Luigi
Speranza -- Grice e Fabiani: l’astuzia della ragione conversazionale
nell’Italia --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice e
Fabiani. garbarti College Hxav^ OIKT OF THE
DANTE SOCIETY H Ivo, l>i 0. 1 X:u l'io. IS~ IL PENSIERO FILOSOFICO ITALIANO
X)A X)ANT AI TSMtPX NOSTKX RAVENNA ZIRARDINI ^v/'i^./iT : ' f ; r'. DEC 4 Y .r,
.\ / oSeni^fto ^^Uolt Oliando in questo scorcio del secolo nostra io trovo la
mente acuta e profonda dell' On, BoviOy gigante del moderno pensiero filosofico
italiano ali* Universit di ^N^apoli, chiamare t dimostrare il nostro T)ante il
primo dei protestanti e V uU timo dei cattolici ( Vedi Bovio. Saggio Critico del
Diritto Penale). Quando trovo un Ministro italiano della Pubblica h stru^ione,
V On. Voselli, che osa, con %,. Decreto // 7)e cemhre iSSp, fondare un
laboratorio di psicologia sperimentale presso V Universit di Roma; Quando vedo
il giovine imperatore di Germania Gugliel mo IL che annusando la nuova aura e
il nuovo sole d' Eu- ropa e del mondo civile, mira arditamente a Prometeo
incolume e trovasi novello Fetonte^ nel voler destra e generosamente prendere
le redini del movimento ascendente, per non esserne travolto; Quando infine, e
proprio di questi giorni^ rilevo il primo filosofo d' Inghilterra, il
rappresentante attuale del positivismo filosofico inglese, V illustre Herbert
Spencer essere pervenuto^ nelle sue ultime pubblicazioni sociologiche, alla
conseguenza della collettivit della terra; Quando, dico, in questo secolo che
muore, questi quattro fatti e criteri importantissimi nel mondo del moderno
pensiero filosofico io considero^ mi sento incoraggiato a superare e rompere in
parte, con la presente pubblicazione ^ quel naturale riserbo e quella
peritanza, che ^finora m' impose la coscienza della mia pochezza Mi sia adunque
concesso e perdonato l'osare che ora faccio, pubblicando la conferenza circa il
pensiero ftlosofteo italiano da Dante fino ai tempi nostri, che io avea gi
apparecchiato, sebbene non potesse poi aver pi luogo, in occasione delle feste
dantesche del passato Maggio qui in Ravenna. Questa mia pubblicazione poi
intendo di fare a favore del primo fondo per il test costituito Patronato di
soccorso in vesti e calzature, per gli scolari poveri delle scuole elementari
di questo Comune, specie dei sobborghi, avendo potuto nel passato anno
scolastico toccare con mano V impellente hiso ^^^1^f Hi^ll' A r - fi
tl^r"n-d^i, ^0 i fnm i^ rt d tv La filosofia patristica invece, o dei
Padri della Chiesa, erasi sviluppata m Oriente da due centri rivali,
Alessandria ed Antiochia. La patristica, incominciata col Cristianesimo, fiss
la parte dogmatica della cristiana religione, e giunge fino a S. Agostino, morto
il 450 dell' era volgare. Di S. Agostino
celebre il modo strano d'accordare assieme nell' uomo il libero arbitrio
e la predestinazione, merc la grazia divina. Ma qui m'accorgo che a meglio
dilucidare il nostro punto di partenza convien pure rif^irci un pochino
addietro, per intuire almeno d'un tratto il lungo cammino percorso dalla
filosofia prima di Dante. Tutta la filosofia anteriore al mondo cristiano si pu
dividere in quattro grandi epoche, i. La filosofia orientale che ebbe sua culla
tra i primi popoli civili, che la storia ricordi, quali i Fenici, gli Assiri, i
Medi e gli Egiziani: Feticismo in religione. 2. La filosofia italo-greca
incominciata con Pitagora a Cotrone nella Magna Grecia od Italia meridionale:
Sabeismo e metempsicosi in religione. 3. La filosofia greca che conta tre
immensi giganti del pensiero, luminari di tutte le nazioni e di tutti i tempi,
e questi sono Socrate, Platone ed Aristotele, i quali senza dubbio si possono
considerare siccome primi e pi remoti fondatori del* la civilt cristiana
stessa: Politeismo ed antropomorfismo in religione. 4. La filosofia romana; ma
in quest' epoca non abbiamo veramente alcuna nuova scuola filosofica div/ersa
dalU greca. La filosofia romana non
perci originale, ma pratica, politica, eclettica e giuridica sopra
tutto. Segui in parte la scuola epicurea, ma pi e meglio la scuola stoica di
Zenone che poneva il fine (iell'uomo nell'onest e nella virt; di qui la
meravigliosa sapienza della romana giurisprudenza, nobile vanto del mondo
romano. A capo della filosofia romana
posto Cicerone, celebre oratore e filosofo eclettico per eccellenza:
Panteismo e scetticismo in religione. Parimente quattro sono le principali
epoche 4clla filosofia dell' ra cristiana, i. La filosofia patrstica seguace in
buona parte della filosofia di Platone o della A^cade(pia, per quanto poteva
condursi al dogma crispano. I p^t - ij dri fissarono dapprima il gran caposaldo
della cristiana religione col dogma della creazione divina fino dal 325 dell'
ra volgare, nel celebre concilio ecumenico di Nicea, indetto dall' imperatore
Costantino. In quel concilio ed in altri parecchi stabilirono successivamente i
padri della Chiesa le basi dogmatiche della cristiana dottrina: Monoteismo
cristiano in religione. 2. La filosofia scolastica o dei Dottori di scuola,
seguaci specialmente d'Aristotele o del Peripato, principe dei quali S. Tommaso
d* Aquino, che mitig la teoria della grazia di S. Agostino, onde V apotegma
teologico: ngustiius egei Thoma interprete. Ma in questo lungo periodo, che
giunge fino alla Riforma, la filosofia gi circoscritta dalla dottrina dogmatica
della patristica, ormai ancella della
teologia; laonde il pensiero filosofico
chiuso in un ristretto campo trincerato da anatemi. 3. La filosofia
della Riforma religiosa in Germania e del cosi detto Risorgimento in
Italia. questo periodo il pi fecondo di
splendidi ingegni e di illustri filosofi e pensatori in Italia e nelle nazioni
civili d' Europa. Il pensiero filosofico emancipato d per reazione la scalata
al cielo e giunge trionfante per evoluzione e per irruzione fino a nostri
tempi, sfondando le dogmatiche barriere di Bisanzio. 4. La filosofia del
Rinnovamento sarebbe quella della 4. epoca dell' era cristiana, e sarebbe
quella appunto de nostri giorni, divisa in due campi opposti; cio
dellaffermazione in un nuovo mondo soprannaturale o nel gi posto da una parte,
e della negazione pi o meno esplicita dall'altra. Quest' ultima nel cammino
dell' umanit caratterizza sempre un periodo di transizione a nuove riforme o
costruzioni. Delineate cosi brevemente le grandi tappe della filosofia pagana e
della filosofia cristiana patristica, noi e i vedremo ora meglio rischiarato il
cammino passando dalla filosofia scolastica a quella della Riforma e del
Risorgimento e quindi alla filosofia odierna del Rinnovamento. Nella
esplicazione della vita dei popoli accade quello stesso che noi osserviamo
nella vita dell'uomo individuo. Le potenze dell' animo una volta educate un po'
a lungo, pare si sveglino, chiaro appare ci che innanzi era oscuro, si ordina
nel pensiero quanto si ha imparato, si ripensano le cose apprese, se ne parla,
se ne ragiona e si passa quindi all'azione con tenace operosit. Cosi avviene
nei popoli quando la civilt loro e la precedente educazione sieno giunte a poco
a poco alla portata dei pi : questi provano insieme la stessa necessit di
pensiero e la corrispondente esplicazione, ed il moto si propaga
irresistibilmente nelle moltitudini. Tale vigore si pales appunto nel popolo
italiano, uscito gi dalle tenebre del medio evo e dal paventato finimondo, nel
secolo dodicesimo e giunse al colmo nel secolo decimo terzo in ogni maniera del
vivere civile, nella letteratura e nelle arti, mentre fioriva la filosofia
scolastica. Col secolo decimo terzo noi siamo all'apice della nostra rinascenza
ed alle porte dell' umanesimo; onde pi tardi l' Europa da noi ridesta trarr
lume ed energia a risveglio ancor maggiore con la Riforma religiosa e politica.
Dante il principe di questa nostra
rinascenza. La sua filosofia quella di
S. Tommaso il Dottore Angelico, autore delle due Somme, una contro i Gentili e
l' altra detta Teologica, sebbene non ultimata. In queste due Somme si adunano
ed ordinano le dottrine precedenti dei Padri e Dottori, quali specialmente
Sant' Agostino, Sant'Anselmo, Pier Lombardo, Alberto Magno, San Bonaventura e
gli altri, con la scorta di Aristotele. Tutte le opere di Dante, quale sommo
letterato, teologo e filosofo, hanno non piccola importanza nella storia della
filosofia, procedendo gradatamente dalla Vita nuova, dalle poche Lettere
.scoperte e pubblicate dal prof. Carlo Witte in Germania verso il primo quarto
di questo secolo, dalla Monarchia^ dall' Eloquio volgare e dal Convito fino
alla Divina Commedia. La filosofia di S. Tommaso e di Dante si pu distinguere,
come nei precedenti filosofi Socratici, e come in Cicerone ed in Sant'Agostino,
in due parti distinte; Tuna che sale agli universali, V altra che scende alle
conseguenze. Per mentre la prima parte muove dall'esame de' fatti interiori,
Dante in essa non esclude talora il dubbio almeno inquisitivo, quale mezzo di
ricerca del vero. Cosi nella 3. cantica al canto 4. del Paradiso, dove egli si
fa guidare da Beatrice, che rappresenta la filosofia cristiana, e dove con mano
maestra tratta profonde tosi teologiche e filosofiche, egli dice a proposito
del nostro naturale desiderio di sapere: ^Hjdsce a ^uisa di rampollo tAppi del
vero il dubbio; ed natura, Che al sommo
pinge noi di collo in collo. Quivi Dante, per quanto serrato nella filosofia
scolastica mancipia della teologia, parrebbe furiere del dubbio sistematico
inquisitivo del Cartesio. Ma per me dove giunge al colmo la valentia filosofica
ed insieme teologica di Dante i al canto 17. del Paradiso, dove egli tocca e
circoscrive la sempre scottante questione speculativa e trascendentale dell'
umana libert e responsabilit conciliata con la predestinazione, nella
prescienza ed onniveggenza divina, merc le due semplici quanto stupende
terzine, che vi riassumono S. Agostino e S. Tommaso: La contiti gen^ia, che
fuor del quaderno Della vostra materia non si stende. Tutta dipinta nel cospetto eterno. Necessit pero
quindi non prende. Se non come dal viso in che si specchia Nave che per
corrente gi discende. La fede, la religione
per Dante, come per tutti gli uomini di genio e veramente grandi, una
esigenza della stessa ragione; e questo in lui appare luminosamente al canto 3.
del Purgatonio, l dove dice: Matto chi
spera che nostra ragione Tossa trascorrer la infinita via Che tiene una
sustan^^a in tre persone. State contenti, umana gente^ al quia; Che se potuto
aveste veder tutto, ihCestier non era portorir Diaria. Cosi egli ragiona del
dogma della Trinit introdotto nella nostra religione durante T impero di
Teodosio i. sul cadere del secolo 4. La qual Trinit del resto, come noto,
una imitazione, un plagio religioso tolto dalle precedenti religioni
orientali, e pi specialmente dalla Trimurti di Bralima, Visn e Siva nelle Indie
Orientali. IIL Avendo fin qui accennato della filosofia teoreticamente
scolastica di Dante, consideriamone ora alcun poco la filosofia pratica e
politica. Intendimento primario e scopo finale della Divins Commedia certamente la Rigenerazione morale, mediante
una grande riforma politica, per la quale nella mente ^1 poeta dovea farsi
luogo ad una monarchia nniversale con un solo Dio, un solo papa preposto al
semplice governo spirituale ed un solo imperatore pel governo civile e
politico. Per lui il Guelfismo disordine
necessario, solo Timpero conduce il mondo a virt, come apparisce datla stessa
sua Monarchia e dal Convito. Nobile utopia d' universalismo questa di Dante,
come ben disse l* On. Bovio, la quale per non cessa di far capolino nella
storia. Perci quanto Dante filosofo
scolastico, reverente e devoto al papa, come vicario di Cristo e capo della
Chiesa universale, altrettanto allo
stesso avverso, come principe temporale. E poich uscendo dalle tenebre del
medio evo, la Chiesa romana avea trovato forse comodo per il proprio diritto acquisito,
di ripetere da Costantino stesso, gi satificato presso la Chiesa Ortodossa
d'Oriente, la donarzione del dominio temporale; il nostro Dante accetta la
tradizione popolare del suo tempo, senza beneficio d'inventario storico, e
riprende sdegnosamente queir imperatore nel canto 19. dell' Inferno dicendo:
Ahi, Cotitantitty di quanto mal fu matre, ^on la tua conversion, ma quella date
Che da te prese il primo ricco patre, cio il papa Silvestro. Ma qui, come ben
avvert T illustre Bovio, la tradizione popolare, allora forse messa innanzi a
meglio rassodare il dominio ten>porale della Chiesa, fa a pugni affatto con
la storia, che pi tardi giunse a galla. Ed in vero risaputo da tutti che solo nel secolo ottavo
comfinciarono in Roma i pontefici ad emanciparsi dalla soggezione verso gli
Imperatori di Costantinopoli in seguito al dissidio insorto fra r imperatore
Leone Isaurico, detto l'Iconoclasta, e papa Gregorio II, per il culto delle
imagini. risaputo che fino allora, come
qui ramment lesimio prof. Rava, gli stessi esarchi di Ravenna, d' ordine dell'
Imperatore d'oriente, poteano opporre il veto all' elezione del pontefice, che
si faceva in Roma dal clero e dal popolo.
parimente risaputo che, mentre i Longobardi divenuti cattolici ed
italianizzati stavano per unire in un sol regno potente tutta r Italia, i
Carolingi, cio Carlo Martello, Pipino e Carlo Magno, invocati dai pontefici
contro i Longobardi stessi costituirono in Italia solo sul cadere dell' 8.
secolo e sul pricinpio del 9. il dominio temporale dei papi. Ed appunto contro questo cosi detto Patrimonio
di S. Pietro e contro gli scandali ed i vizii della curia papale, che tanto
tuon Dante qua e l nella sua Divina Commedia, servendosi pur talvolta di
simjjoli e figure allegoriche con evidente allusione. E fu per questo che, come
opportunamente ramment V illustre rappresentante di questo Municipio Avv. Conte
Tulio Corradini nella nobile presentazione al pubblico ravennate dell' On.
Bovio, il cardinale Poggetto, per ordine del papa, ne ricercava qui le ossa per
maledirle e disperderle. Ma questa postuma e frivola vendetta, contro il noto
aforisma della romana giurisprudenza ptirce sepulto, non potea avere in s
alcuna buona ragione giustificativa, n anche in tempi posteriori. In fatti, non
il solo ALIGHIERI (vedasi) ripeteva la massima parte dei vizii e dei mali d'
Italia e della Chiesa dalla corruttela della curia romana e della corte
ponteficia; ma uomini santissimi altres prima di lui e con lui insorsero contro
la vita irreligiosa ed il mal costume dei maggiori prelati e del clero di quei
tempi. E primo tra questi va citato il ravennate S. Pier Damiano, egregio
filosofo dello studio di Ravenna e poi vescovo di Ostia, meritamente a voi
rammentato dal suUodato Prof. Rava e daUProf. Regoli; quindi un S. Bernardo di
Chiaravalle, una Santa Caterina da Siena, lo stesso Petrarca ed altri parecchi;
dagli scritti dei quali chiaro apparisce come non sia il caso di meraviglia
alcuna per tanto meno che di quella potest ecclesiastica ne disse il nostro
poeta, considerandola nel riguardo civile e politico. La pazza misura del
cardinal Poggetto, non avea quindi ombra di giustificazione contro i resti
mortali di Dante. Ed io penso ancora, per gli effetti moraH e psicologici in me
provati dallo studio e dalla lettura della Divina Commedia fino da studente,
che V incremento dato in tutta Italia, in questa seconda met del secolo nostro,
allo studio accurato di questo insigne monumento della nostra letteratura,
abbia potentemente contribuito alla emancipazione degli spiriti) e quindi alla
stessa unificazione della patria nostra. In fatti, con un crescendo di immagini
odiose e d vibrate riprovazioni il poeta giunge al colmo alla fine del canto
32. del purgatorio, designando la romana curia ed il papa, quale principe
temporale, con termini cosi obbrobriosi e di tanto vitupero, che io ben mi
riguardo dal ripetere quivi. Lo stesso Lutero, io credo, a cui nella rinascenza
Dante preluse, non giunse a tal segno di esecrazione per il papa e per la curia
romana. Ed ecco perch io penso ed aflfermo che quel maggiore culto per la
Divina Commedia pia estesamente ci addit la vera sede cancrenosa, la vera fonte
dei mali d' Italia ripetutamente confermata dalla storia fiii a nostri tempi,
fino al 1848-49; e ci ridest meglio lo spirito di nazionalit ed il desiderio di
vedere V Italia nostra ancora una volta comunque unita e padrona di s.
Perciocch come noi vedemmo lo stesso Machiavelli approvare ed encomiare pi
tardi il famigerato Valentino Borgia, perch in lui potea ripromettersene V
unificatre d* Italia ; Dante pure alla sua volta, pur di vedere la patria
politicamente riunita, non esitava d' invocare all' Italia per fino un principe
straniero, V imperatore Arrigo 7. di Lussemburgo. E quell'imperatore accatt
l'invito dei ghibillini e di Dante, ma mori il 13/3 in Toscana a BuoncoU'
vento, avvelenato, dicesi, d'un' ostia sacrata. Cosi sebbene Dante e poi
Machiavelli fossero cresciuti in libero reggimento democratico, non dubitavano
di accettare e di preferire quel principato qualunque che avesse lor dato
speranza di voler raccogliere in un sol corpo le sparse membra d' Italia. Ed un
tale ammaestramento della nostra storia non dovea andar pi a lungo perduto. Noi
abbiamo veduto a' nostri giorni Mazzini e Garibaldi, innanzi al pi alto iaele
della patria da costituirsi ad unit, sacrificare in silenzio od apertamente,
almeno pr tempore^ al loro nobile ideale repubblicano, di cui erano pur stati
1' uno la mente direttrice e 1' altro il braccio possente. Dante dunque
non solo altamente benemerito della
patria, quale principe dell'italica letteratura, ma lo altres
davvantggio per averci appresa e divinata la sorgente perenne de' nostri
danni politici, e per averci insegnato
voler l' Italia tutta unit in un sol corpo ad ogni cost, additandocene h
via col solo additarci il maggiore ai. E poich dalla nostra rinascenza e quindi
da Dante che solo basta a rappresentamela, quasi tutta V Europa fu desta pi
tardi a vita libera e civile, ben sorga qui a Ravenna, che ne custodisce le
sacre ossa, un degno mausoleo e nazionale ed internazionale, un tempio sacro
per noi Italiani, che rapresenti come ben disse il mio collega ed amico Prof.
Regoli a nome del Comitato, il simbolo della conseguita nostra unit ed
indipendenza. Ed ora per esser breve, o gentili uditori, noi faremo come vi ho
promesso una corsa vertiginosa fino a' tempi nostri, inseguendo per le sole
maggiori vette il pensiero filosofico italiano. Non molto dopo la morte
dALIGHIERI (vedasi) la fisolofia scolastica cominci a dissolversi con Guglielmo
Occam d'Inghilterra, con Michele di Cesena, con Buona Grazia di Bergamo e con
Marsilio di Padova. La rinascenza avea avvivato un movimento intellettuale che
pi o meno apertamente rifmtava a poco a poco ogni appoggio e difesa al dogma.
