la grande maggioranza dei nemici della massoneria ha fatto sistematicamente ed unicamente ricorso soltanto all'ingiuria ed alla calunnia facendo leva sui sentimenti moralistici e patriottici. Si è affermato che i lavori massonici consistono in orgie abbominevoli, svisando a questo scopo i rituali, si sono svelate le cerimonie massoniche ponendole in ridicolo, si è accusato i massoni di tradire la loro patria a causa del carattere internazionale dell'Ordine, si è affermato che la Massoneria non è altro che uno strumento degli Ebrei, sempre mirando ad ingannare ed aizzare i fedeli credenti ed il grosso pubblico contro la «Società Segreta». I massoni naturalmente sapevano bene che non si trattava che di calunnie; e, non potendoli persuadere, si è pensato a sopprimerli od a togliere ad essi la possibilità di adunarsi, di lavorare, di rispondere e di difendersi. Recentemente uno scrittore cattolico ha pubblicato uno studio storico sopra «la Tradizione Segreta» condotto con competenza ed abilità, ed in cui le contumelie e le solite calunnie dirette a fare presa sull'animo dei profani sono state sostituite da una critica insidiosa diretta a fare presa sul lettore colto ed anche sull'animo dei fratelli. Questa critica afferma che nel fondo della tradizione segreta è contenuto il vuoto assoluto e conclude con l'affermare che «la Scuola Iniziatica o per essa la Tradizione Segreta, non ha insegnato assolutamente nulla all'umanità. Veramente non si capisce bene come si possa allora anche affermare che questo vuoto assoluto, «questa tradizione segreta coincide, se pure spesso in forma corrotta, con le dottrine gnostiche», ma non pretendiamo troppo. La Massoneria è dunque, secondo l'autore, una sfinge senza segreto perché non insegna alcuna dottrina, ed il lettore è così portato a concludere che essendo priva di contenuto la Massoneria non val niente. In quanto precede noi abbiamo mostrato che la Massoneria non insegua alcuna dottrina e non deve insegnarne; e che questo è un merito e non un demerito della Massoneria. Per concludere poi che, non contenendo una dottrina, la Tradizione segreta contiene il vuoto assoluto bisogna credere che soltanto una dottrina possa occupare il vuoto. Afferma ancora il Del Castillo che «il sistema iniziatico suppone che l'uomo possa arrivare a capire con lo sforzo del cervello i problemi insoluti del cosmo e dell'al di là»; e che la Chiesa cattolica oppone alle vane elucubrazioni dei così detti iniziati la forza intangibile del suo dogma che deve essere unico perché non possono esistere due verità»; e che IL SISTEMA INIZIATICO  è incompatibile can il cristianesimo. A queste e simili affermazioni rispondiamo che ignoriamo la esistenza di un sistema iniziatico, che non conosciamo iniziati che facciano delle supposizioni, e tanto meno che si illudano di potere capire col solo cervello e con elucubrazioni di problemi insoluti: ma non ci è possibile ammettere che la fede in un dogma costituisca una conoscenza perché sapere non è credere. Anzi noi comprendiamo che la verità è necessariamente ineffabile ed indefinibile, e lasciamo ai profani l'ingenua e consolante illusione che sia possibile una qualsiasi formulazione della verità e della conoscenza in credi, formule, dottrine, sistemi e teorie. Anche Gesù, del resto, sapeva che le sue parabole non erano che delle parabole, ma diceva anche ai suoi discepoli che ad essi «era dato intendere il mistero del regno dei cieli». Evidentemente sola fides sufficit ad firmandum cor sincerum, ma non sufficit per intendere i misteri. Lo stesso dicasi naturalmente per il solo raziocinio. E con questo CASTILLO, La tradizione segreta, Milano, Bompiani, REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  non intendiamo menomare il valore della fede e del raziocinio; la sola fede conduce al fanatismo ignorante, il solo raziocinio conduce alla disperazione filosofica; sono un po' come il tabacco ed il caffè: due veleni che si compensano; ma naturalmente non basta fumare la pipa e centellinare il caffè per assurgere alla conoscenza. Alla conoscenza multi vocati sunt, non tutti; e, tra questi molti, pauci electi sunt; secondo la Chiesa cattolica invece basta la fede nel Dogma, e conoscenza e paradiso sono alla portata di tutte le borse a prezzi di vera concorrenza. Riassumendo: Non esiste una dottrina segreta massonica; ma esiste un'arte segreta, detta arte reale, od arte regia o semplicemente l'Arte; è l'arte della edificazione spirituale cui corrisponde l'architettura sacra. Gli strumenti muratorii hanno perciò un senso figurato nell'opera della trasmutazione; ed al segreto dell'arte regia corrisponde il segreto architettonico dei costruttori delle grandi cattedrali medioevali. E' naturale che i liberi muratori venerino il Grande ARCHITETTO dell'Universo, anche se non si definisce cosa si debba intendere con questa formola. Nell'architettura antica, specialmente in quella sacra, avevano grande importanza le questioni di rapporto e di proporzione; l'architettura classica regolava la proporzione delle varie parti di un edificio, ed in particolare dei templi, basandosi sopra un modulo segreto cui accenna Vitruvio; sopra l'architettura egiziana e specialmente sopra la Piramide di Cheope esiste tutta una letteratura che ne mostra il carattere matematico; ed, anche procedendo con molto scetticismo, è certo ad esempio che tale piramide si trova esattamente alla latitudine di 30° in modo da formare col centro della terra e col polo Nord un triangolo equilatero, è certo che essa è perfettamente orientata e che la faccia rivolta a settentrione è esattamente perpendicolare all'asse di rotazione terrestre, anzi alla posizione di questo asse al tempo della sua costruzione. Ed anche i costruttori medioevali non erano guidati da criterii puramente estetici, e si preoccupavano dell'orientazione della chiesa, del numero delle navate ecc.; e l'arte dei costruttori era posta in connessione con la scienza della geometria. La squadra ed il compasso sono i due simboli fondamentali di mestiere dell'arte muratoria; e la riga ed il compasso sono i due strumenti fondamentali per la geometria elementare. La Bibbia afferma che Iddio ha fatto omnia in numero, pondere et mensura; i pitagorici hanno coniato la parola cosmo per indicare la bellezza del cosmo in cui riconoscevano una unità, un ordine, un'armonia, una proporzione; e tra le quattro scienze liberali del quadrivio pitagorico, cioè l'aritmetica, la geometria, la musica e la sferica, la prima stava alla base di tutte le altre. ALIGHIERI (si veda) compara il cielo del Sole all'aritmetica perché come del lume del Sole tutte le stelle si alluminano, cosi del lume dell'aritmetica tutte le scienze si alluminano, e perché come l'occhio non può mirare il sole così l'occhio dell'intelletto non può mirare il numero che è infinito. Lasciando da parte ogni critica di questo passo resta stabilita la posizione occupata secondo Dante dalla Aritmetica. Tanto la Bibbia quanto l'architettura portavano alla considerazione dei numeri. Oggi, anche rifiutando di riconoscere nel cosmo un'unità, un ordine, un'armonia, una legge ed accettando solo un determinismo limitato dalla legge di probabilità la fisica moderna si riduce sempre alla considerazione di numeri e rapporti numerici; anzi non restano altro che quelli, e tanto Einstein quanto Bertrand Russel hanno constatato e riconosciuto il ritorno della scienza moderna al pitagoreismo. La stessa cosa era già stata detta dal WIRTH: «Comme la méthode initiatique se refuse à inculquer qui que ce soit, il n'est guère admissible qu'une doctrine positive ait été enseignée au sein des Mystères» (Le livre du Maître). Il DEL CASTILLO invece sostiene senza alcuna prova che la Massoneria ha preteso insegnare una tale dottrina segreta, constata che di questa dottrina positiva non si trova traccia, ed invece di riconoscere che la sua personale asserzione non ha fondamento, accusa la Massoneria di millantato credito e di incapacità. O Vos qui cum Jesu itis, non ite cum Jesuitis. ALGHIERI (si veda), Conv. REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse  Non stupisce quindi che i liberi muratori identificassero l'arte architettonica con la scienza della geometria e dessero alla conoscenza dei numeri tale importanza da giustificare la loro pretesa tradizionale di essere i soli ad avere conoscenza dei «numeri sacri». Dobbiamo per altro fare ancora alcune osservazioni. La geometria nella sua parte metrica, ossia nelle misure, richiede la conoscenza dell'aritmetica; inoltre l'accezione della parola geometria era anticamente più generica che ora non sia, e geometria indicava genericamente tutta la matematica; di modo che la identificazione dell'arte reale con la geometria, tradizionale in Massoneria, si riferisce non alla sola geometria intesa nel senso moderno, ma anche alla aritmetica. In secondo luogo dobbiamo osservare che questa relazione fra la geometria e l'arte regia dell'architettura e della edificazione spirituale è la stessa che inspira la massima platonica ACCADEMIA: NESSUN IGNARO DELLA GEOMETRIA ENTRI SOTTO IL MIO TETTO. Questa massima è di attribuzione un po’ dubbia perché è riportata solo da un tardo commentatore: ma in opere che indiscutibilmente appartengono a Platone leggiamo essere «la geometria un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno; una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», essere «perfino impossibile arrivare ad una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'astronomia e l'intimo legame di quest'ultima con la musica. Questa concezione ed attitudine di Platone è la medesima che si ritrova nella SCUOLA ITALA o pitagorica che esercitò sopra Platone grandissima influenza, di modo che anche volendo sostenere che la Massoneria si sia inspirata a Platone, si è sempre in ultima analisi ricondotti alla geometria ed all'aritmetica dei pitagorici. Il legame tra la Massoneria e l'Ordine pitagorico, anche se non si tratta di ininterrotta derivazione storica, ma soltanto di filiazione spirituale, è certo e manifesto. ANGHERÀ (si veda) nella prefazione alla ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato, già pubblicati in NAPOLI, afferma categoricamente che l'Ordine massonico è la stessa, stessissima cosa dell'Ordine pitagorico; ma anche senza spingersi tanto oltre l'affinità tra i due ordini è sicura. In particolare l'arte geometrica della Massoneria deriva, direttamente od indirettamente, dalla geometria ed aritmetica pitagoriche; e non più in là, perché i pitagorici furono i creatori di queste scienze liberali, a quanto risulta storicamente e secondo la attestazione di Proclo. Ad eccezione di alcune poche proprietà geometriche attribuite, probabilmente a torto, a Talete, la geometria, dice il Tannery, scaturisce completa dal genio di Pitagora come Minerva balza armata di tutto punto dal cervello di Giove; ed i pitagorici sono stati i primi ad iniziare lo studio dell'aritmetica e dei numeri. Per studiare le proprietà dei numeri sacri ai Liberi Muratori e la loro funzione in Massoneria, la via che si presenta spontaneamente è dunque quella di studiare l'antica aritmetica pitagorica; e di studiarla sia dal punto di vista aritmetico ordinario, sia dal punto di vista dell'aritmetica simbolica od aritmetica formale, come la chiama Pico della Mirandola, corrispondente al compito filosofico e spirituale assegnato da Platone alla geometria. I due sensi si trovano strettamente connessi nello sviluppo dell'aritmetica pitagorica. La comprensione dei numeri pitagorici faciliterà la comprensione dei numeri sacri alla massoneria.  LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, 2a ed., Milano, Hoepli Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico No, io lo giuro per colui che ha trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e la radice dell'eterna natura. Detti aurei.  Riesumare e restituire l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione. Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filologico, ci atterremo soltanto a quanto resulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è soltanto nostra opinione o resultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica; secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbiamo per certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo Empedocle di GIRGENTI (si veda) quasi contemporaneo, riteniamo che le sue conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora di CROTONE (si veda) visse nel sesto secolo prima di Cristo, fonda in Calabria una scuola ed un ordine che Aristotile del LIZIO chiama scuola itala, ed insegna tra le altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di Atenee, è Pitagora che per il primo eleva la geometria alla dignità di scienza liberale, e secondo Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non scrive nulla. Se anche è diversamente, oltre alla remota antichità che ne avrebbe ostacolato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del segreto che i pitagorici manteneno, sopra i loro insegnamenti, o parte almeno di essi. Il fìlologo Delatte, in Études sur la littérature pythagoricienne, Paris, fa una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed mette in chiaro tra le altre cose che i famosi detti aurei o versi aurei, sebbene sono una compilazione ad opera di un neo-pitagorico, permettono di risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale arcaico. Questo saggio di Delatte è la nostra fonte principale. Altre antiche testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotile e di TIMEO (si veda) di Tauromenia. FILOLAO (si veda), insieme al tarentino ARCHITA (TARANTO (si veda)), uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a Pitagora, TIMEO (si veda) è uno storico del pitagoreismo, ed il grande filosofo Platone risenti fortemente l'influenza del pitagoreismo e 12  REGHINI (si veda), I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonicaLa Tetractis pitagorica ed il Delta massonico] possiamo considerarlo come un pitagorico, anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene, che sono dei neopitagorici e gli scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche BOEZIO (si veda) ha assolto questo compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre a Delatte ed al saggio un po' vecchio di Chaignet su Pythagore et la philosophie pythagoricienne, Paris, ed al Verbo di Pitagora di ROSTAGNI (si veda), Torino, faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London del dotto grecista Taylor che è un neo-platonico ed un neo-pitagorico; e tra gli storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia, Milano, Hoepli, di LORIA (si veda), e dell'opera A History of Greeck Mathematics di Heath. Per la matematica l'unità è il primo numero della serie naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indica l'unità dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo meta-fisico; ed il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità. In aritmetica, anche pitagorica, vi sono TRE operazioni dirette: l'addizione, la moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una potenza dell'unità è ancora l'unità. Quindi soltanto l'addizione permette il passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che, per ottenere il due, bisogna ammettere che vi possano essere DUE UNITÀ, ossia avere già il concetto del DUE – cf. Kant: 1 + 1 = 2, sintetico a priori --, ossia, che la monade puo perdere il suo carattere di unicità, che essa puo distinguersi e che vi puo essere una duplice unità od una MOLTEPLICITÀ di unità. Filosoficamente si ha la questione del MONISMO e del dualismo, meta-fisicamente la questione dell'essere (Grice, “Aristotle on the mutliplicity of being”) e della sua rappresentazione, biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora, se si ammette la intrinseca ed essenziale unicità – the uniqueness of the king of France (Grice) -- dell'unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può essere che una apparenza; e che il suo apparire è una ALTERAZIONE (othering – Grice on ‘other than’) dell'unicità proveniente da una distinzione che la monade opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'IO ed il “NON-IO.” (“I am hearing a sound”). Secondo il Vedanta advaita questa è una illusione, anzi è la grande illusione (film francese), e non c'è da fare altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi è questa illusione, anche se essa può essere superata. I pitagorici diceno che la diade è generata dall'unità che si allontana o separa da sé stessa, che si scinde in due: ed indicano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: DIERESI, TOLMA. Per la matematica pitagorica l'unità non è un numero, ma è il principio, l' di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa resistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi, per addizione, il due e tutti i numeri. I pitagorici concivano i numeri come formati o costituiti o raffigurati da PUNTI variamente disposti. Il punto è definito dai pitagorici l'unità avente posizione, mentre per Euclide il punto è ciò che non ha parti. L'unità è rappresentata dal punto ( = segno) od anche, quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera A od “α,” che serve per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed ottenere successivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro... punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, 13  REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  tutti i numeri interi possono essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cinque è 5 = 1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari. Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari (1), ed Aristotile (2) parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro simiglianza col paio, così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo (epipedo) in cui un lato contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica: esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath questa distinzione tra pari e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed il Reidemeister dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice VIRGILIO (si veda), Deus gaudet. La tradizione massonica si conforma a questo riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una distinzione, una polarità, si ha una analogia con la coppia del pari e del dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre, ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così con la trinità la manifestazione od epifania della monade nel mondo superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo (5) osservò che il due ha un carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade che PLATO dell’ACCADEMIA, Parmenide di VELIA, ARISTOTILE del LIZIO, Topiche, HEATH, A History of Greek Mathematics, REIDEMEISTER, Die arithmetic der Griechen, PROCLO, Comm. alla proposizione di Euclide, e cfr. TAYLOR, The Theoretic Arithmetic of Pythagoreans, Los Angeles, REGHINI, I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica, La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico  sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si ottiene il medesimo resultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della somma e per il tre il prodotto dà di più, ossia, si ha: 1+1=2>1.1  ;  2+2=4=2.2  ;  3+3=6. Grice: “Some of my Oxonian friends are masonic, and some are Pythagorean!” Nome compiuto: Lorenzo Fazzini. Laurentis Maria Antonius Fazzini. Fazzini. Keywords: la matematica di Pitagora, Platone, aritmetica, geometria, definizione di assioma, problema, lemma, numero, demonstrazione, ragione, postulato, numero sacro, reghini – crotona, Taranto, aristosseno, meloponto filolao crotone crotona -- ecc. Grice. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Fazzini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fedro: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “Hardie, my tutor at Corpus, never displayed his philosophical views to me – which was a shame – but then he said he was following Fedro’s advice in teaching Cicero!” Nome compiuto: Fedro. Keywords: pupil-tutor. Filosofo italiano. The philosophy teacher of Cicerone at Rome. F. follows the doctrines of The Garden, and succeeds Zenone as the head of the school. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fedro,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Feliceto search.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferdinando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dela masculinità, il maschio e la tarantella – scuola di Mesagne – filosofia brindisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosof italiano. Mesagne, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Ferdinando; for one he describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with ‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”, studia grammatica, poetica, greco e latino sotto RICCIO (si veda), intimo amico di Paolo e Aldo MANUNZIO (si veda). Si trasfere successivamente a Napoli dove studia FILOSOFIA. Si laurea in filosofia. Ha dieci figli. Tra le saggi principali di F. grande rilievo assumono i “teoremi filosofici”, dedicati alla sua amata città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici, raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata analisi della storia di Mesagne. Dal punto di vista culturale, l'opera di riferimento per eccellenza del F. è fuor di dubbio Centum Historiæ, dedicata a Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore è medico di fiducia, intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li conduce a Roma dove F. conosce Clemente, medico di Paolo V ed è contattato, per la sua fama, da noti scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Severino, con cui ebbe una disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si connette con la vena ulnare. Profondo conoscitore dei classici e seguace non solo delle teorie d’Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da MERCURIALE (si veda), Eustachio, Falloppia e FRACASTORO (si veda), attento alle tradizioni della sua terra, propone un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza è richiesto non solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i concittadini per la sua bontà d'animo, cura anche senza compenso somministrando farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentra sull'importanza delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e ritene centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i suoi pazienti si serve non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la prassi ordinaria, ma prepara anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti miscelando quantità variabili d’erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua vita si occupa anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico, descritti nei particolari nelle Centum Historiæ, e nutre anche uno spiccato interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia certissima. Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti che mantenne con i medici napoletani, è uno dei più importanti intermediari fra la cultura medica napoletana e quella di terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto F., si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la musico-terapia somministrata al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il malato dopo essere stato morso dove espellere il veleno scatenandosi a ritmo di musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale dove essere scelto in base al colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis redatto, presumibilmente da Marra da Padova, nel pontificato di Urbano V. Il secondo a documentare per esperienza diretta questa connessione è F.. Nelle sue Centum Historiæ analizza, tra gl’altri, il caso di un suo concittadino, tale Simeone, pizzicato mentre dorme di notte in un campo. Il medico crede fermamente nella musica come terapia certissima criticando chi sostene che il tarantismo non è necessariamente scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, è il primo a proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche (nenie funebri).  Kircher riferisce nel suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da destare ragionevoli sospetti su quanto sta alla base di questa terapia. Come il veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei padri ricordati, che son degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito è tenuto un esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri padri, e di tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi, allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu tarantolae.” Martino La terra del rimorso, Milano, Est, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da:  Mario Marti e Domenico Urgesi, F., medico e storico. Atti del convegno di studi, Besa, Nardò, Altre fonti:  Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus tripartitum, Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, Portulano Scoditti, Distante, Alfonsetti, Poci. Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne, Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, Scoditti e Distante, La peste, traduzione del De peste aureus libellus, Scoditti e Distante, F. Le centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano Scoditti e Amedeo Elio Distante, F., De Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione del De Vita Proroganda seu juventute conservanda, Napoli, Scoditti e Distante,, Atti del Congresso della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice: “Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” Epifanio Ferdnando. Ferdinando. Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferdinando” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fergnani: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gesto e la passione – la scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I love Fergnani; especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto BANFI (si veda). Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova corrente”.  È figura di spicco nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács, Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona); “Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino), “Prassi di GRAMSCI (si veda)” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);  L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre” (Farina, Milano), “Sartre sadico” (Farina Milano); “Esistire” (Farina, Milano); Kierkegaard (Farina, Milano); “Il gesto e la passione” Farina, Milano, “Merleau-Ponty”, Farina, Milano.  “L’Esistenzialismo” Farina, Milano, “Sartre” (Farina, Milano); “Jaspers, Farina, Milano);  Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”, Corriere della Sera.  La lezione di F.", in Materiali di Estetica, Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino, Papi.  Fisiognomica interpretazione del carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Battiato, vedi Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina pseudoscientifica che attraverso la  fisiognomia o fisiognomonia pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Questa disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato simile ma più generico. Esempi di fisiognomica di criminali, secondo LOMBROSO (si veda): "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli". Tutto il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale.  Descrizione Esistono due principali tipi di fisiognomica:  la fisiognomica predittiva assoluta, che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichità Riferimenti a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte.  I giovani che volevano entrare nella scuola pitagorica a CROTONE nella Calabria doveno dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei). Il filosofo Aristotele del LIZIO si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche con citazioni letterarie. Aristotele stesso è d'accordo con queste teorie come testimonia un passaggio di Analitici primi. È possibile inferire il carattere dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati assieme da influenze naturali. Dico naturali perché se forse, apprendendo la musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di quelle influenze che sono per noi naturali. Piuttosto faccio riferimento a passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze. (Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad oggi è il Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto della sua scuola nel LIZIO. È diviso in due parti e quindi probabilmente in origine sono due saggi separati. La prima sezione tratta soprattutto del comportamento umano sorvolando su quello degl’animali. La seconda sezione è incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il comportamento.  Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:  Polemo di Laodicea, de Physiognomonia, in greco Adamanzio il Sofista, Physiognomica, in greco Anonimo LATINO, de Physiognomonia, La fisiognomica moderna. Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a sinistra: profonda disperazione; a destra: collera mischiata con paura) La fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto umano in grado di rivelare peculiarità caratteriali, è piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è risaputo che VINCI (si veda) ne è appassionato, come pure BUONARROTI (si veda).  Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di BUONARROTI (si veda) di scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai moti e alle "apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si fonda sui rapporti e sulla geometria, e nemmeno è strato empirico come quello che avrebbe potuto scrivere VINCI (si veda). I termini "moti" (che fa pensare alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e "apparenze" fanno invece ritenere che BUONARROTI (si veda) insiste sugl’effetti psicologici e visuali delle funzioni del corpo (Ackerman, L'architettura di BUONARROTI (si veda), Torino.Il trattato di GAURICO (si veda) intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze presenta questo tipo di conoscenza nei termini seguenti. La fisiognomica è un tipo di osservazione, grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità dell'animo. Se gl’occhi sono piuttosto grandi e con uno sguardo un po’umido, mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose, ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono che è Alessandro il Macedone. Se vede un naso pieno, solido e tozzo, come quello dei leoni e dei molossi, lo considera segno di forza e arroganza.  La fronte quadrata, che ha la lunghezza quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza, animo splendido (Estratti citati da Koshikawa, Individualità e concetto. Note sulla ritrattistica, in Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Roma catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale, Milano,Skira. Gli studi di fisiognomica influenzarono artisti come Anguissola (Fanciullo morso da un gambero) e Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) nell'interpretazione dell'emotività del soggetto ritratto.  Il principale esponente della fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Lavater che fu amico, per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu pubblicato per la prima volta in tedesco e divenne subito popolare. Venne poi tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli scritti di PORTA (si veda) e del fisico e filosofo Browne del quale lesse e apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del viso:  nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra anima (...).»  (R.M.) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla fisiognomica nella sua opera Christian Morals: Poiché il sopracciglio spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica. A Browne è accreditato l'uso della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini illustrativi l'insegnamento della fisiognomica.  Browne possedeva alcuni scritti di PORTA (si veda0 tra cui Della celeste fisionomia nel quale egli sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia. Porta usò delle xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Browne ed entrambi erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative o firme delle loro proprietà medicamentose.  La popolarità della fisiognomica, nonostante precursori come Chambre, crebbe. Trovò in particolare nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano LOMBROSO (si veda), il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e pertanto non educabile con la sola pena detentiva.  La fisiognomica influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri europei tra i quali Balzac; nel frattempo la Norwich connection' alla fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Opie e del viaggiatore e linguista Borrow, inoltre fra molti romanzieri si diffuse l'uso di passaggi molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare Dickens, Hardy e Brontë.  Questa dottrina è stata da più parti tirata in campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza.  La frenologia era pure considerata fisiognomica. È creata intorno dai fisici t Gall e Spurzheim e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti.  In sostanza la fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni strutturali che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi alla antropologia criminale di LOMBROSO (si veda))). Essa infatti è proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista David (La vera storia del cranio di PULCINELLA: le ragioni di LOMBROSO (si veda) e le verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia, tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare comportamento e sembianza.  Per Lust questa scienza non ha nulla di pseudo-scientifico; egli osserva, per il rigoroso metodo naturopatico che sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambia anche in volto. Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventa più "snello": il doppio mento scompariva, torna a vedersi il collo in quei volti che prima lo avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in alcuni casi erano più folti.  Per tutto questo comincia a sviluppare un sistema di diagnosi all'inverso, ossia: se le modificazioni, una volta che la gente guariva da un determinato male sono costanti, allora significa anche che, quando e quanto più quelle caratteristiche facciali sintomatiche sono presenti in una persona, tanto più la persona è anche affetta da quel determinato male specifico di cui le alterazioni nel viso sono soltanto un sintomo.  Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano alla voce corrispondente. fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De Agostini.Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" Aulo Gellio, Noctes Atticae Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, Porta e l'astrologia: la Coelestis Physiognomonia, in Montanile, Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del teatro e l'opera di Porta", Salerno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici internazionali, Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia dell'uomo libri sei, in Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Porta, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, L’autore delle illustrazioni delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche, in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in Porta", Pisa-Roma, Serra Paolella, La fisiognomica di Porta e la sua influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Porta, Piano di Sorrento, Roma, ed. Scienze e Lettere, Paolella, Die Physiognomonie von Della Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz Zeitschrift der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst. Wege und Motive der Rezeption von Porta in Europa - Akten der Tagung der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie Zeller und Laura Balbiani Voci correlate Lüdke, la più celebre vittima della Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia, applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua. DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia Wikizionario contiene il lemma di dizionario «fisiognomica» Fisiognomica, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antropologia   Portale Sociologia Frenologia teoria pseudoscientifica Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero  Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano  Wikipedia Il  Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Il nudo eroico o nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un Eroe. L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica ed in seguito adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.   Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente.  Dopo essere scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal corpo umano maschile nudo. Questa metafora ha rappresentato la perfetta raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare il più alto status esistenziale.  Riapparso con grande vigore soprattutto durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi tra i tanti). Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale romano.   Statua eroica di un generale romano con la testa di Augusto, al museo del Louvre.   Statura romana con la testa di Marcello (da un prototipo greco). Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore di Canova, all'Apsley House a Londra.  StoriaModifica  Leonida alle Termopili di David Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudità.  Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese La nudità maschile era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e militari dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo della cultura ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la nudità fu praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari e da loro in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre fonti invece sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse la gara di corsa durante la V olimpiade il quale a metà percorso si liberò della fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti.  La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione, la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi kouroiarcaici.  Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo. Trajanic woman as Venus (Capitoline Museums), su indiana.edu, Indiana University. Hallett Sorabella, "The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of Art Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English and French Sculptural Works, NewYork University Spivey, Greek Sculpture, Cambridge, Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art", in Gender et History Stevenson, "The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in Greece and Rome, Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in Antiquity, Routledge, Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University, Hallett, The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary Oxford, Casana, The Problem with Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of Archaeology, vOsborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in Gender et History, Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece et Rome, Nudo artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico   Portale Arte: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di InternetArchiveBot Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle varie culture verso la nudità  Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice: “Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist! Nelson tries but Vivian Leigh opposed!” Franco Fergnani. Fergnani. Keywords: il gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal – Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita eroica! Fisionomia – porta ---- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fergnani” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia,  Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino – scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cuneo). Filosofo cuneano. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: I like Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a philosophical historian  and a Roman historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history, alla Gibbon! Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io s'incontra col suo Dio nascosto. Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far battezzare i figli. Compe il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona, e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato il Liceo, si iscrive a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore  Graf. Verso il terzo anno inizi a seguire con crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di SANCTIS (si veda), sotto il quale si laurea con Kalypso. Insegna a a Torino, Palermo, Napoli, e Padova.  rettore dell'ateneo fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma. Morta la moglie, F. conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e cattolica famiglia, con la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a frequentare "La Cittadella dAssisi" diventando grande amico di ROSSI (si veda), fondatore di Pro Civitate Christiana e La Rocca. Ad Assisi, F. prende l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto senatore per la democrazia cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente dellENCICLOPEDIA ITALIANA, incarico che detenne, insieme a quello di direttore scientifico. stato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore dellAccademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il presidente. Divenne corrispondente dell'Accademia del LINCEI e corrispondente nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia antica. Presidente della Societ Nazionale "Dante Alighieri" e insieme a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia romana, l'et dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere: Calisso: la storia di un mito (Bocca, Torino)  with a section on the myth among the Latins, and a later section on the treatment by Roman authors, Arato di Sicione e l'idea federale (Monnier, Firenze); L'impero ateniese  note that its Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire, and American empire, rather than Washington empire  La dissoluzione della libert nella Grecia antica (Milani, Padova); L'Italia romana (Mondadori, Milano); GIULIO (si veda) Cesare (Unione Tipografica, Torinese); La vocazione umana (Edizione Ivrea, Ivrea); L'esperienza Cristiana (Libreria Draghi, Padova); Le speranze immortali (Societ per Azioni, Padova); Trilogia del Cristo (Le tre venezie); Adamo (Morcelliana, Brescia); Le vie della storia romana (Sansoni, Firenze, Rivelazione e cultura (La Scuola, Brescia); Storia dell'uomo avanti e dopo Cristo (Pro Civitate Christiana, Assisi); L'essenza del Romanesimo (Tumminelli, Roma); L'inno del Simposio di S. Metodio Martire (Giappichelli, Torino); Storia di Roma (Tumminelli, Roma); La filosofia della storia (Sansoni); Trasfigurazioni (Martello, Milano); Pagine italiane, Il Veltro, Roma); Misticamente (Stamperia Valdonega, Verona); La bonifica benedettina (Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico Illustrato, Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo Volturno, Napoli. Prefazione in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider, Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella testimonianza di Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di Paolo), Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani. Roma  il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi, sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma  - ed  tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanit; da Roma escir quando che sia la trasformazione religiosa che dar, per la terza volta, uni- t morale all'Europa!. Cos, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso nella citt poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a ci, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo la quale l'unit e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la Roma dei Cesari  GIULIO (si veda) Cesare -- e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la Roma del Popolo, centro della nuova religione dell'umanit. Si trattava di una. concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per le idee di libert e di repubblica.  indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa come Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torit moderatrice del pontefice; inoltre il primato italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di quella Roma cattolica e poqtificale che Mazzini voleva invece distruggere. Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non era sempre stato cos. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Chabod. Roma era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran riversati verso l'Italia medievale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della' Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o, ancor pi su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della nazione italiana2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di quel richiamo dipende, in fondo, dalle peculiarit stesse dell'idea nazionale italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla tradizione culturale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da Roma. L  non V]sarebbero state molte delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; M- Z%!^-'^^J1'V, j^i;-' AL bO FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME r"i'BOCCB EDIT. KALYPSO F. KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito TORINO BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito .  necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio mitopeico. Kalypso. Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La Demetra d'Enna Il mito siculo, Il mito greco. Il mito siracusano. Il mito contaminato. L'abigeato di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini. I poeti. Gli storici. I razionalisti. Cirene mitica 11 sostrato storico. L' " Eea, di Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in Libia. Euripilo ed Eufemo. GlEufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le manifestazioni mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e riflusso delle saghe, La fine, - INDAGINE. Andromeda  Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie, Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone Medusa. Cefeo, Fineo e Cassiopea, 341  I miti etimologici presso Erodotoed EU ani co (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda  di Euripide, Euripide nel 412 Il culto di Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del culto ennense nell'et storica. Il primitivo probabile nucleo siculo, Le versioni greche del nitto di Kora,L'abigeato di Caco . . 2>('l- 397-420 11 problema, Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e metodo, La ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eu- femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito, nitto di Kora. L'abigeato di Caco . . 2>('l- 397-420 Il problema. Il valore del mito indiano. Vergilio e Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La ninfa Cirene. Apollo Carneo. Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eufemo. Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima, STORIA. F. Kalypso. La Storia del Mito.  necessaria e legittima. Non esatta, anzi pu dirsi fallace la nozione del mito che  pi diffusa. Andromeda, esposta sullo scoglio al mostro marino; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza dErcole pieg annientandolo. Tali persone e vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di MITOLOGIA greca e LATINA, inducono, ciascuna, al pensiero un racconto, non pur definito netermini e preciso neparticolari, ma costante nel contenuto, si da valere (usando espressioni proprie a fenomeni differenti) per E cosi rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si allude a uno fra questi quattro miti. classico o canonico, da apparire quel mito. N il prevalente costume, a pari di molti,  senza motivi: gi che si ricollega per un lato ai modi che, nel concepire ed esporre miti, tennero i compilatori alessandrini, quando miti non pi sinventavano, ma si raccoglievano in contesti dotti, e a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina secondo uno schema principale, nemargini sol tanto apposte discrepanze minori e facili a obliterarsi. Si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, malo quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude in s una sostanza di verit, in ispecie storica; si che, la verit non potendo esser che singola, unico similmente sarebbe l'intreccio della FIABA onde  compresa. Ora, poich i criterii degramatici in nessun modo possono essere pi i nostri; e n meno  pi nostra, per ci che non sodisfa la riflessione n il senso storico, una tanto facile fede nella veridicit del RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a considerare qual via puo divenire la buona non che la nuova. Sbito sgombra la mente di assai equivoci e di troppe astrazioni il porre, con precisione storica, i materiali grezzi della mitologia. Ilmito di Cirene, dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste bens, ma soltanto dopo le odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei, l'inno di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo ci, e dopo tutto che  andato perduto nell'esserci trasmesso dai secoli e che di conseguenza ignoriamo. In altre parole, l'indagine concreta non conosce se non un complesso di componimenti letterarii, manufatti artistici, riti cultuali; e sente entro ciascun componimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in s e per s, IL MITO. All'infuori, questo pu tuttavia sussistere. E per vero in due modi risulta da quelli, sia per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica. Ma  allora diverso e nuovo, UN ALTRO MITO [cf. Grice on myth  Meaning Revisited] a pena affine a qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli trapassi. Ma in tal caso  divenuto, non la forma canonica o classica, bens LA STORIA DEL MITO. Lartista clie ci ripete una fra le molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui sottost quella FIABA gi nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la quale pu essere per certe analogie di casi e identit di nomi avvicinata a talune antiche meglio che ad altre, ma non diviene per questo la fiaba di quei nomi e di quei casi. Questa in qualclie modo ci d, solo, lo storico, comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze della FAVOLA e organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole IL MITO di Andromeda, ne legga LA STORIA. Se non che, ond' nato il concetto di racconti principi nella mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO, e una tendenza. Riandando storie di miti accade di avvertire, chi anche sia grossolano osservatore, quale e quanta rete dinteressi politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti principeschi, di rivalit religiose, ricopra, musco boschivo, il crescente tronco della LEGGENDA. Indi, la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo e in certo momento, a quella tra le forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga il particolare simpatico, LANEDDOTOfavorevole, o (che basta) si atteggi nella luce che pi appaga. Un fine pratico, per conseguenza, pu CANONIZZARE i miti altre volte, lala d' un poeta, la vigoria d'uno storico. O, infine, il pi fortuito caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa preminenza d'una fra le forme mitiche, valse a traviare il pensiero, l'abito, ch' talora il vezzo, dell'astrazione, sovente inopportuna. E perch, comparati tra loro DIVERSI RACCONTI DUNA SAGA, parte coincideno, e pareva il pi, parte differano, e sembra il meno. Si ritenne lecito prescinder dalle differenze per insistere su le coincidenze, e di queste costituire la saga, e quelle giustaporre in guisa di varianti secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano errore contrassegnato di superficialit. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure sotto luguali apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunch, men ponderabile forse, ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL RACCONTO. Il paesaggio medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli. L'artificio  cosi palese che stupisce potesse ingannare e diffondersi. E pure condusse pi oltre: a fngere, dopo IL MITO di ciascun personaggio  e. g. GANIMEDE, ENEA, EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO --, IL MITO IN S, quasi ENTE SEPARATO, capace di influssi attivi e passivi; senza che diviene tosto palese, come cotesto ente non sussiste se non col suo predecessore logico; come quest'ultimo sorga duna contaminazione di varie forme letterarie artistiche cultuali; come quindi uniche esse forme costituiscano la realt da pensarsi e studiarsi. Alle quali noi ritorniamo con franchezza; per asserire, e lo asserimmo dianzi, che conoscerle significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO STORICAMENTE SI PU CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e dopo scoperti i motivi reconditi dellequivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no  legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa daver innanzi espressioni multiformi, cui sono mezzo le pi disparate materie, DALLA PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, pu sospettare a ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per identit di nomi di figure dimprese; mentre tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, caratteri cosi mutati dambiente, sembrerebbero permettere, o comandare, la distinzion pi recisa. Sospetto lecito, questo -- ma specioso. Non importa che certa temperie (dico, ad esempio, l'epoca dOTTAVIANO, o il magistero di OVIDIO) accosti molto fra loro due saghe di soggetto diverso; l dove lontananza d'anni e di spazii separan spesso saghe dell'identico soggetto. Ci vale, o ci ajuta, a informarci dell'epoca augustea o di Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in quella o presso questo. Ma  d'altra parte irrecusabile che ciascuna espressione di un mito, in qualsivoglia materia avvenga,  stretta alle precedenti da un vincolo pi profondo e pi intimo che largomento: le conosce, ci , e le ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste espressioni, ciascuna  materia greggia rispetto alle successive, ed  sintesi originale (anche negativamente originale, si capisce) a confronto con le anteriori. Ne segue che la storia ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra: essa, cosuoi criterii di tempi e di luoghi, con tutti i sussidii di cui pu valersi, riesce a costruirne quasi una genealogia; della quale i rami e i gradi son segnati da reciproci influssi pi o meno profondi, da modelli pi o meno diversi, sempre da caratteri intrinseci ed essenziali. Del resto, il resultato medesimo o, se piace di pi, il medesimo soggetto di questa, che diciamo, STORIA DEL MITO ne legittima, dopo glargomenti or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un individuo organico e definito: individuo ch', come mostrammo, LA LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di tale istoria? Il suo procedimento  chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su Cirene o su Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di congetture ne , quasi sempre, presto determinato lordine cronologico, se non nelle sue minuzie, almeno in linee sufficienti. Solo di poi s'inizia un pi arduo lavoro. Il pensiero, insomma, prende a conoscere quelle espressioni. Di ciascuna distingue prima gli elementi costitutivi. Ci sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e quanti ne sieno espressi, e quali, che scene e che episodi!: in sguito, ne ravvisa la tempera, il punto di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon guardati: per ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che i par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggrupp, fuse. Triplice processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e, checch sembri, per un culto. Giusta poi le risultanze di questa nostra fatica, le diverse espressioni mitiche in- torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi per s, secondo nessi ed influssi, sino a costruire lo schema delle lor geniture. Allora lo scopo  conseguito e l'indagine ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si avvia: non pi dubitosa, qual si conviene alla ricerca, e faticosa di controversie; ma conscia e sicura. Quel che rimane incerto  delimitato; quel che pu essere certo,  posseduto; si che le lacune e il ricolmo si distinguono nette. Altrui giudizii su la materia son superati con l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito l'ordine; pel quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene poi quasi base; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi di commessione co' suoi travi intelajati, 1edificio definitivo. Il mito ha la propria storia. Il mito , da questo momento, vera ricchezza nello spirito nostro. Si obietta che  acquisto mal certo, per che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse con asserzioni contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in parte al difetto delle nostre fonti, mal perve- nuteci frammentarie o lacunose, e in parte alla discordia dei pensieri individuali. Ma n l'una n l'altra verit scema l'importanza dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle fonti tra- mandate o  cosi fatta che impedisca la storia o pure solo qua e col la fiacca. Se l'impedisce (e son taluni casi), il danno  davvero grave. Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che non perseguiamo qui), la jattura pu variare di entit ma si riduce tutta, in ultimo, al fenomeno comune della individuale memoria e, traverso questa, della memoria collettiva; si riduce, quindi, alla condizione imprescindibile della nostra conoscenza intorno al passato. In se- condo luogo, il differire degli storici intorno a una saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova insieme che ciascuna  acquisizione viva a cui lo spirito muove libero per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con agile freschezza e cura non intermessa ; attesta quindi di ciascuna l'importanza, assidua perch dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello spirito che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con assimilare 1' opera altrui, ferma con ci duplice possesso; sia tra- mutando in organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando della propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto armonia del discorde, e reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi  anche materiato della pi alta virt di pensiero. Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma pi tosto se ne innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi- nalmente, nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo personale, in tutta la serie co- nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon- tane e disperse. Il mito , dunque, da quel punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile mostrare tal verit, sottile  per discernere i valori di- versi della conoscenza in quella guisa procurata. Ma  necessario, per farla pi conscia. Lo storico si , durante i successivi momenti della saga, uguagliato a' successivi artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno? Io, per comprenderlo, debbo mirare con gli occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha da concre- tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio Claudiano? Uno appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto- rico e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi in arte. Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in- dividui creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga il poeta o il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che conoscono, verso la nuova espressione, che igno- rano e producono; a quell'atto rifacendosi l'in- telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla loro espressione quanto dall'altre precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si che l dove l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l' impreveggibile  determinato dalla potenza della sua energia creativa ; per contro lo storico si trova sbito a conoscere, traverso l'opera compiuta, appunto quella potenza dell'artista e pu ponderarla e giudicarla. L'effetto  che non solo egli si  identificato con una delle espressioni nelle quali la saga visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di possesso si conclude in giudizio.  Di pi lo storico non si considera pago n pur di questo giudizio che gi di per s lo eleva sopra l'artista intuente : vi avverte un valor m omentaneo e, tenendo l'occhio a ben pi alto segno, vuole e pu assurgere a quell'intuizione sintetica della saga, da cui appajono giustificate le intuizioni singole degli stadii e delle forme come dallo scopo il mezzo. Tale pregio, che  della storia del mito, pu quindi esser detto pregio intuitivo. Ce n' un secondo: scientifico. Non poche discipline difatti van di continuo preparando al pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti ai linguaggi dell' antichit, agli scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui sono attendibili, ai culti con le fogge che divennero consuetudinarie, ai popoli con le credenze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le menzogne. Certo, non son leggi rigide e fisse, quelle che cotesto discipline ci offrono, n tanto meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono, pi tosto, formule in cui l'esperienze vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica individuale o suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune, cui possono tutti riferirsi, che  stolto trascurare, n si pu senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumulate lungo gli anni da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della leggenda; e quanto pi numerose, meglio l'afforzano, rassodandole l'ossatura, e permettendole o promettendole consenso pi vasto e interesse pi vario.Fra tutte, precipue quelle in cui s' tradotta la coscienza dell'antico e recente, vicino e lontano, favoleggiare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto. Cento numi agresti si rinvengono fra cento popoli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda all'Equatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti, le fiabe, si mischiano somigliandosi e differendo insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che ogni gente reca il suo contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine lacustri, paschi pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la zolla e il Sole indorano, notti illuni, meriggi piovosi, silenzii delle cime, fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fenditure del suolo : l'immenso respiro pnico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma costante nelle voci e nei gesti di viventi in terre lontane. E ritornando erudisce l'uomo dell'uomo. Ond' che son opere in cui questa variet speciosa  ricercata con amore intento, disposta con cura e scrupolo in chiaro ordine . Ivi Cito ad esempio W. Makshardt Mythologische Forschungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn); J. G. Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn and of the wild (London 1912); W. v. Bau molte leggende sono narrate, molte cerimonie descritte, quelle che gli uomini dicono e compiono da quando sorge il lor Sole a quando tramonta, e quelle anche che la notte conosce. Ma ivi nessuna leggenda vale per s, nessun rito pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una, tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individuazione, perch si vuole, badando al generale ed al comune, conseguire identit spirituali contro distanze di tempi di luoghi e differenze di forme. Vi si fa propedeutica; non storia. Cosi in altre opere, le quali scaltriscono su g' infingimenti obliqui di interessate invenzioni che non  lieve scoprire ; o vero su i traviamenti della intelligenza che tenta le cause del fenomeno ignoto, ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste, come un nome frainteso generasse talvolta un popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola connesso con l'aggettivo che significa " mancino  determin il racconto dell'intrepido Muzio e della destra bruciata. Insegnano che per dar ragione al nome di una citt (Roma?) s'invent pari pari un eroe o un nume (Romolo?). Spiegano che un culto greco fra culti romani parve agli antichi giustificato col narrare qualmente al dio stesso fosse piaciuto recarsi da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di segnare in classi i fatti; e creano alle classi fin la denominazione discorrendo di " miti etimologici  per i primi casi ; di " miti etiologici  per l'ul DissiN Adonis und Esmun (Leipzig); E. S. Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo . Tutti bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua saga, senza equivoco grande n troppe dubbiezze. Di tutti, quindi,  conscia la storia di una leggenda. La quale leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce definita, si da impedir confusioni con altre pur simiglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule della propedeutica confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in tal modo scemi la singolarit sua propria; e allora perch farne storia? N manco che non aggiunga tal volta materia alla propedeutica medesima; gi che questa non  mai conchiusa, e di continuo si accresce, per l'appunto come la esperienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma anzi la storia di un mito ha questo pregio scientifico: mentre  impregnata, come pi latamente pu, del sapere collettivo intorno alla propria materia; mentre  dissimile da quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ;  pronta a contribuirvi con tutta s medesima, per quanto contiene di insolito, e per quanto riafferma del consueto. Terzo pregio  un altro, fors' anche maggiore. Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichit (Torino), ove in polemica  chiarito assai bene anche con esempii il contenuto di quelle due denominazioni. Chi poi voglia avere rapidamente un'idea su la vastit e gl'indirizzi dell'indagine mitologica pu per gli anni 1898-1905 consultare la intelligente rassegna di 0. Gruppeu " Jahresbericht tber die Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft  Supplementband. Filosofico, si riferisce a un' alta visione del jiassato e del presente. La saga  dell' uomo, nasce di lui, or come nebbia da piani pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano durante un giorno, e le compongono varia bellezza, fin che la tenebra giunga. Ma il motivo delle trasfigurazioni luminose come del sopravvenir tenebroso,  secreto dello spirito umano. Secreto dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede intorno a s la meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli astri, purezze nivee e dentate di vette inviolabili, scompigli di chiome arboree nello squassar dei vnti, rigidit delle rupi cui arcana opera finge sembianze umane, mefiti di putizze dagli acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta su la fronte le tempie, illudendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza ineffabile lo gitta prono nello stupore che paventa ed adora. Secreto, in fine, dell'uomo che con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli, la maschera fosca del suo rivale, ad apprenderlo ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel moto i muscoli e gli artigli della belva silvana, per farla sua preda o imitarne il destro miracolo ; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improvvise forme che la natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie che essa suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la violenza della fiera. Appresso, su la prima trama esigua, quasi ragna d' oro fra due rami d' un mirto, si consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'invenzione originaria non si perde, ma, serbata tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer lento e difficile dei travagli clie martellano Fumanit nei secoli e le rodono il cuore invincibile. Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri, forti ed amari : abbrividisce delle cose tremende, s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta, rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri dello spirito. E nello spirito la sua virtii cerca le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia onde si crea il diafano contesto verbale o si plasma nella dura materia il moto o si finge l'ansito nel colore; e con lei genera creature d'ale e di fiamma, o per lei si corrompe in miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del mito significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia col nostro pi profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul bello sul buono sul vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e la forza della sua espressione, e il suo lungo cammino. Idee che costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso della storia d' un mito. Del quale il trapasso di forme pu venir concepito geneticamente, l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi essendo privi di forza generatrice; o in rapporto all'evolversi complessivo dello spirito ; o in altre maniere, di cui ciascuna dipende da una teoria filosofica. Persino chi per orror metafisico mai abbia voluto impacciarsi di problemi si fatti, porter la sua avversione nella storia e ve ne lascer i segni, non giova dire di quale specie. Onde la conoscenza del mito di Caco o di Andromeda, pur contenendosi nei termini di un limitatissimo fenomeno, pur fermando nel pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto il passato  pieno nella memoria degli anni, tuttavia impegna con s un'idea di quel moto e del nostro pensiero: la stimola e la cimenta. FILOSOFIA: senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ; con cui, diviene moltissimo. in. Caratteri. Che se a quest'ultimo i3regio filosofico pensiamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia gli altri due, intuitivo e scientifico, non appare sbito qual sia la lega comune onde tanto compatto  il resultato. Ma lega si rivela l'intelletto dello storico ; ove i concetti assimilati dalle discipline propedeutiche, e le idee elaborate dal pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova nella vita dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito della realt testimoniata. Di pi non pu dirsi: che ha da restare intatto il mistero creativo. Tuttavia, pur da questo si vede come larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la storia d'una semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto, soggettiva. N forse  detto ci senza stupore di molti ; perch prevale oggi il principio della oggettivit storica, tanto che il riconoscimento del contrario nell'opera di chi che sia suona quasi a rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole della certezza assoluta, allettandoli con un equivoco ch' quasi una mistificazione. Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle vicende storielle per cui un mito si svolse sono le stimmate d'una personalit; n solo, ma il valore di quel racconto  in queste stimmate ; in quanto la personalit, non pure assomma, si anche fonde e ritempra, com' necessario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria filosofica, quella geniale potenza intuitiva, che si riconoscono indispensabili alla costruzione d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre, dalla misura di esse cognizioni teoria potenza e del loro commettersi, dalla misura, in breve, della personalit medesima,  segnato il pregio del contesto narrativo. Dal qual evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento di chi legge a fronte di chi ha scritto. Non accettazione sbita ; n reverenza ad autorit indiscussa : invece, ragionevole assenso, ora parziale ora totale, ora nei particolari ora nella sintesi. E sempre, al di l degli uni e dell'altra, valutazione del pensiero che  solo responsabile e che, scoprendosi con arditezza, accetta onestamente d'essere imputato. Compito arduo, adunque,  il leggere non meno che lo scrivere storie; si che pu ben dirsi, che quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo pi, solo per il lato si adempie che costituisce l'interesse onde mosse la lettura ; e da quel lato soltanto sogliono originarsi le censure, le pi modeste e le pi burbanzose. E a volta a volta la storia della saga di Cirene deve soddisfare le pretese del filosofo, la dottrina dello scienziato, il gusto del contemplatore. Ora, affinch sia pi lieve a tutti costoro l'opera di critica rielaboratrice, lo storico mostra sempre (fra noi, almeno; non costumava cosi Tucidide, n Machiavelli ; con pena della moderna indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi di cui si  valso e le vie che ha seguite; onde ne  pronto il riscontro . Per che si giunge a scoprire l'opposto aspetto della soggettivit fin qui rilevata. Quando l'artefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera propria ; allora, sopra le testimonianze e le formule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si fan concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in materia nuova su la materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perci, da tal momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia piena di realt, cimentandola con tutti gli elementi, divenuti esteriori e concreti, di cui nella intimit e fluidezza dello spirito creativo essa si era nutrita. Il critico, se  (fenomeno raro) compiuto, vaglia, in qualit di scienziato di filosofo di individuatore, tutti questi elementi, scissi prima, organati poi; e valuta il pregio dei singoli e della mischianza loro. Cosi, quel che fu gi emanazione viva d'una vivente persona; imponderabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per tanto, '' soggettivo  : diventa passibile di metro, di scandaglio e di analisi; definito, per tanto, " oggettivo . Sempre, per opera dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e i caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre:  quella. In questo volume ci  fatto nel libro II: Indagine. una. Le sue vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per conseguenza un culmine ; v' quindi un nascimento e un corrompimento, fra cui si tocca la maturit. La storia d'una saga sarebbe dunque una ^ storia catastrofica,, e sul suo finire sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di balsamarla? . Si risponde:  catastrofica; gi che si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio si compone : non  elegiaca ; per che, pur lamentando, se crede, la morte avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col pensiero senza stingerli col sentimento. Ma entrambe queste risposte esigono d'esser pi ampiamente delucidate. Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto io credo) che non solo  necessaria la storia del mito per conoscer il mito, ma  in tutto legittima, perch opera sopra un individuo preciso il quale ha una reale e non disconoscibile esistenza. E. gi sappiamo del pari che quell'individuo risulta da una serie di stadii, e ciascun d'essi non pu star solo, ma  in intima attinenza coi precedenti e coi successivi. Ora possiamo specificare meglio : che ciascuno stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o di molto momento, vi  immancabile l'attivit Contro le storie catastrofiche ed elegiache si pronuncia Benedetto Croce in Questioni storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s' intende, dalla sua identificazione della storia con la filosofia. d'un artefice che ha segnato di s medesimo, con grande o con piccola impronta, la materia leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta speciali energie e del mito sviluppa potenze che o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte. Per conseguenza, astraendo si possono considerare, in un qual siasi stadio leggendario, tre elementi : la manifestazione, senza cui non sarebbe ; la sostanza del mito desunta dagli stadii anteriori ; l'energia innovatrice dell'artefice. Di qui, son possibili varie evenienze: o che a un certo momento ogni manifestazione cessi, per qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la manifestazione appaja inadeguata alle precedenti e per ci monca e non bastevole ; o che, in fine, l'energie dell'artefice apportino alla sostanza della saga violenze che la rinneghino. Nel primo caso, la catastrofe  sbita e tronca un rigoglio; nel secondo  preceduta da uno scadimento, che la prepara; nel terzo, da una corrosione, che la vuole ; i quali due ultimi  evidente che debban spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte,  sempre. E la storia, in quanto storia, deve narrarla, come narr il nascimento ; ed essere, inevitabilmente, catastrofica. Non , dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non significasse, fra gli uomini che hanno assiduo il fermentar delle forze nello spirito, l'accensione di un'altra, di pi altre, quasi pel ripetersi ardito di magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si spiccano a dieci i virgulti giovani, v' motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come meglio, la distruzion del tutto. Rimane, per altro, legittimo, se non lo sconforto, il senso del danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual egli era stato concepito, quale gli artefici l'avevano formato, ninna potenza terrena pu ricrearlo indipendentemente: un individuo insostituibile scompare. E^ scomparso, non lui solo perdiamo. Molte saghe venner create con bell'impeto dalla giovine mitopeja dei Pagani; molte, non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i bronzi degli statuarii, i gesti sacerdotali; non molte, poche divennero nell'epoca del pili adulto pensiero classico, quando per contaminazioni la ricchezza del numero si fu assottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova morte sminuisce quella dovizia di una unit, scema questa bellezza di grande efficacia : quel che sottentra  copia e grazia dello spirito umano, della mitopeja classica non pi... Una maggior individualit, dunque,  minacciata dalle morti di questi minori individui mitici. Un colpo di accetta, ognuna ; e la quercia si squassa. Il genio mitopeico.Quella individualit maggiore  oramai embrionalmente posseduta dal nostro pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda, e poi di Cirene, e di Caco, e anche di Cora; appresso, non si conoscono pure quattro vite di saghe, come fossero di eroi o di santi o di statisti; ma  gi vivo, se anche non maturo, nell'intelletto un nuovo sapere. La ancor recente esperienza, rotti i termini entro cui si  formata, tenta di organarsi in altro stampo, infrange l'intuizione del singolo per disporsi, in che ? come ? Per la risposta, da principio ingannano due parvenze, contradittorie nella forma, entrambe erronee. La prima parvenza  brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio di quattro miti si possono perseguire due compiti differenti. Uno, pi modesto, consiste nel raccogliere tutti i fatti constatati durante lo studio e nel disporli con altro criterio che il cronologico e genetico : nel guardare, in breve, il medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da altro pimto di veduta. H secondo compito, in vece, costringe a trascendere i limiti segnati dalle quattro saghe, fino ad affermare di tutte le saghe qualcosa che per le quattro soltanto venne sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto l'esperienza acquisita, pregiudicando da questa quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo pratico ; come quelli che servono a concludere ordinatamente sotto la specie di leggi (nel secondo caso) o di formule (nel primo) esperienze compiute storicamente sotto la specie delFindividuo. E sono, perch pratici, utilissimi ; n giova, secondo piace a taluno, predicarli ridevoli o in altro modo spregiarli. Non mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il nostro pensiero, elaborato che abbia un certo numero di storie su fiabe. Non pu esistere un soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle leggi, si cke gli aderiscano come i caratteri all'uomo ; ond' che ci appajono e le une e le altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbitrarie le formule, perch incardinate su criterii che non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla massa dei fatti storici ; e le leggi, perch temerariamente affermano pi del conosciuto, impegnando in s, insieme con il gi intuito, il non mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realt viva onde germinano, incadaveriscono in freddo schema e, come schema, lasciano straripare oltre di s e sfuggire sotto di s la vita vera delle quattro saghe ; le seconde, pur danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto : entrambe, quindi, definimmo or ora insufficienti. Fallita la prova di questa parvenza, l'altra vediamo qual sia, e ]Derch non appaghi. Dove fu avvertita mancanza d'un soggetto che sostituisca nella nuova opera i miti, soggetti delle singole storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea uno difatti, f)ur che si astragga un poco come suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spirito, cui competano tutti i caratteri dei varii intelletti che influirono, di stadio in stadio, su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente appresi; cui, quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno e dubbio religioso, preoccupazione sociale, sensualit voluttuosa e i)regiudizio manchevole ; e che concilii inoltre ogni virt in una sintesi superiore alle contradizioni apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse. esso pure una evoluzione, e certi stadii lungo i quali si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi. Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di storia. Ma l'artificio pi palese l'ha origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un mito opera (vedemmo) su stadii, che sono di per s congiunti, e che senza nesso non sono n pure compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece e le energie di quel pseudo spirito vengono solo per caso delimitati, avvicinati e graduati : gi che unico motivo per cui quel falso ente si afferma con alcune qualit, e non altre, con alcune vicende, e non altre,  la scelta, precedentemente fatta con criteri! estranei, di quattro miti, e non d'altri. Che se dieci o diversi fossero, gli attributi muterebbero numero, specie e successione. Segue, che  necessario guardarsi dall'insistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si voglia ricadere negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui trascinano formule e leggi. Vinto l'errore, la salute appare spontanea. Basta che si trovi uno spirito, il qual sia vero e non artificiato, intuibile dallo storico e soggetto vivo delle nostre esperienze anteriori, limitate per qualit e per quantit. Ora, se  (come dicemmo) arbitrario determinare un individuo mitopeico valevole per quattro miti, perch  introdotto dal caso, ossia dalla nostra anterior ricerca, il numero di quattro : sopprimendo quel numero, ci troveremo dinanzi a un reale individuo, allo spirito greco-romano in quanto elabora saghe, o al genio mitopeico dei Pagani: dinanzi, ci , a un che di esistito effettivamente, di certamente vivifcabile, di indbitabilmente storico. Qui il pensiero si ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realt proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea, rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incandescente. E conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto come tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe conosciute vale ed  esatto per il genio mitopeico, ne  la storia ; , sol tanto, incompiuto e insufficiente : perch lembo di un tutto ; lembo casuale di un tutto reale. Ma, appunto in forza di questo tutto, ha importanza, dev'essere affermato, e pu assumere, esprimendosi, un tono generale. La medesima sua incompiutezza poi  solo in parte insufficienza. E, in quanto oltre alle quattro fiabe cnte altre assai sarebbero a disposizione del pensiero che volesse conoscerle in istoria e attribuirle poi al genio mitopeico. Non , quando si avverta che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel genio mitopeico risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal decorso del tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie, per guisa che dovr in ogni maniera venir intuito traverso molte si ma non tutte le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli uomini che la sorte ci pone su la via o dalle vicende degli istituti che remoti echi ci tramandano irregolari. Quattro miti son dunque poco i3er possedere, nei suoi confini e nelle sue virt, l'animo leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro insegnamento  certo, se bene incompiuto; insufficiente, non arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla storia della mitopeja. La quale pertanto non pu consistere nell'insieme inorganico di quelle quattro singole storie, se si mantenga incompiuta, n, se voglia integrarsi, nell'insieme inorganico delle storie su le varie saghe conosciute. Tale  l'uso dei manuali; ed  uso degno del nome e dei libri: che noi vedemmo dianzi la esigenza di quella pi larga istoria emergere a punto dal succedersi (che  stimolo, dunque, non sodisf acimento) di taluni racconti men larghi. Come, per analogia, le biografie di cento individui non souD la storia della nazione cui appartengono, e che li comprende in s e in s li distrugge. Flutti nel mare, le molteplici saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta per volta il total genio mitopeico in margini che non sono i suoi proprii. E a quel modo che l'Uomo non attua le sue potenze tutte se non nella umanit ; il Mito non sviluppa tutte le sue virt se non se nella mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in un testo pi ampio i termini in cui si conchiusero le conoscenze dei singoli. Evidenza pari ha, o dovrebbe avere, un altro vero eh'  parallelo a questo. Dianzi, giustificandosi legittima la storia di un mito, nell'atto di mostrare come le molteplici manifestazioni leggendarie potessero aggrupparsi in tanti cespiti quanti sono i nomi e le fondamentali vicende che accomunano talune fra esse ; disegnavasi pure, come possibile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni molteplici pi tosto sotto le rubriche delle diverse epoche e dei differenti luoghi, per comporre, con criterio cronologico e geografico, la storia della mitopeja pagana lungo i secoli e traverso le regioni del mondo classico. Et per et si vedrebbero gli spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire su tutto il patrimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito temporale e regionale dei Gentili, come se sia stata ristretta in taluni confini di paese o di momento,  tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza? o pure, anche da essa deriva allo spirito un bisogno pi alto? Senza dubbio, un paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti sarebbe a sproposito. In questo secondo caso difatti v' organicit : ogni epoca influendo su la susseguente dopo che la precedente su essa aveva operato ; ogni luogo fra i Glreco-romani riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in senso negativo o in positivo. Ma, a parte tal rilievo,  certo che il bisogno sussiste tuttavia. Sopra le differenze pi o men notevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due i casi la costanza con cui talune energie dell'anima nostra, e sol tanto quelle, e sempre quelle, influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor patrio, il senso naturalistico e l'acume psicologico, lo scetticismo ragionevole ed il razionale. Colpisce che, come pi si risalga nei secoli, meno fra esse intervengono nella mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si ritrovano ; e che, come pi si discenda nei secoli, non solo si accrescono per numero ma quasi si succedono per dignit, tramandandosi tal volta nel corso la fiaccola, umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in officio di mitopeja ; s'indovina, entro la libert delle manifestazioni, cosi traverso l'epoche come sotto i cespiti nominativi, un'armonia ch' ancora imprecisa ma merita indagine; e si desidera cercare questa armonia e quelle potenze. Concetti empirici, dunque, tali potenze? arbitrio di astrazione a scopo pratico? Non cosi. Il tono generico  solo esteriore ; nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indicare qualcosa di assai individuo e concreto : altr' e tante energie spirituali che, in certi momenti della storia, e in determinati punti della terra, hanno gittate singolari riflessi su la saga, ora iridandola di sfumature, ora riardendola fin nell'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e solo per storia conoscibili. Le carit patrie di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di Dionisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia nei confini onde storicamente son racchiusi entro un'opera e un temperamento, si compenetrano, ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono le differenze, quelli e queste ordinano in sintesi: fino a divenire, in diverso contesto storico, la carit patria, il razionalismo, la religione del genio mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ; generale e individuato a un tempo. Generale, rispetto alle singole saghe: individuato, rispetto al genio mitopeico., Di che pu aversi riprova. A quel modo che durante la storia d'una specifi.ca fiaba, linteresse pi attento soverchia il cerchio breve del palco ove poche persone son mosse in non molte vicende, e tocca, al di l, la forza animatrice di quel moto ; del pari, per l'interesse pi attento, anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e di Luciano, competono fin da principio, dopo che a Vergilio a Luciano a Dionisio ad Euripide, alla mentalit pagana di cui son pregni, alla vita de' Grrecoromani nella quale immersi son trascinati subendo e reagendo, come massi che il fiume ha composti e disgretola poi con la medesima forza. Si che, a rigor di discorso, gi i successivi stadii d'un mito superano il mito, e si proiettano, in altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone non pi affinit di nomi e di casi, ma di potenze spmtuali. Per a questa disposizione nuova manca tuttora l'ordine della successione : che , anche, l'ordine secondo cui la mitopeja si evolve. Non pu valerci pi, adesso, il criterio cronologico : atto bens a graduare strati di leggende ; inetto del tutto a decider, con certezza che non sia di pallida congettura o non nasca da arbitrio di pregiudizio, a decider se la fede versi la purezza delle sue acque nel mito prima che l' analisi psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga darebbe una propria risposta, diversa secondo vicende casuali o necessarie . Qualcuna persino mostrerebbe contemporanee le manifestazioni in apparenza pi Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO disparate o in sostanza pi contradittorie. E, per tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo di vedere il genio mitopeico vivere, com' d'ogni individuo definito, evolvendo le sue speciali energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espressioni che ci richiamano senza dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano quasi con certezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare ciascuna delle caratteristiche mitopeiche, compararle o alle qualit originarie o agl i ultimi corrompimenti. Ma perch pi certe appajono le prime, a esse la com[)arazione va riferita. E tanto pi si sente, allora, tarda (nell'essenza) quell'energia che, acquisita allo spirito mitopeico, pi lo distorna dai suoi primi sogni : per essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ; si che il momento della conquista  ben paragonabile all'oscillazione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora. Una storia compiuta dovrebbe per seguire il mostrarsi di ciascuna energia, segnalando il punto in cui dopo la precedente essa confluisce nella saga a nutrirla e deformarla, e precisando il modo del deformare. Una storia, per contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi raffronti, mantenersi entro gli argini della sua incompiutezza, col tratteggiare senza disegnarle le linee dell'opera propria. Tutt'e due vedrebbero, oltre l'assiduo rinnovellarsi delle forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga introdotto dall'insita sorte, la vasta e chiara armonia del complessivo progresso geniale, le cui pietre miliari hanno nome dalle potenze dell'animo e dalle forze del pensiero. Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia, apparirebbe la constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia pu scegliere a suo oggetto, fanno testimonianza di s di fronte a noi, in lavori di arte letteraria e manuale o in riti di culto, quando oramai o per intiero o in buona parte lo spirito onde sono elaborate ha acquisito le sue virt: pel che quest'ultime possono manifestarsi od occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma, nei singoli miti, un perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un diverso stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che non  senza evoluzione ma con evoluzione diversa dall'originaria. Condizioni di ambiente fanno si che in una sola et, l'augustea, la leggenda di Caco si manifesti infusa di x^atriottismo e zelo religioso presso Vergilio, incrinata di scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro questa contemporaneit cronologica, non esitiamo a proclamare pi vetusta l'una forma a petto dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal certezza si conforta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde appare VergiKo attingere a pi antica sorgente che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia anche quando il riscontro non fosse possibile per qual siasi motivo. Com' del mito di Andromeda, il quale  gi scaduto in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide lo solleva al culmine della sua vita penetrandolo di passione patria e di pensiero religioso. Crii  che la mitopeja ha oramai il possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta ne fa uso secondo richieggano sorti diverse. Spetta all'occliio dello storico separare, caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto: per decidere se lo stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori di quella fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo nel progresso del genio mitopeico. Va perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'intrecciano simiglianti e differenti ; e si dispongono in racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi nome personale, una peculiare orma, n confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo dall'arte, ha destino qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per contro diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza creativa, la limitatezza fondamentale della manifestazione : il sottostrato di potenza definita, di l dalla superficie delle creazioni che si tramutano lungo serie senza termine e fogge senza numero. E n meno qui, in quest'altro ufficio, essa si converte in scienza astraente e classificante. Quando vengono disegnate le vie che la mitopeja trov per le sue creature, si adoperano certo concetti empirici e partizioni; quali fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e culto, per cui il filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i medesimi concetti intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con altri, e non impediscono che quelle storie concretino individui ben precisi e reali. Si che a ogni modo la loro presenza non pu decidere senz'altro contro la natura storica di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata storia mitopeica fonde leggi categorie e formule nello scoprire: in primo luogo, i confini entro cui tutte le manifestazioni favolose son racchiuse; in secondo luogo, i gradi secondo cui esse sono disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo problema, ch' denso di realt storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? Il badile ed il coltello han diritto alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento travaglio campestre e la sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci e selvaggi. Ma poi che questa diversa istoria del genio mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa, riapparir a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando, senza sconforto, la fine della mitopeja pagana. Non senza rimpianto per, ch' differente cosa. Non vediamo pili Centauri scender galoppando dai ventosi antri dei monti : n per noi ogni sera il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri marini e piegare tracotanza di violenti. Quella cecit e questa negazione sono stati il prezzo con cui pagammo altri spettacoli ed altre certezze. Ma il prezzo duole, nel fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupidigia di opulenza spirituale. Sin qui tentammo della mitopeja e della sua storia il concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella pratica degli studii e della vita, e si rafforza di esigenze, estranee bens alle fiabe e alle storie loro, ma non agli storici ; un motivo interviene spesso a ridurre le indagini e le ricostruzioni del mito nei confini di una sol tanto fra le maniere dell'espressione mitica: nei confini della letteratura. Certo, il genio letterario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de' suoi sogni mitici con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle altre arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe . Non cessa per che di queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra le loro espressioni  compiere una arbitraria amputazione. Lealmente riconoscendola, questa colpa  grave. N medicabile. Si pu palliarla: come suole lo storico dell'arte richiamarsi per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in reciproca guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade nel pur ricco patrimonio trasmessoci dagli antichi, uno o pi stadii d'un mito sieno costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o dipinti o in altro modo artisticamente lavorati dall'attrezzo e dalla mano. Allora la storia monca deve a forza integrarsi di quella sua parte che un caso rende ben necessaria e come vitale. Con simile pensiero  fatto ricorso alle notizie cultuali, e le formule de' sacerdoti le litanie dei fedeli si cercano, farmachi preziosi, a supplire e lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine non  se non nell'intreccio del tutto ; e i riferimenti, fngendola, tradiscono il vuoto. Mal colmato, il difetto permane, e si appaja con la incompiutezza cui limitate esperienze entro esiguo numero di miti costringono il ritratto del genio pagano facitore di saghe. Permane : la sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si che non  pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal volta. Onde avviene che dinanzi la storia insufficiente cosi della singola favola come della total mitopeja antica, la nostra insoddisfazione si cresce del diffcile sforzo per rimanerne sgombri. Tant': nell'isola ove piaceva a Kalypso di amarlo, con promessa di rendergli " senza vecchiezza n morte per sempre  la vita, Odisseo, da la rupe a fronte del mare, piangeva la patria lontana. L'anno avanti Cristo quattrocento dodici Euripide fece rappresentare in Atene una sua tragedia intitolata Andromeda^ alla quale forniva materia un episodio del mito di Perseo. Ma se l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la sostanza a nutrire la sua compagine, nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore: per che lunga gi e complessa ne fosse stata, innanzi, l'evoluzione. Antichissimamente, negli anni cui corrispondono, eco affievolita, i pi vetusti canti della epopea e poche mal certe tracce, una assai uber ei) Cfr. per tutto questo cap. l'Indagine in libro II cap. I; di cui si citano i  nelle note successive. tosa terra di Grecia aveva fecondato di s un semplice racconto . Si narrava in Tessaglia, e in ispecie nella pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi, di un re, cui era regno in Ai'go (Pelasgico), molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non lontano da morte, egli era tuttora senza prole maschile, unica essendogli nata una figlia a nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua schiatta, si sarebbe recato a consultare in Delfi l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta, non essergli per nascer maschi se non da Danae, ma dovergli il nipote togliere e trono e vita. Non fu vano il grave mnito; ed ogni cura fu posta a che la vergine restasse dal generare, contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio, riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo che fu chiamato Perseo. La nascita, che si volle tener celata, fu in vece scoperta e caus l'irosa vendetta del re impaurito, il quale decretava che la giovine e il neonato fossero, come Preto per altra parte fu, cacciati, e derelitti in bala della violenta natura e delle intemperie. Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e pervennero in Magnesia: ove per loro fortuna li accolse un pescatore, Ditti, che li ospit di poi nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino crebbe fanciullo, giovane agile e vigoroso: tra i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo di muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di braccia si rivelassero. Allora piacque al caso Cfr.  II e III. che il re di Larisa indicesse fra' giovani ima gara pubblica e che all'agone partecipasse l'adolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino. Accadde l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo lanciato, opera d'un nume! contro le deboli membra del nonno, che ne fu morto. L'oracolo per tal modo compiendosi, il nepote riconosciuto si ebbe il trono e la dignit dell'avo. Una tal fiaba parrebbe germogliata, semplice e intiera, su dal suolo mitico d'una trib aria, frutto non insolito d'un seme a pi altri simigliante: ove la stessa sua trasparenza non ne scernesse, una ad una, le fibre. C', in quel breve racconto, lo spunto originario della morte inflitta dal giovine, che si rivendica l'avvenire, al vecchio progenitore, che il passato ha curvo e fiacco : dal Sole, ci sono, nascente circonfuso di purpureo sangue, per illuminare l'oggi, al Sole occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo sangue, dopo aver rischiarato il jeri. Durante la notte, nell'ombre, il delitto si  compiuto ; e l'astro giovine regna in luogo dell'antico, nato da una Danae (donna di quei Danai che nella leggenda combattono i Liei o ^' Luminosi ) e sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su dalle case sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti  sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema rozzo, cui  il mal grato biancore di ossa a pena commesse, diedero nel principio veste di muscoli e colori i nomi locali, che tante reminiscenze di bellezza e di rigoglio traevano con s e richiamavano a tanti concreti particolari della realt : le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa ; il venerando oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie, nell'est, dalle cui giogaje ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte temibili, disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di paura e di piet. Di poi sul racconto naturalistico, come i3 venne foggiandosi in forme di plastica umana, s'innest una di quelle novelle, simili tra loro come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle quali il popolo par condensare, con la propria esperienza, la propria filosofa della vita, i^erch vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende (per lo pi, familiari) e le sembianze caratteristiche delle figure che sospinge la sorte comune. Traverso la fantasia delle masse, come traverso un vaglio singolare, il complesso, per esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle virt che in genere presso quelli si riscontrano, si affina in una selezione di cui  vano cercar le leggi, per comporsi nella sintesi d'un personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo  lo schema della fanciulla cui nasce illegittimo un bimbo e che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili virgulti quello e questo ; cosi fatti per che improvvisa linfa vi rifluisce non a pena s'immettano sopra una determinata leggenda : cui recano, per altro, non esiguo contributo in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto impressero alla fiaba tutta una diversa vivacit romanzesca e forza dramatica. Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il pi recente prevalesse sul pi antico fino a ridurlo in oblio: fu, come mi espressi, innesto; onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale del bujo Polidette, permasero a costituire il volto significativo del mito durante tutto questo primo stadio, tessalico, della sua formazione. Il che fu chiaro in sguito . L'Argo Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi, venne confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi! mitici fra i varii popoli della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e potenza il pi antico, ed era situato in un conchiuso piano del Peloponneso fra monti e mare, nell'oriente della penisola. I due Argo furon quindi, in realt, uno: prima il tessalico, poi il peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via le leggende che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso nonno, rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popolazione argolica assimil ben presto la saga tessala con i suoi particolari e le sue figure: persino l'accenno a la Magnesia, che quanto mai disconveniva alle sedi mutate, si serb in solco profondo ; persino, e specialmente, la morte di Acrisio in Larisa, cui grande varco di terre e di mare separava dal Peloponneso, si mantenne non alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era nel mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fngeva padre di Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome della persona ogni valore di riferimento al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni attinenza concreta, A Larisa poi dur alquanto un sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno adimque, che nemmeno la nuova leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col proceder degli anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro con la mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con l'alterarsi. Il ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e il padre di Perseo vennero corretti e adattati: n  a dirsi qual de' due ritocchi sia il pi antico ; ma si vede bene quale  per essere il pi importante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sostituito Zeus, il dio veneratissimo in Argo, da cui si faceva discendere anche l'eroe eponimo Argo : gi che forse piacque cosi adombrare quel Preto che in Argolide doveva riuscir meno noto, e che aveva, per quanto ci  dato supporre, contenuto naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sostituita l'isola di Serifo ch' di fronte all'orientai costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perch quell'isola fosse la prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo  che per essa un lembo di territorio jonico sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra tanto il mito si diffonde: attinge Micene, penetra a Tirinto. Nella quale anzi cosi si radica, che s'invent come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di rientrare in Argo e preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo cugino Megapnte figlio di Preto. Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in territorio jonico: si prepara all'evoluzione futura una base duplice in cui son contenuti potenzialmente due ulteriori sviluppi. Entrambi si devolvono nel fatto, simiglianti tra loro per sostrato e valore, e paralleli in modo che non  riuscibile lo stabilire la priorit dell'uno su l'altro. Era leggenda fra i Joni che la dea Atena, cui molto culto si tributava e particolar reverenza, recasse sopra il suo scudo la testa di un mostro pauroso e ricinto d'ombre : Medusa, una delle Grrgoni dimoranti al limite estremo dell'Oceano, oltre la terra, dove il Sole scompare e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo significava trofeo d'una vittoria conseguita dall'iddia avverso la protervia nefasta di quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica, traccia della natura xDrima ond'era informata Atena, divinit della luce solare, nume del temporale, in cui pi vivo  il contrasto fra le forze luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero un altro attributo si riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una cappa, lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava il suo splendoreogni qualvolta piacesse a lei di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce agli occhi umani per molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in racconti embrionali tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le quali, se si accoglievano bene nella figura di Atena, non formavano ancora intorno alla sua persona una veste cosi aderente, che non fosse possibile separamela in parte con lievi alterazioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la Grrgone e la propriet della cappa invisibile si riportavano assai meglio al sostrato naturalistico della Dea che non al suo individuo, alla folgorante luce che non alla sostanza corporea della effigie umanata. E perch Perseo quando pervenne in Serifo, e come in Serifo in Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento al suo essere dall'energia naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e onde era nato, e poteva pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero e l'impresa contro Medusa e il cappuccio canino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio se non quello di ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una contaminazione delle due leggende in una; ma di due leggende non indipendenti n ciascuna distinta per s, si di due che si originavano da una medesima intuizione delle forze naturali, e aggeminate si erano dopo che aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in luoghi distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto che ne nacque, come prese a vivere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni materia vivente in organismo : si accrebbe. La fantasia che plasma le leggende ha certi suoi modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va foggiando analoghe le sue opere : essa imprime del suo segno terreno il racconto di quegli spettacoli della Natui'a cui aveva gi dato volti e gesti umani : prende una seconda volta possesso della sua materia. Cosi non concede essa all'eroe, e sia pur grande d'assai pi che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. facile e pronto il conquisto; vuole sia arduo: preparato con forza ed astuzia. Ecco imaginati talismani senza cui l'opera non pu compiersi e per i quali trovare si richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a preparatoria, ch' mezzo non fine, ma non  dispensabile : e all'avventura apparecchiati i personaggi. Qui, furono le figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un occhio solo vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, si narr, sapevano la sede di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non era concesso ad uomo trasvolar fino al limite dell'Oceano presso le Grgni, e dalla bisaccia (xi^iaig) magica, che fosse atta a contenere, dopo spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si rec dunque ma non ottenne n quelli n questa se prima non ebbe con violenza privato le tre vecchiarde dell' occhio e del dente, esigendo a compenso della restituzione i due oggetti cui mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena, conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie l'avrebbe donata, nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi; il quale, avendo allora gi assunto rilievo di dio luminoso, era affine a Perseo e dicevole soccorritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai allargata la saga. A concliiuder la quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa strana del fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo. Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente la causa dell'avventura e del pericolo aveva a connettersi con gli ospiti di Danae : Ditti e Polidette. E poich non certo l'originalit  pi ricercata nella mitopeja, fu sfruttato ancor qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a noi, non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti episodici onde abbisognava. Come contro la Chimera fu spinto Bellerofonte da chi ne desider la morte; come Q-isone in Colchide venne inviato perch perdesse nell'arduo cimento la vita; cosi Perseo avrebbe assunto il rischio meduso per stimolo di Polidette, che innamorato di Danae bramava toglier di mezzo il giovine difensor della donna. Oramai il racconto era compiuto : armonico, organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla quale eran fusi i diversi elementi confluitivi da parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetrazione, lata e i)rofonda, nel suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove] listici aveva dato alla fine il suo bel frutto maturo. Analogo al processo d'evoluzione mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era accresciuto d'un episodio e di due campeggianti figure, Atena e Medusa, fu l'altro che in diverso terreno prepar novella sixnigliante . Ma, a un tempo, incomparabilmente pi complesso ed inviluppato: tanto che l'indagine riesce a ricostruirlo non con la fondata probabilit ch' concessa all'esame del mito di Medusa, ma con incertezze non jDOclie, e con grande cautela. Se l'ipotesi non erra, due personaggi costituirono i X^erni fondamentali di quel processo: e l'uno  Perseo nella sua natura di eroe luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro  Cassiepa o, come il suo nome significa senza dubbio, la " millantatrice ; tipo popolaresco della donna orgogliosa troppo di sua bellezza che osa competere in gara ineguale con le Dee, e n' punita per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque di essenza diversa, che l'uno  naturalistico, novellistico l'altro ; cui tuttavia compete un comune carattere precipuo: l'attitudine, cio, a commettersi con pi altri elementi, a raccoglierli intorno a s, quasi per energia magnetica; cosi da allacciare in maglia e in rete pi trame mitiche distinte. Per essi si formarono due compagini leggendarie che insieme li contenevano e n'erano quindi accostate fra loro. L'una. Si conosceva, fra i Peloponnesiaci in particolare, un re mitico Cfeo o, in altra forma, Cfeo, che sar x)i tardi venerato con carattere e attributi di divinit ctonia in Cafe, luogo dell'Arcadia ; e che veniva creduto signore di popoli abitanti all'orizzonte fra la luce e l'ombra. Quivi eran, secondo gi l'epopea omerica, gli Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tramontante, tcchi dal bujo per un lato, immersi nella vampa per l'altro. Cfeo dunque re degli Etiopi reggeva il suo popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto conformi, nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui come a simili mete muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi nella terra di Cefeo fosse condotto Perseo,  a pena bisogno, quindi, di dire. Per scopo fu scelto non an mostro specifico, quale Medusa, ma una vagamente indicata belva che sorgesse da l'onde a esterminio e terrore: il ketos. Soccorrevole, nell'officio di Atena contro la preda gorgona, s'indusse un diffuso tipo di Vergine, strenua in combattere, ignara di mollezze feminee, il cui maschio nome istesso rendeva imagine di possanza non muliebre si virile: l'Andromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla impresa ignoriamo; ma possiam senza errore fngercene uno non dissimile da quel che apprendemmo nell'altro episodio, cosi concorde con questo per contenuto forma e valore. Si ottiene un mito modellato sopra i medesimi schemi su cui  foggiata l'impresa fra i Joni ; nel quale i nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte sarebber identiche se non fosser d'alquanto pi sbiadite, e tutti i particolari invariati se non apparissero scemi al paragone. Un arricchimento per venne ad esso mito quando Cassiepa vi fu introdotta. E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione. si pi tosto nel trasformarsi profondo del significato complessivo che quell'acquisto ebbe a preparare. Due avventure di Perseo contro mostri delle tenebre non potevano non venir avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramut Tuna, la minore e pi svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe spontaneo, della sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si and raggentilendo fin che si transfuse del tutto nel tipo novellistico della fanciulla che l'eroe libera di prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco nella lotta, in gara aveva lanciato i sassi contro il ketos avanzante dal mare, e un vaso del secolo sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del lancio, constringendole e movendole le membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne alla vittoria, bella non forte. Allora, divenne indispensabile giustificar la cattivit della fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il mostro a liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n vanto della " millantatrice , dalle Dee offese punito nella vita giovine e florida della figlia, Andromeda fu tramutata in sua figlia, sarebbe appunto stato la causa prima del pericolo orrendo e della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto originario dell'episodio  alterato, nel profondo. La seconda forma possiede la vita che non la prima. E individuata come non la prima. Da l'una a l'altra segna il passaggio Andromeda trasformantesi, e accanto a lei resta Cefeo che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal mito i personaggi caratteristici, i fondamentali sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea e Perseo prevalsero pure, sembra, in un'altra leggenda differente di origine. Protagonista  qui Fineo : divinit del fosco settentrione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti. Benefico e malefico egli pu esser difatti : secondo che dietro lui muova il rigente turbine del nord a offuscare le chiarit solatie ; o che la freschezza dei suoi vnti temperi l'afe estive ricacciando a mezzod gli affocati avversarli che il Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere fu, in vero, la base del racconto, giusta cui egli sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza l'intervento de'fgli di Brea i quali respinsero le moleste e perseguitarono a ritroso fin l dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di questo mito delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il formarsi della nostra saga intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio deleterio de' suoi vnti meridionali, ma con la forza purificatrice dei suoi raggi chiari: per vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'autunno sopravviene, nella nostra leggenda, a mitigare le ardenze della riarsa estate ; si la primavera a dissipar le brume e i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe solare che trionfa del re nordico fu, sembra, appunto Perseo, in singoiar duello. E cotesto embrionale racconto, cerc, e trov, un motivo in Cassiepea : ancor una volta pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar la sorte inferiore di Fineo, suo figlio : figlio per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche di fornire compiutezza romanzesca alla favola, quando il significato naturalistico ne andasse smarrito. C era dunque la materia, idonea a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in s il levame opportuno, un mito pur esso dramatico n meno denso di bellezza poetica. In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera ben delimitata, fu travolta e assorbita in diverso complesso. Per che i due intrecci di Andromeda e di Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea apparivano non pure nell'identit de' nomi ma e nella analogia degli uffici, non potevano rimanere distinti: e tanto meno potevano se, come non  provato ma  forse da ritenere, un medesimo suolo li generava. Si com penetrarono difatti fin che divennero una narrazione sola in cui gli elementi delle due generatrici sussistevano tuttavia presso che integri, l sol tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla logica della commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo; rimase la discendenza di Andromeda da Cassiepea: ma, e fu il segno della connessione fra le 'due saghe indipendenti, la causa della lotta fra i due eroi, fu rintracciata non pi nel supposto vanto d'una madre, ma nella stessa precedente vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse, sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda avanti la venuta del giovine liberatore: cosi ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare diritti di precedenza. Inascoltato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia scatuiigine : senza che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e Andromeda, su rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di maternit fra Cassiepea e Fineo. Chi confronti ora da un lato l'avventura medusa di Perseo con l'assistenza di Atena ed Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos con il premio della vergine e il contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfcie variopinta dei due episodii, senza indagarne il significato recondito ; non vi trova pili tracce di quella simigliali za che le saghe della "Maschia,, e della Gorgone rendeva pallide entrambe ; bens li avverte dramaticamente diversi, materiati entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae or verso la liberata Andromeda; di cimenti perigliosi ma ora contro Medusa spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato. La cosi ottenuta diversit formale, permise a chi volle aggruppare intorno al nome di Perseo tutte le vicende di lui, di comporre queste due in ordine insieme con la nascita dell'eroe e la uccisione del nonno Acrisio. Un'opera siffatta fu compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme organico, e divenne per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice . Ne possediamo un sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)er, onde  necessario integrarlo col testo del ben pi tardo Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disadorna. Essa non  pi per noi, nella forma con cui ci pervenne, il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione per effetto della sintesi narrativa; ma , di quel corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa vediamo Perseo compiere, dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue avventure, la medusa e l'etiopica, per ritornarsene in Serifo a impietrar Polidette e in Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in Tirinto il suo regno, che Argo gli era divenuta infesta. Ma effetto dell'esser stata raccolta in sintesi la serie delle gesta eroiche di Perseo non fu solo di fargli attribuire per arma contro Fineo il capo della Gorgone o di condurre sul trono di Argo Andromeda regina; ma fu, pi tosto e meglio, di sottraiTe all' episodio del ketos ogni vita autonoma : valse esso qual momento d'una complessiva azione ed ebbe valore di conseguenza da un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un tutto, doveva dal tutto ricever sua norma e sua importanza: fin che al meno non ne fosse mutato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua romanzesca, gradita a' novellatori, tanto pi quanto pi di fatti si 'arricchiva la trama, di particolari le vicende, di gesti le figure, non si trasformasse in essenza diversa. Nel molto che and perduto eran certo forme varie di cotesta indispensabile trasformazione. Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo quinto . Per essi la favola di Perseo e Andromeda acquista una importanza nuova di reliquia fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione  un avvicinamento verbale : uno de' consueti di cui si compiacque la fantasia degli anticM nel conato e nella pretesa di farsi pensiero critico : fra Perseo e i Persiani. L' analogia non etimologica ma fonica indusse a ritener quello capostipite di questi: non direttamente per, si bene per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato il nome " Perse  per pi di verisimiglianza. A dar poi un aspetto anche meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta ria di cui doveva esser memoria fra i Persiani, " Arti : questo ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua discendenza. Naturalmente si lasci, a tal fine, sbiadire fino alla scomparsa il ricordo degli Etiopi, sudditi di Cefeo nella pi antica saga: per che essi si riconoscessero, in quell'epoca, or mai identici a reali " Etiopi , situati al sud dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Cefni  desumendoli, come traspare, dall'appellativo medesimo del re. E si pens che a Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse, figlio di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a sottometter gli Artei ; e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si denominasse Persiano. La garbata ricostruzione critica non fini in questo : perch, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli Artei? La risposta si trov combinando questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai Caldi semiti che avevan sede intorno a Babilonia, eran noti altri Caldei abitanti lungo il Ponto, presso i Mariandini e i Paflgoni; e il gruppo esiguo di questi si riteneva un ramo da quelli staccatosi in et antichissime. Poich inoltre sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di Cefeo e principe per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran mossi verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la trasmigrazione totale cosi: da Babilonia si diparte una schiera di Caldei ad occupare la terra settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ; che si spingono verso gli Allei, li sottomettono e insieme divengono il popolo de' Persiani. Se non che questa mitopeja di eruditi pur riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar guisa dalla leggenda di Perseo, infondendogli una essenza nuova dissonante dal resto della fiaba, finiva per in una soppressione dell'avventura. La venuta di Perseo fra i Cefeni, la lotta col ketos, le nozze con Andromeda, il duello con Fineo, sono un niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno pi vita artistica; le conseguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realt nasce; ma la bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro patrimonio letterario troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque dal combinarsi di esigui intrecci leggendarii emergenti a lor volta su da rigide abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti della fantasia mitopeica, non solo perde presto la sua autonomia col commettersi ad altre vicende, ma indugi a svincolarsi da F impaccio, e a circoscriversi in forma e colore : a bastanza, perch il senso critico lo adulterasse e, un poco, lo vituperasse. n. Euripide. Fu sorte della tragedia dare a esso episodio di Andromeda il contenuto nuovo : che non fu n romanzesco n storico ; ma psicologico. Di altri non ci rimase sufficiente notizia. Di Euripide possediamo i frammenti bastevoli a ricostruire il drama, se non ne' suoi particolari di arte e nelle sue forme di tecnica teatrale, certo nelle sue linee maestre . Era consuetudine ferrea che la tragedia nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale modo i tragedi pervenissero all' elezione del tema e alla scelta dell'argomento non  possibile dire, per la oscurit imperscrutabile de' processi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia I frammenti, naturalmente, son citati e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum graecorum^ (Lipsia 1889). delle notizie tradizionali. Sol tanto si pu con qualche chiarezza intendere come il problema di arte si presentasse al poeta allor quando si accinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andromeda ; come, in somma, lo spirito di lui prendesse possesso, nell'impeto creatore, della materia leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal testo di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso traverso l'aria, segni d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro era l'umano, sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio di Fineo, nel vanto di Cassieijea, nel patto nuziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi trovano la loro unit in un terzo, che , in somma, del mito il carattere eroico e la forma romanzesca. Euripide adunque ebbe, dinanzi al suo pensiero, l'umano, il divino, l'eroico. Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo pi vivo interesse. Non solo difatti egli staccava nella tragedia l'episodio mitico dalla serie narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh'  di tutta la dramatica greca, di appassionare non la fantasia bens il sentimento degli sf)ettatori; e lo sottoponeva all'esigenza di \brare per pregio e forza intrinseci non per smaglianza esteriore di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie, come sono ben lontane da quelle che l'hanno creato dinanzi la natura e complicato in novella, cosi son anche pi mature dell'altre che ne han goduto, con puerile compiacenza, lo straordinario e l'impossibile. Per certo le pi antiche e le moderne cerca van tutte nella saga una verit ; ma la verit naturalistica e la verit eroica non appagavano ora quei cittadini di Atene che vi desideravano una verit psichica. Ora, con si fatto spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito romanzesco che un tempo riusciva opportuna o indispensabile commessione fra i due diversi elementi della fiaba, sopravviveva adesso, insieme col divino, quale materia in apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra un piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di Dei? E ovvio per che il poeta non vide, come qui criticamente si espone, il suo problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo egli non ebbe un modo costante di risolverlo in tutte le sue opere; ma il genio gli soccorse, or peggio or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi in guise diverse. Poich ci sono rimaste nella loro integrit V Elettra ch' del 413 e V Elena ch' di quel medesimo 412 da cui V Andromeda si data, intrawediamo a bastanza la vita dello spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte tentava il nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra tragedia  un contrasto di passioni. Elettra ed Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per L'analisi, che segue, del pensiero religioso e sociale d'Euripide intorno al 412  fatta di sul testo (edizione Murray Oxford s. a.) di&WEletta e AqW Elettra ed emana da quello. Di pi cfr.  Vili. vendicare il padre uccidono la madre ; clie odiano fino a darle la morte la donna da cui nacquero, ma le sono tuttavia carnalmente congiunti, cosi che col sangue di lei scorre nelle lor vene una indicibile virt di amore e rispetto : protendono da la scena una dolorante maschera umana ; fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni del teatro. E quando Menelao reduce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto recando con s la riconquistata Elena ; e vi s'imbatte nell'Elena vera, quella che gli Dei recarono celatamente in Egitto, mentre un vuoto simulacro fuggiva con Paride e presedeva alla decennale guerra; e la gioja irrompente per la ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe con lo sconforto per i travagli sopportati in vano e la vita gittata in vano da centina] a di prodi : allora con la sua s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e sofferenza giungono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra. E in queste situazioni palese l'immergersi dell'artista nella sostanza dei personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio completo di tutto l'estraneo : stolto cercarvi un sistema filosofico applicato, co' suoi postulati generali, ai casi particolari. Qui l'uomo  espresso, dal profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra nel terreno la via. Ma di qui non  possibile indurre riferimenti con l'ambiente storico del poeta o, peggio, conseguenze intorno allo stato psichico di lui in quegli anni; ma solo intorno al consueto modo della sua forza d'arte. L'animo di Euripide si rivela pi in l. In quello anzitutto che dalla tradizione egli accett. ANDROMEDA Giacch nei miti di Clitemestra uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non poteva respingeren poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di Apollo, che avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'ordine di Zeus, che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja, permettendo sperpero immane di energie e valore. Cotali interventi divini eran la premessa indispensabile dell'azione ; divennero per Euripide radice di nuova tragicit : per che, tanto pi gli parve orribile il delitto di Elettra, in quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto pi spaventoso il vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque le parti divine della tragedia si connettono per lui strettamente con il travaglio umano ; ma costituiscono una forza cieca e buja contro cui bisogna urtare : simile al peso corporeo che non s'evita con gli slanci dello spirito, all'aderenza col suolo che non si sopprime con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accett l'oracolo di Apollo ; ma chiese ' come pot il Dio saggio ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... taccio: certo egli  saggio; ma vaticin cose non saggio  : o sia non rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perch o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch' morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ?  ; per farsi Elett. vv. 1245-6. rispondere con una parola ch' poco o molto, vdyxr] " Necessit  . E chiaro : il suo spirito s'  formato un concetto alto della divinit : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non pu concepire derivi il delitto ; n la stoltizia, n alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza. Del iDari, se non forse in guisa pi a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella realt si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono secondo purezza di virt : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp ' come pot il Dio saggio ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... taccio: certo egli  saggio; ma vaticin cose non saggio  : o sia non rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perch o Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch' morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla casa ?  ; per farsi Elett. rispondere con una parola ch' poco o molto, vdyxr] " Necessit  . E chiaro : il suo spirito s'  formato un concetto alto della divinit : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non pu concepire derivi il delitto ; n la stoltizia, n alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza. Del iDari, se non forse in guisa pi a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che nella realt si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclmeno, successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne, migliori che gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono secondo purezza di virt : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp orta paziente l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, confusa con il simulacro ; Teonoe, sorella di Teoclimeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello Elett. vv. 1298-1301. ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao  onesto, cortese e affettuoso. Che dunque ? Cotesti iddii sarebbero d'assai pi piccini, nell'animo, che i terreni ? risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui il problema si formula ; ma nulla lo risolve ; nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro : " Chi  dio, chi non dio, chi semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto lontano la sua ricerca, dir di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere divine or qua or l balzare con contradittorie e inaspettate vicende?,,. Nessuno risponde. Questo silenzio  una tragedia a s. Non si svolge materialmente su la scena, accanto i personaggi s moventi, ma  nello spirito del poeta, ed  a noi non meno fraterna. Ben sua, la seconda tragedia, pi che la prima. Non di compassione, di simpatia geniale verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un Menelao ; ma di spasimo e strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale nasce ad Euripide nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofa. Il suo pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la concezione omerica e infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita con una pi matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo mito, che rivivere gli bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tormenta : ripete a chi l'ode la favola bella degli antichi, fa trasparire a chi l'intende la sua filo Elena tv. 1136 sgg. sofia ; questa e quella compone, senz'accordo logico, entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi divini, che la tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta travagliandosene ; sono neW Elettra e, di pi anche hqW Eena^ giunte che il poeta solo volle e in cui espresse il pili personale tra' suoi aneliti ; intrusioni sgorgate da un animo che, non pure assorbe in s per rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda e si abbandona, anche con quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee. Tale s'origin nel drama di Clitemestra la figura del contadino, povero e rozzo, ma pur squisito di sentimenti e schietto di azioni : VaixovQyc,, a cui Elettra sarebbe stata costretta in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli se nati da nobile genitore. Egli, come apprese la condizione della fanciulla che gli veniva destinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti coniugali, pur continuando ad ospitare nell'umile sua capanna la donna e fngendo, per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando aijpare su la scena verso l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la Terra, la grande generatrice di frutti buoni e di forze sane. Dopo, ogni suo gesto  virile e sobrio, contenuto e cordiale ; il suo spirito si rivela semplice perch diritto : e mentre Elettra ed Oreste si laniano di x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore fino a superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. N basta. Il poeta, sottolineando s stesso, richiama gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste fa A. Feekabino, Kalypso. 5 esclamare con maraviglia un poco attonita: "Ahim! Non v' criterio alcuno a distinguere la nobilt : v' scompiglio nella natura degli uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre generoso; e rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello spirito d'un ricco ; la magnanimit in un corpo povero. C'ome orientarsi ? secondo il danaro ? mal fido criterio questo sarebbe : secondo la povert ? ma la miseria  una malattia, cattivo maestro  il bisogno : secondo l'esercizio dell'armi ? ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe qual sia il virtuoso ? Meglio sembra lasciare indecisi codesti problemi. Costui per esempio grande non  fra gli Argivi [VadTOVQyg], non insigne per rinomata schiatta :  uno dei molti : e pure si rivela ottimo . Ottimo si che la sua onesta figura divien quasi di maniera e par disegnata per dimostrar una tesi o attingere uno scopo. Quale tesi o quale scopo si propose Euripide nel concepirla e nello stagliarla? Non meno larga che neV Elettra  nelV Elena la novit introdotta. E anzitutto nella scelta medesima della favola : un mito secondario che risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal leggenda di Menelao e Paride a Troja, sembrava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il tragico lo preferi per motivi ch' vano indagare; che forse si assommano nel desiderio di met Elett. vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa " R. Encyclopdie, VII (1912) pag. 2833. terne in risalto il singoiar contenuto. La donna bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sarebbe stata causa unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed errori per altri dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli strali dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti misogini ;  di colpo trasformata nella pi pura e casta moglie che fiaba conosca. Ella ha giurato a Menelao di " morire ma non mai violare il letto  ; n ha giurato in vano, che di morire  sul punto, e attiene la parola, ed  beata di cadere, dice al marito, " vicino a te  (2). E a lei fa degno riscontro (forse troppo) il coniugale amore di Menelao ; che le afferma " Privo di te, io finir la vita  (3). Onde sol pi li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da acquistare gloria  (4). Ora tanta fedelt di affetti traverso anni e vicende acquista il suo pi vero significato quando venga contrapposta all'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone, di cui era intessuta l' Elettra. Fra questa difatti e V Elena le attinenze sono indubbie, non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe pi, spiritualmente : su la fine difatti di quella prima viene annunziato e svolto in breve il tema della seconda (5). E le attinenze divengono palesi quando le due cognate si paragonino fra loro e le due sorti. Clitemestra non  presso Euripide se non la malvagia donna : tale la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i Elena v. 836. (2) Ih. v. 837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg. vezzi durante l'assenza del re. Si difende ella bens rimproverando ad Agamemnone l'uccisione di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s' savia, tutto consenta al marito  ; non  giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo, uomo insigne nell'Eliade (2). No, osserva sdegnata Elettra, tu nascesti cattiva (3) : " tu, prima che fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano appena da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le bionde trecce della tua chioma  (4) : e " la donna che, assente il marito, adorna la sua bellezza, si cancelli come cattiva  (5). Appropriato amico di cotesta non buona, figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia corporea e avventurato sol tanto fra mezzo alle donne. C' dunque nelle due tragedie il riscontro fra due coppie : riscontro a base morale, ma introdotto dall'arbitrio dell'artista in miti privi d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perch introdotto? perch l'arbitrio? Alla domanda che per la seconda volta in breve esame ci si presenta non si deve rispondere se non dopo aver rilevato un altro particolare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi in nulla sforzi durissimi e sacrifzii immensi, si accende di sdegno contro gl'indovini che, prendendo parte all'impresa, non scorsero la verit, non svelarono il comune abbaglio, n evitarono vittime inutili. Dice al suo Signore : " Vedi quanto l' opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v. 1061. (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e menzognere!... Calcante non disse n rivel all'esercito vedendo gli amici morire per una nuvola ; e n pure Eleno : e la citt fu predata in vano. Dirai forse, che un Dio non volle. E perch allora ci rivolgiamo agli auguri ? agli Dei basta far sacrifizio invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii : furono inventati ad allettamnto della vita, ma nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il senno e il buon consiglio sono l'augure migliore  . Per contro  nella tragedia personaggio, non pur dramaticamente notevole, ma anche moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede la virt di saper tutte quante cose avvengono ;  quindi invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un Calcante o d'un Eleno. Ma ella  buona, ella  giusta, ella  savia : sa, ove occorra, tacere al fratello gli avvenimenti pi vicini affinch trionfi la fede amorosa di Elena e Menelao. Perch aver creato questo contrasto ? Che non  fittizio n casuale : Euripide parla cosi per bocca del Nunzio come per bocca de' Dioscuri lodanti Teonoe : esprime in entrambi i casi il suo pi soggettivo pensiero. In questo suo pensiero sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyg, e della purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme di vaticinio. Il poeta  percosso da un'unica ansia, di cui quelle son le forme momentanee ;  morso Elena vv. 744 da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per cui parteggia con simpatia : una moglie onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la figura che crea con compiacenza paterna : un lavoratore dignitoso e saggio ; gli esseri che avversa acre e violento : un bellimbusto galante, una feminetta vana, un augm'e stolto. Da un lato coloro che rientrano nel suo concetto del bene e del giusto ; dall'altro quelli che appartengono al suo concetto del male e dell'iniquo. Ed  dicevole : nessuno pu disconvenire sul principio che regola la sua morale ; solo la espressione pu venirne discussa. Ma quando gli si scruta pi dentro nell'animo ci s'accorge che quel bene e quel giusto egli vuole a pr dello Stato, che VavtovQyg egli reputa degno e capace di governare la pubblica cosa, che di mariti e di mogli simili ad Elcna e Menelao gli piace constituita la polis a scopo di fermezza e quiete politica. Ci s'accorge che il suo occhio mira pi in l d'una teoria morale: mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini ateniesi sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuter di K a poco in disastro immane. I Dioscuri si affrettano a conchiuder V Elettra perch debbon " salvare le prore nel mar siciliano . Il Peloponneso minaccia dal Sud. Negli altri territori! la sorte non volge migliore. E all'interno ? E peggio. La democrazia non d buoni frutti dopo la morte di Pericle. Il partito de' temperati si alterna nel potere con quello degli estremi : ed  tale la EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli uni non attingono il governo se non quando le disfatte han dimostrato rinettitudine degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri non li colpiscano a lor volta. Ogni mutamento  una esperienza; ed ogni esperienza, fruttifera di tosco . Sopra tutti, male comune nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la sete del guadagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui ciascuno informa l'opere se non le parole : ' beato chi  ricco ', ' la ricchezza  potenza ', ' il ricco  libero, anche se schiavo ; il povero  servo, anche se cittadino'; 'l'uomo  il danaro '. E la sete inesausta travolge ognuno in una lotta, ove il pregio morale non conta, la forza intellettiva non importa pi che il tesoro cumulato ; forse meno. Aspra e grovigliata situazione adunque ; difficile a risolversi. Che per risolverla bisognava superarla ; piegar la realt possedendola sino al fondo, conoscendola in ogni forma ed esigenza. E difatti voci di riforma e tentativi d'un rivolgimento costituzionale serpeggiavano e fermentavano all'oscuro : si preparava la rivoluzione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la materia sociale tocc Euripide ; il suo spirito ne fu macerato e sconvolto : per che contro l'immediata e ineluttabile realt dello Stato, ineriva il suo ideale con i pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik (Leipzig 1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne d qui  veduto con gli occhi di Euripide. segui n l'uno n l'altro dei partiti. Fu in vece con la classe di mezzo. Ebbe il cuore con gli adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Menelai del suo mito. Trasfuse l'esigenza politica, che il suo genio d'artista non poteva n doveva sodisfare, in esigenza morale: spostando i problemi dalla sfera pratica a quella etica. E divenne malinconico di speranze deluse e rinascenti. A canto alla tragedia religiosa sussistette nel suo spirito quest'altra: di patriota, di statista, che  a bastanza acuto per vedere i problemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia flebile, nella quale confluiscono, opportunamente, tutte quante le quistioni minori della vita sociale e familiare ; le contese minute su questa legge o quel decreto : le spine sparse lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invettiva contro gli auguri, secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di filosofo evoluto, alla sua coscienza di cittadino probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero dono divino si rivela appunto pel modo del suo uso e la bont delle sue conseguenze. " Attuale  corruccio ancor questo: che favore di auguri aveva secondato l'infausta spedizione siciliana. Cosi tutta Atene pu entrare, ed entra, nell'animo del poeta per tal via: melanconico spiraglio alla pi intensa vita. Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar la materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili 1.religione e della filosofia ; preoccupato dalle sorti politiclie e dalle condizioni sociali della sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto di due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e con VElena^ V Andromeda. Il suo spirito si fece largo, sbito, di fra i particolari minori e grinciampanti aneddoti della saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi imagin la lotta di Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento delle due potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel pensiero di cii raccolse, ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mitografo, la bellezza era constituita dal numero e dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero, ora, del poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore di Perseo e di Andromeda : il congiungersi dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a questo : dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo flusso del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che non sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della tragedia appariva la fanciulla sospesa a una rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi; non lontano  il mare onde la belva vorace verr al selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali di Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda sciagm-a. E notte. All'alba il ketos deve sopravvenire. E nell'animo degli astanti la deprecazione del male imminente lotta con la tormentosa ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su i capi come un mostro informe. " sacra notte, qual lungo cammino con i cavalli percorri, reggendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del divino etra, traverso il santissimo Olim^DO !  : tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore si ribella contro l'asprezza del fato e la trista disparit del dolore : " loerch pi larga parte di mali Andromeda s'ebbe^ che misera  presso alla morte ?  (2). Il Coro s'impietosisce e tenta il conforto dividendo il dolore : " perch chi soffre sente alleviato il suo male, se del pianto fa parte con altri  (3). La sofferenza che sta nel petto, senza sollievo, con la durezza della materia minerale, e non prorompe se non per voci d'ira e suoni di sdegno, non a pena ha inteso il moto compassionevole delle compagne, si discioglie nella rievocazione lacrimosa di tutta la vicenda : la vanit f eminea e il puntiglio divino onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla pena. I presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di spasimo lirico : che si assommano nel presente pianto della figlia punita, e di quel pianto s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara volutt del dolore stesso onde si soffre, e una insistenza : non sposa a nozze, e delle nozze avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza, ma vittima a sacrifizio la fanciulla  recata; non fra i cori delle compagne, si avvinta in funi Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. e tra il compianto virgineo . Ma a rompere Tuniformit di questo tormento, giunge a traverso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal rischio di morte incontro a Medusa: il capo ne reca in Argo (2). E radioso della sua recente gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce prima : "" Dei ! a qual terra di barbari col veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine d'una vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi!  (4). Si fa poi sollecito. E richiede l'avvinta. Ma invano. " Tu taci  la persuade " ma il silenzio  inadeguato interprete del pensiero  (5). Non senza rancuna son le prime parole di quella : " ma tu chi sei ?  ; se non che la forza stessa del dolore la tradisce e senz'altro, per la veemenza del soffrire, non definisce audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu chi sei, c'hai piet del mio male ?  (6). " vergine, ho piet di te che veggo sospesa  (7). Ogni freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era ancora nelle parole della fanciulla si placa. Quel che di vago era nell'animo dell'eroe si concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des Arch. Inst.  XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa scena, nei particolari esteriori,  rappresentata sul cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa la quistione, per, ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura a sinistra di Ermes. (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. Fr. 125, parafrasi. (5) Fr. 126. (6) Fr. 127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi ipoteticamente dato dal Nauck. La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un concento unico di vivace simpatia vicendevole. E alla fine la generosit dell'eroe, la quale si forma adesso assai pi nell'inconscio secreto del cuore desideroso che nella vigoria dei muscoli forti e pronti, erompe in promessa : " vergine! s'io ti salvi, mi sarai grata?,, , Egli si  traditela sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli  premio valevole. Ma quel che ora chiede  pi che una gloria :  il possesso magnifico, Andromeda intende ; se non che il suo animo troppo  ancora tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'illudersi : e lo dice " Non m' esser cagione di pianto, inducendomi speranze! . La risposta, che nasce da l'immensit del suo soffrire, pu parer dura al generoso offertore; l'istinto femineo se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per colpa di te " ma molto pu avvenire contro l'aspettazione...  (2), La speranza di campar la vita non  nata o almeno non  del tutto salda;  nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome del suo passato di vittoria, della sua strenua energia, dell'animo bramoso che lo incende e gli moltiplica le forze, riesce finalmente a trascinarla con s nel sogno, a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora lascia ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde  dato al giovane, oltre l'avanzante mostro oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul Fr. 129. (2) Fr. 131. mare vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi, come tu vuoi, sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi piet di me che soffro tutto; mi sciogli dai vincoli! Perseo combatter difatti il ketos sorgente da " l'Atlantico mare . E gli s'affoller intorno " tutto il popolo dei pastori : a ristoro della fatica, chi recando una tazza d'edera colma di latte, chi succo di grappoli . I principi, " in casa, a torno la tavola del banchetto . Si vuoter il xsiog, la coppa del salvatore (2). Sbito profondo si manifesta, in questa ch' la fondamental intuizione psicologica della tragedia, il progresso rispetto al mito ferecideo. In quello Andromeda non  pi, nel suo intrinseco valore, che una fronda di alloro o un raro cammeo offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La fanciulla  mezzo nelle loro mani ; come  vittima nelle mani di Cassiepea. L'anima le  sottratta: meglio, l'anima non le  data. Euripide per contro ne fa il centro della scena : plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce di sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non comparabile con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella gitta nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si accoglie d'intorno nel compianto di Eco. Ella contrappone il proprio forsennato desiderio di vivere alla sorte tremenda che la vuol morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge, Frr. 132 e 128. (2) Dai frr. 145-148. la divinit di lui si menoma e si abbassa dinanzi la sventiu'a di lei: ella  chiusa in una corazza dura di dolore, ed egli supplica. Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia Andromeda si piega in lacrime, e il giovane venuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di s, ch' per affrontare il ketos, tutta la luce. Ma  parvenza fallace. La vergine lancia al fervido desiderio del prode il grido della sua dedizione, e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua libert che dalla passione forma il volere, del volere compone il proprio decreto. La " Maschia  che nel primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro la belva, era pi vigorosa corporalmente; non era cosi forte nell'interiore spirito. Certo, nella tragedia euripidea, una tanto geniale innovazione doveva sembrare anche anarchica urtando contro le consuetudini legali e morali della vita ateniese; e per ci senza dubbio si dovette velare e temiDcrare agli occhi dei cittadini. E chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo, o prima o dopo, a simulare la sanzione paterna, e a ricomporre nello schema giuridico la mossa ardita della figlia. E fine si manifestava forse, in questo, l'arte del poeta. Ma s'ignora. L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza effetti. L'amore della vergine che prima della lotta trionfale era come offuscato di paura e di speranza egoistica se ben legittima, dopo si vel di malinconia contrastando con gli affetti filiali. " Conducimi con te  aveva esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva grave, aspra la lontananza : era svlta ancora (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla vecchiezza di lui. Accanto al padre, la madre : colpevole,  vero, del rischio; madre tuttavia. Nel doloroso contrasto levasi l'appello al dio che travaglia, a Eros, il quale dovrebbe soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini e Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle o ajuta benigno gli amanti che penano pene di cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo, onorando sarai ai mortali ; non facendo, per lo stesso insegnare l'amore, tu perderai la grazia di che ti onorano  . Calda invocazione che tanto piacque al pubblico perch nella veemenza dell'amante incontro al Dio della sua passione traspare il profondo gaudio, onde, pur nel soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a tollerarlo. Eros soccorrer nel fatto : l'amore vince. Era ancor questa una giunta di Euripide al mito. Ma secondaria: un che di convenzionale la gravava ; non improntandola il segno del pensiero innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione medesima. Per ci lo spirito dell'artista, inappagato, volle nutrir d'altro sangue quel dissidio sorto dalla piet e dall' affetto e dirizzarlo a scopi diversi, pi profondi o pi larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi psicologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo dvjzots al v. 5. Cfr.  VII. politica, quel travaglio complesso di meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera magnificamente arricchire. Quando l'ingegno di lui crede di aver esaurito per una via la materia psichica del dramma, una nuova senza indugio gli s'apre : cessa di toccare la pi schietta ma generica umanit del suo pubblico, per eccitarne peculiari moti e destarne i singolari interessi. Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito, l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro alla difesa della giovinezza e della passione, da lui concette e atteggiate sotto la piti seducente specie: a Perseo e Andromeda fa esprimere il pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a Cassiepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la quistione giuridica o sociale o politica di cui  per far cenno, dalla sola impostatura dei termini si comprende che Euripide, anche una volta, aspira a risolvere una difficolt empirica col criterio non dell' utile e del pratico ma del buono e del bello. La quistione poi non  sola, si consta pi veramente di due. I genitori della vergine s'armano oltre che dei proprii diritti sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il congiungimento degli esseri si trasforma in un contratto economico: nel quale l'eroe detronizzato, e cresciuto da la piet ospitale, ha troppo palesemente la peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia del fastoso re etiopico. Dice l'un parente : " Oro io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche se schiavo, onorabile  l'uomo ricco ; il libero, bisognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della felicit!  . Che importa forza di giovent, ardimento di cuore ? clie importa la gloria immortale, per cui " gi morto, gi sotto la terra, sii venerato ancora  ? Nulla : "  vano : fin ch'uno viva, l'agio gli giova  (2). N basta obiettargli, con l'esempio recente, che si pu per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi nella sventura (3). Risponde, al ricco anche la sventura esser pi lieve che al povero: gi che quello non soffre se non del presente ; questo " ogni giorno spaventa il futuro, che non sia dell' attuale il dolore avvenire pi grande  (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica e il materialismo gretto si assomma in una sentenza : " questa delle ricchezze  la maggiore : nobili nozze contrarre  (5). Euripide ha torto ; la ragion pratica lo deve condannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha torto tanto pi quanto che egli ha lo sguardo non al singolo caso svolgentesi su la scena, ma alla plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale dei suoi concittadini. Ma se il fine propostosi dal tragico non vien conseguito, un altro lo , pi dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di stimolare i cuori. La memoria  recente della sconfitta tcca in Sicilia ;  vivo il lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli de' suppliziati giungono ancora in Atene ; ognuno interroga l' imminente destino; ma le risposte scavano inutili l'aria torbida d'ansie. Su questi spiriti Euripide lasciando Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr.  VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A. Ferbabiko, Kalypso. cader la sua massima morale il suo rigido e teorico principio, se non insegna una via, disgusta del presente cammino. Nel male generico poi rocchio di lui scorge, e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, quarant'anni circa prima deVAndromeda^ Pericle aveva proposto e fatto votare un psfisma, secondo cui si ritenevano illegittimi (vd'Oi) i nati da genitori di cui l'uno fosse non cittadino. E tale legge era durata in vigore di poi fino ad attirarsi nel 414 gli strali sarcastici di Aristofane. In verit se si pensa agli scambii continui fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero gli Ateniesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e decaduti a un grado inferiore, solo per aver contratto unioni con donne straniere. Pericle stesso fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. N solo il sentimento coniugale e l'affetto paterno urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte le esigenze politi clie gli eran contrarie. Se n pure la cittadinanza dello sposo poteva far ateniese, per esempio, una donna nata in citt della Lega marittima, dura e perigliosa barriera si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur del loro ajuto di continuo abbisognava, e su la loro fedele assistenza doveva contare specie durante le guerre infelici. Onde il largo spirito euripideo, il qual tutto accoglieva che agitasse la societ de' suoi tempi, si giov dell'attributo etnico che la saga conferiva ad Andromeda per riproporre al suo pubblico il quesito scabro. Ad Andromeda difatti diceva il padre, o la madre : " Non voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo inferiori, soffrono per legge: da questo  necessario che ti guardi . L'accortezza artistica di un cosi fatto mnito  pari alla profondit del problema toccato. Perseo accoglie su di s le simpatie non pur dell'autore si del pubblico, per la sua generosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia la eventual vittima della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il cattivo genio della tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio intiero contro il decreto e gli strappa, non per raziocinio ma per sentimento, il solenne biasimo. Aristofane muove a riso se un suo cotale perde l'eredit a causa del psfisma periclo. Eurij^ide indigna se fnge Perseo offeso non nell' avere ma, dopo un estremo rischio, nel giusto compenso d' amore. All' architettura passionale la scenica doveva corrispondere per modo che non s'adombrasse alcuno n dell'anacronismo n dell'irrazionaUt (2), di cui qualche mediocre spirito potrebbe menare grande scalpore. Anacronismo e irrazionalit era difatti mostrare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto che so ? di Pericle e Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano essi indizio d'un' alterazione del mito ben pi profonda ed esiziale di quella operata dalla genialit iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di Fr. 141. Cfr.  VII. (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e acuto studio di G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (Torino 1903). rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti fra la nostra essenza umana e le favolose vicende. Invece, una volta intrusi fini di riprensione politica e di biasimo sociale sopra la trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e asservita. Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del ketos, affronta problemi proprii dello statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che, al medesimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di Cassiepea : quegli immette nel mito la societ, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano r antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si assiste cosi a una penetrazione successiva e graduale del fenomeno solare nella sostanza umana. Ma quanto pi l'assorbimento procede, tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di maraviglia cui si presta la fede non razionale ma fantastica: tanto meglio si tramuta in paradigma d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In vero, dopo che Perseo  divenuto pretesto a un problema giuridico, egli  per diventare l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni : segno che gi l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla vita con nuovi sottili filamenti, che non valgono per le sue prime rigogliose radici. Mentre da questo lato la leggenda si profonda verso la terra, per l'altro richiama al cielo i pensieri. Il religioso spirito di Euripide non manc di agitare, anche per Andromeda e Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede. Quanto e come,  impossibile dire: solo per barlumi s'intravvede alcunch : " Non vedi come la divinit sconvolge la sorte ? in un giorno ri EUKIPIDE 85 volge l'un qua l'altro l Quegli era felice ; lui, un dio oscur dell'antico splendore: piega la vita, piega la fortuna con lo spirar dei vnti  , " Non v'  mortale che nasca felice, senza che in molto l'assecondi il Divino  (2). E ancora: " La Giustizia si dice esser figlia di Zeus e seder presso ai falli degli uomini  (3). N manca un moto d'ira contro la divinit che ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma  espresso in forma accorta e velata : non avverso a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ubbidito loro. " Spietato  quegli  dice ad Andromeda il Coro " che dopo averti generata, o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade in favor della patria !  (4). Di questi frammenti il principale, da cui traggono luce gli altri,  intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo, rimastoci della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe balzino su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia per inscriverle entro le tavolette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda giustizia ai mortali? L'intiero cielo non basterebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli uomini ; non basterebbe Egli stesso a tutti esaminarli e aggiudicare le pene. Aprite gli occhi : Dike [non  l su: ella]  qui basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha un concetto di giustizia Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel secondo, Tv al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr. 151. Leggo f^aQziag, non TifioQlag. (4) Fr. 120. (5j Fr. 506. a cui non vede rispondere n l'opere n i decreti divini, a cui gli pare meglio s' addica la condotta degli uomini. Per lui v'  disaccordo fra Zeus eDike: questa non pu seder presso quello. Per lui v' incoerenza fra colpe e pene: queste mal rispondono a quelle n sempre presso al " fallo dei mortali  abita Griustizia. In verit: un re felice  tramutato in infelicissimo per l'ambizione di talune iddie ; un eroe vittorioso non ha la gioja del premio e deve superare nuovi contrasti; la figlia  punita per la madre. E pure tutto ci vogliono gli Dei dall'alto. Che cos' dio? che cosa non dio? che cosa semidio? La domanda angosciosa, l'eterna del dubbio tragico, - ritorna, e accompagna, in tono minore, il concerto delle passioni eroiche e dei problemi sociali. Ma cotesto non  pi mito. E critica del mito : in quanto esso contiene un ricco elemento religioso. Critica singolare per : che  insieme atto di negazione e atto di fede. Euripide accetta la leggenda, la narra senza alterarne il lineamento essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un legittimo procedere della divinit. E la sua risposta ha un sottinteso profondo. Egli potrebbe difatti negar di credere al racconto per le azioni che vi sono attribuite agli Dei. Al contrario, perch le sente, dopo averle psicologicamente vivificate, umane e, come umane, verisimili, se ne fa una base al suo dubbio di filosofo. E una maniera di sceverar, nella fiaba, la incorruttibile verit, il dolore l'amore la morte, dalla verit caduca, onde sorgono gli aspetti e le forme divine. Se non che essa verit caduca non  morta, ha vita in assai spiriti ancora: quindi la ribellione  difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi impacci  un travaglio. E il tentativo di ripossedere totalmente il mito fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu adunque, dal genio artistico di Euripide investito il problema che la leggenda eroica di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero. Della leggenda la sostanza umana fu la pi riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito creatore si profond con la sua potenza d'intuito da un lato, con le sue preoccupazioni di politica da l'altro; quella per cui l'animo si compiacque della finzione antica, e la godette ricreandola. L'elemento divino fu contemplato con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnatamente. Al di sopra si conservava intanto la patina eroica, lo splendore delle avventure, la maest delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.; reca il capo di Medusa; trionfa di un mostro orrendo : v' quanto basta perch chi s' appaga dell' ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, immensamente lontano. Non si sa se nella tragedia avesse luogo, come nel racconto di Ferecide, l'ostilit di Fineo e il duello fra i due rivali: certo questo fu, se mai, un fatto di pi, non un sentimento nuovo: rientr insomma nella sfera estrinseca eroica della tragedia. Ma sostanza umana, elemento divino, vernice romanzesca non trovarono la loro sintesi se non nell'unit dello spirito euripideo : sintesi che non  concordia logica, n armonia estetica ; si bene vita in angoscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicologico e l'affanno politico e il dubbio religioso si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo, la sorte di Perseo assommano in un solo vivo vertice le divergenti passioni dell' intera tragedia. Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per ravvisarla una, oltre le superfcie molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui pot identificarsi anche il popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque e in cui fu rappresentato il drama. Preoccupato del pari, aveva sotto gli occhi uguali spettacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli spettatori come al poeta il fato travaglioso dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli Dei, suscitando il dubbio d'una vera Dike, si tramutava a poco a poco in un'altra angoscia pi sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate vicende della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende argivo, si  quasi fatto cittadino ateniese dinanzi gl'inconsci risguardanti, da quando un psfsma di Pericle viene opposto al suo amore; si  quasi fatto simbolo concreto e doloroso di Atene, da quando il suo impulso ideale vien premuto dalla material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude ha la maschera ambigua dell' avvenire che attende, lontano, la Citt confusa. A lui definisce la sorte Atena, apparendo a predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo, l'assunzione in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tramutati in constellazioni. I problemi umani della sua vita sono tronchi da un intervento divino : non resoluti. Onde pi tragico ricade sugli ascoltanti il timore per le imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace del mistero che regola le fortune terrene. Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico del mito compaginati negli spiriti di Euripide e del primo suo pubblico, non significa che si fosser fusi nell'opera d'arte: perch la scissione pu, nello spirito, comporsi per il dolore medesimo di cui  causa; ma rende, senza dubbio, disarmonica la forma estetica che la esi^rimeQuindi l'unit  momentanea, non stabile. Le diverse materie della leggenda si serbano disgregate e inorganiche. E, non potendosi nel tempo, se non per via di critica, riprodurre identico l'ambiente spirituale del tragedo e dell'et che fu sua, le innovazioni che al mito ne erano derivate non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond'  che il drama nella storia della fiaba rappresent una pausa senza echi. Dopo Euripide. Si assiste, nell'ulteriore vicenda del mito, a un lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad Euripide, il processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza verso una poliedrica complessit: onde naturalismo e novelHstica s'eran da prima complicati insieme, avevan avuto giunta dal romanzesco, per attingere il sommo della pienezza nel dramatico travaglio del pensiero religioso e politico, il vertice dell'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo Euripide, la parabola discende sino ai confini d'una pi consueta mediocrit: si che par nel principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi se non il midollo originario della fiaba, ma si mostra poi ch'esso medesimo  presso che inaridito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza alle fogge giovanili, acerbe pi che esigue; si bene lo spirito che negli inizii verso lei convergeva intiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si immerge in altre creazioni. L'impoverirsi della leggenda di Andromeda  parallelo al formarsi del disinteresse mitico; ed  quindi preludio d'un nuovo stadio spirituale, in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e riempire un altro : maggiore. Il lamento ch' solito allo storico del mito si deve ripetere ancor qui: assai fu perduto che ci avrebbe di molto giovato nello studio di cosi fatta decadenza mitica. Non son pi che quattro gli autori, in cui ci ritorni il racconto del ketos; ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa caratteristica. Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con l'altre ancor questa favola, si riconnette a Ferecide : muove ci , non dalle forme eh' essa aveva assunte nei pi vicini tempi, ma dalla sua origine. N vi aggiunge gran cosa ; al pi, pio ti) Dal numero  escluso Igino Fav., come quello che contiene varianti di particolari, ma non imprime d'un propi'io segno la fiaba. coli insignificanti particolari; qua e col, quasi in margine, ferma la notizia d' una tradizione alcun poco diversa dalla ferecidea. Chi legga distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia intenti d'investigazione erudita : nel che si appalesa dunque la caratteristica di questo strato evolutivo. All'autore che la narra la leggenda  morta:  cadavere che egli ricompone fra bende, con qualche cautela, a fin che poco di quelle membra che furono organismo vada disperso. E vi sono ragioni pratiche per cui, nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo compilatore ; presso il quale  gi armonia di contesto e compiutezza di termini. V', inoltre, una ragione pi alta, intima alla logica dello sviluppo storico, onde Euripide dev' essere taciuto : la singolare opera di lui non ha vinto, e la volgata con tutte le sue piccole e grandi varianti  oltre; pi sopra o pi sotto, non importa ;  distinta e prevale. Quindi ben fa chi compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le produzioni libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; gi che la distinzione deve valere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo. Se non che tale aspetto non fu del solo Apollodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure non nell'atto materiale del suo lavoro, certo nella sfera fantastica della sua mente, da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali intuizioni della saga. Ci sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ; la ricchezza dei gesti e dei movimenti nei personaggi ; il pathos sobrio dell' idillio fra i due giovini. Ciascuna di queste intuizioni  ripresa e svolta a costituire l'ordito del racconto; e sol tanto entro i loro limiti il poeta si concede di imitare altre fonti, sia pure Euripide. Il romanzesco imprenta tutto quanto il compatto manipolo degli esametri tra la fine del quarto e il principio del quinto libro nelle Metamorfosi. Sottinteso costante e necessario  il miracolo della potenza oltreumana: dal volo che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virt del capo gorgoneo che termina l'episodio. In apparenza per Ovidio non se ne compiace con la maraviglia schietta di Ferecide ; si tenta di comprimerlo in termini di umanit. E fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce convito vien paragonato a nave rapida: onde n' ridotto il confine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra con l'empito discendente dell'aquila: non insolito spettacolo. Ed essa belva si dibatte a simiglianza di cignale fra cani in torma : scena cui  abitudine nella vita comune. E lo scoppiar degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria dell'eroe richiama l'eco dei fragorosi anfiteatri. In realt, queste similitudini umane riescono una pi sicura esaltazione dello stupefacente: necessarie perch le intuizioni si concretino, escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano una plasticit chiusa e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto e terreno : utili, di pi, per creare, di l del riscontro, il contrasto fra lo straordinario e il normale. Si compie qui, accanto a un magistero d' arte pi evoluto che vede i particolari e li esprime non li accenna, uno sforzo per accrescere la distanza di cui separasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo del verso. A che fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due riprese, il racconto. In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo di Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo stuolo dei congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione estrema a l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero ; che ciascuna di quelle trasformazioni ha importanza speciale, n pu valere se non congiunta con la prima o la seconda delle scene in cui il racconto si divide. La prima  intorno alla venuta di Perseo, al duello con la fiera, alla vittoria . Novamente da l'una parte e da l'altra egli si avvince con le penne i piedi ; della curva spada s arma : e il limpido etra fende movendo i talari. D'intoi'no e di sotto innumeri genti lasciate, scorge le schiatte etiopiche e i campi cefi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che l'incolpevole Andromeda della materna lingua scontasse le colpe. Lei come l'Abantade vide, avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse agitato i capelli n gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo l'avrebbe creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto dell'apparsa IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus (Berlino 1914). bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria. Si ferma. "0 tu dice degna non di queste catene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi amanti, il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e perch porti legami . Si tace ella da prima n osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani celerebbesi il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, e poteva, di sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste pi spesso, svela, perch celar non sembrasse delitti suoi proprii, il nome della terra e di s, e quanta fosse stata fiducia della materna bellezza. Ancor non compiuto il racconto, l'onda risuona : avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta sotto il petto acqua soggioga. Stride la vergine. Doloroso il padre, e insieme la madre  presente : miseri entrambi, pi giustamente questa. Non recano ajuto con s, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di lacrime molti giorni vi potranno restare ; a porger salvezza  breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, Perseo nato da Giove e da quella che rinchiusa Giove f' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone anguicoma, e per gli spazii etrei agitando le ali volatore ardito, sarei qual genero a tutti, per certo, anteposto. A tante doti io tento di aggiungere un benefizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore salvata, sia mia, fo patto,. Accettano (chi avrebbe per vero esitato ?) e pregano, e promettono inoltre in dote il lor regno, i genitori. Ecco, quale nave veloce solca col prominente rostro le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale la fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto dalla rupe distava, quanto del cielo interposto possa Balearica fionda col piombo vibrato varcare : allorquando d'un sbito il giovane, da i piedi respinta la terra, alto si leva verso le nubi. Come alla sommit dell'acque fu vista l'ombra dell'uomo, s'infuria contro la vista ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga concede, da dietro lo afferra, perch la nefasta bocca non torca, e figge i bramosi artigli nella cervice squammea; cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della fiera fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Inachide le nascose il ferro, fin dove  ricurvo . Laniata da grave ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si asconde nell'acque, ora voltando si avventa a guisa di fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga soprasparse di cave conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove la tenuissima coda si termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella con la spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti misti con purpureo sangue. Le penne asperse s'appesantiron madide : n Perseo osando pi oltre affidarsi a' zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo vertice l'onde supera chete,  coperto da l'onde agitate. A quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i gioghi estremi, tre quattro volte inferisce la spada nei fianchi colpiti. D'applausi il clamore riempie la spiaggia e le superne case de' Numi. S'allietano, lo salutano genero, ausilio della schiatta e salvator io proclamano, Cassope e Per avere una idea precisa della " spada ricurva, " falcata  di Perseo e per comprendere il v. 720 {curvo tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr. ti. R. Mythologie III 2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine, della fatica e causa e premio. Egli in acqua attinta purifica le vincitrici mani : e perch dura non offenda l'arena il capo gorgoneo, f' molle di foglie il terreno, virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide. Il recente virgulto, dal succoso midollo ancor vivo assorb la forza del mostro, al contatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in pi verghe e con gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su l'acque, ancora ai coralli la stessa natura  rimasta, che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ci ch'era verga nel mare, sopra il mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio cui s'abbandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si termina, col libro quarto, il primo episodio, per s stante, del mito. Chi lo cerchi pi a fondo, deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra Perseo e Cefeo con Cassiepea. Vibra, ivi, il sentimento attorno cui Ferecide aveva trovato raccolta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sordina. Un che d'ignoto par che l'attenui come d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustificandosi tutto il successivo evento appunto dal sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa del padre. Anzi, se l'origine dei coralli  il vertice avventuroso del racconto, questa scena a l'inizio dovrebbe esser il perno sentimentale o, meglio, umano. Ora in ci a punto  la causa del poco rilievo concessole dal poeta. Il suo senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire "iin elemento disgregatore, una disarmonia nell'opera: e la passione tramut in accordo nuziale. I due protagonisti impiccioliscono visibilmente: ella s'induce a rivelare allo straniero il perch di sua xDOsitura " a fin clie non sembri celare colpe sue proprie , e accusa la madre: egli sciorina dinanzi ai piangenti genitori, mentre la belva avanza e il terror tragico martella i cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene onorevole genero al re. I pi generosi appajono, poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore danno, con la figlia, il regno! Si che l'artista fu, in questo argomento, volubile ; n gli soccorse alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui  capace in altri casi. I soli accenni pi appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo per l'aria, e il pudore silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza numerica della forma cela l'esiguit della intuizione. Il romanzo gli ha, non pur scemato, ma un poco anche guasto la vita. Dopo che tra grande esultanza si sono raccolti a banchetto nuziale il re e la regina con la figlia e il genero nuovo, si fa innanzi Fineo. E l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo gi fidanzato con Andromeda ; il quale non ha avuto il coraggio di liberarla col proprio rischio ; ma tenta ora di riaverla quando il ketos  ben morto. Mentre fra mezzo alla schiera cefena quell' imprese l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie Le precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ; sorge un clamore, non di canti alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E i conviti mutati in sibiti tumulti potresti assomigliare a golfo che, quieto, sollevi in onde commosse la fervida rabbia dei vnti. Primo Fineo tra quelli, temerario autore della contesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta, " Ecco  dice * ecco, mi avanzo a vendetta della carpita sposa. N a me te le penne, n sottrarr Giove in falso oro converso  . A lui clie tentava scagliare, Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge infuriato al delitto ? tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa mercede compensi la vita di lei ch' salvata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo a te, ma l'aspro nume delle Nereidi, ma il corngero Ammone, ma quella belva del mare che veniva per farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a morire. Se non se, crudele, ci stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del nostro dolore. non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno salvata, e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da quegli scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual lo richiese, pel qual non  orba questa vecchiezza, si porti quanto con opre e parole pattu ; e comprendi come lui s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a . Non cede Fineo a' consigli del fratello, anzi  forse inutile ricordare che, secondo il mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal soffitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. comincia il combattere. E il racconto si distende lungo per circa due centinaja di versi : che la battaglia  seguita ne' suoi particolari con abbondanza di nomi di persone di gesti. Il tumulto  grande . " Le congiurate schiere d'ogni lato combatton per la causa che impugna inerito e fede. Per questi il vanamente pio suocero, e con la madre la nuova sposa, son favorevoli, e d'ululato riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti . Per poco ancora dura la lotta. " Per quando alla turba soccombere vide il valore, Perseo : " Poi che mi costringete voi stessi, ausilio richieder al nemico. Rivolga il viso chi, propizio,  presente  : e trasse il capo della Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti commuovano!  esclam Tscelo; ma, mentre con la mano apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal gesto rimase statua di marmo,. All'ultimo  prostrato, dopo assai altri come Tescelo irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : " Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impietrante della tua Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio ci spinse a contesa, n brama di regno ; per la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa per opre, pel tempo la mia. Non m' grave di cedere. Nulla, fortissimo, fuor che quest'anima concedi a me! tuo il resto ti sia . A lui, che cosi parlava, n risguardare ardiva quello cui con la voce pregava, rispose : " Ci che, o timidissimo Fineo, concederti posso, ed al vile  dono ben grande, lascia il timore. ; la parafrasi  dei vv. 150 sgg. ti conceder: da ferro non sarai violato. Che anzi vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre, nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la mia sposa da l'imagine del fidanzato abbia conforto . E lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che nel principio commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di statue, di cui ciascuna serba, nella fissit, un gesto di vita. Ed  qui a punto il cardine del secondo episodio mitico: efficace trapasso per il quale la compiacenza ferecidea verso la riccliezza del movimento e l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di armoniosa bellezza. Che  quasi esclusivamente merito di Ovidio; come di quello che, sviluppando a s tutta la seconda parte della leggenda, la equilibr con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inser nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignit n di un grossolano sale. Se bene gi questa non era una giunta che compiesse, si pi tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo nella pi stucchevole prolissit. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza garbo n acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrit s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or l, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialit psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo  nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, n ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la tent con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai per, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realt lo spirito  distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca . Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra s quattro ciance.  un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno d le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e ov' la bellezza dei volti? con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' pi recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una lontananza. Ma la terra  presente . Tritone e le Nereidi. Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non f' danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso gi esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come sca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli uccise il ketos. If. E perch, o Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dir tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via  difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto l dove dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli pot tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le guardi, non vedr altro dopo di esse. Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero vol via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, gi basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o di !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli mostr la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurr in Argo : cosi che in luogo della morte ella trov un marito, e non comune. Ir. Io gi dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava vanto e riteneva d'esser pi bella ? DoB. Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. Non rammentiamo pi tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarl un po' pi del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra  presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, pi, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era pi semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  il primo ingresso dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via  difficile . Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! . L'inverosimile  al colmo. Da quel momento Tritone pu continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perch Perseo fu " preso da amore  per Andromeda? Risponde: " bisognava salvar la fanciulla . Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in esso quella non  causa sufficiente e appropriata ; bens smaschera l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed  la stessa che avevan fatta, pi coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali  rilevato come stromento mitopeico perch Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque,  deduzione implicita, ci fu una interessata volont, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito  favola che imagin taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha pi una base di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: per che il pensiero da cui sono animate , non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; n dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, n pu sussistere adesso. La fiaba  stata svlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica  tuttavia indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina n pure con la luce della sfera pi alta le tenebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccnto si diparte : le  anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini . Si che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria. N Luciano n Manilio accennano a Fineo. Se per ci si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel drama, non  a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro n ebbe attinenze col ketos. Per contro  notevole che non essi, come non Apollodoro n Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta adunque una singolare originalit ch' in contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza psichica, che dell'originalit  la causa diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi  il nome di Pergusa e di Pergo era nella antichit, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i . La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin da Panrmo da Drpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: per elle di l la Dea, la quale  nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'et vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichit asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto . Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano pi intimo e sentito. N la memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un pi saldo fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e mito. CicER. in Verr. IV 106. IL MITO SICULO.  probabile che gli avvenimenti seguissero cosi . Enna, nella sua forte positura montana,  da presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla trib dei Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'et micenea, nel sec. IX avanti l'ra. Le coste, pi agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perch fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'et eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com' ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n', fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle pi vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturit mentale, su gli di, su le fiabe, di questa trib in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinit concede bens volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ci la congettura ancor che acuta lascia intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per s pi e pi secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinit della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinit delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra s lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del seme ; il pi maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinit sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro gradi pi recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto.  un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo :  un germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorit su le mogli e i figli ; ed  morto lasciando nella dimora le cose tutte che gi furono segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed  morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erch l'ombra di lui non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre  ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la divinit del Padre  prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono per sensi d'affetto di gran lunga pi svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed  processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma  comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui gi  andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli iddii agresti su dalla natura  diversa da quella dei A. Febeabino, Kalypso. 8 familiari su dalla morte, non mancano, tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente,  ben noto. Ma nel caso speciale anche pi efficace influenza vi doveva essere. Per che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perch sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perch protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma anche maggiore,  l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne di quel mistero ch' la vita. " Schiatta senza pi seme   in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco : e intende il talamo maritale . E o pu sembrare un antropomorfismo capovolto : una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realt, deve pi tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria,  padre della pioggia, e i campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo antichissima: perch, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione umana, quanto della produzione terrestre : e perch  contraddistinta da una elementare semplicit, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a s costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinit dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro  abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s' indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto per sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondit sotterranea, tanto, e pi, sono palesi tra il campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virt. Dopo che il tralcio ha forato la crosta del suolo, e s' vestito di pampini, e s' onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti. Dopo che la spiga s' eretta a sommo del culmo perch l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elabor il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione deglarii e sullantichissima romana, in SANCTIS (si veda), STORIA DEI ROMANI I (Torino) capp. Ili e Vili.  ormai ricca la mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccit o squassato dai vnti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arste ; la seminagione e il riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo  senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiam i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiam in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribu. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia  rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegn lo sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella probabilit storica la congettura pu affermare della originaria saga sicula. Per che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di s, sopraffatta, pi tardi, da nuove vicende, e non fermata, quel che pi importa, in canti che il pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di pi ch' vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi , e rester, nelle tenebre. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapass la leggenda furono, secondo  verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella pi vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Elini, questo ha gi raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale  da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'ra , la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicit costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo pi ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto  tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto per cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto  cercata, com' ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, pi rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturit mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta pi ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo  da scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes The homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. i pili arcaici personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : per che essi fossero i pi adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre  su la " Figlia  perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. N l'originario lor valore  al tutto obliterato nel carme; se bene non vi permanga senza alterazione. Di pi, altro segno di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura  precisa perch risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio  figlio di un certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le due principali Dee del racconto, le divinit agresti, hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra , ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare :  delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia  tolta X3er tradimento ;  d'altra parte padrona della vita degli uomini, che pu prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virt germinativa. La Figlia, in greco " Cora , spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov' vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico d seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  dea,  bella,  ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume rapitore  " Ade  o " Aidneo  ; signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede Persfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui  padre, appar fratello di Demetra : Zeus, risplendente face della terra,  germano di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perch s'elidevano l'una con l'altra, Cora e Persfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poich il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e religiosa che ne scatur tenne delle due onde fu composta, ma risult armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e austerit fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben pi ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi pi precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apport in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso n senza coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi , pi che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature mitiche. Intercalato per nel mito  un lungo racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto , assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Cleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofnte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalit ; onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virt sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sar libero di morte. Ma per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittlemo Eumlpo Diocle e Polissno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra  dunque indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturit di pensiero e soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un venerando colore di antichit sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione . All'uno e all'altre  sostrato un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora  rapita da l'Ade, gli uomini conoscono gi l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva  (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno  ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi  contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra  la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo,  giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanit siasi trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari eleusinia, pu dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre gi nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perch il rapimento di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verit non avrebbe pi modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch' acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi sub,  vero, non pochie, sviluppando a s tutta la seconda parte della leggenda, la equilibr con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inser nella sua materia anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignit n di un grossolano sale. Se bene gi questa non era una giunta che compiesse, si pi tosto una intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo nella pi stucchevole prolissit. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza garbo n acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrit s' intende quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or l, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialit psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo  nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il cuore del mito, n ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la tent con approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai per, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realt lo spirito  distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo dopo, il pensiero umano  molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca . Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando ; il ketos  a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra s quattro ciance.  un mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno d le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e ov' la bellezza dei volti? con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' pi recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una lontananza. Ma la terra  presente. Tritone e le Nereidi. Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non f' danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso gi esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come sca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli uccise il ketos. If. E perch, o Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dir tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la via  difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto l dove dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli pot tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le guardi, non vedr altro dopo di esse. Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero vol via. Come poi giunse a questa spiaggia d'Etiopia, gi basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o di !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra gli mostr la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurr in Argo : cosi che in luogo della morte ella trov un marito, e non comune. Ir. Io gi dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava vanto e riteneva d'esser pi bella ? DoB. Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. Non rammentiamo pi tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarl un po' pi del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra  presente. E nei gesti che si sottintendono ; e, pi, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era pi semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo :  il primo ingresso dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle pensano a una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via  difficile . Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! . L'inverosimile  al colmo. Da quel momento Tritone pu continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perch Perseo fu " preso da amore  per Andromeda? Risponde: " bisognava salvar la fanciulla . Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in esso quella non  causa sufficiente e appropriata ; bens smaschera l'artificio del mitologo, e mostra la passione inventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica, diremmo oggi. Ed  la stessa che avevan fatta, pi coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali  rilevato come stromento mitopeico perch Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefciato ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire Dunque,  deduzione implicita, ci fu una interessata volont, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito  favola che imagin taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la leggenda non ha pi una base di fede, si una di scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: per che il pensiero da cui sono animate , non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; n dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, n pu sussistere adesso. La fiaba  stata svlta da l'anima, e respinta al di fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica  tuttavia indizio di un sopravvissuto interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue l'andazzo letterario, e non illumina n pure con la luce della sfera pi alta le tenebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo spunto, donde il raccnto si diparte : le  anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di accoglienza fra i Latini . Si che qui si misura, con precisa esattezza, il regresso dell'efficacia leggendaria. N Luciano n Manilio accennano a Fineo. Se per ci si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel drama, non  a dirsi. La natura del tema, in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro n ebbe attinenze col ketos. Per contro  notevole che non essi, come non Apollodoro n Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito, scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen 1913) II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa leggenda, sta adunque una singolare originalit ch' in contrapposto ad un tempo con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza psichica, che dell'originalit  la causa diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare, non lungi a un lago cui oggi  il nome di Pergusa e di Pergo era nella antichit, sopra una larga groppa dei monti Erei (2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi, la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive si citano i . (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte fin da Panrmo da Drpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: per elle di l la Dea, la quale  nume ad un tempo del matrimonio e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'et vetuste le case dei numi ed i riti sacri. E l'antichit asseriva riconosciuta da ogni popolo senza contrasto . Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che le arcane leggende dei primordii rendevano pi intimo e sentito. N la memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che s'ignoravano allora, riesce a dare un pi saldo fondamento alla credenza di quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffcilmente serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV 106.  probabile che gli avvenimenti seguissero cosi . Enna, nella sua forte positura montana,  da presumere fosse uno dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla trib dei Siculi ebbero a cercar rifugio sul finire dell'et micenea, nel sec. IX avanti l'ra. Le coste, pi agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori troppo ben armati perch fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'et eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la vita civile dei Siculi ; tra cui, com' ovvio, prendeva consistenza anche il pensiero religioso, con la leggenda divina che n', fra gli Arii, foggia consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio informati su gli oggetti delle pi vetuste necropoli e su gli stili loro, che non su la maturit mentale, su gli di, su le fiabe, di questa trib in quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e nella Grrecia. L'affinit concede bens volontieri l'analogia; ma questa deve, sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ci la congettura ancor che acuta lascia (Ij Cfr.  1 e III. 112 III. - intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per s pi e pi secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinit della luce e del cielo, e sopra tutto fra le divinit delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra s lontane. Il naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del seme ; il pi maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra una divinit sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro gradi pi recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina intorno al suo proprio culto.  un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo :  un germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che  morto dopo aver in vita esercitata la suprema autorit su le mogli e i figli ; ed  morto lasciando nella dimora le cose tutte che gi furono segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed  morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erch l'ombra di lui non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre  ripetuto. E quando, anche qui, la intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la divinit del Padre  prossima a precisarsi. Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono per sensi d'affetto di gran lunga pi svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed  processo comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma  comparativamente vetusto se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui gi  andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione originaria degli iddii agresti su dalla natura  diversa da quella dei familiari su dalla morte, non mancano, tra le due, attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su l'altro, vicendevolmente,  ben noto. Ma nel caso speciale anche pi efficace influenza vi doveva essere. Per che la terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, la famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza; perch sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perch protegga i suoi che lo placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma anche maggiore,  l'attinenza tra il concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la rinnovazione perenne di quel mistero ch' la vita. " Schiatta senza pi seme   in Omero la schiatta che muore. Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco : e intende il talamo maritale . E o pu sembrare un antropomorfismo capovolto : una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realt, deve pi tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18. morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria,  padre della pioggia, e i campi hanno dopo il raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo antichissima: perch, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione umana, quanto della produzione terrestre : e perch  contraddistinta da una elementare semplicit, che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che figura gli Dei a s costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinit dei campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia che duro  abbattere una quercia; sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s' indugiata prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto per sono facili rapporti fra la zolla feconda e l'invisibile profondit sotterranea, tanto, e pi, sono palesi tra il campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virt. Dopo che il tralcio ha forato la crosta del suolo, e s' vestito di pampini, e s' onusto di grappoli, l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti. Dopo che la spiga s' eretta a sommo del culmo perch l'aria l'impregni, da la calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per converso l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono in desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elabor il mito. E tutti i concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili.  ormai ricca la mente, le fiabe che possono esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito dalla siccit o squassato dai vnti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e l'abbondante capellatura delle arste ; la seminagione e il riposo invernale: posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo  senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiam i riti degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze richiam in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribu. Disse il lamento della Madre biada cui la biada sua Figlia  rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegn lo sfondo delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella probabilit storica la congettura pu affermare della originaria saga sicula. Per che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di s, sopraffatta, pi tardi, da nuove vicende, e non fermata, quel che pi importa, in canti che il pregio dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o tutto il di pi ch' vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata tra veli mistici. Oggi , e rester, nelle tenebre. n. Il mito greco. E certo tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapass la leggenda furono, secondo  verisimile, a un di presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella pi vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Elini, questo ha gi raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale  da attribuire, sembra, al secolo VII avanti l'ra , la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicit costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo pi ampio, oltre il singolo momento. La figlia pertanto  tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto per cbe abbia ad intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto  cercata, com' ovvio, nell'essersi ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, pi rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a rivelare cotesta sostanziale maturit mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta pi ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo  da scorgersi nella presenza di Ecate " bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali, giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes The homeric hymns (London LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi entrati su la scena accanto ai protagonisti : per che essi fossero i pi adatti (ognun lo nota) a informare la " Madre  su la " Figlia  perduta, essi che son gli occhi diurni e notturni del cielo. N l'originario lor valore  al tutto obliterato nel carme; se bene non vi permanga senza alterazione. Di pi, altro segno di compiutosi progresso mitico, nell'Inno ogni figura  precisa perch risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e una teogonia. Ciascun Dio  figlio di un certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben suo. Le due principali Dee del racconto, le divinit agresti, hanno assunto definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra , ha profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare :  delirante nel suo dolore di madre cui l'unica figlia  tolta X3er tradimento ;  d'altra parte padrona della vita degli uomini, che pu prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virt germinativa. La Figlia, in greco " Cora , spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov' vegetazione, e le grazie della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore naturalistico d seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra :  dea,  bella,  ingenua, e le vergini Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale individuata determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia che vedemmo pili sopra . L'infero Nume rapitore  " Ade  o " Aidneo  ; signoreggia su la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio  un vortice travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede Persfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui  padre, appar fratello di Demetra : Zeus, risplendente face della terra,  germano di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perch s'elidevano l'una con l'altra, Cora e Persfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poich il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura leggendaria e religiosa che ne scatur tenne delle due onde fu composta, ma risult armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e austerit fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla tradizione una trama di leggenda ben pi ricca che la povera da noi ricostruita per Enna ; i^ersonaggi pi precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apport in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso n senza coscienza, al meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in un fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi , pi che in ogni altro senso, in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature mitiche. Intercalato per nel mito  un lungo racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra un sasso, " la pietra del pianto , assumendo l'aspetto d'una vecchia donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Cleo, e l'intrattengono col chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira, accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure. Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo Demofnte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalit ; onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non combusto, si accresce di vigore e acquista la virt sovrumana. Se non che Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura, urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sar libero di morte. Ma per compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittlemo Eumlpo Diocle e Polissno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra  dunque indirizzata tutta questa ampia parte del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturit di pensiero e Yv. 91-304. soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un venerando colore di antichit sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione . All'uno e all'altre  sostrato un'idea r)rincipale che importa porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora  rapita da l'Ade, gli uomini conoscono gi l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame periva  (2). E solo dopo la sentenza di Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente anno  ritorna in terra la gloria del biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi  contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra  la biada il cui chicco scompar sotterra per germinare e risorgere culmo,  giusto che le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanit siasi trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che, per essere del pari eleusinia, pu dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di maniera che la violenza di Ade  causa, oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che ricorre gi nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica, col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perch il rapimento di Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verit non avrebbe pi modo di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch' acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi sub,  vero, non pochimutamenti, n tutti soltanto di particolari; giacch, dovunque a Demetra e Cora fosse culto, divenne costume lecito alterare la saga per adattarla alle esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni essa si ergeva con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un Comune per attingere gli estremi del mondo colto. Unica pu starle a paro, per intima vgoria di concepimento, e per potenza espansiva, la favola composta nell'ambito di quel moto filosofico e religioso onde il pensiero greco, e specie nell'Attica, fu travagliato al tempo dei Pisistratidi, moto che conosciamo col termine di " Orficismo . Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova veste di nomi e nuovo intreccio di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici ; ma non tutti i suoi particolari ci importano qui : quelli soltanto che furono poi efficaci sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna. Per che tutt'e tre, la proto e neoattica e l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche con la siciliana, tenace per antichit, infantile per incompiutezza. E dall'incontro scaturiva un lungo moto di storia. in. Il mito siracusano. I Siculi, che si erano ritirati su i monti dell'interno perch incapaci di resistere ai predoni dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che in Enna avevan con pi insistenza fissato il lor mito agreste, lasciarono nello scorcio dell'^TH secolo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via, divenendo sempre pi salde pi ampie pi belle, in citt ricche. E gli EUeni in quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro per s il terreno, o sgombro facendolo con distruggere e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella teri'a siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve a fiore civile intellettuale e artistico grandissimo in paragone di quelli, e a distendere sn tutte le portuose spiagge dell' isola un incancellabile smalto greco . Di miti templi cerimonie della loro mentalit religiosa si radicano ivi senza resistenza, e, nel trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale e Ampio racconto su la colonizzazione greca dell'Occidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad. ital.) voi. I (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I (Oxford 1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia voi. I (Torino 1894). di culto civico, accopj)iandosi con la congenita irrequieta genialit e l'inconculcabile aspirazione ad accrescere il possesso, doveva spingerli presto a violare i segreti delle regioni pi interne e a portarvi il soffio della propria opera contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evolversi si a sottomettersi. E forse, traverso anche i commerci di scambio, a Enna ebbero a pervenire folate di vento greco fin dal secolo VI. Eorse . Ma quante e quali nessuno direbbe ; percli non la minima traccia n'  rimasta ; n fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano alcun poco. La palese influenza dei Grreci su Enna comincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa. Dopo che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato Terone tiranno di Agrigento, sconftti ad Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi di Amilcare, Enna entr nella sfera siracusana e ne fu assorbita. Qual resistenza politica opponesse non importa qui sapere. Senza dubbio oppose una resistenza riguardo al suo culto e al suo mito, che non poterono venir eliminati, ma rispettati dovettero essere. La risultante di queste due forze (la siracusana che assorbiva e la ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente si direbbe contaminata, perch  pi tosto un compromesso di politica religiosa, una formula felice per conciliare le pretese o, se piace, i diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu un institutore e un propagatore zelante del culto delle greche iddie Demetra e Cora (-Persefone). Di queste il culto aveva, come fu visto poc' anzi, a base il mito del rapimento. E a quel modo che nelr Inno a Demetra la favola naturalistica, non spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien ad arte connessa con un preciso e determinato centro religioso, Eleusi; cosi un' analoga tendenza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro sacerdoti e poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e a applicare quest'ultimo non senza artifcio su le cerimonie sacre vigenti nella loro citt. Era un moto religioso, tanto spontaneo e consueto fra Greci, quanto egoisticamente esclusivo, per la preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a un certo nume. Di qui nascono difatti sovente contese tra regioni ; in particolare se vi partecipa, com' per le dee agresti, il vanto della maggior fecondit d'un suolo a paragone d'un altro. N pare che Siracusa derogasse alla generale tendenza: per che ci sia rimasto indizio, se bene esiguo, d' una sua leggenda la quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafo di Bione ch' del sec. I a. C. non che in altri testi il ratto di Cora  localizzato su l'Etna ; onde Ade sarebbe molto dicevolmente scaturito, come da una delle bocche dell'Erebo e del sotterraneo fuoco. Che se accanto a questo parti ci) V. 133. A. Ferrabino, Kalypao. colare si pone Taltro, secondo cui il Dio infernale si apre la via del ritorno presso lo stagno di Ciane ; si ottengono i due estremi punti topografici di una saga che adatta il vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perch Ciane  una palude nelle vicinanze della citt ; e sulla zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei Siracusani si  sempre estesa o nel fatto o nell'intenzioni. Ma come tale tentativo mitico prettamente libero da Enna dimostra qual fosse l'impulso originario del culto instituito da Gelone ; cosi la penombra in cui permane e la caducit che lo contraddistingue provano quanto diffcile fosse serbar nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i diritti di prima occupante che competevano alla fiaba dei Siculi. La quale s'imponeva difatti tanto pi quanto maggiormente s' era, traverso gli anni molti, radicata nelle coscienze degl'indigeni rifugiati su i monti, e quanto era pi stretta, nel nucleo essenziale per lo meno, la sua simiglianza con il mito ellenico. Il ratto, sul lago di Pergo potevasi rivestir di fogge e definire con nomi greci ; non asportare dal lago : ove del resto la feracit del luogo e la credenza, anche greca, che dai laghi o da vicine grotte sorgessero sovente i numi sotterranei, ne difendevan la vita. E difatti il ratto rimase. I Siracusani diedero alla divinit delle biade il nome di Demetra; ne chiamaron la figlia col duplice termine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag. 131. di Ade o Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto l'episodio con quei pennelli che gli Elleni ben sapevano, e con quei particolari che eran divenuti fissi e tradizionali. Ma sottostettero ai diritti di precedenza. Nel resto si valsero del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu l'apertura per il ritorno, dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge  di Cora dall' rebo alla terra su bianchi cavalli. E noi non sappiamo molto di pi; ma  facile che altri particolari della leggenda si connettessero al culto ai suoi riti ed ai sacerdoti. Suggello poi di questo compromesso religioso tra Enna e Siracusa  l' elaborazione caratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto di Cora. Questa avrebbe avuto compagne durante la raccolta dei fiori (1' " antologia ), oltre le Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora Artemide grandemente importava nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera, citt a Siracusa amica durante le guerre del V secolo specie contro Atene. Per ci in uno dei suoi rami la leggenda, la quale ancor qui si vede costretta a riconoscere che a Demetra doveva esser spettata la signoria di Enna, attribuisce al meno quella di Imera ad Atena, di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto questi due luoghi per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava, al medesimo livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze dell'antichissima saga ennense e le pretese della pili recentemente sopraggiunta saga siracusana, i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare a s la figura e gli uffici di Trittolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna Cora  rapita mentre coglie fiori mirabili per vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in Siracusa risale alla luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico la proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata, signoreggiano due citt siciliane ; il suolo  opulento di biade come non altrove : certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo seme, e il primo culmo spunt da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica, prevalente, diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano. Bisognava dunque, da che respinger Trittolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa ed Enna. E l'adattamento avvenne non senza garbo . Si concedette che un eleusinio, Trittolemo, avesse avuto il favore di Demetra e comunicato alle terre il dono preziosissimo; si concedette che ci accadesse in occasione del ratto di Cora ; e fu lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, gli si premise, gi dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia produceva grano, prediletta alle due Dee per la sua fertilit e scelta a loro dimora. Quindi, si conchiuse, Trittolemo fu primo rispetto agli altri popoli; secondo dopo i Siciliani. Una separazione dunque della Sicilia dal restante paese, onde il ratto divenne il momento propizio per diffondere al mondo il privilegio siculo. Che era non poco orgoglio. Dopo ci esistevano in Sicilia oramai tutti senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che un poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Siracusa offrivano dicevole sfondo, il racconto mitico aveva i suoi punti topografici fssi e armonicamente collegati ; il culto preparava salda e e vasta base per un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole citt s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la stessa gara con Eleusi le aveva tribuito qualche particolare non privo di attraenza. N mancarono forse i cantori che la materia non indegnamente lusingasse. E pure a noi non rimane se non il testo, povero non chiaro e senza vigoria espressiva, di Diodoro che attinge a Timeo. Perch tutto vivace si senta il contrasto fra la potenzialit artistica del mito e la mancata espressione di esso, eh'  a un tempo mancata intuizione, piace qui tradurre dalla Biblioteca istorica , lasciando il racconto nel suo disordinato svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro progenitori la fama, tramandatasi traverso il tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a Demetra e Cora; e che le predette Dee in questa isola primamente apparvero ; e che questa per prima produsse il fi-utto del grano a cagione della feracit del suolo... (2). A riprova Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in Phi lologische Untersuchungen, XIII (1892) pag. 103 sgg. (2) DioDORo V 2, 3. 4 passim. adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola e che mostra chiarissimamente come in questa le Dee soggiornassero e di questa sovra tutto si compiacessero. Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne' prati intorno ad Enna. Questo luogo  vicino alla citt, per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno di vedersi. A causa del profumo di quei fiori si narra che i cani avvezzi a cacciare perdon le tracce ottundendosi loro la naturai virt.  il prato predetto piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati per scosceso e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel mezzo dell'isola : per che  detto anche da alcuni l'ombelico della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a questi, paludi, e un grande speco con apertura sotterranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano che balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri fiori col odoranti rimangon fioriti miracolosamente per l'intero anno e rendono lo spettacolo pittoresco e gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora crescessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme raccogliessero fioH e preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per l'intimit e la conversazione reciproca si compiacquero specialmente di quest'isola; e ciascuna si ebbe un territorio : Atena dalle parti di Imera..., cosi che gli indigeni consacrarono a lei la citt e il territorio chiamato fino ad oggi Ateno : Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per lei  da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e, parimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati intorno a Enna. Favoleggiano poi che Plutone, compiuto il ratto, rec Cora sul cocchio presso Siracusa ; e che, spalancata la terra, scomparve con la rapita nell'Ade ; e che ivi fece sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra, non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei crateri dell'Etna, si rec in molte parti della terra abitata e benefic, donando il frutto del grano, gli uomini i quali meglio l'accolsero. Pi benignamente avendola accolta gli Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti don il frutto del grano ; pel che questo popolo pi d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifzii e coi misteri eleusinii. Il mito siracusano  qui per intero : ogni linea ne viene accennata; pietra a pietra, chi nmeri, l'edifcio esiste. N mancano (che noi tralasciammo per brevit) cenni etiologici alle feste sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il difetto si tradisce ogni volta che Diodoro ripete, ed  spesso, quel suo " favoleggiano . Altri; non egli: eh'  estraneo a quel che racconta. Modello insigne, questo, del come possano mascelle di erudito maciullare e rugumare il fiore della saga. Il mito contaminato. Il mito siracusano di Demetra e Cora, imperniato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei due centri religiosi, venne accolto nell'ambiente poetico di Alessandria. E fu questo l'i- DioDOBo V 3-4:, 4 con qualche omissione. nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria di fatti, oltre alla forma siracusana della favola, erano affluite, ed affluivano, la primitiva forma dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo inventor dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti elementi, parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse, avevan da commettersi l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti elementi precipui ; bens anche alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fossero riusciti a trascendere i limiti della mediocrit espressiva e della ristrettezza geografica, per intrudersi nella letteratura tradizionale. La mitopeja orfica in ispecie aveva trovato accoglienza favorevole nel colto ambiente alessandrino ; e a canto d'essa fiorivano ivi le differenti e notevoli saghe metamorfiche, che presso i pi antichi non erano se non una forma, fra l'altre, dell'intuizione naturalistica, e che il gusto posteriore, compiacendosene, moltiplic artefece. La storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia  la storia della sua seconda immersione nel flusso del pensiero e dell'arte greca;  la storia del successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di innovazioni via via pi complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra l'opere dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sarebbe stato trasparente: dei maggiori alessandrini medesimi. Sola di quelle ci  rimasta traccia Sul culto di Demetra e Cora in Alessandria cfr., p. es., Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133). e tal volta quasi copia in autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio tratto del quinto delle Metamorfosi ovidiane , in cui appunto si rivela la contaminazione fra diverse correnti leggendarie. Vige l'indirizzo siracusano, senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun nuovo particolare ; cosi il poeta sembra seguire pi tosto una tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a una variazion fantastica, quando nel luogo di Ecate fa dare a Demetra, durante la ricerca affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio del ratto dalla fonte Ciane ; e in luogo di Elios introduce la ninfa del siracusano lago di Aretusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi elementi siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto duplice di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una umanit esperta sol dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema diverso. Quando Proserpina  rapita, la terra, se non tutta per buona parte, gi ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo dolore si vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe : dunque, come nel mito protoattico. Ma, come nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i due miti si conciliano nel pensiero che uguale bisogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come quella di cui per la vendetta divina fu pretermessa la coltura. In tale contaminazione Vv. 341-661. Cfr.  IV. dei due miti protoattico e neoattico la saga siciliana s'inquadra umiliandosi un poco, col porre la propria terra fra pi altre, prima nel godere le biade, i)oi nel riaverle. Resta il vanto di fertilit singolare e di fedelt a Demetra. D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'attitudine sua mentale come per la natura del suo tema, con particolar compiacenza l'impulso letterario delle metamorfosi. Sembra persino che ogni vicenda del mito in tanto g' importi in quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti di forme. Ciane, ad esempio, che solo perch palude era sembrata luogo dicevole alla scomparsa di Ade come un lago alla comparsa, offre spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in acqua. E anche. L'episodio di Cora-Persefone che gusta la melagrana  sfruttato per immettervi un Ascalafo ; il quale scorge la Dea nell'atto, ne riferisce ed  converso in gufo. Sovra tutto per, l'efficacia della tradizione letteraria si risente in Ovidio per il tentativo di analisi psicologica nei personaggi: in Cora specialmente, per cui egli giunge sino a finezze troppo cerebrali per esser vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo smarrimento dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l' antefatto del mito : il ratto  voluto, non da un decreto di Zeus, bens da Afrodite cui  sdegno che tante dee si sottraggano al suo potere e che libero ne resti il medesimo Ade (latinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando psicologico diviene il racconto, un particolare che, allor che esso era naturalistico, valeva con tutt' altra importanza: la fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto viene, non senza garbo, inserito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite difatti  l'Ericina, che i Siculi facevan oggetto di culto singolare. Cosi perch pili appaja la giustizia di Griove e ne risalti la umanit del mito, l'anno  pel doppio soggiorno di Proserpina con la madre e col marito diviso a mezzo non pi per terzi. Simile attenzione psicologica governa i discorsi di Aretusa a Demetra, di Demetra a Giove, materiati di accortezza feminea e l'uno e l'altro. Al qual carattere corrisponde poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per toccare di quelli che a ciascun momento dell'animo competono, l dove tecniche mitologiche pi elementari non cercano se non il consueto e costante attributo del Nume : cosi che Aretusa, e basti per tutti l' esempio solo, ritrae prima di parlare i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per lasciar nudi la bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto omerico che s'addice alla Dea; il gesto si conviene alla donna. Siamo allo stremo dell' allegoria agreste. E su la soglia dell'umanit. Non lungi a le mura di Enna son le profonde aeque d'un lago: Pergo, di nome. Pi numerosi non spande canti di cigno Castro su l'onde scorrenti. L'acque corona una selva, d'ogni lato le cinge ; con le sue fronde  di schermo alla vampa solare. Frescura, i rami; purpurei fiori d l'umida terra. Primavera  perjDetua. Mentre nel bosco Proserpina gioca ed or viole or Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914). gigli candidi coglie, mentre con fanciullesca cura seno e canestri empie e nella raccolta studia superar le compagne ad un punto  veduta amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva con mesta voce madre e compagne chiamava; la madre pi spesso ; e poi che lacerata dal sommo s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni puerili, il virgineo dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno chiamando per nome esorta i cavalli: scuote su colli e criniere le redini tinte di ferruggine persa .  nel mezzo fra Ciane ed Aretusa un golfo d'angusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu gi e dal suo nome lo stagno ha nome tra le siciliane ninfe notissima, Ciane. Ella fino a sommo il ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non pi lungi andrete !  esclam " non puoi di Cerere essere il genero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se m' lecito alle grandi le piccole cose accostare, me pure Anpi amava; ma pregata sposa mi addusse non, come questa, atterrita . Disse, e con aperte le braccia si oppose. Non pi non pi l'ira il Saturnio frenava: i cavalli terribile esortando, nel fondo del gorgo il vibrato scettro regale con forte braccio affond : la terra percossa una via pel Trtaro aperse ed i precipiti carri nel mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea piangendo ed i violati diritti della sua fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse tutta di pianto. Neil' acque di cui grande nume gi era, or s'estenuava: molli le membra, flettevansi Omessi i vv. 405-8. l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie ; le tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome, le dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra in acque gelide il trapasso  breve: gli omeri poi e le terga ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle tramutate vene alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che prender si possa . Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse, lungo indugio sarebbe narrare. A lei che cercava venne meno la ten'a. Ritorn in Sicilia ; e mentre ogni dove indaga vagando, a Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se non fosse mutata; ma lei che voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, n con altro poteva parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e pi volte il petto con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre biasima tutte ed ingrate le chiama n degne del dono di biade: Trinacria su tutte, dove le tracce del danno aveva trovate. Ed ecco col di sua mano spezzava gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i coloni ed i bovi aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordin, ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilit del paese  fiaccata: senza far csto muojon le biade, ed ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461: errore di Cerere; metamorfosi di Ascalabo. cesso, le stelle ed i vnti fan danno, gli sparsi semi ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a le piante del grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'ele onde solleva Alfjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice: " tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di biade, cessa da tue immense fatiche e da la violenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha colpa la terra ; la rapina toller contro sua voglia. N per la pati'ia supplico : ospite son qui venuta. Pisa  mia patria, l'Elide diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo pili grata m' questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa per sede : e tu clementissima la salva ! Perch mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verr ch'io ti dica, opportuno, quando alleviato TatPanno e migliore il tuo volto sar. A me un sotterraneo varco offre il cammino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo sollevo e a le stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre l sotto nel gurgite Stigio scorreva, l sotto dai nostri occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero, n per anco tranquilla nel volto; ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora, ma dell'inferno tiranno Sposa potente . La madre udendo le voci stupisce ed impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la grave demenza  rimossa, a l'aure superne col cocchio ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i capelli, d'odio riarsa, sti innanzi a Giove. " Per il mio (dice) supplice a te venni o Giove e per il tuo sangue ! se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre commuova; n meno cara preghiamo ti sia perch da nostro parto nata. La figlia che a lungo cercai ecco rinvenni: se rinvenire tu chiami il perder pi cex-to, se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sopporto : pur ch'egK la renda : che d'un marito predone degna non  la tua figlia..., se anche mia figlia non ,. E Giove obiettava : " Pegno comune e gravame a me con te  la figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi vogliam dare, non  questa un'offesa :  amore ! N ci sar quel genero a vergogna, sol che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non sieno, qua! pregio  fratello dirsi di Giove ! N mancano gli altri ; n fuor che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio, ritomi Proserpina al cielo, fermo il patto restando che con la bocca l gi cibo alcuno non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge . Avea detto. Ma Cerere  ferma di ricondur la figlia. Non cosi vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il digiuno e, ingenua errando per gli adorni giardini, dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da la gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti . Ma, tra il fratello e la mesta sorella, imparziale, il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea, di due regni nume comune, altrettanti mesi  con la madre, altrettanti  con lo sposo. D'animo si muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che da gravide nubi coperto era gi e da le vinte nubi riappare (2). A coppia i serpenti la fertile Dea al cocchio aggioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per l'aria fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve Omessi i vv. 538-563: metamorfosi di Ascalafo e delle Sirene. (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi di Aretusa. SUO carro nella citt Tritonide, a Trittolemo : e parte dei semi donati comandava di sparger sul suolo mai colto, parte sul suolo dopo assai tempo rilavorato. Contaminato ma diversamente, ci appare il racconto appresso Ovidio medesimo, nei Fasti libro quarto . Occasione gli  offerta dai romani Ludi Cereri. E alle cerimonie rituali tien difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo modello). La mente che ricorda il racconto delle Metamorfosi, pur riconoscendo nel principio del nuovo carme (2), con la mano del medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del ratto, nota tuttavia un ritegno, quasi una schiva attenzione per evitar d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invitate da Aretusa; non quella  la lor sede: n nella palude Ciane si sprofonda Dite, o al meno non  detto. Il mito sorto dal compromesso tacito fra Enna e Siracusa  senza dubbio noto ; ma non usurpa da signore lo schema greco pi antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affannosa della Madre comincia (" dai tuoi campi, o Enna ), Ciane l'Anapo Oela Ortigia Mgara Imera Agrigento Tauromnio Camarina ed altri luoghi ancora e i tre capi Peloro Pachino e Lilibeo, offrono bens materia alla fantasia del poeta non ignaro di geografa siciliana, ma sono per ci a punto introdotti dal suo solo arbitrio nella leggenda, onde costituiscono un elenco di Vv. 393-620. Edizione H. Peter* (Leipzig 1907). Confronta  IV. (2) Vv. 419-50. nomi regionali, non gi altr'e tanti addentellati mitici. C' dunque una cauta fedelt al mito siracusano : speciosa fedelt che  per risolversi sbito dopo in abbandono. Quel che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del vecchio Cleo fu il campo. Egli in casa porta le ghiande e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel focolare che l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ; e nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre  la fanciulla dice e commossa  la Diva pel nome di madre " che fai in solitarii luoghi senza compagnia ?  . Si sofferma anche il vecchio, quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada sotto il come che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali parole risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu rapita la figlia. Oh la tua sorte di quanto  migliore che la mia sorte!. Disse, e come di lacrima che non piangon gli Dei cadde sul tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la fanciulla ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non disprezzare il tetto della misera casa . Cui la Dea " Conducimi  dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo !  . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien dietro. Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non prenda ma vegli pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il papavero coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino, Kalypso. 10 la lunga fame: e perch della notte in principio ella finiva i digiuni, gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir delle stelle. Come varc la soglia, piena di pianto vede ogni cosa : gi speranza alcuna non v'era di salvezza pel bimbo. Salutata la madre Metanra la madre si chiama alla sua congiunger degnava la bocca puerile. Fugge il pallore, sbite forze vengon nel corpo: tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa  lieta : la madre il padre ci sono e la figlia : tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli stemprati nel latte e pomi e nei favi suoi proprii miele dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o bimbo, a bere con tiepido latte d i papaveri causa del sonno. Della notte era il mezzo, era nel placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo prende, con la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : scongiuri, che non ripete parola mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la calda cinigia nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la madre a torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?, e rapisce dal fuoco le membra. A lei la Dea : " Per non esser scellerata tal fosti  dice ; " vani i miei doni divengon pel timore materno. Questi sar bens mortale; ma primo e con aratro e con seme da le coltivate terre coglier premii . " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse, su i serpenti sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte  . Qui non  pi il racconto dell'Inno con il Vv. 507-562. mito protoattico ; non  n meno il racconto di Timeo con il mito siracusano : per che a differenza profonda dal primo la umanit  presentata ignara di biade e cibata di ghiande prima del ratto; e a differenza caratteristica dal secondo la Sicilia non ha privilegio alcuno rispetto all'altre terre. Qui dunque  il mito neoattico di cui dicemmo, che ha sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tramutato il semplice istitutore di un rituale sacro nel giovinetto onde per favore della Dea un inestimabile benefizio si largiva agli umani. Celeo e Metanira recano identici i loro nomi, ma intorno ad essi il polito palazzo regale s' tramutato in povera capanna: sul desco stanno cagli; nei cuori  ingenua ignoranza. Cosi pertanto la versione siciliana, dianzi cautamente seguita,  soppiantata, senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano, che un terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su la persona del rapitore sono due astri ; identico  il nome dell'uno, il Sole (EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice, che  per non la Luna (Ecate), ma la stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel mare, e per ci tutto vede, di notte. D'altra parte, dopo il colloquio fra Cerere e Griove, questi decide di dividere l'anno in due parti perch Proserpina rimanga sei mesi col marito e sei con la madre . Ora, Elice sostituisce Ecate perch preferita nella consueta mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614. pel mezzo gi ritrovammo nel gusto alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce posson venire considerati anche l'idilliaca scena in casa di Celeo, dal tono dolce dal colore delicato dall'insieme grazioso ; e il quadro del florilegio in Enna. L'arte per converte la triplice mischianza in armonia. Onde la vicenda si snoda men lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pastorale abbandono di Eleusi, e diviene rapida nel termine ove pi personaggi agiscono e parlano con una stringata prontezza che culmina forse nelle parole di Ermes " La rapita ruppe il digiuno con tre di quei grani che le melagrane ricopron con molle corteccia  . Le varie correnti mitiche son fuse ed  scomparsa ogni traccia di mosaico mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo ricollega con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare del culto, su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del benefzio divino, scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella capanna d'un misero. La gratitudine verso la Dea si traduce bens in sacrifzii suini e in vestimenta candide, ma non  di origine religiosa, si pi tosto muove da una intima commozione umana, di simpatia per la sofferenza eterna, per la semplicit primeva, per la faticosa Terra. Nei Fasti quindi minor parte  fatta al mito siracusano; ma per compenso  conseguito pi alto pregio letterario che non nell'altro carme Vv. 606-7. ovidiano, ove il poeta con l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or riducendola a magrezza or distraendola a rimoti oggetti. Oltre che elementi siculi proto e neoattici, anche particolari orfici compose insieme con abbondanza Claudiano nel poemetto che al Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del rapimento, Ciane oppressa dal rapitore e tramutata in fonte , le fiaccole notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser copiosi nella parte del poemetto che non fu scritta e trattava del soggiorno della Madre in Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine si assommano nella figura di Trittolemo a cui par probabile che venisse attribuito il dono delle biade (2). Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che si dovevano all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in loro custodia Cora trascorreva il tempo intenta a tessere un tessuto ove fossero affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto accadde si per volont del Fato {aifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di Zeus pluvio, ma con l' inganno delle sorelle {pvvfiaifio) : o sia Artemide ed Atena. Pi tardi cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non III 246 sgg. (2) I 12 sgg., Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due Dee al ratto non era se non un assecondar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne che pi nobile officio loro, nel punto in cui Cora, vergine com'esse erano vergini, soggiaceva a violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo : nelVElena di Euripide difatti elleno gli appajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi fu introdotto quello, che pareva pi dicevole, d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'antico aneddoto orfico pertanto fu e rinnovato nel suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella poesia orfica attinenti a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su quella parte la quale nel poemetto sul Ratto non  svolta sar qui da tacerne. Oramai difatti sono stati raccolti tutti i materiali che da triplice fonte il poeta adun per l'opera sua e che gli bastarono, con giunte e innovazioni, a narrare del ratto e i precedenti e le primissime conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse quella sostanza leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il suo racconto si spezza spontaneamente in due parti: delle quali la prima ha termine col ratto. Plutone nell'Ade  infelice perch privo di moglie e ignaro delle dolcezze che la paternit concede. Tanto l'assilla il suo veemente Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146 e cfr.  IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo stesso Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e liberare i Titani incatenati, ove non sia fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette: solo  in dubbio intorno alla scelta della sposa, gi che nessuna volentieri accetterebbe marito il tenebroso Re dei morti. Contemporanea a cotesta scena per si svolge l'altra in cui Demetra, per sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli insistenti proci fra cui Apollo e Ares primeggiano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure della nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ritornano, come si vede, sott' altra specie, le orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da ogni attentato sotto l'alta protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella poi in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora appunto, profittando della lontananza materna, a Plutone, e j)repara le nozze. Connivente Afrodite, egli fa si che la vergine esca con le compagne e Artemide ed Atena e la stessa dea dell'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti di Enna e che su quelli, balzando improvviso dal suolo spalancato in voragine, la rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge. Fuggono le giovani amiche. Atena e Artemide tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie. Ma Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E presto Cora, trascinata dai cavalli dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove l'accolgono, con festa ch' insueta col, gl'iddii torvi e le paurose iddie de' regni flegetonti. La seconda parte possiede quell'unit di struttura che manca a questa prima. Il centro naturale dell'azione  offerto da Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre non vive tranquilli i giorni presso i Frigi: un presentimento vago ma assiduo la turba con sogni atri che mal si dileguano nel risveglio. Alla fine, decide di abbandonar le terre di Cibele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani. Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le appajono i luoghi ove s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta la casa. Entra, e vede incompiuta l'opera tessile della vergine, e lacrimante in profondo dolore la nutrice Elettra. Chiede con voce ch' gi di disperazione; e apprende il ratto. Lo schianto le  per quasi sbito superato dallo sdegno contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che permisero il delitto, lo lasciarono impune, non curando se per tal modo si sovvertissero leggi di giustizia e principii di morale. Giura che non cesser di percorrere, intenta alla ricerca, l'universo intero fin che non le sia ritrovata la figlia. E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a s, per la notte, fiaccole di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a Zeus. Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco pi apprenderemmo nel sguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi alla difficolt insita in ogni forma leggendaria, ove sempre la materia poetica  molta, ma sorda ad artefice che non sia di assai fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a rendere scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi manc: non esito a dire che vi manc per intiero. Noi lo giudichiamo qui a fronte della sua saga, e possiamo farlo con pienezza di giudizio, che la sua saga  la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita complessa. Non c'illude quindi, e sarebbe facile errore, quella, che prima colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di scene, armonia di verso. Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion delle parti in un tutto su cui si volge il nostro interesse e l'esame pi vero. N la perfezione stessa  anche da concedersi intera : guasta per certa esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul collo, spiace dopo le prove d'un'arte pi cauta se bene gi troppo a s indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate riuscite e oltre le mancate, com' composto il grande affresco ? Claudiano avverti primi, e svolse gli spunti psichici di cui tutto il racconto  pregno: non diversamente operando, in ci, da Ovidio. Le sue dee per tanto divennero donne; uomini, i suoi numi. E suo grande compiacimento si fu narrare ora il cordoglio della madre, ora lo spavento della figlia; qua i coniugali rimpianti di Plutone, l le dolcezze filiali di Cora. Se non che in Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la accorta profondit dell'investigazione intima; e, Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies, (London LA DEMETRA d'eNNA inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan sempre senza stridenza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi quello come questo pregio mancano del tutto. Nulla, che non sia vieto e grossolano richiamo di motivi abusati,  infuso nell'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature di talune emozioni gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano la loro personalit per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla tradizionale teologia. Una madre, una figlia, un marito recente, un giudice un po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non importano nomi, non colori, non linee. Basta, che per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni della retorica. Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce la solennit jeratica dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la Sicilia con un senso di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee l'onorino di lor presenza, invoca da Zefiro splendor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e un contenuto orgoglio matronali. La Frigia lontana riceve da Cibele, quasi un recondito balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra svelle i due pini a illuminare la notte  un lucus Jovis. Lo sfondo, pertanto, delle scene, se pur varia,  tuttavia sempre ampio alto e severo : non  in proporzione con la statura degli attori ; o meglio, non con la loro statura d'uomini, si con un'altra, fittizia, di Dei. Onde si a\^erte il primo contrasto, che par creato a posta dal poeta, IL MITO CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e l'accresciuta materia terrena: quasi fosse stato trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe dovuto essere dei Numi. Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota che nessuno dei consueti attributi  stato tolto da Claudiano n a Demetra n a Cora n a Plutone n ad Atena n ad Artemide n ad alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei morti Ila tutta la sua terrificante corte ; la vergine Figlia ha intero il suo sguito di bellissime ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice, quella lo scudo gorgono, questa l'arco e le frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trainato da draghi e doma leoni. Il meccanismo oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste. Ond' che la vita umana e affettiva vi  poi spirata dentro senza che Fautore mostri di accorgersi del dissidio che ne risulta. Il quale , a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirittura il grottesco e tramuta il poema in commedia. Quando, gli esempii potrebber essere moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno pi notevole, quando Plutone ha rapito Cora e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i lamenti pietosi e le invocazioni alla Madre, si commuove : " Da tali detti il feroce e dal pianto vezzoso  convinto, e sente i palpiti del primo amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea tunica, e con pacata voce consola il mesto dolore (di lei)  . E, questa, una innovazione di II 273-276. Claudiano : gi che le parole che seguono e che vantano di Plutone i pregi qual marito e re son le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e Ovidio a Giove, per consolar Demetra. Ma rinnovazione a punto svela a maraviglia a qual grado di risibile pervenga il poeta nel colorire pateticamente quello spauracchio " feroce  di Aidoneo che egli stesso ha poc'anzi dipinto mostro a tutte tremendo. Dai medesimi errori iniziali consegue l'essere artisticamente (non dico logicamente, che sarebbe inutile rilevarlo) mal connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo sorella di Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia ce l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e meschina al pari d'una qualsiasi siracusana. Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta prende a impaurirsi e tremare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi i Titani. Non c'ispirano quindi reverenza n timore cotesti numi ambigui. E l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non  per nulla sacrilega : ci scende fredda nel pensiero, perch  vuota cosi di dolore materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse spinta in l la tendenza del poeta, i suoi di finirebbero con l'apparirci, nella loro scema sostanza um^ana, e tracotante pompa esteriore, marionette fngenti per gioco di fili occulti e virt di orpelli gravit olimpica, in un consesso di stolidi e in una famiglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in fine culmina in quel solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mostrare come, col decretar da Demetra il dono del seme, la suprema volont sapesse ritrarre un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora; ma non prova nel fatto se non quanto Claudiano ha deformato il sommo Iddio. Conchiudendo, il poeta  giunto proprio al contrario di quel che era compito dell'arte: ha dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha contrapposto, in vece di avvicinare senza contrasto. Ora, gli elementi del dissidio erano gi tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan perdurato identici lungo il suo evolversi. E pure non gli avevamo avvertiti: non so che secreta forza li faceva coerire in unit e bellezza. Se adesso adunque si frangono e s'iu"tano, segno  che non pure s' svigorita l'arte, ma l'organismo del mito  moribondo, e si dissolve. Cosi n pur la contaminazione di motivi, desunti dalle pi diverse fonti, riesce a infondere ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un pi profondo guasto la uccide, senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo racconto siculo, che una prima volta aveva sentito, per opera di Siracusa, vigoroso l'influsso greco, e trov una seconda volta, traverso gli AlessandiTni, arricchimento di bellezza poetica da iDrincipio, gravame in sguito di mal congesti elementi. Indra e Vritra si combattono. Nel profondo cielo dove il Sole si vela di ardore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al pascolo e lasciava vagare leggre, qua e col, nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe figura di serx^e dalle tre teste, n tentarono in vano la sua maligna cupidigia. Le rapi, e trassele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete. I ben colorati animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dall'antro, ove segregato si stava il bottino, gli Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II cap. Ili ; di cui si citano i  nelle note successive. giunse un profondo e rauco muggito che gli svel e il furto e il luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la grotta, di frecce e di clava colpisce pi e pi volte il mostro nemico, l'abbatte, lo uccide. E riconduce le mucche nel cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin sopra la terra. Cosi nel Rigveda indiano si adombra per noi la vicenda del temporale, i bianchi cirri sparsi per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che dopo tuoni e lampi scatenano benefica la pioggia. L' odio, che un' anima paganamente infusa nella natura nutre acre contro il velame dal quale  tal volta celato il Sole agli sguardi, ha sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco la presenza di una forza attiva, e nemica cosi della luce benefica come della fiamma benefica, per che si compiaccia, in vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le annientano. Il bujo della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio non si spinge, e che, quando spiragli appajono traverso il suolo, atterriscono i cuori ; l'atra tinta del fumo, che g' incendii sprigionano, pregno di odori corrotti, su dai possessi degli uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra cortina dei cumuli ; l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le pupille: questi colori queste Cfr. fino a pag. 163  E. PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme quest' energie si accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo per con ritmo unico il malefcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro il dono, in cui  prodigo l'Astro, di luce e di calore. La fiammata che cuoce l'alimento  una scintilla tolta dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virt di respingere l'oscurit intomo a s. La fiammata in vece che rade una selva  nemica del Sole perch nemica dell'uomo: e, poi che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bambina non sa che la tenebra  un modo della luce, e che il fuoco  un solo principio, distrugga o giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli effetti, delle antinomie fallaci nelle cause. Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del pensiero. Che  comune, come si sa, agli Arii ; e comuni, se bene traverso le differenze a volte non piccole, sono le forme di cui si veste e le associazioni psichiche di cui si vale : l'antropomorfismo, ci sono, ed i nessi fra la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma malefica, fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E questo d'ogni singolo mito del fuoco, quale che sia per esserne il valore pi immediato, permane il riposto senso di allegoria naturalistica. Anzi, in grazia a punto di essa affinit di concetti, poco importa se la fiaba si connetta pi tosto con la freccia del fulmine che squarcia il perso involucro dei nuvoli, o pi tosto col dente infocato che appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o altrimenti con altro. Griacch la fantasia primigenia, la quale ha narrato sotto la specie dell'uomo una spettacolosa vicenda della natura, deve esser stata indotta dalle medesime sue associazioni analogiclie a ripetere, nelle aridit della concezione, un solo racconto per fenomeni simili. Ci spiega perch, fuor del E-igveda, il mito ritorni bens presso assai popoli arii, ma presso pochi come l simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si , pur serbando parecchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e Apaosha si combattono ; e a dirittura rinnovato in altra forma, la quale, per il nesso che nel pensiero gi intercede fra tenebra e male, luce e bene, trasporta il mito a significare il contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo Ahriman. Che se, dopo averle spiegate, non grande conto  da farsi di queste trasposizioni della fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto maggiore se ne deve attribuire in vece all'alterarsi o al persistere di taluni particolari significanti. In essi  il segno di qilanto si accosti o allontani dalla saga originaria il nuovo racconto : simili a quei tratti caratteristici che permangono a contraddistinguere il volto di una famiglia nei secoli. E quando del mito si  poi perduto tutto il senso riposto, restano testimoni veritieri ed irrefutabili dell'origine prima e dimostrano che in fondo scarsa fu la elaborazione innovatrice sul modello pi antico. Quando in vece un significato s'intrude sopra e contro l'originario e lo modifica o lo soffoca, si perdono insieme i primitivi particolari episodici, come un muro coinvolge nella sua caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano quanti non disconvengono al nuovo dominante pensiero. Giaccli l'energia conservatrice insita in quei particolari  costituita, in somma, da una non pi cosciente memoria dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo, avevano, quando ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa pertanto, allorcli al ricordo incosciente sottentra nel racconto la coscienza d'un contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed ecco difatti tramutarsi anche la foggia esteriore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi perpetrato a danno d'una divinit solare venisse narrato insieme con la successiva vendetta nelle saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel nostro assunto la congettura. Certo che in secolo a bastanza antico la metamorfosi del racconto si rivela profondissima. L'omerico i Inno a Ermes  la nostra fonte in una sua ampia parte. Ed  pervaso tutto dalla minore anima greca: quella che baratta e commercia; che ruba con astuzia, e nega con impudenza ; che  scaltra in ben parlare, e avvolge di parole artificiate, di periodi fluenti, di frasi ambigue, d'esclamazioni infinte e do li) Tralascio tutte le quistioni su gli " strati,, la cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Confronta A. Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E. Sikes The homeric hymns (London 1904) 128 sgg. mande coperte, l'infelice derubato ; che giura invocando i men pericolosi di, nella speranza di averli meglio indulgenti ; che non ignora alcuna furberia, e si vanta di tutte ; e nessuno pi le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma ne resta poco o molto gabbato. L'uomo il quale discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte al brocco, e tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse, fissi qua e l su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive intiero, per una fresca vivacit di dipintura, nel ladro di buoi. E lo ritrae la maggiore anima greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno s' congiunta con la brama di gloria, cui il buono  anche bello, e forza indirizzata al suo fine  anche il bene. Ma fra questa maggiore e la minore anima greca i tramiti non sono affatto tronchi. Onde una celata coscienza della superiorit di quello spirito che pu, se voglia, rinchiudere in un labii"into di dubbii e di certezze, entrambi illusorii, l'intelligenza del suo interlocutore, serpeggia per il racconto. E un sorriso di compiacimento interno lo illumina : il sorriso mal palese degli aruspici, secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai pi che dalla bocca, con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan accogliere, pacati d'indulgenza ironica, la dichiarazione frequente dei Peloponnesiaci : " Grli Ateniesi discorrono troppo bene perch si possa lor credere . C  un biasimo tacito del furto ; ma c' una lode sobria del ladro abile. E la commedia nasce. Comico, il racconto eh' era stato tragico allorquando Vritra cadeva sotto la invitta clava di Indra. Perno del mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I protagonisti sono mutati. Caduti taluni particolari, altri s'improvvisano dal largo patrimonio novellistico. Lo sfondo  diverso, perch alla furberia del mortale compete scena la terra, come alla violenza del mostruoso iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra divina, di splendido aspetto ; e il secreto del furto ; e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti. Apollo  il derubato, Ermes il ladro; Ermes, nella sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di inverosimile forza e di mente gi dotta nelle oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle ed esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si svolge la principal scena. Due altre la precedono. La prima narra il furto. Non  opera di violenza, ma di scaltrezza. I buoi, cinquanta, pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro e i cavalli  il Sole spariva sotto la terra. Ermes, per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo sabbioso, condusse le bestie all'indietro, intrecciando per s accorti e leggeri sandali con vincastri e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la refurtiva in una grotta " da la volta elevata . Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillne. E ha luogo la seconda scena . E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in sul mattino ; n per la lunga via alcuno scontrossi con Vv. 142 sgg. Edizione T. W. Allen (Oxford l'abigeato di caco lui o tra gli Dei beati o tra i mortali uomini; e non latravano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus, obliquo per il serrarne della casa scomparve, simile a vento d'autunno o pure a la nebbia. Avanza dix-itto nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi movendo : n cos fa rumore sul suolo. Subitamente entr nella zana l'inclito Ermes, le fasce a le spaUe avvolgendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i lini scompone coi piedi . Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse parole. " E perch mai tu, o ben furbo, e donde in ora di notte ne giungi, o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno allo sterno legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per recarti a predar nelle valli al pari di ladro. Prditi, stolto : che per grande sventura ti generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei . Ed Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perch queste cose tu m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore, e timido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte apprendere voglio, ch' la pi bella (2). N fra gli Dei immortali spogli di doni e negletti, quivi restando, ci rimarremo come tu vuoi. Meglio  per sempre frequentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore, il convenevole anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io stesso per certo tenter che posso dei rapinatori divenire il capo. Che se mi ricerchi il figlio dell'illustre Omesso il v. 153. Omesso il v. 167 ch' corrotto. Latna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio e anche pi : mi reco in Pitne al saccheggio della grande sua casa, molto da quella rubando stupendi tripodi ed oro e lebti, molto sfavillante ferro, e vesti di molte. Tu certo vedrai se ti piaccia . n senso d'umanit e la sostanza greca che sono divenuti il nucleo nuovo del mito appaiono qui in tutta la loro vivace contrapiDOsizione alla forma indiana di cui fu veduto. Perch la difesa, che il poeta adorna cosi bene su le labbra bambine,  un breve mal represso anelito di simpatia per il ladro perspicace ed ardimentoso, simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane della carne si ax)provi quel che la ragione condanna. Ben altro era l'odio atterrito per cui, nel Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole serpentina nel dimenio orrendo delle tre teste. L, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e l'ombra della sua caverna, dalla quale il mugghio bovino suscita un' eco di sgomento negli animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in favor del breve Ermes fasciato, che si crogiola di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore di quanto ha compiuto, pronto a difender s e la i)ropria opera, certo di saperla proseguire nel futuro. E non v'  dubbio che a Maja piacciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno rapite! Le due spanne onde il corpicino si misura sono molto piccola cosa di fronte alle cinquanta terga di tori: e nella grazia furbesca del contrasto, che la onnipotenza divina giustifica e legittima, sta il motivo della simpatia e nostra e del poeta. l'abigeato di caco Come lui scorse di Zeus e di Mjade il figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la fascia odorosa s'immerse : quale del legno la cenere molta brace di ceppi nasconde all'intorno, tale celava s stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno dolce sonno chiamasse a ristoro, sveglio restando per. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, n gli sfugg, la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo piccino, avvolto dentro ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi mirando, con la splendida chiave tre ripostigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita ambrosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa purpuree vesti e smaglianti : tutto che dei beati dentro sogliono avere le sacre dimore. Della grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti parlava ad Ermes illustre. " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi : presto, che tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti piglier ti scaglier nel fosco Tartaro nella tenebra triste irreparabile ; n te la madre n il padre alla luce potr ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeggiando fra i bimbi . Ed Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso parlasti ? e perch ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, n d'altri intesi parole, n mostrare potrei, n vprenderne premio, n somiglio ad un ladro di buoi, uomo possente. Non questo  da me, e prima altre cose mi piacciono : il sonno a me piace, ed il latte della mia madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni. Vv. 235 sgg. Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa, che per vero gran maraviglia fra gl'immortali sarebbe che un bimbo nato da poco varcasse la soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ; i piedi son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi, su la testa del padre un grande giuramento far : n io affermo n io stesso fai causa, n vidi alcun altro ladro dei vostri buoi checch i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne odo Cosi dunque parl, e di frequente con le palpebre ammiccava, inarcando le ciglia, e qua e l guardando . Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo rispose : " amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo per vero che spesso per invader le ben abitate case durante la notte, pi c'uno stenderai sul suolo, senza rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle valli dei monti molesterai agresti pastori, allor che, bramoso di carne, t'imbatta in mandre di bovi o in pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se non vuoi dormire, scendi dalla zana, o compagno della nera notte. Questo per certo anche poi tra gl'immortali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo dei ladri . Cosi disse adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline Febo. Allora, il forte Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti tosto : poi che Apollo l'udiva, da le mani sul suolo l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e, pur affrettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva Omesso il v. l'abigeato di oaco parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus: con questi presagi trover pure, alla fine, i capi gagliardi dei buoi : tu, per altro, m'insegnerai la strada  . La contesa continua un po', fin che si decidono entrambi a recarsi nel cospetto del Cronio Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il falso ; ma poco vale. Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme " con animo concorde  i buoi e ad Ermes ordina d'indicarne il rifugio. Ubbidiscono. E la commedia finisce come le commedie sogliono terminare: con una buona pace. Di essa rimangono cardini notevoli l'accortezza del trascinare le mucche all'indietro per disperderne l'orme e travolger gl'indizii ; e l'insistente ammiccante spergiui'o di Ermes dinanzi ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur appartenendo forse ad antiche trame novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato probabilmente a bastanza tardi. Presso i Latini. Le fila s'intrecciano poi presso gl'Italici, e presso i Latini in ispecie . N della trasposizione, per cui il mito vien riportato da un fenomeno all'altro analogo ; n Cfr., di qui fino a pag. 182,  V e (in parte)  VI. dell'intrusione, per la quale un nuovo significato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'antico, e rinnova per conseguenza i particolari del racconto : si deve tener parola a proposito della saga romana di Caco. Altre vicende essa ha subite allor quando ci appare formata in et di storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da prima ben radicata nella memoria delle generazioni, approfondita nel sangue della stirpe ; che vi si cristallizz in una foggia, la quale non aveva pi il contenuto cosciente della antica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i pi minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e intangibile. E per allora che r elaborazione artistica sopravvenne con voce pi sicura e lievito pi possente, non pot distruggere per ricreare ; dovette costringersi nella materia, n sorda n asx^ra, ma irrigidita dai secoli : sopravveniva difatto troppo tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari, che furono proprii della saga primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda, contraddistingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende che il racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e nelle interpretazioni dei dotti. La presentazione dei protagonisti. Per che forse la differenza pi notevole fra il racconto indiano e il probabile, d'una probabilit ottimamente fondata, i^rimitivo racconto latino, consista nei mutati nomi delle iDersone. N  da ammirare. Sono molteplici gli aspetti onde un qual siasi spettacolo naturale si presenta all'occhio ingenuo : e tanto pi quanto meno il pensiero scorge tra i varii il nesso unico e ha vigoria per riportare ciascun parvente alla sola sostanza. Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da prima, assai pi che in una personale figura di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina. Spiccatisi pi tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici appresso le differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno fa prevalere, addensando di questo il contenuto e concretando il valore . Cosi l'intuizione fondamentale della fiamma aveva certo moltissimi termini che le corrispondevano : ma uno ne trionfava l, ed un altro qui. Onde accade che un solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge bens quasi identiche presso gl'Indiani e i Latini, ma non mai con identici nomi. La presentazione, adunque, dei protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e senz'altro gl'Italici ; ma, se bene intorno a ci le loro leggende ci appajono per barlumi, in fondo ne siamo all'oscuro, ed  quindi prudenza non affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo mito indoeuropeo senza ancora averne dimenticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare i nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la storia si trova in ben diverse condizioni. Non solo il primo  Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I (Torino 1907) 88. ben certo, l dove il secondo non  n pur formalmente sicuro e varia nei due testi ove appare sol tanto ; ma quello  analizzabile con un etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i Grreci, e questo offre difficolt molto maggiori. Glie in Caco ritorni la radice che anche in xaio) (" brucio, ardo ) e nel prenestino Caeculus,  probabilissimo e consuona bene alla sua natura ed ai suoi offcii. Ma Garano-Recarano  restio a tentativi cosi fatti ; ed  preferibile comprenderlo fra gli di cui non  di certa analisi il nome. Inoltre a lui tocc di esser pi tardi soppiantato da un altro Iddio, ond' impossibile definire, quali sieno gli attributi suoi proprii, e quali al personaggio sieno stati aggiunti dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu prescelto a significare la forza della natm-a la quale nel Rigveda esprime Indra, da Indra non differ forse troppo. E difatti Caco non differisce n pure, nel tutt' insieme, molto da Vritra. Indubitata  la forma mostruosa ; certo  l'atto del vomitar fuoco da le fauci e nerissimo fumo ; congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un antro immane  sua dimora, fra le tenebre cupe. AlFintorno, egli rapisce e distrugge: n forza gli resiste, n ostacolo lo rattiene. Il terrore lo circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua effgie ripugnante ed immonda per si deve riferire ad un secondo stadio del suo evolversi mitico, perch son tracce palesi d'una sua pi vasta comprensione. Egli dovette, ci , nell'inizio, valere come non pur malefico si anche fuoco benefico: e senza dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente, pi che in lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel suo nome. Difatti sotto sembianze piacevoli ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in certi specclii dipinti che ne pervennero unica reliquia. E, sopra tutto, in Roma  attestato il culto d'una Caca^ cui vergini avrebbero con assidua cura vigilato un sacro focolare, non dissimilmente da Vesta. Eorse il termine non significava da principio se non il fuoco nell'atto dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due contrapposte concezioni della fiamma confluirono in esso, e valsero a derivarne ben due figure divine. Il terzo stadio in fine della sua evoluzione Caco toccava quando nei posteriori tentativi di genealogie divine divenne figlio di Vulcano, che aveva a sua volta assunto il primo posto fra i Numi della fiamma. Dei due protagonisti, il furto e il duello si svolgeva quasi certamente in modo simile al racconto del Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e la clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta della caverna e l'abbattimento del mostro tra il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito latino si esauriva, per quanto ci  concesso sapere, dentro questi termini : senza n originalit sua propria di particolari e di figure n smaglianza singolare di colorito formale. Un primo arricchimento gli deriv dall'avere, in proceder di tempi, localizzato con pi esattezza la fiaba, topograficamente vaga nelle origini, come quasi ogni altra. Nello spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il Palatino a oriente, a sud l'Aventino, il Campidoglio a nord, e dove erano nell'et storica il Foro Boario e il Velabro, trov la sua fssa sede la saga. E fu pi vicina alla terra, e pi lontana come dal cielo cosi dal suo proprio senso naturalistico. Fra i colli romani essa divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo di tempi lontanissimi, di cui testimoni unici restavano i monti ed il fiume. Prese a trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia accampando una verit fallace e diversa dalla sua prima, ben j)u effettiva. Un particolare locale s'insinua : la caverna di Caco  pensata nel monte Aventino. E, assai pi di quanto possiamo scorgere nelle testimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae Caci e Vatrium Caci danno contributo di piccoli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma pertanto col in uno stadio, che  il suo primo fra i Latini, e di cui il colle Aventino e i due numi Caco e Garano-Recarano costituiscono i iDerni. Acquistare una sede significa per per un mito, non pure raggiungere una consistenza e saldezza maggiori, bensi allargarsi via via per attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son radicati. E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu invero non presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle penetrasse nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole venisse definitivamente adottato  e sar del tutto incerto . Senza dubbio poi alquanto tempo dovette trascorrere innanzi ch'egli potesse fondersi con gli Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di caco di latini a lui simiglianti o per qual si voglia modo contigui : prima, dovette divenire familiare, ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser conosciuto anche nei suoi minori attributi, assimilarsi infine air ambiente. Non presto dunque dall' " Ara massima  ove nel Foro Boario gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, sopravvenne ad assorbire in s ed annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade in cosi profondo oblio clie non se ne serbino tracce fra gli eruditi dell'et imperiale. Ma come l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto che era di fronte al dio solare notissimo, impresso di grecit? A entrambi, sembra, competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se i riscontri analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma l dove l'uno apparteneva a una religione poco evoluta qual la latina, l'altre recavano con s grande maturit religiosa. Una poi di cotesto imprese di Eracle, la fatica con cui uccise il ^' ruggente Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva il pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole e Caco, che circostanze di luogo e simiglianza di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia nell'occidente spagnolo, ove quella fatica avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della positura geografica approfittarono molti facitori di saghe per le loro combinazioni ; Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man per nessuna forse cosi felicemente come per la latina di Caco. Giacch la vittoria conseguita in Eritia sul Ruggente giustificava, oltre che la presenza di Ercole su l'Aventino, il possesso della mandra che Caco rapisce. In progressione, quanto pi Ercole prevaleva su Recarano-Grarano, tanto pi s'allarg la leggenda. Vi si aggiunsero i particolari sul culto romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece tutto un paragrafo nuovo del racconto, contraddistinto per profondi caratteri dal resto. Non pi il mito della natura; ma l'impasto non sempre coerente di etiologie, con le quali si tenta di spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un costume, un gesto, projettando il tutto, senza prospettiva di tempo, sopra uno schermo unico. Del paragrafo che cosi accresce la leggenda, uno strato appare, se l'ipotesi non erra, di unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni pi tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima erano in et storica, prima che il servizio vi fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C), le famiglie dei Potizii e dei Pinarii ; se non che a questi ultimi sembra che non spettasse come a quei primi di partecipare al banchetto in cui dopo il sacrifizio si consumavano i resti delle vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la decima, per consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in Sicilia e nella Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola Normale Sup. di Pisa l'abigeato di caco d'un bottino conseguito in guerra : e l'offerta era lecita cosi a generali come a privati cittadini. Il primo fra questi fatti e forse anche il secondo costituiscono la trama originaria della leggenda etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito, subito dopo la sua vittoria su Caco, un altare, l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui sarebber stati partecipi membri dei Potizii e dei Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo questi onde non poteron partecipare al banchetto delle viscere. Ercole decret allora che tale nei secoli restasse il costume fra le due famiglie. Se non che dal culto erculeo dell'Ara le donne erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo, non si pens che in Roma Ercole  anche dio della generazione maschile ; ma si disse che le donne avevano offeso il Nume, in qualche maniera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza tarda, e discorda nei testi ov' riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta Carmentalis che ne ha il nome  prossima al Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assistere l'eroe presso l'ara ; o vi sarebbe pervenuta in ritardo : ancor pi che i Pinarii ! Per una redazione forse pi antica in vece, donne rinchiuse presso il Velabro pel culto della Bona Dea avrebbero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di concedergli un po' d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un uomo : onde la vendetta di lui. E anche recente , sembra, il nesso che si strinse fra Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al Foro Boario, dedicata Jovi inventori. Certo  secondario, e per ci non da tutti accolto, il particolare che essa fosse eretta da Ercole per ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il suo padre Giove. Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii, i quali si commettono con la figura di Ercole ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresentano, pur tenendo conto di talune interpolazioni pi tarde, nel complesso un secondo stadio del racconto; un terzo venne di poi a sovrapporsi. Entr nel mito la figura di Evandro. Le cause furono, come per Ercole, due. L'una  identica per entrambi : la contiguit delle sedi ; poich di Evandro era un altare presso la Porta Trigemina non lungi all'Aventino e al Foro Boario. L'altra  analoga, non uguale. Come per Ercole era valsa la simiglianza di lui con Garano-Recarano, cosi per Evandro influ la forma del suo nome. La mente non matura che cerca di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver tutto spiegato allor che ha supposto l'etimo d'un termine. Caco ad esempio venne, e forse da eruditi greci, accostato per omofonia all'aggettivo xaTt^ ^' cattivo ^ ; il quale parve del resto convenir bene al mostruoso ladrone. D'altra parte Euander che volto in greco divenne EdavQog, fu inteso " buon uomo . Indi fu facile il riscontro tra il " malvagio,, dell'Aventino e il ' buon uomo  della Porta Trigemina. Evandro era, in una leggenda che qui non l'abigeato di caco accade di analizzare, un signore di Arcadi dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni retti da Fauno. La sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per pi attinenze con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto in et pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde intorno a ci. L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono racconti cbe oscillano, dalla forma in cui egli  ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto. Ma evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con Caco rende certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e a favore del greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo stadio venne a confluire, confondendovisi, e innestandosi con Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella Carmenta, di cui era un anticbissimo sacrario presso la Porta Carmentalis e che gi vedevamo usufruita per una etiologia del racconto, fu in altra guisa sfruttata per accrescere di solennit la venuta di Ercole in Roma e immetterla nelle tradizioni pi propriamente indigene. Ella avrebbe, cio, predetto in un suo vaticinio l'avvento dell'eroe e la futura divinit di lui. Il fato cosi rendeva veneranda la gesta; e la favoletta serviva assai bene a vantare per antichissimo fra tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata, che si foggia tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De Sanctis St. d. R. Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con quel dell'oracolo Delfico. Tarda, che si trov la maniera di unire all'altra di Evandro questo facendo figlio o amico della profetessa, e col ricordo del vaticinio giustificando l'accoglienza di lui al Tirinzio. Basti di coteste invenzioni, cosi povere e recenti che anche presso i poeti mal si collegano col restante racconto. E impossibile dire chi per primo abbia in un testo scritto accolto il nucleo leggendario pi antico, dai successivi stadi! delFet volgenti deformato in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male composto un organismo di quel che era opera, non del tutto compaginata, d' una lenta e libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudizieni grame. Sol tanto si pu congetturare che Ennio commettesse nel suo poema la materia come del primo (Caco), cosi anche del secondo stadio (Ercole), al meno nella sua pi vetusta parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse adito al terzo stadio (Evandro) ed alle sue propaggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere parallelamente ad un' altra che giustifica assai bene taluni aspetti del mito di Caco ax)presso gli scrittori dell'et augustea. E probabile difatti, la fiaba greca di, Ermes ed Apollo, che l' Inno omerico divulgava in degna veste d'arte e con autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso su quel mito il quale tra i Latini riproduce, con fedelt maggiore, lo stesso unico spunto allegorico indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di caco Maja fu nella mente di talun culto scrittore, come Ennio, non privo di analogie con l'abigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a ripetere qualche particolare attinente pi tosto all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accorgimento del condurre per la coda all'indietro i buoi fino all'antro per disperderne le tracce ; tale anche lo spergiuro del ladro che nega il furto : questi difatti ritrovammo nella G-recia tratti essenziali della saga rielaborata. Certamente per, quanto al di l di coteste innovazioni e giunte s' conservato intatto il primo profilo del mito, cosi che i particolari posteriori si sono aggregati ma non sostituiti ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando la luce e la prospettiva e se n' obliterata la coscienza. Chi ricorda pi se la rapina e la vendetta narrino del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e tenebroso cui la luce  nemica ? Ora, il fenomeno naturale  lontano : la terra il cielo il fiume ^ sono intorno alla leggenda, non dentro ; la colorano, non la costituiscono. Ora, essa  duplice nella sua parvenza. Narrata con un certo abbandono della fantasia, con una cura precisa di non omettere le pi vivide tinte,  una fiaba, da ripetersi perch gradita, da ripetersi con arte per non guastarla, da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande : il tempo e la bellezza. E i poeti la toccheranno con il loro tocco pi lieve e pi esperto. Tramandata in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i margini dell'umano e dell'eroico, riman sospesa ambigua tra la realt e il sogno, che la fiaba muore e non  storia ancora; riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non elimina ogni dubbio e non genera certezza di conoscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la riprodurranno guardinghi e pur non spiacenti. Una fiaba, dunque, presso e il poeta e lo storico. Ma una, cui quello  pago di ammirare, questo  desideroso di credere. Noi non possediamo per n i versi degli artisti pi antichi n le prose dei pi antichi annalisti che in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo riprodotti e compiuti nell'opere mature dell'et di Augusto. ni. I Poeti. Quando, dopo Ennio, l'arte incaston nel verso il fulgore della fiaba, gi la tecnica aveva polito r esametro e, temprandolo per la forza l'aveva reso agile per la grazia delle movenze. La parola regnava : scelta, limata, contesta, vigeva nel tono quanto nel significato; aveva un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase. Esprimeva, e aggiungeva. E il mito visse nella parola, che gli divenne fine pi che mezzo. Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che l'infrenavano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che esigeva e i sostantivi ove si distillava. Ond'  che raro il poeta innov, sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era nell'abigeato di caco l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle massa linguistica allo schema rigido e inviolabile : mentre la licenza facilitava l'opera, il merito splendeva nel difficile. Il gesto della mano che elegge e soppesa la parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si attennero l dove altro procedere esigesse il general tema dell'opera loro, il quarto libro delle Elegie^ l'ottavo dTEneide^ il primo dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli altri due un posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio, difficile cronologicamente a dimostrarsi,  anche artisticamente improbabile, cosi che gli sembra pi tosto parallelo. In tal caso, sia che egli attingesse a un modello diverso, sia che con Ennio non contaminasse altre fonti, sia che infine si ritenesse lecita una libert maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il terzo stadio della leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed Ercole : per noi  quindi, qual che ne sia la causa, un esempio della forma che avrebbe potuto assumere la fiaba senza il mito etimologico sul " cattivo  ladro. Pel resto, il racconto  in tutto personale. I vero tema dell'elegia  Ercole Anfitrioniade, in qualit di Dio venerato nel foro boario con rito greco e senso romano. La sua sola figura campeggia in due quadri, che uniscono egli e il momento del tempo e la postura della scena. Nel primo combatte Caco in una lotta brevemente descritta, la quale sembra importare al poeta pi nel suo insieme cbe nei particolari. Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mistico culto della Bona Dea, l'acqua che gli negano e ne trae vendetta. Sono dunque le due sole avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a s sul suolo dell'Urbe, superate entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe in prescrizione di rito. Una caverna dell'Aventino, e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco, e le chiome bianche d'una sacerdotessa. E l'antichissimo mito della natura si dispone allo stesso piano e nella medesima luce del recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgendone una fantasiosa scena cui rende grata e fresca il murmure d'un fonte. Quando l'Anfitriomade da le tue stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pecorosi palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli stesso pos, l dove il Velbro con la sua propria corrente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele il nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non furono : quegli di furto Giove macchiava. Indigeno Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni emetteva per tre bocche divisi. Egh, perch non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione Phillimore^ (Oxford l'abigeato di caco sere indizi! certi di palese rapina, per la coda all'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio: i giovenchi muggirono il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatt. Dalla Menalia clava le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla : " bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema della clava nostra, due volte da me ricercati, due volte mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo muggito sacrate : il pascolo vostro sar nobile Foro di Eoma . Avea detto, e per la sete ond' secco il palato il volto  contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la terra. Il riso ode lungi di rinchiuse fanciulle. In ombrosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato, clausura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a maschio nessuno impunemente aperti. Le riposte soglie purpuree bende velavano; nella vecchia dimora odoroso fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo e cantanti uccelli densa ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la polvere su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta dinanzi all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate, aprite, vi prego, allo stanco eroe ospitale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui intorno  sonoro di acque ; del ruscello mi basta quanto nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo con le spalle sostenne ? Quegli son io : Alcide la sostenuta terra mi chiama. Chi dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense fiere le non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le tenebre di Stige? E s'anche celebraste Omesso il v. [42J. sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue acque non mi avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e del leone il vello e le chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in veste Sidonia, compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida conocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'irsuto petto e fui con le dure mani garbata fanciulla,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma sacerdotessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non riguardar, o straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su, abbandona, sicuro fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno scorse il vate Tiresia Pallade mentre, la Gorgone deposta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei ti donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, appartata dentro limitare secreto . Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : n l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia. " Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati accoglie : questa terra a me stanco s'apre con pena. La massima ara  egli dice " che dai ritrovati greggi  consacrata, l'ara da queste mani Massima fatta, questa nessuna donna mai veneri, perch senza vendetta non resti la sete d'Ercole escluso . Padre santo salve! di cui si compiace oramai l'avversa Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al libro mio. Cosi il breve carme assempra il magistero delle pause musicali, cui si affida pi espressione tal volta che al contesto delle note : giacch l'abigeato di caco quando il mito vive di forza verbale, la pausa lo costituisce non meno della parola. Dal complesso della leggenda volgata e nota, che rinchiude abbozzato nella mente di tutti il lavoro dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi e le luci, le ombre e gli sfondi lascia alla memoria comune ; e nel silenzio di lui vibra il ricordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno ci che tale ricordo potesse supplire; ma in parte l'abbiamo supposto, in parte ci verr mostrato da Vergilio ed Ovidio. Intendiamo per tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il carattere profondo:  eulta. Il mito, nella sua squisitezza formale,  dottrina; e il compiacimento del poeta  di una garbata esumazione dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito la forza delle sensazioni. Non il senso religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se bene dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e un gusto aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione mitologica. Nei limiti dell'arte, che non pu esser mai volgare, assai meno aristocratica, ma in compenso atta a una pi vasta cerchia di lettori,  la narrazione di Vergilio: perch l'informano quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santit della fede. Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi principi! primi, ed  percorso tutto dal rispetto alla leggenda, come a quella onde scaturisce l'orgoglio del nome romano e si giustifica la gloriosa istoria dei tempi pi vicini; accanto alla I POETI figura del pio eroe Enea, che opera per volere di Griove e abbassa la fronte sotto l'afflato degl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinstituzione del culto erculeo, e celebra et anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non pu non essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato in atteggiamento inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi estremi: comincia con le lotte cruente di Enea contro Turno; finisce con l'inno alle mirabili vittorie romane e alla battaglia d'Azio, significate da Vulcano su lo scudo dell'eroe. Dalle prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza intervallo in un constante sentimento ; e, nella compagine salda degli esametri, appajono le divinit di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La leggenda si affonda nella realt; la religione le penetra entrambe ; e il canto muove dalle radici profonde dei profondi sentimenti del popolo che diede la fantasia alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i divoti. Per ci, e il mito di Caco vien esposto durante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbondante di particolari. Qui  detto quel che Properzio accenna. Qui Ennio non si lchiama, ma si sostituisce. E la primordiale figura della saga, Caco, non  svolta meno della seconda, Ercole, n della terza, Evandro: per che rappresentino, in ordine, la divinit mostruosa e la divinit bella e un antichissimo assetto politico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco cosi collegate che Evandro, il quale d il segno dell'epoca,  il narratore, e nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il combatti- mento assume, difatti, la parte pi notevole perch il canto intiero suona d'armi e perch nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti dei due awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema generale, il mito adombra quei particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia, e lumeggia bene ogni forma di violenza; riconducendoci per obliqua via alla sua probabile foggia originaria: breve in ispecie l'accenno allo spergiuro del ladro, che pi si accosta al furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il gravitar dell'importanza su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme col pretenzioso sfondo storico, le spinge al di l dell'origine di un culto. Poich il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia alla storia, in Caco con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non sol tanto il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pinarii, ma la quiete per gli abitanti del Palatino. E il suo cadavere trascinato per i piedi empie d'un'avida curiosit le menti e non basta ad appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i fuochi spenti su le fauci somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di guerrieri con guerrieri. E sullAventino, ove ENEA contempla ancora le tracce del passato, i contemporanei d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree dimore. Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso: e come lungi son sparsi i macigni, e deserta  la dimora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la spelonca, remota in suo immenso recesso, che il semiumano Caco di feroce aspetto abitava non tcca dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era calda la terra ed affissi su la soglia violenta pendevano volti foschi di lurida tabe. A un tal mostro Vulcano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava la sua vasta mole. A noi bramanti il tempo alla fine recava soccorso, e l'avvento del Dio. Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerone ucciso e deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed il fiume occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco a ci che nullo delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo quattro di mirabile corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche. Poi, perch nessun'orma diretta vi sia, per la coda li trascina nell'antro, del cammino capovolgendo gl'indizii, e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna guidava chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando gi dal pascolo il gregge pasciuto moveva l'Anfitrionade, e procacciava il partire, nella partenza mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion la selva e con clamore abbandonano i colli. Alle voci una delle giovenche rispose per l'enorme antro mugghiando, onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore d'Alcide d'atra bile riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gravata di nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte. Per la prima volta videro i nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge senz'altro pi veloce dell'Euro, l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di caco ali. A pena vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno, che per ferro e per l'arte patema stava sospeso, avea fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito le porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso indagava, ratto qua e l movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte le pietrose soglie in vano tenta : tre volte, stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno macigni, acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa che, prona, dal giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra all'incontro spingendo scrollava; da le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sbito la scaglia con impeto onde risuona l'etra grandissimo, sussultano le rive, e si ritira spaventato il fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar scoperta, e l'ombrosa caverna si mostr nel profondo, non diversa che se nel profondo spalancandosi per forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e dischiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto l'immenso bratro si scorgesse, e pel penetrato lucore tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da la inattesa luce e nella cava rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza e con enormi macigni. Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo nessuno) da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo vomita, ed avvolge la casa in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide 'nel cuore, e con precipite salto si scaglia nel fuoco, l dove pi fitto il fumo volge sua spira e nel grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto nodo Caco, che vani incendii rece, compresso schiacciato gli esorbitan occhi e la gola si ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera casa: i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al cielo, e il deforme cadavere  trascinato pei piedi. Non possono placarsi i cuori mirando gli occhi tremendi, il volto, ed il petto della mezza fiera, villoso di ste, e su le fauci i fuochi spenti. Da allora gli si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio institutore ne fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo. Quest'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verr detta da noi, e massima sempre sar. AVIRGILIO (si veda) sembrerebbe di poter fare seguire senz'altro OVIDIO (si veda); che lo imita su questo punto assai strettamente e ne finge anche il senso religioso e patrio, non inoioportuni n l'uno n l'altro in quei Fasti ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma. In realt sotto una superficiale simiglianza si cela ben profonda differenza. La vita artistica del mito, pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s' esaurita, che non osa violare il modello i^er rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di mutarne i suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato di caco claviger  detto con falsa audacia Ercole; si sminuisce nel gioco artificioso d'una frase, quando  eletta a costituire un verso cosi: Dira viro facies, vires pr corpore, corpus Grande; sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus non leve malum Non  pi la finezza properziana e la ricca concisione:  il lezio ricercato a far un poco attonito chi legga. Ci spiega poi anche la freddezza riposta di tutto il racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll gennaio, e il legame che alla cerimonia sacra lo congiunge  rappresentato dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta difatti, e perch madre di Evandro, e perch profetessa del culto erculeo, giustifica tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame  sottile. Carmenta, numen p-aesens della poesia, ne  lontana dal verso; e la sua lontananza nell'essenza e nella forma (e nell'essenza persiste forse anche quando cessa nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa al mito: il quale tutta l'avrebbe avuta, se raccontato a proposito der sacrifcio ad Ercole nel 12 agosto. E parte similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce (inconscio il poeta) per il colore eh'  dato alla figura di Evandro. Questi non  pi, come in Vergilio, il re che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di celebrar un sacro rito romano :  lo straniero, l'Arcade, giunto da poco, nuovo alla terra, foruscito dalla sua patria, il quale lia bisogno ad apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello sprone materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza al tema, si addensa su la figura di Carmenta; ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato, stronca il vigore nazionale del mito. Non solo : che ^ stabant nova tecta  quando Ercole giunse, straniero egli pure. Unico indigeno, Caco: ossia proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco terrore ed infamia della selva aventina. Cosi una inezia apparente ha tramutato la situazione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'artista se il suo sentimento patrio fosse stato, nei riguardi di questo mito, reale ed efficace. In vece egli imit Vergilio nella superfcie; e all'artifizio di tale imitazione sospese il suo racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorit scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i bovi d'Eritia conduce col il clavigero eroe che del lungo orbe ha misurato il percorso. Mentre lui ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il Tirinzio pastore dal novero avverte mancare due tori. Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le bestie airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia della selva aventina, danno non lieve a l'abigeato di caco stranieri e a vicini. Spietato  del forte l'aspetto, le forze rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro, Mulcbero  padre : per casa, ingente di lunghi recessi ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le belve. Teste all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra squallida d'umane ossa biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi : diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Accolgo il richiamo  dice e, seguendo la voce, vincitor per la selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con un masso strappato dal monte aveva munito, che cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie. Delle spalle questi si serve anche il cielo v'aveva posato e il peso immane smuove crollando. L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pesante mole percossa cede la terra. Da prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con travi e con sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio, ricorre, mal forte, alle arti del padre, e fiamme vomita da la sonora bocca. Le quali sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna ratto baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata trinocchiuta mazza dell'avversario il capo tre quattro volte percuote. Egli cade, e misto col sangue vomita il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra. Un toro fra quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A s costituiva quell'ara che Massima  detta : qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome dal bue. N tace la madre di Evandro, che prossimo  il tempo, in cui la terra abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. Il gesto pi significante clie insieme compiano Livio e Dionisio (i due storici dell'et di Augusto, i quali riferirono la leggenda di Caco)  la dichiarazione con cui rifiutano di accettare responsabilit per quanto raccontano. Cosi si suol tramandare dice Livio; e richiama tacitamente le parole del suo prologo: n di affermare n di negare ho in animo. E Dionisio: " vi sono intorno al nume d'Eracle racconti pi favolosi, e altri pi credibili. Il pi favoloso  questo. E vero che, nel gesto comune, Livio crede pi di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato l'opinione che il mito abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette prender radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si pongono, e risolvono male, il problema della sua attendibilit. Anzi, per diminuire quasi l'importanza stessa del problema, giunsero ad accrescerla. Se avessero riferito il racconto com' in Vergilio, n pur Livio, con la scarsa perspicacia critica che lo segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le favole. In vece essi lo trovano attenuato presso i pi antichi annalisti: lo rinvengono sotto quella veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo convenirgli alla fine delia sua evoluzione. Caco vale a dire,^non vome fiamma n  un mostro. E (Ij Su Livio e Dionisio l'abigeato di caco un uomo malvagio (xaxg), un violento, un ladro : uomo. La possibilit terrena informa la fiaba e non ammette sopra s che l'eroico, Ercole ; onde le due forze divine avverse si spogliano del soprannaturale e il valore del racconto pesa assai pi sul furto che su la vendetta. In questa difatti troppo palese appare la natura mostruosa di Caco, troppo il padre mitico di lui si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve d, cosi in Livio come in Dionisio, notizia della vittoria d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma d'eroe. Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ; ma il malvagio lo invoca in vano. Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce, i buoi stupendi di Gerione la palesano. Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono, negl'incunaboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe di erbosi pascoli, ed Ercole dormiente nella queta ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ; poi una breve folla d'uomini vigorosi si accoglie intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante, il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Carmenta. E l'aura favolosa si forma, oltre il preciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi legge. Resta la fiaba. E nella trama della storia si tinge d'una gravit un po' paludata, d'una seriet riflessiva, le quali non la soffocano affatto, si al contrario l'abbellano di un candore ingenuo. Ma solo la stessa arte di Livio pu dare quel senso secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in quei luoghi conducesse dopo l'uccisione di Gerione magnifici buoi e che presso il fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a s la mandra, in luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per ristorar con la quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come per la gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un pastore di quei dintorni, a nome Caco e di violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e volendo stornar quella preda, perch, se avesse spinto all'inuanzi la mandra verso la spelonca, le impronte medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca, trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per bellezza. Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esamin con gli occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si diresse alla vicina spelonca, se per caso col conducesser le impronte. Quando queste vide tutte rivolte al di fuori n altrove dirette, confuso e mal certo prese a condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi, avendo alcune delle giovenche sospinte muggito, come accade, per desiderio delle restanti, il risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole. Lui che assaltava la spelonca Caco tent di rattener con la forza, ma colpito dalla clava in vano invocando l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei luoghi. Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pastori trepidanti pel forestiero reo di manifesta ucsione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa, scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto maggiori e pi augusti degli umani, gli chiede chi mai Omesso in parte il l'abigeato di caco si sia. Quando il nome e la paternit e la patria ne apprese: nato da Giove, Ercole, disse salve! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti predisse a me la madre, veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata, la quale un giorno il popolo pi opulento della terra chiamer massima e venerer secondo il tuo rito. Dando la destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e di adempiere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima volta con una stupenda giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo al ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le famiglie pi insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che i Potizii fosser pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii giungessero per i restanti cibi ma gi consumate le interiora. Di qui rimase stabilito, finch la schiatta dei Pinarii visse, che non mangiassero le interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di quella cerimonia per molte et, fin quando trasferito a pubblici servi il ministero sacro della famiglia, tutta la schiatta dei Potizii peri. Tale, nell'insieme,  Dionisio: se se ne toglie che Caco  per lui non un pastor ma un predone dei luoglii; che Carmenta  mutata in Temide; che il ladro, interrogato, nega la sua rapina ; che Ercole, prima che a s, alza un altare a Giove Inventore; e pochi altri particolari minori su la cui natura e sul cui valore non  qui da dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non che in Dionisio , di pi, una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due capitoli sopra un racconto cui non crede affatto; scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi adombrato un simbolo che riveler poi, con sicumera da erudito certo di s e del proprio sapere (povera certezza in vero!). Eppure non  nervoso; non sorvola n condensa: insiste e stanca. Il suo pensiero critico  estraneo: si afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se non alla fine : Intorno ad Ercole questo  il racconto favoloso che si tramanda. Alla fiaba manca l'amore. I Razionalisti. Quando alla fiaba manca l'amore, essa non pu che singhiozzare i suoi ultimi guizzi fra le stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante dell'erudizione romana trovarono il fatto loro come i poeti in Ennio, gli storici negli antichi annalisti, negli annalisti dell'et dei Gracchi: Cassio Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che si trovava presso l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non possiamo dubitare su la forma generale. Entrambi, abbandonandosi alla pi rigorosa critica razionalista, concordano nel ridurre il mito a un gramo cencio per tramutarlo in realt; ma si l'abigeato di caco direbbe che il primo abbia l'occhio pi tosto alla redazione poetica della favola siccome apparve poi in Vergilio ed era apparsa prima in Ennio, il secondo invece si parta pi tosto dalla redazione storica che con riserve riprodurranno Livio e Dionisio. Cassio Emina difatti narrava un preteso " racconto veritiero  ove Caco appariva in qualit di servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il buono Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione fondamentale ci ritorna in due testimonianze, ma un po' diversamente: presso il commentator di Vergilio Servio e il suo interpolatore ; e presso uno scritto L'origine del popolo romano^ opera probabile d'un erudito del IV secolo che compilava con grami intenti storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra contaminarlo con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio adunque (e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re degli Arcadi, che per l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto vomitar fumo e fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal greco xang col ritiro dell'accento^ come fu di 'EMvtj in Hlena. Ercole lo abbatt ponendo fine al suo mal fare. Dunque: il racconto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di Caco a simbolo,  travisato nella sua essenza. A tale effetto furono bastevoli tre interventi del razionalismo: l'uno a spiegar e ridurre la natura mostruosa del ladro, l'altro a legittimarne il nome, l'ultimo a giustificarne i rapporti con Evandro. Pi in l si spinge in vece L'origine nell' attinger forse pi compiutamente, certo in modo pi esclusivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole  un uomo forte (il suo vero nome  Recarano), e Caco uno schiavo ribelle; ma il furto  punito per autorit di Evandro senza duello n lotta. I motivi razionali di questa notevole soppressione son due : lo scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di Caco e doveva quindi sorvolare su la circostanza in cui pi il fuoco ha parte ; la qual necessit poi gli servi anche per metter in rilievo la buona figura di Evandro e la giustizia di lui. Ma in cosi fare egli si allontana dalla fiaba poetica molto pi che non appaja Servio, se bene come questo la tenga presente. Come per questa di Cassio Emina doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito fantastico nei termini della realt possibile, ma, rispetto al racconto degli annalisti pi antichi, non era se non se un lieve i tocco; cosi su questo racconto altri critici inrtervennero assai pi profondamente. Ridurre il mostro a servo: ecco una trovata buona. Ma m.utare l'uomo singolo in condottiero di eserciti: ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio nella storia dei popoli anche la breve favola. Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e da un contemporaneo di lui, per qual si voglia via, la deriv a s Dionisio per il suo pi credibile racconto; edizione Jacoby (Lipsia). l'abigeato di caco Quale capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante d'un numeroso esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa dall'Oceano; abbattendo, ove c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le repubbliche violente e dannose ai vicini o i ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui uccisori di stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie repubbliche e costumanze socievoli e umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i barbari, i popoli marittimi con i continentali, che fin allora vivevano disuniti e diffidenti; eostruendo citt ne' luoghi deserti, deviando fiumi che inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili; e l'altre opere compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo n conducendo una mandra di buoi (n di fatti la regione  sulla via di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, n per aver traversato la contrada avi'ebbe meritato tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a col permanere pi a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta phe avvenne pel sopraggiunger dell'inverno e dal non accettare tutti i popoli che occupavano l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi  narrata la sottomissione armata dei LIGURI, non che d'altri ; per continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice che anche il favoleggiato Caco dei Romani, un re affatto barbaro e signore di sudditi selvaggi avesse con Eracle contesa, perch occupando luoghi forti era di danno ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso Eracle essersi accampato nella pianura vicina, con apparecchio da ladrone attacc in sbita mossa l'esercito dormiente, e quanto del bottino rinvenne incustodito caricandosene pred. Dopo per, stretto d'assedio dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i presidi! di lui, i territorii all'intorno presero per s i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con Evandro. Quest'ultima asserzione rivela quanta libert il razionalista si arrogasse; fino a far giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro signore degli Arcadi che la volgata afferma insediato sul Palatino al momento del duello. Libert intesa al servizio del vero " secondo i filosofi e gli storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a creare, accanto alla favola pi propria una fiaba fittizia e grottesca : la fiaba dell'Ercole errante in awentm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render civili i barbari, pacificar i nemici. N del resto sarebbe cosi risibile un tale sforzo verso il " vero , n cosi miserandi apparirebber i suoi risultati; se non gl'inquinasse una mal celata boria, un vanto sicuro di superiorit intellettiva che  solamente sterile miseria. Su queste rovine pochi poveri racconti si stremano ancora. Evandro richiama con s la figura di Fauno di cui era divenuto un equivalente sotto l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira il nome di Latino, suo figlio : il sacrario di Caca suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di caco nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello. Poi,  il silenzio. Singolare sorte della saga, in verit. Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle geniture in una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Palatino l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II secolo a. C. non pur la sua forma poetica e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e su questa lo spruzzo livido dei razionalisti : per modo, che sopra il quadruplice schema l'et pi possente del pensiero romano, l'augustea, non seppe se non disporre adorne trame di ben vagliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe preclusa nel sguito ogni ulteriore vita : per che dovesse morire intero con l'estinguersi la potenza alla sua bellezza verbale. Cirene mitica t^roj; libera Ditti e la madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma parecchi fra i consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia considerato l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al sole competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai cosf risaputo che pu esser per criteri soggettivi negato, ma non deve pi esser ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI Mythos und Religion e SANCTIS (si veda), Storia dei Romani Religione primitiva dei Romani e GLINDO-EUROPEI IN ITALIA. GLARII IN ITALIA. Un eroe solare ritiene difatti Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech. Mythologie. N sono sufficienti, anzi non sono valevoli, le argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher Lex.: giacch egli dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi, insostenibile) sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.: Perseus 'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait  son arme, la harp, adore comme Vakineks l'tait chez les Scythes e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e gli spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto. A questo proposito sar anzi bene osservare che, per reagire agli eccessi di quegli studiosi che in ogni eroe videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nell'eccesso opposto di negare ogni sostrato o nucleo naturalistico e di ridurre ogni episodio a novella. Sintomo significativo di questo secondo eccesso  l'articolo di R. Sciava in " Atene e Roma. Assai equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo e la mitologia comparata Pisa. Ma  notevole che quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato e l'origine della Sfinge; e quel primo, trattando di BELLEROFONTE (si veda  H. P. Grice, Vacuous Names), non spiega la CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi appajono per ci stesso attenti a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti.  quindi metodo migliore, credo, far giusta parte nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno alla priorit dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in parte, resoluto caso per caso; in parte  d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui diremo solo, in breve, che l'intuizione naturalistica suppone una grossolana conoscenza della natura e dell'uomo, mentre la novella  gi densa di pi larga e pi ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo queste premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico, nei varii nuclei in cui abbiam veduto per s stesso spezzarsi il racconto di Perseo.  tesi vecchia: cfr. per es. il sennato art. diJ. RviLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete, Polidette e Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare della fuga di Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica: fuga con cui  connessa la menzione del re pelasgico Teutamida e di un ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll. R.). Si son sempre in ci vedute tracce d'un'influenza tessalica sul mito di Perseo (cfr. Kuhnert). Ma ben pi sembra che se ne possa dedurre ricordando quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen der Homerkritik, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo tessalica ["Aqyos JleaayiKv deVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui l'Argo pelasgica dei Tessali s' potuta identificare con l'Argo del Peloponneso cosi che gli eroi di quella furono a questa attribuiti,  molto probabile che l'Argo di cui  re quell'Acrisio che la stessa leggenda peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine al meno, non quella pretesa dai mitografi antichi e critici moderni, si l'altra di Tessaglia. E si pu con probabilit scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono gi constatati e che si ripresenta con i caratteri consueti. Da questa constatazione fondamentale traggono rilievo alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali son pure, a un tempo, riprova della verit di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui d notizia Apoll. I 88, in un luogo che non , come il v., sotto l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte diversa; 2. la nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fratello di Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, che riferisce questa come una tradizione parallela alla ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la notizia a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiaramente iutravvedere una forma della fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae sono personaggi tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie , in origine, re pelasgico, quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e assicurato al nucleo originario del mito l'intervento di quelle due figure. 11 secondo particolare poi  d'importanza anche maggiore. Per esso noi dobbiamo di fatti scegliere fra la tradizione che dice Zeus padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non possiamo non propendere a riconoscere carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei miti e nella vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che fin Argo l'eponimo del luogo,  figlio di lui (Esiodo fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr., MLLER FHG). La tradizione pertanto che dice di Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son gi palesissimi. E poich col delitto di Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di Acrisie irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora da Ovidio Metani. versi; i quali riproducono una tradizione gi alterata da elementi estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per cui poteva interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie addirittura lo superasse). N contro l'ipotesi che Preto appartenga allo strato tessalico del mito crea ostacoli il rilievo ch'egli acquist poi nelle saghe tirinzie : che potrebbe essere, come riteniamo, posteriore al suo trasporto nell'Argolide insieme con Perseo e Acrisie. Anzi la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus sostituito in regioni ov'egli era poco noto in sul principio e ove pot localizzarsi solo obliterando il proprio valore. Che per, velatamente, appare anche nella connessione con i Liei C Luminosi) in cui egli  posto dtiVIliade Z. Tuttavia gli elementi cosi sceverati, che appartengono potrebbero appartenere a uno strato tessalico della leggenda, non sarebbero di per s sufficienti a provare di quello strato l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non dessero modo di trarne un racconto organico e coerente, che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti mitici e novellistici analoghi. Ora  notevole in vece che, tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo le inserzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama compiuta d'un mito: serbate le due figure di Acrisio e di Preto di cui l'una ha avuto culto in Larisa, l'altra  anteriore a Zeus peloponnesiaco e ne sar sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in Scol.ApoU. R.) che diviene anche pi dicevole per la vicinanza e le attinenze fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Polidette figli di Magnete, onde si acquista anche sufficiente notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e Danae; serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: ne nasce un racconto che  omogeneo e definito, e si raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e la figura di Danae: giacch se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe supporre che essa sostituisse un nome e una figura pi antichi. Ora se  certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e le Danaidi, cui Danae si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e caratteristico ceppo mitico; non  per man certa la presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R. e Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso che Danae pu appartenere assai bene allo strato tessalico del nostro mito; e che, se non  dicevole ai fini della ricerca presente il vagliare il problema mitico di Danao, in questo problema tuttavia la nostra ipotesi intorno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni distinte in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch' intorno ad Acrisio e alla sua morte. N  difficile stabilire l'epoca approssimativa in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti Zeus , come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete tessalico, quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne deve dedurre che come l'et tarda del passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete, cosi la sua comparativa antichit, giacch anche le meno antiche interpolazioni dell'Iliade son certo abbastanza vetuste, fa risalire non poco nei tempi l'intervento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare partitamente l'uno e l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato peloponnesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico consiste non tanto nel cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di Perseo e il Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire passo passo, fin che  possibile, il processo di penetrazione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze si veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex.; cui mi richiamer volta a volta). Ora non v'ha dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in Micene in Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria dev'esser andata innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure che a lui si attengono miticamente. Ed  del pari certo che cotesta germinazione di miti secondari sul ceppo del principale dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e propria della leggenda le peculiarit locali non han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro  da dirsi riguardo a Serifo: per cui  a priori possibile cosi che il culto abbia preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette, come che sia avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe per da spiegare perch il culto di Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta la domanda che chiedesse il motivo onde Serifo fu dai mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine all'Argolide, come sede del salvator di Perseo. N l'esame della genealogia di Ditti e Polidette conduce ad alcun che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di quella la quale contiene bens riferimenti a Danao e all'Argolide, non a Serifo. Nel mito primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per uccidere Acrisie era senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Pi tardi la localizzazione dev'esser divenuta pi esplicita, e sappiamo che nella Magnesia s'era trovato il punto dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e improbabile che questo fosse tale da determinar per analogia a dirittura omonimia la scelta di Serifo fra l'isole che sono ad oriente e non lontano da Argo peloponnesiaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta avesse un motivo unicamente geografico l'est; ma  ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda all'isole che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipotesi che dovrebbe, quindi, integrarsi con altra la quale supponesse un intervento di casualit. Il problema rimane ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333 dunque senza soluzione recisa. A ogni modo Serifo deve essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perch vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poich lo stesso  da dire di Zeus che prende il posto di Preto, bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati gi quando il culto di Perseo prese a difiondersi per tutto il Peloponneso. Un momento successivo  occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.). Questa saga non si sarebbe dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in Tirinto assunto importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i mitologi a darne una giustificazione. D'altra parte se era plausibile che, come si disse da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse sls "Aqyos nave&Elv, era facile legittimare la scelta di Tirinto ch'egli avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era radicato e svolto quel Preto che importato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della saga tessala attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte l'altre saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.: Pads.), che sfuggono al racconto dApollodoro, testimoniando per tal modo la loro recenziorit. La sanzione definitiva per dell'insediarsi nel Peloponneso, specialmente nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data dai genealogisti. Combinando Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta il seguente schema che pu valere come volgata su questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante Euridice ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe Alceo Elettrione Stenelo Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo Ippotoe ERACLE Tafio Poich  troppo chiaro che di questa genealogia i punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova che Acrisio e Preto sono originarie divinit argive (predoriche) cui si vuol imparentare l'eroe dorico pi recente Eracle, non senza che nel contrasto fra questo ed Euristeo sussista traccia della diversit dei ceppi. Ma se a Kuhnert si pu concedere che tardo sia l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli si pu consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi occupano nello schema genealogico  ben motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine peloponnesiaca. Il nome di Danae doveva riportar sibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per quanto era possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere: una, quella di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Pi oscura resta la presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi per la congettura. Abante  ritenuto l'eponimo di Abe in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. B 536, Scoi. Pind. FU. Vili 77). Su di lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento : oc oh [r "AQyog t Ileaaytiv] o itiv [xovrai] ^ t zojv Qerza&v 7tiov oSrcog voiiuTtyiaig eyfievov, &ef.tvov zovvofia ''Aj^avTog, ^ "Agyovg Ssvq Tioixi^aavTog. Qui , sbito evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo; ma  del pari evidente che un motivo deve aver indotto a sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introduzione del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non pu esser altro che il trovarsi come nel Peloponneso cosi nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza di nomi affini a quello di lui in Eubea e nella Focide: territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma se ci  probabile, ne deriva che Abante pot essere importato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica e si spiega in fine la presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. Per Ditti e Polidette non si trattava in vece che di porli nella medesima generazione di Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne l'accoglienza: e a ci valsero nomi come quello di Nauplio, eponimo di Nauplia, di Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U., di Peristene, sposo d'una danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra Acrisio e Danae innestati fra Danao (gi anticamente peloponnesiaco) ed Eracle (meno anticamente peloponnesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e le Sglie di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert) rivelano la analoga tendenza a collegar il nuovo venuto eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale per Dioniso che la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone; Cirillo c. lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr. IL. Questa dev'essere la leggenda pi antica; l'altra in cui il vinto  Perseo (cfr. Kthnert) dov nascere allor che Dioniso fu pi a fondo penetrato in Argolide]. Che se per lo strato argohco pu esser suddiviso in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a gittar, di fatti, molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero nel mito e che sono tutt'afFatto novellistici. Certo esso , originariamente, vivo di sostanza naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve valere quale divinit del mare (Beloch Gr. G.) della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene forse sia eccessivo precisare di pi, in ciascuno di questi casi  chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo innegabile strato, nel mito tessalico Danae ci appare gi ricca di un nuovo contenuto. Il motivo invero della figlia o, pi latamente, della vergine che contro un esplicito divieto divien madre e paga il fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola creatura  svolto in larga diffusione nel folk-lore. E non ha nulla in comune con lo spunto, che si fonda sopra una primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di Perseo contro il nonno. Ugual carattere novellistico si riscontra poi in Ditti: il cui nome non  se non il generico appellativo " pescatore, (cosi che  quasi vana postilla quella di Ferec. fr. iy.Tvi>) ievmv) e la cui natura  per tanto assimilabile a quella del consueto pastore agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe bens pensarsi anche a una divinit pescatrice (cfr. la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass presso Wide Lahonische Kulte e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della fiaba lo esclude, e al pili concede di supporre che il caso sia per Ditti analogo a quello di Danae: che cio l'indubitabile carattere novellistico offuschi un antico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per quel primo carattere non per questo sostrato Ditti entr e rimase nel mito di Perseo. Altro  di Polidette: questa stessa forma verbale si rintraccia difatti in un attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios Jbb. Phil. ha creduto di identitcar con Ade appunto anche l'ospite di Danae e Perseo. L'ipotesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni : anzi tutto non  da credere col Crusius che Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da epiteto si trasformasse in fratello; ma tenendo conto del folk-lore e delle sue forme consuete,  da pensare invece che originario fosse Polidette, il cui significato trasparente fa intra vvedere un fondo naturalistico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della saga, e posteriore Ditti. Inoltre altra  la interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo con Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'importanza del mito su questa, la riteneva simbolo dell'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo (= Ermes) libera. Se al contrario  vero che Danae  divinit del mare o del bujo e Polidette  nume sotterraneo, la spiegazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole dall'ombra; ma poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un doppione di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere Acrisio non pur dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra, dalla regione sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattivit di Danae presso Ade-Polidette  dunque giustificata anche dalla affinit F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal caso, ammettendo la diversit di Ditti e di Polidette, la tradizione ferecidea che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba spiegare come un atto unico di elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per la sua positura astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre, e dalla paternit dedotto il rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato argolico, di cui vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo scernere gli elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un lato una fiaba di schema consueto e di per s bastevole, ma offrono per altro lato appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine, continuando, ce ne dar conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Glelementi che caratterizzano la prima avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch' compreso fra la sua cacciata da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi jonici. La Dea che lo protegge  Atena, la quale ci riporta senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta  Ermes, di cui in Atene  culto notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex.); il mostro che combatte e vince  quel medesimo di cui il capo  sullo scudo di Pallade (Iliade); il luogo onde si muove  Serifo, colonia di Joni. A questi dati fanno buon riscontro le notizie che per altra via si posseggono intorno al culto di Perseo in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in Atene (Kchnert), in Mileto (Strab. cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ci, poich anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori di questi n favorevoli n contrarli,  lecito dedurre che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e che per conseguenza la sua formazione  posteriore ai principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un effetto. Quanto  probabile questo risultato tanto par certo il contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso [Esiodo] Teog.) nQrjv kvtov 'Qxeavoo oxa^tfl TCQg vvCTg, tv' 'EajtEQisg iy^cpcovoi ; sono pertanto evidenti mostri delle tenebre e della notte che dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. L presso si devono ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole {Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso, stanno gli Iperborei (cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr. Tzetze Chil.). Non  dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura contro le Gorgoni si riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di Acrisie e con quella del kjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che quando in territorio jonico il mito di Perseo venne importato e diffuso, il suo valore era ancor a sufficienza noto e chiaro. E da origine rintracciabile con probabilit derivano anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che Atena avesse sul suo scudo il capo di Medusa non  spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in (Ij Su le Gorgoni v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin 1912) su lo stesso tema non merita d'esser citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom. TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su gl'Iperborei v. 0. Schrder " Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.; Gruppe in Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech. Gesch} I 1, 154) d risalto a quello spunto, cosi che vi fa trasparire un'antica antitesi fra Pallade e le tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serb sempre, accanto al mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e Apoll. II 46  costretto a farne menzione. E, ultima riprova di un fatto gi a bastanza palese, anche quando alla Dea si sottrae il merito della vittoria contro Medusa, a lei sempre si attribuisce l'ausilio in favor di Perseo (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di Medusa  pure su lo scudo di Agamennone in //. A Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che  fra Atena e la stessa Medusa. Ma bisogna rammentare che su lo scudo il capo della Gorgone divent ben presto un costante e diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione. Dalla medesima Atena  desunta la y.vvi\ ond' coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti menzionata per lei in //. E 845 ("^'^os KvvrJ. Di natura diversa, e novellistica, sembrano in vece e i calzari alati e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono mostri analoghi alle Gorgoni bens tipi esagerati della vecchiaia, di cui la novella suol compiacersi; ma perch un aspetto mostruoso  in loro innegabile, per ci bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet.; Apoll.; TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre. Accadde per che la parentela con le Gorgoni e la paternit di Forco traviasse i critici; che vollero in gran numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp in RoscHER Lex.). Ma bisognava prima provare (e la prova manca) che la parentela e la paternit sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle Graje la novella approfitt per farne i personaggi di una pre-avventura, la quale trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni talismani, che ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. Ufficio analogo (e analoga origine per conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la falce di lui. Mentre per le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle che la notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si scontr con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure (Beloch Griech. Gesch. Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi novellistici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera della diffusione cui and soggetto il culto di Perseo. Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa nel mito di Perseo pare concepito in territorio jonico; , nel suo fondamento, senza dubbio naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena, Ermes) si mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i talari); e tutto il contesto  per tal modo novellistico che anche quei personaggi vi intervengono con offici proprii della novella. V. Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde  costituita la impresa di Perseo contro il x^roy sono di natura e origine assai pi incerta che quelli raccolti intorno a Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla prima forma del racconto e a limitar l'indagine pur ai In quanto al valore originario di Ermes lascio qui intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A. IRicordo anche Roscher Heines der Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der Mondgott (Leipzig 1908) che determin una polemica appunto col Roscher. dati tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in quei luoghi (v. sotto), inducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il territorio forse di formazione e probabilmente di diffusione di quell'episodio mitico. Molto pi deve dire un esame delle figure singole. La lotta di Perseo contro il v,f}zog , bisogna a pena osservarlo, parallela per significato all'impresa avverso Medusa. Sarebbe quindi gi a priori da attender notizia intomo a un Nume che in quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra esercita Atena; e un cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine etimologica, da ravvisar in Andromeda, nel cui nome  non dubbia la radicale di vfjQ; se a conferma validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst.; KuNHERT) in cui Andromeda appare non legata, vittima prossima del n^Tog e premio futuro all'eroico liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in mucchio li presso. Ivi ella  senza dubbio queir " ajutatrice  che la congettura avrebbe per s supposta. N la comparativamente tarda et del vaso (VI sec.) deve stupire:  ovvio che la stilizzata tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che esso aveva pia anticamente assunta. Questa ipotesi per intorno al primitivo racconto sul x^rof, se  tanto evidente da indur meraviglia che il cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020), pone anche il problema su le cause del passaggio da quello stadio mitico a quello ch' in Ferecide. Ora  chiaro che l'episodio di Medusa e quel del tijTog non potevano, nella veste pi arcaica, venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse notare, sbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissimilarli. Inoltre, a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto su quella saga naturalistica di uno spunto novellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). Se non che alla medesima forma vetusta e primordiale dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu veduto dianzi come le sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai mostri tenebrosi. E tanto pi qui il loro ricordo era importante in quanto, mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il nrjTog per s non sarebbe stato indizio locale bastevole.  cosi preparato il terreno a giudicar di Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali da non permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha pi a fondo radicato. I testi fondamentali di Apoll., di Paus., di Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno figlio di Aleo, eponimo di Alea in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea appunto, in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee Lex.: fissano in modo esplicito per l'et storica la sede prevalente del suo essere mitico presso gli Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che da Cafeo avrebbe preso nome la citt arcadica di Cafe. Il problema, che non in questo caso solo si presenta alla critica, fra le attinenze reciproche de' due nomi non pu esser risolto fin che manchino notizie sul culto di Cefeo, che solo risolverebbe la quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi sembra per superficiale. vare alla citt il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle attinenze non sono da negare. E queste notizie sono non infirmate, ma consolidate da Licofkone Aless. ove Cefeo  n:' ^Qevov \ Avfii^ re BovQaiotoiv ijyef*)v OTQazov : perch nell'Acuja dobbiamo ravvisare uno dei punti tcchi dall' irradiarsi di lui fuor dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor dell'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi, cacciati da Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto ottenendone in premio la perenne salvezza del suo dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se gi Alcmane fr. Bgk. {^ax ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] vdao)v) ne aveva sentore: cfr. inoltre Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una pi tosto tarda irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja, fra Cefeo e Sparta, di gran lunga posteriore va ritenuto, sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi. B a lliad. B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatQe^ ^aav v' . 11 TiMPEL Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi, che queste parole derivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce, richiamandosi alle sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede prima di Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non  difficile chiarire la genesi, posto che equivoco di nome non siavi, della notizia serbata in quello scolio. Le genealogie che esamineremo pi tardi (v. sotto) uniscono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e beoti per Queste genealogie sono studiate ampiamente, se non acutamente, da A. W. Gomme " Jour. of Hell. Stud.  XXXIII (1913) 53 sgg. eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi, Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. Tra queste notizie, pi meno tarde, che ci riportano all'Acaja a Sparta alla Beozia, e quelle che ci richiamano all'Arcadia il criterio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo arcade  secondo Ellanico (fr. = scoi. Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip. Fenice; contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio di Posidone; e secondo Apoll. fratello di Licurgo (per contro di Licurgo  figlio presso Apoll.). Questi dati genealogici, come ci vengono riferiti solo per il Cefeo dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo carattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile etimologia del suo nome. Di fatti sia che vi si voglia riscontrare la radice kuF- sia che con gli antichi gramatici lo si riconnetta con ncjcpg (confr. x^go^f), sempre vi traspare la natura d'una divinit ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene pensata o abitante nelle oscure cavit che sono oltre la linea donde sorge il sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di Cefeo in Arcadia dev'essere la pi antica, come quella con cui va tuttavia connesso il ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome rivelano del pari. Mentre per il nesso fra Cefeo e gli Etiopi risulta in tal modo se non primordiale certo antichissimo, non si pu dire altrettanto del nesso con Andromeda. In vero se questa  sul principio 1' " ajutatrice, di Perseo, solo quando, ed , come si vide, assai per tempo, l'avventura dell'eroe contro il xijvos fu localizzata fra gli Etiopi, e solo a traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con Cefeo. Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo sufficienti a costituire, per s soli, la trama di un episodio mitico; onde la presenza di Fineo e Gassiepea, per non sembrare un' intrusione superflua deve venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due figure. Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si tratta del tipo novellistico della " millantatrce  (cfr. TMPEL in Roschek Lex.) che compete in bellezza con le dee e ne  punita in s o nella prole. I luoghi per tanto dove vien fatto di rintracciarla non hanno attinenza alcuna con la sua natura e solo ella vi  indotta a traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta (miticamente e genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo fr. Rz.), fatta discendere da Thronie, l'eponima d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi. D a, II. B. Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni vicine) han nessi cultuali e geografici. Fu dunque abbagliato da localizzazioni, che son conseguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il Tumpel quando su la fede dei luoghi citati asser Cassiepea esser beota. Ma se la Millantatrice  originariamente estranea a ogni luogo, essa anche con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa non per contiguit di luoghi ma a compimento della trama novellistica che quelli comprendeva. Non  quindi dubbio che la sua presenza accanto Andromeda risalga a quel momento in cui la figura di questa viene appunto novellisticamente atteggiata nel tipo della vergine che un prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diventava necessario giustificare in qualche modo la cattivit della fanciulla; alla quale il vanto della Millantatrice, pot divenire argomento sufficiente (contro Tumpel). E solo a traverso Andromeda si strinse il legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La riprova di questa ipotesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e in quella parte del mito ohe pi le attiene alcun indizio d'un'antica e diversa vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a sufficenza in luce il sostrato naturalistico del mito, che  pi propriamente suo, delle Arpie di Elios e de' Boreadi; ci  la lotta dei caldi venti del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole e di danno, contro i venti del Nord, che insorgono a respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo settentrione. In questo sostrato per non si vede elemento alcuno onde possa giustificarsi l'intervento di Fineo nel mito di Andromeda, all'infuori del contrasto che  fra la sua figura e l'eroe solare Perseo : contrasto che rendeva anche dicevole la presenza sua fra gli Etiopi. Ma se le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza contraddizione cosi al nord come a l'estremo oriente o a l'estremo occidente, la sede geografica di lui fu rintracciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci quello l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimonianze raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex.). Col egli divenne l'eponimo della regione vicina e de' popoli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici (Bkloch Griech. Gesch.) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche l'ipotesi, contraddicente quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra Fineo e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso geografico.Senza dubbio per le tracce che si riscontrano intorno a un Fineo Arcade (presso Apoll. ove Fineo  figlio dell'arcade Licaone e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove  rex Arcadiae) debbono ritenersi posteriori al nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. N giova a sostegno del contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ; perch non  giusto che ci uniformiamo al sincretismo de' mitografi Greci, onde pi figure analoghe di numi erano unificati in un solo aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinit analoghe parte simili parte dissimili, senza che la localit dell'una possa illuminarci su quella, probabile, delle altre. Restano ancra da indagare le attinenze tra Fineo e Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in tutta la sua complessit. A tale scopo  necessario ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso Tepica esiodea. Il Tmpel (negli articoli citi del RoscHER Lex.) ha considerati divisi e distinti i due frr. di 'ESiq-do {Rzach) 31 e 23. E ha pertanto ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo questi due schemi: I (fr.): Tronie Ermes Arabo I Cassiepea (fr.): Agenore Cassiepea ~ Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda  Strab: che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi ed Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQ  Che han per fondamento, insieme con l'altro art. del Lex., il voluminoso saggio dello stesso TMPEL in " Jahbb. Phil., Supplbnd. II concetto essenziale di questo saggio (che nella pi antica forma del mito la sede dell'episodio di Andromeda  Rodi)  stato, mi sembra a ragione, confutato dal KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA Tv 'EQf*p}v Tto fiv s'iQrizai, 7if&av)raT0t S elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag yea&ai. Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&' ly,fA,t]v koI Siovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole il sostituire con Zenone "AQa^dg te : perch, dice, non v' corruttela di testo; v' bens mutazione di nome dalla pi antica all'et posteriore. Omero difatti ricorda gli E r e m b i ; Esiodo in vece v KaiaXyqj conosce Arabo: Kal xoijQ']v 'Aqc^oio ...KT [fr.]. Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che gi ai tempi di Esiodo il nome di Arabia esistesse, e non esistesse ancora ai tempi di Omero (aar tovg rJQcoag). Di questo passo l'interpretazione non pu essere, pare, che una : Esiodo faceva fCassiepea] figlia di Arabo, figlio a sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tmpel in vece si lascia fuorviare dalla menzione, che quivi  fatta brevemente, degli Etiopi, e ritiene che per Strabene Arabia sia il nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri ^Aqufioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde integra il fr. cosi: Tronie Ermes Arabo I Cassiepea Cefeo Andromeda. Se non che nel luogo di Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. e Anton. Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. \7t yQ xov elg zjv ^Qav /*fiavetv tog 'EQe/*fiovg zv(ji,ooyovat, oUvcg ol tiooI, ofig fieraafivzeg ol dareQov nl T aacpateQOv TQtyoviag ndeaav ' otoi S (ol 'E Q e fi fio i) e la IV ^A Qd fi wv olTcl&dzegov fiQog Tov 'Agafilov ktiov ksk i fivo i, t TiQg Aly7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, continua, per tal motivo appunto questi Erembi son ricordati da Omero: in causa, ci , della lor vicinanza con gli Etiopi, citati nel verso medesimo : to-tov (twv 'E^efifi&v) elug fiefivja&ai Tv TioifjTjv xal TiQg vovTOvg (pl%d-aL Xyeiv Tv MevXaov, xad' hv tqtiov sQrjxai, xal TtQg zovg Ald'loTiag' zfj yQ Orjfiatdt nal odzoi TtTjaid^ovoi. E parimenti {/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g Tiorjfilag (xdQLv) y,al zov v^ov. Come si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea della positura geografica degli Erembi {^Qg) e a fornire un motivo dell'averli Omero ricordati insieme. Ma si  ben lungi da una qual si voglia identificazione " Erembi = Etiopi  ! L'unico dato positivo adunque che dal luogo cit. di Strab. si ricava  la discendenza di Cassiepea da Arabo. La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I 43), da cui  a sua volta integrata. " Vi sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg Tjv Kad"' ^f*g ^otvlTirjv fA.Ezdyovai, nal za nsQ ztjv 'Av~ QOftSav v 'lTZ] avfifiy\val (paai ' oi> r'jnov xar' ayvoiav Tonimjv aal zovzcv eyofivcov, ^ v ^v&ov fiov a^'^fiazi " xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaiSq) aul zog aoig  7tQ0(pQei  ' AnoXXoQog ...  Vi erano adunque alcuni che fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v. 'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II 375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono occupato, che ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte. Etiopi fra i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi questo fatto  che in Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31 Rz.) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda  regina degli Etiopi. Non  quindi in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse ad essere moglie di Cefeo : n si vede a che condurrebbe, COSI fatta interpretazione, se non a confonder il testo altrimenti chiaro. Concludendo, da Strabene, ben letto; pu risultar soltanto: che Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2) che era moglie di Fenice. E quindi permesso unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e costruire il seguente schema esiodeo: I-f II (fr. 23 + 31): Tronie - Ermes I Agenore Arabo j I I Cassiepea - Fenice I Fineo. Nel quale schema, analizzando si ravvisano svibito elementi secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo  senza alcun dubbio da spiegarsi al modo medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ci , un avvicinamento di numi eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stranieri. Ma il primo di quei nessi non pu legittimarsi se non pensando a possibili analogie mitiche tra Fineo e Cassiepea (poich l'ipotesi d'un legame casuale non servirebbe che ove tutte le altre non fosser riuscibili). E difatti un'affinit si vede sbito tra le due figure invise agli di e dagli di punite : l'una come millantatrice; l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di pi poi permette di discernere l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre sono : Fineo avrebbe preferito una lunga vita alla vista, offendendo Elios (Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via a Frisso; Fineo avrebbe ajutato nel viaggio fra le Simplgadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R. Il). Ora  ovvio che il terzo motivo  ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il secondo  posteriore alla localizzazione di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che il primo  il pii antico. Ma del pari  ovvio che di questo motivo si dove cominciar a sentir bisogno quando il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo and inavvertito ; giacch prima era sufBciente a tutto legittimare la natura di lui e quella di Elios. Non  pertanto improbabile che in quell'et comparativamente non antica in cui si ebbero a cercar gli spunii novellistici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del vedere, COSI piacesse (e forse per una pena analoga ma diversa) l'aneddoto del vanto di Cassiepea punito nel figlio, Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la genealogia esiodea. In somma, pu darsi sia che Cassiepea e Fineo si connettessero primamente per i motivi or ora supposti, sia che si connettessero poi, traverso Fenice, al par del quale Fineo era considerato eponimo di popoli stranieri. Riassumendo ora in breve i risultati delle singole indagini, veniamo a importanti ipotesi: Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo Andromeda (Etiopi), uno spunto, ed entra in quella trama; Fineo si unisce a Cassiepea per lo spunto no- L'ipotesi  del mio maestro SANCTIS (si veda); la responsabilit dell'argomentazione  mia. vellistico che trova in questa la causa della pena di quello; o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice), come rappresentante di genti straniere; Fineo si unisce a Perseo come nume del bujo ad eroe solare; o, in linea secondaria, a Cefeo come rappresentante di genti straniere. Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a) nel racconto ferecideo del mito di Perseo; V nella genealogia esiodea di Fineo; e) in Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa  una matassa confusa di cui bisogna sceverare le fila conduttrici. Un gruppo a s, e d'importanza minore,  costituito dalle attinenze a sostrato etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura evidentemente tarda  tale, che ove accanto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a sostrato naturalistico o novellistico, a questa  da dar la preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo  costituito da questo racconto, coerente e conchiuso: Cassiepea si vanta e la divinit offesa la punisce nel figlio Fineo (h); questi  condannato a venir superato in duello da Perseo. Un terzo gruppo infine  costituito da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso; Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne  punita 5 Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo  testimoniato in Ferecide (= Apollodoro) ; il pili ipotetico  il secondo : esso suppone in vero e una variante su la causa della pena di Fineo, e una variante su questa pena medesima : vale a dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie. Ma come l'esistenza di coteste varianti non  affatto improbabile nella ricchezza di produzione mitica originaria, cosi esso gruppo spiega molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo; F., Kalypso. discendenza e duello che si potrebber bens giustificare pensando per l'una a un errore di genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi per che non ci saprebbero render ragione n della singolarit per cui l'errore sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico pu ottimamente congiungere, n della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il protagonista dello spunto novellistico. Poich invece l'equivoco si pu ammettere solo ove sieno confusi elementi tra s inconciliabili e discrepanti; e la preferenza casuale si pu concedere solo quando la preferenza logica sia impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi nostra, pur non pretendendo di rispondere con esattezza alla verit n di essere perentoria, spiega almeno nel modo che pare pili semplice tutte le testimonianze che sono a noi conosciute. E, ultimo vantaggio, non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero, trasformandosi accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto unico, in cui Cassiepea si vanta, la figlia di Andromeda ne  punita e Perseo la libera col tradimento di Fineo che  ucciso da Perseo. Dopo le quali conclusioni, non resta che da determinar conpid esattezza il valore di alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea Fineo e Perseo. L'Egitto e la Libia son gi noti all'epopea omerica: Il; Od.; e sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie. Ma pi oscura  la essenza di Agenore (cfr. Stoll in RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425 545-90 ove appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi ci dan una scialba imagine di cotesta persona, senza attinenze chiare con miti, con alcuni dei quali a mala pena si collega per nessi insignificanti e punto caratteristici. Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.) singolare di un Agenore padre di Sipilo, la quale potrebbe riconnettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un Agenore argivo (Pads.; Apoll.; Igino Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un Agenore avo di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di Fegeo re di Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav.), se rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a prender inizio. Poich non pu esser qui da discutere l'Agenore etolico, il problema consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di Cefeo e Fenice per motivi di contiguit geografica con il primo d'essi e con Danao ; oppure se la presenza sporadica del nome di lui negli schemi del Peloponneso sia posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto dell'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento naturalistico-novellistico o sopra base etnicogeografica, sembra da preferirsi la congettura che in quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualit di rappresentante dei popoli che abitavano la Troade, grossolanamente limitrofi di quei del Ponto, cui Fineo simboleggia : congettura che  confortata dal nesso di Agenore con le genealogie ove appajono Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo a noi pare, quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio fondamentale di questo episodio mitico, Cefeo,  peloponnesiaco; l'altro personaggio che come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel Peloponneso si diiFon,de: dunque il Peloponneso  l'area dove s'informa il mito, se pure non  quella ove si crea. Fuori da quell'area, come fuori da ogni altra stanno, o possono stare. Cassiopea "millantatrice,, e Andromeda, "maschia  prima, in seguito vittima del n^rog: personaggi novellistici della fiaba. Per quale intreccio di casi e d'influssi poi la trama cosi si serrasse e cosi si connettessero quelle quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il risultato rimane,  d'uopo convenirne, opinabile. Tale, credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perch ci parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la mitopeja che riteniamo validi; sia perch ci parve tesi, se non di per s probabile, molto possibile al meno, e dalla probabilit certo non lontana. I miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome di Perseo sia stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non pu far meraviglia ad alcuno. Importa solo precisare i particolari di quel collegamento. A tale scopo si confronti anzi tutto Erodoto: 'EKaovTO  ndai Ji [*hv 'E^viv Krjip^veg, vti fivroi. aq>(Ov atx&v nal T)v 7t(iiox)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg  Aavdt^g Te Kai A log nineio na^ K'^ifpa xv B^ov, nal 'aj^e aitov T]v d-vyatQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TlQarjVj tovtov  airov y^avasCnei ' vy^ave yQ naig v  Kt]rjvg,  XaSaloi. Il soggetto di voTrjaav qual ? Dev'essere Xaaoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto (cfr. Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i Semiti di Babilonia non poteva non indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E, come quei di Babilonia eran di gran lunga pi noti, da questi si fecero derivare gli abitanti sul Ponto. Se non che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla Colchide occupavano le rive di quel mare erano da alcuni supposti sotto il dominio di Fineo (cfr. Jessen in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati. Se dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla regione ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva scegliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo  fratello di Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni vennero assunti a nomi pristini della regione e del popolo su cui si sarebbero insediati poi, fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di Euripide. Su i framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e che si trovan raccolti presso Nauck Su questo punto sono insufficienti cosi il cemento dello Stein come quello del Macan a Erodoto. FTG}. furon tentate piti di una volta ricostruzioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm., Wklckek Die Griechische Tragedie, Hartcng Eurip. restitutus, Wagner fragni. Eurip., Fr. Fedde De Perseo et Andromeda (diss.), P. Johne Die Andromeda des Euripidea in Elfter Jahresbericht des K. K. StaatsObergymnasiums zu Landskron in Bhmen, Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg., E. Kuhxert Perseus in Roscher Lex., Wecklein in Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl., Mller Die Andromeda des Euripides in '' Philologus (N. F.). Di tutte le trattazioni citate scopo  ricostruire la tragedia frammentaria per modo che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la struttura complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei varii personaggi. Ma appunto perch tale  il loro fine, n pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice inevitabile contraddizione. Anzi tutto mentre  pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men liberamente allontanato dallo schema mitico tradizionale qual  riprodotto in Ferecide e che deve aver pi o men profondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche le diverse figure, per contro si tende da tutti a far coincidere quanto pi e meglio  possibile i frammenti con il racconto ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei particolari quella libert che in generale si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. Hcddilston Greek Trag. in the tight of vases painting (London); con le antichit sceniche, Engelmann Arch. Stud. zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia impossibile dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual non derivi dallo studio dei frammenti, i frammenti appunto si distribuiscono poi tra gli attori in armonia a quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi medesimi. Uscire da questi circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui altri minori si assommano, non si pu, io credo, se non ponendo alla ricerca un altro scopo: il raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e scernere. I framm. debbono venir lasciati in disparte per l'ambiguit della loro interpretazione: giacch se b innegabile che in essi  asserita la instabilit delle umane vicende e l'incostanza della fortuna, non  men vero che tale asserzione pu colorire assai bene, cosi l'angoscia di Andromeda offerta preda al x^zog, come l'ansia di Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in isposa, o Fineo tenda insidia sbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il 151 si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo per distoglierli dall'^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto deve scontar la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire una situazione di fatto piena di forza tragica, ma non tale da permetterci di dedurne conseguenze sul resto del dramma: debbono pertanto essi pure venire, al nostro scopo, omessi. E quasi lo stesso  da ripetersi per i frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto 8on vuoti di contrasto passionale. n primo gruppo che attira la nostra attenzione  quello. Perseo giunge volando traverso l'aria a una terra di barbari; scorge sbito, su la riva del mare, TteQQQVTOv (pQ(p &ad(jat]g, una vergine, nag^vov eixo) riva, Andromeda. I versi che seguono non possono non appartenere, com' concorde giudizio, a un colloquio fra Perseo e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la situazione 124-125 e il colloquio 126-32 dev'essere troppo stretta attinenza perch sia possibile pensare tra l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo. Il quale  pertanto da escludere prima del colloquio tra il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora, attirano lo sguardo due frammenti specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli potr avere dopo la sua vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere da lei. Nel secondo Andromeda si offre, ed  questo da ritener il compenso, ette riQaitoov &eig \ elY aoy^ov ehe f^coi'... Da entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio, l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo, in garbato modo, l'amore di Andromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di ritenersi libera nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V.  1) II 44 (TavTTiV ["AvQOftSav] d'eaaduevog  HeQaevg Kal gaad'elg, vai^i^asiv vna'x^szo Krjq>st T y.fjTog, el ^kXei a&etaav adtrjv aiz(p (asiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondit, la discrepanza tra le due forme del mito: la Euripidea, in cui il patto si stringe tra i due giovini; la Ferecidea, per la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo grava l'importanza della deliberazione. Per conseguenza bisogna conchiudere che : o come non prima cosi non dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse esso tutt'altra importanza che presso Ferecide ed Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma diversa. N si obietti che la tradizione posteriore  concorde nel serbar quell'abboccamento e nel serbarlo com' presso Ferecide ; poich tal fatto deve, di fronte alla logica argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la genialit innovatrice di Euripide non esser stata imitata che a negar fede a conseguenze logiche di premesse certe. Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo insieme  costituito dai framm. Essi si dividono sbito in due serie, contrapponendosi l'una all'altra. La prima  un vanto del valore, degl'ideali, della nobilt spirituale, di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio dell'animo {d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in particolare esaltano la fama conseguita con fatiche (svKeiav eXa^ov on avev noXXiv nvcav) e con rigoglio di giovinezza {vezrjg fi' jiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono alle ricchezze un nobile amore {yevvalov X^og ... a&Jv Q}fiv(v) ; il 143 afferma il denaro insufficiente alla felicit. La seconda serie in vece  tutta una dichiarazione di preferenza del denaro a ogni altro bene : il povero non solo soffre ma teme di continuo il futuro, che non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco anche se schiavo  stimato (ta dovog S)v yQ tC/Mog tiXovtGv vfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso othv ad'vei: onde di tutta la serie pu esser conchiusione il verso ultimo del fr. 142 : XQvaov vfii^s aavzv e^vex' etvxeIv. Fra queste due serie pu trovar posto anche il fr. 154 : ove per venga letto non nella forma in cui lo d il Nadck 404, che  inintellegibile, ma nell'emendazione del Hkrwekden Exerc. crii. 35 t ^ijv cpvza ae Kaz yijs r/*d)ff' l'awg ; e del MnsGBAVE nsvv y' ' 5vav yQ ^fl tig sTvxtv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso asI FBAMME^TI DELLANDROMEDA, DI EURIPIDE 3omma bene in s il contrasto delle due serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura la fama la quale dopo morte conforta l'egregie opere ; e il materialismo gretto che nella vita vuole il godimento e aborre dal morire e non scorge pi oltre. Ora, se si pu questionare, ove si voglia, su l'attribuzione di tutti cotesti framm. ai singoli personaggi, non pu in vece dubitarsi su la realt del contrasto passionale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve dunque, a mio avviso, costruire una parte della trama del dramma ; tralasciando del tutto il litigio su quei punti troppo mal sicuri e fors'anche inutili. Terzo spunto ci  offerto il fr. 141 : y) Ss TiaSag oiy. cj v&ovg aiSetv' T)V yvrjaiitv yQ oiv vieg veelg vfKp voaovai ' S ae (pvXd^aad-at, yQEvia; KQu. Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni elementi deVInno induce una conseguenza: se nellet probabile della composizione di esso, il mito era gi cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi in un determinato centro di culto ; se inoltre non  probabile che a favor di questo centro appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto senso  troppo intimamente connesso con i primordiali riti delia madre terra; si pu senz'altro affermare che doveva, prima di quell'epoca, aver vissuta oramai una, certo non molto breve, vita mitologica. E poco quindi importa che neV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti del Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.; Preller Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftr Religionswiss.): soltanto significa che manc l'occasione o non fu colta per introdurvelo. Ora, nell'epopea omerica Persefone non ha alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Persefone-Kora , noVInno om. citato, all'in fuori di questo: ella  la signora dell'Ade, regina dei morti accanto al re delle tenebre. Demetra per contro vi appare gi col suo aspetto di Dea campestre {E 500 JV 322 = iavd-QQios. Tal differenza acquista valore se la si contrappone alla concordia con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si veda) e Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli  che in questi ritorna l'immutato concetto primordiale; negli storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili non identiche, dell'unico mito: non identiche, perch  dif. fcile raggiunger l'accordo nel travestir le fiabe : dell'unico mito, perch nel " ferox viribus, come nel yi^/oTTjj ri j traspare ugualmente il ' monstrum . (Contro MNZER). In Dionisio Caco ad Ercole che lo interroga risponde di non aver visto i buoi. Ci, fu notato, corrisponde a Vergilio (abiurat rapin). In Livio (e in Ovidio in Properzio) manca il particolare. Se non che cosi della presenza come dell'omissione  difficile far giudizio. Cotesta astuzia di Caco  da avvicinare all'altra di condurre " aversos  i buoi : ed entrambe ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano le astute imprese del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono burlesco di tutto il racconto; l dove sembra che la fiaba di Caco, che  contesta su la lotta violenta della luce contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due i particolari pi tosto ornamenti introdotti sotto l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale ipotesi spiegherebbe anche la brevit degli accenni in Vergilio e Dionisio. Mentre ben altra  la natura del muggire i buoi nell'antro di Caco: che  primitivo simbolo del tuono (Bkal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mnzer). E anche sotto l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) pu essersi introdotta l'invocazione di Caco ai pastori vicini a quelli che solevano adz^ avvayQavslv : la quale difatti manca nel Rigveda, e non  intrinsecamente connessa con la forma prima del mito. N si erra forse di molto attribuendo a Ennio stesso queste imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei poeti come negli storici; cosi, cio, nel mito come nei suoi travestimenti razionali. Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di Dionisio conteneva un racconto umanato rispetto a quello poetico che  fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio; ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma primitiva, in ispecie negli episodii di astuzia. Ma comune agli storici e ai poeti  anche un'altra parte del mito: la etiologica, che attende ora il nostro esame. I particolari etiologici del culto. Quella parte del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO (si veda), Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco fu presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di particolari etiologicamente desunti dal culto di Ercole. Ma se non  pi possibile questionare su ci, bisogna ancor discutere su i singoli particolari. A tal proposito il MNZEE (p. 88) asserisce: dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco und Euander nichts miteinander zu tun haben; dass zwei ganz rerschiedene Erzhlungen, die nur die Persoti des Hercules als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben, rein usserlich zusammengeschweisst worden sind. E anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander usserte sich am frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des Cacusabenteuers naher bestimmt wurde. A questa concezione si contrappongono le parole del De Sanctis (S^^. d. jB. I 154): "hanno contribuito a suggerirne del mito i particolari l'Ara Massima dErcole vincitore nel foro boario e le vicine scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e dovuto soprattutto a un giuoco etimologico  il contrapposto fra l'uomo buono e benefico del Palatino, Evandro , e il cattivo ladrone (xax^) dell'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros). La tesi del De Sanctis si pu dimostrare pi verisimile. Due son le figure principali del mito: Caco ed Ercole; e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella forma, greca. Se v' dunque in Roma un luogo cui si attiene il nome di Caco (scal Caci) e uno ove si rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi due servissero a localizzar il mito e il primo innanzi al secondo. Si potrebbe,  vero, pensare anche che l'Ara Massima sia stata la causa della localizzazione di Caco (quando a Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma l'ipotesi sarebbe difficile da sostenere perch suppone, prima della comparativamente tarda intrusione di Ercole, Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^o^, e che era la mitica personificazione della eavQa, fu interpretato buon uomo per un lunghissimo lasso di tempo non localizzata la saga. L dove l' essersi anche topograficamente Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne la fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si stabili all'Ara massima, la contiguit dei luoghi giov senza dubbio a fondere le due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) a proposito del Kdxiog diodoreo  osservato: hic perperam idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor gentis Caci. E il Mnzer accetta, pur ammettendo che il nome alle scale possa derivar anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war. Ora il testo di Diod. (che  : v xavtrj oh twv Tiicpavcv 'vreg v6Q>v Kamog xal HivaQiog ^avvo tv 'H^UKsa evcoig icoyoig Hai cQealg xsxccQiafivaig tifirjaav ' noi tovtcov tv vQcv TCOfiv^fiata ftxQi t&ve t>v KaiQiv iafivet Kor xiv 'PiLfiTjv.TJv yQ vvv eiiysvv vQwv z ziv UtvaQov vofia^o^vcv yvog ia^vei, nag zog 'Pcoftaloig, )^ vTiccQXov Q^aLzazov, zov  Kaxiov v z(p HaazCcj) /.azd^aalg aziv ey^ovaa i&lvrjv Kifiaaa zrjv vof*a^ofivt]v n y.evov KaKav, oiaav nrjaiov zfjg zve yevofAvrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara l'origine del suo contenuto. I dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caci, l'antichit dei Pinarii; le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii ed Ercole. Da questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il nome Ilivd^tog) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le cui scale son prossime a quell'Ara Massima (JoedanHuLSEN Topogr.) ove al culto erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad l'abigeato di caco ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve presupporre, nella sua ipotesi). E poich i Potizii, estinti (Haug in Pauly-Wissowa R. E., VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel culto, non  arrischiato pensare che il racconto in cui di quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA CRITICA DI ROMA: contro WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino derivano, se la nostra ipotesi  vera, da Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede della lotta. E perch accanto alla menzione di esse va posto il dato tradizionale su la caverna dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si veda) Fasti), se ne deve concludere: che la localizzazione di Caco  mossa dall'area piana ch' fra Palatino Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso verso il Palatino {scalae: cfr. poi Evandro, sotto), nell'altro verso l'Aventino (caverna). La seconda sede, non lontana, fu l'Ara maxima la quale servi a fornire assai pi tratti al disegno: ci sono, tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole. (Cfr. Peter). Che se il mito di Caco , come si vide, italico e vetustissimo, l dove Ercole  un, comparativamente, tardo travestimento dell'Eracle greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene solo alla figura di questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale le diverse derivazioni appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc. In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle donne dal culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio; dallo scritto OHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti, in ispecie la prima rispetto alle due altre. TI che significa come un unico fatto venisse travestito in almeno due forme diverse. Lo stesso si pu dire dell'ara lovi inventori che  ricordata in Dion., Solino, Origo geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual silenzio dimostra, se non pi, che il nesso tra quell'altare e YAra maxima non era nel mito etiologico essenziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde non  improbabile che il motivo ne vada cercato nella topografia: giacch secondo Dion. l. e. l'altare lovi inventori  naq tfj TQiifiq) IIvrj ov' un altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda invenzione il voto di Ercole per cui presso Solino I 7 l'eroe erige l'ara a Giove. Or se la discordia delle fonti giustifica l'ipotesi che il secondo strato leggendario si sia arricchito parzialmente per pi tarde aggiunte, la medesima discordia conferma l'asserzione del De Sanctis (nonch del Bormaim) intorno ad Evandro. Di fatti la presenza di lui, che  essenziale nei racconti di Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio 1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino, Serv. En. (= Myth. Vat.) e nello scritto Origo geni. rom. 7, e manca solo in Propeez. l. e. non si sa bene perch,  per narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui la instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio in Solino Evandro non  che uno, e sia pur il principale, fra gli spettatori del primo sacrifizio: e secondo Servio egli  da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la istituzione medesima dell'Ara  attribuita a un vaticinio ora di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco (Myth. Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perch la Porta Carmentalis (a sud-ovest del Campidoglio)  a nord del Foro Boario ov' l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide son sue variazioni di sapore greco. E parimenti  chiaro che il vaticinio di lei  un accessorio della leggenda, parallelo bens a quel di Evandro, per con una base topografica non pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e semifantastico traspare ancora nelle fonti dell'et Augustea, in quelle medesime ove non  pi incerta la localizzazione della saga nel Foro boario ed  solidamente fissata la figura greca di Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre che Evandro  rispetto a questo di gran lunga pi tardo. Rappresenta dunque il terzo strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a cui un'aggiunta  introdotta col far da lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su Fauno ed Evandro, e Origo geni. rom.). Di qui s'inizi poi una mitografia del tutto secondaria la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno in luogo di Caco (se non parallelamente a questo) (DerCYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o di Fauno il figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.; cfr. anche Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito , a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre strati: Caco, con le scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara Massima; Evandro, con taluni episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie, come sul mito vero e proprio, si esercita il razionalismo degli eruditi. Gli eruditi. Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del Munzer su Caco  offerto dal suo cap. VI die antike Forschung. Egli si trova di fatti costretto, dinanzi a due testimonianze che la nostra tesi spiega traendone a sua volta conforto, a dichiararsi incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco interempto ab Hercule tam Graeci quam Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus dicit Garanum fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit, omnes autem magnarum virium apud veteres Hercules dictos,) e nello scritto Or. gen. rom. Recaranus quidam, Graec originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus) ritoma sotto due forme diverse un nome differente da quel di Ercole, nella lotta contro Caco: Garanus e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi  incerto (con Mukzee contro Peter o. c., Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma non  incerta, a noi pare, la interpretazione di esse. Sappiamo che il mito di Caco  antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non pi tardi, che per tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver preceduto. Troviamo ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che gli eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non potevan quindi senz'altro eliminarlo) con quel di Ercole per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum virium Hercules dictos,. Riteniamo per conseguenza legittimo attribuire tale nome appunto al personaggio italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo gentis romanae in Berichte der K. Schsischen Gesell. d. Wiss. zu Leipzig, Phil.-hist. Kl. l'abigeato di caco preesistere ad Eracle era a priori pensato. Quando in vece Mnzer deve asserire, giusta la sua tesi, che un cotal Garano (Recarano)  invenzione di eruditi (i quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario un semplice pastore non un eroe famoso) contraddice in parte s stesso perch, se Caco  originariamente un pastore, un uomo anzi che un dio, sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario di Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Garano (Recarano) n a dire donde Verrio l'abbia ricavato. L dove per noi l'oscuro nome  conferma della natura del vetusto iddio. N giova, per questo secondo rispetto, l'ipotesi dello Schott (che il Pais St. crii. d. R. I 1, 200 n. e WiNTER accettano), Garano e Recarano esser " due forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide, fondatore della stirpe dei re Macedoni . Nulla di fatti pu esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non ha per s se non un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha bisogno a sua volta d'esser spiegata, giacch sembra assai strana cotesta scelta degli eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mnzee 95 che Garanus sia un obliterato epiteto di Ercole  pericoloso per la tesi di lui : giacch in quel caso diventa di nuovo probabile che l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso della divinit soppiantata da esso Ercole. In breve l'ostacolo non si supera bene se non da chi, come noi, abbia preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo mito latino. Altra testimonianza che il M. non spiega  quella su Caca. Servio En. (= Myth. Vai.) parla d'una sorella di Caco, Caca, la quale lo avrebbe denunziato: ed ivi pure  data notizia di un " sacellum Cacao,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod. Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.); pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) . L'ultima lettura  la preferita; la prima sceglie il M. Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa oscurit e nella confusione che contiene,  pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un ampliamento della prima. Comunque, lo stesso M. deve ridursi ad ammettere l'esistenza del sacellum a una dea Caca. Col che ha gi ammesso troppo contro la sua tesi : perch una dea di quel nome  il riscontro pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio Caco. Se poi si aggiunge che all'una si sacrifica sicut Vestae, e l'altro emette fiamme dalla bocca, la deduzione non pu esser che una. Verissimo tuttavia che lo spionaggio attribuito a Caca in Servio non le  da imputare, come quello ch' una erudita invenzione poco felice in contrasto con tutto il mito. Che Caca sia poi il travestimento di queir " una boum, che appresso VIRGILIO (si veda) rivela il furto n meno il M. osa sostenere. E se il sacellum Cac sia per il M. oscuro al pari dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri non sono per la nostra tesi, par che non vi sia pi molto a discuter su gli argomenti dell'una e dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di esser qui ravvicinate, l'una pi compiuta che l'altra. Servio En. si esprime: Cacus secundum fabulam Vulcani filius fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui vicina omnia populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc habet, hunc fuisse Euandri nequissimum servum ac furem; ignem autem dictus est vomere, Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali romane (Firenze l'abigeato di caco quod agros igne populabatur; novimus autem malum a Graecis kuhv dici: quem ita ilio tempore Arcades appellabant. postea translato accentu Cacus dictua est ut 'Evi] Helena (Cfr. Myth. Vat.). Poi a En. si danno le notizie sull'Ara Massima i Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non inconsueta, che qui non c'interessa pi. Il razionalismo si  qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio, a spiegar il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il nome. Molto pi si permette il racconto che si trova in Origo gen. rom.: " Recaranus quidam, Graecae originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus; Cacus Euandri servus, nequitiae versutus et praeter caetera furacissimus: tali i due avversarii. Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca  per partirsi quando Enander, excellentissimae iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum noxae dedit bovesque restitui fecit,. Allora Recarano dedica " inventori patri ^ un altare e lo chiama Ara Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi. Carmenta, invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son perci per sempre escluse dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto  di gran lunga pi finito e particolareggiato di quel ch' in Servio. L'interpretazione razionale qui si estende fin l, dove il primo non si dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia col pi noto dErcole, Ercole mutando in soprannome. Inoltre, poich non pu giustificar l'intervento d'Evandro come p. e. Livio, n valersi di vaticinio alcuno ; poich d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKs servo di EijavQos: omette il duello tra Recarano e Caco, ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco fumo clava ecc.), GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto, senza dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non si esclude in un testo piii ampio il muggito indiziale potesse ritornare. E di Carmenta in fine tralascia la profezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo stesso modo, non potendo l'Ara massima venir instituita da Ercole ch' qui soppresso, viene a ragion veduta confusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta a spiegarla. Tra Servio e il racconto della Origo v' simiglianza profonda in taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si comprende il valore comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che Ercole non  se non il soprannome di Recarano, alla prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su l'identit Garano = Ercole. Ci mostra che Servio ha presente con altre la fonte medesima oVOrigo; ma se ne vale solo saltuariamente rispettando molto pili il racconto di Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte di cui, in vario modo, approfittano e Servio e l'autore eWOrigo,  detto quivi haec Cassius libro primo Ossia quasi certamente L. Cassio Emina. Mnzer a tal proposito suppone che a Cassio venisse attribuito tutto il racconto per esagerazione, in luogo di un solo passo. Di Cassio per abbiamo (Peter fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli tratt verisimilmente tutta la saga di Evandro e quella di Caco. Non v' dunque ragione per negare che nella tradizione erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di lui estratti a bastanza ampii intorno a quel mito. Del resto, se anche un solo suo passo poteva addirsi al racconto dell'Orler, si pu sostenere che in lui era al mena assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e F. Kalypso. l'abigeato di caco Caco. Ma poich questa appare neWOrigo organica e armonica in tutti i particolari,  difficile negare che, cosi definita, non si trovasse gi anche in Cassio. (Contro M.). Di natura opposta alle due testimonianze erudite che furon or ora discusse sono i racconti di Dion. e di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti l dove in quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli personaggi; in queste in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficolt, quando si conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di Evandro e gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d. Bom.); per contro Gellio  oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit, cum a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Megale Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde venerat redux, praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et Campaniam regno oppressus est. Megalen Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti. Il carattere che sbito appare pi evidente in tal racconto  il travestimento erudito razionalista; cosi che, se esso anche avesse a contenere forme ignorate del mito, le conterrebbe certo sotto un velame. Inoltre vi son tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i Marsi, i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche righe, ed  difficile che una schietta e unica leggenda originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin che Gellio fa combattere Ercole contro un Caco insediato sul Volturno pi tosto che contro uno sul Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a imagine della reale storia e si valesse a ci p. e. della prima Sannitica inventandone un precedente; che non si scosterebbe in questo metodo gran che dalla fonte di Dionisio la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E non  rigorosa l'ipotesi che costretto egli vi fosse da un mito cumano o campano (il passo di Festo s. V. Romam  di lettura troppo mal sicura e nulla se ne trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla " disciplina augurandi, trattarsi d'una secondaria e piccola leggenda etiologica o etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando in vece  introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone) che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per qual modo, sembra tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda istessa la quale  ritratta, sotto forma mutata, in alcuni specchi etruschi [KETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi delle tirne etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio; MuNZER 0. e. e Rhein. Mus.] e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio contro un Caco dal benigno aspetto. Ond' che difficilissimo resta, nell'attuali condizioni della scienza, decidere se anche per i Marsi si debba attribuire la loro presenza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della storia, come ci parve probabile per i Campani; o alla contaminazione d'una terza leggenda con la latina e l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo rappresentano bens un unico atteggiamento di fronte alla leggenda di Caco, come vuole il Mnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa. Il primo si serba vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire la fiaba che sar poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che narra Livio. Per ci Dionisio dopo aver esposto il mito assai similmente a LIVIO (si veda), d il suo Ari- azeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.g = liviano: d, in somma, il racconto razionale dell'anna- m. - l'abigeato di caco lista pili tardo come ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista pi antico. Allo stesso modo che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cme vedemmo in principio) si combattono intorno a Caco,  da preferire quella che crede ad un antico mito latino in quanto tien maggior conto di tutte le testimonianze ed  meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coerentemente. La evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mnzer e compiendo il breve disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati (intorno a Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro) si  contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa  elaborata con diversit di tono da un poeta (Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'et succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'et augustea riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dionisio e Verrio Fiacco dall'altro) tutt'e quattro queste manifestazioni. Cirene mitica. Bibliografa e metodo. Il complesso dei miti raccolti attorno alla figura di Cirene  studiato gi da Theige Res Cyrenensium etc. (Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata per opera di Studniczka Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig), che la stessa materia rielabor in RoscHER Lexicon; e di Malten Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe Untersuchungen in Philologische Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz ove  tenuto conto anche delle ipotesi brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol nella forma diverso si vegga questo capitolo neglAtti della R. Accademia delle Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza pi dicevole, che lo spazio ora consente. Dopo i quali non si vuol citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni Cirenaiche in Ausonia. Indipendentemente il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo tempo assunto una stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si contrappone in modo reciso a quella dei nostri predecessori. A prescindere di fatti dalle particolari discrepanze che ci dividono, noi siamo concordi nel non " voler cercare un significato recondito nei miti (Costanzi) p, oom'io mi espressi (Atti), nel non volervi cercare la chiave delle pi antiche vicende greche in Tara e in Libia. L dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter spiegare la leggenda di Cirene senz'ammettere una vetustissima colonizzazione tessalobeota in Tera; e Malten pure stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei Dori, la Libia fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico direttamente venuto dal Tenaro recando e figure divine e fogge linguistiche; mi assumo in vece di provare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del mito non pure Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi. Determinato cosi il mio antitetico punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa Cirene. Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura libica di Cirene e la vera origine del nome e del suo essere mitico non avrei che da richiamarmi a lui su questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi di pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst nachtrglich mit Aristaios in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie dies bei der Aehnlichkeit der Namen natrlich ist, friih mit der Pyrene von Kreston verwechselt worden, war aber gewiss ursprnglich von ihr verschieden, und es ist zum mindesten unstatthaft, ftr Kyrene, die Mutter des Diomedes bei Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem benachbarten Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die Rede ist, und von dieser Kste stammt der im Schiffskatalog erwhnte Kikonenkonig Euphemos, der Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage, Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der thrakischen Kste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz andere ist, beweist gerade dass wir es hier mit einer sehr alten, den bekannten Epen vorausliegenden Ueberlieferung zu tun haben  (Cfr. Malten; Studniczka). " Aber nicht genug damit. Auch in Kroton ist ein Kyrene (als Mutter des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios nicht fehlte ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist fr Kroton bisher, so viel mir bekannt, nicht bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevit con cui ebbe ad esprimermele. Del che ogni lettore intelligente gli terr, credo, il dovuto conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria Jambl. vii. Pijth. (N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch fr das benachbarte Thurioi. Aus alledem glaube ich entnehmen zu durfen: dass Kyrana und seine Kurzform Kyra griechischen, nicht libyschen, UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gttin heisst oder der Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein msete von Griechen tbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes in einer ausserordentlich alten Sagenberlieferung zusammenstanden. Aus Grnden, die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich berzeugt, dass die Verknpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von wo jener nach Thurioi, diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen, will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube; aber dass diese Bruchstiicke troizenischer Sagen den ltesten Bestand der Ueberlieferung von Kyrene bilden, balte ich fiif gesichert. Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Trezene il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradi da vero in Tracia, a Crotone, in Libia; bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio a Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il ritorno non dubbio, scevro da possibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle forme e nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo alterarsi non sia ben motivato. Il carattere spaziato  introdotto solo nella trascrizione. Sul primo punto il Gruppe si scusa di non insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure la cui presenza  riscontrata in Cirenaica; Aristeo e Cirene. Tuttavia far sbito notare quanto sia debole il fondamento su cui si basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un nume notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla intorno al culto locale del nume. Inoltre  ben dubbio se sia veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di Lacinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes; cfr. Serv. a VIRGILIO (si veda) Eneid. Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte di Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia dei Romani), non  improbabile che a Crotone si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo al nome d'uno fra questi sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li presso. Ma se mal sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE, altr' e tanto incerte son quelle che Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel testo di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da Kvqi^vij in IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi permutato Cirene in Pirene. E poich pare molto improbabile che in paesi limitrofi sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse moglie di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera e Maronia facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede; credo d'interpretar bene il Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne derivasse il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma n questa ipotesi  semplice, perch presuppone un originario nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede un ampliamento Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone n  in alcun modo giustificata, perch, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte accennando a Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente ricorrendo persino a contorte vicende. Pi semplice e giustificata la supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in Maronia  troppo evidentemente introdotto da Chio per opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi  congiunto con Dioniso; perch non si debba ritenere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la supposta Cirene, da cui invece rimane col al tutto indipendente. In fine si resta molto perplessi su le profonde difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni, e il beota Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio del Fai^oxog. Or come n in Crotone n in Tracia Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si pu fondatamente asserire che in Libia Diomede non ha radici profonde: su quelle coste di fatti naufraga bens, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo tessalici e a simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto perch quelle coste sono, nella tradizione poetica dei vaioi, il luogo tipico delle fortune di mare: in Argo quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leggenda,  probabile fosse foggiato anche quel particolare. In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii in Tracia; in Tracia l'Eufemo non  con certezza identico all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non esiste. Per di pi, oltre ad essere incerta la presenza di tutt'e quattro i numi in CROTONE in Tracia in Libia, non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli lin nesso s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi altrove, perch a CROTONE il perno del mito sia il APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la discendenza di Diomede da Cirene, mentre in Libia il nucleo  costituito dalla commessione Cirene-Aristeo. E n pure si capisce perch in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone, Aristeo che in Cirenaica  figura essenziale; e per converso qui si scemi quasi al tutto la persona di Diomede, la quale l campeggia. Tutta la fisonomia della leggenda si distrugge e si trasforma: senza causa evidente. Non posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe; e resto fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che Apollo e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di Wide e Hofeb in Roscheb Lex. Ma per il mito di Cirene  di somma importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta gi in Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto in Cirenaica (cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnXov Kdgvecog diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V 83: Tavzriv t{]v oQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsonovvfjaov elg z^ag nXsig ...neTovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono possibili : o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente antichit la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a s Carneo; o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com' pi verisimile e pi semplice cosi ritengo preferibile all'altra. CIRENE MITICA N offre difficolt nello special caso di Tera e Cirene, giacch l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v. Gaektringen Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di Apollo-Carneo non  imprudente o arbitrario il supporlo gi sussistente nella seconda met del sec. anteriore. N a tale ipotesi  contrario Malten; il quale scrive: Gewiss ist die Verbindung ' ApollonKameios ' nicht zum erstenmal um Kyrenes willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und hat sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se non che egli non trae da ci l'unica deduzione che  logicamente possibile. Poich difatti tutta llliade (prescindendo dai pi meno antichi strati) dimostra il carattere preminentemente delfico di Apollo; e poich l'antichit del santuario delfico e della sua preponderanza famosa  ben riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.; se si ammette che gi in Tera Apollo prepondera su Carneo, si da mutar questo in suo epiteto; si ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Cirenaica avevano ormai alla loro principale divinit riconosciuto un rilevante carattere delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la opinione che un tal carattere a quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene. La quale appar quindi non la causa del fondersi insieme i caratteri di Apollo e quei di Carneo, ma un effetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e per medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad Apollo. Dove appaja la originalit della Eea ci verr mostrato, crediamo, dalla terza figura su cui  costituita la saga: Aristeo. Aristeo. Non  qui opportuno studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto dal Malten e neglAtti dell'Accad. di Torino. Il culto di Aristeo in Cirenaica  attestato da scoi. Aristof. Cavalieri 894, Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (rv 'A^iaraov, 8v Tia^ KvQrjvaioig )g oIklot^v i Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possibilit si pu scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo il suo congiungimento con Cirene (avvenuto in Grecia) e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di quella connessione e la determina. Tra le due possibili ipotesi va scelta la seconda. Di fatti Aristeo ha una vasta area di diffusione, nella quale sono comprese isole dell'Egeo, quali Ceo Chic l'Eubea, e l'Arcadia: onde non  per nulla strano che o gi in Tera qualche strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse culto, vero in Libia pervenisse con quei coloni che nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da l'isole e dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo manipolo di Dori. Contro la prima supposizione non si pu obiettare l'assenza di testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco conosciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei pi bassi strati, non emerse alla superficie storica. Contro la seconda non fa ostacolo la cronologia; gi che cui risale la Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente per lEea di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con Apollo (protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel modo che nessuno Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos Diss. Giessen stupore v', se in Tracia si connette con Dioniso e con Zeus in Arcadia: cfr. Malten. L'analogia  sufficiente motivo. Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia. Basti che nel mito nostro egli  tessalo per eccellenza: segno sicuro che doveva avere un vivacissimo carattere tessalico allor quando del mito venne a far parte. N mi riesce di precisare il luogo ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di minore rilievo a confronto con quelli che riteniamo di aver assodati su la libica Cirene, il delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a ricostruire nelle sue linee principali il componimento da cui quelle tre figure vennero collegate in racconto: l'Eea. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo attingere pi direttamente per la ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^, Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO (si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz., Apoll. Rodio cui vengono aggiunti se bene per la loro sommariet non sieno di grande valore, Timeo appr. Diod., Nonno Pan. Dionis. (Malten). Quanto poi al modo di usar cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii fondamentali. Il primo  il piti Malten lascia in dubbio ob der Gott schon in der kyrenischen Lokalsage zum Sohne der Kjrene wurde; ma, per amor della sua tesi, asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte Kyrene das Gefallen des Gottes. hr Sohn ward Aristaios, elementare : ritenni originario tutto che ritornasse costantemente nelle diverse forme assunte dal mito e riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio  pi complesso. Fu dimostrato poc'anzi che non pu venir attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di Apollo Delfico con quelli del Carneo. Altra , chi ben guardi, l'essenza di quel carme. Per esso, com' noto, Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in Tessaglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non Apollo, dev'essere stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione, l'impulso a trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo tessalico,  legittimo ritenere, ed  pure ovvio, che essa contenga pi propriamente tutti quei particolari i quali pi propriamente sono con Aristeo connessi. Di questo, nel fatto, meglio che della madre,  il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com' probabile, vi aveva la sua ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra parte la figura di Apollo troppo era di per s notevole e preponderante perch traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola personaggi ed episodii a lei aderenti: i quali per ci  dicevole attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue pi tarde propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi risultati; Cirene  figlia di Ipseo re dei Lapiti; Ipseo  nato da Creusa (una Najade) e dal fiume Peneo: cfr. Malten. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul mito di Atteone, che per l'economia del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si vegga inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di Studi critici offerti a C. Pascal, (Catania). CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira, madre di Chirone. Se non che questa variante  sospetta, come quella che tende a giustificare con la parentela l'intervento di Chirone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace a Pindaro pure e Apollonio tace: l dove il centauro nell'Eea ha parte solo perch gi connesso con Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge la ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone  ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da Apoll. R.: questi l'introduce nell'officio di pastorella. Il Malten resta per ci incerto su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame del racconto di Apollonio, che si fa pi sopra, mostra come esso si allontani assai dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al quale adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della lotta che troppo male consentivano al paese tessalo. Chirone profta le nozze del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col quale ove si ammetta che Pindaro tenti invano di ribellarsi all'Eea su questo punto, ne consegue che Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro allevatore sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di quel tentativo. Ci  confermato dal doppione che ne risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apollonio allevato e da Chirone e dalle Muse: originarii essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dmoni; inserto quello. Apollo trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro (Malten). Cirene  accolta da Libia. Non v' di fatti differenza sostanziale tra le xd'viai vifA,q>ai e la eiQVeifiov nTvia Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da preferire per antichit sceglierei Libia: giacch le xd-viai. vfifat sembrano ben proprie di un'epoca pi tarda in cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito pili fermamente da quel di regione, si  al tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come mai Pindaro fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non apparteneva certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yvy.vg nTiog 'AtpQoczag, che era al nostro poeta ben conosciuto {Pit.) e a cui si pu riportare un passo di Erodoto II 181 (cfr. Malten); giacch non trascurabile culto a essa dea si doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne presso il lago Tritonio a lei eretto un tempio (Steabone). Aristeo  riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R. Pindaro Pit. attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo esornativo,  favorita dalle attinenze fra i due di : cfr. l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton. LiBEB. XXIII. E se un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione Ermes per ordine di Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo  allevato dalle Ore e da Gea. Pare qui che il profilo primitivo meglio si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon.: per che tre sieno, principalmente, le varianti poetiche dell'unico fondamentale concetto; l'una Cea che narra di Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica che introduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le Muse; varianti delle quali la prima troppo strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione tessalica del carme esiodeo, l'ultima traspare sbito come un'alterazione dovuta alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana  pertanto preferibile. (Ci contro Malten 14). Da ultimo  forse da notare che le Ninfe di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un trascorso impreciso dell'autore che una vera e propria vaA. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE MITICA riante. Aristeo ha i nomi di Nomio Agreo Opaone ed  avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten). Nel complesso adunque Pindaro pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes e di Afrodite, pili vicino all'Eea che Apollonio; questi pi razionalista di quello. Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci offre l'Eea di Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. ): cfr. Malten che qui si combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide)  nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G. Columba Le origini tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichit classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in Srtr. u. Sprakv. Sllsk. forhandl. Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli somiglia nell'aspetto di divinit salutare e sanatrice: cfr. Beloch Griech. Gesch} e Wilamowitz Isyloi. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio; poi A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo, prima si congiunge Cirene con Aristeo e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo dunque in breve i risultati di queste ricerche, abbiamo: che Cirene  nome libio-greco della ninfa che protegge e abita la fonte dedicata ad Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto, durante il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che questa  la causa per cui Cirene passa in Tessaglia; che su questi elementi si pu ricostruire l'Eea di Cirene ottenendo un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide, tale quindi da potersi ricondurre al medesimo centro delaborazione mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le due principali figure del racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle pi diverse ipotesi: cfr. Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame giover a preparare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito cirenaico dei Battiadi che fa riscontro al mito della ninfa Cirene. Euripilo si rinviene: in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia, figlio di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja, Pads. Ora  probabile che l'Euripilo di Cos si possa far risalire a quello di Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes  XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti gli altri sono indipendenti. L'Acaico viene bens da Pausania identificato con il Tessalico; ma  notevole che altri gi allora combattevano questa teoria: iy^aipav de i]Srj Tivg od tip Oeaaatp av^i^dvza E-QV7tv(p x siqrijtteVa, XX EdQVTcvov Aeafievov Ttatda xov v ^i2v(p PaoievaavTog d'sovai afia 'HQay.e aiQatevaavxa g "liov TiaQ Tov 'HQw^Aovs tjv Qvay,a nt. Evidentemente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine dell'eroe Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era ipotesi di taluno fra essi che egli fosse il medesimo Euripilo di Tessaglia. Il re dei Cetei  da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che Keteig possa ricondursi in Arcadia e con lui Telefo;  arbitrario dedurne senz'altro un Euripilo arcadico : perch questi potrebbe esser stato connesso con quelli dopo il loro trasporto in Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in Arcadia al contrario di Telefo e Ceteo. Sarebbe quindi da ritenere probabile l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia. Alla schiera adunque Cfr. IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia in Acaja in Misia) viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro i tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omonimi G. De Sanctis m'insegna a ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima unica tendenza mitica; la quale ci  dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell' " ampia porta  infernale. Era ovvio che questo comune concetto, questo, meglio, fantasma venisse volta a volta applicato presso popoli di stirpe greca. In tal caso poich egli appare presso la i^vij Tgizovlg  legittimo credere che impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del Gioh [su cui MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era ritenuta appunto apertura di Dite (cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8; PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo  congiunto con altri numi da uno schema genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten: Atlante I PosiDONE ->- Celeno lios I I Tritone Euripilo Sterope Pasifae LicAONE Lbdcippo Se non che questo schema ci appare sbito una combinazione accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak. Kul.), Tritone {fiv^ TqitcovIs Strab. e Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in Libia da altre fonti: elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce (cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo corrispondono, miticamente, Licaone  Lieo. Di Lieo in altre fonti (Ellan. in Scoi., Apoll. Bibl.)  padre Posidone e madre Celano, Atlantide. E il nostro erudito ha serbato la genealogia, inserendo per fra Licaone e Celeno-Posidone una generazione : Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e l'altra vicina. Sorella di Celeno  Sterope (Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito lo spunto per introdurre Pasifae e con lei Elios. Sia per questo o altro il procedimento seguito dall'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla pi che gi non sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici, influenza che le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi : a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non la costanza con cui un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in luoghi diversi col favor delle condizioni geografiche. 2. Eufemo  nel mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il Tenaro con Tera con la Libia. La connessione con Lemno  una conseguenza della sua qualit di Argonauta: sta e cade con questa. A Tera non v' traccia di lui, e anche il mito vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo {scoi Pit., scoi. Apoll. R.). Resta adunque ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi di Cirene per vantati discendenti. Ora in Beozia v' traccia della sua supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non v', ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella regione, egli sia tuttavia caratteristicamente beota. Col che si connette la sua presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia : a ognuno invero  nota l'attinenza stretta fra i miti beotici e tessalici. Ma perch i Battiadi ne avrebbero fatto il loro capostipite? Lo Studniczka pensa che i co[CIRENE MITICA] Ioni recassero quel nome con s daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi ne facessero il proprio avo. Costanzi mi par ben pi vicino a una probabile ipotesi: I Battiadi stanno ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e gli Euripontidi a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i Pisistratidi a Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare il fenomeno cirenaico: Pisistrato  nome d'uno dei figli di Nestore; Neottolemo, che ricorre fra i Molossi,  figlio di Achille nell'epopea: e similmente ArcesLlao, appellativo di quattro re di Cirene,  un eroe beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se  errato sostenere col Mller Orchomenos che di Beozia fu tratto il nome, non  per arrischiato l'asserire la possibilit che il nome beotico abbia attratto l'avo beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale genealogia, non sarebbero meno da respingere, com' ovvio, le due ipotesi dello Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono spiegare. Non resta da vagliare che la sede al Tenaro. Col non  traccia di Eufemo che sia indipendente da questa leggenda : c' in vece, importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S. Wide Lak. Kulte). Non solo, ma i caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e il suo significato religioso) son pi vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e, in genere, del dio solare (cfr. Zsg Ecpiifiog, Esich. s. v.) che a quelli d'un nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e Maass (Gtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fondaBen altrimenti Gruppe Gr. Myth. I rapporti di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro un carattere ctonio di quello: con Posidone difatti ha mento della sua localizzazione al Tenaro, bocca dell'Ade : fondamento per cui s'indussero anche a forzare il significato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto, eufemistico in luogo del nome pauroso della divinit ctonia. Tutto ci cade, se la localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi che l'affinit fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente modo. Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente far toccare, tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso, Tera, la Libia. Or bene: a Lemno abbiam gi veduto Eufemo. Ma dopo ci occorrevano due motivi per spiegare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'invent lo smarrimento della zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome Eufemo figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto di Posidone Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal modo tutto si spiega: ed  questa ipotesi molto pi semplice che non quella del Malten. Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo, e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle genealogie laconiche; difatti lo troviamo nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o figlio di una Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome sorella di Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indipendenti dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre  arbitraria anche la soppressione di Eracle fra Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri. Akad. Wiss.). CIRENE MITICA e Eufemo nello schema che ci d il cit. scoi. Pind. Pif. Ora, al Tenaro Eufemo  localizzato, a quel che pare, gi nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre dall'epiteto di Fairioyos che vi si trova e che  quello con cui al Tenaro si venerava Posidone: fi oirj 'TQitj TtVKLVcpQv MrjKioviiri ^ zxev JEvq)f]fiov yairjxffi Evvoacyaiq) fieix&ela' v (ptTrjzc nov^Qvaov 'Aq)QodTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino fav.; Acesandro e Teoceesto in scoi. Apoll. B.. Se dunque  vero che la localizzazione .al Tenaro  tutta a favor degli Eufemidi (= Battiadi), cotesta Eea non pu esser che sotto l'influsso cirenaico. La qual cosa spiega o pu spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (pi propriamente) di Aristeo, che gi abbiamo accennato dianzi. E poich l'importanza che in entrambe le Eee ha Apollo  singolare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo come ecistre), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti, per Eufemo in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta ad alcuna regione ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi, certo  estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che afferma Euripilo ed Eufemo costituire eine Reihe, die ihre Endpunkte in der Kyrenaika und im sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi intimamente [EUBIPILO ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo rispondere di aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt, che sta in Tessaglia, per Eufemo l'estremit che si fissa in Libia e il centro che si posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i nervi a quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In LicoFEONE naufragano su la costa libica Euri pilo (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo perrebico e Proteo magnete. Onde Malten sostiene che il naufragio in Libia di Guneo e di Proteo  leggenda cirenaica (LicoFB., Apollod. a Wagner): e rintraccia poi quegli eroi a Creta e in Tessaglia. Noi per abbiamo gi osservato a proposito di Diomede che nei varoi la spiaggia libica appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leggende son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora che un mito secondario, attinente per contenuto all'epopea dei vazoi, fa naufragare in Libia un Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un omonimo, rilevante figura locale, ci conferma nella nostra opinione, e prova contro il Malten che Guneo e Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al pili, per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste Kette von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non che, secondo il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una zolla libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente le due figure, non resta che studiare la trama narrativa in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli Argonauti in Libia. CIRENE MITICA Gli Argonauti in Libia. Poich su questo punto io profondamente mi allontano dal Malten terr pi minuto discorso. A quattro redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro Pit.; Erodoto; Licofronk; Apoll. Rodio; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti, ritornando con Medea dall' Oceano sopra lArgo, debbono per dodici giorni trasportare la loro nave su la terra deserta fino al lago Tritonio, ove nel punto della partenza appar loro Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di Giasone, una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v' nulla che non si convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja inventato per il loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale  l'unico non indispensabile. Dev'essere difatti questo il lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi) che esiste tuttora (i laghi salati). E non si vede bene, svibito, perch per l'appunto quel lago venisse scelto per il dono. N Euripilo poteva esser causa della preferenza; per che paja invece piti probabile il contrario: Euripilo esser intervenuto a cagione del lago. D'altra parte difficilmente, sembra, Eufemo, avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo a punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il che lascia supporre che in Libia una leggenda pi antica recasse gi gli Argonauti. Per queste due possibilit adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della palude Tritonide debba risalire a un nucleo mitico pi antico : parvenza bisognosa d'altri suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una MjAvri f^eydrj T^ubvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ci che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente trasportato senza possibile uscita fuor dalle strette del lago. Ma Trtone apparso trasse di rischio la nave, dimostr la via, e ricevette in dono un tripode. Dopo le quali cose, profet agli Argonauti che un giomo presso quel lago i Greci avrebbero fondato cento citt: Taira ytovaavzag rovg 7tix<^Qovg twv Ai^vov KQV'kpat, Tv zQLJioa. Qui sono due particolari ben distinti : il dono del tripode per ottener lo scampo, e la profezia. Quest'ultima non si avver perch la piccola Sirte non ebbe colonie greche ; ed  da vedere in essa (cfr. tra gli altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com- piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode non  che fittisiiamente collegato con la profezia e il tentativo di Dorieo: suo vero e unico e primo scopo  ottenere da Tritone la via. Il resto  superfetazione pi tarda. Da ultimo  notevole che ritorna ancor qui il lago Tritonio, localizzato per non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte. Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno  recente, e non risale pi in l della spedizione infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e il valore fatidico dato al tripode. L'altro  assai pi antico, e preesiste a Dorieo: gli appartengono i nomi degli Argonauti e del lago Tritonio e il dono di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo strato assomiglia, grossolanamente, al nucleo che ci parve originario in Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi simili. Identico  il nome della palude; ma diversi sono i luoghi: tuttavia pi vetusta appare la identificazione C'IBENE MITICA con il lago dell'estremo occidente nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. e Costanzio.). Identico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e non  dubbio che Tritone, aderente com' al lago stesso, risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente dei nuovi coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma la vicenda  mutata: ed  chiaro come al mito primo deglargonauti si convenga il dono che serve a favorire il viaggio, pi tosto che quello il quale prepara, a tutto vantaggio d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato adunque pi antico dErodoto appare alla nostra analisi come la forma su cui vennero foggiate: da un lato la leggenda cirenaica a pr dei Battiadi, con alcune alterazioni dicevoli; dall'altro la leggenda spartana in favor di Dorico, con altri mutamenti opportuni. Se questo  vero si spiegano facilmente Licofrone e Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo ed Euripilo presso Tauchira (citt della Cirenaica non lungi a l'odierna Bengasi). Quivi (soggiunge) furon gi gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso (Ausigda giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre  Kivv(pEiog ^og (il Cinipe, cfr. Malten, che fluisce, in vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argonauti appare Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per compenso del quale egli insegna loro la via, e profta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorch riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impauriti lo celano. Ora  evidentissimo che, ove si muti il cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli medesimi erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono della Cirenaica. N il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazionalit geografica  qui indotta dal ricordo, che tutto il mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI IN LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner = scoi, a Licofr.) (contro Malten). In breve, Licofrone contamina; mischia insieme, di qui due localit cirenaiche, di l il contesto sirtico-spartano del mito. Ben pi contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Argonauti naufragano alla Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le navi verso oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti nel viaggio insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una zolla, riceve da Orfeo il tripode. Sono, ci , ravvicinati: il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad Orfeo (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua fonte)  cosi conscio della contaminazione, che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge con una fittizia marcia di dodici giorni da occidente a oriente : marcia il cui modello pu bene esser in quella, di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia. N coteste contaminazioni erano puro effetto dell'arbitrio di poeti. DioD. narrando (qual che ne sia la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo, era spostata, avesse trovato terreno propizio, anche nella realt, presso l'altro lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilit con cui dalle nostre premesse furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e Apollonio, insieme col loro sostrato reale, par buona conferma delle premesse medesime. Poche parole bastino dunque, ancra, sul posto che, nella complessiva spedizione, occupa l'episodio deglargonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano dopo la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea  presente. Apollonio ed Erodoto, prima. Anzi tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a Licofrone, in cui un equivoco  ben possibile e facile, da poi che non tratta egli esplicitamente, ma solo parenteticamente, deglargonauti. Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del mito non aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva tribuirgliene uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro dell'ispirazione. E possiamo finalmente raccogliere in breve i risultati delle ricerche sul mito dei Battiadi. A favore di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielabor un antico motivo favoloso su gli Argonauti in Libia: conducendo quivi e a Lemno, e localizzando al Tenaro, il capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualit di Argonauta; trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di Euripilo, che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea quindi , si, un complesso rifacimento di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note, non gi altre, anteriori e ignote. Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene crediamo si possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il mito di Cirene. Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la forma pi antica della leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora  bens verissimo che Callimaco, come AceSANDRO {scoi. Apoll. R.) e Filakco, storici, cirenaico l'uno, egizio forse l'altro, sente una pi viva eco e pi genuina della primitiva forma mitica allorquando fa combattere in Libia, non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma  altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che il nesso con Euripilo  tardo. Se difatti l'Eea avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con quel di Cirene, non avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in Tessaglia  invero signore di Ormenio un Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso  posteriore all'Eea e a Pindaro,  pur posteriore alla leggenda dinastica deglEufemidi, gi riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con Cirene, dopo che la sua figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito deglargonauti su la Tquovc ifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore forma indigena della leggenda che  oggetto del nostro studio; a quel modo che VIRGILIO (si veda) rispecchia una posteriore forma straniera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per la frase di lui fiev jieivv: Cirene di fatti sarebbe pervenuta in Libia non sola ma con molti. Analogo, se bene un po' diverso,  Giustino: mandati dal padre di Cirene, Ipseo re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la fanciulla, loci amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano in parte; cosi i due passi or ora citati continuano lo stesso indirizzo, non pi solo col connettere Cirene ed Euripilo, bens anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi di questo processo mitopeico sono: Euripilo  in Libia quando Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque molto prima di Batto; Cirene  in Libia rapita da Apollo, essa pure prima che vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia in quegli antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da Euri- [OIBENE MITICA] pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le cui forme non si debbon confondere con le primitive quali ci appajono nelle due Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette mitica soo in questo volume gi per intero composte quando apparvero di Pasquali le Quaestiones Callimacheae (Gottingae) ove il mito di Cirene  di nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una confutazione (" Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola Biblioteca di Scienze Moderne Grice: Mussolini lacked a classical education  he was obsessed, if we are talking alla hymns, of the modern, not the ancient! Grice: Mussolini, who wasnt from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he should build the third Rome somewhere in the Lazio. Aldo Ferrabino. Ferrabino. Keywords: la terza Roma, Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolinis dislike for ruins, Mussolinis use of modern versus ancient. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrabino,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CORIOLANO, ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian – cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni. È inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora con SALVEMINI (si veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce. Espatria a New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal tutore *come* pensare, non *cosa* pensare".  RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY, CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe.  appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i Volsci.   Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin. BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città stessa. Q. Marcius, dux Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant, repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent, quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma, ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto alla propria patria.»  (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della presa di Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe si era ritirata sul Monte Sacro.  La situazione era poi resa oltremodo complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini, compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di nome (Fœdus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al console Postumio Cominio.  Postumio Cominio iniziò la campagna militare guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota:  L'impresa di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci  LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio.  In effetti la contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione. In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea.  «...A questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»  (Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna fu quella dell'esilio a vita.  La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio, eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci, più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del tramonto. Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini, per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio, carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani.  Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città, Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due ordini.  Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del proprio esercito quindi prese Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e pose l'assedio a Lavinium, senza che i Romani portassero aiuto a queste città.  Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della città in località Cluvilie, dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino, senza però riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani.  Leggermente diversa la versione di Livio:  Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca, Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla città»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Qui, alle porte dell'Urbe al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli, Spurio Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese della città, venne fermato dalle implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di distruggere Roma.  «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo considerarmi una prigioniera o una madre.»  (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è concordanza sulla morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso dai Volsci, che lo considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma. Secondo Fabio, muore di vecchiaia in esilio.  Plutarco e Dionigi di Alicarnasso raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio, mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove è stato messo sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto condivisa da tutti, sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi. CICERONE (si veda), nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.Critica storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia tra i fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco, Vite parallele, Vita di Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Ab Urbe condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE (si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele, Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.), composta per la tragedia teatrale omonima di Collin.  Gens Marcia Volumnia Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Guerra   Portale Politica Sesto Furio Medullino Fuso politico romano  Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio)  CORIOLANO Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander (Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la “Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo; giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano “entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni “Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto, intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu” (i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata, spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione dell’Alexander.  CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica; Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo; Coriolano, all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia. Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e, prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere, l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”. Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.  CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio. PERSONAGGI  Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti, piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo: ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti! SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto per sete di vendetta!  SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato, tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT. - Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. - Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no, ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. - Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.  PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO - Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente, che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci! Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon solo gli strozzini;  abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita, ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco, così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh, sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere, provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori  perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco... Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore, consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi, tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ... dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo... MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io, se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico... Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico che sia così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il cervello,  e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso, attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati. MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!  Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO - Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole, ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché l’una vi fa tanti conigli, l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri, oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male. Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe.  E adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio: chi può andare più in alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio. Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi convinti tutti quanti; perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice il resto della mandria. MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione...  una richiesta assurda, da spezzare il più generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e non so più. Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai. MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede? MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono,  vorrei essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia. MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio, volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante. Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa. MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO - Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili, il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego.  (I popolani si disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale. SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra, gli occhi? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a schernire la vereconda luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”. SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito.  BRUTO - E così la metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere, avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi, Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono... Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest... “Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente “essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO - ... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di battaglia  avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione. Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista! AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. - Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei più felice di saperlo lontano a farsi onore,  che averlo a letto a gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio, preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita. VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi.  VOLUMNIA - Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli, quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti, voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e asciugarsi la fronte insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove, no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA - Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui, che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti. VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro:  che ricamate?... E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA - Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre! Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così, vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via, mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami, Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto  e le sto accanto con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché? VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione. VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito, così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA - Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne. VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA - Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore. Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa, mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto.  VOLUMNIA - Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora, arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia) Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio. (Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati. LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO - D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro. LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città.  MARCIO - (Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città? PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli scudi,  all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia! All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati! Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro! V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee. Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me, e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo seguo.  SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude) Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio! Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a Roma.  SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO, sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO - Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci, giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42), saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa, prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio, ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani! Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo, accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio. Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi. Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna  decide di portare in alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO - Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci. Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte. Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da quanto tempo sei venuto via?  MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del riscatto,  con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?... Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia; affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO - Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel bagno e spalmarti d’unguenti le ferite;  ma non saprò giammai negarti nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO - Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui, levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio. (Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa, quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi. COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli  TITO LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate. Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla. LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.  Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta. AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba come segnali di carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata Entra da una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati; dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare: “Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà. Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!...  MARCIO - Evvia, basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte. Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero - e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto. MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad accettare un dono sottobanco per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto)  Questi strumenti che voi profanate non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura - ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo, come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59), ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso  poi che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero. COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare, scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe, ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO - Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà. Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO - Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata... Non avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni.  Il sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni. (Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere, ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio, ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più, qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato - ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e dell’usanza che ancor li sostiene.  Dovunque me lo trovi innanzi agli occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia, contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore... Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego (è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei.  BRUTO - Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo. I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio, che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria. BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo! Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a parlare d’alterigia!  Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici, bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’ là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) ) come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa, se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili, dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti abbastanza!  MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi, per rinviare poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser colti dalla strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette, innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare, e, bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione che sarete riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio! MENENIO - Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che sapete dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe; quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona sera alle eccellenze vostre;  ché a star ancora a discuter con voi, mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura. Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA - Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi. MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.  VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria) Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO - Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere, son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due Tribuni) Vostre signorie, che Dio le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito? VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle cicatrici  da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica! Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba, poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime. Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano, in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato, con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano! TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio...  ora che t’hanno dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti... Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara, come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui, Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto. Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto, Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo! CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92),  debbo rendere omaggio ai senatori dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori. VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che han la vista debole si procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più vistosa e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli, banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il bianco e il rosa damaschino, espongon oggi al lascivo saccheggio degli infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto console.  BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta. SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO - Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere. SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà. SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina. BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma, ridotto al silenzio  i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto, questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove, e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)  SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano. Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male; invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi, facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli  di una forma di nera ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO, MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori, a colui che ha la carica di console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa, di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi, che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia concorde con quanto sarà qui deliberato.  SICINIO - Siamo qui convocati per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO - Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto. Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate sarebbero riuscite a trattenermi.  Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO - Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma, e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106), battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il miglior soldato in campo  meritandosi, in degna ricompensa, una corona di foglie di quercia. Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora, ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta, fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti, si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con la forza d’un fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi: allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE - Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli.  COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo. Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane solo che tu parli al popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale. MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire. BRUTO - (A parte, a Sicinio)  Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati, tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca. Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono) Entra un gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra lingua  a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare, sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo, ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie.  SECONDO CITT. - A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure! TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego, cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi! Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si ricordino di te. CORIOLANO - Di me...  Loro!... Che s’impiccassero piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria. Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO - Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio) (Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO - Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. - I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici?  TERZO CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo! SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh, lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto ch’io sia nominato console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. - Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO - Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque, cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo, le smancerie di certi capipopolo,  che elargirò con generosità a quanti gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO - Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto. QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO - Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete. Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente. (Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire, crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno? Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah, no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà, farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri voti. (Ai due)  I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto. Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto fatti d’arme. Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console, perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo. SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console! (Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO - Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO - Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.  MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi? BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo. (Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI) SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui? PRIMO CITTADINO - Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero, modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO – È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno. SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria... SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che poteva mostrarle in privato;  e col berretto in mano, ecco, così, agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come, del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto trar partito  dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto, mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma, e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota. PRIMO CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO - Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti. SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio, revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il voto. Dite loro che è stato il vostro affetto,  memore dei servigi da lui resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante, offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe, abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”, da cui discese pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del passato,  avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno. (Escono)  ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì, Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo. CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento. CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto? LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada; che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così, senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì.  CORIOLANO - Come vorrei che mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre. Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO - Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare. Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole. SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge, eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno, e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo!  CORIOLANO - (Ai Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis, fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO - Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu. CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini, datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega! SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita, con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come tribuno.  MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece, adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida, bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta, ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a punirlo, e non un uomo  affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata? CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte, sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!... Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo “deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa!  E mi sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro, dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO - (Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì! - di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste digerirà nel suo multiplo ventre  la cortesia che gli ha fatto il Senato? Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza. CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no” dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a trascurare i reali interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza - voi, cui le fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano giudicare,  priva lo Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge. I tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento! Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh! Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO - (All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano) Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone!  SENATORI e PATRIZI - Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO - Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte! SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO - Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi, gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate silenzio! Parla, parla, parla!  SICINIO - Le vostre libertà sono in pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte. MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE - Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo! SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori. PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO - Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio, arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico.  EDILI - (Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe! CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni, allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono) MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero.  MENENIO - S’ha da arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO - Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo. CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO - Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per crollare. È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia. La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che, straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente, travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico... Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di qualsiasi tinta.  COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi alle cose del mondo. Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui? MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo, da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla folla)  Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto, Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene: come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti. SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine! SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla) Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui, sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori, come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto  egli, a Roma, per esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici - e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene - l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili? Aggredito noi stessi?... Andiamo, via!  MENENIO - Considerate questo che vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato. Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora, nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro. (A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o trascinato da cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra  sulla Rupe Tarpea dieci colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate, bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145) prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA - ... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah, per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e rimediare.  PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni. CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece! VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua politica perdere d’efficacia e di valore,  accoppiandosi in pace, come in guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità? CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione, o quello che ti suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto. Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì, figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149), e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle parole, ché degli ignoranti  son più istruiti gli occhi che le orecchie - ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai - sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi: perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti; anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO - Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al mio nobile cuore, e comandargli  di sopportarla?... Bene, lo farò. Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi. VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele a me stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato  da me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego. Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando. Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce) COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma, ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene?  EDILE – È qui che sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me, completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia, per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”, se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare, ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto. BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio) Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se contraddetto: una volta scaldato,  non ha più freni alla moderazione, spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO, con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano) Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore, affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le colpe che saranno a tuo carico provate.  CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO - Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO - Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa... CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io, traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi  la morte ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO - (Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO - Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto, udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma... CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco. CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa,  bastasse pure dir solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare, noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo. PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia! COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO - Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri orgasmi!  Che ogni minima voce metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i nemici col solo scuotere delle lor piume, vi piombino nella disperazione. Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere, finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova, non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO - Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi. Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo, andiamo tutti! (Escono)  ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime. Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)... Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare, ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare; che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego, donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre, ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi? - che se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche, risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare. Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi.  (A Cominio) Mio caro generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!... COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo fuori le mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di me  se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono) SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO - Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene mostrarci più dimessi di quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO - (All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA, VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA - Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli dèi per gli uomini  possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi, mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A Volumnia) Diamine, siete diventate uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO - O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma! MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da lui stretto...  BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì, magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci, che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego, andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete? -, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni! Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa, divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone. Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!  (Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO - Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO - Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi, quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra, sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh, la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo. ADRIANO - Coriolano bandito!  NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così, casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti, perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV - Anzio, davanti alla casa di Aufidio  Entra CORIOLANO in abito dimesso, travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui, Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te. CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli, basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia. Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e guardo con amore a una città  che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!... Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO - Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO - Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci!  CORIOLANO - Ora cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’ fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO - Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto. Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo) Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO - Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?  CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino? CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere. Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano) È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO - Un nome che non suona musica  agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato, quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi. Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita, ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia situazione di disgrazia:  usala in modo da trarre un vantaggio da quanto io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte, e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra,  tu m’hai piegato, e da allora ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e, rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio, cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato, Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di cacciarlo a bastonate...  Però dentro di me lo sentivo che il suo abito non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola. SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO - Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco. Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come una condanna a morte. I DUE - Perché, perché?  TERZO SERVO - Perché quel Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO - “Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro, sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande, s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice, a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre lui è in discapito...  PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO - ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito. Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico, datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile, assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra. SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO - Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro, sbrighiamoci!  (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate... Il popolo sta quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi. SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In coro)  Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene. (Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi, rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente, può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni, c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo dappertutto la notizia  che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che, avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile) Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no, non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione, stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti. L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no! Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile! SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche diverse  - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO - Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori, travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé. Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto! MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare, incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO - Insomma, che notizie sai? Ti prego!  (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti? Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I Tribuni?  Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra. MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna, e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi tutti:  farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva... SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO - Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro, voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio? COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO - (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani)  BRUTO - Brutte notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio, se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO - Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)? LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà  e dimostri d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada, c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE - Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio - che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa, soggiacciono alla stima del momento;  e il potere, in se stesso pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro; così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono)  SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome “Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla, un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto. ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso stesso aveva castigato. ATTO QUINTO  MENENIO - Benissimo! Poteva dir di meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita, che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro, come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No, non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?  Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare? SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata. MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo, siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire. MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO - Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto: se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184)  è il carceriere della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena, in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così; non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono) SCENA - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati! Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza, io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano. 1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa! Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio.  1a SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’ gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette. Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare. 1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO - Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto l’odia lui. Come fate a pensare  che dopo aver cacciato dalle porte colui che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo, possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila, tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono. MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo? Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA - Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta. Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento! Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo superiore! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano. Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare  e poi svieni, per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella) che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO - Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi. Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti: eppure tu lo vedi, Aufidio.  AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante. (Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire, secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo! Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA - Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO, AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini  e sei rimasto pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare. CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio, d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò. Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue... Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e il mio ragazzo ha un’aria così supplice  ha un’espressione così supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma, e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO - Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!... (Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte, perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati, figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a te  su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria) CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo, informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!  (Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco, anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci, sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli altri.  Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto, andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai! - muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio, non lasciarci così! Se il nostro chiedere  mirasse solo a salvare i Romani e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani: “L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato, sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo... Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo. Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua madre non hai avuto mai in vita tua  un tratto di filiale gentilezza; per lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre... (Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù! (S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni! Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi, sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma esponendolo  a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia! (Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà. Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio, avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie! AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna. CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma, una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora?  MENENIO - Ebbene allora se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa. Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi di campana a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio, l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo per loro alcun rispetto  quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie? SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci, alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno) MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te, poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver pregato bene:  stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno) SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE - Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali! Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone, benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una piazza Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai senatori  ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti! 1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO - Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa, indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,  quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO - Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia, presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado, ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli  si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO - Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso... tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo, e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi  fino davanti alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto onorevole pei Volsci quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi, munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio! CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì, dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio, sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio, piagnucoloso ragazzotto!  CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro! CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore! “Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi, sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”... Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi, quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito! Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di valore, ed il suo nome  abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio, tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza, questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi! Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo, cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia, accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si prepari per lui un funerale  con la solennità che si conviene ad onorare la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE - L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta, mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva, come nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere, ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte, “Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi, Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così come siamo”, cioè magri.  “Ere we become rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello” (“as lean as a rake”).  “I need not be barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”. (9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra. “Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!” Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity, insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”: “... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit” ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore avversativo. “The one side must have the bale”: la frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole, quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa. L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”: “to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se necessario, con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è il centro politico della Roma antica.  “... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500 era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a desistere dalla sommossa.  “What says the other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla generosità”. Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis” nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono soltanto due, Bruto e Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e, insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. “.. his lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. La luna come divinità era impersonata da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato anche in senso lubrico. “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a risponderci”. Cioè al momento della loro messa in atto. Plutarco - ch’è la fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”). La guerra cui accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini. Questa immagine nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico presagio all’inverso del destino di Marcio. “You were got in fear, though you were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene siate nati a Roma”.“It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo” era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di Corioli assediata. “Amongst your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro, capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr. in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora, ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A carbuncle entire”: “entire” è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si giudica dalla sua luce. In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi. Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio che gli farà più sotto Cominio. “their honours”: si accetta la lezione “honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours” dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per costoro...”).  “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia aveva il diritto di appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. “The general” è, s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La traduzione letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio da quello di qualsiasi altra”.  Cioè: “Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”.  “O me alone, make you a sword of me”: è uno dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”; chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura (Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni, anche la più poetica.  “... dispatch those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce; forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care, Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”.  “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”. “Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù guerriera. Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la “Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia. E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”: in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha “Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di “ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase, sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino “vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a “parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”: letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa guerra”.  D’ora in poi, il personaggio sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori, “Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati) impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che disprezza e   insulta la soldataglia romana che pensa più a far bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli occhi degli assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di “povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “... perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”. Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per “caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole.  Licurgo, il grande uomo politico greco, divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”: letteralm: “... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il testo ha “an orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come se i tribuni della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di persone investite di pubblica carica.  “...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla bandiera bianca della resa.  “... against all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più imbrogliata dalla vostra udienza”. “... such ridiculous subjects as you”: “ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non quello di “che fa ridere”. Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini, sellame per cavalcature e anche palle da tennis. Deucalione è il corrispondente pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due, rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra. Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”: “empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave comico- dispregiativa, di “empirical”.  “... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato. Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”). Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta di Volumnia, ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei vincitori.  “My gracious silence, hail!”: questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe. Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella silenziosa”... ma non è lo stesso!  “And live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è “maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente, fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere “Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama “patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo Cristo!).  “... her richest lockram”: il “lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”).  I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”, sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana (filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”. Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave elders”: “elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. “We are convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”.  “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta, quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus / Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”. Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe, da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra” (“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le parti femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”, “adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia “Measure for Measure”. “... and is content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile, della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata inventata nel Medioevo!  “If it may stand with the tune of your voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti” ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio.  “... you have been a rod to her friends”: “rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone (“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “... battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di “called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia di Corioli.  “... have you chose this man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre. Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai “comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della “gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens” che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma. Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato pretore. “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è la minuzzaglia ittica. Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. “... being but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come “portavoce” del mostro. Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori della repubblica.  “... by yea and no of general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”, che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International Dictionary”).  “Therefore beseech you / You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”; frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello Stato...” non è nel testo. “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano, “il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto basta a confermarlo nemico del popolo. “... when what’s not meet, but what must be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare, ma ciò che si doveva fare per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al tempo di Coriolano si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui. Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”) simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti anche tra i patrizi. “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal “volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare.   “His nature is too noble for the world”: “world” ha qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”. Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”. L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio, con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava girando.  “Wollen vassals”: le robe di lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è “umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8 di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene “A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare). “I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare (“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”). “Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”: “instruction” è termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione - ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente MACHIAVELLI (si veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare, deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che richiede, in chi la esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e volitiva genitrice.  Il “cappello in mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”. Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”, “roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche “indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco (“Vita di Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù, perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le “centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i cittadini di Roma secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice dopo.  Le piume dei loro cimieri, s’intende. Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso una porta di Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima.  “... with precepts that would make invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”. “Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“... con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio) sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha “Ora che abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”). “Are you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob iram”). “Strange insurrections”: “strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. “I have deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under the canopy”: “canopy” è il baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. Che cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra: l’unico esempio - secondo iBradley - in tutto il dramma di accostamento della Natura a uno stato d’animo.  “Then thou dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”. “Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano, quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa.  “Whilst he’s in directitude”: sta verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”, strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale “for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I desire”, “this is my choice”, eccetera. “His remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente, a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di “means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a senso.  “And affecting one sole throne without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago Ladone.  “... and you’ll look pale before you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e Menenio testé usciti.  “Do they fly to th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma. Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco, che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo, tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta. “... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La frase è ambigua, come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale “merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. Il testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. “He does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma. “And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto di pietà”.   “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”: è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e “giacersi” (nel senso sessuale).  “Nay, but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena culminante del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. Si confronti questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”: “Let home in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe.  Cioè “io ti vedo in una luce diversa da quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei suoi drammi.  “To your corrected son?”: frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma, col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano.  Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio.  Testo: “... will be dogged with curses”: “... sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente, non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone. È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti - come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le “ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Guido Ferrando. Ferrando. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ferranti: implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo d’“ingegnere Filopanton,” presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO (si veda), nel saggio “SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL INTER-NATIONE LINGO PEM SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello di creare un SISTEMA in grado di rendere l'apprendimento della lingua internazionale facile e veloce, tramite l'abolizione delle desinenze, dei suffissi e dei prefissi e un rapporto intuitivo tra idea e parola. Per F., idee tra loro collegate devono essere espresse da parole tra loro simili; per esempio, aventi la stessa radice. Mario Ferranti. Ferranti. Keywords: system, sistemo, lingua, lingo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferranti,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrari: implicatura conversazionale e ragione nella lingua universale – la scuola di Modena – filosofia modenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Modena). Filosofo modenese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Modena, Emilia-Romagna. Insegna etica. Sotto lo pseudonimo di Callicrate Aletiano, F. pubblica “Mono-glottica: considerazioni storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla ricerca d’una lingua universale,” Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante per la discussione intorno alla lingua universale, con le proprie considerazioni in materia, dedicando il saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate” ricalca il nome di un architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla parola greca per 'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come l'architetto – cf. Grice, engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi la verità delle cose, che si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è una figura della mitologia greca che sacrifica la propria figlia in nome della vittoria sulla città di Sparta; Euganeo deve essere ricondotto alle origini del dedicatario. Il modus di F. è del tutto simile a quello  di SOAVE (si veda).  Dopo una disamina del tipo d’alfabeto utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda), CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti, esprimendo elogi e  rimproveri per ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In  nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI – FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j, k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency, cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al NOME (e predicato – ‘shaggy’) --, a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”. Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins, né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo (cf. ‘not’). Essa discerne due generi nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo, in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità, che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè puo ella riescire perspicua, gradita, e  mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola;  tanto che F. sostiene «l'analogia è un giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche modo essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso derivate. La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Nome compiuto: Gaetano Ferrari. Ferrari. Keywords: lingua universale, Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrari”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e FILOSOFIA della RIVOLVZIONE – la scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: Ferrari is important in at least two fronts: as a philosopher, he promotes what has been called a critical illuminism  and who but an Italian philosopher can have as a claim to fame a treatise on the philosophy of revolution? The second front is my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the best interpreters, with his La strana sorte di Vico, of Vico! My pupil at Oxford  my first one, actually  Flew, once called Humpty Dumpty an anarchist  semantic anarchism, he called it.  But he was wrong. Humpty Dumpty cannot mean that by uttering Impenetrability, Alice will know that he means that a change of topic is required! Essential Italian philosopher. Federalista, repubblicano, di posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento italiano per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia borghese il padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori pot godere di una rendita grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece i suoi stud nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu per pi interessato dalla filosofia, che coltiv nel cerchio di Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con Sullerrore, ossia, De religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica a proposito dei giudiz. Un giudizio infatti non consente di giungere alla verit oggettiva. Grice: The problem with Ferraris analysis is etymological. For the Romans, indeed the Indo-Europeans  cf. German irren --, to err was to wander FROM THE TRUTH. Its a metaphor, a figure of speech. Un giudizio  indissolubilmente intrecciato a questo che Ferrari chiama un errore. F. define un errore come un vero  un vero relativo, non assoluto. Similarmente, il vero e un errore relativo  giudizio vero relativo al soggetto  errore intersoggetivo. -una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows you to avoid objective and subjective, but we do want to use subjective and inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un vero relativo a S1-S2. Introdotto nei circoli intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio (due allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin, Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma per le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla filosofia del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma luterana, fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso dall'insegnamento, e, bench avesse ottenuto la cittazidanza francese e il titolo di "professore di filosofia che lo abilita ad insegnare non fu pi reintegrato nell'insegnamento, poich la raccomandazione di Quinet per una sua nomina a professor al Collge de France, bench accettata dalla Facolt, fu rifiutata dal ministero dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo fu all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso F." dalla stampa, s'interess a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che mise fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come repubblicano, si rifugia  Bruxelles. Ritorna definitivamente a Milano per partecipare alle vicende che porteranno all'unificazione e alla nascita dello stato italiano. Fu eletto deputato al Parlamento del Regno di Sardegna nel collegio di Luino (elezioni suppletive), confermato nelle elezioni (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio di Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui banchi della sinistra per sei legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di Como, ma si mantenne fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico pu essere riassunto nella formula: "irreligione e legge agraria", cio lotta contro Roma e il clericalismo e riforma della propriet terriera dei latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali delluguaglianza. Per quel che concerne la forma dello stato italiano, F. domandava una costituzione federale, con un esercito, delle finanze e delle leggi federali comuni, ma anche con la pi ampia de-centralizzazione amministrativa possibile. Dopo essersi recato sul posto, scrisse una relazione parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, bench non ci fosse a quel tempo nessuna indennit parlamentare e i parlamentari non godessero di nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in Parlamento pur continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo, e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a pi riprese contro uno stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse nell'articolo che l'unit italiana non esiste che nelle regioni della filosofia. In una regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo, non si posse reclutare un esercito, non si pu organizzare nessun governo. Esprime l'auspicio che l'Unit Italiana si potesse prima o poi realizzare. LItalia tutta deve domandare alla libert. La liberta non ha leggi, n costumi politici, essa non appartiene a se medesima; essa non  n una n confederata; essa non progredir se non col cominciare a chiedere costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo lUnit, se la fatalit lo permette. Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole dicendo. Io non muto d'avviso. Sono stato avversario dell'unit italiana. Credo lunita tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e crudelissimi disinganni, bench necessaria come gli scandali alla storia, come i sacrifizi e gli olocausti alle religioni. Si  pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, contro il trattato di commercio con la Francia e contro gli accordi con il governo francese per la ripartizione del debito gi pontificio (lui, "francese al peggiorativo", come ama definirlo il suo irriducibile avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti d'Aspromonte in favore della Polonia e dello spostamento della capitale da Torino a Firenze, prese parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale, sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. E fatto senatore. Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico e ad ogni consorteria, non ebbe seguito.  una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non che le sue idee individuali. La sua azione parlamentare  stata cos caratterizzata e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli errori dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza di una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio romano, e per tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libert dei suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Contro le annessioni incondizionate. Sulla interpellanza del deputato Audinot intorno alla questione romana. Interpellanza relativa alle condizioni delle province meridionali. Il battesimo del Regno. Contro il prestito di 500 milioni, La questione romana e le condizioni delle province meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago Maggiore. Sull'esercizio provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del Re (Aspromonte) Interpellanza sugli affari di Roma. Sulla questione della Polonia. Contro il trattato di commercio con la Francia. Intorno al bilancio dell'Interno. Sulla situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del Regno. Il trasporto della capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di Torino, Interpellanza al Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro la convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli ex Stati pontifici. Contro le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da parte del Papa. Sulla violazione del diritto del non intervento, Interpellanza su Mentana. Inchiesta sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul macinato. Sulla sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia cointeressata dei tabacchi. Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini per la legge sul macinato. Inchiesta sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno. Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I fatti di Francia. Contro la convalidazione del decreto di accettazione del plebiscito di Roma. Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro la politica estera. Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento dell'appannaggio al principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in Roma. Gli arresti di Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente di storia all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di Filosofia della storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore di Filosofia all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di studi superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore della rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano.Membro ordinario della Societ reale di Napoli. Membro effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia. Come tutti i socialisti italiani, Ferrari  fortemente influenzato dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo si costituisce come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato dalla rivoluzione francese. Riconosce come unico fondamento della propriet il lavoro. Propone quindi un socialismo che, non strettamente in opposizione al liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto di godere dei frutti del proprio lavoro. Pi che con la nascente borghesia, si pone dunque in contrasto con i residui feudali ancora presenti in Italia, e auspica uno sviluppo industriale e una rivoluzione borghese. Partecipa anche attivamente al dibattito risorgimentale. Contrario all'unificazione della penisola, propone come obiettivo la formazione di una federazione di repubbliche, in modo da tutelare le particolarit e l'unicit delle singole regioni. Questo progetto dove essere attuato attraverso un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento francese. Al contrario della maggioranza dei teorici risorgimentali (in particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse una missione storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario l'intervento di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla rivoluzione (che dove avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori) da un partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista. La questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale. Il stato federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito da un'assemblea nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe elabor il neo-guelfismo -- per sottolineare il carattere re-azionario di restaurare la presenza attiva di Roma nella vita politica dItalia. Critico verso la formula liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la superiorit dello stato dItalia rispetto alla Roma, corrispondente alla superiorit della ragione rispetto alla credenza religiosa, un rapporto Stato-Roma che si riallaccia alla politica ecclesiastica di Giuseppe II in Lombardia e a quella di Leopoldo I di Toscana. Consta dai registri della Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe Michele Giovanni Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque. Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere: Romagnosi (O. Campa, Milano); Sulle opinioni religiose di Campanella (Milano, Franco Angeli); "La fede in Dio  l'ERRORE pi primitivo, pi NATURALE del genere umano. La religione  la pratica della servit. Roma presenta tutti i vizi della ri-velazione sopra-naturale. Roma conduce alla dominazione dell'uomo sull'uomo. Il romano c morto, l'uomo deve nascere,  nato, ha gi respinto dallo Stato gli apostoli e la Chiesa. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati, Atti del Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati, Torino, Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le pi belle pagine di Scrittori italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre opere: Romagnosi; Vico; La Federazione repubblicana; Filosofia della rivoluzione; L'Italia dopo il colpo di Stato; Opuscoli politici e letterari; La mente di Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso sugli scrittori politici italiani; Il governo a Firenze, Giannone; Lettere chinesi sull'Italia, Storia delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi politici, L'aritmetica nella storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza);La Rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I partiti politici italiani, Le pi belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti politici, Ghibaudi, I filosofi salariati, L. La Puma, Scritti di filosofia e di politica, M. Martirano, Il genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario Peruta, "Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta (ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli, C. Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna storica del Risorgimento; Milano e la Convenzione di Settembre dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett, "Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di Wallon a F.", Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna della Destra. Con un carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi, Ghiringhelli e F. Invernici. 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Interrogala sotto ogni aspetto, la filosofia conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della scienza, il regno dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi, questo  l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi ne furono i precursori: ma traditi dalla metafisica, sentivansi solitari, impotenti, inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole, un artifizio estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo inganno della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di Cristo. Ma la rivoluzione liber questo prigioniero delia teologia, ne divulg la parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanit sulla terra colla forza della scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione trasportando il problema della scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'eguaglianza nelle antinomie del diritto. Ne consegue, che abbiamo il regno della scienza fatta astrazione dalla verit, il regno della libert falla astrazione dai dogmi, il regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il regno dell'industria fatta astrazione dal capitale: e s'incoraggiano le nazionalit senza badare all'umanit; si pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato meno il papato, quasi fosse proposito deliberalo di predicare la rivoluzione meno la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole, se leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per stabilire una tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma la tregua non regge; ad ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni pu parere lontano, e se altri possono consigliare di dare tempo al tempo, si ricordino gli uomini di poca fede che quando la scienza scopre un errore per quanto sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi lo difende pi non regna, e se s ostina cade sconfitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la fede negli avvenimenti imprevisti non  cieca e viene autorizzala dalla forza del vero che oggi tradito si vendica domani col corso naturale degli affari, delle guerre, delle paci, della ricchezza, e perch ogni verit  un valore, chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti sotto le forme pi inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai progresso che non toccasse alla propriet o alla religione che non venisse dalla scienza e dall'eguaglianza e che non si dovesse irnaginare con ardimento scandaloso quasi fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo che il dato di Voltaire, di Rousseau, di Weisshaupt ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza, gi dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare dalla teoria alla pratica e per sostituire una generazione di tribuni, di generali, di insorgenti, di dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei filosofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino protetti tanto sembravano lontani dalla realt. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli stessi maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti dal campo della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto, legali alla terra ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si gradui il progresso e possa prendere delle forme mostruose e talora nemiche, dal momento che sentimmo compiersi nella nostra mente la filosofia della rivoluzione secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il F. tacque : non pia studi pubblicati sulle riviste francesi per far conoscere al mondo T Italia del passato e del preseme, non pi opuscoli politici per tracciare piani d'azione pamphlets violenti contro i suoi avversari: gli amici lo avrebbero potuto creder morto. EpIHjre la sua operosit si svolgeva occulta sotterranea silenziosa, tanto pi assidua quanto meno era visibile: abbandonato il campo del giornalismo dove le tracce del lavoro sono ben presto cancellate dall'incalzare di sempre nuovi problemi e dalle richieste di gusti sempre mutati, lasciato il tumulto della vita politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla pura scienza. Il presente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato; l'Italia pareva ricaduta nella schiavit e nell'abiezione, ed egli la volle studiare libera e regina, quando marciando a capo di tutte le nazioni trasmetteva l'urto delle sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo italiano, il campo chiuso della sua attivit storica, era sempre stato il suo lavoro e il suo tormento: grande nell'insieme e nei suoi pi piccoli frammenti pareva che volesse sottrarsi ad ogni interpretazione razionale e organica, come se sotto il bel cielo d'Italia l'unica legge che governava le continue rivoluzioni di cento stati differenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi fosse il caso, il capriccio della fornina, l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni presentavano uno svolgimento storico organico, una forma politica costante che le contradistingueva in ogni epoca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di Napoleone III la Francia era sempre stata la nazione della monarchia unitaria; la Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilterra dalla Camera dei Lordi come ai tempi di Ottone I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma l'Italia Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politica; u al principio della monarchia n a quello ddla repubblica, n all'Impero n al Papato : ftemmeno ad un sistema federale che raccogliesse in organismo la variet tumultuosa ed eslege dei ^uoi stati. Rivoluzioni d'Italia. Da molti anni queste considerazioni si svolgevano lentamente nel mio spirito, per rendermi enigmatiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Firenze di Roma di Genova di Venezia, di tante citt unite dal suolo e separate da irreduttibili diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran pur sempre vittorie senza scopo, sconfitte senza causa, rivoluzioni senza idee, guerre senza soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi apparivano quasi statue rovesciate, quadri capovolti, medaglie sparse di un museo che una vandalica ignoranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simmetrie essendo dissestate da una mano sconosciuta; potevasi dire che TAriosto solo colla noncurante sua ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mezzo a questi cenci pomposi. Ma se la fecondit lussureggiante degli avvenimenti si rivoltava contro ogni unit imperiale o pontificia; se essa facevasi gioco delle repubbliche, delle signore, del candore dei cronisti e degli artifizi della retorica; se essa compiacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e una tal forza nel minimo frammento, da non potermi arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e della Divina Commedia ingannasse l'aspettativa destata dal sentimento del bello, .per non essere se non un cumulo di accidenti eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto di una cosi misteriosa apparenza, la legge vitale di un organismo cos complesso, lo scopo di una coA abbagliante fantasmagoria. Si tuff nella storia medievale fino agli occhi : senza fermarsi alle compilazioni volle risalire alle fonti originali, medit su tutte le pagine degli Scrptores rerum Italicarum, rsfogli le cronache, rivisse tra la polvere erudita coi vescovi e coi consoli coi settari e coi signori del buon tempo antico: e cosi mentre la turba degli gnomi, non comprendendo la sua solitaria libert superiore alle borie del nazionalismo miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la sua lingua e la sua patria, egli preparava in silenzio airitalia uno tra i pi bei monumenti di gloria che potessero inalzarle i suoi figli. Le Rivoluzioni d'Italia furono pubblicate la prima volta a Parigi in francese nel 1858, ripubblicate in italiano tradotte dell'autore: in questa seconda edizione, nonostante gli studi posteriori in seguito ai quali credette di avere scoperto la filosofia della storia e la legge periodica del movimento storico, guidato da un istinto fortunato, non la ritocc quasi affatto, non os guastarla per farla servire alla sua teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio Tedizione italiana, da cui son tolte le citazioni e a cui si riferiscono i rimandi. Per quel che gi conosciamo della costinizione intellettuale del Ferrari, possiamo fin d'ora giudicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perch egli riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica e al criterio di un sistema formato. Tutti  grandi storici sono artisti: artisti neil'interpretare gli uomini e i fatti, artisti nel rappresentarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che sembrino attuali e spirino vita. Sono anche filosofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui traggono i criteri della interpretazione e del giudizio; ma di solito il loro sistema non  che implicito e irrflesso come quello di qualsiasi individuo che non si dedichi di proposito alla filosofia; qualche pi rara volta c', ma preso a prestito, non rielaborato n rivissuto individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza unica del F., la sua caratteristica qualit, consiste nell'avere a fondamento della sua interpretazione un vero formato originale sistema filosofico. Non solo. Questo suo sistema, che anche oggi  in gran parte vivo perch rientra nel corso delle grandi concezioni,  il pi adatto a dare una base filosofica all'interpretazione storica; perch considera la reah come movimento, ed  tutto pervaso dalla persuasione della razionalit che governa la realt e la storia. Cosicch per quanto il Ferrari come politico sia un uomo di partito militante e quanti altri mai fermo nelle sue idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli equivoci; come storico noi possiamo essere sicuri che guarder la storia dall'alto, sapr giudicare libero totalmente dalle preoccupazioni politiche del momento, sapr rispettare la veneranda grandezza del passato senza querimonie per gli eroi mancanti e per le cause sconfitte, non far ddla narrazione dd passato un pamphlet  da una specie di lotta di cla|^e^arbaro che avrebbe imbrgliato la rivoluzione sodale, legato i gran centri romani nella rete delle citt militari in arretrato, sepellito sotto un'alluvione barbarica le reliquie della civilt romana conservate dal cattolicismo. E per impedire che potesse mai formarsi un regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, destinata a spandere il fuoco della libert su tutta l'Europa, l'Italia trasport l'Impero in Occidente. Come rappresentanti del nuovo patto sociale che doveva essere la base del diritto pubblico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere la custode del loro duplice potere europeo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Papa Ravenna il centro occidentale e tutta l'Italia meridionale con le isole da conquistarsi ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocddente). L'Italia perde quindi l'indipendenza nazionale, ma acquistava la libert: e per tutti i domini del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale migliorava le condizioni dei Romani, non pi sottomessi alla legge della spada barbarica, ma alla giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte delle citt dell'industria e del commercio a danno (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde della coltura romana ad attivarne nuove scintille .Solo le terre ancora escluse dal patto papaie-imperiale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano amaramente la loro indipendenza politica con una inferiorit sociale, prodotta dalla confusione bizantina dd potere temporale e del potere spirituale, la quale impediva la gran libert del pensiero. Intanto Tunit dell'Impero d'Occidente andava decomponendosi sotto gli inetti successori di Carlo Magno, e l'Italia marciava ancora alla testa delle nazioni insegnando loro a conquistarsi una libert federale. Ma poich da questa risorge lo spettro micidiale d'un regno barbaro interno, la rivoluzione papale e imperiale sempre regnante approfittando delle rivalit tra i feudatari rende impossibile il regno d'Italia, lo condanna a non essere che una lotta di pretendenti, offrendo sempre la corona a due rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore (Lotta contro il regno barbaro interno) finch invocato dalle rivoluzioni italiane giunge Ottone I a rinnovare il patto papaieimperiale. Egli distrugge per sempre il regno, disorganizza le marche dei discendenti dei barbari, esalta il clero romano, protegge i comuni italiani. La rivoluzione italiana si propaga a tutte le nazioni europee e modifica al suo esempio anche la Chiesa. {Riv. d'Italia): L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di no scacchiere, gli uni bianchi gli altri neri, gli um unitari gli altri federali; presso gli uni la religione prevale sulla legge, presso gli altri la legge primeggia sulla religione; i primi progrediscono con l'eguaglianza, i secondi con la libert. La necessit della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al rovescio gli uni degli altri; la stessa necessit della guerra li obbliga pure ad accettare coll'una o coiraltra delle due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Cigni stato in ritardo, ogni popolo che dimentica s stesso che non prende la sua base d'operazione in opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente in contradizione con se stesso e soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana in .una propaganda diretta uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se invece si segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che si estendono opposte le une alle altre.... si vede dappertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta con esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlovingio o pagano sparisce per cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o popolare col re. Liberata cosi per sempre dalla tirannia unitaria di un re l'Italia pu abbandonarsi alla carrera magica delle sue rivoluzioni, che sembrano frantumare in moti individuali variati disordinati la sua ideale unit di nazione, e a prima vista ci appaiono refrattarie a qualsiasi principio organico di interpretazione (Riv. d'Italia): Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto all'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva una e logica, dominando i pi svariati avvenimenti con una specie di continuit drammatica un tempo vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico del regno proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Unni e Roma ai Vandali. I Goti continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta l'Italia. Bdisaro e Narsele lottavano pure quali capitani dell'unit Imporde contro il ragno tondKo so Ravenna; e tutte le citt, scacciando i Goti, si rianimavano con un risorgimento quasi repubblicano. Pi tardi i due principi opposti dell'unit imperiale e dell'invasione regia si spartivano materialmente la penisola; e la terra, met romana, met longobarda, rimaneva una nella guerra dei popoli cattolici del Mezzod contro la dominazione ariana di Pavia; ancora una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche cattoliche e il regno longobardo; sempre una nell'infallibile trionfo della religione delle repubbliche, che consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Impero d'Occidente. L'unit sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la vera Italia dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici del Papato e dell'Impero; l'unit si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori contro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re italiani. Ad onta dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto la terra ordinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trionfo, unanime nel disegno che rinnovava il patto della Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai primordi t due principi della rivoluzione cattolica e del regno nazionale, s'intendeva facilmente il senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra scoppiava doveva essere la guerra dei due principi: ci bastava il seguire le due correnti, il nostro lavoro era eccezionale senza esser diffcile, l'unit delle idee suppliva all'unit materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di sottomettere ad una unit eccezionale il moto eccezionale del Papato e dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da se stesse per lasciare il posto alla geografa pontifcia imperiale; e queste repubbliche ordinate al rovescio della vera Italia ne confermavano l'unit rivoluzionaria, la sola che importava di seguire. M dai primi anni del XI secolo cambia la scena; il moto generale scioglie ^uestltalia che gi sconcertava la critica: o^i citt ha il suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue guerre, il suo destino. I comuni non sembrano punto associati; nesstma federazione, nessuna lega, nessun' unione generale e apparente: Milano  straniera ad Ancona qtianto Arles Trever o Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti si incrocicchiano in tutti i sensi, gli episodi sono innumerevoli. Alcune citt fondano delle colonie, altre si estendono colle conquiste, giungono i Normanni, la Chiesa si rivolta contro Tlmpero: quanto piti c'inoltriamo, tanto pi le forze della guerra e della libert sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si turba; l'Italia cessa di comprendere se stessa; i suoi storici non abbracciano pi l'insieme della penisola: Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrdo e Liutprando non hanno successori; pi non si scoprono se non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Pi tardi ogni citt ci presenta la sua biblioteca d scrittori, i suoi poeti della barbarie municipale, il suo Cimer che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di cento storie distinte diverse contradittorie, senza legame palese: noi lo domandiamo, dove sar la storia d'Italia? Le nostre proprie idee ci danno il filo che ci guida attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impadroniscono del suolo per interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e coli 'Impero; essi proseguono la loro guerra contro il regno, combattendo ogni rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza, l'aristocrazia, l'esercito, la dominazione dei re; questo  lo scopo loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per distruggere nell'uno e nell'altro ogni principio che conserva le tracce dei Goti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Europa. La storia dei comuni non  dunque altro che la storia di una rivoluzione continua, lenta, fatale, e sempre trascinata dai suoi propri antecedenti a combattere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale, donde spariscano in modo cosmopolita tutte le traceie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand 'errore ingombra la storia d'Italia, ne sconvolge i prncipi il moto le epoche il progresso, e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed  l'errore che la considera come il racconto di una guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per conquistare l'indipendenza politica del governo o, come si dice in oggi, per respingere l'invasione dello straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe mai stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riuscirebbe a questa assurdit inammissibile: che dopo cinque secoli d guerra non avrebbe n raggiunto, n voluto lo scopo stesso della guerra. No! nacque l'Italia pontificia e imperiale contro i Goti, contro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e burgundi; nacque creando e interpretando il gran patto della Chiesa coli 'Impero; domin le stesse conquiste carlovinge cogli incanti della religione e colla magia della consacrazione imperiale: fino dai tempi di Teodorico la Chiesa e l'Impero sono stati i simboli della sua libert, della sua redenzione, di ogni sua idea liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e nel possibile; e con la costituzione dei due poteri essa ha organizzato una rivoluzione permanente, universale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avvenire. Il primo dei suoi capi sotto l'aspetto politico  l'Imperatore, il pi debole il piii legale il piti federale dei re; il secondo suo capo  il Papa, cio il pi inerme tra i principi, il meno conquistatore dei sovrani: non avvi dunque conquista alcuna sul suolo italiano, ed al contrario il regno che era conquistatore venne schiantato con una guerra cos violenta che tutti gli stati dell'Europa ne rimasero scossi. Pertanto non vi ha, n vi sar mai guerra alcuna d'indipendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se non pochissimi soldati, sempre costretti a fondarsi sulla forza stessa della terra. Che, ss sono assaliti, si  perch sono oltrepassati dagli Italiani che vogliono riformare il patto che chiedono sempre un miglior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'essere rifatto: n punto reclamano una vuota indipendenza; ma sostengono una guerra costituzionale intima organica per trasformare le idee le istituzioni la religione, una guerra dove il principio di respingere gli stranieri  sempre posposto al principio di distruggere ogni istituzione regia o feudale. E se il Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se non come conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle reazioni inteme che la libert provoca e sormonta, imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ultimi giorni del risorgimento italiano. La storia dei comuni, considerata in tutta la sua durata, non  dunque la storia di una guerra contro lo straniero, fatto unico materiale mille volte impotente; ma  la storia di un fatto ideale organico sempre crescente: e poich l dove le idee regnano il caso non pu regnare, l'oscurit del labirinto italiano deve sparire - e qualora restasse la colpa sarebbe nostra. La rivoluzione  la stessa in tutte le citt : da per tutto essa ha lo stesso punto di partenza la caduta del regno, lo stesso punto d'arrivo il risorgimento italiano; da per tutto si svolge colle medesime idee rette dalla medesima logica; lenta o rapida, squallida o splendida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determinate anticipatamente dall'inflessbile destino che sforza i principi a generare le loro conseguenze. Che i mille accidenti della guerra turbino adunque l'Italia, essi saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi sar sempre una storia ideale e uniforme, comune a tutte le citt da Ottone I alla flne del risorgimento. La storia ideale della citt italiana si ripete a un patto di Carlo Magno, che essa interpreta e che trasforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore noli intendono che a mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano apertamente conservatori; la loro opera  sempre una restaurazione imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella storia? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che diconsi ristabiliti si trovano sempre trasformati, e non trionfano se non accettando Topera del tempo, e non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di rappresentare i principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale lasciava ai loro nemici. Stessamente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro restaurazioni cos dette eterne, seguendo passo passo la storia delle citt italiane di cui amnistiano le ribellioni e accolgono le innovazioni. Egli  giusto che resistano; se non resistessero la rivoluzione non avrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel medesimo tempo la storia ideale si fermerebbe. Ma egli  altres giusto che, una volta sconfitti, si ristabiliscano, accettando il progresso che si  fatto strada e che passa allo stato di fatto compiuto o di fato ineluttabile; ed  cos che tutte le epoche della storia ideale si riproducono nel patto di Carlo Magno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse si ripetono in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il Papa e l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Occidente? bisogna dunque che propaghino da per tutto le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni contro gli altri? devono quindi accettare ogni progresso, non foss'altro per combatterlo. Ecco quindi la trama ideale su cui scorrono tutte le rivoluzioni italiane; la legge che ne governa la variet a prima vista irreducibile di forme, e le costringe ad essere incasellate entro il quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo il periodo storico che il Ferrari ha studiato con pi amore e trattato con pi larghezza i la storia an- t^rorc al 962 e posteriore al 1530  rispetdvamente conaiderata come imrochizione e come epilogo alla epopea di quel che egli chiama risorgimento italiano. Allontanato per sempre il percolo d'una tirainide regia colla rinnovazione del patto papaloimperale e col trasporto dell'Impero in Germania, r Italia che fln qui era stata l'alleata dd Papa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non per distruggerli, bens per riformarli, trascinata dagli antecedenti aUa lotta senza quartiere contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dt Vescovi apre la serie. Nella citt sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si trovano di fronte due poteri : il conte goto longobardo o franco di discendenza, che vorrebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia ddle mura cittadine la tinmnide regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo di discendenza romana; e il vescovo romano di razza e di tradizione che protegge i deboli contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del suo palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone impedisce agli sgherri del tiranno di entrare. B. popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol essere giudicato dalla sua giustizia superiore a quella del conte come la ragione alla spada, si appassiona per tutte le sup*stizioni dd cattolicismo voltandde come armi ideali contro le alabarde degli sgherri comitali^ finch un giorno scoppia improwisame&ie una sollevazione annata. Il conte si trova espulso, e nella citt si comincia a sbozzare colla formazione dd primo popolo raccolto dalla corte del conte e da quella del vescovo Torganismo comunale italiano, che non  una derivazione germanica o romana ma nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del regno. La rivoluzione vescovile irraggiata dal focolare di ribelto> ne delle citt penetra nei feudi, ove sostituisce famiglie pie di tradizione romana e avversa al regtto (Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discendenti dagli invasori; conquista il Mezzogiorno paralizzato dalla confusione bizantina dei due poteri, al seguito delie schiere avventurose dei Normasni; e in RomB trionfa coHa libera elezione popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei conti e dei patrizi. Ma i centi espulsi daUe citt da un esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono all'autorit legale del loro supremo tutore, l'Imperatore, che vede oltraggiata la sua legge; e Corrado II di GebeHno comincia la reazione contro i vescovi. Invano : sconfitto da Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria feudale le picche dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamente creato, vede la sua reazione abortire nelle citt e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano ddritalia meridionale  il Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an patto carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro i Normanni rappresentanti meridionali del principio vescovile, i quali dopo averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E cosi Imperatore e Papa dopo avere ammistiata e legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri europei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino ndla Chiesa, la quale si appassiona per la verginit mistica in odio dei preti ammogliati, che profanano la sua repubblica immacolata con una specie di feudalit clericale. Appena ottenuta la legalizzazione della cacciata del conte, la rivoluzione entra in una seconda fase, continuando contro i vescovi nominati dall'Imperatore che li incarica di sostenere la parte dei conti, per strappare la libera elezione dei vescovi stessi e una volta vittoriosa vuole la libera elezione del pi grande dei vescovi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il diritto di imporre. Il monaco Ildebrando riunisce tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di Alessandro II contro l'antipapa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul trono pontificio assale per la prima volta la supremazia imperiale, e trasporta nella Chiesa la rivoluzione vescovile compita predicando la crociata. Senonch l'utopia di Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia contro la libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto trasportare dalle mani dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicch al suo avvento gli uomini della rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa non  il padrone della Chiesa ma, sottoposto al Vangelo alla tradizione ai concili,  il servitore dei servitori, e pu essere deposto se manca alla sua missione. Ecco cosi la guerra delle investiture che  la reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due capi sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi interpretando con mente retograda l'antica tradizione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi, come avevano atterrato il vecchio Impero sotto 1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo Papato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le citt dirigono il Papa e l'Imperatore: sono imperiali quando il Papa trionfa e pontificie quando l'Imperatore prepondera, e finiscono col seguire l'alleanza imperiale sulle terre della donazione e quella papale sulle terre dell'Imperatore. Roma determina l'azione di Gregorio VII sulla Germania; le citt lombarde decidono Arrigo IV a resistere e gli danno la vittoria nonostante la sua sciocca sottomissione di Canossa, ma quando la sua vittoria diventa minacciosa disertano il suo campo e rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a rimbalzello Anche riescono ad ottenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa e l'Imperatore diffondono al solito dopo concessa a tutta l'Europa. Anche la prima crociata cade sotto la legge della rivoluzione vescovile: costituita coi quattro elementi della citt italiana, la moltitudine il popolo i consoli e i vescovi, altro non  se non Te spetrazioae volontaria della feudalit che lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei vescovi. Abbiamo dato un sunto diffuso di questo periodo per offrire un esempio pi chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora potremo procedere pi rapidamente. Qi stati dell'Europa non avevano ancora compita la prima met della rivoluzione dei vescovi che nelle citt italiane dov'era nam essa era assalila da una nuova rivoluzione, nei principi oscura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalosa c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La rivoluzione dei Couso^ 2ipassava anch'essa per due tesi: prima sostituiva il governo vescovUe ed governo consolare; poi scatenava le une contro le i|kre citt consolari, divise in due campi per conquistarsi con la guerra una pi larga libert dentro il patto papaie-imperiale. Nella citt vescovile il vescovo essere religiosa e u-asmondano si trovava a capo della moltitudine, agitata da tend^ize industriali e commerciali completamenie mondane ch'egli non poteva soddisfare n raffrenare. Dall'opposizione nasce rifisurrezione : la citt si muove prima conservando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova le sue istituzioni e crea un nuovo popolo pi allargato e democratico chiamato a legiferare nd parlamenti che, col tradizionale intervertimento di aUeanze nemico del Papa negli stati della Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia imperiale, assale il diritto del regno a nome nel risorto diritto romano. La. immancabile reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita : Innocenzo II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cattolica tedesca allora vittoriosa nellimpero, secondo la formula generale di tutte le reazioni opponevano il passato sempre vivo in essi al presente da cui erano assaliti; e combattevano i consoli fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed altra volta si ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice reazione i consoli spingono le citt le une contro le altre in quella guerra municipale, che fa la maraviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con le lacrime agli occhi a tanto inesplicabile odio fratemo. E' questo uno dei misteri pi profondi della storia ditalia: la guerra municipale non si spiega n colla volont del Papa e dell imperatore, n colla lotta fra i due capi della cristianit, n colla duidit geografica di Roma e di Pavia, n colle vertenze fra i diversi distretti, n colla HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia): Guardiamo alla terra dove sorgono le citt libere : la sua geografla  anticipatamente determinata da una rivoluzione anteriore. La rivoluzione dei vescovi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la capitale, lia isolata, ha degradato le citt militari che l'assecondavano, le ha spodestate delle loro funzioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri secondari che erano padroni delle vie dei fiumi del commercio di tutto. Le citt romane sono state rialzate, opposte alle citt militari; restituite all'importanza naturale che loro davano il conmiercio, la ricchezza, la facilit delle comunicazioni, le circoscrizioni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero della civilt. Ne nasce che la terra  dualizzata in ogni parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le citt le une contro le altre: ogni centro militare si trova in presenza di un centro romano a lui ostile; Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'altro prospera; l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle citt non  ancora apparente, la legge imperiale e pontificia regna ancora, la guerra si dissimula; e se i conti sono congedati, la met della gerarchia sussiste ancora col vescovo che supplisce al conte, nasconde la guerra - e non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Milano non combatte le citt dei dintorni se non per ordine dell'Imperatore. Ma nel momento dei consoli la disorganizzazione vescovile del regno si fa laica, la dualizzazione delle citt diventa economica: pi non trattasi di reclamare precedenze, giurisdizioni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchezza, i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istrumenti di prosperit o di miseria; il mercante, il fabbricante, il ricco si sostituiscono al vescovo; nessuna gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raffreni le rivalit; non i giudici per decidere sulle vertenze, le citt devono giudicarsi da s. Esse sono in contatto immediato; il contatto diventa lotta, la rivoluzione dei consoli diventa guerra si potrebbe forse evitarla? Guardiamo sempre la terra. La rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione dei vescovi, per raddoppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione delle citt militari. Questa degradazione  fatta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria dei centri regi, la prosperit dei centri commerciali : i primi son condannati a difendersi sotto pena di morire, i secondi combattono anche prima di dichiarare guerra perch basta loro il vivere il progredire per spegnere le citt dell'antico regno; esse assorbono t frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse rifanno tutte le strade tutte le comunicazioni al rovescio del sistema militare, esse sostituiscono alla strategia regia quella del commercio che procede lenta sorda implacabile col libero spaccio di tutte le merci. Come resistere loro se non colle armi? Ecco l'ostilit dichiarata: ogni citt militare lotta colle armi, coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa buoni, tutti giusti trattandosi di difendere la patria. Se occorre si rivolgeranno le forze stesse della libert e della civilt contro le citt pi libere, pi civili; si spingeranno alla ribellione i comuni intermediari promettendo loro l'indipendenza; si tenter di smembrare le citt romane, di attorniarle con borghi insorti, di disorganizzare questo centro di disorganizzazione e ne nascer l'aff razionamento dell'aff razionamento, la guerra della guerra. Fin qui abbiamo considerata solo la natura del suolo: e l'abbiamo trovato friabile, inconsistente, disposto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in tutte le sue molecole una doppia polarizzazione sotto la pressione del Papato e dell'Impero. Prendiamo ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la guerra deve raddoppiare d'intensit. Qual' la circoscrizione della terra ove sorgono i consoli? La citt vescovile si ferma ai corpi santi; pivi oltre tutto  occupato dai feudatari dell'Impero, la campagna  cosa loro, l'irradiazione popolare della prima rivoluzione ha dovuto soffermarsi nei limiti determinati dall'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuovo popolo, del doppio pi potente coll'avvenimento ddrinttstra e del commercio, due volte pi ricco grazie alla sua attivit che moltiplicandosi trabocca oltre il vecchio recinto delle nmra; quindi si rinnovano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del conume, le fortezze, i cimiteri; la citt s*adoma, s'ingrandisce e pi non pu capire nel proprio territorio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti intralciano il corso delle merci, dei villaggi un tempo inosservati le tagliano le comunicazioni; la citt smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pastoie, di rompere ogni ostacolo. Pisa e Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul mare, fondano delle colonie consolari; ma per le citt delFintemo non hannovi terre vacue, la campagna appartiene alla feudalit, tutte le giurisdizioni son armate, i confini sono spietati e le citt si gettano sull'unico spazio che sia vuoto, sullo spazio della rivoluzione consolare. Ogni citt che si governa coi consoli sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del consolato, e si presenta come la preda naturale del nemico che l'osserva; essa  res nuUius: 9 combattimento  permesso naturale inevitabile; ed ogni citt, ogni borgo aspira a diventare una capitale; la guerra deve durare fino alla liquidazione generale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta per intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore animati da sentimenti patemi e da benefiche intenzioni; supponeteli sempre pronti a intervenire per predicare la pace l'unione la concordia; supponeteli abbastanza forti per ottenere innumerevoli conciliazioni,per riparare mille torti, per render giustizia agli oppressi; supponeteli protettori, conservatori come devono essere secondo il dato primo del Papato e dell'Impero: le citt riporteranno vittorie che non saranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nessuna guerra riuscir ad alcuna soluzione; tosto ottenuto un vantaggio bisogner rialzare le torri spianate, ricostruire le mura smantellate, riedificare le citt incendiate, restituire il territorio conquistato; e alla partenza del Papa deirimperatore e dei loro delegati, le cause della guerra sussistendo ricondurranno le citt al combattimento; si rimarr per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di un bastione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vittorie inutili, per subire mille sconfitte sempre riparate. La guerra municipale che rimane dentro i confini della regione viene quindi ridotta al dualismo delle citt militari e delle citt romane costrutte le une a controsenso delle altre : di Milano e di Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Verona la prediletta di Teodorico, di Bologna e di Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di Fiesole, di Pisa e di Lucca, di Roma e delle citt latine : anche il regno di Napoli si toglie all'analogia degli altri regni per seguire la legge delle citt italiane, funzionando come una gran citt cambattente con Palermo contro i rimasugli federali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa guerra che oggi si considera come un disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una rivoluzione, il primo passo delle citt per determinare i loro confini a nome della propria libert insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdizioni. Intanto Fed. Barbarossa,capo della rivoluzione vescovile in Germania, si propone di combattere in Italia la seconda fase della rivoluzione consolare, sopprimendo la libert della guerra municipale che insulta alla sovranit dell'Impero: e A. PrrraRI Giuseppa F. la sua reazione subisce vicende diverse secondo che si muove sulla terra delPantco regno o su quella del Papa o del regno normanno. Nell'Alta Italia diventa capitano municipale delle citt romane, manovrante da bandito con l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere la guerra la conferma. Dopo i successi effmeri dovuti alle citt che lo secondavano nelle prime discese, vinto dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e dalla fondazione d'Alessandria, accorda il diritto alla guerra sanzionando nel trattato di Costanza le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano non  dunque una lotta repubblicana e nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore tedesco (1); ma una lotta fra le citt romane guidate da Milano  le citt militari guidate da Pavia, per ottenere dentro la gran giurisdizione dell'Impero la libert della guerra. La nuova rivoluzione, appena legalizzata dalla duplice repubblica europea del Papa e ddl' Imperatore, si diffonde dappertutto dando ad ogni nazione dei governi con missioni consolari : perfino nella Chiesa, che assalita da ogni parte prende al rovescio i suoi nemici colle creazioni consolari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini francescani; e sostituisce la conquista vicina dell' Inquisizione alla conquista oltremarina della Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bonaventura all'indisciplina dei Francesi e dei cappuccini. Cfr. J BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London, Macmillan, Non si dichiaraTano prncipi repubblicani, n si faceva appello alla nazionalit italiana. La terza grande rivoluzione italica prende nome dai Cittadini e Concittadini e pa9sa per le fasi della guerra ai castelli e della guerra cittadina che provoca la creazione del podesta. La citt consolare, la quale non  altro se non un'oasi in mezzo alla foresta feudale del regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il libero espandersi del commercio, una volta ottenuta la libert della guerra riflette che le citt rivali sono troppo radicate alla terra, mentre i nobili della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro l'impeto irresistibile della sua espansione economica e politica. Le citt romane specialmente combattono con furore contro la moltitudine dei feudatari che le accerchiano impedendo loro il respiro; e questa ultima rivoluzione che estende la libert alle campagne si presenta come la conclusione della gran guerra contro il regno, distrutto nelle sue sopravvivenze campagnole dei castelli. Nella Bassa Italia, che funziona come un gran municipio, la guerra ai castelli si confonde con la continuata guerra municipale di Palermo contro gli antichi centri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo sognatori di sorpassate franchige aristocratiche. La soluzione della prima fase, vittoriosa della reazione, apre una nuova lotta. I castellani, naturalizzati e deportati per forza nel cuore della citt che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si vendicano costruendo delle fortezze inteme, armando i loro servi, conquistandosi coil'oro la moltitudine che voltano contro il popolo e ricominciano un combattimento che come quello fra citt e citt non pu finire; perch il denaro  alle prese col denaro, la borsa colla borsa, la finanza colla finanza : i proprietari della terra (concittadini) sono almeno forti come i possessori deifabbriche (cittadini). La lotta fra il Papa e l'Imperatore si presenta ai cittadini e ai concittadini per riassumere ed eternizzare il loro combattimento: con la solita interversione d'alleanze i cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle Due Sicilie invocano l'Imperatore; al contrario i concittadini dell'Alta Italia seguono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa Italia invocano il Papa contro Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi improvvise, l'anarchia imperante, conducono alla creazione di un nuovo governo : i consoli nella loro qualit di capi dei cittadini come parti in causa non hanno quell'autorit imparziale che possa giudicare i due partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel tempo stesso giudice e capitano, ad una specie di dittatore annuale che si chiama podest. Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli stesso giudica e applica la sua legge con potere discrezionaro ma spirato il suo mandato  sottoposto a giudizio, e se trovato colpevole  condannato a multe a prigonia e talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si semplifica. Il Papa  il protettore delle citt romane del Nord, T Imperatore  lui stesso il gran podest delle Due Sicilie : la reazione imperlale non opprime quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione pontificia non percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale qua! console della Germania i podest della Lombardia, diventa capo dei concittadini delle citt romane e dei cittadini delle citt militari; ma dentro al laberinto incrociato delle inimicizie dualizzate si trova impegnato in un combattimento a cui l'equivalenza delle forze non permette nessuna soluzione ed  costretto a riconoscere col fatta della guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa): Visto da lungi nella confusione del XIIl secolo, Federico inganna gli storici col suo doppio prestigio di console della Germania e di podest delle Due Sicilie, e vien considerato come un essere onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare Tltalia come voleva; e la poesia, che segue le grandi figure della storia per trasportarvi di pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue utopie le sue speranze o i suoi rimpianti, stende silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi abbia seco perduto non si sa qual misterioso destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni solo dei Gebelini, condannati alla demenza delle reazioni impossibili : il fatto della sua sconfitta non ammette n pentimenti n correzioni; egli resta qual' nel suo tempo nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mille geroglifici che la stenografia della storia traccia con la rapidit del lampo per un'eterna immobilit. Utile al Mezzod, l'ultimo degli Hohenstauffen non poteva n essere il podest dell'alta Italia, n equilibrar runa coll'altra le due regioni del Mezzod e del Nord, n reggere tutta la penisola con un potere di screzionaro e profressivo; le nozioni stesse di compensi, di equit giudiziaria, di discrezione politica o di despotismo beneflco erano anticipatamente eliminate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni delritalia, che si svolgevano diverse variate affrazionate da cento stati contradittori, la cui suprema felicit era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a Firenze non era compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non toglievasi con alcuna indennit concessa a Pavia. Un podest unico regnante a Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto all'antico regno ed alla donazione, ai conti, ai marchesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa Sede sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tutte le montagne, una devastazione inaudita di tutte le libert, una esagerazione iperbolica del regno dei Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto fermata e inaridita la civilizzazione dell'Occidente. E come mai l'uomo che non poteva evitare la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto riportare una simile vittoria? Dove avrebbe preso le sue frze? I suoi stessi pensieri partivano dal basso come la libert generale... Al certo l'elevazione non mancava a Federico; e fissando lo sguardo su lui, a traverso i delitti della corona, lo spettacolo dell'Impero e la commedia estema delle pompe, si scopre quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sempre m tutte le epoche della storia; nel momento delle grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di Arrigo F/Z-MUbo, HoepU* N*to in un secoio di disordini e di contradioDi le quali spesso in Ini si pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^mania V lulia meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto una politica diversa un indirizzo qualche veka addiritura opposto, pi volte egli disfece con una roano ci che aveva costruito con 1' altra. del dolore dimenticavano un istante di essere tribuni re imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se pu darsi un esito ragionevole alle pazzie deirumanit. Egli si rivolge ai sapienti dell'Islamismo, per cercare delle verit che la sua religione gli vieta di conquistare; li turba colle sue orgogliose interrogazioni su Dio, sull'anima, sulla provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla furberia dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un califato d'occidente, col quale la ragione gli renderebbe la met del potere ceduto da Carlo Magno alla Chiesa. La tradizione profana lo segue appassionatamente e, guerreggiando con le calunnie cattoliche, gli attribuisce confusamente il pensiero di voler regnare quale podest delle tre religioni che si contendono la terra; essa gli fa dire che Mos Ges Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori dell'umanit, che ingannano i mortali, che seminano sulla terra il furore delle crociate, che bisogna domarli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa ad essi superiore, non fosse altro un etemo sonno, per calmare la ragione oltraggiata dai pontefici dagli ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amore per i Romani e per i castellani minacciati dal fuoco della moltitudine e dell'inquisizione, pensava egli ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che numerosi insensati si attendevano a vedere trasformato l'universo da un incanto che rovescerebbe la tirannia imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del pensiero, che si fa strada in mezzo alle pi astratte possibilit, non serve che a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalit. Sciagurati i Cesari che lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di parere ancora pi religiosi degli altri; devono imporre il silenzio l'obbedienza la cecit, e farsi ipocriti impostori e persecutori di ogni filosofia; perch la moltitudine adora i suoi preti i suoi ierofanti i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di iperboli di miracoli questo  il suo pasto; e non sacrifica i suoi capi pi assurdi se non agli uomini che le promettono con maggior energia di continuarne gli errori. Podest occulto di tre religioni, Federico IIgemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cattolico, ad abbruciare gli eretici e a disprezzare lumanit. Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazione  guidata dal Papa, che come console dei concittadini del Mezzod assale con le armi della rivolta federale e della superstizione cattolica il suo vassallo Federico 11 supremo podest, ma  vinto nel momento stesso in cui trionfa nell'Alta Italia. E la sua sconfitta si ripet a Roma, che organizzata a forma repubblicana lo obbliga a cedere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podest bolognese. La libert della democrazia della sedizione e delle battaglie si svolge in tutta l'Italia proclamando il grande interregno, e si diffonde per tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i dottori combattono come cittadini e concittadini prendendo al rovescio gli stati, finch il Papa diventa il giustiziere universale di tutte le dissidenze presenti passate e future come un podest mitriato. Ma nemmeno il podest poteva durare sulla Il possesso del regno di Sicilia lo metteva nella falsa posizione di un vassallo resistente al sno legittimo sovrano. BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208. scena un tempo maggiore di quello concessogli dal fato della rivoluzione^ la quale entrava nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide in periodo delle sette e dei tiranni, al momento in cui la guerra civile straripava al disopra del governo pacificatore e i combattenti disprezzavano gli ordini del podest. Chi sono questi furibondi che si scannano a vicenda proprio adesso che il grande interregno li libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi di adorare il loro Papa, ai Meridionali di venerare il loro Imperatore? Essi non derivano dal Papa e dall'Imperatore non sono altro che le due sette dei cittadini e dei concittadini che rinascono con duplicato furore, per darsi delle sempre nuove battaglie al seguito della quale una met degli abitanti deve prendere la via dell'esilio. I cittadini delle citt romane sono guelfi, all'opposto dei cittadini delle citt militari di Roma e del Regno delle Due Sicilie : i concittadini delle citt romane sono ghibellini, mentre quelli delle citt militari di Roma e del regno sono guelfi. Con una guerra tutta sociale figli di una stessa citt, essi combattono per conquistarla non per distruggerla; riconoscendo per la prima volta l'unit i Cfr. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in Studi storici. Pisa: I-e varie cagioni delle lotte interne ed esteme dei conuni sono al di fuori di Papi e di Imperatori, e indipendenti dalle cagioni che questi aggiungono di proprio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle preetistono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del Medio Evo, a cui le due podest servono pur illudendosi di comandare. deale della nazione si stringono in alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta la penisola  corsa come dalla rete di una circolazione di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pari  la forza degli interessi, pari la forza delle idee; la lotta adunque nel complesso della nazione  eterna e senza soluzione come una antinomia metafisica; ma prende possesso delle contradtzioni della guerra municipale, secondo la legge che dopo una minore o maggiore alternativa di espulsioni fa inclinare sempre la vittoria a favore dei cittadini, del popolo : dei Guelfa quindi nelle citt romane, dei Ghibellini nelle citt militari. Essa allarga ancora la libert nazionale dentro il patto di Carlo Magno, istituisce un nuovo popolo pi numeroso dilatando la democrazia, e mira a creare secondo il tipo ideale formatosi con la generalizzazione delle sue due tendenze una nuova Chiesa democratica e un nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette che fanno traballare il suo ux)no, il Papa non pu regnare a Roma se non facendo un passo indietro per fermare la rivoluzione, chiamando Carlo d'Angi alla conquista della Sicilia affinch domini come un podest imparziale sulle sette italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione papale  sconfitta. Questo orribile sconvolgimento  rivoluzionario, cio benefico e liberatore : dirocca innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra consolare, estende la libert alle arti ai mestieri alla plebe, compensa il decadimento delle citt militari col fiorire delle citt romane arricchite dall'industria e dal commercio, rivela attraverso il collegamento antitetico delle sette Tunit nazionale, e d due linguaggi due poesie due nuove religioni all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dall'aristocrazia popolare delle citt romane, bilancia l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di Federico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le citt; finch viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso nella seconda fase dei tiranni. Il tiranno  il capo di una delle due sette che gli concedono un potere dispotico sacrificando la loro libert quasi feudale nell'interesse della vittoria: esso compensa la violazione di tutli i diritti acquisiti coi favori prodigati alla moltitudine e colla condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta la terra sotto una forma individuale. Ma, capo di un partito destinato dall'equilibrio delle forze ad alternare te sconfitte con le vittorie, si avvia anch'egli ad una catastrofe certissima. Le citt che non entrano nell'era dei tiranni si contorcono nelle angosce della guerra civile non ancora disciplinata imbrigliata e mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della civilt sono sorpassate dalle rivali come Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni stranieri come Brescia o^ Piacenza fondate sul tiranno di Napoli. Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione opponendo la guerra pura e semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per suscitare attraverso alla penisola un ondulazione guelfa che distrugga le tirannie ghibelline; e ricorre a Carlo di Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia ma uivano : in tutte le citt i Guelfi si trovano senza capi senza riputazione senza potere e disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia. Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Arrigo VII, che in ritardo come la sua patria di due rvduzioni non vuole essere n guelfo n ghibeliino; e guida quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la pacificazione sorpassata del podest. Ma appena messo il piede sul suolo fatale ditalia, come i suoi predessori vien preso nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si dice avvelenato dall'ostia guelfa dei monaci di Buonconvento, dopo ruminazione di Roma e l'affronto di Roberto di Napoli. La rivoluzione dei tiranni penetra infine nel patto di Carlo Magno colle teorie antitetiche di S. Tomaso e di Colonna, di Tolomeo da Lucca e dALIGHIERI (vedasi), che propongono come stato modello gli uni la tirannia guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina Commedia  la grande epopea della tirannia ghibellina trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la parte del tiranno supremo; Dante  il poeta del terrore, dell'odio, della rabbia, dell'esterminio sanzionato dalla necessit su^ prema di salvare il genere umano; che da per tutto immola sacrifica consacra i Guelfi del suo temp ad una eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia guelfa del passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta l'Europa; si riproduce nella Chiesa grazie a Bonifacio Vili e ai suoi successori d'Avignone; penetra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghibelline dei domenicani tomisti e dei francescani scottisti, nelle scuole coi realisti e nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar gli angeli dal cielo per ristabilirvi i demoni dell'inferno. A un certo momento il tiranno s'accorge che per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe e ghibelline, stabilendo il regno dell'imparzialit col disarmo colla corruzzione o con la distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse dell'agricoltura dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace. Il reggimento repubblicano gi compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai Signori che regnano da despoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di traverso al Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre ai castelli e le guerre municipali fin qui insolute, dando predominio alle citt progressive romane; si estendono colla forza della necessit, migliorando la sorte delle citt conquistate trattate coll'imparzialit usata verso le due sette; e sempliflcando la geografia delle due Italie, utilizzano ormai direttamente il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord quasi ghibellino (Avvento dei Signori). Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza che dimostrava in qual modo si poteva vivere nello stesso tempo nei due campi o passare sapientemente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibellini non avevano altro mezzo che d'invocare ^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il- gran tiranno dell'Impero, per disfare con una reazione generale le nuove costruzioni delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente vittoriosa di tre reazioni, una papale una imperiale e una combinata, penetra nel patto di Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano per la prima volta la sovranit popolare di ogni nazione astrazion fatta dalla Chiesa e dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperit dei Signori a regno dei furfanti benefci si propaga in tutte le citt : le terre pi timide, i centri pi disgraziati, i villaggi pi infelici vogliono crearsi dei capi al di fuori dei vecchi partiti: ogni citt prende definitivamente il posto che le era stato indicato dai vescovi durante la rivoluzione del 1000: indi l'importanza di Milano, la petulanza di Verona, l'inferiorit della Toscana e del Mezzod. La signoria di Milano era frattanto giunta a tanta potenza cfie provoc per contraccolpo la reazione di una federazione repubblicana pontificia e imperiale, in cui le citt minacciate dalla voracit dd Biscione si alleavano coi poteri retrogradi per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a s i suoi capi retrogradi e la reazione finiva colla catastrofe dell'Impero, sceso con Carlo IV alTimperdonabile bassezza di farsi mercante di dijplomi; e col gran scisma della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savoia, che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione individuale dalle catene della religione. La terza fase del periodo dei signori  dominata dal dualismo fra Milano e Firenze. Un nuovo progresso inalza Milano, dove per cancellare ogni rimembranza di atrocit tiranniche Galeazzo tradisce Barnab suo zio. L'ambizione illumina i cronisti milanesi e suggerisce al Mussi Tidea di sopprimere la dominazione temporale della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica signoria dei Visconti. Ma quest'idea trasforma la signoria milanese benefica e rivoluzionaria lungo il suo raggio legittimo in un flagello per il resto della penisola, ed obbliga Firenze a difendere la liberta le leggi le tradizioni e le federazioni dei popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni della nazione si spiegano col contrasto fra Milano e Firenze, che si riflette nelle due rispettive scuole dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superiore al contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bartolo e da Boccaccio, che tradiscono il Medio Evo a profitto dei moderni e impersonano l'empiet del nuovo scisma: l'uno conciliando ogni contradizione col suo classicismo accademico feroce solo contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto papaie-imperiale per mezzo della romanit, il terzo sepelleiido le imposture del Medio Evo sotto le risate della sua novella federale. E* questo il momento in cui la bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vescovi toma nel sistema italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena frammista qua e l alle battaglie lombarde e friulane come una terra secondaria e affatto straniera, quasi sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno che ai popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un tratt ancorata a Rialto, carica di prede di ricchezze di simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sarebbe entrata nel porto durante la notte, di ritomo da un lungo viaggio nelle regioni favolose d'Oriente. La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove tutti gli stati capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro atteggiamento naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i sostenitori dell'individuo e quelli del genere, per diventare ciceroniana ed eclettica ad imitazione del Petrarca. Le conquiste sociali e politiche della signora vengono adesso minacciate dalla Crisi militare. I signori avevano composto i loro eserciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i Ghibellini e per tranquilizzare i cittadini tradizionalmente antimilitari; ma poich, affascinati dal demone della conquista vogliono mantenere eserciti superiori alla loro potenzialit economica, finiscono per fallire e per cadere in balia della plebe irritata e dei soldati insorti. La crisi si compie in tre tempi : prima la plebe insorgendo contro il flagello della miseria distrugge la signoria, risuscitando le forme politiche sorpassate della repubblica o della tirannia; poi vedendo che quella libert la ripiomba nelle demenze del passato accetta una nuova signoria, che limiti le sue ambizioni conquistatrici al raggio legittimo consentitole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo di una signoria volante di soldati su d'un territorio che non pu sostenerli tutti e due, bisogna che uno scompaia : ora  il condotdere che diventa signore come Francesco Sforza, ora  la signora che toglie di mezzo il condottiero come Venezia fa del Carmagnola. La garanzia dell'oro, l'unica che resiste ancora in mezzo alla derisione universale di tutti i principi, conserva tutto il lavorio dei secoli precedenti : la federazione italiana si semplifica colla vittorai dei gran centri romani sulle citt militari e le dualit invincibili; detronizzando diciassette dinastie e distruggendo diciassette indipendenze inutili, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran legge che da Carlomagno in poi sacrificava l'orgoglio della nazionalit alle necessit della democrazia, perch la fame  superiore all'ambizione delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti A. Ferrari Giuseppe Ferrari. nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signore secolarizzate si uniscono nella cdebre lega del 1484, in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli, dichiarando di assoldare un condottiere a spese comuni, stabiliscono il principio di tutte le federazioni : di formare uno stato solo contro al nemico bench ogni stato resti distinto e sovrano nel proprio territorio. Le reazioni di questo periodo sono appena accennate e non servono che a confermare la rivoluzione flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove si ha prima la ricerca di tutti i valori, poi il rinascere delle opere originali con Lorenzo col Poliziano e col Pulci, che malizioso come un signore liquida il Papa e l'Imperatore senza contestare i principi del Papato e dell'Impero. E penetra inflne nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federale del Concilio di Costanza, si rigenera all'imi tazione di tutti gli stati mostrandovi le scintille d'un incendio universale di democrazia, che presto avrebbe divorato tutti i re e i dottori protettori della libert e delle riforme; inventa la visione beatificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il purgatorio; e fa adorare un Dio che vende le indulgenze per rendersi visibile nei capolavori dell'arte. L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale della rivoluzione; marciando alla testa della civUt essa creava man mano le nuove forme politiche. che diffondeva per mezzo del Papa e dell imperatore a tutte le nazioni d'Europa. Ma ecco che durante il periodo della Decadenza dei Signori la civilt trasporta i nuovi centri incendiari in un'altra nazione; e la Francia chiamata da Ludovico il Moro straripa improvvisamente con una espansione militare nellitalia, la quale sorpresa da questo imprevedibile progresso  costretta a difendersi restaurando il Papato e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi esiliato, e resuscitando le forze indigene delle sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei signori aveva addormentato. Il meccanismo politico cosi adesso si rovescia : prima era l'Italia che trasmetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme politiche per mezzo dei poteri europei del Papa e dell'Imperatore; adesso  l'Euror pa che, mossa da un'altra nazione, per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso allitalia. Succede un altro passo indietro quando l'Italia  costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna per difendersi dall'insurrezione germanica e federale di Lutero contro le sue rivoluzioni, contro la sua civilt passata attaccata nel Papa; che rappresentava tutto il suo lavorio religioso, la sua supremazia mondiale e che era pure uno dei due membri della federazione europea da essa creata (Riv. d'ItaUa) r Cfr. C. Balbo: Dciln stona d' Italia: Finiva V et del primato (qualunque fosse) d* Italia; iocominciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia, poi Inghilterra. L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due patrie di Huss e di Wicleif reclamava anch'essa la sua espansione; le regioni che avevano respinto il giogo della centralizzazione dell'antica Roma si levano con nuovi Arminii, per respingere con le forze invisibili del pensiero l'unit pontifcia che era sottentrata all'unit conquistatrice dei Romani; i popoli la cui antica barbarie aveva imposto le sue federazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove federazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al Cesare guelfo dell'Austria. II Nord dell'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0gni individuo, diventato libero nel fro intemo della propria coscienza, formulava cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque contro la prima rivoluzione, che in odio del re di Pavia aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo; contro il prestigio magico che essi avevano messo negli antichi simboli dell'eucaristia, della messa e delle reliquie a confusione dei barbari; contro la santificazione dell'antica capitale con una gerarchia misteriosa che aveva umiliate tutte le citt regie; e contro la superstizione incendiaria che aveva dato all'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di sottrarre i delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmi poi alcuna delle creazioni di Carlo Magno : n la separazione dei due poteri; n la donazione che faceva della Chiesa una potenza politica; n la penitenza che metteva i suoi giudici al di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra di tutte le sentenze; n la liturgia che propagava il culto col fascino dei canti, delle pitture, delle sculture sconosciute alla Chiesa primitiva; n il purgatorio che raddoppiava la distanza fra il cielo e l'inferno, per far luogo agli incanti delle preghiere clericali; n in una parola il pontefice che arrivava all'anno mille come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi della giustizia divina e proconsole di tutti i proconsoli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione luterana si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori : e proscrveva dell'era dei vescovi il celibato dei preti e tutte le riforme che fornivano armi spirituali temporali allunit pontifcia; dellera dei consoli gli ordini mendicanti, le feste imponenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnante e rimplacabile inquisizione; delfera delle due sette i tomisti e gli scottasti, le ecceit, i flatus vocis, le dotte puerilit che profanavano Do trasformandolo in tiranno or guelfo e ora ghibeilino; del tempo dei signori il culto nell'atto stesso capriccioso, materiale, e abbandonato al despotismo della frase ai periodi ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti alrinsegnamento degli apostoli; del tempo della crisi fnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti i delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le assoluzioni le indulgenze le dispense tutto, per far denaro con una religione gi materiale, e per moltiplicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli di Crsto quelli delle nove Muse. Non si voleva pi ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si rivoltavano contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il pudore contro la sua morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice confessore inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere umano. Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il proprio pontefice, la religione incatenata al senso letterale della Bibbia, tutto l'andamento divino ridotto alla stessa legalit di questo documento primitivo - l'opera arbitraria delle rivoluzioni italiane sarebbe definitivamente abolita come una epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma maledetta come un sacrilegio commesso contro la libert del Vangelo. L'Italia non era mai stata pi violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano rispettato la civilt romana, i Goti di Teodorico l'avevano protetta Lutero la fulminava; e se prima di lui si era declamato contro la nuova Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti non solo i suoi vizi e le sue virt ma altres la sua grandezza e magnificenza. Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1.Imperatore che rappresentano le loro rivoluzioni legalizzate, e questi si mettono sotto la protezione della Spagna per resistere al federalismo protestante dei luterani; mentre i signori rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato silenziosamente il Papa e l'Imperatore, e la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di Carlo Magno colla Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una reazione: delle rivoluzioni italiane rispettava nitto il lavorio geografico e sociale, ben differente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo ren*ogradare; essa venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei suoi predecessori, mentre gl'increduli del suo tempo si burlano della Chiesa e dell'Impero. L'arte e la scienza trasportano nel campo ideale la rivoluzione di quell'epoca. L'Ariosto ne riBette l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso tempo deride ed ammira il Medio Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte tutti i contrari della politica e della religione ^uabnente ridicoli e venerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non meno rispettabile delle favole della Chiesa e la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole italiana  imitata da tutta la letteratura. Il Machiavelli pu dirsi l'Ariosto in azione : volendo insegnare le norme della politica rimane vuoto e asirattOy mentre fonda la teora che determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni possibili. Cosi nella vita  malpratico improvido senza importanza, ma la sua fama si estende lentamente colle rivoluzioni ulteriori contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'umanit si svincola dalle credenze soprannaturali e si basa sul razionale. La nuova era politica della Rivoluzione protestante propagata dalla Germania consiste in un movimento che estende la fraternit umana oln*e assai la benedizione del Papa e la memoria di Roma e, conservando la distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il regno del pensiero puro, la affida ad ogni individuo divenuto papa di se stesso una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma opposta negli stati germanici e negli stati latini: nei primi individuale legale federale distrugge il potere di Roma confermando quello dei prncipi; nei secondi riforma le antiche dottrine della teocrazia romana, opponendo alla rvoluzione protestante la fraternit e la democrazia, le concentrazioni ispaniche e le centralizzazioni francesi. In Italia produce il tronfo degli stati ghibellini (Milano Genova Firenze Napoli) sui loro opponenti guelfi e francesi d'alleanza, e il sacrificio dei Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guelfi devon regnare (Venezia Savoia Roma). La rivolizione rinnova la letteratura col Tasso, il poeta della tenerezza che celebra la grande impresa cattolica della prima crociata; fonda la musica; e ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie della fraternit in opposizione alla libert protestante. La riforma appena vittoriosa  assalita da una reazione : cattolica e unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania Wallenstein e in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i Guisa i Vacchero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli d'alleanza come i 500 cospiratori annegati da Venezia. La letteratura nazionale sta per soccombere airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ragion di stato liquida senza parere la religione e spegne il senso morale cogli scritti di mille mediocrit misteriose; e la filosofia d Bruno e T. Campanella : Tuno il martire del panteismo che afferma Punita della materia e la pluralit dei mondi; Taltro il rappresentante pi grande deiTutopia politica dei popoli latini esagerante alTinfihito la fraternit l'unit e il despotismo, contro l'utopia opposta che si svolge secondo Lutero colla forza della libert delle federazioni delle leggi. Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al 1789 e che si potrebbe definire del Despotisma illuminato  guidato dalla Francia; la quale insegna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa che secolarizza lo stato, la semplificazione del governo colla distruzione dell'indipendenza quasi feudale d'una nobilt costretta a modernizzarsi, l'impostura e la libert della ragion di stato nell'interesse delle moltitudini. Esso si attua in senso inverso negli stati monarchici e negli stati federali colla centralizzazione o colla legalit. In Italia la democratizzazione dell'aristocrazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Impero d'Austria, nei guelfi dall' imitazione della Francia. I politici della ragion di stato sospendono le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dalle loro divagazioni, e le pompe dell'opera traducono il secolo di Luigi XIV nella lingua universale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Europa (Riv. d'Italia) : La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia coirestatica inazione dei suoi cantanti. Non si affrettano mai : gli eroi si precipitano al combattimento colla misura dell'andante, il nemico fugge senza potersi staccare dalla scena dove l'incatenano i ritomeli, le tenebrose sorprese si svolgono con cavatine i cui accenti riempiono le pi vaste sale, si danno le pugnalate in battuta, le vittime cadono colle vibrazioni isocrone del trillo - e nessuno s'impazienta perch rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbiamo l'immancabile reazione guidata dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquistare alla Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i vecchi partiti per distruggere il nuovo progresso. Ma il suo bieco disegno  distrutto in Francia dagli uomini della reggenza e dai filosofi delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Europa le idee del despotismo illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria prende l'iniziativa delle riforme, il Regno di Napoli diventa indipendente, il Piemonte si ricostituisce e si estende; mentre le repubbliche rimangono indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione rivela la sua grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del despotismo illuminato mette a livello tutte le societ e tutte le religioni; nella poesia con Metastasio il pi tenero nemico degli dei, e con Alfieri il tragico poeta della guerra che vuole tutte le idee alla altezza dei nuovi tempi {Riv. d'ItaliaDeliziosamente illusa da queste cantilene rimate [di Metastasio] che svegliavano gli echi di tutti i teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno sorpresa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo che portava la sfida alle pompe asiatiche dell'orchestra. Senza musica, senza cori, senza strofe, senza rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena squallida triste e nuda; e l quattro personaggi dalle figure astratte, impegnati in una azione unica stincata rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquattr'ore coli'orologio alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralit del vizio vittorioso e della virt sacrificata questi miserabili mezzi a controsenso di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un drappello d Spartani che fennassero Tannata di Serse. Il melodramma ne ricevette uno smacco irreparabile, i suoi pomposi personaggi furono scompigliati, i loro gemiti sospirosi si fermarono subito; nessun poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero soli con taluni poeti pagati, con libretti insignificanti, con parole vuote di senso che si chiamano ancora in oggi le parole e la poesia lasci per sempre le rime effeminate, le pugnalate fantastiche, le virti ridicolmente languide e i cantanti castrati delle cappelle principesche. Perch Alfieri faceva finalmente vibrare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli Arlecchini fino ai poeti cesarei. Pi nuovo di Dante, pi moderno di Shakespeare, egli inventava dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo voleva destare la libert nazionale, che nella sua immobilit secolare non sapevasi ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il cavalier servente ed anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette si morsero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dalle code impdverate si guardarono intomo, e i capitani capirono che si poteva morire alla guerra. Il fuoco sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto del governo, la tragedia penetrava nei gabinetti, qualche volta esiliata dalle scene investiva il lettore a casa sua e i suoi spettri inattesi gli intimavano di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare. L'ultimo perodo storco, non ancor chiuso quando il Ferrari scriveva,  quello della Rivoluzione francese. Il suo principio consiste nella divulgazione dei misteri del despotisir.o illuminato per modo che il razionalismo libero pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristimzione del codice che uguaglia politicamente tutti i cittadini, nell'avvento della propriet borghese figlia dell'industria e del commercio. La rivoluzione francese ricorre alla forma repubblicana antipatica alla nazione come a strumento di distruzione, finch Napoleone trasporta nella forma tradizionale dell'assolutismo il contenuto nuovo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le armi a nitta l'Europa dove l'esordio  quindi assolutistico e la conclusione libera. Cosi la Germania dal despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la rivoluzione torna alla sua federazione quasi repubblicana, alle speculazioni astratte, aUa libert della sua arte; 1 Austria ritorna alla patema democrazia e alla burocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra aveva gi avuto nel suo territorio la esplosione che creava gH Stati Uniti anticipando le idee della rivoluzione francese; ma la Russia copia il progresso francese direttamente coli' assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo progresso; e ad una prima tenue succede una seconda pi radicale trasformazione all'unitaria, Anche conquistati i principi nuovi ritoma con lavorio lento alla sua tradizionale federazione. Al solito la rivoluzione francese  assalita da una reazione, che impone alla Francia la libert costituzionale della dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo; ma essa si avviticchia alle forme stesse della reazione per combatterla e sconfiggerla, in Francia colla repubblica che conduce al governo assoluto di Napoleone III, presso i suoi avversari col ristabilimento delle libert costituzionali. In Italia abbiamo pure assolutismo al rovescio della Francia; ma assolutismo che  costretto a diffondere il contenuto della rivoluzione, a far riforme amministrative, ad appellarsi alla moltitudine che tenta di voltare contro i liberali. Per la nazione volle scuotere questo odioso giogo dell'assolutismo e alla rivoluzione di febbraio corrispose l'esplosione unitaria del Piemonte accettata per riformare il Papa e l'Imperatore; finch la religione e la politica federalista si volsero contro Carlo Alberto, che trasformava la guerra di libert in guerra di conquista interna non legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villafranca a Novara si distrusse un regno immaginario a profitto della federazione italiana. Ma il progresso  richiesto tanto all'Austria costretta alle riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Papato compromesso politicamente dalla doppia occupazione dei due imperi rivali. Tutti i governi cedono ai principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che attaccano la propriet. E dalla lotta fra la religione e la filosofia, fra i preti e i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri, essendo detronizzati, trovansi nella necessit di proporre una pi vasta democrazia per risalire al potere. Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo steso tessendolo spesso di frasi e perodi dell'autore baster a dare un'idea adeguata della importanza unica di quest'opera, in cui il Ferrar dispiega netta la sua incomparabile grandezza di storico. Per averne la misura paragonate la sua storia d'Italia, non dir con uno di quei manuali in cui i fatti e i personaggi sono infilzati l'uno dietro all'altro come una corona di nocciole, ma anche coi libri di coloro che vanno per la maggiore fra i moderni : con la voluminosa storia politica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la storia del Villari, che passa per il migliore dei nostri storici viventi, in corso di pubblicazione adesso presso Hoepli). Anche per una persona di quelle cosidette colte che frequentano le societ di lettura e fondano le universit popolari la storia, secondo l'idea che ne ha portato dal liceo,  come una fantasmagoria irragionevole, che sarebbe comica se non stillasse il sangue di innumerevoli vittime. II capriccio la pazzia il caso sembrano movere questi innumerevoli fantocci di un dramma senza processo e senza scioglimento; dove si vedono degli individui che si scannano senza ragione, delle nazioni che si combattono senza sapere il perch, delle invasioni barbariche piovute dal cielo, e sopratutto una incessante lotta intema dei popoli Lf' /mvfsi'oni barba r'hf, Milano, Hoepli; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad Arrigo VJJy id., contro i governi che pare non proporsi mai uno scopo, fatta per para cattiveria. Pur troppo molti manuali di storia sembrano scritti da gente che la pensa cosi! Ma anche molti degli storici pi elevati, pi scientifici diciamo, mancano del metodo interpretativo in una maniera impressionante. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai personaggi ufficiali per avere almeno una unit apparente,  un seguito di biografie e di raccontini legati gli uni agli altri dalla meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo che i letterati seguaci del cosi detto metodo storico che  per eccellenza il metodo antistorico credevano che la critica avesse esaurito il suo compito, una volta dimostrato che la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella tale occasione per quel tal personaggio; cosi molti storici credono ancora che il lavoro della storia si limiti a mettere in sodo se un tal fatto pi o meno particolare  accaduto in quel dato modo, se quella data istituzione politica era costituita cos e non altrimenti. Ma come di fronte a quei pseudo-letterati la critica afferma la necessit di completare e integrare il loro lavoro da puri manuali della letteratura con la ricostruzione con l'interpretazione col giudizio; cosi contro questa specie di positivismo storico non sar mai abbastanza forte affermato che la storia non deve limitarsi alla descrizione estema dei fatti, ma li deve interpretare spiegare resuscitare, collocare in una lnea di sviluppo per cui si veda sotto alle apparenti fermate o alle parziali decadenze lo sviluppo continuo e progressivo della civiltil umana. Sta bene la ricerca del documento nuovo: noi non proclamiamo affatto inutile questo lavoro che  anzi la base necessaria su cui si deve svolgere il lavoro veramente storico, ma affermiamo che il documento di per s  inutile se non  usato, che  muto se non vien fatto parlare, che deve essere bruciato per rischiarare la storia; la quale non  soltanto, la Dio grazia, scovamento e pubblicazione della nota della lavandaia di Alessandro Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma  narrazione dello sviluppo civile dell'umanit. Non basta raccontare un fatto come  avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie squallida o brillante per ritrovarne l'intima ragione; bisogna i fatti singoli sgranati collegarli colKunit d'un principio che  il loro motore e la loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi principi, dei diversi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una legge di continuo sviluppo, di progresso continuo. Or bene l'opera del Ferrari  un modello incomparabile di storia interpretativa, di storia cio vera. Di pi, il Ferrari  uno storico completo. Cfr. T. B. Macaulay: History in Miscellaneous WriiififTi Longmans, Green and Co.. London: Nella invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti, nella storia sono dati i fatti per trovare  principi; e lo scrittore che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li narra compie solo una met del suo ufficio. I fatti sono semplicecernente la scoria della storia.  dall' astratta verit che li penetra e sta latente fra essi come 1oro nel minerale che la massa deriva tutto il suo valore. Storia vera  la narrazione e interpretazione di tutta l'attivit umana, quindi non semplicemente della politica ma anche della artistica e della filosofica; perch l'uomo  uno in nitte le sue manifestazioni. Lo storico completo deve dunque dimostrare come tutta l'attivit umana di uno stesso periodo abbia unit di caratteri, come arte e filosofia e politica siano tutte dominate da uno stesso principio storico; questo, come abbiam visto, il Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto di vista estetico, il pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma la sua dote migliore  quella di essere totalmente libero dai pregiudizi della morale miope dei buoni padri di famiglia, che vorrebbero ridurre la storia a qualche cosa come un dramma a fine morale, con l'obbligo del n*ionfo per personaggi dotati di tutte le sette virt cardinali e teologali. Nulla di pi noioso che gli scritti di certi signori, perpetuamente scandalizzati di fronte alla vitalit umana potente nei vizi come nelle virt, perpetuamente predicanti contro le orge di Nerone o le crudelt della Rivoluzione francese, ridotti alla disperazione di dover ricercare a forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro moralit di scomunicare il 90% della storia. (La Chine) : Non c' niente di meno storico che Io scopo morale perseguito s ostinatamente da certi storici, i quali trasformano la storia in una specie di catechismo. Essa al contrario ammette tutti gli scioglimenti : A. F, Giuseppa F.ora tragica, ora comica, a volta indulgente e crudele, non si incarica di punire di ricompensare alcun eroe; e domanda senza fine dei tiranni dei condottieri dei martiri degli stolti delle vittime. Perch si vorrebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente, l che s'irritasse contro un malvagio, e che si sostituisse a Dio per ricompensare gli uomini secondo il loro merito; che fosse in una parola edificante per le madri di famiglia e per i bambini poppanti! Che l'arte debba essere giudicata da! puro punto di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si  finalmente cominciato a capire : pare che non si sia invece capito ancora che, per intendere e giudicare la storia, bisogna mettersi da un punto di vista superiore a quello della propria moralit individuale e contingente. La storia  un tessuto di azioni pratiche, che io posso quindi giudicare sia dal punto di vista economico che dal punto di vista morale; posso cio determinare se l'azione di quel dato individuo fu prodotta puramente da fini individuali, da Ani universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene che la moralit  formale, che  morale quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi rinunziare alla mia rivelazione morale come direbbe F. per rimettermi nei panni dell'individuo che pretendo sottomettere al mio tribunale; e non portare le idee del secolo XX nel secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valentino coi criteri con cui si giudica un onesto impiegato municipale padre di numerosa prole. Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in sodo seVisconti trad lo zio Barnab per pura libidine di regno o per beneflcare i suoi popoli, liberandoli dall'ultimo vestigio della tirannia a nome di una pi completa imparzialit; anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fazione sia determinata dal solo interesse individuale, lo storico vero deve saperci discernere il bene, quel bene che l'individuo non cerca e non cura ma che il destino gli impone di compiere, e che solo permette alla sua azione di essere e le d un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che la storia  il trionfo della moralit, che non  quella degli storici pudibondi; della moralit che non esiste senza il vizio perch appunto  lotta contro il vizio; della moralit che si vale per i suoi fini di tutti gli istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo, condannato dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E veniamo ora a giudicare il valore della interpretazione concreta. Pensate che ai tempi del Ferrari la piti importante storia d'Italia era il Sommario di C. Balbo (1), il quale in fondo non  molto superiore ad un manuale scolastico, come del resto riconosceva l'autore stesso: Finch non avremo un grande e vero corpo d storia nazionale, da cui si faccia poi con pi facilit Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, ed esattezza uno di quei ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si dice un manuale; k> non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa esser questo e dove lo sguardo dello storico  velato dal pregiudizio deirindipendenza. Con le Rvolutions d'ItaUe di E. Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha altro serio punto di contatto che l'identit del titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche vaga somiglianza di concezione ci si trova (l'Italia spiega l'Europa la sua lotta  per la libert non per l'indipendenza Venezia  estranea alla vera Italia) si tratta di osservazioni ormai comuni fra gli storici, o gi anticipate dal Ferrari stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848 (4). Non parliamo degli storici anteriori di cui il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione all'opera sua la deficenza interpretativa, per cui alcuni volevano spiegare l'Italia col principio dell'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello della Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ridurla sotto la forma politica dei principati (Guicciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Sigjmondi). Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo vistq con tanta giustezza e profondit, giudicato da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia e forza di rappresentazione la storia d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf Italia, Bari, Laterza, Paris, Dagnerre Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88. Chi potrebbe oppugnare la scoperta da lui fatta del ststema politico italiano impiantato sulla gran repubblica papato-imperiale che ha fatto dell' Italia una nazione senza confini, perch possa diventare U centro d'Europa che irraggia le sue continuamente nuove creazioni politiche a tutti gli stati? Solo questa idea pu dominare e spiegare coU'unit d'una legge la esuberante variet delle forme politiche che prende lo spirito italiano, scisso nelle due eteme antitesi dei Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concetto che gli Italiani lottano non per l'indipendenza che sottragga la nazione al patto papaie-imperiale, ma per la libert e per il progresso sociale, non per distruggere ma per riformare la repubblica dualizzata che  la loro franchigia; diventano intelligibili le innumerevoli battaglie che ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la sua libert dal pericolo d'un regno, che danno alla nazione la gloria di essere il centro politico di tutta l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per conquistare il lustro vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per riformare il Papa e l'Imperatore e costringerli ad ammettere grado a grado nel loro patto il progresso sociale delle nuove forme politiche create dalla forza rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo italiano  il gran protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori, imponendo loro le parti che devono recitare sulla scena mobile ddla storia; che distrugge o chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi come strumenti per conquistare una sempre pi larga democrazia. Tutta la gran guerra delle rivoluzioni italiane si riduce, come per Vico la guerra intema della repubblica romana, a un contrasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che diventa anche contrasto di razza perch il popolo  italico e romano, l'aristocrazia  formata dai Goti dai Longobardi dai Franchi da tutti gli invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra contro il regno barbaro estemo dei Goti e Longobardi e contro il regno barbaro intemo dei Berengar e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi contro i conti sono nello stesso tempo lotte di classe e di razza; da una parte il popolo romano, dall'altra i conquistatori barbari. E poich i barbari hanno piantato pi profonde radici nelle citt militari da essi colonizzate; la lotta fra le citt romane e le militari si classifica pure sotto questa doppia antitesi; come la lotta ddle citt contro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i GUbdliiii. Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica, la lotta attenua il suo carattere di razza per accentuare quello di classe; gi ncUt guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe citt altari barbare di tendenza si romanizzano facendo amicizia colle citt romane; cosicch nell'era seguente noi vediamo la lotta incrociata in modo che nelle citt romane i Cittadini sono romani e i Concittadini barbari, mentre nelle citt militari  viceversa; e nel periodo ancora successivo il popolo  guelfo nelle citt romane e ghibellino nelle militari. E siccome la vittoria  data all'elemento romano e all'elemento popolare insieme uniti : noi vediamo trionfare le grandi citt dell'industria e del commercio; e il progresso della democrazia va di pari passo col risorgere dei grandi focolari della civilt romana; finch colla costituzione della lega federale il processo indigeno  compiuto e i nuovi progressi della democrazia vengono dall'esterno, trasmessi a noi dal Papa e dall'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai saputo disegnare con tanta chiarezza i lineamenti della storia italiana, decomposta cosi nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il sistema papaie-imperiale e la lotta non nazionale ma democratica per riformarlo non per distruggerlo, rimangono sempre le due idee che ci danno la chiave della storia nostra. Ma non meno giusta  l'interpretazione che F. ci d dei particolari periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei vescovi, dei cittadmi e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittura scoperti; ma anche quegli altri che erano gi conoscenza acquisita di qual luce non vengono da lui illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il difetto di abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a un principio straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu sempre combattuto dall'espansione originaria nostra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che va da Carlo Magno ai Comuni  da lui decompoSto nei due perodi della lotta contro il regno barbaro intemo e dei vescovi. Chi meglio di lui ha saputo spiegare la gran catastrofe dellimpero romano, che percuote di spavento come un miracolo dimostrando che fu rovesciato dai popoli irritati dalla sua fiscalit, i quali vollero piuttosto una invasione stabile che il continuamente rnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lotta delle investiture, condotta non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si giovavano dell'uno contro l'altro per modificarli a vicenda, e costringerli a lasciar penetrare nd patto di Carlo Magno la gran rivoluzione della libera elezione dei vescovi? Chi meglio di lui ha saputo ritrovare il filo del progresso logico in mezzo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi militare; chi ha meglio di lui definito il periodo della decadenza dei signori come restaurazione papaie-imperiale non conquista, perch liberamente invocata e accettata dai popoli che non si difendodono nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna F.  un po' meno preciso e la interpretazione in qualche punto  ancora soggetta a completamento e a correzione come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta dalla Francia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'irradiazione politica deir Europa, e anticipa il periodo della Rivoluzione francese alla pace d'Aquisgrana. L'opera del di F.  in conclusione la messa in valore degli Scrptores rerum Italicarum del Muratori,  la riabilitazione del Medio Evo; che anche oggi  comunemente considerato dalla gente cosi detta di cultura, la quale giudica coU'occhio velato dal pregiudizio classicistico del Rinascimento, come un periodo di decadenza di barbarie di traviamento mistico. I romantici specialmente stranieri nella loro nostalgia mistica e nel loro orgoglio nazionale furono i primi a rivendicare il Medio Evo, per pi dal punto di vista del sentimento che della ragione, finendo col considerarlo come un territorio di sogno dove la fantasia urtata dalle volgarit del presente potesse ricoverarsi, in mezzo allo splendore magico di una societ fantastica in cui un cavaliere poteva col suo valore conquistarsi un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come la loro et deiToro; il perodo di trionfo delle loro idee; l'et in cui tutta la terra, popolata di gente che passava come pellegrina cogli occhi fissi al cielo, era sottoposta all'alta sovranit del Papa, che poteva imporre agli imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa  per es. la concezione di Gioberti che, combinando col sentimento cattolico l'orgoglio nazionale, celebr il Papato come la ragjone della grandezza medievale d'Italia, dominante il mondo colla religione come una volta coll'armi. Del primato civile e moraU degli Italiani BniaelUs. Adesso per converso, dove lui vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla delle persone colte vede le tenebre; e il Medio Evo  ancora per loro come un enorme deserto di schiavit di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono non si sa come le oasi dei liberi comuni a un certo punto distrutte dal simoun delle signmie. Nessuno ha saputo riabilitare con cos alta giustizia il Medio Evo come il Ferrari. Esso sfata l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando come anche nei secoli pi bui il progresso sociale continui sotterraneo; come il popolo d'Italia non sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato liberamente le invasioni perch gli portavano un progresso sociale, o lottato contro i conquistatori cos terrbilmente da distruggerli; come egli solo protagonista oscuro e possente abbia creato e atterrato Papi e Imperatori, invocandoli per distruggere il regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque di far passare per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle epoche pi teocratiche volto alla terra, si giovava della religione come di un'arma spirituale pi terribile delle spade gotiche e delle aste longobarde, per raffrenare e dominare colla magia di tma superstizione terribile gli enormi bestioni vellosi e truculenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio dei Romani; che poi al tempo dei consoli, rigettando l'aiuto della Chiesa ormai inutile, si voltava con una energia meravigliosa alle opere dell'industria e del commercio e diventava il banchiere dei re dell'Europa,ritenendo la religione come una tradizione da cui gli artisti potessero evocare un popolo di capolavori che pass nove secoli in mezzo alle passioni forse pi forti della vita, quelle della politica, colla spada alla manp. La decadenza poUtica comincia proprio nel perodo del Rinascimento, quando la civilt trasporta altrove i suoi centri incendiari e V impulso viene dal di fuori. Ma decadenza sociale, civile non c' : come non c' alia caduta dell'Impero romano, come non c' all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale della democrazia aliargantesi continua, anche se non originario proviene dall'Europa pi avanti ormai nella scala storica; questo progresso sociale della democrazia si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri romani, delle citt industriali e commerciali. Non c' salto come non c' decadenza, non si pu quindi accettare l'interpretazione del Rinascimento come di un movimento che prenda a rovescio il Medio Evo, di cui  invece la continuit ideale; anche qui F.  confermato dai resultati ultimi dell'investigazione particolare dei nostri storici: Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo siano profondamente penetrate e ramiflcate nel terreno dell'Italia comunale; come esso sia intimamente moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata dal blocco di marmo. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, Bari, Laterza. Ma F. non  solo un interpretatore ih nico,  anche un artista di primissimo ordine, che il buon Cantoni non si peritava di paragonare per la sua potenza drammatica di rappresentazione a Shakespeare. Duno sguardo psicologico acuto e profondo, d'una mirabile facolt di ridar vita movimento e colore agli uomini e ai fatti della storia; egli aveva in ci le qualit pi difficili che fanno i grandi drammatici, e avrebbe potuto forse divenire il pi grande dei nostri se un*altra tendenza pi forte non lo avesse spinto alla filosofia : la tendenza cio precocissima in lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi supremi ed etemi che regolano la vita degli individui e delle nazioni (!) Le abbondanti e frequenti citazioni bastano a dare una idea della forza artistica con cui sa caratterizzare uomini e cose, descrivere citt, rappresentare movimenti politici. Un periodo ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un sottile humour tenue come il sorriso dun uomo superiore che compatisce alle debolezze umane, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo che gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni minimo fatto; la forza dell'immagini che, atteggiando come esseri viventi citt e stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi pi; formano le Cantons: (/. F., doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche nel campo dell'arte pura lasciare un'orma immortale. Con una fecondit versatilit profondit veramente shakespeariana egli ha saputo creare una folla di personaggi e rappresentare una serie innumerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi, perch sa colpire nella sua caratteristica la realt che mai si ripete. Per avere un'idea della sua forza drammatica leggete per esempio la narrazione della lotta di Milano contro il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia) e delle imprese di Ezelno da Romano; per dare ancora un esempio della sua vivezza rappresentativa eccovi la descrizione di Genova che pare d'oggi: Genova  un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e la montagna, e tale che  suoi abitanti non possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza ondeggiare sull'acqua: sono montanari marittimi che riuniscono tutti gli estremi della miseria e della munificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi inaccessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che disegnano le linee della loro abbagliante architettura sulle case piccole e misere che li accerchiano da ogni lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si incontrano alla ventura colia moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni rivoluzione la citt ondeggia dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare l'ondulazione dei consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco fino a insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis in cui D'Anunzio poteva notare tante manchevolezze artistiche e stilistiche da presagire a torto la sua dimenticanza, F. anche dovesse la sua interpretazione essere dimostrata falsa da una critica superiore rimarrebbe ancora immortale in questo capolavoro, che continuerebbe ad essere letto come uno dei pi bei romanzi storici dItalia. Eppure con tanto valore artistico e storico questa sua opera non ebbe fortuna, n nella prima edizione francese fatta per T Europa, n nella seconda edizione italiana. Quello che  il suo pregio caratteristico fu appunto la causa del suo insuccesso, la concezione filosofica cosi profonda che era a base del suo lavoro di interpretazione rese quest'opera inintelligibile in un periodo di barbarie, in cui il positivismo dominante ottundeva tutte le menti : la sua altezza cosi serena di giudizio Io fece trascurare da quegli uomini ancor tutti accesi delle passioni politiche dal cui cozzo usciva r Italia. Tipica a questo proposito  la recensione larghissima di Rosa; essa univa a qualcuna delle solite immancabili osservazioni di dettaglio la critica di uno che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della nazionalit e del liberalismo astratto, pare spaventato che si possa refutare l'apologia dei Longobardi o giustificare l'azione dei Gesuiti; sebbene abbia una certa confusa sensazione che in ci consiste la grandezza di F. Per questa altezza nuova, per Tindipendenza dalle idee vecchie, per la vastit del concetto specialmente noi facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se non possiamo accettare tutte le di lui argomentazioni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno alla prova della scienza storica progrediente; egli avr prestato prezioso servigio agli studi italiani, avr educato a sollevarsi dalle angustie delle idee storiche, dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e scolastici. Per lui i giovani apprenderanno a contemplare la storia da un'altezza che la ragguaglia a quella della civilt, dove non giungono le ire delle passioni, dove il male parziale appare coordinato a pi vasto bene. Gli accade in piccolo e in breve come a quel Vico ch'egli venerava col nome di maestro: troppo alto per il suo tempo non venne compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa sua opera, come per es. Romano o Gianani, paiono non comprenderne affatto la terribile profondit il metodo l'interpretazione e somigliano un po' a fanciulli che giochino colla clava di Ercole. Solo uno straniero, che am e studi ritalia, J. A. Sysmonds, autore di quella Renaissance in Italy non meno importante del piiji noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione dell'importanza di questo libro. Infatti come nella prefazione del I voi. (L'era dei tiranni) ricor- Archivio storico italiano, Firenze.Le Invasioni barbariche. Milano, Vallardi. I Comuni, Milano, Vallardi. dava espressamente, nel cap. II {La storia italiana) ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento o dilucidazione tutte le grandi idee per da un punto di vista un p* meno alto e non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comune, e nel seguito del volume non ne tiene molto conto. Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne sono diversi molto meritevoli per ricerche particolari,  riuscito a sollevarsi all'altezza del Ferrari che rimane ancora unico solitario gigante, per darci un'interpretazione completa della storia d'Italia. O meglio ci fu uno che tent sebbene con forze inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a una folla di positivisti che abbassavano arte e storia alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani ben comprese e l'aveva appreso in gran parte da F. come la storia sia interpretazione, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione secondo la parola di Michelet. Non c' bisogno di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari : la condotta poco delicata di quello verso quest'ultimo, rammentato con citazioni che nascondono pi che rivelare la derivazione, non deve indurci a negare il valore storico all'autore della Lotta p-Sysmonds: // Rinascinunto in Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). Torino, Roux e Viarciigo: Debbo anche manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei non pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrtto per la seconda edizione di questo volume, Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi litica. Esso fu il solo degno continuatore di Ferrari; continuatore in quanto non propriamente storico del Medio Evo i libri I e II della Lotta politica come  stato dimostrato non sono altro se non un riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran predecessore ma storico del Risorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che possa tentare la prova del paragone, Oriani soccombe; come storico per l'ineguaglianza deirinterpretazione ora indovinata ora superficiale, come artista per la non rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente precisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un po' meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del sublime storico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza va accompagnato a una calma serena, a una specie di fine bonario umorismo che sa trovare l'uomo magari contro il suo volere benefico anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha della storia solo il senso tragico; brontola un po' troppo; troppo spesso va in collera col passato; non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei suoi personaggi, errori spesso imposti dalla storia che qualche volta egli vorrebbe correggere. Questi difetti sono pi sensibili nei due primi libri per mancanza di quella conoscenza diretta che  necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio, ma anche qui c' da notare un po' di semplicismo e astrattismo, pi nelle forme che nel con ci) l. Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella Voce, Prrrari Oimeppe F., cetto. Per es. egli d come ragione dello scacco delta rivoluzione del 48 la sua forma federale, mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'equivoco del popolo e il tradimento dei prncipi. Ragionando a questa maniera vedrebbe pi giusto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto. Certo qualche po' delle lodi che danno all'rani storico i crdci moderni, il Croce e il Borgfte- se, spetta di diritto a F., di cui sono tre fra le immagini che quello cita per dare un esempio della forza rappresentativa del suo autore (Venezia I Condottieri Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa l'affermare che l'opera del Ferrari sia definitiva, perch nulla c' al mondo di definitivo, n la vita n la filosofia n l'interpretazione storica. Ma come una filosofia  viva finch non  sorpassata e inverata, cos una storia. Orbene prima di buttare il saggio di F, fra le anticaglie bisogna averlo sorpassato, e finora nessuno non solo non Tha superato ma non si  nemmeno sollevato al suo livello. Noi consigliamo quindi a studiarlo: primo per imparare il metodo di Inter* pretare la storia; secondo per meditare la sua interpretazione concreta, anche oggi tanto vera che 1 moderni studi particolari la confermano invece di distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari merita un posto a parte superiore ai pi famosi : a Macaulay  citato da Grice -- a Mommsen a Taine, per la stessa ragione che rende il De La Critica^ genn. i<)og. La vita e il libro. Torino, Bocca. Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^ per il senso filosofico che gli diresse la potenza interpretativa a risultati cos grandi. Per racchiudere in una frase il resultato di queste mie osservazioni, Ferrari  il De Sanctis della storia politica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esitiamo a considerarlo come il pi gran rappresentante della storiografia romantica (1), sorpassato nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor degno come storico concreto di essere il gran maestro della nostra generazione. Grice: I use revolution occasionally  minor ones! --. Grice: Mussolini kept saying that Ferrari was talking of rivoluzione fascista  Garibaldi hardly used rivoluzione! Grice: Nothing pleased Mussolini more than the collocation rivoluzione fascista  almost as much as Washington did American revolution, and Cromwell, The Glorious Revolution! – Nome compiuto: Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari. Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on storia dItalia  i rivoluzionarii italiani  Vico, Romagnosi. Luso del termine rivoluzione nella storia italiana  la rivoluzione dellunificazione, la rivoluzione fascista  il risorgimento dellunita hardly qualifies as a revolution. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’anarchici di Mussolini – scuola della Spezia – scuola d’Arcola – filosofia speziana – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arcola). Filosofo arcolese. Filosofo speziano. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola, La Spezia, Liguria. Grice: I like Ferrari; he was a philosopher AND a poet  a combo we dont find too often at Oxford! -Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore. Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita. Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad una notevole forza di volont, lo spinse per ad un personalissimo studio da autodidatta che lo port a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen, Schopenhauer, Baudelaire. Non rinunci comunque ad elaborare una visione autonoma, che costru giorno dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro D'Arcola, attraverso una costante attivit meditativa. Si sposa con Emma Rolla e con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera et. Gli altri due, Renzo e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una personalissima riflessione esistenzialista che svilupparono nell'ambito della produzione artistica e letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla visione idealizzata della donna: O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci, ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole pi bello che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima vostra  un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canter per voi. Il resto  fango! (Le mie sentenze) L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli nella notte: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i quali anche Ferrari. Contrario alla guerra, venne richiamato sotto le armi ma si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in contumacia alla pena di morte. Sar poi arrestato e scarcerato in seguito ad amnistia. E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema vilt umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte venne! Venne ebbra di sangue e danz macabramente sul mondo. Danz con piedi di folgore... Danz e rise... Rise e danz... Per cinque lunghi anni. Ah, Come  volgare la morte che danza senza avere sul dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perch. (Dal poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo di Renzo Novatore,  protagonista con i suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei pi importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che allora La Spezia era una delle pi importanti roccaforti militari italiane, circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle pi importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a "fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse dare solo una spallata decisa. L'antifascismo e la morte Coerente fino alla fine nella prima lotta al nascente fascismo, entr nel mirino delle camicie nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi l'incolumit; per sopravvivere si un al bandito piemontese Sante Pollastri che era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapin un importante cassiere di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e mor; sebbene probabilmente fu Pollastri, che aveva gi diversi omicidi di poliziotti e fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo costui avrebbe accusato il defunto Novatore. Le forze dell'ordine, su incarico del governo Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perch avevano individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi. Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivel essere quello dell'anarchico Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attivit sovversiva e antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare. Novatore, al momento della morte, aveva con s una pistola Browning, due caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di Giovanni Governato. Si define anarchico individualista. Lotta per la libert e per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo: Le masse che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e la borghesia lo sanno e sogghignano. Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni di questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila "organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare. Il suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo fine a s stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione anarco-comunista). L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo, non ha per fine n il Socialismo, n il Comunismo, n l'Umanit. L'individualismo ha per fine s stesso. (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in Iconoclasta!) L'anarchia  per me un mezzo per giungere alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la realizzazione di quella. Se cos fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia come un mezzo d'individuazione. Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la lussuriosa volutt dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del male. Nessun avvenire e nessuna umanit, nessun comunismo e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me stesso come meta suprema. Rimaneva salda nel suo pensiero la convinzione che agire e schierarsi fosse una necessit irrinunciabile tanto che di lui si disse che scriveva come un angelo, combatteva come un demonio. Su di lui rest sempre fortissima l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche. Opere scritte Le opere e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del movimento anarchico. Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre al gi citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento", "Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta! (Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei Refrattari (New York) e Veglia (Parigi). Da ricordare inoltre due libri di pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore" e "Al di sopra dell'arco". Libri ed opuscoli Renzo Novatore, prefazione de Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Tot Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa, "Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore, prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni di Tot Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Tot Di Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, Verso il nulla creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore, introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose, dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres, Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane, presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Wilde Maurizio Antonioli (diretto da), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco Serantini, Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra (CN), Araba Fenice, Scritti, citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di testi di Renzo Novatore. Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui Modifica L'anarchismo  definito come la filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei movimenti libertari volti fattualmente gi dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia politica che si oppone all'autorit o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni umane. La A cerchiata, il pi celebre simbolo anarchico I fautori dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono societ senza Stato basate sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine inteso in senso politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel 1793, definendo negativamente la corrente politica degli enrags o arrabbiati, gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorit. Nel 1840 con Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos' la propriet? (Qu'est-ce que la proprit ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione positiva. Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della storia del movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale collettivismo. Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie, ovvero anarchismo sociale e anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili. L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente fluttuazioni di popolarit. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi come movimento sociale di massa si  avuta con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre l'anarco-individualismo  principalmente un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti pi grandi. La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o la nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo, per ottenere la societ anarchica. Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al marxismo libertario, come "l'ala libertaria del socialismo". Come padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue riflessioni sulla caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrer e ispirer il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Ptr Kropotkin e Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese come The Ego and Its Own e tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e totalmente estraneo alla nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti pi o meno di massa dell'epoca. Quanto a Proudhon, che pu essere considerato giustamente come il padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi momenti di oblio ed  stato oggetto, in alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla propriet. Per quanto riguarda Bakunin, se la sua influenza  diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici, se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue caratteristiche solamente dopo la morte. In realt, molte idee anarchiche sono conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Ptr Kropotkinche non esita su punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredit bakuniniana approdando esplicitamente al comunismo libertario. Sul piano filosofico e delle idee, l'anarchismo pu essere considerato come la manifestazione estrema del processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di ogni forma d'autorit esterna o superiore agli uomini, sia essa "divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi, forme e con modalit differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione. Sul piano politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi, attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella societ borghese si realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del salariato. A questa visione  contrapposta quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di propriet e il libero scambio come fondamenti di una societ in cui lo Stato non  pi necessario: qualsiasi limitazione alla propriet di s stessi e di ci che un individuo si procura con il lavoro o il libero scambio  vista come una lesione dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libert di scelta. Da questo punto di vista  considerato scorretto pensare di poter formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo pu cercare liberamente di realizzare la propria volont ma senza mai cercare di imporla agli altri (principio di non aggressione). Il comunismo, allora, pu diventare una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di investire in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in quanto con un'imposizione non si avrebbe pi un'anarchia. Etimologia I termini anarchia e anarchismo derivano dal greco , ovvero senza arch (principio regolatore). La parola anarchia per come  utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla a che fare con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma egualitaria di relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente. Origini dell'anarchismo Modifica Storicamente, il movimento anarchico si  sviluppato in seno al movimento operaio in quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso pu essere considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo, caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta divisione in classi della societ. Dalla loro nascita, tuttavia le idee anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo (che sostenevano la possibilit di cambiare "progressivamente" le basi inegualitarie della societ capitalista) che con le concezioni marxiste, in particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario. Specificit della dottrina anarchica L'obiettivo della teoria anarchica  la nascita di una societ di uomini e donne liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libert ed eguaglianza dei diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformit dal punto di vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi, le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto "socialismo di mercato") considerano l'uniformit come un'utopia che oltre ad essere indesiderabile , a causa della naturale diversit degli individui, irraggiungibile. In quanto socialisti, tutti gli anarchici sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione. In quanto libertari, essi pensano che la libert dispieghi il suo reale significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libert ed eguaglianza devono essere "concrete", cio sociali e fondate sul riconoscimento uguale e reciproco della libert di tutti. Mentre il pensiero borghese liberale aveva come motto "la mia libert finisce dove inizia la tua", per gli anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libert dell'individuo non  limitata ma confermata dalla libert altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e sociale  scrive Bakunin  perch so che al di fuori di questa eguaglianza, la libert, la giustizia, la dignit umana, la moralit e il benessere degli individui cos come la prosperit delle nazioni non saranno nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libert, questa condizione primaria dell'umanit, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della propriet collettiva delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato". Per realizzare una tale societ, gli anarchici ritengono indispensabile combattere non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimit, rendono materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della societ sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non  che un parassita della societ che la libera organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e pu rendere inutile. Su questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la pace civile. Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua "estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure avevano abolito la propriet capitalista. Come gi aveva sottolineato Bakunin nella sua polemica con Marx "La libert senza eguaglianza  una malsana finzione. L'eguaglianza, senza libert,  il dispotismo dello Stato e lo Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia". Al modo di organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da organismi statali, posti al di sopra della societ. Il federalismo, in quanto modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il socialismo libertario. Il federalismo cos inteso ha ovviamente ben poco a che vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo ma di un principio di organizzazione sociale a s stante, capace cio di inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettivit umana. Organizzazione anarchicaModifica Il pensiero anarchico  dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione, ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e collettivi. Cos, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato, l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni permette la sostituzione dello Stato. Essa intende presentarsi come il complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore garanzia della libert individuale. Il fondamento di tale organizzazione  il contratto, uguale e reciproco, volontario, non "teorico" ma effettivo, che si pu modificare per volont dei contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della societ. Cos definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra individui, gruppi o collettivit, o anche fra regioni, senza per altro rimettere in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare" dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale organizzazione non pu pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella societ federalista. Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni sociali nel rispetto della massima libert di ciascuno senza dar ricorso ad arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente repressi come  solito fare lo Stato (quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di un'autorit regolatrice). Azione anarchica Per gli anarchici esiste un legame indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo. Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine perseguito. Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la "conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Il Congresso di Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi marxiste. In quella sede si afferm che il primo dovere del proletariato non  la conquista del potere all'interno dello Stato ma la sua distruzione. L'approccio dei libertari  quello di opporre soluzioni sociali alle soluzioni politiche dimostrandosi con ci non politici ma antipolitici. D'altra parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza deleghe di potere. I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e pi efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori. Gli anarchici non sono e non aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poich ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio dell'interessato stesso. Ma perch ci sia possibile occorre che i lavoratori prendano coscienza di ci che Proudhon ha definito la "loro capacit politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una societ e solo da essi pu venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di vita e del progresso sociale. Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati, ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di vista, il federalismo libertario non pu essere realizzato senza il concorso attivo dei sindacati operai poich, da una parte, questi ultimi sono qualificati ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario, un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi: cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide contro ogni forma di burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro. Quest'ultimo punto  assai importante poich, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non possono essere considerati come una finalit in s. La sua autonomia non deve significare "neutralit" nei riguardi del potere o dei partiti perch ci significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialit di cambiamento e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una pratica conseguente. L'azione sindacale non  tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di resistenza che paiono loro utili e opportune. Dottrine di carattere libero-mercatista. Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane, come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessit di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a giustificare la propriet privata del capitale. Queste sono dottrine di origine liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato alle estreme conseguenze, cio alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra loro. Cos' la propriet? La propriet  un furto (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione, era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative autogestionarie e nella "Teoria della propriet" arriv ad affermare che "la propriet  libert". L'apparente contraddizione  dovuta al fatto che Proudhon intendeva come furto non la propriet individuale, ma quella propriet che seppur utilizzata da altri individui  fonte di profitto o rendita per il proprietario mentre come libert quella propriet, chiamata "propriet-possesso", frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come scopo. Anarchismo di ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata, l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato sul movimento operaio  stata notevole. Gli anarchici rappresentano una parte a s stante del movimento sindacale e operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936. L'influenza delle idee anarchiche si  soprattutto manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava pi di un milione di aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni '20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento operaio e sindacale anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico  ridotto al silenzio, e i suoi militanti spesso assassinati o costretti all'esilio. In generale si pu dire che gli anarchici si trovano in questo periodo sempre pi isolati, anche sul piano internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e comunisti dissidenti. La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica pi importante delle idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella Spagna di quel periodo. All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle Giovent Libertarie(FIJL). Dopo il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilit di azione per i libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre pi le correnti anarchiche. Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto questo occorre aggiungere la reazione sempre pi viva di vasti settori della popolazione contro la burocratizzazione delle societ sia del blocco "socialista" (in realt trattasi di Capitalismo di Stato) che di quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte proprie in modo pi o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il movimento anarchico  ancora vitale in tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre 1999) si  giovato del contributo delle analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei pi importanti in Europa, che si  visto protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca. L'anarchismo pu ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie, inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e libert. L'anarchia  l'ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, cos come non si raggiunge mai la linea dell'orizzonte, l'anarchismo  il metodo di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilit, variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanit Nova, Roma, 1922. Siri Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale il 16 maggio 2007). Anarchism, su Encyclopdia Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. Anarchism is the view that a society without the state, or government, is both possible and desirable. ^ ( EN ) Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot, Ashgate, 2007, p. 59, Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge, Blackwell Publishers, Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford Dictionary of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b L'Internazionale delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorit, sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale. Vedi: ( EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012 (archiviato dall' url originale il 3 aprile 2012). ^ Anarchism, then, really stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual desires, tastes, and inclinations. Emma Goldman, "What it Really Stands for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorit nel seguente modo: They found that they must turn either to the right or to the left, follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went one way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely, consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a means of progress, but who accept her only so far as they think she will subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in the Protestant Church and the Manchester school of politics and political economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the socialism off Karl Marg. Benjamin Tucker, Individual Liberty, su theanarchistlibrary.Ward, Anarchism as a Theory of Organization, su panarchy.org, 1966. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle forme di autorit statali e non statali nel seguente modo: All anarchists deny authority; many of them fight against it ... Bakunin did not convert the League's central committee to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably radical recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding economic equality and implicitly attacking authority in both Church and State ^ citt Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism: Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing, 2002, p. 106. ^ ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian government and maintains that voluntary institutions are best suited to express man's natural social tendencies, George Woodcock, "Anarchism" in The Encyclopedia of Philosophy ^ In a society developed on these lines, the voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human activity would take a still greater extension so as to substitute themselves for the state in all its functions. Ptr Alekseevi Kropotkin, "Anarchism" in Encyclopdia Britannica ^ That is why Anarchy, when it works to destroy authority in all its aspects, when it demands the abrogation of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose them, when it refuses all hierarchical organization and preaches free agreement at the same time strives to maintain and enlarge the precious kernel of social customs without which no human or animal society can exist. Ptr Alekseevi Kropotkin, Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.. ^ anarchists are opposed to irrational (e.g., illegitimate) authority, in other words, hierarchy hierarchy being the institutionalisation of authority within a society. B.1 Why are anarchists against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ. Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought, Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of Revolutionary Writings, Courier Dover Publications, Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in Western Political Quarterly, Skirda, Facing the Enemy: A History of Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK Press, Lo storico catalano Xavier Diez riporta che la stampa anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta da membri di gruppi anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico CNT. Ci furono anche casi di anarco-individualisti di spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada che furono membri del CNT e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo segretario della Federazione Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez, El anarquismo individualista en Espaa: Resisting the Nation State, the pacifist and anarchist tradition" by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock, Anarchism: A History of Libertarian Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler, The Anarchist Tradition of Political Thought, in The Western Political Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock, L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari, Feltrinelli Editore, 1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy Byington, The Ego and Its Own, 1st engl ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della prima edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire L'Unique et sa proprit, P.V. Stock, diteur, 1899, ma riedito l'anno successivo, Max Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa proprit, ditions de La Revue Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad. Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org. ^ Brown. Susan Love. 1997. The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The Free Market in Western Culture. p. 107. Berg Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk Anarco-capitalismo Anarco-comunismo Anarco-individualismo Anarco-femminismo Anarco-pacifismo Anarco-sindacalismo Anarco-socialismo Bakunin Mutualismo (economia) Pananarchismo Possibilismo libertario FaSinPat (Fabbrica senza padroni) Christiania Stati per forma di governo Radio Libertaire Radio Blackout Radio Canut Radio Zinzine Radio Klara Radio Primitive Radicali Anarchici Umanit Nova A/Rivista Anarchica contiene il testo completo di alcuni canti sull'anarchismo Wikizionario contiene il lemma di dizionario anarchismo anarchismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, anarchismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Anarchismo, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Anarchismo, su Enciclopedia Britannica. Opere riguardanti Anarchismo, su Open Library, Internet Archive. Portale Anarchia Portale Filosofia Portale Politica. Socialismo libertario Anarchismo sociale forma di socialismo anti-statalista e libertaria, che vede la libert individuale interconnessa all'aiuto reciproco e la cooperazione Scuole di pensiero anarchico correnti di pensiero riguardo l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI DI MUSSOLINI rali vere SETTIMANALE ANARCHICO INTERVENTISTA Ta Pisetemenzar via Garibaldi A | assonimion i Ami 13] CRITNTEINTA]  o f= Niue] | Senesi Aia MILANO - Dc t9rs. | "iSToNIO su oi RIA | ore 2 Spina sovdrela jattonza, spogli. d'agnt fiomposit retorien, agli anici ed agli nvvornarl not ci presentiamo. iper ur Drrepprinsibile dinoziio det ilmo nostro di affermare ut; colla Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1 commi. dl pectore i dia in questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi iaia alli domantpquando vibrabte squiller Ia diana + ho gl chiamer al elmonto, riaffermeremo  Quatt nurca La cdl. fuetlo nelle, trincee o sulle barricate, 50 = Medea re pico  per no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1  ti romina. ch ancora non perufptione iocolieri della politica i probleini Nindaedi e) hibertari. ni per l'unit d'Itata  oggi dia sarei Mali netta rivolta " dicaro ciod'ad alta voce il nostro diritto  rd ? i is  ri to in i; k conferenza di De Ambris  riprodoti vin internazio: ; sto | . n sn commento di parte repubblicana, significativo in vista o ge So dellinterventismo rivoluzionario, si veda larticolo Una voce sindacalista, LInizia ; agosto 1914. Li H x) rs sian Belgio  n Francia ad opera dei tedeschi determin la 1 posizione a favore dellIntes i i Sr a da parte di alcuni degli ini pi rappresentativi dellanarchi qualiv iS chismo, non solo fi i i Pi Db? 9 10, rancese, tra i quali Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e litaliano Amilcare ppi il rio colonnello della Com ichi o) e 1 une. Le loro dich ioni Poni a Cc  ichiarazioni, che a i la naturale e antica simpatia dei rivoluzionari europei verso di E ella Grande Rvolution e che, a distanza di un anno e mezzo, ag ubi espressione definitiva nel cosiddetto Manifesto dei  suscitarono polemiche e divisioni i dici ni anche tra gli anarchici italiani primo intervento eterodosso di ico i dia i 1 segno anarchico in materia di i neutralit fu opera proprio di io Gi Reit i io di Mario Gioda. Ad ui i i  fu o c i na settimana dal on \ suo articolo BIO Gioda, scrivendo per Volont (il principale periodico go ita iano), rilev il fallimento improvviso e devastante He age D sostenne la necessit che, in caso dinvasione austriaca, anche gli anarchici impu i i i } >, pugnassero le armi per difendere il  ici i il suolo azionale . La Folla, la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo S 8 assiduo collaboratore li offr, a breve distanza, I Opportunit di precisare In i pieni torinese interpretando lo sbigottimento di molti  ello e troppo forse si  sognato. La guerra  il ri Wi Intanto, il fallimento dello) izi e A en i ILL pposizione socialista e democratica nepaesi I social esi dell FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i prebiaia S : Ag its do FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI, in Rec ana ngi ni Vac i due volumi di FELICE Mussolini il nario,, Einaudi,, p. 235 ss., e Sindacalismo riv N zii i rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio, Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si, per il valore della testimonianza, ARM o di (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti (cfr. Gli anarchici intelligenti son dichiarazione storica, LInternazion: linate j ale, 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento anarchico itali i i GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: arti i nba } _In particolare, larticolo di ERRICO ; governo, Le Rveil communiste- i i N g  uniste-anarchiste, 1 maggio 1915 si n arts rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera, aveva contribuito alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, i so imi ai 12,  per lo pi sotto pseudonimi (l Amico di Vautrin, i I torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese). mentali, per pporto tra lanziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli articoli di questultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa = inni i ll o 1911. Su questo punto v. altres Miano i LI, rchici italiani e la prima guerra mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in Rivista Storica dell Anarchismo, 1995, TCA ig 14 di difendere domani la nostra casa da qualsiasi eventuale minaccia contro la integrit di essa, nel mentre a gran voce, dai nemici di dentro, dalla monarchia [...], reclamiamo e vigiliamo per la assoluta neutralit" Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una netta presa di posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a distanza fra lautore, il direttore dell Avanti! Benito Mussolini e Nella Giacomelli, una delle voci pi autorevoli di Volont! In essa sinser ben presto anche lanarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda, recandovi nuove e pi profonde inquietudini". In una lettera aperta alla Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del compagno. GIODA, Mentre trionfa la guerra, La Folla, 9 agosto 1914 U Sul numero di Volont dell8 agosto era apparso anche un contributo di Petit Jardin (pseudonimo di Nella Giacomelli), intitolato La pi grande mistificazione: da Herv a .. Mussolini. In esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto, aveva paragonato il dubbioso direttore dellAvanti! a Gustave Herv, laraldo dellantipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nellesercito francese subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini aveva replicato con una lettera nella quale, rifacendosi a sua volta allarticolo di Mario Gioda, rimarcava lincoerenza di Volont, che, nel mentre accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non aveva esitato a pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trov spazio in un secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Herv a Mussolini: da Mario Gioda a Oberdan Gigli, Volont), molto critico nei riguardi di Gioda e degli altri sovversivi guerrafondai. Infine, il 29 agosto, il giornale ospit una lettera dello stesso Gioda, che, respingendo laccusa di patriottismo, affermava per il dovere degli anarchici, proprio in quanto tali, di difendere la causa della libert - rappresentata dalla Francia e dai popoli latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi avvenimenti v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Giacomelli Rivista Storica dell Anarchismo. Il ragioniere Oberdan (in realt Oberdank) Gigli era nato a Gallarate nel 1883, ma si era formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere mite e la propensione per gli studi filosofici, che ne facevano pi il tipo dellintellettuale che delluomo d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti ancora giovanissimo. La prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve profilo: Individualista, professa con ardore i principi extralegali, riuscendo ad avere non poca influenza sui correligionari, non solo in Genova e Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell instancabile nella propaganda delle teorie da lui con calore professate, esplicando tale propaganda con buon profitto, specialmente fra la classe operaia. ACS, CPC, Busta [Gigli]. 15 I problemi dello spirito affermava sono tramontati per ora: forza e della razza e della nazionalit ritornano a predominare coi ferocia. I valori sociali hanno subito un'inversione. Linternazion spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il suo dovere; neppure noi' i problemi della n raccapricciante alismo operaio  Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da riscoprire la loro comune anima umana, non escludendo lopportunit di combattere gli invasori austriaci (quantunque, come suggeriva, in libere schiere non governative), il giorno in cui questi avessero minacciato lintegrit territoriale italiana! i Ai primi di settembre Volont pubblic una nuova lettera di Gi li Il concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai rt le questioni della libert e dellindipendenza nazionali. son Lanarchismo sosteneva lautore non rinnega, ma supera il concetto di patria: rinnega per il patriottismo, che  concezione perfettamente borghese e sibi la rivoluzione liberatrice anche contro i connazionali. Ma lanarchismo curdo me,  una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perci esso Fon presupporre una societ borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria. La storia ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi che i roblemi essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter liberamente clara verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle nazionali la risolvere libert: fr: I bi  Ilo dell pi Il lit, da risol A Tar n 1 Un eventuale Vittoriosa invasione delle armi austro-tedesche non solo cn lasciato drammaticamente irrisolta la questione nazionale, ma, sotto . TEC . . Z il profilo delle conquiste politiche e sociali, avrebbe altres determinato un Volont, un Pot in riferimento all'articolo di Mario Gioda dell8 agosto, era inserita insieme que a di Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!! dr parole di Gigli la redazione di Volont (retta allora da Cesare Agostinelli, trovandosi esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che Luigi Fabbri) fece seguire una de i aperto disappunto. A noi pare vi si leggeva che la situazione di quelli che, come io x e Gigli, si lasciano trasportare dal sentimento patriottico sia la medesima di quegli E rici che, tempo addietro, andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei cubani, dei boeri, degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso esula dal compito specifico degli anarchici divi on questo incoerente se si arriv: i anarchici, e pu entare c P qi Incoe; si a regresso: l'avvento, anche in Italia, di un sistema feudale e militaristico sul modello di quello degli Imperi Centrali. Impedire che ci avvenisse aveva di per s un valore rivoluzionario; significava combattere per la causa anarchica e, allo stesso tempo, salvare lanarchismo dallisolamento, riportarlo a contatto con le masse, ravvivato alla fiamma dellumanit dolorante!?. La condanna fatta seguire dalla redazione di Volont alle parole di Gigli hiuse definitivamente la polemica, almeno per quel che riguardava il giornale di Ancona. Nondimeno, le defezioni di Gioda ed Oberdan Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni dellanarchismo italiano, segnarono un passaggio doloroso nella storia del movimento libertario. Rygier, intanto, gi paladina dellantimilitarismo e, in assoluto, una delle personalit pi stimate del campo rivoluzionario, aveva firmato un sorprendente articolo per Il Libertario di La Spezia, nel quale, richiamandosi alle tradizioni garibaldine del Risorgimento, aveva plaudito alla fine della Triplice Alleanza, il patto infame gi vincolante lItalia agli Imperi Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, i carnefici di Oberdan? Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove era stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i suoi legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese (con cui sembra fosse in rapporti gi dallanno precedente), legami comunemente ritenuti la ragione principale della sua invero repentina conversione |a stessa Giacomelli, nellarticolo del 22 agosto, li aveva definiti i nostri migliori uomini; mentre Errico Malatesta, nella su prima affermazione ufficiale contro la guerra (larticolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul numero di novembre della rivista londinese Freedom, poi ripreso dai principali giornali libertari italiani), si rammaricava che tra gli anarchici interventisti vi fossero dei compagni che amiamo:  rispettiamo profondamente. Rygier, nata a Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1907, con Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista Rompete le file!. La sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la campagna in favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era valsa il carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli ambienti sovversivi. Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, // movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Vol. IV, Roma, Editori Riuniti, ad nomen. Per una breve storia de Il Libertario v. BIANCO, COSTANTINI, Per la storia dell'anarchismo. Il Libertario dalla fondazione alla prima guerra mondiale, in Movimento Operaio e Socialista in Liguria, RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, Il Libertario, allinterventismo. Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa e il suo ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dellintervento ha scritto a questo proposito uno storico dellanarchismo Maria Rygier trova la sua strada proprio con laiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente di Francia, che laccoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovr assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell Avanti!?, A sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno dellanarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto n pi n meno di tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato?. In questottica, anche in considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel fascismo, non  difficile capire il perch, a posteriori, si sia finito semplicemente per negare loro il diritto di cittadinanza nella storia dellanarchismo italiano. Senza dubbio, al di l delle durissime e CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, Pistoia, RL, 1968, p. 34.  Quello dei finanziamenti, pi o meno occulti, della massoneria al movimento interventista, fu uno dei motivi dominanti della polemica che precedette lentrata in guerra dellItalia (e basti pensare alla nota questione dei fondi de Il Popolo dItalia). Nel caso di Maria Rygier, quel che  certo  che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti dellemigrazione italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e anarchici di Marsiglia, citt dove la questione dei rapporti tra le frange interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era sentita in modo particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dellanarchico Raffaele Nerucci, si costitu un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano, accusato dagli avversari, fin dal suo apparire, di loschi connubi con la massoneria. Un anonimo articolista dellAvarti!, commentando la pubblicazione ad opera del Fascio di Marsiglia di un numero unico a sostegno dellintervento (La nostra guerra, 21 marzo 1915), rimprover a Nerucci e agli altri interventisti rivoluzionari marsigliesi dessersi serviti del denaro dei massoni, nonch del sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a Marsiglia, Avanti!). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Nerucci era nato a Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa). A Marsiglia, dovera emigrato nellaprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che lambasciata italiana aveva definito audace e pronto, ma anche della sua spregiudicatezza (pare, del resto, che egli fosse in qualche modo legato alla malavita locale). Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de La Protesta Umana, de Il Libertario e de L'Avvenire Anarchico. Nel dopoguerra fu tra i fondatori del Fascio di combattimento marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel 1927 per indegnit morale e politica. Condusse il resto della sua vita sotto lattenta sorveglianza delle autorit fasciste. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo rivoluzionario, in Rivista Storica del Socialismo, comprensibili polemiche del momento, che hanno spesso sisi anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni successive, la scelta i campo c Maria Rygier, per quello che il suo nome evocava nell immaginario simbolico dellestrema sinistra italiana, rappresent un trauma n pe riassorbito, cui pu essere paragonato (ma solo in minima parte) quello a fece seguito alla professione di fede interventista di un altro protagonis delle battaglie antimilitariste dinizio secolo: Antonio Moroni ; Lbatnn Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire il mutato atteggiamento della Rygier che prima di aderire all anaro ismo e stata sindacalista rivoluzionaria, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga 46he ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti rivoluzionari, non solo del campo interventista), ben pi rilevanti, come emerge dalla febbrile attivit propagandistica della stessa Nico vr precedenti e immediatamente successivi all entrata in guerra o alia, appaiono i riferimenti al mazzinianesimo. Non  certo un eri pe Pan veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei medesima finisse vieppi per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino 2a n la confluenza di tutte le [ *interventismo rivoluzionario ne  i manifestazione ufficiale dellinterventismo della Rygier Li lettera di adesione alle tesi di Ambris, che ella pn 20 agosto, allindomani della discussa conferenza milanese del dirige i i i i i in Volont del 19 2 Basti, al riguardo, ci che della Rygier preti slo sini settembre 1914: Io trovo in te solo un merito: que  i i al tuo dnerottiio doccasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli per morbosit di i i; inti i spirito. NOILIA . sentimenti; per intima debolezza di spiri G i RG 27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su vela di pria i i impatie anarchiche, eri San Leo di Romagna a motivo delle sue simp: T i Ma i imilitari  inistra (battaglia che egli stesso avi battaglia antimilitarista dellestrema sinis negre i ie di l carcere, regolarmente pubblicat limentare con una lunga serie di lettere dal ere, ) d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto Masetti, era sa DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana rossa. Congedato il no A vs ci de i del sovversivismo; il che pu era stato accolto come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi compagni allorch egli, al   della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec T di A E i i  tari garibaldini (a ti dove fin per arruolarsi fra i voloni I prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i *arti i l'i LAvvenire Anarchico, 8 g 6 lempio v. larticolo Moroni l'ingrato, i Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol. III, ad Oltre i Iniziati i  ropria penna a 28 Oltre che allorgano nazionale del PRI, L Iniziativa, la Rygier 9 la pi sa pci molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente La Libert (Ravenna), Repubblicano (Roma) e Il Lucifero (Ancona). sindacalista Ma la Rygier fu anche i ratrice del Manifesto yg spirat le anife degli anarchici Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3 gli di anifesto ne quale egli VI orma di programma, le manif riprende a, ordinandole in fi d prog! 8 Si 5) = 1 gia espresse nelle su ue lettere a Vo lont ppello, steso 1 tesi gi espresse nell ed Vol ); La Il t 120 sette re e diffuso alla fine de (ese, critto da alcuni noti e meno ne del mese, era sottosi ettembre e diff Ila f I tt tto d. 1 noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I 1 ns d t tal ; sinda alisti, socialisti dissidenti e repubblicani, e non fu un caso ch Ve pressi In e vedesse la luce essoch contemporanea a un manifesto Intransigentemente neutralista diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la nascita (; C lavi Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu ista) del primo Fascio rivoluzionario d azione internazionalista. el testo di Gigli, accanto a Immagini e richiami della simbologia libertaria, SI trovavano, confusi in un unico disegno, concetti apertamente democratici e mazziniani (noi riteniamo che | Internazionalismo sar possibile solo q o nazioni saranno libere, P' ich l dove odio divide lIrredento uando le na: i, po l di lodio divid I eden dallo, ressore, ogni altro problema economico e politico no! pu trovare ppi p! P' liti n ti SO uzione), romantiche visioni camicie rosse (la ri Li I,  per mi isioni di camici (l I neutralit. 088 P' utti solamente un a 0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni lett gO. ional p legazione tutti solamente ui bbie iazionale; essa  la recisa neg dello inter nazionalismo mater iato di solidariet e sacrificio, che ci ha spinto sui campi della Francia, della Grecia, del Messico, della Serbia) e roboanti ! p proclam di stampo roto-mussoliniano (I Inerzia  vigliaccheria e la neutralit, che ancora disconosce la volont po olare,  trad mento. E? lora ) pop:, ti 1 I 29  n E, n kia pon fn LInternazionale, Edizione Nazionale [dora innanzi Ed.Naz.], 12 4. La lettera si trova riprodotta anche in MARIA R soglia t i i YG ia di Lana nostra patria, Roma, Libreria Politica, 1915. pp. 19-24 drain questo scopo ella si era segretamente in  n Gigli pi di cre. ils ver ola pae i contrata con Gigli pi di una volta. Cfr. ACS, pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.25 e firme apposte al manifesto erano i: e igli i 1 ap al m quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi, Gino Tenerani, ta elit Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo Piermattei, Len } I asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle 63 ai DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici caiser, Inizi , 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i sui intervenzionisti a suo tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA appello della Direzione socialista, opera prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato dallAvanti! del 22 settembre 1914 i rivolazionario, ite pp, 250251, colato FELICE, Miasolini:1 L'invito finale, rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la loro Francia, la Francia della libert e della rivoluzione**. Gigli, in verit, avrebbe voluto inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane Irredente, ma ne fu dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il momento per unesplicita dichiarazione in senso nazionale. In calce al manifesto degli anarchici interventisti figurava anche la firma di Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca. Se i casi di Gioda, di Gigli, di Rygier e di altri che ne sarebbero seguiti destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione alla guerra di Libia. Un giudizio di Berneri del 1924 (mentre volgeva al termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in poche parole il comune sentire degli anarchici italiani e si pu dire riassuma buona parte della successiva riflessione storiografica sul personaggio. Massimo Rocca scriveva Berneri non  mai stato anarchico. Fu individualista; il che non  la stessa cosa. Comunque si voglia vedere,  per indiscutibile che fu nel clima culturale e politico dellanarchismo V Per il testo completo del manifesto del 20 settembre v. RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp. 27-29. Il manifesto, intitolato Per la Francia e per la libert, fu pubblicato a stralci su Il Resto del Carlino del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari a favore della guerra), su Il Corriere della Sera del 23 e su LIniziativa del 26. Eloquente il commento del quotidiano liberale bolognese: Oggi gli anarchici ed i rivoluzionari italiani si levano in piedi a respingere la neutralit e a richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libert, per dar mano alla Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il soffio della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese, quella dellindividuo e della nazione: la nostra! Per le ripercussioni del documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi guerrafondai, Avanti!, 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di Gigli a Mussolini, pubblicata dallorgano nazionale socialista quattro giorni dopo), e // manifesto dei falliti, Volont, 3 ottobre 1914. Sullintera vicenda v. altres FEDELI. Note su! 19141915. Gli anarchici e la guerra, in Volont, 1950, n. 10, pp. 622-628. 35 Cfr. RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26 36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, La Rivoluzione Liberale, 18 marzo 1924. Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una valutazione di carattere personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di pensiero. A proposito della campagna interventista intrapresa da Rocca, Volont del 5 settembre 1914 lo definiva un anarchico che... non  mai stato dei nostri; e Luigi Molinari, uno dei padri dellanarchismo italiano, in suo intervento su L Avvenire Anarchico del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto a dirsi anarchico, almeno nel senso scientifico della parola. Su Massimo Rocca si veda anche la voce corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si formarono uomini come Massimo Rocca e che questi Icolare si pone come una delle fi i i x i igure pi controverse e a tuttoggi cin definite della storia politica italiana del Novecento. seal so n  fon il 26 ni 1884 da una famiglia di modeste condizioni, operaio tipografo come il compagno Mario Gi i i ; io Gioda, Rocca accostato allanarchismo agli inizi del   ole  lel 900, nel momento in cui, insi prime suggestioni nietzschiane e allinqui IRR  Inquieta poesia di Henrik Ibsen, si TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt mosciuto con lo pseudonimo di M i il fil ueglicicoa i ax Stirner), il filosofo de n x Attratto dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a iaia i 5 apici Rocca si era contraddistinto per unintensa nferenziere, collaborando nel frattem i gi i ttivit d ere, collal po a numerosi giornali o anarcoindividualista, fra i quali Il Grido della Folla di ip ; Pi 1906 al 1911, con lamico Alfredo Consalvi, aveva dato vita PR lata rino del Novatore, rivista improntata a un marcato alismo intellettualistico; esperienza che gli d | istici e gli era valsa lunghe ed acri polemiche con gli ambienti dellanarchismo ufficiale, Agli eccessi  Pics E ; a Gipi ear opera di Max Stimer, L'Unico e le sue propriet, apparve nel P i Torino, a cura del tipografo modenese Ettore Z. i, gi i gruppi anarchici degli Stati Uniti e lo, i i ua FR pera di Max Stirner, una i i i del Geni met 1a d ner, prima introduzione al pensiero  $ ; pali divulgatori delle teorie individualiste i i libertario italiano furono - con i i an eri Nella Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda Sulle fortune e le diverse correnti dellindivi i ellindividualismo anarchico nel nostri DA A  pu Pena piace alla settimana rossa. Per una storia dell Di. Italia (1881-, Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i ici vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg rido della Folla fu il primo giornale a hico italia i Il ( fuvil narchico italiano di schietta int i HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella Giacomelli cad i ovanni Gavilli, cess le pubblicazioni cinque anni pi tardi i i 7 Vai toi PIER. . ardi. T CAS ira din videro la luce in quegli anni, i pi Sposi frico  (Firenze, 5), La Protesta Umana (Mil: 3 1 i ire 1907-1908), Sciarpa Nera (Milano, 1910 veli Gil INIT A |, -) e La Rivolta (Milano, 1910 ueste pubblicazioni ebbero fra i | i assidui i si i 9 i loro pi assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i loda. V a ale a i. nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore oca, 1 protagonisti dellanarcointerventismo. Nel do)  convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virt ' fottla chi paria ; i ; rt della stretta amici Rossoni, fu radiato dallelen i ivi Mir gira gs co dei sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi 40 : . 13 Ra SS anni (poi semplicemente Novatore) usc in tre serie successive: la Lr n Pose A psi ottobre 1906; la seconda dopo che Rocca e Consalvi alia per gli Stati Uniti a New York, dal 15 ottobri i i a i 7 i } e 1910 al 4 de Wperzia di nuovo in Italia (prima a Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al Nel 1907 il giornale anarchico romano La Giovent Libertaria accus MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR polemici, che ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano daltra parte il carattere irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua formazione di autodidatta. Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo Labriola e degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai quali si sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente tripoline'. Con la sua propaganda a favore dellavventura coloniale, il solco che gi lo Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile. Nellestate del 1914, tuttavia, grazie anche allinteressamento di Mario Gioda, aveva tentato di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche speranza, di poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso di Firenze. Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico. Rocca e Consalvi dessersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e allestero per finanziare la rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP, ad indicem. dl Sul Tibicismo di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una conquista rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli, Editrice Partenopea. Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi scritti erano comparsi su Pagine Libere di Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti e su La Lupa, la rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena dincontro fra sindacalisti e nazionalisti (Orano, tra laltro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna dire che Rocca ne aveva seguito con grande interesse lavventura politica, come anche testimoniato dallarticolo. // neo nazionalismo, scritto per il Novatore di New York nel dicembre del 1910, allapertura del congresso nazionalista di Firenze che decret la trasformazione del movimento in Associazione. E notevole aveva scritto Rocca in quelloccasione che nell'Italia democratica del presente, tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini abbastanza coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il nazionalismo in Italia  un fenomeno nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col quale bisogner confrontarsi. Bisogner, se non altro, considerarlo come unonda di sincerit lia, e che non manca dun lato che avvolge gli ultimi residui virili deila borghesia dItal onorevole e grandioso. #? Gioda (un intervento del quale figurava nel programma congressuale) av Gli anarchici di fronte agli altri partiti sovversivi eva accompagnato una nota di raccomandazione alla lettera indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella lettera - che Volont rifiut di pubblicare Rocca aveva auspicato che il congresso potesse servire di spiegazione fra compagni e di mezzo di pacificazione e aveva chiesto desservi ammesso come relatore sul tema Guerra e militarismo, al riguardo assicurando che la sua tesi era meno eterodossa di quanto potesse sembrare  di essere in grado di spiegarsi fraternamente su Tripoli. Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti Nelli 7 f 4 7 ellintroduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come La programmatico del suo modo di interpretare lanarchismo, aveva ritto: i Dal momento chio persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi dellaltrui divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che lanarchismo quale energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le affermazione ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed m Bi funzione da compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo ve ne sia molto oggid fuori degli anarchici ufficiali nelle minoranze ch formano la parte pi viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i A ; questa visione concettuale, estetizzante e fortemente elitaria dell anarchismo, inteso pi come uno stato danimo che come un corpo certo di dottrine e di programmi, Rocca rest in definitiva sempre fedele, pur nel mutare delle esperienze politiche e personali, e ad essa si sarebbe fiheli richiamato, negli anni della sua adesione al fascismo, a motivare le posizioni assunte allinti del ito! interno del partito". E  n 5  RSA ott ; regni; contro l'anarchia. Studio critico-documentario, Pistoia, Il Punto focale della riflessione di Rocca era la contrapposizione fra la rigidit formale dell anarchia, intesa come dottrina politico-filosofica, e lenergia liberatoria dellanarchism Se lanarchia rappresentava il mito elevato a dogma, una concezione trascendente [ n superiore e padrona anche di chi vi crede; lanarchismo era invece pi propriamente 104 disposizione dello spirito leterna sete di progresso, di libert, di novit, incarnantesi nell: rivolta, nel senso pi puro ed etico del termine, al punto che tutte le rivolte passate  future, tutti glideali nel loro senso dinamico potevano considerarsi sue mai istazioni AI libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo Labriola (a riprova dei legami esistenti ia individualista torinese e il mondo del sindacalismo rivoluzionario), che Gol da  ci Sia ammirazione per lautore, definendolo uno degli scrittori politici pi Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei suoi articoli revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: Tu, Gioda, sei tra i pochi che mi furono compagni di spirito anche prima che il fascismo sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali per disprezzo delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della nazione, ma che affermavano ereticamente la realt della patria fra le masse sovversive di allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o in nuce, moltissimo di ci che  oggi il fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cio [...] il riconoscimento del sentimento nazionale quale dato integratore dellindividuo e quale spinta indispensabile al progres umano; l'immortalit dell stato e del diritto, pur attraverso le sue trasbordo fol organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate dalla societ su se stess concretandone la coscienza e selezionando, con la resistenza del potere politico, le Pisi veramente rivoluzionarie e rinnovatrici dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libert Non mancher di stupire chi conosce qual sia la concezione politica per la quale io milito scriveva Rocca allesordio della sua campagna interventista - sebbene sia coerentissimo con ci che penso da dieci anni e che da tre anni sostengo apertamente, nella previsione dellattuale catastrofe. Fulero della nuova impresa polemica di Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita fra il settembre e lottobre in numerosi altri interventi, della natura sostanzialmente anarchica della lotta contro il militarismo e lespansionismo desco in difesa dei popoli latini, dal momento che Ia latinit aveva sempre rappresentato la libert, il progresso e la rivoluzione*. Alla maggioranza degli anarchici rimproverava perci di. aver tradito leredit e il messaggio ideale del vero anarchismo, quello che combatteva Mazzini per completarlo, pi che per negarlo'*, e di essersi messi al giogo dellopportunismo ministerialista e del complice teutonismo dei socialisti ufficiali. interiore per chi  capace di foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimit della coazione su chi non si eleva a tanto ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce, TANCREDI, // dovere della guerra, LIniziativa, 29 agosto 1914. Questo e altri scritti del periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o rimaneggiata) nel volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia, Milano, Il Rinascimento, Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che commuove, LIniziativa, Gli eterni vinti, Il Resto del Carlino, 3 ottobre 1914, e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione internazionale, Il Lavoro, TANCREDI, // dovere della guerra, cit. 4" Ip., Gli anarchici del kaiser, LIniziativa, L'organo del PRI pubblic la seconda parte di quest'articolo il 26 settembre. La controversia che ne segu coinvolse soprattutto Ottorino Manni, indicato da Rocca fra gli anarchici favorevoli alla guerra contro gli Imperi Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni Canapa), per via di due suoi interventi apparsi su Il Libertario del 27 agosto e del 10 settembre (Gli eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente ammesso di trovare realistiche e pi positiviste, rispetto alle astratte prese di posizione dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di Oberdan Gigli a proposito delleventualit della difesa in armi del territorio nazionale, respinse per ogni addebito Interventista, dapprima con un nuovo articolo su Il Libertario del 24 settembre (La guerra no!), poi con una lettera di poco successiva a Volont. A parte il caso di Manni, bisogna dire che gli esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granch probanti. Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto DAmbra) era un nome noto dellanarchismo italiano, altrettanto non si poteva dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della provincia di Arezzo, esercita il mestiere di tipografo - aveva informato la Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non averne fino ad allora segnalato il caso, perch modestissimo gregario della setta anarchica. ACS, CPC, Busta 2729 [Latini Lato]. 4 Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito Socialista si veda la sua prefazione al volume di LASKINE, / socialisti del kaiser, Milano, Sonzogno,Lardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda che egli (come del resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse indurre la base del movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale neutralista, contribu a esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le provocazioni e le intemperanze, da una parte e dallaltra. La sera del 4 ottobre Rocca e Maria Rygier sincontrarono alla Societ Operaia di Bologna per una conferenza sulla Morale della guerra, ma la decisione non si rivel molto felice, vuoi per la sede prescelta il pubblico essendo costituito per lo pi da operai anarchici e socialisti vuoi per il momento poco propizio, e lannunciata discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra cui il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio. Si era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand in Italia allo scopo di sensibilizzare lopinione pubblica alla causa del proprio paese in occasione del quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si affermava che i repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici pi colti e intelligenti erano per la guerra all'Austria. Il Fascio Libertario bolognese e il gruppo del foglio antimilitarista Rompete le file! avevano reagito con sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli anarchici tra i fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata dallAvanti! il 3 ottobre). ! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una sedia in testa, Il Secolo, 5 ottobre 1914, e Violenze e tumulti di socialisti ad un comizio di anarchici, Il Corriere della Sera, 6 ottobre 1914. Sul periodo anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra lazione politica di Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. WHITAKER, Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in Italia Contemporanea. Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di Leandro Arpinati sono mediate dal vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e il fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia7), unopera agiografica, scritta nel pieno delle fortune politiche dellArpinati fascista, alla quale occorre guardare con molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio subito dopo la pubblicazione (sembra per volont dello stesso Arpinati) e mai pi ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da SUSMEL (Arpinati, in La Domenica del Corriere, 1967, n. 36 pp. 16-20) a IRACI (Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato a Civitella di Romagna, in provincia di Forl, Arpinati si era trasferito a Torino giovanissimo, lavorando prima come sguattero dalbergo, poi come operaio alla fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era stato uno dei maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il giovane Arpinati si era avvicinato allanarchismo intorno al 1910, restando affascinato dalle teorie degli individualisti e divenendo, a quanto pare, grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo anche il primo contatto di Arpinati con Mussolini, allepoca direttore de La Lotta di Classe, chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad Andrea Costa. Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati, avrebbero inscenato una dura contestazione, suscitando il risentimento di Mussolini (ma non v' traccia di questepisodio nelle pagine dellorgano socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra PPANTPP 777 VIP PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Societ Operaia bolognese non Fine Rei effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar campo, n gli impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n proselitismo, pur in un clima di sempre maggior tensione. % si g D i dopo lepisodio di Bologna e un momento prima di lasciare sn ia o ; Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che era da an > rapporti con Mussolini e lAvanti!, ottenne anzi il suo per pi yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su ua Carlino che forzarono il futuro duce del fascismo ad accelerare i temp: del suo strappo interventista". citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in seria Fata sunt  E) ri . . A icizi  ipazione di Arpinati alla vita politica amicizia. Quel che  certo  che la partecipazi T a Fi i ico itali i ionale collaborazione con un giorn: ino, anarchico italiano, fatta eccezione per un'occasi x DE dpr arti i i Socialismo e anarchismo (L Alleanz ; che aveva fruttato larticolo in due parti 4 % nt gent i he rilevante, e che solo lintervei), era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A it di i notare. Secondo la figlia, autrice anc! futuro gerarca lopportunit di farsi noi rice | na iscutibi i i lo prese parte attivissima ; i iscutibile biografia, lanarchico romagno i ima 4 a Fira dopo quello famoso della Societ Operaia, in papea RE incidenti, al punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda all'oscuro la madre delle sue disavventure (Oo Cari erinen eigen i r ittari ttera a firma  io padre, Roma, Il Sagittario, 1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che si proclama al fianco di Mussolini per la A i verso sa rr, i i Italia del 25 novembre . Impiegato, comparve in effetti su Il Popolo d Ita i  | pi aopinti fu riformato dal servizio militare perch figlio maggiore di madre vedova, rese parte alla guerra. i iris fi ida A I} GI i 6 ottobre, la testa ancora fasciata per le ferite riportate due gio! se i gii artecip ad una conferenza, indetta dall Unione Repubblicana bolognese Ure SR ochist e macchinisti, con una relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. LInizi: n ail il i izioni Librarie Italiane, 1954), Rocca S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano, Edizioni Librarie  anni cbr scrisse di aver conosciuto Mussolini nellestate del 191 pra a pa dr n del fi i  i lini direttore dellAvanti!, Rocc: i  del futuro duce. Divenuto Musso!  V HAN gie zi ialista (firmandosi con gli pseudonimi a collaborazione con lorgano social 1 i i juidi il larticolo 4/ rimorchio dei ciechi., ve Guidi), conclusasi 18 agosto 1914 con colo i c Sligo soin isagli i P in Dieci anni di nazionalismo di ui 2g ( avvisaglia ricordava lautore in n eta A is la censura di Mussolini, allora fe; t d'interventismo, non aveva passato la cei h IR M Si i articoli // direttore dellAvanti! smascherato. 9 i Si tratta degli articoli /  ato. U xa aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini e Libero patata ; ed del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, Il Resto del Carlino, 7 e sd Ai abissi . n,, o 9 s questa vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss.,  Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, I casi fin qui considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del famoso pubblicista Roberto DAngi) 5 sono sicuramente i pi noti ed emblematici, ma lirrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli anarchici tutti risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco, suscit anche nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che, se non sfociarono tutti in atteggiamenti positivi di sostegno allintervento, fermandosi a volte al limite dell eresia, o non andando oltre un generico - e del resto largamente condiviso - sentimento di simpatia per la causa dellIntesa, testimoniavano di unincertezza diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata lasprezza della prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza di molti. Cos, via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava la situazione politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei quali, allora semplici gregari - come Arpinati e un altro giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato? -, si sarebbero fatti le ossa Angi, nato a Foggia, era stato redattore de Il Libertario. La sua attivit si era dispiegata per la maggior parte allestero: in Egitto, dove aveva soggiornato per quattro anni, dal 1902 al 1906, contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e diretti (LOperaio e Lux), a rinsaldare la gi fertile comunit anarchica italo-egiziana; e a Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nellaprile del 1906 e dove aveva dato vita al foglio La Giustizia. A differenza di Rocca e degli altri esponenti di punta dellanarcointerventismo, DAngi non ebbe un ruolo determinante nella propaganda per lintervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della guerra contro gli Imperi Centrali destarono egualmente sconcerto. Nel dopoguerra - come vedremo -Angi avrebbe rivendicato con pervicacia la scelta interventista, tentando anche, senza successo, di raccogliere i superstiti dellanarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [DAngi Roberto]. Sulla figura e lopera di Roberto DAngi v. altres BETTINI, op. cit., ad indicem. Il percorso politico di Mazzucato era stato sotto molti aspetti simile a quello di Leandro Arpinati. Nato a Forl nel 1887, il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano appena diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato dapprima lavoro nellufficio pubblicitario del giornale socialista Il Tempo, poi, come tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si stampava lanarchico Il Grido della Folla. Risalivano dunque a quel periodo i primi contatti di Mazzucato con lanarchismo, testimoniati dalla sua collaborazione ai fogli libertari milanesi, La Protesta Umana e LOperaio. Nel gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto per aver preso parte a una manifestazione commemorativa della domenica di sangue in Russia. Tre anni pi tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di reclusione per aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910 aveva assistito come osservatore al congresso milanese del PSI, durante il quale - come sembra - conobbe il conterraneo Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per lorgano dellAssociazione fra gli Arditi dItalia, Mazzucato avrebbe rievocato quellepisodio con queste parole: Lo ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910, quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferz tutto un sistema di obbrobrio, di patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta intellettuale del Partito Socialista. Fu una rivelazione MAZZUCATO, Governo di pigmei, L Ardito, proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal fascino e dalle ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini, diversi per indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe riservato opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia interventista, nella quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano Attilio Paolinelli, di Grottaferrata?, e il lodigiano Edoardo Malusardi, entrambi firmatari del manifesto del 20 settembre. Lo stuccatore Edoardo Malusardi, che allepoca dei fatti aveva appena venticinque anni (era nato il 30 agosto 1889), era poco conosciuto negli ambienti anarchici nazionali. La sua esperienza di maggior rilievo era stata la collaborazione con il foglio bolognese LAgitatore, per il quale aveva curato una rubrica di corrispondenze da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi Turbolente e Odroade, e rivelando, gi allora, una naturale propensione per la polemica giornalistica. Attivo nella propaganda spicciola, specie in ambito sindacale, e noto alle autorit di Pubblica Sicurezza per lirruenza dei comportamenti, il contributo di Malusardi alla vita politica del movimento libertario era stato comunque limitato (sembra anzi che molti compagni lo tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola uscita pubblica di una certa importanza risaliva ad un comizio pro scioperanti di Piombino e Isola D'Elba, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il quale aveva avuto il compito dintrodurre loratore principale, che nelloccasione era stato Massimo Rocca. ; i Bench influenzato dalle teorie dei sindacalisti rivoluzionari, lanarchismo di Malusardi appariva intensamente venato dindividualismo. Lanarchia -). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato segu dunque Mussolini nell'avventura interventista e si arruol volontario, combattendo negli arditi. Nel opoguerra wi rese protagonista nelle file del fascismo. Cfr. ACS, CPC, Busta [Mazzucato], e MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista, MRO EEgIeTE 1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato A si n; i rappresentazione significativa non solo ne av politico dellautore, ma anche del cl >) a il primo movimento fascista).   Matino iaia db nel 1882. Approdato allanarchismo dopo travagliate esperienze personali (nel 1898 era stato condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a la matrigna), fu uno dei grandi protagonisti dellanarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi Paolinelli Attilio]. 7 liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al luglio E nta stato uno dei pi importanti periodici anarchici italiani, potendo contare sul contri uto di alcuni tra i nomi pi rappresentativi dellanarchismo, da Luigi Fabbri a Domenico Li da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre che al settimanale bolognese, Malusari i aveva occasionalmente collaborato a Il Grido della Folla, a LAvvenire Anarchico e alla sindacalista L'Internazionale, sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana. Cfr, ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi ai tempi della sua collaborazione a LAgitatore -  un sublime Ideale di redenzione proletaria, avente per seguaci tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli nazioni e per compito quello di combattere ogni tirannia. Noi per aveva concluso Malusardi non ci illudiamo, lo sappiamo che la realizzazione di questIdeale  molto lontana, ed ecco perci che, basandoci sulla realt, bench siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli atti di violenza diretti contro lautorit, le alte personalit e lordine costituito, poich fintantoch voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e fintantoch vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i quali, facendo getto della propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti per vendicare la propria classe! La realt opposta alla dottrina, la violenza come forza sovvertitrice e pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la figura del ribelle, l'individuo eroicamente consapevole, erano motivi ricorrenti nella simbologia e nella fraseologia dellindividualismo anarchico e gi contenevano, in potenza, il germe dellanarcointerventismo. Nel caso specifico di Edoardo Malusardi, si pu affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo profondamente. lintero percorso politico. i Nella propaganda per lintervento Malusardi manifest unancor pi spiccata vis polemica e una notevole intraprendenza organizzativa rendendosi sin dallinizio protagonista di un vivace dibattito, nientemeno che con Luigi Molinari?. La contesa sollevata dal giovane anarchico lombardo. che investiva proprio la consistenza e la misura delladesione anarchica alle tesi interventiste, fin per coinvolgere il direttore de Il Libertario, Pasquale Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato alcuni articoli filo intesisti apparsi sul giornale spezzino (uno dei pi diffusi e autorevoli dellanarchismo italiano) come segno dellorientamento tuttaltro che univoco degli anarchici in merito alla guerra europea. Binazzi fu costretto a replicare che il condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti dagli aggressori austro- TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al direttore del giornale Il Cittadino di sal LAgitatore, La prima sortita interventista di Malusardi apparve su LIniziativa del 12 settembre 1914 (i articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dellorgano nazionale repubblicano, Malusardi si scagli contro Luigi Molinari, il quale, sull Avanti! del 25 settembre, aveva definito bugiarda ed interessata lopinione, diffusa soprattutto negli ambienti borghesi e democratici, che gli anarchici italiani fossero per lo pi favorevoli all intervento. La polemica fra i due si trascin per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto Malusardi tre anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta a Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi]. tedeschi contro i serbi, i belgi e i francesi? era cosa assai diversa dal far attiva propaganda per lintervento, con ci riaffermando lindirizzo indiscutibilmente anarchico del suo giornale. In verit, la condotta de Il Libertario, improntata, rispetto a quella di Volont e de L'Avvenire Anarchico, a una maggiore elasticit, costituiva di per s la spia di un non trascurabile disagio. Non si pu negare, infatti, che il foglio di Binazzi che, come si  visto, aveva pubblicato il primo articolo revisionista di Maria Rygier concedesse ampio spazio ad enunciati e proposte che, agli occhi dellortodossia anarchica, dovevano apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini, di Baldassarre e del socialista-anarchico Francia (collaboratori di lunga data del giornale e figure non marginali dellanarchismo italiano) ci, scritti ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto violento per 1 Austria e la Germania, non si esitava a parlare di nuove orde di Attila che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civilt occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal pangermanesimo delirante, negatore violento delle razze e del genio latini; di Francesco Giuseppe e Guglielmo II come di due semi umani [...] avvinazzati, due bruti appestati di grandezza imperialista e di delirio militare; e si evocava il tragico lievito rosso della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche tirannie, la palingenesi rivoluzionaria. Il fatto che, col passare del tempo, queste posizioni si andassero mitigando*  che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza con BINAZZI, Non equivochiamo, Il Libertario Tanini, in particolare, in virt della sua costante attivit politica e propagandistica  nonostante la giovane et (era del 1889), godeva di molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per sottrarsi alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una rubrica per Il Libertario), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa. Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].  le citazioni sono tratte, nellordine, da: TANINI, La guerra dei titani, Il Libertario, 20 agosto 1914, e La triplice alleanza  morta per il bene del mondo,BALDASSARRE, /mperialismo barbaro, Ivi; FRANCIA, l.'apocalisse storica, Ivi.  Forse per non dar adito ad altre divisioni, Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono che la loro manifesta simpatia per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il desiderio di vedere lItalia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in pi di una eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini singegn anche a mostrare la via per una soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una citt libera e del Trentino una provincia indipendente (si vedano, per quanto riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero pacifista, La fine del teutonismo e Il nostro ideale pacifista, Il Libertario; e, per quel che attiene a Baldassarre, l'articolo / tocchi dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente del tutto contrario al coinvolgimento degli anarchici nel nascente movimento interventista rivoluzionario, non toglie che il suo giornale, si consideri o no un segno di discutibile larghezza, rappresent, almeno sino alla fine del 1914, una tribuna affatto secondaria di confronto, anche estremo, sui temi della guerra. Fondamenti ideologici e riferimenti politici dellinterventismo anarchico Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come si  gi pi volte accennato - leredit dellindividualismo. Poich lindividualismo fu fenomeno complesso e variegato,  indispensabile cercare di definire i contorni di questa comune matrice dellinterventismo anarchico e, pi in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti. A tale proposito, considerata la sua influenza,  il caso di soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Massimo Rocca, per il quale, nonostante liniziale infatuazione per Stirner, lindividualismo non sidentificava - e non si era mai del tutto identificato - con lo stirnerismo, quanto meno nella sua accezione pi diffusa, velleitaria e amoralistica. Alla volgarizzazione di Stirner e alle sue conseguenti degenerazioni metafisiche (di cui egli imputava la responsabilit a giornali come Il Grido della Folla e che non riteneva meno dannose per lanarchismo dellutopia comunista kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e sentimentale dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato e che costituir il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici. AI contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Francia (che era nato nel 1869 a Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file dellestrema sinistra pugliese) non torn affatto sui propri passi. Smessa la collaborazione con Il Libertario, si schier senza esitazioni per lintervento e si arruol volontario nei reparti garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel dopoguerra ader al movimento fascista e prese parte, in rappresentanza dei Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale fascista (cfr. Il Popolo dItalia, 11 ottobre 1919). Rimasto fedele allidea socialista- anarchica, si distacc dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura di destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al regime (anche in virt di un carattere eccentrico e incline alla misantropia, che lo spingeva allisolamento) Francia visse il resto della sua vita sotto la stretta sorveglianza dellautorit di Pubblica Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta 2155 [Francia]. CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del secolo, cit., p.37. Sullatteggiamento de Il Libertario riguardo alla guerra europea v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra mondiale, in Movimento operaio e socialista in Liguria, Egli aveva scritto di Stirner ai tempi del NOVATORE non predica il delitto pel delitto, la forza bruta per la forza bruta, ma le invoca perch nella Germania profondamente statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua potenza, il suo sacrilegio, il suo egoismo hanno unintenzione, un significato, una portata non Individuale, ma sociale [...]. Lindividuo di Stirner non  dunque lo scialbo calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei quattro soldi per truffare. E luomo che si erge di fronte al sole e al mondo, pieno di tutta lumanit che il passato gli ha trasmesso, ma innalzato a questa base di ereditariet, comune a tutti i suoi simili, dalla gigantesca statura della sua personalit individuale Rocca sottolineava pertanto la grandezza passionale della filosofia di Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e rivoluzionaria nellesaltazione del sentimento e dellistinto. Ammettere questo significava riconoscere, accanto allindividuo, ogni entit collettiva, dalla famiglia, alla classe, alla nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale; significava, in una parola, negare lastratto a favore del reale. Muovendo da queste premesse, Rocca era approdato a quello che definiva liberismo rivoluzionario o novatorismo, che era poi lindividualismo anarchico ampliato e confrontato con la realt. Noi sono ancora sue parole affermiamo altamente limportanza dellindividuo singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma comprendiamo pure le folle che rovesciano impetuose un ostacolo al progresso dietro la spinta di una minoranza rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si materia soggettivamente dellavversit sorda verso la classe opprimente; comprendiamo la nazione che si forma per lunga eredit storica e si afferma contro lo straniero o contro lo stato suo Interno che la sfrutta e la trascina alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le rivolte; comprendiamo tutte le volont di affermazione e di dominio e le esaltiamo quando sono sorrette da una fede sincera dentusiasmo che le innalza al di sopra del meschino determinismo quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in nome di un principio confessato e francamente servito sono infinitamente pi nobili e rivoluzionariamente pi fecondi dei Giolitti che inaugurano laccordo delle classi corrompendole nella generale mangiatoia TANCREDI, Liberismo rivoluzionario o individualismo democratico, Novatore, New York, Ivi Ivi, "Ivi, A proposito dellindividualismo di Rocca si veda anche il lungo articolo auto-apologetico, Una difesa postuma (agli ex amici della Vir), in Quand-meme (un numero unico pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel quale Rocca difendeva la propria interpretazione dello stirnerismo dallaccusa di morbosit Solo tenendo presente questo punto di vista  possibile comprendere i presupposti teorici dellinterventismo di segno anarchico-novatoriano (quanto meno nei suoi artefici pi consapevoli, come Gigli) e le ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei suoi protagonisti. Quantunque il novatorismo fosse il tratto saliente dellinterventismo anarchico, pure questultimo non pu non esser considerato nellambito di quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e ideologico che fu linterventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle passioni risorgimentali e dellutopia garibaldina fece da ponte tra le forze dellestrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano, i miti dellazione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo, rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti quanto ai discepoli di Massimo Rocca, Lo stesso individualismo, per la sua carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici propugnatori della guerra e le correnti pi radicali della cultura italiana del tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non trascurabile nella campagna interventista. mossagli dalla rivista fiorentina di Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per l individualismo, Vir). Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo dagli inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dellallora segretario del PRI Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma, Edizioni de LIniziativa, 1916. ? Circa i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel e, in senso pi ampio, lideologia e la prassi politica sindacalista v. FURIOZZI, Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981. Sul nesso tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione alla nascita e allattivit dellUSI, v. anche lintroduzione di Maurizio Antonioli a LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici italiani, Urbino, QuattroVenti, 1992, p. ll ss. A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina Lacerba, fondata lanno precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto esclusivamente politico, dando un appoggio incondizionato alla propaganda per lintervento. Nel quadro di un indirizzo sostanzialmente nazionalista, le pagine di Lacerba non disdegnarono di accogliere posizioni di segno rivoluzionario. Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre, Per la guerra, nel quale lartista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e tesseva lelogio di Herv. Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto CIAMPI, Futuristi e anarchici. Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima guerra mondiale e dintorni, Pistoia, Archivio famiglia Berneri, Le differenti impostazioni ideologiche, cui per sottostava una molteplicit di riferimenti culturali comuni, sintrecciavano dunque nella complessa trama dellinterventismo rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani andarono a costituire uno degli elementi formanti. Guerra e Germinal (ovvero guerra e rivoluzione sociale, guerra come mezzo per labbattimento violento del militarismo e delle strutture politiche ed economiche borghesi), la meta additata da Ottavio Dinale ai sovversivi italiani in unintervista a Il Resto del Carlino, divenne il tema dominante della campagna interventista dei partiti estremi; e il mito della guerra rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice - s'impadron anche dellinterventismo anarchico. Massimo Rocca firm il famoso appello ai lavoratori italiani, lanciato a Milano, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario dazione internazionalista, punto dinizio di un movimento che, di l a pochi mesi, avrebbe messo radici in tutta lItalia centro-settentrionale?. Da quel L'intervista a Dinale (Ottavio Dinale dice guerra e germinal) si trova in Il Resto del Carlino. La biografia politica di Dinale offre un esempio emblematico del clima culturale nel quale prese forma e matur la corrente interventista rivoluzionaria. Inizialmente socialista, organizzatore e agitatore sindacale nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i promotori del sindacalismo rivoluzionario in Italia e fondatore del primo giornale ufficialmente sindacalista, il settimanale La Lotta proletaria. Quattro anni pi tardi aveva Iniziato la pubblicazione prima a Nizza, poi a Milano del periodico La Demolizione, caratterizzato da unimpostazione marcatamente antilegalitaria e da frequenti richiami sia all'individualismo stirneriano, sia al nascente movimento futurista. Interventista, attivo collaboratore del mussoliniano Il Popolo dItalia, nel dopoguerra sostenitore dellimpresa fiumana e candidato repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicin infine al fascismo, diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu nominato Prefetto del Regno. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, op. cit., Vol. II, ad nomen,  CIAMPI, op. cit., ad indicem. "3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che da Massimo Rocca, da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo Corridoni, Amilcare De Ambris, Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio Rossi, Sincero Rugarli) fu edito in prima battuta da La Folla del 4 ottobre 1914, quindi, sei giorni dopo, dal primo numero della nuova serie di Pagine Libere (la rivista quindicinale di Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo, Inchiesta sulla guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo Rocca e di Maria Rygier. Sulla nascita, la diffusione e il significato politico dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il classico VIGEZZI, L'Italia di fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi, 1966, p. 860 ss., e FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di questultimo autore v. altres il breve saggio L 'interventismo rivoluzionario, in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, Infine, per una riflessione sui primi giorni dellinterventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini dellinterventismo rivoluzionario, in Ricerche Storiche, 1981, nn. 2-3, pp. 525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci, collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate dellinterventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre conservato una loro specificit. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con Rocca, la Rygier, Antonio Agresti e Torquato Malagola, pubblic La Sfida, giornale di polemica anarchica, un numero unico che, se testimoniava dellorganicit del manipolo anarcointerventista in grembo al neonato movimento dei Fasci, voleva anche dar prova di una peculiarit ideologica rivendicata con fierezza e destinata, pi tardi, a trovare eco nelle pagine de La Guerra Sociale*. Poco dopo la nascita de Il Popolo dItalia, Paolinelli (che peraltro auspicava per il nuovo giornale di Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dellinterventismo rivoluzionario) scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un certo qual modo, addirittura un precursore Il fiorentino Agresti (1864-1926), incisore, anarchico vicino al sindacalismo rivoluzionario, collaboratore de La Lupa di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi contributi di parte anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perch sono interventista. Risposta allopuscolo La guerra europea e gli anarchici, Roma, LAgave, 1917 (lopuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri, pubblicato a Torino per la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna interventista, come altri suoi compagni, a cominciare dalla Rygier, Agresti fin per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo proposito, una sua lettera pubblicata da La Libert, organo del PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur mostrando simpatia per il fascismo, si ritir sostanzialmente dalla vita politica. Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma, proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi si  allontanato dai compagni di fede e non professa pi principi anarchici. E un valoroso pubblicista, redattore de La Tribuna, uomo d'ordine. ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio]. 7 Il sarto Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876. Come Agresti, anchegli nel dopoguerra si allontan dallimpegno politico, rompendo i ponti con lanarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato]. 7 La Sfida si apriva con una dichiarazione programmatica a .firma gli anarchici indipendenti dItalia - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI, Comunismo e individualismo. Ideologie metafisiche e realt anarchiche; TANCREDI, Dellanarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER, Per la civilt contro la barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), pi alcuni estratti da Lectres  un francais sur la crise actuelle, un testo di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano le simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell Ottantanove), comunemente citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni filo-intesiste. Per le reazioni in campo anarchico ufficiale alliniziativa di Paolinelli v. Accettando La Sfida. Ritratto del grafomane pseudo-anarchico Libero Tancredi, L Avvenire Anarchico, 12 novembre 1914, e BERTONI, Agli sfidatori, Volont, 28 novembre 1914. ? Caro Mussolini scriveva Paolinelli noi ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un foglio La Sfida, del quale ti mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma, come vedi, precorre il tuo bel quotidiano (Il Popolo dItalia, 19 novembre 1914). Inesorabilmente, pi gli schieramenti si andavano definendo e pi laccanimento col quale il gruppo degli anarchici interventisti reclamava il diritto alla qualifica anarchica doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del primo novembre, al Teatro Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un comizio dei Fasci, cui presero parte i redattori de La Sfida ed altri anarchici dissidenti. A proposito di questi ultimi commentava quasi divertito un quotidiano liberale occorre notare che essi sono invasati dallidea che la guerra si debba fare; il che desta alquanta meraviglia e stupore. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali non si fecero attendere, mentre gi da tempo, nel fluire ininterrotto delle questioni di principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si trovava di fronte alla spinosa e assai pi concreta questione dei volontari. Anarchici o garibaldini? ] Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai patrioti del Risorgimento la nobilt dellispirazione e alla loro opera disinteressata il merito di aver educato le future schiere rivoluzionarie allo spirito di sacrificio, non nutriva per gran simpatia per il garibaldinismo. Nella definizione del celebre capo anarchico, che pure da giovane, come quasi tutti i protagonisti del primo internazionalismo italiano, aveva pagato il suo tributo di affetti al mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la malattia infantile dellestrema sinistra italiana, retaggio di unepoca lontana, sentimento generoso ma sterile, tanto pi pernicioso in quanto distoglieva i partiti popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la rivoluzione sociale. Certo  che, come il patrimonio storico e ideale del pensiero democratico risorgimentale continu ad esercitare un forte ascendente anche sui pi 0 Un comizio al Testaccio in favore della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati, Il Giornale dItalia, 2 novembre 1914. Alla fine di novembre si costitu anche a Roma un Fascio rivoluzionario dazione Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli e Torquato Malagola due dei pi attivi propugnatori (cfr. LInternazionale, Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i ' Al riguardo v. Soprattutto TONIETTI, Alienazione mentale o mistificazione, L'Avvenire Anarchico, 5 novembre 1914, e la lettera di protesta del gruppo libertario romano Martiri di Chicago, pubblicata dall Avanti! del 7 novembre. "? Per l'opinione di Malatesta su Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne veda la prefazione a NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il Risveglio, accesi internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, cos il garibaldinismo costitu, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima guerra mondiale, lanima avventurosa, romantica e un po ingenua, del sovversivismo italiano. Se ci non sorprende affatto per i repubblicani, i quali, nonostante la sempre maggior attenzione posta alle questioni di politica sociale, non avevano mai abbandonato le idealit mazziniane, non deve del pari sorprendere per quel che riguarda il Partito Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle pi vicine al socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli anarchici indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa, anche in seno al movimento libertario sopravviveva, qua e l, un residuo di mentalit risorgimentale, in cui - com stato scritto - libert dei singoli e libert dei popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui la pianta dellinternazionalismo affondava le sue radici in un terreno impregnato pi del volontarismo mazziniano che del determinismo del socialismo scientifico. Lesempio pi noto e certamente pi suggestivo di questo modo di concepire lanarchismo  senz'altro quello di Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo daltri tempi, di quellepoca di mezzo che aveva visto germogliare lidea internazionalista dal tronco del mazzinianesimo, sotto il pungolo della predicazione di Bakunin'. Quel medesimo clima ideale che aveva generato uomini come il romagnolo PCeccarelli, compagno di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti Su LInternazionale del 5 dicembre 1914, per la rubrica Lettere dalla Francia in guerra - inaugurata il 21 novembre comparve un'intervista di Alceste De Ambris ad Amilcare Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo dellinterventismo rivoluzionario (fu ripresa anche da Il Popolo dItalia), Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo- intesismo. Commentando le dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Boldrini tracci un acuto profilo del vecchio rivoluzionario. Cipriani scrisse Boldrini  luomo che sintetizza lavvenire, ma con sistemi e con emotivit passate. Non siamo feticisti: Amilcare Cipriani  dominato da quella psicologia da cui furono dominati tutti i grandi uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo doggi, come il suo anarchismo del processo di Roma,  infarcito di repubblicanesimo e la sua rivoluzione sociale  la rivoluzione dellindipendenza italiana, che, con lidealit umana di Mazzini, fu prima del 70 come oggi, per gli uomini dazione repubblicana, la conquista per l'indipendenza e per la libert di tutti i popoli oppressi, al di fuori dogni preconcetto, sotto per qualunque forma di stato (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di De Ambris a Cipriani, L Avvenire Anarchico ibdiaibbici. Matese (di cui era stato lideologo militare), un anarchico che aveva vestito la camicia rossa dei Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione. Ma qui  pi che altro importante ricordare come giovani volontari anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle origini, non avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897 (e allanarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna, sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio comera nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) , e poi di nuovo, nnon ancora spentasi leco per le agitazioni antimilitariste contro la guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi! Sulla scelta di questi giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva pesato in modo determinante la concezione (tipica, come si  visto, Sulla figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI, 0p. cit., Vol. II, ad nomen. In merito alla sua importanza quale teorico militare dellanarchismo v. PERUTA, Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1973, ad indicem.  Cfr. L Alleanza Libertaria, 27 luglio 1911. Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine di agosto del 1912, i gruppi libertari romani, riuniti in un apposito comitato, avevano addirittura organizzato solenni onoranze funebri. Il funerale dellanarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra gli anarchici e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il racconto che di quellepisodio aveva dato LAgitatore di Bologna  sintmatico del favore e del rispetto con i quali, anche in taluni ambienti dellestrema sinistra libertaria, si guardava al garibaldinismo. Cosa non pu aspettarsi aveva scritto lanonimo articolista de L'Agitatore - il buon pubblico italiano in questo quarto dora di solenne e malefica sbornia di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche l'impossibile. Infatti si piglia qualunque pretesto [...] per inscenare della manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca del nazionalismo da vedova allegra pretende dimpossessarsi dei resti mortali dun nostro eroico compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi commilitoni della leggendaria camicia rossa, per lindipendenza del popolo ellenico oppresso dalla dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...] non  permesso una profanazione e violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano, cittadino del mondo, appartenevano al popolo, perch egli aveva combattuto, si era volontariamente sacrificato, per la libert e l'indipendenza del popolo [ A Zaverda, in Grecia, un idealista, un propugnatore dellidea anarchica, indossa la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e cade colpito da una palla [...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata libert a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane  nato in Italia, a Roma. l'ornando le sue ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi del ricordo terreno di chi per la libert mora, per dimostrare alla Turchia, da loro oggi combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi forma di governo combatt contro di loro (SPARTACO, // caso Troja, LAgitatore). N Le insegne rosso-nere dellanarchia si erano levate anche nella lontana Cuba, per la guerra d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario lanarchico napoletano Oreste Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba nella coscienza dell'estrema sinistra italiana, in Spagna Contemporanea, PROPONI PORNIA dellanarchismo individualista) dellazione anarchica anzitutto come ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa di spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con lepica del garibaldinismo. Pochi giorni dopo linizio della guerra, mentre prendevano corpo i primi confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si preparavano le infuocate polemiche dellautunno, sette giovani italiani, raccolto lappello di Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano imbarcati alla volta della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di Salonicco*. Erano repubblicani? Erano anarchici? comment un foglio repubblicano qualche tempo dopo Non importa sapere: erano italiani e seguivano una tradizione che  gloria dItalia: quella garibaldina*. Con loro, tutti militanti del PRI, si trovava in effetti anche lanarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un veterano della camicia rossa (aveva preso parte come ufficiale alla seconda spedizione garibaldina in Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava, presso Visegrad, il 20 agosto 1914. Era anarchico scrisse di Colizza lorgano romano del PRI il suo ideale muoveva verso l universalit, ma la sua anima ribelle sentiva la protesta contro ogni ingiustizia'. Molti anni dopo il repubblicano Aldo Spallicci, che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe tracciato un breve profilo ideale che merita di esser ricordato perch rivelatore del modo dintendere lanarchismo cui si  pi volte accennato. Il suo dio ricordava Spallicci era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue propriet, aveva fondato il suo credo. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e sul campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda], incitante la giovent italiana a prendere posizione di difesa e, in caso, di offesa, fu diffuso a mezzo stampa dal giornalista ed ex garibaldino Ravasini. Lo si veda in Il Fascio Repubblicano, 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v. MANNUCCI, Volontarismo garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima guerra mondiale, Roma, Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.]. MENEGHETTI, La Serbia bagnata dal sangue italiano, La Libert, 12 settembre 1914.  Gli altri membri della spedizione erano Ugo Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti, Arturo Reali, Vincenzo Bucca, Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la loro fu uniniziativa personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi, infatti, dopo aver inizialmente accarezzato lidea di una spedizione di camicie rosse in Serbia (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata serba a Roma tramite Ravasini), gi il 9 agosto aveva diffuso una nota, pubblicata da Il Fascio Repubblicano, con la quale sconsigliava apertamente linvio di volontari. ! Eroi italiani caduti in Serbia, Il Fascio Repubblicano, 6 settembre 1914. turco che aggrediva la Grecia e, come nellultima sua trincea, contro laustriaco che aggrediva la Serbia? La morte dei volontari italiani aveva offerto il destro agli interventisti rivoluzionari per una delle loro prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i garibaldini caduti in Serbia erano stati commemorati alla Casa del Popolo di Roma, in via Capo dAfrica, su proposta della locale sezione del Partito Repubblicano. A quella celebrazione, che fu la prima manifestazione di un certo rilievo dellinterventismo di sinistra (anticipante, non solo sul piano simbolico e iconografico, ma anche su quello pi strettamente politico, le assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano preso parte anche alcuni anarchici, fra i quali Rygier e Paolinelli. E indice ulteriore delle incertezze e delle ambiguit di quel momento il fatto che la Rygier avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno nettamente contrario alliniziativa repubblicana, e che, ciononostante, ella fosse convinta di poter avere con s la maggior parte del movimento. I miei compagni aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del Popolo saranno ove occorra,  al fianco di quanti soffrono e gemono sotto le percosse di secolari violenze. Lepisodio aveva profondamente turbato lambiente anarchico della capitale, suscitando in particolare la dura reazione di Ceccarelli, personalit di spicco dellanarchismo romano, e la risposta non meno infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in una lettera a Il Giornale dItalia aveva affermato essere ormai la Rygier lontanissima dai suoi trascorsi anarchici e antimilitaristi, Paolinelli aveva replicat, in questo modo: n MANNUCCI " Cfr. Azione Socialista, e Il Fascio Repubblicano. I due soli superstiti della spedizione,Colizza e Reali, erano rientrati in Italia da ochi giorni. Cfr. Il Corriere della Sera, 5 settembre 1914 e Il Lavoro, Il Giornale dItalia del 15 settembre e Il Fascio Repubblicano del 20, nel riportare la cronaca della commemorazione, sostenevano essere presenti anche i gruppi anarchici Arganti, Salucci e Martiri di Chicago. Cfr. Volont, LIniziativa Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario Martiri di Chicago, operante nel rione Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano indicato tra gli aderenti alla commemorazione del 14 settembre " Polemiche fra anarchici, Il Giornale dItalia, 17 settembre 1914. In quanto [...] alla scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro l'atteggiamento di Maria Rygier e nostro di fronte alla realt della guerra, si convinca il Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che possono lanciare i papi veri. Lanarchismo non  disciplinato, interpretato e letto da alcun dittatore, n il Ceccarelli pu arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli anarchici, come se egli fosse lunico depositario della verit e della coerenza? Se la spedizione in Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato clamore e suscitato accesi dibattiti, ancor pi ne sollev quella in Francia, ben pi consistente e organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della camicia rossa (che peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta politica facessero piazza pulita dogni residuo romanticismo. Gi ai primi dagosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a Parigi per discutere sul da farsi, diversi, fra anarchici, sindacalisti, socialisti e repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia, ad agire per loro conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con organizzazioni proprie', Dalla met di settembre, operanti in molte localit del centro nord dei comitati di arruolamento repubblicani, erano cominciate le prime partenze di volontari italiani per la Francia. L'indirizzo allimpresa, tanto sul piano militare quanto su quello politico vero e proprio, era dato dal Partito Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle autorit francesi, mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di Trento e Trieste, nonch a strappare liniziativa dalle mani della diplomazia sabauda, cos accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale allinterno del Paese e la caduta della monarchia'. Allintransigenza dei dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il pi risoluto sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato pi possibilista) ', avrebbe fatto da contraltare la disinvolta malleabilit di Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli di Ricciotti, al quale, non senza perpiessit (legate pi che altro alle ambiguit ideologiche del personaggio), in molti riconoscevano il diritto a comandare la spedizione. Peppino VIGEZZI, A questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della vigilia, cit. 12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralit del PRI nelle vicende descritte v. anche CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la Grande Guerra, in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano, Roma, Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss. Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era dunque nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a Montlimar e a Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly allinizio di novembre), mentre una compagnia Mazzini, di netto orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai primi di settembre e forte di trecento uomini, era stata sciolta gi il 14 ottobre dietro una precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La maggior parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come Massimo Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle Argonne nel dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di Zuccarini, fu tra coloro che pi si adoperarono perch la Legione fosse inviata al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i quali sono certi il veneto Gino Coletti, autore fra laltro di una breve storia della spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!, Pezzi Su tutti questi punti v. VIGEZZI La fine della compagnia Mazzini non signific solamente il tramonto del progetto politico repubblicano, ma fu, in un certo senso, la. dimostrazione dellimpossibilit, per l'interventismo rivoluzionario, di costituire un movimento davvero autonomo, in grado dinfluire in modo determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali molti sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. GioDA, A proposito del battaglione Mazzini, La Folla). 104 |a data del 14 ottobre  sicura. A quel giorno, infatti, risale una nota (sottoscritta anche da Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti a Nizza, preso atto della comunicazione ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA DI Pisa (dora innanzi ADM), Fondo Zuccarini, FI e 3/18. 08 La Legione Italiana lasci il campo di Mailly solo il 17 dicembre, dopo un lungo temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti che dividevano il Comando francese da Peppino Garibaldi e questultimo dalla dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un accordo con gli uomini a lui pi vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) per partire al fonte da soli, qualora lordine di partenza non fosse giunto per la fine dellanno, V. ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari, ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3. +  10 Si tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra assurse a breve fama come segretario dellAssociazione Nazionale fra gli Arditi dItalia) ci permettiamo di rimandare a LUPARINI, Gli anarchici interventisti e il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una lettera a Mussolini, in Nuova Storia Contemporanea, e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a Parigi)  e un certo Perati, descritto proprio da Coletti come anarchico romagnolo profugo della settimana rossa, che perde la vita nello scontro delle Argonne. A tal episodio partecip anche Rocca, che pare vi rimanesse ferito. Di sicuro egli si trovava ricoverato in un ospedale francese quando La Folla pubblica un suo articolo presentandolo quale eminente anarchico disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un ospedale Cfr. Il Resto del Carlino, 16 ottobre 1914 (recante una lettera di Masetti dalla Francia, nella quale lanarchico romagnolo si lamentava del trattamento al quale i volontari italiani erano sottoposti dalle autorit militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione Italiana fosse stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti era nato a Ravenna. Tra i rappresentanti pi in vista dellanarchismo ravennate dinizio secolo, collaboratore assiduo de LAgitatore, amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi, Masetti, gi prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi compagni di fede politica. Allepoca dellaspro conflitto per il possesso delle macchine trebbiatrici, che aveva a lungo insanguinato la Romagna mettendo gli uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori repubblicani (i rossi e i gialli, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur parteggiando per la causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in quella lotta, temendo che ci potesse significare la compromissione dellanarchismo con il riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso con gli anarchici ravennati (alimentato dalle simpatie di Masetti per certo repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre Masetti a dichiarare di non aver pi nulla in comune con loro (LAgitatore 21 agosto 1910). In realt, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a pieno titolo nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana rossa, e accusato di omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di Domenico Zavattero. Terminata lesperienza nella Legione Italiana, pot far ritorno a Ravenna, dove fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario dazione internazionalista (cfr. La Libert, Ravenna). Richiamato alle armi, cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti]. 8 Cfr. Il Popolo dItalia, 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento anarchico, allinterno del quale godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era nato a Faenza. Era espatriato in Francia, da dove non avrebbe pi fatto ritorno e dove, almeno sino allinizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto controllo dalle autorit di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la guerra, progressivamente abbandonato limpegno politico dietro sua esplicita istanza fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre cose, dimostrato buoni sentimenti patriottici. ACS, CPC, Busta [Panzavolta]. Domenico Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le proprie origini, segnalandosi anzi per limpegno antifascista, sia pur modesto. Dalle informazioni della polizia doveva risultare iscritto alla loggia massonica Italia (nota come focolaio di opposizione al regime), sostenitore della Concentrazione antifascista nonch regolarmente abbonato a Giustizia e Libert. Cfr. /bidem, Busta [Pezzi Domenico]. Cfr. LInternazionale, 27 gennaio 1915. !! Cfr. LIniziativa, gravemente ferito. Intorno a questa vicenda si scatenarono in realt le ipotese e le illazioni pi svariate. Lepisodio aveva invero del misterioso, se le stesse autorit - come sembra - non erano in grado di far piena luce sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la Regia Ambasciata dItalia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei combattimenti delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si trovava ricoverato perch ammalato di febbri!!?. Il nuovo caso legato al nome di Massimo Rocca trov eco sulle pagine della stampa anarchica italiana. Ancora a distanza di due mesi dallepisodio, scrivendo sotto pseudonimo (Dyali) per la milanese La Libert, la nota scrittrice e propagandista libertaria Leda Rafanelli neg che Rocca fosse stato ferito in battaglia e afferm trovarsi egli in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo preso parte ad alcuno scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella Croce Rossa. Libero Tancredi ironizza Dyali fino a oggi ha portato alla Francia un aiuto un po discutibile: ha occupato un letto che poteva servire a un ferito di guerra; a un francese!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del diretto interessato, replic Edoardo Malusardi sul foglio anarcointerventista La Guerra Sociale, sostenendo che, se effettivamente Rocca si trovava ricoverato per lacuirsi di una malattia respiratoria che da tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli scontri, restando ferito a una mano. Fu lo stesso Rocca, in una lettera da Parigi, a chiarire definitivamente la questione. Egli racconta - ammalato realmente di angina pectoris, cui in Francia si era aggiunta una stupidissima bronchite, era stato ricoverato per motivi di ll L'articolo, intitolato La rejetta, unaccorata difesa di Maria Rygier, sort come effetto di far nascere nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Ceccarelli serisse fra l'altro: Costoro [gli individualisti] hanno arrecato danno al nostro movimento pi di quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme (CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, La Folla, 31 gennaio 1915). !!? ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. !!! La Libert, Milano. Il La Guerra Sociale. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno pseudonimo (Emme). ] La polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo prima, rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per la guerra. Ad un intervento della Rafanelli sul giornale milanese Il Ribelle, nel quale lautrice aveva riconosciuto la figura morale di Rocca, il babau dei pontificanti dellanarchismo, sostenendo per essersi egli, merc il suo acceso interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento anarchico, Malusardi aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno e quindi a s stesso e a tutti gli altri anarchici interventisti il diritto a dirsi anarchico (cfr. EipoARDO MALUSARDI, Per la verit, LIniziativa). MA A A Ai salute il 9 gennaio. Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva nondimeno preso parte ai primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi stato proposto per il grado di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di poco il suo rientro in Italia, a Milano, il 18 marzo 1915"!9, Durante il soggiorno nella clinica militare di Guyon, Rocca aveva inviato a Il Resto del Carlino una lunga corrispondenza. In essa, prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario garibaldino, era giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di sapore libico (per le quali il garibaldinismo era lespressione pi genuina e pi profonda del rinascente imperialismo italiano e questultimo altro non era che lesuberanza delle forze vitali) !!, ad evocare una sorta di sovversivismo nazionale permanente e, per cos dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta combinazione tra libert del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una nuova Italia. Il fenomeno garibaldino aveva scritto, in questo modo definendo le coordinate del proprio anarco-nazionalismo  un egoismo intimo, perch lungi dimporsi collettivamente dalla nazione allindividuo, trova lorigine e la spinta nellindividuo singolo che sente, da solo, tutta la propria nazione!" E ancora: Io sogno ed io scorgo una nuova Italia [...]; una pi grande e consapevole Italia garibaldina, ove la sintesi squisitamente italiana del pensiero e dellazione, della disciplina e della libert, raggiunga la sua massima espressione di forza nella nazione interamente padrona desuoi destini [...], nellindividuo eternamente libero, pur nei limiti della compresa e voluta, perch necessaria, disciplina Una rettifica di Tancredi, La Guerra Sociale, Fatto rientro a Milano, dove come si affrettava a comunicare la Prefettura era convenientemente vigilato, Rocca riprese subito la sua propaganda interventista. Il 30 marzo era alle scuole comunali di via Circo per una conferenza sul tema Classe e nazione. ACS, CPC, Busta [Rocca]. TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, Il Resto del Carlino. In questo stesso periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi frutt a Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il rapporto fra Rocca e Il'Resto del Carlino si nutriva evidentemente di stima reciproca. Poco tempo prima della pubblicazione di detti articoli, lautorevole quotidiano bolognese aveva favorevolmente recensito lultimo libro di Rocca, Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per Sono parole, quest'ultime, nelle quali si pu ragionevolmente cogliere unanticipazione delle future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in seno al fascismo. Le vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria, destando anche a sinistra unondata di commozione (non si deve dimenticare che sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in grado di risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Cos, un foglio anarchico di Senigallia che si definiva giornale razionalista indirizzava ai volontari italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libert, il saluto di tutti i militi di unIdea', mentre il segretario della Camera del Lavoro di Carrara Alberto Meschi, dindiscusso credo neutralista, pur non approvando le idee guerraiole di parecchi suoi amici e compagni, non si sentiva per questo di ritenerli dei rinnegati e dei venduti, e si augurava comunque la sconfitta degli Imperi Centrali, causa di tanti mali e di tanto danno!?!. Persino Volont, nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione alla guerra, non pot evitare di esprimere simpatia e financo ammirazione sincera per quei sovversivi, pure anarchici, andati a morire sui campi di Francia'. Sono esempi importanti, che attestano di un malessere vero, a riprova che spesso, anche tra gli anarchici pi intransigenti, le posizioni erano ben pi sfumate e problematiche di quanto gi allora si volesse far credere. La conquista di uno spazio politico Quando si esuli dai casi pi noti, la diffusione delle idee e degli argomenti interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di fissarne le responsabilit (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri di originalit e di onest intellettuale (cfr. VALORI, Un volume di Libero Tancredi sulle due guerre della vigilia, Il Resto del Carlino). Il Resto del Carlino occup un posto di primo piano tanto nella direzione della campagna per lintervento, quanto nel dibattito politico del dopoguerra, seguendo con interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale dell'estrema sinistra interventista (a cominciare dal caso Mussolini). A tale riguardo (in merito, soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere politico ed economico a Bologn, Milano, Guanda. Il Solco, 17 gennaio 1915. Il Solco era diretto da Ottorino Manni. !:! MESCHI, Contro la guerra, Il Cavatore, Il Cavatore era lorgano della USI carrarese. 12 Ancora dei volontari e la guerra, Volont quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole dinquadramento e di organizzazione,  difficilmente quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine dei giornali"? e soprattutto dalla rubrica Adesioni de Il Popolo dItalia, che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in atto nel campo libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che aveva iniziato le pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni di quattordici anarchici!, svelando una realt altrimenti destinata alloblio e aprendo uno scorcio su alcune realt locali particolarmente interessanti!. A titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio Lotti, di Fucecchio, al centro di unaccesa polemica con il gruppo libertario di Santa Croce sull Arno (cfr. Ad un emerito girella, L Avvenire Anarchico), e Baronti, di Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si dissoci peraltro dallanarchismo, dichiarandosi di idee nazionaliste (Una lettera significante, L Alfiere). Lindividualista Baronti, un violento con numerosi precedenti penali (e senza alcuna influenza nel partito, secondo quanto scriveva di lui la Questura fiorentina) si fa strada nel fascismo. Siscrisse al Fascio di combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove si era trasferito alla fine della guerra, divenendo capo squadra della milizia.  addirittura chiamato alla segreteria dei sindacati fascisti di Sinalunga e lanno successivo, descritto ormai nelle carte della Pubblica Sicurezza come un puro fascista, venne radiato dal registro dei sovversivi. ACS, CPC, Busta [Baronti]. Nellordine: Pietro Battaglino, anarchico liberista milanese (19 novembre); Bernardo Pieraccini, anarchico individualista di Genova; Navacchio, operaio anarchico individualista di Pisa; Far e Franceschelli anarchici novatori di Milano (24 novembre); Pietro Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli, Amerigo Lodenzetti e Monaci, tutti piombinesi (25 novembre); Ferrari, anarchico non fossilizzato milanese; Facchini, del gruppo anarchico bresciano. Sfortunatamente, con leccezione di Battaglino, la sommaria testimonianza de Il Popolo dItalia  tutto ci che ci  stato tramandato di questi uomini. Battaglino, nato a Novara, di professione venditore ambulante, aveva collaborato a La Protesta Umana. Operoso nel campo dellorganizzazione sindacale aveva dato vita a una lega di miglioramento fra venditori ambulanti, aderente alla Camera del Lavoro di Milano, e nera stato eletto segretario. Nel dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di combattimento milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 407 [Battaglino]. 125 E? il caso di Piombino, citt a forte presenza operaia, dove lo scontro a sinistra tra neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati da Il Popolo dItalia il pi conosciuto era senzaltro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico LAlba dei liberi e si era guadagnato una certa notoriet grazie allintensa partecipazione agli imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra gli iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato dal Fascio nel marzo del 1923 perch iscritto alla massoneria. Cfr. ACS, CPC, Busta [Monaci]. Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso legate fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere; come fece ad esempio lorgano del partito Social Riformista con chiaro intento provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per lintervento) lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che i nomi pi autorevoli dellanarchismo italiano sentissero la necessit dintervenire personalmente nel dibattito. In particolare, prima con una vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei sindacalisti parmensi!, poi con una serie di articoli su Volont, Luigi Fabbri dovette ribadire le motivazioni ideali e politiche dellopposizione anarchica al conflitto in corso, contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti, ai quali di volta in volta si rivolgeva, con allarmata puntigliosit'?8. Il protrarsi ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dellintervento, laccanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!?. E in questo 10 Egli [I Avanti!] scrisse Azione Socialista- ci accusa di malafede perch abbiamo contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in campo il deliberato dellUnione Sindacale. La met pi uno! E questa la norma valutatrice di questi rivoluzionari dellet della pietra! Noi invece, con buona pace dellorgano milanese, crediamo di non commettere un falso annoverando tra i nostri vicini in questo momento i sindacalisti e gli anarchici; quando tali si vogliono considerare quasi tutti coloro che rappresentano un pensiero e che a queste correnti didee danno importanza nella vita nazionale. ;  127 Si tratta di Contro la guerra!, edito a Parma il 6 febbraio 1915 a cura di un gruppo di sindacalisti, in aperta contrapposizione alla linea politica di De Ambris. 28 Si veda in particolare larticolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra (Volont). Gli scritti di Fabbri, pubblicati in contemporanea con luscita de La Guerra Sociale, furono bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo giornale anarcointerventista (nellordine: RYGIER, Coerenza verbale o azione liberatrice, La Guerra Sociale; POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO Giona, Contro una stupida speculazione; GIGLI, Anarchismo: concezione storica e concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria, Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi; TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don Abbondio e c.,). ubi, Circa la posizione di Fabbri v. altres ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in Rivista Storica dell Anarchismo, Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte tendenze scatur dalla diffusione di un manifesto anarchico contro la guerra, redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: Che ben vengano i tedeschi in Italia. O essi sono pi civili di noi e che vengano a portarci questa civilt, o sono pi barbari e che vengano a civilizzarsi. Mario Gioda lo defin un documento clima e su questo sfondo di passioni che devessere inquadrata la violenta aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa Finalese, una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove lanarchico genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo, per avere tra laltro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro! Il fatto, condannato dalla redazione di Volont!!, fu invece accolto con soddisfazione sia da Il Libertario, che anzi deplorava il buon cuore del foglio anconetano", sia da L'Avvenire Anarchico, che laconicamente commentava: Di fronte a tanto strazio di vite non ci debbono essere rispetti umani, Nel frattempo il processo di organizzazione dellinterventismo rivoluzionario e della sua frazione anarchica non aveva subito rallentamenti. Si era riunito a Milano il primo convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari dazione internazionalista, al ipa avevano preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno penoso, esortando gli anarchici pi consapevoli - fra i quali annoverava lo stesso Luigi Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessit al riguardo - a non farsene complici con un ancor pi penosissimo silenzio (GIODA, Ben vengano?, Il Popolo dItalia. Per la cronaca degli avvenimenti v. Oberdan Gigli ferito da neutralisti, Il Popolo dItalia, e Argomenti neutralisti, LInternazionale. Il giornale di Mussolini pubblica una lettera aperta di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio elettorale si era verificata laggressione. In tale missiva, scritta allindomani dellinfelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in maggioranza operai, il diritto a chiamarsi socialisti. In questa folla feroce scriveva non vi  pi, se mai v stata, lanima socialista. In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni (cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, Il Resto del Carlino). Cfr. Volont Alla riprovazione per la manifestazione dintolleranza da parte degli irruenti neutralisti finalesi, Volont aggiunse comunque un commento significativo. Oberdan Gigli sostenne lorgano anconetano che  persona di cuore e ragionevole deve pure rendersi conto dei moventi pi intimi del fatto lamentato. Pensi egli allimpressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico, patrocinatore dei loro interessi, avversario del militarismo e della guerra, esaltatore della massima libert individuale, cambiare di un tratto atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se ascoltato, avr per risultato labdicazione dogni libert individuale nelle mani dello stato, la guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai. 12 LUoMO CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, Il Libertario, CHELOTTI, Giuste argomentazioni, L Avvenire Anarchico, A questo riguardo v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto del congresso si vedano principalmente Il Popolo dItalia e LInternazionale del 30 (ma anche gli articoli di Azione Socialista e de LIdea degli anarchici nella campagna a sostegno dellintervento italiano trov la definitiva consacrazione circa un mese dopo, con la pubblicazione de La Guerra Sociale. Il primo numero del nuovo settimanale anarchico interventista usc il 20 febbraio". Il nome rimandava esplicitamente a La Guerre Sociale, il noto foglio antimilitarista di Gustave Herv, mentre il motto, rubato a Giuseppe Garibaldi (E inutile sperar alustizia se non dall'anima di una carabina), testimoniava una volta di pi della commistione, in seno allinterventismo anarchico, di elementi eterogenei, tratti tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e risorgimentale. Il compito nostro recitava larticolo di fondo della redazione  ben preciso: rivendicare cio ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i teologhi dellanarchismo, in nome di non sappiamo quale sacro comandamento ci vogliono negare; prepararci ad incitare allazione la parte migliore degli anarchici dItalia: quegli anarchici cio che non sono infarciti di femmineo sentimentalismo, ma che bens son convinti che lumanit non pu camminare verso la civilt se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. La Guerra Sociale dunque sar anarchica, prettamente anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a titolo programmatico i fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e politiche dellanarcointer- ventismo. Nazionale, organo ufficiale dellAssociazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi contemporaneamente allassise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa. Il Popolo dItalia del 10 febbraio 1915 forn la cronaca di una riunione degli anarchici interventisti milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Cattaneo di via Sala (che era sede del Fascio). Nel corso di quellincontro era stata decisa la pubblicazione di un giornale di segno anarcointerventista, che, oltre che propugnare le tesi dellintervento dal punto di vista anarchico, proponesse anche di iniziare una sana ed audace discussione d'idee nel campo stesso, onde salvarlo dallondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i pontificanti dellanarchismo ufficiale. NES Rui Herv era stato il simbolo stesso dellantimilitarismo e dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del La Guerre Sociale, aveva condotto una feroce battaglia contro le istituzioni militari. E singolare che gli anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella storica testata dellestremismo antimilitarista (che aveva avuto un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Herv, passato alla causa dellIntesa, labbandonava per dar vita a La Victoire, organo del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la fortuna dellherveismo nel nostro pnese v. GIACOMINI, Antimilitarismo e pacifismo nel primo novecento. Alfredo Bartalini e La Pace, Milano, Angeli, La Guerra Sociale, SI Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici scriveva e accettiamo la guerra per evitare una oppressione. Noi vediamo lanima anarchica in ogni rivolta liberatrice. Noi siamo gli eterni rvoltes, e nel secolo scorso avremmo cospirato con Mazzini per lunit dItalia e oggi, nellIndia, saremmo coi nazionalisti nella rivolta contro gli inglesi. Noi riteniamo che la vittoria degli Imperi Centrali sarebbe un enorme male per la civilt nostra. Sarebbero prevalenti i focolai dellautoritarismo cattolico pi inflessibile, dellimperialismo pi pazzesco, del militarismo pi prepotente: sarebbe rimandato di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel riaffacciarsi dei problemi democratici e nazionali. Noi vogliamo al contrario che tutti i nostri sforzi siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione proletaria. Noi manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico! Pi oltre, in una lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera che esprimeva il comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario Poledrelli negava di sentirsi un revisionista dellanarchismo per il fatto dessere favorevole alla guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco della migliore tradizione libertaria!. La Guerra Sociale, che usc con una discreta diffusione, compendiava quindi, per la prima volta in forma unitaria e immediatamente riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le passioni proprie dellinterventismo anarchico. Molto importante, sotto questo profilo, la rubrica Dagli amici, dalla quale apparivano nitidamente, nelle varie coloriture, gli umori della base. Cos, fianco a fianco allanziano anarchico rivoluzionario Alfeo Davoli, gi garibaldino, che da Milano esortava alla guerra rivoluzionaria che abbattesse per sempre qualunque sia forma di governo"', si schieravano il maestro elementare GIGLI, Perch siamo interventisti, POLEDRELLI, Revisione?, Ivi. Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nellaprile del 1912 si era trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio libertario. A Milano aveva anche progettato la pubblicazione di un periodico, che avrebbe dovuto intitolarsi L Adunata, ma era stato fatto rimpatriare a Ferrara su ordine della Questura milanese, perch disoccupato. Arruolatosi volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053 [Poledrelli Mario]. 10 Nellarco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette 28 abbonamenti, di cui dieci a Milano, e benefici di 157 sottoscrizioni (la maggior parte provenienti dal capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre tanto che il 10 aprile, in un trafiletto indirizzato ai compagni, la redazione invitava apertamente i lettori ad essere pi generosi, pena la sospensione delle pubblicazioni ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello stesso periodo (fatta ovviamente eccezione per le tre grandi testate a diffusione nazionale La Guerra Sociale, Salvadori, ammiratore delle teorie di Francisco Ferrer, che si dichiarava per lintervento, a dispetto dello slombato anarchismo menefreghista!!, e lanarchico individualista Costa, di Verona, il quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virt dei propri convincimenti catastrofici; mentre il genovese Ciotto chiama a fondamento del proprio interventismo entrambe le eredit del bakuninismo e del mazzinianesimo! Sulle pagine de La Guerra Sociale si avvicendarono dunque i principali portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta per non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci  stato possibile ricostruire la biografia politica. Dalle informazioni raccolte emergono comunque alcune caratteristiche ricorrenti: lorigine proletaria, la cultura approssimativa, la fede individualista, il ribellismo, vissuto talvolta nelle sue manifestazioni pi eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla maggioranza dei semplici militanti del movimento anarchico), ma anche il valore successivamente dimostrato sui campi di battaglia. Quanto alladesione al fascismo di alcuni di tali uomini, essa fu conseguenza, non automatica n tanto meno ineluttabile, di scelte personali, diverse caso per caso. Ci a conferma che la semplicistica equazione anarcointerventisti prima-fascisti poi, non  motivo sufficiente - e daltronde nemmeno Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Mor nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta 1630 Davoli Alfeo]. 4 La Guerra Sociale, 20 febbraio 1915. Alceste Salvadori, nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie, antimilitariste e radicalmente anticlericali (era membro di un Associazione Razionalista), e in virt del suo ruolo di educatore, era dalle autorit considerato estremamente pericoloso in linea politica. Dopo la guerra (cui prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente) Salvadori vest la camicia nera del fascismo. Nellaprile del 1921 siscrisse infatti al Fascio di Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario), per giungere, qualche anno pi tardi, alla direzione della locale organizzazione sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543 {Salvadori Alceste]. 4 La Guerra Sociale, Cfr. /bidem, 10 marzo 1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifest la speranza di tornare, un giorno, a fianco dei compagni in buona fede contro la guerra per combattere insieme le future battaglie (// saluto di un anarchico interventista, Il Popolo d'Italia, 5 luglio 1915). ragionevole. - per disconoscere lappartenenza allanarchismo degli interventisti di estrazione libertaria! Scrissero per La Guerra Sociale: Consalvi, Canapa (Ambra), Rivellini, Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando Senigallia, Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere era rilegatore di libri, era nato a Firenze. La sua partecipazione alla vita del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose disavventure giudiziarie. La Prefettura fiorentina lo aveva dipinto tra i pi entusiasti seguaci delle dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e manifestazioni proletari, ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli anarchici, attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura. In realt, Canapa aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie dindirizzo individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto DAmbra. Nella campagna interventista lanarchico fiorentino che fu membro del Fascio rivoluzionario del capoluogo toscano dimostr un particolare accanimento, per lo pi ricorrendo al consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome (come nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, LIniziativa). Canapa si arruol volontario (cfr. Il Popolo dItalia) e cadde sul Carso. ACS, CPC, Busta 992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne celebr la figura di eterodosso dellanarchismo, eretico impenitente, scomunicato del Santo Sinodo (ODROADE, Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, LIniziativa); mentre Massimo Rocca, che gli era particolarmente legato, ne avrebbe richiamato il nome nellintroduzione al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era nato a Milano, da famiglia poverissima. Carattere fra i pi irrequieti e impulsivi - come scrive di lui la Prefettura milanese n -, Rivellini, nonostante la giovanissima et, era assai noto negli ambienti libertari del capoluogo lombardo e aveva subito gi numerosi arresti per attivit sovversive. Allo scoppio della guerra fece da subito lega con gli interventisti, ritenendo, comebbe a scrivere a Mussolini, di difendere cos i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo (Il Popolo dItalia). Si arruol volontario nel giugno 1915 (nel 68 reggimento fanteria, lo stesso di Malusardi) e combatt valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un encomio solenne. Si conged con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra prese parte allimpresa di Fiume (e come delegato fiumano presenzi al congresso nazionale fascista), conclusasi la quale si ritir sostanzialmente dalla lotta politica. Risulta iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo]. Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina, provincia di Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista anarchico Giovanni Gavilli, che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere nei suoi giri di conferenze (Gavilli era non vedente), Scaramelli aveva collaborato saltuariamente a Il Grido della Folla. Nel dicembre del 1906 aveva preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera. Volontario di guerra nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato disciplinato, rispettoso e contento della vita militare. Dismessa la divisa, lasci l'impegno politico e muore. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato ad Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico molto pericoloso, Senigallia, pur senza mai abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva collaborato assiduamente a Il Grido della Folla, a La Protesta Umana e al romano Il Pensiero Anarchico, subendo, in virt della sua prosa infuocata, numerose condanne per istigazione a delinquere. Attivo nel campo dellorganizzazione di partito, Senigallia aveva pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777 Grazie a La Guerra Sociale, per un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di vista allinterno della multiforme realt dellinterventismo rivoluzionario. La partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risult comunque assai intensa, specie l dove il movimento era pi forte. A Parma gli anarchici collaborarono fattivamente al quindicinale Guerra alla guerra (24 gennaio- I maggio 1915), edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica deambrisiana e fra i principali centri propulsivi dellinterventismo rivoluzionario. Allincirca nello stesso periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perch Pisa era una delle citt italiane dove il movimento anarchico era maggiormente radicato) il contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla diffusione de La Guerra del Popolo, organo del Fascio rivoluzionario pisano!. preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e al convegno anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo temi relativi alla struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre forze operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura di Ancona annotava sul suo conto: E sempre uno dei pi ferventi anarchici di Ancona, prende parte a tutte le riunioni del partito ed  iscritto al Circolo anarchico Studi Sociali. Nell'agosto del 1916, avendo fatta dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la mitezza delle sue idee politiche e la completa adesione alla guerra, fu inviato al fronte con una squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comport coraggiosamente, finch non cadde prigioniero degli austriaci. Ader al fascismo e, nel gennaio del 1935, divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale fascista dei venditori ambulanti. Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando]. Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dellestrema sinistra parmense, in quanto segretario di un Circolo socialista antimilitarista rivoluzionario intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto interventista, Colla si arruol volontario, combattendo negli arditi ed ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta [Colla]. Di Rango, nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco, se non che egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra come mezzo per far piazza pulita di tutti i rivoluzionari di carta e da comizio (Liquidazione di rivoluzionari, La Guerra Sociale, 10 marzo 1915), riallacci i rapporti col movimento libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigr negli Stati Uniti (prima a Chicago, poi a Oakland in California), dove prese parte attiva alla vita della numerosa comunit anarchica italiana, collaborando al foglio di San Francisco LEmancipazione. Da oltre oceano l'anarchico calabrese mantenne regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico Malatesta, col quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [Rango]. 14% 1] primo numero de La Guerra del Popolo usc. Liniziativa di Ruffo Sarti e Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare D'altra parte, i Fasci compivano il massimo sforzo di coordinamento. Pur nella diversit di vedute, la preoccupazione principale di tutte le forze che componevano lo schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di affrettare lingresso dellItalia nel conflitto europeo, anche a costo di dover accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il 10 aprile LInternazionale pubblic una Dichiarazione, con la quale il gruppo dirigente dei Fasci smpegnava ad una tregua rivoluzionaria se la monarchia si fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel documento. figuravano anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile lorgano sindacalista ricevette le adesioni di Rocca e Malusardi) Commentando lo sciopero generale indetto a Milano il 14 aprile per protestare contro luccisione del giovane operaio elettricista Innocente Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della polizia durante una manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale avevano aderito anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli oratori principali), Rocca auspica che non si verificassero pi simili episodi, temendo altrimenti chessi potessero trasformarsi in un pretesto per una manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo larticolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, L'Avvenire Anarchico, 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la sostanziale estraneit dei due interessati alla vita del movimento libertario pisano. Quello di negare ai compagni passati allinterventismo ogni parentela, anche trascorsa, con lanarchismo era una delle scappatoie di cui gli anarchici si avvalevano con pi frequenza. Del pari, la storiografia ha sostanzialmente accolto questindirizzo, che potremmo definire negazionista. Cos, nel caso specifico di Sarti e Fontana,  stato scritto che i due rappresentavano poca cosa, politicamente e quantitativamente, nei confronti del vasto movimento cittadino SACCHETTI, Sovversivi in Toscana, 1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realt, Sarti e Fontana erano entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana era stato redattore de LAvvenire Anarchico. Cfr. ACS, CPC, Busta [Fontana]. Sarti era noto anche a livello nazionale, avendo collaborato a Il Libertario e al milanese Il Grido della Folla e potendo vantare, come sembra, stretti rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio lintero lambiente anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di carcere. Durante la detenzione annotava la Questura fu largamente aiutato dagli anarchici di qui, i quali sopportarono anche le spese occorrenti per la sua difesa. /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo]. Il testo completo della Dichiarazione si trova in appendice a FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Cfr. Un giovane ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, Il Corriere della Sera, 13 aprile 1915. con disordini interni e farlo tentennare nella risoluzione di decidere la guerra; ed esortava gli interventisti rivoluzionari a tutto subordinare alleventualit del conflitto! Il periodo bellico A poco pi di un mese dalla proposta de LInternazionale per la tregua rivoluzionaria, la dichiarazione di guerra dellItalia all Austria realizz gli auspici di tutti gli interventisti. La partenza per il fronte dei principali esponenti dellinterventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di generale incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non certo propizia al normale dispiegarsi dellattivit politica, contribuirono peraltro a sfaldare progressivamente il movimento dei Fasci. ua Anche Rocca, Gigli e Malusardi, si arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dellanarcointerven- tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato, part per il fronte soltanto nellestate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse dimboscamento, Gioda (che era membro del Gruppo di Azione Civile di Torino, avente lo scopo di assistere i combattenti e di svolgere propaganda a TANCREDI, A proposito di sciopero generale, La Guerra Sociale Rocca si arruol volontario ai primi di luglio del 1915, prest giuramento in una caserma milanese il giorno 11 (cfr. / volontari del 7 reggimento fanteria prestano giuramento, Il Corriere della Sera) e fu inviato al fronte alla fine del mese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di complemento nel 2 reggimento artiglieria campale pesante di Modena, part per la zona di guerra il giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si arruol nel 68 reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. mia i o Mentre lesperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e Malusardi presero parte all intero svolgimento del conflitto. Da notare che un estratto del diario di guerra di Malusardi - un memoriale di un certo interesse, anche se, con tutta probabilit, rielaborato ad arte dall autore - si trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma, Torino, Druetto, Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21 luglio e destinato al 7 reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. Il Popolo dItalia, e LIniziativa). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia, Gioda rimase al fronte solo pochi mesi. favore della guerra)  si batt con passione, che non c motivo di non ritenere sincera, per la revisione dei riformati!, Insieme ai nomi pi celebri dellanarcointerventismo, partirono, volontariamente o perch richiamati alle armi, la maggior parte degli altri anarchici interventisti. In taluni casi la frenesia delle armi raggiunse livelli quasi parossistici. Lanarchico romagnolo Ghetti, ad esempio, riformato per evidenti questioni di salute, pass gli anni di guerra nellestenuante tentativo di farsi arruolare. Cosa c'entra la visita scrisse ad un periodico fiorentino labilit o linabilit, quando uno vuol sacrificare volontariamente, noncurante dei difetti organici, tutto s stesso nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi minaccia pi che mai lintera umanit? Per la mia libert, che  la libert di un popolo, dellumanit, voglio dare il mio sangue, la mia vita contro loppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di coraggio, cos  il mio sentimento di libertario Qualche giorno dopo Ghetti si present in zona operativa vestito da bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato Il Gruppo di Azione Civile si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti del repubblicanesimo torinese e rest in vita sino allagosto del 1917, quando conflu nella ricostituita Fratellanza Artigiana di Torino (cfr. LIniziativa, 1 settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate in Vita di Gioda narrata da Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed erano in ottimi rapporti. In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda respinse laccusa dessersi imboscato e spieg la propria intenzione dimpegnarsi affinch fosse al pi presto riconsiderata la posizione di tutti i riformati. Io poi scrisse prima categoria della classe 1883, sono stato riformato...per deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, daccordo con gli amici del Popolo dItalia, la revisione dei riformati (Per /a revisione dei riformati, Il Popolo dItalia). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato lintenzione di varare una tassa sui riformati, Gioda torn decisamente sullargomento. E unumiliazione afferm inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva militare,  quasi un bollo, che contrassegner, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e discutibile. Noi avremmo capito la revisione dei riformati da noi ardentemente sollecitata e poscia magari se necessit assoluta lavesse richiesta la tassa applicata ai veri riformati, a quelli cio che non potendo offrire alla patria tributo di sangue avrebbero rassegnatamente accolto limposta, onde contribuire in qualche modo per la salvezza nazionale GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La revisione doveva avere la precedenza, Il Nuovo Giornale Ghetti era nato a Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato in Germania, poi in Svizzera, cambiando pi volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In quella citt Ghetti aveva svolto unintensa propaganda anarchica, facendosi anche promotore D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista vera e propria, lentrata in guerra dellItalia provoc, in seno al movimento libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del 1915, amplificata dal quotidiano romano Il Messaggero, si diffuse la notizia (parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra anarchici ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi libertari capitolini Sante Caserio e Francisco Ferrer avrebbero invitato i propri aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina riportata da L Avvenire Anarchico del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non si corrompono), Ceccarelli condann senza mezzi termini quelliniziativa, negando lesistenza di un circolo anarchico intitolato a Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24 giugno, il foglio pisano pubblic una dichiarazione degli anarchici Luigi Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate, a nome dei gruppi Caserio e Ferrer, nella quale si affermava che il comunicato apparso su Il Messaggero, invitante gli anarchici a inscriversi nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso che i compagni soggetti al richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la divisa del soldato, quella della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per quanto militarista; e dunque chera erroneo il commento dei compagni che avevano creduto sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced adesione di anarchici alla Croce Rossa. Sebbene rimasto senza seguito, questepisodio  a nostro avviso indicativo dellincertezza che colse parte degli anarchici all'indomani. i Nonostante il clima di eccezionalit seguito allo stato di guerra, la tnsione tra gli opposti schieramenti della vigilia non diminu che in minima parte (ed  significativo che persino larruolamento di Rocca, il cui nome bastava evidentemente ad evocare malumori e risentimenti, suscitasse una coda di di un Comitato di difesa sociale pro Masetti (ma pare che i suoi rapporti con la comunit anarchica italo-svizzera, e in particolare con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Un suo articolo violentemente antimilitarista (Cos' /a caserma?, L'Avvenire anarchico) gli era valso unincriminazione per istigazione a delinquere. Due mesi pi tardi Ghetti era rientrato in Italia, a Milano, ed era stato arrestato perch trovato in possesso di numerosi ordigni esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, benefici dellamnistia concessa la momento dellentrata in guerra dellItalia. Non si hanno notizie di un suo coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo arrestato (questa volta a Torino) per aver causato gravi incidenti durante un comizio di Rygier. Ghetti riusc infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr. ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico].  156 dea SPERO da 9 polemiche) . La verit  che la frattura tra neutralisti e interventisti non si sarebbe mai pi ricomposta, protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine delle ostilit. La crisi dei Fasci, seguita allentrata in guerra dellItalia, non valse affatto a rasserenare gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il movimento. Linvoluzione subita dallinterventismo rivoluzionario, daltronde, prima ancora che la sua capacit di sopravvivenza politica, in ogni caso compromessa (i Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente ricostituiti solo alla fine del 1915) '5, investiva la sua stessa ragion dessere. Cos, lungo tutto larco della guerra, si assistette al tentativo (non sempre fruttuoso) da parte degli interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie fila e, soprattutto, di non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli avvenimenti, la propria specificit ideale. In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre 1915, di Filippo Corridoni, una delle figure pi carismatiche di tutto linterventismo rivoluzionario, acquist un significato che trascendeva lepisodio in s, per assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse a eroe- simbolo dellinterventismo rivoluzionario, che al nome dellarcangelo sindacalista si sarebbe pi volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come a un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare le parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre, perch specchio di quella concezione volontaristica dellazione politica che ich questo riguardo, si veda larticolo // giuramento di managgia (Il Risveglio Comunista-Anarchico, Ginevra), nel quale il giuramento di Massimo Rocca era fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli. Sullaltro versante, un ottimo esempio di questo stato danimo  rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su interessamento di Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di l del Rubicone, Pisa, Tipografia Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo reale e anarchismo ideale, la necessit di difendere la civilt latina, culla della rivoluzione, dalla minaccia del pangermanesimo ecc.) e si scagliava violentemente contro gli avversari. Lapologia interventista di Nerucci, scritta in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine, appariva ancor pi incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dallentrata in guerra dellItalia. In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di l del Rubicone, Nerucci abiur allanarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di Marsiglia, annunzi di aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. LEco dItalia). Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto per evitare la trincea, ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. !57 Per un quadro complessivo delle traversie dellinterventismo rivoluzionario negli anni della guerra, v. soprattutto FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288 ss., al quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte. aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nellora della vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella tragica sorte di Corridoni. Egli  scriv Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra giovent, tutta la nostra vagabonda, ardente giovent balzata fuori tra gli sterpi duna bassa politica e il dissolvimento departiti, tra l'impotenza dedogmatici e la ribalderia demercanti !5 AI combattimento che cost la vita a Corridoni prese parte anche Edoardo Malusardi. Il racconto di quellepisodio che lanarchico lombardo invi allorgano mussoliniano  interessante sia come esempio di autorappresentazione politica (linterventista rivoluzionario che, ricolmo di fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo), sia come prima elaborazione del mito corridoniano (Corridoni che cade eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista, Malusardi in testa. Mi trovo degente in un ospedale da campo riferiva dunque Malusardi ferito in quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono caduto in un assalto alla baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero dagli austriaci perch impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a peripezie che hanno del romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti si conta anche Filippo Corridoni, comportatosi da prode. Questultimo, anzi,  caduto vicino a me cantando linno dOberdan' 158 Il Popolo dItalia Sulla figura di Corridoni v. il contributo di MELOTTO, Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in Storia in Lombardia, Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, Il Popolo dItalia avvi una sottoscrizione er l'erezione di un ricordo marmoreo delleroe.  Il Popolo dItalia La battaglia detta della trincea delle frasche  fatale anche ad un anarchico interventista toscano di nome Contini. Egli era - scrive di lui Malusardi - un ANARCHICO NOVATORE. Un eretico su cui grava lanatema del Sinedrio Anarchista.. Il suo anarchismo, come il mio, non  la fronzuta elucubrazione di qualche sofista a spasso, ma bensi la teoria di tutte le libert e sintesi di ribellione fattiva controgni oppressione. I suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Troja, caduto per 1 indipendenza ellenica, e Colizza, la maschia figura di spartano, caduto sotto gli spalti di Seraievo in difesa della Serbia aggredita LIniziativa. RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative pi interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti - di far confluire tutte le forze dellinterventismo rivoluzionario nel Partito Repubblicano. Rygier (che dallo scoppio della guerra era andata sempre pi accentuando la sua vicinanza al mazzinianesimo) ', reputando fondamentale anche in vista delle sfide politiche del dopoguerra rinsaldare lunit del fronte interventista rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti rivoluzionari, di ogni scuola e partito, siscrivessero al PRI!9. Linvito di Rygier fu raccolto da Malusardi. In una lettera inviata a LIniziativa lanarchico lodigiano si disse persuaso della necessit di unificare tutti i partiti della sinistra interventista e daccordo con Rygier nel ritenere che ci potesse concretamente realizzarsi nel segno dell  Edera, a condizione, per, che questo non significasse un appiattimento sui programmi repubblicani. Gli unici che potrebbero trovarsi a disagio notava a questo proposito Malusardi saremmo noi anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli impenitenti utopisti della societ paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto daccordo. Noi siamo degli esaltatori dellindividuo, non nel senso esageratamente Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al falso ed imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi codardi capeggiatori. Mentre i repubblicani subordinano la volont individuale a quella collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici, Il definitivo approdo di Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con larticolo L'ombra sua ritorna ch'era dipartita (LInternazionale, 1 gennaio 1915), una lunga e sentita celebrazione di Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato consensi e destato speranze negli ambienti repubblicani. Si auspica che lesempio della Rygier aveva scritto Alfredo Poggiali sullorgano del Partito Mazziniano Italiano chera partita, nesuoi primordi, da premesse non esatte, possa far breccia anche fra gli altri anarchici (Lettera politica dalla Romagna, La Terza Italia, 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra, Maria Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensific, se possibile, la collaborazione con la stampa repubblicana, massime con LIniziativa. Linfatuazione della Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi numerosi altri interventisti rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e anarcointerventisti. Mario Gioda, in particolare, il quale - come si  visto - nutriva gi una viva simpatia per le idee e per i programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, larticolo Mazzini e l'ora storica, Il Popolo dItalia, 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva tra laltro sostenuto che tutti i sovversivi, non schiavi dello sterile dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o intedescate, avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforz negli anni di guerra il proprio filo-repubblicanesimo. " Cfr. RyGIER, / partiti di domani. Prepariamoci per le lotte future, LIniziativa, pur coadiuvando in tutte le contingenze lazione collettiva, non intendiamo che si  RA ERI F 16 debba tarpare le ali alle iniziative individuali e le minoranze Il rispetto delle minoranze e delle singole individualit era stato a fondamento dellazione dei Fasci interventisti: qualora il PARTITO REPUBBLICANO avesse offerto le stesse garanzie politiche, nulla - concludeva Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di tutte le forze dellinterventismo rivoluzionario, anarchici compresi'. Il progetto avanzato da Rygier rimase lettera morta, ma il problema dellunit tra le forze della sinistra interventista si sarebbe ripresentato pi volte, durante come dopo la guerra. In ogni caso, quale che fu lesito della sua proposta, il cammino personale di Maria Rygier verso le idealit nazionali non sub inversioni di rotta. Ella  al congresso nazionale repubblicano di Roma. Non ho ancora la tessera disse in mezzo agli applausi dei congressisti ma voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come in altri, una coscienza nuova, perch ha disvelato effetti deleteri duna propaganda basata sul determinismo economico pi gretto. E noi torneremo al vostro Mazzini Lex madrina dellantipatriottismo torn in effetti a Mazzini, e quella tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano lebbe in realt pochissimo tempo dopo!. Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilit, il malumore ognora crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto dalla propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli interventisti rivoluzionari. Lesigenza di opporsi alla presunta opera disgregatrice del neutralismo socialista-cattolico-giolittiano, un'esigenza molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu allorigine della nascita e della diffusione, un po in tutta Italia, di leghe e di comitati per la resistenza interna. Nellambito di queste iniziative, tuttavia, gli interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati il e su AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda, che diceva di seguire con vivissima simpatia il lavoro dellunico partito che la guerra e le rivendicazioni nazionali non avevano sconvolto; di Rocca, il quale auspica che lassise repubblicana potesse porre le basi per un sovversivismo nazionale, meno settario, pi serio, pi vasto didee e profondo di sentimento; e di Lotti. pi delle volte in minoranza (tipico il caso del Fronte Interno, costituitosi a Roma ad opera di forze prevalentemente democratiche, che fin assai presto per essere egemonizzato dalle destre). Linterventismo di destra, infatti, e in particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla radicalizzazione delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese senz'altro il sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle sinistre, ed aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari. La preoccupazione di frenare la propaganda neutralista e quella, pi o meno consapevolmente avvertita, di salvaguardare la purezza dei propri ideali, dominarono il convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riun a Milano. Pochi giorni prima dellinizio di quel congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato danimo di grande perplessit che attanagliava linterventismo rivoluzionario. Prendendo spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e Austria, agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio dellinsofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilit, Gioda si era augurato che lItalia rimanesse al di fuori dellondata di malcontento che stava attraversando gli altri paesi belligeranti e sera detto convinto del buon senso e delle virt patriottiche del popolo italiano. Malgrado ci, lanarchico torinese aveva avvertito la necessit di ribadire la ragionevolezza della guerra in atto. La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perch risolutiva e perch avrebbe schiuso la via per maggiori conquiste, in un ambiente europeo non pi accidentato da agguati tedeschi e da barbarie prussiana. Per la cronaca del convegno v. Il Popolo dItalia, 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altres Le dichiarazioni del Congresso dei Fasci, LIniziativa, 27 maggio 1916, e La grande adunata di Milano e la parola dei nostri compagni, LInternazionale, GIODA, Perch questa guerra  giusta, Il Popolo dItalia, 17 maggio 1916. Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro, Gioda aveva manifestato a chiare lettere quale fosse ormai il proprio pensiero riguardo alle questioni economiche. Mentre il mondo aveva scritto - si dibatte nella tragica convulsione duna rivoluzione decisiva per lavvenire dei popoli,  per lo meno fatuo il voler cianciare ancora di garofani rossi e di feste di primo maggio per quella ascensione economica di classe che il proletariato non conquister se non a condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni (GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, LIniziativa, 1 maggio 1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta di classe, pubblicato da Il Popolo dItalia del 22 febbraio 1915, Gioda aveva sostenuto che il materialismo non avrebbe mai potuto offrire una chiave interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso socialismo, se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di classe, perci, non avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come semplice mezzo, da valutare secondo le circostanze. Nel caso contrario, lorganizzazione di classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero parte Maria Rygier, che vi svolse una relazione sul tema Neutralismo e neutralisti!, eRocca, in licenza dal fronte!. Proprio Rocca si fece portavoce di una convinzione che, in forma pi o meno velata, cominciava a circolare anche tra gli interventisti di sinistra: la convinzione, cio, che il Governo dovesse adottare dei provvedimenti, i pi severi possibili, per eliminare il pericolo neutralista. Lazione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di due tipi: positiva e negativa. Positiva, nel senso che gli interventisti avrebbero dovuto intensificare lopera di propaganda tra le masse, negativa, perch era giunto il momento, nellinteresse del Paese, di rispondere con misure energiche alle provocazioni dei nemici di dentro. Noi afferma Rocca dobbiamo avere il coraggio di dire: contro i neutralisti abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di domandare che il Governo faccia unopera che sia di repressione, che sia capace di porre un freno. La posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui sostenuto alla vigilia della guerra in merito allopportunit di una condotta realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti, in a se stessa, e nessun alito di umanit e di generosit avrebbe animato il popolo, rinchiuso nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe. La classe - aveva concluso Gioda - non doveva considerarsi un semplice agglomerato di uomini economici, ma un insieme complesso di individui, formanti una comunit con pi alte e profonde aspirazioni; ed era pertanto inutile, sciocco e disonesto il ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo avrebbe dovuto interessare, ogni altro problema essendo problema borghese. Questi  passaggi sono a nostro avviso di capitale importanza. E infatti in questa visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che deve rintracciarsi il motivo delladesione di Mario Gioda e di tanti anarcointerventisti alle ideologie del sindacalismo nazionale e del produttivismo fascista, nonch, per successive corruzioni dellimpostazione originaria, la ragione del passaggio di molti di loro dallantisocialismo allantioperaismo tout court. In Il Popolo dItalia sati !! Il Popolo dItalia riporta le adesioni al convegno di altri due anarcointerventisti: Fanelli e Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo qui per la prima volta, pu esser preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci  giunta notizia. Il panettiere Fanelli  nato a La Spezia. Anarchico convinto, che prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito (come lo descrive un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto), Fanelli  gerente responsabile de Il Libertario. Divenuto interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio dazione internazionalista di La Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi al PNF. ACS, CPC, Busta [Fanelli].Il Popolo dItalia sede di discussione, avevano affermato lopportunit di scindere nettamente loperato dei Fasci da quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore realismo politico) sostenne che linterventismo rivoluzionario doveva assumersi per intero le proprie responsabilit riguardo alla monarchia, con la quale, e non contro la quale, la guerra era stata decisa!?. Nei restanti due anni di guerra Rocca , insieme alla Rygier, il pi attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti. D'altronde egli venne ricoverato allospedale militare di Milano per una grave forma dipertrofia tonsillare, ottenendo cos una licenza di sei mesi (rinnovata nel marzo dellanno successivo) ! che gli consent di dedicarsi a pieno ritmo allopera di propaganda e di organizzazione politica. Vede altres la ripresa, da parte di Rocca, della sua antica predilezione per i grandi problemi di ordine internazionale, come attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice Sonzogno - del libro // Mare Adriatico, volume nel quale lautore sposava le rivendicazioni dei nazionalisti sullIstria e la Dalmazia. Non si trattava di un interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di politica economica. - la nota predominante dellattivit di Massimo Rocca nel biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entr nella redazione del quotidiano milanese La Perseveranza, avviando, sulle pagine di quel giornale, una serrata campagna a sostegno dellitalianit della Dalmazia, campagna che gli attir gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362, [Rocca]. Loperato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio interventista milanese, per salutare i fascisti della classe 1897 in procinto di partire per il fronte. Cfr. Il Popolo dItalia). Ancora la Prefettura romana annota che Rocca, pur conservando le sue idee sovversive, continua a svolgere attiva propaganda a favore della guerra. ACS, CPC, Busta [Rocca]. La posizione di Salvemini (espressa a chiare lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato allinizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di nazionalit, e che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista settimanale, LUnit, Salvemini accus Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non risparmi le critiche a Salvemini (si vedano, in particolare, gli articoli Per l'onest politica e la Dalmazia italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, La Perseveranza). Lapprodo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un foglio di chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti, sebbene Rocca avesse gi in passato manifestato simpatie per la destra, fu in questo arco di tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consum la sua definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire, che lex anarchico matur un completo distacco, non tanto dal movimento libertario, ormai del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo sinistrismo. A conclusione di un lungo cammino umano e ideale, passando attraverso le decisive esperienze dellinterventismo e della guerra, Massimo Rocca fin dunque per virare decisamente a destra, verso posizioni che semplificando - potremmo definire di conservatorismo illuminato sul piano politico; di liberismo radicale, con forti inflessioni produttiviste, sul piano economico. In entrambi i casi, per, i legami con il fondo elitario del novatorismo restavano evidenti. Lindividualismo di Rocca, rafforzato dalla . sua personale convinzione di appartenere a un aristocrazia, alla parte nobile - pi meritevole perch pi capace - del popolo italiano (proprio in quegli anni, daltra parte, lex tipografo autodidatta compiva con successo il suo ciclo di studi) ', giunse in pratica al suo esito naturale. In questo passaggio era gi compreso, in potenza, tutto il futuro politico di Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla rivalutazione dellistituto monarchico, dal programma economico del 1922 ai Gruppi di Competenza, fino alla trincea revisionista. In ultima analisi, infatti, il fascismo di Rocca non fu mai, nella sostanza, granch diverso dal suo liberalismo. Rocca ader al Comitato dazione per la resistenza interna, sorto a Milano su iniziativa di Dinale allo scopo di coordinare tutte le forze interventiste e dinfondere nuovo vigore alla loro opera'??. In qualit di delegato di quellorganizzazione, Rocca partecip al secondo convegno nazionale dei Fasci dazione internazionalista, convocato a Roma allinizio di luglio, il quale si concluse con lapprovazione di una Rocca consegu la licenza tecnica superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla facolt dingegneria del Regio Politecnico di Milano. Quale fosse lo scopo principale di questa nuova associazione patriottica, bene lo illustrava un ordine del giorno votato a una riunione del Comitato: Reclamare dal. Governo provvedimenti immediati contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che infestano il nostro Paese (Il Popolo dItalia). Alla fine del mese il Comitato invi un memoriale al Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche lazione destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava unazione draconiana contro tutti i nemici di dentro. Il memoriale, pubblicato in parte anche da Il Popolo dItalia del 27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI. GUERRA EUROPEA, Fascicolo [Movimento interventista]. sorta di documento programmatico dellinterventismo rivoluzionario!?. Nonostante il tentativo dimprimere allazione dei Fasci un indirizzo certo, tanto sul piano politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le grandi questioni delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle misure da opporre alla ripresa del neutralismo, e quella (per cos dire relativa allindole stessa del movimento) della salvaguardia della propria identit rivoluzionaria, rimanevano, complice linasprirsi delle tensioni interne al Paese, pi che mai aperte!*. La tragedia di Caporetto, con ci che ne segu, a livello politico-militare come a livello emotivo, e la conseguente demonizzazione dei cosiddetti disfattisti, avrebbe contribuito non poco a mischiare le carte in tavola, spostando decisamente a destra lasse della politica interventista. Le divergenze tra le diverse forze dellinterventismo finirono per appianarsi, a tutto vantaggio della destra nazionalista, salvo poi riproporsi, ma in un contesto nel frattempo profondamente mutato, alla fine della guerra. V. Il Popolo dItalia e larticolo // Congresso Interventista di Roma in difesa degli operai e della pace giusta, LInternazionale (lorgano sindacalista parmense riprese le pubblicazioni dopo una sospensione di quasi un anno). E molto difficile, per lassoluta mancanza d'informazioni, sapere cosa gli anarcointerventisti pensassero riguardo a queste due tematiche, ma  ragionevole credere che la loro opinione non differisse da quella degli altri protagonisti dellinterventismo rivoluzionario, sempre pi orientati verso una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza importante, anche per lestremismo del linguaggio usato,  quella di Edoardo Malusardi, il quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni generali avanzata ai sindaci e agli amministratori socialisti da Lazzari (un gesto che, nellopinione del segretario del Partito Socialista, si sarebbe rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe potuto accelerare luscita dellItalia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano perch facesse alfine giustizia di un cos ributtante fenomeno di perfidia e di vigliaccheria (EMME, Son purl.). FASCISMO Lanarcointerventismo alla prova della nuova Italia Ripercorrere le tracce dellanarcointerventismo nel caos del dopoguerra non  impresa facile. Gi nei mesi successivi allarmistizio, il blocco dellinterventismo rivoluzionario cess di esistere come un tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli, mentre la nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra tutte i Fasci di combattimento), aggiungeva imprevedibilit a unatmosfera politica di per s gi molto fluida. Lanarcointerventismo, che non aveva mai posseduto, per sua stessa natura, una rigidit organizzativa e ideologica, non sfugg a questo processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha pi molto senso, dopo Vittorio Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in s,  tuttavia possibile come si accennava nellintroduzione -, attraverso la vicenda personale dei suoi maggiori rappresentanti, provare a ritrovarne i segni nella politica italiana del dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti, alcuni, come Gigli e Rygier, finirono per isolarsi progressivamente dal gioco politico e per non avere che una parte di secondo piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri, come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il movimento anarchico, rientrando a pieno titolo nell ortodossia. Altri ancora, infine, Nel caso di Gigli, si pu affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe del tutto termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli abbandon la politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti. Pi complesso liter politico di Maria Rygier. Negli anni successivi alla guerra la Rygier si ivvicin allAssociazione Nazionalista, maturando, nei confronti del fascismo, un atteggiamento sostanzialmente ambiguo.  comunque costretta ad espatriare in Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in Italia, concluse la sua travagliata milizia politica nelle file del Partito Liberale. Muore a Roma. (fr. FRANCO ANDREUCCI, DETTI, Paolinelli  arrestato con laccusa di aver preso parte al complotto di Pietralata, allorch un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani e arditi, tent d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, ader poi - in rappresentanza degli anarchici individualisti - a un comitato romano di difesa proletaria in funzione antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si guadagnarono un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale divennero, quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro vicenda allinterno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel prosieguo di questo lavoro) pu, a nostro giudizio, essere considerata in relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se  arbitrario ricercare in essa un medesimo filo conduttore, immediatamente e coerentemente riconducibile alla doppia e complessa eredit dellindividualismo anarchico  riconoscervi, pur | nelleterogeneit delle esperienze e delle posizioni ideali e politiche, non | e dellanarcointerventismo,  per possibile pochi punti di contatto con quel pensiero e con quella tradizione. Nel valutare lapporto della cultura anarcointerventista al movimento mussoliniano (un contributo minoritario, ma non per questo trascurabile), occorre poi tener presente che il fascismo iniziale, lungi dal formare un | monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona figura di Mussolini, si distingueva piuttosto - come lucidamente nota Felice nellintroduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per essere una serie di stratificazioni, un accumulo di passioni e didee diverse, non di rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e | contraddittorio universo che fu il primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione della sua disorganicit evidente nei diversi orientamenti di Gioda, Rocca e Malusardi -, costituisce inoltre, per cos dire, un modello in scala ridotta. La storia dellanarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in ordine al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia dindividualit, anche se, ancora per qualche tempo, nei mesi successivi allarmistizio, si verificarono, qua e l, sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della corrente anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in grado di misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal rivolgimento bellico. A prescindere da alcune iniziative isolate, come quella | partita da Domenico Ghetti, l'esperimento di maggior sostanza in questa |  condannato a quattro anni di confino. Il secondo dopoguerra lo vide ancora attivo nelle fila del movimento libertario. Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli]. i FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de Il Popolo dItalia, apparve un appello di Ghetti agli anarchici interventisti milanesi perch facessero giungere la loro adesione alla nuova iniziativa patrocinata da Mussolini. Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno del 1919 la Prefettura di Milano, citt nella quale lanarchico romagnolo si era trasferito alla fine del conflitto, lo segnalava tra i pi accesi propagandisti dei principi mussoliniani in seno al partito anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti]. direzione fu quello tentato da Roberto DAngi. Nella primavera del 1919, gli ambienti anarchici liguri (DAngi si era trasferito a La Spezia a guerra in corso) furono messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal noto propagandista, nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico dispirazione interventista. Le concezioni di DAngi sullanarchia annota il 31 marzo il Prefetto di Genova non collimano con quelle del Binazzi Pasquale, direttore e gerente del periodico anarchico Il Libertario che si pubblica a La Spezia, ed ha pertanto deciso di fare uscire prossimamente col un nuovo giornale anarchico intitolato La Protesta, che vorrebbe pubblicato quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione avrebbe come programma lillustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi tempi sortiti in seguito allopera di rivoluzione fatta dalla guerra Il prestigio che ancora ispirava il nome di DAngi e il ricordo, sempre vivo, delle dure polemiche danteguerra, indussero Il Libertario a prendere nettamente le distanze da quelliniziativa. Parecchi compagni da varie localit ammoniva il foglio di Binazzi - ci chiedono spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto DAngi, colla quale si annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia. Rispondiamo in blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha pi nulla di comune cogli anarchici di Spezia e tanto meno con noi del Libertario Alla fine di maggio, Il Popolo dItalia - ormai organo ufficioso dei nuovi Fasci mussoliniani - ospit un accorato appello di DAngi a tutti i libertari interventisti, affinch dessero il loro contributo, anche economico, alla realizzazione de La Protesta. Ci che io desidero scriveva DAngi, precisando il proprio punto di vista  che tutti gli anarchici dItalia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano, abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non  lecito star zitti quando ci definiscono ex anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo reagire, dobbiamo esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le nostre idee per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri anarchici + Ibidem, Busta [Angi]. Il Libertario,Il Popolo dItalia IPO VRE PERI PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA Il primo numero de La Protesta usc. Noi si afferma nelleditoriale facciamo qui una pubblicazione anarchica, n pi n meno. Come prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti era quello di rivendicare la propria appartenenza alla famiglia anarchica, nella convinzione, semmai, che i tempi fossero pi che mai propizi per una riforma radicale dellanarchismo; riforma che doveva passare attraverso una selezione delle migliori energie rivoluzionarie. Lo sconvolgimento europeo sosteneva un anonimo articolista de La Protesta - ha insegnato qualche cosa alloperaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di emanciparsi, dobbiamo, come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del socialismo ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri,  tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa, dobbiamo parlare allindividuo Nonostante liniziale sostegno di Mussolini, e nonostante i favori raccolti in ambito anarcointerventista', il giornale di Roberto DAngi non sopravvisse al secondo numero, e il suo fallimento convinse lo stessoAngi a ritirarsi a vita privata. Lo sforzo, tentato da Angi con La Protesta, di connettere gli anarchici interventisti, come entit politica autonoma, alla pi vasta corrente rinnovatrice del dopoguerra, rest un caso isolato, ma il contatto tra gli . narchici e le forze superstiti dellinterventismo rivoluzionario fu fecondo anche di altre esperienze, che, pur non avendo un nesso diretto con | lanarcointerventismo,  doveroso richiamare brevemente. E nota, ad esempio, lattenzione con la quale, nel confuso biennio, gli interventisti rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - guardavano al movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due schieramenti erano molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi dincontro, particolarmente la comune ostilit nei confronti dei socialisti bolscevizzati e del loro inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e parolaio (Malatesta manifesta a pi riprese le sue riserve nei confronti dellesperimento leninista) '. Sul piano puramente strategico non 8 La Protesta ? Le coscienze volitive, Dopo il numero saggio del 16 luglio, il giornale di DAngi raccolse oltre 30 sottoscrizioni - per un totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de La Protesta ritroviamo alcuni dei nomi pi noti dellanarcointerventismo, da Gigli a Sarti, da Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem.  Angi muore a Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angi Roberto].  Liniziale cautela con cui Malatesta accolse le notizie provenienti dalla Russia lasci gradualmente - ma inesorabilmente - il posto a una condanna senza appello del comunismo era quindi irragionevole pensare, da entrambe le parti, ad unintesa dazione in chiave rivoluzionaria; e basti qui ricordare la vicenda del progettato tentativo insurrezionale che, auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume, occupata dai legionari di Gabriele D Annunzio, a tutta la Penisola. Il piano, che vide direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel dicembre 1919, grazie allinteresse del segretario della Federazione dei lavoratori del mare, il capitano Giuseppe Giulietti, e accolto favorevolmente dalla stampa filo-fiumana), fall, a quanto pare, solo per la ferma opposizione dei socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto allimpresa'. La presenza anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si manifest anche per altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non devono per meravigliare pi di tanto, quando si tenga conto. della multiformit delle posizioni allinterno del mondo anarchico. Daltra parte, il processo di ridefinizione degli spazi politici si prestava a favorire la nascita di connubi apparentemente improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de autoritario e soprattutto della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione di Malatesta riguardo al bolscevismo  essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati allargomento. Una scelta significativa di questi scritti (originariamente apparsi su Umanit Nova e Pensiero e Volont) si trova in MALATESTA, Individuo, societ, anarchia. La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma, Edizioni e/o, 1998. ! Il 27 dicembre, Il Popolo dItalia, che segu con simpatia e partecipazione il rimpatrio di Malatesta, rilev, a proposito dei rapporti di questi con linterventista Giulietti, chegli era forse meno intransigente dei tenenti idioti e nefandi del PUS. Gli apprezzamenti dellorgano mussoliniano, in verit, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore strumentale (al riguardo v. BORGHI). Del resto, linfatuazione del fascismo per il vecchio capo anarchico fu di breve durata (a questo riguardo si veda il duro articolo Una leggenda che si sfata, in Il Fascio, 6 marzo 1920), e tuttavia, lantibolscevismo di Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai iornali fascisti, in aperta polemica con i pussisti. Su questi fatti v. FELICE, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio Ambris Annunzio. Tra gli esempi pi significativi di questa sorta di diaspora anarchica devessere ricordato quello degli anarchici triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia asburgica, Andriani e Ukmar (che sono membri di riguardo del gruppo libertario Germinal, il pi importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale, costituito dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire lunione della citt irredenta alla madrepatria. Dimentichi di ogni divergenza di programmi recitava il manifesto del Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio Nazionale, sintesi ed espressione di quanti consentono ad ununione con la Patria [...], che ogni altro ideale comprende ed ammette (/taliani!, La Nazione). Su Andriani e Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il dominio asburgico, Milano, Giuffr La Testa di Ferro, lorgano dei legionari fiumani diretto dallardito e futurista Mario Carli!, che fu, per circa un anno, luogo dincontro e di confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo politico e certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a riviste dal titolo emblematico, come Nichilismo e LIconoclasta!. Attraverso la rubrica Polemiche danarchismo, il giornale di Carli, che iniziava le Carli, nato in provincia di Foggia ma fiorentino dadozione,  uno dei protagonisti delle avanguardie futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del giornale Roma Futurista (Settimelli, Marinetti, Rocca, Bottai, ecc.)  tra i fondatori del Partito Politico Futurista. Il futurismo politico, al quale dettero un apporto considerevole gli ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli arditi, si fece promotore dellAssociazione fra gli Arditi dItalia),  decisamente orientato a sinistra e costitu una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani, contribuendo altres ad influenzarne gli orientamenti. Il programma dei Fasci di Combattimento creati da Mussolini commenta Roma Futurista -  sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista. Forse, le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima  uno. E lo spirito dellItalia nuova: lItalia dei combattenti. Sulla figura e lopera di Carli v. Dizionario biografico degli italiani, Vol. 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad nomen, nonch il contributo di SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss. Sul futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, Bari, Laterza, 1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalit e al ruolo di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia, Ravenna, Longo. Li Nichilismo, diretta da Molaschi, usc a Milano; LIconoclasta, fondata da Gozzoli, vide la luce a Pistoia. Cfr. BETTINI, op. cit., ad indicem. Per capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda larticolo // mio individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci), comparso su LIconoclasta (ma se ne potrebbero citare molti altri). Quale differenza vi si legge corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa guisa han perduto la coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile. Sono dei deboli. Essi non sentono la propria individualit che vuole affermarsi, godere, vivere. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico. Vorrebbero che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io che voglio bere il profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio aspirare laere della Libert sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte. Io tanto superiore alla mediocrit. Io lotto per me, unicamente per me. Sono al di la del Bene e del Male. In ogni caso, posizioni di questo tenore suscitarono critiche allinterno della stessa rivista di Gozzoli (che - come recitava il sottotitolo - era aperta a chiunque). In un articolo significativamente intitolato /ndividualismo o futurismo?, Berneri defin deliri letterari, prose pazze e vuote, gli scritti di Villafiore e compagni, e pazzoidi e megalomani i loro autori, pubblicazioni, si apr ai contributi di quegli anarchici individualisti, per lo pi molto giovani, che, suggestionati dalla retorica demolitrice e anticonformista del futurismo, vi scorgevano unarma potente di rinnovamento della societ e, allo stesso tempo, un mezzo di realizzazione personale"8. In polemica con Umanit Nova (il primo quotidiano del movimento anarchico italiano, fondato da SUCKERT Malatesta), che guardava con naturale diffidenza alla rivoluzione fiumana e alle velleit sovversive dei futuristi, Carli affermava recisamente il carattere proletario e progressista del futurismo e definiva in questo modo il proprio rapporto con lanarchismo. Tutti sanno quanta dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del mondo, che vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, larcheologia e i corrieri della sera, E per questo che, non potendo pi accettare il dominio dellattuale classe dirigente, n avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi sento assai vicino alla concezione anarchica, cio individualista, che vuol preparare un tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri destini A sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che, pur plaudendo allopera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno dato alla causa fiumana e il loro sentimentalismo patriottico!, invitava gli anarchici a lasciarsi dietro le spalle il pessimismo vano, per aderire alla lotta propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre gli anarchici erano tutti pi o meno dei futuristi antipratici, platonici e pessimisti, i futuristi erano degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con un campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cio la patria. Tra gli anarchici collaboratori de La Testa di Ferro si contava anche Ghetti, responsabile dellufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si veda, in modo particolare, larticolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani), in Umanit Nova CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, La Testa di Ferro Cfr. BrUTNO. 22 Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le edizioni de La Testa di Ferro, l'opuscolo A/ di l del comunismo, che pu considerarsi il manifesto del suo sinistrismo. In esso, il poeta passava in rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della sinistra, e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario. Vogliamo afferma tra laltro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei carceri, perch la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantit possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci. K } Sisonialitga al quale facevano riferimento Carli, Marinetti e u uristi de La Testa di Ferro era il medesimo c in lindividualista Abele Ricieri F. ov. o ETTARI FRI 3 atore, descriveva come agilit volitiva, poesia i gli altri he, in quello stesso meglio noto come Renzo violenza creatrice [ dl . _ x . O . uo: 4 ca di ei o minoritario, puramente concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a 6 $ d F Veva a che veder il movimentismo malatesti  sconti stiano, cos pervaso di i  i mala umanesimo, n con il comunismo libertario di Umanit x i it Nova (col qual i, si i munism i i quale, anzi, si poneva in netta antitesi) , ma che era, innegabilmente, frutto di quel periodo storico I primi contatti col fascismo. Chiusa questa parentesi,  dunque il momento di tornare alle vicende dei protagonisti dellanarco-interventismo in procinto di vestire la cami ta nese di seguirne il cammino nellimmediato dopoguerra, a Jomiigii re di Rocca. i vandi. In questo periodo - come si accennava - linteresse di Rocca  per lo pi rivolto alla bruciante questione adriatica. In essa, allora al pui di sd dibattiti, egli rivers tutto il suo virtuosismo polemico e la sua abilit di propagandista, con il puntiglio e la caparbiet che gli erano propri Sebb Vicino ai nazionalisti, alla cui Associazione ader subito dopo la vera. Rocca non ne condivide le smodate mire imperialiste. Come si cilea dai MANTRA TORE: Oltre ogni confine, La Testa di Ferro. Bocea , pag Leni Nazi i tra i pi assidui collaboratori de LIconoclasta. sponenti della corrente anarco-individualist: i  Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri; va in F. UN FIORE SELVAGGIO, Pi A pr E; beds seal con una breve nota biografica e bibliografica a cura di Cimmii o ui fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i futuristi Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica l'Unione Anarchica a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi e  comuniste, si limita a fare della a, la vera anarchia non dove dare al i fattore economico dellesistenza, ma rici i FI nat) ; ercare la perfezione dellindividuo nella vi i sopra di ogni pregiudizio o di ogni do,  ITA a opr ] gma. Al contempo, per, lanonimo futuri distinguere il gruppo di Umanit Ni i pic ae a s ova dal Partito Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e define Malatesta, d i quaglie do, lel I morale, un agitatore e apostolo. - AE Rocca  membro del Fascio delle iazioni iotti 21 ro. dels associazioni patriottiche e del Comitat i L'ing irredente di Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca] Faggi Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. suoi numerosi articoli per La Perseveranza, a cui continua a collaborare fino a quando il mutamento della linea editoriale, sopravvenuto a un cambio di propriet, gli consiglia labbandono), la sua posizione non anda oltre la rivendicazione dellIstria e della Dalmazia, che egli non dubitava essere geograficamente, culturalmente e politicamente italiane. Una certa moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli imped di attaccare violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida Bissolati, sia dopo lintervista da questi rilasciata al Morning Post, sia dopo il suo celebre discorso alla Scala?. Rocca prende parte allimponente comizio milanese pro Fiume e Dalmazia italiana, che fu la risposta data dai dalmatofili alliniziativa del Zeader socialriformista, comizio nel quale - secondo Renzo De Felice - ebbe il compito di sostituire Mussolini, che prefer non intervenire per evitare incidenti8. Ai primi di marzo, Rocca intraprese un viaggio di studio lungo la costa orientale italiana, da Venezia a Brindisi, giungendo quindi a Spalato, sulla sponda opposta dell Adriatico. Dalla cittadina dalmata, dove si trattenne qualche giorno, fece pervenire al suo giornale un esteso reportage, nel quale si prodigava, con la consueta e un po pedante ricchezza di argomentazioni, a dimostrare l'italianit della Dalmazia. AI suo rientro in Italia fu protagonista di due nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e Torino; quindi, allinizio di aprile, part per Parigi, inviato speciale de La Perseveranza, a seguire da vicino i lavori del congresso di pace. Dopo il messaggio di Wilson agli italiani e il conseguente ritiro della nostra delegazione dalla capitale francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto, nei confronti del wilsonismo, un atteggiamento prudente e non del tutto ostile*, abbandona 7 A questo riguardo v. TANCREDI, // ministro della piccola Italia, La Perseveranza, e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491. Per la cronaca del congresso v. Il Popolo dItalia, 18 gennaio 1919. 29 Cfr. TANCREDI, La passione di Spalato, La Perseveranza, Cfr. Il Popolo dItalia, e La Perseveranza, ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77. 32 In occasione del viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega latina, fondata sullalleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo imperialismo anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del presidente americano, dicendosi favorevole ad una partecipazione italiana alla Societ delle Nazioni. Essa sola scrisse - avrebbe potuto garantire giustizia per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani dell'Istria e della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi (LIBERO TANCREDI, L'Italia e la Societ delle Nazioni, La Perseveranza). ogni remora, schierandosi senza riserve con il partito dellannessione, ormai - a suo dire - lunica via percorribile. AI congresso per l'annessione di Fiume e della Dalmazia, che si tenne a Milano, su iniziativa del Fascio delle associazioni patriottiche, Rocca non lesina le accuse a Wilson, denunciando il torbido retroscena bancario internazionale che si nascondeva dietro la figura del presidente filosofo. Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca si fecero sempre pi intransigenti. In un fondo per lorgano torinese dellAssociazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare la necessit di un imperialismo senza confini, qualora la crescente ostilit internazionale e Ia fantastica corsa allo sciopero allinterno del paese, con i suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di provvedere pacificamente allacquisto delle materie prime indispensabili. Questi ultimi accenni alla situazione interna dellItalia ci consentono di soffermarci sugli aspetti pi propriamente economici del pensiero di Rocca. La sua visione economica, infatti, che rimarr pressoch inalterata negli anni a venire, si veniva proprio allora configurando come una mistura di liberismo, sindacalismo e produttivismo di stampo mussoliniano. Cos, a proposito della ventilata introduzione delle otto ore lavorative, Rocca esprimeva lesigenza che ad essa si accompagnasse tutto un sistema otganico di educazione ed istruzione professionale che accrescesse il rendimento degli operai; i quali operai, a loro volta, pena il tracollo economico della nazione, avrebbero dovuto prendere coscienza delle loro accresciute responsabilit. Ci presupponeva una matura collaborazione tra capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca - lemancipazione dei lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite. lestraniarsi dalla storia e dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e dalla responsabilit chessi comportano, ma solo attraverso la piena compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un lato quello di comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di prendere consapevolezza dellormai inscindibile legame tra politica ed economia; dallaltro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di Audacia (appunti per l'On. Orlando), Il Popolo dItalia TANCREDI, Per il nazionalismo proletario. Un fenomeno d impotenza, La Riscossa Nazionale. Le otto ore internazionali di lavoro, La Perseveranza, ID., Assenteismo e collaborazione di operai e di industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo dilagante, sia di provvedere allintegrazione e alleducazione del proletariato. Occorre che la classe dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi elementi migliori, comprendano che il loro ufficio non  solo di resistere o di concedere, ma di persuadere e di guidare. Questo modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale, nel frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano giornale dei combattenti e dei produttori e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione che aveva, tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la demagogia bolscevica. Rocca, del resto, ricordava di aver aderito ai Fasci di combattimento fin dal 1919, poco tempo dopo la loro nascita. Questa affermazione, con tutta probabilit rispondente al vero, non  per altrimenti accertabile; quel che  sicuro  che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non dimostr, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per liniziativa di Mussolini. Di Il Popolo dItalia lancia un invito per la costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le molte adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo, ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il vecchio anarchico Vittorio Boattini (che si dice toto corde con Mussolini, per le sante bastonature interventiste ed anti-bolsceviche) Rivellini e Ghetti. Gli anarchici coscienti scriveva questultimo al suo conterraneo Mussolini non potranno che aderire al vostro appello . i Alla riunione milanese di Piazza san Sepolcro fu senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito allappello di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur essendo stato testimone diretto dellaccaduto, fa riferimento alla cronaca de Il Popolo dItalia), vi avrebbe preso parte Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919. sig In., La svalutazione sociale della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 31. "i olo dItalia, 9 marzo 1919. SIAT i  nato a Meldola, nei pressi di Forl. Manifesta idee anarchiche. Si trasfere a Milano, dove aveva a Li collaborato a Il Grido della Folla. la Prefettura milanese scrive che, avendo egli, durante la guerra, militato nel campo interventista, si dimostra un fervente nazionalista, in tal senso svolgendo attiva propaganda. Il figlio di Boattini, pe  per qualche tempo segretario politico del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta 679 [Boattini]. #2 Il Popolo dItalia, anche Malusardi*, ma il fatto non  certo. Malusardi stesso, in un telegramma di adesione a Il Popolo dItalia, si era detto dispiaciuto, trovandosi ancora sotto le armi, di non poter partecipare personalmente, limitandosi a garantire la sua presenza in ispirito, per riaffermare recisamente il suo interventismo e la sua apostasia* - Il fatto che, anni dopo, Malusardi rivendicasse la patente di sansepolcrista, non  affatto probante, vista la tendenza di molti fascisti, anche della prima ora, a retrodatare il pi possibile il momento della loro presa di coscienza. GIAMPAOLI, Roma, Libreria del Littorio. In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare Il Popolo dItalia), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di Milano e di Bologna. Il Popolo dItalia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose a posto e Commiato, in Audacia, 28 maggio e Degli anarchici interventisti che sposarono la causa fascista, uno fra i pi intraprendenti  Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, adere al Fascio di Bologna a pi di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio bolognese - nato nellaprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri interventisti di parte democratica - Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un ruolo del tutto marginale, nonostante la notoriet conquistata, allorch un comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di Lodi si concluse in un violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio dordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta camerati (cfr. Il Popolo dItalia).  in parallelo con linvoluzione reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati inizi una spregiudicata ascesa politica. L11 aprile, il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento gli affid la responsabilit per lEmilia centrale; quindi, in occasione del congresso fascista di Milano, nel maggio, entr a far parte dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. Il Popolo dItalia). Tra il settembre e lottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio seguito alloccupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria riorganizzazione del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi il sostegno, anche finanziario, degli ambienti pi conservatori. Il Fascio di Bologna, cos ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di una struttura militare di primo piano, divenne una delle centrali dello squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di unimpressionante escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo DAccursio, che consegn il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti questi punti v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note sulle origini del fascismo a Bologna, in Bologna Le origini del fascismo, a cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La strage di Palazzo Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, Gioda: il difficile equilibrio tra reazione e operaismo A differenza di Massimo Rocca, che si avvicin al fascismo gradualmente e con un certo distacco, Gioda si gett anima e corpo nella nuova avventura. Due giorni dopo ladunanza di Piazza San Sepolcro, Gioda, con lex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la segreteria. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda - come avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva un ometto dalle grosse lenti e dalleloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito marrone; piuttosto il tipo dellintellettuale - si direbbe - che quello del tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente prese sede nei locali della Lega dazione anti-tedesca, unassociazione patriottica di destra sorta ad opera del nazionalista Cian. Il fascismo torinese - al cui sviluppo iniziale contribuirono in misura notevole gli ex combattenti (Gioda cerc in ogni modo di venire incontro alle esigenze e alle richieste dei trinceristi, sforzandosi di far apparire il fascismo come il legittimo rappresentante dei loro interessi) nacque dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra, distinguendosi da Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca nellaccostarsi al fascismo fu dovuta anche ai non ottimi rapporti tra questultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto granch in simpatia colui [Rocca] che lo aveva violentemente attaccato, obbligandolo, nei confronti dellintervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe preferito assumere senza sollecitazioni esterne (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia di un regime, Roma, Editrice La Rocca). Cfr. Il Popolo dItalia. AVENATI, Dodici anni dopo. Com' nato il Fascio di Torino, La Stampa In seguito il Fascio si trasfer nei locali della Pro Torino, in Galleria Nazionale, un'associazione patriottica di stampo sabaudo presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA. Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti torinesi iniziarono unopera di penetrazione nella provincia. In una delle primissime riunioni del Fascio, il 29 marzo, lanarchico trincerista Boario rec le adesioni dei gruppi fascisti del Canavese, di Ciri, di San Maurizio e di Caselle. Cfr.GIODA, Il fervido lavoro dei fascisti a Torino, Il Popolo dItalia) La coscienza combattentistica di Gioda, bench inevitabilmente ammantata di retorica, appariva sincera. Gi prima della nascita dei Fasci di combattimento, lanarchico torinese si era fatto promotore di una campagna per il pieno riconoscimento dellindennit di congedo agli smobilitati, rappresentanti lItalia pi vera e coraggiosa, quella in grigio verde (ID., Sino all'ultimo sussidio militare e l'indennit di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). PORT PI CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA subito per le forti venature non solo antisocialiste*, ma, spesso, antipopolari tout court. Ci divenne ancor pi evidente dopo lavvento di Vecchi, un tipico esponente della borghesia conservatrice piemontese (cattolico militante e monarchico senza riserve, secondo la definizione che egli da di se stesso) , il quale, entrato nel Fascio alla met di aprile, ne divenne in breve, a dispetto di Gioda, il vero deus ex machina. La convivenza tra i due uomini forti del fascismo torinese, cos diversi per indole, per estrazione sociale e per esperienze politiche, si rivel subito molto difficile. Emblematico, a questo riguardo, il giudizio, sospeso tra lironia e la commiserazione, che Vecchi, nella sua autobiografia, ci ha lasciato di Gioda: un povero diavolo dalle molte vicende. Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla simpatia e dalla complicit dei ceti pi tradizionalisti. Se Torino - come rimarcava lorgano del nazionalismo piemontese - era stanca di essere diffamata da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana*, allora il fascismo poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento dordine, pi che mai indispensabile a svolgere una decisa azione di vigilanza e di controbatteria. Cos, gi alla fine di aprile, il Fascio di combattimento poteva vantare ladesione di ben 31 associazioni liberali torinesi, e non v' dubbio che, nonostante gli impedimenti inizialmente frapposti dallautorit prefettizia, lapporto delle destre valse a favorire la graduale espansione del fascismo nel capoluogo piemontese. Il lavoro Sul piano della stretta organizzazione antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto efficienti. In un telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un ufficio [...] con mandato di seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo socialista ed anarchico, vale a dire di un vero e proprio apparato di spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza (dora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e riservati (dora innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI, // quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia, p.I/. Sulla figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. Il Popolo dItalia, Al Fascio ader anche il comitato madri dei combattenti, presieduto dalla contessa Eleonora Contini di Castelseprio. Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a lamentarsi in pi di unoccasione, sulle pagine de Il Popolo dItalia (per il quale curava la cronaca di Torino), del trattamento riservato ai fascisti torinesi dalle autorit cittadine, nonch della presunta campagna diffamatoria della giolittiana La Stampa nei confronti del Fascio di combattimento. scriveva Gioda a Bianchi a un mese dallentrata in funzione del Fascio - procede benissimo e tra molto entusiasmo. Il Fascio si  imposto confermava di l a poco a Mussolini e se noi non ci lasciamo sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili!. Ma qual era, in tutto questo, il vero ruolo di Gioda? Se egli era senz'altro consapevole dei vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino dallaccordo con loligarchia conservatrice piemontese, ci sembra per scorretto affermare - com stato fatto - che egli ritenesse quella della reazione antipopolare lunica strada da battere. In realt, l'approccio dellex tipografo alla questione delle alleanze politiche, cos come a quella, pi complessa, dellorientamento generale del fascismo, era - e sempre sarebbe rimasto - ben pi problematico. Gioda, infatti, pur difendendo il carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso accorressero tutte le forze sane, giovani, italiane, senza distinzione di parte o di colore politico (perch il fascismo doveva essere anarchicamente - lantipartito), teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per dei nemici del proletariato. Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo convegno regionale dei Fasci piemontesi, allinizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (dora innanzi MRF), Carte del Partito Nazionale Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta, Lettera di Gioda a Bianchi, Lettera di Gioda a Mussolini, MANA, Origini del fascismo a Torino, in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra, Milano, Angeli, L'idea di antipartito era gi da tempo al centro della riflessione politica di Mario Gioda. Lavversione alle forme tradizionali di organizzazione politica, gi tipica dellanarchismo individualista, trovava del resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e antiparlamentari del dopoguerra. Lantipartito aveva scritto Gioda vuol essere il sunto della nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i politicanti. Contro il feticcio partito, ormai incapace di conciliarsi collelettamente dinamica modernit civile (la nuova societ scaturita dalla guerra), occorreva suscitare lidea sovvertitrice dellantipartito, un'iniziativa iconoclasta e squisitamente anarchica, in grado di restituire dignit e centralit ai singoli individui (GIODA, L'antipartito, Il Popolo dItalia). AI di l dei riferimenti ai temi del reducismo e del produttivismo, tipici dellaumus del periodo e dai quali il trincerista e prossimo fascista Mario Gioda non poteva prescindere, la radice libertaria e individualista di una simile impostazione di pensiero appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei padri spirituali dellantipartito). Sul concetto di antipartito nel primo fascismo v. GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, GIODA, Aspetti del fascismo torinese, Il Fascio Cfr, Il Popolo dItalia riaffermata poi in pi di un frangente. Ad esempio, Il Popolo dItalia riportava unintervista di Gioda al sindacalista Angelo Scalzotto, che lautore stesso definiva un saldo e vigoroso lottatore, ben noto nel campo dellorganizzazione e del socialismo italiano. Lintervista verteva sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare sulla questione delle otto ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che lapprovazione, da parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri non poteva non destare un senso di legittima soddisfazione, dal momento che vedeva tutelati i sacrosanti diritti dei lavoratori. Il fatto che poi, in occasione dello scioperissimo, il Fascio di Torino assumesse, nei confronti degli scioperanti, una posizione di aperta sfida, non muta i termini del problema, in quanto liniziativa dei fascisti era ancora indirizzata contro la politica irresponsabile dei bolscevichi (ed era pienamente condivisa da tutti i partiti della sinistra interventista) e non contro la totalit dei lavoratori!. E per vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente sbilanciato a sinistra, Gioda - come ricorda Felice - espresse qualche perplessit, soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta pregiudiziale istituzionale. Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio Longoni -  rimasto male poich ha intravisto tra le riforme anche quella definitiva della monarchia. Forse  necessario mettere i puntini sugli i e Un manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quelloccasione, faceva intendere senza mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario, sarebbero intervenuti a tutela dellordine, onde salvare il paese dal tragico caos bolscevico. Allo stesso tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che nessun partito socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori come i Fasci di combattimento, e di immediata attuazione. Sullo scioperissimo a Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. La Stampa. Latteggiamento dei fascisti nei confronti dello scioperissimo  ben rappresentato dalle lettere di due anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla redazione de LArdito, il giornale dellAssociazione fra gli arditi dItalia, scrisse a Mussolini (che ne defin la lettera un gesto di fierezza e di dignit) di non aver alcuna intenzione di subire supinamente le imposizioni della Federazione del libro, il sindacato a cui aderiva, e che si sarebbe recato come di consueto sul posto di lavoro (Il Popolo dItalia). Su Il Giornale del mattino del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni) comparve una lettera non meno polemica del ferroviere Arpinati. Secondo il suo primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica proprio in occasione dellassemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il 20 luglio, allorch si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli allastensione dal lavoro (cfr. NANNI programma, elaborato da Agostino Lanzillo e intitolato / postulati dei Fasci. Per la rappresentanza integrale, fu reso noto da Il Popolo dItalia, chiarire i nostri rapporti coi fascisti monarchici. La preoccupazione di Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i delicati equilibri interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici erano in netta preminenza, e non  difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni un esplicito riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato le vicende successive alle elezioni politiche, non aveva rinnegato il proprio repubblicanesimo. Le sue cautele erano quindi dettate da considerazioni di ordine strategico e in questo senso, piuttosto che in quello di un suo personale mutamento di rotta, devono essere interpretate le sue pur numerose concessioni alla destra. La questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti riformisti), si present con sempre maggior forza in previsione delle elezioni politiche dellautunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il movimento fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano a ridosso del voto) , ma che, a Torino, prendeva un significato particolare. Gi il primo agosto 1919, in una nuova lettera allamico Longoni, Gioda defin leventualit che si addivenisse a un blocco elettorale di tutto linterventismo di sinistra la soluzione preferita da Mussolini - una sterile palla di piombo!. E chiaro che Gioda pensava a salvaguardare lunit del Fascio da lui guidato, dove le forze di destra, che erano preponderanti, non avrebbero mai condiviso una piattaforma programmatica che ponesse tra i propri obiettivi quello della costituente. Non a caso il direttore de La Riscossa Nazionale espresse il proprio rammarico per le ripetute dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se anche i fascisti torinesi intendessero seguire il loro duce in quella china. Gioda, consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi, intervenne a dissipare le perplessit dei destri. Mussolini sostenne - esprimeva una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta, almeno sino alla convocazione del primo congresso nazionale fascista. Quanto al Fascio di Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali di sorta. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla decisione, votata dalla Giunta Esecutiva del Fascio capitolino, di aderire alla Alleanza Nazionale, lintesa elettorale promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr. Dichiarazioni futuriste sulla situazione elettorale romana, Roma Futurista, 2 novembre FELICE, Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, La Riscossa Nazionale, 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio affermava Gioda - stimo politicamente certi nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al Fascio io non ne conosco nessuno. Cos come ignoro repubblicani, monarchici, socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio, che non pu essere un partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un dato programma di realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato proprio io, anarchico, a proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e Vecchi, monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio Ora, ci che queste parole mettevano in evidenza non era soltanto uno scrupolo elettoralistico, ma la fermezza di Gioda nel difendere il carattere antidogmatico dellidea fascista; una presa di posizione tipica della vocazione movimentista del primo fascismo, ma nella quale, nel caso specifico di Mario Gioda,  possibile scorgere (almeno in qualche misura) anche il retaggio dellanarcoindividualismo. Non  privo di significato, daltronde, che il fascista Gioda, consapevole della novit rappresentata dal fascismo rispetto alle categorie politiche danteguerra, richiamasse tuttavia la propria identit di anarchico, e non gi come semplice attitudine o abitudine mentale, ma come un dato di fatto politico. In ogni caso, chiarito che il fascismo, quanto meno in Piemonte, non nutriva propositi sovversivi, Gioda pot confermare che il Fascio di Torino avrebbe davvero costituito lasse per una grande intesa degli interventisti in vista delle elezioni; ma che questa. sarebbe appunto avvenuta fascisticamente, fuori dagli schemi destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal colore della tessera di partito. La marcia di Ronchi e loccupazione militare di Fiume da parte di Gabriele. DAnnunzio parvero poter accelerare questo processo di unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore di in comitato pro Fiume (ne sorsero di analoghi un po in tutta Italia), nel quale erano rappresentate tutte le forze nazionali, di sinistra e di destra, dai repubblicani ai nazionalisti. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero, che avrebbe ben presto ceduto il passo a una pi grande incertezza.GIODA, / nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip., Gli aspetti del fascismo torinese, cit. Nel corso di unadunata del Fascio torinese alla presenza del segretario politico generale del movimento Pasella, Gioda ribad che a Torino i fascisti si sarebbero battuti per unintesa elettorale degli interventisti di tutti i partiti. Cfr. Il Popolo dItalia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista di Firenze non venne affatto, contrariamente alle aspettative del segretario del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo defilato), unindicazione univoca in senso elettorale. Alla relazione di Bianchi, fautore di una linea politica possibilista (la politica del caso per caso), fece da contraltare quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito, lasci per trasparire lintenzione di perseguire laccordo con le sinistre interventiste. Quel che ne usc fu un ordine del giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava libert di azione ai singoli Fasci. Questa libert, venuta meno ogni possibilit di accordo a sinistra, fin per concretarsi nellalleanza con la destra liberal-nazionale (nella sola Milano, infatti, il fascismo riusc nellintento di presentare una lista autonoma) 7. I deliberati del congresso di Firenze, nella loro elasticit, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il quale, libero da condizionamenti di sorta, pot rivolgersi alle forze politiche torinesi con linvito ad abbandonare le fazioni e a dar corpo ad un potente fascio di energie, in funzione antibolscevica e antigiolittiana. Per questa via si addivenne infine alla costituzione di un Blocco della Vittoria, peraltro chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne facevano parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali alcuni membri del disciolto Fascio Parlamentare (Daneo, Sulloccupazione di Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra in Italia e l'avvento del fascismo Dalla fine della guerra all'impresa di Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a Fiume, Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci, e OSTENC, Si veda inoltre lintroduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO, La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr. FELICE, Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. Il Popolo dItalia). Vecchi entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento, in rappresentanza dei Fasci piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al momento della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori della sede dell Avanti!. La sua candidatura scriveva Il Popolo dItalia significa elevazione delle classi lavoratrici, lo sforzo per formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero e di azione. Nella lista dei Fasci egli rappresenta loperaio onesto e che non usurpa il nome di lavoratore. Mazzucato risult 14, su un novero di 19 candidati, con 56 voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale piemontese, Il Popolo dItalia, 24 ottobre 1919, e Il Fascio, Bevione e lex Presidente del Consiglio Boselli), mentre il Fascio vi era rappresentato da quattro combattenti: De Vecchi, il generale Etna, gi comandante del corpo darmata di Torino (deposto su ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli alpini Garino e il capitano Revelli. LUnione Socialista Italiana, che in un primo momento sembr poter entrare nel Blocco, se ne tir fuori quasi subito, per far causa comune con i repubblicani nella Alleanza Elettorale. A questo punto, Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una strada a rischio. Si nota infatti, nella sua attivit politica prima delle elezioni, la preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del Blocco della Vittoria troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo illustrativo per Il Popolo dItalia - era la pi organica, la pi rappresentativa anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un contenuto sociale notevolissimo? In particolare, egli rimarcava ancora una volta che il fascismo intendeva combattere il bolscevismo, non i lavoratori nel loro insieme, ed operava altres una netta distinzione tra pussisti e socialisti rivoluzionari. Un accenno alla lotta contro il bolscevismo scriveva Gioda a commento di un passo della piattaforma elettorale del Blocco - non  troppo felice. Si confuse, da Cfr. Il Popolo dItalia, 25 ottobre 1919. AI Blocco della vittoria non ader la sezione torinese dell Associazione Nazionale Combattenti, che si pronunci a favore dellastensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio, Gioda critica duramente la scelta dei combattenti, non tanto perch non ne condividesse le ragioni ideali (la volont, cio, di non compromettersi nella lotta parlamentare), quanto, piuttosto, perch la riteneva controproducente sul piano tattico. I fascisti disse Gioda hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare, ovunque e comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti ufficiali. Si noti che, nel testo originale autografo del discorso di Gioda, la parola anche  sottolineata, a evidenziare il carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia elettorale fascista. ACS, MRF, Esposizione, Busta[Documenti]. Il Fascio commentava a questo riguardo Gioda non ha potuto far blocco con lUnione Socialista Italiana, cio con i bissolatiani, non tanto per divergenze programmatiche, quanto per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti ed anche perch la USI vorrebbe impostare la campagna elettorale prescindendo dallinterventismo e dal neutralismo. GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei socialisti rinunciatari contro i fascisti, Il Popolo dItalia). Il programma elettorale del Blocco della Vittoria. Tra i postulati del programma elettorale del Blocco della Vittoria figuravano: lintroduzione di una tassa sui sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema doganale (per abbattere parassitismi e monopoli) e della burocrazia, lassicurazione obbligatoria contro linvalidit, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma degli organi legislativi che garantisse alla classe lavoratrice [...] una diretta e specifica rappresentanza. nisticntiititnm parte dei redattori del programma, socialismo rivoluzionario e bolscevismo. Ora, i maggiori e migliori esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario sono antibolscevichi per eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da Cipriani a Corridoni a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo rivoluzionario. Le elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei fascisti. A Torino risultarono eletti nelle file del Blocco della Vittoria i soli Bevione e Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riusc Vecchi, seguito da Etna, Revelli e Garino. Rispetto alla vera e propria dbacle registrata dal fascismo in altre parti dItalia, non si trattava di un esito disastroso, ma occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non ottennero alcunch (Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo parlamentare giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne, sottolineava il rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di brillante risultato**, ma si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una ben magra consolazione . su In verit, la sconfitta bruciava e fu anzi loccasione per un chiarimento allinterno del Fascio di Torino. Si riun l'assemblea generale dei fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri, spalleggiati da Gioda, criticarono linvoluzione conservatrice del Fascio, sostenendo la necessit di un pi stretto rapporto con i lavoratori delle fabbriche??. Riguardo allalleanza con le destre, Gioda dichiara Per lesattezza, il Blocco della Vittoria riporta 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dellAratro, i 10.093 del Partito Economico, i 6.547 dellAlleanza Elettorale, e i 1.642 del Partito Agrario. Per un quadro esauriente dei risultati elettorali nel capoluogo piemontese v. La Stampa. GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal Fascio di Torino, Il Popolo dItalia, 28 novembre 1919. #5 Cfr. Il Fascio, 20 dicembre 1919. Mi l Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era un tipico rappresentante dell ala operaista del fascismo. Quali fossero le sue convinzioni  ben testimoniato da un suo discorso al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo pi di socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza rivoluzionaria e proletaria del programma fascista, evidenziandone le differenze ma anche le affinit con quello socialista, in ci rivelando il timore comune anche a molti altri fascisti - che una troppo accentuata politica antisocialista potesse condurre allisolamento del movimento fascista dalle masse. E significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi incidenti tra fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che oggid occorra molta, ma molta circospezione prima di avventurarsi ancora in altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre la nostra giovinezza didee e la nostra combattivit a beneficio dei vecchi partiti e dei vecchi loro rappresentanti. Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito dopo, entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Cantinetto e Giraudo) Lallargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda (che fu riconfermato segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la ripresa, in vista di nuovi cimenti e di pi gagliarde lotte politiche e sociali**. Tuttavia, la decisione di recuperare spazio e credibilit a sinistra rest senza seguito. Lassenza di una base reale tra i lavoratori (a fronte di un movimento operaio forte e, a Torino pi che altrove, schierato su posizioni di avanguardia), le irrisolte contraddizioni della politica fascista - rese ancor pi stridenti dalla nascita e dalla diffusione del fascismo agrario - e le resistenze della destra interna, determinarono la sconfitta (ma sarebbe pi opportuno parlare di mancata realizzazione) di questo progetto. Nella prima met del 1920 il fascismo torinese attravers quindi una fase di ristagno, per non dire di vera e propria crisi, che parve poterne compromettere le sorti, tanto che lunico successo ottenuto da Gioda in questi mesi fu la costituzione, accanto al Fascio, di una Avanguardia Studentesca, In occasione di una nuova assemblea generale dei fascisti torinesi, nel maggio, Gioda pronunzi un importante discorso, che, sebbene non si discostasse granch da quanto egli professava fin dal 1915, lasciava presagire un nuovo mutamento di prospettiva politica, nel senso di unattenuazione delle velleit operaiste. Linsuccesso della linea di sinistra propugnata da Gioda e il prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di un indirizzo e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. 80 Il Fascio, cit. n Cfr. Il Popolo dItalia, 25 dicembre 1919. Di GiODA, Un appello ai fascisti torinesi, Ivi. AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss. 2 bt Avanguardia Studentesca torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta dallo studente dingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, gi membro della nuova Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. Il Fascio. Sul fenomeno delle avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e associazionismo giovanile, lopera pi circostanziata rimane quella di NELLO, L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del fascismo torinese. Ancora nellaprile, in risposta della grande agitazione dei metallurgici (il cosiddetto sciopero delle lancette), un manifestino del Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il bolscevismo - che aveva corrotto lidea socialista di giustizia e di libert -, per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali erano per le pi ardite riforme e le pi audaci rivendicazioni dei lavoratori, purch queste non significassero la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione?!. Nel discorso del maggio laccento si spost (mazzinianamente, potremmo dire) dal piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con unaccentuazione dei temi pi strettamente produttivistici. I fascisti dice Gioda sono delle volont e delle capacit che seguono direttive senza dogmi e senza battesimi politici. Per questo sono, alloccorrenza, rivoluzionari e conservatori. Vogliamo tutti i diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo sa assolvere tutti i suoi doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere  una bestia da soma che qualsiasi governo o classe capitalistica o chiesa politica possono asservire. La questione del proletariato, invece,  un altra cosa. E una questione innanzitutto di capacit, allinfuori delle ciance rivoluzionarie e parlamentari. E una questione di volont superiori maturate attraverso lesperienza produttiva di tutte le energie nazionali? Gioda prese parte al secondo congresso nazionale fascista, che si riun a Milano, quello della svolta a destra e della ! ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Il Fascio, cit. Il dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato anarchico e repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza per tralasciare di considerare che la disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario del cosiddetto problemismo fascista), accompagn tutta lopera di Gioda. Durante ladunata provinciale dei Fasci piemontesi, chebbe luogo a Torino il 27 febbraio 1921, Gioda, commentando la relazione di Umberto Pasella sulla questione sindacale, difese il principio, in essa affermato, della legittimit dello sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte, un cattivo padrone e un pessimo amministratore. 1 Fasci di combattimento, per Gioda, non dovevano essere organizzazioni di guardie bianche o comitati di difesa civile e avevano il dovere di battersi per qualsivoglia riforma, sia pur audace, quando essa avesse arrecato beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli interessi generali. Riprendendo un concetto caro allala sindacalista del fascismo, il segretario del Fascio torinese auspic la trasformazione del movimento politico e sindacale fascista in un unico partito del lavoro. ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Sui presupposti ideologici del partito del lavoro, , pi in generale, sugli orientamenti laburisti allinterno del fascismo. GENTILE., e soprattutto NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader fascista, Bologna, Il Mulino, conseguente trasformazione del movimento. Daltro canto, lingresso di Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di De Vecchi, rappresent - come ha sottolineato Felice - lunico successo dellala sinistra del fascismo. Al riconoscimento di Gioda sul piano nazionale non corrispose per il rafforzamento della sua leadership nellambito del fascismo torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il rinnovo della Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta affermazione della destra. De Vecchi, chiamato a presiedere la Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio prestigio e la propria influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia costringevano Gioda a forzati periodi di assenza dalla scena politica cittadina. Da questo momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo, di cui Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la sua espansione. Gioda, dal canto suo, recuper il proprio ruolo soltanto a I nuovi Postulati programmatici del movimento fascista, approvati a Milano, modificavano radicalmente in senso conservatore - il programma fascista. Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta dellassemblea costituente (lanarchico Ghetti, rappresentante del Fascio di La Spezia, fu tra i pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il nuovo corso del fascismo, Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonano il movimento. Per il resoconto del congresso v. Il Popolo dItalia, e Il Fascio. Sullintera vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario Cfr. Il Fascio. Il ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse il fascismo torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era riunita unassemblea straordinaria del Fascio per decidere circa latteggiamento da assumere di fronte alla crisi di governo. Caduto il secondo gabinetto Nitti, si prospettava infatti leventualit di un esecutivo affidato a Giolitti: una soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso dellassemblea, che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni intesa con i giolittiani, definendo uningiuria alla nazione vittoriosa il rientro sulla scena nazionale delluomo politico di Dronero, e minacciando addirittura di dimettersi qualora i fascisti di Torino avessero dato il loro assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata assemblea generale del Fascio di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro Giolitti, Il Fascio). Di fronte alle resistenze incontrate allinterno del Fascio e, soprattutto, di froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire laccordo con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna possibilit di affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si decise a convocare la nuova assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo della Commissione Esecutiva. Su questi avvenimenti v. MANA. Con loccupazione delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre contribuirono a legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che si erano visti minacciare nei setter cirrretricdatietnttittztt sac, allorch assunse la direzione del nuovo settimanale del fascismo torinese: Il Maglio. Rocca: il fascismo come nuova lite AI congresso fascista di Milano assistette anche Massimo Rocca. Le sue conclusioni non dovettero dispiacergli, se  vero - come ha lasciato scritto - che egli non si era entusiasmato alloriginario programma sansepolcrista, giudicandolo troppo impeciato di socialismo. Ma Rocca, sia pur attento osservatore delle traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un giornalista. Inizia le pubblicazioni la rivista settimanale Il Risorgimento. Lintendimento della redazione, guidata dal conte Arrivabene, ex direttore de La Perseveranza, era chiaro: occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo la sua conversione al nittismo, fare un giornale che riflettesse le idee e le aspirazioni della borghesia conservatrice. Poich Rocca ne divenne uno dei pi continui e pi stimati collaboratori, le credenziali dellex novatore anarchico quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite. Sulle pagine de Il Risorgimento Rocca riprese la polemica adriatica. E indispensabile ritornare sullargomento, perch fu proprio su tale delicata questione che si venne realizzando lincontro definitivo tra Rocca e Mussolini. Inizialmente, Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza, scagliandosi contro la Lissa diplomatica, cui, a suo parere, la politica dei rinunciatari avrebbe condotto il Paese. Quasi nello stesso tempo, tuttavia, prese ad emergere, dai suoi scritti, una posizione diversa, pi conciliante e realistica. Di fronte alle mille difficolt frapposte dagli Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni italiane, Rocca si persuase che la sola via loro interessi e non si sentivano adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul iano dei finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Il Maglio, fondato dal capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel gennaio, evolvendo dal quotidiano La Patria, un foglio interventista vicino ai nazionalisti. Per lesattezza, Gioda ne eredit la direzione a partire dal sesto numero, inaugurando la rubrica Senza guanti (che usava firmare con il vecchio pseudonimo lAmico di Vautrin), una finestra polemica sulla realt nazionale e cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a distanza con la stampa avversaria, in particolare con Ordine Nuovo, organo del PCdI torinese. 9 Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La lingua nostra, Il Risorgimento, Milano, duscita fosse quella dellapplicazione integrale del patto di Londra del 1915. Consapevole che ci sarebbe equivalso a rinunciare a Fiume, Rocca (che pure aveva avuto una breve esperienza come legionario dannunziano) ! si disse convinto che la citt, confinante con un'Italia signora del Carso, delle Alpi Giulie, dellIstria e dell Adriatico, si sarebbe sentita infinitamente pi forte, che se fosse stata abbandonata, senza continuit territoriale, ad una larva di sovranit italiana'. Dopo lavvenuta autoproclamazione di Fiume in stato indipendente, Rocca si rafforz nella convinzione che lItalia non dovesse legare i propri destini a quelli della citt martire. In un articolo gli elogi di prammatica al coraggio e alla fede della popolazione fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano dAnnunzio. Noi - scrive Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori dellannessione di Fiume allItalia. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che, oggi, lItalia non pu contemporaneamente annettere la citt del Quarnaro e realizzare il Patto di Londra: anzi, che nella nostra lotta diplomatica in difesa dell Adriatico e contro gli Alleati, leroica passione di Fiume  pi dimpaccio che daiuto. Il giudizio lusinghiero riservato da Rocca alla Carta del Carnaro (contemplante in effetti alcune delle soluzioni da lui stesso auspicate sul piano dellordinamento politico), non ne scalfiva lopinione che la reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo alle aspirazioni internazionali dellItalia. Lambizioso esperimento fiumano era, in ogni caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato 100 a i d n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca, giunto a Fiume subito dopo la marcia di Ronchi, vi era rimasto per circa tre mesi, durante i quali aveva gestito lufficio di propaganda estera di DAnnunzio. A Fiume si erano ritrovati anche altri anarchici interventisti, fra i quali Mazzucato e Malusardi. !! LiBeRO TANCREDI, La sfda di Nitti, Il Risorgimento, 20 maggio 1920. !2 Ip., L'Adriatico e l'Europa. In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana (redatta dAmbris e messa in bello stile dAnnunzio) fosse sancito il dovere di produrre, quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A parte questo, egli condivideva labolizione del Senato e listituzione di un camera tecnica, espressione delle diverse corporazioni professionali. Le corporazioni, secondo Rocca, erano l'istituto fondamentale, il solo in grado di raccogliere e disciplinare le masse e di dar loro una norma e unidea. (ID., La costituzione di Fiume). Nondimeno, al di l delle convergenze formali, il produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore di Massimo Rocca differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi dAmbris e d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino, eli ita tra lItalia e la Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro colpo alle velleit indipendentiste del comandante. In due suoi interventi su Il Popolo dItalia, scritti a ridosso dellaccordo italo-jugoslavo, Mussolini mostr di accettare sostanzialmente lesito dei negoziati!. Si trattava di una mossa a sorpresa, spregiudicata, frutto di un preciso calcolo politico (in questo modo il duce avrebbe realizzato il suo inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello nazionale) ', che disorient la maggior parte dei fascisti ma trov consenziente Massimo Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si riun per discutere della questione. Rocca, presente come semplice osservatore (e perci senza diritto di voto), si schier apertamente dalla parte di Mussolini, imitato dal solo Rossi. Il Trattato di Rapallo - dice Rocca - risolveva il problema adriatico dal lato di terra, mentre lasciava insoluta la questione dell Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a questultimo punto, il suo parere era che i fascisti dovessero far buon viso a cattiva sorte, senza perdersi in uno sterile massimalismo e soprattutto senza assecondare improbabili disegni di sedizione militare. Non si trattava - sostenne ancora Rocca riecheggiando le tesi espresse negli articoli di Mussolini! - solo di una ragione di opportunit, in quanto il problema marittimo per lItalia non si fermava all Adriatico, ed era quindi uno sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come lunico obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione pi ampia dei problemi di politica estera. O noi concluse Rocca con una provocazione - riusciamo ad essere i padroni dItalia e facciamo la politica interna ed esterna che ci piace, oppure persuadiamoci che impiantare una politica estera armata accanto a quella ufficiale, senza essere capaci di annullare quella ufficiale, potrebbe forse essere un male gravissimo MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, Il Popolo dItalia, 12 novembre 1920, e Ci che rimane e ci che verr, . Su questi fatti v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare Torino, era assente in quanto ammalato e fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il Fascismo innalza la bandiera della Dalmazia Italiana, Il Popolo dItalia, Gli italiani scrive Mussolini nel suo fondo non devono ipnotizzarsi sullAdriatico. C' anche se non ci inganniamo un vasto mare di cui l'Adriatico  un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilit vive dellespansione italiana sono fortissime. La discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento, cit. Dopo accese discussioni, la riunione termin con lapprovazione di un ordine del giorno unitario, largamente compromissorio, che, se snaturava completamente la primitiva mozione di Mussolini! apparendo come un successo della corrente filo-dannunziana, in realt non andava oltre una generica dichiarazione di solidariet a D'Annunzio e non comprometteva affatto la strategia del duce, come gli avvenimenti delle settimane successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del Natale di sangue, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione del Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro lordine del giorno (come aveva fatto Rossi) solo in quanto non ne aveva legalmente diritto, riconfermando la propria solidariet al duce. Da quel giorno Rocca entra a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non soltanto, infatti, riprese la collaborazione con Il Popolo dItalia (per il momento continuando ad occuparsi del problema adriatico, sempre nellottica mussoliniana) !'?, ma inizi lascesa politica che, nel giro di pochi mesi, lo avrebbe portato ai vertici del movimento. D'altronde, le idee di Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte nella nuova fisionomia assunta dal fascismo allindomani del congresso di Milano. Col tempo, infatti, egli era andato sviluppando posizioni sempre pi conservatrici. Nella sua riflessione, le ragioni immediate del difficile momento politico ed economico attraversato dallItalia andavano rintracciate, oltre che nellignavia e nellincapacit dei suoi governanti, nellirresponsabilit delle classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite allo sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un gaudentismo sfarzoso e gastronomico"!. Da qui - secondo Rocca - il dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre politiche che mettevano a repentaglio lintegrit della produzione. A fronte di tutto questo, una borghesia laboriosa, avente il dovere di resistere e di FELICE, Mussolini il rivoluzionario 1 intesa italo-jugoslava - recita lordine del giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro Marsich, De Vecchi, ecc.) - era insufficiente per Fiume, nonch deficiente ed inaccettabile per la Dalmazia. !!! Il Popolo dItalia !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo. Il problema terrestre e quello marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre 1920. Questi e altri scritti di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal titolo // trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nellestate del 1921 per le edizioni de Il Popolo dItalia. !!3 Massimo Rocca, La crisi maggiore, Il Risorgimento Gli articoli citati facevano parte delle rubrica Pagine economiche, di cui Rocca  il principale curatore. vincere"!, ma troppo spesso paralizzata dalla bassezza dei ceti dirigenti, burocratici e parassitari, assolutamente non in grado di comprendere i fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico industriale!!5. Il nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta di Rocca, nella perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta burocratica e la classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla seconda, mentre leconomia andava sempre pi controllando la politica, fino ad imprimerle le sue necessit e direttive '!. A questo stato di cose occorreva rispondere con la rivoluzione della competenza: la rivoluzione della classe borghese. La borghesia produttiva, la sola capace di gestire con criteri tecnico- produttivi tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva lobbligo morale di realizzare un rivolgimento aristocratico della societ italiana. Solo cos, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando effettivo sarebbero tornate in mano ai migliori, anzich ai molti, ai capaci e ai competenti. Alla borghesia, finalmente consapevole della propria autorit, sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in questo processo la parte migliore e pi responsabile del proletariato. In attesa che ci avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a suo modo di vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema economico, a cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. Se si vuole che si lavori scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo dellinteresse e del puntiglio individuale, alla precisione ed allaccrescimento delle responsabilit singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano; allabolizione radicale dei privilegi di cui godono i funzionari pubblici!!8, Dopo loccupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure draconiane contro gli eccessi del bolscevismo!". Il primo obiettivo di un governo che avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di reintegrare il pieno dominio della legge, senza indulgere a pietismi TANCREDI, Scioperi politici. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza dei metallurgici torinesi. ROCCA, La crisi maggiore, ID., La disperazione dei servizi pubblici, si In seguito, Rocca torn pi di una volta sulla convenienza di restituire ai privati lesercizio dei servizi essenziali (si veda, a titolo di esempio, larticolo / servizi che non servono il pubblico). La privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini del programma economico fascista, elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La vertenza dei metallurgici, democratici. Come si rileva da un articolo Rocca pensa a una qualche forma di dittatura; a un uomo nuovo, che avesse gi fornito prova di volont e di giustizia, il quale avrebbe potuto far cessare lorgia di tutti i disordini. Non  chiaro se egli si riferisse direttamente a Mussolini, ma  molto probabile. E comunque significativo - come si evince da quello stesso articolo - che Rocca ritene lassunzione dei pieni poteri una soluzione eccezionale, destinata a rientrare una volta passata lemergenza bolscevica. Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo, ma solo in quanto strumento temporaneo dellazione politica fascista, utile a frenare le prepotenze e le intemperanze dei rossi, Quando la violenza fosse diventata la consuetudine, erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe indugiato - come fece - nello schierarsi anche contro lestremismo squadristico, in difesa della legalit. Non riteniamo esservi contraddizione nel diverso atteggiamento - di legittimazione e di condanna - assunto da Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la marcia su Roma. Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuit e la scelleratezza delle violenze fasciste del periodo eroico, e, in senso pi ampio, che quelle violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta politica, visione connaturata allessenza stessa del fascismo, che nello squadrismo (e prima ancora nella mentalit squadristica, esprimente non soltanto un disegno rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva il proprio stile politico qualificante; ma occorre tener presente che Rocca si poneva, appunto, dallangolo visuale del fascismo, vale a dire da una prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie nere fosse la risposta pi che legittima alla violenza antinazionale dei i Ip., Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920. In un commento a margine dellassalto a Palazzo DAccursio guidato dalla sua ex guardia del corpo Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo squadrismo. I fascisti scrisse costituiscono oggi un comodo paravento per scusare alle masse linanit anche della violenza [...]. E costituiscono anche un pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice penale non ancora abolito, una propaganda ed unazione da veri delinquenti. Ma  troppo noto che, senza i fascisti, la violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe pi indisturbata e non meno atroce (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della cultura e dellazione politica fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di Storia Contemporanea, per la maggior parte dedicato allargomento, particolarmente il saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, Pisa, Giardini, pussisti. Ci non toglie che egli, dopo lascesa al potere di Mussolini, reputando esser venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo, fosse in buona fede nel denunciare il perdurare dellillegalit fascista. Rocca consolida la sua gi rilevante posizione allinterno del movimento fascista. Un suo articolo in difesa della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il giornale di Mussolini, contribu a rinfocolare il dibattito circa lorientamento istituzionale del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a tutela dellistituto monarchico, non solo per motivi di opportunit strategica (una rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo stesso), ma anche in ossequio a pi complesse valutazioni politiche (monarchico di ragionamento, si autodefine Rocca molti anni dopo) 1a, che investivano lintero assetto della realt nazionale. La societ economica e politica che va sotto lappellativo convenzionale di borghese - scrive Rocca - si  capovolta nel suo contenuto produttivo ed ideologico. Economicamente essa  sindacalista e non pi individualista: tanto che leconomia tende ad assorbire la politica, compresa quella estera. Se una rivoluzione  matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento urgente e non di rissa da arena diurna,  quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli organismi sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi. La funzione dei Parlamenti  oggi totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi erano le rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove /ites in cui il popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...]  diventato pur esso una casta chiusa [...] non meno delle pi diffamate monarchie. E allora resta da chiedersi se alle minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di fronte una sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cio anche quella monarchica, per usare delluna qual mezzo di controllo e di pressione sull'altra. ROCCA, La realt italiana, ABC. ALTAVILLA, Repubblica e monarchia, Il Popolo dItalia (anche in ROCCA, /dee sul fascismo). L'articolo di Rocca, scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica Orientamenti e discussioni, inaugurata da Il Popolo dItalia in previsione delle adunate regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle diverse regioni e dettare le linee orientative dellazione politica fascista per il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui era incentrata una relazione introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da Gaetano Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema agrario, i A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ci che ancora una volta emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della riflessione di Rocca. Non deve perci stupire pi di tanto il fatto che egli, dopo aver rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente, riscoprisse il carattere esclusivo della tradizione monarchica (cos come, pi tardi, avrebbe riscoperto limportanza etica del cattolicesimo) Del resto, in un articolo dello stesso periodo, ricco dimplicazioni psicologiche e di riferimenti autobiografici pi o meno espliciti, Rocca espresse il convincimento che l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale, dindividui singoli o di piccoli gruppi, e che lascesa e l'emancipazione, come la istruzione, fossero sempre, e per nove decimi, unauto-ascesa, unauto-emancipazione, un auto-insegnamento. Era dunque necessario - chiude Rocca (con parole dalle quali traluceva in modo inequivocabile la matrice individualista della sua cultura politica) - tornare agli individui e farla finita una volta per sempre con il culto demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo libertario Il 1921 vide inoltre lingresso nelle fila fasciste di Malusardi. Conclusa una breve militanza nell Associazione Nazionale Combattenti!?, rapporti con lo stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte anche Rocca, ebbe luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La grandiosa adunata lombarda dei Fasci  i combattimento, Il Popolo dItalia. ROCCA, Una questione da non risolvere, Il Risorgimento. La questione menzionata nel titolo era quella romana, che Rocca riteneva non dovesse essere risolta, nellinteresse dItalia e dello stesso papato, altrimenti destinato a smarrire il proprio carattere di universalit. Larticolo conteneva un giudizio altamente positivo della funzione storica e persino politica del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e la dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E probabile che questinteresse fosse da attribuirsi ad unautentica conversione personale; tuttavia, come vedremo meglio in seguito, Rocca pare interessato al cattolicesimo pi e altro come a un elemento di autorit e di disciplina interiore. te ID., Quarto e quinto stato. La seconda parte di questo lungo articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3 marzo. In esso Rocca ribadiva lidea che fosse doveroso, oltre che utile, educare il proletariato, cos da poterne estrarre un nucleo scelto, un/ite responsabile in grado di cooperare con la borghesia alla gestione della produzione. Spintovi dalla passione trincerista, Malusardi adere entusiasticamente all ANC (per qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de L'Eco della Vittoria, organo della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in margine al Congresso nazionale di Napoli perch contrario ai ventilati propositi di trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con Il Fascio e (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una altrettanto frammentaria attivit di propagandista per conto del Comitato Centrale fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era stato designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa anche quellesperienza Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo Bresciani, segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonch ex anarcointerventista) ', noto per rappresentare lala di estrema sinistra del fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le doti di organizzatore di Malusardi, gli affid lincarico di segretario propagandista del Fascio. La scelta si rivel azzeccata, poich lanarchico lodigiano riusc ad imprimere al fascismo veronese non solo un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilit politica. Come prima cosa Malusardi dette vita a un giornale (Audacia), che doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al graduale inserimento del Fascio nella realt scaligera. Egli, in particolare, vi affin le proprie qualit giornalistiche, rispolverando tra laltro una rubrica dei tempi de La Guerra Sociale (Foglie dortica), che divenne un punto di riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si  detto, Malusardi proveniva da Fiume: tra i suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e a confuse (ma autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie, retaggio della sua militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del Carnaro e il sindacalismo nazionale di Corridoni il suo compagno di trincea - e Alceste De Ambris. Nel Fascio veronese, dellAssociazione in partito. A parte i suoi articoli per LEco della Vittoria, per lo pi improntati al tema dellapoliticit del movimento combattentistico, lattivit di Malusardi in seno all ANC non  agevolmente documentabile. Anche sulle date dellarrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi  incertezza. Il Fascio riporta un avviso ai Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle Avanguardie e a tutti coloro che avevano occasione di corrispondere con la Segreteria Politica, annunciando che Malusardi non ricopriva pi lincarico di segretario propagandista del Comitato Centrale, in quanto, gi da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella citt olocausta Malusardi diresse altres il foglio sindacalista La Conquista, del quale non ci  stato possibile reperire una collezione (lo stesso Felice, dal cui Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte indiretta). n Bresciani, classe 1890, gi convinto militante anarchico,  fra i promotori del Fascio veronese di azione internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico Commerciale, PIPTREIPPRRA \PPPTPOT VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP decisamente orientato a sinistra, Malusardi trov lambiente ideale per portare avanti le proprie idee. Si riun a Venezia ladunata regionale dei Fasci del Veneto". Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento Umberto Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe modo di esporre il proprio programma. Riguardo alla controversia repubblica/monarchia, egli formul lauspicio che i fascisti si facessero portavoce di un fiero atteggiamento antimonarchico. La monarchia sabauda afferm aveva tradito in pi di unoccasione: prima della guerra perch favorevole al parecchio giolittiano, durante perch colpevolmente latitante, dopo perch sostenitrice della politica rinunciataria di Cagoja Nitti, a Fiume perch complice della repressione sanguinosa dellinsurrezione dannunziana'. Noi, che siamo repubblicani e libertari concluse Malusardi - in determinati momenti avremmo, quando il governo non agiva e lItalia sembrava essere gettata nel caos, accettata anche una dittatura monarchica [...]. Ma quando una monarchia esiste solo di nome ed avalla tutte le infamie che si commettono nel suo nome, non  per noi che un anacronismo inutile e ingombrante! AI termine della discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine del giorno repubblicano, che raccolse per soltanto nove voti (quanti erano i delegati del Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione Pasella, rivendicante il carattere antidogmatico e antipregiudiziale del fascismo in materia di regime.  sulla questione sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che Malusardi ottenne i maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema dellorganizzazione sindacale era oggetto delle preoccupazioni della dirigenza fascista. Nel novembre del 1920 era sorta infatti la Confederazione Italiana dei Sindacati Economici (CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati autonomi, dispirazione fascista pi o meno accentuata, operanti - come si usava dire - sul terreno nazionale!*. Il nodo gordiano dellintera vicenda, Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista di Venezia, Audacia Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a precisare lessenza libertaria del proprio fascismo Pi n toda re: 4 det H rado In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, il fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente anti-operaio. Poich la UIL, il sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti ritennero giunto il che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del sindacalismo fascista, era se lazione sindacale dovesse avere natura politica oppure apolitica, vale a dire se i Sindacati Economici dovessero agire in stretto accordo con i Fasci di combattimento, seguendone i programmi e le direttive; 0, al contrario, se dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo, liberi, perci, di agire nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la pi ampia autonomia. Nel suo intervento al convegno veneziano, Pasella afferma che i fasci dovevano ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici. Malusardi - facendo cos intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai Sindacati Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate caso per caso. Infatti rileva -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli scioperi dichiaratamente politici, non dovevano per opporsi alle legittime richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano un pi ampio diritto alla vita, e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con gli interessi superiori della Nazione. Le preoccupazioni operaiste di Malusardi si rivelarono ancor pi manifestamente allorch egli dichiar che, quando i lavoratori avessero saputo dimostrare una capacit tecnica intellettuale ed una preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e delle officine, i fascisti (che non dovevano essere la guardia bianca di una classe, ma i difensori della Nazione) avrebbero dovuto riconoscere loro il diritto di gestire direttamente il frutto del proprio lavoro!. L'ordine del giorno votato dalladunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte relativa agli scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali recita - i fascisti, pur non condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di prendere posizione volta per volta, in base alle circostanze. Anche in materia di politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze dalla linea ufficiale del movimento. Egli, che era stato testimone del Natale di sangue, non poteva ammettere che i fascisti avessero abbandonato D'Annunzio al suo destino. Perci, pur dichiarando -la propria stima a Mussolini, Malusardi tenne a precisare di non indulgere ad alcuna forma di momento di misurarsi direttamente nel campo dellorganizzazione del lavoro. I nuclei sindacali fascisti trovarono il loro modello in quelle formazioni indipendenti, per lo pi di modeste dimensioni, che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si form a Roma il 16 febbraio, dalla fusione dell Associazione Movimentisti e del Fascio Ferrovieri. In ordine a questi argomenti v. principalmente CORDOVA, Le origini dei sindacati fascisti, Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, // sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo, Roma, Bonacci, La grande adunata fascista di Venezia, feticismo e non esit a rimproverare al duce di aver ingiustamente sacrificato Fiume sullaltare della ragion di stato. Le prese di posizione di Malusardi alladunata di Venezia gli valsero severe critiche da parte sia di Pasella, sia di Freddi (il segretario generale delle Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare della demagogia. In un fondo per Audacia Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta apprensione nei piani alti del fascismo, replic ai suoi detrattori con queste parole: Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E un aggettivo che non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati  prodigalmente distribuito a tutti coloro che si permettono di pensare con la propria testa Riaffiora - come si pu notare - lo spirito polemico che aveva contraddistinto il giovane anarchico nei giorni dellinterventismo; riaffiora, soprattutto, lorgoglio individualista, la presunzione di sentirsi | fuori dal gregge, senza curarsi (ma anzi compiacendosi) di essere tacciato come eretico. Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni su Audacia, Malusardi  comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista del Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi durgenza, respinse allunanimit le sue dimissioni". I fascisti veronesi apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di dimostrarlo, gi in occasione dellappuntamento elettorale. Queste affermazioni di Malusardi sul feticcio Mussolini rimandano significativamente a quanto Rocca ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il fascismo. Per provare poi annota Rocca - che non tutti i primi fascisti erano mussoliniani, basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti, e che non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedic allorganizzazione operaia, come Malusardi ed altri. Degli anarchici di cui mi ricordo nessuno  stato squadrista, nessuno entr nel partito dopo la marcia su Roma, parecchi anzi si ritirarono prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta a servire la Patria o unidea, ma non ad incensare un uomo; la mentalit di questi anarchici era lantitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi non conoscevano lintransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una coscienza morale solida e indipendente (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura MALUSARDI, /n margine alladunata, Audacia, cit. L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al nostro direttore. Dalle elezioni alla marcia su Roma Le consultazioni generali, merc linclusione dei Fasci di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono lingresso del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana. Una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche Mario Gioda) ratific la decisione che Mussolini aveva preso gi da tempo - di dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze nazionali. Il giorno successivo, a unassemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca difese la legittimit di quella scelta. Non  colpa nostra dice se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i comunisti malgrado il rosso di cui sincipriano, ci hanno imposto di scegliere fra lItalia com, con certe sue caste dirigenti e le incapacit e le brutture che ne derivano, e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla Russia. La nostra scelta  dunque doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni costo, in qualunque modo lItalia. Per sia ben chiaro con questo che noi non rinunciamo a nulla delle nostre idee e del nostro programma conservatore e rinnovatore nello stesso tempo. Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta contro la propriet e il capitale improduttivo, quando  tale veramente e non secondo le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze produttive della Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia parassitaria [...] n contro lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico, incapace di adempiere le funzioni di cui sincarica, mentre lega le mani alle energie private, individuali e collettive, capaci di esercitarle con utilit e convenienza! Del pari, a Torino, Gioda acconsent a sostenere la politica bloccarda, giustificando lintesa elettorale tra fascismo e liberalismo con lesigenza di salvare lItalia dal pericolo bolscevico'. Nondimeno, la formazione del Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, Il Popolo dItalia Su questi punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il fascista. La conquista del potere, Torino, Einaudi, 1! n Popolo dItalia, Rocca riprende questi concetti in un saggio per Il Maglio, intitolato Arrestare la dissoluzione. La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione dalle forze liberali (cfr. Il programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, Il Corriere della Sera. Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i Blocchi Nazionali, Il Popolo d'Italia. Nel corso dell'assemblea generale dei soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda fatic a imporre la linea della collaborazione elettorale. Alle perplessit della sinistra interna che (Ai li A A ici Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivel tutt'altro che agevole. I fascisti torinesi inaugurano la campagna elettorale con un comizio di Rocca. Gioda annunci lavvenuto raggiungimento di un accordo di massima - sulla base di alcune condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di combattimento, l'Associazione Nazionalista, 1 Associazione Radicale, il Partito Socialriformista, 1 Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasci trapelare la possibilit che il Blocco comprendesse anche l'Associazione Liberale Democratica, tenendo per a sottolineare come la fermezza antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dellazione politica fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell Associazione Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare dellantigiolittismo, era un controsenso, tanto pi a Torino, dove un Blocco che prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilit di affermarsi ed era perci nellinteresse dei fascisti non tirare troppo la corda. Il 21 aprile, a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda defin penoso e difficile, si giunse alla costituzione del Blocco, con linclusione dell Associazione Liberale Democratica. Cos, non soltanto i fascisti accantonarono ogni remora antigiolittiana, ma, nonostante Gioda lamentasse lingerenza immorale da parte del Governo, il Fascio accolse il veto imposto dal Presidente del Consiglio alla candidatura dellex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del responsabile dellUfficio i egli personalmente condivide riguardo allopportunit di far blocco anche con gli odiati giolittiani, il segretario oppose la necessit di far fronte allavanzata delle forze antinazionali i e, riprendendo un concetto proprio dellimpostazione antidogmatica del fascismo, rivendic il carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere n radicali, n liberali, n anarchici, | ma solo fascisti, uniti nellinteresse del Paese (// Fascio di Torino prende posizione nella lotta elettorale, Il Maglio Cfr. ] Fascisti iniziano la lotta elettorale a Torino, Il Popolo dItalia, 15 aprile 1921, e Un poderoso discorso di Libero Tancredi, Il Maglio, 16 aprile 1921. Rocca si dimostr, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo lapparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio inaugurale della campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio elettorale a Milano, Il Popolo dItalia). Queste prevedevano: schede elettorali con il Fascio dei Littori; un programma che comprendesse la valorizzazione della guerra e della vittoria, lassistenza ai combattenti, la tutela dellitalianit allestero; il riconoscimento dellopera di salvamento nazionale compiuta dai Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e la valorizzazione dellimpresa fiumana e dalmata; la lista bloccata GIODA, Un primo accordo fra i vari partiti a Torino. Sar possibile il blocchissimo"? Trattative e moniti. Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco erano compresi unici candidati fascisti Vecchi e Rocca, che fa cos il suo ingresso nella lotta elettorale. Dove la linea bloccarda incontra fortissime resistenze fu a Verona. Il 10 aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci e dei Nuclei fascisti della provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i fascisti veronesi non avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non si sarebbero compromessi in unalleanza elettorale con le forze della borghesia moderata e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte dello schieramento governativo (lorgano del liberalismo veronese, arriv a definire l'eventuale accordo con i fascisti una necessit sacra) , il Fascio di Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disert il Blocco. Cos, unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono una lista autonoma!. Va detto che Mussolini non neg il proprio assenso alloperazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio, si congratul con loro per aver agito fascisticamente, giacch, ove mancavano certe elementari condizioni di probit politica, occorreva non bloccare ma sbloccare. Cfr. Ibidem. pl so Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in lista per non compromettere la formazione e Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una nobile rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca  particolarmente spinta da Gioda. Rocca scrisse questultimo, presentando lamico agli elettori torinesi  stato un novatore e un divinatore. Ha veduto chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo  Stato scomunicato quale eretico dai pontefici rivoluzionari (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I candidati fascisti).  Cfr. Audacia A questo proposito v. anche / fascisti veronesi lotteranno da soli, Il Popolo dItalia. I DTA 148 La costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico: fascisti a voi!, Arena, 24 aprile 1921. : i fo La composizione della lista appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion fatta per Italo Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, lex parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del 1917) e il professor Alberto De Stefani (che risult lunico eletto). Cfr. Audacia i 150 11 Popolo dItalia, 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata 29 aprile, si trova anche in MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda) e SUSMEL (si veda) Susmel, Firenze, La Fenice). Mussolini si reca a Verona per la campagna elettorale e riconferm l'apprezzamento per la decisione dei fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle urne. Cfr. Il Popolo dItalia. Rocca figura dunque candidato fascista a Torino. La Giunta Esecutiva del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia decise di candidarlo anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse Il Popolo dItalia - conferiva un tono e un colore patriottico e passionale alla listay. Rocca espone le linee del suo programma elettorale a cavallo tra laprile e il maggio, in una serie di articoli per Il Risorgimento. Nel primo di essi (importante soprattutto alla luce di ci che sarebbero stati i Gruppi di Competenza) Rocca riprendeva unidea a lui cara: quella della riforma tecnocratica della rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura scrive - dovrebbe consistere nel riconoscere limpossibilit della politica astratta, limmoralit parassitaria dei politicanti puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali che leconomia addita attraverso le sue organizzazioni, di ceto, di mestiere. Distinguere gli uomini per quello che fanno e non per quello che dicono; e quindi togliere alle mandrie elettorali lincarico di eleggere chi sa parlare, mentire e intrigare di pi, per affidarlo alle collettivit ed ai nuclei organizzati sulla base di unattivit specifica a profitto della vita sociale, attivit alla quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile allora che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte alla Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui  competente: e i Parlamenti tecnici cos formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e meno le disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli. A questo intervento ne seguirono altri, pi specifici (una sorta di vera e propria piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i princpi fondanti del suo rinnovato credo politico: libert economica, decentramento, rispetto della legge. Leconomia liberista - argomentava Rocca nel primo di questi articoli programmatici - veniva accusata di essere caotica, anarchica, antisociale ed egoista, ma ci non rispondeva a verit, poich il vero liberismo non si risolveva nellindividualismo fine a se stesso. Esso, infatti, trascende e comprende tanto lindividualismo quanto il collettivismo; racchiudeva, cio, tutti i sistemi di vita, tutte le forme economiche (tranne le improduttive), di volta in volta selezionate e messe in atto dalla societ umana. In altri termini, il liberismo era l'economia spontanea di per se stessa. Per questo motivo, tornare al liberismo significava, n pi n meno, tornare all'economia naturale della vita Cir. / candidati per il Blocco, Il Corriere della Sera. ne Il Popolo dItalia ROCCA, La riforma fondamentale, Il Risorgimentosociale, al libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'. Le affermazioni di Rocca in materia economica, come del resto lintero suo pensiero, avevano ormai un evidente contenuto conservatore, e, in questo senso, non v dubbio che la sua propaganda contribuisse a rassicurare i ceti moderati sulle buone intenzioni del fascismo. E per interessante vedere quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca (soprattutto Ja definizione del liberismo come organizzazione spontanea della vita economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco- individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilit anarchica verso lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere l dove Rocca, nella seconda parte del suo manifesto elettorale, additava la necessit del decentramento amministrativo e politico quale condizione essenziale per una maggiore libert e una miglior gestione delle risorse nazionali. Nel terzo ed ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della legalit. La legalit scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto esercizio della libert, la quale, se svincolata da regole e da limiti preordinati, si risolveva in un non senso, una negazione di se medesima, attraverso larbitrio individuale e il disordine generale. LItalia, quindi, non sarebbe stata realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la disciplina, in tutti i settori della vita civile e politica: disciplina di governo, di vita pubblica, di nazione, di vita privata. Disciplina era anche sinonimo di gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare Ia gerarchia in ogni campo, affinch il valore cosciente tornasse a primeggiare sul numero. Larticolo terminava con lauspicio che finalmente, in Italia, fosse ristabilita la legge contro tutti !59, i Simili affermazioni imponevano equanimit di giudizio; imponevano, in altre parole, che quella stessa legge che egli pretendeva applicata contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei confronti delle camicie nere. In futuro - come si accenna - Rocca non avrebbe esitato a prendere posizione contro la perdurante illegalit fascista; ma allora anchegli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento pi che legittimo di lotta politica. Cos, ad appena due giorni di distanza dal suo articolo su Il Risorgimento, commentando un gravissimo episodio di Ritorno all'economia) y Tornare al liberalismo era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il 6 maggio nei locali dellAssociazione Commercianti Industriali Esercenti di Milano (cfr. Il Popolo d'Italia ROCCA, Ritorno alla semplicit, Il Risorgimento. Ritorno alla disciplina. a A mm PPTIPONI violenza fascista a Torino (lassalto e la devastazione della Casa del Popolo), Rocca lo defin una sacrosanta vendetta contro il dispotismo comunista, dopo mesi e mesi di longanimit!?. In circostanze misteriose, loperaio fascista Odone  assassinato da un militante comunista. Allalba del giorno seguente, bande armate di fascisti prendeno dassalto la Casa del Popolo. Nel terribile conflitto che ne segue restarono gravemente feriti tre comunisti e un studente fascista di Reggio Emilia, Maramotti, che muore poco dopo in ospedale. La Casa del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti, sono prima completamente devastati, poi incendiati. Gli squadristi - riporta La Stampa - impedirono ai vigili del fuoco di avvicinarsi alle fiamme e gli edifici andarono quasi del tutto distrutti. I danni provocati dallassalto fascista sono stimati intorno ad un milione di lire!. Nei giorni successivi, lautorit giudiziaria ordina il fermo di nove fascisti, tra i quali il segretario della sezione torinese dellAssociazione Arditi, Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda e Vecchi sono denunciati con laccusa distigazione e complicit morale (senza peraltro che la denuncia sorte alcun effetto). Non  affatto chiaro se Gioda  coinvolto nella decisione di assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto rifere il Prefetto di Torino Taddei al Ministero   organizzata prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal suo comportamento di quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse prigioniero di un equivoco di fondo: quello di considerare la violenza un ll Che cosa  gi il controllo operaio a Torino, Il Popolo dItalia. Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, La Stampa Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente Giona, Un fascista mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, Il Popolo dItalia, 27 aprile 1921, e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista, L'Ordine Nuovo Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, La Stampa L'organo del PCdI torinese rifer che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo (quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli assalitori, ma gli avevano persino assecondati (cfr. Come  stata incendiata e saccheggiata la Casa del Lavoro di Torino, L'Ordine Nuovo). Il comportamento delle guardie regie fu oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita inchiesta, voluta dallenergico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari avessero preso le parti degli squadristi, ma accert altres - come lo stesso Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la deplorevole negligenza degli ufficiali preposti al servizio dordine, dimostratisi incapaci di fronteggiare adeguatamente e con fermezza danimo loffensiva fascista. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 112 [Fascio di Torino]. Cfr. Il Popolo dItalia. !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., cit, aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un certo senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un esempio di questo ambivalente stato danimo si trae da un articolo di Gioda di poco precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni squadristi, il segretario del Fascio torinese define sacrosante le ritorsioni fasciste contro le vili imboscate e la violenza liberticida dei pussisti, ma, al contempo, vivamente deplora quellepisodio, del quale non comprende la necessit. Nel caso poi della drammatica rappresaglia alla Casa del Popolo, Gioda mostr, almeno allapparenza, di non averne intesa la reale portata politica, allorch ebbe a dichiarare, contro levidenza dei fatti, che essa aveva avuto natura anticomunista ma non antiproletaria tout couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole della contraddittoriet della propria posizione non  dato sapere, ma  certo che egli non aveva la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva ormai al suo controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. Allindomani della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35 seggi alla Camera) 16, un quotidiano romano pubblic una lunga intervista a Mussolini. Alla domanda se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte alla seduta inaugurale della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il duce risponde. IL FASCISMO NON HA PREGIUDIZIALI MONARCHICHE O REPUBBLICANE -- ma  tendenzialmente repubblicano. In ci differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono GRAMSCI (si veda)  aggredito alluscita dalla sede di one Nuovo. Il leader comunista non sube in realt alcuna violenza, mentre lardito del polo Torrero, accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr. Ibidem. GIODA, in tema di violenza, Il Popolo dItalia. E Che Gioda non nutre molta simpatia per gleccessi degli squadristi  me provato dallimpegno che egli mise nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente precedenti i pe fo pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un ennesimo cruento scontro i fascis e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente alle camicie nere, rilev ! urgenza li ata fine una buona volta a quella fosca teoria di violenze, destinata ad attizzare MEA odio olitico (ID., Un monito opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921). to Ip., Un rilievo opportuno dopo l'incendio vendicativo. Rocca non  eletto. Soltanto 18 su 28 candidati a Milano, con 5.897 voti di preferenza (cfr. Il Corriere della Sera, 24 maggio 1921), ottenne un miglior risultato in FERIRE 35,282 voti a Torino citt e 88.670 nellintera circoscrizione (cfr. La Stampa). pregiudizialmente e semplicemente monarchici. Il gruppo fascista si asterr ufficialmente dal prendere parte alla seduta reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente tutto lambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti Fasci,  stabilito di rimandare ogni decisione in merito a una riunione congiunta dei deputati fascisti, dei membri del Comitato Centrale e dei segretari delle Federazioni regionali, al Teatro Lirico di Milano. Tra i Fasci dove la questione ha un'eco maggiore vi sono quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di Audacia (poi rivendicato da Malusardi) fa giungere a Mussolini il consenso dei fascisti veronesi. Loriginario programma fascista - vi si legge - quello di piazza San Sepolcro, intransigentemente repubblicano,  stato purtroppo messo in disparte, mentre  giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario del fascismo. Le dure apostrofi dellorgano fascista destano viva apprensione neglambienti moderati di Verona, al punto che, rispondendo allarticolo di Audacia, il liberale Carli lascia addirittura intendere che la borghesia veronese non esita a difendersi con le armi da uneventuale insurrezione repubblicana fascista. Lassemblea generale del Fascio si chiude con lunanime approvazione di un ordine del giorno Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento recita il documento - richiamandosi alle origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai smentite, dichiara la propria incondizionata solidariet con Mussolini nella tanto dibattuta questione della tendenzialit repubblicana e riafferma essere inconcepibile che i fascisti facciano parte anche di altri partiti. Dopo che la riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno successivo, si fu risolta in un nuovo compromesso (una soluzione molto confusa e contraddittoria, secondo la definizione di Felice Il Giornale dItalia, L'intervista a Mussolini fu riprodotta anche da Il Popolo dItalia Sulle conseguenze dellintervista di Mussolini v. FELICE, Mussolini il fascista, Cfr. NOI, Cose a posto, Audacia, CARLI, Difendo il Re, Arena, Audacia, FELICE, Mussolini il fascista, che eludeva lessenza del problema, Malusardi non nascose il proprio malumore e manifest la speranza che il prossimo congresso nazionale sciogliesse definitivamente il nodo dellindirizzo istituzionale del fascismo. E? ora di finirla scrisse tra laltro di vedere e liberaloni e nazionalisti e rancidi conservatori insinuarsi nelle nostre file collunico scopo di rimorchiare al loro partito il nostro movimento. Ed  ora di finirla anche con questi Fasci Agrari o dOrdine, che snaturano il nostro programma e mascherano gretti interessi individuali o di classe!?. La vicenda ebbe conseguenze assai pi traumatiche a Torino, dove port a un nuovo aspro scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in unintervista rilasciata a un quotidiano locale, dichiar che i deputati fascisti del Piemonte avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario politico del Fascio di Torino e dalla direzione de Il Maglio'. La Commissione Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigett tuttavia le dimissioni, inviando altres un voto di piena, assoluta solidariet al duce. In un articolo di commento alla vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni della Commissione Esecutiva, si lasci andare a valutazioni ottimistiche. Nessuno scrisse - aveva il diritto di meravigliarsi per la professione di fede repubblicana fatta da Mussolini. Ben pi strano, infatti, sarebbe stato se il fascismo, il giorno dopo le elezioni, fosse diventato tanto opportunista da velare, o tacere, o sorvolare su una delle sue principali caratteristiche; quella, cio, di essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista del duce - secondo Gioda - era giunta a proposito, cos da smontare una volta per sempre la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al servizio della borghesia agraria e Lordine del giorno approvava loperato di Mussolini e decretava la nascita del gruppo parlamentare fascista, riproponendo in sostanza la tesi della non partecipazione alla seduta reale, ma non faceva menzione della questione istituzionale. MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!, Audacia. Cfr. La Gazzetta del popolo. Nel corso di un comizio al teatro Trianon per la ricorrenza dellentrata in guerra dellItalia, il futuro quadrumviro riconferma quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano torinese (cfr. Il Popolo dItalia). Nelle sue memorie, De Vecchi si compiacer di ricordare che Gioda, nellascoltarne il discorso, era diventato sempre pi pallido, finch, esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. VECCHI). Cfr. Il Popolo dItalia, cit. In conseguenza dellabbandono di Gioda Il Maglio sospese le pubblicazioni per quasi un mese. Cfr. Il Popolo dItalia, industriale', Tornava dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e libertaria di Mario Gioda, e non v dubbio che egli fosse in buona fede. Ciononostante, le sue posizioni non trovavano corrispondenza nella situazione generale del fascismo, sul piano locale come su quello nazionale, ed erano, perci, fatalmente destinate a soccombere. Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo lassemblea del Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non edulcorata, de Il Popolo dItalia - si risolse in un duello personale tra Gioda e De Vecchi. Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un ordine del giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma politico fascista) che, in definitiva, suonava come unattenuazione della linea intransigente sostenuta da Gioda'. La riunione al Teatro Lirico, nel corso del quale De Vecchi non manc di fare una manifestazione di fede monarchica!?8, conferm la vittoria dellindirizzo moderato. A distanza di pochi giorni De Vecchi prese liniziativa - del tutto personale - di convocare un vertice dei segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose allinvito e non si rec allincontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che riusc a far passare una mozione rivendicante il pi assoluto agnosticismo in materia di regime. L'assemblea confer a De Vecchi lincarico di designare il nuovo direttore de Il Maglio e la scelta, comera logico, cadde su un uomo di sua fiducia, lavv. Ruella' Torna a riunirsi la Commissione Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si dimise per la seconda volta, lasciando capire di non aver intenzione di recedere dalla propria decisione'*. Dieci giorni pi tardi, unennesima assemblea straordinaria dei soci del Fascio | provvide allinsediamento di una nuova Commissione Esecutiva'*, che a sua volta, riunitasi il 4 luglio, design segretario politico un altro fedelissimo di De Vecchi, il capitano Aurelio, di Novara, gi comandante della legione dalmata a Fiume Gioda appariva sconfitto su tutti fronti. Nel giro di un | la disciplina fascista, Allassemblea del Fascio torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia intervenire nella discussione. LOI imponente convegno fascista a Milano. Cfr. Il Maglio Cfr. Il Popolo dItalia La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria dal capitano degli arditi Mario Gobbi. Cfr. Il Maglio, e Il Popolo dItalia, I membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei. Cfr. Il Maglio, GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli avversari. Per mese, tuttavia, merc i contrasti suscitati dal patto di pacificazione nel frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mut ancora una volta. Il 6 agosto, a riprova della gravit della crisi, Il Maglio interruppe nuovamente le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26 novembre). Trascorsa una settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del Fascio, quindi, lassemblea generale fascisti torinesi vot la nomina di unaltra Commissione Esecutiva. La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche Edoardo Malusardi. Si svolge unadunata provinciale straordinaria dei Fasci e dei Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il tema dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli, contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad autonomia ridotta, si oppose lidea di Malusardi, per il quale, mentre la prima rivelava chiaramente la qualit di agrario del suo suggeritore, la seconda era troppo generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il fascismo doveva adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto nel testamento politico di Filippo Corridoni". Ma la grande novit delladunata furono le dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico allinterno del Fascio veronese, per motivi di salute e non politici. Al riguardo mancano purtroppo notizie certe, ma non  da escludere che la sua decisione, anzich a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, pi o meno indirette. Daltra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai suoi lettori, l'impressione che se ne trae  quella di un uomo tuttaltro che dimesso; un uomo che si sentiva ingiustamente messo da parte e che, persuaso della bont dei propri convincimenti, riaffermava la propria indipendenza di giudizio. Su tutta questa vicenda v. MANA. Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia) aveva gi espresso il proprio punto di vista in un precedente intervento su Audacia. I sindacati - aveva rilevato - dovevano mantenersi il pi possibile indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano rinunciare al sostegno e alla protezione del fascismo, se necessario anche contro gli stessi interessi padronali. Come fino ad oggi aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono serviti per punire i calunniatori del fascismo, essi serviranno per prelevare a domicilio quei proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI, Costituiamo i Sindacati Economici, Audacia). Alla fine dei lavori ladunata approv un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani dintesa con il presidente dellassemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale), per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici nazionali, aventi autonomia finanziaria e politica. Ho sempre pensato scriveva Malusardi - come meglio mi  parso. Non ho mai avuto alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte venissero. Perch io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dellanchilosi cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade. Sempre ho irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono daver la privativa dellinfallibilit. E interessante, in questa lunga confessione di Malusardi, il modo in cui egli tornava ad illustrare la propria concezione sindacalista. Il tono e i contenuti - come si pu vedere - non erano granch mutati dai tempi de LAgitatore. Bench sono [sic] orgogliosamente individualista affermava - fui tra le masse lavoratrici e per esse lottai, pugnai di persona. Non perch io credessi o creda nella elevazione collettiva della massa [...], ma per staccare da essa delle individualit e delle minoranze intelligenti e volitive, capaci dinnalzarsi realmente ad un pi alto livello di comprendonio e di personalit. Poich io non dimentico che la storia  sempre stata scritta dagli individui e dalle minoranze. Il sindacalismo, quale io lo intendo  individualista ed  una realt avveniristica nella quale predomina il mito della singola responsabilit. Il sindacalismo  logicamente per un continuo superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di tutti!8* Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dallevidente sapore programmatico.lo non sar mai per il conservatorume rancido e vilissimo che, passata la bufera bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si  riverniciato a nuovo e pretende rimerchiare la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver molto contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista! n definitiva, lallontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il suo temporaneo esilio in provincia - pareva dettato, pi che da cattive condizioni di salute, da valutazioni di opportunit ambientale. Egli, del resto, non abbandon affatto lattivit politica. Al congresso provinciale MALUSARDI, Commiato A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di Audacia fu ereditata da Grancelli. fascista, Malusardi  infatti presente in rappresentanza dei piccoli Fasci di Legnago e di Cologna Veneta, figurando altres quale segretario generale della Federazione fascista intermandamentale del basso veronese. In quel frangente egli si fece promotore di una mozione favorevole al patto di pacificazione, da poco stipulato con i socialisti, per ragioni di ordine nazionale'. L'ordine del giorno Malusardi fu approvato con 14 voti a favore, il doppio di quelli ottenuti da una proposta di Bernini, del Fascio di Verona, per laccettazione condizionata del patto. Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui il Fascio veronese manifestava al riguardo molte perplessit, Malusardi appoggiasse la strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro, com anche possibile desumere dalle sue future prese di posizione in tema di violenza, Malusardi riconosceva il bisogno di una tregua darmi con le sinistre (la sua intransigenza sui principi non dev'essere confusa con lestremismo squadristico), ma  anche presumibile che egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle gerarchie!, Tra lagosto e il settembre, Malusardi simpegn in unintensa opera di propaganda a sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di Verona, con esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare con Audacia, di cui riassunse la direzione, poco tempo prima del III congresso nazionale fascista Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca, bench, in un articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse espresso forti dubbi circa la tenuta di un eventuale accordo, soprattutto nelle zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica aveva raggiunto la massima asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, Il Risorgimento). Dopo che laccordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi incidenti scoppiati al margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribu la responsabilit del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una pacificazione Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. FELICE, Mussolini il fascista. Audacia A questo proposito, il responsabile per la propaganda del Comitato Centrale, mentre rimproverava a Grancelli e agli altri dirigenti del Fascio di Verona, il loro semplicismo politico, si disse piacevolmente sorpreso che l'ex anarchico Malusardi condividesse liniziativa di Mussolini per la pacificazione (MARINONI, Dopo il Congresso Provinciale). In preparazione dellassise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si radunano a congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dellannunciata trasformazione del movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell Augusteo ), vi fu nuovamente quello dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la diffusione dei Gruppi dei ferrovieri fascisti, organismi di categoria dipendenti dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilit di un sindacalismo integralmente fascista, si andava vieppi riconsiderando la funzione dei Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticit era ormai oggetto delle critiche di autorevoli Il congresso fascista, che si riun al Teatro Augusteo di Roma tra il 7 e il 10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo Rocca. Questi si prepar allappuntamento con una serie di articoli dindubbio interesse, nei quali per la prima volta in modo compiuto - formul la sua proposta per un fascismo liberale. Nellopinione di Rocca, i Fasci avrebbero dovuto essere un movimento di lite, di avanguardia politica e ideale, come lo era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica italiana, costretta in avvilenti compromessi, aveva bisogno di un eccesso di spiritualit, tale da bilanciare leccesso di politicantismo mercantile che la sommergeva; e solo una destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura e dello spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto svolgere questo compito di equilibrio e di correzione. In quella tradizione risiedeva del resto un grande insegnamento realistico e morale dal quale il fascismo non avrebbe potuto prescindere, vale a dire che non le masse, ma le minoranze rinnovavano il mondo e che il progresso consisteva nel succedersi di aristocrazie libere'. I fascisti - Rocca non ne dubitava - avevano le carte in regola per guidare quest'opera di rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi come forza politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di sovversivi, alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il proprio passato. Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i Sindacati Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e rappresentavano la tendenza filoproletaria del movimento: una tendenza, sia pur degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici della sinistra, plasmando una sorta di demagogia fascista, non meno deprecabile di quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva esponenti della gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca allo stesso Mussolini (su questi punti v. CORDOVA). Al congresso veronese Malusardi si pronunci contro la costituzione di sindacati prettamente fascisti e difese il principio dellapoliticit dellazione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale da Edmondo Rossoni). I sindacati di partito, rilev Malusardi, avrebbero ostacolato lunit di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile, anche per contrastare il monopolio dei sindacati socialcomunisti. Se in politica afferm le divergenze son profonde, sul terreno economico son facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello miscredente, il monarchico ed il repubblicano sono tutti daccordo nel volere il proprio miglioramento economico e morale. Di concerto con Bresciani, Malusardi present dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinch sorgesse, allinfuori dello stesso Partito Fascista, un forte organismo sindacale che raccogliesse sotto il suo vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non rinnegavano la realt Nazione (Audacia ROCCA, Pr una nuova destra, Il Popolo dItalia, anche in Idee sul fascismo. la destra reazionaria, formata da certa borghesia, specialmente terriera, e da residui daristocrazia decaduta, che vedeva nel fascismo larma di difesa e di offesa da sfruttare al minor prezzo possibile, ed era responsabile del carattere offensivo e violento assunto dai Fasci in talune zone del Paese, Tra le due ali estreme del fascismo si situava tuttavia un folto centro moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo erede del primo nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di destra, del liberalismo, cio, non ancora inquinato dallutopia demo-sociale. Una zona media del fascismo, dunque, fondata sulla disciplina verso la Nazione, al di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari, che Rocca confida sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a costituire il perno della nuova destra di governo! Nel suo intervento al congresso di Roma Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo disse - doveva innanzi tutto svolgere unopera di educazione sulle masse, per volgersi infine alla trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi italiana era una crisi dincompetenza e le questioni economiche e amministrative, per le quali lo stato politico non era adatto, dovevano essere demandate ai tecnici. In quest'opera di riforma, le organizzazioni sindacali avrebbero potuto giocare un ruolo importante, a condizione che i sindacati divenissero strumento di selezione delle lites proletarie. Lassise dell Augusteo decret la nascita del Partito Nazionale Fascista. Sia Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio lombardo di Castellanza) sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e Gioda, presenti anchessi al Un neo liberalismo?, Il Risorgimento anche in Idee sul fascismo Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altres GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista Il Popolo dItalia. L'intervento di Rocca al congresso dell Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca conferm la convinzione che lItalia dovesse avere una politica estera rettilinea e chiara, senza le incertezze del passato, e che spettasse al fascismo far s che ci avvenisse. Il discorso, con i suoi richiami alle glorie e alla potenza dItalia, vibrava di forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che l'organo dellAssociazione Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di Massimo Rocca, LIdea Nazionale Cfr. Il popolo dItalia Il Fascio di Castellanza, un piccolo centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato inaugurato alla presenza di Rocca, che aveva fatto da padrino. Ne  segretario Schejola e conta 67 soci, in prevalenza operai e impiegati. L'assemblea generale dei soci designa Rocca a rappresentare il Fascio al congresso nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento,Busta [Castellanza]. congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in partito! Dal congresso scatur inoltre il nuovo organigramma fascista: Massimo Rocca entr a far parte della Commissione Esecutiva del PNF%, mentre De Vecchi, a testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo, rilev Gioda nel Comitato Centrale? Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un lungo articolo celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema dellorganizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli ; A Errante " Si raduna lassemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua relazione Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva tenuto a precisare - la stessa parola partito gli ripugnasse istintivamente. Il fatto era - aveva sostenuto - che il movimento fascista era ormai un partito de facto e si trattava, perci, soltanto di ratificarne ufficialmente lesistenza. La creazione di un partito fascista era altres indispensabile per imprimere un carattere nazionale al fascismo, di per s troppo frammentato, troppo legato alle singole realt provinciali; e per porre un freno alle lotte infeconde tra le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, dinteressi localistici o addirittura personali. Si noti, a questo proposito, la concordanza tra la posizione di Gioda e quella di Rocca (L'assemblea dei fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, Il Popolo dItalia. Anche Malusardi, in occasione del gi menzionato congresso provinciale veronese del 30 ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento fascista in partito, a patto che la nuova compagine politica ereditasse il patrimonio ideale del vecchio partito dazione mazziniano, plasmandolo, con la concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle esigenze della vita moderna (Audacia). In seguito, Rocca rifer che Vecchi, a nome di amici nazionalisti e sindacalisti, gli aveva offerto la segreteria del partito, da egli rifiutata, malgrado le insistenze, per non venirsi a trovare in una situazione difficilmente gestibile. Qualunque segretario del partito scrive Rocca ricordando lepisodio avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un compito amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il rivale e poi il nemico del Duce (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 98). Segretario del PNF fu quindi nominato Michele Bianchi. Per la cronaca del congresso dellAugusteo v. Il Popolo dItalia. Sulle vicende legate a questa importante tappa della storia del fascismo v. FELICE, Mussolini il fascista. Stando al resoconto de Il Popolo dItalia del 10 novembre, al momento del voto pro 0 contro il partito Rocca manifest lintenzione di dimettersi dall Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni dopo, pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il tema dei rapporti col nazionalismo domina a lungo il dibattito interno fascista allindomani del congresso di Roma. In un'intervista concessa allorgano dellANI, Rocca, dopo aver sottolineato lo spirito aristocratico che animava il nuovo Partito Fascista, si disse convinto che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero preparando qualcosa che, un giorno o laltro, li avrebbe compresi e li avrebbe trascesi, ed auspic la formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e la crisi italiana in una nostra intervista con Tancredi, LIdea Nazionale), Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente fascista -, il partito poteva scegliere di prevalere aristocraticamente su di essi (come egli si augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione demagogica della lotta sindacale. Alla necessit di delineare gli orientamenti sindacali del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi elettivi, in armonia con la economia sindacale moderna. Secondo Rocca, un primo passo verso questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa in ambito congressuale, di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici appunto -, da affiancare ai Parlamenti generici e politici, inadatti per loro stessa natura a decidere su argomenti che richiedessero competenze tecniche specifiche. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati del congresso nazionale fu Malusardi. In primo luogo - comebbe a scrivere su Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito alla concezione statale. Il ritorno al liberismo e laccantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a Roma, gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del fascismo. Quando egli [Mussolini] rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire, superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di pi, poich appunto nella Carta del Carnaro vi  moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare Quanto allannosa questione istituzionale, Malusardi ribad il proprio repubblicanesimo, solo in parte stemperato da considerazioni di opportunit politica. Rocca, Un congresso di vivi, Il Risorgimento (anche in cismo). DIE n prete anre ie del PNE, accolge le indicazioni del congresso circa lopportunit di dar vita a dei Consigli Tecnici (o Gruppi di Compare). Questi, che venivano al terzo posto nella struttura gerarchica del partito, subito dopo gli organi dirigenti (Consiglio Nazionale, Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei Fasci, avrebbero dovuto raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di servizi pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto sul piano nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile ! analisi di ogni problema politico, economico e sociale secondo criteri di competenza professionale. Cfr. Programma e Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma, Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo statuto/regolamento del partito  pubblicato in prima battuta da Ii Popolo dItalia MALUSARDI, /n margine al congresso, Audacia, Anche Mazzini scrive - pur mantenendo intatta la sua FEDE REPUBBLICANA, per raggiungere lunit dItalia, scrive la famosa lettera a Carignano e non ostacola di salire al trono Vittorio Emanuele SAVOIA (si veda). Ma il veggente ligure, per, mai si adatta a servilismi o incensamenti cortigianeschi. Cos, pure noi fascisti, pur riconoscendo inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perch verrebbe sfruttato dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la nostra originaria tendenzialit repubblicana? Infine, Malusardi deplor la scarsa attenzione volta dai congressisti ai problemi sindacali e alla questione agraria, attribuendo la ragione di questa grave lacuna programmatica alla presenza, in seno al fascismo, di agrari dalla mentalit antiquata. Per contro, egli afferm la necessit di combattere il latifondo, per giungere alla sproletarizzazione delle campagne, incrementando la piccola propriet e la cooperazione, L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona  la partecipazione al congresso provinciale fascista. Anche in quella circostanza egli non tralasci di riaffermare la propria fede sindacalista e di celebrare il sindacalismo/corporativismo dannunziano genialmente dettato nella Carta di Fiume. Due giorni dopo, il congresso nazionale delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a Bologna, sanc la fine dei Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita della Confederazione Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale fortemente ideologizzato. Il sindacalismo puro, nella tradizione corridoniana e Malusardi abbandon la direzione del giornale (che fu rilevata da Grancelli). Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI congresso di Bologna, punto darrivo di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre posizioni: quella di Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso Malusardi), quella del neo segretario del PNF, Bianchi, per listituzione dei sindacati di partito, e quella, mediana, di Grandi e Rocca, a favore di unautonomia controllata, che fin per prevalere (a questo riguardo si veda NELLO, Grandi: la formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione Rocca sostenne che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo lentrata in funzione dei Gruppi di Competenza. Prima di allora - data limmaturit delle masse -, era vano sperare di sottrarre i lavoratori al controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro la facolt di organizzarsi in modo autonomo. Daltro canto, creare dei sindacati fascisti, come proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della demagogia. Per questi motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione di sindacati semplicemente deambrisiana, usce dunque dallorizzonte programmatico del fascismo, ma Malusardi pare non rendersene conto. Lasciata Verona per Brescia, dove rileva la direzione del locale organo fascista, Malusardi si presenta ai camerati bresciani con queste parole. Se noi dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi dittatura bolscevica, ci non significa che siamo dei conservatori e dei reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI. Se Malusardi si considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca, ch liniziatore e il maestro del NOVATORISMO ANARCHICO,  ormai un integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del liberalismo si spinse anzi sempre pi a fondo, giungendo, in un articolo carico di reminiscenze sonniniane, ad invocare la restaurazione di tutte le prerogative della corona, usurpate dal parlamento, secondo la lettera dello statuto albertino. Di pari passo con la maturazione conservatrice di Rocca crescevano le sue responsabilit politiche e organizzative allinterno del Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo prestigio e la sua influenza, come lesplosione, in marzo, del caso legato a PMarsich, avrebbe pienamente rivelato. A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un giornale vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra oltranzista e rivoluzionaria), rese nota una lettera di questultimo alla Segreteria del partito, nella quale egli lamentava la degenerazione parlamentarista del nazionali, guidati da fascisti e da uomini della cui fede patriottica non fosse possibile dubitare (Il Popolo dItalia. Rocca prende parte anche al congresso nazionale delle Corporazioni (Milano), durante il quale svolge una relazione sullemigrazione italiana allestero (cfr. Il Lavoro dItalia). Malusardi arriv a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei primi giorni di febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi allorganizzazione del locale sindacato fascista postelegrafonici. A questo scopo, infatti, la segreteria del partito (rispondendo alle richieste che gi da due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato Centrale con i fasci di combattimento, Busta [Brescia]. MALUSARDI, A guisa di presentazione, Fiamma ROCCA, La pi grande crisi, Il Risorgimento, col pretesto di vendicare lassassinio del fascista ed ex legionario Alfredo Fontana, le camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della citt. La nuova crisi fiumana si concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un fascista, Giovanni Giurati, a capo provvisorio dellesecutivo. fascismo e si scagliava contro linfausta egemonia di Mussolini, contrapponendogli la figura incorruttibile di Gabriele DAnnunzio?!. Il duce, a sua volta, in una secca replica al suo censore, ne defin lo sfogo nientaltro che una tragicommedia, Lo scontro tra Marsich e Mussolini, che, ben lungi dallesaurirsi in un contrasto personale, concerneva lindirizzo politico del partito, innest una lunga serie di polemiche, a tutti i livelli (a Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al segretario provinciale uscente, Minniti) !*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu tra i primi a prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana - scrisse in una lettera a Il Popolo dItalia -  una leggenda priva di fondamento. Quanto alla deriva legalitaria che negli ultimi tempi, secondo Marsich, si sarebbe venuta a creare nel fascismo (una situazione che Rocca si vantava di aver contribuito a determinare), essa era destinata a durare ancora a lungo, dal momento che lItalia stava attraversando una fase di assestamento e non aveva, perci, alcun bisogno di rivoluzioni. A che pro, inoltre - si domandava Rocca -, levare la bandiera dellantiparlamentarismo una volta SIRO Gebo a : Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera inedita di Marsich, La Riscossa dei legionari fiumani, (la lettera  ripresa anche dallAvanti! del giorno seguente). La filippica di Marsich, gi da tempo molto critico nei confronti dellorientamento politico del fascismo, fu originata da unintervista rilasciata da Mussolini (I! pensiero di Mussolini sulla crisi ministeriale, Il Resto del Carlino, 3 febbraio 1922), nella quale il duce, commentando la caduta del governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale rientro in scena di Giolitti. Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197 ss. us Il Popolo dItalia. Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del bresciano, il 15 marzo, Malusardi prese le difese di Marsich, attaccato invece duramente da Minniti. Secondo Malusardi, tuttavia, il vero problema del fascismo non stava tanto nellessersi colpevolmente adeguato alle regole e ai sotterfugi del parlamentarismo, quanto nellassenza di un orientamento politico univoco; una lacuna grave, in ragione della quale in alcune zone i fascisti erano elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano mirabilmente i diritti del lavoro; mentre in alcune altre diventavano instrumenti inconsci di reazione e di corruzione. Il dibattito di Brescia riveste unimportanza notevole, soprattutto perch la discussione intorno alla vicenda Marsich tocc anche il tema della violenza. Turati afferm che i rilievi contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ci, soprattutto dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto, notoriamente feudo di Marsich, non conducesse allapologia dei metodi extralegali. Il ricorso indiscriminato al manganello, afferm il futuro segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe fatalmente condotto allisolamento politico. Il convegno si chiuse con lapprovazione di un ordine del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, non riconoscendo nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni del proprio dissenso, reclamavano la purificazione del fascismo e facevano auspicio che alla lotta politica fosse restituita la forma di un civile contrasto (Fiamma). entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ci sarebbe senzaltro avvenuto, grazie al fascismo e allistituzione di parlamenti tecnici. Riguardo a Gabriele DAnnunzio - proseguiva Rocca - latteggiamento di Marsich era poi del tutto irragionevole: non solo perch, dopo le infinite vicissitudini dei legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee politiche del comandante, ma anche, e soprattutto, perch era privo di senso attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni del dannunzianesimo. Il fascismo concludeva Rocca dev'essere anzitutto unaccolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed unazione liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio di un uomo. La Direzione del partito vot una mozione di biasimo a Pietro Marsich!, poi riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio Nazionale del fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di maggior popolarit come dirigente fascista. In quei mesi, che prepararono lascesa al potere di Mussolini, sembra per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi in un progetto politico di ampio respiro. Parve, cio, che il fascismo (com'era nelle aspirazioni dellex anarchico) potesse davvero configurarsi come lite ROCCA, Chiarificazioni, Il Popolo dItalia. nonna Poco tempo dopo, ancora in riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge lo in politica non concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi (MALUSARDI, Sincerit delle sincerit [cf. GRICE, APING COOPERATIVE PRINCIPLE], Fiamma, 1 aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e Malusardi se cos si pu dire - era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche dei due ex anarcointerventisti erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, ; fascismo non doveva trasformarsi in una riedizione pi o meno aggiornata del tiberalismo i destra (come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare lispirazione i ionaria e i programmi del Partito d Azione mazziniano. una pr direzione del partito. L'On. Piero Marsich deplorato, Il Popolo "Italia).  dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale Fascista; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni, durante i quali furono Pv temi importanti, dalla vicenda di Fiume allindirizzo politico del partito. SNA lo a questultimo punto, Rocca si schier una volta ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi - afferm provocatoriamente - che alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega " rivoluzionaria, ma in tal caso, pena la perdita della credibilit, si doveva avere il coraggio di fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad adorarla (cfr. La seconda giornata del Consiglio Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la Federazione provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE IPP IRT OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente, capace di raccogliere il testimone del vecchio liberalismo di destra e di guidare una riforma delle istituzioni in senso tecnocratico. Allinizio di luglio Rocca ricevette dalla Direzione del partito lincarico di procedere alla costituzione dei Gruppi di Competenza (che, sebbene contemplati dallo statuto/regolamento, erano rimasti sulla carta) !; quindi nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito Segretariato nazionale. Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva coordinare lopera dei singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali, in modo tale chessi servissero da legame e da organi dinformazione fra il Partito Nazionale Fascista e le Corporazioni sindacali, e facessero da punto di raccolta dei nuovi valori intellettuali e tecnici destinati a formare la classe dirigente del futuro - Per lex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da anni andava predicando lurgenza di una rivoluzione dei competenti, si tratta di un riconoscimento personale importantissimo e di una grande occasione politica. Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di Competenza (al quale dovevano contribuire le resistenze opposte dalla oligarchia fascista e dai capi locali pi ignoranti) ?, rappresent, per Rocca, una cocente delusione, che ebbe un peso non secondario nel definirne | il mutato atteggiamento riguardo al fascismo. A fine agosto Il Popolo dItalia rese noto un programma in due parti per il risanamento finanziario dello Stato e degli Enti Locali, Il documento, che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia economica, era redatto da Massimo Rocca e dallon. Ottavio Corgini, ed era, in massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a motivo della sua classicit, il programma Rocca/Corgini suscit commenti benevoli nel mondo borghese e imprenditoriale italiano? e valse, insieme Cfr. Il Popolo dItalia. Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi allentrata in vigore dello statuto risultavano essere quello degli ingegneri fascisti e quello degli assicuratori fascisti triestini (cfr. CORDOVA). Il Popolo dItalia Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE, Aspirazioni tecnocratiche del primo fascismo, in Nord e Sud, nonch CORDOVA, Ka cit., p. 101 ss. si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura p Detto programma aveva avuto unanticipazione nellarticolo di Rocca Disavanzo cronico, pubblicato dallorgano mussoliniano il 18 luglio. Il Corriere della Sera, in un fondo del 6 settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma opera di Luigi Einaudi), formul un giudizio addirittura entusiasta sul programma economico fascista. Esso - osserv Einaudi - aveva il merito di risalire alle sorgenti liberali dell'economia classica, senza niente concedere alla facile demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?4, a spazzar via le residue diffidenze dellopinione pubblica moderata nei confronti del fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di governo. AI centro della riflessione di Rocca e Corgini  lidea che il Parlamento italiano  ormai diventato un organo di sperpero, in balia di gruppi parlamentari irresponsabili, e che occorresse per questo abolire liniziativa parlamentare a proporre nuove spese. Tra i provvedimenti atti a risanare lerario, il programma annovera: la riforma della burocrazia (affinch gli uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti i vinti anticipati nella lotta per lesistenza e lelevazione); la cessione ai privati delle industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali inutili; la soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari pubblici, ai privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione allessenziale dei lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che inceppavano la produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dellintero sistema tributario, nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano a detrimento della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle esportazioni, La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli Enti Locali, era senz'altro molto pi politica. La responsabilit prima del dissesto dei Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli estensori del socialistoide. Rocca stesso, riandando con la memoria agli avvenimenti di quellestate, scrisse che il programma incontr un successo rilevante, sebbene esso andasse oltre lideologia liberale. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura,). nellambito di un intervento al Teatro Sociale di Udine, Mussolini afferma che la rivoluzione fascista non insidia il trono dei Savoia. Lasceremo in disparte dice, fuori del nostro gioco, che ha altri bersagli visibilissimi e formidabili, listituto monarchico, anche perch pensiamo che la gran parte dellItalia vede con sospetto una trasformazione del regime che anda fino a quel punto (Un forte e chiaro discorso ammonitore di Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessit storiche della Nazione, Il Popolo dItalia. Il discorso di Mussolini  molto apprezzato e non puo essere altrimenti da Rocca, che, in un telegramma al duce, dichiara di condividerne entusiasticamente ogni parola. Pi sfumata la reazione di Gioda. Le considerazioni di Mussolini in ordine alla questione istituzionale - scrive il segretario del Fascio torinese - doveno essere valutate serenamente. Dopo tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI INTRANSIGENTI come Mazzini e Crispi si sono piegati, nellinteresse dItalia, ad accettare la monarchia. (GIODA, Il discorso di Udine, Il Maglio. ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello stato italiano. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, Il Popolo dItalia, Ae documento - era delle amministrazioni di sinistra, socialiste e popolari dellazione immorale, disordinata e dilapidatrice dei sovversivi. Un rimedio poteva consistere nellobbligare gli amministratori rossi a preparare e fare approvare i bilanci comunali e provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge (a costo di agire fascisticamente, senza mezzi termini ed eufemismi), ma, ancora una volta, la soluzione vera del problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in attesa della quale Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni capoluogo di provincia, di un comitato centrale di difesa dei contribuenti Dalla met di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli Rocca  impegnato a dirigere la campagna di comizi per il risanamento finanziario, che attravers tutta lItalia. Quattro giorni prima dellinaugurazione del congresso partenopeo Il Popolo dItalia pubblica lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che possiamo a ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del primo fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale lautore esponeva in modo lineare la propria dottrina della competenza. Per prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti e i sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli effetti, formazioni di massa, allinterno delle quali i produttori restavano raggruppati pi con riguardo al numero che alle capacit singole, al fine di salvaguardare interessi particolari e soprattutto economici; i primi dovevano configurarsi come nuclei esigui di persone, le quali, in quanto partecipanti ai gruppi medesimi, non dovevano avere alcun interesse specifico, n personale n di classe da tutelare. Ai Gruppi doveva quindi competere una funzione eminentemente consultiva e di studio, ma anche una funzione, per cos dire, di armonizzazione dei diversi interessi, unopera il cui precipuo carattere spirituale fosse quello di favorire la concordia fra le diverse classi e categorie produttive, cos come fra il partito e le corporazioni. Poich, secondo Rocca, tutte queste caratteristiche non erano compatibili n col numero n con i metodi democratici di elezioni e i Lo (1g ARA ID., Pel risanamento finanziario degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922. Entrambi i programmi furono in seguito pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza pubblica. Relazioni di Massimo Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria dello Stato e degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922. Rocca era a capo di una commissione finanziaria, incaricata di organizzare i comizi. Rocca  loratore principale a Genova, Livorno, Savona, Alba - dov previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato allultimo momento (cfr. Il Popolo dItalia) - e Palermo. di discussioni, i Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto la diretta sorveglianza degli organi direttivi del partito. Nella sua relazione al congresso fascista di Napoli, ufficialmente convocato per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca illustr dettagliatamente il progetto di statuto/regolamento, dicendosi altres convinto che i Gruppi di Competenza avrebbero recato un contributo alla soluzione della questione meridionale?. Sul meridionalismo di Rocca, che egli avrebbe in seguito rivendicato come un titolo di merito,  necessario aprire una parentesi. Gi da qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo, che al sud mancava di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere radici nel meridione. Daltronde, lipotesi - ormai sempre pi concreta - di una marcia su Roma presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione politica e militare anche nei territori a sud della capitale. Si  riunita la Direzione del PNF, per studiare lorganizzazione fascista in rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole, e definire lordine del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso della discussione Rocca si era mostrato scettico sullopportunit di considerare la questione meridionale anche in relazione alle tematiche riguardanti lordinamento del partito un problema a se stante, slegato dalla pi complessa realt nazionale, e aveva espresso il timore che il congresso potesse risolversi in una contrapposizione artificiosa tra nord e Il Popolo dItalia A norma dello statuto, che ottenne l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i Gruppi di Competenza (ripartiti in sette rami principali: industria, commercio, agricoltura, trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali, provinciali e nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni provinciali e dal Segretariato nazionale. Il numero dei componenti i singoli gruppi non doveva eccedere i venti elementi, scelti, secondo il criterio della capacit professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso, iscritti al Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di offrire un sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo; e, a tal fine, di compiere indagini, raccogliere materiale di studio, emettere pareri, compilare proposte e relazioni, che servissero di guida al partito e ai sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di circondario e a quelli provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual volta avessero dovuto assumere decisioni su problemi anche solo in parte tecnici, e quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di essi, potessero essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a comporre i conflitti tra capitale e lavoro. Lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza, con lannessa relazione, si trova anche in Rocca, Relazione al Gran Consiglio Fascista sui Gruppi di Competenza. Relazione introduttiva e statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella nuova vita nazionale. Discorso pronunciato alladunata di Napoli: vigilia della Marcia su Roma, Milano, Imperia, Cfr. Il Popolo dItalia, sud del Paese, o, peggio, in una guerra di frazione o di campanile tra le diverse regioni del Mezzogiorno. Nellinsieme, si pu dire che il torinese Rocca non manifesta una particolare sensibilit verso i problemi del meridione. Eppure, nei mesi che seguirono la nomina di Mussolini a capo del Governo, egli  uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Rocca compe un viaggio di studio in Sicilia per conto della Direzione del partito, e ne rifere al Gran Consiglio. Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni siciliane egli rimane invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del consorzio zolfifero), che ne hanno in qualche misura condizionato il futuro politico. Il punto  oscuro, ma deve essere richiamato, dal momento che, tra le accuse mosse a Rocca da Farinacci e dagli altri ras provinciali nel pieno della polemica revisionista, quelle di corruzione hanno un peso non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca al segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trova per seguire i negoziati in atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani), egli ha i primi contatti con i responsabili del consorzio zolfifero siciliano alla vigilia del congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio palermitano nellambito della campagna fascista per il risanamento finanziario? Il Governo Mussolini - dichiara Rocca al suo intervistatore - doveva impegnarsi a fondo per risollevare le sorti dellindustria zolfifera siciliana, da tempo alle prese con una grave crisi, anche attenuando il proprio intervento nelle faccende del Consorzio. Ora, a quanto risulta da un documento conservato nelle carte di PS (un dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti dellindustria zolfifera sarebbe in realt corrisposta una ricca contropartita. I produttori di zolfo, riuniti in consorzio, avevano dato vita a un comitato di agitazione, allo scopo di esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne provvedimenti a favore del settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto comitato aveva prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, Il Popolo dItalia Cfr. PNF, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista, Roma, Editrice Nuova Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli avrebbe individuato nella regolazione delle acque e nel miglioramento delle vie di comunicazione la misura immediata e necessaria, sebbene non sufficiente per attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura PELIZZI, La questione degli zolf e altre cose. Un'intervista con Massimo Rocca, Il Popolo dItalia arbitrariamente la somma di 25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato zolfatari, senza farne menzione nellobbligo di rendiconto. La decisione, chiaramente illegale, aveva incontrato lopposizione tanto del Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto del suo successore nel nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano Cavazzoni. A questo punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato in gioco Massimo Rocca, il quale, dietro adeguata ricompensa, avrebbe fatto valere il proprio peso politico, intercedendo con successo a favore del consorzio zolfifero. Le informazioni contenute nella relazione citata rispondevano probabilmente al vero, ma non  da escludere, tenuto conto del momento in cui il documento in questione vide la luce (al termine, cio, della seconda ondata revisionista), che esse fossero montate ad arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel frattempo un oppositore dichiarato del Governo. AI di l dei proclami ufficiali, lassise napoletana serv quale adunata generale in vista della marcia su Roma. Gi da tempo, e precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in occasione dello sciopero legalitario indetto dall Alleanza del Lavoro alla fine di luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati maggiori del fascismo, riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla conclusione dello sciopero, avevano discusso a lungo sulleventualit o meno di un'insurrezione armata. Insieme a Grandi, Rocca  il pi convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea insurrezionale aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Farinacci, Balbo e lo stesso segretario del partito Bianchi. Dopo la marcia Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. Limportante vertice romano (erano presenti i membri della Direzione, del Gruppo parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della Confederazione delle Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di Bianchi sulla situazione politica. Il segretario del PNF aveva chiaramente lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza offerta nei giorni dello sciopero legalitario, non era pi disposto a tollerare lo sfacelo del Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive. Rispetto alle due tendenze, la legalitaria e linsurrezionale, delineatesi nel corso della discussione intorno alla relazione Bianchi, Mussolini, come suo costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del giorno votati il 13 agosto (il primo, per listituzione di un comitato militare ristretto; il secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato della Camera e lindizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione ambivalente del duce. Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale Fascista, Il Popolo dItalia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano, Rizzoli, su Roma (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre pi che lascesa al potere del fascismo, con lassunzione di responsabilit chessa comportava, dovesse chiudere per sempre la fase eroica della rivoluzione e inaugurare quella della ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e soprattutto - nellassoluto rispetto della legalit. Lesigenza di porre un freno alle intemperanze dello squadrismo era del resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti fascisti della prima ora, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue peregrinazioni (egli stesso amava definirsi un nomade), dopo aver retto per qualche tempo la Federazione Sindacale padovana??, Malusardi era giunto a Sestri Ponente, in provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico di segretario politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista I fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria.  in discussione il tema della violenza, reso scottante a motivo dei reiterati episodi di squadrismo verificatisi in molte zone del genovese Malusardi, secondo limpostazione cara anche a Rocca, a Gioda e ai fascisti pi moderati (una forma mentis di cui abbiamo gi rimarcato i limiti intrinseci), rilev che la violenza squadrista, utile e legittima fintantoch si manteneva chirurgica e cavalleresca, non era giustificabile quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo lascesa al governo del fascismo, le camicie nere avevano lobbligo, insieme morale e politico, di essere disciplinate. Su questo punto di grande importanza v. altres CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, e NELLO, Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr. ACS, CPC, Busta [Malusardi]. Malusardi  chiamato a Padova e vi si  trattenuto, contribuendo, grazie alle sue capacit di organizzatore e di propagandista, e alla vena popolare del suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo maggior successo  il raggiungimento di un concordato con la locale Associazione Agraria, alla fine di giugno. L'accordo  tendenzialmente favorevole ai lavoratori (prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, limponibile di mano dopera e la creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti dinteresse), e Malusardi, ligio ai propri convincimenti sindacalisti, si era adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i pi riottosi. Di fronte ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dellassociazione padronale, il congresso sindacale provinciale si conclude con un ordine del giorno molto duro, nel quale sinvocava unopera decisa ed inesorabile, per far piegare, innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro (Il Lavoro dItalia. Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. Noi non possiamo pi sostenne Malusardi a proposito dellautorit politica I scavalcarla ed esautorarla, bens la dobbiamo coadiuvare e vigilare perch applichi inflessibilmente lo imperio della legge. E conclude: Lasciate stare, dunque, o amici, il manganello, lolio di ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece delle biblioteche e delle scuole di cultura Aspettative e delusioni Nonostante gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del Consiglio non attenu affatto le brutalit fasciste, che anzi subirono unimpennata, culminando nella strage di Torino. L'episodio  fin troppo noto e costituisce una delle pagine pi fosche nella storia del fascismo, che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze che ebbe sulle sorti politiche di Gioda e di Rocca. Accampando come dabitudine il pretesto di vendicare l'uccisione di due camerati, gli squadristi torinesi, capeggiati da Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le organizzazioni socialcomuniste. In quella che Salvemini define una vera orgia di sangue trovano la morte una ventina di persone, tra le quali lex anarchico Berruti, consigliere comunale comunista e noto L'assemblea straordinaria del Fascio, Giovinezza. sn i pa del dicembre  solo lapice di una lunga teoria di fatti di sangue. In un telegramma al Ministro Di Interni, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la situazione (Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista Il Maglio - O rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro organizzazioni comuniste accendono rancori di parte che potranno esplodere in forma violenta ed improvvisa) e chiedeva linvio di rinforzi. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It i La ricostruzione pi accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in FELICE, I fani di Torino in Studi Storici, SALVEMINI, Scritti sul fascismo, Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda, il cui potere effettivo allinterno del Fascio torinese era andato vieppi scemando (tanto che, negli ultimi mesi, la sua attivit si era limitata a curare le corrispondenze per Il Popolo dItalia), non ebbe alcuna responsabilit nellaccaduto?* ed anzi, al pari di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi. Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se ne attribu la paternit, a nessun altro scopo - come sembra - se non quello di riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva incaricato una commissione dinchiesta di far luce sullaccaduto), la sua | figura di ras di Torino e del Piemonte? Con una mossa a effetto, carica per di significati politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro di Berruti, loro amico di giovent ?. Gli squadristi - nota Rocca a distanza - non gli avrebbero mai perdonato quel gesto. Episodi come quello di Torino contrastavano drammaticamente con la | necessit - posta in evidenza da Rocca e non da lui soltanto - di una | normalizzazione del fascismo. I primi mesi di vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v. ANDREUCCI, DETTI, Gioda scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa insaputa. Cfr. FELICE, / fatti di Torino Popolo FELICE, / fatti di Torino del dicembre 1922, cit., p. 82. % Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del comunista Berruti, Il Popolo dItalia. Gioda scrive di Berruti chegli era indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di qualit intellettuali non comuni. Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura Linchiesta ordinata da Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le gravissime responsabilit degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle indagini, il Gran Consiglio si limit a statuire lo scioglimento del Fascio di Torino, delegando lincarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi, nominato fiduciario con pieni poteri, mentre Gorgolini e Gobbi (due dei pi stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un memoriale contro il quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per esservi riammessi solo nel dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a Vecchi la sua indisciplina. Di l a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle pensioni e allassistenza militare, quindi, dopo la sua nomina a governatore della Somalia, costretto a lasciare lItalia. In una vibrante lettera a Mussolini, poi allegata agli atti dellinchiesta, In un discorso al Teatro Ambrosiano, il quadrumviro difese loperato di | Brandimarte e si assunse la responsabilit politica e morale della strage. Cfr. La Gazzetta del | furono segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo equilibrio tra disordine e legalit, spinte eversive e propositi riformatori, ricerca del consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli interessi del partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizz la vita politico/parlamentare italiana  UNO DEI POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, gi da tempo schierato per il ritorno al sistema maggioritario, entr nella speciale commissione per la riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio, primo passo verso quella che sarebbe diventata la legge Acerbo. Per un certo MITA] riguardo si veda larticolo // processo alla proporzionale, in Il Risorgimento. Sulla delicata questione del sistema elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con Farinacci, fautore di un ripristino delluninominale puro. In una lettera a Farinacci, Rocca defin un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema proporzionale vigente (che se non altro aveva avuto il merito di immettere sangue nuovo nellasfittica vita parlamentare italiana), uneventuale reintegrazione del collegio uninominale; una formula dominata dalle aderenze, dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con mezzi leciti ed onorevoli, e che per di pi aveva il difetto di acutizzare Io spirito campanilistico (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo Rocca all'on. Farinacci, Cremona Nuova). Nella sua pronta replica, Farinacci obietta che la rivoluzione fascista ha a tal punto innovato i costumi politici deglitaliani che il ristabilimento delluninominale non puo considerarsi un semplice ritorno al passato. Se allora, nel passato sosteneva Farinacci sono le clientele che decideno, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio della Federazione provinciale fascista e dallaltra la conoscenza personale del corpo elettorale e il suo giudizio, non pi formulato in virt della potenza della clientela, ma in forza del valore del candidato, facilmente apprezzabile dagli elettori per la loro educazione fascista. Quanto al problema del campanilismo questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al fascismo provinciale -, il ras di Cremona fu ancora pi esplicito. Tu rimprovera infatti a Rocca prescindi dallefficacia del nostro movimento, che ha allargato la visione dei singoli i quali sono inclinati, merc lopera nostra, a conciliare linteresse della provincia con quello della nazione, subordinando luno allaltro (FARINACCI, // perch del ritorno al collegio uninominale). a conclusione dei suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a Rocca, Michele Bianchi, Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini e Sansanelli) si pronuncia ufficialmente per il sistema maggioritario secondo uno schema elaborato da Bianchi e contro luninominale. Rocca, che si trova in Sicilia e non pot esser presente alla riunione, invia una lettera di piena adesione, di cui da conto lo stesso Bianchi (cfr. Il Popolo dItalia). Il Gran Consiglio accett le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a favore, contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista), dopodich il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giacomo Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di legge. Questo, sottoposto allesame preventivo di una commissione parlamentare interpartitica (la cosiddetta commissione dei VIT PATTI VENI "TV ZO E TOPO VOTO VI VITTI E PP TI periodo, parve che alla riforma elettorale com'era negli auspici di Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una pi ampia azione di rinnovamento istituzionale. Nellultima seduta della sessione di aprile il Gran Consiglio deliber la creazione di un Gruppo di Competenza per la riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi allallarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si affrett ad assicurare ogni patriota in buona fede che n listituto monarchico, n i principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in discussione. In realt, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti della maggioranza e il timore che essa potesse incidere negativamente sul cammino della legge elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni velleit riformatrice. Rocca, che finalmente intravede la possibilit di legare il proprio nome - e la funzione stessa del fascismo - ad unopera propositiva di riforma, ne resta amareggiato. Questa volta scrive a distanza di tempo la delusione  profonda. Il movimento fascista, che da quattro anni parla senza tregua di rivoluzione e gi ne invocava i pretesi e illimitati diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la pi modesta riforma, meno radicale di quella corporativa attuata dANNUNZIO (si veda) a Fiume; una riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le gesta passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive intemperanze verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva dunque ad un'etichetta, dal significato puramente negativo, comodo pretesto per trascurare la legalit | vigente, senza per curarsi di foggiarne unaltra qualsiasi. Mussolini trascurava diciotto) - che lo approv -, fu ratificato dalla Camera il 21 luglio, dopo una lunga discussione. Su tutti questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista Il Gruppo comprendeva anche: Bianchi (presidente), Costamagna (segretario), Corradini, Maraviglia, Casalini, Rossoni, Tamaro, Panunzio, Lolini, Gatti e Vecchio. Il Popolo dItalia, FELICE, Mussolini il fascista Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a presentare uno schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento giuridico dei sindacati dogni categoria e dogni classe; lelezione, da parte dei dirigenti e delle federazioni sindacali, di consigli tecnici dell'economia, comprendenti tre classi, a livello locale, provinciale e nazionale; il divieto di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato vitalizio dei presidenti del Consiglio uscenti, per togliere loro ogni preoccupazione elettorale ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari pubblici; il divieto al Parlamento di proporre nuove spese; lapprovazione in blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica di mostrarsi grande e dimporsi, col suo prestigio di riformatore, ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo nei suoi atteggiamenti esteriori La delusione di Rocca fu tanto pi grande in quanto allaccantonamento dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il concomitante naufragio dei Gruppi di Competenza, liniziativa nella quale egli aveva riposto le maggiori speranze. In unintervista a un quotidiano romano (riprodotta in parte anche da Il Popolo dItalia), Rocca, pur ribadendo che i Gruppi di Competenza, nati da unidea prettamente aristocratica, rappresentavano la maggior novit del fascismo, riconobbe che la loro attuazione dipendeva dalla volont del Governo di utilizzarli?9. Dietro questa semplice constatazione si nascondeva lamara consapevolezza delle grandi difficolt fin l incontrate dai Gruppi allinterno stesso del fascismo (si tenga presente che, a quasi quattro mesi dallentrata in vigore dello statuto/regolamento, i soli due Gruppi realmente funzionanti erano quello per la pubblica amministrazione e quello per leducazione, questultimo, peraltro, in pessimi rapporti con il ministro Gentile) AI Gran Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla situazione generale dei Gruppi, afferm la necessit di riconoscere loro una franca autonomia, sola condizione per garantirne un'effettiva operativit. Nei mesi successivi qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del 28 luglio, Rocca pot annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di Competenza provinciali, ottenendo lassicurazione che gli organi direttivi del partito avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo. Nonostante le apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano unesistenza stentata, senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del partito e dalle stesse corporazioni! Linsorgere della prima crisi revisionista, conclusasi con linsuccesso di Rocca, diede loro il definitivo NicoLA Pascazio, /l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola, l'Istituto delle Assicurazioni. Intervista con Rocca, Il Giornale dItalia. A questo riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp. 166-167. 258 PIF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista V. altres / gruppi di competenza e la riforma della scuola nella relazione di Rocca al Gran Consiglio Fascista, Il Popolo dItalia. Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio nazionale delle Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse minimamente affrontato il tema dei Gruppi di Competenza. Cfr. CORDOVA, op. cit., p. 164. colpo di grazia. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita del governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di Massimo Rocca e non v dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex anarchico alla sua ultima battaglia polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici di Rocca, mentre Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il Fascio di Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu ricostituito), il biennio vide la consacrazione di Malusardi come dirigente sindacale; e tuttavia non sembri un paradosso -, proprio nel 1924 la carriera dellex stuccatore rischi di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi vecchi compagni sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trov a dover fare i conti con la trasformazione del fascismo in regime. Malusardi lasci Sestri Ponente, per dirigere la Federazione sindacale di Firenze. In pochi mesi egli seppe conferire allorganizzazione corporativa dellarea fiorentina maggiore stabilit ed efficienza. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi fu nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco costituita, Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia sindacale e quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di Malusardi, alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostr chiaramente il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato tra la Confederazione delle Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segn il fallimento, almeno nellindustria e in quel momento, dellipotesi di In seguito alla sua sospensione per tre mesi da ogni attivit di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi di Competenza al suo vice Costamagna, che la assunse a titolo definitivo. Nel frattempo, il Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi in Consigli Tecnici nazionali, organismi ancor pi evanescenti, dei quali ben presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo l'assemblea del Fascio per lelezione del nuovo Direttorio. Questo, radunatosi quattro giorni dopo, riconferm segretario politico Mario Gioda. Cfr. Il Maglio, 2 giugno 1924, e Il Popolo dItalia. Cfr. MALUSARDI, Elementi di storia del sindacalismo fascista, E A n past p In base alla relazione presentata da Malusardi al primo consiglio nazionale delle Corporazioni, le corporazioni operanti nella provincia di Firenze sei mesi dopo il suo arrivo a Firenze  erano XIV (I agricoltura, II commercio, III industria, IV impiego, V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanit, VIII dipendenti monopoli e aziende statali, IX stampa, X teatro, XI trasporti e comunicazioni, XII ospitalit nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle arti), per un totale di circa 50.000 iscritti. Cfr. Il Lavoro dItalia, Ctr. sindacalismo integrale. Lintesa, fondata sul principio della collaborazione e raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo, sollev tensioni e contrasti allinterno del sindacalismo fascista. Si riun a Roma il consiglio nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si manifestarono due tendenze: la prima (pi conciliante e che fin per prevalere) facente capo a PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal segretario generale Rossoni, per il sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento giuridico dei contratti collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata da Bagnasco e Malusardi, a favore dellazione diretta contro glindustriali. Nel clima di confusione seguito al rapimento e allassassinio di Matteotti, Malusardi si dimise dalla segreteria dei sindacati fascisti fiorentini (dove  sostituito da Lusignoli) 2.  un primo atto di ribellione, al quale fa seguito la costituzione - con Galbiati (segretario della Corporazione nazionale dellarte bianca) e altri dirigenti sindacali milanesi - dun comitato dazione per rigenerare le Corporazioni, Nellordine del giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la debolezza, lincertezza programmatica e lautoritarismo che contraddistinguevano lopera delle Corporazioni fasciste, e sinvoca un totale revisionismo, nei metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni proseguiva il documento - dovevano agire in senso nettamente sindacalista, avendo presenti gli interessi effettivi della classe produttiva, senza lasciarsi condizionare da pregiudizi ideologici (di lotta di classe e di collaborazione aprioristica) e politici, ma anzi ricercando l'intesa con le masse e le organizzazioni che si muovevano sul terreno nazionale. Quanto ai rapporti con il Partito Fascista, questi dovevano essere fissati in forma di libera e consapevole alleanza? Pochi giorni dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su questi punti v. CORDOVA. PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Per la cronaca del congresso v. Il Popolo dItalia, e Il Lavoro dItalia. Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, La Giustizia. Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, La Voce Repubblicana. AEREI ; i i Dal 13 settembre il Comitato inizi le pubblicazioni di un proprio settimanale: LIdea Sindacalista. Jai Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi, cit. (La Voce Repubblicana, che, da sempre ferocemente critica nei confronti degli orientamenti sindacali del fascismo, segu con grande attenzione gli sviluppi della crisi, defin una diagnosi perfetta quella contenuta nellordine del giorno del Comitato milanese). Direttorio nazionale delle Corporazioni sanzion lallontanamento dal movimento sindacale fascista di Galbiati e Malusardi?!, il quale per, allinizio di ottobre, dette le dimissioni dal Comitato, ottenendo il ritiro del decreto di espulsione. Non  chiaro per quale motivo Malusardi si decise a quella mossa, ma  certo che, cos facendo, egli salvaguard la propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare del tutto le proprie radici anarcosindacaliste (si pu dire infatti che la sua azione nellambito del sindacalismo fascista continu a vivere di velleit operaiste) ??, Malusardi la cui fedelt al fascismo non fu comunque mai in discussione - rientr | disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre pi ai modelli imposti dal regime. Nell'autunno del 1924, preludio allavvento di una lunga dittatura, si concluse quindi almeno formalmente la vicenda libertaria di Malusardi: unuscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica. Si riune a Roma il Direttorio nazionale delle Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati fu liquidata come latto di quattro persone che non avevano alcuna autorit e alcun seguito. Cfr. Il Popolo dItalia Hi Provvedimenti del Direttorio delle Corporazioni. Sullintera vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!, LIdea Sindacalista Un mese dopo Malusardi presenzia regolarmente al secondo congresso nazionale delle Corporazioni (Roma). Cfr. Il Popolo dItalia. Esemplare, a questo proposito, lesperienza di Malusardi come segretario dellUnione provinciale dei sindacati fascisti di Torino, segnata dai continui contrasti con l'Unione industriale fascista, e la FIAT in particolare (al riguardo v. SAPELLI, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino, Milano, Feltrinelli. Le aspirazioni libertarie di Malusardi trovano un ultimo rifugio nellutopie socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ha comunque un ruolo defilato e la cui funesta parabola non gli risparmia dolori e amarezze (uno dei suoi figli, divenuto partigiano,  fatto prigioniero dai fascisti e condannato a morte, Malusardi si rivolge a Mussolini, il quale intervenne personalmente affinch al ribelle  risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare del duce. Nel dopoguerra, nonostante la non pi verde et, Malusardi partecipa attivamente alla vita politica e sindacale nelle file della CISNAL. Il suo approccio alle questioni del lavoro resta di fatto immutato, sentimentalmente ancorato alle memorie di Corridoni e Annunzio (a titolo di esempio si vedano i saggi Corridoni e Socialit di ANNUNZIO (si veda), pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de Il Maglio. Muore a Torino. Sulla figura e lopera di Edoardo Malusardi, quale rappresentante dellala sinistra del fascismo, v. infine PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad indicem. Linizio della polemica revisionista  giustamente fatto coincidere # L pubblicazione su Critica Fascista, dell articolo Rocca Fascismo e paese . Gi da qualche mese, tuttavia, dinanzi al protrarsi delle illegalit fasciste, i settori pi lungimiranti del PNF -e I ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento del fascismo nellordine statutario. Intervenendo alla Camera, lon. Misuri, gi parlamentare fascista, anticipa, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati da Rocca nel suo celebre articolo. In RT Misuri chiede la smobilitazione delle squadre e | inclusione le ; MVSN nellesercito regolare; la cessazione, da parte del segretario si Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni ingerenza srt; i affari di competenza dellesecutivo e delle prefetture; ! allargamento va base del Governo a tutte le sane correnti nazionali. Il discorso kr deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ch Di furono altri tipi di dissidentismo) , fenomeno parallelo e in un certo sen Larticolo usc simultaneamente anche sulle pagine de Il Giornale dItalia, che lo defin notevole. Lira : Epi ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale, SE tra " n n pn i fasciste, dovette abbandonai Perugia. Eletto al Parlamento nelle file f, d a r i ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo u Li 1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF rientr per bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr | lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a. MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un uinquennio di vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924. i i i 95-122. | testo completo del discorso v. /bidem, pp. ar  , h vira ore dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri fascisti, guidati dallufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e malmenato Cs sullepisodio v. Per l'aggressione allon. Misuri, Il Giornale d Italia, 31 maggio 1 i ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e Ottavio Corgini trov lun pun concreta nel gennaio 1924, con la nascita dellassociazione Patria e Libert, evocante, gi: speculare = a quello del revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse dai dissidenti - e da Misuri in particolare sul revisionismo e su Massimo Rocca, tra le due eresie fasciste correva una differenza sostanziale. Come gi notava acutamente Giacomo Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non nutrivano grandi speranze circa la capacit del fascismo di autoriformarsi (tant' che finirono per distaccarsene quasi subito), Rocca silludeva di far trionfare la propria idea da dentro il partito; credeva, in altri termini di poter cambiare il fascismo dal suo interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole - che esso potesse realmente diventare lala marciante e riformatrice del liberalismo. In questo vizio dorigine, prima ancora che nei mutevoli umori di Mussolini e nella protervia di Roberto Farinacci e degli altri ras, in questa valutazione errata della vera essenza del fascismo (che avrebbe fatto della battaglia revisionista unestenuante e infruttuosa lotta di posizione) *, devono essere ricercate le ragioni ultime della sconfitta di Massimo Rocca. Come detto, larticolo di Rocca vide la luce su Critica Fascista, la nuova rivista di Giuseppe Bottai, che aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel nome, taluni circoli monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti I associazione prese a pubblicare il settimanale Campane a stormo (poi riesumato da Misuri nellimmediato secondo dopoguerra). n Sul dissidentismo fascista, la sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e ramificazioni, v. principalmente LOMBARDI, Per le patrie libert: la dissidenza fascista tra mussolinismo e Aventino, Milano, Angeli, ma anche con pi esplicito riferimento alloperato di Misuri e Corgini, ZANI, L'Apsocio4iali costituzionale Patria e Libert, in Storia Contemporanea, ondamento delle loro critiche al revisionismo i dissidenti di Patria e Libert ponevano la considerazione che fosse ormai necessaria la liquidazione, non la revisione del fascismo. Pisi caotici costruttori di teorie, in quanto convinti di poter salvare qualcosa del ascismo, lavoravano inconsciamente per esso (Revisionismo, Campane), PSR A E e Cfr. LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, Lumbroso (gi nella fiorentina Banda dello sgombero, una delle prime manifestazioni del dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci Nazi nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo puro delle origini. Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia scriveva Lumbroso nelle pagine ug se suo da Ta sono rimasto tale perch non credo che la dottrina e lo spirito del cismo debbano confondersi collo scempio che ne  stato compi i inetti i f  iu indegni. RIA: dae Re) 2a  Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto interprete di una concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene muovendo da premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come Rocca - riteneva finito il tempo della rivoluzione e chiedeva il rinnovamento del partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista con una nuova lite che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese. Un mese e mezzo prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro collaboratore di Bottai, lex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in modo inequivocabile lorientamento della rivista. Noi scrive Marsanich - diciamo che il nostro partito deve iniziare subito unopera di revisione, anzi di liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi metodi, che se furono utili prima, oggi non servono pi, se non ad intorbidire le fonti della nostra forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio uno dei nostri compiti necessari, in quanto lItalia  nata dal liberalismo e cresciuta nel parlamentarismo,  quello di ridonare al Parlamento il suo valore di massimo istituto storico e politico dellet nostra, di riconciliare insomma la Nazione col Parlamento. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire la necessit di smobilitare e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo di sintesi nazionale, l'eventualit di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i suoi nemici di ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile che Rocca, il quale da tempo esorta alla normalizzazione, trova in Bottai e nella redazione di Critica Fascista degli interlocutori attenti e ben disposti. Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da Critica Fascista nel dibattito interno al fascismo durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento al revisionismo) v. soprattutto MANGONI, L interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai fascista critico, Milano, Feltrinelli, BOTTAI, Disciplina, Critica Fascista. Che il fascismo, compiuta la sua rivoluzione e conquistate le leve del potere, dovesse por mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo un programma propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti pi politici. Lo stesso Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo numero di Critica Fascista (e riprodotta anche da Il Popolo dItalia del 30 giugno), aveva scritto: Caro Bottai, prima ancora che il programma, mi piace il titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un gesto di consapevole orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto il suo secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacit di controllo e di critica. !! Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH (si veda), figura di rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo dopoguerra, uno dei protagonisti del movimento neo-fascista, v. Dizionario biografico deglitaliani. cosa scrive Rocca che desta tanto clamore? La rivoluzione fascista questo in sintesi il suo pensiero aveva avuto il merito di strappare lItalia al baratro del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion dessere soltanto se finalizzata al bene della Nazione, di tutta la Nazione, e non alla propria autoconservazione. Il fascismo - spiega Rocca  dove servire il Paese e non viceversa, come preteso dai capi provinciali, i quali, interessati solo a perpetuare il loro piccolo potere, erano i primi responsabili del perdurare dellillegalit e del clima di tensione, da guerra civile permanente, che ancora dominava in certe regioni". Ora, nella battaglia intrapresa per la sprovincializzazione del fascismo, Rocca era convinto di trovare in Mussolini un alleato naturale, ma questopinione, se non mancava di riferimenti nella realt, non teneva nel dovuto conto la spregiudicatezza tipica del modus operandi del duce, ed era perci, in definitiva, frutto di una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo larticolo di Rocca si ha I impressione che lautore tendesse a sopravvalutare certe prese di posizione di Mussolini  che, pi o meno inconsapevolmente, finisse per attribuire al duce la propria personale visione del fascismo. I segni pi evidenti della volont conciliatrice del Presidente del Consiglio - scriveva Rocca - erano stati: la promessa, lanciata nel primo discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del Paese tutti gli elementi di valore, persino se provenissero dallestrema sinistra: lappoggio dato alle Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di diritto, sebbene ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; I incoraggiamento ai Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere lopera sindacalista compiuta nei ceti proletari; la costituzione di un governo non esclusivamente fascista; l'immissione di ufficiali dellesercito nei quadri della Milizia, per maturarne la futura fusione con lesercito medesimo; il rifiuto ostinato, intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese dimpiegati e di favori da parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dellultima pes; Se pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in disgrazia del loro mentore, sarebbe spettata di l a poco ai Gruppi di Competenza; alleffettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e proprio esercito di profittatori, dintriganti e dincapaci che affollava lentourage di Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della Cfr. MassIMo Rocca, Fascismo e paese, Critica Fascista. Larticolo, con altri due dello stesso periodo, si trova ri ilti i STE, con, prodotto sotto il titolo // l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia negli uomini, trov sempre inutile opporsi), abbiamo la misura di quanto Rocca singannasse. In ogni caso, il suo articolo fu bene accolto da Il Popolo dItalia, che anzi ne fece pubblicamente l'elogio", e nel complesso, lungo tutta la durata della prima crisi revisionista, il giornale diretto dal fratello del duce, Arnaldo, ne incoraggi apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del resto, sebbene senza mai esporsi in prima persona, dette una mano alla campagna revisionista, ma la ragione di questo suo favore non derivava tanto, come crede Rocca, da unintima convinzione ideale, bens - come ha ben sottolineato Felice (e com'era, daltronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di opportunit politica. L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti,  quello di una graduale apertura verso le forze costituzionali (liberali, cattolici, ma anche socialisti riformisti), che consentisse un ampliamento e dunque un consolidamento della sua maggioranza. A questo progetto si opponevano scopertamente gli intransigenti alla Farinacci, ed ecco, perci, che lesistenza di una corrente revisionista, moderata, allinterno del fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a rassicurare gli altri partiti e l'opinione pubblica sulle buone intenzioni del governo e a tenere a freno i ras, in vista di un possibile compromesso! Fu quindi grazie a Mussolini che il dibattito inaugurato da Rocca sulle pagine di Critica Fascista pot uscire dallambito piuttosto limitato della rivista di Bottai per diventare, grazie al coinvolgimento di altri organi di stampa, un fatto politico di portata nazionale'. Per rimanere allambito strettamente fascista, i giornali che pi degli altri si fecero carico di assecondare i disegni dei revisionisti furono tre: Il Corriere Italiano di Filippelli, L'Impero di Carli e Settimelli, e, inizialmente in misura pi sfumata, Il Nuovo Paese di Carlo Bazzi. Si trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ci che pi conta - legati a interessi equivoci'5; cos, se  innegabile che il loro sostegno Su questo aspetto non secondario della personalit mussoliniana v. RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli pseudo-Mussolini!, Il Popolo dItalia Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista. Il Corriere Italiano era sorto grazie a finanziamenti di origine imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo, essendone diretti ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Finzi, sottosegretario al Ministero degli Interni, e Rossi, capo dellufficio stampa del duce e membro del Gran Consiglio del fascismo. L'Impero aveva anch'esso iniziato le pubblicazioni e si distingueva per l'accento smaccatamente reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a Rocca lopportunit di far giungere la propria voce a un pubblico pi vasto,  altrettanto fuor di dubbio che, a lungo andare, esso non giov affatto alla seriet della campagna revisionista, e che anzi, lessersi trovato Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene affaristiche, offr a suoi avversari il destro per muovergli accuse, pi o meno esplicite e motivate, di corruzione. Rocca rileva al riguardo Lumbroso puo ridersi di certe accuse poich la sua probit privata era inattaccabile; ma sta di fatto che i giornali di cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che lo incoraggiavano nella sua campagna non erano certo i pi indicati a parlare di epurazione del Partito; ed  innegabile che certo fascismo provinciale, illegalista, dispotico e violento, in del sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che nei vincoli strettissimi con Filippelli e il suo giornale (LImpero apparteneva alla stessa cordata economico/finanziaria editrice de Il Corriere Italiano, la societ La vita dItalia, di cui Filippelli era amministratore delegato), andavano ricercati nel loro esasperato mussolinismo, nellammirazione, certo non disinteressata, per il duce, verso il quale i due | reduci del futurismo, un tempo cantori dellanticonformismo e dellindividualismo anarchico, tenevano un atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che pi di una volta mise in imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dellincostanza e dellopportunismo che caratterizzava la redazione de LImpero si ricordi che, nel corso della crisi Matteotti, il giornale, gi revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere il giro di vite e la soppressione violenta delle opposizioni; e che, a conclusione di quella dolorosa vicenda, Carli pubblica un saggio, con la prefazione di Farinacci, (Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di un regime, Firenze, Bemporad), che  tutto un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. Il Nuovo Paese apre i battenti su iniziativa di Bazzi. Questi, che compagno di Rocca nelle Argonne, proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del movimento repubblicano che, in polemica con lorientamento antifascista prevals o in seno al partito dorigine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome fiancheggiatrici del fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una Unione Mazziniana Nazionale). Anche Il Nuovo Paese non era al di fuori di loschi giri daffari, essendo legato a quel vasto ed equivoco mondo affaristico che subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo; una lobby multiforme che aveva tutto linteresse che il fascismo rimanesse al potere e mirava, per questo motivo, a una normalizzazione che rafforzasse la situazione, da cui il contributo recato dal giornale di Bazzi alla causa del revisionismo FELICE, Mussolini il fascista. Su Il Nuovo Paese e Il Corriere Italiano si veda CANALI, Cesare Rossi: da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, Bologna, Il Mulino. Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito l'intreccio affaristico sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in // Delitto Matteotti: affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino. Su Bazzi in particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla liquidazione dei residuati bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito de LImpero, v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga dellaffarismo, e non vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci, persuasi in buona fede di giovare alla causa del fascismo e dellItalia, dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed incontrollabili e riducendo a zero lautorit dei funzionari governativi"? Il giorno dopo la comparsa dellarticolo di Rocca su Critica Fascista, Il Corriere Italiano prese di petto la questione e, in un fondo che avrebbe sollevato lindignazione di Farinacci, si scagli senza mezzi termini contro larbitrio capriccioso e tirannico dei capi provinciali, arrivando a prospettare, neanche troppo velatamente, la possibilit di uno scioglimento del PNF, il quale, vivendo ormai di rendita alle spalle di Mussolini, costituiva linciampo pi grave allazione del Governo. Lipotesi insinuata dal quotidiano di Filippelli dest, comera prevedibile, un nugolo di polemiche. L'Impero, per tramite dei suoi condirettori, afferm che il feticismo ostinato nei confronti del partito non aveva pi alcuna giustificazione e che, essendosi chiuso il periodo eroico della rivoluzione fascista ed essendo stati lo spirito e la mentalit del fascismo gradualmente ma rapidamente assorbiti dallintera Nazione, non vi era pi ragione di conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per riaffermare il proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno nel breve periodo, allo scioglimento del PNF, il leader revisionista prosegue imperterrito lungo la via intrapresa. I problemi pi gravi del fascismo - insiste Rocca - consisteno nellequivoco perdurante tra partito e governo, vale a dire nellidentificazione del primo col i secondo; nellirresponsabilit e nella prepotenza dei fiduciari provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo, Il Corriere Italiano. SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, L'ImperoCos, ad esempio, a Torino, in sede dinaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non tralascia di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie critiche aglintransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni dei Gruppi di Competenza, Il Piemonte). In una lettera pubblicata da L'Impero (Partito e Governo fascista), Rocca scrive non essere ancora giunto il momento in cui lItalia, pienamente e consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al partito. Con questo egli non esclude che, in un futuro pi o meno prossimo, ci sarebbe potuto accadere, e indic nei Gruppi di Competenza e nei sindacati dogni ceto produttivo gli strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno seguente Rocca ribade i medesimi concetti in unintervista a Il Corriere Italiano, parodia duna disciplina formale senza norme n garanzia; nel predominio deglorgani esclusivamente politici di partito su tutto ci che pur rientrando nella vita corrente del fascismo, non  strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di Competenza) e che, per questa ragione, il partito ostacolava in ogni modo. Tutto ci - secondo Rocca - conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo, DISSOLVITRICE DELLO STATO E DELLITALIA, cui si dove assolutamente porre rimedio. Contro la campagna revisionista, che raccolge i favori dellopinione pubblica moderata variamente filo-fascista, insorsero invece glintransigenti. Nellambito di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona, Farinacci difende il principio dellintransigenza, si disse contrario all'inserimento della milizia nellesercito regolare e minacci una seconda ondata rivoluzionaria contro i falsi fascisti, profittatori senza fede che si servivano del fascismo per i loro maneggi affaristici, Pi avanti, in un editoriale per il suo giornale, il ras cremonese replic seccamente alle accuse dei revisionisti. Non era affatto vero scrisse - che Mussolini non dovesse niente al fascismo provinciale, il quale, al contrario. costituiva la vera forza, il fondamento del partito e aveva contribuito in modo schiacciante al trionfo. Se si distrugge il fascismo delle provincie si domanda Farinacci che cosa resterebbe del fascismo? Io non ho lacume di Massimo Rocca, ma come caffoncello di Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale pari a quello di he pero della terza elementare calcolando che Provincia pi Provincia fa azione! ROCCA, Partito e Governo fascista, cit. Tra gli organi indipendenti che offrirono spazio e considerazione alla campagna revisionista, oltre a Il Giornale dItalia, tradizionalmente vicino alla destra liberale, si segnalarono soprattutto La Tribuna, lautorevole quotidiano romano diretto da Olindo Malagodi, Il Corriere dItalia, organo ufficioso della destra cattolica ex popolare, e LEpoca, un giornale dispirazione combattentistica. Proprio LEpoca pubblic unintervista di Montalto a Rocca (Il momento attuale e il fascismo), dando modo allex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on. Farinacci, Cremona Nuova FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia. Il giorno avanti, il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure pi note del fascismo emiliano/romagnolo (su di lui v. NELLO, Grandi: la formazione di un leader fascista, cit, ad indicem). Larticolo (intitolato Evviva il Fascismo e pubblicato in contemporanea anche da La Scure di Piacenza e, naturalmente, dal bolognese L Assalto) era una difesa appassionata del fascismo di provincia contro il fascismo spurio, interessato e Il ragionamento di Farinacci, nella sua schematicit, non mancava di logica e di veridicit e coglieva un aspetto essenziale del problema, andando al cuore delle contraddizioni della politica revisionista. Il fascismo delle provincie, caotico, brutale e intimamente sovversivo, costituiva davvero, assai pi del fascismo addomesticato, costituzionale e legalitario di Roma e di Milano, lanima del movimento. Mussolini ne era ben consapevole, tant' vero chegli non pensava affatto, come Rocca avrebbe voluto, ad una liquidazione in tronco del rassismo, ma, casomai, ad un suo opportuno ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti pi radicali e pi difficilmente gestibili; alla qual cosa, come gi si  detto, la propaganda senza anima, propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben pi sbrigative e violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo trevigiano, per mano del suo direttore, lasci intendere che Rocca avrebbe meritato lo stesso trattamento riservato a Misuri, in quanto il suo larticolo su Critica Fascista era degno di far pari col famigerato discorso dellex deputato fascista (PEDRAZZA, Polemica fascista. Rispondiamo a Massimo Rocca, Camicia Nera. A Piacenza, IL CONTE BARBIELLINI (si veda) punta lindice contro le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi lestofanti tuona il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di torbidi nel fascismo? Vi secca la attivit fascista di provincia? Vi secca che dai ras provinciali si siano mandati allaria diversi grossi affari che gruppi capitalisti avevano qui realizzato ai danni dellErario Nazionale? (BARBIELLINI, Perch non molliamo, La Scure). Circa le radici e le ragioni culturali e politiche dellestremismo provinciale fascista con particolare riguardo a Farinacci v. GENTILE. E interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio di un esponente della cultura antifascista, Gobetti, secondo il quale non gi i revisionisti ma Farinacci e gli altri ras del suo stampo erano gli autentici e pi genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo teneri nei confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di senso di dignit e di spirito di sacrificio, al politicantismo senza pudore e al trasformismo, senza decoro e senza intransigenza dei vari Rocca, Bottai e Grandi, professionisti della politica il cui revisionismo era nato in mezzo alle mollezze romane, confortato da ricche prebende. A parte gli aspetti volutamente paradossali delle sue considerazioni (e a parte la predilezione, tipicamente gobettiana, per la categoria politico/morale dellintransigenza), lintellettuale torinese coglieva nel segno allorch metteva in risalto la maggior rappresentativit sociale - e culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il quale si faceva portavoce di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e primitive, aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano centomila giovani, che al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema della propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli opportunismi (la prima citazione  tratta da Elogio di Farinacci, La Rivoluzione Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi. revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata minaccia di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio. Queste considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima forse anche della propria presunzione, era invece convinto di avere al suo arco pi frecce di quante non ne avesse in realt. Per niente intimorito dalla reazione di Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista, perfettamente a proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso suscitato, Rocca alz il tiro delle sue accuse. Non ci si  ancora accorti, evidentemente scrisse in un nuovo articolo per Critica Fascista che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia pi salda che mai; che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e ingrandire unItalia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello, dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il governo che fa le leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il diritto di mettere in galera anche i pi autorevoli fascisti locali se contravvengono alla legge. Non si adattano ad essere cittadini pur essi come tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene, facciano essi i prefetti, e pongano nella legalit il loro dominio personale e continuino pure lopera meritoria compiuta nel fascismo. Ma questopera  indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito non riguardano; ma per continuare tale funzione non  necessario instaurare repubbliche dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta federare degli staterelli autonomi, ove laugusto signore sentenzia qui comando io e fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli platonicamente sotto legida di Mussolini, sopporta col platonico omaggio di un alal. Bisogna disfarli.Tutto ci per la fronda fascista, nuova specie di sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e ingombrante oggigiorno. Tutto ci per la Fronda insorta personalmente contro una mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un modestissimo, ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se non quello del Duce, n altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile dal procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegher? La fronda non si pieg. A distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di questo articolo, la Giunta Esecutiva del PNF - istigata da Farinacci - decret lespulsione di Rocca dal partito per grave Rocca, Diciotto brumaio, Critica Fascista (anche in ID., Idee sul fascismo). Questo saggio di Rocca  preceduto da una significativa postilla della redazione. Siamo perfettamente solidali con lautore vi si legge - e con gli scopi altissimi della sua battaglia, che  anche la nostra battaglia. VIPATTTTRA VENTO ile A indisciplina e indegnit politica. MUSSOLINI RICEVE ROCCA in qualit di vicepresidente dellistituto nazionale dellassicurazioni, ufficialmente per trattare di questioni riguardanti l'ente ma in realt per aver modo di esprimergli la propria solidariet. La sortita del duce, da cui egli si aspettava le dimissioni dellintera Giunta Esecutiva, ebbe invece come effetto di provocare quelle della Segreteria Generale (cio di una parte soltanto della Giunta), il che rilevava prontamente Il Popolo dItalia - non risolveva affatto la questione. Era in atto, come ben notava Il Giornale dItalia, un vero e proprio regolamento di conti. Ora si domanda il quotidiano romano  per le espressioni crude ed aspre adoperate da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione  dn stabilita? Se  vero che il Cremona Nuova di Farinacci sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito, sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze, diremmo cos, provinciali, localistiche avrebbero prevalso? E prosegue: La lotta  precisamente tra i revisionisti tipo Rocca e gli ioni ono Farinacci, tra i politici e i selvaggi, tra i romani e i provinciali IRPROI Crisi i coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la lotta di due opposti elementi: quelli che vogliono avvicinare il fascismo allanima, del Paese e quelli che vogliono mantenerne la formazione chiusa e intransigente La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la necessit della manetta compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno del Governo, Il Popolo dItalia. tif, side Hib: La Giunta Esecutiva del PNF, istituita in luogo della disciolta Direzione, sa composta da: Farinacci, Lantini, Bianchi, Marinelli, Sansanelli, Teruzzi, Bolzon, Bastianini, Maraviglia, Caprino, Dudan, Zimolo e Starace. La decisione contro Rocca  presa allunanimit. i i 31 Rocca ricopre la carica di vicepresidente dellINA. Cfr. Ibidem. TSI VII j; La Segreteria Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi, Starace e Bolzon. bri Bata La Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il revisionista. Mussolini intende che tale decisione  ri-esaminata. La Segreteria Generale del partito presenta le dimissioni al duce, Il Giornale dItalia gii vl Nellinsieme, lespulsione di Rocca solleva unondata di sdegno Si scrive di procedimento sommario, di decisione grottesca che ha il sapore della rappresaglia, mentre anche il consiglio bazionale dei gruppi di competenza fa sentire la sua voce, votando un ordine del giorno di pieno sostegno al proprio segretario. A Torino, Gioda, che fin dallesordio della polemica revisionista aveva preso le parti di Rocca si dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidariet con il suo vecchio compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati contrasti tra Gioda e De Vecchi (questultimo simpatizzante degli intransigenti) e delle mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un forte significato politico. Non  la prima volta riconosce a questo proposito lorgano mussoliniano che, durante clamorose polemiche, Gioda si schiera apertamente per la corrente temperata del Partito Nazionale Fascista, ed  ancora ricordato a Torino lomaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tribut al comunista Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso dicembre' Qualche giorno dopo, nel dare lannuncio delle proprie dimissioni anche dalla direzione de Il Maglio, Gioda fu al proposito pi che esplicito, con parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti. Li LEpoca L'Impero Cfr. Il Giornale dItalia. In un fondo per il nuovo quotidiano torinese Il Piemonte (Pap buon senso), Gioda define i saggi revisionisti di Rocca un meraviglioso, poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di poco successivo, il segretario del Fascio torinese chiar il proprio punto di vista, perfettamente in linea con gli assunti dei revisionisti. I fasci scrive tra laltro Gioda non sono sorti per soddisfare le ambizioni militari o politiche di TIZIO, CAIO, O SEMPRONIO, ma per lItalia, unicamente per la salvezza e le fortune dItalia (GIODA, Corf, Roma e il Fascismo, Il Maglio). Cfr. Il Popolo dItalia Gioda riassume la carica di segretario del fascio e la direzione de Il Maglio da pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche mese a seguito del riacutizzarsi della sua grave malattia. Il posto di Gioda, dopo le sue dimissioni,  rilevato da Bardanzellu, gi presidente della sezione torinese dell Associazione Nazionale Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente per ragioni di carattere famigliare (Il Maglio). Mongini  sostituito dal milanese Rossi. Il Popolo dItalia. Le polemiche de passati giorni scrisse - mi hanno trovato pienamente, apertamente, risolutamente favorevole alla corrente cosiddetta revisionista capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande anarchico che  Rocca. Mi sono dimesso dalle cariche [...] perch mi parve inconcepibile che si potesse appartenere ancora un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi uomini pi formidabili [...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta gramigna Mussolini convoca Bianchi a Palazzo Venezia. Questa volta Il duce richiede espressamente le dimissioni della giunta esecutiva, decide il rinvio del convegno dei Fiduciari provinciali e decreta la prossima convocazione del Gran Consiglio del fascismo. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della Giunta non rest altro da fare che obbedire. Rocca, dal canto suo, non aveva disarmato. Colto di sorpresa (cos almeno rivelava Il Giornale dItalia) dal provvedimento disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al contrattacco, dichiarando in unintervista che la Giunta, essendo parte in causa, non aveva diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni caso, egli non sarebbe indietreggiato di un millimetro. A primi di ottobre Rocca si ritir nella sua Torino" e l, accanto alla moglie (si era sposato da pochi mesi) e ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo ritiro torinese lex anarchico invi a Critica Fascista un nuovo articolo, dai toni fortemente retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti in nome e in ossequio alla grandezza dItalia. MagriO Giona, Commiato, Il Maglio. L'articolo di Gioda usce accompagnato da una nota redazionale, opera probabilmente di Colisi Rossi, che definiva inopportune e intempestive le parole del direttore uscente. Cfr. Il Giornale dItalia, 30 settembre 1923. In un editoriale (/ncoscienza?) Il Popolo dItalia plaud alla richiesta di dimissioni avanzata da Mussolini alla giunta esecutiva. Quest'ultima - secondo lorgano milanese - manca di rispetto al duce, il quale, oltre a non esser stato messo al corrente del proposito di mettere fuori gioco Rocca,  allora interamente assorbito dimpellenti questioni dordine internazionale e non dove essere trascinato in polemiche artificiose. Egli scrive il giornale diretto da Mussolini (A) ha altro da fare. I capi fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo. Se i fascisti locali non intendono ci, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni di appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. Il Popolo dItalia. LEpoca, Cfr. Il Piemonte, Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca]. AI cospetto di un fatto cos grandioso scrive -, noi, uomini che alla nuova creazione abbiamo con devota umilt collaborato, dobbiamo sentire la nostra pochezza individuale al confronto con la creatura che non  soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo comprendere che nulla sarebbe pi folle, pi sterile del voler monopolizzare lItalia nuova per noi. Dobbiamo sentire che anche il Fascismo  una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno storico di cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del ai  possibile solo in quanto sinquadra nella grandezza dItalia e le serve di ase Nelle intenzioni dellautore queste parole avrebbero dovuto placare ogni dissenso personale. In realt, trascinato dal suo temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta ragnatela di polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo oppose in quei giorni a LANTINI (si veda), uno dei maggiori esponenti del fascismo ligure. Sulle colonne del suo giornale Lantini chera membro della Giunta Esecutiva - aveva duramente attaccato Rocca, definendo la campagna revisionista denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva, e denunciandone la ben meschina origine, di carattere prematuramente e comicamente elettorale. In una lettera di poco successiva, Rocca replica al suo detrattore con una serie di accuse minuziose, in particolare rinfacciandogli di aver disertato la battaglia fascista nei giorni infuocati dello sciopero legalitario, salvo poi ROCCA, L intangibile grandezza, Critica Fascista, 8 ottobre 1923 (anche in ID. Idee sul fascismo). f L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche da Il Piemonte (10 ottobre) e LImpero (11 ottobre). di ID., /dee sul fascismo, LANTINI, Dichiarazione, Il Giornale di Genova. AI breve editoriale di Lantini fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario provinciale per la Liguria (nonch condirettore del giornale), che si professa completamente solidale con lautore. Fin dal suo apparire Il Giornale di Genova suscita sospetti circa i suoi finanziamenti. In polemica con Il Messaggero, che in un articolo svela i legami esistenti tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale, Pala smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente, dichiarando che la propriet del giornale appartene alla societ anonima Compagnia Editrice, di cui egli  presidente (cfr. Il Popolo dItalia). A Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero legalitario aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle agitazioni, il Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del quale fanno parte, tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il cui nome  per del tutto assente dalle dettagliatissime cronache de Il Popolo dItalia, la qual cosa fa pensare ad un coinvolgimento minimo del futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere Consigliere Comunale. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un intreccio di querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello (peraltro sempre onorevolmente risolte, senza bisogno dincrociare le armi) *, a tutto scapito della credibilit complessiva della campagna revisionista. Come previsto, si riun il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una lunga seduta fu votato un ordine del giorno che tramutava lespulsione di Rocca in una ben pi blanda sospensione di tre leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine di una settimana di aspri scontri, i fascisti si erano ritrovati padroni del capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta offensiva fascista  stato il Consorzio autonomo portuario, cuore del potere socialista a Genova, che riuniva le cooperative portuarie rosse e aveva di fatto il controllo del porto. Dopo che i capi fascisti lanciano un manifesto contro la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti (Il Popolo dItalia), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da Carrara, da Alessandria e da Torino, assaltano Palazzo San Giorgio, sede del consorzio (nellattacco, che fa numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista carrarese Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista. Il senatore Ronco, presidente del Consorzio autonomo,  stato costretto a firmare una dichiarazione capestro, con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro alle cooperative socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle giornate di Genova, Il Popolo dItalia. Su questi avvenimenti v. altres REPACI. La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di Massimo Rocca a Ferruccio Lantini, Il Secolo XIX (anche in Il Giornale dItalia). Il Secolo XIX segue con partecipazione le polemiche tra revisionisti e intransigenti, mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno, Rocca si risente dellavvenuta pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo dire non destinata alla pubblicit - e ne chiese soddisfazione al direttore del quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, Il Secolo XIX. A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre Il Giornale dItalia, la vicenda assunse i contorni di un vero e proprio torneo. Si aggiunga che anche il dissidio tra Rocca e Lantini cela un pi vasto conflitto dinteressi (di cui la vicenda dei finanziamenti a Il Giornale di Genova costituiva un risvolto), riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il controllo di Genova: da una parte il trust formato dallAnsaldo, dai fratelli Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto dalla corrente del fascismo cittadino facente capo a Mastromattei, amico di Rocca; dallaltra la potente azienda armatoriale Odero (e, dietro di essa, la Banca Commerciale), che aveva lappoggio di Lantini e dei suoi (su questi punti v. LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza). Tale contrapposizione travagli a lungo il fascismo genovese, dando luogo a laceranti lotte intestine. Il primo atto della crisi fu il pestaggio, ad opera di alcuni squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui erano note le simpatie revisioniste (cfr. Il Giornale dItalia), +55 de i fee . mesi. Tutto, dunque, comera nella volont di Mussolini, si risolveva in un accomodamento, e bene rimarcava Il Giornale dItalia allorch scriveva che: Senza esaminare il merito delle polemiche da questi Rocca sollevate,  certo che tra la prima condanna allespulsione per indegnit politica e la sospensione per tre mesi inflittagli ieri sera troppo ci corre, tanto almeno da far credere allintervento di un compromesso. Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze che essa impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili Il Gran Consiglio decret altres un vero e proprio riordinamento del partito, nonch la nomina di Cesare Maria De Vecchi a governatore della Somalia. Lallontanamento del futuro conte di Val Cismon dallItalia (un provvedimento ispirato da Mussolini, stanco di doversi misurare con le irrequietezze del quadrunviro), fu una grande vittoria di Mario Gioda, il quale - come si  visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel dibattito sul revisionismo e poteva ora, merc la messa in disparte del suo rivale, aspirare a recuperare credito allinterno del fascismo subalpino. Ai primi di dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di Torino, ebbe inizio lultima fase della sua vicenda politica. In un'intervista di quel periodo, Gioda espose il suo progetto per la normalizzazione. Occorre dichiara - puntare sullo sviluppo dei sindacati e delle cooperative, in modo da allargare la base effettiva del fascismo e porre le condizioni per una piena collaborazione con le altre forze sociali (al riguardo Gioda si disse convinto della possibilit di realizzare una federazione di cooperative di tutti i colori e di tutte le tinte politiche. Come a livello sindacale, cos anche sul piano politico i fascisti avrebbero dovuto ricercare un insieme di aperta, onesta, equilibrata concordia con Per lesattezza, il testo dellordine del giorno recita.Il gran consiglio prende atto delle dimissioni della giunta esecutiva, revoca lespulsione di Rocca e, per le degenerazioni polemiche alle quali il Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da ogni attivit di partito a cominciare dalla seduta odierna (Il Popolo dItalia). Una nuova fase, Il Giornale dItalia. V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio fascista, Il Nuovo Paesee larticolo di Carli Il palladio della rivoluzione, LImpero La Giunta Esecutiva  sostituita da un direttorio di IX membri, V con funzioni politiche e IV con funzioni amministrative. Giunta divenne il nuovo segretario generale del PNF. Cfr. Il Piemonte. Gioda non riassunse la direzione de Il Maglio, che resta a Rossi, tutti glelementi politici nazionali. Relativamente ai temi della violenza e del rassismo, Gioda  perentorio.  oggi doveroso per i fascisti afferma - orientarsi verso un'attivit pi Sa ai tempi. A tutelare lordine bastano le disciplinatissime forze della milizia a Fascio pu svolgere la pi intensa e doverosa attivit per il suo Caveta nie cli   rappresentato unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br grande partito moderno come il nostro non pu reggersi unicamente sulle Vi o qualit politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi vitali e poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo DE Mussolini in sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea organizzazione che possa esprimere suna lite di dirigenti. Non dunque nu compagnia di guitti attorno allattore di cartello, ma un insieme di squisite cap: che troveranno tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da Gioda nella sua intervista fu in seguito sottoposto al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio e approvato a voti unanimi. Oltre il fascismo La sospensione di Rocca attenua ma non pose fine alla poni revisionista, che, rimasta latente e come addomesticata nel tempo presse: Ha le elezioni politiche del 6 aprile 1924, esplose nuovamente ad pi c iosa per soccombere infine, una volta per sempre, nell arco di meno i un ie s Il fascismo, del resto (in ci davvero svelando lanima dinamica Hd decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua trasformazione e le circostanze che avevano reso possibile 1 pr delle teorie revisioniste e laffermarsi intorno ad esse di un intenso i %  n per quanto funzionale e condizionato -, non si sarebbero pi simonos e pel mesi successivi. Mutata la situazione politica, venuta meno, res me ma inesorabilmente, la benevolenza di Mussolini, i sostenitori di suse defilarono (chi per calcolo, chi come Bottai perch ormai persua i i i i itico GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese. Intervista col segretario pol io Gioda, La Gazzetta del popolo, 12 dicembre 1923.  o ; ca parzialmente anche su Il Maglio) fu rilasciata da Gioda allospedale San Giovanni, durante una delle sue ormai abituali degenze. Il Direttorio era entrato in carica. IRE SRPORT TE VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT dellinanit della lotta), mentre i giornali che glavevano dato man forte manifestarono tutta la propria ambiguit, dapprima servendosi della copertura revisionista nella logorante campagna diffamatoria contro il ministro Stefani, quindi, girato il vento, non esitando a passare dallaltra parte della barricata. Cos, quasi senza rendersene conto (e forse, come al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca sinfil in un cu/ de sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in poco tempo mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a fattori esterni certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori personali. Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria cultura, Rocca confer un tono sempre pi concettuale e filosofico al suo revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppi cervellotici, colmi di citazioni libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con la conseguenza inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del problema e di stancare anche gli osservatori pi benevoli, facendo apparire la polemica revisionista in confronto alle concrete argomentazioni di un Farinacci - poco pi che una bizzarria intellettuale. Scontato il provvedimento di sospensione, Rocca riprese - inizialmente con cautela lordito dei suoi disegni. In una sequenza di nuovi articoli, pressoch concomitanti, per Il Nuovo Paese, per Il Popolo dItalia e per Critica Fascista, lex anarchico torna sul tema della legalit. Sebbene paretianamente convinto che lindifferenza e la diffidenza nel Paese verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo (in virt della degenerazione dellistituto parlamentare) e dunque che la responsabilit della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla rivoluzione delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai ripetuti episodi di squadrismo, e in particolare dallaggressione ad Amendola, Rocca trasse motivo per ribadire lurgenza di ristabilire il confronto politico entro i confini della normale dialettica costituzionale, e lobbligo, per il fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali. Solo cos si sarebbe giunti ad una nuova e pi alta normalit, fondata sullimperio della legge, di cui il Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante Rocca, Fascismo e Costituzione, Il Popolo dItalia (anche in Idee sul Fascismo). Cfr. Il Nuovo Paese (anche in Idee sul Fascismo), nel suo stesso interesse. Il primo segnale che i rilievi critici di Rocca cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che dagli irriducibili del manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe dal dietrofront de LImpero. In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca, Settimelli si chiese se, alla luce delle sue pi recenti affermazioni, egli potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non dissimul affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo scrive -  un superatore pi che un negatore assoluto dei principi liberali. Infatti, fatto salvo il dogma della Nazione, la cui accettazione era il requisito essenziale per potersi dire fascisti, tutte le libert che non avessero minacciato quel dogma e che non si fossero risolte in una negazione della Patria, doveno essere rispettate. Sul piano strettamente politico, il torto maggiore del liberalismo  - secondo Rocca - quello di voler ancora comprendere da solo tutta la societ, assai pi complessa e articolata che in passato, cos come il difetto di fondo del parlamentarismo era quello di voler fare del Parlamento, un puro organo politico  generico, uno strumento tuttofare.  dunque necessaria uninversione di rotta e lesecutivo fascista ne possede i mezzi nei consigli tecnici, lunico proposito veramente rivoluzionario scaturito dal fascismo, la pietra angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico. A parte l'enfasi posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione psicologica a fronte del naufragio dei suoi Gruppi di Competenza, dei quali essi avrebbero dovuto raccogliere linfruttuosa eredit), lessenza delle considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva pi volte sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi pi posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare alla normalit, Il Nuovo Paese, (anche in Idee sul Fascismo,). SETTIMELLI, Fascista o liberale energico? (Risposta a Rocca), LImpero. Pi tardi, conclusasi la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca dal PNF, Settimelli, in risposta allaccusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte socialista (cfr. La ritirata dell'Impero, Avanti!), avrebbe rievocato proprio quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. L'Impero e Massimo Rocca , L'Impero). Ci non toglie che, nel giro di poco pi di tre mesi, lorgano romano avesse completamente mutato la propria linea editoriale riguardo al revisionismo, passando dalliniziale sostegno alla decisa ostilit. Rocca, Fascismo e liberalismo (anche in ID., Idee sul Fascismo). a i idee pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del Partito Fascista diram un comunicato nel quale sinformava che il Direttorio Nazionale aveva inviato una lettera di deplorazione a Rocca a motivo dei suoi ultimi saggi. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo di un discorso che Rocca pronuncia al Teatro Scribe di Torino  sottoposto alla preventiva approvazione del duce, Ci che colpiva nel lungo intervento torinese di Rocca (un vero e proprio compendio della sua dottrina dello STATO, quale anda formandosi negli anni)  lassenza - certo non casuale - di qualsiasi riferimento al partito fascista. Perci, nonostante il discorso dello Scribe non contene cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva lo scheletro, il fondamento concettuale. Nella FILOSOFIA di Rocca, sintesi delle tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo, liberal/nazionalismo e fascismo, non c pi spazio per la mediazione del partito. LO STATO, vertice della piramide,  il dogma intangibile e indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e vicissitudine partigiana, superiore, quindi, allo stesso fascismo. Il discorso  lultima uscita pubblica di Rocca prima dellappuntamento elettorale. Egli, tuttavia, non disarma affatto e anzi lavora ad un volume antologico dei suoi saggi revisionisti (il pi volte citato Idee sul fascismo), che vede la luce dopo le elezioni, nellambito della collana I problemi del Fascismo diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio, significativamente dedicato a Gioda (un fratello che sa valutare e comprendere la testimonianza dun travaglio spirituale) contene anche due inediti di grande importanza. Nel primo di essi, intitolato Una legge aglitaliani, Rocca invoca lavvento di una legge che  inattaccabile nella sua imparzialit serena, amministrata da uno stato capace di farne sostanza della Il Nuovo Paese, Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, Il Piemonte. Il testo completo del discorso si trova anche in MAssIiMO Rocca, Idee sul Fascismo, come La ricostruzione morale della Nazione. Le considerazioni di Rocca riceveno commenti benevoli da La Stampa (Il discorso di Rocca), da Il Nuovo Paese (Il discorso di Rocca a Torino) e financo da Il Maglio, che ne defin lintervento un mezzo di lento riavvicinamento allanima del fascismo (Il discorso di Rocca). ROCCA, Idee sul Fascismo sua eternit, al di sopra degluomini e dei governi e dei partiti e delle classi. Il secondo inedito, Il Fascismo nel pensiero moderno, rivela pienamente i segni dellinvoluzione concettualistica che contraddistingue la ripresa della campagna revisionista. Perno di questa lunga e spesso contorta digressione storico-politico-FILOSOFICA  la condanna della modernit, di cui Rocca come altri anti-modernisti - individua lorigine nella riforma protestante e di cui segue le successive incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere, sul terreno politico, allastrazioni della democrazia demagogica e del socialismo. Contro la decadenza e la dissoluzione dogni gerarchia innestate dalla critica moderna, si leva, in passato, la rivolta isolata dalcuni spiriti liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -  in Italia - prosegue Rocca - che la reazione anti-intellettuale da i frutti migliori e pi durevoli, generando prima la riscossa nazionalista, poi quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza,  ancora, per il teorico del revisionismo, una energia formidabile ma grezza, contenente i germi duna creazione grandiosa, ma solo abbozzata nelle linee principali. La pienezza restauratrice del fascismo - conclude Rocca - dove passare attraverso la riscoperta della centralit e della missione della chiesa cattolica romana, unica depositaria della certezza del dogma. Negli ultimi due paragrafi del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo e Fascismo e religione -, Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un altro ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura, quale approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto legida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione della tradizione mostrano non pochi nessi con la contemporanea riflessione di Suckert, senza tuttavia possederne n loriginalit, n tanto meno lanima romantica e sostanzialmente rivoluzionaria. Puramente e Il riconoscimento del cattolicesimo romano come base fondante dellunit nazionale e, pi in generale, della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica,  al centro della riflessione di Rocca anche nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca ampiamente tratta questi temi, sia sotto unangolatura puramente storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla nuova situazione politica italiana, indicando nellautorit e nella dottrina della Chiesa cattolica lunico vero antidoto alla degenerazione partitocratica caratterizzante lItalia repubblicana. DA proposito dellantimodernismo quale componente dellideologia fascista e della sua centralit nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE,  MICHEL deliberatamente conservatrice, la concezione politica dell'ex anarchico lo fa dunque assomigliare pi a Maistre che a MAZZINI. AI di l di queste considerazioni,  ormai chiaro che Rocca esprime posizioni personali, che difficilmente, con leccezione di pochi intellettuali, trovano nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Farinacci, il genuino rappresentante della base fascista, non esita a farsi beffe degli scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e la crisi del fascismo torinese Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del listone governativo. La candidatura di Rocca incontra invero moltissime difficolt. Apertamente osteggiato daglintransigenti, il leader revisionista dove rinunciare a correre nel sicuro collegio di Torino (dove  invece candidato Gioda), per accontentarsi di un posto in 1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze di Farinacci. Sembra, peraltro, che Gioda condiziona la propria candidatura alla presenza nel listone dellamico Rocca. Avendo Rocca rileva infatti un giornale torinese -, con cui Gioda  pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia, OSTENC. Sul pensiero politico dellintellettuale toscano v. la monografia di PARDINI, SICKERT (si veda) Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni. Non solo Farinacci, a dire il vero. E singolare che quasi a voler rinverdire le polemiche danteguerra, la comunit anarchica di New York, gravitante attorno al giornale Il Martello (uno degli organi pi autorevoli dellanarchismo italiano allestero), da alle stampe un saggio intitolato Dio e patria nel pensiero dei rinnegati, che, accanto a vecchi scritti anti-clericali di Mussolini e di Herv, riproduce il testo di una conferenza tenuta da Rocca a Providence allo scopo di dimostrare che il mangiapreti dun tempo  in realt un voltagabbana. Due anni dopo, peraltro, il foglio anarchico italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello stesso Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei confronti di Mussolini (cfr. Rocca, La verit su Mussolini, Il Martello). Su tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale v. FELICE, Mussolini il fascista. Cfr. Il Piemonte. Il ras di Cremona non fece mistero di non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la diramazione della lista ufficiale dei candidati, Farinacci si rassegna ad accettare il fatto compiuto. Ora che le liste sono approvate, col sigillo del duce e del PNF - scrive con evidente disappunto -, devessere bandita ogni discussione, anche se nel listone. V' qualcosa dindigesto; vi  il nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse sepolto per sempre (FARINACCI, Ora basta!, Cremona Nuova). il Segretario politico del fascio di Torino rimane candidato nella lista nazionale. Quella di Rocca , necessariamente, una campagna elettorale in tono minore, n molto diversa a causa della salute malferma  quella di Gioda; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera. Il dopo elezioni apre unennesima deflagrante crisi allinterno del fascismo sub-alpino; crisi significativa perch, a prescindere dai fattori di ordine ambientale, sinscrive nel pi generale contrasto tra revisionisti e intransigenti. La Stampa pone laccento sui contrasti tra la tendenza transigente filo-liberale del fascismo locale, rappresentata da Rocca, e lala pi, giottosa e ribelle, nostalgica dei metodi squadristici, arroccata in provincia. Come effetto di queste lacerazioni intestine, la formazione della lista nazionale era stata difficoltosa e, complessivamente, la percentuale di voti ottenuta.In Piemonte da tale schieramento era risultata la pi bassa dItalia (il 43 12%). A una settimana dalle votazioni si riun a Torino lassise dei Fasci provinciali. In unatmosfera satura di tensione (il discorso Il Piemonte. Io rinfaccia pi tardi Rocca a Farinacci -, per disciplina verso il duce, ho accettato di abbandonare Torino, ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me ne sono andato, infischiandomi dei voti (ROCCA, All'onorevole Farinacci despota e censore, Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu inaugurata domenica 2 marzo con una serie di comizi per la proclamazione dei candidati. Gioda non era presente al comizio torinese, chebbe luogo al Teatro Regio il marted successivo, ma fece giungere allassemblea una lettera programmatica, nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si mantenesse nellambito della correttezza, come si conveniva ad una lotta didee e non di uomini, e professava disciplina e fedelt assoluta a Benito Mussolini (// messaggio di Mario Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo dItalia. Anche in Il Piemonte). Il segretario del fascio torinese ebbe modo di illustrare direttamente il proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro Alfieri, che fu lunica sua uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale (cfr. il forte discorso di Gioda al Teatro Alfieri, Il Maglio). Nelle 328 sezioni di Milano/citt Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. Il Popolo dItalia). Di gran lunga pi cospicuo il bottino elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze in Torino/citt, 10.439 in provincia (cfr. La Stampa). Posizioni politiche e questioni di uomini in tema elettorale. A confondere ulteriormente le acque, accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un raggruppamento di fascisti dissidenti, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un largo seguito tra gli agrari e gli squadristi pi facinorosi e che pare godesse delle simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario federale, Rossi, fu interrotto pi volte), il congresso si risolse in un tumulto generale, con violenti scontri tra i membri del Fascio del capoluogo e i rappresentanti delle province. Il punto era - come ancora evidenziava La Stampa - che, dopo lentrata in carica del nuovo Direttorio, allinizio di dicembre, e la svolta normalizzatrice avviata da Gioda, 1 margini per una ricomposizione fra le due anime del fascismo subalpino si erano definitivamente assottigliati. di fascismo nella provincia registra lorgano giolittiano - tende ad avere una Cuggino diversa da quella dellattuale Direttorio, un carattere, cio, legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi intransigente, del tipo, insomma, che fu gi.  i L de,  gi ed  ancora definito coi i schiettamente piemontese st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare, la gravit della situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva preso parte alla concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla Direzione del partito, per chiarire la vicenda di Torino. Le decisioni pi importanti, in realt, erano gi state prese, indipendentemente dalle valutazioni di Gioda Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunzi lo scioglimento del Direttorio del Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da Brandimarte, Orsi e Gorgolini. Il provvedimento colse di sorpresa Gioda, il quale, in unaccorata lettera a Il Popolo dItalia, lo defin un atto inconsulto e provocatore e dichiar di non riconoscere nel modo pi assoluto lo scioglimento del Direttorio del glorioso e laborioso Fascio di Torino. La Segreteria Federale, forte dellapprovazione dei vertici nazionali del partito, non si cur minimamente pie  si a Incidenti ad un convegno fascista. Qualche contuso, La Stampa. x tt n : In una lettera della Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da Il Popolo d Italia) lorgano giolittiano veniva accusato di subdole esagerazioni. Il Maglio attribu la responsabilit dellindegna gazzarra a misteriosi provocatori esterni, elementi incoscienti, operanti per conto terzi. Il Popolo dItalia, 18 aprile 1924, Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl giorno prima il segretario del fascio torinese invia un telegramma ancor pi duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del direttorio un imbecillesco provocatore colpo di mano e chiedendo la nomina di un commissario avente pieni poteri che facesse piena luce su ; pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS, MIN/S7% DEGLINTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta e delle rimostranze di Gioda ed anzi ne riprov la lettera come una manifestazione di deplorevole indisciplina. Giunge a Torino Starace, in qualit di supervisore, Su decisione di Starace il decreto di scioglimento del direttorio cittadino  esteso allintero fascio, la cui ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario straordinario, nella persona del ras Lantini. La nomina dellintransigente Lantini, uno dei pi accaniti avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del fascismo torinese aveva un evidente significato ammonitore. Gioda, ormai sfinito dalla lotta contro la malattia, usc definitivamente di scena, assistendo impotente alla rovina politica dellamico Rocca. Minato dalla leucemia, lex tipografo si spende in un ospedale torinese. Quale che sia il giudizio sulle sue idee e sulla sua azione (che avrebbe forse potuto essere pi incisiva ed influente, se le tortuosit programmatiche del fascismo, le difficolt incontrate nella gestione del Fascio di Torino - in particolare lannosa contrapposizione con Vecchi e le sue stesse esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e sorvolando sulle celebrazioni postume delloleografia fascista,  certo che con Gioda Il Piemonte Cfr. La Stampa, e Il Piemonte. Cfr. La Stampa, e Il Piemonte. Non a caso, larrivo di Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da Il Maglio. In un precedente fondo, lorgano fascista - che significativamente non da spazio alla nuova crisi del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti, affermando di non credere alla utilit di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali del partito e negando addirittura lesistenza del fenomeno rassismo (Rassismo, revisionismo e speculazioni avversarie. Sullintera vicenda v. anche MANA. Dopo lespulsione di Rocca dal PNF, l Avanti! sinterroga su quali sarebbero state le reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come gi avvenuto in occasione della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione di Rocca. In realt, come rifer a Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio con lo stesso Gioda, questi reag serenamente, ormai rassegnato, consapevole forse di non poter cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Gabinetto Finzi, Busta. si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli commemorativi de Il Popolo dItalia, de Ii Piemonte e de Il Maglio, pubblicati allindomani della sua morte), il gi citato volumetto La vita diGioda narrata da Croce. Nel secondo dopoguerra, la memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia del sindacalismo di estrazione fascista (pi propriamente salodina), organizzato nella CISNAL. Fondatore Gioda campeggiava sul frontespizio della nuova serie de Il Maglio, come periodico del sindacalismo nazionale, In uno dei suoi primi numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da siii. ef .1.} scompare un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia politica italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso simbolo dellirriducibilit del fenomeno fascismo ad un unico criterio interpretativo. Pa seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Rocca. Mentre si consuma la crisi del fascismo torinese. Rocca riapre formalmente il fronte revisionista, con lintenzione come confess pi tardi di giungere ad un risultato pratico di epurazione e di chiarificazione. In una lucida intervista a LEpoca, che riattizza immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribad uno ad uno i capi-saldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito attacco contro quelle classi industriali. che, prive dogni idea generale nobilitante, silludevano di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la civilt foraggiando i vari capetti fascisti, in cambio di utili tranquilli. Alla domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un orientamento verso sinistra del fascismo, Rocca replica. Verso una sinistra politica, democratica o liberale didee, no. Verso una democrazia di fatto, nel senso di appoggiarci su larghi strati di popolazione, si. Il governo fascista - osserva Rocca -, uscito rafforzato dalle consultazioni politiche, aveva il dovere, e insieme la necessit, di ampliare la propria base favorendo, a tal scopo, una profonda collaborazione tra le diverse componenti della societ civile e del mondo del lavoro. Una collaborazione Malusardi, che di quel giornale fu usuale collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, Il Maglio). a MAassIMO Rocca, A Farinacci despota e censore, cit. Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell Epoca con l'on. Massimo Rocca, LEpoca. Rocca riprende questi concetti in un saggio su Il Nuovo Paese (// bolscevismo degli industriali). Il fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per tutelare gli interessi delle cricche industriali/finanziarie. AI contrario, troppi nuovi e vecchi imprenditori vedevano nellItalia un paese di conquista economica, proprio come certi ducini pseudo-fascisti vedevano nelle citt e nelle provincie un terreno di conquista politica e militare. Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse Rocca vi era un nesso profondo, in quanto gli squadristi dellultima ora erano sovente finanziati da industriali e proprietari senza scrupoli. Il nuovo orientamento del fascismo. Intervista dell Epoca all'on. Massimo Rocca, cit, di questo tipo, fondata sulla solidariet nazionale e non isterilita da pure considerazioni economiche o da unopera di gendarmeria a favore di una classe sola, poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista abbandonasse ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte integrante della Nazione. A queste considerazioni Rocca, incurante dellinvito alla prudenza fattogli pervenire dallo stesso Mussolini! fece seguire altri interventi - soprattutto su Il Nuovo Paese! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un articolo particolarmente duro per il giornale di Bazzi (una sferzante requisitoria contro le camarille locali fasciste), Rocca, quasi presentendo la resa dei conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva pi esser rimandata. Dopo le elezioni scrive -, il Paese ha diritto di pretendere un assetto definitivo del Fascismo. Il 1924 dovr assolutamente assistere allinquadramento completo del partito nella Nazione, Com lecito attendersi, le rinnovate accuse di Rocca destarono una pronta levata di scudi da parte del fascismo provinciale. Questa volta, per, Farinacci e gli altri ras trovarono un insperato alleato nel ministro delle Finanze Alberto De Stefani, una delle figure di maggior prestigio del governo Mussolini!?. E noto, infatti, che la seconda ondata revisionista LEpoca, diretta allora da Madia (subentrato a Falbo), dedic almeno inizialmente molta attenzione alla seconda fase della polemica revisionista. Pochi giorni dopo la pubblicazione dellintervista a Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospit unaltra, anch'essa molto importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalit del revisionismo. Intervista dell'Epoca con l'on. Bottai). Mussolini ricorda Rocca a questo proposito - mi fa pregare, da Paolucci deCalboli Barone, di abbandonare la polemica. Rifiutai qualsiasi impegno in merito, perch volevo giungere ad una chiarificazione definitiva (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il Nuovo Paese prende, di fatto, il posto che  stato de L'Impero e de Il Corriere Italiano. Il favore accordato dal giornale di Bazzi al revisionismo era per caratterizzato da unambivalenza di fondo. Tipico, sotto questo profilo, un editoriale del 7 maggio (Polemica revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si accompagnavano critiche alleccessiva astrattezza filosofica delle sue tesi, il tutto in una cornice di disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve chiaro che Il Nuovo Paese mirava a garantirsi una via di fuga, nellipotesi, rivelatasi realt, che i revisionisti finissero per soccombere. 102 MassIMO ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Questo articolo apparve nel contesto di una rubrica dal titolo programmatico di Mezzi per normalizzare veronese Stefani, deputato ( eletto - come si  visto - nellambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era entrato nel governo Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la morte del popolare Vincenzo sintrecci con la violenta campagna scatenata contro Stefani da Il Nuovo Paese nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri daffari alla temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Felice, il coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno di Bazzi, ma  certo, in ogni caso, che il leader revisionista ha in tutta quella vicenda una parte solo marginale. Rocca, del resto, nega sempre di esser sceso in polemica personale con Stefani; e in effetti, sfogliando i suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che sporadici accenni a questioni economico/finanziarie e mai un riferimento diretto al ministro!. E bens vero che Rocca (il quale era convinto che il programma elaborato con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai digerito il suo accantonamento da parte di Mussolini) pubblic un intero volume contro la politica economica di De Stefani, ma  anche vero che il saggio usc quando della polemica montata da Il Nuovo Paese non resta che leco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel giornale Tangorra, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di governo, sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articol lungo tre direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto al taglio drastico della spesa pubblica e allintroduzione di nuove imposte); contenimento della dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale controllato. Cfr. Dizionario biografico deglitaliani, fe Su questi punti v. FELICE, Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese rimproverava al ministro lostinazione nel voler perseguire a tutti i costi lequilibrio del bilancio, una politica definita esiziale per le risorse economiche della Nazione; ma questa era - per cos dire - laccusa nobile, di facciata, essendo ben altri, in realt, i motivi dellostilit del giornale nei confronti di Stefani. Tra le principali imputazioni mosse al ministro, la pi importante - perch pi strettamente connessa agli interessi della lobby sottostante alliniziativa editoriale di Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla potente Banca Commerciale (accusata di mirare al monopolio di tutte le attivit industriali, bancarie e finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, gi in via di liquidazione (ofr. Per gli uomini di buona fede, Il Nuovo Paese). si Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il fascista. In una lettera successiva alla sua espulsione dal Partito Fascista (pubblicata da Il Corriere della Sera), Rocca si sarebbe detto amareggiato del fatto che il suo nome fosse stato collegato alla diatriba Nuovo Paese/De Stefani, sottolineando di non aver mai attaccato il ministro. 1? Una sola volta, con larticolo La tirannide finanziaria (pubblicato da Il Nuovo Paese il 14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro la Banca Commerciale. Ra Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Si tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte della collana Pagine Politiche diretta dAngiolillo, raccoglie il testo di un dai suoi ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un riflesso del tutto negativo sullazione di Rocca. Se per i fascisti delle province lintegerrimo uomo di governo divenne un simbolo e uno strumento nella lotta contro glaffaristi romani, all'opinione pubblica moderata, che aveva accompagnato con simpatia la campagna a favore della normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che veniva considerato il principale organo revisionista ad un conservatore come Stefani (il quale godeva, tra laltro, della stima di eminenti personalit del mondo politico ed economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili e gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai accondisceso a liquidare uno dei suoi pi validi collaboratori. discorso pronunciato da Rocca alla Camera dei Deputati (anch'esso, dunque, posteriore alla sua radiazione dal PNF) e una serie di note nelle quali lautore illustrava dettagliatamente i motivi del suo dissenso dalla linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro la propria estraneit alla polemica tra il ministro e Il Nuovo Paese, e definendo una leggenda lopinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso dal Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue critiche a Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nellimputare al responsabile delle Finanze il suo economismo professorale - troppo legato allarida teoria e perci fine a se stesso - e la sua incapacit, per converso, di valutare levoluzione sindacalista della produzione, colta invece dal programma economico fascista. Per un economista di tal razza argomenta Rocca esiste soltanto la libert economica, cio della classe borghese, ma non la libert politica, cio delle altre classi, con la conseguenza di favorire il dominio della plutocrazia bancaria e affaristica, la quale rappresentava lapplicazione quotidiana, esagerata e unilaterale della scienza economica classica e borghese. Pi La lotta contro Stefani scrive Farinacci in tono minaccioso - deve cessare. Il Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una volta il Nuovo Paese e i suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come lon. De Stefani non pu essere lasciato aggredire da chi  privo di ogni diritto e autorit morale (FARINACCI, Solidali con Stefani, Cremona Nuova). palla giolittiana La Stampa (CABIATI, Il ministro Stefani) ai filo-fascisti Il Giornale dItalia (Polemiche interfasciste sul revisionismo e pro 0 contro De Stefani) e Il Resto del Carlino (FLORA, Per l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le difese delluomo di governo veronese, lenergico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento di Flora per il quotidiano bolognese  forse il pi indicativo di questo comune sentire. Nulla di pi enigmatico e di pi doloroso per il pubblico italiano scrisse larticolista de Il Resto del Carlino della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli due anni con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella eroica di Quintino Sella, a salvare le finanze italiane dal fallimento e il credito della nazione dallestrema rovina. I revisionisti, complice la campagna de Il Nuovo Paese contro De Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli osservatori liberali, per sostenitori della finanza allegra, al punto che tutti gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino della legalit ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo, finirono per passare in fe TE avitbicee In unatmosfera carica di equivoci e di tensioni, Massimo Rocca si avvi incontro alla sua fine politica. Le diverse posizioni, ancora incerte al momento della sua intervista a LEpoca, si andavano daltronde sempre pi definendo. LImpero, dopo un lungo silenzio, scese in campo a dar manforte a Farinacci. In un editoriale Il pugno e la biblioteca -, Settimelli prende le difese dei selvaggi delle province (il pugno), accusando i revisionisti (la biblioteca) di filosofare vanamente sui massimi sistemi, tradendo lanima guerriera del fascismo. A parte la disinvoltura dei suoi ex alleati,  per indiscutibile che Rocca si compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a virtuosismi da erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione e le fonti del Fascismo, uscito su LEpoca in contemporanea allarticolo di Settimelli), col risultato come si diceva - di togliere mordente e immediatezza alla polemica revisionista, facendola apparire, appunto, uno sterile e noioso esercizio di critica filosofica. A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni provvide Mussolini (A) con un fondo durissimo per Il Popolo dItalia. Gli onorevoli Rocca e Bottai scrive il fratello del duce -, ai quali non si pu negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a demolire, a precipitare ci che anda semplicemente attenuato. I patriarchi non si mettono a fare la boxe coi capi di provincia. Se non ci fossero stati gli squadristi, se non ci fosse stata la violenza, l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un mezzo necessario per salvare lintegrit dei bilanci. Persino Il Mondo, lorgano dellopposizione costituzionale amendoliana, che pure precisa di non tenere per nessuna delle parti in causa e che, in ogni caso, non ha mai risparmiato critiche alloperato di Stefani, convenne sullinopportunit della campagna contro il ministro. Indifferenti come noi siamo a qualsiasi esito - scrive infatti il giornale diretto da Cianca di una cosa sola possiamo rallegrarci: che non ha vinto una campagna che appare troppo minata da rancori e da vendette duomini o di gruppi che si sono trovati in contrasto con le ragioni dellerario, ed hanno sferrato contro l'ostacolo Stefani attacchi di stile inusitato perfino nellattuale depressione del costume politico (Il caso Stefani. La logica del pugno in opposizione alla biblioteca - replica Rocca a Settimelli -, lesaltazione cieca della forza, il mito dellITALIANIT, conduce il fascismo alla dissoluzione morale (Rocca, Il problema morale del fascismo, LEpoca). Il problema deducare e quindi di responsabilizzare i quadri fascisti  avvertito dai dirigenti pi accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno delle polemiche sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si batte per lapertura, nei locali del fascio, di una biblioteca di cultura varia, in modo da offrire ai fascisti un'opportunit di crescita etica e intellettuale (cfr. Giovinezza). di oggi puo parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze, col gesto ed il tono ieratico degleunuchi. Le brusche parole di Mussolini (A), in perfetto stile farinacciano, colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche allimprovviso - ancorch non imprevedibile voltafaccia de Il Nuovo Paese, Rocca prova dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisa di non aver mai inteso offendere leroiche camicie nere. Quindi, di fronte aglinsistenti affondo di Farinacci, si decide a pubblicare una lettera aperta al proprio rivale. Bench traboccante di retorica, la lettera di Rocca  un fiero atto daccusa a Farinacci (il vicer spagnolesco di Cremona) e al fascismo provinciale che egli rappresenta, degenerante nella volgare brutalit del cazzotto o del randello.  stato scritto, molto suggestivamente, che in questo modo Rocca ridiventa lanarchico Libero Tancredi esi prepara a riprendere la via dellesilio. Non sembra, tuttavia, che Rocca si  del tutto reso conto desser giunto al capo-linea della sua avventura fascista, sebbene non  difficile prevedere, come riusc a un giornale MUSSOLINI, La Fronda, Il Popolo dItalia. Lo stesso giorno, con grande tempismo, L'Impero titola: Gridiamolo ancora: il fascismo ha fatto la rivoluzione per avere uno STATO FASCISTA, non per appuntellare lo stato liberale. 3 gu i i ni C' una fronda in giro? si chiede il giornale di Bazzi, riecheggiando il titolo del saggio dMussolini (A). Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che  spezzata. La dichiarazione di Rocca  pubblicata da Il Nuovo Paese e ripresa, il giorno seguente, anche da Il Popolo dItalia e da Il Giornale d'Italia. Farinacci, sul suo giornale, si dice indignato per quella che considera unautentica virata di bordo da parte del suo avversario (Cremona Nuova). In realt, Rocca si era DERER a esprimere il proprio apprezzamento per gli squadristi della vecchia guardia (come sO resto aveva sempre fatto), senza giustificare in alcun modo le violenze dei teppisti pc quelli di tutte le seste giornate, ma anzi sottolineando che egli continua a attersi per lepurazione allinterno del panic affinch questo puo realizzare il suo genuino di disciplina legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la lettera si trova riprodotta anche in Come il fascismo divenne una dittatura). Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un comunicato con il cbr no notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dellINA, nonch da membro del consiglio damministrazione della Societ Anonima per le raffinerie petrolifere di Fiume, una carica che ricopriva da qualche mese (cfr. Il Giornale dItalia, e Il Nuovo Paese). BEGNAC,  ti 18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio fascista ne sanziona il definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutre la speranza che il suo caso  ri-esaminato, come gi  avvenuto in occasione della sua precedente espulsione. Ed ora dichiara il dellopposizione, che la sua lettera a Farinacci ne ha con tutta probabilit determinato lespulsione dal partito. La sera stessa il direttorio fascista, riunito a Palazzo CHIGI alla presenza di Mussolini (precipitosamente rientrato da una visita ufficiale in Sicilia), DECRETA LESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa, commenta Il Popolo dItalia, non  solo: la punizione ad un sedizioso, ma un monito severo e una minaccia solenne a tutti quegli PSEUDO fascisti o FALSI fascisti che rinnegano la fede, offendendo la patria e turbano colla smania e la follia dellarrivismo quel che  il dovere fascista pi grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide altres lespulsione di Bottai, ma questi, grazie allintercessione di Marinelli (non si sa a quali eindizioni probabilmente la promessa di rientrare nei ranghi), ottenne la revoca del provvedimento, cosicch Rocca si trova, di fatto, a sostenere da solo il peso dellepurazione. Nel giro di pochi mesi, dunque, il revisionismo passa duna concreta, bench ingannevole, speranza di successo al pi cocente fallimento, mentre a Il Giornale dItalia pi fascista che mai, se il fascismo  legge statale e disciplina spirituale, non mi resta che tornare ad attendere un po di giustizia, non Importa se pi tardiva che nello scorso settembre. Avanti!: Cfr. Il Popolo dItalia. Ogni commento da parte nostra - rileva Farinacci trionfalmente  superfluo. Costui [Rocca], da noi,  considerato fuori del fascismo gi da un anno (FARINACCI Virando di bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di Bottai addolora Rocca, che ne attribu la ragione alle preoccupazioni carrieristiche del intellettuale fascista. Bottai scrive Rocca --, teme di veder spezzata per sempre la sua carriera. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Il punto  che il revisionismo di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muoveno da premesse culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca, infatti, che vanta una militanza politica pre-fascista di tutto rispetto, Bottai, fatta eccezione per la sua breve stagione futurista, si e form politicamente col fascismo, al quale dedica tutto se stesso, e di cui se cos si pu dire - puo considerarsi lunico vero intellettuale organico. Nonostante lapproccio critico, quindi, la fedelt fascista di Bottai non  assolutamente in discussione.  cos come sottolinea efficacemente Guerri - che Bottai, il quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle rinunciarvi sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre Rocca, assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che accettare la disciplina di un partito che considera irrimediabilmente marcio, prefere rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al proprio destino. Perch MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso le difese meno di un anno prima,  questione di non facile interpretazione. La risposta pu essere ancora una volta ricercata nella duttilit strategica del duce. Mussolini, infatti, coltiva ancora il disegno dun allargamento della maggioranza, da realizzarsi soprattutto grazie a unintesa con la CGL -- un progetto a cui il capo del fascismo tiene in modo particolare e che, se non  sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe probabilmente andato in porto. Un'operazione tanto importante scrive Felice dove essere realizzata con le minime possibili scosse interne. Glintransigenti dovevano essere convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da pagar loro  la fine del revisionismo e la testa di Rocca, Mussolini non puo certo esimersi da Rocca  quindi vittima dintricate manovre politiche, ma  giusto ripetere che egli sconta anche gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione | commenti della stampa italiana sono variamente ma unanimemente favorevoli alla decisione del direttorio. Settimelli, su L'Impero ha parole di stima per Farinacci (il suo programma semplice e schietto, energico e fiducioso,  il nostro programma) e di riprovazione per Rocca (Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione.  farraginoso e analitico). Il Resto del Carlino, che vede con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo, rimarca la degenerazione personalistica della polemica revisionista concretatasi neglattacchi a Stefani - augurandosi che Rocca si convince dellopportunit di rientrare in un completo silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con argomenti simili, Il Giornale dItalia, pur riconoscendo la validit del revisionismo deglinizi, ne critica linvoluzione dottrinale (non si capisce quale  la meta, per quali vie concrete raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione per l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta). FELICE, Mussolini il fascista. A una successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena crisi Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso certe tematiche revisioniste. Dichiaro dice il duce -- che io non ho ben capito ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisogna che questi nostri amici specificano. Si tratta di una ricaduta nello STATO democratico/liberale con tutti glannessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri ed i gregari? O si vuole come  logico ri-vedere le posizioni morali e politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realt, cio al possesso del potere politico? In questultimo caso, il revisionismo ha una reale utilit. E evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il revisionismo vuole condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo, insomma,  una porta sul futuro, o  un ritorno al passato? (PNF, Il Gran Consiglio nei primi danni dell'ERA FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise da deputato e presenzia regolarmente alla seduta inaugurale della nuova Camera)  concluse la propria militanza politica. Senza mai sviluppare una precisa coscienza anti-fascista, per tutto il resto della sua vita Rocca mantenne, riguardo al fascismo, un atteggiamento ambivalente (potremmo dire di odio/amore), di cui  testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via dellopposizione interna; quindi lascia lItalia per la Francia, dove vive a lungo come appartato in rapporti di reciproca diffidenza con la concentrazione anti-fascista e in ristrettezze economiche, scrivendo saltuariamente per Il Pungolo, il giornale diretto dal socialista Lemmi che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati in seguito alla vicenda Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !8. Dalla Francia Rocca passa in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15 Cfr. Il Giornale dItalia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA dopo lespatrio in Francia,  dichiarato decaduto dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura, Discussioni, Rocca  aggredito pi volte: le pi gravi a Roma, tre giorni dopo la sua espulsione, ad opera di Bonelli, Masini e Nardo (rispettivamente il segretario del fascio di Genova e i comandanti delle squadre dazione genovesi), indignati per i riferimenti contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami tra il fascismo genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. La Tribuna,); e in Galleria a Milano da parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLINTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 7 [Rocca comm. Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero deglinterni informa duna riunione in una trattoria di Peschiera, nel corso della quale Rocca, illustrando il programma revisionista, propugna la formazione di fasci autonomi, che avrebbero dovuto raccogliere tutti glelementi dissidenti degni di militare nel fascismo (a questo proposito Rocca lesse le adesioni di Forni, Padovani, Sala e Marsich) e ricercare la collaborazione dei combattenti e dei mutilate. Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse espressioni del dissidentismo fascista intorno a un programma e a deglobiettivi comuni, prende corpo nella Lega Italica, sorta su iniziativa del gruppo di Patria e Libert e sotto legida del poeta e drammaturgo BENELLI (si veda), figura, se possibile, politicamente ancor pi contraddittoria di ANNUNZIO (si veda). La Lega Italica, che avrebbe dovuto costituire lembrione di un vero e proprio partito dei dissidenti, si dissolve per nel giro di pochi mesi, vittima delleccessiva eterogeneit e della fumosit dei programmi. ZANI. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblica il saggio Le fascisme e l'antifascisme en Italie, anticipante molti dei temi da lui in seguito sviluppati in Come il fascismo divenne una dittatura. ci giornali e riviste soprattutto di lingua francese - e sempre mantenendo, nei confronti del regime, un contegno altalenante (lex anarchico approva pubblicamente limpresa dEtiopia, ma non ha esitazioni, in seguito, a prendere posizione contro le leggi razziali). Rientra in patria soltanto dopo un periodo di detenzione nelle carceri belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attivit di pubblicista. Muore a Sal. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il quotidiano Le manna entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo pi firmati con pseu toni il pi ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO  RAT. Rocca  arrestato subito dopo la sesta di sg  tgp  so ta I  Il suo nome appare nella lista egl de ni iale. L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig ela aa e, su ricorso del figlio, St cancellato dallelenco (al riguardo v. Rocca, Come il dae pri, i dittatura). Ciononostante a quanto i; a un FOA  documentatissimo studio (FRANZINELLI, I tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN e viftime della polizia politica fascista, Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani Rocca fa effettivamente parte dei quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero. Le battaglie perdute sono generalmente dimenticate, poich i vincitori non sentono alcun interesse a ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una stessa nazione. Ci non toglie che, se non gluomini, almeno le cose e le verit sconfitte alla lunga si vendichino, attraverso le conseguenze del loro disconoscimento. Nulla  pi facile, ad esempio, che deridere e sopprimere certi valori spirituali, quando si dispone della forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo. Nei giorni della sventura tuttavia, cio quando la forza vien meno, si misura limportanza negativa della loro assenza, e meglio ancora la misureranno coloro che, pi tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti (Rocca, Una battaglia perduta: il revisionismo, ABC). Con luscita di scena di Rocca, coincidente con il fallimento della linea revisionista, ha termine questo saggio. La caduta in disgrazia di Rocca (cui si accompagnarono, pressoch contemporaneamente, la scomparsa di Gioda e, prima ancora, la sua sconfitta politica - e il brusco ridimensionamento delle residue velleit libertarie di Malusardi), pu infatti essere assunta a limite cronologico della parabola storica dellanarco-interventismo, quanto meno di quella parte dellanarco-interventismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate dei suoi principali esponenti, che conflu nel movimento fascista. Se infatti, come giova ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza storiografica, considerare lanarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e Malusardi come fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto (perch il conflitto mondiale comport uneffettiva trasformazione della societ italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche prebelliche; e perch il fascismo, al di l delle sue molte anime, fu comunque un fatto nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come crediamo di aver illustrato, latteggiamento di fondo con cui questi personaggi si accostarono al fascismo pu in qualche modo esser ricondotto alla loro formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa parlare della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena anarchica, che, innestatasi in esso tramite linterventismo, si esaur, progressivamente ma in modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della rivoluzione fascista. Renzo Novatore (Arcola) filosofo. Renzo Novatore. Nome compiuto: Abele Ricieri Ferrari. Ferrari. Keywords: implicatura, lanarchismo di Humpty Dumpty, la scusa anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrari,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferraris: la ragione conversazionale e filosofia italiana – la scuola di Galatone -- Luigi Speranza (Galatone). Abstract. Grice: “At Oxford, conversazione is a term of art; not in Italy!” Keywords: conversazione. Filosofo italiano. Grice: I like Ferraris  he analyses all the implicata of The Lords Prayer  pretty complicated  my favourite is his excursus on the implicatum of thy will be done Figlio Pietro De Ferraris e Giovanna d'Alessandro. Studia a Nard. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia. Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza, Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si trasfer poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I. Si adatta a Gallipoli, dove si sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenit della sua vita fu turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i ringraziamenti a Barbaro per la dedica ricevuta;  seguente la redazione di Altilio Galateus   e Ad M. Antonium Lupiensem episcopum de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola a Barbaro e il saggio Ad Pancratium de dignitate disciplinarum. Dopo la morte di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma assieme LAccademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio, per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco. E a Napoli, convocato dal re Federico dAragona che lo volle con s, ma l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia salentina. Godette dell'ospitalit di Isabella dAragona, presso cui ebbe modo di comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime trasferte dal Salento fu quella che effettu a Roma presso Giulio II, a cui offr una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi contemporanei, riusc a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide. Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salv solo Boezio e la sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civilt classica e autori come Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio, Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante, Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associ Ippocrate e Galeno.Non trascur gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue opere. Ma non sfugg a Ferraris il quadro generale della societ dei suoi tempi e della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali critic la diffusione delle cattive consuetudini. Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato storico-geografico sul Salento. Mentre era a Bari ha notizia della "Disfida di Barletta" e ne narr per primo la storia nel suo De pugna tredecim equitum. Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le seguenti epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium Sincerum de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio indignis collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de nobilitate, Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae, Ad comitem potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis Ad Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi Apuliae, Ad Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae, ad Chrysostomum de pugna tredecim equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad Chrysostomum de Prospero Columna, phiilosophi praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium, Esposizione del Pater noster De educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam, ad Antonium de Caris Neritinum episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo Iulio II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae ad clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum Castriotas, Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), Gallipoli (Lecce, Messapica Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il poeta nel marzo con lapposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie, Galatone, in Treccani Enciclopedie. PULITEZZA SPECIALE, tifi' m CONVERSAZIONI, ' r Or^ne delle eatwersm Umi e specie. M AUoroh, dopo il IX -secdb, ff mase sciolto quasi ogni vincolo governativo in Europa, ciascun uomo, secondo le sue forz6% procur di rapire o distruggerot Dibbmar fortezze per difendersi o adonar prmi per assalire. Tra gli oggetti rapiti prpieggiavano le donne ragguardevoli per bellzz. I cavalieri o sia gli uomini a cavallOy che pi de* fanti erano anticamente pregiati alla gurra, spinti da avidit e da amore, da vanit e da gloria ^i assunsero il carico di difendere il bel sesso  come vedremo nlF articolo seguente.Quindi 8i uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi i cavalieri per fare pompa delle loro lAiprese, le doniM/ per onorare i loro difensori e trarne vanto, i poeti pec cantare il valore degli uni e la bellezza delle altrer Le donne, i cavalier, rrme, gli aniiori., Ile cortesie, le audaci imprese io canto. Siccome le dame e le principesse l'oggetto sono della poesia, cos ne furono le sovrane in ' M giudizio e pr tribunali. Imperocch tenevano  nelle lor Corti e castella corte W amore o par lamentoi oy trattai^nsi i problemi^ le cause, le  liti amorose e cavalleresche; concorrendovi gen- iiluomini e dame dappresso e da lungi, e sopratutto poeti e cantori, quasi avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che se contenti non sono { litiganti. (kyUa sentenza de'{>ai:lamenti allora sorgevano le Tenzoni o sfide poetiche, eolle j> quali r un contra T altro scrivevano i trobadori a difesa dJoi^ eauT'e di lor belle onde sono sempre in giro messagi e proposte e risposte, e lamenti e disQde novelle d'^inore e di poesia Cresciuti in fom i Governi ne suasegnenti secoli, e cessati i pericoli delle belle, non fu pi necessario,, per ere ammesso in queste conversazioni, Taver rottopi lancia in onore d-ona prin* eipessa o d' una lama, ma bast Q^ie vi scendesse 1) BeUifiellf. j ^ oj by vmmztA: sfigxale 30& Per lungo )> pi magoanimi lombi ordine il sangue Purissimo celeste; per appriezz^re meglio i sentiBient del poeta e salire air origine degli usi, il lettore pu consultare la nota. Xe i Londra del dicono: Le pU^ni presentate alla carte dei rUelami nella circostanza dell'incofonazione delFattufide.re d* InghQterra), cofi tengono pretensioni singolarissime, e che ricordano usi antlchissimi. il conte d'Abergaf enny, come signore della cascina di Sculton, riclama l'uffizio di capo deUe dispense cl:edeta di farne il servizio sia personalmente, sia .col mezzo del sup deputato, e riclama per suo emolumento tutti gli avanzi deUe pietanze e delle carni dt^o il pranzo. Due petizioni furono presentale dal duca di Norfolck. Colla prima, nella sua qualit di conte maresciallo ereditario, egli chiede di compiere personalmente o col mezzo d'un deputato gli idficii di primo boUiqUm'e d'Inghilterra, e di ricevere perci la migitor coppa. d'oro con Q[M$relio, tp rimarranno sotto, il inezzule, e tutti gii orciuoll e coppe, eccetto quelli d'oro e d'argento che resteranno nel celliere dopo il pranzo. Colla seconda petizione li nobile duca dimanda, come signore della cascina di Workoop, di presentare al r^ un guaoto di mano destra, f'di soistoiieife il destro- liran^lo dei re nel menti ch'e tiene lo scettro reale. n duca di Montrose, grande scui^ere; dimanda di fare il servizio di sargente di lavatoio dell'argenteria, e di ricevere tutti i piatti e tondi d'argento serviti sulla mensa del re il giorno dell'incoronazione, e cogli emolumenti che ne dipendono, e di portare eziandio gli speroni del re dinanzi S..M. n 8lg^ CampbeU, come signore della cascina fi Lyston, reclama il diritto di fiir de cialde pel re, e d' imbandirle jsulla mensa reale al banchetto dell'incoronazione. Rimasero quindi a poco a poco e dovettero rimanere esclusi i poeti; giacch, se nello stato primitivo delle conversazioni, mentre il poeta si mostra ricco d'idee, vantavano i cavalieri destrezza e le donne pericoli^ nel seguente stato il poeta solo sarebbe rimaso oggetto degli astanti, quindi ne avrebbe sofferto la vanit degli altri. Muniti di privilegi reali ed onoriQci che dalle altre classi li separavano, facendo, principalmente in Francia, professione d'ignoranza, i nobili chiusero ad esse la loro conversazione, e avrebbero creduto di degradarsi, se alla loro confidenza avessero ammesso chi soltanto di talenti o d'altre abilit personali si fosse potuto dar vanto. Appena comparvero leprime scintille delle scienze, i pochi spiriti gentili che non rimanevano impaniati nelle sensazioni materiali del volgo, provarono il bisogno di unirsi, per fare acquisto delle altrui cognizioni e dare in cambio le proprie. Questo bisogno era tanto pi forte, quanto che prima della stampa altissimo era il prezzo de' libri, come tutti sanno; nacquero cosi le conversazioni letterarie od accademie, le quali da principi illustri vennero proli) Esistono scritture del XVH secolo, sulle quali persone dalto rango fecero la croce perch non sapevano scrivere. Nello stesso secolo parecchi parenti del celebre Cartesio si sforzavano di cancellarlo dalla loro memoria, i)ersuasi che la filosofia, di cui egli  il corifeo, fosse macchia alla loro schiatta. V. Thomas, Eloge de Dcartes. PUL1tBZZ4 SPBULE tette, giacch i principi illustri non temono le sciepze  sanno che degli Stati il principale pregio son MSe e lo splendore. Per consimili motivi sors^ eonvecsi^ioni di pit tori, di musei, e con maggiore coneorrenza, giae* b la capacit d' apprezzare le bellezze di questo, ti egregie  men rara di qa$Ua che per appresare le scienze richiedesi. Lo spirito di commercio svegliatosi dopo I." un decimo secolo in Itatta^ pisogfessivattiente 4)reseii|U> ne' susseguenti, fu larga fonte di ricchezze. Si vide allora che si poteva essere ricco e considerato senza essere nobile o possessore di fondi. Il desiderio di far pompa di ricchezze, unito al bisogno di conoscersi peraccrescere le relazioni commerciali, form le adunanze de' commercianti. La ricchezza de' mercanti cozz colla ricchezza de possidenti, e nette citt libere ottenne quegli o maggi che altrove si era riservati la nobilt. La classe direttrice de' lavori nieccanlci si diviso in altrettante masse quante sono le specie di essi. L'analogia de'lavorit il desiderio d'imporre legge ai lavoranti, la necessit di conoscersi per ripartire le imposte che i principi esigevano dall' industria, rkniirono i direttoli delle varie arti, o sia i fabbricatori, in altrettante compagnie o cow/rafernite che ebbero te loro regole e tennwo le loro Mssioni in gicrni determinati Le'ricebezze perdute ddia iiobiUyer ie ragimif ehe diremo, furono raccolte da persone' intelligenti e attive, che, senza appartenere al ceto de'commercianti o de'fabbrieatori, sepp ero farle. vafere. I (>er spacciare le loro idee nelle CONVERSAZIONI i^altri per non mostrarsi digiuni delle notizia pi triviali. La lettura cominciata per vnt, continuata per abitudirte, talvlta in passione si cambia, e i frivoli gusti tghoreggia o discaccia. Chi lggCi o per istruirsi o innocentemente intrattenersi, toglie sempre degli istanti alla covi^ ruzione, e talvolta le toglie de' capitali per la compra delibri di cui abbisogna. I gabinetti di lettura sono una conseguenza dello spirito socievole dello scorso secolo; si procura a tutti un mezzo distruzione con pochi soldi. Non tutti possono leggere tutti i libri; ciascuno  costretto a ristringersi nella sua sfera; ma NELLA CONVERSAZIONE i libri letti da uno, divengono mezzi d'istruzione per gli altri. In caso di bisogno egli vi d in UQ quarto d'ora il frutto di dieci ore di' lettura. Se nelle dispute che sogliona nascere NELLE CONVERSAZIONI, i due contendenti restano per la pi di loro parere, l'influenza delle dispute sulle opinioni non lascia d'essere reale, giacch. Gli spettatori disinteressati formano il loro giudizio sulle ragioni allegate pr e contra dai disputanti. La voce, il gesto, il tuono di essi rendono, per cos dire, pi acuti i tratti del loro spirito e pi profondamente neir altrui memoria gli imprimono. Quegli tra i contendenti che ha torto, e che nella disputa chiuse glocchi alla verit, non conserva questa ostinazione, allorch riflette poscia di sangue fredddo, e sovente s'accosta al sentimento, che aveva combattuto. In una CONVERSAZIONE GENERALE, quegli che parla, si vede cinto d'una specie d'uditorio che lo nima e lo sostiene. Questa circostanza da allo spirito maggiore attivit, alla memoria maggior fermezza, al giudizio maggior penetrazione, alla fantasia de LIMITI CHE NON GLI PERMETTONO DI DIVAGARE. IL BISSOGNO DI PARLAR CON CHIAREZZA lo sforza a dar qualche attenzione allo stile e ad ESPORRE CON QUALCHE ORDINE le sue idee. Il desiderio d'essere ascoltato favorevolmente gli suggerisce tutti I MEZZI DELOQUENZA DI CUI LA CONVERSAZIONE famigliare  capace.Quindi LA CONVERSAZIONE  la prima. Intendo qui di parlare delle persone di spirito e di buonafede; giacch gli spiriti falsi e vani, o gli uomini di parUto, pe quali LA CONVERSAZIONE E UNARENA OVE COMBATTANO DA GLADIADORI, non aspirando di giungere alla verit, ma di conseguire un' apparente VITTORIA, quesU non riescono nelle loro dispute che a raddoppiare il velo che ingombra il loro intelletto, e a vie pi nelle loro opinioni smarrirsi. e la migliore scuola per gli uomini che {tarlar ia pubblico si dispongono. Sj: f Air opposto un uomo che vve solitario nel suo gabjiettOr noD stimolato a farpas^re.le sue idee tjrii'Mtrui'anittio, noin^eriteiidosr'itvymffiairii a fronte non avendo obbie;{.ioni da combattere, non impr. ft^ gmm qiiest'acle delicata ebe convincere gli spiriti senza offender lamor proprio. 0D bel garbo costringe l'altrui inerzia airesame j^tt prgiuritzie^ pungndota con x^iche tmjU* piccante Altronde sempre solo con s stesso, e ^imsM aggeUi^^L^4xm/twitoi disposto a niguardmi x^iascuna 4rfeache gli si pcesdtay.came^una scoperta. Non mai esposto a queste piccole lotte di societ che danno si prontamente a tiascufiei. la misura delle sue forze, egli incliner a formarsi mt ppinione esagerata de' supL talenti e ad eBpone le ^nierdee con atsi fmpfariosa edoffenshra. Si pu dire delle CONVERSAZIONI ci che ALFIERI dice dei. vhiggi;.vY| s impara^ pi assai che in su le cartCi tH\ stimare o spregiar l'uomo^ ^^^j ;Ma a.cnoscer s stesso e gli altri jn parte v. ^i^Lo studio iaatti de'libri rie^oe ua mol languido . ddN)le^ che esercitai non agita!^ non riseaMa la mente come LA CONVERSAZIONE. S'io discorpo con CdbustO/ ragionatore, dicis Montaigne^, egli mi ein|[e e iB.Incalza da tulteie parti; l^sa$ fdee ri^egllaiio le umi la^^osia, la gloria, .la QQnte^ziQpe mi spingena, mi riali^aho sopra di me, e non diradortni presentano nuove combinazioni ideali. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI. sfil costume U de6derio 4i piacere a^i atoi vaddoldsee ia pale mseefen dir mm^i nra questo Aderto si svolge, ci aDiina NELLE CONVERSAZIONI e l' abitudiM d!eq^ijmerlt forma J'abMdiBe di aeotirlo. DACCHE LE CONVERSAZIONI DIVENNERO COMUNI, nacq[iie fior /quell'eleganza di tratto. e quella non 9 80 quale gra^a^-d* urbanit^ quel Aresentorsi pl 9. disinvolto, quel pi leggiadro atteggiarsi, e quei n versatili modi e politi cbe. imlla sentano V ioatr titudiiie 6 TimbaMaso; quindi quel wism wtm u pi dilicato, e que' mutui riguardi e qua' molti* pliei uffieii di olviltt johe quaai ad egiH .ubante Ja vanit e LAMOR PROPRIO dona e riceve. Le passioni .medesinia c)ie erano prima iutratta* .iMtt'., Mnreggendo in pfttte la toc nafitf wtm^ i> biaoza, sonosi anch' esse, dir cos, incivilite. L'oigo^iosa superbia si  maaobei^ata sotto la spoglia d' doa finta modestia; T invdia siesta sa pronunciar delle lodi, e IL PUNTIGLIOSO E CALDO RISENTIMENTO V obe quasi ad ogni parola aveva li fuoco neglocchi e la mano sull'elsa, ha .tesBiperato. queir indole sua ferqee ; si  im parato a dissimulare un'offesa, a Dasedndelw tipata, a rispondere pacatamente; e bench questa re P if M lusinghiera, gradita e di realissimi vantaggi sociali /ecandq, ^jper-^^la.^[y&lio ostacolo a mali gravU-. Finalmente sogliono non pochi giudicare del mento 4' uoa pecfiona dalla sua maniera di caavMr* sare^' n, si eiitano di porre al vaglio sue buone 0 cattive qualit^, ma ue^ formailo giudizio dalle idfie cb'ella .presenta: B^ordeobi sociali; qoiadi 0^ forza entrare nelle societ, giacch le abitudini del ^eatil couversare aoit possooo in soUngo gabinetto aljgnistarsi. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI SULLA MORALE. h AUotcfa gli uomini s'uniscono in CONVERSEVOLE ecMohior^ 49orge tea di' essi un' opinione la quale condanna glatti che riescono nocivi a tutti od a qualcuno deglj uniti: ciascuno  costretto a nascosi dere 1 eentimQti criminosi che per avventura cova neiranimp.  aiccMie. anche ci maqa i virt, vuole mostrarne almeno l'apparenza, quindi, se qualcuno d^li uniU d mentore di v^i, la van^ degli altri . si unise to6t pericaeeierlo dal loro imo, ae^ non corra voce che lo tollerano o f approvano. Dnn^e quanto {m. eresc lar bc^ma di PARTECIPARE AI PIACERI DELLE CONVERSAZIONI, tanto pi cresQono i. motivi per isciogli^sii dai vizii che esse ooodamiaiiD. 1 ref mordendo a lungo GIOCO,  d'uopo  Che r oprare al gridar conforme eqch^ggi )\ II; Screditando gli altrui vizii ciascuno si lusinga ^ iter provn di .contiaria virt; quindi NELLE CONVERSAZIONI cascuoo cbiSuna a indicato la riprover vole condotta degli estranei od assenti: ciascuno ride delle umiliazioni cui  condannato un leccazampe; ciascun parla con orrore d'un tradimento; ciascuno sviluppa le circostanze che aggravano un delitto ecc. Escono DALLE CONVERSAZIONI dalle de' gridi che chiamano gli sguardi del pubbblico sul magistrato corrotto, sul giudice venale, sull' amministratore infedele ecc. Allorch la condotta di qualche persona potente non  ben nota, ciascuno deglastanti comunica agli altri le sue viste; si mettono al vaglio i fatti e le congetture, si confrontano le realt e le apparenze; si richiamano le notizie anteriori e concomitanti, e dualmente si giunge a smascherar l'impostura. L'opinione pubblica va ad attingere ALLE CONVERSAZINI i documnti che giustificano i suoi decreti donore o d'infamia. LE CONVERSAZIONI sono come le sentinelle notturne che ad ogni ora si comunicano il grido di sorveglianza, onde reprimere ne' pubblici perturbatori il desiderio di far del male. LE CONVERSAZIONI offrono il destro di pronte benefiche soscrizioni a vantaggio dei poveri. L'interesse che la padrona di casa sa destare nellanimo de'suoi amici a favore d'una famiglia o d'una classe sventurata, il desiderio comune di dare prova di generosit, l'altrui esempio che fa forza anche ai pi renitenti, tutto concrre a far riuscire immediatamente un progetto generoso, che senza LE CONVERSAZIONI le resterebbe sventato o verrebbe troppo t^rdi. Quindi con piccolo incomodo deglastanti si raccoglie ia pi orocebi una-samiQil ragguai:de* vofi e safficieate ^1 Jbisoguo, INFLUENZI DELLE CONVERSAZIONI sulte crtL Le conversioni avviemando giornalmente uomini, e ciascuno bramando di comparire ricco e4 legaste, i:e5C0ifo i compratori dette merci 4^.e adornaao le persone e le case. Quindi si eslesero toi^amei^te l^.arti cos dette, di lusso. Il popolo firneese, "^tmi H quale, E MASSIMO IL BISOGNO DI CONVERSA  divenuto IL DOMINATORE DELLA MODA. JBari'addietrqi etmano scarsissime LE CONVERSAZIONI, e moltissimi globbriachi; ti capitale che ora si spende in abiti,. allora sj spendeva in bagordi. Quelii cbe ftnaot rimprovero ALLA FILOSOFIA d'avere esteso lo spirito di socievolezza, son costretti a dire cAteun uomo ubbriaco j preferibile ad,un nomo legante. Per disgrazia dell' umanit questi Ostrogoti sitrovano talvolta alla testa degli St^i, e con ottime A Verona, trovandomi un stat alla convetsadon'e  d^iHia signora che non soleva andare al teatro, ma univa nella sua^easi vaeii amici, ella ci dice: Signori : dimani a sera no^ qi vedremo, perch uadc A teatro, t t:ome al teatro t ^ Si, gbuseh la serata va avaatagato ^ povecL^Dunque ci vedremo, risposero tulli.. fiaatt' la ra. susseguente non solo ciascuno deglastanjti and' i -tealro, ma, conduce seco quattro o cinque amici cosicch il palco dUa signora fu un andirivieni continuo, ed una specie di goecr a Mdam V ini4$mt0 > la ^te si fonava neUa sua sconfitta. Beco la ^vOlz^adone : beaefioennt uoit^ alpia^. cerei onore al bel sesso cbe la proinoveiL intenzioni li rovinano. Pio IV, declamando contro l'uso delle carrozze, indusse i cardinali a cavalcare le mule; si moltiplicarono le mule in ragione de'capitali che non erano pi impiegati nelle carrozze cio le nule presero il posto deglartisti. Non vi par bella e sensata questa trasformazione? Andate avanti, beatissimo Padre, e, giusta le massime predicate da altri moralisti, induceteci a privarci del cappello, della giubba, delle calze, delle scarpe; e cos dopo d' aver fatto sparire gli artisti, se pur questi vorranno sparire senza cagionarvi qualche timore, venderete le vostre derrate agluccelli. Torniamo al fatto: IN FORZA DELLE CONVERSAZIONI si sono cambiate le abitudini economiche, e leleganza  sottentrata all'ubbriachezza. Quella massa di liquori che per Taddietro consumavasi da un solo con danno della salute e della ragione, ora sopra dieci innocuamente si distribuisce, cio sopra gli artisti che fabbricano cose comode ed eleganti. Dunque nell'aumento DELLE CONVERSAZIONI hanno guadagnato larti e la morale. II lettore che non fosse abbastanza persuaso de' vantaggi che ho attribuito ALLE CONVERSAZIONI ed in generale allo spirito di socievolezza,  pregato a sospendere il suo giudizio sino all'articolo secondo, ove esaminer gli usi e i costumi de'tempi barbari e semi-barbari, ne'quali di, socievolezza non v' era quasi traccia., Accennate nel Tranat del Inerito e ^elt KieomfitnUe.  Gli oMPOstt Oggetti V Rende pi chiaro il paragoo. Distngua,  Meglio ciascun di noi;  ic.i.n NeimalehegIiattnopprm4lb9A. Scelta deHe tantffsaatcni: r .f'/.v;r li Cki .vcdesgft sfogare il coosoitia di tutti f reprobi, correrebbe pericolo di viver solo. Pupi restare ia casa nfm ioKdarti kfijoarp^t ma restando in casa ti privi d'una passeggiata utile e 4^Uzio9a Dpnque non potendosi p^r noi crear uoniiiil perfetti, sar sempre miglior consiglio accrescere la forza della j[M*opria virti5 di quello che i'irrita^ biKt agli altrui vizi. Dire che aoa dobbiamo essere cestii a lordarci ^ le weqMi pi^ jurooucarci una buona passeggiiitaii nm  dire che dobbiamo innoitrarci nel fango sao agli occhi e con pericolo di spezzarci una gamba : per anpdoga dite lo stesso delle conversazioni. Adombrati gh' estremi, dir al giovine che nella soelta delle conversazioni, pi ctie gli adulti ed^ i veoohi egli debb' essere riservato; giacch, mancandogli la loro esperienza pu facilmente .restare tra queMaeei che essi spezzerebb^o.. Inoltre il credito degli adulti e de' vecchi  giformato; le loro buone qualit, sona note, un'ab. tudine provaUi da pi risponde ad ogni dub* bia apparenza. All'opposto il giovine dee tuttora ar nascere questa b|io)ML, opinione neir^ltrui animo "^4  di hidd^oi^eail giadhao ebe gU/a^ d noi, quando dalie persone che frquentiamo ci giudicano; e fa d' uopo osservare che la yafiit vieta loo di cambiare j&KitiAiDte h ptt opinione che di noi concepirono, vera o falsa che ella sia, Dun(]ue, beii|^ ^^iva Aacora molto istrutto, otterr il giovine pi gradi di stima se correr voce eh' egli conversa . spes$p.^^on parsone di merito e gode fa loro confidenza. LA CONVERSAZIONE colle ballerine, colle persne di dubbia fede, o p^leseqiente scellerat, macchia la riputazione di clrinncpie: i cm 'lodt insudiciano queUi tui ft^no maggiori carezze. Tutti consigliano ai giovani di non trovarsi NELLE CONVERSAZIONI bve s! tengono giucW d'at^ zardo; giacdi, quaiunqu: sia la lro risoluzione, ossi finiscokio peir tedere e rovinarsi; Essi cedono, alte suggestioni ed all' esempio altrui, al timore d'essere dichiarati' spilorci, paurosi, vili o schiavi d^e^voiiri patemi; essi cedono 1 defsiderlo di dlve* . nire prontamente ricchi, desiderio che prontamnte SI aperite, 'la brama azsata'dell'oro  i|tra caiH crena ciie rode l'animo del giuoeatore,  una sottile fiamma che lo consuma. Ommetto di parlare de' suicidi prodotti dalle perdite nel giuoco. Perdita della salute.  questa una conseguenza dell'accennato stato dell'animo. Infatti sotto razione ripetuta del giuoco si sviluppa un carattere irascibile ed una viziosa energa di sensibilit che alla macchina corporea riesce sommamente nociva; perci la massima parte de'giuocatori sono decrepiti a 40 anni. Perdita delle sostanze. Per un giuoeatore arricchito dal giuoco ne conterete cento rovinati. 4. Perdila delta fama. Cicerone, per iscreditare i giudici di Clodio, li paragona a quelli che frequentano le case di giuoco. Bench tutti i giocatori non siano persone infami, ci non ostante la massima parte non lasciano d'essere riprensibili perch si espongono al pericolo di divenir tali. Nissuno d la sua figlia per isposa ad un gioca^ tore; nissuno lo accetta per compagno in uh' intrapresa; nissuno lo vanta per amico; nissuno lo vorrebbe per padrone; ogni padre vieta a'suoi figli la di lui compagnia come la peste. Perdita della sensibilit ai piaceri intellettuali e morali. Siccome le persone abituate all'uso del pi acuto rap divengono insensibili ai soavi effluvii del garofano e della rosa, cos le persone abituate alle scosse gagliarde del giuoco rimangono insensibili ai piaceri della commedia, della trage-; dia, della pittura e delle altre arti belle; quindi 1* momenti che i giocatori non impiegano nel giuoco, sono occupati dalla noia. Il giuoco accresce il bisogno di sentire, e diminuisce il potere di soddisfarlo. Il giuocatore s'espone al pericolo di perdere, e perde talvolta quell'unico denaro che  necessario alla sussistenza de' figli e della moglie; la sorte infelice di questi fa dunque minor impressione sopra di lui che il bisogno di giuocare: in quale punto sar sensibile il di lui animo alle loro carezze ? Un giovine dedito al giuoco sfugge la compagnia de' suoi genitori, sdegna i loro innocenti piaceri, sprezza i loro consigli, amareggia i pochi istanti della loro vita, diviene ladro domestico, e talora i disonora con azioni che gli fruttano la prigionia 0 il capestro. 6. Perdita del senso comune. Ogni giocatore sragiona cosi come sragiona il volgo, allorch dai sogni deduce  futuri numeri del lotto. L' abitudine di prendere per norma a' suoi giudizi i rapporti fantastici delle cose distrugge l'abitudine di consultarne i rapporti reali, costanti e ragionevoli. Un giocatore non avr vergogna d'attribuire la sua perdita alla sua scatola; un altro alla presenza d'un nemico ecc.; alcuni non giocano che denaro tolto a prestito, quasi preservativo contro la sorte; altri destinano parte delle yincite ad opere pie, quasi pegno di vincita, ecc. L' idea del guadagno allorch soggiorna lungo tempo in una testa debole, ardente, soggiogata da; vane, combinazioni, converte il dubbio in certezza, e fa riguardare come infallibile ci che fervidamente desidera. L'illusione  s forte, che non  distrutta dall'esperienza delle perdite, e in onta di esse rinasce e si rinforza. Gli animi frtenfient agitati, dice Tacito, inclinano alla superstizione, cio la causa delle loro sventure riconoscono in cose o parole incapaci di produrle; quindi le invocano o le maledicono, ne sperano o ne temono. La fortuna^ nome vuoto di senso, agisce sull'animo de'giocatori cme se fosse un ente reale : a lei attribuiscono le vincite e le perdite. La fortuna  un concorso di cause ignote ove la temerit fa tutto y e la prudenza nulla. I selvaggi dell'America, dice il padre Lafiteau, si preparano al giuoco con austeri digiuni, quasi volendo interessare la Divinit al successo de'loro stolti e ingiusti desideri. Dop ^li antecedenti riflessi  quasi inutile l'osservare che nel giuoco ogni sentimento di decenza si perde e di gentil costume; si diviene rozzo, villano, grossiere, caustico, mordace: non si ha riguardo n alle qualit altrui n ai diritti; si offende l'altrui amor proprio, si tradiscono  sent-' menti del proprio animo, ecc. Dopo la fama di decenti ed oneste il giovine ' preferir quelle conversazioni ove  maggiore la libert. Siccome il piacere  d'indole s schizzinosa che non sempre apparisce ai cenni del desiderio'; e fugge rapidamente allorch vede un laccio, fosse anche tessuto di rose, ri di tempo serba regola n di luogo, ri a tutti i discorsi sorride; quindi dir al giovine: allontanati da que'crocchi ove devi rendere ragione perch non venisti a tal ora, perch ti parti pria del consueto, e t' forza al posto assiderti che non t'aggrada, e con tale foggia d'abito comparire che non ti conviene, e sulle altrui maniere irremissibilmente atteggiarti e deporre sulla soglia il tuo carattere originale per rivestirtene allorch n'esci. Fuggi pure, perch il rituale esat-" tissimo delle cerimonie, i complimenti, gli inchini, i baciamani si .frappongono ai cuori che corrono a contatto, e i sentimenti ora rispinti dall' altrui  orgoglio, qui umiliati dai titoli, l repressi dall'aria di comando, e tra imperiosi e inetti doveri allacciati, non possono scorrere rapidamente qual elettrica scintilla e propagarsi per tutta 1' assemblea; quindi l'allegrezza sfuma ed ilpiacere, e al loro posto va assidersi mortai tiranna la noia. Taccio il civile barbaro-bugiardo V Frasario urbano d'inurbani petti,^ t w Figlio di ratte labbra e sentir tardo.  iVs. k IV. Il giovine non fuggir la conversazione delle donne oneste, giacch solamente in loro compagnia imparer a rattemprare l'effervescenza dell'et, a ingentilire colla grazia le maniere, a piegare i movimenti a leggiadria, la placidezza del discorso senza vilt, la modestia senza timidezza, il coraggio senza impeto, il brio che sa rispettar la de, cnza, l'allegrezza che non diviene smodata, quelle fine attenzioni che prevengono i desiderii senza mostrar d'occuparsene, e quel conversare libero e cordiale che non degenera in confidenza temeraria e plebea. v Swift attribuisce LA DEDADENZA DELLA CONVERSAZIONE in Inghilterra all'esclusione delle donne; da ci nacque una famigliarit grossolana che porta il titolo d'allegrezza e libert innocente, abitudine dannosa, egli dice, ne' nostri climi del Nord^ i) ove la poca pulitezza e decenza che abbiamo s r DM. introdotta, per cos dire, d contrabbando e ^ contro la naturale inclinazione che ci spinge  continuamente verso la barbarie, ^e non si manfi-T tiene che per artifizio. SOGGETTO DELLE CONVERSAZIONI. Qualunque argomento frivolo o grave basso o sublime, lepido o serio, p^rcA piaccia agli astanti,  noi offenda la morale^ PUO ESSERE ARGOMENTO DI CONVERSAZIONE: qui pi che altrove debb'essere.  ragione e legge  Ci che il consenso universale elegge.  ytl poeti satirici hanno voluto ristringerci in pi angusti confini; quindi 1. Pongono in ridicolo le dimande relative alla salute quasi che la salute non fosse l'oggetto pi interessante per gluomini, e una buona digestione non valesse cento anni d'immortalit; r 2. Non vogliono che parliamo del tempo, quasi che le vicende delle stagioni sullo stato tsico e morale della specie umana, sui prodotti delle campagne, sul corso del commercio, e non di rado sui pensieri degluomini grandi e piccoli aon influissero ; c giornalmente non fossero occupati i fisici ad osservarne Tandamento progressivo, retrogrado, irregolare. Qualche poeta ci deride QUANDO NELLE CONVERSAZIONI PARLIAMO d'arti e di commercio, di pace e di guerra, di governa e di politica,  vuole poi x che ci occupiamo d'satelliti di Giove  dell'anello; di Saturno. Certamente che anche Giove e Saturno possono ESSERE OGGETTO DELLE NOSTRE CONVERSAZIONI, ed  cosa desiderabile che Io sieno, s perch pascono l'animo di idee sublimi, s perch servono di guida al nocchiero che va. errando sulP immensa superficie de' mari, ecc. Ma avreste voi vietato ai Romani di parlare quando Cesare ottenne dal Senato il diritto sopra tutte le mogli? Quando Vespasiano, che si mostrava s tenero pel bene del popolo, pose un'imposta sulle orine? Vi sono delle cose che ci toccano s dappresso, che  assai difficile di non tenerne discorso, come  difficile di non gridare ahi ! quando il fuoco ci scotta. Se poi, per opposta ragione, si riflette che LO SCOPO PRINCIPALE DI QUELLI CHE SUNISCONO IN CONVERSEVOLE CROCCHIO si  d'intrattenersi e ridere, si scorger che  quasi impossibile d'allontanarne glargo menti ridicoli, da qualunque sorgente provengano. I Romani non potevano contenere le risa allorch parlavano dell'imperatore Costanzo, perch costui, quand' era in pubblico non osava movere il capo, n fare un gesto, n tossire, n sputare, lusingandosi in tale guisa di rendere pi imponente la dignit imperiale. Il retore Temistlo, il quale era stato fatto senatore da Costanzo, trasform l'imperatore, che non sapeva sputare, nel pi gran filosofo dell'universo; avreste voi voluto che i Romani non ridessero n dell'impeiratore n del retore? Si pu parlare, senza cognizione, della pace e della guerra come delle zucche e dei ravanelli; dunque IL LIMITE DI FISSARI AI DISCORSI NELLE CONVERSAZIONI, rispettata la mral, come si disse di sopra non dalia qualit dell' argomeiita 8i-dU)e ildsomere, ma dalh'giioliiiza.di parla o dalla noia di chi ascolta. Dopo 4 avere eseldso dalle cQiiVi^sjtidid^l discorsi pi interessanti, si  fatto loro rimprovero perch spasso non s'occupano che di coseJrivoJes eoiti jfoal nsbra si d a divedere d^aver diinenticato che IL PRINCIPALE OGGETTO DELL CONVERSAZIONI si'  il piacere: Se il caippo in cui il piacer ap^ l^^cev  di gi anche troppo ristretto, per quale motivo vorrete voi ristringerlo d pi?. Vi furono* de' grand' iiinini che ridvan di cuore alle tlSt^ tezze di Pulcinella, vorrete voi condannarli? Pi l spirito  3tato avvolto in cose serie, pi assav\* por il contrasto delle'frfvolezze' Ne'momenti^'zia non vergognava Esopo di giuocare alle noci, Ca* tbfif alla pafla nel empo Mairzio; Pascal facevi delle scarpe, Malebranche cucina delle vivande^ di SCIPIONE e di LELIO dice CICERONE, che, ritirti alla esfipagna, non isdegnavano di bamboleggiare, incredibiliter repuescere. Queste frivolezze .offrono uni trastullo necessai^io, senza che lascino neil' a ttimo alcuna traccia da che sono svanite.  Rispettiam dunque la follia gradita l^.QWBe balsamo dolce dUa vita.  Cbesterfield dice che le frivolezze DELLE CONVERSAZIONI l^0B& tn ti compnso delie liiine piccole, eb neri pensano e non amano di pensare. Avrei fimyandatQ volontieri a questo scrittore s' 6|^i addljMMMte per pensare^ Le frivolezze DELLE CONVERSAZIONI, simili alle immagini scucite 4el sonno, servono a farci ridere e nulla pi. Io sono stanooc a segno che non mi reggo in piedi, e voi mi'con- sigliate di passeggiare? Che cosa direste d'un uomo che per sgombrarvi dall'animo la melanconia, viponesse tra le mani le Notti di Yung ?  Si devono ammirare quelli che dopo d'essersi occupati di studio 0 d' affari nel gabinetto, possono ritornare aglaffari o allo studio NELLE CONVERSAZIONI;. hna non si possono spregiar quelli che dopo avere eseguito il loro dovere, abbisognano di riposo. Sic, .come i pranzi non sono eccellenti se non quando possono soddisfare tutti i gusti, cos non sono, eccellenti LE CONVERSAZIONI se una variet di soggetti corrispondenti ai bisogni di ciascuno, non presentano. Generalmente parlando, i discorsi serii non possono piacere alla maggior parte deglastanti, giacch la maggior parte vanno a ricercare NELLE CONVERSAZIONI riposo alla riflessione e pascolo alla fantasia. Non si pu quindi approvare la condotta d Locke, il quale, mentre tre milordi, Hallifax, Anglesey., Shaftesbury, jgiocavano tra di- loro, egli ' occupaVasi a scrivere ie parole che uscivano loro ' di bocca. Per quale motivo ridete voi, gli disse nglesey? Perch nou perdo nulla di quanto voi dite, rispose il filosofo, e gli mostr la nota delle parole poco assennate che ciascun giocatore aveva detto. Questa censura era fuori di proposito, giacch da persone die giocano, e giocano per divertirsi, non si deve aspettare che argomentino in barbara o in baralipton. Quando prendiamo una medicina, dobbiamo noi osservare se  bianca o nera, leggiera o pesante, bella o brutta, graziosa 0 no alia visita, di qualche astante ? Ua ci ridona la salute,, e bastai Airincontro, dice Gozzi, certi Catoni vorrebbero che oca si uscisse mai dal malinconica e dal ^rave, come se gli uomiiri fossero d'aeciaio e non di carne. Questi tali ci, vorrebbero affo. gati nella noia.  quando Fanioio  kifastfdilOt  non  buono n per s n per altrui. Il meglio  un bocconcello colla salsa di tempo in tempo,  e poscia un grosso boccone delle vivand usuaK. La misura ne' passatempi  rimedio della vita; ed io jtanto ve^ magri sparati  disossati quelli V che non pensano ad altro che al sollazzo, quanto > queUi che tirano continuamente quella benedetta li carretta delle fecceade. Soggetti ge^ieralni^nte noiosi Sogliono essere soggetti noiosi ed opposti allo SCOPO DELLA CONVERSAZIONE i seguenti. Glincessanti lamenti sopir viali a cui non si pu opporre rimedio.. Talvolta LA CONVERSAZIONE in vette d'essere un tessuto di piacevoli discorsi e ameni,  un vero piangisteo, o, per dir meglio, un miserere. Se qualcuno riesce a dipenticare i Riali eomuni, T un o l'ailro degli astanti glieli rammenta con circostanze nuove, e il sentimento dolorosa ne aggrava colla prospettiva d'un avvenne peggiore. Che cosa direste di schiavi che per divertirsi parlassero delle loro catene.  questo up difetto de' veccM che non snm aprir l'animo alla speranza; degli ignoranti, incapaci di riguardare le cose da pi aspetti; delle menti deboli che ad ogni lotta succumbono. Alcuni velano questa incivile abitudine col sentimento di compassione pe'mali altrui, cio per mostrarsi compassionevoli verso glassenti tormentano glastanti. Pietro  morto improvvisamente; Paolo si  ammazzato; il pane  troppo caro; la tempesta ha distrutto la vendemmia ; le imposte sono eccessive; la guerra  imminente; la peste s'avvicina, ecc. Poco manca che non ci predicano la flne del mondo, come si usava negli scorsi secoli, idea che tuttora s' insinua ne' discorsi della plebe quando  afflitta da qualche calamit. Sarebbe pazzia il pretendere di non sentire i mali della vita, ma  pazzia maggiore il non sforzarsi di dimenticarli. Sarebbe imprudenza l'andare verso il futuro colle spalle indietro, ma  imprudenza maggiore il riguardare i mali futuri come successi e non distrarne lo sguardo. La novit della cosa pu qualche rara volta sciorre da incivilt lannunzio d'una trista novella. Ma richiamare continuamente r idea di mali che tutti conoscono,  l'eccesso deirinurbauit, giacch questa ricordanza, oltre d' essere dolorosa per se stessa, conturba e piega a melanconia i sentimenti deglastanti. In questa situazione deglanimi non osa spuntare sul labbro il sorriso. Cento detti spiritosi, pronti a ravvivare LA CONVERSAZIONE, tornano indietro. Ora rinunziare a cento piaceri per procacciarsi un dolore  un calcolo da matto. Si pu procurare agli spiriti de' momenti di distrazione fissandoli sopra oggetti diversi dagli abituali. S po 'Yntiizzare la sensazione 4el dolore riguardando le cose dal lato ridicolo. CasGuno^ pu cogliere de'jnoti?! d eoasolaaone paragonandosi con quelli che in pi tristo statoci trovano. Chi vuol viver tranquillo i giorni sui,  Kon conti quanti son di lui pi lieti, 'Ma gitanti sod pi miseri di lui.  Si pu innalzare lanimo alla speranza, mei]itre il volgo s'abbandona al timore, considerando tutta Festeosione delle eventualit possiinli Mentre, aeU' ulUmo assedio di Genova, i soldati ca? scanti (li fame facevano la guardia seduti, uno di essi disse: Ma^sna non voiT arrendersi inch non ci ha fatto mangiare i ud stivali. Questa facezia induce glastanti a dioie ai-^ tre, e intanto U sentimento deUa fame fa tr^;ua. Un generale francese, ferito in battaglia^ sta per far^ta-*. gliarc una ^aniba; il suo servo piange in un angolo della stanza: Meglio per te^  'l'n imbecille non crede che T innesto possa costringere r albero selvaggio a produrre de' fruin domestici e sa. porlti : le anime deboli non credono che possa lo spirito innalzarsi sul senthnento d^I dolore e dominarlo : tanto peggio per esse. Al contrarlo lo ho conosdiito m nomo di tempra ' forte, che, detenuto per opinioni politiche, non sog^^iacciue  che un giorno alla melanconia in quattordici mesi, bench gli fosse negato il conforto de* libri. Far r elogio della melanconia, come i^ero alcuni scrittori detti sentimentali,  fere F elogio delle nubi che f\ tolgonp la vista dil lriuaniento. In mezzo a tante forze die* tendono a dislrng^ insipide^ 6Mi gliezze allorch, divenute triviali affatto, da uq Iato si ripetono eoo pretensione di novit, con che si d -segno dignophza, daU'aUra riescono ofhn^ sive alfuno o all'altro degli astanti. Il poeta Despraiix^ che iioa eika^ dotate della pazienza di ncia^ daina reoffriti ^ se^tnde'^un giorno Bordaloue a rpetere le vaghe analogie sulla pretesa follia dei poeti^ gU dis9eHxi( pp^auslieanlellte: Io so, mio Caro padre, quanto si dice d'ingegnoso su questo  9fg0jQsento; se v^i y/lete venir meco aU'o spedate de'matti, io son pronto a mostrarvi dieci  predicatori per i^u poeta ^ e^roi vedrete a tutte lo 4(>ggb deUdjiaal he dividanp il loto dteooiso^ in ti;e punti.-' r^Uriaql^oedenti riiles^iiaioa condanaano Fuso dir propMie quistioofdligegncile^ le quali, rispondendo ciascuno a capriccio, servono di piacevole esercizio ag^fipiiNiti ^'^liti iNToiy^ e vivaci che sci^piana impftliisamente y -e talvlta a lode di qualche a 8ti^t(^ v.|ieUa mw^m^lkm^ della duchessa del MaifMVfei^liB^ a dar risalto alle pili sfuggevoli differnze tra i diversi oggetti pro^ ||9^iM^>^^ dis$A,Ma giorno ai cardinale di p4>)igw%]^Inatot^difi6ie^ passa tra me e il mio oralogio?  Il vostro orologio, rispose il cardi* nia^e ^ ($tliirieor4a(^/ Sopra le scene; e s'egli  ver che rieda  L'astuta Frine che ben cento folli  Milordi rimand nudi al Tamigi;  O se il brillante danzator IXarciso 9 Torner pure ad agghiacciare i petti  De' palpitsgoiti italici mariti. Ai vcrthfo dfititafidefai conto degli u^i eivlii, po*' litici, religiosi clie negli anui di sua giovent si costuinarona, onde . procurarti il piacere d! con* frontarli cogli attuali. Preparati per a sentire eccessive lodi dei passato; quindi avrai Tavvertenza ^di separare i f alti dal giudizio di chi "gli e^one. Spingerai anco con bel garbo il di lui animo verso l- piaceri che pi Tadescarono . ' Onde misero cor, che il ben p^dtita.  Non ha pi di goder speranza alcuna,,  Kesii il conforto stiinen d'aver goduto., Colle donne volgari Or di polii ragiona, or di bucato*  Colle donne galanti parla  Di veli e enfile e femminili arredi.  Colle donne gentili che uniscono ii bel costiime airistruzione, porrai sul tappeto le arti belle, e a norma del loro genio particolare proporrai quaiclie problema, acdocoh al piacere di discorrere umscano il piacere di soddisfare la tua curiosit. Ad una giovinetta ohe. occupa vasi a dipingere, chiese un giovine, se provava pi diletto nel ritrarre gli uomini o le donne ^ i giovani o i vecchi.  Sono indififerente a tutti.  Eppure?  Pre/e^ risco le fisonomie sensibili senza riguardo al sesso.   quali sono i segni fisionomici che caratterizzano la sensibilit? ^ Qui cominci un discorso che dur due ore, la giovine facendo pompa, di sentimento, il giovine di metafisica. Le letture, cui talvolta sono occupate le signore, Yf jfffft^mo U ctesbro di jebider loro ^ii^li f^m le colpiscano di pi, e quali autori in tale  tal altro ramo di letteratura preferiscano, e se avrete l'av mieuM proporr loro qualche obbiezione pet dimostrare che non vi sfuggono le loro idee^ pr* curerete ad e^ il diritto di pmlan^  lun^iit^ mmBM ^^nimm/^:e9lL mUoMi poesn Uteek^l d* incivilt y poich ciascuno ba diritto, di difen^ dflisi: e giusticare cl cbe dm*' Della fanciulla vorrai yedere i dis!^, i ricini, la scrittura, ecc. Chtederstt drifcaamom ohe ms w^ ^^IpM^ che brillano neH*azzurra volta del cielo. Per quaH ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^ altri cambiarono. di MlOfe. D' oode. amnga che i pidi^ si n dano per trimestre, e per cai non di' rad^ Osan profoni e fetidi servacci Di libert mentire il nobil fuoco.  Quanti ancor ne veggiam d'animo incerto 1^ E di dottrina 5 in cui fondarsi, ignudr, Che quel clie sol mattino era lor Aoia, *  Chiaman perfetto al tramontar del sole ? A vicenda gli scorgi ora del vro Difensori, or del falso: ora baciarti 9 In fronte amici, or affrontarti infesti, Tanto che sotto a due stendardi e volti > A due partiti un d solo li yede. m  :}/ Le qifMate^ ripugnanze. Pi Qti gusto^ um aUbsrimf, wi senliflliefite '' tsemofie, pi :AigM alcuni d mostrarsene^ alieni. Cos adoperando, i^etnbr loro di tacears dalla massa volgare, e, collocatisi in alto, divjenire r oggetto degli altrui sguacdi. Essi contrasto- etern \ i. Fanno a ragion, per voler esser sempre \ P, Singolari dagli altri; e picca occulta  Hanno in s .d'esser d buon gusto soli/ ! Jton d'altri ppresse, e veder soli il vero;;; V I pi di quQSti incaputendo avvezzi Son del snno a c^rcpr, lontani ognoi^ Dalle profane popolari turbe. Onde se ayvjen-che il popolo par caso Dia pur nel segno, e ragiohevoi pnsi, Sci.nt.onan essi^ e mal pensano e a torto;. \ Perch purificate ecelse menti. Non seguan mai popolaresche teste. ' ISome vi sareste voi contenuto con Euripide, il quale assicbrava di non amare le donne, dopo4'essersi amtaogliato tre volte ? Seguendo i precetti sinora esposti, voi avreste dovuto, senza lasciar {scorgere dubbio sulla sua sinceriti^^avreste dovuto ^ c^tedrgli la storia di questi tre^esseri tatfto odiati, e con cui egli strinse, alie^inz^ forse, ad esercizio di sua pazienza. Gli sforzi della vanit per cui ciascuno tenta d* associare V idea delia propria persona aWida delle cose pregiate o delle persane il* lustri. Se taluno vanta un bel libro, un letterato yi accerter tosto che lo possiede, bench forse Odflii ahbia and' vodafe fi i^die pti^iAMii r''^ si tratta d'un grand'uotno, questi vuo! essere suo parente^ e qu^i ^la ^ide a Parigi .0 a Londra ^ o viaggi cn'lai tstXto ^iso meeilV e wd tm vanto come l'asino della favola, il quale portando delle reliquie, slnun^gmava d'sere adorato- Orasio si vantava d'urtare impulitamente chiunque incotrava per if^rada^ purch potesse giungere presto .^"^M^eeniib i^irefdete l'asMKia o aia il ettraito dieK* ^i'inclr proprio : egli vi d una parte della sua ri-piitai^we^^ cie ti concede d' essereimpulHo, af finch Io crediate in lega col ministro' d'AiagteMU in somma quatti .ad ogni istante si scorge che ^ ttMini iielle loro pretensioni sohcf p^ iirragione* voli di que'facchini che seqtendo a lodare le belle sonate d'un organista, si gloriane d'avere levato i mantici. A^'^Aeciocch i giovani non prendano abbaglio, far >dHervare ebe il vantarsi d'essere i'amioo di qiiid(die persona virtuosa od altrimenti stintiablle, qtiando 10 si  veramente V non  un vanto irsagtonevole oftie gli anteeedenti -, giaeeli le petiOfle YMMia^ le stimabili non concedono la loro amicizia^se non 11 persone eh' elle stimano.  >r . / pregiudizi comuni. QuSIft torgent^^i ri* dicolo non ti pu mancare se ti trovi in compagnia di donneeiuole; giaeeh ae pe)r ea. 'favai oggetto del discorso un male 0 l'altro, esseti spac^i^attno tosto de'rimedii simili a quelli del medico Quinto Sereno, il quale, per guarire t quatwia ' j^neva sotto il capo del febbricitante il quarto li%fo eir Ilade. Contnua tu la storia dellegaia* lattier ed fisa Mtttiiuieraiiil^ dei recale che ti farebbero ridere, fossi anche moribondof/ Mi  stato di^and^to se e come si pu iotrat* teimrsi e ridere eofievj^aeecherew yeramente il problema  un po'difflcile, ma se il'tettora premelte di noa tradisuii) gli affider il Le pinzochere chiamano chiunque al loro contoitton^e; e il. loro eootoi^ cresce in ragione delle persole eh eoodamano; ^ Quando adunque mi .tcp vo in compagnia d' una di queste signore, le em^to avioti ' una ventina di peccatori per te meno, e tutti colle loro colpe sulla fronte : qui si;iegge rnode^ ik ietfo^ pi Jungi pas^eggiy smmii "La vista di questi piaceri, a cui per motivi rispettabili, madama ha rinunziato, riscalda la sua bHe; quindi eceolar assisa pr tribunali, e scrivendo sentenze da Radiunante, colle mani e co'{icdi eac* la tPotw* filpifi poveri profiud. -Appunto perch so che la pinzochera  ineso-. rabitef io mi interpongo e chieggo piet ora per Vhi^. ora per rsAtro : tento Tapologia della moda; dimando qualche tolleranza pel teatro; il concerto dlie (Sfere mi serve ja difendere i ^oni, gli au gelli vengonoin soccorso de' canti ecc.; succede dunque una contesa tra il giudice e V oratore, e coi {a siession. criminale continua^ gicoh ie, ob* bieziofifi ragionevoli ed a proposito sohq uhq sti"molante DELLA CONVERSAZIONE. E eieoofm lo zelo di madama  . scevro di mallaia, quindi riscaldandosi ella facilmente, ini permette di i^ere n$l/wdo delsuo euHmof ravviso allora sotto tinte superstiziose quelle false idee che leggo in alcuni libri sotto tinte poetiche, ed imparo a stimarne profondamente gli autori! Crescendo il calore di madama, io diminuisco; l'opposizione, e le lascio assaporare il piacere d'avermi persuaso e vinto : in questo modo usciamo dalla conversazione soddisfattissimi entrambi, ella di me, ed io di lei. Gli sforzi per comparire ricchi; del che vedi un cenno alla pag. 89, .Baster qui il dire che il ridicolo in questi casi cresce in ragione della differenza che passa tra l'apparenza e la realt, sicch il massimo ridicolo ci verrebbe offerto da. colro che imitassero i comici di campagna, i quali, dopo d'avere rappresentato Cesare e Pompeo, muoiono di fame. La saccenteria la quale si  di due specie:), appartengono alla prima quelle persone che, non^ facendo mai uso del loro giudizio, spacciano le idee altrui senza discernimento e come proprie. Molti vedrai che proferir non sanno ^ \% '  Mai sentenza da s; corrono in gra'^ Per la cittade di pareri a caccia;, 1 Intendimento  in casa lor, da cant 3 Mobile disusato e inutil ciarpa. L'opinioni pi travolte e false  Succian avidamente, e a grande onore. Premon la spugna ad opportuno tempo, E fan lago d'umor sorbito altrove. La seconda specie di saccenti contiene que* cerretani che, forniti d'un capitale scientifico come 10, fanno pompa d'un capitale come 100, e otten-,gono facile credenza prineipalmeate presso le donnicciuole che pizzicano di letteratura. Non basta, dice Gozzi, l'aver buone merci V nella bottega; ma il saperle mostrare  di grande utilit. Succede a'ietteral, quando sanno acqui starsi l'opinione degli uomini, quello che accade > a qualche benestante o giocatore, che se il primo  ha tremila ducati d'entrata, si dice cinquemila;  e se il secondo ne vince cinquanta, corre la voce '^di cento. Cos se l'uomo di lettere avr buona V maniera d'insinuarsi nell'animo altrui, non vi sar cosa al mondo che non si creda eh' egli i^intenda. Una cos fatta avvertenza fu buona in  ogni tempo.  vero che secondo i costumi del> l'et e delle nazioni la fu anche diversamente  posta in opera. Ma che credete che fosse quella  ruvidezza d'Antistene? Che quel mantellaccio, quella valigia, quel bere con le giumelle, e la casa nella botte, e le altre poltronerie di quei  malcreato di Diogene? Non altro che un saper  vendere le sue mercanzie. Perch quando uno f a con una certa signoria d'animo quello che gli ^altri non usano di fare, tira gli occhi di tutti a * s, e a poco a poco la maraviglia. Aristofane V che intendeva le cose pel buon verso, e diceva " al pane pane, per aprire gli occhi agli Ateniesi, , volendo far conoscere l'artifizio di certi studianti,  li fece comparire sulla scena magri, smunti e ^ del colore della terra, che pareva che si fossero  distrutti a studiare; poi le loro dottrine erano,  quanto spazio salta una pulci, e se la zenzala  ha la tromba nella gola, o, con riverenza vostra, di sotto. Le industrie d'oggid non istanno V pi nelle goffaggini di Diogene, o nel colorito  della faccia che gialleggi. Non importa pi che '  i letterati siano magri o scoloriti, no; ch ce  ne pu essere d'ogni corpo e d'ogni colore; solamente  necessario un poco di baldanza per  dar cognizione di s al mondo.  vero che per  rendersi baldanzoso bisogner prima invaghirsi.^  del suo fare e del suo dire; e a forza di dare  ad intendere a s medesimo, che si sa, comin> fciare a crederlo finch la coscienza noi nega pi, e allora poi darlo ad intendere anche ad altrui.  Poi entrare in ogni ragionamento tanto animati,  e tanto a bandiera spiegata da far credere che quello che si dice abbia proprio la radice nel rintelletto, e sia studio di tutta la sua vita.'  Qualche picchiata agli autori pu ancora giovare, M Verbigrazia, se un dice : Come vi piace l'opera' '  del tale Non ho avuto pazienza di leggerla. ALIGHIERI (vedasi) .J  rancido. PETRARCA (vedasi)? Troppo lavorato;> poi malgrado gli so, perch ha fatti tanti Pe trarchisti che sono una noia. L'Ariosto? Divino;  ma molte volte d nel basso che m'uccide. Il  Tasso? Semper corda oberrat eadem. Insomma  eir come dice Leopardi: a Vuoi tu parere un' arca di' scienza ? Biasima sempre, e vedrai la brigata  Starti d' intorno con gran riverenza.   Un grand'uomo, un grand'uomo  costui, dir la brigata, che conosce dove sono difettivi gli  autori. Proviamolo. Si ragiona di questo mondo  e dell'altro. Su due piedi l'uomo ha da saper  rispondere tanto del corso de' pianeti, quanto sentenziare deiinitivamente delio arricciare ca pelli; e s'egli ha grande animo, sempre terminera col dire : In un mio Trattato spero di far  vedere al mondo eh'  goffo. Le signorie loro  tra poco vedranno l'opinione ch'io tengo sopra  ci in un libro che quasi ho terminato: per modo  che empiendo il capo de' circostanti di sentenze,  di libri e di simili abbondanze letterarie, egli   impossibile che quando prende licenza dalla com pagnia non si bisbigli : Oh che uomo ! Oh che profondo sapere ! Costui  una libreria che cam mina. Una stamperia che tira il fiato.  Ma se ti  permesso di ridere delle stoltezze degli uomini, come gli altri ridono delle tue, la pulitezza vuole che il tuo sorriso al loro guardo s'asconda, e che, d'ogni malizia spoglio, non sia diverso dal sentimento che eccitano in te due puU. Cini che vengono a contesa. /, giuochi di societ. Classificazione d*giuochi e vantaggi. Da un lato non  sempre possibile nelle lunghe sere iemali alimentare LA CONVERSAZIONE con soggetti nuovi e interessanti; dall'altro il discorso pende naturalmente alla satira. Ora  meglio giocare che annoiarsi,  meglio giocare che maledire  purch regola si serbi e misura. Le jeu ft de tout temps permis p9ur s'muser; Oh ne peut pas t^mjours travailler^ prier, lire; // vaut, nieux s'ccuper  jouer qii mdire. 1 giaoehi poksoAo esher indotti a cpiattro-elattf: La 1. esercita le forze corporee (per es., il orso, la lotta, il pigiato eec^. ) La 2.^ esercita le forze intellettuali ( per es. gli teaochif vari! giuochi colle carte; eec} La S.* lascia Inerti le fonie corporee e intrilel tuali (per es. i dadi e tutti i giuochi d'azzardo)^ La . 4 esercita coDtemporaoeaoieDte le forze fi siche e tntellettualf in diversi gradi,e In parte anco dipende dall'azzardo ( per es. il giuoco della palla  cavallo^ del pallMe.eo'piedi ecc.). I*r?{^ volanti divertono nel verno tutte le corti d'oriente: vi si appendono de' fuochi che seml^rano astri in mezeo al cielo. Quello del i di Stam^ smpre in aria ciascuna notte, e i mandarini ne tengono alternatvamente il cordone. In Itlia querto diiier^ timento  rimasto ai ragazzi ne'giorni festivi d'estate e nelle ore pomeridiane, e unisce il piacere deHa vista airesercizio delle membra (t). * L' opinione comune vuole ( ed io l'aveva segnita Bell0 antecedenti edizioni di questo scritto ) che Fuso delle carte da giuoco fosse ignoto pria del XV secolo, e che ne sia stato inventore Gi* cornino Crtn^nneur, pittore di Parigi, verso la fine dei secolo XIV. Pare che non si possa dubitare della (!) I cervl-volanU meritavano una menidone pnrtlcoIw?c, |H9cch la loro storia  unita a quatta deU' el^tlrieit. falsit di questa opinione allorch si legge il manoscritto italiano del 1295, citato dal Tiraboschi e dal Dizionario della Crusca, nel quale si parla del giuoco delle carte, come gi largamente diffuso in quelTepoca. Forse ella  questa un'invenzione asiatica come il giuoco degli scacchi. Che che per sia della sua origine, egli  certo che le carte, ugualmente che altri piaceri innocenti, censurate caldamente da' predicatori, proscrtte con pene rigorose dai governi, resistettero a tanti nemici potenti congiurati contro di esse. Dopo che l'esperienza e i progressi dell'economia politica hanno insegnato ai governi a trarre un partito flscale da ci che avevano inutilmente proibito, le carte da giuoco godono, per cos dire, d'un esistenza legale, impinguano il pubblico tesoro, occupano alcuni fabbricatori, e il piacere deglr uni diviene sorgente di lavoro per gli altri. Le carte formano parte de' divertimenti delle quattro parti del mondo. Le prime carte differivano dalle attuali nell'apparenza e nel prezzo; esse erano dorate, e le loro figure dipinte e alluminate, sicch la fabbricazione richiedeva talento e lavoro particolare; quindi ne era alto il prezzo, in conseguenza raro Tuso. L'invenzione delle carte introdusse de' cambiamenti ne'modi di divertirsi. I differenti giuochi a' quali esse aprirono il campo, costarono pi tempo che dertaro; quindi anche nel loro abuso furono meno fatali de' dadi. In generale i giuochi d'industria,  quali appartengono alla seconda classe, possono essere utile e innocente esercizio allo spirito di combinazione  ed io dir francamente alle madri: Se il vostro ligliuoio  stupido i inspirategli qualche gusto pe^ fuochi d'industria; k vanit punta ed aaiouAa ^Ue vaende delle pmlile a deHe Tioctto risyegl Tattenzione e d qualche iittivit allo spirito. Aggiungete che una persom ohe UM sa gioem^ costringe altre due o tre a rimanere oziose come eis^ in una coaversazione. r o: Additando i iWDtaggi det giooo tm paioob al bisogno d'intrattenersi, non intendo di vantarne la passioiie^ amo ehi addita i pragl4el vino, iolande di gkistifioare rubbriaebeeza.. : vi .v>iJE che dite dei degli scacchi?  Quello earia  mutile JiilfatteDHMBta ai kh  gegnoso (risponde il Castiglione); ma parmfebe  un sol difetto vi si trovi; e questo  che si pu  sapera^ troppo, di modo che a cui vuol ^ssaere  eccellente nel giuoco degli scacchi, credo bisogni  consumarvi molto tempo, e mettervi tanto studio 9 quanto ii^ vatsse^iiiiparar qoaiehe wbil aefeaza,  o far qual si voglia altra cosa ben d'importauiia;  e pu; d utolme^ etn tanta letica, non w altep  che un giuoco. GU^^fOiiiAi^gi^o^i qtiai eh' essi siwa^ purch noi! eseati 'dal liaMi . della deeema^ s$ao imta pi pregiabiUy quca^o maggiore esercizio offrono ^iifoftj%roei;iqipHfi^^ alU/0rze^istellet' tuali; quindi tra tutti i giuochi t meno pregiabiii e i pi^daiinoat aooo i giuochi d'azzardo.: ^ 'Regote di civilt nel giuoco. iVoti mQSif4Ue mal umore se vi. toccano cat' ibe coorte o se perdete; giaceb, altvimenli facendo, dareste a divedere che la vostra tranquilK pu essere turbata da un'inezia, e cte apprezzate WfmhiiaMnlle una pieeola niQneta . If Nm siate troppo fento nel giocare, sia per non dar prova d'inerzia intetlettpale, sia per non Se il vostra compagno commette degli ^rrorif &rreggetelo on gwbo^ iberna fare schiaiNMS^ 6 dar wgM 4t troppo dispidoere R che violerebbe la prima regola; d' altra parte dovete fiewdarvi di ^fuiatli %t eonunetlete steas. Se giocate con persone schizzinose, difendet il vostro diritto seaza riscaldarvi e soprattutto iiM paifo iSniiiKe; #^ Ae^po 'a?^ sposto }e vpstre ragiooi) cedete con beila maniera. Io gico per diletto e per conforto; chi vuol far quistion vada aila^guerr^ E giuochi ad ammazzare o ad essr morto. Non moxtrMe ecee$soa ^ili^rwsa fpumdo vincete, s percb Waii^prez maggiore dell impmtattca eila Msa t dtnot picooiMza di apicito s perch la vostra allegrezza produce nel perdente im (dispiacere pi sensibiie d^a perdita,. ed  riguardato cornai m prmo''gmb d'iMuttOk Infetti nissuno ama di perd^e a nissun giuoco, non tanto per h^resse guanto par amair propria; giaacb dalla perdita risultane idee umiliamli eeonlrarie aii/opinione abituale die ci3scuno arasi formata in mente della stia destrazza e della sua fortuna. Vod* taire, bench uomo di spirito, o perch uomo di . troppo spirito, non poteva tollerare il padre Adam, quando guasti lo vinceta agli scaccili o al t* ie;lardo. Un principe assiro uccise il Aglio di ^>o Jbyas alla i:accia, pereb quel giovine era riuscito a ferire un orso ed pn (ione, contro tsni il pnriiicipe aveva slanciate le sue freccie inutilmente. Un uomo probo non si permette la minima sperchieria nel giuoco; egli vuole poter dire io non ho fraudato giammai, senza che la coscienza Io smenta : egli tem che V abitudioe d' ingannare neHe cose piccole diminuisca la sua delicatezza nelle grandi. Ogni frode dovrebbe essere punita- clla perdita una, due o tre partite, secondo la sua impor* tanza, ed a giudico inappellabile d^gli astanti. La somma giocala deve essere tenuissiha e sempre inferiore alle finanze del men ricco tra i giuocatori; altrimenti alcuni non giocheranno per non resbr esposti a gravi perdit, altri giocheranno con grave loro daqoo per non comparire spilorci: Tono e l'altro caso annuUa il piacere delibi CONVERSAZIONE e lo deprava. Il prodotto delle vincite debb' essere mpSeguito 4Z vasutaggio tornirne; QUESTA REGOLA dimti)uisce il dispiacere delle perdite^ e neutralizza l'avidi del guadagno. Il tempo destinato al giuoco non deve superare i due terzi del tempo consecFato alla cw^ ireflsasione i e questa non deve succedere a ^ee 'de' doveri e degli affari di maggiore importanza. . X Jiton ai deve costringere con importunii ssamo a giocasi, come non ti deve oatriogere . jaissuno a bere. Non si devono accoppiare mi friwM >er* sos^ie nemiche o reciprocamente odiose. Egli  quf$ta un probienia tevoita dilGcile per la padrora iiratO TM di casa, e a scioglierlo beae ci vuole occhio Qao e pratica di aioDdo..  Lieto cos tra ramichevol turbai  L' ore dividi delle amene sere, )* E n'abbiao parte gli eruditi detti,   parte ancora al genial oe dona  Breve ommercio di piacevol gioco,  Cui mutua gioia e scarsa speme avvivi, > Ma sete d'oro non corrompa, o il renda '  Torbido e taciturno, e tal che dopo  Al vnto Insieme e al vincitore incresca. DOVERI NELLA CONVERSAZIONE. ATTENZIONE. Lattenzione ne' crocchi sociali si divide in doe rami distintisdmi* Il prim^ coDuprenda quatf a^ttnsa sansibiiil che immagina i bisogni deglastanti, li previene od asseconda; Il secondo oom|ltettde le affetftudini steHori dimostranti che Taitrui discorso occupa interamente il nostro anunob* L Supponiamo una signora, che, animata dal-, raoeenaata sensibilit dirige ufia CONVERSAZIONE, 0d serviaoMMie ^v%ibM^ La ptontezza era mii ella risponde alle dimande, vi fa supporre che la sua attenzione sia tutta ooeupata nelle risposte; V ingannate; ella si diiFd6, si moltiplica, ed  presente a tutti i pensieri degli astanti; non vi S&7 sfogge uno sguardo eh' ella noi vegga; non {orinate- tto degiderk) ch'elici non conosca} noa pfo^ ferite una proia eh' ella non ascolti; non v' ha individuo nella conversazioae eh' ella dimentichi iQ&tti ella vede l Ja un angola ehi wa paria per timidezza, 6 gh dirige con sorriso di confidenza una dimanda. Ella s'accofge^ che U discorso d;qualcuQ eomiaeiab ad annoiar la brigala, e gli . cambia cofx bel. garbo il soggetto tra le mani. Il vosl^ ^vvtirsacio vi stringeeoa afgomenti.iQealDt a segno che siete vicino succumbere; ella viene in ip(ra soccorro, con una celia. . Vi jsf ugg di bocca dna parola a cui sh d sinistro senso,? ella spiega la vostra intenzione e la presenta in beir aspetto. Cadeste per inavvertenza iiv uno sbaglio che pu divenirvi nocive ? ella vi trae d'imbarazzo colla sua presenza di spirito Uh Voi non ardite leggere una iatteira che vi viene pre^eotida/netta ewiversaziaiie; ella dimanda per. voi. il permesso agli astanti, pro^testando che ne conosce Timportan^a. Voi vorreste .partire e non osate; elja vi et rimprovero che 4ih 1 'Ferdinando VI re di Spagna, bench di carattere buono jed amano, era alquanto severo controquelli che facevano uso di tabacco proy[>ito. tJn gom in sua presenza un grande di Spagna trasse di tasca una scatola piena della polve proscritta. Il re slanci sopra di lui uno sguardo minaccioso. L' ambasciatore di Francia ( M.r di Duras ), accortosi della faccenda, s' avvicin alio Spaludo e gli disse: Ohi ecco la ndaia|iaocbierache V.E., per prenderai giuoco di me, mi aveva tolta. Questo felice espediente trasse d^ impaccio il reo 6 disarm il monarca. (NB. I membri del corpo diplomatico non erano soggelU alla legge della proibizione ). menrichiate i vostri affari pe'vostri amici, e v'ordina di partire sotto pena della sua disgrazia. Vinse ella,  vero, al giuoco, ma se la destrezza del suo compagno non avesse corretto i suoi errori, sarebbe rimasta succumbente. Quest'oggi ella  libera dalla sua emicrania e ne furono medicina i bei motti della scorsa sera. Osservate con quale compiacenza arresta di quando in quando il suo . sguardo sopra uu astante, e pare che la sua fisonomia s'animi e s'abbellisca : ne volete conoscere il motivo? Questi le present l'occasione d'essere utile ad un infelice. Senza pretendere dominio nella conversazione, sa dirigerla con destrezza, e quasi direi fa comparire sul palco i personaggi, restando essa tra le scene. Ella sa far valere ciascuno senz'aria di protezione, perch sa distribuire le parti secondo V abilit, il genio e i talenti di ciascuno. Voi avete fatta una bella azione, e non ne parlate per modestia; credete voi ch'ella non la conosca ? che l'abbia dimenticata? Aspettate che la conversazione sia piena, ed ella verr, per cos dire, a prendervi per la mano e vi presenter agli sguardi di tutti in mezzo ai raggi della vostra gloria. Parecchi scrittori che frequentarono i bordelli, hanno fatto la satira del bel sesso : essi avevano Nel testo ho abbozzato con lievi tinte il carattere d'una signora, la cui amara perdita lasci profonda sensazione nelr animo di quelli che ne ammirarono le vir : parlo della signora Marianna Morigi Rina. ragione : il primo dovere d' un viaggiatore si  d' essere esatto. A. chi ha conosciuta deile dooae che il flore delia gentilezza uDivana aHe fi- amabili virt, iocumbe l'obbligo d'esattew eguale. IL Mostrare che degli altrui discorsi nu ft dete una parola, e che le affezioni risentite che il parlante tende ad eccitare,  dovere si evidente, che. d' ulteriori schiarimenti non abbisogna dopo quanto  stato detto nel libro primo. Se npn mostra che il turbi o che il conforti Ci che sente chi ascolta, non dirai ' f O ch'egli  sordo o che poco gt' importi? Con somma attenzon dunque dovrai Ascoltar ehi proponga o chi risponda,, n Se avrai iuterrogato o se il sarai*  .se avversa al tuo genio o pur seconda Sar' la eosa iM^t di mei visito. Mostrare impressione aspra o gloa)vare la vitad  un uomo, mtre voi tentale di togliergliela : ignorate vo^  questa MASSIMA? La menzogna die frutta un bene, vale  pi della verit che produce un danno. Turenne avendo veduto nella sua armala un olBciale imesto ma povero, fornito. di cattivo cavallo, lo invitta pranzo, e dopo pranzo gii disse in disparte con speciale bont d'animo: io devo farvi una preghiera che forse voi troverete un poco ardila; ma spero che non vorrete ricali ltill alvostro generale, lo sono vecchio ed anemie malaticcio } i cavalli Uroppo vivaci mi ca^^ianano disagio e pena; voi ne avete' uno sol quale starei cmodissimo. Se non temessi di domandarvi un sacrifizio troppo grande, vi pregherei di cedermelo. L' officiale non rispose che con profonda. riverenza, and ^ pifendero il suo .cavallo e lo condusse nella cudfHriA di Turenne. ^ Questo generali^ gii sped il giorno appresso uno de* pi belli e migliori cavalli dell* acq^ta. gfO^re ch'egei si astiene dalle commi ^UHaipai a iBer di labbro^ no aeeompagnat A desieria d'eseguire^ e che si debbono chiamai'e r  YeiMi igafin in mmzognere offerte, r fissare sei^ro co' suoi simili  dtmenticare di quante qualit siamo sprovvisti, da quanti difetti funifflio lur^ervati dai solo azzardo, quanti oggetti, qpante circostanze sulle debolezze degli uomini influiscano. Ma per e^er buono non siate imprudente } e ricordatevi che la bont inclina naturalmente a giudicare gli uomini no quali som ma quali dovrebbero essere; la quale illusione se riesce.pia^ cevole, perch ci libera dalle spine della difliden^a, spesso di molti, e gravi sbagli  fonte.  8. Modestia^. Per Qiodsci inteiAlesi quella, virt, die si astiene dal prevalersi de' proprii talenti e della pr* pria abilit In modo spiacevole a^ j^ulli con cui viviamo. Ella  veramente una virt ^ gi^h riesce a reprimere la nittrale tendenza che spinge ciascuno ad esagerare i proprii pregi e farli sentire agli altri. ^ Io non credo ch'uom sia sotto la luna, Ch'il suo ingegno cambi^^e con PLATONE,  Quantui^ue egli non skppia cosa acuna. Perche a ciascun par esser Salomone,,   ui essenza^si giudica da tanto  Che meriti ogni onor da le persone. Quindi Timmodestia cresce in ragione dell'ign^^ . ranza, o per dir meglio del falso sapere; perci Digi vi,' la Bruyre dice : // vanaglorlosOy misto di sciocco e di petulante^ sta tra questi due estremi. Un giudizio troppo favorevole di noi stessi offende i nostri simili,  quali, volendo giudicare liberamente le nostre azioni, veggono con dispiacere che si assegni a se stesso nella loro opinione un rango o delle ricompense che essi non ci assegnarono. L'uomo modesto somiglia a que' fiori che umili steli tolgono all'altrui vista, e che solo il loro profumo fa conoscere. La modestia d ai talenti, alle virt, alle abilit quell'incanto che il pudore aggiunge alla bellezza. '  Ippolito, che si pi in l A\ tanti Fra lor che sanno, e di saper dan mostra, Mentre a te ignaro de' tuoi proprii vanti. Schietto pudor Tonesta guancfa inostra.   LaseianK), dice GOZZI, il commendarsi da se medesimi a coloro i quali, temendo di s e delle y> opere loro, tentano di sostenerle coi puntelli,  come gli edifizi vecchi e cadenti. Non sia disgiunta da noi giammai queir onorata modestia  che  condimento e grazia di tutte le virt, e ^> le rende pi care e pregiate. Qual baldanza, vi Lumilt, differente dalla modestia,  una qualit cha brama mostrarsi agli occtii altrui, perch, mostrandosi, In vece d' offendere la loro vanit, X adesca \ ella suppone per lo pi in quelli che la ostentano, un sentimento segreto d'amor proprio od anche d'orgoglio ch'ella si sforza di reprmiere, desiderando che le si sappia grado della sua vittoria. prego, sarebbe la nostra se volessimo privar le  genti della facolt di dare il proprio giudizio  sopra di noi ? Perch vorremo noi essere niae-^  stri a tutti coloro i quali ci ascoltano, e coniandare ad ognuno che a nostro modo favelli ? E se per avventura V intendessero altrimenti da  quello che andiamo noi vociferando di noi me desimi, che sarebbe allora ? Le nostre voci si  rimarrebbero offuscate nelP immensa furia delle  contrarie, e noi verremmo giudicati senza cervello. Quanto  a me, cos penso e tengo per  fermo, che far sempre inutile opera colui il  quale a dispetto di mare e di vento vorr essere  d'assai con la sola forza delle sue ciance.  r Giusta gli esposti principii, l'uso ha introdotto nel conversare socievole certi modi di dire che, lungi dal dare segno di confidenza eccessiva nel nostro giudizio, lasciano scorgere dubbio e diflldenz. Franklin ci dice che conserv T abitudine di non impiegare giammai nelle quistioni controverse le parole certamente, sicuramente^ indubitatamente^ od altre simili che il dimostrassero irremovibile nella sua opinione. Io diceva piuttosto, egli soggiunge i fo credo^ io suppongOy a me pare che la cosa sia cos, per tate a tale ragione: ovvero la cosa  cos, se non m'inganno. Prima di Franklin, aveva detto Monsignor Della Casa :  Bisogna che tu ti avvezzi ad usare le parole gentili e rao  deste, e dolci s, che ninno amaro sapore abbiano* e in nanzi dirai : Io non seppi dire, che Voi non m' intendete, j e Pensiamo un poco, se cos , come noi diciamo; pint:  tosto che dire: Voi errate, o E' non vero, o Voi non la Poich gli scopi della conversazione sono d'iVr^struirsi o d'istruire gli altri, di piacere o di per siiadere,  cosa desiderabile che gli uomini in- telligenti e ben intenzionati non diminuiscano n^vjl potere che hanno d'essere utili, affettando  d'esprimersi in modo positivo'^ presuntuoso che  vi|i9n lascia di spiacere a quelli che ascoltano,, e  non  proprio che ad eccitare delle opposizioni'  e prevenire gli effetti pe' quali fu concesso al . uomo Jl.s dono della favella/, tr r  Se volete istruire, ricordatevi che un tono af^, fejrmativo ^fidogmatico, proponendo la vostra -Ili sapete; perciocch cortese  amabile usanza  lo Incolpare M altrui, eziandio in quello che t intendi d'incolpaclo;^ anzi derlo. Noi errammo la via : e Noi non ci . ricordammo  ieri di cos fare* ^ome che lo smemorato sia pur colui A solo e non tu : e quello che Restatone disse ai suoi com  pagni non istette bene:  Foij se le vostre parole moi men' M lono n; perch non si deve recare ili dubbio la fede al > tmi: anzi, se alcuno U promise alcuna cosa/e non tela  attende, non ist bene che tu dica: Voi mi mancaste della ) vostra fede; salvo se tu non fossi costretto da alcuna necessiti, pr salvezza del tuo onore, a cos dire : ma se n egli ti avr ingannato, dirai : Voi non vi ricordaste di cos fare : e se egli non se ne ricord, dirai piuttosto : Voi non  poteste; o Non vi ritorn a mente; che Voi dimenUcastc,  o Voi non vi curaste d'attenermi la promessa: perciocch  queste s fatte parole hanno alcuna puntura e alcun ve  neno di doglianza e di villania; sicch coloro che costu  mano di spesse volte dire colali motU, sono ripulaU per  sone aspre e ruvide; e cosi  fuggito il loro consorzio M conie si fugge di rimescolarsi Ira' pruni e tra' triboli. S6ft  proposizione ^  sempre causa per cui si cerca di eontraddpvi'^ e pr non si^ aicoltato 1 con attenzione. Da un altro Iato se, desiderando  d'essere istruito, e di profittare delle coignizteiii  degli altri ^ to ti esprimete eooie pensona for temente ostinata nei suo modo di pensare, gli 9 MouNAt modesti e sensibiii che nm amane la H disputa, vi lasceranno tranquillamente in pos sesso de' vostri errori. Seguenda un metodo or- y> goglioso, raire volt potete speme, di piaeefs af  vostri uditori, di conciliarvi la loro benevolenza,  e di convincer quelli cui voi eravate vago di a9  aggradire i vostri pensieri La ragione non lia giammai maggiore impero che quaodo alla si presenta non come una legge che si deve seguire, ma come un'opinione che pu meritare d'essere esaminata; perci ne' crocchi di Filadelfia pagavasi un'ammenda tutte le volte die facciasi uso d'un' espressione decisiva.e dogmatica. Gli liQmini pii intrepidi' nella loro c^rtsasa 4^rano obbligati d'impiegare le formole del dubbio, e prendere nel loro linguaggio l'abitudine della modestia^ la quale, quand'anclie s*|uerestasse alle sete parole, L* abate Polignae sapava presedtave le ime Idee i^a aria s modesta e gentile, clieil Pontefice Alessandro VIU gli diceva: Voi sembrate sempre essere del mio parerei ma alla line de' conti  sempre il vostro che prevale. Luigi XIV, dopo d*avere ascoltato U suddetto abate sulla iegoziazkme Intrapresa  Boma per le celebri proposiztoid idei clero Oallleano, disse : R!l sono Inlratlenuto con un nomo, e glovre uomo, U quale mi ha sempre controddetUi c mi e smifte piaciuto, / ai* uno xiMa ^ * avrebbe gi il vantaggio di non offendere 1' altrui amor proj^io, ma che^ per rinfluenza delle i^aaroie MHe idee y m fiiialMefite etftfindent 4mU6 fltetse opkioai..Ii6 pmone gemili sapendo die ralttni wiit soffre allorch si vede convinta, sogliono terminare la contesa con una lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo icrtet dall'oppoeisimd, eh0 Ellero offendere il loro antagoniata,. che non si, vantano 4Mla vktona.C&a^imazi(me dello stsso argomento. Siccome T ombra sola della pretensione offende Faltmi amor proprio, perci i titoli di vano, suIUrb, anrogantef tallita si regalane a tollo^ a torto si dichiarano offensive le giuste ragioni con cai l'Qinocenza e il nierito rivendicano i loro. diritti. Costretto non di rado Tuomo grande ad imporre silenzio air orgoglio soperchialore, a conoscere d di* egli , sbalza nella tua possa e torreggia dinanzi alla mediocrit impertinente che vorrebbe avvilirlo. a Di modestia  Tempo or non , voce d*oner n'appella.  Infatti la vera modestia  eome la vera bravura, J quale non oltraggia giammai, ma sa rispingere gli oltraggi y fuorch quelli che. li fa non sia vile  segno da non meritare che disprezzo. Chi avrebbe potuto tacciare d'arroganza Cicerone, allorch, totnato dall'esilio, pregiavasi d'avere salvato gli Dei del Campidoglio, il Senato dalla vendetta di CATILINA, il popolo dal giogo e dalla schiavit ? Non era egli giusto che mostrasse a'suoi nemici il suo Dome cancellato, i suoi, monumenti distrutti, la, sua casa demolita, e c6l peso della sua gloria gli opprimesse? I^aseiando da. banda il caso assai rara di CICERONE CiceronC) e consultando la giornaliera esperienza, vedremo che ^Uotdi.. l'esternare giusto sprezzo per gUr aUH e giusta sHtim pcts^  gittstij^ato, ^alr altrui insolenza. Gbe cesa dite di quelH ohe scrivono la propria vita? Il severo Tacito non ha osato fare rimprovero a parecchi' famosi ingegni dell' antichit, che le loro gesta pubblicarono, non per ostentazione e Un prelato cortigiano, il cui merito consisteva ne'suoi avi, ccedevasi disonorato vedendo in Flechier un confratello, che Dio aveva fatto eIoqu$inte, caritatevole, virtuoso, ma non gentiluomo : egli era ^sorpreso che Flchier fosse passato dalla bottega de* snoi paventi affa ^e tescovfle, ed Mie r impertinenza di dirglielo : Con questo modo di jwmare^ rispose il vescovo di Nmes, temo assai che se voi foste nolo f ai posto m cui io aono^ rum ne feski disceso far delle eandU Anche H lareseiall de la Feutde, tanto pi soper cliialore con quelli che credeva inferiori a s, quanto pi era vile alla Corte, disse al sullodato Flechier, eh' egli non' era a' suoi ocelli che un meschino borgliigilino di Nimes, e SQg^nset Gmmdt ehs vostro padre sarebbe 6m sr^ preso nei vedrvi d che voi siete. Forse men sorpreso che non vi sembra^ rispose il prelato, giacch non il figlio di mio padre^ ma io^ fui fatto vescovo.  Il diritto di difesa giustificava questa risposta; poich l' alta opinione che U buon vescovo mctetiava di s, oltre d' essere fondata sul veiO} ten deva a reprimere un ioigjusto 8pcegio arroganza ma pr quella tonfideasa the .la 'pvobit inspira. Alfieri che ci ha lasciato. la sua vita confessa candidamente che il parlare e molto pi lo scrivere ^.^i se sl^esso nasce da molto amor, di se stessa. '^kipo questa ingenua confessione rautece giustifica * la sua condotta nel modo segunte: '^-Avendo ia oramai scritto naolto, e troppo pi forse che non avrei dovuto ^  cosa assai nturate che alcuni di quei pochi a chi non saranno dispiaciute le mie Opere ( e non tra' miei con^,  temporanei, tra quelli almeno che vivran dopo ), avranno qualche curiosit di sapere qlial iiano U medica in rrocato^ lo stampatore in consigliere, ll^canieiioe in arlecchino: raccontano fatti che l' opinione locale smentisce, citano libri di cui non conoscono il frontispizio, alterano le date per creare odiosit od affezione, censurano quelli che non li pagano, vendono le lodi a tre centesimi per jMigina, gindicano ^ af-* lui coir acume della stupidezza, parlano degH uomini come ne parlerebbe un Ourangoulangh, ecc. ecc. : speculazione libraria che n d, ne toglie riputazione, perch nissuno guarentisce n i fatti, n i giudizii, ma che pu far ridere sinceramente le persne di enno, giacch le persone di senno hanno diritto di ridere, quando veggono lin' impsta icfAi credulit^ sidV invidia e tuUo $pitii0 di fmrUio ^ affezioni tanto pi pronte a pagare quanto pi. goffe son le menzogne die lor $i vendono molto schizzinosa su questo punto: gli uomini,  non osando lodarsi in pubblico, si adulano pi  liberamente in segreto, e s credono in diritto  di risarcirsi della loro Onta modestia col detrarre'  alla fama degli altri. Cos non abbiamo guada-*  gnato che virt apparenti e vizi reali.  Eccettuati i casi di difesa accennati di sopra,' a me pare che il giudizio di Cesarotti dia in falso; giacch chi vanta i proprii meriti, in vece di far^ parlare gli altri a suo favore, li fa tacere; In vece di farsi degli ammiratori, si fa de'nemici; quindi il dignitoso silenzio della modestia sar sempre preferibile: II merito pi grande  il pi modesto. Se facesse d'uopo confermare questa idea popolare con autorit, sceglierei tra gli antichi CATONE, il quale, a detta di SALLUSTIO, faceva grandi cose senza menarne rumore, e avrebbe potuto dire : a Cedo a tutti in parole, a nullo in fatti. Tra i moderni v' additerei il poeta Despraux, il quale, eccitato da un incisore a far qualche verso pel suo ritratto : Io non sono s malaccorto, rispose, da dir bene di me, n s stolto da dirne male.  6. Rispetto ai pregiudizi. I giovani non conoscendo ancora per esperienza quante passioni vegliano alla conservazione degli errori, ignorando che tra gli errori v'  una fortissima lega, e tale che scotendone uno, gli altri si risentono e CQjrrono in difesa: i giovani, dissi, si danno a credere che ogni verit potssa essere, sRa- presenza di chiunque proclamata, e fanno le maraviglie se pi ostacoli le si oppongono. Come inafi ha (iNDlnto il sensate Bandi riguardare il rispetto ai pregiudizi come un legame inventato dai eapriccio e dalla moda? Se qualcuno, entrato in una moschea zeppa di adoratori di Maometto, grl-> classe ad altissinia voce che Maometto era un impostorcr credete voi. che farebbe HK>lti proseliti, e che non verreUe in pezzi dagli astanti? Ma senza anco voler calcolare i danni cui si espone ehi spaccia una verit imprudente, fa d'uopo con-f venire che, offendendo i pregiudizi contrarii, non le rende pi agevole la strada^ ma pi scabrosa. Ella  infatti cosa difficilissima il convincere un' uomo dopo che abbiamo offeso ilsuo an^or proprio, ' Se il -sole, dice d'Alembert, ^lene ad illuminare in un istante gli abitanti d'una caverna oscura, e dardeggia impetuosamente i suoi raggi &m loro occhi non anco disposti e preparati, e quindi gli irrita soverchiamente, render loro per sempre odioso lo splendore dei giorno, di cui non conoscono ancora i vantaggi, mentre sentono il dolore che loro cagiona. Se ai contrario introducesi in questa inverna un debole raggio che per insensibili gradi vada crescendo, si riuscir a dimostrare il pregio della luce, e gli abitanti stessi ne branieranno l'aumento. Per la medesima ragione conviene rattemprare la luce dei vero, ed aspettare che rintelletto a poco a poco si sciolga dalle false idee che l'ingombrano, divenga gradatamente pi forte. I s' abitui e s' addomestichi cpl nuovo ospite f^he non conosceva per anco. Pretendere che tutti gli intelletti ammettano tosto le stesse verit,  pretendere che tutti gli stomachi digeriscano egualmente le stesse vivande. La pulitezza vi fa dunque un dovere di conoscere il carattere personale e la situazione sociale delle persone che al solito crocchio concorrono, acci le vostre idee ed affezioni non vadano a dar di cozzo contro quelle degli astanti, e con reciproco risentimento rimbalzino. F'lo alle antipatie. Lo sprezzo che merita la vile adulazione ha in-, dotto a fare distinto elogio della franchezza, e come virt assoluta raccomandarla. La massima di velare le proprie antipatie, come quella di rispettare i pregiudizi,  stata riguardata qual legame inventato dal capriccio e dalla moda da pi scrittori. Si dice che dass prova d'integrit allorch la lingua ed il cuore essendo d'accordo, le parole rappresentano i sentimenti. Ciascuno per altro s' accorge, o sente almeno confusamente, che se merita sprezzo un cortigiano che ci protesta stima, affezione, amicizia, mentre nell'interno dell' animo egli si ride di noi, merita disprezzo maggiore un cinico, che senza necessit viene a dirci: Io v'abbomino e vi detesto. Dunque tra la menzognera adulazione e la frani chezza eccessiva vi debb'essere un mezzo. La necessit di questo mezzo  dimostrata da tre ragioni. f i. L'amor proprio di ciascuno, costantemente avido di farsi degli amici e degli ammiratori, agevolmente lusingasi di ritrovarne dappertutto, e sente in lui sorgere e crescere il dispiacere in ragione delle persone da cui si vede sprezzato. Il dispiacere risultante dallo sprezzo  copiosa fonte d'antipatie, animosit, odii, e perci di gravissimi danni sociali.-Noi c'inganniamo sovente nell'opinione che concepiamo degli altri, e pi volte siamo costretti a ritrattarla V senza riuscir sempre a giudicare pi sanamente. Laonde quando alcuno, giusta l'interno suo sentimento, dice ad un altro, Vi sprezzo,  sempre certo che gli cagiona un dolore, non  sempre^ certo se colpisce nel vero, -^y, Ora, escluso il caso di necessit, fa d'uopo essere 0 crudele  pazzo per cagionare ad altri un dolore' che pp essere ingiusto, e farci un nemico che pu riuscirci funesto. ^i^V'-Alcuni dicono: Da un lato v'  smpre piacre neir esprimere i sentimenti quali nascono nel nostro animo, mentre si prova pena nel reprimerli; dall'altro noi non abbiamo bisogno di nessuno*f^i Di questo raziocinio la prima parte  sempre vera, ma la seconda  sempre falsa, finch re^* stiamo nella societ. Voi non avete bisogno di Pietro, e forse senza danno presente o futuro potete dirgli : Ti disprezzo; ma la faccenda non va cos con tutti gli altri uomini. ntrate in una CONVERSAZIONE con quella franchezza encomiata da alcuni scrittori, e presentandovi successivamente a ciascuno, dite a questo : Voi pretendete di piacere a tutti, e tutti si ridono di voi;  a quello : Voi siete s sciocco che m'eccitate compassione;  a un terzo : Non saprei dirvi il motivo, ma sento ars avversifte Contro di voi, ecc. Se voi cos operate^ 'mi par certo che tutti s'alzeranno per cacciarvi' fuori della conversazione a ceffate; e vi succeder lo stesso in tutte le altr. ^^'o^mii ' La franchezza non consfete nell' offendere inu^ tilmente l'altrui amor proprio, ma nel difendere con coraggio i dirtti deWinnanit contro r orgoglio che li calpesta^ e nel convenire de'prqpri difetti ed emendarsene. ' / ^,iliisidu6m;2 In vece dunque di dire al giovine : Alza il vlo che copre il tuo animo e mostra a tutti Podio/ lo sprezzo, la noia, il dispiacre che in te producono le loro debolezze e i loro difetti; gli dir piuttosto :; Jpl^; Uflf' lato sii pronto a compatire le loro debolezze, dall'altro non crederti infallibile j ne'juoi giudizi. L'uomo franco pu conservare. il j suo sentimento senza offendere l'altrui amor pr =5 prio; non si deve offendere l'altrui amor proprio se non in vista d'un vantaggio maggiore, come nnr si taglia una gamba se non per salvare la vita. Mi spiegher meglio con un esempio: ^ Uno de'confratelli di Guettard lo ringraziava un giorno perch questi gli aveva dato il suo voto 4 allorch quegli fu accettato membro dell'accadenriia delle scienze, roi non mi dovete nulla, risponde il botanico : s'io non avessi creduto che era giusto it darvelo ^ non r avreste avuto ^ giacch io non v' amo. Questa risposta, bench lodata da Condorcet mi sembra riprensibile, perch gratuitamente offensiva. Per quale motivo cagionare un disgusto e dire, non v'amo^ a chi viene a protestarvi un sentimento di riconoscenza.^ Se Guettard. avesse,SW' d(^V Nl^ire tt 'mi^i^ te eoasult te gisUza e niente altro; non ringraziate ddnqii me^. ina voi stess, giiceb se nra avessi creduto cto lo meritaste^ ndw ?irfcM vto; sapr il giovine adescarla con garbo senza compromettere la dignit dell'uomo; ritrover il limite che separa la dissimulazione dalla simulazione, e idalla vile falsit si terr lungi ugualmente che ridalla sincerit gratuitamente offensiva. Dapprima, in vece di mostrarsi stupido e silenzioso alla vista dell'altrui nierito,, il giovine ne sar \ pronto encomiatore, esternando gradi di sti?nu proporzionati alle qualit utili e lodevoli, associando alla stima gradi di rispetto, se di particolari virt si tratti e di grandezza d'animo; in tulli i casi egli procurer che il sentimento rappresentato da' suol atti e dalle sue parole s'avvicini i quello che gli altri vogliono ritrovare in lui, non dimenticando che quando s tratta di riguardi; e men male peccar per eccesso che per difetto. Sta dunque attento nel passar del guado, ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli, Da cui scampano pochi, o almen di rado.  ft ben che in questo mar la nave sciogliCol rischio a destra ed a sinistra, ancora :^  Salvar ti puoi, se il mio consiglio accogli. . Va per la via di mezzo, e se pur fuora ^.;vDel relto calle fantasia li mena, . AH pilo, e non al basso tien la prora.  ' d'avvilirsi^ isostrndosi indulgente alle umane de^lez29e, aUor][i nmaa dmm ne risulta^* EUa^Mft isdegna A tendere agli altri tach d pi di quel,c^e hanno diritto d'esgere, sapendo ejie nel com* smercia Le aote anima ficoole^ jpqtttfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando come furto fatto a se stesse lutto ci (^p c(NMdoiif^ figli aitai > Ungot gooliaf^^ l tfiiancia in mano per pesare a rigore ci che 4!^oiiq| fat^f^iiidaie o musare:  sg^s^ sotto pr^ testo di non degradarai, si imlmiio*iiliiv^tlaeif|i .(^io^Q usfmli e inferiori. I Lacedemoni, che- neri peccavano per eccesso di bassezza, hanno lasciato un beli' esempio dell' indulgenza che si debba alla folla de' grandi. 41e^s^^o piccolis^iiaio, qMlido pladava drenare figUo 4i Giove, e JHo egli stess, ^ireeheper Melo rieooosotaeiDo tutti gU 8ta(l.ella Grecia : in occasione d queste pretensioni i Lacedemoni fecero il eguente decreto, veramente laconico ~ Poich Alessaneto vuol essere Dio che lo sia. ' . Attai meao ladolgeiito si moslfl FilosseiMr een Dioiiigi fttotteo. Questo ttasniio, peidi era vtf laceva de*very, pre* tendeva al vanto di pela. Ef^li prff^ un giorno Filoss^ne a correggere una sua opera teatrale; e questi, avendola rappezzata e rifatta 4al primo verso air^Himp, il re lo condann alla lettere, ^acci- fi Imipamse a rispeltase ia regia pc^la. li gim sussegniYte^ tra(todi cacGasKe,^K>'amiiiis8 alla sua mensa, e liniio il pranzo, dopo avergli fettOfaleciDl versi, gli domand il suo parere. Il ponila, senza rispon iV?^ Raccomander finalmente ai giovani di non imitare la vile e perfida condotta di coloro che lodano alcuni collo scopo di denigrar altri. Ih ciascuna carriera alcuni personaggi distinti occupano gli sguardi del pubblico : cbe cosa fa V invidia per defraudarli ? Suscita loro de'rivali, colma di lode degli imbecilli che appena hanno il senso comune, e si sforza di ripeterne i nomi, acciocch il pubblico s'induca ad occuparsi di essi e dimen-,/tichi i primii -^^Nel corso della giornata si riproducono ad ogni vistante de' casi, ne' quali alla sola azioiie d'innocente lode si pu ricorrere per conseguire l'assenso di alcune volont, e diminuire la resistenza di altre; perci ad esercizio de' giovani soggiungo i seguenti problemi, ciascuno de'quali ammette, col dere, si rivolse alle guardie e disse loro: Riconducetemi in ctarcere. ^f-^u i Un uomo ^11 pirilo nel case di Fllossene sarebbe uscito d impaccio con una celia. Infatti la condotta di questo poeta sarebbe ammirabile, se si fosse trattalo d'una cattiva legge od alli-a operazione daivosa al pubblico; ma scegliete jl carcere pcrcli un Uranno vuol essere poeta,  paizrja. Maggiore imprudenza commise rarchitelto Apollodoro, il quale, sapendo quanti l' imperatore Adriano  avido d lodi, critica un di lui tempio in modo un po burlesco, osservando cbe se gli Dei e le Dee si fossero alzale in piedi, si sarebbero rotta la testa nel soffitto. Questo scherzo gli cost lii .vita. 11 quale fatto  dice che i coltivatori dozzinali delle belle arti hanno una vanit atraordinaria, superiore a qualunque sentimento^ e capace di sacrifico'c la slessa amicizia, mezzo della lode, soluzioni indefinite nelle varie circostanze sociali. Disarmare la collera. .Aureliano faceva rimprovero a Zenobia, perch non aveva riconosciuto glimperatori romani. La principessa lo calma, dicendogli. Io riconosco voi per imperatore, voi che sapete vncere. Galieno e i suoi pari non mi sembravano degni di questo nome. Addolcire l'amarezza d'uri rifiuto. ( il gran Cond, pregato dalle dame di lasciarle uscire da Vezel ch'egli assediava, prevedendo che Ja loro uscita ritarderebbe la resa della piazza, rispose che non poteva acconsentire ad una dimanda che del pi bel frutto del suo trionfo lo prive, rebbe., Accrescere pregio ad un favore. Luigi XIV nominando al vescovato di Lavaur Flechier, che predicava alla corte, gli dice: Vi ho fatto aspettare alcun poco un posto che meritavate da lungo tempo, ma non voleva privarmi cos presto del piacere d'ascoltarvi. ) ' elare il lato offensivo d'una verit. ( Despraux interrogato da Luigi XIV sopra alcuni versi da lui composti: Sire, rispose, nulla  impossibile a Vostra Maest : ella ha voluto fare de' cattivi versi, e vi  riuscita. ) Un soldato francese si faceva chiamare col nome d| Turenne, celebre maresciallo di Francia: quesU mostr d'esserne ofifso: il soldato rispose: Generale, io sono invaso dalla gloria denomi: se ne avessi conosciuto uno pi bello del vostro, l' avrei preso. L'uso della lode  ragionevole finch, fondato sul vero o verisimile,  stimolo o ricompensa ai talenti, all'industria, alla virt. L'uso della lode  riprensibile quando o fondasi sul falso, 0 di gran lunga oltrepassa la misura del merito encomiato, e allora dices adulazioil Vi sono de'Iodator eterni, i quali non vi danno una lode fuggiasca e dilicata, ma vi inondano e opprimono d'elogi; e ci per ogni inezia, ad ogni istante, alla presenza di qualunque persona; cosicch se non rispingete le loro lodi smodate, acquistate taccia di vanit ; e se le rispingete, essi '. le replicano con usura, e per cos dire non vi incensano, ma vi danno il turibolo nel naso. Tre caratteri distinguono l'adulazione dalla lode ragionevole 0 meritata: L'adulazione cambia i vostri vizi in virt; ^ m||||( Ella vanta in voi delle qualit che non avete; Ella innalza eccessivamente quelle che avete; .Nel mentire esperto,  Maestro in adulare, egli senz' onta V Chiama faconda indotta lingua, e bella I  Schifosa faccia; un sottil collo e lungo I )) Agguaglia a quello d'Ercole, che innalza I . Di terra Anteo; magnifica. una voce  Stridula e chioccia qual d'irato gallo Che alla mogliera sua morde la cresta. L'adulatore adunque  un ipocrita che finge &entimeoti c^^ptmru a qutli ohe cg^ ffi^U' animo; ^ Z m vile  Buffon, perpetao l^ioMM' di eaptf , die trama ai cenni del rccOf e Ib.ecQ ai detti deUd persgy|;iefiu viziose i % w soroccatore cl)e.)d .menzogne per fitleoi^rj; vantaggi personali;  un ladro che toglie alla virt r.eiicomio ehe profonde al vizio;  un infame che  io^i^^i^te ali' onore  non teme il pubblico disprezzo; L infamia delPadulazione cresce in ragione della pubblieU^ ddta aUe lodi menzognere. Pera colai che sa malnati fogli  Famelfto eerifter vende sue lodi,  E d'aura popolar Talme rigonfia.  Sid labbro a lai le venenate tazze  Vota menzogna, e Favvilito incenso  Onde frodonne di virt gli altari,  La lusinga vnal pria^nde a Itti;  Che col prestigio d'un error che piace 19 Cangia il ?izio in virt, traiforma in mmie  T Ignoranza, follia, viltade, e mira  Sorger Tersit emulator d'Achille  E nn Sfida infame in an Traian rivolto. Allorch Filippo di Macedonia divenne guercio, il cortigiano Clisofo usciva di casa con un empiastro sulF occbjo, e si traeva dietro una gamba allorch il re zoppicava per una lecita. Sono arcpochissim quelli che facciano sforzi per acquistare le qualit che loro mancano allorch vengono accertati che le posseggono; e meno sentono stimolila salire ad alto grado di gloria se quelli che li circondano dicono loro ad ogni istante che sono giunti alla cima. Si pu asserir anco che pi personaggi potenti non divennero tiranni se non perch fu fatto lor credere che tutto era loro dovuto, e che il loro rango scusava qualunque colpa potessero commettere. Da un lato essendo utile l'uso moderato e ragionevole della lode, dall' altro non essendo difficile d'essere tacciati d'adulazione, perci ricordec la regola d Montaigne, il quale, nel lodare le virt e i pregi reali de' suoi amici, compiacevasi bens d'esagerare alcun poco, ma limitavasi a cambiare un piede in un piede e mezzo : secondo Montaigne adunque il rapporto tra il merito e la lode che possiamo tributargli, non deve oltrepassare il rapporto di uno ad uno e mezzo. Quindi pria di profondere lodi dobbiamo esaminare le qualit delle ji^rsone; e se ci accade d'esserci per bont o generosit d'animo ingannati, non essere restii a ritrattarci. Squadra ben ben Tuom che commendi, ond'onta  De' falli altrui non ti rifletta in viso, w Diam talor nella ragna, e ottien l'indegno M Da noi favor; dunque la man delusa  Sottrai da chi va di sua colpa onusto.  Delicatezza animo. Si' dic0 delicato oa fiim aUovcb al ooniatto ' d'aur un po' pungente s'attrista, e al raggio meridiano piega ti capo suUo stelo. Pr drantMre quanto  dUiaiad r onora dette donne, lo parago;iiaDao a terso cristallo, i, :A debl canna y  Ch'ogn'aur9 mchina, ogni respiro appanna Si,ah)ai;pa animo dilicat quello che alle tnioime seai^kKon|,m&raUj^iK^ od a vanjia^o aly 4rui si risente. \\. pi^Q 4^, essere bont d'animo senza de. Rcatezzas ^ uoma ytino vi &r tosto il piae^ ^ebcgli domandate : un uomo dilicato far d pi;' egli Vif risparmier la peqa 41 domandare,, e a^r tenere segreto il beneficio. Vi pu essere giustim Sj^nza^ delicatezza : un uomo giusto difender con calore i vostri diritti nel consiglio: un uomo dilicato difender anco le vostre convenien^, e s' affiretter a .spedirvi la Booi^ del felice enccesso. La delicatez^ d'animo  un misto di speciali qni^it e'si manifesta coi caratteri di esse, ^esie.qualit sono le seguenti. Finissima sensibilit. 1 generali Ateniesi a ' Maratona, ecc^itati dall'esempio d*Ar9tide, cedettero intero a Milziade quel comando che gionialmmte^ed a vicenda toccava a dascuno* Milziade, acci la vittoria che lusingavasi di conseguire non fosse cagione di rincrescimento a qualcuno de'ge9erali, spinse la delicatezza al segno da non dare la faiOtagli^ che giorno ia cui gli dpparlBomirjeoinandd. iW^^h-T^ Cemdido disinteresse. Nelle cose di.seasibite vitloree boa hm^wYv^la^fe^ kk^eosa offerta e Ja cosa (zccettata. serve  misurare la' delicatez;uhi [wgio ir^ che  t^Qto  stero. Giunto > il duca co'suoi nobili, tutti riccar m^te vestiti,; avendo os^rvato che gli scandi erano oecopati,  die nissano rispondeva alle sue gen* . tilezze, si diresse, senza mostrare la minima sorp^^. jo II 4iiniQiO turbamento., veysp jl'una delle estremit della sala che rimaneva vuota, si lev il mantello, lo pieg con bel garbo, lo pose sul pa- imento e vi si assise sopra, nel che fa imitato dal suo seguito. Pranz in questa posizione colle vivande cl^e gli vennero polite, dando segno d^lla . pi frfetta soddis&zione. Finito i pranzo, il iw e i suoljaobli s' alzarono, presero congedo dalla ^mpagrai nel moda pi grasoso ed uaeiroao dalia sala colle loro giubbe, lasciando sul pavimento i mantelli che erano di gran valore. L'imperatore che ^y^Va ammirato b tro condtta, fa sorpreso da quest^^ul)imo tratto, e sped .upo de' suoi crtigani.jal sappUcare U dqcft iiA il sao. se^ guito a riprendere i loro mantelli. Andate, a dire al vostro padrone, rispose il duca, che i ]!>{ormann non usano portar via gli scanni di cui si servirono a pranzo.  "Questo rifiuto era delicato, nobile, convenevole e fiero nel tempo stesso.^ r*vi-Gentili sorprese. Il czar Pietro, che viaggiava in Europa per istruirsi nelle manifatture europee, si ferm alcuni giorni a Parigi, e tra gli altri stabilimenti visit quello della zecca. Si coniarono molte monete alla sua presenza: una di queste essendo caduta a'suoi piedi, egli la raccolse e vi vide da un lato II suo ritratto in busto, dalraltro una faRia appoggiata col piede sul globo, e questa leggenda : Fires acquirit eundo^ felice alIasione ai viaggi ed alla gloria di Pietro il Grande.; D( queste monete ne furono presentate a lui ed 'alla sua comitiva. Il czar non pot ritenersi dal dire : I soli francesi sono capaci di simili gentilezze (o.;2'!!C -^..rT.'^'' Dopo d'avere adombrati i quattro principali elementi che caratterizzano la delicatezza dellanimo, passiamo ad osservarne' qualche combinazione. Lo spirito vivace e la pronta sensibilit di questa nazione rendono luso delle sorprese gentili men raro che altrove, anche nelle basse classi sociali. Dopo la battaglia della Marsalte, vinta da CaUnat, egli pass la notte sotto la sua tenda alla testa delle truppe Trovavasi egli in mezzo alla gendarmera e dormiva inviluppato nel suo mantello. I gendarmi, che avevan presi ai nemici 28 stendardi, immaginarono di circondarlo di quesU trofei: gli altri reggimenti portarono essi pure gli stendardi conquistali. 11 giorno comparisce: Catinai si sveglia circondato dai trofei della sua vittoria, e salutato dalie acclamazioni dell' esercito. V%Mm Wanini diHcata sa mggeHrs de* vtm* sigli senza mortificare V altrui vanit y ad imitew zione di Livia, la quale gettava, per cos dire, a e^w nella convrsazione delle fdee trtlK ad Aogost senza che egli s'accorgesse ch'ella aveva pi spirito di lui. . Non suole offrire alta per rinfacciare penuria^ contento di mostrare la sua disposizione a chi volesse approfUtqme* Nelle poee d'Ossian^ mentre Gaulo viene circondato da Svarano, Fingal s'alza ma non si d fretta d'accorrere; egli non vude rapire a Gaulo l'onore di rimettersi e liberarsi dal nemico; troppa sollecitudine sarebbe stata un' offesa alfa sua gelosa delicatzza su* questo pnto. ' Egli sa coprire il soccorso con qualche p7 etesto plausibite^ e all'idea s mortificante della Kmosn sostituisce quella d'un credito, d' un compenso, d'un' indennizzazione, d'un onorario. Eccone alcani esempi: Un sigDoi! per mr 'eampd di benefleare un aVvooat miserabfle, ed aUonlanare dal suo animo l'idea umiliante del soccorjK), lo consultava $opra cause immagiaarie, e pagava largamente i consulti. AJCcesUao visitando il suo amico Ctesibio ammalato, e vista la sua Indigenza, trov modo di cacciargli destramente sotto II capeuftle U denarb che abbisognavagll. l signor Dubois all' epoca del terrorismo in Francia, essendo stato destituito dalia sua carica e rinchiuso in pri^one, il botanico (^ll^ei^t port ciascun mese, e finch dur Uk detenzione,. alla fl^posa dell' amico detenuto^ la met del proprio onocario, acclorcb', ella non sospettasse la destituzione del marito, e non iscoigesse tutto il pericolo cui rimaneva esposto. Facendo de' benefica, egli si guarda dal rammentarli s perch aspira al piacere delle belle anime, non a quello dei despoti; s perch sa che la ricordanza de'beneiizi riesce gravosa al beneficato. CiLstode deW altrui gloria y e quasi dimentico della propria y si trova infinitamente lontano dal pi vile di tutti i sentimenti, F Invidia Che d'altrui ben, quasi suo mal, si duole. Allorch Ulisse e Diomede ritornano dal campo troiano, conducendo i cavalli di Reso e riportando le spoglie di Dolone, Ulisse, che poteva dividere col suo amico la gloria di questa spedizione, si fa un dovere di lasciargliela intera : egli racconta minutamente tutto ci che fece Diomede, e nulla dice di se stesso. Dimenticando ch'egli ha dello spirito, sa far valere quello degli altri, ed incoraggiare il merito nascente talvolta timido, si perch non crede che possa essere offuscata la sua gloria, s perch si regola coll'idea del pubblico vantaggio. Apre r animo a tutti i sentimenti che ingrana discono la natura umana, e vorrebbe pur chiuderlo a quelli che la degradano. Egli sarebbe slato buon credente in Grecia ove si divinizzavano gli eroi, miscredente in Egitto ove si divinizzavano gli animali. Riceve con riconoscenza gli altrui avvertimenti anch quando offendono il suo amor proprio, e ne profitta, mentre le anime piccole e grossiere ingrognano e riguardano come nemici quelli che additano loro i mezzi per divenire raigliori. S#S buisce a virtt, collo scopo di ravvivarne l'imagioe e promoverne resecozione Ltmgi dal brigare sotta mano l carica del sm amico i egli  disposto a rinunziare ad una pen^ sione a vantaggio di chi la merita pi di lui ( Proporziona la riconoscenza non al beneficoy ma air intenzione di chi V esegu, n crede che cessino i suoi obblighi se  benefattore cKvihe sventurato. Egli  penuaso che la rottura deW amiditAa non Vautorizza a manifestare i segreti che furono affidati alla sua onoratezza, e non vuole screditare la sua causa con un tradimento, come fu detto a suo luogo. * Costretto a correggere qualcuno, egli nn lo fa alla prssenza di estranei, e quando pu ^ il fa a quattr'occhi; sa anco condire la correzione con lodi. che animano, in vece di ricorrere a Dopd Ta tn?6n dUa fertem di SoltneU'riainiflt, nid 4657,  primi soldati che entrarono nella piazza avendovi ritrovato una bellissima donna, la condussero al celebre maresciaUo di Turenne come la parie pi preziosa del bollino. U maresciallo, fingendo di credere che essi altro scopo non s'avessero proposto che di sottrarla alla brutalit de' loro compagni, il colm di lodi per si onesta condotta, fece quindi ricercare il di lei marito, e gli disse alla loro presenza: Voi dovete alla morigeratezza de' miei soldaU l'onore della vostra sposa. Dugnay Trouin, dopo una campagna gloriosa nel 1707, ricus una pensione che II ministro voleva dargli, ma la dimanda e lottenne per Saint-Auban, ^uo aiutante, ciie aveva perduto una coscia nella steslsa campagna. t  f4i. villanie che avviliscono. Egli procura di scemare la colpa attribuendone parte alle circostanze; e per eccitare la voglia del ravvedimento^ ne lascia intravedere la speranza. Egli dice, per esempio : . che certamente non  estinta; in somma Y er rore  indegno di voi. Come mai non vi cadde  in mente che esponevate i vostri genitori alla w taccia d' avervi istillato cattive massime ? Do vranno essi cogliere disdoro dove speravano lode  ed onore? I vostri amici che tentano di nascondere il vostro fallo, accertano che ne sentite w profondo rammarico : Vorrete voi smentirli ?  Dovr io accertarli che s' ingannano ? ecc. Vuomo dilicato^ nelle contese co^nemici sdegna le vie segrete, le quali, essendo favorevoli alla calunnia e alla frode, sono preferite dalle anime vili Non abusa della vittoria perch non v' merito neW abusar del potere^ e v'  vilt nell'insidtare i cadaveri. li Son frmvde ncque occuUis^ sed palam et armatum populiim romanum hostes suos vlcisci, diceva Io stesso Tiberio. Achille, che fu da Omero divinizzato, insulta Ettore moribondo, e gli protesta che, in vece d onorata sepoltura, Io far pasto de' cani. Dopo che Achille ha attaccato egli i /V fl sentimento della vendetta confondendoci coi bruti, egli si sforza sempre di reprimerlo, perch, ^ .ogniqualvolta il pu, vuole distinguersi da essi. Egli tenta quindi di soggiogare il nemico pi ^ colla generosit che colla /orsa i' pffl '> blandi. Lo chiama delicatanriente fratello d'Aganadeca, per destar in lui Sentimenti teneri ed amichevoli coll'imagine d una sorella amala non ij^rjf^^^no da lui che da Fingal. Mostra che sin dal ^  tempo di quella, egli avea concepita molta pro)) pensione per lui, e gli rammemora la prova sen/^h sibile che glie ne diede in quella occasione. Con  > ci gli induce Svarano a vergognarsi di conservar odio e rahcore con una persona che gi;s;3i;:da gran tempo 1* avea provocato in affetto e in ..p benevolenza. Finalmente mette in opera un tratto di generosit singolare che doveva espugnare l'a.:;t4.oimo il pi indomabile. Svarano era vinto : Fingal era padrone della sua vita e della sua libert. >^ questi si scorda della sua vittoria ? suppone ^,>) (:he Svarano sia libero come innanzi la battaglia, jfc)/^- propone, per soddisfarlo, un nuovo cimento personale, come se il passato non dovesse deci-jf^' dere. Svarano non  un nemico vinto, ma un ospite nobile a cui si desidera di far onore^ A;d tanta generosit Svarano s'ingentilisce, e la sua V ferocia si va cambiando in grandezza. Svaran, disse Fnga], nelle mie vene  Scorre il tuo sangue : le famiglie nostre,  Sitibonde d*onor, vaghe di pugne, jj w Pi volle s aCfronlr, ma pi volte anco W^iti n^^l^ cqnv.ersa:;>ioni .  1. Cohcorrenza superiore alla capacit " . y'^^ : 'del locale, *JL. ' j I  Invitare pi persone dl qiiel che possa compreu dere il locale,  invitarle ad essere soffocate dal ^ (ialore, a restare in piedi con sommo disagio, a i non i^ssere servite se h Tu sgorgasti valor; l'alta tua voce  Quella valea di mille duci e mille.  'Sciogli doman le biancheggianli velCj;' 'Pt^lu^'^w Fratel d* Aganadeca; ella sovente Viene all'anima mia per lei doglios /J^ Qual sole in sul merggio: io mi rammento. Quelle lagrime lue; vidi il tuo pianto. Nelle sale di Starno, e la mia spada t^  Ti rispett mentr' io volgeala a tondo Rosseggiante di sangue, e colmi avea  Gli occhi di pianto, e '1 cor rugga di sdegn^J > Che se pago non sei, scegli e combatti : \x ' Quell'aringo d'onor, che i padri tuoi > Diero a Tremmor, l'avrai da me: gioioso (; Vo' che tu parta, e rinomato e chiaro Siccome Sol che al tramontar sfavilla, n regna in Inghilterra ne' cos detti routs 0 GRANDI CONVERSAZIONI. Una signora sceglie una giornata in cui terr un rout. Ella spedisce de'biglietti d'in-;.,.-^vto a pi centinaia di persone, non perch sono suoi parenti, suoi amici, suoi conoscenti, ma per^, ch le ha vedute, e. perch la loro presenza acqui   ster credito alla sua assemblea.,  .un vano  Secreto genio femminil che gode > Di un numero maggior, non sceglie i buoni, Ma tutti accoglie, e popolando il foco. D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando li piacer. Pria delle 11 ore della sera (il clie si chiama il momento dell'alta marea )^ la casa brulica di persone d'ogni rango e d'ogni sesso. Si pongono \ i tavolini da giuoco in tutti gli angoli della casay e tanti in ciascuno quanti ifc pu contenere, la-, sciando appena spazio bastante onde i giocatori possano passare o sedersi. Il caff, il t, la limo* na circolano negli appartamenti. La confusione  la vera essenza d'un rout. Una dama che tiene queste assemblee non consulta la capacit delle sue sale, ma la lista delle persone .. di buon tuono. Elia invita sempre pi persone di quel che possa ricevere; ella si compiace degl'in* convenienti della stanchezza, del rumore, del calore con tanta soddisfazione, con quanta un attore ' ascolta i gridi e il fracasso degli spettatori che assistono ad una scenica rappresentazione destinata a suo beneficio. Gli sbagli de' servi, la perdita di qualche gioiello, le ripetute esclamazioni buon Diot come fa caldo! sono vicino a svenire! riescono estremamente piacevoli alla padrona di casa. Non manca nulla alla sua felicit s'ella viene a sapere \ che v'ha tumulto nella strada, che I servi d'alcuni Pari si sono battuti^ che de' cocchi si sono spezzai j e che qualcuno della compagnia  stato derubato alla porta ecc.; giacch tutti questi accidenti romoreggiando per la citt porteranno il nome di madama da una estremit all'altra. Il giuoco  il solo piacere che vi si trovi : delle perdite considerabili procurano rinomanza ad un rut, e se un giovine erede vi resta rovinato, la celebrit della casa  sicura per sempre. Talvolta si .danza nei rowte, e il ballo  seguito da un^|;,gran cena; ma vi manca sempre ci che fa la delizia della danza, la grazia e l'allegrezza. Il locale destinato ad una conversazione  semM ' pre difettoso quando i concorrenti, atteso la situazione de' canap, non possono unirsi in linea ciri ^ colare, o stare a fronte gli uni degli altri. Allorch restano seduti in linea retta da una sola banda, la conversazione si spezza, e da generale diviene pa^^; tcolare., il che va soggetto a pi inconvenienti^ come vede nel seguente paragrafar CONVERSAZIONE PARTICOLARE SOSTITUITA. v.'^T alla CONVERSAZIONE GENERALE. LA CONVERSAZIONE  gehVat allorch ciascuno defili astant vi contribuisce come attore o spettatore. LA CONVERSAZIONE  particolare quando gli astanti si dividono in pi crocchi, stranieri per cos dire, j gli uni agli altrii bench riuniti nella stessa stanza. Supponiamo, a cagione d'esempio, UNA CONVERSAZIONE DI DODICI PERSONE - facile cosa Io scorgere che se esse restano unite in un solo crocchio '! ' conseguiranno maggior effetto con minore sforzo; d quello che se in quattro si dividessero. Infatti nel caso per intrattenere XII persone ne basta una; nel 2.o per intrattenere XII persone se ne richieggono tre. !' Nel 1.^caso una celia fa ridere XII persone; I ^ ngl2. s'arresta nel circolo di quattro. VAllorch LA CONVERSAZIONE  generale, un'idea vera ma inesalta annunziata da un'individuo, viene rettificata da un secondo, commentata da un terzo, dimostrata da un quarto, ecc., sicch alla fine del discorso si ha per prodotto una verit lampante. All'opposto separate in IV crocchi questi' contribuenti, e vedrete che in vece di quella verit penduta comune a XII teste, restano in ciascuna delle semi-idee, delle nozioni inconcIudenti, delle notizie qui inesatte, l false, e dalle quali nulla si pu dedurre. Succede NELLA PRODUZIONE DEL PIACERE NELLE CONVERSAZIONI ci che succede nella produzione delle ricchezze nellagricoltura o nelle arti. PIETRO possed l'aratro. PAOLO i buoi, GIOVANNI ra))llit t' arare. Se questi individui s'associano, ^ Taratura $\ leffetliia, non si effettua se restano di: sgiunti. Allorch dunque qualcuno trae a se due o tra / astanti, commette una specie di furto verso gli altri, poich li priva del piacere che produrrebbero in essi le persone spiritose e gioviali ch'egli ' b rapito. Egli stesso debb'essere riguardato come un disertore od un contribuente morso.  un fatto dimostrato dall' esperienza, che le scosse sensibili s'accrescono comunicandosi, atteso la forza sussidiaria che loro presta l'immaginazione degli astanti. Quindi una celia che fa ridere quattro persone in un grado come quattro, ne fa ridere dodici in un grado come cinque o sei.. Inoltre, se assistono XII persone al discorso del parlante, con maggior cura ed attenzione egli svolger le sue idee di quello che se assistessero quattro solamente. Allorch LA CONVERSAZIONE  generale, un fatto qualunque, esposto da chi parla, va ad agitare XII immaginazioni, nelle quali s trovano associate altri fatti e diversi in ciascuna. Dunque si deve sperare maggior movimento NELLE IDEE CHE ALIMENTANO LA CONVERSAZIONE e maggior variet. Se in vece di XII persone (numero preso per ipotesi), gli astanti fossero di pi, i crocchi a parte sarebbero meno condannevoli; giacch ammettendo gli accennati vantaggi della CONVERSAZIONE GENERALE, bisogna anche ammettere che in molti la voglia di parlare  vivissima: e che questa meno NELLA CONVERSAZIONE GENERALE resta soddisfatta che ne crocchi parziali. D'altra parte, QUANDO LA CONVERSAZIONE  troppo numerosa, scema in alcuni l'allegrezza, perch scema la confidenza.  cosa rara che LA CONVERSAZIONE resti generale, i allorch in XII concorrenti si trova pi d' una donna; giacch ciascuna diviene centro particolare, intorno al quale parte deglastanti naturalmente si unisce. Ho detto  cosa rara, poich non  certamente impossibile che una speciale gentilezza nelle donne si sforzi di prevenire la divisione. V % Z/parlare motti insieme^ ' V v ' ^ IMa lsto^^ idi tiite : ' ,'Vcr distordf e gareggianti iiisime  Pur, ua senso accoppiar? Tutti ad un tn^o;  VoglioB la boea aprire'  n^n^ i^/^ ^ " Affastelfano insieme. Quanti argomenti. Ad ua sol puQtot AKri di cuCQe ed. tiri failli ragiona: Qui i iMe;; L ^si contrasta^ e la quisti^ja si . cribra ' r-^ Con oikkt ttpljcre altertm ' v vf . r" ^ Di s e d no. Di trenta voci acutaV/f -Stridule,, rauche, reboanti e gravi,; V DIssoiiaQti tra ior odi lin eiifiise :  . Frastuono ingrato di parole e d'^rK, ' .1 fi. tumulto e di tiMa^^nde J T^ta *; Concava echeggia e riinbombahd &sorda,  L civile modestia ed il, buon senso i^ v / y> Li ift'iifi ngolo stringono le labbta E Storditi ai tarano gli wecchl . / f^iimando ii^Iti^fBirJdiio Jnsiemip i Yh9^wf' d'M^ . gara per superarsi a yie(ida, .tpro^\irii^^^ 4'a8sor49tffe:^gli ^istanti^ > A > ? : * /. Ili alcuni SI uniscono tr _d[i|etti ', 1 . La sfnania, di int^rrpmp^e glt alt^i^; jlk X'impazkiDza di seiitr Hitnrtii .m stessi; ' a. La pretensione che gli alJLr uoa siano 4istratti> lontre es^i li aiuioiaii. Alloreb iiHrfli parlano insieme . ' L Si . stancano i iK>liuoni f gli iBSofi^ d0' par-! istori'}'- V. \ ^ V t'O'V. \ I &i annoiano gii astanti con un fraatiMno in* intelligibile; Si  costretti a ripetere pi volte la stessa cosa; Si afferrano male le idee altrui. Si oonsuma tempo e fasica a combattere delie eliimre. Siccome poi si parla per piacere o istruire, non j)er fajr pompa, 4i cognizioni quindi allorch Taltrui impazienza ci interrompe,  miglior consiglio lasciarle libero il campo, e tacere, di quello che battere inutilmente gli orecchi di chi non vuole ascoltarci CO* Limp^iua e la vivacit che domDano mi carattere della Jiazlone francese r assoggettan al difetU accenaU: mi testo. Cornino^, riportaiado B Trattato di VERCELLI Vsegnato ft 40 oUobi^ 4495 tra Carlo VILI e gli Ualiani, osserva come un tratto caratteristico dello spirito francese la suania di paelare, per. cui molte (rsone parlando insieme ed alzando a vicenda la voce ^ nesana  realmen^ inte^. AH* opposto, egli aggiunge, deglitaliani nessuno parlava, 'ftiorh il duca Lodovico, il quale perci dice ai francesi : Gii I ad uno ad uno. le memorie dell* Accademia francese hanno conservato per IradlikHQ no moUirdI If^ miran, R quale,/oireso: pi d'ogni aHeo dell'aeeennato difetto, disse un giorno seriamente a' suoi confratelli: Signori, io vi propongo di decretare che non parleranno qui pi di quattro persone Insieme forse cos riusciremo ad intenderci 1 ! Un francese diceva a numel, vescovo di SaUsboiy/ oMe il fesi eei^Uisini eea stola cosa' molto mertosia per cjH'Imglfeaf)^ non potendo essi die difficilmente rinunziare ad un pezxo di manzo. Al che iiurnet mpo.se : Non  men. meritoria per voi altfi francesi, atteso la legge del silenzio. y .i^co L.Allegrezza clamorosa. Un grado moderato di sale rende l vivande gradite a tutti! palati : i gradi' maggiori, 1 quali non riescono piacevoli che a poeliissimi, estinguono Tappetito negli altri* L'allegrezza moderata nelle conversazioni passa facilmente d' animo In animo ed  accolta con lieta fronte da tutti. L'allegrezza clamorosa si comunica a pochi, e spesso muore sul labbro di chi Tolle eccitarla* Del quale fenomeno tre sono le cagioni. 1 . I caratteri freddi non essendo suscettivi d'aU legrezza clamorosa, s'armano contro di essa e le oppongono la reazione deirindifferenza. ' L allegrezza clamorosa dipendendo/ da un ino4o particolare d vedere le cose, alquanto strano, 6 spesso* da ^ccolezza di spirito, i ^'arett^ ragio* nevoli e sensati non possono approvarla. L'jiUegrezza moderata pi facilmente che la clamorosa si coniiunica agli ^stariti, perch dista meno dallo stato abituale degli spiriti. Qualunque sieaa te dause deli' accennale fono* meno, egli  fuori di dtfbbio che se V allegrezza moderata fopienta ta CONVERSAZIONE, l'allegrezza clamorosa tnde ad estinguerla, e la cosa non pu ^essere altrimenti; infatti, U Durairte lo scoppio dfille risa smodate ma potendosi comunicare agli animi i moti d' un aU legrezza piti mite, tutti quelli che non. parteoi|iane aHe prime, si veggono 'ditfraudaft de' secondi; quindi mentre alcuni ridono a piena gof, restano gli altri atteggiati a sprezzo o sbadigliano; essi provano quell'ingrata sensazione che prova chi attento al dolce suono dell'arpa viene im;rovvisainente assordato dal rumore delle campane. Dopo lo scoppio di risa smodate succede una seriet agghiacciata, come dopo un fuoco d'artifizio ci sembra loscurit pi profonda. Un'allegrezza clamorosa ci balza improvvisamente fuori di strada, e, per cos dire, sopra un'eminenza, ove non sappiamo d' onde siamo venuti, n dove dobbiamo andare; da ci poi la seriet, il silenzio, qualche esclamazione, e la difficolt di riprendere il filo di ameni discorsi. L' allegrezza clamorosa non comunicandosi agii altri, ed assai pochi essendo capaci di rianimarla, quegli che la eccita si trova nella necessit di farne tutta la spesa; quindi se vuole restare sulla scena  costretto a rappresentare il personaggio del, buffone. L' allegrezza moderata, figlia d' una buona coscienza, animata da un' immaginazione ridente, trova facilmente motivi d'innocente trastullo e dignitoso sorriso nelle scene morali esposte. L'allegrezza clamorosa, figlia talvolta dello stravizzo, talvolta d'un immaginazione irregolare, per lo pi d'una sensibilit ottusa e piccolezza di spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza, trova pascolo nella goffa derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti sguaiati, plebei, vHlan. Loquacit eccessiva. LA CONVERSAZIONE  COME UNAZIENDA COMMERCIALE; ciascuno dee prvi il suo caratlo e ciascuno partecipare al prodotto. Luomo che tace sempre IN UNA CONVERSAZIONE  uomo che vuole essere a parte del prodotto senza essere carattista. Luomo che parla sempre  un jearattista che vuole tutti i prodotti dellazienda. In generale NELLE CONVERSAZIONI ciascuno ama meglio spacciare la propria mercanzia di quello che acquistare l altrui; e, in vece di formarsi giusta idea deglaltri, aspira a darla di s stesso. Agitati dalla smania di parlare, non pochi bramano di comparire sempre alla tribuna, senza volerne mai discendere. Quindi vi tengono discorso su di tutto, d' un libro nuovo dopo la. lettura di quattro  cinque pagine a salti, duna nuova macchina dopo d'averne veduto un pezzo, dun quadro dopo d'averne ammirata l cornice ccCm e decidono e sentenziano senza interruzione, simili al giudice d'Aristofane, che, chiuso in casa dai parenti vuole almeno dar sentenza tra due cani. GOZZI fa il seguente carattere dell'imperlerrito parlatore. SIgpor jS. N. y a penai la algaoria; vostra ente un cct stailo, un luteo, o un ebfeo a oomlnclaM uara^hmar  mento, eh' ella si scaglia ^ e glielo rompe a mezzo col dire. La non  cos. Io so l' ordine delle cose, e ve la D iUc lo; e dlie dlie dlie, non la finite pi, tornando Gir irteoiiTenienti a coi va incontro uu uomo che parla troppo, sono i seguenti: molte volle da capo, con molle cosette di mezzo, clje sono uno sfinimento, come sono, per esempio, que'vostri colori  r^ttorici : E dov' era io oca? Ah s. E toeno due passi indietro: e la fu da rdere, e verbi^eazlai ecceleira, tanto ohe mm lasciate pi tirare il fiato a poveri drcaslanti. Cos quando avele assassinali e ammazzati  primi a uno a uno, eccovi a volar via di l in qualche cerchio d'amici -o di patenti, clie cagionana de'fatU lorO| e piombate sopra que povereUi come un uccello di rapina, sbaragUandogli  e facendogli andare qua e col per paura della furia vostra. M' ha dello un certo maestro, che qualche volta andate al suo collegio, e che, appena entratovi, stornate i discepoli n dallo studio, e i maestri dall' insegnare, parlando di dot*  tftoe, di scienze-, d'armeggiare, di salire U cavallo, e di tutto quell che volete e potete, si che nessuno si pu salvare dalla furia vostra. Se un pover uomo prende U cenza da voi per andare a casa sua, e voi subito volete  accompagnarlo per forza come se foste lombra di lui, petseguitandoto fino In sali' nsco e sulle scale, e nette  stante ancoia. Se per caso si narra qualche novella per la  citt;i, voi slte come, ma rondine, ora qua, ora col a  dirla e ridirla a tulli quanti. N giova punto eh' altri vi  iaficsL intendere che la sa: perche voi volete cominciarla  a dispetto di ttUU, aggMtigendevi anche Im proemio. Parli late di predicatori, dlmiinoranenli, di battaglie, del vostro  servo, e delle fmestre di casa vostra con tanfo tedio di chi  v'ascolta, che, appena avele favellato, Tuno si dimentica  tutto, Taibro sbadiglia sonniferando, e c' chi vi pianta l  nel meo Aet ragionamehto. Siccli se vi trovato con uno  ch*ahliis '4a sedere .a un magistnito, a una predica, a  mensa, a una commedia, siete cagione che slede mezz'ora A dopo il bisogno alla sua faccenda. E credo che piuttosto  vi contentereste di morire, che di non superare il cicalat' mento delle gasze, de' pi^papHii delle rondini, e di quanto Egli affatica i suoi polmoni.  spesso costrtto a ripetere^ le stesse cose il che cagiona noia agli altri e svela i limiti del suo pirUo S'espone a dire degli spropositi vc^ndo parlare di cose che non gli sono familiari^, e dimostra di non saperne alenna, giacch quelli che sisinno una cosa bene si astengono dal parlare di quelle che ignorano. Offende quelli che vorrebbero parlare in vece di lui (2>;  bestie Gidiio, schiamaizo. Oh |^  puie un eraii peccato  a non aver (ante gole quante canne hd l'organo, da poter cavar fuori le parole da tutte 1 Basta cbe siete i^unto a Il tale, che non v Imporla pi che ciascheduno si fugga da  vqL cpme da un can guasto, e cbe fino i fanciulli di casa  vostra si ridano di voi: petcliquando la sera il snno comincia ad aggravarli, vi pregano a contar lo;o qualche i) cosa per dormire pi presto. Saggio e cauto ad un tempo j e spesse. voHe Timido un poco, lentanijenle sffgno . D di stia decisloa uom che ben vede, E in brevi detti ognor spiegarsi agogna^ Clii ragiona a proposito, di rado, S'allarga ragioiUMiKlo ma la folle . SupecUa ) che a scloe&bezza si cong^mge Si diffonde In loquela ^ e s^gue solo, I. suoi fantasmi ^ e a s paria e risponde. E alcuni altri tanta ingordigia hanno di parlare, che non lascian dire altrui. E come noi veggiamo taUolki su  per r aie de contadini X un pollo torre la spLca di becco % atf allvo; ^^osl cavano costoro i EagtonaoieiiU di bocca a colui. che li cominci, e dicono essi. E sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui d'azzuffarsi con esso loro. Rende glaltri pi severi nel giudicarlo. Impedire la diffusione di idee migliori delle sue; ? Svela talvolta, per procurare alimento al dscorso, ^11 altrui segreti. Quindi si mostra indegno e si "pfw deirallrui confidenza. Dimentica spesso la convenienza, non ha riguardo al caratterie delle persone con cui i^rla, al luogo In cui si trova alla situazione degli animi. Per concentrare in s vimmargiormente gli altrui sguardi, balza in piedi, molti gesti facendo colle mani e col capo; e se qualcuno ardisce non di torre in dubbio la di lui infallibiUt, che verar mente la sarebbe un'impertinenza senzjj pari, nia perciocch e tu guardi bene, ninna cosa muove Y uomo piuttosto ad ira, die quando d' improvviso gli  guasta la sua. voglia e il suo piacere, eziandio minimo; siccome  (|umd0 i^ avrai aperto la bocca per isbadii^re, e alcuno !>' t la Cura con' mano,  quando tu liai alzato il braccio  per trarre fa pietra, e egli l'  sliitamente tenut da colui, che V  di dietro. Ecco l'origine del pedanlimo: quegli  pedante che, s(M*gendo io .piedi ed alzando una voce magnale e dura  detta le sue opinioni e pronuncia l& sue sentenze eoi tuono che adopera il maestro di scuola co' suoi scolari. Pedantfimo si dice anche rus troppo frequente e inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione ordiiiarte, e lapresunzione ebe ravvisa in esse importanza eccednte ; quindi i seni-dtll Geminano ^ppertutlo H lor6 .falso sapere, allegano Platone e S. Tommteo in eosii ebe ai accertarle bata Tasserzione d'un facchino. Pedantismo finalmente s'appella un' eccessiva severit ed uu^ndefssa affettazione nella scelta delie parole e delle frasL solo di fargli qualche obbiezione, esso gli volta gentilmente le spalle sorridendo tra s dell'altrui dabbenaggine, o gli risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa mostravasi allorch non sapeva come sottrarsi ad una dimanda importuna. Questi eterni parlatori, per lo pi teste superficiali, e talvolta prive d senso comune, affettano di sapere ci che non sanno, d'intendere ci che  superiore alle loro cognizioni, di possedere ci che loro realmente manca. Si tratta egli d'una notizia? essi la sapevano; d'una scienza? Thanno studiata; d'un fatto straordinario ? ne sono stati testimoni; d' un giuoco ? i' hanno insegnato al loro nonno, ecc.: e per voglia di comparire istrutti, allontanano da essi l'istruzione. Chi ha poco senno e dovra starsi ignoto, Vuol far tutte le carte in compagnia :  In simile maniera un carro vuoto )' Fa il fracasso pi grande per la via . La loquacit presuntuosa de' giovani  una conseguenza necessaria. Della vanit generale comune a tutti gluomini. Dell'educazione particolare, supposta scientifica, e veramente insensata che ne primanni della loro giovinezza ricevettero. Siccome ciascuno procura di mostrare ricchezza collo sfoggio degli abiti, cos molti procurano di mostrare spirito collo sfoggio delle cognizioni. Essi crederebbero d'aver perduto tempo e fatica se aprisserola bocca senza aver detto qualche cosa spirit,.cT Volendo presentare tratti ingegnosi e superare laltrui aspettazione^ fanno degli sforzi che tormentano glastanti, e ad essi fruttano ridicolo. Presumer vanto di sagac, arguto E senza aver punto di sale in zucca, Imprudente mostrarsi e linguacciuto v. Rendere eunuco V intelletto e feconda limmaginazione tale era il problema che si proponevano grinstitutori nello scorso secolo. Un sonettino, una canzoncina, un po' di latino, uno sche-T* letro cronologico detto storia, un elenco dei nomi delie citt e de fiumi, chiamato geografa, ecc., in somma parole e poi parole, e non mai cose, *v,.^. stituivano il capitale intellettuale, l'immenso fogliame senza frutti che i giovani compravano s caro prezzo. Abituati ad accettare parole senza' conoscerne IL SIGNIFICATO nelle prime scuole, accettarono parole IN FILOSOFIA senza corrispondenti idee. Si pronunciando per es., le parole mistiche di KANT, redetterjo di essersi innoltrati nella scienza dell'uomo; e cos dite di tanti altri sistemi cui la sola maga delle parole e Tbitudine di ammetterle r'^ senza esame acquistarono rinomanza. Quindi LE CONVERSAZIONI brulicarono di cianciarelli, che, essendo verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere si lusingarono e d' istruire. Ma fatai cosa eli'  ch'ove pi abbond)a Un bel parlare, ivi la specie umana Sia seccatrice almen quaut'  faconda ti dono di parlare con facilit e prontezza  cosa pregevolissima, e. non pu essere Irascui'alo doq da chi PITAGORA, per reprmere ne* giovani I ' eccessrv'^ loquacit, esige da' suoi discepoli un assoluto silenzio ne V primi anni delle sue lezioni; il che era spingere le cose all' estremo opposto, e spezzare il ramo per raddrizzarlo. Pi saggia Tao-tca cavalleria diceva a' suoi seguaci: Siate semjore lultimo a parlare in mezzo agluomini che vi, superano in et e il primo a battervi alla guerra. Non arrogarti dunque il diritto d'eterno parlatore, ma  Solo i tuoi detti nel comun discorso  Ifitreccia a tempo, e in un civile e cauto  Le tue parole e il tuo silenzio alterna. Colui che- si finge dotato di cognizioni che non ha, perdi il diritto dessere creduto neglaffari sociali. Volendo mostrare troppo spirito, si resta caricati di TUTTO IL PESO DELLA CONVERSAZIONE, e si perd in affetto ci che si acquista in ammirazione; gidoo ^ ignora che, per convncere l spirilo, spesso  forza sedurre le passioni che gli fan siepe. Ma questo dono per se stesso ilion  sicuro indizio di profondo pensare. Parecchi buoni spiriti non riescono a svolgere le loro idee fuorch col mezzo della meditazione; ed  stato osservato che i filosofi non sono quelli che brillano di pi ne' crocchi sociali. Ne' discorsi di ROUSSEAU neppur lombra scorgevasi di quello stile che ne' suoi scritti si ammira. NICOLE, uno de' primi scrittori del XVn secolo, stanca quelli che lascoltano. Perci egli dice del sig. TREVILLE, U quale parla con facilit: Egli mi batte rulla camera : ma egli non  g^cora in fondo deHa^caa eh io V ho confuso, t 4t&l ch, generalmente parlando, gli uomini non amanq ' quelli che li offuscano. > -^pm > ^Allorch non avete argomento interessante da proporre, la civill vuole che vi astenate dal parlare, in vece di mettere alla tortura l'altrui pazienza con puerili e non gradite scempiaggini. Perci r abate S. PIERRE, il quale non discorre gran fatto NELLA CONVERSAZIONE, non per sterilit n per disprezzo, ma per tema d'infastidire i suoi ascoltanti, dice. Quando io scrivo, nissuno  obbligato a leggermi. Ma quelli ch'io vorrei costringere ad ascoltarmi si darebbero la pena d farne almeno le viste, ed io la risparmio loro per quanto, posso. Inoltre chi vuol parlare di ci che non intende, al quasi certo rischio si espone di guadagnarsi il titolo d'ignorante. Quindi l'abate Choisj', il quale non era dotto, ma lontanissimo dal volerlo comparire, scrivendo ad un suo amico sulle sue CONVERSAZIONI o sul suo silenzio coi dotti missionarii che nella sua ambascera egli aveva ritrovati a Siam, si esprime cos.ii^^ Io occupo un posto d' ascoltante nelle loro assemblee, e mi servo sempre del vostro metodo : una gran modestia e nissun prurto di parlare. Quando la palla mi viene naturalmente, e ch'io mi sento istrutto a fondo della cosa di cui si tratta, allora mi lascio v forzare, e parlo piano, modesto egualmente nei D sono della voce che nelle espressioni. Questo metodo fa un effetto mirabile, e sovente, quando non apro bocca, si crede ch'io non voglia parli lare, mentre la vera ragione del mio silenzio si  un'ignoranza profonda chegli  pur bene di nascondere agli occhi altrui. tjttl^ ^ Da qiiesta modesta confessione, soggiunge d^A^^. lembert, si raccoglie che l'abate Choisy non rassomiglia certi ciarlieri, i quali, presi dalla mana di parlare di quanto ignorano, meriterebbero la risposta che un artista greco fece nel suo laboratorio ai ridicoli sragionamenti d'un dilettante:,. Guardatevi dal farvi sentire da' miei scolari. Infatti parlano costoro con leggerezza tale, che spesso l'uomo pulito si astiene dal far loro un'obbiezione per tema di vederli ammutolire. I chiacchieroni si fanno tacere col non dar retta ai loro discorsi, come appunto un suonator di violino ferma i danzatori cessando di sonare. Co?itimcazione dello stesso argomento. La loquacit eccessiva  un difetto che i moralisti sogliono rimproverare al bel sesso. Quindi essi dicono, che mostrare molto spirito colle donne non  il miglior mezzo per conciliarsi, il loro animo. Una dama d'alto tono che si era; I, scelto per amico un uomo di beli' aspetto e di molto spirito, gli disse un giorno che poteva ritirarsi, perch ella non ama le persone che parlano troppo. . vFin dal pergamo fu rimproverato alle donne ' l'accennato difetto : un predicatore parlando avanti I UA consesso d monache nel giorno di Pasqua/ I diede loro ad intendere che Cristo risuscitato coin ' parve alle donne prima che ai discpoli, acci la nuova della sua risurrezione pi rapidamente si diffondesse. i 11 suddetto difetta potrebbe essere confermato dall'uso delle donne negre della riviera. di Qs^m d j tot. le ^uaH essendo applio^tisshne ai labori; glioBO, a fina ^'^fitace hi maldicdiusa 0 i diseoiti inutili, empirsi la bocca d'acqua mentre lavorano.. La leqoacit dette, domiet seoondo che io ne giu die, a due Ani d^lta fimportanzia* orridi^nde. L'uno si  che, essendo $$e. te prime educa-triei  faneiiilll') detona esiereltttfe te fero .tenere^ orecchie con un cicaleccio continuo, e imprimere b ^ue'db^li cernili oiolte tracce ideali, che senza,^ questo soccorso- diffleHmente Vi gioirebbero. ' .'1) seeogdq si,  . che, essendo esse destipate a Mi^iEnfel^ra aspra la vita airaomo,. dover* vano essere dotate d'una sensibilit squisita che a lotti  di lui affetti prontamente si risentisse, e della facolt d' insiniVs^ gqrbo nqf di li allibo, i|jtrattenerlo oaa sentimentale colloquio ed Heirtariit t pene: tton saprei ben dire se questo sia il motivo per cui generalmente le donne superbie gli n^minLoella gra^^ia della voce e del canto. GIOVENALE, come tanti altri poeti dopo di lui v ha eensurato la loquacit deUe donne letterate ne', segufati^'veirn: . SI tosto, ^ ' i> T'assidi a mensa, essa 1^ mensa in scuola^.  EcQO ti cangia ^  d sentenze e.-npr|Be, /  Loda il cantor d'Enea, s'intenerisce. Per la pQv.era Elisa ^ i due poeti ' '  Mette al paraggio; a ima bitaneia appende,  In un, gscio Maron, neir altro mero.  Orammatici, rettord, seolastiei .^ i> Ite a rfporvi : i convittor son muti PiissuQ fisponde; e chi tentar latria . s ;  D'arresUrue la foga? Un avvcatd, y B'altre donne uno stuol; tal dalla bocca ^'1^pondendo che con monosillabi, lasciavi^no scor^ '^gere un orgoglio offensivo.. Filippo re di Macedonia avendo scrtto agli Spartani che avrebbe fatto i le sue vendette se entrava nel loro territorio, que^ Bti aljro non risposero se non che Se. Gli stessi Spartani scrivevano lettere molto laconiche, cio H impertinenti; ma dacch furono compiutamente. 'i. i battuti a Leutre, cominciarono ad allungar loro frasi. Son io, diceva Epaminopda, che ho inse^ guato loro questa civilt. La taccia d'inurbana data alla tacilurnil  dun^ ''  que molto antica, e con ragione / principalmente i quando son le persone adulte che tacciono; giacch se  necessaria la riservatezza per non esporre pensieri che poscia si vorrebbe invano rivocare, non fa d'upo spingerla al punto da rendersi muto. Una persona taciturna nella conversazione  una persona che vuole entrare in teatro senza biglietto d'ingresso;  una persona che vuole godere senza contribuire. Una persona taciturna diviene incomoda per pi ragioni. Ella arresta la comunicazione de'sentimenti, i quali sogliono acquistar forza diffondendosi. Presenta l'idea d'un censore severo che semr br accusare gli astanti di frivolezza. Eccita una diffldenza non favorevole alla giovlalit. Una persona ch parla ci d, per cosi dire, la misura delle sue forze : le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi gusti, i moli della sua fisonomia, \a qualit de' suoi gesti la palesano al nostro sguardo : noi sappiamo come fa d'uopo regolarsi con essa. All'opposto una persona che tace, inspira difUdenza, perch si diffida di tutto ci che non si conosce. D'altra parte non si sa che cosa 'possa piacerle o spiacerle: questa incertezza diviene un limite illegittimo alla facolt d'agire e di parlare, quindi  penosa. Finalmente, siccome nel i^commercio V amor proprio d' un negoziante resta offeso allorch vede rigettate 1^ sue cambiali, cosi nella conversazione spiace all' amor proprio degli astanti la vista d'una persona che non corrisponde alla loro allegrezza, e ricusa d' accomunarsi con essi; perci pi facilmente viene perdonata la frivolezza che la taciturnit. La taciturnit pu essere prodotta da cinque cause. Mancanza d'idee o stupidezza. In questo  caso  certamente miglior consiglio tacere qhe parlare; giacch parlando si procurerebbe spregio a se stesso e noia agli altri. Le persone taciturne che appartengono a questa classe sono tollerate "nelle conversazioni come si tollerano nella societ '^1 bisognosi impotenti : la pubblica beneficenza gli alimenta. Non potendo CONTRIBUIRE ALLA CONVERSAZIONE, esse devono rappresentare il personaggio dlia scimmia, cio atteggiarsi a norma de'seutimenti che si dimostrano dagli altri. Diffidenza eccessiva di se stesso. Questa qualit si trova talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e proviene da mancanza d' educazione e di pratica:  una debolezza che merita Indulgenza, almeno sul principio, bench faccia torlo alla societ privandola di molte idee utili; dico almeno sul principio, giacch un po' d'esperienza dandoci la misura delle altrui forze e delle nostre, questa diffidenza deve sparire se non  unita a stupidezza, ii Scarsa scienza  molta vanit. Alcuni non osano di contraddire perch non soffrono d'essere contraddetti; la loro pazienza non  che un timido orgoglio; il loro silenzio  un mezzo di sicurezza; essi tacciono per non esporsi alla censura. /4. Stolto orgoglio. L'amor proprio raffinato e tronfio sdegna di prendere parte alle frivolezze della CONVERSAZIONE, e di comunicare agli altri i suoi pi che sublimi concetti. Si danno anche uditori disdegnosi che, per non accordare leggermente la loro ammirazione, ricusano l'approvazione pi meritata. Malizia. L'orgoglio va spesso unito a cattivo carattere; quindi il silenzio  non di rado effetto della malizia. Ritornando dalla CONVERSAZIONE, in cui non proferirono una parola, alcuni passano a rivista tutto ci che vi fu detto, con intenzione di censurare i discorsi pi indifferenti; osservatori malevoli, il silenzio de quali  uno spionaggio sempre pronto ad abusare del vantaggio che le anime false e fredde sulla franchezza e la veracit agevolmente ottengono. Fu dimandato a M.r Fontanes 9 celebre matematico, che cosa faceva nelle CONVERSAZIONI ove slava sovente taciturno: Sto osservando^ diss'egli, la vanit degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo! Alcuni finalmente non sono taciturni nelle CONVERSAZIONI, ma misteriosi: essi dicono alcune cose e poscia troncano il discorso con aria d'importanza e mistero. Questa condotta  doppiamente censurabile; giacch da un lato eccita una curiosit che non resta soddisfatta, dall'altro fa supporre che crede gli astanti inoapaci di silenzio o capaci di tradimento. EGOISMO # r ir Se alla loquacit s' unisce legoismo, cio se parliamo sempre di noi ste&i, denostri gusti, delle cose nostre, in somma di quanto ci appar.tiene, siamo certi d'annoiari gli astanti oltre misura.  difficile di ritrovare un viaggiatore che sia sobrio nel racconto de'suoi viaggi; un cliente delle sue liti; un*galante delle sue avventare ecc., . senza aspettare che l'analogia delle idee guidi il discorso ove essi vogliono, taluni parlano della loro moglie che  un'ottima creatura, de'loro figli cJiie hanno sortita ndole divina, de' loro maestri che sono altrettanti Socrati, de'loro affari che tutti vanno a maravigliai de' loro nemici che sono il fior de' birbanti, ecc. : u Di s, de' suoi pernier de' sogni suoi  Perpetuo citator, storia e giornale  Invasi da questa mana si mostrano spesso i gipvni poeti, perch lusipgandf^i facilmente d'avere composto sublimi versi, vogliono recitarli anche ai sordi. inedtartoir acerbo  In fuga volge e ignorante  1 dotto;  Se poi ne abbranchi alcunOf il ten, l'uccsMIe* 1 Leggendo ognor; mignatta, che la cute  Non. lascia pria che ae rilK)cchi ii saague. La stoUem e la vanit giungono talvolta a segno^ che non potendo far oggetto dell' altrui attenzione te nostre heUe qualit, le presentiamo i nostri incomodi^ lenostre . debolezze 9 la nostra pusillanimit, e talora que'raali che, essendo comuni, non meritano speciale riflesso.  i' A che lai lezzi, Schizzinoso mortai, e con qual dritto ' i> Pretender puoi d' esser tu solo esente ) Da la sorte comnn, come se fossi r> Il figliuolin della gallina bianca, 1 Moi vili polli e di vii uovo usciti ?  Cresee r impertinenza, se alla voglia di ptflmre sempre di s, si unisce la pretensione di superare in tutto gli altri. A sentire qualche stolto, i suoi cavalli ilono pi veloci di quelli d' Achille, i suoi jiervi pi avveduti di Ulisse, il suo cuoco pi sagace d'Apicio, ecc. Il sole comprimi ed ultimi raggi saluta il suo palazzo; l'aria non  pura fuorch nelle sue campagne; in nessun gianlino olezzano s soavemente i fiori come nel suo. Chi si move in una danza con maggior > garbo di lui? Al paragone della beHesza non potrebbe egli contendere il ponto alle tre Dee? ecc. Quindi ora pretende al sublime onore di passare prima degli altri ; ora si lagna, perch non pieghi sino a terra la fronte chi gli fa di cappello ecc. I suoi vanti giungono sempre alla menzogna quando parla con persone che non lo conescono. ! a E sei miglia lontan dal suo paese  Tal faceva il signor, barone o conte.Ch'ivi guardava i porci per le spese . f ^ Siccome gli uomini vogliono pi applausi die istruzione, inclinano pi a censurare che ad applaudire; perci comparir nelle conversazioni pi di s occupali che degli altri, voler primeggiare sopra tutti, pretendere di singolarizzarsi a spese altrui,  il pi sicuro mezzo per rendersi spregevole e ridicolo, /j/vj . La smania di rappresentare un personaggio distinto nella conversazione e rendersi lo scopo di tutti gli sguardi,  il difetto principale degli uomini di spirito ^ i quali perci amano meglio talvolta di conversare con persone di poca levata cui possono dar legge coloro discorsi, di quello che ritrovarsi in crocchio coloro simili, da cui temono di .riceverla; cio preferiscono d'essere re in una cattiva compagnia, alPessere sudditi in una buona. Ma solamente una vanit puerile pu compiacersi dell'omaggio di quelli ch'ella disprezza. Due donne di primo rango ti movevano querela^ pretendendo runa suir altra il passo in una chiesa y e assordavano colle loro dispute i tribunali. Carlo V, per impedire le cabale .cui poteva dar luogo questa s seria contesa, stim a proposito di farsene arbitro, e decise che 11 diritto d' andare avanU apparteneva alla pi stolta delle contendenti. L'abate Testu, dice d'Alembeit, dominava principalnieDte all' Hlel-Richelieu, ovo era l'oracolo e l'amico intimo ^iqitif L'amore disordinato di noi stessi tnehdoci fissa avanti lo spirito V idea delle nostre qualit, V ingrandisce snrisuratamente, come il sol eadente ingrandisce l'ombra del nostro corpo e la fa comparir gigantesca. Pu essere citato sotto questo articolo il difetto 4i coloro che la loro arte o professione innalzano ' sopra tutte, e vi mostrano i beni immensi di cui  fonte; e vi provano con cento argomjenti, che se sparissero tutte le altre, essa sola sosterrebbe la, societ cadente e le darebbe lustro. Da ci nasce una serie indefinita di sgarbi, di>spregi, di censure alle volte ingiuste, spesso false, sempre mpulit;e. Un buon prete cui confessavasi Despraux, gU dimand Qual era la sua professione. Io sono poeta, rispose il penitente. Cattivo mestiere, replic il prete : e poeta in qual genere ? Poeta satirico. Amora peggio; e contro chifate voi delle satire? Contro i compositori difxommedie e di romanzC '^^h ! per questo aggiunse il prete, alla buon' orix; e gli diede fassoluzione immediatamente. In conseguenza delPaccennata impulitissima pretensione Alcibiade diede uno schiaffo ad un maestro di rettorica, perch non aveva un esemplare delle poesie d'Omero; ed un altro adoratore di questo poeta fece voto di . della duchessa di quest nome, ^lceome egli non amava d'essere contraddello, ma molto di essere ammirato, perci gli andava poco a sangue il commercio degli uomini, pi conlenlo di brillare in un circolo di donne che talora col suo dir sorprendeva, talora adescava, secondo che meno o pi gli piacevano., t leggere Ogni giorno mille versi di esso a riparazione tarli gli venivano iattL \Irritabilit e ruvidezza. Lo spirito stizMso  ii flagello deH^^Nii^t'i come il carattere dolc ne  il ba)san(M),.Iiiriitbilit rende deeuplo-'il.fientmjeiito.ctolAh supposta offesa: e spesso ha fonte neir ntima p^sijasiooe di non meritare alcun riguardo. Quindi le* peiisMe pi ^irtilei)Ui sm' per lo fii4e? teste pi piccole, pi vuote, pi prive di qualit reati." Gcnvinte dqlla ..kro .BiiUft.> iMiinam amdenl scopo dell'altrui spre^?o, e si confermano in questa idea ad j^oi/miaima eerknoma che per ioavverf lnaa veng cdii ss traseurta.^ Uina parole eftig gita in un momento di calprCi- di vivacit, d'lle^ grezza, viene da ^se esaotlnata con tutto il rigor, non dico della logica, ma del puntiglio, staccata da quelle circostanze che se non la giostifican pienain6iite e fragili 4, che il viv.ere e dimorar con asdofo,  ninna altra cosa , che impacciarsi fra tanti   sottilissimi vetri; cos temono essi ogni leggier '^ercosis, e cos conviene trattargli e riguardar*  gli : 1 qijali cos si crucciano, se voi non foste 1* cos pronto ^ fioUeeto a sduladii a visitarli, a  riverirli, ed a risponder loro, come un altro*. farebbe d'un' ingiuria mortale; e se voi non dato  loro cos ogni titolo appunto, le querele aspris sime e le inimicizie mortali nascono di presente.  l^oi mi diceste messere^ e non signore. E per ch non mi dite voi S. ? Io chiamo pur  voi il signor^ tale. Ed anco non ebbi il mio  luogo a tamia ! E ieri non vi degnaste di  venire per me a casa, come io venni a trovar i^voi Valtr* ieri. Questi non sono mdi da tener con un mio pari. Costoro veramente recano le  persone^a tale, che non  chi, li possa patir di  vedere, perciocch troppo amano se medesimi  fuor di misura; ed in ci occupati, poco di  spazio avanza loro di poter amare altrui; senza  che gli uomini richieggono che nelle maniere di w coloro co' quali usano, sia quel piacere che pu  in cotale atto essere; ma il dimorare con s > fatte persone fastidiose, l'amicizia delle quali s )^ leggiermente, a guisa di sottilissimo velo, si w squarcia, non  usare ma servire, e perci non solo norf diletta, ma ella spiace sommamente.  Altri a nissuno mai fanno buon viso; e vo-~  lonlieri ad ogni cosa dicono di no; e hh prri dono in grado n onore n carezze che loro sf >i faccia, a guisa di gente straniera  '^barbara; non  sostengono d'essere visitati ed accompagnati; e  non si rallegrano de'motti n delle piacevolezze;  ^ tutte le profert rifiutano. Messr tale m*im pose dinanzi ch'io vi salutassi per parte sua. Che ho io a fare dei suoi saluti ? ^ E>l messer cotale mi dimand come voi stavate.^  Fenga, e s mi cerchi il polso  La naturale rozzezza dell' uomo, fa mancanza d^educazione, una stolta vanit, la piccolezza di spirito, talvolta dei risentimenti amari, talvolta Fimpossibilit di partecipare ai piaceri sociali, bastano a spiegare in generale gli accennati difetti. Una causa speciale d' irritabilit e ruvidezza si era per Taddietro uno stolto orgoglio di famiglia, per cui alcuni, persuasi d'essere vasi d'oro, e credendo tutti gli altri di fango, sfuggivano ogni contatto con essi, si mostravano alieni da ogni confidenza, s'atteggiavano a sprezzo abituale come queir Omberto ALDOBRANDESCHI a cui Dante ALIGHIERI fa dire,  L'antico sangue e l'opere leggiadre  De'miei maggior mi fro s arrogante,  Cbe non pensando alla comune madre,  Ogni uomo ebbi in dispetto tant*avante, ^ Cb' io ne morii  Finalmente vi  una irritabilit e una ruvidezza che  figlia di timori immaginarii. Un asino sta mangiando il suo fieno; voi gli passate a fianco senza pensare a lui; egli si volge e vi mostra i denti, temendo cbe vogliate rapirgli parte del suo pasto o tulio.  In questo stalo d'allarme si trovano non di rado alcuni, percb credono d'avere sempre qualche nemico a fronte; quindi stanno continuamente sulle ditese, pronti anche ad assalire chi non ha giammai pensato ad essi. Uno sguardo incerto, una parola dubbia, un atto che non sanno spiegare, eccita tosto il loro mal umore; quindi succedono degli sgarbi, parecchie amicizie cessano, delle nimist sottentrano, e l' allegrezza dalla conversazione sparisce. Contro i quali difetti . vatgpna i seguenti riflessi. La societ  una piazza di commercia, ove 8i d amor per amore  .stima per stima, odio per odio, sprezzo per sprezzo. Jn.qiesto camliia d'affetti ciascuno procura di non essere ingannato, e rieiisa } dar pi di quel ctie riQeve. L'orgoglioso vorrebbe violare queste due lef^i; egli d sprezzo, e vorrebbe ammirazione : egli d poco o nulla, e vorrebbe motto; quindi s' irrita non rfeevendo !n proporzione delle sue pretensioni; egli  irragionevole come colui che con pochi centesimi volesse eomprar delle gemme. Il tempo che perdete in lagnarvi inutilmente, in prepararvi a difese, in mulinare contro chi non pensa a voi, occupatelo a rendervi stimabile in qualche cosa, e coglierete rispetto e contentezza > mentre attualmente cogliete sprezzo e rammarico.  ottima cosa la sensibilit airopinione pubblica, perch  stimolo alla virt e ritegno ai vizi; ma  pazzia il far dipendere la propria felicit dairopinione eventuale di questo o di quello.   Brami invan d'esentarti alle punture,  Se ff d' A pelle infin Topre Immortali  D'un ciabatti Q soggette alle censure. Pretendere che la nostra condotta ottenga lapprovazione di tutti,  nretendere che a tutti piacciano le stesse vivande, i falsi giudi%i del volgo non tolgono pregio alle nostre azioni, come le nubi non tolgono pregio alla hice del sole. Chiama in Roma pi gente alla sua udlenea  L'arpa d'aoa Ucisca cantatrice^  Che la eampafia della Sapienaa.  Laseino omai> le dispute e i litgi  Il Portico e il Liceo, poich' et MllM   Pi di Talete un aarto di Parigi.  *i^ sono delle persone dalle quali essere lo4a(p sarebbe infamia, e lo sprezzo delle quali  segn 4| merito. $iate dunque sensibile air opinione pubblica^ e sordo alle yoci .p^rtioolari cbe da es^ discordano^ ricercate l'approvazione delle per som assennata 2;iV^2^o5e,^e ridetevL4f)U dpgli sciocchi e de'yiziosL *t Uq .vi^giatore, dice Boccalini, era importunato dal rumore delle cicale; egli yolle ucciderle, e s allontan dalla strada; egli doveva continuare quietatneate il suo viaggio, e le Qical^ sarebbero wprJje 4a se 9|M8e alla fiue di otto giomL. I lE fo come il villan, che, posto in mez^ ' r i V Al romor delle stridule cicale,  Semai eurare H fimeo strido toro D Segue traa^uUamente il suo lavoro.  III. Se avete qualche difetto fisico, siate il primo a riderne voi stesso; in questa maniera sfuggirete airaltrui motteggio : facendo altrimenti, mostran* dovi tenera da questo lato, ognuno si procurer il piacere di pungervi. Alfieri, costretto a portare la parrucca nella $ua giovent, allorch trovavasi in collegio, divenne iminediataBiente lo scherno di tutti i suoi compagni.  Da prima, egli dice, io m'era messo a pigliarne apertamente le parti;  ma vedendo poi ch'io non poteva a nisBua patto  salvar la parrucca mia da qaello sfrenato tor  rente che da ogni parte assaltavala, e ch'io ao dava i rischio di perdere anche con essa me  stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito  pi disinvolto, che era di sparruccarmi da me  prima che mi venisse fatto quell'affronto, e di  palleggiare io stesso la mia infelice parrucca per D l'aria, facendone ogni titapero. E io fatti, dopo  alcuni giorni, sfogatasi Tira pubblica in tal guisa,  io rimasi poi la meno perseguitata, e dirci quasi v a pi' risj[lttta parroeca fira le due o tre altre  cb^ ve n'erano in quella stessa galleria. Allora  imparai che bisognava sempre parere di dare.  spontaneamente quello ebe non si potea impedire  d'esserci tolto. ; >^ Benedetto XIV fece di pi: un cattivo poeta aveva stampata una satira contro di lui: il Pontc09%^jBsamin, la corresse, la . rimand air autore, accertandolo che cosi corretta la venderebbe iV. (%esterfi0ld aggiunge:  IVon mostrate iriai  il pi piccolo segno di risentimento se non potete i in qualche maniera soddisfarlo: ma- sorridete^  sempre quando non potete punire. Non si po:  trebbe viver nel mondo se non si pocesserana^  scondere o almeno dissimulare i giusti motivi di  risentimento che incontrano ogni giorno in  un'attiva vita e affaccendata. Chi non^ padrone  di se stesso in tali occasioni, dovrebbe lasciare ilmondo e ritirarsi iu qualche romitaggio o de  serto. Mostrando m inutile e cupo risentimento^, LIMQ^EUO,  autorizzate quello di coloro che vi possono. of* 3 fendere, e oh/f voi olCeodigre aoa potete} porgete 1 loro quel pretesto eoa cui forse desiderano di . Komperla cop voi e d'iugiuriarvi, mentre un op pqsto coQtegBO li forzerebbe a star ae'liiniti delia  decenza almeno, e sconcerterebbe o farebbe pa lese la loro otalfgoit V * J ^ii^' In somnia^ sodo le deboli canne che si lasciano turbare da ogni soffio di vej^o, pentrj^ le alte gttpr0e rslstoiK) agli aquiioni. Finch dunque si tratta d'ingiurie lievi, la miglior^ risposta, si  il sorxiso del dispre^ui^o; ma Quando iti tratta d' ingiurie gravi ch offendano l'onorey chi le soffre le merita; il risentimento in 'questi casK  cosi jiusto come  giusta^lsi legge che le punisce. ^^l \ i 10. Curiosit degli affari altrui. > Non pu abbastanza censurarsi, perch contraria alla confidenza e quindi. all'allegrezza, la smania di eeloro che vogliono conoscere tutti gli affari altrui^ saperne le pi minute circostanze, e dei nomi chieggono notzia a de' luoghi, e, per trarvi di bocca qualche cosa di pi, pria fingono di non avere bea intesot poi vi dimandano schiarimento ad un dubbiti^ orarvi piantano avanti un sospetto come in* fallibile, e, vedendo che lo respingete, mostrano di ricieders passando al sospetto opposto, e dalla nuova vostra negativa o maraviglia fatti accorti si ripiegano aopra se stessi per ritornare airattacco; e 0 non gran pompa di tolleranza v' invitano ad aprir V animo, o con improvvisa ed isolata interrrogazione vi sorprendono : e tenendo gli occhi fissi sopra di voi, cercano di leggervi nel volto V impressione che fanno i loro discorsi, la quale, pav - ragonata e unita alla vostra risposta, serve loro di via per giungere al vero. Questa curiosit conduce -i ciarlieri, i parabolani, gli invidiosi, i tristi per tutte le case, i palchi, i caff, onde raccogliere e. raccontare i^.^^ > ' it ie vicende ascose: w Degli instabil amor, le cagion lievi Dei frequenti disgusti, i varii casi  Del d gi scorso, le gelose risse, Le illanguidite e le nascenti fiamme Le forzate costaiize e le sofferte. Con mutua pace infedelt segrete,   Dolci argomenti a feraminii bisbiglio. Questo prurito d'indagare le faccende altruf  tanto pi attivo, quanto pi si manca di idee e di sentimenti proprii; giacch il nostro animo volendo ^un continuo pascolo, se non ne trova in se stesso . va per le altrui case a questuarne. v  ^ Senbra che anco la vanit concorra a rendere il pungolo della curiosit pi attivo. Si crede acqui" *i ' ir L'Imperatore Claudio sarel)be morto di noia se noi) si fosse occupalo ad ascoltare tutte le cause che si agitavano nel foro, ed a conoscere tutti i segreti, gli accidcnU, le sventure,i piccoli odii, gli intrighi, i pelegolezzi delle famiglie. Gli avvocati, cui era nota questa sua debolezza, lo prendevano alle volte per i piedi e lo trattenevano in tribunale allorch egli voleva partirne. Le dimande inopportune, le rispostestolte, i riflessi ridicoli di qlieslo preteso giudice mei \ levano in tale evidenza la sua stupidezza, che un avvocato :,v.',.Starsi qualche grado di gloria nel poter dire lo^lo io l'ho veduto : infatti gli stolti e gli scioperati  amniirano queste notzie, e credono uom d'acuto e; perspicace ingegno colui che le spaccia; mentre tutto : il suo ingegno si riduce a prestare le sue orecchie ai discorsi degli altrui servi e nio;izi di stalla. >^ Siccome in tutte le classi sociali sta la realt all'apparenza come la grossezza della rana alla grossezza del bue; siccome ciascuno si sforza di coprire con color lusinghiero le proprie debolezze, quindi il curioso che vuole spingere lo sguardo /sotto al velo delle cose, offende sensibilmente l'altrui amor proprio, e tanto pi, quanto che da un lato si temono maligni commenti, dall'altro si vede minacciata pubblicit alle proprie miserie ed ai difetti, sapendosi da ciascuno che il curioso  indiscreto e ciarliero. Sarebbe desiderabile che i ^ curiosi venissero a scoprire nelle loro impulite ricerche ora un'azione virtuosa che la modestia voleva sottrarre agli altrui sguardi, ora qualche accidente che offendesse il loro amor proprio, come successe a Catone, il quale stimolando Cesare a mostrare una littera che questi ricevette in pien senato, e di cui faceva mistero, Catone, dissi, vide con sua sorpresa una lettera galante scritta i"di pugno di sua sorella. Allorch s tratta di cose alcun poco ragguardevoli, il curioso corre pericolo d'assicurarsi Tonoratissimo titolo di spia. Gozzi dipinge nel modo seguente la comune curiosit de' faUi altrui e i suoi ridicoli commenti. ( Sar uno nella sua slanza cheto, solitario; penser, Franklin ci d un metodo, se non per liberarci dai curiosi, almeno per troncarne Y importunit; 1 .v.  Jegc;er, scriver, o far qualche altra opera onorala :  uscir di casa, ander un poco inlorno a ricrearsi all'aria;  saluter due o tre amici, perch pochi pi ne avr voluti^  sapendo che di rado se ne trova anche uno che sia vero:  e appresso rientrer come prima a fare i falli suoi. Che  uccellaccio  questo ? diranno alcuni : non  possihile che ) un uomo sia fallo a questo modo. Si comincia ad inter prelare ogni suo atto, ogni parola. Sapete voi che ha voluto  dire quando alz le spalle ? quello che signific queir oc*, > chala? e quella parola tronca ch'egli ha proferito? Sicch il pover uomo, senza punto avvedersene, ha dietro il notaio  e Io strologo, e chi nota, chi indovina, chi fa commenU alla sua lingua, e a quante membra egli ha indosso. Vo  lete voi pi? Tanti sono i sospetU del fallo suo, che egli  avr fatto nell' opinione d' alcuni quello che non ha fatto mai, o che non avr sognato di fare. Le cose di questo mondo sono come una matassa di filo; chi non sa trovarne il capo, la lasci stare, perch s' impiglier sempre  pi. A me pare che quando s' ode a raccontare qualche  cosa d'uno, si dotesse prendere questa matassa, metterla  sull'arcolaio, come fanno le femmine appunto del filo, scio  gliere con accortezza il primo nodo, e preso il bandolo in  mano, cominciar a dipanare con diligenza, e, secondo che si trovano gli intrighi e i viluppi, tentare se col candore dell'animo e con la verit si possono sciogliere. Se non si H pu, buttisi via la matassa, ma quasi sempre credo che s potrebbe da chi non corresse troppo in furia, per vo^ H lont d'ingarbugliare piuttosto che di snodare. Questa u-^ r ganza  quasi comune. Bench la logica insegni in qual  forma s' abbia a fare per venir in chiaro di certe faccende incredibili o inviluppate, pochi se ne vagliono, e menasi il n basloie alla cieca, e suo danno a cui tocca. Quando il  capo  principalmente alteralo da sospetti o dal mal volere  contro una persona, si pu dire che questa sia una specie ivi 4Sfl umm tmM e . questo n^do cooste nel precisare il disMMio e limitame H soggetto in nde^ da 'Weliidero quai^lunque eventuale dimanda. Allorch questo filosofo ni 1 0 che dove prenderei sapendo quanto erano curiosi ^ kiterrogator gli Americani, usava dire alle persoAe cui dnrigevasi: 11 mionome .Franklm, staoH' patore di professione; io vengo da tale luogo, voglio andare a tal altro: quale strada devo tenere? Dichiarando impulita l'eccessiva curiosit, av-^ verto i giovani, che in molti casi la curiosit ; vin; perch lindifferenza, la non curiinza linsensibilit sono la massima offesa per lamor proprio x^he vuple occupare gU ititn ili S9 atpsso V  ^ conservare le apparenze della modestia. La pulitezza v' impioiie adunque dt chiedere frequenti aptfeief di mostrarvi inquieto suH' . altra! aorte ^ d esternar piacere o dolore alle altrui foi tnne o disgrazie. L'infelice, come  stato detto altrove ^\ sente alleviarsi il peso de' suoi mali allorch gli 4j^e^ al suo simile; ma q^olte volte temendo d'imv ^tf^unaito, si pasce di cordoglio in segreto, allora fa d'uopo che una tenera sensibilit gli faccia una dolce vio^enzaf e "versi il balsamo della eon ^ solazione sulle piaghe del suo animo: la curiosit de' superiori o degli amici in questi casi diviene imlesto rugiada.  Parimente, ccome II timore dV equistarsi la taccia di vani, consiglia alcuni a ve* lara le loro fortune ed onori : qindi la pulitezza^, y d'ubbriache/za, per la cui forzii l' uomo non vede, n sa pi quello che si dica o faccia, e appena coiX)sce pi s  medesimo 4Sr eome. attrai ai m ^ vgoto^ehe iiigtaM il di* scorso da questa banda, ma con destrezza e tale eanfeaiaQsa di parole, dm la congratulazione e l'elogio seovri 'adiilaamie si mostrino e di men^ 20goa. V In oMkia > Ja cnriofiit  ripronslbile qomdo minaccia pubblicit alle altrui debolezze e imperf zioni;  lodevole quando tende . a dare risalto al merito o porger aoeeors al bisogno. Burrasche delle CONVERSAZIONI i o dispute. 'I glardiAf de'iilosofi d'Atene si estendevano dalla rive deirillisso sino a quelle del Cefso. Gli Epicurei s erano stabiliti al centro, i discepoli di Piatone vrso il Nord, e quelli d^Aristotite al Sud. Non si videro giammai vicini men turbolenti n man gelosi: un sentiero d* ulivo ^ un boscbetto di mirto, una siepe di rose separava i sistemi e serviva di limite al regno dell'opinione. Le conver* sazioni non ono sempre ugualmente paciliche; la diversit delle idee apre il campo a lotte rumorose accompagnato e seguite da parecchi inconvenienti. Idea della personalit. Discutere  allegare le ragioni e gli argomenti cui due opposta opinioni si ' 0 sione degenera in disputa al momento che qualche personalit vi si frammischia. Per personalit non si intndono qui quelle patenti ingiurie che la buona compagnia interdice, ma quelle che, sebbene meno gravi, non lasciana d'essere nel tempo stesso pungenti per Taltrui amor proprio, ed estranee alla cosa. . Due specie di personalit sogliono per lo pi introdursi nella discussione, e le fanno degenerare in disputa.  > Colla 1.3 spede si fa rimprovero air avversario ch'egli parla per motivi particolari, d'interesse per se stesso, d'affezione pe'suoi amici o per la sua classe, d'odio contro i suoi nemici, ecc.  Voi  parlate cos perch siete militare; e voi negate  perch siete prete, ecc.  Ognun vede che queste non sono ragioni; e quanto  facile di farne uso ad uno, altrettanto riesce spedito all'altro il ribatterle. Colla 2.3 specie s dice all'avversario ch'egli non conosce la materia di cui si parla; ch'ella suppone cognizioni superiori alle sue; eh* ella  estranea alla sua professione. Anche questo modo d'argomentare tende bens a deprimere la persona dell'avversario, ma non scioglie i dubbi eh' egli proipove. Inoltre, senza essere, per es., giureconsulto, non  impossibile d'avere delle idee giuste e nuove sulla giurisprudenza. Cause delle dispute. Si direbbe che gli uomini inciviliti amano le dispute, come i selvaggi i combattimenti. Sono cause di dispute: I. // desiderio di conservare la propria libert. In parit di circostanze ciascuno preferisce all'ai'. litti^ Jaia 9iMm^ ppunto perah  sm ^ jqumdi siamo tanto pi resti! ad ammettere l'opinione altri, quanto  maggiore 13aria di epmaoido con om ei viene proposta, fiiif sottopond al nostro giudizio un'idea sotto le forme del dubbio, riesce fi,feibiimt0 a eonYtnemi. dr ^oello ^ ehi > senza produrre argomenti maggiori, nfH>stra di vo* ler dogmatizzare e vietarci ogni obbiazioiie L'uoma  ai geloso detta sua libert intellettuale, eoitae la . della ua libert civile e politica. Dopo molti acutissimi argomenti 1 E molte riflessioni pellegrine  E belle cose dtte da^taienti  S grandi, la questione ebbe qul fir v '\l.  Che soglion tutte le quistioni avere v " Cio ^est ciiscun,4el, mo parere . IL La vanU^^ee^ uaa apecie d'avvilimento^ tst sommettere la propria alF altrui opinione, percK' lo crede segno 4'iaferiorit intellettuale. Il dispia-, cere d questa supposta infricirit, sensibile in ttt^ cresce in ragione dell'alta idea che ci formiam di noi stessi, e pu ( tant'  la. debolezza umana j ) . giungere al plinto da cagionare la morte, come successe ad un filosofo dell'antichit detto Dodoro. Erano state fatte a questo sedicente filosofo alcune, obbiezioni, alle quali egli non seppe rispondere : lo sgraaiato .fu punto da s vivo malincuore e dispetto, perch il suo spilli to lo aveva tradito, tm spir air istante.  si ver4 die la. vanit  cavia di dispute^ che il silenzio d'uno de' disputanti che resta nella propria opinifma diviene offensivo;per Taitro. Il silenzio in questo caso sembra provare che si ha s basso concetto dell'antagonista, che qualunque ragione non basterebbe per convincerlo; quindi si risparmia la pena di parlare. Costui vede dunque che mentre egli si sfiata, il nemico sorride, e lo lascia abbaiare come i cani alla luna; e che quindi egli non ottiene lo scopo che si aveva proposto, cio la superiorit sul suo avversario. La Mothe aveva detto male d'Omero; il poeta Gacon pretese di vendicarlo; la Mothe non rispose]: roi non volete dunque rispondere al mio Omero vendicato'? gli disse il poeta, f'^oi temete la mia replicai Ebbene, voi non V evltet^ete; io pubblicher un libro che avr per titolo : Risposta al silenzio di la Mothe. Lo spirito di contraddizione. Alcuni par che non godano d'altro che d'essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche,  fanno professione di.. contraddire dispettosamente ad ognuno senza riguardo.  Pria che tu parli, M Nega quel che vuoi dir, e se consenti .  Pur d'aver torto, Non  yero^ ei grida^^^"  vuol ch'abbi raglotii"/-' E siccome taluni si mostrano terribili nelle dispute per la forza e capacit de' polmoni, perci sembra che lo spirito di contraddizione si debba primieramente a stolto orgoglio attribuire, o sia indistinto bisogno di dominare. Lo fomenta fors'anche una causa fisica non ben nota, chiamata temperamento, quella causa per cui il can rosso dell' abate Casti neinilustre adunanza degli animali parlanti. Di petto Instancabile e di voce  Ringhia; con tutti ognor brontola e sbuffa,  Pronto con tutti ad attaccar baruffa. Le inimiczie sogliono essere una delle primarie ragioni per cui si rigettano le idee altrui; giacch all'odio sembrano vere e reali vittorie le mortificazioni alla vanit dell'odiato. Secondo che racconta il Castiglioni, trovandosi due nemici nel consiglio di Fiorenza, V uno di essi, il quale era di casa Altoviti, dormiva; l'altro che gli sedeva vicino, e che era di casa Alamanni, per ridere; toccandolo col cubito, lo risvegli e disse : Non odi tu ci che il tal dice ? rispondi, ch i signori dimandano del tuo parere. Allor TAltoviti, tutto sonnacchioso, e senza pensar altro, si lev in piedi e disse : Signori, io dico tulio il contrario di quello che ha detto T Alamanni. Rispose rAlaiiianni: Oh! 10 non ho detto nulla. Subito disse rAllovit: Di quello che tu dirai ! ! i V. V imperfezione inerente a qualunque cosa umana apre il campo a rinascenti dispute. Questa imperfezione risulta : Dagli oggetti che hanno molti lati, e de'quali ciascuno considera quello che pi gli piace; 2. Dalle persone che non hanno gli stessi occhi, gli stessi interessi, gli stessi principi!, le stesse cognizioni, gli slessi gusti. Petrarca parla iV un uomo, il gusto del quale era si depravato, che non poteva tollerare il dolce canto degl'usil^nuoli, e gongolava di piacere al crocidar delle rane. Dalie parole che non sono abbastanza moltiplicate ne abbastanza particolari per essere sempre esatte ^ e corrispondere ali^ varie modiGcazioni de' sentment!. Quindi tutto ci che si dice e si scrive essendo SQfi^ettfvo. di variet indefiaila^ non deve recare maraviglia se a costanti opposizioni va soggetto, ^1ra le eansa delle dApntei e sotta questo arti* colli fa d'uopo ace^nramia monto di spiegm^ i futti prima d'esserBi accertati della loro esistenza ^ e .per col si dispala con- taMd maggioi* calwes quanto che ciascuno parla y ccilne si dice, in aria, e M batte con strali di nebbia. Nel l>05 corse rumore elio essenilo caduU ideali ad qi faiciailo df sette anni nella Slesia, gUe.tt era sorlo uno d'drd al poslo d*tino de'ipollftri eadutt. HorsHus, professore di meileina mellf universit ^i ffelmaMftd, sf rsse nella storia di questo dente, e pretese ch'egli era in parte naturale, in parte niracoloso, e. che era stato spedito da Dio a questo fanciullo^ a fine di consolare i Cristiani afflitti per le vittorie de'Turhi. t^lguratvt quale consolazione poteva recare al cristiani tm dente d' oro, e quale rapporto poteva unire un dente e i Turchi. Nello stesso anno, attnch questo dente noB-manoasse di storici, RuUandtui ne diede una nuova storia con VMOvI cijmiDelitIt SuaUnni dopo ^ IngloBlerns ^ altro, dpU^ tedesco, scdsse contrq II sistema esposto da iWlandus^ W quale rispose cpn una pix)fonda arcihelllssima replica, come  ben naturale di supporre. Un altro dotto d'eguale calibro raccolse tutta ci i^ha era stato detto sopra questo dente maravtgliosOi e vi aggiunse i! suo parere* A tante bHe per aitro non mancava se non che la cosa fosse vera, do he II dente fosse d'oro. Onando un orefice Tebbe esaminato, risult che questo preleso dente d'oro era umi Incmvementi delle disput/ L'imn araltya elle sopraece&nate peirsonalit suole inacerbire gli animi nelle discute : Ordiiariamente ricorre pi spesso aite personalit chi pi scarseggia di ragioni, 3. Nel calore delia disputa ^li animi perdano di vista rargomento' primitivo^ 'e vanno divagando fra idee accidentali Tuno all'oriente, Taltro all' occidente, questi in >Ic; quello al bass ^ Dsicch dopo lungo alternare di s e di no, dopo un'ora di tempesta, dopo d'ayere perduto la voce e i polmoni, i conteodeati pi cbe pria trovansi lootn! dalla meta,, ]^fiMii0 di 4U08|ta dUpQsizione d^ loro che la decisione della disputa temono contraria alle lor viste; quindi s'arrestano sopra oa parola, contendono sopra una slhfifrtudine, scMainazzano sopra un'idea accessoria ecc.; il perch .talvolta/a cdlwosa i^ntesa sopra circoif^s^nze ac' cideitali potr smprirpi la dubbia, fede di lai uno da' coniendentL foglia d'oro destramente applicata al dente ma s cominci A disputale e aompprre de'libn, posd^ ^ consult l'oreiice. foMaeeademfeo A Seeliao, me^ibro d' altre accdeoUe, in vm giOg^Mti |Mdb1kta ael 4821, j^ailmdb deUa pcovinda Lodigiana, dice che ivi si fabbrica .iV- celebre formaggio deUo parmigiano; nel che ha ragione : ma il bello si v che ag. SiWgB cbe questo ((nrmaggio si fabhi:ie^ col latte di asina. Se quaala gcariaso M^ddoM>  oneduto, possiamo aspi^tacci uoa feoiioa di dissertazioni sui nostri formaggi ffasipati Dal riscaldameato contro le ragioni si passa al risealdtmeiiio Mnlro Je feraipei; e :i disputanti dimpslrano Negli occhi il fuoco e sulle labbra il tosco In somma dalla disputa s pass^ alle ingiurie, gentilissiiue ed edificanti ragipni degli eroi di Omero. Iqfatt^ Giove non parla mal a .Giunon .senza dirle molti improperi!, e Giunone non risponde che sullo stesso tonO. Dopo s npbiU esenipip figuratevi come dovevano parlare gli Dei minori. In forza di questo riscaldamento, o in, mezzo a questa lotta di vanit, ciascuno a'osti^ia nel pri (i) jF^ra i IraUi caratterisUci.degli awpcaU iligiil, 1 an'impudeitt. Que ;.Mia gloria non ripongo in ostinarmi,, i . torre, hai a fai*e con un greppo, e non ti riesce altro se  non ch tu medesimo t' induri, e a poco a poco senza *) avved s' appicca air altro, tanto sei tu ostinato e duro nella tua n opinione, quanto egli nella sua, e non c' pi verso, che  n l'uno n Taltro si creda d'avere il torto. Nella camera de'comuni d'Inghilterra, chi discute r altrui mozione o risponde ad un argomento, in vece di 'designarne l'autore col di lui nome individuale, ricorre a qualcuna delle seguenti circonlocuzioni : l'onorevole membro alla mia destra o sinistra, il gentiluomo dal cordone bleu, il nobile lord, il mio dotto amico (parlando d'un avvocato)* ecc., ovvero semplicemente il preopinante. La ragione di questa regola si che la specifi aOa libert delle opitueit  schermo contro le ingiuste accuse. Nei dibattimenti pplitieii com(9 HeUa^gju^rra^' ciascuna deve. asteneES da que' mezzi che ragjionevoitnente non yorrcbe Msati opntro di s.  ) ? 1 -Ma sQi^rirttutto poid'Memoata^^liegek tepiiliMr^ alla prudenza. Infatti, voi credete che il vostrb a^jta^aui^ 'apfiig^ al. torto^^ oi^. egli ummrk torse resto ad abbracciale l vostra opinimie* s gliela presentate nella sua nudezza scortata sold dagli argofwoti elM la dinioetiaadv Mealtn idee, o palpabilmente vere le vostre. La mAt 0 r^ppfovairtmi 'che 4wdrete sut nSMI'iBltM^'^ I me ii^KmM^ cAft ee^Hun^ Urist faecia ces\ queista me:&2;o gi iicceooato di sopra. Chi ael e. Qqanlo forte e psseote : e s dicendo, . ' v\ Prende capace coppa, e a lei con questa, ; Presentandosi innanzi : Ah soflri, o, .madre n SommessameotJ^lgllando a^unse'^, i $Qnrif iiie'yoH^^Impiinem^EHtftlei 9 N non vuole mtate-fiirta' in generosit. Quindi glanimi si acquietano. Lo spiritoso Voiture ha punto e nareeiNto un cor ^hHoi quetf vt)lva omingerlo a battersi in duello. La partita non  uguale, risponde il poeta. Siete grande io soa piceola; \voi siete bravo ed io poltrone. Voi volete uccidermi? ebbene, eccomi morto. gU dissirma il suo nemico facendM Quando i contndenti non la finiscono, e kt disputa  alquanto loalorom y pnM dvf^ degli astanti d'interromperla con suoni, cantij giuochi^ soniniinistraziani di Jiqwri o ifn|li. V Al suon {piacevole. D'arpe trniafitr,  Mescete, o vergini,  Mescete i canti Satira itran. t I. UtilH della satira urbana. Condannando come inurbane le villanie e le ngiuriC) non intendo di vietar Tusa savio ed op^ prttino deli' ironfa o idetta a^ttn eh flUt^ pregiU'* tifiao tElujO  volta giunge a porre sul trono il vero, )ridendo . J'amor pri^Mifo, che non ahbaadana uomini m aoQ qiiMd^,9m abtoodoiiwo la, vk; ii toi^ temere spra ogni altro male la dersione, e scuote Jovb d dos89 .r uidolenza, e daUe^ i^j^ cai^ feUe gir spoglia per non rimanere esposto ai frizzi del ridicolo^: i) che jpes^. non, ottime la pii l^mpaoti^ Tri 6d ligguerrta >raginir./$e Aristo&iie avelie dato agli Ateniensi In una concione quegli ani* ma^brameoti. etie died^.loro .aeU^ cooiniedie, l'avrebbero lagnato a pezzi; laddove in teatro ridevano smasc^llatamente e di^vaiio eh' egli, aveya vagioiie. Bi^ch i Geniti aTesaerc^ veduto CiaerOQe assalire Tedificio dellldolatra con armi prestategli dalla, filosofia V. poro iiea. aapavafio lodimi .ad abbandonarnei tempii. Comparve in mezzo d'essi Ladano, il ^uiQ fece la guerra al gentilesimi. doI .lotteggio, fi se non ne distrMse gli altari, ne d^ sperse in gran parte gli adoratori. Il buon senso ha {irseritte. la^ mz^ia cavallefescfae in fspagna, pria che nasces^ d^rvanfes;C m quella nazione non riusc a spogliarsene se non dopo ^'tgii abbe precutato al ptibbli^, 11 suo ridico* Kssimo Dpn Chisciotte. Tanto , vro ci che dice Orazio:  fPnoa graVf sstenza ottieB pi spesso  II desiato Cne arguta celia . Si deve adunque riguardare la satira come una apecia d'ammenda censoria che aerve a corriere quei difetti i quali, senza cessare d'esser molesti e talora 4muk)s alla aociatb non triy^Qsijaei codici, St inosservati dalio stesso colpevole seoza la caule mmo9lme della satira \ del an^tteg^;  dello scherzo. Il suo pungolo viva e leggiero, vibrato a tempo, pu divenire suppUmento alla le* i mtnvte azioiii' altrui ^lU&ee severa inquisizione, A fiiie t itywf qualche aeGateBa^ e;.coii wA^ gni >ep]or. adoaibrarla:  Di tutti invidioso dice malQ Snisa rispetto, e pretendi^vii ardito ' .  Piovra i costumi altrui far da fiscale Quindi suUe cose, sulle folle ^ sui pregiudizi, sulle |ti*itensi(^ai d^lj'aiuor proprio, ' sui vizi in generale evc H 'jmotteggit) pi spesso cadere che .non suiruomo particolare, ccioecb alpri, vo^ndo eedtar iH .rteOi non apra una piaga mortale mei4'altrui animo, e non s'esponga all^d^o delle per SOM emeste se la /SMira d in ialso, . FqItio chet-. tenerlo non debbe chi spargendo false maldicenze e ingiuste satire, dice d'averle intese da. Pietro a d9 Martino, io un caff o in un'osteria, enones^ i^ne egli rinventore^ '  SenCilor W raceontar, fti un trombe]^ Preso una volta da'nemici in campo r  Mentre stava sonando alla veletta: V \\ qiial, per ritrovar riparo o scampo/  Dicea che solamente egli sonava, Ma eoi stio frro mai non tinse il campq. Gli fu rispo$to allor, ch'ei meritava  Maggior iien^ pero; poich sonando^ > Alle stragi, al. furor gli altri irrita. Dopo (Tavere stabilita la legge generale, fa d' uqpo aggiungere le ecceziotU, le. qvali per lo piiij dall' e$am delle ragini w cut fondMli l 4lessa legge^ risultano. y url^nit jno! coBdaQQa ne nel convenar ab eiale n nella repubblica letteraria i modi satrici pi. 0 .iDeoo .piccanti, ma veri, contro gi indk^i^, dui t^ seguenti casi e pe' seguenti motivi: /, 1^ Rispingere m impertinente aggressore ^ jMtiasiiiio Oacier^ entuaiasta della eiMza ^digb' antichi, ascoltando un giorno una dama che non ne parlava Qon troppo rispetto, e prioiHpdknj^qt del divino Platone, le .disse con tatta la gentilezza degli eroi d'Omero: Certdment;^ madama non degnasi di leggete dtro Srittere antic che Petronio (ciascun sa che Petronio  rutore prediletta de' dissoluti^; Perdojiate^, replic ellat f aspetto, per leggerlo \ che voi fie abbiate Jatto un santo. Chi vorreje dare al {rizao di quella dama ia ttisoiii dimpulito? Un principe volendo divertirsi a spese d' un suo cortigiano I eli' egli avm impiegido ip divers amb^^ecie, lo Mendicar la ragione deglattentati duno stolto o d'un impostore. SOCRATE adoprava LIRONIA  cf. Grice -- colle persone presuntuose, con que' pretesi dotti universali che, non sapendo nulla, davano ad intendere al popolo di saper tutto, e pronti mostravansi a rispondere sopra qualunque argomento. Luciano smascher il celebre Peregrino, il quale profittando della dabbenaggine popolare, e facendo false predizioni, aveva aperta una bottega d'impostura nella Grecia e s'era arricchito a danno del senso comune e del pubblico costume. Mendicare i diritti del giustOy delVonesty .della patria dagli attentati demalvagi, per falsa opinione potenti o per forza' reale. Chi avrebbe potuto condannare Cicerone, allorch metteva in evidenza i vizi di Catilina e i suoi atr tentati cntro la Repubblica? Il giudice che espone un delinquente alla berlina con un cartello sul . pettOj ove t\ leggono i suoi delitti,  senza dubbio un maldicente; ma questa maldicenza personale  necessaria a scorno del delitto ed a fine;di prevenirlo' rassomigliava ad un barbagianni. Io non, so bene a obi mi ral^omlgli, rispose il cortigiano : tutto ci cb'io so si , che ho avuto l'onore di rappresentare molte volte vostra maest. ' Anche nel eguente madrigale il frizzo  giustilcato dal diritto di difesa:  D'un ponte al passo stretto. Stando sopra d'un carro Tommasetto y hicontrossl In due fraU zoccolanti -, n Che disser : Villanaccio, Ur avanU. Ed egli: Aspetto che passiate voi; ^  Non to' mettere 11 carro innanzi t* buoi . a.. m f-Il pdjdrone che, interrogato sulle qualit d'un servo licenziato, dietro la sua esperianza lo dchiara ladro,  senza fallo un maldicente; rna que* sta maldicenza o diffamazione  utile, giacche  meno male che resti senza padrone un ladro, di quello che vengano derubati pi innocenti. ChesterOeld non distinse con precisione i con* fini che la satira, la derisione, la maldicenza utile e necessaria separano dalla maldicenza inutile 0 ingiusta, nel. seguente paragrafo. La privata maldicenza non deve giammai es*^ sere accolta e divulgata volontariamente, perch  sebbene la diffamazione possa al presente ap pagar la malignit e Torgoglio de'nostri cuori, i> pure la fredda riflessione trarr da s fatta inclinazione conseguenze sfavorevolissime per noi.  In fatto di maldicenza, come di ruberia, chi la  raccoglie  sempre creduto colpevole quanto il ladro stesso . Distinguete la maldicenza che svela le altrui innocue debolezze per sola voglia di denigrare, dalla maldicenza che svela i vizj veri e i delitti reali che possono essere dannosi al prossimo. La prima  ingiusta e riprensibile, la seconda utile e necessaria. L'uomo cui siete per affidare la direzione della vostra cassa,  un truffatore, xxn giocatore, un dissoluto: mi farete voi rimprovero se ve ne avvertisco? Qualcuno vi imputa dei vizi e dei delitti falsi: vi lagnerete voi di me, se gli strappo dal volto la maschera, e Io dimostro bugiardo ed impostore?  giunto in citt un cavaliere d'industria che co' suoi ingegnosi stratta gemmi scrocca l'altrui denaro: vorrete voi che noR ne dia avviso a' miei amici, acci la loro jomoaa fede, non cada in laccio? AU^ corte; sevo] amate il gregge, darete la caccia ai lupi; e se gli uoiiiiali. accennerete loro i cani arrabbiati. Jieyole ^er V uso^ della satira. Tre sono le fegole che debonsi osservare motteggiatore, acciocch il motteggio riesca onesto e Jegittiibo, cio non offenda n la giusti^^ ij Yumanity n la convenienza. Il motteggio  ingiusto in due modi: 1^ quando t>un^e (^ersne esent! dal vizio niputato;' 2^ qMando cade su difetti che non possono ascri' versi a colpa, come le imperfezioni fisiche ^ ovvero le sventure accidentali. Lumanit rimane offesa quando il motteggio nialigno  acerbo. D segno d malignit chi mostrasi avido del male altrui y M si delizici^ e cn^piaep neirinsuJtare e nel nuocerer^$id segno d'acerbit, qualora il motteggio  sproporzionato alla jcolpat .e flagella a sangue chi ^on merita che un lieve colpo di stafile (I)., (\\ V itoth' SoMe m rattopprata .^iHn'^Mee delle sue maniere ^ dairameDi abituale de'suoi sguttdi, dal tiorriso d bonlA sempre pronto a Dc^cere sui suoi labbri, di modo che 4'icoDia cessa d'essere aiuara, e diveniva, per oqs dite, ua agro-dolce eondile dalle grazia. Cresce or ' t*inK>, or riiRro di ifustt due efemeiilt, secondo cbe il difeif Tdie Socrate voleva correggere, era amb nodfO. Voltaire dice, che volendo censurare Cornelio, imiterebbe iioid4> Il Quatoy nellA poomi^edl del Uakiouuto pet ior^a y .i.Lo u Si Tola la convenienza, quando i motteggi di' sconvengono al motteggiato o al motteggiatore Ha iveostanza di ioogo e* di tmf^; qrwto sono sconci o villani, quando si scialacquano senza misara^ e : se ne fa professione aperta  perpetn L'ingiustzia nel motteggiatore o  maliziosa o ' irriflessiva^ la prima nasce dal bisogno di umiliar PMtrtt merito ptat inoftlnorsi sulle f^tie deli" ftb^* battuto rivale: la seconda proviene da un errore d3iiteUetto originalo de rislielftesie di idee^ siste* mi esclusivi, rigidezza d carattere, tenacit d'opnoni. Da quesi^a causa derida j^e tal,Y9|ts^ l'aicer* Ut prodotta p*^ii spesso umor eausticei. etrabiUariqi^ JLi|i causticit  sovente figlia 4/  bailaalata a' Sganardio'w non previo un eoDipUmento rispeUoso, e colla protesta d'essere disperalo per essere caj[tr41o di Cario. Questo inpdo.di^ceosarareiMja debb' esjsere escluso dai croccili. sociaB , se ma cb0 in vece di porre in m&no al censore uh bastone j fa d* uopo drgfr un fltigeR di jNMe. Jl}m^ li6)Ia imwnms^h satira appoggiate al falso va mordendo lievemente i costumi degli assenU, non ta 99vero cepsore aggrotterai tosto ki eiglia, u tomi icon mano ardita qoeat tenoe piiiBere alla mediocrit che si consola della pr-! |lra batwzza sfoirmndosi4i4pcimi^V J'alte^^^ nerito V ma a condiscendenza atteggiato pi che ad a88.ei) .ammirerai lo spirito di ehi censura, e^ter^ modo dabbii mU'applicaaioQa. Sa poi U piacere di satireggiale gua4dgi]ia gj[i 9Staim al puntp,,(^e 'aQi;ga qwlcha ;vt.-(:;- Tewit et6lrti0 nr?atord^^ f'':: Motti protervi, onde a maligno riso V  Mover la dorma e la virt schernire ti sar permesso di. troncare em jdigail V altrui aiscorso, e assumere la difesa degli assenti; ma, per non scemar fede alle tue parole ^ non devi mostrare alterazione di spirito; giacch, altrinieriti operando, al piacere di satireggiare si assoeier, nell'animo .del satrico il, piacere di conturbarti, e gl} assenti verranno ad essere danneggiati dalla tua stessa apologia. L' e^peri^jdza dimostra infatti che il calare della difesa rend, tahotta gli assalitori pi feroci, e allora la conversazione rasso miglia i^ue'aiigrifizi sbarbar ne' quali immola vansi ijjttime omaiie. ' Lascia dunque qualche pascerlo .alla malignit, se vuoi ch'ella ti permetta un elo.go; MBt per prosare la. itiocei^it del, 4iio ttlo,> allorch tu stesso produrrai in mezzo le azioni di qualcuno, in cui siano difetti frammisti a vir^, userai la dstrzza di quel pittore che, dovendo ritrarreAntigono guercio, lo pins^ di profile. Facezie. Un discorso che inaspettotanieiile e contro JTapparanza caoibid il rimpjTovero in. lode, it male. in .tiene, il lisGMHre iO; sqi^exanza, lo spmzo iii istinni^ e talora anche ali'oppostcs si chiamai face za La facezia si divide in due. specie; La l> ^ un hrY raceoitto che fa passare IV nimo tra alcune d\Tenture, e dopo daverne alimentota la curiortt, ikiisce con iin sentimento non preveduto. Dionigi il tiranno avendo sapulo che una sua coni-' me^Ua^ dajui spedita. 4l: concorso in Atene, era^t^ta eorooata^ ne injpti rlleg)nem. CiH Ateniesi dissesn cbe^ise *avflh aero preveduta' questa tdaf^t^joti i vsu^hf^eio cronatQ.Dlou^ venti anni prima. in qiieslo caso la iode copre un vero disprezzo, e mmtesta la Viziosa compiacenza ct^e dovevano provare que' repubb|i^|AMr la moi>ti d'un tiranno tanto abbminato; Sorge^^fftiBrmo piaqvolissitna sorpeesa nel vedere etie glateniesi potevano liberar Siracusa onorando Dioniiii in Atenei Jjl. padre Le 'i'clier, che mentre era confessurti di Luigi XV, tenne il protocollo debeneticii ecclesiastici, dice ad uti abate: Yoi altri esitanti agli impieglil sile oost^ amfei' finch aVet, bisoerio di noi; 'ma qiaida siete saziati^ ci dimenticate. Ah, non temete nulla, rispose ridendo Tabate: io iK>n vi dimcoUciier giuiumai, giaccli solip iosa^ In questo cio tt timore si cambia in speranza^ e nel -tempo slesso i si pres^ta improvvisamenfe ni^ upa brama I  che con somma gelosia suol tenei:s nascosta., i, Eia  un semplice detto pronto, rnaspetttoi opportuno t un vivo ^^apidgiripo che vellica e' punge piaeevoimente. Con maggiore chiarezza e precisione di ter^ Quni>giusta il suo costume, spiega la cosa il dottissimo Gberardffil dksemkK. La giocondit delle lacezie par che nasca ordinariamente da un ing^ gIMMt' ed iroproiovlM 'aecoppiftiBentcr W die idee disparatCL tra loro e disconv^jiienti. l riso, semjira il prodotto 4i due sensai&ioni uiike, sorpresa e piacere, eccitate da Jien elitra-, st 0 da finissime analogie. L'impressione oagionata nel nostro animo da un oggetto nuovo o inaspettato sidsiiania sorpfesia. La sorpresa  maggiore quando T oggetto .coni0 la' eosa raeectea'  eonivira a/ qiiai^ suole comuneipente succedere. Quindi la aorptesa.  massiin allorch  massiio il contrasto tra il fatto ^pcaditio .eJa-Hft: stifi.jaspettazione* Ci posto: jChie el jtUo abbia: kmga la sorpresa^  di^ mostrato dai seguenti notissimi fatti: Ridono frt spe&so gli ignoranti che gli o^-, mini cotti, poich  primi nn conosGndo i rapporti die uniscftpo, ie cas.e, 9, WAggiori sorprese soggiacciono. 11 saggio appena sorride mentre lo sciocco t'abbandona a^ riso sgangherato, ^acch il sagg^o . EIcmonti peesla ad uso delle scuole. trava presto le idee intermedie che imisip>pi^jlor^ liuie' afeiluate. ddto se .col fi^ kq^if^^^ successo e che sembra smentirlo. ^ r "> a' r^r? II riso die ecdta .una facezia^ sentila la fush ma yoitai 'moltn pjore alte sead^a, e posbin diviene millo, perdi le cose note fioii lasciano Ittoga^^liia ijorp. IL Che a/ riso non basti una sorpresa q^it^*'^ limqu^f ma si riohicgga Vaggimla^i sensaziaue piacevole, seop^ira rieattare -dat ft^^fuenti ietti: Noi ridiamo ricordando le nostre passate fi^l^ Qv^j^m^ aUoiaOia annessa jd^a del .disi^nore, perch questa Vicordanxa d risalta al sen^ limentOc:4^4.;POSti;a #Utuaj|^e .saggezza  e!, quasi  dissi, le accresce piregio; t, evi^ rvjV/. 2.  Noi ridiamo aH'udire le altrui goffaggini; il,* cl\e fiorse d^riiui dairamor (HPQpriOr il qmlei gica-f, see nello scoprire in altii de'difetti de'quali egU ait crede esente. Koi rdiamo alle sveMure^dei ncNMvl^nemicti. allorch non sono s forti da interessare la nostra compassione; poich le accennate sventure ad^ scano piacevolmente il sentimento dell' inimicizia e della vendetta.,i^>>i -^^t^^fi r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i 4. I beffardi ridono nello scliernre quest o quello, giacch il loro orgoglio coglie tanti gradi di piacere, quanti gradi di depressione ed avvilimento fa subire agli altri co'suoi motteggi.  ^fi.p Noi ridiamo nello scoprire somiglianze tra oggetti che credevamo non ne serbassero alcuna, come rdiamo in generale sentendo ingegnosi tratti di spirito; perch il facile esercizio della nostra intelligenza nel rapido passaggio da un' idea dtf un'altra,  cui rapporti lontani non erano ben noti e distinti,  per se stesso piacevole, com'  piacevole un moderato passeggio, il respirare aria nuova, la comparsa d' un lume neiroscurit e simili; 2.0 perch quella cognizione diviene argomento della sagacit nostra^ la quale ha saputo cogliere un elemento che, i:esto all'analisi, al comun guardo ascondevasi* V. "4(^j*, III. j4cci la sorpresa e il piacere cagionino riso, vogliono essere prodotti da lievi contrasti 0 da finissime analoge; ecco qualche fatto:  1. Alla vista, per es. d'un bel quadro, all'udire una bella musica, noi proviamo sorpresa e pia- cere, ma non rdiamo; dite lo stesso allorch al' vostro occhio s presenta l'arcobaleno od altro simile grandioso ed innocente fenomeno. "i.^ Vi cagioner sorpresa e piacere senza farvi ridere la vista d'un animale selvaggio non mai veduto prima, per es. la grossa scimia chiamata Qurang-outang. Ma se la scimia vi si presenta con berretto da cardinale in testa, voi non potrete comprimere il riso: v' qui un' contrasto. Osservate bene che non tutti i contrasti fanno ridere^ ma solamente i contrasti lievi, e son quelli che escludono la compassione e l'orrore. Se un uomo millantandosi di poter saltare un fosso vi cade in mezzo come un animale, voi ridete sgangheratamente; ma se, cadendo si rompe una gamba od altro, voi non ridete pi; qui il riso  compresso dalla compassione. Dire con Aristotile, che il riso  prodotto da una deformit senza dolore^  ristringere di troppo, secondo che io ne giudico, il campo del ridicolo; poich spesso noi ridiamo saporitamente senza che alcuna ombra di deformit al nostro spirito si appresemi. Infatti ci fa ridere la scoperta di finissima analoga non prima supposta, l'unione di qualit che sogliono essere disgiunte, la disgiunzione di qualit che vanno ordinariamente unite insieme. TI rasllf^'lone raccoma come un dottore vedendo uno che per giusti/.a era frustato intorno alla piazza, e avendone compassione, perch 'I meschino, hench le spalle leramente gli sanguinassero, andava cos lentamente, come se avesse passeggiato a piacere per passar tempo, gli disse. Cammina, poveretto, ed esci presto di questo affanna Allora il luion uomo, rivolto, guardandolo quasi per maraviglia, stette un poco senza parlare, poi disse : Quando sarai frustato tu, anderai a modo tuo \ eh' io adesso voglio andar al mio. Vediamo in questo caso disgiunte due quail che sogliono essere unite; cio, sotto Fazione delle percosse, non scorgiamo n I SEGNI DEL DOLORE [cfr. Grice  frown], n lo sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque dun lato una forte sorpresa, dallaltro Fonti 4ija0ezie Le numerose FONTI da cui s^possoikl tram et^cezie, vogliono esser ridotte a cinque capi generali. Deformit logiche, deformit morali, deformit fisiche; opposizione artifiziale tra lo stile  Grice: THE HOW -- e il soggetto (Grice: THE WHAT), e somigh'aoze e contrariet lontane o LATENTI (implicit  Grice) ed miprovvisamente svelate. Sono DEFORMITA LOGICHE le deviazioni dal retto raziocinare; e i gradi desse sono sempre maggiori quanto pi peccano  GRICE: flout, INFRINGE] contra le regole del giusto raziocinio. L'rghpranza quindi delle 1) pili facili combinazioni, la credulit soverchia, i> la scimunitaggine sono FONTI sicurissimi dia'qiiali emerge quella deformit logica che provoca il riso [man is a laughable animal  Grice on Aristotle] senza eccitare n rodjQ nla compassione. Quindi le parole o prive di senso o storpiate, le interrogazioni, le risposte fuor di proposito, e le incoerenze, la pertinacia negerrori evidenti, e quella abitudine che i goffi hanno d dir sempre e credere le cose a rovescio dei logici detr  tand . un sospett di quel padeiit o non gffrissC} il che fa tacere n denttinoto penoso della compassione o ituscisae a deoilnare il dplre il che d luogo ad anudirazione scevra d'invdia. Io non saprei come innesLire sulle azioni e sul discorso di quest'uomo Lidea della deformit mentre vi veggo cbiarrsslmo un bel contrasto con quanto succede comunemente. DUn esemplo di ^&r^giooaaieuto logico cagionato a ' bijina d^e d'irgotglia s vede nel discorsa 'die ALFIERI (vedasi) mette in bocca al suo conte, allorch costui viene a contrasto eoU'abate, futuro mae^a .de'suo] pgl^ sup'ofiiararto che gli vuol dare. Ora, venendo al sodo, .S. ^ Del salario parliamo. V do tre scudi; Che tutti in casa far star bene io godo. Ma, signor, le, par egli? a me TRE SCUDI? S Al cocchier ne da SEI. Che impertinenza? Mancan forse i maestri anco a DU'scudi? Ch' ella in somma poi vostra scienza? '^r% Chi siete^D somma voi, che al mi' cocchiere Veniat a contrastar la precedenza? l K GU  nato in casa, e d'un mi'cameriere: i i Mentre tu sei di padre contadino, e lavorano i tucti r/altrui podere^ H Compitar, senza intenderlo, il latino. Una zimarra, un mantello n tallare, i  rCn> coUaru^cia sudi-rcelestrino, Vaglion irse a natura in voi cangiare r. Poche parle: io p^go^ereibeiiissimo: C . u ' Se a lei non quadra ella  padron d'andare. Atteso una grata sorpresa sono parimente mate)ie di RISO (laughable animal  Grice on Aristotle) le imle^ intelligenze come allorch un discorso vien preso ih UN SENSO OPPOSTO  cf. Grice, IRONY -- a quello che gli  dato da chi. Jo pronunci; d'onde nasce una contrariet fra la dimanda  How is he getting on at his new job at the bank, Im out of gas -- e la risposta  He hasnt been to prison yet, theres a garage round the corner --, ed una sensibilissima divergenza. Per es., Pietro dimanda a Paolo  robbare a Pietro per pagare a Paolo  Dove va? Paolo risponde jparfii pesci. ij,.i^L.o i.Appartengono a questa tasse t ISu'tle contengono un certo inganno inaspettato, per cui nasce molestia ad alcuno senza dolore per e senza grave incomodo. Per DEFORMITA MORALE intendesi quella che NON E CONSONA ALLUSATA MANIERA CON CUI CONVERSANO GLUOMINI, ma s per che non turbi o funesti lordine socievole, poich allora questa deformit anda congiunta colla scelleratezza, e ingenererebbe ODIO  My lips are sealed --, NON RISO. Quindi fanno ridere lincongruenza decaratteri, perci sembrano piacevolmente assurde  alla Youre the cream in my coffee -- le millanterijs in bocca d'un vile, e LE GRAVI SENTENZE SUL LABBRO DUNA MERETRICE e simili. Tutti i caratteri e tutte lazioni che hanno l'aria di singolarit cio che si scostano dalle ricevute costumanze; la discordanza tra i mezzi e il fine (METIER) prpostosi  Grice: conversation as goal-directed rational discourse -- o le pretensioni maggiori delle forze. Le passioni gagliarde svegliate da lievi cagioni; talvolta per es., resta annullato un progetto di matrimonio, di commercio, od altra associazione, per contesa sui titoli de'contraenti da inserirsi nella carta di CONTRATTO  Grice: For a while, I was a quasi-contractualist, and my pupils suffered my seminars as a result!--; e le reciproche vanit rimbalzano come rimbalzano e retrocedono due palle elastiche che, moventisi in opposte direzioni, vengono ad urtarsi in mezzo al bigliardo. Allorch il cardinale Mazarino, ministro francese, e don Luigi di HarO) ministro spagnuolo, convennero nellisola deFaggianI (in mezzo alla Bidassoa sul confine dedue regni), per concertare tra laltre cose il matrimonio d'una S. Gli sforzi per attribuire aglaltri la colpa, de nostri sbagli.r A scanso di ripetizioni vedi il passagio. DEFORMITA FISICA si  quella che emerge dalle deformit visibili, corporee, naturali. Vastissimo campo di ridicolo  CYRANO dALFANO -- si  questo, poich infinite sono laberrazioni che notarsi possono nel regno della natura, e nell'uom principalmente, che per eccellenza  detto re della natura  Grice, natural/nonnatural -- medesima. Quante mai numerar si possono deformit corporali, sia nei membri, sia nel portamento, tutte sono GIOCONDISSIMA FONTE DI RIDICOLO  cf. Trump --, perch le deformit che prendonsi D per oggetto di scherzo non siano indecenti o col dolore congiunte, poich allora non riso, ma ecciterebbero di leggieri odio  O COMPASSIONE. Un uomo urbano per altro non fa MAI oggetto di scherzo quelle fisiche deformit che non si possono attribuire a colpa  cf. Grice on Strawson on Freedom and resentment --, come ho gi detto pi volte. Ito Linfante di Spagna, Maria d'Auslda, con Luigi XIV re di Francia, sono tante le reciproche pretensioni, sorgeno si gravi difficolt sul cerimoniale e letichetta, che trascoreno due mesi prima che i ministri possono accordarsi. Un ingegnere mezzo ul)briaco e barcollante prende a misurare un terreno, e commette: ercoli tali die glastanti ne fanno le maraviglie. Il buon uomo in vece di rendere giustizia a s stesso, se la prende col suo strumento, e dice balbetttUdo: Ehi ma il difetto  nella mia pertica: ora ella lia otto piedi, ora non ne ha quattroj e la getta sul fuoco. In questo esempio primeggia la deformit logica sulla deforniif morale. Ceretti. .j^ xxl i^\.^r Jife ctoi^ v ti. "'llr, il ridicolo nasce alle volte dal veder trattali con uno stile lepido e scherzevole glargomenti gravi e severi, il che vellica piacevolmente la malignit del cuore umano, il quale gode nel veder posti a livello glioggetti eminenti coi pi comuiif, ed  questo il copioso fonte delle parodie. Talvolta all'incontro s'induce riso col ragionar doggetti bassi e plebei in un tono grandioso ed elevato  cf. Grice, The theory of context --, dal che vengono essi a ricevere unaria comica e faceta, mentre sotto aspetto di lode son fatti ridicoli, e LA CRITICA RIESCE TANTO PIU SALSA QUANTO PIU E DISSIMULATA  cf. Grice: Miss X. executed a series of sounds that closely corresponded to the score of Home, Sweet Home. --. Senza alcuna specie di discorso si pu eccitare ridicolo con una lode apparente smentita dal fatto (A fine friend! +> a scoundrel  Grice). Batru, che ha motivo di lagnarsi del duca d'Epernon, fa un libro che ha per titolo, Le grandi imprese del duca d'Epernon  cf. H. P. Grice, Prejudices and predilections; which, become, The life and opinions of H. P. Grice -- ma tutti i fogli del libro sono bianchi. tt Debbono essere collocati sotto questo titolo queCONCETTI DAMBIGUO SIGNIFICATO, onde pu trarsene una grave sentenza ed una arguta fa) cezia. DAMN BY FAINT PRAISE  He has beautiful handwriting  Grice. Cos a dire d'un uomo liberale, che quello che ha non  suo pu divenir salso ove si V torca a biasimo d'un ladro: e salso riesce  cf. Grice on the philosophy tutor on Socratic midwifery: stranging error at birth -- per D non dissimil ragione quel motto citato da Tullio  CICERONE (vedasi), )i a proposito dun servo infedele, lui essere il y> solo, per cui mdla vha in casa disuggellato e di chiuso; il che a lode d'un servo LEALE po irebbe dirsi ugualmente. Se non che s fatti >p scherzi vengono commendati pi per ingegnosi .?>> che per festivi, essendo manifesto INDIZIO  DICTUM di Grice -- d'acuto ingegno il tor LA PAROLE IN ALTRA SIGNIFICAZIONE DA QUELLA IN CHE SOGLIONO ESSER USATE  Grice on Humpty Dumpty, Impenetrability. Ordinariamente questi scherzi riescono insipidi, perch per lo pi dun lato lasciano scorgere la voglia di scherzare e l'impotenza di riuscire. Dall'altro, non producono effetto sensibile sull'animo per mancanza d'acume. Tra tutte la maniere onde si perviene a movere RISO --- Grice on Aristotle: a laughable animal --, piacevoli senza fine riescono, tanto il torcere contro d'altrui quel frizzo che a farci ridicoli  proferito, a quel modo che CATULLO (vedasi), interrogato da Filippo perch abbaiasse. Perch vedo il ladro, risponde; quanto dal concedere argutamente all'avversario ci stesso con che ti morde, trarne appunto occasione di vituperarlo, siccome usa avvedutamente L. CELIO (vedasi), al quale essendo da taluno di bassi natali rimproverato che egli  indegno desuoi maggiori: Aff, ripiglia, che tu se' degno de' tuoi. In questi e simili casi il piacere risulta da doppia fonte. Primo, dalla depressione d'un impertinente, aggressore, o sia dalla cessazione d'un dolore; il che, quando succede rapidamente nelle cose mo-.^ fall, equivale a piacere. Secondo, daglimprovvisi rapporti di somiglianza tra la pro-posta e la ris-posta. Il ridicolo risultante dalla scoperta improvvisa di somiglianze o contrariet non comuni, non si Luigi XV dice un giorno al conte Eric di Sparre, che  due volte ambasciatore in Francia pel re di Svezia: SigfioF di Sparre, provo dispiacere vivissimo in pensando che voi non siete della mia religione. Un giorno o lallro io ander in cielo, e non vi trover. Perdonatemi, sire, risponde lambasciatore. Il mio padrone mha ordinato di seguirvi dappertutto. , f pu assolatamaote attribuis alia iiialigQil|iiMa, come si dovrebbe, se in queste indagini si preip (fesse peK gttid la ^ola teoria dAsistotete il che multer meglio dall'analisi del seguente fiattv. Un contadino, venuto a dolersi pon un podest perch gli  rubatali sto ino^ dopo d'aerare; parlato della. Sfla povert e dellinganno fattgH dal ladro, per. fine pj grave la perdita sua, dice. Messere, se voi aveste veduto il lio asioo^, aiio0r, fiitt riconoscereste quanto io ho ragion di dolermi; ch quandi veva il suo basto a^osiSiH f iHraa :f sopriam^iM^ *ii8^^i^hevci cagiona qiipste 4i8Cor^^ non n^sce dal vedere depresso TulHo a livello dellasino, ma DVoiedei^x sorz;aur dosi d'ingrandirne lidea, scappa &ori improvTl^ ^saQiente con un confronto nuovo, e si Insinga t^^r sowiigliaiwa.tra Basilio e TiilfiQ^r l tttele cose vi sono certi limiti che non si ebboo oltrepassare, certe condizioni alle qu^l jEa d'uopo sottomettersi -- largomento trascendentale debole di H. P. Grice. Altrimenti facendo, si va lungi, dalla meta  o METIER, GRICE -- cui si propone di giungere, non si consegue lo scopo che si vagheggia (Dont bite more than you can chew  Grice). Lo ^opo cui miriamo, i mezzi che possiamo porre m pera, servond a farci ricondscere quelle condizioni e quelimiti. Le faczie x) celie che teodono a rendere festiva a brigata, s possono considerare nella persona che le dice;. i.o Ifelia persona che m  l'oggetto;r3. Migli auuiti eh, le aseetbp^i' Persiona che^ celia . 1^*0 uomo geutila n ride n fa ridere aUa foggin de'pazzi^ degU seioeioliii id^IL iilriichif deglinetti, debuffoni, Fenelon non ischerza come arlecchino: u Xmsm 4 M8to eaft stanno allinferno). Una vecchia contessa assai ricca avendo sposato'un marchese malagiato, e nel contratto di matrimonio. Le celie, allorch il soggetto lo comporta devono richiamare gli spiriti alla morale. Non si deve cambiare il mezzo in fine (METIER  GRICE), cio non conviene consecrare alle celie quel tempo che  dovuto alle cose pi gravi. Da tale passione pe'combaltimenti di spirito o duelli di mot, leggi e di celie sono invasi i normanni, che anche nellardore d'un assedio i nemici sospendeno talvolta lostilit cf. Monty Python, THE HOY GRAIL -- per abbandonarsi ad una guerra meno dannosa, guerra di motti, di redarguziom, de'buffonerie. Allorch qualcuno dei due partiti,  preso da questa vaghezza, si mostra all'altro in abito bianco, il che  riconosciuto ed accettato come una sfida di celie. La qual cosa certamente non  riprensibile in tempo di guerra, giacche non distrugge citt guerra di lingue avendogli falla la donazione di luUi i suoi beni, lemelle, dopo molte infedelt, che il marito volesse disfarsi di lei, e un giorno sentendosi male, crede e dice d'essere avvelenata. Avvelenata?, risponde il marchese alla presenza di pi persone. E chi accusate voi di questo delitto? Voi, replica la dama. Ah, signori, nulla di pi falso, esclama il marito. Sventralela subito, e toccherete con mano la calunnia. Qui l'acerbit e la malignit vanno insieme. Si fa rimprovero ad una donna perch acconsente a sposare un uomo che urta di fronte glusi e le mode del suo tempo, un orUjinale in una parola. Ma la singolarit di quest'uomo non  che un vizio dello spirilo, e nessuno ha lanimo pi onesto di lui. Quindi la donna che lo conosce, risponde con finezza. Lacconsento a sposarlo perch spero che sar buon marito per singolarit ed  mee male dileggiarsi che iieoidev9; ma 6ao^ vafii di Salisbury rimprovera ai detti popoli quell'eccedente p^issiona aoebe ia tempo di pace. Kantagqi che si possono trarre dalle /ae^ie. Bench le celie s riducano a momentanei tratti di spirito^ i^e, ^imiU^alle sciatillc, jcoin|^ariscooo -e eessano m un utante Don segue pero che di grandi eventi non possano esser cagione. Infatti, alloich^ei tvatta di coscT mrali, gleffetti dipendono dalla determinazione della volont. Ora a determinarle la volont i pi frivoli MOTIVI (Grice/Baker) bastano, s quando mancano MOTIVI (Grice/Baker) pi gravi, s quandi questi si trovano in opposizione come una seinplice dramma basta per'&r traboccare la blaacta a mensa i il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo ^mm di perdono/ 'ifM tutto II piatto sopra tjll'liii||lah cabile re. Nouchlrevan, pi sorpreso che sdegnalo, volle saperi la ragione di siffalta temerit. Prncipe, gli disse i( paggio, io desidero die te laia morte non rechi niacclia. 1 alia ofiiii Hplitazioiia; com ve de'moffiirehi, mavoi perdereste quello bel titolo se l po slertfi sapesse che per lievissima colpa condannaste a morie ano devostri sudditi; perci ho versalo tu Ito il piatto. Nouchirevan rientrato lo se stesso vergogp della sua collera, e gli f(?ce grazia. Il Mareles dAndrea tnristeva press Luvis ministro della guerra in Francia, onde ottenere una carica^ il ministro die aveva ricevute parecchie lagnanze contro questo officiale gliela ricusava. S io eoiniociassi a servire so. ben io ci ^he fael, ri8|Mstf roffieii|le un po^ emmosso; fi che fareste vd ? gli disse fl mli^stro con un tono risentila Regolerei s bene la mia coikloUa, replic l'officiale, che non vi trovereste nulla da ridire. Il ministro sorpreso plaeevollafDte da questa sposia, acl pcNlerl.-tin ii|le cl)e a fondo conosceva qitelmQlantaiofe  che sapea qaaiilk tasse povero in riim; non potendo pi contnersi a lal iattanze, gii inosse sobi. Grice: Ferrariss Galateo was so famous that, unlike Vico with his new science, a few philosophers cared to consider seriously a nuovo Galateo. Antonio De Ferraris, Antonio De Ferraris. Galateo. Ferraris. Keywords: conversazione, il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Ferraris e Grice,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferraris: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della supercazzola – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Abstract. Grice: “I cared for the sceptic for too long – and then I discovered pirotology!”  The fact that in the introduction of expressions for specific prehensions a demand is imposed on a further theory to define functions mapping such pre-hensions on to physical situations might well prove fatal to a sceptic about the material world. How can such a sceptic, who is unsceptical about descriptions of sense-experience, combine the demand implicit in such descriptions with a refusal to assent to the existence of the physical situations which, it seems, the further theory would require in order to be in a position to meet the demand?Keywords: pirotology. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I still connect!” Si laurea a TORINO sotto VATTIMO (si veda). Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di Ontologia dal  Centro Inter-Dipartimentale d’Ontologia. Studiato a Torino. In ambito teorico, lega il suo nome al rilancio dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del post-modernismo attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro inter-universitario d’Ontologia Teorica e Applicata. I primi interessi di F. si rivolgono alla filosofia post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente a Derrida, F. dedica: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Derrida. Ritratto a memoria. Lavorando invece a contatto con Gadamer, si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia, e soprattutto Storia dell'ermeneutica. F. sviluppa un'articolata critica alla tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di una svolta, postfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere, in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione tradizionale. Spesso i filosofi e gl’uomini comuni disprezzano la letterale norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per F. è la lettera a precedere e fondare lo spirito. Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti dell'arbitrio. Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento teorico. Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant. Rilegge Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino BOZZI (si veda) (Il mondo esterno e Goodbye Kant! La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del sapere), di cui F. articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism.  L'esito naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo inemendabile di un dominio d’oggetti in cui la filosofia trascendentale kantiana trova la sua adeguata applicazione: gl’oggetti sociali, l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino,  Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La fidanzata automatic, Il tunnel delle multe. La tesi di fondo è che la distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento dell'autonomia ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti sociali (regolata dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo" (letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare che “niente di sociale esiste fuori del testo”.  Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce.In seguito la sua  si arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi artistici e scritturalifin anche ultratecnologici con Piangere e ridere davvero e Filosofia per dame, vere e proprie grammatologies, insomma, ma ri-viste, e robustamente visionarie, oltre che re-visionate, come del resto tutti gli articoli di intervento culturale (si cfr. esemplarmente quelli per Alfabeta e Alfabeta).  La svolta realista compiuta da partire dalla formulazione dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto  e che avvia un imponente dibattito, è in primo luogo un consuntivo di alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l'analisi del postmoderno sino al suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da queste considerazioni consegue la messa in chiaro degli esiti prodotti dalle derive del postmoderno nel pensiero contemporaneo (l'interpretazione dei realismi filosofici e delle “teorie della verità” che si sviluppano a partire dalla fine del secolo scorso come reazione a una devianza del rapporto tra individuo e realtà). Da questo scaturisce la proposta di un antidoto alla degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla prassi degradata e mendace della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il Nuovo Realismo si identifica infatti nell'azione sinergica di tre parole-chiave, Ontologia, Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato oggetto di discussioni e convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato una serie di pubblicazioni che implicano il concetto di realtà come paradigma anche in ambiti extrafilosofici.  In effetti, il dibattito sul nuovo realismo, per quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti nella storia culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per analisi di sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti di Vattimo e Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum, di Rovatti sino a Il senso dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Gabriel, Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (Caro e F.), Torino, Einaudi,  e a Sociologia e nuovo realismo, Milano-Udine, Mimesis,  di Luca Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da F. e De Caro, che conta numerose pubblicazioni).  Al Nuovo Realismo di Ferraris hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Caro (cfr. Bentornata Realtà, a c. di Caro e F.), sia filosofi di formazione continentale, come Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Taddio (Verso un nuovo realismo) e Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il sostegno di filosofi come ECO (si veda), Putnam e Searle, e che si incrocia con altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze affini, come il realismo speculativo di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva concluso molta filosofia del secolo scorso.  Significa piuttosto che anche la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però, il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. F., Realismo Positivo, Rosenber e Sellier ). Nella sua resistenza la realtà non costituisce soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura, la pedagogia, la medicina.  L'ultima corrente filosofica inaugurata ha provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e del pensiero debole.  Altre saggi: “Differenze. La filosofia dopo lo strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno, Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova: Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,  Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria di una svolta, in Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e conclusione,  Postille a Derrida, Torino: Rosenberg et Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma: Laterza); Mimica. Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica filosofica,  1nterpretazione ed emancipazione. Milano: Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica, (con altri autori), Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Derrida, Bari: Laterza); Estetica razionale, Milano: Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg e Sellier); Una Ikea di università, Milano: Cortina); Il mondo esterno, Milano: Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma: Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani); Il tunnel delle multe. Ontologia degl’oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia dell'ontologia, Milano: Bompiani,  Una Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo); Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire la decostruzione. Cinque saggi a partire da Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari: Laterza,  Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Caro, Torino: Einaudi); Lasciar tracce: documentalità e architettura, Visconti e Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia Globalizzata, con Caffo, Milano: Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg e Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale, Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Varzi, Napoli-Salerno: Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria, Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Terrone, Bologna: il Mulino,  Postverità e altri enigmi, Bologna: il Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con Searle, Torino: Einaudi); Intorno agl’unicorni. Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione digitale, Torino: Rosenberg e Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero in movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si segnalano:   "Felicità. Cos'è la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica,  "Libertà. Quando si è davvero liberi?", Roma, la Repubblica,  "Arte. Perché certe cose sono opere d'arte?", Roma, la Repubblica,  "Male. È possibile vivere senza il male?", Roma, la Repubblica,   "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale degli altri?", Roma, la Repubblica,   "Bellezza. C'è una regola del bello?", Roma, la Repubblica, s  "Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,  "Morale. C'è un solo modo giusto di vivere?", Roma, la Repubblica,   "Potere. Perché si lotta per il potere?", Roma, la Repubblica,  "Pensiero. Che cosa significa pensare?", Roma, la Repubblica,  "Violenza: La violenza è inevitabile?", Roma, la Repubblica,   "Passione: Chi decide, la ragione o la passione?", Roma, la Repubblica,  "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica,   "Linguaggio: Si può pensare senza parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i filosofi?", Roma, la Repubblica, ha curato, oltre a partecipare con singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di Repubblica curandone gli epiloghi.  Nel biennio - ha diretto e condotto tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai Scuola. Nel  e nel  ha continuato tale lavoro nel programma televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Conduce la rubrica di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale.  “F.", in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,   "Maurizio Ferraris", la Repubblica,  Per una rassegna completa del dibattito sorto intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo  R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis, Reperibileonline. Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Bazzanella, La filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti, Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,; Architettura e realismo, Milano Maggioli,  Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi  Lo stato dell`arteIl  di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia.  “F.", in Antiseri e Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani,  "Ontologia analitica e ontologie continentali: F. e i filosofi italiani di impostazione analitica", in Esposito e Porro, Filosofia contemporanea, Roma: Laterza,  dal  Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di Ontologia Teoretica ed Applicata, Laboratorio di Ontologia, su labont. Il «questionario Proust» a F., su elapsus. F., il Nuovo Realismo, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Parsons sociologo Parsons. Sociologo. Parsons produsse una teoria generale per l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale nonché all'etnologia. Cerca di combinare "azione sociale" e "struttura" in un'unica teoria non limitata al solo funzionalismo.  Il suo lavoro ha avuto grande influenza quando la ricerca era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve ad Alexander. Parsons nasce a Colorado Springs. Frequenta l'università ad Amherst, Massachusetts, ed è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma s’interessa progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere di Durkheim e Weber.  Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale Laski e Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi Ginsberg e Hobhouse. Grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia, si trasferisce a Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart.  Tornato negli Stati Uniti Parsons insegna a Harvard. Entra a far parte del Dipartimento di Sociologia (diretto da Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo stesso Parsons). Viene eletto presidente dell'American Sociological Association.  Muore a Monaco di Baviera.  Lo struttural-funzionalismo L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque, in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo dell'individuo, il secondo sul ruolo della società.  L'azione sociale In La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti elementi:  L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza; Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono espressione dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione individuale vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme - Parsons ha già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del concetto di sistema.  Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana, per giustificare i ruoli:  Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza. Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione; (Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia, ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di ruoli. Nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli fanno anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che implicano più ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre, figli).  Lo stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazione Si è già detto che in pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite le norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “super-io”) che riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa, cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari, l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei ruoli tra i due genitori.  Variabili strutturali e universali evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da una cultura nel corso della sua esistenza:  Particolarismo/universalismo. È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo. Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi). Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati (il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni particolaristiche e tratti ascrittivi.  Per universali evolutivi, invece, Parsons intende dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso della sua storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo successo rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana, le società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù dell'incesto), tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la natura). Nella rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti di sistema di stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società moderna è caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il mercato, le norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle società che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti, questi universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità.  Parsons effettua una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il quale la classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata nella misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per tutti. Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo evoluzionistiche. Abbiamo quindi 3 stadi di società:  - società primitive: dove la parentela è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra gli individui - società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come passo fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne: dove abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto universalistico e dove la cultura ha un ruolo preponderante  L'evoluzionismo non è mai lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons procede quindi all'analisi specifica delle società seguendo la loro evoluzione:  - Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è forte l'influenza della mitologia e della religione e dove vi è uno stato di chiusura mentale che non dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale: l'organizzazione sociale è divisa per parentela e per gruppi di età mentre l'economia è semplice e si utilizzano risorse date dalla terra - Società tecnologiche: l'ambiente tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie ai macchinari, vi è una forte divisione del lavoro e una distinzione tra proprietari e consumatori che lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è quindi un'alienazione dell'uomo e una larga diffusione della burocrazia. - Società urbana: dove la città è il simbolo più evidente e dove le classi sociali assumono un ruolo dominante, esse sono divise in "élite" ovvero gruppi di persone che grazie alla loro influenza contribuiscono all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei tipi di élite: tradizionali, tecnocratiche, proprietarie, carismatiche, ideologiche, simboliche.  Ulteriore sviluppo Le teorie di Parsons sono state sviluppate ulteriormente da Merton, Luhmann e DONATI (si veda). Critiche. L'opera di Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa, per esempio dai sociologi Pitirim Sorokin e da Mills, che ne indicava efficacemente anche le implicazioni sociologiche conservatrici.  Il pensiero di Parsons è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di aver assunto le società occidentali come il modello a cui tutte le altre società dovevano tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di modernizzazione come un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è presente anche negli studi sulla trasformazione della famiglia, facendo riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana bianca, appartenente al ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute soprattutto dai movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di Parsons a ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla tesi di complementarità dei ruoli dei coniugi.  Parsons viene criticato anche da Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine sociale, Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per Parsons tutte le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton rileva l'esistenza di disfunzioni.  L'attore di Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè un uomo iper socializzato ai valori, che ha un comportamento del tipo conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe che egli si comportasse.  OpereModifica Ulteriori informazioni Questa sezione sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento. Elenco delle principali opere:  La struttura dell'azione sociale, Il sistema sociale, Toward a General Theory of Action (con Shils et alii), Working Papers in the Theory of Action (con Bales, Shils et alii), Saggi di teoria sociologica, Famiglia e socializzazione, Structure and Process in Modern Societies, Sociological Theory and Modern Society, Politics and Social Structure, Hamilton, Parsons, Bologna, il Mulino, Marinelli, Struttura dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli, Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, Gerhardt, Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Marra, Parsons. Valori, norme, comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Segre, Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, Bortolini, L'immunità necessaria. Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, Hart (ed.), Parsons. A Collection of Essays in Honour of Parsons, Chester, Ruolo di genere Giddens Luhmann Dahrendorf Habermas Touraine A Parsons, Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Parsons, su sapere.it, Agostini. Parsons, su Enciclopedia Britannica, Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University. Opere di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive.  Portale Biografie   Portale Sociologia Funzionalismo (sociologia) posizione dominante tra le teorie sociologiche contemporanee  Merton sociologo statunitense. Grice: “There is a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --. Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However, ‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or mutually so does B. Co-operation.” Keywords: the ontology of the intersubjective – inter-soggetivo – a functionalist approach to the inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist of the inter-subjective. The inter-subjective conditions for the understanding of pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective – inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to Grice, he does so very superficially -- and more. Nome compiuto: Maurizio Ferraris. Ferraris. Keywords: inter-soggetivo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferraris” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrero: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale arimmetica – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Abstract. Grice: “My Oxonian pupils are often mesmerised by the interest the Italian philosophers place on Crotone, a little nothing in the middle of nothing. But then we only have Stonehenge that compares!” Keywords: Crotone. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world, Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!” -- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia del Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta ancora oggi uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra filosofia romana e  pitagorica, rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana classica.  Su questa base l’a. arriva a sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la formazione del politico.  Il piano dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice analitico che ne facilita la consultazione.  Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste.  Ferrero is not the first to claim Italianita and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father was an Etruscan! Numa learned from him! CICERONE corrects here – it’s the tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian. The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily to history! ARISTOSSENO ('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. Filosofo peripatetico, scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo, sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo, trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò, del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale, politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento di svalutazione polemica.  Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni moderne di Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino), di Westphal (A. v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento, Lipsia) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes, introd. and index of words, Oxford). Bibl.: von Jan, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis, che contiene ulteriori indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d. Philos., Berlino; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans l'antiquité, Parigi 1924.  La restituzione della Geometria Pitagorica Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di Euclide.  PREMESSE. Proclo, capo della Scuola d'Atene, ci ha lasciato un prezioso commento su Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed importanti notizie che i moderni posseggano sui risultati conseguiti e le scoperte fatte in geometria da Pi-tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo Pitagora trasforma questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimonta ai principi superiori e ricerca i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura; è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure del cosmo (poliedri regolari). PROCLO, Com. in Euclidem, ediz. Teubner: la traduzione su riportata è quella del Tannery TANNERY, La Géométrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en savons, Gauthier-Villars, Paris). Non è una traduzione alla lettera; e non per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo greco non dice che Pitagora rimonta ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'alto i principi della geometria. Anche Loria (Le scienze esatte nell'antica Grecia), riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. Proclo ci attesta inoltre che Eudèmo, il peripatetico, attribuisce ai pitagorici la scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qualunque la somma degli angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un angolo piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei triangoli equilateri riuniti per il vertice riempiono esattamente i quattro angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti; questa somma non è data esattamente che dai soli Cfr. TANNERY, Le Géométrie Grecque, PROCLO, ediz. Teubner MIELI riporta il passo nel testo greco in Le scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1Eudemo da Rodi, l'eminente discepolo di Aristotele. poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È un teorema pitagorico. Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa di un triangolo rettangolo. Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta. Secondo Eudemo (οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la parabola delle aree, la loro iperbole e la loro ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel- la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica, dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner, PROCLO, ediz. Teubner Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), e da ATENEO. 6 PROCLO, ediz. Teubner PROCLO, ediz. Teubner Per quest'ultimo punto vedi anche GIAMBLICO – De Vita Pythagorae Queste, insieme a poche altre che avremo occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha neppure utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad Euclide da Eudemo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita Eudemo solo di seconda mano, e precisamente attraverso Gemino, un greco, probabilmente, nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare l'origine delle indicazioni passabilmente numerose e circostanziate perve- nuteci per suo mezzo relative ai lavori della scuola pitagorica, Tannery sostiene che deve essere esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole, che Eudemo deve avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di Pitagora, approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico designa come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può sospettare l'esisten- TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr. TANNERY, La Géom. gr.,  za, il quadro era già quello che riempiono gli «Elementi» di Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta degli incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è il coronamento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même que Minerve du cerveau de Jupiter. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni dei teoremi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la trattazione delle questioni riportate da Proclo – Gemino – Eudemo; nulla, all'infuori della dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eudemo ai pitagorici, non coincide con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale alla somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29, a sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o postulato di Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa. Teorema e dimostrazione sono però, come osserva Vacca, anteriori ad Euclide; perché, come è stato osser- TANNERY, La Géom. gr., VACCA Euclide – Il primo libro degli elementi, Testo greco, versione italiana e note, Firenze vato da Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica si riferisce non solo a questo teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; fa lo stesso anche Eudemo, e fanno lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela? Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è necessario basarsi sopra il famoso postulato di Euclide, o sopra un postulato equivalente? Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si può fare senza ammettere o premettere il V postulato, o, ciò che è equivalente, senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato. Se infatti si ammette, per esempio come fa il Severi, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte di una retta ed aventi da questa una data distanza, è ancora una retta, si può osservare: che tale retta è unica; che per poter dimostrare come questa retta, cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è anche l'unica non secante della retta data, Severi ricorre al postulato di Archimede, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente al postulato di Euclide; che la dimostrazione data dal Severi del teorema dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo (e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta, non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà degli angoli alterni interni, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e non su quello di Euclide. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, È l'edizione non ridotta. SEVERI, Elem. di Geom.,SEVERI, Elem. di Geom. Vedremo in seguito come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato. SEVERI, Elem. di Geom., ISEVERI, Elem. di Geom. Ne segue che la dimostrazione cui si riferisce Aristotele può benissimo sussistere sulla base di un postulato come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente Loria. Una sola cosa bisogna notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo ragionamento, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un passo del commento al 1o libro delle Coniche di Apollonio (Apollonio – ed. Heiberg, Lipsiae) dica: Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei due retti a parte per ogni specie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia, Hoepli interni di un triangolo sono eguali a due retti». «E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino». In conclusione anche questo dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an- goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti; particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria, «era noto il valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano dimostrare [come?] il relativo teorema; ad essi per universale consenso viene attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca- ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo: «per conto Cfr. MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze; ivi è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo nelle «Scienze esatte. LORIA, Storia delle matematiche, Torino mio ammiro coloro che per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di- mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento. Non è noto quale fosse la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata dal postulato delle rette parallele. Altrimenti gli antichi pitagorici, che per quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona, perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata riporta il testo greco di Proclo. ALLMAN, Greek Geometry from Thales to Euclid, Dublin, 1necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo, indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del triangolo rettangolo qualunque, egli completa il rettangolo (di cui si presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily (empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il triangolo rettangolo è così decomposto in due triangoli isosceli cogli angoli alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad essi rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si estende agevolmente, sebbene Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo isoscele, e da questo ad un triangolo qualunque. Tannery riconosce esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche egli inverte l'ordine dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino, prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che, seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que, soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno. Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai risultati nel- TANNERY, La Géom. gr., l'ordine indicato da Gemino, e che faccia appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive Tannery, «che se non l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle proporzioni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte, se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la dimostrazione, Tannery, dopo avere detto che «i greci introducevano il più tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo che Pitagora deve essersi TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr., servito della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente ammettendolo a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele. Ora, a parte il fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento, biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche secondo Loria la dimostrazione che presenta il massimo di verisimiglianza è quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che nascono abbassando la perpendicolare dal vertice dell'angolo retto sull'ipotenusa. Con una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi di Euclide. Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione accennata da Loria e da Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di TANNERY, La Géom. gr., LORIA, Storia delle Matematiche. Pitagora, non sia affatto quella originale; senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente osserva Allman che sebbene Pitagora possa averlo scoperto come una conseguenza del teorema sulla proporzionalità dei lati dei triangoli equiangoli, manca qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera deduttiva, e dopo avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora tenne una via che non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera più semplice e naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito da Bretschneider. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni ignorano l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le nozioni di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette perpendicolari e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due ALLMAN, Greek Geometry BRETSCHNEIDER Die Geometrie und die Geometer vor Euklides, Leipsig,  retti; ed è invece, come vedremo, indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman, l'Hankel nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egiziani, da cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe, secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura, la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del resto l'apprezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando codesto criterio è probabile che si dovrebbe assegnare una provenienza orienta- le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto semplice- ALLMAN, Greek Geometry, HANKEL H., Zur Geschichte der Mathematik in Alterthum und mittel-Alter, Leipsig. mente usufruendo del teorema dei due retti e delle sue immediate conseguenze. Ed, anticipando, notiamo subi- to che in tale dimostrazione ci serviremo degli stessi cri- teri di composizione e decomposizione delle figure di cui Platone fa uso nel Timeo e nel Menone32, e che in conseguenza tale dimostrazione non soltanto ha colorito greco, ma ha il colorito pitagorico della dimostrazione del Menone.  32 PLATONE, Timeo, XX; Menone, Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa questione essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito non si incontrano mai, doveva apparire particolarmente ripugnante alla mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiuto e perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte, escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a proposizione del libro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per- venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di dimostrare il teorema. Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il Tannery che al tempo di Pitagora il numero delle verità ammesse come primordiali era, senza dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso deve essere consistito più che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu- to che tra queste verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il Tannery propende a ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se questo può servire per giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non serve per quello dei due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di questo teorema e non a quella arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la esistenza e la indipendenza dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione ed anche per la sua relativa complessità bisogna escludere che i pitagorici ricorressero ad un postulato come quello enunciato dal Severi e che abbiamo riporta- to in principio. Queste considerazioni di carattere razionale permetto- no di escludere che si debba ricorrere a simili postulati; ma con sole considerazioni razionali non è sperabile di afferrare quale possa essere il postulato cui ricorrere; possiamo soltanto aggiungere che deve trattarsi di qual- che proprietà che seguitò naturalmente a sussistere dopo l'adozione del postulato delle parallele e dopo l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma che disparve in se- guito dal numero delle proprietà primordiali, divenendo probabilmente una ovvia conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale fosse è questione di inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo inspirazione e 25  non capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo sottoporla ad ogni possibile controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità pitagorica e se consente uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente raggiunto dai pitagorici e capace di condurre ai risultati conseguiti da essi, quali Proclo ci ha tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a scanso di equivoci e per precisione, che per necessità e per bre- vità noi presupponiamo ed ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il contenuto delle prime 28 pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il postulato delle parallele e la teoria delle parallele; in quanto che a noi interessa ed occorre indagare come si possano dimo- strare le proposizioni nelle quali la geometria pitagorica sappiamo che differiva da quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o no) ammettessero: i postulati di deter- minazione e appartenenza; i postulati relativi alla divisione in parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani finiti); i postulati della congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne ricavano, e cioè:  i criteri ordinari di eguaglianza dei triangoli; le relazioni tra gli elementi di uno stesso triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di- suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di ciascuno degli interni non adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due. l'unicità della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide. Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo postulato, ossia ritrovare l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di Euclide del Commandino, e come termine filosofico nella versione latina della Reth. ad Alexan. del Philelphus. La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα. Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo avvenisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario punto di partenza; né è detto che venissero  scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tenere presente che la mentalità geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della logica. Al contrario, osserva Rostagni, «Religione, morale, politica, scienze matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o veramente si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le domina tutte, indifferentemente. Archita, il pitagorico amico di Platone, in un frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio, dice che la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen- dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gioco degli scacchi; era la scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e dell'estensione. L'aritmetica è la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- ROSTAGNI, Il verbo di Pitagora, ed. Bocca, Torino Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie pythagoricienne; Paris, gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed esperienza sensibile umana ordinaria e non aveva per oggetto soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο, dell'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpicamente inalterabile ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza delle cose, l'al di là del περιέχον, della fascia cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti. Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna ancora all'intelligibile e non al sensibile gli oggetti della geometria. Tenuto conto di tutto questo, la verità primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano ruota rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato attorno ad un suo punto fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, dell'osservazione e dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e rigidamente connesso con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che più o meno gira la ruota; e l'intuizione e l'osservazione dicono che la rotazione del segmento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai pitagorici; giacché, secondo Eudemo, il problema, un poco più arduo, di costruire un angolo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di Euclide; ed Oinopide è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito nessun pregiudizio. Il movimento, ed in particolare il movimento di rotazione, si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche nella geometria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai potuto procurarsi l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico e gli basta che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. Il postulato pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O di un certo angolo α, tutti i punti di una retta qualunque AB del piano ruotano intorno ad O, in modo che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB, con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna traslazione. Il postulato afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota di α, non era naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la AB, ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la ret- ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 . Perciò la proprietà si estende subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione la perpendicolare OH alla AB, il raggio vettore OH si porta sul prolungamento OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un angolo piatto. Ma siccome è noto che due rette perpendicolari in punti diversi H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano. Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2 allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 . Ma ci sembra che la forma che abbiamo prescelto aderisca in modo più immediato alla osservazione ed abbia quindi maggiore probabilità di coincidere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. Con l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo equilatero di lato assegnato. La considerazione del triangolo equilatero doveva comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la retta (individuata e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una circonferenza ha il centro su di un'altra circonferenza ed un punto interno ad essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta conoscere il 1o e 2o criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero (fig. 5), e quindi equiangolo. 34   La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra il lato opposto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono eguali perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e ^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice ̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo ^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB. Proseguendo nella rotazione, con due altre rotazioni eguali, la figura si sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d. d. 35  5. La verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza immediata del postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in questo caso particolare, era naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso generale essi studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In questo secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci limitiamo a ricordare queste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle indicate innanzi: La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo isoscele è anche mediana ed altezza. Esistenza, unicità e determinazione del punto medio di un segmento. Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. La somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. Se un angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono acuti. Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente 36  maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ opposto a b; e viceversa. Se un triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il maggiore. In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due.  Definizione, esistenza, unicità della perpendicolare ad una retta per un punto. Teoremi inversi sopra la mediana e l'altezza del triangolo isoscele. Teoremi sull'asse di un segmento e sulle bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele e sia AB = AC e quindi ^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o criterio) dei triangoli BAO, CAO segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL, e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per- pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicolare alla OK in K, e per il postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta eguale all'angolo di rotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed ^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale. Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare. In un triangolo acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA. In un triangolo qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è diviso in due parti dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39  Per il teorema precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA '+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto . ^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri- mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono eguali. Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40   Se BA = B'A' il teorema è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote- nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due triangoli, ^A=^A '=90°, BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele 41   B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB. Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema fondamentale: Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC, ^ABC . Si dimostra al solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB. Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli rettangoli OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò sono eguali, ed 42   OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH, OAL e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa in comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di ^ACB. Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati, e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O, portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago- rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH, ^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, menzionata da Eutocio e Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teorema nel primo e semplice caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore- ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con- vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre ancora al postulato della rotazione. Si tenga presente ad ogni modo quanto scriveva il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere trovato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici», citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti. Comunque siamo giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del postulato e del concetto delle rette parallele. È un risultato di una TANNERY, La Géom. gr. certa importanza se il postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al postulato di Euclide. 9. Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio- ne non è equivalente al postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto che dal postulato pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due retti. Viceversa, ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una costante, se ne deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro di rotazione ed S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della retta r. Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di O, ed uno B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La rotazione che porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B' ed è ̂AOA '=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali, quindi B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ', ^OTB'=^STB; e, se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo qualunque sia costante, il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B ' OB ; ossia l'angolo rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi dimostrare. Dunque il postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione sopra la costanza della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come postulati. Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un triangolo si potrebbe dedurne il nostro postulato della rotazione, ed applicandolo al caso del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la quantità di cui si è ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo Saccheri propose, come è noto, la nozione che la somma degli angoli di un triangolo è eguale a due retti in sostituzione del postulato di Euclide, ed il Le- gendre ha dimostrato che, se si ammette anche il postu- lato di Archimede, la proposizione Saccheri equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne segue immedia- tamente che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione ammettessimo anche quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide. Se non si ammette altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti Dehn dimostra che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordinaria geometria elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non archimedea, dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano infinite non secanti rispetto ad una retta data. Math. Ann., B. 53, Die Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. BONOLA, Sulla teo- ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti le Matematiche elementari. Dehn chiama questa geometria: geometria semi-euclidea.  Lo stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una volta ammessa la proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico della rotazione, si può: ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne risulta dimostrato quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria euclidea ed archimedea. negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente anche quello di Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn. ignorare completamente i due postulati d’Euclide e d’Archimede e le questioni relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro accettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano quasi certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo- strazione del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla teoria delle parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi veniamo a trovarci esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non hanno fatto uso del concetto di pa- La proposizione 1a del libro X di Euclide equivale all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che, prima ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed Loria ritiene che l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr. LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia). Comunque gli antichi pitagorici dovevano ignorare il postulato di Archimede. rallela, deve essere possibile adesso, dal teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più generale concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10. Prima di proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal postulato pitagorico della rotazione il teorema dei due retti.  Dal vertice A dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H =   ^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S + ^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA', OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'altezza; ed essendo oramai complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decomposto il triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora indicato. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza, comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via tenuta per ottenere il teorema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria pitagorica, come sviluppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da Proclo ai pitagorici, La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio posteriore anche a Proclo, è attendibile. Dice LORIA (Le scienze esatte) che Eutocio, di mediocrissimo ingegno, è però assai diligente, accurato e coscienzioso. È difficile d'altra parte inventare una notizia così precisa e circostanziata. omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del rettangolo e la dimostrazione del teorema di Pitagora. E notiamo come dal teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze: Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. L'angolo del triangolo equilatero è eguale ad un terzo di due retti. L'angolo esterno di un triangolo qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. Passando ai quadrilateri, osserviamo subito che Euclide ne distingue, nelle sue definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene subito dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, discendono invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto AC eguale e perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso- scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate all'infinito non puo, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici. Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se- condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo di Euclide. golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio- ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione, esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD (fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53   ^CDB=^ABD; e ̂ siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di ^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è dunque un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non si possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si dimostra facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano per metà. Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i vertici C e D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti la CD sa- rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli ADM, CBM risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC, ̂DCB que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli ABD, CBD, ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C da parti opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente ^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC = AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si prendono a partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i segmenti AB, AD; si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla parte di D si prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo rettangolo assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva esistenza dei quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne dava le proprietà fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe passare alla considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per dimostrare il teorema di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo senz'altro alla dimostrazione di questo teorema fondamentale. TEOREMA DI PITAGORA. In un triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti. Adoperiamo l'antica espressione: eguale, invece della moderna equivalente, anche perché nella dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della «nozione comune» di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di eguaglianza additiva che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o di equicomposizione (Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo isoscele, Platone dà nel Menone la seguente dimostrazione: pre- PLATONE, Menone. Una traduzione corretta e completa del passo di Platone trovasi nelle Scienze esatte nell'antica Grecia di LORIA. Platone conosceva la validità so un quadrato ABCD e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in figura si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di quei quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio del quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre il quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed oltre di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o quella suggerita dal Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è antica; 2o quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci ha serbato memoria Anarizio; 3o quella di Baskara posteriore a Tabit. La prima, sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta dal Timeo. Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti, che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE = AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e siccome C è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB, del quadrato costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettangoli eguali al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58  tutti i lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché ^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due angoli ^DGC, ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che togliendo da cose eguali cose eguali si ottengono cose eguali. Così il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati d’Euclide e d’Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nella ordinaria geometria euclidea ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede. Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La dimostrazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti, noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica, ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di cui i pitagorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La dimostrazione del testo d’Euclide prova la validità del teorema di Pitagora sempre nel senso di eguaglianza per differenza se ed anche se si ammette il postulato delle parallele e nulla si dice di quello d’Archimede. Le dimostrazioni moderne ne provano la validità nel senso di eguaglianza addittiva (Duhamel), equivalenza od equicomposizione (Severi), se ed anche se si ammette insieme al postulato d’Euclide anche quello d’Archimede. Dalla dimostrazione che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al primo basta semplicemente osservare la figura per riconoscere che: TEOREMA: Il quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK) costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61   am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla figura, ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b ) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro che la squadra dei muratori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così pure il 62  TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il quadrato costruito sopra un lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2, e supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 + c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo, come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im- mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63   TEOREMA: Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH (fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no- tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+ c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64  [β] h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+ 2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema: TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide. Ricordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che ad Euclide appartiene solo la dimostrazione che si trova nel testo degli Elementi (Libro). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la [β] ossia  potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto omologo del secondo. Siano i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC = B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d. b2=(AC)2 –BC·HC=ab'  Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le conseguenze del teorema di Pitagora ha massima importanza la scoperta delle grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel nostro tema; così pure non ci occuperemo dei metodi attribuiti a Pitagora per la formazione dei triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei poligoni in generale. Dal TANNERY, La Géom. gr., triangolo rettangolo isoscele e dal triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e le loro proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo scaleno, si ottiene il rombo ed il romboide. Rombo, secondo la definizione che si trova in Euclide, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (perché in tal caso si chiama “quadrato” [GRICE, IMPLICATURE: A square is a quadrilatero rettangolo]. Sia ABD un triangolo isoscele non rettangolo, e dal vertice B della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gl’angoli  e Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; quindi anche l'altra diagonale biseca gli angoli, è perpendicolare alla prima ed il loro punto d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordinati), osserviamo prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte rispetto ad AD. Supposto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD, CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C coinciderebbe con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici. Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra loro, e bisecano gli angoli del rombo. La definizione di romboide data dagl’elementi d’Euclide è la seguente. Romboide è il quadrilatero che ha i lati e gli angoli opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco (ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri quadrilateri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo, la definizione di parallelogrammo; mancanza sensibile anche per il fatto che sappiamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione d’Euclide. Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la 23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'elenco dei postulati, non va troppo d'accordo con le definizioni 2a, 3a e 4a per le quali la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in conseguenza la definizione di parallelogrammo. Si ha l'impressione che l'elenco delle definizioni a noi giunte insieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico, e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il postulato delle parallele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea, basata sul V postulato; PROCLO, ed. Teubner. Cfr. ALLMAN, Greek Geometry, e si spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadrato, rettangolo, rombo e romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il triangolo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo). Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo procedimento. Sia, infatti, ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo- sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD, si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta dunque insieme a D dalla stessa parte rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo dunque costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; quindi ̂DMA=̂CMB e perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide si tagliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli angoli opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A interno al triangolo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il quadrilatero ABCD, allora, è diviso dalla diagonale BD in due triangoli eguali per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide. Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD, perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester- no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo eguali le coppie di angoli opposti si avrà allora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi ̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teorema dei due retti questa somma ha per supplemento l'angolo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB. Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un romboide. Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47. 10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si possono definire quadrato, rettangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto d'incontro delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre quadrilateri) è un centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso ai lati opposti sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo punto, nel caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri ed ogni vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale verisimilmente e probabilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec- cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei pitagorici.  pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro. Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος (da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro. Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno scoliaste alle Argonautiche d’Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che vien fatto girare battendolo con delle striscie di latta. Archita pitagorico parla in un suo frammento di questi rombi magici che si fanno girare nei misteri. Apollonio, Argonautiche. In OMERO (Iliade) sono chiamati anche στρόμβοι. Anche Proclo (Teubner) dice che sembra che anche il nome sia venuto al rombo dal movimento. MIELI (si veda) che riporta il testo greco di Archita traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica) e lo CHAIGNET traduce: les toupies magi- Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà dei triangoli che vi si riferiscono. La proprietà riscontrata per il triangolo equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e quello interno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo interno va crescendo e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ...  ques. Siamo ora in grado di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'angolo giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono il cui angolo è un terzo di giro; e non può verificarsi con altri poligoni regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teorema dei due retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come Tannery e Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita asserzione di Proclo che della proprietà dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice fa un teorema pitagorico.  La divisione della circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presenta difficoltà per i pitagorici. Occorre appena osservare che dalla riunione di sei triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta. Più difficile invece si presenta il problema della divisione della circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale interesse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo problema, perché altrimenti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver fatto, sempre prescindendo dalla teoria delle parallele, della similitudine, delle proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archimede. Il problema dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere, in un caso particolare, anche senza ammettere il postulato delle parallele. Il problema si può enunciare così: Costruire un rettangolo di base data ed eguale ad un rettangolo od un quadrato assegnato; problema che corrisponde alla determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra geometria. Sia, per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA = a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia in un punto P interno la diagonale AC. Conduciamo infine per P la MN perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è eguale (in estensione) al rettangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al rettangolo dato HBCK. Il segmento CN è dunque l'incognito x dell'equazione. Se invece a è minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel commento ad Euclide (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è basato sopra l'autorità d’Eudemo. La testimonianza non è questa volta quella personale di Eudemo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che ci si presenteranno in seguito. Per risolvere, dopo quello dell'applicazione semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici. Viceversa, se nel triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA; ^OAB=^OBA,, siccome per il teorema dei due retti la 80  somma di questi quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD il quadrato di lato AB = b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF. Per il teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co- struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF risolve dunque il problema, ed è EA la 81  x dell'equazione data. Affinché il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed ammette sempre soluzione. Sia ABCD il quadrato di lato b, e prendiamo dalla parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua- drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA = EK, ed AF = EF' dei cateti. 82   Se da questo rettangolo si toglie il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap- punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA è la x dell'equazione. PROBLEMA. Determinare la parte aurea di un segmento; ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b. Costruiamo il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo, quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per lati DK = DF ed ED. 83   Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC, ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte comune AGDK si ha che il quadrato EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG, ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB BG = AB BS – AB SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG = AB BS – AB SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS SG + AB SG = AB BS 84  dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS SG + AB SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0 Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0, ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea del lato. Un triangolo isoscele VAB che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e quindi quelli alla base di 72°, è diviso dalla bisettrice di uno degli angoli alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre equiangoli tra loro. Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett. (VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50  LORIA (Scienze esatte) attribuisce a Pitagora la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC (fig. 24), e sembra che in- Per costruire un triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo eguale ad un quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta prendere per lato un segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo com- piere a tale triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo al vertice, si viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un decagono regolare. Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali, il lato del decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo dunque in grado di risolvere il PROBLEMA. Dividere una circonferenza in dieci parti eguali. Uniamo il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio perpendicolare ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA. Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece, dal teorema di Pitagora, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in particolare il corollario ed i problemi dell'applicazione che sappiamo erano stati risolti dai pitagorici. esterno ed uno interno a tale circonferenza le due circonferenze si tagliano. Questa proprietà talmente assiomatica che Euclide non ha sentito il bisogno di postularla, per i pitagorici doveva costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli archi AE, AP sono dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro successivamente in E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli altri punti di divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero pari. Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto; riunendo il primo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il pentagono regolare inscritto. Si vede dunque come partendo dal teorema di Pitagora, e con i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado di dividere la circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in essa il decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali del pentagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la scoperta della divisione della circonferenza in 10 e 5 parti eguali e la costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica. Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag- gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione dei pitagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo successivamente i punti di divisione A, B, C,... della circonferenza in 10 parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. Congiungendo A con C, C con E ecc., si ha il pentagono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5; congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decagono stellato ADGLCFIBEH oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10; congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo ecc. dell'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti nella circonferenza, e che si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura. Il nome è adoperato da Kircher nella sua Aritmetica. Siamo però convinti che questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che riportando 10 volte successivamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto, naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66. 91   Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli rettangoli, e quindi si ha:  l2+s2=4r2 10 5 l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce facilmente che il diametro AOF è perpendicolare al lato EG del pentagono ed al lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quindi ̂EAG di 36°. Ne segue il TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la perpendicolare per A al diametro AF e le congiungenti A cogli altri punti di divisione in 10 parti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto attorno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali, di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa, NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare. Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo occasione di riconoscerle in seguito. Dobbiamo ora stabilire un'altra importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tangente in quel punto alla circonferenza. E siccome sappiamo che il luogo geometrico dei vertici dei triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le tangenti ad una circonferenza da un punto assegnato. Conduciamo allora da un punto P esterno ad una circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD = (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= = (PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura sulla AB a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la base 94   OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura 26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC = l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95  Da questa relazione e dalle altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6] s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l =3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r; l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF = l10 si ha AD=AF=s10; CD=s5. Preso AM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si trova (cfr. LORIA, Scienze esatte) nel libro di Euclide (che è di Ipsicle), e così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. sulla perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte aurea dell'altezza e l'altezza è parte  aurea della proiezione del cateto maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha quindi una terza relazione tra quei cinque elementi: l5·s5=r(s10+l10) indicando con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo alle precedenti anche le relazioni:  2a5=s10=r+l10  2a10=s5 Vedremo in seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del dodecaedro regolare. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si disegna, con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le lettere componenti la parola ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice senso che ha la parola salute in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso di quella salvezza o sopravvivenza privilegiata indicata alla fine dei Versi d'oro. Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione esoterica occidentale, designato di solito come la figura di Pitagora. Talora al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem- pio nella flaming Star di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il fatidico stellone d'ITALIA. Diremo soltanto, che il pentalfa ed IL FASCIO LITTORIO (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti simboli spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien dall'Oriente. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare troppo questo nostro studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: Una retta non giacente in un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi- rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. Se due piani hanno un punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani situati da parti opposte rispetto all'altro. Se per un punto H di una retta m si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per- pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H. d) Per un punto A appartenente o no ad una retta passa un piano ed uno solo perpendicolare ad essa. Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen- dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare ad una retta r di α (passante o no per il piede H), la terza retta r è perpen- dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro convesso, piatto e concavo. Sia β  un piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β  la bb' perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo ruotare il piano ab intorno ad H su se stesso esso rimane perpendicolare alla r e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasul semipiano α ed α su β'.I due diedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il semipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è interno all'uno od al- l'altro dei diedri α̂βe^αβ'; quindi per una retta r del piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β r β ' . Il piano α dicesi perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a =̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β, e si conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto dato fosse P esterno al piano β, condotta in β una retta b qualunque e per P il piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra subito la unicità. I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H si di- mostra per assurdo.  k) Se i piani α e β sono tra loro perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano, se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque. Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un rettangolo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104  sono eguali. Le sezioni normali di un diedro qua- lunque sono dunque eguali. Se due piani α e β sono perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. Due piani perpendicolari ad una retta non si incontrano. Definizione di piano assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti equidistanti dagli estremi del segmento. Distanza di un punto da un piano; e luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza, un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro  α̂ β si conduca il piano δ perpendicolare allo spigolo r. I tre piani α, β, γ sono perpendicolari a δ; condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β esse giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con H, P, K, i triangoli rettangoli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM in comune e gli angoli ^HMP, ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β è equidistante da α ed a β,esso appartiene al Si dimostra nel solito modo, e si estende all'angoloide. TEOREMA. La somma delle facce di un triedro è minore di quattro retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso. Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i diedri for- mati da due facce consecutive. Definizione di poliedro. Il poliedro si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli angoloidi sono regolari eguali. Possono esistere al massimo cinque poliedri rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cinpiano γ bisettore del diedro αβ.  Definizione di triedro e di angoloide convesso. TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma delle altre due.  que facce congruenti in un vertice eguali a dei triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra nel solito modo. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due circonferenze circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della seconda. Per il centro H di un triangolo equilatero ABC si condurrà la perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB. 107   Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK )2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame- trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera di raggio r. 108  Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la perpendicolare al diametro; la sua intersezione con la circonferenza sia il vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il tetrae- dro regolare inscritto. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare. Sia ABCD un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati eguali al dato. Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e GDC perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò CH è perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche al piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH perpendicolare all'intersezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF, e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un medesimo punto O 110  che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2 e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il quadrato costruito sopra il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza di raggio R è triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA. L'apotema del cubo inscritto nella sfera di raggio R è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato (l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema della inscrizione del cubo nella sfera di raggio dato, occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel nostro caso 3) par- ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria delle parallele, è sempre risolubile grazie al seguente LEMMA. Se l'ipotenusa di un triangolo rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di divisione si conducono le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono in n parti eguali. Sia ABC un triangolo rettangolo, e sia l'ipotenusa BC divisa in n (5) parti eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le perpendicolari ai cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK ecc. sono dei rettangoli e che essendo EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i triangoli rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK. Analogamente LK = KI = HI = HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo di un seg- mento dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo numero di parti eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD, KE... risultano perpendicolari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si possa sempre, indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere il problema di dividere un segmento in un numero assegnato di parti eguali. Frattanto per il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento tale che il suo quintuplo sia maggiore del segmento dato  (per esempio riportando cinque volte consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive sopra di esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della sfera si conduce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. Inscrizione dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della sfera il piano perpendicolare al diametro EF, sia ABCD un quadrato inscritto nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del diametro EF con A, B, C, D si ha l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il tetraedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle tre facce ivi congruenti è regolare. L'icosaedro regolare. Divisa una circonferenza di centro V e raggio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in essa il decagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le perpendicolari al piano α della circonferenza, e si prendano su di esse i segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così proseguendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4 perpendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3; analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo angolo C1 C2 C3 è eguale all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro, analogamente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q sta nel piano del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della circonferenza circoscritta al 116  pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale alla circonferenza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha: (C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 = B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila- teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E aventi per lati opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3- C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2 si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico- saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3 sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della piramide pentagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimostra che ogni vertice dell'icosaedro è vertice di una piramide pentagonale regolare eguale. La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si può dunque procedere nel modo seguente: si determina il segmento C1C4 di cui C1C2 è la parte aurea. si determina il centro Q della circonferenza circoscritta al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza di centro Q e raggio QC1. si inscrive in questa circonferenza il pentagono regolare C1C2C3C4C5. si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano del pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. si prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. si conduce per V il piano perpendicolare al diametro DE. si abbassa dal vertice C1 la perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. si abbassa da C2 la perpendicolare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla circonferenza di centro V. si prende il punto medio B1 dell'arco A1A2 e si inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. si unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1 aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. è rettangolo in C2 per- ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q = r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta. Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen- dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha: (DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120  DH è dunque eguale al raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu- namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del decalfa inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema del penta- gono di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si hanno le seguenti relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal triangolo rettangolo DC2E si ricava: R '=12 s5a10 121  cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'icosaedro è eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio r, oppure è eguale all'apotema del decagono inscritto in questa circonferenza. Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R' –12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2 –r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1 (s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53 Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 Si può riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della faccia, e si può dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7. Costruzione del dodecaedro regolare.  e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10; s52=2R · s10 123 3a2=3R2 –l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2 +(5)=R2 10 2  Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 = C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1 ̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4 = N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per gli altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è un pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124  no piano regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni. Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce ̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4 dell'icosaedro. Tali elementi restano dunque gli stessi se si prende la sezione normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125  diedri son tutti eguali, e possiamo concludere che il dodecaedro costruito è regolare, è inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente opposti, questi otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di vertice A è trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un momento alla figura, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I. Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli; e perciò la P'Q' è perpendi- 127   colare alle Q'A e Q'C ed al loro piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K. Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do- decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la diagonale del cubo. Dalla fig. risulta che i centri di due facce opposte del dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O ed è O1O – O2O l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1, avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP. Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2 ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R. Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA = R si può procedere così. Si inscrive il triangolo equilatero nella circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella faccia. Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. Si costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia del dodecaedro. Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. Preso un segmento O1O2 eguale al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono quattro vertici del cubo inscritto. Si conducono per A e per P i piani perpendicolari ad AP. Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli altri quattro vertici del cubo. Nel piano AFG si completa il pentagono regolare AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK ecc. 9. Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del problema della sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura i triangoli AVO, CΘO, DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA della cir- conferenza e la base eguale al lato del decagono regola- re inscritto, quindi la circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del decagono passa per Θ, V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della circonferenza di raggio OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130  perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del pentalfa inscritto nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella maggiore ed è quindi parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella maggiore: e quindi ΘV lato del pentagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del pentagono inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e OYZ sono eguali perché hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e quindi il lato del decagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del decagono inscritto nella maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella minore, essendo eguale al raggio della minore aumentato del lato del decagono inscritto, è eguale al raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza di centro O e raggio OV e descritta la circonferenza concentrica che ha per raggio il lato VZ del decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e sussistono le relazioni ora vedute, ed in particolare il lato del pentagono regolare inscritto nella maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella minore. Consideriamo ora le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro, e siano O1 ed O2 i centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il loro raggio O1A = O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e quindi anche il piano O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide con il piano DEN5 della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è perpendi- colare allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131  colare a questo spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo la K6B2 perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il vertice B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il vertice U opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la O2U e quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB- B1O2 è un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il piano O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è piano il pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente eguali, gli angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1 eguali perché sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che anche gli angoli di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente eguali a quelli di vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al lato comune O1O2 i loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro di una circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2, nella quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente conducendo da C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una circonferenza (situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è inscritto il pentagono piano regolare CMTRH. 132  Siccome AE spigolo del dodecaedro è parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del pentagono inscritto nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del pentagono inscritto in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio r è parte aurea del raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del de- calfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un rettangolo per costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ, è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ hanno una distanza eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo di cui l'ipotenusa è eguale ad r+a5, il cateto μB1 è eguale a a5 e quindi. Ma perciò (Bμ)2 = (r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10 ·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s  si ottiene quindi ossia (Bμ)2 = s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato; e la distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è eguale ad s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2 –O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici BDNSG e CMTRH è eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia del dodecaedro. La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a 2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222 Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed s10 si trae che le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la parte aurea di s10, s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la distanza 2a tra le due facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli al- 134    triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di 2a, la parte rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte intermedia è la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella fac- cia del dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η hanno il raggio eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro, hanno dalle due facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia e dalle altre due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del decalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo piano la sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono PFQP'F'Q'. I punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della figura 37. I lati PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro. BD e PN sono eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro della sfera ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale ad s10. Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale ad l10. Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K la perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC = AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL, KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135  parti, AK eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5 2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e quindi si ha:  2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10 10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5 ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136  [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a 2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 ) L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10 e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2 s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 = 4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 = 6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i triangoli 137  PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le due diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da 9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il dodecaedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici. Dato R si determina come nell'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Si determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo del dodecaedro.  L'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del dodecaedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta alla faccia del dodecaedro. Le proiezioni dei cateti di questo triangolo sono l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti nella circonferenza circoscritta alla faccia. Si prende un segmento Θη = l10 lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti ΘO1 = ηO2 = 138  r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del dodecaedro. Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2 eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici del dodecaedro. Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5, si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5, la figura fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'. 139  Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2 ... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 = L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1 equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L', L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata geometricamente. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia. IL SIMBOLO DELL'UNIVERSO. In relazione ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro regolare dobbiamo ora soffermarci alquanto a considerare le tre medie considerate anche dai pitagorici, ossia la media aritmetica, la media geometrica e la media armonica. Nicomaco attesta che Pitagora conosceva le tre proporzioni aritmetica, geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella sua scuola si consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica. Si ha proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c – d; la proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o la media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner; e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G. LORIA, Le scienze esatte. Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b, c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap- porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità. Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il lato del quadrato eguale al rettangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando 1a – 1b = 1c – d1 ; e conseguentemente b è medio armonico tra a e d quando l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due. Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel caso della proporzione continua 142  di tre termini; le definizioni antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della geome- trica, la definizione della media armonica è invece diversa. Riportiamo il frammento di Archita, inserendo per chiarezza gli esempi numerici. La media è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente, vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa- mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmetica perché 12 – 9 = 9 – 6. Il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di 12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è eguale 1+ 12, ed 13 è minore di 12 ). Si ha media geometrica, continua Archita, quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli (esempio: 6 è la media geometrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando [Cfr. DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin; fr. 2o. Il frammento d’ARCHITA DA TARANTO (si veda) è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la philosophie pythagoricienne) ne dà la traduzione. 143   il primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso, identica alla frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa proporzione il rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto dei più pic- coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di 6, perché 12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12, quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita di TARANTO (si veda) (o dei pitagorici?) questa proporzione è chiamata ὑπεναντία tradotto con subcontraria anche da LORIA (si veda), perché secondo la definizione che abbiamo riportato, in questo caso succede il contrario che nel primo. Da questa definizione si può trarre con operazioni aritmetiche semplici la definizione moderna. Difatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò significa secondo Archita di TARANTO che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57 Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed. Teubner, pag. 135. 144 e quindi:   2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di Gerasa, Pitagora trasporta da Babilonia in Grecia. In questa importantissima proporzione geometrica gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i medii sono ordinata- mente la loro media aritmetica e la loro media armonica. Nel caso di segmenti, dalla penultima relazione risulta la presumibile definizione geometrica della media armo- nica: la media armonica b di due segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente per base la media aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per lati i due segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media geometrica dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c è maggiore del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti a e c, costruita geometricamente la loro media aritmetica, per determinare geometrica- mente anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema dell'applicazione semplice, in questo caso risolu- La testimonianza è di Giamblico, cfr. LORIA, Le scienze esatte ecc. bile sicuramente (anche senza la teoria delle parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12 e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di armonica alla media sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri- spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tanto nella scala pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia). Ce lo dice, in parte, FILOLAO (si veda) in un suo frammento. Dice Filolao: L'estensione dell'armonia è una QUARTA più una QUINTA [adoperiamo i termini moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta di nove ottavi. Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si I termini di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner. Cfr. CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; estende mediante l'aggiunta di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio tetracordo). Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era semplicemente la media aritmetica delle lunghezze di queste due corde estreme. Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sensazione di un intervallo rispetto al do inferiore eguale Questo tetracordo non è altro che la lira d’Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il canto. Osserva TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (Hoepli), che è notevole che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella declamazione. Infatti, INTERROGANDO (cf. Grice, ?p – interrogative mode, indicative mode, imperative mode), la voce sale di UNA QUARTA; rinforzando, cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta. Occorre anche tener presente che l'ACCENTO dell'indo-europeo è un accento di altezza. La vocale tonica è caratterizzata, non da un rinforzo della voce, come in tedesco ed in inglese, ma d’una ELEVAZIONE. Il TONO greco antico consiste in una ELEVAZIONE DELLA VOCE, la VOCALE TONICA è una VOCALE PIÙ ACUTA delle vocali atone. L'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un INTERVALLO D’UNA QUINTA (MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grecque, Paris). all'intervallo del do superiore a quello del fa, ha una lunghezza tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formano una proporzione geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34, 23, 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media armonica delle lunghezze delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente. Se invece delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde estreme, e la quarta la media armonica. In molti testi di fisica e di matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle lunghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque Vediamo ora quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha 12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi; come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi= 64, fa= 3, sol= 9 81 4 149   tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il cubo armonia geometrica. I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli, 8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e del decalfa in 2, la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27 mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si presenta nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo dell'universo. Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filosofia. Robin, p.e., (ROBIN, La pensée grecque, Paris) prende per le quattro corde della lira la bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi 6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner] essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La media aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r. Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà: (s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M = 45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi, abbiamo trovato che la loro media geometrica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha: e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2; s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151 ossia la media armonica tra la somma del raggio della  ferenza circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosaedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro; la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN = l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti, ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha: a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac – c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi  D'altra parte, indicando con M la media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c. Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla sua parte aurea, accade che il secondo segmento ed il terzo sono rispettivamente la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora la quaterna 2a, s10, r, l10 dei segmenti determinati sopra la congiungente i vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in- scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina, ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media armoni- ca tra 2a ed l10. [Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in- scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4; mentre il lato AN della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono dagli estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente come le due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme. Prendendo come segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15]; e per la media armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10 e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così pure la media aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da 2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del lato AN della punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è la parte aurea del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la media armonica degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica di 2a ed s10: 154  (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10 e per la [17] (2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra 2a ed s10 è eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia. L'esistenza di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi costituiti dagli elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser sfuggita ai pitago- rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra- cordo formato dagli elementi 2a, s10, r ed deve avere costituito ai loro occhi una conferma significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro regolare il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto questa corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre ragioni ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche perché erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo. II dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non vi è che da leggere alcune pagine del Timeo di Platone. Riassumiamo servendoci della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che ogni specie di corpo ha profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di triangoli, in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di triangoli e corrispondentemen- [PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da ACRI, Milano]  te ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano corrisponde al numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro al numero dei vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto, corrisponde a una retta che è individuata da due punti. Il punto, la retta, il piano o triangolo ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i numeri: uno, due, tre e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera decade. Per il fatto che ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici dicevano che il triangolo è il principio della generazione. I triangoli, prosegue Timeo, nascono poi da due specie di triangoli, il triangolo rettangolo isoscele ed il triangolo rettangolo scaleno. Questi vengono posti come principii del fuoco e degli altri corpi [elementi]; e con essi si compongono i quattro corpi [i quattro elementi, ossia le superfici dei poliedri simboli dei quattro elementi]. Siccome di triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in- numerevoli (distinti per la forma), Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le seguenti proprietà: 1o – con due di essi si compone un triangolo equilatero; 2o – l'ipotenusa doppia del cateto minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore è triplo di quello del minore. Con sei di questi triangoli si forma un triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr. PROCLO, ed. Teubner. Per altre fonti cfr. lo CHAIGNET. Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per chiarimento.] versa, preso un triangolo equilatero i diametri della cir- conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de- compongono in sei di tali triangoli), e con quattro di questi triangoli equilateri si ottiene il tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere compartita una sfera in parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero di ventiquattro». Con otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro (composto dunque di 48 di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha venti facce triangolari ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali triangoli elementari. Altri poliedri regolari con facce triangolari non vi sono. Con il triangolo rettangolo isoscele si genera il cubo; perché quattro triangoli isosceli formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso dai diametri passanti per i vertici in quattro triangoli rettangoli isosceli), e con sei quadrati si forma il cubo che consta così di ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane così, dice Timeo, ancora una forma di composizione che è la quinta, di quella si è giovato Iddio per lo disegno dell'universo. Timeo sembra proprio sicuro del fatto. Mieli esclude assolutamente che i pitagorici fossero arrivati a riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la dimostrazione d’Euclide nel suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici potevano benissimo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi conoscevano i cinque poliedri che effettivamente esistono. A questo punto Platone fa tacere Timeo, forse per riserva forse perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che differenza. Ma applicando il medesimo metodo di decomposizione in triangoli alle facce del dodecaedro, il pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e la figura è divisa in trenta triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i dieci vertici del pentalfa. La superficie del dodecaedro viene perciò decomposta in 30×12 = 360 triangoli rettangoli, i quali però questa volta non sono di quelli «bellissimi» cari a Timeo. Ora il numero XII (che compare anche negli altri poliedri) ha già per conto suo un carattere sacro ed universale.  XII è il numero delle divisioni zodiacali e XII in ROMA è il numero degli Dei consenti, XII è il NUMERO DELLE VERGHE DEL FASCIO ROMANO, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenutici stanno ad indicare l'importanza del numero XII e del dodecaedro. Il numero CCCLX è poi il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. Il silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche a Robin, il quale dice (ROBIN, La pensée grecque, Paris) che «au sujet du cinquième polyèdre regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux. Robin non prospetta alcuna ragione di tanto mistero. REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista «DOCENS»] La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri, dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag- giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale 360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni, aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rappresentano. Abbiamo veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per vertici i centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un vertice del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti ALCINOO, De doctrina Platonis, Parigi; Cfr. an- che l'opera di MARTIN – Études sur le Timée de Platon, Paris, PLUTARCO, Questioni platoniche. Naturalmente si tratta dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. e questi tre fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia, come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te- trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r, l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii hanno rispetto agli estremi esattamente la stessa relazione delle corde medie alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici identifichi l'oracolo di Delfi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed all'armonia. La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo [ROBIN, La pensée grecque, Paris dell'universo. Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza nell'architettura pre-periclea; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia, l'architettura e le varie arti. La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del dodecaedro nella sfera ed il riconoscimento delle sue proprietà, come sappiamo che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- [CANTOR, Vorlesungen über Geschichte der Mathematik] Alla considerazione della media armonica si connette, invece, il canone della statuaria di Polycleto; ROBIN, La pensée grecque; LORIA, Le scienze esatte ecc.] so anche all'ascesi pitagorica; e si comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Platone potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno, una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e l'intimo legame di que- st'ultima con la musica». Per i pitagorici e per Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la geometria euclidea, spezzando tutti i contatti e divenendo fine a se stessa, degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagl’elementi costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva costituire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto un passo abbastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica, non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo per scoprire LORIA, Le scienze esatte ecc.] le connessioni tra la geometria e le altre scienze e discipline. Altre cose si potrebbero aggiungere in proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς πάντας πάντα ῥητά. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come elemento per la restituzione e non come documento di prova, non era possibile fare di più; e sappiamo che in questa circostanza anche le prove indirette, che abbiamo raccolto per via, hanno il loro valore a favore della nostra tesi. Nello sviluppo della geometria pitagorica ci siamo limitati a quanto occorreva per poter raggiungere i risultati menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premettere per trattare l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema dell'applicazione semplice, corrispondente alla risoluzione dell'equazione ax = bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importanti questioni. Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre corde passano per il centro; ma non si può dimostrare in generale che per tre punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo adesso di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà. Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di Archimede, dimostrare con Legendre la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle parallele); e così pure osserviamo come il Severi, ammesso il suo postulato delle parallele, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato d’Archimede, la unicità della non secante. La cosa è dunque possibile servendosi del postulato d’Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo postulato perché Archimede è posteriore persino ad Euclide, e non è verosimile che i pitagorici abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero che il postulato d’Archimede basta per permettere di raggiungere il risultato; ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, potevano i pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato, dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un punto assegnato? BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze. Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono da quelle già viste. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe ad una stessa retta AB, ogni altra perpendicolare ad una di esse incontra anche l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b perpendicolari alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendicolare alla b. Il suo piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due perpendicolari alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA, avendo inoltre eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, essendo ABPQ un rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una distanza PQ = AB, allora diciamo che questo punto P appartiene alla perpendicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente appartenere alla AB, altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP; perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168  è eguale ad un retto. Il punto P sta dunque sulla a perpendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante; cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB. Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b passante per un punto 169  assegnato A, non dice affatto che ogni altra retta passante per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla b: ossia per ora abbiamo dimostrato la unicità della retta equidistante; e nulla sappiamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e forma con esse angoli alterni interni eguali esse sono equidistanti.  Siano a e b le due rette incontrate dalla trasversale AB, e siano gli angoli alterni interni eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni sono supplementari. Se questi angoli sono anche eguali, ossia se sono retti, le a e b sono perpendicolari entrambe alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due angoli sono diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è situato ri- 170  spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian- golo non può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro angolo ̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide l'angolo ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette equidistanti. Lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig. 39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso. Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH; e quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171  ̂HBA+ ̂BAD=2 retti I due angoli coniugati interni sono dunque supplementari; e quindi gli alterni interni sono eguali ecc. Non è però dimostrato che se due rette sono equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso generale. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita d’Eudemo ai pitagorici, dimostrazione alla quale si riferisce il passo della Metafisica d’Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione? Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basa sopra il teorema delle rette equidistanti, derivante dal teorema dei due retti, doveva necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò inesplicabile la esistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o non si usi il postulato d’Euclide. La equidistante è una non secante, che a differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un postulato sopra le rette equidistanti come quello di SEVERI (si veda). Se, come crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso, perché, come SACCHERI dimostra, l'ammettere che delle rette equidistanti esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato. Esso è il postulato del Severi, equivalente alla proposizione SACCHERI, ed al nostro postulato pitagorico della rotazione. VAILATI, Di un'opera dimenticata di SACCHERI, in Scritti.] Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è verosimile derivi da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eudemo, ed inoltre la teoria delle equidistanti e, di rimando, la dimostrazione del teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo.Se una trasversale incontra due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistanti. E siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174  equidistante dalla m, essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante si chiama altezza del romboide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB (fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175   lati consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per assurdo, come conseguenza della unicità della equidistante dalla BC passante per M, e della unicità del punto medio M. Come conseguenza di questi teoremi se ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente teorema di cui abbiamo bisogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il prolungamento della AN nel punto C. Vogliamo ora dimostrare la proprietà, fondamentale che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può condurre una sola retta che non la seca. In modo simile a questo si può sviluppare la teoria delle rette e dei piani equidistanti e la teoria dei piani equidistanti. Avremmo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. Dal punto A conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b entrambi perpendicolari alla AB non si possono incontrare. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due semirette situate da parti opposte della a; consideriamo la semiretta m che rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di origine A e comprese nell'angolo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre di origine A che non incontrano la semiretta 179  b; anzi ve ne sono di sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a, perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna all'angolo ^mAa,, è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infatti, a partire da A su questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A comprese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne all'angolo C A a ; basta infatti 180  prendere un punto S qualunque sul prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A, passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi, e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon- denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita ordinatamente dalle altre; e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qualunque della b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre. Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmento BC; le semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata ortogonale ABC, estremi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la a l'ultima delle non secanti la b. Facciamo a questo punto una osservazione: La corrispondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC, permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC. Per dedurre dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un fascio, il Severi nota che occorre prima introdurre il postulato delle parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette. Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li passino per A, e la corrispondenza è completa, nessuna semiretta esclusa. Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD, e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste l'ultima delle se- [SEVERI, Elementi di geometria] mirette secanti la b così da un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo dalla posizione iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato della rotazione pitagorica (o l'equivalente proposizione Saccheri) sarebbe stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del postulato d’Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità. Bisogna ammettere come postulato la esistenza di una semiretta di separazione delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità talmente evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non ha sentito il bisogno di postulare il postulato di continuità nei due casi che abbiamo a suo tempo espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo due secoli prima d’Euclide quando Pitagora per primo faceva della geometria una scienza liberale. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo, la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica. Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b), ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sappiamo la r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h; in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è quindi contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE: Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che non la seca. Sia A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che forma con la semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b (eventualmente anche la prima). Allora la prima non secante, ossia la se- miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r, ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere acuto l'angolo HAB del triangolo 185  rettangolo AHB, il piede H sta sulla semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30° e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com- preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a' perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186   e A; perciò il segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK, ̂DAH eguali; quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε. Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s' incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA, il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una secante della b. La prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ; ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ; quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione SACCHERI (si veda)) o l'equivalente postulato di SEVERI (si veda) opra le rette equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar- chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva apparire indi- scutibile. Dimostrato il postulato d’Euclide si rientra naturalmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro compito è finito. A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria pitagorica, non in quanto collimava con la geometria euclidea, ma in quanto ne differiva. Che ne differisse sostanzialmente lo prova la esistenza di quella arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato, abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente da sola la più recente dimostrazione del teorema dei due retti riportata da Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo postulato della rotazione. Come riprova del fatto che essi non ammettevano il postulato delle parallele, definite come in Euclide, abbiamo addotto la ragione che per i pitagorici il concetto di infinito si identifica con quello di imperfetto. Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si potrebbe obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il concetto di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come il concetto di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed imperfetto, così, corrispondentemente, il concetto di immobilità si oppone a quello di movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra. Seguendo una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia quello di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere presenti i legami che avvincevano le concezioni geometriche dei pitagorici a quelle cosmologiche; e se nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso anzi detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano mai, viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un carattere essenziale della vita umana ed universale. Gl’astri, ossia gli dei, si movevano eternamente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il movimento circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua regolarità e semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di rotazione restavano im- [VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova] mobili e partecipi della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente onore ad Euclide di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato possibile. Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una riprova che i pitagorici ne fanno uso senza tanti scrupoli e che quindi potevano benissimo anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente, accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata, puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc.] mezzo comodo e rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che non ha mai soddisfatto nessuno e che Alembert chiama lo scoglio e lo scandalo della geometria. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si ammette il postulato pitagorico della rotazione o la proposizione Saccheri, si ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette anche il postulato di Archimede oppure il caso particolare del postulato di con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendicolari in punti distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto, per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione. Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A rispetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P, dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r: quindi esse non si incon- trano.] tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così. Sia il triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ παράλληλος ἡ. Qui appare il termine parallela e l'articolo determinativo ἡ ne implica la riconosciuta unicità. Ma, anche ammettendo che Proclo riporta di peso la dizione usata d’Eudemo, resta a vedere se Eudemo adopera il termine parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi d’Euclide. Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante. Egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce la retta di fianco o di fronte al lato. Anche in questo passo l'articolo ἡ mostra che tale retta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nessun modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della parola parallela non dà in proposito nessuna luce. Il termine è adoperato in astronomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel linguaggio ordinario d’Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle vite parallele. Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e con quale precisazione non risulta. Aristotele lo usa tre volte nella Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano di descrivere le parallele commettono una petizione di principio. Così come stanno le cose il passo di’Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non provano affatto che la dimostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla definizione ed al postulato d’Euclide. E non è da escludere che questa retta fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla equidistante vi potessero essere anche altre rette non secanti. In tal caso il dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela nel senso euclideo e non si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, d’Aristotele e d’Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due retti una dimostrazione identica a quella d’Euclide. Se, come ci sembra, questa dimostrazione pitagorica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche questa dimostrazione era indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'accordo con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione pitagorica. E notiamo ancora che, anche se non si vuole accordare che la geometria pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pitagorico della rotazione, la dimostrazione del postulato d’Euclide che abbiamo esposto si può fare egualmente, se si ammette la proposizione SACCHERI od il postulato del SEVERI. E siccome i pitagorici conoscevano certamente il teorema dei due retti indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che essi potevano dal teorema dei due retti e senza postulato d’Archimede arrivare a dimostrare la unicità della non secante. La questione non trascendeva i loro mezzi, né certamente l'intelligenza di quei così detti primitivi. La trasformazione del postulato di Euclide in teorema è un risultato secondario di questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia- mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e, tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo scegliere tra il V postulato ed il postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è anche un po' personale, e noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiungere lo stesso risultato. Il postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il postulato d’Euclide in modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. Una volta introdotto, come postulato, il V postulato d’Euclide, la proprietà enunciata dal postulato pitagorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse accaduto diversamente quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la introduzione del postulato d’Euclide dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide cambiò l'ordine e le dimostrazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno goduto per oltre venti secoli gl’elementi di Euclide, aggiungendosi a queste condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della gloria della scuola italica. Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fondamenta, nulla si è salvato. Un destino avverso sembra essersi accanito contro l'opera vasta ed ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime pitagorico in CROTONE Cotrone; disperso l'ordine e la scuola, le scoperte e le conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate. Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra natura, impede l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagoriche, assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la filosofia, intesa nel senso etimologico e pitagorico della parola, venne occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere salde basi, si è perduta a tutto beneficio della scuola greca posteriore. Per quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di restituire l'opera geometrica della scuola itala è stato per noi non soltanto un importante argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi, gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti, preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ. Leonardo Ferrero. Ferrero. Keywords: implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola pitagorica, filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con altri scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto, aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico, numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani sull’origine del pitagorismo.  Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrero” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferretti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo – scuola di Brusasco – filosofia torinese – scuola di Torino – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Abstract. Grice: “When I lectured at Bielefeld, I had to be careful with the language. They use Objekt very seriously – much more seriously than Subjkekt – and they usually ignore the Inter-Subjektiv!” Keywords: inter-soggetivo. Filosofo italiano. Brusasco, Torino, Piemonte. Grice: “I like Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle of conversational helpfulness.” Si laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino, Macerata. Altre opere: Persona (Milano). Storia della filosofia romana (SEI, Torino), “L’ntersoggettivo (Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg et Sellier, Torino). Ricerca Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA)  «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.»  («Non uscire da te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.»  (da La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino subiectus(participio passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa "quello posto sotto", "ciò che sta sotto".  Nella speculazione filosofica il termine ha assunto una varietà di significati:  un essere, sostrato sostanziale di qualità che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento soggettivo che determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità; termine che, in età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e all'autocoscienza intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di significato nella storia del concettoModifica In filosofia il concetto di soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente il termine si riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una "oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della cosa sensibile come suo fondamento ontologico.  Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calogero. La teoria sul pensiero greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama "accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel tempo e nello spazio.  Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato mutevole. E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma.»  Un terzo aspetto particolare del soggetto in Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il composto di entrambe».  Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto.» Nel lessico moderno, allora, "soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto); dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato, respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Soggetto assume una serie di nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche "umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia. Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di "autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà esterna".  Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla "realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità. Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana. Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e nella mente umana, il Lògos. Parmenide afferma che lo stesso è pensare ed essere, ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere. Per Anassagora il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed oggetto.  I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale il concetto di realtà, verso la quale ostentano uno scetticismo o un relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito proprio del filosofo diventa: conosci te stesso». La ricerca si orienta verso l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e vizio, giusto ed ingiusto, ecc.  Con Platone il concetto diventa Idea, da sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa, apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte". Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui poggiano le qualità accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che la sostanza pare che sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa. Alla sostanza competono numerosi altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto.  Riassumendo la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente sul soggetto (la mente).  Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo (Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno, che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una dimensione intellettiva universale.  Sulla scorta di Aristotele, nel Medioevo il soggetto assume un significato oggettivo: il soggetto del discorso, l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone (subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità; ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende.  Col Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e somiglianza. Nella disputa sugli universali, Aquino prende posizione a favore del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta alla trascendenza divina. Su questa strada anche il Rinascimento descrive variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto (Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma abitata da forze e presenze nascoste. Si verificano due processi paralleli: con Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura. Cartesio parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di varia natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse sono solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee corrisponda una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio pensiero e le Idee spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione mentale) non esiste materialmente: esso può essere immaginato, inventato, anticipato, ecc. Ma vi è soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale dell'oggetto pensato come reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa la esistenza reale dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza delle Idee nella mente né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine. La celebre proposizione del "Cogito, ergo sum" riassume un lungo ragionamento che si può esprimere così: Posso dubitare di essere ingannato riguardo qualunque verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul fatto di essere io il soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste domande è necessario che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti posso liberamente dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero atto del dubitare, di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa base Cartesio costruisce un prototipo di quella che si può definire "metafisica del soggetto", dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine logico, e l'unica che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le altre. Determinante per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo res cogitans/res extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla materia, che Cartesio identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione matematica e deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti fermi:  L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre cose, ma è, per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché soltanto nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le cose, che il senso comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica platonico-aristotelica; le idee, vere e proprie realtà pensanti che si esprimono nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio, nella sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri («la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale (appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica), ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto scolastico di armonia prestabilita.  L'empirismo inglese, prima con John Locke e poi più decisamente con Hume, reagisce a questa sostanzializzazione del soggetto criticando sia la nozione di sostanza (Locke), che poi quella stessa di soggetto (Hume). Ma in tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo, all'impossibilità di poggiare la concordanza tra soggetto e predicato su solide basi: ne va di mezzo la possibilità della conoscenza scientifica. Come in Cartesio, seppur partendo da una prospettiva opposta, gli empiristi giungono così a un dualismo, ad una frattura tra la dimensione soggettiva dell'esperienza, e quella oggettiva della realtà esterna.Questa frattura tra la realtà e le sue rappresentazioni soggettive derivanti dall'esperienza verrà radicalizzata da Kant come opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi oltre).  Concludendo sul pensiero moderno: all'opposto di quello antico, ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto esterno, fino a diventare esso stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio), generando per reazione la negazione della sostanza (empirismo).  Kant e l'Idealismo Modifica Con Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato. Il pensare dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant. La chiamo originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre rappresentazioni». Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'io penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria, ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.  Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé. Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata", attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e oggetto tipica della metafisica neoplatonica.  La dialettica soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza, mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori, sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due termini contrapposti.  Hegel identifica esplicitamente il soggetto con l'Assoluto, ed infine col divino cristiano, ma diversamente dai suoi predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito», ma quel che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito, proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo "sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri di Dio") viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza universale o Spirito.  Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale, storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo sulla Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non sono più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte esistenziale dell'uomo moderno.  Il soggetto oggi La filosofia già da un secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si è messa) al centro del mondo. La rivoluzione copernicana esprime un ottimismo della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della Natura. Secondo Aristotele costituito da una materialità informe, originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. Aristotele, Metafisica,  Aristotele, Enciclopedia Treccani, Dizionario di filosofia Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura), Platone, Fedone, Aristotele, Metafisica, Salatiello, L'autocoscienza come riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino, Pontificia Università Gregoriana, Roma. Ad esempio Paracelso nel suo Liber de nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus parla apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di natura. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma Homo Laicus: Berkeley. Kant, Critica della Ragion pura, Hegel, Fenomenologia dello spirito, introduzione Vedere introduzione alla Scienza della Logica. Boulnois, Généalogies du sujet. De saint Anselme AOSTA (si veda) à Malebranche, Parigi, Vrin, Alain de Libera, Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, Libera, La quête de l'identité (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin, Alain de Libera, La double révolution. L'acte de penser I (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nella cultura antica La Nuova Italia, Milano, Bompiani. Parisoli, Il soggetto e la sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi Medievali, Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, Thiel, The Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes to Hume, New York, Oxford Individuo Oggetto (filosofia) Portale Filosofia: accedi alle voci che trattano di filosofia  Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del pensiero  Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io)  Il contenuto. While subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The inter-subjective” sounds Butlerian in English! Giovanni Ferretti. Ferretti. Keywords: ‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the common ground’  -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferri: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Bologna – filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Abstract. “My Oxford pupil, Strawson, thought that ‘to karulise’ was to make love! But he couldn’t figure out why pirots would do that ELATICALLY!” -- Keywords: love. Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s ‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo. Discusse in tre lettere le “Confessioni di un metafisico” di ROVERE Mamiani ed elabora in tre memorie le sue concezioni.  Pubblica la “Rivista italiana di filosofia.” La filosofia platonica poggia su due basi: cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine, le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio; osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia, cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to  Conf. La Dottrina dell'amore secondo Platone, lezione e note,  questa Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni. L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità.  Questa corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci. Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che l'amore non ha altri strumenti da applicare. Grato è a noi, dice Ficino, il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo bello. E perchè queste tre cose, l'animo  Università di Palermo un'analisi accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza nome di stampatore: “Il Commento di Ficino sopra il Convito di Platone e il esso Convito tradotlo in lingua toscana per BARBARASA da Terni con dedica al maguifico messer Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Ficino a Vero, cad Manetti, da cui risulta che la versione in lingua toscana del Commento edito a Firenze dal Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino. Le citazioni fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da essa.  « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste ricerchi, con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa grazia di virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo della ragione, viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to kalon). Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino, formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo punto meritano di essere riferiti.  Trovandosi il bello nella forma del corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.  Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa posizione di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria -- e proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in parts --– analogia -- con qualche soavità di colori.  [ocr errors] ("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto, dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo  questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato e non la medesima  “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che dobbiamo  stimare la forma bella essere qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è maggior grazia. E negli  uguali di età alcuna volta accade che quello che supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo. L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose; quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per  a qual cosa accade che alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo, non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e « occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti, debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè, l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo, secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere? Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un amore infinito che spande la bellezza nell' uni  verso.  Ma prima di salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto della sua vera natura nell'uomo.  A malgrado della tendenza mistica che distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento. Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito – cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi in terra.  Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i due influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella dell'intelletto.  Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni epicuree. Difatto, sogliono i mortali,   quelle cose che generalmente o spesso fanno, dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo per la  nostra stoltiza falla in amore. Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta. E così in questa coine nelle altro  parti della sua filosofia si ritrova quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti, facciamo di esporla il più completamente possibile.  Arriviamo con lui al termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee formi la bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili, componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale, fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di perfezione e beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza modo e misura. Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino, cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità, figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello che  [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri cuori? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in « questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più « espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie, del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son « chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo. Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria; così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da scienza.  Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri  mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima, della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi, proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità, in quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in quello della materia le forme.  In questi cerchi sono tre mondi che mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine, dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi. Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio, tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo.  « Con essa (bellezza) dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo « trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua, dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in dilettazione».  Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi  naturale, del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel Fedro, in quel Cielo che il genio d’ALIGHIERI sparge di luce e letizia crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste, egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale. Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino, seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia, la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua mente fu più inva  ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne forma l'unità.  Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica, un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più compiuta delle sue inspirazioni.  Grau differenza certo è fra Platone c colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil; aveva insegnato como un sublime do  [ocr errors] vere la fuga dalle cose sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità; per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie.  Così è, Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e portarlo dalla terra al cielo.  Nella dottrina platonica il carattere religioso dell'amore  si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo non poteva mantenersi in questi confini.  Presso di lui l'amore sembra non avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro, la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e, nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità divina. A conferma del carattere mistico del Commento di FICINO si aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito. In Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione, rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva i' risultamenti col bene dell'individuo e della società. Questo aspetto stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi troveremo il vero uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono essi applicarsi alla vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della  degli Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel commentu di Ficino trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.  vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti, eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No, le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo, dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati,  [ocr errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità, innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se stesso al trionfo della libertà e del diritto.  A questo segno aveva mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per correggere  i  suoi costumi, per dare alla forza materiale un fondamento incrollabile nella forza morale.  In questo modo essa avrebbe dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e del coraggio allo straniero che sta per immergerle il ferro nel seno. Egli venne attratto dalla sua bellezza. La trova mal difesa, la vinse e se ne insignor. Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fa schernendo la sua debole resistenza, e Ficino è fra essi. Lagrima il pio sacerdote su tanto male, ricordd agl’uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di punizione; gl'invita a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più informata a carità che a fermezza, si sforza di volgere l'animo di lui a miti e clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostra di che tempra sono gl’animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il saggio-dialogo di Ficino sopra l'Amore consta di orazioni che espongono e commentano con indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel convito di Platone. Ficino stesso narra l'origine e lo scopo del suo lavoro. Platone spira (secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il giorno anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno, celebrano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento anni da Porfirio in poi il rito solenne, è restaurato con regale apparato per ordine di MEDICI (si veda) nella villa di Caregri, sotto la direzione di Bandini che ne è costituito Architriclino. I convitati sono IX, pari cioè al numero delle muse. VII figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle che sono contenute nel convito dell’Accademia. Si trassero a sorte le parti da sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del nuovo Simposio. Cosicchè le orazioni. La I, di Fedro, retore, tocca a  CAVALCANTI (si veda), che per virtù e nobiltà di animo  è chiamato l'eroe del convito; la II, detta da Pausania, tocca ad Antonio degl’AGLI (si veda), vescovo di Fiesole, la III d’Erissimaco a SPERANZA, medico a Ficino; la IV, d’Aristofane, a LANDINO; la V, d’Agatone, a MARSUPPINI, la VI, di Socrate, a BENCI (si veda), la VII, di Alcibiade, a MARSUPPINI (si veda). Ma il vescovo e il medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le loro disputazioni a CAVALCANI. FICINO non puo essere più cortese coi suoi discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche Nuti e Bandini che insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui dimenticati. A Bandini, ordinatore del banchetto, non ha bisogno di attribuire altra parte che quella assegnatagli da MEDICI. Nuti suppone fatta la lettura del simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini è Cavalcanti che persuade Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare i fiorentini del celeste bello. La versione toscana del commento di Ficino al convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'amore, stimo opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore.  Il bello è una certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama.  Finalmente che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova. Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la distanza ė o nulla, o vacuo,  o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano. In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle, quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone; per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore, sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo principio già si era rivolto  E il suo primo voltamento a Dio è il nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è lo impeto d'amore;  [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne. Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale.  Secondo che mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico, nonché di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di cui Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume, che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere in questi lavori. BONGHI apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica, da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza. Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti, della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale. Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio, riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene, Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano, ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di volgere al  bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo. C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa, intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare un bello, che su tutte tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al sommo della scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto, senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e  non accresciuto (nè scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore che s’inizia con la percezione dell’AMANTE del corpo bello dell’AMATO -- in due modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto) nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’AMANTE e l’AMATO sempre povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fa credere a parecchi interpreti e critici che l’ACCADEMIA quivi, come in altri luoghi, ricorre a invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse delle sue dottrina dell’amore. Ma a BONGHI sembra, e secondo noi con ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopra enumerate che BONGHI conduce colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del paganesimo rinascimentale di FICINO. Altre opere:  Il genio del LIZIO. Discorso, Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà, della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e del metodo di SERBATI Rosmini, Il Cimento, Della filosofia del DIRITTO presso il LIZIO, «Il Cimento», Estr.: Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta nelle Confessioni di ROVERE Mamiani e alle dottrine platoniche, Riv. cont., Sulle dottrine dell’ACCADEMIA e sulla loro conciliazione colle del LIZIO. Lettera a ROVERE Mamiani, Riv. cont., Estr.: Torino, Sulle attinenze della filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un corso di storia della filosofia, Niccolai, Firenze, Ciò che possa la filosofia per l'istituzione civile dei popoli. Discorso per la riapertura del R. Istituto di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. Di SAVIGLIANO (si veda), La filosofia di Bossuet; di TURBIGLIO (si veda), Storia della filosofia; di CANTONI (si veda), VICO (si veda), NA, La libertà del pensiero e la filosofia nell’università italiane, NA, L’epicureismo L’ORTO e l’atomismo. Considerazioni storico-critiche a proposito di un saggio recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze, Le Meditazioni cartesiane rinnovate da ROVERE Mamiani, NA, L'arte della rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna, NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. tradotti da BISSOLATI (si veda), Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica contro il materialismo, FSI,  Rec. di R. Bobba, La protologia di PINI (si veda), Torino, FSI, VICO (si veda) e la filosofia della storia [Rec. di CANTONI (si veda), Studi critici e comparativi; SICILIANI (si veda), Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; ROVERE (si veda), Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, VINCI e la filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr., Torino, Rec. Di FIORENTINO, POMPONAZZI. Studi storici su la scuola bolognese e padovana con molti documenti inediti, Firenze, ASI, Estr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, Il senso comune nella filosofia e sua storia, FSI, Estr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di Kirchmann, La teorica del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sull’attinenze della religione e della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera a ROVERE, Conte Mamiani, FSI, Rec. di FIORENTINO, La filosofia della natura e le dottrine di TELESIO (si veda), Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di causa nella scuola di Herbart, FSI, VINCI (si veda) filosofo. Vita e scritti secondo nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo saggio di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo l’Accademia, FSI, Estr.: Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna, FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’avvenire, Herbart, NA, Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Civelli, Roma, Il metodo psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Ferrari, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia di Pomponazzi, secondo un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, intitolato: Pomponatius in libros de anima. Memoria, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, Sulle vicende della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nell’università di Roma, Annuario Univ. di Roma. Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima in Pomponazzi, FSI,  Estr.: Opinione, Roma, “L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI,  L’ORTO -- L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico critico, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. d’ALLIEVO (si veda), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a BRUNO (si veda), Acc. Scienze Torino. Memorie,  FSI, “L'assoluto”, FSI, CICERONE (si veda) sui doveri. Conferenza, FSI, Rec. di CONTI (si veda) e ROSSI (si veda), Esame della filosofia epicurea dell’ORTO nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia platonica fondata in Firenze dai MEDICI. «Acc. Lincei. Transunti, FSI, Helmholtz sulla percezione, FSI, Dell’idee e propriamente della loro natura, classificazione e relazione,  FSI, Il Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, ROVERE Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana d’Aquino e l'istruzione filosofica del clero, NA, Sulla recente restaurazione della filosofia scolastica e tomistica d’AQUINO considerata in ordine ai metodi degli studi ed all’attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, Acc. Lincei. Transunti», Vera, Acc. Lincei. Transunti, Sulla percezione esteriore e sul fenomeno sensibile, Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a BRUNO (si veda), a cur. di BERTI (si veda), Roma, FSI, La filosofia d’AQUINO (si veda), FSI, PETRARCA (si veda) e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI, Estr.: Salviucci, Roma, FSI,  ZANOTTI (si veda), La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti dell'Etica Nicomachea per cura di F. e Zambaldi, Paravia, Torino, Dottrina aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa, «Acc. Lincei. Transunti, Relazione sul concorso al premio reale per LE SCIENZE FILOSOFICHE, Acc. Lincei. Transunti, Il fenomeno nelle sue relazioni con la sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la causa della rinascenza del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, VINCI, NA, Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come contributo al dinamismo filosofico, Acc. Lincei. Memorie, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo di FICINO (si veda), FSI, La dottrina dell’amore di FICINO (si veda), Una lezione elementare di psicologia. Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La GIUSTIZIA (cf. Grice) nella repubblica utopica dell’Accademia. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della filosofia. Il platonismo di FICINO (si veda). Le idee e la dialettica. La dottrina dell'AMORE, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, Acc. Lincei. Rendiconti, Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti, Vera, Acc. Lincei. Rendiconti, “Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci, Roma, Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro tempo, FSI, La psicofisiologia dell’ipnotismo, FSI, Il concetto di persona [cf. person and personality – Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), Del suicidio nei dialoghi dell’ACCADEMIA, FSI,  ROVERE (si veda) Mamiani, Lincei,  Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Tip. R. Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro tempo, Acc. Lincei. Rendiconti, ROVERE (si veda) Mamiani, RIF, Il fenomeno sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico, RIF, Rec. di CHIAPPELLI (si veda), La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, Lettera a PENNISI (si veda) -Mauro, RIF, Rec. di Levi, BRUNO (si veda) o la Religione del pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec. Pozzo di MOMBELLO (si veda), L'evoluzione geologica inorganica animale ed umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Dell’idea del vero e sua relazione coll’idea dell'essere, Acc. Lincei. Rendiconti, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La filosofia politica nel LIZIO, RIF, Rec. di PANIZZA (si veda), La fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione del concetto, RIF, SERBATI (si veda) e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito dell’ACCADEMIA tradotto da BONGHI (si veda), Roma, RIF, Della idea dell'essere, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Berti, Acc. Lincei. Rendiconti, Benzoni, Acc. Lincei. Rendiconti, La psicologia fisiologica e l'origine dei fatti psichici, NA, Franchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo secondo SPAVENTA (si veda), RIF, La dottrina della conoscenza nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di COLINI (si veda), ROVERE (si veda) Mamiani, JESI (si veda) RIF, Rec. Di BERTI (si veda), BRUNO (si veda) da Nola, sua vita e sue dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF, Rec. CREDARO (si veda), Lo scetticismo degl’accademici, Le fonti - la storia esterna - la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani BRUNO (si veda) Nolani Opera inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di TOCCO (si veda), Acc. Lincei. Rendiconti,  - F. Cicchitti-Suriani, Della dottrina degl’affetti e delle passioni secondo la filosofia del PORTICO: saggio storico di psicologia morale con prefazione di  F., Aternina, Aquila,Intorno al pitagorismo de CROTONE in Italia, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Roma, Il problema della coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di SPAVENTA (si veda), RIF, Rec. di LESSONA (si veda), Elementi di Morale Sociale ad uso dei licei e degl’istituti Tecnici, compilati secondo gl’ultimi programmi, RIF, L'accademia platonica di Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, Acc. Lincei. Rendiconti, Della conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, Alcune considerazioni sulle categorie, Acc. Lincei. Rendiconti,  Il Teeteto, tradotto da BONGHI (si veda), Roma NA, La percezione intellettiva e il concetto, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec. di ZUCCANTE (si veda), Saggi filosofici, Renan, Acc. Lincei. Rendiconti, Taine, Acc. Lincei. Rendiconti, La percezione intellettiva e il concetto, Taine, RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma; Estr.: Balbi, Roma; “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica degl’italiani, NA, Estr.: Forzani, Roma, Rec. di MALTESE (si veda) Socialismo, RIF, “L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno su FERRARI (si veda) e le sue dottrine, in FERRARI (si veda), La mente di G. ROMAGNOSI (si veda), Milanese, Milano, a cur. di Campa, La Voce, Firenze. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care. As for Carmide and Licide, Ferri dedicates little attention. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio – psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R. Bonghi” RIF,  il dialogo dell’amore di Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ferri” – The Swimming-Pool Library. Luigi Ferri. Ferri.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fibbia: dal latino morto al latino vivo – filosofia piemontese – Luigi Speranza (Torino). Abstract. Grice: “Strictly, if Julius Caesar is dead, his ‘lingua’, as the Italians call her, is, too! ‘Viventi’ does not apply to a language only metaphorically!” -- Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. A Torino vede la luce il progetto “Latino Viventi” (Cavoretto, Torino), di F., nome fittizio dietro il quale non è ancora  stato scoperto il vero autore.  Grice crede che sia Fibbia, “Italian for Fibula”. Questa nobile e antica famiglia si tiene derivare da Francesco figliuolo d'Orlando nato di Castruccio Castracani Sig. di Lucca, e essere tutt'una con gli Antelminelli Castracani di Lucca discendente da Enrico altro figliuolo di Castrucci; vi è anche opinione possi derivare da Fiorenza trovandosi nel 1286. Lado di Benzo Fibbia da Fiorenza, la prima opinione però viene accreditata assai dall'Alidosi, per esser il più sincero tra gl'altri scrittori, ponendoli nel ib. 5 dei suoi Anziani, col cognome anche de Castracani, e fù per Arma due campi, quello di sopra azzurro, nel quale vi è un mezzo cane bianco simile al Cane degl'Antelminelli, e il campo di sotto d'argento, con due Fibbie, una rossa e l'altra nera coll'Aquila sopra. e si è andata avanzando di modo, che di presente è titolata, e gode il grado Senatorio; Io però trovo in Bologna, come all'archivio in lib diver farum matricolarum. Bartolomeo LV admittit 2 gradus: Ii populari, in quo sufficit radicario cum grammatica minim'i; II' litterarii, intelligibil'i tamen ab omni discipulo de populari gradu ad primi visum.ALPHABETO habet litteras latini. I = Il aut J: fit (fit),  iam (jam). - V = U et C = QU: solver (soluer), locuti (loquuti). MT = MPT: emti (empti). Sono de A shoe F. chou D. Schuh ante A, O, U indicatur  per SH: shocolate. In omni libro ad schola-& populi-usum,  LV miscet ad litteras romani litteras cursivi aut crassiori aut etiam capitali.  Supersigno et unionis-tractu est minus apti. Per dissimil'i litteras scribitur: (a vocabulo quod habet simili or-thographiam cum alio, sed sensum diversi: solum (de solo), solum (adv.).  (6 pluri affixo (lector'e vide n. 41). LV admittit litteras orthographici, id est non pronuntiati, et  notat tali litteram per accentum qui pracurrit: t'eriti, fu'nsi.In scripto ad usum de soli eruditos orthographici littera non usitatur. LV, quia fundatur supra base de res existenti, adoptat pronuntiandi-modum plus diffu'nsi. Sic introducit, sine mutatione, isti et illi vocabulum internationali: bagage, bicyclo, budget'e, &c. Discipulo de Il gradu pone accentum tonici super vocalem ante ultimi consonantem: câne, lilio. U in AU, EU, GU, QU non habet accentum: lâude, nêutri,  lingua, âqua. 3 finales de grammatica M, S, T non mutat accentus-locum:  pâtrem, pâtres, âmat. Gradu Populari  LY, articulo definiti, et UL, articulo indefiniti, est ambo inva-riabil'i: ly 300 viros de Gedeon; ul viros. UM est prapositione generali, Tenet locum de ab, ad, de, &c., quando discipulo hasitat.LV non habet accusativum; UM indicat proprie non-subjectum, id est attributum aut complementum: um patre filio amat; patre-um  filio amat: um Deo essev ly Verbo. UM est necesse solum quando fit inversione, quia non-subjecto est cognoscibili etiam per sui locum in phrase (post verbum); filio amat patre; Verbo essev Deo. -A, -E, -O, -U indicat substantivum in singulare; -AS, -ES,  -OS, -US in plurale. Quando diversi finale non dat sensum diversi (ex. arca, arce, arcu), licet commutar desinentias de plurisyllaba: die, dies (dia, dias, sicut in H. et P.), sed non ra, ro, ru (re), nam re est monosyllaba. GENERE, quando est necesse, indicatur per MASCULO,  FEMINA: equo-masculo, mascul-equo, femina-gallo. -I indicat adjectivum: boni patre, boni patres, boni matre. Adjectivo potest haber substantivi-formam: disputar est sterile (sterili re). Ad designar rem minus specificative, additur ad adjectivum ullo pronomine de sequenti serie: aliquid (aliqui re); aliud (alii re);  • istud (isti re); illud (illi re); id (re); id-dem, idem (eadem re); nihil  (nulli re). Ex.: aliquid boni. -A, -E, -0, -U scripti per dissimili litteras, indicat ad- verbium: recta, recte, recto (de recti). COMPARATIONE fit per tam... quam, non minus... quam ;  plus, minus... quam; suberlativo per multum, maxime: plus grandi,  mullum grandi. PRONOMINE PERSONALI. Ego, tu, illo, se; nos, vos,  illos, se. Si genere aut numero est notandi: eo, ea, eos, eas. Eo, ea, &c. plus dem (eodem, eadem, easdem) = I. stesso F. le même A. the same D. derselbe. POSSESSIVO. Mei, tui, sui, nostri, vostri. Sui, sicut se, designat subjectum: patre venit cum filio sui et cum amico  de illo (filio). DEMONSTRATIVO. Isti, illi. In substantivi-forma: iste, ille. Si genere et numero est notandi: isto, illo; ista, illa; istos, istas, &c. INTERROGATIVO RELATIVO: Qui. Quid (qui re, um  qui re) est interrogativi.  16° VERBO indicat nec personam, nec numerum. INFINITIVO: -ar, -er, -ir (= iir): amar, vider, esser, audir.Infinitivo fit substantivo per anteponer LY: ly loquer est argento, ly tacer, auro. PRESENTE; -at, -et, -it: amat, videt, audit. ESSER et omni composito de ESSER fit est in prasente: potesser, potest;  abesser, abest. PRETERITO; -av, -ev, -iv: amav, videv, essev, audiv.  FUTURO I: -abit, -ebit, -ibit: amabit, videbit, audibit (sicut  in L. archaici). IMPERATIVO-CONJUNCTIVO: prasente sine -t: ama, vide, es, audi. Imperativo distinguitur de substantivo et adjectivo per subjectum quod semper exprimitur: Tu impera quod Petro veni. CONDITIONALE: infinitivo plus -et: amaret, videret,  audiret.  audirat (audierat &c.).  PLUSQUAMPERFECTO: infinitivo plus -at: amarat, viderat,  FUTURO II: infinitivo plus -it: amarit, viderit, audirit (au-  diirit, audierit). PARTICIPIO PRESENTI: -anti, -enti: amanti, audenti  (auder), audienti (audir).  PRETERITI: -ti, -si, -xi. Discipulo reproduce  istud ex vocabulario. FUTURI-ti-si-xi de  participio prateriti fit  -turi,-suri, -xuri: amaturi, visuri, flexuri; ESSER habet FUTURI.  ESSER cum participio futuri de verbo indicat agendi-inten-tionem aut etiam futurum simplici: Jesu est venturi judicar vivos  et mortuos.  21° GERUNDIVO: -andi, -endi = qui debet fier -ti: amandi  (qui debet fier amati).  GERUNDIO compensatur per prapositionem aut per phrasis-conversionem: desiderio de haber; ille salvat se per natar.  Quando diversi finale non dat sensum diversi, licet commutar verbi - desinentias: ager, agir (sicut F. et I.); morer, morir  (sicut H.), sed non auder, audir. Sic FIT = FIIT = FIAT = FIET;  AUDIT = AUDIIT = AUDIAT = AUDIET. PASSIVO conjugatur per FIER cum participio prateriti. Petro fit amati. INTERROGATUR per AN: An Paulo venit? Ego non scit an ille venit. On exprimitur per HOMO aut per NOS: homo dicit, nos dicit. F. homme = homine. Omni numero scribitur per cifras et pronuntiatur sicut in L.:  Anno 1925 (mille novem centum duo decem quinque).  Gradu Secundi. Discipulo lege sequenti regulas, sed quia non existit gram-matica completi de LV, soli Latinista potest applicar eas. Si textu permanet limpidi, licet elider ultimi vocalem post L, M, N, R, in substantivo et adjectivo. In omni libro ad populi-usum isti vocale indicatur cum accentu pracurrenti: sulfur'e, amabil'i. LY usitatur raro, UL et UM nunquam. UM compensatur in substantivo singulari per -m, quando L. ha-beret istud; ergo-m in LV. non designat accusativum, sed attributum aut complementum: patre bibit aquam: disputar est vanum (-o fit -um). Latinista commutat finalem de plurisyllaba solum ad renovar vocativum latini: tu, o medice, cura te ipsi (in l' gradu: tu, o medico, &c.). Latinista indicat feminam per desinentia-mutatio-nem in A, I'NA, I'SSA, RICE: filia (filio): gallina (gallo), ducissa (duce), oratrice (orator'e). Latinista habet pluri suffixum de adverbio: -am,  -um, -iter, -mode: rariter, diversimode. Adjectivo finienti per -nti generat adverbium finienti per -nter: frequenti, frequenter. In locum de bone, usitatur bene (internat.). Etiam adjectivo compensat adver-bium: puer dormivit brevi (per brevi tempore). -Iori designat comparativum, -issimi superlativum :  grandiori, grandissimi. Latinista conservat etiam aliqui formas irre-gulari: meliori (plus boni), optimi (multum boni), minori (plus parvi), majori (plus magni), minimi (multum parvi), maximi (multum magni). Latinista scribit tu aut te, sicut in L. Latinista variat isti interrogativo-relativum unici.  QUIS est interrogativi sicut QUID, sed pro persona. QUAi = qui  femina(s), (um)qui res. QUOD = (um)qui re. QUEM = um qui viro.  QUAM = um qui femina. QUOS = um qui viros. QUAS = um qui  feminas. In populi-favorem QUOD et QUAM, jam usitati in I' gradu cum sensu diversi, scribitur per dissimil'i litteras. Verbo irregulari in L. fit regulari in LV, et verbo deponenti fit activi: esser, voler, loquer (esse, velle, loqui).  Infinitivo fit substantivo etiam per adder -e ad omni verbum non deponenti; tacere est securum (ly facer est securi re). In locum de -av,  ev, -iv, Latinista ponit -abat, ebat, -ibat, -avit, -ivit, secundum morem de L. Ipse tamen scribit ESSEV, VIDEV, &c. Latinista scribit imperativum de FACER, DICER, DUCER: fac'e, dice, fac'i, dic'i. Participio prasenti de ESSER est ESSENTI aut ENTI (potenti, &c.).  Per usum de orthographici littera, apparet ad populi-oculos quasi regulari ly participio prateriti de: mover, mo'vti; terer, t'eriti; et de omni verbo cum infixo: vincer, vincti (sic distincti de viver, victi); rumper, ru'mpti, &c.  Discipulo nota bene Supprimitur SC de multi verbo in  SCER: nascer, nati,  2° Substitutur littera, sicut loquer, locuti; volver, voluti. Per consonantis-attractionem G et H fit C et B fit P: leger,  lecti; traher, tracti; scriber, scripti; franger, francti (infixo).  4° Vocale radicali commutatur, pracipue in derivatione et compositione: sepelir, sepulti; dejicer, dejecti. D et T fit S, SS et RG fit RS: vider, visi; uter, usi; mitter, missi; merger, mersi; funder, fu'nsi (infixo); finder, finssi (infixo).  Formas tote irregulari; miscer, mixti; morer, mortui; pascer, pasti; poner, positi; quarer, quasiti; struer, structi; surger, sur-recti; urer, usti; viver, victi.  38° Ad 23°. Latinista addit-ur ad formam activi: amat, amatur (fit amati); amabat, amabatur (febat amati). Exc. verbo deponenti facti activi in LV: fit locuti.  Ad 25°. F. On exprimitur  per isti formam de passivo: di-  citur = homo dicit = nos dicit.  Parte communi RADICARIO est radicario latini, minus radices mortui et non necessarii, plus ceteri radices internationali. LV. recipit denobili avo latini isti et illi elementum quod deficit in vocabulario internationali, ex : UT, AN. COMPOSITI VOCABULO unit 2 radices: motor-vehiculo.  Cum 1 aut 2 litteras unienti: aqua-ductu, juris-prudentia. Sic renascit genitivo latini, sed soli Latinista potest applicar isti regulam.  R de infinitivo supprimitur in compositione: candefacer, cale-facer (de cander, caler). Ante substantivum, -r fit -ndi: agendi-loco  (loco de ager). DERIVANDI-SYSTEMATE est autonom'i. LV. fabricat vocabulum novi ex radice et affixo. Affixario continet prafixos et suffixos. PREFIXOS. = contrarietate, negatione, separatione et tunc scribitur in libros ad populi-usum per dissimil'i litteras: A, AB, ABS, AN; DE; DI, DIF, DIS; I, IL, IM, IN, IR; NE: amover, abesser, absenti, anonymi, desperar, diffider, discreditar, inaquali, nescir. Aliqui de isti prafixos habet 2i sensum, et tunc scribitur per  litteras communi. Sic DE = de supra ad infra: deducer: DI, DIE,  DIS = divisione: diverger, diffunder, disseminar; I, IL, IM, IN,  IR = in: infunder, irradiar.  E, EF, EX = non in: emanar, effunder, exportar. EX cum  substantivo = ante id: exconsul'e.  PRE = ante: pradicer, prafixo.  RE, RED habet 3 sensus: 1º= remotione, et tunc scribitur in libros ad populi-usum per dissimil'i litteras: remover. 2° = iteratione: reconciliar, redir.  3° = retro: recalcitrar. In libros ad populi-usum: re(tro)calcitrar.  SEMI = dimidio: semibarbari.  Omni prepositione usitatur sicut praefixo. CUM fit tunc CO, COL, COM, CON, COR, COMB; AD fit AF, AP, AR, AT; SUB fit SUP, SUF, SUR, etc. SUFFIXO additur ad substantivi - et adjectivi - radicem;  verbi-suffixo ad radicem de infinitivo aut ad participium praeteriti. In libros ad populi-usum, pluri suffixo distinguitur per dissimil'i litteras.  44° A'CEI, OI'DI = analogi, simili ad: coriacei, conoidi.  A'CI, /'Cl = qui frequenter, facil'i ad: bibaci, pudici.  A'LI, A'RI, ICI (sine accentu), ili = de: vocali, solari, caelici,  senili.A'NI, INI= socii, parte de: urbani, marini.  A'RI (A'RI), A'RIO —persona aut re quae servit ad, qui colligit aut re quae colligitur, qui exercet artem: auxiliari(i), librario, aquario.  I'STA = persona quae servit ad, qui exercet artem: linguista,  artista.  A'TU = functione, dignitate et loco de functione: dominatu,  episcopatu.  CUMQUE = homo volit: quicumque, ubicumque.  ESCER, ASCER = fier: senescer (fier seni), veterascer.  I'BILI, ILI (sine accentu): = qui potest fier, quod homo potest:  visibili, facili.  IDI (sine accentu) = qui permanet...nti: calidi (qui permanet  calenti).  I'FICAR = facer: nidificar, mellificar. I'FICE = FACTOR: vestifice, pontifice.  IONE, U = actione: latratione, latratu.  ISMO = systemate,  schola, religione socialismo, catholicismo. I'TA, I'TE = origine: levita, granite.  ITAR (sine accentu super I), TAR  post consonantes = fre-  quentia: volitar, clamitar, inspectar.  IZAR = redder: civilizar.  I'VI = qui potest, qui tendit ad: nocivi, nutritivi.  MENTO, MINE (sine accentu super I) = id per quod: vela-  mento, velamine.  OLI; ULI, I'CULI, U'NCULI = diminutione: parvuli; spatiolo,  monticulo, homunculo. O'RE = agente: amatore, factore.  O'RIO = loco: scriptorio, oratorio. OSI, OLENTI, ULENTI, BUNDI = cum, pleni de: aquosi,  vinolenti, luculenti, furibundi. (ITATE, TUTE, TUDINE, TIA = qualitate abstracti: boni-  tate, juventute, latitudine, malitia. Quando adjectivo finit per 2 i, ultimi i fit e: pietate, societate. URA = actus-consequentia: scriptura.  Etsi LV. est autonom'i in compositione et derivatione, singulo evita neologismos et stude diligenter vocabularium existenti.  Ibi invenitur quasi semper vocabulo naturali, leviter dissimili de vocabulo compositi aut derivati secundum regulas nostri. Singulo etiam evita isti et illi vocabulum naturali male  formati. Non liceret dicer: isti loco est terribili, nam IBILI = qui  potest fier. Scribitur recte: est terrenti. Non licet conservar affixum naturali dissimil'i de affixo communi, quando alii construction'e est possibile: Joanne edebat melle de silva (non melle silvestri). Liceret, quando idea non fit obscuri: Isti femina est loquaci; sui viro, taciturni (dissimil'i litteras  admonet ineruditum). -urni = - aci. EXEMPLO. Luc. 4:16 Textu de 1' linea in LV. populari,  de 2i in LV. litterarii.  Jesu iv in Nazareth, patria sui, ubi acceptarat educatione, et  Jesu ivit in Nazareth, patriam sui, ubi acceptarat educationem, et intrav secundum sui consuetudine in die de sabbato in synagoga. intravit secundum sui consuetudinem in sabbati-die in synagogam. Levav se ad leger et libro de Isaia propheta fit dati ad illo. Jesu Levavit se ad leger et Libro de Isaia propheta datur ad illum. Jesu evolvit libro, et invenit isti loco de Scriptura: Spiritu de Domino est evolvit librum, et invenit isti Scriptura-locum: Domini-Spiritu est super me; ob qui re sacrav me per unctione, delegav me pro evan-super me; ob quod sacravit me per unctionem, delegavit me pro evan-gelizar pauperos, sanar eo qui habet corde cont'eriti, annuntiar ad gelizar pauperes, sanar eum qui habet corde contriti, annuntiar ad captivos liberatione et redder ad cacos ly vider, liberar oppressos, captivos liberationem et redder ad cacos visum, liberar oppressos, publicar ly anno de misericordia de Domino et ly die de retributione. publicar annum de Domini-misericordia et retributionis-diem.  Jesu plicat libro, reddit isto ad ministro et sedet. Omni oculo in Jesu plicat librum, reddit istum ad ministrum et sedel. Omni oculo in synagoga spectav eo. Jesu inchoav sic: ‹ Isti Scriptura qui-um vos synagoga spectabat eum. Jesu inchoavit sic. Isti Scriptura quam vos audiv fit impleti hodie». Et omnos dav testimonio ad illo et  audivit impletur hodie.  Et omni homine dabat testimonium ad illum et  stupev ad verbos delectabili qui procedev ex ore de illo et dicev: stupebat ad pluri delectabili verbum quod procedebat ex ore de illo et dicebat:« An non isto est filio de Joseph?» Tunc Jesu ad illos: Forsan. An non iste est filio de Joseph? Tunc Jesu ad illos: Forsan vos applicabit ad me isti proverbio: Tu, o medico, cura tu ipsi; tu vos applicabit ad me proverbium isti: Tu, o medice, cura te ipsi; tu face et hic in patria tui tam mirabili res quam in Capharnaum ». fac'e et hic in patria tui tam mirabili res quam in Capharnaum »  Jesu ad illos: Ego dicit vere ad vos: Homo non est propheta in patria sui.  Jesu ad illos: Ego dicit vere ad vos: Homo non est propheta in patria sui. Keyword: latino morto, latino vivente. Fabbia. Fibula. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fibbia.” – Fibbia. 