Si cominci a sostenere che il contenuto della fede non era razionale, ed in
appresso si cominci a distinguere la verit di fede dalla verit di ragione. Per
ultimo sofisticando si asseriva che in buona fede ed in buona coscienza si
poteva benissimo con la ragione intendere in un modo, e con la fede credere in
un altro. Con questo movimento del pensiero filosofico noi giungiamo fino all'
epoca della Riforma o della Protesta in Germania nel secolo XVI. contemporanea
al nostro Risorgimento letterario e scientifico, tra la fine della scolastica e
r inizio del moderno pensiero filosofico. Essen io stato fino allora doppio il
giogo delle menti, il dogma e la scuola, contro quello insorge la Germania,
contro questa V Italia; coli protestando contro Roma papale, qua rinnovando ed
instaurando gli studi classici ed umani. Aristotele il gran campione del
Cristianesimo con la scolastica, fu tosto proscritto di qua e di l dall' Alpe.
Per gli umanisti d* Italia, mentre si scagliavano pure contro le istituzioni
della Chiesa non meno che contro la barbarie della scuola, non intaccarono il
dogma. L' Italia contentavasi di rinnovare la scienza, auspici gli stessi
pontefici i quali ne reggevano il movimento destramente, da Nicol V. a Leone X.
che, non ostante il distacco per lui avvenuto della Germanta dalla Chiesa
romana, diede il suo nome al secolo per la magnificenza e per lo splendore del suo
pontificato, sebbene cosi rovinoso alla Chiesa cattolica. Ma se l'Italia
rinnovava la scienza, la Germania rinnovava la coscienza, protestando appunto
contro le indulgenze messe a mercimonio, contro la giustificazione per mezzo
delle opere, contro la costituzione gerarchia della Chiesa ed altro. La
filosofia che con la patristica e la scolastica era passata dal naturalismo
alla teologia, ora incomincia per r Eurcpa occidentale un processo inverso;
dalla teolagia ritorna al naturalismo. Le verit di fede e di ragione non pi si
conciliano negli intelletti colti, ma si escludono. Non pi permesso in buona fede con la mente
intendere in modo e con la religione credere in altro. In questo stato del
pensiero filosofico scoppia in Italia una fiera controversia sulla natura
dell'anima umana, specialmente nelle universit di Padova e di Balogna. Si - a3
impugna da una parte e si difende dall'altra la stessa immortalit deir anima .
Chi formul e mise in chiaro la presente situazione fu il mantovano Pietro
Pomponazzi o Pomponaccio, nato il 1462 e morto 1524, con una pleiade di seguaci
ed oppositori. Il Pomponaccio avea menato gran rumore col libro de
immortalitate anitnae. Il primo periodo del nostro Risorgimento avea mirato a
scristianeggiare Platone ed Aristotele; il secondo incomincia con Bernardino
Telesio di Cosenza a ricostruire, filosofando non pi secondo principii
teologici n aristorelici, ma secondo principii propri, accedendo al
naturalismo. A questo secondo periodo appartengono Francesco Patrizzi, Pietro Ramo,
Giordano Bruno e Tommaso Campanella. Di questi due ultimi almeno, ecco un breve
cenno. BRUNO (vedasi) nasce a Nola. Questo sventurato ingegno, come ormai tutti
sanno, E BRUCIATO VIVO A ROMA PER AVER OSATO FILOSOFARE FRANCAMENTE. Tolse da
Copernico il sistema eliocentrico pel quale Galileo Galilei pi tardi fu pure
ammonito, processato, condannato dal Santo Ufficio di Roma, relegato ad
Arcetri, e dicesi fin anco torturato. Ammise inoltre il Nolano nella astronomia
una innumerevole moltitudine di sistemi planetari simili al nostro. Il perno
della sua dottrina filosofica l'infinit
della natura contro la teoria aristotelica e teologica. Nella spiegazione delle
comete prov come nel cielo pure sempre qualche cosa di nuovo si generi, in
contraddizione alla dottrina d* Aristotele sulla incorruttibilit dei cieli.
Ammise inoltre nel sole dei movimenti di rotazione e di rivoluzione, bench poco
sensbili; di che il padre Denza, direttore dell'Osservatorio romano e
successore del celebre astronomo^ il gesuita padre Secchi, in un manuale
intitolato Le *Artnonie dei Cieliy gli fa merito insigne insieme a Copernico. E
questo fo ed ancora di grande sorpresa
per me, come certo lo sar anche per voi, o benigni uditori, considerando da una
parte la pi fervente devozione cattolica del padre Denza, come apparisce
luminosamente dalla stessa lettura di quel libro, e dall' altra la generale
alzata di scudi e le tante pastorali al clero italiano per esecrare dagli
altari sotto ogni aspetto, il nome del Nolano. Ma il padre Denza forse non avea
preveduto, nel pubblicare quel libro, n l'apoteosi dei monumento in Campo di
Fiore, n il conseguente putiferio della diffamazione. Molto sarebbe ancora a
dire delle altre filosofiche speculazioni del Bruno, ma la via lunga incalza.
Passiamo al Campanella. Tommaso Campanella, nato a Stilo in Calabria il 1568 e
morto il 1639 a Parigi, fu pure avversario di Aristotele e seguace del
naturalismo di Telesio. Al pari del Bruno appartenne all'Ordine domenicano; ma
fattosi promotore di una cospirazione contro il pessimo Governo spagnuolo, E
INCARCERATO PER BEN XXVII. Con BRUNO (vedasi) e CAMPANELLA (vedasi) si chiude
il nostro ri-sorgimento, e si chiude con lo scetticismo e razionalismo di
VANINI (vedasi), ALTRO FILOSOFO ITALIANO, BRUCIATO VIVO A TOLOSA DI FRANCIA,
SOTTO LACCUSA D’ATEISMO. In Germania invece, ove ernsi iniziato il libero esame
con la nuova Riforma, si diffuse ben presto il misticismo, del quale non sono
in vero ammiratore. Ma questo fatto a me prova della bont dell'Evangelio e
della Cristiana Rteligione, una volta spoglia e sciolta della infarcita
suppellettile cottolica nella parte dogmatica. Noi pure fummo testimoni di due
nuovi dogmi proclamati durante il ponteficato dello stesso Pio IX. La filosofia
moderna dell'Europa, continuazione dell'epoca che dicemmo della Riforma,
incomincia con Bacone o con Cartesio. Entrambi criticano il passato ponendo nel
dubbio il loro criterio di ricerca filosofica; ma Bacone dubita per giungere al
vero ed alla scienza mediante l* esperienza, Cartesio dubita per raggiungere
uguale scopo mediante il puro pensiero. Bacone fonda il Realismo che continua
poi in Inghilterra ed in Francia; Cartesio fonda l' Idealismo che si trapianta
in Olanda ed in Germania. Il Realismo segue la via dell'induzione, l'Idealismo
quella della deduzione. Cosi restano segnati i due sistemi e i due metodi che
si incontreranno pi tardi nella Critica della ragione pura di Emanuele Kant. Ci
premesso riguardo al movimento generale della filosofia moderna europea, noi
seguiamo ora il pensiero italiano in VICO (si veda). Nato a Napoli, VICO (si
veda) nella storia della filosofia merita un posto distinto specialmente per la
sua opera d'incontestato valore intitolata: I principii di Scienza Nuova. Egli
critica il cogito cartesiano, perch, dice, nelle ricerche non si muove dal vero
ma dal CERTO. Il vero conseguito solo
all'ultimo quale risultato finale del processo logico di ricerca. Il CERTO poi
non si ottiene nella coscienza singola, ma nel senso comune. Per VICO (si veda)
il fare 6 condizione indispensabile del sapere, e la sua Scienza Nuova una storia delle umane idee. L'ordine delle
idee procede secondo l'ordine delle cose, e r ordine delle cose umane ebbe per
lui il seguente processo: Prima le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi,
appresso le citt e finalmente le accademie. Cosi VICO (si veda) e lo stesso
nostro GALILEI (si veda) di PISA, celebre fisico, astronomo, letterato e
filosofo, onore d'Italia e del mondo di
cui ho gi fatto cenno altrove a proposito dell' impostagli abiura, sulla
scoperta scientifica del sistema eliocentrico
integrano e compiono il metodo induttivo di Francesco Bacone. Ed ora, o
Signori, fino al pi grande filosofo moderno di Germania Emanuele Kant, nato a
Knisberg il 1724 e morto il 1804, vi sarebbe da enumerare e considerare una
lunga serie di sistemi filosofici sorti in Iqghilterra, in Francia ed in
Germania, ma per essere brevi noi li sorvoleremo. Solo su Kant credo necessario
soffermarci alquanto, essendo esso meritamente considerato nella filosofia,
quale il moderno Aristotele. Egli V
autore, tra molti altri lavori filosofici, della cosi detta Critica della
ragione pura. Con quest' opera egli ammette la conoscenza matematica merc le
intuizioni pure, e la conoscenza fisica merc i concetti puri, e questo 1' ufficio positivo della sua critica; ma
chiarisce V impossibilit della conoscenza metafisica, cio di oggetti che
trascendono il tempo e lo spazio e sono fuori dell' esperienza, e questo
ne 1' uffici negativo. Il suo processo
logico veramente rigoroso e senza
grinze; ma V ufficio negativo suddetto fa tabula rasa del mondo psicologico e
morale; la metafisica cade interamente demolita, V uomo ridotto nella pi semplice espressione di
misero mortale, terrestre il suo destino . Di fronte alla sua critica della
ragione pura, Kant, che si era proposto il semplice problema della conoscenza,
avea poscia veduto sfasciarsi ogni umana trascendenza d'oltre tomba; onde avvis
tosto al bisogno di riparo, e die mano a ricostruire il demolito, mediante una
seconda critica, la Critica della ragione pratica, in cui si propose il
problema della moralit. In questa il suo celebre imperativo categorico della
legge morale, sciolta per lui d' ogni egoismo,
il seguente: Opera in modo che la massima della tua volont possa valere
come principio d'una legislazione universale. Cosi nella prima Critica Kant,
che si era proposto il problema della conoscenza, raggiunge un ideale
teoretico; e nella seconda, in cui si era proposto il problema della moralit,
raggiunge un' esigenza, un postulato pratico della slessa ragione pura; n
logicamente parlando, pu essere tacciato d' Incoerenza nelle due Critiche. Ma,
come ognun vede, l'edificio della ragione pratica pur troppo mal si regge sui
ruderi arenosi lasciatile a fondamento dal tremendo conquasso della Critica
della ragione pura. Questo filosofare, a mio debole giudizio, fa degno
riscontro alla dissoluzione della Scolastica, quando in essa era permesso
pensare ed intendere in un modo, e credere e governarsi in un altro, per
salvare capra e cavoli; cio per salvare allora la ragione e la fede, ed ora per
salvare l' esigenza dell' intelletto ed insieme V esigenza dell'animo e del
sentimento, a tutela della compagine associale. Molto sarebbe a dire di Fichte,
Schelling, Hegel, Herbart, Schopenhauer e d' altri seguaci ed oppositori di
Kant in Germania, ma il tema noi comporta. Per trovo necessario di dare un pi
breve cenno anche di Augusto Comte, altro celebre capo-scuola della moderna
filosofia positiva francese; non che di Spencer, capo-scuola ancor pi celebre
del moderno positivismo inglese; e quindi passeremo senza pi ai nostri ultimi
filosofi italiani, per summa capita. La filosofia positava di Augusto Comte
trae lasuadoppia origine e dalla scuola fisiologica del Broussais e dalla
socialistica del Saint-Simon, di cui fu prima collaboratore. Nasce il Comte a
Montpellier il 1798 e mori il 1857. Staccossi dalle dottrine sansimoniane, con
la mira di promuovere una riforma sociale. Il suo positivismo si fonda sulla
famosa legge de' tre stati dell' uomo, cio dello stato teologico, metafisico e
positivo^ seguendo il cammino deir umanit dalle selve alle accademie. Prima in
fatti di conoscere il legame degli effetti fisici tra loro, niente vi ebbe di
pi naturale ne' tempi eroici, che di supporli prodotti da esseri intelligenti,
simili a noi. Tutto ci che succedeva di. arcano tra gli uomini, senza che essi
vi avessero parte, ebbe il suo Dio. Questo lo stato teologico. Passiamo ora al
secondo, allo stato metafisico. Quandoi filosofi riconobbero V assurdit di
queste favole mitolo* giche, non avendo tuttavia acquistato veri lumi sulla
storia naturale, immaginarono di spiegare le cause dei fenomeni per via di
espressioni astratte, comt essenze e facolt; espressioni che intanto rton
ispiegavano, nulla e di cui si ragionava come se fossero state degli esseri,
delle nuove divinit sostituite alle antiche
tali i dogmi. Ed ora passiamo al terzo, allo stato positivo. L'uomo per
ultimo, osservando V azione meccanica che i corpi hanno gli uni sugli altri, ne
ricav ben altre ipotesi, che le matematiche assodano per realt, e V esperienza
verifica via via tale lumanesimo. Questa
legge dei tre stati, certo molto
specios.a ed attraente. BOVIO (vedasi) la riassume ancor pi conciso: Gli Del, r
uomo-Dio, r uomo . Il Comte ne sviluppa V ultimo stato, il positivo, 1' uomo.
Va da s che egli detesta la teologia e la metefisica per le quali l'uomo gi passato e passa nei primi due stati.
Bisogna ora giungere alla cognizione positiva con le scienze positive appunto,
quali la Matematica, l'Astronomia, a Fisica, la Chimica, la Biologia e la
Sociologia, divisa in Statica e Dinanlica; di cui la' prima tratta dell' ordine
sociale, dello Stato; l'altra del progresso. Ed ora diamo uno sguardo al
positivismo inglese. Il pi grande rappresentante della filosofia contemporanea
inglese certamente Herbert Spencer. Per
va notato che il positivismo inglese
alquanto diverso dal francese. Il positivismo francese non si propone
punto un problema filosofico^ l'inglese si. Il primo esamina il legame delle
scienze positive sopra accenr.atc, passando dalle pi generali alle pi
particolari, rispetto al loro oggetto di studi, per giungere fino all'
oggetto-uomo; il secondo, l'inglese, esamina nelle scienze stesse l'origine ed
il valore della loro conoscenza, e questa trattazione soltanto d'indole veramente filosofica. Inoltre
Spencer non accetta la legge de* tre stati surriferita, n la gerarchia delle
scienze, perch egli non ammette figliazione tra scienza e scienza, ma solo una
scambievole influenza. Contro il positivismo del Comte egli ammette ancora V
analisi psicologica ed una causa prima quale fondamento di ogni religione .
Inoltre vuole V attivit individuale sciolta il pi possibile dalla
subordinazione assorbente nella vita sociale, sciolta dal collettivismo e dalle
pastoie dello Stato, in cui il Comte pone invece la perfezione del Governo.
Nella dottrina dello Spencer distinguonsi poi tre maniere di sapere: il saper
non unificato, formato dalla pi semplice conoscenza; il saper parzialmente
tfliificato, formato dalla scienza; ed il sapere completamente unificato
formato dalla filosofia. Per egli njctte iu dubbio che possa conseguirsi la
perfetta unificazione del sapere: rimarr sempre, ci dice, qualche cosa di
assolutamente inconoscibile, dove si spazier il sentimento religioso. n perno
poi in cui tutta s' aggira la filosofia dello Spencer Tevolazione; che anzi tutto l'universo in lui
evolve, ed ammette nella natura una triplice evoluzione; organica,
supero:ganica ed inorganica. Delle prime due estesamente egli tratta nella sua
Biologia, Psicologia, Sociologia e Morale; ed ha solo accennato all'evoluzione
inorganica nella Astronomia, nella Cosmologia e nella Geologia. Nella teorica
dell' evoluzione ha quindi molti punti di contatto col non meno celebre scienziato
naturalista il suo connazionale Carlo Darwin, circa specialmente le esigenze
della natura organica e superorganica nella sele zione, mentre afferma n a
poter l'uomo, per suo avviso, concepire e meno conoscere il processo reale
delle cose - 31 che si presentano fuori dell'ambito della sua coscienza. Nello
Spencer va inoltre segnalata, in cos vasta dottrina, una rara modestia: nessuna
baldanza dommatica neir affermare, nessuna nel negare. Finalmente eccoci anche
a' nostri moderni filosofi . L'Italia meridionale sempre stata la parte pi feconda d' ingegni
speculativi della nostra patria. Questo fatto
addimostrato dalla storia della filosofia a partire dai tempi della
Magna Grecia con la scuola di Pitagora, fino ai nostri . Il clima pi dolce, il
cielo pi sereno, i colli ubertosi e ricchi di viti e di agrumi, le mirabili e
piacevoli marine, in fine la vita facile e gaia nei pi copiosi beni di natura,
tutto questo forse meglio contribuisce ad eccitare di preferenza in quei nostri
connazionali lo spirito delle filosofiche ricerche e meditazioni. Mentre a
NAPOLI insegna ancora VICO (si veda), di cui sopra accennai, nella stessa
universit professava filosofia e saliva in gran fama Antonio Genovesi. Egli
nacque a Castiglione di Salerno il 17x2 e mori a Napoi il 1769. Sebbene
naturalmente inclinato alla libera filosofia il padre lo volle prete, malgrado
di lui. Pubblic molti lavori filosofici di merito in italiano, sostenendo che
una nazione che non abbia libri di scienza, scritti nella propria lingua,
meglio che civile va chiamata barbara. A questa novit egli teneva anche dalla
cattedra, a cui traeva in folla la citt; come pure ad un'altra d'insegnarvi per
primo nel corso di filosofia l'etica e la politica. Per consiglio di lui
Bartolomeo Intieri istitu del pr~ }2_ prjO Beli* U::;Ter5:ti d: Xapc*^ ima
csneiri Ji comiDcrco, a :;9 .i^.one cbi ri si l^>^^ii^*>^ in hu'::::; e
t:^3 dss^ Tiia'i c:r j irrita a frid. Q.i^ni: T Inrleri on^nn* d^ re Carlo UL
che lasse ca::irii2 T>^r r>rirD3 a'.'. 3 si^sso G^^aoresi . QatHa cvat^TZ
fj ina-ogorata il 1754, rem' anni primi C'^t salisse in tanta faaia il filasofj
ed cjonanijstj scozze\>^ \tzzno Smiih col sao celebre li^ro d^ccanooiia
poSitica, d^l.a quale scienza oggid s: can>idera padre e fondatore. Studiate il mondo, coltivate le lngue e le
matematiche, pensate un poco meglio agli uomini che alle cose che sono sopra di
noi, lasciate gli arz:i::go: meta^ici ai frati *; tali erano i franchi consigli
del Genoveo] un i;raQ rumore; ma egli godeva la protezione di Tanacci, celrbre
ministro liberale e riformatore, com- tutti sanno. Per il suo vero pensiero
filosofico appare meglio dalle lettere {amigliari e private, che da* sui lavori
ufficiali; quali non ostante le maggiori
precauzioni e la protezione della corte, gli fruturono non piccole molestie.
Per quanto riservato egli prenunziava gii la famosa Critica Kantiana. Altro
illustre filosofo napoletano fu Gaetano Filangeri, sebbene morto a soli 58 anni
il 17SS. Ma i' grande riformatore delia filosofia italiana il calabrese GALLUPPI (vedasi). Egli nacque a
Tropea e mori a Napoli. Scrive moltissime saggi, di cii le principali sono:
Saggio filosofico sulla critica ddla c^nosctn^j ;;li EUnunti di filosofia^
Lettere filosoficbt sulle vicende della filosofia da Cartesio fino a Kant,
Legioni di logica e metafisica Fisolofia della volont ecc: senza gli opascoli
sulla libert di srampa ecc. Djal ^.82^ CQjfiiin^^ il QV*ggiO; tt^ Gajlwppi
^RjO$mini, forge ii du(5 primi filosofi italiani della prima met di qui^sto
secolo., Il Qomis di GALLUPPI (vedasi) si diffuse in Europa, ed il i&^&,
a proposta del Cousin, fu nominato socio corrispondente dell'^ Accadjemia
disile scienze in Francia,, in concorrenza dell' Hamiiion ; ed, dietro proposta
di Guizot, fu insignito della croce della legion d'onore. La sua filosofia dieir esperienza, mediante i rapporti
soggettivi 4' identit e di differenza. Ma quantunque il Galluppi abbia sempre
disconosciuto la parentela della sua filosofia con Kant, vi apparisce
l'inftusso del Criticismo. Per questa attinenza la dottrina del Galluppi combattuta da GRAZIA (vedasi) e COLECCHI
(vedasi), pure meridionali, sebbene, almeno per me, un po' parenti del filosofo
Carneade, vi^) ?.enso m.a.Moniano . Meritano quindi distinta menzione
^a^dpjnenico ROMAGNOSI (vedasi) di Salso Maggiore e Meicbi^r^ G04 GIOIA
(vedasi) dii Piacenza, ambi seguaci in parte pi o meno loptana ^Ua filosofia di
Condijilac che insegna a Parma, e si considera quale capo della scuola
sensualista. Ma accanto a Galluppi per valore filosofico va posto Aji^?iirigine
delle idee, si jffiQ^Q^^ U problema della conoscenza, ricercando il ppni(9 4aMe
s.eoisibtiUt ed intelletto si congiungono per pcodutla. per dubbio se egli abbia raggiunto il compito
pjcapQ&tosi: le sue soluzioni in questa e nelle altre aue opere farono
impegnate da GIOBERTI (vedasi), ingegno non meno acato.Dopo il Nuovo Saggio
suiderto, si hanno di lai il RinfUK' amento della niosona italiani, i FnnsiTti
della filosofia morale, la S:-W-2 c:*k7S'':::j: iti sistemi relativi al
principio della morale, V ^nt^cpcls^jy I-i fi.Ji.yfj (Ul TH* ritto, la
TsL:ck;:j, li Lc^^^a e la Tisssjzs, opera postuma. Per ia tutte queste
pabblicazioai egli tenne d'occhio dapprima alla critica, poi alla costruzione
dialettica ideale. poi risapuco il
dissidio insorto, or non molto, tra i
Rosminiani sequaci di SERBATI -- da una
parte e tra Tomisti sequaci dAQUINO -- dalP altra nel clero
italiano; dissidio terminato con la vittoria dei Tomisti dAQUINISTI dAQUINO, e
su cui non si per anco pronunciata la
serena imparzialit della storia. Gioberti
altamente benemerito della nazione italiana, non meno che della
filosofia. Egli merita davvero on posto d' onore ed un culto d' ammirazione
nella mente; V. V-SP e nel cuore d' ogni buon italiano, come filosofo politico
e patriota. Chiunque di noi abbia cara la nostra patria, deve nutrire in cuore
un senso di rispetto e di venerazione al nome ed alla memoria di tant' uomo.
GIOBERTI (vedasi) nasce a Torino di modesta
se non modestissima condizione. Abbraccia
il sacerdozio ed cappellano di corte.
Esiliato per opinioni politiche e non filosofiche, vive in Francia e nel
Belgio. Rimpatria in gran trionfo ed
ministro di Carlo Alberto, appena data la costituzione. CADUTA LA
FORTUNA DITALIA, GIOBERTI (vedasi) ri-torna a Parigi, dove pubblica V ultimo
suo lavoro di molto polso, Del Rinnovamento Civile d'Italia, e poco dopo muore
povero e glorioso. Ecco segnate le tappe della sua vita breve ed immortale ; ma
a dire degnamente di lui troppo qui ora ci vorrebbe, troppo mi sento inferiore
al compito. La filosofia del Gioberti non si limita al problema della
conoscenza come nel Galluppi specialmente, ed ancora nel Rosmini. Essa gira^pi
largo ^ e campeggia nella politica che ne
la mira costante, e dalla genesi della conoscenza si dilata alla genesi
delle cose. L polemica del Gioberti contro Rosmini si limita a cercare se alla
genesi della nostra conoscenza basti la forma dell' essere ideale. Nega
Gioberti ed afferma SERBATI (vedasi). Solo pi tardi quest'ultimo parve
capacitarsi delle difficolt del suo formidabile avversario. Ma le opere di Gioberti
vanno considerate e studiate nel riguardo "pratico, politico e nazionale
anche l dove meno traspare questo nobile ideale. Per ampiezza ed acutezza d'
ingegno filosofico sarebbe potuto forse divenire il Platone o 1* Aristotele
d'Italia, ma egli pi che al titolo j-3 di informatore elk^ filosofia volle
ambire a quello' ji Pater patria. Egli volle farsi il bailo della Nazione
italiana, e ben lo fu. La vita civile ed intelletiivar dei popoli, come la vita
fisica e morale degli individui, corre per tre distinte et che sono: la
puerizia-, la giovent e la maturezza o virilit. Ebbene, le opere del Gioberti
in soli dieci anni circa, percorrono T inrero ciclo, destando l' Italia fino a
spingerla a resurrezione politica, alla guerra d'indipendenza. Il suo intento
fallito materialmente e temporaneamente, era gi raggiunto moralmente, che nel
volere dun popolo mai manca il volere di Dio. Le sue opere tutte, verso k fine
di quel decennio, erano divenute la Bibbia degli Italiani da un capo all'altra
d' Italia; ma pi spezialmente quelle d' indole pohtica diretta, qualt Tkl
Primato morale e civik thgli Italiani^ I Prolegomeni al Primato, Il Gesuita
moderno. Il suo ideale politico era trasfuso nella Nazione, era diventato un
bisogno imperioso universalmente sentito-, ed il suo nome velava benedetto
dalle Alpi al Boeo. Lo st-esso Pio IX., sperando di governare il movimento
nazionale, benedisse dapprima all'impresa ed alla guerra d'indipendenza, tra*
scfi^iifato diAa forza irresistibile dell' opinione pubblica in Italia; riservandosi
coi primi rovesci a maledire. Per a discolpa va notato che il papa allora non
era per anco in fallibile. Fallifta r impresa nazionale, cadde il favore
popolare di Gioberti, ed alquanto freddamente fu accolta ormai r tritima sua
opera suddetta Del rinnovamento civile d' Italia, un anno prima della sua
morte. Ma con qaestopera ponderosa, onde forse rimase fisicamente esaorito,
egli compie e 'finisce la sua missione politica, per r Italia, k quale destinata a sorgere senz'altro ad unit ed
indipendenza. E qui piacerai, a proposilo di questo VJnnovamento del Gioberti,
riportare il commento e la chiosa che ne fa per siiitesi PAusonio ^Franchi ntlk
celebre sua Ultima Critica, in cui bruscamenre e solennemente disdice al suo
passato di scettico e razionalista, per ritornare in Cattolicismo con 'S.
Tommaso, in quel Cattcdicismo che aveva prima sfolgorato con logica
irrefragabile. Nel Rinnovamento del Gioberti, dice il Franchi, rimane ancora
qualche cosa di cattolico e di monarchico, ma coperto e soverchiato da dottrine
affatto razionalistiche e democratiche, e continua: Non pi
l' Italia che deve acconciare la sua esistenza al reggimento della Chiesa e del
Principato, ma tocca a loro di adattare i loro istituti a servizio d'Italia. Se
no, peggio per loro; che d'ora innanzi
nell'ordine teoretico il principio e criterio d'ogni vero si la sovranit della ragione, e nellordine
pratico la regola e misura d' ogni bene si
la sovranit della nazione. Laonde o la Chiesa si piega a rendere
razionale il suo insegnamento, ed il principato a rendere nazionale il suo
governo ; e allora troveranno l' una e l' altro in Italia una ra nuova di
potenza. e di gloria. O invece prosegue Tuna a deprimere la ragione con
credenze da fanciulli, e l'altro ad opprimere la nazione con leggi da barbari;
ed allora tutti e due avranno finito di regnare e d' esistere in Italia. Fin
qui il commento del Franchi resipiscente. Ed ecco come, maturata l'educazione
.politica del ppolo italiano, Gioberti con franco e libero linguaggio si
rivolge ai rettori della Chiesa e dello Stato per patrocinare la causa del
popolo stesso, per abilitare lItalia a sorgere a libera Nazione. Possa il suo
esempio d' amor indomato per il paese nativo ispirare sempre la giovent nostra
a nobili e generosi sentimenti adeguati; possa il suo esempio vivificare la
presente e le future generazioni italiane. Tutto ci, parlando del Gioberti, sia
detto naturalmente senza punto detrarre ai meriti eminenti di tanti altri
nostri pensatori e campioni che pi o meno immediatamente contribuirono con lui
e. dietro lui alla nostra unificazione e libert; pur militando con lo stesso
proposito in campo diverso, quali specialm.entc tra i pi illustri MAZZINI
(vedasi) e GARIBALDI (vedasi). Cosi, o signori, restra fin qui alia meglio
abbozzato il nostro Sant' Antonio; ma rimane ancora a dire qualche cosa della
quarta ed ultima epoca della filosofia cristiana, della filosofia che ho
chiamato del Rinnovamento. Fin qui la parte oggettiva ed accademica: ora la
parte soggettiva o meglio pratica e politica. Seguitemi per qualche altro
tratto, e voi vi scorgerete un contorno del quadro forse abbastanza originale e
pi attraente. O PRATICA E POLITICA I.
ancor dubbio}se lepoca del Rinnovamento filosofico sia ancora incominciata;
non crederei lecito n affermarlo n negarlo. Egli per certo che^ dopo tante contraddizioni e
dopo tanto sfacelo morale di sistemi filosofici in alterna demolizione, generalmente sentito il bisogno di nuove
costruzioni filosofiche a pi razionale soddisfazione delle esigenze della mente
e del cuore. Tutti i yari sistemi filosofici, che ora tengono il campo, si
possono dividere in due grandi schiere: V una che prescinde affatto dalla
metafiisica, da ogni idea trascendentale e costruisce, per mio avviso, suU'
arena, se pure avvertendo gi al lavoro di Sisifo si cura di costruire pi oltre:
V altra che tende alla riforma della metafisica e vi prova nuove costruzioni;
ovvero, come V ostrica aggrappata allo scoglio, resta immobile nella metafisica
gi posta. In una parola tutta la sequela dei diversi sistemi filosofici, con
tutte le rispettive gradazioni e sfumature, si pu ormai dividere in due campi
troppo ben distinti; r uno dei pensatori credenti, e V altro dei pensatori non
credenti. I primi sono ispirati e guidati dalla mente e dal cuore, dalla
ragione e dal sentimento; i secondi solo dalla mente, solo dalla ragione. Per
lo passato trattavasi di credere in un modo piuttosto che in un altro, di
accettare o non accettare questa o quella parta di religione monoteista o
cristiana, questa o quella parte di metafisica in filosofia. Oggid la
differenza ben pi marcata: credere o non
credere nel mondo d' oltre tomba, nel mondo dello spirito. Ma infine anche la
dogmatica, sebbene fuori del campo filosofico, non che una rigida esigenza della stessa
filosofia che aflFerma. I I ligmi religlMi fi&ii sod cA Iti ^r^du%itA
simbolica delle afferma'Mtfl! della filosofia sA 'dio delle firbe che rifuggono
dalla fredda ^ectlaiiohe della rgltit, e s'appassionano fn^e^e della '|)Sedia ^
'di ^^a'f edipee l' immaginazione ed il seflfiiri'ehtft. Abbattiamo ^uf 'Ogni
tngtiJera 'di - sdpemfeion e pregiudizi, di cui iloi tiilitni e 'ih 'ba^^O'e
iti alto^'h^too troppo famosi -^ ~i\ito che nulla credehti ! 'Abbass pure ogni
tnaniera di rozzo "feticismo
'd'Idolatria; iiia l^nSo e francamente sostengo che il berte dell'umanit
e quello stsso del nostro paese, della nstra -patria, reclamaiio Vivamente la
vittoria, la rii^0^tipunto -per 'la IbrO ^pinfa 'e tollt'ihzla in questo
terreno, divennero pot tanto grattai '^ot^t. l^a, ^e io tdo -e tWriro assai
cdmttwnvdt dicroismo dlta ritirata di Cristoforo Bonvitto, 4jella filosofia
AHi^ii^to Frtfbct, non 1' approv nf k) -itgitb mai tillo scolto 4o^^ egli hn
riparato. Tb si per la ikortruifdne nfdla nuVa Riforma che raccgjtrer tutte !fe
^nfessioni d^ll religitie dfistiafiii, titortiaiido per ^tnto possile atta
primitiva dottrina evacifgelica;, che 46 ravviso pi cbnfaed allo stsso idjflc
3' an?vfersalisnoR). -Per nife ^i ^gu^ci di Cripto 'llvon essfei'e pure in
Cristo tutfti fratelli davvero; altrittfeiiti la ^bubna no velia ifrtra itegli effetti prtttiicJi della
^tesjJa sua efnunciaz Ine, 'fitto 'nella prima sua -tse, con coi pfocTama gli
'Ul5miti tutti ti1i 'fro eguali, tutti 'tra loro fratlli, tutti gUrflmente
fi'j^li xli fo; Qjafest 41 Vro GaHttlici^tno deir avvehire. L'ideale cristiano,
con Cristo principe del socialismo, cfeve an i rivoluzione sociale con graduali
riforme, -per ispontanea evoluzione. Ecco il nuovo ideale cristiano. Il
Cattolidsmo Vizioso attuale ha per gli Italiani il torto gmvbsimo, gi
consegnato nella storia troppe volte ed a caratteri indelebili, d'aver sempre
osteggiato per lunghi secoli, cio fino dal reame longobardo, T unificazione e r
indipendenza della patria -nostra. E ci a semplice tutela del dominio temporale,
puntellato per ultimo dalla infallibilit pontificia, senza smettere ancora ogni
maniera d' ostilit al presente stato di cose; in onta -alla vantata provvidenza
che per ultimo ci volle uniti e liberi, malgrado il sedicente Cattolicismo
stesso. Sebbene la retta applicazione della dottrina evangelica, negli
ordin^rmenti sociali dei popoli cristiani, sia pur troppo ancor di l dal
venire, per s stessa e bene interpretata la religiose cristiana certamente la religione della civilt e del
progresso. Considerata ne' suoi effetti pratici, lla pu dirsi santissima
ed veramente di sommo confono all'
umanit sofferente, nei mali materiali e morali ineluttabili della vita
preseilte. Cristo cl suo eroico sacrificio pose tra gli uomini la postuma
sanzione e spezz ed infranse per primo l'orrtbile catena della schiavit,
sciogliendo un problema sociale coltro cui emsi -fiaccata tutta la sapienza
antica, con a dapo lo stesso Aristotele. Ma agli Italiani che vedono pil della
semplice buccia e sentono e provano amor
di patria, per necessit di iHMi pu -a iftieno di destare, -massime a tempi
'nostri. un senso, di nausea; e di ripugnanaa il soddisfare catolicamente a'
doveri religiosi accedendo nella Chiesa ai divini uffici. E perch mai ci? Perch
vi fungono sacerdoti che, in ossec^uio al pontefice non pi re, pi che della,
stessa loro missione religiosa, sono preoccupati della loro missione politica,
e rimpiangendo il passato della terra der morti, maledicono pi o meno
ecclesiasticamente alla patria unit. Perch Italia, Nazione, Patria, libert ed
unit politica da una parte, e Cattolicismo e Religione dall' altra, si
escludono per dir poco necessariamente. Cosi stando le cose, se mai mi fsse
permesso di dir franco il mio pensiero, per me io credo che^arebbe tempo di
troncare il dissidio in Italia tra Chiesa e Stato, e di tagliar corto orni ai
da pame del Governo nazionale. Sarebbe ti^mpo che cessasse la conseguente
demolizione religiosa e odorarle,, la cui responsabilit, per le mondane nair^
delle somme chiavi, certo assai maggiore
nella Chiesa stessa^ a contronto dello Stata Sarebbe tempo in una parola che
gli italiani iniziassero un movimento di ensrgica $, decisiva- secessione dal
Cattolicismo^ per essew. pi credenti ^ pi cristiani nei limiti e nelle misure
de^i ctistiani e della Germania e dell' Inghilterra e della Svizzera in parte,
non che dell'Olanda e della Danimarca e della Svezia e della Norvegia e della
stessa Russia in Europa, come ahrave in Oriente ed in America.Tale secessione
pu effettuarsi pel bene del popolo e della Nazione italiana, con quei
secerdoti, che non mancano, i quali coscienti del divino loro mandato, si
spogliano francamente^ e sostenuti dal Governo e dal popolo meglio si
spoglierebbero, d' ogni veste politica antinazionale, per occuparsi serena ed
esclusivamente della sola loro missione religiosa. Cesserebbe cosi in Italia la
perenne incompatibilit tra Cattolicismo e Patriottismo; ed inoltre questo
sarebbe il primo passo alla necessaria fusione di tutti i popoli cristiani, in
una sola e comune dottrina dogmatica, di cui noi avremmo il merito dell'
iniziativa. Ed in vero, non egli assurdo
che i cristiani cattolici insegnino e pretendano che Cristo morendo, solamente
per loro abbia meritato il premio della vita celeste, il premio del Paradiso,
luogo di quasi uguaglianza ? Non egli
assurdo che altrettanto si ascrivano e sostengano per loro conto i cristiani
protestanti^ con pari accanimento; non che alla loro volta gli stessi cristiani
d' oriente greco-ortodossi, con tutte le divisioni e suddivisioni di questi e
di quelli? Non ben pi logico, civile ed
umanitario laflfermare invece che Cristo merit come volle meritare, il premio
d' una vita tutura ben pi felice della vita presente a tutti indistintamente i
suoi seguaci che da Lui prendono nome, a tutti indistintamente i buoni
Cristiani? Questa nuova affermazione cristiana
per me tanto evidente e necessaria che io non dubito che, come i popoli
cristiani un giorno non lontano s'accorderanno insieme direttamente e
fraternamente a comune soddisfazione de' comuni bisogni economici e politici;
s' accorderanno altres direttamente e con razionale unitormit per soddisfare
fraternamente a lor biso^^fni relimoii e cristiani. E ci senza ulteriori
esclusivismi, fonti d' odii e dissidii politici bene spesso, senza ulteriori
reciproci anatemi che fanno a' pugni con la progredita civilt e col buon senso
de' tempi nostri. La dotrina cristiana in fatti, e precisamente la cattolica
viene pur troppo male infrpfetata dal clero che ne fa una palestra politici in
odio segnatamente all' ideale d'autonomia ed unit degli Italiani. Ed parimente avversata dal moderno socialismo
non ostante la teoria socialista collimi eminentemente con la dottrina
cristiana stessa e quasi ne promani perch il clero torcendone il senso ed
interpretandola a rovescio, ne fa strumento quasi di polizia a tutela della
propriet illipiitata e del capitale proprio ed altrui, contro il precetto
cristiano: Quod superest, date pauperibus. Ma per s la religione cristiana immune affatto da queste macchie, onde il
clero la rende abborrita. Tutto questo
cosi chiaro che splende di luce meridiana, e prova una volte di pi il
bisogno d'una comune Riforma tra i popoli civili, la quale purghi e scevri la Religione
Cristiana da queste mende, estranee al patrimonio della fede, come da ogni
ulteriore feticismo nel culto. Ma qui forse da taluni mi si opporr: Meglio
stare o passare nel campo de' non credenti; meglio attenersi all' umanesimo:
basta cristianesimo; basta religione. Per, dico io, bisogna pure rilevare e
misurare per tempo le serie e gravi conseguenze che fatalmente ci si
affaccerebbero per tal via. Ed in fatti, levata al popolo la vita dell' anima
senza premio e senza pena in una vita fatara, ogni promessa d'alleviamento de'
suoi travagli e delle sue miserie
derisoria e vana. Una volta indotto a rinunciare alla felicit futura per
la felicit presente, il popolo giustamente la pretender di presente. Se la
felicit umana consiste tutta e sola nei
beial d fortuna, nei godimonU 4eli 3^,9^ il popolo senzaltro vorr^, ed a
ragione, qq^^tj be^ni; ^ vajrr per s 1q ricchezze ch^. appiiuto ^ono fon^ e
n^^zso. e condizione di tali beni. Il popolo ha pure diritto inplpr^ dj,
l^VjOraire. q^^lchQ ora di meno, di guadagnare qualchj^ lira d^ pii> di ni>ingiare,
di abitare c^ di vestire un po' meno n^jsQramepte; e suquesto noi tutti
d'accordo, m^ baster questo a f.irIo ricco e felice ? E come potr4 lin^it^rQ le
^w aspi.ra;sQQ, se non gli resta altra speranza che la felicit della ricchezza,
n altra legge che la soddisfazione dei suoi desideri, n altro fine che 1'
ebbrezza dei piaceri ? Non. mi par necessario addurre altre considerazioni e
ragionamenti per dimostrare, o benigni uditori, come in questo campo, tra le
diverse condizioni sociali, npn vi pos^a essere 2\ltrsi equazione possibile,
che una liquidazione universale della civilt non solo, ma anche della societ
stessa. Del resto il popolo stesso queste cose vede, misura, intuisce e
saggiamente scongiura, se i rettori non sono da menp. Per contrario, T
istintivo sentimento religioso nel popolo, se bene indirizzato^ il pi saldo fondamento d'p|;pi ordine
sociale, la pi alta espressione del i^pado un^anp, la consacrazione della
dignit individuale, la fonte delle virt private o pubbliche, V ispiratore de*
pi granai specifici e degli stessi eroismi, si particolari che collettivi. Ecco
perch nel nostro dissidio tra Chiesa e S,tato, io penso che commette un vero
sacrilegio chi da una fV* te, per sostenere il dominio temporale, lo f^
elemento essenziale della religione,perturbando le cos^cienze; e com? mette
grave imprudenza pure chi dall' altra parte, pier oppugnare quel potere,
attacca la religione. f titM lo Stato ha il diritto >4*ft(Fln il dovere di
ten'^' cnto del stiiimtiiq fcti^s, hiit
te defia niratit della
rttitf jptlvt ' e pi col diflFonderlq e coj
pfoteggrlo"; t p\i8 dsittt^sarsi decita moralit pbblica. Il sentimnto
refi^osp, quando forte, pv^fo e bne
applicato, forma la potejiz la grandezza
delle nazini. Ma ci cbe pii lo combat lo
stsso divorzio della Chiesa e del saceMzio cattolico dal sapere, dal movimerito
del progresso umano in tutte le parti dello scibile, ih una parola il divorzio
cattolico dall' evoluzione del pensiero moderno. Divorzio che, cme accennai,
lamenta gi il Griobiti net Rinnovamento, e che in seguito fino a noi pi
saccrebbe; noa potendo pi oltre assoggettarsi gli studiosi allinteftettUal
evirazione. A questo saggiunge r accennato a^anhai'^i degli ecclesiastici
stssi, pi& cne pet glMnteres^ spirtriali, pei ntrali vantggi dgfi individui
e dli Casta; non cle il lf'o disconoscere "qflo che pure nobilissimo sentimento deir animo
umai^o^ l'atnof di patriiy pigliado in tutto questo il mal esempio dallalto. La
storia d^ ogni popolo e dogni tempo ci aiiUQa,estf icfae la fede, l'a religione un bisgno in^vid^ale e sociale. Lo stesso Voltaire
afferma, dietro il prprio roTtlo, che se Dio non fbsse, bisognerebbe inventari.