 

Luigi Speranza -- Grice e Ficiada: la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Abstract. Grice: “We don’t have philosophers named Ficiada at Oxford!” -- Filosofo italiano. A Pythgorean, cited by Giamblico. Ficiada.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ficino: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amore – scuola di Figline e Incisa Valdarno – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Figline Valdarno). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Figline e Incisa Valdarno, Firenze, Toscana. Grice: If Ficino had JUST commented on Platos symposium that would be already a magnificient achievement! So Renaissance  it taught the Romans and the Italians, and us, that the dialogue IS the philosophical form per tradition, whatever Cicero tried! Figlio di Diotifeci d'Agnolo, studia a Firenze sotto Bernardi, Comandi, Castiglione e Tignosi  filosofo lizio autore di De anima e di De ideis. Conseguenza di questo  la SVMMA PHILOSOPHI, dedicata a Mercati in cui tratta di fisica, di logica, di Dio e di aliae multae quaestiones. Nella dedica a Mercati, scrive di volerlo introdurre a quegli studi che devono impegnare la nostra et, secondo la regola del nostro Platone. Studia Epicuro e LUCREZIO, scrivendo i COMMENTARIOLA IN LVCRETVM, il De voluptate ad Calisianum, il De virtutibus moralibus e il De IV sectis philosophorum, dove tratta di questioni morali e dell'anima riportando opinioni platoniche, aristoteliche, epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia, come esercitazione mnemonica e senza pretese sistematiche. Scrive vari saggi di Institutionum ad platonicam disciplinam, tratti da fonti latine e per questo motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte greca. Sembra che il suo interesse al platonismo induce Pierozzi, preoccupato di possibili deviazioni del F. verso eresie platoniche, a consigliargli di studiare l'opera dAQUINO (si veda) a Bologna. Ma la permanenza a Bologna non  documentata e resta certo l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica. Traduce Alcinoo, Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco attribuito a Senocrate. Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la Teogona di Esiodo, riceve in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e una villa a Careggi, che divienne sede del circolo dei Platonisti, fondato dallo stesso F. per volere di Cosimo, con il compito di studiare la filosofia di Platone e dei platonici, al fine di promuoverne la diffusione. Qui inizia la traduzione dei Libri ermetici, portati in Italia da da Leonardo da Pistoia. La sua opera di traduzione avr un notevole influsso nella filosofia rinascimentale. Vede in quella sapienza antica la presenza di una rivelazione, di una pia philosophia che si  attuata nel Cristianesimo ma della quale l'umanit di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo, scrive che Ermete Trismegisto per primo disput con grandissima sapienza della maest divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine) della trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo. Lo segu, secondo teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino Platone. Esiste dunque, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e culmina con Platone. La pia filosofia, antitetica alle correnti di pensiero atee e materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli inganni dei sensi e della fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce la verit, l'ordine di tutte le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui, grazie all'illuminazione divina, affinch l'uomo, tornato fra i suoi simili, possa renderli partecipi delle verit rivelategli dalla fonte divina (divino numine revelata). La sua traduzione latina del Corpus hermeticum, gi tradotto in volgare da Benci, viene stampata. Inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, e vi aggiunge i suoi commenti, al Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano), al Timeo, e al PARMENIDE DI VELIA. Stende l'opera pi importante, i XVIII libri della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a Lorenzo de' Medici. Compone la Religione, in italiano, di cui dar poi la versione latina nella De religione. Scrive la Disputatio contra iudicium astrologorum e viene dato alle stampe il suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello dell'epidemia. Inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e traduce le opere di Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Psello, la Mistica teologia e i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di Atenagora. Con questo ampio corpus platonico persegue la sua teorizzazione della continuit della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, BOEZIO, MACROBIO, e Bessarione. I tre libri del De vita gli procurano accuse di magia dalle quali si difende con un'Apologia. Pubblica XII libri di Epistulae che comprendono anche opuscoli come il De furore divino, la Laus philosophiae, il De raptu Pauli, le V claves Platonicae sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus philosophiae, l'Orphica comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis, gli Apologi de voluptate quattuor. Scrive un Commento a San Paolo.  noto come Aristotele concepisca l'essere umano come sinolo, unit ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e anima, cosicch il suo principale commentatore dell'antichit Alessandro di Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalit dell'anima contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone ha gi distinto le due sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal destino del corpo. A questa concezione aderisce F., che in polemica contro Aristotele esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come una forma di religiosit propedeutica alla fede cristiana. La sua Theologia platonica o De immortalitate animarum si apre dunque con un Soluamus obsecro caelestes animi caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum terrenarum ut alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius peruolemus, ubi statim nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur. Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro (F., Theologia Platonica). Per comprendere la sostanza dell'anima  necessario comprendere la struttura dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici: Dio; gli angeli; le anime; le qualit; la materia. Al grado inferiore sta la materia, concepita come pura quantit. La materia non ha di per s nessuna forza che possa produrre le forme, diversamente da chi la concepisce come sostanza produttrice di forme, fonte piuttosto che soggetto delle forme.  la qualit il principio formale che d sostanza alle realt corporee, grazie a una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale sono strumento le qualit corporee. Questa sostanza incorporea nell'uomo si eleva al rango di anima che genera la vita e il senso della vita anche dal fango non vivente. Al di sopra delle anime sono gli angeli. Sopra quelli intelletti che alli corpi s'accostano, cio l'anime ragionevoli, non  dubbio che sono assai menti, dal commercio dei corpi al tutto divise. E se l'intelletto dell'anima  mobile e parte interrotto e dubbio, l'intelletto angelico  stabile tutto, continuo e certissimo. Al di sopra del tutto  Dio, che  unit, bont e verit assoluta, fonte di ogni verit e di ogni vita,  atto e vita assoluta. Dove un continuo atto e una continua vita dura, quivi  un immenso lume d'una assolutissima intelligenza che  luce per gli uomini perch si riflette in tutte le cose. Attraverso Dio tutte le cose son fatte, e per Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in lui... Iddio  principio, perch da lui ogni cosa procede; Iddio  fine, perch a lui ogni cosa ritorna, Iddio  vita e intelligenza, perch per lui vivono le anime e le menti intendono. Dio e materia rappresentano i due estremi della natura, e la funzione dell'anima, che  considerata, diversamente da Aristotele e da Tommaso, realt in s e non solamente forma del corpo,  quella di incarnarsi per riunire lo spirito e la corporeit: Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros come mediatore dei contrary. L'anima  tale da cogliere le cose superiori senza trascurare le inferiori per istinto naturale, sale in alto e scende in basso. E quando sale, non lascia ci che sta in basso e quando scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo, scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe pi la copula del mondo Theologia Platonica. La "copula mundi"  l'anima razionale che ha sede nella terza essenza, possiede la regione mediana della natura (obtinet naturae mediam regionem) e tutto connette in unit. La sua opera unificatrice  resa possibile dall'amore, inteso come movimento circolare attraverso il quale Dio si disperde nel mondo a causa della sua bont infinita, per poi produrre nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui. L'amore di cui parla Ficino  l'eros di Platone, che per l'antico filosofo greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso cristiano perch, a differenza di quello platonico, l'amore per lui non  solo attributo dell'uomo ma anche di Dio. Lo stesso Platone viene interpretato in una chiave di lettura che oggi definiamo piuttosto neoplatonica, sebbene F. non faccia distinzione tra platonismo e neo-platonismo. Per lui esiste una sola filosofia, che consiste nella riflessione su quelle verit eterne, le Idee, che in quanto tali restano inalterate nel tempo e trascendono la storia. Congiungendo tutti i campi del reale secondo una concezione propria peraltro dell'astrologia e della magia, a cui F. rivolge notevoli interessi in virt dell'unione vitale del mondo da essi presupposta, filosofia e religione si fondono cos in una visione d'insieme di reciproca complementarit, sottolineata anche nell'accostamento di termini come pia philosophia, o teologia platonica. Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce dell'uno  il bello. Nel pensiero di F., Ges  considerato un maestro spirituale spirito-guida, inviato da Dio per il bene dell'umanit. Cos'altro era Cristo se non una specie di manuale di etica, cio di filosofia divina, il quale visse come un inviato dal cielo, essendo lui stesso una divina Idea di virt, manifestata agli occhi degli uomini. De Christiana religione. Elevando il cristianesimo a religione suprema, F. asser che l'Incarnazione del Cristo era avvenuta anche perch Dio si potesse riunire a tutti gli aspetti della creazione. Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del panorama filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante richiesta delle sue opere, dopo la fine del Rinascimento venne commentato sempre meno, fino ad essere accusato, immeritatamente, di un ritorno al paganesimo. In Italia, dove  riconosciuta la sua influenza sull'ermetismo cinquecentesco, e in particolare su BRUNO, e VICO a raccogliere l'eredit platonica di F., di cui lesse l'opera di traduzione, rammaricandosi del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui, rinchiudendosi nelle angustie mentali di Cartesio. Sottoposto ad attacchi che giudicarono retorici e privi di valore i suoi saggi,  stato rivalutato como uno psicologo del profondo e precursore della psicologia junghiana, per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni affermazione proveniente dai campi pi disparati, sia della scienza che della teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene vista cio come mediazione e compendio dell'universo. La conoscenza dell'anima  infatti la quintessenza del neoplatonismo italiano, in cui giacciono sepolte le fantasie mistiche di questo strano uomo che suonava inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva canti astrologici, quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore, malinconico traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici, autore lui stesso di alcuni tra gli scritti pi diffusi e influenti (Commento al Simposio) e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo. La centralit attribuita da F. all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo de' Medici lo considerava prescelto alla cura delle anime come suo padre medico lo era dei corpi, convinse che egli ebbe un impatto paragonabile per estensione ed intensit solo a quello prodotto oggi dalla psicoanalisi. Notevole  ad esempio l'intuizione di F. del potere psico-somatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina moderna considera un effetto placebo. Io sono del parere che l'intenzione dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non tanto al momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera intensamente soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento all'aiuto che essa pu dare. De vita. Altre saggi: De Voluptate; De Amore o Commentarium in Convivium Platonis; De religione et fidei pietate; Theologia Platonica de immortalitate animarum; Compendium in Timaeum; De triplici vita; De lumine; In Epistolas commentaria (Venezia) El libro dell'amore De vita Teologia platonica; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone La religione Epistolarum familiarum, liber I. R. Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente dell'astrologia, Edizioni Capone, Ove non diversamente riportato, le notizie sulla vita e la dottrina ono tratte da GARIN Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, SAITTA, F. e la filosofia dell'umanesimo, Fiammenghi et Nanni, Giornale storico della letteratura italiana, Novati, Gorra, Cian, Bertoni, Calcaterra, Loescher, Squarotti, Storia della civilt letteraria italiana: Umanesimo e Rinascimento, POMBA, Semprini, I platonici italiani, Athena, La Letteratura italiana: Storia e testi, Garin, Ricciardi, Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Garin, Ermetismo del Rinascimento, Riuniti, Primus de maiestate Dei, daemonum ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae theologiae partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in theologia Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri praeceptor. Cusimano, Storia del pensiero occidentale, Lulu.com,. L'immenso lavoro di traduzione compiuto da F.  stato documentato in particolare da Kristeller, in Supplementum F.: F. florentini philosophi platonici Opuscula inedita et dispersa, Firenze, Olschki, Cfr. anche: Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Alessandro di Afrodisia, L'anima Accattino e Donini, Roma-Bari, Laterza, Parodos. I sentieri della ragione, Le divine lettere di F., S. Gentile, Edizioni di storia e letteratura, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, Ottaviano, Gentile, Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e scientifica, Ceriotti, Bramante, Ioan Couliano, Eros and the Magic in the Reinassance, Chicago Press. Il termine "neoplatonismo"  stato coniato per indicare le interpretazioni platoniche che si erano andate via via sovrapponendo a partire dall'et ellenistica, ma che erano sempre state identificate col pensiero stesso di Platone, ritenuto quasi un loro capostipite (cfr. Cenni sulla tradizione platonica). Gentile, Il ritorno di Platone, dei platonici e del "corpus" ermetico. Filosofia, teologia e astrologia nell'opera di F., in C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, Pissavino, Milano, Bruno Mondadori, La prospettiva storiografica, di Presti, Universit degli Studi di Bologna, Mondin, Storia della teologia: epoca moderna, Domenicano, Citazione da Grayling, Una storia del bene. Alla riscoperta di un'etica laica, Storia e civilt, Bari, Dedalo, Vasoli, Quasi sit deus: studi su F., Cfr. anche Jugegno, BRUNO e l'influenza, in Rivista critica di storia della filosofia. Hillman, Plotino, F. e VICO, precursori della psicologia junghiana, J. Hillman13, ivi. Aneddoto rintracciabile in Coenobium, Coenobium. De vita, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone. F., Commentarius in Convivium Platonis, in Venetia, Farri, De religione, Firenze, Nicol di Lorenzo, F., De triplici vita, Lugduni, apud Rouillium sub scuto Veneto, Theologia Platonica De immortalitate animorum, Gilles Gourbin, apud Gorbinum, Opera omnia, Torino, Bottega dErasmo, F., Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Giolito de' Ferrari, F., Opere. Lettere e carteggi, in Vinegia, appresso Giolito de' Ferrari, De vita libri III, Biondi e Pisani, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, Scritti sull'astrologia, Faracovi, Milano, Il neoplatonismo nel Rinascimento, Roma. Il ritorno a Platone, Firenze, con ficiniana). Albertini, F.. Das Problem der Vermittlung von Denken und Welt in einer Metaphysik der Einfachheit, Monaco, Cat, Il Rinascimento sulla via di Damasco. Il ruolo della teologia di Paolo in F. e Cusano, in Bruniana et Campanelliana, Cat, L'idea di anima stellata nel Quattrocento fiorentino. Barberino e la teoria psico-astrologica in F., in Bruniana et Campanelliana Garfagnini, F. e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Garin, Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, Hankins, Plato in the Italian Renaissance, Leida, Kristeller, Il pensiero filosofico, Firenze, Kristeller, Il pensiero filosofico, Le Lettere, Moore, Pianeti interiori. L'astrologia psicologica, Moretti et Vitali, Panofsky, Il movimento neo-platonico a Firenze e nell'Italia settentrionale, in Studi di iconologia, Einaudi, Torino), Polcri, L'etica del perfetto cittadino: la magnificenza a Firenze tra Cosimo de' Medici, Maffei e F., in "Interpres: rivista di studi quattrocenteschi" RomaSalerno, Michele Schiavone, Problemi filosofici, Milano, Zerilli, Alla lente dell'astrologia, Capone, Torino. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.open MLOL, Horizons Unlimited srl. Progetto Gutenberg. di Marsilio Ficino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. F., in Catholic Encyclopedia, Appleton. Sito della societ ficiniana, su ficino. F.: dalla cristianizzazione della magia alla "magicizzazione" del cristianesimo, su aispes.net. Garin, Una sintetica presentazione del pensiero di F., RAI. Hillman, Plotino, F. e Vico precursori della psicologia Junghiana, su rivista psicologi analitica. Il mito greco alla corte dei Medici. IL CONVITE (Barrabasa). Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra curiosit. L'altro giorno, infatti, venivo in citt da casa mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano in tono scherzoso. Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento? Mi fermo e l'aspetto. E quello: Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con loro al simposio, e cos sapere quali discorsi l si sono fatti sull'amore. Mi ha gi raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui, purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta: nessuno meglio di te pu riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per cominciare. Eri presente a quella riunione o no? Si vede bene, rispondo io, che quel tizio non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi. Io credevo cos. Ma com' possibile, Glaucone? Sono molti anni. Non lo sai? -che Agatone manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e che fa. Prima me ne andavo di qua e di l, credendo di fare chiss che cosa, ed ero invece l'essere pi vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione sia meglio della filosofia. Non mi prendere in giro, disse, e dimmi piuttosto quando c' stata quella riunione. Noi eravamo ancora dei ragazzini, gli rispondo. Fu quando Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a quello in cui offr, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua vittoria. Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso? No, per Zeus, dico io, ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo Aristodemo, del demo Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli ammiratori pi appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ci che avevo sentito da Aristodemo. E lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto. E allora racconta, presto. La strada per la citt sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre andiamo. Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose.  per questo che sono cos preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia presenza, provo la gioia pi grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chiss cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di Apollodoro: Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome di Tranquillo, proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai. Ce l'hai sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate. Ma carissimo, non  evidente? Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle, quanto deliri? Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero quella notte? E va bene, ti racconter pi o meno cosa si disse. Ma forse  meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue abitudini. Gli domandai, dove andasse, visto che si era fatto cos bello. E lui mi rispose, Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria me ne son venuto via, perch mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho accettato di andar da lui oggi e cos mi son fatto bello. Voglio esser bello per andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato invitato? Io risposi, Ai tuoi ordini. Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza coraggio. Ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato. Luomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso. E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto cos. Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere, come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse trovare, perch io non dir certo di non essere stato invitato, dir che mi hai invitato tu. Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno provvede all'altro. E allora andiamo, che per via penseremo a cosa dire. E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta  aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica. Uno schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano gi preso posto, gi pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice. Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per qualcos'altro, rimanda tutto a pi tardi, perch ieri ho cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non  con te?Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo pi. Non mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi alla cena. Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'? Era dietro a me sino ad un istante fa. Dove pu essere finite? Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a vedere dov' Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi posto su questo divano a fianco d'Erissimaco. E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro arriva dicendone una nuova. Questo Socrate di cui parlate s' rintanato nel vestibolo dei vicini, ed  fermo l. Ho avuto un bel chiamarlo, non  voluto venire. Certo che  ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a chiamarlo e non lasciarlo l. Non fate niente, dissi io, lasciatelo l piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa dove, e di restare l dov'. Verr presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo tranquillo. E va bene, facciamo cos, disse Agatone, se lo dici tu. Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi pare, quando non c' nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai fatto nella mia vita. Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti. E cos, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arriv, diciamo verso la met del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli disse subito. Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri l nel vestibolo. A qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora l. Socrate si siede e fa. Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi ne ha pi a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io. Come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa pi piena alla pi vuota. Se  cos, voglio subito mettermi al tuo fianco, perch la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verit  un po' cos, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza  limpida e pu sfavillare ancora di pi, lei che ha brillato con lo splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a pi di trentamila greci, che prendo tutti a miei testimony. Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti pi tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare. E cos, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le cerimonie d'uso, ci si prepar a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola per dire pi o meno cos. Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? Io, ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perch ho bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera. Del resto voi dovreste essere pi o meno tutti nelle mie condizioni, perch c'eravate anche voi ieri. Allora, come possiamo fare per bere senza star male? Intervenne Aristofane. Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere perch sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato. A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno. Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la forza di bere? Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio. A quanto sembra, disse Erissimaco,  proprio una fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perch noi non ce la faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate.  tanto bravo a bere che a non bere, per lui andr sempre bene, qualunque cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscir a non essere sgradito a nessuno dicendovi la verit sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che  evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io non mi sento portato a bere fuori misura, n a consigliare ad un altro di farlo, soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima. Poi intervenne Fedro, quello di Mirrinunte. Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono matti. Queste parole furono ascoltate e all'unanimit si decise che non si sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva. E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista che  appena entrata: per stasera suoni da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se volete ve la dico. Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo. Parler, per cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, perch non son mie queste parole, che adesso vi dir, ma di Fedro, che  l. Lui mi dice sempre, tutto indignato. Non  strano, Erissimaco, che per tutti gli altri di vi siano inni e peana composti dai poeti e che in onore dellamore, un dio cos potente, cos grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il pi piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama. Scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c' di peggio. Non mi  capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva l'elogio del sale, per la sua utilit? Ed altre cose dello stesso genere, lo sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si  data molta pena di trattare di parecchi argomenti, ma l'amore, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita. Ecco come ci si dimentica di un grande dio. Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa che gli sia gradito. Adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo cos un argomento senza alcun dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'amore, il pi bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parla per primo, perch  al primo posto ed  allo stesso tempo il padre di quest'idea. Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voter contro la tua proposta. Non sar io ad oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di nulla, ma dell'amore son proprio esperto. Non Agatone o Pausania, e certo neppure Aristofane, che trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, n gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito  pi difficile per noi che occupiamo gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri. che faccia l'elogio dell'amore. Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di Socrate. Aristodemo non si ricordava pi esattamente ci che ciascuno disse e io stesso non ricordo pi bene ci che lui mi raccont. Le cose pi importanti, o quel che a me  sembrato pi degno di essere ricordato, adesso ve lo riporter nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E cos, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso pi o meno in questi termini. E' un gran dio l'amore, un dio che merita tutta l'ammirazione degli uomini e degli di per diverse ragioni, non ultima la sua origine. E' annoverato tra i pi antichi di, e questo, aggiunse,  un onore. Di questa antichit abbiamo una prova. Lamore non ha n padre n madre, e nessuno, n in poesia n in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, e la Terra dall'ampio seno, sicura sede per tutti i viventi e l'amore. E, in accordo con Esiodo, anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'amore. Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che di tutti gli di, lamore fu il primo che la dea partor. Cos c' ampio accordo nel dire che l'amore  uno degli di pi antichi. Essendo cos antico,  per noi la sorgente dei pi grandi beni. Per me, io lo affermo, non c' pi grande bene nella giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi n alla nobilt della nascita n agli onori n alla ricchezza, n a null'altro: devono ispirarsi allamore. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per lazione cattiva, l'attrazione per lazione bella. Senza questo, nessuna citt, nessun individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Cos, io lo dichiaro, un amante, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa, soffre certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque altro. Ma soffrir molto di pi se a scoprirlo sar il suo amante, il suo amato. Ed  lo stesso per l'amato.  davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che lamato sente la pi grande vergogna, quando sar sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una citt o un esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia. Allontanerebbero infatti da loro tutto ci che  cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore. E se questi amanti combattessero l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere, per cos dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo, perch sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un amante innamorato sarebbe pi intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito. Preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare lamato chi si ama, a non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno  cos vigliacco che l'amore non riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero lamore viene a ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, cos l'amorefa questo dono agli amanti innamorati, ed essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto lamante accetta questo. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato un esempio chiarissimo di ci che dico. Soltanto essa acconsent a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva cos in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in questo modo, il suo gesto  sembrato bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli di. Essi concedono davvero a pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle pi belle azioni, concessero questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto gli di onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'amore. Al contrario essi mandarono via dall'Ade Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla. Gli mostrarono soltanto un'immagine della donna per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole, perch altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille, il figlio di Teti. Lhanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe invece tornato a casa finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perch era gi stato ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Cos gli di, pieni di ammirazione, gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto cos in alto il suo amante. Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo. Achille era pi bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi messi insieme. Era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai pi giovane di Patroclo, come dice Omero. Cos se gli di onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi ammirano, stimano, ricompensano ancor di pi la tenerezza dell'amato per l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti,  pi vicino al dio dell'amato, perch un dio lo possiede. Ecco perch gli di hanno onorato Achille, aprendogli la via per le isole dei beati. Ecco dunque, io lo dichiaro, l'amore  tra gli di il pi antico e il pi degno, ha i maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virt e della felicit, sia in vita che nel regno dell'aldil. Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si espresse in questi termini. Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'amore. Se dellamore ve ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non  cos. Non ce n' uno soltanto, e allora  bene prima spiegare di quale amore dobbiamo tessere l'elogio. Cercher dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncer un elogio che sia degno di questo amore. Tutti sappiamo che non c' Venere senza amore. Se dunque non vi fosse che una Venere, non vi sarebbe che un solo amore. Ma Venere  duplice, e quindi, necessariamente, abbiamo due amori. Come negare che esistano due Venere? Una Venere, senza dubbio la pi antica, non ha madre:  figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea del cielo, Venere Urania. L'altra Venere, la pi giovane,  figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Venere Pandemia. E allora necessariamente l'amore che serve Venere Pandemia dovr chiamarsi Amore Popolare (o volgare) Pandemio. Quellamore che serve Venere Urania Amore Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli di. Ma, detto questo, qual  il dominio dei due amori? E' questo che dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in s non  n bella n brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c' nulla di bello in s.  piuttosto il modo in cui si compie un'azione a dar questo o quel risultato, e cos seguendo la regola del bello e della rettitudine un'azione con rettitudine diventa bella, al contrario senza rettitudine lazione diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto o lazione dellamore (lamore). Non tutto l'amore  bello e degno di elogio: lo  soltanto quello che porta allazione di amare bene, la azione dellamore e bella. Ora l'amore volgare, compagno di Venere popolare, certo  volgare e opera a casaccio:  proprio degli uomini da poco. Questi uomo si innamora di un ragazzo. Poi, lamante ama il corpo bello. Voglie arrivare dritto al loro scopo. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come  ovvio, questamore volgare, delluomo volgare, si unisce alla pi giovane delle due dee, che sin dal suo concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre  estranea all'elemento femminile e partecipa soltanto del maschile; e poi  la pi antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione, luomo che e ispirato dallamore volgare Eros e attrato dall'elemento maschile. Ama teneramente il sesso per natura pi forte. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi di un ragazzo si posse riconoscere quanto e posseduto con purezza da questamore volgare, perch luomo volgare non ama i giovani prima che abbiano dato prova d'intelligenza. Ora, questo  impossibile che accada prima che il giovane sia abbastanza grande da avere la prima barba. E' questa l'et dellefebo in cui  bene cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulit di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare un ragazzo troppo giovane. Cos non si sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. Non  infatti possibile prevedere che cosa ne sar di un ragazzino, se avr vizi o virt nel corpo efebo. L'uomo che vale si pone senza dubbio da s, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi coltiva lamore volgare abbia un limite. E proprio quest amante volgare, infatti, che hanno screditato l'amore e dato a certuni il coraggio di dire che  una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo fa perch ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di onest di questamante volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere criticato quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di pi. La regola di condotta, per quel che concerne l'amore,  facile da comprendere nelle altre citt, perch la sua definizione  semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre citt in cui gluomini non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa  semplice.  un bene cedere allamante e nessuno dir mai che c' da vergognarsi. Il fine  di evitare l'imbarazzo di dover convincere il giovane con la parola, perch non e gran parlatore. Nella Ionia, al contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene.Sono paesi dominati dai barbari. Presso i barbari, infatti, a causa dei loro regimi tirannici, il giudizio comune  che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante. Lo stesso giudizio si d per l'amore per l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi intelligenze tra i sudditi, e neppure una grande amicizia saldamente unita, come in effetti l'amore, pi di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto esperienza anche i tiranni qui da noi. Lamore di Aristogitone e l'amicizia di Armodio, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Cos l dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione  nata dalla debolezza morale delluomo: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. L invece dove la regola ammette in tutta semplicit che  cosa buona, essa  nata per la pigrizia dell'animo di quelluomo. Presso di noi la regola  molto pi bella e, come ho detto, non  facile da comprendere. C' da rifletterci, in effetti.  pi bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e soprattutto amare il giovane di nascita migliore e di meriti pi alti, anche se meno belli di altri; di pi, chi  innamorato  straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa di cui vergognarsi: il successo  il suo onore, lo scacco  la sua vergogna. E nei tentativi di conquista la regola elogia lamante per delle stravaganze che esporrebbero alle critiche pi severe chiunque osasse comportarsi cos per altri scopi. Supponiamo infatti che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi funzione importante. Se accetta di fare ci che fanno lamante per il suo amato - assillarli con preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di schiavit che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo gli e impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici. Lamico gli rimprovera la sua adulazione e la sua bassezza; il nemico lo fa ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e la nostra regola non le critica affatto. E qualcosa che si sta ad ammirare. E la cosa pi strana , secondo il detto popolare, che lui solo pu giurare e ottenere grazia davanti agli di se tradisce i suoi giuramenti. Dinanzi a Venere, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Cos luomini danno allinnamorato una libert totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a pensare che la regola nella nostra citt giudichi cose perfette il bello e l'amore, e l'amicizia che ricompensa lamante. Ma quando d'altra parte un padri fa sorvegliare da un pedagogho il suo figliolo innamorato, in modo che non possa parlar d'amore con il suo amante. Quando i giovani della loro et, i loro amici, li rimproverano per il loro amore. Quando gli adulti non si oppongono a queste critiche e non le biasimano come fuori luogo. Allora se si considera tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non  per nulla semplice, come ho gi detto all'inizio. In se stessa non  n bella n brutta. E' bella se lazione damar bene rettamente e bella,  brutta se lazione damare male sono brutte. E' cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per un cattivo motivo.  cosa bella cedere ad un uomo di valore e per un bel motivo. Ora chi si comporta male , come prima dicevo, l'amante volgare, che ama il corpo bello. Non ha costanza, perch l'oggetto del suo amore  il corpo bello --  incostante. All'affievolirsi del bello del corpo che ama, "s'invola e va via", e tradisce senza vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma luomo chi ama il carattere di una persona per le sue alte qualit, resta fedele tutta la vita perch il suo amore riposa su qualcosa di costante. La nostra regola si propone di mettere luomo alla prova della seriet e dell'onest, perch si ceda aluomo che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che natura sia l'amante. Su questo si fonda evidentemente la massima: a cedere subito c' da vergognarsi. Pi tempo passa, infatti, pi si ha la prova, sembra, della seriet dell'amore. Una seconda massima, poi, dice che c' da vergognarsi a cedere per denaro o per averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ci ha l'aria d'essere solido e stabile, e dunque non pu venirne alcuna generosa amicizia. Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una sola via onesta perch l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola  la seguente. Come tra gli amanti non c' nulla di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavit che prima dicevo, e non c' il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavit volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virt come proprio oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, in la virt, questa servit liberamente accolta non ha niente di cattivo e non  umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola regola, che riguarda l'amore delluomo verso i ragazzo. Vogliamo che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia. Luno potendo contribuire a dare la virt, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione, allora in verit quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa coincidenza fa s che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti,  da escludere. Nel bene, anche se chi cede  completamente vittima della situazione, non c' alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno, c' di che vergognarsi. Infatti se c' qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla, perch il suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si  una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e questo non  affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento, se si cede a qualcuno credendolo pieno di qualit e pensando di diventare migliori legandosi a questo amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagit, quanto sia povero nella virt, ebbene chi  stato ingannato non ha nulla di cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualit dell'anima. La virt e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono l'oggetto della propria passione - e questa  la cosa pi bella che ci sia. Quindi  bellissimo cedere, quando si cede per la virt. Questamore viene da Venere Urania, ed  davvero divino e prezioso per la citt come per luomo, perch esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virt. Quanto agli altri, essi rivelano il legame con l'altra dea, la Venere volgare. Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare;  questo il mio tributo per lamore. Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo stile dei maestri della parola - era venuto il turno di Aristofane. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche altra ragione, avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a Erissimaco di parlare lui al posto suo. Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi. E va bene, rispose Erissimaco, far l'uno e l'altro. Parler al tuo posto e tu parlerai al mio quanto ti sar passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo si decider ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andr. A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguir i tuoi consigli. Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del soggetto trattato, ed  quindi necessario che io cerchi, da parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto luomini nei loro rapporti con le persone belle. Riguarda anche i rapporti tra altri oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante che la terra nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri viventi. La medicina, la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che lamore  un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincer dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ci che  sano nel corpo  ben diverso e dissimile da ci che  malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il dissimile ama e desidera il dissimile. L'amore che  proprio della parte sana  dunque diverso dall'amore che  proprio della parte malata. Dunque, proprio come Pausania diceva che  cosa bella accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed  cosa brutta cedere ai dissoluti, cos quando si tratta dei corpi stessi favorire ci che vi  di buono e di sano in ciascuno  cosa bella e necessaria, ed  questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ci che  malvagio e malsano, se si vogliono seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola,  la scienza dei fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene questi  il miglior medico. Chi sa operare dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando  di troppo; ebbene costui  davvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi del corpo che pi si odiano. Ora, gli elementi che pi si odiano sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e cos via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che il nostro antico padre Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo credo -  il fondatore della nostra arte. La medicina  dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che  la stessa cosa. Senza dubbio  questo che vuol dire Eraclito, bench la sua espressione non sia felice. Egli dichiara infatti che luno in s discorde con se stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira.Ora,  molto illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa  composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti  una consonanza, e una consonanza  una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti,  impossibile, e d'altro canto non pu esserci armonia tra ci che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido e dal lento, cio da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E come prima la medicina, adesso  la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica  essa stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perch non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il discorso di prima: se bisogna cedere,  bene farlo con uomini dai costumi ben regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualit; l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro  quello di Polimnia, l'Eros Pandemio57, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare;  come nella nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Cos dunque in musica, in medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane,  necessario proteggere nella misura del possibile l'uno e l'altro amore, poich vi si trovano entrambi. Anche l'ordine delle stagioni dell'anno  riempito da questi due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano l'abbondanza e la sanit agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare alcun danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura, rovina ogni cosa ed  causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e cos le pi varie malattie che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate dall'amore. C' una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia. Tutti i sacrifici, poi, e tutto ci che ha a che fare con la divinazione (cio tutto ci che mette in comunicazione gli di e gli uomini) non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empiet nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli di. Questo  il compito assegnato alla divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed  ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia tra gli di e gli uomini, perch essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto degli di e alla piet.Questa  la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale potenza che  propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli di, con la pi grande potenza: ci procura ogni felicit e ci rende capaci di vivere in societ, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri a noi superiori, gli di. Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato alcune cose nel mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Per, se ti proponi di lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n' andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola. Il fatto  che se n' s andato, ma ho dovuto proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non  strano che il buon ordine del mio corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, per, che il singhiozzo  passato appena ho starnutito. Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi in giro un attimo prima di fare il tuo discorso? Cos mi costringi a sorvegliare bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando puoi parlare in tutta tranquillit. Aristofane si mise a ridere e disse. Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che far, infatti, dovr dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo  un vantaggio, perch cos la mia Musa si trover su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro! Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi scappare, non  vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, per, da parte mia ti far grazia, ma solo se vorr!"Discorso di Aristofane "A dir la verit, Erissimaco - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'amore. Se se ne rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei pi magnifici, e gli offrirebbero i pi splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come  oggi,quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece niente sarebbe pi importante, perch  il dio pi amico degli uomini: viene in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione  forse per gli uomini la pi grande felicit. Dunque cercher di mostrarvi la sua potenza, cos potrete essere maestri a vostra volta. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati62, infatti, la nostra natura non era quella che  oggi, ma molto differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmine. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli altri. Il nome si  conservato sino a noi, ma il genere, quello  scomparso. Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono pi persone di questo genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi  questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perch somigliavano ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Cos attaccarono gli di e quel che narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli di.Allora Zeus e gli altri di si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perch questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far s che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli pi deboli. Adesso - disse - io taglier ciascuno di essi in due, cos ciascuna delle due parti sar pi debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il loro numero sar pi grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li taglier ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco degli otri. Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la met del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero pi tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo voltava allora il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio. Lasciava per qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando dunque gli uomini primitivi furono cos tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di formare un solo essere. E cos morivano di fame e d'inazione, perch ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due met moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra met di genere femminile, cio quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E cos la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da piet, ricorse a un nuovo espediente. Spost sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus trasport dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si sarebbe cos riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi avrebbero raggiunto presto la saziet nel loro rapporto, si sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo cos ai bisogni della loro esistenza. E cos evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini  innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unit della nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: cos potr guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi  una frazione68 dell'essere umano completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le  complementare, perch quell'unico essere  stato tagliato in due, come le sogliole69. E' per questo che ciascuno  alla ricerca continua della sua parte complementare. Stando cos le cose, tutti quei maschi che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri; nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed  da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da giovani, poich sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perch per natura sono pi virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma  falso. Non si tratta infatti per niente di mancanza di pudore: no,  i loro ardore, la loro virilit, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi davvero molto bravi nelloccuparsi di politica. Da adulto, ama il ragazzo. Il matrimonio e la paternit non li interessano affatto -  la loro natura; solo che le consuetudini li costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosi ffatto desidera un ragazzo e li ama teneramente, perch  attratto sempre dalla specie di cui  parte. Questuomo - ma lo stesso, per la verit, possiamo dire di chiunque - quando incontrano l'altra met di se stesse da cui sono state separate, allora sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia che provano, dall'affinit con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno pi vivere senza di lei - per cos dire - nemmeno un istante. E queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire cosa desiderano l'uno dall'altro. Non  possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore: non possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicit e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C' qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: Il vostro desiderio non  forse di essere una sola persona, tanto quanto  possibile, in modo da non essere costretti a separarvi n di giorno n di notte? Se questo  il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggi nell'Ade, voi non sarete pi due, ma uno, e la morte sar comune. Ecco:  questo che desiderate?  questo che pu rendervi felici? A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dir di no e nessuno mostrer di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha espresso ci che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con l'amato. Non pi due, ma un essere solo. La ragione  questa, che la nostra natura originaria  come lho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli di, di essere ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come dadi a met. Ecco perch dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli di: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno resista - perch chi resiste all'amore  inviso agli di. Se diverremo amici di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire l'anima nostra met, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io per parlo in generale degli uomini dichiaro che la nostra specie pu essere felice se segue Eros sino al suo fine, cos che ciascuno incontri l'anima sua met, recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato  il pi perfetto, allora per forza nella situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore  tentare di avvicinarci il pi possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi pi affine, e innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci pu far felici,  ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella nostra infelicit attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona che ci  pi affine; ad Eros, che per l'avvenire pu aprirci alle pi grandi speranze. Sar lui che, se seguiremo gli di, ci riporter alla nostra natura d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicit. Ecco, Erissimaco, questo  il mio discorso in onore di Eros. T'ho gi pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano, Agatone e Socrate."Erissimaco, rifer Aristodemo, rispose cos:"S s, far proprio come dici tu, perch il tuo discorso mi  piaciuto molto e anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in loro".E Socrate allora disse. Dici cos perch hai gi fatto la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di Agatone - che ti figuri se non sar bellissimo -, avresti una gran paura e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento"."Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sar attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo. Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo cos pochi?""Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, cos innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon senso poche persone intelligenti sono pi da temere di una folla ignorante?""Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone, rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene, invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro molta pi importanza che alla folla. Per non credo affatto che noi siamo saggi. Perch c'eravamo anche noi tra il pubblico, l tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?""E' vero", rispose."Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la parola e disse:"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importer proprio nulla se la conversazione prender una piega o l'altra, perch a lui basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se  un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a chiacchierare tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta perch avr ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C' tempo.Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro che hanno gi parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia l'argomento,  quello di spiegare la natura dell'oggetto del discorso e la natura di ci di cui  responsabile. E cos dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.Dichiaro dunque che tra tutti gli di, esseri felici, Eros - mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia -  il pi felice, perch  il pi bello e il migliore. E' il pi bello perch questa  la sua natura. Infatti, mio caro Fedro,  il pi giovane tra gli di. Una grande prova dimostra che quel che dico  vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la vecchiaia, che  rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros,  chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma  sempre in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: "Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che Eros sia pi antico di Cronos e di Giapeto. Io dichiaro, al contrario, che  il pi giovane tra gli di, che  sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli di di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie della Necessit, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli di non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi n fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui sugli di l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros  giovane, e non soltanto  giovane ma anche delicato. A lui  mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa  una dea e allo stesso tempo che  delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, ella avanza sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che  delicato: non cammina infatti sulla terra, n sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ci che  pi tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli di. Ma non senza distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ci che tra tutte le cose tenere  pi tenero, ed  quindi assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l'Eros  il pi giovane e il pi delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilit della sua forma, perch non potrebbe andare dappertutto n passare inosservato quando penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilit della sua natura, ebbene di questo la sua grazia ne d una prova eclatante, quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perch tra l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilit c' da sempre. E che dire della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ci che non fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros non si posa: ma l dove i fiori e i profumi abbondano, l si posa, l sceglie la sua casa. Sulla bellezza del dio basta cos, anche se davvero resta ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virt. Ecco la pi importante: Eros non fa n subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne subisce da nessuno, n uomo n dio. La violenza non ha alcuna parte in ci che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perch la violenza non ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perch tutti in tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado sono chiamati giusti dalle leggi, le regine della citt86.E con la giustizia ecco la pi grande temperanza. La temperanza, si sa,  dominare piaceri e desideri. Ora, non c' piacere pi grande dell'Eros: gli altri piaceri sono pi deboli e possono essere dominati dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante in massimo grado.Quanto al coraggio, Ares stesso non pu lottare contro Eros. Infatti non  Ares che domina su Eros, ma Eros possiede Ares, se  vero che  innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si impadronisce di qualcuno,  pi forte di lui e chi riesce a possedere un altro che  pieno di coraggio deve avere ancora pi coraggio di lui.Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poich desidero onorare la mia arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dir che il dio  poeta cos sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando lEros lo possiede, anche se prima non conosceva le Muse. Questo fatto,  chiaro, deve essere per noi una prova che Eros  abilissimo in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ci che non si ha, o non si sa, non lo si pu certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di tutti, chi oser negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilit che Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; cos questo dio pu dirsi discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine per il governo degli di e degli uomini. Cos tutti i conflitti tra gli di si sono appianati all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per il bello, certo, perch Eros non si lega mai a ci che  brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli di, secondo quanto narrano le antiche storie, perch regnava la Necessit. Quando poi nacque questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli di come per gli uomini. Ecco perch, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros  pieno del bello, e bont al pi alto grado ed  quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei pi alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros  il dio che d la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore. E' lui a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso,  il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici,  lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagit, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli di,  cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Volutt, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli  sempre l, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli di, di tutti gli uomini;  la guida pi bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli di e di tutti gli uomini.Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta fantasia e la grave seriet vi hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate come meglio  stato in mio potere fare. Quando Agatone ebbe finito di parlare tutti applaudirono perch si era espresso da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si volt verso Erissimaco e gli disse. Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso cos bello, cos seducente! Non  stato tutto perfetto, questo  vero; ma nella conclusione chi pu non esser stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non  possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi diventare muto95. Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare anch'io, al mio turno, lelogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verit sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse scegliere le verit pi belle e disporle nell'ordine pi elegante. Ero, naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il metodo corretto di fare un elogio non  questo: bisogna piuttosto attribuire all'oggetto del proprio discorso le pi grandi e le pi belle qualit - che le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel che . Ecco perch, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza delle sue opere: voi volete cos farlo apparire il pi bello e il pi buono possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo  una bella cosa un elogio simile. Ma io ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo, promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: ma la lingua promise, non certo il mio cuore97. Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio cos non ve lo faccio, non ne sono capace. Per, a condizione di dir solo la verit, se lo desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perch non ho nessuna intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c' ancora bisogno di un discorso di questo genere, che lasci intendere la verit su Eros - ma con le parole e lo stile che mi verranno al momento.Allora - disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E cos - disse Aristodemo - Socrate cominci pressappoco con queste parole:"Per la verit, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual  la natura dell'amore e come agisce: io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, per, ti prego; dopo tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a questa domanda:  nella natura dell'Eros essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua natura  di essere amore per una madre o un padre, perch sarebbe comico domandare se l'Eros  una forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il padre  padre di qualcuno o no?,tu mi risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il padre  padre di un figlio, o di una figlia. Non  vero?""Certo", disse Agatone."E non dirai la stessa cosa della madre?" - Agatone ne convenne."Rispondi ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io domandassi: Il fratello, in quanto fratello,  fratello di qualcuno o no?Rispose che lo era."Dunque  fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros  amore di niente o di qualcosa?""Di qualcosa, evidentemente". "Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera ci che ama". "Lo desidera certamente", disse."Quando possiede ci che desidera,  allora che l'ama, o quando non lo possiede?""Quando non lo possiede:  probabile che sia cos" - disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non  una certezza: non dobbiamo forse dire che desidera ci che non possiede, e che non desidera affatto ci che possiede gi? Per me, mio caro Agatone, questo  chiarissimo. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso", disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che  grande potr forse desiderare di esser grande? O di esser forte se  forte?""E impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti mancare di queste qualit, poich ce le ha.""E cos.""Per supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualit e tutte quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi, Agatone,  necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualit che hanno, che le vogliano o meno: com' possibile desiderare ci che si ha gi? Ma se qualcuno ci dicesse Io sono adesso in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che gi possiedo, allora noi gli risponderemmo: Tu hai la ricchezza, la salute, la forza; quel che desideri,  di averle ancora in futuro, perch per il presente, che tu lo voglia o no, le hai gi. Dunque quando dici: io desidero ci che adesso ho gi, queste parole significano semplicemente: ci che io ho adesso, desidero averlo anche per l'avvenire. Sei d'accordo, non  vero?Agatone - disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate prosegu: "Se tutto questo  vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si possiedono, non  forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano conservate?""Certo", disse. "Quindi l'uomo che si trova in questa situazione, e cio chiunque provi un desiderio, desidera ci che non ha ancora e che non  nel presente. E ci che egli non ha, ci che egli stesso non , quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente  cos" - disse."Andiamo avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo daccordo. Non  forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?""S", disse. "E adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: pi o meno, tu ci hai detto, credo, che gli di hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza, perch non ci pu essere amore verso quel che  brutto. Son pi o meno le tue parole, non  vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros dovrebbe amare il bello, non certo la bruttezza, non  vero?"Agatone fu d'accordo."Ma non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ci di cui si sente la mancanza e che non si possiede?""S", ammise."L'Eros manca quindi della bellezza e non la possiede?""Per forza", disse."Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami bello?""No di certo.""E allora, se le cose stanno cos, sei ancora dell'avviso che Eros sia bello? Temo proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo"."Per il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?""Lo sono, a mio avviso"."Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve per forza mancare anche la bont"."Di sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto quel che tu dici"."No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verit tu non puoi contraddire: Socrate, lui s che  facile contraddirlo. Adesso ti lascer un po' in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte cose su Eros. Adesso cercher di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa pi semplice  seguire nella mia esposizione lo stesso ordine che segu la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros  un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non  n bello, per usare le mie parole, n buono. E io le dicevo: Ma come Diotima? Allora Eros  cattivo e brutto?Che dici? Questa  una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ci che non  bello debba essere per forza brutto?Ma certo! "E perch mai? Chi non  sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c' una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza? E qual ?Avere un'opinione giusta, senza per saperla giustificare. Questo non  vero sapere: come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che  vero quello che penso? Ma non  neppure piena ignoranza, perch per caso la mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta  quindi, suppongo, simile a quel che dicevo: sta a met strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza103.E' vero, risposi.Dunque chi non  bello non per questo  per forza brutto, n chi non  buono deve essere cattivo. E cos  per l'Eros: poich tu sei d'accordo con me che non pu essere n buono n bello, non devi per questo credere che sia necessariamente cattivo e brutto. Eros - cos mi disse Diotima -  a met tra questi estremi.Per - ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente.Dicendo tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?Io parlo proprio di tutti.Diotima si mise a ridere. Come possono dire di lui che  un dio potente se dicono che non  affatto un dio? Ma chi dice questo? dissi io.Tu per esempio - disse - ed anch'io!Ed io: "Ma cosa dici?E' tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli di sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli di non  n bello n felice? lo non oserei proprio, risposi. Ma chi  felice? non  chi possiede cose buone e belle? Certo. Ma tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera proprio perch gli mancano.  vero, ero d'accordo con te su questo. E allora come pu essere un dio se le cose buone e belle gli mancano? Sembra impossibile, in effetti. Come vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio. Chi sar dunque Eros? un mortale? No di certo. E allora? E come negli esempi precedenti, la sua natura  a mezza via tra il mortale e l'immortale. Che vuoi dire, Diotima? E' un dmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli di. Ma qual  il suo potere, chiesi. Eros interpreta e trasmette agli di tutto ci che viene dagli uomini, e agli uomini ci che viene dagli di: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli ordini degli di e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto  a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria, ed anche il sapere dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che  divinazione e magia. Il divino non si mescola con ci che  umano, ma, grazie ai dmoni, in qualche modo gli di entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose  vicino al potere dei dmoni, mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di essi  Eros. Chi  suo padre - domandai - e chi sua madre? E' una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque Afrodite, gli di si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era Poros, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Pena era venuta a mendicare, com' naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po' ubriaco, se ne and nel giardino di Zeus e si addorment. Pena, nella sua povert, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: cos si sdrai al suo fianco e rest incinta di Eros. Ecco perch Eros  compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros  per natura amante della bellezza - e Afrodite  bella.Proprio perch figlio di Poros e di Pena, Eros si trova nella condizione che dicevo: innanzitutto  sempre povero e non  affatto delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario  rude, va a piedi nudi,  un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perch ha la natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre ci che  bello e buono,  virile, risoluto, ardente,  un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e cos impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita,  un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e di sofismi. E poi, per natura, non  n immortale n mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse fuggono via: e cos non  mai povero e non  mai ricco. Vive inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perch tutti lo sono gi. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi  del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo  proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si  n belli, n buoni, n intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza. Ma allora chi sono i filosofi, se non sono n i sapienti n gli ignoranti? E' chiaro chi sono: anche un bambino pu capirlo. Sono quelli che vivono a met tra sapienza ed ignoranza, ed Eros  uno di questi esseri. La scienza, in effetti,  tra le cose pi belle, e quindi Eros ama la bellezza:  quindi necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi,  in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo  nella sua origine, perch  nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse. Cos, mio caro Socrate,  fatta la natura di questo dmone. L'idea, per, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore  sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicit. Ma l'essenza di chi ama  differente:  quella che ti ho prima descritto. Io allora ripresi: E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa  la natura dell'Eros, a cosa pu esser utile a noi uomini? Adesso cercher di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa origine: ama il bello, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos' l'amore per le cose belle? o pi chiaramente: chi ama le cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando si ama? Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci appartenga, risposi io. Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle? Io dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile. E allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera? Che siano sue, risposi. E cosa accade all'uomo che le possiede? In questo caso posso rispondere pi facilmente - dissi -: sar felice. In effetti proprio possedere ci che  buono fa la felicit delle persone. Cos non abbiamo pi bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perch parlando della felicit abbiamo gi toccato il fine ultimo del desiderio. E' vero, dissi."Ma questa volont, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ci che  buono? Dimmi cosa ne pensi, E' cos, questa volont  comune a tutti. Ma allora, Socrate - riprese -, perch non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?" Sono stupito anch'io di questo, risposi. Non devi stupirti, per - disse -. Il fatto  che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi diversi. Mi fai un esempio?, chiesi. Certo. Tu sai che la capacit creativa delle persone pu manifestarsi in molti campi. La creativit entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta, perch prima non c'era e poi c'; cos le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creativit e gli uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti." E' vero. Per - continu - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri nomi. Tra tutti quelli che svolgono attivit che hanno a che fare con la creativit, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli che compongono musica e versi. In realt tutti lo sono. Solo i versi in musica chiamiamo arte, e soltanto questo  il dominio che riconosciamo agli artisti. E' vero, dissi. Ed  lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ci che  buono, che  bello,  per tutti "amore possente, Eros ingannevole. Il desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati. Sei proprio convincente, risposi. Molti dicono, per, che amare significa cercare la propria met. Io non sono d'accordo, perch non c' affatto amore n per la met n per l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non  buono: le persone accettano di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ci che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ci che  suo sia buono e ci che gli  estraneo sia cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene. Non la pensi cos anche tu? Certo, per Zeus, risposi. Allora possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ci che  buono? S. E non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ci che  buono? Certo che dobbiamo. E non soltanto possederlo, ma possederlo sempre. Dobbiamo aggiungere anche questo. Quindi - disse - l'amore  il desiderio di possedere sempre ci che  buono? E' cos, dissi.Se  dunque chiaro - disse - che l'amore  questo, dimmi in quale forma, in quale genere di attivit, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione si tratta? Me lo sai dire?  Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei cos pieno d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai. Allora - riprese -, te lo dir io: amare, per il corpo, significa creare nella bellezza. Bisognerebbe essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto. Mi esprimer pi chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacit creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa et, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si pu generare nulla nella bruttezza: si pu solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c' qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali, ma in loro c' una scintilla d'immortalit:  la fecondit dei sessi, la capacit di generare nuovi esseri viventi. Ma questo non pu avvenire se non c' armonia: e non c' armonia tra la bruttezza e tutto ci che  divino, perch solo la bellezza  in armonia con gli di. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di s qualcosa di creativo, quando si avvicina a ci che  bello prova gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ci che  brutto, allora si chiude in se stesso scuro in volto e triste, cerca di allontanarsi, e cos non crea affatto, anche se porta ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la propria creativit pronta alla vita,  fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la bellezza  libero dalle sofferenze che ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro Socrate, come tu credi. E cosa allora? Desidera creare e far nascere nuova vita nella bellezza. Ammettiamolo, dissi. E proprio cos - ripet -. Ma perch creare nuova vita? Perch per qualsiasi essere mortale l'eternit e l'immortalit possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il desiderio d'immortalit accompagna necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se  vero che l'amore  desiderio di possedere per sempre il bene. E cos da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalit126.Ecco quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese: Quale pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i pi deboli affrontano animali pi forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si pu pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?Ancora una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese: E tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo? Ma  ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perch so di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perch accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore. Se sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore  quello sul quale abbiamo pi volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca, nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non pu farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa s che un nuovo essere prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che ciascun essere vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane la sua identit), ebbene questo essere non ha mai in s le stesse cose. Diciamo s che  sempre lo stesso, ma in realt non cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non  vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in noi nasce e muore. E accadono cose pi strane ancora. Non solo in generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi -, ma ciascuna conoscenza in particolare subisce la stessa sorte.Infatti noi dobbiamo esercitarci nello studio proprio perch alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando nella memoria ci che vogliamo ricordare, le conserviamo. E' per questo che sembrano le stesse: in realt le conserviamo rinnovandole. E' cos che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identit perch ci che invecchia e va via  subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ci che  mortale partecipa dell'immortalit, nel suo corpo e in tutto il resto; limmortale vi partecipa in modo del tutto diverso. Non meravigliarti dunque se ciascun essere  dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perch questo  nella natura dei viventi:  al servizio dell'immortalit. Queste parole mi riempirono di stupore e glielo dissi: Ma come, saggia Diotima, le cose stanno veramente cos?Ella mi rispose col tono serio di chi insegna: Devi esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai senza dubbio della loro assurdit; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti accorgerai di quanto  strano lo stato di coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria immortale per l'eternit: sono disposti per questo a correre ogni rischio, pi ancora che per difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che  giunto sino a noi? E' cos, disse. A mio avviso,  per rendere immortale il loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che fanno, e questo tanto pi se le loro qualit personali sono alte - perch  l'immortalit che essi desiderano. Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo d'amare  tutto nel cercare di generare dei figli e cos assicurare alla loro persona l'immortalit - questo essi credono - e la memoria di s e la felicit per tutto il tempo a venire. Altre persone, per, sono feconde nell'anima: c' infatti una fecondit propria del nostro spirito che a volte  superiore a quella del corpo. Ecco qual :  la forza creativa della saggezza e delle altre virt in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondit eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la creativit. Ma dove la saggezza tocca le vette pi alte e pi belle  nell'ordinamento e nell'amministrazione della citt attraverso la prudenza e la giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli di, coltiva sin da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le sue capacit, allora cerca in ogni modo la bellezza - perch mai potr essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perch la sua anima  feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le d tutto il suo cuore: davanti a lei sapr trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale: cos potr guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potr venire alla luce quanto di meglio portava in s da tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e cos nutre ci che nel rapporto con lui in s ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea cos una comunione pi intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto pi solido. Sono pi belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalit, le creature che nascono dalla loro unione. Chiunque vorr senza dubbio mettere al mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserver con invidia quale discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurare loro l'immortalit della gloria e della memoria, perch anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se vuoi - disse -, puoi pensare quale eredit Licurgo abbia lasciato agli Spartani per la salvezza della loro citt e, si pu dire, della Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi opere, mettendo a frutto le pi alte capacit del loro spirito. In onore di quello che queste persone hanno saputo creare si sono gi innalzati molti templi, mentre questo non  mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna. Ecco, Socrate, le verit sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma le rivelazioni pi profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio per parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno finch puoi. Chi inizia il cammino che pu portarlo al fine ultimo, sin da giovane deve essere attento al bel corpo. In primo luogo, se chi lo dirige sa indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorer di una sola persona e trover con lei le parole per i dialoghi pi belli. Poi si accorger che la bellezza sensibile della persona che ama  sorella della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza che  propria delle forme sensibili, non si pu non capire che essa  una sola, identica per tutti. Capito questo, imparer a innamorarsi del bello di tutte le persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovr imparare a non valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparer a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se non  fisicamente attraente. Con lei nasceranno discorsi cos belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano. E giunto a questo punto, potr imparare a riconoscere la bellezza in quel che fanno gli uomini e nelle leggi: scoprir che essa  sempre simile a se stessa, e cos la bellezza dei corpi gli apparir ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi, sar portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesser allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncer cos alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che d l'amore per il sapere. Finch, reso forte e grande per il cammino compiuto, giunger al punto da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parler. Sforzati - mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo contempler le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine; raggiunger il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparir il bello nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita n morte145. Essa non si accresce n diminuisce, n  pi o meno bella se vista da un lato o dall'altro. Essa  senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E tutti comprendono che  bella. Il bello non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o delle parole. Non  una teoria astratta. Non  uno dei caratteri di qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparir all'uomo che  giunto sino a lei nella sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicit della sua forma. Tutte le cose belle sono belle perch partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e muoiono - divenendo quindi pi o meno belle - senza che questo abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i giovani e cos impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta bellezza: allora potr dire di non essere lontano dalla meta. Cos, da soli o sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione del bello in s. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -,  il momento pi alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare n bere, per cos dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro148. Cosa prover l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurit, del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanit sensibili? Cosa prover il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicit della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente allora, quando vedr la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa  visibile, quest'uomo potr esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine149 egli contempla, infatti, ma la virt pi autentica, in piena verit. Egli coltiva in s la vera virt e la nutre: non sar forse per questo amato dagli di? non diverr tra gli uomini immortale? Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed  riuscita a convincermi, cos come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura umana il possesso di ci che  bene, non si trover miglior aiuto dell'Eros. Cos - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro l'amore che  in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare altrettanto. Per quanto  in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai". Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di dirgli qualcosa perch Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo discorso151, ecco che si sent bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se  uno dei miei amici, invitatelo ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo gi finito di bere e che stiamo andando a dormire." Un istante pi tardi si sent nell'atrio la voce di Alcibiade, non pi molto in s per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E cos lo accompagnarono nella sala e stava in piedi solo perch una flautista e qualcun altro dei suoi compagni lo sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che - nessuno si offenda -  il pi sapiente e il pi bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perch sono ubriaco! Ridete, ridete, tanto lo so che  vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiam, Alcibiade si diresse verso di lui, aiutato dai suoi compagni, e cominci a togliersi i nastri dalla fronte per incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate e and a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracci Agatone e gli mise la corona sulla testa. "Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma chi  terzo con noi?" Dicendo cos si volt e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per Eracle, chi c' qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al pi bello della compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -. Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho pi il diritto di guardare un solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione, che non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perch la sua ira e la sua follia d'amore mi fanno una paura terribile." "No - disse Alcibiade -,  impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa, questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e non solamente una volta come te ieri." Dicendo questo prese dei nastri, incoron Socrate e poi si sdrai. Si mise comodo e disse:"Amici miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi  permesso: bisogna bere, labbiamo convenuto tra noi! Sar io il re del simposio, finch voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'. No, no, non c' bisogno. Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece riempire e bevve per primo. Poi ordin di servire Socrate, dicendo: "Con Socrate, amici miei, non c' niente da fare: quanto vorr bere berr, e non ci sar verso di farlo ubriacare."Il servo allora port il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo cos, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perch un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un discorso sull'Eros, il pi bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo gi fatto, adesso tocca a te, perch hai bevuto ed  giusto che anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui far lo stesso con chi sta alla sua destra e cos via.""Ben detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non pu dire cose che stanno alla pari con chi  sobrio. E poi c' Socrate: credi forse una sola parola di quel che ha appena detto? non lo sai che  tutto il contrario? Perch lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi.""Ma che dici!", gli fa Socrate."Per Poseidone - dice Alcibiade -,  inutile che protesti, perch in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di te.""E allora fa cos - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un tipo cos e mi vendichi davanti a voi?""Ma ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perch mai vuoi fare il mio elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verit: a te accettare o meno.""La verit? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non  vera, tronca a met le mie parole, se vuoi, e dimmi che su quella cosa l io mento, perch io volontariamente non racconter certo delle balle. Per mescoler un po' tutto nel mio discorso, e tu non meravigliarti, perch tu sei proprio un bel tipo e non  certo facile, nello stato in cui sono, ricordare con ordine proprio tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrer a delle immagini. Sono sicuro che lui penser che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perch voglio dire la verit. Io dichiaro dunque che Socrate  in tutto simile a quelle statuette dei Sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c' limmagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro: eh s, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io produrr dei testimoni. Ma, si dir, Socrate  forse un suonatore di flauto? S, e ben pi bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli di: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perch quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa  certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere pi forte di quello dei Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavit in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che non  vero. E ancora adesso - lo so benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi. Devo quindi fare violenza a me stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho avuto vergogna di me stesso. Socrate  il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E questo perch mi  impossibile - ne sono perfettamente cosciente - andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161. Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei pi vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Cos, io non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli alle statuette a cui l'ho gi paragonato, e come il suo potere sia straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io, siccome ho gi cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa almeno  l'immagine che vuol dare. Non  questa la maniera di fare di un Sileno? S certo, perch questa  l'immagine esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno  ricco o ha tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili agli di, preziose, perfette e belle, straordinarie: e cos mi son sentito schiavo della sua volont. Ero giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero della mia bellezza e cos speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e cos restai da solo con lui. Devo proprio dirvi tutta la verit: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me, e cos ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al suo amato167. Ma non accett subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza tregua, fino a notte fonda. Cos quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo convinsi a restare. Era dunque coricato sul letto accanto al mio, l dove avevamo cenato, e nessun altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verit. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi, perch solo loro possono comprendere, e scusare tutto ci che si  osato fare o dire per l'angoscia del dolore. E io son stato morso da un dente pi crudele, e in una parte della persona che aumenta la crudelt: nel cuore, nell'anima (poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che penetra pi a fondo del dente della vipera168 quando si impadronisce dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perch certo mi perdonerete per quel che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani, se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte pi spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati, io pensai che non dovevo pi giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi, Socrate?" "Per nulla", rispose. "Sai cosa penso?" "Che cosa?" "Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che  stupido, io credo, non cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti,  pi importante ai miei occhi che migliorare il pi possibile me stesso, e io penso che su questa strada nessuno mi pu aiutare pi di te. Quindi mi vergognerei dinanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te pi di quanto mi vergognerei dinanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto  vero, se ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare il bello con il bello, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non  affatto piccolo. Tu non vuoi pi possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di scambiare - non c' dubbio - il bronzo con l'oro. Eh no, mio bell'amico, guarda meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono niente. Lo sguardo della mente comincia davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei ancora molto lontano da quel momento." Al che io rispondo: "Per quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te, adesso, decidere ci che  meglio per te e per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrer migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse pi forte: non degn di uno sguardo la mia bellezza, non se ne cur affatto, fu quasi offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (s, giudici della superiorit di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli di e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute introvabili: e cos non potevo prendermela con lui e privarmi della sua compagnia, n d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era totalmente invulnerabile al denaro, pi di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito175. Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo  stato d'altri, gli giravo vanamente attorno. Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e prendemmo anche i pasti insieme. Quel che  certo,  che resisteva alle fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte in qualche punto, e in guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun altro aveva tanta resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli inverni sono terribili - Socrate  del tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli di agnello. Socrate se ne usc coperto solo dal mantello che porta sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio con pi tranquillit di quelli che avevano le scarpe: e cos i soldati lo guardavano di traverso, perch pensavano li volesse umiliare. E c' dell'altro da dire. "E' straordinario ci che fece e sopport il forte eroe", laggi in guerra: vale veramente la pena di sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi problemi, e cos stava l, in piedi, a riflettere. Era gi mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominci a circolare; finch, venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E cos fece, sino alle prime luci del mattino. Solo allora se ne and, dopo aver elevato una preghiera al Sole. Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perch anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiut di abbandonarmi e riusc a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai personalmente insistito pi di loro perch il premio invece andasse a me. Ricordo un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo incontrare. Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito l per caso, li vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perch avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva pi sangue freddo di Lachete - e quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di s, gettando occhiate di fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se qualcuno avesse voluto attaccarlo. E cos andava senza mostrare alcuna inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perch sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, per, anche altri uomini probabilmente meritano gli stessi elogi. C' qualcosa in Socrate, invece, che lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si pu trovare l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle pu ricordare Nestore o Antenore, e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo  che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni n nel passato n oggi, per quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad altri uomini, ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti di lui o delle sue parole. S, perch c' una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle statuette dei Sileni che si aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o  poco attento, c' caso che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virt. Chi lo ascolta  portato verso le cose pi alte; anzi, meglio,  guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che  necessario per diventare un uomo che vale. Ecco, amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non impara che soffrendo." Quando Alcibiade ebbe parlato cos, l'ilarit fu generale, anche perch s'era capito ch'era ancora innamorato di Socrate. E cos Socrate gli disse: "Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un discorso cos sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che  venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di guastare l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perch sei convinto che io debba amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te, da nessun altro che da te. Ma non t' andata bene: il tuo dramma satiresco, la tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno possa mettersi tra me e te." E Agatone di rimando:"Hai detto proprio la verit, Socrate. E ne ho le prove: si  venuto a sdraiare proprio tra te e me, per separarci. Ma non ci guadagner niente a far cos, perch io torno proprio a mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino! Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due. E' impossibile - disse Socrate -. Perch tu hai appena fatto il mio elogio, e io devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovr mettersi a fare il mio elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov', mio divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perch desidero proprio cantare le sue lodi. Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non  proprio possibile che resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da Socrate". "Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre cos. Quando c' Socrate, non c' posto che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una banda di gente allegra spunt dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano trovata aperta, e cos erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran baccano in tutta la sala: senza pi alcuna regola, si bevve allegramente un sacco di vino. Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro and via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dorm tanto, perch le notti erano lunghe. Si svegli ch'era giorno e i galli gi cantavano. Alzatosi, vide che gli altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della conversazione, perch non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a riconoscere che un uomo pu riuscire egualmente bene a comporre commedie e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non  diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non  proprio che lo seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addorment anche Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alz e and via. Aristodemo lo segu, come sempre faceva. Socrate and al Liceo, si lav e pass il resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne and a casa a riposare. Platone Carmide Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it) Platone Carmide Platone CARMIDE Arrivammo il giorno prima, di sera, dall'accampamento di Potidea, e poich tornavo che era passato del tempo, mi recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare entrai nella palestra di Taurea, dirimpetto al santuario della Regina, e qui incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte invece, da quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso di me, e afferratami la mano: O Socrate , diceva, come ti sei salvato dalla battaglia? . Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a Potidea, della quale l si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: Cos come mi vedi , dissi. Eppure qui  arrivata la notizia che la battaglia  stata molto dura, disse lui, e che vi sono morte molte persone note. Le notizie riportate sono esatte, risposi io. Eri presente alla battaglia? chiese lui. C'ero. Allora siediti qui, disse, e raccontaci, perch non abbiamo saputo ogni cosa in maniera chiara. E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di Callescro. Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri, ed esponevo loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano chi una cosa chi un'altra. Quando per fummo sazi di questi discorsi, io allora, a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla filosofia, come andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si distinguessero per saggezza, per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia, fissando lo sguardo verso la porta, perch aveva visto alcuni giovanetti entrare che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, dei belli, disse, o Socrate, credo che tu saprai subito: infatti eccoli che per caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama di essere il pi bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai prossimo ad entrare. E chi , chiesi io, e di chi  figlio? Forse lo conosci anche tu, mi rispose, ma non era ancora adulto prima che tu partissi; Carmide figlio di nostro zio Glaucone, mio cugino. Lo conosco, per Zeus!, esclamai. Neppure allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo, dovrebbe ormai essere decisamente un giovanetto. Presto saprai, rispose, la sua et e che tipo egli sia diventato, e mentre stava dicendo queste cose entra Carmide. Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si pu misurare nulla: infatti io sono semplicemente una cordicella bianca con i belli - infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli anni -, tuttavia indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava, erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare -, molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il pi piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: Che te ne pare del ragazzetto, o Socrate?, disse. Non ha un bel volto? Straordinariamente bello, risposi io. Ebbene, aggiunse, egli, se volesse spogliarsi, ti sembrer privo di volto, a tal punto  bellissimo di forme. Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: Per Eracle, dissi, di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta. Quale?, chiese Crizia. Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima, risposi, e in qualche modo  scontato, o Crizia, che egli sia tale, dal momento che  del vostro casato. Ma s, rispose,  bellissimo e virtuoso anche in questo. Perch dunque, esclamai, non spogliare di lui proprio questa cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa et, desidera certamente dialogare. Senza alcun dubbio, rispose Crizia, sia perch  appunto un filosofo sia, come pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta. Questa bellezza, dissi io, caro Crizia, voi l'avete,  lungo tempo, dalla vostra consanguineit con Solone. Ma perch non hai chiamato qui il giovane e non me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora pi giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei insieme suo tutore e cugino. Certo tu hai ragione, disse, chiamiamolo. E intanto al servo: Ragazzo, disse, chiama Carmide e digli che voglio presentarlo a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere affetto. Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: Poco fa diceva d sentire come un peso alla testa, quando si  alzato di buon mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per la testa? Nulla, risposi, purch venga. Certo, verr, assicur. E la cosa in effetti and cos. Infatti venne e suscit gran riso, perch ognuno di noi che eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui accanto a s, finch di quelli seduti all'estremit uno lo facemmo alzare, mentre l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia precedente arditezza, che avevo perch pensavo che gli avrei parlato con molta scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero colui che conosceva il rimedio, mi fiss con 2 Platone Carmide occhi quali  impossibile descrivere e si muoveva a interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in cerchio da ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ci che nascondeva il mantello e mi infiammai e non ero pi in me e pensai che il pi sapiente in cose d'amore  Cidia, il quale disse, parlando di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, di stare attento, cerbiatto, di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda; mi sembrava infatti di essere stato catturato io stesso da un simile animale. Tuttavia, quando mi chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo conoscevo. Qual  allora? chiese. E io risposi che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilit. E quello di rimando: Allora trascriver la formula da te. Se mi persuaderai o anche se non mi persuaderai?, dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: Se ti persuader, o Socrate. E sia, conclusi; e tu conosci bene il mio nome? Sarei colpevole, se non lo conoscessi, disse, si fa non poco parlare di te tra i giovani della mia et, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo eri in compagnia di Crizia qui presente. Ben fatto, dissi io, ti parler cos pi liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide, la sua natura e tale per cui non  in grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai gi sentito da bravi medici, quando uno va da loro perch  malato agli occhi, dicono che non  possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa senza il corpo intero  una follia totale. In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di curare e di sanare con il tutto la parte; o forse non ti sei accorto che dicono questo e che le cose stanno cos? Certo, rispose. E pensi che parlano bene e accetti questo ragionamento? Assolutamente, rispose. E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio e a poco a poco si risvegli di nuovo in me l'arditezza, mi ravvivai e dissi: Tale dunque, o Carmide,  anche il caso di questa formula magica. Io l'imparai laggi, nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis, dei quali si dice che sanno rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che  un dio, dice che non bisogna cercare d guarire gli occhi senza la testa n la testa senza il corpo, allo stesso modo il corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte malattie sfuggono ai medici greci, perch trascurano il tutto, di cui bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene,  impossibile che la parte stia bene. Disse che infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza, per la comparsa e la presenza della quale  ormai pi facile procurare la salute e alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora", continu, " diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della salute". E mi comand con molta decisione che non dovesse esserci nessuno cos ricco n nobile n bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora - infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli - obbedir dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche del Trace, fornir il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare per te, caro Carmide. Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: Sarebbe un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sar costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua et non soltanto per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no? Certamente, dissi io. Dunque sappi bene, continu, che ha fama di essere di gran lunga il pi assennato di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'et che ha raggiunto, non  inferiore a nessuno. E infatti, dissi io,  anche giusto, o Carmide, che tu emerga tra gli altri per tutte queste cose; perch credo che nessun altro tra coloro che si trovano qui potrebbe con facilit esibire due famiglie, riunitesi in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili una discendenza pi bella e pi nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato tu. Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, ci  stata tramandata come oggetto di encomio da parte di Anacreonte, di Solone e di molti altri poeti, poich eccelle per bellezza, per virt e per tutto ci che  detto felicit; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre: infatti rispetto a Pirilampe, tuo zio, nessuno tra gli uomini del continente si dice avesse la fama di essere pi bello e pi prestante, tutte le volte che si rec come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio nel continente, ma tutta quanta questa famiglia non fu mai inferiore all'altra. Nato dunque da siffatti antenati,  naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei inferiore in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se davvero tu sei dotato per natura di buone capacit sia per assennatezza sia per tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua madre, conclusi. La 3 Platone Carmide cosa dunque sta cos. Se davvero c' gi nel tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno n degli incantamenti di Zalmoxis n di Abari l'Iperboreo, ma a questo punto bisognerebbe darti proprio il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio. Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare in modo sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?. Carmide dunque, essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora pi bello - e difatti la modestia si addiceva alla sua et - poi con animo non certo vile rispose: disse infatti che non sarebbe stato pi facile, l sul momento, n approvare n negare ci che gli veniva chiesto. Se infatti, spieg, non dicessi che sono assennato, non solo sarebbe strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri ai quali sembro assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me stesso, forse apparirei insopportabile; sicch non so che cosa risponderti. E io risposi: Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso, dissi, che bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto domandando, affinch tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e d'altro canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque ti  cosa gradita, voglio fare questa ricerca con te, altrimenti lasciar perdere. Ma tra tutte  la cosa che mi fa pi piacere, disse lui, quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che tu ritieni il migliore. Ecco allora, dissi io, quale mi sembra il miglior metodo di ricerca su questo argomento.  chiaro infatti che se tu possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche giudizio.  d'altra parte necessario, quando essa  presente, se davvero c', che se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la pensi cos? Certo, lo penso, disse. Ebbene, questa cosa che pensi, dissi, dal momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che sia? Forse, rispose. E allora affinch possiamo congetturare se tu l'hai in te oppure no, dimmi, continuai, che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo la tua opinione?. Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente rispondere, poi per disse che assennatezza a suo parere  fare tutto con ordine e con calma, camminare per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo. E penso, concluse, in una parola che ci che mi chiedi sia una certa calma.  forse giusto ci che dici?, dissi. Certo, Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c' del vero in quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non  tra le cose belle? Certo, rispose. E qual  la cosa pi bella nelle lezioni del maestro: scrivere le lettere simili in fretta o con calma? In fretta. E nel leggere? Velocemente o lentamente? Velocemente. E suonare la cetra con velocit e lottare con ritmo serrato non  molto pi da virtuosi che farlo con tranquillit e lentamente? S. E allora? Nel pugilato e nel pancrazio non avviene la stessa cosa? Certo. Nella corsa, nel salto e in tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidit non si addicono al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con tranquillit?  evidente. Dunque ci pare evidente, dissi io, per quel che concerne il corpo, che non  la calma, ma la massima rapidit e prontezza ad essere la cosa migliore. Non  cos? Certamente. Ma l'assennatezza era una cosa bella? S. Allora per il corpo non la calma, ma la rapidit sarebbe cosa pi assennata, dal momento che l'assennatezza  una cosa bella. Cos sembra , rispose. E allora? continuai io.  pi bella la facilit di apprendere o la difficolt di apprendere? La facilit di apprendere. Ma la facilit di apprendere, chiesi, significa apprendere rapidamente? E la difficolt di apprendere significa farlo con calma e lentezza? S. Non  pi bello insegnare a un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente? S E poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente  pi bello che farlo con decisione e rapidit? Con decisione e rapidit, rispose. La perspicacia non  una certa acutezza dell'animo, e non la calma?  vero. Non  forse vero che se si tratta di comprendere ci che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro luogo, la cosa pi bella non  farlo con la maggior calma possibile, bens con la maggior rapidit? S. Ma certo, nelle ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di lode non  il pi lento nel prendere una decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa con la massima facilit e rapidit.  cos, disse. E in tutte le cose, aggiunsi io, o Carmide, sia in quelle che riguardano l'anima sia in quelle che riguardano il corpo, le azioni di velocit e prontezza non appaiono pi belle rispetto a quelle di lentezza e di calma?  possibile, rispose. Dunque l'assennatezza non  una certa calma n la vita assennata  calma, in base a questo ragionamento, dal 4 Platone Carmide momento che deve essere bella, se  assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra: o mai o assai raramente le azioni calme ci apparvero nella vita pi belle di quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le pi insignificanti, capita che siano pi belle di quelle decise e rapide, cos neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo forte e rapido, n nell'andatura n nell'eloquio n in nessun'altra situazione, n la vita calma potrebbe essere pi assennata di una vita non tranquilla, dal momento che nel discorso l'assennatezza  stata da noi posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle rapide non meno di quelle tranquille. Mi sembra ben detto, o Socrate, disse. E allora, ripresi io, di nuovo, ponendo pi attenzione, o Carmide, dopo aver guardato in te stesso e aver riflettuto su quali effetti la presenza della assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per produrre tale effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?. Ed egli rimase in attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente virile, ebbene, mi sembra, disse, che l'assennatezza faccia vergognare e renda timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ci che di fatto  pudore. E sia, dissi io, ma poco fa non ammettevi che l'assennatezza  una cosa bella? Certamente, disse. E che gli assennati sono anche uomini buoni? S. Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni? No, certo. Non  solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa buona. Per lo meno mi sembra. E allora? ripresi io. Non pensi che Omero aveva ragione quando diceva: "Il pudore non  un buon compagno per l'uomo bisognoso"? S. Dunque, parrebbe, il pudore non  un bene ed  un bene.  evidente. L'assennatezza  un bene se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi. Ma certo, le cose mi sembra che stiano come tu dici. Dunque assennatezza non potrebbe essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore non  un bene pi di quanto sia un male. A me, o Socrate, sembra, disse, che questo sia detto bene: ma prendi in esame questa definizione della assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti mi sono ricordato -  una cosa che sentii gi dire da un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le proprie cose. Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa. E io: Ah furfante, dissi, tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o da qualche altro sapiente!. Probabilmente da un altro, disse Crizia, non certo da me. Ma che differenza fa, o Socrate, disse l'altro, Carmide, da chi l'ho sentito? Nessuna differenza, dissi io, perch in ogni caso bisogna indagare non chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no. Ora parli bene, disse. Per Zeus, dissi io, ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei, perch somiglia a un enigma. E perch? Perch sicuramente, continuai, le parole non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero, quando diceva che assennatezza  "fare le proprie cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando scrive o quando legge? Si, certo, lo penso, disse. Dunque tu pensi che il maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo insegnava a voi ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno dei vostri e dei nomi degli amici? Per nulla meno. Forse che vi impicciavate degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo? Assolutamente no. E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere sono fare qualcosa. Ma certo lo sono. E infatti il guarire, caro compagno, il costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa. Certo. E allora? dissi io, pensi forse che una citt sarebbe ben governata da quella legge che impone di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe, l'ampolla, lo strigile e tutto il resto in base a questo stesso discorso, senza toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie? Non lo penso, disse lui. Tuttavia, replicai, se  governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata. Come no?, disse. Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e fare le proprie cose in questo modo. Non sembra. Parlava dunque per enigmi, a quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare le proprie cose  assennatezza; altrimenti era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o Carmide? Minimamente, rispose, perch anzi aveva fama di essere molto sapiente. Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perch  difficile capire che cosa mai significhi fare le proprie cose. Forse, disse. E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le proprie cose? Puoi dirlo? Io non lo so, per Zeus, rispose lui, ma forse nulla impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ci che pensava. E mentre diceva queste cose 5 Platone Carmide sorrideva e guardava a Crizia. Ed era evidente che gi da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era trattenuto, allora non ne fu pi capace: mi sembra infatti pi che vero, cosa che sospettai, che Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza. Carmide dunque, poich non voleva render conto lui della risposta, ma voleva lo facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro non lo toller, ma mi sembr adirato con lui come un poeta con un attore che recita male i suoi versi. Per cui lo guard fisso e poi disse: Sicch, Carmide, pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che l'assennatezza  fare le proprie cose, allora neppure lui lo sa? Ma, eccellente Crizia, dissi io, non  affatto una cosa che desta meraviglia, data la sua et, che ignori questa cosa; invece  naturale che tu la sappia, sia per via della tua et sia per i tuoi studi. Se dunque ammetti che l'assennatezza  appunto ci che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto pi volentieri io indagherei insieme a te se la definizione  vera oppure no. Ebbene lo ammetto senz'altro, rispose, e lo accetto. E fai bene, dissi io, ammetti anche ci che chiedevo poco fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa? S. E ti sembra che facciano solo le loro cose o anche quelle degli altri? Anche quelle degli altri. Dunque sono assennati, pur non facendo solo le loro cose? Infatti, che cosa lo impedisce? chiese. Niente, per me almeno, replicai io, ma bada che l'impedimento non ci sia per colui che, avendo ipotizzato che l'assennatezza  il fare le proprie cose, dice poi che nulla impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano assennati. Io infatti, in un certo senso, disse, questo l'ho ammesso, che sono assennati coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono assennati coloro che realizzano le cose degli altri.(24) Dimmi, tu non chiami con la stessa parola il realizzare e il fare? No davvero, disse, e neppure il lavorare e il realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo, il quale diceva che il lavoro non  affatto vergogna. Pensi dunque che egli, se usava, per le occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini "lavorare" e "fare", avrebbe detto che non  una vergogna per nessuno fare il calzolaio o il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo, Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro  la realizzazione di un'azione, altro la realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata  a volte motivo di vergogna, quando non  accompagnata dal bello, il lavoro invece non  mai motivo di vergogna: infatti chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di tal genere le chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose; quindi bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon senso, definisce assennato chi si occupa delle sue cose. O Crizia, dissi io, non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che chiami buone le cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e infatti ho sentito infinite volte Prodico fare delle distinzioni riguardo ai nomi. Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a cosa di il nome che stai pronunciando. Dunque, ora di daccapo una definizione pi chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose buone, tu dici che questa  assennatezza? S, rispose. Dunque non  assennato colui che compie azioni cattive, bens colui che compie azioni buone? E a te, nobile Socrate, disse, non sembra cos? Lascia perdere, dissi, non indaghiamo su ci che penso io, ma su ci che stai dicendo ora tu. Ebbene, disse, io affermo che colui che realizza cose non buone ma cattive non  assennato, mentre  assennato colui che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io te la definisco chiaramente assennatezza. E certo nulla impedisce che tu abbia forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia, dissi io, il fatto che a tuo parere gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati. Ma non lo penso, replic. Poco prima non  stato detto da te che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri, siano assennati?  stato detto, certo, disse, ma che vuol dire questo? Niente; ma dimmi se secondo te un medico, quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui che guarisce. S. Colui che agisce cos non fa forse il suo dovere? S. E colui che fa il suo dovere non  assennato?  assennato, certo. Non  allora necessario che il medico sappia quando guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando pu trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no? Forse no. A volte, dissi io, dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo discorso, ha agito in modo assennato. O non  cos che dicevi? S. Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo utile, agisce assennatamente ed  assennato, ma ignora di se stesso che sia assennato? In realt, o Socrate, ribatt, questo non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti ammissioni, che  inevitabile che ci si accordi su questo, io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che un uomo ignori di se stesso che  assennato. Io, per me, infatti, pi o meno affermo che assennatezza  proprio questo, conoscere se stessi e sono d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. Platone Carmide Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un saluto del dio a chi entra, in luogo del "Salve", perch questa forma di saluto non  giusta, augurare di star bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni con gli altri, ma augurarsi d essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro che entrano nel santuario un saluto differente da quello che usano gli uomini: con questo pensiero fece la dedica colui che la offr, a mio parere; e dice, a colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica, come fa un indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono la stessa cosa, come indica l'iscrizione e come sostengo anch'io, ma forse qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso,  capitato a coloro che in seguito dedicarono le iscrizioni "Nulla di troppo" e "Garanzia porta guai".(29) Costoro infatti pensarono che "Conosci te stesso" fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano; quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono queste parole. Il fine per cui io dico tutto questo dunque, o Socrate,  il seguente: ti lascio cadere tutto ci che ho detto prima - in effetti forse su quei punti avevi pi ragione tu in qualcosa, forse invece avevo pi ragione io, ma nulla di ci che dicevamo era chiaro -; ora voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza  conoscere se stessi. Ebbene, Crizia, dissi, tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo delle domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma non  cos, al contrario, infatti io indago assieme con te di volta in volta il problema che si presenta, perch io stesso non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono d'accordo o se non lo sono. Suvvia, aspetta finch io non abbia fatto il mio esame. Fai dunque il tuo esame, disse. Difatti lo sto facendo, replicai io, se infatti assennatezza fosse conoscere qualcosa,  chiaro che sarebbe una scienza e una scienza di qualcosa o no? Lo  di se stessi, rispose. Dunque anche la medicina, chiesi,  scienza della salute? Certamente. Se allora tu mi chiedessi, continuai "Essendo la medicina scienza di ci che  sano, in cosa  per noi utile e che cosa procura?", risponderei che  di non poca utilit, perch ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea. Sono d'accordo. E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che  la scienza del costruire, quale risultato a mio dire produca, risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a proposito della assennatezza, dal momento che affermi che essa  conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia, l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi. Ma, Socrate, replic, la tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non  simile alle altre scienze n le altre scienze si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse fossero simili. Perch, dimmi, continu, quale risultato del calcolo o della geometria  simile alla casa dell'architettura o al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte arti? Ebbene, puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia di tal genere? Ma non potrai. E io risposi: Dici il vero; ma posso mostrarti questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo  la scienza del pari e del dispari, della quantit, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra loro; o no? Certamente, rispose. Il dispari e il pari, non sono diversi rispetto al calcolo stesso? Come no? E a sua volta la statica  arte del pesare il peso pi pesante e il peso pi leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa. Sei d'accordo? S. Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa  scienza, che si trovi ad essere diverso dall'assennatezza stessa? Questo  il punto, replic, o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa differisce da tutte le scienze l'assennatezza; ma continui a cercare una certa qual somiglianza di questa con le altre. La cosa per non sta cos, al contrario, tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola invece  scienza delle altre scienze e anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ci che poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perch cerchi di confutare, dopo aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso. Quale errore fai, dissi, a pensare che se ti confuto quanto pi  possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza avvedermene, io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia, dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel mio stesso interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere?  proprio ci che penso anch'io, o Socrate, rispose. Coraggio, dunque, ripresi, carissimo, rispondendo alla domanda nel modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia Crizia o Socrate colui che viene confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo ne verr fuori, se viene confutato. Ebbene, concluse, far cos: le tue parole mi sembrano misurate. Parla allora, ripresi io, riguardo all'assennatezza cosa dici? Affermo allora, rispose, che sola tra le altre scienze essa  scienza di se stessa e delle altre scienze. Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza, chiesi io, se lo  anche della scienza? Certamente, rispose. Dunque soltanto l'assennato conoscer se stesso e sar in grado di esaminare che cosa egli si d il caso che sappia e 7 Platone Carmide che cosa non sa, e sar capace allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo pu farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza: conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non  questo ci che vuoi dire? S, rispose. E ancora, ripresi, con la terza coppa al salvatore, come all'inizio esaminiamo in prima istanza se questa cosa sia possibile oppure no - sapere che si sanno e che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in seconda istanza, se  possibile nel modo pi assoluto, quale utilit ne potremmo ricavare noi a saperlo. Certo, bisogna fare un'indagine, disse. Via, Crizia, incalzai, esamina se riguardo a questi argomenti tu non possa apparire in qualcosa pi pieno d risorse di me, perch io sono in difficolt; ma devo dirti in cosa sono in difficolt? Certo, rispose. Tutto questo, dissi io, non sarebbe forse, se davvero  come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la quale non  scienza di nient'altro se non di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di scienza? Certo. Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso punto in altri contesti, ti sembrer, com'io credo, impossibile. Come e in quali contesti? In questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista, e, pur essendo una vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra che possa esistere una vista di tal genere? Per Zeus, no. E un udito che non oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze di udito? Neppure questo. Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che delle cose delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione? Non lo penso. Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri? No davvero. Neppure una volont, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le altre volont. No, certo. Potresti affermare che esista un amore tale che si trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori? No, rispose. E hai gi osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre paure, ma non tema neppure una sola delle cose terribili? Non l'ho notata, rispose. Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle cose sulla quali opinano le altre opinioni non opini? In nessun modo. Ma, a quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non  scienza di nessuna disciplina: non  scienza di nulla, ma  scienza di se stessa e delle altre scienze? Lo affermiamo infatti. Non  assurdo, se davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste, esaminiamo piuttosto ancora se esiste. Dici bene. Vediamo dunque: questa scienza  scienza di qualcosa e ha un potere tale da esserlo di qualcosa, o no? Certamente. E difatti noi affermiamo che ci che  maggiore ha un potere tale da essere maggiore di qualcosa? Difatti lo ha. E di qualcosa che  minore, se davvero  maggiore? Necessariamente. Se dunque trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se stesso, ma che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero  maggiore di se stesso, di essere anche minore di se stesso; o no? Assolutamente inevitabile, o Socrate, rispose. Ancora, se qualcosa  doppio delle altre cose doppie e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una met che  sia se stesso sia gli altri doppi: e difatti non c' doppio di altro che della met.  vero. Essendo dunque pi di se stesso, non sar anche meno? Ed essendo pi pesante pi leggero, ed essendo pi anziano pi giovane e in tutto il resto allo stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non avr anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del suono, o no? S. Se dunque sentir se stesso, sentir se stesso perch provvisto di suono, altrimenti non si udrebbe. Decisamente inevitabile. E la vista, nobile uomo, se davvero essa vedr se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un colore, perch una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore. No, certo. Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti dubbi che possano avere su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le grandezze, le quantit e altre cose di tal genere  assolutamente impossibile; o no? Certamente. L'udito poi e la vista e ancora lo stesso movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8 Platone Carmide cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulit, in altri forse no. C' bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguer adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune s e altre no; e s e poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c' la scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace di fare queste distinzioni: perci non posso sostenere fermamente ne se sia possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, n, nel caso sia precisamente cos, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o no. Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu dunque, figlio di Callescro - giacch stabilisci che l'assennatezza  questo, scienza di una scienza e quindi anche di una mancanza di scienza - per prima cosa mostra che  possibile ci che poco fa io dicevo, in secondo luogo che oltre ad essere possibile  anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia giusta la definizione che di dell'assennatezza. E Crizia, udite queste parole e avendomi visto in difficolt, come accade a coloro che, nel vedere delle persone sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembr costretto dal mio essere in difficolt e preso egli stesso dall'imbarazzo. Poich dunque in ogni occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo chiamato a fare distinzioni, e non diceva nulla di preciso, cercando di nascondere l'imbarazzo. E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi: Ma se  opportuno, o Crizia, ammettiamo pure ora questo dato, che  possibile che esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se  cos o no. Suvvia, posto che questo sia assolutamente possibile, in cosa allora  maggiormente possibile sapere quel che uno sa o quale che non sa? Dicevamo (33) infatti che questo  appunto conoscere se stessi ed essere assennati; o no? Certo, rispose, e in certo qual modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio quando uno ha la velocit, veloce, quando ha la bellezza,  bello, e quando ha la conoscenza,  uno che conosce; quando per uno abbia una conoscenza che conosca se stessa, in certo qual modo sar allora egli stesso conoscitore di se stesso. Non discuto questo, ribattei io, che quando un uomo possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscer egli stesso se stesso, ma che necessit c' che colui che abbia questa cosa sappia ci che sa e ci che non sa? Perch queste due cose sono identiche, Socrate. Forse, ribattei, ma ho paura di essere sempre allo stesso punto, perch non capisco come possa essere lo stesso il sapere ci che si sa e il sapere ci che non si sa. Come dici?, chiese. Dico questo, risposi, una scienza che in qualche modo  scienza di scienza sar in grado di distinguere di pi rispetto al dire: di queste cose l'una  scienza, mentre l'altra non  scienza? No, ma solo questo. Dunque vale lo stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e l'ignoranza del giusto? In nessun modo. Ma l'una, credo,  la medicina, l'altra la politica, mentre quest'altra non  nient'altro che scienza. Come no, infatti. Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo, potrebbe ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa una cosa e possiede una scienza, o no? S. Ci che conosce grazie a questa scienza come lo sapr? Infatti conosce ci che  sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ci che  armonico grazie alla musica, ma non grazie all'assennatezza, ci che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma non grazie all'assennatezza, e cos via, o no ?  evidente. Ma grazie all'assennatezza, se davvero  soltanto scienza delle scienze, come sapr che conosce ci che  sano o ci che riguarda le costruzioni? In nessun modo. Dunque colui che ignora queste cose non sapr ci che sa, ma sapr soltanto che sa. Sembra. N l'essere assennati n l'assennatezza sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa.  probabile. N costui sar capace di esaminare se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ci che dice di sapere o non lo sa; ma conoscer questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una scienza, di cosa per l'assennatezza non glielo far conoscere. Non pare. Non sar in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo  e chi invece lo  realmente, n nessun altro di coloro che sanno e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia riconoscere il vero medico e colui che non lo , non si comporter dunque in questo modo. Non gli parler certo di medicina- perch il medico, come dicevamo, non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no? S,  cos. Di scienza invece non sa nulla, questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto. S. N di medicina sa nulla il medico, dal momento che la medicina si d il caso che sia appunto una scienza.  vero. Che dunque il medico possiede una scienza, l'assennato lo comprender; poich tuttavia bisogna sperimentare quale sia, non esaminer forse di quali cose sia scienza? O non  forse vero che, grazie a questo, di ogni scienza viene 9 Platone Carmide stabilito non soltanto che sia scienza ma anche uale scienza sia, grazie cio al fatto che  scienza di qualcosa? Grazie a questo, certo. E la medicina viene definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che  scienza del sano e del malato. S. Dunque colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno di quelle situazioni nelle quali la medicina sia presente e certo non in quelle esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata? Certo non in queste. In ci che  sano e in ci che  malato dunque colui che fa un'indagine corretta esaminer il medico, in quanto medico.  naturale. Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette, le azioni, per vedere se sono ben fatte? Necessariamente. Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare attenzione all'una o all'altra di queste due cose? No davvero. Nessun altro potrebbe farlo, com' naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perch dovrebbe essere un medico in aggiunta all'assennatezza.  cos. Soprattutto, se l'assennatezza  soltanto la scienza della scienza e dell'ignoranza, non sar in grado di distinguere n un medico che conosce i princpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o pensa di conoscerli, n nessun altro di coloro che conoscono una scienza e qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di una persona che condivida la sua arte, come gli altri artigiani.  evidente, disse. Quale vantaggio dunque, dissi, Crizia, potremmo ancora ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ci che sa e ci che non sa, e sapesse queste cose di saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di grandissima utilit, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi stessi che possediamo l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati da noi. E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma, cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, n permetteremmo agli altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ci che potrebbero fare bene: e questo sarebbe ci di cui abbiano scienza; e cos, una casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una citt ben governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza: rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni azione  necessario che coloro che si trovano in queste condizioni abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo buona fortuna, siano felici. Non  questo, dissi, Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo quale grande bene sarebbe conoscere ci che si sa e ci che non si sa? Certamente, rispose:  cos. Ora, ripresi io, vedi che non  apparsa in nessun luogo nessuna scienza di questo tipo. Lo vedo, disse. Non ha forse questo di buono, continuai, la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa apprenda, la apprender pi facilmente e tutto gli apparir pi chiaro, dato che, in aggiunta a ogni cosa che apprenda, avr la visione della scienza, ed esaminer meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri, conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in maniera pi debole e mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di pi grande e desideriamo che questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia? Forse  cos, rispose. Forse, dissi io, forse per noi non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perch mi appaiono certi strani fatti riguardo all'assennatezza, se  di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che  possibile conoscere la scienza e ci che all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cio conoscere ci che si sa e ci che non si sa, non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porter anche qualche vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere ci che dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran bene, facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della citt. Come mai? domand. Perch, risposi, ammettemmo con facilit che  un grande bene per gli uomini se ognuno di noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che le conoscano. Dunque non facemmo bene ad ammetterlo? No, non mi sembra, risposi io. Dici cose strane veramente, o Socrate, comment. Per il cane!, (36) esclamai. Anche a me sembra cos, e avendo rivolto l lo sguardo anche poco fa, dicevo che mi si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se l'assennatezza  esattamente tale, non mi sembra per nulla chiaro quale vantaggio essa ci arrechi. E come mai?, disse lui. Parla, affinch sappiamo anche noi ci che vuoi dire. Penso, dissi io, di star sragionando; bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso. Parli bene, disse. Platone Carmide Ascolta dunque, continuai, il mio sogno, sia esso venuto attraverso la porta di corno o attraverso quella di avorio. Se infatti l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero, che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, n medico n stratego n nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla franca; dal momento che le cose stanno cos, potrebbe accaderci qualcos'altro se non che saremo fisicamente pi sani di ora e ci salveremo nei pericoli, sia in mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e ogni oggetto fabbricato con arte e molte altre cose, dal momento che ci serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la scienza di ci che deve avvenire e l'assennatezza, che  ad essa preposta, tolga di mezzo i ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che cos disposto il genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco - infatti l'assennatezza, stando di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza, sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente avremmo fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di capirlo chiaramente, caro Crizia. Tuttavia, riprese, non troverai facilmente un altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza. Insegnami allora ancora una piccola cosa, dissi io, secondo la scienza di cosa intendi? Forse del taglio del cuoio? Per Zeus, no. Allora della lavorazione del bronzo? Niente affatto. Allora della lana, del legno o di altro materiale del genere? No davvero. Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi vive secondo la scienza  felice. Infatti costoro, nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a colui che vive secondo la scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco fa, colui che conosce tutto ci che sta per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a lui o a qualcun altro? A lui, rispose, e a un altro. Chi?, domandai. Forse un uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose passate e quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive con pi scienza di lui. No, certo. Desidero inoltre sapere questo, quale tra le scienze lo rende felice? O forse tutte nella stessa misura? Nient'affatto nella stessa misura, rispose. Ma quale pi di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale conosce il gioco degli scacchi? Ma quale gioco degli scacchi?, esclam. Allora quella grazie alla quale conosca il calcolo? Nient'affatto. Allora quella per cui conosce ci che  sano? Piuttosto, rispose. Ma qual  quella scienza alla quale faccio particolare riferimento, continuai, grazie alla quale, cosa pu conoscere? Quella per cui conosce il bene e il male. Ah furfante, esclamai, da tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a fare la fortuna e la felicit, n  prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che  soltanto quella che tocca il bene e il male. Perch, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la medicina far guarire un po' meno, l'arte del calzolaio far calzare meno scarpe, la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impedirmeno di morire in mare e quella dello stratego in guerra? Non meno, rispose. Ma, caro Crizia, che ognuna di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verr a mancare, se questa scienza  assente. Quel che dici  vero. Questa scienza dunque, a quel che sembra, non  l'assennatezza, ma quella la cui funzione  di esserci utile. Infatti non  la scienza delle scienze e delle non scienze, ma del bene e del male: cosicch, se dunque la scienza utile  quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe qualcosa di diverso. Perch, chiese, non potrebbe esserci utile? Infatti se l'assennatezza  in modo particolare scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche su questa, cio la scienza del bene, dovrebbe esserci utile. Quale fa guarire?, chiesi. Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito da tempo che essa  unicamente scienza della scienza e della mancanza di scienza e di nient'altro, non  cos? Almeno pare. Non sar dunque artefice di salute? No, certo. La salute era infatti opera di un'altra arte, o no? Si, di un'altra. N dunque sar artefice di utilit, caro compagno: perch poco fa attribuimmo a un'altra arte questo compito,  vero? Certo. In che modo sar dunque utile l'assennatezza, se non  artefice di nessuna utilit? In nessun modo, o Socrate, almeno sembra. Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile sull'assennatezza? Infatti la cosa che per generale ammissione  tra tutte la pi bella non ci sarebbe apparsa priva di utilit, se io fossi stato di qualche utilit alla realizzazione di una buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado di scoprire per quale delle realt esistenti il legislatore pose questo nome, l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al nostro ragionamento. Platone Carmide Infatti ammettemmo che  scienza della scienza, nonostante che il ragionamento non lo permettesse e affermasse che non  cos; concedemmo poi a questa scienza di conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che neppure questo ammettesse il ragionamento, affinch l'assennato potesse diventare per noi uno che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo ammettemmo con grande generosit, senza riflettere sul fatto che  impossibile che uno possa in qualsiasi modo sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si sa ci che non si sa. Eppure, com'io credo, non c' nulla rispetto a cui questo non potrebbe apparire pi assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati cos disponibili e non inflessibili, n on  maggiormente in grado di trovare la verit, anzi tanto l'ha derisa che ci che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile. Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per te, continuai, o Carmide, sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ci molto assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilit da questa assennatezza, n ti sar di alcuna utilit la sua presenza nella vtia. Ma ancora di pi mi indigno per la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre  di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano cos, ma che io sono un ricercatore mediocre; perch, penso, l'assennatezza  un gran bene e se davvero la possiedi, sei un uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno della formula magica, perch se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunch, te invece quanto pi assennato tanto pi felice. E Carmide, Ma per Zeus, disse, io non so n se la possiedo n se non la possiedo: come potrei sapere ci che neppure voi siete capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che venga incantato da te tanti giorni finch tu dica che  sufficiente. E sia: tuttavia, o Carmide, disse Crizia, se lo farai, questa sar per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento di Socrate e non ti allontani da lui n molto n poco. Stai sicuro che lo seguir e non lo lascer, rispose, perch mi comporterei in modo terribile, se non obbedissi a te, il tutore, e non facessi ci che mi ordini. Ebbene, ribatt l'altro, io te lo ordino. Lo far, rispose, a partire da questo stesso giorno. Voi due, intervenni io, che cosa state decidendo di fare? Nulla, rispose Carmide, abbiamo gi deciso. Allora mi costringerai, esclamai, e non mi concederai la possibilit di un'inchiesta? Stai sicuro che ti costringer, dal momento che costui me lo ordina; in considerazione di ci decidi tu cosa farai. Ma non resta nessuna decisione, dissi io, infatti se tu ti metti a fare qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sar capace di contrastarti. No, certo, ribatt: non opporti neppure tu. Allora non mi opporr, dissi io. Platone Carmide 1)  la lezione "ecomen" adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ men"). Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria Corinto, la quale annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di partecipare al governo della citt. Il rifiuto di Potidea alle richieste ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio della guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese guidato da Callia, dur dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide). Nell'Apologia Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedelt, da lui dimostrata sul campo a Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. Si tratta evidentemente di un istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinit ateniese, nel cui santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava probabilmente a sud dell'Acropoli. Cherefonte, del demo attico di Sfetto,  ricordato come amico di Socrate gi da Aristofane (Nubes) e da Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene esiliato dai Trenta Tiranni, rientra ad Atene, con Trasibulo. Nellanno dei processo e della morte di Socrate, Cherefonte era gi morto (cfr. Apologia Socratis). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il pi saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte, perdute tuttavia gi nell'antichit. Callescro era fratello di Glaucone, nonno materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente). Figlia di Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di Carmide, e figlio della cugina di Crizia. Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: su pietra bianca cordicella bianca. I carpentieri che normalmente usano per le misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca strumento non funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per questa sua tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide, come dimostreranno gi le prime battute sul suo arrivo, smanteller completamente questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di Crizia da Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era nonno di Carmide e del nostro Crizia (cfr. Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, e Proclo, In Platonis Timaeum, Dropide era fratello di Solone. Solone fu arconte ad Atene (Diogene Laerzio, (Aristotele, Respublica Atheniensium 1Abol i debiti e liber dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libert a coloro che, insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riform il sistema dei pesi e delle misure e introdusse una moneta pi leggera, con una svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene Laerzio), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da identificare col Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco, De facie in orbe lunae. Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle parti col tutto nell'organismo umano,  alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus Hippocraticum  compreso un trattato (Sul regime di vita. Divinit dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v. "Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto racconta che prima di essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libert, torn in Tracia, dove annunci ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare le analogie tra sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis  in realt vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R. Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Per il senso pi ampio da attribuire al termine greco "sophrosne" cfr. quanto osservato nella premessa al dialogo. Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore. Visse alla corte di Policrate d Samo (tiranno) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. Del Crizia antenato del Crizia del quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento Gentili- Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco, Pericles. Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni che probabilmente aveva portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito di Perictione, madre di Platone. Abari  sciamano e taumaturgo, che Erodoto definisce sacerdote di Apollo. Pindaro (frammento Bowra) lo assegna all'et di Creso. Di lui si raccontava che viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con s una freccia donatagli da Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese degli 13 Platone Carmide Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari, come Zalmoxis e Pitagora,  un altro esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente. Combattimento combinato di lotta ("ple"), e pugilato ("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario. Cfr. Platone, Euthydemus) Cfr. Odyssea. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che la definizione sia di Crizia  confermato dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce. Si tratta di una formula che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di ricerca della definizione ultima di "sophrosne". In Crizia la definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il settarismo esclusivista di una concezione di vita che sprofondava le sue radici nell'antica etica aristocratica (A. Battegazzore, in Sofisti. Testimonianze e frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze. Lo strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo l'olio e la sabbia. Probabilmente c' qui un riferimento polemico a Ippia di Elide (cfr. Hippias minor), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad Olimpia esib un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un mantello, e perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente realizzati da lui. Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che  invece implicita nel verbo "poieo", come anche nel verbo "rgazestai" 'lavorare', che Platone impiega qualche riga pi in basso (A. Braun, I verbi del fare nel greco, in Studi italiani di filologia classica. Esiodo, Opera et dies. La formulazione anticipa uno dei princpi del l'etica attivistica periclea, nel "manifesto" della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia greca. Linee di sviluppo dall'et micenea all'et romana, Bari-Roma; Idem Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma. Prodico d Ceo, sofista contemporaneo di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le "Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggi in molte citt greche come ambasciatore e spesso ad Atene, dove offriva ai giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilit di optare tra lezioni da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias maior. L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva probabilmente un significato religioso, di ammonimento al visitatore affinch ricordasse la sua condizione mortale. Cfr. Teognide. Proverbio cui fa riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino. Cfr. Platone, Gorgias) Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi (a Zeus Salvatore), il decisivo, perch decisivo ci si augura che sia il terzo tentativo di definizione della "sophrosne. Passo di difficile interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: se qualcosa  doppio di altri doppi e di se stesso, sarebbe doppio essendo quindi met sia di se stesso sia degli altri doppi, oppure come proposto nel testo. Cfr. Dunque soltanto l'assennato conoscer se stesso. Non  a mio parere necessario aggiungere al testo con il conoscere se stessi, coma propone Diano, n espungere, come fanno vari filologi, la parte finale della frase il sapere ci che si sa e il sapere ci che non si sa. Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36) Esclamazione che Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis Cfr. Omero, Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni veritieri inviati agli uomini dagli di, attraverso la porta di avorio passano invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa 'compimento', 'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges). I "pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi. Cfr.I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...). L'idea che i nomi siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina  ampiamente sviluppata nel Cratilo. E io, al sentire che approvava, ripresi coraggio. Il termine "ancrisis" appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare. Platone Liside Edizione a cura di Sanasi Platone Liside Platone LISIDE Percorrevo la strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia direttamente al Liceo. Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana di Panopo, l incontrai Ippotale, figlio di Ieronimo, Ctesippo del demo di Peania e altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena mi vide avvicinarmi, disse: Socrate, dove vai e da dove vieni? Dall'Accademia vado direttamente al Liceo, risposi io. Ma vieni qui, direttamente da noi. Perch non cambi strada? Ne vale la pena~ disse egli. Dove mi inviti e da chi di voi?, domandai io. Qui, rispose, mostrandomi un recinto davanti al muro e una porta aperta: qui passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani. Cos' questo luogo e come passate il tempo?  una palestra costruita da poco. Per lo pi passiamo il tempo in discussioni, di cui ti renderemmo volentieri partecipe, rispose. E fate bene: ma chi insegna qui?, domandai. Un tuo amico e ammiratore: Micco, rispose. Per Zeus, non  certo un uomo da poco, ma un valente sofista, osservai. Vuoi seguirci per vedere chi c' dentro?, chiese Ippotale. Prima ascolterei volentieri per quale motivo devo entrare e chi  il bello, chiesi a mia volta. Ognuno di noi la pensa diversamente, Socrate, rispose egli. Per te chi , Ippotale? Dimmelo. Interrogato su questo arross e io dissi: Ippotale, figlio di Ieronimo, non dirmi pi se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato, ma ti sei spinto molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non servo a molto, ma questo dono ho ricevuto dal dio, la capacit di capire subito chi ama e chi  amato. Udendo queste parole egli arross ancora di pi e Ctesippo disse:  bello che tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate quel nome; ma se egli si intrattiene anche poco con te, sar sfinito sentendotelo ripetere un numero infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e riempito le nostre orecchie con il nome di Liside: e se poi beve ci  facile, quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di Liside. E quanto dice a parole, anche se terribile, non  cos terribile come quando tenta di rovesciare su di noi poesie e prose. E ci che  ancora pi terribile  il fatto che canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce. Liside  un giovane, a quanto pare: lo intuisco dal fatto che sentendone il nome, non lo conosco, osservai. Infatti non lo chiamano molto con il suo nome ma  ancora chiamato con il nome del padre che  molto conosciuto, perci so bene che non puoi ignorare l'aspetto di quel ragazzo, poich  in grado di farsi notare solo per questo, disse. Mi si dica di chi  figlio, chiesi.  il figlio maggiore di Democrate del demo di Aissone disse. Bene, Ippotale, che amore nobile e giovane da ogni punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ci che mostrerai a costoro, perch io veda se sai ci che un innamorato deve dire del suo amato di fronte a lui stesso e agli altri, osservai. Ma Socrate, perch dai peso a come parla costui?, chiese Ippotale. Neghi di amare il giovane di cui costui parla?, domandai. No, ma nego di comporre poesie e prose per l'amato, rispose. Non sta bene, ma farnetica e delira, disse Ctesippo. Io chiesi: Ippotale, non ti chiedo di ascoltare qualche verso o qualche canto, se ne hai composti per il giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo ti comporti con l'amato. Te lo dir costui: infatti lo sa bene e se ne ricorda se, come afferma,  rimasto assordato a furia di ascoltarmi. Per gli di, me ne ricordo bene, poich sono cose ridicole, Socrate. Infatti esser innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in particolare senza sapergli dire nulla di ci che anche un bimbo non saprebbe dirgli, non  ridicolo? Ci che la citt tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i suoi antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di cavalli, le vittorie pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da corsa, questo egli compone e declama, e cose ancora pi antiche di queste. Ultimamente infatti ci raccontava in un poema l'ospitalit data a Eracle, cio che un loro antenato aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacch anche lui era nato da Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti, questi e molti altri simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo  ci che costui, dicendo e cantando, ci costringe ad ascoltare. Tali furono le parole di Ctesippo. E dopo aver udito ci, cos dissi: Ridicolo Ippotale, componi e canti un encomio indirizzato a te prima di aver vinto? Ma non  per me, Socrate, che io compongo e canto, ribatt. Tu credi di no, incalzai. Come stanno le cose?, chiese. Questi canti sono indirizzati a te pi che a tutti gli altri perch, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi canti saranno per te un onore e saranno realmente encomi per un vincitore, poich hai conquistato un tale amato; se invece ti sfugge, quanto pi ampi sono stati i tuoi elogi dell'amato, tanto pi apparirai ridicolo, privato di una conquista tanto importante. Dunque, amico, chi  sapiente in amore non loda l'amato prima di averlo conquistato, poich teme il futuro 2 Platone Liside e come andr a finire. Nel contempo i bell, quando qualcuno li loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia cos ? S , disse. E pi sono orgogliosi, non sono pi difficili da conquistare?  naturale. Come ti sembrerebbe un cacciatore se, cacciando, spaventasse e rendesse pi difficile da catturare la selvaggina? Evidentemente un inetto. Ed  una grande rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per inselvatichire: non  cos ? Mi pare di s . Bada allora di non procurarti tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io credo che tu non ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia sia un buon poeta, dal momento che arreca danno a se stesso. No, per Zeus, perch sarebbe del tutto privo di logica. Ma  per questo, Socrate, che ti consulto, e se puoi, consigliami quali parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare gradito all'amato, cos mi preg. Non  facile dirlo: ma se tu volessi farlo venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ci che bisogna dirgli al posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli rivolgi, dissi io. Ma non  difficile. Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere, credo che egli si avviciner a te - d'altronde  molto amante delle discussioni, Socrate, e inoltre, poich si celebra la festa di Ermes, (7) si sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si avviciner. E se ci non si verifica, egli  amico di Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, (8) di cui  il pi caro amico. Dunque che Ctesippo lo chiami, se non si avvicina da s, ribatt Ippotale. Bisogna fare cos , dissi. E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli altri ci seguirono. Entrati, trovammo l che i bambini avevano terminato i sacrifici, giocavano agli astragali, (9) poich la cerimonia era quasi finita, ed erano tutti ben vestiti. Dunque i pi giocavano fuori nel cortile, alcuni in un angolo dello spogliatoio giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno osservandoli. Tra di essi c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i bambini e i giovinetti e si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della sua fama di bel ragazzo, ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte sedendoci all'angolo opposto - infatti l c'era tranquillit - e ci mettemmo a discutere tra noi. Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era chiaro che desiderava avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava avvicinarsi da solo; poi dal cortile entr Menesseno in una pausa dal gioco e, non appena vide me e Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo, Liside lo segu e sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono e Ippotale, quando vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi dietro di loro, l dove pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di infastidirlo, e rest cos ad ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli chiesi: Figlio di Demofonte, chi di voi  pi grande d'et? Possiamo discuterne, rispose. E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due  pi nobile, dissi io. Certo rispose. E allo stesso modo su chi  pi bello, continuai. Entrambi risero. Io continuavo: Non domander chi di voi due  pi ricco perch siete amici. O no? E molto, dissero. Dunque si dice che le cose degli amici siano comuni, sicch in questo non sarete differenti, se dite la verit sulla vostra amicizia, dissi. Assentirono. Dopo questo scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due fosse pi giusto e pi sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare Menesseno, dicendo che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse celebrando un rito. Egli pertanto se ne and e io domandai a Liside: Liside, ti amano molto tuo padre e tua madre? Certo, rispose. Non vorrebbero dunque che tu fossi quanto mai felice? E come no? E ti sembra che sia felice un uomo che sia schiavo e non possa fare ci che desidera? Per Zeus, non mi sembra proprio, disse. Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia felice,  chiaro che si danno premura in ogni modo perch tu sia felice. Come no?, disse. Dunque ti permettono di fare ci che vuoi senza rimproverarti e impedirti di fare ci che desideri? No per Zeus, Socrate, mi impediscono moltissime cose. Come dici? Pur volendo che tu sia felice ti impediscono di fare ci che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi salire su uno dei carri di tuo padre prendendo le briglie, quando c' una gara, non te lo permetterebbero, anzi te lo impedirebbero?, domandai. Per Zeus, no che non lo permetterebbero, rispose. E a chi lo permetterebbero?, chiesi. C' un auriga che riceve da mio padre un compenso, fu la sua risposta. Come dici? Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli pi che a te, e per giunta lo pagano per questo? E allora?, domand. Ma, credo, affidano a te di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per batterli, lo permetterebbero. E come potrebbero mai permetterlo?, disse. E allora? Nessuno pu batterli?, obiettai. 3 Platone Liside Pu farlo il mulattiere, disse.  uno schiavo o un uomo libero? Uno schiavo, rispose. A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a te che sei loro figlio, preferiscono affidare pi a lui che a te le loro cose e gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano? Come, affidarmelo? chiese. Allora qualcuno ti guida? S, il pedagogo, rispose.  forse uno schiavo? E allora?  nostro, disse.  strano che, pur essendo libero, tu sia guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni questo pedagogo ti guida?, chiesi. Senza dubbio conducendomi dal maestro, rispose. E non  forse vero che anche i maestri ti comandano? Certo. Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E dunque, quando arrivi a casa da tua madre ella, perch tu sia felice, ti lascia fare ci che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo di toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione della lana. Ed egli ridendo disse: Per Zeus, Socrate, non solo me lo impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi. Per Eracle, hai forse fatto un torto a tuo padre o a tua madre? No, per Zeus, rispose. Ma in cambio di che ti impediscono in modo cos terribile di essere felice e di fare quello che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di qualcuno e, in una parola, senza che tu possa fare nulla di ci che desideri? Sicch, a quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che sono cos cospicue, ma tutti le governano pi di te, n tu governi il tuo corpo cos nobile, ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside, non comandi su nessuno e non fai nulla di ci che desideri. No, perch non ne ho ancora l'et, Socrate, disse. Figlio di Democrate, non  questo a impedirlo, perch c' almeno una cosa, come credo, che tuo padre e tua madre ti affidano e non aspettano che tu ne abbia l'et. Infatti quando vogliono che sia letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo, il primo in casa cui commissionano questo compito. O no? Certo, rispose. Dunque in questo caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e cos pure capita per la lettura. E se prendi la lira, come credo, n tuo padre n tua madre ti impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di farla vibrare con il plettro. O te lo impediscono? No di certo. Dunque, Liside, quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa? Credo perch queste cose le conosco e quelle no, disse. Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta l'et per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considerer pi saggio di lui, allora ti affider se stesso e quanto possiede, osservai. Lo credo, disse. E sia: allora? Il tuo vicino non seguir nei tuoi confronti la stessa regola di tuo padre? Credi che ti affider la propria casa da amministrare quando ti riterr pi saggio di lui nell'amministrazione di una casa o la diriger lui stesso?, continuai. Credo che l'affider a me. E allora? Credi che gli Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si renderanno conto che sei abbastanza saggio? S . Per Zeus, e il Gran Re? Preferirebbe affidare al proprio figlio maggiore, a cui spetta il regno dell'Asia, l'incarico di mettere quello che vuole nel brodo, mentre la carne cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo di essere pi bravi di suo figlio nella preparazione del cibo? A noi,  chiaro, rispose. E a suo figlio non permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi, anche se volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe. E come no? E se suo figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo ritenesse un medico, o glielo impedirebbe? Glielo impedirebbe. Se invece ritenesse noi esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerli di cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti. Dici il vero. E allora non affiderebbe anche a noi pi che a se stesso e al proprio figlio tutto il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi pi sapienti di loro? Necessariamente, Socrate, rispose. Dunque  cos, caro Liside: le cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano, Elleni e barbari, uomini e donne, e in esse faremo ci che vogliamo e nessuno deliberatamente ce lo impedir, ma in esse saremo liberi, comanderemo sugli altri, saranno cose nostre e quindi ne trarremo vantaggi. Invece le cose nelle quali non saremo abili nessuno ce le affider per farne quel che ci pare, ma tutti ce lo impediranno per quanto possono, non solo gli estranei ma anche nostro padre, nostra madre e coloro che ci sono ancora pi vicini, e in esse dipenderemo dagli altri e ci saranno estranee, poich non ne trarremo guadagno alcuno. Sei d'accordo che la questione stia in questi termini? Sono d'accordo. Dunque allora saremo amici di qualcuno e qualcuno ci amer in relazione a ci in cui non potremo essere di utilit alcuna? No di certo, rispose. Dunque ora n tuo padre ama te, n un altro amer chi  inutile. Cos pare, disse. Se dunque diventi sapiente, ragazzo, tutti ti saranno amici e intimi - perch sarai utile e buono - altrimenti nessun altro, 4 Platone Liside nemmeno tuo padre, tua madre e i parenti ti saranno amici. Pertanto, Liside,  possibile essere orgogliosi di s nelle cose in cui non si sa ancora pensare? E come potrebbe essere?, chiese. E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora pensare. Dici il vero. Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se sei ancora privo di pensiero. Per Zeus, Socrate, non mi sembra, disse. Io, dopo averlo ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco manc che non commettessi un grande errore, poich mi venne da dire: Cos, Ippotale, bisogna parlare all'amato, umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu, insuperbendolo e blandendolo. Per, vedendolo in ansia e turbato da ci che si diceva, mi ricotdai che voleva assistere senza che Liside se ne accorgesse, quindi mi ripresi e mi trattenni dal rivolgergli la parola. A questo punto ritorn Menesseno e si sedette accanto a Liside, nel posto da cui si era alzato. Liside allora, in modo molto fanciullesco e amichevole, di nascosto a Menesseno mi disse a voce bassa: Socrate, di' anche a Menesseno ci che dicevi a me poco fa. E io risposi: Glielo dirai tu, Liside, giacch hai prestato molta attenzione. Certo, disse. Dunque prova a ricordartelo nel modo migliore possibile, per riferirgli tutto per filo e per segno. Ma se qualcosa ti sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi incontri continuai io. Lo far, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma digli qualcos'altro, perch io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di tornare a casa, disse. Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di venirmi in aiuto, se Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che  un eristico?, chiesi io. S, per Zeus, e anche abile: per questo voglio che tu discuta con lui, rispose. Per rendermi ridicolo?, domandai. No, per Zeus, ma per dargli una lezione, rispose. E come? Non  facile, poich  un uomo abile, allievo di Ctesippo. Ma c' anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo, notai. Non preoccuparti di nessuno, Socrate, ma su, discuti con lui, disse. Bisogna discutere, cos dissi. Dunque, mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese: Perch conversate soltanto voi due e non ci coinvolgete nella discussione? Ma certo, partecipate pure. Costui infatti non comprende nulla di ci che dico, ma afferma che Menesseno crede di saperlo e mi ordina di interrogare lui, dissi io. E allora perch non lo interroghi?, chiese Ctesippo. Io risposi: Lo interrogher. Menesseno, rispondi a ci che ti chiedo. Fin da ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera un'altra; uno desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e il gallo pi belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane - e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che l'oro di Dario, anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia. Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici perch, pur essendo cos giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con facilit questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te. E dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama di colui che  amato o chi  amato di colui che ama? O non c' alcuna differenza? A me pare che non ci sia nessuna differenza, rispose. Come dici? Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno dell'altro?, chiesi io. Io la penso cos , rispose. E allora? Non  possibile che chi ama non venga ricambiato da colui che egli ama?  possibile. E allora?  dunque possibile che chi ama sia odiato? Talvolta, ad esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro amati: infatti, pur amando quanto di pi non potrebbero, alcuni credono di non essere ricambiati, altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia vero?  del tutto vero, rispose. Dunque in questo caso uno ama e l'altro  amato?, chiesi. S . Chi dei due quindi  amico dell'altro? Chi ama di colui che  amato, sia nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi  amato di colui che ama? O in tal caso nessuno dei due  amico dell'altro, dato che entrambi non si amano a vicenda? Sembra proprio cos . Dunque ci che pensiamo ora  diverso da quanto pensavamo in precedenza: allora pensavamo che se uno dei due prova amore, entrambi sono amici, ora invece pensiamo che nessuno dei due sia amico dell'altro, se non sono entrambi a provare amore.  probabile, disse. Dunque per chi ama non c' amicizia se non  ricambiato. No, pare. Quindi non sono amanti dei cavalli quelli che non sono amati dai cavalli, n amici delle quaglie, dei cani o del vino o 5 Platone Liside della ginnastica o della sapienza, se la sapienza non li ama. O ciascuno ama comunque queste cose che non gli sono amiche e allora il poeta che disse: "Fortunato chi ha per amici dei fanciulli e cavalli solidunguli e cani da caccia e un ospite di terra lontana" mentiva? Non mi sembra, rispose. Ti sembra che il poeta dica il vero? S . Allora, a quanto pare, ci che  amato  amico di ci che lo ama, Menesseno, sia nel caso in cui ami sia in quello in cui odi; per esempio, anche tra i bambini piccoli, alcuni non amano ancora, altri gi odiano, quando vengono puniti dalla madre o dal padre; tuttavia, anche nel caso in cui provino odio, sono quanto di pi caro i loro genitori hanno. A me pare che sta cos , disse. Dunque ne consegue da questo ragionamento che amico non  chi ama ma chi  amato. Sembra.  dunque nemico chi  odiato e non chi odia. Cos pare. Quindi molti sono amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici degli amici, se amico  ci che  amato e non ci che ama. Eppure, caro amico,  del tutto privo di logica, anzi credo che sia impossibile essere nemico dell'amico e amico del nemico. Mi sembra che tu dica la verit, Socrate, disse. Dunque se questo  impossibile, ci che ama sarebbe amico di ci che  amato. Cos sembra, disse. E quindi ci che odia sarebbe nemico di ci che  odiato. Di necessit. Pertanto risulter necessario arrivare alle stesse conclusioni di prima, cio che spesso si  amici di coloro che non lo sono e spesso addirittura di coloro che sono nemici, quando si ama senza essere ricambiati o quando si ama chi invece nutre odio, e che spesso si  nemici di coloro che non lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a sua volta non odia o addirittura nutre amore.  probabile, disse. Dunque come ci comporteremo se amici non saranno n quelli che amano n quelli che sono amati n quelli che nel contempo amano e sono amati? Diremo che oltre a questi casi vi sono ancora persone amiche tra loro?, domandai. No, per Zeus, Socrate, non  affatto facile risolvere bene la questione, disse. Forse allora non abbiamo condotto la ricerca in modo del tutto corretto?, chiesi. Non mi pare, Socrate, disse Liside, e mentre parlava arross, infatti mi sembr che quelle parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse. Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: Liside, mi sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo pi per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza, dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri. Dicono all'incirca cos, credo: "il dio conduce sempre il simile verso il simile" e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi? S , rispose. E non hai letto gli scritti dei pi sapienti che dicono le stesse cose, cio che  giocoforza che il simile sia sempre amico del simile? Costoro sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto. Dici il vero. Dunque dicono bene?, chiesi. Probabilmente, rispose. Continuai: Probabilmente a met o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra che il malvagio, quanto pi si avvicina e frequenta il malvagio, tanto pi ne diventi nemico, poich commette ingiustizia, ed  impossibile che chi commette ingiustizia e chi la subisce siano amici. Non  cos ? S , rispose. In questo modo, dunque, la met di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono simili tra loro. Dici il vero. Ma credo che essi vogliano dire che i buoni sono simili tra loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di loro, non sono mai simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili, e ci che  dissimile e diverso da se stesso, difficilmente potrebbe essere simile o amico di altro. O non ti sembra cos ? S , disse. Quindi, mi pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il simile  amico del simile, cio che solo il buono  amico unicamente del buono, mentre il cattivo non  mai veramente amico n del buono n del cattivo. Sei d'accordo?. Annu . Dunque ormai sappiamo chi sono gli amici: il ragionamento ci indica che sono i buoni. Mi sembra che sia proprio cos , disse. Continuai: Anche a me. Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per Zeus, vediamo in cosa consiste il mio sospetto. Il simile, in quanto simile,  amico del simile, e come tale  utile all'altro che  tale? O meglio: una qualunque cosa simile quale utilit o quale danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che anche questa non possa comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non possa subire anche per opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi reciprocamente, se non ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra?  possibile? Non lo . E ci che non  amato, come pu essere amico? In nessun modo. Allora il simile non  amico del simile e il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe amico del buono? Forse. 6 Platone Liside E allora? Il buono in quanto buono non sarebbe sufficiente in quanto tale a se stesso? S . E chi  autosufficiente, nella misura della propria autosufficienza, non ha bisogno di nulla. E come no? E chi non ha bisogno di nulla, a nulla aspira. Certo che no. E colui che non desidera nulla, neppure ama. No. E chi non ama non  un amico. Pare di no. Dunque i buoni come saranno fin da principio amici dei buoni, se quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti anche quando sono separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non hanno un'utilit reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente? Nessuno, rispose. E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a vicenda. Dici il vero. Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque ci siamo completamente ingannati? Come?, chiese. Ho gi sentito dire una volta da uno, e adesso me ne ricordo, che il simile  assai ostile al simile e i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo, dicendo: "il vasaio odia il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante odia il mendicante". E quanto al resto diceva che giocoforza le cose pi simili sono piene di invidia, rivalit e ostilit reciproca, mentre quelle pi dissimili sono le pi propense all'amicizia: infatti il povero  costretto a essere amico del ricco, il debole del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora pi convincente, dicendo che il simile  assai lontano dall'essere amico del simile, anzi sarebbe proprio il contrario, dal momento che l'opposto  amico soprattutto del suo opposto, poich ogni cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco desidera l'umido, il freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il pieno il vuoto e cos via, secondo il medesimo rapporto. Il contrario infatti  nutrimento per il contrario, mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio, dicendo questo sembrava un tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come sembra che parli?, chiesi. Bene, almeno a sentirlo cos , rispose Menesseno. Dunque dobbiamo dire che il contrario  soprattutto amico di ci che a lui contrario? Certo. Bene: ma non  strano, Menesseno? E soddisfatti ci assaliranno subito questi pozzi di sapienza, gli antilogici, e ci domanderanno se l'odio non sia quanto di pi contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo loro? Non dobbiamo per forza ammettere che dicono la verit?, chiesi. Per forza. E dunque, diranno, ci che  nemico  amico di ci che  amico o amico di ci che  nemico? N l'una n l'altra cosa rispose. Ci che  giusto di ci che  ingiusto, ci che  saggio di ci che  intemperante, ci che  buono di ci che  cattivo? Non credo che le cose stiano cos . Io dissi: E tuttavia se una cosa  amica di un'altra in base alla contrariet,  necessario che anche queste cose siano amiche. Di necessit. Dunque n il simile  amico del simile n il contrario  amico del contrario. Pare di no. Esaminiamo ancora questo punto: a noi non sfugge pi il fatto che l'amicizia non  veramente nulla di tutto questo, ma  ci che non  n buono n cattivo che diventa cos amico del buono. Come dici?, chiese. Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le vertigini per la difficolt del ragionamento e forse, secondo l'antico proverbio, ci che  amico  il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via facilmente, poich  tale. Dico infatti che il buono  bello. Non credi? S . Dico dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono  ci che non  n buono n cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che ci siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ci che non  n buono n cattivo. E a te? Anche a me, disse. E che n il buono sia amico del buono n il cattivo del cattivo n il buono del cattivo, come neppure il ragionamento precedente consente. Resta allora che, se una cosa  amica di un'altra, ci che non  n buono n cattivo sta amico o del buono o di ci che  tale quale esso , cio n buono n cattivo, perch una cosa non potrebbe essere amica del cattivo. Dici il vero. N il simile del simile, dicevamo poco fa: non  cos ? S . Dunque ci che  tale e quale ad esso non sar amico n del buono n del cattivo. Pare di no. Quindi ne risulta che solo al buono  amico unicamente ci che non  n buono n cattivo. Pare debba essere cos . Ragazzi, dissi, ci guida bene ci che si  detto ora? Se vogliamo considerare il corpo sano, esso non ha affatto bisogno della medicina n di un aiuto, infatti  autosufficiente, sicch nessuno, quando sta bene,  amico del medico, considerata la sua buona salute. O non  cos ? S, nessuno. Invece il malato, credo, lo  a causa della malattia. Platone Liside E come no? Dunque la malattia  un male, mentre la medicina  cosa utile e buona. S . E il corpo in quanto corpo non  n buono n cattivo.  cos . Il corpo  costretto dalla malattia ad accettare e amare la medicina. Cos la penso. Quindi ci che non  n cattivo n buono diviene amico del buono per la presenza di un male? A quanto pare. Ma  chiaro che ci avviene prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perch una volta diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne amico, dato che dicevamo che  impossibile che il cattivo sia amico del buono. Infatti  impossibile. Esaminate ci che dico: dico infatti che alcune cose sono determinate da ci che  presente in esse e altre no: per esempio, se qualcuno volesse spalmare di colore una cosa qualsiasi, ci che  spalmato  presente su ci su cui  spalmato. Certo. E allora ci su cui  spalmato  tale nel colore quale ci che vi si trova sopra? Non capisco, disse. Pensala cos , dissi: se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che sono biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi? Lo sembrerebbero, rispose. Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza. S . E tuttavia non sarebbero pi bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la bianchezza, non sarebbero n bianchi n neri.  vero. Ma quando, amico mio, la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora diventerebbero come ci che  presente in essi, cio bianchi per la presenza del bianco. E come potrebbe non essere cos ? Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne  presente un'altra, quella che la possiede sar come quella che vi  presente o lo sar se quella  presente in un certo modo, altrimenti no?  cos, piuttosto, rispose. E dunque ci che non  n cattivo n buono, quando  presente un male, talvolta non  ancora cattivo, ma lo  quando ormai  diventato tale. Certo. Dunque, quando pur essendo presente un male, esso non  ancora cattivo, questa presenza gli fa desiderare il bene, quando invece lo rende cattivo, lo priva anche del desiderio e dell'amore per il bene. Infatti non  pi n cattivo n buono, ma cattivo, e il cattivo non  amico del buono, dicevamo. No, infatti. Per questo potremmo dire che anche quelli che sono gi sapienti non amano pi la sapienza, siano essi di o uomini. N d'altra parte amano la sapienza coloro che hanno un'ignoranza tale che li rende cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e ignorante ama la sapienza. Restano quelli che hanno questo male, l'ignoranza, ma non sono ancora diventati privi di senno e ignoranti per opera sua e ammettono ancora di non sapere ci che non sanno. Perci sono amanti della sapienza quelli che non sono ancora n buoni n cattivi, in quanto i cattivi non amano la sapienza n lo fanno i buoni, infatti nei ragionamenti precedenti ci  apparso che n il contrario  amico del contrario, n il simile del simile. O non ricordate? Certo, risposero. Ora dunque, Liside e Menesseno, dissi, abbiamo trovato fra tutte le cose ci che  amico e ci che non lo . Infatti diciamo che sia che si tratti dell'anima, sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ci che non  n buono n cattivo  amico del bene per la presenza del male. Entrambi furono assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse cos . Anch'io ero molto contento, come un cacciatore che  felice di ci che ha cacciato, ma poi, non so come, mi venne lo stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre conclusioni e subito dissi crucciato: Ahim, Liside e Menesseno, forse  un sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza. Perch?, chiese Menesseno. Temo, dissi io, che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani. Come?, chiese. Procediamo cos nel ragionamento, dissi io: chi  amico  amico di qualcuno o no? Per forza, rispose. Dunque lo  senza nessuno scopo e senza nessuna causa o per qualche scopo e per qualche causa? Per qualche scopo e a causa di qualcosa. E quella cosa in vista della quale l'amico  amico dell'amico,  amica anch'essa o non  n amica n nemica? Non ti seguo del tutto, rispose.  naturale, dissi, ma forse cos mi seguirai e, credo, anche io sapr meglio ci che dico. Il malato, dicevamo poco fa,  amico del medico; non  cos ? S . E dunque  amico del medico a causa della malattia e in vista della salute da riacquistare? S . E la malattia  un male? E come potrebbe non esserlo? E la salute, chiedevo,  un bene o un male o non  nessuna delle due cose?  un bene, rispose. 8 Platone Liside Dicevamo dunque che, a quanto sembra, il corpo che non  n buono n cattivo, a causa della malattia, cio a causa del male,  amico della medicina, e la medicina  un bene; e la medicina ottiene l'amicizia in vista della salute, e la salute  un bene. Non  cos ? S . E la salute  una cosa amica o no?  una cosa amica. E la malattia  una cosa nemica. Certo. Dunque ci che non  n cattivo n buono, a causa di ci che  cattivo e nemico,  amico del bene in vista di ci che  buono e amico. Sembra. Dunque ci che  amico  amico in vista di ci che  amico e a causa di ci che  nemico. Cos pare. Bene, dissi: dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo attenzione a non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ci che  amico sia diventato amico di ci che  amico e che il simile sia amico del simile - cosa, questa, che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a questo, che non ci inganni ci che ora  stato detto. La medicina, diciamo,  una cosa amica in vista della salute. S . Dunque anche la salute  cosa amica? Certo. Se dunque  amica, lo  in vista di qualcosa. S. Di una cosa amica, se sar la conseguenza dell'ammissione precedente. Certo. Dunque anche ci sar cosa a sua volta amica in vista di una cosa amica? S . Quindi non  necessario che rinunciamo a procedere cos o arriviamo a un principio che non si riferir pi a un'altra cosa amica, ma giunger a quella che  la prima cosa amica in vista della quale diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche?  necessario. Questo  ci che voglio dire: badiamo al fatto che non ci ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di quella prima cosa che  veramente amica. Infatti riflettiamo in questo modo: quando qualcuno tiene qualcosa in grande considerazione, ad esempio in taluni casi un padre che antepone suo figlio a tutti gli altri beni, egli che  tale da considerare suo figlio pi importante di tutto, non apprezzer forse molto anche qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha bevuto la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo ritenesse utile per salvare il figlio? S, certo. E allora?, domand. Dunque apprezzerebbe anche il recipiente in cui ci fosse quel vino? Certo. E allora non tiene forse in maggior considerazione una tazza d'argilla rispetto a suo figlio o tre cotile di vino pi di suo figlio? O le cose forse stanno cos : tutta la sua attenzione non  rivolta a questi oggetti predisposti in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono tutti predisposti. Nonch spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar gento, ma forse la verit non  per niente questa, e ci che teniamo in grande considerazione  quello che appare come ci in vista del quale si predispongono l'oro e ogni altro oggetto. Diremo dunque cos ? Certo. E dunque lo stesso ragionamento non vale anche per ci che  amico? Infatti quando definiamo cose amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra cosa amica, ci riferiamo a esse evidentemente con una parola sola; ma  probabile che veramente amica sia proprio quella mta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie. Probabilmente  cos , disse. Dunque ci che  realmente amico non lo  in vista di un'altra cosa?  vero. Ci siamo sbarazzati anche di questo problema: l'amico  amico ma non in vista di una cosa amica. Ma dunque il bene  ci che  amico? A me pare di s . Quindi allora il bene  amato a causa del male, e le cose stanno cos : se delle tre categorie che enumeravamo poco fa, cio il buono, il cattivo e ci che non  n buono n cattivo ne fossero conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non si attaccasse a nulla, n al corpo, n all'anima n alle altre cose che diciamo non essere in s n cattive n buone, allora il bene non ci sarebbe per niente utile ma sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse pi danneggiare, non avremmo bisogno di alcun aiuto e cos diventerebbe chiaro che accoglievamo e amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male e il male una malattia: ma se non c' la malattia, non c' nemmeno bisogno di una medicina. Dunque il bene  cos per sua natura e a causa del male esso  amato da noi, che siamo a met tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha alcuna utilit? Sembra che sia cos , rispose. Dunque quella mta per noi amica, alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle erano amiche in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti queste sono chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia sembra essere per natura tutto il contrario di questo, poich ci  parso che ci che  amico lo sia a causa di ci che  nemico, ma se ci che  nemico si allontana, non ci  pi amico, a quanto pare. Mi pare di no, in base a quello che ora si  detto, rispose. Per Zeus!, dissi io. Se il male sparisce, non ci sar n fame n sete n altri mali simili? O la fame ci sar, se ci sono gli uomini e gli altri esseri viventi, ma non sar dannosa? E la sete e gli altri desideri ci saranno, ma non saranno cattivi, Platone Liside poich il male  scomparso? O  ridicolo chiedersi cosa ci sar o non ci sar allora? Infatti chi pu saperlo? Ma questo dunque sappiamo, che avere fame pu essere ora dannoso, ora utile, o no? Certo. Dunque avere sete e tutti gli altri desideri di questo genere talvolta possono essere utili, talvolta dannosi e talvolta n l'uno n l'altro? Certo. Pertanto se i mali spariscono, perch devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali? Per nessun motive. Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non sono n buoni n cattivi. Sembra. E dunque possibile che chi desidera e ama non sia amico di chi desidera e ama? Non mi sembra. Dunque, a quanto pare, ci saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono. S . E se il male fosse causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere amica di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che esistesse ancora ci di cui questa era la causa. Dici bene. Dunque noi avevamo convenuto che ci che  amico ama qualcosa e a causa di qualcosa: e allora non avevamo creduto che ci che non  n buono n cattivo amasse il bene a causa del male?  vero. Ora, invece, a quanto pare, sembra essere altra la causa dell'amare e dell'essere amato. A quanto pare. Dunque realmente, come dicevamo poco fa, il desiderio  causa dell'amicizia, e ci che desidera  amico di ci che  desiderato, quando lo desidera, mentre ci che prima dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo elaborato poema? Forse, disse. Tuttavia, dissi, ci che desidera desidera ci di cui  privo, o non  cos ? S . E quindi ci che  mancante  amico d ci che manca? Cos credo. Ed  privo di ci che gli  stato eventualmente sottratto. E come no? Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia e il desiderio lo sono di ci che  proprio, come sembra, Menesseno e Liside. Assentirono. Se voi dunque siete amici uno dell'altro, per natura siete in un certo qual modo affini l'uno all'altro. Esattamente, dissero. E se pertanto uno desidera o ama l'altro, ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo n amarlo n essergli amico, se non fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra altra attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto, dissi io. Certo, disse Menesseno, mentre Liside taceva. Bene!, dissi: a noi  parso che sia necessario amare ci che  affine per natura. A quanto pare, disse. Dunque  necessario per l'amante reale e non fittizio essere ricambiato dal suo amato. Liside e Menesseno assentirono anche se a stento, mentre Ippotale diventava d tutti i colori per il piacere. E io, volendo esaminare il ragionamento, dissi: Se ci che  affine  differente in qualcosa da ci che  simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire dell'amicizia ci che essa ; se invece simile e affine sono identici, non sar facile respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile  inutile al simile in virt della somiglianza: ma  assurdo ammettere che l'inutile sia amico. Dunque, dissi, dato che siamo come ubriachi per il ragionamento, volete che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine  diverso dal simile? Certo. Quindi stabiliremo che il bene  affine a ogni cosa e il male  estraneo a tutto? O che il male  affine al male, il bene al bene e ci che non  n bene n male a ci che non  n bene n male? Risposero che secondo loro ogni cosa  affine a ci che le  corrispondente. Dunque, ragazzi, dissi, siamo caduti d nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo respinto: infatti l'ingiusto sar amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo non meno che il buono del buono. Pare di s , rispose. E allora? Diciamo che il buono e l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il buono  amico del buono? Certo. Ma anche su questo punto credevamo di poter essere confutati; o non ricordate? Ricordiamo. Dunque cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O  evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ci che si  detto. Se infatti n gli amati n gli amanti, n i simili n i dissimili, n i buoni, n gli affini, n tutte le altre condizioni che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero - se nulla di ci  amico, non so pi cosa dire. Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella discussione qualcun altro dei pi anziani, ma allora, come dmoni, si avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poich era gi tardi. Dapprima noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poich non si curavano affatto di noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si allontanavano, io dissi: Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io, un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di 10 Platone Liside essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non siamo stati ancora capaci di trovare cos' l'amico. Platone Liside Giardino e ginnasio a nord di Atene, dove Platone fonda la sua scuola. Ginnasio presso il tempio di Apollo, a nord-est di Atene. Sembra assai improbabile che sia il discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Ctesippo, che non  l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo di Socrate presente alla morte del maestro,  uno degli interlocutori dell'Eutidemo. Di costui nulla si sa. Le Pitiche erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni quattro anni; le Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. Ermes era il dio patrono dei ginnasi e delle palestre.  il protagonista dell'omonimo dialogo platonico. Gli astragali sono una sorta di dadi. Il pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli del padrone. Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca. L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva raggiungere risultati contraddittori tra loro. Entrambi uccelli addestrati per il combattimento. Dario, il ricchissimo re dei Persiani tenta l'invasione della Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona. Si tratta di un frammento di Solone (Gentili-Prato). Omero, Odyssea Esiodo, Opera et dies Gli antilogici erano coloro che teorizzavano e praticavano la possibilit di contraddire ogni argomentazione e ogni ragionamento. La cotila  un'unit di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro. Nome compiuto: Marsilio Ficino. Ficino. Keywords: desire, love, beauty, il bello, amore, cupido, desiderio, platonismo, walter pater  Plathegel e Ariskant, sensibile, percezione, I platonisti fisiologia dellamore, convito di Platone, amore platonico, amore socratico, dottrina dellamore, I dialoghi dellamore di Platone: Fedro, Convito -- --. Refs.: Ficinos Commentaries on Plato, Tatti -- Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Grice e Ficino," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, e Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; osia, Grice e Fidanza: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Bagnoregio – filosofia viterbiana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoregio). Filosofo viterbiano. Filosofo lazioo. Filosofo italiano. Bagnoregio, Viterbo, Lazio. Grice: “Italians call Fidanza an ‘anti-dialectician’ but then they have Aquinas, who is an hypoer-dialectiician!” essential Italian philosopher. Figlio di Giovanni di Fidanza, medico, e di Rita.  Inizia i suoi studi al convento di San Francesco "vecchio". Si recò a Parigi a studiare nella facoltà delle Arti. Ddvenne maestro e ottiene la licenza d'insegnare. Francesco predica agli uccelli.   Intervenne nelle lotte contro l'aristotelismo. Attacca quelli che erano a suo parere gli errori dell'aristotelismo. Morì a causa di un avvelenamento. è considerato uno dei filosofi maggiori, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e propria scuola di filosofia. Combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne acquisì alcuni concetti, fondamentali. Inoltre valorizza alcune tesi del platonismo. La distinzione della filosofia in ‘filosofia naturale’ (res) (fisica, matematica, meccanica), filosofia razionale (signa, segni) (logica, retorica, grammatica) e filosofia morale (azione) (politica, monastica, economica) riflette la distinzione di res, signa ed actiones -- la cui verticalità non è altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La parzialità delle arti è non altro che il rifrangersi della luce con la quale Dio illumina il mondo. Nel paradiso, Adamo sapeva leggere indirettamente Dio nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa capacità.  Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti smarrirebbe se stessa nell'auto-referenzialità. L’intelletto agente è capace di comprendere la verità inviata dall'intelletto passivo. Nel “Itinerario della mente" spiega che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana, e può farlo riportando l'uomo all'anima. La "scala" dei 3 gradi e un “primo grado” esteriore, è necessario prima considerare il corpo. L’anima ha anche tre diverse direzioni. La prima direzione si riferisce al corpo, e la sensibilità o animalita. La seconda direzione dell’anima ha per oggetto lo spirito, rivolto in sé e a sé. La terza direzione ha per oggetto la “mente” -- che si eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a elevarsi a Dio, perché ami Dio con tutto il corpo, l’anima, e la mente. La sinderesi è la disposizione pratica al bene. Cf. Moore – ‘external world’ – mondo del corpore. Tre modi. Il primo modo e il vestigium (vestigio) o improntum. Il secondo modo e l’immagine, che si trova solo nell’uomo, l’unica creatura dotata d'intelletto, in cui risplendono la memoria, l’intelligenza e la volontà. Il terzo modo e la “similitudine”, che è qualità propria di una buona persona, una creature giusta, animata di benevolenza e carità. La natura e un segno sensibile. «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre.»  (Lc). The stones will shout. The shout of the stone MEANS that thou shalt be benevolent. Una creatura, dunque,  e una impronta o vestigio, una immagine, una similitudine (Per Lombardo, ‘imago e similitude’ is redundant). La pietra "grida" – la pietra e una impronta – la pietra significa – la pietra segna che p.  Altre saggi: “Breviloquio; Raccolte su dieci precetti; Raccolte sui sette doni dello Spirito Santo; Raccolte nei Sei Giorni della Creazione, Commentari in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo, Il mistero della Trinità; questione disputata, La perfezione della vita alle sorelle, La riduzione della arti alla teologia), Il Regno di Dio descritto nelle parabole evangeliche, La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità, Le sei ali dei Serafini, La triplice via, Itinerario della mente verso Dio, La leggenda maggiore di San Francesco, La leggenda minore di San Francesco, L'Albero della vita, L'Ufficio della passione del Signore, Questioni sopra la perfezione evangelica, Soliloquio, Complesso di teologia, La vite mistica. Eletto Ramacci, F. e il Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, Oggi del convento restano solo i ruderi. Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei Minori, in Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino, Einaudi, G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone” (Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione di Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino, Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo, Tip.Camera dei Deputati, Roma, Pinzi parla dettagliatamente degli interventi di Bonaventura a Viterbo in occasione del Conclave e dell'amicizia con Gregorio X.  Testi: Bonaventura da Bagnorea presunto, Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, Legenda maior, Milano, Ulrich Scinzenzeler, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, F., Commentaria in libros sententiarum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Commentaria in libros sententiarum,  Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent,  Studi Bettoni E., S. Vita e Pensiero, Milano, Bougerol J.G., Introduzione a F., trad. it. di A. Calufetti, L.I.E.F., Vicenza, Corvino F., F. francescano e filosofia, Città Nuova, Roma, Cuttini E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della “mens” in Fidanza. Rubbettino, Soveria Mannelli, Maio, Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al pensiero e al lessico di F., Aracne, Roma, Barbara Faes, da Bagnoregio, Biblioteca Francescana, Milano, Mathieu V., La Trinità creatrice secondo F. Biblioteca francescana, Milano. Moretti Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma, Ramacci Eletto, F. e il Santo Braccio, Associazione Organum, Bagnoregio, Todisco O., Le creature e le parole in sant'Agostino e san Bonaventura, Anicia, Roma, Vanni Rovighi S., Vita e Pensiero, Milano); Raoul Manselli,  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Emiliano Ramacci, Un Inno, Associazione Organum, Bagnoregio, Emiliano Ramacci. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Bonaventura da Bagnoregio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. F. su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  F. su ALCUIN, Ratisbona. Opere. Audiolibri di F. su LibriVox. F., su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Biografia di San Francesco d'Assisi, su assisiofm. scritta da F.  Itinerario della mente in Dio, su lamelagrana.net.  Itinerarium mentis in Deum, Peltiero Edente, su documenta catholicaomnia. eu.  F. su dionysiana.wordpress.com. L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di Quaracchi Salvador Miranda. Trinità (cristianesimo) dottrina centrale delle più diffuse Chiese cristiane Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Santissima Trinità" rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Santissima Trinità (disambigua). Santissima Trinità Masaccio La Trinità di Masaccio   Dio, uno e trino    Attributi Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo La Trinità è la dottrina fondamentale e più importante delle chiese cristiane, quali la cattolica e quelle ortodosse, oltre che delle Chiese riformate storiche come quella luterana, quella calvinista e quella anglicana. Tale dottrina non viene comunque presentata in modo univoco. Icona rappresentante i tre angeli ospitati da Abramo a Mambre, allegoria della Trinità. Dipinta dal monaco-pittore russo A. Rublëv e conservata a Mosca, Galleria Tret'jakov.  Schema della relazione trinitaria fra Padre, Figlio e Spirito Santo secondo le chiese cristiane di origine latina come la Chiesa cattolica. DescrizioneModifica La dottrina si è precisata nell'ambito del Cristianesimo antico: prima nel credo del primo concilio di Nicea, poi nel Simbolo niceno-costantinopolitano, dove venne affermato come primo articolo di fede l'unicità di Dio e, come secondo, la divinità di Gesù Cristo figlio di Dio e Signore, a seguito, tra le altre, della controversia suscitata dal teologo Ario, che negava quest'ultima.  Il dogma della "trinità" è in relazione alla natura divina: esso afferma che Dio è uno solo, unica e assolutamente semplice è la sua "sostanza", ma comune a tre "persone" (o "ipòstasi") della stessa numerica sostanza (consustanziali) e distinte. Ciò è stato anche interpretato come se esistessero tre divinità (politeismo) o come se le tre "persone" fossero solo tre aspetti di una medesima divinità (per il modalismo semplici energie o modi di apparire della Divinità). Le tre "persone" (o, secondo il linguaggiomutuato dalla tradizione greca, "ipòstasi") vengono d'altra parte tradizionalmente intese come distinte ma della stessa sostanza di Dio:  Dio Padre, creatore del cielo e della terra, Padre trascendente e celeste del mondo. il Figlio: generato dal Padre prima di tutti i secoli, fatto uomo come Gesù Cristo nel seno della Vergine Maria, il Redentore del mondo. lo Spirito Santo che il Padre e il Figlio mandano ai discepoli di Gesù per far loro comprendere e testimoniare le verità rivelate. Nella dottrina trinitaria il Dio di Israele Yahwehracchiude tutta la Trinità ed è quindi Padre Figlio e Spirito Santo. Al mistero della SS. Trinità[Nota 4] è dedicata, nella Chiesa cattolica, la Solennità della Santissima Trinità, che ricorre ogni anno, la domenica successiva alla Pentecoste.  La dottrina trinitaria è stata accolta dalla maggior parte dei Protestanti, particolarmente dal protestantesimo storico (di cui fanno parte fra gli altri il luteranesimo e il calvinismo).  Origine del termine e della nozioneModifica Il termine "trinità" deriva dal latino trīnĭtas-ātis (a sua volta da trīnus = di tre, aggettivo distributivo di trēs, tre) e fu utilizzato per la prima volta da Tertulliano nel II secolo, ad esempio nel suo De pudicitia. Occorre ricordare che prima di lui già Teofilo di Antiochia (II secolo), apologeta cristiano di lingua greca, utilizzò nel suo Apologia ad Autolycum il termine analogo greco di τριας (triás).  Se il termine "trinità" non è certamente antecedente al II secolo, la nozione che rappresenta sembrerebbe invece apparire già a partire dal Vangelo di Matteo:  «πορευθέντες οὖν μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»  (Vangelo di Matteo) A tal proposito lo studioso e teologo cattolico Doré nota come l'espressione al singolare eis to onoma (εἰς τὸ ὄνομα) ovvero "nel nome" unitamente alle due ricorrenze della congiunzione kai(καὶ), "e", quindi nel significato di "del Padre 'e' del Figlio 'e' dello Spirito Santo" evidenzierebbe la presenza di un credo già trinitario.  Allo stesso modo e in tale senso possono essere letti alcuni altri passi dei Vangeli canonici, ad esempio: βαπτισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς εὐθὺς ἀνέβη ἀπὸ τοῦ ὕδατος καὶ ἰδοὺ ἠνεῴχθησαν οὶ οὐρανοί, καὶ εἶδεν πνεῦμα θεοῦ καταβαῖνον ὡσεὶ περιστερὰν ἐρχόμενον ἐπ' αὐτόν. Appena battezzato, Gesù uscì dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio scendere come una colomba e venire su di lui.»  (Vangelo di Matteo καὶ ἀποκριθεὶς ὁ ἄγγελος εἶπεν αὐτῇ, πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σέ, καὶ δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει σοι· διὸ καὶ τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ. Le rispose l'angelo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio»  (Vangelo di Luca) e in particolar modo in alcuni passi del "discorso dopo la cena" riportato nel Vangelo di Giovanni: «πιστεύετέ μοι ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρὶ καὶ ὁ πατὴρ ἐν ἐμοί· εἰ δὲ μή διὰ τὰ ἔργα αὐτὰ πιστεύετε μοι. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.»  (Vangelo di Giovanni καγὼ ἐρωτήσω τὸν πατέρα καὶ ἄλλον παράκλητον δώσει ὑμῖν, ἵνα ᾖ μεθ' ὑμῶν εἰς τὸν αἰῶνα τὸ πνεῦμα τῆς ἀληθείας, ὃ ὁ κόσμος οὐ δύναται λαβεῖν, ὅτι οὐ θεωρεῖ αὐτὸ οὐδὲ γινώσκει· ὑμεῖς γινώσκετε αὐτό, ὅτι παρ' ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔστιν. Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.»  (Vangelo di Giovanni)  «ὁ δὲ παράκλητος τὸ πνεῦμα τὸ ἅγιον, ὃ πέμψει ὁ πατὴρ ἐν τῷ ὀνόματι μου ἐκεῖνος ὑμᾶς διδάξει πάντα καὶ ὑπομνήσει ὑμᾶς πάντα ἃ εἶπον ὑμῖν ἐγώ. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.»  (Vangelo di Giovanni)  «εἰ οὐ ποιῶ τὰ ἔργα τοῦ πατρός μου, μὴ πιστεύετέ μοι· εἰ δὲ ποιῶ, κἂν ἐμοὶ μὴ πιστεύητε τοῖς ἔργοις πιστεύετε, ἵνα γνῶτε καὶ γινώσκητε ὅτι ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί . Se non compio le opere del Padre mio non credetemi, ma se le compio anche se non volete credere a me credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e io nel Padre.»  (Vangelo di Giovanni X, 37-38) Doré nota anche qui che se il termine greco πνεῦμα ("spirito", "soffio") è certamente neutro esso viene indicato con il pronome relativo al maschile come ad evidenziarne la personificazione.  Lo storico delle religioni italiano Pier Cesare Borispiega al riguardo. La teologia degli scritti di Giovanni è diversa negli strumenti concettuali: nel Prologo del Vangelo, per comprendere la natura e il ruolo della funzione messianica di Gesù, diventa fondamentale la categoria del Lógos, la parola creatrice che "è con Dio, ed è Dio" (stessa idea di preesistenza in Colossesi ed Ebrei). Un ruolo importante in questi sviluppi dottrinali dovette avere, più che la filosofia ellenistica, la speculazione giudaica del tempo, che attribuiva un grande ruolo a potenze intermedie tra Dio e l'uomo, prime fra tutte il Lógos e la Sapienza divina, tendenzialmente ipostatizzate. Il risultato complessivo è l'affermazione della divinità di Gesù, e dello Spirito, uniti nell'invito finale di Matteo, a battezzare "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo". Una formula trinitaria che presiede all'evoluzione che porterà alle formulazioni trinitarie e cristologiche dei concili. Al termine il monoteismo biblico riceve una enunciazione completamente nuova: la sostanza, o natura unica divina, contiene tre ipostasi o tre persone; la seconda ipostasi unisce in sé nell'incarnazione due nature, quella divina e quella umana.»  (Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cur. Filoramo) Torino, Einaudi) Allo stesso modo vi sono dei richiami alle tre figure divine nelle lettere attribuite agli apostoli:«Ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ [Χριστοῦ] καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi»  (Seconda lettera ai Corinzi κατὰ πρόγνωσιν θεοῦ πατρὸς ἐν ἁγιασμῷ πνεύματος εἰς ὑπακοὴν καὶ ῥαντισμὸν αἵματος Ἰησοῦ Χριστοῦ, χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη πληθυνθείη. Secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza.»  (Prima lettera di Pietro) Uno studio approfondito sulla presenza della Trinità nel Nuovo Testamento giunge a questa conclusione:   É ora possibile rispondere alla domanda, "La dottrina delle Trinità è presente nella Bibbia?" La risposta è che non c'è un'affermazione formale della dottrina, ma una risposta al problema della Trinità. Almeno tre autori neotestamentari, Paolo, Giovanni e l'autore della Lettera agli Ebrei sono consapevoli dell'esistenza di un problema. Paolo e l'autore della Lettera agli Ebrei si concentrano sulla relazione tra Cristo e Dio, ma Giovanni era conscio del problema della mutua relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Nonostante questo anche la teologa cattolica statunitense Catherine Mowry Lacugna ricorda che sia gli esegeti sia i teologi concordano sul fatto che il Nuovo Testamento non contenga un'esplicita dottrina della Trinità. Del tutto assente è invece, sempre per gli esegeti e per i teologi, qualsivoglia riferimento alla dottrina della Trinità nell'Antico testamento. San Melitone di Sardi affermò che Dio Padre aveva un corpo umano e divino come quello del Figlio Dio, e un'anima distinta da quella del Figlio Dio, unita al proprio corpo. Di fatto, si affermava la consustanzialità del Padre e del Figlio nella duplice natura umana e divina del corpo e dell'anima. In tale dottrina, la distinzione fra anima e spirito descritta in 5.23[4] portava a identificare lo Spirito Santo Dio con l'unico spirito comune alle due anime e ai due corpi di Dio Padre e di Dio Figlio, in modo tale da unire due persone distinte in anima e corpo in un solo Dio tripersonale la cui sostanza è Spirito.   Lo studioso cattolico statunitense William J. Hill nota comunque come questo "trinitarismo elementare" sia presente anche nell'opera di Clemente di Roma (I secolo) il quale nella Prima lettera di Clemente si richiama espressamente a Dio Padre, al Figlio, allo Spirito, menzionando tutti e tre insieme. Allo stesso modo Ignazio di Antiochia nella sua Lettera agli Efesini chiama il cristiano a incorporarsi nel tempio divino come per diventare uno con Cristo, nello Spirito fino alla filiazione del Padre. Ciononostante, anche per lo studioso statunitense, la soluzione trinitaria, per come successivamente verrà proposta, era ancora ben lontana[Nota 16].  Sviluppo della nozione nei teologi e nei confronti conciliari del IV e V secolo Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento Cristianesimo non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Come è possibile affermare che Dio è "uno e trino"? Secondo la fede cristiana la natura divina è al di là della conoscenza scientifica, ed è incomprensibile e non conoscibile se non fosse per quanto è dato sapere attraverso la rivelazione divina. Quindi la dottrina trinitaria non è una conoscenza, come quella dell'esistenza di Dio, a cui si potrebbe pervenire attraverso la ragione umana o la speculazione filosofica, sebbene anch'essa non sia dimostrabile. Tuttavia molti teologi e filosofi cristiani (cfr. Agostino d'Ippona) hanno scritto innumerevoli trattati per spiegare la paradossale identità unica e trina di Dio, che è un mistero della fede, un dogma (cioè una verità irrinunciabile anche se non compiutamente dimostrabile) in cui ogni cristiano-cattolico è tenuto a credere (dal Concilio di Nicea) se vuol essere tale.  Unicità, Unità e Trinità di Dio Completa rappresentazione Teo-cristologica Dio è uno solo, e la divinità unica. La Bibbia ebraicapone questo articolo di fede sopra tutti gli altri, e lo circonda di numerosi ammonimenti a non abbandonare questo fondamento della fede, mantenendo la fedeltà al patto che Dio ha fatto con gli ebrei: "Ascolta Israele, il Signore nostro Dio è uno solo", "tu non avrai altri dei di fronte a me" e anche "Questo ha detto il Signore re d'Israele e suo redentore, il Signore delle schiere: io sono il primo e l'ultimo, e oltre a me non c'è alcun Dio". Ogni formula di fede che non insista sull'unicità di Dio, o che associ nell'adorazione un altro essere diverso da Dio, oppure che ritenga che Dio possa venire all'esistenza nel tempo anziché essere Dio dall'eternità, è contraria alla conoscenza di Dio, secondo la comprensione trinitaria dell'Antico Testamento. Lo stesso tipo di comprensione è presente nel Nuovo Testamento: Non c'è altro Dio se non uno. Gli "altri dei" di cui parla San Paolo non sono affatto dei, ma sostituti di Dio, cioè esseri mitologici o demoni.  Secondo la visione trinitaria, è scorretto dire che il Padre o il Figlio, in quanto alla divinità, siano due esseri. L'affermazione centrale e cruciale della fede cristiano-cattolica è che esiste un solo salvatore, Dio, e la salvezza è manifestata in Gesù Cristo, attraverso lo Spirito Santo. Lo stesso concetto può essere espresso in quest'altra forma:  Soltanto Dio può salvare Gesù Cristo salva Gesù Cristo è Dio In parole semplici è possibile esprimere il mistero della Trinità nell'Unità dicendo che il solo Dio si conosce (nel suo Figlio, Verbo, Pensiero, Sapienza) e si ama in esso (Spirito Santo, Amore). Il Padre è trascendente e nessun vivente poté vederlo, attraverso il corpo di uomo di Gesù poté rivelarsi ed essere visto e creduto dagli uomini.  La Trinità e Agostino Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero di Agostino d'Ippona § Il problema trinitario e De Trinitate (Agostino d'Ippona).  La Coronazione della Vergine, di Diego Velázquez, Museo del Prado A tale proposito è interessante leggere quanto scritto da sant'Agostino nel De Trinitate e in altre opere per tentare una chiarificazione del concetto di unica Sostanza e tre Persone. Nell'uomo, ragiona Agostino, si può distinguere la sua realtà corporale (esse), la sua intelligenza (nosse) e la sua volontà (velle). Se Dio ha creato l'uomo a propria immagine e somiglianza è allora necessario che questi tre aspetti appartengano anche alla Divinità, anche se in modo perfetto e divino, non imperfetto e umano: così Dio è Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito Santo). Ecco alcune citazioni bibliche al riguardo:  «  Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi. Es 3, 14, su laparola.net.)«  Gli disse Gesù: "Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. ( Gv 14, 6, su laparola.net.) «  Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui. 1Gv 4, 16, su laparola.net. La creazione dell'universo viene attribuita alla Trinità tutta intera; Dio Padre crea l'universo per mezzo del Figlio ("il Verbo","la Parola") e "donando" o "riempiendolo" di Spirito Santo.  Il credo recita infatti:   «Per mezzo di lui [il Figlio] tutte le cose sono state create»  (Credo) La fonte di questa interpretazione è in Genesi, al primo capitolo, Dio crea il mondo attraverso la Parola, espresso con la duplice formula: "Dio disse..." e "Dio chiamò ...". Questo è appunto il "Verbo di Dio", ossia nella visione cristiana proprio la seconda persona della Trinità, ovvero il Cristo. Valga, a titolo di esempio il racconto della creazione:  Primo giorno:  « Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu »  ( Genesi 1, 3, su laparola.net.) « e chiamò la luce giorno e le tenebre notte »   ( Genesi 1, 5, su laparola.net.)Secondo giorno:  « Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque. Genesi 1, 6, su laparola.net.)« Dio chiamò il firmamento cielo. »   (Genesi 1,6, su laparola.net.) e così prosegue nei "giorni" successivi con lo stesso schema, fino alla creazione dell'Uomo:  « E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, »   ( Genesi 1, 26, su laparola.net.) Anche lo Spirito Santo, che è la relazione d'amore fra il Dio Padre e il Figlio, terza persona della Trinità, partecipa alla creazione:  « La terra era informe e vuota, le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito Santo aleggiava sulla superficie delle acque »   ( Genesi 1, 2, su laparola.net.)Natura e ruolo di GesùModifica  La Santísima Trinidad, di Cairo, Museo del Prado In ambito teologico trinitario viene fatta una distinzione fra la Trinità da un punto di vista "ontologico" (ciò che Dio è) e da un punto di vista "ergonomico, ciò che Dio fa. Secondo il primo punto di vista le persone della Trinità sono uguali, mentre non lo sono dall'altro punto di vista, cioè hanno ruoli e funzioni differenti.  L'affermazione "figlio di", "Padre di" e anche "spirito di" implica una dipendenza, cioè una subordinazione delle persone. Il trinitarismo ortodosso rifiuta il "subordinazionismo ontologico", esso afferma che il Padre, essendo la fonte di tutto, ha una relazione monarchica con il Figlio e lo Spirito. Ireneo di Lione, il più importante teologo del II secolo, scrive: "Il Padre è Dio, e il Figlio è Dio, poiché tutto ciò che è nato da Dio è Dio."  Simili affermazioni sono presenti in altri scrittori pre-niceni,[5] cioè prima dello scoppio della controversia ariana:  «vediamo ciò che avviene nel caso del fuoco, che non è diminuito se serve per accenderne un altro, ma rimane invariato; e ugualmente ciò che è stato acceso esiste per se stesso, senza inferiorità rispetto a ciò che è servito per comunicare il fuoco. La Parola di Sapienza è in sé lo stesso Dio generato dal Padre di tutto. Giustino. Immagine ripresa anche da scrittori successivi:  «Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.»  (Ilario di Poitiers, De Trinitate) Se Gesù Cristo nel vangelo di Giovanni viene chiamato l'"unigenito" Figlio di Dio, evidenziando con questa affermazione il suo essere ontologicamente in Dio, secondo la dottrina ortodossa Gesù è anche diventato una creatura con l'incarnazione, svolgendo un ruolo "ministeriale", e in un certo senso subordinato in relazione a Dio, nei confronti dell'umanità. Viene pertanto chiamato "primogenito" in altri passi, in riferimento alla creazione e redenzione, ad esempio è detto "immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione... egli è principio, primogenito dei risuscitati". La distinzione è ripresa nell'affermazione che Gesù fa quando dice che dovrà "ascendere al Padre mio e Padre vostro, Iddio mio e Iddio vostro", distinguendo così fra l'essere figlio di Dio in senso proprio (caratteristico di Gesù) e in senso figurato (caratteristico degli uomini).  Atanasio di Alessandria sviluppa questa distinzione commentando il passo evangelico in cui Gesù dichiara di non conoscere il giorno e l'ora della fine del mondo. Ancora un altro passo che è detto bene, viene interpretato male dagli ariani: Voglio dire che "Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli, neppure il figlio. Ma essi ritengono che avendo detto "neppure il figlio", egli, in quanto ignorante, abbia rivelato di essere creatura. Ma la cosa non sta così, non sia mai! Come infatti dicendo: "Mi ha creato", lo ha detto in riferimento all'umanità, così, anche, dicendo: "neppure il Figlio", si è riferito alla sua umanità. Poiché infatti è diventato uomo, ed è proprio dell'uomo ignorare, come l'aver fame e il resto (infatti l'uomo non sa se non ascolta e apprende) egli, in quanto uomo, ha dato a vedere anche l'ignoranza propria degli uomini per questo motivo: in primo luogo per dimostrare di avere veramente un corpo umano, poi anche perché, avendo nel corpo l'ignoranza propria dell'uomo, dopo aver mondato e purificato tutta l'umanità, la presentasse al Padre perfetta e santa. quando dice: "Io e il Padre siamo una cosa sola e Chi ha visto me ha visto il Padre e Io nel Padre e il Padre in me", dimostra la sua eternità e la consustanzialità col Padre. Nel vangelo di Giovanni i discepoli dicono al Signore: Ora sappiamo che tu sai tutto. Atanasio, Seconda Lettera a Serapione, trad. M. Simonetti) Origine e sviluppo della dottrinaModifica La nozione dell'unicità di Dio e di Gesù Cristo come "Dio da Dio" e consunstanziale al Padre è stata affermata come articolo di fede al primo concilio di Nicea e sviluppata nei successivi concili ecumenici. Il termine "trinità" non è utilizzato nel credo niceno, ma il termine è precedente e rintracciabile già in scrittori ecclesiastici come Tertulliano.  Nel Nuovo Testamento il termine non compare, tuttavia la cristologia di Giovanni, che presenta Cristo come Logos di Dio, (cioè verbo e ragione), assieme ad alcune affermazioni di Paolo di Tarso, sono stati considerate dai Cristiani come le basi per lo sviluppo della dottrina trinitaria. Per la Chiesa in più punti del Nuovo Testamento si ravviserebbe il carattere trinitario di Dio, ad esempio quando Gesù dice: "Il Padre ed io siamo una cosa sola" od ancora nel Prologo del Vangelo di Giovanni: " In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio."  In un saggio sulla divinità di Gesù nel Nuovo Testamento il biblista Brown ipotizza che Gesù sia chiamato Dio nel Nuovo Testamento, ma lo sviluppo sarebbe stato graduale e non sarebbe emerso fino a un'epoca tarda nella tradizione neo-testamentaria: nella fase più antica del cristianesimo prevale l'eredità dell'Antico Testamento nell'utilizzo del termine Dio, per cui Dio era un titolo troppo ristretto per essere applicato a Gesù. Esso si riferisce strettamente al Padre di Gesù, al Dio da lui pregato. Gradualmente, con lo sviluppo del pensiero cristiano Dio venne compreso in un'accezione più ampia. Si vide che Dio rivelò così tanto di sé stesso in Gesù al punto che Dio includeva sia Padre che il Figlio."»  (Does the New Testament call Jesus God?) Il primo teologo cristiano a discutere sistematicamente la dottrina della Trinità fu forse Prassea (II secolo),[6] la cui opera ci è nota solo attraverso la confutazione che ne fece Tertulliano nel suo Adversus Praxean, opera in cui è esposta per la prima volta la formula del rapporto tra una sola sostanza e tre Persone. Lo sviluppo completo della dottrina si ebbe in seguito, anche in reazione alle dottrine di Ario che introdusse le sue interpretazioni subordinazioniste di Gesù come essere semidivino (vedi arianesimo).  Molti termini che si impiegano per esplicitare questo insegnamento sono stati mutuati dalla filosofia greca e ulteriormente approfonditi per evitare di esprimere concetti erronei. Tra questi si possono citare: sostanza, ipostasi e relazione. La Trinità viene così definita in teologia come tre ipostasi individuali, cioè tre Persone o sussistenze, che hanno e vivono in un'unica essenza o sostanza comune. Lo stesso argomento in dettaglio: Ipostasi § Nel cristianesimo. La controversia ariana Lostesso argomento in dettaglio: Arianesimo e Ario. La causa che portò alla convocazione del primo concilio di Nicea fu la disputa ariana, che giunse a una svolta all'inizio del IV secolo d.C. I protagonisti furono tre teologi-filosofi provenienti da Alessandria d'Egitto. Da una parte c'era Ario, e dall'altra gli ortodossiAlessandro e Atanasio. Ario affermava che il Figlio non fosse della stessa essenza, o sostanza, del Padre e che lo Spirito Santo fosse una persona ma inferiore a entrambi. Parlava di una "triade" o "Trinità", pur considerandola formata di persone ineguali, delle quali solo il Padre non era stato creato.  D'altra parte Alessandro e Atanasio sostenevano che le tre persone della Divinità fossero della stessa sostanza e che pertanto non fossero tre Dei, ma uno solo, sebbene il Padre è il primo e la causa delle altre due.  Ario, "volendo difendere il monoteismo più rigoroso, secondo cui Dio è trascendente"[8] accusò Atanasio di reintrodurre il politeismo. In effetti l'arianesimo viene considerato da molti studiosi moderni[senza fonte] come il ramo più rigoroso del subordinazionismo cristologico dei primi padri della Chiesa (Giustino, Ireneo di Lione ecc.) e scrittori cristiani (Origene, Tertulliano ecc.) i quali ancora non si interrogavano sul rapporto fra le persone della divinità. Atanasio accusò Ario di reintrodurre il politeismo, dal momento che distingueva la natura divina delle tre persone.  Accanto a Dio, Ario poneva infatti una creatura "che può essere chiamata dio in modo improprio"[9], considerato il Figlio di Dio, ma ritenuto da lui semplicemente "la prima creatura di cui il Padre si era servito per compiere la creazione", incarnatosi in Gesù, simile ma non uguale a Dio, che avrebbe avuto esistenza dal nulla, affermando che "generare" e "creare" fossero sinonimi. Gli ortodossi invece ribadivano l'assoluta unità di Dio, e se il Logos era divino, (come era affermato nel prologo di Giovanni "il Logos era Dio"), ciò non comportava una suddivisione o una moltiplicazione di dei, ma Dio era sempre uno solo. In questo senso il termine "generazione" indicava l'unità della natura e non andava inteso in senso temporale e umano, con un "prima" e un "dopo", ma il Figlio era eternamente generato, cioè era sempre stato insito in Dio. Al tempo opportuno il Verbo si sarebbe incarnato in Gesù, in un processo di abbassamento e annichilimento, e l'unione della natura divina e di quella umana nella persona di Gesù diede origine ad un'altra serie di controversie nei secoli successivi.  La controversia ariana non terminò a Nicea. L'arianesimo ebbe grande fortuna nell'Impero romano e in certi momenti presso la corte imperiale. Molte tribù germaniche che invasero l'impero romano professavano un cristianesimo ariano e lo diffusero in gran parte dell'Europa e dell'Africa settentrionale, dove continuò a prosperare fino a gran parte del VI secolo, e in alcune zone anche più a lungo.  La Trinità nei primi scritti cristiani Santissima Trinità, di Hendrick van Balen, Sint-Jacobskerk, Anversa I primi scrittori cristiani così si esprimono al riguardo: Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio. (Ilario di Poitiers De Trinitate. Quando affermo che il Figlio è distinto dal padre, non mi riferisco a due dèi, ma intendo, per così dire, luce da luce, la corrente dalla fonte, ed un raggio dal sole. Ippolito di Roma. Il carattere distintivo della fede in Cristo è questo: il figlio di Dio, ch'è Logos Dio in principio infatti era il Logos, e il Logos era Dio - che è sapienza e potenza del Padre Cristo infatti è potenza di Dio e sapienza di Dio - alla fine dei tempi si è fatto uomo per la nostra salvezza. Infatti Giovanni, dopo aver detto: In principio era il Logos, poco dopo ha aggiunto e il logos si fece carne, che è come dire: diventò uomo. E il Signore dice di sé: perché cercate di uccidere me, un uomo che ha detto la verità? e Paolo, che aveva appreso da lui, scrive: Un solo Dio, un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo»  (Atanasio di Alessandria, Seconda lettera a Serapione) Teologia delle Chiese orientali e della Chiesa latina L'interpretazione trinitaria nella Chiesa latina si differenzia da quella greca. Se entrambe le Chiese, infatti, riconoscono l'unità delle tre Persone divine nell'unica natura indivisa, per cui ciascuna di esse è pienamente Dio secondo gli attributi (eternità, onnipotenza, onniscienza ecc.), ma ciascuna è a sua volta distinta e inconfondibile rispetto alle altre due, è altresì vero che nasce il problema di comprendere le relazioni che intercorrono fra di esse.  Con il simbolo niceno-costantinopolitano, approvato nel primo concilio di Costantinopoli, si afferma che il Figlio è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è spirato dal Padre. Il Padre è dunque l'unica origine della Trinità. Col Concilio di Toledo, però, e con i suoi successivi sviluppi, la Chiesa latina, usando una terminologia diversa, stabiliva unilateralmente che lo Spirito Santo procede anche dal Figlio (la questione del cosiddetto Filioque), cioè che è la terza persona. Gli ortodossi rifiutano tuttora tale sviluppo, temendo che essa renda il Figlio concausa dello Spirito Santo; per questo preferiscono parlare, secondo la teologia greca, di "spirazione dal Padre attraverso il Figlio" (proposta da grandi teologi come san Gregorio di Nissa, san Massimo il Confessore e san Giovanni Damasceno), pur non introducendo questa specificazione nel Credo. La Chiesa cattolicaritiene valide entrambe le versioni, infatti le chiese cattoliche orientali utilizzano nella liturgia la versione priva del Filioque.  Anche altri gruppi cristiani hanno rifiutato il Filioque; in particolare bisogna citare il caso dei vetero-cattolici, che accettano la validità dei primi sette concili ecumenici, rifiutando le dottrine cattoliche successive. Invece le Chiese nate dalla riforma hanno generalmente accettato questo dogma nella versione occidentale (comprensivo, cioè, del Filioque).  Simboli di fedeModifica icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Simbolo di fede. La dottrina della Trinità è espressa in alcuni Simboli di fede, cioè proposizioni il più possibile chiare e prive di ambiguità che si riferiscono a punti controversi della dottrina. Ad esempio al primo concilio di Nicea venne approvato il seguente paragrafo (dal cosiddetto credo di Nicea) relativo al significato di Figlio di Dio riferito a Gesù Cristo:  «...nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create.»  Tale proposizione deriva dal passo del primo capitolo della lettera agli Ebrei:  il Figlio, che Dio ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola. Il simbolo atanasiano (detto anche Quicunque vultdalle parole iniziali) è invece un'esposizione sintetica della dottrina della Trinità secondo la tradizione latina, probabilmente composto in Gallia verso la fine del V secolo, ed usato nelle chiese occidentali:  «...veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità. Senza confondere le persone e senza separare la sostanza. Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna maestà. Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. E tuttavia non vi sono tre Dei, ma un solo Dio. Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. E in questa Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore: ma tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali. Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato. Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato. Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo. È Dio, perché generato dalla sostanza del Padre fin dall'eternità; è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della madre. Perfetto Dio, perfetto uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla carne umana. Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità.»  In seguito vennero elaborati altri simboli di fede in cui si riassumevano le dottrine precedenti e si trattavano altri punti controversi, ad esempio al XI Sinodo di Toledo venne elaborata un'altra "confessione" attribuita in passato ad Eusebio di Vercelli, di cui si riporta solo l'inizio:  «Professiamo e crediamo che la santa ed ineffabile Trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, secondo la sua natura è un solo Dio di una sola sostanza, di una sola natura, anche di una sola maestà e forza. E professiamo che il Padre non (è) generato, non creato, ma ingenerato. Egli infatti non prende origine da nessuno, egli dal quale ebbe sia il Figlio la nascita, come lo Spirito Santo il procedere. Egli è dunque la fonte e l'origine dell'intera divinità.»  Posizioni antitrinitarie glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Antitrinitarismo, Gesù nell'ebraismo e Gesù nell'islam. La dottrina del Dio Uno e Trino non è accettata al di fuori del cristianesimo, dato che afferma la divinità di Gesù Cristo, che è caratteristica delle maggiori confessioni di questa religione. Ebraismo ed Islamrifiutano questo aspetto, e nel Corano in particolare questo punto dottrinale viene esplicitamente negato.  Anche nell'ambito del cristianesimo vi sono movimenti religiosi e diramazioni anti-trinitarie; fra queste le più note a partire dall'età moderna e contemporanea sono i testimoni di Geova, la House of Yahweh, i cristadelfiani, gli antoinisti, i mormoni, la Chiesa del Regno di Dio, la Chiesa cristiana millenarista, il cristianesimo scientista, la Chiesa dell'unificazione e le chiese odierne che si rifanno all'unitarianismo.  Ordini e congregazioni della Santissima TrinitàModifica Numerosi istituti religiosi condividono la devozione alla Trinità e sono a essa intitolata: l'Ordine della Santissima Trinità, con il ramo delle monache e le congregazioni delle suore di Madrid, Roma, Valence, Valencia e delle Montalve; le statunitensi congregazioni dei Missionari Servi e delle Ancelle Missionarie della Santissima Trinità; le canadesi Domenicane della Santissima Trinità; le spagnole Giuseppine della Santissima Trinità; le messicane Serve della Santissima Trinità e dei Poveri e le italiane Adoratrici della Santissima Trinità. Trinitarian doctrine touches on virtually every aspect of Christian faith, theology, and piety, including Christology and pneumatology, theological epistemology (faith, revelation, theological methodology), spirituality and mystical theology, and ecclesial life (sacraments, community, ethics. La dottrina Trinitaria tocca virtualmente ogni aspetto della fede cristiana, della teologia e della devozione, comprese la Cristologia e la pneumatologia, l'epistemologiateologica (fede, rivelazione, metodologia teologica), la teologia mistica e la spiritualità e la vita ecclesiale (sacramenti, comunità, etica)»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9360 e segg.) ^ «non è esatto dire che i cristiani credono in Dio! Per lo meno non è esatto rispetto al fatto che essi non si contentano di affermare l'esistenza di quell'Essere supremo, onnipotente, creatore del cielo e della terra che gli "uomini chiamano Dio" (Tommaso d'Aquino) e che, nel vasto mondo e nella storia, anche tanti altri credenti riconoscono. La sola cosa che, in realtà, si possa dire se si vuole usare un linguaggio preciso, è che i cristiani credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; o ancora nella Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che insieme costituiscono l'unico Dio vivo e vero.»  (Joseph Doré. Trinità in Dictionnaire des Religions (a cur. Poupard). Parigi, Presses universitaires de France. In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori,  Cfr. ad esempio il Catechismo della Chiesa Cattolica che riportando l'Expositio symboli (sermo) CCL di Cesario d'Arlessostiene La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità. Il simbolo niceno-costantinopolitano rispetto al credo di Nicea, amplia gli aspetti cristologici e pneumatologici: Gesù Cristo figlio di Dio è GENERATO (cf. Grice – GENITOR) da sempre dal Padre, è increato, è homoúsioncioè della "stessa sostanza" del Padre e per mezzo di lui si è realizzata la creazione; egli è dunque Dio vero da Dio vero, luce da luce. Lo Spirito Santo ha parlato per mezzo dei profeti, egli è Signore e da lui proviene la vita, procede dal Padre ed è elemento di culto come il Padre e il Figlio. Cfr., ad esempio, Pier Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cur. Filoramo) Torino, Einaudi,  Per la Chiesa cattolica la "trinità" è un mistero della fede ovvero uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati» (Concilio Vaticano I, DS; FCC). poreuthentes oun mathēteusate panta ta ethnē baptizontes autous eis to onoma tou patros kai tou uiou kai tou agiou pneumatos» ^ «baptistheis de o iēsous euthus anebē apo tou udatos kai idou ēneōchthēsan oi ouranoi kai eiden pneuma theou katabainon ōsei peristeran erchomenon ep auton» «kai apokritheis o angelos eipen autē pneuma agion epeleusetai epi se kai dunamis upsistou episkiasei soi dio kai to gennōmenon agion klēthēsetai uios theou» ^ «pisteuete moi oti egō en tō patri kai o patēr en emoi ei de mē dia ta erga auta pisteuete kagō erōtēsō ton patera kai allon paraklēton dōsei umin ina ē meth umōn eis ton aiōna to pneuma tēs alētheias o o kosmos ou dunatai labein oti ou theōrei auto oude ginōskei umeis ginōskete auto oti par umin menei kai en umin estin o de paraklētos to pneuma to agion o pempsei o patēr en tō onomati mou ekeinos umas didaxei panta kai upomnēsei umas panta a eipon umin egō» ^ «ei ou poiō ta erga tu patròs mou, pistèuete moi; ei dè poiō, kan emoì mē pistèuēte tòis ergòis pistèuete, ìna gnōte kai ginōskēte oti en emoi o patēr kagō en tō patrì. ē charis tou kuriou iēsou [christou] kai ē agapē tou theou kai ē koinōnia tou agiou pneumatos meta pantōn umōn kata prognōsin theou patros en agiasmō pneumatos eis upakoēn kai rantismon aimatos iēsou christou charis umin kai eirēnē plēthuntheiē» Further, exegetes and theologians agree that the New Testament also does not contain an explicit doctrine of the Trinity. God the Father is source of all that is (Pantokrator) and also the father of Jesus Christ; "Father" is not a title for the first person of the Trinity but a synonym for God. Inoltre, esegeti e teologi sono d'accordo che anche il Nuovo Testamento non contiene un'esplicita dottrina della Trinità. Dio Padre è fonte di tutto ciò che è (Pantokrator) e anche il padre di Gesù Cristo; "Padre" non è un titolo per la prima persona della Trinità ma un sinonimo per Dio.»  (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan,Exegetes and theologians today are in agreement that the Hebrew Bible does not contain a doctrine of the Trinity, even though it was customary in past dogmatic tracts on the Trinity to cite texts like Genesis 1:26, "Let us make humanity in our image, after our likeness" (see also Gn.; Is.) as proof of plurality in God. Although the Hebrew Bible depicts God as the father of Israel and employs personifications of God such as Word (davar), Spirit (ruah: ), Wisdom (h: okhmah), and Presence (shekhinah), it would go beyond the intention and spirit of the Old Testament to correlate these notions with later trinitarian doctrine. Esegeti e teologi oggi sono d'accordo che la Bibbia ebraicanon contenga la dottrina della Trinità, anche se era abituale nei trattati dogmatici della Trinità citare testi come la Genesi, Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza (vedi anche Gn.; Is.) come prova di pluralità in Dio. Sebbene la bibbia ebraica descrive Dio come padre di Israele e usi personificazioni di Dio come parola (davar), spirito (ruah: ), saggezza (h: okhmah) e presenza (shekhinah), andrebbe oltre le intenzioni e lo spirito del vecchio testamento correlare queste nozioni con la successiva dottrina trinitaria. Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan, In the last analysis, the theological achievement is limited. The trinitarian problem may have been clear: the relation of the son and, at least nebulously, spirit to the godhead. But a trinitarian solution is still in the future. The apologists spoke too haltingly of the spirit -- with a measure of anticipation, one might say too impersonally. In ultima analisi i risultati teologici del II secolo furono limitati. Il problema Trinitario poteva essere stato chiaro: la relazione fra il Figlio e (almeno nebulosamente), lo Spirito alla Divinità. Ma una soluzione Trinitaria era ancora futura. Gli apologisti parlano con troppa esitazione dello Spirito; con il valore di un'anticipazione, si potrebbe dire in modo troppo impersonale. Richard e  Hill. Trinity, Holy. The New Catholic Encyclopedia, NY, Gale, O Gente della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno spirito da Lui [proveniente]. Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra. Allah è sufficiente come garante» (Cor.). RiferimentiModifica ^ Catherine Mowry Lacugna, "Trinity", in Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan, Trinità in Dictionnaire des Religions, Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK  Ts 5.23, su laparola. net. Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, ^ Roger E. Olson, The Story of Christian Theology: Twenty Centuries of Tradition et Reform, Downers Grove (IL), InterVarsity  ^ Tertulliano, Contro Prassea, ed. critica e trad. italiana di Giuseppe Scarpat, Torino, S.E.I. "Terzo millennio Cristiano", paragrafo: "Eresie cristologiche Dizionario Mondadori di Storia Universale" ^ John Henry Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano, Jaca Com’è nata la dottrina della Trinità? JW.org Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK. Voci correlate Corpus Domini Cristologia Dio (cristianesimo) Dio (ebraismo) Dio Padre Dio Figlio Diofisismo Figlio dell'uomo Figlio di Dio Gesù di Nazareth Gesù nel cristianesimo Iconografia della Trinità Inabitazione trinitaria Pericoresi Prosopon Spirito Santo Solennità della Santissima Trinità Triade (religione) Trinità (araldica) Unione ipostatica Verbo (cristianesimo) lemma di dizionario «Trinità» Trinità, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Rosa e Umberto Gnoli, TRINITÀ, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, . Modifica su trinità, su sapere.it, De Agostini. Trinità, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Trinità, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Tuggy, Trinity, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Baber, The Trinity, su Internet Encyclopedia of Philosophy.Hunt, The Development of Trinitarian Theology in the Patristic and Medieval Periods( PDF ), su TRINITY - Nexus of the Mysteries of Christian Faith, google.it. La Trinità secondo le Sacre Scritture, sito evangelico pentecostale Portale Gesù: accedi alle voci di che trattano di Gesù. Antitrinitarismo Cristologia studio su chi è e cos'è Gesù Cristo  Dio (cristianesimo) concetto di Dio nel Cristianesimo  Contenuti sticamente l'ascesa a Dio si scandisce in tre tappe (ognuna delle quali a sua volta divisa in due):  il mondo sensibile, vestigium Dei l'anima, in quanto realtà naturale, imago Dei l'anima, in quanto abitata soprannaturalmente dal Mistero trinitario, in Cristo, similitudo Dei Il mondo, vestigium Dei la predica di Francesco agli uccelli nel pensiero di F. vibra la nuova percezione francescana della natura. L'importanza data alla prima tappa, il mondo sensibile è ciò che differenzia F. da Agostino, in forza dell'eredità francescana, che gli consente di recuperare qualcosa della impostazione aristotelica, più valorizzatrice del livello corporeo. Il mondo può essere letto come un SEGNO, un simbolo del Trascendente. Tutto parla di Dio, e permette perciò di risalire a Lui. Non occorre fuggire dalla realtà, ma è nella realtà, anzitutto materiale, che l'uomo trova la testimonianza del creatore invisibile.  Secondo F. la realtà ci parla di Dio non solo nella unità della sua natura, ma ne annuncia anche il mistero trinitario. Ad esempio la conoscenza delle cose corporee è simbolo della processione del figlio dal padre. Come dalla cosa si stacca una immagine, così dal padre è GENERATO (cf. Grice, GENITOR) il Figlio, e come l'immagine della cosa si unisce all'organo sensoriale corporeo, così il verbo si è unito alla carne, facendosi uomo. L'anima creata, IMAGO dei. Tuttavia è soprattutto nell'anima che il divino si rivela. Il mondo è solo un *vestigium*, mentre l'anima è *imago* Dei. Tra l'altro testimonia e parla del mistero trinitario, come già per Agostino, la tripartizione dell'anima in memoria (che rimanda in particolare al padre), intelletto (che rimanda al verbo) e volontà (che rimanda allo spirito santo, come amore del padre e del figlio). L'anima redenta, *similitudo* Dei. Più di tutto ci dice chi è il divino l'anima in stato di grazia, l'anima abitata da Cristo. Nessuno più del santo ci mostra il volto di Dio. Non basta perciò uno spiritualismo generico. L'uomo non è solo corpo e anima. Ma l'anima stessa deve superarsi, dilatarsi, accettando una misura più grande. L’ospite che ci inabita e chiede di crescere in noi. Direzione e gradi del cammino si presentano anche nelle forme di rapporto, tra cui vengono analizzati la realtà nel suo insieme e l'uomo in particolare: traccia (*vestigium*) del Creatore nel sensibile, sua immagine (*imago*) trinitariamente sviluppata, nelle facoltà o attività dello spirito e massima somiglianza possibile (*similitudo*) con lui nello stato della contemplazione perfezionatrice o unione con lui. Vestigium o speculum, traccia o specchio come primo grado della contemplazione riflettente del divino indica la forma di essere e di movimento del mondo sensibile che rinvia il pensiero alla sua origine. Imago, immagine, come caratterizzazione della mens conduce il pensiero che si accerta di se stesso al suo archetipo trinitario. Similitudo, somiglianza, indica lo stato di colui che supera se stesso nel suo massimo avvicinamento possibile o nella connessione con la meta dell'ascesa. Itinerarium: per vestigia e in vestigiis: per imaginem - in imaginem. All'agire della mens come o nella similitudo, corrispondono i gradi descritti. Un'interpretazione del rapporto tra vestigium e imago nell'Itinerarium è stata presentata da Hodl: Die Zeichen-Gegenwart Gottes und das Gott-Ebenbild- Sein des Menschen in des hl. F. Itinerarium mentis in Deum, in Miscellanea Mediaevalia, Berlin. Sulla differenziazione di vestigium-imago-similitudo ulteriormente: De scientia Christi q. 4 concl. Orizzonte neoplatonico di traccia, ἴχνος. Il male stesso ha ancora una traccia del bene: ἴχνος ἀγαθοῦ, Proclo, In Remp. Essere come traccia dell'uno, in Plotino, vedi la relazione con la dottrina dell'immagine. Nel contesto oggettivo e storico di questa dottrina vi è Agostino: il creato, l'ente molteplice e temporale nel suo insieme è traccia dell'unità e atemporalità (divina), (unitatis e aeternitatis vestigium: Vera rel. Gen. ad litt. imp. Anche Eriugena segue questo concetto di traccia, che vede nel sensibile la traccia o la manifestazione dell'essere divino in sé nascosto, come punto di partenza della summitas theoriæ: omnis creatura corporalis atque visibilis sensibusque succumbens extremum divinæ naturæ vestigium non incongrue solet in scripturis appellari: Periphyseon. Sulla teofania cfr. Beierwaltes, Negati affirmatio; sull'aspetto della metafisica della luce. Grice: “Bonaventura is generally more liked than Aquinas at Oxford. More platonic, less dogmatic sort of type!” – Findanza. Fidanza. Keywords: Lc. 19:38-40 ‘grideranno le pietre’ ‘la pietra grida’ – i segni trinitari -  primo grado: vestigio o impronta; secondo grado: immagine; terzo grado: similitudine --. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Grice e Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, e Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Figliucci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove e Ganimede – scuola di Siena – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo sienese. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “Of course I love Figliucci, who doeesn’t? Of course, there is Figliucci and [Vincenzo] Figliucci, both moralists at Siena; what I love about Figliucci is that he championed the big ones: Plato’s Fedro – with the charismatic metaphor of the winged warrior; and then Fedro is an interesting character for maieutica; and Aristotle’s ethical ‘books,’ which we hope he instilled on Alexander!” – Studia a Padova. Dopo aver vissuto le piacevolezze mondane della corte, entrò nel convento domenicano di Firenze. Altre opere: “Del bello” (Roma); “Ficino” (Venezia); “Le undici Filippiche di Demostene con una Lettera di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in lingua Toscana” (Roma, Appresso Vincenzo Valgrisi); “Della Filosofia morale d'Aristotile” (Roma); “Della Politica, ovvero Scienza civile secondo la dottrina d'Aristotile, libri VIII scritti in modo di dialogo” (Venezia, Somascho); “Catechismo, cioè istruzione secondo il decreto del Concilio di Trento”; Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. FIGLIUCCI, “IL FEDRO O VERO IL DIALOGO DEL Bello di Platone, tradotto in lìngua toscanà per Felice Figliucci Sense.  IN ROMA Con priuilegio del Sommo Ponstefice per anni X.IL FEDRO. Ó VERO il D/4iWa id Bello di Telatone. TRADOTTO in lingua Tofcana» Perfone del Dialogo, SOCRATE, ET FEDRO. O Fedro mio caro,doue uai tu,ac Soc. donde uieni ^ F E D. Socratc,io uego da cafa di Lifia figliuolo di Cefalo,flC hora me ne uh un poco à fpafTo fuor della città: per ciò che buona peza feco à ragionar fedendo, da quefta mattina per tempo, per fino à hora fon dimorato. Et hora,c(rendo à ciò ftato perfuafo,da Acumeno tuo amico, fiC mio,fò caminando efTercitio: il qual modo di efTercitarfi, egli affai più facile, CC molto più gjoueuole giu:sdica, che laftaticarfi nel correre, come molti fanirsno. SOCR. Certamente Fedro mio, eh* egli ti configlia bene^ma fecondo il tuo dirc,Lifu dee elTere nella città, è uero. FED, Ve^sro, fi£ alloggia infieme con Epicrate nella cafa di Morico,uicino al Tempio di Gioue Olimpiót SOCR. rimali di gratia,clie faceuate uoi quiui f Inuitouui forfè Lifia al parto delle fuc orationii' FED. Tu lo fapra!,par clic tu babbi tempo di uenire i(ifieme coumeco^fin che io te l habbia narrato. SOCR. Che dici tu.^ Hor Don penfi tu, che io proponga à ogni mia facen <ìa (come di^Te Pindaro) il ragionamento di Li:s fia,fl£iltuo? FED, Seguitami adunque SOCR. Di pure. FED. Et fappi Socra;^ tc.che quella difputa, che nacque fra Lifia^a ine.è {lata à punto degna delle tue orecchie. Per ciò che il parlare,che Ci\ ùilto,(ìx in un cers; to modo tutto intorno alle cofe d'AMORE; pcr ciò che Lifia haueua fcritto una oratioue doftiG:: fima, fi£ eIegantiflima, manoDÌn fauore d'uno AMANTE, anzi pier quello era artificiofa.fi: Icggias: dra,che egli in quella prouaua,che più toftofi dee far ccfa grata à chi non ama, che à chi ama» SOCR. O huomo certamente digniffuno; uo:s lefTe lddio,che egli haueffe fcritto,che fi hauefe fe à fave bene più tofto à unpoueio.che à un ricco, ftàunuecchio, che à un giouane,aà moltialtrijiquali in molte altre cofe fono mal condotti, come me: per ciò che fe tale fufTe fta^ ta la fua oratione.all' bora fi poteua degnametc ^nc ce piaccuole.a utile. Non di meno anchora che ella non fia (lata cefi, egli m'è foptags giunta una fi gran uogliad' udirla, che (e tu cdis minando te ne andaflj perfino à Mcgara,flC fc (comeècoftume di Hcrodico ) tofto che alle mura della città fiifli giunto.indietro te ne tornaflì,io per queflo fon difpofto di non ti aK? bandonarmai. FED, Che dici tu Socrate^' Penfi turche io giouane inefperto poffa hora narrarti, flC ramentarti quelle cofe,chc Lifia moi te più dotto di quanti Sìcrittori hoggi fi troua:^ no, in molto tempo à fua commodità compofe/ Sappi,che io fono affai lontano da quello ti uoglio dire,chc iouorrei più prefto fimil cofa faper fare, che effer d' infinite riccheze poffeffo? re. SOCR. Fedro cparrebbe.cheip non fi conofcefL, non fai tu, che tanto à me farebbe il non fapere chi tu fei, quanto lo fcordarmi di me medefimo.^ Delle quali^ofe neffuna è uera: per ciò che io fo beniflimo,che tu non udirti una uolta fola quefta Oratione di Lina, ma te U facefli replicare affai uolte. Et Lifia fo io, che uo lentieri ti ubidiua: ne quefto anchora ti fu affair ma fattoti al fine dare m mano il libro. doue eri fcritta, confiderafti ineffo tutte quelle cofe,U quali maggiormente defideraui fapere: il che come hauedi fatto, fianco di hauere in quel Iugo fi fungamciife fedufo,(i partifti per andare tene a fpafTo. Et io giiiraréi,che bora tela mefe teui alla memoria, fé gii non fufTeftata troppo lunga, te neandaui fuor della città^perconi fiderare date ftefloà quello, che haueui letto» Ma poi che tu ti fei abbatuto ì un'huomo pazo di udire fimili ragjonamèti,come fono io,toflo che iMiaiucduto, ti fei oltra modo rallegrato, quafi che tu fufli certo di hauerc uno, che dei niederimo,che tu,tecori hauefli à rallfgrare,flc fare feft^,flC cofi mi bai commefTo.che io uenea teco. Quindi pregato da me defiderofiflimo di ud/rti, che à dir cominciaflj, bai finto ciò efTerti difficile, come fe tu non hauefli bauto uoglia di raccontarmi quefta cofa: flC io fon certo, che. al fine, quando alcuno qui non fuffe ftato,che ti haueffe per fe fteflo uoluto udire, tu haueui tan ta uoglia di dire quello, che haueui udito, che tu cri per sforzare qualunque fi fuffe. à udirti à fuo mal grado. Et però Fedro mio caro, non tt fare pregare à mia fòdisfatione di fare queU lo, che eri ogni modo per fare fenza che alcuno te ne ricercaffe. FED. Sarà adunque me;s gbo dirti quefla cofa, come jo faprò,purcbc io la dica; per ciò che e mi pare, che tu non fia per abbandonarmi mai, fin che non Thabbia fentita. <^ Sccr. I o SOCR. Certamcnfe che tu hai^buon credtere. FED. Cofi adunque faro: ma per dirti il uero Socrate, io non ho imparate le parole tutte à mente, ma io mi ricordo bene quafi di tutte le ragioni, flC argomenti: per li quali egli dimcftra un'amante efferdifTimile da chi no ama, fiC cofirdì fon deliberato nan-artele tutte ordinatamen:? te. SOC Moftrami di gratia prima quel, che tu hai nella man fiftiftra fotto il mantello, che à dirti il uero, io dubito che tu non habbia quel libro proprio: il che fe è uero, pen(à che io ti ftimo afTai; non di meno fe io poffo udire jLifia, non uoglio ftarc à udir te. Ma che fai tu, che ncn me' 1 moftrif  FED • Deh fta fermo: tu m'hai leuato d'una grande fperanza o Socrais te, che io haueua di efercitait hoggi il mio ingc^ gno con teco: ma poi che io non poffo farlo, po niamcd à federe, per leggere doue più fi piace • SOCR. Aridiamocene, prima che à leggere. cominciamo, dj U dal fìume Iliffo, ftquiui ci porremo à federe, doue più ci parrà FED. A tempo mi truouo difcalzo,ma fu non uai mai altrimenti: et però ci farà ageuole paiTare quefta piccola acqua, ne anchora ci douerà difpiaccre, tnaflimamente in quefta ftagionc,&à quefta hcra. SOCR. Va uia adunque, ft in tanto confiderà, doue po(&amo federe » F £ Vedi tu quel Platano cofi alto SOCR. Si ueggo. FED. Qoiui è una piaceuolc ombra, •fiC un uentolino fcaue. flC l'herba tenera in ogni parte: fi che pofTjamo porci à federe,© à giacere, doue più ci piacerà. SOCR. Va Ij^adaquc. FED, Dimmi un pooc Socrate, non fi dice egli, che già in quefto luogo Borea rapì Oriss fhia,uicinoaI fiume Iliffoi' SOCR, Col; fi dice» FED. Non ti pare egh, che qui fi uegga una acquetta grata, pura, fiC chiara, nella quale commodatamcte pofTano le fanciulle fcher zarci' SOCR. Non é quefto il luogo, ma po co più di fotto, lontano due ò uero tre ftadi,do:s ue habbiamo trouato il Tempio di Diana, flc in quel medefimo luogo è un certo altare fatto ad honore di Borea. FED. Io non fq bene quc ftacofa. Ma dimmi per tua fe Socrate, penfi tu che quefta fauola fia ftata uera t SOCR. Se -io non penfafli^che fuffc uera, come fanno an^s chora tutte le perfone fauie non per quefto farei da elTere ftimato fcioccho: ma non uolendola in tutto negare, potrei fingermi quefta cofa, fiC dire, che il uento Borea ulcito da quefte pietre ui:s cine à (chcrzare.flC foUazarfi con Farmacia, fi ina; contro in Onthia, cCla fecegrauemente à terra cadere, della qual cola ella ne. mori: OC di qui hanno finto, che ella fò rapita da Borea, non già da qiiefto luogo, ma dallo Ariopago.doue bora fi giudicano le caufe: per ciò che è /ama affai da quefta diuerfa^che ella non fu rapita da quello^. ma da quel luogo. Hora io Fedro mio, giudico certamente quelle cofe molto diletteuoli, ma da huomini troppo curiofi, et folkcjti di quello» che poco importa, fiC da perfone anzi poco fortunate, che non: le quali fe per altro non hauefs fimo à chiamare infelici, quefta però farebbe cagione giuftf/Tima^che eglino tégono cofa neceffarla, che bifogni interpretale la forma de i Centauri, delle Chimere, flC di molte altre fintioni inutili. Et non folo fi truouano quefte fi fatte figure, ma à chi fi intrica in fimili cofe.gli pio^ uonoà doffo.k turbe de i Serpenti, delle Gorgoni,fiC la bugia del cauallo Pegafo,& di moU te altre forme contrafatte; onde fe alcuno di quefti cofi diligenti non crederà, che quefte co^ fe fienò flate nel modo, che fi narrano, ma uorrà Qgni cofa ridurre alla fua allegoria, et al fenfo più, fecondo lui,conuenienfe,coftui certo bara otio d'auanzo, flf fi fiderà di elTér ricordato per uia d'una fcientia roza,flc di poco memento» Maio,à dirti il uero, non ho tempo à cercare (i^ mili ccfe; perche non anchora pc/To ccnofcerc me fl:e(ro,ri come ci infegna clie dobbiamo fare 1 oracolo Delfico. Et per qnefto à me pare cofa da ridere, il uoler cercare di fapere le cofe d altri,' Don conofcendblhcTìora quelle, che à me fi ap35 partengono,flf che fono in me ftefTo. Per il che laiciate andar quefte cofe.ft crededo paramene» te à quello, che credono gli altri intorno à qucfto,non perdo il tempo nella cqnfidcrafione Io ro,malo metto à confiderare me {lefTo. ft^cofi ^ taì'hora fra me dico. Sono io una beftia più (u^ riofa, flC più rabbiofa,che non fu il gigante det^ to Tifone,© pure (come è uero ) fono nato ani^ m^ile più placabile, fiC humano,fiC più femplice; participc per natura della mente diu{na,fiC nato per godere al fine uno ftafo.ft una forte felicif^s fimar Ma non è egli quefl:o,al quale ragionado, fiamoarriuati, quello albero, doue tu mimenas ui^ FED, Quefto é d elfo. SOCR. Cerato che quefto è flato un viaggio degno: per ciò che quefto Platano hai rami larghifTimi.fiC è molto alto,£(la alteza di qpcllo Agnol cafto; infieme con l'ombra che fa, è bella oltra modo,' ficpiaceuole: fichoraè il tempo, nel quale più che mai,fiorifce: per il che il luogo tutto intorbi noe ripieno di foauiflìmo odore. Oltra ciò, è quefto fonte,che fotlo il Platano la terra riganjs s ^ do. (io bagna, cliiariflìmo, CC di acqua frefca puc afrai,comeripaoconofcerenel metterci dren^ to un piede. Et le fanciullesche quiui fcolpitc j] ueggono &lealfre belle imagini.dimoftra:? no chiaramente, che il fonte c ftatofagratoak le Ninfe.&ad Acheloo. Non ti accorgi olfra di quefto, quanto gioconda, écfoanefia Taura^ (che quiui fpjrar fi lente r Oltra ciò/i ode una moifitu'crine di cicale: ìe quali, fecondo il temrs po cantando, ne fanno fentiie un concento non fo come fcaue.fiC piaceiiole. ma più dbgni altra 'Cofa,mj pare degna deffcr lodata quefta tenera herbetta,Iaquale.4 mirarla, pare che ella beni: s griamenteafpetfi, che altri ripofiil capo fopra 4/ lei perriceuerlo.tìcfoftenerlo commodiffima mente. Per il che Fedro mio caro, fu mi hai me nato hcggi qui, doue io fono come foreftiero, per farmia ftare più uolenfierijl che hai fatto prudentemente. FED. Chi ti.fentifre.crede:^ rebbe che tu fufli huomo da pochiTIimo: flC cer:s tamente a quel. che tu dici, tu pari più prefto un foreftiero.che uno del paefe: talmente di^ moftn non hauer mai pafTato i noftri confini, ne effer mai ufcito delle noftre porte, SOCR. Perdonamf Fedro mio da bene,|) ciò che io, coxnc (u fai^foiamente defidero imparare:& fu bea falche gli alberi, fiele unie,& li campì, non ttìì pofTono ifegnare cofa alcuna, ma fi bene gli huo >mini, che habitano la città. Ma tu, fecondo me> hai truouato un modo da allettarmi all'ufcircì qualche uolta: per ciò che fi come coloro, che à *gli animali moftrano frondi,ac porgono frutti, li menano doue uogliono: cofi tii,moftrando5 mi queftolibro,mi menareftiper tuttq il contar no d' Atene, doue tu uoleffj. Hora poi che fias mo giunti qui, mi pare di pormi à federe: fiC tu acconciatoti in quel n(iodo,che più commodo ti parrà, comincerai à leggere, F E D * Odi adunque» • In questo (lato certamente fi trubuano le cofe mie: flC quefto comc fai,p0:s co fì intefo da me,penfo che m' babbi à gioua:^ re affai. Hora io uoglio che fappi, che io ftimp, ce giudico, fecoia alcuna io ti domanderò, dos: uerla da te per quefta cagione impetrare, per ciò che io non fon prefo del tuo amore • Et che ciò Ca il aero, tu fai che gl'amanti, come prima han no la lor libidine fatiata,fi pentono de i benefiis cii,che ti hanno mai fatti: ma quelli, che dall'ai mor legati non fono, non fi pentono per tempo alcuno, la ragione è quefta, Che eglino fanno li bcneficii per fe fteflì penfatamente, fiC fecondo che pofTono.fif che le facalfà loro compocifanot et non fono à ciò sforzati, còme gli amanti. Ob tra cib,gli amanti alle uolte tra fe ftcflj penfand quanto negligentemente dall'amore impediti J habbino le lor faccende condotte à fine, ft quaa li beneficii habbino con troppo danno loro à gli amati fatto.flC quanti affanni,» quante fati^ che habbino fofferto: fif per quefta cagione mai hanno da gli amati bene alcuno,tengonù per certo non glie n'effere obligati.mahauera gliene per J'addietro dato degno guiderdone Ma coloro, che dall'amore non fi truouanoinii ' - gannafi,nonfi lamentano di effere ftati pccd accorti nelle faccende lóro: non gli duol delle paffate' fatiche, non fi rammaricano, per cagion deiramato,hauer con li parenti fatte grauiHime nimicitie,come fpeffe uolte fuol auuenire. Onai k de tolti uia tanti mali, che à gli amati fòlamenie interuengono, refta folo,che quelli, che non amano, come fo io. fieno fempre pronti,» para tiffimi à fare tutte quelle cofe,che penfano potergli arrecare giouamento. Sono molti che dicono,che per quefta cagione fi douerebbond affai gli amanti appiezare: per ciò che grandif^ fima è la carità, che uerfo gli amati loro hanno « tutte le bore, flC che fempre apparecchiati fi truo «ano à ubbidire air amato, ec a fargli cofagri!* fa ce con le parole, et con le opere, anchora che perqucfto ceruffimi fuffcro, doucre offendere pgni altra perfona. il qual parere di qui faciU xncnfe fi può confidcrare non edcr uero.chè Ic^s uafa alle uoltc la beneuolentia da uno,* in ua^ litro portala, affai più confo de i nuoui amanti 0inno,chc di quelli, che prima haucuano: fiC che pm,fequefti amanti più frcfchi gli el com mette/fero, diuentarieno c^udeh/Tjmi inimici de Ipaffati. Etin qual modo pofTjamo noi dirc^ CHE NEGL’AMANTI SIA COSI ARDENTE AMORE, efTenj: do à quella infelicità, et calamità fottopofii, dals: la quale perfona alcuna quantunque fauia,& acs: corta, mai potrebbe rimuouerhV Et quefto è, che codoro ccnfeffano per loro fleffi effere anzi fuor di loro, che non^ft dicono conofcere la loro fcioccheza, a: pazia,ft non di meno non poa» tjfrfene rifenere,o i;ifliuouerc. Et pero gli huoismini faui, come potranno approuare, et giudicar hiioai i configli,fiC i pareri di perfone da tal mancamento macchiate.'' Olfra CIO, fe tu uorrai fciogliere un'huomo in ogni parte perfetto tra gli amanti, bifognerà che tu faccia quella fcelfà tra pochi, che pochi fono quelli, che amantifi poffano dircma fe tu uorrai procacciarti ungami tò.ì)totnpagfio, recòr)(5ofl Mi^ctio tuo,^acl t^nicofa atto;&accommodato^tra quelli, chè non amano Jo potrai più fàcilmente fare: pct tiòchc tra molte petfone ti ùd toncefTo fctrglict lo:^ più debbi fpcrare di bauere un buono ami co tra molti, cHc tra pochi, à trotianc- Et fe al fi ne tu temi,» fuggi, come debbi fjre,l'in6mf* publica.i8C il biafimo unuierfale, quale per òrdi ration delle leggi fi può ffTet dato.ti et bifos^ gno ramf n(arti,che gli amanti\li quali per quel la cagione uoriebbono tfTer^ amati ^ per \m quale amanoilogliono poi che al defiderato fint fi ueggono giunti, gloriarfi, OC uantarfi alla fco3f perta,che eglino non hanno m uano ncHorol «more confumato il tempo. Ma quelli, che noft tìmano, con ciò fvache facilmente pofTano taccsi re,a: tenerfi di due quel, che hanno fatto, han^a no coftume di cercar più toilo quel, che penfa^j no eflérottim.o per loro.fiì per lamico^che Tefa fer dalla moUitudine, fiC dal nolgo ricordati,^! portati per bocca. Aggiugnc anchora à que^s fto.che acccrgendofi la plebe, che un'aman: te fegua un' amatorie afliduaménte in ogni cofa Mclcntierrgli ubbidifca,^< fimilmente gif compiace a, fubito entra in fofpùlto^ che tr* loro non fu flato, o nori fia càttiuo defidcdQ^ ma non ha già ardire di bafitnarc le amicitie dr coloro, che non amano: per ciò che ben fa, che à gli huomini fa di bifogno ben fpelfo infieme ritroiiarfi.ò uero per cagione di amicitia,ò uera per qualche lorocommodità. Etfe forfè tu teis fnefTì di quelli, che non amano, fic penfaffi, che fuffecofa diffìcile, che con quei tali Tamicitia durafTe, anzi nata qualche guerra, ò nimicitia, du^jitafTe che ne ne fu(Te per uenire danno deU r uno, ài deir altro: CC (e poi tu, concedendo i un, che non t'ama, quello che più d'ogni altra Éofa apprezi,ne uenifli per quello non poco ofss fefo,fiC faccfTì non piccola perdita, facendo cofa grata à chi poco, ò niente ti appreza, ti dico che per quefta cagione barai maggiormente da te^s mere GL’AMANTI per ciò che molte cofe fon quel le, che gli offendono, CC fenipre penfano che ciò the fi fa, per danno loro fia fatto» Et per quefto uietano à gli amanti loro il conuerfare tra gli aU fri, temendo fempre che quel l'i, che di loro più ricchi fono, non li fuperino de benefici!, ò uero che gli huomini dotti non li uincano di fape: re. Et in fomma fe perfona conofcono. che in fc babbi cofa alcuna di buono, quàto più poffono, fi sforzano da coftui rimuouere gli amici, flC cofi perfuadendoli, che da fimil pratiche fi guardi^ no. no,à poco à poco li prfuanó di tutti gli amfciv^ ^ Hora le tu penlerai bene à te, « a quelJo,chc>i fi conuiene,flC Te farai miglior deliberafione di loro, non fi appiglierai al parer loro, ma te ne difcofterai quanto potrai. AlT incontro coloro^ che del tuo amore non fon preri,ma fanno quei le cofe,che ueggonoefTer conuenienti,& fi fcr^ uono ne i bifogni,folo per operare uirtuofameij te,(5f efortati à ciò da una mrtù,a: bontà d'ani:? mo, non ti haranno inuidia,fe ti ucdranno prassticar con altrui, ma piu tofto quelli harani>ojp odio, che à te non fi uor ranno accoftare,penfando (come è uero ) che coftoro li fprczino,£Ì gli amici ti giuouino,à; aiutino: flC per qucftp^ molto maggiore fperanzafi dee hauerc,che da quefta praticane uengano amicitic,che inimù citie.Aqueftecofe fi può aggiugnere,che la maggior parte de gli aitanti, prima defiderano pofrcdere,flC godere il corpo dell amato.che hab biano conofciuti li coftumi fuoi,ò l'altre cofe che debbono in un'amato ritrouarfi. Et di quì uiene.che fi dubita,fe latiatala uoglia loro,dei bano nella amicitia perleuerare. Ma traquelli^^ che non amano, li quali efTcndo per T addietro flati amici, non laceuano quelle fimihcofe in bf neficio dell' amico, per che eglino fuffero trop:? po afFcttionatl urrfo Ai hì^t cofa ragicneuolc, che l amieitia fia minore: ima bifogna ben cons; fefEire,chc i beneficii, che Tannargli facciano, accio che per quel mezo habbiano à efier iicor:s ciati daqnelli,che dopo loro iierranno,doue gli amanti ad altro, che al prefente, no attendono. ©Ifra di quefto(credi à nfie)diuenterai affai nusj gliore,fc afcolterai un che non ti ama, che fe à un amante prederai le orecchie: per ciò che gli amanti con lodi infinite inalzano oltra modo tutte le cofe,che fu fai, odici: parte per che te:J tnono,fecendo altrimenti di non ti offendere: parte per che dallo ardente defiderio loroacce:^ catione! giudicare fi ingannano: per ciò che la^ more fa, che coloro, che ne i cafi d'amore poco fortunati Ci ritruouano, fono sforzati à giudicare quelle cofe trjfte.ft infelici, chea gli altri non darebbono moleflia alcuna ^ Et per il contrario quelli^che hanno buona fortuna^flf che dtll'as worlofo fi godono, a mal ior grado fonconrx dotti a lodar quelle co(è, come fauoieuoli.fiC gioconde, che non meritano, ne poffono fare ftar contento huomo alcuno: ££ però più toflo farebbe di b/fogno di quelli tali hauer compaf? fione. che fegui tarli. Hora fe tu uorrai credere. alle ter alle mie parole, io primieramente uoglio effe* tuo amico,ac darti apprcfro,non per il piac^re^t che di te al prefente potrei haiiere, ma per la utf lifà,che la mia amicitja per Io auuenire ti potrà dare. Et non farò quefto, legato, òuinto.ò fog^ gietto all' amore, ma uorrò effer patrone di mcs ftefTo: a non douerai temere, che io per cagiost ne alcuna, ben che leggiera, habbia fra noi à (xt nafcerc grauiffime nimicifie,anzi fc pure alle- uolfe mi altererò alquanto, non lo farò fenza grandiflìma cagione. Et non di menoqnclli er:s rori che inauuertentemente mi uetran fatti, al fine liconofcerò: ft quelh,nelii quali uolontariamente incorrerò, mi sforzerò emendare, AC»- fchifare.flCquefli fono ucri fegni d'unaami^ dtia,che habbia lungamente à durare. Etfe for fé tu pcnfi,che non pofla truouarfi una ueia^CC ' durabile amfcitia,fe dall'amore non è cagtona^. fa, debbi confiderare,che per quefta medefinia cagione noi non appiezeremo gli figliuoli, ne ameremo li padri, ne terremo cari, flC fedeli co:s, loro.che per buoni ufficii,a: beneficii fattici, d fuffero diuentati amici, fe da quefto ardore amo rofo non haueflcro hauto principio Potrecs ftr dirmi. Si dee fempre fare bene à queU li huomini^ che ne hanno più di bifogno; ft però è cofa conucnientc.non cercar di giouars rcàglihuonnini,chepcr fe fteflì hanno, mai quelli, che fono più bifognofi: per ciò che co:^ ftoro^fe da me ne i maggior bifogni loro farani; no aiutati, mi renderanno Tempre infinite gra:^ tie. Aqueftofi rifpondo che fe ciò fuffe uero, nelle fpefe che priuatamcte facciamo,fiC ne i do ©eftici conuiti, non haremo à inai tare gli amis; Ci.ma più torto gli affamati, fiC li mendichi: per che coftoro molto più apprezeranno un tal bcis,neficio,ti feguiteranno,ti corteggieranno, ti fanno fefl:a,ti ringratieranno infinitamente, fiC pregherano iddio per te. Onde tu puoi uedere, che fi conuiene non compiacere à i bifognofi principalmente, ma fi bene à quelli, che ti pof:^ fono riftorare. Et per quefto non à GL’AMANTI comeà bifognofi, ma à quelli, che mentano, debbi far piacere: et non debbi fodisfare à quei lische della tua belleza fi delettano,maà queU lische anchora quando farai uccchio,ti fono per dare utile: ft non debbi giouare à quelli, i quali hauendo il defideno loro adempiuto, fcoperta^: mente fe ne uanteranno^ ma a quelli, che uer:^ gognofi taceranno. Et non debbi far cofa gra^s ta à coloro, che per ifpafio di breue tempo ti ho BorerAoao.ma a quelli^che tutto il tempo dell* uifa tua ugualmente ti ameranno: 6C non debb accarezare coloro,! quali, fpeto l'ardore del loro sfrenato defiderio, cercherano Tempre cagioni di far nafcere nimicitie^ma quelli,! quali (anchora che la belleza manchi ) Tempre moftrano la fcrj: meza^flCla conftantialoro. Ricorderatì aduns: que di quelle cofe, che io ti ho dette, flC penfej: rai che gli amanti fono da i loro amici riprefi,fiC accufati,per chc.ramoreècofa brutta, OC inde^ gna,ma nenuno uitupera,ò biafima quelle, che non ama, dicendogli, che egli fi gouerni male, come fi può dire à gl'amanti. Foife mi domane: derai.fe io fi uoglioconfegliare.che tu debbia ubidire à tutti quelli, che non tramano. Al che io ti rifpondo,di nò: perciò che io focerto^chc iimilmentc UN TUO AMANTE con ti comandereb be.chc tu à un medefimo modo amafli tutti quelli che ti amanorper ciò che quelli, che han no da hauere gli benefici! da te, non meritano tutti ugualmete.nc à te farebbe cofa facile coms: piacere à tutti, fe uolefll che uno non s'accorgef fi dell'altro;&bifogna che di quefto feruirc nonne uenga danno alcuno, ma fi bene/che r uno a l'altro ne cauì qualche utilità. Hora io penfo hauer detto à baftanza: fe à te pare, che io ci debbi aggiugnere qualche coU,Aor.uujgi da,ch^ io ti fodisfarò. Cloe ti pare di quefla Ora fione Socrate r' Non é ella fiC nelle altre cofe,& nelle parole comporta mirabilmen ter SOCR. Ella è tanto maravigliosa, che mi ha fatto ft(i:s pire,fif tutto, per tua cagione Fedro mio, mi (os no fentito commouere, mentre che io guardauj gli attrae i gefti,chc nel leggere quefta Oratio: ne faceui. Et però penfando che tu meglio, che io, conofca^flC intenda fimili cofe,ho hautoad ufcir di me per troppa allegreza infieme con tes: co^ FED. Inqueftomodo mi uuoi burss lare? S O C R. Adunque parti, che io ti burhf' Non penfi tu,ch'io dica da aero/ FED., Non certo: Ma dimmi un poco per tua fe^penss fi tn,che altro Greco intorno à fimil materia po fede dire più cofe,« pia d9ttes* SOCR, Pen fiamonoi.chcfia da effer lodato uno Scrittore folamente per che gh babbi detto quelle cofe, che fono ftate necefTarier'òpure diremo, che meriti lode, per che egli babbia tutte le fue paroledifpcfl:e,£(ordniate chiaramente, numeroiamen te, a elcgantementes' Se à te pare, che bifogni lodare Lifia per la inuentione, IO per farti piacere, tei concederò ma io per la mia fciocche^: za,(S(ignorantia,non Tho in luì conofciuta.pcr ciò che folamente ho attefo alla eloquentia dei pariate: al che poter perfettamente fare, io non penfo che Ljfia fteffo hc'^bbia penfato d' efier fla fo bafteuole. Et cerfainenfe à irìeè parfo(fé già '^tu non uolefh dire il contrario) che egli habbia leph'cato dne,flC tre uolte le medefime cofe.co^ me fe gli fufTe fnacata copta di faper dire diuerfe cofe fopra una mcdefima materia.ò uero uoglia^ 'imo dire, che egli no babbi hauto Ibcchio à quc fto. A me certo, fe tu uuoi,cheio ti dica la mia cpintone,è parfo che egli habbia uolufo parere •^di faper moftrare elegantemente in ogni modo, *cKe à lui pareua quella cofa,che fi metteua à dl^ chiarare, dicendola bora in uno,& hora in un' al tro modo. FED. Socrate tu no dici niente: per ciò che quella Oratione ha in fe quefto,chc neffuna cofa ha lafciato in dietro di quelle, che intorno à tal fuggietto accomodar fi poteuano: "onde io giudico, che neffuno poffa di quefto me defimo più cofe dire.tt phi uerifimili di quelle, che egli ha dette. SOCR. Quefta cofa non 'fi poffo io hormai più concedere, per ciò che gì' huomini raui,chc ne tempi paffafi furono, flC le donne, che di queflo hanno parfato.ficfcritto mi riprenderebbono,* mi arguirebbono con:? 1ra,fe io per la tua fodisfàttionc tei concedeffi ^ FED. Chi fono eglino quefti huomini, flC qiicftc donne Et douchai tu udite migliori cofc diqueftes' SOCR. Al prcfente io non me ne ricordo cofi bene, ma fappia cerfo,che io non fo in che luogo ho letto,flC udito quel, che io ti dico, et potrebbe efTere.che fufTe ò nelle opere della^èlla Saffo. buero ne libri del fa:5 aio Anacreonte,ò uero d'altri Scrittori: fiC faps; pi, che non per altra cagione fo ioquefta coniet 4ura,cheper fentirmi pieno d'altri argomenti non forfè peggiori de fuoi,che intorno à ciò fi potrebbonp addurre, Et per che io conofco be^ ni/Timo la mia ignoranza, fiC confcfTo che io non fo cofa alcuna, fenon per hauerla ueduta in aU tri^fiCnonperhauerla imparata da me, hi fogna che io confeffi di hauere attinte quefte cofe daU le fonti d'altrui à guifa di un uafo: ma per U piia rQizeza,mi fono fcordato da chi io le habbù.iaiparate,flCinche modo. FED. O Socrate da bene, tu fai bene à dir cofi.ne uoglio che tu,dica anchor che io te'l.comanda(ri. dachi,fi(eoa?.me babbi quefte cofe apprefe: ma uaglio benc^ che tu mi moftri (come confeffi di poter fare.).quelle ragioni, che dici, che fai più efficaci, OC più dì quelle che Lifia intorno a ciò fcriffe.ll che fe farai, non dicendo le cofe, che diffe Lifu^ ti prometto confegrare in Delfo una ftatuadcl mcdefimo pefo,chc fci tu j1 che fcgliono fare i none noftri Magiflrati, come fai» SOCR* Tu mi uuoi Fedro caro un gran bene,& fei uc^^ ramente d'oro,fe tupenfi che io poffa dirti, che Lifia habbia errato, ftche fi pofTano fcriuerc cofe migliori di quelle, che egli ha fcritto. Io uo glio che tu fappia,che io non direi, che ciò po:5 tefTe accadere à un uiliflTimo Scrittore, non che i lui. Ma per dirti anchora quelle cofe,che io fo, non già per riprendere lui, primieramente parlando folo di quello. che fi appartiene à quc ftonoftro ragionamento, penfi tu che colui, che uorra prouarc.che fi habbia più tofto à fare pia:^ cere à chi non ama, che à chi ama.fe prima^nbh prouerà,chechi non ama,fia fauio,flf pruden:? te,ft l'amante infano, flC fe quello non loderà, flC queflo non biafimerà (le Squali cofe fenza dù bio alcuno, ne uengono di neceffità ) poffi nel proceder fuo dir cofa alcuna, che alle prime fia corrifpondente (Non di meno io giudico, che quefte fimili cofe, che di neceflìtà ne fegucno, fi habbiano à rimettere nella uolòta de gli Scrit tori,ficfe non le dicono, gli fi pofTa perdonare: per ciò che di queftj tali non fi dee lodare la in:^ uentione,man bene la difpofitfone.Ma di quel le cofe,che neceffanamente non fi concedono, flCcIie difficilmente firitruouano,non foìo pèfì55 fo io, che fi babbi à lodare la difpofitione niala muentione anchora. FED. Ti concedo che fu uero quello, che tu dici: per che mi pare, che tu habbia detto apprcfTo che bene, OC ioanchora intendo non indugiare k fare quefto.che hai detto: « però ti concedo^che tu prefupponga, che un' amante fia peggio trattato, che uno che Jima. Hora fe tu nelle altre cofe,che dirai, mi fass rai fentire p/u dotte ragioni, flC più degne parole che egli nò fece, ti prometto, che ti farò una ftass tua d'oro nella Olimpia apprcfTo alle ftatue de gli fucceffori diCipfelo. SOCR. Tu liai Fedro forfè hauto per male, eh' io habbia ripres: fo un'huomo tantoàtecaro,ma io mi burlaua teco. E penfi forfè tu, che io fia per pigliare(la:i fciamo andar le baic)un imprefa di hauere à di^ recofa alcuna più elegantemente di Iui,che.c fauifrimo, C£dottiffimor FÈD. Tu fei ritornato Socrate mio in un medeftmo, dicendo que fte parole. Tu hai da dire in ogni modo quel, che tu fai;ft eoe potrai: flcfopra tutto auuertifct^ che in quefto noftro ragionamento non ci con:» uenga fare quel, che fanno coloro, che recitano le Comedie.ciÒTè rifponderci troppo fpeiTo T un 1 altro; il che é.fccondo me.mokftjflimo. E non far fi, che io fja sforzato à dire, come tiJ,pòco fi dicefti. Se ici no fapefli chi fufle Socrate, potrei dire dj non conofcere anchora me ftefTotperchc certamente fo,che tu hai defidcrio di fodisfarmi: ma tu uuoi fingere, che quefta cofa ti fia difficii k,'Et per dirtela, finalmente tu hai da penfare, che tu non Tei per partirti di qui ^ prima che tu non mi habbi dette tutte quelle cofe,che tu dirs ceui fapere migliori di quelle, che hai udite: pei! ciò che tu uedi,che nei fiamo foli,(3C in luogo re moto.fiC regreto,fiC io fon più giouane, (!f più ga gliardo di te. Si che per quefte cofe tu puoi ìn^ tendere per difcrctione quel, che io uoglia infes? rire: ne uoler più tofto hauere i ragionare sfor^> zatOjChe di tua uolontà.. SOCR. Io lo fo mal uolentieri.-perche io conorco,chc io farò degno delTer beffato, fe io, che fon rozo flC fciòc co al poflibIle,uorrò coptcdere con uno cofi per fetto Scrittore, flC fe io uorròalla fprouifta difpu tare di quel mcdefimo,di che eglipenfafamentc ha ragionato. F E D, Sai tu f^gmc la co(a ua^ Lafcia andar quefte cofe meco: per che io credo quafi hauer trouato una uia,|) la quale io ti con durrò.flC sforzerò à dir quel, ch'io defidero, Soc. Non mei dire di gratia. Fed.Come no mei diref anzi Io uoglio dire, io mi uolterò alli giurameff^ poi che alfro non mi naie. Io ti giuro per qatW iddio clie tu uuoi, flC anchora,fe ti pare, per quc fto Platano, che fe tu non dici quel, che tu fai al la fua prefentia,fiC fotto quefta fua ombra, io da qui innanzi non ti moftrerò.ne ti manifefterò mai più oratìone di perfona alcuna. SOCR. OfceIerato,chehaitudettor'Ocomc bene hai ritrouato il modo di sforzare un'huomo defide» rofo di udire orationi,come fono io,à fare queU lo,che ti fuffe in piacere, FED. Hora fe tu ne fei, come dici,cori defiderofo,che indugi tu più? S O C R. Io nonindugierò più lunga^ mente, poi che tu4iai fatto un fimil giuramen:? to: per che come potrei io uiuere.fe io fuffe pri uo di cofi dolce cibo? FED. Hor dì aduns: que. SOCR, Saituqucl, cheiouogliofa5: re? FED. Che cofa t' SOCR. Io dirò quel,che io intendo dire, col uolto.fiCcol capo coperto, per dire più pretto: per che fe io mirafs fi a te, farei impedito dalla uergogna. FEDi Pur che tu dica, fa quello, che fi piace. SOCR; Hor fu dunque ò Mufe dolci, il qual cognome ui fi dà perii modo del uóftro cantare, ò uero per la dolceza della Mufica uoftra, la quale fi dolcemente fuona,fauoritc ui prego,& aiutate quello mio ragionamento, il quale mi sforzai éitt quefto huòino da bene: accio che poi che mi harà udito^giudichi anchora molto più pru^ dente il fuo caro amico Lina, che prima cefi uìó gli pareua* T V haicla fapere,chefik già un fanciullo^anzi pure un giouane di gen:i tiliflìmoafpetto:coftui haueua molti amanti^ tra li quali un'huomo certamente allato gli diede ad intendere, che non Tamaua^nc per ciò punto meno de gli altri il fencua caro, fif gli uo leuabenc.Hora auucnne.che un giorno egli lo pregò, che al fuo defideno compiacer doucli fe,flC per impetrare quello, che egli domanda» ' ua,gliprouò che maggiormente fi doueuafare cofa grata à colui, che non ama, che à COLUI CHE AMA. Et per farglielo intendere, gliCi moflrò con quefte ragioni » In tutte le còfe fall v^>^^> ciuUo mio à coloro, che confultar bene,ò difpuf-^'^-^\ tar uorranno,fa di bifogno hauere un folo.qjìj roedefimo principio, quale è il conofcere,flC insK ^tendere che cofa fu quella, intorno alla quale fl'^;: o' confulta, ce difputa: altrimenti è neceffario in tutto errare» E fonomolti,chenonfi accorga:» no di non conofcere, ne fapcre la fuftantia della cofa, della quale ragionano; fif cofi come fc egli» nolafapeffero^nel principio della difputaloro ' altrimenti non la dichiarano: tal chenel lor pioi^ cedere ne feguc,come è hccefTario che inferuerii: ga.che eglino dicano cofe fuor del loro propos: fito^adagli altri male intefe. Adunque acciò che ne à me, ne à tc interiienga quei, che in al:: ^rui biaCimiamo,pofcia che egli è hora differctiìi tra noi, Te fi dee più tofto pigliare Tamicitiadi colui, che non ama, che di colui, che ama, farà buono che uediamo, che cofa fia amore, et che forza egli habbia, dandogli qualche difFinifio^ ne, alla quale l'uno, fif l altro di noi acconfenta» tt cofi dipoi, hauendo fcmpre 1 occhio, flC ogni. fìoftio argomento drizandoà quella dijffinitio:: ne, confideraremo fé egli dannoso utile near^ reca. E adunque ccfa manifefta a ciafcuno, CHE L’AMORE ALTRO NON È, CHE UN CERTO DESIDERIO. Sappiamo anchora che fimilmente queni che non ainano, hanno queflo defiderio di cofe belle, fiC buone. Per intendere aduBque in che fia diffe^ rente l'amante da quel, che non ama, tu dei fa:5 pere, che in ogni perfona fono due idee, le quali ci fignoreggiano, ó: doue più li piacerci uolta^ no Je quali noi fumo à feguitare sforzati ouunis que elle ci conducono. Vna delle quali infiemc con noi è nata.fiCqucftaè j1 defiderio de i piacer ri, L altra T-habbiamodopo il nafcimento noftro acquiftata; fiC quella è quella opinionc,che ne gli ììiiomfni (5el fonimo Wne fi ut je,per fa qn* ic tanto afìetfuofamc'jntc lò defider/arho. Qaeftft: alle uoltefono in noi fra loro amiche, alle uoltèi' in difcordia fi truouano, et bora quefla uince^ feor fupera quella Quando adunque quella opf fìione del fortìmo bene, cÌ>e difopra hò detto^ dalla ragione guidafa,à qrfel'lo ciie è nero b^nc^; •ci conduce, uincendo il defideriode i.piacen\ quefto'nTodo di uiirere fi domanda femperanfiaS ma quando quello sfrenato defiderio, lontano al tutto dalla ragione, ci fpingc.flf sforza à feguià tare ipiaceri,& amai grado noftro fi fa di nof ^padrone, quello fuo imperio fi domanda libidi^si w: ài efTcndo h libidine di moìu fòrti, £(ha^j uendo molte parti, anchorà è nominata in molss li modi. Et di quelle molte forti di libidine, chfi io dico, quella cbe più ch'altra T alc'unb fi ritrud ua,dj à colui quel nome,col quale ella é chiais mata me può à coloro, li quali ella fignoregà già, nome alcun dare bonefto,ò buono- per chè quel defiderio, che intorno alli cibi uince &Ia ragione, fiC ogni altra uoglia,fi domanda golo^s fità: 8C colui;che ha in fe quefto alt pigi ian:^ do il.nome medcfimo, fi chiama golo(o, Anà chora quel deficlcno, che intorno al bere,d'ù'à no fi impadronifcc^è co(a chiara, flC maiiifefta^donic fi douerà chiamare, fiC anchora che nome liauerà colui, che da tal noglia fi lafcerà uincere: àfimilmentc pofTono cfTer chiarina manifefti. ì nomtde gli altri defiderii congiunti à quefti. Hora io penfo,che quafi fia fcoperto.perqual ca gionc 10 ti habbia dette quefte cofc, ma uoglio io tacerlo. òuoglio dirlo.'' Io lo dirò pure, per elle più fi intende una cofa à dirla, che à non dirla. Et pero dicp,che quel defiderio priuo di ragione, il qual fupera,&: uince quella opinion: ne, che è Tempre al giufto,fiC all' honefto indirirs zata,a ci rapifce à cercare il piacer della belles: za, quindi col moftrarci quei diletti, che dalìa bellezadiun corpo fi cauano, pigliando non piccole forze. fiC rinfrancandofi, ci uincealtutrs to>flC ^^^p^t^aquel defiderio, dico é detto ^§cù9» ciòèamore,daf 6J/^K?,che uuol dire gagliardia. Parti egli, tedio mio caro,comc ì me, eh' io habbia détto diuinamente T FED » Certamente ò Socrate che fuor del tuo folito,ti fei non fo co:5 me più ampiamente allargato. SOCR. Taci adunque,^ odimi; per ciò che qucfto luogo è certamente diuino,flC pero non ti marauigliare, fe nel parlare farò dalle Ninfe di quefto luogo iafpirato à dire cofe diuinc: fif tu puoi hauer co fiofciuto,chequci]o,che iopocofa,diceua,non fono Tono (late molto difllmili da i uerfi Ditirambi ' che fogliono dire le facerdoti di Bacco all'horaj^, che dal loro iddio fono ripiene di diuinità. FED. Tudiciiluero. SOCR. Di que? (le cofe ne fei cagion tu fenza dubio alcunormk odi quelle cofe, che reftano, accio che io non nji fcordi di quello, che hora me fouuenuto,al che fo certo io che iddio mi aiuterà, ft no mi ufciran no di mente. Et pero ritorniamo, feguitando il ragionamcto noftro,al fanciullo,col quale. diao zi parlaua.Hora fanciullo mio, noi habbiamo detto flC dichiarato che cofa fia quella, della quacs le noi ragioniamo. Adunque hauendo feraprc- I occhio à quefto confideriamo.lora quel, che nercftaà dire,flCquefto è,Chegiouamento,Ó: che danno fia per uenirc per cagion di un aman te,ò di un che non ami,à colui, che gli ubidirà. E adunque neceffario.chc un' huomo uinto dal la libidine, Sedato alli piaceri, cerchi femprc con ogni fuo sforzo, che ramato più che altra cofa,gli babbi da piacere. Sai àhchora che ad uno che é infermo,gli piacciono, flC gli fon gra^ te tutte quelle cofe, che alla uolontà fua non repugnano, f5C quelle gli fonomo(efte,fi£ difpia^ ceuoli^che fono di lui migliori, ò feno migliori, ugualmente buone /£t pero efTendo T amante \t)fcmo,fìon potrà mai pafifc,clìe uno amato jpaà lui uguale, ò da pia, anzi cercherà femprc- ^^uanto potrà, fìflo da manco di lui.a più bifors ' ^^nofo. Et per che tu fai, che un ignorante è d:a^ manco che un dct(o,8C d'un forte un'timìdo,* 'id'un oratore,© olequente uno inelegante. fi(po^ co atto adire, d'uno acuto, «uiuo ingegna kinofcmplice,er fcioccho.fe qaefti,»: molti ali. |ri mancamenti dell' animose per natura conofcè; Ìitfóuar(ì,ò per ufo in un'amato efTcr nati, ali Thora godeva fi rallegra lamantetS: non gli bi ìftando quello, fi sforza anchor de gli altii pro^:^ cacciargliene; altrimenti non gli pare poter ca^ Ilare dell'AMOR fuo piacer alcuno. E adunque- HeccfTario, che un amante habbia Tempre inui* ^laall'amato et rimoucndolo da ogni amicitia, ite da ogni efercitio per il quale "pò te (Te diuenà tare eccellente, bifogna che grandemente glii inuoca; a k non gli nocelle per altro, per quei, fio al meno gli è dannofc,che lo prfua di queli |a co6, che ne fa prudentflimr. Per cièche la di iiina fìlofofia è quella.per la quale ueniamo pru^ "déntiffimi'dalla ì]*tiafc lamanfe e sforzato rfmua ll^rc quanto può ì' amato, temendo Tempre di' •pon effcre'fprezato da lui, fé pm prudente chft; V?li nQO è.diuentaiTe,.CC in fomnia fi sforza f?r« ogni cofa,'pèr la qaale egli al fu((o ignorate dh uenga.&fimaraiiigli folo di quelle parti, che ramante pofTiede. Qriando adunque farà tale la niato,airhora farà ali amante carilIìmo,ma dans: nofiffimo a fe ftefTo: fiC cofi puoi uedere,che in torno à quelle cofc,che al fapere fi appartengo:?. no,è lamicitia con un'amante nocina. Debbia^ mo bora confiderare in che modo colui, che c sforzato à anteporre il dilefteuole al buono, hab bia da hauer cura di quel corpo, che egli ama,ca fo che a lui fuffe una tal cura commefTa. Certas: mente che egli defiderà che quel corpo non fia fchietto, fiC duro, ma delicato. et molle, non nus:, trito.aauuezo al Sole nelle fatiche, ma fottò - l'ombra nelle dchcateze. Vorrà che fiaalleuato lontano da futri Ij pericoli, fatiche, che non habbia mai prouato fudore,» lo farà uiuere con cibi feminili.ac delicati. Lo auezerà à crnarfi di colorila fàccia,» di stranieri,fiC nuoui ucftimeti la perfona,» à fimili altre cofe,le quali tutte eù fendo dishonefte,» brutte à raccontare pia lun gamente,perpafrare ad altro le lafciercmo an:? dare. Vn corpo adunque fi fattamente allcuato^ nelle guerre,» in ogni altra pericolofa necefll^ ta,incmicì ficuramente uincono; onde li faci AMICI,» gl’AMANTI hanno femprc più paura, che à coftui qualche male n5 interuenga^che ad *ltri: ma qiicftacofa.efTcndo per fc fteffa cliias ra.lapoflTiamolafciarc andare. Hora habbiama da dire che dannoso che giouamcnto nelle co^ fesche di fuor uengonojaamicitia.flC laguar^: dia D’UN AMANTE ci arrechi, Qnefto adunque è chiaro à tutti, flC nnafiime à un amante, che egli ' defidera.che il fuo amato fia priuato di tutte quelle cofe.che egli pofTjcdeJe quali amiciflì^ lfte»gratiffime,tì:peift:ttiffimegli fono: perciò che egli defidera, che gh fieno tolti li parenti,, Ce gl’AMICI, penfan do che quelli gli dieno gran df impedimento à goder la dolceza della ami^ citia dell'amato, Ol tra ciò penfa,che un fanciul lo ricco dbro.o di qual fi uogli altra cofa,non poffi cofi facilmente effere prefo d'amore: flC fe pure è prefo.uede che troppo lungamente in quello amore non può durare. Et pero bifogna che un'amantecomejnuidiofo,fi dolga della felicità dell' amato, flC fi rallegri della miferia del medefimo, Defidera anchora,che lungo tempo uiua fenw moglie, fenza figliuoh\OC fenza cala^ bramando goderfi quel pucere,che quando co:^ (Ifi ritruouano, foIamente e/fj fentono. Sono ^^n(;hora molti altri mali in quefto amore, ma nel ia maggior parte di quefti mali, come prima (i comincia i amar qualche fpirita diuino,mefco5i. la fubifo un certo piacere, come ha fatto à uno adulatore, il quale è certamente una dannofifljs: ma fiera, fiC una grandifljma calamità: non di meno la natura ha mefcolato con quefta adulai tione un non foche di piacere non al tutto da fprezare. Oltra di quefto farà alcuno, che biafi:s mera le meretrici, come cofa noceuole^fiC altri fimili animali, ò uero fi fatti ftudi, quali foglio:? no al prefente deiettarci, douc 1 amante non fo^ lamente è noceuole^ma anchora nel praticarlo c moleftifTimo. Per ciò che tu fai, che il prouerbio antico è. Che li pari facilmente con li pari s*a^ nifconorper ciò che la ugualità dei tempo, della età di due(con ciòfiache per lalomiglian za de gli anni conduca gh huomini à delet tarfi de i medefimi piacerijpartorifce facilmente 1 amicitia.Ma ne gli amanti la età non pure non genera amicitia.ma arreca un faftidio troppo grande: per che la neceflìtà in ogni cofa à cia^. fcuno è mole{la,la quale più che ogni altra cofa è in uno amante uerfo T amato, accompagnata dalla difTomiglianza de gli anni, Et che fia il uc ro,tu fai, che amando una perfona attempata qualche giouane,mai ne il dì, ne la notte per fc ftcffo da Uh partir fi uorrebbe,ma è coftretto dal la necefljtà.à; dalla pafFionc amorofa^tt è fcm^prc dalle carcze de i piaceri allctfato lc quali nel ucdcre, l'amato gufta, ft pruoua nell' udirlo, ne! toccarlo. fiC in fomma nel goderlo con qual fi uogli fciitimento: tale che con grandifTimo fuo piacere fempre fi ftudia compiacergli. Ma r amato da qual forte di piacere, ò da qual follai zo potrà effer trattenuto, che in ogni modo egli non fu da grandilTima molcftia oppreiTo. Eflcn do fempre sforzato mirare una feccia d' un huos ino di tempo, flCbrutto.<5C molte altre cofe.che Don folo à colui fono molcfte.à chi elle intera ncngono,maanchoraà chi l'ode.tiouatc folo per una certa neceflità.che ha l'amante di farfi r amato bèneuolo: flC qucfto è l'effer fempre disf lìgentemcnte guardato quanti pafll faccia, l'udì re ogn' hora quelle faftidiofe lodi.tt quelle ima portune riprcnfioni, delle quali fempre gl'aman* ti abbondano, flC con le quali ogni giorno li ma ' Iettano: le quali cofe accafcandoà uno, che fia padron di fe.fono però intollerabili: ma à uno, the è fuor di fe,come uno amante, non folo fos no intollerabili.ma anchora per la troppa licerla tia,chefj pigliano di dire apertamente quel, che- gli' pare, fono brutttffime. Oltra di quefto men» tre che uno ama, è fempre dannofo.flC importa* no: ina quando poi ha l'aujor fine.diuenta perI auuenirc contra dj quello poco fedele, quale.,.con molti giuramenti, flc preghi, et promcflc ^ pena potè condurre. che egli dalla fpeme di pre mioàciòperfuafo.fidifponcflj à Apportare la moIeftafuaamicitia.Ai fine quandòpur glie concelTo ritornare in fe.fi rifolucà pigliare un nuouo padrone,ac ubidire ad altro fignore: £C cofi in uece dell'amore.a: della pazia.feguita lo intcllctto.a la ragione.* la temperanza; onde ùtto un altro,cerca fempre dall' amato fuggire, <f afcondcrfi. All'hora l'amato ricordandofi del le cofc die tra loro fi fono dette flC fatte, de i dati beneficii la mercede domanda, penfando che la mate habbia feco à ufar le mcdefime parole,chc prima ufaua. Ma l'uno per la ucrgogna non artifce confe/Tare d'elTer mutato,ne fa tronarc in ' che modo egli fodis6cci alli giuramenti, A pro:^ mefle,che mentre fotto la crudel fignoria d'amo refi ffouaua.inconfideratamenfc fece: « teme, «flendo già diuentato temperato. et nhidictc alli ragione, facendo le medefime cofe che prima.di non diuétare il medefimo.che dianzi era. £t di qui nafce.che colui. che poco fa. amaua, bora ua da fuggcndo.ac fchifando l'amato.ft mutatofi di fantafu.fi allontani da lui.come fe un di coloro |u|fc,a cui il gittato uafo fw cafcato à contrailo. tome ben fai.clic nel giuoco infcrutène, elici noftri fanciulli foglion fare. L altro all'incontro è sforzato à feguifare T amante. flC parendogli pur mal ageuclc cfler lafciato/j uolta al fine alle ma* le parole. Ne ciò gli accade contra ragione.per ciò che nel principio quefto tale no fapeuaquan tomai fi conuenifle, ce quanto poco lecito.» honefto fufTe à un'amante far cofa grata. quale è di neceffità fuor di mente.» quanto ben fatto fu (Te compiacere à un'huomo dall'amor libero, che fuor di fe non fi ritrouaffe. Ne tonofccns dofimilmente.che fidandofi di un'amante.G fida d'un huomo fttano inuidiofo, moleflo, dannofo.a inutile, prima alla roba. «poi ai corpo.ma molto più noceuole alla fcientia dell'aoimo.della quale nefTuna cofa è certamente. pia oenerabile a appreffo Dio,» apprelTo gii huomini. Qucfte cofe adunque douiamo fans ciullo mio confiderare.CC oltra di quefto fi ha da luuertirc.chc l'aroicitia d' uno amante da bene» uolcntia alcuna non nafce, ma da una certa aui» diùdi faturfi.comc gli a ffamati: et però ben diffe colui in quelli uet6, fe^omeillupo l'agnello. Cefi un giouin l' amante ardendo brama. Qiiefte fono ò Fedro quelle cofc.che io h Uf ua promcffo narrarti: flC però non uoglio pa bora dire altro, ma farò fine al mio ragionamens: to,anchòra che io penfaua d efTer folamcff giun toalmezodcl mio parlare, flC ci reflaffe à dire altrettanto di quelle, che non ama,&piouarc che più torto fi haiièffi ad ubbidire i un tale: oltra di quefto penfaua hauere i raccontare di quanti beni, flC di quante utilità uno, che non ama,fia ripieno, F E D, Perche adunque fi reftii' SOCR. Non hai tu confiderato,chc io non fo più quei uerfi Ditirambi, che dianzi m'ufciuano di bocca, quantuque il mio ragiona:? meto fin qui fia flato nel uituperarei* Hoia le io feguitado uolefli lodare quel, che n6ama, quan tohobiafimato l'amante, che penfi turche io dice/Iìf' Non ti accorgi tu, che io fono aiutato,, flC ripieno di fpirito dalle Ninfe di quefto iuos^ go,fiCper tuagratia,fiC per aiuto diurno l'Per la qualcofaio concluderò breuemente,che tanti beni fono in quello, che non ama, quanti mali ti ho moftrato truouarfi in un'amante; ft però iion ci bifogna far più lungo ragionamento, ha:? uendo già dell' uno, fiC deiTaltrò a bailaiiza ra^ gionato. Et pare à me, che la noftra fauola hab^ bla hauto quel fine, che era conuenientc et pcs " ròpaffando d fiunic^mi uoglio partire, prima D i i i the fu mi %(orz\ atìirc quatcKc altra cofa piuvfm portante, FED. Non ti partire anchora So^ crate, prima che il caldo non fe ne uada:n6 uedi tu,chehoraè à punto il mezo giorno, nel qual tempo è il caldo grandiflimoi^Et peròafpettani: <Joqui^ 6C ragionando infieme delle cofe, che habbiamo dette, come prima il caldo farà mcinrs cato, ci partiremo. SOCR. Certamente Fe^ dro, che nelle tue parole tu (ci diuino,fiC uerais mente mirabile: flC però io penfo certo^che dcU JeOrationi.qualialtuoìtempo fonoftafe fatte, nefTuno ne habbia dato più cagione, che tu,flC neiTuno altro à più Thabbi potuto pcrfuadere.ò aero conletue efoifationii quello conducenrs |Cloli,ò uero in qualche altro modo sforzandoli. Et certamente m quefto(cauatonc SimiaTebac no)tu auanzi tutti gli altrirJC bora 'fecondo me) tu folo fei (lato cagione, che io habbia à dire di nuouo,non fo checofe,che nella mente mi fo^ no fopraggiunte. Il che facendo tu, pollo dire, che tu mi facci una guerra. FED. Etinche modo ti fo io guerra flC che cofe fon quefte.chc tu mi uuoi.dire. SOCR. In quel, che io uo leua paffare il fiume, quel mio fpìnto fohto,chc tu faì,paiuc che mi faccffe lufato cenno: il che ogni uol tacche mi accade^ nò è uietato fare quel lo.cJic fogia farpeniaua,Quindi mi paruc udi:^ re una uocejaquafe mi liietana il partire. prima che io non lùuefTe placato gli dei,cofl:ie fe con^: fradiIoroIiaueflìconiiiìe(To qualche errore. Io adunque fono fcnza dubio hoggi indouino, fiC flC fe io non fono cofi de buoni, fono al meno di forte^che forfè à me farà affai, come battano, anchora le poche lettere a coloro, che male le hanno apprefe, Lt però Fedro mio, hormai ip chiammente concfco il mio fallo: per ciò che c,mi pare hauer neiranimo un no fo che, che mi indouini r erfor,che,^ ho fatto. Et quefta cofa dianzi,mentre che ioragionaua,mi turbò tnt^ to: per il che io cominciai in un certo modo à temere di non acquiftarmi gloria apprefFo gli huomini del mcndo^all'hora che io contra gli iddìi grauemente erraua (fecondo che già dilTe Ibico nella fua opera )flc bora al fine conofco, come t'ho detto T error mjp. FED, Qnale er^ rorc è quefto/ SOCR, Ò Fedro.un trillo ragionamento.un tritio ragionamento edro hai hoggi mcfTo in carapo.fic sforzatomi i ragiona|C ne. FED. In che modqj' SOCR. E (lata cofa ftoIta.dC empia, della quale che fi può egli più tpfto.a: noccuolc ritrouarcs' FED. N is cnte.fc tu dici iJ uero. SOCR. Ohimè, non fai tu quel, che fia amore i Non è egli fi^ gliuolodi Venerei Non penfi tu,che^gli fu uno iddio 1 FED. Cofi fi tiene per certo. SOCR. Et non di meno Lifia non ha detto.quefto^nc manco il tuo ragionamento, il quale non io, ma tu hai fatto: per ciò che tu me T hai à forza canato di bocca, come per incanto, Hora fc [amore è Dio, come e certamente, ò uero qual che cofa diuina.non può efler cattiuo,& non di meno noi habbiamo parlato di lui, come fe fuÉ: fe cattiuo. In quefta cofa adunque habbiamo peccato contra amore. Et certamente quefte no ftre qùeflioni fono moho fuor di propofito,an^ chora che forfè paiano piaceuoli: le quali non ritenendo in fe cofa alcuna di fincero,ò di uero, nondi meno fc per cafo faranno approuate da qualche huomiciuolo di poco fapere, quelli, che le fanno, fe ne gloriano, come fe fulTero di granrs de importanza. Hcraàme fa di bifcgno per quefto errore, placare gli iddii: et hai da fapere che a quelli, che nel ragionare, ò nello fcriuerc errano,è ordinato un certo modo di placare gli iddii antico, il quale Homeronon feppe cono^ fcert.mafi bene Steficoro: per ciò che efTendo (lato priuato de gli occhi, per che haueua uituis perata Helena, conobbe come huomo amico del le Mufe.pfrqual cagione cieco fu/Te diuentafo, il che non fece Homero; per il che fubito fece quei uerfi,>^Non fu uer quel parlarne in l'alfe naui Fuggendo, andafle alle troiane mura. Et cofi fatto un'altro poema di nuouo al conai trario di quello, che prima comporto haueua,fu bitoglifurendutoil uedere.Ma io in quefto farò più fauio d'ambe due loro, per ciò che innanzi che male alcuno mi interuenga per il hh fimo, che all'amore ho dato, mi sforzerò dire il contrario di quello, che tu hai udito r il che facendo mi uogli fcoprire il capo, flC non uoglio tenerlo per uergogna afcofo,come ho fatto nel mio primo ragionamento. FED. Tu non mi puoi fare ò Socrate il maggior piacer di ques fto. SOCR. Telcredo, perchetu tidebbi ricordare con quanta poca uergogna habbiamo letto quelle cofe.che il libretto di Lifu contess "^Tieua,fiC quanto anchora fciocchamente io hab^ bia ragionato di amore. Per che fe qualche huo mo di generofo animo, modello, che al pre:s fente ama(Te qualche fuo uguale, ò uero per lo addietro l'hauede amato, ci haueffe fentito dire, che gli amanti fanno per Iteui cagioni nafcerc grandiiTime nimicitie^flc che fono huomini in^ niàìofi^a noccuolia gli amati, certo clic egli harebbc pcnfato udire tanti huomini auuezi fo Io,flCalIeuati dentro alle naui,liquali nonco:s nobbero mai un uero,fiC gentile ancore: CC unaperfonafauia non ci concederà in modo alcuno, che quelle cofe fieno Licre, che in biafmio d'sts: more habbiamo ritrouate. FED. Certo che,io crcdo^chc tu dicail ueio per mia fe. SOCR. Et però temendo, che qualche huomo cofi fat^i lo, non rhabbia à fapcre, fichauendo anchorz paura d' amore, defidero lauare^fli nettarela mea tc.ÓL le orecchie noftrc di quello amaro, flC no^, ceuole ragionamento, cbe habbiamo fatto, con qualche altro più foaue parlare, et al gufto no:2 ^ftro più giocondo. Lo fo anchora pergiouare à lifia,perfuadèdogli che cglifubito debbia fcri:^ ucre.che più toftofi habbia da fodisfarc à unoamante,che à uno che non ama, quando l'amor re è tra li fimili. FED. Sappi certo, che egli lo farà, per ciò che dipoi che ti barò fenti to lo;:.dare l'amante, farà necefrario,che io lo sforzi à criuereanch egliii medefimo. SOCR. So certo, che ti uerrà 6tto fin che durerai dVfferc co mefei alprefente, FED. Hor dì adunque arditamente. SOCR. Hor fu; douc è egli quel fanciullo, col quale dianzi ragionaua,ac:s ito clic egh oofi ancìiora cfue^o mio nuouo pire lare, che fe forfè non infendelTe altro cIa me^ cercarcbbe anch' egli lemerariamente fare pia:: éere a.chi non Tama, FED. QLieftofaticiulis lohauendotelo finto,tì è femprcappreflo: gni uolti^che louuoif SOGR. Fa aduns: quc conto fanciullo mio gentilesche il mio pr^ mo ragionamento Cu flato detto dà Fedro Mirjs rinefe,figh(ioIo di Pitoclc,ÒC queflo che hora di ro^da Steficoro.figkuolo di Eufemio,fauomo degno d' eiTere daciaiciino amato.il qual ragio namcnto in quefto modo cominceifemo. Quel ragionamento non è uero,ìneI ^uale fi è detto, che per edere l'anì^inte pieno di fiiWc^À quello, che non ama da tal furore lifae^s ro,fi debba mjggriormente fare cofa grata m pri feotia d^i un'amante, à chi non ama, che per iì contrario: per ciò che fe fuflè in tutto uero^che il furoretuifecattiuo,haremo per certo ragioncj» uolmente parlato. Ma io ti uoglio dife,,ch^mol tì.ac grandiffimi beni ci intcraengonoper mcjs zo del furore, concefTo certamente folo iptxbt^ neficiodiuino.Etchcfia il uero^ucdiche pri-? ma quella Sacerdote, che in Delfo predice il futuro, fiC qudla altra apprefTo Gioae Dodosc nco. fono cefliflimamente ripiène di furóre^non di meno hanno Tempre date molte, C(gran diflimc commodità i gli huomini di Grecia flC priuataniente, flf publicamcnte: ma mentre che da tal furore fon libererei fanno o poco, ouero nefTuno giouamento. Et fc io uoleflì horara^s gionare delle Sibille, &dituttiquegli altri^chc hanno per uirtù diuina indouinato il futuro, flC feiotiuolefli dire cjuanfo eglino predicendo molte cofe da uenirc,habbino giouafo, troppo farei nel mio parlare lungo, ol tra che io direi co fa chiara à ciafcuno. Non di meno par cofagiu^ (la dimofl:rare,che li noftri antichi, li quali pos: fcròi nomi alle cofc.uiddero.fif conobbero, che il furore non era cofa brutta, o uituperofa che fc gli haue(Tero altrimenti penfato,non harebbo:^ ^ noqucfta arte perfettiflima^con la quale il fu:s turo fi conofce, chiamata ^àyiKHv » che tanto uuol dire, quanto furore diurno: per eie che il furore uiene à gli huomini peruolontà diuina, et pero parendo k coftoro,chc fufle come è quers. fto furore, un gran bene,à quefta fi honcfta arte uolfero mettere un fi honorato norhe. Ma hogs gi quefti pia moderni interponendo i quella uoce un poco confideratamentc hanno qn erto furore chiamato fuy-v7JH«f, che uuot ^ire arte di ifadouinare.d: non furore. Et hai da fapcrc,chc il modo dello indoufnarc il /ufuro^' che hanno gli huomini priui di quel furore dis aino,pcr uiadegh uccelh^flf delle conietturc, parendo à efli,chc procedere da difcorfo huma^ nojl domandarono oÌovohsìkh: ma quelli, che fon uenuti dipoi, mutando Io piccolo nel Io6)grande,]' hanno con più honefta uocc chiamato oiqvisihm Et pero quanto è più perfetto,a: più nobile lo indouinare per uirtù dinina,chc per coieffure,flC per uccelli, tt qiun fo il nome diuino,chc è /xocvmK?, c più de^ gnocheThumano^cheè fMy^Kug, ftpiuun opera, che l'altra perfetta, tanto i noftri antichi hanno detto, che il furore, che uiene dal ciclopc più degno, che la prudentia^flC l'arte humana. Tu debhi purfapere,che già per riparare alle grandi infirmiti. che ueniuano,flC per liberarci da qualche auuerfità troppo grande, che alle uolte per gli antichi errori li popoli minacciai uano,ueniua à una certaforted'huominique^ (lo furore diuino non fo donde. Et da quellconfigliati,queirimedii ritrouauano,che erano alla falute loro neceffarii^facendoli quel furore ricorrere alli uoti.& alli preghi, al raccoman^ darfi à Dio: per quefla uia impetrando mife^ f icordia/i rendeuano da ogni infirmità.dCpe^ rìccio fahii CT per quel te nripo,* pcrquc1To,chc haueua da uenifc: K cofi acquiftauano.fiC rice:^ iieuancpfrmczodi qucfto furore dal' cielo la sflblutione del II errori loro, pur che di furore de gno,&: buono fuffeflo ripieni. Il terzo furore è quello,che uien? dalie Mufe, il quale rapifcc.J'i^nima altrui, anchor dafimile forza non più of fefa,a cefi la fjfiieglia.flC k infpira. Per il che è per uu di cantico facccdo qualche t^pbile poe fia, ornando con Ufuoi numeri, fiffcriucndouirs finiti ùtti òc gli antichi, per tal uiainfegnaà colorii, che dopo Ihì uerranno. #Jf quello, che fenzail furc^l delle Muk ha ardire di accoftarfi pure alla porta delb poefia,fidajndofi per quaU che fuaingfgnofà arte haiieicà diuentar buoi^ poeta^ti d'jco,che qiicfto tale 4 fine farà tenu:^ to fciocco: a lapoefia di un'hUdmoda que:s furore hbero, «i^fce finalmente uana, fit, fenza fugo alcuno, i couipararione d/ quella^ che da un' huorao funofo è ritruouata. Tut:^ quefli, a molti altri' nobilj/Timi effetti del. furor djuifìo tipofloio raccontare: per la qual cofà noi non hsbbiamo hoimai più da temersi rè ua furiofo.Ne aTgomento-^ò neramente ra:?- gioac alQU<w.CJllM da fpau. Gntarc^moftrandoci clìepiu foflo fi Iiabbfa ad eleggere un'amico prudente, et fano,che uno incitato, flC furiofo. Ma lafciamo andare quefto.jMoftiimi coIlui,fc può, flC in quefto uincami, che i' ancore non fia da Dio (lato truouato per utilità dell' aman^s le.flC dell'amato. Doae io hora per il contrae rìogli uog!iomoflTare,chequcflo tal furore e flato dato da Dio à gli huomini per una gran^ difllma (cìicità.LsL qual mia dimoflratione à quelli, chehtigiofi fono, et che ogni cofa tropss po minutamente uogliono' fapere,tt che ogni cofa uituperano,fiCà ogni cofa appongofièf. fàà rà forfè incredibile: ma afii faui farà il con^ frario. Ma prima che à quefto ucnga,ci fa di bifogno, confiderando bene le operationi,fiC gli affetti dell'anima humana, fiC diuina, troitare la uerità di quello, che intorno à lei fi può ra^ gionare,flC difputarc. Sari adunque il princi:? pio di queda mia dimoftratione cofi fatto. OGNI anima c immortale, per ciò che quella cofa, che fcmpre da fe fi muoue^queU. la douiamo direefTere immortale: ma quella co^ fa,che altri muouc,tì: da altro è mofra,con ciò fia che ilfuomoto fia terminato, ha anchora il termine, 6: il fine della fua uita. Et pe:sr rò folamente quella cofa^ che fe (leda muoue/ per ciò che mai non fi abbanclona.nonfi rcfta mai di muouere^anzi quella e fonte, ££ principi pio del moto di tutte le altre cofe.che fi muos: iiono.Ettufai,cheil principio è fenzanakis: mento alcuno; per ciò che egli è neceffario, che tutte le cofe^che fi generano, nafchino da un principio, flC quel pnncipio non ha altro prin^s cipio: per ciò che sci principio nafceffe da qual che altra cofa, non potrebbe gii nafceredaun principio, cfTendo il principio egli Ma cfTendo il principio fenza nafcimento.è necffTario che;inchorafia fenza mancamento, o fine alcuno; per ciò che fe il principio mancaffe,© morilTc^ non potrebbe più ne egli nafcere da un'altro,, tie un'altro rifufcitare da lui, con ciò fia che fu neceffario, che tutte le cofe nafchino da un pria cipio. Se adunque il principio è un moto,chc inuoue fe ftefro,queflo principio non può ne mancarcene nafcere da un'altro* et fe altrimenti fuffe, farebbe neceffario, che tutto il cielo man:s caffè, a fi diftruggeffe,flC ogni altra cofa creata» ^oltra di quello non fi potrebbe mai fapere on^ de quefte cofe nafchino, et da chi fieno moffe^ Adunque effendo chiaro, che quella cpfa^che fc flefla muoue^è immortale, non harà da temere di due il falfo.chi affermerà che la fuftantia del l'anima è cofi fatta;Ia ragione è quefi:a,chc ogiiìi corpo, che ha il nìoto da altri,è corpo inanima:^ to. Ma quel corpo, che ha il moto in fe ileffo^. et per (e fi miioue, quello è animato: fimilc» adunque puoi penfare,che fia la natura dell'ara nima. Et però (e gli è uero.che altra cofa non fi truoui,che in fe fle/Tafi muoua, fuor che Tanis: ma,di neceflìta ne fegue, che I anima Tia fenzi principio, fiC immortale. Dell' immortahtà dela l'anima habbiamo detto affai. Voglio bora u:: gionare della fua ideà;ò aero della fua forma,» ìmagine in quefta guifa. Se io uolefli narrarti tutte le Tue qnalità, CJ particularità, bifognareb:à becheio (i\([ì un'huomo diuino, fiC poi farei troppo lungo. Ma può bene un'huomo motà tale,comcfonio, defcriuere una certa fimilitua dine,flC figura di quefta anima, flC quella porre dauanti à gli occhi; et à far quefto,fari cofa pia breue,che à entrare nelle altre diffic ulta, che nel ragionar di lei fi ritruouano. Et però diremo per bora cofi, Facciamola per quefta uolta fimi^i le à un carro alato, che habbia il fuo rettore: la qua! figura ci è affai nota, flf (a intendiamo be:s nifijmo. Hai adunque dafapere.che tutti li cast:Ualh\flC li rettori de i carri de^li iddii fon buo^ ni,tt nati df buoni •De gli altri^che non fona fddii, parte fono buoni, et parte non. Primierajf. mente colui, che dell'anima. della mente norx j ftra tiene il gouerno, raffrena, guida, flf corrfg:^ geli duecaualli, cbe il carro noftro tirano con. le briglie in mano.Oltra diquefl:o,un di quefti duecaualliè buono.fiC bello,flC nato di ftmilfó Taltro è il contrario, et nato di contrarii. Per ii che accade, che quefta noftra moderatione,flf reggimento di caualli fia di ncceflifà difficile. Hora mi uoglio sforzare moftrarti breuementc. perqual cagione fia detto un'animale mortale, 6: uno immortale, Ogni anima ha cura di tuts?: i to il corpo inanimato, flc difcorre per tutto il cielo bora pigliando una forma, bora un' aU fra; fiC mentre che ella è anchora perfetta, « riaij tiene le fue ale intere inalza in alto,fiC gouer:P na air bora tutto il mondo. Ma quella anima, alla quale fieno per qualche cafo, come ti dirò^ cafcatc le 3lc,rouiDa al bado, ne mai fi ferma, fin che non fi intoppi in qualche corpo fohdo,clic la ritenga. Quando poi quella anima ha trouas^ to doue habitare,* ha per fua ftanza prefo qual che corpo (errenp (il qual corpo fabitp che ha, in fe quefta anima, par che comincia à muo^^ ucrfi,macpera lapotentia della anima, che lomuoue} muoue) ali 'bora tatto qucfto fi chiama ani? male: et qucfta anima unita infieme con un cor po terreno, come ho detto, U un'animale.il quale fi domanda mortale. Ma il corpo immorj: tale fi conofce non per ragione alcuna per ora' didifcorfo ritruouafa.ma quel, che fi dices'd fingono gli huomini da fe ftefli; perciò che quefto corpo non lo habbiamo mai ueduto. ne à baftanza ci è maj flato dato ad intendere, Ids dio adunque è un certo animale immortale il quale fenzadubioha ranima.flcfimilmentc il corpo, flCquefte due cole fono liate per natura in fempiterno infieme congiunte. Ma queflc cofé bifogna dire che fieno, come piace i Id* dio, a ragionandone, à lui bifogna' riferirfcne. Hora ci rcfta à dire per qual cagione le ale caa (chino all'anima. Tu ha» da fapere,che la nas tura.ef il proprio delle ale di quefta anima.é il- leuare il graue in alto uerfo quella parte del'cics lo, la doue habilano gli iddiU Sappi anchos ra, che di tutte le cofe.chc in un corpo fi nst truouano, ranima,piu d'ogni altra cofa.della diurna cognitione è participe. Qiiefta diuinità tengo io che fi pofli dire, che fia cofa bella.iaa uia, bHona,flC ciò che i tali cofe c fimilc.Da quc* (lo adunque prindpaimclìfc fc ale dell'anima fono nutrite,* per quefto più che per altro crc:s fcono,flC mchora per le cofe brutte, flC trifte>ac per le altre à quelle'contrarie, che di fopra ti ho dette, mancano, fl£ uengono à niente. Oltra di quefto hai da intendere, che in cielo è un gran Principe^il quale fi chiama Gioue. Coftui pd^ mo à tutti gli altri, guida con uelocità un fuo carro alato, ornando, fiC affettando ciafcuna cofa,. ce con fomma diHgentia al tutto procurandoé Dopo coftui feguita lefercito de gli altri iddiì^ femidei,fiC fpiriti diuini, diuifo, flC ordinato in undici parti, 6C folamènte nella cafa de gli iddii f cfta la Dea Vesta. Ma gli altri iddii (dico fola^ mente quelli, li quali fono poftì nel numero de j dodici ) fe ne uanno ordinatamente, fecondò che fono difpofti,& ordinati. Et hai da fapere^ che dentro al cielo fono molti fpettacoli,fiC mol ti uiaggi,difcorrendo Intorno fi fanno diuinifTì^ mi,& beatifTjmi: alli quali i beati iddii femprc ftanno intenti, et ciafcuno fa quello ufficiosa! quale è fl:ato pofto,CC che gli fi conuiene. fiC cofi ua feguitando ciafcuno iddio fempre potendo ugualmente, uolendo: per ciò che dal diuin choro è femprc ogni inuidia, ogni maleuolen tia lontana, Quando poi fe ne uanno al celeftc cofluifo, ce à guflarc le diuinc uiuande, all'ho:: ra inalzate, et già in alfo afcendendo caminano per la circunfèrentiade i cieli. Li carri delli do5 dici iddìi bene accónci, flC aflettati, con le briglie de i caualli uguali, flf parimente da ogni banda pefando, fàcilmente caminano. Ma gli altri carri che cofì no fi truouano.à fatica fi poflono muo uere: per cicche quel caualio trifto è dalli uitii aggrauato,6C cofi uerfo la terra fi p^^ga, et feco il carro, et il rettore à forza tira.fiC quefto à quelsj li rettori interuiene,che j1 caualio non buono, hanno troppo ingraflato,fiC alThora patifcono le anime una fatica eftrema^fic fono in un graridifs fimo combattimento. Per ciò che quelle anime; che fon chiamate immortali, ciò è quelle, che no fono dal trifto caualio sforzate, quando allafom miti giunte fono,allontanatefi dalle altre, fi fer mano nel dorfo del cielo, fiC quiui pofatc,fono dalla circunferentia attorno rotate: ft quefte fos: no quelle anime, che ueggono quelle cofe,chc fuor del cielo fono pofte, Et quel diuino luogo (opra tutti li cieli non è anchorada alcuno dei noftri Poeti flato fin qui lodato: ne alcuno fi tro uerà,che mai quanta egli menta, lodar lo pofla. Quefto luogo è fatto in un tal modc(& mi met^: to i dire quefto; per che parlando della uerità, pofTo tiene hiuctt ardire di dire il acro ) è adun que fcnza colore, fenza figtira alcuna. non fi può toccare.è una cfTcntia; la quale fola fi può dire.chc ucramcntc fiaft qucfta effentia fola» mente li Icrue dello intelletto, guida, flf gouer^ Inadore dell'anima, il quale intelletto femprc fta in continoua contemplatione del (omwo bello^Etla uera fcientia, flCil perfetto fapere altro luogo non ha, che quello, che c pofto ins: torno i quefta effentia ucra,£c nella fuacognfc ttònc. Come adunque il penficro^a: la contems plationc diuina è poftafolo intornò i un'ina tellettopuro, fiCà una fcicntia immaculata, cefi il penfiero, flc la contemplatione d'ogni ani^: ' ìna,che habbia i pigliare che corpo, ò forma fi uoglia (pur che à lei fia conuenientc ) rifguarp dando per qualche tempo in quella efienfia, che io dico, che fola fi può dire che fia contea!? ta della contemplatione della uerità,di quella fi nutrifcc,a: di quella fi con tenta, fin che un'aia: tra uolta la circa nfercntia aggirandola, non la ritorni in quclmedefimo luogo.Et in quefto fuo aggiramento uede la giuftitia, con tempia la temperanza, fcorgc la fciehtia, K non uedc (jueftc uirlù come generate/flCpoftein uno,ò^in un'alfrc (Ti comé potiamo dire ) che fiend quelle. che noi qua giù confiderandaci paio^ nouirtù,ft cofi le chiamiamo, ma uede quella iiera fcientia, che è in colui, che folamcntcfi può dire che fia.-flCinquefto medefimo mo:s do ucde, flC contempla tutte le altre uirtù,chc fono uirtù ueranente. Quindi di quefti cibi nutrita, a fatia. ritornando di nuouo dentro al cielo, fc ne ritorna à cafa, dalla quale dianzi fi parti: flC dipoi che è ritornata, il Rettore mets: fendo li cauallr nella ftalla à ripofarc.gli da:per cibo T Ambrofia. (JC gli fa bere il Nettati:rc,fif quefta è la uità de gli iddii/te altre ani^.-jne poi, alcuna che dirittamente ha gli iddìi feguitato,6tta che è à lorofimile, fa tanto, che:4inchora ella inalza il capo del fuo Rettore à ^uedere quel bellifllmo luogo, che iotihodet^: oefTer fopra li cieli rftcofi ancho ellainfies» me con gli iddii è dalla circunferentia de i cicjs li aggirata, a portata, ma à T ultimo dalli cauals: li e trafportata fuor della uia: talmente che à grandiflìma fatica può mirare quelle cofe, che in quelli Iuoghj,di uentà piene fi ritruouais no* Alcuna altra anima hora il capo del Ret^ Jore in alto leua^tt hora la abbafTa: onde daU £ ini Ifcaiialli sforzata, parfe ucde quel bcne,flf parte non. Et le altre anime tutte ugualmente defiderando ftar di fopra feguitano quefte tutte ins, fj fiemc confufamente: a non potendo in alto le:: I uarfi,premendofi tra loro, fono à torno portate: ! fCcalcandofi^ficrunaialtra fpingendo,ft ciafcu i:na quanto più può di pafTare innanzi sfor7an5; dofi, fanno tra loro grandiffima contefa:.onde j ne nafce un romore,un. combattimento, una fafica grandiffjma: nella qual con(éfa,per uitio, ce difetto de i rettori, molte fi azoppano, molte delle altre rompono le penne delle ale,a al fin tutte dopo un;i lunga, flC gran fatica, fen za p 0:5 ter pur uedcre quella effentia diuina.che io di:^, co, che è ueramente,fi partono, flC dopo quefta lor partita fi pafcono folo d'opinione, non potendo quel fommo bene per altra uia conofcerc: a ciafcuna fi sforza, quanto può, di poter haue:5 re quefto cibo,defiderando conofcere doue fia il bel campo della uerità. Per ciò che di quefto prato la natura dell'anima per fe fteffa ottima, xaua conucniente cibo,Cf di quefto fi nutrifcc la natura delle ale,con le quali in alto fi leua^ La potentia diuina poi (la qual non può in al:^ <un modo fallire ) tiene quefta regola, che cia:^ felina animaja quale mentre che gli iddii ac:$compagnaua.C6mpagnaua,puotc ucdèrc qualche fcintiTIa del la uerità, quefta tale dico, uuolc che per fin che un'altra uolta non fia dalla circunferentia aggi^ rata (come ho detto difopra ) fia fuor del perb xólo di perder le ale, òdi riceuere danno alcu» no:fiC fe Tempre potefle girando quella uerità uc •dere,non farebbe mai in parte alcuna offefa,Ma fe non potendogli iddii Seguitare, non fi fuffc potuta condurre i uedere quel fommo bene,flC per qualche cafo contrario ripiena d' ebliuione, ce di malignità fuffe dalli uitii al baffo aggraua:^ ta,flC in queftoabbaffarfi.a deprimcrfi rompete fi le ale, fiC cefi rouinando in terra cafcafre,al2s rhora la diuina legge uieta,che quefta tale anb ma la prima uolta, che qua giù à forma alcuna -s accoda, fi uada ad accompagnare con la natus ra di beftia alcuna fenza ragione, ma uuolc, che •quella anima, che molte cole fa in cielo habbia uedute^uadaà trouare lageneratione d'un huo tno,che habbia da effer Filofofo,ò uero defiders rofo di belleza,ò uero Mufico, ò uero d' un huo modato alle ccfe d'AMORE. C^ell'altra, che non ^quanto la prima habbia ueduto, ma nel fecon:5 do luogo fu pofta, comanda quefta legge, che difcendainuncorpo, che habbia da effereRc per legge, fiC ragioneuolmete ò uero in un bua iao dato alle guerre, flC atto ad efferc Impera^s <lore,ò Capitano Quelle poi, che nel terzo Iuoj: go fi fruouano.ordjna che fi mettino jn un huomo.chc habbia da efTere gouernatore d'una Rcpubhca^òuero in uno, che debba difpenfa^ re,ft diftribuire la robba.ft hauer cura della fajs miglia, ò in uno,chefia dato al guadagno. Quel k.chcpiugiu tengono il quarto luogo, fe ne uarino in un huov(}o,Ql}€ hsihbìà da durar ùth.ca,òaeroin uno, che fi habbia daefercitare in^: torno alla Medicina, fif alla cura de i corpi.Quel Ic,che più di foltonel quinto luogo fon pofte, é s'accoftanoà coloro, che debbono fare l'arte di indouinarc,òuero di augurare per uia di facrb jficii,ò d'altri mifteri, Quelle, che la fefta fede tengono,defcendono in un'huomo,che hab:s bia da diuentare pQeta,ò ucro in uno di coloro, che fono nati ad imitare altrui. Quelle, che fono le feftime dalle prime, uanno;fn uno.che habs biada efTere òartefii^e^ò agricoltore. Le ottauc in un fofifta,òucro in una perfona plebea.flC iiile. Quelle finalmente, che nel nono, flfultis: mo luogo fi ritruouano.fc ne uanno a diuentare uno, che debbia efTer tiranno. Et in tutti quefli •fiati di Ulta qualunque giuftamente haràmes». -fiato i giorni fuoi.dopo la morte harà miglior forte, clic quelli, che friftamcnte fono uirtuH: flf quelli, che ingiufti fono flafi,uannOÌ pcg:^ |fóré fl'a(o,che colore), che fono ftafi buòni: pei d'oche non ritoma Tiinimatn quel medefimo luogo,dcnde prima fi partì. più preflo che ih fpatio di dieci hhirlia anni.Per ciò che auanti i queftofpatiodifefnponon può racquiflare le àie, fuor che l'anima di coluj,che uitiendo hà fenzauitio alcuno atfefo alla Filofofia, òuer«5: mcnfeha amato la helleza^fiC infieme grande^ ifnente defiderafo la fapienfia: per ciò che quei ftefali arfime/enza dubio alcuno, dipoi che ^treuolte fono paiTate mille anni (purché efs Icno^ uoglino dopo la prima morte, tre uolte tornare in quefta uita ) all' bora hauendo rac» quiftate le ale dopo tre milia anni,al cicl uo^ landò fi partono. MoHé altre aniine, morte che fono, la prima uolta fono da Iddio gJu^ dicate, a dannate r ttcofi giudicate, altre an^- dando fh^un'iù'ògo,il qaaTé ne! cèntro dcU la terra è porta per punit»one delle anime cgitti tiue.quiui patono del fallir loro meritcnoli pe:» he. Altre pòi dal giudicio dìuino innalzai te, in certo luogo del cielo forio in quel modo trattate, che fi hannoqnagiu in terra uiucns do meritato: flf poi tra mille anni qucfte due- forti d'anime, ritornando al mondo fi eleggono una feconda uita,ec ciafcuna può pigli^rfi queU la forma, che uuole. Quindi uienc, che l'anima humaha pafTa alla uita d'una beftia^flC dipoi dunabeftiadiuenta di nuouo huomo,pur che quella anima fia (lata un'altra iiolta in un'huo mo. Per ciò che quella anima, che non harà mai ucdutaìa uerità, òpoco,b a(rai,non potrà mai pigliare la humana figura: per che bifogna che quello, che l'huomo mtende, l'intenda per me:s zo delle fpetie delle cofe,che dauanti gli ii ap:5 prefentano.a quefte fpetie per uia di molte, ÒC uarie cognitioni nella mente noftra raccolte, fo^ ijoalfine con difcorfo infieme pofte,eCc9m5s prefe. Et quefta cofa altro non è, che la rimems: branza di quelle cofe,che già Y anima noftra in C4elouidde,air bora che infieme con iddio era perfetta.-a quando ella fprezaua quelle cofe,che noi fcioccamente diciamo che fono,riuolta fola:? mente allcontemplatione di colui, che è uera mente. Per la qual cofa l'anima folo del Filofoss fo meritamente racquifta le ale.per ciòchequan to p-r un'huomo è poflibile,fempre con la mera móna fi riflringe,flC fi accofta à quelle cofe^allc quali accoftandofi,(5f riftrfngendofi iddio, è di^ uino» Colui adunque, che farà quefta confide^, ratione din'ttamenfe, et ragioneuoImente,flC cefe cherà fempre di nempirfi la mente di qucfti cofi pcrfet(i,fi£ fanti mifteri, quefto folo diucnterà perfetto. Et cefi diiiifo dalli ftu di, che fanno gli altri huomini,flf accoftandofi alla diuinità,è th prcfo,flC morfo dal uolgo,comc fe egli fufle ufci to di fe. Ma egli ripieno, flC ebbro della contem plationc di Dio, non fi lafcia cònofcere alla mol titudine. Per quefto adunque ho fatto io qùc^ fto mio ragionamento, il quale è porto intorno alla quarta forte di furore-peri! qual furore quan do alle uolte uno di quefti tali nel uederequa giù qualche belleza, fi ricorda di quella uera, che gii uìde in cielo,rimettc fubito ralc,fiC cofi rimelTe che V ha, fi sforza,quanto puo,uolando al cielo inalzarfi. Ma non potendo ciò fare^coje me gli uccelli po(rono,guarda,flC confiderà pur uerfo il cielo, fprezando qucfte cofe bade «onde ne è biafimato fiC ne riporta uergogna,dicendo:j gli ciafcuno,che egli è poco fauio,flC ripieno di furore. Per la qual cofa quefta diuina separatio: ne dell'anima dal corpo è fopra tutte le altre, che interuehire ne poffano migliori, Et da ca:^ gioni ottime nata,d: non folo è gioueuole à chi in tuttolapo(riede,ma à chi qualche poco ne participa. Et coiui,che di quefto iurore fanto.tt |>uotio è ripiano, con ciò fia clic egli afmrla bel:? ilcxa.quefìo ueramente fi può dire arhantc. Per ciò che, fi come ho difbpra detto.ogni anis ma huroana già ha iieduto quelle cofe, che ue^ ramente fono: per ciò che fe non le haueffe uc jàiite, non farebbe difcefa in quefto animale hu mano: et non, è f^c^le i tutte le anime ricor:i darfidclfecòfedilàfù.per uedere quelle/cbc qui fono. Et prima lo poflono mal fare quelle; che per breue fpatto di tempo fù in ciclo gli fu conceffo uederic: dipoi non è conccfTo anchora quelle, che nel mondo uenendofono fiate ina felici, ce Ila nno hauto mala fortuna: di modo che corrotte da alcuni coftumi cattiui.che qui pjgliano/ifccrdano in tutto di molte cofe (st^ gre,©: buone, nelle quali in cielo erano gii ammacftrate. Perii che poche anime fi ritruor? uano,che àbaflan2a delle cofe celefti fi ricors dino. Ma quelle poche quando tal'hora qua giù- scorgono qualche iomiglianza di quelle cofe che in cielo gii urdderò, fi ftupifcono, ftquafi cfcono di fe. Et non di meno non fanno don^ de quefto lor mouimcnto proceda; per ciò che non conofcono in tutto la uerità.ne a baftanza fe ne ricordano. Ne pct/amonoi fcorgere,menp tKchcqyagiàftiaDoioin quelle fi^ure, imaa gini,fplrndòrucro alcuno di giuflitia, di tfmp< ranza, fiC delle altre uirtù,che gl'animi npftji J)<^ norano.flC amano. Ma per certi inftruirenti,fiC fxìczi imperfetti ofcuri à pena pochiflimi huomini accoftandofi pure alle imagi ni> di iq^cl le uirtùcelefti,che nel mondo fi ritruQuano, tifguardanoin qaelle imagini quella forte, di uirtù,che fimile imagine gli. rapprefej?ta. ali' hora ci era lecitc,<X conceffo uedere una chi^ riflima^flC pmiflìma belleza, quando con quel beato choro fegiutando noi quella felice uìGq:» ne, 6: quella fanti/Tjma contemplatione. della quale dianzi fi ragionai, noi infiemc conGio:^ ut,& ìt aìttc 2nitrìc inficmecon qualche altro iddio, fecodo che era ordinato, pQtcmo con teni:^ piare la diuiniti: flC quando à quelli miftcri,fl£ cofc fagre dauamo opera, li quali potiamo ragio iicuolmentc dire efTer più di tutti gli altri miftc ri fagri,flC beati, alli quali all'hora noi poteuamq attendere, quando anchora immaculati. flC nò of fefi da mille mali efauamo,che poi habbianio in quefto modo prouati.Onde confiderando all'ho ra quelli celeftì fpcttacoli cafti,femplici,durabi li^tt beafi^poteuamo beniflìmoà tal fanto efcr^l tic fcruirc ftado noiin una luce pura pun^ttfen M machia alcuaa,Iib^ri,&fciolti da c^uedo^chcWtor chiamiamo <;orpo,il qiul crbifogna ì torno portarci noftro mal grado, efTendo à quello le:5 gati,6f in quello rinchmfi à guifa d'oftnchej ce quefte cofc non fi fanno, feno per uia di mc^: nicria,per che noi ci ueniamo à ricordare delle cofe padatecdallaqual ricordaza hora io fon fpin to: ce efortato perii defiderio) che ho di quelle xofe.che già ho altre uolteuedute, ti ho fàtto queflo ragionamento, Hora la belleza(come ti ho detto ) quando già erano le anime in cielo,^ Infieme con loro caminando rifplcndeua,fiC di poi, chequi fumouenuti.rhahbiamo riconos fciuta, per ciò che ella chiariffimamente rifplen:? de,& fi moftraà quel fenfo dellj noftri,che più •di tutii gli altri ha in noi forza, flC quefto é il feri fo del uedere: per ciò che quello é il più acuto di tutti gl'altri noftri fenfi^che permezo del tòVpo fon cagionati, col qual corpo, flC con li quali fenfi non fi può cognofcere.nc uedcria fapientia: per ciò che ella farebbe nafcere in noi ìun'ardentiffimp amore di po(rcderla,fe un qual chcfimulachro, òimagine di ki dauanti à gli occhi manjfefìamcnte ci fi pofgefTe: fiC il medefi mò potiamo dire di tutte l'altre cofe,che fono degne de/Tere amate. Non dimenolabellezsi fok ha jpiu dellaltre haute quella preminentfa^^ che ella più;d- ogni altra ci fi fa uederc,& piu che ogni altra cofa ad amarla ci muoue. Et però colui, che dianzi non atteie à quelli fagri miftc;? ri, ch'io ti difli,anzi più tofto e, dando qua gm^ corrotto da quefte cofe bafle^non cofi preftofi inuoue,fiC leua ranimo all' amor di quella bels: Ieza,anchor che qui uegga una certa fc^iglian za di quella, che da quella eterna il nome pi:^ ghando pur belleza fi chiama. £t per quello nel uederla non l'ha in ueneratione, flC non l'ha nora,maà guifa d' una beftia.dato folamente al piacere, uorrebbe pure à quella belleza acco:5 ftarfi, flC generare, et produrre figliuoli: fiC cofi importunamente afTaltandola, non teme punto fargli difpiacere.ne.fi ucrgogna dandofi in prc:? dai quel fuo difordinato appetito, pafTar gli or^s dini della natura, Ma colui, che alli detti mifte;^ ri poco fa diede opera, fiC che già in ciclo con^ tempio, molte cofe degne, flC (ante, quando egli uede un uolto ben fatto,ft di belleza diuina ot^ nato, il quale perfettamente quella diuina, et uc ra belleza rapprefenta,ò uero quando contems? pia nò pure il uolto, ma qualche altra parte ben fatta del corpo, primieramente fi empie dihorrs rore,fiC tofto teme di lui, come fe fufleunacofa (ckfte già dalui pa altri tempi u^duta: quindi più minutamente rifguarclandolò come Iddio lifaonora.flC fé egli non temefTc di edere accuiaj«; to per matto, ti dico che egli non altrimenti aUj L’AMATO SUO facrifìcarebbe^chc farebbe à una fta^r tua di iddio. Et mentre che egli pure il contem pla/ifentequcU'hprrore. del quale era pieno, in fudore,fl(in ardore conuertire, dal quale in brcuc tempo tutto fi truoua occupato. Per ciqr che air hora,che egli per gli occhi beue quclU bcllcia Cubito tutto dentro fi riicalda: dal qual caldo la natura delle penne della lua anima é co me matfiata,a dipoi che egli è bene infuocai^ to,fi intcncnkono quelle parti delle ale,clic pullular doueuano.ac che dalla dureza riftrctte, metano alle penne il poter gernpogliare. Qjiianp do poi per gli occhi e ben penetrato il nutrìs; nicnto di queftc alenali' hora il germoghar delle penne, che prima comincia dalla radice i ingrof (àfC,ìmpetuo{amente per tutta 1 anima moftrarfi (i sterza per ciò che Tcinima era già tutta dalle pcnne copcita.fif da quelle io alto foftenuta} tak^^ in quello tempo ci anima tutta in grao dèiiìmo leiuore^tt uonebbe pure inaizarii: flC non aitranrti che làccino ifanciuUt. quali allW u che pruni mcttoiìo i depti^t^no da on certo iociOiC iMfitfi, aiiiciué dà un dolore delie gicQ gfc moleftatì.cofi l anima iicl meffere le penne tutta fi commuoucflffi riempie in un tempo dj piacere,» di moleftia. Per il che mentre che eia la uede un giouane bello, beucndo per gli ocs chi quel piacere, «quel defiderio chc da lu|'t uiene,airhora inaflìata.come ho detto, fi rifcalr da,flC all'hora nó fi duole. ma fi rallegra cifra mo do. Ma quando poi egli s allontana.flC che quefcl li meati fi rifeccano.per li quali l'ala uoleua ufcir fuon.allliora andi fif riftretti.uiefano il gcrmoa gliare delleale: di modo che quefta ala infieme2i con quello amorofo defiderio, parendogli elTcr dentro rinchiufa, uolendo pur' "faltar fuori dai (e flcfTa, richiude quei meati.donde ufcìr po* trcbbe fif fa che di nuouo ne nafce ali anirra nó poco dolore. Et pe^quéfto è tutta l'anima da ogni banda oii'efa,fiC grandemente dimoiata, mal trattata Ma ricordandofi poi di nuouo del? la ueduta belleza,in quello fi diletta.» di quel Io folo fi rallegra. Et cofi da ambe due queftc paffioni infiemc mefcolate.ciò è da quello sfor* zamento.ec impeto di rimettere le ale. et dalU maraiiiglia della piacciuta belleza è in un fems po moleftata.Onde piena di anfietà,<urio(à d/» licnfa flCè daqucftofuror in tal modo condotta, che ne la notfc può dormire, ne il giorno in lue go alcuno fermarfi, ma quinci, 6f quindi fi ags gira,fiC fi fbatte,mofra pure dal defidcrio di riue dcre quella bcUeza, la quale di nuououedcn^ tìo,& beuendoquel defiderioamorofo per gli occhi, CQmc ti ho detto, all' hora di nuouo apre, et ageuola quelle parti delle fue penne, che prtp ma erano infieme riftrette.fic chiù fé: fiC cefi àh poiché ella ha cominciato à rifpirare,fiCriha2: uerfi,à poco à poco fi hbera da quelli ftimoli'i ft da quelli dolori, dalli quali prùr^a era offef^é Tale che da quefto foaui/Tjmo piacere 6nto è in quei tempo uinta,che mai per fe da quelli allet^: tamenti non fi partirebbe, ne altra perfona più appreza,chc l'amato, ma fi fcorda del padre, CC della madre, de i fratelli, fif di tutti gli amici fuoirttfe tal' bora (come interuiene ) manda in quefto amoremale.ft confuma il fuo,non fe ne cura punto. Oltra di quefto fpreza tutte le '.amicitie,flC dignità, che haueua fuo padre, delle quali gli fi farebbe tra gli altri gloriato,^ fole fi contenta di feruire^fiC diefler foggietto àogni ''«olontà dell' amato, pur cbe egli pofTa efferaps: prefTo al fuo fuoco. Per ciò che non folo honoi^ ra,ficha in ueneratione quefto b^llo, chc tgli ama^ma anchora Io truoua ottimo medico d' gni fiu grauifTima paflionc. Quefto afFetto adun qac,2(quefl:o mouimento,b giouane gentile, gìihuomini l'hanno chiamafc ef^SiDC cioè amore. Et fe io ti dicelTe in che modo quefto amore è chiamato fu in cielo dalli dei, certamen te,che per cfTer tu giouane, harefli ragione di ridere. Et che fi^il uero, certi imitatori d' Hos: fnero compofero già due iierfi fopra quefto amo re.cauati (come penfo ) dalli fecreti.flC mifteri diuini,delliquali unoèin uenti affai goffo,flC poco elega n te, flC dicono cofi, Chiamano amor uolatore i mortali. Li dei alato, per che à forza uola., ^ A quefti uerfi in ^arte fi può credere, in parte non: ma fia come (ì uoglia,un tratto quefta^ che io di fopra ho detta, è la aera cagione damo rc,fiC lo affetto, flC la paffione de gli amanti; Ci però tutti quelli, che ameranno, h quali già fe^ guitarono Gioue,po(fono più fauiaméte,fiC più conftanfemente portare il pefodi quello alato, che io ti ho detto. Ma coloro, che già honoraro^ no MARTE, Ce fu in cielo infieme con lui andoro^ no intorno, poi che dall' amore allacciati fi truo^ uano,fe mai penfano di riceuere dall' amato in^ giuria alcuna, facilmente corrono à far dei ma^ lc,fi£ à uccidere; cefi furiofamente ò fe ftefli, è gTi amati loro priuano uifa/SimìImfnfc eia fcuno honoraquel roedefimo iddio, col quale già andò in fchicra: flC quello cerca fcmprc quan to più può, in Ulta fua di imitare, fin che egli non fi lafda da i uifii corrompere. et in quefto modo mena i giorni della prima fua uita,t3C cofi fafto a gli amati fuoi^flC à gli altri Tempre fi mos: ftra, Et però cfaicu nò, fecondo i coltumi fuci.fi elegge à amare uno, che à lui paia bello. Qujns: di,comc fé quello fufTe il fuo iddio, fe ne labri^ ca una imagine.fiC quellaorna et fa bella in quel modp,che fe à quclla,flC non ad altro idolo ha:? uedeà dare honcri,flCà facrificare» Onde co:5 loro.che di GiòUe furono feguaci,flf che quello honorarono, cercano d'amare uno. che Simiù mente habbia T animo giouiale: fiC per quefto / confiderano, prima che l'amino, molto bc5: nc,fe quefto tale è atto per naturatila FìIoì: fofia, òueramente al regnare, alle quali cofe Gioue inclina. Et poi che conofcmto(o,fiC ri:^ truouatolo tale, lo amano, fi sforzano con ogni ftudiodi farlo diuentare fimile al fuo iddio. Et fe forfè eglino non fapeffero per loro quel, che à gli altri uogliono inregnare, airhora ol:? tra modo fi sforzano, flC cercano di imparar fem:5 pre qualche co(à per qualunque uia gli è con:s cef?o: flf coli infiemtf con gli amati à queftrf coli honcfta.flclodeuole opera fi mettono, (alt che diligentemente ricercando, fif in fc fteffi inue^ ftjgando la natura di quello iddiojl quale ad honorarc fono inclinati tanto fanno. che al fu: re pur uengono a capo di quefto loro honc;^ ftodcfiderio. Etnon'c ciòmarauiglia,per ciò che eglino fono dall' angore sforzati à dirizarc la mente, ftconfiderare con intentione gran^ dilTjnia à quel fuo iddio: di modo che pur al fine ricordandofene, fono fubito di undiuino fpiiito ripieni: il quale fpirito fa, che eglino pt^.glino coftumi, fif ftudi tali, che in brcuc tem^s pofi fanno participi della cognitione di Dio, tanto però, quanto à un'huomo è lecito. Et per che di tutte quefte cofe fanno che ne è cas: gione l'amato, ogni giorno più ardentemente nel fuo amore fi accendono. Et fe cclloro th ceuono quefta diuinità da Giove (come anchoss ra le Sacerdoti di Baccho,cheda lui di furor fono ripiene ) infondendola tutta ncir animo dell'amante, in breuefpatio di tempo, quanto poffono. à Gioue lor proprio iddio, fimilifTimo Io rendono. Tutti quelli poi, che già in cielo feguitarono Giunone, cercano per amato loro un giouane d'animo regio: ilqual poi che han^ ìfìo frbuato.dfucntano Cmili à *q!iclli\che di fos prati ho detto.fiC uerfo di quello operano in quel mcdefimo modo» Oltra di quefto, quelli, che honorano Apollo, ò qualunque altro iddio, ciafcuno il fuo proprio iddio, imitando, cercano ' tutti un giouanc.che per natura habbi il medcsi fimoanimq^chc loro: il quale poi che hanno trouato, prima il lor proprio iddio imitando, poi alli giouani pcrfuadendo,che li medehmo faccino,flC moderandogli in ogni loro cperatio:? ne, fecondo il lor fine, quanto le forze loro com portano, di condurlo fi sforzano alla imitatione del proprio loro iddio, fiC alle loro fimili operai troni «Non portano coftoro alli fuoi giouani ìnis uidia,òmaleuolentia alcuna, ma con ogniftu^ dio fi sforzano di conformarli alla loro perfetta Ulta, ùmilmente a quella di quello iddio^ che ambe due naturalmente honorano. La cura ' adunque, et il fine di quelli, che ueramente fo5 no amanti (pur che eglino fi conducano à poÉs federe quel,che io ti ho detto, che defidcrano ) fenza dubio alcuno altra non è, che qucftachc io ti ho defcritta. Et è quefto fine per cagion del Tamtete per amor furiofo in ultimo all'amato lodeuole, 2C feliciflìmo.fe quefto amato farifi^ inamente prefo d'amore, £t per che tu fappu irCome un amafo fi conofce dallamor uinto.te Io;:dirò. In quefto inodo adunque qualunque ama ^(ofarà d'amor prelo, fi conolceri. Nel prii ci pio di quefta noftr^. fintione diuidemmo ogni anima in tre parti, flfdimoftrammo li caualli di;due lorti.ò: cofi ppncmo^fpiDjC due parti dell'ai fili ma, li Rettore fu poi la terza parte. Quefte me;defime cofe ci fa di bifogno cònfiderare al pre:? rfente,Già tu fai, che di quelli caualli uno ne è buono, flc uno trjrto; ma qual.uirtù habbia quel ivjibuon cauallo,fi(qual fia la malignità del trifto non Thabbiamo ar)chor detto^flf però bora deb biamo dirlo. Il caual buono è di perfonapiu ^ j.grande,(Sf più ben formato, ben compofto,flCà »^artei parte tutto ben fatto, con la tefta alta, le narici affai bene aperte, come quelle dell' Aqui^ 'la, di color bianchifTimo.coJi gli occhi negri,. defiderofo folamente di honore, fiC ripieno di temperantia,fiC di uergcgna, et amiciffimo del { aero; non ha bifogno di ftimulc^òdifprone al:» ccuno^ma folamente fi regge, fl£ guida con l' efor.Catione, et con la ragione. L'altro poi è torto, uario,CC malifTimo fatto, di una oftinata "oglia, }{b col collo bado, ha il modaccio fpàanato,^^ fchiaciato di color fuko,cò gl'occhi brutti,flC di color fanguigno macchiatile garofo^bcftiale, con le orecchie pelofe OC forde^flf à pena ubedi> fcc alle battiture, fiCalli ftimoli. Oliando adun^ quc il Rettore uede un uolfo degno defTer ama to.fiC infiamma tutta I anima del piacere, che ne fente,è fubito da una certa allegreza commofc fo, flC da certi ftimoli di defiderio. all'hora quel cauallo, che delìi due è al rettore ubedienfe,co me è fuo coftume, dalla uergogna raffrenato da fe fte/To indietro fi ritin per non andar' ali amac (oàd doflo. Ma l'altro non fi può far reftare ne con gli ftimoli.ne con le battiture, anzi auanti fi fcaglia,ft per forza il cauailo,che è feco con^s giunto, ac il rettore infiemc rcompigIia,flCà/cit mal grado li tira à uoler fentire il piacere, che da Venere fi caua. Ma quelli due nel principio no l'ubidifcono,fdegnati che dal rio cauallo à cofc indegne et ingiufte fieno à forza tratti.finalmefc lìoncefTando quello importuno diùxcil peg^: g/o, che j può, sforzati purfilafciano portare, flC cofi gli cedono, et Io contentano di fare quello^ che à lui piace; (ale che in qucfto modo fi ucn^i gono ad accodare al piaciuto bello, flC uaghegs.giano tutti infiemc il charo afpetto di quella, Ilqualpoiche ha bene il Rettorconfiderato, a poco à poco della uera natura di quella bclleza Ti uien ricordando^& cofi un' altra uolta^come già in del fece, col pènderò riiiede.mà u^clc quella nera dalla temper^ntia accompagnata, fiC ftabilita nel fermo fondamenfo della caftjia: però parendogli pur iiedcre quella uera,& diui na t'elfeza, comincia di lei riucrentcmente à tc^r mere; flc dairhonoiT.che gli porta uintojn tcx^ ra hufnilmente fi lalcia andare.-fiC facèdo qucfto, c sforzato di tal forfè tirare le briglie delli due ca ual!(,che bifogna che k forra dieno dellegropsc pe in ferrala uno di quelli per fe flelfc,ptf ciò che non fa ali' incontro sforzo alcuno, ft l' altro, che è tiif(o,fiC bestiale,C! na al tatto contrafua fcogliartì ariojifanandod poi da quella belleza^ iìV dì quelli per la uergogna,d marauiglia grafi che hahauta,tuttaranifnadi fudor lafcial^a gnatafiC laltro libero da quel' dolore, di che il tia rar del freno,5C il cafcar in terra Thaiiea ripieno,i fatica può tr^it il fiato.-ma poi eli e tn fe r itornaK)', tutto da fdtgno comoffo il Rettore, et il cauallo feco congiunto riprede, che per paura, fiC da po^ cagine di là fi fieno pattiti, doue egli tirati gl'ha ue i. Quindi non uolcdo però eglino ritornargli, di nuouo sforzadcglf,pur al fine à fatica gli con cede, che con preghi da lui impetrino, che per fino all'altro giorno fi indugi à ntornare!il quale ordinato tempo'uentndo, fingono di non (e nt ricordare;.ma egli con tutto cicgh el rammcna ta,ftdi nuouo sforzandoli, 2f gridandoli, flf df nuouo à forza feco tiradoli, pur li conduce à uo Icr dire all'amato le medefime parole, che hieri gli differo. Ma dipoi che più appre/Tati fi fono, egli torcendofi.flCabbafTandofi (tendendo la co da,ftringeil freno, flCcofi furiofamcntc feco li tira. Ma il Rettore. che l'altra uolta affai mags giormentehaueua lemedefimc forze fofFerto. pur in altra parìe uoltandofi, molto più forte,. che dianzi, le briglie ritirala: cofi sforza la dura bocca del triftocaiiallo, flC bagnandoli in que^s fto modo la brutta linguacce le mafcelle di fan^i gue,lo butta al fuo difpetto di nuouo à ferra, fiC còfi del fuo errore gli fa patir le pene, il che poi the più uolte hail trifto cauallo fofFerto,lafcia pur al fine la fua pazia, fif cofi horamai diuenu:^ to piaceuoIe,ubidifce alla prouidentia del Ret^ tore.flCinfiemecon lui, quando l'amato bello rifguarda, tutto per la paura trema: di modo che affai fpeffoauuienc, che egli feguiti le pe:^ date dell'amante con reuerentia, flC honorc.flC quelle dell'amato con timore. L amato aduns que connfcendo efTer dall'amante fuo, come fe à iddio fufTc uguale, ubbedito, flCofreruatò,fl£ ucdendo che egli no finge, ma è à ciò fare dalla inore sfor2ato(ac maffime che ogni perfona ho^ fiorata, per natura pare che fia amica di colui,' che r honora ) al fine fi diTpone hauer la mcdc^ fima uoiontà,che l'amante. Et ben che pnipai tt dalli amici fuoi,CC da quelli, che infieme feco ftudiauano,flC da gli altri, forfè per dargli biafis ino,fufli flato ingannato, elTendcgli da quei tali detto efTercofa brutta, che un giouane appreffo al fuo amante fia ueduto, fl£ per quefto forfè habbia già l'amante da fe fcacciato,non di me^ no air ultimo per fpatio di tempo &' la età, fiC r ordine debito delia natura del fuo amante lo rendono amico: per ciò che non fi trouò mai, che un trifto non fufTe amico d' un trifto,flC un buono d' un buono. Et però poi che un giouane comincia à praticare col fuo amante, et afcoU ta i fuoi ragionamenti, airhora facendo lamanar te ogni giorno più il fuo amore conofcere,sfor:j za ramato à marauigliarfenc nel confiderare: che fe la beneuolentia de i parenti, flC di tutti gli altri amici à paragon fi metterà di quella di un' amante ripieno di furore, a di fpirito diui:? no, farà per certo di pochifTimo,© di nefTuno momento. Et fe quello huomo di più età, che (ara amante, feguiterà in queftaguifa per quaU che tempora: fempre « nelle fchuole,ft in fijs miìi altri luoghi apprefTo all' amato cercherà ri^ frcnaifi,alI*hora il fonte di quel liquore f quale già Giove, quando dall’AMOR di GANIMEDE è preso, dicono che chiamò inf]ufroa rDororo)qua le nell amante dall'amato belìo. più abbondanti temente, che nell'amafo è infufo, parte nelTarJ mante fi uùz^Ct parte di fuor traboccndo fi fpar ge.flC cofi in quel modo,che fapiamo fare laerc. ^ flC quella ucce,ché chiamiamo Eccho,qua!e da qualche corpo c)heue, òfòIfdo percoda/tn quel luogo, donde prjma fi partì, ritorna: cofi quello influffo amcrcfo ritornando per uia de gli rechi i in quel bello. donde già fi lcuò,p€r li quah egli hacoftume di penetrare alTanima noftra,di tali) forte inaffia,& bagna i meati delle penne della anima delTamafo/che facilmente po/Tono.fiC co minciano à germcgliare: flc cofi T amante lanist model fuo amato ikmpie d'un corntpondentc ^ amore. Et di qui uiene, che egli ama, ma non fa certo quel,che egli ami, ne conofce quefta fua paflicne.ne la può, ò (a dire. Ma;ion altrimenti che fe perlagiiaLdafLU-i d'uno, che hauc/Tegli cechi mal fàni, fi fei] ti ffe hmiimcnte gli occhi fuoiguafti, cofi non fa.dire ia cagione di quella Uia infirmiti, ne fi accorge, che egli uede.a ua4 gbeggia fe ftcfTo nell'amante. come in uno fpec «hia*Oi:ide cientre.che gli ci amante prcfente^ fcnfc anch' egli mancare il dolore: fic quan dog, poi r ha lontano, in quel modo, che egli é defi^ dèrato, altrui defidera: flC cofi in fe haiiendo unt ìmaginfe ucra d' un cortifpon dente amore, non- più amore, ma amicitia la chiama, flc cofi penfa^ chefia* Defidera adunque quafi quanto Ta mante (hen che alquanto più moderatamente) uederlo, goder (empre deirefTer con lui,fiC femprechegli è concelTo» cerca, flcfj sforza di farlo. Per jl che durando quella pratica tra co:$ ftoro,iI cauallo trifto dell'amante al Rettore riuolto, domanda per tante fue fatiche un breue, flCinhonefto piacere. Il cauallo all'incontro del giouane non fa quello,che fi habbia à dire, ma tutto anfio^fiC nell'amor commoflo,ama raman te tanto,quanto egli é amato.à: fi gode di luti uer uno ritruouato^che tanto lo ami,£C di qucU io con lui fa fefta,&fi rallegra. Et ftando iti quefta conuerfatione.è paratiiTimo quanto à lui è poiTibile à ogni defideno dell' amante fcdif^ fare: ma l'altro cauallo col Rettore inficroe.dalis la uergogna,à: dalla ragione ammaefiirati/ems pre in fimili cofe gli tono contrani. Per la qual cofa fe coftoro, fecondo un giuftomodo di uiuerc, fi: fecondo li ftudi della Filofofia fi empieranno di buom^belii^ft Unti pcijiien^^.meneranno la uita loro feliciffima, flcbeata^con concordia grandiffima.di loro fteflì padronf;^K in ogni loro affare modefti. Hauendo quella parte foggiogata, OC uinta, nella quale fta tutto il ultio dell anima noftra,a: per il contrario quel là altra libera, alla quale la prudentia,& la bon^ tà fi appartiene. Et cofi al fine di quefla uita ha^s '^uejidogià le ale racquifl.ate,ueloci al cielo uo^ landò fe n'anderanno, con ciò fia che habbino uinto un combattimento delli tre, nelli quali fi fono ri{rouatì,come hai innanzi udito, quale bc ne fi può dire efTere della maniera, che fon quel li, che olimpici fi domandano; del quale bene nefTuno più degno può à gli huomini arrecare l'humana temperantia,ò uero quel diuino furo^ re,chehabbiamo detto. MafeqMeftì tali fegui^; fcranno nell'amor loro una uita brutta. fiC in tut lo di Filofofia priua,& non di meno piena d am bitione,gli potrà auuenire,che li intemperati cauallj asfalteranno le poco auucrtite anime lo^: ro,nnientre che ò à qualche difordinato defideno fodisfaranno,ò mentre che in qualche altra ma:: -niera licentiolamente perderanno tempo:& con ^ducendoli pure à delettarfi di quelli piaceri^ nel liquali gli hanno troaati (ommerfi^lj sforzerano ri fejguitare qudk forte di follazo^chc è dal uoU go perfettifTimo giudicato. Tale che poi femprc fi daranno inuol(i,flf occupati nella fantafia fodjsfare à quel trifto defidcrio. Ma haranno quefta fodisfattione, che cercano di rado: per ciò che il penfiero deir animo non confente tutto à far qucfto, et però quefti fimili amici anchora f ben che manco amicitia fia la loro che quella, che di fopra ho detto) fiC mentre che 1 AMOR loro bolle, fiC poi che egli è eftinto infieme amrche^ uolmente uiuono; per ciò che tengono per cer^j to di hauerfi lun 1 altro data una ftabiliffima ks de: flC però giudicano eder cpfa ingiufta quel^ la fede rompere, flc doue già erano amici, inimiss ci diuenìre. Finalmente quando poi alla natura cedono, fiC dal mondo fi partono, non hauendo anchor mefTe le ale, ma folo hauendo cominciai to à mettere le penne, non riportano poco pre^t.mio del loro amorofo furore. P^r, ciò. che la diui^ na legge non uuole,che coloro, che già haueua no cominciato à caminare per quel uiaggio,chc al ciel può condurre,difcendino nelle tenebre fottola terra.Ma quelli, che qualche lodeuolc uita fanno, mentre che infiemc uiuono amore^ uolmente, ac infieme rimettono le ale.comanda (}ue(U legge che fieno beati: di queflo ne c folo cagione amoVe. Tante adunquc^fl: fi fatte utilità giouancmio gentile, dall' amicitia d'u^» fio AMANTE, come da cofa diuina ti faranno dars t2,Ma la compagnia di coluiche non ama,con:s / giunta folamente con la temperantia del mons: do,fiC non con la diuina, come è lamicitia d uno amante, et data in tutto ad atti,ft operationi mortali, fiC uili, genererà nell'animo del fuo ami co quella licentia di parlare, che pare al uolgo uirtù:fiC farà fi che dopo la fua morte preftamens: teanderànoue miliaanni intorno allaterra,fiC fotto aggirandon et errando. Quefta nuoua can zona, ò amatiflimo amore, flc contraria in tutto à quella, che prima detta haueua. quanto più dottamente, fif in quel migliore modo, che ho U puto, con paroIe, flC figure poetiche, pereforta:/ (ione di Fedro in tuo honore ho cantato; per il che perdona à quelle parole,che prima diffu, Etqqefte cofc afcoltan do, dette da me con gra^s to ànimo^ benigno, flcfauoreuole mi ti moftra^ fiC non mi priuare per qualche fdegno dell' arte damare, la quale già m'hai conceffa, ne manco punto fcemar la uogli.anzi più tofto fammi gra tia,che per Tauuenire io fia per que(la cofa più apprezato^chc per 1 adictro ftato non fono.oUra eli qucflo fe io.ò Fedro co/à alcuna foco degna del tue bel nome habbiamo det(o,accofa di ciò lifia.il quale fu primo autore del noftro ragios namento.acfa.che egli per lo auueiiire più di fimili cofc non patii: JC riuoltalo alla Filorofia, ' ^ome il fuo fratello Polemarco.acciò che Fes dro.chcfommamentc io ama, non habbia da tenere bora una opinione, fic bora un' altra, co* me fino à hoggi ha fatfo,ma più torto nello ftu dio dell'amore. et della Filofofia meni / giorni della Ulta fua. FED. Io anchora.fe gh è il •meglio, prego Iddio, che ciò mi conceda. Ma io ti dico benejl uero. che io flupifco del ragios Bar, che hai fatto, ucdendo di quanto babbiauanzato quel di piima: tale che io comincio à dubitare.che il parlare di Xifia non mi babbi à parer ba(ro,«humile.fe forfè un nuouo ragios mmento facendo, à qucfto tuo lo uorrà aiToes oiigliare, Et uoglio che tu fappi,che pochiffB mi giorni fono, che un certo noftro cittadino lo uituperò grandemente, folamente per qucs fto fuo fcriuere.* in tutu la fua accufationc lo chiamaua, per largii ingiuria. Scrittore d'oratio ili. Tale che per qucfto potrebbe forfe,fe egli c punto defidcrqib di. hpnore.per lo aiuenire fteocriidircriucrc, SOCR. Fedro que» Ha tua opinione c degna certamente di rifo, ficfarcftimolto lontano dalla fàn(afia, et dals la mente di Lifia.fe tu pcnfafli. chc eglifufs fc cofi timido. Ma forfè che tu credi, che quel fuo accufatore dicefli il nero in tutte quelleco* fe;checon(raLifiadiflc. FED. Certamente Socrate che à me parue cofi ne anchora à te è oc culto, che gl'huomini grandi, flC nobili delia no (Ira Republica temono, fiC fi guardano di coms porre orationi.flC no uogliono.chc fieno uedutc fcritte,per non moftrarc à quelli, che uerranno, dcÀTcr flati fofifti.effcndocofa facile lo fcriuerc ttnaOratione. SOCR. A quefto modo ò Fedro tu non intendi il prouerbio del gombito dolce, ilqual prouerbioc tratto dal lungo, fiC trifto gombito del Nilo.flC debbi pen fare, che ^, dicendofi dolce, fia facile, come pare che tu cress da, anchora che il fare Orationi fia di poca fiti* ca.eiTtndo però di grandi (Ti ma. Et ne folamens te iiò fai quefta cofa.ma anchora penfo che non ti fia noto.che quelli cittadini. li quali per pruss dcntia fono eccellenti, attendono grandemente à fcriuerc Orationi.CC à fare che quelli, che uers ranno,le po/Tino uedere. Etqueftì tali di mo* do amano quelle perfone, che lodano le compo iitioni loro,che la prima cofa di quelli fanno mentione.meutione.che hano ufanza dir bene delli fcrifs ti daltrui.douc 11 truouano. FED. Come dici tu queftoJ'Io non ti intendo a mio modo •r. SOCR, Non fai tu,chc nel principio d'un libro, che da qualche huomociuile fia corapo^ fto.fi fa fempre mentione di colui, che l'ha lo^ dato? FED. Inchcmodof. SOCR La primacofa,che,dicono,cquefta. La opinione noftra,òuerolanofl:rafcrittura fu appruouafa dal Senato, ò dal popolo, ò da ambe duerquindi con una certa ambitiofa ricordatone di loro ftef fi, mettono per ordine tutte quelle parole, che quei tali in fauor loro hanno dette, fempre dando colui, à cui è il lor parere piaciuto.Dopo quefto dicono quello, che intendono di fcriucj^ re; fempre faccendo moftra del lor faperc à cos^ loro, che li lodano, flC quefto lo fanno affai uol^s te: ce non folo nel principio, ma anchora dipoi che una lunghiffima Orationc haranno detta. Parti egli quefto altro, che uno fcriuerc Oratici ni? FED. Ccrtamentcnon. SOCR. Ho rafe queftò dir loro è approuato,fubitOj d' allc:s greza ripieni, fi partono dal Senato,comc fareb bc un Poeta dal Teatro, fe la fua Comedia fuffe piaciuta. Ma fe per forte fuffe riprouato,ò rifiu^s Wo^ac il lor configlio non fuffe ammeffo, ne ri:s pìlfafo dfgfiò di cffere fcritfò con gTi àlfrf /non foJofi cnvpfono di triftitìaqufi tali, ma li loro amici anchora. FED. Sitrattnftano certa: in rn te non pòco. SOCR. In queflo mo^ do adunque dimcftrànò,chc eglino non fanno poco conto di qnefto efercitio di fcriuerc, anzi diapprczirloafTai. FED. Grandemente cer toloftimano. SOCR. Dimmi un poco, Se qualche grande Oratore, ò ucro uu Re/i haueCs feacquiftata t^nta facultà,a: tanta fcientia nel dire, che come Ligurgo, Solonc.o Dario, pote& fe degnamente nella fna città efTer tenuto Scritii tore perfettifllmo^flC immortale, non gli parria f/Tcre, mentre che anchor qua giù uinefTe quafl fimile^ò uguale à Iddio / Et quelli, che dopo luiuengono,conriderandoIeccfe,che egli ha lafciato Tcritto, non hanno di lui quel medefi^ mocrcderer' FED. CertifTimo. SOCR. Pcnfi tu adunque, che alcuno (fia pur quanto fi lioglia trillo, ft inuidicfo) Uituperi quefto flu dio dì fcriuerc? FED. Per quelle core,chc tu hai dette, non par conucniente: per che eia:» {cuno,pare à me,uituperarcbbc quelle cofe,del le quah egli fi diletta. SOCR. Etperòque^ fto può efferc à ciafcuno chiaro, che alcuno non c daelTerc uituperato folamentc per che egli i • fciiua. fcriua. FED. Per che adunque f SOCR. Ma quello c bene, come io penfo, brutto, par:^ lare, a fcriuere cofe brutte, ftcattìuc. FED. Quefto è ccrtiflimo. SOCR., Qual farà adun qtie la ragione dj fciiuerc benc,tt male f Non penfi tu Fedro, che ci facci di bifogno di firoili cofe domandarne Lifia^ò qualunque altri, che ò nero habbia à qualche tempo fcritto qualche cofa.ò uerohabbiada fcriueie ò qualche fatto publico d una citta, ò qualche faccéda priuata, quefto lo facci in uerfi, come Pceia,ò uero in profa come perfona priuata FED. Mi doman di fe io penfo,chc facci di bifogno domandare, et cercar di fapere quefla Cofaf' Dimmi un pocd, nó fono alcuni, che uiucndo ad altri piaceri non, attcdono,che à quelli di domandare K di uoler da ciafcuno fapere la ragioe delle cofef Et quefti tali come faui, nò attendono nella loruitaà quel li piaceri,]^ quali di ncceflltà hanno prima quaU chedifpiacere,altrimeti il piacere no fi potrebbe godere.il quale effetto interuiene quafi à tutti li piaceri del corpciflfp quello ragioneuolmetc fo no chiamati piaceri uili H di poco momcio. Soc. Noi habbiamo tepo ÓC cfio aliai, et ancora mi par ueder,che quefte cicaie,<:he fopr'il Capo noftro,.cantano^com'è ufan«Joio:ncl caJdo,att^ndar^o à quefta noftra difputa. Se adunque elleno ci uedefTcro addormentati, come fpeffo molti altri fanno, li quali nel mezo giorno non difputan:: do, ma più prefto dormendo, fono al fonno per poca anuertenza loro da quelle allettati, merita^ mente fi potrebbono ridere di noi,confideran2: do,fl£uedendo che dal fonno uinti fuffimo. Ma fe elleno ci uedranno difputare,fiC conofce^: tanno, che noi non fiamo flati uinti dà loro(co:5 me fono alcuni dalle Serene, per il che non pof fono pigliar porto ) forfè che uolentieri ci donc fanno quel premio, del quale per gratia de gli iddii poffono à gli huomini fare dono. F E Chedonoèquefto? A me non pare hauerlo mai intefo. SOCR. Non fi conuiene,che uno huomoftudiofo,flC amico delle Mufe, come fci tu, non fappi una fimil cqfa. Si narra che quc^: (le cicale inanzi che fuffero le mufe, crono huo mini: ma nate che furono le Mufe,fiC poi che il canto hebbero moftrafo,fi dice che ad alcuni di quelli tanto quel canto piacque, che per cantare non fi curauano di mangiare, ne di bere: £C cofi imprudentemente fi lafciarono mancare la uita: delti quali nacque la fpetie delle cicale, le quali hanno dalle Mufe quefta gratia,che non han bi fogno di nutrimento alcuno.ma mentre che ui iooà uono, foci lO'lOOf IfìOt Sì nono, ftmprc cantando fi mantengono fcnza mangiare, flC fenza bere, Dipoi finiti i lor gior^ ni, (e ne uanno à trouar le U iife per dargli no^ titia,fl: informare quali fieno quegli huoniini^ che qua giù amano più una Mufa,che un'altra» Per il che dimoftrando. à^.Tcrficore quelli, che ^iu che in altro, ne i canti, flC nelle fefte femprc fi ritruouano, gliela rendono propitia, OC fauo^ reuole, A Erato poi moftrano tutti coloro, che ne i càfi amorofi Vitrouandofi, hanno il fuo ftu:: dio&ìmitato,6Chonorato.Et cofi fimilraentc fanno con le altre Mufe,flC gli mettono in gratia coloro, che più che h altri lamano.Rapportano anchoraà Calliope, OC à Vrania,che fippreflogli ua,la uita.flC i fitti di coh)ro,che nella Filofofia fi efercitano;fiC honorano la loro fcientia.Lc qua li oltra tutte le altre Mufe*hanno cura della cojs - gnitione del cielo, ficfi efercitano in ragionai menti cofi diuini, come humani con uocifoa^ uiflime* Et però per molte cagioni dobbiamo dir qualche cofa,ne in modo alcuno habbiamo nel mezo dì a dormire. FED, Habbiamo à dire per certo. S.O C R. E adunque hormai tempo di dichiarare quello, di che poco fa ordisi nammo di difputare,ciò è in che modo un'huo inofcriua,ò parli bene, fiC non bene, £ £ Qocfto c propfo quello, fopra il qnalf ha da eù: fere il noflro ragionamento. SOCR. Non pcnfi turche fia neceffario^chc colui, che habx^ fcia da dire qualche cofa/e ne uorrà ragionare a pieno, fiC bene, habbiapiena^flCuera cognitio:: ne^flCintelIigcntia di quella coia, della quale pirlaf' FED. Io c Socrate, ho udito dire, che a uno, che debbi diuentare Oratore, non e nes: ceflario il fapcre quali fieno quelle cofe che ue^s ramentc fieno giufte, ma debba folamente quel le conofcerc,che al giudicio del uolgo parran:: no cofi: ne manco debba fapere quelle cofe^ che ueramente fono buone, « hcnefte,nia quel Ie,chc compaiono. Perciò che dicono quefti tali, che per uia di quefte cofe non uere^fi può più facilmente perfuadere.che ccn la uerità, SOCR. Mai òf fdromio,non fi hanno da iprezare li detti de gli huomini faui,anzi fi deedil/gentemente considerare quel, che fignifichi:?:iio. Et però à me non pare di iafciar pacare quel le parole,che hai poco fa dette, FED. Tu parli bene, S o C R. Confideriamo adunque quefta cola in quefte modo. FED. Cowtf SOCR. Cefi, Se io per cafo fi uolefFi perfuasi dcre,che tu fuffiper uinceregli tuoi inimici.;quando tu haueffi un buon cauallo,nc alcuno Ai noi f^ipein che coA Me quefto cauallo,m4'tb fohtfìtnìt tkpm:chc kù ndtì fai gii come uh tJiaalfo fia fatto, ma che tu penfi,ch'C egli fià ti*» ànimale domefì/co con gì Wcxhi gridi. FED. v Sequeftofu/fe/ceftameinte farebbe cofa da rr* <ìere. SOCR, N òn ^t^u cfto non bafta. Ma quando io con ogni sforzo nìi?ngegfìaffi di pet fuaderti (non f^pendo nt tu^nfc io àltfC ) chè quello anÌTTidefurti^ un cauàlJo/a per quefto iò liaue^S compóflÀ nna Òrationeìn lode dell'Afiis no, chiamando quello anrm^lè càuàilo, afferà mando efTere animale pérfètdfTinìo, utile per ca fa, perle facccnde/tSc prontiiTimo/fiiore aib battaglia, atto à p citar fome.'fiC à molte altre cofe tommodiffiiT>o> FED. CJi^^efto fi /che farebì be fuòrd^* pfopofitóalpònTjble. SOCR. Kon è egli meglio, che un'amico fia ficetó,fit piaceuò!e,5Cche faccia ridere, che ftrano,ttdi malanimof F '£ O.Cofi par à me. SOCR. Qnan do adunque un oratore ignorate del male,tt deì bene perfuade i una città fimilmenre ignoranti non con una oratione compofta in lodxr d'uno Afino, penfando che fia un Caudillo, ma ragion Dando. flC difputado del male, cr€dedo che quel lo fia bcnetflC cofi tirando à Tua diiiotionc le opf n oni del uolgo, metta in quella citta tìn'ufanzà dì far male in cambio dì b'efie,che ricolta pcnfi tu che un fimile oratore facci della fua (cmtiìUi FED. Non troppo buona. SOCR. Non confeffihoratu,chc noi habbiamo uitupcrato l'arte dell'orare un. poco più fcioccamcnte.chc non fi conueniuai' Et fc per cafo ella ci haucfle fentifo, flf bora fiuoltafTc à noi, «ci dicertr* Seteuoiimpazati Socrate, fiC Fedro mici cari^ 10 n5 sforzo alcuno à orare, che prima non hab bia cognitione del uero: ma fé gli huomini fa;? ranno à mio modo,airhora mi imparerano quan do la ueriti haranno cpnofciufa.fiC io ui pofTo af fermare quefto con uerifà (il che è certamente gran co(à)che anchor fenza l'aiuto mio, pur che uno fappi render ragione delle cofe.flC le cono:? fca,harà in fe ogni modo l'arte del perfuadcre 5, Se coftei dicerte cofi,non harebbe ella ragione. FED. Io te'lconfertb^purche molte ragion ni, che io ho intefo, faccino teftimonio,che il fa per folamente fia arte; per che è mi pare hauer^ udito certe ragioni, che prouano^che l'arte del dfre fenza il fapere dicendo d'eflèr l'arte, nò dice 11 uero: per cièche altro non è, che un' ufo fen za arte. Et Lacone difre,che la uera arte del dire fenza la uerità trouar non fi può, ne mai fi tro^s uerà. Qtjefte ragioni ò Socrate fanno hor di bi? fogno, flC però adducendole moftrami un po^ coqucl,checoftoro dicano, flCin qual modot^ SOCR, Soccorrlnmi adunque, ft ucngano -in mio faiiore tutti gli animali generofi. fiC pcrsx iiiadinoà Fedro, che fc egli non attenderà alla Filofofia non faperà mai di cofa alcuna à baftanza ragionare, flC Fedro mi rifponda ogniuolta, che io lo domanderò. FED. Domandami adunque SOCR. Dimmi un poco,la Ret^ torica non diremo noi, che (la una arte, che per mezo delle parole alletti gli animi de gli huos mini^ Et queflo lo fa non folamcnte dauanti al li giudici, flC nelk altre publiche raunate di huo mini.maanchoraquefta medefima arte difpu^.terà nelli priuati ragionamenti Mi ciafcunacofa cofi d'importantia,comc non. Per ciò che nien^ te è più honoreuoie,ò più degno il parlare con arte nelle materie grandi,che fia nelle piccole* Hai tu mai udito dire quefto.