Ma altre's ui bisgno individuale e
sodiate il progresso civile, economico e scientifico, anzi un bisogn pi
immediato e sensibile Ora, ctne ognun
ved^ necessario che le soddis^aziohf d?
questi due bisgni, del sentimento e delT^ ihtlletto, per lo meno Dn
si'esdudiioV S la storia ci dice: Gua alla Societ civile che opprime e
distrugge la propria fede religiosa! essa ci dice pure: Guai a quella societ
religiosa che rinnega il progresso della civilt ed insulta alle conquiste della
scienza! Per tanto per il benessere
sociale che in Italia tra Chiesa e Stato vuoisi eliminare ogni dissidio, come
ogni vincolo d'alleanza. Solo richiedonsi libert, rispetto e tolleranza
reciproca per ciascuno dei due Istituti, giusta la formola cavouriana: Libera
Chiesa^ in libero Stato. Ma se non pi
possibile uscire dal diuturno dissidio, dal conflitto attuale e passare alla
formola cavouriana; se chi regge le coscienze, non curando il conseguente
sfacelo morale, non cessa mai di rimpiangere e di imprecare per rivendicazioni
che offendono il senso patrio degli Italiani; io penso che ormai lo Stato diritto ed insieme dovere di provvedere ad un
tale stato di cose, senza pi oltre disinteressarsene; ha diritto e dovere di
provvedere e riparare ormai alla presente demolizione morale e religiosa, merc
la secessione ricosiruttrice, di cui accennai. Per tutte le ragioni fin qui
addotte, io non esito, come dissi, nella duplice schiera in cui si possono dividere
i moderni sistemi filosofici, di attenermi alla schiera dell' a^rmazione ^ alla
schiera dei credenti; e precisamente a quella pa,rte di credenti che nella loro
affermazione mirano ad una nuova Riforma, ad una nuova ricostruzione che
insieme abbracci tutti i seguaci della cristiana religione. Cosi se il mio
concetto in proposito assai ardito, il
mio linguaggio non sar per questo meno franco. Per me la parola orale o scritta
non fatta mai per mentire il pensiero, n
mi piacciono quelle circonlocuzioni e quegli eufemismi che lo coprono o peggio
lo travisano. Ecco perch altrove, ne ftiie Problemi Sociali mentre parea
venisse a cessare in Italia o per lo meno si mitiga il conflitto tra Chiesa e
Stato; mi sono augurato in Leone XIII. il ristoratore e riparatore dei danni
gravissimi recati all'ovile di Cristo, dai troppo superbi ed incauti suoi
predecessori omonimi, Leone III. e Leone X.; onde il distacco da Roma della
Chiesa d' oriente col primo, e la Riforma Protestante nella Chiesa d'occidente
col secondo. Ma pi dotto che sapiente Leone XIII, che di quei fatali Leoni
riunisce addizionalmente gli ordinativi, pare ormai ne riunisca fatalmente
anche gli esiziali diftti. Tuttavia lideale di questa fusione, di questo
universalismo cristiano, un bisogno
inlperioso dell' et moderna, la quale pi non tollera privilegi, differenze,
monopolii ed esclusivismi di alcuna guisa. Laonde la realizzazione ne avverr/
io non dubito, quando i presenti popoli cristiani, insieme meglio affratellati,
fra non molto avranno imparato sui dettami d'una giustizia arbitrale che
esclude ogni prepotenza particolare od oligarchica a comporsi tra loro e per
semplice loro conto le gravi questioni proprie ed iaternazioiuli non solo
economiche, ma anche civili, politiche ed etnografiche, e quindi morali e
religiose. E ci senza intervento delle rispettive autorit politiche ed
ecclesiastiche, e magari loro malgrado. Finora la storia ci ha sempre
rappresetitati i governi degli stati e delle nazioni sempre pronti a
guerreggiitirsi materialmente e moralmente, mossi da particolari interest si di
espansione, di conquista e di predominio esterno o ja da panicolari e
dinastiche nlecessit di equilibrio e di ap CfnbafUmo int^riiO. Per tl guisa
y^c^mim qu^ sempre Mila storia y da inccigbi e da sa^t^ dj private
a$9Jl^zioiPii arbi^ariaoieQite gipc^arsi e n^?ie^^r$i a rey^fildagUo gli
iai^re^i generali j e I0 stes^jp %vvmm dei popoli e delle nazioliL Ma ormai
esultUaio., oaaimiama ed allelajflio pare chfe l'umamt^. sta per uscire di
questo brutto circolo viaiojSO di fiinoata tutela in cui i popoli fratelli sono
ai^sati ed avventati a combattersi in :onsciamente gli uni contro gjyi alt^i,
per ]!agk>m e mire particolari . La stioria ci ap.e ora una b^Ua 9 gloriosa
pagina; incomincia quest' airao una nuota. tea di mtaa^una civilt cristiana;, i
popoli ormal s'intendono ffa loro, e dt^ s provvedono fraternanoiite aUe loro
Usc^nc. Cos s'^Ttsicin ormai il .gkncno del nnu) vo Eyas^elo in cui le Nazioni e gU Stati uditi d'Husopa,
non pi& tentiti a balk, regletanao armonica e direttamonte le cose loro,
anch^ senza e contro, i mpetcrv goverm, finch nan sin meglio trab tonnati a
base democratica 0i nelle due Americhe il reggimento repubblicano, fi^mdo
io^ion viso alla propaganda per la Pace e per V ArJHttxtD Imarnazionale a cui
ormai formalmente aderarcuo ^at qugli Stati in numero di ben diciotto, unici
tnttt iofiieme in> una potentissima lega h^ ora saggiamente resi inuttli
tutti i dispendi per la guerra e per gli eserciti. ci sebbene non tutti quegli Stati vadano
sempre immuni da qualche interno turbamento* Gii in Eu* nq) pure, la propaganda
per la Pace e per V Arbitrato ha pittUzato in pochi anni. la politica armigera
ed aggressiva degU Stati pia potenti. Gi nella stessa opinione pubblica europea
si fai strada ognor fh V ideale ddl* Aclmrato, e gli stessi eserciti permanenti
vengono nniversaimente considerati quali inndli sanguisughe e vampir delle
stremate nazioni . in onta al reg^pmento monarchico ed rstocratico. E mentre il nuovo continente di
leziose al vecchio y noi vediamo ora i governi eorcpei sempre intenti con
inauditi sforzi ad accumular armi ed armati per meglio aggredirsi o difendersi
costretti meritamente da imperioso quanto sovrano volere dei popoli^ a
scambiarsi cortesemente le destre. La gran pagina della nuova storia, la nuova
raglo rosa stata inaugurata nei due
continenti. Tutti i popoli civili del mondo cristiano, nella no merosa classe
che li rappresenta, cio negli operai del lavero sudato, s'accordano insieme per
festeggiare il loro lavoro in un giorno convenuto, il i. Maggio. Questo grorno
tutti concorrono per discutere e per regolare insime ed internazionalmente a
tempo e luogo la rispc:tl/a quistione economica, la questione del lavoro, quale
primo avviamento alla graduale soluzione della complessa questione sociale Per
me questo un fatto grandissimo, questo il gran prodromo, T inizio della nuova
ra, in cui i popoli rappresentati pi direttamente nelle classi operaie gradatamente tra loro stabiliranno non solo
gli interessi im terali ed economici, ma eziandio gli interessi civili,
politici, emc^rafici, religiosi e morali, come ripeio; tagliando fuori e
riducendo all'impotenza i Governi,coi formida* bili loro eserciti, ormai non pi
formidabili, ma inutili. Ed ecco come i popoli affiratellati fonderanno pure in
una sola e pi razionale confessione cristiana i aspettivi bisogni
religiosi morali, come sopra accennai. E
ci in onta alle attuali diverse confessioni in lotta ed anatema tra loro,
vantando ciascuna per s il monopolio del vero e sacro patrimonio della dottrina
di Cristo, a mezzo di inconsulti corifei affatto esclusivisti. Quind' innanzi i
popoli civili meglio educati al giusto concetto ed all' uso moderato della
libert il sommo tra i beni morali individuali e colletti vi, la massima
conquista della civilt moderna imporranno agli stessi governanti i propri
voleri, a semplice soddisfazione dei propri bisogni. E questo essi faranno per
mezzo di imponenti quanto misurate dimostrazioni pubbliche, con solenni e
popolari imperativi categorici, senza uscire dai limiti legalitari con atto
alcuno di vandalismo o di sedizione, senza torcere altrui un capello. N paia
questa un'utopia. Noi vedemmo test a Londra, e precisamente la festa del
lavoro, il i. del passato Maggio, uno spettacolo nuovo e quasi incredibile del
pi equilibrato uso della libert, in mezzo ad un immenso popolo di parecchie
centinaia di migliaia di dimostranti. Si
calcolato che tutti quegli operat, con interminabili processioni di
migliaia e migliaia di associazioni, precedute da bandiere e stendardi d'ogni
maniera e gradazione, oltrepassassero il mezzo milione; n la cifra pu
sorprendere per chi sappia che Londra conta circa quattro milioni d'abitanti.
Tutte le principali e pi contigue piazze ne rimasero letteralmente stipate,
mentre centinaia di oratori saliti sopra improvvisate tribune, arringavano ad
un tempo in diversi luoghi e da' punti principali quell'interminabile folla.
Ebbene, in mezzo a tanta moltitndine di dimostranti, tra quali certo chi sa mai
quanti allora affamati e digiuni, niente di sedizioso, ordine perfetto;
contenti e paghi qoe gloperai che il governo prendesse atto delle loro domande
a soddis&zione dei loro bisogni, votando i loro desiderati con immensi
urri, e &cendoU alle competenti aatoriti da apposite commissioni
presentare. Questo solenne esempio di franca concessione di popolari libert da
una parte, e di moderato uso delle stesse dall' altra, quanto non d di che
pensare ed arrossire agli altri popoli del continente europeo; ed a noi
Italiani in particolare! Quanta distanza di contegno nelle popolari adunanze
per noi, troppo nuovi ed inesperti del modico e retto uso della libert, ma
quanta restrizione ancora in alto, neiraccrdar e nell* interpretare le stesse
libert statutarie. Ci pensino a tempo^ ci pensino i paladini dellistituzioni in
Italia al timone dello Stato; che anche il nostro popolo, come V inglese, ha
bisogno di educarsi al sacer^ dozio della libert. Pensino che sempre fresco d'attualit il celebre aforisma
dOVIDIO (si veda), in proposito: Nitimur in vetitum semper cupimusque negata.
Pensino che accanto alla soppressione ed all'oppressione germoglia appunto
rigogliosa e fiera la reazione, quanto spontanea e naturale. Certe situazioni
vogliono essere francamente affrontate, quando non torni punto corretto il sopprimerle
o lo spostarle. Coii il popolo Stesso viene poi educato all'onesto uso della
libert; che se ne sar tenuto lontano, non . sopra tanto apprezzarla da
valersene rettamente e contenersi all' occorrenza. j I Si d3&e e si va ogni
giorno diceQ4o q proclatnando -r^ sfc^it dz cbi mira al potere ^ vi s'aggrappa
o tende a riaggrapparvi^i -n- ch^ la monarchia k il nostro unica t^Us^na^p,, la
sola tavola ^i salv^^^a per la conservazione delia nostra upit, come lo f^ gi
per il conseguimento d^lla nostra um^azione. E sia pur: io qui uol contester;
m^. non posso a tf^nf^ ii const^;i,re che $i f^ prmaii in omaggio alla forma,
troppo fipre9P d^Ua stessa sostanza. E4 a v^rci^ se ci. proprio necessaria la iorma per la nostrfi
cpesipx^e,, perch tanta profusione d' armi e di armati e di pi^licp deiv^ro per
su0lcQrla? Non sarebbe .g4i questp in vece un vero compronpt^tterla e minarla?
In fatti. un biMncio di me:^zo miliardo annuo circa per U Qu^rra e per la
Marina, un ben quattordici milioni an^ui per la Usta civili^, la n^aggiore in
Europa se non,^rrp, e tuqre le amqynistr^ipai e le liberta stesse statuta^ rie
subprdin^te a qi^es^o ^cces$prio di forma; via, non pc^ corre dissimularlo,
tutto questo un lussp da una pa^fte. e
\;i,i;i, sa^ri^co 4^11* Altra, che diventano ognor pi iiisopports^bili a,
popolo italiano; ^ giova in buona fede pro^ clamarlo altamente, perch sia
meglio avvertito T abisso e P^r tempo provveduto. Che se si continua alla forma
immolare siffattamente Ut sostanza^ v^gg^^no i nocchieri che un qualche giorno
un' irjrompente volont 4i popolo ridesto non trovi pi logico di sacrificare la
forma stessa alla sostanza anche sup .tn^lgca^P ^4 a malincuore. 1\ Brasile \
informi; che diversamente, fatto il loro tempo anche gli dei conviene se ne
vadaAPi daj mercato degji interpreti e sacerdoti ini^nzi al popolo una volta
compromessi. K giova Taddurte T esempio diegH zhriSV^tiifmt^txh nestare la mala
via; noi dok V'amo seaz'altfo.i^quUbrttre' i bilanci pubblici coi mezzi e coi
bisogni de ll}|l!ili^on^;40bjstanza saVii. e ignarda^ ghi in vece inribus
nnitis. Ed anche qui, dove ci vengono,n\e^o i tpezzi 6nffir ziari, proprio il casp di prendere e^snp^pio Itmbo
d^ Italia irredenta; la patria nostra, in un tempo piii niella lontano, sar
fatalmente quanto pacificamente integr^^ta^ in tutta la sua pienezza
geografica^ ed etnografico imptrciocche, giova ripeterlo, ci che una nas^ione,
ci cheati p* polo intero vuole, Dio stesso lo vuole sena*a.kro. Ed ecco come e
perch io vorrei conciliata td soluzione del nostro scottante problema economico
e militn stra peregrinatliofte, dopo il lungo e vorticoso viaggio
accademica-poUti'., per yli scolari poveri delle Scuole Elementari dri Gomi'--e
di Ravenna.) k Mm I.'^i'">'; M ptniiwa niouHco llailano d* lllllililii
j . Fabiano. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Fabiano,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi
Speranza -- Grice e Fabiano: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Maestro di Seneca, il quale testimonia che Fabiano
Papirio non è un filosofo ex his cathedraris, sed ex veris et antiquis. Seneca
ricorda la doti di F. di conferenziere -- le declamazioni, le pubbliche letture
sono alla moda --, ne loda il nobile carattere e le doti di filosofo. Seneca
rifere che la produzione filosofica di F. non e meno ampia di quella di CICERONE. Di
lui si ricordano "De causarum naturalium", "De
amimalibus", e “De civilium". Rimangono poche sentenze di F.,
conservate da Seneca e da STOBEO che confermano il giudizio di Seneca, che la
dottrine di quell’indirizzo e caratterizzata da VIGORE ROMANO. Si allontana dal
Portico, quando limita le loro ricerche all'etica e in questa trascurano la
parte teorica. Si avvicina alla posizione del Cinargo, e insieme alle
preferenze dello SPIRITO ROMANO per ciò che serve all’azione. Mira non a
sviluppare teorie, ma a esercitare un influsso personale sulla condotta degl’umini
e condanna le dottrine che non mirrano a un’azione etica. In F. in si manifesta
l’eclettismo perchè accoglie anche teorie pitagoriche -- la norma di rendersi
conto ogni giorno della propria condotta, l'astinenza da cibi carnei -- e,
platonico-aristoteliche -- la natura incorporea e non spaziale dell'anima. Nulla
di filosoficamente importante si trovarsi in F., che però e interessante in
quanto mostrano come la romanità si potessero collegare e fondere in alcune
anime nobili e vigorose. He makes his career in public speaking and becomes interested in
philosophy after meeting SESTIO (si veda). He writes a number of essays and is greatly
admired by Seneca who mentions him in on a number of occasions. Seneca
describes him as someone who lived a philosophical life without being
distracted by details of doctrine. Nome compiuto: Fabiano Papirio. Fabiano. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabiano,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fabio:
la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Philosopher and friend of Boezio.
Luigi Speranza -- Grice e Fabio: la
ragione conversazionale al portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. MHe writes a number of essays on philosophy. Nome
compiuto: Fabio Massimo. Fabio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di
H. P. Grice, “Grice e Fabio,” The Swimming-Pool Library, Vlla Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fabri: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei lizii -- i peripatetici –
scuola della Spinata di Brisighella—filosofia ravennese – filosofia emiliana --
filosofia italiana – Speranza (Spinata
di Brisighella). Filosofo brisighellese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Spinata
di Brisighella, Brisighella, Ravenna, Emilia-Romagna. Grice: “I like Fabri;
especially the ardour by which he fought Duns Scotus – a furriner! – and his
malignant influence on the Continent – he was a thoroughbred Aristotelian, like
me!” Insegnò a Padova. Critica Pico e Galilei,
in difesa di Aristotele, dell'unità della metafisica e della separazione di
matematica e fisica. Altre opere: Disputationes theologicae de restitutione et
extrema unction (Venezia). “Adversus impios atheos”F. n Universitate Patauina
Olim Sacrae Theologiae Professoris EXPOSITIONES, ET DISPVTATIONES In XII. Lib.
Arist. MATAPHYSICORVM; QVIBVS DOCTIRNA IO. DVNS. SCOTI Magna cum facilitate
illustratur, [et] contra Aduersarior omnes tam Veteres, quam Recentiores defenditur
His Praeijt Auctoris Vita a MATHEO VEGLENSI, Nunc Sacrum Theologiam in eadem
Vniuersitate Publice docente, Conscripta. Cum Duplici Disputationum, [et] Rerum
Memorabilium Indice. Ad EMINENTIS. ET REVERENDIS. PRINCIPEM D. Dominum FRANSCISCVM
CARDINALEM BARBERINVM Vicecancellarium. Il valore della "Metafisica"
di Aristotele e la distinzione delle scienze speculative. In: Innovazione filosofica e
università. F. His comment on Aristotle’s metaphysics is a gem. It’s divided in
dissertatio – and chapters for each little unit. The following should serve as
kewyords. contrarium solution, Yorum
appetitus addat aliquid supra facultatem, cuius De Structura Metaphysicorum est
appetitus, et idem de concupicibile, et irascibile. BIECTIO. Adversariorum
Aristotelis contra scientiam Metaphy sicorum. Excellentia Metaplıyl. explicatur.
V trum inter omnes senſus magis senſum visus diligamus, o hoc quia vilusfaciat
nos Excellentia Merappyf. inductine din magis scire. scurrendo per diversas
(ciencias, et questa varia pub. Cap. III pag. Is Rationes, quibusallata
propositio Aristoteli videtur Adraciunes Adversariorum Arist. falla Declaratur
alata propositio, et soluuntur rationes adduciæ. Inscriptione, Сар. Рnicит, Utrum in Brutis sit
prudential. Utrum. Metaphys. sit scientia subalternans, Quid sit dicendum reiectis
opinionibus contrariis, Рівіскі. De Subiecte Metaphysicorum.
Utrum ex experimentis generetur ars, siue scientia. Aliorum opiniones
adducuntur, et reijciuntur, cap.1. Opinio Arist. et Scoti cum suis fundamentis brevi. ter
explicatiil'. Vera Opinio cap.nl p.21 Obiectiones contra opinionem Aristot.ex!
Antiquis Heraclito, Platone, et Avicenna, et earum confutatio, et Solutio.
Obiectiones aliorum contra quædam dicta inVtrum ens habeat peras causas,
principia. et eorum solutio Vtruy verum sit quod expertus non habens artein,
Quid sit dicendum. cap. 1 p. 22 nec scientiam certius operetur habente, et scienti.
Obiectiones aliorum præfertim contra distinctionem ang, sed inexpertè, formalçın
soluuntur. Vtrum AEtiones sint circa singularia. Vtrum illa propositio Aristot.
Omnes homines Diput. natura scire dederant, sit vera, de quo auctitu Opinio
Thomist. et quorumdam aliorum adducitur, Vtrum aliquis SENSVS INTERNVS dividat,
come et refellitur ponat, a discurrat, Opinio Scoti, et eius Comprobatio, et rationum
in P.Opinietur. Opinio D. Tho. ac Sectatorum refellitur, et Opinio Quid sit
dicendum.c. vnic. Scoti explicatur.c. Vdic Vtrum detur Regressus, yorum
obiectum per se sensus sit aliquid fub ra. tione singulariiatis.Vtrum sit
ponere Stutum in omni genere catfitri... ptrum ad Metaphyf. pertineat
cognoscere omnes Quæ fine causæ essentialiter ordinatæ, et quæ acci.
quidditates rerum in particulari. dentaliter, et quæ per se, et quæ per
accidés. Resolutio quæstionis secund. Scotum.Aliotum Opiniones adducuntur, et refelluntur.
Obiectiones contrarationes Scoti, et Propoſitioné Arift.& carundem folutio.
Opinio Scoti explicatur, et rationes in oppofitum Coluuntu. Vtrum cauſæ ſecunde pendeant in sua causalitate ab
aliis causis secundis superioribus, vt Vtrum magis universalia sint
difficiliora cogni agentia hæc inferiora d cælo. Opinionibus Contrariis
conſideratis, quid sit dicendum Itatuitur. Quomodo Celum sit causa lucis,
luminis, et caloris trum metaphyſicæ sit scientia practica, vel Spe. permotum,
vbi de generatione caloris quoque culatiúl, ego idem de logica. agitur. Quid
sit dicendum de Metaphyſ. breviter explica- Quomodo Cçlu producat calore per
lumé.c.z. SS Quid sit dicendum de Logica. Vtrum infinitum possit à nobis
cognolci. An poßit à nobis cognosci infinitum esse in rebus Vtrum prima
principia Complexa vel illud de quo- An intellectus creatus poflit infinitum secundú
quod libet perum est AFFIRMARE, VEL NEGARE, de nullo infinitum cognoscere. Opinio
Suarez cun fais amboſimul, sint nobis naturaliternota. fundamentis Opinio
allata reijcitur. Opinio Scoti explicatur, et ra Quid sit dicendum. ciones in
oppositum foluuntur.An A Genfus principiorum sit actus distinctus ab apprehensione,
et quædam alia dubia mota a Scoto in hac quæst.&non soluta, Coluuntur. Utrum
immobilitas sit causa efficiens, o finalis Vtrum difficultas cognoscendi resfit
ex parte intellectus, vel ex parte rerum cognoscibilium. Quid sit dicendum breviter
explicatur. Opinio Averr. Thomist. et aliorum cum suis fundamentis Opinio Scoti
comprobatur, et allaræ refelluntir. Vtrum genus prædicetur de differentia per se,
Opinio Scoti explicatur, &rationes Aduerfariorum Quid sit dicendum. Cap.
Vnicum ſoluuntur rio. Utrum substantiæ
abstracta immateriales possint cognosci secundum suas quidditates ab Vtrum ens
uni-voce prædicetun de Deare creaturis intelle &tu nostro pro Aatu iſto.
Opinio Thomist. adducitur substantia, e accidente: vbiquæ ad hancmate, et refellitur
riam spe &tent quæq; tractata sint explicantur, Thomist. responsiones refelluntur.
quædam observanda adduntur. Opiniones Auerr.Themistij, simplicii et
Platonicorum, ac Avicennæ adducuntur, et refelluntur Utrum ců Univocatione
entis stet ANALOGIA An Analogum mediet inçer UNIVOCVM et æquivocu. Explicatur
Opinio Scoti, et rationes in oppositum Vtrum Privatio, Negatio sit ens
rationis, In quo sit felicitas, et summum bonum hominis se iundum Aristotelem,
alios Philosophos. Opinio Aucrc.D. Thoin, et sectatorium.c Cap. 2 soluuntur Opinio
untur.C.2 IX. E Opinio Scoti, et solutio rationum pro Adversariis Vtrum
vniversale pro prima intentione sit in solo intellectu, an in rebus, a quo fiat,
ứ quid sit. Vtrum cognitionem negatio habeat ab affirmatione
diftinétamcuiformalitatem opponitur., ca Status quæftionis aperitur, et opinio
Nominal. addu citur, et confutatur Quid sit formalitas Opinio Thomiſt. et multorum
aliorum adducitur, et Quomodo formalitas ſeù conceptibilitas negationis
refellicur.c.2 189 Te habeat ad formalitatein affirinationis Opinio Scoti Quomodo
privatio per affirmatione, et privatio An intellectus agens, vel possibilis
faciat universale, per positiuuin cognoscatur solutio trium quæftionum à
Porphirio excitata rum in Proemio Prædicabil. Rationes pro aliis opinionibus adductæ
soluuntur. De ente rationis, e fecundis intentionibus. An fir ens rationis, et quotuplex
sit Quotuplex sit ens rationis, Aliorum opiniones reijci Utrum verum ſit paſſio
entis, et quid fit Opinio Scoti explicatur, et rationibus primo capite addictis
reſpondetur Quid fit ens rationis,& fecundaintentio. Opinio A. Vtrum bonum
sit passio entis, et quid sit liorum, et eorumdem confutatione Quid sit ens
rationis, et secunda intentio secundum DScorú, et quomodo formatur,& an
formetur a voluntate, et fenfitiua potential Vtrum preter vnum, verum, bonum
den An: prædicametu undecimú debcat constitui, in quo tur aliæ passiones entis
entia rationis reponantur Quid sit dicendum breviter declaratur. c. vnic virum
ens habeat veras paſſiones, cproprietates. Vtrum iftud principium,impoſſibile
eſt id eniſimul Variæ opiniones cum eorum fundamentis eſje; non efje fit
firmiſſimim. Allara opinio refellitur Opinio Scoti explicatur, et rationes
Aduerſarlorum Veritas breviter explicatur, et quædam obicctiones ſoluuntur soluuntur.c.vnic
Vtrum propria paſio distinguatur realiter vtrum hoc principium inpossibile est
idem fimulef à Juo subiecto. fes nonesse sit simpliciter primum principi um, e
prima omnium dignitatum. Opinio et Auerroiſt Nominal. quorumdam. breuiter
reijcitur cum fuis, et opinio fundamentis Thom.. Au principiun iſtud ſit
diuerſum ab alijs principijs, et explicatur.c. præſertim ab illo, de quolibet
verum eft affirmare 201 velnegare.c.1 Allata opinio reijcitur, et opinio Scoti,
quæ eft etiam Auert. Comprobatur Opinio Allerentium primum principium
ſimpliciter Rationes Aduerſariorum foluuntur elle illud de quolibet verum ett
affirinare,vel nega Rationes Aduerſariorum contra diftinctionem for re,
retellitur. malem inter ſubiectuin, et paflionem adducuntur, ConGdecancur
opinio Antonij Andreæ, obiectiones et foluuntur.Aduerfarioruin, et quæfituin
reſolutur.V trum vnü quod eft paffio entis, dicat quid poſitivi Vtrum inter
contradictoria detur medium. Opinio Auicennæ reijcitur, et opinio AQUINO (si
veda).& re. Quomodo vera fit hæc propofitio, et aſſertio, inter ctatorum
explicatur cum ſuus fundamentis.c.1.177 contradictoria datur mediam explicatur,
et ebie Opinio D.Thom. et ſectatorum refellitar. ctiones quædamin contrario
foluuntur.Opinio Scoti explicatur, et rationes pro Aduerſarijs Argumenta quædam
contraria toimuntur.c.2. foluuntur De Vnitate indiuiduali, seu de principio
individuationis. Vtrum cauſæ ſint tantum quatuor. Quierlain adduntur ad ea, quæ
in Philoſopbia naturali Quæ fit diffinitio propria principij, et caufæ, et quod
dicta ſunt de principio indiuiduationis contra Sua corum difcrimen. Suarez, et opinio
Scoti magis confir. Vtrum fint plura quá quatuor genera cauſarú,vbide caula
caufi fine quanon,decauſa diſpoſitiua, obiectiva cxemplaridiecimur Vera
explicatio difficultatis propofitæ,& rationen in oppofitum folutio. Verum
cauſa exemplaris fit genas diſtinctuin caufæ à quatuorgeneribuscaularum pofitis
ab Aristotelis. Vtrum caufe ſint ſibi inuicem cauſa. in
quo conſiſtat cauſalitas cauſamaterialis, forma. Quæſtio breuiter reſoluitur,
&quædam obiectiones lis, efficientis. in contrarium foliuntur.c.vnico
Opinio aliorum.com Allatæ Opinio opiniones vera cuin luis refelluntur fundamentis,
et folutio racionú verum neceſſaria habeant caufam fui esse Aducrſariorum. Vtrum
ens diuidatur in decem prædicamenta per De cauſa finali. modos prædicandi, vel
per modos eßendi. Caula finalem ele caulam realem, et caulam caliſa- Quid
fitmodus rei, et quid modi intrinſeci, aliorum fum opinionibus
reiectis,explicatur An finis caufct, et moueat fecundum fuum elle rea. Opinio
Scoti. le, an secundum elle cognitum in inente, Antinis caulec Meraphorice,vel
efficienter Viruin ratio formalis conftitutiua finis in proxiina di ſpoſitione
ad caufandam larbonitas tin:s,& Ancau Vtrumſecunda diuiſio vnius, quæ eft
in vnum nu lalitas tinis babeat lociun in diuinis actionibus, in mero, unum specie,
unum genere, et vnum propor mediis relationibus prusacion.bus, et in naturali
tione sit conveniens.bus Vtrum plura accidentia solo numero diucrſapoſfint De causa
instrumentali ere simul in eodem fubie& to Opinio D. AQUINO (si veda) et Thomist.,
cum suis fundamen- Opinio Thoiniſt. cum fuis fundamentis Alaca opinio celicitur,
et opino Scoti explicatur, et conriimtur
Allaca opinio refellitur, et opinio Scoti explicatur Obectiones quęd.ım ex
Suarez adducuntur, et folur Vtrum inſtrumenta Artium habcant vim activa n. tur,
et ndiciva deeius speratione fertir Plures relaciones diltiactis numcroelli dc
facto in co Opinio Scoti adducitur,& rationes Aduerſariorun, dei lubiecto
contraaduerfarios prob cap.adductæ Coluuntur Rationes Aduerfariorum primo
capite adducte lol muntur Vtrum onus effe &tus poſſit prouenire à pluribus
caufis. V trum propria ratio quantitatisſit diuiſibilitas. Quaeslio quoad
criamembra, et tres fenfus,breuitcr Diffinitio quantitatis explicatur cxplicatur
Virum quantitas molis fit entitas distincta à ſubstan. Vtrum idem effectus
poflit effe fimul a pluribus cull cia materiali, et qualitatibusillius ſis
totalibus eiuſdeni generis, et ordinis sive speci Viruin ratio menſuræ fit
ratio torinalis quantitaris.De principali quæfito, An divisibilitas sit ratio
esé. cutis quantitates Qienum fic
excentio in quanticate, et quomodo ina Anidem indiuiduum poſſit produci à
diue'ſis agen Ten yenda dit.c.s tibus, idem numero reproduci naturaliter. An
idem effectus poflit eſſe à pluribus saufis rotali bus divisim, seu Anidem
indiuiduum numeio por Vtrum punctum linea, superficies sint entia rear fit
produci à diuerſis agentib ila vel railonis, An idem numero tam in fubftantia,
quam in acciden te poflit reproduci naturaliter Opinio nominalium negantiuneſſe
entiz realia cum iuus fundamcntis. Opin o alaia reiicitur, et finul appo.iti,
quod iint evtia rcalia, que elt com 10HS comprobitiir Vtrum cauſa particularisin
a&u, &ſuus effe &tius in aftuſimulfint, et non fint:vel fub alio
titulo. Opinio Sco: i, et folutio rationum in oppoſituin. Vtrum caufa fitprior
ſuo effectu Quorundam opiniones adducuntur, &reijciuntur DISPV pas T Opinio
Scoti cum fuis fundamentis. Rationes crietani contra hanc opinionem, et rationem
Scoti so trum quantitas discreta ſit proprieſpecies Opinio allata caietani cum
suis fundamentis, et re. quantiiati, sponſionibus refellitur Soluuntur rationes
aliorum.c4 Opinio negatiua cum fuis fundamentis Allata opinio refellitur et oppofita
comprobatur, Opinio Scoti, et communis explicatur, et rationes Vtrum ad
relationem realem tria fuffi in oppofitum foluunturçiant, Virum in
ſpiritualibus tie quantitas diſcreta, et in dili nis fit numerus Relationem habere cauſam efficientem, et finalem,
quæ sunt extrema et relationem multiplicari ad multiplicationcm fubicctorum, et
potentialem el fercaliter diftinctam ab actuali. Vtrum qualitas rectè
diftinguatur in qua., De Distinctione fubiecti, et fundamenti in relation tuor
ſpecies ne.c.2 393 Vtrum fundamentum, et terminus in relatione reali
Proponuntur difficultatesquædam generales circa do neccfiario diftingui debeant
realiter. Vbi opinio ctrinam Ariftotelis de qualitatis ipecicbus.c.de Gregorij,
Auscoli, et Okan apperiuntur, et rejciuntur Quid dicendum circa allatas
difficultates Vtrum dentur Relationes extrinfecus ad V trum locus fit quantitas.
menientes, Explicatur quęnio 2. Q.101.b. Scoti, vbi de distin- Opin o Scoti
explicatur cum ſuis fundamentis ctione loci, de existenia duorum corporum in eo
dein oco difertur, et obicctiones Aducrtariorum Rationes aliorurn adduantur, et
rcfelluntur retelluntur Locum non cfle vacuum, quamuis vacuum poflit da Rationes
allaræ foluuntur leteffe ipeciem quantitates Solutio argumentorum conrra
fecundam, et tertiam opinionemVtrum motus, tempus fint species quantitatis.VNICUMI.
Vtrum una relatio possit fundari in alia keliiione. Opinio D. Thomæ cum ſuis
fundamentis refellitur, Utrum relatio distinguatur à fundamento, vbi de distinctione
reail, mondo, contra hea Opinio Scoti, et folutio rationum pro præcedenti opi
cenciures un puitur. nioneadductorum Opinio eorum, qui aſſerunt relationein non
distingui a fundamento. Opinio præcedenci capite allata, et doctrina de ditın
Virum tres modi relativorum sint reétè clione reali Suarez iciclisur. allignati
ab Aristotele. Opinio alionum allerenijum relaciones non diſting.is realiter à
fundamento. Anomncs relationes fufficienter contineantur in his Opinio alioulin
aflerenuun relationes eſſe idenirea a b smodis Tejatiliorum.c. I liter cuin
fundamento, led dittingu rationc addu Vuum primus modus relatiuorum Git
ſufficienter ani citur, et refellilur. gnaliis Opiniones aliorum foluuntur Yorum
lccundus, et tertilis modus relatiuorum fic rectè aſiignatus.C.) Vtrum omnis
relatio contineatur in predica mento relationis, an rerò aliqui fint
Transcandentales. Per quid scientia speculatina distingua. Opinio aliorum qui
allerunt relationes rationis repo tur à Practica. nu in prædicamento relationis
adducitur, et reijci tul Adversariorum ſententiæ; An açtus intellectus sie Que tint
relationes prædicamentales, et quæ tran praxis adducuntur, et refellunur scendentales.
Opinio Thomittarun a quo habitus, et scientia di. catur practica cum lius
fundamentis Allaca opinio retellicur, et rationes pro ça Coluuntur, Virum
relatiuum terminetur ad ſuum correlatiuum. Scou one CRUCI DI De conexione
virtutum moralium acqui ſitarum inter fe. Opiniones aliorum refelluntirr.c.i
SOI Opinio D. Tho. et aliorum refelluntur. Opinio Scoti, et dolutio rationuin
sos Utrum scientiam sit una qualitas simplex. Opiniones aliorum refelluntur, et
opinio Scoti ex plicatur Verum scientia: n totalis vt Philoſophia naturalis,
vel Mertaph fit vna nuinero fimplex qualitas Opinio D. AQUINO (si veda) Opinio
Suarez Quomodo opinio nominalium Gt vera, Relponſio caierani retellitur Pugna
inter Suarez et Vaſquez De connexione virtutum
moralium cum prudentia, Opinio Henrici, et aliorum reijcitur, et opinio Scou ti
explicatur CI sog Opiniones Aliorum refutantur, et opinio Scoti con firmatur. i foluuntur. 6.4 vtrum trimembris diuifio.ſcientia
ſpeculatiuæ in Phisicam Mathematica, de methaphysicam, fut bona. Vtrum necesse
sit ponere charitatem creatam for maliter inherentem naturæ Beatifica Rationes
quibus prædicta diuifio Arist, non vide Diſput. merè Thologica, cur conueniens
Resolucio Difficultatis, et folutio rationum. cap.z. Homines iuſtificari per
iuftitiam inherentem animæ formaliter, non autem per imputatiuain, contra hæ
feticos breuiter probatur Opinio Magiſtri adducitur, et refellitur. Opinio
catholica explicatur, et comprobatur ex Do Vtrumfit necefle ponerein habiturationem
(trina Scoti. principi a &tiui reſpectu actus Quid fit dicenduin
deſententia Magiſtri quo ad fubftantiam. Rationes pro opinione Magiftri adductæ
coluntur cos 531 Duiz opinioncs adducuntur, et refelluntur.c. Opinio D. AQUINO
(si veda) Aureoli, et Durandi' refellitur. R. Opin o Scoti explicatur, et probatur.
Utrum gratia fit virtus, quæ eſt charitas. Obiectiones contra opinionem Scoti
adducuntur, et 469 Exponitur opinio D. Thomæ Vaum habitusgeneretur per a et tus,
et quomodo opi Allara opinio reijcitur. nio alioruni.cos 474 Exponitur opinio
Scoti, &rationibus aliorum tisaltir. Vtrum habitus moralis in quantum
virtusſit aliquo modo principium aétiuum refpectu bo Vtrum gratia fit in
eſentia animæ tamquam in ſur nitatis in actu, biecto vel in potentys. Opinio
Scoti cum ſuis fundamentis. Exponitur opinio illorum qui dicunt gratiain effe
in Obiectiones caictani,& ipfius Scoti contra fe: c. 2 effentiam animæ.c, I
540 480 Rationes in oppofitum foluuntur Rationes caietani, et aliorum
adducuntur, et refeilun 484 Virum in patria remaneat habitus fidei. Opinio
aliorum refellitur, et Scoti explicatur. cap. SAS De ſubię to babituum, Opinio
Scoti defenditur, et comprobatur, C. vnic. pag. 486 De connexione vtrum
intelleétualium inter fe, et Moralium cum Theologicis, Theologicarum inter fe.
De subiecto virtutum. Quod fit dicendum. In quo conueniant Scoti D Tho. et alij.