^ FED. Non io certamente,anzi ho intefo,che quefta arte fola^ mente (ì efercita nelli giudicii,flC nelle Orationi al populo,ne ho mai udito, che ella fi di^lenda più in la. SOCR • Hai tu mai intefo ragion tiare della grande arte del dire, che Neftore,fiC VlifTe efercitauano, mentre che erano à Troia? Hai intefo quella di Palamede 1* FED. Non io,fe gii tu nò uoleffe dire che Gorgia fuffe Nes ilore,£C Kimilmente che Trafimaco^ Teodoro fttfléio \Wc. SOCR. forfè che io !o pos»rei dire. Ma Ufciamo andate ccfloro.fiC rifpon» aiini à quefto, ISe i gindicii gliauuerfani^cb* liàtaftcìoi «gUno r Non cercheranno feinprc dt cònfradire à tutto quello ^che dice la parfc confrariac Puoi tu dire,che.faccino altro;' F FED. Quefto ianno.ft non altro. SOCR. Non contendono, et djfputano fempre cjual fia il giù ftoi,« qua! fu k) iingiiifto f FED. Cofi è, j^ SOCR. Colui.che faprà fare quefta cofa con jirtc,i.ion potrà fare anchora che a quelli mede» fin^i pai» uni cola ficflahora giufta.fthora in;s giufta,.^ fEI>. lo potrà fare per certa» / SOCR.. Ijtfuwlmeute egli orerà in pu*» l>ljco,potrà fàre,cheaHi fuoi cittadini le medes fitBCCQf? parranno Upra buone, <SC hora triftc;* FED., Cerfaaiente. SOCR. Et quefta nonèsnarauigliofo.perchc noi habbiamo rn* tefo.ehe.i^aUiBede Eleaf€,eol fuo artificio del dire era fclito far fi che à chi,!f)..udÀua.pareflero ie noe defw«.<pfe bora fimili.Sf bofa'diuerfe,ho ta una c.o{a,iibU,ft hor» wp] te-, bora che ogni cq. fafufreiaiwobile.&hora che i'ufliuerfa fcms: pre fteffe i,n moto, FED. l' ho intefo ans ^' io pei certQ. SOCR, Adunque quefta jppteftUa, di confradiKiik fiofe d^tte innanzi^. non folo è porta nélli giud/di, ft nelle pubfi^' che radunate, ma anchora^come ti ho moflratoj fi truoua in ogni ragionamenfo,che fi fa: per ciò che dò che fi dice tutto è un'arte, con la qui le ciafcuno potrà fingere, flc dare ad intendere à ogni perfona, che tutte le cofe fieno fimih'^ac faperi trouare i nìodi di moftrare quefta cofa,fl(intenderà come habbia a fare, chiare quefte. fo:*. miglianze. FED. In che modouuoi tu,' che fi facci quefto.^ SOCR. In quefto* Dimmi un poco,rngannanfi gii huomini in quelle cofe, che fono tra loró molto differenti, ò in quelle. che fono poco? FED. Inquelle^ che poco fono diffimili, SOCR, Bene ha( rifpofto. Hora fe tua poco i poco pafferaida un fimile all' altro, più facilmente potrai inganni naregli auditori,che fe in un tratto dfalterai FED. Chi dubita di queftof' SOCR. Adunquc bifogna.che ogniuno,che uorrà ingannare un* altro, facci prima in modo, che no fia ingannata egli. Et però farà necefrario,'che conofca beijiJ(fi ino le fomigliaze flf le diffomigllanze delle cofe. FED, Quefto è neceffario, SOCR. Potrà adunque uno che fia ignorate della uerftà di eia fcuna cofa dar giuditio della fimilif udine ò gran de^ò piccola di quella cofa eh egli non cooofcc/ FED. Qnéftocimpofribile. SOCR. Et però c cofa chiara, che coloro, che hanno qual^s che opinione fuor del naturale, ò credono il fal^ fó di qualunche 'cofa, non per altra cagione fo^ no in quella fantafia, flCin quel falfo parere, che per qualche finiilitudine,che gif ha ingan^ mti. FED. Cofi interuiene. SOCR. Potrai tu dire adunque che alcuno, fé farà di quellocheuorriadifputare ignorante, pofTa con con arte,flC aftutamente à poco à poco rimuoue^ re uno dal uero,fiC fargli credere il falfo per uia di qualche firnilitudinej'ò crederai, che quefto tale poffa fardi non cafcarc nell'errore, nel qua^? Ic'cerca gli altri condurre FED. Certo che io noi crederò mai. SOCR. Et per quefta cagione qùàlutìque perfona farà ignorante della uerità dolina cofa, et folo dairopinione fi lafirie* rà guidare, coftui dimoftrerà di hauere un'arte di dire fciocca.flC più da fare altrui ridere, che buona ad altro, FED. Cefi mi pare certe. SOCR. V noi tu hora uedere, ft confiderare flC neiroratione di Ljfia,che hai in mano,& nel feritire il mio ragionamento, douc fi parli artifi^t. ciofamentc,a: doue fénza arte. FED. Que^i fto uorrei io più che altra cofa. Per ciò che al prefcnU noi ragioniamo troppo feccamcnte.no potendo pofendo dimoftrarc ercnopi chiari di quelle co* fc. che diciamo. SOCR. Si.ma ionogho, che tu fappia.chc la maggior parte delle Orationi fon dette à cafo.come è manifefto: le quaxs li ci moftrano chiaramente, che un' huomo.chc appia bene.flc conofca la uerità delle cofe.men tre che egli con parole fcherza, ec fenza punto penfarci.ragiona.conduce l'audifore à quello, che uuole. Et io certamente Fedro, penfo che gliiddìi di quello luogo habbiano hoggi cagio nato in me quefto effetto di perfuaderti.ft forfè potrei anchor dire.che le cicale interpreti delle Mufe.le quali fopra di noi cantano,mi habbias no fatto quefta gratia. per che in foma in me nó è arte alcuna di dire. FED. Sia come tu uuoi. pur che tu mi moftri qucl.che mi hai promelfo. SOCR. Leggi adunque il proemio dell' Os catione di Lifia. FED. In questo stato certamente fi truouano le cofe mierflC quefto.come hai poco fa intefo da me, penfo che mi babbi à gjouarc affai. Hcra io uoglio che fappia.chc io ftimo,a: giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò.doucrs la da te per quefta cagione impetrare: per ciò che 10 nó fon prefo del tuo amore. Et che ciò fu iluero,tu fai che gli amanti, come prima han*; 1)0 la !or libidine faflata/i pentono de i benefis ci.che t'hanno mai fatti. SOCR. Non legge/ pili. Bifogna bora dire in che cofa coftm erri.flC quel, che dica fenza artt. Nò ti par cofi:' FED. Certamente. SOCR. Dimmi un poco, non è quefto chiaro à ciafcuno.che in molte cofe ne i ragionamenti noftri tutti crediamo à un modo, fi(in molte altre non habbiamo il medefimo ere derei? FED. Ben che mi paia intendere quel, che tu dici, però io uorrei che lo diceffi più chia ro. SOCR. Quando unofa mentione del fer ro,ò dell' argento, tutti fubito intendiamo una incdefima cofa. FED. Certo. SOCR. Inter uiene egli cofi.quado fentiamo il nome del giù fto.ò del buono, nò crede all' bora ciafcuno dis uerfamente? Et non pure non ci accordiamo con l'opinione de gli altri.ma anchora fiamo in dubio della noflra. FED. Cofi ua. SOCR. tt però in molte cofe acconfentiamo tutti à un inedefimo.flC in molte fiamo di uarie opinioni. FED. Cofi è., SOCR. Doue potiamo noi più facilméte effere ingannati. « in qual d,i que ftc cofe ha la Rettorica più forza:* FED. E cofa chiara, che in. quelle. delle quali più dubis(iamo.piu ha forza l'arte del dire. SOCR, Et per quefto fa di bifognoi colui, che uuolc ini. parare. jwirare, R atrquiflare la Retorica, prima di uederc quefte cofe tutte ordinatamente, et feparare Tuss na dair altra, et gli è neccflàrio ccnofcere di quaf forte fieno le cofe tatte,intorno alle quali fi può. ragionare, ò uero della forte delle dubitò pero delle certe:fiC fapere doue maggiormete il uolgo poffi elTere ingannato,fiC doue nà, J^Jf. U. Ccf tamente Socrate che colui, che col penfiero ^ja^ piffe quefta cofa,che tu dici,harel)l>c una bella cognitione. SOCR. Dipoi io penfo, che quc fto tale debbia fapere la natura diciafcunacofa, acciò che dj quella quado gh' farà bifognOjpofFa render ragione: fiC uoglioche ingegnofamente intenda di qual forte, fiC di che genere fia quella cofa, intorno alla quale fi debba ragionare ò delle dùbie,Q delle certe. FED. Perche noni SOCR. Diremo noi, che 1 amore fia poftq tra le cofe certe, ò tra le dubiei' FED.Trale dùbiecertamente. SOC, Penfi tu ch'egli fi conceda.maliche tu dica di lui quelle cofe, che poco, fa.hai dettecelo è eh egli fia noceuole all' amato, flC ali amante Et dipoi ch'egli fia il maggior bene chefitruoui:'' FED, Tu parli bene. SOC, (Ma dimmi un poco anchora quefta cofa, per cheÀdirti il uerojo non mene ricordo troppo bene Ì>er effer ^ato io nel ragionamcto mioi occupato a uinto da quella diuinifà,clic fu (af. Ho io nel principio della mia difpufa difBnifo^chc cofa fia amore? FED. Si hai,flC beniflimo. SOCR quanto tu dimoftri (dicendo che io fi bene rho diffinito ) che le Ninfe d' Acheloo.flC Pan figliuolo di Mercurio, fono più ingegnofi al comporre Orationi, che no fu Lifu,per ciò che quefti mi hanno fatto dire. Non ti pare egli, che iodica il ueroi' Ma Lifiaanchora nel principio della sua orazione ci sforza ad intendere, che la more (come egli vuole ) è un non fo che po fto fra le cofe dubbie, flC incerte; flC cefi accomodando a quefta cofa tutto il feguente fuo ragionamento, fini la fua Oratione • Vuoi tu, che un'altra uolta leggiamo il fuo principio.'' FED. Come tu uuoi,ben che quel, che tu cerchi, ih efTo non ci fia • SOCR. Leggi, acciò che io loda. FED. I N Q^V E S T O flato certamente fi truouano le cofe mie: ft quefto,come hai po:s co fa intefoda me^penfo che mi babbi à gioua^ re affai. Hora io uoglio, che fappi,che io iiimo, ce giudico, fe cofa alcuna io ti domanderò, do:s uerla da te per quefta cagione impetrarerper ciò che io non fon prefo del tuo amore. Et che ciò fu il uero^tu fai che gì' amanti^come prima haa DO la lor libidine fatiata, fì pentono de i bcnes: fìci, che ti hanno mai fatti. SOCR. Egli c molto lontano, fecondo me, da quello, che noi cerchiamo r perciò che egli pare, che fi sforza di ordinare il fuo ragionamento, non cominciando dal principio, ma dal fine, con un certo modo à contrari0,ac fotto fopra» Et che fu il ucro,uedi che comincia da quelle cofe,che l'amante rin^j fàccia al l' amato, dipoi che T ancore è eftinto, "N 5 tifare egli.che 10 habbia detto il uero FED. Senza dubio che quello, di che egli nel princirs pio ragiona,è.il fine. SOCR. Che diremo noi delle altre cofer Non ti pare egli, che tutte le parti di qiiefla Oratione fieno fparfe confufa:? mente Pcnfi tu che quello, ch^ egli nel fecon;? do luogo ha detto della fua Oratione, egli V hab bia congiunto con la prima parte, conofcendo cheneceffariamentegli bifognaffefàrlor Et fi:: milmentc le altre cofe,che^egIi ha dette, credi tu, che le habbia con ordinc,flC con modo difpo fte^ Per ciò chea me, che fono dbgp.i cofa igne rante.pare che tutte le cofe, che da uno fcrittore fono dette, non debbano cfler dette, flC ordinate fenza cagione. £ t però uedi, fe tu fapefli truo;? uare qualche cagione nectffaria^per la quale noi potiamo.dirc,che egli fi fia mcflo à ordinare,flC H ili djTporrc il fuo ragionamento nel moclo,chc hib biamo ucdiifo. FED, Troppofareblfc ò So crafe,fe io cefi fcttilmente fapeffi dare giudicio dellifcritti d'altrui SOCR. Io penfopu:^ rechebjTogneri,che al meno tu dica,a:con5: fe/Tj quefio cbe tutta un'Orationc debbia ciictc come Ufi animale, fiC debbia bauete il fuo corpo, i\ quale non fia fenza capone non gli manchi:^ no li piedi, ma che gli babb/a ciafcuna fua parJe conuemente,a: coirifpondente al tutto. FED. Che uuoitu dire per qucfto?' SOCR. Cons: fiderà ti prego, fc TOratione del tuo amico Ga fatta cofi,c) altrimcnte,truouerai che ella none punto difterenfe da quello Epigramma Jl^ua^s le alcuni dicono,che fu fatto (opra il fepolcro diMida Frigio. FED. Che Epigramma è ques fto,ftdicheforte/ SOCR, Odilo,egli di^ ccuacofi, Son fu' 1 fepolcro una Vergìn di Mida/ Fin ch'andran T acque, et fien le piante ucrdi. Qui dando, ammonirò cialcun che pafTj, Che nel mefto fepolcro Mida giace. tìora 10 penfo, che per te fteffo beniffimo co nofca, che non importa qua! parte di quello •ponghi prima^flC qual dopo. FED. A ques: fto modo ò Socrate^ tu bufimi, fi£ mordi la no^ ftra Oràtiòìiè SOCR. Lafciamo adunque àhdare.acciòche tu non (i corrucci meco, ben che in efTa fi potrebberotroirarcmolti efempi, li qaali confidcrati^ci uerrebbe quefta utilità, che non imitafiTimofinrili modìdi dire. Ma pafe fiamo alle Orationi di certi altri, le quali certa:^ irierife hanno in fe qualche ccfa degna d' cfTerc offeruata da coloro, che di quefta arte fono fturs dioG. FED. Che cofa è quella, che in que:s fte Orafionifj pnoofTeruarer SOCR. Queftc' Oratfoni erano tra loro contrarie, per c òchc una irfFernnaua,cbe un giouane aniato fi douefle ac:? coftare alTamante: <3C un'altra à uno, che non amafTe. FED. Beniflimo certamefc. SOCR: Io penraua, chc tu rifpondeflj con più uerità,flC che tu diceffi non bcniflimo^ma pazamente,flC furiofamenfe certifTimo/non di meno quel, che 10 uoglio dire flC che io cercaua,che tu diccffi nò può efTerc alfritnenti^come fi ixìoftrerò. Nò hab biamo noi detto che lanDore abro non è, che un certo furerei' Ì FED.Cofl hàbbiam detto. Soc; Horaio pogo due forti di furore J'una delle qua 11 èda mancamèto humano cagionata, lai tra prò cede da una diuina alienatone dr menfe^per la quale è l'huomo rapifoflC leuato d^lla fu a ordina Ila uita. FED. Cofi è per certo. Soc. le parti adunque di qucfto furor diuino fon quattro, aU le quali anchora quattro iddii fono propoftjrpcr dò che noi diciamo, che Apollo fia di quella inrs fpiratione cagione, che à quelli Sacerdoti uiene, che poi indouinano quel, che debbe efTere nel tempo auuenire, Dionifio della cognitione di quelli mifteri,che fono più occulti, flC delle co^ fe, che s appartengono al culto diuino. Le Mu fc della Poefia, Venere, et Amore dell'amorofo furore affai migliore di tutti gli altri, £C io non fo in che modo,metre che dianzi uolfi con imagi^ fìijflC fimilitudini moftrar l'effetto d' amore /orfc può cffcre che io habbia detto qualche uerità,flC forfè anchora ho trapaffati li termini del uero. Et perqueflo mefcolando cofi quelle cofe,chc hora ho dette, quel mio ragionamento, il quale non fu al tutto da efler biafimato,tu fai, ch'io or dinai,flC compofi quella mia fabulofa diceria, flC quafi fcherzando, fiC per giuoco, modeflamentc lodai il tuo, ce mio Signore Amore, protettore de giouani gentil* et belli, come fei tu, FED. Qiiefle cofc l'odo molto uolentieri. SOCR. Et però bora da quella mia Oratione potremmo cauare, fiCfapereinchemodo la noftra difputa uenifTe dal biafimo,onde la cominciamo, alle iodi* F E Etcomeuuoitu fare queflof SÒCR, A mccertamchff pare, che fin qui habbiamo parlato per burla. Ma fe farà alcuno, che artificiofamente conofca la forza delle due forti, flc delli due modi di difpufare, nelle quali bora fiamo à cafo incorfi,coftui certo harà fatto un'opera degna. et bella. FED. Che forti, fiC che modi di dire fono qriefl:i,che tu dkii SOC La prima è qucfta. Che colui, che uuol dirputare,facendofi nella mVnte un'idea di tutte le cofe,che uuol dire: et hauendo à quel [a folamente l'occhio, metta infieme tutte le cose,che fono fparfe fif diuife, acciò che uedendole tutte raccolte, dando poi la uera dìffinitione di ciafcuna.quello facci chiaro,& manifeftp,intor:3 no al quale fi difputerà: come al prefente hab:* biamo fatto noi, che habbiamo diffinito che cofa fia amore, flC ò bene, ò male, che Thabbiamo fatto, hai pure hauuto la noftra difputa,per quefta cagione una chiareza, flC una concordanza in tutte le cofe,che dipoi fi fono dette. FED. Le altre forti di direnò modi, quali iiuoi tu che Heno ò Socrate. SOCR. L altro modo é quc fto. Che come egli ha tutte le cofe raunatein uno, di nuouo parte per parte, fecondo la natu^ ra loro, le diuida,flC parta, flf non fpezi,ògua{|ti membro alcuno del fuo ragionamento, come farhora li cuocKi mài pratichi fogliono farc,rna faccia quel medefimo.che habbiamo fatto noi ne i ragionamenti pafTati; nelli quali habbiamo tntefo quella mutati6e,ò alienatione della mtrte generalmente, ac con parola commane, anchora che fia buona,& cattiua, Ma fi come in un cot^ po quelle membra, che fono doppie, si chiama? nocol medefimo nome. ma uno é detto dcftro; raltrofiniftro",ccfi qiicfta forma della aliena:: tione deliamente noftra,la quale è dall'amor cagionata, è per natura fua in noi una foIa;flC cefi babbiamo detto nel ragionamento noftro. Et pero quel pripio parlare,che facemmo, diuij dendola parte finiftra di quella alienatione, ò mouimento della mente, fiC di nuouo poi pars: fèndola,non fi reftò,fin che egli ritruouò unais mor finiflro.il quale conofciuto come cofa non conueneuolfe, uìtuperò. L'altro ragionamene: fo/he dipoi habbiamo fatto, ci con du (Te à co:s nofcere la deftra parte di qucfto furore, doue un amor ritruouando inquanto al nome fimile al fJrimo, inquanto à gh effetti diuinojo lodò, et ingrandì con parole, come cagione di gran^s diffimi noftri beni. FED. Tu dici il uero. Si SÒCR. Io certamente o Fedro fon molfo. imito di quefle dmifioni, fiC diquefti raccogli:?* tendere quel, che io ucgl/o più facilmente; Ò[ meglio ne polfa ragionare. Et fé mai io ueggo alcuno, che fo penfi^ che egh fia atto a confide fare bene prima quella idea unfueifale,chc io fi ho detto, pei particolarmente la moltrfudinc delle cofe fecondo la Datura tero di coftai io feguito le. pedate, ftgli uo dietm mn altrias menti, che fi fuffe diuino: et colcrO;che tal eoa: fa fono atti à fare, io gli cKiiimo Dialettici, fc io li chiamoo bene,o male. Iddio lo fa lui.. Ho: ra dimmi tu di grafia in che modo secondo il parer tuo, ò di Lifia, tu chiamavcfti coftoro. pare à te quefta q^iella'^arte del dire, che ufb Trafi^ maco,'flC molti altri faui, li quali per il dir lo? ìfo furono fenzadubio fiut,coiiìeho detto, flC anchora fecero gli altris" Talmente che q^ielli^ che da loro impaiono, uorrehbero o'fterirgli do:? )i, come fi fuol fare à grvndifTimi Re FED. t), Certamente che cometudici.qucUi tali huo* mini fonodiqncllo honore meriteucli, chealli Re darfi uediamo,ma non per qaeflo fon dotti in quelle cofe, delle quali hoxa tu domandi. Ma à me pare, che qnefto fìuouo modo di ragiò nare,tt di difputare^che hai truccato, il quale tu chiami Dialettica Jo chiami cofi r^ioneuob mcntc.manon per qucdo fappiamo anchora;' ihccofafialaRettorica.ma fi bene la Dialets fica. SOCR. Come dici tu quefto !" Penfi tu che cofa alcuna bella,ò ben detta pofli efTerc giudicata, che quefti miei ordini non feguitf, quantunque con arte fi impari i Hora per ciò che queftofolononbafta non uoglio che noi lafciamo à dietro quello.che oltra ciò nella Ret torica faccia di bifogno. FED. Molte cofe ò Socrate fonoftate lafciafe fcritte ne i libri, che dell'arte del dire fono flati compofti. SOCR. Hai detto beniflimo, Pcnfo aduque.che il proc mio fi debbi dire la prima parte della Oratione^ Non domandi tu quefte fimili cofe gli orna* menti iieri di quefta arte. FED. Senza diibs tio. SOCR. Seguita nel fecondo luogo la fiarrationé.flC infieme il produrre de i teftimos ni, nel terzo ucngono le conietture.flC nel quar to gli argomenti, cauati da cofe uerifimili. Et pa re à mecche un gran compofitor d'Orationi.chc fu da Bizantio,ci mettelTe anchora le pruoue,CC le ragioni, che faceuanoper colui, chcoraua. FED; Tu uuoi dire Teodoro, che fu fi eccels lente, è ucro;" SOCR. Si certamente. Coftui anchora trojiò nella accufatione,fiC nella difens fione^i argomèti raddoppiati, £t per che non faciamo fìoi ricordanza di Euano Parìo? il qùàfc prima à tuffigli altri frouò le dichiarafioni: flC cifra di quefto fu inucntorc delle Oratiohi.chc in lode d'altrui fi fanno, fiC non mancano molti che dicano, che egli per meglio à memoria ntc^ nerlc,tramezaua le fuc Orationi con certe uifua pcrationi fatte in uerfi. Et di ciò non è da mara^ uigliarfi^per che egli è un huomo fauio.Lafcia^ mo pur andare Tifia,flC Gorgia, li quali propone gonoil uerifiHiile al aero, flc con la forza delle Orationi fanno le cofe grandi parer piccole, flC le piccole grandi, fimilmcnte che le cofe uec:s chic moftrino effcr nuoue,& le nuouc uecchie, hanno trouato una breuità di parlare moza, ft poi per il contrario una infinita lunghcza di parole. Le quali cofe gii fentendomi raccontare Prodico,fe ne rife,a moftromi.chc egli folo ha: ucua trouafo, quali parole à quella arte (àceffe; ro di bisogno; et mi difTe^chc ella 'non haucua di bifogno di molte, ne di pochc^ma fi gouer^ naua in quel mezo. FED. Sauiamentc difTcProdico. SO CR. Non fa di bifogno ricor^s dare Hippia,per che io penfo,chc con lui s'accordi anchora il noftro hoftc Helienfe. F E Non bifogna per certo. SOCR, Che dirc^ mo noi della confonante concordanza.che ha rif rollato Toh? il q irate In qu arte introcìufjs le repllcationi delle parole Je fent?tie,le com paratìoni Je fi m i li fri di ni, et Tufo de i nomi con. elegantia in quel n5odo,che egli da Lidmnionc l'apprefTe. FED. Dimmi un poco Socrate^ li (critti di Protcìgora non erano quafi fimilià Èjuefti.^ SOCR. f^edro mio, il parlar di Pros rtagora è buono, fif propio,££ nel luo ftilc fi truo uaJiomoltecofcnurauigliofe.tTia nel niuouerc à pietà, fiC a milericordia^ccl ricorJfe41i iiecchie za^ò la pouerfà lorafore di Calccdonia fù cccel:r Jente, et aiicliora ikH' incitare,fl£ mitigare l' ira ^cra potentifiìnio^fii non altrimenti placaua una.ifato^che fe egli liane/Te adoperato li incanti: fa anchcra fopia tutti gl'altri nel difendeifri, fif pur garfi dalle calumnie dateli, et nel darle ad aU tri ogni uolta,che gli bilognaua. Ip forno al fi:? ne delloratione pare a mecche tutti s accordino infieme^ma-ino^ti chiamano quello fìne, Repetitione, 5(molti Ju altro modo. F FED. Voi tU che li fine fu il ridurre nella memoria alli audi:^ toribrtuemente tutte k cofe^che difopra fono fiate detter SOCR. Q^ieflo uoglio che fia^, Ci fe tu inforno à ciò fapeifi qualche altra ccfa; dillà,cheiouolentieri ti. afcolfo» FED. Io certamente non fo fenoa cofe di poco moipens! to,ac non degne d'efTer rfcordafe. SOCR. le cofe di poca importanza lafciamole andare;' flC pm predo attendiamo à dichiarare che forza habbia qiiefta arte quando quefta arte fi pot ficonofccre. F E Grande certamente, fes; condo me, è.la forza della oratoria apprefTo alla moltitudine, flf al uolgo, SOCR. Grande per certo. Ma confiderà un poco di gratia,co^ me fo io, come queftì Oratori, uanno con tutu quefta loroarte.non di meno male in ordine, flC mefchinamente, FED. Dimmi un poco^ quefta cofacome uaf' SOCR. Stammià udì:: te, Se fuffe unoxhe trouando il tuo amico Lifi:^ inaco,gli djccfli in quefto modo (o uero a fuo padre Acumeno ) Io ui dico, che io fo beniffi;: 8ìo,flC conofco quelle cofe, che accoftate à nn corposo uero da un corpo adoperate ufate,fa rò chea mio fenno quel corpo fi rifcalderà^flC raffredderà.oltra di quefto io fo prouocare il uo mito,fo fare reuacuatione,fo ordinare lepurga^. tioni,& intedo molte altre cofe funili: per il che io fo profeffione di Medico, flC dico di poter fare diuetare Medico ciafcuno che uprrà. Se uno gli parlalTi cofi,che penfi tu che gli rifpondeffero Ped.Che uuoi tu ch'io dica altro, fenó ch'eglino i'^auefferoà domadareje anco egli fa à quali per fonc.in che fempi.ft fin quanto queftc tali co* fe.chc egli dice fapere.fic conofcere/i hauefles ro à operare, fif ordinare. SOCR. Seaduns quc colui gli rifpondeflé.che egli di qucfto nó (àpe/Tj render ragione. ma che faccfTc di bifos gno.che colui che hauelTe imparato da lui quel le cofe che egli fa/apeffe per fe fteflo.fiC potcfle fare il rcfto.fiC conofcefle i tempi, £t le perfonc, uerfo di chi.fic quando fi haucfTerà à mandare à effetto. Se quefto tale gli dicelTe cofi.che penfi tu.che eglino gli rifpondelTero.'FED. Cers tamente che altro non potrebbono dire.fenon che quefto (al'huomo fiifTe fuor di fe, con ciò fia.che hauendo folamente da qualche libro di Medicina udito una pocp cofa.ft elfendogli nel leggere uenutoalle mani qualche modo di mes dicare, et non di meno non intendendo di quel la arte cofa alcuna, penfi per quefto effere diuen tato Medico. SOCR. Ma che diretti tu.fe fulfe uno, che.andaffe à dite a Sofocle, flf à Èus ripide.che egli fa i -una piccola cofa fare un lungo parlamento, ec per il contrario fopra una grande parlar breuemeute.'' Oltra di quefto che ogni yolta.ehe uuole.fa commouerc gli audis tori à mifericordia; flC fimilmentc all'ira.che è fua centuria, fa far nafcere horrore ec spauento/ fa minacciarci fa fare fimili altre còfc, fiCchc fieli' infegnarle egli penia faper moftrare Tartc, ce la Poefia Tragica. FED. Io penso che costoro similmcnte si riderebbero di lui, uedendo che egli teneffe per fernìO,che la Tragedia folas niente fi conteneffe nel far quelle cofc^chc egli dice fapere.CC non peniaffe^chc la uera Tragedia uuole tutte quefte cofe bene infieme compo fte,a ordinate, fic uuole hauere tutte le parti tra loro corrifpondenti.flC conuenicnti alla materia, CCalfubiettodellacofa* SOCR. Etnopea fo io, che per quefto eglino lo riprendeffero uiU lanefcamentc, ma farebbero come un Mufico, che fi abbatteffe in un'huomo,che fi pcnfafTe d'efTer Mufico folo per fapere in che modo le corde fi faccino fonare, hor bafre,hor alte.Que^ fto Mufico, che fi deffe in coftui,non gli direb^: be con un mal uolto, O pouero \ te, tu impazi (iome ogn' altro forfè farebbe ) ma come Mu^i fico. h quali fono tutti piaceuoli.cofi più amo$ reuolmente lo ammonirebbe. O huomo da be^ ne,colui che debba effer Mufico, bifogna che fappia quelle cofe, che fo io: £C colui, che fa deU la Mufica quello^che fai tu/i può dire, che non ne fappia cofa alcuna: per ciò che tu folamente conofci quelle cofe, che dauanti all'armonìa fof^ no nfceffaric^ma della armonia ne fefignoranfc; FED, Beniflimo, S O C R. Similmcnfe potrebbe Sofocle dire à colui, che gli fi facciTe incontro, come io ti ho detto, ciò è, che egli più predo fapcfTe quelle cofe,che uanno innanzi alla Tragedia, che eghconofceffe, che cofa fuflc Tragedia. Et fimilmente Acunieno Medico po trebbe dire à quello altro, che egli fapcffe queU le cofe,che uanno innanzi alia Medicina, ma che la Medicina non la intendere • FED Cofièper certo. SOCR, Ma fe lo clegans: tifljmo Adraflo,flC Pericle udifTero quelle parole fcelte, ftartificiofe, quelli parlari mozi, quelle fimilitudini,fi£ quelle altre cofe,chepocol'arac contauamo, fiC narrandole giudicauamo effer da confiderare^ penfiamo noi, che eglino (come forfè faremo noi ) fi adiraffero con coloro, che tal cofc infegnando,penfafrero infegnare l'arte ora^ toria,òpure uogliamo dire, che eglino, come più faui di noi, in quefto modo dicendo ci ris: prendefferoi'O Socrate, Fedro Je fonoalcu:? tti.che elTendo ignoranti dell' arte della dialettica non pofrono,ne fanno diffinireche cofafia rettorica, con coftoro non dobbiamo adirarci, ma più tofto hauergh compaflione, ££ perdos: nargli Et fono aUuni^chc ftandofi in quella lo ro fgnorantia, mentre ch'eglino folamenfepof^s^^ggono, fiCfanno gli amniacftramcnfi, che quel lecofe inlegnano, che uanno innanzi all'arte della Rettorica,fi uantano,fiC gloriano di hauer troua(a,ec di faper perfettanìente la Rettorica! ce infegnando folamente quelle cofe che fanno, pensano,tt dicono di infegnare l'arte dell'orai fc perfettamente. Ma poi il modo di teffeie in^j Cerne, 6f commettere tutte quelle cofe in un cor po,in tal modo, che à chi rafcoIta,po(rano per:? fuadere, dicono che fa di bifogno,che lo fcho;s lare fe lo guadagni, fiC per fe ftelTo Timpari^cois me le à ciò non fi facelle di bifogno il maeftro, FED. Tale certamente, fecondo me, èquellaarte, che coftoro in cambio di Rettorica infegna no,a: fcriuono; et mi pare, che tu habbia detto il uero. Ma dirami un poco in che modo,flC per che uia potremmo noi acquiftare l'arte d'uno Oratore.flCd'unperfuaforeuero SOCR. Egh è cofa conueniente Fedro, et forfè neceffa^ ria, che fi come in ogni altra cofa,cori in quefta un'huomochclauuole acquifl:are, fia in ogni parte perfetto. Per ciò che fe la natura ti incih nera à effere oratore, fc poi ci aggiugnerai la dot trina,a la efercitatione,diuenterai un'oratore ec celiente, Ma fe una di quelle due cofe,prarte,ò la natura tì nianclicri.noii farai perfetto. Hora quanto quefta arte fia grande, non fi puojecod do me, per quella uia fapere,chc Gorgia.A Tra:s fimaco feguifarono.ma per altra. FED. Per qualef' SOCR, Non fenza cagione Pericle è flato giudicato il più perfetto Oratore,che mai fufTe FED. Perches SOCR. Tutte le arti granxij hanno di bifogno della efercitatione nella Dialettica, et della contemplatione delle cofe celefti,fiC della cognitione della natura del le cofe: per ciò che quella alfeza^che nella men te noftra fi uede,flC quella efficace forza di po: tereciafcunaimprefa cominciata condurre à ne, pare che nafchi in noi per Io ftimolo^chc quefte cofe baffe^fiC terrene ci danno, il che Pe^^ ride congiunfe con la fottiglieza del fuo inge^ gno: per ciò che fidatofi nella domefticheza,CC amicitia di AnafCigora ritrouafore di fimili cofe, n de in tutto alla contemplatione,tt cofi com^ prefe^^ imparò la natura della mente noflra^flC anchora del mancamento di quella, il quale •Anaffagora copiofamente dichiarò,flC di quiui ca uò tutto quello, che à lui parue,che fuffe al prp porito,flC utile per l'arte della Rettorica. FED. Come andò queftacofa SOCR. 'Tu fai, <he il modo di medicafe^flC di orare è quafi il medefimo» Hiedefimo. FED. Ìnchcmodo SÒCR. In ambe due ijfticftc arti fcifogha diuidcrc la na tura, ma in una fi parte la naturi del corpo, nek l'altra quella della anima. Pur che non fole per uia di efercitio^flC di far buona, e moderata ui^ fa.maanchora con Tarte habbia un Medico à dare à un corpo et medicine, ÓCcibi, di forte che Io faccia fano, ac rcbufto diuentare.Et fimik niente, pur che fi habbia à metteré in una anà ma la urrtii.flf la perfùafione per ragioni, flC per giufte,fiC legittime ordinatiorri. FED. Cofi ò Socrate fi dee credere che fia. SOCR. Uo^ ra penfi tn,chefi pòfll conofcere la natura di djuefta stnitn^t bafteuolmente, fenza là cognitiòij ne di tutto quefto noftro compofto.il quald chiamiamo huomor FED. Se fi debba crcs^ dcre a Hippocratc fucceffore di AfcIepo,non fo lamenfe diremo che non fi pofla conofcere la n* turi! della a'tìima fenza quella cognittónc,che ta dici,maalnchorache non fi poffa fapcre queib del corpo. SOCR. Dottamente parlò Hip:^ pocrate. Hòra è bifògria^ eòrifiderare,fe quefta cofa,ché io t'ho detto, fa al propofito della no^ ftradifputa. FED. Faccificome tu uuoi. SOCR. Attendi adunque qitello,che non iblo Hipjpocrate^i^ia anchora la uera ragione di^cario di qucftainucftfgationc della na(uta,cli€ IO t'ho detto. Cofi adunque la natura di ciafcurs nacofa fi ha da confiderare* Principalmentehabbiamo da uederc.fe quella cora,,della quale noi uorremmo fapere 1 attera: ad altri ifegnarla, èYcn)plice,flC d'una loia natura, ò pure di molte forti. Dipoi cafo che fia fempUce,fi ha da confi derare, che natura fia la Tua neiradoperarri, ac nel fare, conìe anchora nell'effere adcperata, fiC nel patire.Mafequefta cola harà più capi,diui dendoh* prima tutti;& raccontandoh ordinata^ mente, in ciafcuno habbiamo à cercare particors larmcnte quella fua natura, et intorno al farc,flC intorno al patire. FED. Cofi pare, che s'hab bia da fare. SOCR. Et fenza far quefto fasi fi il procedere di colui, come il caminó d' un cieco. Ma colui, che qualche cofa tratta con ar^, non fi harà adafTomigliare à un decorò à un Tordo, anzi bifognerà dire, che qualunque farà, che con arte parli à un altro, prima cercherà chia ramente moftrarc la natura di colui, al quale parlerà, flC quefto altro no è che lanima. FED. Senza dubbio. SOCR. Dimmi un poco,  Vno che parli ccaarte ad un' altro, non fi sforss za egli fopra ogni altra cofa perfuadergli tutto ^ fluello,che auolei. FED. Certamente, SOCR. Et péro c cola chiara.che Trafimaco.Cf qualuns que altro attende à infegnare la Reftorica, prima donerà con (omnia dilic;entia defcriuere. ìBC di^ chiarare fe l'anima è per natura Tua una cofi fo^ la^ficfimile tutta afe fl:e(Ta,òuero fe à fimilitu^ dine del corpo, fia di pia forti. Per ciò che qtian do 10 dico, che fi debba moftrare la natura della anima, non uogiio intendere altro, che quefto# FED. Cofi douerà fare certamente. SOCR. Patto che farà quello, bifognerà che egli dimo^: ftri che potentia fia la fua,fiCuerfo che cofc la polTi ufare,C(à che paffioni ella fia fottopofta. FED. Certamente. SOCR. Dipoi ha:^ ucndo già diftinte,CC diuife tutte le forti degli affetti dell'animala de li difcorfi, et ragionai menti fuoi,gli farà di bifogno raccontare tutte le cagioni, per le quali tali affretti in lei nafcono, accommodando fempre le cagioni a gli affetti fuoi,& infegnando le qualità dell'anima, Cf che difcorfi fiano I fuoi,fiCper che cagione qucfta ftia fcmprcin confideratione,flC in nioto,flC quel la mal à contemplatione alcuna ne fi leui,flC fem pre fi ftia ferma. FED. Quefta farebbe una cofa ingegnofiHima. SOC. Et perciò ti dico, che no fi potrìmai dire, che uno fratti, ò ragioni bene di cofa alcuna, non pur di quefta, di che t'ho ragio mtòjc alfrimcti procccJèrà.Ma li fcritfbri Ai qut fta arte de i noftri tepidi quali tu anchora puoi haucre uditi, fono aftuti.flC conofccndo beniffi^: mo quefta natura deiranima,chc io dico, non di meno ce la afcondono, flC non ce la uoglionomoftrare. Et io ti dico, che fé eglino non parler ranno^flCnon fcriueranno feguitando il modo mio, non dirò maliche con arte, ò bene fcriua no. FED.  Qual modo dici tu. SOCR. Io non ti potrei cofi facilmente dire le parole, che ci uanno,ma in che modo ci bifognaffe feri ucre,fe l'hauefTemo à fare,te'l dichiareiò in quel miglior modo, che mi farà poffibile. FED. Dillódì grafia, SOCR. Poi che noi hab:s biamo ueduto^che la fcientia del dire altro non è, che un tirare à fegP animi, flC un dikttarfi,bi^ fogna che colui, che debba effere Oratore, cono^j (ca quante parti habbia quefto animo. Hora quc fte fono affai, flC di molte, flC uarie qualità, fiC forti,per le quali gli huomini uengono anch' efli diucrfi.ft di molte qualità. Confiderate quefte cofCiCjpuiamo dire, che fieno tante forti di Oras: ' tioni,fl(di parlari, di quante forti fono le qua::  liti delle anime noftre.Etperò quelli animi, che peir le qualità loro fono à qualche lor parti:? «olar dcfiderio difpofti/fàcilmente con quellimodi di dire fi perfuadono, che alla natura loro fieno fimili: doue che fe tu in un modo parler rai,a; 1 anime di chi ti ode, fia altrimenti difpo:? fto,non lo perfuaderai mai. Et però à colui, che harà bene quefte cofc confiderato,poi che hariueduto,flf conofciuto la natura d'uno, flC le ope:: re,fif le attioni comprefe farà di bisogno potere in un fubito nel Tuo ragionamento a{regnare,flC dimoftrare ijuefte Tue attieni, flc dimeftrare di conofcerle: ft fe altrimenti farà, potrà dire di no Tapere altro che quelle core,che già dalli maeftri gli furono infegnafe. Ma colui, che può con uc rità dire,flCconofcecon qual forte di parole fi può ciafcuno huomo perruadere, flC ingegnofamente auuertifce, che colui, che gli è dauanti,c di quello ingegno, flc di quella natura, della qua le egli ha dimoftrato,flC fapendo fimilmentc, che un tale huomo ha bifogno di parole tali^ quale egli è ^per uolerlo condurre à far quelle co fe,alle quali egli è dalla fua natura inchnato^co^ ftui dico, che cefi farà ammae (Irato, all' hora po trà u erame n te affermare di poffedere qneftaarte del dire. Quando aggiugneràà quefte cofe,che iotihodettedifopra,ilfapere quando fi habs bia à tacere, ce quando à parlare, quando fi habsj bia à effer breue nel direna quando non^Oltca di qucfto quando conofccrà, quando fi haràda -uCire una Commiseratione, e qciando una uehe mcntia di parlare più afpra, quando s'habbia da fare una Amplificaticnc,flC qtiando in fomma fa, prà in quefto fimil modo uiarc tutte le altre par ti della Oratione,che fono dalli maeftn (late in:5 degnate: flf prima che tal cofa non fappia^non potrà in modo alcuno e(Ter detto Oratore. flC co^ lui^al quale una di quelle cofe.qual fi fia^mans; cheràònel dire,ò nello rcriucrè.òhello infe:? gnare,flC non di meno affermerà parlare con ar:? tc.airiioraquel tale, che tenia eller perfuafo fi partirà da lui, fi potrà dire uincitore. Ma forfè qualcuno di queftì Sciittoridi Rcttorica ci potrebbe direnò Socrate, et Fedro. peniate uoi che l'arte del dire fi habbiaa imparare in quefto mo do.flC non in altroi' FED. Socrate à me pare impoffibiìe/he fi pcffi intendere altiimcnti, quantunque quefta dimodri eflere una opera, et una fatica gianiffima, SOCR. Tu dici il acro, per ciò che ella è, come tu dici.dilfi:: Cile. bifogna parlando, et ri£arlando di quefta. cala più uolte,ceicare,tt confiderare fe forfè po teffjmo ntrouare una uia,che più facilmente, fl£ in più breue tempo iui ci pofc/Ie menare, acciò che noi noli ^iidiaaio inconfideratamente er;i rando ' ranJo per ufa lunga, d: difficile, pofendo noi ca minare per una piana, et breue: per il che fé a qucfta cofa tu mi pcteffi dare qualche aiuto coiji quelle cofe^che hai ò da Iifia,ò da altri imparai te,uedi di ricordartene, e dichiaramele» F ED. Potrei forre, per prnnare k mi riufcifle/arquci; che tu dici, ma non in queflo tempo. SOCR. Vuoi adunque,che io ti racconti un ragionai irento^che io gii non fo quando, udì intorno a queftacofaf  FÉD. Di gratia. SOCR. E fi dice.che egh ègiufto iddio quello, che uno ha neir animo, come coloro, che pagano quelli danari alla fiatuii di Lupo, come (ai, FED. Cefi uoglio che ^cci, SOCR. Dicono ^diin qne coftoro,clie non fa di bilbgno tanfo con pa role inalzare (e cofe,che un dice, ne con lunga Oratione ingrandirle, come fare fi fuole: perciò che uogliono quefti tali (come habbiamo det^s to nel pnijcipio del ncftfo ragionamento che à uno,che habbia da eHere Oratori, non faccia di bifogno ccncfcere la uerifà delle ccfe giufte, et buone A dicendo quefto, intendono cofi/dcl le cofe,come de gli hucmini òper naturalo pcf ufo giudi. Et allegganoquefla ragione à prora uare che non bifognjfapere,che cofa Ca il gitH &o: per che ueJii gmcUcu h Oiatori nò fogliono hauer cura dimoftrarc la uerità,ma pia prefto at fendono à pcrfuaderc l'opinioni Io. C£ pero dico. Ilo, che è cofa uerifimile à credere che ia perfuac iìone fola fia quella, alla quale debba indrizar la mete colui, che con arte uorrà faper dire. Et che» fii il ucro, dicono cofloro che nefTuna cofa fi ere àttì mai che fia (lata fatta, fé prima non farà mo ftrato effer cofa probabile fiC aerifimile,che pcfTì <ffercaccaduta. Ma pure uogliono coftoro,chc -jpiu tofto fi habbino à addurre le cofe uerifimili neiraccufare.che nel difendere: flC cofi affermano, che un' Oratore fa poco conto della uerità, et che folo feguita il uerifimile^flC uogliono che fe quello loro Oratore feruerà in tutte le fue Ora tioni quefto ordine di moftrare il uerifimile, fi pofli dire, che egli moftri di faperc l' arte oratoria beniflimo. FED. Socrate tu hai raccon^ fato quelle cofe, che fogliono dire coloro, che fanno profeffione di infegnare la Rettorica.Et io mi ricordo.che nel ragionamento nostro poco fa toccammo un poco di quella cosa e quel, che haidetto, foche debba parere cofa troppo grande à coloro, che in quella arte fi efercitano. Ma io ti fo dire, che tu hai dato una buona ba^ donata à Tifia. SOCR. Poi che tu mi hai ticordatoTifia^uorrei che egli mi dice/Te, fe e pcnfa.chcii probabile, flC il ucrifimilc fia alfro;^ che quello, che pare al uolgo. FED, Che uuoi fu che riaaltrof*. SOCR. Trono olxra di quefto, fecondo me, Tifia qucfta altra cofabeU la,& degna di lui, et la fcrifle anchora. Et que:* fto è, che fé per cafo un'huomo debole, ma au^ dace.che hauc/Te battuto, flC fpogiiatouD'huoi^ mo forte, flC timido^fafTe menato in giudicio,, uiiole TiTia che nefTuno dicoftoro habbia à con fefTare il uero,ma uuole che il timido dica.chc egli non è (lato battuto folamente dall'audace, et 1 audace l'ha à negare, moftrare d effer ft^ (0 folo,flC pigliare quefto argomento. Come uo^ leteuoi,chcio,chefon debole, habbia aflalita coftni,che è gagliardo. Ma quel timido no coraj fefTerà per quefto la fua timidità, ma penfando, ritruouando qualche falfità,cercherà di accu^ fare Tanuerfario, Et cofi fimilmcntc in molte altre cofe accafcono fimili cafi, nclli quali(dicc^ ua Tifia ) bisogna haucrc quella arte. Non ti p;i re egli cofi FedroJ' FED, Cosi certo. SOCR. quanto aftutamente dimoftra TifiadihauejCieritruouata un'arte afcofa,* diffìcile, ò ueroqua^ lunche altro (ìa (lato, che habbia tenuta quefta Tua opinione, ft habbia nonfe^comc £i uoglU»! Ma uuoi tu, ch'io dica quefta coiàio od^ JF £ p« ' Chccofaèqucfla.clicfu uuofdìre^ SOCR. 'Io uoglio parlare un pcco con Tifia.O Tifia ih» «anzi che tu ueniffi con quefta tua atte, noi tes ncuamo per certo, che quefto probabile,fiC ucris fimile.nonfipotefii al uolgo per altro iTiodo mostrare che con la fomiglianza della ucrità.fiC pcnfauamo.che quelle fomiglianie del uero fos lo da colui potefTero cfTer trouate,chc peifettas niente la uerif a ccnofceffi. Per il che fé tu cidi'raiintorno àqiicfta arte qualche altra cosa volentieri ti afcol faremo: ma Te non dirai altro, noi ci ftarenso à quello, che poco fa habbiamo defcs to.ft^ 9 crederemo. Et questo è che se  uno non conosce bene gli ingegni delli audfe tori.ft fe quelli l'un da l'ahro non. diftinguerà, a fe non diuiderà le cofe.di che egli ha da pars lare nelle fue parti fe quindi di tutte un'idea fola facendo, in quel modo non le comprendes rà auefto tale nó potri mai acqui{lar*e quella ars te del dire. che può hauere un'huonrto. Etques > fta cofa non la può imparare fenza,un lungo uu, dio. Nella qua! cofa un' huomo prudente nófo lamentc fi affaticherà per poter dùe.a orare in modo, che piaccia a gi'huomini, ma anchora ut cherà di poter djre.a tare quelle cofc chc habs jj^j^jano da e(ftr gxate a Dio. Per cièche io uoglioche tu fappia Tifia/he quelli Iiuomini, chc fors no flati più faui di noi, bino detto che un'huo mo fauio non debba follmente penfare di (om^ piacere à tutte le bore à quelli, che feco fono fa un niedefimo fcruitio, ma fi ha da cercar di ubi dire à buoni Signori. Per il che non ti maraui^: gliarc.fe io ufoquefta lunghcza di parole, per ciò che gh è neceffario che io fia lungo efTcndo le cofc,che io tratto, di importanza, il che forfè tu non credi.Etfappi,che (come fi fuol dire ) che dalle cofe buone ne nafcono le buone, cofi anchor dalle uere pofTono uenirne le uerifimili. FED. Qyefta cofa pare à me che fia beniffimo detta. SOCR. Egli è certo difficile, ma egl'è anchora cofa hoaorata,flf degna lo sforzaifi (em predi aitiuare air acquifto di cofe eccellenti, fl(degnerà patire tutti quelli difagi,che in tale sforzo ne interuengcno. FED. Tu hai ragio ne. SOCR, Habbiamo horaà baftanza ra^ gionato della arte j ce del trifto modo del comrs porre Orationi. FED. A baftanza per certo. SOCR. Ci refla bora à ragionare intorno alla bclleza dello fcnuere^flC à dire onde nafca labru teza dell'orare, FED. Quefto ci refla. SOC. Sai tu in che modo ò ragionandolo orando lì f offa nelle parole piacere a Iddio FED, Non ccrfo^ft tu? Spc. Io ho udito dire no fo che cog. fc, le quali già furono infegnate dalli noflri anti chiamala uerità di qucfta cofa la fanno cffi^fif ilo io. Hora fe noi ritrouaffemo modo di piacer nel parlate a iddio, pefi tu che ci bifognafTe più haucre cura di quello,che gl'hucmini intorno a ciò fciocamente pcnfanor FED. Qnefla tua do ìiiada è da ridere. Ma raccontami un poco quellecofe^chc tu dici hauere udite. SOCR lo ho udito, che là prefTo al Naucrato di Egitto; fu già un certo iddio de gli antichi. al quale e dedicato quello uccello, che chiamano Ibin^flC quefto iddio é detto Theute. Quefto dicono, che fu il primo^che trouòii numerosa la com:? putatione,flf raccpglimento de i numeri, non folo uogliono che fuffi ritrouatore di quefta co::^ fa, ma anchora della Geometria, et della Aftrono miarritrouò anchora- fecondo loro, Tufo de i das di.fiCil mododi fare le forti, flC finalmente fu inuenfore delle lettere. Era in quel tempo Re di tutto r Egitto Tamo,2C ftaua in quella granr: di/Tima, CL nobilifTima Città, che chiamano li Greci Thebe di'Egitto; flC queftì popoli hannp po(]:o nome à Iddio Ammone. A quello Reue nendo Theute, gli moflrb le fue arti, flf gli diC^ (e.che farebbe flato buono, che egli à poco à pp co le diftribuifcc à tuffi li popoli dì Egitto. Ma egli domandò a Thcute,che utilità ciafcuna di quelle arti à gli huomini apportai » Il che di^ chiarandoli Thcute,Tamo approuaua quello,) che gli pareua ben detto: quello poi, che non gli piaceua. lo biafimaua. fiC all' hora fi dice che Tamo dichiarò^a moftrò à Theute intorno à eia fcuna arte molte cofe,flC per una parte^ et per la altra; le quali fe io tutte uolcffi nan-arti/arei trop po lungo. Ma poi che uennero al ragionar dcU le lettere^ di/Te Theute, Sappi Re. Che quefta difciphnafaràdiuentar egli Egitfii più faui^flC di maggior memoria: per ciò che ella è ftata tro:j uata per rimedio della sapientia^ft della memo: riamai che egli rifpofe, Aftutiflimo Theute uo:s glio che (àppia,che fono alcuni^che fono atti k ^ fabricare gli inftrumentijchc per una arte fono neceflarii,ac buoni; alcuni altri faranno poi più pronti à giudicare che dannoso che utile quelli arte debba an:ecare. Matu,chefci padre delle lettere, forfè perla troppa bcneuoIcntia, che gli porti, haidimofl:ratodi conofcer poco la forza loro, hauendo affermato che elle cagionano in noi quello efFetto, del quale niente é uero,anzi fanno il contrario. Per ciò che T ufo delle lettere facendo che noi poco ci curiamo di tenere à me moria co(aa!cuna, pàrtoriTcfnciram eli chi fe impara obliaionc di ciascuna cosa. Et qiìefto ne auuicne,pcr db che confidati nelli fcritti dal tri,non uogliamo cercare di rauuoUarci troppo ncir animo le cofe: per il che tu non puoi dire d'haucr troiiato il rimedio della memoria, tna più tofto d' un rammentarfi delle cofe già fapuis (e.Oltra di quefto à me pare, che tu più preda infegni alli tuoi scholari una opinioe della Icien ha, che la uerità: per ciò che hauendo quelli fen za la dottrina del maeftro lette, flC imparate mol: te cofe parràal uolgo.anchor che fieno ignors ranfi,che non di meno molte cofe fappiano,oU fra di queflo diueterànno nel praticarli più mos: lefti,flcfafl; idiofi, ne ciòauuerrà senza cagione: per ciò che efFi non pofTederanno la ucra fapien tiajfhapiutofto feranno ripieni d' un" opiniors ne di hauerla. FED. O Socrate, tu con poca fatica fingi, che li Egittii parlano, ft qualunis que altro più ti piace, pur che ti uenga bene. SOC. Qaefta non è gran cofa, per che ancora quelli, che ftanno nel Tempio di Giove Dodoneo, affermano che le prime parole del fufuro indouine, che effi udirtera, ufcirono d'una Querele: li che à quelli popoli del tempo anti^ co (per CIÒ che eghno non erano cofi faui.co^ SOC fetc uot del dì d'^hoggi ) baftaua pci fr disfare alla loro fcioccheza udire ie^.pktrf ^i) k Qucrcie.pur che elle gli diceflero il uero* Ma (i5 peni! che importi qualche cofa chi fia.ò d'onde lia qucllo, ckc parlj. Et ciò ti auuiene, pcr >ch^ tu non confideri folo fe qucUo.che parla, dice il uero,ò non, ma uuoi udire parlare i p^erfone à tuo modo, FED. Ragion^uolmcntc finii h«ii riprefo fif à me certamente pare, che nelle letiP tere interaenga quello, che fecondo il tuo dire, diceua Tama; chc à coloro accadeua.chc U (ape tiano. SOCR. Et pero qualunque perfona penfa fcriuendo intorno à quefta arte, 6 quelle cofc imparando. che da gli altri di lei fono itatc fcritte, per queftoche dalli fuoi fcritti fi habs» bla certeza alcuna i cauare.ò uero per il fuo im^ parare,douer faper cofa ucra.coftui certamente c fciocco, a: di poco cervello.flc fi può dire, che egli fia in tutto ignorante dello Oraculo di Gìq ue Ammonio, con ciò fia che egli pensi che le Orationi fcritte pifi poffuio,che non potrà uno chcdafe fteffo fappia quelle cole, delle quali Quelle Orationi ragionano. F £ BeùiSì^, tno. SOC. Queftoo Fedro ha la fcnttura piena di grauità,& dignità, che ella è fimihdl^ ina alla pittura: per ciò cIk ie^opere della pittUiP ra pare clic fìcno ufue^ma fc tu gli domanderai qualche cofa, uergognofam ente fi taceranno. Hon altrinienti delle Orationi potrai dire,fif ti parrà, che elleno intendendo qualche cola, U polfano anchora dire,ft moftrarc. Ma fe poi for^ (e di laperdefiderofo, gli domanderai di quaU che fuo detto la cagione femprc ti diranno una cosa, e ^<^»^pre ti lignificheranno il medefimo: <3CogniOratione,comeellaè feritta una uolta, Tempre. flf in ogni luogo la medéfima lì ritruo^ ua,fiC moftra le cofe fue à quelli, che fanno, à gh' altri,'alli quali forfè niente importa, flC non faella,o puo dire à chi bifogni manifeftarfi, 6 àchi nonb]fogni,2(fe mai gh è ingiulla:^ mente fatto ingiuria,© detto mal di lei,femprc ha bifogno dell'aiuto di fuo padre, ciò è di chi rha fcritta,per ciò che ella al.nemico non rcpu? gna,ne à fe fteffa può dare aiuto. FED.Quc Ite còfc anchora pare à me, che fieno ueriffimc,. SOCR. Ma che dirai tu à quello? Credi tu, che fi polU uedere un'altra forte di parlare fras: tello di i^ueftof Et che fi polfa concfcere come quello, che io ti dico,fia legittimo, fiC quello del quale habbumo ragionato badando, et quanto migliore, flC più potente nafcai' FED. Che parlare è queltof CC come uuoi tu che fi facciaf^ tu' ' Soc. SOCR. Qucfto parlare è queIIo,chc fi kwt ncir animo di chi impara per mezo della fcipnjs tia,flC è migliore, per che quefto può aiutare à fc flefro,fif conofce co qua] forte di p<rfonc fi bia a parlare., flC con quale à tacere. FED. Xji uuoi dire il parlare d' un dotto, che fia uiuo,flC che habbia fpirito,deI quale una Oratione fcri(» ta ragioneuolmente potremo chiamare un fimu^s lacro. SOCR. Quefto dico fenza dubbio. Ma dimmi anchora quefta altra cofa, Vno agr(^ culflcre che fia fauio^ credi tu che uorrà fpargerc^ ft gettare nel tempo della ftate quelli femi.chc egli bara più cari.ft delti quali egli afpetta con defiderioil frutto, ne gli horti d'Adone, cor» ogni ftudio,fiC diligentia,acciòche perfpatio di otto giorni ne pQ)[fi uedcre i fiorii (comelai^chc miracolofamenfe in quel terreno ìnteruiene) ò nero dirai, che fe egli pure il farà, Io farà per pat fac tempo in qualche giorno di fefta.fif per darfi piacere, fiC no per cauarne utile alcuno^Ma quan do egli farà da uero, ce che uorrà "attendere alla agricuItura,non li feminerà in quelli horti,ma in terreni conueneuoli,flC gli parrà hauere affair fc con interuallo di otto meli, flC non d otto gior ni la fuafementafi maturerà. FED. Certamente Socrate, che come tu dici, quel tale femi;? fi^^è gfi WrH (!• AcJdftc pft btirla.ft per foU lazt),^ nel terreno buono da uero. SOCR. t>^jf nfaremo noi, che un^huomo. ch^ (appia xke toù'fu il giudo, Ce il buono, ft« rhonefl-o, fi^ iiello fj^argere la fua fementa pia fciocco d u fio-agricultorer FED. In nessuno modo. SOCR Ef pero egli no femmerà i (noi detti ftudiòfamente con la penna nell'acqua negra, ^órtmietten doli alle fcritturc,fapendo egli che ft'mai poi portaflero pericolo alcuno non gli po tra dare aiuto: flC conofcendo anchora^che con lèfcriuere non fi può moftrare à pieno la ueri:? ti. FED. Certo ch^ il feminarecome hai dctfe, è fuor di propofifo. SOCR. Certo, ma prahìerà beh coilui gli horti delle lettere per darfi in quella follazo, fiC per pafTarc il tempo/ ce in quelli feminerà^ftcofi fcriuerà qualche co Éi^t'Af pofcia che fi uederà hauerc scritto, terrà qùéli fuoi (catti per mcmoria,&' gli harà cari, come fe fu (fero tefori atti à fargli fcordaie gli afi^ tìnni/che gli ha da arrecare la futura uecchieza. Etnonfelopenferà,chcgli habbino à cagioni rtàrecjUefto in lui ma in tutti coloro che feguis teranno le fue pedate, ecinfieme fi rallegrerà di tiedere già nati i fuoi teneri frutti: fif mentre che Ili altri huomini uanno pur altri piaceri fegui» tando. tando, cclebràndo conuit?,& fimili altri cU;:»*ti% egli lafciate quefte cofe folamcntc attenderà a ui nere nclli piaceri^ che danno li piaceuolj, e dotti ragionamenti* FED, Socrate tu mi nioftli un trattenimento molto più degno di molti altri, cheà me paiono nili, narrandomi quei di co^ lui, che può Tempre hauer piacere ne i ragionamenti, a disputare della giuftitia, «di quelle altre cofe, che tu dici. SOCR. Cofièccrtamente Fedro mie caro, ma molto più degno ftio c quello di quefti tali (fecondo me ) quando alcuno, poi che ha ritrouata un animala quel locheegh intende infegnarli afta, ufaudo Tarlc della dialettica, piantala: femina in quella ani; male fue parole con la scienfia: le quali parole fono bafteuolià giouarà fe ftefre, et à colui, che le pianta: per ciò che non folamentc portano fc co grandilTinìO frutto, ma anchoia il if me doa^s de nuoui frutti pedano nalcetc.Onclt^ pafTando poi quefte paroÌe,6: quefte fcientie <A]ixn hixf:^ mo in un' altro, mantengono qucftft.gtiecic dono immortale: colui, che Ila in fe tal do:? no, pongono in qdello ftato di beatitudine, che è ^oflibile à un'huomo. FED, Qaxtlh è an^ chora molto più degno, et honoreuole* S o Hormaio Fedro hauendg noi le cofe^ che Labe L un biamo dette diTopra conceflc, potiamo beniflirs- ino confiderarc quelle cofe,che^tu fai. FED. Quali. SOC. Qijelle, che per conofccrlc fin giù habbiamo ragionato, il qual ragionamen tb non habbianìo per altro fatto, che per poter ^ confxderare il modo di uitupcrare Lifia tuo in^ quanto all'arte dello fcriuere: non folamcte Liria,ma anchora tutte quelle Orationi.che con arte.ò fenza arte fi fcriuono. Età me pare, che già à baftanza habbiamo dichiarato, chi fia colui, cheartificiofofipofli dire, ficchi quello, che fia priuo d' arte. FED. Cofi pare à me. SOCR. Et però bisogna di nuouo ricor^ darfi,che alcuno non può perfettamente faperc l'arte del dire,ò uoglila faperc per perfuaderc Viltrni,òper infegnarla (fi come le ragioni di fo |)ra ci hanno dichiarato )fc prima non conors fcerà la uerità di quelle cofe ch' egli dice, òfcri^: uc t ce fe non faprà diffinire tutta la materia deU la cofa,che tratta: fl£ fatta qùeftà diffinitione,di nuouó diuidere tutte le parti, tenendo alle co:s fc particolari, ftindiuidue,fl£cofi contemplanti do,flC confiderando in quefto modo un'anima, alla quale habbia da perfuadere qual si vogli cosa, ac haucdo quelle cofc ritrouate,che con ogni forte di ingegni fi accompagnano, flC fono convenienti. 'ucjjJenti.cofi fopra fu«o ordini^ fi: acconci il fuo parlare, che co un' anima uaria.fi: di diuerle fantafie.accommodi parole, et modi di dire uas rii.flC di molte forti.flt con una anima semplice, fi£ di un fol uolere ufi parole femplici.fl£ pure. FED. Cofifièdetto. SOCR. Chedires mo hora noi di quella queftionc, che di fopra habbiamo tocco. ciòè fe egli è cofa honefta. ò bratta il comporre Orationi. fi: in che modo questo studio si possi ragioneuolmente uituperarc, a in che modo non. Non ti pare egli,che le ragioni dette di fopra ci habbiano dichiarato ques fto paHb i bastanza. FED. QjaaU ragioni? SOCR. Quefte.che fe Lifia.ò altri. Ccfiachi uuole ignorante della verità fcyfTe mai.ò ucro fcnue al prefente.ò fcriuerà cofa alcuna priuatas rmcnte.ò ucro che fi appartenga al publico.cos me farebbeno certe ordinationi ciuili.ó fimili cofe,flC che coftui penfi.che di quefti fuoi fcritti fe ne possa cauare una certeza. flC una fermiflima ftabilità.quefta tal cofa T uno fcrittore fe fi ha da giudicare che fia^brutta. Dichinlo le perfonc. ò noi dichino. chequefto imparta poco:| ciò che il non sapere, che cosa sia il vero ne il falso intot no alle cofe giufte.fiC ingiufte, buone, CCtriftc, (anchora che il uolgo tutto lodoiTe quefta igno.twifia}non può pero effefc.che confidcrarK^o il uero non fu bruttiflima. FED. Bruftiflima pcrccrfo. SOCR. Perii contrario poi. colui che penfa che fu neceflàrio qualche uolta per trattenimento, fif per fcherzo fcriuere^at nó giù <ljca che Oratione alcuna oin profa.o iq ucrfi mcrti^che fi perdi un gran tempo nel comporta '{come fanno quelh. che fenza confidcratione al tuna.CC fcnza dottrina, folamentc per daxad ins tendere una cola.fogliono alle uolte recitare ucr fi)ma terrà per certo.chc li fcritti,che buoni fi poflono dirc.fieno flaticompofti folo à quelli, chefanno.ma faprà che nelli ragionamenti, che fi &nno per cagione di imparare.fif di infegnarc adaltri.fifchc jicrauientc fi fcriuono.fiCimpria: ^tnono nell'animo d' uno.li quali trattano delle cofe gi"uftc, hcnefte. abuone,in quelli folas mente è ia uera chiareza flC la pcrfettione. A quc ragionamenti foli tiencche mcntino studio, ttquefti/olifuoi figliuoli legittimi chiama.dt di queftl ragionamenti primieramente appr/za quello.chc m fe ftefTo efler conofcc(pur che in fe h ntroui}dipoi tutti quelji,che di quel fuo parto.comc %lmoli,Cf fratelli,© nel fuo ania wo.ó nell'altrui menti fono nati: fic. tutti gl'als tri difpreza, a difcaccia, quefto tale, dico, pare 4 me mt telile fia tale,qualc 3a noi fi potrcì fyé^8drK!*« rare. FED. lo acmi ò S cerate, efièr conife t:olui,cIic ttì ilici di queflo ne priego Aìhàtas mente Iddio. SOCR. Ma fia detto aflai^cl r^rte del dire per qaefta uolta^iiauendo noiparr lato più per{ratteiiimtnto,-clTe per altra cagioine. E t però tu potrarf dire à Lifia, ciré ncrtlTenfi do andati doue è il fonte delle Ninfe, ideile Mufe,habi>iaino uditi certi ragion ameti, li cpali hanno comandato, che noi dtcfatno A à itif  (à tutti gli altri Scrittori d' Orat foni: ol tra dì quefto à Honicro,ò;fe altri è (lato che c qualche ftuda,CC bada Poefia babbi compofl:o,ó pùre or nata, fiC niimerofa,ul{irnaoien(e à Solone/fiCi tutti gii altri^che delle ordinationi tiiiili hanno fcritto,che fe eglino tali cose: onìpofero con faji peucli della ue<ità,flC col difputarc, pofTono dì: difendere le cofe^cbe eglino hanno trattato, SOC con ragioni fa^r fi,chc li fcritti dinioftrano c{{ctc dainanco,ft pia uili delle parole loio,fif dclU noce uiua,fe quefto che io dico, faranno Farei ine,<he habbiano à pigliare il nome ne da quel le cose,che con la penna fcrifTero^twa pio prcftat da quello, che doftamete ccnfiderarono. FED. Etchc cognome lata quefto, <££ in the modelli lo darai tui' SOC il gran ccgncMM ài piente folo à iddio/ccondo me, fi conufener flC pero à qucfti tali huomi ni, ch'io tlio difopradc^ fcritti,gli porrci più conucnicntemete il cogno:: medi Filofofo,ò di qualche altra uoce fimile. FED, Certo che quefto no fi difconuerrebbc. SOCR. Et pero dimmi un poco, chiamerai tu ragioneuolmcnte Poeta, ò vero fcritfore d'Os: rationi.òdi leggi colui, che in fé cofa alcuna no habbia migliore di quelle, che ha fcrittof' Et che lungo tempo rauuollendofi, fiC aggirandofi il ceruelIo,con una affidua emendafione finalmen te habbia fatto una compofitionef FED. Che uuoitudircperquefto? SOCR. Voglio di re, chetudica tutte quefte cofe al tuoLifia. FED. Et tu non farai il medefimo col tua amico. per che in uero non mi pare da lafciarlo andare. SOCR. Quale amico dici tu F E Dico Tfocratcgiouanc perfetto. Che dirai tu à coftui Socrate Chi diremo noi, che egli fia (SOCR. Ifocrate ò Fedro, è anchora giouanetto^ma io non uoglio lafciarc di dire quek lo,cheioindouinodilui, FED. Che cofa f SOCR. A me pare, che egli fia di migliore ingegno,chenon dimoftra d'eflcrLifia per li fuoi Sritti, et oltra di quello di più gencrcfi cofiumi ornato» Per il che io non mi marauigliarci punto. punto,fccrcfcendoinIuigIi anni, egli diuens tafTc più eccellente nell’arte del dire, nella qua le hora si esercita di quànti mai à quella si sono dati: flC credo, che egli non contento di queftc cofe per un certoinftintodiuino,cheè in lui, fi inalzerà ad imprefe maggiori; per ciò che io uo glio che fappi,che nel fuo ingegno è (lata daU la natura poftain un' certo modo la Filofofia, Quefte cofe adunque, che da quefti iddìi hofa^ pute,manife(leròal mio amicilTimo irocrate,& tu dirai al tuo cariffimo Lifia quelle altre cose. FED. Cofì farò. Ma partiamoci di qui,con ciò fia che il caldo fu hormai calatto à fatto SOC« InnanziportajrCjò trarre feco, fen6colui,che fia t» perato, Penfi tu che fi debba domandare altro ò Fedro  A me par hauerc con preghi domandato uclfo,cbefaceuadi fxifognó, F E Pieg afichoia,che quel trcdcfmio conccdinoa me: pei ciò che tra gli amici cani cola è conh SOCR Partiamoci Adunque.  Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei, Ganimede Ganymede eagle Chiaramonti Inv1376. jpg Ganimede e l’aquila, Nome orig. Γανυμήδης Sesso Maschio Luogo di nascita Dardania Professione dio dell'amore omosessuale e Principe dei Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης è un personaggio della mitologia greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti i mortali del suo tempo.  «La vicenda mitologica di Ganimede servì da emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti artistici al desiderio omoerotico. In una versione del mito viene rapito da Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era Catamitus, da cui deriva il termine catamite, indicante un giovane che assume il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo.  Genealogia  Figlio di Troo e di Calliroe (o di Acallaride).  Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte, Tzetzes che sia figlio di Ilo, per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu Erittonio oppure Assarco.  Non risulta aver avuto spose o progenie.  Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa leggenda.  Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di cavalli divini e un tralcio di vite d'oro: il padre si consola pensando che suo figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere degli dei, una posizione che era considerata di gran distinzione.  Zeus per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila; sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se lo porta quindi sull'Olimpo dove ne fa il suo amato. Per questo motivo nelle opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato con la coppa in mano. Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila. Da alcuni viene anche associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui origine tradizionale è proprio la terra di Frigia.  Tutti gli dei erano riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno zodiacaledell'Acquario.   Busto di Ganimede, opera romana d'epoca imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale - all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori "paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato, avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia. Platone rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro comportamenti.  Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone, invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo.  Il neoplatonismo ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato, anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di Johann Wolfgang von Goethe.  Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National Gallery, Londra) Poesia  In poesia Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Ovidio nella sua opera Le metamorfosi, poi Virgilio nell'Eneide all'interno del proemio, Apuleio e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche Stazio. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un principiante.  Nell'opera Come vi pare di Shakespeare il personaggio di Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden, scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca paleocristiana Astronomia Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius. Gli è inoltre stato dedicato l'asteroide Ganymed.  Nelle arti Nella scultura una delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare (lo stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da Plinio il Vecchio: Leocare ha realizzato un'aquila che trattiene con forza Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste. Questo particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui Zeus si mantiene in forma umana.  Nella ceramica il tema di Ganimede si ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio, il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi nudità atletica). Il ratto di Ganimede, di Sueur Il Rinascimento ha visto riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali Buonarroti, Cellini ed Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato.  Quando il pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i lunghi capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto senza opporre la minima resistenza.  Nel Ratto di Ganimede di Antonio Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso per lo spavento.   Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di Ganimede in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine raffigurata era invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila, mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati: in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre, l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo.  Pierre, Natoire, Guillaume II Coustou, Julien, Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini di Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo.  La scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di Cubero, eseguita a Parigi, ha portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli scultori più importanti del suo tempo.  L'artista danese Thorvaldsen, di gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila.   Particolare di una scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un modello tardo ellenistico a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o anche un giovane amante omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede gioca con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus. Cratere attico a figure rosse (Parigi, museo del Louvre).   Ganimede e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia)  Illustrazione gli Emblemata di Andrea Alciati Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si "rallegra" in Dio.   Raffaello da Montelupo, Giove bacia Ganimede Ashmolean Museum, Oxford Alberti, Copia rovesciata da originale di Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.   Il Ganimede di Antonio Canova  "Ganimede", di Cubero  Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogico Atlante Pleione Scamandro Idea Elettra Zeus Teucro Dardano Batea Erittonio Ilo Troo Calliroe Euridice  Ilo Assarco Ieromnene Ganimede Laomedonte Strimo (o "Leukyppe") Temiste Capi Priamo Ecuba Anchise Afrodite Latino Ettore Paride Creusa Enea Lavinia Ascanio Silvio Silvius Enea Silvio Bruto di Troia Latino Silvio Alba Atys Capys Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca Numitore Amulio Marte Rea Silvia Ersilia Romolo Remo Età regia di Roma She-wolf suckles Romulus and Remus. jpg Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata l'identità omosessuale Fazi editore Secondo l'AMHER ("The American Heritage Dictionary of the English Language,  catamite,  Apollodoro, Biblioteca, su theoi Omero, Iliade su theoi Diodoro Siculo, Biblioteca Historica, su theoi  Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, su penelope. uchicago.edu. Cicerone, Tusculanae disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su theoi.com. Igino, Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia. Veckenstedt. Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il mito greco Volume primo Gli dèi Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone, Simposio, Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide, Stazio, Tebaide, Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede in France, The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm (a cura di), Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, Cambridge "Ganimede" Ferrier Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche. Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache. Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania, Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, Platone, Fedro. Platone, Leggi. Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia. Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda.  Christian Wilhelm Allers, Giove rapisce Ganimede Fonti moderne Edmund Veckenstedt, Ganymedes, Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society, New Haven (Connecticut), Yale; Burkert, The Orientalizing Revolution: Near Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge (Massachusetts), Harvard; Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano, Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton, Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari, Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient Athens, Berkeley, University of California Press; Sergent, Homosexualité et initiation chez les peuples indo-européens, coll. « Histoire », Parigi, Payot, Gély (a cura di), Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse poétique, Presses Universitaires de Paris; Guidorizzi, Il mito greco, 1 Gli dèi. Particolare di Zeus accanto a Ganimede, di Christian Griepenkerl Voci correlate Icona gay Mito di Etana Omoerotismo Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ganimede The Androphile Project, The myth of Zeus and Ganymede. Griffith, Visual arts: Gaymede.   "Ganymed" (testo, in tedesco e italiano). Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute Iconographic Database Archiviato in Internet Archive. Portale LGBT   Portale Mitologia greca Troo re di Troia nella mitologia greca, figlio di Erittonio  Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e moglie di Tindaro  Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di Ilo Grice: “While some Englishmen would use euphemysms when subtitling Phaedrus, “a dialogue on love and beauty”, Figliucci contradicts Diogenes for whom Phaidros is ‘peri ton erotes’ – and has it as ‘il fedro o vero dialogo del bello’ – del bello is neuter in Italian (kalon), but also masculine – hence Figliucci’s reference to Giove and Ganimede. Felice Figliucci. Figliucci. Keywords: Giove e Ganimede, il bello, bei, kalos, kaloi, kaloskagathos, kalon, eros, to kalon, to kalos, eros.  Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Figliucci” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filangieri: la ragione conversazionale e l’implicatura dello stato di ragione – scuola di San Sebastiano – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Sebastiano). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. San Sebastiao al Vesuvio, Napoli, Campania. Grice: The importance of Filangieri is in the concept of ragione retorica; indeed, on the footsteps of Vico, Filangeri posseduto della ragione, shows that illuminism is incompatible with the ancien regime! Dei principi di Arianello, figlio di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del duca di Fragnito, nacque in Villa F., nel Casale di San Sebastiano di Napoli. Nella medesima villa F. muore Giovan Gaetano F.: il nonno dell'illuminista. Da una delle famiglie pi antiche della nobilt partenopea. Lo zio arcivescovo  Serafino F.. Riceve un'educazione severa che si svolge privatamente nel Palazzo Filangieri di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino, e soprattutto Luca. Si dedica alla filosofia. Si laurea. A seguito della carica di gentiluomo di camera presso Ferdinando IV, si dedica al progetto della riforma di giustizia e divenne ufficiale di marina. Il suo illuminismo  considerato napoletano in quanto non assimilato dall'esterno. Si tratta di un illuminismo prodotto nella Napoli. La citt partenopea si era dimostrata s come uno dei maggiori laboratori di idee d'Italia, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e il lusso sfrenato di nobilt, mentre la massa plebea continua a vivere nell'ignoranza. Si parla a questo proposito di "questione meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva in discussione anche l'esistenza di una civilt, dato che il tessuto sociale era ridotto a brandelli. In tale contesto rappresenta la voce riformatrice, la cui efficacia e tuttavia limitata dalla precoce morte, prima delle vicende rivoluzionarie. Scrisse un saggio, Morale de' legislatori, nel quale dichiara di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in discussione le tesi di Beccaria. Afferma infatti che nello stato di natura  non lo stato civile -- ciascuno ha il diritto di togliere la vita a tutti per proteggere la propria ingiustamente minacciata". Tali temi vengono poi ripresi e trattati ne La scienza della legislazione. Stampa a Napoli le riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano. Le riflessioni riguardano la riforma dell'amministrazione della giustizia. In particolare afferma la necessit, per il magistrato, di motivare la propria sentenza in base alla legislazione scritta nel regno, permettendo in questo modo di eliminare gli abusi e i privilegi per il giudice. L'Illuminismo napoletano di F. emerge in particolar modo in La Scienza della Legislazione. Analizza le linee sistematiche di una scienza pratica destinata a essere guida delle riforme legislative e basata sulla *felicit individuale* del cittadino come premessa *utilitaristica* allo stato buono. Filosofi come d'Alembert e Montesquieu, con il loro spirito di classici dell'Illuminismo, contribuirono a influenzare F. Ottenuta la dispensa dal servizio di corte, si trasfer a La Cava, poco lontano da Napoli. Qui si dedica interamente alla filosofia. Arrivano le prime condanne da parte dell'Inquisizione, anche se la Chiesa romana non contesta la legittimit dei provvedimenti assunti dal governo borbonico sulla scorta delle proposte contenute in La scienza della legislazione. Divene capitano di fanteria. Consigliere del Supremo Consiglio delle Finanze e, preso dagli impegni politici, non riusce La Scienza. Si ritira a Vico Equense. Essendo stato iniziato in massoneria in una loggia napoletana, ha solenni funerali massonici, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le logge napoletane. A F. e intitolato il carcere minorile di Napoli. A Milano  intitolata la piazza antistante il carcere di San Vittore. Composta da otto libri, La Scienza della legislazione  un'opera di alto e innovativo valore in materia di filosofia. E cos apprezzata per la sobriet della critica e per la concreta esposizione sul piano giuridico. Espose una FILOSOFIA frutto della grande cultura napoletana antecedente all'Unit d'Italia, rappresentata in particolare da VICO (si veda) e GIANNONE (si veda), che interpola con Montesquieu e Rousseau. Porta alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano Napoli, pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di aristocrazia, sfruttatori del popolo. Al tempo stesso essa chiede alla corona di farsi portatrice di una rivoluzione pacifica, una sorta di modello di monarchia illuminata, secondo i canoni illuministici, da conseguire attraverso una seria azione riformatrice dattuarsi sugli strumenti giuridici. Importanti l'affermazione dell'esigenza di attuare una codificazione delle leggi e di una riforma progressiva dalla procedura penale, la necessit di operare un'equa ripartizione delle propriet terriere e anche un miglioramento qualitativo dell'educazione pubblica oltre ad un suo rafforzamento su quella privata. Per ci che attiene al diritto criminale d un'innovativa definizione di delitto. Una azione A puo essere contraria alla legge L ma non un delitto. Un agente che commette A (non delitto) non e un delinquente. Unazione A disgiunta dalla volont V non  imputabile dallo stato civile. La volont V disgiunta dall'azione A non  punibile dallo stato civile. Un delitto consiste dunque in una azione che viola la legge L, accompagnata dalla *volont* dellagente delinquente di violar la legge L. Tratta le principali proposte di riforma, nel campo politico-economico -- abolizione del privilegio feudale, ecc. --, penale, dei rapporti tra religione e legislazione, e, in modo particolare, nel campo educativo. Essa comprende Le regole generali della scienza legislativa, Leggi politiche ed economiche; Leggi criminali (procedura; delitto e pena), Leggi che riguardano l'educazione, i costumi  Kant zitte Varrone, mos, ethos -- e l'opinione pubblica), Leggi che riguardano la religione; Leggi relative alla propriet, rimase abbozzato (ne fu steso soltanto il sommario), e Leggi sulla famiglia. Tra le varie tesi esposte in questo libro emerge la considerazione che ha dell'agricoltura. Sotto l'influenza di GENOVESI, di VERRI e dei fisiocratici, la considera un settore importante del sistema economico e propose la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed economico al suo sviluppo e alla libert del commercio dei suoi prodotti, sostenendo altres l'imposta unica sul prodotto della terra. Il trattato  messa all'Indice dalla Chiesa romana per le sue idee giacobine. Infatti critica l'atteggiamento di Roma, ritenendo appunto che questa pesasse sulla societ e si avvalesse di privilegi. Ha messo in campo proposte -- giustizia sociale e giuridica, uguaglianza, pubblica istruzione, espropriazione dei beni ecclesiastici donati dai fedeli, ecc. -- miranti al progresso in senso rivoluzionario attraverso un'azione legislativa fondata sulla ragione (non la fede) e rivolta ad un altrettanto presunto sviluppo della realt di Napoli, ma con i metodi tipicamente giacobini basato su coercizione e sentimento massonico e anti-romano. Stampa altri due saggi, i quali ebbero grande successo, con elogi entusiastici rivolti all'autore, come quello di Franklin, il quale avvi una corrispondenza con F. e lo tenne presente per la stesura della Costituzione. Suscita interesse e discussioni anche grazie all'attenzione dedicatagli da Constant. Altre opere: Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell'amministrazione della giustizia (Napoli); La scienza della legislazione (Napoli); Il mondo nuovo e le virt civili: l'epistolario (Napoli. Ricca); Discorso genealogico dei Filangieri estratto dall'istoria del feudo di Lapio (Napoli, Cozzolino); Sebastiano: un itinerario storico artistico e un ricordo (Poseidon Editore, Napoli); Signore di Lapio, Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio di Capuana,  decorato con diploma imperiale di Carlo VI d'Asburgo, col titolo di principe di Arianello. Vittorio Gnocchini, L'Italia dei liberi muratori. Brevi biografie di massoni famosi (Roma-Milano, Erasmo Editore-Mimesis); Buonomo, Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!, BECCHI, PAOLO. De Luca, S. Il Pensiero Politico di F. Un'Analisi Critica. Il Pensiero Politico; Firenze, Seelmann, Kurt. La proporzionalit fra reato e pena. Imputazione e prevenzione nella filosofia penale dell'Illuminismo (Mulino); Trampus, Antonio, Diritti e costituzione (Mulino, D. Valente,"Poliorama Pittoresco", Conferenza tenuta dal comm. Masucci al Circolo giuridico di Napoli, n.p.: Napoli, Tip. gazz. Diritto e giurisprudenza, Ruggiero, Un uomo, una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Alfredo Guida Editore Pecora Gaetano, Il pensiero politico. Una analisi critica, Rubbettino Editore, Ferrone Vincenzo, La societ giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti dell'uomo, Roma-Bari, Laterza, Cozzolino Bernardo, San Sebastiano: Un itinerario storico artistico e un ricordo (Edizioni Poseidon, Napoli Giancarlo Piccolo, Cappella Filangieri. Indagini sulla Parrocchia Immacolata e Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS Edizioni, Cercola F.S. Salfi, Franco Crispini, Elogio, Cosenza, Pellegrini, "Frontiera d'Europa" (Rivista storica semestrale, Esi editore Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), intitolato Studi f. Berti, F., Il repubblicanesimo, Pensiero politico Mongardini, C., Politica e sociologia, Giuffr, Trampus, A. e Scola, M., Diritti e costituzione. Pensiero politico. Ascione Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella di San Vito Martire a San Domenico: Il restauro del dipinto della Madonna del Carmelo di Amato, Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San Sebastiano. F. Illuminismo in Italia. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. Il pensiero politico di.Una analisi critica, su politica magazine.  detto, e giustamente, che Herbart  stato il creatore della pedagogia scientifica, perch alla costruzione empirica delle teorie educative sostituisce  un sistema organi- co di proposizioni derivanti le une dalle altre, co- me conseguenze da verit fondamentali e come verit fondamentali da principi, laddove prima era piut- tosto una raccolta di ammaestramenti per le di- verse contingenze che si presentavano nella pra- tica educativa, (juasi una raccolta di ricette pe- li) X. ()RXK\ JA - La Peda^^oo^a secondo Herharth r la sua scuola - liologna, dagogiche; (i) e perch pone a fondamento del- la nuova scienza educativa la conoscenza dell'e- ducando e delle leggi del suo sviluppo psichico, oftrendo, come bene scrive il Romano, i germi preziosissimi e fecondi di ogni ulteriore svi- luppo della psicologia pedagogica. Ma non si deve dimenticare che, prima di Herbarth, il nostro F., pur non essendo un pedagogista sistematico, n preoccupandosi, come il primo, di organizzare un sistema scientifico di Pedagogia, abbia studiato il fatto del- l'educazione umana come acquisto lento e graduato della psiche, svolgentesi e sviluppantesi per gradi, sino alla consapevolezza e libert del volere. Tanto Herbarth quanto F. partono dal principio lockiano della tabula rasa, che con le masse apperccpicnti del primo, e la pci'- ce^ione e la inenioria del secondo si svolge in intelligenza operante; e dall'amoralit del neonato, per via dell'istruzione educativa e delle casuali contingenze della vita, all'acquisto del carattere morale e della felicit. Ottimisti entrambi, come tutti i filosofi e pedagogisti del secolo XVIII, . all'istruzione asse- [CREUARO - Aa/ Genovesi a GALLUPPI y,-^.- poli.] L'uomo non ha idee innate, nasce nell'igno- ranza di tutto, non  n buono n cattivo: le circostanze fortuite, o deliberate merc l'educazione intenzionale e metodica, lo piegheranno al bene o al male, lo renderanno colto o incapace di guidarsi nelle vicende della vita. L'errore  acquisito; e poich l'infanzia  l'et della curiosit e della imperfezione della ragione,  ordinariamente l'epoca di questo fatale acquisto. 11 F. segue la teoria delle facolt, efificacemente combattuta da Herbart, e dalla psicologia contemporanea, che vede in essa il massimo grado d'imperfezione della scienza e il sepolcro della ricerca. Ma, pur affermando che le facolt di scn'irc, di pensare, di z'olcrc, sono nell'uomo appena nato, non le considera; entit reali, personificazioni di tante e diverse forze a s e trascendenti, ma semplicemente attitudini, potenze della mente, che trovano fuori dell'uomo le cause del loro sviluppo. Queste cause sono le circostanze nelle quali viene a trovarsi l'uomo; e l'oggetto dell'educazione  appunto di somministrare un concorso di circostanze il pi atto a sviluppare queste facolt, secondo la destinazio- DANDOLO - Appunti di filosofia - Messina, COLOZZA ne dell'individuo e gl'interessi della societ della (juale  membro. Poich l'anima  una talutla rasa, senza pen- sieri e senza desiderii, come acquister essa le conoscenze e perverr agli atti volontari? La prima operazione dell'intelletto  la percezione, ossia l'impressione che si fa nell'animo all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi. Come e perch si produce questa impressione, l'autore non dice, forse perche accoglie le idee critiche di GENOVESI (si veda), il (juale, come fa vedere GENTILE (si veda), confessa d'ignorare la natura e l'origine della percezione e delle idee e la natura dell'anima: conoscenze inaccessibili alla capacit degli uomini. Anche Locke aveva affermato che noi non possiamo niente sapere di certo n sul corpo n sullo spirito; e, riducendo alla sensazione (da cui derivano le idee semplici) e alla riflessione (idee composte) l'origine di tutte le operazioni intellettuali, non indaga, neanche lui, il come e il perch. Per lo stesso Rousseau, bench egli abbia. LOCkE - Saggio siiirintendimcito nmano, Citato da Ferrari in Locke  Roma FERRARI - LocA-c -] come il nostro F, intuizione d'una nuova psicologia da porre a fondamento dell'educazione, le funzioni psicologiche, come scrive lo Stoppoloni, sono sempre quelle immaginate dagli aristotelici medioevali, tutte belle e formate, incastonate l'una dopo l'altra, l'una sopra l'altra. F. per riconosce che le facolt intellettMali, quattro, secondo lui, si annunziano sollecitamente e contemporaneamente, e si svilup- pano gradatamente. V Non confondiamo l'annunzio delle facolt intellettuali, col loro sviluppo. Il primo  sollecito e quasi contemporaneo, ma l'ultimo  lento e progressivo. Ripudiate le idee innate, ammesse le facol- t che si svolgono gradatamente, secondo l'et del bambino e le speciali circostanze in cui questi sar posto, deriva che l'opera educativa non potr che seguire il processo naturale, offrendo a queste potenze intellettuali i mezzi per isvolger- si e svilupparsi. Ed ecco la Psicologia in servigio della Pedagogia. F. ammette dunque quattro facolt, che si annunziano quasi contemporaneamente, ma progressivamente si sviluppano: percezione, memoria, immagimizione, raziocinio. \j. percezione  l'impressione che si fa nel- [STOPPOLONI- Rousseau -Roma] l'animo all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi. Senza di essa gli oggetti agirebbero inutilmente sui nostri sensi, e l'anima non ne acquisterebbe cognizione alcuna. Per mezzo della mciuoria, le cognizioni accjuistate per via delle percezioni, si conservano, si riproducono, si riconoscono. Adoperata appena  annunziata sarebbe l'istesso che impedirne lo sviluppo. Bisogna aspettare che sia nel suo vigore per profittarne, e nel suo vigore non  prima che il bambino abbia nove anni, dopo che la sua intelligenza, per via dell'istruzione fornita con le percezioni, abbia acquistato vigore. Si potrebbe domandare a F. come potr essere nel suo vigore una facolt che non sia stata esercitata; ma ai suoi tempi erano igno- te le leggi dello sviluppo sincrono delle attivit psichiche, che in Herbart, con la teoria della imiltilarit dell'interesse e della concentrazione delristrLzione, trovarono il genio precursore. Avute le immagini e le rappresentazioni de- gli oggetti reali per mezzo deWa. />ercezione e del- ia memoria, l'uomo le compone e le combina per mezzo deW immaginazione (terza facolt), la quale, per isvilupparsi richiede un lungo lavoro intellettuale percettivo e memorativo. L'ultima a svilupparsi  la facolt di ragio- nare, che combina e compone, non gi le idee degli esseri reali, opera questa dell'immaginazione, ma le idee di gi generalizzate, cio quelle delle qualit, delle propriet, dei rapporti di esseri che non hanno cosa alcuna di reale, e non sono altro che nostri modi di vedere e di pensare, e pure astrazioni. La divisione lockiana in idee semplici, prodotte dalle sensazioni, e in complesse, prodotte dalla riflessione,  in F. ancora pi complessa. Tutte le idee semplici sono anche astrat- te; ma alcune si acquistano immediatamente, per mezzo dei sensi (colore, freddo, caldo) e sono quindi idee astratte e semplici ma dirette; altre non riconoscono nei sensi la loro remota origi- ne, e si formano per successive e combinate operazioni dell'intelletto (idea dell'esistenza, del- l'essere) e sono astratte e semplici ma indirette. Altre idee, in line, hanno, come le seconde, la loro remota origine dai sensi, si formano per combinate e successive operazioni dell'intelletto, ma si rendono quindi di nuovo sensibili coi mezzi immaginati dall'uomo. Tali, per esempio, in geometria le idee di linea retta, di superhcie piana, che costituiscono una terza specie di idee: le astratte e semplici ma indirette e figurate. Queste tre specie di idee semplici si acquistano: le prime, coU'associare la parola che esprime l'idea (es. rosso) con la sensazione del colore; le seconde, con operazioni successive dell'intelletto di astrazioni e di sintesi; le terze, col primo procedimento e col secondo. Altre idee sono composte, (costituite da idee semplici) (juali: corpo, sostanza, albero, animale, ecc., che hanno subita una considerevole progressione di operazioni intellettuali. F. offre un saggio del procedimento mentale per l'actiuisto dell'idea astratta di ciuercia, albero, vegetale, corpo, sostanza, che  una bellissima pagina di psicologia, giudicata dal NISIO (si veda) il pi bel tratto che abbiamo nella letteratura filosofica. Stabilito che le facolt intellettuali si svilup- pano progressivamente, consegue che il savio educatore debba saper con quali esercizi comin- ciare e dove pervenire; e il periodo educativo sappia dividere in tanti gradi, quanti sono quel- li dello sviluppo intellettuale. Cos, nella prima et, quando padroneggiano le sensazioni che ci ventrono dal mondo esterno, devesi secondare tale disposizione naturale, offrendo per pascolo all'intelligenza materie di studio che trovino nella percezione sensibile il loro fondamento. Tali sono, oltre della lettura, della scrittura, dall'aritmetica, l'osservazione sul- le produzioni e sui fenomeni della natura, il disegno e l'esercizio diretto dei sensi. L'uso della seconda facolt, la nienioria,  as- [Kisio] segnato al quinto anno d'istruzioni. Di questa facolt non bisogna abusare, perch  un pregiudizio considerare la memoria una macchina le ruote della quale diventano altrettanto pi facili, quanto pi sono state usate e le di cui molle acquistano maggior vigore, a misura che vengono con maggior forza e con minore intermissione compresse; ed  assurdo il metodo - colt preesistenti all'attivit psichica, artihziosamente, seguendo l'indirizzo allora comune e diffuso, conseguenza necessaria, come bene afferma il De Dominicis, della teoria delle facolt, asse- o-na date et, con nette demarcazioni, per il loro sviluppo e la loro educazione. Nell'istesso errore  caduto Rousseau. Oggi si farebbe compiangere il pedagogista che vofesse scindere cos l'unit della psiche, e che credesse incapaci i bambini di ragionamenti e di astrazioni, prima che fossero passati attraverso all'educazione speciale della percezione e della memoria; poich, come scrive l' Angiulli, una del- [ (lUl F. vuole pervenire 2\X autonomia men- tale, che dev'essere il fine ultimo di ogni educazione intellettuale. le conquiste pi importanti dei moderni studi psicologici consiste nella scoperta dell'unit di composizione della mente. Le operazioni pi al- te dell'analisi e della sintesi, della astrazione, del raziocinio, ci chiariscon modi diferenti e pi complessi di ([uel processo della discriminazione e dell'assimilazione che si rivela anche nella forma pi bassa dell'esperienza e della sensazione: Anche tra gli Herbartiani, il Lindner distingue tre gradi o periodi di sviluppo intellettivo, che sono: i quello ^VC accoglimento (pc'cc- zione)- periodo dell'infanzia, periodo dell'imparare; 2 (juello del raccogliere ed ordinare - periodo dell'adoloscenza- periodo dell'imparare; 3 quello dW elaborazione (apercctio)i) - periodo della giovent - periodo della formazione dei pensieri. Anche la Pedagogia scientifica ammette dif- ferenze relative alle diverse et del discente; ep- per vuole che i gradi dello sviluppo psichico si corrispondano con quelli dello sviluppo fisiologi- co, e distingue l'infanzia dall'adolescenza; e queste, dalla giovent e dalla maturit: periodo in AXGIULLI - La Filosofia e la Scuola - Nap>oli, ORESTANO - An^irilli  Roma; COLOZZA - Ani^iiili- Diz. di Pedag. cit; DE DOMlNiCIS, che in - IJnce di Pedagogia. I, formula la legge della simultaneit della cultura psichica. FORNELLI- La Pedagogia secondo Herbart, ecc. cui sensazioni e percezioni sono prevalenti, l'impulsivit vince il potere d'inibizione; e periodo dell'attivit memorativa e immaginativa, dei sentimenti sociali ed estetici, e via; e appresta va- ria coltura, tendente a rispettare la legge del tempo educativo, cos formulata da Dominicis. Per, mentre il sistema di F. e della vecchia Pedagogia empirica delle facolt si e- saurisce in una serie di educazioni parziali, quello dei pedagogisti contemporanei, pur riconoscendo delle prevalen^-e nei gradi dello sviluppo, non circoscrive l'azione educativa, ora alla sola percezione, o alla sola memoria, o alla sola immagi- nazione; ma, accettando il principio Herbartiano della tmUtilarit deir interesse, anche nella pi ele- mentare lezione cerca di sviluppare, tanto l'attivit percettiva, quanto l'appercettiva, e pervenire, dalle pi semplici impressioni, al sentimento estetico e morale. Come si  pi volte accennato, F., tanto nell'esplicazione del suo si- DOMINICIS - IJ)iee di Pedagogia Per gli stadi dello sviluppo intellettuale del bambino, V. CESCA - Principii di Pedagogia Generale; DOMINICIS - Zz;(?(? di Pedagogia - - Antropologia Pedagogica - cit; VY.^y:l -\.2l Psycologie de t'en/a?ii -Paris, SULLY Etudes sur Venfance -Vtxx'x's,, igoo; T\\\X - Psicologia deir infanzia - Messina] stema sociologico e giuridico, (juanto in quello educativo,  ottimista; e assegna all'educazione un potere illimitato, sia perch parte dal princi- pio della bont originaria della natura umana, come dalla convinzione che la buona educazione e i buoni costumi tutto possano.  ottimista, co- me lo erano stati Leibniz e Locke, Rousseau e Pestalozzi, e quasi tutti i grandi filosofi antichi e moderni. Per far vedere i prodigi dell'educazione, F RICORDA I ROMANI, che egli per non intende imitare quando non rispettano le leggi di natura. Se il fiero Licurgo, col soccorso dell'educazione, pot formare un popolo di guerrieri fanatici, insuperabili nella destrezza, nella forza e nel coraggio, per qual motivo un legislatore pi umano e pi saggio, non potrebbe egli formare un popolo di cittadini guerrieri, virtuosi e ragionevoli? L'istruzione diminuisce i tristi effetti della corruzione e si oppone ai progressi del dispoti- smo e della tirannide: ecco il principio direttivo di F.; ed ecco l'aiuto che l'educazione porge alle altre parti della legislazione, perch si [DE DOSnKlClS - Soc/o/ogi a Pedagogica / C.^CK - Aniinowic psicologiche e sociali dellEducazione -W.Q^s\wai, igo.] raggiunga il fine supremo di essa: la felicit, col benessere di tutti e la libert. E come la mano dell'uomo ha soggiogato la natura, creando anche nuove specie di vegetali e di animali, cosi pu trasformare, merc l'educazione, anche il mondo morale; e, dirigendo il corso dello spirito umano, distraendolo dalle vane speculazioni, richiamandolo agli oggetti che interessano la prosperit dei popoli, perpetuare il benessere e la virti. Dalla suprema importanza del problema educativo, deriva la necessit che lo Stato, come nel campo degli interessi economici e giuridici esercita il proprio potere, dirigendo ed integrando l'azione dei singoli, cos in quello educativo, che offre maggiori difficolt, si sostituisca senz'altro all'opera della famiglia, per pi rispetti disadatta ad apprestare le occasioni utili e necessarie per la formazione del cittadino operoso e morale. La teoria socialista del F. si oppone recisamente alla individualista di Rousseau, e in parte, di Herbart, il quale per, come bene fanno notare Credaro, Fornelli e l'istesso Orano, tende al fine etico-sociale, apprestando una somma di cognizioni che diventano attivit [CREDARO- FORNELLI Op. ORANO - Herbarl -l^oxn-A., IQ06,] operanti e concorrenti al benessere della col- lettivit. Il socialismo del Filangieri e l'individualismo dell' Herbart, (che  tutt'altra cosa di quello di Locke e di Rousseau, tendenti a formare, il primo il gcntilnovio; l'altro, riiovid) divergenti nei mezzi, si congiungono nel fine, che  di for- mare l'uomo socievole morale, (Partendo Rousseau dal principio: tutto ci che  in natura  buono e diventa cattivo nel le mani dell'uomo, perviene alla negazione di qualsiasi azione positiva dell'educatore sull'educando, cosi che il suo  piuttosto nichilismo pedagogico, che individualismo: n famiglia, n societ debbono intervenire nell'educazione umana; se mai l'educatore, anzi il pedagogo, nel significato greco, non deve che SEGUIRE, vigilare attivamente, mai sostituirsi all'opera educatrice, progressiva della natura, al lavoro spontaneo dei germi intellettuali e morali latenti nella personalit dell'educando. Herbart ammette l'opera dell'uomo sull'uomo; e della scuola, per assoluta necessit, essendo impossibile assegnare un maestro per ogni educando; ma, potendosi per la prima educazione farne a meno, la famiglia lo sostituisce; Sulle questioni dell'indirizzo individualista e socialista in Educazione V. CESCA -Antinomie, STRATIC - Pedagogia socia/e e crede nulla l'ingerenza dello vStato nella pubblica educazione, perch esso non si prende cura della massa dei cittadini, che svolgono la loro esistenza senza compiere alcuna importante e pubblica funzione. Esso bisogna di soldati, agricoltori, operai, impiegati, professionisti, ecclesiastici. Allo stato importa ci che fanno tutti costoro, ma non ci che sono, Esso non ha modo di conoscere n di migliorare l'intimo dell'animo. Cosi Herbert sconosce, ne prevede quale alta funzione educativa lo Stato potr e dovr, direttamente e indirettamente esercitare; e stabilendo un'opposizione tra l'opera dello Stato e quella della famiglia, che mal risponde alla realt delle cose, sconfessa quasi, come scrive il Credaro, l'alto concetto che informa tutta la sua pedagogia. Il Filangieri copre le lacune, completa le deticienze del Rousseau e di Herbart, con una visione precisa delle esigenze della personalit dell'alunno, dei diritti e dei doveri della famio-Ha e dello Stato, dell'efficacia e della necessit del- [ facile l'obiezione: Se allo Stato importa ci che fanno i cittadini, deve parimenti, anzi primie- ramente importargli ci che sono, poich l'uomo agi- sce, opera secondo che . CREDARO; STRATIC Pedagogia sociale. OV. l'educazione sociale. Per formare un uomo io preferisco la domestica educazione; per formare un popolo io preferisco la pubblica. L'allievo del magistrato e della legge non sar mai un lunilio; ma senza l'educazione del magistrato e della legge, vi sar forse un Emilio, ma non vi saranno cittadini. [E poich il nostro Autore si propone di formare individui sociidi, cittadini operanti per il proprio benessere e per quello della collettivit, educazione famigliare e sociale s'integrano e si armonizzano ed operano di conserva per la. conformazione psichica e morale del bambino, sino alla piena consapevolezza degli atti ed all'autonomia. Vero  che allo Stato F. assegna un'azione di gran lunga superiore a quella delia- famiglia; ma bisogna esaminare la questione senza preconcetti sentimentali o politici per convincersi che, dove le famiglie, come purtroppo ai nostri giorni, e pi ai tempi dell'Autore, sono in gran parte, anzi nella (juasi totalit, incapaci ad apprestare ai piccoli una conveniente educazione,  necessario che la scuola, organo dello stato, si sostituisca a quelle, per la conservazio- ne del patrimonio di coltura tramandatoci dalle generazioni passate, per la diffusione della moralit e per la difesa contro i nemici interni ed esterni. L'Autore enumera i motivi che lo determinano per l'educazione pubblica, fra cui l'ignoranza e la miseria del popolo, la perdita dei parenti e l'abbandono dei genitori negli orfani e negli esposti, la mancanza di tempo, le dissipazioni e i piaceri negl'industriali e nei ricchi, i pregiudi- zi e gli errori diffusi; l'effetto dell'amor male inteso e della debolezza cos frequente nei genitori; la cura eccessiva della conservazione fisica, che produce pusillanimit e debolezza d'animo e che distrugge la confidenza nelle proprie forze; e sopra tutto la corruzione dei costumi in tutte le classi sociali. Anche Herbart, pur essendo fautore dell'educazione famigliare, riconosce che in pratica le condizioni della massima parte delle fa- miglie sono tutt'altro che propizie per l'esecuzione del programma educativo e riconosce pure che la spinta dell'emulazione si trova nelle scuole pubbliche; ma crede che le nature gagliarde non abbiano bisogno dell'impulso dell'emulazione; e per esse, in difetto dell'educazione famigliare, consiglia gl'istituti privati, dove l'istruzione pu svolgersi rapidamente e meglio adattarsi all'individualit dell'alunno, ([CREDARO] Si potrebbe domandare all'I lerbart quali e (juante sono le nature gagliarde, che non abbiano bisogno della spinta dell'emulazione; e se non sia in vece nel vero F., il quale  con- vinto che l'educazione sia quasi interamente fondata sull'imitazione. Tra i vantaggi dell'educazione pubblica, F. d grandissima importanza al fatto che, solo per mezzo di essa pu formarsi il carattere nazionale, appunto per effetto dell'imitazione. I fattori dell'educazione sono la natura, Varie, le circostanze . Cos il nostro pedagogista mostra di avere una visione precisa della natura del fatto educativo, che involge tre fondamentali (questioni: eredit psico-fsica, azione dell'ambiente sociale, azione deliberata del docente sul discente. Lo stesso triplice fattore nel processo educativo rileva Dominicis: (i) \V Educazione, date dai pi noti filosofi e pedagogisti antichi e moderni, veda: G. TAURO - Introduzione alla Pdagogia Generale, Roma] ti, si sia di pi avvicinato al pi completo con- cetto del fatto dell'educazione; e pi chiaramen- te manifesta il suo acume quando determina che l'oggetto dell'educazione morale  di sommi- nistrare un concorso di circostanze il pi atto a sviluppare le facolt di sentire, di pensare, di volere, a seconda della destinazione dell'individuo e degl'interessi della societ. Confrontando questa definizione con quelle di DOMINICIS e di CESCA, si osservano delle somiglianze, specialmente per ci che si riferisce alla coordinazione dei mezzi tendenti a integrare le esigenze individuali con le sociali. Bisogna anche considerare che la definizione di F. si riferisce alla sola educazione morale, e perci trascura gli elementi tendenti a porre in luce altri fattori, che l'Autore va rivelando quando si occupa particolarmente di istruzione, educazione fisica, ecc. E importante notare che F., anche per l'educazione morale, vuole lo sviluppo della facolt di sentire, di pensare, cio Xistritzione, propriamente detta, che per ci  istruzione educativa; cosa che, per altro, egli fa vedere in tut- ta l'opera, e specialmente dove si occupa dell'istruzione pubblica. Egli  il primo a porre in rilievo leducazione delle circostanze; e afferma giustamente che un sol uomo malvagio e stupido, a contatto col fanciullo, pu distruggere il lavoro di pi anni; e vuole che egli viva in un ambiente di at- tivit e di moralit, qual' la casa ^\ custode. F. divide l'educazione in fisica, morale, scientifica (intellettuale): tripartizione respinta daglHerbartiani, i quali escludono dal campo educativo le leggi dello sviluppo fisico, che assegnano alla medicina e all'igiene. Ma generalmente adottata, se non per significare tre ordini di fatti irriducibili, che l'unit psicofisica  ormai dimostrata ed accettata dalla Pedagogia positiva, per comodit di trattazione, e per porre in rilievo i tre aspetti o momenti del fatto educativo, inteso nella sua pi larga significazione. L'una di queste tre educazioni deve prevalere sull'altra, secondo la destinazione sociale del bambino; perch, mentre per la classe degli ar- tigiani dev'esser prevalente l'educazione fisica, come quella che pone l'operaio in condizione di affrontare le fatiche e i disagi del lavoro mate- riale, per la classe dei cittadini che saranno av- [CESCA; CREDARO; CESCA- Op. Ht. - Gap. I - II; BAIN, La Scienza de//' Educazione, Torino; MARTIXAZZOLI  Educazione, Dizionario di Pedagogia Martinazzo/i e Credaro- Cit.] -viati alle professioni, sar mai^o-iormente curata l'educazione scientilica; e parimenti sar appre- stata una speciale educazione morale, giustificata dall'ambiente sociale in cui gli educandi verranno a trovarsi. E, a mio avviso, se  vero che l'uomo  e fa, in massima parte, ci che le persone con cui si trova pi spesso a contatto, le proprie occupazioni, le impressioni della fanciullezza relative all'ambiente famigliare, lo fanno essere e gli fanno fare, l'educazione uniforme, date le attuali differenze sociali, intellettuali, morali, non  soltanto un'utopia, ma anche un principio non rispondente alle leggi di evoluzione. Per pervenire all'uguaglianza ideale degli uomini, dato che ci possa costituire un bene,  necessario partire dalle disuguaglianze attuali, e adattare istituzioni legislative, economiche, educative ai vari gruppi o classi che costituiscono gli strati sociali. Considerare il figlio del contadino, dell'operaio, del minatore, suscettibile della stessa educazione da apprestare al bambino ricco e, in generale, pi sviluppato fisicamente, intellettualmente, moralmente,  un'illusione, retaggio d'un falso concetto di democrazia. La pedagogia scientifica, come rispetta l'in- [y. A. 'ilCEFO'RO - Antropologia delle classi povere, Milano; MONTESSORI - Antropologia Pedagogica - Milano.] dividualit del bambino, tende alla divisione del- le scolaresche in gruppi, che presentano varia- zioni fisiopsichiche e morali, in armonia coi principii della psicologia collettiva. Come bene scrive FERRI (si veda). Ogni maestro che ha qualche attitudine all' osservazione psicologica, distingue sempre in tre categorie la sua scolaresca. Quella dei discepoli volenterosi e diligenti, che lavorano per propria iniziativa e senza bisogno di rigori disciplinari; quella dei discoli ignoranti e svogliati, nevrastenici o degenerati, dai quali n la dolcezza n i castighi possono ottenere qualche cosa di buono; quella infine d coloro, che non sono n troppo volenterosi, n del tutto discoli, e pei quali pu riuscire veramente efficace una disciplina fondata sulle leggi psicologiche. Cos avviene delle soldatesche, cos dei prigionieri, cos di ogni associazione d'uomini e cos anche dell'intera societ. I gruppi d'individui, stretti da relazioni costanti, che ne fanno altrettanti organismi parziali nell'organismo collettivo della societ, riproducono in questo la societ stessa, come un frammento di cristallo riproduce i caratteri mineralogici del cristallo intero. Ed in Nota: Vi  tuttavia qualche differenza nelle manifestazioni dell'attivit di un gruppo di uomini e di tutta una societ. Per questo io [VSyslK^O - Psicologa Podagogica  MONTESSORI, Antropologia Pedagogica credo che tra la psicologia, che studia l'indivi- duo, e la sociologia, che studia una societ intera, vi debba essere un anello di congiunzione in ci che si potrebbe chamdLve psi'co/oo-m collettiva. I fenomeni propri di certi aggruppamenti d'individui, sono regolati da leggi analoghe, ma non identiche a quelle della sociologia, e varia- no a seconda che i gruppi stessi sono una riu- nione accidentale o permanente d'individui. Cos la psicologia collettiva ha il suo campo d'os- servazione in tutte le riunioni di uomini, pi o meno avventizie: le vie pubbliche, i mercati, le borse, gli opifici, i teatri, i comizi, le assemblee, i collegi, le scuole, le caserme, le prigioni, ecc. La tesi di F. si riassume dunque in questo concetto: educazione universale, ma non uniforme; pubblica, ma non comune. Egli fonda questo principio sulla divisione dei cittadini in due grandi classi: in quella di coloro che servono o potrebbero servire la societ colle loro braccia, ed in ([uella di coloro che la servono o potrebbero ser- virla con l'intelletto; a ciascuna di esse intende for- nire una speciale educazione. Il nostro Autore [Ferri espresse questo concetto geniale nella prima edizione della sua forte opera. Soa'o/o-ia Cri! ifia/e - Quindi seguirono gli studi speciali pregevolissimi di:SlGHELE- Lm. folla delinquente -boxino: LE BON - Z,a Psycologie des foules, Paris; ROSSI, L'animo della folla; Cosenza; 'TlWTlC - Psicologia Collettiva, Palermo] non propone la ferrea distinzione delle classi indiane; ma una pratica, utile, necessaria distinzione educativa, che avvii, senza perturbamenti e spostamenti, allo sviluppo graduale ed armonico, fisico, intellettuale e morale, delle varie classi di cittadini che speciali circostanze e attitudini determinano a seguire una via piuttosto che un'altra. Il F. parte poi dal concetto, forse non errato, che il figlio del contadino, il quale abbandona la zappa per correre alluniversit o allaccademie, priva la classe produttiva d'un individuo, per aggiungerlo alla classe sterile, la quale  utile sia meno numerosa che sia possibile. Lo stato perde un colono per acquistare per lo pi un infelice architetto, un pessimo pittore o un semidotto, La preparazione del cittadino, sia che debba attendere a un mestiere o a professione liberale,  opera dello stato, per le ragioni gi esposte. A tal fine in ogni provincia  un magistrato [Su l'ingerenza dello Stato in materia di pubblica istruzione, vedi l'importante volume di G. M. de FRANCESCO - Rapporti tra to Stato, Comune ed altri enti locali in materia di Pubblica Istruzione- Athenum. Roma. Posto, tra i fini dello stato, quello dell'istruzione, si presenta logicamente il problema se, per il raggiungimento di tale fine, sia necessaria l'azione della pubblica amministrazione, intesa come una forma di attivit statuale, e precisamen- supremo, rappresentante del governo, incaricato della pubblica educazione, e in ogni comune 7ia- j^i^i>-at iifciori e custodi. Poich sarebbe impossibile fondare tanti colles^i quanti fossero necessari per contenere tutti i fanciulli della prima classe, dai cinque ai diciotto anni, l'Autore vuole solo per i fanciulli della seconda classe, gli agiati (plebei o nobili non importa, anzi tanto meglio per l'educazione sociale) la fondazione di collegi; e aftda i bam- bini poveri, a gruppi di quindici o meno, ai ai- stodi, scelti dal magistrato comunale fra gli ar- tigiani pi probi e virtuosi del Comune, i qua- li vengono istruiti e vigilati dal magistrato comunale. Ciascun custode veglia sui fanciulli a lui affidati, li dirige, li nutrisce, li veste, secondo le istruzioni del magistrato comunale; li accompagna alla scuola, che dura due ore e mez- zo, e li tiene quindi con se per avviarli nell'ap- j)rendimento del suo mestiere. Il piano di educazione generale, riguardante come quell'attivit concreta e pratica, con cui lo stato, nei limiti del diritto obbiettivo, persegue i pro- pri scopi: problema che lo Stato moderno ha risoluto nel senso affermativo non solo, ma anche in modo cosi ampio, cos comprensivo ed efficace, e, sopratut- to cos uniforme  da fiir arguire l'esistenza di una legge storica, che ottiene nel secolo nostro il suo esplicamento Lo Stato i)u dirsi oggi, presso tutte le nazioni civili, il pi grande e poderoso organo per lo sviluppo della vita intellettuale del popolo. te lo sviluppo fisico, il morale, l'intellettuale  stabilito dalla legge. Il padre, appena il figliuolo ha compiuto V anni lo affida al magistrato comunale d'educazione pubblica. F. discute due gravi questioni, che risolve con fine accorgimento: l'istruzione  obbligatoria? come rispettare la vocazione individuale e il diritto del padre nella scelta del mestiere? L'autore, come poi i pedagogisti della Rivoluzione, non vuole l'obbligo dell'istruzione; perch  inutile obbligare le famiglie quando i vantaggi sono tali che nessun padre  possibile possa volontariamente rinunziarvi. E' anche mia convinzione che quando noi sapessimo attuare, con le necessarie difierenze volute dal tempo, un'organizzazione scolastica rispondente all'ideale del Filangieri, apprestando ai piccoli il pane e la cultura dello spirito ed avviandoli ai mestieri, e le famiglie cosi vedessero i vantaggi, anzi la necessit della scuola, sarebbe superfluo ogni costringimento, Nelle nostre istituzioni scolastiche si va ora afermando il principio dell'operosit, con la pre- parazione manuale alle arti ed ai mestieri, prin- cipio fattivo genialmente intuito da Pestalozzi [SERGI - Come la scuola pu educare - Nuova Antologia i marzo igio] perch l'istruzione sia educativa. Il movimento, partito dalla Svezia, si  propagato rapidamente negli Stati civili; ma, in Italia specialmente, la tendenza conservatrice si  opposta fortemente alla innovatrice, e l'idea del- la scuola operativa e fattiva incontra ostacoli in coloro che ne credono assolto il compito con l'insegnamento e l'educazione morale. Di pedagogisti anteriori a F., nessuno aveva proposto, come il Nostro, un ordinamento scolastico che fosse suftciente a se stesso, dando modo di provvedersi all'avvenire dei fanciulli. Che se Rabelais vuole che Gargantua spacchi le legna nei giorni piovosi e sappia costrui- re strumenti e figure geometriche; se il geyitiluoiuo del Montaigne dev'essere esperto nel ca- valcare, nel danzare, correre, maneggiare le ar- mi, e deve aver muscoli di acciaio; se quel- PESTALOZZI Come Geltriide istruisce i suoi figli, Milano; SERGI- Ar/ico/o citato in N. Antologia: ElAh. e DI ROSA - Coordinazione della scuola Popolare alla Me- dia - Roma, STOPPOLONr - Rabelais; MONTAIGNE - Essais-Tovi\Q premier- Paris. E' nota la frase del Montaigne. Ce n'est pas une ame, ce n'est pas un corps qu'on dresse, c'est un hommc, il n'en faut pas faire  deux. Et comme dit Platon, il ne faut pas les exercer l'un sans l'au- tre, mais les conduire gallement, comme un couple de chevaux attelez  un mesme timon ] lo del Locke  addestrato al lavoro; (i) se Emi- lio apprende un mestiere; se Pestalozzi vuole l' attivit e la fattivit; sono tutti ben lon- tani dalla concezione di F.; perch i pedagogisti citati, ed altri, che attingono nei primi, quali Basedow, Salzmann, Froebel, Herbart avevano vagheggiato il lavoro, come scrive Dominicis, come mezzo adatto per temperare il lavoro della mente; come utile esercizio per temperare l'irrequietezza dell'et giovanile; come atto a rendere utili alle moltitudini le scuole e a dar loro sembianze democratiche; come mezzo per offrire a tutti, in certe evenien- ze, modo di vivere esercitando un mestiere; e anche per rendere sotto alcuni aspetti, attivo e [FERRARI - Zc^/(-> E F.: Due passioni, l'una piccola, l'altra grande; l'una perniciosa, l'altra utile; l'una incompatibile colla grandezza dell'animo e l'altra a questa costantemente associata, procedono entrambe dall'istessa origine. La vanit e l'amor della glo'ia sono queste due passioni, e il desiderio di distinguersi ne  la madre comune. Questo desiderio di di- stinguersi, indizio ed effetto della sociabilit; que- sto desiderio che si manifesta nel barbaro e nel civile, nello stolto e nel saggio, nell'empio e nell'eroe, questo desiderio che si annuncia fin dall'adoloscenza, e che accompagna l'uomo fino alla tomba; questo desiderio, io dico, produce l'una e l'altra passione, a seconda che  male o bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanit negli uni, amor della (gloria neofli altri. F. Ammessi i premi, fondati sulla pubblica o- pinione, vuole siano assegnati con solennit, e che il giudizio sia dato dagli stessi fanciulli, F. proscrive l'uso del bastone. Non bisogna mai battere i fanciulli, per nessun motivo, perch non si deve permettere che i mezzi destinati a risvegliare l'idea della dignit, vengano combinati con quelli che avviliscono e che degradano. I fanciulli abituati alle pene corporali, perdono la sensibilit e diventano vili, ipocriti, vendicativi, crudeli. Tanto il magistrato, quanto il custode, cos nel correggere, come nel punire, dovrebbero serbare quella freddezza che dipende dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel ca- [Per tutto quanto ha rapporto con la discipli- na scolastica e la formazione del carattere, bench af- fidi alla religiosit, come la pi parte dei pedagogisti tedeschi, un'azione preponderante, vedi: FORSTER- Se leo/a  Carattere - Tvdid. it. Torino, dove riferisce il sistema americano e svizzero del self- governeiimeit e dello school - city - system, che affida ap- punto d\\di public - opinion l'assegnazione dei premi e delle ricompense. F. anche: BAIN- C^/>. f/V, il quale scrive. Il principio di Bentham del giur della scolaresca, bench non riconosciuto formalmente nei metodi moderni, vige sempre tacitamente. L'opinione della scuola, nel massimo suo d'efficienza,  il giudizio riunito del capo e dei membri, del maestro e della massa; ogni qualunque altro stato di cose  guerra, bench anche questa non si possa evitare. F. lore e a (luei trasporti che indicano passione, Nel piano di educazione morale tracciato da F., entra poco l'insegnamento reli- gioso, ed entra in quanto costituisce un omaggio al creatore, al di fuori di qualsiasi credo religioso, perch i princii)ii di morale non deri- [Da Locke, a Kant, a Herbart, a F., tutti in ci sono d'accordo, ma in pratica non riesce molto facile. Sul sistema punitivo scolastico, come sul sociale, non pu certo essere detta ancora l'ultima parola;  necessario prima determinare con certa precisione glimpulsi, i moventi psicologici e sociali dell'azione, de- finire le basi della responsabilit, sfrondare la mente di legislatori e di maestri da molti pregiudizi psicologici, religiosi, sociali. La questione del libero arbtrio  d'importanza primaria; e F. giustamente scrive. La negazione del libero arbitrio pu soltanto e deve avere influenza nel sentimento che accompagna questa reazione difensiva; poich cos nelle punizioni famigliari, come in quelle scolastiche, come in quelle sociali, chi crede al libero arbitrio reprime gli autori di un atto sconveniente o dannoso con sentimenti di rancore, o per lo meno con ci che dicesi risentimento in quanto attribuisce il fatto alla malvagia volont (anche nei bambini!). Il determinista invece si difende o reprime per quanto  necessario, ma senza rancore e colla persuasione, togliendo le occasioni al mal fare o distraendo per vie meno dannose le tendenze individuali. Piuttosto che abbandonare i bambi- ni o gli scolari alla propria espansivit fisio-psicologica per reprimere gl'inevitabili eccessi, limitandosi tutt'al pi all'inutile tentativo di prevenirli con le misure o le imposizioni, vai meglio incanalare la loro attivit per vie utili, distraendola con occupazioni adatte e sopratutto togliendole gl'incentivi degli urti e quindi delle .sopraffazioni vano dalle pratiche del culto. F. affida la cura dell'istruzione religiosa allo stesso magistrato. Se mi si opporr che questa cura dovrebbe essere affidata ai ministri dell'altare, piuttosto che al magistrato educatore, io risponder che, siccome niuna re- ligione proibisce ai padri d'istruire nei loro dommi i figli, molto meno potr proibirlo al magistrato che dalla pubblica autorit viene scelto per farne le veci; dir che non si deve mai inutilmen- te moltiplicare il numero degli istruttori, dir che il magistrato si dee supporre pi istruito nell'arte d'istruire i fanciulli, di quello che lo pu essere un uomo, che a tutt'altro oggetto ha rivolte le sue cure, dir finalmente che, finch non si combinino perfettamente gl'interessi del sacerdozio con quelli della societ e dell'impero,  sempre pericoloso il metterlo a parte della pubblica educazione. Egli assegna alla religione l'ultimo posto nel suo piano di educazione morale, e vi spende po- che parole, sperando che il lettore non lo accu- si per ci di riconoscervi poca importanza. Gli  che, si giustifica l'Autore, se non scrivesse per tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tempi; se l'universale e il perenne non fossero l'og- getto della scienza; o pure se uno fosse il tempio, una l'ara ed uno il nume; se comune fosse il culto, uniformi i dogmi e la fede uniforme presso tutti i popoli ed in tutti i tempi, potrebbe entrare in dettagli che allo stato delle cose  conveniente evitare. La ragione dell'esclusione dell'elemento religioso in educazione morale va anche ricercata nell'intima convinzione dell'Autore che la morale  al di sopra di (jualunque religione. Per, nel- la preoccupazione costante di rendere accetto a tutti il suo piano educativo, egli tempera con certa forma il suo pensiero ardito, e, questa volta eretico. Ecco perch non accoglie l'idea del Rousseau, che non vuol si parli di religione ad Emilio, se non quando sar in grado di comprendere la divinit, senza farne oggetto d'idolatria. Il nostro autore dichiara che non ammette n contrasta tale teoria; per, pur suggerendo che l'insegnamento religioso cominci quando i bambini sono ammessi ai discorsi morali, (9-10 anni) scrive che se non si vogliono fare dei fanciulli tanti idolatri, o almeno tanti antroponiorfiti, il magistrato non risparmier alcuno dei mezzi atti a comunicar loro la pi semplice e la pi augusta idea del divino, allontanando dalle sue [F. ROUSSEAU mile. espressioni tutto ci che potrebbe associarla alle materiali immagini, alle quali l'uomo  purtroppo inclinato a rappresentarla, Mira del magistrato, nell'educazione del sentimento religioso, dev'esser di prevenire il fanatismo e le false massime di morale; perniciose, specialmente nel popolo. Poche preghiere, semplici e brevi, ma piene di luminosi principii di morale universale. Epper nessuna differenza tra le istruzioni morali dei fanciulli della prima e della seconda classe. Qualche difierenza solo nei discorsi morali. Poich i fanciulli della prima classe sono pi esposti alla vilt, e quelli della seconda all'orgoglio, per la loro diversa condizione sociale, bisogna fare in modo che tali due opposti sentimenti scompaiano negli uni e negli altri, espo- [Sulla tendenza antropomorfa del bambino e su quello che Cesca chiama secondo momento del compito negativo deW istruzione, cio lo sradicamento della tendenza antropomorfa, vedi lo stesso - Coltura e Istruzione Anche: SPENCER Principii di Sociologia il curioso brano di poesia in francese arcaico, narrante come Domeneddio sia andato in Arras, ad imparare le canzoni del paese, come vi cadde malato e come fa curato da un trovatore, che lo fece ridere. Si ricordi che tutta la poesia provenzale e la provenzaleggiante italiana, fino alla scuola del dolce stil novo, soggiace alla tendenza animistica, con la personificazione del sentimento dell'amore. F.. Art. nendo loro i principii deirumana eguaglianza, del rispetto che si deve all'uomo; dell'ingiustizia di quello che si cerca nella sola condizione; dell'insania, dell'orgoglio e della piccolezza della vanit. Nei bambini della seconda classe bisogna specialmente sviluppare il sentimento dell'umanit e della compassione. Per divenir compassionevole un fanciullo, bisogna ch'egli sappia che ci son degli esseri simili a lui, che soffrono ci che egli ha sofferto, che sentono i dolori ch'egli ha intesi e ch'egli sa di poter sentire. Bisogna finalmente che la sua immaginazione sia attiva a segno da potergli presentare e comporre queste dolorose immagini, allorch vede soffrire, e da trasportarlo, per cos dire, fuori di se medesimo per identificarlo coU'essere che soffre. E sopratutto bisogna rinvigorire, stringere i vincoli sociali, che l'inevitabile disuguaglianza delle condizioni tende purtroppo a indebolire; e promuovere la civilt delle maniere, con l'esempio fornito da tutti coloro che circondano il bambino. Per i fanciulli della seconda classe il Fi- langieri consiglia la lettura de Le Vite di Plutarco, seguendo il consiglio di Montaigne, accolto da Rousseau. F.. MONTAIGNE - i^^^a/V ; ROUSSEAU Evi il e - Cit. In conclusione, il sistema morale di F. i partendo dal principio dell'utilit sociale, principio tanto combattuto dal Rousseau, tende a coordinare gl'interessi dell'individuo con quelli della collettivit, per raggiungere il fine della diffusione della morale sociale:  l'azione armonica di tutti i cittadini onde raggiungersi il trionfo della giustizia, con la libert, l'uguaglianza, la fratellanza. Credo inutile aggiungere che l'educazione morale di F., educazione della scuola e della vita,  essenzialmente laica, umana, tanto nel contenuto, quanto nella forma. E' questo uno dei meriti grandissimi del filosofo napoletano, che ha potentemente contribuito a indirizzare le istituzioni scolastiche verso il tipo ancor tanto contrastato dai fautori della vecchia filosofia della vita, in opposizione recisa coi fautori della filosofia della scienza, l'aureo libro del CESCA La filosofia della i///a  Messina. L'Autore, sul contrasto da noi accennato scrive. La perduranza della lotta si deve a parecchie ragioni, non soltanto intellettuali, ma anche morali e pi specialmente sociali. La concezione teologica  sempre viva, non solo perch  il prodotto dell'eredit di una lunga serie di secoli e perch soddisfa il bisogno di quiete e la tendenza misoneistica cotanto diffusa in tutte le classi, ma anche perch  legata tenacemente lA principio di autoritc, e quindi  s il riflesso che la base dello spirito di conservazione del passato nell'ordine economico e nell'ordine politico. Tutti coloro che temono di perdere qualche cos Ci  differenza tra una nazione che nasce, ed una nazione adulta. ROMOLO e NUMA seppero trovar la moneta onde comprar lopinione dal popolo nascente, e i loro successori seppero mutarla, allorch si doveva comprare da un popolo adidto. Ed in fatti ne tempi pi illuminati fu stabilito tra i Romani che j consoli, i tribuni del EJiano Far. Histor. lift., Plut. nella vita di Licurgo. Delle regole generali della scienza della legislazione. Oggetto unico ed universale della Legislazione dedotto dallorigine della societ civile. Di ci che si comprende sotto il principio generale della tranquillit e della conservazione e dei risultati che ne derivano. La legislazione, non altramente che tutte ie altre facolt j deve avere le sue regole, e i suol errori sono sempre i pi gravi flagelli delle nazioni. Della bont assoluta delle Leggi. Della bont relativa delle; Leggi. Della decadenza dei Codici. Deglostacoli che sincontrano nel cambiamento della Legislazione dun popolo, e dei mezzi per superarli. Della necessita d un censore delle Leggi, e dei doveri di questa nuova magistratura . Della bont relativa delle Leggi considerata riguardo agli oggetti che costituiscono questo rapporto. jfij I oggetto di questo rapporto: la natura del Governo. Proseguimento dell istesso oggetto, su duna specie di governo che chiamatisi misto. II oggetto del rapporto delle leggi: il principio che fa agire il cittadino nei diversi Governi. Oggetto del rapporto delle Leggi -- il genio, e l'indole dei popoli. Oggetto del rapporto delle Leggi : il clima. Oggetto del rapporto delle Leggi: la fertilit o la sterilita del terreno, gfo Sesto oggetto del rapporto delle Leggi: la situazione e lestensione del paese. Oggetto del rapporto delle Leggi: la religione del paese. Ultimo oggetto del rapporto delle Leggi: la maturit del popolo. DELLE LEGGE CRIMINALE. Della Procedura. Prima parte della criminale procedura. Dellaccusa giudiziaria presso gli antichi. Dellaccusa giudiziari pressoi moderni. Nuovo sistema da tenersi riguardo allaccusa giudizio ria. informa da farsi nel sistema della procedura inquisitorial.Seconda parte della procedura criminale. Lintimazione all'accusalo, eia sicurzza della suapersona. informa da farsi in questa parte della criminale procedura. Delle condanne per contumacia. Terza parte della criminale procedura. Delle pruove c degli indizj del delitti. Sulla confessione libera ed estorta. Parallelo tra giudizi del divino detempi barbari, e la tortura. Principj fondamentali, dal quali dee dipendere la teora delle pruo've giudiziarie. Della certezza morale. Risultati de principj che si sono premessi. Canoni di giudicatura che determinar dovrebbero il criterio legale. parte della criminale procedura. Della ripartizione delle Mudi, zie ne funzioni, e della shltadd giudict del fatto. Della viziosa ripartizione della giudiziaria autorit in una gran parte delle nazoni Eurola  m <up. Appendice allantecedente capo sulla feudalit. Piano della nuova ripartizione da farsi delle giudiziarie j funzioni per glaffavi criminalii. Divisione dello Stato, ggs Articolo % Scelta dei presidi. Funzioni di questamagistratura. Durata di questa Magistraiurae suo salario. Articolofj. Be giudici del fatto. ?oa Requisiti legali che ricercar si dovrebbero in questi giudici. Funzoni di questi giu- Numer di questi giudici in ciascheduna provincial? ed in ciaschedun giudizio. Delie ripulse di questi giudici. De giudici del dritio. Numero di questi giudici in ciascheduna provincia. Funzioni di questi gidici, Delle sessioni ordinarie di giustizia. Delle sessioni straordinarie. Magistratura per ogni comunit. Della criminale procedura. La difesa. Criminale procedura. La sentenza. Appendici della sentenza che assolve, 05tr cle/7a- riparazione del danno, e del giudizio di calunnia. Altra appendice della sentenza che assolve, e della senzensa che sospende il giudizio. Appendice detta sentcnza che condanna, e corichili- 5one del piano geiiera Ze diri/ornia c'fre si  proposta. La scienza distoglierlo dal provvedersi de Legislazione, del destino.Per Della colorchecker Ix-rite. Grice: There are many references, but unsystematic, to the Romans, or to Roman Law, -- but not a systematic chronological thing. Romolo is cited twice, and there are passing comments on the Twelve Tables and its corrections, how the Romans were disallowed to sell their own children. Theres a critique to the dislike for the frugality that the Roman law enjoined. Also a praise for the dittaura  there are references to Cicerone  but he just as well comments on the Greek law, and modern law from France and other European countries. His illuminism is based after all on Montesquieu! But the references to the Roman and the Roman law have been systematically studied. He refers to an emering nation as Rome was under Romolo  and he makes passing comments on aristocracy, monarchy, mixed government, republic, and the question of citizenship  how the Romans bestowed Roman citizenship on habitants of cities other than Rome! Etc. Nome compiuto: Gaetano Filangieri. Filangieri. Keywords: lo stato secondo ragione, stato naturale stato civile  costume  il romano  le costume dei romani  devere e volonta  implicatura deontica  passione e ragione  illuminismo  anti-clericalism  anti-Roman  Grice: Catholicism gives a bad name to Roman! -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filangieri,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filippis: la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale metafisica – scuola di Tiriolo—filosofia catanzarese – filosofia calabrese. filosofia italiana – Luigi Speranza (Tiriolo). Filosofo tiriolese. Filosofo catanzarese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Tiriolo, Catanzaro, Calabria. Grice: “Fillippis is an interesting one, for one there is a Palazzo De Fillippis; for another he was into the philosophy of mathematics; he was executed, but not for this.”  Martire della Repubblica Napoletana. Nato in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, studia al Real Collegio di Catanzaro. Si reca a Napoli dove e allievo di Genovesi. Ha modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in contatto fra gli altri Pagano. Proseguì in seguito gli studi in filosofia a Bologna sotto CANTERZANI. Insegna a Catanzaro. E fra i principali artefici della repubblica napoletana. Entra nel governo come ministro degli Interni. Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato. Scrisse importanti opere di filosofia, quali “Etica”; “Metafisica”, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino, Bocca); Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana; Croce, Ceci, Ayala, Giacomo, Napoli, Morano; La Repubblica napoletana” Roma, Newton), Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  L. Carini. Mmatematico, filosofo e patriota italiano, considerato un martire della Repubblica Napoletana  Nato in Calabria in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, fu allievo del Real Collegio gesuita di Catanzaro dove ricevette una buona istruzione nelle scienze matematiche. Nel 1769 si recò a Napoli dove fu allievo del grande economista Antonio Genovesi. Nella città partenopea ebbe modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in contatto fra gli altri con la poetessa Eleonora Pimentel Fonseca e il giurista Mario Pagano[senza fonte].  Proseguì in seguito gli studi in matematica e filosofia presso il collegio Ancarano dell'Università di Bologna, dove fu discepolo del matematico Sebastiano Canterzani. Ottenne la cattedra di matematica al Real Collegio di Catanzaro ed ha, fra i suoi discepoli, Poerioː tuttavia, le cattive condizioni di salute lo spinsero ad abbandonare l'insegnamento. E fra i principali artefici della Repubblica Napoletanaː infatti, con la nomina di Ignazio Ciaia alla guida della Repubblica napoletana in sostituzione di Carlo Lauberg, Vincenzo De Filippis entrò nel governo come ministro degli Interni, succedendo a Conforti  Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato assieme ad altri sette patrioti. Altri saggi: Conseguito il dottorato, F. ritorna al paese natale, dove rimase in relazione epistolare con gli studiosi di Napoli e di Bologna, e scrisse importanti opere di filosofia e matematica, quali il Corso di etica, gli Scritti FILOSOFICI  e METAFISICI, Statica e dinamica, Scritti di fisica e di meccanica. Appartengono anche a questo periodo gli scritti Appunti di matematica e meccanica, Meccanica, Problemi di matematica, meccanica, dinamica Gli scritti di F. sono andati, tuttavia, dispersi, tranne una relazione sui terremoti inviata al Canterzani. Ayala, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino, Bocca, Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana  a cura di Croce, Ceci, Ayala, Giacomo, Napoli, Morano, Rao, La Repubblica napoletana, Roma, Newton, F. De' terremoti della Calabria Ultra.  Baldini, F. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Ayala, Vite degl'italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino, Roma, Firenze, Fratelli Bocca, Voci correlate Repubblica Napoletana (Repubblicani napoletani giustiziati, F. su Open Library, Internet Archive. Biografia di Vincenzo De Filippis, su web.tiscalinet.it. F., De' Terremoti della Calabria Ultra, testo elettronico, su web.tiscalinet.it. Illuministi italiani  Portale Biografie   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani Filosofi italiani Patrioti italiani Morti a Napoli Illuministi Persone giustiziate per impiccagionePersonalità della Repubblica Napoletana. Commutators with power central values on a Lie ideal, Pacific Journal of Mathematics, F., Left annihilators of commutators with derivation on right ideals, Communica- tions in Algebra, F., O.M. Di Vincenzo, Posner’s second theorem, multilinear polynomials and vanishing derivations, Journal of Australian Mathematical Society, F., An Engel condition with generalized derivations on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics, Albas, N. Argac, V. De Filippis, Generalized derivations with Engel conditions on one-sided ideals, Communications in Algebra, F., Vincenzo, C.Y. Pan, Quadratic central differential identities on a multilinear polynomial, Communications in Algebra, F., Generalized derivations with Engel condition on multilinear polynomials, Israel Journal of Mathematics, F., Annihilators of power values of generalized derivations on multilinear polynomials, Bulletin Australian Math. Soc., F., Generalized Derivations as Jordan Homomorphisms on Lie Ideals and Right Ideals, Acta Mathematica Sinica, F., Product of generalized derivations on polynomials in prime rings, Collectanea Mathematica Dhara, F., R.K. Sharma, Generalized derivations and left multipliers on Lie ideals, Aequationes Mathematicae, A. Ali, S. Ali, F., Nilpotent and invertible values in semiprime rings with Generalized Derivations, Aequationes Mathematicae, F., Vincenzo, Vanishing derivations and centralizers of generalized deriva- tions on multilinear polynomials, Communications in Algebra  F. Wei, Posner’s theorem for skew derivations on multilinear polynomials on left ideals, Houston Journal of Mathematics Albas, F., Demir, Generalized skew derivations with invertible values on multilinear polynomials, Communications in Algebra, F., Scudo, Strong commutativity and Engel condition preserving maps in prime and semiprime rings, Linear and Multilinear Algebra, F., Fosner, Wei, Identities with Generalized Skew Derivations on Lie Ideals, Algebras and Representations Theory, Ali, F., Shujat, On One Sided Ideals of a Semiprime Ring with Generalized Derivations, Aequationes Mathematicae, F., Scudo, Hypercommuting values in associative rings with unity, Journal of the Australian Math. Society, Ali, Ali, F., Generalized skew derivations with nilpotent values in prime rings, Communications in Algebra, F., Vincenzo, Hypercentralizing generalized skew derivations on left ideals in prime rings, Monatshefte fur Mathematik, A. Ali, F.,  Shujat, Commuting Values of Generalized Derivations on Multilinear Polynomials, Communications in Algebra, F. Generalized skew derivations as Jordan homomorphisms on multilinear poly- nomials, Journal of Korean Math. Soc., F., Vincenzo, Generalized Skew Derivations on Semiprime Rings, Linear Multilinear Algebra, F., Huang, Power-commuting skew derivations on Lie ideals, Monatshefte fur Mathematik F., L. Oukhtite, Generalized Jordan semiderivations in prime rings, Canadian Math. Bulletin, F., Annihilators and power values of generalized skew derivations on Lie ideals, Canadian Math. Bulletin, Ali, F. and Khan, Power Values of Generalized derivations with annihilator conditions in prime rings, Communications in Algebra, Carini, F., G. Scudo, Identities with product of generalized skew derivations on multilinear polynomials, Communications Algebra F., Engel-type conditions involving two generalized skew derivations in prime rings, Communications in Algebra F.,  Scudo, Subsets with generalized derivations having nilpotent values on Lie ideals, Communications in Algebra, F., Rather large subsets and vanishing generalized derivations on multilinear poly- nomials, Communications in Algebra Carini, F., F. Wei, Annihilating Co-commutators with Generalized Skew Derivations on Multilinear Polynomials, Communications Algebra, Yarbil, F., A quadratic differential identity with skew derivations, Communications Algebra, Carini, F., G. Scudo, Vanishing and cocentralizing generalized derivations on Lie ideals, Communications Algebra Albas, F. and Demir, An Engel condition with generalized skew derivations on multilinear polynomials, Linear Multilinear Algebra F., F. Wei, An Engel condition with X-Generalized Skew Derivations on Lie ideals, Communications Algebra  Sharma, Dhara, F., Garg, A result concerning nilpotent values with generalized skew derivations on Lie ideals, Communications Algebra Filippis, F. Wei, b-generalized skew derivations on Lie ideals, Mediterr. Journal of Math. Ashraf, F., Pary, Tiwari, Derivations vanishing on commutator identity involving generalized derivation on multilinear polynomials in prime rings, Commu- nications Algebra F., Dhara, Generalized Skew-Derivations and Generalization of Homomorphism Maps in Prime Rings, Comm. Algebra F., Shujat, Khan, Generalized derivations with nilpotent, power-central and invertible values in prime and semiprime rings, Communications in Algebra Dhara, F., Engel conditions of generalized derivations on left ideals and Lie ideals in prime rings, Comm. Algebra Demir, Argac, F. A quadratic generalized differential identity on Lie ideals in prime rings, Linear Multilinear Algebra F., Power-central values and Engel conditions in prime rings with gen- eralized skew derivations, Mediterranean Journal of Math. F., Scudo, Wei, b-Generalized Skew Derivations on multilinear polynomials in prime rings, Proceedings of INdAM Workshop ”Polynomial Identities in Algebras” Roma, Springer Indam Series. Vincenzo De Filippis. De Filippis. Filippis. Keywords: implicatura metafisica. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filippis” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Filippo: la ragione conversazionale e Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Medma). Filosofo italiano. Medma was the Italian colony of Opus. Filippo was a pupil of Platone, and achieved fame mainly as an astronomer. He is widely thought to have edited Plato’s Laws and written the appendix to it knon as the Epinomis. He is sometimes known as Filippo di Mende. His birthplace was Medma, an Italian colony of Opo. The Epinomis is notable for his treatment of the subject of daemons. See: Dillon, “The Heirs of Plato: a study of the Old Accademy, Oxford, Clarendon. Filippo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Filippo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Filisco: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filisco follows the doctrines of the Garden. Along with his lover, Alcio, he is expelled from Rome – “or perhaps he just wanted to leave.” – Cicerone. Filisco. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filisco,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Filodamo: la ragione conversazionale e la setta di Locri – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. Filodamo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filodamo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filolao: la ragione conversazionale e Roma -- l’arciere di Taranto – filosofia italiana – Luigi Speranza – (Crotone) Filosofo italiano. Italian philosopher from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write an essay. The surviving fragments of it are the earliest primary texts for Pythagoreanism, but numerous spurious fragments have also been preserved. F.’s essay begins with a cosmogony and includes astronomical, medical, and psychological doctrines. F.’s major innovation is to argue that the cosmos and everything in it is a combination, not just of unlimiteds what is structured and ordered, e.g. material elements but also of limiters structural and ordering elements, e.g. shapes. These elements are held together in a harmonia fitting together, which comes to be in accord with perspicuous mathematical relationships, such as the whole number ratios that correspond to the harmonic intervals e.g. octave % phenotext F. 1: 2. F. argues that secure knowledge is possible insofar as we grasp the number in accordance with which things are put together. F.’s astronomical system is famous as the first to make the earth a planet. Along with the sun, moon, fixed stars, five planets, and counter-earth thus making the perfect number ten, the earth circles the central fire a combination of the limiter “center” and the unlimited “fire”. P.’s influence is seen in Plato’s Philebus; he is the primary source for Aristotle’s account of Pythagoreanism.  DELLA DIALETTICA CONSIDERATA NELLE DUE SETTE,  DI CROTONE E DI VELIA. Cousin avverte che la dialettica è lo strumento della  filosofia dell’Accademia, ed ancora che la dialettica dell’accademia  sta tutta nella definizione. Imperocché definire vuol dire  ricondurre una cosa particolare qualunque sotto un ge-  nere più o meno esteso. Ma egli non risaliva alle vere scaturigini della dialettica, le quali si trovano soltanto  nelle due sette d'Italia – di Crotone, con Filolao, e di Velia, con Parmenide --, secondochè aveva osservato il Reid,  attribuendo a questa scuola la dottrina della definizione, nella quale la Dialettica si riduce e si assomma. E valga il vero: definire vuol dire porre limiti, e non si  può limitare nessuna cosa senza il concetto del diastema  o dell’ intervallo, eh’ è peculiare della scuola pitagorica. Il limite suppone qualche cosa di comune, e qualche altra di differente; onde l’una e l’altra ricerca costituiscono il vero ufficio di LA DIALETTICA, la quale è detta così da due parole greche ( Ai *— Uyu > ), che significano raccogliere attraverso, come se si dicesse trovare l’uno per dentro il moltiplice. Da qui venne che  due concetti fondamentali costituissero il perno delle  scuole italiche di Crotone e Velia, il conflitto dei contrari cioè, ed il loro ac- [La dialectique est l’instrument de la pliilosophie de Platon, et la  dialectique de Platon est loul entière dans la délìnition.Or, definir, c’est généraliser, c’est à dire ramener à un genre quelconque, plus ou moins  olendo, Ielle ou Ielle cliose parliculière. Cousin Frag. Pini., Platon, I angue ile la théorie tlesiiléex. Telle est.., la doctrine d’ Aristote sur la définition, et probablemcnt l’invention de cette doctrine appartieni à l’ècole pythagoricienne de Crotone  (Reid, Analgxe de la log. d’ Ami. coi do. Aristotile ci tramandò nella tavola delle X categorie gli opposti riluttanti, che sono: il limile e l’ illimitato, l’ impari e il pari, il destro e il sinistro, il mastino e la femmina, lo stabile e il mobile, il retto ed il  curvo, la luce e le tenebre, il bene ed il male, il quadrato e il rettangolo. Ei ci avvertì inoltre che da un lato  stessero gli elementi positivi, dall’ altro i negativi. Il  numero poi che non era nè pensiero puro, nè cosa sensibile, ma qualche cosa di mediano tra 1’uno e l’altra,  serviva a stringere il moltiplice con l’uno, ed in questo  accordo appunto consisteva l’armonia. Nella bella architettura del sistema pitagorico si pos-  sono però notare due gravi inconvenienti, che viziano  ed infermano la solidità della base. L’ infinito allogalo  tra i concetti negativi è il primo. In questo modo dibatti  al vero e saldo concetto dell’infinito se ne sostituisce un  altro tutto diverso, che n’è appena 1’ ombra, vale a dire  quello d’indefinito. Con ciò l’iiifmito si pareggia a tutti  gli altri opposti, che si debbono accordare, e però sup-  pongono un concetto superiore. La compiutezza dell’infinito scompare totalmente. L’altro vizio, nè meno pregiudizievole del primo è,  che il numero risultando dalla molliplicità delle Monadi,  le quali erano distinte dal diastema o dall’ intervallo,  intanto avea consistenza c realtà, in quanto esso intervallo avea capacità bastevole di discernerlo. Una volta,  però che l’ intervallo era il vuoto ; la realtà del molti-  plice tornava un bel nulla. L’ apeiron ed il renon, l’infinito ed il vuoto adunque guastavano e magagnavano  l’interna orditura del sistema pitagorico; apparecchiavano nuovi errori da scopi ire e da aggiungeie ai pensatori susseguenti. Ma vuoisi rendere una giustizia al filosofo di Samo,  Armonia viene da ap^os, che propriamente prima significava un tegame materiale, commessura, compagine, articolo, e che poi si volse a  significare un accordo qualunque. la quale consiste nel notare, eh’ egli non aveva confuso  la Monade con questo infinito, che attribuì esclusivamente  alla Diade. Plutarco esponendo il sistema di lui, dice (lj: Dei principi disse la Unità Dio, ed anco il bene, eh’ è  di natura un solo, e lo stesso intelletto : il due infinito,  e genio tristo, d’ intorno al qual due si sta la quantità  della materia ». Ora la Diade in mentre ch’era f inde-  finito, veniva detta eziandìo la ripetizione della Unità, onde forse posteriormente la sua natura si confuse con  quella della Monade. Sesto Empirico difatti espone cosi: Dalla prima unità nasce 1’ uno: dall' unità, e dallo inter-  minato binario, il due; perchè due volte uno fa due:  Ma il binario è veramente la ripetizione della Monade?  No; perchè 1' uno ripetendo sè medesimo dà sempre uno;  egli viene ad inlinitarsi, non a moltiplicarsi. Nella duplicazione ci è un altro elemento, che non era nell’Uno;  ci è la finitezza, e la successione. Venghiamo all’ intervallo. Aristotile assevera, ch’esso non fosse altro nel sistema pitagorico che il vuoto, e però una semplice negazione. Codesta sua chiosa viene impugnala da altri, i  quali tengono che la parola vacuo fosse stata pigliata dai  Pitagorici in senso metaforico, dimodoché non significa un semplice concetto negativo; ma una distinzione  reale. Accenno qui delle osservazioni, che mi sono  sforzato di rincalzare in un lavoro apposito su la storia  della nostra filosofia, la quale mi pare che sia stata più  pura nelle sorgive, e che nel corso siasi di poi rimescolata, e falla torbida. La scuola di VELIA trasse i corollari dei principi o viziosi o viziati della scuola pitagorica. L'infinito è stato Delle cose naturali, Adv. Matlicra. Lib A prima quidem unitale, unum : ab uni-  tate autem, et interminato binario, duo. Bis enim unum, duo. Mauro commentando la Fisica  d’Aristotile, osserva così. Aliqui cum Phiiopono pulant Pjtbagoricos  locutos metaphorice, ac nomine vacui inlellcxisse distinctionem, qua rcs  inviccm separantur, ac distinguuntur ». allogato fra i (ermini oppositi della serie alla quale sovrastava l’Unità, però ragionevolmente Senofane inferì,  die 1' Essere non fosse nè finito nè infinito, il qual concetto vedremo rinnovato ed ampliato in Plotino. Il  diastema era stato chiamato il vacuo, però, ripigliò VELIA (si veda), la moltiplicità delle cose non è reale; è una vana  apparenza, è un nulla. II vero essere è l’Uno. Imperocché leva dal moltiplice l’intervallo, che discerne l’uria cosa dall’altra, quel che ti rimarrà, è soltanto l’Uno. Così la scuola elealica è intimamente e logicamente connessa con la italica ; se non che ella ne continua la parte  negativa, ed in ultimo costrutto riesce nella sofistica,  che rampollò da lei, e che chiuse il periodo della nostra  filosofia sì bene avviata da principio. La filosofia nostra  incominciò con la vera Dialettica, con 1’ armonia, e degenerò nella medesimezza, che non era più accordo, ma  annullamento di un termine in grazia dell’ altro. Se odi  l’Hcgel, cotesto fu vero progresso, egli Eleati toccarono  il colmo della speculazione. Ognuno ha il suo modo di  vedere, o meglio di foggiarsi la storia. Gli Ionici, ei ti dice, concepirono l’Assoluto sotto una forma naturale; i Pitagorici come numero, che non è nè pensiero puro nè  cosa sensibile, e tramezza tra l’uno e l’altra, studiandosi  di accordarli insieme. I VELINI sceverarono la filosofia non che dalla forma sensibile degli Ionici, ma  eziandio dal numero dei Pitagorici, e lo considerarono  nella sua purezza, affermando che tuttoè Uno. Per quanto  slrana paia colesta medesimezza del pensiero e dell’ Essere, ella è deduzione cavata a martello di logica da Parmenidc. Ei difatti dice recisamente: Se 1’Essere è uno,  il pensiero e la cosa pensata sono la medesima cosa, o  bisognerebbe dire che il pensiero non è. Ma per qual rati) Il (Xenophane) enseignait que Dicu n’est ni infini ni fini, puisque  l'infini n'est que la uon-existence, ear rimìni est ce qui n’a ni commencement, ni milieu, ni fin, et que le fini est l’un par rapport à l’autre;  caractère de la nmltiplicité des clioses. Ritter, Hist. de la phil. ancien.  gione l’Essere è uno, ed il nòn-enle è impossibile? Fingiamo Parmenide che mediti sui principi della scuola  pitagorica, e seguitiamone il processo. Tutte cose si fanno dall’Uno; ma ciò che si fa dall'Uno  è Uno; adunque tutte le cose sono uno. Ma perchè si fanno  dall’ Uno ? Perchè la Monade è 1’ Essere; e dal non-ente  non si fa nulla. Se il non-ente non è, e l’ intervallo dei  Pitagorici di CROTONE (si veda) è il non-ente; esso adunque non è. Ma il tempo  e lo spazio si fondano su l’ intervallo; adunque essi nem-  meno esistono. Ma il moto è la sintesi del discreto spaziale e temporaneo ; adunque il movimento non esiste.  Ma i cangiamenti della natura sensibile si fanno per moto, adunque le mutazioni non esistono, e sono illusorie.  Qui si vede una logica intrepida e franca. 11 mondo sen-  sibile se n’ è ito, ed il pensiero solo rimane, immedesimato con 1’ Essere. Il pieno è il pensiero, conchiude infine il rigoroso pensatore di VELIA (si veda). ( Tò yAf «uà» «ari  vowx.) Pitagora avea chiamato il mondo ordine, Cosmo, facendo trovar luogo a tutto; Parmenide per  contra lo stremò ad una metà. Ma eglino si ponno dire  di aver tracciata fin da tempi remotissimi ogni via di fi-  losofare; nè di altre mi pare che se ne siano aperte, nè  che forse se ne possano aprire. Noi con tutta la nostra  ostinata insistenza non siamo usciti di CROTONE CROTONA e di VELIA;  e le lotte che stanno agitando ora l’Italia e la Germania,  la filosofia della creazione e quella della identità, sono  rinnovazioni più o meno profonde di quegli antichi si-  stemi. Mi si dirà forse che la Germania abbia aggiunto  dippiù il movimento medesimo del pensiero, e che ne  abbia disegnato 1’ordine ed il processo ; e questo pure  voglio vedere se sia schiettamente originale, o non anzi  accattalo d’ altronde. Nel provarmi a cercare coteste relazioni, io non voglio detrarre nulla alla profondità dei  pensatori odierni, ma lo faccio con l'intendimento di ren-  Pitagora primo di tutti nominò il mondo 1’ Unione di tutte le cose,  rispetto all’ordine che si trova in lui. Plut. Delle cose nat. — dere a me stesso ragione del cammino che ha percorso il  pensiero umano, e delle orme che passando ha lasciato. Agli uomini mi giova anteporre la verità. Se la filosofia eleatica aveva nelle sue sottili e speciose investigazioni raggiunto il concetto della medesimezza, o l’Uno convertito in Tutto, ella avea trovato il  bandolo della scienza, ma non ne avea dipanato la matassa. « Ritrovare il punto di riunione non è il più gran-  de secreto ; ma sviluppare fuori dello stesso anche il suo  contrario, questo è proprio del più profondo secreto dell’arte. Come il Tutto rampolla dall’Uno, ecco quello che si sforzò di spiegare la scuola di Alessandria, che  toccò il colmo di sua perfezione in Plotino. L’Infinito negativo dei CROTONE (si veda), consideralo immobile da VELIA (si veda), piglia movimento in Plotino. Ed io credo far cosa  grata al lettore ponendogliene sott’ occhio la descrizione  che ne fa il famoso Ncoplatonico, allegando le sue mede-  sime parole. E la infinità medesima, ei dice, in che  modo si può trovare colà (nell’ Uno;? Imperocché se ella  ha 1’ essere, già esiste in un ordine determinato di enti:  o certo se non sarà determinata, non vuoisi allogare nel  genere degli enti, ma forse parrà da noverare nell’ordine  di quelle cose, che diventano, siccome interviene altresì  nel tempo. Forse ancora se ella si definisce, per cotesto medesimo ella è infinita ; perocché non il termi-  ne, ma l' infinito è che si determina. Nè v’ è locata  nessun’altra cosa mediana tra l' infinito ed il termine, la quale subisca la natura di termine. Certamente  cotesto infinito sfugge all’idea di termine, ma viene compreso ed attorniato esteriormente. Sì che nel fuggire  non va da un luogo in un altro, chè luogo alcuno non  ha ; ma allorché ei v iene compreso, eccoti allora la prima volta aver esistenza il luogo. Il perchè non si ha da  stimare che il movimento, che nel parlare si attribuisce Platone nel Piloto cit. nel Dialogo dello Schelling intitolato il  BRUNO (si veda). Trad. della Florenzi all’ infinità, sia locale, nè che gliene avvenga alcun altro di quelli che soglionsi nominare. Sicché non mai si  muove, nè mai permane. E dove volete che stia, se cotesto medesimo che si chiama dove, nasce dopo? Pare  però che all’infinità si attribuisca il moto, perchè ella  non sta ferma. Forse che adunque ella sta così come se  fosse nel medesimo luogo sospesa in alto, e che si aggirasse? Od anzi, che là stia levata, e qua pure si agiti ?  no, che in nessun modo è così. Imperocché ambedue  queste cose sono giudicate al medesimo luogo, sì perchè s’innalza senza declinare dove appartiene allo stesso  luogo, sì ancora perché declina. Adunque altri andrà  pensando che cosa sia l’infinità? Egli allora per fermo la penserà, quando avrà separato la specie dalla intelligenza. Adunque che intenderà allora? Forse intenderà  insieme i contrari, e i non contrari: perocché là intenderà il grande ed il parvo; perché diviene l’ uno e 1’altro; il permanente ed il mosso, perché queste cose  ivi diventano. Ma prima di diventare, è chiaro eh’ ella non sia determinatamente nessuna delle due, chè altrimenti tu l'avresti già determinata. Se adunque quella natura è infinita, e queste cose, come io dico, infinitamente ed indeterminatamente sono ivi, così certamente  vi appariranno. Che se yi ti accosterai più da vicino, ed  adoprerai alcun termine, onde volessi irretirla, tosto ti  sfuggirà, nè vi troverai nulla, chè altrimenti già l’avresti definita. Ed anzi se t’imbatterai in alcuna, siccome  una, incontanente ti si porge come moltiplice. Se tu dirai: sei moltiplico, mentirai di nuovo; chè dove ciascuna  cosa non è una, nemmanco molte sono tutte. E questa  medesima è la natura dell’infinità, che secondo una immaginazione è movimento; e sin dove si aggiunge la fantasia è stato. Inoltre cotesto medesimo, perchè tu non  puoi vederla per sé stessa, è un colai movimento, e caso  dalla mente. In quanto poi non può sfuggire, ma viene  costretta attorno esteriormente, tanto che non può preterire i limiti, dee giudicarsi un certo stato. Di che si pare, che non pure di Jei si possa affermare il movimento,  ma eziandio lo stato. La dottrina di Plotino si riduce adunque in questi capi: L’ infinito non è un essere in atto. Se fosse tale, sarebbe in un dato ordine, sarebbe perciò medesimo finito. L’ infìniludine si occulta nel .termine che finisce qualche cosa. Togli di  mezzo tutte le forme, tutt’i termini, tutl’ i fini, ed avrai l’infinitudine. Quando l'apprendi, ella svanisce, perchè già l'hai terminata. Ella non appartiene a nessun genere di opposite. Se avesse un contrario, sarebbe da  questo limitata. Ma ella è o uno, o l’altro degli oppo-  sili, in quanto uno di essi nega 1’ altro.   Dalle quali cose conseguita che l'Infinito dei Neoplatonici non è nemmeno l’essere, inteso come qualche cosa di sussistente e di definito, ma è l’uno considerato come  principio dell’ Ente medesimo. Plotino assegna la ragio-  ne di ciò dicendo, che se l’Ente non fosse nell’Uno, incontanente si dissiperebbe. Per contra l’Uno non si fonda nell'ente, perchè altrimenti l’uno sarebbe prima di  essere uno. Or questo uno diventa Primo nel produrre il Secondo, o la Ragione, la quale è inferiore al  suo principio, perchè nella serie delle emanazioni pen-  savano gl’alessandrini, che il prodotto di tanto scemasse, di quanto dal principio si discostasse come lume vaniente per l'aere, che ai più lontani giunge più pallido. In ciò sta forse uno dei principali divari che corrono tra  la triade alessandrina, e la tricotomia hegelliana, perchè  dove in quella la perfezione si va scemando, e l’essere si  va dissipando, in questa al contrario la smilza e magra  natura dell’ Idea si va rimpolpando e rinsanguinando per  via, finché tocca in fine quel colmo di perfezione, in cui  la forma adegua perfettamente il contenuto. Il che mi  pare assai più logico del processo alessandrino, dove Testi) Plotino, Enneade. Plotino, Enneade sere nè ti si porge molto dovizioso da principio, nè se ne  rifa più che tanto in ultimo. Comunque però dal seno del Primo erompa la Ragione, egli rimane nondimeno immutato. Ciò perchè la necessità di cotesta manifestazione non gli è estrinseca. S’egli non può rimanere solo, è perchè tale è la sua natura, la quale rimane pur sempre libera. Il Secondo per  essere rampollato dal Primo abbiamo visto che gli deve  sottostare; sicché 1’ unità e la semplicità del primo non si travasa intera nella ragione. Questa però partecipa  alla moltiplicità. Ma v’ha dippiù. In che modo la Ragione rassomiglia al Primo, postochè questo non sia Ragione? Plotino risponde alla difficoltà osservando, esser  proprio della natura del secondo di rivolgersi verso il primo; però di vederlo, però di diventar ragione, ancoraché il Primo non sia tale. La Ragione non vede quindi  sè medesima ; e la cosa non dee parere strana, quando  si consideri, come fa FICINO (si veda, eh’ ella opera nel movimento, ed ogni moto tende verso un altro posto fuori di sè. La ragione rassomiglia al primo nell’inchiudere il duplice concetto di essere permanente e di moto; sicché in  essa si può distinguere l’energia e la facoltà, o, che torna il medesimo, la possibilità e l’atto, la materia e la forma. In quanto ella può diventare, contiene la materia  del mondo sovra-sensibile; ed in quanto è, ne contiene la  specie o la forma. Yi ha dunque nel sistema di Plotino  una materia nel mondo sovrasensibile, come nel sensibile, e noi vedremo che BRUNO (si veda) ha spiritualizzalo ancora la materia sino a questo segno. La ragione è una perchè guarda al Principio, al Bene ; è moltiplice  perchè è forma delle cose.   Nel modo medesimo che 1’ Uno produce la Ragione, FICINO (si veda) sopra il 3." lib. della V. Enneade di Plotino dice: Cum rationis proprium sii in molu agere, et motus tendat in aliud, merito ratio communiter circa alia potius, quam circa seipsam se volutat, ideo non est  eius proprium se cognoscere #.  questa alla sua volta liglia e partorisce l’Anima, la  quale operosa com'ò, e resa feconda dalla ragione estrinseca il mondo sensibile. E qui nota che la ragione da  sè non opera nulla, ma contiene soltanto il germe del1’operazione, il quale diventa pratico nell’ Anima del  mondo. Plotino adunque concepisce cotesti tre termini  in un modo che si potrebbe rendere più chiaro, e quasi  sensato, rappresentandocelo così. Nel centro sta l’Uno,  attorno a cui la Ragione descrive quasi un cerchio immobile, ed attorno a questo cerchio immobile l’Anima del mondo circoscrive un nuovo cerchio, i! quale movendosi  produce i! mondo sensibile. Quest’ultimo mondo, fattura dell’anima mondiale, è l’opposto dell'Uno; perocché  esiste nello stato di dissipamento, di disterminazione,  di esteriorità. Onde la sua esistenza è apparente, non  vera, consistendo la verità in quello che nelle cose vi ha  di più intimo; e la triade delle emanazioni, che si possono chiamare sovra-sensibili, ha compimento con l’Anima. In questa avviene la cognizione di sè medesima, perchè il suo movimento è circolare, e però dee tornare al  punto medesimo onde si mosse. Perchèil cielo si muove  rincirculando? domanda Plotino. Perchè imita la  mente. Onde si può dire eh’ egli consideri prima  il pensiero in sè stesso, poi lo stesso pensiero come obbietto ; finalmente l’ identità dell’uno e dell’altro, o la  compenetrazione nella quale sta il pensiero propriamente  detto, o il pensiero riflesso. La nomenclatura medesima, non che la tripartizione   Ennead.  L’ itléc fondamentale de ce qu’on appelle philosophie néoplatonicienne ou philosophie d’Alexandrie, était celle du vo’j? ayant pour objet  lui-méme. C’est d’abord la pensée comme Ielle, puis la pensée cornine  objet (vonrov), et enfin 1’idcntité de l'une et de l’autre: c’cst, selon Hegel, la trinité chrétienne, et cette idée est Tètre en soi et pour soi. Dieu,  T esprit absolu et pur et son action en soi, le Dieu vivant, actif cn soi,  tei est T objet de cette philosophie. WiUm. Hist. de la phil. Alleni. Phil. de Hegel] dello sviluppamento posto dai Neoplatonici nell' Infinito,  ci dà subito a divedere eh’ eglino abbiano voluto immischiare alle speculazioni greche ed orientali le tradizioni  cristiane intorno al dogma della Trinità. Hegel medesimo l’ha avvertito, ma il profondo pensatore di Germania non ha osservalo che la Scuola Neoplatonica aveva  non copiato, ma sformato e travisato il sublime concetto  cristiano. Imperocché nella nostra Trinità ci è gerarchia ed uguaglianza ad un tempo, dove quel continuo digradare delle emanazioni aggiunto dagli Alessandrini appaia  cose dell’ intutto contrarie. Plotino medesimo non sapea  come cavarsi d' impaccio nello spiegare in qual modo la  Ragione potesse rampollare da ciò che non era ragione. Nella trinità l’Infinito compenetra sé medesi-  mo, ma sempre infinitamente, dove negli Alessandrini  tal compenetrazione diventa possibile soltanto a costo  di smettere la propria natura, e di diventare finito e  moltiplice. Nella trinità il principio, o l’no non ha notizia di sé medesimo, in mentre che  secondo i pronunziati cristiani il Padre, conoscendo sé  medesimo, genera il verbo. K molte altre differenze si  potrebbero trovare, per le quali le due Trinità si riscontrano soltanto nel nome, che gl’Alessandrini accattarono  dai Padri della Chiesa; ma nel fondo rimangono sempre  cose onninamente disparate. Di qualche cosa però la filosofia si era avvantaggiata, riconoscendo un processo  nella Dialettica, per lo quale le esistenze non erano cose  morte, ma viventi. Imperocché nelle relazioni intime  dell’Infinito con sé medesimo si trova il concetto primi-  tivo e perfettissimo della Dialettica. L’ altra della creazione non è, se non una copia finita di quella prima ed  interna. Onde se nella prima l’ Infinito si trova in relazione con sé stesso, considerato sempre come attuale ;  nella seconda egli si trova in relazione, ma considerato  una volta come attuale, ed un’ altra volta come potenziale. Nella prima però ha luogo un processo estemporaneo.  nella seconda vi ha progresso effettivo, ed acquisto verace. Le due dialettiche confuse ed immischiate l’una con l’altra dagli Alessandrini, passarono in retaggio a tutt'i  panteisti. Se noi adunque ci siamo fermati a tratteggiare  per sommi capi il loro sistema, come venne fornito da  Plotino, non è stato senza motivo; che da Pitagora a PIOTINO la scienza fece passi giganteschi, comunque spesso  sviandosi dal diritto sentiero. MAMIANI ROVERE medesimo notò nella leggiadra prefazione al dialogo citato  dello Schelling, che le massime e le tradizioni dei filosofi della Magna Grecia – VELIA, GIRGENTI, CROTONE, TARANTO, e i libri dei Neoplatonici sono al BRUNO il semenzajo usuale e continuo onde trasse  i germi delle idee di maggior momento. Nella esposizio-  ne che faremo delle dottrine del Nolano cotesto riscontro  si parrà più chiaro. Nome compiuto: Filolao. Keywords: Crotona, Crotone, Metaponto, Aristoxenus of Tarentum. H. P. Grice, “Pythagoras: the written and the unwritten doctrines,” Luigi Speranza, “Grice e Filolao” -- “Grice a Crotone, ovvero, Filolao,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filone: la ragione conversazionale e il tutore di Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filone happened to be in Athens – as the head of the Accademy – when Athens was caught up in the war between Mithridate and the Romans. Filone decides to move to Rome. At Rome he taught CICERONE. Filone. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Filone,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filonide: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Abstract: Grice: “Mussolini is said to have proclaimed that it would have been for the good of the philosophy in Italy if Plato had not escaped!” -- Filosofo italiano. Pythagorean – cited by Giamblico. Platone mentions him in his Epistola IX. Filonide. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Plato e Filonide,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fineschi: la ragione conversaszionale e l’implicatura conversazionale -- eroticologico, filologico – l’amore – scuola di Siena – filosofia sienese – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo sienese. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “Fineschi shows how COMPLEX Marx’s theory of cooperation is!” --  Grice: “I like Fineschi; when at Harvard I played with ‘cooperation’ I didn’t really know what I was talking about! Fineschi does! He calls me a Marxist – and that’s why I dubbed my ontological occam’s razor as ‘ontological marxism’!” Studia a Siena sotto Mazzone con “Marx rivisitato”. Per il suo dottorato, svoltosi sotto Domanico a Palermo, si occupa del rapporto Marx-Hegel. Ha vinto la prima edizione del premio David-Rjazanov-Preises. Altre opere: “Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici La Città del Sole, Napoli); “Marx: rivisitazioni e prospettive, Mimesis, Milano (Itinerari filosofici) “Marx e Hegel. Contributi a una relectura” (Carocci, Roma); “Un nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica” Carocci editore, Roma).  Wikipedia Ricerca Al di là del principio di piacere saggio di Freud. Al di là del principio di piacere Titolo originaleJenseits des Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu Freud 1ª ed. Originale GenereSaggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un saggio di Sigmund Freud pubblicato nel 1920, incentrato sui temi dell'Eros e del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la "pulsione di morte" (Todestrieb[e]).   Giuditta II di Gustav Klimt, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna.[1]  Achille sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento. Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio (o Discordia).  GIRGENTI (si veda) si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà siciliana. Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di GIRGENTI (si veda) che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. I due principi fondamentali di GIRGENTI (si veda) – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.» Il nome di Eros deriva da quello della divinità greca dell'amore, e tende a creare organizzazioni della realtà sempre più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa). Freud riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo, un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?" Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones, l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn. Spielrein e Low Su esplicita influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,per Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla libido).  Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso del pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del Nirvana proposto da Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà inanimata. Freud sostiene che nella vita psichica esiste davvero una coazione a ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere. Sulla falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa viene definita per quattro volte demoniaca. Vi sono individui che nella loro vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un carattere demoniaco" La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti.  Freud collocò la coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama «l'eterno ritorno dell'uguale. Per la relazione tra pulsione e coazione a ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io. La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel lavoro.  Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gl’organismi, secondo quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Uno psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano sostiene che «a vera psicoanalisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della pulsione di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi. Essa comincia con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. Il nuovo modello freudiano individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso, qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni umanitarie. Freud non cambia più idea. Ciò significa che il fondatore della psicoanalisi asserirà la sostanziale inguaribilità' del disagio psichico per lo stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato l'esatto contrario. Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del carattere, propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della pulsione di morte. La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum. Nell'arte: Schiele Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode Essere-per-la-morte del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale. (Vozza)  Agonia, Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek.  Madre con i due bambini, Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone una trasfigurazione tragica: l'uomo non medita più sulla morte raffigurata in un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia [...], sacra rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.(Vozza). La Madre con i due bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. Nessuno meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon. Vozza. Quadro che Sabina Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza): Perché Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot). ^ Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere di Sigmund Freud, L'Io e l'Es e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, Freud, Analisi terminabile e interminabile, in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti Torino, Bollati Boringhieri,  Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, Freud Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri, Jones, Vita e opere di Freud: L'ultima fase, Milano, Garzanti, Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vBari-Roma, Laterza, voce Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac, su books.google. Freud, Al di là del principio del piacere,Mugnani, Analisi del testo di Freud: Il problema economico del masochismo. Pasqua, Al di là del principio di piacere: sul principio di Piacere e la Coscienza Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op. cit., voce Principio di piacere. books.google.it. Freud, Laplanche, Pontalis, op. cit., voce Coazione a ripetere. Google Libri. Freud, Cf. anche Il perturbante, OSF Freud Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri; Freud, Al di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, Freud, Sciacchitano, Il demone del godimento, in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut; Vozza, Il senso della fine nell'arte contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas Vozza, Vozza, ibidem. Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto Gutenberg.Laplanche, Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac, Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat, Thesaurus Portale Letteratura Portale Psicologia Psicoanalisi teoria dell'inconscio e relativa prassi psicoterapeutica che hanno preso l'avvio dal lavoro di Sigmund Freud  Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza   Grice: “The problem with erotico-logy is that eros allows for myth as much as it does for logos!” – Grice: “Philology can mean love for word as much as word for love, as philosophy can go from love of wisdom and wisdom of love. If we have eros instead we have erotosophia and erotologia, erotology, erotosophy – so there!” Grice: “It always irritated me that at Oxford a philologist was supposed to be a sort of scientist whereas the logist is what he loves (philein) – it’s a passion – unretrained even – for words!” – unfettered – loose --. Nome compiuto: Roberto Fineschi. Fineschi. Keywords: eroticologico, filologico, amore, Grice’s ontological Marxism, implicatura filologica – Kantotle, Plathegel, eros e Thanatos. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fineschi,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fintia: la ragione conversazionale e filosofia dell’isola --  Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano.A Pythagorean. It is said that Dionisio I of Siracusa, at the instigation of others, condemns F. to death on trumped-up charges, in order to test his moral strength. Fintia clamly asked for some time to arrange his affairs, and asked his friend Damon to stand for him while he was gone. Dionisio was amazed when Damon agreed to the arrangement, and even more amazed when F. duly returned at the end of the day to accept his punishment. Dionisio asked to join the sect, but he was turned down. Fintia. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fintia,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fioramonti: la ragione conversazionale e l’implicature conversazionale economica – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio, Italia. Grice: Fioramonti, like Hart, and myself, has philosophised on human right, legal right, moral right. Frequenta il liceo a Roma, situato nel quartiere di Tor Bella Monaca. Si laurea a Roma con una tesi in Storia della economia filosofica, incentrata sul ruolo dei diritti di propriet ed individuali. Studia Politica comparata a Siena. Insegna a Pretoria, ed  direttore del Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo.  inoltre membro del Center for Social Investment dell'Heidelberg, della Hertie School of Governance e dell'Universit delle Nazioni Unite. Si occupa di economia e integrazione economica europea. Per il Financial Times, sostiene che il PIL  "non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie sempre pi complesse, ma anche un impedimento a costruire societ migliori". I suoi articoli sono inoltre apparsi su The New York Times, The Guardian, Harvard Business Review, Die Presse, Das Parlament, Der Freitag, Mail et Guardian, Foreign Policy e open democracy.net. Ha una rubrica mensile nel Business Day.  stato co-direttore della rivista scientifica The Journal of Common Market Studies.  inoltre coautore e co-editore di diversi libri. Oltre ai best seller Gross Domestic Problem: La politica dietro il numero pi potente del mondo e Il modo in cui i numeri governano il mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella politica globale, pubblica Economia del benessere: successo in un mondo senza crescita, Presi per il PIL. Tutta la verit sul numero pi potente del mondo e Il mondo dopo il PIL: economia, politica e relazioni internazionali nell'era post-crescita. Ha avuto un'esperienza come assistente parlamentare, collaborando a titolo gratuito con Antonio Di Pietro (IdV) a sviluppare politiche per i giovani nelle periferie. Viene resa nota la sua candidatura col Movimento 5 Stelle alle imminenti elezioni politiche di marzo, risultando eletto alla Camera dei deputati nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela con il 36,65% dei voti.  stato nominato sottosegretario presso il Ministero dellistruzione, dell'universit e della ricerca nel Governo Conte I. Nominato Dino Giarrusso suo segretario particolare, affidandogli l'incarico di coordinare la comunicazione del suo ufficio e curare le relazioni istituzionali. L'onorevole ha inoltre aggiunto di aver chiesto a Giarrusso di aiutarlo anche ad evadere le segnalazioni inviate al Ministero sulle presunte irregolarit che si verificano all'interno dei concorsi universitari. Il Consiglio dei ministri, su proposta di Bussetti, lo ha nominato vice ministro all'istruzione, universit e ricerca. Proposto come ministro dell'istruzione, dell'universit e della ricerca nel Governo Conte II, viene nominato ufficialmente. All'inizio del suo mandato ha istituito un comitato scientifico di consulenza, composto tra gli altri da Shiva. Nel mese di ottobre intervenendo ai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno da pecora ha affermato di "credere in una scuola laica" e di essere favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole, per sostituirlo piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, e criticato dalla Conferenza Episcopale Italiana. Annuncia l'introduzione in Italia, primo Paese al mondo, dello studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile come materia scolastica. Dichiara di essere pronto a rassegnare le proprie dimissioni qualora nella Legge di bilancio non fossero stati trovati fondi per 3 miliardi di euro da destinare all'istruzione. Invia al Presidente del Consiglio Conte una lettera in cui annuncia le proprie dimissioni e dichiara che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere l'IVA al fine di incassare i fondi che chiedeva per il proprio ministero. Comunica la propria uscita dal Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto alla Camera. Annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco. Eco rappresenta un'ipotesi, un'idea guidata dalla volont di costituire una entit in collaborazione tra societ civile e parlamentari, ma la cui concretizzazione in una nuova realt non  ancora certa. Entra a far parte di Green Italia, insieme all'onorevole Muroni e Schlein, vicepresidente dell'Emilia Romagna. Dopo che il quotidiano il Giornale ha pubblicato alcune dichiarazioni fatte nel passato su Twitter da Fioramonti, ritenute inappropriate per la carica da ministro, diversi partiti (tra cui Lega, FI e FdI) chiedono le sue dimissioni dal dicastero, annunciando il deposito in Parlamento di una mozione di sfiducia  stata effettivamente depositata? Che ne  stato? Il ministro ha quindi dichiarato sui social che tali opinioni erano state scritte di getto e si  quindi scusato. Nello stesso periodo suscita polemica il fatto che, secondo quanto riportato dalle chat di alcuni genitori, il ministro avrebbe scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese e di non fargli fare l'esame di italiano. A seguito di tale notizia, scrive un post sui social in cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia di voler presentare un esposto al garante della privacy. Altre opere: Diritti umani 50 anni dopo. Aracne); Fuori. Fermento,. Poteri emergenti nell'economia politica e internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica. ETS,. Presi per il PIL. Tutta la verit sul numero pi potente del mondo. LAsino doro edizioni,. Il mondo dopo il Pil. Economia e politica nell'era della post-crescita. Edizioni Ambiente,. Un'economia per stare bene. Dalla pandemia del Coronavirus alla salute delle persone e dell'ambiente. Chiarelettere. Vincenzo Bisbiglia, chi  il candidato M5S: dalla laurea in Filosofia alla critica al pil. Con tappa alla Rockefeller foundationIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano. F., su up. ac. Has GDP become an impediment to a better society?, su Financial Times. 1World needs a new Bretton Woods with Africa in the lead, su bdlive.co.za, Business Day. Eligendo: Camera [Scrutini] Collegio uninominale 05 ROMA ZONA TORRE ANGELA (Italia) Camera dei Deputati Ministero dell'Interno, su Eligendo. F.Q., Governo, nominati 45 tra viceministri e sottosegretari: Castelli e Garavaglia al Mef. Crimi all'Editoria. Dentro anche SiriIl Fatto Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Universit, dietrofront su Giarrusso. F.: " solo il mio segretario, non un controllore", in Repubblica, Governo: Galli, Rixi e Fioramonti nominati viceministriTgcom24, in Tgcom 24, Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il ministro F. che vorrebbe toglierlo dalle classi, su Repubblica, F.: da settembre il clima sar materia di studio a scuola F.: 3 miliardi per l'istruzione o confermo le mie dimissioni -, su Orizzonte Scuola, Il ministro dellIstruzione F. ha dato le dimissioni, Corriere della sera, F. lascia il gruppo M5S: C' diffuso sentimento di delusione, Il Messaggero, 30 Lex ministro Fioramonti: Un altro governo non  un tab. Ora unarea civica progressista, su Il Manifesto. Bufera su F. per alcuni tweet. Meloni chiede le dimissioni, per Lega e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, Bufera su F. per offese web, ministro si scusa Politica, su Agenzia ANSA, Chi  Lorenzo Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su theitaliantimes, Governo Conte II Ministri dell'istruzione, dell'universit e della ricerca della Repubblica Italiana. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Openpolis, Associazione Openpolis. Radio Radicale. PredecessoreMinistro dell'istruzione, dell'universit e della ricerca della Repubblica Italiana Successore Ministero Istruzione. png Marco Bussett, Giuseppe Conte (ad interim) PredecessoreViceministro dell'istruzione, dell'universit e della ricerca della Repubblica Italiana Successore Ministero Istruzione. Anna Ascani. Quarterly gross domestic product Petty came up with a basic concept of GDP to attack landlords against unfair taxation during warfare between the Dutch and the English. Davenant developed the method further. The modern concept of GDP was first developed by Kuznets for a 1934 US Congress report, where he warned against its use as a measure of welfare (see below under limitations and criticisms).[12] After the Bretton Woods conference in 1944, GDP became the main tool for measuring a country's economy.[13] At that time gross national product (GNP) was the preferred estimate, which differed from GDP in that it measured production by a country's citizens at home and abroad rather than its 'resident institutional units' (see OECD definition above). The switch from GNP to GDP in the US was in 1991, trailing behind most other nations. The role that measurements of GDP played in World War II was crucial to the subsequent political acceptance of GDP values as indicators of national development and progress. A crucial role was played here by the US Department of Commerce under Milton Gilbert where ideas from Kuznets were embedded into institutions. Wikipedia Ricerca Economico (Aristotele) opera attribuita ad Aristotele Lingua Segui Modifica Economico  Oikonomik Aristotelesarp.jpg Autore Pseudo-Aristotele 1 ed. originaleGenere trattato Sottogenere economia Lingua originalegreco antico L'Economico (in greco antico: , Oikonomik; in latino: Oeconomica)  un'opera attribuita ad Aristotele. La maggior parte degli studiosi moderni lo attribuisce a un allievo di Aristotele o del suo successore Teofrasto. Struttura Modifica Il libro I  suddiviso in sei capitoli che iniziano a definire l'economia. Esso, quindi,  un'introduzione che mostra la formazione di base di un'economia, ossia la famiglia. Il testo inizia affermando che l'economia e la politica differiscono in due modi principali, ossia nei soggetti con cui trattano e nel numero di governanti coinvolti. Come un proprietario di una casa, c' solo una sentenza in un'economia, mentre la politica coinvolge molti sovrani. I praticanti di entrambe le scienze cercano di sfruttare al meglio ci che hanno per prosperare. Una famiglia  composta da un uomo e dalle sue propriet e l'agricoltura  la forma pi naturale di buon uso per questa propriet. L'uomo dovrebbe quindi trovare una moglie, mentre i bambini dovrebbero venire dopo, perch saranno in grado di prendersi cura della casa man mano che l'uomo invecchia. Questi sono i capisaldi dell'argomento economico. Il secondo libro si sviluppa con l'idea che ci sono quattro diversi tipi di economie l'economia reale, l'economia satrapica, l'economia politica e l'economia personale. Chiunque intenda partecipare con successo e solidariet a un'economia deve conoscere ogni caratteristica della parte dell'economia in cui  coinvolto. Tutte le economie hanno un principio in comune indipendentemente da ci che viene fatto, le spese non possono superare le entrate. Questa  una questione importante, fondamentale per la nozione di "economia". Il resto del secondo libro riguarda eventi storici che hanno creato importanti modi in cui le economie hanno iniziato a funzionare in modo pi efficiente e danno le origini di alcuni termini ancora in uso all'epoca e l'argomento principale  il flusso di denaro attraverso qualsiasi economia ed eventi particolari. Il terzo libro  noto solo dalle versioni latine dell'originale greco e tratta del rapporto tra marito e moglie. Il classicista Rose, nella sua classica edizione dei frammenti aristotelici, ha ipotizzato che questo libro non fosse altro che il      e i     indicati nel catalogo di opere di Aristotele che compaiono nella biografia attribuita a Esichio di Mileto, tradizionalmente chiamata Vita Menagiana. Aristote, conomique. Testo greco a cura di B. A. van Groningen e Andr Wartelle, traduzione e note di Wartelle, Paris, Les Belles Lettres (edizione critica) Aristotele, Opere, vol. 8, Politica. Trattato sull'Economia, Laurenti, Bari, Laterza. Aristotele Pseudo-Aristotele. Portale Antica Grecia Portale Filosofia di Valepert Pseudo-Aristotele autori sconosciuti di diverse opere antiche Parva naturalia Topici opera di Aristotele L'espressione filosofia dell'economia pu riferirsi alla branca della filosofia che studia le questioni relative all'economia o, in alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle proprie fondamenta e del proprio status di scienza umana.Hands, philosophy and economics, in The New Palgrave Dictionary of Economics.Portale Filosofia: filosofia di Nima Tayebian Boulding economista, pacifista e poeta inglese Bradley (filosofo). PARTITO NAZIONALE FASCISTA. TESTI PER I CORSI Dl PREPARAZIONE POLTICA LECONOMIA FASCISTA. LA LIBRERIA DELLO STATO.Poltica economica e monetaria. Lagricoltura italiana e la poltica rurale dei Regime. Industria e artigianato. La poltica dei lavori pubblici. CONCETTI FONDAMENTALI. Il profondo, sostanziale contrasto che separa il FASCISMO dal liberalismo si riflette in forma vigorosa e tipica nel campo economico. In economia difatti lo Stato fascista si oppone nettamente alio Stato liberale, perch mentre questo non interviene nella vita economica e si limita generalmente alia funzione di difesa e di istruzione (Stato carabiniere e pedagogo), quello considera suo compito preciso il regolare e determinare lo sviluppo materiale e spirituale delia collettivit, negando che dal libero e incomposto cozzo delle forze individuali possa prendere origine la forma pi perfetta e pi alta di vita civile. Lo Stato fascista non crede alie armonie economiche realiz- zantisi con il totale assenteismo di uno Stato ablico che si limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli indi- vidui; lo Stato fascista  Stato etico appunto perch ha una sua consapevolezza e una sua volont da realizzare.  Stato che non si estrania dai problemi deHeconomia, ma li studia, li incita, li guida, li frena, perch non concepisce il divorzio fra politica ed economia ma considera che questa discenda da quella. Gli economisti e i politici che affermarono in maniera recisa e perentria che lo Stato  specialmente utile quando si astiene da qualsiasi intervento nel campo economico,  e sono numerosissimi nel secolo scorso  oggi vanno scomparendo. In tutti i paesi lo stato giganteggia. Soltanto esso pu risolvere le drammatiche contraddizioni dei capitalismo; soltanto esso pu awiare verso una soluzione quel complesso di fenomeni materiali e spirituali che si chiamano crisi e che possono essere superati e vinti entro lo Stato. Questo particolarissimo stato d'animo di fronte al liberalismo disfatto fu definito dal Duce con la seguente domanda: Che cosa direbbe dinanzi ai continui, sollecitati, inevitabili interventi dello Stato nelle vicende economiche, Bentham, secondo il quale lindustria avrebbe dovuto chiedere allo stato soltanto di essere lasciata in pace, o Humboldt, secondo il quale lo stato ocioso dove essere considerato il migliore? Ma se anche la seconda ondata degli economisti liberali  meno estremista delia prima, perch apriva gi la porta agli interventi dello Stato neireconomia, rimane pur sempre un incolmabile abisso tra Stato liberale, anche, diremo cos, corretto, meno intransigente di quello concepito un tempo, e lo Stato fascista. Bisogna ricordare che chi dice liberalismo dice pur sempre indivduo. CHI DICE FASCISMO DICE STATO. Con questo per LO STATO FASCISTA non intende di solito ingerirsi direttamente nel fatto economico, ma sopraintendervi, affinch esso si svolga secondo gli interessi delia collettivit*  da questa concecione poltica dello Stato che deriva la concezione economica delia corporacione. Lo Stato fascista che in poltica non  reacionrio ma rivolucionario, in quanto anticipa le solucioni di problemi comuni a tutti i popoli, in economia dimostra in maniera inequivocabile il suo carattere morale e storico perch  proprio nella disciplina dei fatti economici che si rivela la maturit di una collettivit organiccata e si dimostra la capacit creativa di una nuova dottrina, che, come quella dei Fascismo,  pensiero ed azione. II duce innanci a migliaia di gerarchi convenuti a Roma per la celebracione dei decennale si domanda. Questa crisi che ci attenaglia da quattro anni  una crisi dei sistema o nel sistema? Allinizio delia fase risolutiva delia politxca corporativa del fascismo, il capo risponde a quella grave domanda con un fondamentale discorso al consiglio nazionale delle corporazioni, nel quale sono precisati i caratteri particolari delleconomia corporativa. Egli in quella storica assemblea afferm in maniera recisa che la crisi  penetrata cosi profondamente nel sistema da diventare una crisi dei sistema . Non  pi un trauma, e una malattia costituzionale, Egli disse. Se meditiamo intorno allaffermazione del capo per com- prendere i motivi storici che 1'hanno determinata, riconosciamo sbito che una profonda rivoluzione si  operata tanto nel sistema di produzione quanto nelle organizzazioni politi- che che hanno retto sino a pochi anni or sono i diversi paesi civili. Egli ha definito il capitalismo e ne ha tracciato la storia che ha vissuto nel secolo scorso: la nascita, il culmine, il declino. Lanalisi che il duce ne fa in quello storico discorso  cosi perfetta che se ne trascrivono qui di seguito concetti e parole, sostanza e forma. Giunto alia sua pi perfetta espressione  dice il duce  il capitalismo  un modo di produzione di massa per un consumo di massa, finanziato in massa attraverso lemissione dei capitale anonimo nazionale e internazionale. II capitalismo  quindi industriale e non ha avuto nel campo agricolo manife- stazioni di grande portata. Nella storia dei capitalismo tre periodi si distinguono: il periodo dellascesa; il periodo delia massima potenza; il per iodo delia decadenza. II primo periodo coincide con la introduzione dei telaio meccanico e con 1'apparire delia locomotiva. Sorge la fabbrica. La fabbrica  la tipica manife- stazione dei capitalismo industriale.  1'epoca dei grandi margini e quindi la legge delia libera concorrenza e la lotta di tutti ir contro tutti pu giuocare in pieno.  il perodo in cui un grande fervore di attivit pratica awince i popoli e in cui la scienza che aveva saputo carpire alia natura i suoi gelosi segreti offre aU'uomo mezzi formidabili di conquista e di dominio. In Inghilterra, in Francia, in America, si disfrenano concorrenze acerbe e si tentano imprese ardite. In questi 40 anni vi sono dei caduti e dei morti, ma in questo periodo le crisi sono crisi cicliche che si ripetono ad intervalli di tempo, non sono n lunghe n universali. II capitalismo  nel periodo migliore delia sua vita. Ha ancora tale vitalit e tale forza di recupero che pu superare brillantemente e rapidamente le awersit delia congiuntura economica. L'attivit imprenditrice trova facilmente le condizioni favorevoli per il suo sviluppo, poich grandi sono le possibilit dei mercati di consumo mentre limitate sono ancora le capacit delia produzione.  1'epoca in cui lurbanesimo si sviluppa e si inizia 1'esodo rurale. Le citt che divengono centro delia produzione capitalistica si accrescono vertiginosamente. In questo primo periodo dei capitalismo  averte il duce  la selezione  veramente operante. Ci sono anche delle guerre, ma sono guerre brevi che non possono essere paragonate alia guerra mondiale. Esse eccitano anzi, in un certo senso, 1economia delia Nazione. In America comincia la faticosa e dura conquista delle sterminate campagne dell'ovest, che ha avuto i suoi rischi ed i suoi caduti come ogni grande conquista. Mentre si vengono organizzando le formidabili aziende agricole degli Stati dei sud, le citt deliAtlantico raggiungono un enorme sviluppo. II ricordato periodo dei capitalismo che dura 40 anni e potrebbe essere compreso tra 1'apparire delia macchina a xa vapore e il taglio deiristmo di Suez,  certamente tra i pi dinamici che la storia ricordi. Esso  caratterizzato dallassenza dello Stato nella vita economica. II duce dice che durante questi XL anni lo Stato si limita ad osservare Esso  assente, e i teorici dei liberalismo dicono: ((voi, stato, avete un solo dovere, di far si che la vostra esistenza non sia nemmeno awertita nel settore delleconomia Meglio governerete, quanto meno vi occuperete dei problemi di ordine economico. II duce dimostrat che da certo momento si awertono i primi sintomi delia stanchez^a e delia deviazione dei mondo capitalistico. La fervida e sana lotta per la vita, la libera concorrenza, la selezione dei pi forte, non si esplicano pi col primitivo vigore, con quella energia e anche con queirentusiasmo che si  riscontrato nel perodo precedente Lo documentano i numerosi cartelli, sindacati, consorzh Si inizia Tra dei trust. Si pu dire che ormai non ci sia settore delia vita economica dei paesi di Europa e di America dove queste forze che carat- terizsano il capitalismo non si siano formate La conseguenza di questo stato di cose, che gli economisti liberali, ossequienti ai dogmi fondamentali dei classici, non awertirono, fu di una importanza grandssima: la fine delia libera concorrenza. Essa rimase una parola morta. La capacit di assorbimento dei mercato non corre paralle- lamente alia crescente capacit produttiva; il saggio desinteresse e dei profitto, cio il rapporto tra il guadagno ricavato e la quantit di capitale impiegato neirimpresa, si riduce fortemente. Essendosi ristretti i margini, limpresa capitalistica trova che anzich lottare  pi conveniente accordarsi, fon- dersi, dividersi i mercati ripartendo i profitti. La stessa legge delia domanda e deirofferta sulla quale  stata costruita la teoria economica dalla quale dipende il sistema scientifico elaborato dai classici deireconomia, non pu pi agire con libert nella nuova realt economica che si  venuta formando* Attraverso i cartelli e i trusts si pu agire sulla domanda di merci e specialmente suirofferta che di queste pu essere fatta in un determinato mercato* Questa economia capitalistica coalizzata, trustizzata, sempre meno idnea a vivere di vita prpria, cerca di agire sullo Stato onde ottenere favori leciti o illeciti* Essa chiede anzitutto la protezione doganale* II liberalismo viene colpito a morte, ma gli economisti non se ne accorgono: continuano imperterriti la loro costruzione astratta, avulsa dalla realt economica, come se il mondo eco- nomico da cui avevano pur tratto gli elementi delia loro costruzione scientifica non li riguardasse pi* La dottrina economica che aveva esaltata la libert in ogni forma di attivit e lassenteismo dello Stato, viene ad essere colpita proprio da quelle forze che erano cresciute nel periodo dei trionfo. Gli Stati Uniti d'America, fra i primi, elevarono delle barriere doganali quasi insormontabili; essi si giustificarono con 1'affermazione che le loro industrie sono giovani e hanno bisogno di protezione e di difesa per poter crescere e prosperare. Come lAmerica, altri paesi hanno via via elevato barriere sempre pi estese e pi alte: oggi la stessa Inghilterra, che per tanto tempo aveva predicato e sostenuto il liberalismo economico, perch torna tanto utile alia sua organizzazione economica, e aglinteressi dellimpero britannico, abbandona il liberalismo, rinnegando tutto ci che ormai sembra tradizionale nella sua vita poltica, economica, sociale, rinnegando una dottrina scientifica della quale si  fatta banditrice e tutrice. Ad Ottava  varata la costituzione di un'economia chiusa fra la madre patria e i dominions. Il perodo che il duce define periodo statico finisce con la guerra. Dopo la guerra, e in conseguenza delia guerra, limpresa capitalistica si inflaziona. Incomincia la decadenza. Lordine di grandezza dellimpresa  dice il duce  passa dal milione al miliardo. Le cosidette costruzioni verticali, a vederle da lontano, danno lidea dei mostruoso e dei babelico. Le stesse dimensioni dellimpresa superano la possibilit delluomo. Prima  lo spirito che domina la materia, ora  la matria che piega e soggioga lo spirito. Quello che  fisiologia diventa patologia, tutto diventa abnorme. II capitalismo giunto al parossismo, non sapendo pi come giustificare la sua esistenza e trovare i mezzi di vita indispensabili allazione, non volendo riconoscere la nuova realt delle cose, crea una utopia: lutopia dei consumi illimitati. Il capo ci dice che lideale dei supercapitalismo sarebbe la standardizzazione dei genere umano dalla culla alia bara. Questa esigenza  la lgica conseguenza delle cose, perch soltanto con la standardizzazione dei gusti il supercapitalismo pensa di poter fare i suoi piani. L f impresa capitalistica cessa di essere un fatto meramente economico per divenire un fatto sociale.  questo il momento preciso nel quale limpresa capitalistica, quando si trova in difficolt, si getta nelle braccia dello Stato.  questo il momento storico in cui nasce e si rende sempre pi necessrio lintervento dello Stato. Lo Stato ha il dovere di intervenire appunto perch limpresa capitalistica di cui si discorre non  soltanto un # impresa economica: essa interessa direttamente la collettivit. Lo Stato ha il diritto di intervenire per evitare che le sane energie delia Nazione si disperdano e che la sacra forza dei lavoro dei popolo si prodighi in forme che possono essere nocive alia stessa vita e potenza delia Nazione Ormai il maggior numero di imprese economiche si vale degli aiuti dello Stato; coloro che ignoravano il suo intervento lo cercano affannosamente. II duce dice che oggi siamo al punto in cui se in tutte le Nazioni di Europa lo Stato si addormenta per 24 ore, basterebbe tale parentesi per determinar e un disastro. Questa  la crisi dei sistema capitalistico preso nel suo significato universale. Quanto alla Nazione italiana, che fonda la prpria economia prevalentemente sullagricoltura e sullartigianato, sulla piccola e media industria, la vicenda capitalistica non ha avuto che aspetti e conseguenze limitatu II supercapitalismo degenerato e pernicioso da noi non esiste e laddove esso  nato, gi  moribondo: esiste invece una numerosssima schiera di piccoli e medi produttori che vivono dei quotidiano lavoro, che ignorano le awenture dei sedicenti industriali e dei pseudo banchieri; i quali, sorti in numero impressionante durante e dopo la conflagra^ione europea, avrebbero preteso di continuare a pescare nel torbido che essi avevano provocato e che poi tendevano a mantenere. Questi awenturieri, che ebbero assicurati dallinflazione e dallaumento dei pressi elevati profitti, non furono, almeno nel nostro Paese, che una sparuta minoranza, la quale  stata duramente punita dalle stesse vicende delFeconomia. LItalia non  una nazione capitalistica nel senso or ora ricordato. Lessenza delleconomia italiana  precisamente definita dal duce nei termini seguent. Lltalia deve rimanere una Nazione ad economia mista, con una forte agricoltura che  la base di tutto, una piccola o media industria sana, una banca che non faceia delle speculasioni, un commercio che adempia al suo insostituibile compito che  quello di portare rapidamente e razionalmente le merci al consumatore. Esaminato lo svolgimento attraverso il quale si  compiuto il ciclo di vita dei liberalismo economico e dei supercapitalismo, sepolto ufficialmente con lo storico discorso dei Duce per lo Stato corporativo; dimostrata fallace la credenza neiruniversalit dei liberalismo a torto giudicato e ritenuto mtodo storico ed universale,  opportuno soffermarsi sulle profonde antitesi che differenziano FASCISMO e socialismo. La dottrina fascista nega quel materialismo storico sul quale si imperniano la concezione poltica e quella economica dei socialismo. Secondo la dottrina marxiana le vicende delia societ umana si spiegano soltanto con la lotta d'interessi fra i diversi gruppi sociali* Sono soltanto i fatti economici che hanno importan^a nella vita delbuorno; soltanto essi sono capaci di promuovere nuove forme di vita civile, di determinare aspetti e configurazioni diversi nella societ* Nessun peso hanno invece i motivi ideali, nessuna importanza la tradizione, il culto delia Patria e degli Eroi, il desiderio di portare sempre pi in alto i destini della nazione. In questo senso liberalismo e socialismo tradiscono una comune origine dottrinale. Tanto che non  per mero caso  come rileva il duce  che il tramonto delFuno coincida col tramonto dellaltro. Non  certo il fascismo, che ha instaurato nella vita poltica e sociale un senso virile delia realt, che possa negare limportanza delleconomia, come fattore delia vita dei popoli* Ma il Fascismo crede ancora e sempre nella santit e nelheroismo, cio in atti nei quali nessun motivo economico lontano o vicino agisce. La lotta degli interessi  stata ed  un agente principale delle trasformazioni sociali, ma non pu essere concepita come movente esclusivo delbevoluzione delia societ. La fallacia dei materialismo storico e dei determinismo economico sta appunto in questa concezione, per cui gli uomini non sarebbero che comparse nella storia, incapaci di dirigerla o crearla, quasi fantocci in balia dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, che sarebbero le forze delleconomia. Accettare una simile concezione delia vita significa annullare qualsiasi forza morale e riconoscere 1'incapacit delluomo a creare la sua storia. II socialismo che si basa sul materialismo storico e sul con- cetto delia lotta di classe e che mira attraverso questa a creare forme di convivenza sociale nelle quali siano alleviate le sofferenze deglumili, dimostra una singolare ingenuit dottrinale e una paurosa sterilit politica. Esso vuole raggiungere un ideale, materialistico, massimo benessere per tutti i componenti la collettivit, credendo che in siffatta maniera si sarebbe ottenuta la felicit. E la mta era da conquistare attraverso la socializzazione di tutti i mezzi di produzione, l'annullamento dei diritto di propriet, la spersonalizzazione di ogni attivit economica, il sacrifcio delia iniziativa individuale, la negazione di una funzione produttiva al capitale. II difficile compito delia produzione dei beni eco- nomici sarebbe stato lasciato ad un mastodontico Stato materialistico, le cui delicate funzioni sarebbero esercitate da un esercito di burocrati. A questo stato socialista, accentratore e dspota, padrone di ogni bene economico, si sarebbe dovuti giungere, secondo la profezia di Marx profezia mancata  attraverso un processo di graduale e continuo accentramento delia produzione industriale e dei capitale in mano di pochi, a cui sarebbe stato assai facile il toglierlo per trasferirlo in seno alio Stato e creare cosi, con 1usurpazione, la nuova realt economica dei socialismo. Le previsioni di Marx non si sono verificate: fra tutte la caduta dei saggio di interesse e dei profitto, rappresenta il punto cruciale delia dottrina socialista II saggio d'interesse, che costituisce la retribuzione che si deve al capi- tale, cio il prezzo che si paga per luso dei medesimo,  un dato di fatto che non si pu smentire; le recenti esperienze di economia socialista dimostrano che laddove ufficialmente il saggio d'interesse si nega, si uccide anzitutto ogni stimolo al risparmio e poi nella realt delia vita economica esso risorge per infinite vie diverse, e con estrema frequenza assume la vecchia forma dellusura II socialismo come sistema economico e anche come sistema politico-sociale ha quindi peccato di ingenuit per non dire di vilt: esso non ha saputo guardare con occhio sereno e penetrante nella realt dei fatti economici per distinguere ci che era contingente e relativo a determinate situazioni di tempo e d'ambiente, da ci che  eterno e connaturato con lo spirito deiruomo Al contrario il fascismo, che ignora le snervanti logomachie e gloziosi e raffinati ragionamenti intessuti su premesse metafisiche, e che invece ama losservazione delia realt per costruire su solide basi non solo la dottrina ma le opere e gli istituti, ha da tempo affermata la sua fede nella iniziativa privata, come fattore insopprimibile delia produzione economica. Ma questa iniziativa privata non  libera di svolgersi nelle maniere pi diverse per dominare il campo economico; si tratta di una iniziativa privata la quale deve essere regolata, controllata, disciplinata dallo Stato che la ospita e la difende, la tutela e lincoraggia, non perch essa formi solo la fortuna personale di colui che la esercita, ma in quanto lo scopo raggiunto coincida con le necessit e le finalit dello Stato. La dottrina economica dei Fascismo riconosce inoltre una funzione al capitale, il quale costituisce il frutto dei lavoro deiruomo, risparmiato e impiegato nei nuovi processi produttivi. In tal modo essa esalta la virt dei risparmio, come mezzo per aumentare la potenza economica della nazione e quindi per dare vigore e sostanza allazione poltica. Riconosce la fondamentale funzione delia propriet privata, la quale non  pi intesa nel senso liberale, di diritto di godere e disporre delle cose nella maniera pi assoluta, ma e intesa come dovere sociale. II suo esercizio e quindi limitato da leggi le quali subordinano 1'interesse deliindivduo a quello dello stato. In ogni caso per lo Stato fascista, pur giungendo anche alia espropriazione, fa si che non si creino sperequaon a danno d particolar individui, poiche in esso IL SENSO ROMANO DEL DIRITTO E DELLEQUIT  sempre vigile e operante. Dovere sociale  anche lesercizio dellimpresa, cio 1 esplicazione delliniziativa privata, II fascismo, pero, se pur rifugge dal concetto esclusivo di impresa statale, proprio dei socialismo, non ripudia, come fa il liberalismo, la possibilita, anzi ammette la necessita, che certe imprese che eserciscono pubblici servizi o che rivestono generalissimi interessi, sieno esercitate dallo stato, Nel campo dei lavoro, poi, il fascismo  stato rivoluzionario in maniera veramente superba, Esso, che ha sempre intesa la storia, cio il passato, come base dei presente dal quale si diparte lavenire, non ha mai sacrificato con leggetezzz e superficialit, per amore di novit, quello che era il frutto delia tradizione e la conquista delle passate generazioni, IL FASCISMO ha inserito sul tronco della storia italiana le sue audaci innovazioni rivoluzionarie. Tra queste, principalissime quelle nel campo dei lavoro. Durante tutto  1 secolo XIX la posizione dei lavoratore rispetto allimpresa,  in condizioni di soggezione, II lavoratore  alla merc dellimprenditore, il quale, avendo una netta superiorit economica, puo imporre le condizioni e governare il cosidetto mercato dei lavoro. IL FASCISMO, superando il concetto della lotta di classe, dimostrando fallaci le dottrine che ad essa si ispirano, anche pone in evidenza che il connubio tra il liberalismo e il socialismo, proprio dei periodo storico in cui vi  il libero sindacato degloperai che coca contro il libero sindacato dei datori di lavoro, puo causare perdite gravissime pella nazione, la quale non ottene da questa forma di libera concorrenza tra sindacati quel massimo di utilit che le dottrine dei classici delleconomia pronosticavano. INSERENDO IL SINDACATO NELLO STATO, non ha attuato una forma di socialismo di stato, come  preconizzato dagli osservatori superficiali e dai nemici irriducibili della nuova idea, ma realizza in maniera giuridica le vere e giuste aspirazioni dei popolo senza sacrificare limpresa, superando la lotta di classe, sostituendo al diritto di sciopero e di serrata, il dovere nazionale dei lavoratori e deglimprenditori. Raggiunge un nuovo sistema di equilibrio senza cadere in grossolane contraddizioni e senza fare una dolorosa esperienza piena di inenarrabili sacrifici per le classi operaie, quale fanno coloro che vuoleno applicati gli schemi marxisti. II lavoro non  pi considerato una merce che si vende sul mercato e il salario non  pi un prezzo che si forma nel contrasto fra merce offerta e merce domandata. IL LAVORO  UN DIRITTO e non una concessione. II duce, infatti, ci dice che in tutte le societ nazionali c' la misria inevitabile; per quella che deve angustiare il nostro spirito  la misria degli uomini sani e validi che cercano affannosamente e invano il lavoro. Per questo il Fascismo considera il lavoro come un diritto. E il Regime ha creato a questo scopo, come vedremo, Istituti nuovi, non per dare forma ai suoi schemi dottrinali ma per dare risultati positivi, concreti, tangibili alia sua azione: per far si che il diritto al lavoro dei popolo italiano non rimanga una mera affermazione dogmatica, ma possa estrinsecarsi nella nuova realt economica dei nostro Paese. poltica economica e monetaria. LA POLTICA DEL LAVORO ha le sue tavole fondamentali nella Carta dei Lavoro. Questa costituisce una dichiarasione poltica di basilare importanza; insorge contro la concezione liberale che considera il lavoro come merce, e afferma che il lavoro sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche, manuali,  un dovere sociale. Lo strumento creato dal fascismo per regolare le condidoni di lavoro  il contratto collettivo, nel quale trova la sua espressione concreta la solidariet dei vari fattori delia produ zione, mediante la conciliasone degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori delia produzione. La solidariet fra tutti i fattori delia produzione, e non soltanto tra imprenditori e lavoratori delia stessa categoria,  proclamata nella dichiarasione 4 a, la quale assegna al contratto collettivo di lavoro la delicata e difficile funzione di concretarla La Carta dei Lavoro (dichiarazione 3 a ) afferma che la organizzazione professionale e sindacale  unica. II solo sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al controllo dello stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la categoria di datori di lavoro e di lavoratori per cui  costituito, di tutelarne di fronte alio Stato o alie altre associazioni professionali glinteressi, di stipulare contratti collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alia categoria, di imporre loro contributi ed esercitare rispetto ad essi funsioni delegate d'interesse pubblico. II sindacato ha il compito di tutelare gli interessi delle categorie, ma nello stesso tempo ha lobbligo di promuovere in tutti i modi laumento e il perfezionamento delia produzione e la riduzione dei costi; esso deve anche adoperarsi per il conseguimento dei ini morali dellordinamento corporativo. Nella Carta dei Lavoro come si reagisce alia concesione dei lavoro come merce, si introduce il concetto di salario giusto ed equo, che sarebbe il salario corporativo, in quanto esso deve uniformarsi alie esigenze normali di vita, alie possibilit delia produzione e al rendimento dei lavoro. Aggettivi e condizioni, quelli e queste, che equivalgono ad eresie per gli economisti classici, pei quali non esiste altra giustizia in economia se non quella stabilita dal ptezzo di equilbrio, determinato dailincontro dellofferta e della domanda di lavoro. Poich  essi hanno sentenziato  il fatto economico  un fatto naturale, meccanico e perci non pu essere n giusto n ingiusto, come una reazione chimica o la caduta di un grave. La Carta dei Lavoro risolve felicemente il problema delia determinazione dei salario giusto, cio di un salario che garan- tisca al lavoratore un minimo di tenore di vita sen2;a che esso incida sul giusto profitto delhimprenditore. E siccome questa determinazione non  suscettibile di una solucione di carat- tere generale, essa lascia un grado sufficiente di elasticit, che permette al salario di essere il risultato di un accordo contrat- tuale convenuto fra sindacati. Le ragioni economiche sono perci mirabilmente armoni^ate con quelle sociali e politiche; il senso di alta umanit, cui si ispira il fondamentale documento politico in matria di lavoro, viene confermato nella dichiara^ione 18 a, la quale assicura al lavoratore la continuit dei salario anche in seguito al verificarsi di determinate evenien2;e Nellimpresa a lavoro continuo, il trapasso dellazienda non risolve il contratto di lavoro e il personale ad essa addetto conserva i suoi diritti nei confronti dei nuovo titolare. Egual- mente la malattia dei lavoratore, che non ecceda una deter- minata durata, non risolve il contratto di lavoro. II richiamo alie armi o il servizio delia M. V. S. N. non  causa di licenciamento. Ispirata alia stessa preoccupazione di tutelare il lavoratore  la dichiaracione 14 a, la quale stabilisce che la retribucione deve essere corrisposta nella forma pi consentnea alie esigence dei lavoratore e dell'impresa. Quando la retribucione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione di cottimo sia fatta a periodi superiori alia quindicina, sono dovuti adeguati acconti quindicinali o settimanali. II lavoro notturno, non compreso in regolari turni periodici, viene retribuito con una percentuale in pi rispetto al lavoro diurno. Ma la parte fondamentale relativa alia determinacione dei salario, merita qualche consideracione. Ancitutto va osservato che le condicioni di vita, a cui deve uniformarsi il salario, non sono qualche cosa di astratto e di costante, ma, essendo in stretta relacione con le condicioni delleconomia nacionale, subiscono continue variacioni col progresso generale di questa. Per esse non bisogna intendere il minimo necessrio per la vita fisica dell'individuo, ma un livello sufficiente a consentire 1'elevacione dei lavoratore. Questa concecione morale delia vita persegue anche finalit di carattere economico. Le cattive condizioni dei lavoratori non solo riducono la capacit di consumo dei mercato interno, per il quale gran parte degli imprenditori producono, ma ne menomano anche il rendimento, ostacolando il progresso economico e civile. II secondo elemento che bisogna tener presente nella deter- minacione dei salario  dato dalle possibilit delia producione. Si  detto che la Carta dei Lavoro ha sempre presente il raggiungimento di una finalit di carattere superiore e cio quella di aumentare la potenza poltica ed economica delia Nazione. Si comprende, quindi, come sia stata sua preoccupazione costante quella di far si che il salario venga stabilito in maniera tale da non causare 1'annullamento dei giusto profitto che deve percepire 1'imprenditore, perch in tal caso si annullerebbe lo spirito d'intrapresa, lo stimolo al risparmio e quindi si inaridi- rebbero le fonti delia ricchezza, che sono le fonti dei lavoro. Tale disposizone non deve essere perci interpretata soltanto come difesa delPimpresa, perch con 1aumento delia potenza economica si creano nuove fonti di lavoro.  anche per questo motivo che la carta dei lavoro affida la concreta determinazione dei salario ai liberi accordi contrattuali; essa ha perfettamente inteso che questa matria deve essere disciplinata seguendo con grande accortezza le contingenze economiche. Qualora non fosse consentita la indispensabile elasticit, le ricordate disposizioni si risolverebbero in un danno altrettanto grave per i lavoratori quanto per gli imprenditori. I ricordati criteri non devono essere mai dimenticati n dalle associazioni sindacali n dalla magistratura del lavoro. Lultimo elemento fissato dalla carta dei lavoro per procedere alia determinazione dei salario  il rendimento dei lavoro. Con questa disposizione la carta del lavoro ha voluto riconoscere in maniera esplicita che anche tra i lavoratori il concetto di differenziamento, in relazione alie singole capacit, deve essere tenuto presente onde evitare di agguagliare i singoli ed eliminare le naturali diversit nelle attitudini e nella capacit di lavoro. Ci costituisce anche un vantaggio sociale che non poteva essere trascurato dal fascismo il quale cerca sopratutto di ottenere che i singoli elevino loro stessi servendo la causa dei paese. II salario non deve quindi essere necessariamente eguale per tutti gli operai, n per tutti i generi di lavoro. Esso varia inoltre in relacione al luogo e al tempo. II comune, pi generale e forse pi antico sistema di retribuzione  quello dei salario a tempo, corrisposto in base al numero di ore o di giorni di lavoro prestato: forma che prescinde dal rendimento perch fa astrazione dalla quantit di lavoro compiuto. Accanto a questo vecchio sistema, che alio svantaggio di richiedere una assidua sorveglianza unisce quello di mancare di sufficiente stimolo, si sono venute affermando forme di retribuzione che vanno sotto il nome di salario a incentivo. Questo va esente dai ricordati inconvenienti, ma anzi stimola Tattivit delboperaio e quindi la produttivit dei lavoro. Questi indiscutibili vantaggi possono per essere accompa- gnati da svantaggi considerevoli, specie se considerati dal punto di vista nazionale E consistono appunto nella qualit pi corrente o ordinaria delia produzione e specialmente nel periodo di uno sforzo eccessivo dei lavoratore che, se lunga- mente protratto, pu essere nocivo per la salute deiroperaio. I vantaggi che con questo sistema si conseguono sono per tanto importanti da renderlo preferibile ogni qual volta sia opportunamente regolato* Come fa la carta dei lavoro quando si preoccupa delle conseguenze dei sistema a cottimo nei riguardi dei lavoratori meno capaci, che non arrivano ad otte- nere un reddito corrispondente alia paga base. Per la loro tutela la carta dei lavoro dichiara che quando il lavoro sia retribuito a cottimo le tariffe di cottimo devono essere deter- minate in modo che alloperaio laborioso, di normale capacit produttiva, sia consentito di conseguire un guadagno minimo oltre la paga base. Lo scopo dei legislatore fascista, regolando questa matria dei salario a cottimo nel modo indicato,  stato quello di stimolare attraverso di esso, nel lavoratore, la convenienza ad incrementare la produzione, legandolo alia rnedesima, assicurando altresi un trattamento che non determini grandi disparit di retribuzione tra i singoli lavoratori e nello stesso tempo non sia motivo di logorio fisico delloperaio. Obbligando il lavoratore a una fatica superiore alie sue medie possibilit, si crea un sistema di lavoro privo dei requisiti fondamentali dei lavoro fascista, che deve essere gioia creatrice e non grigia fatica che stanca e non piace. Per questo il fascismo non  mai stato molto entusiasta dei sistemi di paga che hanno avuto tanto furore e cosi estesa applicazione nei Paesi dei supercapitalismo e specialmente negli Stati Uniti dAmerica. I sistemi basati sulla cosidetta organizzazione scientifica dei lavoro e che fanno capo al taylorismo, spesso fiaccano la fibra delloperaio costringendolo ad un lavoro meccanico monotono e sempre eguale senza variet e diversioni capaci di sollevare lo spirito dei lavoratore. I vari sistemi  Rowan, Halsey e Bedeaux  si ispirano tutti in sostanza al concetto di fissare la paga in relazione al rendimento dei singolo e indipendentemente o quasi da certi minimi, che diremmo di carattere umanitario. Lo Stato corporativo, pur stimolando la nobile e generosa gara dei lavoratore non vuole che questo si trasformi in una parte di macchina; questi razionalissimi sistemi, frutto esclusivo delia ragione e dei calcolo, che fanno astrazione da qualsiasi caratteristica individuale, trasformano invece il lavoratore in una parte delia macchina di cui egli. diventa il servo. II problema non va quindi impostato da un punto di vista meramente e prettamente economico e materiale, ma va considerato anche da un punto di vista etico, sociale e poltico, come lo ha considerato LO STATO CORPORATIVO che non opera guardando solo il presente, ma con gli occhi e 1anima tesi sopratutto verso 1'awenire. La determinazione dei salario rappresenta la parte pi importante e delicata dei contratti di lavoro e va affrontata con animo mondo da qualsiasi preoccupazione partigiana e demaggica; va affrontata, cio, con spirito fascista, con spirito che armonizza in una perfetta unit i due maggiori fattori delia produzione: il lavoro e il capitale. L'idea centrale e fondamentale che caratterizza nel terreno economico e sociale la Rivoluzione delle Camicie Nere,  la Corporazione. IL CORPORATIVISMO  ESPRESSIONE ESSENZIALE DEL FASCISMO. Che cosa siano le Corporazioni lo ha definito il Duce nello storico discorso dei novembre XII, al Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Le corporazioni, secondo la definizione datane dal duce, sono lo strumento che, sotto 1 'egida dello Stato, attua la disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive, in vista dello sviluppo delia ricchezza, delia potenza poltica e dei benessere dei popolo italiano. IL CORPORATIVISMO  ancora afferma il duce   leconomia disciplinata, e quindi anche controllata, perch non si pu pensare ad una disciplina che non abbia un controllo: il corporativismo supera il socialismo e supera il liberalismo, crea una nuova sintesi.  cio la sintesi dei contrastanti interessi di categoria e di gruppo nel supremo interesse delia societ nazionale. IL CORPORATIVISMO implica quindi anzitutto una perfetta e completa conoscenza dei vari settori deireconomia nazionale; delia loro portata economica assoluta e relativa. Implica un indirizzo di poltica economica conforme a certe finalit sociali che lo Stato ritiene pi vantaggiose per la collettivit nazionale. Diciamo portata assoluta e relativa delle diverse attivit economiche delia Nazione, perch non tutte hanno la stessa importanza per gli interessi che rappresentano o per i fini che lo Stato fascista persegue. Non mancano, nel campo agricolo come in quello industriale, modeste attivit in confronto di larghi generali interessi economici. II liberalismo pu attendere dal cozzo la soluzione che pel solo suo trionfo ritiene socialmente pi vantaggiosa; il corporativismo no. Deve approfondire 1'importanza relativa di ogni branca dell'attivit economica e con una visione nazionale, organica quindi e integrale, evtare che limitati interessi, anche se potenti, deprimano interessi ben pi larghi anche se meno agguerriti o protetti. Discende da ci che lo Stato corporativo non pu difendere egualmente ogni settore economico, grande e piccolo. Vi sono settori, attivit, branche che ai fini nazionali vanno tutelati e difesi, in confronto di altri che non meritano eguale tutela. Una poltica economica corporativa non pu non fare questa cernita di interessi in armonia ai fini sociali che intende raggiungere. Questa  Tessenza dell'economia corporativa. Vediamoun po'il suo sviluppo storico. II Duce sin dallanno I, parlando il 2 giugno ai lavoratori dei Polesine, afferm il concetto fondamentale delia collabora- zione:  La lotta di classe  Egli dice  pu essere un episdio nella vita di un popolo; non pu essere sistema quotidiano, perch significherebbe la distruzione delia ricchezza e quindi la misria universale.  Collaborazione, fra chi lavora e chi d lavoro, fra chi d le braccia e chi d il cervello  tutti gli elementi delia produzione hanno le loro gerarchie inevitabili e necessarie attraverso a questo prpgramma voi arriverete al benessere, la Nazione arriva alla prosperit e alla grandeza. Al Consiglio Nazionale dei sindacati fascisti, il duce rivolge allassemblea il seguente richiamo. La collaborazione di classe deve essere praticata m due; 1 datori di lavoro non denono approfittare dello stato attuale restaurato dal fascismo, che ha dato un senso di disciplina alla nazione, per soddisfare i loro egoismi. Essi devono considerare gloperai come elementi essenziali delia produzione. Devono fare il loro interesse in quanto coincida con quello della Nazione e non invece il contrario. Solo in questo modo si puo avere una massa realmente disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alie fortune delia Patria, Nello stesso anno, mviando un messaggio al Congresso delle Corporazioni Sindacali Fasciste, rileva che in molte zone la mtelligente collaborazione di classe era stata realizzata e la pace era mantenuta. Ci dimostrava che quando le due parti sanno mettersi sul concreto terreno delia produzione, la colla- bora2;ione di classe  possibile. Il duce, pubblicando in Gerarchia un articolo su FASCISMO E SINDACALISMO ricorda che il programma dei Partito afferma clie le Corporazioni vanno promosse secondo due obiettivi rondamentali: e cio come espressione delia solidariet nazionale e come mezzo di sviluppo delia produzione. Le Corporazioni non debbono tendere ad annegare l'individuo nella collettivit, e a livellare arbitrariamente la capacit e le torze dei singoli, ma debbono anzi valorizzarle e svilupparle. In questa schematica dichiarazione vi sono i fondamenti delia nuova dottrina corporativa. Il fascismo, conquistato il potere, si dedica con rara energia a consolidare le istituzioni, a risolvere gli impellenti problemi posti dalla vita economica dei Paese, senza per dimenticre lo sviluppo orgnico delia legislazione corporativa che doveva portare alia legge fondamentale dei 5 febbraio 1934. Da un punto di vista dottrinale, e se si vuole anche storico, lo sviluppo delia Corporazione  contrassegnato da tre fasi o momenti di importanza fondamentale: la legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro; la leggesul Consiglio Nazionale delle Corporazioni; la legge sulla costituzione e sulle funzioni delle Corporazioni. II legislatore fascista gi nella legge forni i primi elementi giuridici dei nuovo istituto delia Corporazione, e si pu anzi affermare che tutte le disposizioni di quel documento fossero ispirate a questo concetto fondamentale.  1idea nuova che animava e giustificava Tordinamento instaurato dalla legge. Secondo la legge ricordata, 1Istituto delia Corporazione aveva anzitutto lo scopo di attuare la completa collaborazione tra le categorie, collegando le rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro dei ramo di produzioni per cui la corporazione  costituita; di rappresentare in maniera unitaria gli interessi economici dei proprio settore produttivo di fronte alie altre categorie. La delicatissima funzione dei collegamento  esercitata dallo STATO. La legge prevede, accanto alia organizzazione sindacale a carattere verticale, una organizzazione corporativa a carattere orizzontale: la prima serviva per tutelare gli interessi dei singoli elementi delia produzione, la seconda per la difesa degli interessi comuni a ogni singolo ramo delia produzione. Gi in questa legge agli organi corporativi fu attribuita la facolt di emanare norme generali sulle condizioni di lavor o, di conciliare le controversie collettive tra le associazioni colle- gate,di promuovere, incoraggiare e sussidiare tutte le iniziative intese a coordinare e meglio organizzare la produzione, di istituire uffici di collocamento, di regolare il tirocnio e 1 garzonato con norme obbligatorie. II secondo passo di carattere fondamentale sulla via che doveva condurre alia Corporazione fu fatto con la legge sul Consigho Nazionale dlle Corporazioni, la quale non solo forniva un nuovo strumento giuridico per disciplmare i rapporti economici collettivi, ma attribuiva nuovi compiti e funzioni alie associazioni sindacali. Queste estesero il loro campo di attivit dalla disciplina dei rapporti di lavoro, al regolamento collettivo dei rapporti economici tra le diverse categorie delia produzione. Ma  con la legge dei 5 febbraio 1934 che si dovevano realiz- sare in maniera definitiva le Corporazioni. Il capo dice: il sindacalismo non pu essere fine a se stesso: o si esaurisce nel socialismo poltico, o nella CORPORAZIONE FASCISTA.  solo nella corporazione che si realizza 1 idea economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tcnica;  solo attraverso la corporazione, cioe attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti ad un solo fine, che la vitalit dei sindacalismo  assicurata.  solo, cioe, con un aumento delia produzione e quindi delia ricchezza, che il contratto collettivo pu garantire condizioni sempre migliori alie categorie lavorative. In altri termini, sindacalismo e corporazione sono indipendenti e si condizionano a vicenda; senza sindacalismo non  pensabile la corporazione; ma senza corporazione il sindacalismo stesso viene, dopo le prime fasi, a esaurirsi in unazione di dettaglio, estranea al processo produttivo; spettatrice non attrice; statica e non dinamica. Parlando al popolo di Bari il duce dice come 1'obiettivo dei Regime nel campo economico  la realizzazione di una pi alta GIUSTIZIA SOCIALE per tutto il popolo italiano. La quale cosa significa lavoro garantito, salario equo, casa decorosa. Significa la possibilit di evolversi e di migliorarsi incessantemente. Significa CHE (Grice, MEANS THAT) gli operai, i lavoratori debbono entrare sempre pi intimamente a conoscere il processo produttivo e a partecipare alia sua necessria disciplina. La fusione di tutte le energie economiche e spirituali della Patria doveva awenire in maniera definitiva con la promulgazione delia legge che crea su di un piano orgnico le Corporazioni. Insediando i Consigli delle Corporazioni, il Capo ne pone in rilievo il carattere rivoluzionano, perch il suo compito  quello di determinare negli istituti, nelle leggi e nei costumi, le trasformazioni politiche e sociali che sono necessarie alia vita di un popolo. In quelloccasione il Capo si domandava:  occorre ripetere ancora una volta che le Corporazioni non sono fine a se stesse ma strumenti di determinati scopi? Ormai questo  un dato comune. Quali sono gli scopi? Airinterno una organizzazione che raccorci con gradua- lit ed inflessibilit le distanze tra le possibilit massime e quelle minime o nulle delia vita.  ci che io chiamo una pi alta giustizia sociale. In questo secolo non si pu ammettere la inevitabilit delia misria materiale, si pu accettare sol- tanto la triste fatalit di quella fisiolgica. Non pu durare lassurdo delle carestie artificiosamente provocate. Esse denunciano la clamorosa deficienza dei sistema. II secolo scorso proclamo luguaglian^a dei cittadini davanti alia legge  ed  conquista di portata formidabile  il secolo fascista mantiene, an2;i consolida, questo principio, ma ve ne aggiunge un altro, non meno fondamentale: Teguaglianza degli uomini dinan^i al lavoro, inteso come dovere e come diritto, come gioia crea- trice che deve dilatare e nobilitare Tesisten^a, non mortificaria o deprimerla. Di fronte alhesterno la corpora^ione ha lo scopo di aumentare senza sosta la poten^a globale delia na^ione per i fini delia sua espansione nel mondo Col io novembre delbanno XII la grande macchina creata dal genio dei Duce doveva mettersi in moto. II Capo ammoniva che non bisogna attendersi immediati miracolL Anzi i miracoli non bisogna attenderli affatto, perch il miracolo non appartiene alleconomia. La legge attribuisce alie Corporadoni funzioni normative in matria economica. Inoltre esse sono chiamate a dar pareri (compito consultivo) su tutte le questioni che interessano il ramo di attivit per cui sono costituite, tutte le volte sia richie- sto da organi competenti, nonch a esercitare la concilia^ione delle controversie collettive di lavoro. L'attivit delle Corporazioni  incominciata neiranno XIII e molte di esse hanno gi lavorato con successo. Le ventidue corporazioni istituite dal Capo dei Governo sono elencate qui di seguito e per ciascuna riportiamo la composizione numrica delle categorie economiche. Si ricorda che nelle Corporazioni vi  sempre rappresentato il Partito, il quale porta in seno a questo nuovo organismo la continuit dello spirito rivolu^ionario e la voce delia massa dei consumatori. PRIMO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con decreto dei Capo dei Governo) CORPORAZIONE DEI CEREALI i> Produzione dei cereali 7 datori di lavoro e 7 lavoratori Industria delia trebbiatura Industria molitoria, risiera, dolciaria e delle paste Panificazione Commercio dei cereali e degli altri prodotti sopra indica ti Cooperative di consumo 1 rappresentante Tecnici agricoli Artigianato CORPORAZIONE DELLA ORTO-FLORO-FRUTTICOLTURA Orto-floro-frutticoltura 6 datori di lavoro e 6 lavoratori Industria delle conserve amentari vegetali 2 2 Industria dei derivati agrumari e delle essenze . Commercio dei prodotti orto-floro-frutticoli e loro derivati Tecnici agricoli 1 rappresentante Chimici Cooperative di esportatori orto-floro-frutticoli CORPORAZIONE VITIVINICOLA Viticoltura 6 datori di lavoro e 6 lavoratori Industrie enologiche (vini, aceto, liquori) Ogni Corporazione ha tre rappresentanti dei Partito. Industrie delia birra ed affrni 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Produzione delPalcool di seconda categoria Commercio dei prodotti sopra eiencati Tecniciagricoli 1 rappresentante Chimici ....i Cantine sociali CORPORAZIONE OLEARIA Coltura dellolivo e di altre piante da olio 5 datori di lavoro e 5 lavoratori Industria delia spremitura e delia rafinazione delPolio di oliva Industria delia spremitura e delia raffinasione delPolio di semi Industria delPolio al solfuro Commercio dei prodotti oleari Tecnici agricoli 1 rappresentante Chimici CORPORAZIONE DELLE BIETOLE E DELLO ZUCCHERO Bieticoltura 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Industria dello zucchero Industria delPalcool di prima categoria Commercio dei prodotti sopra indicati i  Tecnici agricoli 1 rappresentante Chimici CORPORAZIONE DELLA ZOOTECNIA E DELLA PESCA Praticoltura e allevamento dei bestiame e delia selvaggina Industria delia pesca marittima e di acque interne e delia lavorazione dei pesce Industria dei latte per consumo diretto Industria dei derivati dei latte Industria delle carni insaccate e delle conserve amentari animali Commercio dei bestiame Commercio dei latte e dei derivati Tecnici agricoli Mediei veterinari Latterie sociali.Cooperative di pescatori 8 datori di lavoro e 8 lavoratori i rappresentante CORPORAZIONE DEL LEGNO Produzione dei legno, industria fore- stale e prima lavorazione dei legno Fabbricazione dei mobiio e di oggetti vari di arredamento domestico Produzione degli infissi e dei pavimenti Produzione dei sughero Lavorazioni varie Commercio dei prodotti sopraelencati Tecnici agricoli e forestali Artisti Artigianato 2 datori di lavoro agricolo e 2 lavoratori agricoli 2 datori di lavoro industriale e 2 lavoratori industriali 2 datori di lavoro e 2 lavoratori i rappresentante CORPORAZIONE DEI PRODOTTI TESSILI Industria dei cotone 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Produzione delia lana Industria delia lana Industria dei seme-bachi Gelsi-bachicoltura Industria delia trattura e delia torci- tura delia seta 1 datore di lavoro e 1 lavoratore Industria dei rayon Industria delia tessitura delia seta e dei rayon Coltivazione dei lino e delia canapa Industria dei lino e delia canapa Industria delia juta Industria delia tintoria e delia stampa dei tessuti. Industrie tessili varie Commercio dei cotone, delia lana, delia seta, dei rayon e degli altri prodotti tessili; commercio al dettaglio dei prodotti stessi Tecnici agricoli 1 rappresentante Chimici Periti industriali Artisti Artigiani Essiccatoi cooperativi SECONDO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo CORPORAZIONE DELLA METALLURGIA E DELLA MECCANICA Industria siderrgica 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Altre industrie metallurgiche Industria delia costruzione di mezzi di trasporto (automobili, moto- cicli, aeroplani, materiale ferro-tranviario, costruzioni navali) Industria delia costruzione delle macchine ed apparecchi per la radio e per la generazione, trasformazione e utilizzazione dellenergia elettrica Industria delia costruzione di macchine ed apparecchi per uso industriale e agricolo Industria delle costruzioni e lavorazioni metalliche, fonderie e impianti Industria delia costruzione di strumenti ottici e di misura e delia meccanica di precisione e di armi 2 2 Industria dei prodotti di gomma per uso industriale Industria dei cavi e cordoni isolanti Orai e argentieri Commercio dei prodotti sopra indicati Ingegneri 1 rappresentante Artigianato Consorzi agrari cooperativi CORPORAZIONE DELLA CHIMICA Industrie degli acidi inorganici, degli alcali, dei cloro, dei gas compressi e degli altri prodotti chimici inorganici 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Industria dei prodotti chimici pellagricoltura Industria degli acidi organici e dei prodotti chimici organici Industria degli esplosivi Industria dei fosforo e dei fiammiferi Industria dei materiali plastici Industria dei coloranti sintetici e dei prodotti sensibili per fotografie Industrie dei colori mineraH, delle vernici, delle creme e dei lucidi per calzature e pellami Industria saponiera e dei detersivi in genere, industria stearica e delia glicerina Industria degli estratti concianti Industria conciaria Industria degli olii essenziali e sintetici e delle profumerie Industria deglolii minerali Industria delia distillazione dei carbone e dei catrame; industria delle emulsioni bituminose Industrie farmaceutiche Commercio dei prodotti delle industrie sopra indicate Chimici i rappresentante Farmacisti Consorzi agrari cooperativi CORPORAZIONE DELL'ABBIGLIAMENTO Industria dellabbigliamento (confezioni dabiti, biancheria, ecc.) Industria delia pellicceria Industria dei cappello Industria delle calzature e di altri oggetti di pelle per uso personale Industria dei guanti Produzione di oggetti vari di gomma per uso di abbigliamento Magliici e calzifici Produzione di pizzi, ricami, nastri, tessuti elastici e passamanerie Industria dei bottoni Produsioni varie per labbigliamento Ombrellifici Commercio dei prodotti delle industrie sopra indicate Artigianato Artisti 3 datori di lavoro e 3 lavoratori 1rappresentante i CORPORAZIONE DELLA CARTA E DELLA STAMPA Industria delia carta Cartotecnica Industrie poligrafiche ed affini Industrie editoriali. Industrie editoriali giornalistiche. Commercio dei prodotti delle industrie sopra elencate Artisti (autori e scrittori, musicisti, belle arti, giornalisti) Artigianato 2 datori di lavoro e 2 lavoratori 1 di cui uno giornalista 4 rappresentanti i CORPORAZIONE DELLE COSTRUZIONI EDILI Industrie delle costruzioni (costruzioni edilizie e opere pubbliche) Industria dei laterizi Industria dei manufatti di cemento* Industria dei cementi, delia calce e dei gesso Industria dei materiali refrattari Commercio dei materiali da costru- zione Propriet edilizia Ingegneri Architetti Geometri Periti industriali edili Artigianato Cooperative edili 4 datori di lavoro e 4 lavoratori 1 rappresentante CORPORAZIONE DELL'ACQUA, DEL GAS E DELLA ELETTRICIT Industria degli acquedotti 3 datori di lavoro, dei quali un rappresentante delle aziende municipali e 3 lavoratori, dei quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende municipal Industria dei gas 3 datori di lavoro, dei quali un rappresentante delle aziende mu- nicipali, e 3 lavoratori dei quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende municipal Industrie elettriche.4 datori di lavoro, dei quali un rappresentante delle aziende municipalizzate e 4 lavoratori dei quali un rappresentante dei dipendenti delle aziende municipalizzate Ingegneri 1 rappresentante Consorzi e cooperative CORPORAZIONE DELLE INDUSTRIE ESTRATTIVE Industria dei mnerali metalici. 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Industria dello zolfo e delle piriti Industria dei combustibili fossili Industria delle cave (marmo, granito, pietre ed affini) Lavora^ione dei marmo e delia pietra Commercio dei prodotti delle industrie sopraelencate Ingegneri minerari 1 rappresentante Periti industriali minerari Artigianato CORPORAZIONE DEL VETRO E DELLA CERAMICA Industrie delle ceramiche artistiche, porcellane, terraglie forti, semi- forti, e dolci, grs, abrasivi 4 datori di lavoro e 4 lavoratori Industrie delle bottiglie Industria dei vetro bianco Industria delle lastre Industria degli specchi e cristalli Industria dei vetro scientifico (com- preso quello di ottica) Industria dei vetro artistico e conterie Industria delle lampade elettriche Commercio dei prodotti delle industrie elencate Artigianato 2 rappresentanti Cooperative Artisti TERZO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo CORPORAZIONE DELLE PROFESSIONI E DELLE ARTI Sezione dei Professionisti legali: Awocati e Procuratori 3 rappresentanti (due per gli awocati e uno per i procuratori) Dottori in economia 1 rappresentante Notai Patrocinatori legali Periti commerciali Ragionieri Sezione delle professioni sanitarie: Mediei 3 rappresentanti Farmacisti Veterinari Xnfermiere diplomate Levatrici Sezione delle professioni tecniche: Ingegneri 2 rappresentanti Architetti Tecnici agricoli 3 (uno per i dottori in agraria e uno per i periti agrari) Geometri 1 rappresentante Periti industriali Chimici Sezione delle arti: Autori e scrittori 2 rappresentanti Belle arti Architetti Giornalisti Musicisti.. Istituti privati di educazione e istruZione Insegnanti privati Attivit industriali ed artigiane di arte applicata Commercio delParte antica e moderna i rappresentante i datore di lavoro e 1 lavoratore delPindustria; 2 artigiani i datore di lavoro e 1 lavoratore i8 CORPORAZIONE DELLA PREVIDENZA E DEL CREDITO Sezione delle Banche: Il Governatore delia Banca dTtalia* Il Presidente delPAssociazione tra le Societ Italiane per azioni. II Presidente dellTstituto di ricostruzione industriale. II Presidente dellistituto mobiare italiano Istituti di credito ordinrio 2 rappresentanti Banche di provincia Istituti finanziari Banchieri privati Agenti di cambio Ditte commissionarie di borsa e cambiavalute Dirigenti di aziende bancarie Dipendenti delle aziende bancarie Dipendenti da agenti di cambio Sezione degli Istituti di diritto pubblico: I membri di diritto delia Sezione delle Banche Casse di Risparmio ordinarie 4 rappresentanti Istituti di credito di diritto pubblico soggetti alia vigilanza dei Ministero delle Finanze Istituti speciali di credito agrario i rappresentante Monti di Piet 2 rappresentanti dei quali uno per i Monti di Piet di I a cat ed uno per quelli di 2 a cat* Istituti di credito di diritto pubblico 3 rappresentanti Banche popolari cooperative 1 rappresentante Casse rurali 1  Dipendenti da Banche popolari e da Casse rurali 2 rappresentanti Sezione deile assicurazioni: II Presidente deiristituto Nazionale delle Assicurazioni, II Presidente dellTstituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro gli Infortuni* II Presidente deiristituto Nazionale Fascista delia Previdenza Sociale, Imprese private autorizzate allesercizio delle assicurazioni 2 rappresentanti Dirigenti delle imprese di assicura- Dipendenti delle imprese di assicurazione Agenzie di assicurazione Dipendenti da agenzie di assicurazione Dipendenti da istituti di assicurazione di diritto pubblico Mutue di assicurazione CORPORAZIONE DELLE COMUNICAZIONI INTERNE Sezione delle ferrovie, delle tramvie e delia navigazione interna: Ferrovie e tramvie extra-urbane 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Tramvie urbane Funivie, funicolari, ascensori e ilovie Navigazione interna Sezione dei trasporti automobilistici; Autoservizi di linea 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Servizi di noleggio .Servizio taxistico Servizio camionistico Sezione degli ausiliari dei traffico: Spedizionieri 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Attivit portuali Trasporti ippici Attivit complementari dei traffico su rotaia e su strada Sezione delle comunicazioni telefoniche, radiotelefoniche e cablografiche: Comunicazioni telefoniche, radiotelavoratori tefoniche e cablografiche 2 datori di lavoro e CORPORAZIONE DEL MARE E DELLARIA Marina da passeggeri 4 datori di lavoro e 4 lavoratori Marina da carico Marina velica Trasporti aerei Cooperative i rappresentante CORPORAZIONE DELLO SPETTACOLO Imprese di gestione dei teatri e dei cinematografi 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Teatri gestiti da enti pubblici, imprese liriche (artisti di canto, artisti di prosa, concertisti, orchestrali, registi e scenotecnici) e di operette, enti di concerti, capocomici, radio-trasmissioni Industrie affini (scenografia, case di costumi e di attr ezzi teatrali, edi- zioni fotomeccaniche).i datore di lavoro e i lavoratore Imprese di produzione cinematogrfica Case di noleggio, di films Imprese di spettacoli sportivi Editori 2 rappresentanti Musicisti Autori dei teatro drammatico e dei cinematgrafo 2 rappresentanti II Presidente delia Societ Italiana Autori ed Editori Il Presidente delPIstituto Nasionale L* U, C. E. II Presidente delPO* N. D CORPORAZIONE Alberghi e pensioni Uffici ed agensie di viaggi. Esercizi pubblici in genere (ristoranti, caff, bar) Attivit artigiane connesse con 1 'ospitalit Stabilimenti idroclimatici e termali Case private di cura Mediei DELL/OSPITAUT 2 datori di lavoro e 2 lavoratori 1 rappresentante II vigente ordinamento strutturale delle ORGANIZZAZIONI SINDACALI  il frutto di una graduale evoluzione. Recentemente  stato rivedutoispirandosiacriteri dimaggiore semplicit. Anche le denominazioni sono State cambiate con una pi precisa indicaZione degli esercenti 1'attivit che lorganizzazione rappresenta. La struttura organizzativa delle associazioni di vario grado si presenta nel seguente modo: Associazioni nazionali giuridicamente riconosciute Confed. Federaz. Sindac. Totale Confederazione Fascista agricoltori Confederazione Fascista industriali Confederazione Fascista commer- cianti Confederazione Fascista delle aziende dei credito e deirassicurazione Confederazione Fascista dei lavoratori deiragricoltura Confederazione Fascista dei lavoratori dellindustria Confederazione Fascista dei lavoratori del commercio Confederazione Fascista dei lavoratori dei credito e deirassicurazione Confederazione Fascista deiprofessionisti e artisti poltica finanziaria e monetaria lItalia, uscita stremata da una guerra costosissima, entr in una grave crisi economica e sociale, che ne esauri ancor pi le sue capacit economiche e quindi ridusse enormemente le entrate di bilancio, mentre le spese subivano un continuo aumento Ma in pochissimi anni il Governo fascista riedificava su nuove salde basi la finana, eliminando ogni disavanzo. II piano delia restaurazione concepito e voluto fermamente dal Duce si basa sopra queste colonne fondamentali che costituiscono il saldo edifcio delia finanza fascista: X o Pareggio dei bilancio; 2 o Risanamento delia circolazione monetaria; 3 o Regola^ione dei debiti di guerra; 4 o Sistema^ione dei debito interno; 5 o Sistemasione delFasienda ferroviria; 6 o Abolidone dei corso formoso e ritorno alhoro. L'esercizio finanziario ultimo dellantico regime, segnava un disavanso di circa 16 miliardi di lire; il successivo 10 riduceva a soli 3 miliardi e Feserci^io finansiario seguente, il primo interamente gestito dal Fascismo, vede scendere il disavamjo a solo 418 milioni di lire* Praticamente era il pareggio. Con lanno finanziario 1924-25 comincia la magnifica serie degli anni con bilanci attivi che termina soltanto nel 3:930-31 a causa delia contrazione delle entrate, dovuta alia crisi e alia nuova situa^ione che si Veniva creando nella economia mondiale A dare, in breve sintesi, un quadro abbastansja completo dei bilancio dei nostro Paese dopo il 1913-14, possono giovare i dati raccolti nella tabella sottoriportata: ENTRATE E SPESE EFFETTIVE RISULTANTI DAI RENDICONTI CONSUNTIVI (in milioni di lire correnti) Esercizio finanziario Entrate effettive Spcse effettive Avanzi 0 disavanzi. Ci che colpisce  il fatto che appena il Regime fascista ha preso le redini dello Stato le cose sono mutate profondamente. Lordine neiramministraione, la giustizia degli accertamenti, il rgido controllo delle spese, la lotta sistemtica contro il triste costume dell'evasione tributaria, hanno compiuto il prodgio. II primo atino di avano si ha nel 1924-25, di 417 milioni. Soltanto successivamente, quando la crisi mondiale sconVolse definitivamente 1'organismo economico di tutti i paesi civili, apparve il disavano, che il Governo fascista ha afffontato con severe misure di economia. Ma per meglio comprendere la struttura finaniaria dei nostro bilancio, e per dare una nozione intorno all'ammontare delle principali voei di entrata,  bene riportare per 1'undicennio 1922-33, i dati relativi alie imposte dirette, alie imposte sullo scambio delia ricchea e sui consumi, ai monopoli di Stato e al lotto: tali dati consentono di cogliere le varia- ioni subite da queste singole Voei di entrata, nel periodo delia ricostruione e delia depressione economica mondiale. LE IMPOSTE (in milioni di lire) Anni Imposte dirette Imposte sullo scambio delia ricchezza Imposte indiretfe sui consumi Monopoli di Stato Lotto. Sempre nellordine delia poltica financiaria il Regime ha proweduto ad unificare gli istituti di emissione. In omaggio al fondamentale principio delia unit storica e poltica dei Paese, contrario ad ogni residuo regionale, il Governo concentra la facolt di emissione nella sola BANCA DITALIA, togliendola al Banco di Napoli e al Banco di Sicilia, che insieme alia prima ancora godevano di questo particolare privilegio. A questa disposicione legislativa segui 1 'altra che attribuiva alia Banca dItalia le funcioni di vigilanca su tutte le aciende bancarie che raccolgono depositi, In tal modo anche lesercicio dei credito veniva direttamente sorvegliato.  poi noto che le banche di deposito si sono dedicate anche al financiamento di imprese industriali, compromettendo la loro liquidit e legando strettamente le loro vicende economiche a quelle delle aciende financiarie. La crisi economica e il cataclisma financiario, con la caduta delia sterlina, avevano aggravata la delicata situacione di quegli Istituti. II Governo fascista diede loro lantica liquidit acquistando in blocco il portafoglio titoli: cio tutte le acioni delle aciende dagli stessi financiate. Queste banche, che si diedero a volte anche ad una ingiusti- ficabile speculacione, furono salvate dallo Stato, il quale prov- vide ad istituire due grandi istituti financiari, prowisti di adeguati mecci e specialiccati nelle operacioni a medio e a lungo termine: 1'Istituto Mobiliare Italiano e 1'Istituto per la Ricostrucione IndustrialeQuesti due enti di diritto pubblico hanno facolt di emettere obbligacioni, ammesse di diritto alie quotacioni di borsa. In matria fiscale i due istituti godono di trattamento di favore. La portata di questi prowedimenti, emanati alio scopo di stimolare e sorreggere Tattivit economica, pu per essere valutata nella sua vera ampiecca soltanto quando essa venga considerata in armonia a tutte le altre prowidence che il Governo fascista ha adottato nel campo delia poltica crediticia, in relacione specialmente al poderoso programma di financiamento e di credito per le opere di pubblica utilit e per quelle specifiche di miglioramento fondiario e agrario* Un settore nel quale Tacione dello Stato si esplica in pieno  quello monetrio Ovunque la moneta  emessa direttamente dallo Stato oppure da istituti bancari ai quali lo Stato ha concesso tale facolt. Quindi lo Stato in sostanca  arbitro quasi assoluto nel campo monetrio; da esso dipende Femissione, che deve esser contenuta entro i limiti implicitamente stabiliti dalle necessit economiche e financiarie di ciascun paese Strettamente congiunta con la poltica monetaria , per owie ragioni, quella dei credito. Basta pensare al fatto che lo Stato in maniera diretta o indiretta determina le variacioni dei saggio dello sconto, per comprendere quale enorme importanca abbia il suo intervento sia nello stimolare gli affri, sia nel frenarli. Estremamente delicata  Tacione dello Stato in questa diffi- cile matria; essa non influisce soltanto sulla attivit produt- tiva, ma pu provocare sperequacioni nel campo distributivo e quindi favorire alcune categorie sociali col sacrifcio di altre. IL GOVERNO FASCISTA anche in questo settore delleconomia, come nel pi complesso quadro delia vita economica nacio- nale, ha armoniccato e coordinato i particolari interessi con una poltica ispirata ai generali interessi dei Paese. Per questo la sua poltica monetaria ha mirato a resistere in ogni istante alie pressioni delia speculazione per proteggere, difendere, tutelare il grande esercito dei risparmiatori, che costituisce il presidio sicuro delia potensa economica delia Nasione. La recente storia monetaria dei Fascismo sta a documentare la tenacia dei propositi e delle direttive seguite. Quando il Fascismo conquisto il potere la situasione monetaria dei nostro Paese era assai difficile. La nostra lira negli anni delia guerra e deirimmediato dopoguerra aveva sbito una forte svalutasione come dimostra il corso delPoro espresso in lire correnti: Valore delia lira carta in lire (oro) attuali = gr. 0,07919113 di oro fino Rapporto tra lira prebellica e lira attuale 3,6661135 Anni Corso delloro Anni Corso delloro Negli anni 1921 e 1922 la lira italiana era in balia delia speculazione, che la faceva oscillare nella maniera pi disordinata; Tinstabilit dei cambio si manifestava anche sul potere di acquisto delia moneta; i prezai delle merci subivano continue variazioni e il costo delia vita ne risentiva le conseguense Dopo rawento dei Governo fascista le forti oscillasioni monetarie dei perodo precedente erano quasi scomparse anche per effetto delia immediata distensione psicolgica e delia mano possente che reggeva il timone dello Stato, come dimo- strano i dati seguenti: Andamento dei corso dei dollaro: 4 trimestre II Governo inizia un'energica poltica di risanamento finansario: pareggio dei bilancio e riforma tributaria che elimina il caleidoscopio dei dopoguerra per riportare le fonti principali delia finana ai tributi fondamentali. Ciononostante nel primo semestre dei 1925 la speculazione internazionale prese di mira la lira italiana e inizi durante Testate quella grande offensiva  a sfondo antifascista  che dur fino alia estate delPanno successivo: fu nelPestate dei 1926 che la quo- ta^ione dei dollaro sali a 31,60 e quella delia sterlina a 153,68. II Duce, compresa la grande importanza poltica ed economica che pote va avere lulteriore svaluta^ione, pronuncio a Pesaro il 18 agosto delPanno IV un memorabile discorso nel quale afferm in maniera solenne e decisiva la strenua volont del GOVERNO FASCISTA di difendere la lira: fu il discorso dei Duce che stronc in maniera definitiva la speculazione al ribasso che era stata organissata dal capitalismo interna^ionale. Leffetto psicologico  immenso. Quello poltico ed economico  ancora maggiore: alia fine dello stesso anno, deiranno 1936, il dollaro scese a 22 lire e la sterlina a 108: un anno dopo il discorso di Pesaro il dollaro era quotato poco pi di 18 lire e la sterlina 88. IL GOVERNO FASCISTA aveva vinto. Anche in questo campo, nel quale le forse internazionali si erano scatenate nella maniera pi insidiosa, lazione decisiva e ferma dei Duce aveva avuto il soprawento. II Capo aveva detto:  Non infligger mai a questo popolo meraviglioso d'Italia, che da quattro anni lavora come un eroe e soffre come un santo, Ponta morale e la catstrofe economica dei fallimento delia lira* II Regime fascista resister con tutte le sue for^e ai tentativi di jugulazione delle forse finan^iarie awerse, deciso a stroncarle quando siano individuate alPin- terno* II Regime fascista  disposto dal suo Capo alPultimo suo gregrio, ad imporsi tutti i sacrifici necessari; ma la nostra lira che rappresenta il simbolo delia Na^ione, il segno delia nostra ricche^a, il frutto delle nostre fatiche, dei nostri sfor^i, dei nostri sacrifici, dei nostro sangue, va difesa e sar difesa * E cosi come aveva promesso fu. Nel secondo semestre dellanno 1927 la situazione monetaria risulta completamente cambiata e il Governo fascista si prepara a compiere la profonda riforma monetaria, effettuata alia fine dei 1927, con la stabiliz^a^ione delia lira al valore di cambio che essa aveva raggiunto dopo la strenua lotta combattuta. La lira venne cosi stabilh;2;ata alia cosidetta quota novanta. Fedele al suo programma il Governo affronta i rischi e i sacrifici che imponeVa la stabiliz^a^ione a quota 90, pur di recare vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato e alia grande massa dei lavoratori che almeno in un primo tempo si sarebbe certamente aWantaggiata dal minor costo delia vita. Rifiuta la stabilizzazione a quota 120; questa si presen- tava pi facile e comoda, sia per il tesoro, sia per radattamento al nuovo metro monetrio deireconomia dei Paese, ma avrebbe colpito duramente i risparmiatori e i laVoratori: cio la Nazione. La stabilizzazione fu quindi decisa sulla base di 19 lire per dollaro che equivalevano a circa 90 per la sterlina, con una rivalutazione, rispetto alia media dei 1924, che raggiungeva quasi il 20 % dei valore. Ed mantenuta con tenacia impensata ed impensabile. Tanto  vero che cadde la sterlina  awenimento di portata economica enorme  trascinando in breve volgere di tempo la moneta di tutti i Paesi finanziariamente vassalli dellInghilterra; cadde il dollaro: non cadde la lira italiana nonostante i furiosi attacchi delia speculazione doltre Alpe e d'oltre oceano.  Veramente unico nella storia monetaria dei Paesi civili questo fatto: mentre in tutto il mondo aweniva il tracollo monetrio, lTtalia fascista, in grazia delia sua economia solida e armonica e delia sua meravigliosa unit politica, sapeva resistere contro ogni assalto. Subito dopo la caduta delia sterlina, IL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO fa una solenne dichiarazione nella quale, mentre prendeva atto delia continuit della politica monetaria dei Governo e delle direttive date per mantenerla immutata anche nella eccezionale situazione internazionale, riaffermava che la stabilit delia valuta era necessria e conforme ai reali interessi economici delia Nazione. II Gran Consiglio ricorda che la stabilit delia valuta, basata sulhequilibrio delia bilancia dei pagamenti e garantita dalla awenuta deflazione delia circolazione, dalle precostituite riserve e dalhadeguamento dei prezzi delle merci e dei servizi al livello delia nostra moneta, evitava nuovi dannosi perturbamenti nei rapporti di distribuzione che avrebbero gravato sul popolo italiano laVoratore e risparmiatore. Al nuovo valore monetrio furono adeguati salari e prezzi, attraverso un f a^ione oculata, decisa e precisa che ha costituito  in periodo di cosi awersa congiuntura economica  il superbo vaglio delia for^a unitaria dei Regime e delia salde^a ed efficacia delle organi^a^ioni sindacali e corporative. In questo campo lopera svolta dal PARTITO FASCISTA  stata meravigliosa, ineguagliabile: il popolo italiano si  comportato in maniera magnifica, sacrificando  secondo le norme dei vivere fascista  particolari interessi di categoria per raggiun- gere i pi alti fini na^ionalh La poltica economica dei Regime  riuscita a contemperare vantaggi e danni con un cosi alto senso di giusti^ia, che soltanto un periodo di alta tensione ideale con una massa permeata dalla cosciensa corporativa poteva consentire di raggiungere. POLTICA commerciale. Gleconomisti liberali hanno esaltato la funcione dei commercio internazionale come una delle maggiori conquiste civilh. Nessuno pu disconoscere che le grandi correnti di traffico hanno distribuito su tutta la superfcie dei globo i prodotti dei Paesi pi diversi contribuendo ad elevare il tenore di vita dei popoli e portando a quelli quasi primitivi il frutto delia civilt, Ma nellesaltasione non  mancata la solita costruzione astratta e dogmatica che il tempo va inesorabilmente dissolvendo con le dure lezioni delia realt. Per dare una precisa idea dellimportanza dei commercio internasionale e delia funcione che- esso esercita nelleconomia del nostro paese  opportuno esaminare il complessivo valore delle importazioni e delle esportasioni, formanti la cosidetta bilancia dei commercio internazionale (bilancia commerciale) Valore (in migliaia di lire) Importazione Esportazione Differenza I dati sopra ricordati dimostrano che il volume delle importazioni e delle esportasioni si  anda to notevolmente contraendo dopo il 1926. La differenza tra il valore delle merci importate e quello delle merci esportate supera i 7 miliardi di lire, tanto nelhanno 1926 quanto nel 1928. Dopo il 1930 e precisamente nel triennio 1931-33 esso si stabilizza intorno a un miliardo e 400 milioni di lire. La passivit delia bilancia commerciale non avrebbe una grande importanza qualora la cosidetta bilancia dei pagamenti, chiamata anche bilancia dei dare e delPavere internazionale, potesse ancora contare sulle cospicue rimesse degli emigranti, sul foro dei forestieri e sui noli marittimi. Purtroppo per, date le continue restrizioni che si sono avute nei rapporti internazionali, e dato che quelle partite non hanno carattere di stabilit, il debito commerciale va attentamente osservato, poich altrimenti per colmarlo, in difetto di quelle partite compensative alie quali accennavamo (rimesse degli emigranti, noli, ecc), non esiste che il trasferimento di oro. Per dare un quadro preciso dei nostro commercio con Pestero, riportiamo una serie di dati riguardanti Limportazione e 1'esportazione per le principali categorie di beni oggetto di scambio internazionale STATISTICA DEL COMMERCIO Dl IMPORTAZIONE ED ESPORTAZIONE Esporiazione Valore (Lire) Catcgorie Milioni Animali vivi - carni, brodi, mi- nestre e uova - latte e prodotti dei caseificio - prodotti delia pesca Coloniali e loro succedanei, zuccheri e prodotti zuccherati Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati alimentari Ortaggi e frutta Bevande Sali e tabacchi. Semi e frutti oleosi e loro residui - olii e grassi animali e vegetali e cereolii mineral i, di resina e di catrame, gomme e resine - saponi e candele Canapa, lino, juta e altri vegetali ilamentosi, compreso il cotone - lana, crino e peli - seta e fibre artificiali - vestimenta, biancheria e altri og- getti cuciti Minerali metallici, ceneri e scorie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe - altri me- talli comuni e loro leghe - lavori diversi di metalli comuni Valore (Lire) Categorie Milioni Macchine e apparecchi - uten- sili e strumenti per arti e me- stieri e per 1'agricoltura - strumenti scientifici e orologi - strumenti musicali Armi e munizioni Veicoli Pietre, terre e minerali non metallici - laterizi e materiale cementizio - prodotti delle industrie ceramiche- vetri e cristalli Amianto, grafite e mica Legni e sughero ~ carta, cartoni e prodotti delle arti grafiche Paglia ed altre materie da intrec- cio - materie da intaglio e da intarsio Pelli e pellicce Prodotti chimici inorganici, orga- nici e concimi - generi medici- nali e prodotti farmaceutici - generi per tinta e per concia - gomma elas* e guttaperca Pietre preziose, argento, platino e lavori di metalli preziosi - oro e monete d'oro e d'argento Oggetti di moda, calzature ed effetti d'uso personale non compresi in altre categorie - mercerie, balocchi e spazsole Materie vegetali non comprese in altre categorie Materie animali non comprese in altre categorie. Prodotti diversi Importazione Valore (Lire) Categorie Milioni Animali vivi - carni, brodi, mi- nestre e uova - latte e prodotti dei caseificio - prodotti delia pesca Coloniali e loro succedanei, zuc- j cheri e prodotti zuccherati Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati alimentari Ortaggi e frutta Bevande Sali e tabacchi Semi e frutti oleosi e loro residui - oli e grassi animali e vege- tali e cere - olii minerali, di resina e di catrame, gomme e resine - saponi e candele Canapa, lino, juta e altri yege- tali filamentosi, compreso il cotone - lana, crino e peli - seta e fibre artificiali, vestimenta, biancheria e altri oggetti cu- citi Minerali metallici, ceneri e scorie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe - altri me- talii comuni e loro leghe - lavori diversi di metalli co- muni Macchine e apparecchi - utensili e strumenti per arti e mestieri e per ragricoltura - strumenti scientifici e orologi - strumenti musicaliValore (Lire) Categorie Milioni Armi e munisioni.Veicoli Pietre, terre e minerali non me- tallici - laterisi e materiale cementizio - prodotti delle industrie ceramiche - vetri e cristalli Amianto, grafite e mica * * Legni e sughero - carta, cartoni e prodotti delle arti grafiche Pagia ed altre materie da intrec- cio - materie da intaglio e da intarsio Pelli e pellicce. Prodotti chimici inorganici, organici e concimi - generi medici- nali e prodotti farmaceutici - generi per tinta e per concia - gomma elast* e guttaperca Pietre preziose, argento, platino e lavori di metalli preziosi - oro e monete d'oro e d # argento Oggetti di moda, calzature ed ef- fetti d'uso personale non com- presi in altre categorie - mercerie, balocchi e spazsole Materie vegetali non comprese in altre categorie Materie animali non comprese in altre categorie Prodotti diversi  opportuno esaminare con attenzione le voei pi impor- tanti deir importazione e delFesportazione di merci. Un primo rilievo di fondamentale importanza riguarda il frumento. Mentre nel decennio prebellico 1 importazione era di 13 mi- lioni di quintali circa, dal 1919 al 1927 ha oscillato dai 21 ai 27 milioni di quintali. II prodigioso risultato delia battaglia dei grano si  manifestato in pieno nel 1934, quando l'impor- tazione netta di grano raggiunge un milione e mezzo circa di quintali* Pressoch costante si  mantenuta invece la importazione dei granturco, la quale nelPultimo sessennio, se si fa astra- 2;ione dal 1 1933, ha oscillato da 6 a 8 milioni di quintali annui.Le importazioni di carbon fossile, di ferro e di legno, hanno segnato specialmente nel periodo 1925-30 un grande incremento, nei confronti dei periodo prebellico. Nellultimo biennio sono diminuite notevolmente. II migliorato tenore di vita delia popolazione italiana e il conseguente aumento dei consumo delle carni, ha determinato un incremento nella importazione dei bestiame vivo e delia carne, rispetto al periodo prebellico. Limportazione di cotone  ferma sulle posizioni prebelliche. II grande sviluppo che ha avuto 1industria automobilistica e limpiego sempre crescente dei motore a scoppio nell industria e nei trasporti  stata la causa dei decuplicarsi deli importazione di benzina* Anche la importazione di lana ha segnato fortissimi aumenti. Cosi pure quella dei semi oleosi. Questi sono i caratteri fondamentali che presenta il com- mercio di importazione nel nostro Paese. La nostra esportazione si pu caratterizzare distinguendo i prodotti secondo la forma di attivit che li produce Forti 68 contrazioni segnano le nostre esportazioni di latticini e di canapa. Alte si mantengono le nostre esportazioni ortofrutticole L'esportazione dei tessuti di cotone si pu considerare stazionaria* Forte incremento segna invece Tesportazione di tessuti e filati di lana e dei manufatti di seta e di rayon IL FASCISMO, per sottrarre il Paese dalla dipendenza estera, specie per certi consumi fondamentali, per tener viva ed efficiente la corrente esportatrice e anche per conquistare nuovi mercati onde poter trovare sbocchi adeguati alia crescente produzione agricola e industriale, ha svolto una complessa attivit economica e politica, ha durato uno sforzo tenace nonostante i mille ostacoli non sempre giustificati che si ponevano sul suo cammino. E ci  veramente meraviglioso quando si pensi che tali posizioni sono State mantenute, malgrado Fimperversare di una crisi che ha sconvolto la economia di tutti i Paesi civiln Per avere una nozione precisa intorno alia natura ed alia direzione delle nostre correnti commerciali con Festero biso- gna esaminare la provenienza delle nostre importazioni e la destinazione delle esportazioni, Sopratutto  nella crescente anemia dei traffici, causata dalle misure di autarchia economica che hanno instaurato tutti i Paesi, dai contingenti ai divieti ed alie limitazioni valutarie   necessrio guardare ai singoli saldi delia bilancia commerciale, per agire adeguatamente nel sistema delle compensazioni o degli scambi bilanciati, che il Governo fascista ha effettuato, La nostra bilancia commerciale  notevolmente passiva con la Jugoslvia e la Romania nel Bacino Danubiano, con la Ger- mania nelF Europa Centrale, con gli Stati Uniti nelle Americhe, con Tlndia Britannica in Asia. Ma anche la Rssia, il Brasile, il Canad, la Tunisia, il Belgio, il Lussemburgo e F frica Meridionale britannica hanno una bilancia commerciale per noi sfavorevole. Le nostre esportazioni hanno superato le importazioni nel commercio con l'Egitto, con la Grcia, la Turchia, la Polonia e la Cecoslovacchia; a noi molto favorevole  stata la bilancia commerciale con la Svizzera, con la Francia e conllArgentina. L' Italia importa bovini dalla Jugoslvia, dairUngheria e dalla Romania; carni fresche e congelate dali'frica Meridio nale britannica, dallArgentina, dal Brasile e dallUruguay. Pollame specialmente dalla Jugoslvia, uova dalla Jugoslvia, Polonia e Turchia* II frumento viene specialmente dagli Stati Uniti, dall'Au- stralia, dalla Rssia, dall'Argentina e dal Canad; il granturco dalla Romania e dallArgentina. II cotone  acquistato specialmente dagli Stati Uniti e in secondo luogo dali'ndia Britannica e dall'Egitto. II ferro proviene dalla Francia e dallUnione Belga-Lussemburghese; il carbone dalla Gran Bretagna e dalla Germania, dalla Polonia e dalla Rssia; la benzina dalla Rssia, dalla Prsia, dalla Romania e dagli Stati Uniti. La lana dall'Australia, dall'Argentina e dalPAfrica Meridionale Britannica. II legno dalla Jugoslvia, dall'Australia, dalla Rssia e dagli Stati Uniti. L'osservazione dei fatti dimostra che collimpero britannico nel suo complesso abbiamo una bilancia nettamente sfavorevole. D'altro lato la politica doganale iniziata dal detto impero  dopo la conferenza di Ottava  tende a contenere 1 'importazione straniera ad un limite minimo Cosi pure awiene per molti altri Paesi con i quali abbiamo relazioni commerciali. Cosi dicasi per gli Stati Uniti che hanno chiuso le porte alia nostra emigrazione ed hanno innalzato barriere doganali elevatissime. La stessa osservazione delia realt pone spontaneamente le seguenti domande:  proprio indispensabile acquistare le merci di cui noi abbiamo bisogno dai Paesi che si chiudono ermeticamente airesportazione dei nostri prodotti? Per migliorare la nostra bilancia commerciale non  possibile agire sopra queste correnti dei traffico onde renderle a noi pi favorevoli? Anche in questo campo, e specialmente in questo campo, il tramonto dei liberismo economico si  gi manifestato sotto forme e aspetti inequivocabili. Le lezioni che ci ha dato la storia economica di questi ultimi anni, sono al riguardo sug- gestive e definitive. La fine dei liberismo economico interno  seguita inesorabilmente da quello estero. Pochi Paesi, forse nessun Paese, pu rinchiudersi in un pi o meno beato isolamento e svolgere tutte le sue attivit nello mbito dei propri confini. L' Italia poi che non  stata certamente favorita dalla natura come lo sono stati altri Paesi, pu forse meno di quelli chiudersi in unautarchia economica. Necessita quindi esportare prodotti agricoli e industriali propri per potere prowedere specialmente le materie indispensabili di cui il nostro suolo manca. Da ci la poltica delle compensazioni, la quale si armonizza perfettamente coi postulati dello Stato corporativo. Uno Stato nel quale la produzione  disciplinata e controllata, nel quale 1iniziativa privata non  libera di svolgersi come vuole e dove vuole, deve anche regolare le correnti dei traffico, disciplinando anche il commercio internazionale. II Capo, infatti, ha pi volte affermato che LA POLITICA ECONOMICA estera non pu ancora svolgersi sulla falsariga di sistemi pi o meno liberistici, eredttati da un mondo superato. Un'economia corporativa in fatto di scambi internazionali non pu rimanere schiava delia clausola delia Nazione pi favorita, ultimo feticcio liberale, riaffermata in teoria in ogni consesso economico internazionale, per essere sbito dopo negata in pratica, attraverso una serie di limitazioni che la svuotano di ogni contenuto reale o lannullano addirittura. Questa figlia legittima dei liberismo non tutti i Paesi lhanno applicata nella sua forma pi liberale (illimitata, incondizionata, reciproca). Ha avuto i colpi maggiori non tanto dallinnalzarsi delle barriere doganali, quanto dai divieti di importazione e dai contingentamenti. Le intese preferenziali, come quella di Ottava, le limitazioni al commercio delle divise, gli accordi di compensazione, le hanno recato durissimi colpi. I Paesi che Vennero meno per primi al libero scambio sono stati proprio quelli che ne avevano meno la ragione, perche favoriti dalla natura, ricchi di materie prime e di capitali: quelli stessi che Pavevano allevato e lavevano teorizzato, anche perch si adattava egregiamente ai loro particolari interessi. D'altra parte, a proposito delia concezione liberistica nella organiz^azione degli scambi internazionali, deve essere ben tenuto presente che lo sviluppo industriale va profondamente mutando le tradizionali correnti di traffico. La distinzione tra Paesi agricoli e industriali va perdendo gran parte dei motivi sostanziali che la giustificano. Ogni Paese tende a rendersi pi indipendente anche per ragioni di sicurezza La scoperta scientifica ed il progresso tcnico spostano continuamente i termini dei complesso problema: materie prime ritenute un tempo insostituibili, oggi si sostituiscono; monopoli naturali per certi prodotti, cadono di fronte ad impensate produzioni sintetiche. La scienza, col suo incessante progresso, ha contribuito a rendere economicamente possibili processi produttivi in Paesi in cui pochi anni or sono era follia sperarlh Si assiste veramente ad una profonda rivoluzione tcnica, economica e sociale. Dato il tradizionale attaccamento alia clausola delia Nazione pi favorita, il sistema degli scambi bilanciati o scambi contrattati o scambi compensati, come si dice oggi, non ha trovato in principio favore.  stato osservato che questo sistema non si poteva attuare, perch il commercio con 1'estero non pu chiudersi con un pareggio aritmtico, in quanto nei traffici internazionali non si possono sopprimere le compensazioni indirette;  stato ripetuto che esso avrebbe complicato 1 organizzazione dei traffici e resa necessria una mastodontica burocrazia; che in certi casi sarebbe stato inapplicabile. Tali critiche erano specialmente il frutto di una profonda incomprensione degli scopi e delle finalit cui mirava il sistema degli scambi bilanciati; nessuno aveva mai pensato che questo potesse essere un sistema eterno; n che mirasse al pareggio aritmtico: si trattava soltanto di un accorgimento di politica economica di carattere contingente, che per poteva recare notevoli benefici al nostro Paese, data la situazione economica specifica in cui si trova.  evidente che il sistema delle compensazioni non supera il problema dei prezzi: questo rimane, cosi come il Duce ha posto e nei limiti dei negoziati fra Paesi che abbiano il reciproco bisogno di esportare. Si pu quindi concludere che, specialmente nelbattuale momento economico, la cui durata  di difficile previsione, acquistano grande importanza le compensazioni degli scambi, le quali, basandosi sulla nostra posizione di acquirenti di materie prime, consentano il maggior possibile collocamento ai nostri prodotti. Nel passato esistevano soltanto dei commercianti: oggi esiste il commercio italiano, perch il Regime, attraverso la organi2;a2;ione, ha dato una personalit unitaria ed organica anche a questa forma insostituibile di attivit economica. II Duce dice che la funcione dei commercio  quella di portare rapidamente e rasionalmente le merci al consumatore: questo  il suo compito essensiale. II commercio al minuto costituisce gran parte delia vita dei centri urbani. II commercio alhingrosso, che comprende anche il commercio di esportasione, d lavoro a migliaia di persone e costituisce una delle espressioni pi alte delia vita civile.  stato osservato che nel commercio la tcnica diventa vita. In tal senso il commercio  lotta: lotta che comincia nella piccola bottega familiare e si estende al grande magassino, che si esplica nella borsa, nella banca e pu dare le armi per formidabili conquiste. Se Tagricoltura e T industria si risolvono nella produzione di nuovi beni economici e cio nella trasformazione delia matria, il commercio opera trasformazioni che awengono nello spazio, perch le merci sono recate dai centri di produ^ione ai centri di consumo. LITALIA FASCISTA che non ignora nessun settore deirattivit economica, che fa tesoro delle grandi tradizioni patrie, che ha il culto dei titoli di nobilt conquistati dal nostro popolo nelle guerre e nelle ar ti, neir industria e nel commercio, che non dimentica la gloria di Venezia e quella di Gnova, come di Pisa e di Amali, non poteva non dedicare anche a questa forma di attivit tutte le cure, contemperandole con le prowidenze portate alie altre branche di attivit economica dei regime* L/Italia ha bisogno di espandersi, e quindi deve conqui- stare anche attraverso i pacifici commerci le grandi vie dei continenti e degli oceani; cosi i commercianti possono esplia^ o 1 una magnifica opera di penetracione che porti con le mrc^' scambiate il nome e la potenza d'Italia nei pi lontani Paesap^ o Vy Le force commerciali d' Italia si sono gi addimostrate alPal- ^ teca dei compito, anche perch IL GOVERNO FASCISTA sa liberare il commercio da quei preconcetti ostili che tanto lo hanno demoraliczato e awilito. Risanare, dare nuova vita alie correnti mercantili, ridare nuova consideracione alla funzione dei commerciante che non  egoistica ed esosa ma , come quella degli altri produttori, elemento indispensabile delia organiczacione economica* Di solito quando si discorre di commercio alhingrosso ci si riferisce alie correnti internacionali* Lo dimostra il fatto che le statistiche ufficiali di quasi tutti i Paesi comprendono sotto il titolo ricordato le cifre relative alhesportacione e alhim- portacione* Quei dati dimenticano completamente le importan- tissime correnti che si muovono alh interno dei singoli Paesi per alimentarne i mercati II Duce, parlando ai commercianti il 26 ottobre delhanno X, a Milano, afferm che la funcione dei commercio  insosti- tuibile, rappresentando essa un fattore storico. Questa affermazione vale tanto per il commercio alhingrosso come per quello al minuto* II grossista  infatti un efficace collaboratore e un precioso consigliere dei produttore* Esso  in grado di valutare la capacit di consumo dei singoli mercati rispetto alie diverse merci; esso meglio di ogni altro pu stabilire le attrecsature che occorrono per distribuire le merci al piccolo consumo. In questo senso la sana attivit economica svolta dal grande commerciante  quanto mai benefica, sia perch esso possiede una competenca specifica ed integrale dei mercato di quella data merce in un dato luogo, sia perch esso adempie alia insopprimibile funcione di intermedirio ed  quindi elemento fondamentale delbeconomia nacionale. Nei riguardi dellECONOMIA CORPORATIVA il commercio alio ingrosso pu facilitare il raggiungimento rpido ed economico di particolari forme di disciplina delia producione. II funzionamento dei magaccini ai fini delia conservacione dei prodotti, specie di quelli di facile deperibilit, l'organiccacione dei proce- dimenti tecnici per il rpido riassorbimento delle giacence invendute o invendibili e per il racionale rinnovamento delle partite di scorta, possono essere affrontati con successo dai commercianti all' ingrosso organiccati corporativamente. In tal modo il grande commercio adempie perfettamente ad UNALTA FUNZIONE CORPORATIVA. Ma il sistema attraverso il quale si effettua la distribucione delle merci comprende centinaia di migliaia di piccole aciende.  per opera dei bottegai che i prodotti deiragricoltura e delia industria giungono sino alie piu remote valli montane, ai pi discosti casolari. L' importanza e linfluenza che il commercio al minuto pu esercitare sulla vita sociale giustifica la vigilanca a cui esso  soggetto, i controlli che su di esso si esercitano e la disciplina che ad esso si impone; appunto per questa sua funcione di vivificare ogni piu remota contrada, di consentire che ogni prodotto sia accessibile in ogni luogo al pi modesto consumatore, il commercio al minuto appare meritevole di particolare consideracione. Le aciende di commercio al minuto ammontano a circa 550.000 con 1.500.000 persone addette, delle quali il 60 %  formato da proprietari, dirigenti e dai loro famigliari, e il 40 % da veri e propri dipendenti. La maggioranca quindi  formata da imprese a carattere famigliare, neiresercicio delle quali le donne partecipano in proporcioni noteVolissime. Una nozione pi precisa intorno alia natura degli eserci commerciali e alia loro importanza si pu avere dalla tabella sotto riportata: ESERCIZI COMMERCIALI SECONDO IL NUMERO DEGLI ADDETTI (cifre per ioo esercizi di ogni categoria) Cat ego fie i addetto Da 3 a 5 addetti Da 6 a 10 addetti Okre ii addetti Commercio in grosso: Animali vivi Generi alimentari Filati, tessuti, ecc. Commercio al minuto: Metalli, macchine, ecc Generi alimentari . Filati, tessuti, ecc. 59.4 38,2 1,8 0, 6 Mobili, vetrere, ecc Oggetti d f arte Prodotti chimici Misto Nel nostro Paese il numero dei negozi al minuto non sembra proporzionato ai bisogni delia distribuzione dei prodottn II rapporto fra la popolazione servita e il numero dei negozi  leggermente inferiore a quello che si riscontra in altri Paesi* Mentre in Italia il numero dei negozi  di uno ogni 75 abitanti, nella Svizzera 11 rapporto sale ad 80, nell* Inghilterra risulta di 77, negli Stati Uniti d'America di 79, nella Germania di 78* Attraverso questa rete di distribuzione al consumatore, nella quale troVano la loro fonte di attivit e quindi i loro mezzi di vita quasi 4 milioni di abitanti, passa il consumo nazionale e grandissima parte dei denaro necessrio alia produzione. Se  incontestabile la utilssima funcione esercitata da questi piccoli commercianti  da ritenere che il loro numero sia supenore a quello che tecnicamente sarebbe necessrio ed economicamente utile per la distribuzione dei prodotti. In molti medi e piccoli centri urbani si sono andati moltiplicando in maniera eccessiva questi piccoli esercizi; limprenditore pretende di trarre i mtzzi di vita per Tintera famiglia con un modestssimo capitale e servendo uno sparuto numero di clienti Questo orientamento che si  accentuato in maniera particolare nel periodo postbellico e durante V inflasione, favorito anche dall'esodo rurale che allora awenne in maniera intensa,  stato stigmatisZito dal GOVERNO FASCISTA il quale intende ridurre al necessrio il costo di ogni servisio e sopprimere gli organismi superflui* Con lo scopo di ridurre il costo delia distribusione dei beni dalla produ^ione al consumo e di adattare il pi sollecitamente possibile i prezzi al dettaglio al livello di quelli alhingrosso  evitando le conseguenze delia cosidetta vischiosit, cara agli adoratori del laissez faire, laissez passer  lordinamento cor porativo dello Stato fascista ha agito e agisce incessantemente* Come pure compito importantssimo dell'aione corpora tiva in fatto di moralizsa^ione dei commercio e di tutela dei consumatore  la difesa dalle adulterazioni e dalle frodi. L'economialiberale pu anche attendere che il consumatore o il tempo facciano da loro giusti^ia dei prodotti non genuini: 1ECONOMIA CORPORATIVA no* Non solo, ma nella lotta economica fra pro dotti genuini e surrogati, fra produ^ioni genuine e sofistica^ioni, fedele al suo principio deve ispirare Ta^ione all* interesse prevalente col quale coincide quello delia collettivit nasjionale. Nel discorso pronunciato dal Duce in Campidoglio, alhAssemblea delle Corpora^ioni, sono stati tracciati gli sviluppi delFeconomia fascista. L/assedio economico  Egli ha detto  ha sollevato una serie numerosa di problemi, che tutti si riassumono in questa proposi^ione: r autonomia poltica, cio la possibilit di una poltica estera indipendente, non si pu pi concepire sen^a una correlativa capacit di autonomia economica. Ecco la lecione che nessuno di noi dimenticher! Coloro i quali pensano che finito Fassedio si ritorner alia situasione dei 17 novembre, shngannano. II 18 novembre 1935  ormai una data che segna V inicio di una nuova fase delia storia italiana* II 18 novembre reca in s qualche cosa di defi nitivo, vorrei dire di irreparabile* La nuova fase delia storia italiana sar dominata da questo postulato: real2are nel pi breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica delia Na^ione. E passando allanalisi il Capo ha dato il panorama futuro dellECONOMIA ITALIANA, che pogger sopra questi caposaldi* Nessuna innova^ione sostansiale nelFeconomia agrcola, che rimane a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato e armoni%2:ata, attraverso le Corpora^ioni, colle altre attivit economiche nacionali. Nei riguardi dei commercio estero ha ribadito la sua fisionomia di funcione diretta o indiretta dello Stato con carattere duraturo e non contingente; mentre il commercio interno rimane affidato alliniziativa individuale o di associa^ioni, come pure la media e la piccola industria. II credito  gi porta to, con recenti prowedimenti, sotto il controllo dello Stato* E cosi pure, senza precipitazioni ma con decisione fascista, lo sar la grande industria, la quale assume un carattere speciale, nellorbita dello Stato, con gestione diretta, o indiretta, ovvero con un efficiente controllo. IL VAGRICOLTura italian E LA POLTICA RURALE DEL REGIME 6-4 CARATTERI DELL'AGRICOLTURA ITALIANA. L ITALIA ha una superfcie territoriale di 310.107 kmq., costituita per 4 / 3 da montagna e collina e sol tanto per 1 j s da pianura, Su questa limitata superfcie, in data 21 aprile 1931-XI, viveva una popolazione di oltre 41 milioni di abitanti, con una densit media di 133 persone per ktnq.; oggi siamo oltre 43 milioni (140 per kmq,). La popolazione dedita all'agricoltura si aggira sui 20 mi lioni di individui raccolti in 4 milioni di famiglie rurali circa, aventi una media di 5 componenti.  noto che le condizioni di fertilit dei suolo italiano non sono le pi felici. Si  ricordato come esso sia prevalentemente montuoso e collinoso: la pianura si estende soltanto a 6.446.238 ettari. Ma parte di questa pianura  formata da terreni che si trovano in difficili condizioni per la produzione agrcola, data la pssima distribuzione delle piogge che li rende eccessiva- mente aridi per potervi esercitare una ricca agricoltura: ricor- diamo in particolare il Tavoliere di Puglia e i Campidani di Cagliari e di Oristano in Sardegna. Spessissimo poi la pianura era malarica per il disordine idraulico conseguente al regime torrentizio dei fiumi e al disboscamento montano. Nonostante queste infelici condizioni naturali il popolo ita liano  stato costretto ad adibire alie coltivazioni quasi tutta la superfcie, per la forte densit delia popolazione su un terri trio naturalmente povero, a limitato e localizzato sviluppo industriale, in assenza di colonie redditizie. Tanto che solo 18 % delia superfcie territoriale  improduttiva: il resto  a coltura e la massima percentuale di utilizzazione si ha nei terreni di collina. Anche laddove ammiriamo un'agricoltura particolarmente intensiva, come nella pianura padana, questa  il risultato di ingenti opere di miglioramento compiute attraverso i secoli, che con 1acqua o contro Tacqua, mediante 1irrigazione, il prosciugamento o la colmata, hanno formato una nuova natura. Altrettanto dicasi delia meravigliosa sistemazione colunai e deiritalia centrale, meridionale e insulare, che costituisce una costruzione dei lavoro dei contadino italiano, che spesso ha portato a spalle la terra che doveva accogliere nel suo grembo e alimentare la pianta. Ma per meglio comprendere la natura e la portata dei problemi di politica agraria affrontati dal Governo fascista  opportuno approfondire ulteriormente le condizioni di ambiente nelle quali essa si esplica. RIPARTIZIONE AGRARIA DEL TERRITORIO Ripartizioni geografiche Seminativi Coliure I e g no s e specializzate Terreni saldi I) Superfcie improduttiva Superfcie territoriale Italia settentrionale Italia centrale Italia meridionale Italia insulare Regno Prati e pascoli permanenti, boschi e castagneti, incolti produttivi. La superfcie agraria forestale misura 28*519*000 ettari dei quali oltre 15 milioni sono costituiti dai terreni agrari propriamente detti. Di questi, 12*835*000 sono rappresentati da seminativi semplici e arborati e 2*232*000 da culture legnose specializzate* I prati e i pascoli permanenti figurano soltanto con circa 6 milioni di ettari* I boschi compresi i castagneti, si estendono per 5*561*000 ettari* Gli incolti produttivi, frequenti special- mente nella dorsale appenninica, raggiungono 1*700*000 ettari. Nel complesso quindi i seminativi dominano le altre qualit di coltura con il 45 % delia superfcie agraria e forestale* Ad essi seguono i prati e i pascoli permanenti con il 21/7 %, i boschi con il 7,8 % In questo ambiente si allevano 7 milioni di bovini, 10 milioni di ovini, 3*300*000 suini, 1*900*000 caprini* I cavalli raggiun gono quasi il milione, gli asini, i muli e i bardotti raggiungono circa 1*400*000* Si allevano anche circa 15*000 bufali* II popolo italiano  un popolo in mareia* Un secolo fa entro gli stessi confini dei Regno vivevano circa 21 milioni di abitanti; oggi abbiamo superato i 43. Nelhultimo de- cennio la popolarione ha avuto un incremento di circa tre milioni e me^o* Lo Stato fascista, consapevole dei problemi che una cosi alta densit delia popolarione viene a determi- nare, si  decisamente orientato verso una poltica rurale* E ci perch la popolarione rurale possiede nel pi alto grado la virt dei risparmio e la tenacia nei propositi, la probit di vita e il senso delia continuit, Tamore per la terra e per il lavoro: qualit che invece si attenuano sempre pi nelle popo- larioni delle grandi citt, dove si cerca di vivere la vita  co- moda , dove si disfrenano gli egoismi pi acerbi, dove il senso delia solidariet umana sostanriale e non solo apparente, ha sbito i colpi pi duri. Bisogna ruralizzare 1 'Italia anche se occorrono railiardi e mezzo secolo, ha affermato il Capo. Poich la ruralit non solo assicura lo sviluppo demogrfico, che costituisce una delle maggiori espressioni delia potenza di un popolo (i rurali sono i pi prolifici), ma assicura anche la sanit fisica e morale delia razza, custodisce i grandi ideali delia vita, si compendia nella famiglia, sente tutta la bellezza dei lavoro creativo, stimola la virt dei risparmio. Perch la mta agognata da ogni lavoratore  quella di raggiungere il possesso terriero, trasformandosi da bracciante in colono, da colono in piccolo affittuario o in piccolo proprietrio/per attaccarsi alia sua terra che ama e che ha desiderata come aspirazione massima. Perci il Regime nella sua poltica di ruralizzazione tende a fissare il contadino alia terra, combattendo il bracciantato anonimo e quasi nmade e stimolando la diffusione delle forme di colonia e di compartecipazione, nonch incitando, come vedremo, 1'estendersi delia piccola propriet. L/anima delia nostra razza, che ha storicamente vissuto il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che ha tratto mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ben sa come sull'agricoltura sia costruito 1'intero edifcio delia prosperit sociale. Cosi il Duce si esprimeva in un discorso pronunciato alia 7 a assemblea dellIstituto internazionale di agricoltura il 2 maggio 1924. II Capo awertiva che altre attivit produttive possono essere pi impressionanti nella grandiosit localiz- zata delle loro manifestazioni, pi facili apportatrici di guadagno, ma nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poich, infine, tutto potrebbe immaginarsi ritolto albumanit delle sue superbe espressioni di forza e di conquista, ma non mai, finch la razza umana esista, non mai 1arte di trarre dalla terra madre quanto  necessrio a sostenere la vita.  pensando alie virt rurali dei popolo italiano che il Duce, al primo congresso di agricoltura coloniale di Tripoli, afferma che in Italia sta sorgendo una nuova generazione, LA GENERAZIONE MODELLATA DAL FASCISMO: poche parole e molti fatti. La tenacia, la perseveranza, il metodo, tutte le virt alie quali litaliano sembra negato dovranno diventare domani, e sono gi in parte, virt fondamentali dei carattere italiano. Per questi motivi fondamentali il Fascismo ha dedicato le sue pi solerti cure alio sviluppo delPagricoltura. II Capo in moltissime occasioni ebbe ad esprimere in maniera inequivocabile la sua fede negli sviluppi dell'agricoltura italiana, base delia economia, baluardo contro lurbanesimo. Paralleamente alia politica agrcola, il Fascismo sviluppa la politica forestale e montana, di quelle montagne  che salvaguardano la nostra pi grande pianura e costituiscono la spina dorsale delia Penisola: la politica dei Regime  diretta a sostenere la popolaione delia montagna ai fini pacifici e a quelli militari. Tra il mare e le montagne, si stendono valli e piani: la terra nostra, bellissima, ma angusta, trenta milioni di ettari per 42 milioni di uomini* Un imperativo assoluto si pone: bisogna dare la massima fecondit ad ogni olla di terreno* II Fascismo rivendica in pieno il suo carattere contadino* Di qui la politica rurale dei Regime nei suoi diversi aspetti: il credito agrario, la bonifica integrale, la elevaione politica e morale delle genti dei campi e dei villaggi* Solo con il Fascismo i contadini sono entrati di pieno diritto nella storia della Patria. Volgete gli occhi sullAgro Romano e avrete la testimoniana delia profonda trasformaione agraria in via di esecuzione. Con questo inimitabile stile il duce define airAssemblea Quinquennale dei Regime, il io marzo deiranno VII, i motivi fondamentali che spiegano perch il Regime attui una pol tica rurale* La nuova poltica agraria inizia in pieno la sua attivit neiranno 1925. II Duce, negli anni precedenti diede la sua prodigiosa atti vit a un lavoro di ordinamento, di revisione e di sistema- zione, perch Egli, anzich precipitarsi sulla macchina statale per frantumarla come ha fatto la rivolmone russa, ha voluto armoniszare il vecchio col nuovo; cio che di sacro e di forte sta nel passato, cio che di sacro e di forte ci reca, nel suo inesauribile grembo, 1'awenire. In tutta lazione poltica del Regime, ma in particolare in quella rurale, giganteggia il nome di MUSSOLINI (A), grande anima e grande mente, strappata alla mazione da una tragdia che solo possono comprendere appieno coloro  come ha scritto il duce  che sono  continuati. La ricostruzione forestale d'Italia fu un suo preciso fine; fond e presiedette il Comitato forestale italiano, organo propulsore delia rinascita silvana* Due grandi cimenti contraddistinguono la parte centrale delia poltica rurale dei Regime: la battaglia dei grano, la bonifica integrale Entrambe pensate, volute, guidate dal Duce. Cominciamo dalla prima. LA BATTAGLIA DEL GRANO latino, non  soltanto Capo e con II Duce, purssimo genio dottiero, ma anche Poeta. Amate il pane cuore delia casa profumo delia mensa gioia dei focolari Rispettate il pane sudore delia fronte orgoglio dei lavoro poema di sacrifcio Onorate il pane gloria dei campi fragranza delia terra festa delia vita Non sciupate il pane ricchezza delia Patria il pi soave dono di Dio il pi santo prmio alia fatica umana. Rileggendo queste parole di saggez^a e di amore, nelle quali si trasfonde con un religioso senso delia vita il rispetto per le cose eterne donateci da Dio, non si pu non provare una profonda commozione, Esse esprimono lanima con la quale  dichiarata la battaglia dei grano; non si tratta di raggiungere finalit soltanto economiche, ma di appagare un bisogno ptrio che supera il fatto economico per divenire integrale fatto poltico, II Capo a Palato Chigi, il 4 luglio delPanno III, inse- diando il Comitato permanente dei grano, affermava che Pannuncio delia battaglia dei grano aveva avuto una ripercus- sione profonda in tutto il Paese, Segno certo che rispondeva ad una necessit universalmente sentita, Egli ricordava le conseguenze finanziarie dello scarso raccolto dellanno 1924, le quali ammonivano severamente a fare tutto il possibile per conquistare Pindipendenza per il fondamentale alimento dei popolo italiano. II Capo stesso fissava le direttive delfasione: I o non  strettamente necessrio aumentare la superfcie coltivata a grano in Italia. Non bisogna togliere il terreno alie altre colture che possono essere pi redditizie e che comunque sono necessarie al complesso deireconomia nazionale.  da evitare quindi ogni aumento delia superfcie coltivata a grano. A parere unanime la cifra di ettari raggiunta con le semine dei 1924 pu bastare; 2 o  necessrio invece aumentare il rendimento annuo di grano per ettaro. L/aumento medio anche modesto d risultati globali notevolissimi Posti questi capisaldi, il Comitato permanente doveva affrontare: il problema selettivo dei semi; il problema dei concimi e in genere dei perfezionamenti tecnici; il problema dei prezai. Per reali2are tutte le possibilita di miglioramento delle nostre colture granarie bisognava arrivare alie grandi masse rurali, veramente silen^iose e operanti, al grosso cio delfeser- cito disseminato nelle campagne italiane. II popolo italiano  perfettamente convinto delia santit di questa battaglia e delia possibilit di vincerla; Egli sentiva che si lottava per la vera libert cio per la liberazione delia Nazione dalla maggiore servit economica straniera. Ventisei giorni dopo il duce parlando ai capi delle organi2;a2;ioni agricole, pronuncia parole fatidiche che oggi sono scolpite nel cuore di ogni agricoltore d'Italia. Battaglia dei grano significa liberare il popolo italiano dalla schiavit dei pane straniero. La battaglia delia palude significa liberare la salute di milioni dtaliani dalle insidie letali delia malaria e delia misria. II Governo fascista ha ridato al popolo italiano le essenziali libert che erano compromesse o perdute: quella di lavorare, quella di possedere, quella di circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella di esaltare la vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di aver la coscien^a di se stessi e dei proprio destino, quella di sentirsi un popolo forte non gi un semplice satellite delia cupidigia e delia demagogia altrui. Voi, agricoltori d'Italia, che sapete per la dura espe- riensa dei vostro lavoro come le legg delbuniverso siano inflessibili, voi siete i pi indicati ad intendere questo mio discorso. Recate a tutti i pi lontani casolari, a tutti i vostri camerati disseminati per i campi delia nostra terra adorabile, il mio saluto e dite loro che, se la mia tenace volont sar sorretta dalla loro collaborazione, Tagricoltura italiana verr incontro ad un'epoca di grande splendore. E cosi, infatti,  stato. La battaglia dei grano  stata Tindice pi eloquente delbin- dir2;2;o delia politica agraria dei Regime. Con la battaglia dei grano si  voluto poten^iare tutta 1 'agri- coltura italiana, sospingerla a reali^are il massimo delia produ- zione ottenibile in tutti i settori* Sia nel campo viticolo come in quello ortofrutticolo, nelbolivicoltura come nel campo delle colture industriali, sono State prese una serie di prowidenze intese ad ottenere il miglioramento delle coltivazioni ed il collocamento dei prodotti. Attraverso lopera vigile e continua delblstituto Nazionale per lEsportazione nuovi sbocchi sono stati aperti al commercio estero delia frutta, degli agrumi, degli ortaggi; sono stati attentamente studiati i centri esteri di consumo;  stato disciplinato Tafflusso dei prodotti ortofrutticoli; sono State imposte agli esportatori norme rigide per garantire la qualit dei pro- dotti venduti. N Topera di difesa deiragricoltura poteva estraniarsi dalla tutela dei rurale di fronte airinsidia delia speculazione. Uorgnizzazione degli ammassi granari, intesi a sottrarre Tagricoltore alia vendita formata dei frumento nel periodo dei raccolto, ha disciplinato il mercato, costituito una riserva, evitato che ai contadini, come frutto dela loro fatica, fosse riservato il pi basso prezzo raggiunto sbito dopo la trebbiatura. II favore sempre crescente che tale istitusione ha incon- trato presso gli agricoltori sta a dimostrare la sua efficacia e la radicata fiducia che essi hanno in questa come in tutte le altre prowidensje dei Regime. Se nel vasto quadro delia politica economica fascista la battaglia dei grano costituisce un episodio, esso  per tal mente grandioso e suggestivo, acquista tanta importanza spiri- tuale ed economica, da prestarsi magnificamente per dare unhdea dei clima nel quale il popolo italiano ha lavorato in questi ultimi anni. Nel quadriennio 1931-1924, prima cio che il duce chiama gli agricoltori a raccolta per ini^iare la battaglia, la produzione granaria oscillava intorno ai 50 milioni di quintali con un rendimento per ettaro di qL 10,9, cio poco superiore alia media di qh 10,5 segnata nel quinquennio prebellico 1909-13. II raccolto na^ionale era assolutamente inadeguato al consumo. Questo era fortemente aumentato per la migliorata alimentasone dei popolo italiano, il quale aveva sostituito il frumento al granturco, alie castagne ed agli altri alimenti che, specie nelle zone di montagna, erano usati largamente. Si doveva quindi ricorrere in misura crescente ai grani stranieri: Timportazione media che nel decennio 1905-1914 era di 13 milioni, era salita alia cifra di 26 milioni di quintali nel quadriennio 1921-1924. Considerazioni meramente economiche si univano a quelle di carattere spirituale. E i risultati non si fecero attendere* Mentre la media produzione dei quadriennio bellico fu di qL 9,99 per ettaro, eguale a quella dei quadriennio prebellico, la media produ^ione dei primo quinquennio delia battaglia dei grano fu di qL 12,5 cio di 2 quintali superiore a quella bellica e di 2,5 superiore a quella dei primo quadriennio postbellico* Sono oltre 10 inilioni di quintali di aumento assicurati alia produ^ione frumentaria nasionale, pur con anni, come il 1927 e il 1930, le cui condizioni climatiche furono assai sfavorevolL La media produzione dei secondo quinquennio delia bat taglia fu di qL 14,65 per ettro. II progresso si  verificato in ogni parte dei Paese: nelLItalia settentrionale come in quella meridionale e insulare; nelle zone di collina come in quelle di pianura. Se dalle cifre medie passiamo a considerare le punte pi elevate, colpiscono le produ^ioni altissime che si sono rag- giunte, non in ristrette particelle di pochi metri quadrati, ma su ettari di terreno in pieno campo; produzioni che una volta sembrava follia sperare, e che sono State ottenute per virt di una tcnica moderna che solo la battaglia dei grano poteva stimolare* Le punte di qL 40 che un tempo sembravano insupera- bili sono salite a qL 74 nel 1932, a 82 per ettaro nel 1933* I metodi tecnici di coltivazione si diffondono: la schiera dei concorrenti alia vittoria dei grano  passata da poche centi- naia a migliaia. Le produ^ioni medie hanno segnato un continuo aumento come dimostrano i dati seguenti in quintali per ettaro di super fcie coltivata a grano: Anno Quintali Anno Quintali Le medie di ql* 15,3 nel 1932, di ql* 16,0 nel 1933 e di 15,3 nel 1935, sono di un'eloquena suggestiva* Si hanno fondatissimi motivi per ritenere che Tattuale media nazionale di 14-15 quintali per ettaro possa essere supe- rata nel prossimo awenire, anche se i capricci dei clima potranno provocare qualche regresso occasionale* Oggi Tltalia  in grado di poter produrre tutto il pane che occorre per i suoi figli: nel 1933 il raccolto  stato di 8r milioni di quintali, nel 1934, annata particolarmente awersa per fat- tori climatici eccedonali, la produzione  riuscita a mante- nersi al livello di 63 milioni di quintali con una media di 12,8 ad ettaro II raccolto dei 1935, di 77 milioni di quintali, dimostra che la produ^ione si  ormai stabili^ata intorno a cifre le quali possono oscillare solo nel campo di varia^ione segnato dalle influente insopprimibili delle vicende stgional r Ann o Produzione totale in miloni di quintali La battaglia dei grano, prima che un insieme di prowedimenti economici e tecnici per Tincremento delia produzione granaria,  stata un grido di fede e un segno di volont* Quando il Duce con il suo intuito infallibile, la proclam, compi anche in questa contingenza un grande atto rivoluzio- nario, tcnico ed economico Tcnico, perch reagi contro un # opinione diffusissima, che cio lTtalia non avrebbe mai potuto produrre tutto il grano occorrente alia sua popolazione* Economico, perch reagi contro la passiva rassegnazione di una nostra immodificabile insufficienza granaria e distrusse quel mito liberista per cui si riteneva preferibile che lTtalia tendesse alia produzione di frutta ed ortaggi da scambiare col frumento, anzich si perde dietro allTllusione deli'indipendenza granaria. 11 successo si deve anzitutto a quella grande forza che si chiama volont umana, che ha armato la tcnica e che il Duce ha trasfuso nello spirito di tutti gli italiani e nelFazione alacre dei popolo rurale. LA BONIFICA INTEGRALE. II Capo, il 28 ottobre delhanno VI, inviando un messaggio alie Camicie Nere di tutta Italia, ricordava: in quest'ora di esultanza e di propositi, tre fondamentali avvemmenti: la riforma monetaria, la legge sul Gran Consiglio, la bonifica integrale. Sono tre date fondamentali nella storia dei Regime che rendono particolarmente significativo 1 anno VI. La riforma monetaria ha coronato la strenua difesa delia lira, la quale presidiata dalForo non teme manovre o sorprese. La legge dei Gran Consiglio stabilisce la stabilit e la durata dello Stato fascista. La bonifica integrale dar terra e pane ai milioni di italiani che verranno. II Capo ha voluto che Tagricoltura andasse al primo piano deireconomia italiana perch i popoli che abbandonano a terra sono condannati alia decadenza; ed  mutile, Egli ammoniva, quando la terra  stata abbandonata, dire che bisogna ritornarvi. La terra  una madre che respinge inesorabilmente i figli che 1'hanno abbandonata. Bonifica integrale significa graduale trasformazione de a terra a forme di vita agricola pi intense e civili; significa processo di adattamento delia terra, che si attua attraverso 1'immobilizzazione di grandi capitali e con 1'esecuzione 1 grandi lavori. In un primo tempo per bonifica si intese semplicemente il prosciugamento di paludi, per difendere le popolaziom dalla malaria. Lesiguit dei risultati ottenuti con la semphce eliminazione delle acque sovrabbondanti, non seguita od mtegrata dalla trasformazione delhordinamento delia produzione agricola, convinse gli organi responsabih circa linsufficienza delia sola sistemazione idraulica delle terre. S impose qum 11integrazione delle opere idrauliche con altre opere volte a dotare di viabilit, di fabbricati e di piantagioni legnose, le Zone redente, affinch la popola^ione che ivi gi risiedeva o che vi sarebbe immigrata potesse trovare adeguate condi^ioni di vita. Tale indirh&o fu anche dovuto al fatto che Tespe- rien^a insegnava come la malaria fosse non soltanto dovuta alia palude ma anche alia mancan^a di coltiva^ione.  messa cosi in chiara eviden^a limportanza enorme che ha la intensificadone delle colture, per higiene dei territori prosciugati. Troppo spesso prima dei Fascismo era accaduto che le costose opere di prosciugamento e di canala2;ione compiute dallo Stato non fossero seguite dal necessrio completamento e dalla valori^^a^ione delle terre da parte dei privati* L/iniCativa di questi rimaneva torpida e si estraniava quasi da quella statale mancando il necessrio collegamento; il quale, se deve essere provocato da una saggia legislasione, deve essere pure frutto di una cosciente volont capace di imporre, occorrendo, la trasformasione agraria. Questa conce2;ione per non pot affermarsi in maniera decisa e sicura se non dopo Favvento dei Fascismo che pose il problema delia bonifica integrale tra quelli fondamentali dello Stato, riconoscendone limportanza poltica e sociale. II continuo incremento delia popola^ione che impone il pi alto grado di intensit produttiva e le differenze di densit demogrfica che si notano fra regione e regione, richiede- vano una poltica rurale che potenziasse la produzione ed attenuasse i piu stridenti squilibri demografici. II concetto di bonifica integrale non si esaurisce quindi in un solo fatto tcnico ed economico, ma ha anche un valore demogrfico altissimo; la bonifica va congiunta con una poltica mirante a portare la vita nella terra redenta e a radicarvi huomo rendendolo partecipe alia produsione. Solo cos si compie una grande rivoluzione terriera e si attua una grande conquista sociale. II Fascismo quindi non considera la bonifica una semplice opera di prosciugamento di terre palustri, o anche unopera atta a trasformare terre mal coltivate o incolte, ma considera la bonifica una iniziativa assai pi complessa e lungi- mirante, intesa a creare nuove fonti di lavoro e di ricchezza, nuovi aggregati civili, a restituire alia vita rurale il suo fascino e la sua sanit, a porre un argine al dilegante urbanesimo. Nel quadro delia bonifica integrale rientra, perci, il problema importantssimo delia casa rurale, che il Duce per primo ha visto e sbito impostato. II Capo in occasione delia premiazione dei concorso nazio- nale dei grano, il 14 ottobre dellanno VI, affermava che la bonifica integrale dei territrio nazionale  un'iniziativa il cui compimento baster da solo a rendere gloriosa, nei secoli, la Rivoluzione delle Camicie Nere. Questa iniziativa  1indice di un orientamento dei Regime fascista che il Duce ha espresso in questa forma: il tempo delia poltica prevalentemente urbana  passato: ora  il tempo di dedicare i miliardi alie campagne, se si vogliono evitare quei fenomeni di crisi economica e di decadenza demogrfica che gi angosciano paurosamente altri popoli. Per raggiungere queste finalit il Governo fascista ha prov- veduto a riordinare, perfezionare, completare, la legislazione sulla bonifica. Sono stati distinti i terreni compresi nei comprensori di bonifica propriamente detti, nei quali bisogna procedere ad una radicale trasformazione delbordinamento delia produzione agraria, dai terreni che richiedono soltanto migliora- menti fondiari, onde perfezionare 1 'attuale ordinamento. Mentre per lesecuzione dei miglioramenti fondiari da compiersi sui terreni che non sono compresi nei comprensori di bonifica, lo Stato concede contributi per stimolare 1 'iniziativa; nei comprensori di bonifica lo Stato esercita pienamente la sua attivit pubblica.  esso che fissa i caratteri fondamentali dei nuovo ordinamento produttivo da instaurare nei terreni bonificati:  esso che sostiene interamente o in gran parte la spesa per Tesecuzione di quelle opere di carattere pubblico, che sono indispensabili per creare le condizioni ambientali adatte ad accogliere le nuove forme di agricoltura che si vogliono introdurre. In questi terreni di bonifica i proprietari sono tenuti, per espressa norma di legge, ad eseguire tutte quelle opere di carattere privato atte a far si che la bonifica compiuta si svolga nel senso che lo Stato ha stabilito. I privati possono giovarsi dellaiuto finanziario statale, sia richiedendo contributi per 1'esecuzione delle opere o concorsi governativi per il pagamento degli interessi sui mutui contratti per compierle. La legge fondamentale delia bonifica  LA LEGGE MUSSOLINI. L'applicazione di essa ha esteso i territori di bonifica ad oltre 4 milioni di ettari, cosi distribuiti per compartimento: SUPERFCIE DEI COMPRENSORI DI BONIFICA Piemonte Lazio Liguria Abruszo e Molise Lombardia Campania Tre Venezie Puglia Emilia Lucania Toscana Calabria Marche Sicilia Umbria Sardegna Regno ha. 4.736.983 Anche V irrigazione  entrata nel domnio delia bonifica. Essa costituisce un formidabile tntzzo per aumentare la capa- cit produttiva dei terreni che, specie nel nostro Paese, soffrono per Peccessiva siccit. Le pi grandi reali^azioni dei Regime nel campo delia bonifica sono segnate dalla redensione delPAgro Pontino* Dove una volta regnava lo spettro delia perniciosa oggi sorridono al sole laziale tre gemme: Littoria, Sabaudia e Pontinia. Altre seguiranno ad attestare la mareia trionfale delPEra fascista in cui si rinnovano gli Istituti, si redime la terra, si fondano le citt. A fianco delle prowiden^e per la battaglia dei grano e per la bonifica integrale, numerosissime sono le altre prese per tutte le svariate branche agricole in tredici anni di Regime. Particolari provvedimenti negli anni di awersa congiun- tura e per stimolare Popera miglioratrice, furono presi in matria di credito agrario e per sowensioni agli agricoltori dissestati* INDUSTRIA E ARTIGIANATO. L'INDUSTRIA. LTALIA  stata un paese quasi esclusivamente rurale. Anche nella Valle Padana, nella prima met dei secolo scorso, le industrie raramente presero largo sviluppo e mai riuscirono a superare per importanza lagricoltura che assunse invece, specie nella zona irrigua, un carattere spiccatamente industriale. Soltanto alia fine dei secolo scorso, specie nellAlta Lombardia, le industrie acquistarono notevole importanza; tale sviluppo si intensifico nel primo decennio di questo secolo. Lindustria tessile si afferm per prima battendo progressivamente Tartigianato e i numerosi telai domestici. Tra il 1880 e il 1890, sorsero i primi grandi stabilimenti di filatura; quindi le prime installazioni di alti forni a cok e di forni Martin per V industria siderrgica, cui seguirono le industrie meccaniche. Nellultimo decennio dei secolo scorso si svilupparono anche numerose medie industrie che costituiscono la parte pi solida delia industria italiana: fabbriche di vetri, di ceramiche, con- cerie, fabbriche per la carta e per produzioni alimentari* Nello stesso tempo hanno vita le prime industrie delia gomma, si diffondono nuove fabbriche per la tessitura dei lino, delia seta e delia canapa. Allalba dei secolo XX comincia lo sviluppo delh industria idroelettrica, che doveva raggiungere un alto grado di potenza nel periodo fascista, e cominciano ad affermarsi cospicue industrie chimiche. II decennio che precede la conflagrazione europea vede sorgere i primi grandi zuccherifici e vede molti- plicarsi le fabbriche di cemento per adeguarsi al crescente bisogno delhedilizia. Nello stesso periodo la industria che si era localiz^ata nelle provinde settentrionali, comincia ad estendersi anche nelh Italia centrale e meridionale* Nel trentennio anteriore alia guerra, perci, lItalia SI TRASFORMA DA PAESE QUASI ESCLUSIVAMENTE AGRICOLO in paese nel quale, pur restando lagricoltura la base economica, esiste gi un complesso di attivit industriali che soddisfano in gran parte ai bisogni interni e si accingono alhesportazione. Durante il periodo bellico Tattivit industriale si  molti- plicata, per sostenere lo sforzo immane a cui era soggetto il Paese; per Y industria crebbe in maniera disordinata, accen- tuando i vizi di disarmonia che gi esistevano. L' immediato dopoguerra che va dal 1919 al 1922, caratterizzato da un periodo di crescente disintegradone delia com- pagine economica dei Paese, non poteva certamente migliorare la situazione. Anche P industria italiana  come ogni altra attivit  ha largamente beneficiato dei nuovo clima poltico, nonch dei nuovi ordinamenti creati dal FASCISMO In questa nuova atmosfera psicolgica, poltica ed economica, Tindustria italiana si lanci con fede ed audacia verso nuove conquiste. Lautorit dello Stato non solo da le garantie indispensabili, ma prowedeva a creare quel complesso di condi^ioni favorevoli per la ripresa economica, che da tempo mancavano e che sono necessarie per aiutare, coordinare e completare Fattivit privata* Neir industria, importan^a capitale ha avuto il nuovo ordine sindacale corporativo, con la creazione di organi adatti a risol- Vere in sede di collabora^ione i contrasti inevitabili tra capi tale e lavoro* Numerosi sono i prowedimenti presi dal Governo fascista per difendere ed aiutare lo sviluppo industriale I prowedimenti investono tanti settori delPattivit industriale italiana. Citiamo ad esempio le prowiden^e per Y industria ^olfifera duramente colpita dalla concorrenza americana; quelle per lindustria marmifera, che ha pure larghi riflessi sociali. Con particolare riguardo airagricoltura e alie necessit belliche, di speciali prowidenze hanno goduto le industrie dei prodotti atotati, fondate sulle superbe inventioni dei nostri tecnici, che hanno consentito di produrre in Paese, utilizzando Patoto dellaria, i nitrati necessari airagricoltura e alie industrie di guerra, liberandoci dalla servit straniera. IP industria delia seta naturale un giorno fiorentissima, nonostante la crescente concorrenza delia fibra artificiale,  stata ripetutamente sorretta, direttamente e indirettamente attraverso i premi alia bachicoltura. Di speciali previdente del GOVERNO FASCISTA ha anche goduto la giovane industria cinematogrfica. II tracollo dei prezei che continuo con un crescendo pauroso e che mise moltissime industrie in condizioni di estrema diffi- colt, consigli il Governo ad applicare una disciplina siste mtica nella produzione, capace di ridurre la disordinata concorrenza che recava anche pregiudizio al complesso delia economia nazionale* Con disposizioni legislative dei dicembre 1931 il Ministro delle Corporazioni  autorizcato a costituire consorzi obbligatori fra gli esercenti V industria siderrgica* Successivamente con legge dei giugno 1932, furono stabilite le norme generali per la costituzione ed il funcionamento dei consorzi tra esercenti uno stesso ramo di attivit, e con la legge dei gennaio 1933 si diede al Governo il potere eccezionale di sottoporre ad autoriz^azione i nuovi impianti industriali e gli ampliamenti di impianti preesistenti* In tal modo la nuova realt corporativa cominciava ad esplicare in pieno la sua delicata funcione anche nel campo deir industria* Cosicch non soltanto fu evitato il pericolo di lasciare costituire nelP interno dei Paese formidabili monopoli di carattere supercapitalistico, ma venne indiriz^ata la produ- tione industriale verso queirarmonica costituzione a carattere nazicnale che sollanto lo Stato pu veramente effettuare. II concetto privato di azierda industriale, viene permeato da un concetto nuovo, il corporativo, nel quale Pelemento pubblidsta, se non acquista prevalenza assoluta, costituisce certamente la finalit. Larga applicazione ha avuto la ancidetta legge dei 1933: il Ministero delle Corporacioni esamina periodicamente le domande presentate e prowede o meno alia loro approvazione compiendo un lavoro salutare per lequilibrio delP industria nadonale. Nel campo delia navigadone Topera dei Governo, in armonia alio spirito legislativo or ora ricordato,  stata intesa a promuo- vere e ad agevolare concentracioni e fusioni, evitando cosi laggravarsi di alcune situadoni di disagio che si erano venute determinando con la crisi dei noli. Le societ Citra e Florio sono State fuse nella Tirrenia; La S* Marco, P Annima Industrie Marittime, la Puglia, la Costiera, la Zaratina e Nautica, si sono fuse nellAdriatica. Questa, con il suo blocco di 48.000 tonnellate, esercita il traffico nelhAdriatico e nelPEgeo, mentre la Tirrenia, con le sue 128.000 tonnellate, effettua i suoi servici nel Tirreno e per le Colonie. La Marittima e la Sitmar si sono fuse nel Lloyd Triestino costituendo un blocco di 210.000 tonnellate destinato ai servici dei Mediterrneo Orientale, dei Mar Nero, delP ndia e dello Estremo Oriente. II Lloyd Sabaudo e la Navigadone Generale Italiana si sono fuse nelPItalia, che  la pi potente adenda marittima italiana, formata da un blocco di 360.000 tonnellate adibita ai servici delle Americhe, delP frica e delPAustralia. Gi discorrendo delia politica financiaria avemmo occasione di ricordare lstituto per la Ricostruzione Industriale creato dal Governo fascista, dopo avere dato vita allistituto Mobiliare Italiano. Entrambi questi Istituti hanno avuto una influenza notevolissima suir industria italiana L* I* M* I* ha lo scopo di accordare prestiti ad imprese private italiane e di assumere eventualmente partecipazioni azio- nali* Gli impegni non possono in ogni caso estendersi ad un perodo superiore ai 10 anni* L* L R* L comprende una sezione che si occupa delle sov- venzioni e dei crediti alP industria, e una seconda che ha il compito di liquidare alcune imprese in passato gestite dalPIsti- tuto di liquidazione. Il governo fascista con la sua poltica industriale ha dato ancora una volta la dimostrazione dei suo equilbrio, delia sua saggezza e di una grande tempestivit ed energia Esso non solo non  caduto nel consueto errore di paralizzare Tinizia- tiva privata, ma ne ha potenziato invece e favorito lo sviluppo in armonia con quella disciplina e con quello spirito di mutua comprensione e di collaborazione che sanciscono i basilari principii delia carta del lavoro. Una visione sinttica e nello stesso tempo precisa delia struttura industriale di cui  dotato il nostro Paese si pu avere dal censimento industriale e commerciale compiuto il 15 ottobre 1927. Da esso appare chiaramente che in Italia predominano le piccole aziende con un modesto numero di addetti; su 732*109 aziende ben 692*313 hanno meno di n addetti* In queste piccole aziende trovano occupazione 1*510*304 persone, cio pi di un terzo di tutti gli addetti alie industrie censite, che ammontano a 4*005*790* L/esame analtico fatto in base alie classi di industrie, dimostra che il numero maggiore di addetti  impiegato nelle industrie tessili le quali, nel nostro Paese, si sono sviluppate in maniera imponente e sono raggruppate in un numero relativamente piccolo di stabilimenti. In ordine d' importansa, secondo il numero delle persone impiegate, segue lindustria dei trasporti e delle comunica- sioni, cui attendono poco pi di mezzo milione di persone. Le industrie meccaniche e quelle dei vestirio raggruppano un numero di addetti pressoch uguale: rispettivamente 478.896 e 491.793. Esse differiscono per il numero degli esercizi che risulta di 80.705 per le industrie meccaniche e di 108.470 per quelle dei vestirio. Le industrie alimentari ed affini assorbono il lavoro di circa 340,000 addetti; un numero di poco minore ne occupa Tindu- stria delle costru^ioni; 286.115 persone, distribuite in 103.015 adende, si dedicano alh industria dei legno.  opportuno rilevare che le a^iende con un numero di addetti superiore al migliaio sono frequenti specialmente nel gruppo delle industrie tessili e meccaniche, seguono quelle siderurgiche e metallurgiche e, infine, quelle dei trasporti e delle comunica^ioni, In complesso Sino a 10 addetti Esercizi Addetti Esercizi Addetti. Industrie connesse collagricoltura Pesca Miniere e cave Industria dei legno ed affinL Industrie alimentari ed afini Industria delle pelli, cuoi, ecc. .Industria delia carta Industrie polgrafiche Industrie siderurgiche e metallurgiche Industrie meccaniche Lavorazione dei minerali, esclusi i metalli Industria delle costrusioni. Industrie tessili Industria dei vestirio, ecc Servizi igienici, sanitari,ecc Industrie chimiche Distribusione di forza mo- trice, luce, ecc Trasporti e comunicazioni Combinadoni di industrie di diverse classi Totale L'industria mineraria, esplicantesi specialmente nel settore dei ferro, dei piombo e dello zinco, delia pirite e dei combusti- bili fossili, ha segnato un forte incremento nel periodo che corre dal 1925 airinisio delia crisi economica mondiale Mentre nel 1921 e anche nel biennio 1923-24 la produ- sione di minerali di ferro oscill intorno a 300*000 tonnellate, negli anni seguenti ebbe forti incrementi tanto che nel 1930 supero nettamente le 700*000* Anche i minerali di piombo e zinco, che nel 1922 erano prodotti in una quantit di poco superiore a 120*000 tonnellate, nel sessennio 1925-30 raggiunsero una produzione media di oltre 250.000 I combustibili fossili, nel rigoglioso periodo dellECONOMIA FASCISTA, superano la produzione di un milione di tonnellate e nel 1929 raggiunsero la cospicua cifra di 1*400*000* La produzione di piriti di ferro, che nel periodo pre-bellico raggiunse faticosamente le 300*000 tonnellate annue, nel sessennio 1925-30 raggiunse una produzione media di oltre 600*000 e nel 1930 supero le 700*000 I prodotti delhindustria metallurgica hanno segnato graduali aumenti nel periodo fascista. I dati sottoriportati, riferentisi alia ghisa di alto forno, al ferro e alhacciaio, lo dimostrano chiaramente; Anni Ghisa cTalto forno Ferro e acciaio 1 Anni Ghisa d'a!to forno Ferro e acciaio in migliaia di tonnellate jn migliaia di tonnellate 489 1721  rilevante il fatto che nel biennio 1938-29 si sia superata la produzione di oltre due milioni di tonnellate di ferro e di acciaio e che la ghisa d'alto forno neiranno 1929 abbia raggiunto la produzione di 670*000 tonnellate* La produzione di piombo  salita, da circa 12*000 tonnellate prodotte nel 1921, a una produzione media di 20*000 e nel 1932 ha raggiunto la cospicua cifra di 31*470 tonnellate. Anche la produzione di mercrio, che nel 1921 superava appena le 1000 tonnellate, nel triennio 1927-29  quasi raddoppiata* Forte incremento ha pure avuto la produzione di zolfo grezzo, la quale mentre nel triennio precedente Tawento dei Fascismo si era mantenuta assai inferiore alie 300*000 tonnel late, nel triennio 1931-33, nonostante le difficolt create dalla crisi, supero la media produzione di 350*000 tonnellate, come dimostrano i dati seguenti: Anni Z 0 1 f 0 in migliaia di tonnellate Speciale importanza hanno i prodotti chimici, i quali, specie nel campo dei concimi, hanno ricevuto, per Timpulso dato dal Fascismo airagricoltura, un insperato incremento. Tra questi va ricordato il perfosfato che, mentre nel perodo prebellico era prodotto in una misura poco superiore alie 900*000 tonnellate, nel 1925 ha superato il milione e mezzo, di tonnellate. Importantissima  stata pure la produzione di concimi azotati, segnatamente delia calciocianamide e dei nitrato di soda, ottenuti con processo sinttico valendosi delbazoto del1'aria. In virt di ci 1 'agricoltura italiana si pu dire oggi completamente emancipata dalhimportazione straniera di azotati. La produzione di solfato di rame ha pure segnato un note- vole aumento. Nel triennio 1926-28 essa ha superato sensibilmente le 100.000 tonnellate, mentre nel periodo prebellico raggiunse faticosamente le 50.000. II Governo fascista non manc di stimolare e aiutare 1 attivit di quelle industrie che potevano dare matria prima per attivare il commercio di esportazione. A tale scopo, come gi abbiamo ricordato, esso aiut in varie maniere 1industria serica, la quale riusci a raggiungere e a superare, durante i primi otto anni dei Governo fascista, la produzione media di oltre 5000 tonnellate di seta greggia. Mentre nel biennio 1921-1922 essa risult di sole 3700, nellanno 1924 e nel 1928 la seta greggia venne prodotta nella misura di quasi 5600, cifra appena raggiunta nel 1909 e superata nel 1906-1907, quando 1industria delia seta attingeva i vertici dei suo splendore. In molti altri campi 1 'attivit industriale italiana si  espli- cata con raro vigore; cosi  avvenuto nel campo elettrico e dei gas; ma essa ha raggiunto speciale importanza specialmente nel campo dello zucchero e anche nella produzione delhalcool. Anni Zucchero J lcool in migliaia di quintali 2 milioni di quintali di zucchero prodotti nel 1921 sono stati superati negli anni seguenti; la produzione di questa importantssima derrata ha segnato, attraverso inevitabili oscillazioni, una netta tendenza allaumento. La produzione dei gas-luce  andata crescendo con ritmo costante: dai 291 milioni di metri cubi prodotti nel 1922 si sono quasi toccati i 2000 milioni nel 1932. Particolare attenzione merita 1'impulso dato dal GOVERNO FASCISTA alla produzione dellenergia elettrica, di cui gi si tenne discorso. Perfezionando ed ampliando i vecchi impianti, costruendone di nuovi e creando bacini artificiali di grande capacit, il consumo  passato da meno di 5.000 milioni di kwh. dei 1922, a 8.450 milioni di kwh. nel 1932 e a circa 10 miliardi di kilowatt-ora nel 1933. Ovunque si cerca di sostituire il carbone di importazione con energia elettrica prodotta in Paese: un esempio luminoso  offerto dal GOVERNO FASCISTA con Tintensa elettrificazione delle ferrovie. Fra le industrie tessili ha specialmente importanza quella dei rayon, che si  sviluppata in modo veramente rigoglioso specialmente negli anni delhera fascista, come attestano i dati che seguono: Anni Rayon in milioni di kg. I cantieri navali hanno pure svolto un attivit che  caratterizzata da un continuo aumento sino al 1926, anno in cui sono State varate navi per 250.000 tonnellate di stazza lorda. In seguito, a motivo delia crisi, si  avuta nella produzione navale una sensibile riduzione che va anche vista come effetto delia forte contrazione dei commercio interna- zionale. Nonostante gli awenimenti di carattere eccezionale ai quali abbiamo assistito in questi ultimi anni e che hanno sconvolta 1economia dei mondo, 1' industria italiana non soltanto ha resistito validamente sulle posizioni conquistate, ma  riuscita, specie in alcuni settori, a conseguire notevoli progressi. L'indice delia produzione industriale italiana, posto uguale a xoo 1anno 1922, preso come anno di base, in tutti gli anni successivi non ha mai segnato le depressioni registrate per altri Paesi, bensi un incremento sensibilssimo anche negli anni di crisi. INDICI DELLA PRODUZIONE INDUSTRIALE. L'ARTIGIANATO L/incateante fenomeno deirurbanesimo e la decrescente natalit si sono manifestati in maniera pi acuta laddove pi intensa  Torgani^azione di tipo industriale, cio laddove le donne sono impiegate nelle fabbriche e nelle manifatture, dove il mondo capitalistico domina con le sue tragiche contrad- di^ioni, che soltanto la conce^ione fascista ha saputo affron- tare con un piano concreto ed umano. Lartigianato, invece, ha un carattere squisitamente rurale. L/elogio deiritalia agrcola  implicitamente Telogio delle folie artigiane. Per tutto ci il Fascismo, se riconosce nelhativit industriale un mezzo formidabile di conquista e di poten^a, se riconosce nella fabbrica e nelPofficina unhndispensabile elemento di vita per una nazione civile, spiritualmente esalta la funcione del- Tartigianato, il quale ha risolto, nello stretto mbito delia sua bottega, i conflitti dei capitalismo* Lartigiano, come il piccolo proprietrio coltivatore diretto, lavora con gioia; il suo lavoro non  mosso soltanto da egoistiche esigenze economiche, ma anche dal desiderio di compiere un'opera delia quale nel suo intimo sente tutta la bellezsa* Come il piccolo proprietrio agogna al possesso terriero e una volta raggiuntolo cerca ognora di consolidarlo, prodigandosi in opere di miglioramento, investendo nella terra tutti i suoi risparmi, cosi lartigiano, dopo che si  proweduto dei mezzi indispensabili per il suo lavoro, impiega tutte le for ze produttive delia sua famiglia per potenziare sempre pi la sua piccola asienda e faria assurgere magari a piccola industria. II carattere particolare delPartigianato, che si ripercuote nelle caratteristiche psicologiche di coloro che lo esercitano, ha fatto si che esso fosse guardato dal FASCISMO con particolare simpatia e comprensione. II nostro paese poi, che vanta gloriose tradizioni nel campo dell'artigianato e possiede un ncleo formidabile di piccole e medie botteghe artigiane, sente in maniera particolare l bisogno di poteriare e sviluppare questa forma di attivit economica, solidssima fonte di sta- bilit sociale. Per queste ragioni il problema artigiano non  e non puo essere un problema esclusivamente economico. Gli obbiettivi dei Regime in matria di poltica artigiana sono volti a migliorare tecnicamente e artisticamente i prodotti di questa benemerita categoria, per poter superare la concorrera straniera e conquistare i mercati. Dal punto di vista economico il Governo fascista, attraverso le cooperative di mestiere e bancarie, ha anticipato denaro e assistito nei pi diversi modi questi piccoli imprenditori Ha cercato inoltre di applicare una rigorosa selecione dei prodotti, indviduando i centri di produzione caratteristici, coltivando attraverso le mostre la conoscera di queste attivit e il tradizionale buon gusto dei nostro popolo, per stimolare i singoli e compiere una efficace opera di selesione. Le categorie professionali rappresentate dalla Federazione fascista autonoma deglartigiani dItalia, la quale s e prodigata per valorirare sempre pi questa folia di piccoli produttori sapienti e tenaci, sono numerosissime L'arte dei legno comprende sensa limitazione di numero intagliatori, laccatori, scultori in legno, lucidatori, doratori e stipettai. Qualora le imprese non impieghino pi di cinque dipendenti anche gli ebanisti e corniciai, mobilieri e tornitori sono raccolti nella Federazione artigiana, la quale comprende anche carpentieri e falegnami, imballatori e sediai, quando essi siano impiegati in attivit che non occupano pi di tre dipendenti. La ricordata Federasione rappresenta anche i fornitori di oggetti d'arte, i battiferro, i ramai e calderai, gli sbalzatori di metalli, glarrotini e i modellatorh. Le attivit artigiane, varie e multiformi, diverse per le materie lavorate e per i prodotti ottenuti, dominano completamente larte dei tessuto e dei ricamo, larte delTorafo, dellargentiere e dellorologiaio* Speciale importanza hanno anche nel campo delia ceramica artistica, la quale ha raggiunto, specialmente in alcune zo ne dei nostro Paese, un incontestabile splendore e vanta antichissime tradizionh. Ricordiamo le industrie cera- miche umbre, faentine e quelle pesaresi, per citare soltanto le principaln L'arte dei cuoio e delia cak^tura raccoglie un grande numero di doratori e di sellai, di pirografi e bulinatori, di sbalzatori e stampatori, calzolai ed astucciai, che nel complesso raggiungono un numero considerevole di addetti, i quali portano il tributo precioso di un lavoro paciente alia produzione nazionale Anche i valigiai e i cinghiai, guantai e pellettieri, pur trovando di solito il loro impiego in aziende cospicue, vengono per ad accrescere il numero di questa benemerita categoria di modesti e solidi produttori L'arte delia tessitura e dei ricamo, alia quale si dedicano con grande perimia le mogli e le figlie dei nostri salariati, sia nel campo dei merletto e delia trina, sia in quello delia filatura e tessitura a mano di stoffe e tappeti, raggiunge mTimportanza che, specialmente in alcuni centri dellItalia settentrionale e delle isole, non pu essere trascurata. Tra gli artigiani vanno contati anche gli acquafortisti, xilografi e xenografi, nonch i litografi e i rilegatori di librh Nei modesti centri il carattere artigiano si pu riscontrare anche nelle piccole tipografie come nei fabbricanti di timbri in legno e metallo e di oggetti e modelli di carta e cartone. Affine a questa attivit  quella delia fotografia che nel grandssimo numero dei casi e per la quasi totalit delia produzione  in mano di valenti artigiani. La lavorazione dei marmo e delia pietra  specialmente opera di artigiani. Mosaicisti, alabastrai e sbozzatori di pietre, luci- datori di marmi e sagomatori, costituiscono un gruppo notevole di lavoratori che, insieme agli addetti allarte dei restauro, formano un gruppo importante delia Federazione artigiana. A questa categoria appartengono anche i parrucchieri, gli addetti allarte deilarredamento e dei giardino, quelli impiegati nelFarte dei giocattolo e delia pirotcnica, i vulcanizzatori e gli ombrellai. Particolare posizione acquista poi quel gruppo di artigiani che si dedicano alie attivit miste proprie delia vita rurale, i quali, diffusinei pi remoti angoli delle nostre campagne, portano con la loro genialit di costruttori e con la loro pazienza di fini esperti riparatori, un contributo che non pu essere trascurato, Ricordiamo tra questi i falegnami, gli ebanisti, i mec- canici, i fabbri, ecc. Ma sarebbe troppo lungo dare una com pleta nozione delle svariate funzioni esercitate dagli artigiani, i quali costituiscono una massa imponente, che fornisce un lavoro sapiente e prezioso ed esercita una funzione insostitui- bile nella nostra economia. LA POLTICA dei lavori pubblici GENERALIT A FIANO dei poderoso programma di bonifica sta un pi esteso programma di lavori pubblici, inteso a dar lavoro al- Tesuberante mano d'opera e creare un complesso di opere civili, di cui ritalia meridionale e insulare specialmente difettavano. Con questo intendimento furono creati i Proweditorati alie opere per il Mezsogiorno e le Isole e TA^ienda Autonoma Statale delia Strada. L'opera svolta dal GOVERNO FASCISTA in questi ultimi dodici anni  stata veramente imponente. Nel primo decennio fascista le amministrazioni sopra ricordate hanno presi impegni di spesa per circa 37 miliardi di lire, dei quali ben 17 miliardi e mezzo sono stati effettivamente pagati. II programma di lavori pubblici compiuti ha gi avuto, e avr ancor pi neirawenire, una notevolissima influen^a sul benessere dei Paese; non solo ha intensificato gli scambi, ha favorito i traffici e ha arrecato immensi vantaggi airagricol- tura e albindustria, ma ha anche elevato il tenore di vita e ha contribuito a stabilissare le correnti migratorie. Si tratta di un'enorme quantit di capitale investito nel suolo ptrio, di immense quantit di lavoro, che an^ich andare disperse sono State utilmente impiegate in opere di alto Valore civile ed economico. Per questo la poltica dei lavori pubblici  stata anche un mtzzo efficacissimo per arginare e combat- tere la dilagante disoccupasione. Nei lavori compiuti dagli ufiici tecnici dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici, dalPAzienda Autonoma Statale delia Strada e dal Sottosegre- tariato per la Bonifica, neiranno 1926 si sono impiegati 21,8 milioni di giornate-operaio, 26,7 milioni nel 1927, 27,3 milioni nel 1928 L'anno 1929 porta un sensibile aumento di lavori e di giornate operaie impiegate, le quali toccano i 33,5 milioni: queste raggiungono 41 milioni nel 1930, 39,3 milioni nel 1931, per superare i 42 milioni. Queste cifre per non danno una completa idea delia massa di lavoro posto in atto dal Governo fascista, perch se nei cantieri delle imprese appaltatrici di pubbliche costrutioni si ebbe un formidabile aumento nel numero delle maestrante impiegate, un incremento sensibile si ebbe altresinelle cave, nelle officine, nelle fornaci, nelle fabbriche che forniscono alie prime materiale da costrutione e mezzi d'opera* Anche nelle imprese di trasporti Tindice di attivit segn un fortssimo aumento. Da un punto di vista poltico va poi posto in particolare rilievo lo sforto compiuto dal Regime per dotare le citt e le campagne dei Meridionale e delle Isole di tutti quei serviti pubblici di cui mancavano e che, consentendo forme di vita migliore, sono di stimolo per lelevazione morale e materiale delle popolazioni. La messa in valore di estesi territori agricoli dei Mettogiorno, cio di un territrio con particolarissime caratteristiche demografiche, richiese la regolatione delle correnti dei lavoratori onde incitare, aiutare, assistere quel proletariato agricolo che desiderava radicarsi alia terra e formare colonie stabili. Per questo il Duce cre presso il Ministero dei Lavori Pubblici il comitato permanente per le migrationi interne, che poi volle alia sua diretta dipendenta presso la Presidenta dei Consiglio LA VIABILIT ORDINARIA. Con legge  stata affidata alFAtienda Autnoma Statale delia Strada la rete delle strade di grande comuni- catione, chiamata anche rete delle strade statali. II duce ha voluto creare un organo autonomo, agile, preparato a compiere rimmensa mole di lavoro che era richiesta per una adeguata sistemazione dei nostro patrimnio stradale. Egli, che ha sempre avuto un concetto romano delia strada, ha dedicato ad essa le pi sollecite cure e ha fornito capitali ingenti per il duraturo assetto ed il miglioramento delia rete stradale. Le 136 arterie che formano la rete, il cui sviluppo comples- sivo  di 20.622 chilometri, nelhestate dei 1928 si trovavano in condizioni non certo felici: soltanto 463 chilometri di strada erano pavimentati in maniera tale da non richiedere alcun ulteriore lavoro per la loro sistemazione* Rimaneva cio la quasi totalit da rivedere e da sistemare. Alia fine di ottobre delhanno X erano stati sistemati 8562 chilometri, dei quali 7910 con trattamenti superficiali e 652 con pavimentazioni permanenti e semi permanenti. Erano inoltre in corso altre pavimentazioni su oltre 1000 chilometri. II resto delia rete  stato per oggetto di opere straordinarie e di manutenzioni talmente accurate che attualmente tutte le strade si trovano in ottime condizioni. IL GOVERNO FASCISTA nel campo delia viabilit ordinaria non si  limitato a mantenere o pavimentare le strade esistenti* Intensa  stata pure Tattivit svolta per completare la rete di grande comunicazione e per arricchire quella delle strade pro- vinciali e specialmente delle strade comunali, che, in alcuni compartimenti dei nostro Paese, era inadeguata ai bisogni dei traffico e specialmente ai crescenti bisogni dellagricoltura* Particolare menzione va fatta delle autostrade, di cui nel decennio che va dal 1922 al 1932 furono costruite 436 chilometri, segnando in questo modernissimo campo delle comunicazioni un primato, che ancor oggi ci  invidiato dai maggiori Stati d'Europa. La rete delle strade di grande comunicazione  stata aumen- tata di ben 525 chilometri di nuova costruzione: ricordiamo il completamento delia grande artria litoranea tirrenica; la costruzione dei tronchi delia litoranea ionica situati nelle provinde di Taranto e Matera; il completamento delia litoranea adriatica con i tre tronchi situati tra S. Salvo in provncia di Chieti e Serracapriola in provncia di Foggia; i nuovi tronchi costruiti nelle provincie di Salerno, Potenza e Cosenza, per tacere di altri importanti tronchi costruiti specialmente nel Meridionale. Se le nuove strade statali si sono rivelate di notevole portata, di grandssima utilit si sono dimostrate le strade costruite dalle Provincie e specialmente quelle volute dai Comuni. Bisogna ricordare che nel decennio fascista sono stati costruiti 1143 chilometri di strade provinciali e 3844 chilometri di strade comunali. Nelle Calabrie, nella Lucania, negli Abruzzi e in Sicilia, si  dato grande impulso alia viabilit rurale e a quella che ha servito ad allacciare i comuni isolati alia strade di grande comunicazione. Anche neiristria sono State compiute opere cospicue: circa 20 milioni sono stati dedicati alie costruzioni stradali. Non va poi dimenticata la costruzione di strade turistiche che servono anche per la comunicazione fra importanti compartimenti (citiamo ad esempio la Gardesana occidentale e orientale) e quella di importantissime autostrade quali la Roma-Ostia, la Napoli-Pompei, la Firenze-Viareggio, la Padova-Venezia e quelle irradiantesi da Milano per Torino, i laghi e Brescia. Non si pu terminare questa breve e incompleta rassegna delle opere stradali compiute dal Fascismo, senza ricordare il ponte che congiunge Venezia con la terraferma, largo 20 metri, lungo 4 chilometri, costruito in meno di due anni con la spesa di 80 milioni. LE FERROVIE La rete ferroviria ereditata dai passati regimi, se per molti aspetti si presentava in felici condizioni, richiedeva per una opera attiva di integrazione e di completamento onde rendere ancor pi effi- cace il servizio che essa poteva prestare aireconomia dei Paese* Negli ultimi 12 anni la rete ferroviria italiana  stata miglio- rata e potenziata: rettiiche e raddoppi di binrio; ricambi e rinforzi di armamento; ampliamento e ricostruzione delle stazioni, dei magazzini e dei servizi; rinnovamento dei materiale rotabile. L'esercizio delle ferrovie  stato poi riordinato in maniera rapida ed energica;  stato ristabilito un alto senso di disciplina nel perso- nale ferrovirio, dei quale ne  stato aumentato anche il rendimento. Particolare importanza ha assunto poi la elettrificazione, estesa ad importantissimi tronchi ferroviari e che si estender ulteriormente per liberare sempre pi la Nazione dal grave onere delia importazione dei carbon fossile. Nel campo delle nuove costruzioni ferroviarie bisogna ricordare la direttissima Roma-Napoli, a doppio binrio, che ha rawicinato notevolmente questa citt alia capitale; la Cuneo-Ventimiglia, la Sacile-Pinzano, e specialmente la direttissima Bologna-Firenze, a doppio binrio, con una galle- ria scavata, per oltre 18 chilometri, nelle infide argille appenni- niche, superando difficolt tecniche giudicate insormontabili e nella cui costruzione perdettero la vita decine doperai. Nel complesso sono State aperte airesercizio nuove linee ferro viarie dello Stato e deirindustriaprivata per circa 3000 chilometri. Si pu affermare che con Topera di completamento dei tronchi compiuta dal Regime, e con la elettrificazione delle principali linee  di cui recentissima  la Bologna-Roma-Napoli  la rete ferroviria di cui oggi dispone Tltalia  perfettamente adeguata ai bisogni delia sua economia. LE OPERE MARITTIME. II mare era negletto. II Regime vi ha risospinto gli italiani. La marina mercantile decadeva: il Regime 1 -ha risollevata. Durante questi anni sono scesi nel mare colossi potenti. I porti si erano impoveriti: il Regime li ha attre^ati e vi ha creato le zone franche. II lavoro vi era discontinuo per via degli scioperi: oggi la disciplina delle maestran^e  perfeita. Al mare, fonte di salute e di vita, il Regime manda ogni anno centinaia di migliaia di figli dei popolo. La passione degli Italiani per il mare rifiorisce. Vi riconosce un elemento delia potenza nazionale. Cosi il Duce parlava alhassemblea quinquennale dei Regime. Le opere compiute documentano con quale tenacia il Governo abbia realiz^ato le basi per unintensa politica marinara. Le condizioni degli scali marittimi italiani sono insufficienti. Il Regime ha voluto prowedere rapidamente ad ampliare e sistemare quelli pi importanti, onde favorire e richiamare il traffico internasionale, sen^a altresi trascurare i porti minori. Sono stati costruiti XXVIII chilometri di opere di difesa, ripartite in 82 porti; la superfcie dei bacini  stata aumentata di 680 ettari. La calate si sono accresciute di 36 chilometri e la superfcie dei terrapieni di 295 ettari. Dalle corrosioni dei mare sono stati difesi circa 17 chilometri di coste. II Consorcio per il porto di Gnova ha completato il bacino Vittorio Emanuele III, ha ultimato il i lotto dei bacino Mus- solini, ha costruito un nuovo bacino di carenaggio largo m. 32, lungo m. 260. II porto di Napoli  stato arricchito di un nuovo bacino; mentre  stato sistemato il porto vecchio A Livorno  stato costruito un nuovo porto interno; a Cagliari un mo lo lungo m* 1655; a Catania le nuove opere eseguite hanno aumentate le calate di m* 550; a Bari, in seguito alia importan^a che hanno assunto i traffici con TOriente europeo, fu proweduto ad un grandssimo lavoro di ampliamento. Grandiosi lavori sono stati dedicati al porto di Marghera e alio scalo delia stazione marit- tima di Venezia Sono State rinnovate molte opere d'arte nel porto di Trieste II lavoro compiuto  immenso Oggi il nostro Paese gode di scali marittimi perfettamente adeguati alie necessit dei traffici ed  anche pronto ad accogliere ogni futuro incremento nel commercio interna^ionale. LE ACQUE PUBBLICHE La regolari^a^ione dei corsi dacqua  Topera pubblica per eccellensa che, in Italia, acquista unhmportan^a di primissimo ordine, data la sua particolare configurasione oro-idrografica* Durante il decennio, per i lavori di sistema^ione delia Valle dei Po sono stati impiegati oltre 400 milioni di lire, che hanno permesso di migliorare notevolmente la difesa idraulica di i milione e 250 mila ettari di uno dei territori pi densamente popolati e ricchi dei nostro Paese II Magistrato alie acque di Venezia si  pure prodigato in un complesso di attivit tra le quali prendono particolare evidem;a i lavori di sistemazione dei bacino delbAdige* Negli altri bacini dei Regno sono stati costruiti circa 4000 chilometri di argini completati da 775 chilometri di pennelli e difese frontali. Nel settore delia navigazione interna, per quanto il nostro Paese non presenti condizioni favorevoli per la costituzione di una vera e prpria rete di vie navigabili, il Governo ha voluto rendere pi efficace quella esistente nella valle padana e nei grandi laghi. La via d'acqua Milano-Venezia, le ferraresi, la litoranea veneta sono State oggetto dimportanti lavori. Anche il canale da Pisa a Livomo e il tronco inferiore dei Tevere sono stati notevolmente migliorati. Nel campo delia utilizzazione delle acque pubbliche, il governo ha promosso energicamente la costruzione di grandi bacini idroelettrici, da servire eventualmente anche all' irrigazione. In tal modo 1 'Italia ha cercato di rimediare alia naturale povert di carbon fossile, sovvenendo ai bisogni dei trasporti e delle industrie. Nel primo decennio fascista la potenza degli impianti idroelettrici  stata portata da 1,5 milioni di kw. ad oltre 4 milioni; la produzione di energia  salita da 4 a 10 miliardi di kw-ora. L'Italia settentrionale concorre alia produzione idroelettrica con oltre 3 milioni di kw. di potenza installata negli impianti; esigua  la produzione dellItalia centrale e Meridionale; quasi trascurabile quella delle isole. L'ultimo decennio ha visto moltiplicarsi nel nostro sistema alpino e appenninico i serbatoi idraulici che oggi raggiungono il numero di 168, con una capacit di invaso complessiva di quasi 1300 milioni di metri cubi. Alcuni di questi servono anche per 1 'irrigazione. Tra il centinaio di serbatoi costruiti durante gli ultimi dodici anmi ricordiamo quello deljMoncenisio, dei Lago di Avio- grande (Varese), di Ceresole Reale (Aosta), di Montesluga (Sondrio), di Suviano (Bologna), di Trepido (Cosenza), di Santa Chiara d'Ula (Cagliari), dellAlto Belice (Palermo). ACQUEDOTTI Da XV secoli Ravenna attende lacqua Si sono ricordati in questi giorni i nomi venerati, ma lontani, degli imperatori romanL Passavano i secoli, si susseguivano le gene- razioni, cambiavano i governi, le signorie, le dominazioni, la realt era sempre lontana dal sogno Solo il FASCISMO puo fare questo, poich il FASCISMO , sopratutto al presente, il verbo volere Cosi il duce si pronuncia inaugurando lacquedotto di Ravenna, consacrato alla memoria dei caduti, Anche in questo campo di civilt, di difesa della razza e del popolo, di assistensa aglumili, il Regime si  prodigato, aiutando glenti locali con mutui di favore e concorrendo allesecuzione delle opere stesse con contributi diretti. Oltre allacquedotto di Ravenna, or ora ricordato, van menzionati: il grande acquedotto dei Monferrato che d acqua a 81 comuni; lacquedotto Schievenin che serve XX comuni dellalto agro trevigiano; lacquedotto Istriano che approvigiona tutta la provncia; lacquedotto Franciosetti per la citt di Torino; quello per la Vai d'Orcia e la Vai di Chiana, di cui beneficiano 11 comuni; quello di Grosseto; glacquedotti della Lucania, ecc. Sviluppo notevolissimo ha avuto 1'acquedotto pugliese II FASCISMO afffonta decisamente il proseguimento di quel colossale acquedotto con la costruzione dei grande sifone leccese, delle diramazioni dei foggiano e di altri 1000 chilometri di condotte esterne e interne agli abitati:  cosi fornita lacqua ad una popolazione complessiva di circa un milione di abitanti. La met delia spesa totale sostenuta dallo STATO ITALIANO per compiere questa opera, che documenta il grado di civilt di un popolo,  stata erogata dal GOVERNO FASCISTA. Al complesso di opere ricordate, miranti a dare acqua pura alie popolazioni delle citt italiane e dei comuni rurali, va aggiunta anche la costruzione di numerose fognature in oltre 300 centri urbani del paese La breve rassegna che abbiamo fatto sarebbe assai incompleta se non venissero ricordate altre numerose opere civili ed igieniche compiute dal regime: ospedali, tubercolosari, cimiteri, lavatoi, costruiti a centinaia, specialmente nell Italia Meri- dionale e nelle Isole, dove maggiormente difettavano La Sardegna, che  stata particolarmente trascurata dai governi precedenti,  stata oggetto di un f intensa attivit in questo campo di opere che riguardano il soddisfacimento dei bisogni fondamentali delia vita U EDILIZIA IL GOVERNO FASCISTA, accanto alie nuove opere pubbliche miranti a dare nuovo impulso alia vita economica del paese, ha promosso una serie di opere per risanare, ampliare, abbellire, le grandi citt seguendo i dettami delia moderna urbanistica In moltissime citt italiane sono stati sVentrati vecchi quartieri, creati nuovi rioni, migliorato il rifornimento idrico e lo smaltimento dei rifiuti I macelli sono stati moderni^ti, centinaia di mercati pubblici sono stati rinnovati o costruiti di nuovo I servizi di illuminazione sono stati migliorati. Lo sviluppo dei servizio telefnico costituisce un'altra fondamentale conquista Parchi e giardini, viali alberati e ville, sono stati aperti al popolo che lavora Anche in questo campo per motivi di giustizia distributiva L'Italia meridionale ha avuto le maggiori providenze. Ma  stato specialmente nella capitale che la sistemazione urbanstica ha assunto uno sviluppo dawero imponente. La costruzione delle vie deli' Impero e dei Trionfi, la sistemazione delle adiacenze dei Campidoglio e dei Fori Imperiali, ed il compimento delle numerose opere per dare nuovo assetto alia viabilit cittadina e per fornire al popolo stadi e giardini, sono opere veramente degne delia Roma Imperiale. A queste Va aggiunta la costruzione dei nuovi palazzi dei MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI, della giustizia, delleducazione nazionale, della marina e delle corporazioni, delia citt universitria e di numerosi altri edifici pubblici necessari per la vita delia capitale, centro propulsore di tutte le attivit delia Nazione. Anche nelle varie provincie 1'edilizia dello Stato ha singolare sviluppo. Ricordiamo i 69 nuovi edifici costruiti per i corpi armati delia Polizia e delia R. Guardia di Finanza, i 24 nuovi palazzi delle Poste e Telegrafi, i 15 edifici carcerari, i7 grandiosi gruppi di costruzioni universitarie e altri ancora. Nel complesso si tratta di costruzioni per un volume di oltre 7 milioni di mc. Un particolare posto spetta alia edilizia scolastica. Il nostro paese aveva un numero di scuole insufficiente. Inoltre parte di queste si trovavano in condizioni statiche e di manutenzione dei tutto inadeguate alle esigenze pi elementari delia popolazione scolastica.  quindi naturale che il Re gime, che ha sempre avuto a cuore 1avenire delia razza e la preparazione spirituale e fisica deglitaliani, abbia cercato con tutti i mezzi a sua disposizione di dare il pi grande impulso a questo genere di edilizia. Il ministero dei lavori pubblici, la cui competenza oggi si estende a tutti gledifici scolastici dItalia, ha costruito oltre ii*ooo aule* I Comuni si sono pure prodigati in questa opera che soddisfa ad uno dei primordiali bisogni delia vita civile, sistemando vecchi edifici e prowedendo al risanamento ed alia ricostruzione di quelli che sono igienicamente inabitabiln LItalia Meridionale anche in questo campo ha goduto di particolari benefici. Nel settore delle case popolari il Regime ha stanziato 100 milioni a favore di quei comuni e di quegli istituti autonomi che prendono Tiniziativa per la loro costruzione. II Regime ha pure proweduto a creare llstituto Nazionale per le case degli Impiegati dello Stato, a emanare particolari providenze per la costruzione di alloggi da destinare ai muti- lati e agli invalidi di guerra* Col concorso finanziario dello Stato sono stati edificati, a cura dei comuni, di istituti speciali e di cooperative, oltre seimila edifici con cinquantamila appar- tamenti, dei quali 28*000 di tipo economico e 22*000 di tipo popolare. II governo dando grande impulso alie nuove costruzioni non ha dimenticato la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra e dai terremoti Oggi si pu dire che ogni traccia delle devastazioni compiute durante la conflagrazione europea sia scomparsa. Il regime ha assolto in tal modo il debito di riconoscenza e di affetto contratto verso quei compartimenti che furono teatro dei tremendo conflitto, al quale segui la vittoria che il Fascismo solo ha saputo valorizzare La Calabria e la Sicilia, che purtroppo sono annoverate fra i paesi pi colpiti dal terremoto, si sono giovate in modo par- ticolare delle sollecite cure dei governo, il quale autorizz la spesa di oltre 500 milioni per la costruzione di case di abita- zione nei paesi distrutti dal terremoto Nella sola citt di Messina vennero edificati circa 1000 alloggi di tipo popola- rissimo e numerose case economiche popolari con circa 4600 appartamenti Nella citt di Reggio Calabria circa iooo alloggi; nella provncia oltre 5000* Gradatamente sorsero interi rioni di nuove case economiche e popolari: furono preparati rationali piani regolatori; si edifi- carono chiese, si initi Fedilitia pubblica. Dopo il trionfale viaggio che il capo del governo compi in Sicilia, lopera di ricostrutione e notevolmente intensificata. Oggi Messina e Reggio si possono considerare tra le pi moderne citt dei nostro paese. Anche i territori delia Marsica, che si distendono nei dintorni dAvettano, colpiti duramente dal terremoto, sono oggetto di sforzi tecnici e finantiari cospicui da parte del governo fascista. Infatti quando il fascismo raggiunse il potere, la situatione della Marsica era quanto mai desolante. Oggi Avetzano  completamente ricostruita e i centri colpiti hanno ormai rimarginate le loro dolorose ferrite. La fermetta dei governo fascista e la rationalit dei suoi sistemi di ricostruzione dei paesi terremotati si dimostra in occasione dei disastro dei Vulture ed anche in quello delle Marche. Nelle tristi contingente che colpirono queste belle provincie d'Italia, il governo forni unassistenza pronta, adeguata, ispirata ad alto senso di umanit. Esso, per, antich cedere aglinvocationi chiedenti il rapido apprestamento di baracche, che avrebbe portato a ripetere glerrori tecnici e finanziari in cui si cadde in tempi passati, provide con rara energia a dirigere lopera di assistenza ai disastrati, mentre squadre di operai cominciavano ad innaltare le case in muratura per i sentatetto, Anche in questo settore delia vita nazionale lopera dei Regime  stata intensissima e tra le piu proficue. Il duce ha dato anche a questo aspetto della vita italiana un nuovo volto alla patria. Lorenzo Fioramonte. Fioramonte. Keywords: leconomia di Aristotele, economia fascista, Sciacca, Evola, diritto economico, stato fascista, economia fascista, corporativismo, ugo spirito. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fioramonti: l’implicatura,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fiore: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale musicale – scuola di Celico – filosofia celicese – filosofia cosentina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Celico). Filosofo celicese. Filosofo cosentino. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Celico, Cosenza, Calabria. Grice: If you are thinking that Fiore is the source for the Cistercians, you are wrong  actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasnt one! Pretty much like St. Johns! -- da Floris, Italian philosopher, the founder the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice, St. Johns and the Cistercians). He devoted the rest of his life to meditation and the recording of his prophetic visions. In his major works Liber concordiae Novi ac Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da Floris illustrates the deep meaning of history as he perceived it in his visions. History develops in coexisting patterns of twos and threes. The two testaments represent history as divided in two phases ending in the First and Second Advent, respectively. History progresses also through stages corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that of the law; the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260; the age of the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders like the Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this final era of spirituality and interpreted Joachims prophecies as suggesting the overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his views were condemned by the Lateran Council. F. E lucemi dallato, il calavrese abate F. di spirito profetico dotato (ALIGHIERI (si veda), Paradiso. Filosofo. Morte Pietrafitta, Beatificazione Nuncupato Santuario principale Abbazia Florense Manuale F.  stato un abate, teologo e filosofo italiano.  venerato come beato da parte dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c' mai stata una beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica. Le condizioni economiche della famiglia di F. erano agiate; il padre Mauro, infatti,  tabulario o notaio. In passato si  ritenuto che la famiglia avesse origini ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di F. nei confronti dell'Ebraismo. La sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente sul perimetro della casa natale dell'abate F.. Riceve le prime nozioni di educazione scolastica a Cosenza. Ben presto  mandato a lavorare presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti sul posto di lavoro, anda a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito il padre riusce a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo, dove lavora prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo Perche. Entrato in disaccordo anche collarcivescovo, si allontana definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in Terrasanta. Glinizi Forse nel corso di questo viaggio matura un profondo distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture. Al ritorno in patria F. si ritira dapprima in una grotta nei pressi di un monastero posto sulle falde del monte Etna, poi torn con un suo compagno a Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui  riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo ha dato per disperso. Al padre confessa di aver smesso di lavorare per il re normanno per servire il Re dei Re -- cio il Signore Dio nostro. Vive presso l'abbazia di Santa Maria della Sambucina, da cui si allontana per andare a predicare dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del torrente Surdo, vicino a Rende. Poich al tempo la predicazione di un laico non  ben accetta, F. compe un viaggio fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordina sacerdote. Durante il tragitto da Rende a Catanzaro si ferma nel monastero di Santa Maria di Corazzo, dove incontra il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti, rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Torna a predicare nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vest l'abito monastico, entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina, guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense. Secondo le fonti pi accreditate, Bonasso venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo, ma rinuncia, scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel monastero del legno della croce di Acri. F. non ambiva a diventare abate, ma a studiare le Sacre Scritture. Gli uomini pi potenti di quel tempo, riunitisi con lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di quel monastero, all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate F. comincia a scrivere la prima delle sue opere, La Genealogia, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate Nicola. In qualit di abate compe un viaggio all'abbazia di Casamari. Durante questo periodo incontra il papa Lucio III, che gli concesse la licentia scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, inizia gi a Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e il nuovo testamento e l' Esposizione dell'Apocalisse. In quello stesso periodo F. interpreta innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del defunto cardinale Angers. Da qui scature l'incoraggiamento del pontefice Lucio III a scrivere le sue opere. Si reca a Verona, dove incontra il papa Urbano III. Al ritorno si ritira a Pietralata, una localit sconosciuta, abbandonando definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e pertanto fanno una petizione per risolvere la questione presso la curia. A seguito di ci, ottenne l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a scrivere. Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata, presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo  Raniero da Ponza, che in seguito  legato apostolico in Francia e Spagna sotto papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la moltitudine di gente che accorre a sentire F. Pertanto F. sale in Sila alla ricerca di un territorio che si puo abitare. Dopo varie perlustrazioni, si ferma nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, nel comune di San Giovanni in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandona Pietralata e si trasfer con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata  un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi non identificato con sufficienti certezze. Dopo VI mesi dal trasferimento, il re Guglielmo il Buono muore e gli subentra sul trono normanno Tancredi, gi conte di Lecce. Sono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a F. l'insediamento in Sila, per cui l'abate dove recarsi a Palermo per discutere con il re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi propose a F. di trasferirsi presso l'abbazia della Matina allora in stato di grave declino (proposta rifiutata in maniera decisa da F.), gli  concesso di restare in Sila, nel luogo prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze, aggiungendo CCC pecore e XXX some di grano per il sostentamento della comunit religiosa. Da qui in avanti comincia a costruire il protomonastero di Fiore Vetere. Dopo la morte di Tancredi, subentra nel regno Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, il quale concede a F. un vasto tenimento in Sila e privilegi sovrani su tutta la Calabria. La Congregazione florense Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, F. fonda i monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisce altri monasteri gi italo-greci. Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, F. si reca a Roma ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della congregazione florense e dei suoi istituti. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato e, affinch Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo. Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimit di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di territori che secondo loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati, malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di costruzione dell'insediamento non si ferma, fintanto che l'abate rimane in vita. F. muore presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero florense di San Martino di Canale. Il suoi resti sono traslati nell'abbazia di San Giovanni in Fiore quando la grande chiesa era ancora in costruzione. L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continua l'opera ampliando le fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine florense vantava oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di Inghilterra, Galles e Irlanda. I grandi benefattori dell'abate Gioacchino e dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine florense poi ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena ricordare: Signore di Oliveti: diede a F. la possibilit di vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300 pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico VI di Svevia: concesse a Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi imperiali. Gilberto, vescovo di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con la relativa abbazia e filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la Congregazione florense e i suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla: ratific a Gioacchino tutti i beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria: concessero a Gioacchino la tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse a Gioacchino la tenuta Albetum in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati). Federico II di Svevia: concesse a Gioacchino le tenute Caput Album e Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San Martino di Jove in Canale (Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima e Simone de Mamistra (Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo: concessero a Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue dipendenze, compreso i tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto Gioacchino da Fiore con l'aureola, affresco, cattedrale di Santa Severina I seguaci di F., subito dopo la sua morte, raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo tentativo probabilmente abort a seguito delle disposizioni del Concilio Lateranense IV, che dichiara eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo contenute in un libello accreditato ingiustamente a F.. Tuttavia la seconda Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiar anche: "Con ci, per, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino  stato maestro, poich ivi l'insegnamento  regolare e la disciplina salutare. Tanto pi che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perch fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ci egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volont di Dio, di tutti i fedeli" (Cost. 2). ALIGHIERI, nella Divina Commedia, inserisce F. nel paradiso, tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni dottori della Chiesa, accanto a FIDANZA (si veda), Mauro e AQUINO (si veda). Da ci si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte dell'abate calabrese. Un secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu compiuto dall'abate Pietro del monastero florense, che si rec ad Avignone per portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e ai miracoli ottenuti tramite l'abate F., sia durante la sua vita sia dopo la sua morte.  risaputo che i cistercensi venerarono come beato l'abate F., elaborandone perfino l'antifona per il 29 maggio. Si ritiene che ci sia avvenuto quando i florensi furono fatti confluire nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti bollandisti nel loro calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso l'abate Gioacchino come beato, fissando per lui nell'anno due festivit celebrative. Il vescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunci all'Inquisizione i monaci cistercensi di San Giovanni in Fiore poich tenevano continuamente accesa una lampada sull'altare vicino al sepolcro dell'abate F.. Tale denuncia caus una serie di problemi relativi al culto e alle reliquie. All'approssimarsi dell'VIII centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l'Arcidiocesi di Cosenza-Bisignano inizi nuovamente l'iter per la canonizzazione. Ad oggi risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della Causa  stato nominato Gabrieli. Opere: Dialogi de prescientia Dei F., esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono: Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem chordarum A queste vanno aggiunte: Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos, Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei, Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato. De prophetia ignota De Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione electorum - edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum, Fonti per la storia dell'Italia medievale. Antiquitates, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae Inteligentia super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi fidelibus Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone Tondelli) Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti) Prefatio in Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones Soliloquium Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super quatuor evangelia, Fonti per la storia d'Italia, Torino, Bottega d'Erasmo. Tractatus in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus Sono inoltre conosciuti: Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore Secondo Gian Luca Potest nella sua recensione a Refrigerio dei Santi, Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza escatologica medievale, in quanto  il primo a rompere il "tab agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla stessa linea si pone Robert E. Lerner che evidenza come il teorema di Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante legem, sub lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il quarto atto: Itaque tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub evangelio, quartum sub spiritali intellectu", dimostrando cos la sua straordinaria originalit interpretativa delle Sacre Scritture. Gioacchino da Fiore tra le tante ebbe tre interessanti e originali intuizioni. Ha cercato e provato che esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come modello "binario della teologia della storia", data la piena proporzionalit da lui riscontrata, intuisce la possibilit di "proiettare con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'et apostolica sino al presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo modo di dire la continuit dell'intera storia della chiesa, passata, presente e futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifugg dal rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte dalla Scrittura. Da questo concetto binario, F. elabora un "modello ternario", connesso strettamente alla santissima Trinit, dimostrandolo con alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica delle lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste due concezioni basilari F. approd allo sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Et della Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui operer prevalentemente lo Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche fondamentali: Et del Padre: corrispondente alle narrazioni dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va da Adamo ad Ozia, re di Giuda; Et del Figlio: rappresentata dal Vangelo e compresa dall'avvento di Ges; Et dello Spirito Santo: estesa nel tempo che va dal 1260 fino alla fine del "millennio sabbatico", ovvero quel periodo in cui l'umanit attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e libert avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa et, una nuova Chiesa tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. L'et dello Spirito ricomprende le et precedenti in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre eliminate e l'uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune interpretazioni- il ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi dalla parziale illuminazione di Antico e Nuovo Testamento. Con tale teorema F. estende il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della salvezza. F. elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi, poi i tre alberi, quello sviluppato nell'et del Padre, quello sviluppato nell'et del Figlio e quello che si svilupper nell'et dello Spirito Santo. F. crede di vivere nella fase finale di una sesta et, cui ne seguir una settima e ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata. Nell'et dello Spirito l'etica non ha pi il carattere punitivo e rigido dell'et del Padre: il disvelamento  una progressiva apertura verso un Dio benevolente, essenzialmente Amore, in cui si muove da una Padre dell'Antico Testamento, che  giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verit, allo Spirito che completa questa dimensione rivelata. L'inesorabilit della storia, secondo Gioacchino,  data da un ossessionante computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di tempo a volte no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di "linea del tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si chiede quanto  lunga questa linea del tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Lerner sostiene che "Nella sua visione, ci poteva essere conseguito soltanto con lo studio il pi approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti segreti." Tutta la sua attivit ha finito per qualificarlo come un ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi, allusioni e predizioni. Il filosofo Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui F. parla di et dello spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa. Nel suo Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia, anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate. Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che mette in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e le sue opere nel concilio Lateranense: per l'affermazione di un disvelamento progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unit delle Tre Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la verit non si esaurisce col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo agli uomini di godere di un'et di perfezione. Monasterium All'interno dei suoi ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi F. elabora anche uno schema di vita religiosa per il tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella tavola del Liber Figurarum. Esso descrive una congregazione religiosa, raggruppata in un insediamento denominato Monasterium, formata da persone con diversa spiritualit, raggruppate sapientemente in sette oratori[1]: Oratorio della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita attiva Oratorio di San Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo: per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi partecipare laici coniugati e non, clero secolare e conventuale, monaci spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate che presiede l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per ognuno, una sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella comunit. L'insediamento religioso  strutturato a modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il Padre eterno, ognuno per le proprie possibilit e a seconda del grado spirituale concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale non  precluso a nessuno, per cui tutti possono aspirare ad accedere al Paradiso. Il modello proposto dal Monasterium rappresent una rivoluzione per due aspetti: esso affranca ampi strati della societ sia dalla feudalit ecclesiastica sia da quella "baronale"; esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa e della societ civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della chiesa del XIII secolo. Diffusione del pensiero gioachimita Concilio Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa teologia della storia gener tensioni, specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a lui avversa. Il Concilio Lateranense IV dichiara ERETICHE alcune frasi contro Lombardo di un'opera sulla Trinit falsamente attribuita a F. Da questo equivoco se ne generarono altri, fintantoch lo stesso Papa Innocenzo III con bolla informa il vescovo di Lucca di non infamare l'abate F., giacch l'Abate  considerato dalla Curia Romana un vero Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con parole dello stesso tenore si espresse Papa Onorio III con la Bolla con cui d mandato all'arcivescovo di Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse rivolte al loro fondatore. Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Lo stesso argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero di F.  stato studiato, divulgato e diffuso. Si possono distinguere due gruppi di studiosi: i gioachiniani e gioachimiti, che hanno rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i pi grandi sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscit interesse anche presso alcuni monaci cistercensi tra i quali: Luca Campano: il primo dei seguaci eloquenti, egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della Sambucina e infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una vita di Gioacchino Raniero Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con F., come socio, a Pietralata e a Fiore; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di F., spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e guid la Congregazione Florense, finch non fu eletto arcivescovo di Cerenzia. Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi della penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di F. sono giunte fino ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli scriba e amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di copiatura e duplicazione. La teologia di F. grazie a questi tre uomini si diffuse rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e italiani in vario modo. Tra questi: Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni da Parma, discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua volta di Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al Vangelo Eterno; scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli altri, si avvicinarono al pensiero di Gioacchino: Salimbene de Adam da Parma, l'inglese Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma la Boema, la consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo gruppo milanese Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi, che influenza Giovanni di Rupescissa e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi, Ministro generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il pesarese Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco d'Appignano (Francesco della Marchia), Guglielmo di Ockham, Giovanni di Janduno, Marsilio da Padova, Bernard Dlicieux, Gentile da Foligno, priore generale degli agostiniani. Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo, il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di Buldesdorf, SAVONAROLA (si veda). Certo quest'elenco  solo una piccola parte di un numero molto pi folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua teologia. Nonostante molti francescani spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei periodi successivi. La prova pi eclatante  la presenza di Gioacchino nell'arte medievale: Nell'apparato scultoreo e figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, la struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella Sistina, secondo lo studio di Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita. Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal gioachimismo abbiamo: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a > del cardinale Giacomo Lercaro e del suo teologo Dossetti, la corrente intellettuale dominante nel cattolicesimo italiano della seconda met del secolo XX; Silone su papa Celestino V, figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare impregnato di gioachimismo; la "teologia della speranza" del gesuita Michel de Certeau e del protestante Jrgen Moltmann, ispirate dalle concezioni escatologiche di Bloch. Obama fa di F. un punto di riferimento. Nella stesura della sua tesi di laurea, lo cita a pi riprese durante la sua campagna elettorale per le presidenziali, che definisce come "maestro della civilta' contemporanea" e "ispiratore di un mondo pi giusto", usato non come citazione generica ma con specifico riferimento al moto "change we can", per indicare la necessit di un cambiamento radicale della storia, citando il portabandiera di una societ pi giusta, e pensando all'apertura di un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riusce a cambiare il cuore degli uomini. Centro Studi F. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro Internazionale Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da F., conservate in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi a tema, relativo a F. e al F. Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo. Causa di Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte. Larcivescovo di Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione. Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le Attivit Culturali ha istituito il Comitato per le celebrazioni dell'VIII centenario della morte dell'Abate F. per promuovere la conoscenza di F. e del suo pensiero. Il programma fu redatto da Cosimo Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Universit degli Studi di Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del Centro Studi F. Il comitato che ha agito, ha promosso tre congressi: il primo itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova, Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei Codici Gioachimiti F., l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso la biblioteca del duomo di Monreale. F. e il Carattere Meridiano del Movimento Francescano in Calabria Editor il testo Luca Parisoli Valente "Chiese conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^ Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli, Rubbettino. Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture. Su F. non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giraldi, Giraldi: dialogo con De Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac, Posterit spirituale di Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri giorni", Jaca Book, Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si ispira a F,, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in terra aveva irretito la modernit, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON BAGET BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI F.-una finezza culturale che vorrei capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia: Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra), Feltrinelli, Milano, F., Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potest), Viella, Roma, 1996. F., Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian Luca Potest), Viella, Roma. F., Trattato sui quattro vangeli, (a cur. Potest, traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. F., Dialoghi sulla prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potest), Viella, Roma. F., Il Salterio a dieci corde, (a cura di Troncarelli), Viella, Roma, F., Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma. F., I sette sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo Gatto), con un saggio di Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria Adorisio, La leggenda del santo di Fiore / Beati F. abbatis miracula, Vechiarelli, Manziana, Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, ALIGHIERI (si veda) e F., in La sonda, Roma; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e commenti, Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e F., con postfazione di Ronconi, Pellegrini, Cosenza. Carmelo Ciccia, La santit di F. (Par. XII), in Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza, Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori: F...., Pellegrini, Cosenza, Luigi Costanzo, Il profeta calabrese, Direzione della Nuova Antologia, Roma, Crocco, F. e il gioachimismo, Liguori, Napoli, Francesco D'Elia, Gioacchino da Fiore un maestro della civilt europea- antologia dei testi gioachimiti tradotti e commentati-, Rubbettino, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. II, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, Valeria de Fraja, Oltre Cteaux. F. e l'ordine florense, Viella, Pietro De Leo, F.: aspetti inediti della vita e delle opere, Rubbettino, Soveria Mannelli, Henri de Lubac, La posterit spirituale di F., Jaca Book, Milano, Foberti, F., Sansoni, Firenze Gabrieli, Una Fiamma che brilla ancora, La Fama sanctitatis dell'Abate Gioacchino, Comet Editor Press, Cosenza, Grundmann, Studien uber Joachim von Floris, Leipzig-Berlin, Herbert Grundmann, Gioacchino da Fiore. Vita e opere, a cura di G. L. Potest, traduzione di S. Sorrentino, Viella, Pasquale Lopetrone, Monastero di San Giovanni in Fiore-Repertorio del cartulario, S. Giovanni in Fiore, Edizioni Pubblisfera, 1999. 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Cronaca dellattivit ricognitiva in Florensia, Bollettino del Centro Internazionale Studi Gioachimiti, Pasquale Lopetrone, Il proto monastero florense di Fiore, origine, fondazione, vita, distruzione, ritrovamento, in Abate Gioacchino Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio Gioacchino da Fiore, Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, La Domus que dicitur mater omnium - Genesi architettonica del proto Tempio del Monasterium florense, in (a cura di) C. D. Fonseca, D. Rubis, F. Sogliano, Jure Vetere. Ricerche archeologiche nella prima fondazione monastica di Gioacchino da Fiore, Rubettino, Soveria Mannelli, Pasquale Lopetrone (a cura di), Atlante delle fondazioni Florensi, vol. I, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, P. Lopetrone, Larchitettura florense delle origini, in AA. VV., F., Librare, S. Giov. in F. Pasquale Lopetrone, La chiesa dellarchicenobio florense di San Giovanni in Fiore- Cronologia, in Abate Gioacchino Organo trimestrale per la causa di canonizzazione del Servo di Dio F., Tipografia grafica cosentina, Cosenza, Pasquale Lopetrone, Il modello della Chiesa Florense sangiovannese, in (a cura di) C. D. Fonseca, I Luoghi di Gioacchino da Fiore- Atti del primo Convegno internazionale di studio- Casamari, Fossanova, Carlopoli-Corazzo, Luzzi-Sambucina, Celico, Pietrafitta- Canale, San Giovanni in Fiore, Cosenza, Viella, Roma, Pasquale Lopetrone, Il Cristo fotoforo florense Pubblisfera, F., Pasquale Lopetrone L'effigie dell'abate Gioacchino da Fiore, in VIVARIUM - Rivista di Scienze Teologiche, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (Cs) Pasquale Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di Pietrafitta-restauri, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (CS) Pasquale Lopetrone, Le prime fondazioni florensi in D. Dattilo (a cura di), Agger bruttius. 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Olschki, Firenze, Staglian, L'abate calabrese: fede cattolica nella Trinit e pensiero teologico della storia in F.; presentazione di Gianfranco Ravasi, postfazione di Piero Coda, Libreria editrice vaticana, Citt del Vaticano, Andrea Tagliapietra, Gioacchino da Fiore e la filosofia, il Prato, Saonara, Leone Tondelli, Il libro delle figure dell'abate F. in collaborazione con Marjorie E. Reeves e Beatrice Hirsch-Reich), S.E.I., Torino. Troncarelli, Il ricordo del futuro-Gioacchino da Fiore e il gioachimismo attraverso la storia, Adda Editore, Ordine Florense Abbazia Florense Ernesto Buonaiuti Herbert Grundmann Leone Tondelli Antonio Piromalli Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista Riforma spirituale medioevale. Treccani.it  Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata F., in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. F. 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H 4 PLA VITA La leggenda e la storia. Le fonti canoniche. Luca. Giacomo Greco. La leggenda ufficiale. Accenni autobiografici. La vocazione monastica. Il monachiSmo del tempo. La conversione profetica. I cronisti britannici. Le opere. Da Casamari a F. IL MESSAGGIO La profezia gioachimita. Metodo.La conoscenza biblica. Linterpretatazione allegorica. Concordie e analogie. Lescatologia di F. gioachimita e la teologia economica. La Trinit nella storia. Il passato, il presente, lavvenire. Lavvento del terzo stato. La Chiesa carnale, la societ spirituale. La scomparsa della Chiesa visibile. La suprema manife stazione dello Spirito. Chiesa di oggi e Chiesa di, domani. IPOTESI GIOACHIMITE SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Archivio Storico per le Province Napoletane, SOCIET NAPOLETANA DI STORIA PATRIA NAPOLI IPOTESI GIOACHIMITE SUGLAFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Mais si l'on voit partout des mtaphores que deviendront les faits? Gustave Flaubert, Bouvard et Pcuchet Una delle pi suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni della costruzione della grandiosa chiesa esterna del monastero di S. Chiara a Napoli ed al possibile modello della pianta  stata avanzata, nel 1995, da Caroline Bruzelius Secondo questa tesi Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re Roberto d'Angi, avrebbe fondato la basilica ed il convento doppio di S. Chiara per ospitarvi i Francescani spirituali, vale a dire i frati appartenenti ad una frangia rigorista e pauperista dell'Ordine minoritico, avversata dal Papato e dalla dirigenza dell'Ordine stesso. I Francescani spirituali si richiamavano, in particolare, anche alle idee del mistico calabrese F., per sostenere la necessit di una radicale riforma della Chiesa La basilica di Santa Chiara, dunque, sarebbe stata consacrata intenzionalmente all'ideale della povert apostolica 3, cos che le idee degli Spirituali avrebbero costituito, in sostanza, l'unica giustificazione del progetto e la sola Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and the convent church ofS.ta Chiara in Naples, in Memoirs of the American Academy in Rome, 40, 1995, pp. 82ss.; E ad., Le pietre di Napoli. L'architettura religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343, Roma, Viella, 2005, pp. 150-175, edizione integrata rispetto alla precedente inglese dal titolo The stones of Naples, Church Building in Angevin Italy, London, Yale, ove le ipotesi avanzate nel 1995 vengono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate. Si denominavano spirituali appunto perch viri spirituales, e cio eletti destinati a vivere il terzo stato della storia, quello dello Spirito, cos come teorizzato da F.. Bruzelius, Le pietre, eh.GAGLIONE chiave di lettura dell'edificio. Esisterebbe, in particolare, un preciso rapporto tra la semplicissima pianta rettangolare della basilica napoletana ed una delle figurae del Liber figurarum, una raccolta di schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione delle teorie storico- teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche contemplative e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa napoletana costituirebbe cos, secondo tale tesi, una vera e propria citazione della figura XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio Emi- lia del Liber 4 . L'area presbiteriale della basilica con il coro dei frati sarebbe stata, anzitutto, ricalcata sullo spazio simbolico corrispon- dente nella figura al Tertius status, quello dello Spirito Santo, nel- l'ambito della settima ed ultima Et della storia del mondo. In questa stessa Et si sarebbe giunti a quella rigenerazione della Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spirituali. L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio riservato, sempre nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel- la ormai metastorica iniziata con la Resurrezione dei morti e carat- terizzata dalla rivelazione della Gerusalemme celeste e dalla finale visione della Pace. Tale tesi, pur avendo conseguito un ampio consenso 6, ha susci- tato altres rilievi e critiche soprattutto con riguardo agli effettivi contenuti del filospiritualismo dei due sovrani ed alla verosimi- glianza storica della pretesa celebrazione monumentale, nella basi- Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure del- l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav. XVIIIa. Bruzelius, Le pietre, Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce, Architettura tra Roma, Napoli e Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli, Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte, a cur. Tornei, Torino, SEAT; Musto, Franciscan Joachimism, at the court of Naples: a new appraisal, in Archi- vimi Franciscanum Historicum; Freigang, Kathedralen ah Mendikantenkirchen. Zur politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl L, Karl IL und Robert dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in Italien, Berlin, Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Citt del Sole; C. Bozzoni, Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in Palladio. Analogamente a quanto si sarebbe verificato per S. Chiara a Napoli, la simbologia gioachimita della Figura delle Et del mondo avrebbe anche ispirato, direttamente o indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della Calabria a partire da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di S. Maria di Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in Arte Medievale; Span, Insediamenti Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace, Soveria Mannelli, Citt Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss. IPOTESI GIOACHIMITE SUGLI AFFRESCHI DI GIOTTO lica napoletana, della teoria della storia elaborata da F. e sostenuta dagli Spirituali 7 . Comunque, altre conferme della tesi della derivazione gioachi- mita della pianta della chiesa francescana sono state individuate, pi di recente, nell'ambito di una importante e preziosa monografia dedicata all' attivit di Giotto a Napoli 8 . Nel saggio appena menzio- nato, seguendo la lettura proposta dalla Bruzelius, si sostiene che, conformemente allo schema della Figura XVIII del Liber, che viene definita tavola di concordanza (Concordia) fra i secoli e i tempi, con i tre stati e le otto et 9, Giotto e la sua bottega, riferendosi al Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni episodi della Vita di Cristo nelle cappelle della navata sinistra della basilica. In quelle poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe realizzato scene dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di Adamo, No, Abramo e Davide e, forse, anche della Creazione, di Giuseppe, di Mos, di Sansone e di Salomone. Nelle cappelle di entrambe le navate queste scene sarebbero state articolate in quattro o, addirit- tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 . E evidente che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter- mini appena esposti viene ad essere principalmente addotta quale conferma esterna della notizia, riferita da Vasari, secondo la quale Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze dipinse in alcune capelle del detto monasterio di S. Chiara molte Storie del- l'Antico Testamento e Nuovo 11 . Questa stessa notizia  stata in- Per tali critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e molti dubbi su due fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di Palazzo, in Campania sacra; Id., Allusioni gioachimite nella basilica angioina di Santa Chiara a Napoli?, in Studi storici; Id., La basilica ed il monastero doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, in Archivio per la Storia delle Donne, 4, 2007, pp. 127-198. 8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli, Electa, 2006, pp. 125ss., il quale riprende anche osservazioni di Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp. HOss. 9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64. Castris, Giotto a Napoli, L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: Dopo, essendo Giotto ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse Giotto a Napoli, perci che, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata. Giotto adunque, sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamar e, and pi che volentieri a servirlo, e giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio molte storie del Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e' fece in una di dette GAGLIONE vece oggetto di ampio dibattito, non essendo mancato infatti chi, sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto l'intervento di Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo che il Maestro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna di S. Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si  sostenuto che la derivazione della pianta della basilica dalla menzio- nata Figura risulterebbe pi che probabile, poich lo stesso Liber Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina. Infatti, alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti Vaticano Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale proprio come il codice di Oxford, forse miniato nello scriptorum di S. Giovanni in Fiore. In particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860 rinvierebbero alla speciosa cultura umbro-cavalliniana maturata a Napoli da Lello da Orvieto, Cristoforo Orimina e dall'anonimo Maestro delle Tempere Francescane. Ad ogni modo, Sancia e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera an- che in Provenza e nella Francia meridionale, ove si trovarono in di- capelle furono, per quanto si dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate d'Ascesi delle quali si  di sopra abastanza favellato; e se ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne avuto, come spesso avviene fra gl'amici, ragionamento. L'Edizione Torrentiniana (1550) invece: Fu chiamato a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli, per quanto si dice, da Dante, fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti, e cfr. l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche Informatiche per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, biblio . cribecu . sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice. Cfr. Aceto, Pittori e documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun- zioni, in Prospettiva. Per l'esame e la discussione delle diverse posizioni: Leone de Castris, Giotto a Napoli, che, riguardo agli altri dipinti realizzati da Giotto a S. Chiara, ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa, alle spalle dell'altare maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza della Croce della Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel coro delle Clarisse, dovesse invece essere l'Apocalisse ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande affresco era stato probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della quadrifora centrale che si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e l'oratorio delle monache. Proprio sulla stessa parete divisoria, dal lato dell'oratorio, era affrescato appunto il" Compianto sul Cristo morto e le altre storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una Resurrezione ed un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para- petto delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre le pareti superiori, probabilmente, non erano dipinte Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.verse occasioni ed ove, appunto, i diagrammi gioachimiti erano certa- mente diffusi. E fin qui l'importante contributo sulla presenza e sull'attivit di Giotto a Napoli. Partendo dall' asserita fattura meridionale dei citati codici Va- ticani Latini, fattura che costituirebbe un indizio della possibile circolazione degli stessi a Napoli e presso la corte angioina, occorre rilevare che l'origine e la datazione di questi manoscritti  partico- larmente controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860  stato variamente datato tra il secolo XIII e la prima met del secolo XIV, e lo si  altres ritenuto codice di ambiente benedettino-olivetano pa- dovano opera di un miniatore bolognese, il ms. Vat. Lat. 3822  stato invece datato piuttosto concordemente alla fine del secolo XIII, mentre ne  dibattuta l'area di produzione: Parigi o l'area francese^ l'area genericamente italiana, o pi specificamente sici- liana 14 . E necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non contiene la Figura delle Sette et, dalla quale si pretende sia stata ricavata la pianta di S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre- schi che sarebbero stati eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15. La stessa Figura manca poi anche nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo- Quanto al ms. Vat. Lat. 4860, contenente estratti da opere diverse di Gioacchino, la datazione al secolo XIII  stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch Reich, Reeves e Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La datazione alla prima met del secolo XIV, invece,  stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e De Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di codice di ambiente bene- dettino-olivetano padovano opera di un miniatore bolognese. Quanto all'origine del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso opere varie di Gioacchino, Troncarelli propende per Parigi o per l'area francese, mentre Bignami Odier, Hirsch Reich e Reeves propendono genericamente per l'area italiana, infine, all'area siciliana pensa Patschovsky, e cfr. M. Rainini, Disegni dei tempi. Il Liber Figurarum e la teologia figurativa di Gioacchino da Fiore, Roma, Viella, Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un abbozzo del dia- gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi delle generazioni discen- denti, del drago apocalittico, del misterium ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della dispositio novi ordinis, degli alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei cerchi trinitari, ed  accompagnato da cinque fogli vuoti che avrebbero potuto accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi, circostanza questa che conferma che l'opera non era stata portata a termine, e rende improbabile l'eventuale suppo- sizione di un testo incompleto perch privato, nel corso del tempo, di alcune delle tavole originarie, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r, reca i diagrammi delle genera- zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del tetragrammaton e diverse versioni dei tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei tempi, cit., pp. 272-273. sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente meridionale non pu inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del Li- ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del- l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran- cia, si tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun indizio o prova. C' in realt da chiedersi se effettivamente la pi volte citata Figura XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti con- cordistici che vi sono stati da ultimo individuati. Occorre anzitutto premettere che per concordia, nell'ambito delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve intendersi la corri- spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati nell'Antico Testa- mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e prefigurati nel Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della Chiesa. La Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il gi citato diagramma rettangolare e, ai margini, un testo fittamente manoscritto. Tale testo, la cui traduzione pu leggersi in appendice a questa nota,  tratto dal libro V della Concordia Novi ac Veteris Testamenti, opera di F. tradita dal codice Urbinate Latino 8 della Biblioteca Apostolica Vaticana. Pi precisamente  riportato il passo posto tra la I e la II distinctio, destinato ad essere illustrato da una Figura esplicativa che manca nel manoscritto Urbinate Latino, e che viene in genere identificata proprio nella citata tavola XVIII del Liber Figurarum. Orbene, il libro V della Concordia, dal quale  desunto il com- Rainini, Disegni dei tempi. La pi nota definizione gioachimita della concordia  la seguente. Concordiam proprie dicimus similitudinem eque proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad numerum non quo ad dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo, bellum et bellum ex parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur, e, cio, chiamiamo propriamente concordia la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e Antico Testamento, e dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto riguardo la dignit: come se per una certa parit fossero rivolti l'uno di fronte all'altro persona e persona, ordine e ordine, guerra e guerra, e cfr. ancora Id., ivi, p. 20, p. 33, nota. 18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa: in hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad catholicam fidem, e, precedentemente, secundum quod ostenditur in presenti figura.... Quale tavola XVIII Tondelli, Reeves ed Hirsch-Reich, pubblicano una variante semplificata, forse non finita, della stessa Figura, tratta dal codice del CORPUS CHRISTI (H. P. GRICE) Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice tuttavia, al f. 8v, il diagramma ricompare in forma omogenea a quella della tavola XVIIIa del Fig. 1 - La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich). mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie principali dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta- zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo F., avrebbe consentito anche di preconizzare gli avvenimenti storici futuri. In altre parole, il libro V  un lungo commentario sui libri storici del Vecchio Testamento 19, ed il suo contenuto  conside- revolmente diverso 20 da quello degli altri Libri della Concordia. Infatti,  piuttosto nei precedenti libri, dal I al IV, che F. procede effettivamente ad esaminare o a rinvenire i punti di con- cordanza tra le vicende ed i personaggi narrati nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello stesso codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altres contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole III e IV, da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con- cordia Veteris Testamenti et Novi. In particolare, in queste due ultime tavole  tracciato un dettagliato raffronto tra i personaggi e gli episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias, Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e Cristo e cosi via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII  stata quindi designata come tavola delle Et del mondo 22, delle Sette et del mondo ovvero delle Sette et 24 . codice di Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il Liber Figurarum nel manoscritto Oxford, Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit. 19 A. Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse, Milano, Feltrinelli, Daniel, Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac Veteris Testamenti, Philadelphia, The American Philosophical Society, il quale, appunto, osserva: not only is Book Five longer than the first four Books together, but its content is considerably different from theirs. Le peculiarit del libro V rispetto ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino: etenim in hiis quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum litteram, hoc est secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum testamentorum...oportet nos in hoc quinto libro de quibusdam gestis sollempnibus que occurrerint spiritualiter agere ut ex multis testimoniis ostendamus laboriosos rerum fines et post magnos agones et certamina pacem uictoribus impartiri (ConcordiaTagliapietra, Opere principali Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI), tav. XVIII (Biblioteca del Seminario di Reggio Emilia). Le sette et del mondo, in L'Et dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel Gioachimismo medievale, Atti del II congresso internazionale di studi gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., Rainini, Il Liber Figurarum, cit., loc. ult. cit. La tavola XVIII del Liber ha infatti, principalmente, lo scopo di illustrare la teoria escatologica della storia elaborata da Gioac- chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed etates in una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce unitariet alla storia stessa. Rifacendosi dunque innegabilmente alla divisione settenaria delle et della storia gi teorizzata dAgostino, F. colloca in modo originale la settima et, quella cio del raggiungimento della pax vera, della perfecta iustitia e della plentudo veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo poi una Octava aetas quale stadio finale ed eterno della storia umana. Perci la figura XVIII del Liber  suddivisa in un fregio inferiore, rappresentante i sette secula dell'Et del Padre, in un fregio superiore, che illustra i sette tempora dell'Et del Figlio, e infine in una parte centrale raffigurante le sette Et del mondo, la settima delle quali, corrispondente al momento storico in cui vive F. {tempus praesens), sarebbe sfociata nel Tertius sta- tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe fatto seguito, appunto, Y Octava aetas 26. Ma passiamo a leggere le brevi iscrizioni che illustrano il dia- gramma rettangolare centrale della Figura XVIII, riprodotta nella figura 1 posta a corredo di questa stessa nota. Occorre precisare che il diagramma deve essere esaminato trasversalmente, nel senso del lato maggiore del rettangolo, da sinistra a destra e dal basso all'alto, mentre il testo tratto dalla Concordia e trascritto ai margini risulta vergato in senso perpendicolare al diagramma stesso. Partendo dunque dal basso, rileviamo nell'ordine, nel fregio inferiore {secula): primum seculum, Adam genera tiones X, secundum seculum, Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum, Joiada generationes X, sextum seculum, ]eremia generationes X, septimum seculum, Zacharia sacerdos, sabbatum, adventus Spiriti Sane ti, septima etas; initiatio primi stati, primum status, secundum status, tertium status; Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI) GAGLIONE nel fregio centrale (etates): Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio Babilonie, lohannes Baptista, presens tempus; b) all'interno della tromba: clarificatio Filii, clarificatio Spiriti Sancii; e) Etas prima, etas secunda, etas tercia, etas quarta, etas quinta, etas sexta, etas septima; nel fregio superiore (tempora): initium Romanorum, Hysaia propheta; initiatio secundi stati, primum tempus, Ozias generationes X, secundum tempus, Zorobabel, tertium tempus, Christus genera- tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum tempus, generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tempus; all'estremit destra del diagramma, dopo la linea divisoria: etas octava, resurrectio mortuorum. Come pu agevolmente notarsi, nessuna delle iscrizioni menziona specificamente l'Antico o il Nuovo Testamento; inoltre, per la maggior parte, i personaggi citati, e cio Adamo, No, Abramo, Booz, Ioiad, Geremia, Davide, Ozias, Zorobabele ed Isaia, rien- trano nell'Antico Testamento e risultano variamente collocati lungo tutto il diagramma, sia in basso che al centro, oltre che in alto. Solo Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano nel Nuovo Testa- mento. Tuttavia, mentre Cristo  indicato nel fregio superiore della Figura, che, sovrapponendo la stessa alla pianta di S. Chiara, corrisponderebbe alla navata sinistra della basilica guardando l'altare maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista,  segnato nel fregio inferiore, dal lato cio della navata destra della chiesa. Giovanni Battista, infine,  indicato nel fregio centrale, nei pressi della tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena riportate, cos come il testo marginale della Concordia, non consentono di affermare che la Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti concordistici, ovvero che la stessa traduca graficamente concordanze tra personaggi dei due Testamenti, che risultano infatti variamente posizionati a destra, a sinistra ed al centro del diagramma. Non vi , dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere, almeno lette- ralmente, n la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento nel fregio superiore, n quella dei personaggi dell'Antico nel fregio inferiore, cos da poter giustificare la collocazione dei cicli pittorici giotteschi corrispondenti, rispettivamente, nella navata sinistra e nella navata destra della basilica di S. Chiara. Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura gioachimita abbia semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la scelta del soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle cappelle, oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicch non ci si dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII del Liber e l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la Figura stessa non avrebbe costituito n un programma decorativo, n un progetto edilizio . Ma a ben vedere, proprio la mancanza di una tale effettiva corrispondenza, congiuntamente ai seri dubbi avanzati in ordine alla sua fondatezza storica 28, rende ancor pi fragile l'ipotesi della matrice gioachimita della chiesa di S. Chiara a Napoli. Un collegamento tanto evanescente con la Figura non consente infatti di dimostrare in maniera convincente che la pianta ad aula rettangolare della chiesa napoletana, invece di derivare dalle analoghe, diffusissime piante delle chiese degli Ordini mendicanti, discenda proprio dal diagramma gioachimita. Risulta inoltre eviden- temente impossibile dimostrare che i cicli pittorici dell'Antico e del Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto vasariano, nella stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi cicli tipologici inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni concordistiche gioachimite. Occorre invece chiedersi se, pur abbandonando la discutibile ipotesi della valenza della Figura XVIII quale modello o fonte di ispirazione, sia eventualmente sostenibile, in altro modo, una giu- stificazione gioachimita della scelta del programma decorativo di S. Chiara, incentrato, come si  detto, sulle Storie dell'Antico e del Leone de Castris, ad esempio, osserva che Mattano, nel suo saggio La Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber alla pianta della chiesa al contrario rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius, sicch Vociava etas non viene pi a corrispondere al coro delle Clarisse, bens all'area del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura  stata respinta dallo stesso Leone de Castris, perch presuppone non una ispirazione ma una volont di corrispondenza piena fra la pianta ed il diagramma derivante da un improprio uso del diagramma come progetto. In altre parole, almeno per il programma architettonico, la Figura gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi- razione che un modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de Castris, Giotto a Napoli, nota Cfr. i saggi indicati alla precedente nota Nuovo Testamento. Non di rado, infatti, opere di scultura, di pit- tura e di architettura sono state interpretate proprio facendo riferi- mento ad una possibile matrice gioachimita. Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside della basilica di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato visivamente l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e della Concordia 2, mentre un prezioso codice miniato da una bottega avi- gnonese agli inizi del secolo XIV avrebbe risentito dell'escatologismo e del concordismo gioachimita. Influenze delle opere di F. sono state rinvenute altres nella pianta e nella struttura della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a F. 31, nelle sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad Assisi e negli affreschi della basilica di S. Francesco 33 nella stessa citt. Questa tesi viene avanzata, per la verit, in maniera piuttosto vaga da E.R. Daniel, Joachim of Fiore: Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in the Middle Ages, cur. Emmerson e McGinn, London, Cornell; per una lettura teologica ortodossa dei mosaici in questione cfr. invece Barclay Lloyd, A new look at the mosaics of San Clemente, in Omnia disce: Medieval studies in memory of Boy le, O.P., a cura di AJ. Duggan, J. Greatrex, B. Bolton, Ashgate, Aldershot. D'altra parte gli stessi mosaici vengono correntemente datati intorno a quando F. non era ancora nato o era giovanissimo. Si tratta del codice 55. K. 2 (Rossi) dell'Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, e cfr. Frugoni, Manzari, Immagini di San Francesco in uno Speculum humanae salvationis del Trecento, Padova, Editrici Francescane, Cfr. Cadei, La chiesa figura del mondo, in Storia e Messaggio in Gioac- chino da Fiore, Atti dell Congresso internazionale di studi F., S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., secondo il quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni presenta peculiarit che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per Yicnografia architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei, sono derivati dalle tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore non manca poi di ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di Leone Tondelli, secondo il quale la Figura XII ha piuttosto carattere idealistico ed utopico, non risultando che in nessuno dei monasteri florensi si sia cercato di realizzare tale modello, e di Edith Pasztor che, invece, vede nel diagramma la pianta concretissima delle strutture urbanistiche del monastero, e cfr. anche V. De Fraja, Oltre Cteaux. F. e l'Ordine florense, Roma, Viella, Prosperi, Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Spello, Dimensione Grafica, soprattutto sulla base delle tavole delle Praemissiones di F., tradite dal codice 15 del monastero benedettino di S. Pietro a Perugia. Prosperi, Gioacchino da Fiore e Frate Elia. Dalle sculture simboliche del ad Con particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco si  affermato che il programma iconografico prescelto per la deco- razione pittorica della chiesa inferiore cos come di quella superiore, nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti, illu- strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del mondo e della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della legge, della grazia e dello spirito teorizzate da F. e riprese dai Francescani spirituali. Questi ultimi, infatti, identifica- rono nel proprio il nuovo Ordine monastico preannunciato da F., individuando in San Francesco Valter Christus, il nuovo messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione concordi- stica della storia operata da Gioacchino da Fiore venne cos comple- tata dai teologi Francescani spirituali in modo tale che le corrispon- denze tipologiche in ambito francescano vennero ampliate e intese non in due ma in tre ricorsi successivi; il Nuovo Testamento  adempimento della promessa dell'Antico, ma , a sua volta, pro- messa che si adempie sulla terra e nella storia, con l'avvento di Francesco. Tuttavia, la condanna delYlntroductorius ad Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino, opera che rappresentava la pi compiuta espressione delle teorie dei Francescani spirituali, comport l'interruzione dell'esecuzione del pro-gramma iconografico assisiate. Tracce significative di questo originario apparato decorativo sono state ad ogni modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipologico 36 delle tre bifore del coro della basilica superiore, realizzate Duomo di Assisi ai primi dipinti della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione Grafica, Da A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decorazione, in Roma. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale dell'Universit di Roma La Sapienza, a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma di Bretschneider, Cadei, Assisi, S. Francesco, , in particolare, il Maestro di S. Francesco, negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il parallelismo tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli abiti ai piedi della croce, Cristo dall'alto della croce affida Maria a Giovanni, Discesa dalla croce, Deposizione, Com- pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus) e le Storie di San Francesco {Francesco rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III sogna Francesco sorreggente la Chiesa di Roma, Predica alle creature, Francesco riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco e scoperta delle stimmate sul suo corpo). Ad esempio, nella finestra I, designata anche come finestra VII, sono raf- figurati episodi veterotestamentari quali prefigurazioni dei corrispondenti episodi della Vita pubblica di Ges, con i seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza della morte di Saul, La disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior- entro il 1250 ad opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse, basata sulle corrispondenze tipologiche, avrebbe un sguito in due lancette del finestrone del transetto destro che completano il ciclo dell'abside con le apparizioni post mortem di Cristo e gli antitipi 01 veterotestamentari delle apparizioni angeliche. Il complesso delle vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal modo a costituire una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della vita di Cristo farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San- t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della chiesa sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra questi, la triade delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen- dano, Il battesimo di Ges; Mos e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione del tempio, La cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Ges in Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli Apostoli; Il banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte Oreb, L'Orazione nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e la cattura di Cristo. L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o modelli che presentano un'impronta in negativo o antitipo costituita da un'idea, una persona, o un avveni- mento nell'Antico Testamento che prefigura un'idea, una persona, o un avveni- mento nel Nuovo Testamento. Un esempio autorevole d'interpretazione tipologica  offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12, 40): Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, cos il Figlio dell'uomo rester tre giorni e tre notti nel cuore della terra, ove, l'episodio veterotestamentario (antitipo) di Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di Cristo. Sull'interpreta- zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura, cfr. H. Rondet, Thmes bibliques, xgse augustinienne, in Augustinus magister. Congrs intemational augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, Paris, Etudes Augustiniennes; M. Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H. De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca; La terminologia esegetica nell'antichit. Atti del primo seminario di antichit cristiane, Bari, 25 ottobre 1984, Bari, EdiPuglia, 1987, nonch, pi in generale, E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano, Feltrinelli; Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale tenuto presso la Pontificia Universit Gregoriana di Roma, unigre.it/ rhetorica%20 biblica/studenti/TBC005/ TIPOLOGIA_- van%20 Dael.doc; Kessler, Storie sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali tra TV e XII secolo, in L'arte medievale nel contesto: funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca, Cadei, Assisi, S. Francesco, secondo il quale i medaglioni di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo nella finestra VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria, proverrebbero dalle lancette della quadrifora III posta nel transetto settentrionale della basilica superiore. sione e nella Trasfigurazione, poste nelle lunette di volta e nel tratto superiore della vetrata centrale, rimanderebbe alla Dispositio novi ordinis pertinens ad tercium statum ad instar superne Jerusalem ed alla Rota in medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV del Liber Figurarum. I sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali sottili richiami e reconditi significati ben difficilmente avrebbero potuto esser colti dal comune visitatore, e che i principali fruitori sarebbero stati piuttosto i soli Francescani spirituali. Secondo questa opinione, in conclusione, la sintesi ed il com- pletamento della teoria gioachimita della storia, operata dai France- scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine minoritico del novus ordo monastico destinato alla guida della societ, avrebbe avuto, quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e neotestamentarie in una prospettiva rivoluzionaria. Tuttavia, accanto a queste serie tipologiche che sarebbero state ispirate dalle teorie gioachimite e spirituali, nella stessa basilica superiore assisiate furono eseguite altre e ben pi note scene vetero 40 e neotestamentarie, poste ancora una volta in collegamento con ventotto episodi della Vita di San Francesco 42, bench in una pro- [Cadei, Assisi, S. Francesco, ricorda infatti che, secondo lo Schne, si sarebbe trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani spirituali e che perci era limitato al loro coro non accessibile al pubblico, circo- stanza questa che ne favor anche la successiva conservazione nonostante il muta- mento del programma decorativo. II ciclo dell'Antico Testamento, realizzato sulla parete nord, si compone di sedici episodi e comincia con le Storie della Creazione nel registro superiore: Crea- zione del mondo, Creazione di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La cacciata dal Paradiso terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino uccide Abele proseguendo, nel registro inferiore, con episodi della vita dei quattro patriarchi biblici No, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione dell'arca, L'ingresso di No e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco, La visita degli angeli ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esa davanti ad Isacco, Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli in Egitto. II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete sud, si compone di sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia di Cristo nel registro superiore: Annunciazione, Visitazione, Nativit, Adorazione dei Magi, Presentazione di Ges al tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio, Battesimo di Ges. Nel registro inferiore, invece, sono collocati gli episodi della Vita pubblica e della Passione di Cristo: Le nozze di Cana, La resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a Pilato, La salita al Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto, Le pie donne al sepolcro. A partire dalla parete destra dal lato dell'altare: San Francesco riceve l'omag- gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo mantello al povero, Sogno del palazzo colmo spettiva pi moderata, ispirata questa volta alla Vita ufficiale del Santo, la Legenda maior redatta da San Bonaventura. Proprio Bo- naventura ed, in seguito, il probabile committente degli affreschi, il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano infatti oppo- sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro sostenuta secondo la quale con l'avvento dell'Et dello Spirito si sarebbe pervenuti ad uno scardinamento dell'ordine costituito gi sulla terra e nella sto- ria. L'Autore della Legenda, invece, ribalt proprio la prospettiva di un radicale mutamento nella storia, sostenendo che i tempi nuovi si sarebbero dispiegati su di un piano esclusivamente ultraterreno, privo quindi di pericolose ricadute politiche. Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Testamento che Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S. Chiara, non risultano notizie, di fonte letteraria o documentaria, dell'esistenza anche di un ciclo della Vita di San Francesco che avrebbe potuto far pensare ad una consapevole imitazione del mo- dello assisiate nella versione spirituale o piuttosto in quella bona- venturiana. D'altra parte, al tempo della esecuzione degli affreschi nella grande chiesa napoletana erano trascorsi decenni dai movimen- tati inizi della decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio palinsesto iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto tra il papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un lato, ed i dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa di armi, Cristo appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di Innocenzo III, Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di fuoco, Frate Leone vede il trono celeste destinato a San Francesco, Cacciata dei demoni da Arezzo, La prova del fuoco, L'estasi di San Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo della fonte, Predica agli uccelli, Morte del signore di Celano, La predica davanti ad Onorio III, San Francesco appare ai frati riuniti in capitolo ad Arles, Stimmate, Morte e funerali, San Francesco appare al vescovo di Assisi e a frate Agostino, Il patrizio Girolamo si accerta delle stimmate, Le Clarisse di S. Damiano piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco appare a Gregorio IX, Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil- donna, Liberazione di Pietro d'Alife. Le posizioni di San Bonaventura vennero riprese dal cardinale Matteo d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il cardinale, generale dell'Ordine dal 1287 al 1289, fu probabilmente l'ideatore del programma iconografico della navata della basilica superiore e contrast decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da Casale. I ttuli illustranti gli episodi della Leggenda francescana sono tratti dalla Legenda maior, e cfr. E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze, Passigli. Per l'ispirazione alla Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e Bonaventura. Un'interpretazione storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore di San Francesco in Assisi alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa Francescana, e Cadei, Assisi, S. Francesco. Giovanni XXII, ad una persecuzione sistematica dei secondi, e, come si  visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza que- sta che sembra deporre contro la possibilit di citazioni iconografi- che eccessivamente eversive. Infine, l'assoluta impossibilit di ricostruire i contenuti ed i soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz- zate nella chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure di accertare una eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella pi precisa ed articolata corrispondenza tra fatti, persone, figure e adempimenti dei due Testamenti, che, secondo alcuni, sarebbe co- munque derivata proprio dalla diffusione delle teorie di Gioacchino tradotte poi in immagini La spiegazione della scelta delle scene dell'Antico e del Nuovo Testamento per la decorazione di S. Chiara, a questo punto, pu essere piuttosto individuata proprio nella volont di seguire il tradizionale filone tipologico, significativamente rinvenibile nello stesso repertorio di Giotto. Il modello pi prestigioso di tale filone era costituito dalla serie degli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le pareti Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del monastero delle Clarisse,  posto l'affresco della Mensa del Signore, attribuito al Maestro di Giovanni Barrile, la cui particolare iconografia sarebbe servita a celebrare i valori della povert e dell'umilt, testimoniando cos il particolare favore dei sovrani angioini per questi ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore ufficializzato dal contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I pittori alla corte angioina di Napoli, Roma, U. Bozzi; Leone de Castris, Giotto a Napoli. Una lettura pi articolata  stata recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata. Chiara d'Assisi, Roma-Bari, Editori Laterza: nel nostro affresco, Cristo  posto su di una montagna circondato dagli apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il pane alla folla in ascolto attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono inginoc- chiati San Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa Chiara, in orazione. Il dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di Giovanni (6, 3-15), ove al miracolo della moltiplicazione segue il discorso del Cristo che si presenta alla folla come il vero pane sceso dal cielo. V Agnus Dei, ripetuto quattro volte alle estremit, co- stituisce un ulteriore richiamo all'eucaristia. Sembrerebbe in tal modo prevalere proprio il riferimento eucaristico ricorrente, peraltro, nella dedicazione ufficiale della chiesa esterna all'Ostia santa, sicch, i frati riuniti nel refettorio per il frugale pranzo garantito dalla carit di Dio, nel consumare il cibo del corpo, non avrebbero dimenticato la necessit di nutrirsi di quello dell'anima, ben pi prezioso del pane. Gli eventuali, ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli frati essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici. 45 Cadei, Assisi, S. Francesco. della navata centrale erano infatti decorate con Storte dell'Antico e del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa Leone I, distrutte nel corso dei lavori di costruzione del nuovo S. Pietro, ma fortunatamente descritte da Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico Tasselli da Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla Genesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla parete sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la Passione di Cristo. Questi affreschi costituirono: il prototipo fondamentale per le successive decorazioni con scene vetero e neotestamentarie che da Roma si diffusero in tutta Italia e in gran parte d'Europa... la prima e pi completa esposizione per immagini dei principali episodi biblici ed evangelici a livello di pittura monumentale. Un folto gruppo di affreschi tipologici deriv direttamente da quelli di S. Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio della basi- lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonch degli affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di Ceri, di S. Giovanni a Porta Latina, di S. Maria in Monte Domi- nico a Marcellina, di S. Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di S. Tommaso nel duomo di Anagni, dell'Annunziata a Cori, ed anche [Cfr. A. Tomei, La basilica dalla tarda antichit al secolo XV, in La basilica di San Pietro a Roma, a cura di C. Pietrangelo Firenze, Cantini, nonch H. Kessler, Caput et speculum omnium ecclesiarum: old St. Peter s and church deco- ration in medieval Latium, in Italian church decoration of the Middle Ages and early Renaissance: functions, forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna, Nuova Alfa. II ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre quello neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V Ul- tima cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro pittori. Nulla ha dunque a che vedere con questi affreschi la presenza nella chiesa di quindici fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma (Biblioteca Nazionale di Torino, Cod.), e da alcune lettere di Angelo Clareno del 1313, e cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole, a cura di L. von Auw, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo. Pi in generale, sostengono un collegamento tra gli Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi una vera e propria influenza del filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A. Collins, Greater than Emperor. Cola di Rienzo and the world of Fourteenth Century Rome, Ann Arbor, The University of Michigan Press.; Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age, Berkeley, Los Angeles, New York, The University of California] dei restauri cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di Vescovio. Gli stessi affreschi vetero e neotestamentari della basilica superiore di Assisi derivano dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si tratta certamente di cicli piuttosto complessi: cos a S. Pietro gli episodi veterotestamentari erano quarantasei, a S. Paolo trentotto, a Ceri venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello iconografico fu ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una notizia offertaci da Beda il Venerabile relativamente all'importazione da Roma all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di tavole dipinte di contenuto tipologico. Dal dodicesimo secolo in poi i cicli tipologici risultano sempre pi elaborati, come dimostra la pala d'altare di Klosterneuburg, costituita da placche di bronzo smaltato champlev, completata da Nicola de Verdun Su questo ciclo cfr. S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il contatto con i prototipi, in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di studi Parma cur. Quintavalle, Parma-Milano, Universit di Parma-Mondadori Electa, Cfr. Romano, La morte di Francesco: fonti francescane e storia dell'Ordine nella basilica di S. Francesco d'Assisi, in Zeitschrift fur Kunstgeschichte, ed E ad., La basilica di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative, Roma, Viella, Constituto ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli, consti- tuto et Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis spatio quinta vice de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper aecclesiasticorum donis commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia voluminum sacrorum; sed non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere ditatus. Nam et tunc do- minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei genetricis, quam in monasterio maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret, adtulit; imagines quoque ad ornandum monasterium aecclesiamque beati Pauli apostoli de concordia Veteris et Novi Te- stamenti summa ratione conpositas exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo- laretur portantem, et Dominum crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima super invicem regione, pictura coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse exaitato, filium hominis in cruce exaltatum conparavit e cfr. Beda, Vita quinque sanctorum abbatum, IBiblioteca Augustana (Bibliotbeca latina, Latinitas medievalis) a cur Harsch (Fachhochschule Augsburg) basata su Venerabilis Baedae Opera Historica, ed. Plummer, Oxonii, E typographeo Clarendoniano, fh-augsburg.de/~ Harsch/ Chronologia/ Lspost08/ Bede/bed quin.html. In alto nella pala sono poste diverse scene veterotestamentarie accadute prima della legge {ante legem), al centro sono le corrispondenti scene neotestamen- tarie (sub gratia), ed in basso le corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la legge (sub lege). Ad esempio: le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di Cristo e del mare di bronzo del tempio vanno considerate in corrispondenza; cos pure l'episodio di Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo nel sepolcro e Giona nel ventre del pesce, e cos via, cfr. H. Buschhausen, The Vennero redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio allo scopo di indicare al pittore o allo scultore i collegamenti tipologici tra gli episodi testamentari. Tra questi si ricorda il Victor in Car- mine 52, opera di un anonimo monaco cistercense inglese del XII secolo, il quale, pur essendo contrario alla decorazione figurata delle chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le rappresentazioni tipologiche poich potevano fungere da efficaci libri laicorum. Ma, certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di Walafrido Strabone completata da Niccol di Lira, vera e propria sintesi dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa. Orbene, proprio i temi tipologici rientravano certamente anche nel repertorio di Giotto. Oltre alla discussa partecipazione del Mae- stro all'esecuzione di alcuni episodi dell'Antico e del Nuovo Testa- mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi, sappiamo, soprat- tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto esegu Storie dei due Testa- menti nella basilica di S. Pietro a Roma, nella cappella palatina del Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento nella SS. Annunziata a Gaeta. D'altro canto, la biografia dello stesso Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun: Art, Theology and Politics, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes, Victor in Carmine. Ein Handbuch der Typologie Nach der Handschrift des Corpus Christi College, Cambridge, a cur. Wirth, Berlin, Mann, Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue fonti, Mi- lano, Jaca, Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in Giotto. Bilancio critico di sessantanni di studi e ricerche, Firenze, Giunti; Zanardi, Giotto e Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco, Milano, Skira; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the upper Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and considerations of method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a cura Cook, Leiden- Boston, Brill. Scrive infatti Vasari: il papa avendo vedute queste opere e piacendogli la maniera di Giotto infinitamente, ordin che facesse intorno intorno a San Pietro Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo: onde cominciando fece Giotto a fresco l'Angelo di sette braccia che  sopra l'organo; e molte altre pitture, delle quali parte sono state da altri restaurate a d nostri e parte nel rifondare le mura nuove, o state disfatte, e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al primo Giubileo, in La storia dei Giubilei, a cur. Fossi, Roma, BNL, Questi affreschi furono ed andarono purtroppo distrutti durante il regno di Ferrante d'Aragona, e cfr. Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss. 57 Scrive Vasari: partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si ferm a Gaeta, dove gli fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento Giotto lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo I suoi committenti e protettori erano strettamente legati alla corte pontificia, come quel fra Mincio da Morrovalle, ministro generale dell'Ordine minoritico, che lo chiam ad Assisi o il cardinale Jacopo Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in ma- niera imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di prestare danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon- tano da scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizionalmente attribuita la canzone Molti son que che lodan povertade, che contiene una vera e propria invettiva contro la povert, ritenuta istigatrice di delinquenza, causa di sovversione sociale e di ipo- crisia 60 . Ritornando a S. Chiara, in realt, i frammenti di affresco a contenuto narrativo pi sicuramente riconducibili a Giotto ed alla sua bottega sono quelli conservati nel coro o oratorio interno delle monache. Sulla parete che divide appunto l'oratorio dalla chiesa esterna pu osservarsi ci che resta di un Compianto sul Cristo depo- sto, che lascia ipotizzare, pur in mancanza di pi precise evidenze, che l'intera parete fosse affrescata con scene della Vita di Cristo, forse principalmente episodi della Passione, secondo quanto realiz- zato nei cori di altri monasteri delle Clarisse. In particolare, nel coro di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61, qualche tempo dopo la canonizza- Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non per in modo che non vi si veggia benissimo il ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande molto bello, per la citazione cfr. la precedente nota 11. Lo ammette lo stesso Leone de Castris, Giotto a Napoli. Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino, Einaudi. Giotto affittava telai ai tessitori meno abbienti realizzando profitti del 120%. Alcuni documenti attestano il suo ruolo di garante di prestiti e, nel 1314, risulta assistito da ben sei avvocati in atti contro debitori morosi o insolventi. 60 Tra l'altro il componimento precisa: Di quella povert ch' contro a voglia/ Non  da dubitar ch' tutta ria,/ Che di peccar  via, / Facendo ispesso a giudici far fallo;/ E d'onor donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza e villania; /E ispesso usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo. La canzone fu estratta dal codice 47 pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul codice riccardiano e pubblicata da F. Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento autori: dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo, Prato, Ranieri Guasti. Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e racconto in un appa- rato pittorico dottrinale di una comunit femminile pauperista nel tardo medioevo, in II collegio Principe di Piemonte e la chiesa di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M. Rak, Roma, INPDAP, nonch S. Romano, Gli affreschi di San Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklster im Sptmittelalter. Die zione di Chiara avvenuta nella cattedrale di quella citt, ove fu conservata la relativa bolla pontificia, e, comunque, entro il 1263, vennero appunto dipinte le Storie della Passione di Cristo. Questo notevole ciclo si articola negli episodi dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima cena e lavanda dei piedi, Cattura e flagellazione di Cristo, Deposizione e discesa al limbo, Noli me tangere e missione degli Apostoli, Giudizio universale, che dovevano servire anzitutto come strumento di memoria nei momenti pi solenni della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto) della preghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle stesse scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche visivamente, la storia della redenzione fino alla morte ed alla resurrezione del Salvatore. Le sofferenze di Cristo, rappresentate in maniera reali- stica e cruenta, offrivano dunque alle Clarisse occasioni di medita- zione e di riflessione. Gli episodi della vita del Salvatore, inoltre, erano costantemente richiamati negli scritti dedicati alle Vite di San Francesco e di Santa Chiara, e per quest'ultima, gi nella Leggenda redatta da Tommaso da Celano. Perci, gli affreschi cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso prome- moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle vite parallele di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture edificanti, i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor- rendo necessariamente la realizzazione di cicli tipologici completi che comprendessero cio anche le Storie dei due Santi francescani Kirchen der Klarissen una Dominikannerinnen, Monaco, Michael Imhof, II ciclo della Passione nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue, in realt, con l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta visi- vamente al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati inginocchiati anche una badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato da frati, in veste di donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un riquadro nel quale sono dipinti i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle monache della basilica di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale cappella di San Giorgio vennero eseguite, invece, oltre che le Storie della Passione di Cristo, pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di Resurrezione, Deposizione dalla croce, e Deposizione nel sepolcro, anche quelle zW Incarnazione con lAnnunciazione, la Nativit, e l'Adorazione dei Magi, e cfr. C. Jaggi, Frauenklster im Sptmittelalter. A Napoli dev'essere infine ricordato il notevole ed articolato ciclo della Passione affrescato, sulle pareti del coro delle Clarisse della chiesa di S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine ed alle Meditationes Vitae Cristi dello pseudo-Bonaventura ed articolato in diciassette scene. In particolare, in tre registri di cinque scene ciascuno, pi due: Come si  cercato di dimostrare, il riferimento alla esaminata Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la scelta dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella basilica di S. Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto improbabile. Non molti anni or sono Richard Krautheimer, nei Poscritti ad un suo aureo saggio di introduzione alla iconografia architettonica, Ultima cena; Comunione degli Apostoli) Cristo lava i piedi a San Pietro; Orazione di Cristo nell'orto; Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia l'orecchio a Malco; Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di Pietro, derisione di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta, flagellazione di Cristo; Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio e poi davanti ad Erode; Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova flagellazione; Cristo privato delle vesti e sua ascesa al Calvario, nuova spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce; Crocifissione; Deposizione dalla croce, lamentazione sul corpo e sepoltura di Cristo; Discesa al Limbo e resurrezione di Cristo; Le Marie al sepolcro, Noli me tangere, apparizioni di Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; Apparizioni di Cristo alle due Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a San Pietro; 1Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor, poi sul monte degli Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulit di San Tommaso; Ascensione; Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di suscitare la compassione delle mona- che per le ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio delle Vergine Maria, non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di San Francesco, e di offrire, soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima Cena, della Comunione degli Apostoli e della Cena di Emmaus, l'occasione di una contemplazione eucaristica che era loro preclusa dal vivo, durante l'elevazione dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in proposito, A.S. Hoch, The Passion cycle: images to contemplate and imitate amid Clarissan clausura, in: The church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography and patronage in fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott, Aldershot, Ashgate. Per la traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an Iconography of Medieval Architecture, comparso sul Journal of Warburg and Cour- tauld Institutes, si veda R. Krautheimer, Introduzione a un'i- conografia dell'architettura sacra medievale, in Id., Architettura sacra paleocri- stiana e medievale, Torino, Bollati Boringhieri, in particolare alle pp. 144ss., comprendente i Poscritti. In questo saggio Krautheimer propone le sue osservazioni sulla copia parziale architettonica che caratterizza l'imitazione, durante il Medioevo, dei pi prestigiosi edifici sacri non in termini di copia puntuale e corrispondente (copia totale), ma di copia rielaborata, e cfr. al riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea- ning, con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia, traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal- terliche Architektur als Bedeutungstrger, Berlin e W. Schenkluhn, Iconografia e iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel contesto: funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca. Per alcuni rilievi critici sulla tesi della copia parziale, cfr., comunque, B. Brenk, Originalit e innovazione nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura Castelnuovo e Sergi, Torino, Einaudi. GAGLIONE rilevava come spesso l'interpretazione simbolica delle piante degli edifici medievali fosse avvenuta post factum, e cio dopo l'effettiva adozione delle forme decisa per altre motivazioni. Molto frequente- mente, cio, si  attribuito al committente ed all'architetto ci che nell'edificio aveva voluto vedere a posteriori il teologo medievale, o, altrettanto spesso, solo l'interprete moderno. Gli importanti studi iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di Erwin Panofsky e di Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche a scoper- chiare una specie di vaso di Pandora dal quale sono poi fuoriuscite interpretazioni simboliche a tutti i costi, per amore o per forza. Invece, l'indagine sui significati dell'opera architettonica ed, in ge- nere, dell'opera d'arte dovrebbe essere svolta in modo che quanto  possibile diventi probabile, perch la relazione ipotizzata abbia un carattere di causalit ben definito, rilevabile da numerosi e dif- ferenti indizi 64 . Sembra invece che proprio la mancanza di questi numerosi e differenti indizi non consenta di sostenere n l'ispirazione gioachi- mita degli affreschi, n la pretesa matrice francescano-spirituale della pianta della basilica di S. Chiara a Napoli. Gaglione, Krautheimer, Introduzione, cit., p. 146. Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II, tav. XVIIIa. Come illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni Battista sono trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha compiute le sue opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si  riposato dalle opere del primo stato, infatti la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni Battista. Per tali motivi occorre attenersi a ci che affermano i Santi Dottori, in ordine al fatto che le due et, e cio la sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perch, compiuti i sei tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perch al popolo di Dio  stato concesso un tempo sabbatico durante il quale potesse riposare dalla servit della legge, una volta acquistata la libert dello Spirito Santo, poich dov' lo Spirito del Signore l  la libert. Questa definizione delle sei et riguarda propriamente la persona del Padre poich, evidentemente, il Padre, per mostrarsi signore effettivo di tutta la terra, ha preteso dai suoi sudditi l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com- piutisi questi tempi, in seguito, nel settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che gli hanno obbedito, l'affetto dell'amore e la libert della grazia nello Spirito Santo, perch lo stesso Spirito  amore, e dove c' l'amore c' la libert. Proprio per questo, infatti, l'Apostolo dice: dove  lo Spirito del Signore l  la libert. In conformit a tale generale definizione, riguardo alle sei et del mondo occorre seguire quello che affermano i Santi Dottori, e cio che nel sesto giorno feriale  rappresentata la sesta et del mondo, nel sabato  significata la settima et, e nella domenica l'ottava et, e poich il sesto giorno  destinato alla fatica, il settimo  riservato al riposo. Quel sabato sar dunque colmo della gioia e della letizia di tutti gli eletti, e ci sia perch l'esercito dei santi martiri e degli altri giusti sar riunito in Cielo e regner con Cristo, sia perch al popolo di Dio verr concessa quella tregua sabbatica perch possa riposarsi dalla fatica della sofferenza che ha sopportato nel corso dei sei tempi gi quasi compiuti, e perch obbedisca al Signore nella libert dello Spirito, poich dov' lo Spirito del Signore l  la libert. Questa definizione delle sei et viene comunemente riferita al Padre ed al Figlio, poich Padre e Figlio sono un unico Dio. Infatti, cos come ciascuno dei due singolarmente considerato  vero Dio, altres considerati insieme essi non sono due dei ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente somiglianti al Padre ed altre al Figlio, cos che essendo appunto uniti assieme si manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i loro nomi. Diversa  la persona del Padre come diversa  la persona del Figlio, tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E poich l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due ma da en- trambi,  chiaro che lo stesso Spirito sia in comunione con il Padre ed il Figlio dai quali, appunto, procede all'infinito. Questa definizione dei sei tempi o et concerne pi propriamente la persona del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro univer- sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle sei et. Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli mostra nel suo Spirito abbondanza d'amore e piena libert di grazia, poich il timore non  compatibile con la carit, e perch la perfetta carit allontana il timore. In questa Figura viene quindi esposto un grande mistero riguardante particolar- mente la fede cattolica. Tutte le cose che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza. La vera sapienza consiste nel conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in particolare, attraverso le cose che sono state rese visibili, nel comprendere i sui aspetti invisibili e nel contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il Signore nel Vangelo: il Padre mio opera nello stesso modo nel quale opero anch'io. Perci  come se dicesse: mio Padre ha operato cos che attraverso le opere compiute a sua immagine nel primo stato del tempo, potesse dimostrare di essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero cose simili in questo secondo stato, cos che n il Padre potrebbe agire senza di me, n io stesso potrei operare senza il Padre, e ci per dimostrare di essere identico a mio Padre, poich egli  Dio cos come sono io stesso Dio, ed Egli stesso  onnipotente cos come io sono onnipotente. E, dunque, le opere del primo stato attengono specificamente alla persona del Padre, mentre le opere del secondo stato riguar- dano la persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi possono essere riferite le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio sono infatti due persone. Ciascuno di loro  Dio ed al contempo entrambi sono un unico Dio. E cos anche lo Spirito Santo viene detto Spirito del Padre perch procede dal Padre ed in conformit a lui. Infatti non siete voi a parlare ma  lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Viene anche definito Spirito del Figlio perch procede dal Figlio conformemente a lui, secondo quanto si afferma: Dio ha immesso nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che dice: Abba, Padre!. Ed altrettanto l'Apostolo dice dello Spirito Santo: dove  lo Spirito del Signore Ti  la libert. La servit riguarda i sei giorni ed i sei giorni significano i sei tempi, la libert invece concerne il settimo giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo il settimo giorno ed il settimo tempo sono denominati sabato e riposo. Bisogna considerare attentamente che dopo i sei tempi tribolati del primo stato  stata concessa libert e riposo nello Spirito Santo, e considerare altres fino a che punto il popolo dei fedeli abbia sopportato la servit ed il giogo della legge per servire il suo Signore nella libert dello Spirito, poich, come dice l'Apostolo: non avete ricevuto lo Spirito della servit ancora una volta nel timore, ma avete ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale per il quale possiamo dire: Abba, Padre!. Perci, poich lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi spetta il sabato e la libert, era necessario in conformit a ci, che la settima et iniziasse dal momento in cui Cristo  venuto nel mondo, perch questa et  stata concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per tale ragione  stato inviato nello stesso tempo lo Spirito Santo, perch iniziasse quella et. Allo stesso modo, dopo i sei tempi faticosi di questo secondo stato che, in conformit a tale spiegazione,  iniziato con Ozia, ovvero con Mos, verr conferita al popolo Cristiano la libert, non vi  dubbio, nello Spirito Santo, affinch si vedano svelate le cose che fino ad ora risultano ancora oscuramente percepibili solo come di riflesso. E cos noi stessi procederemo di glorificazione in glorifi- cazione, e dallo Spirito del Signore verr concessa la pace, nonch il sollievo wmasS dalla croce perch si possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni. Ci accadr dopo i sei faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto essere pertinenti piuttosto al Figlio, perch lo Spirito Santo dimostri di procedere dal Figlio di Dio. Esso stesso lo definir Spirito che procede dal Padre, perch solo uno e sempre lo stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la glorificazione della settima et  stata rimandata fino a questi tempi, poich i tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che  stato concesso solo in parte e non integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che sono destinati alla fatica dei cristiani.  dunque per quanto annunziato dal Padre e dal Figlio che crediamo che ognuno di loro sia vero Dio, e, cio, che il Padre non sia generato da alcuno come Dio ed altres che il Figlio derivi come Dio da Dio. Poich, in realt, il Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito Santo, non sono simultaneamente due dei ma un Dio solo, secondo quanto afferma il Figlio nel Vangelo dicendo: Quando verr lo Spirito Santo che io invier a voi dal Padre, occorrer che si concludano in altro modo le sette et, in maniera che vengano conteggiate fino a Cristo cinque et, ed, inoltre, la sesta fino alla definitiva incarcerazione di Satana, ed, ancora, la settima fino alla resurrezione dei morti. IL SALTERIO A X CORDE UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA MEDIEVALE Questa ricerca si colloca all'interno del seminario tenutosi a Pavia nel secondo semestre "Teologia e altri saperi nel Medioevo" e vuole essere un contributo alia comprensione del difficile rapporto tra teologia e musica in quest 1 epoca. In particolare verra presa in esame la figura del salterio a dieci corde come esempio di un punto di contatto tra le discipline. Quello die tradizionalmente e considerato lo strumento biblico per eccellenza, viene infatti "preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione teologica medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e allegorica ne arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una introduzione relativa alia storia dello strumento in epoca biblica e medievale si considereranno nello specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in cui l'autore recupera l'immagme in un contesto prevalentemente teologico-morale, e si proporra quindi una disamina del Primo libro del Salterio a dieci corde di F., per mettere in luce la valenza mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il filo conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare, nell'ambito di una riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un contesto dichiaratamente teologico, ma che trae motivi e sostegno argomentativo dal riferimento all'immagine di uno strumento musicale, delle possibili influenze, o in qualche modo degli spostamenti di traiettoria, dovuti all'interazione tra le due discipline. Una breve storia del salterio a dieci corde. L'interesse particolare per il salterio a dieci corde ha origine nel testo biblico. Il Libro dei Salmi indica questo strumento come il piu adatto per accompagnare il canto dei versi, e sembra essere attribuita alio stesso Davide una certa abilita nella pratica di tale arte. Se i risultati della moderna esegesi sembrano concordare nell'attribuire alia figura di Davide un ruolo fondamentale nel processo di rinnovamento e di consolidamento di una pratica musicale aH'interno della comunita ebraica 1, risulta ben piu problematica la collocazione definitiva dello strumento in questione. La piu recente traduzione del Testo Sacro, in diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione piuttosto generica di "strumento a corda" dei termini di poco chiara comprensione musicologica. Il libro della Genesi, particolarmente ricco di riferimenti a pratiche e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo strumento nel quale Davide eccelle. Dalla narrazione si evincono delle caratteristiche che potrebbero awicinare come tipologia di strumento il kinnor e la lira greca chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la pratica musicale di tale strumento prevede l'utilizzo di un plettro per pizzicare le corde, il che sembra essere in contrasto con la traduzione proposta nella versione dei Settanta: il termine psalterion rimanda infatti etimologicamente al verbo psallein, che significa letteralmente "pizzicare con le dita. Nel periodo dei Re la scena musicale di Israele muta radicalmente: proprio sotto l'impulso di Davide e di Salomone si sviluppa un'organizzazione e un'istituzionalizzazione delle pratiche musicali all'interno della comunita. Nasce la figura del musicista di professione, comincia a distinguersi in modo netto la musica di corte dalla musica del Tempio, si costituisce una vera e propria accademia come luogo dell'educazione musicale, e vengono inseriti, accanto a quelli tradizionalmente usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni di questi, come per esempio il nevel, possono fornire delle utili indicazioni a proposito del nostro strumento. Il nevel e certamente uno strumento a corda: nella versione dei Settanta il termine e reso attraverso l'utilizzo di tre parole distinte, una delle quali e proprio psalterion. La Una tale interpretazione prende le mosse direttamente dal testo biblico, che in piu punti sembra concordare nell'attribuire a Davide il ruolo di "poeta" e di "musico": cfr. 1 Sam 16, 16; 18, 10; 2 Sam 1, Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo di C. Sachs, Storia degli strumenti musicali, Papini, Mondadori, Milano] trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento simile all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che psalterium lignum illud concavum unde sonus redditur superius habet. Sembra quindi possibile associare la struttura del nevel a quella dell'arpa verticale angolare, diffusa sia nell'area greca che in quella fenicia. La questione e pero ulteriormente complicata da un altro termine che nel libro dei Salmi compare frequentemente associato a nevel, ed e legato strettamente alia problematica del salterio a dieci corde: il termine asor. Questa parola letteralmente significa "dieci". L'esegesi ha piuttosto uniformemente interpretato tale accostamento come il riferimento ad uno strumento musicale con dieci corde. Piu recenti studi musicologici hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere piu correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma come sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento autonomo, a riguardo del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe essere infatti proprio questo lo strumento a dieci corde da cui ha preso spunto la traduzione greca, come del resto non sembra possibile escludere la possibility che il salterio a dieci corde sia stata una "invenzione" dei traduttori greci e latini che non trova una corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche. La problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda in epoca medievale e ancora oggi piuttosto incerta. Sicuramente e attestabile una ampia diffusione di arpe e cetre, che differivano pero tra loro anche notevolmente per quanto riguarda la forma, le dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il salterio e senza dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in particolare ad uno strumento a corde pizzicate provenienti dall'area meridionale del Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal santir, che costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area asiatica, la cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde attraverso l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che la prima rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al salterio risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de Compostela, e che [Dalla lettera di Gerolamo a Dardano. La citazione si trova in C. Sachs, Storia degli strumenti musicali. Per una disamina della questione in epoca medievale, oltre al gia citato testo di Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e Alberto Gallo, La polifonia nel medioevo, EDT, Torino. in generale tali rappresentazioni sono piuttosto rare prima del '300. Da queste considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca in cui maturano le riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva uno strumento chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione comincia ad avere una certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda del medioevo. Bisogna infine tenere presente sullo sfondo il difficile rapporto in epoca medievale tra musica liturgica e pratiche strumentali, che rimane un tenia di ampio dibattito per la storiografia moderna. Questo sembra awalorare l'ipotesi secondo cui la ripresa deH'immagine dello strumento trae origine da un contesto esegetico-teologico molto prima che dall'osservazione di una pratica musicale vera e propria. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died corde". Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde" rappresenta un punto essenziale per la comprensione e la formazione dell'immagine "teologica" dello strumento in questione. Le attuali conoscenze del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne la data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto propriamente teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un percorso di crescita morale per il credente basato sull'osservanza dei dieci comandamenti. L'argomentazione trova quindi la sua forza nel parallelismo che si instaura tra i dieci precetti divini e le dieci corde del salterio. Il punto di partenza consiste nell'indicare la necessita di trovare un accordo con l'avversario, che viene identificato con la parola di Dio, dal momento che comanda cose contrarie a quelle che fai tu 5 . In un certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio identificabile con la nostra disposizione interiore, che ci allontana da un comportamento moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le disposizioni interiori risulta infatti molto pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto da un lato si e spinti ad assecondarle poiche procurano un piacere immediato, dall'altro proprio tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e rappresenta quindi una minaccia per la vita ultraterrena. Allora Agostino, Tractatus de decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato sul salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta Nuova, Roma. perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro? L'emergere di questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso schema sopra rilevato alia musica. Sembra delinearsi infatti una concezione ambivalente di tale disciplina: da un lato, nel suo corretto uso, rappresenta uno strumento di grande forza ed espressivita interiore, che puo permettere all'uomo di innalzarsi verso la sfera divina. Dall'altro, se considerata nella sua dimensione sensibile, puo essere la fonte di un appagamento dell'orecchio che rappresenta un motivo di corruzione. Va notato che una tale impostazione e riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in primis nel De musica, ed e un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga tradizione filosofica riconducibile come minimo a Platone 7 . La problematica ha avuto una grande fortuna nella discussione della prima patristica 8 in relazione alle modalita della pratica religiosa, e rimane uno sfondo obbligato per la comprensione della musica cristiana in tutto il Medioevo 9 . Su questo sfondo Agostino introduce il tema piu propriamente morale, recuperando la figura del salterio: ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono del salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi cantero quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha dieci comandamenti. 10 L'asprezza attribuita al suono dello strumento non e evidentemente da ricondurre ad un ambito musicale, quanto da intendere in senso figurato come metafora della difficolta del cammino da compiere per ottenere la benevolenza divina. La giustificazione del recupero deirimmagine dello strumento e indicata nel legame ideale che si instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In relazione a questo tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi molto diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime tre Si veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio. 8 Un'analisi piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106. 9 Si veda in particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica strumentale, e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica liturgica. Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di Giulio Cattin e Alberto Gallo. 10 Agostino, Sul salterio a dieci corde., corde, che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che danno disposizioni relative al comportamento verso i propri simili. Sebbene l'intento primario del discorso non sia un intento musicale, la metafora istituita tra il percorso cristiano e la figura del salterio e portata fino in fondo: dal corretto utilizzo dello strumento, che corrisponde al rispetto disciplinato dei comandamenti, emerge il canto nuovo, che si contrappone al vecchio proprio come l'uomo nuovo, che nasce a seguito della venuta di Cristo, si contrappone all'uomo dell'Antico Testamento. Il canto d'amore che nasce con Cristo prende il posto del timore, che lega l'osservanza della legge alia paura della punizione divina. E 1 questo il nocciolo argomentativo del discorso, e il tema viene ribadito in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma: Cambiate il comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate Dio. Se lo fate con amore, cantate il canto nuovo. Se lo fate con timore, ma lo fate, portate si il salterio, ma ancora non cantate n . Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine del discorso, l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una metafora che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza dei comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di ringraziamento a Dio per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di lotta interiore contro la passione sensibile. Il credente, quindi, deve comportarsi da un lato come il suonatore di cetra che innalza le sue lodi a Dio, dall'altro come il gladiatore che uccide senza compassione le belve nell'arena. Il passo merita di essere citato testualmente: Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso da chi suona la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le dieci corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade la bestia della superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale non pronunci erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la bestia dell'errore delle nefande eresie che hanno creduto falsamente. Tocchi la terza corda, per cui qualunque cosa fai la fai per nella speranza del riposo futuro, viene uccisa la bestia, piu crudele delle altre, dell'attaccamento a questo mondo. Lo stesso discorso vale per i successivi sette comandamenti, che enunciano i nostri doveri verso gli uomini, fino a che M, p. 165. 12 Ivi, p. 173. cadute tutte le bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio e in mezzo alia societa umana. Quante bestie uccidi toccando le dieci corde! Molti capi infatti si nascondono sotto questi vizi capitali. Nelle singole corde non uccidi singole bestie, ma greggi di bestie. Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con amore, non con timore. Il canto nuovo, dunque, si puo innalzare attraverso l'osservanza dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una contrapposizione tra l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul timore l'osservanza della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la rivelazione di Cristo che basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo la propria condotta. In questa contrapposizione e centrale l'elemento del canto: il canto esteriore, che si fonda sull'appagamento sensibile, rappresenta la pratica musicale dell'uomo vecchio, mentre il canto interiore, che innalza il nostro animo a Dio, e proprio dell'uomo nuovo. E' quindi significativo come, attraverso il ricorso alia musica, Agostino voglia argomentare la pericolosita delle passioni terrene. Nella sua intrinseca ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita, proprio la musica diventa il modello della fragilita e della corruttibilita dell'uomo: anche un elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo trasformarsi in una causa di corruzione per colui che non si comporta in conformita alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e il suo compimento all'interno di un contesto teologico-morale, risulta certamente arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a questa metafora musicale. Negli ultimi capitoli del discorso Agostino, seguendo uno schema piuttosto consolidato, traduce l'argomentazione fino a questo punto esposta in un lessico neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere sintetizzato nelle formule evangeliche ama il prossimo tuo come te stesso 14 e non fare agli altri cio che non vuoi sia fatto a te 15 . Conseguentemente, l'immagine del canto interiore ed esteriore viene riformulata attraverso l'espressione siate cristiani, perche e troppo poco chiamarsi cristiani. 16 E' importante notare come le riflessioni qui proposte siano presenti, seppur in maniera meno sistematica, nei commenti di Agostino ai Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i dieci 13 Ivi, p. 175. 14 Mt 19, 19; Mc 12, 31; Lc 10, 27. 15 Mt 7, 12; Lc 6, 31. 16 Agostino, Sul salterio a dieci corde. comandamenti e le dieci corde del salterio, nel commento al Salmo 143 il tema centrale del canto nuovo che nasce attraverso la carita 17 . Questo particolare e di una certa rilevanza per la nostra ricerca, dal momento che permette di dare per scontata la conoscenza delle posizioni agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto implausibile infatti pensare che l'abate cistercense non conoscesse il testo delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da dare per scontata la conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza voler in questa sede risolvere un problema che meriterebbe una piu approfondita indagine storiografica, si vuole rilevare che la ripresa delle posizioni agostiniane da parte di F., in questo contesto argomentativo, si riferisce sicuramente ai passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre sembra trascurare alcuni elementi che pur assumono una importanza non secondaria nel Discorso. Il "Salterio a dieci corde" di F.: il contesto storico e il Prologo Lo Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo di F. sul tema della trinita, ed e dunque da inquadrare aH'interno di uno dei dibattiti piu accesi della discussione teologica del XII secolo. In seguito al confronto, di vastissima risonanza, che vide contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo di Clairvaux, la disputa fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di Pietro Lombardo, tra gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera suscitarono aspre [Si veda anche il commento al Salmo 91 dove compare il tema sintetizzabile nella massima siate cristiani, non ditevi cristiani. Un altro tema particolarmente ricorrente nelle Enarrationes consiste nella differenza tra la cetra e il salterio. Nell'interpretazione agostiniana infatti in relazione alia differente disposizione della cassa di risonanza i due strumenti rappresentano lo spirito (il salterio, che ha la cassa disposta verso l'alto) e la carne (la cetra, la cui cassa e invece orientata verso il basso). Il tema compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150, 6-7. Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo: c'e una differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il salterio ha nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le corde e fa da cassa di risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore. Il riconoscimento di un particolare cosi macroscopico non sembra certo necessitare il riferimento a giudizi "esperti". Si potrebbe pensare, addirittura, che Agostino non avesse mai visto personalmente gli strumenti in questione. critiche da parte di diversi opposition 18, tra i quali proprio F.. Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli argomenti sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere condannata la sua stessa opera nel IV Concilio Lateranense. Il nocciolo della disputa e la distinzione tra sostanza e persone divine, che risulta comunemente accettata nelle principali scuole teologiche del XII secolo. F. arriva a sostenere la follia di una tale impostazione, teorizzando, al contrario, la perfetta compenetrazione e corrispondenza tra la sostanza e le persone della trinita. Nella sua ottica, l'unita inscindibile che caratterizza la trinita non puo prevedere distinzioni di alcuna sorta: e piuttosto il carattere relazionale che permette di garantire la fusione perfetta tra le tre persone, e alio stesso tempo il loro riconoscimento singolare, come dimostra chiaramente la figura del salterio. Distinguendo la sostanza dalle persone della trinita, invece, Lombardo e come se mettesse tre dieci al posto delle tre persone, e un quarto dieci al posto della sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma una quaternita 19 . La figura argomentativa che viene posta al centro della critica e quella tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa radice: la sostanza, secondo questa metafora, sarebbe distinguibile dalle tre persone divine, proprio come i rami lo sono dalla radice, dalla quale pure tutti sono generati. Per F., al contrario, l'immagine a cui si dovrebbe fare ricorso e quella dell'acqua, che come linfa vitale scorre aH'interno dei rami stessi. Da questi passi si puo dunque intuire come l'obiettivo polemico principale sia proprio l'autore delle Sententiae, anche se e da rilevare che il suo nome non viene mai citato esplicitamente. I nomi che ricorrono in piu punti, invece, sono quelli degli eretici Sabellio e Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il primo, la trinita ad una sola persona 20, mentre il secondo nel separare in modo inconciliabile le tre persone, che vengono distinte per grado dimensionale: come se al Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio [Si ricorda ad esempio Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande influenza sul Papa Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu puntuale del dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza, Roma Bari. G., ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, Viella, Roma. Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e indivisibility di Dio, formato da una sola persona, l'ipostasi, e tre nomi, che descrivono le diverse forme o attributi propri della sua manifestazione. Il figlio e lo Spirito Santo sono quindi soltanto "modi" dell'apparire del Padre scelti in base al proprio volere. Spirito Santo un numero piu piccolo. 21 La stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica particolare, di cui e lo stesso F. ad informarci. Il Prologo dell'opera, infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi di questo opuscolo dedicato alio Spirito Santo, che rappresenta la terza delle sue opere principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in queste pagine e la spontaneita e l'immediatezza che hanno caratterizzato l'elaborazione e la stesura di tale opera. Gli anni in cui questo awiene sono quelli del soggiorno presso l'abazia di Casamari: anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui F., lontano dagli affari del mondo, o quasi, arriva a sentirsi addirittura un abitante della citta superiore, celeste di Dio 24 . Si tratta degli anni tra il 1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti alia Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a termine solo qualche tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera, infatti, che l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata esitazione nella fede della trinita 25, che impone una riflessione su questo difficile argomento. Il lavoro sulla Concordia viene quindi interrotto, nell'interesse di una problematica costitutiva ed imprescindibile per qualsiasi riflessione teologica. La stessa immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si ritrova nel percorso che porta alia scoperta di una soluzione: pregai [lo Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro mistero della Trinita. E dicendo questo incominciai a cantare i salmi. [...] Ed ecco subito mi si presento all'animo l'immagine del salterio. F., II salterio a dieci corde. La tesi fondamentale di Ario consiste nella negazione della consustanzialita tra il Padre e il Figlio, a partire dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile con la pluralita delle persone divine. Il Figlio, quindi, non ha la stessa natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la conseguenza che l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono essere considerati eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica del IV secolo, e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio di Nicea. F., Il salterio a died corde, cit., p. 4. 23 Le altre due opere che costituiscono il corpus principale gioachimita sono la Concordia Novi ac Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui notato che l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come "terza" opera e sostenuta conformemente alle istruzioni date dallo stesso F.. Tale affermazione non e riconducibile a ragioni cronologiche, quanto probabilmente ad un ripensamento tematico sui propri scritti da parte dell'autore. F., Il salterio a dieci corde. 10 a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in modo chiaro e comprensibile il mistero della trinita 26 . Una vera e propria illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un percorso che sembra orientarsi ben piu sul versante mistico che su quelle- speculativo-razionale. In questo contesto il tenia del canto riveste un ruolo essenziale, come chiave di accesso ad un'intima comunicazione con la parola di Dio. Il concetto viene ribadito in un altro passo del Prologo: quando, con fervore di novizio cominciai ad amare il canto dei salmi a causa di Dio, molti aspetti della scrittura divina che prima leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono a dischiudersi a me che cantavo i salmi in silenzio. Il carattere mistico del canto, che puo innalzare lo spirito verso quei misteri che risultano oscuri alia lettura razionale, emerge in queste righe con estrema efficacia. Alio stesso tempo, pero, non si puo trascurare l'elemento del canto silenzioso, che sembra rimandare invece all'altro versante della concezione platonico-agostiniana: la valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi ricercato in un grado tale di purezza da poter arrivare addirittura ad annullare se stesso. L'indicazione di F., in questo punto, non sembra volersi spingere fino a questa paradossale conclusione, che pur e stata teorizzata da diversi autori in epoca medievale. Il recupero dell'elemento musicale, come si vedra, procede piuttosto in conformita all'impianto complessivo dell'opera, finalizzato ad esaltare le potenzialita figurali e le implicazioni visive della Sacra pagina. L'idea e di attingere a un repertorio di enti visibili per accedere ah"invisibile. Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna ed esplica, in un certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici qui proposti. Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di partenza per un percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine della razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato la coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno del riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente attingibile. Il canto silenzioso non sembra quindi poter arrivare ad eliminare la musicalita del canto sensibile, quanto piuttosto si caratterizza come la prova tangibile di un dissidio non ancora risolto, Potesta, II tempo dell'Apocalisse, di un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che dovra passare anche il confine del XII secolo prima di trovare una soluzione. La struttura dell'opera permette una divisione interna in due parti: la prima comprendente il libro primo, la seconda il libro secondo e terzo. Tale distinzione interessa sia il contenuto semantico, sia il periodo di stesura: e lo stesso F. ad informarci del fatto che il secondo e il terzo libro non li scrissi ne in quel luogo ne in quell'epoca, ma dopo circa due anni. E 1 un'informazione non sorprendente alia luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben definita. La differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte il "salterio" rappresenta lo strumento musicale fin qui considerato, e la sua ripresa e relativa alia disputa sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella seconda parte per indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale viene costruita una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul numero 150, che corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima parte si contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e spontaneita della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu pensata, piu costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero del testo sacro. Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia produzione escatologica di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si potrebbe pensare, come afferma Potesta, che il materiale che forma questi libri sia il risultato di una serie di appunti raccolti in circa un decennio di riflessioni sulla Concordia e sull'Expositio, e che trova una sistemazione definitiva piuttosto tarda. In ogni caso e evidente che e la prima parte dell'opera ad interessare piu direttamente il tema della nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del prossimo paragrafo. Il "Salterio a dieci corde" di F.: il Libro Primo Il Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello strumento musicale per indagare la ricchezza dei misteri in essa contenuti. Misteri che derivano dall'origine divina, per cui niente puo esservi di sterile o vano 30 . Il riferimento e, ovviamente, in primo luogo al testo biblico, e in particolare alia figura di Davide, autore dei Salmi, F., Il salterio a dieci corde.di cui vengono citati alcuni passi che rimandano all'utilizzo del salterio nelle pratiche liturgiche ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa in sette capitoli, o "distinzioni", in cui progressivamente vengono introdotti nuovi elementi per una comprensione che passa dal piano della semplice descrizione alio svelamento della prospettiva escatologica contenuta nella forma dello strumento. La prima distinzione introduce la figura del salterio, che viene descritto come uno strumento bello di forma, aggraziato per il suono, soave per la modulazione 32 . Le caratteristiche che compaiono in questo passo sono notevolmente diverse da quelle che si sono viste prevalere nella descrizione agostiniana, in cui aspro e il suono dello strumento di Dio 33 . Il riferimento e il confronto con gli elementi contenuti nelle Enarrationes appare del resto evidente fin dalle prime righe del capitolo: F. riprende, seppur in maniera estremamente sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra nella loro differente funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde e i dieci comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive sette. E in seguito compare il tema dell 1 uomo nuovo che e stato creato a immagine di Dio 34, che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se e facile dunque riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza delle tesi agostiniane, risulta altrettanto semplice vedere come F. proceda, ben presto, verso l'elaborazione di un percorso autonomo, che per alcune implicazioni e addirittura contrastante con le posizioni dell'ipponense. Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e suonate il timpano, il giocondo salterio e la cetra"; Sal. 150, 3: "Lodatelo col suono della tromba, lodatelo col salterio e la cetra". 32 F., II salterio a dieci corde, Agostino, Sul salterio a dieci corde 34 Ef. 4, 24. 35 La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e F. esula dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare, almeno in termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la discussione. Potesta indica proprio nel confronto a distanza con l'inquietante ombra di Agostino un motivo per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca teologica di F. (Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine centrale del dibattito consiste nel divieto espresso da Agostino di interpretare l'Apocalisse in chiave millenaristica. Questo rappresenta un grande scoglio per lo sviluppo complessivo della ricerca dell'abate calabrese, interessato, in primo luogo, proprio ad un'interpretazione della storia a partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In particolare, la chiave di volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione dei versetti del capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e imminente l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di incompatibilita tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui la [Il punto di partenza di questo percorso consiste nell 1 inter pretare in primo luogo il salterio secondo la sua forma esterna, senza fare riferimento alia natura delle corde, che invece rappresenta il principale motivo di interesse della ripresa agostiniana. La forma triangolare rimanda alia perfezione e alia natura inscindibile dell'unita trinitaria: ad ogni vertice puo infatti essere associato il nome di una delle tre persone, come si puo vedere dalla figura 1 riportata in Appendice. Si puo quindi immediatamente notare come ogni persona sia costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il vertice non puo essere individuato se non come punto di incontro delle rette che provengono dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla figura si caratterizza quindi come uno spazio indissolubilmente unitario, in cui ogni elemento non puo che definirsi nel rapporto con il tutto, ma alio stesso tempo e individuabile in uno dei tre vertici. In questo complicato rapporto e l'elemento relazionale a fondare le possibility di comprensione da parte della mente umana: ogni persona non e pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due. ll concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di relazione a qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare il singolare della parola di persona; l'unita a evitare la divisione nel concetto di sostanza. 36 Sullo sfondo del riferimento polemico alle tesi di Lombardo, risulta evidente come sia dunque la categoria di relazione ad indirizzare e guidare la mente neiravvicinamento ad un mistero che per sua essenza rimane inarrivabile per le nostre facolta razionali. Di fronte a questa presa di coscienza non e piu concesso cercare di spingersi oltre, quanto piuttosto e da accettare la massima di Bernardo secondo cui voler investigare cio e orgoglio, crederlo e pieta. Non resta dunque che un atto di fede di fronte ad un tale mistero, che per sua natura rimane ineffabile. L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio. L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso del pensiero di F., e viene qui richiamato solo per favorire la comprensione della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti dello strumento del salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire qualche interessante indicazione per una comprensione piu generale del problema. F., II salterio a died corde. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita del mistero trinitario rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina curiosamente la riflessione di F. ad un'area di indagine che ha avuto grande fortuna nell'eta moderna, riflessione uno spazio per l'elemento propriamente musicale: tra le arti e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa della sua non corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente altro. Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta razionali, che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora una possibility per mantenere aperto uno spiraglio, un punto di contatto con il mistero divino: l'elemento musicale, attraverso cui esprimere la propria invocazione di lode a Dio. Il salterio, in queste pagine, cessa di essere interpretato esclusivamente come una forma geometrica per cominciare ad essere considerato secondo la sua disposizione originaria di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi collocare il termine "Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la perfezione del canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si puo inscrivere il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto. L'ultimo passo compiuto da F. in questa prima distinzione consiste nel mettere in relazione proprio questi due elementi geometrici che contraddistinguono la forma del salterio: il triangolo e il cerchio. Questa caratteristica permette di rimarcare la sfuggente natura del mistero trinitario: nei vertici del triangolo sono infatti distinguibili le persone divine, e d' altro canto il cerchio simboleggia la loro intima connessione che forma un'unita inscindibile. La metafora puo essere estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe nell'elemento circolare che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il suono, lo strumento compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione e ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di Dio, il suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo passo biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di F. in questa prima distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si incarna in una forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una proprio nell'ambito della riflessione filosofico-musicale: si veda Jankelevitch, La musica e Vineffabile. Sebbene non si possa attribuire a F., evidentemente, alcuna intenzionalita nell'utilizzo di questo termine, il confronto tra le prospettive potrebbe portare ad interessanti conclusioni. prospettiva che permette di abbracciare la perfezione dell'immagine di Dio nella pienezza dei tempi. Di fronte a questo la ragione e costretta a fermarsi, e proprio in quel punto deve cominciare il canto. Nella seconda distinzione F. insiste sull'elemento relazionale come chiave interpretativa e risolutiva del mistero della trinita. Ricorrendo ancora una volta aH'immagine del salterio, la prospettiva e delineata attraverso l'osservazione per cui i tre vertici non possono essere considerati elementi autonomi, ma relazionali, prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che rappresentano proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo che nessun punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo spazio che pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il singolo punto isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto, che come tale e rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati dell'angolo stesso. Si puo notare, quindi, che lo spazio di ogni persona coincide con l'intera area del triangolo. Anzi, ogni area si costituisce in quanto tale, cioe come porzione delimitata di spazio, proprio attraverso la relazione con le altre due, che le impediscono di estendersi all'mfinito. La terza distinzione contiene una discussione prettamente teologica sugli attributi delle tre persone divine, e riguarda in modo meno diretto il tema della nostra ricerca. Si vuole solo osservare come anche questa prospettiva permetta a F. di insistere sul concetto di relazione come elemento centrale per una corretta interpretazione del problema: la potenza, la sapienza e la carita, caratteristiche che vengono tradizionalmente attribuite al Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non sono da concepire come elementi distinti e separabili tra loro, dal momento che tutta la trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e perfetta sapienza, tutta la trinita e perfetto amore. Conseguentemente non sono maggiori o hanno di piu le tre persone, di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello che hanno le tre insieme. Nella quarta distinzione si introduce un nuovo elemento nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma da un segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene generato il Figlio e successivamente lo Spirito Santo, che procede da entrambi. L'argomentazione assume in queste pagine dei tratti piuttosto originali, strutturandosi sulla base di un parallelismo ricercato tra F., II salterio a died corde. l'argomento teologico e la nostra modalita di scrittura. Il procedere della scrittura cristiana da sinistra verso destra starebbe infatti a conferma del fatto che la creazione ha inizio col Padre, che genera in primo luogo il Figlio (lato e vertice sinistro), la cui unione produce lo Spirito Santo (inteso come vertice destro). Al contrario, stando alle Scritture, in epoca ebraica Cristo e stato concepito attraverso il corpo di Maria per opera dello Spirito Santo Questo fatto e testimoniato dal procedere della scrittura ebraica da destra verso sinistra. F., del resto, si rende conto che gli elementi introdotti in queste pagine potrebbero indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone divine, il che sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi, spingere la lettura interpretativa ancora piu in la, osservando che il segmento superiore e tale dal momento che in origine non e soltanto il Padre, ma l'intera trinita, poiche presso Dio non c'e mutamento, ne l'ombra della vicissitudine. La forma trapezoidale del salterio indica quindi che, fin dal principio, erano presenti le tre figure della trinita: e questo l'argomento della quinta distinzione. Il confronto tra la particolare considerazione del salterio che viene fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette di mettere in luce ancora una volta la peculiarity della riflessione di F. che, basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla tra le due sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che compare nel vertice del Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio torna a essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra invocazione al divino. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della ragione, che si trova a dover contemplare l'incommensurabile perfezione dell'eterna esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale, inteso da un lato come strumento di comprensione mistica del mistero divino, dall'altro come ringraziamento per la grazia concessa. Su questo sfondo F. riprende il filo della riflessione teorica: l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita lascia aperto il problema relativo al suo manifestarsi all'interno del tempo umano: perche il divino, essendo trino fin dal principio, non si e da subito rivelato all'uomo nella sua essenza piu autentica? La domanda introduce all'interno di una prospettiva escatologica, che F. argomenta attraverso una riflessione sul percorso di maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo senso aspettare che 41 Mt; Lc ; Gv 42 Gcl, l'uomo fosse in grado di comprendere la sua rivelazione: per questo a quel popolo ancora rozzo 43 che fu quelle- dell'Antico Testamento si mostro solo come Padre, perche la sua natura trina sarebbe stata fraintesa in senso politeista. In seguito solo a qualche spirito particolarmente elevato, come quello dei profeti, e stato dato di comprendere il mistero, come dimostra Isaia che in piu punti si rivolge "apertamente" al Figlio: Signore, chi crede al nostro udito, e il braccio di Dio a chi e stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui e come una radice dalla terra assetata 44 . Solo con l'avanzare della maturazione dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, piu vecchio nell'eta 45, Dio si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo schema apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia contrapposizione Antico-Nuovo Testamento, F. fa seguire un'interpretazione ternaria del tempo della storia dell'uomo, che viene suddiviso in riferimento alle figure della trinita. L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in cui all'epoca del timore e a quella dell'amore, che tradizionalmente corrispondono al tempo della Legge e quello inaugurato con la venuta di Cristo, F. fa seguire una terza epoca, che sta per cominciare, sotto il segno dello Spirito Santo. Proprio questa epoca rappresenta il culmine del disegno divino: come la prima fu quella del Padre, e la seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del Figlio insieme, cosi la terza sara l'epoca della trinita nella sua unita perfetta, in cui saranno presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio e lo Spirito. Di fronte aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il trionfo dei giusti, l'intento e quello di ammonire coloro che abitano in mezzo a Babilonia, a fuggire da essa 47 . Il richiamo al secondo libro permette di notare F., II salterio a died corde. 44 Is 53,1. F., Il salterio a died corde. La compresenza di questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato fin da subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si e infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate, che da un lato poteva essere letto come ortodosso (in relazione al modello binario), dall'altro eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La storiografia successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi hanno provato ad interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva storica e quello ternario a quella mistica. Si noti che la questione costituisce un altro elemento di forte distanza tra il pensiero di F. e quello di Agostino. Per una piu curata riflessione sul tema si veda ancora: Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit. F., Il salterio a died corde, cit., p. 172. La citazione rimanda al versetto di Ap. 18, 4.18 come anche in questo contesto il limite della comprensione razionale, che si deve arrestare di fronte alia grandezza del disegno divino, rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove assolutamente centrale e l'elemento musicale: a noi ormai deve bastare di avere in questo modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover cantare e salmodiareTornando alia sesta distinzione, F. procede facendo corrispondere alia tripartizione della storia tre tipologie di figure umane, distinte tra loro in riferimento alia propria mansione principale. Al livello piu basso si collocano i laici, di cui e proprio il lavoro manuale, poi i chierici, che hanno come compito lo studio e l'insegnamento, e infine i monaci che si caratterizzano per il canto di lode e la salmodia. E 1 da notare come il percorso che si delinea attraverso queste tre figure non rappresenta solo il riconoscimento di una differenziazione sociale tra gli uomini, ma e anche l'indicazione per una crescita individuale che innalza l'animo verso Dio. Questi tre stadi sono resi da F. attraverso una similitudine: nello stato di timore baciamo i piedi, in quello di apprendimento baciamo le mani, nella salmodia baciamo la bocca. E dunque e buono l'inizio nel bacio dei piedi, meglio la perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio della sua bocca. L'elemento della bocca viene in questo contesto recuperato, sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per intendere il mezzo attraverso cui si dispiega nel mondo la creazione e prende forma il Verbo. Questo rimando ideale al bacio della bocca sembra quindi voler ribadire come sia proprio l'elemento sonoro a mettere in comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come canto della salmodia, mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato, dall'altro come espressione della potenza creatrice di Dio. Solo nella settima distinzione F. prende in considerazione direttamente il tema delle dieci corde dello strumento. Anche in questo F., II salterio a dieci corde. Si vuole osservare che la lettura qui proposta, che insiste sull'elemento musicale, permette di attribuire al terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a quella che sembra generalmente assumere. Se l'elemento musicale della salmodia, che contraddistingue la terza epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare le facolta della ragione, dal momento che l'avvento della pienezza divina sembra escludere la possibility di una comprensione razionale, le pagine finali, dal momento che istruiscono sulle modalita del canto, possono essere interpretate non solo come un semplicissimo libro che si limita a fornire indicazioni per la recita dei salmi, ma come un ammonimento di F. sul modo di comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito. F., II salterio a dieci corde. caso possiamo distinguere un impiego musicale dell'immagine da uno piu propriamente teologico. Il primo approccio si basa sull'interpretazione delle corde come elemento produttore di suono. Da qui si osserva che le corde sono fissate indissolubilmente, alle loro estremita, ai lati che simboleggiano il Figlio e lo Spirito, mentre la loro vibrazione si propaga verso il vertice del Padre. Questo a intendere che il nostro canto deve essere innalzato verso questultimo a partire dal messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo. D'altra parte, il suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa armonica rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta 1' indissolubility dellessere trinitario. L'interpretazione piu propriamente teologica delle corde e da collocare nel contesto escatologico in cui si chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la loro disposizione rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella citta divina, cosi che piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e breve, dal momento che sono meno coloro che riescono ad arrivarci. Alio stesso modo ogni grado risuona secondo una propria nota, in modo che la diversita degli onori adorna meravigliosamente quella santa e celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso l'unita non lascia nascere il livore. Forse in questa richiamo del suono acuto delle corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita nel percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa delle argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto a rimarcare la differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante sembra invece considerare come ultimo spunto di questo primo libro il tema dell'armonia musicale che fornendo delle regole per il bel canto awicina il nostro animo alia sfera divina. Dio fece questo perche le corde, tra loro distinte, con i diversi suoni che producono, allietino con la soavita della loro melodia quella santa citta di Dio, nella quale tutti, gioiosi, hanno la loro dimora. Per tracciare un bilancio della ricerca condotta, bisogna affermare, in primo luogo, che non emerge dai testi considerati una tesi "forte" che possa sintetizzare una presa di posizione chiara. Certamente, nel complesso, le indicazioni piu interessanti emergono dal testo di F., in cui si nota che una lettura dell'opera orientata in senso un po 1 piu musicale, potrebbe rappresentare una prospettiva attraverso cui reinterpretare alcuni passi e metterne in luce alcune sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone quindi come un primo passo che schiude degli orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata in molte direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che l'analisi dei testi considerati si inserisce nella complessa problematica del rapporto tra Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito teologico e filosofico, ben prima che in quello musicale, i propri motivi argomentativi. In quest'ottica, il confronto tra le due prospettive musicali legate aH'immagine del salterio, proprio perche maturato inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento teologico e morale, permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da allargare ad una analisi piu generale della problematica musicale nel pensiero dei due autori, in particolare, almeno, al De Musica di Agostino. Infine, le indicazioni che qui abbiamo presentato per via teorica potrebbero trovare sostegno da una ricerca piu dettagliata delle pratiche musicali diffuse in ambito monastico nel XII secolo. Si spera, in ogni caso, che la presente ricerca possa aver fornito qualche elemento per la comprensione di uno strumento estremamente affascinante e ricco di mistero, come il salterio a dieci corde. Tavola Illustrativa Prima distinzione: %. i n s .2 Seconda distinzione. Quarta distinzione: attraverso Gesu Cristo nell'unita dello Spirito Sesta distinzione: attraverso Gesu-Cristo nell'unita dello Spirito.AGOSTINO, Tractatus de X chordis. Bellini, Cruciani, Tarulli, Trattato sul salterio a X corde; in Agostino, Discorsi sul vecchio testamento, Citta Nuova, Roma]. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T. Mariucci, V. Tarulli, Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera Omnia, voll. 25, 26, 27, Citta Nuova, Roma 1979]. CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. GALLO, A., La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. F., Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, II salterio a died corde, Viella, Roma]. POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza, Roma Bari. SACHS, C, The history of musical instruments, Norton, Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano. SEQUERI, P., Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano. Gioacchino da Fiore. Fiore. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fiore: implicature”, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speraza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fiormonte: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Domenico Fiormonte. Fiormonte. – filosofo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Fiormonte,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza --- GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fiorentino: la ragione conversazionale e la lingua dei romani – scuola di Sambiase – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Abstract. Grice: “When I wrote about the longitudinal continuity of philosophy – pupils learn from tutors – I was thinking of Fiorentino!”  Keywords: storia della filosofia. Filosofo italiano. Sambiase, Lamerzia Terme, Catanzaro, Calabria. Grice: I like Fiorentino; for one, he influenced Gentile  Fiorentino managed to write two important tracts: a systematic manuale, of elementi di filosofia with a section on semantics, communication, and language  his view of the latitudinal history of philosophy  and a storia della filosofia, again seen as a manual, literally handbook! Both very clear and to the right audience! Figlio di Gennaro, chimico e farmacista, e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno Sinopoli, rispettivamente zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e venne influenzato dal pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia filosofia a Nicastro, sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti. Trascorre il suo tempo libero nel caff letterario "Cherry Plum", luogo d'lite che attira gli filosofi. Inizi a farsi conoscere tra i coetanei di Sambiase, costruendosi una discreta reputazione. Si trasfer a Catanzaro dove intraprese gli studi di giurisprudenza. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non fosse stata la sua innata passione. All'indomani dell'ignominosa resa del generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici a Soveria Mannelli, nell'incontrare Garibaldi a Maida, Fiorentino gli si avvicin per congratularsi del successo ottenuto gridando: Viva l'annessione, vogliamo l'annessione! Dopo l'Unit d'Italia, venne nominato, con decreto regio, professore di filosofia a Spoleto. La sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della sua natia regione. Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna. Da Spoleto presto passa a Maddaloni, dove approfond sempre pi i suoi studi. Pubblica Il panteismo di Bruno. Rivedeva molto di s nel carattere e nel martirio di Bruno. La stessa affinit che, sia pure in chiave politica, ritrova Gioberti, grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna che era stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana, contemporaneamente si interess dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse La filosofia romana; Pomponazzi; e Scritti varii. Segu l'opera su Telesio data alle stampe in Firenze. Si trasfer a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica Elementi di filosofia e il Manuale di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e spigliato. Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblic "Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano, Napoli). Altre opere: Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S. Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalit dell'anima e Del libero arbitrio di Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo dAosta, Messina, Sul panteismo di Giordano Bruno (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca (Firenze); Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del secolo XVI (Firenze); Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel Risorgimento [Rinascimento] italiano (Firenze); La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli); Elementi di filosofia, Napoli); Della vita e opere di Grazia, Napoli); Manuale di storia della filosofia, Napoli); Il Risorgimento filosofico nel Quattrocento, Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Galati, Interpretazione dell'opera, in Archivio storico della filosofia italiana, Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo italiano, in Bollettino della Societ Filosofica Italiana, Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il contributo italiano alla Filosofia. Istituto dell'Enciclopedia. Formazione del linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali luomo solo parla. E poich luomo solo  forsia (li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a,  naturale che tra cotesti due fatti |uUli^tJtp si) cercato di trovare un nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente ne deriva,  questa. Luomo parla perch ragiona? O, al rovescio, ragiona perch parla? Teoria K tradizionalistica sullorigine del linguaggio e sua critica. Le due opposte sentenze hanno trovato sostenitori. Una scuola detta de tradizionalisti non solo ha ammesso la necessit della parola per pensare, ma, com inevitabile, riconosce necessaria la rivelazione divina per la origine del linguaggio umano. Il corollario  perfettamente logico. Se luomo non pu inventar nulla senza pensare, e se, per pensare, c (i) [Principale rappresentante moderno del tradizionalismo  il francese visconte Bonald). Jrr* ilwlWuii) 6 JL^Xru] di mestieri la parola, il linguaggio non poteva pi derivare dalluomo. E quindi a lui dove essere stato rivelato dal divino. Una difficolt molto ovvia non  stata per tenuta in conto. Come si fa a capire il linguaggio, se non  opera nostra, e se al suono esteriore non risponde nellanimo nostro il pensiero associatovi? Perch il cavallo, il cane, bench odano il suono delle parole, non ne comprendono il significato! GIOBERTI, che rinfresca il tradizionalismo, cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero primitivo, intuitivo, che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli tien dietro e lo presuppone. Il linguaggio, per GIOBERTI, non  il fattore delle idee, ma listrumento indispensabile, perch esse siano ripensate. Poich per le idee nellintuito mancano di distinzione, anche lui dovette sostenere la rivelazione per lorigine del linguaggio umano. Senza entrare in risposte astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto comune. Poich lintuito delle idee  sempre presente, e poich il suono del linguaggio colpisce il bambino fin dal suo primo nascere, perch questi noi comprende subito, n subito parla? Dati i due co-efficienti, lintuito dellidea e il suono esterno della parola, lintelligenza dove immantinenti balzar fuora. Ed intanto non  cos, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d intendere il valore del linguaggio. A (oM^Y^O l*v fatto seguire alla formazione di queste la formazione del linguaggio, che  la conseguenza. Come lindividuo  chiuso in s ed irrelativo, cos JL^ la sensazione, che vi corrisponde,  muta. Il linguaggio  comuni chevolezza tra spirito e spirito, e ci che vha T di comune tra loro , e non pu essere altro, che luniversale. 1***^* (s) I nomi. Luniversale ha per diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime altro che limi rappresentazione comune a pi individui percepiti. In questo si fonda limposizione dei nomi che si desume sempre da quella propriet che pi ha colpito limmaginazione di un [mainili *To; xa8 ocutijv. Metapk.. 1  Ein and dasselbe Diog kana tich desihalb io dar einen Beziehong It Stoff, io der Andern ala Form, in jener ala Mogli chea, in diesar ala Wirkliches verhalteo. Zeller. - etere un individuo dove non abbia luogo punto di materia. In fine non si pu scorgere dove propriamente Aristotile ponga il sostrato della individualit : non nella forma che, stando alla teorica della cognizione, dovrebbe essere luniversale; non nella materia, la quale  indeterminatissima, e che tanto acquista di determinatezza, quanto la forma ve ne impronta. Tale per sommi capi  il capitale difetto del Lizio. Difetto che dalla relazione mal definita duniversale e di individuale, di materia e di forma, si diffonde in tutte le altre teoriche, e le guasta in simil guisa, producendo un'incertezza ed un viluppo irresolubile. Non  dunque da maravigliare se quel sistema diede occasione a tante controversie di interpreti, perch esso si acconciava ai pi opposti avviamenti. Tutta la filosofia nel medio evo e nella rinascenza si diede a risolvere quei problemi in opposte sentenze, credendo sempre di ormare i passi di Aristotile. N, per vero dire, mancavano fondamenti a questo conflitto di opinioni. Se non che ogni diversa et ha mutalo aspetto alla ricerca, pur conservandone integro il fondo. Cos la scolastica considera la relazione tra universale ed individuo come la pi rilevantr. Di poi, tra Aquinisti e Scotteti, prevalse la questione dellindividualit, e chi la ripose nella materia, chi nella forma. Da ultimo nella rinascenza si cerc nell anima e nelle sue facolt quella partizione e quella incertezza, e si domand quale fosse il legame che stringe lintelletto con le rimanenti facolt. Le tre questioni degluniversali, della individualit e dell intelletto o ragione sono diversi aspetti di una stessa ricerca; e tult'e tre mettono capo in Aristotile, e si connettono insieme, e si spiegano 1'una con l'altra nel loro storico sviluppamento, secondoch parmi di vedere, e secondoch mingegner di provare. Lasciando stare per ora le teorici che sono aliene dal tema dellanima, e restringendomi a quella che pi da presso vi si riferisce, Aristotile risguarda il corpo e lanima delluomo sotto lannodamento medesimo di materia e di forma. Basta leggere il suo saggio dellanima per chiarirsene pienamente. Il corpo fa le veci di materia o di soggetto. Lanima, per contrario, non pu essere sostanza se non come forma di un corpo naturale che vita. E per corpo animato -- che ha vita, Aristotile intende quello che si dice organici. Quindi proviene la sua definizione di anima, ripetuta in tutto il medio evo, ed in tutto il periodo del rinascimento, n ancora se n  potuto escogitare una migliore. Anima, Aristotile dice,  lentelechia prima di un corpo naturale animato, che ha vita. Bisogna intendere per tale definizione un corpo organico. Ora, bench lentelechia avesse, nel linguaggio del Lizio, una determinatezza maggiore della forma, nondimeno anima  pur sempre la forma del corpo organico, e ad esso annodata con legami non disleghevoli. Perci ad Aristotile pare oziosa la ricerca se un corpo animato vivo e organico e anima siano una sola e medesima cosa, nel modo stesso che riesce vano il voler sapere la differenza che passa tra il suggello e la cera su cui simpronta. Imperocch se lentelechia si dice propriamente in quanto (Sto boxili Tiv vreXt^sia nrzprn ata/xtctoj fvotxoZ dw/zsi txoxro; .riaTO Si, axv ri pyavixv.  ori /ztv oo! oix giTiv |vx xwptsr toG sw/xares.  forza motrice e tinaie, essa  per, come osserva Zeller, sempre tuttuno con la forma. La definizione che ha dunque Aristotile dellanima,  quello di forma  animata --,o di entelechia inseparabile dal corpo organico animato con vita. Esi badi, che Aristotile non vuol restringere in'nessun modo questa sua definizione  graduale, come la di numero, in una serie -- fondamentale, la quale  comune a le parti dellanima  o le tre anime  come, dice Aristotile, la definizione di figurain geometria  applicabile a tutte le figure, o il concetto di numero al 1, al 2, al 3, e successivo. Ben si distinguono parecchie specie di anime, i cui gradi Aristotile determina cosi. Nutrizione, sensibilit, locomozione, intelligenza o ragione -- ordinate in modo che il grado superiore presuppone linferiore e non puo stare senza di esso. Per tutte coleste specie dell anima debbono convenire nella definizione comune. Barili, de SaintHilaire, riconosce questa necessit. Stando aq ueste deduzioni, la dottrina dAristotile procede fin qui sicura e senza esitazioni. Dove ci  moto prodotto per intrinseca energia, ci  vita. Dove ci  vita, ci  corpo ed anima, cosa mossa e causa motrice. Il corpo  la potenza e la materia. Lanima  lentelechia e la forma. E come nella metafisica lindividuo (to tide) risulta da una materia e da una forma, cosi nel caso speciale deglesseri e individui animati  o glanimali -il loro compiuto concetto consta di un corpo organico (il corpo di Sileno di Socrate) e di anima. Ma tutta questa armonia viene rotta da una dubitazioneche Aristotile propone senza risolvere. Das gleiche Wesen wird aber auch eia Eodzweck sein, wie ja Qberbaapt die Form voo der bewegenden und der Endursacbe nicht verscbieden ist. Solerti non die Form ala bewrgende Kraft wirkt, nennt aie Aristote- le Entelechie, ami somit definit i er die Seele ala die Entelechie uod naber ala die erste Entelechie cines nalQrlichen Krpers, welcher die Fahigkeit bat, za leben. Zeller, Zw. Tbeil. La definition quil a donoe lui-mme au cb. lr de ce livre doit donc ponvoir sappliquer spcialement  chaque espce dime quil a distiagatte. Ptychologit dAriilole, Paria. Arrivato allintelligenza, Aristotile tentenna, e si perita di applicare a lei le determinazioni precedenti dellanima, bench avesse prima detto che quella COMMUNE DEFINIZIONE  graduale -- [di anima] fosse applicabile a tutti I gradi -- come nel caso dei numeri -- differenti di vita (bios, zoon). Lintelligenza (zoon logikon) pare ad Aristotele un altro genere di anima (psyche) e vita, e perci separabile nello stesso modo che leterno si separa dal perituro. Questa scappata (aporia) d'Aristotile pu riuscire inaspettata a quelli soltanto I quali non hanno seguito la filosofia del liceo lizio in tutto il suo svolgimento. Chi per ha posto mente alla irresolutezza dAristotile nellaccordo proposto tra luniversale e lindividuo, ed ha visto continuare questa perplessit nella concezione della materia e della forma, nel legame tra il divino ed il mondo, e nella teorica della cognizione, si accorge anzi che Aristotile non puo fare altrimenti. Nellanima istessa ci  qualche cosa che tiene pi della materia, e qualcosallro che fa le veci di forma. Il senso e le facolt inferiori di vita che sembrano un patire, e lintelletto  o la ragione --- che sembra attivo verso di loro. Anzi nellintelletto (come parte terza dellanima) medesimo, Aristotile discopre questa duplicit, la quale come e rimasa irreconciliata e contrastante nelle prime categorie dellessere, cos rimane qui negli ultimi svi-- I appara enti dello spirito. Ci che vha di peculiare nellanima delluomo e la sua vita (Anthropos zoon logikon)  lintelletto. Perci noi ci fermeremo un poco pi nel mostrare in che modo Aristotile ne avesse esposto la natura. L intelletto  o la ragione, la terza parte dellanima nella vita delluomo -- primieramente apparisce legato con le l altre facolt  anima I e anima II -- non solo per la intuizione generale del sistema aristotelico, che fa ricomprendere ogni forma inferiore o sub-razionale -- nella superiore, ma per lesercizio medesimo della sua attivit, che non potrebbe recarsi in atto senza il sussidio delle due parti precedenti. Le cose estese sono ricevute nellanima mediante le sensazioni, le quali sono perci forme delle cose sensibili. Dopo questa maniera di forma, che richiede la presenza della materia, ve nha unaltra la quale si assomiglia alla sensazione, se non che non ha bisogno della materia presente. Da ultimo, la ragione, lintelletto, eh forma delle forme, esercita verso le sensazioni ed i fantasmi la medesima azione che i fantasmi hanno esercitato su le sensazioni, e le sensazioni su le cose sensibili. Cotalch come la sensazione non pu aversi senza la materia, n la immagine fantastica  e. g. centauro -senza la sensazione  di uomo e cavallo --, cos latto della intelligenza o ragione non  possibile senza il fantasma. Lintelletto o ragione in questa prima posizione apparisce dunque legato indissolubilmente con tutto il sistema tripartito delle facolt dellanima nella vita delluomo. N per la sola operazione la ragopme p intelligenza apparisce legata con lorganismo corporeo, ma per la sua intrinseca natura. Difatti ella, come intelligenza, non  altro che ci per cui lanima ragiona, e non  nessuna cosa in atto prima di pensare: ella  soltanto in potenza. Che se riannodiamo questa teorica dell intelletto o ragione con l altra dell anima, si scorger, che come lanima e legata col corpo organico vivo organico animato, cos l intelletto  legato con lanima; perci qui Aristotile la chiama intelligenza dellanima: r; voC). Ed in ultimo risultamento avremo il corpo organico come subbietto o materia dellanima, e questa come subbietto dellintelligenza o ragione. 1x ed Sii roro omtc jit) Atravpigva; puj&v * od ?uvior r* rs Se capri, ovexyxvj (* yxVTaspta ri soipstv. * sre fj-nS aro stvat pnv /sride/tta XX n t*vt, ori ^uar  pa xaXaptsvoi rn (; (Xsyoi Si vo wdtetvostroci xeni oivei r, 'l'UXt) o&t* sTiv svspyda tmv ovroiv tepv vosi. Altre asserzioni dello stesso Aristotile accennano per alla sentenza opposta. Gi abbiamo visto come per lui lintelligenza o ragione sia un altro genere di anima, e separabile, in mentre che le due anime dei due gradi inferiori sono legate con gli organi. A questa testimonianza, che sta *contro* alle cose precedenti, se ne aggiunge unaltra ugualmente esplicita, dove si sostiene che il noo  o spirito -- venga dal di fuori, e che solo sia divino. Si possono distruggere la riflessione, lamore, lodio, il ricordarsi, perch siffatte modificazioni appartengono al soggetto in cui alberga l intelligenza e che la possiede. Ma lintelligenza o ragione o anima razionale medesima  qualcosa di pi divino,  qualcosa dimpassibile. Che se dopo tutte queste dichiarazioni, che riguar-dano il principio intellettivo nelluomo, ricorriamo col pensiero allintelligenza o ragione suprema, come vien descritta nella metafisica, esegnatamente nel libro dodicesimo, la difficolt da noi proposta e pi evidente. Prima si dimostra come non ci siano altre sostanze che quelle che risultano da una materia e da una forma. Poi di forma in forma si arriva ad una suprema, la quale non  punto implicata nella materia, e che perci si svelle dal sistema mondano, e non vi rimane legata se non per un filo debolissimo, com  la relazione di mosso e di movente. Quella forma suprema, che doveva accogliere in s tutte le forme inferiori, non  potente nemmanco di pensarle. Lintelligenza divina rimane staccata dal mondo, se non fosse per il bisogno di ricorrere ad un motore ultimo -- ed immobile. Tale rimane nel sistema delle facolt umane l intelligenza --  lo stesso difetto che si riproduce in ciascuna parte. 1 AeiTtirai ?* rv voi! /ivov OpaOev eiwisuvai xai 0eTov ecvat uo'vov. De gener. anim., ctVedi De Anima. Rnan si  accorto della discrepanza della dottrina su lintelletto nel congegno del sistema del lizio, e la dichiara un frammento di scuole pi antiche, dAnassagora specialmente, che viene citato dallo stesso Aristotile. Ma colesta spiegazione, oltre allessere poco degna dAristotile, il quale non ne avrebbe saputo misurare tutta limportanza, contrasta col disegno generale del sistema. Saldata che avrete questa screpolatur, come farete poi per tante altre che rimarranno scommesse ed irremediabili? Poniamo ancora che il legame tra il divino ed il mondo si rimeni a questa medesima dottrina, e che tutta la Metafisica del lizio sia un episodio, bench un po troppo lunghetto. Si risalder meglio la rottura tra la materia e la forma? Si spiegher meglio la teorica della cognizione, sviluppata neglanalitici? E se cotesta magagna sinsinua in tutte le particolari trattazioni  De Interpretatione  LA PAROLE E SEGNO DUNA AFFEZIONE DELLANIMO --, come si fa a dichiararla un frammento slegato, ed a cacciarla via dal sistema? Altro, a parer nostro,  il dire che il pi spedilo e pi logico avviamento dAristotile sarebbe stato di continuare nella risoluta opposizione verso il suo tutore allAccademia, ed altro il negare eh egli in questa polemica non sia proceduto incerto, parte rifiutando e parte ritenendo. Incauto cercatore, anche lui, di conciliazioni impossibili. Della prima e pi spiccata contraddizione nel costruire lindividuo di materia e di forma ho discorso di sopra. Toccher ora della dottrina della cognizione. La scienza secondo il processo del lizio piglia le mosse dalla sensazione, e procede, sempre pi sviluppandosi, per molti gradi, i quali sono variamente descritti, ma che si possono per ridurre, conforme al1 (Il est vident que toute cette thorie da vo( est eroprunte 4 Anaxagore. Averrhos, etc., psp. lesposizione del Barili, de SantHilaire, ai seguenti. Sensazione cio, pensiero nella forma volgare, ed in quanto sottosl alle impressioni sensibili. Scienza (ttLotiw),  intelletto (noo), il quale  in relazione cop glinteUigibili. Riguardo alla sensazione non sincontra difficolt. La sensazione  la forma delle cose sensibili, che viene accolta da unanima sensitiva. Nel sollevarsi poi dalla sensazione alla scienza, Aristotile ammette molt sfumature, die talvolta si confondono, ma che giova descrivere, per far vedere quanto sottile osservatore egli fosse, e come per lui tutto il processo del pensiero non fosse altro che un continuo disvilupparsi dalle forme pi materiali per rivestirne altre pi generali epi pure. Il grado immediato alla sensazione  per lui la Sga che lo stesso Saint-Hilaire traduce per percezione, e potrebbe pure dirsi opinione. Sopra cotesla percezione, o opinione che dir si voglia, pone la fantasia (pxvmaia.), la quale pu dirsi un grado di sviluppamene maggiore, staccandosi gi dalloggetto sentito, pi che non facessero i due gradi precedenti, i quali ne richiedevano sempre limmediata presenza. La fantasia medesima si riferisce al fantasma (pv touhx) ed allinamagine (Uwv) ; imperocch essendo la fantasia una specie di tramezzo fra la sensazione e la scienza, col fantasma si accosta pi allintelletto, con limmagine invece si accosta pi allobbielto. La scienza e lopinione possono accoppiarsi in certo qual modo, ed il loro miscuglio d la riflessione ( pvjiJts). La scienza, 1opinione e la riflessione Sega, ppvmatj), sono dAristotile comprese sotto un termine comune utt^cs, il quale  deputato a significare lattivit spontanea dellanima, doyecch la Stvota discorre da un oggetto in un altro. Per la determinazione di tatti cotesti gradi del pensiero, vedi Barth. de Tali sono i primi sviluppameli della scienza; ma ipoich ella consiste nel dimostrare, e nel far vedere le cose nelle loro cagioni, perci  necessario che si fermi in principi assoluti ed indimostrabili. Il voOs  lintelletto di questi primi principi, i quali sono i termini della dimostrazione. Se la sensazione (afoots) dunque  il primo inizio della scienza, lintelletto (vo0) n lultimorisultato.Chi ha tenuto docchio tutto il processo della cognizione, com descritto da Aristotile, si sar accorto che conforme a questa dottrina il vovg non pu fermarsi se non nei principi pi remoli dalla materia, e pi universali. Essendo lapice di ogni astrazione, esso devessere al polo opposto della sensazione, che si trova congiunta con la materia immediatamente. Ed intanto il punto di fermata sono i termini, ossia  la sostanza. Ora la sostanza, nonch sia luniversalissimo essere,  invece individuale; dunque il processo della scienza, dopo aver percorso tutte le forme di separazione dalla materia, ricasca nella sostanza, la quale  dalla materia inseparabile. Lessere e la sostanza sono spesso confusi da Aristotile, eh quanto dire la pi astratta delle forme, lessere, vi si scambia con la forma attuosa legata con la materia. La sostanza  per lui una volta il neccssa- [Saint-Hilaire, Logique d'Artote, Deuxme lartie, section XI, -di. 9. Ecco come il Trendcleraburg prova questo ufficio proprio del ve; aristotelico.  No; in primis et ultimis scienti priucipiis rersatur. Ita Analyt., post. Xiyu yp *sv .pyn'1 Kcuni/inElh. Nicom. st fTSToct vov siva* Tv xpyrZv. Quteuaui sit xp%rj (neque euim omnis ed noJv rediit) accuratius defiuitur Elh. JVtc.,  pit -/.p vos ri opwv u'J ox sor* /yo;. i. e. quorum sulla est demoustratio conclusione ffecta.  ristot., De Aniti. Commentario. 1 Lide de ltre et lide de substance se coufoudent souvent aiosi pour Aristote. Bar ih. Saiot-Iliiaire, ioc. cit., cb. 40. rio e 1universale, unaltra volta il puro accidente ; un volta forma, un altra volta sinolo di materia e di forma. Il noo aristotelico adunque una volta si ferma ai principi (p^wv), unaltra volta ai termini (pwv), i quali non sono altro che la sostanza. N in quest una soltanto si restringono le incertezze di quella dottrina. Il noo allora veramente si conchiude e si assolve, quando si posa in se stesso. Landare di pensiero in pensiero implica un processo allinfinito, dal quale Aristolile si mostra sempre alieno. Sforzato adunque dalla stessa dialettica egli immedesima in questo atto supremo l intelletto el intelligibile, ed in cotesta medesimezza dellintelletto con se stesso  riposta la sua vera assolutezza. Se ci fosse qualcosa di esterno, alla quale lo spirito dovesse stare sospeso, egli sarebbe da meno di lei. E fin qui tutto si accorda a maraviglia con la natura dello spirito, che non pu prendere in prestito d altronde la sua compiutezza, n posare altrove che in se stesso; ma in che modo si potr conciliare cotesta affermazione con l altra che fa travagliare il noo intorno ai primi principi? Ed ecco una nuova irresolutezza, una nuova contraddizione. Lo spirito che una volta si (Ecco come il medesimo Sant-Hilaire riassumo da parecchi luoghi della Metafilica la teorica di Aristotile, dove la sostanza apparisco una volta necessaria, un altra volta come reale, cio come individuale. Non trattando qui di proposito questa teorica mi astengo dal citaro io stesso i luoghi del testo. La Science, doue de ces deux caractres, du gnral et du ncessaire, 'applique donc surtout  ce qui est en soi,  lasubstance, bien plutt quanx autres catgorie, qui ne sont que^daccident. La substance, ltre el (osia) est su faste de la Science: et cesl elle spcialement qne le philousophe doit tudier. De plus, cest  une seule et mnte Science de recher ber et les principe gnraux de ltre, de la substance, et Ics principe gnraux de la dmonstration, et du syllogisme qui la coostitne. eh. e. Si absolutum id est, quod ad nihil nisi ad seipsum rifertur, acquitur sane mentem, siquidem absoluta est, seipsam cogitare. -- ferma nei principi universali e nella sostanza; unaltra volta che si conchiude in se medesimo. Certamente questultima conclusione  pi accettevole, e pi consentanea alla nozione deirintellelto espressa precedentemente; ma ci non toglie il fare incerto ed anche contraddittorio del sistema. Se lintelletto non , se non quando pensa in atto; esso non pu compirsi, se non nellatto suo proprio. Se glintelligibili non si differenziano dallatto medesimo che li pensa, come si pu dire, che l intelletto si fermi nei primi principi, i quali in tal modo dovrebbero avere un esistenza indipendente? Forse ad ovviare a questi ed a tutti gli altri inconvenienti finra discorsi, Aristotile ricorse allo spariijmento del noo in due, per potere pi facilmente altrij buirgli le pi conlradittorie determinazioni. Il quinto capitolo del terzo dei libri su lanima ospone la partizione dellintelletto in attivo e passivo. Come nella natura ci  la materia, eh  lutto in potenza, e poi la causa che la rechi in atto; cos bisogna che coteste differenze si trovino pure nellanima. In lei adunque vi  un intelletto, che pu tutto divenire, ed mi altro che pu tutto fare. E come lagente prevale sul paziente, cosi l intelletto, che tutto fa,  fornito delle migliori prerogative;  separato, eh  quanto dire non dipendente da nessun organo,  impassibile, e non ha mistura di sorta; perci  immortale ed eterno. Per contrario l intelletto, che tutto diviene,  capace di patire, e perci  perituro, e senza laiuto dellintelletto attivo non pu nulla pensare. Il noo attivo cos descritto apparisce essere quanto nell uomo vha di divino ; anzi, come osserva Zeller, esso non si differenzia punto dallo stesso Dio. E di ci 1 /.ai !9; bczeichoen. Brentano. Una nuova difficolt ci si affaccia nel conciliare le due differenze che Aristotile introduce nel Noo, perch il passivo  detto corruttibile, e legato con la memoria, col desiderio, con tutte le altre facolt inferiori ; e lattivo, per contrario, immisto, separabile, e perci immortale: ed intanto il primo ed il secondo appartengono del pari allintelligenza, che n il genere comune. Il LIZIO nel distinguere il noo in passivo ed in attivo vuole occorrere a due condizioni, imposte entrambe dal suo sistema. Prima vuole legare il meglio che si puo lintelletto con le facolt rimanenti. Perci dove introdurre in esso I FANTASMI per intendere, i desideri per volere. E gluni e glaltri si fondano sulla sensibilit, e perci sulla materia, sulla possibilit del corpo. Dipoi vuole far dellintelletto la facoll che pone la scienza, che coglie luniversale puro, sceverato dogni qualsiasi possibilit, e che perci non ha nessuna mistura di potenza, o di materia, ed  puro atto. Da qui la distinzione di due intelletti. Uno che attinge ancora alle sorgenti della materia. Laltro che non vi comunica punto. Perci vedemmo che lintelletto puro non pu patire, e consiste tutto nellatto; mentre chelintelletto passivo patisce, ed in certo senso si dee dire che ha della materia, perch ogni potenza  materia, considerata per rispetto allatto. Hegel cerca di conciliare questa contraddizione, che si possa cio dare un intelletto che partecipa alla materia, dicendo che la possibilit nellintelletto non ha nessuna materia, perch, nel pensare, la possibilit  ella medesima un essere per s. Per conciliazione siffatta tien [Die Moj>lichkeit selbst ist aber liier nicht Materie. Das Versta mi hat nOinlicti keine Mitene, scinderti die Moglickeit geliort zu seiner Substanz selbst. Denn DAS DENKEN (cf. Frege, Grce on Fregeian sense) ist vielmrhr dieses, nicht an sicli za sein; and. v egeti seiner Reiobeit ist seme Wirklickeit nielli das Frcinandersein, scine pi del sistema proprio dHegel, che di quello del LIZIO. Quindi proviene ancora lincertezza di determinare in che consiste veramente lintelletto passivo. Trendelemburg opina ehesso  costituito da tutte le facolt raccolte quasi in un nodo, e considerate come condizioni del pensare. Il quale pu aver pigliato il nome di passivo sia perch vien recato a perfezione dallintelletto attivo, sia perch viene occupato dalle cose esterne (Things CAUSE our sense data  Grice). Tale interpretazione per va incontro a questo inconveniente, di rendere inutile la distinzione  do not multiply intellects beyond necessity  Grice -- che il LIZIO fa tra sentire, immaginare e pensare. Se il pensare non  altro che il sentire [ANIMA SENSITIVA] e limmaginare annodati insieme, perch distinguerli da quello? Non bisogna dimenticare mai che dellintelletto in generale il LIZIO fa un altro GENERE di anima. Pare adunque che nello sviluppo dellintelligenza, medesima bisogna trovare quei gradi che appartengono al noo passivo, e gli altri che sono propri del noo attivo. Gi di questo ultimo noi vedemmo che il LIZIO pone la funzione peculiare talvolta nei primi principi, talaltra nel ripiegarsi sopra di s. I gradi precedenti della scienza, che del resto appartengono certo allintelligenza, bisogna che si attribuiscano allintelletto passivo. Tale  la necessaria conclusione a cui si perviene a guardare nel tuttassieme la dottrina del LIZIO, e cosi vedo che interpreta pure Zeller, che nelle cose del LIZIO Mogliclikeit ber selbst ein Fursichsein. Hegel, GeschicMe der Philoi. 1 a Qua? a sensu inde ad imagiuationem mentera anteccssorunt, ad rea parcipiendas menti necessaria, sed ad intelligendas non suflciunt. Orno es iilas, qua? preccedimi, facultates in nnum quasi nodum colleetas, natenus ad rea cogitaodas postula nlur, vouv TtuSriTixo v dietas esse innicamus. Trendclembnrg, De anima, comment. vede molto addentro, ed ha grande autorit. Lintelletto passivo per lui consiste in quei gradi intermedi che stanno tra il sollevarsi delle forze rappresentative ed il pensiero compiuto che quieta in s stesso. In quel processo riflessivo e discorsivo che il LIZIO stesso contrassegna con la parola ScuvousOca. Guardando ora tutta insieme la dottrina del noo del LIZIO, essa ci presenta questa contraddizione, di essere cio considerato come lultimo sviluppo dellattivit pensante nellUOMO [Grice, HUMAN], e dessere presupposto FUORI delluomo [Grice; PERSON], perfetto, compiuto in s, separato.  per questa ragione che il noo passivo ci vien mostrato come processo, come discorso, ed il noo attivo come intuizione; e che il primo  tenuto in minor conto del secondo. Affinch la posizione del LIZIO  riuscita precisa e diritta, ei si dove disfare di quelluniversale separato, ed ambiguo, e tener fermo nel riguardare lo spirito come processo rigoroso ed ordinato. Ma per fare ci, non bisogna modificare soltanto la dottrina dellintelletto, s veramente mutare 1andadamento generale del sistema; cosa che forse non  da pretendere in quei tempi. Il concetto dello spirito come sviluppo  risultato della filosofia moderna. Un valoroso storiografo tedesco, Prantl, non dubita di presentarci come genuino sistema del LIZIO quello che per noi  piuttosto un desiderio. N al dotto critico manca ingegno o copia di testi. Ma il suo fare sa troppo di moderno, e perci diviene subito sospetto. Lintelletto, il noo del LIZIO,  per Prantl una immediata unit nella duplicit della nostra essenza. Dun lato coglie luno trascendente, il divino. Dallaltro i Zellcr. molli, lindividuo. O, in altri termini,  lunit originaria del senso e della ragione, il principio e la fine, lalfa e lomega. In un luogo dei morali nicomachei si dice che il senso  noo; e su tal dichiarazione il critico tedesco rif da capo tutta la teorica del LIZIO. Dove glaltri vedeno un altro genere dANIMA, Prantl scorge unoriginaria medesimezza. Dove glaltri trovano incertezze, Prantl sicuramente afferma che il noo del LIZIO  sviluppo, che muovendo dallimpressioni sensibili arriva sino alluniversale. Lintelletto, dice Prantl, secondo il modo di vedere del LIZIO, non  una passiva intuizione, ma unattivit che nel progresso del suo sviluppo va dalla potenza allatto.  un accrescimento dentro s stesso, Zuwachs in sich selb&lhinein, come dice il critico tedesco traducendo l iniSoais  turo del LIZIO. Che se lintelletto si dice potenza, esso  una potenza tale che si distingue da tutte laltre non solo perch comprende glopposti, ma ancora perch si fonda sopra un precedente attuale. La continuit dello spirito in questo processo si pare a ci, che i primi pensieri si distinguono appena dalle sensibili impressioni; talch il sapere non  qualcosa apparecchiato davanzo, ma nasce la prima volta come [Der voi; ist fur dia Stale, vvas dea Ange fur den Korper it, rr ist die anraittelbare Einheit in der Duplicil&t nnseres VVescn, deno er < rfasst einerseits das trascendente Eioe, Gttlicbe, and andrerseits ist er cs atich, welcher das Einzelne, Viete ergreift, ja es wird io diesem Sion, d. li. von einem wabrhaften Antropologismns aus, selbst die Sinneswabrnehraung aiisdriiklicli voi; gena noi; und, indem so der voi; der geistige Sion fQr dia beiderseitigen Crtheile ist, sowohl fOr jene, welche ein Ewges und Crsprnfjliebes aussprerben, als aocb ffir jene, welche anf das Gcbiet des Vergliiglicheo sich beziehen, a kann er mit Recht der Anfaog und das Eode, das vahre A und Q, des Apndeiktischeo genannt wcrdon. Getchichle der Logik. ], tale. 1 Quando il noo si solleva, sopra tutte lopposizioni, al supremo uno, ivi pensa s stesso, ed il pensiero ed il pensato sidentificano. In tale attivit egli mostra la sua eternit. Tal per sommi capi la teorica del noo del LIZIO secondo Prantl: prima, attivit originaria, unit del senso e della ragione. Poi sviluppo sino al pensare, sviluppo tale che tra limpressioni sensibili ed i primi gradi del pensiero v appena differenza. Infine processo intimo, ed indipendente dalla materia, fino ad attingere il pensiero di s stesso, e con questo l'eternit. Questa esposizione toglie ogni dubbiet ed irresolutezza dal sistema del LIZIO, e lo fa rigorosamente logico, per, a quel che mi pare, a scapito della genuinit. Quella unit originaria sa troppo di moderno, e quella eternit conseguita dal nostro spirito nel colmo del suo sviluppo  unintuizione moderna del pari. Ci che mi sembra schiettamente LIZEOALE  il concetto dello sviluppo applicato allattivit dello spirito. Ma il pensare puro rimane pur sempre staccato dalla serie preclara come dice Trendelemburg. Ammettendo difatti la spiegazione di Prantl, il divino del LIZIO sparisce, perch il noo  perfetto e compiuto nello spirito umano; ed il divino del LIZIO, se bisogna a qualcosa,  per cotesta ultima finalit  o METIER, alla Grice. Prantl tocca dellintelletto per arrivare al cominciamento della logica. Per lui lintelletto si compie nel concetto, cio nel cogliere luniversale, il quale non  Prantl, Und indetti dar vo; in dem Denkcn dieses bchsten Einen aicb se'btt deukt, erreicbt er das Ziel and das Zweck [GRICE  METIER] seiner Actnaliiat: er denkt das Angich and deukt kiebei steli selbst in einer Tbeilnabme an dem Gedachten, ao dass Denken und Gedacbtes ideatiseli sind; in solcher TbStigkeit erweister arine Ewigkeit.) latto medesimo dellintendere; talmente che la logica sinizia l dove la PSICOLOGIA finisce. Lunit immediata del noo  il principio della psicologia. L'unit immediata del concetto [Fido is shaggy]  il cominciamento della logica. Prantl fa una dotta e profonda investigazione delle categorie del LIZIO [alla Austin-Grice-Ackrill], delle quali mi rincresce non poter qui discorrere, tanto pi che nel saggio sulla filosofia antica io mi trovo, inconsapevolmente, daccordo col professore tedesco nei risultati di quella ricerca. Qui per non voglio omettere di dire come Prantl si accorge che lo sviluppo dello spirito si riannoda colla dottrina delle categorie, dove, oltre alle determinazioni estrinseche della sostanza, bisogna ammettere un processo geneticoed intimo. Ma cotesto processo per il quale la sostanza si genera, rimane nel sistema aristotelico ci che direbbesi una semplice esigenza. Perch la sostanza diventi questa o quest altra essenza, non apparisce; e cosi non apparisce neppure nello sviluppo dello spirito la necessit del passaggio duna forma allaltra; perci neppure la necessit del noo, che, per tal causa, pu dirsi nellinsieme del sistema introdotto da fuora. Prantl ha un bel chiamare il noo unit immediata, Ansich. Tutte coteste vedute sono pi profonde come scienza che vere come storia. Lintelletto separato, il motore immobile della me- [Dass aber Aristotele eine Selbstentwicklung der Denktlitigkeit voo ciucili erstcr STADIVM aa bis tu einem letztea wesentlicli erreicbbsreu Zieie nerkennt, sahea wir gleicbfalls scbon obeu; und so ist ihiu aucb die trsprogliche Conception der Begriffe [cf. Grice, The conception of concept] aio erstcs Lumittelbares. Voglio riferire questa osservazione di Prantl eoo le parole eoa cui Iha compendiata il mio amico TOCCO (vedasi). Cosi intorno allindividuo si raggnippano amendue i processi, nel processo gene4ico, o nel ytvsoai vltOi lindividualit, la sostanza funziona da predi, ceto, ed il suo soggetto  la materia indeterminata; uel processo categorica funziona da soggetto, e regge e sostiene tutte le determinazioni categoriche (Fido IZZ shaggy, FIDO hazz SHAGGINESS]. Delle varie interpretazioni dell'idea dellACCADEMIA e della categoria del LIZIO, TOCCO (si veda). C -V- tafisica, resiste ad ogni pi benevola interpretazione. Certo se il LIZIO vola e puo essere conseguente, pensa come lo fa pensare Prantl e TOCCO. Passando ora dallintelletto alla libert noi troviamo nella dottrina del LIZIO le tracce della prima indeterminatezza. Brandis dice che la libert secondo il LIZIO consiste nella facolt che ha lo spirito di svilupparsi da s e mediante se stesso secondo la misura della sua originaria disposizione. Ma, domanda con molla ragionevolezza Zeller, a qual PARTE DELLANIMA debbe appartenere questo sviluppo? Alla ragione no, perch immobile ed inalterabile. Allanima sensitiva ed appetitiva nemmanco, perch non sono capaci di svilupparsi con libert, non potendo trovarsi libert se non dov la ragione. Rimane lintelletto passivo, al quale, sia detto una volta per sempre, si ricorre dordinario quando si scorge limpossibilit di dare uno scioglimento risoluto. Ma esso stesso oscillando tra la ragione e la sensibilit, ha bisogno, al pari della VOLONTA, di uno schiarimento per vedere in che modo si puo dare una facolt che partecipa di due altre cosi opposte, come sono il senso e la ragione. Il LIZIO stesso accortosi della specie di altalena che fanno LA RAGIONE PRATICA (do not multiply reasons beyond necessity) ed IL DESIDERIO, li rassomiglia a due palle che si rimandano duno allaltro. Un filosofo francese, Waddington, taglia come Alessandro il nodo, invece di scioglierlo, dicendo il principio, la causa dellATTO VOLITIVO vesser lIO  Grice, Personal Identity, Grice on Prichard on willing that the player scores a goal --]; deglaltri atti essere soltanto partecipe, ma qui il caso esser diverso, e sentirsi assoluto e sovrano padrone.  Grice on FREE fall and alcohol-FREE. Ma appunto di questo IO (Grice, Personal Identity) noi cerchiamo invano nel LIZIO Ari- [Zeller. Aristotile, De anim., La Psicologia del LIZIO, esposta da Waddiogton e Toltala in italiano dalla marchesa Marianna Floreozi Waddington] stotile, e vogliamo scoprire dove si annida, se nella ragione, o nella sensibilit, perch la VOLONTA non  facolt originaria, come non  lintelletto passivo, n lintelletto PRATICO. La vera personalit dello spirito  da cercare dunque o nella sensibilit, o nella ragione, almeno secondo i dati della psicologia del LIZIO, non di Prichard! La scuola ecclettica di Francia ed Oxford  Stout, Prichard, citati da Grice, Intention and Uncertaity -- ha ripetuto sempre che LA VOLONTA ** lIo [Grice, Personal Identity  I shall be fighiting soon], essendoch la ragione  impersonale  tre caratteristiche: impersonale, imparziale, generale formale, concettuale, e applicazionale -- ed i fatti sensibili traggono origine dal mondo che Moore chiama esteriore. (Grice, Scepticism and Ordinary Language). Con questa intuizione peculiare del loro sistema, ei si fanno ad interpretare il LIZIO  cf. Hardie, il tutore di Grice a Christ Church. Se non che LA VOLONTA  cf. Grice on Kenny on VOLITING -- per il filosofo greco non  una facolt originaria, quanto meno perci pu essere la intera PERSONalit dello spirito! La VOLONTA  non di Schopenhauer --  una specie di risultante prodotta dal connubio della ragione col DESIDERIO  la desirabilita di Grice. Le quali due facolt essendo si opposte, rimane assai difficile il definire in quale di esse stia la libera determinazione di se stessa.Quando il LIZIO appaia la ragione speculativa colle facolt rappresentative, e ne fa lintelletto passivo. Ovvero, quando accoppia la ragione pratica col desiderio  la boulesi del buletic di Grice --, e ne fa la LIBERA volont  cf. Pears, Freedom of the Will, joint seminar with Grice e Nowell-Smith on Austin on can --, rimane sempre incerto quale dei due elementi debba prevalere: se la parte sensitiva ed appetitiva debba trarre dalla sua la ragione  the bite --, ed introdurre in lei la mutabilit ed il patire; ovvero se la ragione, signoreggiando  TEMPERANZA -- il senso e lappetito, debba far questi partecipi della propria impassibilit ed eternit. Nella vera conciliazione di cotesti due opposti termini sarebbe stata riposta LA PERSONA UMANA, se nel LIZIO il loro accoppiamento non fosserimasto un accostamento esterno, e, come dicono i tedeschi, un Zusmrmensetzung~ [Der Wille musa demnach cio ans Vernnnft and Bugiarde snsam- mengetetzte Thatigheil saio. Aber auf welcher Scita io dieser Verbiudong da& eigentliche Wesen dea WILLENS, die Krafta der FREIEU Selbslbestimmung liegt, ist sclmer za sagea. Zeller. Esclusa LA VOLONTA, dove si deve dire che alberghi LA PERSONA UMANA? Talvolta pare che il LIZIO la fa consistere nella propria ragione di ciascuno. Ma la ragione  cf. Grice, Aspects of reason and reasoning, The Immanuel Kant lectures --  un puro universale, incapace di mutazioni e di patimenti, eterna ed impassibile. Ed invece LA PERSONA  Grice, Personal identity --  il subbietto proprio, e la causa intrinseca dei suoi mutamenti (I will that my head be scratched  Grice  cf. William James, citato da Prichard: I will that the chair moves towards me. I fail). Talaltra volta pare che il LIZIO attribuisce la personalit allANIMA [Grice, SOUL], in quanto senziente ed appetitiva. Ma, oltre che questa, come osserva Zeller,  incapace di produrre movimenti da s, secondoch sostiene lo stesso LIZIO, viene esplicitamente esclusa, dicendo che non nellanima, ma nelluomo in quanto consta di CORPO e danima, dee riporsi il subietto dei movimenti sensibili (I will that my head be scratched  I scratch your back you scratch mine). Il corpo intanto non  cagione del moto, perch esso verso LANIMA  come la potenza verso latto. Ecco in quali difficolt ci siamo imbattuti nel cercare dove consista la personalit umana secondo i principi del LIZIO. Le quali difficolt, a parer mio, procedono dal non aver il LIZIO fatto vedere  come Kant  Grice, KANT-OTLE -- per qual modo 1universale si determina, per intrinseca energia e per dialettica necessit, nel PARTICOLARE  larguzia della ragione di Hegel e Fichte --, e diventi individuo; e per qual modo poi lindividuo, rifacendo nel processo conoscitivo il cammino inverso del processo genetico, si sollevi dalle determinazioni particolari ed accidentali alluniversale ed allassoluto  al Snark, come dice GREEN a Oxford! Non  gi che siffatto processo non  stato intraveduto dallacume del LIZIO, ma non  stato spiegato con sufficiente chiarezza, perch le sue dottrine sinformassero tutte secondo quel processo. Prantl accennando al processo genetico, come intimo, e diverso dal processo categorico, e trovandone le tracce nella metafisica dAristotele  footprints to Plato  Grice/Whitehead --, ed in altre sue opere, mostra come la determinazione delluniversale nel particolare, il CONCRETARSI della forma in una materia  il primo postulato del LIZIO. E spiegando dipoi come il noo, per assurgere alla condizione assoluta di pensiero, dove essere fin da principio unit originaria, individuo ed universale, senso e ragione, affinch  possibile tutto lo sviluppo intrinseco dello spirito, pone in evidenza un SECONDO postulato, non meno del primo indispensabile. I due postulati che la critica di PRANTL richiede nel sistema del LIZIO, nella metafisica il primo, nella psicologia il secondo, sono per, lo ripetiamo, appena intraveduti dal LIZIO, e non pienamente dedotti. Forse il concetto di sviluppo nello spirito  molto pi evidente che non il processo genetico nella sostanza. Ma ci non toglie tutte le irresolutezze, ed anche le contraddizioni  I contain multitudes --, che noi abbiamo fatto notare, giovandoci degli studi di Zeller, il quale colloca il sistema del LIZIO nella sua vera luce, tanto per rispetto a Platone, come nel suo intrinseco organamento. Dalle cose premesse apparisce chiaramente quel che debba dirsi dellimmortalit dell'anima secondo il LIZIO. Pel LIZIO tutto ci che saltera  soggetto alla morte. Onde le facolt sensitive, le appetitive, le rappresentative, e perfino lintelletto passivo finiscono collorganismo corporeo, da cui dipendono, e con cui sono indissolubilmente legati. Solo superstite  pel LIZIO lintelletto attivo, il quale, se  provato che e da solo la persona umana, basta ad assicurare l'immortalit  cf. Grice on Shropshire on the immortality of the chickenssoul. Ma l'intelletto attivo  il solo elemento universale, una specie della ragione impersonale della scuola eccletlica, e perci la sua durata non ha nulla che fare colla durata dellindividuo e della persona. Questo intelletto attivo superstite, slegato che  dal corpo, non ha n sensazioni, n fantasmi, n memoria, n desideri; e perci neppure volont, n intelletto passivo; talch non potr avere pi coscienza, n personalit  cf. Grice on Parfitt -- che sodo inseparabili da tutte quelle determinazioni. Che se si pon mente, come il noo attivo per pensare ha bisogno del passivo, noi potremo dire, che il LIZIO non puo, secondo i suoi principii, far sopra-vvivere lintelletto attivo alla morte dellintelletto passivo, e se, non ostante la forza della logica, lo fa, ci ne d nuova riprova, che per lui non e ben fermo il vero concetto del noo, e che una volta lo pone come termine supremo dello sviluppo psichico, unaltra volta ne lo stralcia, attribuendogli una esistenza separata, impassibile ed immortale. Il LIZIO non  pervenuto sino allauto-genesi dello spirito, perch non si pu creare quel che si suppone esterno non solo, ma sproporzionalo alle facolt umane. Linfinito pel LIZIO ora consiste nel concetto dello spirito, ed ora in qualche cosa di esterno. Tolta lipostasi delluniversale che aveva ammesso Platone per ciascuna! cosa, ei la ritenne per rispetto al divino, perci il processo dello sviluppamento rimane dimezzato, imbottendosi in un termine esteriore che gliene impede il proseguimento. Non ci  unidea pre-formata della natura, perci la natura pu svilupparsi per virt intrinseca; ma; ci  lidea del divino sussistente davanzo, perci lo spirito non pu farsi: egli gi  fatto, e non gli rimane se non dinsinuarsi -- IMPLICARSI  EMPIEGARSI -- nel mondo e di svegliarvi il penisiero. Questa mi pare la posizione del LIZIO. Il LIZIO rimane nellACCADEMIA per met. CONTI (vedasi)  ricorso a cause esteriori ed accidentali per trovare una spiegazione del sistema del LIZIO, e perch  il primo ai nostri tempi che siasi dato a scrivere una storia della filosofa in Italia, mette il conto di dare un saggio del suo modo di criticare i sistemi. Il LIZIO  passato dallidealismo platonico alla scienza delle cose reali e Perch? Ecco la risposta di CONTI (vedasi), dacch la civilt greca, uscendo dapropri confini, si distende nellAsia con larmi,  naturale che alle idealit interiori, tutte di raccoglimento, succede la scienza delle cose reali. Ma tutto colesto non ci ha nulla che fare. Prima di ogni cosa non  certo che il LIZIO pensa il suo sistema proprio al tempo che i Greci passarono in Asia. Ma, poniamo che s, QUAL RELAZIONE CI E FRA UNA SPEDIZIONE A MANO ARMATA CON UNA POLEMICA SULLE IDEE? CONTI discorre dei vizi, pei quali i greci venneno specialmente in mala voce, ed eccoti scoverta la causa, perch la loro filosofia non giunge mai al puro concetto di creazione, pernio della scienza. Anche qui la causa mi pare troppo lontana dalleffetto, e non veggo in che modo la corruzione dei costumi greci puo appannare il loro intelletto! Forse non concepirono tante cose vere e belle con tutte quelle passioni? Forse, ai tempi in cui fiorisce lACCADEMIA dei Medici a Firenze non dominano vizi somiglianti? Dai filosofi di quel secolo parmi scorgere che quelle brutture sono molto in voga, e intanto giungeno al puro concetto della creazione non solo, ma concepirono perfettamente tutti i dommi cattolici, e li disposarono alla filosofia. CONTI (si veda) inclina troppo a far la critica filosofica colla nascita el educazione cristiana, con le rette inclinazioni del cuore, con il candore dei costumi. Ma tutto ci se prova a favore del suo animo bennato, non d pari fondamento ad apprezzarne lacume critico [La scienza non si giudica colla fede di buona condotta del curato. Ma lasciando queste osservazioni generali, che appartengono al suo criterio storico, voglio notare che nella teorica dellintelletto del LIZIO, il LIZIO ha frantesi lI In la mente dello stagirita. Di lui, difatti, dice CONTI che distinge lintelletto agente che fa intelligibili le cos dal possibile che le concepisce. Il LIZIO invece chiama intelletto possibile quello che tutto diventa, agente quello die tutto fa, come si pu vedere nel testo medesimo del dellAnima che ho di sopra allegato. Latto con cui lintelletto concepisce glintelligibili, egli intelligibili medesimi sono tuttuno. Non ci sono gi le cose intelligibili distinte dal concetto; onde se il LIZIO pone veramente questa differenza tra i due intelletti  do not multiply them! -- , si  contraddetto. Eche CONTI travisa la dottrina del LIZIO, si pare da ci, che lintelletto possibile pel LIZIO precede lagente, come la potenza precede lalto, mentre per CONTI avviene il contrario, forse perch non ha attinto questa distinzione dalla sorgente del LIZIO, ma da qualche espositore che1avea compreso male. Il peggio poi si  che CONTI ha laria di non sospettare eppure limportanza di questo problema, non meno che di parecchi altri rilevantissimi, contento a sfiorarli leggermente, quando non li trasanda del tutto! Ah, la storiografia filosofica italiana  e Grice chi parla dellunita lonitudinale e latitudinale della filosofia che, come la virtu, e una e unica! Nome compiuto: Francesco Fiorentino. Fiorentino. Keywords: idealismo, lidea di natura in Telesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore, filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fiorentino,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza -- Grice e Fioretti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei pro-ginnasti – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercatale). Abstract. Grice: “At Oxford, we have the Parson’s Pleasure—but at Athens, it was all about the GYM, starting of course with Aristotle and his Lizio!” Keywords: the gym. Filosofo toscano.  Filosofo italiano. Mercatale, Cortona, Arezzo, Toscana – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata. Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del prete che recita: Resurrexit, non est hic.  Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di nessuno, ad eccezione di Dio".  Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio, pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente franco.  Al suo pseudonimo era solito aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e politici impegnati.  Lasciò come ela sua biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca, Tiraboschi.  Luca, Scheda Biografica su Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria d'Italia: Il Seicento.  Gian Vittorio Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini” (Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij..., Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia; Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,  storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani, I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B. Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana, Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca, Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso, Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana,  8, Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano,  Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Benedetto Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro.  Mascolinità assieme di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi, comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico maschile, poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità, forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un disprezzo per le conseguenze e la responsabilità. Il suo opposto può esser espresso dal termine effeminatezza.Uno dei sinonimi maggiormente usati per indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.  Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali. Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per gli standard moderni.  Le norme tradizionali maschili, così come vengono descritte nel saggio di Levant intitolato "Mascolinità ricostruita" sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni, tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per il frocio, il finto maschio). Queste norme servono a riprodurre simbolicamente il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche creduti appartenere di diritto al genere maschile.  Lo studio accademico della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti. Questo ha portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di costruzione sociale del genere.  Natura ed educazione Competizione sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni.  La ricerca sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata "Fattore di trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione.  Vi è ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto fondamentale della mascolinità.  Altri invece suggeriscono che, mentre la mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a radersi.  Mascolinità egemonica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Maschilismo.  Esempio di maschio poco più che adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il comando e la leadership. Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la subordinazione delle donne".Pleck sostiene che una gerarchia di mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta". Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali dall'auto-consapevolezza maschile.  Critiche. Si tratta di un argomento dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione rivolta agli uomini per femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi e giovani uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa, soprattutto nella pubblicità. Jackson scrive che le forme dominanti di mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale. Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo ".   Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi.  La crisi è anche stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza.  Altri vedono il mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al contempo la necessità e domanda di forza fisica.  Tendenze contemporaneeModifica  L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità. Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo.  Secondo un documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi... Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi portando anche a gravi disturbi alimentari.  Sia gli uomini che le donne più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo (dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa).  Terminologia I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Shehan, Gale Researcher Guide for: The Continuing Significance of Gender, Gale, Cengage Learning, a b :// books.google.com/ books/ about/ Masculinity_and_ Femininity_ in_the_ MMPI_2. html? id =5KL Plmr9T7MC&q =%22what+ masculinity +and+ femininity +are%22bhttps:/ /books. google. com/books/ about/ Gender Nature_ and_Nurture.html?id=R6OPAgAAQBAJ&q=%22 biology +contributes %22+%22 masculinity +and+ femininity %22^ a books. google.com/ books/ about/ The_ Sociology_ of_Gender. html?id=SOT qzUeqmN MC&q=%22+ biological+ or+genetic+ contributions%22 ^ Joan Ferrante,  Sociology: A Global Perspective, 7th, Belmont, CA, Thomson Wadsworth, What do we mean by 'sex' and 'gender'?, su who.int, World Health Organization .https:// books. google. com/ books? id=jWj5OBvTh1IC &q=% 22meanings+of+ manhood+ vary%22 http://sk.sage pub.com/ books/ theorizing- masculinities/n7. 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Voci correlate Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay) Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile. Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli uomini moderni. The ManKind Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity, accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile. Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità. Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di antropologia Effeminatezza termine  Michael Messner (sociologo) sociologo statunitense  Privilegio maschile privilegio sociale degli individui maschi derivante solamente dal loro sesso. Fioretti.  Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio, ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi --. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica. Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Firmiano: la ragione conversazonale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roman priest and philosopher. Firmiano. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Firmiano,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Firmico: la ragione conversazionale e il culto di Giove -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “At Oxford, theology is allowed to be heard by philosophy pupils – but only within the contect of the Wilde Lectures on natural theology!” Keywords: cosmologia. Filosofo italiano. Alcuni scrittori che non si occuparono in modo particolare di filosofia, mostrarono di interessarsene.Così fece Siciliano, senatore, vir consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si dedica agli studi. Per le insistenze di Lalliano Mavorzio, che lo accolta molto amichevolmente quando era governatore della Campania, pubblica, per mantenere la promessa che aveva fatto in quell'occasione, un’opera di astrologia, "Mathesis", in otto libri, dedicata al suo protettore, allora proconsole d’Africa.E il più ampio trattato di quella materia che l’antichità abbia trasmesso. Il libro I è un’introduzione in cui l'astrologia è difesa dalle critiche degl'accademici e principalmente di Carneade. F. riconosce la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega platonicamente con la debolezza della natura umana in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se esso si libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua origine celeste, facilmente, con la divina ricerca della mente, consegue risultati difficili ed ardui. Firmico esalta la grandezza dello spirito, parla dell'affinità dello spirito con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna alla teoria della reminiscenza. Fonti di questa filosofia naturale si considerano Posidonio e CICERONE. Da POSIDONIO, e forse anche da Porfirio, può derivare altresì la discesa e l’ascesa dell'anima. Considerando i rapporti fra l’azione del cielo e la volontà dell'uomo, F. afferma che le stelle sono LA CAUSA delle passioni e dei impulsi malvagi dell'uomo.Lo spirito dell'uomo, per la sua origine divina, può sottrarsi al potere delle stelle.Anche queste tesi concordano, oltre che con il Platonismo, con il PORTICO posidoniano. I libri II-VIII trattano dell’astrologia propriamente detta. F. esige dai cultori dell'astrologia una condotta morale retta e pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda il principe, perchè, essendo divino, non è sottoposto alle stelle. In quest'opera, che offre una testimonianza importante del timore che nell’età dell’autore il potere dei cieli incute anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in generale ma non sempre posidoniani, piuttosto che specificamente neo-platonici e se in certi punti l’intonazione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa scuola, si deve anche pensare al carattere generale della filosofia contemporanea. Nell'insieme, F. non può considerarsi il seguace di alcun indirizzo determinato. Scrive "il De errore profanarum religionum", che è una violenta polemica contro il paganesimo di cui chiede la distruzione dagli principi Costazio e Costante. Filosofo Italiano. Di lui restano pochissime notizie biografiche, per lo più desumibili dai suoi testi.  Siciliano, secondo la sua stessa testimonianza, Firmico e senatore e per qualche tempo avvocato, ma abbandona la professione per le inimicizie che la sua pratica gli procura, sicché la successiva condizione di otium gli permise di dedicarsi agli studia humanitatis. Pubblica, così, le sue due opere conservatesi: i Matheseos libri octo e, circa dieci anni dopo, il De errore profanarum religionum. Matheseos libri octo L'opera, il cui titolo completo è “De Nativitatibus sive Matheseos libri VIII”, è dedicata al governatore della Campania, Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano detto Mavorzio, e costituisce il più vasto trattato di astrologia conservatosi dall'antichità, frutto di esperienze e studi in campo neoplatonico. Il primo libro, a differenza degli altri sette di contenuto esclusivamente tecnico, contiene una vera e propria apologia morale dell'astrologia, scienza caduta in sospetto ai galilei, ma ampiamente praticata al tempo dell'autore per influsso della speculazione platonica. I restanti libri espongono diverse nozioni tecniche relative alla materia, con uno stile spesso compilatorio che però rende conto della sintesi di una lunga tradizione precedente.  F. Materno afferma che l'influenza degli astri si esercita sulla parte DIVINA dell'anima umana. Solo un animo puro e libero da ogni peccato può accostarsi all'astrologia, disciplina che pone in costante contatto col divino. Dimostra poi l'importanza dell'influsso degli astri nel determinare la vita umana, e la spiegazione della storia del mondo fin dall'età di Saturno alla luce di tale principio. Firmico espone i fondamenti dell'astrologia tra cui i segni, i pianeti, le case, le suddivisioni dello zodiaco (decani e termini), gli aspetti e, particolarmente importanti per l'astrologia di Materno, gli antiscia, ovvero il legame tra due segni in base alla loro distanza dai solstizi. Il libro contiene anche il tema natale di un aristocratico romano che ricopre diverse cariche importanti, e che è stato identificato con Lolliano Mavorzio, con Publilio Optaziano Porfirio o, con Ceionio Rufio Albino. Questo libro contiene anche alcuni avvertimenti per coloro che praticano l'astrologia: che bisogna sempre dare i propri responsi pubblicamente, e che bisogna rifiutarsi di studiare l'oroscopo del principe. In epoca romana, infatti, studiare l'oroscopo del sovrano pontifice massimo costituiva un reato di lesa maestà punibile con la morte.  Il Thema Mundi, contenuto nel Libro III, sezione ii del Matheseos Libro III presenta il concetto del Thema Mundi, l'oroscopo del mondo, poi fornisce un elenco delle delineazioni per ciascun pianeta in ciascuna casa. Tratta delle possibili delineazioni della Luna e dei Lotti della Fortuna e dello Spirito, della lunghezza della vita, della professione. Tratta delle delineazioni dei differenti segni in ciascun luogo e di ciascun pianeta. Tratta degli aspetti, anche di quelli più complicati, e della delineazione delle stelle fisse e del chronocrator. Tratta della condizione di nascita, della schiavitù, della malattia, della famiglia, del matrimonio e di temi simili. Include commenti sulle costellazioni e su gradi speciali. De errore profanarum religionum L'opera è successiva alla conversione di Materno al Cristianesimo, avvenuta in circostanze di cui si ignorano causa, luogo e tempo, ma inequivocabilmente testimoniata dall'opera apologetica De errore profanarum religionum. Nella tradizione del testo, l'opera è giunta priva delle pagine iniziali. La parte restante inizia passando in rassegna i culti naturalistici degli elementi dimostrandone l'assurdità. Considera poi quei culti di origine orientale che erano allora molto praticati presso i pagani: i misteri di Iside, Cibele, Mitra, il culto dei Coribanti, di Adone e altri. Sono applicati i principi di Evemero per dimostrare che tutte queste divinità non sono altro che uomini innalzati dopo la morte agli onori celesti e dei cui peccati gli uomini si servono per giustificare i propri. Con alcune fantasiose etimologie -- per esempio “Serapide” è fatto derivare da Σάρρας παίς, il figlio di Sara, cioè Isacco -- tenta di spiegare le origini di alcuni di esse a partire dai testi biblici; o ancora, egli dà notizie delle frasi e delle formule in codice usate nelle religioni misteriche, avvicinandole alle formule bibliche. La lingua di F. aspira alla purezza del classicismo ma non si sottrae agli influssi del suo tempo, abusando spesso di espedienti retorici, enfasi e incursioni nella lingua poetica. L'uso delle clausole metriche lo ricollega alla tradizione oratoria di CICERONE.  Lo stile dell'opera, in effetti, richiama da vicino quello degli africani Tertulliano e Arnobio, ricorrendo volentieri alla derisione e al sarcasmo.  Dell'opera colpisce il fanatismo quasi feroce con cui l'autore esorta gli imperatori Costante I e Costanzo II a perseguitare senza pietà i seguaci delle fedi fallaci. Non è infatti frequente nella filosofia trovare un'esplicita richiesta volta a sollecitare l'intervento dello stato contro i pagani, recuperando in un certo modo il disprezzo che i senatori hanno ai tempi della Repubblica per l'ellenizzazione della religione e della cultura romana -- essendo Quinto Fabio Massimo Verrucoso il più conosciuto contro l'ellenizzazione, mentre i maggiori difensori di questa furono la gens Cornelia. Ricordiamo a tale proposito che il primo imperatore a mettere fuori legge tutti i riti non cristiani e a perseguitarli apertamente fu Teodosio I. In quest'opera si coglie anche quello che dovette essere lo stato d'animo formatosi in molti nel breve lasso di tempo intercorso tra le persecuzioni dioclezianee e l'editto di Milano. Seppur F. appaia pienamente inserito nel filone della letteratura apologetica, la sua voce non giunse isolata al tempo dell'editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I, ma nel corso del medio-evo rimase senza eco. La sua opera apologetica è considerata di particolare interesse per la storia delle religioni, riportando particolari di prima mano e plausibili sui culti misterici praticati in Sicilia in età tardo-antica. Paradossalmente e, invece, molto considerata la sua opera astrologica, la cui esaustività e leggibilità migliore rispetto all'opera di Marco Manilio giovarono alla trasmissione. Matheseos. Siciliae quam incolo et unde oriundus sum»; Matheseos libri octo, IV, proemio; Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, Milano-Messina; L'opera contiene infatti un riferimento a un'eclissi anulare di sole. Mommsen. Hermes Brennan, F. The Hellenistic Astrology, hellenisticastrology. com/astrologers/ firmicus-maternus Neugebauer, «The Horoscope of Ceionius Rufius Albinus», The American Journal of Philology, L'unico testimone è un codice del X secolo, il Vaticanus Palatinus; F. L'errore delle religioni pagane, Introduzione, traduzione e note a cura di E. Sanzi, Roma 2006. ^ C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina, Messina-Milano. F., Matheseos edito da Kroll e Skutsch, Stuttgart, Teubner, Mathesis, Monat, Parigi Les Belles Lettres, Collection des Universités de France. In difesa dell'astrologia. Matheseos, a cura di Colombi, Udine, Mimesis; L'errore delle religioni pagane, a cura di Sanzi, Roma, Città Nuova; F. su Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Niccoli, F., Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica F., su digilib LT, Università degli Studi del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F. su MLOL, Horizons Unlimited Open Library, F.Internet Archive; F. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton. De errore profanarum religionum, Ziegler, Lipsiae, in aedibus Teubneri Matheseos . Kroll et F. Skutsch, Lipsiae, in aedibus Teubneri Portale Antica Roma   Astrologia  Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Astrologi romani Scrittori Romani Senatori romani Scrittori antichi Astrologia ellenistica Scholar and statesman who writes an attack on religion that borrows heavily from CICERONE. PORTICO. F. writes an essay on astrology. Nome compiuto: Giulio Firmico Materno. Firmico. Keywords: cosmologia. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Firmico,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Firmo: la ragione conversazionale e  Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).  Abstract. Grice: “Plotino reminds me of myself. He spent his life criticising other philosophers’s creeds!” Keywords: epagoge. Filosofo italiano. Friend of Porfirio and a pupil of Plotino and Amelio Gentiliano [si veda]. He is best known because of the essay “On abstinence,” that Porfirio dedicated to him, in which the arguments for vegetarianism are set out. F. had evidently resumed his carnivorous ways at the time the essay was written. Nome compiuto: Firmo Castricio. Firmo. Keywords: biologia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Firmo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fisichella: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del duello – scuola di Catania -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: I love Fisichella; for one, he was a nobleman; for another, he died during Messinas earthquake  leaving unfinished quite a few essays  he philosophised on both nature and convention, and the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in nature, even if he fills it with charming Roman detail! Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica di Catania. Insegna a Messina. Mor vittima del terremoto di Messina. Altre opere: Roma e il Mondo (Coco); Pena temporaria, pena perpetua; Il concetto d obbligazione naturale; Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico VIII (Carmelo de Stefano); Matrimonio, questione di stato  la legge di matrimonio. Nominato "bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I Vicer. Whoever has glanced through the pages of any text-book on mercantile law will hardly deny that contract is the handmaid if not actually the child of trade. Merchants and bankers must have what soldiers and farmers seldom need, the means of making and enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to the special case before us, we should expect to find that when Roma was in her infancy and when her free inhabitants busied themselves chiefly with tillage and with petty warfare, their rules of sale, loan, suretyship, are few and clumsy. Villages do not contain lawyers. Even in towns, hucksters do not employ them. Poverty of contract is in fact a striking feature of the early Roman jurisprudenze, and can be readily understood in the light of the rule just stated. The explanation given by Maine in Ancient Law is doubtless true, but does not seem altogether adequate. Maine points out that the Roman house-hold consists of many families under the rule of a paternal autocrat. Few freemen have what we should call legal capacity. Consequently, there arose few occasions for a contract. This may indeed account for the non-existence of agency, but not for that of all other contractual forms. For, if the households had been trading instead of farming corporations, they must necessarily have been more ichly provided in this respect. The fact that their commerce is trivial, if it exists at all, alone accounts completely for the insignificance of the contract in their early law. The origin of the contract as a feature of social life is therefore simultaneous with the birth of Ttade and requires no further explanation. It is with the origin and history of its individual forms that we shall deal. As Roman civilization progresses, we find commerce extending, and contract growing steadily to be more complex and more flexible. Before the end of the Roman republic the rudimentary modes of agreement which suffice for the requirements of a semi-barbarous people have been almost wholly transformed into the elaborate system of contract preserved for us in the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can be made, and which for convenience we may call the regal period, we can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The promise could be enforced either by the person interested, or by the gods, or by the community. When, however, we speak of *enforcement*, we must not think of what is now called specific performance, a conception unknown to primitive Roman law. The only kind of enforcement then possible is to make punishment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society just emerging from barbarism, is doubtless the most ancient protection to promises. We find self-help to have been not only the mode by which the anger of the individual is expressed, but also one of the authorised means employed by a god  il divino -- or the community to signify displeasure. This rough form of justice falls within the domain of law in that the law allows it, and even encourages Romans to punish the delinquent, whenever religion, or custom, has been violated. But as the Romans grew more civilized and the nation larger, self-help proves a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly, the scope of self-help is by degrees narrowed, and, at last, with the introduction of surer methods, self-help becomes wholly obsolete. Religious law, as administered by a priest, or representatives of a god, is another powerful agency for the support of promises. A violation of fides, the sacred bond formed between the parties to an agreement, is an act of impiety which lays a burden on the conscience of the delinquent and may even have entailed religious disabilities. Fides is of the essence of every compact. But there are certain cases in which its violation is punished with exceptional severity. If an agreement is solemnly made in the presence a god  Roma had three: Giove, Mars, and Quirinus --, its breach is punishable as an act of gross sacrilege. A third agency for the protection of a promise is legal. This third agency consists of a penaltiy imposed upon bad faith by the laws of Rome, the rules of the gens, or the by-laws of the guild to which the delinquent belongs. What the sanction is in each case we are left to conjecture. It may be public disgrace, or exclusion from the guild, or the paying of a fine. And if a promises is strengthened by an appeal to a god, so might another be by an invocation of the people as witnesses. An agreement, then, might be of three kinds, correspending to these three kinds of sanction. An agreement may consist of an entirely formless compact, or a solemn appeal to a gods, or a solemn appeal to the people. A formless compact is called pactum in the language of the Twelve Tables. A pactum is merely a distinct understanding between parties who trust to each other, and in the infancy law, a pactum must have been the kind of agreement most generally used in the ordinary business of life. A pactum is doubtless the oldest of all agreements, since it is almost impossible to conceive of a time when two Romans did not barter an act and a promise as freely as they bartered goods and without the accompaniment of any ceremony. A compact of this sort is protected by the universal respect for fides, and its violation may perhaps have been visited with penalties by the guild or by the gens. But intensely religious as the early Romans were, there must have been cases in which conscience was too weak a barrier against fraud, and when a slight penalty was ineffectual. The fear of a god has to be reinforced by the fear of the Roman. Self-help is the remedy which naturally suggests itself. In The Twelve Tables a pactum appears in a negative shape, as a compact by performing which retaliation or a law-suit may be avoided. If this compact is broken, the offended party pursues his remedy. Similarly, where a positive pactum is violated, the injured person must have had the option of chastising (Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20) the delinquent. The injured Romans revenge may take the form of personal violence, seizure of the other's goods, or the retention of a pawn already in his possession. A Roman could choose his own mode of punishment. But, if his adversary proves too strong for him, he doubtless had to go unavenged. If the broken agreement belonged to either of the other classes, the injured party has the whole support of the priesthood or the community at his back, and thus is certain of obtaining satisfaction. It is therefore plain that though formless agreements contain the germ of a contract, a formless agreement could not produce a law of Contract. By the very nature of a formless agreement or pactum, it lacks binding force. The pactums sanction depends on the caprice of individuals, whereas the essence of a contract is that the breach of an agreement is punishable in a *particular* way. A further element is needed, and this is supplied by the invocation of higher powers. At what period the fashion is introduced of confirming promises by an appeal to a god it would be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such an appeal is alone considered, and its form is of no importance. Under the influence of custom or of the priesthood, such an agreement assumes, by degrees, a formal character, and it is thus that we find them in our earliest authorities. Since Religion and Law are both at first the monopoly of the priestly order, and since the religious form of a promise has its counterpart in earlier customs, the strictly SECULAR forms of an agreement s peculiarly Roman. The religious forms are evidently the older, and formal contract has therefore had a religious origin. Fides being a divine thing, the most natural means of confirming a promise was to place it under divine protection. This may be accomplished in two ways, by iusiurandum or by sponsio -- each of which is a solemn declaration, placing the promise or agreement under the guardianship of a gods. Each of these two forms  the iusiurandum and the sponsio -- has a curious history, and they are the earliest specimens of a true Contract. A third method, and one peculiar to the Romans, which naturally suggested itself for the protection of agreements, is to perform the whole transaction in view of the people. Publicity ensures the fairness of the agreement, and placed its ex- istence beyond dispute. If the transaction was essentially a public matter, such as the official sale of public lauds, or the giving out of public contracts, no formality seems ever to have been required, so that even a formless agreement  a mere pactum -- is, in that case, binding. The same validity is secured for a private contract, by having is publicly witnessed, and, the next one is but one application of this principle. In testamentary law it seems probable that the public will in a comitiis calatis is also formless, whereas, in private, the testator may only give effect to his will by formally saying to his fellow-citizens testimonium, mihi perhibetote. Thus the two elements which turned a bare agreement into a contract are religion and publicity. The naked agreement (pactum) need not concern the philosopher, since, its validity as a contract never receives complete recognition. But it will be the object of the following consideration to show how the agreement GROWS into a contract by being invested with a religious or public dignity, and to trace the subsequent process by which this outward clothing is slowly cast off. Formalism is the only means by which contract rises to an established position. But when that position is fully attained we shall find that contract discarding the form, and returning to the state of the bare agreement from which it springs. Iusiiurandum is derived by some from louisiurandum, which merely indicates that Jupiter or Giove  the root, Aryan, is that of dius, as in diuspiter, or dius-pater  is the god by whom Romans swear. To make an oath is to call upon some god to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerves from it. This appears from the wording of the oath in Livio where Scipione says: -- Si sciens falio, turn me, luppiter optime maxime, domum familiam remque meam pessimo leto afficias  It also appears from the oath upon the luppiter lapis given by Polibio and Paolo Diacono, where a man throws down a flint and says  Si sciens folio, turn me Dispiter saliia urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc lapidem." A promise accompanied by an oath is simply a UNI-LATERAL contract under religious sanction. An oath is in used for the purpose of a contract. Cicerone remarks that the oath is proved by the language of the XII Tables to have been in former times the most binding form of promise (Off III. 31. 111). Since an th is morally binding -- Of. Apul. de deo Socr. 5. = xxii. 53. -- in the time of Cicerone, though it has then no LEGAL force, Cicerones implicature is that, in earlier times, an oath is LEGALLY binding also. From Dionisio we know that the altar of Ercole, the Ara Massima -- is the place at which a solemn compact (a-vvOrJKai) ais made, while Plauto and Cicerone inform us that such a compacts is solemnised by grasping the altar and taking the oath. It would seem probable that a gods was consulted by the taking of an auspice, *before* the oath is made. Cicerone says that, even in a private affair, a Roman would take no step without asking the advice of a god. And we may safely conjecture that whenever a god was called upon to witness a solemn promie, he was first enquired of, so that he might have the option of refusing his assent by giving an unfavourable auspice. The terms of the oath were known as concepta uerba and they are strictly construed. Periurium does not mean mere false swearing. Periurium means the breach of an oath, the commission of an act at variance with these verba concepta. There is some dispute as to what are the exact consequences of such a breach. Voigt thinks that periurium merely entails an excommunication from a religious rite. Danz is clearly right in maintaining that its consequences are far more serious -- 1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49; Cic. Flace. 36. 90. 3; Biv. 1. 16. 28.; Seru. ad Aen. 12. 13. " i.e. sciens fallere; Plin. Paneg.d'i.; Seneca, Ben. iii. 37. 4. 8; Off. III. 29. 108; lus Nat. in. 229. 8 j{gi. (j_ _ g 149. -- A breach amounts in fact to complete outlawry. Cicerone says that the sacratae leges of the ancients confirm the validity of an oaths. Now, a sacrata lex is one which declares the transgressor to be sacer -- i. e., a victim devoted -- to some particular god, and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius and in The XII Tables is *the* epithet of condemnation applied to the undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems highly probable that the breaker of an oath becomes sacer. His punishment, as Cicerone implicates, is death. The formula of an oath given by Polibio is more comprehensive than that given by Paolo Diacono, for, in it, the swearer prays that, if should he transgress, he may forfeit not only the religious but also the civil rights of his Roman countrymen. The oath-breaker is an utter outcast. As a gods could not always execute vengeance in person, what the god does is to withdraw his protection from the offender and leave him to the punishment of his Roman fellow-men.  H. P. Grice adds: The drawback to this old Roman method of contract, as formulated by Polybius, is the same as that of the Law of my country, England, which makes hanging the penalty for a slight theft. The hanging penalty is out of all proportion to the injury inflicted by a breach of the promise. So awful indeed was it, that no promise of an ordinary kind could well be given in such a dangerous form, and consequently the oath was not available for the -- 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare.  Seru. ad Aen. 6. 609; Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25. 5 p. 114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.-- common affairs of daily life. The use of the oath therefore disappears with the rise of other forms of binding agreement, the severity of whose remedies is PROPORTIONATE to the right which has been violated. At the same time, the breaking of an oath comes to be considered as a merely *moral*, instead of a strictly *legal*, offence. By the end of the Republic, an oath entails nothing more serious than disgrace  dedecus  or disgrice, as I prefer to spell it. In one instance only does the *legal* force of the oath survives. As late as the days of Justinian, the service due to a patron by his freedman are still promised under oath. But the penalty for the neglect of such a service changes with the development of the law. Before the time of The XII Tables, a former slave who neglects his former patron, like the patron who injures his former slave, are no doubt sacer. The former slave is an outlaw fleeing for his life, as we are told by Dionisio. But in later times the heavy religious penalty disappears, and the iurisiurandi obligatio is enforced by a special praetorian action: the actio operarum. By the time of Ulpian, the effects of the iurata operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the operarum stipulatio, though the forms of the two are still quite distinct. We may now summarise this primitive mode of contract. The contract was a verbal declaration, on the part of the promisor, couched in a solemn and carefully -- 138 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s n, iq. * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10. -- worded formula, the concepta uerba, wherein he called upon a god (testari deos), to behold his good faith and to punish him for a breach of it. The sanction is the withdrawal of the protection by the god. The delinquent is then exposed to death at the hand of any man who chooses to slay him. The mode of release, if any, does not appear. In classical times it was the acceptilatio, but this was clearly anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae promissae and operae iuratae. Now, though the point has been contested by high authority, it scarcely admits of a doubt that there exists from very early times *another* form, known as a sponsio, by which an agreements may be made still under religious sanction. This method, as Danz points out, is originally connected with a mere oath. The sponsio is derived from a stern and solemn compact made under an oath to a god. Danz goes perhaps too far when he identifies the two. Sponsio is, for Danz, just another name for a sworn promise. The stages through which the sponsio pass tell a different story. The word sponsio is closely connected with (Tirovhrj, a-rrevSeiv  and, hence, a sponsio is literally, a pouring out of wine, quite distinct from the convivial Xot^T) or libatio. A different derivation is given by -- 138 Dig. 1. 7, fr. 3. Plaut. Rud. 5. 2. 52. 5 46 Dig. 4. 13. Danz, Sacr. Schutz, 5 Featus-p. 329 s.u. spondere. Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o. -- Varrones and Verriuss from spons, the will, whence, according to Girtanner, a sponsio was a declaration of the will (I will, not I shall), savours somewhat too strongly of classical etymology. A pouring out of wine, as Leist shows, is a constant accompaniment to the conclusion of a sworn compact of alliance (opKia iriaTo). This sacrificial wine adds force to the oath. The wine is a symbol of the blood which *would* be spilt if a god *were to be* insulted by a breach of the oath made during this wine-pouring ceremony. In this then its original form, a sponsio is nothing more than an accessory piece of ceremonial. A second stage was brought about by the *omission* of the oath AND the use of wine-pouring *alone* as the principal ceremony. This made a less important agreement of a private nature. (An Indian friend of mine tells me that, in the Indian Kama-Sutra, a sacrifice of wine is customary at betrothals -- and comparison shows that the marriage ceremonies of the Romans, in connection with which we find sponsio and sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the bride, are very like those of other Aryan communities. We may therefore clearly infer that at Rome also there was a time when the pouring out of wine is a part of the marriage-contract. Thus, the derivation of the sponsio from wine-pouring receives independent confirmation. In a third and last stage, a sponsio came to mean -- ^ Lingua Latina VI. 7. 69. Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p. 84. Greco-It. B. G.  60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443. Gell. IV. 4. Varro, Lingua Latina vi. 7. 70. Leist, loc. cit. -- nothing more than a promise. It is easy to see how this came about. At first, the promise takes its name from the explicit ceremony of wine-pouring which gives to it binding force. In course of time, this name-giving crucial wine-pouring ceremony is left out, as what H. P. Grice calls, a taken for granted. The promise alone, provided words of style are correctly used, retains its old use and its old name. From being a ceremonial act, sponsio becomes a form of words. Such is the final stage of its development. The importance attached to the use of the words in the conversational dyad -- A: Spondesne? -- B: Spondeo. -- in preference to all others' thus becomes clear. The conversational dyad: A: Spondesne?  B: Spondeo.  means: -- A: Do you promise by the sacrifice of wine?  B: I do so promise. -- Just as one says, "I GIVE you my oath," when we do not even *dream* of actually *TAKING* one! Another peculiarity of sponsio, noticed though not explained by Gaius  HI. 93 m. 94 --, is the fact that it is used in one exceptional case to make a binding agreement between a Romans and a NON-Roman aliens, scil., at the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure wine ((nrovBal aKprjToi) is one of the early formalities of an international compact (opKia iria-Ta), it is natural that the expression spo'ndeo survives on such occasions, even after the oath and the wine-pouring had long vanished. Sponsio being then a religious act and subsequently a religious formula, its sanctity is doubtless protected by a pontiff with a suitable penalty. What the penalty was we cannot hope to know, though clearly they are the forerunners of the penal sponsio tertiae partis of the later procedure. Varrone informs us that, besides being used at a betrothal, a sponsio may also be employed in a money (pecunia) transaction. If pecunia includes *more* than money, we may well suppose that cattle and other forms of property, which could be designated by number are capable of being promised in this manner. Indeed it is by no means unlikely that negotium was at one time the proper form for a loan of money by *weight*, while sponsio is the proper form for a loan of coined money -- pecunia numerata. The making of a sponsio for a sum of money is at all events the distinguishing feature of the actio per sponsionem, and though we cannot now enter upon the disputed history of that action, its antiquity will hardly be denied. The account here given of the origin and early history of the sponsio is so different from the views taken by many excellent authorities that we must examine their theories in order to see why they appear untenable. One great class of commentators have held that the sponsio is NOT a primitive institution, but was introduced at a date subsequeat to The XII Tables. The adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so early a period, of a form of contract so convenient and flexible as the sponsio, and they also attach great weight to the fact that no mention of sponsio occurs in The XII Tables! While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the early -- 1 Lingua Latina VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42.  sponsio the actionability and breadth of scope which it had in later times, still it may very well have been sanctioned by religious law, in ways of which nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius' should some day be discovered! As to the silence of The XII Tables on this subject, we are told by Pomponius that they were intended to define and, more importantly, REFORM the law rather than to serve as a comprehensive code. Therefore they may well have passed over a subject like sponsio which is regulated by the priest. Or, if The XII Tables did mention it, their provisions on the subject may have been lost, like the provisions as to iusiurandun, of which we know only through a casual remark of Cicerones. The early date here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved by any such negative evidence. Let us see how the case stands with regard to the question of origin. The theory best known at Oxford, owing to its support by Maine, is that sponsio is a simplified form of a nexum, in which the ceremonial falls away and the nuncupatio is left. Maines explanation is so utterly obsolete that it is not worth refuting, especially since Hunter's rebuttal of it. One fact which in itself is utterly fatal to such Maines theory is that the nuncupatio is an assertion requiring no reply  or the securing of perlocutionary uptake, in the words of J. L. Austin -- 1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4. 3 Off. m. 31. 111. Maine, Anc. Law, p. 326. Hunter, Bovian Law, . " Gai. ii. 24. B. E. 2 -- whereas the *essential* thing about the sponsio is that of a question coupled with an answer that implicates the co-conversationalists implication in the matter via uptake  cf. betting. Voigt follows Girtanner in maintaining that spondere signifies "to declare one's will,  as in I will, not I shall -- and he vaguely ascribes the use of sponsiones in the making of agreements to an ancient custom existing at Rome as well as, more generally, somewhere in Latium. Girtanner agrees with the view here expressed that a sponsio was known prior to The XII Tables, but thinks that before The XII Tables, the sponsio was neither a contract (strictly true if by contract we mean an agreement enforceable by action), nor an act in the law, and that its use as a contract began later as a result of Latin influenced. In another place, Girtanner expresses the opinion that the introduction of the sponsio as a contract is due to legislation -- most probably to the Lex Silia. The objections to this view are, first, that his  indeed Varrones -- etymology is wrong, and, second, that the inference drawn as to the original signification of spondere involves us in rather serious difficulties. An expression of the will can be made by a formless, as Dummett calls it, declaration as well as by a formal one. And if a *formless* agreement be a sponsio, as it must be if a sponsio refers to *any* declaration of the will, how are we to explain the *formal* or ceremonial importance, attaching to the use of the particular words in what Grice calls the primeval conversational dyad: A: Spondesne?  B: Spondeo. This view ignores the religious nature of the sponsio, which I have endeavoured to establish, and it forgets that a sponsio, being part of the marriage ceremonial, one of the first subjects -- 1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43. 3 lus Nat.  33-4. -- to be regulated by the laws of Romulus after he married Ercilia (later a goddess, according to Ovid) is most probably one of the oldest Roman institutions, instituted by Romulus  (Its different with Henry VIII marrying Anna Boleyn --. Again, as Esmarch observes the legislative origin of a sponsio is a very rash hypothesis. We only know that the Lex Silia introduces an improved procedure for matters which are already actionable, and has a new formal contract been created by such a definite act, we should almost certainly have been informed of this by, say, Cicero! Danz, who also (wrongly) derives sponsion from spans, the will; takes spondere to mean sua sponte iurare, and thinks that a sponsio is exactly the same as a iusiurandum, i.e. nothing more than an oath of any kind! Danzs chief argument for this view is to be found in Paolo Diacono, who gives con-sponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus meant more than to give a synonym ? in which case it by no means follows that spondere = iurare. For such a statement as that we have absolutely no authority. Moreover, as we saw above, iusiurandum is a *one-sided* (first-person singular) declaration on the part of the promisor only. How, then, could the sponsio, consisting, as it does, of a question and its answer, have sprung from such a source? Especially since the iusiurandum, though no longer armed with a legal sanction, is still used as late as the days of Plauto alongside of the sponsio and in complete contrast to it? Girtanner, in his reply to the "Sacrale Schutz" of Danz, maintains that sponsio has nothing -- 1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516. ^ Sacr. Schutz, p. 149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft. 22 -- to do with an oath, but that it was is a simple declaration of the individual will, and that stipulatio has its origin in the respect paid to fides. This view however is even *less* supported by evidence than Danz's. Arguing again from analogy, Girtanner thinks that, as the Roman people regulated its affairs by expressing its will publicly in the comitia, we may conjecture that a Roman individual could validly express his will in a private affairs -- in other words could make a binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a misapprehension of a leading principle of law. For, as we have seen, no agreement resting simply upon the will of the parties (i.e. pactun) is valid without some outward stamp being affixed to it, in the shape of approval expressed by a god  notably Giove -- or by the people. In more modem language, we may say that such approval, tacit or explicit, religious or secular, is the original causa civilis which distinguishes a contractus from, not a pactum, but a pactio. Now, a popular vote in the comitia bears the stamp of public approval as plainly as did the nexum. But a sponsio, requiring no witness, is clearly NOT endorsed by the Roman people. The endorsement which the sponsio needs in order to become a contractus iuris civilis must have been of a religious nature, and that such was the case appears plainly if we admit that sponsio originates in a religious ceremonial such as H. P. Grice describes: Will you, wont you? I shall! To recapitulate the view here given, we conclude that sponsio is, if it existed, a primordial institution -- 1 See Windsoheid, K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291. -- of the Roman and Latin peoples, which grows into its later form through three stages. The sponsio is originally a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of alliance or of peace made under an oath to a gods. It next became a sacrifice used as an appeal to a god in a compacts not jtnade under oath such as a betrothal. Just as iusiurandum for many purposes is sufficient without the pouring out of wine, so for other purposes sponsio came to be sufficient without the oath. Lastly it becomes a rather empty verbal formula, expressed in language by which the utterer *implicates* -- to use Grices wording -- the accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no sacrifice is actually performed  but deemed to be performed  as in the Kantian view that to will is to act. In this final stage, which continued to the days of Justinian, its form is a question, put by the promisee, and its AFFIRMATIVE answer, given by the promisor, each using the verb spondere. A: Filiam mihi spondesne?  B: Spondeo.  A: Centum dari spondes?  B: Spondeo. Throughout its history this was a form which Roman citizens alone could use, in which fact we clearly see religious exclusiveness and a further proof of religious origin. Why they used question and answer rather than plain statement is a minor point the origin of which no theory  except Grices -- has yet accounted for (In the beginning was the Dia-Logos.). As Grice  following Collingwood  in conversando intelligendo  notes, the recapitulation by the promisee is obviously intended to secure the complete understanding by the promisor of the exact nature of his promise. Its sanction in the early period of which we are treating is doubtless imposed by the priest, but owing to our almost complete ignorance of the pontifical law  the popes were none of the narcissists we now know! -- we cannot tell what that sanction is. Having examined the ways in which an agreement could be made binding under religious sanction, let us see how binding agreements could be made with the approval of the *community*, or to use Cicerones favourite phrase, Populus romanus. There is reason to believe that a secular  or communitarian (free from immunity) class of contracts is less ancient than the religious class, because nexum and mancipium or municipium were peculiar to the Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio are found, as Leist dreams, in other Aryan civilizations. There is no more disputed subject in the whole history of Roman law than the origin and development of this one contract, termed the nexum. Yet the facts are simple, and though we cannot be sure that every detail is accurate, we have enough information to see clearly what the transaction is like as a whole. We know that, as per the genus-species diaresis  the nexum is a negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other commodity measured by weight in the presence of witnesses. That the commodity so weighed is a loan' ; and that default in the re-payment of a loan thus made exposed the borrower to bondage and savage punishment at the hands of the lender (Hence: Neither a lender nor a borrower be). We know also that the nexum exists as a loan before The XII Tables, for the nexum is mentioned in them as something quite different from a municipium, or manicipium. To assert, as Bechmann does, that since nexum included conveyance as -- 1 Alt Ar. I. Civ. !" Abt. pp. 435-443. 2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro, L. L. 7. 105. " Varro, L. L. vi. 5. 5 Clark, B. E. L.  22. -- well as loan "mancipiuvique " must therefore be an interpolation into the text of the XII Tables -- is an arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of both nexum *and* mancipium shows that they were distinct conceptions. A mancipium entails the transfer of manus, ownership. Nexum entails the making of a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent of obligatio in the later law. It is true that both nexum and mancipium required the use of copper and scales, to measure in one case the price, in the other the amount of the loan. But this coincidence by no means proves that the two transactions are identical. Today, a deed is used both for leases and for conveyances of real property, yet that would be a strange argument to prove that a lease and a conveyance are the same thing! Here however we are met by a difficulty. If, as some hold, and as I have tried to prove, we must regard mancipium as an institution of prehistoric times distinct from the purely contractual nexum, how are we to explain the fact that nexum is used by Cicerone as *equivalent* to mancipium, or as a general term signifying, omne quod per aes et libram geritur, whether a loan, a will, or a conveyance? Now first we must notice the fact that nexum had at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been so, there could have been no doubt in the minds of -- 1 Kauf, p. 130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n. 3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5. 28; Farad. 5. 1. 35.; pro Mur. 2. * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua Aelius in Festus, s.u. nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105. 24 -- Scaeuola and Varrone that a res nexa is the same thing as a res mandpata. This Scaeuola and Varrone both deny. We must also remember that Mucins Scaeuola was the Papinian of his day. ManiUus, on the other hand, struck perhaps by the likeness in form of the obsolete nexum to other still existing iwgotia per aes et Ubram, seems to have made nexum into a generic term for this whole class of transactions. In this, he was followed by Gallus Aelius'. The wider meaning given by them to that which was a technical term at the period of the XII Tables, apparently became the received opinion  received by them! --, partly for the very reason that nexum no longer had an actual existence, partly because neon liberatio, the old release of nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in matters which had nothing to do with the original nexum, viz., in the release of judgment-debts and of legacies per damnationem. One pecularity mentioned by Gaius in the release of such a legacy seems altogether fatal to the theory that manucipium was but a species of the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for legacies of things measured by weight. Such things were the sole objects of the true nexum, whereas res manucipii included land and cattle. Therefore if manucipium were only a species of nexum we should certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipii, but this, as Gaius shows, is not the case. The view that nexum was the parent gestum per -- 1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum. s Gai. III. 173-5. NEXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM-- aes et libram, and that mancipium is the name given later to one particular form of nexum, is worth examining at some length, because it is widely accepted, and because it fundamentally affects our opinion concerning the early history of an important contract. Bechmann thinks it more reasonable to suppose that nexum *narrowed* from a general to a specific conception. But it is scarcely conceivable that nexum should have had the vague generic meaning of quodcumque per aes et libram geritur when it was still a living mode of contract, and the technical meaning of obligatio per aes et libram when such a contractual form no longer exists! What seems far more likely is that nexum has a technical meaning -- until a nexum ceases to be practiced, subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose meaning  or disimplicature, to use Grices wording -- was introduced in the later Republic, partly to denote the binding force of any contract, partly as a convenient expression for any transaction per aes et libram. Even in Cicerone we find the nexum used chiefly with a view to elegance of style, in places where mandpatio would have been a clumsy expression and where there could be no doubt as to Ciceros meaning. But when he is writing *history*, Cicero uses nexum in the sense it has, even if he concedes that that sense is regarded by some as obsolete. 1 See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark, E. R. L. . 2 lb. p. 131. " Varro, I. c.  Pestus, s.u. nexum.  Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig. 6. 26. 7. 5 Cio. de Or. iii. 40. 159. 6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28. ' As in pro Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1. Rejecting then as untenable the notion that nexum denotes a variety of transactions, let us see how nexum originates. The most obvious way of lending corn or copper or any other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower, who would naturally at the same time specify, by word of mouth, the terms on which he accepted the loan. In order to make the transaction binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if the transaction took place, as it most likely would, in the market-place, the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was that a nexum is originally made. It was a *formless* agreement, necessarily accompanied by the act of weighing, and made under public supervision in Romes market place the present Forum. The nexum deals only with commodities which may be measured with a scale and a weight, and does not recognize the distinction between res mancipi and res nee mancipi,  a strong argument that nexum and mancipium are totally distinct affairs. The sanction of the nexum lies in the acts of violence which the creditor might see fit to commit against the debtor, if payment is not performed according to the terms of his agreement. Personal violence is regulated by The XII Tables, in the rules of manus iniectio. Before that time, it is safe to conjecture that any form of retaliation against the person or property of the debtor is freely allowed. The fixing of the number of witnesses at *five* (why five?) which we find also in mancipium, is the only modification of nexum that we know of prior to -- ' Gai. FUNCTION OF NEXAL WITNESSES. -- the XII Tables. Bekker suggests that this change is one of the reforms of Servius Tullius, and that the *five* witnesses, by representing the *five* classes of the Servian census, personified the whole people  the Populus Romaus  (the five classes were: the first class, the second class, the third class, the fourth class, and the fifth class). This is a mere conjecture by Bekker  and ultimately by Servius Tullius --, but a very plausible one! For we are told, by Dionysius, that Servius made *fifty* enactments on the subject of contracts and crimes, and in another passage of the same author, we find an analogous case of a law which forbade the exposure of a child except with the approval of *five* witnesses  one of each class, although usually five first-class citizens did! --. But here a question has been raised as to what the witnesses did, other than just BE there. The correct answer, I believe, is that given by Bechmann, who maintains that the five witnesses approved the transaction as a whole, and vouched for its being properly and fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the function of the five witnesses is to superintend the weighing of the copper, and that before the introduction of coined money some such public supervision is necessary in order to convert the raw copper into a lawful medium of exchange. This view is part of Huschke's theory, that nexum had two marked peculiarities. A nexum is a legal act performed under public authority, and it was the recognised mode of measuring out copper money by weight. The first part of Huschke's theory may be accepted without reserve. The second part seems quite untenable. We have no evidence to show that nexum was confined to loans of money or of -- 1 Akt. I. 22 ff. 2 jy_ IS -J jj. 15. * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff. -- copper. Indeed we gather from a passage of Cicerone that corn is the earliest object of nexum, while Gains states that anything measurable by weight could be dealt with by nexi solutio. No inference in favour of Huschke's theory can be drawn from the phrase negotium per aes et lihram, for the phrase obviously dates from the more recent times when the ceremony had only a formal significance, and when the aes rauduscidum is merely struck against the scales. If then we reject the second part of Huschke's theory, and admit, as, we certainly should, that nexum may deal with any ponderable commodity, it is evident that his whole view as to the function of the witnesses must collapse also. The reason is obviuous: the very *idea* of turning copper from a merchandise into a legal tender is obviously too sophisticated to have ever occurred to the mind of an early Roman. As Bechmann rightly remarks, the original object of the Roman state in *making* or minting coin was not to create an authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and fineness of the medium most generally used. The view of Huschke is therefore a total anachronism. There is also another interpretation of nexum radically different from the one here advocated, and formerly given by some authorities at Oxford (they tell me) but which has few if any supporters among modern jurists of the H. L. A. Hart school, as I might call it. This view was founded upon a loosely expressed and usually casual remark of Varrone  the grossest etymologist Rome knew -- in which nexus is defined as -- 1 Cio. de Leg. Agr. ii. 30. 83. ^ in. 175.  Xauf, i. p. 87. * See Sell, Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in Danz, BSm. RG. ii. 25. -- a Roman who gives *himself* into slavery for a debt which he owes (think indenture by the Irish in New England). The inference drawn from this remark is that the debtor's body, not the creditor's money, is the object of the nexvm, and that a debtor who is selling himself by mancipium as a pledge for the repayment of a loan is said to make a nexum. Such a theory does not however harmonize with the facts, or indeed, with Roman dignity! The evidence is entirely opposed to it, for Varrones statement admits of quite a different implicature! Neither nexum nor Tnan- cipium is ever found practised by a Roman upon his body! Nor *could* nexum have applied to the debtor's body, for the idea of treating a debtor like a res mmicipi or like a thing quod pundere numero C07istat, is absurd. Again, if nexm = mancipium, the conveyance of the debtor's body as a pledge must take effect as soon as the money is lent, therefore, by thus becoming nexus,  not nexum  the Roman must have been in mancipio long before a default could occur, which is too strange to be believed. Furthermore, being in mancipio, the Roman must have been capita deminutus, which Quintilian expressly states that no nexal debtor ever is! Clearly then, mancipium was under no circumstances a factor in nexum,. Thus it would seem that the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other goods measurable by weight, is the one beset with fewest difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later law were called res fungihiles. -- 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52. 2 nexum inire, Liu. vii. 19. 5. " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311. --. The borrower was not required to return the very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing. And this explains why nexum, the first genuine contract amongst the Romans, should have received such ample protection. A tool  such as a hammer --, or a beast of burden  such as an ox -- could be lent with but little risk. Both the hammer and the ox are easily identified. A loan of *corn* -- or, at a later stage, as Cicerone suggests -- or *copper* -- would have been attended with very great risk, had not the law been careful to ensure the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio might no doubt have been used for making loans, but they both lacked the great advantage of accurate measurement, which nexum owes to its public character. It is the presence of the five witnesses  one for each of the five social classes -- which raised nexum from a formless loan into a contract of loan. This sketch of the original nexum is all that can be given with certainty. The *details* of the picture cannot be filled in, unless, as Grice does, we draw upon our imagination. We do not know what verbal (or conversational, if two-part) agreement (if any) passed between the borrower and the lender. It is fairly certain that payment of *interest* on the loan might be made a part of the contract, and not just because of the Jewish influence! We cannot even be quite sure whether the scale-holder (libripens) is an official, or a passer-by, as some have suggested, or a mere assistant. Our description of the contract may then be briefly recapitulated as follows: The form of the nexum consists of the weighing out and delivery to the borrower of goods measurable by weight, in the presence of witnesses -- five in number, since the time of Seruius Tullius, who found out that by census, five were the classes of the Roman people), and whose attendance ensures the proper performance of the ceremony. The total ownership of the particular goods passes to the borrower, who is bound to return an equal quantity of the same kind of goods. The specific terms of each contract  e. g. before too long -- were approximately fixed by a verbal agreement uttered at the time, at the market place. The sanction consists of the violent measures which the creditor might choose to take against a defaulting debtor. Before The XII Tables there seems to have been no limit to the creditor's power of punishment  The rope by default, as Grice puts it. Any violence against the debtor was approved by custom and justified by the notoriety of the transaction, so that self-help  or help me God, in Grices version -- is more easily exercised and probably more severe in the case of nexum than in that of any other agreement. The release (neooi solutio) is a ceremony preisely similar to that of the nexum itself, the amount of the loan being weighed and delivered to the lender, in presence of witnesses  possibly with the addition of the exchange: Thank you You are very welcome. We have now examined the three methods by which a binding promise was made in the earliest period of Roman history. The next question which confronts us is whether there existed at that time any *other* method. The forms of contract, besides these three described  the pactum, the sponsio, and the nexum --, which are found existing at the later period of The XII Tables, are: fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and dotis dictio. Did any of these have their origin before this time? Fiducia is doubtful. Lex mancipi owed its existence to an important provision -- 1 Gai. III. 174. -- of that code. As to the origin of vadimonium, we cannot fee certain, but judging from a passage in our ever trusted Gellius we are almost forced to the conclusion that uadimonium was *also* a creation of The XII Tables. Specifically, Gellius speaks of " uades et subuades et XXV asses et taliones...omnisque ilia XII Tabularum antiquitas." We know that (exactly) XXV asses is the fine imposed by The XII Tables for cutting down a Romans tree. Therefore, it would seem from the context that uades had also been introduced by that code. The point cannot be settled, but the XII Tables were at any rate the first enactments on the subject of which anything is known. The only contract of which the remote antiquity is beyond dispute is the so-called dotis diction. Dionysius informs us that, in the earliest times  I wasnt there! --, a dowry was given with daughters on their marriage, and that, if the father could not afford this expense, his client is bound to contribute. Hence, it is clear not only that dos existed from very early times, but that custom even in remote antiquity had fenced it about with strict rules. From Ulpian we know that dos could be bestowed in three ways: by dotis dictio, by dotis promissio, or, finally, by dotis datio. The promissio was a promise by stipulation, and the datio was the transfer by mancipation or tradition of the property constituting the dowry. These two are then easy to understand, even by the one who was marrying! But this dotis diction *is* an obscure subject. It is difficult to know whence it acquired its binding force as a contract, -- 1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi. 1.  since, in form, it was *unlike* all other contracts with which we are acquainted. Its antiquity is evidenced not only by this peculiarity of form, but also by a passage in the Theodosian Code which speaks of dotis dictio as conforming with the ancient law. An illustration occurs in Terence where the father says, "Dos, Pamphile, est decern talenta. Pamphilus, the would-be son-in-law, replies, "Accipio. But we need not conclude that the transaction is *always* formal, for the Theodosian Code, in permitting the use of any form, seems rather to be restating the old law than making a new enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian and by Gaius is that dotis dictio may be validly used only by the bride, by her father or cognates on the father's side, or by a debtor of the bride acting with her authority. Dictio is a significant word, for Ulpian distinguishes between dictum and promissum. Dictum, Ulpian says, is a mere statement. Promissum a binding promise. This distinction doubtless applies in the present case, since dotis dictio and dotis promissio are clearly different. The following theories seem to be erroneous. Von Meykow holds that dictio is adopted as a form of promise instead of sponsio for this family affair of dos, in order not to hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by appearing to question their bona fides. That theory would be a plausible explanation, if dictio could ever have meant a -- 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ' 3. 13. 4. Reg. VI. 2. ^ Epit. ii. 9. 3.  21 Dig. 1. 19. Diet. d. Rom. Brautg. p. 5 ff. B. E. 3 -- promise, but from what Ulpian says, this can hardly be admitted. Bechmann again connects dotis dictio with the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, Bechmann thinks, is promised by a sponsio made at the betrothal, so that the peculiar form known as dotis dictio is originally nothing more than the specification of a dowry already promised. The dotis dictio would therefore have been at first merely a pactum adiectam, made actionable in later times while still preserving its ancient form. The objection to this theory is that it lacks evidence. The only passage (this sordid play by Terence) in which dotis dictio is presented to us with a context goes to show that this contract is in no way connected with the act of betrothal. Another explanation is given by Czylharz, that dotis diction is a formal contract. Czyllharzs view is based on the scholia attached to the passage of Terence, which say of the bridegroom's answer that the bridegroom, ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an inverted stipulation. The *offer* of a promise *is* made by the promisor. When *accepted* by the promisee (via uptake), this offer becomes a contract. Though such a process is quite in harmony with the notion of a contract, it would have been a complete anomaly at Rome. We cannot believe that, if acceptance, or uptake, by the promisee, had been a necessary part of the dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he has been so careful to impress -- 1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G. vn. 243. -- upon us that the dotis dictio could be made nulla interrogatione praecedente. Thus the view of Czylharz besides being in itself improbable is almost entirely unsupported by evidence. The scholiast on Terence need not *mean* that "accipio" is an indispensable part of the transaction, but a prop. The would-be son-in-lawy may merely have meant (or implicated) that the bridegroom (his self) at this juncture might decline the proffered dos if he so chooses  as being too low -- This interpretation of the would-be son-in-laws implicature is indeed the one borne out by lulianus and Marcellus, who do give formulae of dotis dictio *without* any words of acceptance or challenge by the would-be bridgegoom. A satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz. Danz looks upon dos as having been due from the father (or generally male ascendant) of the bride as an officium, pietatis. Danz quotes passages from Cicerone in which he speaks of refusing to dower a sister or a daughter as a most shameful thing. (Cicerone had lost his daughter by this time). The source of the obligation lies in this relationship to the *bride* -- not in any binding effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation might be actionable its amount had to be fixed. This is just what the dictio accomplishes. It is an acknowledgment of the debt which custom decrees that the bride's family must pay to the bridegroom. In this respect the dos is precisely analogous to the debt of service which a former slave owes as an officium to patron, and which he acknowledges by the iurata operarum promissio. The dos and the operae were both officia pietatis, but -- 1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163. ^ See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98. .32 -- it became customary to specify their nature and their quantity. In the one case, this was done by an oath; in the other, by a simple declaration. In both cases, the law gives an action to protect an anomalous forms of agreement. What kind of action may be brought on a dotis dictio is not known. Voigt states it to have been an actio dictae dotis, for which he even gives the Austinian performative formula -- but formula and action are alike, alas, purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was actionable since it constitutes a valid contract. How or when this comes to pass we cannot tell. An advantage of Danz' theory is that it explains the capacity of the *three* classes of persons by whom alone dotis dictio could be performed. The father (or male ascendant) of the bride is bound to provide a dos under penalty of ignominia. The bride, if sui iuris, is bound to contribute to the support of the husband's household  house-work, children feeding, cleaning, education -- for exactly the same reason. A debtor of the bride is bound to carry out her orders with respect to her assets in his possession. Supposing her whole fortune to have consisted of a debt due to her, it is evident that a dotis dictio by the debtor is the only way in which this fortune could be settled as a dos at all. Thus, the hypothesis that the dos is a debt morally due from the father of the bride, or from the bride herself, whenever a marriage takes place, completely explains the curious limitation with -- 1 XII Taf. II.  123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio. Top. -- regard to the parties who could perform dotis dictio. The nature of the transaction may then be summarized as follows: its form is an oral declaration on the part of the bride's father (or male cognates), the bride herself, and a debtor of the bride, that sets forth the nature and amount of the property which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in the presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be settled in this manner. No particular formula is necessary. The bridegroom might, if he liked, express himself satisfied with the dos so specified. But his acceptance does not seem to have been an essential feature of the proceeding. Most probably, he did not have to speak at all  just run away! Its sanction does not appear, though we may be sure that there was *some* action to compel performance of the promise. This action, whatever it may have been, could of course be brought by the bride's husband against the maker of the dotis dictio. In the earliest times, the sanction, is possibly a purely religious one. Now that we have seen the various ways in which a binding contract could be made in the earliest period of Roman history, we may consider briefly the general characteristics of that primitive contractual system. The first striking point is that all every contract hitherto mentioned is *unilateral*. The promisor alone is bound, and he is not entitled, in virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the promisee. 1 Gai. Ep. 3. 9. A second point is that the *consent* of the parties is not sufficient to bind them. Over and above that consent, the agreement between them is required to bear the stamp of divine or popular approval. Even in dotis dictio, as we have just seen, a simple declaration uttered by the promisor is invested with the force of a contract merely because the substance of that declaration is a transfer of property approved and required by public opinion. We also notice that that the (Griceian) *intention* of the each contracting party *is* expressed. However, the utterance employed is not originally of any importance -- except in the one case of sponsion: Spondesne? Spondeo -- provided the intention is, as Grice notes, contextually clearly conveyed (cf. his remarks on contextual cancellation). We must therefore modify the statement so commonly made that the earliest known Roman contract is couched in a particular form of words. For how did each of these particular forms originate and acquire the shape in which we afterwards find it? By having long been used to express an agreement which is binding though the type of utterance varies, it gradually obtains a more technical significance. Consequently the formal stage is definitely *not* the earliest stage of Contract. The most primitive contract of all is not an agreement clothed with a form, but an agreement clothed with the approval of the State  which includes its Religion. The causes leading to the enactment of the great Reform Bill known as The XII Tables are chiefly social. The indefinite state of the law of the Roman state is the grievance which calls most loudly for a remedy. A contract and a conveyance is but little respected. The powers of the nexal creditor are sorely abused, and legal procedure in general is most uncertain. Yet more than all else the law of torts and crimes need radical reform. So that, though we possess but few actual fragments of The XII Tables, we have enough to tell us that very little space is devoted to reforms in the law of contract. This fact ought not to surprise us, knowing as we do that commerce is still in a very backward state. We hear nothing of any provision in The XII Tables with respect to sponsio, but we know, from Cicero, that iusiurandum is recognised and enforced. Dotis dictio is not mentioned. A new form, the lex mancipi, -- 1 Off. HI, 31. 111.. -- was created by *one* provision of this code, though its creation was not apparently intended by the decemvirs, but was rather the result of some juristic interpretation (or other). Vadimoniitm, a contract, is either created or considerably modified by the XII Tables, and constitutes the earliest form of suretyship. As the hard condition of nexal debtors is one of the evils which leads most directly to the secession of the plebs and to the consequent enactment of the new code, we should naturally expect to find this or that law passed for their protection. Accordingly, it is with nexum that the contractual clauses of the XII Tables are principally concerned. The first provision as to the contract of the nexum is embodied in the famous words which Festus transmits to us: CVM nexym FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT ITA ivs ESTO. This was equivalent to saying that the language used by the party making a nexum is to be strictly followed in determining what his rights and liabilities should be. The fact that such a declaratory law is needed discloses two features of the earlier nexum. The *act* of weighing, not the words which accompanied that act, is the essence of the original transaction. A scale was actually used -- and not symbolically as it was in later days. The *terms* of a nexal loan are liable to be disobeyed; if, for instance, -- Festus, p. 171, s.u. nuncupata pecunia. -- the debtor had agreed to pay at the end of one year, it might happen that a harsh creditor would enforce payment at the end of six months. This shows that people are not feared, as witness, to the same extent as is a god who presides over usiurandum and sponsio. The fact of the loan is proved beyond question by the witnesses present,. But there is evidently no sacred virtue in the utterance which go with the loan, and these are not therefore binding simply because uttered in the addressees hearing. This defect is what the XII Tables aims at correcting. The Tables thenceforth place the *utterance* of a nexum on as strong a footing as the utterance of a sponsio. Conditions as to the amount of interest payable, the date of maturity of the loan, the security to be given by the debtor, are all now inserted in the nuncupatio. And still more important is the fact that the sum or amount of the loan itself could be verbally announced at the ceremony. If the debtor utters: "I hereby receive, and am bound to repay, XXV asses," this utterance is as binding upon him *as if* the XXV asses had been actually weighed out to him in copper. As long as the corn or copper (money) *is* really weighed in the scale, nexum continues to be a natural and material method of loan. But when, by the introduction of coined money it becomes possible to count, instead of weighing, a given quantity of copper, nexum tends to become an artificial and symbolical operation. The reason is, obviously, that counting is far more simple than weighing. When a loan of XXV asses is being made. it became customary to name this sum in the nuncupatio *without* weighing it at all. The scale and the witness appear, as before. But the scale is not used. The borrower, instead of taking XXV asses out of the scale-pan, simply strikes the scale pan with a piece of copper, so as to conform with the outward semblance of the transaction. Though the weighing had been dispensed with, yet, by this rule of The XII Tables, he is as much bound in the sum of XXV asses as though they had actually been weighed out to him. Hence the important effect of the clause. Given a proper coinage that clause transformed the loan of money into a datio imaginana and the release of such a loan into an imaginana solutio. The outward form of nexum remains the same, but the actual process is greatly simplified. This change is doubtless not intended when the rule is made by the Decemvirs. It is the result of a more or less unconscious and probably gradual development. The genuine weighing and the fictitious weighing doubtless exist side by side. But it seems fairly certain that the introduction of coined money is another of the Decemviral reforms. If so, we may assume that the nexum changed from a ceremony performed with a scale into one performed with copper and scales -- negotium per aes et libram -- not long after the Decemviral legislation. Another important provision relating to nexum modified the harsh remedy hitherto applied by the creditor against the delinquent debtor. -- 1 Mommsen, Som. Munzw. p. 175. -- The words of the XII Tables have been fortunately preserved by Gellius', and run as follows. AERIS CONFESSI REBVSQVE IVRE IVDICATIS XXX DIES IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO. IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO EO IN IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE AVT SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO. NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM HABEBIT LIBRAS FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS DATO. There are two knotty points in this passage cited by Gellius. What is the exact distinction between an acknowledged money debt  aes confessum -- and a judgment obtained by regular process of Law  res iure iudicatae? To what class of delinquents did the punishment apply? It can hardly be doubted that aes confessum includes a debt contracted by a nexum, as well as any other kind of debt the existence of which is not denied by the debtor. E. g.: a debt incurred by formless agreement or by sponsio may be an instance of aes confessum, provided the debtor admitted his liability. But in a nexum this liability had already been admitted solemnly and in front of a witness. To *deny* the existence of a nexal debt is impossible, even for Descartes! Therefore, aes confessum seems to be a term quite applicable to a debt contracted by a nexum. The words aeris nexi are probably not used in the context because aeris confessi has a wider meaning, and this law -- 1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note. -- is apparently intended to cover much more than the one case of nexal indebtedness. The other class of debts here described as res iure iudicatae are no doubt judgment-debts. Where damages had been judicially awarded to one of the parties to an action, some means have to be provided of compelling payment from the other party. The executive in those times was too weak to enforce its decisions, and self-help, as we have seen, is the usual resource of an aggrieved Roman. The only way in which the law could assist judgment creditors is by declaring what extent of retaliation they might lawfully take. And this brings us to the second question. In what cases is the manus iniectio to be exercised ? Voigt remarks that The XII Tables never mention manus iniectio as being a means of punishing default in a case of nexum. Voigt then proceeds to state that the remedy for nexum was an actio pecuniae nuncupatae. Not only is this statement purely fanciful, as there is no mention of actio pecimiae nuncupatae in any of our authorities, but Voigt is surely ignored the evidence before him. Admitting, as we must, that nexum is included among the cases named at the beginning of the clause, we can scarcely avoid the further conclusion long ago reached by Huschke that the rest of the clause, with its XXX days of grace, manus iniectio, ductio in ius, and all the consequences of disregarding the iudicatum, is a description of the punishment to which a breach of --1 XII Taf, I. 169.-- nexum might lead, as well as of that annexed to the other kinds of aes confessum and to res iure iudicatae. The whole clause is one continuous statement, and to hold that the latter part of it, beginning at Ni IVDICATVM FACIT, provides a penalty solely for the case of judgment-debts, seems a very strained and unnatural interpretation. Why explain iudicatum as referring only to judgment indebtedness ? Just before it, in the text, we find the direction IN ivs DVCITO, so that a nexal debtor after manus iniectio evidently had to be brought into court. The precaution is probably a new restraint upon the violence of creditors, in order that the justice of their claims and the propriety of manus iniectio might be judicially determined. But, if a judge had to pronounce upon the validity of such proceedings, surely his decree might be described by the term iudicatum, as found in the above passage. It involves a vicious circle to say that the nature of aes confessum precludes the possibility of a judicial decision, and that therefore iudicatum can only refer to a res iure iudicata, that is, a judgment-debt. For in spite of this alleged distinction, we find here that debtors of aes confessum and judgment-debtors were treated in exactly the same way! Each of them is at first seized by his creditor and brought into court. Now why should this have been necessary in the case of a iudicatus more than in that of a nexus? For a judgment debt seems to need judicial recognition just as little as a nexal debt. And yet we find that ductio in ius is prescribed in both cases. The only non-circular way of explaining the difficulty, is to take iudicatum not as applying to a judgment-debt but, as being of the essence of a judicial decree. Let the creditor, the Tables say, bring the debtor into court. Unless the debtor obeys the decree of the court, or finds meanwhile a champion of his cause in the court, let the creditor lead him off into private custody, and fetter him. Thus the ductio in ius, the iudicatum, the domum ductio, and the directions as to the right kind of fetters and the proper quantity of food, must all have applied equally to aes confessum, including nexum, and to res iure iudicatae. This view is confirmed by the passage in which Livio describes the abolition of the severe penalties of a nexum,. The bill by which this is done ordained, so Livio tells us, " nequis, nisi qui noxam meruisset, donee poenam lueret, in convpedibus aut in neruo teneretur  ita nexi soluti, cautumque in posteru/m ne necterentur." This law, the Lex Poetilia, is evidently passed for the relief of nexi, and relief is given by abolishing the use of compedes et neruum. Now as this is the very description of fetters given by the XII Tables in our text, it seems certain that the language of the Lex Poetilia referred to this clause of the Decemviral Code. Hence it follows that the punishment provided by this code is nexum, which is the view already deduced from the words of the XII Tables themselves. The contrary interpretation, which is there- -- 1 PestuB, p. 376, s.u. uindex. ^ viii. 28. -- fore probably erroneous, has strong supporters in Muirhead and Voigt. But even though a iudicatum was thus necessary in order to permit the nexal creditor to lead off his debtor into custody, we may agree with Muirhead that the preliminary manus iniectio is within the power of the nexal creditor without any judicial proceedings. The nexum being a public transaction, a debt thereby contracted is so notorious as to justify summary procedure. Before the XII Tables, when self-help is subject to no regulations, this summary procedure could be carried to all lengths in the way of severity and cruelty. But, when the XII Tables interpo the ductio in ius for the protection of nexal debtors, no other precaution against injustice was needful, and a preliminary trial before the manus iniectio would have been so superfluous that we cannot believe it to have ever been required. The elaborate provisions for the punishment of debtors do not end with the text which has come down to us and which has been quoted above. The substance, though not the actual wording, of the remainder of the law has been preserved by Gellius. As far as our text goes, the proceedings consist of manus iniectio, the arrest or seizure of the debtor by the creditor; ductio in ius, the bringing of the debtor into court, that is, before the praetor or consid ; the iudicatum, a decree of the praetor recognising the creditor's claim as just and the proceedings as -- ' B. L. p. 158. ^ XII Taf. i. 629. ' xx. 1. 45-52. -- properly taken. At this stage a vindex may step in on the debtor's behalf. What was the exact nature of his intervention we cannot know, but from Festus's definition, he seems to have been a friend of the debtor, who denies the justice of his arrest and stands up in his defence. By the XII Tables, this vindex has to be of the same [social] class as the debtor whom he defendes and if his assertions prove to be false he is liable to a heavy fine. If, on the other hand, his defence is satisfactory to the Court, further proceedings are doubtless stayed. But if no satisfaction is given either by the vindex or by the debtor, the creditor is entitled to lead home his debtor in bondage -- though not in slavery -- and to bind him with cords or with shackles of not less than 15 lbs. weight. Meanwhile, the law assumes that the debtor would prefer to live upon his own resources. This shows that a nexal debtor is not always a bankrupt, and that it must often have been the *will*, if not the power, to pay which is wanting in his case. As there exist in those days no means of attaching a man's property, the only alternative was to attach his body! If, however, the debtor is really a ruined man and can not afford to support himself, the law bade the creditor to feed him on the barest diet, by giving him a pound of corn a day -- or more at the creditor's option. Here our textual information leaves off and we have to depend on Gellius' account. Gellius says that this stage of domum duetto and uinctio lasts LX days, and that during that period a com- -- Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex. -- promise might be arranged which would stay further proceedings. Meanwhile on three successive nundinae, or market-days, the debtor had to be brought into the comitiuni before the praetor, and there the amount of his debt is publicly proclaimed. This is a second precaution intended to protect the debtor by giving thorough publicity to the whole affair. At last, on the third market-day, and at the expiration of the LX days, the full measure of punishment was meted out to the unfortunate delinquent. He was addictus by the praetor to his creditor, and thus passed, from temporary detention, into permanent slavery. The extreme penalty is said by Gellius to have been death, and the words in which the former is enacted are given by him as follows: Tertiis nvndinis partis secanto. Si PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO. The meaning of Gelliuss utterance has been much disputed. Attempts have been made to soften its explicature. On the third market-day, let the creditors cut up and divide the debtor's body. If any debtor should cut more -- or less -- than his proper share, let the debtor not suffer on that account." That this is how the ancients understood the passage, we know from the testimony of Gellius, Quintilian, and Tertullian. But Gellius and Dio Cassius, though they had no doubts as to the meaning of the law, both say that -- Gell. XX. . ^ Inst. or. iii. 6. 64. ^ Apol. 4. B. E. 4 -- this barbarous practice of cutting a debtor in pieces was *never* carried out. The law is thus what Grice calls a dead letter. Some commentators, whose views are ably summed up by Muirhead, make the most of this admission, and hold that the interpretation of the utterance-part, partis secanto, should be entirely different. They regard the division of the debtor's body by the creditor as too shocking a practice to have existed at Rome. Muirhead assumes secare to refer -- as in a later phrase, bonorwm section -- to the division (sectio)  and sale presumably -- of the debtor's property, not his body. In the event of his property being insufficient to cover the debt, the debtor is, then -- as Gellius informs us -- sold into slavery "beyond the Tiber  for some reason (what the eyes no longer sees the heart no longer grieves for). The objections to Muirheads theory have been well pointed out by Niebuhr. Not only is it opposed to all the ancient authorities, who knew at least the traditional meaning of the XII Tables as handed down to them through many generations, but it also conflicts with a well recognised principle of early Law. That principle was that the goods of a debtor are not, categorially and categorically, responsible for his debts. His *body* is to be made to suffer. Hs property cannot be touched. It is by no means unusual for a nexal debtor to support himself while in bondage. This can only be explained on the supposition that neither his property nor his earnings are attachable by the creditor. It is this exemption of property which accounts for -- > Gell.; Dio Cass.; R. Law, p. 2089. ^ B. G. i. 630. -- the severity of the nexal penalties. Now, a section (division), and sale, of the debtor's goods would have been quite inconsistent with the whole system of personal execution so plainly set before us in the rest of the law. The killing of the debtor was but a fitting climax to his cruel fate. The inhumanity of the proceeding is not likely to have been perceived by men who tolerated such barbarities as the lex talionis and the killing of a son by his paterfamilias. When our authorities express astonishment at the cruelty of the law, we must remember that they also lived in a gentler age, in which the powers even of the paterfamilias are curtailed, and when they confess that they never knew of an instance in which the law was executed. We may discount their testimony by recollecting that the nexal penalties of the XII Tables were abolished centuries before they were even born! Comparative jurisprudence furnishes another argument in favour of accepting the EXPLICATURE of the utterance-part, "partis secanto." Kohler has collected from different quarters various instances of customs which closely correspond with this harsh treatment of the Roman debtor. Unless therefore we disregard analogy, probability, and the whole of the classical evidence, we must clearly take utterer of the XII Tables on his EXPLICATURE, and understand that the creditor could choose between selling his debtor into slavery "beyond the Tiber," OR putting him to death. In the latter case, if there were more than one -- ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp. 42 -- creditor, each might cut up the debtors body and each creditor carry off a piece. There is a third clause of the XII Tables in which nexum. is mentioned, but it does not alter the form of the contract. As far as we can make out, it simply declares that certain agents, mysteriously described as, forcti et sanates, shall have an equal right to the advantages of nexum. There is a clause in the XII Tables intended to secure what Grice calls truthful testimony, that most essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes- TARIER LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI- ATVR IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO. That is, whoever had been testis or libripens at the performance of a nexum or mancipiwm is was to give his testimony as to the fact of the transaction, or as to its terms, under penalty of permanent disqualification. This passage goes to show what we also gather from other authorities, that the libripens was a mere witness and not -- as some have wrongly supposed -- a public official. The phrase "qui libripens fuerit" IMPLICATES that any citizen might fill the position. Since we find that the libripens is treated like any other witness, it seems clear that he could not have been a public personage. We are now able to understand the meaning of Varrones remark. "Liber qui suas operas in servitutem pro pecwnia quam debet dat dum solueret nexus uocatur." This merely means that a man who contracts a nexum, if unable to repay the -- ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364. 2 Gai. II. 107 ; Ulp. Eeg. xx. 7. -- loan and therefore subject to an addiction, was obliged to serve like a slave, and retained the epithet of nexus (cf. Irish indenture servitude in New England) till the debt was paid (cf. Vanderbilt). On the whole, then, the legislation of the XII Tables produces intereting results. By increasing the importance of the *verbal* -- explicatural -- part of the ceremony, The XII Tables increase the flexibility of the contract, and eventually change it from a real into a merely symbolical transaction. The culminating point of the change is reached when the money constituting the loan is not even weighed out, but merely named in the nuncupatio, with the borrower languidly striking the scale-pan with a piece of copper. Another interesting result is that, by fixing certain limits to the violence of the creditor, the XII Tables soften the hardships endured by the nexal debtor. Though the extreme penalty of death is allowed, this may not be inflicted till the debtor had had many opportunities and ample time to clear himself. The formula of the nexum having now acquired great importance, its wording is soon reduced to a definite shape running somewhat as follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere aeneaque libra dedi, eas tu 7nihi ... post annum ... cum semissario foenore. . .dare damnas esto." -- This is the formula adopted by Huschke and modified by Rudorff. The utterance part, "damnas esto, appear to be wrongly rejected by Voigt, who disregards the analogy of the solutio though that seems our safest guide. The formula of said solutio is given by Gaius as follows, though Karlowa's reading differs consider- 1 Nexum, p. 49, etc. -- ably from that of Huschke. Quod ego tihi tot mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te solvo liberoque hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram primam postremximque expendo secunduTn legem publicam. The XII Tables did not, as far as we know, contain any clauses affecting sponsio or dotis dictio. The existence of those forms at such an early period has to be inferred from other sources, and there is reason to assert their great antiquity, which the silence of the XII Tables cannot disprove. Iusiurandum is known to have been approved by the XII Tables, but to what extent we cannot tell. We may therefore at once proceed to examine one of the most important innovations of the decemviral Code, viz., the contract which despite its ambiguous name is known as the lex mancipi. The lex mancipi, as the name indicates, is a covenant annexed to the transaction known as mandpiMm (later as mMndpatio). Let us see first what mancipium is. Ulpian says that it is the mode of transferring property in res mancipi. Gaius describes its use shortly as a fictitious sale, "imaginaria venditio," and states that it is only performed between Roman citizens, and applied only to res mancipi. Gaius describes the ceremony. The parties meet in the presence of five witnesses and of a Roman (called libripens), who holds a pair of scales. The -- 1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix. 3. 8 I. 113.> I. 119-20. -- *object* of the transfer Gaius supposes to be a slave. The alienor remains passive, but the alienee, grasping the slave, solemnly declares aloud that he owns the slave by right of purchase. The alienee then strikes the scales with a piece of copper, and hands the piece to the alienor as a symbol of the price paid. Such is our meagre evidence as to the nature of mancipium. On this slender foundation of fact a vast amount of controversial theory has been heaped up. One certainty alone can be deduced from the evidence, that mancipium was not originally a general mode of conveyance, as Gaius and Ulpian found it in their day. It beguins by being a *genuine* sale for cash, in which the price paid by the alienee is weighed in the scales and handed over to the alienor. The muncupatio, or declaration made by the alienee, is merely explanatory of his right of ownership. The *grasping* of the object by the alienee  never mind acceptance of the price by the alienor  is no doubt originally the essential element in the transfer. The utterance by the alienee probably had at first no more binding effect than the utterance of the borrower in a nexum. We may be sure that, in such a state of the law, disputes would often arise as to the terms of the sale. And it was probably to *prevent* such disputes that The XII Tables made their famous rule: CVM NExyM FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA IVS ESTO. The extraordinary emphasis (not nuncu- passit but lingua mmcupassit) which is here laid upon the utterance of the ceremony is very striking. Bechmann rightly argues that it would be wrong to take this rule as referring only to the leges mandpi, but it seems that it is to the language as ' distinct from the acts used in the ceremony that the XII Tables meant to give force and validity. The legal results which followed from seizing the object of sale in the presence of witnesses, and from weighing out the price to the seller, had long since been thoroughly well recognised. What The XII Tables now introduced was the recognition of the utterance which accompanied this outward act. We can hardly accept the implicature which Bechmann assigns to the utterance. Bechmann notes the contrast between words and acts which is implied in the phrase lingua nuncupassit, but he thinks that the object of the rule was to reconcile the language of the transaction with its real nature. Bechmanns view is based on the assumption that even before the XII Tables mancipium had changed from a genuine into a fictitious sale. In other words, Bechmann assumes that, while the alienee professes to *buy* the object with money weighed in the scales, he really weighs no money, but hands to the alienor a piece of copper, "quasi pretii loco." In fact the imaginaria uenditio of classical times is, according to Bechmann, already in vogue. The purpose of the XII Tables is therefore to confirm this change, by declaring that the words, and not the acts of the parties, should henceforth have legal effect. It was as if this law said. Pay no attention to the acts of the alienee, but listen to grasp his utterance. He is merely delivering a piece of copper -- 1 Kauf -- but do not imagine that this is the whole price due. In his declaration, the alienee states that the price is such and such. Let that be considered the real price of the object. Let also the outward ceremony be regarded as a mere fiction. All this appears to be a very far-fetched interpretation of lingua nuTwupassit, and the assumption on which Bechmann has based it seems unwarranted, for more than one reason. We do not know that mancipium has already turned into an imaginaria uenditio. There is not one shred of evidence to prove that such a change had occurred before the XII Tables. So far indeed from preceding the XII Tables, the change would seem to have been directly caused by them. Until coin was introduced, the weighing of the purchase-money was clearly necessary. If, as there is good reason to believe, coinage is finstituted by the Decemvirs, the actual weighing must have continued till their time. If, on the other hand, we suppose that coined money is a much older institution (Cornelius Nepos de uir. ill. 7. 8. attributes its invention to Servius Tullius), so that the actual weighing had long been dispensed with, mancipium may still *not* have been an imaginaria uenditio, because we can imagine no way in which a sale on *credit* could have been practised before the XII Tables. How could a vendor have permitted his property to be conveyed to a purchaser for a nominal and fictitious price, when the mancupatio was as yet devoid of legal force ? After the uti lingua nuncupassit of the XII Tables, the nuncupatio doubtless specifies the exact amount of the purchase-money. This the alienor might lawfully claim. Moreover, before the Decemviral reforms, mancipium transfers full ownership to the purchaser, and the seller might have clamoured in vain for his money, unless he had previously taken security by means of vxidvmoniwm or sponsio. For since a well known provision of the XII Tables was that no property should pass in things sold till the purchase-money was either paid or secured, we are bound to infer that, before this, the very reverse was the case. Property DID pass even when the price had not been paid. Such having been the early law, how can we hold, as Bechmann does, that the cash payment of the purchase-money was frequently not required, though the forms of weighing etc. were carried out in the original manner? He urges that credit, not cash, must often have been employed, because we cannot reasonably suppose that cash payment was possible in every case. But the force of his argument is weakened by the fact that mancipation is only practised to a limited extent. Tradition is the most ordinary mode of transfer employed in every-day life. And in a solemn affair such as mancipium, where five witnesses and a scale-holder had to be summoned before anything could be done, it cannot have been a great hardship for the purchaser to be obliged to bring his purchase-money and weigh it on the spot. Instead of credit purchases having been usual before the XII Tables, -- 1 2 Inst. 1. 41., 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8. -- it seems likely that the XII Tables virtually introduced them. For, by enacting that NO property should pass until the price is paid or secured to the vendor, the Decemvirs make it possible for the conveyance and the payment of the price to be separately performed. Mancipium is thus made to resemble in one respect a modern deed. The vendor who has executed a deed, before receiving the purchase-money, has a vendor's lien upon the property for the amount of the price still owing to him. Similarly, the mancipio dans who had not received the full price, retained his ownership of the property until that full price is paid to him, or security given for its payment. We may therefore reject Bechmann's idea that the utterance-part lingua nuncupassit refers principally to the fixing of price in the muncupatio. That utterance-part simply gives legal force to the solemn utterance made in the course of mancipium. On the one hand, the utterance-part binds the seller to abide by the price named, and to deliver the object of sale in the condition specified by the buyer. On the other hand, the utterance-part compels the buyer to pay the full price stated in the muncupatio, and to carry out all such terms of the sale as are therein expressed. In short, every lex mancipi embodied in the muncupatio becomes henceforth a binding contract. It is natural to inquire next what kind of agreement might constitute a lex mancipi. The muncupatio placed by Gaius in the mouth of the purchaser runs thus: " Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc aere aeneaqiie libra.To this might no doubt be annexed various qualifications, and these were the leges in question. Voigt indeed considers that these leges might contain every conceivable provision. But Bechmann seems to come nearer to the truth in stating that no provision conflicting with the original conception of mancipium as a sale for cash could be inserted in the muncupatio. For instance, Papinian states that no suspensive condition could be introduced into the formula of mancipiwm. The reason of this obviously is that suspensive conditions are inconsistent with the notion of a cash sale. The purchaser could not take the object as his own and then qualify this proceeding by a condition rendering the ownership doubtful, A resolutive condition is also out of the question, for when the mancipium is transferred the ownership and the price is paid, it would have been absurd to say that the occurrence of some future event would rescind the sale. The transfer is in theory instantaneous. No future event may affect it. The following then are a few cases in which the lex mancipi could or could not be properly used: The creation of an usufruct by reservation could be thus made', and the formula is given to us by Paulus : " Emtus mihi esto pretio dedvxito usu- frtijctu*." Property could thereby be warranted free -- 1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329. 3 Vat. Frag. 47. * Vat. Frag. -- from all servitudes by the addition to the nuncupatio of the words "uti optimus matvimiisque sit^." The means by which the vendor is punished if the property fails to reach this standard of excellence are worth examining, though! The contents and description of landed property might be inserted in the nuncupatio, and if they were so inserted the vendor is bound to furnish as much as was agreed upon. Failing this, the deceived purchaser, so Paolo Diacono tells us, could bring against the vendor an actio de modo agri, which entailed damages in duplum. The accessories of the thing sold, destined to be passed by the same conveyance, are also doubtless be mentioned. We might naturally have supposed that the quality of this or that slave or of this or that specimen of cattle could have been described just as well as the content of an estate. Cicero says : "Cum ex XII Tabulis satis erat ea praestari quue essent lingua nuncupata" -- as though descriptions of all kinds might be given in the nuncupatio. Nevertheless Bechmann has shown that such is not the case, inasmuch as we find no traces of any action grounded upon a false description of quality. The only actions which we find to protect mancipium are the actio auctoritatis and the actio de modo agri. There is no authority for supposing, as Voigt does, that the actio de modo agri is not a technical but a loose term used by Paolo Diacono. According to Voigt, there was an action -- Dig. Sent. Off. iii. 16. 65.  Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. (the name of which has perished) to enforce all the terms of a nuncupatio of whatever kind. The so-called actio de modo agri would then have been only a variety of this general action. This theory is inadmissible. In making his solemn list of the actiones in dztpZwm ^Paolo Diacono would hardly have used the clumsy phrase actio de modo agri, if there had been a comprehensive term including that very thing. Consequently, the general *description* of a specific slave or a specimen of cattle in the nuncwpatio does not seem to have been in practice allowed. The greater protection thus afforded to a purchaser of land than to one of other res mancipi may probably be explained by the fact that land is not, and could not, be conveyed inter praesentes, whereas a slave or an ox could be brought to the scene of the mancipiwrn and their purchaser sees exactly what is was buying. Provisions as to credit and payment by instalment might also be embodied as leges in the nwncupatio. This has been denied by Bechmann, Keller, and Ihering, but their reasons seem far from convincing. We may indeed fully admit their view for the period prior to the XII Tables, since there was then no coinage, and mancipium was an absolute conveyance of ownership. But once coinage is introduced, when mancipium is capable of transferring dominium only after payment of the price, and when the oral part of mancipium receives legal validity from the XII Tables, the whole situation changes. 1 Sent. I. 19. 1. 2 j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33. > Geist d. R. R., ii. 530. -- If it be said that credit is inconsistent with the notion of mancipium as an unconditional cash transac-tion, we may reply that this exceptional lex is clearly authorised by the XII Tables, since its use is implied in the legislative change above mentioned. If it be urged that no action can be found to enforce any such lex, the obvious answer is that no action is needed, inasmuch as the ownership does not vest in the vendee till the vendor's claims were satisfied. Therefore, if the vendee never pays at all, the vendor's simple remedy is to recover his property by a rei uindicatio. Nor is there much force in the argument that clauses providing for credit would have been out of place in the nuncupatio because inconsistent with the formula, Hanc rem meam esse aio, mihique emta esto." On the one hand it is probably a mistake to suppose that this fixed form is *always* used. The expression, uti lingua nuncupassit, seems to implicate that the oral part of mancipium and nexum is to be framed so as best to express the intentions of the parties. The same conclusion may be drawn from the comparison of the formulae of mancipatio given in Gaius. On the other hand, admitting that " hanc rem meam esse aio, etc." is a necessary part of the nuncupatio, it must have been used in mancipations made on credit, which by the XII Tables could not convey immediate ownership, and the existence of which in classical times no one denies. We are forced then to conclude either that "hanc rem meam esse aio" is not the phrase used at a sale on credit, or else -- 1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '' i. 119 and ii. 104. -- that it becomes so far a stereotyped form of words that it could be used NOT only as conveying its EXPLICATURE, but also as applying to credit transactions which the Decemviral Code so clearly contemplated. It is indeed inconceivable that if the price is, as every one admits, specified in the mmcupatio, the terms of payment should not have been specified also. It is worth while to notice how the legal conception of mancipium is indirectly altered by the XII Tables. That very important clause which prevented the transfer of ownership in things sold, until a full equivalent is furnished by the vendee, had the effect of separating the two elements of which mancipimn consisted. Delivery of the wares and receipt of the price are at first simultaneous. Later, they could be effected singly. Thus mancipium becomes a mere conveyance, and after a while, as is natural, the notion of sale almost completely disappears, so that mancipium came to be what it was in Gaius's system, the universal mode of alienating res mancipi. The lex mancipi, as we have now considered it, is an integral part of the formula of viancipium which the vendee or alienee solemnly uttered. Gaius and Ulpian give us no hint that the vendor or alienor plays any part beyond receiving the price from the other party. But is this really so? Could the vendee have known how to word his formula if the vendor remains altogether silent ? We have therefore to enquire what share the vendor took in framing the -- 1 2 Inst. 1. 41. -- vendor's dicta. 65 leges mancipi, and how the lex mancipi was enforced against him. The part played by the vendor is denoted in many passages of the Digest by the word dicere. In others, the word praedicere, or commemorare expresses the same idea, and we find that the vendor sometimes made a written and sealed declaration. The object of such dicta was to describe the property about to be sold and they necessarily preceded the mancipium, or actual conveyance. They are thus no part of the mancipatory ceremonial and are quite distinct from the nuncupatio uttered by the vendee, which explains their not being mentioned by Gaius in his account of mancipatio. It is to such dicta that Cicerone doubtless alludes', when he says that by the XII Tables the vendor is bound to furnish only "quae essent lingua nimcupata" but that in course of time " a iureconsultis etiam reticentiae poena est constituta." The reticentia here mentioned was evidently not that of the vendee, but was a concealment by the vendor of some defect in the object which he wished to sell, and hence this passage is useful as showing the contrast between nuncupatio and dictum. The former might repeat the statements contained in the latter, thus turning them into true leges mancipi, and this explains the fact that lex mancipi (or, in the Digest, lex uenditionis), is sometimes used in the derived 1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18 Dig. Dig. 1. 21. fr. 1.  19 Dig. 1. 41. * 19 Dig. 1. 13. fr. 6. Dig. 1. 6. fr. 4.  i. 119. = Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6. B. E. 5, -- interpretation of the vendor's dictum, as well as with the primary meaning or interpretation  or explicature -- of the vendee's nwncupatio. The leges embodied in the nuncupatio were thus binding on the vendor, whereas his dictum is at first of no legal importance. But in course of time the dicta come also to be regulated, and though their terms are not formal and are never required to be identical with those of the nwncupatio, yet it is essential that the vendor, in making them, should not *conceal* any serious defects in the property. The dictum itself produced no obligation. That could only be created by incorporating the dictum, into the nuncupatio. The only function of dictum seems to have been to exempt the vendor from responsibility and from all suspicion of fraud. This is well illustrated by a case to which Cicero' refers, where Gratidianus the vendor fails to mention, " nominatim dicere in lege mancipi " (here used in the secondary interpretation), some defect in a house which he was selling. Cicero remarks that, in his opinion, Gratidianus is bound to make up to the vendee any loss occasioned by his silence. Bechmann questions whether the action brought against Gratidianus was the ocii'o eniti or the actio auotoritatis. But from the way in which Cicero speaks, it seems almost certain that he had been trying to bring a new breach of bona fides under the operation of the actio emti, and had not been pleading in a case of actio auctoritatis, which would scarcely have been open to such freedom of interpretation. We cannot therefore agree with Bechmann that dicta not embodied in the nv/ncupatio -- 1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257. -- could be treated as nuncupata and made the ground for an actio auctoritatis, though we know that in later times they may be enforced by the actio emti. The distinction between the formal nuncupata and the informal dicta is never lost sight of, so far as we can discover from any of our authorities, nor is dictum ever said to have been actionable until long after the actio emti is introduced. The matters contained in the dicta of the vendor were descriptions of fixtures or of property passing with an estate', (of servitudes to which an estate was subject, or of servitudes enjoyed by the estate. It is noticeable that these are all mere statements of fact and that they exactly agree with the definition given by Ulpian, who expressly excludes from dictum the idea of a binding promise. Thus the distinction between nuncujpatio and dictio may be contrasted. Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas dictio might appear in sales of res nee mancipi as well as in mancipatory sales. Nuncupatio is a solemn and binding formula; dictio was formless and, until the introduction of the actio emti, not binding. Nuncupatio does not touch upon the quality of the thing sold, whereas dictio might give, and eventually is bound to give, full information on this point. We must notice in conclusion what Bechmann -- 1 19 Big. 1. 26. = 21 Big. Cio. Or. I. 39. 179. * 21 Big. 1. 19.  19 Big. -- has pointed out that lex, besides meaning a condition embodied in a sale or mancipation, signifies also a general statement of the terms of a sale or hire. This sense occurs in Varrone, Vitruvio, Cicerone, &c., and should be borne in mind, in order to avoid confusion and to understand such passages correctly. The methods by which the true leges nuneitpatae could be enforced are two. Actio de modo agri. Of this we only know that it aims at recovering double damages from the vendor who inserts in the nuncupatio a false statement as to the acreage of the land conveyed; Actio auctoritatis (so called by modern civilians). This was an action to enforce auctoritas, an obligation created by the XII Tables, whereby the vendor who had executed a mancipatory conveyance is bound to support the vendee against all persons evicting him or claiming a paramount title. Auctor apparently means one who supplies the want of legal power in another, and thereby assists him to maintain his rights. It is so used in tutela, of the guardian who gives auctoritas to the legal acts of his ward. In the present case, auctor means one who makes good another man's claim of title by defending it. This explains why the obligation of auctoritas varied in duration according to the nature of the thing sold. Thus, if the thing was a moveable (e.g. an ox, or a slave) the auctoritas of the vendor lasted I year, since the usucapio of the vendee made it un- -- 1 Eauf, I. p. 265. 2 . ^ vi. 74.  i. 1. 10.  Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190. s Lenel, Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19. 54. necessary after that time. But if the thing sold was land, usucapion may not, by the XII Tables, take place in less than II years, and the avctoritas is prolonged accordingly. The penalty for an unsuccessful assertion of auctoritas was a sum equal to twice the price paid. This shows that at the date of the XII Tables, as we have seen, mancipium is still a genuine sale and involved the payment of the full cash price. The same conclusion is drawn from Paolo Diaconos express statement that unless the purchase money is received no auctoritas is incurred. This last rule is a logical (analytical, conceptual) sequence or corollary of the enactment that no property vested until payment is fully made. It is conceptually impossible that the vendee should need the protection of an auctor before he himself acquires title. The question has been much debated however by so-called analytic masters of jurisprudence, such as H. L. A. Hart  as to whether this liability of a vendor to defend his purchaser's title arose ipso iure out of the mancipation, or whether it was the product of a special agreement. The latter view is held by Karlowa, a tuttee of Harts - and Ihering  another one! -- but the weight of evidence against it seems to be overwhelming. Paolo Diacono expressly states that warranty of title is given in sales of res nee maiicipi by the stipulatio duplae, but exists ipso iure in sales by mancipation. Varrone says that if a slave is not conveyed -- 1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3. 3 L. A. 75. Geist des R. R. m. 540. 5 See Girard, in N. E. H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180. 6 Sent. II. 17. 1-3. ^ R. R. -- by mancipation, his purchaser's title should be protected by means of what Varrone calls a stipulatio smvplae uel duplae. What Varrone is getting at, via implicature, is that, in a cases of mancipation such a step is obviously (conceptually) unnecessary. In recommending forms for contracts of sale, Varrone therefore aptly advises the use of the stipulatio in sales of res nee mancipi'. Varrone gives no such advice and mentions no stipulatory warranty in the case of res mancipi, which proves our (and Varrones) point. We find that there are two ways in which the vendor could escape the liability of aitctoritas. Either the vendor could refuse to mancipate, or he could have a merely nominal price inserted in the nuncupatio -- the real price being a matter of private understanding between him and the vendee -- so that the penalty for failing to appear as auctor becomes a negligible quantity. This we actually find in a mancipatio HS nummo uno, of which an inscription is preserved the terms' where the object in mentioning so small a sum must have been to minimise the poena dupli in case the purchaser M'as evicted. Both these expedients to avoid liability are absolutely fatal to the theory of a special nwncupdtio as the source of auctoritas. In short, from all this evidence we must conclude that, after the enactment of the XII Tables, mandpium contains an implied warranty of the vendee's title. The origin of the heavy penalty for failing to uphold successfully a purchaser's title has also been much debated (what hasnt?). Bechmann'' attributes its severity to -- 1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8. " Plant. Pers. 4. 3. S7.  Bruns, Font: 251. * Kauf, i. p. 121. -- a desire to punish the vendor who had suffered his vendee to say "hanc rem meam esse aio," when he KNOWS that such was NOT the case. This would have been to punish the vendor for reticentia, which was not done till much later times, as we know from Cicerone. Moreover as we cannot be sure that the phrase " hanc rem meam esse aio " is invariably used in mancipium, this view of Bechmann's comes too near to the theory of the nuncupative origin of auctoritas, not to mention the fact that it fails to explain why the penalty was duphmi instead of simplum! The best theory is probably that of Ihering. Ihering sees in the poena dupli a form of the penalty for furtum nee manifestum. It may be true, as Girard points out, that the actio auctoritatis is not an actio furti in every respect. The sale of land to which the seller has no good title lacks the great characteristic of furtum, that of being committed inuito domino. The real owner of the land may be entirely ignorant of the transaction! Still it is plain that the conscious keeping and selling of what one KNOWS to be another man's property is a kind of theft  say, the Brooklyn Bridge --. In that primitive condition of the law, it was thought unnecessary to impose different penalties on the bona fide vendor whose trespass was unconscious or, as Grice prefers, UN-intentional, and on the vendor who is intentionally fraudulent. This poena dupli can hardly be explained as a poena infttiationis, for if such, would not Paolo Diacono have been sure to mention it among his other instances of the latter penalty? -- ^ Geist des R. R. in. 229. ' loc. eit. p. 216. " Paul. Sent. Auctoritas is supplied by the vendor whenever any third person, within the statutory period of one or two years, attacks the ownership of the vendee by a m uindicatio, or by a uindioatio libertatis causa if the thing sold is a slave, or by any other assertion of paramount title. Bechmann seems to be right in holding that the warranty of title also extends to all real servitudes enjoyed by the property, and to any other accessiones which had been incorporated in the nwncwpatio. To attack the vendee's claim in that respect is to attack a part of the res mancipata. Hence actio avctoritatis is the remedy mentioned in connection with the true leges mancipi, and we may hold, with Bechmann and Girard, that the actio auctoritatis and the actio de modo agri are the only available methods of punishment for the non-fulfilment of a lex mancipi. How the vendor is brought into court as aioctor is a question not easy to answer. But in Cicerone we find an action described as being in auctorem praesentem, and apparently opening with the formula. Quando in iure te conspicio, quaero anne fias auctor." The opening words do not lead us to suppose that the vendor is summoned, but rather that he had casually come into court. This formula is probably uttered by the judge, in every case of eviction, before the inauguration of the actio avxytoritatis, in order to give the defendant an opportunity of answering and so of avoiding the charge. -- loc. cit. p. 203. 3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26.  Cred. p. . 2 2 Dig. 14. 47. Consensual Contracts. Art. 1. Emtio Venditio. The forms of con- tract hitherto examined have been distinguished from most of the contracts of modern law in one or more of the following respects : They were confined to Roman citizens. They were unilateral. They were capable of imposing obligations only by virtue of some particular formality. They were available only inter praesentes. The contract which we are now about to consider was modem in all its aspects: It was open to aliens as well as to citizens. It was bi-lateral. It rested only upon the consent of the parties, required no formality, and could be re- solved like any modem contract into a proposal by one party' which became a contract when accepted by the other party. 1 Plant. Epid.] It could be made at any distance, provided the parties clearly understood one another's meaning. How then can the formal contracts of the older law ever have produced such a modem institution to all outward appearance as the consensual contract of sale? The elements which make up the popular conception of sale are usually fourfold ; they consist of: The agreement by which buyer and seller determine to exchange the wares of the latter for the money of the former; The transfer of the wares from the seller to the buyer; The pajrment of the price by the buyer to the seller; The representation, express or implied, of the seller to the buyer, that his wares are as good in point of quantity or quality as they are understood to be. Mandpatio was at first a combination of the second and third elements above-mentioned. It is a transfer of ownership followed by an immediate payment of the price. Subsequently, the payment became separated from the trans- fer, so that mancipatio represented only the second element. The fourth element, that of warranty, existed to a certain extent in those sales in which the transfer of property was made by moundpatio, and this fourth element we shall consider further in a later section. But throughout the early history of Rome the first element, indispensable wherever a sale of any kind takes place, was completely unrecognised by the law. The reason is that the preliminary agreement between buyer and seller was nothing more than a pactum, an agreement without legal force because usually without form. The parties might always of course embody their agreement of sale in a sponsio and restipulatio, but in such a case all that the law would recognise would be the re- ciprocal sponsiones, not the agreement itself Why, we may ask, was recognition ever accorded to this preliminary pactum ? In other words, what was the origin of emtio uenditio, which turned the pactum into a contract? Bekker's plausible theory' adopted by Muirhead" is that contracts of sale were originally entered into by means of reciprocal stipulations, and that the actio emti was but a modification of the actio ex stipulatu founded on those stipulations, while it borrowed from the actio ex stipulatu its characteristic bonae fidei clause. But how then did the notion of bona fides arise in the actio ex stipulatu itself? Bekker seems to have put the cart before the horse, and Mommsen" holds the far more reasonable view that the actio emti was the original agency by which bona fides found its way into the law of contract, in which case the actio ex stipulatu must have been not the prototype but the copy of the actio emti. The origin of the actio emti was indeed very curious, since it seems clearly to have been suggested and moulded by the influence of public law. The sales of public property, which used at first to be 1 Akt. I. 158. ^ Bom. Law, p. 334. 3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. carried out by the consuls and afterwards by the quaestors, became increasingly frequent as the conquests of Rome were multiplied, and as the supplies of booty, slaves and conquered lands becomes more and more plentifiTl. The purchase by the State of materials and military supplies was also of frequent occurrence, as the wealth of Rome increased. Now these public emtiones and iiendi- tiones constantly occurring between private citizens and the State were founded upon agreements neces- sarily formless. The State could clearly not make a iusiurandum or a sponsio, but the agreements to which the State was a party (according to the fundamental principle laid down at the beginning of this inquiry that the sanction of publicity was as strong as that of religion) were no less binding than the formal contracts of private law. A public breach of bona fides would have been notorious and disgraceful. Whenever therefore the State took part in emtio uenditio, the agreement of sale was thereby invested with peculiar solemnity; and thus in course of time the pactum uenditionis became so common as an inviolable contract that the actio emti uenditi was created in order to extend the force of the public eTTitio uenditio into the realm of private law. As soon as this action was provided, emtio uenditio became a regular contract, which was necessarily bilateral because performance of some sort was required from both parties. An action could thus be brought either by the buyer against a seller who refused to deliver (actio emti), or by the ^ MommseD, Z. der Sav. Stift. E. A.] seller against a buyer who failed to pay (actio uenditi). The history of the words emere uendere is in- structive. We can see that at first they were not strictly correlative. Vendere or uenumdare meant to sell, not in the sense of agreeing upon a price, but in the sense of transferring in return for moneys ; while eniere meant originally to take or to receive, without reference to the notion of buying''. But neither emere nor uendere was at first a technical term. Emere subsequently got the specialized sense of purchasing for money as distinct from permutare, to barter ^, but this particular shade of meaning seems like the actio to have had a public origin. The old technical expression for the purchase of goods at public sale was emtio sub hasta or sub corona, while the object of the sales was to get money for the treasury, and therefore the consideration was naturally paid by purchasers in coin. These public uenditioiies thus led to three results: The agreement of sale came to the front as the element of chief importance, and as a transac- tion possessing all the validity of a contract. The word emere came to denote the act of, buying for money, as distinct from permutatio which meant buying in kind. The uenditio of public law resting wholly upon consent, which was probably signified by a lifting up of the hand in the act of bidding*, and being necessarily a transaction bonae fidei, it follows that when emtio ^ Voigt, I. N. IV. 519. Paul. Diac. s. u. emere. 2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word manceps. uenditio is made actionable in private law, consent was the only thing required to make the contract perfectly binding, and that the rules applicable to it were those, not of iiis strictwm, but of bona fides. The complete recognition of emMo uenditio is only attained by degrees. The first step in that direction seems to have been the granting of an exceptio rei uenditae et traditae to a defendant challenged in the possession of a thing which he had honestly obtained by purchase and delivery. The second step was the introduction of the actio Puhliciana, through which a plaintiff, deprived of the possession of a thing that had been sold and de- livered to him by the owner or by one whom he honestly believed to be the owner, might recover it by the fiction of usucapio. These remedies, the exceptio and the actio, were necessary complements to one another. The former is a defensive, the latter an offensive weapon, and they both served to protect a bona fide purchaser who had by fair means obtained possession of an object to which in strict law another might lay claim. The exceptio rei uenditae et traditae was founded upon an Edict worded somewhat as follows: SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO; and in the formula of an action by the seller to recover the thing sold this exceptio would have been introduced thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius 1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ I Voigt, I. N. ACTIO PYBLIOIANA N" Negidio vendidit et tradidit Its effect was to protect the bona fide purchaser even of a res mancipi against the legal owner who attempted to set up his dominium ex iure Quiritium. On the other hand the actio Publiciana in its alternative form, was based on two Edicts worded somewhat as follows: SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA CAVSA A DOMINO ET NONDVM VSVCAPTVM PETET, IVDICIVM DABO SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET EI TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV- CAPTVM PETET, IVDICIVM DABO I The precise wording of these Edicts is much dis- puted, but the question of their correct emendation is too large to be discussed here. The formula of an actio Publiciana based on the second Edict is given by Gaius '" and ran as follows : Si quern hominem A^ Agerius* emit et qui ei tradittis est anno possedisset, turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri- tium esse oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N Negidium A" Agerio condemnato, s. n.p. a. The usefulness of these actions as a protection to sale is apparent. They secured the buyer in posses- sion of the object sold to him until usucapio had ripened such possession into full dominium; but they were useful only when his possession had been interrupted and he wished to recover it. On the other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro- 1 Voigt, I. N. IV. 478. 2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36. BONA FIDE here iDserted by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.] tected him till the period of tisucapio agaiost the former owner; but it was only usefal where his possession had not been interrupted. The date of the actio Publidana and of this exceptio are not to be fixed with absolute certainty; but it is quite clear that neither of them had anything to do with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as having existed about A.v.c. Though there is no mention of either actio or exceptio in the writers of the Republican period, yet it is clear from some passages of Plautus that the tradition of res mancipi sold was in his time a transaction protected by the law, and Voigt has shrewdly argued that both actio and exceptio must be older than the actio emti, because the latter aimed at securing delivery (habere licere) which would have been of no use had not delivery already been protected by legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a Consul M. Publicius Malleolus, and the conjecture that he was the author of the actio Publi- dana seems very plausible. The exceptio rei uen- ditae et traditae was probably somewhat older, for the defensive would naturally precede, not follow, the offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's opinion have been contemporary with the actio Publidana, because it does not bear the name of exceptio Publidana, which it otherwise would have borne  This argument does not seem to me strong, 1 Cie. Cluent. 45. 126. 2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2. 23. ' I. N. XV. 469.  50 Dig. 17. 11. -- reason seems rather to have been a practical one  that the existence of an agency of status precluded that of an agency of contract. Thus we know that householders as a rule had sons or slaves who could receive promises by stipulation, though they could not bind their paterfamilias by a disadvantageous contract; and so to a limited extent agency always existed within the Roman family. It is also obvious that, in an age when men seldom went on long journeys, the necessity for an agent or fully empowered representative cannot have been seriously felt. Plautus shows however that agency was not developed even in his day, when travel had become comparatively common. In Trimimmus and Mostel- laria, for instance, no prudent friend is charged with the affairs of the absent father, and consequently the spendthrift son makes away with his father's goods by lending or selling them as he pleases. We can however mark the various stages by which the Roman Law approximated more and more closely to the idea of true agency. 1. The oldest class of general agents were the tutor es to whom belonged the management (gestio) of a ward's or woman's affairs, and the curatores of young men and of the insane. The next oldest kind of general agents are the cognitores, persons appointed to conduct a particular piece of litigation, and not to be confounded with the cognitores of praediatura. They were ori- [Pemice, Labeo, i. 489. " Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74. 3 2 Verr. in. 60. 137 ; Gaee. 14. * Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp.] ginally appointed only in cases of age or illness and their general authority was limited to the management of the given suit. Gaius has shown us how they were able to conduct an action by having their names inserted in the condemnation. Whether they existed or not under the legis actio procedure is uncertain ; but they probably did, since we know that they were at first appointed in a formal manner. Subsequently the Edict extended their powers to the informally appointed procuratores. The action by which these agents were made responsible to their principals is after Labeo's time the actio mandati. During the Republic however and before his time the jurists do not seem to have regarded the relation between cognitor and principal as a case of mandatum, but simply gave an action corresponding to each particular case, as for instance an actio depositi if the cognitor failed to restore a depositwn. Procuratores are persons who in Cicero's day act as the agents and representatives of persons absent on public business. They often appear to have been' the freedmen of their respective principals, and their functions were doubtless modelled on those of the curatores. The connection between curatores and procuratores is seen in the Digest where pupilli and absent in- dividuals are often coupled together', while the ' Auot. ad Her. ii; 20. " Gai. iv. 86. 3 Gai. IV. 83.  i. 9. 12. -- erciscundas \ but they might often prefer to continue the consortium, either because the property was small, or because they wished to carry on an es- tablished family business. If the latter course was adopted, the tenancy in common became a partner- ship, embracing in its assets the whole wealth of the partners ; and it is easy to see how this natural part- nership, if found to be advantageous, would soon be copied by voluntary associations of strangers. Thus socius, as we know from CICERONE (si veda), was often used as a synonym of censors, and there can be no doubt that consortium was the original pattern of the societas omnium bonorum". That there were some differences between the rules of consortium and those of societas does not affect the question. For instance, the gains of the consortes were not brought into the common stock, but those ot socii were; while the death of a socius dissolved the societas, but that of a consors did not ^ dissolve the consortium. These points of difference and others probably arises from the juristic interpretation applied to societas, when it had once become fairly recognised as a purely commercial contract. But consortium and societas omnium bonorum have two points in common which show that they must have been historically connected, In societas omnium, bonorum there was a complete and immediate transfer of property from the indi- viduals to the societas'', whereas the obligations of [- Paul. Diao. s. u. erctum. ^ Brut. i. 2. 3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in. 85. i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo See Pernice, Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2.] each remained distinct and were not shared by the others'. Now this is exactly what would have happened in consortium : the property would have been common, but the obligation of each consors would have remained peculiiar to himself, The treatment of socii as brothers' is clearly also a reminiscence of consortiv/m ; and this conception of fratemitas, being peculiar to the societas omnium bonorum^, makes its connection with the old con- sortium still more evident. The fraternal character of this particular societas is responsible for the existence of a generous rule which subsequently, under the Empire, became extended so as to apply to the other kinds of societas^ The rule was that no defendant in an actio pro socio should be condemned to make good any claim beyond the actual extent of his means ^ This was known as the beneficium competentiae ; and it gave rise to a qualified formula for the actio pro socio, as follows: Quod A' Agerius cum N" Negidio societatem omnium bonorum emit, quidquid 6b earn, rem iV"' Negidium A Agerio dare f. p. oportet ex f. b. dumtaxat in id quod i\r* Negidius facere potest, quodue dolo malo fecerit quominus possit, eius index N Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a. 2. Societas negotii uel rei alicuius. This second form of partnership must have been the most common, since it was presumed to be in- tended whenever the term societas was alone used '. 1 17 Dig. 2. 3. 2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63. * 17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16 and 22.  17 Dig. It has also been derived from consortium by Lastig. His theory is that consortes, or brothers, when they undertake a business in partnership with one another, often modify their relations by agreement. The special agreement, he thinks, then becomes the conspicuous feature of the partnership, and the relations thus established are copied by associations not of consortes but of strangers. The object of the theory is to explain the correal obligation of partners. This correality did not however exist at Rome, except in the case of banking partnerships, where we are told that it is a peculiar rule made by custom, so that Lastig's theory lacks point. A further objection is that this theory does not explain, but is absolutely inconsistent with, the existence of the actio pro socio as an actio famosa. The fraternal relations existing between consortes may never have suggested such a remedy, for CICERONE (si veda) in his defence of Quinctius lays great stress on the enormity of the brother's conduct in having brought such a humiliatiag action against his client. Another explanation of the actio pro socio is given by Leist". He derives it from the actio so- cietatis given by the Praetor against freedmen who refused to share their earnings with their patrons. This societas of the patron must have been a one- sided privilege, like his right to the freedman's 1 Z. filr ges. Handelsrecht. xxiv. 409-428. 2 As in 26 Dig. 7. 47. 6. 3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17 Dig. 2. 82. * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9, 5 As Perniee has pointed out, Labeo i. p. 94. 6 Soc. p. 32. -- services' ; for the freedman could never have brought an action against his patron, since he was not entitled to any share in the patron's property. The actio societatis was therefore a penal remedy available only to the patron, and consequently it cannot pos- sibly have suggested the bilateral actio pro socio of partners. Nor can the bonae fidei character of the actio pro socio be explained if we assume such an origin. The most reasonable view appears to be that which regards the actio pro socio as the outcome of necessity. The Praetor saw partnerships springing up about him in the busy life of Rome. He saw that the mutual relations of socii were unregulated by law, as those of adpromissores had been before the legislation described above in Chapter v. He found that an actio in factum, based on the Edict Paxta conuenta, was but an imperfect remedy; and as an addition to the Edict was then the simplest method of correcting the law, it was most natural for him to institute an actio pro socio, in which bona fides was made one of the chief requisites simply because the mutual relations of socii had hitherto been based upon fides Societas uectigalium uel pMicanorwm. This kind of societas was a corporation rather than a partnership, and we have proof in Livy that such corporations existed long before the other kinds of societas came to be recognised as contracts. These 1 38 Dig. 2. 1. 2 Cie. Quint. 6. ; Q. Rose. 6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr. III.] societates acted as war-contractors^ collectors of taxes, and undertakers of public works'. In one passage in LIVIO (si veda) they are called redemtores, and we find three societates during the second Punic War in A.v.c. 539" supplying the State with arms, clothes and com. It was perhaps the success of these societates publica- norwm" which iatroduced the conception of commercial and voluntary partnership. But still they are utterly unlike partnerships', so that their his- tory must have been quite different from that of the other societates. They were probably derived from the ancient sodalitates or collegia^, which were per- petual associations, either religious (e.g. augurium collegia), or administrative {quaestorum collegia), or for MUTUAL BENEFIT (cf. H. P. Grice), like the guilds of the Middle Ages (fabrorwm collegia). This theory of their origia is based upon three points of strong resem- blance which seem to justify us in establishing a close connection between societas and collegium: Both were regulated by law", and were established only by State concessions or charters. Both had a perpetual corporate existence, and were not dissolved by the death of any one member "- (3) Both were probably of Greek origin. We > Liu. XXXIV. 6 in a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544).  Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150.  XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9. " Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1. 8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic. leg. agr. ii. 8. 21 ; pro domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36. 9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47 Dig. 22. 1. "I Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1. B. E. 12 -- are told that societates publiccmorum existed at Athens', while Gaius^ derives from a law of Solon the rule applying to all collegia, that they might make whatever bye-laws they pleased, provided these did not conflict with the public law. These three facts may well lead us to derive this particular form of societas from the collegium. We know further that the jurists looked upon it as quite different from the ordinary societas, and that it did not have the actio pro socio as a remedy'- The president or head of the societas was called manceps*, or magister if he dealt with third parties ', and the modes of suretyship which it used in its corporate transactions were praedes and praedia', another mark perhaps of its semi-public origin. Arist. Bep. Ath. 52. 3 and of. Voigt, I. N. ii. 401. 2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808. * Ps. Asc. in Cio. Diu. ; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam. 10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64. ' Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr. 11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167. ' Lex Mai. We have not yet really dis- posed of all the consensual contracts, for we now come to a class of obligations entered into without formality and by the mere consent of the parties, but in which that consent is signified in one particular way, i.e. by the delivery of the object in respect of which the contract is made. The contracts of this class have therefore been termed REAL contracts, though they may with equal propriety be called consensual. The oldest of them all is mutumn, the gratuitous loan of res fungibiles, and it stands apart from the other contracts of its class in such a marked way, that its peculiarities can only be understood from its history. It differed from the other so-called real contracts, im having for its remedy the condictio, an actio stricti iuris; in being the only one which conveyed ownership in the objects lent, and did not require them to be returned in specie. Both peculiarities requfre explanation. The most important function of contract in early times is the making of money loans, and for this the Romans had devices peculiarly their own, Tiexum, sponsio, and earpensilatio. But these are available only to Roman CITIZENS (cf. Grice: OXONIANS), so that the legal reforms constituting the so-called ius gentium naturally included new methods of performing this particular transaction. One such innovation was the modification of sponsio, already described, and the rise of stipulatio in its various forms : another was the recognition of an agreement followed by a payment as constituting a valid contract, which might be enforced by the condictio, like the older sponsio and expensilatio. This innovation is the contract known as mutum. It doubtless originates in custom, and is crystallised in the Edict of some reforming prtor. As its object was money, or things analogous to money in having no individual importance, such as com, seeds, &c., the object naturally did not have to be returned in, specie by the borrower. Though the bare agreement to repay was suffi- ciently binding as regards the principal sum, the payment of interest on the loan could not be pro- vided for by bare agreement, but had to be clothed in a stipulation. This rule may have been due to the fact that mutuum was originally a loan firom friend to friend ; but it rather seems to indicate that bare consensus was at first somewhat reluctantly tolerated. In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan, generally made between friends^ and in sharp con- [Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51 ; Paeud. D trast to foenus, a loan with interest', which was always entered into by stipulation. When mutuv/m is used by Plautus to denote a loan on which interest is payable, we must therefore understand that a special agreement to that effect had been entered into by stipulation, since mutuum was essentially gratuitous. From three passages " it is evident that mutuum was recoverable by action in the time of Plautus* (circ. A. V. c. 570), and it seems probable that LIVIO (si veda) also uses it in a technical sense. If then we place the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513, and suppose, as Voigt does ', that mutuum being a iuris gentium contract must have been subsequent to that law, we shall be led to conclude that mutuum came into use about the second quarter of the sixth century. This theory as to date is supported by the fact, which Karsten points out, that mutuum would hardly have been possible without a uniform legal tender, and that Rome did not appropriate to herself the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We thus see that the introduction of mutuum and that of emtio uenditio, i.e. of the first real and the first consensual contract, took place at about the same time. As regards its peculiar remedy we know that money lent by mutuum was recoverable by a con- dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and 1 Asin. Trin. 3. 2. 101 ; 4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16. 3 Cure. A.v.c. 560. ^ xxxii. 2. 1.  Of A.v.c. 555. 6 I. N. IV. 614. ' Slip. restipulatio tertiae partis\ It seems, like expensila- tio, to have received this stringent remedy by means of juristic interpretation, which extended the meaning and the remedy of pecimia certa credita so as to cover this new form of loan. Thus we find credere often used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m *. When this final extension had been made iu the meaning of pecunia credita, we may reconstruct the Edict on that subject as follows  : SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DEDERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT PROMISERITVE, DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here referred to was the condictio certae pecuniae, the formula of which has already been given*. We know that mutuvm, could be applied to other fungible things besides money, such as wine, oil or seeds, and in those cases the remedy must have been the condictio triticaria'^. FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con- tract very similar to mviuvm,, which we know to have existed in the Republican period, since we find it mentioned by Seruius Sulpicius * and entered into by Cato', was foeniis nauticum, a form of marine insurance resembling bottomry^. It consisted of a money loan (pecunia traiecticia) to be paid back by the borrower,  invariably the owner of a ship, Cic. Rose. Com. 4. 13. 2 As in Pers. 1. 1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91. Voigt, I. N. IV. 616. * p. 104.  12 Dig. 1. 2. 8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch, Cat. Mai. 21. ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff. only in the event of the ship's safe return from her voyage. A slave or freedman of the lender apparently went with the ship to guard against fraud'; but there was no hjrpothecation of the ship, as in a modem bottomry bond. The contract resembled mutuum in being made without formality; but its marked peculiarities were: That it was confined to loans of money, And to loans from insurers to ship-owners, And because of the great risk it was not a gratuitous loan, but always bore interest at a very high rate/ It is, however, quite possible that this interest was not originally allowed as a part of the formless contract, but that it was customary, as Labeo states ', to stipulate for a severe poena in case the loan was not returned. If that be so, the stipulatory poena spoken of by Seruius and Labeo must have been the forerunner in the Republican period of the onerous interest mentioned by Paulus'' as an inherent part of this contract in his day. The next three real contracts are not mentioned by Gains, who apparently took his classification fi-om Seruius Sulpicius, and it therefore seems certain that in the time of Seruius and during the Republic they were not re- garded as contracts, but as mere pacta praetoria. Commodatum was the same transaction as mutuum applied to a different object. In mutuum there was a gratuitous loan of money or other res fungihilis, 1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1. 22 Big. 2. 7. ' 22 Big. Big.] CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM]whereas in commodatum the gratuitous loan was one of a res nonfungihilis ' Both were originally acts of friendship, as their gratuitous nature implies. Plautus shows us that in his day the loan of money was not distinguished from that of other objects, for he uses commodare^ and iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as well as in describing genuine cases of commodatum. We do not, however, discover from Plautus that commodatum, was actionable in his time, as mmiuwrn clearly was. Vtendmn dare, we may note, is in his plays a more usual term than commodare. If it be asked why the condictio was not extended to commodatum as it was to mutwu/m, the answer is that the latter always gave rise to a liquidated debt, whereas in a case of commodatum the damages had first to be judicially ascertained, and for this purpose the condictio was manifestly not available. The earliest mention of commodatum as an actionable agreement occurs in the writings of Quintus Mucins Scaevola (ob. A.v.c. 672) quoted by Ulpian" and Gellius. CICERONE (s veda) significantly omits to mention it in his list of bonae fidei contracts, and the Lex lulia Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it. The peculiar rules of the agreement seem to have become fixed at an early date. Quintus Mucins Scaeuola is said to have decided that culpa leuis ^ e.g. a scyphus, Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i. 94. 2 Asin. 3. 3. 135.  Persa, 1. 3. 37. Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. Dig. Bruns, Font. AGE OF COMMODATVM] should be the measure of responsibility required from the bailee (is cui commodatur), and to have established the rule as to furtum usus, in cases where the res commodata was improperly used. It seems therefore probable that the Praetor recognised commodatum at first as a pactum praetoriwn, and granted for its protection an actio in factum, with the following formula: Si paret A Agerium N" Negidio rem qua de agitur commodasse (or utendam dedisse) eamque A" Agerio redditam non esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. The agreement between bailor and bailee pro- bably did not come to be regarded as a regular contract until after the time of CICERONE (si veda). We must therefore place the introduction of the actio commodati at least as late as A.v.c. 710, and by so doing we explain CICERONE (si veda)s silence. Whatever conclusion we shall arrive at as to depositum must almost necessarily be taken as applying to commodatum, also. They both had double forms of action in the time of Gaius neither is mentioned by Cicero, and Scaevola evidently dealt with them both together. Hence their simultaneous origin seems almost certain. The actio commodati is said to have been instituted by a prtor pacuuius'', who, like PLAUTO (si veda), used the words utendum dare instead of com- modare. The terms of his Edict must therefore have been: 1 IV. 47. 2 13 Dig. CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM. QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO IVDICIVM DABOl The author of this Edict was formerly supposed by Voigt to be Pacuuius Antistius Labeo", the father of Labeo the jurist ; but this statement has recently been withdrawn' on the ground that this Pacuuius, having been a pupil of Seruius Sulpicius, could not have been Praetor as early as the time of Quintus Mucius. If however the above theory as to the dates be correct, Voigt's former view may be sound: Q. Mucius may have been speaking of the actionable pactum, while Pacuuius may have been the author of the true contract. The aMio com- modati directa had a formula as follows: Qiiod A' Agerius N" Negidio rem q. d. a. commodauit (or utendam dedit) quidquid oh earn rem M Negi- dium A" Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona, eius iudex N" Negidiwm A' Agerio con- demna. s. n. p. a. It was doubtless in this form that the action on a commodatum was unknown to CICERONE (si veda). He must have been familiar only with the actio in factvmi, and for that very reason he must have regarded com/modatwm not as a contract, but as a pactum conuentum. The most general word denoting the bestowal of a trust by one person upon another was commendare, and Voigt shows that corrvmendaiumh is the technical term 1 I. N. III. 969. 2 I. N. B. HG. 1 Dig. 2. 2. 44. Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii. 6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cic. Fin. IR. RG. i. App. 5. for a particular kind of pactum. If the object of commendatio is the performance of some service, the relation is a case of mandatwm. If its object is the keeping of some article in safe custody, the relation is described as depositvm. This case clearly shows how arbitrary is the distinction drawn by the Roman jurists between real contract and consensual contract. Though starting, as we have seen, from the same point, mandatum came to be classed as a consensual, and depositv/m as a real contract. This was simply because the latter dealt, while the former did not deal, with the possession of a definite res. Depositum distinctly appears in Plautus as an agreement by which some object is placed in a man's custody and committed to his care, though deponere is not the word generally used by Plautus to denote the act of depositing. He prefers the phrase seruandimi dare, corresponding to utendvmi dare, which we found to be his usual expression for commodatum. These very words, semandum dare, were also used by Quintus Mucins Scaevola in discussi Dg depositum, but we cannot ascertain from his language whether or not the actio depositi was already known to him. He may merely have been discussing an actionable pactum,. Nor can we infer from any passage of Plautus the existence of depositum as a contract in his time. He seems CICERO (si veda) Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. Bacch. Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10. 8 Gell. VI. 15. 2. rather to represent it, as CICERONE (si veda) does, in the light of a friendly relation based simply on fides '^-j and in most of the Plautine passages the transaction is that which was afterwards known as depositum irregulare, i.e. the deposit of a package containing money either at a banker's ', or with a friend. Some have thought that there must have been an action in Plautus' time for the protection of such important trusts, but Demelius points out that the actio furti (to which Paulus alludes as actio ex catosa depositi) would have afforded ample protection in most cases; and it would be extremely rash to infer that either commodatum or d&positwm was actionable in the sixth century of the City. At first sight it even looks as though depositum, was not protected by any action in the days of Cicero. The passages in which he mentions it' appear to treat the restoration of the res deposita rather as a moral than a legal duty. Similarly where he enumerates the bonae fidei actions, where he mentions the persons qui bonam fidem praestare debent, and where he describes the indicia de fide mala'^', he entirely leaves out the actio depositi and does not make the slightest allusion to depositum. But all this is equally true of commodatum. And since we have the clearest evidence that com- modatum. was actionable in the time of Quintus 1 2 Verr. it. 16. 36. Merc. 2. 1. 14. 5 Cure. 2. 3. 66. * Bacch. Costa, Dir. Priv. p. 320.  Z. fur RG. ii. 224. ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25. 95. 8 Off. Top. N. D. Gai.] Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid the con- viction that depositurn also was actionable in his day by means of an actio in fojctvmi, whereas the actio depositi was not introduced, as Voigt holds, till the beginning of the eighth century. This theory of development, already applied to mandatum and societas, has the advantage, not only of explaining why commodatwm and depositvmi were not numbered among hoTiae fidei contractus, but also of accounting for the existence in Gains' day of their double formulae which have puzzled so many jurists. We may then believe that depositurn was first made actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum praetorium, and with the protection of an actio in factum concepta as given by Gains: Si paret A Agerium apud N Negidiwm mensam argenteam deposuisse eamque dolo N^ Negidii A" Agerio redditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N Negidium A" Agerio condemnato. s. n. p. a. This formula was doubtless the only one pro- vided for depositumi down to the end of Cicero's career. But about A.v.c. 710^ juristic interpre- tation began to regard commodatvmi and depositurn as genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a second formula was iutroduced into the Edict, with- out disturbing the earlier one, so that depositurn, like commodatwm, was finally recognised as a contract. Dig. 6. 5. Earn. EG. See Muirhead's Gaim. Dig. Dig.; Trebatius was trib. pleb. We know that the Praetor's Edict by which this change was brought about ran somewhat thus: QVOD NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE NEQVE NAVFRAGII CAVSA DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM, EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE SVNT IN IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM DABO'. The penalty of dwplwm shows that, where the depositwn had been compelled by adverse cir- cumstances, a violation of the contract was regarded as peculiarly disgraceful and treacherous. In other cases, where the depositwn was made under ordinary circumstances, the amount recovered was simplwm, and the new formula must have been that given by Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N Negidium mensam argenteam, deposuit qua de re agitur, quidquid oh earn rem JSf Negidium A" Agerio dare facere oportet ex fide bona, eius index N Negidiv/m A" Agerio condemnato. s. n. p. a. PiGNVS. The giving and taking of a pledge appears in Plautus as a means of securing a promise, but seems then to have belonged to the class of friendly acts which the law does not condescend to enforce. In Gaptiui for instance, the slave who had been pledged is demanded in a purely informal way, and in Rudens pignus is a mere token given to prove that the giver is speaking the truth. Its connection with arrhabo is very close. Each served to show that an agreement is seriously [Dig.] meant by the parties, or was a means of securing credit as a substitute for money, and if the agreement was broken, the pignus or arrhabo was doubtless kept as compensation. This practice of giving pawns or pledges was probably of great antiquity, but we hear nothing of it from legal sources, simply because it was an institution founded on mores alone. It probably applies only to moveables and res nee mancipi\ for res mancipi could be dealt with by a pactvmi fiduciae annexed to mancipatio. Gaius derives the word from pugnuTn, because a pledge was handed over to the pledgee. But the correct derivation is doubtless from the same root as pactum, pepigi, Pacht, Pfand. Pignus must mean a thing fixed or fastened, and so a security. And this derivation suits the word in the phrase pignoris capio equally well, without leading us to suppose that the custom of giving a pledge is in any way derived from the pignoris capio of the legis actio system. We do not know when pignus becomes a contract, though it certainly is so before the end of the Republic. Long before being recognised as such it doubtless enjoys the protection of an actio in factum, with a formula as follows: Si paret A^ Agerium N Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori dedisse, eamque pecuniam solutam, eoue nomine satisfactum esse, aut per N Negidium stetisse quominus soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio redditam rum esse, quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course Bechmann, Kauf, ii. 416. '' 50 Big. 16. 238. ' ibid. Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch. Lenel] of time the actio pigneraticia was introduced as an alternative remedy, and Ubbelohde ' has argued that since its place in the edict was between commodatum and depositum, the Praetor must have introduced the actio pign&raiicia after the actio com/modati and before the actio depositi ; which seems a very plausible conjecture. We have no direct evidence of the existence of an actio pigneraticia earlier than the time of Alfenus Varus, a jurist of the later Republic. It is not mentioned by CICERONE (si veda). In short everything points to the origin of the contract of pigrms as corresponding in age to that of commodatum and depositum. The language of the edict by which pignus was made a contract has not survived, while the formula of its actio pigneraticia resembled of course that of the actio depositi, and need not therefore be given. Though pignus is doubtless a very inadequate security from the point of view of the pledgor, since it might at any time be alienated or destroyed, it is the only form which appears to be common in Plautus, and of fiducia he shows us not a trace. Pignus seems to have been much used for making wagers, and pignore certare was probably as common as sponsione certare. The contracts of a kindred nature which seem to have arisen even sooner than pignus will be discussed in the next chapter. 1 6. der ben. Bealcont. jjjgr. Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt.] We have examined in a former chapter the early origin of the pactwm fidudae^, a formless agreement annexed to a solemn conveyance, by which the transferee of the object conveyed as security agreed to reconvey, as soon as the debt was paid, or whenever a given condition should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta, and before Cicero's time'', this pactum became en- forceable by the actio fiduciae. This action was in factum, like the others of its class, and its function was to award damages, but it could not otherwise compel the actual recon- veyance of the object. Its formula must have been worded as follows^ : Si paret A Ageriwm N" Negidio fwndum quo de agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa mancipio dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis- f actum esse, aut per N' Negidium stetisse quominus solueretur, eumque fwndum redditum non esse, nego- [Cie. Off. in. 15. 61. 3 Lenel, Ed. Perp. . B. E.] tiumue ita actum non esse ut inter honos T)ene agier oportet et sine fraudatione, quanti ea res erit tantwm pecuniam index N Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. The peculiar clause "ut inter honos bene agier oportet"'^ virtually made this a bonae fidei action. That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never protected by a formula in ius coTicepta, and hence was never regarded as a true contract. We have seen that there were two ways in which a tangible security might be given: the object might be conveyed with a pactum fiduciae, providing that it should be reconveyed on the fulfilment of a certain condition, or else the mere detention of the object might be granted on similar terms. In the former case the pledge or its value could be recovered by the actio fiduciae, in the latter by the actio pigneraticia whose origin we have just discussed. But neither fiducia nor pignus is a contract of pledge pure and simple. Each consists of an agreement plus a delivery of the object. The abstract conception of mortgage, i.e. pledging by mere agreement, is a distinct advance upon both these methods. The contract which embodies this form of pledge is known as hypotheca ; and as its name indicates it was borrowed from the Greeks, from whom the Romans also took the Lex Rhodia de iactu and the foeitms nauticum. Precisely the same contract is found in the speeches of Demos- CICERONE (si veda) Top.] thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could he applied to moveables or immoveables, and even to articles not yet in existence. The Romans how- ever regarded hypotheca not as a contract but as a pactum. It is quite certain that a legal conception so refined as the pactum hypothecae could not have had a place in the legal system of the XII Tables. There are passages in Festus and Dionysius in which the words si quid pignoris and eveyypat^eiv have been supposed to indicate the existence of some such practice at an early period. But the evidence is much too vague to supply trustworthy data, and we may confidently assert that mortgage was unknown to the early law. Accordingly, we find that hy- potheca was introduced and made actionable by slow degrees. Its popular name was pignus oppo- situm, as distinct from pignus depositum, the ordinary pignut above described. Its LQtroduction seems to have been one of the many legal innovations produced by the large immigration of strangers into Rome after the Second Punic War. These strangers must generally have become tenants of Roman landlords, since the lack of ius commercii prevented their buying lands or houses, and in order to secure his rent, the only resource open to the landlord was to take the household goods of these tenants as security. Such household goods {inuecta illata) probably constituted in most cases the only wealth of the foreign immigrant, conse- [Dernburg, Pfdr. s.u. nancitor. Dernburg, Pfdr.] quently the landlord could not remove them, and the method of pignus was not available. The ex- pedient which suggested itself was that the tenant should pledge his goods without removal, by means of a simple agreement. The relation thus created was the original form of hypotheca and was precisely analogous to that of a modern chattel mortgage. As the idea was introduced by foreigners ', it was very natural that this agreement of pledge should have received a foreign name. Another class to whom the new expedient was applied were the free agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often consisted of their tools and other agricultural stock^. The necessity of making a pledge without removal is obvious in their case also. I. It was for the protection of landlords that a Praetor Saluius introduced the interdictum Salui- anum, which seems to have been the first legal recognition that hypotheca received. Its date is not known. Formerly the Praetor Salvius Iulianus, author of the Edictum perpetuum, was regarded as the inventor of this interdict, but his own language in the Digest^ contradicts this supposition. The most reasonable theory is that the interdict origi- nated before the Edict Pacta conuenta (A.v.c.) at about the end of the sixth century. The fact that Plautus knew hypotheca as a mere nudum pactum can hardly be doubted. It is true that he not only uses, as Terence does a little later, 1 Dernburg, Pfdr. Big. 15. 3. 1.  1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii. 232. 5 Phorm.] the phrase pignori opponere ' to denote the making of a pledge by mere agreement; but he also men- tions the Greek technical term eTndi^Krj and seems to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony to be gathered from these passages does not however prove that hypotheca was actionable'. The contents of the interdictum Saluianum can- not be given with certainty. We only know two things about it: that it was a remedy of limited scope, being available only against the tenant or pledgor, but not against third parties to whom he had transferred or sold or pledged the goods, and that the interdict is prohibitory and forbids the pledgor to prevent the landlord from seizing the objects which had been mortgaged. This first proposition is distinctly stated by a constitution of Gordian, but flatly contradicted by a passage in the Digest. The latter authority, however, seems open to strong suspicion and the fact that the actio Serviana is presumably introduced because the interdictum Salvianum is inadequate further goes to prove the correctness of Gordian's constitution. We may be fairly certain that the interdict was prohibitory, like the interdictum utrvbi, and not restitutory, as Huschke would have it'; since the weight of authority is in favour of the former 1 Pseud. 1. 1. . * True. 2. 1. i. 3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr., God. = Dig. Lenel, Z. der Sav. Stiftung, R. A, iii. 181. 7 Studien] view^ We may therefore accept KudorfiPs restora- tion of its formula, which runs as follows: Si is homo quo de agitur est ex his rebus de quibus inter te et conductorem (colonum, &c. &c.) conuenit, ut quae in eu/m fwndum quo de agitw inducta illata ibi nata factaue essent ea pignori tibi pro mercede eiusfimdi essent, neque ea merces tibi soluta eoue nomine satisfactum, est aut per te stat quaminu^s soluatur, ita quo- minus eum ducas uim fieri ueto. II. The second remedy introduced to enforce the formless agreement of mortgage was the actio Seruiana, which was far more efficacious. Its author cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the Mend of CICERONE (si veda), because he never is prtor urbanus, and the action must have existed long before his time. The Praetor who devised it was doubtless one of the many Seruii Sulpicii whose names constantly appear in the fasti consulares, and its age is probably not much less than that of the interdictum Saluianum. The action was certainly younger than the interdict, and an improvement upon it, because the jurists treated the law of mortgage under the head of interdict', which indicates that this was the form of the original remedy. We may be sure that the interdict is older than the Edict Pacta conuenta, for otherwise it would not have been needed. And as soon as pa(Aa were thus legally recognised, it is safe to say that a more perfect remedy for hypotheca was sure ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re- cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p. 394. 2 Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282. ' Dernburg, Pfdr.] to be devised. The probability is then that the actio Seruiana was one of the first products of the Edict Pacta conuenta, partly because we know that the interdict was an imperfect remedy, partly because hypotheca was much in vogue at that early date. Thus we may gather from Plautus' allusions that hypotheca was already in a well developed state about A.v.c. 570. CATONE (si veda) the Censor also seems to have alluded to it, and Caec. Statins, as cited by Festus", unquestionably did so. The curious circumstance that CICERONE (si veda) should have mentioned it only twice may perhaps be accounted for by the fact that PIGNUS in its looser sense (in sensu lato) is always a synonym for hypotheca, and as he mentions it so seldom in its Greek form, we may suppose that hypotheca is then only just coming into general use. We know that pignus in the narrower sense (in sensu stricto) is distinguished by Ulpian from hypotheca as sharply as we distinguish a pawn from a mortgage, but the earlier writers lead us to infer that the term pignus oppositum, or simply pignus, was originally the equivalent of hypotheca. The effect of the actio Serviana was probably a mere enlargement of the scope of the interdictwm Salvianum, giving the landlord a legal hold upon the inuecta illata of his tenant even in the possession of third parties. But since the right of thus pledging by agreement was as yet recognised only as between the colonus or the house-tenant and his landlord, 1 jj. i{. 146. s.u. reluere.Att. n. 17 and Fam. xiii. 56. Dig.] hypotheca was a transaction still confined to a small class. A final improvement is effected, perhaps shortly after the one just mentioned, when the prtor grants an action on. the analogy of the actio Serviana, upon all agreements of pledge of whatever description. From the creation of this action, known as cuctio quasi Serviana or hypothecaria, or simply Serviana, dated the introduction of a law of mortgage applicable to objects of all kinds. The name hypothecaria, which we find applied only to the last of these three remedies, implies either that this was the only action available for all forms of hypotheca, or else that the Greek term was not introduced until the contract had thus become general. The formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo- thecaria was of course in factum concepta, because the pactum hypothecae never was treated as a contractus iuris civilis, though it became in reality as binding as any contract. The words are restored by Lenel as follows, in an action by the mortgagee against a third party: Si paret inter A Agerium et Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de agitur A Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam debitam, eamque rem tunc cum conueniebat in bonis D Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam neque eo nomine satisfactum esse neque per A Agerium, stare quominus soluatur, nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo Inst. Dig. Bachofen, Pfdr. Ed. perp.; cf. Dernburg, Pfdr.; cf. Budorfl] restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam index N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a. No mortgage can be of much practical use unless it empowers the creditor to sell the thing pledged, so as to cover his loss. But it is evident that the mere pledgee or mortgagee could have had no in- herent right to sell or convey what did not belong to him. This was an advantage possessed by fiduoia, since the property was fully conveyed and could therefore be disposed of as soon as the condition was broken. The only way out of the difficulty both in pignus and hypotheca was to make a condition of sale part of the original agreement. This was unnecessary under the Empire when the power of sale came to be implied in every hypotheca, but during the Republic the power had to be explicitly reserved, or else the vendor was liable for conversion (furtumy. Even Gains " speaks as though a pactum de uendendo was usual in his time. Labeo describes a sale eoc pacta convento, but the usual name for the clause of the agreement containing the power of sale was lex ccmimissoria. When it became possible to insert such a clause is uncertain, but Demburg seems right in maintaining that, as the lex commissoria was known to Labeo and to the far more ancient Greek law, it must certainly have been customary at Rome long before the end of the Republic. Dig.; Demburg, Pfdr. Dig. = Pfdr. as against Baehofen, Pfdr.] The custom of committing hypothecae to writing (tabulae), which is indicated by Gaius', doubtless pre- vailed also in the Republican period, the object of the writing being simply to facilitate proof. When we translate hypotheca by the English word mortgage, we must not forget that the latter denotes technically a conveyance defeasible by con- dition subsequent, closely resembling ^cZwcia, where- as the former denoted the mere creation of a lien. On the other hand it is true that our modem mortgage has lost its original resemblance to fidma, and has now become almost identical with hypotheca. Praediatvea is a peculiar form of suretyship which the Roman jurists never treated as a contract, though it doubtless had a very ancient origin. It was connected with the public emtiones and locationes, and was the regular method by which contractors or undertakers of public work gave bond to do their work properly. The transaction resembles the giving of sponsores in private law. The friends of the contractor who are willing to be his sureties (praedes) appear before the Praetor or other magistrate, and entered into a verbal contract by which they bound them- selves with all that they possessed. The magistrate, we are told, asked each surety " Praesne es?" and the surety answered "Praes"\ This has every appearance of having been a formal contract like sponsio, and it is difficult to accept the view of Mommsen ^ who considers that the publicity of the Dig.Dig. Paul. Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von Salpema] transaction leads us to infer its formless character. If we follow him in assuming that praedes and praedia were purely public institutions, how can we explain the existence of the praedes litis et vindiciarum, who certainly appears in private suits, and how can we understand those passages in Plautus and CICERONE (si veda) which clearly refer to praedes and praedia in private transactions? If then we deny to prdiatura an exclusively public character, we must class it with sponsio and uadimonium as another formal mode of giving security. The etymology which explains the word prs as being the adverbial form of prsto is undoubtedly false. Ihering and Goppert suppose that it comes from the same root as praedium, and means one who undertakes a liability. But in the Lex agraria the spelling is praeuides instead of praedes, and this indicates rather that the true derivation is from prae and uas ', in the sense of " one who comes forth and binds himself verbally Pott thinks that vas is the generic term for surety, and that prs is a composite word meaning a surety who makes good (prstare) what he undertakes. Where the derivation is so uncertain no safe conclusion may be arrived at, and the origin of the contract must, in this case as in that of the primitive vadimonium, remain an enigma. Cf. aduersariw, Gai. Plaut. Men.; CICERONE (si veda) Cio. Att.Eivier, Untersuch. Z.fiir RG. Fas bomfari, or vas from a root meaning, to bind. Dernbur'g, P/dr.; Eivier, Untersueh. Etym. Forsch. The obligation of the praes was enforced by compulsory sale, the details of which we unfortunately do not know. The expression prdes vendere shows approximately how the right was enforced, but it is uncertain whether this means to sell the property of the surety, or merely to sell the claim of the State against him K Besides the personal responsibility thus assumed by the praes, there was another kind of security known as praedium which the principal might be required to give. If the praedes furnished by him were not sufficient, praediwm might be required as an additional safeguard; but we also find that praedes or praedia might be separately given. The form in which a bond of praedia had to be made was a written acknowledgment in the Treasury (praediorum apud aerarium subsignatio), and the only object capable of serving or being pledged as a praedium was landed property owned by a Roman citizen, and possessing all the qualities of a res mancipi. Hence the seciirity of praedia could not in many instances have been available, for the whole of solwm prouinciale and the holdings of ager publicus in the possession of occupatorii would of course have been excluded. The amount of Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5. 2 Dernburg, Pfdr. i. ' CICERONE (si veda) 2 Verr. i. 54. 142. Goppert, Z.filr EG. iv.. Lex agraria of a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo, Bruns, Font., aes Malac. cap. . ' ae Malac. e.g. Lex Acilia repet., and Festus s.u. quadrantal, 8 Cic. Place. 32. 80. praedia which had to be given was entirely in the magistrate's discretion and to help him in his decision we find that there existed praediorum cognitores who were probably persons appointed to assess the value of praedia, and responsible to the State if their information was wrong. As to the nature of the transaction effected by praediorum subsignatio, there can be no doubt that the old theory held by Savigny and others is incorrect, and that the State did not in virtue of svbsignatio become absolute owner of the praedia. Rivier and Demburg have demonstrated that the State merely acquired a lien, and that praediorum subsignatio was therefore a species of mortgage. The classical sources fully support this view, and it is certain that while the property was subject to this lien its owner still had the right to sell it and to exercise other rights of ownership. A public sale (venditio prdiorum) follows closely no doubt upon the default of the debtor, but does not necessarily accompany the sale of the goods of the praedes (uenditio praedium). At Rome the former sale was made by the praefecti aerario, and in the Lex Malacitana the duumvirs or decuriones are empowered to make it. A peculiarity of the sale of praedia was that the ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font.. 2 aes Malac. Savigny Heid. Jahrsch; Walter, E. G.; Hugo, R. G. 449. * Pfdr. 1. p. 33. VARRONE (si veda) L. L.; Lex agraria, Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; CICERONE (si veda) Cie. Verr. i. 55. 144. 8 cap. 64; Bruns, Font. p. 146. dominiwm residing in the owner became instantly transferred to the praediaior or purchaser from the State, without any act on the owner's part. The only advantage reserved to the dispossessed owner was an exceptional right of recovering his property from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious usucapio S one of the few instances in which it was possible to exercise usucapio otherwise than with a bona fide colour of title. In this case, as the praedia were always land, the statutory period of two years was necessary to complete the adverse possession. The lex praediatoria mentioned in the aes Malacitanum" has been thought to be a statute of unknown date; but it more probably denotes some collection of traditional terms used in praediatura and analogous to a lex uenditionis in a contract of sale. The restoration of praediatoria in Gains is doubtful, and censoria seems much to be preferred. The operation of praediatura as a general lien on all the property of the praes is probably recognised in the Republican period, although Demburg has doubts on this point. Such a lien is found in the Lex Malacitana in the time of Domitian, but this may have been an extension to the public aerarium of the general hypotheca belonging to the Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence that the lien did not exist in our period; and if it 1 Gai. Boecking, Rom. Priv. Pfdr. irssv. did, we can readily see that the security of praediatura was superior to that of sponsio. It is perhaps natural that the subject of praedes and praedia should be obscure, for the complicated nature of the law of praediatura is attested by CICERONE (si veda) who states that certain lawyers make it a special study. Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides introducing the actio mandati, the praetor's edict enlarged the scope of agency by instituting several other important actions. These were the actiones quod iussu, exercitoria, institoria, tributoria, de peculio and de in rem uerso. In all of them alike the Praetor's object was to fasten responsibility on some superior with whose consent, or on whose behalf, contracts had been made by an inferior. They are known as actiones adiecticiae, because they were considered as supplementing the ordinary actions which could be brought against the inferior himself As they made the principal liable on the contracts of a subordinate, it is plain that they must have been a most useful substitute for the complete law of agency which the Romans always lacked. The fact that they all had formulae in ius conceptae points to a late origin, but they all doubtless origi- nated before the end of the Republic. The actio quod iussu was an action in which a son or slave, who had made a contract at the bidding of his pater familias, was treated as a mere conduit pipe, and by which the obligation was directly imposed on the pater familias who had [Balb. Dig. fr. authorized it. Since Labeo mentioned the action as though its practice was well developed in his day, we may fairly suppose that iussus was made actionable in Republican times. The formula is as follows: Quod iussu N^ Negidii A" Agerius Gaio, cum is in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua de re agitur, quidquid oh earn rem Oaium jUium A Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex iV Negidium patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a. Here the express comniand of the superior was the source of his obligation. The actio exercitoria was an action in which a ship owner or charterer {exercitor) was held directly responsible for the contracts of the ship master (magister nauis). Its formula probably ran as follows: Quod A^ Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis quam N' Negidius exercebat, eius rei causa in quam L' Titius ibi praepositus fuit, incertum stipulatus est qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N' Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a.- It was known to Ofilius in the eighth century of the city*, and was very probably even older than his day. The necessities of trade were obviously the source from which this particular form of agency sprang, because in an age of great commercial activity, when even bills of lading were not yet introduced, it was expedient that the delivery of goods or the [Dig. 4. 1. fr. 9. ^ x4 Big. Baron, Abh. aus dem B. C. P. ii. . Dig. 1. 1. fr. 9. making of contracts by the master should be equivalent to a direct transaction with the ship owner himself. The actio institoria no doubt had a like commercial origin. This was an action by which the person who employed a manager (institor) in a busiuess from which he drew the profits, was made liable for the debts and contracts of the manager. This action was known as early as the days of Seruius Sulpicius^, and its formula closely resem- bled that of the actio exerdtoria. The difference between these two and the actio quod iussu con- sisted simply in the fact that the iiissus or autho- rization was special in the one case, and general in the other two. In the actiones exercitoria and insti- toria an implied general authority was ascribed to the agent in virtue of his praepositio^, whereas in the actio quod iussu the agent had only an express special authority. Thus the magister nauis and the institor were genuine instances of general agents ; and we find therefore, as we should have expected, that the acts of the magister and institor only bound the master when strictly within the scope of their authority'. This is an excellent instance of the manner in which Mercantile Law has developed the same rules in ancient as in modem times. The actio tributoria is that by which a master was compelled to pay over to the creditors of a son or slave trading with his consent whatever [Dig. fr. Dig.; Oosta, Azioni, Dig. tribui, Dig. B. E. profits he had received from the business. The formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio qui in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia merce peculiari negotiaretur, -infiertum stipulatus est qua de re agitur, quidquid ex ea merce et quod eo nomine receptum est ob earn rem iV Negidium. Agerio tribuere oportet, eius dumtaxat in id quod minus dolo malo N Negidii A' Agerius tribuit, N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. This action was mentioned by Labeo ' and was there- fore probably as old as the other actions of this class. The knowledge and tacit approval of the superior were here the source of his obligation. The actiones de peculio and de in rem uerso are proceedings by which the master is required to make good any obligation contracted by his son or slave, to the extent of the son's or slave's peculium, or of such gain as had accrued to himself {in rem uersum) from the contract. Their peculiarity, as GAIO (si veda) has told us and as a recent writer conclusively shows, was that they had one formula with an alternative condemnatio, which may be reconstructed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio cum is in potestate JV Negidii esset, incertmn stipulatus est qua de re agitur, quidquid ob earn rem Lucius Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona, eius iudex N'^ Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio quod penes N"^ Negidium est, uel siquid in rem N* Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This [Dig. Baron, Dig. . Baron; cf. Lenel, Ed. perp. formula might be so modified that the actio de peculio and the actio de in rem uerso could be brought either separately or together. These actions were known to Alfenus Varus^, and it is safe to say that they were introduced some time before the end of the Republic. The knowledge or consent of the superior did not here have to be proved. The difference between the actio tributoria and the actio de peculio was considerable. By the former the master contributed his profits and then shared in the distribution as an ordinary creditor. But by the latter he became a preferred creditor, and deducted from his profits the whole amount owed to him by the son or slave. The peculium in the latter case was in fact only the balance remaining after the debts of the son to him had been satisfied. CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To- wards the end of the Republic we find two kinds of formless contract by which a debt could be created, and both of which seem to have sprung fi-om the requirements of Roman commerce I. Gonstitutmn. The chief characteristics of this contract may be gathered from the constitution by which Justinian ftised together the actio recepticia and the actio pecuni constitut as well as from allusions in the Digest. It seems to have been a formless promise of payment at a particular date; depending on the existence of a prior indebtedness to which the Dig. Ihering, Geist Cod. constitutwm became accessory; unconditional; enforced by an actio pecuniae constitutae of prtorian origin which was in some cases perpetua and in others armalis ; and available to persons of all classes. Constitutwm is discussed by Labeo, and is mentioned by CICERONE (si veda) in a way which makes it certain that the actio pecuniae constitutae existed in his day. The action originated in the prtor's edict, and it was thereby provided with a penal sponsio similar to that of the condictio certae pecuniae. This leads us to infer that pecwnia constituta was treated by the Praetor as analogous to pecunia credita; especially as Gains states that pecwnia credita strictly means only an unconditional obligation to pay money, while we know from Justinian's constitution that unless constitutvmi was unconditional no action would lie. But why should the penal sponsio of the actio pecuniae constitutae have been so much heavier than that of the condictio, namely dimidiae instead of tertian partis? The reason given by TEOFILO (si veda) is that constitutum is generally entered into by a debtor in order to gain time for the payment of a debt already due, and that the prtor institutes this severe action in order to discourage insolvent debtors from this practice. Labeo on the contrary says that constitutvm is made actionable in order to enforce the payment of debts not yet due. Both li Dig. God. Big. Quint. Dig. Gai. IT. Paraphr. Dig. Labeo and Theophilus are probably right ', but each takes a one-sided view. The Praetor's aim presu- mably was to enforce the payment of any debt, due or not due, which the debtor had made a renewed promise to pay at a particular date. The breach of a repeated promise (for constitutum always implied a previous promise or indebtedness) was doubtless regarded by the Praetor as a singularly flagrant breach of faith; and hence he compelled the defendant to join in a penal sponsio dimidiae partis. This actio per sponsionem was not however the only remedy for a breach of constitutum. The Digest shows that the usual form of redress was an actio in factum, which probably had a formula as follows: Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn pecuniam soluisse, neque per Agerium stetisse quo- minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur debitam fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam, Nunierium Negidium Aulo Agerio condemna ; and that this actio in factum, existed in Gaius' time as an alternative remedy seems probable from his language. It is not likely that the actio in factum arose simultaneously with the other; and of the two Puchta* is almost certainly right in assigning the earlier date to the actio per sponsionem, because the custom of sponsione prouocare suggests an ancient origin. This sponsio, like that of the condictio, is priudicialis, but it also contained a strongly penal element. Its penal character is [Bruns, Z. f. EG. Dig. Bruns. Inst. CONTRACTS NOT CLASSIFIED] no doubt the reason why the action may not be brought against the heir of the constituens, and why it is annalis. As Bruns shows, the remedy after one year is probably the actio in factum', by which the plain amount of the constitutum mayalone be recovered. Constitutum may be employed for the renewal of the promisor's own debt {const, debiti proprii), as well as of another man's (const, debiti alieni), and this distinction is early allowed". In the later law it could also be used to reinforce and render actionable an obligatio naturalis. But this feature probably did not exist at the origin of the action", for the Praetor could only have had in mind pecunia eredita, when he inflicted such a heavy penalty. The effect of constitutwm was simply to reinforce the old obligation by supplying a more stringent remedy. It never produced novation as stipulatio or expensilatio would have done. The agreement by which shipmasters, innkeepers and stablemen {nautae, caupones, stabularii) undertook to take care of the goods or property of their customers was known as receptum, and was enforced by means of an actio de recepto as rigorously as the duties of common carriers are enforced by the Common Law". The edict is expressed as follows: navtae CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN EOS IVDICIVM DABO; Bruns) Dig. Bruns, Camazza, Dir. Com. and the remedy was an ordinary actio in factvm, authorising the judge to assess damages for the loss or non-production of the goods. But the contract which more nearly concerns us is receptum argentariorum, the nature of which has been a subject of much controversy. This is a formless promise to pay on behalf of another man, and we gather from GIUSTINIANO that it is capable of creating an original debt; capable of being made svb conditione or in diem, and enforced by an actio recepticia, which is perpetua; while TEOFILO (si veda) tells us that it is confined to bankers (argentarii). Bruns indeed supposes that receptum was a formal contract iuris ciuilis, while according to Voigt it is a species of expensilatio devised by the argentarii. Lenel however proves that receptum argentariorum is introduced and regulated by the prtor in the same part of the Edict in which he treats of the recepta nautarum, cauponarum and stabulariorum. This appears from the fact that in 13 Big. 5. 27 and 28, constituere has evidently been substituted by Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian treats of constitutwm in his book on the Edict. But the passage quoted in the Digest is from his book on the Edict, in which we know that he discussed the clause Nautae caupon^s statularii. So also POMPONIO (si veda), who discussed recepta Cod. Z. fur RG. fiSm. EG. Z. der Sav. Stift. Dig. Dig. nautarvm, &c. and constitutum, is described as mentioning the latter. Gains also is represented to have dealt with constitutum in the very same book in which he treated of recepta nautarum. We must conclude, either that all these writers introduced into their discussion of recepta naviarum &c. the totally irrelevant subject of constitutum, or that the subject thus introduced was not constitutum but receptum argentariorum. If the latter conclusion is correct, as we may well believe that it must be, it follows that receptum, argentariorum was, like the other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and was therefore not a contract iuris ciuilis. By analogy with the other recepta we may further conclude that receptum argentariorum was formless, and hence cannot have been a species of eoopensilatio. The remedy is of course an actio in factum. Recipere is used by CICERONE in the sense of undertaking a personal guarantee, but with no clearly technical meaning. Justinian states that the ouctio recepticia was objectionable on account of its solemnia verba, and Lenel has explained this to mean that the actio recepticia, being necessarily in factum like those of the other recepta, had to contain the words "si paret soluturwm recepisse. n^que soluisse quod solui recepit, of which recipere was a technical term. This term, being misunderstood by the Greeks, was translated in Justinian's time Dig.; Vig. = Dig. Phil.; ad Fam. by constitmre. It is almost certain that the actio recepticia was known before the end of the Republic, since Labeo evidently discussed it. The function of receptum probably is to provide an international mode of assigning indebtedness, because transcriptio a persona in persona/m was not available to peregrins'. The existence of the debt between the creditor and the original debtor was clearly not affected by the obligation of the argen- tarius who had made a receptum; and from the passages above cited Lenel also infers that receptum pro alio was the only known form which the contract ever took. In short, it seems to have closely resembled the acceptance of a modem bill of exchange, and it is doubtless made by the argentarius on behalf of his clients or correspondents. Dig. Lenel, Z. der Sav. Stift. Carnazza, Dir. Com. We have now traced the development of the Roman Law of Contract from an early stage of Formalism, in which few agreements were actionable, and those few provided with imperfect remedies, to the almost complete maturity to which it had attained by the end of the Republic. Of all the contracts which we have examined, nexum and vadimonium seem to be the only two that became obsolete during this period, while the new contracts of Praetorian origin, such as depositum and constitutum, attain their full growth. So that the jurists of the empire find little to do besides the work of interpretation and amplification. The one great improvement, and almost the only one, which the law of contract undergoes subsequently to our period, is the introduction of the actiones praescriptis uerbis, by which the scope of real contract is immensely enlarged. In other respects, the law of the republic has the credit of having generated that wonderful system of contract which later ages have scarcely ever failed to copy, and which lies at the root of so much of English Law. Nome compiuto: Francesco Fisischella. Fisischella. Keywords: il duello, del contratto  giocco come contratto  quasi-contractualist  Grice - - wrestling as a contract, fencing as a contract, contract bridge as a contract -- pena temporaria, pena perpetua, divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale, obbligazione naturale. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fisichella,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fitio: la ragione conversazionale e la setta di Reggio -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Abstract. “I prefer the spelling Fizio!” Keywords: Crotone. Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Flaviano: la ragione conversazionale in attacco d’un domma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Figlio di un canosino, e questore, pretore, venne accolto nel collegio dei pontefici e nominato consolare della Sicilia. Forse perchè pagano, soltanto F. consegue il vicariato d'Africa.  F. cadde in disgrazia presso Graziano. La sua ampia erudizione, pero, arreca a F. il favore di Teodosio, che dopo avergli concesso importanti uffici a corte, lo nomina praefectus praetorio dell’Italia, dell’Ilirico e dell’Africa, poi, dopo un periodo di eclissi, ha di nuovo quella prefettura. Tale ufficio fu conferito a F. per la terza volta d'Eugenio, che lo nomina console. F. spera di potere abbattere i galilei con la vittoria d'Eugenio. F. si uccise quando Eugenio e sconfitto da Teodosio che, in considerazione della sua fama letteraria, ne deplora la morte di F. in Senato. F. gode autorità soprattutto nella scienza augurale e nell'arte mantica in generale. Macrobio nei "Saturnali" assegna a F. l’ufficio di interprete della escatologia nell'Eneide di VIRGILIO.  Studioso di filosofia e amico di Eustazio, F. pubblica un saggio, "De dogmatibus philosophorum." F. scrive una vita di Apollonio di Tiana. F. compose uno scritto grammaticale, "De consensu nominum et verborum." F. ottenne fama soprattutto con una grande opera storica, gl’Annales, dedicata a Teodosio. F. F. Console sine collega dell'Impero romano Base della statua eretta in onore di F. dal genero Quinto Fabio Memmio Simmaco. L'iscrizione riporta la carriera di F.. Questura Sicilia intra palatium Pretura Urbana in Sicilia Vicarius in Africa Consolato Prefetto dell'Italia, Illirico e Africa Oriente Pontificato max Sicilia. F. Filosofo romano. Collabora con Eugenio nel tentativo di ricordare la religione romana. Figlio di un certo Venusto (tradizionalmente identificato con Volusio Venusto), F. e discendente di una delle più prestigiose famiglie di Roma, e riceve una ottima educazione. E questore, pretore, pontefice massimo e consolare per la Sicilia, per poi ritirarsi a vita privata. Il principe Graziano lo nomina però vicario della diocesi d'Africa. Tene questa carica quando ricevette l'editto contro il donatismo, che era molto forte in Africa, ma il fatto che Agostino in una lettera lo scambi per un donatista è un indizio che Flaviano si schierò in effetti con coloro che avrebbe dovuto perseguitare. Probabilmente per questo motivo e rimosso dalla carica l'anno seguente. Divenne quaestor intra palatium (questore nel Palazzo, cioè della corte imperiale), più esattamente quaestor aulae divi Theodosii, avendo quindi il compito di formulare le leggi per l'imperatore Teodosio. La sua nomina a Prefetto del pretorio dell'Italia, Illirico e Africa lo rese uno dei più potenti funzionari dell'impero. Non è da escludere che la carriera di F., e in particolare il favore che gode presso Teodosio, e dovuta alla volontà di Teodosio di mantenere buoni rapporti con il partito romano, forte nei circoli aristocratici e senatoriali, che era ostile alla politica di tendenze galilee, e di cui Flaviano era uno dei massimi rappresentanti. Dopo la morte di Valentiniano, Teodosio divenne unico principe. Il potente magister militum di occidente, Arbogaste, sospettato di essere coinvolto nella morte di Valentiniano, coagula l'opposizione a Teodosio nella persona di Flavio Eugenio, eletto augustus col sostegno delle legioni e dell'aristocrazia senatoriale romana. Eugenio nomina F. proprio prefetto del pretorio, oltre che console sine college. La politica di Eugenio, in realtà formulata da Arbogaste e F. in quanto Eugenio e un tentativo di riportare in auge l'antica religione romana e il complesso di valori ad essa collegata, entrambi messi in pericolo dall'avanzare dei galilei. La restaurazione del culto degli antichi dèi, sostenuta da F., a avversata -- è noto un “Carmen adversus Flavianum” (meglio noto col titolo di Carmen contra paganos) compilato da un anonimo contro F., che accusa il filosofo di aver praticato i «ridicoli» Amburbalia, Isia, Megalesia e Floralia. F., infatti, pratica pubblicamente e ufficialmente una serie di cerimonie che non si celebravano da parecchio tempo. Inizia con il lustrum o sacrificum amburbale di Roma, che era stato celebrato l'ultima volta all'epoca di Aureliano, quando l'Urbe, sotto minaccia degli Alemanni, venne difesa dall'erezione delle Mura aureliane e ancor più dall'amburbium; l'Isaia prevede una processione funebre di F. e dei suoi sostenitori, che — con il capo rasato, vestiti lunghi di lana non tinta e con cinocefali in mano — lamentavano la morte di Osiride. I Megalesia sono celebrati in nome di Cibele, con il battesimo del sangue dei fedeli e una processione della statua della dea. Infine venneno i Floralia, che per le danze sfrenate che li caratterizzavano e ormai considerati indecenti. Anche le preparazioni militari per lo scontro con l'esercito di Teodosio vennero caratterizzate dall'antica religione. Il labarum di Costantino I venne sostituito con l'effigie di Ercole invitto, mentre statue di Giove sono poste sui passi alpini dai quali sarebbe dovuto passare l'esercito di Teodosio. Il sostegno degli ambienti eruditi alla filosofia di F. è sottolineato da due fatti. F. è uno degli interlocutori raffigurati nei “Saturnalia” di Macrobio. D'altro canto mantenne rapporti strettissimi col suo amico e parente Quinto Aurelio Simmaco, rapporti proseguiti dopo la fine di F., in quanto il figlio di F. sposa la figlia di Simmaco. Il tentativo di F. ed Eugenio fallì con la sconfitta e morte dell'usurpatore nella battaglia del Frigido che decreta il trionfo di Teodosio I. Dopo la battaglia, imitando un gesto nella tradizione della nobiltà romana, F. si suicida. Negl’anni seguenti la composizione del senato romano cambia, e la componente tradizionalista, che fino ad allora aveva formato un partito da non sottovalutare, divenne irrilevante. Tramonta così la speranza di portare avanti la politica per la quale F. ha speso la propria vita. I figli e successori di Teodosio, Onorio e Arcadio, promulgarono una legge con la quale perdonarono i sostenitori di Eugenio, ma, al contempo, condannarono F. a una forma ridotta di damnatio memoriae che prevedeva, tra le altre cose, la revoca del consolato per l'anno precedente. Il provvedimento richiede ai figli dei condannati di abiurare il culto romano in cambio di quella dei galilei. Questa abiura permise ai discendenti di F. di ricoprire importanti cariche nell'amministrazione imperial. Il figlio di F., anch'egli chiamato Nicomaco F., divenne prefetto del pretorio d'Italia, Africa e Illirico. Il nipote di F., l'influente senatore Appio Nicomaco Dexter, ricoprì ruoli pubblici. È proprio Dexter che si avvalse del sostegno degli influenti circoli senatoriali a cui apparteneva per far riabilitare pubblicamente il nonno. Fu innalzata una statua a F., la cui dedica spiega che F. È stato sempre stimato dall'imperatore Teodosio, e che il provvedimento di damnatio è da imputare a persone invidiose, e non agli imperatori.  Opere F. fa parte del circolo di Quinto Aurelio Simmaco, che raccoglieva esponenti di grande cultura dell'aristocrazia e senatoriale di Roma, a cui apparteneva anche Vettio Agorio Pretestato. A questo circolo vanno ricondotte la pubblicazione di una nuova edizione degli Ab Urbe condita libri di Tito Livio e dell'Eneide di VIRGILIO (si veda) . F. scrive un'opera di storia intitolata Annales, dedicata a Teodosio I. Anche l'autore anonimo della Epitome de Caesaribus potrebbe appartenere al circolo di F., essendosi resa necessaria per l'impossibilità di diffondere gli Annales a seguito della damnatio memoriae.  Avrebbe tradotto, poi, la Vita di Apollonio di Tiana di Filostrato. CIL. Codex Theodosianus. Agostino d'Ippona, Epistulae. CIL. Lanciani. Lanciani. Codex Theodosianus, Ambrogio da Milano, De obitu Theodosii, Codex Vaticanus lat.; Vergilius Vaticanusː Nicomachus Flavianus vir clarissimus III praefectus urbis emendavi, Emendavi Nicomachus F. vir clarissimus ter praefectus urbis apud Hennam. Sidonio Apollinare, Lettere, Honoré, Law in the Crisis of Empire, Oxford, Lanciani, Ancient Rome in the Light of Recent Discoveries, Houghton, Mifflin, Boston; Treccani -- Istituto dell'Enciclopedia Italiana. F., in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia. O'Donnel, "The career of F.", Phoenix; CIL Predecessore Console romano Successore Imperatore Cesare Flavio Teodosio Augusto III, Imperatore Cesare Eugenio Augusto, Flavio Abundanzio con Imperatore Cesare Flavio Arcadio Augusto III Imperatore Cesare Flavio Onorio Augusto II Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio, Flavio Anicio Probino VDM Grammatici romani VDM Storici romani Portale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Grammatici romani Storici romani Funzionari romani Storici Romani Consoli imperiali romani Consulares Siciliae NicomachiPrefetti del pretorio d'ItaliaVicarii Africae.  The Motto and the Enigma:   Rhetoric and Knowledge in the Sixth Day of the Decameron  Facilis igitur est distinctio ingenui et inliberalis  ioci. Alter est, si tempore fit, ut si remisso  animo, <gravissimo> homine dignus, alter ne  libero quidem, si rerum turpitudo adhibetur aut  verborum obscenitas. (Cicero, De officiis  29.104)  T  he relationship between rhetoric and knowledge (a true knowledge)  is one of the oldest and most interesting problems. The modern ste reotype of rhetoric as “deceiving” speech or “empty” speech reflects  an essential division of rhetoric from knowledge that has had influential  adherents within the rhetorical tradition, most notably Plato.1 The nega tive side of rhetoric appears in a clearer light if we observe how closely it is  linked to philosophy and dialectics, ever since its origins. A philosophical  anecdote attributed to Aristotle’s lost dialogue On poets exemplifies the  negative and destructive side of dialectics.2 The anecdote was also known  1Plato, in his Gorgias, criticized the sophists because he believed that rhetoric was simply  too dangerous, being based on skill and common opinion (doxa). In the Phaedrus, Plato  set out instead to discover episteme, or ‘truth,’ through dialectical method. Since Plato’s  argument has shaped western philosophy, rhetoric has mainly been regarded as an evil  that has no epistemic status (Kennedy 58ff.). Aristotle, however, considers rhetoric as  the counterpart, the countermelody (antístrophos), of dialectic insofar as they both  have as their objects the same topoi, or commonplaces, to find arguments, and defines  rhetoric as the faculty of discovering all the available means of persuasion (Rhetoric  1.1.1354a) (cf. Kennedy 78). In ancient Rome, rhetoric follows the teaching of Isocrates  and is a part of political science; cf. Cicero, De inventione 1; Murphy 8. The Middle Ages  ultimately inherit the study and practice of the discipline while elaborating further de velopments. See: Murphy, part two: “Medieval Rhetorical Genres”; C. Vasoli; Prill.  2Aristotle, Liber de poetis, frag. 8 (= Ps.-Plutarch, Vita Homeri 3–4). The anecdote is  translated into English by Ross (The Works of Aristotle, vol. 12, p. 76–77) and into  Italian by Colli (Sapienza 346–49). For an idea of ancient dialectics and its destructive  potentialities see Colli, La nascita 61.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  17  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  by Giovanni Boccaccio, who reports it in his commentary on Dante’s  Commedia.3 This is the famous enigma about the legendary death of  Homer that was transmitted throughout the Middle Ages without any sig nificant alteration. A Delphic pronouncement once warned the poet that  he would die on the island of Ios and urged him to beware of a riddle  posed by some young fishermen. As predicted, at an advanced age, Homer  finds himself on Ios by the sea, where he asks some fishermen what they  have caught. They pose him a riddle: “We have what we did not find; what  we did find we left behind.” The fishermen have been fishing without suc cess, and meanwhile spend some time searching themselves for lice before  meeting Homer. They leave behind the lice they found, but the undiscov ered vermin are still in their clothes. Unable to solve the riddle posed by  the fishermen, Homer slips in the mud and dies soon afterwards, vexed  that his famous mental powers have failed him.4 The anecdote passed into  3Boccaccio narrates the anecdote, indicating Callimachus as his source: “Della morte sua,  secondo che scrive Calimaco, fu uno strano accidente cagione: per ciò che, essendo egli  in Arcadia ed andando solo su per lo lito del mare, sentì pescatori, li quali sovra uno  scoglio si stavano, forse tendendo o raconciando loro reti; li quali esso domandò se  preso avessero, intendendo seco medesimo de’ pesci. Costoro risposero che quegli, che  presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non aveano, se ne portavano. Era stata  fortuna in mare e però, non avendo i pescatori potuto pescare, come loro usanza è,  s’erano stati al sole e i vestimenti loro aveano cerchi e purgati di que’ vermini che in essi  nascono: e quegli, che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi e quegli, che  presi non aveano, essendosi ne’ vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero, udita la ri sposta de’ pescatori ed essendogli oscura, mentre al doverla intendere andava sospeso,  per caso percosse in una pietra, per la qual cosa cadde e fieramente nel cader percosse e  di quella percossa il terzo dì appresso si morì. Alcuni voglion dire che, non potendo in tender la risposta fattagli da’ pescatori, entrò in tanta maninconia che una febbre il  prese, della quale in pochi dì si morì e poveramente in Arcadia fu sepellito; onde poi,  portando gli Ateniesi le sue ossa in Atene, in quella onorevolmente il sepellirono”  (4.litt.105–07). In a marginal note on f. 227r of the so-called Zibaldone Magliabechiano  (Biblioteca Nazionale di Firenze, BR 50), Boccaccio corrects the false attribution of the  anecdote to Diogenes made by a Venetian Chronographer (cf. Macrì-Leone, esp. 36). In  the manuscript containing Terence’s comedies (Biblioteca Medicea Laurenziana, 38.17,  f. 84v), Boccaccio briefly narrates two anecdotes on Homer, one about his birth and the  other about his death caused by the fishermen’s riddle. Cf. Hauvette; Hecker fig. XI;  Hortis 340; Di Benedetto 21.   4See also Valerius Maximus 9.12 ext. 3 (“Non uulgaris etiam Homeri mortis causa fertur,  qui in Io insula, quia quaestionem a piscatoribus positam soluere non potuisset, dolore  absumptus creditor”) and Ps.-Plutarch, Vita Homeri 14 (1062). The riddle, according to  a gloss on Johannes of Hauvilla’s Architrenius (6.488–95) runs as follows: “Quotquot  non cepimus, habemus et quos cepimus, non habemus.” John of Salisbury talks about  this story of Homer’s death in his Policraticus, 1.141 and 2.111, and gives as its source  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  18  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  medieval tradition, but according to the account of an otherwise unidenti fied Virius Nicomachus Flavianus (De vestigiis et dogmatibus philosopho rum), reported in John of Salisbury’s Policraticus, the name of Homer was  replaced by that of Plato, possibly with the intention of giving the anecdote  a stronger philosophical emphasis.5 John of Salisbury, who is considered  one of the authors of the so-called literary and philosophical renaissance  of the twelfth century, insisted on the necessity of unifying dialectics with  rhetoric within the well-established set of artes liberales and emphasized  the importance of linking them to philosophy as a means for the search for  knowledge.6   Because of its well-structured framework and the rhetorically elabo rated language of the tales and the cornice, Boccaccio’s Decameron has  been studied as a typical expression of the artes rhetoricae of the four teenth century and, more recently, as a literary work worthy of interpreta tion according to the modern methods of rhetorical analysis.7 Yet a  reading of the Decameron and, particularly, of the Sixth Day that  emphasizes the epistemological implications of the tales has never been  attempted. This could both give us the possibility of speculating on the  meaning and literary treatment of rhetoric in a specific medieval fictional  context and allow us to understand the manifold applications of rhetoric in  a constructive perspective — as opposed to the negative side of rhetoric.  The Sixth Day of the Decameron is commonly remembered as the day of  the motto, that is, the witty and rhetorically elaborated answer with which  the characters of the stories escape from potentially dangerous or  embarrassing situations. In reading the various motti of the Sixth Day, we  become fully aware of the active role of the subject who pronounces the  motto. Notice the character of playful judgment of the motto, the  combination of dissimilar elements, the contrast of representation and the  sense of absurd involved. These same characteristics are precisely some of  the features of the Witz studied by Freud from both the rhetorical and  psychoanalytical points of view, and are used as a critical framework to  Flavianus’ De vestigiis philosophorum. According to Webb, John’s original source was  Pseudo-Herodotus’ Vita Homeri, in Homeri Opera, ed. Thomas W. Allen (Oxford: Clar endon, 1912), 5.184. For Homer’s troubles, see the letter of pseudo-Cornelius Nepos to  Sallust appended to Dares Phrygius (in Stohlmann).  5Policraticus 1.141, 1 ff.   6Curtius 62–63. See: Branca 29–70; Chiappelli; Sanguineti; Surdich; De Michelis; Badini Confalonieri;  Barilli; Coulter; Forni, “Retorica”; Forni, Adventures; Klesczewski; Muscetta, “Giovanni  Boccaccio”; Schiaffini, esp. pp. 187–97 and 193–203; Stäuble; Stewart.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  19  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  study analogous jokes in the Novellino.8 Yet, rather than using  psychoanalytical categories, which are certainly applicable to the motto of  the Sixth Day as well as to its oppositional rhetorical elements, I would like  to establish a parallel with a rhetorical feature of ancient Greek  philosophy, the enigma, in order both to describe the formal and narrative  characteristics of the motto and to elicit the philosophical and  epistemological aspects of the Sixth Day.  Looking at the motto’s tales of the Decameron and at the philosophical  enigma tradition, certain symmetries begin to present themselves to our  attention. At the beginning of this essay, I mentioned the famous riddle  that provoked Homer’s death: “We have what we did not find; what we did  find we left behind.” After a day of fishing without success and spending  some time searching themselves for lice, the fishermen leave behind the  lice they had found. Is this just a riddle, an enigma which is meant to put  the reader to a test? Is nothing else involved? According to Eleanor Cook,  the enigma can be considered a form of speech, or a trope.9 The enigma  also takes the literary form of a short tale. According to Giorgio Colli,  moreover, the knowledge that comes from the Delphic oracles or the  prophecies of Dionysus in the form of enigmas is made by the combination  of opposites; namely, the combination of things that conflict with each  other and are not understandable; he clearly shows the connection of the  enigma with Mysteries in pre-Socratic philosophy. The combination of  contradictory elements is indeed the essence of the paradox, which is also  at the origin of the enigma and ancient knowledge.10 Thus, the enigma of  the Ancient World produces knowledge that must be deciphered. Going  back to the Decameron, it is precisely by virtue of a paradox that Madonna  Filippa, although guilty, testifies in her trial and is declared not guilty  (6.7)11; it is a paradox that makes the coals of Friar Cipolla become a  8Evidently, the contrast of representation, the opposition of dissimilar elements, is in  perfect accordance with the rhetoric de oppositis and the comic elements of the  Decameron (cf. Paolella; Freud). In his introduction to the Italian translation of Freud’s  Der Witz (Il motto di spirito, 19–20), Francesco Orlando emphasizes the rhetorical as pects of Freud’s interpretation of jokes and points out the implications of his thought  for a new general rhetoric of the discourse influenced by the unconscious.  9Cook, “The Figure of Enigma”; Cook, Enigmas 27–63.   10 Colli, Nascita 56–58.  11 “La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: ‘Messere, egli è vero  che Rinaldo è mio marito e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazza rino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte  stata, né questo negherei mai;’ […] ‘Adunque’ seguì prestamente la donna ‘domando io  voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto,  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  20  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  source of inspiration for the final motto (6.10); it is by virtue of a paradox  that Currado’s clapping should make the crane’s leg appear in the tale of  Chichibio (6.4).12   But paradox is just an aspect of the same rhetorical feature involved in  the motto. Alan Freedman has found an opposition/polarity played out in  the theme of eloquence between 6.1 and 6.10, and has brilliantly found the  source of the first tale of the Sixth Day in an enigma of the medieval tradi tion.13 The famous tale of Madonna Oretta (6.1) is not only a mise en  abyme of the composition of the entire collection, or a reflection on the art  of narrating, it is also the literary representation of an enigma. The motifs  of this enigma have been found in works of the oriental tradition such as  the Book of Delight by Yosef ibn Zabara,14 or in Latin and Occitan texts  such as the Lai du Trot and the De amore by Andreas Capellanus in which  the same subject is combined with the myth of the infernal hunt.15 In the  tale of Enan in the Book of Delight, the giant traveling with Zabara pro nounces a sort of challenge: “I will bring you or you will bring me.” Zabara  is then puzzled, because they are both on horseback. So Enan narrates a  story in order to explain the mysterious sentence. The solution to his  mysterious saying is finally revealed: “this means […] that […] a man nar io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? non è egli  molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere o  guastare’?” (6.7.13 and 17). For a discussion of the tale and its relation to the argumen tative structure of the discourse, see Giannetto and Morosini. According to Pennington  (905), Madonna Filippa’s motto echoes Matthew 7:6 and plays on the meaning of the  word “sanctum” in order to allude to the female body.  12 Cf. Cipolla’s words: “Vera cosa è che io porto la penna dell’agnol Gabriello, acciò che  non si guasti, in una cassetta e i carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le  quali son sì simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra, e al  presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove  era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato  sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cas setta de’ carboni ponesse nelle mie mani ricordandom’io pur testé che la festa di san Lo renzo sia di qui a due dì. […] voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in  segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si  senta.” (6.10.49–52); and Chichibio’s motto: “Messer sì, ma voi non gridaste ‘ho, ho!’ a  quella d’iersera; ché se così gridato aveste ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor  mandata, come hanno fatto queste” (6.4.18).  13 See Freedman.   14 See: Freedman; Picone, esp. pp. 103–04.  15 Cf. Neilson.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  21  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  rates a tale to another while traveling.”16 In the tale of Madonna Oretta  (6.1), a knight, unable to narrate a story, is silenced by the lady he accom panies in his journey with an ironic and smart justification: “Messer,  questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi  piaccia di pormi a piè” (6.1.11). The art of narrating and the literary form is  so important that the knight’s incompetence provokes a painful reaction in  the lady while listening to him: “Di che a madonna Oretta, udendolo,  spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma  fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non poté, cono scendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio […]” (6.1.10). Boccaccio  collected in a single sentence (“Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi  porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo, con una  delle belle novelle del mondo” [6.1.7]) the two enigmatic elements of his  source, namely the challenge of narrating a story (“io porterò te o tu porte rai me”) and the solution (“questo vuol dire […] che […] viaggiando un  viandante racconta una novella o simile all’altro”), and then forged a mys terious sentence (“Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per  che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè” [6.1.11]),17 using the same  mechanism of condensation and substitution analyzed by Freud for the  joke.18   If Freedman recognized the source of the first tale, I would like to use  the characteristics of the enigma to explain the formal features and epis temological functions of the motto in the Sixth Day of the Decameron. Ac cording to Carlo Muscetta, the idea of the Sixth Day probably came to Boc caccio’s mind from Macrobius’ Saturnalia, which contained a book (the  second) entirely devoted to jokes.19 Luisa Cuomo thinks it came from a  group of tales in the Novellino.20 But its rhetorical features and the veiled  significance hidden in the motto are likely to be taken from a more ancient  16 The Latin version of the same enigma from the Compilatio singulorum exemplorum,  which reproduces the same narrative materials and could better suit Madonna Oretta’s  motto, is also worth mentioning. The knight says to the bride: “Abreviate nobis viam.”  Then he says: “Portate me aliquantulum de via ista et ego tantundem portabo vos.”  Later, she asked him: “Nonne dixistis michi quod abreviarem vobis viam illam et quod  portarem vos et vos me portaretis?” Then the bride explains the enigma: “Quando duo  milites equitant et unus narrat aliquod pulchrum exemplum, dicitur socium portare  eum et viam abreviare.” The Latin tale’s text in Hilka.  17 Freedman 234.   18 Freud 44–58.  19 Muscetta, Ritratti 245.  20 See Cuomo.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  22  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  atmosphere whose origins are probably to be identified in a primordial  epoch. The motto could be considered a particular form of the ancient  enigma — and not a variant of the riddle21 — that the Middle Ages pre served; thus, it could also be considered the unifying element of the Sixth  Day insofar as it involves knowledge.  Before analyzing the Sixth Day, however, it is worth considering how  Boccaccio could have known of the tradition of the enigma, both in literary  and rhetorical texts. Besides the anecdote on Homer’s death, Boccaccio  certainly knew some of the texts of medieval literary theory which mention  and describe the rhetorical features of the enigma. Specifically, Matthew of  Vendôme’s Ars versificatoria, the Rhetorica ad Herennium, Priscian’s  and Donatus’ grammars, Quintilian’s Institutio oratoria, and Geoffrey of  Vinsauf’s Poetria nova appear among the books possessed by Boccaccio.22  He may have also reflected on the nature of the enigma as it is described  by Cicero in his De divinatione (2.131–33), by the Historia Apollonii regis  Tyri, which reports ten of Symphosius’ enigmas (chaps. 42 and 43), by the  Gesta romanorum, a thirteenth-century collection of moral tales inspired  by Roman history and legends that contains another three of Symphosius’  riddles, as well as by the authors of medieval artes dictaminis. In fact, Ci cero, following Aristotle, connects the enigma with the metaphor, but  warns about its misuse (De oratore 3.42.167). Moreover, in the De divina tione (2.131–33), he talks about the obscurity of dreams and their utility in  divination, again mentioning the enigma as an example of incomprehensi ble language. Donatus mentions it among the seven types of allegory; ac cording to him, an enigma occurs when an obscure thought is concealed  21 Enigmatists maintain that there is a difference between enigma and riddle. They define  the ‘riddle’ as a short, humoristic and double-sense text of not more than 4–6 lines.  They define ‘enigma,’ instead, as a short poem (longer than the riddle, though) whose  context has a more important, even tragic, take. See Bartezzaghi, 50 and 294. In an other work, Bartezzaghi analyzes the intricacies of language, in the belief that language,  like enigmas or enigmatic games, is a tool for saying, but also for not saying; to explain,  but also to deceive. Most of our modern puzzles have a noble origin that stems from the  time when the wisdom of myths reigned, and although today they are largely devoid of  their arcane mysteries, they still contain an echo of those antique devices. See Bar tezzaghi, Incontri.  22 Branca discusses at length Boccaccio’s rhetorical readings (117ff.). For the Rhetorica ad  Herennium, see Mazza, esp. 22, 32, 33, 35 and 66. For Priscian and Donatus, see Mazza  31 and 36. For Quintilian’s Institutio oratoria, see Mazza 50. For Geoffrey of Vinsauf’s  Poetria nova, see Mazza 16 and 61.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  23  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  within an expression because of certain resemblances.23 Matthew of Ven dôme mentions the figure of the enigma in his Ars versificatoria (3.18–44)  as one of the thirteen rhetorical tropes.24 According to Gervasius of  Melkley’s Ars poetica, the enigma is a kind of transsumptio orationis, a  trope that involves the transformation of a phrase from its conventional  meaning; in particular, the enigma is defined as “any obscure statement  which tries the cleverness of the one guessing.”25   Boccaccio’s prose often features the characteristics of the language typi cal of the enigmatists. Boccaccio’s ability to forge acrostics is shown in his  Amorosa visione (see the indication of the proemial sonnet). Boccaccio  could have been in contact with the riddle tradition in many ways, through  the classical and medieval tradition.26 However, besides the cryptic aspect  of the Sixth Day’s motti, each of which has its own transposed meaning, a  clear and conclusive instance of the discourse comparable to the riddle is  evident in Friar Cipolla’s speech that exemplary concludes the Day. His  imaginative vein enigmatizes superfluous or even elementary information:  “arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo qua tro denari e il caldo v’è per niente” (6.10.43).27 What do the “sante terre”  stand for? Even the canzoni at the end of each Day of the Decameron can  be seen as poetic instances of the language of riddles. A clear example  could be found at the very beginning of the first ballad, in which the reader  is undoubtedly challenged to understand the real identity of the Io and the  nature of quel ben:  Io son sì vaga della mia bellezza,   che d’altro amor giammai  non curerò, né credo aver vaghezza.  Io veggio in quella, ogn’ora ch’io mi specchio,   quel ben che fa contento lo ’ntelletto,  né accidente nuovo o pensier vecchio   mi può privar di si caro diletto.  23 See Purcell 27 and 156.  24 See Purcell 65.  25 Gervasius of Melkley, Ars poetica, quoted by Purcell (110–11).  26 Vergil’s Third Eclogue (vv. 104–07) contains a famous pair of riddles, at least one of  which has never been satisfactorily solved (cf. La Penna I:152 ff. and 168 ff). Ovid has a  few riddles in Fasti 3.339–42, and 4.663–72. There is a brief discussion of the riddle in  Aulus Gellius’ Noctes atticae 12.6.1–3 and still other enigmas can be found in Petronius’  Cena Trimalchionis (56.7–9, and 58.7ff.). For an overview of the riddle tradition in  classical and medieval Latin literature, see Polara.  27 Rossi 228–29, emphasizes the enigmatic usage of Frate Cipolla’s language. Cf. also Pa lumbo, esp. 15.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  24  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  Besides the correspondence of the mirror theme, the analogies with the po etic style of Symphosius’ enigmas are astounding, and not just for the typi cal first-person mode of speaking:  LXIX. SPECULUM  Nulla mihi certa est, nulla est peregrina figura.   Fulgor inest intus radianti luci coruscus,  qui nihil ostendit, nisi si quid viderit ante.  No fixed form is mine, yet none is stranger to me. My  brightness lies within sparkling with radiant light, which  shows nothing except what it has seen before.28  We do not know if Boccaccio knew Symphosius’ text, yet the similarities  with its enigmatic language, its ability to convey both an apparent and a  real meaning, as well as the wide diffusion of Symphosius’ riddles in the  European literary tradition could advocate, if not for a direct and specific  knowledge, at least for a certain acquaintance.29 Moreover, the literary  framework that introduces the enigmas in Symphosius’ collection not only  28 Trans. by Ohl.   29 The ability to convey both apparent and real meanings of Symphosius’ riddles is  emphasized by Bergamin, in her edition of Symphosius, Aenigmata, xxx–xxxi. Sympho sius was the founder of a genre destined to have a long life and extensive circulation in  Europe. He is a late antique writer about whom nothing is known, not even the century  in which he wrote: dates as early as the second century AD and as late as the 6th have  been proposed. Since the author’s identity is uncertain, Symphosius’ enigmas have been  also attributed to Lactantius (Boccaccio knew Lactantius’ Divinarum Institutionum  Libri VII; see Mazza 32). Symphosius’ riddles survive in the collection known as the  Latin Anthology. Each of the hundred riddles is a triplet of dactylic hexameters. Sym phosius claims he made them up from the riddles he heard at a drinking party during  the Saturnalia. He is also the founder of a genre destined to have great success in the  seventh and eighth century England. Aldhelm’s Aenigmata (one hundred verse riddles  in Latin) show the influence of Symphosius. His work reflects and foreshadows the  popularity of the riddle in Old English. Aldhelm’s style shows the ‘Hisperic’ tendency  towards rare — even bizarre — words. Hwaetberht was the author of a collection of sixty  riddles, known as the Enigmata Eusebii, written under the pen-name of Eusebius.  These were written as a supplement to forty riddles written earlier by Tatwine, arch bishop of Canterbury. According to Bede’s commentary, Tatwine was a man notable for  his prudence, devotion and learning, qualities that were displayed in the two surviving  manuscripts of his riddles and four of his Grammar. His riddles deal with such diverse  topics as philosophy and charity, the five senses and the alphabet, and a book and a pen.  The riddles are formed in acrostics. The text of Aldhelm comes from Ehwald’s ed. Ald helm’s enigmas have also recently been edited along with the other Old English enigmas  in Variae collectiones aenigmatum Merovingicae aetatis, CCSL 133 and 133A. See also  Polara.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  25  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  refers to the Saturnalia tradition that Boccaccio certainly knew through  other texts such as Macrobius’ Saturnalia (the second book actually begins  with a collection of bons mots) and Martial’s Epigrams (which, inci dentally, were also characterized by their biting and often scathing sense of  wit30); both works, most strikingly, recall similar features in the  Decameron’s cornice. Like the storytellers of the Decameron, the imagined  characters of Symphosius pass their time telling enigmas each one in turn  after the banquet, and a witty spirit of one-upmanship is involved in trying  to solve them:  [Haec quoque Symphosius de carmine lusit inepto. Sic tu, Sexte, do ces; sic te deliro magistro.] Annua Saturni dum tempora festa redirent  perpetuo semper nobis sollemnia ludo, post epulas laetas, post dulcia  pocula mensae, deliras inter vetulas puerosque loquaces, cum strepe ret late madidae facundia linguae, tum verbosa cohors studio sermo nis inepti nescio quas passim magno de nomine nugas est mediata  diu; sed frivola multa locuta est. Nec mediocre fuit; magni certaminis  instar, ponere diverse vel solvere quaeque vicissim. Ast ego, ne solus  foede tacuisse viderer, qui nihil adtuleram mecum quod dicere pos sem, hos versus feci subito de carmine vocis. Insanos inter sanum non  esse necesse est. Da veniam, lector, quod non sapit ebria Musa.  [These bits, too, of trifling verse Symphosius has done in sport. So you,  Sextus, teach; so with you as an exemplar I proceed in my folly.] While  Saturn’s festive season was making its yearly return, always for me a  holiday on unbroken fun, after joyous banquets and the dinner’s dulcet  draughts, when amid doting old women and prattling children there  clamored far and wide the eloquence of intoxicated tongues, then the  wordy gathering in their fondness for verbal quip mulled over long at  random some trifles with grand titles; but foolish were the many jests  they made. No small matter was it, but like a great contest, to set or solve  in various ways each one in turn. But I, who had brought along with me  nothing that I could proffer, lest I seem to be the only one to have kept  silence in disgrace, made these verses from their off-hand conundrums.  One must not be wise amid the otherwise. Pardon, reader, the indiscre tions of a tipsy Muse.  The banquet is the privileged context in which the challenge, the philo sophical contest and the enigma join together. Furthermore, the Middle  Ages developed allegorical aspects of the language that were already oper 30 Martial, Epigrams, books 13 and 14. See Citroni, “Marziale” and Poesia e lettori 440.  On Boccaccio’s discovery of Martial, see Billanovich 263–64. Boccaccio held and  glossed a manuscript of Martial’s Epigrams: see Mazza 49 and Petoletti.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  26  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  ating in Symphosius’ enigmas.31 The concept of art as integumentum veri,  fabulosa narratio veritatis, was certainly familiar to Boccaccio.32 If Cicero  developed the concept of allegory as the veiled language connected to the  enigma,33 and later on, as we have seen before, the enigma was classified  as one of the species of allegory, the patristic tradition played a great part  in developing an attitude toward the Bible not only as a sacred text, but  also as an obscure one, whose understanding requires particular  knowledge and wisdom.34 Augustine, especially, maintains that one cannot  understand the famous Epistle to the Corinthians (I Cor. 13.12: videmus  nunc per speculum in aenigmate) without also knowing the rhetorical  doctrine of the enigma.35 Thus, if the enigma can become the privileged  rhetorical figure through which to read the Bible, the idea of conveying  hidden meanings through the power of language could similarly have in fluenced the definition of the motto in the Decameron.  The motto is not simply a type of metaphor, as both Freedman and Bo setti assume,36 for the metaphor is a rhetorical figure based on a relation  of similarity. The metaphor is a rhetorical trope that describes something  as being or equal to something else in some way, whereas the motto, like  the enigma, is a combination of different and irreconcilable elements and,  most important, cannot exist outside a well-defined context that provides  an explanation.37 Reading Oretta’s motto (“Messer, questo vostro cavallo  ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè”  [6.1.11]), one wonders how trotting can be related to narration. We defi nitely need an explanation that goes beyond common knowledge. Here, it  is useful to recall Aristotle’s definition of the contradictory nature of the  enigma and the impossibility of connecting it “directly” to the metaphor:  “For the essence of a riddle [i.e. enigma] is to express true facts under im 31 Like the Decameron’s one hundred tales, Symphosius’ Aenigmata include one hundred  riddles which, according to medieval numerological interpretation, could symbolize  eternity or perfection (Bergamin, Aenigmata xxxvii). Moreover, Relihan suggests add ing to the so-called Symposion-Literatur (Martin 1931) even the Cena Cypriani, a me dieval banquet full of allusions to the Bible.  32 See his poetic theory in Genealogie 13–14 and the Trattatello in laude di Dante.  33 De oratore 3.42.166–67, Letter to Atticus 2.20.3, Orator 27–94, mentioned by Cook,  Enigmas 34–35. Even Quintilian, Inst. 8.6.52, links the enigma to allegory.  34 Just to mention a few instances, cf. Augustine, De trinitate 15.9ff., Hugh of St. Victor,  Didascalicon 6.3ff., Aquinas, Summa theologiae 1.q.1a.9, and Quodlibetales (7.a.15 16), Dante, Convivio 2.1. See also Branca 344n.  35 Cf. Bergamin, Aenigmata, xxxi; Cook, Enigmas 352 and 362.  36 Bosetti esp. 148. Freedman 226–27, 234.  37 See also Cook, “The Figure of Enigma” passim.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  27  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  possible combinations. Now this cannot be done by any arrangement of  ordinary words, but by the use of metaphor it can. Such is the riddle: ‘A  man I saw who on another man had glued the bronze by aid of fire,’ and  others of the same kind” (Poetics, 1458a.26–30).38 The elements involved  in the enigma can exist in a relation of similarity, but since this similarity  combines dissimilar elements and is not understood, it has to be ex plained; moreover, the supposed metaphor may well be confused with  metonymy, as there can be a transposition between an object and an idea,  as in the first tale of the Sixth Day where the object “horse” is primarily  aligned with the concept of “to ride,” and only secondarily with the concept  of “to recount.”   Rather than making a list of all the witticisms of the Sixth Day — which  are, incidentally, notorious — let us look at the contextual features that  they share with the enigma. First of all, the tales of the motto typically in volve a challenge between two wise men and display the same agonistic  features of the ancient philosophical contests.39 In this respect, it is  interesting to consider an anecdote about Calchas reported by Hesiod: the  soothsayer Calchas arrived in Claro where he found the wise Mopsus. After  having challenged Mopsus with an enigma, Calchas died for the shame of  his defeat:  “I am filled with wonder at the quantity of figs this wild fig-tree bears  though it is so small. Can you tell their number?” And Mopsus answered:  “Ten thousand is their number, and their measure is a bushel: one fig is  left over, which you would not be able to put into the measure.” So said  he; and they found the reckoning of the measure true. Then did the end  of death shroud Calchas.40  Likewise in the Decameron, Guido Cavalcanti’s tale (6.9) can be consid ered the best example of agonism in a philosophical contest.41 Sir Betto  Brunelleschi and his fellows challenge Guido Cavalcanti: (“Andiamo a dar gli briga;” and “quando tu avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?”  38 The solution is ‘the blood-sucker.’ Cf. Colli, Sapienza, fr. 7, A, 26 (357).  39 See Levine. Richard Martin (108–28) has recently defined as “agonistic” the nature of  wisdom which is characteristic of the Seven Sages of the archaic period.  40 The Melampodia 1.267. Cf. also Colli, Sapienza, 7, A, 1 (341).  41 As Burkhardt emphasized, the culture of Renaissance Florence was an agonistic one.  Similarly, by analyzing practical jokes in their historical and cultural context in early  modern Italy, Peter Burke (66) defines the beffa as an expression of a “culture of trick ery,” as an appropriate form of joking in a competitive society such as the Florentine.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  28  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  (6.9.11).42 The wise Guido is also defined as a great philosopher: “egli fu un  de’ miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale” (6.9.8). In  the sixth tale, Michele Scalza provokes a discussion among his fellows and  accepts their challenge, whose prize is a dinner, of showing how the Ba ronci are the most gentle and noblest family of Florence: “Ora avvenne un  giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si cominciò tra loro una  quistion così fatta: quali fossero li più gentili uomini di Firenze e i più an tichi” (6.6.5). Sir Forese da Rabatta, described as “di tanto sentimento  nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu re putato” (6.5.4), disputes with Giotto — himself described in equally lofty  terms as “una delle luci della fiorentina gloria” (6.5.6) — and “bites” him  with a motto in which he observes that Giotto’s haggard appearance was  not suited to his greatness as an artist. Chichibio, who got in trouble for  stealing a thigh from the crane he later cooked for his master, accepts the  paradoxical challenge of demonstrating to Currado Gianfigliazzi that all  cranes have one leg: “‘Come diavol non hanno che una coscia e una  gamba? Non vid’io mai più gru che questa?’ Chichibio seguitò: ‘Egli è,  messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi’”  (6.4.11–12). The baker Cisti undertakes a courtesy contest with Messer  Geri Spina displaying his magnificent wine and then, with a quick re sponse, succeeding to gain the respect of the Florentine noble (“Messer  Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendé che a ciò cre dette si convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico”  [6.2.30]). Monna Nonna de’ Pulci with a quick response gains the victory  over the bishop of Florence who had rudely provoked her (“Nonna, che ti  par di costui? Crederrestil vincere?” […] “Messere, e’ forse non vincerebbe  me; ma vorrei buona moneta” [6.3.9–10]).  By Boccaccio’s time, most of the ancient significance of the enigma  seems to have still been preserved, especially its mythical atmosphere and  the direct connection with philosophy. The link between the motto and the  enigma is solidified in the hints Boccaccio makes about his protagonists’  wisdom — that of Guido Cavalcanti in particular among the nobles, but  also that of Cisti and Forese among the humble. The connection with the  sphere of philosophy is confirmed by the relation of the Decameron with a  certain novelistic and exemplary tradition like that of the Latin Compilatio  singulorum exemplorum, a vast repertoire of materials for sermons that  42 The epistemological implications and the power of eloquence of this novella are well  exposed by Durling. He particularly calls attention to the meaning of “dare briga” whose  original sense was closer to quarrel or fight (273–304).  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  29  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  could have been one of the sources of Boccaccio’s 6.1, or the Judeo-Span ish tale of Zabara.43 The motto tales in the Decameron are not simply a  contest about knowledge as in the ancient enigma tradition; rather, they  here take on the literary form of a witty challenge to be performed in order  to obtain practical knowledge for ordinary life. On the level of literary  form, however, the link between the agonistic attitudes of the pre-Socratic  enigma and the witty contest of Florentine popular life still remained  strong, while the connection between agonism and dialectics ultimately  ends up in the realm of morality. It is worth recalling the words of Giorgio  Colli on the development of wisdom: “Dialectic is born on the ground of  agonism. When the religious background has faded and the cognitive im pulse no longer needs to be stimulated by a challenge of the god [Apollo],  when a contest for knowledge among men no longer requires that they be  diviners, here appears an agonism that is only human.”44 The main fea ture, or function, of Boccaccio’s characters in the Sixth Day — be they male  or female — is that of manifesting oneself through eloquence, and there fore through intelligence. The challenge of wise men ending with the  motto requires a certain intellectual equality of the two contenders, and it  therefore differs from the characteristics of the beffa, in which the mocked  person (the beffato) is humiliated for his/her stupidity.45   It is worth noting a similar agonistic attitude in tales other than those  of the Sixth Day. In Decameron 1.3, Saladin summons Melchisedech, wel comes him, and addresses him with these words: “Valente uomo, io ho da  più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto  avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi la  verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana” (1.3.8). Saladin’s words  hide a sort of riddle, or even a challenge that bears traces of the archaic  function of the riddle as a ritualized contest, whereby knowledge of the  origin of things and of the order of the world could be attained.46 Equally  43 Freedman 231–32.  44 “La dialettica nasce sul terreno dell’agonismo. Quando lo sfondo religioso si è allonta nato e l’impulso conoscitivo non ha più bisogno di essere stimolato da una sfida del dio,  quando una gara per la conoscenza fra uomini non richiede più che essi siano divina tori, ecco apparire un agonismo soltanto umano” (Colli, La nascita, 75).  45 Cf. Fontes-Baratto 35 and Van der Voort 212.  46 Cf. Huizinga 108–09, 113: “The riddle is a sacred thing full of secret power, hence a  dangerous thing. In its mythological or ritual context it is nearly always what German  philologists know as the Halsrätsel or “capital riddle,” which you either solve or forfeit  your head. The player’s life is at stake. A corollary of this is that it is accounted the high est wisdom to put a riddle nobody can answer. […] Gradual transitions lead from the  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  30  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  traditional is the suddenness with which the solution comes to Melchise dech’s mind: “aguzzato lo ’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che  dir dovesse” (1.3.9).47 The solution to Saladin’s riddle is notorious, and  consists of telling the story of the three rings.  Danger and violence are also involved in this fight for knowledge. If the  ancient wise man of the pre-Socratic tradition risks dying if he is unable to  solve the enigma, likewise, the Sixth Day of the Decameron represents  dangerous situations that befall the protagonists of the tales. Chichibio, for  instance, runs a substantial risk in having taken a leg from his lord’s crane  (Currado tells him: “e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti  giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare  in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del  nome mio” [6.4.13]). With his own words, Chichibio puts himself into a  dangerously escalating situation, one from which he will eventually escape  only by uttering a witty remark.48 Madonna Filippa risks dying on the gal lows unless she manages to escape with a quick and clever remark that  arouses the mayor’s and the people’s generosity. Friar Cipolla could be  lynched by the mob of Certaldo if the people discovered the falsity of his  relic. The Florentine brigade that puts Guido to a test approaches him with  a playful assault: “e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole gli  furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra” (6.9.11). In addition to  resulting from a dangerous situation, violence is contained in the nature of  the motto itself and in the way it operates against the person who is tar geted. The action of the motto is always compared to a bite: “i voglio ricor dare essere la natura de’ motti cotale, che essi come la pecora morde  deono così mordere l’uditore, e non come ’l cane; per ciò che, se come il  cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania” (6.3.3, emphasis  mine). This violent reaction can even be perceived indirectly when it pro vokes a sort of psychosomatic reaction in a character, as with Oretta’s  reaction to the bad tale narrated by the knight: “Di che a madonna Oretta,  udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come  se inferma fosse stata per terminare” (6.1.10).  sacred riddle-contest concerning the origin of things to the catch-question contest, with  honor, possessions, or dear life at stake, and finally to the philosophical and theological  disputation”; see also Masciandaro 26–27.  47 Cf. Huizinga 110: “The answer to an enigmatic question is not found by reflection or  logical reasoning. It comes quite literally as a sudden solution — a loosening of the tie  by which the questioner holds you bound.”  48 Getto (149) compares the action of Chichibio’s tale with a gamble in which the charac ter eventually wins, albeit in the last game.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  31  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  From his attentive reading of the introduction to the Sixth Day, Cok  Van der Voort infers a thematic bipartition that divides the Day’s narrative  model into two variants: the “provocation” and the “threat” (cf. “voglio che  domane, con l’aiuto di Dio, infra questi termini si ragioni, cioè di chi, con  alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con pronta risposta o avve dimento fuggì perdita, pericolo o scorno” [5.concl.3]).49 And in fact, the  use of the motto appears in two variants, either a provocation or a threat.  But a perfect parodic prologue to the Sixth Day (as well as to the first  enigma of the Day) is the quarrel between Tindaro and Licisca which  summarizes all the themes involved in the motto, such as knowledge and  the violence of sex. At the rising of the sun, just when the lieta brigata is  discussing the beauty of the narrated tales and is preparing to reconvene,  we suddenly hear “un gran romore”: here are Tindaro and Licisca quarrel ling over somewhat spicy matters. When asked about the reasons for the  dispute, Licisca answers: “Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie  di Sicofante; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol  dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer  Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e  io dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacere di  quei d’entro” (6.intr.8, emphasis mine). A supposed sexual defloration ob viously hides behind the metaphorical and obscene language, but the way  in which places and characters are expressed in this context takes the for mal appearance of the impossible and paradoxical discourse that requires  a special context-bound acumen to be understood. The enigma sets itself  as a challenge, albeit low and vulgar, between the two contenders, and re sults in the merry brigade’s comprehension of the motto (“Mentre la Lici sca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti si sarebbero loro  potuti trarre” [6.intro.11]) and with Dioneo’s conferral of the victory to Li cisca (“Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro; e dico che la Lici sca ha ragione, e credo che così sia com’ella dice; e Tindaro è una bestia”  [6.intro.13]), who in turn puts the shame of defeat on Tindaro (“Ben lo di ceva io; vatti con Dio; credi tu saper più di me tu, che non hai ancora ra sciutti gli occhi?” [6.intro.14, emphasis mine]). This brief introductory  narration, therefore, is not an alien or out-of-place element of the Day, as  some critics maintain, but is a perfect parodic mise en abîme of what the  motto will be in its literary form in the narration of the tales. Not surpris ingly, the significance the motto attaches to knowledge is already high 49 Van der Voort 213.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  32  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  lighted by the words pronounced by Licisca that ambiguously refer to  “knowledge” and “sight” (conoscere, vedere).  Giorgio Colli reviews the terms that identify the enigma: the Greek  sources sometimes use the term próblema, which means “obstacle,” or  something that is projected forward.50 As a matter of fact, the enigma is an  obstacle, a test Dionysus sets up and the philosopher has to overcome. In deed, a test, or obstacle, is the subject of the Sixth Day, since all the char acters have to overcome a difficult situation using their wit. The charac teristic of the enigma as a hostile intrusion of the divine in the human  sphere — in other terms, the god’s challenge — is possibly reflected in the  role played by the Goddess Fortune in creating obstacles in the  Decameron. It is Fortune that plays a fundamental role in this Day, since it  is the force that sets a series of obstacles. It gives, for instance, an ugly ap pearance to exceptional figures such as Giotto, or attributes a low social  rank to gracious souls such as Cisti (“Belle donne, io non so da me mede sima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una  nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato  d’anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti an cora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo for nito, la fortuna fece fornaio” [6.2.3]). Moreover, in the ancient and medie val Aristotelian traditions, the term próblema indicates the formulation of  a query, precisely the dialectic query that starts a discussion.51 Likewise, in  the tales of the motto, the first question a character asks to another may be  the opening question of a dialectic contest, a provocation or a challenge.  Luisa Cuomo has emphasized the elements of a typical dialectic contro versy in the tale about the nobility of the Baronci family (6.6); here, the  two opposite assertions the contenders bring forward have the same prob ability of being true, but a syllogism is finally needed to demonstrate the  thesis: namely, that the Baronci, insofar as they are the most ancient  among all the families, are also the noblest.52 But the entire discussion is  also charged with a parodic connotation consisting of the “gap between the  seriousness of the correct terminology of the scholastic deductive pro cesses and the comic of both the parody of the basic arguments and the  expressive language loaded with emotional connotations,” which leads to  50 Colli, La nascita 78.  51 The same term próblema is also used in the Vulgate and Septuagint versions of the Bi ble (Cook, “The Figure of Enigma” 366).  52 Cuomo 252 ff.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  33  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  the direct consequence that the friends of Scalza will laugh at the motto,  thus recognizing its validity and parodic meaning.53  The formulation of the enigma is as contradictory as the formulation of  the dialectic question, which presents two alternative terms. The  knowledge produced by the understanding of the motto is as ambiguous,  indirect and oblique as the knowledge provided by Dionysus through his  enigmas or the nature of Apollo mediated by his singer Orpheus among  men.54 The message transmitted by the motto is not immediately under standable — who among us did not stop and reread the motto pronounced  by Forese and addressed to Giotto? “Giotto, a che ora venendo di qua allo  ’ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu che egli  credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu se’?” (6.5.14).  The motto is a device that hides knowledge by virtue of its rhetorical form  and needs to be explained by someone else in the narrative. The wisdom  that the wise Cavalcanti communicates with his motto needs to be ex plained by Betto to his companions.  Traditionally, in order to be solved, the enigma needs a narrative to ac company it, or at least an explanation whose didactic function has typically  been present since antiquity. (From this point of view, although we may  laugh a lot, it seems that the Sixth is the most serious Day of the  Decameron.) The knowledge of the mocker is not the same as that of the  mocked person. The latter has to undergo a gnoseological transformation  in order to understand the wit and to reach the same level of knowledge.  (Sometimes, though, the mocked fails to increase his knowledge if he does  not understand the motto; then, an explanation is provided by adding a  parodic value to the narrative.) Furthermore, it is possible to interpret the  function of the motto as a peculiar literary form of recognition that leads  the characters of the tales to a shift from ignorance to knowledge. There fore, Boccaccio seems to portray an ideal situation in which the character,  as a man, gains new knowledge through a transformation (which some times ends with a laugh). In particular, let us focus on the figure of the  defeated, and see how both the comprehension of the motto and the decla ration of the defeat work in each tale of the Sixth Day (all emphasis  added):  The anonymous knight. “Il cavaliere, il qual per avventura era molto mi gliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in  53 Cuomo 255 (translation mine).  54 Colli, Sapienza 37.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  34  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata avea e  mai seguita, senza finita lasciò stare” (6.1.12);  Geri Spina. “Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli oc chi gli s’apersero dello ’ntelletto” (6.2.26);  Antonio d’Orso and Dego della Ratta. “La qual parola udita il maliscalco e  ’l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l’uno siccome facitore della di sonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l’altro sì come ricevi tore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergo gnosi e taciti se n’andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa”  (6.3.11);  Forese da Rabatta. “Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe,  e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute”  (6.5.16);  The citizens of Prato. “Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e  sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piace vol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti grida rono la donna aver ragione e dir bene” (6.7.18);  Betto Brunelleschi and his companions. “Allora ciascuno intese quello  che Guido aveva voluto dire e vergognossi nè mai più gli diedero briga, e  tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere” (6.9.15);  Giovanni del Bragoniera and Biagio Pizzini. “Li quali stati alla sua pre dica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si  fosse e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti smascellare. E  poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del  mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la  sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non meno che quel giorno  gli fosser valuti i carboni” (6.10.55).  The transformation can also be simply ideal, as when an obtuse person  is not able to understand the motto:   Cesca. “Ma ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar  Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero  motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre. E così  nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta” (6.8.10).  Otherwise, the transformation can be parodic, as when the defeated un derstands the burlesque sense of the motto and laughs at it as in the tale of  Chichibio or Scalza:  Currado Gianfigliazzi. “Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare”  (6.4.19).  Michele Scalza’s companions. “Della qual cosa, e Piero che era il giudice,  e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il  piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e af http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  35  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  fermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e  che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi che fos sero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma” (6.6.16).  Even at the level of discourse, a metamorphosis takes place. The tale of  Friar Cipolla can be considered as a key example. Cipolla is aware of a re ality which is not the same as that of the certaldesi: his speech is so clever,  his rhetoric so refined, that he can make everybody believe that he has  taken a trip to the Holy Land, while his fantastic account is merely about a  tour in the streets of Florence. The speech that he pronounces is made  with signifiers with a double signified, words that are able to change real ity55 and create a metamorphic discourse that is not only able to increase  the level of understanding but also to transform reality itself within the  tale. Friar Cipolla eventually manages to escape from the risk of a possible  lynching and retains his credibility in the eyes of the certaldesi by means  of the fantastic reality he succeeded in creating with his oratory.56  As argued above, the enigma is also a short tale, as the Greek etymol ogy indicates (from “ainos” = tale/story),57 and was considered as such in  the pre-Socratic era.58 The meaning of the motto is not always recogniza ble and valid in itself; rather, it depends on the function it performs within  a defined narrative situation.59 For instance, Nonna de’ Pulci’s motto is not  witty in itself but becomes witty in a particular narrative context; specifi cally, the urban context of fourteenth-century Florence. In addition, in or der to clarify better the contextual nature of the motto, we find that the  link between enigma and motto becomes apparent, both in antiquity and  in the Florence of the Decameron, within a historical context that is not  pure theatrical backdrop.60 Characters such as Giotto and Guido Caval canti are historical Florentine figures but are represented as legendary by  virtue of their instinctive cleverness. The anecdotes of the Sixth Day take  55 Cf. Bosetti 157.  56 The issue of a type of narration which leads to the transformation/metamorphosis of a  character appears from the very beginning of Boccaccio’s literary production: for exam ple, see the transformation of Ameto and his cathartic bath in the Commedia delle ninfe  fiorentine, which represents the evolution of humanity from a primordial condition  characterized by the power of senses, to a moral and intellectual consciousness medi ated by virtues and love. The topos of the brigata and the transformation of the charac ter is also present in the Filocolo.  57 Cook, “The Figure of Enigma” 355.  58 Colli, Sapienza 36.  59 Van der Voort 211.  60 Cf. De’ Negri.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  36  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  the form of historical memorabilia. The city of Florence is represented in  the background as the proper context of a primordial society whose char acters are depicted with the same stylized actions of the philosophers of  Ancient Greece. Boccaccio’s characters are historical but they are still rep resented as ideal figures. (Boccaccio collects his stories from the repertory  of collective memory, just as Plato, Aristotle and the authors of the age of  philosophy collected the riddles and the Eleusinian oracles in their works.)  The “contextual” nature of the motto is evident not only from the simple  observation that some historical Florentine characters appear in short an ecdotes, but also for the motivations presented and repeated several times  by the author regarding narrative poetics. Getto rightly points out these  aspects of Boccaccio’s poetics: the tales are given birth from a “happy  memory impulse,” which the author then makes explicit, through the  words of Fiammetta, in the exhibition of his poetics, which is that of a dis course attentive to historical truth, or at least to verisimilitude.61 But above  all, what does matter is Boccaccio’s direct intervention in the First Day, in  which he says he is almost forced to write about the plague.62 Thus, here,  Florence appears as the mythical setting of witty people, historical char acters represented in an evanescent historicity that loads the verisimili tude of the story with a universal and idealized atmosphere that inevitably  emphasizes wisdom. Overall, the exaltation of intelligence in the motto is  the expression of the bourgeois mercantile society in which the value of wit  prevails and those who do not have it are doomed to exclusion.63  61 “[S]e io dalla verità del fatto mi fossi scostare voluta o volessi, avrei ben saputo e saprei  sotto altri nomi comporla e raccontarla [scil. la novella]; ma per ciò che il partirsi dalla  verità delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negli ’ntendenti, in pro pia forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò” (9.5.5).   62 “E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a quello che io  desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io l’avrei volentier fatto: ma ciò  che, qual fosse la cagione per che le cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si  poteva senza questa ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle  mi conduco” (1.intr.7).  63 Thus Getto concludes his introductory remarks: “È sempre quel principio genetico  dell’obbedienza ad un invito del fatto storico, ad un richiamo dell’accadimento reale, as sai caro (e rivelatore) per il gusto del nostro artista, che qui agisce. Il Boccaccio si tro verà costantemente a legare le sue novelle ad eventi e cose di una verità consacrata dalla  storia ufficiale o dalla sua storia personale, a scoprire addentellati con nomi, luoghi, vi cende concrete, storicamente determinabili” (Getto 10). The opening of Getto’s first  chapter is meaningful for the perspective he employs, insofar as it makes us understand  his attention for Boccaccio’s discourse and usage of connotation: “Al critico del Boccac cio che con occhio attento sappia scrutare in trasparenza la pagina, non mancherà certo  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  37  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  The motto, as the enigma, is a formal device for the search for wisdom  and knowledge. Once again, we must recall Getto’s observations on the  Decameron’s Introduction, for his remarks are in perfect harmony, at the  level of discourse, with the search for knowledge. Getto found in the words  of the Introduction a “layering” of “three expressive moments” that pro duce the narrative and the form of the work: from the pleasure of memory  as the engine of narrative, to the pleasure of communication in the context  of the refined conversation of the merry and idle brigade, and finally to the  “lyrical emotion” of the “life wisdom joyfully reached by the young bri gade.”64 This last moment links the reasons of the entire collection to the  author’s desire to provide through his tales an ideal model of life, a stand ard of perfect living. This model is constructed by getting through the “sin  of Fortune,”65 after a “passionate contemplation of the limitations and  obstacles that life (nature and fortune) places before men, and the men  who face those same limits and obstacles.” Moreover, this model of life is  achieved in accordance with a perfectly secular ideal of the world and  within the scope of a very precise social reality.66  Alan Freedman does not emphasize at all these important ideal as pects; he believes that “Boccaccio instead feels the need to eliminate the  enigmatic element prior to using his narrative materials in a book that, de spite the wide variety of sources, character and tone of any single tale, re veals a consistently strong structural unit insofar as a coherent and con di rendersi sensibile la presenza, fin dal Proemio del Decameron, di un tipico nucleo  espressivo in cui la parola acquista un tale valore allusivo da costituire come una rivela zione emblematica, quasi una filigrana pallida e pur evidente, del ritmo fantastico che  governa l’intera partitura dell’opera”. It is worth noticing that Getto was writing in the  1950s, a period in which critics and semioticians put a lot of emphasis on the connota tive aspects of literary production. See, for instance, Barthes’ Le degré zéro, which is  almost contemporary to Getto’s Vita di forme e forme di vita. Before Getto, Vittore  Branca writes on the importance of historical and contextual references for Boccaccio in  order to create “un linguaggio storicamente allusivo” whose repetitive “motivi costitu zionali” make them “costanti, o meglio condizioni del suo narrare” (Branca 226).  64 Getto 12.  65 Cf. Proemio.13: “Adunque, acciò che in parte per me s’ammendi il peccato della for tuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi  più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre è  assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o  istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette  donne e di tre giovani nel pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune  canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto.”   66 Getto 11–12.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  38  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  sistent fiction.” Moreover, Freedman states that Boccaccio wants “to reject  any obviously didactic-problematic suggestion” and that in the Decameron  in general, as well as for instance in 10.5, “the center of the work’s interest  is moved from the intellectual paradox to the narrative and its charac ters.”67 In essence, Freedman maintains that Boccaccio has transformed  the enigma in 6.1 into a new metaphorical coinage. Guido Cavalcanti is  eminently wise and is described so in the Florentine context (“un de’ mi gliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale” [6.9.8]). What  Getto calls “the art of living” is nothing but a search for wisdom expressed  in the literary form of the challenge, of the enigma, of the motto set within  Florentine civilization. Although knowledge may result in a violent and  competitive act, it also involves a productive moment: knowledge is the  virtue of intelligent minds (but just a few have it) and can also be trans mitted and taught, as long as we are willing to learn. Cisti gives to Messer  Geri a lesson on courtesy and on how to live one’s own life, and Messer  Geri is gracious and humble enough to accept the lesson: “Il che rappor tando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s’apersero dello ’ntel letto e disse al famigliare: – Lasciami vedere che fiasco tu vi porti; – e ve dutol disse: – Cisti dice vero; – e dettagli villania gli fece torre un fiasco  convenevole” (6.2.26, emphasis added). Not surprisingly, the comprehen sion of the motto is here associated with sight, as sight was linked to the  ancient knowledge of Dionysus and Apollo; moreover, the vision of the  future was the primitive feature of the knowledge of the truth.68  The central theme of the Sixth Day is not merely represented by a ver bal challenge, and intelligently varied in its own parodic aspects, but is  also manifested in a peculiar form of narrative; namely, the form of dis course that Boccaccio calls motto. The characteristics and formal features  of the motto show how this metaphorical device can be considered not  only a structuring feature of Boccaccio’s discourse, but also a “veil,” a po etic strategy that is able both to conceal and to reveal philosophical  knowledge. If we consider the first tale of the Sixth Day (Madonna Oretta’s  tale) as a one whose primary purpose is to guide the reader to an under standing of the whole day by means of an enigma, it is then possible to  read the entire Sixth Day of the Decameron as a series of literary enigmas  in the form of the motto. Furthermore, it is possible to interpret the func tion of the motto as a peculiar literary form of recognition that leads the  characters to a shift from ignorance to knowledge. The motto, indeed, has  67 Freedman 234.  68 Colli, Sapienza 20.  http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf  39  Heliotropia 10.1-2 (2013)   http://www.heliotropia.org  the same formal features and contextual characteristics of the ancient  enigma with which pre-Socratic philosophers exercised their own search  for knowledge. At the time the Decameron, the oppositional elements  characterizing the ancient problémata were still practiced in dialectic  controversies and still preserved all their primordial vividness while  providing Boccaccio with a completely renewed narrative form as opposed  to that of the Novellino. Even the archetypical and tragic atmosphere that  surrounded the accounts of ancient enigmas — particularly the mortal  danger of defeat in the dialectical challenge between two wise men —  stands in the characters’ historical background. Yet, this same potentially  threatening atmosphere in the Sixth Day is either exorcised by the comedic  by granting the reader the pleasure of understanding a witty remark, or it  is subverted and transformed by parody.  FILIPPO ANDREI  Works Cited  UNIVERSITY OF CALIFORNIA BERKELEY  Aristotle, Liber de poetis. In Aristotelis fragmenta selecta. W. D. Ross, ed.  Oxford: Clarendon, 1979.  Badini Confalonieri, L. “Madonna Oretta e il luogo del Decameron.” In  L’arte dell’interpretare: studi critici offerti a Giovanni Getto. Cu neo: L’arciere, 1984. 127–43.  Barilli, R. “Semiologia e retorica nella lettura del Decameron.” Il Verri 35 36 (1970): 27–48.  Bartezzaghi, S. Incontri con la Sfinge: Nuove lezioni di enigmistica. To rino: Einaudi, 2004.  ———. Lezioni di enigmistica. Torino: Einaudi, 2001.   Barthes, R. Le degré zéro de l’écriture suivi de éléments de sémiologie. Pa ris: Gonthier, 1953.  Billanovich, G. Petrarca letterato. 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Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Flavio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “Part of my emphasis on methodology in philosophy was due to my encounter with rather free minds who use key terms so sloppily that I felt like building a whole theory of communication just to refute them!” Grice: “Usually, philosophers use ‘sophisma’; I prefer ‘philosopher’s paradox’! – Or ‘dicta’. Keywords: sofisma, filosofisma. Filosofo italiano. A sophist, the Garden, and friend of Plutarco. Keywords: Orto. Nome compiuto: Tito Flavio Alessandro. Flavio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Flavio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Floridi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’informare – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia laziale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “My view of information is complex. In the binary mode-operators, indicative and imperative, both involve INFORMATION, or rather ‘content’ or psi-transfer. Strictly, ‘information’should be restrited to ‘true’ psi-transfer. Or as I prefer to say, allegedly FALSE ‘information’ is not an inferior kind of information. It is just not information!” Keywords: informazione. Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “’To inform’ was first used by some Roman! It surely ain’t Grecian!” -- Eessential Italian philosopher. He has explored aspects of Grice’s use of the expression ‘inform,’ ‘mis-inform,’ in terms of ‘factivity.’  Insegna a 'Ferrara. Conosciuto per il suo lavoro in due aree di ricerca filosofica: la filosofia dell'informazione e l'etica informatica.   Si laurea a a Roma. Insegna a Bari e Ferrara. Conosciuto per i suoi studi sulla tradizione scettica (scetticismo), ma principalmente per il suo lavoro di fondazione della filosofia dell'informazione e dell'etica informatica, due campi che ha contribuito a costituire. Fondatore un gruppo di ricerca interdipartimentale sulla filosofia dell'informazione. Durante la laurea a Roma, studiato da classicista e da storico della filosofia. Si è interessato di filosofia della logica ed epistemologia. Si è quindi occupato di diversi argomenti filosofici tradizionali, alla ricerca di una nuova metodologia, con l'obiettivo di riuscire ad avvicinarsi ai problemi contemporanei in una prospettiva che fosse efficace dal punto di vista euristico e potesse allo stesso tempo anche costituire un arricchimento intellettuale nell'affrontare le questioni filosofiche dei nostri giorni. Molto presto, inizia a distanziarsi da quello che Grice chiama la filosofia analitica “classica”. Secondo Floridi, il movimento analitico ha perso la sua spinta iniziale ed era ormai un paradigma sempre più debole, scolasticizzato – “specialmente ad Oxford!” --. Per questo motivo, ha concentrato i suoi interessi su una nuova fondazione dell'epistemologia. Anda alla ricerca di un concetto di "conoscenza” “indipendente-dal-soggetto", vicino a ciò che oggi definisce informazione semantica. è necessario sviluppare una filosofia costruzionista, all'interno della quale il design, la creazione di modelli e le implementazioni sostituiscano analisi frivole e esami cavillosi (e.g. sull’uso di ‘informare,’ ‘disinformare,’ ecc.) In questo modo, la filosofia ha la speranza di non chiudersi in un angolo sempre più angusto, fatto di ricerche griceiane auto-sufficienti e che interessano solo a sé stesse, e di riacquistare un punto di vista più ampio sui problemi che sono realmente determinanti nella vita umana fuori di Oxford! Così, lentamente, è giunto a prendere in considerazione la filosofia dell'informazione, una nuova area di ricerca emersa dalla svolta computazionale, avvicinandola da due prospettive, quella puramente teorica della semantica, pragmatica, sintassi, semiotica, logica e dell'epistemologia, e quella più tecnica dell'informatica, in particolare dell'etica, della teoria dell'informazione di Shannon -- e della humanities computing.  Il filosofo ha bisogno di acquisire conoscenze di IT necessarie per fare uso del computer in maniera efficace. Anche il filosofo posse essere interessato ad acquisire le conoscenze di sfondo indispensabili per la comprensione critica dell’era digitale e dunque iniziare a lavorare sulla branca della filosofia che si va formando, proprio la Filosofia dell'informazione, che si augura un giorno possa diventare parte integrante della cosiddetta “philosophia prima,” o prote philosophia della sua fase romana!. Da allora, Philosophy of Computing and Information è diventata il suo maggiore interesse di ricerca.  In PI, sostiene che ci sia bisogno di un concetto più ampio di elaborazione e di “flusso” causale dell'informazione – alla Dretske -- che includa la computazione, ma non solo. Questa prospettiva fornisce una cornice teorica molto efficace all'interno della quale inserire e dare significato alle differenti linee di ricerca. Il secondo vantaggio è la prospettiva diacronica, che permette di inquadrare lo sviluppo della filosofia nel tempo. PI fornisce infatti un punto di vista molto più ampio e profondo su ciò che la filosofia avrebbe cercato di fatto di realizzare nel corso dei secoli. Altre opere: “Infosfera Filosofia e Etica dell'informazione” (Torino: Giappichelli Editore); “La quarta rivoluzione, Milano: Cortina); “Pensare l'infosfera” (Milano: Cortina); “Il verde e il blu” (Milano: Cortina, OII: digital ethics lab. oii.ox.ac.uk,// digital ethicslab. oIEG philosophy of information.net/ pdf/auto.pdf  the newatlantis.com/ publications/ why-information-matters  Onlife open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., Oxford Institute, su oii.ox.ac.uk. Home page e articoli online, su philosophy of information. net. Intervista e lezione durante l'IoE talks (Internet of Everything Roma ) La lecture su "Intelligenza artificiale, dobbiamo preoccuparci?" presso il Centro Nexa del Politecnico di Torino Biografia e intervista su Rai Media Mente, su media mente rai. Biografia e intervista per l'American Philosophical Association,  Cervelli in Fuga, Roma, Accenti. Ricerca Informazione ciò che porta conoscenza Nota disambigua. svg Disambiguazione. Se stai cercando il quotidiano, vedi Informazione (quotidiano). L'informazione è l'insieme di dati, correlati tra loro, con cui un'idea (o un fatto) prende forma ed è comunicata. I dati oggetto della stessa possono essere raccolti in un archivio o in un'infrastruttura dedicata alla sua gestione, come nel caso di un sistema informativo. Essa è oggetto di studio e applicazione in vari settori della conoscenza e dell'agire umano.    Lista delle vittorie di Rimush, Re di Akkad, sopra Abalgamash, re di Marhashi e sopra le città elamite. Tavoletta d'argilla, copia di un'iscrizione monumentale, circa 2270 a.C. (si veda Stele di Manishtushu) Ad esempio in campo tecnico è oggetto di studio dell'ingegneria dell'informazione, sul fronte delle scienze sociali è oggetto d'indagine delle scienze della comunicazione e in generale della sociologia, con particolare riguardo agli aspetti legati alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa nell'attuale società dell'informazione (o era dell'informazione).  Etimologia La parola deriva dal latino informare, nel significato di "dare forma alla mente", "disciplinare", "istruire", "insegnare". In latino la parola viene usata per indicare un concetto o un'idea, ma non è chiaro se questa parola possa avere influenzato lo sviluppo della parola informazione. Inoltre la parola greca corrispondente è μορφή (da cui il latino forma per metatesi, oppure εἶδος (da cui il latino idea), cioè idea, concetto" o forma, immagine. La seconda parola è notoriamente usata tecnicamente in ambito filosofico dall’ACCADEMIA e del LIZIO per indicare l'identità ideale o essenza di qualcosa (vedi Teoria delle forme). Eidos si può anche associare a pensiero, asserzione o concetto. Evoluzione concettual Col progredire delle conoscenze umane il concetto di informazione si è evoluto divenendo via via più vasto e differenziato: informazione è in generale qualunque notizia o racconto, inoltre qualunque comunicazionescritta o orale contiene informazione. I dati in un archivio sono informazioni, ma anche la configurazione degli atomi di un gas può venire considerata informazione. L'informazione può essere quindi misurata come le altre entità fisiche ed è sempre esistita, anche se la sua importanza è stata riconosciuta solo nel XX secolo.  Per esempio, la fondamentale scoperta della doppia elica del DNA da parte di Watson e Crick ha posto le basi biologiche per la comprensione della struttura degli esseri viventi da un punto di vista informativo. La doppia elica è costituita da due filamenti accoppiati e avvolti su se stessi, a formare una struttura elicoidale tridimensionale. Ciascun filamento può essere ricondotto a una sequenza di acidi nucleici (adenina, citosina, guanina, timina). Per rappresentarlo, si usa un alfabeto finito come nei calcolatori, quaternario invece che binario, dove le lettere sono scelte tra A, C, G e T, le iniziali delle quattro componenti fondamentali. Il DNArappresenta quindi il contenuto informativo delle funzionalità e della struttura degli esseri viventi.  Descrizione  In generale un'informazione ha valore in quanto potenzialmente utile al fruitore per i suoi molteplici scopi: nell'informazione, infatti, è spesso contenuta conoscenza o esperienza di fatti reali vissuti da altri soggetti e che possono risultare utili senza dover necessariamente attendere di sperimentare ognuno ogni determinata situazione. Sotto questo punto di vista il concetto utile di informazione e la parallela necessità di comunicare o scambiare informazione tra individui nasce, nella storia dell'umanità, con l'elaborazione del linguaggio da parte della menteumana e si sviluppa con la successiva invenzione della scrittura come mezzo per tramandare l'informazione ai posteri. Secondo quest'ottica la storia e l'evoluzione della società umana sono frutto dell'accumulazione di conoscenza sotto forma di informazione. Nell'informazione ad esempio è contenuto know howutile per eseguire una determinata attività o compito, cosa che la rende ad esempio una risorsa strategica in ambito economico dell'economia aziendale.  L'informazione e la sua elaborazione attraverso i computer hanno avuto certamente un impatto notevole nella nostra attuale vita quotidiana. L'importanza è testimoniata, ad esempio, dai sistemi di protezione escogitati mediante la crittografia e dal valore commerciale della borsa tecnologica. L'uso appropriato dell'informazione pone anche problemi etici di rilievo, come nel caso della riservatezzariguardo alle informazioni cliniche che potrebbero altrimenti avvantaggiare le compagnie di assicurazioni mediche e danneggiare i pazienti.  L'importanza e la diffusione dell'informazione nella società moderna è tale che a questa spesso ci si riferisce come la Società dell'Informazione.  Nei vari contesti Altre definizioni provengono dall'informatica e dalla telematica:  Nel modello di Shannon e Weaver, l'informazione è considerata parte integrante del processo comunicativo; La teoria dell'informazione ha come scopo quello di fornire metodi per comprimere al massimo l'informazione prodotta da una sorgente eliminando tutta la ridondanza; Nella teoria delle basi di dati (ad esempio nel modello relazionale, ma non solo), un'informazione è una relazione tra due dati. Fondamentale da questo punto di vista è la distinzione tra il dato (un numero, una data, una parola...) e il significato che si può dare a tale dato, mettendolo in relazione con uno o più dati o rappresentazioni di concetti. In un computer quindi, le informazioni sono numerabili, e a seconda del sistema di interpretazione e della rappresentazione possiamo distinguere tra informazioni esplicite, relativamente facili da quantificare (come la data di nascita del signor Rossi) e informazioni dedotte, il cui numero dipende dalle capacità di calcolo delle informazioni fornite al sistema (ad esempio l'età del signor Rossi, ottenibile mediante sottrazione della data odierna e la data di nascita). È questo un esempio di informazione dedotta esatta, ma ci sono anche metodi per dedurre delle informazioni che non sono certe: ad esempio un servizio di rete sociale può stabilire con una certa precisione che due persone che hanno frequentato la stessa scuola si conoscono o hanno conoscenze in comune, ma non può dare la certezza matematica di ciò. InformaticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tipo di dato. I computer, nati come semplici calcolatori, sono diventati col tempo dei potenti strumenti per memorizzare, elaborare, trovare e trasmettere informazioni. La diffusione di Internet come rete globale ha d'altro canto messo a disposizione una mole di informazioni mai prima d'ora a disposizione dell'umanità. Alla base di ogni informazione in un computer c'è il concetto di dato: sebbene all'interno del calcolatore elettronico tutti i dati siano digitali, cioè memorizzati come semplici numeri, dal punto di vista umano, invece, si può attribuire un significato anche ai numeri. Per questo motivo, nei linguaggi di programmazione, spesso esistono alcuni formati specifici per indicare in modo esplicito quale significato dare ai dati. Fermandosi ai tipi di base abbiamo essenzialmente numeri, caratteri e stringhe (successioni finite di caratteri). Tali dati devono essere messi in relazione tra di loro per avere un significato; se invece le relazioni valide possibili sono più di una, si può generare ambiguità.[non chiaro]  Matematica e logica Modifica Ad esempio, 1492 è un numero che da solo non significa niente: potrebbe essere una quantità di mele (se correlato mediante la relazione di quantità con l'oggetto mela), il costo di un anello o l'anno in cui Colombo si imbarca e scoprì l'America. La parola "calcio" può essere uno sport, un elemento chimico o un colpo dato col piede. In genere le basi di dati che contengono informazioni relative ad un determinato campo del sapere non risentono molto del problema dell'ambiguità: in una base dati di chimica la parola calcio indicherà certamente l'elemento chimico. Nelle basi di dati relazionali, sistemi di tabelle e relazioni permettono di organizzare i dati per poter ottenere delle informazioni senza ambiguità: se la tabella "elementi_chimici" contiene la parola calcio, questo sarà senza dubbio l'elemento chimico. La semplice immissione del dato nella tabella "elementi_chimici" ha implicitamente classificato la parola "calcio", conferendole un significato, dato dalla scelta della tabella in cui inserire un dato (la scelta della tabella rappresenta il trasferimento di conoscenza da una persona alla base dati). Inoltre, le basi di dati relazionali permettono la creazione di relazioni tra dati di diverse tabelle.  Oltre alle relazioni esplicite, ci possono essere delle relazioni dedotte. Supponiamo di avere la tabella "figlio_di": se abbiamo che Antonio è figlio di Luigi (informazione 1), e che Luigi è figlio di Nicola (informazione 2), allora possiamo dedurre che Nicola è il nonno di Antonio (informazione 3). È quindi possibile formalizzare la relazione e inserirla nella base di dati, ottenendo la tabella nonno_di senza dover immettere altri dati:  se A è figlio di B e B è figlio di C, allora C è nonno di A oppure, ogni volta che si ha bisogno di conoscere eventuali nipoti/nonni di qualcuno, analizzare la relazione figlio_di. E le informazioni possono essere maggiori: analizzando il sesso di B, si potrà sapere se C è nonno paterno o materno.  Le basi di conoscenza pensate per la deduzione sono più elastiche delle tradizionali basi di dati relazionali. Un esempio sono le ontologie.  Analisi particolarmente ricercate per il loro valore economico ai fini commerciali sono quelle che analizzano grandi flussi di informazioni per scoprire tendenze che permettono dedurre delle informazioni che hanno una buona probabilità di essere vere riguardo utenti singoli o categorie di utenti. Supponendo che Antonio abbia sempre acquistato in internet dei libri di fantascienza, allora la pubblicità che gli si mostrerà potrà mostrare dei libri di fantascienza o simili, che molto probabilmente lo interesseranno. Questi tipi di analisi possono fornire informazioni talvolta sorprendenti: una catena di supermercati in un paese anglosassone avrebbe scoperto, analizzando gli scontrini, qualcosa altrimenti difficilmente immaginabile: le persone che acquistavano pannolini spesso compravano più birra delle altre, per cui mettendo la birra più costosa non lontano dai pannolini, poteva incrementarne le vendite. Infatti le persone che avevano figli piccoli passavano più serate in casa a guardare la TV bevendo birra, non potendo andare nei locali con gli amici. L'esempio dell'associazione tra pannolini e birra è usato spesso nei corsi universitari di data mining; tuttavia c'è da precisare che non è chiaro quale sia la catena di supermercati in questione, e l'esempio, seppur valido a scopi didattici, potrebbe essere inventato.  Aspetti tecniciModifica L'informazione è generalmente associata a segnali, trasmissibili da un sistema di telecomunicazioni e memorizzabili su supporti di memorizzazione.  La misurazione Secondo la Teoria dell'Informazione in una comunicazione, che avviene attraverso un dato alfabeto di simboli, l'informazione viene associata a ciascun simbolo trasmesso e viene definita come la riduzione di incertezza che si poteva avere a priori sul simbolo trasmesso.  In particolare, la quantità di informazione collegata a un simbolo è definita come   {\displaystyle I=-\log _{2}P_{i}}  dove P_{i} è la probabilità di trasmissione di quel simbolo. La quantità di informazione associata a un simbolo è misurata in bit. La quantità di informazione così definita è una variabile aleatoria discreta, il cui valor medio, tipicamente riferito alla sorgente di simboli, è detto entropia della sorgente, misurata in bit/simbolo. La velocità di informazione di una sorgente, che non coincide con la frequenza di emissione dei simboli, dato che non è detto che ogni simbolo trasporti un bit di informazione "utile", è il prodotto dell'entropia dei simboli emessi dalla sorgente per la frequenza di emissione di tali simboli (velocità di segnalazione). Quanto sopra può essere generalizzato considerando che non è assolutamente obbligatorio che ogni simbolo sia codificato in maniera binaria (anche se questo è ciò che accade più spesso). Quindi l'informazione collegata a un simbolo codificato in base a è per definizione pari a   {\displaystyle I_{a}=-\log _{a}P_{i}}  con P_{i} pari alla probabilità di trasmissione associata a quel simbolo. L'entropia della sorgente è per definizione pari alla sommatoria, estesa a tutti i simboli della sorgente, dei prodotti tra la probabilità di ciascun simbolo e il suo contenuto informativo. Nei casi particolari in cui a sia 10 l'entropia della sorgente è misurata in hartley, se invece a è pari al Numero di Eulero e si misura in nat. Dalla formula si evince che se la probabilità Pi di trasmettere il simbolo è pari a uno, la quantità di informazione associata è nulla; viceversa se nel caso limite ideale di Pi=0 la quantità di informazione sarebbe infinita. Ciò vuol dire in sostanza che tanto più un simbolo è probabile tanto meno informazione esso trasporta e viceversa: un segnale costante o uguale a se stesso non porta con sé alcuna nuova informazione essendo sempre il medesimo: si dice allora che l'informazione viaggia sotto forma di Innovazione. I segnali che trasportano informazione non sono dunque segnali deterministici, ma processi stocastici. Nella teoria dei segnali e della trasmissione questa informazione affidata a processi aleatori è la modulante (in ampiezza, fase o frequenza) di portantifisiche tipicamente sinusoidali che traslano poi in banda il segnale informativo. La codifica dell'informazione consiste nel trasformare un'informazione generica in un'informazione comprensibile da un dispositivo o che sia adatta alla successiva elaborazione. Il primo problema da affrontare nei processi di elaborazione dell'informazione è la rappresentazione dell'informazione. L'informazione consiste nella ricezione di un messaggio tra un insieme di possibili messaggi. La definizione esatta è che l'informazione si rappresenta usando un numero finito di simboli affidabili e facilmente distinguibili.  All'interno delle apparecchiature digitali l'informazione è rappresentata mediante livelli di tensione o mediante magnetizzazione di dispositivi appropriati. Le esigenze di affidabilità impongono che tali simboli, per una maggiore efficienza, siano due o al massimo tre: nel primo caso si hanno solo 0 e 1, corrispondenti a 2 livelli di tensione (standard TTL: 0/5 V; standard RS-232: +12/-12 V) che vanno a formare la numerazione binaria; nel secondo caso si può avere un terzo stadio, indicato come HiZ (alta impedenza), che rappresenta un livello indeterminato, causato ad esempio dal filo scollegato.  La portata dei flussi Il concetto di informazione trasportato su un canale di comunicazione può essere messo in analogia con quello della portata in idrodinamica, mentre la velocità del flusso rappresenta la velocità di propagazione del segnale che trasporta l'informazione sulla linea. Al riguardo ogni linea di trasmissione o mezzo trasmissivo ha un suo quantitativo massimo di informazione trasportabile, espresso dalla velocità di trasmissione della linea stessa secondo il Teorema di Shannon.  Il rapporto con la privacy Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Privacy. Il settore dell'informazione è un settore interessato da una continua evoluzione e da una rilevante importanza sociale. Basta pensare alla quantità e qualità delle informazioni sotto forma di dati personali, abitudini e consumi dei clienti, che posseggono le aziende. La tutela dei dati personali risulta essere argomento di controversia, tra quelli che vorrebbero un libero scambio delle informazioni e quelli che vorrebbero delle limitazioni attraverso la tutela e il controllo. Oltre alla tutela dei dati personali e sensibili di clienti, fornitori e dipendenti, le aziende hanno la necessità di tutelare la proprietà intellettuale, i brevetti e il know-how interno, in generale le informazioni confidenziali (materia che non ha nulla a che vedere con la privacy). Vigini, Glossario di biblioteconomia e scienza dell'informazione, Bibliografica, Milano Il termine indica originariamente "ciò che appare alla vista", derivando dalla radice indoeuropea *weid-/wid-/woid-, "vedere" (confronta il latino video). Esso venne però ad assumere in seguito una grande molteplicità di significati (per esempio, in Isocrate esso indica il "modello teorico" di un'orazione). BibliografiaModifica Hans Christian von Baeyer, Informazione. Il nuovo linguaggio della scienza, Dedalo, Teti, Il potere delle informazioni. Comunicazione globale, Cyberspazio, Intelligence della conoscenza, Il Sole 24 Ore, Aspray, The Scientific Conceptualization of Information: A survey, Annals of History of Computing, Voci correlate Asimmetria informativa Archivio Conoscenza Dati Disinformazione Diritto all'informazione Informazione classificata Infodemiologia Memoria Mezzi di comunicazione Pluralismo Privacy Teoria dei segnali Testo espositivo Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sull'informazione Collabora a Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario «informazione» informazione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Informazione, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Stanford Encyclopedia of Philosophy - Information, su plato.stanford.edu. Informazione, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Information Helps Us Understand The Fabric Of Reality Order and Disorder, Al-Khalili, Spark. Portale Diritto   Portale Informatica   Portale Psicologia   Portale Scienza e tecnica Teoria dell'informazione Autoinformazione Primo teorema di Shannon Wikipedia Il contenuto. Nome compiuto: Luciano Floridi. Floridi. Keywords: informare, Dretske, knowing, causing, cervello in fuga; modal disimplicature, “I’m telling you”, “for your information” submodes of the indicative mode, ‘exhibitive’ and ‘protreptic’ -- influence, inform. Conversation as rational cooperation – ‘false’ “information” no information!” -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Informazione ed implicatura: Grice e Floridi," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fonnesu: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Abstract. Grice: “I never took ‘inter-subjective’ too seriously, but the Italians ALWAYS do!” Keywords: intersoggetivo. Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Fonnesu; especially, on inter-subjectivity: “I cooperate with you; you cooperate with me” – or rather, “I co-operate with thee; thou cooperates with me! We cooperate!” -- Luca Fonnesu (Milano), filosofo.  Professore di filosofia a Pavia. Fonnesu si è laureato in Filosofia a Firenze con Cesa, dove ha poi conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia.  Prima di conseguire la laurea, borsista della Fondazione Robert E. Schmidt di Heidelberg. Borsista del Deutscher Akademischer Austauschdienst svolgendo la sua attività di ricerca presso il Leibniz Archiv di Hannover. Borsista ‘post-doc' a Firenze. Ricercatore a Pisa. Insegna a Pavia. È inoltre socio dell'Associazione di cultura e politica "il Mulino", membro della Leibniz-Gesellschaft, della Fichte-Gesellschaft, della Società italiana di studi kantiani, della Hegel-Vereinigung, della Società italiana di filosofia analitica e del Comitato editoriale di "Studi settecenteschi". Il professor Fonnesu è inoltre il coordinatore del Corso di dottorato di ricerca in Filosofia a Pavia, fa parte del Consiglio scientifico di Verifiche e del Comitato direttivo della "Rivista di filosofia".  Temi di ricerca I principali temi di ricerca dell'attività accademica del professor Fonnesu possono essere sostanzialmente ricondotti alla filosofia morale e alla filosofia classica tedesca. Per quanto concerne la filosofia classica tedesca tra Kant e Hegel si è concentrato sulle strutture concettuali, le fonti e la ricezione nella tradizione filosofica approfondendo inoltre la presenza dell'etica kantiana nel dibattito contemporaneo. Ha poi studiato il dibattito sulla teodicea nella tradizione filosofica, l'illuminismo europeo, la tradizione analitica e le altre tradizioni nell'etica contemporanea. In quest'ultimo ambito ha sviluppato in modo particolare la tematica del libero arbitrio e della responsabilità nella filosofia moderna e contemporanea. è un esperto di storia dell'etica.  Altre opere: “Antropologia e idealismo. La destinazione dell'uomo nell'etica di Fichte” (Roma-Bari, Laterza); “Dovere, Scandicci, La Nuova Italia); “Storia dell'etica: da Kant alla filosofia analitica” (Roma, Carocci); “Per una moralità concreta: studi sulla filosofia classica tedesca” (Bologna, Il Mulino); “Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto naturale e filosofia classica tedesca” (Pisa, Pacini); “La verità. Scienza, filosofia, società” (Bologna, Il Mulino);  “Etica e mondo in Kant” (Bologna, il Mulino); “Le ragioni della filosofia” (Firenze, Le Monnier); “Diritto, lavoro e "Stände": il modello di società di Fichte, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", Rousseau e la filosofia come "médecine du monde". A proposito di un saggio recente, in "Intersezioni", Ragione pratica e “ragione empirica” in Kant, in "Annali filosofia, Firenze", “Weber e l'etica” ("Iride"); Le edizioni kantiane e la riflessione "Sul senso interno", "Studi kantiani”; “Sullo stato degli studi fichtiani” (“Cultura e scuola"); “La società concreta: considerazioni su Fichte e Hegel” ("Daimon. Revista de filosofia", Murcia); “Sul pensiero di Luporini, in "Giornale critico della filosofia italiana"); “Kant, Leibniz e la "Aufklärung": ottimismo e teo-dicea, in Kant e la filosofia della religione (N. Pirillo, Brescia, Morcelliana); “L'ideale dell'estinzione dello Stato in Fichte” ("Rivista di storia della filosofia"); “Sul concetto di felicità in Hegel” in Fede e sapere. Hegel, Oliva e Cantillo (Milano, Guerini); “Metamorfosi della libertà nel ‘Sistema di Etica' di Fichte” (“Giornale critico della filosofia italiana”); “Sui doveri verso se stessi”; “A partire da Kant”; “La libertà e la sua realizzazione nella filosofia di Fichte, in G. Duso G. Rametta, La libertà nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte, Schelling e Hegel” (Milano, Angeli); “Sulla 'seconda natura' in Fichte”, in R. Bonito Oliva G. Cantillo Natura e cultura, Napoli, Guida); “Preti e le tradizioni etiche, in Parrini L. M. Scarantino, “Preti” (Milano, Guerini); “Errori dell'ontologia. Percorsi della meta-etica tra Russell e Mackie”; in Ceri e Magni, Le ragioni dell'etica, Pisa, ETS, Rousseau tra filosofia e botanica. Una nota, in M. Ferrari, I bambini di una volta. Problemi di metodo. Studi per Egle Becchi, Milano, Franco Angeli, Presentazione, in Hare, Scegliere un'etica, Bologna, il Mulino, Presentazione, in Foot, La natura del bene, Bologna, il Mulino, Sulla morale kantiana, in C. La Rocca, Leggere Kant. Dimensioni della filosofia critica” (Pisa, ETS); Presentazione, in Foot, Virtù e vizi, Bologna, il Mulino, Etica e concezione etica del mondo in Albert Schweitzer, Humanitas, Punto di vista morale e moralità, in “Il ponte”, Luporini, Moneti). Comandi e consigli nella filosofia pratica moderna, in Bacin, Etiche antiche, etiche moderne. Temi in discussione, Bologna, Il Mulino); “Frankfurt, in “Rivista di filosofia”, Etica, in L'universo kantiano, S. Besoli, Rocca e Martinelli (Macerata, Quodlibet); “Kant e l'etica analitica” in Continenti filosofici. La filosofia analitica e le altre tradizioni, Caro e Poggi (Roma, Carocci); Fichte critico di Kant: moralità e religione nel ‘Saggio di una critica di ogni rivelazione', in Critica della ragione e forme dell'esperienza, Amoroso, Ferrarin e Rocca (Pisa, ETS); “La felicità e il suo tramonto: dall'illuminismo all'idealismo, in “Filosofia politica”, Libertà e responsabilità: dall'utilitarismo classico al dibattito contemporaneo, in Caro, Mori, Spinelli, Il libero arbitrio, Roma, Carocci; “Genealogie della responsabilità, in Quando siamo responsabili? Neuroscienze, etica e diritto, Caro, Lavazza e Sartori, Torino, Codice. Intersoggettività è un concetto utilizzato in filosofia e in psicologia con cui si intende genericamente la condivisione di stati soggettivi da parte di due o più persone. La parola è utilizzata con tre significati:  l'accezione più debole si riferisce all'"accordo", ovvero c'è intersoggettività quando più persone concordano sui significati e sulla definizione di una situazione. viene altrimenti utilizzata per riferirsi al "senso comune", le concezioni condivise costruite dalle persone nelle loro interazioni reciproche ed utilizzate come risorsa quotidiana per interpretare i significati degli elementi della vita sociale e culturale. Se le persone condividono il "senso comune" significa che utilizzano una definizione ed interpretazione condivisa della situazione. infine, il termine viene utilizzato per riferirsi alle divergenze di significato condivise (o parzialmente condivise). Le auto-presentazioni, le menzogne, gli scherzi, e l’emozioni sociali" ad esempio richiedono un'incompleta definizione della situazione, con parziali divergenze nelle condivisioni dei significati. Chi sta mentendo è impegnato in un atto intersoggettivo perché lavora con due diverse definizioni della situazione. L'intersoggettività intesa come nuova modalità relazionale auspicabile tra uomo e donna ha mosso l'elaborazione non solo politica ma anche e soprattutto filosofica e persino teologica di alcuni esponenti di spicco del movimento femminista. Nella filosofia, l'intersoggettività è un argomento importante nelle tradizioni analitiche e continentali. L'intersoggettività è considerata cruciale non solo a livello relazionale ma anche a livello epistemologico e persino metafisico. Ad esempio, l'intersoggettività è postulata come avente un ruolo nello stabilire la verità delle proposizioni e nel costituire la cosiddetta obiettività degli oggetti.  Una preoccupazione centrale negli studi sulla coscienza è il cosiddetto problema delle altre menti, che si chiede come possiamo giustificare la nostra convinzione che le persone hanno menti molto simili alle nostre e prevedere gli stati mentali e il comportamento degli altri, come la nostra esperienza dimostra. Le teorie filosofiche contemporanee dell'intersoggettività devono perciò affrontare il problema delle altre menti. Nel dibattito tra individualismo cognitivo e universalismo cognitivo, alcuni aspetti del pensiero non sono né esclusivamente personali né pienamente universali. I sostenitori della sociologia cognitiva sostengono l'intersoggettività: una prospettiva intermedia della cognizione sociale che fornisce una visione equilibrata tra le visioni personali e universali della nostra cognizione sociale. Questo approccio suggerisce che, anziché essere pensatori individuali o universali, gli esseri umani si iscrivono a "comunità di pensiero", comunità di differenti credenze. Esempi di comunità di pensiero includono chiese, professioni, credenze scientifiche, generazioni, nazioni e movimenti politici. Questa prospettiva spiega perché ogni individuo la pensa diversamente dall'altro (individualismo): la persona A può scegliere di aderire alle date di scadenza degl’alimenti, ma la persona B può credere che le date di scadenza siano solo linee guida ed è comunque sicuro mangiare il cibo dopo la data di scadenza. Ma non tutti gl’esseri umani la pensano allo stesso modo (universalismo).  L'intersoggettività sostiene che ogni comunità di pensiero condivide esperienze sociali diverse dalle esperienze sociali di altre comunità di pensiero, creando credenze diverse tra le persone che si iscrivono a comunità di pensiero diverse. Queste esperienze trascendono la nostra soggettività, il che spiega perché possano essere condivise da tutta la comunità di pensiero. I fautori dell'intersoggettività sostengono l'opinione secondo cui le credenze individuali sono spesso il risultato di credenze della comunità di pensiero, non solo di esperienze personali o credenze umane universali e oggettive. Le credenze sono ripensate in termini di standard, che sono stabiliti dalle comunità di pensiero. Husserl, il fondatore della fenomenologia, riconobbe l'importanza dell'intersoggettività e scrisse ampiamente sull'argomento. Il suo testo più noto sull'intersoggettività sono le Meditazioni cartesiane. Sebbene la fenomenologia di Husserl sia spesso accusata di solipsismo metodologico, nella quinta meditazione cartesiana, Husserl tenta di affrontare il problema dell'intersoggettività e propone la sua teoria dell'intersoggettività trascendentale e monadologica. L'allieva di Husserl Stein estese le basi dell'intersoggettività nell'empatia nella sua tesi di dottorato, Zum Problem der Einfühlung. L'intersoggettività aiuta anche a costituire l'oggettività: nell'esperienza del mondo disponibile non solo per se stessi, ma anche per l'altro, c'è un ponte tra il personale e il condiviso, il sé e gli altri.  In psicologiaModifica Le discussioni e le teorie dell'intersoggettività sono preminenti nella psicologia contemporanea, nella teoria della mente e negli studi sulla coscienza. Tre principali teorie contemporanee sull'intersoggettività sono la teoria della teoria, la teoria della simulazione e la teoria dell'interazione. Spaulding, dell'Oklahoma, scrive; "I sostenitori della teoria della teoria sostengono che spieghiamo e prevediamo il comportamento impiegando teorie psicologiche istintive su come gli stati mentali influenzano il comportamento. Con le nostre teorie psicologiche intuitive, deduciamo dal comportamento di un soggetto quali sono probabilmente i suoi stati mentali. E da queste inferenze, più il principio psicologico che collega gli stati mentali al comportamento, prevediamo il comportamento altrui.  I sostenitori della teoria della simulazione, d'altra parte, affermano che spieghiamo e prevediamo il comportamento degli altri usando le nostre menti come modello e "mettendoci nei panni degli altri", cioè immaginando quali sarebbero i nostri stati mentali e come ci comporteremmo se fossimo nella situazione dell'altro. Più specificamente, simuliamo quali stati mentali dell'altro avrebbero potuto causare il comportamento osservato, quindi usiamo gli stati mentali simulati, fingiamo le credenze e fingiamo i desideri come input, eseguendoli attraverso il nostro meccanismo decisionale. Quindi prendiamo la conclusione risultante e la attribuiamo all'altra persona[6]. Recentemente, autori come Vittorio Gallese hanno proposto una teoria della simulazione incarnata che si basa sulla ricerca neuroscientifica sui neuroni specchio e sulla ricerca fenomenologica. Spaulding osserva che questo dibattito ha sofferto di stagnazione negli ultimi anni, con progressi limitati all'articolazione di varie teorie sulla "simulazione ibrida". Per risolvere questo vicolo cieco, autori come Shaun Gallagher hanno avanzato la teoria dell'interazione. Gallagher scrive che un "... importante cambiamento sta avvenendo nella ricerca sulla cognizione sociale, lontano da un focus sulla mente individuale e verso ... aspetti partecipativi della comprensione sociale. La teoria dell'interazione è proposta per porre l'accento su una svolta interattiva nelle spiegazioni dell'intersoggettività. Gallagher definisce un'interazione come due o più agenti autonomi impegnati in un comportamento co-regolato. Ad esempio, quando si porta a spasso un cane, il comportamento del proprietario è regolato dal cane che si ferma e che annusa, e il comportamento del cane è regolato dai comandi del proprietario. Quindi, portare a spasso il cane è un esempio di un processo interattivo. Per Gallagher, l'interazione e la percezione diretta costituiscono ciò che definisce l'intersoggettività "primaria (o di base).  Gli studi sul dialogo e sul dialogismo rivelano come il linguaggio sia profondamente intersoggettivo. Quando parliamo, ci rivolgiamo sempre ai nostri interlocutori, prendendo la loro prospettiva e orientandoci a ciò che pensiamo che pensino. All'interno di questa tradizione di ricerca, è stato sostenuto che la struttura dei singoli segni o simboli, la base del linguaggio, è intersoggettiva e che il processo psicologico di autoriflessione implica l'intersoggettività. Una ricerca sui neuroni specchio fornisce prove delle basi profondamente intersoggettive della psicologia umana e probabilmente gran parte della letteratura sull'empatia e la teoria della mente si riferisce direttamente al concetto di intersoggettività.  Intersoggettività e sviluppo infantile Trevarthen applica l'intersoggettività allo sviluppo culturale molto rapido dei neonati. La ricerca suggerisce che come bambini, gli esseri umani sono biologicamente collegati a "coordinare le loro azioni con gli altri. Questa capacità di coordinarsi e sincronizzarsi con gli altri facilita l'apprendimento cognitivo ed emotivo attraverso l'interazione sociale. Inoltre, la relazione più socialmente produttiva tra bambini e adulti è bidirezionale, in cui entrambe le parti definiscono attivamente una cultura condivisa. L'aspetto bidirezionale consente alle parti attive di organizzare la relazione nel modo che ritengono opportuno: ciò che considerano importante riceve più attenzione. L'accento è posto sull'idea che i bambini siano attivamente coinvolti nel modo in cui apprendono, usando l'intersoggettività.  Intersoggettività e psicoanalisiModifica Oltre che nelle scuole di psicoterapia dove trova applicazione la teoria delle interrelazioni tra terapeuta-paziente, anche in ambito psicoanalitico, con questo termine si intende il modello relazionale che fa da parametro nel procedere della relazione tra analista e analizzato.  Dalla teoria alla prassi intersoggettiva Quella psicoanalisi che si attiene più allo "spirito" del suo fondatore Freud piuttosto che alla sua "lettera", considera sé stessa come un metodo per la trasformazione della realtà piuttosto che come un sistema di interpretazione della realtà. In questo modo la psicoanalisi sembra inglobare nel suo manifesto programmatico, almeno nei fatti, e sia pur indicando un'altra metodologia di prassi, la famosa frase di Marx ed Engels ad Hegel innanzitutto e a tutto il pensiero filosofico: "I filosofi hanno interpretato il mondo in maniera diversa ma si tratta invece di trasformarlo. Valori morali e valori relazionali Conseguentemente la psicoanalisi si pone al di sopra di ogni moralismo, al di là del bene e del male convenzionali e considera invece il modello relazionale intersoggettivo come valore supremo poiché in esso coincidono e la terapia e la conoscenza.  Psicoterapia e psicoanalisi: guarigione o intersoggettività? Lo stesso Freud ammise che la psicoanalisi, pur essendo nata come medicina ovvero terapia per curare disturbi nervosi, psichici o mentali, ben presto si rivelò un metodo di conoscenza rispetto al quale la cosiddetta guarigione del paziente passava in secondo piano: il paziente aumenta principalmente la conoscenza di sé stesso, simultaneamente anche guarisce ma la guarigione dal punto di vista dell'analisi in sé è un epifenomeno. Da questo punto di vista c'è un parallelismo tra Freud e Colombo. Così come quest'ultimo, partito con l'intenzione di arrivare alle Indie divenne inaspettatamente lo scopritore dell'America, ugualmente Freud dopo aver iniziato il suo cammino con intenti semplicemente curativi divenne anch'egli scopritore di una nuova via di conoscenza.  Il male: motore della psicoanalisi verso l'intersoggettività Se la psicoanalisi è una via di conoscenza, il male del paziente può essere considerato una "vocazione" in quanto è proprio la chiamata dell'essere a sapere di sé. Se non ci fosse questo male, non ci sarebbe ciò che incalza alla conoscenza di sé. La psicoanalisi ha la pretesa di dissolvere il male trovandone il senso, che è ben altro e ben più radicale che esorcizzare il male come fanno la psicofarmacologia e altre tecniche psicoterapeutiche. La psicoanalisi non tratta il male in sé ma il senso del male, la sua direzione; e nel trovare tramite il suo metodo questo senso nascosto ne permette la realizzazione e, nel realizzarlo, elimina il male alla radice e non nella sua semplice sintomatologia che altrimenti potrebbe riapparire sotto altre vesti. Questo ottiene superando quel senso che chiedeva al soggetto, che lo pativa dolorosamente, di essere realizzato. Il male ritornerà ma non sarà più una ripetizione, la coazione a ripetere infatti quale memoria storica di ciò che è stato non si può chiamare vera vita e il dolore psichico che magari anche si somatizza denuncia proprio questo. In questo significato la psicoanalisi intesa come "autorealizzazione dell'inconscio" trova una sua definizione da parte dell'altro pioniere della psicoanalisi delle origini: Carl Gustav Jung, che trattava la sua intera esistenza nello stesso modo in cui considerava la psicoanalisi: un'autorealizzazione dell'inconscio. Infatti da quanto detto finora chiunque intuisce che quello dello psicoanalista non può essere semplicemente un mestiere nel senso tradizionale del termine che si dà alla parola mestiere ma semmai uno stile di vita, un vero e proprio atteggiamento esistenziale perennemente teso a scalzare la forte resistenza alla trasparenza dell'opacità interiore che quindi coincide con una sorta di atteggiamento alchemico coincidente con l'azione di disvelamento del misterium coniunctionis. Atteggiamento questo che coincide con l'intersoggettività la quale per dispiegarsi necessita per la sua realizzazione di una sorta di rivoluzione copernicana al livello del sistema psichico tendente a spodestare l'Ego come ha fatto Copernico con la Terra, ed in un certo senso con l'Antropos, da centro narcisistico del sistema psichico per sostituirlo con il Sé che è l'identità solo relazionale e che comprende l'uno e l'altro della relazione come un'unità processuale indivisibile, mentre l'Ego per sua natura non può che necessariamente essere vincolato a un'identità storica e per ciò continuamente minacciata nella sua coerenza da ciò ch'egli costituisce sostanzialmente come altro da sé, paventando la rottura del vissuto di continuità.  Psicoanalisi e relazione La psicoanalisi, operando al di là di ogni moralismo convenzionale al progressivo divenire conscio dell'inconscio, opera alla progressiva trasformazione del modello relazionale interdipendente, (dove i due sono calati con le loro reciproche dipendenze in un gioco delle parti per così dire inconsapevole) nel modello relazionale intersoggettivo dove la coppia analista-analizzato è in una relazione all'interno della quale non si danno altri bisogni che quelli propri del processo di soggettivazione: il bisogno della presenza dell'altro e quello di essere con l'altro in libertà.  L'esoterismo dell'intersoggetività Esistono discipline come la psicoanalisi che non si possono giudicare dall'esterno come per esempio la comunità scientifica richiede di fare nelle scienze esatte con i suoi metodi statistici. Da qui l'atteggiamento apparentemente altero di molti sostenitori della psicoanalisi, ritenuti da altri per questo saccenti, a partire da Freud che liquidava con una battuta gran parte delle critiche alla psicoanalisi dicendo semplicemente che chi non ha sperimentato una analisi in prima persona non può nemmeno sapere di cosa si sta parlando.  Questo vale anche e soprattutto per l'intersoggettività la cui teorizzazione scaturisce proprio dalla psicoanalisi, intersoggettività che oltre ad essere una nuova modalità di relazionarsi, è anche una nuova logica nella quale tutto viene trattato come un processo unitario senza alcuna separazione tra i momenti di tale processo e nella quale ogni momento del processo è anche tutto il processo pur essendo solo uno dei momenti che lo compongono, momento del processo che contiene in sé i movimenti già superati e quelli ancora non in essere.   Freud stesso, sin dagli esordi del metodo psicoanalitico metteva in atto questa logica rinunciando alle resistenze della sua ragione, frammentante il reale movimento quale dinamica dell'essere, si poneva in ascolto dell'inconscio che parlava attraverso i balbettii dei suoi pazienti, ovvero attraverso il loro transfert e quindi anche del suo proprio controtransfert anche se Freud possedeva qualche strumento in più del suo paziente, strumento che gli permetteva così di non agire il controtransfertper non riprodurre una relazione normale cioè interdipendente, ma realizzare un'esperienza relazionale nuova e quindi conoscitiva più ancora che terapeutica: in una parola, una relazione intersoggettiva.  Nella sua pratica clinica Freud usa già allora una logica intersoggettiva anche se, legato come era per la sua formazione accademica alla scienza ufficiale, non la teorizzava. Solo dopo molto tempo la psicoanalisi passò da una teoria pulsionale di impronta positivisticaa una teoria veramente relazionale.  In un certo senso quindi la psicoanalisi e la sua logica che la guida nel processo psicoanalitico, l'intersoggettività, le apparentano entrambe alle tradizioni dell'esoterismo anche se solo per un suo corretto intendimento che vada al di là delle vulgate da rotocalco. Questo è un dato di fatto anche se la psicoanalisi e la nuova logica intersoggettiva non si sono mai trincerate dietro sette o congreghe iniziatiche come altre vie di conoscenza hanno invece fatto anche se giustificate dal timore di essere fraintese. La psicoanalisi al contrario fin dall'inizio è stata un movimento di pensiero di chiara indole essoterica.  La fine dei ruoli e la fine del vecchio mondo All'interno del modello relazionale intersoggettivo che fa da parametro al procedere della relazione psicoanalitica, non vige alcuna divisione di ruoli quali quelli di: maschile-femminile, attivo-passivo, conoscente-conosciuto, tra chi interpreta e chi è interpretato, tra chi dà e chi riceve, in una parola tra soggetto e oggetto. Questo è possibile grazie al fatto che i due della relazione psicoanalitica facendo leva sulla loro capacità riflessiva prendono distanza via via sempre più da sé stessi e dalla situazione contingente nella quale sono entrambi calati e si progettano nel tempo nella libertà.  In questa maniera eros e logos cessano la loro contrapposizione secolare e anzi si fanno alleati uno dell'altro. Infatti gli "equivoci" che si danno all'interno della relazione costituita dalla coppia analista-analizzato e che nel gergo proprio di questa disciplina prendono il nome di transfert e di controtransfert, in ultima analisi vengono a coincidere con la stessa modalità relazionale interdipendente la cui critica radicale non è stata ancora condotta sino in fondo, prova ne sia che nel modello relazionale intersoggettivo non si danno più equivoci non avendo più i due partner della relazione intersoggettiva altra aspettativa che quella del dirsi dell'altro nella libertà.  E invece sono proprio questi equivoci ciò che costituiscono l'inconscio quali sintomi dell'interdipendenza stessa. Ciò si spiega abbastanza facilmente se si pone attenzione al fatto che mentre il modello intersoggettivo è quello di una relazione in cui l'unica aspettativa che l'uno ha verso l'altro è solo quella che l'altro ci sia ma in libertà. Non è così nell'interdipendenza, ed è proprio questa diversa aspettativa che fonda e struttura l'inconscio e tutti i sintomi dell'inconscio: transfert e controtransfert. Il principio di intersoggettività fa del metodo psicoanalitico, quale metodo di trasformazione delle realtà relazionali, quanto di più seriamente critico vi possa essere dell'ordine relazionale strutturato sulla divisione dei ruoli.  Intersoggettività e femminismoModifica Per quanto attiene ai rapporti tra la prospettiva aperta dall'intersoggettività e quelle del "movimento di liberazione della donna" ormai più brevemente chiamato femminismo, si possono trovare dei paralleli non tanto nelle posizioni sindacaliste o corporativequanto nelle posizioni più esplicitamente filosofiche come quelle espresse da Stephens, da Simone de Beauvoir o da altri ancor più recenti esponenti che invece presero le mosse proprio dalla psicoanalisi sia pure Lacaniana e filtrata da una donna Luce Irigarayespulsa immediatamente da Lacan stesso, dato il modo irriverente con cui tratta il maestro. Importate in Italia le idee eretiche della psicoanalista lacaniana, a Milano per opera dei filosofi Muraro e Cavarero si è costituita una vera e propria comunità filosofica intitolata alla maestra di Socrate, la filosofa Diotima tanto elogiata da Socrate stesso. Comunità filosofica femminile che è all'origine di una corrente filosofica abbastanza recente denominata filosofia della differenza e che ha ormai esponenti a livello internazionale.  Resta il fatto comunque che almeno al momento attuale la tematica dell'intersoggettività è stata trattata e approfondita in maniera veramente esplicita proprio dalla scienza psicoanalitica. brunel.ac.uk/~hsstcfs/ glossary.htm Hyslop Other Minds, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Zalta plato.stanford.e/archives / other-minds Zerubavel, Social Mindscapes: An Invitation to Cognitive Sociology, Harvard Husserl, Cartesian Meditations, Klumer. Tr. by Cairns. Spaulding, Introduction to debates on Social Cognition, in Phenomenology and the Cognitive Sciences, Spaulding, Introduction to debates on Social Cognition. Phenomenology and the Cognitive Sciences. Gallese et Sinigaglia, What is so special about embodied simulation. Trends in Cognitive Sciences. Jaeger, Paulo, et Gallagher, Can social interaction constitute social cognition? Trends in Cognitive Sciences. Linell, Rethinking language, mind and world dialogically. Charlotte, NC: Information Age Publishing Gillespie, The intersubjective nature of symbols. In Brady Wagoner, Symbolic transformations. London: Routledge Gillespie, The social basis of self-reflection. In Valsiner and Rosa, The Cambridge handbook of sociocultural psychology. Cambridge Rizzolatti et Arbib. Language within our grasp. Trends in neurosciences, su psych. uw; Stone, Underwood e Hotchkiss, The Relational Habitus: Intersubjective Processes in Learning Settings, su karger.com. Marx, Engels: Miseria della filosofia, Tale questione sui rapporti tra la tematica dell'intersoggettività e il movimento femminista sono stati trattati anche in L'ultimo tratto di percorso del pensiero Uno - Escursioni nella filosofia di Montefoschi dal titolo "Il risveglio del soggetto femminile Husserl, Sulla fenomenologia dell'intersoggettività; Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) Husserl, Per la fenomenologia dell'intersoggettività; (Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) E. Husserl, Per la fenomenologia dell'intersoggettività Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) Scheler, Essenza e forme della simpatia, Angeli, Milano; Buber, Il principio dialogico, Atwood e Storolow, I contesti dell'essere. Le basi intersoggettive della vita psichica, Benjamin, L'ombra dell'altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi; Montefoschi, L'uno e l'altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico; Montefoschi, La glorificazione del vivente nell'intersoggettività tra l'uno e l'altro; Davidson, Soggettività, intersoggettività, oggettività Psicoanalisi intersoggettiva intersoggettività, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia. Intersoggettività, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica Portale Filosofia Portale Psicologia Internet ArchiveBot  Psicoanalisi intersoggettiva Glossario di psicologia analitica lista di un progetto Psicoanalisi relazionale. Nome compiuto: Luca Fonnesu. Fonnesu. Keywords: inter-soggetivo, free will, Kant, freedom, free, practical reason, the good, meta-ethics, Mackie, Hare, Fichte, Hegel, happiness eudaemonia in Aristotle, Kant, and Hegel, Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fonnesu” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fornero: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del confilosofare – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vigone). Abstract. Grice: “At long last an Italian philosopher who UNDERSTANDS me, never mind having heard from me!”  Keywords: Grice. Filosofo vigoese. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano.  Vigone, Torino, Piemonte. Grice: “I like Fornero; he surely understands the longitudinal unity of philosophy; ‘filosofare is con-filosofare,’ I love that: philosophy as philosophy of conversation – witness Socrates and Alcebiades.” Si è occupato di ambiti disciplinari diversi, che vanno dalla storia della filosofia alla bioetica, dalla laicità al diritto. Ha compiuto studi filosofici a Torino. Si laurea con una tesi sull'esistenzialismo italiano. Dopo aver insegnato per alcuni anni, in seguito ha svolto un'attività di libero scrittore, curando, su incarico di Abbagnano, una serie di aggiornamenti della sua celebre storia della di filosofia. In un secondo momento a conferma del fatto che egli non è soltanto uno storico della filosofia, bensì un filosofo dai molteplici interessi si è dedicato allo studio della bio-etica, della laicità e del diritto, con saggi che hanno suscitato ampi dibattiti e che costituiscono dei contributi importanti su queste tematiche. Abbagnano aveva pubblicato un Compendio di storia della filosofia per i licei che, dopo un periodo di notevole diffusione, alla fine degli anni settanta era quasi sparito dalla scuola. Da ciò la necessità di una profonda revisione dell'opera, che decise di affidare a F.. Nasce così l'Abbagnano-F., che, anche grazie ai continui aggiornamenti e ampliamenti, è tuttora il manuale di filosofia più diffuso. Fra le sue numerose edizioni e versioni ricordiamo: “Filosofi e filosofie nella storia”; “Protagonisti e testi della filosofia”; “Itinerari della filosofia”; “La filosofia”; “La ricerca del pensiero”; “Percorsi di filosofia”; “L'ideale e il reale”; “Con-Filosofare” e “I nodi del pensiero.” In questi lavori segue e sviluppa in modo creativo l'impostazione metodologica di Abbagnano, mirando a un modo di fare storia della filosofia che si qualifica per un'informazione accurata, una profonda empatia con le tematiche trattate e l'astensione da valutazioni ideologiche e di parte. Ha inoltre condiretto alcune collane di destinazione liceale e universitaria: “i Sentieri della filosofia” e i Sentieri della pedagogia di Paravia e, “I fili del pensiero” di Mondadori. Fra le grandi storie della filosofia quella pubblicata da Abbagnano presso la Pombail cosiddetto Abbagnano grande, uscito in prima edizione costituisce un'opera di riferimento fondamentale, che è stata universalmente apprezzata. Dopo la morte di Abbagnano, è uscito, sempre presso Pomba, un quarto volume di questa storia, dedicato al pensiero contemporaneo. Anche in questo caso, era stato lo stesso Abbagnano a incaricare F. di proseguire il suo lavoro, che si interrompeva con l'esistenzialismo e presentava solo un ultimo, sintetico capitolo su alcuni degli sviluppi più recenti.  In questo nuovo volume, F. punta a una ricostruzione chiara e scientifica al tempo stesso. Una ricostruzione che, basandosi su una conoscenza diretta (o "di prima mano") degli autori trattati, si caratterizza per obiettività e rispetto delle posizioni di cui dà conto, evitando valutazioni teoretiche che non spettano allo storico. Al pari del suo maestro, F. insiste sull'autonomia della filosofia, che non si può dissolvere nelle scienze umane, nella politica o in altre discipline. Ma gli impetuosi sviluppi della filosofia novecente non erano esauriti in quel volume. Di conseguenza, pubblica un secondo tomo del volume quarto della Storia della filosofia. Con questo contributo l'opera si configura finalmente come una trattazione esauriente dell'intera storia della filosofia dell’Europa occidentale. Abbagnano pubblica presso la Pomba la prima edizione del Dizionario di filosofia, un vastissimo elenco di lemmi tematici affrontati con grande attenzione allo sviluppo concettuale e con straordinaria capacità di sintesi. Ne curava una riedizione ampliata. Il Dizionario restaun punto fermo della storiografia filosofica, ma iniziava ormai a mostrare dei limiti cronologici.  Così, ha provveduto, co-adiuvato da un gruppo di specialisti da lui coordinato e diretto, a redigerne una nuova edizione.  L'impostazione di fondo voluta da Abbagnano è conservata, cosicché vengono escluse le voci biografiche a favore dei lemmi concettuali. Sono centinaia le voci aggiornate, mantenendo la separazione fra il contributo originale di Abbagnano e l'aggiornamento, e le nuove voci inserite. L'opera continua così a proporsi come uno dei più ampi strumenti di consultazione. Pubblica presso Mondadori Le filosofie del Novecento, una delle più ampie e sistematiche ricostruzioni storiche del pensiero contemporaneo.  L'opera muove dal pensiero nietzschiano inteso come crocevia della modernità e presenta una serie di capitoli che danno conto, seguendo un'organizzazione tematica, di tutti i principali autori e filoni della riflessione filosofica contemporanea: dalle grandi correnti del primo Novecento (neo-positivismo, positivism logico, neo-empirismo, filosofia analitica, filosofia analitica del linguaggio ordinario, neocriticismo, spiritualismo, neoidealismo, pragmatismo), al marxismo e all'esistenzialismo in tutte le loro declinazioni, per giungere alle più recenti formulazioni dello strutturalismo, del postmodernismo, dell'epistemologia, della teologia, dell'ermeneutica e delle teorie politiche ed etiche. Forte degli studi storiografici ormai accumulati e sempre in linea con i sopraccitati presupposti metodologici, pubblica, presso Mondadori, “Bioetica cattolica e bioetica laica”. Si concentra sulle posizioni della bioetica cattolica ufficiale e su quelle della bioetica laica. Attraverso uno studio analitico e puntiglioso dei testi e a un metodo improntato a una sostanziale imparzialità, giunge a definire alcuni punti nodali che a suo avviso oppongono strutturalmente la bio-etica cattolica e quella laica (sebbene non manchino posizioni intermedie e alternative). Punti che si sintetizzano nella tesi cattolica della indisponibilità della vita e nella tesi laica della disponibilità della vita.  Da un punto di vista contenutistico Fevita di prendere posizione a favore dell'uno o dell'altro modello. Tuttavia, il suo contributo produce una notevole chiarificazione delle posizioni in campo e ha il merito di porre empateticamente sotto gli occhi del lettore le strutture teoriche e concettuali che stanno alla base dei due "paradigmi"merito che gli è stato riconosciuto da Vattimo, che ha parlato di «rispettosa capacità di ascolto», e da Possenti, che parla di «giustizia intellettuale nel descrivere le varie posizioni in gioco.  Questo saggio ha originato un ampio dibattito, sia negli studi specialistici, sia nel mondo dell'informazione (come testimoniano le recensioni e i numerosi interventi apparsi sui quotidiani).  Dibattito continuato sia in “Laicità debole e laicità forte” sia in “Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confront”. Quest'ultimo saggio completa il trittico. In esso si dà conto della nuova fase del dibattito sui concetti di bio-etica cattolica e laica e si offre una serie di chiarificazioni e ampliamenti storico-concettuali, fra cui spicca l'approfondimento della nozione di "paradigma" che, partendo da Kuhn ma andando al di là di Kuhn, applica in modo originale alla bioetica.  Fra le novità del volume vi è l’ammissione, da parte di alcuni autorevoli studiosi cattolici, dell'esistenza di una diversità paradigmatica fra la bioetica di matrice cattolica e la bio-etica di matrice laica. Diversità di cui si auspica da molte parti il superamento con una serie di ipotesi ampiamente documentate nel saggio -, ma che di fatto esiste e condiziona, sia sul piano teorico sia sul piano pratico, la vita odierna. Gli studi sulla bioetica hanno trovato una continuazione e uno sviluppo nel lavoro di Luca Lo Sapio Bioetica cattolica e bioetica laica nell'era di papa Francesco. Che cosa è cambiato? (Pomba, Milano ) in cui l'autore affronta il tema delle ripercussioni bio-etiche del pontificato di Bergoglio, mettendone in luce i tratti di novità e continuità rispetto al passato. Il saggio è preceduto da un saggio di Fornero, in cui offre una sintesi aggiornata delle sue idee circa i paradigmi della bio-morale cattolica e laica. Alcune delle questioni poste in Bioetica cattolica e bioetica laica toccano il generale argomento della laicità. Tant'è che Laicità debole e laicità forte prosegue l'analisi in questa direzione, oltrepassando l'ambito limitato della bio-etica, pur continuando a usarlo come campo esemplare di indagine. Ragionando in termini teorici e non solo storici, elabora una prospettiva filosofica sulla laicità che muove dalla distinzione analitica fra due diverse accezioni del concetto di "laicità": una larga e una ristretta. Distinzione che ritiene indispensabile per fare ordine e chiarezza intorno al concetto in questione e per giustificare, senza i consueti riduzionismi, i diversi modi con cui ci si può definire "laico” (English: lay). In senso largo la laicità allude a una serie di atteggiamenti metodici (autonomia discorsiva, libero confronto delle idee, pluralismo, ecc.) che, in virtù del loro carattere procedurale, possono essere fatti propri da chiunque, a prescindere dal fatto di essere credenti o meno (tant'è che oggi, nell'ambito di questa accezione di “laico”, si parla comunemente di "laico credente" e di "laico non credenti"). In senso stretto, il ‘laico’ allude invece a quella determinata visione del mondo che è propria di coloro che non si limitano a seguire i sopraccitati criteri metodici, ma che pensano e vivono a prescindere da Dio e dall'adesione a un determinato credo religioso (tant'è, che oggi, nell'ambito di questa accezione del laico, si parla comunemente di credenti e laici o, in Italia, di cattolici e laici).  Per denominare l'accezione larga, usa l'espressione "laico debole", mentre per denominare l'accezione ristretta adopera l'espressione "laico forte", avvertendo che in questo contesto “debole” e “forte” non hanno il significato ordinario e valutativo di "meno consistente" o "più consistente", ma un significato tecnico e descrittivo, allusivo di un minore o maggiore grado di radicalità. In altri termini, il laico in senso largo è denominata "debole" poiché possiede una valenza essenzialmente formale o *metodologica*, mentre il laico in senso stretto è denominato "forte" poiché possiede una valenza di tipo materiale o *sostanziale* (in quanto allusiva della visione del mondo propria di un non credente).  L'originalità consiste quindi nel ritenere legittimi entrambi i significati (teorici e storici) del concetto di "laico" e nell'aver insistito più di ogni altro studioso in Italia sul fatto che non si deve "censurare" l'accezione ristretta o “forte” del concetto (cf. Grice on ‘weak’ and ‘strong’ – the ‘strong’ theorist, the weak theorist). Insistenza che non gli impedisce di evidenziare come il laico proprio dello Stato italiano pluralista e democratico coincida con il laico debole o largo, ossia con quella capace di ospitare in sé tutte le visioni del mondo, sia quelle di matrice religiosa sia quelle di matrice agnostica o atea. -- è vivamente persuaso del valore e della necessità della filosofia. Da ciò il suo costante impegno ad argomentare con chiarezza questa tesi, mediante una proposta la cui peculiarità consiste nel ritenere che, prima di chiedersi (come si fa solitamente) se la filosofia sia utile o meno, bisogna chiedersi se da essa si possa prescindere o meno, ossia se sia davvero possibile, per l'uomo, vivere senza filosofare. Su questo punto non ha dubbi: la filosofia è un'esigenza che sgorga dalla vita stessa e dalle sue ineludibili domande, al punto che l'uomo, come non può fare a meno di respirare e pensare, così non può fare a meno di fare filosofia. Queste considerazioni vengono più organicamente sviluppate in Utilità della filosofia. Tra filosofia e diritto: indisponibilità e disponibilità della vita. è uscito per i tipi di Pomba un nuovo volume, forse il più importante della sua produzione saggistica dal titolo Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria. Si tratta di una vasta indagine filosofico giuridica che  approfondisce con chiarezza una delle dicotomie fondamentali della cultura contemporanea, quella tra indisponibilità e disponibilità della propria vita. E ciò non solo sul piano storico-descrittivo (nel cui ambito offre comunque una documentazione amplissima che va dalla filosofia alla bioetica, dal diritto alla giurisprudenza italiana) ma anche e soprattutto su quello teorico-propositivo. Esaminando a vario titolo questo binomio e mostrandone le rilevanti concretizzazioni giuridiche e penalistiche, l'opera approfondisce il tema del "diritto di morire", che viene definito come il diritto di congedarsi volontariamente dalla propria vita e studiato nelle sue tipologie più note (suicidio, rifiuto delle cure e morte assistita). Nella parte centrale del saggio si mette organicamente a fuoco il nesso fra il diritto di vivere e il diritto di morire, inteso, quest'ultimo, come il versante negativo del diritto di vivere.  Su questa base,perviene a prendere apertamente posizione a favore della morte medicalmente assistita, che viene originalmente configurata come un nuovo e peculiare diritto di libertà giuridicamente articolato.  Insiste sull’inaggirabilità della filosofia anche in ambito giuridico, soprattutto in rapporto alle complesse e cruciali questioni del fine vita.  La filosofia contemporanea, Pomba, Torino, Storia della filosofia, La filosofia contemporanea, Pomba, Torino, Dizionario di filosofia, Pomba, Torino, Le filosofie del Novecento, B. Mondadori, Milano, Opere su bioetica, laicità e diritto Bioetica cattolica e bioetica laica, B. Mondadori, Milano, Laicità debole e laicità forte, B. Mondadori, Milano, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un confronto (in collaborazione con M. Mori), Le Lettere, Firenze  Indisponibilità e disponibilità della vita: una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia volontaria, Pomba, Torino. Articoli e interventi su bioetica e laicità Un passo in avanti. Risposte a Mordacci e Corbellini, in Vale ancora la contrapposizione tra bioetica cattolica e bioetica laica?, «Politeia», Due significati irrinunciabili di laicità, in  La laicità vista dai laici, E. D'Orazio, EgeaUniversità Bocconi Editori, Milano, Etsi non daretur, laicità e bioetica da Scarpelli a Lecaldano, in Eugenio Lecaldano. L'etica, la storia della filosofia e l'impegno civileDonatelli e M. Mori, Le Lettere, Firenze, Bioetica, laicità e bioetica laica", in Diritto, Bioetica e Laicità. Commenti a Bioetica tra "morali" e diritto diBorsellino, «Politeia», Non esiste solo la bioetica cattolica. Nota sui rapporti fra i valdesi e la bioetica, Bioetica. Rivista interdisciplinare», Il maggior bio-eticista cattolico. Considerazioni sul paradigma bioetico di Sgreccia e sulle sue peculiarità e differenze rispetto ad altri modelli bioetici di matrice cattolica, in Vita, ragione, dialogo. Scritti in onore di Sgreccia, Cantagalli, Siena, Risposte ai critici, in Il dibattito su bioetica laica e bioetica cattolica. Commenti a Laici e cattolici in bioetica di F. e Mori, Politeia, Scarpelli e il tema della laicità, in L’eredità di Scarpelli BorsellinoS. Salardi M. Saporiti, Giappichelli, Torino, Voce Laicità, in Enciclopedia di bioetica e scienza giuridica, diretta da Sgreccia Tarantino, Scientifiche Italiane, Napoli, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente, in L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell'era di papa Francesco. Che cosa è cambiato?, con un saggio di F., POMBA, Milano, Magistero bioetico cattolico e bioetica laico-secolare: tra passato e futuro, in  Bioetica tra passato e futuro. Da van Potter alla società; LargheroM. Lombardi Ricci, Effatà, Cantalupa (TO), Manuali Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino, Itinerari di filosofia, Paravia, Torino; La filosofia, Paravia, Torino, La ricerca del pensiero, Paravia, Torino  Percorsi della filosofia, Paravia, Torino  L'ideale e il reale, Paravia, Torino  Con-Filosofare, Paravia, Torino  I nodi del pensiero, Paravia, Torino. La Stampa, Avvenire, Filosofia, bioetica, laicità e diritto. Sito ufficiale, su giovannifornero.net. Giovanni Fornero. Sito web italiano per la filosofia, su swif.uniba. Con l'espressione filosofia analitica ci si riferisce ad una corrente filosofica sviluppatasi, per effetto soprattutto del lavoro di Frege, Russell, Moore, dei vari esponenti del circolo di Vienna e di Wittgenstein. Per estensione, ci si riferisce a tutta la successiva tradizione filosofica influenzata da questi autori, prevalente nel mondo anglofono (Regno Unito, Stati Uniti, Canada, Australia), ma attiva anche in molti altri paesi.  Origini AFrege ed altri portarono ad un notevole avanzamento nel campo della logica. L'idea fondamentale del movimento del circolo di Vienna era di applicare questo nuovo metodo logico, detto positivismo logico, ai tradizionali problemi filosofici. I risultati di questo metodo sono controversi, tuttavia è innegabile che tale tentativo abbia portato importanti ripercussioni e sviluppi in una serie di campi, quali ad esempio l'informatica e lo studio del linguaggio nei suoi vari aspetti: sintassi, semantica, pragmatica.  Tra gli altri assunti del positivismo logico si possono ricordare la concezione della filosofia come uno strumento d'indagine che possa emendare il linguaggio dalle sue ambiguità, dalle sue intrinseche contraddizioni e perplessità, proponendosi come un metodo teso a disvelare l'origine di alcuni problemi "filosofici" da un utilizzo idiosincratico delle forme linguistiche.  La filosofia analitica dopo gli iniziModifica Se il positivismo logico aveva tratto ispirazione dalle tesi sostenute da Wittgenstein nel suo Tractatus, è possibile legare lo sviluppo della filosofia analitica alle revisioni e agli sviluppi cui Wittgenstein stesso sottopose la propria prima filosofia, suggestioni raccolte ed elaborate in seguito da altri pensatori. La filosofia del tardo Wittgenstein non adotta i medesimi strumenti dei neopositivisti – l'analisi logica ed il metodo scientifico – ma piuttosto si concentra sugli scopi e i diversi contesti reali di utilizzo del linguaggio.  La filosofia analitica delle origini e il positivismo logico condividevano un generale atteggiamento anti-metafisico, centrato per il secondo sul principio di verificazione. I filosofi Popper con il suo falsificazionismo, e Moore in un articolo, considerarono il principio verificazionista ideato dai neopositivisti come esso stesso una teoria metafisica, ovvero un assunto passibile delle medesime critiche che il circolo di Vienna rivolgeva alla quasi totalità delle filosofie classiche. Sul piano dell'analisi del linguaggio quindi, la filosofia analitica sposterà la propria ricerca principalmente sugli aspetti propri di ogni forma di asserzione linguistica – rinunciando quindi al progetto neopositivista di costruire un linguaggio formalizzato su basi puramente logiche – e concentrando l'attenzione sull'uso reale del linguaggio, così come viene suggerito dal Wittgenstein della teoria dei giochi linguistici.  Il metodo Ciò che contraddistingue la filosofia analitica non è un insieme di tesi ma piuttosto un metodo, o uno stile, filosofico. In particolare, possiamo individuare quattro elementi caratterizzanti. Il primo è il valore dell'argomentazione. Quando si presenta una tesi si deve sostenerla attraverso un argomento, si devono rendere esplicite le ragioni a favore (ed eventualmente contro) ciò che si afferma. Affinché tesi ed argomenti possano essere valutati è fondamentale usare la massima chiarezza possibile, ad esempio dando delle definizioni di tutti i termini non di uso comune. Il secondo è l'utilizzo di tecniche di logica formale nell'esposizione della teoria. Ad esempio, il linguaggio modale (della possibilità e della necessità) viene analizzato attraverso la semantica dei mondi possibili sviluppata, fra gli altri, da Barcan e Kripke. Il terzo elemento è il rispetto per i risultati delle scienze naturali.  Non tutti i filosofi analitici lavorano su problemi che sono vicini a quelli trattati dalle scienze naturali, benché molti lo facciano. Ma è generalmente accettato che non è lecito per un filosofo contraddire risultati ampiamente accettati nelle scienze naturali, a meno di non fornire in effetti un argomento di valore scientifico a sostegno del proprio rifiuto. Infine, viene spesso messo in rilievo il valore del senso comune. A parità di altre condizioni, una teoria filosofica che preserva le verità del senso comune (ad esempio che esistono oggetti materiali, esistono persone, etc) è migliore di una che le contraddice.[senza fonte]  Il rapporto con la filosofia continentale La filosofia analitica è talvolta contrapposta alla filosofia continentale, termine con cui ci si riferisce a movimenti come l'idealismo tedesco, il Marxismo, la psicoanalisi, l'esistenzialismo, la fenomenologia, l'ermeneutica ed il Post-strutturalismo. Ad ogni modo, non mancano i tentativi di sintesi tra le due impostazioni filosofiche (ad esempio quelli di Hilary Putnam e Richard Rorty).  Breve storia della filosofia analitica Moore e la Common-Sense Philosophy, filosofia del senso comune. Rifiuto dell'idealismo post-hegeliano britannico. Bertrand Russell: Analisi logica, atomismo logico. Primo Wittgenstein: Tractatus. logica formale. Filosofia del linguaggio ideale. Positivismo logico ed empirismo logico. circolo di Vienna. Carnap. Verificazionismo. Distinzione Analitico-Sintetico. Rifiuto della metafisica, etica ed estetica. Emotivismo. SCUOLA di Oxford. Ryle, AUSTIN. secondo Wittgenstein. Filosofia del linguaggio comune. Tarde pubblicazioni di Wittgenstein. filosofia linguistica Pragmatismo americano. Emigrazione di logici e scienziati dall'Europa verso gli Stati Uniti. Filosofia della scienza. Comportamentismo. Quine. Filosofia del linguaggio. Semantica del linguaggio naturale. Davidson. Oxford negl’anni settanta. Strawson, Dummett, McDowell, Evans. Revival della Filosofia politica: Rawls, Nozick, Dworkin, Williams. Filosofia della mente, scienze cognitive. Turing. Churchland. Neopragmatismo: Rorty, Putnam. Preston. Voci correlate Filosofia continentale Società Italiana di Filosofia Analitica Collegamenti esterni filosofia analitica, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia analitica / Filosofia analitica (altra versione), su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Preston, Analytic Philosophy, in The Internet Encyclopedia of Philosophy, Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia PAGINE CORRELATE Carnap filosofo tedesco  Positivismo logico movimento filosofico-scientifico  Note sulla logica testo del filosofo Ludwig Wittgenstein. Nome compiuto: Giovanni Fornero. Fornero.Keywords. confilosofare, “Che cosa e la filosofia analitica? Ryle, Wisdom, Strawson, Austin, Grice.” Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fornero” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Formaggio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte come comunicazione – filosofia della tecnica artistica – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Grice: “It’s odd, but when I coined non-natural meaning, I was thinking ARTIFICIAL signs!” Abstract: naturale-artifiziale. Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Formaggio; for one, he philosophised on aesthetics – estetica filosofica, he calls it – along phenomenological lines – on the other, he took very seriously the idea of Latin ‘ars’ – and concludes that an ‘artificium’ is meant as ‘communicative’.” Inizia a lavorare in fabbrica quando trova impiego alla Brown Boveri di Milano. Ben presto però la sua indole portata allo studio, supportata da una vivace intelligenza, lo spronò a iscriversi alle scuole serali. Quest'esperienza, che accomuna lo studio al lavoro, dura ma anche formativa (nel frattempo aveva cambiato lavoro, passando all’orologerie Binda per avere più tempo libero da dedicare allo studio), acuì sempre più la sua sensibilità verso i problemi sociali, che costituiranno in seguito, anche quando diventerà professore a Milano e Pavia, il soggetto prevalente del suo percorso culturale, sia filosofico che umano.  Venne trasferito a Motta Visconti. Pur insegnando, proseguì gli studi a Milano, dove si laurea, relatore Banfi, con “L’arte come comunicazione. Fenomenologia dell'arte” o “rapporto tra arte e tecnica nelle estetiche europee contemporanee, avveniristica per quei tempi, incentrata com'era sul tema della “tecnica” artistica.  Nei primi anni del dopoguerra, dopo aver partecipato attivamente alla lotta partigiana, entra a far parte dell'Università Statale di Milano come assistente alla cattedra di Estetica. Collabora anche alla rivista Studi filosofici e pubblica alcuni saggi, come “Fenomenologia della tecnica artistica”, riprendendo e ampliando la sua tesi di laurea. In virtù di questo saggio, si aggiudica l'incarico alla cattedra di Estetica di Pavia. Si trasferì in Veneto, dopo aver vinto il concorso a cattedra a Padova, in un periodo molto difficile per tutto il mondo accademico italiano e in modo particolare per quello di Padova a causa delle forti tensioni causate dalla rivolta studentesca prima, e dal nascente terrorismo armato poi, assumendo dapprima l'incarico di preside della Facoltà di Magistero e poi quella di pro-rettore. Ricoprì la cattedra a Milano, della quale fu poi professore emerito. Gli allievi pubblicarono un libro in suo onore Il canto di Seikilos. Scritti per Dino Formaggio. Gli fu conferito il premio Lion d'Or International  nell'arena romana di Nîmes per le pubblicazioni di filosofia e il suo impegno civile. A Teolo, comune della provincia di Padova, gli è stato dedicato il Museo di arte contemporanea, la cui nascita è stata resa possibile da alcune donazioni all'ente effettuate grazie al suo interessamento, e la cui collezione comprende opere di autori del XIX e Professore quali Lanaro, Sassu, Rosso e Birolli.  Il fondo librario F. è stato donato dagli eredi alla biblioteca di filosofia di Milano ed è costituito dalla consistente biblioteca filosofica di studio oltre 2200 volumi. Il fondo è stato recentemente catalogato ed è ora disponibile alla consultazione e in parte, al prestito. Tutti i volumi sono stati associati al possessore, riportano lo stato della copia e segnalano la presenza di note, commenti, dediche, firme autografe. Sono in fase di catalogazione i periodici. Potete trovare le notizie bibliografiche di tutti i testi della ricca biblioteca nel Catalogo di Ateneo. Altre opere: “Fenomenologia della tecnica artistica” (tecnica tecnica arte artistico); Piero della Francesca; Il Barocco in Italia; L'idea di artisticità – arte artistico artisticita – tecnica tecnicista, tecnicisticita; Arte; La morte dell'arte e dell'estetica; Gogh in cammino; I giorni dell'arte; Problemi di estetica; “Separatezza e dominio; Filosofi dell'arte del Novecento; Il canto di Seikilos. Scritti per F., Guerini, Milano. Panza, Padre dell'Estetica Fenomenologica italiana, in Corriere della Sera, Museo di Arte Contemporanea "Dino Formaggio" di Teolo, Introduzione al Museo, su//comune.teolo.pd. Scuola di Milano Museo di arte contemporanea F.  "Arte ed Emozioni"Intervista a F., su emsf.rai. 3 Museo d'arte contemporanea F., su turismopadova. "Filosofo dell'arte e maestro di vita" di Vladimiro Elvieri, Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani Franzini, Ricordo, Daturi, "Il perché e il come dell'arte: l'estetica di F.", sito della mostra bibliografico-documentaria Milano. Nazione comunità di individui che condividono alcune caratteristiche comuni quali la lingua, il luogo geografico, la storia ed un governo. Il termine nazione (dal latino natio, in italiano«nascita») si riferisce ad una comunità di individui che condividono alcune caratteristiche come il luogo geografico, la cultura (cioè la lingua, la religione, la storia e le tradizioni), l'etnia ed, eventualmente, un governo. Un'altra definizione considera la nazione come uno "stato sovrano" che può far riferimento a un popolo, a un'etnia, a una tribù con una discendenza, una lingua e magari una storia in comune.  Una differente corrente di pensiero, che fa riferimento all'idea di nazione in quanto realtà oggettiva e legata a pensatori riconducibili a diverse espressioni politico-culturali, include tra le caratteristiche necessarie di una nazione il concetto di sangue (Herder) o di consanguineità (Meinecke). Un'altra definizione vede la nazione come una «comunità di individui di una o più nazionalità con un suo proprio territorio e governo» o anche «una tribù o una federazione di tribù (come quella degli indiani nordamericani). È appoggiandosi a tali nozioni che si è sviluppato il concetto di micro-nazione.  Alcuni autori, come Habermas, considerando obsoleta la nozione tradizionale di nazione, si riferiscono a essa come a un libero contratto sociale tra popoli che si riconoscono in una costituzione comune. Tale concetto, in questo caso, si estende anche a quello di patria e il patriottismo nazionale verrebbe così rimpiazzato dal patriottismo costituzionale. o grazie al concetto di gruppo di appartenenza. La nazione è tale dal punto di vista politico. Ciò prevede un profondo senso del noi, pace e ordine al suo interno, una serie di simboli e miti comuni, la garanzia di protezione e la consapevolezza della durevolezza nel tempo della nazione rispetto ai singoli individui.  Caratteristiche Il senso del noi si sviluppa nella popolazione spesso grazie al confronto con il gruppo esterno, che alle volte assume la forma di un odiato nemico. Un esempio può trovarsi nella storica rivalità tra nazione francese e nazione tedesca: entrambe hanno caratterizzato la loro identità nell'ostilità rispetto al vicino. Una nazione può essere rappresentata da uno stato, che garantisce un ordinamento giuridico e ne afferma la sovranità. In tal caso si parla di stato-nazione. Oltre gli stati esistenti, alcuni partiti politici e associazioni rivendicano di appartenere a nazioni senza stato e, per quanto riguarda l'Europa occidentale, si riuniscono nella conferenza delle nazioni senza stato d'Europa occidentale (CONSEU). L'organizzazione che raccoglie nazioni e popoli non rappresentati di tutto il mondo è l'organizzazione delle nazioni e dei popoli non rappresentati (UNPO). Renan definisce nazione come l'anima e il principio spirituale di un popolo, che gode di una ricca eredità di ricordi e del consenso attuale. Ne consegue che la nazione esiste finché trova posto nella mente e nel cuore delle persone che la compongono.  L'idea di nazione matura nel tempo.  Giustificazione storica della nazione è fornita da opere letterarie, da poesie e da canti, composti anche in un passato molto lontano ma che vengono rapportati al presente; classica giustificazione della nazione tedesca è riscontrabile nella Germania di TACITO (si veda), in cui i popoli abitanti nel cuore dell'Europa vengono esaltati come valorosi, leali e incorrotti: è probabile che TACITO (si veda) abbia voluto in questo modo fare una critica della società romana, dando comunque materiale ai tedeschi per legittimare la propria superiorità. Nell'uso quotidiano erroneamente i termini come nazione, stato e paese vengono usati spesso come sinonimi per indicare un territorio controllato da un singolo governo, o gli abitanti di quel territorio o il governo stesso; in altre parole lo Stato.  In senso stretto tuttavia, nazione indica le persone, mentre paese indica il territorio e stato la legittima istituzione amministrativa. Per aumentare la confusione, i termini nazionale e internazionale si applicano agli Stati.  Nonostante al giorno d'oggi molte nazioni coincidano con uno Stato, le cose non sono sempre andate così in passato e ancora oggi esistono nazioni senza Stato e viceversa ci sono degli stati formati da più nazioni. Vi sono anche stati senza nazione. Occorre infine ricordare che con il termine nazioni in passato si intendeno anche associazioni di mercanti aventi la stessa nazionalità e residenti in uno Stato estero per motivi di commercio verso il cui governo erano rappresentati da propri consoli (diversi dalle rappresentanze statali presso altri stati).  Il concetto di nazione nella storia Antichità e testi sacriModifica L'archetipo della nazione d'IsraeleModifica La Bibbia descrive il concetto di nazione (nationes o gentes) come "una delle grandi divisioni naturali della specie umana uscita dalle mani di Dio creatore, espressione della diversità visibile della società umanasulla terra". Le nazioni sono il risultato della divisione dell'umanità in schiatte, stirpi e popoli, come il fruttodel superamento dell'unità originaria del genere umano.  La Genesi racconta del passaggio da un primitivo universalismo a una dispersione dei popoli, causata forse nel tempo attraverso la discendenza dei figli di Noè, sopravvissuti con lui al Diluvio universale, o repentinamente dall'edificazione della torre di Babele. L’Apocalisse di San Giovanni pronostica un ripristino dell'antico universalismo, secondo un piano di salvezza che riguarderà tutte le nazioni e non soltanto il popolo d'Israele.  Di preferenza, nelle Sacre scritture il termine nazione ricorre per indicare i nemici pagani del popolo eletto, quelle nazioni, cioè, che non riconoscono Dio e la sua potenza. Il popolo di Dio deve lottare e combattere le nazioni per difendersi dalla sottomissione e dall'errore. Tutto ciò riconduce a un sentimento di nazionalismo.  La nazione di Israele nasce come "lega sacra" tra le varie tribù ebraiche, su una base al tempo stesso etnica e religiosa. Sarà questa unione culturale (variabile culturale) a tenere unito il popolo di Dio, anche in assenza di una forma politica stabile.  Grecia Possiamo tradurre in greco il termine nazione con "ethnos", sebbene questa voce abbia assunto un elevato numero di connotazioni: popolo (greco o barbaro), forme politiche associative non riconducibili alle polis, ma anche un popolo o una comunità etnica con un proprio statuto politico-giuridico e un'autonoma struttura costituzionale. Il termine ethnos indica non tanto una popolazione dispersa su un territorio esteso, che vive in villaggi e unita da legami politici deboli e intermittenti, quanto un insieme, etnicamente omogeneo, di comunità politiche locali, con un'identità politica fondata essenzialmente sull'elemento territoriale. Il termine genos indica la comune discendenza, la provenienza da uno stesso ceppo, i vincoli di sangue, ma generalmente non esprime vincoli di appartenenza politica.  I differenti popoli che formano la nazione (ethnos) ellenica sono accomunati su vincoli di sangue (variabile naturale) più che da legami di tipo culturale o politico territoriale.  L'evento che più di ogni altro ha unito i greci in un sentimento unitario, sono state le guerre persiane. Socrate distingue la rivalità interna e la definisce discordia, dalla minaccia di altri popoli, che chiama guerra. La superiorità culturale e politica dei greci rispetto ai barbari favorisce un sentimento di unione non solo di sangue, ma anche politica e culturale, che si perpetuerà oltre la contingenza persiana, anche se non si raggiungerà mai la realizzazione di una nazione in senso proprio, libera da conflitti interni e rivolta a un espansionismo esterno.  RomaModifica È nel mondo romano che il termine nazione fa la sua comparsa per la prima volta e viene utilizzato con sfumature diverse. Nel suo significato immediato la natio richiama la nascita e l'origine, la comunità di diritto alla quale si appartiene per vincolo di sangue, secondo uno degli usi restrittivi che già si trova nella tradizione biblica. Nell'uso romano la natio è anche la terra nella quale si è nati, il luogo d'origine, di appartenenza o di provenienza. Generalmente natio viene utilizzato per indicare le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma. Altre volte indica popolazioni ostili alla res pubblica, o popolazioni barbare e arretrate.  A differenza di GENS, che indica una stirpe intera (ad esempio la gens germanica, GENS ITALA), natio indica le singole tribù. Il termine natio ha assunto dunque valenze e connotazioni diverse, che indicavano l'esistenza di vincoli di appartenenza politica basati sul sangue, sull'affiliazione tribale e sui legami territoriali, ma non la presenza di un ordine politico complesso e articolato, di un livello di civiltà lontanamente paragonabile a quello romano. Questo spiega perché, per indicare Roma, il sostantivo natio venga sostituito da civitas, patria, res pubblica, Urbs. Il Medioevo è un periodo di mezzo fra il mitodell'universalismo (realizzato antecedentemente sotto forma di impero) e il particolarismo nazionale che si realizzerà nei secoli a venire. È un periodo importante, che pone le basi per i successivi mutamenti storici e sociali. Tra l'età tardoromana e l'inizio dell'Alto medioevo vanno ricercati i fattori e gli elementi dalla cui combinazione scaturirà in seguito la maggior parte delle nazioni storiche che ancora oggi compongono la carta politica dell'Europa.  Il Medioevo è il periodo d'elezione per studiare la formazione di buona parte degli stati europei.  Le nationes universitarie Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Nationes, Peregrinatio academica, Clerici vagantes e Authentica Habita. Le nationes universitarie, sorte nelle Università medievali d'Europa, sono una delle espressioni storicamente più significative del compromesso tra universalismo e particolarismo. Gli scholares vagantes si muovono da tutta Europa per apprendere nelle diverse città europee gl’insegnamenti impartiti da magistri a loro volta provenienti da ogni paese. Particolarismo dettato dalla loro provenienza territoriale. Universalismo caratterizzato dal sapere (universale appunto). Al tempo stesso, le corporazioni e associazioni cui davano vita nelle città che li ospitavano per difendersi reciprocamente dalle pressioni dei poteri locali, tendono a strutturarsi in funzione della loro differente provenienza geografica, sulla base dunque della terra d'origine, della lingua materna e della diversità di costumi.  "L'università divenne il centro e il punto di partenza dell'organizzazione nazionale.  Le nationes mercantili e conciliari. Più rilevante è stata la funzione svolta dalle nationes mercantili. Si tratta di comunità forestiere composte da commercianti e operatori economici stabilmente insediate all'estero.  Similitudini con le nationes universitarie:  Nascita spontanea, volontaria e limitata nel tempo; Garantire assistenza e tutelare gli interessi professionali; L'aggregazione avviene in base a criteri linguistico-territoriali; In generale, le nationes mercantili hanno avuto un ruolo più spiccatamente politico-rappresentativo: non si sono limitate alla salvaguardia dei privilegi e delle concessioni ottenuti dal potere locale o al perseguimento di comuni obiettivi materiali, ma hanno anche perseguito lo sviluppo delle relazioni economiche e politico-diplomatiche tra paesi e la definizione di modelli socioculturali e d'identità politico-territoriali. Si può dunque dire che hanno storicamente contribuito alla costruzione della futura Europa delle nazioni. Agli interessi dei commercianti si affianca la solidarietà patriottica, l'affinità culturale e religiosa, una lingua comune e un comune sentimento riferiti a una città/regione/nazione.  Il principio qui stabilito, se da un lato dimostra come in questa fase storica l'appartenenza (o identità) nazionale sia ancora priva di rilevanti connotazioni politiche, dall'altro conferma come i valori etnolinguistici che sono alla base di quella che potremmo definire l'idea di nazione culturale fossero già pienamente attivi nella mente delle classi dirigenti e dei ceti intellettuali dell'epoca.  Dalla Riforma alla Rivoluzione A partire dal '500 fenomeni come l'accentramento del potere politico nelle mani dei sovrani, l'affinamento letterario delle lingue vernacolari, il radicamento su base territoriale delle chiese riformate producono, su gran parte del territorio europeo, il progressivo consolidarsi del sentimento collettivo e della coscienza unitaria di sempre più vaste comunità umane, che cominciano ad assumere una fisionomia e un'identità nazionale. MACHIAVELLI (si veda): Il termine nazione assume un significato generale ed estensivo poiché si riferisce a collettività straniere, a popolazioni e a paesi oppure può richiamare una o più comunità con la loro particolare fisionomia storica e culturale. Nazione indica dunque differenze linguistiche e territoriali, diversità culturali, ma anche la continuità storica che caratterizza la vita di un popolo rendendolo specifico e differente dagli altri. GUICCIARDINI (si veda): Oltre agli usi scontati (luogo di nascita, paese di appartenenza, popolazioni barbare straniere), nazione indica anche una comunità etnico-territoriale distinta dal punto di vista della cultura. Gli svizzeri si alleano col ducato di Milano per respingere i Francesi.  Nascita delle chiese nazionali (cuius regio, eius religio). Distacco teologico ma anche politico e linguistico rafforza il senso di appartenenza.  In questa fase è possibile individuare una profondità storica: il termine nazione non indica soltanto coloro che su un dato territorio condividono la stessa lingua, gli stessi costumi e la stessa religione, ma un insieme di caratteri e di legami che rimanda ad un passato percepito come unico e peculiare, con una sua forza vincolante.  Per il periodo storico compreso tra Rinascimento e Rivoluzione francese possiamo distinguere tre modelli o varianti del concetto di nazione:  Nazione statale: la nazione si forma sotto la spinta dello Stato. La crescita del sentimento nazionale è proporzionata alla crescita dello Stato (territoriale). Es. Inghilterra; Nazione culturale: sviluppata in quegli stati in cui il modello politico statuale si è sviluppato con maggiore ritardo (Germania, ITALIA). La nazione coincide in questo caso con una comunità popolare basata sulla cultura, sulla lingua e sulle tradizioni storiche. Nazione politica sovrana. La nazione costituisce un'unione volontaria di cittadini che si pone, al posto dell'antico sovrano, come fondamento esclusivo dello Stato. Da qui si sviluppa una sovranità politica. Es. Francia rivoluzionaria. La nazione culturale. Fonda la sua coesione sulla lingua, sulla cultura e sulla tradizione (Herder), non sull'astratta rigidità di un'obbligazione politica (Kulturnation). Secondo Herder nella vita di una nazione, l'unità di cultura e di lingua viene prima dell'unità politica, dello Stato e della costituzione. I vincoli culturali sono più stabili e duraturi di quelli istituzionali. Esempi di nazione culturale (Germania, Italia). Herder teorizza la nazione come un fattore di progresso civile e morale, nonché come un tramite fra l'individuo e l'umanità. Realizzando sé stesso all'interno di una realtà sociale culturalmente omogenea e spiritualmente coesa, l'uomo può più facilmente attingere alla dimensione dell'universalità e realizzare la sua natura sociale (visione universalistica).  La nazione politica - Visione romantica di Rousseau Pone al centro la volontà degli individui che vi fanno parte (volontà di costituire una nazione), piuttosto che la natura e la storia, come fattore fondante della nazione politicamente intesa. Richiamo al sentimento piuttosto che alla ragione (Rousseau). R. sottolinea l'importanza che le istituzioni, la volontà politica e un agire sociale collettivo sorretto dalla passione comune e dalla consapevolezza di sé e della propria identità rivestono nel salvaguardare e rafforzare il sentimento di appartenenza nazionale di qualunque identità politica. A proposito delle diversità dei popoli Rousseau afferma che sono le forme di governo, i sistemi di legislazione e le leggi che devono adattarsi allo spirito dei popoli e al loro carattere.  Per Sieyès il terzo Stato rappresenta la nazione intesa proprio come un organo assoluto senza il quale lo Stato non esisterebbe. Gli ordini privilegiati sono qualcosa di esterno alla nazione. Minoranza infima e inutile. Ciò che lega una nazione non è dunque la comune origine storica, la lingua, i costumi o il territorio, ma la volontà degli individui, tutti ugualmente liberi. Volontà non alimentata da retaggi storici ma da sé stessa.  Ottocento In seguito al periodo rivoluzionario, il campo semantico del termine nazione si allarga notevolmente: da semplice realtà collettiva caratterizzata da usi e costumi a soggetto originario dell'organizzazione della società, la comunità fondamentale che legittima le istituzioni che organizzano la vita collettiva.  Associazione con altri termini: popolo, patria, libertà, cittadinanza, Stato, volontà, sovranità.  Aspetto terminologico Il concetto di nazione diventa globale e inclusivo in corrispondenza della nascita degli stati-nazione. Indica quindi la totalità degli abitanti di un paese, si avvicina al concetto di cittadinanza e spesso si rivela indipendentemente da componenti culturali o etniche. Dunque nazione coincide sempre più con "insieme dei cittadini" o "popolo", il quale assume la valenza di un soggetto politico unitario composto da uguali. Al contempo la nazione si compenetra alla patria. Nasce il nazionalismo.  Aspetto relativo al contesto in cui si impone la nazione Mutamenti legati alla rivoluzione industriale (sviluppi trasporti, comunicazioni di massa, urbanizzazione). La nazione rimane un punto di riferimento per i cittadini innanzi ai mutamenti sociali.  Attivismo politico di nuovi ceti e gruppi sociali di matrice borghese. Dunque nazione come fattore di integrazione socioculturale innanzi alla disgregazione delle rivoluzione industriale. La nazione ha bisogno di basi storiche e culturali su cui radicarsi: costruzioni più o meno spontanee da parte di poeti, storici, scrittori, filosofi, linguisti e filologi (intellettuali). Nazionalizzazione (attribuire un significato nazionale) dei miti del passato. Dunque dare radici storiche a qualcosa di già esistente.  Alcuni approcci alla nazione elaborati Lo stesso argomento in dettaglio: Nazionalità. La nazione romantica Visione illuministica: nazione come realtà nella quale si riconoscono gli esseri illuminati e i popoli i cui costumi siano stati segnati dalla logica del progresso storico. Visione romantica: nazione come sfera di appartenenza particolaristica ma non esclusiva. La nazione non può fare a meno di entrare in rapporto con la cultura e lo spirito delle altre nazioni e degli altri popoli, insieme con i quali essa costituisce un più vasto organismo vivente. I popoli possono vivere in armonia mantenendo la propria individualità.  Passaggio dallo spirito cosmopolitico settecentesco al nazionalismo ottocentesco. Fichte: solo la nazione tedesca (grazie alla sua superiorità linguistica e culturale, ecc.) può fare da guida politico-spirituale a beneficio dell'intero genere umano. Realizzare il cosmopolitismo partendo dal nazionalismo. La Germania è superiore: dunque è l'unica in grado di generare quell'universalità.  La superiorità linguistica della nazione tedesca, secondo Fichte, è legata alla capacità dell'Urvolk ("popolo originario") di mantenere e salvaguardare la propria lingua originaria ("Ursprache") da influssi stranieri, restando stanziati sul territorio d'appartenenza, a differenza di altri ceppi germanici che, migrando, hanno favorito il modificarsi non solo delle proprie abitudini comportamentali, ma anche della propria lingua. Dunque, il popolo tedesco è l'unico popolo, il popolo non corrotto dal progresso e dalle regole.  Nazione, libertà, umanità Le differenze fra nazione culturale e politica non sono così individuabili da un punto di vista dell'analisi pratica (sangue e volontà si mescolano).  La nazione italiana: non è qualcosa da costruire ex novo, ma è una comunità naturale che deve essere risvegliata dandole uno Stato e un assetto politico unitario. Per gli autori italiani, il termine nazione è unito alla libertà, alla politica e allo Stato. Al contrario degli intellettuali tedeschi come Herder, quelli italiani pensano che le variabili culturali siano solo un punto di partenza per giungere a una nazione in senso politico, libera e sovrana, dotata di istituzioni e di un governo che ne rispecchi la specificità.  Mancini: le nazioni costituiscono una dimensione naturale e necessaria della storia umana, la cui vitalità storica dipende tuttavia dalla loro libertà e indipendenza, dal fatto cioè di essere non un mero aggregato di fattori naturali e storici (territorio, lingua, ecc.), bensì un corpo politico e di possedere un governo, una volontà giuridica e leggi proprie. Senza lo Stato la nazione rischia di restare un corpo inanimato.  MAZZINI (si veda) vede nella nazione la base politica della sovranità popolare e dello stato democratico: "Per nazione noi intendiamo l'universalità de' cittadini parlanti la stessa favella, associati, con eguaglianza di diritti politici, all'intento comune di sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l'attività di quelle forze."  Differenza fra MAZZINI (si veda)  e Sieyès. Per Sieyès il soggetto storico che fa nascere la nazione attraverso la volontà sono i cittadini (liberi e uguali), per MAZZINI (si veda) è invece il POPOLO, inteso unitariamente come titolare di diritti e doveri che trascendono quelli dei singoli individui, popolo come espressione di una nuova epoca storica. Funzione pedagogica della nazione: essa educa l'uomo al sacrificio, al dovere e all'etica in funzione della comunità.  Marxismo e questione nazionale Marx vede la nazione come un progetto della classe borghese, la quale, proponendosi come classe dominante, conquista il controllo dello Stato, dei suoi apparati legali e produttivi, a scapito dei vecchi ceti feudali e aristocratici. La nazione non costituisce dunque una totalità omogenea. I proletari vi sono esclusi. In quanto prodotto borghese, la nazione è strettamente connessa alle dinamiche del sistema capitalistico e come tale questa verrà meno con il superamento del capitalismo. La nazione è dunque una realtà storico-politica contingente. Chabod, L'idea di Nazione Bari Il World Book Dictionary definisce la nazione come “la popolazione che occupa uno stesso luogo geografico, unita sotto lo stesso governo, e parlante usualmente la stessa lingua” ^ LA STORIA, Mondadori, Webster's New Encyclopedic Dictionary (trad en-WP). ^ Il termine patriottismo costituzionale, coniato dal politologo e giornalista conservatore tedesco Sternberger fu completamente reinterpretato dal filosofo tedesco Habermas. Intervista con Mayos, presidente Circolo di Barcellona di studi della nazione. Internet Archive. Rokkan, Territori, Nazioni, Partiti: verso un modello geopolitico dello sviluppo europeo, in "Rivista Italiana di Scienza Politica Chabod, L'idea di Nazione, Bari, Laterza;  Rokkan, Territori, nazioni, partiti, in "Rivista italiana di Scienza politica Stato, nazione e democrazia in Europa, a cura di Peter Flora, Il Mulino, Bologna 2002 Anthony D. Smith, Le origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, La nazione. Storia di un'idea, Rubbettino, Soveria Mannelli Reinhard, Storia del potere politico in Europa, Il Mulino, Bologna Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in Europa, Il Mulino, Bologna 2003 Alessandro Campi, Nazione, Bologna, Il Mulino, Muller, Constitutional Patriotism, Princeton Unità nazionale Patria Popolo Stato Esilio Patriottismo Nazionalismo Mito-motore Etnocentrismo Etnogenesi Comunità immaginate Comunitarismo Pulizia etnica Razza Discendenza Xenofobia Micronazione Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni sulla nazione Wikizionario contiene il lemma di dizionario nazione Smith, Nazione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, nazione, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, nazione, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana; Nazione, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera Nazione, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto dell'Enciclopedia; Portale Antropologia   Portale Geografia   Portale Politica Popolo insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno Stato  Nazionalità appartenenza di un individuo a una determinata nazione  Cosmopolitismo atteggiamento di chi si considera cittadino del mondo. Nome compiuto: Dino Formaggio. Formaggio. Keywords: arte naturale, l’arte come comunicazione, fenomenologia della tecnica artistica, natura, arte, artistico, tecnica, l’arte come comunicazione, segno della natura, segno dell’arte, segno naturale, segno artificiale – artificiale – segno di natura, segno di arte, ‘phuseos’ ‘theseos’ – per natura, per positione --  la natura, la nazione -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Formaggio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia,  Grice e Burali-Forti: la ragne conversazionale e il paradosso, ragione conversazionale ed implicatura conversazionale – scuola d’Arezzo – filosofia aretina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Abstract. Grice: “It’s funny, but at Oxford, we call logicians blue-collared crew – and it’s notable too that logicias seldom teach at Bologna faculty of philosophy, but places like Torino and such!” Keywords: System G-hp. Filosofo aretino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Arezzo, Toscana.  (Arezzo -- Torino). Filosofo, matematico e logico italiano. Figlio del pittore e compositore F. F. nasce da Cosimo. Studia a Pisa con DINI (si veda) e BETTI (si veda), laureandosi. Professore a Torino dove frequente il “gruppo di gioco” di Peano. Collaboratore di Peano nella stesura del celebre “Formulario matematico”, ne continua l'opera nel settore della logica, con la pubblicazione di “Logica matematica” – “a blue-collared practitioner, I’d say, had his father not been the celebrated composer!” -- Famoso è il paradosso che porta il suo nome e che riguarda l'INESISTENZA dell'insieme di tutti i numeri ordinali. Docente di geometria analitica e proiettiva a Torino. Conduce ricerche sul calcolo vettoriale e la geometria differenziale (con Boggio, Burgatti e Marcolongo), l'astronomia, e la balistica.  Con Marcolongo, in particolare, sviluppa il calcolo differenziale assoluto senza coordinate, in opposizione al calcolo tensoriale sviluppato da Civita e Curbastro.  Con Boggio applica tale calcolo alla relatività generale, fornendone una prima formulazione invariante.  Muore nell’Ospedale Mauriziano di Torino, affetto da carcinoma dello stomaco. Altre saggi: Logica matematica, Milano: Hoepli, Introduction à la géométrie différentielle, suivant la méthode de Grassmann, Parigi, Gauthier-Villars, Corso di geometria analitico-proiettiva per gl’allievi della R. Accademia Militare, Torino,  Petrini di G. Gallizio, e Marcolongo, Analyse vectorielle generale: Applications à la mécanique et à la physique (Parigi: Gauthier-Villars, Burali-F., Cesare e Boggio, Tommaso, Meccanica razionale (Torino-Genova: S. Lattes et c.) Burali-F., Cesare, Geometria descrittiva (Torino-Genova: S. Lattes et c. Fu Segretario Capo dell’Amministrazione Provinciale di Arezzo e cavaliere della Corona d’Italia. Mille anni di scienza in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Voci correlate Paradosso di F. Formulario mathematico Boggio Burgatti  Marcolongo F. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Burali-F., Césare, su sapere.it, De Agostini. Wikidata Burali-F., in Enciclopedia della Matematica, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Agazzi, F., Cesare, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 15, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F., su MacTutor, University of St Andrews, Scotland. F., su Mathematics Genealogy Project, North Dakota State University. Modifica su Wikidata Opere di Cesare Burali-Forti, su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata Biografia dovuta a Francesco Tricomi nel sito della SISM Biografia curata da Roero in Torinoscienza.Portale Biografie   Portale Fisica   Portale Matematica Categorie: Matematici italiani Matematici italiani Logici italiani Nati ad ArezzoMorti a Torino [altre] MANUALI H0EPL1 ly r v (0 1 logica MATEMATICA F. I’rofoaoiu u t'Ilit H. Acauloniia Militari- ili Torino. ULRICO IIOEPLI UDITORE - LIBRAIO DELLA I1EAL CASA MILANO, Torino proprietà letteraria Vikcemio Bona, Tip. dello LL. MM. e dei RR. Principi- prefazione Ea si recto eonslilnfa fnerinl S= : SE;I3f5p u Ttoi%r Mio * wu comu - f„™„ 4 Q at2teHoa^osecJ a st.-ca, stadia „ formo di ragionamento proprie del lingua»»,-,, comune, „ dei ^ di questa si serper enunciare le sue leo'e’ì r o / studi» lo fo,., gg . La lo 9 lra '"«temati, -a, . ‘, kìWC f Ii ragionamento proprie delle :™;:: !t‘ livp : in «„ ^ manca. e da questa copia i simboli dei quali si serve por enunciare le sue le^i ' Mentre i termini del linguaggio comune as- sumono spesso diverso significato o valore a se- conda del posto che occupano nel periodo, a causa Iodio frequenti eccezioni a cui sono soggetto le goj^auimatical], i simboli della logica ma- to, natica “»«ano ovunque il mcdesifS leg», allo" T" d ° ™ WWMi rru Total- m ente in simboli la teoria dei numeri interi. Questo lavoro fu seguito da altri numerosi, per opera di diverso persone. Oggi il formulario che va pubblicando la Rivista ili matematica si pro- varie della Logica matematica, ed è lo sviluppo di un corso di letture scientifiche da me fatte nel corrente anno scolastico presso l’Università di Torino. I segni dei quali ho fatto uso sono quelli adottati per il Formulario, ora citato, e i numerosi esempi sono stati scelti nel campo della matematica elementare, per rendere possibile la lettura di questo libro, anche a chi non possiede nozioni di matematica superiore. Torino, marzo 189pone di t rattare to talmen te in_ s i mboli le n arti della matematica . *ìl "presente manuale”lontiene gli elementi J»» ■♦♦■ -♦♦- -4^ •■ S5S555SS  ZNTozioni generali. fl»« H« v . ay»p-> Lo •- U> «U*V«4«s# - afi**rn+4.i r- t_ i«muvtA m. Ciotte, ~ h scriveremo il segno e, nuziale «ella parola tcrri, al posto >«^wi dell ’aflermazioiie è un . Scrivendo, p. es., Dante e poeta, esprimiamo, Dante è un poeta, e indichiamo una prono - ‘ sizione . grammaticalmente semplice, della quale Dante è il soggetto ( nome proprio ) e poeta fe l’attributo ( nome comune, nome di una classe). t ; t [£ *** In matematica occorre spesso far uso delle classi “ Nu- meri interi “ Razionali „ “ Numeri reali „ Scri- veremo : N al posto di numero intero positivo (lo zero escluso). R „ razionale positivo ( ). Q „ numero reale positivo ( ). q „ numero reale positivo, o negativo, o nullo. Np „ numero primo. N 0, Rii, Qo, per indicare le classi N, R, Q, agli indi- vidui delle quali si unisca lo zero. C-.oAi.t Fosti 1 2 Capitolo l V N.r, ove x è un numero intero, per indicare, multiplo di x; cioè indichiamo con Na- la classe i cui individui sono l.r, 2x, Sx ... prodotti per x degli individui di N. r Con i segni ora introdott i e il segno e. scriviamo sotto F0V,( la forma simbolica seguente le prop . 2 e N ; 3/4eR; ireQol£SÌ, e x (*-f- 1) i (r-J- 2) «N 6 ò la tesi; il segno 3 e il segno di deduzione. Nella (1), abbiamo fatto precedere e seguire il 3 da un punto per separare i tre segni x e N, 3, x (x -f- 1) (a; + 2) e N 6 . In generale se a, b sono prop. con 036, che si legge “ da a si deduce b esprimiamo che “ se fc vera a al- lora b è vera „ 0 anche “ b è conseguenza di a * * # Indicheremo con ab, abc f raffennazione^imuU^nea delle prop. a e b; a, b e c; '^"Vcmló^Tes^ affermare che 3 e 7 sono numeri primi scriviamo 3 e Np, 7 e Np e separiamo con un p ugto le due prop. semplici 3 e Np, 7 s Np. Analogamente scrivendo, 11 e Np . lSe Np . 17 e Np af- fermiamo simultaneamente che 11 . 1S, 17 sono numeri .£ primi. Volendo affermare simultaneamente che x, ij, z, sono individui di una classe u, scriveremo x,  t' e Q . 3 . log (xy) = Ioga; -f- l ogy *• y £ q • D ■ (** + + y 8 ) (* - y) = *» - 2,3 che esprimono note proposizioni di algebra. - *4. * !"* • 11 ^ a. *' y, z e N . *  txy maggiore della loro media geometrica, 1 ~ y, 2, u e Q . ar/«,  y . x — y e Nz : o : rest (x, z) = rest (y, z) “ Se la differenza dei numeri x e y è multipla di z, al- lora dividendo x e y per s si ottengono resti eguali La traduzione letterale dei simboli può farla il lettore per esercizio. fiCapitolo I Quando per 1 |l prop. a 0 b 'e vera l’attenuazione siinub tanea a 0 b . b o a, diremo che aj è equivalente _g \b e scrive- remo a — b. Restando sottintesa l’ipotesi tv,y, z « N . x> ;/, abbiamo che se x — y è un multiplo di z, allora rest (x, z)=rest(j/,z): o viceversa; se rest (x, z) — rest (y, z) allora x — y è un multiplo di z. Sono vere cioè le due prop. x — !/ e Nz . 0 . rest (a:, z) = rest («/, z) rest ( x, z) = rest (y, z) . 0 . x — y e Nz Possiamo quindi affermare che la prop. x — y e Nz è equivalente alla prop. rest (x, z) = rest (y, z). Rimettendo l’ipotesi soppressa, abbiamo la prop. a:, I/, z e N . .T > S' : o : a: — y € Nz . = . rest’.(», z) = rest (y, z) che può leggersi " Se x, y, z sono numeri ere maggiore di y, allora avremo che; dire che x — y è un multiplo di z equivale a dire che, rest (x, z) — rest (y,z) „. Analogamente abbiamo x, yeN :Q:x 0 : Q : x = 0 . u . y ' == 0 e leggiamo “ Se x, y sono numeri reali e xy — 0, allora avremo clic x è eguale a zero, o y c uguale a zero,. x, y £ N . z e Np . xy e Ns : o : a: e Nz . u . y e Nz “ Se il prodotto dei numeri x e y è multiplo del nu- mero primo z, allora, o x è un multiplo di z o y ò un multiplo di j „ o in altri termini “ Se un numero primo divide un prodotto, divide uno almeno dei fattori „. Scriveremo il segno - al posto della parola non. Se a \OYl b una prop. con - a indichiamo la sua negazione. Così per -(rtN) si legge “ non è vero che x è un numero intero *. In luogo del segno - (x e «), se u b una classe, scriviamo x- ai e leggiamo “ x non ò un « „. Nozioni generali 9 *' » .o~ — ~t » '-r ' * z\&. „). -(* V» e leggeremo ‘ * non è eguale ad y,, * non c .g giore di ‘ * non e minore di y a^yèN.ai-eNyiO: rest (*, y) e N ■ Se .r non è un multiplo di » 11 r68t ° llÌ * per y è un numero X « N . y e Np . ir - e Ny : 0 = D (*, y) =f= 1 « Ogni numero primo, c primo con tutti numeri che non sono suoi multipli c e N . y e Np . x - « Ny : 0 : 1 1 € - Se il numero * non e un multiplo del numero primo y, allora a?" 1 -! e nn multiplo di y • n • x - = y : = :x>y • u • *  ' J - X ' " VT-, . T nale ad, equivale a dire cd ie^ p x non e minore di y Dei sc^ni che abbiamo finora introdotti parte come i ItÌT r O a N P, quot, rest, D, m, appartengono segni N, No, R, Q> q-. ^ alla matematica. Gli insieme ai segni r> » ’ ’ ” > — insieme ai segni -h » • _ ’ tengono a ll a logica. altri segni e 0, ^", Pi i x *> 4 h n maT»  ■'rfcj.i -1 — ■■ Per mezzo di quest’ultimi e dei segni propri di una Oc- terminata scienza, possiamo esprimere tutte le pjaaffiìi: della scienza smessa. In ciò che precede abbiamo dato qualche esempio cU prop. d’aritmetica e algebra, espresso mediante gli indicati segni di logica, ma non ci siamo occupati delle leggi alle quali questi segni soddis- fano. Faremo lo studio di queste leggi nei capitoli se- guenti, adoperando il poco materiale introdotto fin qui per portare degli esempi che aiutino il lettore a inten- dere i cone.etti astratti della logica. Le proposizioni primitive. Le lettere a,b,c, indicano proposizioni qualunque. Scriviamo il segno £ al posto della frase si deduce, e scrivendo 036 leggiamo da a si deduce b. Esprimiamo con queste parole ciò che si esprime anche con le frasi “ b ò conseguenza di a », “ se a fe vera allora anche b b vera „. Indichiamo con abc ... l ' affermazione simultanea delle '*■ prop. a, b, c, ... Il segno ab si legge a e b, o anche, è vera a ed fe vera b. Scrivendo abc indichiamo latlermazione simultanea di ah e di r, scrivendo a(bv) indichiamo l’affermazione simul- tanea di a e bc. Ammettiamo che iiqIi c ab sono proposizioni. Si hanno le proposizioni P,.. 1- S,2. «0 aa l 3. ab 0 a I 4. ab 0 ba 1 5. abc 0 a(bc). xipjLjxxt***. a- 5 aa 12 ^«,w ^®*i£->a Le prop. 1-3 si leggono u v (la a si deduce a ‘ da a si deduce a ed « „ ‘ da « e 6 si deduce a „. Esprimiamo così che si nassa da un sistema di prop. ad un’altra che ne è conseguenza, r epetendo il sistema (prop. 1), o ripe- tendolo p iu volte (pr op. 2) o sopprimendo qualche prop. del sistema (prop. 3). Le prop. 4, 5 si leggono “ da a e h si deduce b ed a „ “ da ab e c si deduce a e he „. Esprimiamo così che in un sistema di due prop. si puh cambiare l’ordine, e in un sistema di tre prop. si può cambiare il modo d’ag- gruwpamenti o. Proprietà, che sono, come vedremo, conse- guenze di queste si adoperano p. es. in algebra, quando da un sistema di equazioni passiamo ad un sistema equi- valente o semplicemente conseguenza del primo. t fW'r P » Vp7-rk) itone V 1 * 4 * . Al voìnplesso di segni « 0 b daremo il nome deduzione, e diremo che a è il primo membro o l’ipotesi, e b il se- * * -J)Oc è l’ipotesi e d la tesi della dedu- zione. Una deduzione, come la precedente, può contenere due 1 Il Raziocinio 13 w o più segni 3. Quello fra i segni 3 che separa l’ipotesi dalla tesi sarà preceduto e seguito, o solo preceduto 0 solo seguito, dal gruppo di punti che contiene il massimo numero di punti. Così p. es., col complesso di segni, à .b:Q:c.-.dQe::0:: f:o:g.h ! indichiamo la deduzione che ha per ipotesi il prodotto della prop. ab 3 c, per la prop. il 3 e, e per tesi la prop. fogli- Pp Abbiam o ancora le proposizioni 6. 0.036:3:6. 7. a 3 li . 3 . a\ 3 b\. 8. « 3 6 . 6 3 c : 3 : « O lUytW 9. b . 3 . a 3 ab. La prop. 6 si legge ‘ Se è vera o, e da o si deduce 6, allora avremo che b è vera È questa, in sostanza, la traduzione in simboli, di uno dei modi con i quali si è detto che si può leggere il segno a 3 b. La prop. 7 esprime che si possono moltiplicare i due membri di una deduzione per una stessa proposizione. La prop. 8 esprim e la forma di jn^ionaujento nota sotto,, il nome sillogismo. Rappresenta un modo di eiiiumazionq della prop. h, TrefrafFermazione simultaiiea delle deduzioni 036, &3»— I. a o et . b g c . c 3 d : g : a Q d • ' [(o) . Pp8 : 0 : PI] (fl). «Q&-&0c.c0 d.. 7 . a 3 b . c : 0 : a 3 cb [Hp . P6 : 3 : a 3 bc . bcj cb . PI : Q : Ts] 8. (i 0 i . 0 . oc 0 cb [Hp . Pp 7 : 0 : ac 0 bc . bc y cb . PI : o : Ts] 9 . a 3 b . 3 . cu Q cb [Hp . P8 : 0 : c« 0 oc . oc 3 cb . PI : 3 : Ts] 10. 0.3.03 ba [Hp . Pp 9 : 3 : o 3 ab . ab 3 ba . PI : 3 : Ts] 22 Capitolo II \ 1 . aob.Q.aoah [Hp . Pp7 : 3 : a 3 no . nn 3 aò . PI : 3 : 1 sj 12. ao&.aOc:0:«0&« ' -,, [Hp:D:«D^»-«D«:0 :0 0«*- o6 p 6 0 Ppl j ^DM 0 *)P„ 4 | [(•?*■, 'T) p » s [P 14 . P 15 : 0 : P [Ppl : 0 : P 2° fi 16 (5.®)pi6:0:P21 21. a=b: = :b — a \ \a,bl u*,:u- La P16 esprime che ‘ se a e equivalente a b, allc^ anche 5 è equivalente ad « .. Esprimiamo ciò ne F/ gu aggio comune dicendo ‘ « e b sono equivalenti ^ o anche dicendo che la relazione espressa dal segno Le P 17, 18 esprimono che dall’affermazione a t tqui e che “ da h si deduce a „. • . n La P20 esprime che ‘ Ogni jirop^cja uivalente a,-— stessa, . Questo c il principio d’identit à. La P 21 espr ime l In nroD a = b ò equivalente alla prop. b a. P22, y rap'presentajia-an_piQiiediment2_di_eliminaai o ne | ai LaP 2?e!pn°mnL^Ltfqufvllentì le prop. che si ottengono Pana dall’altra, facendo entrare un fattore nel- l’Hp o facendo uscire un fattore dall p. Sappiamo, p. e., che sono vere le prop. (1) *,!,€N.D(:r,j/) = l : 0 : m(.r,j/) = ^ (2 ) x, u eN.mi (r, y) = xy: 0 ■ D (*, y) — 1 Facendo nelle (1), (2), uscire un fattore dall’Hp si ha (1) ' x, ;/ £ N : 0 : D (z, !/) = 1 ■ 0 ■ “, a = b. La Pili sarà dunque dimostrata vera, quando avremo provato che essa è vera per prop. delle forme ora indicate. Ciò facciamo con le formali seguenti Il Raziocinio 31 * * * 24. a = a . 0 . ab = ab [Hp : 0 : 0 « . a □ a : o : ab 3 ab . « 3 a : 3 ab 0 ab . ab Q ab ■ 0 : Ts] 25. V = * . 0 . ab' = ab 26. a = a ■ b' = b:Q : ab' = ab [Hp : 0 : ab' = ab',b' = b : 3 : a b' = = ab' .ab'-- = ab . P22 : o : Ts] (a)’. a' = a o'oi: 0 :oofi [Hp : 0 : a 0 a . a 0 b . Pi : 0 :Ts] (a). a = a = 3: a 05. 3 - aQò [(a 1 • PII : 3 :(«)] ( 6 )'. a = a • « 3 b : o : a' 3 b [Hp : 3 : a 0 0 . a 3 b . PI : 3 : Ts] (P). a! = a : 3 : 0 0 b . 3 . a 3 b [0)' . PII : 0 : (P)J 27. a = a : ■ 0 :a’’jb.=.a 0 b [(«) • 0 ) : 3 : P27] 28. V = b: 0 : a Q b' . = . n 0 b 29. a = a . b' = b : 3 : a 3 6 ' . = . 03 * [Hp . '■ 0 a. 3 li . = . a Q b':b' = b .-. 3 .-. a 3*’. = • « 3 b : a 3 b . = . a 0 b . P22 : 0 :Ts] 30. d = a : 3 : a — b . = . a = b 31. b' = = b: 3 : a = b' . = . a = b 32. a : = a . b' — b : □ : a! = b' . = . a = b Le P24, 25, 26 dimostrano in tutti i casi possibili la Pili quando A è della forma ab. Si può notare che le P24, 25 possono esser considerate come conseguenze della P26 e dpl Principi» d’identità „ - [„. P27-32 dimostrano la Pili quando A c della forma aQb e a — b. Nelle P3Ò-82 non sono state scritte le dimostrazioni perchè analoghe 32 Capitolo II alle dimostrazioni delle P27-29. Le prop. fa), (a), egazioni_alfermano, l Pr ° P ' ' a 3 ' * 81 chiama la contraria della prop. a 3 A Il Raziocinio 35 La prop. - b 3 - « è dunque la contraria dell’inversa, (b 3 a), della prop. « 3 b. La Ppll esprime che : si può di ogni deduzione formare la contraria dell'inversa. * * # Per mezzo della Ppll possiamo, p. es., dalla prop. “ Ogni numero primo è primo con tutti i numeri che non sono suoi multipli „, passare alla prop. “ Se un nu- mero primo non è primo con un numero, allora questo è un multiplo del numero primo „. In simboli le due prop. ora enunciate divengono m; per indicare ciò scriviamo - (a 0 A). Analoga- mente a - A indica il prodotto di a per - A, e - « - A il prodotto di - a per - A. (DefJ (Defj 33. a - A = - (- a - b) 34. a - = A : = : - ( a = A) ( a ). -Ao-o.q.ooA [Hp.Ppll 13 : -(-«)□-(- A) . PplO . Pili ; 3 : Xs] /35. a Ob. = .-b D -a [Ppll.(a): 0 :P35] i 36. a = A . = . - a = - A [o = A: = :a 3 A.A 0 a.PlII.P35 : = --Ao-n * 0 3 - A : ~:-A=-a: = : - a = -A] j37. - (aA) = - « u - A [( a“ ~b) P 33 • P P 10 • P IH : 3 : P37] '38. - (a n b) = - a - b [P33 . PplO . P36 : 3 : P38] Il Raziocinio 37 Le P33, 34 danno, in simboli, le definizioni dei segni « u b, a - = b, che erano già state indicate in parole. La P35 esprime che Ogni deduzione è equivalente alla contraria della sua inversa. La P36 esprime che Se due prop. sono equivalenti, sono equivalenti anche le loro negazioni La P37 esprime che La negazione di un prodotto è equivalente alla somma delle negazioni dei fattori. La P38 esprime che La negazione di una somma è equivalente al pro- dotto delle negazioni dei termini. 11 complesso di proprietà indicate da PplO, P35, 36, 37, 38 lo indicheremo col segno V. • ' * * * La dimostrazione della P36 comparisce sotto la l'orina di una catena di equivalenze che ha per estremi i membri della equivalenza che si vuol dimostrare, e si legge La prop. ab fe equivalente ad « 0 ft . 6 0 « ; questa per il prin- cipio di sostituzione (Pili) e per la P35 è equivalente a - b o - « . - a o - b; questa (per del'.) è equivalente * . * * • Proponiamoci di dimostrare applicando i metodi pre- ludenti che ‘ Se il prodotto di due numeri reali è zero, allora e zero almeno uno dei fattori Capitolo II 39 (1) x, f/€q.a;i/ = 0:O:aj = 0.u.y = 0 Dalla teoria dei numeri reali si deduce facilmente la prop. x, yeq:a- = 0.y- = 0.\ 0 xy- = 0 Facendo uscire dall’ipotesi il fattore x - = 0 . y - *= 0, si ha x, V e  che si legge “ Se, dal non esser vero che da c si deduce b, si deduce a ; allora avremo che da c si deduce «oh,. § 9 . — Composizione c scomposizione. (o). a 3 bc . o . a 3 b [Hp . Ppl . PIV : 3-.a3bc.bc3b. Pp8 : 0 : Ts] 0 ). « 3 bc . 3 . a 3 c (T). I 40 . VII} ' ( 40 . a 0 he : 0 ; « □ h . a 0 c [(a) . ((?) . P 12 : 0 : P (?)] a 3 b . a 3 c : = : a 3 bc [P 12 . (t) : 0 : P 40 ] a 3 c . b 3 c : — : a b 3 c [P 40 3 - e 0 - 0 . - c 0 - 6 : = : - c p - a - b . PV P 40 ’J La P 40 contiene la P 12 come caso particolare. Le P 40, 40 ’ esprimono che Il prodotto logico di due (o più) deduzioni aventi la medesima Hp, è equiva- lente alla deduzione che ha la stessa Hp e per Ts il prodotto delle tesi delle deduzioni date. Il prodotto logico di due (o più) deduzioni aventi la medesima Ts, è equiva- lente alla deduzione che ha la stessa Ts e per Hp la somma delle ipotesi delle deduzioni date. Quando dalla forma 113 b . 030 o 03 e . h 3 c si passa alla forma «3 bc, o avi gc diremo che si compongono le 42 Capitolo II ZmZZ ti?""™ iZZSZT ™ " “«• ■“«“» ' ^ «,yeN.ar = y: r );a ._  y *,yeN.a:y facendo uscire il fattore x, y e N dall’Un „,•, prima la P40, poi la P40’ si ha Rimando *.y«N.-. 0 /.*= y . u .* y e facendo entrare un fattore nell’Hp si ha *,ym-.x=y.v.x  I . (te u Ììc u u (fg Il Raziocinio 45 e questa catena di equivalenza si è ottenuta applicando la PIIl Tìa P43. Le medesime osservazioni valgono per il prodotto di due o più fattori, al quale si aggiunge una prop. Còsi, p. e., abbiamo (abcd) u e = (a >j e) (Ju e) (c u e) (d u e) In generale esprimiamo le coso precedenti dicendo Il prodotto logico gode della proprietà diatriba - tiva rispetto alla somma logica. La somma logica gode della proprietà distribu- tiva rispetto al prodotto logico. Indichiamo il complesso di proprietà ora esaminato col segno Vili. Vedremo nel § seguente delle applicazioni del me- todo Vili. § 11 . — Legge di semplificazione. 44. a = aa li ... - a) = aAc u aA uAc  co Ora si ha che abe 3 ab, (Pp 3), e quindi la (2) per la P46’ si trasforma nella (1). Sia stata dimostrata la prop. “ Se un numero primo divide un prodotto di due fattori, allora esso divide uno almeno dei due fattori „, che in simboli si scrive (1) x e Np . y, 2 £ N . yz t Na: : 3 : xj e N.r . u . z e Nx e proponiamoci di dedurre da questa la prop. (2) x, ij, z e Np . yz € Nx : 3 : y — x . u . z =,-r che si legge “ Se un numero primo divide un prodotto di fattori primi, allora esso è eguale ad uno almeno dei fattori del prodotto 48 Capitole II Moltiplicando i due membri della (1) per la proposi- zione x, xeNp, e usando le l’ Vili, IX si ottiene x e Np . ( y, z e N . z e Np) . yz e Nx .'. 3 x, i', z e Np . 1 / e Nx : u : x, y, z e Np . z e Nx Ora è vera la prop. »/, ze Np . 3 . y, e e N, e quindi sem- plificando l’Mp si ha (P. 46). (3) r, y, zeNp . jrxeN.r 3 x,y,ze Np . y e Nx : u : x,y,zt Np . z e N.r Così l’Hp si è ridotta àll’Hp della (3). Resta da trasfor- mare la Ts. Moltiplicando il primo termino della Ts per x, ;/eNp e il secondo per x, z e Np (P. 44), e ricordando la proprietà distributiva, la Ts della (3) è equivalente alla prop. (4) x, y, z € Np . (x, y « Np . y e Nx : u : x, 2 e Np . z e Nx) Ora dalla teoria dei numeri primi sappiamo che x, y e Np . y e Nx : = : x, y e Np . y = x x, z e Np . z e Nx : = : x, z e Np . y = z\ quindi la (4) equivale a x, y, a e Np . (x, y e Np . y = x : u : x, z e Np . z =x) che per le proprietà Vili, IX si trasforma facilmente nella prop. x, y, z e Np . {y = x . u . z = x) La (3) diviene dunque x, y, z e Np . yz e Nx : 3 : x, y, z e Np . (y = x. u,z=x) Scomponendo questa deduzione che ha per Ts il pro- dotto di due fattori, delle due prop. che si ottengono è Il Raziocinio 49 identica alla (2) quella che ha per Ts la prop. y = x .'J .z — x. § 12. — L’assordo. (a). « - a 3 b - b * [Pp3:0: a(b v - b) Q a . PII :D:o.D.fiu- 6 ga . PV : g : « • D • - « 0 b - b . PII : o : P(a)] 47. a- a = b-b [(a).(^) ( «):D :p 47] 48. A = o-o . (Def) 48'. - A = t u ~ o » %49.AD» [Pp3 : D : o - a d a . T48 : j : P49] 49’. o D - A 1 • j 50. « A = A [P49 . PIX : D : P50] 5Ó\ au - a = - A 51. o - A = « [ P49' . PIX : D : P51J 51'. «  (W. o D 5 . D . a - 6 = A [Hp : D : a - 6 D 6 - 6 . P48, 52 : D : 0)] 1 (T). a -b = A • D . a D b 1 [Hp . Pòi' 0 : (a - b) u b = b . TVIII . P48’, 51 : I 9:ouJ = 6 . P IX : D : TsJ [ 53. a 3 b . = . a -b = A [(3) . (Y) : D : P53J | 54, o u 6 = A : = : o = A • b = A [P52 .-. D .• . a u b = A : = : « ^ i D A • P VII : = : a 3 A • * A • P52.: = : a = A • * = A] Bur ali- Forti 4 50 Capitolo II La P 47 esprime che è costante il prodotto logico di una prop. per la sua negazione. Tale prodotto logico lo indichiamo (P48) col segno A. che leggeremo assurdo. (A è l'iniziale, rovesciata della parola vero). Ciò corrisponde alla frase del linguaggio comune. “ È assurda l'afferma- zione simultanea di una prop. e della sua negazione „. Il segno - A può anche leggersi vero. Le P. 49, 49' espri- mono quindi che dall’assurdo puh dedursi qualunque prop. e che da una prop. vera si deduce il vero. * * * Essendo a ed li individui di una classe e a il segno che indica un’o’perazione, diremo che h ò l’assoluto del- l’operazione a quando, qualunque sia a, a a h è eguale ad h; diremo invece che h è il modulo dell’operazione a quando, qualunque sia «, a ah e eguale ad a. Così, p. es., zero è l’assoluto del prodotto e 00 l’assoluto della somma per i numeri reali; uno è il modulo del prodotto per i numeri reali diversi da zero e 0 ò il modulo della somma per i numeri reali. * • * * Le P 50, 50’, 51, 51' provano che La prop. a è l’assoluto La prop. - \ e l’assoluto del prodotto logico. della somma logica. La prop. - a è il modulo La prop. a è il modulo del prodotto logico. della somma logica. La P 52 esprime che “ dire che da o si deduce as- surdo, equivale a dire che a è equivalente ad assurdo La P 53 esprime che la deduzione • a 0 b fe equivalente alla prop. « - 5 = A- i Il Raziocinio 51 Indicheremo il complesso di proprietà logiche espresse dalle prop. 50-54 col segno X. * * * Valendoci dei metodi precedenti dimostriamo che “ Se un numero è multiplo di altri due è multiplo del minimo multiplo di questi In simboli (Cap. I) (1) y, z c N . x e Ni/ . x € Nz : 0 : x e N (m(i/, z)). Se, restando l’Hp della (1), ammettiamo che x non sia multiplo di m(y, z), allora con semplici deduzioni si trova che rest(r, m(y, z)) è un multiplo di m(y, z); e quindi è o eguale o maggiore (cioè non minore) di m(y, z); si ha cioè la prop. (2) y.zeN.zeNy.zeNn.z-e N(m(t/, z)) : 0 : rest (*, m(y,z))-  1 si ha (4) se, y e N . A*, », r 0 /. r = 1 : “ : r = 1 . r > 1 : v:r=l .r 1 .r 1 e quindi che r e N . r = 1 . r > 1 : = : A e facendo osser- vazione analoga per gli altri due termini della Ts, la (4) diviene (5) se, y e N . A*, y, r : Q : *■ == 1 La prop. (1) fe così dimostrata, poiché abbiamo provato, (3), che esiste almeno un numero r tale che xy = D (x, y) X m (se, y) X r e di più che questo numero, (5), è eguale ad uno e quindi che xy = D (x, y) X m (x, y) 54 Capitolo li § 13. — Trasporto dei termini e dei fattori da mi membro ad un altro di una deduzione. i 57. 57'. 58'. ah 3 c . = . a 3 c u - b [a 6 0 c . PX : = : ab - c = A . PV : = : 8 -(cu-J) = i. PX : = :» 3 cu-i] aQbuc. — .a-cjb [P57.PV : o : P57] abQc.=.a-cQ-b ] [ab [} c . P57 : = . a o c u - h . P57' : = : a - e 3 - 5] ag!iuc. = .- iig-fluc Le P5jT, Sf dimostrano che Si può nell’ipotesi sop- primere un fattore e as- segnare la negazione di tale fattore come termine alla tesi. Si può nella tesi sop- primere un termine e as- segnare la negazione di tale termine come fattore all’ipotesi. Le P58, 58' sono immediate conseguenze delle due precedenti. * * * Dimostrata, p. es., la prop. (1) x, ij e N : o : x — y . u . x > . u . x y. «.* y . x -  y e queste si potevano direttamente ottenere dalla ( 1 ). ♦ * * Dalla prop. già citata (§ 11) y, xeN.xeNp.yseNxiQiyENx.'j.zeNx si ottiene per la P 58 e la P V. (2) y, zEN.xeNp.y-eNx.z-eNx^oiyz - e Nx Osservando ora che dalla teoria dei numeri primi si ha che y £ N . x e Np . y - £ Nx : = : y e N . x E Np . D (x, y) = l (“ ogni numero primo è primo con tutti i numeri che non sono suoi multipli „), e moltiplicando l'Hp della ( 2 ) per i fattori, che già vi sono, y, z e N, xe Np, x e Np, si ha y,zE N . xeNp . D(x, y)= 1 . D(x, z) = 1 : □ : y z - e Nx. Moltiplicando i membri di questi per y, zeN.xeNp, si ha y, z e N . x e Np . D (x, y) — 1 . D (x, z) = 1 : 3 : y, z e N . x e Np . D(x, y z) = 1 Scomponendo (PVII) in un prodotto di tre 0 due dedu- zioni e tenendo conto di quella che ha por Ts, I)(x, y, z) = 1 5fi Capitolo II si ha (3) y, z e N . x e Np . D(z, y) = 1 • *)= 1 : 0 : D (a;, y z) = 1 che esprime la nota proprietà ‘ Se un numero primo è primo con i fattori di un prodotto, allora fe primo col prodotto # * Dimostrate per i numeri reali, p. es., positivi (Q), le prop. ( 1 ) x,y,zeQ.x = y .O.x + z = 'J + z (!') ez = yz ( 2 ) .... x>y. 0 .® + 2 >y + 2 ( 2 ') . xz > yz e dimostrate pure le prop. fondamentali relative ai segni =,>, y.x-y-. = -x- = y -x-y si possono dimostrare, facendo uso dei metodi di ragio- namento che già conosciamo, le inverse delle prop. (, ), (1 ) (2) (2 )* Abbiamo dalla prop. (2), cambiando * in y e y m *, la prop. *,i/zeQ.* y ■ u • x  .!/ ■ u • * y-°-* y allora x -  y. Nella prop. y, « e N . a; e Np . y z « N* : □ : j/ € Nar . u . « e Na: ponendo il segno o al posto di u si ottiene una prop. falsa, poiché, p. es., i numeri 6, 9 hanno un prodotto multiplo del numero primo 3 e sono entrambi multipli di tre. . In generale al segno o, nella Ts, non preceduta da segno -, di una prop., si può sempre sostituire il segno u, Il Raziocinio ma al segno u non sempre si pub sostituire il segno o, nel primo caso la sostituzione estende o restringe il senso della prop. Il segno o 'e un segno d’operazione che chiamasi dts- giunzione compieta. **# Per il segno o valgono le formule seguenti che il let- tore pub dimostrare per esercizio. 60. a o6 = (ac6)(-ou-6) 61. - (a o h) = (- « o b) =(»»- b) 62. a o b . 0 . a  b 63. ab-A.O-a ul) = aob 64. a o a = A 65. a o - a = - A 66. ao A = « 67. no-A=-" 68. a oh — boa 69. a o b o c = « o (A o c) § 15 . Osservnzioni. 1 metodi di raziocinio espressi dalle Pp (la Pp 10 ec- cettuata) sono contenuti nei metodi generali I-XI esa- minati nei §§ precedenti, quando si ammetta di poter affermare la Ts di una deduzione vera avente per Hp una prop. vera (il che equivale alla Pp6). Ricordando infatti la formula «-*. 0 .«D*,laPpl* conseguenza de a p, a = (, (II) ; la Pp2 della prop. a = aa (IX) ; la Pp3 della 60 Capitolo II prop. ab 0 ah e della P VII, poiché per mezzo di questa da aio ai si hanno le due prop. ab Q a, ab^b; le Pp4,5 sono conseguenze della proprietà commutative e associa- tiva del prodotto (Vili); la Pp6 del metodo II poiché ab- biamo ao*.0-«O fc: 0 :a 0 6 - a: 0 6 > ''A et O u al« pi'OP- essendo vera l’Hp è vera la tesi che, / meno dell’ordine dei fattori nell’Hp coincide con la Pr/5 ; la Pp7 si ottiene col metodo VI poiché si ha a o 6 . c/fì* c : 0 : ac o l>c, e ridu- cendo l’Hp col metodo IV si ha la Pp7 ; la Pp8 è con- tenuta nel metodo I; la Pp9 si ottiene dalla PII, poiché si ha ha o ab : o : * • 0 ■ « D ab che lia P er una prop. vera e per Ts la Pp9; la Ppll conseguenza della prop. o3 6=.-* 3 -a (V). La Pp 10 é già stata compresa nel metodo V. * * * Riuniamo per comodo del lettore i metodi di ragiona- mento I - XI ottenuti nei paragrafi precedenti. I,. Affermazione della tesi di una proposizione che ha per ipotesi una proposizione vera. a . a 0 b : g : b [Pp6] 1. Sillogismo e Polisillogismo. #o&.S-oe:o:«0 a *jb ==s a ~ b) - {ab) = - a  6) = ~ a-b (Pp) (Def) VI. Prodotto e somma membro a membro delle deduzioni. a . 0 b . c 3 à : 0 = ac 0 U VII. Composizione e scomposizione. a 0 b . a 0 c : — :aObc a D o . b 0 c : = : « u b 0 c 62 Capitolo II Vili. Proprietà commutativa, associativa e distributiva del prodotto e della somma. ab = ba abc = a {bc) (a^b) c = ac u bc ma. aub — bua du{uc = ou(6ue) (ab) uc = (suc)(ln j c) IX. Semplificazione. Far- 5o wt ni A. x. t/ TW - /n Off l! li J a = a v a a = b • D.o== abi'-*fi‘ a = b -0 . a — a u© b oSa. J «0&. — . a = ab a 0 6 . = .b — au b . X. L’ assurdo. A = a-a (Def) - a = a >j - a n A=f A A = - A a- A — a auA = a a 0 A • = . a = A ag b . = . a - b = A aub = A: = :a = \.b = A XI. Trasporto dei fattori e dei termini. ab 3 e . = . a o c  -f- J = o esprime una condizione che deve essere verificati fra . 0, (T) (i? P (ir SentatÌ le „, oni f”™' ffwTLT*" ?*•*"*•» »™«i,e.“ 'a (1) è falsa qualunque siano i numeri reali * e „ ; vera per speciali valori immaginari di * e * *’ * t Se eoa i, indichinolo prop. contenenti non lettera • „» gruppo d, lettere . „ £!£* 64 Capitolo UT cane proposizioni condizionali tra gli elementi del gruppo rr, e solamente tra questi, scrivendo ( 2 ) Oi . 0* • 1 riire che “ Qualunque sieno gli x che sod- 22? alla condizione «„ soddisfano anche alla condi- zmne b x ■ si deduce qualunque sia x „, . *.TttSC2S*. ia .i.*«i»“ *i '* x . a tutte le lettere variabili che compariscono nell Hp „f.lH Ts della proposizione enunciata. "1 conveniente ì «11'Hr delia «m i" op ' “H “Lvr «a. «. -w. “»» ">?“ « c una classe determinata e costante, tamente indicata la natura degli enti *, dei quali (2) afferma una proprietà. Così, p. e., la prop. x-=i /.□•(»+ x y la classe a cui appartengono gli individu J hanno quindi significato preciso i segni ■ V -, x. Resta tutto determinato scrivendo *, y e Q .*- = !/ : 0 : (* + ^ ^ X !/ poi* i segni indienti !»»»• W* 1 » *"*" ‘TVlrtólr»)™' ebiamnno  y . y > 3 : Ox, tlS :x > z scri- viamo .r, y/, z e q . x > y . y > z : 0 : x > z Volendo, p. es., esprimere che il trinomio .r 2 — px- 4- 7 è, qualunque sia il razionale r, il quadrato di un razio- nale, scriviamo (4) a; e R . . (ìe 2 — /ja: 7) e R 2 Qui l'indice x al sogno 3 non può essere soppresso, perchè la deduzione non si fa rispetto alle lettere p, 7 contenute nolla Ts. La (4) è quindi una prop. categorica rispetto ad z e condizionale rispetto a p e 7. Ora sappiamo dall'algebra, che se p, 7 sono razionali e p ì / 4 è eguale a 7, la prop. condizionale (4) in y> e 7 è soddisfatta. Si ha cioè che quando la prop. condizionale Hurai.i Fon ri 5 (3f> Capitolo III in p e q (5) p, q e R . p*/i = q è vera, è vera anche la prop. condizionale (4). Con le prop. condizionali (4), (5) possiamo quindi for- mare la prop. categorica ( 6 ) p,  m e non più (t m . O m . b m, poiché a m, b m, sono prop. catego- riche. Converremo, cioè, di sopprimere sempre l’indice in al segno o quando Ilp e Ts sono prop. categoriche. Se la prop. categorica a x . 0 • i* è vera, cioè se la de- duzione è stata fatta con le regole espresse dalle Pp o da quelle che ne sono conseguenza, allora è vera la prop. "m • 0 • ottenuta dalla precedente ponendo al posto di .r un ente speciale m. Se nella prop. (7) «N.z x). Analogamente j P*,itP*,y.x indicano proposizioni condizionali rispettò' a xey, e rispetto a x,yez Abbiamo già indicato che si può far uso indifferente- mente dei segni p*.Q x . x . . j., : Ix-Dx-Px- 11 seguo =x si legge “ equivale, qualunque sia x, ad „. f (Del) (DefJ [P2 . D . P3J 7. a, b, c, de K.q 1 . a 3 b : = : x e a . . ;c e b 2. a = b : = : a o b . b q a 3. a = b: = :xta. = x.xeb a = a 1 a = b .,b = a a = b . b = e : □ : a = c ) a = b.c = d:0-aoc. = .bOd. - 8 . « D b . b o C : 0 : a o e L [PI • PI r D : P7J ' x ea .a Qb: $ : xeb [PI'.’. 0 a □ b : q : x e a . 3 . x e b . PII aQb.xea:Q:xeb. P Vili, III = .’. P9] [Pili . PI, 2 : 0 :P4, 5, G] 9. Scriviamo a, b, c e K in luògo deU’affermazione si- multanea «eK.fteK.ceK... e leggiamo a, b, c, ... sono classi. L’ipotesi a, b, c, de K che precede le TI -9 si sottintende debba esser distribuita a ciascuna delle Pl-9, (PII) 0, il che equivale, (PV1I) che dall’ipotesi a, b, c,  Quando » è un individuo (o è considerato come tale), di una class e (la classe b); scriviamo 1 r Q /> ninnilo a (e b) è una classe . Così, p. es., scriviamo 2 6 N e non 2 Q N ; se u è una retta e b un piano che passa per a, scriviamo a Q t), se a e b sono con- siderati come classi di punti; scriviamo invece « e 6 se il piano c considerato come classe di rette. La differenza essenziale tra i segni 6 e Q sta in questo ; che, mentre dalle atterro azioni simultanee a g t . è 3 c, atb.bQc, si puh dedurre (P8, 9) che «oc o «ec, dal; l' affermazione simultanea «e&.àec nulla si deduce, _esi_ sendo b considerato prima come classe, poi come individuo di una classe. Così, p. es., nulla si deduce daH’afferma- zione simultanea delle prop. 5 e Np, Np e [Classe conte- nente infiniti individui]. §3. Segui .re, (a-,//) e, « e K . p x, f/x € P . o 1. a = re(p*): = :rea. = x..px (l’oO 2. .re (,r e a) — a [PI • 0 ■ P2] 3. .re (re ( p x )) .=*.px 4. px. 0 . 'jx : = : re (/)*) o re (  7)) indica la prop. x e N . x > 7. La P4 si legge “ Dire che da p x si deduce, qualunque sia x, q x, equivale a dire che ogni x che soddisfa alla condizione px è uno degli,r che soddisfa alla condizione q x .. Ciò, insieme all’osservazione fatta nel § precedente, giustifica l’uso del segno o nei duo significati, si deduce ed l contenuto, potendosi dall' mi significato passare al- l’altro con l’aggiunta del segno xe o xe. _ * «• * « e K s . p T, s, qx, n e P . 0 5. a = (,r, y) e (p T, ») : = : (x, y) 6». = »,,. p r, „ (De 1') ' 6- ( x  x, 1 /)) . = X, y . Px, y px, y ■ 3 ■ qx, y : = : (x, ;/) € (p x, „) 0 (x, y) e (q x, y ) Le Classi Tò Scriveremo K a, K„ K 4 al posto delle frasi classe di copine, classe di terne, classe di gruppi di quattro eie- menti, Essendo x, y due enti qualunque, la loro coppia. Indichiamo coppie z ioni te, !/), («/, *)• Le coppie di numeri interi x, y dotto è eguale a 18 sono con ( x, y) indichiamo diverse con le nota- tali che il loro pro- li, 18) ; (2, 9) ; (3, 6) ; (6, 3) ; (9, 2) ; (18, 1) Indichiamo la classe che ha per individui queste coppie (classe di coppie di numeri interi) con la notazione (i) (.r,  6 . = . «e (r («.«.*£ i) « (Def) 2 . ab = a nb > 3. r e (o&) : =* : r e « . r e 6 3’. r e (a u 6) : =* : x e a . «-> . x e 6 4. .té (p 3 . g,) : = : .re (p*) n .re (g*) 4’. re (p* u q x ) : = : re (p a ) u re (g x ) 5 . a = b . c =  c) Le Classi 77 ■ 9. a — aa 9'. a = aua 10. a = b . 3 . a = ab 10'. a=b.Q.a = avb 11. aQb. = .a = anb 11'. «oJ. = .J=«uJ 12 . trjb.cQdiQiacQbd 12 '. aob.cQd:Q:a^cQbu(i 13. a o bc : = : a y b . a 3 c 13. «uigc: = :«3cJ3c Con anb indichiamo la massima classe contenuta in a e in b (PI); con aub la minima classe che contiene a e b (2). Il segno n si legge e, e il segno u si legge o. Chiameremo anb il prodotto logico di «per b, e « uh la somma logica di a con b. Scriveremo (P2), ab in luogo di anb quando ciò, per altre convenzioni, non possa dar luogo ad equivoci. Così p. e., se x, y x, y' sono numeri reali, per indicare i nu- meri comuni ai due intervalli x ““ y t x — y scriveremo (x~ y) n(x' — y) e non (x — g) {x ~ y) potendo questo in- dicare (§ 3) la classe i cui individui sono prodotti di un numero di x — y con un numero di x ~ y . Le P3, 3', 4, 4' che esprimono la proprietà distributiva del segno x e rispetto al prodotto delle classi, e del segno xe. rispetto al prodotto delle proposizioni, giustificano il doppio uso dei segni n ed u per le prop. e per le classi. Le Po, 5 esprimono il principio della sostituzione (PIU). Le P6-8, 6-8 esprimono che la somma e il prodotto delle classi godono della proprietà commutativa, asso- ciativa e distributiva, come per le prop. (PVITT). 7g Capitolo III Le P9-10, 9’-10' danno per le classi la legge, di sempli- ficazione (PIX). Le P12, 12', 13, 18’ corrispondono alle P Vili, IX. * * * Facendo uso della proprietà distributiva del segno xe rispetto al prodotto e alla somma delle prop., le defini- zioni date nel § precedente per le classi N 0, n, ... pren- dono le forme più semplici seguenti N 0 = Nvxt(z = 0| n = N u — N ossè(x=0) n = N„u — N t = Ru — R u are (.r = 0) q = Qu-Qvw(r = 0) n eN . o .Z» =Nn £é (x^ti) m, » e N . m  ») = » + Q n e q . Q . q n (x ■xt P : 'J 1. x - e a . = x ■ - (x e a) 2. - « = .re (x - £ a) 3. x e (- a) . = i . x - e a 8|. - (xe (p z ì) — xe (-pi) 4. - (- a) = a 5. aQb. = .- b^)-ii 0. a = b. = .- a=-b 7. - (ab) — - rt u - b T. - (il U b) = - a - b 8. ab 3 c : = : a 3 c v . b 8’. a 3 et vj c . = . « - c 3 b (Def) (Dei) [P1,2. 0 .P3] 30 Capitolo Ul 9 . ab 0 e : = : « - c 0 “ h 9* • a 0 b u c . === • — £ 0 b ^ ~ a 10 . a-a = b-b 10'. au- a = b^-b 11 . areta - a) . = * • A 11’. a;6(au-a). = * ■ - A Scriviamo (PI) » sogno *-««■ f* ” “W '*"£* „„,, in luogo .lolla n.gau.o». dell. prop- » • P- 08., acri via ino 1/2 -£»• B0 "° T Suite' cose *che non sono numeri interi. Po- =«.ici.. »«• «'«*»'”- „ „ altee questioni .li in.portun.a .n.n.ma, sarò otite L ln classe - a ad un’altra classe 6 per mezzo del . ‘ p - es con R"-N indichiamo, la classe refliònaH ci!: £ sono numeri interi; con  numeri interi maggiori di 1 che ;In in. prodótti d! due «umori «aggi.,, di uno. S, puf porre Np=(H-N)r,-[(l + N) X (1+ NI] La P3 esprime che ‘ dire che ar è un - a equivale a dire che ar non è un a,. • . ijne che Le P5-7, 7’ corrispondono alle 1 ' • l* 1 . Dire che ogni « 'e un b, equivale a dire ohe ogni - e -a . Le P7, 7’ esprimono che la negazione h iu il dotto (ó di una somma) h la sommato il prodotto u e negazioni dei fattori (o dei termini) Lo PIO, 10', 11, 11' corrispondono alle 1 X- • Le Classi SI Per mezzo del segno - la definizione di Z„ e Z(m, ni può esser data sotto questa forma « e N . o . Z„ = Nn-(« + N) ni, n e N . m 2 >,5 ' : 0 : « = (a - 6) (6 * W : 3 : Ts] Pii prop. A (assurdo) e condizionale rispetto a qua- lunque lettera, quindi x£ (A) rappresenta una classe, che conveniamo (PI) di indicare ancora col segno A cheleggeremo nulla. Il segno - A può leggersi tutto. Le prop. 2, 2’ esprimono che il prodotto della classe o per la Le Classi 83 classe -a è il nulla, e la somma (li a con -o il tutto, o la classe totale. Il segno a — A può leggersi “ la classe a è nulla, e il segno a-— A “ la classe a non 'e nulla Le P3, 4 esprimono che “ Se una classe a è nulla, allora è assurdo ammettere che r sia un a,. “ Se la classe a non è nulla non è assurdo ammettere che x sia un a „. In altri ter- mini “ Dicendo, a è nulla, esprinìiamo che non esistono individui che appartengano ad a, o che a non contiene individui „, “ Dicendo, a non è nulla, esprimiamo che esistono individui che appartengono ad «, o che a con- tiene individui Cosi p. es., abbiamo Np n (N s -j- N a ) n (N4 — 1) = A NMN s + N j )- = A cioè “ Non esistono numeri primi somme di due quadrati e della forma 4x — 1 „, “ Esistono numeri quadrati che sono somme di due quadrati „. Le P5, 5', 6, 6' esprimono che “ il nulla è l’assoluto del prodotto e il modulo della somma; il tutto è l’assoluto della somma e il modulo del prodotto Le P7-9, 7’8' corrispondono alle PX. Le P 10-12 sono vere anche quando a,b,c sono prop. ; la PIO si ottiene dalla P9 prendendo le negazioni dei suoi due membri; la PII è immediata conseguenza dalla P5; la P12 è la contraria dell’inversa della PII. Facilmente si ottengono le duali delle P10-12 che però nou hanno importanza pratica. La P13 esprime “ Se la classe ab non contiene indi- vidui, allora il prodótto di a uh per - b e eguale ad a Questa prop. ha molta importanza in matematica. Posto p. es. q = Qu — Qu.r((it = 0) «4 Capitolo III abbiamo per la P13 Qu-Q = qna:e(a:- = 0) Q u x 6 (* = 0) = q « - ( — Q) — Qux€(a: = 0) = q n - Q Q = qn -( — Q) n x e (x - = 0) — Q = q n _ Q n x e (x - — 0) x e (x = 0) = q ri - Q n - ( — Q) poiché il prodotto di due qualunque delle classi Q, Qt xe(x = OI é eguale a nulla. Per mezzo del segno A> esprimiamo con „-&=A, la frase: Ogni a è un 6 ab=A., „ Nessun a fe un b (e anche, nessun b è un n) a ì/. = ^, Qualche afe un b ( „ qualche 6 fe un a) a -b-=A, » Qualche afe un-Z>(, * -6'euna). Ordinariamente i logici rappresentano queste frasi, oi- dinatamente, con le vocali a, e, i, o, e rappresentano le varie forme di sillogismo con parole, come Barbara, Ferio, Daraptl, prendendo le vocali che compariscono in tali parole, ordinatamente, come premessa maggiore, premessa minore e conseguenza del sillogismo. La forma in Barbara e dunque a-b~\.b-c A-O- a -c = A che per la P8 diviene, a 3 b . b Q c : 0 : « 0 r, che e la forma già da noi considerata per il sillogismo. La forma in Ferio fe aà - = A ■ = A : D : « - c - = A, che per la P58 del § 13 del Cap. II e la P8 diviene, a^c. c ’.) - b : q ■ o [) - b e questa coincide con Pordinaria foima Le Classi 85 ili sillogismo. La forma in Darapti è, a 0 et • et 0 c '■ D : ac - = A, ohe è falsa e (leve esser posta sotto la forma, a o b . b o c . a - = A : 0 : ac - = A. che col sillogismo ha più niente a che fare. Chiamando sillogismo la forma di ragionamento espressa dalla formula a o b . b 3 c : 3 : a q c è chiaro che la forma Ferio dipende dal sillogismo e da altre forme di ragio- namento (PXI). La forma Darapti è poi falsa. Essa, insieme ad altre, è chiamata dai logici forma indebolita. * * * Dalle P3, 4 abbiamo modo di esprimere in simboli le frasi * Esiste almeno un x il quale », “ Non esiste un x il quale », delle quali si fa molto uso in mate- matica. Se x, y sono numeri reali positivi, e * y, contiene individui; porre cioè Sn»£ ( nx ~> y) - = A e si ha la prop. (1) x, y e Q . x  y) - = A Non volendo far uso della classe si ha (P 4) (2) x, y e Q . x  y : - =n : A che si può leggere “ Se x, y sono numeri reali e x y, non è qualunque sia n assurdo », ed esprimiamo .86 Capitolo III che, stando le ipotesi fatte, “ esiste almeno un numero intero* ti tale che tix y »• Analogamente si lia: (3) x,y e N . D (X, 1 ') = 1 : 0 ■■ N « «e (x* — 1 e Nj,) 6. «6 = A • 0 • a u 6 ~ a 0 6 7. «o« = A 8. « o - a = - A 9. a o A = a 10. « ° - A = " 8 11. aob = boa 12. aoboc = a°(boc) Con a o 6 indichiamo (PI) gli individui a- i quali sono tali che * è un a e x non è un 6, o a; non e un « e,r b un 6. 11 segno o si legge ancora  soddisfa alla condizione (2) che posta sotto la forma (2) esprime ‘ qualunque sieno i numeri reali x, y, allora r 1 + + 1 non e eguale a zero Per la prop. condizionale .r e N . z > 1 c soddisfatta la condizione (3), poiché si ha sempre a- e N . o r . * > 1- Se nella prop. a* 0, b x non e indicato in qualche modo a qual classe costante u appartengono gli x, allora la prop. «x Ox bx può esser ritenuta come condizionale, poiché può esser vera per certi valori di x, lalsa per certi altri. Così p. e. la prop. (1) x + z = y + 2 • 0*, v, i • * = y è vera quando x, y, z sono numeri reali, è falsa quando se, y, z sono individui di una classe di grandezze per le quali la differenza di due individui della classe non è un unico individuo della classe. In luogo della (1), scriveremo (2) x + z = y+z. 0 .x = y, lasciando quindi al segno 0 gli indici (espliciti o sottin- tesi) solo quando la prop. b categorica. Per la forma (2) si ha, p. e., (3) x,y,«eq:D,, !(, l :a: + « = y + 2-0- :r= =!/ che corrisponde, come vedremo, all’ordinaria forma y, z e q . x + z = V + « : 0*. v, « : x ~ V- Se nella Ts della (3) si ponesse la (1), si avrebbe una 00 Capitolo III prop. 'con l’Hp condizionale e la Ts delle forma assegnata alle prop. categoriche, quindi una prop. di forma attual- mente priva di significato. Ammettiamo che la prop.  j' . - = s A A questa per la PX1 del Gap. 11 si può dare la forma (2) x  y . - A : “ : - (x, 1/ e Q) l Le (1), (2) sono equivalenti, ma nella (2) l’ipotesi re- lativa alla natura degli x, tj è espressa sotto una forma troppo diversa dall’ordinaria. Noi faremo uso, in generale, della forma (1). Di tutte le precedenti convenzioni ci varremo per sta- bilire le leggi alle quali soddisfano gli indici al segno 3 e quindi al segno =. Le Ppl-11, ammesse nel Cap. II sono vere quando a, b, r. sono prop. categoriche e quindi della forma gene- rale p x q x . Tra queste le prop. [1J «□« [2J a 3 ita (PpD (Pp2) Le Classi 91 [ 3 ] ab 3 a (Pp 3 ) [ 4 ] ubo ba (Pp 4 ) [ 5 ] abc 0 a (bc) (Pp 5 ) [63 - (- a) = a (PplO) O a 0 . vere quando a, b, c sono classi e il segno 3 si legge è contenuto. Ora sappiamo (§ 3 ) che dalla prop. catego- rica a* Ox b x si passa alla relazione tra classi xe{ st, - Ox, : 6>y v c *> e, *• In questa ponendo al jiosto di y una costante »i, e 92 Capitolo III sopprimendo, in conseguenza, l’indice », e ponendo poi y al posto di z, abbiamo [7J' a, 0* 6* • 0 • a * °*> y 0*. y,h Cr > 9 che corrisponde esattamente alla [7] nella qnnle a,b,o sieno classi. Per la [8] (sillogismo), abbiamo le due forme [8], a*, y Ot K y-br,y 0* «*. » : 0» : B ** » 3* * • 9 [8]j «*,, 0, fcr, V • 6*, » Or, y Cr, y : 0, : «X, y Or fx, y ponendo nella [8]„ o [8], una costante m al posto di y, si ha [g]' a, o* bx . bx Ox c * : 0 : "x Or Cx cbe corrisponde alla [8] nella quale a,b,c sono classi. Analogamente abbiamo per la [9], [9], Or, y 0* b *.y Oy • " hx > » 0* ' «r. » dalla quale per y costante si ba [9]' o* 0„6x.0.-6x0,-«r. Le proposizioni [10] a . a 0 6 : 0 : 6 [ 11 ] ft-D-oDoi (Pp6) (Pp9) sono prive di significato, comunque si legga il segno 0. nuando u. b sono classi. Consideriamo i casi seguenti quando a,b sono prop. condizionali. Le Classi 03 Per la prop. [10], abbiamo [10], a x . ax Ox l >x ' Dx ' òr. Ricordando ora che la prop. condizionale a x si può sempre porre sotto la forma x € ti, ove a è una classe, poiché «x = x e (.re («*)), la [10], prende la forma * e u : x « « . Ox • * e » .'. xtv, o anche [10],' x e u . uO v : o : x £ v che è la forma di sillogismo già dimostrata nel § 2 (Cap. Ili, P9). Per la prop. [11] abbiamo [1 l]i . Oi, . Ox, v Ox ff x, $ by che per y o x costante prende le due forme [1 1], é.r . 3 r . (h 1) «x bi [11]," b.O-(hD x a r b. # * * Ecco alcune conseguenze delle precedenti proposizioni. Consideriamo p. e., la PO del § 3, Cap. 11. Ponendo al posto delle a, b, c delle prop. condizionali, può il lettore ripetere facilmente le dimostrazioni delle prop. (a)-(e), e quindi della PO che diviene : (1) a x, y bx, y * Cy : D,y : ax, y Or bx, y r y che per,/ costante da (2) ax 0, bx . c : o : ax O* bx c 94 Capitolo III c quest’ultima esprime che “ Si pub moltiplicare la Tb ili una prop. per una prop. categorica vera Ripetendo la dimostrazione data al § 4, Cap. Il per le prop. II, II,, abitiamo la prop. (1) ttx . Ox • v 0 y c r,,j : = : rt x b x, y Q r y r Xi v ehe dà 1 importante regola di fare entrare o uscire un fattore dall’Hp, quando il segno D ha degli indici. Ponendo nella (1) al posto di y una costante, abbiamo w n * ■ Di • bx o ex : = a x b x O x c x c di questa prop. abbiamo sempre fatto uso negli esempi contenuti in questo libro, poiché quando, p. e., dalla prop. x,y,iN .x = y:Q:x->y .x -  „ * = y : o : * - > y . x - x O x ex : = : ab x c x . ■ Di questa forma abbiamo fatto uso, p. e., per dimo- strare la P9, § 2, Cap. III. Si osservi che tale prop. è identica alla flO], di questo §, e la [10],’ è evidentemente conseguenza della (1), della quale ci siamo serviti per dimostrare la P9 del § 2. La Classi !)5 * * * Ammesso in generale che la prop. categorica «* Or 6* debba contenere l’ipotesi relativa alla natura degli .-e, e che tale ipotesi, (x e «), debba esser contenuta nella Hp della prop. 0*0*6*, possiamo ammettere che la Ts di una prop. categorica non possa contenere più lettere in- determinate della Hp. L’Hp pub però contenere più lettere della Ts come p. e. nella prop. (a) x, ;/, z e q . x > y . y > z : Ox, % » : * > »■ Si possono cioè avere prop. categoriche della forma ttx, y 0 x, y 6*. Queste possono esser ridotte alla forma normale jp* 0* '/*, mediante la formula ( 1 ) Ox, y Qx, y 6* : — ; o*. y “ === y A • Ox • 6* che si dimostra com la catena di equivalenze I f Cr, y 0. r, y bx • ~~ : Ox, y “ 6* — x, y A • == • “ 6x Ox, y Ox, y A • I " b x . Ox * Sr, v Oy A • • " 6* . Ox • Ox, y — y A • — ■' Oa, v - = y A • Ox • 6x] Così la (a), prende la forma .r, s € q : // e q . .r > y . 1/ > a . - =y A : Ox, * : •* > 3 che si legge ‘ Se x, z sono numeri reali, ed esiste un numero reale y tale che x > y e y > z, allora avremo che x !> z „. Abbiamo, p. e., dimostrato nel § 12,Cap. Il (pag. 5*2), che (P) x, y e N : 0 : r £ N . xy = D (x, y) X m ( x, y) x »• . - =, A (T) a-, i/, rtN.xj = l)(r,j()xm(*,y)X(':0:r=l. 9(5 Capitolo III Dalla (T) si deduce facilmente la prop. (Y)’ x, y, ;• e N . xy = D (x, tj ) X m (x, y) X r : 3 : xy = I) (x, ;/) X m (x, e) Facendo per questa uso della (1) si ha (T)" x, y e N : r e N . x, y = D (x, y) X in (x, //) X »• - =r .’. 3 xy = D (x, y) X m (x, y) Moltiplicando i due membri della ((3) per x, y e N e prendendo la prop. così ottenuta e la {f)" come premesse di un sillogismo si ha come conseguenza, (b) x,  = a [ (a) . " j a . 3 ; P4 | a = b.b = c: D :a = c 1^**0^*) [P2 . P4 : 3 : P 5 ] 1 a = x f. (x = a) xeia = xe(ia) x € 1 a . = . * = a (Def) (Defi 3? eia. . x e ~ 1 a . = . x — = a Se a, i sono individui di una classe u, esprimiamo che a e eguale a * scrivendo, a = b. Se la classe « che con- Applicazioni 99 sideriamo non pub esser definita ricorrendo ad altre classi note, allora definiamo la relazione espressa dal segno = mediante le proprietà espresse dalle Pl-3. La PI esprime che “ ogni cosa è eguale a se stessa », la P2 che “ Se due cose sono eguali ad una stessa cosà’,*’ allora la prima b eguale alla seconda », la P3 che “ Se una cosa x pub esser detta eguale ad un individuo a di u, allora x è un « ». Quando definiamo p. e. la classe N non ricorrendo ad altre classi note (Vedi § 6), ammettiamo che per l’egua- glianza sieno soddisfatte le proprietà espresse dalle Pl-3. Definendo ogni razionale come funzione m/n di una coppia (w, n) di numeri interi, allora possiamo chiamare eguali i razionali m/n, m’/n, quando mn—nm. Per l’egua- glianza così definita sono vere le Pl-3 (§ 7). Le proprietà del segno = espresse dalle PI, 4, 5 pren- dono, rispettivamente, i nomi, riflessiva, simmetrica, tran- sitiva. La P5 Esprime che il principio della sostituzione e vero per l'eguaglianza definita - dalle Pl-3. * •* * (? ) Il segno i, iniziale«della parola taoe, pub leggersi isos. Se a e un individuo di u, con la indichiamo (P7) la classe degli x che sono eguali ad a. Quindi (P8, 9) xei a indica la medesima cosa del segno x = a. Il segno = resta così decomposto nei - due segni e, i. Se u, v sono classi e la classe « n v contiene il solo indi- viduo a, scriviamo uv = la e non uv = a, poiché sotto questa forma si avrebbe, xe(uv)=x(a, e xea non ha ricevuto significato, non essendo a una classe. Così, p. e., scriveremo Z 3 = 1 1 u 1 2 u 1 3 100 Capitolo IV e non Z-, 1 u 2 u 3. Per le classi r, q. (pag. 78), possiamo scrivere più semplicemente r = R u — R uiO q = Qu— QuiO cioè, p.es. “ q è la classe degli individui che sono, o numeri reali positivi, o numeri reali negativi, o sono eguali a zero Abbiamo p. es. Np = (1 + N) n .r e )(«/, z) E (j /,2 e N . yz = a:) = t (1, r) u i fa 1) j “ Np è eguale alla classe dei numeri x tali, che le coppie di numeri «/, z il cui prodotto è x sono eguali ad ( 1, :r) o eguali ad (x, 1) § 2. — Numero degli individui di una classe. Sia n un numero intero maggiore di 1, e S„ indichi la somma degli individui della classe Z„ (cioè la somma dei primi « numeri). Volendo dimostrare che (1) Sn n[n -j— 1)/2 possiamo procedere nel modo seguente: (a). Per « = 2 si ha dalla (1), S 2 = 3, cioè S a = l+2. Dunque la (1) è vera quando u = 2. (P). Supposto che la (1) sia vera per il numero « mag- giore di 1, abbiamo che S«+i = «(» + l)/2 +(« + 1) = («-{- 1)(« + 2)/2. Dunque, la (1) ammessa vera per un nu- mero n maggiore, di 1 > vera per il numero n - f-1. Applicazioni 101 Da (a) si ha che la (1) fe vera per n = 2; da questa e da (P) si ha che ò vera per » = 3 ; da questa e da (P) che b vera per n — 4 e così di seguito. Volendo dimostrare che la (1) è vera, p. es., per « = 25.843 occorre fare 25.841 deduzioni analoghe alla precedente, e la (1) sarà così provata vera per tutti i nu- meri compresi fra 2 e 25843, gli estremi compresi; ma non potremo affermare ancora che essa è vera per i nu- meri maggiori di 25843, cioè non potremo affermare che la (1) è vera qualunque sia il numero intero n maggiore di 1. Si ammette che la (1) sia dimostrata vera dai ragiona.- menti (a) e (p), e diciamo che, per la dimostrazione, si 'e fatto uso del principio d’induzione completa, che possiamo enunciare in generale così : ((Imu a. r**tn*v> . Se una proprietà è vera per un numero intero a, e questa proprietà ammessa vera per un numero b eguale o maggiore di a, si può dimostrare che ò vera anche per b -f 1, allora avremo che la proprietà con- siderata è vera per tutti i numeri interi eguali o mag- giori di a. l’er tradurre in simboli la prop. precedente, osserviamo che ogni proprietà dei numeri e espressa da una classe di numeri. Per l’esempio precedente la classe da considerare o (2) (1 N) « x e (Sar = x [x + l)/2) “ Numeri interi * maggiori di 1 i quali sono tali che la somma dei primi x numeri interi, (Si), è eguale ad 102 Capitolo IV a-(a;+ l)/2 La prop. (1) resta dimostrata quando si n provi che la classe (2) è eguale ad 1 -(- N. Infatti ponendo nella (1) l’Hp, essa diviene x e (1 -f N) . 0 . Sx = x (x 4- 1)/2 alla quale può darsi la forma (pag. 71, P4) (1 +N)0.re(Si=a;(a;-f-l)/2) questa per la legge di semplificazione diviene 1 + N = (1 + N) n x e (S* = x(x-\- l)/2) Indicheremo con K‘N, K‘R, K‘q,, o anche semplice- mente con KN, KR, Kq,, le frasi “ classe di numeri in- teri positivi “ classe di razionali positivi,, “ classe di numeri reali „ 11 principio d’induzione, in un caso particolare, c espresso in simboli dalla prop. (3) u e K‘N . 1 e « . « 1 □ « : a : N f) « “ Se « ò una classe di numeri, 1 è un individuo di », e ogni individuo di u aumentato di 1 appartiene ad », al- lora avremo che ogni numero intero è contenuto in u Essendo, per ipotesi, » una edasse di numeri, si ha che » 0 N ; moltiplicando allora la (3) membro a membro con la deduzione »6K‘N.3.«3N, (PVI), e riducendo nel- l’Hp, (PIX), si ha  00) (b) . Hp .PI : 3 : «* = A • 3 • num iieio Hp . (y) . (b) . P Vili, X : 3 : P5] num u, num v e N 0 : 3 .'. 6 . uv= A • 3 . num (n u«) = num« -|- num» 7. uti- = A . 3 . . . .   " ““ “ E ““do dun,n. » un numero int.ro, »» ««*“» Applicazioni IH la classe delle ‘ corrispondenze tra i numeri 1, 2, ... « e i numeri reali „, indichiamo cioè tutte le successioni di n numeri reali. Se fi qfZ,„ f rappresenta una determinata successione di numeri reali, i cui individui fi, / 2, ... fn, sono disposti in un determinato ordine, e non deve con- fondersi tale successione ordinata con la classe f Z„, (P2), contenente gli individui fi, fi, -fn, indipendente dall’or- dine nel quale si considerano i suoi individui. Se /■ e q f Z „, scriveremo anche A, fa,— fn * n luogo di fi, f2.... fn, ritornando così all'ordinaria notazione della quale si la uso in matematica per indicare « numeri a,, a 2,...a„, disposti in un determinato ordine. Analogamente con q f N indichiamo successione di infi- niti numeri reali, cioè serie di numeri reali; con QfN serie di numeri reali positivi, ecc... Volendo, p. e., indicare “ successione di n numeri di- stinti,„ cio'e, due qualunque dei quali non sono eguali, scriveremo (q f Z„) Sim, poiché per la corrispondenza Sim, ad individui distinti di Z„, corrispondono individui di- stinti di q. Dalle cose precedenti risulta che la successione di n individui di una classe, e quindi il concetto d'ordine, viene definita per mezzo della classe Z„ e del concetto di corrispondenza come è definito dalla PI. # * * Possiamo, p. e., con i segni ora introdotti scrivere in simboli la prop. * La somma di un numero finito di nu- meri reali è un numero reale „. Abbiamo „el+N./-£qfZ„: 0 :fl+r2 + - + f'‘ 6f l Analogamente per il prodotto. 112 Capitolo IV “ Sommando membro a membro un numero finito di eguaglianze tra numeri reali, si ottiene una nuova egua- glianza », € i + n . f, f « q f z. : >• € z » ■ f [ = 0 " che si legge ‘ Se » è un numero maggiore di 1, f,f sono due Accessioni di * numeri reali, e qualunque «.In- dividuo r di Z. si ha che fr = f r, allora avremo che ...,. 11 polisUlogismo, si scrive in simboli n e 2 + N . fi P f Z„ : r € Z„ _ i . Or ■ fr 0 f(>‘ + 1) • • 0 ■ • f i o /■»* che si legge ‘ Se nè un numero maggiore di 2,fe una di » propoli», «e * »“ la prima eccettuata, è conseguenza della precedente, lora avremo che ... „• Analogamente si ha „e2 + N./, ePfZ.:-0", . n o f2 fi ... fn ■ = = H 0 f‘ 2 ■ f X 3 ^ 3 -/ 1 f f, JfJ'Jn- udì » --r^r- ch s2 m S°^^P-‘riv.bbdPo--.i P ..« di "‘".dotti . dei,Vin, Unione m.t.nmtica .i poò definir. il prodotto logie, „ " di,,om.ro finito di M . * P"*-, L iot. .fi. «.» -i i"t«»de P« P"*«*> '°ei) 6. fe (6 f o) sim . * e a . y e b : o : fx — y . = . x = fy 7 o . fi (a f b) sim 8 o :/■«. = b. Jb = a 9 o . f e (a f b) Sim 10. /'€ (bt a) Sim . 0 ■ f* «) sim 11. rama € N : 0 :f.t (a f a) Sim . = . f € (af a) sim Il segno f si legge, f inverna dì. Stabiliamo con la l’I, di indicare con f y la classe degli individui x di a i quali sono tali che fx = y. Definendo la funzione seno come una corrispondenza tra i numeri reali q e i numeri reali dell’intervallo 1 H ( — 1), allora seny, (seno inverso di y — comunemente arco che ha per seno y), indica la classe dei numeri x tali che y — sen x. Se y è, come si b sup- posto, un numero dell'intervallo 1 H ( — 1), allora la classe sen y non fe nulla e il numero dei suoi individui "e infi- nito. Se definiamo sen come un q f q e prendiamo y co- munque nella classe q, allora sen ;/ pub esser nulla se non Capitolo IV ilò si co nsidera la classe dei numeri immaginari. La classe tangy non è nulla qualunque sia il numero reale y. La P2 esprime che se f è una corrispondenza qualunque degli a nei b, x è un « e y è un b, allora dalla relazione fx = il possiamo sempre passare alla relazione xtfy e viceversa. Così, p. e., dalla relazione sen tt/6 = 1/2 pas- siamo alla relazione ir/Gesenl/2 (vr/6 b uno degli archi che hanno per seno 1/2) e non si pub scrivere it/ 6 = sen 1/2, poiché si ha, come è noto, sen 1/2 = !2 n ir-)-ir/6{ u )(2n — 1 )ti — n/6(. La P3 esprime ohe se f è una corrispondenza simile degli a nei b e y è un b, allora il numero degli individui della classe f y o b eguale ad 1 o b eguale a zero: il che equivale a dire (§ 2) che o tutti gli individui di f y sono eguali tra loro, o la classe fy b nulla. Se consideriamo la funzione tang come una corrispondenza simile tra le classi 0 1- tt/ 2, q, abbiamo che tang 1 = tt/ 4 e tang( — 1) ==A- Se definiamo invece la funzione tang come una corrispondenza tra (— tt/2) (tt/ 2) e q allora tang//, qua- lunque sia il numero reale y, non b nulla e contiene un solo individuo. La P4 esprime che se f b una corrispondenza Simile degli a nei h, x b un a e y h un b, allora si può passare dalla relazione fx = y alla relazione x = f y e viceversa. Così per la funzione tang definita come sopra si passa da tang n/4 = 1 a ir/4 = tang 1. Se x, y sono numeri reali e x b positivo dalla relazione log a? = j/ si passa alla relazione x = log y e viceversa. Si confronti la P2 con la P4, Applicazioni 117 Con la P5 definiamo una nuova classe di corrispon- denze simili. Indichiamo queste col segno sim. Diciamo che f è una corrispondenza simile degli a nei b, quando f é una corrispondenza Simile degli a nei b, e qualunque sia l’y appartenente a b la classe degli eguali ad Jy con- tiene un solo individuo, o, il che equivale per le cose precedenti, non e nulla (P3). Cosi, p. e., mentre sen è una corrispondenza Simile tra Ohtt/ 2 e q, non è una corrispondenza simile tra le medesime classi, poiché esistono degli y in q tali che la classe f y non contiene individui. La funzione log è una corrispondenza Simile e simile tra Q e q, poiché non esiste un q che non sia log di un Q e di uno solo. Non avrebbe, p. e., senso la notazione (q f Z„) sim ove n è un numero intero, mentre come é noto (qfZ„)Sim indica le successioni di n numeri reali diversi tra loro. La P6 esprime che anche per le corrispondenze simili si passa dalla relazione fx = y alla relazione x = fy e viceversa. La I 7 esprime che se f é una corrispondenza simile degli a nei b, f é una corrispondenza pure simile dei b negli a. Da questa proprietà risulta, p. e., che le ordinarie cor- ìispondenze tra i lati dei poligoni simili sono corrispon- denze simili; sono pure corrispondenze simili le ordi- narie proiettività e le corrispondenze Cremoniane, quando dai punti dei due spazi si escludano i punti fonda- mentali. 118 Capitolo IV La P9 esprime che ogni corrispondenza simile è Simile; la proprietà inversa non è vera; e se f è una corrispon- denza Simile degli a nei b, allora, (PIO), f'e una corrispon- denza simile tra a e fa. La PII esprime che se il numero degli a è finito al- lora si può al segno Sim sostituire il segno sim e vice- versa in ogni corrispondenza degli « in se stessi. Così, p. es., per indicare la classe delle permutazioni dei primi ji numeri si può scrivere indifferentemente (Z„ f Z„) Sim o (Z„ f Za) sim. * • * * Il segno x e posto dinanzi ad una classe produce una prop., e posto dinanzi a classi non eguali produce prop. non equivalenti. Dunque .re è un segno di corrispon- denza Simile tra K e P. Se a è una classe e indichiamo con p . i la prop. reo, abbiamo x e a — p x e quindi per la P4 possiamo passare da questa relazione alla rela- zione a = xe(px) e viceversa. Il segno re introdotto nel § 3, Cap. Ili, soddisfa dunque alle leggi del segno d’in- versione ora introdotto. * * * 11 segno num posto dinanzi ad una classe produce uit individuo della classe NvjiOu ICO (§2, Pò), ma a classi non eguali possono corrispondere individui eguali di NuiOu iOO. Il segno num 'e dunque il segno di una corrispondenza tra K e NuiOuiOO, che non appartiene alle corri- spondenze Simili o simili. Se dunque a h una classe e Applicazioni 119 n e (N u, 0 v. iOO), dalla relazione numa = n si passa, (P2), alla relazione «e num» e viceversa. Se, dunque » e ( N U I 0 ^ lOO) il segno K n num» indica il complesso delle classi a tali che. numci = «. In simboli « e (N cuO ulOO) . 0 ■ Kci num » = K n a€ (numa = n) Si ha, p. e., che NpeR-numOO ‘ Np è una classe che ha un numero infinito di individui 6 KN r ‘ n "“ - Z a è una classe di numeri interi che ha otto indi- vidui Ordinariamente si dice che ‘ Fare le combinazioni di,,, lettere ad « a », significa formare tutti i gruppi poss- ali con » delle m lettere, per modo che un gruppo di - ferisca da ogni altro per qualche lettera Le m lettere possono esser considerate come individui di una classe s. 1 gruppi di lettere che possono^oma.si,ono classi formate con individui di s, cioè sono K ». Ogn individuo della classe K‘« deve contenere n individui, «oc deve appartenere alla classe num». Con (Ks)nnmn», o anche (Ks)numn (sopprimendo cioè il segno nj.iin- ramo dunque le combinazioni » ed » deghmdividui di s poiché le classi che compongono (Ks) num» sono indipendenti dall’ordine nel quale si considerano i loro 1 "Nelk* dispostzio»* un gruppo differisce da ogni altro o per qualche lettera o per l’ordine delle lettere. Quindi ogni disposizione degli », » ad » è una successione 120 Capitolo IV individui (necessariamente distinti), e quindi le disposi- zioni di s, n ad n è indicata da (sfZ„)Sim (pag. 111). Analogamente con (sfZJ indichiamo le permutazioni degli m individui di s. Così, p. e., K‘ Z|j  num 8 indica le combinazioni 8 ad 8 dei primi 12 numeri interi: (Z, :,f Z G ) Sim le disposizioni G a 6 dei primi 15 numeri : Z 3U f Z M le permutazioni dei primi 30 numeri interi. Abbiamo le note formule m, w € N . »» > » . s e K n num m : 3 :, mi (mi — 1) (m— »+l)__ num i (Ks) num n { = 12 “ Un num j (s f ZJ Sim j = m (hi — 1 ) (ni — « -f- 1) = num j (s f Z m ) Sim (=1.2.3 m — m ! mi ! — »») ! n ! mi ! (mi — n) ! § 5. — Le definizioni di prima e seconda specie. H «•gnu» wOYwÀ'afcl* n « •ffinreomsc Un segno, o un complesso di segni x. si definisce, quando ad esso si attribuisce il medesimo significato di un com- plesso di segni già noto a . Se x ed a non contengono lettere indeterminate, al- lora la definizione si presenta sotto la forma simbolica (t) x =i>tf a ove il segno =o«r si legge “ eguale per definizione,, o “ identico „. Applicazioni 121 In luogo della (1) si scrive anche ( 1 )’ x = a (Del) sopprimendo l’indice Def al segno = e ponendo l'indi- cazione Def a destra della relazione x = tt. Se ;r ed « contengono lettere indeterminate, allora la definizione si presenta sotto la forma simbolica 2) h.Q.x = a (Def) ove U contiene le lettere indeterminate di * ed a e il segno (Def) si scrive a destra della prop. che definisce il segno x. Nella (2) il nome del segno = varia col variare degli enti x ed a, secondo, cioè, che x, a sono o prop., o classi, o individui di una classe. Souo della forma (1), p. e., le definizioni seguenti q= Q . . — Q.u.iO Np = (l + N)n -[(1-f N)X(1 + N)] Sfera = Luogo dei punti equidistanti da un punto. Triangolo isoscele = triangolo, che ha due lati eguali. Sono ancora della forma (2) le definizioni seguenti a, b e N : o : a è primo con b . = . D («, b) = 1 m, n € N . m = » . * e K n num m : 3 : Combinazioni degli s, n ad » . = . (K.s) num n . . . : 3 : Disposizioni degli s, « ad «. = . (s f Z„) Sim 122 Essendo u una classe di numeri reali si voglia, p. e., definire il massimo e il minimo della classe. Le parole massimo e minimo hanno nel linguaggio comune un significato preciso, e dicendo, p. e., massimo degli u si intende,1 più grande degli u. In questo caso noi conserveremo alle parole, massimo, minimo, il significato che esse hanno nel linguaggio comune, e quindi piu che definii > ■ parole, esprimeremo il loro significato per mezzo de’segni =,>, " A libiamo p. e. a = max N . ■=■ . A ' 1 min N = 1 n = max q .  . a = min q : = : A Applicazioni Come definizione della forma, abbiamo ancora, p. e.. rt, b eN . 0 • quot(a, b) = max (N 0  x t (bx  a/N n 6/N j (Def) che si legge “ D (a, b), indica il massimo dei numeri interi che sono divisori di a e di b „, poiché, il segno, p. es.,,,/N indica in generale divisore di a, (pag. B6). Con tale definizione, diamo significato al segno D (a, b), solo quando 12 ( Capitolo IV tendiamo fere; JV^uTegne D. assumiamo la del. (1), dei numen interi e Pe* ^ 1 a i razio- del massimo di- visore dei numeri razionali. SSS» Ss -U- * — +• — (2) «,M* N:o:c = «-^ = - c + 6 - a . • w«> « con r = « — 6 indichiamo che o e la somma t\ 'Sf SLà poi MI. P'»P~>“ f nu r,ri W che « - » »»» P«» — » ****** ** N quando u  b a,6«N.o>6.0-« - 6eN e quindi giungeremo .^“d^ defin™»® ^ renza tra due numeri 8Ug . ))er somma numero che — t. « «*, J eriin.ri. 11 ”T"s;X':«” *X1» a... % forse di quella che pieceue,, .d imo r e dal mi- ■“ - »-. r . e, Sm — “ '* ‘T Z “ niscc l’apparente definizione fe un creolo vmooo. Applicazioni 125 Anche in questo caso potremo estendere ai numeri reali, (agli immaginari), il significato del segno a — h (esteso che sia già a questi il significato del segno -f ). Se, p. es., poniamo (3) a, b, c € (q - N) : 3 : c = a — b = e -f- b = a (Def) allora sommando membro a membro questa prop. con la (2), e semplificando con le note regole, si ha la prop. ( 4 ) a, b, c € q : 3 : e = a b = c + b = a che è un teorema conseguenza delle definizioni (2) e (3). Si osservi che nella Hp della (3) non si sarebbe potuto porre a, beq. poiché Noq e quando a. òeN. il segno a — b ha già ricevuto un significato preciso. Data la def. (2) niente impedisce di prendere la (3) in modo che non ne risulti la (4), in modo cioè che il segno — non soddisfi per gli N e per i q alle medesime proprietà. Come, p. es.. se si ponesse a. I>, c e (q - N) : 3 : c = a — h = c -f- 2 b = a cioè si indica con c — a h che c sommato col doppio di b dà per somma il numero a. Con ciò però si contravverrebbe alla regola, tanto utile, della conservazione delle proprietà dei segni, 0 legge formale. In generale dunque la definizione della seconda specie h . 3 . #•= a e relativa agl’individui di una classe w. Essa può poi essere estesa agl’individui della classe v che contiene u. della seconda specie. In certi mi 1» definizione M. ctTi’sn «*» ■>»“»”» : 6 - ”• J,o reale. • » «» ””»» '* lero ; (1) ( 2 ) a e q . »» e N . 0 • ° q _(,•»+ 1 =• a m X « Ponenilo nella (2), »-> “ ta ’’ _ “‘ X J ' *■ — “*b  « ■ '* “ del “ n “ lt0 a Applicazioni conseguenza di quello di induzione e di numero intero, in luogo del solo principio di induzione. Definita la potenza intera positiva, possiamo definn e la potenza intera negativa, nel modo seguente: (4) « £ (q-iO).».e-N.O.« m = l/“~ m e questa def. b ancora della seconda specie. Qui la legge formale, per il segno « J verificata per le prop. che sono, p. es„ conseguenze delle prop. (1), («• Abbiamo, p. es. ( 5 ) a e q . m, n e N . 0 . a m X a" = a T e dalla (4) (5) ' « e (q - i0) . i», » € - N • D • «” X «° * “ m + " Sommando membro a membro le (5), (5) e ì moni, nulo che „ N u — N = n-iO abbiamo (6) « e (q * >0) • *»> « e (n - 1 0) . D . f* m X «" — 4 1,, mnilo analogo si definisce la somma di due numeri quando si ammetta abbia significato la ftgge_M£. ',sivò di a. (vedi § fi), ove a ~e numero mtero^Po- niamo, scrivendo sue al posto di successivo, (7) «eN.O.«+l = suc( * (g) », 6 6 N . 0. « + (6 + 1) ==( de n a (7), un si- co* membro b. perb ré iw. se" JtcvJc»- Non tutte le definizioni possono esser ridotte ad una delle forme considerate nel § precedente. Ciò avviene tutte le volte che le idèe indicate dal segno .r non pos- / f sono esser espresse mediant e altre idee più semplici, cioè, tutte le volte che il concettò indicato dal segno x è un 'M ’/■ concetto primitivo. Non abbiamo, p. e., definiti i segni o, n, - per le prop.^t^L- come non si è definita la proposizione; in matematica, p. e. non si definisce il numero intero, il punto, la retta, il moto Dcgli_enti non definiti x che si introducono in una scienziijii^ammettono^corrmjnmitW^^e^^^ro^rie^, dalle quali possonT^ìcdureMogicamente^ìe^ntrtnSi puTi dire così che il segno x si è tle/inito in se stesso, mentre con le forme considerate nel § precedente è definito fuori d i se. stesso. Chiameremo definizione di terz a specie, ogni definizione di un ente in se stesso. Logicamente, tale forma di definizione dovrebbe essere. esposta per la prima, non avendosi esempi di enti x che si possano definire mediante definizioni di prima o se- conda specie, senza che, con definizioni di terza specie, si sieno ottenuti altri eliti. L’ordine da noi scelto è giu- stificato dal fatto che la forma espositiva c più semplice per le definizioni di 1“ e 2* specie che per quelle di terza. Bini a t,i- Forti 9 130 Abbiamo già accennato che la definizione di un ente x in se stesso, si da assegnando all’ente x un sistema a di •> Cz proprietà dalle quali tutte le altre proprietà dell’ente x possano logicamente esser dedotte. S e il sistema di proprietà a si vuole scegliere in modo che ognuna delle proprietà del sistema è la più semplice possibile, allora è evidente che occorre un’analisi accurata del complesso delle proprietà dell'elite x, e delle mutue dipendenze logiche di tali proprietà. Dopo una simile analisi, accurata, minuziosa, e faticosa a farsi, può essere fissato il sistema g, e, la teoria dell’ente x può essere svolta partendo dalle proprietà del sistema a, e certo sotto una forma facile e rigorosa. E evidente quale sia cosi l’importanza della definizione di terza specie anche nel campo elementare. Epprure, sebbene la definizione di un ente in se stesso è da molto tempo nota e adoperata dai filosofi, essa b quasi affatto ignorata nel campo elementare, come ce ne fanno fede anche i più recenti saggi, ove si ripetono costantemente quei non sensi ai quali si dà il nome di, definizione di grandezza, di numero intero, di numero irrazionale. Può il lettore nei volumi della u Rivista di maternatica leggere quanto b stato scritto contro i volgari non sensi contenuti in gran parte dei saggidi matematica elementare. Noi ci limiteremo ad analizzare cib che riguarda la teoria de i numeri interi, con lo scopo di giungere alla definizione dell’ente N in se stesso, e dare un esempio dell’analisi che occorre fare, per definire un ente con una definizione di 8* specie. Applicazioni _ 'WfìT VI iv^sì (t *!* c — /naU, Me-diante definizioni di 1“ o 2* specie, facendo uso dei primi “ termini, come, per es., congruente modulo, residui qua- dr alici. Possiamo dunque ridurre l’analisi dei termini, ai primi, cioè a quelli propri delle più elementari proprietà dei numeri interi. Alcuni di questi termini come, numero primo, massimo sono definiti, per «ih", 6. = .oeb + N . . . : 3 : a  a. Dire che il numero a è maggiore del numero b equivale a. dire che a b la somma di b con un numero „, o, sotto una forma più simile a quella del linguaggio comune. Diciamo che il numero o è maggiore del numero 6, quando a è la somma di b non un numero. In modo analogo si legge la definizione del segno "C, o, meglio, della relazione ac:0:o = et — c. = .a-\-c = b L' ordinaria definizione di differenza “ Differenza di due numeri non eguali b eiò che si ottiene TOGLIENDO dal maggiore il minore, NON HA SENSO, se non è definito il significato della parola TOGLIERE, e ciò nei saggi oidi- nari non si fa. ft c e N (2),, parte delle 'piali si ottengono dalle Pp precedenti, parte no. a, b, c € N . 0 : a X 1 = a (Def) rtX(i-f-l) = axb-{-b\ aXb e N « = i.3.«xt = JXc So a x * = 6 X a a X (b X c) = (« X b) X c («■f(i)Xc = ttXc-f/lXc ‘a È p. e., conseguenza delle Pp precedenti la prop. «, ò e N : 0 : a = b .u . a> b .v . a  6 .a - b, a b.a-*» t P® di una operazione, poniamo = qu, v Applicazioni 141 ove k u, x> e ancora l’ipotesi relativa alle cose u, r, e q«,v ò una funzione di w e », avente già significato noto e che noi poniamo identica al risultato dell’operazione a eseguita con degl’enti noti u, »,... risulta, con una definizione di prima specie, definita, ponendo H = x£ (n e M . x =, n), cioè come un ente che si ottiene astraendo da m, da n e dalla coppia (m, »). Indichiamo per ora, seguendo Euclide almeno per 1 termini, con R‘ la frase ragione di, o rapporto di, e con R‘ «) la frase ‘ ragione di m ad n,, o " rapporto di m ad n li segno R‘ (m, n) equivale, come vedremo, all'ordinario segno m/n. ., Scrivendo R, come si è già fatto, al posto di razionale, definiamo la classe R, ponendo. (1) R = a:e ) m, iisN.z = R‘ ("h n ) ■ ™, n A ( cioè “ Indichiamo col segno R il complesso di quegli enti a; tali, che per ognuno di essi esistono almeno due numeri interi m, n tali che z è identico alla funzione R, della coppia (m, n) La funzione R‘ non è definita, solo con la (1) ammet- tiamo che essa ad ogni coppia di N faccia corrisposti ere un ente, astrazione della nostra mente, che appartiene alla classe R; ammettiamo cioè che R‘ e (Rf (N, N)) « r‘ ò U n segno di funzione che fa corrispondere ad ogni coppia di N un R ». .,, Essendo in, ni, n, n due numeri interi, quando e che -li enti R‘ (»,»), R‘(m',«') sono eguali i E prima di tutto, ha attualmente significato il termine eguali. La coppia (m, n), b eguale alla coppia Un, n) quando m — e n = li, ma non essendo stata definita la funzione Applicazioni 143 R‘ non ha ancora senso la scrittura R‘ ( m, ») = R‘ (ni, ti). Noi diamo significato alla relazione precedente, ponendo, secondo Stolz, Vorlesungen iiber allgemeine Arithmetik – cf. H. P. Grice, “AUSTIN ON FREGE’S SYMBOLO” --, m,n,m',n e N : 3 : R‘ (ni, n) = R‘ (ni, n ) . = . tn X »' = n X m ovvero, ponendo come si fa ordinariamente il segno m/n al posto del segno R‘ (m, m), mi, », ni, »’ e N : g : min — ni/n' : = : mn = uni. Diciamo cioè che * Il razionale mjn è eguale al razionale m'iti, quando il numero mti è eguale al numero tini. Dalla teoria dei numeri interi e dalla precedente definizione si deduce, facilmente, che la relazione a = b, ove a, b e R, è riflessiva simmetrica e transitiva, che cioè si ha a, b, ce R . 3 : • f l-W WltT 1 ' (*- | 4>AAk.|t Vwfi a = a a = b . = . b = a a — b.b = c. 3 .a = b come la relazione analoga per gl’enti di una classe qualunque. Definita la relazione espressa dal segno “=”, occorre ancora definire le operazioni indicate dai segni -f-, x,... Ciò nei saggi ordinari raramente si fa, mentre si pretende dimostrare, p. es., che, 3/7 -\- 111 = 4/7, non avendo ancora ricevuto significato il complesso di segni 3/7 -f- 1 / 7. Per le operazioni indicate dai segni -f-, x, porremo, 1 seguendo ancora Stolz, m, », m, »' e N . 0 . min + m'/« = (*» »' + » »»')/(» »') 3 . (»»/») X (»'/«')=(»» m')l(nn) che non hanno bisogno di spiegazioni. Le definizioni ora date sono di seconda specie e la def. di R di prima specie. I numeri reali, p. e., si ottengono in modo analogo considerando l’ente astratto limile superiore di una classe di razionali. Scrivendo 1' al posto di ‘ limite superiore „ abbiamo, u, v e K‘R : : 0 : : l'« = 1'» R : 0* : „ n (* + R) - = A • = • » n [x R) - = A • Se u V sono classi ili razionali, allora: dire che il limite superiore degli « è uguale al limite superiore dei », equivale a dire che, qualunque sia il razionale se esistono in « individui maggiore di x, allora esistono in » individui maggiore di ir e viceversa. In altri termini, diciamo che ‘ l’u = r», quando ogni numero r minore di qualche « e pure minore di qualche » e viceversa, Alla definizione precedente può anche darsi la forma J. I u, v e K‘R :: 0 : : 1» = 1 * = a - e R : 0* : «n(a:4-R) = A. = -® r '( a: + R ) = A che esprime; “ l'u = l’t>, quando ogni numero a maggiore di ogni u è maggiore di ogni »e viceversa. Applicazioni spèndere imte' astrazione della nostra «^.djeno. trsiL g r:te :m e r r . ^ — >. La classe Q, resta definita ponendo, Q=^)aeB.ueK‘R.«n(«+B)=A-*= 1 ' M --= = A '« I . = .'P» = ). Le relazioni espresse dai termini, perpendicolare, primo con, è un divisore, è un multiplo, non sono riflessive, simmetriche e transitive. Per mezzo di esse nessun ente astratto si ottiene. CtiKto- Azi Louufc (t (a -f- b) -|- c. Volendo provare che tali proposizioni sono indipendenti, che cioè, una di esse non è CONSEGUENZA dell’altre, basta provare che per valori speciali degli elementi indeterminati che compariscono nelle prop. (1), (2), (3), una qualunque delle tre proposizioni è falsa, mentre le altre due sono vere. Gli elementi indeterminati che compariscano nelle proposizioni (1), (2), (3) sono rappresentati dai segni G, =, +•. Riguardo a tali segni le proposizioni (1), 2), (3) sono considerate come CONDIZIONALI della forma ih 0 Ih. Abbiamo. (a) Se G e la classe dei numeri reali, chiamiamo eguali due numeri aventi modulo eguale (lo stesso valore assoluto), e il segno -j- ha l’ordinario significato; alida, la proposizione (1) è falsa, poiché, p. e., si ha che 7 = — 7 e 7-j-5- = _7 + 5, e le proposizioni (2), (3) sono vere; cioè la proposizione (1) è indipendente dalle proposizioni (2), (3), e si ha - (1) . (2) . (3) : - = : A (fi) Se G è la classe dei quaternioni, “=” ha l’ordinario significato e è il segno del prodotto secondo Hamilton. Allora, le proposizioni (1), (3) sono vere e la proposizione (2) è falsa, cioè (1) . - (2) . (3) : - = : A (f). Se G è la classe dei punti, chiamiamo eguali due punti coincidenti, ed essendo a, h due punti indichiamo con “a + h” il punto medio del segmento che ha a e Zi per estremi. Allora, le proposizioni (1), (2) sono vere e la proposizione(3) è falsa, cioè (1) . (2) . - (3) : - = : A. Da (a), (P), (y) SI DEDUCE che le proposizioni (1), (2), (3) sono indipendenti, cioè che non è possibile dedurre una di esse dalle rimanenti. Applicazioni # #. Se il sistema a di postulati che si considera contiene, tj (n e 1 + N), prop., si sarà dimostrato che fe irreduttibile, quando si sono trovate n classi di enti .t, per ognuna delle quali è falsa una delle proposizioni di a e vere le rimanenti. Ora ciò presenta spesso serie difficoltà, e fra i sistemi di postulati attualmente noti, solo quello per gli N, può dirsi assolutamente irreduttibile. Sieno U„ V», W x delle proposizioni contenenti il gruppo di lettere variabili x : diremo che “ W :, ò CONSEQUENZA NECESSARIA della proposizione. V* nel gruppo U x, V., quando, “ W x e CONSEQUENZA di U x e V x, e W x è indipendente da U x „ ; cioè quando U x V* . Ox • W x : U x - W x . - = * . A. Riprendendo il precedente esempio delle grandezze è facile dimostrare che la proposizione (4) n e 1 -1- N . fi G f Z„ .g e (Z„ f Z») sim : 0 : fl+f2+... + fn=f(gl) + -fk»h che esprime in generale la proprietà commutativa della somma, si dimostra facendo uso delle proposizione (1), (^), (•!)•. Si ha cioè che (1) . (2) . (3) : o : (4). Se ora 6 e la classe dei punti, chiamiamo eguali due punti coincidenti, e “a + b” indica il punto medio del segmento che ha i punti a, b per estremi, allora le proposizioni (1), (2) sono vere, e la proposizione (4) h falsa in generale (per n > 2). Quindi (1) ■ (2) . - (4) : - = : A cioè “ la proposizione (4) l> CONSEQUENZA NECESSARIA della proposizione (3) nel gruppo (1), (2), (3),, o in altri termini “ la proprietà generale commutativa della somma – H. P. Grice on J. O. Urmson: He took off his shoes and went to bed” -- è CONSEQUENZA NECESSARIA della proprietà associativa. In luogo di ‘ 3 e Np, 7 e Np „ si ponga “ 3 e Np . 7 e Np In luogo di “ 12 „ si ponga “ 13 „. In luogo di “ Quando per le... „ si ponga “ Quando per la „. In luogo di “ cioè, si ponga “ ove „. In luogo della prop. (6) si ponga Q=xe(x£(l.u.xe — Q . u . a: = 0). Nome compiuto: Cesare Burali-Forti. Forti. Keywords: Formalisti, neotradizionalisti, sistema Ghp, Peano, comibinatoria. Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Forti,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Forti – la scuola d’Arezzo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo italiano. Arezzo. M. Arezzo. Filosofo, compositore e pittore italiano, padre del matematico Forti. Figlio di una ricca famiglia di possidenti aretini. Nasce di Giova Batista F. e Paolina BURALI. Si laurea in giurisprudenza a Siena e, secondo le cronache coeve, rifiutò grandi incarichi pur di rimanere nella natia Arezzo. Rimase tutta la vita impiegato della pubblica amministrazione aretina (era sottosegretario della prefettura) e rettore della Fraternita dei Laici. I concittadini lo descrissero come uomo pio, ma grande sostenitore della laicità dello stato nonché fervente patriota durante il Risorgimento. Si dilettò di pittura, soprattutto di ritrattistica[7], e si dedicò ampiamente alla musica anche se sempre a livello dilettantesco.  Musica  Preludio alternativo dell'opera Esther, autografo alla Biblioteca Città di Arezzo Scrisse dodici opere serie, tre scherzi melodrammatici, una farsa, una messa di requiem, ben 50 messe con orchestra, 10 per coro a cappella, 2 sinfonie, un quartetto, un concerto per pianoforte, varia musica da camera (soprattutto per fiati e archi), canzoni, pezzi corali, opere sacre non liturgiche, inni patriottici, e musiche di scena per numerosi drammi amatoriali. Collaborò con tutte le realtà musicali, professionali e non, di Arezzo, ed ebbe un rapporto speciale con le società filodrammatiche, per le quali amava scrivere spettacoli musicali comici. I suoi lavori teatrali, salutati da un grande successo locale, hanno una felice verve melodica e quelli sacri dimostrano un non comune talento armonico, che gli valse il diploma ad honorem dell'Istituto musicale di Firenze (due anni dopo l'istituto lo volle anche assumere come insegnante). Arezzo lo amò per le sue trame scacciapensieri, il suo anti-wagnerismo (mentre imperversava la dicotomia Verdi-Wagner, dagli anni '80 dell'800, F. fu un grande peroratore delle cause verdiane), e la sua calda cantabilità italiana (derivata dall'imitazione di stilemi di Mercadante, Donizetti, Bellini e l'adorato Verdi, e importante nel pensiero nazionalistico susseguente l'Unità), benché siano evidenti anche esperimenti tragici (spesso in opere non gratificate da successo, per esempio Marchesella), e anche qualche modello straniero (è provato che rimase affascinato dal Faust di Gounod). Fu un fervente protagonista degli eventi musicali aretini ottocenteschi: le onoranze per Bartolomeo Cristofori, e, soprattutto, l'inaugurazione del monumento a Guido Monaco. Organizzò e gestì in prima persona questi eventi, componendo musiche, arrangiando quelle di altri (per l'evento su Cristofori rielaborò le ouvertures di Betly di Donizetti e di Semiramide di Rossini per sette pianoforti a 28 mani), e partecipando come maestro del coro (fu maestro sostituto della compagine corale durante l'esecuzione del Mefistofele di Boito diretto da Mancinelli al Teatro Petrarca). Fantasia per clarinetto in si bemolle e pianoforte, autografo alla Fraternita dei Laici di Arezzo Fonti Autografi Data la natura dilettantesca della sua attività musicale, raramente Burali-F. si è affidato a copisti per la redazione di parti e spartiti, per cui spesso sono di sua mano tutti i manoscritti musicali che possediamo, non solo le partiture complete. Una vasta raccolta di autografi conservata principalmente in tre istituzioni aretine: la Fraternita dei Laici, la Biblioteca Città di Arezzo, e la Donazione Sparapani all'Archivio storico comunale.  Fraternita dei Laici Burali-F. fu rettore della Fraternita, alla quale è rimasto l'intero suo archivio, comprese carte amministrative e lettere. È qui che è conservato il maggior numero di suoi autografi. Biblioteca Città di Arezzo La Biblioteca nacque per intercessione della stessa Fraternità, che vi trasferì una parte delle sue collezioni. I libri appartenuti a F. (riguardanti il diritto e la pittura) e a suo figlio Cesare (matematico) vennero accolti dalla nuova istituzione e tra essi anche alcuni libretti dei lavori teatrali di Burali-Forti stampati ad Arezzo (di Marchesella, Una testa di gesso, Tutti dicono così e Carmela) ed autografi: la partitura completa e due spartiti canto e pianoforte dell'Esther, le parti per oboe della Carmela, la parte di armonium di due scene del finale II di Marchesella, le partiture di 6 messe (due complete anche di parti), due Tantum ergo completi in partitura e parti, un Requiem nella riduzione per canto e pianoforte, un De Profundis in riduzione per voci e organo e orchestrato per piccola orchestra (in una partitura completa di parti), un Quemadmodum completo in partitura e parti, e un Credo in partitura vocale con parti (per le voci, gli archi, l'oboe e i timpani).  Donazione Sparapani Nella donazione che Vasco Sparapani donò al comune di Arezzo, contenente la collezione musicale della Società Filarmonica Aretina, e oggi conservata nell'Archivio storico comunale, si trovano tracce dei lavori che Burali-Forti scrisse per le associazioni filodrammatiche e per altri eventi cittadini (la Società Filarmonica fu per molto tempo una sorta di orchestra cittadina di Arezzo, e accompagnava gli spettacoli filodrammatici come le celebrazioni civiche), oltre che alcuni pezzi cameristici dedicate ai suonatori della Società. Vi si trovano la partitura e le parti per la farsa I due metastasiani, le parti delle musiche di scena per la commedia I campanili, una partitura dello spettacolo Testa di gesso[29], una sinfonia per orchestra e pianoforte, una messa, due quartetti con clarinetto (uno per clarinetto in si bemolle, due violini e violoncello, l'altro per lo stesso clarinetto e flauto, violoncello e pianoforte), un inno per i caduti nelle battaglie per l'indipendenza italiana, e una Preghiera della sera per quintetto d'archi, armonium e pianoforte, dedicata alla banda cittadina «Guido Monaco» (istituzione diversa rispetto alla Società Filarmonica) e datata Teatro Petrarca. Oltre alle musiche, la donazione conserva alcune edizioni di libretti (di Testa di gesso e di Tutti dicono così), e le lettere che Burali-Forti scrisse alla Società Filarmonica riguardo alla produzione dell'opera Carmela. Istituzioni private e autografi perduti La mancanza di studi specifici non ci permette di valutare quanti autografi di Burali-Forti siano finiti in biblioteche private, o in collezioni musicali non specializzate, e quanti siano da ritenersi definitivamente perduti. Claudio Santori segnala presso privati gli spartiti canto e pianoforte di Testa di gesso[40] e Carmela, e considera perduti gli autografi di Luisa (Santori nega l'autografia della partitura incompleta, dello spartito e delle parti presenti alla Fraternita dei Laici), di L'erede, di Il piatto azzurro (nonostante vi sia una partitura per piccola orchestra corrispondente a quel titolo nella Fraternita dei Laici), di L'essere sta nel parere, e di Mignoné-Fanfan. Si presume che l'archivio della banda «Guido Monaco» possa conservare copie manoscritte di suoi lavori, così come la collezione musicale del Liceo Linguistico-Scientifico «Francesco Redi», ma lo stato degli studi non consente di verificare queste ipotesi.  Edizioni a stampa F. riuscì a pubblicare alcuni pezzi:  Un Pensiero elegiaco con l'editore Genesio Venturini di Firenze: di questo pezzo non ci sono pervenuti gli autografi il bozzetto Nozze campestri per pianoforte a quattro mani con Giudici et Strada di Torino: neanche di questo lavoro ci sono pervenuti gli autografi Una miscellanea di sue rielaborazioni per clarinetto in si bemolle e pianoforte edita da Giovanni Canti a Milano comprendente: la fantasia Le veglie di famiglia, compatibile con una fantasia per il medesimo organico alla Fraternita con data 1886[21] una sui temi del Buondelmonte di Giovanni Pacini, di cui non c'è traccia tra gli autografi pervenuteci una su quelli di Marin Faliero di Gaetano Donizetti, di cui non c'è traccia tra gli autografi pervenuteci una su quelli della Vestale di Saverio Mercadante, di cui non c'è traccia tra gli autografi pervenuteci la trascrizione dello stornello Tippiti, tuppete, tappete di Mercadante, il cui autografo è presente alla Fraternita. Lista delle opere teatrali TitoloData e luogo di rappresentazione (se noto)LibrettistaNote di conservazioneEdizione del libretto (se esistente) Esther (non fu mai rappresentata) F. e Bandi (non si sa in che misura Bandi abbia partecipato al libretto: nei frontespizi degli autografi il suo nome è ancora leggibile ma è stato eraso)Partitura autografa, riduzione canto e pianoforte autografa, parti parzialmente autografe alla Biblioteca Città di Arezzo. Una partitura autografa incompleta è anche alla Fraternita dei Laici Imilda (non risulta sia stata rappresentata) F., basata su una novella di Cesare BalboAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici[21]Piccarda Donati1874, Teatro PetrarcaBurali-FortiAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Arezzo, Bellotti (una copia risulta alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia) Marchesella Burali-F., dai Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori Autografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici. Le parti di armonium di un paio di scene del finale II (forse autografe) sono alla Biblioteca Città di Arezzo Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo) I Cilni Burali-FortiAutografi(di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei LaiciMontanini e Salimbeni Burali-F. Autografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Testa di gesso Burali-FortiSantori considera l'autografo integrale perduto, ma segnala l'esistenza dell'autografo della riduzione canto e pianoforte in una biblioteca privata. Partitura e parti manoscritte si trovano nella Donazione Sparapani, che potrebbe però riferirsi alla data d'archiviazione Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo, due sono nella Donazione Sparapani, e una alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia[50]) La strage dei Tondinelli Burali-FortiAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Carmela, Teatro PetrarcaBurali-Forti, da un lavoro di Edmondo De AmicisAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici. Alcune parti manoscritte, parzialmente autografe, sono alla Biblioteca Città di Arezzo. Santori indica che la riduzione canto e pianoforte autografa è in una biblioteca privata. Un carteggio relativo alla gestazione dell'opera è nella Donazione Sparapani Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo) Luisa (non fu rappresentata) Burali-F. Una partitura incompleta, e spartiti canto e pianoforte di alcune scene sono alla Fraternita dei Laici: Santori non li considera autografi L'Erede Burali-FortiAutografo perdutoIl piatto azzurro Pilade Cavallini, da una fiaba cineseSantori considera l'opera perduta, ma alla Fraternita dei Laici c'è una partitura «per piccola orchestra» corrispondente a quel titolo La sposa del DiavoloPilade CavalliniAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici L'essere sta nel parere188Burali-FortiAutografo perdutoTutti dicon così Burali-F. Autografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo, un'altra nella Donazione Sparapani) Mignoné-Fanfan non firmatoAutografo perdutoDiscografia Nel 2019, il flautista Roberto Fabbriciani ha inciso 4 pezzi di Burali-F. per l'etichetta Holly Classic. Santori Santori Necrologio di Burali-Forti redatto da Angelico Failli in «La provincia di Arezzo Santori, Santori, Un compositore aretino dell'Ottocento: Cosimo F., in «Archivi e Memorie dell'Accademia Petrarca, Arezzo, Palmini, Bio di Burali-Forti, su Fraternita dei laici. Alessia Massaini, Le notevoli doti artistiche di Cosimo Burali-Forti: disegnatore, pittore e scenografo, in «Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti. Bollettino d'informazione», Arezzo, Armandi, Fondo Burali-F. della Biblioteca, su CeDoMus.  Santori, Armandi Santori Santori, Santori, Santori Santori Armandi, Santori Santori. Sull'inaugurazione del monumento a Guido Monaco vedi anche Bianca Maria Antolini, La musica in Toscana nell'Ottocento, in Paradiso.  Fondo Burali-F. della Fraternita, su CeDoMus. ^ Scheda del fondo Burali-Forti, su Fraternita dei Laici. Scheda della Donazione Sparapani, su CeDoMus.  Fondo della Società Filarmonica Aretina, su CeDoMus. Rinnovati, La donazione del fondo musicale della Famiglia Sparapani all’Archivio storico del Comune di Arezzo, pubblicato sul sito del CeDoMus anche in versione pdf ^ Articolo sulla donazione, su CaMu Arezzo. ^ Donazione Sparapani, documento Donazione Sparapani, documento Donazione Sparapani, documenti Donazione Sparapani, documento. ^ Donazione Sparapani, documento. ^ Donazione Sparapani, documento Donazione Sparapani, documento. ^ Donazione Sparapani, documento Armandi Donazione Sparapani, documento 674.  Donazione Sparapani, documenti.  Donazione Sparapani, documento Donazione Sparapani, Santori Santori, Armandi Scheda dell'edizione, su SBN. ^ Scheda dell'edizione, su SBN Scheda dell'edizione, su SBN Santori Santori, Scheda dell'edizione, su SBN. ^ Scheda dell'edizione, su SBN. Scheda del libretto, su SBN. ^ Santori Santori Santori Pagina di Discografia, su Sito Ufficiale di Fabbriciani. Bibliografia Claudio Santori, Un compositore aretino dell'Ottocento: Cosimo Burali-Forti, in «Archivi e Memorie dell'Accademia Petrarca, Arezzo, Palmini, Bardazzi e Alessandra Lombardi (cur.), Società Filarmonica Aretina Inventario degli archivi della Società Filarmonica Aretina, Società Filodrammatica dei Risorti di Arezzo, Società Filarmonico Drammatica Aretina ovvero della Provincia di Arezzo poi Società Filodrammatica «T. Sgricci», Dopolavoro Filarmonico-Drammatico «T. Sgricci», Società Filarmonico Drammatica «T. Sgricci», Società Filarmonica Aretina, Orchestra Stabile Aretina, Arezzo, Comune di Arezzo/Archivio Storico. Vedi pdf, consultabile sul Sito dell'Archivio Storico di Arezzo. Alessia Massaini, Le notevoli doti artistiche di Cosimo Burali-F.: disegnatore, pittore e scenografo, in «Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti. Bollettino d'informazione Arezzo, sn, Luigi e Lorenzo Armandi, Musicisti e musicanti, bandieri e cantanti nella città di Guido Monaco. L'attività filarmonico-bandistica, Arezzo, Letizia, Santori, Cinque secoli di musica ad Arezzo, Arezzo, Helicon Claudio Paradiso (cur.), Teodulo Mabellini. Maestro dell'Ottocento musicale fiorentino, Roma, Società Editrice di Musicologia. Centro Documentazione Musicale della Toscana V · D · M Compositori e fondi musicali toscani Portale Biografie   Portale Musica classica   Portale Toscana Categorie: Compositori italiani Pittori italiani Nati ad ArezzoMorti ad Arezzo[altre]. Nome compiuto: Cosimo Burali-Forti. Forti. Keywords: Sistema G-hp. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Forti,” The Swimming-Pool Library, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fracastoro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’anima – scuola di Verone – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Abstract. Gricre: “I use ‘soul’ rarely, but then I went to Clifton so psyche sounds more natural to me!” Keywords: soul. Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Verona, Veneto. Grice: “I love Fracastoro; for one, I love a physician, since I came to know quite a few – at Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro; he philosophised on mainly three topics: the ‘soul’ – in a philosophical dialogue entitled after him, Fracastoro; on poetics, in a dialogue which he named after his poet friend Navagero; and third, on ‘intellezione,’ in a dialogue which he named after another friend, one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact that Gerolamo, or Girolamo, is still at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. Insegna logica a Padova. Fu archiatra di Paolo III, al quale dedica “Homocentrica”. A lui è dedicato il cratere F. presente sulla Luna. Fondatori della patologia (teoria del patire). È il primo ad ipotizzare e verificare che una infezione e dovuta a un germe portatore di una malattia, con la capacità di moltiplicarsi nel corpo dell’organismo e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide, ossia sul “mal francese,” sotto forma di poemetto in esametri e il trattato "Sul contagio e sulle malattie contagiose.” Il trattato è all'origine della patologia, o teoria del patire. Fu il primo a scoprire che le code cometarie si presentano sempre lungo la direzione del Sole, ma in verso opposto ad esso. Descrisse uno strumento in funzione astronomica, poi realizzato da Galilei: il cannocchiale. Scrive III dialoghi filosofici: Naugerius sive de Poetica (dialogo di estetica), Turrius sive de Intellectione e l'incompiuto Fracastorius sive de Anima.  F., con il nome di Giroldano, viene incontrato da Dago, personaggio di un fumetto argentino creato da Robin Wood e Alberto Salinas, in una delle sue avventure, per la precisione nel n. 10 anno XIV del mensile, proprio mentre Girolamo interroga una prostituta in cerca di informazioni per il suo poema sulla sifilide.  Una leggenda sul Fracastoro fa parte della storia popolare veronese. Una sua statua è posta su un arco alla fine di via Fogge, che da nord si innesta in Piazza dei Signori (comunemente detta anche Piazza Dante). La statua rappresenta la sua figura intera con in mano il mondo, che il popolo del tempo ha ribattezzato la bala de F., dove bala è il termine dialettale che indica palla. In quella strada vi era il passaggio per il vecchio tribunale da parte di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i palazzi del potere di quel tempo. La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla testa del primo galantuomo che passerà sotto. Finora non è mai successo. Il popolo di Verona usa questa storia per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico Peruzzi, Dizionario Biografico degli Italiani, Ettore Bonora, Il "Naugerius" del F., Milano,Garzanti, Storia della Letteratura italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e la Scuola Veneta nello sviluppo e nel progresso delle Scienze geologiche. Mem. R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di carattere geologico di Valleri senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia da Valleri ad oggi”, Simposio nel III Centenario della nascita di Valleri, Univ. Studi Padova e Acc. Patavina Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, F., Patavii, excudebat Josephus Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica, Venetiis, Sifilide Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, F., Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vita condizione propria della materia vivente Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Vita (disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche degli esseri viventi che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il metabolismo, la riproduzione e l'evoluzione. Alberi in una foresta (Muir Woods National Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia la vita, ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema complesso che è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una «forza vitale» è stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto contrapporsi i sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo dall'altro, circa l'esistenza di un principio metafisico in grado di organizzare e strutturare la materia inanimata. La comunità scientifica non concorda ancora su una definizione di vita universalmente accettata, evitando ad esempio di qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o viroidi.   Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni essere vivente ha un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce, adattandosi all'ambiente mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica la vita perché qualunque caratteristica che hanno i viventi può essere ritrovata in altre situazioni non considerate viventi, ad esempio alcuni virus software che hanno un ciclo vitale e di riproduzione nel loro ambiente informatico ma non sono vivi, o alcuni cristalli che crescono e si riproducono, e molti altri esempi. Una più basica serie di caratteristiche della Vita sono state avanzate, come ad esempio un sistema composto da molecole omochirali che si mantiene in omeostasi e capace di reazioni autocatalitiche (Tour).  Le forme di vita che sono o sono state presenti sulla Terra vengono classificate in animali, cromisti, piante, funghi, protisti, archaea e batteri. Definizione Mayr Riguardo alla definizione di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra scienziati e tra filosofi. Secondo il biologo Mayr sarebbe sufficiente individuare le caratteristiche fondamentali della vita da un punto di vista materiale:   «Il definire la natura dell'entità chiamata vita è stato uno dei maggiori obiettivi della biologia. La questione è che vita suggerisce qualcosa come una sostanza o forza, e per secoli filosofi e biologi hanno provato ad identificare questa sostanza o forza vitale senza alcun risultato. In realtà, il termine vita, è puramente la reificazione del processo vitale. Non esiste come realtà indipendente»  (Mayr) Il biologo Driesch sosteneva invece che la vita non potesse essere compresa con gli strumenti delle scienze meccaniche, come la fisica, le quali si occupano esclusivamente dei fenomeni non biologici, ragion per cui la biologia andrebbe separata da queste discipline:[5]  «La vita non è [...] una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e la biologia è una scienza indipendente.»  (Hans Driesch, The science and philosophy of the organism, trad. ingl., Londra) Uno studio approfondito in merito è stato fatto dal fisico Erwin Schrödinger. Nella sua dissertazione Schrödinger nota per prima cosa la contrapposizione tra la tendenza dei sistemi microscopici a comportarsi in maniera "disordinata", e la capacità dei sistemi viventi di conservare e trasmettere grandi quantità di informazione utilizzando un piccolo numero di molecole, come dimostrato da Mendel, che richiede necessariamente una struttura ordinata. In natura una disposizione molecolare ordinata si trova nei cristalli, ma queste formazioni ripetono sempre la stessa struttura, e sono quindi inadatte a contenere grandi quantità di informazione. Schrödinger postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può mantenere l'informazione è una molecola di un "cristallo aperiodico" cioè una molecola di grandi dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace quindi di sufficiente stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere informazioni. In seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del DNA da parte di Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio quel cristallo aperiodico teorizzato da Schrödinger.  Seguendo questo ragionamento Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni fisici seguono il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi vanno incontro ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato energetico più basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo apparentemente non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in uno stato ad alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è stazionario, perché i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino alla morte. Questo, secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi contrastano l'aumento di entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè aumentando a loro favore l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli organismi viventi devono essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per ricompensare l'energia che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio stazionario. Questo è ciò che in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di metabolismo e omeostasi.  Secondo Mayr, è un'entità viva, quindi con peculiarità che la distinguono dalle entità non viventi, l'organismo vivente, soggetto alle leggi naturali, le stesse che controllano il resto del mondo fisico. Ma ogni organismo vivente e le sue parti viene controllato anche da una seconda fonte di causalità, i programmi genetici. L'assenza o la presenza di programmi genetici indica il confine netto tra l'inanimato e il mondo vivente.  Unendo il concetto del disequilibrio con quello della riproduzione (cioè della trasmissione ordinata delle informazioni), come espressi da Schrödinger, si ottiene quello che può essere definito vivente:  un sistema termodinamico aperto, in grado di mantenersi autonomamente in uno stato energetico di disequilibrio stazionario e in grado di dirigere una serie di reazioni chimiche verso la sintesi di sé stesso. Questa definizione è largamente accettata nell'ambito della biologia, nonostante ci sia ancora dibattito in merito. Basandosi su questa definizione un virus non sarebbe un organismo vivente, perché può arrivare a riprodursi ma non può farlo autonomamente, in quanto si deve appoggiare al metabolismo di una cellula ospite, così come non sono esseri viventi le semplici molecole autoreplicanti, in quanto sottoposte all'entropia come tutti i sistemi non viventi.  La ricerca sui Grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in particolare la scoperte dei mimivirus, quindi l'eventualità che costituiscano anello di congiunzione tra i virus, definiti qui non viventi, e i più semplici viventi comunemente accettati, ha contribuito ad estendere il dibattito e a rendere più sfumata la linea di confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi minoritarie, suggeriscono che i domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano originare da tre differenti ceppi virali e i plasmidi possono essere visti come forme di transizione tra virus a DNA e cromosomi cellulari. Oltre la definizione di Schrödinger, vari studiosi hanno proposto diverse caratteristiche che nel loro insieme dovrebbero essere considerate sinonimo di vita: Omeostasi: regolazione dell'ambiente interno al fine di mantenerlo costante anche a fronte di cambiamenti dell'ambiente esterno. Metabolismo: conversione di materiali chimici in energia da sfruttare, trasformazione di diverse forme di energia e sfruttamento dell'energia per il funzionamento dell'organismo o per la produzione di suoi componenti. Crescita: mantenimento di un tasso di anabolismopiù alto del catabolismo, sfruttando energia e materiali per la biosintesi e non solo accumulando. Interazione con l'ambiente: risposta appropriata agli stimoli provenienti dall'esterno. Riproduzione: l'abilità di produrre nuovi esseri simili a sé stesso. Adattamento: applicato lungo le generazioni costituisce il fondamento dell'evoluzione. Queste caratteristiche sono, per la loro peculiarità, comunque passibili di critiche e di parzialità. Un ibrido non riproducentesi non può considerarsi come non vivo, così pure un organismo che ne abbia perduto la capacità nel corso del tempo. Parimenti un'ipotetica situazione che obblighi la dipendenza da strutture estranee per mantenere l'omeostasi, un organismo strutturalmente non in grado di adattarsi ulteriormente all'ambiente e altre singole deficienze, difficilmente, se prese singolarmente, possono far escludere di avere a che fare con un vivente.  Organismi viventi Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Organismo vivente. La vita è caratteristica degli organismi viventi. In generale la vita si considera una proprietà emergentedegli esseri viventi. Questo significa che si tratta di una caratteristica posseduta dal sistema, ma non posseduta dai suoi singoli componenti. Un organismo vivente, quindi, è vivo, mentre non sono vive le sue singole parti. Condizioni necessarie alla vitaModifica L'esistenza della vita, così come la conosciamo,necessita di particolari condizioni ambientali. I primi organismi comparsi sulla Terra si sono per necessità sviluppati in base alle condizioni preesistenti, ma in seguito a volte sono stati gli organismi stessi a modificare l'ambiente, a vantaggio proprio o di altri organismi. È il caso della produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri, che ha modificato profondamente l'atmosfera terrestre causando un'estinzione di massa (detta catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la colonizzazione dell'ambiente terrestre. Inoltre col tempo si sono determinate sempre più interazioni complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella maggior parte degli ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie alla presenza di altri organismi che creano le condizioni necessarie (spesso si tratta di microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che trasformano l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per le piante). Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di determinati limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura, umidità, radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è possibile solo per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste condizioni, che sono diverse per ogni specie, sono definite range di tolleranza. Per esempio una cellula batterica ad una temperatura troppo alta subirà la denaturazione delle sue proteine, mentre ad una temperatura troppo bassa subirà il congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà. Anche le caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH, concentrazioni estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione tossiche, eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo sviluppo della vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito enormemente all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo della vita, nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente "estremo" è comunque relativa e diversa per ogni organismo. Determinate esigenze sono comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è necessario che si disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio energetico del sistema (vedi sopra). La maggior parte degli organismi autotrofi sfrutta l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo i nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante, alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo stesso, di una sua parte o dei suoi scarti.  È necessario inoltre affinché ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche CHNOPS. Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti organici di cui si nutrono.  Tutte le forme di vita conosciute, infine, necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.  Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente diverse. Per esempio è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio, Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie molecole con l'arsenico, che proprio per la sua similitudine col fosforo e per la sua tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la maggior parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano come ossidante nella respirazione, al pari di numerosi composti utilizzati a tale scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in dubbio, e sono in corso verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio anziché del carbonio. Origine della vita Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita. Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione, sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA, quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle.  A partire dalle protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un ramificato processo di evoluzione della vita.  Vita extraterrestr glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre. Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta "extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia, a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a quelle terrestri è molto acceso.  Nella cultura umanisticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita (filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia. Nella cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti, letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o il nichilismo.  Diritto e questioni etiche sulla vita umana Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto. Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose, da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi depressive. A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le seguenti riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary, travolta dalle devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da che dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi delle cose alle quali essa si appoggiava? Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto. Vita sintetica Dalla ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto di vita si è sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che utilizza conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in maniera artificiale in laboratorio. NASA Life's Working Definition: Does It Work?, su nasa.gov.Biase, I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Five Kingdom Classification System, su ruf.rice Mayr, What is tha meaning of "life" The nature of life, Cleland, University of Colorado, Cambridge University press, Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, Engelmann, Ed. originale: Philosophie des Organischen, Engelmann, Leipzig Schrödinger, What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge. Che cos´è la vita?: la cellula vivente dal punto di vista fisico, su disf.org. Defining Life: Astrobiology Magazine - earth science - evolution distribution Origin of life universe - life beyond, su astrobio.net. Cos'è la vita?, su torinoscienza.it, Torino scienza Forterre, Three RNA cells for ribosomal lineages and three DNA viruses to replicate their genomes: A hypothesis for the origin of cellular domain, in Proceedings of the National Academy of Sciences, How to Define Life -points to ponder for comprehensive questions on final exam, su una.edu.  McKay Chris P., What Is Life—and How Do We Search for It in Other Worlds?, in PLoS Biology, Defining Life, Explaining Emergence, su nbi.dk, Center for the Philosophy of Nature and Science Studies, Niels Bohr Institute; Understand the evolutionary mechanisms and environmental limits of life, su astrobiology.arc.nasa.gov, NASA Argano et al., Zoologia generale e sistematica, Zanichelli, Townsend et al., L'essenziale di ecologia, Zanichelli, Chiras, Environmental Science – Creating a Sustainable Future, Jones et Bartlett Learning, 2Essential requirements for life, su cmapsnasacmex.ihmc.us, NASA. Wolfe-Simon, Blum, Kulp, Gordon, Hoeft, Pett-Ridge, Stolz, Webb, Weber, Davies, Anbar, Oremland RS, A Bacterium That Can Grow by Using Arsenic Instead of Phosphorus, in Science, Santini, Streimann Illo C. A., Hoven Rachel N. vanden, Bacillus macyae sp. nov., an arsenate-respiring bacterium isolated from an Australian gold mine, in Int J Syst Evol Microbiol, Vita all'arsenico? Probabilmente no, su Le Scienze, Reaves, Rabinowitz, Kruglyak, Redfield, Absence of arsenate in DNA from arsenate-grown GFAJ-1 cells, Flaubert, Madame Bovary, BUR, Voci correlate Biologia Evoluzione Biodiversità Morte AWikizionario contiene il lemma di dizionario «vita» vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. vita, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it. La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Biologia Biologia scienza che studia la vita  Organismo vivente entità dotata di vita  Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto  Vita (filosofia). Il concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico. Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma "vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica, quella spirituale. Pensiero antico Nel pensiero greco antico vengono usati invece tre termini a seconda del loro specifico significato:  ζωή: il principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente, all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere; βίος: indica le condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante; ψυχή: nella lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di anima-respiro, il soffio" vitale: ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna»  Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei σπέρματα. Tutti questi sono elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come nel Timeo di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal demiurgo, che lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria, acqua. Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie alla Provvidenza divina. Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima, ἐντελέχεια, sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo causa e principio del corpo vivente. Con Aristotele il primato della forma sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός al βίος πρακτικός, al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica, che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella pratica cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine di cambiare la realtà: è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità. Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera, poiché i filosofi pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora. La visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che nella sua dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche cosmica, stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e quello materiale delle realtà empiriche.  Il pensiero cristiano e medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a chi crede in lui. Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in aeternum. Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. La filosofia medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita biologica adattando la sua definizione dell'anima come l'atto puro di un corpo che ha la vita in potenza alla teoria dell'immortalità dell'anima:  Filosofia moderna La vita viene concepita come appartenente a un essere vivente che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che definendo la monade la riferisce al principio aristotelico dell’ἐντελέχεια intesa come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi proprie, passando dalla potenza all'atto. Queste concezioni vengono superate dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei filosofi rinascimentali FICINO (si veda) e PICO (si veda).  I pensatori dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane, concepiscono la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della natura sviluppata da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole contrastare sia la teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di incomprensibile sia quella romantica che contrappone l'energia della vita al freddo sapere, riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico dell'Idea (tesi) che si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla sintesi dell'Idea che torna su se stessa colma di realtà.  Si costituisce la Lebensphilosophie, la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di Lukács La distruzione della ragione, si esprime in una varietà di autori che elaborano una dottrina variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia vita-ragione. Così Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Klages, e specialmente Unamuno, Gasset, Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo, di Arthur Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a qualcosa di immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una «vitalizzazione della ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo, all'amoralismo:  La ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della ragione; qualora essa conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la negazione della vita. Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la ragione.  Su queste basi speculative la filosofia francese con Deleuze ha sviluppato una filosofia della vita che in questo autore, attingendo agli studi storico-epistemologici di Canguilhem, porta alla fondazione di una visione immanentistica della vita che ha come fulcro il concetto di differenza-ripetizione  tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione. Sulla scia del pensiero di Nietzsche, la differenza è concepita come affermazione pura, come atto creativo e l'identità come un che di selettivo, che torna solo per affermare la differenza. Attingendo alla filosofia della vita Foucault avanza la teoria del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la rete di poteri gestisce  la gestione del corpo umano nella società dell'economia e finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la gestione del corpo umano come specie, base dei processi biologici da controllare per una biopoliticadelle popolazioni. Ove non indicato diversamente, le informazioni contenute nel testo della voce hanno come fonte: Dizionario di filosofia Treccani alla voce corrispondente Possenti, La questione della vita Internet Archive. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Milano, Adelphi, Possenti, Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The Origins of European Thought, Cambridge, N. T. Gv. Platone, Timeo,  Aristotele, De anima, Aristotele, II libro della Metafisica, Gv. Lunardi, Attualità di Unamuno, Padova : Liviana Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino; Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Voci correlate Modifica Esistenza Naturalismo (filosofia) Filosofia della natura Vitalismo   Portale Filosofia: Psiche termine della psicologia  Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita  Panpsichismo teoria Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita. Il vitalismo è una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente come forza vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico materiale. Raffigurazione di Venere, principio della vita e della fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che i fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non siano riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è una netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra ha avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800 milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei.  Il vitalismo può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come l'esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la ricerca del godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di quella volontà di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto.  In una tale ottica l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica della vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti più truci e sofferenti.  StoriaModifica  Bambino nel grembo materno disegnato da Vinci. Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo, sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale Anima del mondo. Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico: questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti. Dopo aver trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica, come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da nient'altro. Tentativi di spiegazione in laboratorio Wer will was Lebendiges erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie. Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca sempre innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il nome di encheiresin naturae. Si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede. Mefistofele rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe. Figure di omuncoli disegnate da Vallisnieri, ritenuti i semi in grado di operare la generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria genetica sono stati i seguenti:  il chimico tedesco Wöhler, in collaborazione con Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi dell'urea. Viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Buchner dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive ma solo con loro estratti. Stanley cristallizza il primo virus, il virus del mosaico del tabacco. Urey prepara i primi composti organici deuterati. Miller ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita, senza che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione, tali procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in natura.  Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza, passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che potrebbe essere in grado di spiegarle. Il biologo e filosofo Driesch ricorse al termine del LIZIO entelechia per designare questa forza vitale in grado di strutturare la materia organica secondo leggi immateriali. Il desiderio di costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il romanzo Frankenstein di Wollstonecraft. L'esaltazione della vita nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, cit. in bibliografia.  Dettaglio dal codice Windsor sugli studi sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo). Leibniz, Monadologia, Schelling, BRUNO (si veda), ovvero il principio divino e naturale delle cose, dove egli recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo».  Macchiaroli, Leopardi, Napoli, Biblioteca Nazionale, Bergson, L'Evolution créatrice. Espressione composta da un termine greco all'accusativo, encheiresin, ed uno latino, che significa letteralmente «manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indica l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo vivente (Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings,  a cur. McClatchy, Princeton). ^ Chardin, L'avvenire dell'uomo, Il Saggiatore, Milano; Dizionario di filosofia Treccani. BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, Vinci editore, Hvidberg-hansen, The Spirit of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, Amico, Medicina e metafisica, Nuovi Autori, Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, Canguilhem, La conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino; Scott Lash, Life (Vitalism), Theory, Culture and Society. Voci correlate Modifica Animismo Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Bergson Collegamenti esterni vitalismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vitalìsmo, su sapere.it, De Agostini. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano Chardin gesuita, filosofo e paleontologo francese  Pensiero di Teilhard de Chardin Dannunzianes  l'anima. L' ultimo libretto del nostro filosofo, che dal  suo stesso nome ci pervenne intitolato Fracastorius sive de Anima, dovrebbe essere quasi la  sintesi de' precedenti ragionamenti da lui tenuti  intorno all'intellezione. Ed invero fu a suo  luogo notato come intendimento del nostro Autore era di risalire daile estrinsecazioni del  pensiero alla sua stessa sorgente, e dalle facoltà  dell'anima, prima fra le quali la intellettiva, e  dagli atti loro, alla stessa propria natura dell'anima razionale. Cammino inverso a quello  che si era tenuto e si tiene comunemente nelle  scuole, dove, da definizioni astratte dell'anima. come dall' entelecheia d'Aristotele, si fa discendere e si credeva di potere spiegare i singoli  fenomeni. Ma appunto perciò abbiamo annoverato  F. fra i primi filosofi del rinascimento,  avendo egli avuto chiara coscienza della necessità  di procedere a posteriori anche ne' più ardui  problemi della filosofia, della quale in tal guisa  preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro  dell' Anima adunque si dovevano raccogliere i supremi sforzi dell'acume filosofico di F., e tuttavia per talune ragioni che or verremo esponendo, questo libretto rimane inferiore  all' aspettazione del lettore, e forse al concetto  stesso che aveva guidato l'autore nel comporlo. In primo luogo il dialogo è rimasto incompiuto perchè l’autore, che da tanti anni vi medita sopra, è prevenuto dalla morte. E per  quanto si possa credere che in confronto dell’ampio svolgimento dato al libro dell' Intellezione questo sull' Anima avrebbe dovuto avere  un corrispondente e proporzionato sviluppo, in  ragione della più alta gravità e difficoltà della  materia, è tuttavia un libretto di non molte  pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova  impresso nella raccolta delle opere Fracastoriane. In secondo luogo la dottrina dell'anima  è in questo dialogo trattata limitatamente, e  quasi esclusivamente rispetto alla controversia  dell' immortalità. E' ben vero che F. cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad afferrare la quiddità dell' anima, però assai  brevemente, e di leggieri si scorge che non è  questo, almeno in tal luogo, il fine principale  a cui mira. Notissima è la contesa suscitata a  quel tempo dal POMPONAZZI intorno alla immortalità, da lui filosoficamente negata, cristianamente creduta, non diremmo tanto per la  consapevolezza del pericolo, quanto per quello  strano contrasto che accompagna le più ardite  ribellioni di uomini usciti allora dal dominio  della teologia. Il che tuttavia non tolse che al  Pomponazzi stesso da taluno si facesse intendere  eh' egli, ammessa per buona la sua credenza  come cristiano,, poteva essere arso soltanto come filosofo. La dottrina del maestro ebbe contradditori fra i suoi stessi discepoli. Primo fra questi  il Contarini, uomo di chiesa, la confutò, dicendola  sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe  che F., uomo religioso, e medico del  Concilio di Trento, avesse a difenderla. Ciò non ostcante è errata l'opinione di coloro i quali  credettero, come riferisce pure l'anonimo scrittore della vita di F., che questi componesse il suo dialogo adversus insana non  minufi quam impia Pomponatii praeceptoris placita. Queste parole ci fanno sentire  r acrimonia dell' animo nei contradditori del  Pomponazzi, ma tale non è verso di lui l'animo di F., il quale si sforza bensì di confermare l'immortalità, ma senza parola di ran-  core contro di alcuno, anzi senza mai nominare  il Pomponazzi, e senza quasi mostrar di cono-  scere le obiezioni da esso addotte. Il dialogo  poi fu pubblicato soltanto molti anni dopo la  morte del filosofo mantovano, onde anche per  questo rimane del tutto escluso che 1' opera  fracastoriana potesse avere un fine personale e  polemico. Con tutto ciò egli è certo che il fine  apologetico della difesa del dogma la vince,  nel nostro autore, sulla discussione schiettamente  filosofica; e l'aver egli ristretto un argomento  sì vasto pressoché a questa sola questione, toglie oggi naturalmente al dialogo originalità  ed efficacia. In terzo luogo, ed è logica e necessaria conseguenza di quanto finora si è osservato, la  forma stessa del dialogo diviene piuttosto letterapia che filosofica e si abbandona a poetiche  concezioni, invece di conservarsi strettamente  raziocinativa e dialettica, quale appariva nel  dialogo dell’intellezione.Sente il nostro  autore che la quistione dell' immortalità sfugge  propriamente all'indagine della ragione, ond' egli vi sostituisce la poesia e il sentimento,  per quanto siano questi pure lati assai ragguar-  devoli dell' animo e del pensiero umano. Nondimeno quello che nel caso nostro più importa  notare, si è che ciò facendo F. non  pretende ancora assoggettare la ragione al dogma,  siccome era avvenuto per tutto il medio evo,  ma francamente riconosce che in quistioni di  tal natura non si può procedere col rigore del  ragionamento filosofico, in guisa che non s'abbia  ad accettare se non quello che sia stato rigoro-  samente dimostrato, come volevano le antiche  scuole degli stoici e dei peripatetici: Deinde et duritiem severitatemque illam vel stoicam vel  etiam peripateticam exuamus, ut nihil velimus  admittere nisi quod iis rationihus assertum comprohatumque fuerit quas comprobativas consuevimus appellare. In omnibus enim illas expetere iniustum profecto est. Queste  parole ci sembrano per vero molto notevoli. Se  le prendiamo alla lettera, in esse F. ci apparisce, come FILOSOFO, inferiore a sè stesso,  e verrà il Descartes a ristabilire come legge  essenziale del metodo quel medesimo rigore  dimostrativo che stoici e peripapetici avevano  voluto. Tuttavia conviene ben rilevare come  anche in cotesto il nostro Autore, pur soste-  nendo una tesi opposta a quella del Pomponazzi, sa ben distinguere, come questi aveva  insegnato a fare, ciò che può esser soggetto di  razionali dimostrazioni, e ciò che, non potendo  esserlo, va piuttosto confidato al sentimento ed  alla fede. Non v' è più qui la formula medioevale intellectus quaerens fidem; e nemmeno  Taltra « /ides quaerens intellectum, ed in cotesta distinzione che assegna un campo separato  alla filosofia e alla fede, pur entrambe necessarie a soddisfare un'imperiosa esigenza psicologica, tutti sanno che fu il principio di un  salutare rinnovamento oltreché scientifico, altresì  morale e civile. Del rimanente non è a dimenticare che  al tempo di F. quasi tutte le speculazioni e discussioni che si fanno intorno all' anima, aggiravansi principalmente intorno  all'immortalità. Ogni secolo discute quei problemi che più lo interessano, e non è a meravigliarsi che in un' epoca in cui ridestavansi  i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole  filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme  letterarie ed artistiche dell' antica civiltà greca  e romana, si cercasse con ansia profonda in  quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei  filosofi, la conferma o la liberazione da quei  dogmi che per secoli avevano occupato le menti  di ognuno. Così avviene che di tutta la psicologia  di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia  natura del Noo, da cui sembrava potersi conchiudere, rispetto all'anima, ora che ella è, ora  che non è mortale, era stata fra le altre parti  della sua dottrina la più dibattuta da commentatori e filosofi; è i nomi stessi di aristotelismo  e di platonismo si prendeno ormai come insegne di guerra, secondochè si mirava ad oppugnare o a difendere i dogmi del LIZIO. Indi le  guerre tra aristotelici ed antiaristotelici; e tra  gli aristotelici stessi gli uni si sforzavano ancora di tirare le dottrine del maestro, come  avea fatto la scolastica, a razionale dimostrazione di rispettate credenze, gli altri invece  francamente vi si ribellavano, ma tutti facevano segno de' loro studi più assidui quei luoghi  d'Aristotele che più da presso si riferivano  alle supreme quistioni del loro tempo. Ed ecco  perchè anche la psicologia del POMPONAZZI si  svolge principalissimamente intorno all'immortalità, come pure intorno alla stessa quistione  si agitano, pressoché esclusivamente, tutti i  suoi contraddittori o sostenitori, come NIFO (si veda),  CONTARINI (si veda), F., ACHILLINI, PORZIO, ZABARELLA, infìno a CREMONINI e a CESALPINO;  e in generale tutti coloro che più o meno partecipando al moto impresso da Pomponazzi,  svolsero o rifecero, sulle tracce d' Aristotele, la  psicologia del rinascimento. Premesse le quali cose, veniamo ora a più  particolareggiato esame di questo dialogo di F. Sono i medesimi personaggi che  avevano si dottamente ragionato dell'intellezione,  i quali ora prendono parte alia nuova discussione  intorno all' anima, ed incomincia a parlare F., protagonista del dialogo. Pel cui svolgimento, quasi dramma intellettivo, l'autore non   IS   manca in prima di tratteggiare la mirabile  scena naturale ove egli e i su oi compagni si trovano, al cospetto di tante bellezze naturali di  acque, di monti, di luoghi boscosi; e tutto ciò  risuscita in loro l' immagine degli antichi filosofi greci, che contemplando la viva natura  s'ispirano alle sublimi loro speculazioni. Talché pieno dei ricordi e delle idee greche, F. che sin dal principio cita Teofrasto per  la somiglianza del luogo ove egli ed i suol amici  erano radunati con altro luogo da quello de-  scritto nell'Arcadia, così soggiunge. De anima nostra cum sinais haUturi sermonem in qiiam  videtur musica latentem nescio quam vim et  consensum habere, apte quidem fiet si aliquantis per nunc ecccitetur in noUs. Ed alcuni carmi  cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal  suono della cetra, danno l’ispirazione e l'intonazione del dialogo. Perocché in tali versi  si canta del felice giovine che rapito da Giove  e dato per compagno ad Ebe, cambia la terrena  dimora con l’eterna giovinezza dell' Olimpo. Questo congiungere insieme la poesia e la  filosofia (pur tenuto fermo quanto sopra abbiam  detto sulle diverse e talora opposte ragioni  della scienza e dell ' arte ) è uno dei fenomeni a mio giudizio più ragguardevoli che si manifestano in taluni dei più grandi inge-  gni dei Rinascimento, compreso BRUNO (si veda) stesso  che sì altamente e filosoficamente poetava. In vero r Italia era allora tutto un popolo di  artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente  ispiratori e maestri i filosofi. Tal fenomeno merita un più lungo studio, che qui non è  il luogo nemmen di accennare, perchè troppo  ci allontanerebbe dal nostro fine principale;  però piacemi almeno di riferire un saggio della  poesia filosofica di F., osservando che  se allora ì' arte e l' ispirazione del sentimento  tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche,  ben potremmo augurarci che oggi all'inverso,  di tanto mutati i tempi, la filosofia e la scienza  valessero a dar vita ad un' arte e ad una poesia  nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen-  tare la decadenza della poesia e dell'arte. Eceo  ora la poetica finzione di F. Ne timeas, Troiane fiier, quod in ardua tantum  Tolleris a terra: quod rostro atque unguihus uncis  Te complexa ferox volncris per inania portai. Audisti ne unquam sublimis nomen Olympi? Audisti ne Jovis, tonitru, qui fulmina torquet? nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter est, qui  Haud praeda captus, diari sed amore nepotis  In summum amplexu innocuo te portai Oìympum. Astra ubi tot spedare soìes, uhi pulcher oUt Sol  Oitusque occasusque siios, ubi candida noctes  Currit Luna nitens, auroram Lucifer anteit. Hic ego te in numero superum domibusque Deorum,  Ver ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas  Aeterna et semper viridis floreìisriiie iuventa,  Consistam, aequalemque annis pubcntibus ITeben  Officioque dabo comitem. Pone metum, dilecte Jovi, melioraque longe  Frospiciens, charam pucr obliviscere Troiani;  Neve Deim te iam et divorum regna petentem  lilla canum, aut Idae nemorosae cum sequatur.  Tale dunque è la poetica introduzione al  trattato dell' anima. Ma l' autore entra subito  in materia, e ricerca intorno all'anima due cose -- quale ella sia qualis nam sit, cioè s' ella  sia eterna ed immortale o no; e che cosa sia  « quid sit, » cioè la stessa sua natura. Con  rapida analisi egli raccoglie tutti gli elementi  che la riflessione filosofica scorge nel concetto  che tutti possiedono dell' anima, intesa come principio della vita, e che da Aristotele  erano stati cosi ampiamente dibattuti e ventilati. Percorre tutti i gradi della vita, e non  si ferma all' antica distinzione delle specie di  anime che corrispondono alle celebri facoltà aristoteliche di nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza, pur fra loro concatenate in  modo che non sia possibile la funzione superiore  se non siano state prima attuate le funzioni inferiori; ma sviluppa inoltre il principio stesso  della vita, separandolo, più distintamente forse  che non avesse fatto lo stesso Aristotele, dalle  varie operazioni, procedenti da altre cause, che  concorrono a manifestarlo. In ciò la sua esperienza di medico e 1’erudizione eh' egli possede delle dottrine vitalistiche e animistiche emesse da fisici e medici insigni, come Andronico e Galeno, ch'egli ricorda, lo pongono in grado di meglio determinare il principio stesso  della vita, procedendo per eliminazione di tutto  quanto apparisca insufficiente a spiegare una  forza o potenza di tanto mirabile efficacia. Così  egli esclude che bastino a dar ragione della vita  la naturai complessione delle parti d'un corpo  organico, considerando quelle piuttosto come  strumenti indispensabili che come vera ed intima  causa; esclude quella temperatura o mescolanza  di umori e queir armonia o consenso delle membra su cui pur tanto si erano fermati gli  antichi, scorgendo in tutto ciò piuttosto un rapporto da cosa a cosa, che un principio unico  ed attivo delle operazioni esclude infine quegli  Spiriti che eia altri fiiron cliiamati vitali, o il  calor naturale, parendogli questi cosa ben differente da ciò che è propriamente forza vivente  e pensante. Ma allora che cosa è 1'anima, come  principio della vita, sia vegetativa, sia sensitiva  sia intellettiva? E qui F. torna esattamente ad Aristotele, la cui celebre definizione  dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio evo,  ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora, al dire di FIORENTINO (si veda), se n' è potuta escogitare una migliore  (Pomponazzi). A dir vero, quella stessa definizione aristotelica,  essere cioè l’anima l’entelechia prima di un  corpo fisico, organico, che ha la vita in potenza,  non era forse la più persuasiva, a cagione dell' oscurità di queir entelecheia che ha dato luogo  a tante discussioni e interpretazioni ; tuttavia il  Fracastoro si adopera per illustrarla, e la esplica  coi concetti di forma sostanziale e di atto motore, e poi di forza organizzatrice; dei quali  i primi due erano il risultato delle teorie aristoteliche, il terzo dovea essere il punto di  partenza delle nuove speculazioni che si vennero  svolgendo per tutta la filosofia moderna, dallo  spirito puro cartesiano sino alla monade leibniziana. Aristoteles quidem volens animae  naturam et rationem eocplicare entelechiam vocavit, quam alii agitationem continuam, alii  actum transtulere est ennn anima propria  forma corporis organici, naturalis, viventis sed  QUATENUS INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN TOTUM prìmuin enim tum esse dat, tum conservationem  continuam; per ipsam deinde fiunt attractiones similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates  in virtute illius alterant, miscent, collocante  formant, figttrant et tandem progressiones  animalium, generationes semìnum, et demum  similium organizationes : quae omnia fiunt in  virtute animae et formae per eam vim quam  a mundi anima ed a Beo certam et nunquam  errantem recepit. Non si poteva concepire in una forma più  elevata e universale questa forza effettrice della  vita, qualunque essa siasi (dacché la sua essenza  ci sfugge, come ci sfuggono tutte le ultime  ragioni delle cose); ne la dottrina di Aristotele  poteva avere un più chiaro e sincero interprete.  Ancora è da notare come F., da buon  naturalista eh' egli era, presente qui l' unità  della vita nell' universo, ma riferendo 1’anima   dell' uomo all' anima del mondo ed a Dio, non  conclude in favore di un assoluto panteismo, ideale o materiale, eh' era pure stato il retaggio  di alcune scuole antiche, ne partecipa a quelle  fantastiche animazioni che si riscontrano, come  altrove notammo, in alcuni filosofi del rinascimento; bensì la stessa sua sobrietà e temperanza che anche altrove abbiamo avuto occasione di  porre in rilievo lo trattiene dal trascendere ad  affermare quanto non fosse il semplice bisogno di  concepire la natura come un tutto organizzato e  vivente. Il quale bisogno fu pure altamente  sentito in tutto il rinascimento. Ma se si con-  fronti questa semplicità e diremmo quasi buon  senso di F., con le stravaganze che  intorno all'anima del mondo ebbe dichiarato Agrippa nei libri De Occulta Philosophia; con le cose astruse e sottili che sì leggono nella Pampsychia del Patrizzi, nel De SuUitilite; CARDANO (si veda, nel Messaggero di TASSO (si veda); e in fine con le idee trascendenti  enunciate nei libri De Causa  e nella Cena  delle Ceneri del BRUNO (si veda) e nel De sensu rerum et Magia di CAMPANELLA (si veda), si vedrà quanto l'azione moderatrice di F. fosse opportuna per volgere senza scosse la filosofia del suo  tempo dal formalismo d'Aristotele al naturalismo de'nuovi tempi. Però la definizione aristotelica dell'anima  abbracciata di F. non risolve una difficoltà, anzi una contraddizione sostanziale che qui  sorge improvvisa. L'anima, essendo per Aristotele  forma sostanziale del corpo è indisgiungibile da  questo, come egli ebbe risolutamente affermato  in più luoghi, e segnatamente in quello notissimo del De Anima. Ne  perciò Aristotele ebbe anco il pensiero di voler  indagare la possibilità di un' esistenza separata  dell' anima. In tutto il suo sistema materia  e forma costituiscono nella realtà una sola cosa,  entrambe sono egualmente necessarie ed inse-  parabili, essendo la materia la potenza della  forma, e la forma atto della materia, talché dove  è materia è forma, e dove è forma è altresì  materia. Tuttavia questa unione e compattezza  della materia e della forma, che costituisce uno  dei cardini del sistema aristotelico, vien rotta  allorché dalla realtà applicata al conoscimento,  deve la teorica d' Aristotele adattarsi a spiegare  il modo con cui si effettua in noi la cognizione,  mediante la stessa materia e la stessa forma. Invero la materia, secondo la teoria ereditata dall’ACCADEMIA, e che non pertanto torna  meno sostenibile nel sistema aristotelico, è indefinita 0 indeterminatissima, perciò ella è  inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato  nella metafisica. La cognizione invece è data  dalla forma; vi è però in questo una intrinseca difiìcoltà, perchè la forma educendosi dalla potenza della materia, parrebbe che la  inconoscibilità di questa dovesse rendere meno  accettevole la conoscibilità di questa. La difficoltà si aggrava quando la materia e la forma  si considerino in quei due termini estremi di  tutta la nostra conoscenza che sono l' individuo  e r universale. Questi due termini rimangono  inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e dì qua  la prima sorgente di tutte le opposte direzioni  date alle varie parti della sua dottrina, alle  quali questo primo principio, per la stessa compattezza del sistema, generalmente si distende.  Invero l' individuo è sensibile, l’universale è  intelligibile, secondo la teorica fondamentale  d'Aristotele che pure altrove abbiamo richiamata ; intanto l'individuo che dovrebbe partecipare della inconoscibilità della materia, è  tuttavia per lui il sinolo di una materia e di  una forma, ma partecipa di più della inconoscibilità della materia a cui è più vicino; l'universale invece nella sua massima forma rimane  assoluta conoscenza, ossia pura forma, senza  mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li tal guisa si viene a separare per la prima volta la  materia dalla forma, dappoiché è manifesto che  mentre tutte le altre forme^ eccetto la massima si compenetrano nella materia, rispetto alla nostra conoscenza si ammette una forma pura  che viene ad essere per così dire divorziata  dalla materia. E' questa veramente una contraddizione del  sistema del LIZIO, la quale chi ben consideri  non va attribuita a difetto del genio smisurato  di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime  ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte  le analisi più profonde del pensiero metafisico,  e che avrebbe dato luogo più tardi alla negazione del principio di causa per parte dell'Hume,  e al riconoscimento di quelle intrinseche antinomie le quali dovevano essere messe in evidenza dall' acutissima mente del Kant nella  critica della ragion pura. Ora questa stessa cotraddizione trasportata per necessaria conseguenza di sistema nella investigazione della  natura dell'anima, dà luogo alla strana ambiguità del LIZIO intorno alla immortalità ed  alle controversie infinite che ne derivarono. Perocché mentre dalla definizione sopra riferita  dell'anima dovea dedursi che questa non essendo  disgiungibile dal corpo non potesse avere una  esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi  e perire, clie dir si voglia, al morire o disfarsi  del corpo, ecco invece che vien dicliiarata ad  un tratto capace di separata esistenza, e perciò  immortale. Ciò è chiaramente detto dal LIZIO in altro luogo pur celeberrimo del IT. libro De Anima  ove è detto che /' intelletto e la  potenza pensante senibra essere un altro genere  di aniìna e questa sola potersi dare che sia separata, come l’eterno dal perituro.  Adunque, stando alla antecedente definizione  dell' anima (che pare dovea comprendere tutti  i generi di anime) anche l'intellettiva avrebbe  dovuto concludersi mortale; ma giunto a questo  il LIZIO si arresta, e ripigliando il cammino  dalla teorica della conoscenza e dalla forma  pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può  concepire separata dalla materia, conclude che  si può dare, èvSéxexat, anche un'intelligenza separata, e perciò immortale. Questa conclusione sembra tanto più inaspettata inquantochè egli  aveva fatto scaturire 1' anima intellettiva dalle  potenze inferiori; allo stesso modo che tutte le  forme erano implicate nella materia; e tuttavia  non ostante l'antinomia delle parti, egli è in  fondo coerente all' insieme del suo sistema, perchè l'intelletto che si dice ora separato vien fuori in forza di quel medesimo ragionamento  che, nel processo conoscitivo dall' individuo all'universale, gli avea fatto concepire la possibilità  di una forma pura separata da ogni materia  che spiegasse 1' universale. Tale per sommi capi  è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sforzati di ridurre alla suprema possibile chiarezza  traendola fuori dal viluppo delle ragioni opposte,  specialmente de' commentatori, e mostrandola  come un prodotto logico del suo sistema. Nè  bisogna dimenticare inoltre che in tutta cotesta controversia Aristotele stesso non è abbastanza esplicito, e ciò diede luogo ai commenti infiniti  degli espositori. IL LIZIO ha dunque un bel dibattersi fra queste due opposte conclusioni. Il  problema è insolubile. Invero tanto potevano  aver ragione coloro che avrebbero voluto sforzare Aristotele ad esser logico fino in fondo,  traendo dall' inseparabilità dell' anima dal corpo  la prova della mortalità della medesima, tanto  coloro che dalla forma e dall' intelletto separato  concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota  nella storia che mentre i Dottori delle scuole  stavano per questa sentenza, quasi tutti i commentatori non scolastici, e Alessandristi e Averroisti, conchiudevano per la prima opinione, anche  prescindendo dalla dottrina dell'intelletto separato come contraria alla definizione generale  dell' anima. Il vero si è che cotesti erano soltanto ragionamenti a priori nè la natura dell'argomento ammetteva la possibilità di quella  esperienza che ormai da tante parti, e da F. stesso, si contrapponeva alle astratte  speculazioni. Bisognava dunque contentarsi di  queste o abbandonare la controversia. Tuttavia  notammo già che il problema s' impone, alla  umana coscienza e non è di quelli che specialmente in un tempo in cui sì gran parte dell'edificio  morale e civile e religioso riposava su di esso,  avrebbero potuto evitarsi. Se il sistema del LIZIO è impotente a risolvere un siffatto problema  bisognava sciogliersi dal sistema, ed allora a che  affidarsi? La quistione, come altrove notammo,  era stata ben posta da POMPONAZZI, la cui  dottrina ci piace qui riassumere con le cospicue  parole del Ferri nella altre volte citata sua  Opera. Se volete, dice essa, una dimostrazione  dell' immortalità, la filosofia non ve la dà, nè  ve la può dare ; ammessa invece la verità rivelata, la religione ve la fornisce, domane! alela  ad essa. Ora, F. come  si comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace  giudizioso del suo Maestro, perchè è ben vero  che egli difende l’immortalità la quale POMPONAZZI fllosoflcamente impugna, ma sentendo  r insufiScenza de' ragionamenti filosofici, francamente ricorre a quella religione stessa che pure POMPONAZZI (si veda) addita. Infatti, oltre a  quanto fu già rilevato in principio, ch'egli non  prometteva dimostrazioni filosoficamente rigorose; qui, dopo percorse e ripetute le ragi oni  d'Aristotele secondo la interpretazione scolastica,  assai modestamente e quasi dubitativamente  conchiude esser là tutto quella che sembravagli  potersi addurre in favore della sua tesi: atque  haec quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu  ediici posse videntur.  Di più confessa ancora per bocca del suo interlocutore, che non  poche cose potrebbero tuttavia revocarsi in  dubbio. Non panca certe sunt quae si contentiosi esse velimus possint adirne in diihium  verti. Ond' egli da questo punto  abbandona addirittura il campo della filosofia  per entrare in quello della teologia, e quando  viene a parlare, pur tentando di risolvere quei dubbi, di Dio e dei fini della creazione, così  dell' uomo, come di questa meravigliosa macchina mondana; e di poi della beatitudine degli  angeli, della generazione del Cristo, della vita  e dello spirito dei santiegli  manifestamente non parla più come filosofo ma  soltanto secondo religione, e non fa nè può  far altro che ripetere le argomentazioni dei  teologanti; nelle quali, come è giusto, noi incompetenti non lo seguiremo.  Non di meno l' interpretazione che Fracastoro dà alle dottrine del LIZIO, ci porge  argomento di esaminare alcun' altra cosa che  non è senza importanza per rispetto alla storia  della filosofia e in particolare dell'Aristotelismo  nel rinascimento. L'ENTELECHEIA del LIZIO, oltre  alle altre discussioni, aveva dato luogo a dubbi  intorno all'unità dell'anima e del corpo umano ;  perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto e la  forma del corpo organico, naturale, vivente,  secondo le parole del LIZIO, essendo cotesto corpo organico non vera unità, riunione  di più membra tanto diverse quanto sono le ossa dai muscoli, dai nervi, dalle vene, e così  di seguito, come può l'anima essere una forma  unica applicandosi a forme tanto diverse? E qui  l'acume de'commentatori del LIZIO si era assai  ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima, incolume, e quale è attestata dalla coscienza, dalla  molteplice varietà delle forme corporee di cui  doveva essere l'atto e la vita. Gli uni avean  detto che l' unità dell' anima dee intendersi  soltanto w genere, pur differendo le membra  nelle specie; come più animali, ad esempio  r uomo, il cavallo, il bue, costituiscono un ge-  nere unico, differenti ssimi rimanendo nella specie : dove ognun vede che, se così fosse, l'unità  dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un  concetto mentale; ma realmente nient' altro  sarebbe che un' astrazione eduna chimera. Altri  poi dicevano che in ogni corpo organico vi è  sempre una parte che è principale rispetto alle  altre, anzi queste son fatte per quella e governate da quella, onde 1' anima non è necessario  che si intenda esser una rispetto a tutte le parti  del corpo, ma soltanto rispetto a quella che è  la principale, e così 1' anima è unico atto od  unica forma di un' unica organica potenza, la  quale ha virtù di dare la vita al tutto. Questa  risoluzione sembra a F. più vicina alla verità del nesso fisiologico che è fra le membrane Clelia loro subordinazione: tuttavia non lo  ai) paga compiutamente e ci sembra notevole ii  principio che egli ora introduce per definire la  controversia. Anche le parti principali, die' egli  con profonda dottrina e con acuto spirito di  osservazione, sono parecchie, onde 1' unità non  può risultare dal solo fatto che una di esse è  la principale. Ma da che cosa risulterà dunque?  Balla loro continuità, egli rlice, perchè ogni  xmità non sì può altrimenti intendere che come  continuità. Principale» siquidem partes, quamquam plures sint, fiuntper continuationem unum:   OMNE ENIM CONTINUUM EST UNUM. Questo principio ci pare notevole perchè  fa presentire V analisi profonda che del concetto  di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo  Spencer, il quale ne'primi principi sviluppando il concetto che è già cosi chiaro nel  F., dimostra che (.gni unità è continuità  di parti, perchè 1'assolutamente uno è impensabile. E se F. ha sostituito alla  continuità delle parti del corpo organico la continuità degli stati di coscienza (e ognun sente  il nesso . logico che dovea condurre da quella  a questa) avrebbe posto una delle pietre angolari della psicologia moderna. La quale, come ognun sa, si è costituito per proprio oggetto  appunto r esame della successione di quegli  stati, di cui il processo cerebrale e le parti organiche sono la causa occasionale, mentre la coscienza n'è il legame indispensabile; e dall'analisi  descrittiva di tali stati di coscienza, dal più  semplice al più complesso, fa scaturire quella  grande unità che è la nota più caratteristica  nella natura e nella vita dello spirito.  Altro punto importante della psicologia fra-  eastoriana ci sembra quello ove, pur mantenendo  assoluta la diversità dell'intelletto dalla materia,  riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimostrare come l' incorruttibilità del primo non dee  intendersi altrimenti che quale conservazione  di una energia sostanziale, allo stesso titolo per  cmì si ammette indistruttibile ed eterna la materia. Nulla si crea e nulla si distrugge, è il principio antico, cui ritorna F., dopo le  negazioni alle quali per il falso concetto dell'atto  creativo erano venute la scolastica e la teologia medioevale. Ma tale principio rimesso in  Qnore anche da altri filosofi e scienziati del rinascimento, manifestamente segna un grande  progresso, e già accenna a quella legge univer-  sale e feconda della conservazione e trasforma-  zione dell' energia, che tanta importanza ha  assunto nell'indirizzo e nelle scoperte della  scienza moderna. Non diremo che nelle dottrine  di F. si giunga sino a questo, e che  ciò possa avere virtù risolutiva rispetto alla  quistione dell' immortalità; nondimeno ci par  nuovo, bello e fllosoflco il pensiero da cui egli  è guidato, e ci piace rilevarlo. Procul dubio, die' egli, idem de intellectu dicendum erit quod  de materia, et utrumque incorruptibile et aeternum esse. E ripete poco stante. Quare et  incorruptibilem ponere intellectum debemus, et  parem habere cum materia conditionem. Ed infine ci pare manifesto che  rispetto alla tesi ultima che F. voleva  sostenere, vale a dire l’immortalità, egli abbia  inteso come non dall' astrazione o separazione  dell'intelletto dalla materia, (su cui si fondavano  quasi tutti gli altri aristotelici sostenitori dell'immortalità stessa) ma dal loro accomunamento era  lecito dedurre quanto di più filosofico si poteva  dire suir argomento. Onde anche in ciò F. da prova così di grande acume d'ingegno come di retto criterio filosofico; ed è forse questo il solo punto in cui egli, contrapponendosi alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,  perocché se non riesce a dare una dimostrazione  della immortalità, che egli stesso abbastanza  esplicitamente ha confessato la filosofia non pòter dare; toglie almeno quella rude contraddizione che non avea dubitato di accogliere Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristianamente quello che filosoficamente avea negato.  Questa massima strana, è tanto inconcepibile,  che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi  stimò non sincero Pomponazzi come cristiano,  ad esempio il Brucker, il quale scriveva che  ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-  quio onde fa mostra POMPONAZZI (si veda) verso la  religione cristiana; mentre altri invece, come  Bitter, stima Pomponazzi non sincero o almeno non coerente o non convinto come  filosofo. Tale incoerenza non sarebbe stata pos-  sibile a F., la cui temperanza e il  retto criterio filosofico aveano fatto scorgere  il giusto punto fin dove filosofia e religione  sarebbero andate d'accordo, e al di là del quale  alla religione, non alla filosofia, sarebbe stato  lecito procedere sola. Sola ma non avversa;  perchè quello che la filosofia avesse dimostrato  assurdo, ninna religione potrebbe mai dare a credere, e ciò che si stima verità religiosa  (leve non poter esser dimostrato falso in filosofia.  Ecco perchè BONAIUTI (si veda) Galilei, impigliato egli pure in  quistioni religiose, doveva affermare più tardi  che « due verità non possono mai contrariarsi ; intendendo per tali la verità filosofica e la religiosa ; e fii pure BONAIUTI (si veda) Galilei quegli che riuscì a  rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scienza la sua autonomia contro le antiche invasioni  religiose e teologiche. F. adunque,  seguace del Pomponazzi nello sceverare il criterio filosofico dal religioso, è più logico e più  accorto di lui nel non mettere in contraddizione  F uno coir altro, ma piuttosto nel segnare il  confine d’ambedue. E poiché in filosofia come  in religione e in morale e in politica, tutte le  quistioni più gravi sono principalmente qui-  stioni dì confini, così ci pare notevole che F. Ha colto precisamente quei  punto, in cui trovandosi la religione non contraddetta dalla filosofia, e offrendo questa ben  largo campo ad altre ricerche, potevasi attendere ben altro sviluppo da un concetto alta-  mente filosofico, quale era quello dell' energia  sostanziale e della forza, il quale sviluppo si  ebbe di fatto in tutta la filosofia posteriore  fino a Spinoza e a Kant ed a Hegel. Senza caddentrarci più oltre in questo speciale  iirgomento, che eccederebbe i limiti del nostro  studio ed il nostro bisogno, stimiamo opportuno  confortare la nostra opinione con le belle parole  del Ferri, da lui poste come conclusione del suo  sapiente esame intorno alle dottrine psicologiche  del Pomponazzi, e che a noi pare convengano pienamente anche a quelle du F. Accomunati nella energia, manifestazione della  forza, r anima e il corpo, l' interno e 1' esterno  non sono più estranei 1' uno all' altro. Intesa  secondo questo rapporto la materia, può essere  sede e condizione perpetua della vita e dello  spirito senza contraddizione, e 1' anima umana  può aspirare all' immortalità senza che il fenomeno sensibile, falsamente trasformato in cosa  sostanziale ed esistente per sè, opponga a questa aspirazione un ostacolo insuperabile. La  Psicologia di Pomponazzi.  Molte altre cose avremmo ad aggiungere  intorno a questo Dialogo di F. se volessimo per disteso riferirne tutto il contenuto;  ma avvertimmo già che nell' esame degli autori ed in argonìento come quello che stiamo trat-  tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine,  e in quella parte soltanto che, vivificata da studi  posteriori, poteva esser cagione di nuovi avvia-  menti, e render ragione dei progressi ulte-  riori della scienza. Tutto il resto può essere  abbandonato all' oblio. In F., se non  ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza,  per quanto si è detto fin qui, la somma delle sue dottrine sull’anima. L'intelletto umano, come complesso di tutta quella varietà di operazioni che sono state da lui dichiarate nel dialogo precedente, è qui raccolto e sintetizzato, per così dire, in un'entità separata, che ha  qualche cosa di divino, perchè fornita di quella  virtù di pensare che è la suprema manifestazione della vita e dell'ordine dell'universo. Talché in certo modo tutto è intelletto e tutto  si compendia neir intelletto: intellectus omnia quodammodo fieri potest Si igitur omnia fieri dehet intelledus, et in potentia esse ad  omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum  necesse est. Tale intelletto separato, che è come l' essenza stessa dell' anima  umana a cui è peculiare, a differenza delle  anime belluine o semplicemente vegetative che  ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima umana sia dotata delle virtù che a quello som proprie,  onde L’ANIMA, come l'intelletto, può essere concepita qual forma separata dal corpo, ed essere  pertanto una, non ostante la moltiplicità delle  sue funzioni, ed immortale non ostante il suo  legame col corpo corruttibile. Belle sono inoltre le parole e le imagini che in F. qua e là ricorrono per armonizzare in un tutto questi  elementi discrepanti che convergono a spiegare  r intelletto e l’anima umana; e quando, ad  esempio, esamina, secondo un paragone allora  divulgato, se l’animo si congiunga col corpo come il nocchiero colla sua nave. Ovvero se sia  tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto  r esser nostro: utrum ille assistat nohis, quemadmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis  nostri sit ita pars, ut esse illud, quod quisque  hahet ab ilio detur. Quando discute in che modo possano stare insieme e formare un tutto solo, un atto o forma indi-  visibile quale è l'intelletto, e una materia divisibile quale è il corpo: quiomodo unum fieri  posse ex indivisibili actii et divisibili materia verso Quando ricerca con grande  sottigliezza il moto proprio dell'anima, e se  questo a lei sia sostanziale o accidentale secondo le distinzioni aristoteliche, collegando il moto di essa e di tutte le cose, coll’immagine della  catena omerica che tutto abiuracela e stringe  al primo motore. In tutto ciò, dico, il nostro autore dà prova di grande vigore speculativo, e se non tutte nuove sono le cose  ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente  analizzatrice e ricostruttrice, tale da poter stare  al confronto cogl' ingegni più acuti e coi filosofi metafisici più profondi del rinascimento. Da ultimo singolarmente importante dovea essere quella parte del suo dialogo in cui dalle  altezze sin qui contemplate dell' anima e dell'intelletto umano, partecipazione dell’intelligenza divina, e attività originata dal primo  motore, egli intende discendere a dimostrare il naturai principio di tutte le cose, la loro  produzione, origine e perfezione. Ancorcliè involto nel preconcetto antropomorfico che pone  l'uomo quasi centro di tutte le cose cuius grafia,  egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere non può disconoscersi che con  mirabile sintesi filosofica egli si prova a riannoda-  re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni  naturali, e descrive la formazione delle cose. Argomento bellissimo che tentò sempre l’intelligenza  e la fantasia de'più grandi naturalisti e filosofi. Certo, non abbracceremmo oggi le idee di F. su tutte le formazioni naturali; ma, quello  che è per noi più importante a notare, qui di  nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge  in lui lo scienziato. Invero F. intraprende a descrivere la formazione del sistema celeste, il numero e la distribuzione delle sfere, il soffio divino che animò il tutto, e poi man  mano le generazioni e le varietà delle piante degli animali, e da ultimo degli uomini, per  mezzo degli elementi naturali, quali il caldo il  freddo, le attrazioni e ripulsioni delle cose. In tutto ciò F., per quanto pare a noi,  non ragiona come que’filosofi che avevano più  volte architettato a priori, e secondo certe loro  idee preconcette, il sistema della natura, ma  sebbene non alieno egli pure dalle tradizioni  bibliche, fa chiaramente sentire che l’ordine  dell’universo da lui intuito è semplicemente  il risultato delle cognizioni eh' egli mercè F esperienza e con lo studio e l’osservazione di tutta la sua vita, si era formato in astronomia,  in matematica, in fisica; ed egli in ciò procede  come filosofo. Dalle quali cose si ha ancora una volta confermato come nel rinascimento la parte vitale  delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella  eh' ebbe a sostegno lo studio (lei fatti sperimentati nella natura, dai quali soltanto gl’ingegni più illuminati credevano oramai esser  possibile tentar di spiegare il passaggio dalla materia informe alle più alte manifestazioni della  vita e dello spirito. Problema immenso, tanto alto e tanto complesso clie nemmeno ai dì nostri si può dire di esser vicini al suo scioglimento;  non pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento,  dimostrato qual dovesse essere la via vera per incamminarvisi, questo è dovuto a coloro che vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma questa parte del Dialogo del F., che promette essere la sintesi sublime delle sue cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno alla natura, all'intelletto ed all’anima, non può se non accendere in noi un desiderio il quale non può essere soddisfatto, percliè a questo punto  il dialogo stesso è rimasto tronco e interrotto  per la morte dell' autore. Girolamo Fracastoro.Fracastoro. Keywords: dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di Fracastoro. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fracastoro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Francesco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei corpi – la scuola di Diano Marina – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Marina). Abstract. Grice: “If there is an Italian philosopher who mirrors my conception of vacuous names and referring, that’s Francesco!” Keywords: vacuous name, referring, dossier. Filosofo dianese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Diano Marina, Imperia, Liguria. Grice: “I like Francesco; for one, he philosoophised, like I do, on “I” and “We” – ‘first person’, ‘personal identity,’ and so on!” Insegna a Milano e Pavia. Collabora alla pagina culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente della società italiana di filosofia analitica e presidente della European Society for Analytic Philosophy. Altre opere: “La mente” (Mondadori, Milano. Che fine ha fatto l'io?” (San Raffaele, Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io e i suoi sé: identità della persona e smente” (Cortina, Milano); “La mente” (Nuova Italia, Roma); “Il realismo analitico” (Guerini, Milano); “Russell” (Laterza, RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di un oggetto: senso e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia. Corpo (filosofia) concetto filosofico. Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche, meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra anima e corpo. Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima. L'anima, infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale.  Al pensiero platonico si connettono sia la patristica sia la prima fase della scolastica. La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in Aristotele che sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono elementi separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se stesso il principio del movimento e della quiete. Filosofia medioevale Il corpo inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e nella scolastica: per Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6].  Questa concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa, nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso.  La filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto all'anima finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il primo res extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans, sostanza pensante e non estesa. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso causale: il corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si muove da sé).» La separazione del corpo dall'anima diede origine a dottrine dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del rapporto tra eventi incorporei e corporei.  Tra le concezioni dualistiche la prima è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto scambio di azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti corporei e incorporei fin quasi ad annullarla.  In opposizione a questo dualismo per le dottrine dell'occasionalismo di Malebranche e di Arnold Geulincx l'anima e il corpo sono unite dalla esistenza di Dio.  Nell'ambito del monismo va inserita la soluzione di Leibniz che vide un parallelismo tra eventi corporei e incorporei connessi non da un rapporto causale ma da un regolare e continuo legame per cui ad ogni evento materiale ne corrisponde uno immateriale secondo un'"armonia prestabilita" tale per cui «i corpi agiscono come se, per impossibile, non esistessero anime; le anime agiscono come se non esistessero i corpi; ed entrambi agiscono come se le une influissero sugli altri. Tra monismo e pluralismo si colloca la filosofia di Spinoza che concepisce «la mente e il corpo come un solo identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto quello dell'estensione. Nell'unica sostanza divina infatti coincidono corpo e anima ossia i due attributi dell'estensione e del pensiero che mantengono però la loro diversità in quanto coincidenti solo in Dio.  Un rigoroso monismo caratterizza invece la filosofia illuministica con le teorie materialiste dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e Paul Henri Thiry d'Holbach secondo le quali le attività mentali dell'uomo dipendono meccanicamente dal corpo.  Collegato al materialismo settecentesco è in parte la filosofia di Karl Marx secondo il quale i pensieri e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai suoi comportamenti corporei.  Intendendo il materialismo in senso diverso da quello marxiano, Friedrich Nietzsche imposta una dottrina esaltante la corporeità in contrapposizione alla metafisica idealistica La concezione monistica che intende il corpo in senso idealistico annovera: George Berkeley che vede il corpo e ogni realtà materiale come una produzione mentale poiché solo la mente e le sue percezioni sono reali; Schopenhauer, per cui il corpo è nella sua essenza "volontà di vivere" e gli oggetti materiali semplici oggettivazioni della volontà; Bergson che considera il corpo un semplice strumento dell'azione pratica di una coscienza spirituale.  Filosofia contemporanea Da Schopenhauer e Bergson derivano le concezioni del corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo: per Edmund Husserl attraverso una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il corpo viene isolato come esperienza vivente. Concezione condivisa secondo diversi modi da Sartre e Merleau-Ponty. Platone, Fedone Origene, De principiis Scoto Eriugena, De divisione naturae, Aristotele LIZIO, L'anima, AQUINO, Summa Theologiae, Summa Theologiae, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla terra e beatitudine del Cielo. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Cartesio, Le passioni dell'anima, Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione, Leibniz, Monadologia, Spinoza, Ethica, Marx, Ideologia tedesca Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, Schopenhauer, Mondo, Bergson, Materia e memoria, Husserl, Meditazioni cartesiane, Sartre, L'essere e il nulla, Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Abbagnano Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Paravia, Torino  F. Cioffi et al., Diàlogos, Mondadori, Torino Dolci / L. 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Dalle membra disperse all'organismo, Negretto Editore, Mantova Il corpo offeso tra piaga e piega, in Figure dell'immaginario, rivista on line di filosofia, storia e letteratura, su figure dellimmaginario. altervista   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Filosofia Monismo (religione) Unità psicofisica Monismo; Alsmith, “Mental Activity et the Sense ofOwnership”, Review of Philosophy and Psychology; “Bodily Structure and Body Representation”, Synthese Anema, Zandvoort, Haan, Kappelle, Kort, Jansen, and Dijkerman, A Double Dissociation between Somatosensory Processing for Perception and Action”, Neuropsychologia, Anscombe, Intention, Oxford: Blackwell. On Sensations of Position”, Analysis; Armstrong, David Malet, Bodily Sensations, London: Routledge and Paul. 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A Phenomenological Critique of Representational Theory”, Journal of Consciousness Studies.  Of those who are approximately my contemporaries, Professor W. V.  Quine is one of the very few to whom I feel I owe the deepest of professional debts, the debt which is owed to someone from whom one has learned something very important about how philosophy should be done, and who has, in consequence, helped to shape one's own mode of thinking.  I hope that he will not think it inappropriate that my offering on this occasion should take the form not of a direct discussion of some part of Word and Object, but rather of an attempt to explore an alternative to one of his central positions, namely his advocacy of the idea of the general eliminability of singular terms, including names. I hope, also, that he will not be too shocked by my temerity in venturing into areas where my lack of expertise in formal logic is only too likely to be exposed. I have done my best to protect myself by consulting those who are in a position to advise me; they have suggested ideas for me to work on and have corrected some of my mistakes, but it would be too much to hope that none remain."  I. THE PROBLEM  It seems to me that there are certain quite natural inclinations which have an obvious bearing on the construction of a predicate calculus. They are as follows:  (I) To admit individual constants; that is to admit names or their representations.  To allow that sometimes a name, like "Pegasus", is not the name of any existent object; names are sometimes 'vacuous. In the light of (2), to allow individual constants to lack designata, so that sentences about Pegasus may be represented in the system. To regard Fa and ~ Fa as 'strong' contradictories; to suppose, that is, that one must be true and the other false in any conceivable state of the world. To hold that, if Pegasus does not exist, then "Pegasus does not fly" (or "It is not the case that Pegasus flies") will be true, while "Pegasus flies" will be false. To allow the inference rules U.I. and E.G. to hold generally, without special restriction, with respect to formulae containing individual constants. To admit the law of identity ((Vx) x=*) as a theorem. To suppose that, if is derivable from , then any statement represented by $ entails a corresponding statement represented by f. It is obviously difficult to accommodate all of these inclinations.  Given [by (7)] (x)x=x we can, given given derive first a =a by U.I. and then (3x)x=a by E.G. It is natural to take (3x)x=a as a representation of 'a exists'. So given (2) and (3), a representation of a false existential statement ("Pegasus exists') will be a theorem. Given (6), we may derive, by E.G., Sx) ~ Ex from ~ Fa. Given (3), this seemingly licenses an inference from "Pegasus does not fly" to "Something does not fly". But such an inference seems illegitimate if, by (5), "Pegasus does not fly" is true if Pegasus does not exist (as (2) allows). One should not be able, it seems, to assert that something does not fly on the basis of the truth of a statement to the effect that a certain admittedly non-existent object does not fly.  To meet such difficulties as these, various manoeuvres are available, which include the following:  To insist that a grammatically proper name N is only admissible as a substituend for an individual constant (is only classifiable as a name, in a certain appropriate sense of 'name') if N has a bearer. So "Pegasus" is eliminated as a substituend, and inclination (3) is rejected. To say that a statement of the form Fa, and again one of the form ~ Fa, presupposes the existence of an object named by a, and lacks a truth-value if there is no such object. [Inclinations (4) and (5) are rejected.] To exclude individual constants from the system, treating ordinary names as being reducible to definite descriptions. [Inclination (I) is rejected.] To hold that "Pegasus" does have a bearer, a bearer which has being though it does not exist, and to regard (3.x) Fx as entailing not theexistence but only the being of something which is F. [Inclination (2) is rejected.] To allow U.I. and E.G. only in conjunction with an additional premise, such as Ela, which represents a statement to the effect that a exists. [Inclination (6) is rejected.] To admit individual constants, to allow them to lack designata, and to retain normal U.I. and E.G.; but hold that inferences made in natural discourse in accordance with the inference-licences provided by the system are made subject to the 'marginal' (extra-systematic) assumption that all names which occur in the expression of such inferences have bearers. This amounts, I think, to the substitution of the concept of *entailing subject to assumption A' for the simple concept of entailment in one's account of the logical relation between the premises and the conclusions of such inferences. [Inclination (8) is rejected.]  I do not, in this paper, intend to discuss the merits or demerits of any of the proposals which I have just listed. Instead, I wish to investigate the possibility of adhering to all of the inclinations mentioned at the outset; of, after all, at least in a certain sense keeping everything. I should emphasize that I do not regard myself as committed to the suggestion which I shall endeavour to develop; my purpose is exploratory.  II. SYSTEM Q: OBJECTIVES  The suggestion with which I am concerned will involve the presentation and discussion of a first-order predicate calculus (which I shall call Q), the construction of which is based on a desire to achieve two goals:  (i) to distinguish two readings of the sentence "Pegasus does not fly" (and of other sentences containing the name "Pegasus" which do not explicitly involve any negation-device), and to provide a formal representation of these readings. The projected readings of "Pegasus does not fly" (S,) are such that on one of them an utterance of S, cannot be true, given that Pegasus does not exist and never has existed, while on the other an utterance of S, will be true just because Pegasus does not exist. ii) to allow the unqualified validity, on either reading, of a step from the assertion of S, to the assertion (suitably interpreted) of "Something [viz., Pegasus] does not fly" (S2).More fully, Q is designed to have the following properties.  U.I. and E.G. will hold without restriction with respect to any formula & containing an individual constant « [Ф(c)]; no additional premise is to be required, and the steps licensed by U.I. and E.G. will not be subject to a marginal assumption or pretence that names occurring in such steps have bearers. For some (a), $ will be true on interpretations of Q which assign no designatum to a, and some such (a) will be theorems of Q. It will be possible, with respect to any @ (a), to decide on formal grounds whether or not its truth requires that a should have a designatun. It will be possible to find, in Q, a representation of sentences such as "Pegasus exists". There will be an extension of Q in which identity is represented. III. SCOPE  The double interpretation of S, may be informally clarified as follows: if S, is taken to say that Pegasus has the property of being something which does not fly, then S, is false (since it cannot be true that a nonexistent object has a property); but if S, is taken to deny that Pegasus has the property of being something which flies, then S, is true (for the reason given in explaining why, on the first interpretation, $, is false).  It seems to be natural to regard this distinction as a distinction between differing possible scopes of the name "Pegasus". In the case of connec-tives, scope-differences mirror the order in which the connectives are introduced in the building up of a formula [the application of formation rules; and the difference between the two interpretations of S, can be represented as the difference between regarding S, as being (i) the result of substituting "Pegasus" for "x" in "x does not fly" (negation having already been introduced), or ii) the result of denying the result of substituting "Pegasus" for "x" in "x flies" (the name being introduced before negation)J.  To deal with this distinction, and to preserve the unrestricted application of U.I. and E.G., Q incorporates the following features:  (1) Normal parentheses are replaced by numerical subscripts which are appended to logical constants and to quantifiers, and which indicatescope-precedence (the higher the subscript, the larger the scope). Subscripts are attached also to individual constants and to bound variables as scope-indicators. For convenience subscripts are also attached to predicate-constants and to propositional letters. There will be a distinction between  (a)  and  (b)  ~, F,a,.  (a) will represent the reading of S, in which S, is false if Pegasus does not exist; in (a) "a" has maximal scope. In (b) "a" has minimal scope, and the non-existence of a will be a sufficient condition for the truth of (b).  So (b) may be taken to represent the second reading of S,. To give further illustration of the working of the subscript notation, in the formula Faz→, Gava H,bs 'v' takes precedence over*→*, and while the scope of each occurrence of "a" is the atomic sub-formula containing that occurrence, the scope of "b" is the whole formula.  (2) The effect of extending scope-indicators to individual constants is to provide for a new formational operation, viz., the substitution of an individual constant for a free variable. The formation rules ensure that quantification takes place only after this new operation has been per-formed; bound variables will then retain the subscripts attaching to the individual constants which quantification eliminates. The following formational stages will be, for example, involved in the building of a simple quantificational formula:  There will be, then, a distinction between 3x4 ~ 2 Fixa, and  (a) will, in Q, be derivable from ~, F,a,, but not from ~ , F,az; (b) will be derivable directly (by E.G.) only from ~, Faz, though it will bederivable indirectly from ~, Fag. This distinction will be further dis-cussed.  (3) Though it was not essential to do so, I have in fact adapted a feature of the system set out in Mates' Elementary Logic; free variables do not occur in derivations, and U.I. always involves the replacement of one or more subscripted occurrences of a bound variable by one or more correspondingly subscripted occurrences of an individual constant.  Indeed, such expressions as Fix and G,xzV, are not formulae of Q (though to refer to them I shall define the expression "segment"). F,x and G,xy are formulae, but the sole function of free variables is to allow the introduction of an individual constant at different formational stages.  Faz→, G,agV 4 H, is admitted as a formula so that one may obtain from it a formula giving maximal scope to "b", viz., the formula  (4) Closed formulae of a predicate calculus may be looked upon in two different ways. The symbols of the system may be thought of as lexical items in an artificial language. Actual lexical entries (lexical rules) are provided only for the logical constants and quantifiers; on this view an atomic formula in a normal calculus, for example Fa, will be a categorical subject-predicate sentence in that language. Alternatively, formulae may be thought of as structures underlying, and exemplified by, sentences in a language (or in languages) the actual lexical items of which are left unidentified. On this view the formula Fav Gb will be a structure exemplified by a sub-class of the sentences which exemplify the structure Fa. The method of subscripting adopted in Q reflects the first of these approaches; in an atomic formula the subscripts on individual constants are always higher than that on the predicate-constant, in consonance with the fact that affirmative categorical subject-predicate sentences, like "Socrates is wise" or "Bellerophon rode Pegasus", imply the non-vacuousness of the names which they contain. Had I adopted the second approach, I should have had to allow not only F,az, etc., but also Fa,, etc., as formulae; I should have had to provide atomic formulae which would have substitution instances, e.g., F,a,→ G,b, in which the scope of the individual constants does not embrace the whole formula.  The second approach, however, could be accommodated with appropriate changes.(5) The significance of numerical subscripts is purely ordinal; so, for example, ~ Fa, and ~17 Fa, will be equivalent. More generally, any pair of "isomorphs" will be equivalent, and Q contains a rule providing for the interderivability of isomorphs. and & will be isomorphs iff (1) subscripts apart, @ and ( are identical, and (2) relations of magnitude (=, <,>) holding between any pair of subscripts in @ are preserved between the corresponding pair of subscripts in & [the subscripts in & mirror those in @ in respect of relative magnitudes].  Professor C. D. Parsons has suggested to me a notation in which I would avoid the necessity for such a rule, and has provided me with an axiom-set for a system embodying it which appears to be equivalent to Q (Mr. George Myro has made a similar proposal). The idea is to adopt the notation employed in Principia Mathematica for indicating the scope of definite descriptions. Instead of subscripts, normal parentheses are retained and the scope of an individual constant or bound variable is indicated by an occurrence of the constant or variable in square brackets, followed by parentheses which mark the scope boundaries. So the distinction between ~, F,a, and ~, Fa, is replaced by the distinction between ~[a] (Fa) and [a] (~Fa); and the distinction between Jxy~,F,x2 and 3xa~,F,x, is replaced by the distinction between  (x) (~ [x] (Ex)) and (3x) ([x] (~ Fx)). Parson's notation may well be found more perspicuous than mine, and it may be that I should have adopted it for the purposes of this paper, though I must confess to liking the obviousness of the link between subscripts and formation-rules.  The notion of scope may now be precisely defined for Q.  If y be a logical constant or quantifier occurring in a closed formula , the scope of an occurrence of y is the largest formula in @ which (a) contains the occurrence of n, (b) does not contain an occurrence a logical constant or quantifier bearing a higher subscript than that which attaches to the occurrence of „. If , be a term (individual constant or bound variable), the scope of , is the largest segment of @ which (a) contains the occurrence of n, (b) does not contain an occurrence of a logical constant bearing a higher subscript than that which attaches to the occurrence of n.  (3) A segment is a sequence of symbols which is either (a) a formula or (b) the result of substituting subscript-preserving occurrences ofvariables for one or more occurrences of individual constants in a formula.  We may now define the important related notion of "dominance". A term 0 dominates a segment @ ift @ falls within the scope of at least one of the occurrences, in , of 0. In other words, 0 dominates @ if at least one occurrence of 0 in @ bears a subscript higher than that attaching to any logical constant in @. Dominance is intimately connected with existential commitment, as will be explained.  IV. NATURAL DEDUCTION SYSTEM Q  A. Glossary  If "n" denotes a symbol of Q, "y." denotes the result of attaching, to that symbol, a subscript denoting n. "Ф(c, a)"= a formula @ containing occurrences of an individual constant a, each such occurrence being either an occurrence of aj, or of..., or of o'. [Similarly, if desired, for "$(ap,...w,)", where "o" ('omega') denotes a variable.] "Ф" ="a formula, the highest subscript within which denotes n". If 0, and 0, are terms (individual constants or bound variables). *(02/0,) -the result of replacing each occurrence of 0, in d by an occurrence of 0z, while preserving subscripts at substitution-points'.  • [The upper symbol indicates the substituend.]  B. Provisional Set of Rules for Q  1. Symbols  (a) Predicate-constants (*F", "fl"  ,... "G .)  (b) Individual constants ("a", 'a'*  '.... "b"  .( ...  (c) Variables (*x",  ... "y"...).  (d) Logical constants ("~"  , "&", "v", "→").  (e) Quantification-symbols (V, 9"). [A quantification-symbol followed by a subscripted variable is a quantifier.]  Numerical subscripts (denoting natural numbers). Propositional letters (*p", "q",....). 2. Formulae  A subscripted n-ary predicate constant followed by n unsubscripted variables; a subscripted propositional letter. If i is a formula, $(*,+m/∞) is a formula. If is a formula, Vo+Ф(∞/«) is a formula. [NB: Substitutions are to preserve subscripts.] If m is a formula, 3c, +Ф (∞/x) is a formula. [NB: Substitutions are to preserve subscripts.] If » is a formula, ~+m is a formula. If i-m and to-n are formulae, ф 8,4, ф. 4, ф→, 4 are for- mulae. is a formula only if it can be shown, by application of (1)-(6), that p is a formula. 3. Inference-Rules  (1) [Ass] Any formula may be assumed at any point.  ....中トリャー」&』~コースローキーは。then  ,... ф*+~+ ф'.  「「ゆく。m-n  (6 [v+] etnml)-*-nYa 0  (7) [v -] 1f(1) 4[-m)»Ф  (2) Хра- 17+ ф₴  ・がトら、  (3) ф°  then  (4) ф'  (8) [→ +, CP] If Ф(п-и]- 41  -…・・ロートスin-ns then o  (10) [V+] If v*  ,... w*F then v'.... v*+V@n+m $ (w/∞), provided  that a does not occur in '  (I1) [V-]V,Ф+ф(x∞), provided that Vo, is the scope of Va.  (*+) +30,+mV, where v is like except that, if a occurs in ф, at least one such occurrence is replaced in & by an occurrence of . (В-)ЗоФ, x'... x*Hy if (a/0), x'... x*H/, provided that 3c,ф is the scope of 3o, that a does not occur in any of , x',.... x*, v. [NB. All substitutions referred to in (10)-(13) will preserve sub-scripts.]  Rules (I) (13) are not peculiar to Q, except insofar as they provide for the use of numerical subscripts as substitutes for parentheses. The role of term-subscripts has so far been ignored. The following three rules do not ignore the role of term-subscripts, and are special to Q.  (14) [Dom +]If(1) a dominates ,  (2) p,x,Rtw(a)0),  then  (3) ф, x). x'+* ((2, +m/c,),... (Фк+п/ок)) [m. п> 0].  [NB. v, thus altered, must remain a formula; for example, a must not acquire a subscript already attaching to a symbol other than x.]  (14) provides for the raising of subscripts on a in 4, including the case in which initially non-dominant a comes to dominate f.  [A subscript on an occurrence of a may always be lowered.]  (16) [Iso] If @ and y are isomorphs, @+v.  V. EXISTENCE  A. Closed Formulae Containing an Individual Constant &  (i) If a dominates @ then, for any interpretation Z, @ will be true on Z only if a is non-vacuous (only if Ta+exists? is true, where '+' is a  concatenation-symbol). If a does not dominate , it may still be the case that @ is true only if a is non-vacuous (for example if @="~, ~3 F,az" or ="FazV, G,az", though not if ="F,a→,G,az"). Whether or  not it is the case will be formally decidable. Let us abbreviate " is true only if a is non-vacuous" as "ф is E-committal for &". The conditions in which ф is E-committal for a can be specified recursively:  (1)  If a dominates , is E-committal for a.  (2)  If =~,~=-mV, and is E-committal for a, then @ is E-committal for a.  (3)  If =v&,x, and either or x is E-committal for a, then $ is E-committal for a.  (4)  If =v.x, and both y and & are E-committal for a, then ф is E-committal for a.  (5)  If =→x, and both ~_* and z are E-committal for a, then ф is E-committal for a [in being greater than the number denoted by any non-term-subscript in 4].  (6)  If =Vo, or 3o,v, and (B/∞) is E-committal for x, then ф is E-committal for a.  (ii) Since Fja, → ,F,a, is true whether or not "a" is vacuous, the truth of F,a,→, Fa, (in which "a" has become dominant) requires only that a exists, and so the latter formula may be taken as one representation of  "a exists". More generally, if (for some n) a is the only individual constant in » (x) and =→n-m then @ may be taken as a representation of Ta + exists?  B. 3-quantified Formulae  An 3-quantified formula 3o,ф will represent a claim that there exists an object which satisfied the condition specified in ¢ iff (a/∞) is E-com-mittal for o. To illustrate this point, compare (i)  3x4~, Fix, and  (ii)  xュ~3Fix2.  Since ~, Fa, is E-committal for "a" (is true only if a exists) while  ~, F,a, is not E-committal for "a", (i) can, and ii) cannot, be read as a claim that there exists something which is not F. The idea which lies behind the treatment of quantification in Q is that while i) and ii) may be taken as representing different senses or different interpretations of  "something is not F" or of "there is something which is not F", these locutions must be distinguished from "there exists something which is not F"', which is represented only by (i). The degree of appeal which Q will have, as a model for natural discourse, will depend on one's willingness to distinguish, for example,  "There is something such that it is not the case that it flies" from "There is something such that it is something which does not fly", and to hold that (a) is justified by its being false that Pegasus flies, while (b) can be justified only by its being true of some actual object that it does not fly. This distinction will be further discussed in the next section.  Immediately, however, it must be made clear that to accept Q as a model for natural discourse is not to accept a Meinongian viewpoint; it is not to subscribe to the idea of a duality, or plurality, of 'modes of being'. Acceptance of Q as a model might be expected to lead one to hold that while some sentences of the form "Bertrand Russell _" will be interpretable in such a way as i) to be true, and (ii) to entail not merely "there is something which _  " but also "there exists something  which __", sentences of the form "Pegasus _  " will, if interpreted  so as to be true, entail only "there is something which _  -". But from  this it would be quite illegitimate to conclude that while Bertrand Russell both exists and is (or has being), Pegasus merely is (or has being). "Exists" has a licensed occurrence both in the form of expression "there exists something which " and in the form of expression "a exists"; "is" has a licensed occurrence in the form of expression "there is something which ___", but not in the form "a is". Q creates no ontological jungle.  VI. OBJECTION CONSIDERED  It would not be surprising if the combination of the admissibility, according to the natural interpretation of Q, of appropriate readings of  the inference-patterns  a does not exist a is not F  and (2)  a is (not) F  something is (not) F  have to be regarded as Q's most counter-intuitive feature.  Consider the following dialogue between A and B at a cocktail party:  Al) Is Marmaduke Bloggs here tonight?  B(1) Marmaduke Bloggs?  A(2) You know, the Merseyside stock-broker who last month climbed  Mt. Everest on hands and knees.  B(2) Oh! Well no, he isn't here.  A(3) How do you know he isn't here?  B(3) That Marmaduke Bloggs doesn't exist; he was invented by the  journalists.  A(4) So someone isn't at this party.  B(4) Didn't you hear me say that Marmaduke Bloggs does not exist?  A(5) I heard you quite distinctly; are you under the impression that you heard me say that there exists a person who isn't at this party?  B, in his remarks (3) and (4), seemingly accepts not only inference-pattern (I) but also inference-pattern (2).  The ludicrous aspects of this dialogue need to be accounted for. The obvious explanation is, of course, that the step on which B relies is at best dubious, while the step which A adds to it is patently illegitimate; if we accept pattern (I) we should not also accept pattern (2). But there is another possible explanation, namely that  (i given (P) "a does not exist and so a is not F" the putative conclusion from (P), "Something is not F" (C), is strictly speaking (on one reading) true, but  il) given that (P) is true there will be something wrong, odd, or misleading about saying or asserting (C).  In relation to this alternative explanation, there are two cases to con-  (a) that in which the utterer of (C) knows or thinks that a does not  exist, and advances (C) on the strength of this knowledge or belief; but the non-existence of a is not public knowledge, at least so far as the speaker's audience is concerned;  (b) that which differs from (a) in that all parties to the talk-exchange are aware, or think, that a does not exist. Case (a) will not, perhaps, present too great difficulties; if there is a sense of "Something is not F" such that for this to be true some real thing must fail to be F, the knowledge that in this sense something is not F will be much more useful than the knowledge that something is not F in the other (weaker) sense; and ceteris paribus one would suppose the more useful sense of (C) to be the more popular, and so, in the absence of counter-indications, to be the one employed by someone who utters (C). Which being the case, to utter  (C) on the strength of the non-existence of a will be misleading.  Case (b) is less easy for the alternative explanation to handle, and my dialogue was designed to be an example of case (b). There is a general consideration to be borne in mind, namely that it will be very unplausible to hold both that there exists a particular interpretation or sense of an expression E, and that to use E in this sense or interpretation is always to do something which is conversationally objectionable. So the alternative explanation will have (l) to say why such a case (b) example as that provided by the dialogue is conversationally objectionable, (2) to offer some examples, which should presumably be case (b) examples, in which the utterance of (C), bearing the putative weaker interpretation would be conversationally innocuous. These tasks might be attempted as follows.  (I) To say "Something is (not) such-and-such" might be expected to have one or other of two conversational purposes; either to show that it is possible (not) to be such-and-such, countering (perhaps in anticipation) the thesis that nothing is even (not) such-and-such, or to provide a prelude to the specification (perhaps after a query) of an item which is (not) such-and-such. A's remark (4) "So someone is not at this party" cannot have either of these purposes. First, M.B. has already been agreed by A and B not to exist, and so cannot provide a counter-example to any envisaged thesis that every member of a certain set (c.g. leading local business men) is at the party. M.B., being non-existent, is not a member of any set. Second, it is clear that A's remark (4) was advanced on the strength of the belief that M.B. does not exist; so whatever specification is relevant has already been given.  (2) The following example might provide a conversationally innocuous use of (C) bearing the weaker interpretation. The cocktail party is a special one given by the Merseyside Geographical Society for its members in honour of M.B., who was at the last meeting elected a member as a recognition of his reputed exploit. A and B have been, before the party, discussing those who are expected to attend it; C has been listening, and is in the know about M.B.  C Well, someone won't be at this party  A, B Who?  C Marmaduke Bloggs  A, B But it's in his honour  C That's as may be, but he doesn't exist; he was invented by the  journalists.  Here C makes his initial remark (bearing putative weak interpretation), intending to cite M.B. in specification and to disclose his non-existence.  It should be made clear that I am not trying to prove the existence or admissibility of a weaker interpretation for (C); I am merely trying to show that the prima facie case for it is strong enough to make investigation worth-while; if the matter is worth investigation, then the formulation of Q is one direction in which such investigation should proceed, in order to see whether a systematic formal representation of such a reading of "Something is (not) F" can be constructed.  As a further consideration in favour of the acceptability of the weaker interpretation of "Something is (not) F", let me present the following  "slide":  To say "M.B. is at this party" would be to say something which is not true. To say "It is not true that M.B. is at this party" would be to say something which is true. To say "M.B. is not at this party" would be to say something which is true. M.B. is not at this party. M.B. can be truly said not to be at this party. Someone (viz. M.B.) can be truly said not to be at this party. Someone is not at this party (viz. M.B.).It seems to me plausible to suppose that remark (I) could have been uttered with truth and propriety, though with some inelegance, by B in the circumstances of the first dialogue. It also seems to me that there is sufficient difficulty in drawing a line before any one of remarks (2) to (7), and claiming that to make that remark would be to make an illegitimate transition from its legitimate predecessor, for it to be worth considering whether one should not, given the non-existence of M.B., accept all seven as being (strictly speaking) true. Slides are dangerous instruments of proof, but it may be legitimate to use them to back up a theoretical proposal. VIL. IDENTITY  So far as I can see, there will be no difficulty in formulating a system Q', as an extension of Q which includes an identity theory. In a classical second-order predicate calculus one would expect to find that the formula (VF) (Fa→Fb) (or the formula (VF) (Fa-›Fb)) is a definitional sub-stituend for, or at least is equivalent to, the formula a =b. Now in Q the sequence Fa→Fb will be incomplete, since subscripts are lacking, and there will be two significantly different ways of introducing subscripts, (i F,as→2F,be and (ii) Faz→, F,b,. In (i "a" and "b" are dominant,  and the existence of a and of b is implied; in ii) this is not the case. This difference of subscripting will reappear within a second-order predicate calculus which is an extension of Q; we shall find both (i) (a) VF,F,a,→, F,b, and (ii) (a) VE,F,a2→4 F,b,. If we introduce the symbol  * into Q, we shall also find iii) VF, F,a,,F,ba and (iv) VF,F,a,**F,b,. We may now ask whether we want to link the identity of a and b with the truth of (iii) or with the truth of (iv), or with both. If identity is linked with (iii) then any affirmative identity-formula involving a vacuous individual constant will be false; if identity is linked with (iv) any affirmative identity formula involving two vacuous individual  constants will be true.  A natural course in this situation seems to be to admit to Q' two types of identity formula, one linked with (iii) and one with (iv), particularly if one is willing to allow two interpretations of (for example) the sentence  "Pegasus is identical with Pegasus", on one of which the sentence is false because Pegasus does not exist, and on the other of which the sentence is true because Pegasus does not exist (just as "Pegasus is identical withBellerophon" will be true because neither Pegasus nor Bellerophon exist). We cannot mark this distinction in Q simply by introducing two different identity-signs, and distinguishing between (say) a,=,b, and a,=, b3. Since in both these formulae "a" and "b" are dominant, the formulae will be true only if a and b exist. Just as the difference between (iii) and (iv) lies in whether "a" and "b" are dominant or non-dominant, so must the difference between the two classes of identity formulae which we are endeavouring to express in Q'. So Q' must contain both such formulae as az=,b, (strong' identity formulae) and such formulae as aj=,b2 ('weak' identity formulae). To allow individual constants to be non-dominant in a formula which is not molecular will be a temporary departure from the practice so far adopted in Q; but in view of the possibility of eventually defining "=" in a second-order calculus which is an extension of Q one may perhaps regard this departure as justified.  Q' then might add to Q  one new symbol, "="; two new formation rules; (1)  ' =,? is a formula,  (2)  If aj+ =, Bj+, is a formula, &,+ =-Bj+, is a formula, where m> j+k and m> j+ 1.  (c) two new inference-rules  (I)  (2)  A-Vo,+,C0,-,-,0,-, [a weak identity law],  a, - Be. ф+ф(Ba). [There is substitutivity both on strong and on weak identity.]  I hope that these additions would be adequate, though I have not taken steps to assure myself that they are. I might add that to develop a representation of an interesting weak notion of identity, one such that Pegasus will be identical with Pegasus but not with Bellerophon, I think that one would need a system within which such psychological notions as "it is believed that" were represented.  VIII. SEMANTICS FOR Q  The task of providing a semantics for Q might, I think, be discharged inmore than one way; the procedure which I shall suggest will, I hope, continue the following features: (a) it will be reasonably intuitive, (b) it will not contravene the philosophical ideas underlying the construction of Q by, for example, invoking imaginary or non-real entities, (c) it will offer reasonable prospects for the provision of proofs of the soundness and completeness of Q (though I must defer the discussion of these prospects to another occasion).  A. Interpretation  The provision of an interpretation Z for Q will involve the following steps:  The specification of a non-empty domain D, within which two sub-domains are to be distinguished: the special sub-domain (which may be empty), the elements of which will be each unit set in D whose element is also in D; and the residual sub-domain, consisting of all elements of D which do not belong to the special sub-domain. The assignment of each propositional letter either to 1 or to 0. The assignment of each -ary predicate constant y to a set (the E-set of y) of ordered n-tuples, each of which has, as its elements, elements of D. An E-set may be empty. The assignment of each individual constant a to a single clement of D (the correlatum of a). If the correlatum of a belongs to the special sub-domain, it will be a unit-set whose element is also in D, and that element will be the designatum of a. If the correlatum of a is not in the special sub-domain, then & will have no designatum. [I have in mind a special case of the fulfilment of step (4), in which every individual constant has as its correlatum either an element of the special sub-domain or the null-set. Such a method of assignment seems particularly intuitive.] If an individual constant a is, in Z, assigned to a correlatum belonging to the special sub-domain, I shall say that the assignment of a is efficient. If, in Z, all individual constants are efficiently assigned, I shall say that Z is an efficient interpretation of Q  It will be noted that, as I envisage them, interpretations of Q will be of a non-standard type, in that a distinction is made between the correlation of an individual constant and its description. All individual constants are given correlata, but only those which on a given interpretation are non-vacuous have, on that interpretation, designata. Interpretations of this kind may be called Q-type interpretations.I shall use the expressions "Corr (1)" and "Corr (O)" as abbreviations, respectively, for "correlated with 1" and "correlated with 0"  *. By "atomic  formula" I shall mean a formula consisting of a subscripted n-ary predicate constant followed by a subscripted individual constant.  I shall, initially, in defining "Corr(1) on Z" ignore quantificational formulae.  If ф is atomic, @ is CorrI) on Z iff i) each individual constant in has in Z a designatum (i.e. its correlatum is a unit set in D whose element is also in D), and ii) the designata of the individual constants in , taken in the order in which the individual constants which designate them occur in , form an ordered n-tuple which is in the E-set assigned in Z to the predicate constant in ф. If no individual constant dominates , is Corr(1) on Z ifl (i If =~,V, y is Corr(0) on Z; (ii)  If =v&,x. v and z are each Corr(1) on Z;  (ili)  If ф=wv. X, either or y is Corr(1) on Z;  (iv)  If =/→,x, either is Corr(0) on Z or x is Corr(1) on Z.  If (x) is a closed formula in which & is non-dominant, and if is like « except that & dominates $, then is Corr(1) on Z iff i) v is Corr(1) on Z and (ii) a is efficiently assigned in Z. If a closed formula is not Corr(1) on Z, then it is Corr(0) on Z. To provide for quantificational formulae, some further notions are required.  An interpretation Z' is an i.c.-variant of Z iff Z' differs from Z (if at all) only in that, for at least one individual constant a, the correlatum of a in Z' is different from the correlatum of a in Z. Z' is an efficiency-preserving i.c.-variant of Z iff Z' is an i.c.-variant of Z and, for any a, if a is efficiently assigned in Z a is also efficiently assigned in Z'. Z' is an efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z iff Z' is an i.c.-variant of Z and the number of individual constants efficiently assigned in Z' is not less than the number efficiently assigned in Z.' Let us approach the treatment of quantificational formulae by considering the 3-quantifier. Suppose that, closely following Mates's procedure in Elementary Logic, we stipulate that Jw,ф is CorrI) on Z iff $ (a'/∞)is Corr (1) on at least one i.c.-variant of Z, where a is the first individual constant in Q. (We assume that the individual constants of Q can be ordered, and that some principle of ordering has been selected). In other words, 3w,ф will be Corr(I) on Z iff, without altering the assignment in Z of any predicate constant, there is some way of assigning &' so that ф (a/∞) is Corr(l) on that assignment. Let us also suppose that we shall define validity in Q by stipulating that @ is valid in Q iff, for any interpretation Z, ф is Corr(1) on Z.  We are now faced with a problem. Consider the "weak existential" formula 3x2~, F,x,. If we proceed as we have just suggested, we shall be forced to admit this formula as valid; if "a" is the first individual constant in Q, we have only to provide a non-efficient assignment for  "a" to ensure that on that assignment ~, Fa, is Corr(1); for any interpretation Z, some i.c.-variant of Z will provide such an assignment for "a", and so 3x4~3 F,x2 will be CorrI) on Z. But do we want to have to admit this formula as valid? First, if it is valid then I am reasonably sure that Q, as it stands, is incomplete, for I see no way in which this formula can be proved. Second, if in so far as we are inclined to regard the natural language counterparts of valid formulae as expressing conceptual truths, we shall have to say that e.g. "Someone won't be at this party", if given the 'weak' interpretation which it was supposed to bear in the conversations imagined in Section VI, will express a conceptual truth; while my argument in that section does not demand that the sentence in question express an exciting truth, I am not sure that I welcome quite the degree of triviality which is now threatened.  It is possible, however, to avoid the admission of 3x,~,F,x2 as a valid formula by adopting a slightly different semantical rule for the  3-quantifier. We stipulate that 3o,$ is Corr(I) on Z iff @ (c'/co) is Corr(I) on at least one efficiency-preserving i.c.-variant of Z. Some interpretations of Q will be efficient interpretations, in which "a" will be efficiently assigned; and in any efficiency-preserving i.c.-variant of such an interpretation "a" will remain efficiently assigned; moreover among these efficient interpretations there will be some in which the E-set assigned to  "F" contains (to speak with a slight looseness) the member of each unit-set belonging to the special sub-domain. For any efficient interpretation in which "p" is thus assigned, F,a, will be Corr(1), and ~ , F,a, will be Corr(0), on all efficiency-preserving i.c. -variants.So 3x4~gF,xz will not be Corr(1) on all interpretations, i.e. will not be valid.  A similar result may be achieved by using the notion of an efficiency-quota-preserving i.c.-variant instead of that of an efficiency-preserving i.c.-variant; and the use of the former notion must be preferred for the following reason. Suppose  that we use the latter notion;  (ii)  (iii)  that "a?" is non-efficiently assigned in Z;  that "a" is the first individual constant, and is efficiently assigned in Z;  (iv)  that "F" includes in its extension the member of each unit-set in the special sub-domain.  Then ~, Faz is Corr(1) on Z, and so (by E.G.) 3x2~, Fix, is Corr(1) on Z. But "a" is efficiently assigned in Z, so ~g F,a, is Corr(0) on every efficiency-preserving i.c.-variant of Z (since "F" includes in its extension every designable object). So x~, F,*z is Corr(0) on Z.  This contradiction is avoided if we use the notion of efficiency-quota-preserving i.c.-variant, since such a variant of Z may provide a non-efficient assignment for an individual constant which is efficiently assigned in Z itself; and so 3xz~, F,x, may be Corr(I) on Z even though "a" is efficiently assigned in Z.  So I add to the definition of "Cort(I) on Z", the following clauses:  (5) If =Vo,k, is CorrI) on Z, iff V(a'/a) is Corr(1) on every  efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z.  (6) If ф =3o,/, is Corr(1) on Z iff y (x'/c) is Corr(1) on at least  one efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z.  [In each clause, "a is to be taken as denoting the first individual constant in Q.]  Validity may be defined as follows:  ф is valid in Q iff, for any interpretation Z, ф is Corr(1) on Z.  Finally, we may, if we like, say that p is true on Z iff p is CorrI) on Z.  IX. NAMES AND DESCRIPTIONS  It might be objected that, in setting up Q in such a way as to allow for the representation of vacuous names, I have ensured the abandonment, at least in spirit, of one of the desiderata which I have had in mind; for(it might be suggested) if Q is extended so as to include a Theory of Descriptions, its individual constants will be seen to be indistinguishable, both syntactically and semantically, from unanalysed definite descrip-tions; they will be related to representations of descriptions in very much the same way as propositional letters are related to formulae, having lost the feature which is needed to distinguish them from representations of descriptions, namely that of being interpretable only by the assignment of a designatum.  I do not propose to prolong this paper by including the actual presentation of an extension of Q which includes the representation of descrip-tions, but I hope to be able to say enough about how I envisage such an extension to make it clear that there will be a formal difference between the individual constants of Q and definite descriptions. It is a familiar fact that there are at least two ways in which a notation for representing definite descriptions may be developed within a classical system; one may represent "The haberdasher of Mr. Spurgeon is bald" either by (1) G(1x. Ex) or by (2) (9x. Fx) Gx; one may, that is, treat "ix. Fx" either as a term or as being analogous to a (restricted) quantifier. The first method does not allow for the representation of scope-differences, so a general decision will have to be taken with regard to the scope of definite de-scriptions, for example that they are to have maximal scope. The second method does provide for scope-distinctions; there will be a distinction between, for example, (ix. Fx) ~ Gx and ~(1x. Fx) Gx. The apparatus of Q, however, will allow us, if we wish, to combine the first method, that of representing definite descriptions by terms, with the representation of differences of scope; we can, if we like, distinguish between c.g., ~,G,ax,F,x, and ~,G,1xgF,xz, and ensure that from the first formula we may, and from the second we may not, derive E!, 1x, F,*2. We might, alternatively, treat descriptions as syntactically analogous to restricted quantifiers, if we so desire. Let us assume (arbitrarily) that the first method is adopted, the scope-boundaries of a descriptive term being, in each direction, the first operator with a higher subscript than that borne by the iota-operator or the first sentential boundary, whichever is nearer.  Let us further assume (perhaps no less arbitrarily) that the iota-operator is introduced as a defined expression, so that such a formula as  nitional substitution for the right-hand side of the formulaG, xgF,x2→4G,x,F,x2, together with applications of the rules for subscript-adjustment.  Now, as I envisage the appropriate extension of Q, the formal difference between individual constants and descriptive terms will lie in there being a legitimate step (by E. G.) from a formula containing a non-dominant individual constant to the related "weak' existential form, e.g.. from ~, Faz to 3x4~, F,x2, while there will, for example, be no analogous step from ~ G, 1x, Fxz to 3x4~, G,x2. Such a distinction between individual constants and descriptive terms seems to me to have, at least prima facie, a basis in intuition; I have at least some inclination to say that, if Mr. Spurgeon has no haberdasher, then it would be true (though no doubt conversationally odd) to say "It is not the case that Mr. Spurgeon's haberdasher is bald" (S), even though no one has even suggested or imagined that Mr. Spurgeon has a haberdasher; even though, that is, there is no answer to the question who Mr. Spurgeon's haberdasher is or has been supposed to be, or to the question whom the speaker means by the phrase "Mr. Spurgeon's haberdasher." If that inclination is admissible, then it will naturally be accompanied by a reluctance to allow a step from S to "Someone is not bald" (S,) even when S, is given its 'weak' interpretation. I have, however, already suggested that an utterance of the sentence "It is not the case that Mr. Spurgeon is bald" (S') is not assessable for truth or falsity unless something can be said about who Mr. Spurgeon is or is supposed to be; in which case the step from S' to S, (weakly interpreted) seems less un-justifiable.  I can, nevertheless, conceive of this argument's failing to produce conviction. The following reply might be made: "If one is given the truth of S, on the basis of there being no one who is haberdasher to Mr. Spur-geon, all one has to do is first to introduce a name, say 'Bill', laying down that 'Bill' is to designate whoever is haberdasher to Mr. Spurgeon, then to state (truly) that it is not the case that Bill is bald (since there is no such person), and finally to draw the conclusion (now legitimate) that someone is not bald (on the 'weak' reading of that sentence). If only a stroke of the pen, so to speak, is required to legitimize the step from S to S, (weakly interpreted), why not legitimize the step directly, in which case the formal distinction in Q" between individual constants and descriptive terms must either disappear or else become wholly arbitrary?"A full treatment of this reply would, I suspect, be possible only within the framework of a discussion of reference too elaborate for the present occasion; I can hope only to give an indication of one of the directions in which I should have some inclination to proceed. It has been observed? that a distinction may be drawn between at least two ways in which descriptive phrases may be employed.  (I) A group of men is discussing the situation arising from the death of a business acquaintance, of whose private life they know nothing, except that (as they think) he lived extravagantly, with a household staff which included a butler. One of them says "Well, Jones' butler will be seeking a new position".  (2) Earlier, another group has just attended a party at Jones' house, at which their hats and coats were looked after by a dignified individual in dark clothes and a wing-collar, a portly man with protruding ears, whom they heard Jones addressing as "Old Boy", and who at one point was discussing with an old lady the cultivation of vegetable marrows.  One of the group says "Jones' butler got the hats and coats mixed up". i The speaker in example (1) could, without impropriety, have inserted after the descriptive phrase "Jones' butler" the clause "whoever he may be". It would require special circumstances to make a corresponding insertion appropriate in the case of example (2). On the other hand we may say, with respect to example (2), that some particular individual has been 'described as', 'referred to as', or 'called' Jones' butler by the speaker; furthermore, any one who was in a position to point out that Jones has no butler, and that the man with the protruding ears was Jones gardener, or someone hired for the occasion, would also be in a position to claim that the speaker had misdescribed that individual as Jones' butler. No such comments are in place with respect to example (I). (ii) A schematic generalized account of the difference of type between examples (I) and (2) might proceed along the following lines. Let us say that X has a dossier for a definite description & if there is a set of definite descriptions which includes &, all the members of which X supposes (in one or other of the possible sense of 'suppose") to be satisfied by one and the same item. In a type (2) case, unlike a type (I) case, the speaker intends the hearer to think (via the recognition that he is so intended) (a) that the speaker has a dossier for the definite description & which he has used, and (b) that the speaker has selected from this dossier at least partlyin the hope that the hearer has a dossier for & which 'overlaps' the speaker's dossier for & (that is, shares a substantial, or in some way specially favoured, subset with the speaker's dossier). In so far as the speaker expects the hearer to recognize this intention, he must expect the hearer to think that in certain circumstances the speaker will be prepared to replace the remark which he has made (which contains 8) by a further remark in which some element in the speaker's dossier for & is substituted for d. The standard circumstances in which it is to be supposed that the speaker would make such a replacement will be (a) if the speaker comes to think that the hearer either has no dossier for &, or has one which does not overlap the speaker's dossier for & (i.e., if the hearer appears not to have identified the item which the speaker means or is talking about), (b) if the speaker comes to think that & is a misfit in the speaker's dossier for , i.e., that & is not, after all, satisfied by the same item as that which satisfies the majority of, or each member of a specially favoured subset of, the descriptions in the dossier. In example (2) the speaker might come to think that Jones has no butler, or that though he has, it is not the butler who is the portly man with the protruding ears, etc., and whom the speaker thinks to have mixed up the hats and coats. (iii) If in a type (2) case the speaker has used a descriptive phrase (e.g.,  "Jones' butler") which in fact has no application, then what the speaker has said will, strictly speaking, be false; the truth-conditions for a type (2) statement, no less than for a type (I) statement, can be thought of as being given by a Russellian account of definite descriptions (with suitable provision for unexpressed restrictions, to cover cases in which, example, someone uses the phrase "the table" meaning thereby "the table in this room"). But though what, in such a case, a speaker has said may be false, what he meant may be true (for example, that a certain particular individual [who is in fact Jones' gardener] mixed up the hats and coats).  Let us introduce two auxiliary devices, italics and small capital let-ters, to indicate to which of the two specified modes of employment a reported use of a descriptive phrase is to be assigned. If I write "S said 'The Fis G'," I shall indicate that S was using "the F" in a type  (1), non-identificatory way, whereas if I write "S said "THE F is G",' I shall indicate that S was using "the F" in a type (2), identificatory way.  It is important to bear in mind that I am not suggesting that the differencebetween these devices represents a difference in the meaning or sense which a descriptive phrase may have on different occasions; on the con-trary, I am suggesting that descriptive phrases have no relevant systematic duplicity of meaning; their meaning is given by a Russellian account.  We may now turn to names. In my type (1) example, it might be that in view of the prospect of repeated conversational occurrences of the expression "Jones' butler," one of the group would find it convenient to say "Let us call Jones' butler 'Bill'." Using the proposed supplementa-tion, I can represent him as having remarked "Let us call Jones' butler  'Bill'." Any subsequent remark containing "Bill" will have the same truth-value as would have a corresponding remark in which "Jones' butler" replaces "Bill". If Jones has no butler, and if in consequence it is false that Jones' butler will be seeking a new position, then it will be false that Bill will be seeking a new position.  In the type (2) example, also, one of the group might have found it convenient to say "Let us call Jones' butler 'Bill'," and his intentions might have been such as to make it a correct representation of his remark for me to write that he said "Let us call JONES' BUTLER 'Bill'." If his remark is correctly thus represented, then it will nor be true that, in all conceivable circumstances, a subsequent remark containing "Bill" will have the same truth-value as would have a corresponding remark in which "Bill" is replaced by "Jones's butler". For the person whom the speaker proposes to call "Bill" will be the person whom he meant when he said "Let us call JONES'S BUTLER 'Bill'," viz., the person who looked after the hats and coats, who was addressed by Jones as "Old Boy", and so on; and if this person turns out to have been Jones's gardener and not Jones's butler, then it may be true that Bill mixed up the hats and coats and false that Jones's butler mixed up the hats and coats. Remarks of the form "Bill is such-and-such" will be inflexibly tied, as regards truth-value, not to possible remarks of the form "Jones's butler is such-and-such", but to possible remarks of the form "The person whom X meant when he said  'Let us call Jones's butler "Bill"' is such-and-such".  It is important to note that, for a definite description used in the explanation of a name to be employed in an identificatory way, it is not required that the item which the explainer means (is referring to) when he uses the description should actually exist. A person may establish or explain a use for a name & by saying "Let us call THE F &" or "THE F iscalled &" even though every definite description in his dossier for "the F" is vacuous; he may mistakenly think, or merely deceitfully intend his hearer to think, that the elements in the dossier are non-vacuous and are satisfied by a single item; and in secondary or 'parasitic' types of case, as in the narration of or commentary upon fiction, that this is so may be something which the speaker non-deceitfully pretends or feigns.  So names introduced or explained in this way may be vacuous.  I may now propound the following argument in answer to the objection that any distinction in Q between individual constants and descriptive terms will be arbitrary.  (1) For a given definite description 6, the difference between a type  and type (2) employment is not to be construed as the employment of o in one rather than another of two systematically different senses of . A name a may be introduced either so as to be inflexibly tied, as regards the truth-value of utterances containing it, to a given definite description ô, or so as to be not so tied (6 being univocally employed); so the difference between the two ways of introducing a may reasonably be regarded as involving a difference of sense or meaning for a; a sense in which a may be said to be equivalent to a definite description and a sense in which it may not. It is, then, not arbitrary so to design Q that its individual constants are to be regarded as representing, among other linguistic items, names used with one of their possible kinds of meaning, namely that in which a name is not equivalent to a definite description. X. CONCLUDING REMARKS  I do not propose to attempt the important task of extending Q so as to include the representation of psychological verb-phrases, but I should like to point out a notational advantage which any such extension could be counted on to possess. There are clearly at least two possible readings of such a sentence as "John wants someone to marry him", one in which it might be paraphrased by "John wants someone or other to marry him" and another in which it might be paraphrased by "John wants a particular person to marry him" or by "There is someone whom John wants to marry him". Symbolizing "a wants that p" by Wap, and using the apparatus of classical predicate logic, we might hope to represent reading (1)by W°(3x) (Fxa) and reading (2) by (x) (WªFxa). But suppose that John wants Martha to marry him, having been deceived into thinking that his friend William has a highly delectable sister called Martha, though in fact William is an only child. In these circumstances one is inclined to say that "John wants someone to marry him" is true on reading (2), but we cannot now represent reading (2) by (3x) (WªFxa), since Martha does not exist.  The apparatus of Q should provide us with distinct representations for two familiar readings of "John wants Martha to marry him"  , VIZ., (a)  Wy F,ba, and (b) W9*F,b,a,. Given that Martha does not exist only  (b) can be true. We should have available to us also three distinct 3-quantificational forms (together with their isomorphs):  (i)  W93x,F,xzas;  (ii)  (iii)  Since in (iii) "x" does not dominate the segment following the 3-quantifier, (iii) does not have existential force, and is suitable therefore for representing "John wants a particular person to marry him" if we have to allow for the possibility that the particular person does not actually exist. [ and (ili) will be derivable from each of (a) and (b): (ii) will be derivable only from (a).]  I have in this paper developed as strong a case as I can in support of the method of treatment of vacuous names which I have been expounding.  Whether in the end I should wish to espouse it would depend on the outcome of further work on the notion of reference.  REFERENCES  1 Iam particularly indebted to Charles Parsons and George Boolos for some extremely helpful correspondence, to George Myro for countless illuminating suggestions and criticisms, and to Benson Mates for assistance provided both by word of mouth and via his book Elementary Logic, on which I have drawn a good deal.  • I owe the idea of this type of variant to George Myro, whose invaluable help was essential to the writing of this section.  9 c.g. by K. S. Donnellan, 'Reference and Definite Descriptions', Philosophical Review  75 (1966) 281-304; as may perhaps be seen from what follows, I am not sure that L am wholly sympathetic towards the conclusions which he draws from the existence of the distinction. h. P. Grice. Nome compiuto: Michele di Francesco. Francesco. Keywords: corpi, unicorno, unicornis, adj. later noun, nome sostantivo, nome aggetivo, nome proprio, nome commune – unicorn – Meinong, Grice, “Vacuous Names”, vacuous descriptions, vacuous description – identificatoria e non-identificatoria -- Priest, Read, persona, an Etruscan concept, the grammar of ‘referring’ – the grammar of ‘senso’, the grammar of ‘significato’ -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Francesco” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franchini: l’arguzia della ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età degl’eroi – prespettico, spettico, prospettico -- la gloria d’Enea– la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Abstract: “At Oxford we say that Greek was the most plastic of languages, until the Turk got over! But Italian can be pretty plastic too: witness spettico, prospettico, prespettico – which would sound pompous in the lips of anyone but me!” -- Keywords: spettico, prospettico, prespettico. Filosofo italiano. Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason, practical reason, communicative reason, historical reason…” Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le armi. Vive una drammatica esperienza bellica che lascia un segno per la vita. Studia all’istituto italiano di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove tenne in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio dell’accademie napoletane nella Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collabora nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”, e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si veda), contribuì assiduamente alla rivista di studi crociani. Dirige la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”, fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si veda). Frequenta la casa di Croce, scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del filosofo, che sono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del giudizio, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato, riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue, in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda), lo storicismo di matrice vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella convinzione peraltro che la filosofia dello spirito non è una pura e semplice ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a confrontarsi con le correnti della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo scacco definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale (il pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai contemporanei (Le origini della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando infine alla forma moderna della filosofia nel passaggio dalla metafisica teologica alla metodologia della storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia, distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il concetto di giudizio, in special modo nella forma della riflessione estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci significativi sul fattore esistenziale e storico del non essere ancora (il potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad analizare il concetto di progresso tra la crisi del ideale dell’illuminismo e la dimensione etico-politica del giudizio prospettico – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione). Proclama il diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità. Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo” (Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica -- La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini, Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia, Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini, Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini, Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A. Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere, Gily,Melillo, presentazione di  Cotroneo, Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su treccani.  quartotempoblog, Biografia di Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione, Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura, Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G. Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione, Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere, Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli  R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università “L’Orientale” di Napoli.  Una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini  a cura di Renata Viti Cavaliere   Nota introduttiva  Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge  a mo’ di  postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. + 1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla  palese intenzione del mio maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito  epistolare, preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli  studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse - nella scelta operata-  il filo “logico” di  uno scambio epistolare intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3, riguardante pensieri e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo non   poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state già edite,  le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero all’interno del sag gio  in memoriam, scritto nel ‘69 nel decimo anniversario della morte dello studioso  1  Un sentito ringraziamento ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali  dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via Michetti, ma per lo più le lettere  sono indirizzate a «Il Giornale» in via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a Napoli.  3  Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino, costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una  magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959, Franchini si era trovato ad  intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo Antoni a distanza di appena un mese: nel  mese di luglio aveva recensito il volume   La restaurazione del diritto di natura, edito con Neri Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo   Le leggi di Antigone, e  nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di poche ore, con sincero  rammarico,   In morte di Antoni. Amico della verità 5, un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale. Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da  entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del filosofo sino alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi aspetti l’ incipit   della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso, se si  considera l’età di F..  E’ pur vero però ch’egli  puo già vantare una significativa produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di esordio, e che i primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi su quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio come «Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di Antoni  Considerazioni su  Il saggio dal titolo  Antoni, lo storicismo e la dialettica  è nel volume F.,   Interpretazioni.  Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Napoli, Giannini. È già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in onore di Attisani, Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un legato non  agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai  funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo.  Cfr. R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di Pagano,  Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è di  formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista  «Ethos») l’atto d’inizio di  un dialogo filosofico che anda via via intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello studioso avendo anche chiaro il ricordo di  quell’articolo di due anni addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con  riferimento ai precedenti volumi   Dallo storicismo alla sociologia   e   La lotta contro la ragione. In realtà F. da allora in poi, e in   più d’una  occasione, ebbe sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di  consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo   Hegel  di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade della  Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi, ma  suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo nel divenire, come la  prova evidente dell’uscita dalla immobilità tautologica della vecchia identit à senza  vita. In altre parole egli non mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento”  della dialettica operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché  l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non per caso,  nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio insuperabile, anche  negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e all’irrazionalismo romantico si può  dire che Hegel abbia redatto la  magna charta  della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si  arrovellava sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire  vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F. Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini. Il ricordo di  Ruggiero: lo studioso e l’uomo  sta nel volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica, Napoli, Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce, nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva  scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel e sul tema  della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre, peraltro, lo arricchiva  ulteriormente dall’interno. Nella recensione all’ultimo libro di Croce Indagini su  Hegel e schiarimenti filosofici  Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni, attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al tempo  stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica dei distinti, e a  F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica  hegeliana della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata a  Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si sentì mai di seguirlo: vale a  Cfr. F.,   Il razionalismo hegeliano, in Id.,   Dalla filosofia della storia alla RAGIONE STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il  Saggio sullo Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli scritti di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di Negri. Semmai è stato Antoni a sottolineare  l’aporia intellettualistica nella hegeliana formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non  rispondendo direttamente alla questione posta d’Antoni, aveva voluto infine includere l’opposizione nella  logica dei distinti in modo che non si perde di vista la drammaticità dell’atto generativo del prodursi del  reale nel suo significato logico-spirituale dire ad una sorta di primato della vitalità nel suo dialettico rapporto con la vita morale. Come si legge nelle lettere, l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici, particolarmente  interessanti. Direi che tre possono essere considerate le questioni più significative, che di necessità  coinvolgono filosoficamente il lettore al di là dell’apparenza di  alcune diatribe contingenti. In primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del saggio di Antoni  Commento a Croce, coevo al Congresso di filosofia che si svolse a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni)  sul tema della “conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è la  vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò l’Antoni,  e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro (che per ovvi motivi torna  in queste lettere), intorno al significato dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane. Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a  proposito del libro di S  prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che l’avrebbero,  secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di Franchini al  Commento a Croce  uscì dunque sulla Nuova Antologia. Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione,  come  ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno del  puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì negl’Atti  dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce dichiarò  poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di aver  potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,   L’illusione della dialettica .  Profilo di Antoni, Roma,  Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,  Antoni interprete di  Hegel, in «Filosofia, con particolare riferimento al volume postumo di Antoni,   Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis, F.,   La conoscenza storica, in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V, Napoli (rist. in   Metafisica e Storia, Napoli, Giannini, da cui si cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di una sorta di nebbia,  attraverso l’illustrazione che ne  aveva fatta il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il  Commento a Croce  nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una questione di politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il significato di un  “riscatto” del valore filosofico dello storicismo crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso, problematicistiche, di  coloro cioè che comunque presuppongono un assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili alle inquietudini dello spirito liberale anche  nell’organizzazione degli studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata “politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca storiografica, che appunto Antoni   –   così scrive F. - ha spinto alle estreme  conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il  Commento a Croce   fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo  della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo in  piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro le  usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi eccessiva ma  correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo, anche memore  degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è d’accordo, come si sa,  pur tuttavia mai egli nega il carattere solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti emerge in alcuni tratti delle lettere a F..  Il Congresso affianca al tema della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci (si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle accese discussioni sino alla fine dei lavori.  Antoni fu l ieto d’aver partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione  morale e politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove le idee  “confessionali”  tornavano per lo più a compattarsi in vista di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante: aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica  sui generis, alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo, Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un  confronto con le altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al solito  pregiudizio che tendeva  a stanziare gli studi crociani nel Sud dell’Italia, era stato  p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F. non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare  i limiti di presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di non  considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di trascurare cioè il ruolo  dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si trasmette storicamente alle generazioni future  in nome di una tradizione critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo  è creare la propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e responsabile, potrebbe essere  mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è lo  storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F. tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del saggio su Croce, di  quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un eccesso di pudore la nuova  filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali nel libro di Antoni, profondi e utili quelli  sull’individuo nella Storia e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello   In particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione dell’individuo in  Croce e Antoni.  Croce,   La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva, secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur  nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto nella forma conoscitiva  del giudizio storico. Croce restaura così   –   secondo Antoni -  il principio d’identità,  rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’ uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema, scrive Antoni, è quello di un’unica categoria reale   e attiva, che è l’Io, di cui le categorie sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che la conoscenza d’una situazione storica non fosse già  guida ta da una volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero  suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal proposito: Antoni, platonicamente, indicava  nell’Idea del Bene l’idea -guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel  tempo in quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”.   Profonda fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo “Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno dichiaratamente suoi amici. Nella recensione  non si sottolineavano, com’è pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica  discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile in  partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di carattere teorico. E  difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della Storia) di aver discettato di problemi morali e  F. cita da Antoni,  Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,  Commento a Croce,  in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  “ ma quale crocianesimo è questo? ”  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del Ruggiero e al  civismo mazziniano d’OMODEO (si veda), entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova  politici in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto  e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di  Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva:  ma quale crocianesimo è questo?  se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello  scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia  emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione democratica del De Ruggiero e al  civismo mazziniano dell’Omodeo, entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà,   per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente  più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni.  Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che F. hanno ricoperto, a  distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità  (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di  A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di  Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso.  Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la libera  docenza, inaugurando il corso con una prolusione sulla  Filosofia della storia, materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su «Criterio» con sincero compiacimento F. traccia in quell’occasione il profilo storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una  disciplina che mira a conoscere un secolare bisogno dell’animo umano»rivolto a dare un senso generale alle epoche storiche. S’intende che  la filosofia della storia, in quanto caso particolare della metafisica, anda svecchiata e in un certo senso riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre essenziali  ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla tradizione “locale” ma  europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa però il nome di Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La prolusione di F. si chiudeva con un omaggio «al primo docente  ufficiale che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni. La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a  difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo l’icastica  osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni politicistiche. Franchini cercò allora  La Prolusione uscì in due puntate su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti. «Criterio» fu poi ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta Il discorso in Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere, alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce in  Conversazioni critiche, serie I, Bari, Laterza. Il testo del discorso in Senato si può leggere in   Discorsi parlamentari, con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su  Croce e Ferrero  si veda la nota di F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani. Sulla riconciliazione di Croce e Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A. Parente,  Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è poi ristampata in F.,   Metafisica e Storia, di dipanare la controversa materia, riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre  “comprensione” per la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto, che pure piacque molto per  evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta alla sfida dei fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono il filosofo, il cui sguardo per necessità  mirava ad assumere connotati universali “oltre” la mera contingenza delle circostanze  politiche. E tuttavia il contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo significato  inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del cristianesimo, ha rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel cuore della modernità e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli appartenenti ad una chiesa sia per i laici credenti e  non credenti. Non in poco conto pertanto dev’essere  tenuto il plurale espresso in quel  “noi” ( Perché   [noi]  non possiamo non dirci cristiani ), che difatti esclude il discorso in prima persona, ed esclude che si tratti della confessione di un sentimento segreto.  Parimenti estranee all’argomento crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori luogo in un contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di carattere teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo, ma un processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di evento straordinario, non però  diversamente, in chiave ontologica, dal miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che  noi tutti siamo. Le lettere, fatt esi più rare, raccontano di vicende  accademiche e di fatti quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli, scomparso tragicamente. Nella Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato dello Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero  La recensione al saggio di Sprigge,  Croce, l’uomo e il pensatore  (Napoli, Ricciardi) apparve su Criterio con il titolo  Un profilo del Croce, ed è ristampata nel volume   L’oggetto della filosofia, Napoli, Giannini, La commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore è nel volume di  Antoni,  Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, Caro F., ho letto la recensione, che Le restituisco. Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla «Historische Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di studi storici. È un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il consueto carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado si prende posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio  Tramonto delle ideologie  sul «Mondo»? Roma Mio caro F.,  Si tratta della recensione di Funke al saggio di F.   Esperienza dello storicismo, in «Historische Zeitschrift»,  Antoni aveva scritto sul «Mondo» un lungo e denso articolo sul volume di F., che si può leggere nella raccolta   Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Vedi «Il Mondo», in   Il Tempo e le idee, cpartecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di logica pura per certi versi, ma in virtù  dell’intento di far pre valere  il capire sull’esistere. A Croce e Gentile dedica con acume le sue fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant,  Heidegger, Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di  Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o capire come la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché pur muovendo  dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei significati, Scaravelli  dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza aprendosi piuttosto al giudizio delle  forme concrete dell’esistere storico. Si trattava  del problema della creazione del mondo, concludeva Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute nella  Critica del capire, ch’ebbero il merito di rompere il silenzio  con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto   positivo espresso dallo  stesso Croce.  Manca, infine, il tempo per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di  Antoni   La restaurazione del diritto di natura . F. ne aveva parlato nel numero di luglio del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai poco  storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente umana, la sola  capace però «di evitare le pericolose conseguenze del predominio della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima: alla base del giudizio storico e dell’azione morale  e politica sta la luce di un concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione  Si veda la lunga recensione di Antoni a Scaravelli,  Critica del capire, Giornale critico della filosofia italiana, Vedi lettera, più avanti riportata storicistica e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del Ciardo e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda), comparso sullo «Spettatore. Ho ricevuto oggi la sua memoria su  Storicismo e   relativismo, che ho letto subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza  tra “storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno oltre  che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver attribuito al Troeltsch il merito  di aver introdotto nell’uso comune il termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver  detto una verità incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso nel dominio  della storiografia e della riflessione sui metodi della storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi, crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti  La recensione al libro di Ciardo,   Le quattro epoche dello storicismo, era uscita in «La parola del passato»,  (rist. nel volume F., Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini, Si tratta dell’articolo   La “metodologia dell’azione” di A. Gramsci, uscito in Lo Spettatore italiano La rivista si pubblica a Roma per iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo Craveri.  Cfr. R. Franchini,  Storicismo e relativismo, in «Atti» dell’Accademia Pontaniana (rist. in   Esperienza dello storicismo) Roma, Caro F., di ritorno da Bari, dove sono  stato a tenere una conferenza agli “Amici della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a rilasciarle il “certificato” che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo Antoni Roma, È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che F. va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un ingegno  assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della filosofia e della   vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un  raro senso di umanità. Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente  uno dei più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che possa  32   Segue la lusinghiera lettera di presentazione di Antoni sull’operosità di F., i l quale di lì a poco entra a far parte del corpo docente del liceo classico della scuola militare napoletana essere un magnifico insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre  goduto il collegio della Nunziatella.  Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto con grande interesse il Suo saggio 33  e soprattutto la parte che mi riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le conseguenze, che  io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una “dialettica” dei distinti. Di questo dubbio  Lei trova traccia del resto nella recensione  che feci allo “Hegel” di Ruggiero.  In ogni caso sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti. Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F.,  Il saggio è:   Morte e resurrezione della dialettica da Hegel a Croce, in «Letterature moderne (rist. in   Esperienza dello storicismo, cit.) il Suo articolo mi ha fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il  merito di aver provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è, non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio per la Sua lettera e per le notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata nel Suo articolo, ha per me una grande  importanza. Le dirò come io veda la cosa. Quando pubblicai il mio saggio  sulla Dialettica di Hegel, in cui ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle mie “Considerazioni, Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo articolo in proposito, ma non si propose il problema. Sono  tempi in cui Croce, tutto preso dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio  di ritornare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita l’interesse di RUGGIERO (si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”, ma senza prender  posizione. Per quanto riguarda questa mia prima osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia stata provocata da me.  34   Il riferimento è al saggio:   La crudele dialettica, uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di  Franchini che uscirono nella rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel volume  Pensieri   sul “Mondo”, a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo, con una Presentazione di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica di Hegel, Poesia e verità; rist. in Id.,  Considerazioni su Hegel e  Marx, Napoli. Si ricorda che F. recensì le  Considerazioni  nella rivista Ethos. Ma io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione.  Essa si connetteva alla mia prece dente attribuzione  a Croce della restaurazione del principio d’identità.  Ero molto incerto se comunicare o no a Croce questa mia osservazione, che  avevo svolto nel corso universitario di quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa  avrebbe provocato un grave turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi amici. Tra costoro Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi. Croce mi rispose con una lettera  che era un’accettazione di massima, ma contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare per suo conto l’intera questione. E infatti poco  dopo cominciarono a uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della  mia osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che, invece,  per mio  conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato a risultati che contrastano  con le tesi recentissime espresse da Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato condotto alle  sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza della vitalità.  Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede, nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti: ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel «Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo Carlo Antoni Roma, F.,   Croce, Il Mondo Caro F., ho ancora sul mio tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli: quello su Mann 37  e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce,  l’ultima volta che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli  scritti di Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro F.,  con l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione della traduzione d’una scelta di lettere di Hegel I due volumi della nuova edizione Su Mann è uscito il saggio   Nobiltà dello spirito  sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di Trieste». Di Sainati si parlava a lungo nell’articolo  Studi crociani, apparso su Il Mondo. Il progetto di curatela dell’epistolario hegeliano presenta più d’una difficoltà. La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al momento incompleta. L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente con le  lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. F. avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di  una scelta di lettere e della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla, nonostante la   buona disposizione di Pozza e l’interessamento di Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri due volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner sarebbero esose. Da un rapido  confronto con la vecchia edizione curata dal figlio, ho tratto l’impressione  che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni caso, se ci si volesse attenere a  quest’ultima, si dovrebbe attendere l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando  si attuerà. Con Pozza sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro F., grazie per  le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare cambiare quel titolo di “filosofia della   storia”, che proprio non gli andava giù  . Gli spiegai allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola  sociologia  è screditata per la sua volgare origine positivistica, quella di  filosofia della  storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!  L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo in  cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F., bellissima la Sua recensione, per cui Le sono molto grato  Mi dispiace soltanto che essa compaia nella Nuova Antologia, dove sarà letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto ricordare come spesso mi sia toccato  di sentire che quella filosofia non è interessante, perché non è problematica. Mi  è piaciuto anche il modo, assai fine, con cui Ella sa definire la mia posizione verso le dottrine del Maestro. Antoni, in  Carteggio Croce-Antoni, a cura di Musté, introduzione di Sasso, Bologna, Mulino,  Antoni e chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea.  La recensione al libro di Antoni  Commento a Croce  uscì con questo titolo sulla rivista Nuova  Antologia. Ottimo pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer, anche dal punto di vista giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la presentazione delle domande di libera docenza. Mi reco a Firenze per incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30. Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una bronchite con i fiocchi   –   si direbbe ch e quest’anno sono iettato –   mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad essere presente.  Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato, a quanto mi consta,  ROVERE (si veda), poi a Roma LABRIOLA (si veda) tenne tale insegnamento per incarico, con  Antoni si rifere al saggio dal titolo  Una storia del progresso  uscito su Il Giornale (rist.  in F.,   L’oggetto della filosofia, cit.).  Antoni  si era prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia nell’elenco delle libere  docenze. F. sostenne gli esami di abilitazione alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i commissari Battaglia, Attisani e  Falco.  F. inaugura il suo corso di filosofia della storia a Napoli con una  prolusione dal titolo   La Filosofia della storia,  il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio» diretta da Ragghianti, in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel volume  Metafisica e Storia, molto successo. Nella mia prolusione tenni ad accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso, che valse a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F., Ella può ben immaginare con quanto piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha confortato confermando l’utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma anche la parte che più propriamente riguarda il  mio “Commento” mi è stata di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’ attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto, come Lei, è di grande aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio, dunque, con molto affetto La Prolusione dal titolo   La dottrina dialettica della storia  è nel volume postumo  Storicismo e antistoricismo, a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani.  Antoni si rifere al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta,  Sul  disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della storia presso la Università di Roma”, che ora è possibile leggere nel volume   Benedetto Croce. Discorsi parlamentari, con un saggio di Maggi, La memoria accademica  di cui si parla riguardava l’ampio resoconto critico che Franchini scrisse intorno  al Congresso di Filosofia che si è tenuto a Napoli, dove Antoni è stato invitato a tenere la relazione introduttiva sul tema della conoscenza storica. Aliotta sul «Giornale  d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione di storicismo crociano. La memoria di F., dal titolo   La conoscenza storica, uscì negli Atti dell’Accademia Pontaniana, (rist. in Metafisica e Storia Roma Mio caro F., la Sua osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente. Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto che noi   pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto universale dell’uomo o  dello spirito umano, che è il medesimo che orienta la nostra azione morale e politica.  Questo concetto, in quanto principio dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è  vera, anzi è la verità che abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria e coscienza della categoria, anche se la prima appare eterna e l’altra  storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma si va rendendo sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce nelle parti storiche dei suoi trattati.  Ha fatto bene ad accettare l’invito al “Simposio” laterziano. Sono curioso di  sapere quali sono gli altri invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la buona causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua lettera di consenso al mio articolo sul socialismo. È una  conferenza, che tenni a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera. Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla conoscere, anche in relazione alla situazione dei radicali. In effetti mi sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone  ha sentito il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere etico-politico, si possa  dargli anche un nuovo carattere positivo, liberatore, sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni amici mi hanno fatto osservare c he  da alcune settimane era piuttosto moderato. Poiché le critiche, che io Le esposi  nella nostra conversazione per strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo senso. Va benissimo per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo non  dirci cristiani, che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista, perché prevedeva  l’alleanza con la Dem. Cristiana!)  Suo Antoni Roma, Le convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli intellettuali del «Mondo».  La recensione di F. alla traduzione italiana del saggio di  Sprigge,   Croce, l’uomo e il   pensatore  (Napoli, Ricciardi) usce su Criterio con il titolo  Un profilo del Croce (rist. nel volume   L’oggetto della filosofia Caro F.,  l’infiammazione agli occhi, che mi aveva impedito di venire a Napoli e che  sembrava scomparsa, mi dà nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi.  Penso che Ella dovrebbe scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso  Mattioli, affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo  nessuna fiducia nella  utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato, anche se difatti, errori,  inconvenienti non sono mancati. In complesso, mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno profittato alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della ragione hanno operato in senso negativo, parecchi bravi  hanno avuto modo di studiare e lavorare. In quanto all’indirizzo “storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al nome, ma al preciso pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia gita a Napoli: non sono ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da una ennesima ricaduta. Non  [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F.  Dieci anni   nell’anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in Napoli ho ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera gli affettuosi auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua prolusione in Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per la “Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito, medaglia di bronzo e croce di guerra;  LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE; professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma;  assistente dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero  docente di Storia della filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario  dell’IRCE; chiamato alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la filosofia;  socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc. Peloritana, socio  della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli  su proposta di  Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni. Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F.,  sono lieto per la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che,  mi auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di Tommaso Fiore al mio  Commento.  E dire che costui, appena letto il libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous  contemple». Ottimo il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione di Fiore al  Commento a  Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte», Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte, fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge. Si tratta del libro di Antoni   Lo storicismo,    pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana; la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser  costretto ad abbandonare una continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul «Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono  d’accordo con Lei anche per quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali  la qualità non corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura   –   sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho  avuto la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione di  detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a intervenirvi con una  conferenza. Cercherò d’istruirli.  Con affettuosi saluti Suo  recensione di Franchini dal titolo  Una storia dello storicismo  uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno  del ’57 (rist. in   Metafisica e Storia, cit.). Il Giornale, quotidiano liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e interessamento dello stesso Croce.  61  Il libro di Franchini in uscita era   Metafisica e Storia, edito poi presso l’editore Giannini di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di esprimere loro la mia più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica: non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso  una certa malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione. In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando: ciò che non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni  Roma, Caro F., La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo, che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti. Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà sempre  rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da un comitato, che  conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre consenzienti. A mio avviso il  difetto sta nell’assurdo di un congresso filosofico, dove i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano necessariamente in ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese vi inviano schiere compatte e disciplinate. Ho pure qualche  riserva da fare sulle parole dell’amico Calogero, che hanno un significato  che non condivido: dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a mero dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con cordialità  Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla nobile solitudine tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni. Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo passare ad una critica e  soprattutto non potevo affrontare per mio conto l’intera questione. Il problema  di Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre genera i suoi figli. Era, insomma, il  problema della creazione del mondo. Se vogliamo, era anche il problema di derivare  l’estetica dalla logica, l’individuale esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per lui il problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile.  Ma Ella vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto, avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso tragicamente nella primavera di  quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me è una perdita dolorosissima. Caro F., eccellente il suo articolo su Weber. Ella ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a  Dilthey, contro CROCE (si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo  insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza alla Nunziatella possa essere d’ostacolo  ad un alleggerimento dei suoi incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto il suo  Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo di F. su  Weber e il “regresso”   è uscito su Il Mondo. Si tratta del volume: I. Kant,  Critica della ragion pratica, a cura di F., Bari, Laterza. Not to be confused with F., author of ‘I gladiatori.   genza di far rientrare nella teoria del giudizio storico, insieme alla dimensione del passato e del presente, anche quella del futuro. Ma ciò poteva avvenire, proprio grazie alla ormai matura acquisizione di quello che potremmo definire l'asse portante dello storicismo prospettico di Franchi-ni: la concezione della storia come "realtà incompiuta". La storia non è mai riducibile alla storicità del dato, né è racchiudibile soltanto nell'oggetto della storiografia. Questo aspetto è solo una parte della verità, ma certamente non la esaurisce. Aveva ragione Croce, quando, osserva Franchini, sosteneva che il giudizio storico fosse da intendere come sintesi di intuizione e concetto. Ma ciò che Croce non aveva debitamente messo in luce è il fatto che «il giudizio storico, proprio perché guarda agli eventi in pro-spettiva, cioè frontalmente, anche se la fronte è assai distanziata, finisca col capovolgere in senso metodologico e scientifico la corrente concezione della storia come mero accadimento, come ciò che è "superato" perché, ormai, è "alle nostre spalle". La storia non è mai alle nostre spalle, al contrario essa ci sta dinanzi e siamo noi come storici a rettificarne continuamente la prospettiva, cioè la distanza non solo cronologica ma ideale e politica, da quelli che comunemente si chiamano i nostri tempi ([...]. Il giudizio storico, insomma, solo per una vecchia illusione ottica, di ottica sto-  riografica, sembra cercare il passato [...], mentre in realtà esso lo afferra e sospinge dinanzi a noi, lo proietta verso ciò che non è ancora, verso il futuro»!1. Stanno qui le premesse - come fondatamente osserva ancora  Cotroneo - di quella autonoma ed originale svolta della riflessione di Franchini verso una teoria del "giudizio storico-prospettico" che si richiamava esplicitamente al giudizio riflettente kantiano e che, dunque, entrava in consapevole rotta di collisione verso i principi logici tradizionali 2 e verso le forme assolute del sapere. Insomma lo storicismo come "principio logico" aveva ormai abbandonato ogni residuo tratto che potesse accomunarlo allo storicismo idealistico. Ciò in cui Franchini finiva coll'imbattersi  - e che da lui veniva originalmente ripensato - è quell'universale senza concetto di cui parlava - come ricorda Cotroneo - Kant nella Critica del giudizio, ma è anche, mi sentirei di aggiungere, quel giudizio senza riflessione di cui parlava Vico nella Scienza nuova. Insomma è quel giudizio adeguato ad una visione aperta e non prescrittiva della storia e che si affida ad una razionalità flessibile che nasce nella storia e con la storia continuamente si trasforma.  " Cfr. R. FRANCHINI, Teoria della previsione, cit., pp. 30-31.  12 Su ciò resta fondamentale tutta l'argomentazione svolta in R. FRANCHINI, Eutanasia dei principii logici, Napoli. Nome compiuto: Raffaello Franchini. Franchini. Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire, storia, historismus, historicismus, mecanismus, mechanismus, mechanicismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto, il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spettico, giudizio, l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Franchini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franci: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’ostrogoti – la scuola di Ferara – filosofia ferraese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Abstract: Grice: “In Italy, I’m described as Goth – since I speak the Gothick language!” Abstract: goth. Filosofo ferrarese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Franci; for one, he philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another, he teaches in a varsity older than mine!” Insegna a Bologna. i suoi interessi si sono concentrati principalmente sullo studio delle molteplici manifestazioni della spiritualità. Dopo essersi laureato a Bologna con Heilmann, ha poi compiuto studi di perfezionamento a Roma sotto la supervisione di Tucci. Direttore del Dipartimento di Studi Linguistici, presidente dell'Accademia delle Scienze e direttore della Biblioteca di Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato inoltre Accademico effettivo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna; Socio ordinario dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma; Membro dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio Onorario e membro del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India; Consigliere dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del Centro di Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro del Comitato Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar Cabral»; Membro del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture afro-asiatiche nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi orientali». Ha inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni sessanta e di Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia dell'India Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e dell'Asia Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente all'India classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti) e dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di approfondirne anche gli aspetti moderni e contemporanei:  il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi; problematiche relative alla questione linguistica, con particolare attenzione alle letterature in bengali e in inglese; studi sul pensiero classico nell'India d'oggi e i pensatori moderni in generale come Aurobindo. Altre opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di Sankara: contributo allo studio del Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi delle questioni linguistiche indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze della filosofia comparata” (Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi indologici, Bologna, La Bhakti: l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi sul pensiero indiano, Bologna, Piero Martinetti e "Il sistema Sankhya", Contributi alla storia dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci, Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo, umanista, Bologna, La benedizione di Babele: contributi alla storia degli studi orientali e linguistici, e delle presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo, Bologna, Il Mulino, Induismo, prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di Andrea Pistolesi, Milano, Touring Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino, Filosofia indiana Induismo, Treccani L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti antico popolo germanico. Gl’ostrogoti (in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono il ramo orientale dei goti, una tribù germanica che influenza gl’eventi politici dell’impero romano.   Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore Romano d'Occidente, e si insediarono in Italia. Sono poi sconfitti dai Bizantini. Identità con i Grutungi.  Fibula ostrogota a forma di aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi, viene citata per la prima volta all'interno della biografia dell'imperatore CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta Historia Augusta. Essi sono ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e devastarono allora l'impero (all'interno della biografia gl’ostrogoti sono citati insieme con i grutungi, i tervingi e i visigoti.  Secondo Wolfram le fonti primarie parlano di Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai mischiare le coppie. I quattro nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre rispettando le coppie, come in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram e Burns concludono che il termine "grutungi" è un identificativo geografico usato dai tervingi per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[ Questa terminologia spare dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione unnica. A suo supporto, Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a nord del Danubio chiamati grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che questo popolo sono i tervingi rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo questa concezione grutungi ed ostrogoti sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i grutungi sono gl’ostrogoti è anche il parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti da Teodorico il Grande a Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico. Questa interpretazione, nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è universalmente condivisa. La nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in disuso. In generale, la terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri scomparve gradatamente dopo l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather ritiene invece che l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi è errata. Secondo Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal in Pannonia, ex sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi che si stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non sono lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto Teodorico il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti superstiti dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti nasceno dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar (secondo la Gutasaga)  Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf Oduulf Ansila Edilf Vultuuf   Hermanaric, re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric = Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda)  Atalarico   Matasunta = Vitige;  Germano Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric  Germano Stor; Posizionamento degli Ostrogoti in Sarmazia.  Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland e la regione di Götaland.  Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia.  La prima menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare l'avanzata degli Ostrogoti.  Nelle prime fasi della loro migrazione dalla Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar Nero (Cultura di Černjachov).  Ma ricominciarono le scorrerie e conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione.  Dopo queste vittorie assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno, perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar Baltico.  Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gl’ostrogoti chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero, precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta di accogliere le popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti si stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio, in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto e Teodorico il Grande.  Teodorico sconfigge Odoacre (Antica pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari: eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti. Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari. L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico, invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla susseguente guerra goto-bizantina.  La caduta Magnifying glass icon mgx2.svg Guerra gotica.  Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30 agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.  Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta, che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia. Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo regno all'impero, avrebbero evitato la guerra.  Il generale incaricato di dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti.   Ritratto di Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto. Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato, richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori, riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese. Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni, spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin, non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime sacche di resistenza.  La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina, scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai Longobardi.  CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno, l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da 300 tonnellate.  Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza della diplomazia gotica del tempo.   Fibbia di cintura ostrogota da Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava imprigionato con l'accusa di tradimento.  Re ostrogoti Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti, Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta - Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns, A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV., Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi storici, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Einaudi Bury Bury History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda, "Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae ("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus, Excerpta, Par. II Fonti secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the Roman Empire Internet Archive. Burns, A History of the Ostrogoths, Boomington, Bury, History of the Later Roman Empire Macmillan Heather, The Goths, Oxford, Blackwell Publishers, Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno, Amory, People and Identity in Ostrogothic Italy, Cambridge Azzara, L'Italia dei barbari, Bologna, il Mulino, Bordone; Sergi, Il medio evo, Torino, Einaudi I Goti. Catalogo della mostra, Milano, Electa, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. 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Keywords: i ostrogoti, Staal, Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western-European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Francia: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei centauri – la scuola di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “For my use of ‘objective’—not as in ‘conversational objective’ – I recommend my first Carus Lecture!” Keywords: oggetivo-suggetivo. Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Fireze, Toscana. Grice: “Francia is a good one; for one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute and confute – as we do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious, when “to deny” does!” Figlio del generale e geografo Orazio e di Gina Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea Firenze con Carrara, di cui diviene. Insegna a Firenze. Al contempo, svolse attività di ricerca all'Istituto Nazionale d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco Ronchi. Lavora presso il centro di ricerca ottica della Ducati di Bologna fino a quando divennne professore straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze, quindi ordinario della stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica (Arcetri), dopo anni di ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze, come ordinario di ottica su una cattedra appositamente creata per lui. Contemporaneamente, collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR di Firenze, fondato da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca sulle onde elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che l'Istituto di Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.  Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali, occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato dantista.  È padre dell'architetto Cristiano F..  Si occupa variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza delle onde evanescenti (evanescent waves).  I suoi contributi più recenti hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman. Altre opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino); “Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi, Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica, Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica” (Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari);  Fisica per il licei” (La Nuova Italia, Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere” (Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento, invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma); “Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC, Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./  Elenco dei Professori  di Firenze Archiviato, Florence, Italian Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,  E. Castellani, "Nodi d'invarianti: l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze,  E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia, Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti,  In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori.  Etimologia Il termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza, elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi, concatenazione, scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una successione di eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile ed effimera traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza alcun significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi volutamente senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il sorriso nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i personaggi.  Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che potrebbe avere come "padre" letterario Jarry) vanno ricordati Beckett, Tardieu, Ionesco, Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione ha avuto come protagonisti Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore di Le serve, era stato inizialmente inserito da Esslin nel gruppo originario.  Fra gl’autori italiani, è spesso accostato al teatro dell'assurdo CAMPANILE (si veda), indicandolo come un precursore. Esslin, The Theatre of the Absurd, Garden City, Doubleday et Company, Assurdo Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Voce Teatro dell'assurdo nel Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro Portale Letteratura   Portale Teatro Esistenzialismo corrente di pensiero  Ionesco scrittore e drammaturgo francese  Camus et la Parole manquante Langue Suivre Camus et la Parole manquante est un essai de Costes consacré à Camus et publié. Le cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous un angle psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de l'absurde, le cycle de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et la Parole manquante Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude psychanalytique modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg Cadre conceptuel Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un des écrivains français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde. C'est à dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne. Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire : pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part, il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère, douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier.  Son amour du théâtre en découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires. Cycle de l'absurdeModifier  Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant: Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault, cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son silence.  L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger.  L’ambivalence de Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit » qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe de Sisyphe.  Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage rejoigne la grandeur minérale d’un paysage.  C’est la bonne mère Nature qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde. Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile, laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la « restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est le thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4 personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus) assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne ».  Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte. Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique, La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le père pour lui).  On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme côté pile et face rongée de l’autre côté.  La dépression latente, l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il emprunte aux auteurs qu’il adapte.  La seule nouvelle de L'Exil et le Royaume qui soit plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa pierre) et clore son travail de deuil.  Dans La Chute, son héros Clamence va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse », comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur », se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction théâtrale. Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de Marcel Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui mobilise une partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout l’omnipotence des images du père, retour au théâtre, retour aux grandes admirations adolescentes, retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de la mère et du père où Camus avait retrouvé sa créativité à travers la sublimation par l’écriture.  Références psychanalytiques Camus aborde plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre: Surmoi: phase postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une situation entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la scène primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement, la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire: Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale: l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume. Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du travails’intitule La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir les nouvelles La Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie n’est-elle pas toujours “malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour tout dire, surdité » commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les Prisons. Morvan Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en Tarrou, voire en Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se rassemble. Carnets. Costes résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un homme, le Renégat courant de père en père, les muets réduits (eux aussi) au silence par leur patron, Daru dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de la loi, d’Arrast, Jonas et Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi, tous sont torturés par une problématique dont la plaque tournante est l’imago paternelle Nouvelle intégrée au recueil L'Été. Cette disparition prématurée oblige Camus à prendre la direction du festival d’Angers. Camus recherchera la tombe de son père avant d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc. Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation, phase paranoïque et scène primitive, Revue française de psychanalyse, Camus et la Parole manquante. Pichon-Rivière et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus, Revue française de psychanalyse; Durand, Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé, Camus, Universitaires, Simon, Présence de Camus, Nizet, Grenier, Les Îles, Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer / Fayard, Ginestier, Pour connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus, coll. La Plume du temps, éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études camusiennes Culpabilité (psychanalyse) icône décorative Portail de la littérature française Le Mythe de Sisyphe ouvrage d'Albert Camus  Cycle de l'absurde La Mort heureuse livre de Camus. The title which I have chosen for these lectures embodies, as I am sure you will have noticed, an ambiguity of a familiar type, an act-object ambiguity. The title-phrase [The Conception of Value] might refer to the item, whatever it may be, which one conceives, or conceives of, when one entertains the notion of value; again, it might refer to the act, operation, or undertaking in which the entertainment of that notion consists, and of which the conception (or concept) of value, in the first sense, is the distinctive object.  My introduction of this ambiguity was not accidental: for the precise nature of the connection between, on the one hand, the kind of thinking or mental state which is found, at least in primary instances, when we make attributions of value, and, on the other, the kind of item (if any) which serves as the characteristic object of such thinking is a matter which I regard as quite central to a proper study of the notion of value; my concern with it, moreover, is not an idiosyncracy, but has been shared by very many of the philosophers who, throughout the ages, have devoted themselves to this topic. Indeed a full understanding of the relationship between this or that fundamental form of thinking and the item, or class of items, which is, or at least might claim to be, a counterpart in extra-mental reality of that form of thinking seems to me a characteristic end of metaphysical enquiry. So it will not, perhaps, surprise you when I suggest, first that one should be ready to payattention not merely to the special (peculiar) character of the central questions about value but also to their general character, that is, to their place on the map of philosophical studies and their connection with other questions which are also represented in that map; and second that we should be ready, or even eager, if we can, to provide any answers which may initially find favour in our eyes with a suitable metaphysical backing. To do this might be a way, and might even be the only way, to remove the bafflement of certain people (of whom I know several) who are extremely able and highly sophisticated philosophers, particularly in the region of metaphysics, but who say, nevertheless, that they  'really just don't understand ethics'. I suspect that what they are lacking is not (of course) any competence in practical decision-making, but rather a clear picture (if one can be found) of the nature of ethical theorizing and of its proper place in the taxonomy of the enquiries which make up philosophy.  To decide whether and to what extent the kind of global approach which I have in mind would be appropriate in a treatment of fundamental problems about the nature of value, it is obviously desirable to have a reasonably well-defined identification of those problems. To judge from the philosophical literature, prominent among such issues are questions about the objectivity of value (or of values) and questions about the possibility of defending or rebutting scepticism about value (or values); and no sooner has so much been said than it becomes evident that methodological uncertainties arise at the very outset of our investigations. For it is far from clear whether the two sets of questions to which I have just alluded are identical with one another or distinct; are questions about objectivity the same as, or different from, questions about the possible range of scepticism? And if the questions are the same, which way do the identities run? Is the case for scepticism to be equated with the case for objectivity, or with the case against objectivity?I myself, in these lectures, plan to pursue my investigation of the conception of value by addressing myself, in the first instance, to questions about objectivity in this region and to the relation of such questions to questions about scepticism. And since my own pre-reflective leanings are in the direction of some form or other of objectivism, I shall, with at least a faint hope of determining whether these leanings are defensible and (indeed) whether they are coherently expressible, begin (but I hope not end) by considering the ideas of two recent anti-objectivists. Today it is the turn of the late J. L. Mackie;' tomorrow I shall turn to Philippa Foot.?  'There are no objective values' says Mackie (p. 15). Let us try to outline the steps which he takes in order to elucidate and defend this 'bald statement' (as he calls it) of his central thesis concerning the status of Ethics. First of all, he makes it clear that in denying objectivity to values he is not just talking about moral goodness, or moral value (in the strictest sense of that phrase), but it referring to a considerable range of items which could be called "values"; to items which could be 'more loosely called moral values or disvalues, like 'rightness and wrongness, duty, obliga-tion, an action being rotten and contemptible, and so on'; also to an unspecified range of non-moral values, 'notably aesthetic ones, beauty and various kinds of artistic merit.  He suggests that, so far as objectivity is concerned, 'much the same considerations apply to aesthetic and to moral values, and there would be at least some initial implausibility in a view which gave the one a different status from the other'. I find myself in some uncertainty at this point about the extent of the range of values with the status of  ' U. L. Mackie, Ethics: Inventing Right and Wrong (Harmondsworth, Middlesex, and New York: Penguin Books, 1977), esp. ch. 1. All the quotations from this book were taken without change, with one exception: when quoting from Mackie's p. 17 (p. 31 below), Grice underlined 'not'.)  2 [Especially 'Morality as a System of Hypothetical Imperatives' in Philippa Foot, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosoph:  Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1978).which Mackie is concerned, and perhaps partly in consequence of this uncertainty I am not sure whether his suggestion is that, so far as relates to objectivity, it is implausible not to assign the same status to moral and to aesthetic values, or whether it is the seemingly much stronger suggestion that, so far as relates to objectivity, plausibility calls for the assignment of the same status to all values. I shall return to this question.  Mackie envisages three very different reactions to his initial 'bald statement': that of those who see it as false, pernicious, and a threat to morality; that of those who see it as a trivial truth hardly worth mentioning or arguing for; and finally that of those who regard it as meaningless or empty', as raising no real issue. Before going further into his elaboration and defence of his anti-objectivist thesis, I shall find it convenient to touch briefly on his treatment of the last of these reactions. Mackie (pp. 21-2) associates this reaction with R. M. Hare, who claimed not to understand what is meant by "the objectivity of values" and not to have met anyone who does. Hare's position is (or was) that there is a perfectly familiar activity or state called "thinking that some act is wrong" to which subjectivists and objectivists are both alluding, though the subjectivist calls this state "an attitude of disapproval" while the objectivist calls it "a moral intuition"; these are just different names for the same kind of thing and neither can be shown to be preferable to the other. As I understand Mackie's understanding of Hare, this stand-off is ensured by the fact that the subjectivist has at his disposal a counterpart move within his own theory for every move which the objectivist may try to make in order to provide a distinguishing, and justifying, mark for his view of values as objective. The objectivist, for example, may urge that if one person declares eating meat to be wrong and another declares it to be not wrong, they are, both in reality and on his theory, contradicting each other: to which the subjectivist may retort that though on some subjectivist accountsthey cannot, perhaps, be said to be contradicting each other, they can be said to be negating (or disagreeing with) one another: if, for example, one (A) is expressing or reporting the presence of disapproval of meat-eating in himself (A), and the other (B) its absence in himself (B), this would be a case of disagreement or negation; and who is to say that contradiction rather than "negation" is what the facts demand? Again, suppose the objectivist claims, with respect to the persons A and B, one of whom thinks meat-eating wrong and the other of whom thinks it not wrong, that he alone (not the subjectivist) is in a position to assert (as we should wish to be able to assert) that one of them has to be wrong; Hare's subjectivist, it seems, replies as follows:  Someone (x) thinks that A judges wrongly that meat-eating is wrong = x disapproves A's judgement that meat-eating is wrong = x disapproves A's disapproval of meat-eating = x non-disapproves meat-eating (→3 Someone x thinks that B judges wrongly that meat-eating is not wrong = x disapproves B's judgement that meat-eating is not wrong = x disapproves B's non-disapproval of meat-eating = x disapproves of meat-eating (→) Any person x must either disapprove or non-disapprove of meat-eating [disapproval might be either present or absent in him]. So, 3 [The arrow appears to be Grice's shorthand way of saying that Hare's subjectivist could hold all the above assertions to have the same force, or that some are successively weaker than their predecessors. No matter what the subjectivist holds on this point, the move from (1), (2), (3), to (4) is invalid.]  * [Grice took full advantage of the convention of parentheses and apparently used square brackets for his more important parenthetical remarks.]4. Any person x must judge that either A or B judges wrongly.  Hare adds the following further consideration (quoted by Mackie):  Think of one world into whose fabric values are objectively built, and think of another in which those values have been annihilated. And remember that in both worlds the people ir hem go on being concerned about the same things—there is no difference in the 'subjective' concern which people have for things, only in their 'objective' value. Now I ask 'what is the difference between the states of affairs in these two worlds?" Can any answer be given except 'None whatever'?  Mackie seems to me not to handle very well this attempt at the dissolution of debates about objectivity. He concentrates on the final invocation of the indistinguishability of the two worlds, the one with and the one without objective values; and he makes three points against Hare. His first comment is that Hare's appeal to the two allegedly indistinguishable worlds does not prove what Hare wants it to prove; all that it does is to underline the point (made by Mackie himself) that it is necessary to distinguish between first-order and second-order ethics, and that the judgements or other deliverances which fall within first-order ethics may be maintained quite independently of any judgement for or against the objectivity of values, which will fall within second-order ethics; it does not show, as Hare would like it to, the emptiness or undecidability of such questions about objectivity. That such questions are not empty is, according to Mackie, indicated by his two further comments; first, that were beliefs in the objectivity of values admissible, they would provide us with a justificatory backing for our valuations, which we shall otherwise be without; and second, that were the world stocked with objective values, we would have available to us a seemingly simple way of acquiring or changing our directions of concern; one could simply let the realities of the realm of values influence one's attitudes, by 'lettingone's thinking be controlled by how things were'. Hare's failure to allow for such considerations as these is laid by Mackie at the door of Hare's "positivism", which is comparable with that of a Berkeleian who insists that appearances might be just as they are whether or not a material world lies behind them (or under them).  I am unimpressed. Mackie's first point relies crucially on a deployment of a distinction between first- and second-order ethics which is a central part of this theoretical armament, but whose nature and range of legitimate employment I find exceedingly obscure. I shall postpone further comment until I return to this element in Mackie's apparatus. As for Mackie's other points, "positivism" is, I agree, a bad word, and accusatory applications of it are good for an unreflective giggle. But I suspect that many would regard an unverifiable backing for the propriety of our concerns as being little better than no backing at all.  And while it might be held that objective values, should they exist, might exercise an influence on our subjective states, it is by no means clear to me that this is an idea which an objectivist would, or even should, regard with favour. Mackie seems to me, moreover, to have missed the real weakness in Hare's argument (at least, as presented by Mackie). The execution of the second stage of Hare's  "duplication procedure' relies essentially, but not quite explicitly, on the idea that with regard to any particular  "content" , anyone must either disapprove @ or not disapprove . This is indeed, as Hare says, a tautology, but unfortunately it does not entail the premiss which he needs so that his argument will go through; that premiss is that for any @, anyone either has an attitude of disapproval with respect to @ or an attitude of non-  disapproval with respect to . This is not a tautology, since absence of disapproval only amounts to an attitude of non-disapproval if some further condition is also fulfilled, e.g. that the person concerned has considered the matter.The upshot of this discussion is that I am prepared to concede that Mackie is right, though not for the right reasons, when he claims that Hare's attempt to establish that there is no real issue between objectivists and their opponents fails. To make this concession, however, is to condemn only Hare's attempt to show that there is no real issue; I remain perfectly free, should further argument point that way, to revive a "dissolutionist" position in a new or modified form. I turn now to the task of trying to identify more precisely the thesis about which objectivists and anti-objectivists are to be supposed to disagree; and I shall start by trying to get clear about what Mackie regards as the thesis which, as an anti-objectivist, he is concerned to maintain. First of all, it is an important part of Mackie's position to uphold the existence of a distinction between first-order and second-order topics (questions, ethical judgements) and to claim that, though both first-order and second-order questions may fall within the province of ethics, his anti-objectivist thesis, like all questions about the status of ethics, is of a second-order rather than a first-order kind. First-order ethical judgements are said to include both such items as evaluative comments about particular actions, and also broad general principles, like the principle that everyone should strive for the general happiness or that everyone should look after himself. By contrast, 'a second-order statement would say what is going on when someone makes a first-order statement, in particular whether such a statement expresses a discovery or a decision, or it may make some point about how we think and reason about moral matters, or put forward a view about the meanings of various ethical terms' (p. 9).  Mackie holds there to be a considerable measure of independence between the two realms (first-order and second-order); in particular, "moral scepticism" may belong to either of the two realms and 'one could be a second-order moral sceptic without being a first-order one, or again the other way round. A man could hold strongmoral  views, and indeed ones whose content was thoroughly conventional, while believing that they were simply attitudes and policies with regard to conduct that he and other people held. Conversely, a man could reject all established morality while believing it to be an objective truth that it was evil and corrupt' (p. 16).  A second salient feature of Mackie's version of anti-objectivism (or moral scepticism) is that it is a negative thesis. 'It says that there do not exist entities or relations of a certain kind, objective values or requirements, which many people have believed to exist' (p. 17). On some views which have been called objectivist, an objectivist position, despite its positive guise, would turn out to be intelligible only as the denial of some position which would bear the label of "subjectivist" , e.g. as the denial of the contention  that value statements are reducible to, or really amount to, the expression of certain attitudes like approval or  disapproval. On such an interpretation, of the pair of terms,  "objectivism"  and "subjectivism" (or  "non-  objectivism", if you like), it would be the latter term which would be, perhaps despite a negative garb, what used to be called in Oxford (with typical artless sexism) the "trouser-word". But, for Mackie, "objectivist" is not a crypto-negative term. A third salient feature is closely related to the foregoing; the assertion or denial of objectivism is not, like some second-order ethical theses, a semantic thesis (about the meaning of value terms or the character of value concepts), nor is it a logical thesis (e.g. about the structure of certain types of argument), but it is an ontological thesis; it asserts (or denies) the existence of certain items in the world of reality. Fourth and last, since Mackie's moral scepticism is proclaimed by him not to be a thesis about the meaning of what moral judgements or value statements assert, but rather about the non-presence of certain items in the real world, it seems to be open to him to hold that the real existence of values is implied by, or claimed in, what ordinary people think and say, but is nevertheless notin fact a feature of the world, with the result that the valuations spoken or thought by ordinary people are systematically and comprehensively false. This is in fact Mackie's position; his view is what he calls an "error-view": 'I conclude, then, that ordinary moral judgements include a claim to objectivity, an assumption that there are objective values in just the sense in which I am concerned to deny this' (p. 35). He compares his position with regard to values with that adopted by Boyle and Locke with regard to colours. The suggestion is (I take it) that Boyle and Locke regarded it as a false, vulgar belief that things in the real world possess such qualities as colour; real things do indeed possess certain dispositions to give us sensations of colour, and also possess certain primary qualities (of shape, size, etc.) which are the foundations of these dispositions. But neither of these types of item, which provide explanations for our sensations of colour, is to be identified with particular colours, or colour; indeed, nothing is to be identified with a particular colour. And the situation with values is analogous.  This leaves us with two questions calling for answers:  (1) Why does Mackie hold that claims to objectivity are incorporated in ordinary value judgements? (2) Why does he hold that these claims are false? With regard to the first question, one should perhaps first produce a bit of preliminary nit-picking. Mackie himself wants to hold that a claim to objectivity is incorporated in the ordinary value judgement; such a claim is therefore presumably part of the meaning of such value judgements (or the sentences in which they are expressed); and it does not seem to be, or to be regarded by Mackie as being, a platitude that such a claim is included. Mackie cannot therefore consistently assert that his anti-objectivism is not a thesis about the meaning of value averrals; the most he can claim is that though it contains a thesis about meaning, it is not restricted to a thesis about meaning. More importantly, his view that a claim to objectivity is incorporated in anordinary value judgement seems to rest, perhaps somewhat insecurely, on his suggestion (pp. 32-4) that there are two leading alternatives to the supposition that it is the function of ordinary value judgements to introduce objective values into discourse about conduct and action: non-cognitivism, which (broadly speaking) characterizes value averrals not as statements but rather as expressions of feelings, wishes, decisions, or attitudes; and naturalism, which treats them as making statements about features which are objects of actual or possible desires. Both analyses leave out, and are thought by the ordinary user of moral language to leave out, in one way or another 'the apparent authority of ethics'. The ordinary man's discomfort is relieved only if he is allowed to raise such questions as 'whether this course of action would be wrong in itself. Something like this is the everyday objectivist concept of which talk about non-natural qualities is a philosopher's reconstruction' (p. 34).  Mackie has two arguments, or bundles of argument, on which he relies to support his thesis that the objectivist elements, which according to him are embedded in ordinary value judgements, and in consequence the value judgements which embed them, are false. He calls these arguments the argument from relativity and the argument from queerness, and considers the second more important than the first. The premiss of the argument from relativity is the familiar range of differences between moral codes from one society to another, from one period to another, and from one group or class to another within a complex community. That there exist these divergences is, according to Mackie, just a fact of anthropology which does not directly support any ethical conclusion, either first-order or second-order. But it may provide indirect support for such conclusions; Mackie suggests that it is more plausible to suppose that moral beliefs reflect ways of life than the other way around: people (in general) approve of monogamy because they live monogamously, rather thanlive monogamously because they approve of monogamy.  This makes it easier to explain the divergences actually found as being the product of different ways of life than as being in one way or another distorted perceptions of objective values. The counter-suggestion that it is open to the objectivist to regard the divergent beliefs as derivative, as the outcome of the operation of a single set of agreed-upon, very general principles on diverse circumstantial assumptions, is dismissed on the grounds that often the divergent beliefs do not seem to be arrived at by derivation from general principles, but seem rather to arise from  'moral sense' or 'intuition'.  The second argument, the 'argument from queerness' consists in an elaboration, along not wholly unfamiliar lines, of the contention that the objectivist, in order to sustain his position, is committed to 'postulating value-entities and value-features of quite a different order from anything with which we are acquainted' and also to attributing to ourselves, in order to render these entities and features accessible to knowledge, a special faculty of moral intuition, a faculty utterly different from our ordinary ways of knowing anything else. In this connection he focuses particularly on the so-called relation of supervenience, which has to be invoked in order to account for the connection of non-natural features with natural features, and the dependence of non-natural features upon natural features. The presence of super-venience in particular cases involves the application of a special sort of "because"; 'but just what in the world is signified by this "because"?'  Before I try to estimate the merits and demerits of Mackie's position and of the arguments by which he seeks to support it, there seem to me to be two directions of enquiry which are important in themselves, and which could be conveniently attended to at this point, particularly as consideration of them might help to give shape to an evaluation of Mackie. First of all, there are (as Mackieobserves) several different possible interpretations of the notion of objectivity, most of them mentioned by him at least in passing, but not all of them ideas which he is concerned to develop or apply. I think it might be useful to enquire what kind or degree of unity, if any, exists between these different readings of the notion of objectivity.  Second, I find myself in considerable uncertainty about the connection or lack of connection between attributions (or denials) of objectivity and the adoption (or rejection) of scepticism in one or other of its forms. Does scepticism reside in the camp of the non-objectivist (e.g. Mackie) or in that of the objectivist, or (perhaps) sometimes in one and sometimes in the other?  As regards the notion of objectivity, we have first the interpretation which seems to be the one singled out by Mackie, according to which to ascribe objectivity to a class or category of items is to assert their membership in the company of things which make up reality, their presence in the furniture of the world. We might call this sort of objectivity, metaphysical objectivity, and it is the kind of objectivity most commonly supposed to be claimed by realists for whatever it may be that they are realists about.  A main trouble with this kind of objectivity is the difficulty in seeing what it is that the objectivist could be claiming; whether, for example, in attributing objectivity to numbers or to material things he is doing anything more than shouting and banging the table as he says 'numbers exist' or 'material things are real' If the proposition that numbers exist is a consequence of the proposition that there is a number between three and five, what is the objectivist asserting that anyone would care to deny? That numbers (or values) do not just exist, they really exist?  And what does that mean? To escape this quandary, it is not uncommon to take the course which Mackie rejects, namely, to understand 'values (or numbers) are objective' as really negative in character, as a denial of the suggestion that values (or numbers) are reducible, by means of one oranother of the possible varieties of reduction, to members of some class of items which are not values (or numbers), to (for example) natural features which find favour, or to classes. Or, maybe, not any and every form of reducibility would be incompatible with objectivity, but only the kind of reducibility whose direction is to states of mind, attitudes, or appearances, to subjective items like approvals or seeming valuable. An objectivist would now be a resister, an "anti-dissolutionist", one who seeks to block certain moves to reach a theoretical simplification or economy with regard to the constituents of the world. The objectivist's prime opponent may however be a dissolu-tionist not in this commodious sense, but in a different and perhaps even more commodious sense. This opponent may be one who seeks not to dissolve the target notion (value, number, material thing, or whatever) into some one or more different and favoured items or categories of item, but rather, in one or other of a multitude of diverse ways, to dissolve the target notion altogether, to dissolve it into nothing; he may be a nihilistic dissolutionist. He may suggest that belief in the application of the target notion is a mistake, one which characteristically or inevitably grips the unschooled mind; or that such beliefs can claim only some relativized version of truth (like truth relative to a set of assumptions, or to a set of standards), not absolute truth. Mackie himself allows to some value judgements  'truth relative to standards', even though by implication he seems to deny to them "absolute" truth [whatever the ordinary man may think]. Again, the anti-objectivists may wish to suggest not that attributions of the target notion are mistakes but rather that they are inventions, or perhaps myths (that is to say, inventions which are backed by practical motivation, perhaps derived from the utility of such inventions towards the organization of some body of material; in the case of values (perhaps) the body of material might be rules or principles of conduct). As myths (or as the stuff of which myths are made) they might havefictive reality, or be "as if" real, without possessing reality proper. Or again, the target notion might be held by the anti-objectivist to be a construct (or a construction:  though possessing (or belonging to) reality, values might be held to lack (or fail to inhabit) primary or original reality; they would belong to an extension of reality provided by us. By contrast, an objectivist about values would attribute to them primary or original reality. [I should say at this point that in my view such ideas as are now being raised, that is, distinctions between "as if" or fictive entities, real but constructed entities, and primary or original reality, are among the most important and also the most difficult problems of metaphysics. The obscurity in this area is evidenced by the fact that constructed (non-original) reality might be conceived by some as possessing objectivity and by others as failing to possess objectivity; for some, deficiency in objectivity precludes truth (at least unqualified truth); for others, value claims might be true (in some cases) even though values (as constructed items) lack objectivity.]  It might seem that the wheel, in turning, has now reached the point from which its turning began; for the notion of primitive (unconstructed) reality might be regarded as the same notion as the hazy notion of "out-thereness" or of "being really real" which typified the metaphysical objectivist. It might also seem that the new  'interpretation' of objectivity is scarcely if at all less hazy than the earlier one. In an attempt to dispel the mists a little, one might offer the notion of causal efficacy as an index of metaphysical objectivity. Items might be accorded the ribbon of metaphysical objectivity just in case they were capable of acting upon other items, and attributes or features might be regarded as objective just in so far as they were attributes or features in virtue of the possession of which one item would causally influence another, in so far as they helped to explain or account for the operation of such causal influences. A special case of the fulfilment ofthis condition for objectivity would, in my view, be the capacity, possessed by some objects and some of their attributes, for being perceived, or exercising causal influence on a percipient qua percipient. Now the idea of connecting objectivity with causal efficacy seems to me one which has considerable intuitive appeal, indeed much the same kind of appeal as that which may have sustained Dr Johnson in his violent and protracted, though vicarious, assault on Bishop Berkeley. The adequacy, however, of this criterion of objectivity would be seriously, if not fatally, impaired should it turn out that the distinction between what is primitive and what is constructed applies within the scope of causal efficacy—if, that is to say, causal efficacy itself were to be sometimes primitive and sometimes constructed. It is my suspicion that this would indeed turn out to be the case. There would then, perhaps, be no quick recognition-test for objectivity; there would be no substitute for getting down to work and building the theory or system within which the target notion would have to be represented, and seeing whether it, or its representation, does or does not occupy in that theory an appropriate position which will qualify it as objective.  On the approach just considered, then, decisions about the objectivity of a given notion would involve the examination and, if necessary, a partial construction of a theory or system in which that notion (or a counterpart thereof) appears, to see whether within such a system the notion in question (or its counterpart) satisfies a certain condition. The operation of such a decision-procedure would be torpedoed if the requisite theory or system could not be constructed, if the target concept were not theory-amenable. The merits of an allegation that a given notion was not theory-amenable might depend a good deal on what kind of a theory or system was deemed to be appropriate; it would be improper (taking heed of Aristotle) to expect a moralist to furnish a system which allowed for the kind of demonstration appropriate to mathematics.But one kind of anti-objectivist (who might also be a sceptic) might claim that for some notions no kind of systematization was available; in this sense, perhaps, values might not be objective. It may be (as I think my colleague Hans Sluga has argued) that Wittgenstein was both sceptical and anti-objectivist with regard to sensa-tions. In this sense of objectivist, an objectivist would only have to believe in theory-amenability; he would not have to believe in the satisfaction, by his target notion, of any further condition within the appropriate systematization.  One further interpretation of objectivity noted by Mackie is one which I shall not pursue today. It connects objectivity with (so-called) categorical imperatives as distinct from hypothetical imperatives, and with the (alleged) automatic reason-giving force of some valuations.  Since this idea is closely related to Miss Foot's theories, I shall defer consideration of it.  I have listed a number of different versions of the idea of objectivity, and have tried to do so in a way which exhibits connections between them, so that the different versions look somewhat tidier than a mere heap. But many of the connections seem to me fairly loose [*such-and-such a notion might be taken as an interpretation of so-and-so'], and I see little reason to suppose many tight, logical connections between one and another version of objec-tivity.  So much for the panoply of possible interpretations of the notion of objectivity. I turn now to the second of the general directions of enquiry with regard to which I expressed a desire for enlightenment. How is objectivity related to scepticism? Speaking generally, I would incline towards the idea that scepticism consists in doubting or denying something which either is a received opinion, or else, at least on the face of it, to some degree deserves to be a received opinion. In the present context we are of course concerned only with philosophical scepticism; and, without any claim to originality, I would suggest that philosophicalsceptics characteristically call in question some highly general class of entity, attribute, or kind of proposition; what they question are categories, or what, if we took ordinary language as our guide, would be categories. To adduce more seeming platitudes, the objectivist is, compared with the anti-objectivist, a metaphysical infla-tionist; there are more things in his heaven and earth than an anti-objectivist Horatio would allow himself to dream of. And so, it is standardly thought, it is Horatio who is the sceptic and the objectivist who is the target of scepticism; and (often Horatio remedies his own initial scepticism by  'reducing' the suspect items to their appearances or semblances: he takes the phenomenalist cure. But here the issue becomes more complex than is ordinarily supposed: for there are to my mind not less than two forms of scepticism, which I will call "Whether?" scepticism and  "Why?" scepticism. It may be true that the run-of-the-mill objectivist, on account of his inflationary tendencies, provokes "Whether?" scepticism, and that the sceptic who seeks to remedy his own initial scepticism by taking a dose of phenomenalism is not himself open to "Whether?" scepticism. But it may also be true that the phenomenalist is a proper target for "Why?" scepticism; for he, has left himself with no way of explaining the phenomena into which he has dissolved the entities or attributes dear to the objectivist. And it may be that the objectivist, if only his favoured entities or attributes were admissible and accessible to knowledge, would be in a position to explain the phenomena; and, further, that this capability would be unaffected by the question whether the phenomena are related to possible states of the world (like sensible appearances) or to possible action (like approvals). If only he could be allowed to start, the objectivist could (under one or another interpretation) 'explain' in the one area why it seems that so and so is the case, and in the other why do so and so (eg. why pay debts).  The foregoing message, that both the true-blue, con-servative, and inflationary objectivist and the red, radical, and deflationary phenomenalist or subjectivist run into a pack of sceptical trouble, of one kind or another, and that more delicate and refined footwork is needed seems to me to be the front-page news in the work of Kant. It also seems to me that Mackie, by being wedded to if not rooted in the apparatus of empiricism, has cut himself off from this lesson. Which is a pity.  However, I must move to somewhat less impressionistic comments on Mackie's position. These comments will fall under three heads:  The alleged commitment of 'vulgar valuers', in their valuations, to claims to objectivity. The separation of value judgements into orders, with the assignment to the second order of questions or claims about the status of ethics; and the remedi-ability of an apparent incoherence in Mackie. The alleged falsity of claims of objectivity. I should say at once that though I think that the considerations which I am about to mention show that something has gone wrong (perhaps that more than one thing has gone wrong) in Mackie's account, the issues raised are so intricate, and so much bound up with (so far as I know) unsolved problems in metaphysics and semantics, that I simply do not know what prospects there might be for refurbishing Mackie's position.  1. It seems to me to be by no means as easy as Mackie seems to think to establish that the 'vulgar valuer', in his valuations, is committed to the objectivity of value(s). It is not even clear to me what kind of fact would be needed to establish such a commitment. Perhaps if the vulgar valuer, when making a valuation, (say) that stealing is wrong, were to say to himself "and by "wrong" I mean objectively wrong', that would be sufficient (at least if he added a specification of the meaning of "objective"). But nobody, not even Mackie would suppose the vulgar valuer to dothat. Mackie relies, in fact, on the alleged repugnance to the valuer of the two main rivals to an objectivist thesis about value. But even if this were sufficient to show that the vulgar valuer believes in an objectivist thesis about value, it would not be sufficient to show that an objectivist interpretation is built into what he means when he judges that stealing is wrong. There are other ways of arguing that a speaker is committed to an interpretation, for example, that he has it subconsciously (or unconsciously) in mind, or that what he says is only defensible on that interpretation. But the first direction seems not to be plausible in the present context, and Mackie is debarred from the second by the fact that he holds that what the vulgar valuer says or thinks is not defensible anyway.  To illustrate the fiendish difficulties which may arise in this region, I shall give, in relation to the valuation that stealing is wrong, four different interpretative supposi-tions-each of which would, I think, have some degree of philosophical appeal-and I shall add in each case an estimate of the impact of the supposition on the assignment of truth value to the valuation.  There is a feature W which is objective but provably vacuous of application; a vulgar valuer, when he uses "wrong", is ascribing W. Conclusion: vulgar valuation 'stealing is wrong' invariably false. A vulgar valuer thinks (wrongly) that there is a particular feature W which is objective, and when he uses "wrong" he intends to ascribe this feature, even though in fact there is no such feature. Conclusion: obscure, with choice lying between false, neither true nor false but a miscue, and meaningless (non-significant). A vulgar valuer is uncommitted about what feature "wrong" signifies; he is ascribing whatever feature it should in the end turn out to be that "wrong" signifies. Conclusion: assignment of truth value must await the researches of the semantic analyst.(d) A vulgar valuer is uncommitted about what feature "wrong" signifies; truth value is assigned in advance of analysis by vulgar methods, and such assignment limits the freedom of the semantic analyst. Conclusion: truth value assigned (as stated) by vulgar methods.  2. The idea, to which Mackie subscribes, of separating valuations into orders as a step towards the elucidation of an intuitive distinction between "substantive" and "formal" questions and theses in ethics plainly has considerable appeal; it seems by no means unpromising to regard  "substantive" theses about values as being first-order valuations (statements), and to regard "formal" theses in ethics, like theses about the logic of value, or the meaning of value terms, as being a sub-class of second-order theses, and to regard theses about the status of ethics as also falling within this subclass—to treat them, that is to say, as theses about first-order valuations. [Such second-order theses, of course, though necessarily about valuations, may or again may not themselves be valuations.] But Mackie's deployment of this idea plainly runs into trouble. For according to Mackie, vulgar valuations incorporate or entail claims to objectivity; claims to objectivity, according to him, since they fall within, or imply theses belonging to, the class of claims about the status of ethics, are second-order claims; and so, since (presumably) what incorporates or entails a second-order thesis is itself a thesis of not lower than second-order, vulgar valuations are of at least second-order. But vulgar valuations, as paradigmatic examples of substantive value theses, cannot but belong to the first order, which is absurd. Now I can suggest an explanation for the appearance on the scene of this incoherence. As I mentioned earlier, among the possible versions of the notion of objectivity are what I called a positive version and a negative version. The positive version, that to attribute objectivity to some item is to proclaim that itemto 'belong to the furniture of the world', is firmly declared by Mackie to be his version; and it is, as I have remarked, obscure enough for it to be possible (who knows?) for attributions of objectivity to belong to the first order. The negative version, that to attribute objectivity to something is to deny that statements about that thing are in this or that way eliminable or "reducible",  , is plainly of second (or  higher) order; and despite his forthright assurances, Mackie may have wobbled between these two versions.  But to explain is neither to justify nor to remedy: and I have the uneasy feeling that Mackie's troubles have a deeper source than unclarities about application of the notion of order. His "error-view" about value has an Epimenidean ring; it looks a bit as if he may be supposing vulgar valuations to say of themselves that the value which they attribute to some item or items is objective; and I feel that it may be that such self-reference, though less dramatic, is no less vitiating than would be saying of themselves that they are false. It is true that Mackie regards vulgar valuations as being, in fact, comprehensively false; but it is evident that he expects and wants that falsity to spring from the general inapplicability of the attribute being ascribed by such valuations to themselves, not from a special illegitimacy attending a valuation's ascription of the attribute to itself.  3. I find myself quite unconvinced (indeed unmoved) by the arguments which Mackie offers to support his claim that values are not objective or (should one rather say?) that there are no objective values. The first argument from relativity he regards as of lesser importance than, and indeed as ultimately having to appeal to, the second argument, the argument from queerness. This argument (so it seems to me) seeks to make mileage out of two bits of queerness: first, the queerness of the supposition that there are certain "non-natural" value-properties which are in some mysterious way "supervenient upon" more familiar natural features; and second, the queerness of the supposi-tion that the recognition of the presence of these non-natural properties motivates us, or can motivate us, without assistance from any desire or interest which we happen to have. What strikes me as queer is that the queernesses referred to by Mackie are not darkly concealed skeletons in objectivist closets which are cunningly dragged to light by him; they are, rather, conditions proclaimed by objectivists as ones which must be accommodated if we are to have a satisfactory theoretical account of conduct, or of other items qua things to which value may be properly attributed. So while these queernesses can be used to specify tasks which an objectivist could be called upon, and very likely would call on himself, to perform, and while it is not in advance certain that these tasks can be successfully performed, they cannot be used as bricks to bombard an objectivist with even before he has started to try to fulfil those tasks. It is perhaps as if someone were to say, 'I seriously doubt whether arithmetic is possible; for if it were possible it would have to be about numbers, and numbers would be very queer things indeed, quite inaccessible to any observation'; or even as if someone were to say, 'I don't see how there can be such a thing as matrimony; if there were, people would have to be bound to one another in marriage, and everything we see in real life and on the cinema-screen goes to suggest that the only way that people can be bound to one another is with ropes. Nome compiuto: Giuliano Toraldo di Francia. Francia. Keywords: i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto – Galilei BONAIUTO – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’ distinction vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by colonial philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute value’ ‘relative value’, Lemarchand, theatre, not Esslin. --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franzini: la ragione conversazionae e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Abstract. Grice: “If there is a word that Italian philosophers love, that is ‘espressione. I guess the most technical I get about this is in my Method in Philosophical Psychology. Let me abbreviate "x judges that x judges that p" by "x judges that p", and "x judges that x judges that x judges that p" by "x judges? that p". Let us suppose that we make the not implausible assumption that there will be no way of finding non-linguistic manifestational behaviour which distinguishes  judging? that p from judging that p. There will now be two options: we may suppose that "judge that p" is an inadmissible locution, which one has no basis for applying; or we may suppose that "x judges' that p" and "x judges? that p" are manifestationally equivalent, just because there can be no distinguishing behavioural manifestation.  The second option is preferable, if (a) we want to allow for the construction of a (possibly later) type, a talking pirot, which can express that it judges? that p; and (b) to maintain as a general (though probably derivative) law that ceteris paribus if x expresses that then x judges that  ф.Keywords: espressione. Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for one, he philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio. Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things together, so that the recipient compares them!); “immagine”;  “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico – rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano, Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo” (Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos (Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi, morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa (Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo” (Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori); “Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura, fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano, Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto, Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano, Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier); “L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum: sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to things to be compared, say an Italian flag, and the  love of country); Simbolo: figura, materia, e forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura” (Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano, Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e Associati,  pre-moderno, Moderno e postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di Occam MicroMega  Estetica, filosofia, vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il rettore  su unimi, contiene l'articolo Il nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano   SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un altare di Borea. 2  Platone Fedro  FEDRO: Non ci ho mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa. Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3  Platone Fedro  amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga. FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4  Platone Fedro  FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5  Platone Fedro  cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6  Platone Fedro  sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani». Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? Platone Fedro  SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8  Platone Fedro  la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9  Platone Fedro  non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e 10  Platone Fedro  beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione e 11  Platone Fedro  l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12  Platone Fedro  si oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13  Platone Fedro  FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre, secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione. SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi... FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO: Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni, facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO: Sicuramente non buono. 14  Platone Fedro  SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO: C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete. SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito? FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO: Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì . 15  Platone Fedro  SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè, quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso. Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...». SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE: E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso! SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO: Come no? SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17  Platone Fedro  SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18  Platone Fedro  scorso affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo, in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO: Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire, che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE: Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE: In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa. FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così, per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu. SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti, a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte. FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro, viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene, in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace. SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto,  c'era uno degli antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e 21  Platone Fedro  solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine. SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE: Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile. SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica, prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO: Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte. Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22  Platone Fedro  ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO: Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente. FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no? SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui? FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo? SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi; giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni. SOCRATE: Andiamo!  Platone Fedro. Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. Noto medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera. Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi. Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820 seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo "atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da mantenere nella traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione. Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento Snell-Maehler (citato anche in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra ligús, dalla voce melodiosa, e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra "èros" e "róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos.  L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro  A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a "oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un equilibrio. Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica impersonifica invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano. Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé" ('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo "Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile. Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo, re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75 seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro  Omero, Iliade) Per Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e lapidario.  I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica) Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga) Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi.  Poeta e sofista contemporaneo di Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si veda) e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima l'uomo è misura di tutte le cose. Nulla ci rimane delle sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore; l'epiteto voce di miele gli è già riferito da Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco. Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica.  «La regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone».  I giardini d’Adone sono recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura, ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione poetica di autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes, era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Nome compiuto: Elio Franzini. Franzini. Keywords: espressione, Sibley, Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico, estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore, bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franzini” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frinico: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frinico.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia,  Grice e Frixione: la ragione conversazionale e l’implicatura metrica di Lucrezio – la scuola di Genova – filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Abstract. Grice: “Some like Ovid, but Lucrezio’s MY man!” -- Keywords: Lucrezio. Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano. Genova, Liguria. Grice: “The Grecians were pretty clear – and Cicero followed suit – surely if I say ‘He made it,’ there is no implicature that he is a poet, even if ‘poeien’ is strictly, ‘make’!” -- Grice: “Poetry is a good place to apply the idea of implicature, as in Donne – Nowell-Smith’s favourite obscure poet, and Blake – mine!” Insegna a Salerno, Milano, e Genova. I suoi interessi di ricerca includono il linguaggio. Le sue ricerche riguardano il ruolo delle forme di ragionamento non monotòno nell'ambito e il rapporto tra l’illusione del perceptum ed il ragionar invalido. Si è anche occupato di modelli di rappresentazione. È noto anche per la sua attività di poeta d'avanguardia, segnalata, tra gli altri, da Sanguineti, e per aver fondato e fatto parte del “Gruppo ‘93”. Altre opere: “Il Significato” Angeli); “La Funzione e la computabilità” (Carocci); “Come Ragioniamo, Laterza Editore, Lista delle pubblicazioni da DBLP Computer Science Bibliography, Universität Trier; Diottrie, Piero Manni, Ologrammi, Editrice Zona, Insegnamenti Scuola di Scienze Umanistiche, Genova. Guida dello Studente, Corso di laurea in filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Governing Boards of the Italian Association of Cognitive Sciences. A Cognitive Architecture for Artificial Vision., in Artificial Intelligence, Elsevier. Prisco, Sanguineti. La letteratura è un gioco che può ancora scandalizzare, Il Sole 24 Ore, Petrella, GRUPPO 93. L'antologia poetica Petrella, Zona, F. scheda nel sito Genova, Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Come ragioniamo recensione di Dario Scognamiglio, ReF Recensioni Filosofiche.  It cannot be denied that the poem of LUCREZIO fails to awaken any  marked interest until long after its publication. The almost unbroken  silence of his contemporaries regarding him is significant of the com-  parative indifference with which his production was received. The  reasons for this neglect are various and not far to seek. In the first  place the moment was inopportune for the appearance of such a work.  It is composed in that hapless time when the rule of the oligarchy is overthrown and that of GIULIO (si veda) CESARE had not yet been established,  in the sultry years during which the outbreak of the civil war is awaited with long and painful suspense. The poet betrays his solicitude for the welfare of his country at this crisis in the introduction  of his work, in which he invokes the aid of Venus in persuading Mars  to command peace. Efficc ut inter ea f era moenera militiai   Per maria ac terras omnis sopita quiescani. He acknowledges that his attention is diverted from literary labours by the exigencies of the Roman state. Nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo  Possumus aequo animo nee Memmi clara propago  Talibiis in rebus comrnuni desse saluti.  Munro believes these lines were written when Caesar as consul had formed his coalition with Pompey and  when there was almost a reign of terror. The reflection of a state of   1 Monimseii, Hist. Rome, M. 41-43-   ^Muiim. Luiictiiis. tumult and peril is equally obvious in the opening verses of the second  book, where the security of the contemplative life is contrasted with  the turbulence of a political and military career.' Particularly signifi-  cant are the lines :   Si non forte tuas legiones per loca campi  Fervere cum videas belli simulacra cientis, Subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,  Ornatasque armis statuas pariierque animatas,  His tibi turn rebus timefactae religiones  Effugiunt animo pavide ; mortisque timores  Turn vacuum pectus lincunt curaque solutum,  Fervere cum videas classem lateque vagari} It can readily be appreciated that a period of such fermentation  and alarm would afford opportunity for philosophic study to those  alone who were able to retire from political excitements to private  leisure and quiet. Moreover the very characteristics of the Epicurean  philosophy would recommend it chiefly to persons of this description.  Participation in public life was distinctly discouraged by the school  of Epicurus, who regarded the realm of politics as a world of tumult  and trouble, wherein happiness — the chief end of life — was almost, if  not quite, impossible. They counselled entering the arena of public  affairs only as an occasional and disagreeable necessity, or as a possible means of allaying the discontent of those to whom the quiet of  a private life was not wholly satisfactory.' Such instruction, though  phrased in the noble hexameters of a Lucretius, was scarcely calculated  to enjoy immediate popularity in the stirring epoch of a fast hurrying  revolution. Sellar, Rommi Pods of the Republic. Caesar after his consulship remained with his army for three  months l)efore Rome, and was bitterly attacked by Memmius. Does Lucretius here  alhide to Caesar? " Munro, Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics. In consequence of his mode of thought and writing lieing so averse to his own  time and directed to a better future, the poet received little attention in his own  age.Teuflfel, Hist. Rom. Lit. L’ORTO ROMANO arose in a  state of society and under circumstances widely different from the social ar.d  political condition of the last phase ol the Roman Republic. Sellar. Roman Poets  of the Republic. A somewhat ingenious, but unsuccessful, attempt has been made to  account for the indifference with which Lucretius was treated on the  ground of his assault Upon the doctrine of the future life. It has  been suggested that as the enmity of the Christian writers was early  called down upon his head for this cause, he was likewise whelmed under a conspiracy of silence on the part of his Roman contempo-  raries and successors " for the same reason. But so general was the  skepticism of his age on this question, that it is scarcely credible that  the publication of his views could have seriously scandalized the cultured classes who read his lines. The same judgment will hold true  with reference to the entire attitude of Lucretius toward the tra-  ditional religion. It is a sufficient answer to the theory that his infidelity created antipathy toward him to record the fact that Julius  Caesar, than whom no more pronounced free-thinker lived in his day,  was, despite his skepticism, pontifex maxi'mus of the Roman common-wealth, and did not hesitate to declare in the presence of the Senate  that the immortality of the soul was a vain delusion. That he represented in these heretical opinions the position of many of the fore-  most persons of the period is the testimony of contemporary literature. Shall we not find the better reason for the apparent neglect of  Lucretius in the era immediately following the issue of his poem in  the fact that there was no public at this juncture for the study  of Greek philosophy clothed in the Latin language? CICERONE, who devoted himself with the zeal of a patriot to the creation of a philosophical literature in his native tongue, complains of the scant courtesy  paid to his efforts. Xon eram nescius. Brute, cum, quae summis ingeniis exquisitaque doctrina philosophi Graecn sermone tractavisseni, ea  Latinis Uteris mandaremus, fore ut hie noster labor in varias reprehensiones incur reret. Nam qiiibusdam, et Us quidem non admodum indoctis,  totum hoc displicet, philosophari. Quidam autem non tam id reprehendunt,  si remissius agatur, sed tantum studium tamque muUam operant ponendam  in eo non arbitrabantur. Erunt etiam, et ii quidem eruditi Graecis Utter is,  contemnentes Latinas, qui se dicant in Graecis legendis operant maUe  consumer e. Postremo aliquosfuturos suspicor, qui me ad aUas Utter as vocent,  [This is the view advanced by R. T. Tyn-il of the University of Dublin. See  his LiiUn Poc'try (Houjrhton, Mifflin et Co., N. Y.).  Merivale. History of the Romans. hoc scribendi, etsi sit elegans, personae iamen et digtiiiatis esse  negent. Yet this work, as he explains in his De Divinatione,' was undertaken with the commendable purpose of benefitting  his countrymen. He anticipated with delight the advantages  which would accrue to them when his researches were complete. Magnificum illud etiam Romanisque hominibus gloriosum, ut  Graecis de philosophia litteris no?i egeant. And later he reaped his re-  ward in an awakened interest in the subjects of his studious inquiries.  But he was compelled in the beginning to cultivate a sentiment in  behalf of those investigations. Lucretius addressed himself to an unsympathetic public, and was likewise required to wait for applause  until a more appreciative generation rose up to do him honour. Yet it must not be supposed that The Garden exercised a feeble influence over the thought of cultivated Romans in this period of  their history. The very theme which engaged the genius of Lucretius had also employed the energies of predecessors and contemporaries. Among attempts of this character were the “De Rerum Natura” of Egnatius, which appeared somewhat earlier than the work of Lucretius;  the “Empedoclea” of Sallustius mentioned by Cicero in the much discussed passage relating to Lucretius; and a metrical production en-titled “De Rerum Natura” by Varro. Commentaries on the principles  of The Garden had also been extant for some time. Chief among  the authors of such compositions was Amafinius who preceded  Lucretius by nearly a century. Our knowledge of him is mainly  derived from Cicero, who says: “C Amafijiius exstitit dicens cuius libris  editis commota multitudo contulit se ad eain potissimum disciplinam.” Rabirius is also mentioned by the same author as belonging to that  class of writers, Qui nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vol-  Dc Finilnts, I, i.   ^ Quaercnti mihi vmltumquc d diu cogitanti, quanotii re possem prodesse qtiam plurimus, ne quando intervdtterem considere reipubiicae, nulla niaior occurrebat quam si  optimaruni artiwn vias traderevi vicis civibus; quod conpluribus iam libris me arbitror  conseciiturn. Quod enim munus rei publicac adferrc mains nieliusve pos-  s tonus, quam si docemus at que erudimus iuveiitutem^ his praesertim in or i bus at que  iemporibus, qtdbus ita prolapsa est, etc. De Divinatione.  Sellar, Roman Poets of the Republic, Acad.  “-gari sermone disputant.” Rabirius indulges in a popular treatment  of philosophy and covers much the same ground as Amafinius. Another contributor to the literature of Epicureanism whom Cicero records in no complimentary way is Catius — “Catius insuber, Epicureus, quinuper est vioriuus, quae ille Gargettius et iam ante Democritus ctSuXa,  hie spectra nominat.” The interest in The Garden among the Romans of the  time of Lucretius is further apparent in the prominence which certain teachers of The Garden attained. Conspicuous among them is Zeno  the Sidonian, whose lectures Cicero in company with Atticus had attended, and whom he calls the prince of Epicureans in his “De Natura Deorum”, and whose instruction is doubtless liberally embodied in Cicero's  discussions of the system of The Garden. Contemporary with  Zenone is Fedro, who had achieved distinction in Rome, where Cicero studied under his direction.  Somewhat later Filodemo of Gadara appeared in Rome, and is  mentioned by Cicerone as a learned and amiable man. The considerable body of writings bearing his name found in the Volumina Herculanensia indicates his position among the philosophers of his day. Scyro, a follower of Fedro, said to have been the  teacher of Virgilio. Patrone, the successor of Fedro, and Pompilius Andronicus, “who gave up everything for the tenets of The Garden, are eminent also at this period. Partly as a result of the activity of these philosophers, and  partly on account of the prevailing anxiety to arrive at some satisfactory scheme of life, the number of The Gardeners steadily  increased at this time, and included not a few illustrious names. Disp. Ad Fam.. Cf. Diogenes Laertius. Rilter et Preller, Hist. Phil. Graec.  d Fam., De Fin., Ritter et Preller, Hist. Phil. Graec. Ad. Fam., Ad. Fam., Ad Attic, Zeller. Stoics. Fpicnreans and Sceptics, p. 414, i. These are known to us chiefly through the writings of Cicero/ who  mentions T. Albutius, Velleius, C. Cassius, the well-known conspirator  against Caesar, who may himself be classed among those who had  lost confidence in the gods/ C. Vibius Pansa, Galbus, L. Piso, the  patron of Philodemus, and L. Manlius Torquatus. Other notable  personages are apparently regarded as “Gardeners” by Cicero, but  grave doubts have been expressed concerning their real attitude toward the school. It is barely possible that Atticus may justly be  denominated a “Gardener”, for he calls the Gardeners nostri familiars and condiscipuli. But his eclectic spirit would  seem to forbid his classification with any single system, and Zeller  feels that neither he nor Asclepiades of Bithynia, a contemporary of  Lucretius, who resided at Rome and was associated with The Gardeners,  can be regarded as genuine Gardeners.   The discussions of the The Gardeners in De Natura Deorwn,  De Finibus and other works of Cicero evince the profound interest he  had in the school, though his general attitude was one of unfriendliness. What reason, then, we may ask, can be given for his almost  uninterrupted silence concerning Lucretius? The only reference we  have to the poet in all Cicero's voluminous compositions occurs in a  letter to his brother Quintus, four months after the death of Lucretius,  in which he says, “Lucretii poemata, ut scribis ita sunt: viultis lunmiibus  ingenii, viultae etiam artis; sed cum veneris virum te putabo, si Sallustii  Empedoclea legeris, hominem non putabo.” Cicero certainly implicates  that both Marcus and Quintus had read the poem, and many scholars  accept the statement of Jerome in his additions to the Eusebian  chronicle — quos Cicero emendavit — as applying to Marcus. But if he was closely enough identified with the work of Lucretius to edit his  manuscript, why in those writings wherein ample opportunity was afforded, did not Cicero mention his labours in the field of philosophy?  Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, Merivale, Hist. Rom., De Fin., Legg., Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 415.  ^Ad Quintton Munro, who discusses this question with his usual lucidity, inclines to the opinion that Jerome, following Suetonius, has indicated Cicero as the [This is a particularly pertinent inquiry in view of the fact that he does  speak of Amafinius, Rabirius and Catius, as we have already observed,  and that he devoted so much attention to the discussion of Epicurean principles. Munro answers this question by declaring that it was  ot Cicero's custom to quote from contemporaries, numerous as his  citations are from the older poets and himself. That had he written  on poetry as he did of philosophy and oratory, Lucretius would have  undoubtedly occupied a prominent place in the work, and that more  than once in his philosophical discussions Cicero unquestionably refers to Lucretius. Munro is not alone in contending that the literary relations between Lucretius and Cicero were more or less intimate.  Other critics have traced to Cicero's “Aratea” important lines in LUCREZIO (si veda), while many passages in CICERONE (si veda) closely resemble utterances of the poet. Martha quotes several remarkable parallels between “De Finibus” and various lines in LUCREZIO. But it is argued on the other  hand no less vigorously that didactic resemblances prove nothing, except that LUCREZIO and CICERONE wrought from like sources their several  Latinizations of philosophy. And herein there is suggested a possible explanation of CICERONE’s apparent indifference to the poet, whether he did him the favour of editing his verse or not. Cicero had made an earnest study of philosophy long before the poem of LUCREZIO had been introduced  to his notice. He had resorted to original authorities for information concerning L’ORTO ROMANO. Zeno the Sidonian and Philodemus  of Gadara, as already noted, had supplied him with much material.  Everywhere in his philosophical works there is evidence that he regarded himself a sort of pioneer in this peculiar field of investigation.  --  editor of Lucretius, and that this was the real fact. Sellar, Roman Poets of the  Republic, though suspending judgment does not deny the probability  that Cicerone performs this favor for Lucretius. Teuffel, Hist. Rom. Lit., while expressing doubt concerning the evidence of Cicerone’s connection  with the poem, declares that at any rate his "part was not very important, and it  might almost seem that he was afraid of publishing a work of this kind." Sihler presents an argument of great force against the probability of Cicero's editorship. See Art. Lucretius and CICERONE. Transactions American Philological Association. Munro;  Martha, La: L^oeme de LUCREZIO, quoted in Lee's Lucretius -- and therefore deserving of the pre-eminence therein. He doubtless  placed no importance upon any Latin writings beside his own which treated of this philosophy. Indeed the references which Cicero makes to philosophers engaged in an undertaking similar to his own  are in no instance flattering. And Lucretius would only be esteemed  by him a competitor in the same department of inquiry, who wrote  in Latin verse instead of Latin prose. Keeping these facts in mind the comparative silence of Cicero regarding Lucretius does not seem wholly incompatible with the theory of his editorship. He was himself an expositor of Epicurus — and  that too of the hostile kind. Cicerone popularized the doctrines of The Garden in the bad sense of the word," and had thrown "a  ludicrous colour over many things which disappear when they are more  seriously regarded. Yet his opposition to the tenets of Epicurus  would not preclude him from friendly association with many who professed them, and if asked to lend his name to the publication of Lucretius' verses, there could be no reason for withholding it. But if his antagonism to L’ORTO ROMANO would lead him to speak against  the doctrines of the poem, his admiration for the literary excellences  of the work, as exhibited in his willingness to stand sponsor for its  issue, would deter him from adverse criticism. Silence in such a  case is the best evidence of friendship. Mommsen remarks that LUCREZIO although his poetical vigor  as well as his art was admired by his cultivated contemporaries, yet  remained — of late growth as he was — a master without scholars. But with increasing knowledge in what is best in The Garden and a  finer taste to appreciate the moral and literary virtues of Lucrezio,  subsequent generations gave ample recognition to the poet. ORAZIO (si veda) and VIRGILIO (si veda) were greatly influenced by him, particularly the latter, who  is supposed to refer to Lucrezio in the famous lines, “Felix qui potuii rerum cognoscere causas atque metus omnes et inexorabile fatum. Subiecit pedihus strepitumque Achernntis avari. Lanjje, History of Materialism. Hist. Rome, Georgica. OVIDIO (si veda) pronounced words of high eulogy upon him. Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucre tt  Exitio terras cum dabit una dies. The persistency of The Garden despite persecution and opposition demonstrates its marvelous vitality and the almost deathless influence of  the personality of Epicurus, whose single mind projected its grasp  upon human thought throughout the whole existence of the sect.  And not the least important agent in affecting this result, because of  his almost idolatrous devotion to his master and the persuasive charm  of his lines, was the poet LUCREZIO. Nome compiuto: Marcello Frixione. Keywords: l’implicatura metrica di Lucrezio, poetry, Ezra Pound, Alighieri, “speranza, tela” – Tesauro – Folco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frixione” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontida: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontida”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontino: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Abstract: Roman philosophy. Keywords: setta dei Scipioni. Filosofo italiano. Catalogued by it.wiki under “filosofi romani”and ‘scrittori romani’ – vide Marc’Aurelio Antonino. “Of the size to fit a gentleman’s pocket.”  Sesto Giulio Frontino. Sesto Giulio Frontino Console dell'Impero romano Ritratto a medaglione di Frontino nel frontespizio dell'edizione bipontina delle sue opere Nome originale Sextus Iulius Frontinus. Preturaurbanus. Consolato suffectus ordinarius. Legatus Augusti pro praetore della Britannia. Filosofo italiano. Politico, funzionario e scrittore romano. Nasce nella Gallia Narbonense. Il suo cursus honorum è caratteristico di un esponente preminente dell'oligarchia senatoria, e ciò confermea una sua parentela con il cavaliere Aulo Giulio F., il quale sposa Cornelia Africana, l'unica figlia di Publio Cornelio SCIPIONE (si veda). È certo che è prætor urbanus e console suffectus. Inviato in Britannia come governatore. In tali vesti sottomise Siluri e Ordovici, popolazioni celtiche che risiedevano nei territori dell'attuale Galles, fondando la fortezza legionaria di Deva Victrix.  Divenne curator aquarum, sovrintendente agli acquedotti di Roma, sotto Nerva. Console suffectus e ordinarius. Muore durante il principato di Traiano, dato che in quegli anni PLINIO (si veda) il giovane gli succede alla morte nella carica di augure. Plinio define F. uomo preclaro, e rifere che desidera che non gl’è dedicato in morte alcun monumento, quale inutile spesa, poiché soltanto ai nostri meriti è affidata la nostra memoria. Gli Strategemata sono commentari di una sua opera perduta, il “De re militari”, e consistono in libri di stratagemmi militari. Il libro primo tratta della preparazione al combattimento e le varie operazioni. Il libro secondo tratta del combattimento vero e proprio. Il libro terzo tratta dell'assedio di città. Il libro quarto espone detti e fatti di celebri generali. Per le differenze di stile e di contenuti, e per le frequenti ripetizioni di cose già scritte nei libri precedenti, si sospetta che questo quarto libro non sia opera di F.. Il De aquaeductu urbis Romae è un trattato sugli acquedotti ed è l'opera più importante di F., una buona e concreta trattazione, svolta in due libri, dei problemi di approvvigionamento idrico a Roma. F. è curatore delle acque, cioè il responsabile degli acquedotti e dei servizi connessi, e il trattato riflette la serietà e lo scrupolo del suo impegno. L'opera contiene notizie storiche, tecniche, amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti all'epoca, visti come elemento di grandezza dell'impero romano e paragonati, per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche greche.  L'opera si è conservata nel codice Cassinensis di mano di Pietro Diacono, ritrovato nell'abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini. Restano solo estratti di un suo trattato di agrimensura (la disciplina che ha per oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione della superficie agraria di un terreno, chiamata a Roma gromatica, da groma, lo strumento usato per le misurazioni del terreno), scritto durante il principato di Domiziano, in un periodo in cui F. abbandona momentaneamente la carriera politica per dedicarsi principalmente all'attività letteraria. F. è pochissimo studiato nelle scuole a causa del suo linguaggio semplice, della compilazione non sempre precisa e per lo stile fin troppo generico. Tuttavia, la sua opera (scritta per fini pratici e, forse, personali) è importante perché ha dato agli storici ottime indicazioni per quanto concerne i lavori legati alle opere idriche che si realizzavano nell'Impero Romano. Edizioni: Astutie militari di F. huomo consolare, di tutti li famosi et eccellenti capitani romani, greci, barbari, et hesterni, traduzione di Luci, Venezia, per Giovan' Antonio di Nicolini da Sabio. Gl’acquedotti di Roma, da Commentario di F. - Degli Acquedotti della Città di Roma - con note e figure, illustrato da Baldassarre Orsini, Perugia, Stamperia camerale di Carlo Baduel. Gli Stratagemmi, traduzione di Roberto Ponzio Vaglia, Milano, Sonzogno. M.-P. Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome. Fantham, The Emperor's Daughter, Tacito, Historiae, Frere, Britannia: A History of Roman Britain, Epistularum libri, IV, 8, Ad Arriano. Epistularum libri, A Traiano. Marchesi, Storia della letteratura latina, Questa opera fu poi utilizzata da Agenio Urbico come base per il suo De controversiis.  Marchesi, Storia della letteratura latina, Milano-Messina, Giuseppe Principato, Sheppard S. Frere, Britannia: A History of Roman Britain, London, Routledge, Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome, Paris, Éditions Bréal, Fantham, Julia Augusti. The Emperor's Daughter, London, Routledge, F. Treccani, Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galdi, F. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere.it, De Agostini. F. Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di  F. F. (altra versione) F. (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. Opere di F., su Progetto Gutenberg. Audiolibri di Fr., su LibriVox. F.: testi integrali del De aquis e degli Strategemata in latino ed inglese in Lacus Curtius Opere minori:  F. de coloniis libellus, ex commentario Claudi Caesaris subsequitur, in Rei agrariae auctores legesque variae, Amstelredami, apud Joannen Janssonium à Waesberge, F. de qualitatibus agrorum, in Gromatici veteres ex recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis Georgii Reimeri, F. de controversiis agrorum, in Gromatici veteres ex recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis Georgii Reimeri, PredecessoreFasti consulares Successore Imperatore Cesare Vespasiano Augusto IV e Tito Cesare Vespasiano II con Imperatore Cesare Vespasiano Augusto V e Tito Cesare Vespasiano IIII Gneo Domizio Afro Tizio Marcello Curvio Tullo II e NN con Lucio Giulio Urso II e NNII Aulo Cornelio Palma Frontoniano I e Quinto Sosio Senecione I con Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto III Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto IV e Quinto Articuleio PIII Predecessore Governatori romani della Britannia Successore Quinto Petillio Ceriale Gneo Giulio Agricola. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Ingegneria   Portale Letteratura  CILCategorie: Politici romani del I secolo Funzionari romani Scrittori romani Scrittori del I secolo Governatori romani dell'Asia Governatori romani della Britannia Consoli imperiali roman iIngegneri romani Iulii Governatori romani della Germania inferiore Auguri. Keywords: implicatura. Nome compiuto: Sesto Giulio Frontino. Frontino. Refs.: Speranza, “Grice e Frontino.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontone: la ragione conversazionale e il portico romano – il filosofo dell’epigramma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract: Grice: “For that matter, I was mentioned by Gustav Bergmann: he called me a futilitarian, but, in his typical manner, not in my face!”  Keywords: Marziale. Filosofo italiano. Porch. Mentioned by Marziale in one of his epigrams. Refs.: Luigi Speranza, “Grice  Frontone.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontone: il portico romano: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. “I disregard statues, for which they call me an iconoclast – I especially dislike the martyrs’ memorial, which I see every day!” Keywords: iconoclasm. Filosofo italiano. Porch. Famous enough to have a statue erected in his honour. Nome compiuto: Domizio Frontone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontone.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontone: la ragione conversazionale del tutore e il suo allievo -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “I’ve always admired the Oxonian tutorial system: my tutor was Hardie, except for ONE term – especially noted by his report to Hardie about my ‘obstinacy to the point of perversity’. Hardie liked that! My pupils were many and varied: Flew was perhaps the best – Strawson came second – also got a second in his PPE – but we shared the blame with the OTHER philosophy tutor at St. John’s: good old Mabb!” Keywords: the tutorial system. Vide Antonino. Of a size to fit a gentleman’s pocket. Console imperiale romano. Muore a Roma Gens Cornelia Consolato. Filosofo italiano. Scrittore e oratore romano, precettore d’ANTONINO (si veda) e Lucio Vero. Mai ritrova in un palinsesto nel monastero di Bobbio la corrispondenza tra i due principi e il precettore.  Di lui restano pochi frammenti e lettere, e nessun ritratto, tuttavia all'epoca era considerato un grande esperto di retorica latina, in grado di rivaleggiare con la seconda sofistica, nonché il più importante avvocato romano del periodo antonino. Per i contemporanei F. era addirittura quasi un "secondo Cicerone", una fama che tuttavia è andata perduta nei secoli. Anche se probabilmente era discendente di immigrati italici, che avevano sempre formato una minoranza rilevante della popolazione della capitale numidica, ama definire se stesso un libico, dei nomadi libici. Venne a Roma durante il principato d’ADRIANO (si veda), e subito guadagna fama di avvocato ed oratore, inferiore solo a CICERONE (si veda). Guadagna una grande fortuna, costruì magnifici edifici e compra i famosi giardini di MECENATE (si veda). Antonino Pio, avendo avuto notizia della sua fama, lo scelge come tutore dei figli adottivi ANTONINO (si veda) e VERO (si veda). Tale è la sua fama di insegnante-retore che quando muore ANTONINO (si veda) fa erigere una statua in sua memoria. E consul suffectus sotto Antonino Pio, ma rifiuta l'incarico di proconsole in Asia, adducendo come motivazione il cattivo stato di salute. È colpito dalla perdita di tutti i suoi figli tranne una figlia. Il suo talento come oratore e retore è notevolmente ammirato dai suoi contemporanei. Alcuni di questi in seguito sono considerati membri di una scuola, denominata da lui “dei Frontoniani” – cfr. “the Griceians”. Il suo obiettivo nell'insegnamento è inculcare l'uso esatto del latino al posto degl’artifici di autori come Seneca e consiglia l'uso di "parole poco usate ed inattese", da trovare con la lettura diligente degli autori pre-ciceroniani. F. critica Cicerone per la disattenzione a questo perfezionamento, pur ammirando senza riserva le sue lettere. Le uniche opere attribuite erroneamente a F. sono due trattati grammaticali, “De nominum verborumque differentiised “Exempla elocutionum” -- quest'ultimo lavoro è opera di Arusiano Messio (si veda). Mai scopre nella Biblioteca Ambrosiana, a Milano, un palinsesto manoscritto, su cui originariamente sono state scritte le lettere di F. ai suoi allievi imperiali e le loro risposte. Mai scopre anche altri fogli degli stessi manoscritti al Vaticano. Questi palinsesti sono appartenuti alla famosa Abbazia di San Colombano a Bobbio, ed sono stati usati per scriverci gl’atti del primo Concilio di Calcedonia. Appena disponibile il palinsesto Ambrosiano, sono pubblicate a Roma, assieme agl’altri frammenti del palinsesto. I testi vaticani sono pubblicati assieme al “Gratiarum actio pro Carthaginiensibus,” proveniente da un altro manoscritto Vaticano. Bischoff identifica un terzo manoscritto, di un solo foglio, che contiene frammenti di corrispondenza tra F. con VERO (si veda), in parte corrispondenti al palinsesto di Milano. Tuttavia il manoscritto empubblicato da Dom Tassin, che suppone che potesse essere un lavoro di Frontone.   Ritratto d’ANTONINO (si veda), Musei Capitolini La scoperta di questi frammenti deluse gli eruditi romantici perché non corrispondevano alla grande fama dell'autore. Oggi, sono osservati con maggior benevolenza. Le lettere, raccolte ora in un Epistolario, rappresentano la corrispondenza con Antonino Pio, ANTONINO (si veda), e Lucio VERO (si veda), in cui il carattere degl’allievi di F. appare in una luce molto favorevole -- particolarmente grazie all'affetto che entrambi sembrano mantenere per il loro maestro --- unitamente a missive agli amici, principalmente lettere di raccomandazione. La collezione contiene inoltre trattati sull'eloquenza, alcuni frammenti storici e inezie letterarie come l'elogio del fumo e della polvere, della negligenza e una dissertazione su Arione.  L'editio princeps è quella di Mai, mentre l'edizione standard è quella della Teubner, a cura di M. van den Hout (Leipzig). Castelli pubblica i testi greci contenuti nell'Epistolario, con commento, fondandosi, a differenza dell'edizione di Hout, su una collazione diretta del manoscritto. La Loeb Classical Library ha stampato un'edizione in due volumi delle lettere di Frontone. Il testo è ora obsoleto[senza fonte]. Van den Hout pubblicato un completo commento (Leiden). In Italia la Utet ha pubblicato il testo a cura di Portalupi. Nei frammenti scoperti in "palinsesto" da Mai nritroviamo parte dell'Epistolario di F. Da queste porzioni di testo conservate si reca la teorizzazione della Elocutio novella, ossia il nuovo modo che Frontone proponeva per approcciarsi all'arte retorica. L'autore sembra molto attento all'uso del latino, una lingua che egli auspica di rinnovare tramite l'uso della terminologia arcaica poiché essa soltanto conteneva il significato "genuino" delle espressioni. Per scegliere le parole adatte al contesto è comunque richiesta competentia, cioè uno studio approfondito del discorso, poiché la retorica è un'arte che non permette errori, come afferma lo stesso retore. L'inesperienza può essere ben visibile quando la sistemazione dell'orazione non è consona. Nelle Epistole è anche rintracciabile una sorta di elenco di grandi autori, degli exempla da seguire. Tra questi si possono individuare CATONE (si veda), SALLUSTIO (si veda) e CICERONE (si veda). Curiose le osservazioni su quest'ultimo, Frontone pur ammettendo la fluenza dello stile ciceroniano, lo definisce come un autore che "sorprende poco" nella sua ricerca lessicale, basandosi unicamente sul suo innato talento di oratore. La retorica dove sorprendere l’ascoltatore attraverso l'"inatteso", l'interlocutore rimanendo allibito da tanta maestria ammetteva, se pur non apertamente, il suo "surclassamento". La nuova arte oratoria dunque era rivolta ad un pubblico dotto capace di intendere i riferimenti letterari e arcaici del retore che la pratica. Essendo insegnante di retorica di Antonino, nell'epistola intitolata Ad Marcum Caesarem troviamo l'importanza dell'elocutio per il principe. Innanziututto, esordisce Frontone, è di basilare importanza il rapporto con il destinatario. La voce del principe e"tromba", non "flauto". Con questa sottile metafore, Frontone ci fa comprendere che il principe deve dare gl’ordini alla sua gente, come la tromba fa per l'esercito, sottolineando il valore allocutorio del discorso imperiale. Il flauto, per contrappunto, è uno strumento troppo flebile e delicato. Il discorso di un principe non può essere vellutato. Si rischierebbe di perdere, agli occhi del popolo e del Senato (che devono essere trattati allo stesso modo), l'autorevolezza e l'attenzione che sono dovute ad un uomo così importante. Perelli, Storia della letteratura Latina. A. Birley, Marcus Aurelius. Molti critici hanno avuto dubbi su questa ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche. Niebuhr, lo descrisse come "frivolo", Naber lo trovò "disprezzabile", cfr. Champlin. Altri lo hanno definito come "pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone o l'introspezione di un Plinio, cfr. Mellor, commentando Champlin. Una ricerca prosopografica ha riabilitato la sua reputazione, anche se non in maniera considerevole, cfr., ad esempio, sempre Mellor su Champlin. Birley, The African Emperor. Questa esposizione sulla riscoperta di F. è basata su Reynolds, Texts and Transmission: A Survey of the Latin Classics, Clarendon. F., Epistolario, testo latino. Carla Castelli, Il Greco di F.: testo critico e traduzione, studio linguistico, stilistico e retorico, storia editoriale, The correspondence of F.. Edited and translated by Haines. Fonti antiche PIR2 Internet Archive. F., Epistolario, QUI il testo latino. M. Cornelii Frontonis opera inedita cum epistulis item ineditis Antonini Pii, M. Aurelii, L. Veri et Appiani nec non aliorum veterum fragmentis invenit et commentario praevio notisque illustravit Angelus Maius, Mediolani, Regiis typis [ristampa in Francoforte: The correspondence of F. With ANTONINO (si veda), VERO (si veda), Anoninus Pius, and various friends edited by Haines, F. S. A., London, Heinemann. F., Opere, a cur. Portalupi, trad. italiana a fronte, Collana Classici latini, Torino, UTET,  Carla Castelli, Il greco di F.. Testo critico e traduzione. Studio linguistico, stilistico e retorico. Storia editoriale, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Storiografia moderna Quignard, in Rhétorique Spéculative Considera F. come l'origine di una corrente anti-filosofica, litteraria. F. su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Funaioli, F. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere. De Agostini. F., su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Marco Cornelio Frontone, su Musisque Deoque. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet Archive. F.: Epistulae VDM Marco Aurelio Portale Antica Roma   Portale Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Retori romani Scrittori Romani Nati Morti a Roma Cornelii Scrittori africani di lingua latina F. A statesman and the philosophy tutor of Antonino. He seems to have had no particular philosophical allegiance, and indeed entertained, like Grice, who tutored Strawson, something of a distrust of philosophy in general. He makes a speech attacking Christians that was borrowed by MINUCIO (si veda) Felice (si veda) for a work of his own. Nome compiuto: Marco Cornelio Frontone. Frontone. Keywords: “My pupil was Strawson; Frontone’s pupil was a Roman emperor!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontone”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frosini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gattopardo – scuola di Catania – scuola di Girgenti – filosofia siciliana filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Abstract. Grice: “When I approached the aporia of ‘dike’ in Republic, I was playing a philosophisma; when Frossini philosophised on the change of an ethical and legal order, he ain’t!” Keywords: fascismo. Filosofo catanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I like Frosini; only in Italy a professor of jurisprudence – the Italian H. L. A. Hart – would care to provide a theatrical ‘reduction’ of a Sicilian ‘romanzo’! Genial – He has also written on Risorgimento families!” Il progresso tecnologico è la nuova democrazia di massa  (F. in'intervista alla trasmissione RAI Mediamente ). Considerato il padre dell'informatica in Italia, si devono a lui le prime riflessioni generali sulle implicazioni esistenti tra diritto, tecnologie e attività giudiziarie.  Laureatosi a PISA in FILOSOFIA, studia a Catania. La lettera e lo spirito della legge non è il suo ultimo libro. Nel 1997 pubblica La democrazia nel XXI secolo, un vigoroso pamphlet nel quale viene valorizzata la libertà dell'individuo nella nuova democrazia di massa, caratterizzata dal circuito sempre più vasto e più rapido delle informazioni e della globalizzazione degli interessi politici ed econo-  sentato poi a Roma nell'ottobre del 2000. Fu quasi un simbolico ritorno alla sua terra di Sicilia. Questo lavoro "stravagante", altri ce ne sono, dimostra e conferma che mio padre fu un eclettico. Era una critica che gli veniva mossa; e invero non ne capisco il perché se intesa in senso negativo, perché al contrario eclettico vuol dire avere molteplicità di interessi. Ciò che conta è che tali interessi vengano coltivati, studiati e acquisiti bene: in tal maniera la ecletticità è un fattore positivo come è naturale che sia in tutte le integrazioni e addizioni di saperi. Verrebbe anzi da dire che il suo cd. eclettismo è paragonabile a quello in archi-tettura, che definisce lo stile nato dalla mescolanza dei migliori stilemi ripresi da diversi movimenti architettonici, storici e anche esoticis. Il suo eclettismo siè manifestato nella capacità di sapere spaziare in molti campi del sapere, attraverso una notevole messe di pubblicazioni non solo giuridiche ma storiche, filosofiche, sociologiche e anche lettera-rie, oltre a una intensa attività come opinionista di diversi quotidiani 39.  Come è stato scritto: «Dagli amici e dagli allievi Vittorio Frosini sarà sempre ricordato come Maestro di filosofia e di diritto e, ancor di più, come l'umanista che, immergendosi nel flusso della vita, seppe com-prendere e amare ogni manifestazione di intelligenza e di sensibilità»  G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, riduzione teatrale di Vittorio Frosini, Roma, Bulzoni, 2000; l'amore per la Sicilia, sempre vivo e mai interrotto, lo manifestò anche con un libretto: V. FroSiNI, Ideario siciliano, Palermo, Sellerio, 1988. Valorizzano l'eclettismo di mio padre, ritenendolo senz'altro un merito che lo aiu-tò, tra l'altro, a essere precursore in diversi campi, E. PATTARO, La filosofia del diritto di fronte all'informatica giuridica, in A. JELLAMO, F. RICCOBONO (a cura di), In ricordo di Vittorio Frosini, cit., 25 ss., e A. Punzi, La tolleranza dell'eclettico. Vittorio Frosini sui lumi e le ombre (del pensiero risorgimentale come di quello cristiano), in Riv. int. fil dir., n. 1-2/2019, 121 ss. Per una conferma, v. la raccolta: R. RUSSANO (a cura di), Vittorio Frosini Bibliografia degli scritti, Milano, Giuffrè, 1994. Fu collaboratore de La Sicilia, poi del Corriere della sera (sotto la direzione di Giovanni Spadolini), del Il Giornale nuovo (sotto la direzione di Indro Montanelli) e del Il Tempo (sotto la direzione di Gianni Letta). F. RIcCOBONo, Vittorio Frosini, in Riv. int. fil. dir., n. 4/2001, 534. Dopo la laurea pisana e quella catanese, continua il peregrinag-gio per la formazione accademica: nel 1950, va a specializzarsi, come Ph.D., in Political Science e Jurisprudence all'Università di Oxford, a seguito della vittoria di una borsa di studio del British Council, ottenuta insieme ai giovani "virgulti" Serio Galeotti e Pietro Rescigno.  Da allora, con entrambi, si salderà una forte e sincera amicizia di tutta una vita. Ospite del Magdalen College di Oxford, lavora a una tesi sull'obbligazione politica, sotto la guida di John Mabbot, e frequenta Herber Hart, allora Lecturer in Philosophy 1 Si lega anche a Salvador de Madariaga, l'esule politico spagnolo e docente di letteratura spagnola a Oxford e ad Alessandro Passerin d'Entréves, il filosofo della politica torinese in quel periodo professore di Italian Studies". Gli anni oxo-niensi gli rimarranno sempre nel cuore e spesso amava rievocarli con storie e aneddoti. Non mancava mai alla cena annuale degli ex allievi del College (indossando rigorosamente la cravatta del College) e divenne socio dello esclusivo Oxford and Cambridge Club, nella cui foresteria, con sede a Pall Mall, alloggiava ogni qualvolta andava a Londra.  Nel 1952 torna in Italia e inizia la collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio Un mondo al quale rimarrà sempre legato nei ricordi e nella condivisione degli ideali liberaldemocratici13. Alle «care ombre» di Mario Pannunzio, Carlo Antoni, Vitaliano Brancati, Nicolò Carandini, Nicola Chiaromonte, Vittorio de Caprariis, dedicherà, «in segno di grata memoria», un suo libro 14.10 Il lavoro di tesi, anticipato in vari articoli, verrà pubblicato, ulteriormente svilup-pato, diversi anni dopo come libro: V. FRoSINI, La ragione dello Stato. Studi sul pensiero politi-  primo lito pubbicato in fala: 1LA. Mart, Contributi al analist de Airto, a Cara dai Fro-  sini, Milano, Giuffrè, 1964.  V. FROSINI, Potrait of Salvador de Madariaga, in BRUGMANS ET NADAL (a cura di), Liber Amicorum Salvador de Madariaga, Bruges, De Tempel, 1966, 97 ss.; V. FROSINI,  Alessandro Passerin d'Entréves, in Riv. int. fil dir., n. 2/1986 (ora in IdEM, La coscienza giuridica. Una cospicua serie di articoli apparsi su quel giornale, vennero raccolti in IDEM, "Il Mondo" e l'eredità del Risorgimento, pres. di E. Sciacca, Acireale, ed. Bonanno, 198%.  1 Sul punto, E. ScIAccA, Vittorio Frosini scrittore politico, in Aa. Vv., Liber Amicorum in onore di Vittorio Frosini, vol. I, cit., 1 ss. e A. JeLLamo, Vittorio Frosini e la tradizione liberale, in  Ri int. do n io 019,  Valga altresi quale testimonianzo i daglione" Mar  nelli, Rubbettino, F., Costituzione e società civile, Milano, Comunità, 1975 (II ed., 1977).Studia la regolamentazione dell'informatica. Ha presieduto l'associazione utaliana di Diritto dell'Informatica e di Giuritecnica e l'Istituto di Teoria dell'interpretazione e di informatica giuridica presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Roma "La Sapienza". Teorico di un umanesimo tecnologico attento ai diritti civili, ha avviato una ricostruzione sistematica dei problemi dell'informatica consapevole delle diverse implicazioni economiche e sociali della regolamentazione giuridica. Nel confronto costante tra diritto e tecnologie, il progresso produce una evoluzione sociale continua che si riflette nel campo giuridico ed economico come nei miglioramenti qualitativi dei diversi rapporti con le istituzioni, favorendo un continuo e immediato confronto fra amministratori e amministrati entro un rapporto diretto a carattere orizzontale, mentre prima era a carattere verticale e così il cittadino diventa veramente attore della vita civile e non più suddito. Di qui il profilarsi di una nuova democrazia di massa in cui si realizza con apparente paradosso una nuova forma di libertà individuale, un accrescimento della socialità umana che si è allargata sull'ampio orizzonte del nuovo circuito delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell'energia intellettuale ed operativa del singolo vivente nella comunità». L'opera centrale di F., Professore ed emerito di filosofia del diritto e di informatica giuridica è indubbiamente La struttura del diritto. Il saggio ha immediati riconoscimenti e una notevole fortuna in Italia dove ha sei riedizioni pressoché inalterate. Quale suo autore riceve un premio dai lincei dalle mani del Presidente della Repubblica Italiana, Segni.  F. è peraltro autore di saggi fondamentali sul rapporto tra tecnologia e diritto quali:  “Cibernetica: diritto e società”; “Informatica, diritto e società” (Milano); “Giuffrè (si veda) Il giurista e le tecnologie dell'informazione” (Roma, Bulzoni); “La democrazia)” (Roma, Ideazione;, Macerata, Liberilibri); “La lettera e lo spirito della legge” (Milano): Giuffrè Teoria e tecnica dei diritti umani” (Napoli, Edizioni scientifiche Italiane; “Fondamentali sono anche i suoi scritti sulla rivista Informatica e Diritto: “L'automazione elettronica nella giurisprudenza e nell'Amministrazione Pubblica”; “La giuritecnica: problemi e proposte”; “Giustizia e informatica”; “La protezione della riservatezza nella società informatica”; “L'esperienza OCSE nel potenziamento degli scambi tecnologici connessi alla gestione delle informazioni”; “L'informatica nella società contemporanea; “Riflessioni sui contratti d'informatica”; “Il giurista nella società dell'informazione Riconoscimenti A F. sono dedicati:  il premio nazionale di informatica giuridica "Vittorio Frosini" della rivista Il diritto dell'informazione e dell'informatica; la collezione di strumenti di calcolo e di elaborazione automatica dei dati, utilizzati presso l'Istituto di Teoria dell'Interpretazione e di Informatica Giuridica dell'Università "La Sapienza" di Roma. MediaMente: "Il progresso tecnologico e la nuova democrazia di massa, su mediamente. rai. Net freedoms: i diritti di libertà in rete Dibattito sul diritto dell'informazione e dell'informatica | RadioRadicale  Cfr. F. in una lucida testimonianza su Università, Normale e COLLEGIO MUSSOLINI, Cubeddu e Cavera.  Cassese, F. e lo spirito della legge, Il Sole; F., La democrazia, Macerata, Liberi libri,.  Fondazione Calamandrei, Russano, degli scritti, Milano, A. Giuffrè, F., su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. La morfogenesi dell’ordinamento giuridico in F., L’IRCOCERVO, metodologia giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato" Genesi filosofica e struttura giuridica della Società dell'informazione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, su edizioniesi. Il Gattopardo TEATRO STABILE, ROMA Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa - è ora anche uno spettacolo teatrale. L'inedita trasposizione scenica si deve al regista Gianni Giaconia, dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene.   COMUNICATO STAMPA di Giuseppe Tomasi di Lampedusa   riduzione teatrale di Vittorio Frosini   regia di Gianni Giaconia   musiche di Giannini  scene di Luca Arcuri   Il Gattopardo - forse il film più popolare di Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa si deve al regista Giaconia, direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene, sua la scelta di approntare una singolare versione multimediale della celebre opera servendosi del testo messo a punto da V., uscito in volume presso Bulzoni editore, e di inserti cinematografici appositamente confezionati per l'occasione. Nei centoventiminuti di questa originale edizione del Gattopardo riletto da Giaconia gli inserimenti segneranno - non senza una certa attitudine sperimentale e trasgressiva - alcuni passaggi della storia del principe Salina, da Tomasi di Lampedusa mirabilmente ritratta nel doloroso passaggio, sulla scia dell'impresa garibaldina, dalla Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, amaro volgere di un mondo che si vede scosso e abbattuto da nuovi fremiti, dove però resta valida la massima "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi".   In scena, impegnati a sostenere le parti che nella memoria di ognuno di noi hanno ancora i volti e i modi di Burt Lancaster, Claudia Cardinale o Alain Delon (per limitarsi ai soli protagonisti principali), sono circa trenta attori, tra cui Giorgio Berini, Sergio Silvestro e EZimei, nei ruoli - rispettivamente - del principe, di suo nipote Tancredi e d’Angelica.   Siciliano di origine, Giaconìa si puo' considerare romano d'adozione. E' infatti che risiede nella capitale, dove - con il nome d'arte di Monti - ha iniziato la sua carriera d'attore proseguita tra palcoscenici e set per quasi tre decenni ininterrotti. In teatro, è stato diretto tra gli altri da Vasilicò, Fantoni, Sbragia, Vannucchi, Garrani e ha lavorato a fianco di Giorgi, Tedeschi, Randone. Tra le sue interpretazioni e partecipazioni cinematografiche e televisive, ricordiamo i film "Corre l'anno di grazia 1870" di Giannetti (con Mastroianni e Magnani) e "Ligabue" di Salvatore Nocita (con Bucci, 1978), oltre a varie pellicole con Maurizio Merli dirette da Marino Girolami (tra cui "Italia a mano armata" nel 1976), e soprattutto a "Fontamara" di Carlo Lizzani (con Michele Placido) dove Giaconia-Monti è Scarpone. Ha esperienza di doppiaggio e di regia televisiva (per fiction trasmesse da televisioni locali siciliane). Dirige il Teatro Stabile di Santa Francesca Romana, per il cui palcoscenico ha già siglato, tra le altre, le regie di "Processo a Gesù" di Fabbri, "Vita di Galileo" di Brecht, "La tempesta" di Shakespeare, realizzando spettacoli multimediali.   La trasposizione in linguaggio scenico di un testo narrativo - scrive Vittorio Frosini autore della riduzione teatrale de "Il Gattopardo" - obbliga ad esercitare sul testo originario un rifacimento, che è quasi una operazione di chirurgia estetica; anzi, si tratta di una metamorfosi da un linguaggio scritto in un linguaggio parlato e gestito, da una continuità discorsiva ad una serialità episodica. Nel procedere a questa manipolazione intellettuale ho dovuto affrontare il problema di una scelta tematica dei motivi presenti nell'opera romanzesca: ho dato perciò risalto ad alcuni di essi. Tale è il confronto fra la coscienza del principe e l'idea della morte, che viene anteposto agli altri momenti della vicenda; tale è il rapporto fra la condizione storica dei personaggi e l'irruzione dell'impresa garibaldina. Si tratta dunque di una libera sceneggiatura del romanzo, di una interpretazione di esso, e cioè di una lettura partecipe.   Vittorio Frosini è professore emerito dell'università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato filosofia del diritto, sociologia giuridica e teoria dell'interpretazione. E' stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e Visiting Professor nelle università di Tokyo e di Harvard, ed è accademico della Real Academia di Spagna. E' autore di molti studi di carattere giuridico, pubblicati anche in diverse lingue straniere, e di numerosi saggi di carattere storico e letterario, dedicati in parte alla Sicilia; Teatro Stabile S. Francesca Romana,  Piazza Nerazzini, Roma  Informazioni e prenotazioni:  Biglietti: intero  - ridotto Stagione del Teatro Stabile S. Francesca Romana:   Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini regia di Gianni Giaconia Goffredo Tofani (produzione da definire)   Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'uomo, la bestia e la virtù di Luigi Pirandello regia di G. Cirillo   Goffredo Tofani (produzione da definire) Compagnia I Bankarettisti Non ti pago di Eduardo De Filippo regia di Gennaro Sommella   Compagnia I Buattari 'O scarfalietto di E. Scarpetta regia di Paolo Savini   Compagnia Corricorri Vin santo di Roberto Giacomozzi regia di Roberto Giacomozzi   Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde regia di Gaetano Cicoira   Compagnia Associazione Agitati Prima dell'Uso (una commedia da definire di E. Scarpetta) regia di Gaetano Cicoira  STAMPA PERMANENT LINK TEATRO STABILE IN ARCHIVIO  WORDSTAR(S) Il Gattopardo romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il film diretto da Luchino Visconti, vedi Il Gattopardo (film). «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi»  (Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio Corbera, Principe di Salina) Il Gattopardo Incipit Gattopardo.jpg L'incipit manoscritto del Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa 1ª ed. Originale 1958 Genere romanzo Sottogenere storico Lingua originale italiano Ambientazione Sicilia, Risorgimento italiano Protagonisti Fabrizio Corbera Il Gattopardo è un romanzo di Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione dei Mille di Garibaldi. Dopo i rifiuti delle principali case editrici italiane (Mondadori, Einaudi, Longanesi), l'opera fu pubblicata postuma da Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore, vincendo il Premio Strega, e diventando uno dei best-seller del secondo dopoguerra; è considerato uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.  Il romanzo fu adattato nell'omonimo film, diretto da Visconti e interpretato da Lancaster, Cardinale e Delon.  Tema e storia editoriale  L'autore contempla da lungo tempo l'idea di scrivere un romanzo storico basato sulle vicende della sua famiglia, gli aristocratici Tomasi di Lampedusa, in particolare sul bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi, nell'opera il principe Fabrizio CORBERA Salina, vissuto durante il Risorgimento, noto per aver realizzato un osservatorio astronomico per le sue ricerche. Dopo che il Palazzo Lampedusa è gravemente lesionato dai bombardamenti dalle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale e saccheggiato, l'autore scivola in una lunga depressione.  Stemma di famiglia dei Tomasi. È scritto fino l'anno della morte dell'autore, un erudito appassionato di letteratura, ma del tutto sconosciuto ai circuiti letterari italiani. Il manoscritto venne inviato alle case editrici con una lettera di accompagnamento scritta di pugno dal cugino di Tomasi, Piccolo. La spedizione della prima copia (una versione ancora parziale) avvienne da Villa Piccolo, indirizzata al conte Federico Federici della Mondadori. Piccolo stesso cerca di avere notizie circa l'esito della lettura del manoscritto da parte di Mondadori, inviando una lettera a Reale, per sincerarsi se la lettura avesse sortito l'esito sperato. Tuttavia, gl’editori Mondadori ed Einaudi rifiutarono. Infatti, il testo, pur privo di alcuni capitoli, è dato in lettura prima al conte Federici per Mondadori, poi a Vittorini, allora consulente letterario per Mondadori e curatore della collana I gettoni per l'Einaudi, il quale lo boccia per entrambe le case editrici rimandandolo all'autore, e accompagnando il rifiuto con una lettera di motivazione. L'opinione negativa di Vittorini, un clamoroso errore di valutazione, è da lui ribadita anche successivamente, quando il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale.  L'avventurosa pubblicazione avviene solo dopo la morte dell'autore. L'ingegner GARGIA, paziente della baronessa Alexandra Wolff Stomersee, la moglie psicoanalista di Tomasi, si offre di consegnare una copia a una sua conoscente, Elena Croce. La figlia di CROCE (si veda) lo segnala a Bassani, da poco divenuto direttore della collana di narrativa I Contemporanei pella Feltrinelli, e che sollecita gli amici letterati a segnalargli interessanti inediti. Bassani riceve dalla Croce il manoscritto incompleto, ne comprese immediatamente l'enorme valore, e vuola a Palermo per recuperare e ricomporre il testo nella sua interezza. Decide subito di pubblicare il romanzo, che usce curato da Bassani. Quando riceve il premio Strega, la tiratura aveva raggiunto in solo otto mesi le 250 000 copie, divenendo il primo best seller italiano con oltre centomila copie vendute. La forza e l'importanza che ha il romanzo è testimoniato anche dalla battuta che Filippo nella commedia Sabato, Domenica e Lunedì fa dire a Memè, la zia colta di casa Priore, la quale ammonendo i parenti troppo affaccendati nelle questioni quotidiane esce di scena ammonendoli al grido di "Compratevi il Gattopardo!".  Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di famiglia dei principi di Lampedusa, rappresentato dal FELIS LEPTAILVRVS serval, una belva felina diffusa nelle coste settentrionali dell'Africa, proprio di fronte a Lampedusa. Nelle parole dell'autore l'animale ha un'accezione positiva. Noi fummo i gattopardi, i leoni. Quelli che ci sostituiranno sono gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra. Tuttavia, proprio sull'onda del successo planetario del romanzo, sarebbe invalso invece un significato negativo, facendo dell'aggettivo "gattopardesco" l'emblema del trasformismo delle classi dirigenti italiane. A ben vedere, è anche vero che è Tomasi stesso con le sue fiere parole a legare la parola a un SIGNIFICATO AMBIGUO, quando prevede un destino di rassegnazione e di solo illusorio orgoglio per l'Italia.  Dal romanzo venne tratta un'opera musicale di Musco, con libretto di Squarzina.  Trama Il racconto inizia con la recita del rosario in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango, guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi. L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna), cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui.  Il principe trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli aristocratici Salina, mercé la figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non tarderà a soccombere; non essendo una nobile, Angelica non avrà immediatamente il consenso di don Fabrizio, ma grazie alla sua travolgente e incantevole bellezza riesce a convincere casa Salina e a sposare Tancredi. Inoltre Calogero Sedara, il padre di Angelica, fornisce alla figlia nel contratto matrimoniale tutto quello che possiede.  Arriva il momento di votare l'annessione della Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un parere sul voto, il principe risponde suo malgrado in maniera affermativa; alla fine, il plebiscito per il sì sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari, in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Caserta, dove si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel 1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti di don Fabrizio.  Il significato dell'operaModifica L'autore compie all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale. Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco ("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi")[7]. Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così, il presunto miglioramento apportato dal nuovo Regno d'Italia appare al principe di Salina come un ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del siciliano stesso.   Il dialogo con Chevalley manoscritto Egli infatti vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità vera di modificare sé stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia, annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di "fare". il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). GARIBALDI (si veda) è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il vostro GARIBALDI (si veda) ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (... questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; [...] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo.  Classificazione come romanzo storico La vicenda descritta nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo storico. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente una tradizione narrativa siciliana: la novella Libertà di Verga, I Viceré di Roberto, I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda) ispirata al fallimento risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove sono vive speranze di un profondo rinnovamento. Ma mentre Roberto, che fra i tre citati è, per questa tematica, il più significativo, indaga le motivazioni del fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, Tomasi di Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il MACHIAVELLISMO della classe dirigente, che alla fine si mette al servizio dei GARIBALDINI e dei piemontesi, convinta che sia il modo migliore perché tutto resti com'è. Questa rappresentazione per la prospettiva da cui è descritta è parziale. Restano fuori dal romanzo molti eventi significativi. Solo per fare un esempio, la rivolta dei contadini di Bronte, che provoca 16 morti prima di essere stroncata nel sangue da BIXIO (si veda) che fa condannare a morte 5 dei responsabili -- oggetto invece della novella di Verga.  Da questo punto di vista quindi le mancanze de Il Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti. Osserva Alicata. Una cosa è cercare di comprendere come e perché si afferma nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi -- coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di Sicilia ma sotto il sole tout court. Pertanto è dubbio se il valore de Il Gattopardovada ricercato al di fuori della prospettiva del romanzo storico. La faccenda appare più complicata di come puo apparire ai primi lettori dell'opera, se il principe stesso nega di aver voluto scrivere un romanzo storico (semmai un testo intessuto di memoria e di memorie), nella seconda edizione de Il romanzo storico, invece Lukács riconduce Il Gattopardo al canone proprio del genere.  Di recente Spinazzola, in un importante saggio, Il romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di Roberto, I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda), e il romanzo di Tomasi di Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla storia. Non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di MANZONI (si veda) e NIEVO (si veda)), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e che la macchina del mondo non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il romanzo anti-storico è il deposito di questa concezione non trionfalistica della storia, nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. Malgrado la posizione nuova di Spinazzola, che rilegge in modo intelligente la questione, il problema resta aperto, e la critica non ha ancora trovato una soluzione condivisa su questo tema.  È un romanzo uscito dalla tradizione narrativa, della quale si avverte almeno la presenza di Stendhal. Ma nel senso della solitudine e della morte che pervade il protagonista si rivela anche l'influenza determinante dell'esperienza decadente. Un altro elemento di differenza con altri romanzi storici è il suo essere una trasposizione in un racconto di fantasia di vicende familiari che in parte sono realmente avvenute e sono state tramandate attraverso la bocca dei parenti di Tomasi di Lampedusa. A differenza di romanzi storici come ad esempio I promessi sposi, nel quale nessun dettaglio storico era specificato che non fosse già presente nelle fonti scritte consultate da MANZONI (si veda), Il Gattopardo rappresenta esso stesso una testimonianza storica (seppur offuscata dal tempo e dalla tradizione orale) di come una parte della nobiltà vive quel determinato periodo di transizione.  Sterilità e morte Il modulo narrativo si discosta molto dai canoni del romanzo storico. Il romanzo è suddiviso in blocchi, con una sequenza di episodi che, pur facendo capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria autonomia. Inoltre, il fallimento risorgimentale descritto non è un esempio di uno scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma sembra quello di una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o GARIBALDI (si veda), possono solo illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto suo, in un'altra vallata. La negazione della storia e la sterilità dell'agire umano sono alcuni dei motivi più ricorrenti e significativi del Gattopardo. In questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica commedia e Marx un ebreuccio tedesco, di cui al protagonista sfugge il nome, e la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di storia, resta una categoria astratta, un'immutabile ed eterna metafisica sicilianità. Nella descrizione del fallimento risorgimentale, secondo alcuni, si può intravedere un'altra riconferma della legge e degli uomini: il fallimento esistenziale che, negli anni in cui scrive, Tomasi di Lampedusa puo constatare. Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della decadenza e della morte (che richiamano Proust e Mann) esemplificato nella morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi – dei leopardi -- che sarà sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei scialle ed iene, dei Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il capitolo della morte di don Fabrizio (secondo alcuni critici il punto più alto del romanzo), la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle loro cose. Si può dire che fra la tradizione del romanzo storico, siciliana ed europea, di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il decadentismo con le sue stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte. L’opera di Tomasi di Lampedusa inoltre cade in un momento di ripiegamento dei recenti ideali della società italiana e di quella letteratura che si è sforzata di dare voce artistica a quegli ideali.  Il manoscritto Le fotocopie dei manoscritti originali si trovano presso il Museo del Gattopardo a Santa Margherita di Belice (AG), mentre gli originali sono custoditi dall'erede Gioacchino Lanza Tomasi presso il Palazzo Lanza Tomasi a Palermo, ultima dimora dello scrittore. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. Samonà Gioacchino Lanza Tomasi, «Le avventure del Gattopardo», ilsole24ore.com Gilmour, L'ultimo gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano; Bragaglia Cristina, Il Piacere del Racconto, La Nuova Italia, 1993. ^ Tullio De Mauro, «Gattopardo non gattopardesco», 2ilsole24ore GATTOPARDISMO in Vocabolario – Treccani   Giudice, Bruni, Problemi e scrittori della letteratura italiana, d. Paravia, Torino. Edizioni  Il Gattopardo, Prefazione e cura di Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura, Milano, Feltrinelli Editore, Il Gattopardo, Collana Universale Economica n.416, Milano, Feltrinelli. Il Gattopardo, antologia a cura di Riccardo Marchese, Collana Primo scaffale n.16, Firenze, La Nuova Italia. Il Gattopardo e i Racconti, Edizione conforme al manoscritto del 1957, Collana Gli Astri, Milano, Feltrinelli, dicembre 1969. Il Gattopardo, Nota introduttiva di Maria Bellonci, Milano, Club degli Editori, Il Gattopardo, Collana I Narratori, Milano, Feltrinelli, novembre 1974. Il Gattopardo, a cura di Barbieri, Collana Narrativa scuola, Torino, Loescher Editore, 1979. Il Gattopardo, Nuova edizione riveduta con testi d'Autore in Appendice, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Collana Le Comete, Milano, Feltrinelli, giCollana Universale Economica, Feltrinelli, CVI ed.; Collana Grandi Letture, Feltrinelli, Il Gattopardo, Prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Collezione Premio Strega, Torino, UTET - Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, Il Gattopardo letto da Toni Servillo, edizione integrale in audiolibro, Emons; Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Genova, Le Mani, Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979. G. Bottino, Saggio su "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Genova, 1973. M. Castiello, Il Gattopardo, Milano, 2004. Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura, in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori, 1999. Margareta Dumitrescu, Sulla parte VI del Gattopardo. 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Voci correlateModifica La Sicilia del Gattopardo Il Gattopardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Edizioni e traduzioni di Il Gattopardo, su Open Library, Internet Archive. Il Gattopardo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Riduzione radiofonica de "Il Gattopardo" (dal programma Ad alta voce di Rai Radio 3) Audiolettura del dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley, su elapsus.it. Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Opera su Italialibri.net, su italialibri.net. Audiolibro letto da Pietro Biondi Portale Letteratura   Portale Risorgimento Ultima modifica 6 giorni fa di Marcel Bergeret PAGINE CORRELATE Il Gattopardo (film) film diretto da Visconti  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italianoIl Gattopardo (film) film diretto da Visconti Lingua Segui Modifica Il Gattopardo Fotogramma ballo Il Gattopardo.png Cardinale eLancaster nella celebre scena simbolo del ballo finale Paese di produzione Italia, Francia Durata187 min 205 min ca. (versione estesa) Rapporto2,21:1 (stampa 70 mm) 2,35:1 (stampa 35 mm) 2,25:1 (negativo) Generestorico, drammatico Regia Visconti Soggetto Giuseppe Tomasi di Lampedusa (romanzo) Sceneggiatura Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti ProduttoreGoffredo Lombardo Produttore esecutivoPietro Notarianni Casa di produzioneTitanus, S.N. Pathé Cinéma, S.G.C. Distribuzionein italianoTitanus Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Mario Serandrei MusicheNino Rota ScenografiaMario Garbuglia CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas Interpreti e personaggi Burt Lancaster: don Fabrizio Corbera, principe di Salina Delon: Tancredi Falconeri Claudia Cardinale: Angelica Sedara/Donna Bastiana Paolo Stoppa: don Calogero Sedara Rina Morelli: principessa Maria Stella di Salina Lucilla Morlacchi: Concetta Romolo Valli: padre Pirrone Terence Hill: conte Cavriaghi Pierre Clémenti: Francesco Paolo di Salina Serge Reggiani: don Ciccio Tumeo Maurizio Merli: Fulco, un amico di Tancredi Giuliano Gemma: generale di Garibaldi Ida Galli: Carolina Ottavia Piccolo: Caterina Carlo Valenzano: Paolo Brook Fuller: principe Ivo Garrani: colonnello Pallavicino Anna Maria Bottini: Mademoiselle Dombreuil, governante Lola Braccini: donna Margherita Marino Masè: tutore Howard Nelson Rubien: don Diego Tina Lattanzi: cuoca Ernesto Almirante: generale Marcella Rovena: contadina Rina De Liguoro: principessa di Presicce Valerio Ruggeri: colonnello Giovanni Melisenda: don Onofrio Rotolo Vittorio Duse: colonnello Vanni Materassi: sergente Olimpia Cavalli: Mariannina Winni Riva: cameriera Stelvio Rosi: sergente Leslie French: cavaliere Chevalley Gino Santercole: uomo di Donnafugata Lou Castel: generale Michela Roc: contadina Pino Caruso: giovane patriota Tuccio Musumeci: giovane patriota Doppiatori originali Corrado Gaipa: don Fabrizio Corbera Solvejg D'Assunta: Angelica Sedara/Donna Bastiana Carlo Sabatini: Tancredi di Falconeri Franco Fabrizi: conte Cavriaghi Lando Buzzanca: don Ciccio Tumeo Pino Colizzi: Francesco Paolo di Salina Gianni Bonagura: generale di Garibaldi Isa Bellini: Mademoiselle Dombreuil, governante Ferruccio De Ceresa: cavaliere Chevalley Il Gattopardo è un film diretto da Visconti.  Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la figura del protagonista del film, il Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua famiglia in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo agrigentino di Donnafugata, ossia Ciminna Palma di Montechiaro e Santa Margherita di Belice in provincia di Agrigento).  Il film ha vinto Palma d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. Trama Nel maggio 1860, dopo lo sbarco a Marsala di GARIBALDI (si veda) in Sicilia, Don Fabrizio CORBERA assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. La classe dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità. Infatti gl’amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa approfittano della nuova situazione politica.   Don Fabrizio di Salina in una scena del film. Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gl’eventi a proprio vantaggio e cita la famosa frase. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: E dopo sarà diverso, ma peggiore. Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo sindaco del paese Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito, che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in precedenza manifesta qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del principe, s'innamora di ANGELICA, figlia di Sedara, che infine sposa, sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio.  Episodio significativo è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a SENATORE del nuovo Regno d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase. In Sicilia non importa far male o bene. Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare. Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne avrà la conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a meditare sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della sua vita.  Produzione Modifica Difficoltà produttive Il produttore Lombardo, patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, quando Il Gattopardo sta riscuotendo un grande successo editoriale. La regia venne affidata inizialmente a Soldati e poi a Giannini, che però vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla realizzazione della pellicola e sostituiti con Visconti. Giannini scrive addirittura una bozza di sceneggiatura che approfonde le vicende risorgimentali, allontanandosi però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e mettendo in secondo piano la STORIA D’AMORE tra Tancredi e Angelica. Per queste ragioni, Lombardo, con la mediazione di Visconti, incarica Amico, Campanile, Medioli e Franciosa di scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di Giannini, che rimane molto offeso dal comportamento del produttore e per questo si ritira per sempre dal mondo del cinema.  Al cinema Barberini di Roma, il film usce in anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici intensi mesi, iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe luogo lunedì 14 maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo scenografo Mario Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza Tomasi, aveva effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a dissipare le preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso Lombardo raccontò in un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a Visconti di contenere i costi che crescevano sempre di più, ricevette questa risposta dal regista: "Lombardo, io questo film lo posso fare solo così. Se lei vuole, mi può sostituire".  L'investimento richiesto da questo colossal italiano si rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov), e forse dello stesso attore,[5] permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century Fox.  Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e da questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica.  Riprese Per quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli eventi sia oscurata e marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del protagonista-regista, un grande impegno fu posto nella ricostruzione degli scontri tra garibaldini ed esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti (piazza San Giovanni Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno, piazza della Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le saracinesche sostituite da persiane e tende, pali e fili della luce eliminati".Tutto questo per iniziativa di Visconti, poiché il produttore Lombardo si era raccomandato che non vi fossero scene di combattimento.   Villa Boscogrande Si rese inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24 giorni, della villa Boscogrande, nei pressi della città, che sostituì, per le scene iniziali del film, il palazzo dei Salina, le cui condizioni ne sconsigliavano l'utilizzo.  Anche per le scene girate nella residenza estiva dei Salina, Castello di Donnafugata, che nel romanzo sostituiva Palma di Montechiaro, si scelse un sito alternativo, Ciminna. "Visconti s'infatuò per la Chiesa Madre e il paesaggio circostante. L'edificio a tre navate presentava uno splendido pavimento in maiolica. L'abside decorata con stucchi rappresentanti apostoli e angeli di Scipione Li Volsi era inoltre provvista di scranni lignei del 1619 intagliati con motivi grotteschi, particolarmente adatti ad accogliere i principi nella scena del Te Deum. Il soffitto originale della chiesa, in parte danneggiato durante le riprese è stato poi rimosso e oggi non è più in sito.  Inoltre la situazione topografica della piazzetta di Ciminna sembrava ottimale, mancava solo il palazzo del principe. Ma in 45 giorni la facciata disegnata da Marvuglia fu innalzata davanti agli edifici a fianco della chiesa. L'intera pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando l'asfalto e rimpiazzandolo con ciottoli e lastre". Gran parte delle riprese ambientate all'interno della residenza furono girate a Palazzo Chigidi Ariccia. Infine, varie scene sono state girate internamente ad alcune sale del palazzo Manganelli a Catania.   Gli interni di Palazzo Valguarnera-Gangi Il balloModifica Ottimo era invece lo stato di manutenzione di palazzo Valguarnera-Gangi, a Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale, la cui coreografia venne affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema da affrontare era l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono generosamente all'opera gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con mobili, arazzi, suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e altre opere artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato finale valse uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia.  Un altro Nastro d'argento andò alla fotografia a colori di Rotunno (che lo aveva vinto anche l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in particolare, l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva ridurre al minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di candele, che costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano essere riaccese all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente sostituite; inoltre non di rado la cera fusa colava addosso alle persone presenti in scena. La preparazione del set, la necessità di vestire centinaia di comparse richiesero per queste scene turni estenuanti. La scena del ballo (oltre 44 minuti) a Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua durata e opulenza.  Distribuzione Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni. Accoglienza Il film registra un ottimo successo al botteghino in Italia, risultando campione d'incassi assoluto nella stagione con un ricavato di 2.323.000.000 di lire dell'epoca; detiene a oggi il nono posto nella classifica dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti. Tuttavia il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della Titanus.  Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva. Lo stesso Lancaster s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana, illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro. Il film è osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato Visconti) che non vede di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto espressione di un'ideologia reazionaria e politicamente conservatore. Per questo motivo il regista monta una versione alternativa per la critica cinematografica della sinistra di area comunista, che include alcune scene del tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina, poi tagliate nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non basta a risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che bollarono il film di anti-storicismo. Con il passare degli anni, il film è stato rivalutato in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito aggregatore Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali positive, con un consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il gattopardopresenta battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si candida per la più bella sequenza trasposta in cinema". Su Metacritic ha invece un punteggio di 100 basato su 12 recensioni. Scorsese lo ha inserito nella lista dei suoi dodici film preferiti di tutti i tempi. Il film è stato inoltre selezionato tra i 100 film italiani da salvare.  Riconoscimenti Festival di Cannes 1963 Palma d'oro a Visconti David di Donatello 1963 Miglior produttore a Goffredo Lombardo Premio Feltrinelli 1963 Premio per le arti - Regia cinematografica National Board of Review Awards Migliori film stranieri Golden Globe Candidato per il Miglior attore debuttante ad Alain Delon Premi Oscar Candidato per i Migliori costumi a Piero Tosi Nastri d'argento 1964 Migliore fotografia a coloria Giuseppe Rotunno Migliore scenografia a Mario Garbuglia Migliori costumi a Piero Tosi Candidato Regista del miglior film a Luchino Visconti Candidato Migliore sceneggiatura a Suso Cecchi D'Amico, Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed Enrico Medioli Candidato per la Migliore attrice non protagonistaa Rina Morelli Candidato per il Migliore attore non protagonistaa Romolo Valli CommentoModifica Il Gattopardo rappresenta nel percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale momento di svolta in cui l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista si attenua in un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese, in una ricerca del mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di ambientazione storica.   Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa Margherita di Belìce dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta, col suo giardino, nel romanzo. Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust. Sotto il profilo della critica, è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in termini puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi, sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come regia: l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la reiterazione, l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e comprimari, la funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e degli oggetti, la scenografia.  La rivoluzione mancata Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster. La pubblicazione del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra italiana un dibattito sul Risorgimento come rivoluzione senza rivoluzione, a partire dalla definizione utilizzata da GRAMSCI (si veda) nei suoi Quaderni del carcere. A chi accusa il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si oppone un gruppo d’intellettuali che ne apprezza la lucidità nell'analizzarne la natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed emergente classe borghese. Visconti, che affronta la questione risorgimentale in Senso e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non esita ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del romanzo.  Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo di CORBERA, Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza. Lo sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Lancaster, per il quale questa esperienza di doppio del regista varrà una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale. È qui che si può cogliere la cesura rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui nella sua opera nessuna forza positiva della storia...si profila come alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia. È determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti assegna, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata -- da solo occupa circa un terzo del film -- sia per la collocazione (ponendolo come evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre, sino a comprendere la morte del principe e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo. In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di LEONI E GATTOPARDI, sostituiti da SCIACALLI EDIENE. I sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi, meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani). Così lo scaltro don Calogero Sedara (Stoppa), rappresentante di una nuova borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse.  Ma è soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte, a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori, che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo mondo. Awards, su festival-cannes.fr. Il Gattopardo di Giannini che non vide mai la luce, in la Repubblica, Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su osservatoreromano. Boschi, La valigia dei sogni, LA7, Caterina D'Amico, La bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero, Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Aldrich e Il Gattopardo di Visconti". Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Caterina D'Amico, op.cit. ^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a colori e quella in bianco/nero ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties varie". Ibid. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del mattino, talora alle sei". Ibid ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior incasso, su hitparadeitalia.it. I 50 film più visti al cinema in Italia dal 1950 ad oggi, su movieplayer.it Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di Visconti, in la Repubblica, Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri E il Pci cercò di levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, Torna in sala «Il Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in Corriere della Sera, Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La Stampa, Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Fandango Media,Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Scorsese’s 12 favorite films, su miramax. Rete degli Spettatori ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29 ^ Piero Spila, Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e nero"  Antonello Trombadori (a cura di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, Giusti, La transizione di Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Gosetti, Il Gattopardo, Milano, Luciano De Giusti, op.cit. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, Antonio La Torre Giordano, Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini ASCinema - Archivio Siciliano del Cinema, prologo di Goffredo Fofi, prefazione di Nino Genovese, Caltanissetta, Edizioni Lussografica,  Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Visconti, collana Dal soggetto al film, Cappelli editore, Bologna (Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore, Genova. Il Gattopardo, su CineDataBase, Rivista del cinematografo. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su MYmovies.it, Mo-Net Srl. Modifica su Wikidata Il Gattopardo, su ANICA, Archivio del cinema italiano Il Gattopardo, su Internet Movie Database, IMDb.com. Il Gattopardo, su AllMovie, All Media Network Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Il Gattopardo, su FilmAffinity. Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Il Gattopardo, su TV.com, Red Ventures Il Gattopardo, su AFI Catalog of Feature Films, American Film Institute. Portale Cinema   Portale Risorgimento Tancredi Falconeri Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Principe Fabrizio SalinaGiuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano Lingua Segui Giuseppe Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa.jpg Giuseppe Tomasi di Lampedusa in una fotografia d'epoca Principe di Lampedusa Stemma In carica Altri titoli Duca di Palma Barone della Torretta Barone di Montechiaro Grande di Spagna Nascita Palermo, Morte Roma SepolturaCimitero dei Cappuccini, Palermo DinastiaTomasi di Lampedusa Padre Giulio Maria Tomasi Madre Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò Consorte Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee Religione Cattolicesimo. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. -- Tancredi Falconeri, nipote materno di Don Fabrizio CORBERA, Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, ne "Il Gattopardo") Premio Strega Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo – Roma) è stato un nobile e scrittore italiano.  Letterato di complessa personalità e autore del noto romanzo Il Gattopardo, è un personaggio taciturno e solitario e trascorse gran parte del suo tempo nella lettura. Ricordando la propria infanzia scrisse: ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che con le persone.  BiografiaModifica InfanziaModifica Don Giuseppe Tomasi, 11º principe di Lampedusa, 12º duca di Palma, barone di Montechiaro, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe (titoli acquisiti alla morte del padre), nacque a Palermo, figlio di Giulio Maria Tomasi e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. Rimase figlio unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania, avvenuta a causa di una difterite. Fu molto legato alla madre, donna dalla forte personalità, che ebbe grande influenza sul futuro scrittore.  Non lo stesso avvenne col padre, un uomo dal carattere freddo e distaccato. Da bambino studiò nella sua grande casa a Palermo con l'ausilio di una maestra privata, della madre (che gli insegnò il francese) e della nonna, che gli leggeva i romanzi di Emilio Salgari. Nel piccolo teatro della residenza di Santa Margherita Belice, ereditata dai Cutò e molto amata da sua madre, dove passava lunghi periodi di vacanza, talora anche in inverno, assistette per la prima volta a una rappresentazione dell'Amleto, recitato da una compagnia di girovaghi.  Il casato dei Tomasi di Lampedusa è una diramazione della famiglia Tomasi da cui discendono anche i Leopardi di Recanati e che la tradizione indica di origini bizantine. Caratterizzata da grande fervore religioso, non condiviso dallo scrittore, la famiglia vanta nell'albero genealogico un santo, san Giuseppe Maria Tomasi, e una venerabile, Isabella Tomasi. In epoca recente lo zio Pietro Tomasi della Torretta fu Ministro degli esteri e presidente del Senato.  Sotto le armi a Caporetto, Tomasi di Lampedusa FREQUENTA IL LICEO CLASSICO A ROMA e in seguito a Palermo. Sempre a Roma, s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Viene chiamato alle armi, partecipa alla guerra come ufficiale d'artiglieria e nella disfatta di Caporetto è catturato dagl’austriaci, che lo imprigionarono in Ungheria. Riuscito a fuggire, torna a piedi in Italia.  Dopo le sue dimissioni dal Regio Esercito con il grado di tenente, ritorna nella sua casa in Sicilia, alternando al riposo qualche viaggio, sempre in compagnia della madre, che non lo abbandona mai, e svolgendo studi sulle letterature straniere. Insieme al cugino Piccolo, si reca a Genova, dove si trattenne collaborando alla rivista letteraria Le opere e i giorni.  Il matrimonio con Licy von Wolff-Stomersee, A Riga sposa in una chiesa ortodossa la studiosa di psicanalisi Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee, detta Licy, figlia del barone tedesco del Baltico Boris von Wolff-Stomersee e della cantante italiana Alice Barbi, la quale aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Tomasi, marchese della Torretta, zio di Giuseppe. Andano a vivere con la madre di lui a Palermo. Ben presto l'incompatibilità di carattere tra le due donne fa tornare Licy in Lettonia. Muore Giulio Tomasi, e così Giuseppe eredita il titolo. Venne richiamato alle armi, ma, essendo a capo dell'azienda agricola ereditata, è presto congedato.  Si rifugia così con la madre a Villa Piccolo (Capo d'Orlando), dove poi li raggiunse Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra. È nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi presidente regionale.  La madre, che è da poco tornata a Palermo, muore. Inizia a frequentare un gruppo d’intellettuali, dei quali fanno parte Orlando e Mazzarino. Con quest'ultimo instaura un buon rapporto affettivo, tanto da adottarlo. Da quel momento in poi Mazzarino è ribattezzato Tomasi.  L'incontro con Montale e  Bellonci  Statua a grandezza naturale dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa situata in piazza Matteotti a Santa Margherita Belice Tomasi di Lampedusa è spesso ospite presso il cugino Piccolo, col quale si reca a San Pellegrino Terme per assistere a un convegno letterario, cui il parente poeta è stato invitato per ritirare il primo premio di un concorso letterario. Lì conobbe Montale e Bellonci. Si dice che è al ritorno da quel viaggio che inizia a scrivere Il Gattopardo.  All'inizio il manoscritto del Gattopardo non è preso in considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi, alle quali è inviato in lettura, e i rifiuti riempirono Tomasi di Lampedusa di amarezza. Il manoscritto è giudicato negativamente da Vittorini, influente lettore per Mondadori e curatore della celebre collana "I gettoni" per l'editore Einaudi, che non s'accorse di aver letto un capolavoro della letteratura italiana e mondiale. Vittorini successivamente rifiuta la pubblicazione de Il dottor Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass.  La morte e il successo postumo Francobollo per il cinquantenario della morte. Gl’è diagnosticato un tumore ai polmoni. Muore, non prima di aver adottato come erede l'allievo e lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. Il romanzo è pubblicato POSTUMO quando Elena Croce lo invia a Bassani, che lo fa pubblicare presso la casa editrice Feltrinelli. Il romanzo vince il Premio Strega. Curiosamente, anche Giuseppe Tomasi di Lampedusa muore lontano da casa come il suo antenato protagonista de Il Gattopardo, a Roma, nella casa della cognata in via San Martino della Battaglia n. 2, dove è andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si rivelarono inefficaci. La salma è tumulata nella tomba di famiglia al Cimitero dei Cappuccini di Palermo. Non avendo eredi, i titoli nobiliari (duca di Palma, principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e Grande di Spagna di prima Classe) andano allo zio paterno Pietro Tomasi della Torretta, che muore senza lasciare discendenti diretti, ma solo collaterali. Gli succedette il cugino Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, suo congiunto maschio più prossimo, che eredita con due cugine figlie di Chiara anche parte dei beni.  Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni Giulio, VIII Pr. di Lampedusa Giuseppe Tomasi, III, VII Pr. di Lampedusa Carolina Wochinger e Greco Giuseppe, IX Pr. di Lampedusa Maria Stella Guccia e Vetrano Giovan Battista Guccia e Bonomolo VetranoGiulio, X Pr. Lampedusa Salvatore Papè e Gravina Pietro Papè e BolognaIppolita Gravina MassaStefania Papè e Vanni Vittoria Vanni e FilangieriFrancesco Vanni e InvegesRosalia Filangieri Giuseppe, XI Pr. di Lampedusa Lucio Mastrogiovanni Tasca e Nicolosi Paolo Mastrogiovanni TascaRosa NicolosiLucio Mastrogiovanni Tasca e Lanza Beatrice Lanza Branciforte Giuseppe Lanza Branciforte StefaniaBrancifortee Branciforte Beatrice Mastrogiovanni Tasca e Filangieri Alessandro IV Filangieri e Pignatelli Niccolò Filangieri Margherita Pignatelli Aragona Cortes Giovanna Nicoletta Filangieri e Merlo Teresa Merlo Clerici Francesco MerloGiovanna ClericiFilm biografici Giuseppe Tomasi in età giovanile  La macchina per scrivere di Tomasi (Museo del Risorgimento, Santa Margherita Belice)  La tomba nel Cimitero dei Cappuccini (Palermo) La storia dell'ultimo periodo della sua vita e della stesura de Il Gattopardo è raccontata nel film del di Andò, Il manoscritto del Principe. Gregoretti gira il documentario La Sicilia del Gattopardo in cui ricostruisce la vita e i luoghi di ispirazione del romanzo. In occasione della quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato proiettato il Docufilm Die Geburt des Leoparden (La nascita del Gattopardo), regia di Falorni. Un viaggio alla scoperta della vita dell'ultimo principe di Lampedusa raccontato dalle voci e dalle testimonianze delle persone care[6]. DedicheModifica Nel 2011 Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus. Gli è stato dedicato un asteroide, il Lampedusa. A Santa Margherita di Belice è stato allestito presso il Palazzo del Gattopardo, ex proprietà dei Lampedusa il Museo del Gattopardo. Nasce a Santa Margherita di Belice il parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa che dà il via al Premio letterario internazionale Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Viene fondata nel comune di Palma di Montechiaro l'istituzione comunale Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con direttore scientifico Gioacchino Lanza Tomasi. OpereModifica Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, I ed. novembre 1958; nuova edizione riveduta sul manoscritto a cura di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli. Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani, Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n. 26, Milano, Feltrinelli; edizione riveduta a cura di Nicoletta Polo, prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli; Nuova ed. rivista e accresciuta, Collezione Le Comete, Feltrinelli; Collana UE, Feltrinelli Lezioni su Stendhal, Palermo, Sellerio. Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Collana I Fatti e le Idee, Milano, Feltrinelli, Il mito, la gloria, a cura di Marcello Staglieno, Roma, Shakespeare et Company, Letteratura inglese, Dalle origini al Settecento; II: L'Ottocento e il Novecento, a cura di Nicoletta Polo, postfazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori. Opere, introduzione e premessa di Gioacchino Lanza Tomasi, a cura di Nicoletta Polo, Collana I Meridiani, Milano, Mondadori; Nuova edizione aumentata, Collana I Meridiani, Mondadori, Licy e il Gattopardo. Lettere d'amore, a cura di Sabino Caronia, Roma, Edizioni associate, Viaggio in Europa. Epistolario, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, La sirena, Milano, Feltrinelli [con cd audio contenente una registrazione a voce dell'autore]. Ah! Mussolini!, Postfazione di Gioachino Lanza Tomasi, Milano, De Piante I racconti, 5ª ediz., Milano Gilmour, L'Ultimo gattopardo ^ Indro Montanelli, La stanza di Montanelli. Elio Vittorini fascista? Lo eravamo tutti, Corriere della Sera, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega. Morire, come ogni altra cosa, è un'arte». Due scomparse indecenti e una morte ambiziosa, su elapsus. Tomasi di Lampedusa e il Gattopardo, genesi di un capolavoro in DVD, sul sito Luce Cinecittà, Museo del GATTOPARDO LEOPARDO LEOPARDI, su comune. Santa margherita di belice. ag.i Anile - Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, Genova, Le Mani, Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo, Bertolucci, Il Principe dimenticato, Sarzana, Carpena, Salvatore Calleri, La zampata del Gattopardo. I luoghi dell'anima: solitudine e ricerca interiore in Giuseppe Tomasi di Lampedusa, a cura dell'Istituto di Pubblicismo, Scialpi, Roma (Calleri) Ciccia, Tomasi di Lampedusa in Profili di letterati siciliani dei secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura e La «sublime normalità dei cieli»: considerazioni sulla parte prima del «Gattopardo», in Poesia e critica del Novecento, Liguori, Napoli, Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana, in O&L. I nomi da Dante ai contemporanei, a cura di B. Porcelli e B. Bremer, Baroni, Viareggio, Benedetto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «La Sirena», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana, vol. IV (Il Novecento), a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Pensa MultiMedia, Lecce. Margareta Dumitrescu, Sulla parte del Gattopardo. La fortuna di Lampedusa in Romania, Giuseppe Maimone Editore, Catania. Franco La Magna, Lo schermo trema. Letteratura siciliana e cinema, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, Gioacchino Lanza Tomasi, Introduzione a "Opere" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Mondadori Editore, Milano, coll. I Meridiani. Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio editore, Orlando, Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, Basilio Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Moretti et Vitali,. Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo. I racconti. Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, Salvatore Savoia, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ed. Flaccovio, Palermo, Trebesch, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Leben und Werk des letzten Gattopardo, NORA, Berlin, 2012. Nunzio Zago, Tomasi di Lampedusa, Bonanno, Acireale-Roma, Price, Lampedusa, a novel, New York, Farrar, Straus and Giroux, Ferraloro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Il Gattopardo raccontato a mia figlia, La nuova frontiera junior, Roma, Il Gattopardo Tomasi di Lampedusa (famiglia) Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Arnaldo Bocelli, TOMASI, Giuseppe, duca di Palma, principe di Lampedusa, in Enciclopedia Italiana, III Appendice, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Bibliografia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Goodreads. Bibliografia italiana di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet Movie Database, IMDb Parco letterario Tomasi di Lampedusa, su parcotomasi.it. Portale Biografie   Portale Letteratura Tomasi musicologo italiano  Il GATTOPARDO – IL LEOPARDO e I LEOPARDI romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italianaTomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana Lingua Segui Modifica Tomasi di Lampedusa Coat of arms of the Family of Tomasi.svg spes mea in deo est D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito. Stato Bandiera del Regno di Sicilia 4.svg Regno di Sicilia Flag of the Kingdom of the Two Sicilies svg Regno delle Due Sicilie Flag of Italy crowned.svg Regno d'Italia Italia Italia Casata di derivazioneTomasi TitoliCroix pattée.svg Principe di Lampedusa Croix pattée.svg Duca di Palma Croix pattée.svg Barone di Montechiaro Croix pattée.svg Barone di Falconeri Croix pattée.svg Barone della Torretta Croix pattée.svg Grande di Spagna FondatoreMario Tomasi Data di fondazioneXVI secolo Etniaitaliana I Tomasi di Lampedusa sono una famiglia storica siciliana, diramatasi dai Tomasi, che deve la propria notorietà in particolare al suo esponente Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al successo editoriale da questi ottenuto, postumo, con la pubblicazione del romanzo IL GATTOPARDO (LEOPARDO E LEOPARDI). Stemma dei Tomasi di Lampedusa StoriaModifica Origini: studi e leggende  Il castello di Palma di Montechiaro Le prime notizie storiche sui Tomasi risalgono al VII secolo, mentre, per quanto concerne i secoli precedenti, sono state prospettate ipotesi diverse. Secondo la tradizione è originaria di Bisanzio. Alcuni studiosi (Sansovino, Villabianca, Palizzolo Gravina) sostengono che LA FAMIGLIA DE’LEOPARDI DA ROMA SI TRASFERE A COSTANTINOPOLI AL SEGUITO DELL’IMPERATORE COSTANTINO. Filadelfo Mugnos afferma che la famiglia discende da Leopardo, figlio di CRISPO, PRIMOGENITO dell'imperatore Costantino. Archibald Colquhoun ritiene che il capostipite dei Tomasi è Thomaso il Leopardo, figlio dell'imperatore TITO (si veda) e della regina Berenice. Vitello, autore che ha approfondito gli studi sulla famiglia, fa discendere i Tomasi da Irene, figlia dell'imperatore bizantino TIBERIO (si veda), che sposa Thomaso detto il Leopardo, principe dell'Impero e comandante della guardia imperiale. Come segnala Buonassisi, è condivisa l'opinione che individua in due fratelli gemelli, Artemio e Giustino, gli artefici del ritorno in Italia dei Leopardi-Tomasi. La discendenza dai due gemelli, approdati ad Ancona e provenienti da Bisanzio, è stata confermata da Vitello, studioso della genealogia della famiglia Tomasi di Lampedusa, e ribadita da quanti, dopo la pubblicazione degli scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si sono interessati alla sua ascendenza. TEMENDO PER LA LORA VITA a causa delle lotte al vertice dell'Impero, LASCIANO COSTANTINOPOLI dopo la morte dell'imperatore Eracleo, stabilendosi ad Ancona. Dal ramo rimasto nelle Marche discenderebbero i Leopardi nei rami di Recanati, come pure sostene Monaldo padre di Giacomo LEOPARDI (si veda), e di Amatrice, da cui discende la schiatta, tuttora esistente anche in linea femminile [ de Sanctis di Castelbasso e Rosati di Monteprandone de Filippis Delfico] di Pier Silvestro Leopardi.  Titoli nobiliari In Sicilia non vige la legge salica ed i titoli nobiliari si trasmettevano anche in linea femminile. In forza delle norme dettate nel Liber Augustalis (III, 27 “de la successione de li nobili in li feudi") e nei capitula "de successione feudalium", "de alienatione feudorum","de successione feudorum" e della prammatica i titoli venivano trasmessi al collaterale maschio vivente più prossimo e più anziano e, in mancanza di maschi, alla femmina più prossima privilegiando le nubili. Il primo titolo nobiliare dei Tomasi di Sicilia, la baronia di Montechiaro, fu acquisito per via materna come, in epoche successive, anche le baronie di Franconeri e della Torretta.  LetteraturaModifica Il casato dei Tomasi di Lampedusa, ramo staccatosi dai Tomasi di Capua, trasferitosi da Siena nel Regno di Napoli al seguito di Alfonso V d'Aragona è stato immortalato nel romanzo Il Gattopardo scritto dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa.  Il successo dell'opera ha determinato il diffondersi di due neologismi: il sostantivo "gattopardismo" e l'aggettivo "gattopardesco.” Stemma L'arma dei Tomasi (Palazzo ducale, Palma di Montechiaro) BlasonaturaModifica D'azzurro al leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito.[12]  MottoModifica spes mea in deo est  GenealogiaModifica Baroni di Montechiaro e duchi di PalmaModifica Il capostipite dei Tomasi siciliani, Mario, capitano d'armi, si trasferì dalla Campania in Sicilia, a Licata[13], dove sposò Francesca Caro baronessa di Montechiaro. Mario Tomasi e Francesca Caro ebbero due gemelli, Ferdinando e Mario, governatore del Castello di Licata e capitano dell'Inquisizione. Ferdinando (1597-1615), barone di Montechiaro[14], appena sedicenne sposò Isabella La Restia; i coniugi ebbero due gemelli, Carlo e Giulio, rimasti orfani del padre a nove mesi; quando i gemelli avevano diciassette anni morì anche la madre e lo zio Mario li chiamò presso di sé a Licata dove restarono circa sei anni.  Carlo venne nominato duca di Palma (il duca è l'artefice della fondazione del paese oggi denominato Palma di Montechiaro) ma cede baronia e ducato al fratello e prese gli ordini diventando uno dei chierici regolari teatini studioso di teologia. Scrisse numerose opere in latino e italiano, cinquantuno delle quali pubblicate. Dopo la sua morte, essendogli stati attribuiti diversi miracoli, venne avviato un processo di beatificazione e fu proclamato Servo di Dio. La famiglia annovera anche tre cardinali nel periodo bizantino (Fabio, durante il papato di Gregorio III, Vibiano durante quello di Alessandro II e Pietro durante il Patriarcato di Gerusalemme di Sergio III).  Duca SantoModifica  La venerabile Maria Crocifissa (Isabella Tomasi), Giulio I, duca di Palma e barone di Montechiaro venne nominato principe di Lampedusa, sposò Rosalia Traina, baronessa di Falconeri, dalla quale ebbe otto figli:  Francesca, suor Maria Serafica, badessa del monastero di Palma; Isabella, suor Maria Crocifissa, beata (nel romanzo è ricordata come "Beata Corbera"); Ferdinando, che morì a tre mesi; Antonia, suor Maria Maddalena; Giuseppe I, cioè San Giuseppe Maria Tomasi; Rosaria; Ferdinando; Alipia, suor Maria Lanceata. I coniugi impartirono ai figli una rigida educazione religiosa; tutti, fatta eccezione per Ferdinando, si indirizzarono alla carriera ecclesiastica. Tale fervore religioso si perpetuò anche nei secoli successivi, tanto che i Tomasi rischiarono spesso l'estinzione. Isabella, che visse come Suor Maria Crocifissa, entrò nel monastero, per lei e le sorelle fondato dal padre, il giorno dell'inaugurazione e con lei entrarono Francesca e Antonia: Isabella aveva quattordici anni, Francesca quindici ed Antonia undici. Anche la madre Rosalia entrò in convento di clausura come oblata insieme alla figlia diciottenne Alipia (l'unica che avendo solo sei anni quando vi entrarono le sorelle non le aveva seguite); fu costretta, per amministrare i vassalli, ad uscire dalla clausura quando il nipote Giulio II restò orfano.  Giulio I dedicò l'intera sua vita alla beneficenza e ad opere pie con tale assiduità ed impegno da essere definito il Duca Santo; costruì numerose chiese, un asilo per le orfanelle, un ospedale, un reclusorio per meretrici pentite, istituì un Monte di Pietà per contrastare gli usurai, avviò bonifiche e si dedicò a numerose opere sociali ed umanitarie. Il terzo principe di Lampedusa fu Ferdinando I, al quale spettarono i titoli nobiliari del padre, in quanto prima di lui erano nati solo due maschi, Ferdinando morto a tre mesi e Giuseppe I che, rinunciando ai suoi diritti dinastici, si era indirizzato alla carriera ecclesiastica. Tutte e quattro le figlie vollero entrare come suore di clausura nel Monastero Benedettino. Il fervore religioso di Giulio I e dei suoi congiunti era tale che a Palma l'intera famiglia era nota come "una razza di Santi"; è ancora conosciuta a Palma una deliziosa nenia "Il testamento del Duca di Palma. Come il fratello Carlo alla sua morte Giulio I venne proclamato Servo di Dio. l  Principi di Lampedusa, duchi di Palma, baroni di Montechiaro e FalconeriModifica Ferdinando I morì a soli ventun anni, l'anno successivo alla nascita del figlio Giulio II, nato dal matrimonio con Melchiorra Naselli e Carlo. Anche Giulio II, morì giovane, a ventisette anni; dalla moglie Anna Maria Fiorito e Tagliavia, ebbe due figli maschi Antonino morto in tenera età e Ferdinando II, che visse quasi ottant'anni, sposò Rosalia Valguarnera e Branciforte e, rimasto vedovo, Giovanna Valguarnera e La Grua. Giulio II restò sino all'età di sette anni nel monastero che ospitava la nonna Rosalia (suor Seppellita) e le zie; compiuti i sette anni assunse l'onere della sua educazione il nonno materno Luigi, principe d'Aragona. Nonostante sia morto giovane riuscì a fondare l'Istituto delle Scuole Pie, affidato ai Padri Scolopi. Fu allievo dell'Istituto, la cui sede è oggi occupata dal comune di Palermo.  Ferdinando II ebbe dieci figli, otto maschi e due femmine, Maria, suor Maria Crocifissa monaca del monastero di Palma e ANNA MARIA che sposò Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I figli maschi fatta eccezione per il primogenito Giuseppe II e per Gaetano morto in tenerissima età, si diedero alla carriera ecclesiastica o a quella militare: Giulio, Abate di Santa Maria di Roccamadore e Prelato domestico di Clemente XIV, Salvatore prete dell'Olivella, Carlo, gentiluomo di camera del duca di Savoia e capitano dell'esercito sardo, Gioacchino esente guardie del corpo, Elia, capitano di artiglieria, Pietro, cavaliere di Malta. Ferdinando II potenziò il patrimonio della famiglia e la istituzione dell'Accademia dei Pescatori Oretei con finalità letterarie, il terzo seminario dei Nobili retto dai padri Scolopi, e l'assunzione di rilevanti ruoli politici. Fu nominato da Carlo VI grande di Spagna, fu presidente dell'arciconfraternita della Redenzione dei Cattivi, capitano di Giustizia di Palermo, pretore di Palermo, deputato del Regno, Vicario generale del Regno, maestro razionale di cappa corta del Regio Patrimonio. Giuseppe II sposò Antonia Roano e Pollastra dalla quale ebbe tre figli Francesco morto in tenera età, Rosalia, moglie di Gioacchino Burgio del Vio, Duca di Villafiorita e Giulio III. Giuseppe II, cavaliere di Malta, fu governatore della Compagnia della Pace, ambasciatore del Senato di Palermo presso Carlo III, governatore del Monte di Pietà, capitano di Giustizia di Palermo, deputato del Regno, presidente dell'Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi, Intendente Generale degli eserciti.  Il figlio Giulio III sposò Maria Caterina Romano Colonna figlia del duca di Reitano, con la quale ebbe tre figli Baldassarre cavaliere di Malta, Antonia moglie di Francesco Arduino Ruffo marchese di Roccalumera e Giuseppe III. Giulio III è governatore della Pace, senatore di Palermo, rettore dell'Ospedale Grande, deputato del Regno, pretore di Palermo, governatore del Monte di Pietà, cavaliere di San Giacomo.  Giuseppe III si sposa due volte. La prima moglie, Angela Filangeri e la Farina figlia del principe di Cutò muore di parto insieme al nascituro. Dalla seconda moglie Carolina WOCHINGHER ha due femmine Caterina che sposa Giuseppe Valguarnera e Ruffo, principe di Niscemi e duca dell'Arenella e Antonia che sposò Francesco Caravita principe di Sirignano. L’UNICO MASCHIO, Giulio IV CORBERA, è il protagonista del romanzo IL GATTOPARDO. Giuseppe III dovette affrontare una situazione disastrosa sotto il profilo economico. La moglie Carolina, rimasta vedova, è costretta ad affrontare numerose vertenze giudiziarie e a varare un progetto di contenimento delle spese.  IL GATTOPARDO e i suoi discendentiModifica Giulio Fabrizio Maria Tomasi Caro Traina IV, pari di Sicilia, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone di Montechiaro e Falconeri, sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Diedero alla luce dodici figli, sette femmine e cinque maschi. È il principe di Salina, protagonista del romanzo del bisnipote.   Giuseppe Tomasi di Lampedusa Salvatore, decimo figlio, morì giovane, come la sesta, Caterina e la dodicesima, Maria Rosa.  Linea maschile Giuseppe, primogenito del GATTOPARDO, sposa Stefania Papè e Vanni, dalla quale ebbe cinque figli maschi: Giulio, Pietro, Francesco, Ferdinando e Giovanni. Francesco ebbe un figlio, Giuseppe, morto ventenne. Si sposarono, ma non ebbero figli, Pietro, Ferdinando e Giovanni, mentre il primogenito Giulio V ebbe, oltre all'autore del romanzo, una femmina, Stefania.  Giuseppe, lo scrittore, principe, duca e barone, sposò Alexandra Wolff Stomersee, figlia di un nobile baltico e dell'italiana Alice Barbi, che in seconde nozze aveva sposato Pietro Tomasi della Torretta, zio di Giuseppe. Alla morte dell'autore del romanzo, lo zio Pietro, il parente maschio più prossimo, eredita i titoli di principe di Lampedusa, duca di Palma e barone di Montechiaro e Falconeri. Come secondogenito è già barone della Torretta, conosciuto però come marchese (di cortesia secondo gli autori), titolo che usa ufficialmente nella carriera diplomatica. Pietro è Ministro degli Esteri, Senatore del Regno, ultimo presidente del Senato del Regno e presidente del primo Senato della repubblica. Con Pietro Tomasi Della Torretta si estinse la linea maschile.  Linea femminile  Pietro muore a Roma, nominando eredi di quanto possede a Ginevra le figlie della defunta moglie, una delle quali, Alexandra Wolff Stomersee, sposa Giuseppe, il nipote scrittore. I suoi beni residui, tra i quali un lussuoso appartamento a Roma, andarono agli eredi legittimi, suoi cugini di primo grado: Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa, che sposa Garofalo, e le sorelle Giovanna e Maria Carolina Crescimanno, figlie di Chiara Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato Francesco Paolo Crescimanno di Capodarso.  Fra i diversi discendenti in linea femminile rimasti in Sicilia, vi era Isabella Crescimanno di Capodarso, la quale scrisse Memorie, libro in cui venivano raccontati aneddoti della famiglia. Rimangono il fratello Cesare Crescimanno e i figli di lui Mario e Maria Laura, entrambi con figli ed altri discendenti.  Il secondogenito di Giulio Fabrizio Tomasi e di Maria Stella Guccia, Giovanni, barone di Montechiaro, (Palermo - Baden Baden) sposò la cugina prima Carolina Guccia, Il figlio Giuseppe  sposò Rosa Agliata; portava il titolo di conte di Celona ed aveva un grande biglietto da visita in cui dichiarava di essere il solo ed unico cugino in secondo grado di Pietro Tomasi della Torretta, senatore del Regno. Dal matrimonio nacquero quattro figli, due maschi e due femmine. Tre non ebbero discendenti; soltanto Carolina ebbe un figlio dal marito Giuseppe Lo Piccolo Palermo. Carolina era vivente quando Pietro Tomasi della Torretta morì, Era la parente più prossima in via femminile, poiché suo padre Giovanni era il secondogenito di Giulio Fabrizio. Da questo matrimonio fra Maria Giovanni Tomasi e Guccia e la cugina Carolina Guccia nacquero una figlia Maria Stella e un maschio Giuseppe che sposo Rosa Agliata ed ebbe due figli maschi e due femmine. Erano molto poveri ed i maschi morirono di tisi lavorando nelle miniere di Montegrande, una figlia era monaca e sua sorella Carolina Guccia e Marasà sposò l'avv. Giuseppe Lo Piccolo. Quando Pietro Tomasi della Torretta muore questo divenne il parente più prossimo in linea femminile. Ha fatto cognonomizzare Tomasi ed ha invertito il cognome in Tomasi Lo Piccolo. È seguito dai discendenti di Antonia Tomasi e Guccia la figlia più anziana di Giulio Fabrizio, che andò sposa a Garofalo. I discendenti per via femminile di questo matrimonio sono i Di Rella Tomasi di Lampedusa. Anche loro hanno fatto cognonomizzare il cognome Tomasi di Lampedusa e sono discendenti di Garofalo, l'unico cugino maschio di primo grado vivente alla morte di Pietro Tomasi della Torretta.  Nessuno dei discendenti viventi avrebbe comunque avuto diritto - anche se la repubblica non avesse abolito i titoli nobiliari - al riconoscimento dei titoli in capo a Pietro (principe di Lampedusa, duca di Palma e barone della Torretta), poiché, dopo l'Unità d'Italia ed il riconoscimento negli anni venti dei titoli borbonici, poiché ad essi era stata estesa la legge salica, che escludeva le donne dalle linee dinastiche.  Secondo il diritto borbonico, invece, come si evince dall'esame dei Capitula Regni Siciliae, il capo della dinastia sarebbe diventato Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, il parente maschio più prossimo in linea femminile. Quando Giuseppe Garofalo morì, era vivente il figlio della sua unica figlia Maria, coniugata Di Rella, quindi Aurelio Di Rella Tomasi ed i suo successori sarebbero i successori secondo il diritto borbonico. In verità sono preceduti da Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, che non ha discendenti.   Aurelio Di Rella Tomasi di Lampedusa, avvocato, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia e componente della Consulta dei Senatori del Regno, ha tre figli, due dei quali maschi, che si trovano immediatamente dopo di lui nella linea dinastica femminile.  Garofalo ha due sorelle: Marietta, che rimase nubile, e Giulia, coniugata con Pietro Trombetta, che ebbe cinque figli (tre maschi e due femmine). Uno dei maschi, Giovanni Trombetta, avvocato, fu vice comandante militare della Resistenza ai nazisti in Liguria e. in onore della famiglia materna, assunse il nome di battaglia di "Colonnello Tomasi".  La regolamentazione dei titoli araldici vigente nel Regno d'Italia. Consulta araldica, Libro d'Oro  Con la soppressione degli ordinamenti feudali, negli Stati dove le distinzioni nobiliari sopravvissero vennero costituite speciali commissioni consultive per l'esame di questioni araldiche. Si ebbero così il tribunale araldico in Lombardia, la commissione araldica a Venezia e Parma, la congregazione araldica capitolina a Roma ecc.. Analogamente a quanto era avvenuto negli stati preunitari, anche nello stato italiano venne istituito, con il Regio Decreto 313 del 10 ottobre 1869, un organo collegiale, denominato Consulta araldica. Con il Regio Decreto venne istituito il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana. Questo registro ha man mano raccolto le concessioni di giustizia o di grazia approvate dalla consulta araldica. L'estratto del Libro d'oro fac fede del loro riconoscimento da parte del Regno d'Italia. Le successioni sono regolamentate secondo la legge vigente nel Regno di Sardegna, ed è quindi ammessa soltanto la SUCCESSIONE PER VIA MASCHILE secondo le norme della legge salica: maschi primogeniti. La consulta fu varie volte mutata nella composizione e nelle attribuzioni fino al Regio Decreto. La consulta esamina tanto le pratiche di giustizia che quelle di grazia. Le prime sono le successioni che segueno i principi della legge salica, le seconde quelle successioni che hanno bisogno di una sanatoria concessa con decreto reale: successioni per via femminile, in favore di membri della famiglia diversi dai maschi primogeniti. Queste successioni per grazia avevano il carattere di una rinnovazione. I titoli venivano concessi sul cognome ed erano soggetti alla legge salica nella ulteriore trasmissione. Vennero di fatto privilegiate le successioni che sanavano contenziosi all'interno delle grandi famiglie e assistita la loro sopravvivenza. I criteri erano piuttosto restrittivi, anche se il Regno d'Italia conservò spesso le regole presenti al momento della loro concessione, per cui i titoli austriaci erano riconosciuti a tutti i componenti maschili del casato. Il Libro d'oro stabilisce anche una imposta di concessione per l'iscrizione ed in assenza di questa vari titoli rimasero esclusi dall'inclusione per motivi fiscali. Era questo il caso di famiglie che avevano molti titoli e non corrisposero la tassa per tutti quelli che potevano rivendicare. Queste situazioni rimasero insanabili, in quanto Umberto II non ritenne di dover sanare situazioni fiscali in vigore nel Regno d'Italia.  La trasformazione in REPUBBLICA italiana e la successiva costituzione abolisceno qualsiasi titolo nobiliare. La XIV disposizione transitoria e finale demanda a una legge ordinaria le modalità di soppressione della consulta araldica. Per molti anni non sopraggiunse alcun atto al proposito e perciò si presume che l'organismo persistes formalmente, pur non avendo più titolo né scopo. Infatti la sentenza della corte costituzionale dichiara ILLEGITTIMA qualsiasi legislazione araldico-nobiliare italiana. Ancora la consulta sentenzia che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più ampiamente, non conservano alcuna rilevanza. Il D. L. (convertito in legge) e il Decreto legislativo abrogarono espressamente, rispettivamente, il R. D. e il R. D., che regolano i titoli nobiliari, e la consulta araldica. Dopo tali atti abrogativi, dunque, non esiste più alcuna norma giuridica relativa alla consulta araldica e detta consulta è soppressa a tutti gli effetti.  La consulta araldica dopo la proclamazione della Repubblica  La decisione di abbandonare l'Italia da parte di Umberto II non determina una rinuncia totale alle sue prerogative. Umberto ritenne di mantenere in vita la fons honorum spettante a casa Savoia. Umberto II rilascia numerosi titoli nobiliari, attenendosi alle prassi in essere ai tempi del Regno. Sono sanate molte vertenze e il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana continua ad essere stampato come documento di una associazione privata. Questa si struttura in associazioni regionali e in una giunta centrale. Molti titoli sono anche assegnati a vari sostenitori della monarchia ed alla borghesia imprenditoriale, in particolare nel settore dell'edilizia.  All'interno di questa prassi, Tomasi, avendo richiesto alla corte di appello di Palermo di adottare il suo cugino in secondo grado Gioacchino Lanza di Mazzarino e di Assaro, si presentava assieme ai genitori dell'adottando Fabrizio Lanza di Assaro e Conchita Ramirez di Villarrutia in tribunale e veniva registrato l'assenso all'adozione. Alla registrazione del decreto da parte della Corte di Appello, Tomasi di Lampedusa scrive a  Lucifero, Ministro della Real Casa, del suo desiderio di trasmettere i titoli della famiglia al figlio adottivo, in assenza di una discendenza maschile. La lettera reca anche l'adesione e l'appoggio di Tomasi della Torretta. Successivamente Fabrizio Lanza di Assaro si reca a Villa Italia a Cascais ed Umberto II comunica per iscritto a Lucifero la sua adesione alla proposta di trasmettere il titolo di duca di Palma sul cognome all'adottando. I restanti titoli della famiglia Tomasi, secondo il regolamento araldico del Regno d'Italia, tornano alla Corona. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, (anche centrale/mango online: vanta discendere dalla famiglia dei LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin cambiando il cognome in quello di Tomasi.Tommasi di Vignano, Notizie storiche e genealogiche sulla nobile famiglia Tommasi: Tommasi e Tomasi, rami di Siena, di Capua e di Sicilia V. Palizzolo Gravina segnala quanto segue: sull'origine della famiglia Tomasi dal Villabianca appoggiato al Sansovino rileviamo essere l'antica de’ LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Roma, è passata con Costantino imperatore in Costantinopoli, ove è grande e potente sino al tempo di Eracleo imperatore, per la cui morte ella passa in Italia, fermandosi in Ancona. La si dice Tomasi dal greco trauma, che vuol dire mirabile, però che si sa i due gemelli Artemio e Giuliano aver mostrato un ingegno meraviglioso. Tutti gl’altr’autori concordano nel ritenere che uno dei due gemelli si chiamasse Giustino e non Giuliano Mugnos, al riguardo precisa: «Tuttavia non lascio di dire che Artemio e Giustino fratelli gemelli, ovvero nati ambedue da un parto, cavalieri nobilissimi costantinopoliani dell'antichissima famiglia LEO-PARDI (GATTO-PARDI) originata da LEO-PARDO (GATTO-BARDO) o da Licino LEO-PARDO (GATTO-PARDO) figlio di Crispo primogenito dell'imperatore Costantino il grande Colquhoun, A dilemma of Princes, Go, Vitello, I gattopardi di Donnafugata, Capostipite della gens Thomasa-LEO-PARDI (GATTO-PARDI) è il generale Thomaso detto il LEO-PARDO (GATTO-PARDO), principe dell'Impero Bizantino e comandante della guardia imperiale. É lui a sposare Irene, figlia dell'imperatore TIBERIO (si veda). Tuttavia Gilmour, biografo inglese dell'Autore del libro, ritiene prive di prova le tesi di Vitello e fantasiose tutte le ricostruzioni dell'albero genealogico anteriori al ritorno in Italia della famiglia (Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Milano Buonassisi, scrive: Tutti si accordano in dire, che ella sia greca di origine, e della città di Costantinopoli non essendo però si chiaro, se ella già di antico è passata in essa al tempo di Costantino, o è passata di poi. Venne ella primieramente in Ancona in due fratelli Artemio e Giustino, nati di un parto, e tanto simiglianti nelle fattezze che è una meraviglia (trauma) il vederli: onde anche si vuole che a cagione di questa stupenda simiglianza venissero chiamati i tomasii, perché di prima Leopardi dice si, spiegando l'insegna d’un LEO-PARDO (GATTO-PARDO), scrive Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sellerio della comune origine era convinto il padre del poeta che fu in corrispondenza con il padre dell'astronomo; nella Istoria gentilizia di casa Leopardi di Recanati il conte Monaldo sostenne appunto la discendenza dei Leopardi dai Thomasi bizantini" ^ . I Capitula qui citati ed altri relativi al tema della successione dei feudi sono reperibili nei Capitula Regni Siciliae dei quali è stata pubblicata una ristampa anastatica dall'editore Rubbettino Gigli, Diario Sanese, Siena Il VI volume del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia edito dall'UTET non riporta le due voci che compaiono invece al supplemento. I due termini non risultano riportati neppure nell'edizione del Vocabolario illustrato della lingua italiana, di Devoto-Oli, editrice Selezione dal Reader's Digest. Entrambi i vocaboli sono invece riportati nel Dizionario essenziale della lingua italiana di Sabatini-Coletti pubblicato dalla casa editrice Sansoni Compare solo il termine “gattopardismo” ne Il grande italiano-vocabolario della lingua italiana di Gabrielli, edito da Hoepli. Nel linguaggio aulico, ha ingresso soltanto di recente (Mimmo Muolo, LA REGOLA D’ORO, Avvenire, in ordine alle resistenze nella Curia: "il Papa ne ha evidenziate di tre tipi: aperte in quanto derivanti dal dialogo sincero, nascoste o GATTOPARDESCHE, e malevole, queste ultime ispirate dal demonio. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber anche centrale/mango vanta discendere dalla famiglia dei LEOPARDI di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona cambiando il cognome in quello di Tomasi. Francesco Gaetani marchese di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo Mario di Tomasi che da Capua passa in Sicilia, con il viceré Colonna, ed è capitan d'armi nella Licata, rispondendo in quei tempi un tal uffizio al grado di vicario generale regio d'oggidì Marchese di Villabianca, è quella baronia recata in dote da Francesca di Caro e Celestre, primogenita figlia di Ferdinando ultimo barone di essa a Mario di Tomasi" Tutti gli scritti di Tomasi sono enumerati e sinteticamente descritti nella seconda parte dell'opera di Vezzosi I scrittori de' chierici regolari detti Teatini, Roma Bonifacio Bagatta Vita del venerabile Servo di Dio D. Carlo de' Tomasi e Caro della Congregazione de' chierici regolari Roma Cabibbo - M. Modica, oraccontano che la beata Isabella usa flagellarsi a sangue sin dalla più tenera età. Secondo Gilmour, a Capua su otto figli sei si fecero sacerdoti o monache  da Volker, LE GRANDI FAMIGLIE ITALIANE, LE ÉLITE CHE FANNO CONDIZIONATO LA STORIA D’ITALIA di Horst Reimann Tomasi di Lampedusa, Neri Pozza Volker, Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell 'insigne Servo di Dio D. Giulio Tomasii e Caro, duca di Palma, Prencipe di Lampedusa, barone di Monte Chiaro e cavaliere di San Giacomo, Roma, Bongiorno, Curbera, Giovanni Battista Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg Gian Evangelista Blasi, Opuscoli di autori siciliani alla grandezza di Tomasi, Caro, Traina e Naselli, Palermo. Bonifacio Bagatta, Vita del venerabile servo di Dio D. Carlo De' Tomasi della Congregatione De' Chierici Regolari, Roma Domenico Bernino, Vita del venerabile cardinale D. Giuseppe Maria Tomasi de' Chierici regolari, Roma. Buonassisi, Sulla condizione civile ed economica della città di Siena, Moschini, Cabibbo, Modica, La Santa dei Tomasi, storia di Suor Maria Crocifissa, Einaudi, Torino. Caravita di Sirignano, Memorie di un uomo inutile, Mondadori. Isabella Crescimanno Tomasi, Memorie, fondazione Piccolo di Calanovella. Giovanni Battista di Crollalanza, Dizionario storico blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Gigli, Diario Sanese, Siena, Gilmour, L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Leptailurus serval, internet. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber. Mattoni, Sul sentiero della pazienza, vita di San Tomasi, cardinale di santa Romana Chiesa, Vicenza. Filadelfo Mugnos, Teatro genologico delle famiglie del Regno di Sicilia, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Vincenzo Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Visconti et Huber, Volker Reinhardt, Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno condizionato la storia d'Italia, Neri Pozza, Savoia, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Tosi, L 'eredità morale del Gattopardo, Salerno, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Flaccovio, Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo segreto, Sellerio. Nunzio Zago, Tomasi, Palermo, San Giuseppe Maria Tomasi Pietro Tomasi Della Torretta Tomasi di Lampedusa Palazzo Lampedusa Villa Lampedusa Palma di Montechiaro Castello di Montechiaro (Palma di Montechiaro) Tomasi (famiglia) Portale Sicilia   Portale Storia di famiglia; Pietro Tomasi della Torretta diplomatico e politico italiano  Tomasi di Lampedusa scrittore italiano  Tomasi nobile italiano  CORBERA protagonista del romanzo Il Gattopardo Lingua Segui Modifica Don Fabrizio Corbera, principe di Salina Il gattopardo salina01.jpg Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato da  Lancaster nel film Il gattopardo. Universo Il Gattopardo Lingua orig. Italiano Soprannome Il Gattopardo Autore Tomasi. Interpretato da Lancaster Voce orig. Gaipa Sesso Maschio Etnia Italiana Professione nobile Don Fabrizio CORBERA, principe di Salina, duca di Querceta, marchese di Donnafugata, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa e dell'omonima trasposizione cinematografica di Visconti.  Il personaggio La figura di don Fabrizio, in parte autobiografica e in parte ispirata al personaggio storico di Tomasi, rappresenta la disillusione e l'impotenza di un'intera classe sociale di fronte ai cambiamenti della storia. CORBERA è la figura di un uomo che seppure dotato di una forza epica e di una statura intellettuale superiore a quella dei suoi pari, non riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, cui guarda con scetticismo e altera lucidità. Emblematico è il suo RIFIUTO ad accettare la carica di SENATORE del neo-regno SABAUDO, non certo perché mosso da lealismo borbonico, ma per una sostanziale incapacità intellettuale, che lo scrittore chiama rigidità morale, ad assumersi la responsabilità politica di un cambiamento di cui, in fondo, non si sente partecipe.  Il personaggio storico. Nella storia il personaggio di don Fabrizio è ricalcato su quello realmente esistito di Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore italiano.  Il personaggio tra realtà e finzione Sarebbe sbagliato credere che la figura di Salina sia quello di un personaggio reale: di Tomasi, oltre al nome, alla statura, al colore biondastro dei capelli e alla passione dilettantesca per l'astronomia, ha ben poco. Lo stesso Tomasi di Lampedusa se ne è accorto, e nella ormai celebre lettera a Merlo dichiara che il personaggio del romanzo dove apparire molto più intelligente di quanto non lo sia stato nella realtà. In effetti Tomasi, bisnonno dello scrittore, come Salina, non prende mai parte alla vita politica del suo tempo e con la sua morte, avvenuta senza aver mai fatto testamento, inizia la lunga vicenda giudiziaria fra i suoi eredi che porta al totale disfacimento del patrimonio dei Lampedusa. Anche la passione per l'astronomia, che nel romanzo diventa un elemento epico, effettivamente si traduce nel ripiegamento in un interesse puramente personale e dilettantistico di un aristocratico siciliano. Conosciamo anche il catalogo delle sue osservazioni astronomiche, ma nulla fa intravedere la possibilità di una reale scoperta di corpi celesti.  Insomma, sulla figura di Tomasi pesa un giudizio critico sostanzialmente negativo che nemmeno le sue doti in campo matematico-astronomico son riuscite a cancellare: il Salina de Il Gattopardo è invece un personaggio puramente letterario, che in certe sfumature psicologiche deve assomigliare molto di più al suo autore che non al modello storico. Scrive in proposito Citati. Con una leggera vanità, Lampedusa immagina di assomigliargli. Non gli assomiglia affatto. Salina è soltanto un sogno o una remota proiezione di eleganza e di grandezza inattingibili. Lampedusa non a la sua autorità, prepotenza, crudeltà, orgoglio di classe. Non ha la pelle bianca, i capelli biondi, né la mitomania. Non conosce il suo ardore carnale, l'allegra felicità fisica, il dono di afferrare e possedere la vita. Non condivide il suo spirito mondano, portato anche nelle esperienze spirituali. Solo qualche volta l'antenato avidissimo e il discendente passivo si incontrano e si abbracciano nello stesso sentimento. Quando Salina rivela il proprio desiderio di contemplazione, l'indifferente bontà, e la sconfitta. Quello che appare un trittico di personaggi, il Tomasi storico, il Salina del romanzo e l'autore stesso, è in realtà un unico quadro la cui chiave di lettura è per l'appunto l'autobiografismo.  Tomasi di Lampedusa, come il suo avo, vive un'epoca di transizione. L'uno si rifugia nella scrittura, l'altro nell'astronomia. Entrambi, rifiutano di partecipare alla vita politica del tempo. E va qui ricordato che Tomasi rifiuta dopo una prima adesione, la carica di presidente regionale della C.R.I., proprio durante l'ultimo periodo bellico. Questa è la sua unica esperienza politica, insieme alla giovanile partecipazione alla grande guerra.  Eppure lo scrittore Lampedusa, attraverso il suo romanzo, che a distanza d’anni dalla sua uscita continua ad essere uno dei capolavori della narrativa italiana, come è stato giustamente ribadito da Orlando, eterna un'epoca e il disfacimento totale di un'intera classe sociale attraverso il suo autobiografismo, che non scade mai nel memorialismo grazie al fatto che i suoi personaggi, come per l'appunto Salina, non sono mai abbastanza realistici, senza per questo essere meno veri, per irretire il racconto in uno schema narrativo di stampo verista, simbolista o ancor meno decadentista.  Il gattopardo è un'opera moderna, senza per questo essere un romanzo epocale. Forse in ritardo rispetto a certi modelli europei, cui comunque l'autore si rifà, il gattopardo è quanto di più squisitamente SICILIANO si possa immaginare. Anche l'ANTI-ITALIANISMO di Lampedusa che si traduce nel rifiuto del melodramma, diventa un modo per affermare l'IDENTITÀ INSULARE dell'autore. Il cane Bendicò è la chiave del Gattopardo, su Repubblica Salina principe e gigante, su Repubblica; Tomasi, G. Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Palermo, Sellerio, Tomasi, I luoghi del gattopardo, Palermo, Sellerio, Orlando, Ricordo di Lampedusa, Torino, Bollati Boringhieri, Principe Fabrizio Salina, su Internet Movie Database, IMDb.com.   Portale Letteratura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di letteratura UIl Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa  Villa Lampedusa Tomasi nobile italiano Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento nobili italiani è solo un abbozzo. Tomasi (Palermo – Firenze) è stato un nobile italiano. Giulio Fabrizio Maria Tomasi, appartenente alla famiglia Tomasi di Lampedusa, è bisnonno di Tomasi di Lampedusa nonché la figura storica a cui lo scrittore si ispira per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo.  Di lui sappiamo relativamente poco e la sua figura storica è ricostruibile principalmente da quanto riferito dallo stesso scrittore e da quanto rimane della sua biblioteca, oggi in parte conservata a Palermo, presso l'archivio privato della famiglia Lanza Tomasi. Tomasi nasce a Palermo, erede di quella che è un'importante famiglia dell'aristocrazia siciliana. dal padre, Tomasi e Colonna, eredita il titolo di Principe di Lampedusa e di Duca di Palma. È anche Grande di Spagna e sedette fra i Pari del Regno di Sicilia. Dalla madre, Wochinger, di origini tedesche, eredita invece una certa attitudine teutonica al rigore intellettuale e allo scientismo illuminista. Sposa Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del matematico Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Personaggio difficilmente catalogabile, Tomasi è certamente un aristocratico dotato di una cultura e di una curiosità intellettuale superiori alla media, come dimostra la sua ricca biblioteca, dove troviamo testi di astronomia, matematica, geometria, meccanica e fisica, fra i quali preziosi esemplari della Meccanica Analitica di Lagrange e uno dei primissimi volumi stampati del celebre Kosmos di Alexander von Humboldt. Totalmente autodidatta, Tomasi è un astronomo dilettante, ma che riusce ad ottenere sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private" (Il Gattopardo) come ne ha a ricordare il pronipote scrittore. Sappiamo che crea un proprio osservatorio astronomico, in una sua villa nella Piana dei Colli, a nord di Palermo: conosciuta come Villa Lampedusa, per questa innovazione era all'epoca nota soprattutto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa". Alla sua morte, avvenuta a Firenze, l'Osservatorio ai Colli è frazionato fra gl’eredi e la strumentazione astronomica venduta. Bongiorno, Curbera, Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg. Il Gattopardo tra gli astri. Portale Astronomia   Portale Biografie   Portale Letteratura Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Tomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana  Villa Lampedusa Villa Lampedusa Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento ville d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti ville della Sicilia e architetture di Palermo è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Villa Lampedusa Localizzazione Stato Italia Italia Regione Sicilia Località Palermo Coordinate 38°09′45.72″N 13°19′44.04″E Informazioni generali Condizioni In uso Villa Lampedusa è una villa che si trova a Palermo, costruita come residenza suburbana all'epoca di Ferdinando IV di Borbone, che aveva una residenza estiva, la cosiddetta Casina Cinese, nei pressi della quale la nobiltà siciliana costruiva le proprie ville di campagna. All'inizio del XVIII secolo venne fatta edificare da don Isidoro Terrasi vennero effettuati alcuni lavori di ristrutturazione su progetto di Giovanni Del Frago, architetto. Degne di note le decorazione eseguite da Gaspare Fumagalli. La villa appartenne poi ai Principi Alliata di Villafranca ed infine ai Tomasi di Lampedusa.  All'epoca del romanzo Il Gattopardo era più noto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa" dall'attività prediletta dell'allora proprietario, Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e figura storica a cui lo scrittore si ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo Il Gattopardo. Appariva come una costruzione a due piani, alle spalle del corpo principale della villa; il primo piano costituiva probabilmente lo studio, mentre il secondo, con la copertura a cupola, la specola vera e propria. Alcuni degli strumenti in uso del principe sono oggi conservati presso il Museo dell'Osservatorio astronomico di Palermo. Fra questi i più rilevanti sono il telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours et Secretan e il telescopio altazimutale di Worthington. Alla sua morte, avvenuta nel 1885, l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione astronomica venduta.  Oggi all'interno della proprietà, sono ospitate delle attività commerciali.  All'interno del Baglio della foresteria di Villa Lampedusa si trova una struttura alberghiera Villa Lampedusa Hotel et Residence gestita dal Gruppo Guccione.  Nelle Antiche Scuderie invece, oggi viene svolta un'attività di ristorazione dai fratelli Cottone, con il loro Ristorante Pizzerie La Braciera in Villa. L'Attività astronomica di Giulio Fabrizio Tomasi, Principe di Lampedusa Indice Strumenti Villa Lampedusa – Hotel and Residence, su hotel villa lampedusa. Villa Lampedusa, su La Braciera. Collegamenti esterniModifica scheda su un sito del turismo a Palermo, su palermoweb.com. storia della proprietà attuale, su hotelvillalampedusa.it. informazioni sul restauro, su mobilitapalermo.org.   Portale Architettura   Portale Palermo Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo  Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Palazzo Lanza Tomasi Lingua Segui Modifica Palazzo Lanza Tomasi Palermo jpg Facciata Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo IndirizzoKalsa, Mura delle Cattive Coordinate 38°07′04.5″N 13°22′18.52″E Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXVII secolo Usoprivato Il Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa è un edificio patrizio del XVII secolo, ubicato sulle Mura delle Cattive e affacciato sul Foro Italico, lungomare di Palermo. Panoramica. StoriaModifica Epoca spagnolaModifica L'edificio - altrimenti definito Palazzo Lampedusa alla Marina, con accesso in via Butera - sorge nel quartiere Kalsa, la cittadella eletta degli Emiri, adiacente all'Hotel Trinacria. L'attuale costruzione fu edificata alla fine del Seicento sui bastioni spagnoli, fortificazioni erette a difesa degli attacchi e delle incursioni perpetrati da ciurme pirata o corsare, nel contesto storico in cui imperava il bisogno primario di assicurarsi la supremazia navale nel Mediterraneo. Dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, Carlo V d'Asburgo predispose la costruzione di nuovi bastioni per la difesa della città. Dopo il transito dell'imperatore in molte località dell'isola, i viceré di Sicilia Ferrante I Gonzaga prima, e Vega poi, gestirono imponenti cantieri di fortificazioni alla moderna. La Marina era protetta a nord dal Forte di Castellamare, a sud dal bastione di Vega, e fra i due fu eretto il bastione del Tuono. In prossimità delle mura la zona era densamente militarizzata e soltanto nella seconda metà del Seicento si cominciarono ad edificare i palazzi a ridosso delle mura. Il bastione del Tuono fu demolito, quello di Vega sul finire del secolo.  I primi edifici furono il palazzo Branciforte di Butera e la chiesa di San Mattia Apostolo con l'aggregato noviziato dei Crociferi. I Branciforte furono i proprietari dell'intera cortina muraria da Porta Felice al bastione del Tuono. Gli edifici a ridosso del bastione furono ceduti ai Gravina e da questi affittati ai Padri Teatini che li adibirono a Collegio Imperiale per l'educazione dei nobili. Il Collegio fu chiuso nel 1768 e il palazzo fu acquistato d’Amato, principe di Galati. Questi intervenne unificando in un unico prospetto di stile vanvitelliano la facciata sul mare, formata da dieci finestre con terrazza.  Epoca unitaria Il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, astronomo dilettante, lo acquistò con l'indennizzo versatogli dalla corona per l'espropriazione dell'isola di Lampedusa.  Gl’armatori De Pace acquistarono metà del palazzo e lo trasformarono secondo il gusto del tempo, realizzando il grande scalone d'ingresso e il parquet a doghe di ciliegio e noce per la Sala da ballo. Il manufatto marmoreo, come tanti altri elementi d'arredo, proviene dal convento delle Stimmate, abbattuto in seguito alla costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele.  Epoca contemporanea Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dopo la perdita del palazzo di famiglia nei bombardamenti, ricomprò la proprietà dai De Pace e vi risiederà fino alla morte.  Oggi è residenza del musicologo Tomasi e della consorte duchessa Nicoletta Polo Lanza Tomasi. Il figlio adottivo dello scrittore ha riunificato l'intera proprietà e compiuto un completo restauro dell'edificio. L'ultimo piano è sede della struttura ricettiva Butera 28 Apartments.  Stile Prospetto verso la marina con dodici finestre e terrazza, quest'ultima un vero e proprio giardino pensile con fonte, ricco di essenze mediterranee e subtropicali.   La costruzione presenta quattro livelli, di cui tre elevazioni oltre il pianoterra su via Butera. Il solo piano nobile sul fronte mare.  Piano nobile del palazzo costituisce in gran parte la casa museo dello scrittore: Biblioteca storica di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ambiente sono presenti due grandi bocce di Caltagirone del primo Settecento, sulla parete sopra il caminetto, un San Girolamo, opera di Jacopo Palma il Giovane. Sala da ballo, ambiente in cui sono esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo, quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che con compare nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti della Lezioni di Letteratura Francese e Inglese e dei Racconti, una prima stesura de La Sirena. Nella sala è presente un piccolo quadro di Domenico Provenzani raffigurante la famiglia del "Duca Santo" Giulio Tomasi di Lampedusa. Scalone monumentale in marmo. Tra gli ambienti che raccorda si trovano: Sala delle Conferenze: ambiente con soffitto affrescato ed una splendida collezione di ventagli francesi del Settecento; Sala del Mediterraneo, l'ambiente ospita una collezione di carte nautiche redatte dalla Marina Inglese nel 1870, di proprietà del nonno di Gioacchino Lanza Tomasi; Museo della famiglia Tomasi di Lampedusa; Sale di ingresso e un secondo scalone. Opere I restanti arredi del piano nobile provengono da Palazzo Lanza di Mazzarino. Tra questi uno tavolo in marmo intagliato della metà del Cinquecento, originariamente nella Villa Palagonia, due rari cassettoni siciliani in ebano e avorio del primo Settecento, due lampadari a gabbia di Murano modello Rezzonico e uno centrale di epoca Luigi XVI. Quadri di Pietro Novelli, Antonio Catalano, Federico Barocci. Opere moderne come bozzetti di Robert Wilson (regista), Arnaldo Pomodoro e Mimmo Paladino, oltre a due ritratti a penna di Pablo Picasso, raffiguranti la marchesa Anita, nonna di Gioacchino. Palermo Gaspare Palermo, Gaspare Palermo Gaspare Palermo Blasi, "Storia del regno di Sicilia", Volume III, Palermo, Stamperia Orotea, Arredamento proveniente dal distrutto Palazzo Lampedusa e dal Palazzo Filangeri di Cutò di Santa Margherita di Belice, la residenza estiva dei Filangeri di Cutò, la famiglia materna dello scrittore, distrutta dal terremoto della valle del Belice. Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere ... tutte le magnificenze della Città di Palermo, Palermo, Reale Stamperia, . Gaspare Palermo, "Guida istruttiva per potersi conoscere tutte le magnificenze della Città di Palermo", Palermo, Reale Stamperia. Alcuni riferimenti al presente non sono più esistenti oppure risultano modificati o ricostruiti con tecniche moderne.  A Palermo:  Bar pasticceria Mazzara; Caffè Caflish; Pasticceria del Massimo; Casa del critico musicale Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco, in corso Scinà; Palazzo Lampedusa, distrutto nel bombardamento aereo, oggi parzialmente ricostruito da privati con la primitiva denominazione di Casa Lampedusa; Tomba di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel cimitero dei Cappuccini. Per la trasposizione cinematografica de Il Gattopardo:   Palazzo Valguarnera Gangi, Quartiere Kalsa; Villa Boscogrande. Santa Margherita Belice:  Palazzo Filangeri di Cutò o Palazzo Gattopardo: è un edificio danneggiato dal terremoto. Nelle immediate adiacenze è ubicato il Parco del Gattopardo. Palma di Montechiaro:  Chiesa di Maria Santissima del Rosario: la chiesa madre citata più volte, in particolare all'arrivo della famiglia Salina a Donnafugata. Monastero delle Benedettine. Alcuni luoghi cari ispirarono Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle ambientazioni e nella stesura del manoscritto.  Bagheria, con Palazzo Cutò; Capo d'Orlando, con Villa Piccolo; Ficarra con Casa Gullà, presso l'abitazione esiste tuttora una lapide a ricordo, ove tra i tanti angoli suggestivi e scene di vita ficarrese trovò fonte di ispirazione nella creazione del romanzo Il Gattopardo, in particolare del personaggio del "campiere". Palazzo Lanza Tomasi   Portale Architettura   Portale Arte Portale Palermo Palazzo Mirto palazzo storico di Palermo  Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano. Nome compiuto: Vittorio Frosini. Frosini. Keywords: gattopardo, interpretazioni filosofiche del gattopardo, Gramsci, riduzione teatrale, Visconti, la rivoluzione perduta, l’ordine morale, l’ordine legale, Hart, diritto naturale, diritto artificiale, filosofia del diritto, fascismo, risorgimento.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frosini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fundano: la ragione conversazionale e il nome del filosofo -- Roma – filosofia italiana (Roma). Abstract. Grice: “It seems that, snobs as they are, the Portico was more popular at Rome than it had been at Athens!” Keywords: portico.Filosofo italiano. Grice: “The problem with Old Roman Philosophers is their name. Consider Fundano. His gens was that which have him as a “Minicio” – when it comes to my dictionary, Italians hesitate. They don’t min listing him as ‘Minicio Fundano’ – but at Oxford we consider that as vulgar. A name is something you can use to CALL someone – So you have to decide: Fundano, or Minicio? Since there were more Minicios than there were Fundanuses, it is perhaps wiser to list him under the F – as in ‘who gives a F?’ -- A friend of Plutarco and Plinio minore – Plinio minore describes him as a philosopher who dedicated himself to study from an early age. It seems likely that he followed the doctrine of the Porch. Nome compiuto: Gaio Minicio Fundano. Fundano. Keywords: portico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fundano.”

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Furio: la ragione conversazionale e il portico romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “”That’s Porch!”, I would tell my Oxford pupil, Strawson. He never read the classics – so the idea of labelling a philosophy after the BUILDING where its adherents gathered was new and pathetic to him!” -- Keywords: portico. Filosofo italiano. Scholar and statesman. Probably followed the sect of the Porch. Nome compiuto: Lucio Furio Filo. Keywords: portico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Furio”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fusaro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’idealismo e la prassi – la scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontesee -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Fusaro – he philosophised on a critique of conversational reason!” Diplomato al liceo Alfieri di Torino, si laurea con “Marx” a Torino. Studia a Milano. Insegna Gramsci. Insegna a Milano.  Cura “La ragion populista” su Casa Pound. Membro del Risorgimento Meridionale per l'Italia. Fonda Vox Italia.  Si considera allievo di Hegel e Marx. Tra gli italiani predilige Gramsci e Gentile. Tra i moderni cita Spinoza, Fichte e Heidegger, con un'attenzione costante per le origini romani della filosofia. Si occupa inoltre di storia della filosofia. Tra gli filosofi studiati ci sono Koselleck, Blumenberg, oltre ai già citati Marx, Hegel, Gramsci, Gentile, Spinoza e Fichte.  Tratta Marx nell'ottica dell'idealismo, accostando alla critica del sistema capitalistico elementi dalla tradizione del comunitarismo e del sovranismo. Segue le orme di Preve. Altre opere: “Speranza: un saggio filosofico” (Il Prato); “La farmacia di Epicuro: la filosofia come terapia” (Il Prato). “L’atomismo di Lucrezio: alle radici del materialismo” (Il Prato); “La schiavitù salariata” (Il Prato); “Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionario” – cfr. “Bentornato Grice! Rinascita della prammatica” (Bompiani); “Essere senza tempo: il concetto filosofico d’accelerazione” (Bompiani); “Minima mercatalia: il capitalismo” (Bompiani); “L'orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Koselleck, Il Mulino); Coraggio, Cortina); “Idealismo e prassi in Gentile” (Il Melangolo); “Rivolta, dissidenza, scissione” (Barney); “Il futuro è nostro: filosofia dell'azione” (Bompiani); “Stato commerciale chiuso” (Il Melangolo); “Essere-nel-mondo e passione” (Feltrinelli); “Europa e capitalismo. Per riaprire il futuro” (Mimesis); “Peccato nei Grundzüge” (Il Melangolo); “Altrimenti: il dissenso conversazionale” Einaudi, “Coscienza del precariato” Bompiani “L’ordine dell’amore” (Rizzoli); Processo alla Rivoluzione (Il Ponte Vecchio); “Marx idealista: una lettura eretica del materialismo storico” Mimesis); “La notte del mondo: arte e technica in Heidegger” tecnocapitalismo, POMBA, Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo” (Rizzoli); “Il naturalismo di Lucrezio” (Bompiani, Marx); “Il Lavoro salariato e capitale, Bompiani, Marx, Forme di produzione pre-capitalistiche, Bompiani,  Marx Friedrich Engels, Manifesto e princìpi del comunismo, Bompiani, Marx Friedrich Engels, Ideologia” Bompiani, Fichte, “Missione del dotto, Bompiani); “L’epicureismo romano – piacere” AlboVersorio, ESE, su uniese. Arriva al Teatro GiordanoFoggia ZON, in Foggia ZON Curriculum Harvard, Department of Romance Languages, Rai Filosofia, Diego Fusaro presenta Filosofico.net, su Il  di RAI Cultura dedicato alla filosofia. Diego Fusaro, Il Fatto Quotidiano, su Il Fatto Quotidiano. F., L'Interesse Nazionale, su diegofusaro.com.  Passa dal marxismo 2.0 alla rivista più vicina ai cattolici conservatori di CL, in Giornalettismo, Chiude Tempi, licenziamento immediato per redazione e dipendenti, in L’Huffington Post, La conversione del filosofo comunista: scriverà per la rivista di estrema destra, su libero quotidiano, Author at Radio Radio, su Radio Radio. Perché le turbo-stupidaggini di F. non fanno ridere ma sono pericolose, su The Vision, Gioia Tauro risultati elezioni comunali, su corriere. Foligno, ecco l’eventuale giunta M5s: Assessore in pectore alla cultura, su umbria Comunali Area ITALIA Regione UMBRIA Provincia PERUGIA Comune FOLIGNO, elezionistorico,  "Valori di destra, idee di sinistra". Fusaro a bomba: nuovo movimento ultra-sovranista, è l'anti-Salvini?, su libero quotidiano. Il filosofo che difende il governo del cambiamento. E sogna la guerra tra popolo ed élite, in Tiscali Notizie, Fusaro, Il capitale: un trionfo dell'idealismo tedesco, Consorzio Festival filosofia, Il filosofo populista Panorama, in Panorama,  In memoria di Preve. Anti-europeismo Euro-scetticismo, Meridionalismo, protezionismo, questione meridionale Revisionismo del marxismo, revisionismo del Risorgimento, socialismo nazionale, teoria del ferro di cavallo, sovranismo diegofusaro.com.  YouTube. openMLOL, HorizonsRadio Radicale.  Filosofico.net La filosofia e i suoi eroi.  Democrito comunitario democratico, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”. Maturità negata. Precarizzazione e de-eticizzazione del mondo della vita, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”. The Role of Aesthetics in Fichte’s Science of Knowledge, in “Polish Journal of Philosophy”, Fichte e la compiuta peccaminosità. Filosofia della storia e critica del presente nei “Grundzüge”, Il Nuovo Melangolo, Genova. F. Fichte and GENTILE (si veda). 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NOTES ON THE “END OF HISTORY” RE-THINKING THE PRESENT AS HISTORICITY. FACTA UNIVERSITATIS. SERIES: PHILOSOPHY, SOCIOLOGY, PSYCHOLOGY AND HISTORY; F. Apraxia ed eclissi del lavoro nel capitalismo assoluto. PARADIGMI, F. Il principio trasparenza: le «Confessioni» di Rousseau e i paradossi della sincerità. INTERSEZIONI; F. Idealismo pratico? Note sulla prima delle “Tesi su Feuerbach” di Marx . GIORNALE DI METAFISICA; F. La costellazione dell’humanitas. Mercato, cittadinanza, comunità, libertà. Civitas Augescens. Includere e comparare nell’Europa di oggi, FIRENZE: Olschki, F. Pensare la dissidenza nel tempo del conformismo globale. In: Fusaro D, Caputo S, Vitelli L. Pensiero in rivolta. Dissidenza e spirito di scissione, Barbera, F. Storia e ideologia. L’odierna malattia antistorica. TEORIE DEL PENSIERO STORICO, MILANO: Unicopli; F. Il “sistema della libertà” di Fichte. La dottrina della scienza come ontologia della prassi. Libero arbitrio. 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Critica illuministica e stato assoluto in Koselleck e Foucault . FILOSOFIA POLITICA; F. Come si fa la storia dei concetti? La proposta di Brunner, tra storiografia e ideologia politica . HISTORIA MAGISTRA F. I “Geschichtliche Grundbegriffe” di Brunner, Conze e Koselleck. Acquisizioni e novità teoriche. . RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA; F.. L’aporia dello Stato in Fichte. L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca della compiuta peccaminosità. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, F. Ideologia tedesca. MILANO: Bompiani, F. Metafisica e reazione al disincanto postmoderno. In: A. Cusimano. Per una rifondazione della Metafisica. Critica della ragion postmoderna, SAONARA: Il Prato F. Quale comune? Per una critica del marxismo deleuziano di Toni Negri. KOINÉ F. Modernità come supremazia dell’utile economico. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, Nietzsche tra eterno ritorno e tensione verso il futuro. Le aporie nella concezione nietzscheana del tempo. La passione della conoscenza. Studi in onore di Giametta, LECCE: Pansa Multimedia F. Salario, prezzo e profitto. MILANO: Bompiani, F. Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita. MILANO: Bompiani, F. Tagliapietra. Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia. AGALMA, F. Bibliografia di Così parla Zarathustra. MILANO: Bompiani, F. Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionarioBompiani, F. Ancora una filosofia della storia? Grecchi. Occidente: radici, essenza, futuro, SAONARA: Il Prato, F. Marx e l’infuturamento della filosofia della storia di Hegel. In: R. Mordacci. Prospettive di filosofia della storia, Milano: Bruno Mondadori, F. La gabbia d’acciaio: Weber e il capitalismo come destino. KOINÉ F. Reinhart Koselleck nel dibattito storiografico e filosofico. TEORIA POLITICA; F. Forme di produzione precapitalistiche. MILANO: Bompiani, F. Manifesto e princìpi del comunismo. MILANO: Bompiani, F. Perché non può essere noioso lo studio di ciò che nasce dalla meraviglia. È veramente noiosa la storia della filosofia antica?, SAONARA: Il Prato, F. Lavoro salariato e capitale. MILANO: Bompiani, F. La filosofia della storia di Herder: una prospettiva greco-centrica?. ARCHÉ, F. Presentazione, in C. Preve, Un’approssimazione al pensiero di Karl Marx. In: C. Preve. UN’APPROSSIMAZIONE AL PENSIERO DI KARL MARX TRA MATERIALISMO E IDEALISMO. F. Saggio introduttivo. In: Luciano di Samosata. Tutti gli scritti, MILANO: Bompiani, F. Marx e l’atomismo greco: alle radici del materialismo storico. SAONARA: Il Prato, F. Karl Marx e la schiavitù salariata: uno studio sul lato cattivo della storia. SAONARA: Il Prato, F. Bibliografia di Luciano di Samosata, Tutti gli scritti. MILANO: Bompiani, F. Per una teoria del’arte in Marx. KOINÉ F. Sulla questione ebraica. MILANO: Bompiani F. DEMOCRITEA COLLEGIT EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA. In: S. Luria. DEMOCRITEA COLLEGIT EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA, MILANO: Bompiani, F. La farmacia di Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima. SAONARA: Il Prato, F. I Presocratici. In: Diels-Kranz. I presocratici : prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di Hermann Diels e Walther Kranz, MILANO: Bompiani, F. Filosofia e speranza. Bloch e Löwith interpreti di Marx. SAONARA: Il Prato, F. Montaigne euretes del moderno. In: Michel de Montaigne. Apologia di Raymond Sebond. p. 5-73, MILANO: Bompiani, F. . Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. MILANO: Bompiani, glebalizazzione. Diego Fusaro. Fusaro. Keywords: idealism e prassi, Lucrezio, italianita, romanita, Gramsci, Gentile, arte, technica, filosofia della storia, peccato, italiano, italianita, evola, filosofia in eta antica, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fusaro: l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fuschi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale eretica – la scuola di Cesena – filosofia cesenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cesena). Keywords: “One of my pupils at Oxford said the wanted to specialize in Italian philosophy. ‘Stick to the heretics!’ I advised!” Abstract: iconoclast, eretico. Grice: “I see my philosophy as a simplifying iconoclasm, on the whole!” Filosofo cenese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano.  Cesena, Emilia Romagna. – Grice: “I like Fuschi, and so does Eco, Rota, and Carlini! Fuschi opposes Aquina’s truths and turns them into mistakes – since they involve things about the past – where the apostles kept property – it’s all pretty unverifiable, -- still Fuschi was thoroughly heretic!” – Grice: “Fuschi is the Italians’ Ockham!” --  Michele da Cesena   Affresco di Andrea di Buonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli di Firenze. Al centro c'è papa Innocenzo VI; in primo piano, tre ecclesiastici che discutono: Guglielmo da Ockham, Michele da Cesena e l'arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli. Rispettivamente alla destra e alla sinistra del papa vi sono Egidio Albornoz e Carlo IV di Lussemburgo. Di grande rilievo nelle vicende politiche ed ecclesiastiche, noto soprattutto per essere stato ministro generale dell'Ordine francescano.  Dopo avere studiato a Parigi, venne eletto alla più alta carica dell'Ordine francescano durante il capitolo generale tenuto a Napoli. Durante quel capitolo vennero anche approvate le rinnovate Costituzioni dell'Ordine, note (per essere state +preparate da un gruppo di frati ad Assisi) come Constitutiones Assisienses. Si distinse subito per una decisa persecuzione nei confronti degli “spirituali, sostenitori dell'assoluta povertà di Gesù Cristo e della necessità di una altrettanto rigorosa povertà dell'ordine francescano. In questa opera di repressione, e appoggiato da Giovanni XXII. Con le lettere bollate Sancta Romana e Gloriosam Ecclesiam Giovanni XXII riprova e scomunicava tutti gli spirituali. Si voleva così chiudere il caso della frattura tra gli spirituali e il resto dell'Ordine francescano (la cosiddetta "comunità"), sospingendo i primi nell’eresia e nella marginalità. Incalzati dalla persecuzione, Ubertino da Casale e Angelo Clareno, i maggiori esponenti della corrente spirituale, dovettero lasciare l'Ordine. A Marsiglia, per la prima volta erano stati bruciati sul rogo quattro spirituali. Tuttavia, anche i rapporti tra Michele e Giovanni XXII si deteriorarono. Il papa, infatti, aveva riaperto il dibattito a proposito della povertà di Cristo, e finì per abolire (con la lettera bollata Inter nonnullos) la "finzione" giuridica, in vigore fin dal tempo di Niccolò III (regolamentata con lettera bollata Exiit qui seminat), secondo la quale i francescani non possedevano nulla né come singoli, né come conventi, né come Ordine, ma era la Santa Sede a detenere la proprietà di tutti i loro beni che poi venivano gestiti per mezzo di procuratori. Durante il capitolo di Perugia i Francescani difesero le loro tesi sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, come singoli e in comune. Il manifesto francescano di Perugia (più precisamente, due lettere encicliche scritte dal Capitolo e indirizzate a tutti i frati) venne però condannato dal papa. Ormai lo scontro tra Fuschi e Giovanni XXII era irreversibile.  Il ministro generale venne convocato dal papa ad Avignone e sospeso dalla sua carica. Venne confermato dai Francescani alla carica di ministro generale nel capitolo di Bologna. Giovanni XXII gli impose una residenza forzata ad Avignone, ma fuggì con un piccolo gruppo di frati, tra i quali Occam e Bonagrazia da Bergamo. I fuggitivi si imbarcarono nel porto di Aigues-Mortes e raggiunsero a Pisa il campo di Ludovico il aro, candidato al trono del Sacro Romano Impero.  Il papa depose Fuschi dal suo ruolo di ministro generale con la lettera bollata Cum Michaël de Caesena. Con la lettera bollata Dudum ad nostri, Fuschi, Occam, e venivano scomunicati. Tale condanna venne rinnovata con la lettera bollata Quia vir reprobus Michaël de Caesena.  Durante il capitolo generale convocato a Parigi venne eletto ministro generale Oddone. Una parte comunque minoritaria dell'ordine francescano rimase fedele a Fuschi, rifiutando di riconoscere l'autorità d’Oddone e del papa stesso, ritenuto eretico e quindi ipso facto decaduto (nel suo scontro con il papa per la successione al trono imperiale, Ludovico il aro face eleggere papa Rainalducci da Corbara con il nome di Niccolò V. Esponente, con Occam e Marsilio da Padova, del gruppo di intellettuali schierati sul fronte ghibellino e protetti da Ludovico il aro, Fuschi visse alla corte. Nomina Occam suo successore e vicario, affidandogli il sigillo dell'Ordine che era ancora in suo possesso.  M. Niccoli nella Enciclopedia Italiana, C. Dolcini nel Dizionario Biografico degli Italiani riporta. L’ultimo appello di M. fu pubblicato a Monaco e non si hanno notizie su di lui. Altre opere: “Appellatio monacensis, Armando Carlini, Fra Michelino e la sua eresia, prefazione di Renato Serra, Bologna, Nicola Zanichelli, Cattività avignonese Disputa sulla povertà apostolica, “Il nome della rosa”; Ordine francescano Riforma spirituale medioevale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Michele da Cesena e michelisti, -- michelismo e tomismo -- la voce nel Dizionario del pensiero cristiano alternativo, sito Eresie Medioevo ereticale: la disputa sulla povertà, su mondi medievali. net. Predecessore Ministro generale dell'Ordine dei Frati MinoriSuccessoreFrancescocoa.png  Bonini Odonis Francescanesimo Disputa sulla povertà apostolica Filosofia.  L'eresia è una dottrina considerata come deviante dall'ortodossia religiosa alla cui tradizione si collega, come storicamente quella cattolica. Il termine viene utilizzato anche FUORI DALL’AMBITO RELIGIOSO, in senso figurato, per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli. BUNAIUTI (si veda) Galilei condannato per eresia. Etimologia, origine e sviluppi del termine. Goya: Il tribunale dell'Inquisizione "Eresia" deriva dal greco αἵρεσις, haìresis derivato a sua volta dal verbo αἱρέω (hairèō, "afferrare", "prendere" ma anche "scegliere" o "eleggere"). In tale ambito indica anche delle scuole come quella dei pitagorici di CROTONE o quella del PORTICO ROMANO.  In ambito cristiano, il termine "eresia", assente nei vangeli canonici, compare negli Atti degli apostoli(, in origine dunque eretico, era colui che sceglieva, colui che era in grado di valutare più opzioni prima di, cfr. Atti) per indicare varie scuole (o sette) come quelle dei Sadducei, Cristiani e Farisei. Sia in greco antico sia in ebraico ellenizzato questo termine non possedeva, originariamente, alcuna caratteristica denigratoria.  Con le Lettere del Nuovo Testamento tale neutralità del termine viene meno: in Corinzi, Galati, Pietro, haìresis inizia ad assumere dei connotati dispregiativi e ad indicare la "separazione", la "divisione" e la rispettiva condanna. Secondo Schlier lo sviluppo in negativo di hairesis procede con l'analogo sviluppo del termine ekklesia. Haìresis ed ekklesia divengono due opposti. Secondo Boulluec, è Giustino il primo apologeta ad utilizzare sistematicamente il termine "eresia" per combattere le correnti cristiane considerate devianti. In ambito ebraico si evidenzia un processo analogo. In corrispondenza con l'emergere dell'ebraismo rabbinico ortodosso il termine ebraico min -- (מִין, pl. מִינִים, minim; corrispettivo del greco haìresis -- assume dei connotati dispregiativi e viene utilizzato per indicare sia i cristiani che gli gnostici. Il termine d’un significato neutro assume in un secondo momento un valore negativo e passa ad indicare una dottrina o un'affermazione contraria ai dogmi e ai princìpi di una determinata religione, sovente oggetto di condanna o scomunica da parte dei rappresentanti della stessa. Nel caso della Chiesa cattolica, ad esempio, sono previsti appositi sinodi per stabilire quali siano le deviazioni dall'ortodossia e la Congregazione per la Dottrina della Fede (erede della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione) per individuare coloro che vengono considerati "colpevoli di eresia" (ovvero gli eretici).  Fuori dall'ambito religioso il termine viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli.  Eretico è dunque chi proclama con forza una propria scelta definitiva: "eresia" può pertanto equivalere ad una scelta sia di credo sia di appartenenza tra fazionireligiose contrapposte. Un'altra possibile interpretazione, legata al significato di "scelta", richiama il fatto che l'eretico è colui che "sceglie", cioè accetta, solo una parte della dottrina "ortodossa", rimanendo in disaccordo su altre parti. Nel registro informale, il termine viene però usato per indicare un'opinione gravemente errata o comunque discordante dalla tesi più accreditata riguardo ad un certo argomento.  In origine il termine, utilizzato da scrittori ellenistici, indicava una fazione o una setta religiosa, senza connotazioni negative. Già nel Nuovo Testamento il termine assume un significato negativo e in questo senso venne utilizzato da padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici. Ad esempio il termine venne ampiamente impiegato da Ireneo nel suo trattato Contra haeresis(Contro le eresie) per contrastare i suoi oppositori nella Chiesa. Egli descrisse le sue posizioni come ortodosse (dal greco ortho- "retta" e doxa "opinione") in contrapposizione con quelle "eretiche" dei suoi avversari.  Ovviamente, nell'accezione negativa, il termine eresia può essere visto come reciproco: pochi sarebbero disposti a definire le proprie credenze come eretiche, ma piuttosto a presentarle come l'interpretazione corretta di una determinata dottrina, e quindi come la visione ortodossa giudicata eretica da altri. Ciò che costituisce eresia è un giudizio dato in funzione dei propri valori; si tratta dell'espressione di un punto di vista relativo ad una consolidata struttura di credenze. Per esempio, i cattolici vedevano nel protestantesimoun'eresia mentre i non cattolici consideravano il cattolicesimo stesso come la grande apostasia.  Nell'ambito del cristianesimo si tende a fare una distinzione fra eresia e scisma: quest'ultimo comporta un distacco dalla chiesa ortodossa, considerata conforme alle regole date, senza "perversioni nel dogma" (secondo la definizione di Girolamo), anche se, secondo alcuni teologi cattolici, lo scisma inveterato finisce per assumere anche caratteristiche dottrinali.  CattolicesimoModifica  Sassetta: Rogo di un eretico «Sotto il profilo giuridico-ecclesiastico, eretico è definito colui che, dopo il battesimo, e conservando il nome di Cristiano, ostinatamente si rifiuta o pone in dubbio una delle verità che nella fede divina e cattolica si devono credere»  (Karl Rahner, Che cos'è l'eresia?, Brescia, Paideia) Varie opere dell'apologeta e scrittore cristiano Tertulliano sono dirette contro gli eretici e le rispettive eresie: Marcione, Valentino, Prassea.  Il Padre della Chiesa Agostino d'Ippona rivolse la sua polemica principalmente contro i manichei, i donatistie i pelagiani.  In un decreto successivo alla vittoria su Licinio e al Concilio di Nicea I, Costantino condannò le dottrine degli eretici (Novaziani, Valentiniani, Marcioniti, Paulianisti e Catafrigi). Pascal in Pensieri si sofferma più volte sul tema delle eresie. Nel frammento scrive: Dunque esiste un gran numero di verità, sia di fede che di morale, che sembrano incompatibili e che sussistono tutte in un ordine meraviglioso. La sorgente di tutte le eresie è l'esclusione di alcune di queste verità, e la sorgente di tutte le obiezioni che ci fanno gli eretici è l'ignoranza di alcune delle nostre verità. E di solito accade che non potendo concepire il rapporto tra due verità opposte e credendo che l'accettazione di una comporti l'esclusione dell'altra, essi si attaccano all'una ed escludono l'altra, e pensano che noi facciamo il contrario. Chesterton così definisce l'eresia e l'eretico:  «L'eretico (che è anche sempre fanatico) non è colui che ama troppo la verità; nessuno può amare troppo la verità. Eretico è colui che ama la propria verità più della verità stessa. Preferisce, alla verità intera scoperta dell'umanità, la mezza verità che ha scoperto lui stesso. Non gli piace veder finire il suo piccolo, prezioso paradosso, che si regge solo coll'appoggio di una ventina di truismi, nel mucchio della sapienza di tutto il mondo (Chesterton, L'Uomo Comune - La Nonna del Drago ed altre serissime storie)  «L'eresia è quella verità che trascura le altre verità. Solo la Chiesa cattolica è il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento e riescono a convivere, pur se sempre minacciate di squilibrio (Chesterton, Perché sono cattolico - Moro) Un'eresia è sempre una mezza verità trasformata in un'intera falsità. Chesterton, America)  Un esempio di verità che trascura le altre verità ci è dato dalle tentazioni di Gesù descritte nei vangeli sinottici. Vincenzo di Lerino, nel suo Commonitorium, scrive che gli eretici usano le Scritture allo stesso modo di Satana, quando per tentare Gesù. Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio, gettati giù di qui; sta scritto infatti:  Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano;  e anche:  Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra".  Gesù gli rispose: "È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"». Il Medioevo Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Movimenti ereticali medievali. I moti di contestazione nei confronti della Chiesa, divampati nella prima metà del XII secolo, come quello dei patarini e quello degli arnaldisti, avevano dato l'indicazione della necessità di una riforma religiosa. Il movimento dei catari, che affiorò contemporaneamente in diversi punti d'Europa, ambiva alla creazione di una nuova Chiesa. Contro di loro papa Innocenzo III bandì una crociata di sterminio. La caduta dell'ultima roccaforte di Montségur, nel sud della Francia, con il conseguente rogo di circa duecento catari, determina la fine del catarismo. AQUINO (si veda) nella Somma Teologica definie l'eresia una forma d'infedeltà che corrompe la dottrina e porta turbamento nelle anime dei fedeli. AQUINO (si veda), inoltre, e poi di conseguenza nell'ambito del cattolicesimo, si pongono alcune distinzioni fra i diversi GRADI dell'eresia. Quando si tratta dell'opposizione diretta e immediata ad un dogma esplicitamente proposto dalla Chiesa si parla di DOTTRINA eretica, mentre quando ci si oppone a una conclusione teologica o ad altri elementi derivati di una verità RIVELATA o ad una dottrina definibile, ma non ancora definita, si parla di proposizioni erronee, o che sanno di eresia, o prossime all'eresia. Da notare che nella tradizione lessicografica italiana, il lemma "eresia" indica prevalentemente quelle dottrine contrarie ai dogmi della Chiesa cattolica. Così l'edizione di Mauro: dottrina o affermazione contraria ai dogmi e ai principi della Chiesa cattolica. Così anche l'edizione du Devoto-Oli: dottrina che si oppone direttamente e contraddittoriamente a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica. Così il vocabolario online della Treccani: dottrina che si oppone a una verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica e, per estensione, alla teologia di qualsiasi chiesa o sistema religioso, considerati come ortodossi. Nell'edizione del Grande Dizionario Italiano della Hoepli: Nel cristianesimo, dottrina, palesemente dichiarata e sostenuta, che si oppone alla verità RIVELATA da Dio e affermata come tale dal linguaggio della Chiesa, Insieme di interpretazioni personali, contrastanti con la tradizione, che possono svilupparsi nell'ambito di una religione basata su un sistema di dogmi ufficialmente riconosciuti. Tuttavia nel Vocabolario della Lingua italiana Zingarelli, nella prima definizione di questo lemma, esso acquisisce un significato ben più ampio, Nelle religioni fondate su una dogmatica universalmente o ufficialmente riconosciuta, dottrina basata su interpretazioni personali in contrasto con la tradizione, Schlier Schlier Boulluec Epistola ad Titum, Patrologia Latina Agostino, Contra Cresconium, Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori Frammento secondo la numerazione Brunschvicg, secondo la numerazione Lafuma, da Pascal, Pensieri e altri scritti, Mondadori, Milano; Pensées sur la religion et sur quelques autres sujets su ub.uni-freiburg Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori Aforismi sulla verità e sulle virtù raccolti e commentati da Paolo Gulisano, su chesterton.it. ^ Messori con Brambilla, Qualche ragione per credere, Edizioni Ares; Chesterton, Summa Chestertheologica, Guerrino Leardini et Centro Missionario Francescano Società Chestertoniana Italiana; Vincentius of Lerins, XXVI, in The Commonitorium of Vincentius of Lerins, Cambridge; «Heretics use Scripture in the same way as Satan did in the Temptation of our Lord, and they lure the incautious to join them by claiming special grace and privileges for their followers.San Lorenzo da Brindisi, Lutero - Volume secondo, Siena, Ezio Cantagalli; Insegna il medesimo Lirinense che gli eretici, nel portare le testimonianze della Divina Scrittura, imitano il demonio, che messo il Signore sopra la più alta guglia del tempio, gli disse: «Se tu sei il Figlio di Dio, buttati giù: poichè sta scritto che Dio ha comandato ai suoi Angeli ecc.. Luca su bibbiaedu Bueno, Le eresie medievali, Ediesse; Cantimori, ERETICI ITALIANI del cinquecento - Ricerche storiche, Sansoni Editore Nuova, Firenze; Cantù, Gli eretici d'Italia. Discorsi storici, Torino, Unione; Fornari, Frati, antipapi ed eretici parmensi protagonisti delle lotte religiose medievali, Silva Editore. Garofani, Le eresie medievali, Roma, Carocci. Alain Le Boulluec, La notion d'hérésie dans la littérature grecque: De Justin à Irénée: Clément d'Alexandrie et Origène, Parigi, Etudes Augustiniennes; Boulluec, Ellenismo e cristianesimo, in Il sapere greco, II, Torino, Einaudi. Merlo, Eretici ed Eresie medievali, Bologna, Mulino; Nelli, La vie quotidienne des Cathares du Languedoc, Paris, Hachette; Orletti, Piccola storia delle eresie, Quodlibet, Perrotta, Hairéseis. Gruppi, movimenti e fazioni del giudaismo antico e del cristianesimo da Filone Alessandrino a Egesippo, Bologna, EDB; Rinaldi, le fonti per lo studio delle eresie cristiane antiche, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe; Royalty, The Origin of Heresy: A History of Discourse in Second Temple Judaism and Early Christianity, New York, Routledge; Simonetti, Ortodossia ed eresia tra I e II secolo, Messina, Rubettino. Schlier, αἵρεσις, in Kittel, Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, Paideia; Smith, Guilt by Association: Heresy Catalogues in Early Christianity, New York, Oxford; Téron, Piccola enciclopedia delle eresie cristiane, Melangolo. Gioacchino Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Roma, Donzelli; Wakefield, Evans, Heresies of the High Middle Ages, New York, Columbia (raccolta di fonti scelte tradotte ed annotate). Zen, Tolleranza e repressione, Maio, Le fonti della Storia moderna, Torino, Loescher, Catari Brenon, I Catari, storia e destino dei veri credenti (Le vrai visage du Catharisme), Firenze, Convivio; Duvernoy, Le Catharisme. La religion. Duvernoy, Le Catharisme. L'histoire; Zamboni (a cura di), La cena segreta: trattati e rituali catari, Adelphi. Valdesi; Papini, Valdo di Lione e i poveri nello spirito. il primo secolo del movimento valdese; edizioni Claudiana, Tourn, I Valdesi, la singolare vicenda di un popolo chiesa, edizione Claudiana, Apostolici; Cocconi, La lebbra dell'anima. Gherardino Segalello e il movimento degli Apostolici a Parma, edizioni MUP; Dolciniani Raniero Orioli, Fra Dolcino: nascita, vita e morte di un'eresia medievale, Milano, Jaca; Begardi Dottrine cristologiche dei primi secoli Inquisizione Letture e interpretazioni della Bibbia Martiri di Guernsey Movimenti ereticali medievali Persone giustiziate per eresia Storia del Cristianesimo Successione apostolica eresia, su Treccani Istituto dell'Enciclopedia. Luca, ERESIA, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, eresia, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Eresia, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Eresia, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton; "Dizionario di eresie, eretici, dissidenti religiosi", su eresie Portale Cristianesimo   Portale Religione   Portale Sociologia   Portale Storia Movimenti ereticali medievali Scisma divisione causata da una discordia fra gli individui di una stessa comunità (come un'organizzazione, movimento o credo religioso)  Catarismo movimento eretico, separato dal Cattolicesimo durante il medioevo europeo; professava un assoluto ripudio della materia in ogni sua forma. Nome compiuto: Michele Fuschi. Fuschi. Keywords: “Occam  excommunicated” -- Modified Occam’s Razor”, “Cristo e povero” -- italiani eretici, tomismo, michelismo, eresia filosofica – eretico – Occam scommunicato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fuschi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fusco: la ragione conversazionale e il portico romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “When Italians speak of The Portico, I think they mean something, as when they speak of ‘L’Orto’ they mean ‘pleasure’ or eudaemonismo. ‘Portico’ and ‘Orto’ are hardly philosophical terms!” Keywords: portico. Filosofo italiano. A friend of ORAZIO (vedasi) and probably a follower of the sect of the Porch. Nome compiuto: Aristio Fusco. Keywords: portico. Luigi Speranza, “Grice e Fursco”.

 

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