Opinio ai lara refellitur, et fimulopinió Scotiproba 492 Vtrum an anıma dertur
alij habitus preter virtue Opinio Scoti explicatur, et rationes aliorum ſolaun
tes morales intelectuales, C Theologicas. vbi de damnis Spiritus Sanéti
beatitudi nibus ex fruitibus, pofiiis a Theo Logis differitur, Opinio 1 pag.
cur.c.4 vnic. Opiniones aliorum refelluntur Vtrum accidens in
concreto primo ſignificet fubięz Opinio Scoti explicatur.c.. čtum vt eft lub
tali forina; et an accidens in abftrą cto Gt ens incompletum. Utrum angumentum
cum intentionefiat fema per per ačtum intenfiorem. Vtrum ſubstantia fit prior
accidente tempore Opinio D. AQUINO. c.1. $ 57 Opiniones aliorum refelluntur Opinio
Scou explicatur. Opinio Scotiexplicatur, et aliorum ſoluitur De modo augumenti,
et remissionis, et Utrum substantia prior sit accidente diffinitione coruprionis
-habitus Opinio Thomiſtarum fefellitur.com ili Opinio aſſerentium in intentione
habitus nihilpræ Opinio Scou explicatum ibid. exiftentis habicusremanere, et eiuldem
confutae Opino D. Thomæ, et aliorum
refellitur Opinio Suarez ieiicitur. y trum ſubſtantia fit prior accidente
cognitione. Quomodo habitus dimmuttur, et corumpitur.cap. Cina ini' 4: S75
Subſtanțiam,effe priorem cognitione accidentibus Vtrum de e ne per accidens
detur fcientia, Quid fit dicendum de ente per accidens quod prijat Dediuigone
ſubſtantiæ in primam, et ſecundam, et perlelden neut a.c. cil 577 diferentiam
inter prim.im fullt untiam, et ſuppoſi Deente per accidens quod contingenter
non necetafio caulatur. De comparatione primæ subftantiæ ad suppositum, et ad
lubfiftçocian leu perionalitatem Quomodo inteligaty wla propofitio, actiones
funç uppulitoruim.c.3 651 Vtruinens verum debe at ſeparari a, confideratione Quomodo
mielligatur Axioma illud, actiones fins Merhapbojica. c.vnico lingubahuinVtrum
formafit prior compoſito: V trạm inherentia ſit de eſſentia accidentis.
Aduerfario rum opinio fefélitur, et vera comproba. 664 Quid fit dicendum de
inherentia accepta pro per ſe Rationes in oppofitum ſoluuntur.c.2 Tignificato,
ieu pro accidentalitate quæ circuit no nein piedicaincnta. Quud lii dicendum de
accidente pro denominaco quod eit relatio. Vtrummateria ſitens, Vtrum
inherentia actualis fit de ejentia ac, DISPY TATIO cidentis abjoluti. V trữ
quod quid est sit idein chillo cüius ejt.c.1.667 Opinio Scoti, et aliorum
reiicitur.C.3 Inherenţiam actualem non ele de jellentia acciden- Explicatur
fenllis verus illius proportionis,c.2. 669 usabloluti Vtrum genita ex putri,
“ſemine ſint eiufdem ratio y trum ens finitum Prima ſui diuiſione diuidatur in
dccem preurcamenta, o qualisfit bac diuifio, Ü eius analogia Opiniones aliorum
adducuntar Vtrum Cælum in generatione animalium ex putri Allara opinioncs
refeliuiiur, et opinio Scoti expli materia ſit principale a cris. ibido
Callir.c.2 633 Au rationes adversariorum Vtrum compositum per se generetur Veritas
questionis explicain et opinio Scoti defendi Vtrum accidens in ſe confideratum
fit ens. tur.C.2 673 Rationes pro aliis opinionibus foluuntur, et opinio
Veritas aperitur confutata opinione aliorum Suare, et Zimaræ diluuntur.c.3 **
31 tur hos 624 nis Opinio quorundam refellitur. Allaca opinio refelitur, opinio
Scoti explicatur, et ra De Ideis platonis an ſint Admittende. tiones in
oppofitum foluuntur.c.2 720 Germina opinio Platonis.Rationes Arift. contra
Platonem, et solutio rationú in oppositum.C.2 691 De ſubie &to accidentium.
An hoc fit
potentia qnæ lam paſſiua in. herens (abſtantiæ. Vtrum forme niturales de
potentia matteriæ educantur Opinio AQUINO refellitur Opiniones illorum qui
formas naturales produci ab Opinio quorumdam aliorum.c.2 725 agence leparatu,
velab intelligentia vel a Celo ale runt.C.2 688 Vtrum poum accidens poffit effe
fubie &tum Opinio Sco.& Solutio rationum alterius accidentis. Opinio
Scoto, et folutio rationum. C.3 Vtrum materia fit pars quidditatis rerum
naturaliuin. Vtrum ad formationem prolis mater concurrat Quid sit dicendum. ci
vnic. 694 active Vtrum fingulare ſitper ſe a nobis cognoſcibile. Vtrum cælum
fit compoſitum ex mate. rid, forni. Næc Celum, nec animam rationalem, nec
Angelam eiſe compoſica exmateria, et forma contra quoſ daw recentiores Scouſtas.
C. Vnic. 731 Vtrum
conceptus generis fit alius à concept u diffe rentie, speciei.Thomiltarú, et aliorú
opinio, et confutatio Opinio Scoto, et folutio aliorun. Vtrum omnis creatura
fit compoſita ex materia, como foruba, ex potentib, autu Virum differentia
diuifiuig? neris inferioris inclu. Opinio afferentium omnes creaturas eſſe
compoſi. dat differentiam gencris juperioris formaliter. tas ex materia, et forın
potentia et actu refellitur et opinio Scoti explicatur Opiniones alioruin. Obiectiones A tucrinorum contra doctrinam alli Alata
opinio retellitur, et vin statutis.c. 733 cam Scoti lefel iniur, Virum
universale sit aliquid in rebus. Utrum ex materia, e forma fiat unum per se. Aliorum
opinionibus confutatis exponitur opinio Scou.c. Voici XXI Utrum in compoſito
ſubstantiali fint plures forme ſubſtantiales.Verum totum eſſentiale
diſtinguatur a luis partibus; De diuiſione entis in potentiam, actum, in ef fimulfunptis.
Seniamy w exiſtentiam, Vitum potentia, et actus opponantur, &quaoppo
tucione; vbi op.no Henrici de cflentia, et exItentia conturauir Opinio Thomiſt.
de diſtinctione en is in potentia, Vtrum in motu alterationis oporteat manere
idem et actum retelitur, et opinio Scoti explicatur. fubie &tum
fiinpliciter ſub zeroq; terminorum, 757 Rationes Aduerſariorum primo,
&ſecundo capite Quid fit dicendum, et reſoluțio objęđionum in con adductæ
foluuntur Obiectio ex Saclano,&corundem reiectio Vtrum essentia, existentia
in ente creato actuanter onijiente distinguuntur. Utrum accidens sit compoſitum
intrixſece Eficntiam trariuin Blora afikas JIPEL " SI Essentiam, et existentiam
non realite, nec ratione c'tantum, sed formaliter distingui, et opinionem Scoti
elleveram defenditur. c. I Quid ſit exifteptia creaturæ, et an habeat aliquas causās,
et causalitates, et quædam aliæ quæstiones de existentia enodantur Utrum verum
ſit illud Axioma,primum invnogue que genere eft metrum, o menfura omnium, que ſuntin
illo genere: y trum potentia ſuficienter diuidat!ır in actiuam, Quid Ge
menſura,& quæ conditiones eius vbi de du o paſiuam, earum diffinitiones
ſint ratione,de æternitate, et to, et aliis inenfuris agi reita aſſignatæ. tul
Verus intellectus propofitiAxiomatis Obicctiones cótra vtráq; partem adducútur
Diuifionem potentiæ in actiuam, et pafſiuain eſte difficientem, et diffiniționės
vtriuſq; potenciæ ef de l'ecrè allignatas Vtrum vnum, multa opponantur
contrarie, vbi de paſſionibus entis agitur: 1 Firew.idem moreripoſſit à
ſeipſo,velvt alij loquit Quomodo vnum lic paflio ſimplex, et difuncta en tir',
Vtrum potentia actiua, et paffiua jem tis, qualis fit diuitio entis in vnum, et
multa, et qua per ré, ú ſubiecto differant. lis ipforum oppofitio.c.vbic, 819
Opinio AQUINO et aliorum tenenrium parcein negatiua,nimirú ide à feipfo moueri
non pofle Allata opinio refellitur V ti un,ptáralitas ſei diuifibilitas fit
prior Rationes pro Aduerfariis primo capite a iductæ ſol vno, jer indiuiſibílı,
oc. uunub.Quid fit dicendum breuiter aperitur. c.vnic. Vtrum omnis potenti
1.fite tantum attina, veltātum paliud,vel aliqua fit fimul actiua, o pajuna. V
trum à priuatione ad habitum ſit poſibilis Quedamquæſtiunculæ de potentia
tractaræ à Scoto regreſſus jeù tranſmutatio: an hoclibro Nono breuiter
explicantur ic. i 784 Eamdem potentiam poffe efle actiuam, et paffiuan Ruid fit
dicendup. c.ynic, i $ 23 nedyn selpecriducrforum,led relpectu tuijpfi us, et quomodoVtrum
identitas abſoluta, a relatiua fint eadem V tim potentia paſina diuidatur in
potentiã notu. entitas an distinci e realiter. i ralerno upernaturalé,jei
obediétialé,a violétă. Opinio Aduerſariorum refellitur cum ſuis fundansé
Diftinctionem allatam eſſe de potentia paffiua, non tis, et opinio Scoti
explicatur, et prob.c.ynic, 8.24 actina. L'orenciain obedientialem acuvam non
da. ri, et membra omnia fecundum doctrinam Scori elle intelligenda. C. vnic.
Vtrum idem, et diuerſuin habeant inediú. c.vnic.V trum aétus ſit prior potentia..
V triem media cõt: ariorū ſint cöpoſita ex terninis: 10 cuo ſenſu ſit vera, et quid
dicendum explicatur. Duæ contrariæ opiniones adducuntur in propoſita questione,
et an duo contraria poflint elle in co. dem fubiecto.c.I 828 Vtrum actio fit in
agente, vel in paflor 791 Quid fit dicendum de vtraque, opinio allata, et opiu
nio Scoti explicatur. Quodam alia adducuntur ad majorem declaratione; Kanduio
contaria in fumino de potentia Dei ab y trum differentia,quam alignat
Philofophus inter ſoluta pollint elle fimul. c.; potentias rationales, e
irrationales fit conuenienter poſita. Rationes contra allaraw differentiam
aßignatam ab Vtrum formæ ſubſtantiales formaliter repugnantes, Anttotele opponantur
oppoſitione contrarietatis. Resolutio quæstionis. Arguincita primo capite adducta
ſoluiuntur. Opinio aferens formas ſubstantiales eſſe contrarias cțiin tus
fundamencis. Fundamenta quædam pro veritate
inueftiganda, vbi de natura oppofitorum agitur. Utrum detur aliquis aétus malus
in voluntate ſine Solutio principalis dubitationis, et rationes pro pri vlla
ignorantia in inielletin maopinione Obiectio quid tun'ex Scoto ipfo,& ex
recentioribus aduerſus ſecundam partem quartz conclufionis fit l'trum
corruptibile, e incorruptibile differant perius probatæ, probans rarionc
naturali pode de pluſquam genere monftrari Deum eſtepropriè omnipotentem,reij.
Citur Alixrationes exrecentiotibiis ad
idem adducuntur, et foluuntur. An verum sit Deum posse saccreomze illud, quot
non implicat contradictionem. Vtrum primæ quatuor qualitates fint for, An Deus
ponit facere fimul omnia quæ poteft, et an me ſubſtancialeselementorum. poſit
facere in infiniçum Opinio affirmatiua cu niluls fundamentis i Fundamenta pro opinione Græcorum.c Primaratio
contra opinionem Græcoram adduci- vtrum potentiæ in Deo diſtinguatur abtur.C.3
tia,& voluntatealiquomodo,fie cius fcien Aliæ rationes ad idem. C.4 8.46
Intellectum, &voluntatem detur potentia efe Quædam ali rationes ad idem.c.s
848 cutiua in Dco, quid in Angelis. 0 Solutio rationum in oppoſitum Deopinione
Auerroes.c.7, s'agi ! 855 Opiniones aliorum cum fuis fundamentis.c.r924
Explicatio opinionis Scoti; et confutatio aliarum Vtrum generatio, corruptio
fiant in inftanti Opinio áfferentium ſubſtantiam?ſucceſſiuélgenera. Quid
comprahendati fub'obie et o omnipotentiæ: ricum ſuis tuntamientis Opinio allata
refellitur, et omnem generationem An omnipotentia se extendar'adactis
notionales ſe ſubſtantialem fieri in inſtanci cum Arift.defendi cundum Theologos.
cLimas. Anomnipotentia fe extendat ad creationem Angelo Rationes aduerfariorun
foluuntur. C32.862: rum, et quid fit dicendum fecunduin Theologos, 00061: Jorcu
et quid fecundum Philosophos.c.2 VM. Lupe pie Vtrum
Deusfit ſimplex, et omnis creatura ſit com politan. Utrum omnis productio,
velindu &tio cuiufcumque forma sit univoca, ſoue à fuo ſimili perrun solum
Deus sit inmutabilis. Quid sit dicendun aperitur. Rationes in oppositum
foluantur, et quomodo meti13 Deum in ſe ele irmutabilem probatut rationibus fit
caula caloris Philofophorum, et Theologorum. co.Analiquid aliud á Deo habeat
immutabilitatem, IWA quid lenſerincPhilofophi Obiectiones contra determinata
tisperivis, et opinio Vtrum animarationalis it'immortalis. eorum, qui dicunt
Deum agere libere ad extraie cundum Philosophos, et endem confutatio Rationes
pro' opinione Philoſophorum, quod Deus Venum detur vnum primum ens infinitum,
quod eſt agat necefario ad extra,& quod dcntiraiiqua ca Deus,in qua
rationibusnaturalibus demonftratiuis tia ex fe neceffe eiſe,adducantur, et eadein
opinio proceditur, contra Atheiſtas. retelliill's Cof Quædam præambulæ
conclufiones ad probanda'n Deum effe immutabilem quoad intellectun, et volú
primamens ex triplici primitate prædicta elle in tatem, et quomodo. finitum
præmittunur. Rationes pro Philofophis foluuntur. Primum ens triplici primitate
præmiffa effe infinitú Quæ virtutes cx ijs que conſequentar voluntatein $ erat
fecundum principale intencū prob.c.7. 399 Tint in Deo. Rationes D. Thom. et aliorum,
quibus probant Deā elle infinitum,adducuntur, et reijciuntur. V trum dctur infinitum actu in permanenti bis, c
filceclivis. Vtrum Deum eſſe omnipotentem poſſit natnrali ratione, neceſjaria
demonſtrari. Status queſtionis,
et rationes quaſdam recentiorü, quod mundus non pocucrit elle ab æterno, non có
Explicatur çitalis quæftionis, et quid fit dicendan. cludcre oftendicar, c. 960
quoad demonſtrationem propter quid. Opmio eorunqai affcrun dari infinitum aétu
tam Quid dicendum quoad demonftrationem quia, tam in permanentibus,gratia
fuccelifuis adducitur, et fecundum Philoſophos, quam fecundum Theolo reijcitur
et quoinodo diſcrepent Philosophi à Theolo. Pofitio Scoti, et folutio rationum in contrariain.
gis Vtrum attributa diſtinguantur inter ſe, ab eſſentia Dei De voluntate Dei. Aſignantur
loca in quibus præcipuię difpufationes pertinentes ad voluntatem Dei ab Auctore
tracta. tur, et oftenditur Deum amare le, et alia extra ſe, et quomodo. Caput Vnicum.
i Utrum Deus fit Immenſus. An voluntas Dei semper implicatur INDI Diſputatio primacontra Atheos. Diſputatio
ſecunda contra Atheos. An Deus contingenter velit, et eius voluntas abalie quo
determinetur.Diſputatio tertia contra Atheos. De alijs fubjt antiis.è prima
distinctis. Naturalitatione porce probari dari ſubftantiasabſtra et tas, et rationes
in oppofiuum efle nullas Diſputatio quarta contra Atheos. Si Aristoteles
demonstravit Mundum elle æternum Devi Utrum Angelus, Anima rationalis dif ibi
serant specie, OS Opiniones aliorum. Opinio Scoti, et AnimcellectualitasAngeli,
et Ani mæ rationalis ſpecie diſtinguantur, &An potentiç ſpecie diftinctæ
poflint veulari circa idem object. Utrum primum cælum moueatur immediate a primo
motore Utrum Philosophus posuerit omnes intelligentias ejse vigoris infiniti.
Utrum Anima intellectiva in corpore habeat pro priumeße existentiæ diſtincim ab
elle compos Jiii, len vtaly ducuntsAn in corpore fubfiftatvel vt quo, vel vt
quod. Opinio D. Thomæ ratiqpibus Scoti confutatur, et eiuſdein ſententia
explicatur, cap.I Defenſio Thomiliarlim. cap. 2 Allata opinio refellitar, cap.3
Virum Cælum ſit animatum. Utrum Deus sit invisibilis, incompræbensibilis, et ineffabilis.Nils
An Deus fit viſbilis oculo corporeo, et quid de his tribus attributis sit
dicentum.Urum separatio Anime rationalis a corpor, cu Status animæ rationalis
exiia corpus violenter, an naturaliter.compeiani animæ rationali;. Opinio
Thomiftarum, et Sequaciun cum liris fun damnentis Opinio Scoti explicatur, et præcedens
refellitur. cap.2 V trum Dcus ſit ſubstantia viuens intellectua lis,
felicissima Attributa prædicta competere Deo probatur De scientia dei. Utrum
omnes potentiæ animæ rationalis inſint anim et icparita Quid Git dicendum de
Vegetativa, et Sensitiva, reiecta opinione affirmativa. cap. Vnic. Quomodo scientia ponatur in Deo, quomodo
Intellectus, Intellectio, et intellectuin in eo sint idem An scientia sit de
cilentia Dei in primo modo dicendi per se Vtrum secundum Aristotelem Deus
habeat cognitio nein aliarum rerum extra se. De cognitione animæ separate. An anima
separata cognoscat quidditates, et res, quas coniuncta cognoscebat, et quid
dicendum reiectis opinionibus opposiris. Ricerca Liceo di Aristotele
luogo della scuola di Aristotele ad Atene Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – "Peripato" rimanda qui. Se stai cercando
l'antica strada alla base dell'Acropoli di Atene, vedi Peripatos. Liceo di
Aristotele Athens Lyceum Archaeological Site 2.jpg CiviltàAntica Grecia
Localizzazione StatoGrecia Grecia ComuneAtene Altitudine108 m s.l.m.
Amministrazione Visitabilesi Sito webodysseus. culture.gr/h/3/eh355.jsp?obj_id=20744
Mappa di localizzazione StreetMap Il Liceo (Λύκειον Lykeion) era un luogo
dove Aristotele fondò la scuola che fu chiamata Liceo e anche
peripatetica. Geografia ed etimologia Sito alle pendici meridionali del
Licabetto, era un luogo esteso tanto da essere adatto alle esercitazioni
militari. Pericle vi aveva fondato un ginnasiosuccessivamente ampliato da
Licurgo. Il nome della località derivava da un santuario dedicato ad Apollo
Licio. "Licio" – o LIZIO -- e un epiteto attribuito ad Apollo o
perché riferito al termine «lupo» (λύκος) O AL FATTO CHE IL DIO APPENA NATO E
PORTATO IN LICIA (Λυκία, LIZIA), o, infine perché si vuole indicare la sua
caratteristica di divinità solare -- dalla radice λευκ-, λυκ-, candore, luce. Quando
Alessandro divenne reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad
avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che era intanto
rimasto vedovo e conviveva con la giovane Erpillide, da cui aveva avuto il
figlio Nicomaco, nell'ultimo periodo della sua vita tornò forse a Stagirae, da
lì si trasferì ad Atene dove si dedicò all'insegnamento della sua dottrina,
ormai matura e del tutto distaccata da quella platonica, che costituisce quasi
interamente il corpus aristotelicum a noi pervenuto. Il nome peripatetica della
scuola aristotelica deriva dal greco Περίπατος, «la passeggiata» (da περιπατέω
«passeggiare», composto di περι «intorno» e πατέω «camminare») cioè quella
parte del giardino dove era un colonnato coperto dove il maestro e i suoi
discepoli camminavano discutendo. Secondo Spadolini il Liceo, come l'Accademia di Platone, non
avrebbe avuto nessuna finalità religiosa e i suoi discepoli sono divisi come in
un tiaso tra quelli che erano iniziati e frequentavano la scuola come interni
(gli "esoterici") a cui erano riservate le lezioni più specialistiche
e complesse e coloro che partecipavano come discepoli esterni ("essoterici"),
uditori a cui era dedicata la parte divulgativa della dottrina. Gli
scavi Il piano di studi probabilmente si basava sull'insegnamento: delle
scienze teoretiche dedicate all'osservazione degli enti e del loro divenire
(fisica, zoologia, psicologia) e degli enti immobili (metafisica e teologia);
delle scienze pratiche, che dovevano guidare all'azione (etica e politica);
delle scienze poietiche (retorica e poetica). La logica non compariva come
scienza, ma come strumento propedeutico allo studio di qualsivoglia scienza. Alla
morte di Aristotele, avvenuta nel 322 a.C., Teofrasto gli succedette nella
direzione del Liceo. Nel 287 a.C., alla morte di Teofrasto, la direzione fu
assunta da Stratone di Lampsaco. Il Liceo fu depredato da Filippo V di
Macedonia e successivamente da Lucio Silla. Il nome continuò ad essere usato
per indicare la scuola peripatetica e in seguito fu riferito a quei luoghi
pubblici dove si tenevano dissertazioni letterarie e filosofiche.
NoteModifica ^ Dizionario di filosofia Treccani (2009) alla voce
"Liceo". ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Aristotele".
Vocabolario Treccani alla voce "Peripato". ^ Rebecca Solnit, Storia
del camminare, Pearson Italia S.p.a., 2005 p. 16. ^ Cfr. qui. ^ Bianca
Spadolini, Educazione e società. I processi storico-sociali in Occidente,
Armando Editore, 2004 p. 68. BibliografiaModifica The Lyceum, in Encyclopedia of Classical
Philosophy, Westport, Greenwood, 1997. John Patrick Lynch, Aristotle's School:
a Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California
Press, 1972. Voci correlateModifica Scuola
peripatetica Altri progetti Modifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su Liceo Collegamenti esterni The Lyceum
da The Internet Encyclopedia of Philosophy. Portale Filosofia:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno
fa di Placentinus Teofrasto filosofo e botanico greco antico Scuola
peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene da Aristotele Eudemo da
Rodi filosofo e storico della scienza greco antico. Scuola peripatetica scuola
filosofica fondata ad Atene da Aristotele Lingua Segui Modifica Ulteriori
informazioni Questa voce sull'argomento scuole e correnti filosofiche è solo un
abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. La
scuola peripatetica (in greco Περιπατητική Σχολή Peripatetiké Scholé) fu una
delle grandi scuole filosofiche greche, fondata da Aristotele. I suoi membri
erano detti peripatetici. La scuola di Aristotele, di Gustav Adolph
Spangenberg La scuola in origine deriva il suo nome Peripato, Περίπατος, dai
περίπατοι, colonnati dei porticati del GINNASIO d’Atene, dove i membri si
riunivano, che si trova presso il santuario dedicato ad Apollo Licio o LIZIO da
cui deriva l'altro nome della scuola: il Liceo, o LIZIO. Una parola greca
simile, περιπατητικός si riferisce all'atto di camminare e, come aggettivo,
"peripatetico" è spesso usato per indicare itinerante, errante, in
movimento. Dopo la morte di Aristotele, nacque la leggenda che egli fosse un
docente "peripatetico" - che camminasse intorno insegnando - e la
designazione Peripatetikos è venuta a sostituire il Peripatos originale.
StoriaModifica La scuola risale quando Aristotele intraprese l'insegnamento nel
Liceo. Si trattava di un'istituzione informale, i cui membri conducevano
indagini filosofiche e scientifiche. La scuola peripatetica diede inoltre
grande impulso all'indagine storica come strumento di indiscussa validità per
la conoscenza e la comprensione delle manifestazioni religiose, artistiche,
poetiche e letterarie. Teofrasto e Stratone, i successori di Aristotele,
continuarono la tradizione di esplorare teorie filosofiche e scientifiche, ma
la scuola cadde in declino, per rinascere non prima del periodo romano. In
seguito i membri della scuola si concentrarono sulla conservazione e sul
commento delle opere di Aristotele, piuttosto che estenderle, e la scuola alla
fine morì nel III secolo d.C. Anche se la scuola si estinse, lo studio
delle opere di Aristotele fu proseguito da studiosi che vennero chiamati
peripatetici attraverso la tarda antichità, il Medioevo ed il Rinascimento.
Dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente, le opere della scuola
peripatetica andarono perse in Occidente, ma in Oriente furono incorporate
nella prima filosofia islamica, svolgendo un ruolo importante nella rinascita
delle dottrine aristoteliche nell'Europa medioevale e rinascimentale. Si
riflessero nel doppio filtro applicato all'aristotelismo dapprima da Alessandro
di Afrodisia e poi continuato nell'eredità spirituale di Al-Farabi, Avicenna e
Averroè. Scolarchi ed altri PeripateticiModifica Maggiori esponenti della
Scuola peripatetica, Aristosseno Teofrasto. II scolarca Eudemo da Rodi Prassifane
di Mitilene Demetrio Falereo Dicearco Ieronimo di Rodi Stratone di Lampsaco scolarca
Licone (peripatetico) scolarca Aristone di Ceo scolarca Critolao scolarca
Diodoro di Tiro scolarca Cratippo di PergamoI secolo a.C.Andronico di Rodi Boeto
di Sidone Senarco di SeleuciaI secolo d.C.Ario DidimoI secolo d.C. Nicola
di Damasco. Gigante, Kepos e Peripatos. contributo alla storia
dell'aristotelismo antico, Napoli, Bibliopolis, Lynch, Aristotle's School: A
Study of a Greek Educational Institution, Berkeley, University of California
Press, Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita e Pensiero, Sharples,
Peripatetic Philosophy, An Introduction and Collection of Sources in
Translation, Cambridge, Cambridge University Press, 2010. Fritz Wehrli (a cura
di): Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentare. Basel Edizione (raccolta
dei frammenti). Voci correlate Liceo di Aristotele Peripatetici antichi
Peripatos Scolarca Liceo di Aristotele luogo della scuola di Aristotele ad
Atene Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico,
peripatetico Peripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia
Wikipedia Il contenutoPeripatetici antichi lista di un progetto Wikimedia
Lingua Segui Modifica Questa è una lista dei filosofi peripatetici antichi in
ordine (approssimativamente) cronologico.Eraclide Pontico Wehrli lo ha inserito
nel VII volume della sua opera, ma si tratta di un discepolo di Platone
Aristosseno di TARANTO (si veda) Uno dei principali allievi di Aristotele,
scrisse diverse opere sulla musica Teofrasto Secondo scolarca del Peripato,
autore di libri di botanica e logica Eudemo di Rodi Collaboratore di Aristotele
ed autore di opere di storia della geometria e della teologia Dicearco da
Messina Discepolo di Aristotele, autore di opere filosofico-politiche e
geografiche Cameleonte di Eraclea Pontica Edizione: "Chamaeleontis
Heracleotae fragmenta" a cura di Giordano, Bologna, Patron Fania di Ereso Allievo
di Aristotele, filosofo e scienziato Clearco di Soli Autore di scritti sulle
culture orientali e di un'opera Sull'educazione Prassifane di Mitilene Allievo
di Teofrasto, ebbe come discepolo Callimaco Demetrio Falereo Oratore, scrisse
opere di etica, retorica e letteratura Stratone di Lampsaco Fu maestro di
Aristarco di Samo, importante la sua teoria del vuoto Licone (peripatetico) Autore
di un'opera Sui caratteri. fu rivale di Ieronimo di Rodi Ieronimo di Rodi Fu
avversario di Arcesilaoe fondò una scuola a indirizzo eclettico Sozione il
Peripatetico Autore delle Successioni dei filosofi di cui restano solo pochi
frammenti Ermippo di Smirne Seguace di Callimaco, scrisse le Vite degli uomini
illustri Aristone di Ceo Allievo di Licone Critolao Scrisse sull'etica,
avvicinandosi allo Stoicismo Diodoro di Tiro Discepolo di Critolao Aristone il
Giovane Allievo di Critolao Stasea di Napoli Il primo Peripatetico che
soggiornò a Roma, secondo Cicerone maestro di Calpurniano Apellicone di Teo Bibliofilo,
comprò i manoscritti di Aristotele che Neleo di Scepsi aveva ricevuto da
Teofrasto Aristone d'Alessandria Discepolo di Antioco di Ascalona, aderì alla
Scuola Peripatetica Cratippo di Pergamo Amico di Cicerone, che ne parla nel suo
De divinatione Erinneo Secondo Paul Moraux Probabile scolarca del Peripato dopo
Diodoro di Tiro Tirannione il Vecchio Grammatico, noto per avere messo in
ordine la biblioteca di Cicerone I e II Secolo d.C.Alessandro di Ege Insieme
allo stoico Cheromonte fu maestro di Nerone Andronico di Rodi Ha curato
l'edizione del Corpus aristotelicum Boeto di Sidone (peripatetico) Discepolo di
Andronico di Rodi Ario Didimo Filosofo romano, insegnante di Augusto la sua
opera è una sintesi di stoicismo ed aristotelismo Nicola di Damasco Autore di
una Storia universale e di un'opera Sulla filosofia di Aristotele Senarco di
Seleucia(I secolo d.C.)Negò l'esistenza dell'etere Adrasto d'Afrodisia Scrisse
sull'ordinamento degli scritti di Aristotele e commentò alcune su opere
Aristocle di Messene(II secolo d.C.)Scrisse un'esposizione delle scuole
filosofiche di cui restano alcuni frammenti Aspasio Commentatore di alcune
opere di Aristotele, in particolare l'Etica nicomachea Ermino Allievo di
Aspasio e maestro di Alessandro di Afrodisia Sosigene Autore di uno scritto
Sulle sfere dei pianeti Tolomeo Efestione o Chenno La sua opera Storia nova è
riassunta da Fozio di Costantinopoli nella sua Biblioteca Alessandro di
Afrodisia Il più importante dei commentatori delle opere di Aristotele
BibliografiaModifica Paul Moraux, L'Aristotelismo presso i Greci, Milano, Vita
e Pensiero, Sharples, Peripatetic Philosophy, An Introduction and Collection of
Sources in Translation, Cambridge. Wehrli (cur.): Die Schule des Aristoteles.
Texte und Kommentare. Basel Edizione Voci correlate Platonici antichi Stoici
antichi Liceo di Aristotele Scuola peripatetica Portale Antica
Grecia Portale Antica Roma Portale Ellenismo
Portale Filosofia Scuola peripatetica scuola filosofica fondata ad Atene
da Aristotele Prassifane di Mitilene filosofo peripatetico ed erudito
greco antico Boeto di Sidone (peripatetico) filosofo greco antico,
peripatetico. Nome compiuto: Filippo Fabri. Filippo Fabbri. Fabbri. Keywords: lizii,
accademici, i peripatetici, The 34 disputationes. Galilei, Pico, aristotelismo,
anti-aristotelismo, platonismo, l’unita della metafisica, distinzione tra
matematica e fisica. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabri” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Luigi Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Fabro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di Senone di Velia,
l’innamorato di Parmenide -- per la porta di Velia – scuola di Flumignano –
filosofia flumignese – filosofia talmassonese – filosofia udinese – filosofia
friulese. filosofia italiana – Luigi Speranza (Flumignano). Filosofo italiano. Flumignano, Talmassons, Udine,
Friuli-Venezia Giulia. Grice: “I like Fabro; my favourite of his essays is on
Giorgio Hegel, “La dialettica,” which is really about Socrates and Alcibiades! My Athenian Dialectic which I turned into Oxonian!”. Studia
al seminario degli stimmatini. Si laurea a Roma sotto Reverberi con “Il
concetto di ‘causa’” e la critica di D. Hume. Insegna a Roma. Si dedica quindi
allo studio della biologia filosofica. Pubblica “La partecipazione”. Insegna a Napoli
e Perugia. Si inscrive nell'alveo della neoscolastica, o, più precisamente, del
neotomismo. Il suo apporto più profondo alla metafisica classica, sulle orme di
san Tommaso d'Aquino, è la distinzione reale tra "essenza" e
"atto d'essere”. È questa tesi che lo porterà a riconoscere con sicurezza
le debolezze e le aporie dall'immanentismo del cogito cartesiano, che sfocia
ineluttabilmente nell'ateismo. Trova l'origine dell’ateismo in Cartesio e Spinoza,
nasce nel concetto di "immanenza" contro "trascendenza”.Critica
Severino e Rahner. Valorizza l’esistenzialisto anti-idealista di Kierkegaard. Altre
opere: “Partecipazione in Platone, Aristotele e Aquino, S.E.I., Torino);
“Neotomismo” Piacenza) “La fenomenologia della percezione, Vita e Pensiero,
Milano); “Percezione e pensiero, Vita e Pensiero, Milano), “L’esistenzialismo,
Vita e Pensiero, Milano); “Esistire” (Vallecchi, Firenze); “Dio” (Studium,
Roma); “L'Assoluto nell'esistenzialismo” (Miano-Catania); “L'anima” (Studium,
Roma); “Dall'essere (essuto, suto) all'esistente” (Morcelliana, Brescia); “Il
Tomismo” (Desclée, Roma); “Hegel: La dialettica, La Scuola Editrice, Brescia);
“Partecipazione e causalità, S.E.I., Torino); “Feuerbach-Marx-Engels.
Materialismo dialettico e materialismo storico (La Scuola Editrice, Brescia); “L’ateismo”
Studium, Roma); “L'uomo e il rischio di Dio, Studium, Roma); “Esegesi
tomistica, Pontificia Università Lateranense, Roma); “Tomismo” Pontificia Università
Lateranense, Roma); “La svolta antropologica di Rahner” (Rusconi, Milano); “L'avventura
del progressismo” Rusconi, Milano); “La fede di Kierkegaard” La Scuola
Editrice, Brescia); “La trappola del compromesso storico: da Togliatti a Berlinguer,
Logos, Roma); La preghiera” Edizioni di Storia e Letteratura, Roma); “L'alienazione
dell'Occidente. Osservazioni sul pensiero di Severino, Quadrivium, Genova); Momenti
dello spirito I, Sala Francescana di cultura «P. Antonio Giorgi», AssisiS.
Damiano; Momenti dello spirito II, Sala Francescana di cultura «P. Antonio
Giorgi», Assisi S. Damiano); Aquino, Ares, Milano); La libertà, Maggioli,
Rimini); Gemma Galgani), Il sopra-naturale, Cipi, Roma); L'enigma Rosmini,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli); Le prove dell'esistenza di Dio, La
Scuola, Brescia); Commento al Pater Noster” Pontificia Accademia di San Tommaso
d'Aquino, Città del Vaticano); Cristianesimo, L'Aquila, Japadre). Essere e
libertà. Studi in onore di Cornelio Fabro, Maggioli, Rimini); Giuseppe Mario
Pizzuti, Veritatem in caritate. Studi in onore di C. Fabro, Ermes, Potenza); Rosa
Goglia, La novità metafisica in Cornelio Fabro, Marsilio, Venezia); Federico
Costantini, Fabro e il problema della libertà, Forum, Udine); Elvio Celestino
Fontana, Fabro all'Angelicum, EDIVI, “Segni (EDIVI) Fabro e l'Esistenzialismo, EDIVI, Segni. Rosa
Goglia, Fabro. Profilo biografico, cronologico, tematico da inediti, note di
archivio, testimonianze, EDIVI, Segni,. Ariberto Acerbi, Crisi e destino della
filosofia. Studi su Fabro, EDUSC, Roma,. Note
Goglia, Rosa, Fabro: profilo biografico cronologico tematico da inediti,
note di archivio, testimonianze, EDIVI, Kierkegaard
Neotomismo Ateismo. Fondo Fabro presso la Biblioteca della Pontificia
Università della Santa Croce., su pusc.ZENO ELEATES. J5. Z^vwv
'EXeaTTj;. xouxov 'A7toXXoo«pd'; ^Y)otv «T- i 25* ^ n0 Eleates. Hunc
Apollodorus ait in Chronicis na- vat Iv Xpovixot; ^puoei piv TeXeuxaYopou,
OsVet Si tura quidem Teleutagorae, adoptione autem Parmenidis 20
IlapaEviSou. irspl xooxou xal MeXfoaou TCjmov cpyjol 2 filium. De hoc atque
Melisso Timon haec ait : xauxa* 'AfxcpoTipoYXwacou xe {xffa
ffOivcx; oux aXawaSvov Andpitis linguae vis maxima cuncta secantis
Z^vcdvo? rcavxtov smXiiTrxopoc ^Ss MeXiaaou, Zenonis, qui corripit omnes,
atque Melissi; TroXXwv <pavTa<T|xwv Indvb), rcaupwv ft fiiv
eiaw. plurima visa errant in summo, rara sed intus. 25 *0 §•?)
Zr,vci)v Stax^xos IIap[ievi5ou xal yeyovev autou 3 FjiimveroZeno Parmenidis
auditor erat,abeoqueamatus est. TzonBixa. xal eo^XTj? ^v, xa6a cpTjai
nXarwv iv tw Fuit autem procerae staturae, quemadmodum Plato in Par-
IlapfAevCoTi, 6 8' auxb; Iv xw 4>a(5pw xal 'EXeaxixov menide notat,
idemquein Phaedro ipsum VELIA [si veda] Pala- IIaX*jji^5yiv autov xaXel.
{pr,dl 8' 'AptaxoxsXy,? Iv xw 4 medem vocat. Aristoteles autem in Sophista
auctor est in- 2otpiax7J eupex^v auxbv yeveaOai ^taXExxiXTJ;, (ocircp
ventorem ipsum fuisse dialectics, quemadmodum Empe- 30
'EixweSoxXfia firixopiXT)?. yeyove Si av^.p y^vvaio- doclem rhetoric®. Fuit et
in philosophia et in republixaxo^ xal Iv cptXoao^fa xal Iv 7roXixe(a* cpipexat
youv ca vir sane nobilissimus : feruntur nempe ipsius volumina auxou
pi^Xta 7roXXrj<; ffWato*; YCfxovxa. xaOeXsTv SI Oe- 5 sapientiae plenissima.
Is quum Nearcbum tyrannum seu, ut Xifaac N^ap^ov xbv xupavvov — ot Se,
Aiof/iSovxa — alii volunt, Diomedontem imperio exuere voluisset, com-
ouveX^cpOy), xa6d cp^atv 'HpaxXe^Tj; Iv x9j 2axupoo prebensus est, ut in Satyri
epitome ait Heraclides : quo 36 lirixopuj. 6xe xal l;6xa£o'[Aevoc
xou<; auveiSoxa^ xal 7T£pl tempore quum de consciis et armis qua; Liparam ad
vexerat, xwv oVXmv 5v ^y 6V eAiirotpav, iravxa? Ip.>5vu«v au-
inquireretur, volens ipsmndesertum destitutumquereddere, xoo xooc cpiXou;,
pouXo(X£vo<; auxov ^aov xaxaaxyjaar omnes illius amicos conjurationis esse
conscios dixit ; deinde •Txa 7cep( xtvwv efceiv e^ttv auxw wpbc xb
o3<; IXeye xal quum de quibusdam dixisset quiddam ipsi ad aurem loqui
xu^avxo? Saxwv xb wxiov oux av9jx£v Tok imwrffiri, velle, earn mordicus
apprehensam non ante dimisit quam \o
lautbv'AptoxoYeCxovtxtoxupavvoxxovwTraOtov. (27) Ar,u^- confoderetur ; quod
idem accidit Aristogitoni tyrannicidae. biba. e, Q. AEVKinnos. rpto?
Se ^r,aiv ev xoi< ojawvuu.oi; xbv puxxTJpa auxbv diroTpaYeiv.
'AvxiaOevrj; 5' ev xal; SiaSo^al? ^r,<jt fJLExdc TO (JLTjVUffai
XOU? <p(X0UC IpWX1f]09ivai 7TpO? XQU XUpaVVOU e? ti? aXXo? eiYj
• xbv 8i eiireiv, « au 6 xyfc woXews aXi- 6 tiqpio^. » 7rpo; x£ xou$
7capE<rcwxa; ©avai, « Oauuut£w 6fxwv r?)v SeiXCav, et xouxwv Ivsxev wv
vuv e*Y&> ^Trofxe- vw, SouXeuexe xw xupavvw* * xal xeXoc
aitoxpayovxa tJjv yXwxx«v 7rpo<;7mj<iai auxw, xou? 8i TroXfxac
7rapop- (i.r,0£VTa<; auxixa xbv xupavvov xaxaXsuaat. xauxa oe io
oyeSbv of irXe(ou<; Xe'Youaiv. "Epu.nnroc S§ <piQctv eU 6V
fxov auxbv pXTjO^vat xal xaxaxo7c9jvai. (2§) xal eU auxbv ^)(jlcT<
efarofxev oSxciK* *H8eXe<;, w Z^vwv, xaXbv ^OeXe< avSpa
xupavvov xxe(va? IxXuaai SouXoouvtjs 'EXe'av. 15 dXX' ISau-Ttf- 5^1
yap « Xa€u>v 6 xupavvos ev 5Xu.w xo^c. x( xouxo Xs*y<«> ; ffWfAa
yap, ofyl 8s «. yiyove Se xa t* £XXa aya6b<; 6 Zi^vwv, dXXa xal
&ict p- oicxixb? xwv (xtt^vtov xax' fcov 'HpaxXetxw* xal yap
o5xo« xV wpoxepov p.ev 'YeXTjv, (Saxepov 5* 'EXfov, <I>w 20
xaiwv ouaav airoixtav, auxou Se 7raxp(Sa, ttoXiv eoxeXri xal |xo'vov
avSpacoYaOoucxpscpetv ^taxafjLEvrjv ^YaTrrjae |xaXXovx9i? 'AOTjvaiwv
iuyxXoLuyia^ oux iTriSYi^aa? xb icapaTrav Trpb? auxouc, aXX' auxd8i xaxa&ouc
[29) ou- xo? xal xbv 'Ax^ca irpwxo? Xoyov ^pwxTjffE-
<I>a6o>pT- 25 voc Se' <prjo-t napfX£v(Sr,v xal
aXXou<; cuyvouc. 'Aplaxet S f auxw xaSe* Koauou? eJvai xevo'v xe u^
eTvar Y £ Y 6 " V7j<r8ai Se x^,v xwv wavxwv <puatv ex Gep|AOu
xal ^u/pou xal fopou xal uypou, Xau.€avovxwv eU aXXrjXa x^v jxe-
xa€oXr,v • Y^vEdtv x' avOpo)7TO)v ix yr;? eTvai xal tfu^v 30 xpS{ia
&Trap/6iv Ix xwv 7rpo£ipT)asvwv xaxa |XYiSevb<; xouxcov
iTrixpaxTjaiv. xouxov cpaai XoiSopoutxevov aya- vaxxTJaat- aixiaaa|X£vou
8e xtvo<;, cpavai, « £av X01S0- poujxevo? (jl^j 7rpo<;Tcoiw(xai,
ouS' ItuaivoujAEvoc ^aG^ao- (xat. » tf Oxt S£ Ysyo'vaai Zr,vo)V£<;
6xxw ^v xw KixieT 65 StetX^UEOa. fixiLOiZi oSxo; xaxa x9jv Ivax^v
xal £6$ou.Y)xo<rri:v 'OXujjLiriaoa. Demetrius vero in
Cognominibus nasutu ei morsu abstuJfssc ait. Porro Antisthenes in
Successionibus ait ilium, quum amicos tyranni detulis et, rogalum a
tyranno essetne alius quispiam, dixisse, Tu civitatis> pernicies.
Deintle astantibus ita locutumesse, Admiror equidem vestram socordiam, si
horum gratia quae nunc ego tolero, tyranno servire sustinetis. Deniquc
praecisam linguam in ora tyranni conspuisse, cives autem continuo facto
impetu lapidibus tyrannum obruifise. Usee ferme pleriquc tradiderunt.
Cc- terum Hermippus ilium in mortariuro injectum contusumque fuisse
ait. Et in hunc nos sic diximus: Tentasti,
Zeno, crudelis canle tyranni Eleus ut populus libera turba
foret. At prensiim in pita te content articulatim iste : imo
non te, sed tua membra terit. Praeclarus et in ceteris fuit Zeno
potentiorumque non secus atque Heraclitus quadam animi altitudine
contemptor r nam hie prius quidem Hyelen, postea vero Eleam
nominatam Phocaeensium coloniam suamque patriam, civitatem humi-
lem bonosque tantum virosnutrirc solitam, dilexitmagis quam Atheniensium
magnificentiara : ad quos nunquam profectus est, domi assidue commorans. Hie etiam primus
syilogismo usus est qui Achilles appellatur, quamvis Favorinus Parmenidem et
alios plures proferat. Placent autem illi lieecce: Mundos esse plures et
inane non esse; naturam omnium re rum ex calido et frigido aridoque et
humido fuisse ortam, quum ista in se invicein commutentur. Generationem hominum
e terra esse, animamque ita ex his omnibus commixtam quae praediximus, ut
a nullo eorum plus quam a ceteris obtineatur. Hunc aiunt quum conviciis
laceraretur, indignari solitum : et vituperante quodam dixisse, Si
maledicta me non tangunt, nee laudes I ome delectabunt. Octo vero
fuisse Zenones, quum de Citieo loqueremur, diximus. Floruit autem hie Olympiade
nona et septuagesima. KE4>. Q'.AETRinn02. AEuxtirircx;
'EXeaxTi;, w? U xtve;, 'A6Sv)piti}C 9 I xax' lvtou<; bl MiiXio;.
oSxcx; ^xouae Ztivwvoc. "Hptdxs o* auxw dWpa fitvat xa uavxa xal ik
aXXYjXa fxexa- SaXXetv. x<^ xe Ttav Jvai xevbv xal TrXripec
<iw|a<xxwv. tou? te xdff[A00s yivtafai <jw(jloitwv tU to xevov
I|xtti- ttxovxwv xal aXX^Xotc 7reptwX£X0|xivwv ^x xe xtk xtv^-
«&k xaxa xtjv aufow auxwv YtveaOat x^jv x(ov dW- pwv ^uffiv.
cpe'peffOai 8e xbv ^Xtov Iv fiet^ovi xuxXw wapa B Tf^v <ieX^vy|V t^v
y^v ^ewOat Trepl *rb jieaov Stvouui- vvjv ffX^H^ f' auxTJ? TujiTcavoetSe^
elvai. «pwxd< x' dxouou^ap/a? uxwffx^aaxo.xalxecpaXaiwSwsfxiv
xauxa* Zenone lleate. I.
Zenone eleate. Era costui, al dire di Apollodoro, a5 nelle Cronache, p«r
natura, figlio di Teleutagora, per adozione, di Parmenide. II. Di lui «
di Melisso dice Timone queste cose : // prò ed il contro a disputar
potente, Zenone, invitto, riprensor di tutti; E Melisso di molte
fantasie Superiore, di poche inferiore. Zenone di VELIA è veramente
discepolo di Parmenide e suo bar- dassa. È grandissimo della
persona, secondo che, nel Parmenide, scrive Platone, che, nel Fediv, lo
chiama anche Palamede di VELIA. Afferma
Aristotele nel Sofista, eh 9 e 9 è l’inventore della dialettica, siccome
GIRGENTI (si veda) della retorica ; che è uomo e in filosofia e in politica
assai prestante ; e che vanno attorno suoi libri pieni di molta a g
sapienza. Volendo Zenone rovesciare il tiranno Nearco - secondo
alcuni Diomedonte - è, al dire d’Eraclide, Epitome di Satiro, sostenuto e
quando lo si inquisì circa i complici e l’armi, che sono state portate a
Lipara, afferma, onde colui rimane solo, che di tutto consapevoli sono i
suoi amici. Poscia soggiugnendo che intorno a taluno qualche cosa avea da
dirgli all’orecchio, addentandoglielo, non prima il lasciò che cade trafitto;
lo che ha in comune col tirannicida Aristogitone. Demetrio, negl’omonimi,
afferma che gli morsica il naso; ma
Àntistene racconta, nelle successioni, che dopo di averne denunciati gl’amici,
interrogato dal tiranno, se alcun altro vi è, egli rispose: Tu, peste
della città! e che dopo di aver detto agl’astanti: Meravigliomi della
vostra codardia, se, in grazia di ciò ch’io patisco, servirete al
tiranno, spiccatosi finalmente la lingua coi denti la sputò ad esso in faccia;
e che i cittadini concitati a quel fatto lapidarono il tiranno. Queste
cose, presso a poco, si vanno narrando dai più. Ma Ermippo asserisce che
gettato Zenone di VELIA (si veda)in un mortaio, vi è pestato. Sopra di
lui noi parliamo così: Tu volevi o Zenon di VELIA (si veda), volevi
torre, a8 Uomo egregio, la patria dal servaggio, il tiranno
uccidendo. Ma cadesti oppresso, perocché tosto il tiranno, Presoti,
in un mortaio ti pesta. Che dico! Te non già, ma il corpo
solo. Zenone di VELIA (si veda), se in altre cose preclaro, il è eziandio,
al pari d’Eraclito, nel guardare con ispregio i più grandi; poiché egli,
quella che prima è Iele e da ultimo VELIA, colonia fenicia e sua patria,
città meschina e solo ZENONE di VELIA (si veda) atta a nutrire
uomini dabbene, ama di preferenza ai vanti degl’ateniesi, per lo più non
recandosi presso di loro, ma abitando in essa. Usa primo nelle
dispute l’argomento detto l’Achille (sebbene Favorino dice ciò di Parmenide)
e molti altri. Credette che vi è mondi, e non vuoto. Che la natura di
tutte le cose viene prodotta dal caldo e dal freddo dal secco e dall'
umido mutantisi a vicenda. Che la generazione degl’uomini deriva dalla
terra, e l’anima è una mescolanza dei prefati senza prevalenza di
alcuno. Narrano che sentendo di essere biasimato, se ne impazienta,
e che taluno condannandolo dice; Se comporto le contumelie, neppure mi
accorgera l’esser lodato. Che vi sono otto Zenoni già è detto nella
vita del cizieo. Il nostro fiorisce nella settantesima nona
Olimpiade. Cornelio Fabro. Fabro. Keywords: per la porta di Velia, essere,
e, essente, esuto, suto. L’uomo allo specchio. Dialettica di hegel, tomismo,
essere atto d’essere – immanenza – trascendenza -- Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fabro,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Facciolati: la lingua di Cicerone nella pittura italiana
– filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The
Swimming-Pool Library (Torreglia).
Abstract. Grice:
I was fortunate to be brought up at Oxford, and thus I became an Aristotelian;
I would have most likely become a Cambridge Platonist alla Cudworth in the
other place! Keywords: Grice, Guastella, Facciolati,
il Lizio. Ritratto di Jacopo Facciolati. Jacopo Facciolati, o Giacomo Fasolato,
latinizzato come Iacobus Facciolatus. Torreglia
Padova -- stato un filosofo
italiano. Poeta, scrittore e latinista italiano cittadino della Repubblica di
Venezia. Nasce a Torreglia sui Colli Euganei, in provincia di Padova. ammesso al collegio del Tresto, collegato al
seminario padovano, grazie a Barbarigo, vescovo della citt. Dopo l'ordinazione
presbiterale, consegue la laurea nel seminario, dove divenne docente di UMANE non divine -- lettere cf. Grice: literae humaniores -- e prefetto
degli studi. chiamato a insegnare logica
a Padova. Pubblica edizioni migliorate dei maggiori lavori di filologia, come
il Thesaurus di CICERONE (vedasi) di NIZOLIO (vedasi), e amplia ed emenda il
Lexicon, un dizionario latino cf. Grice
on Austin on going through the dictionary -- chiamato anche il calepino dal
nome dell'autore, Calepio. Uno dei suoi lavori
compiuto con FORCELLINI (vedasi): il Totius latinitatis lexicon,
dizionario di latino, vera pietra miliare nella storia della lessicografia, redatto da FORCELLINI (vedasi) per incarico
ricevutone da F. Divenne il successore di Papadopoli nella stesura della storia
di Padova. Pubblica infatti Fasti Gymnasii patavini un'opera
storico-celebrativa delle glorie accademiche dell'ateneo patavino. Nello
scrivere F. ama la brevit, che esagera fino alla scarsit di notizie. Famose
sono anche le sue satire lucianesche contro i detrattori. Ma ha anche amici, a
cui manda, coi lavori, ortaggi del suo orto, che coltiva volentieri. F. conosciuto e stimato pella sua conoscenza
delle opere classiche, soprattutto grazie alle sue Orationes. anche invitato dal re del Portogallo a
dirigere l'istituto superiore di Lisbona pei nobili. Muore a Padova. Opere:
Orationes latinae, accademiche, reputate di valore; Logicae disciplinae
rudimenta o Logica tria complectens rudimenta, institutiones, acroases;
Ortografia moderna italiana, a cui aggiunse gli Avvertimenti grammaticali di
Pallavicino, da lui disposti in ordine alfabetico e arricchiti di aggiunte;
Exercitationes su due orazioni di CICERONE (vedasi); Annotationes criticae a
vari lessici, Raccolta calogeriana; Scholia in libros CICERONE (vedasi) de
officiis contro di lui ROTA (vedasi) scrive il Dialogo dei morti; Epistolae
latinae; Commentariolum de vita, interitu, etc. linguae latinae; dialoghi
lucianeschi, contro chi aveva criticato una sua orazione in morte di Pisani;
Viatica theologica adversus dissidia, brevi e concisi; Il cortese cittadino
istrutto nella scienza civile; Acroases; Vita di Ges e Vita di Maria, e un loro
compendio in italiano; Animadversiones; Lettere inedite, con annotazioni di
Silvestri; Vita CICERONE (vedasi) litteraria; De gymnasio patavino syntagmata:
coi fasti dell'universit; Calepinus septem linguarum; Fasti Gymnasii patavini. Negro. Facciolati undertakes
the continuation of Papadopoli's history of Padua, carrying it on to his own
day Encyclopdia Britannica. Pasqualin,
Le sommosse degli studenti a Padova, su Historia Regni, Serianni, Norma dei
puristi e lingua d'uso nella testimonianza del lessicografo romano Azzocchi,
Accademia della Crusca, Firenze. Marazzini, Lessicografia, in Enciclopedia
dell'italiano, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casati. Dizionario
degli scrittori d'Italia, Ghirlanda, Milano; Boscaino, F. in Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Negro (cur.),
Clariores. Dizionario biografico dei docenti e degli studenti dell'Universit di
Padova, Padova, Padova. F. su Treccani.it
Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Zardo, F. in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F,, su Be Web,
Conferenza Episcopale Italiana. Opere di F., su MLOL, Horizons Unlimited. Opere
di F., su Open Library, Internet Archive. F., in Catholic Encyclopedia,
Appleton. Chisholm (a cura di), F. in Enciclopedia Britannica, Cambridge
University Press,Portale Biografie Portale Letteratura Portale Lingua latina
Categorie: Poeti italiani del XVIII secoloScrittori italiani del XVIII
secoloLatinisti italianiNati nel 1682Morti nel 1769Nati il 4 gennaioMorti il 26
agostoNati a TorregliaMorti a PadovaScrittori in lingua latinaLessicografi
italianiProfessori dell'Universit degli Studi di PadovaPresbiteri italiani del
XVIII secoloNobili e cittadini della Repubblica di VeneziaFilologi classici
italiani[altre]JACOBI FACCIOLATI INSTITUTIONES I LOGICA PERIPATETICA editio
altera RETRACTATIOR. VENETUS Apad JO. BAPTISTAM ALBRITIDM HIER. FIL.
MDCCXXXVII. SUPERIORUM PERMISSU AC PRIVILEGIO EPISTOLA PRMMISSA E DITIONI Plini
AD 111. T1R0S litterarios GTMNASII PATAVINI. r J i XaSlo jam fixenuio y m quod
mhi ^ ad Logicam puUve, profitendam diploma dediftis , Viri amphffbm. , fiudu
mei atque indujlrue ^vobis rationem, red- do . JEquum eft enim , id njos a
nabis requirere , quod nos ab a dole fi entibus nofiris requirere f olemus .
Etfi autem mihi m hac dijciplina tradenda aliquid pro f a culi more A a li~
Digitized by Google qui memoria fericulum facere malunt . Si- quid efl. apud
illos , quod probari debeat, ut efl fane multum , finae ex hoc ipj o fonte ma-
nant yfwe aliunde , non fuit nobis difficile, partim Rudimentis anno fupericre
editis , partim Inditutionibus ijlis afpergcre . 'Neu . opus efl pluribus , ut
intelligatis , quid rei fit, quod ut
ejus difcend* confuetudini non ni* hil concedatur Noftri homines numquam in pu- blicum prodire
fblent , gravius aliquid fufcepturi , quin femoralia quaedam fibi circumdent ,
fuperne crifpata , inferne aperta v quae neque hieme frigus arcent , neque
aeftate calorem : atque iis quidem ita oculos aftuefecitnus ut quamvis plus incommo- di , quam commodi
ferant ; attamen nefeio quid audboritatis ac dignitatis habere videantur , haud
temere violandae . Siquid eft , quod tempore & ufu facrari potuerit , ea
profero eft Ariftotelis Logica, quam qui iinibus coercet , ne dlfputandi
libidine crefeat in immenfum , plane fapit ; qui eam pror- fus tollere conatur
, is quaefo de femoralibus cogi- tet
Accedic , quod nos in ea Civitate docemus , ubi qui velit Philofophiae
infignia referre , harum quoque rerum rationem reddere debet, & publicum
examen fubire . Proinde non. decet in tanto diferi- mine miferos adolefcentes
deferere , fortunaeque im- paratos committere
Hinc Topica vix attingimus , quod hujus partis , ceteroquia non inutilis
, nullum experimentum in noftris exercitationibus ad ingenia judicanda
comparatis fieri foleat . Ceterum ex his pleraque in Rudimentis velut
adumbravimus : nunc A * fu- . i fufius lingula perfequemur . Tametfi eum
tenebi- mus modum , ut illi ipfi , qui ifta faftidiunt , in tanta libelli
exiguitate quiefcere poftint. Eorum po- tius offenfionem metuo , qui
Scholafticis ftudiis af- fueti, & multa & fubtilia poftulant His ego Scho- laftici hominis judicium oppono
. Ita enim fcribit Fonfeca lib. 8 ., Logic. Inft. c. 19 . Adeo inculta funt ,
horrida y & ab ufu remota , quae fuperioris ectatis ho- mines in hifce
commenti funt , ut nifi plurima rejician- tur y fatius fit y ea potius non
attingere . Quemadmo- dum autem nobis eam veniam petimus , ut omitte- re
iftiufmodi fcripta liceat , ita iis venia eft conce- denda , qui fcripferunt .
Tempora ita ferebant . Cumhomines ifti & ingenio valerent, & otio abun-
darent ; nec ullum tamen praeterea tenerent littera- rum genus, in quo fe
ja&arent , hoc tamquam or- be conclufi , meditationes meditationibus
cumularunt, & in infinitas ambages abierunt
Siquis eorum vo- lumina verfare & cognofcere voluerit , non. omnem
prorfus operam perdet , fed cani fimilis erit , qui propter pauxillum cibi in
magnis oflibus dentes tigat . Nobis non tantum eft otii * Vale. Digitizad >
: -i, TABULA SYNOPTICA HARUM
INSTITUTIONUM. PROTHEORIA De Operis nomine , ratione , atque ordine . . ... v PARS I. DE PRAEDICABILIBUS EX
PORPHYRIO . 1. De Praedicabilibus in univerfum . 2. De Genere. 3. De Specie.
>.' t 4. De Differentia. 5. De Proprio. 6 . De Accidente. 7. De modo &
ratione praedicandi . m .DE CATEGORIIS, SEU PRAEDICAMENTIS PROTHEORIA VULGO A
NTEPRiEDICAMENTA. De Categoriis, feti Praedicamentis in univerfum. De
Subftantia. De Quantitate. De Qualitate. De Relatione. De A&ione, &
Paflione.De Ubi, Quando, Situ, Habitu. HY-
IO TABULA STNOPTICA. . HYPOTHEORI/E, FULGO POSTPR^EDICAMENTA MANTISSA De
Platonicorum , & Stoicorum Categoriis .
P A R S III. DE ANALTTICIS POSTERIORIBUS. i. De Operis ratione &
materia. a. De Praenotionibus demonftrationis Ariftotelicar $. De Platonis , Epicuri , & Stoicorum
Praeno- tionibus 4. De Principiis. j. De
modo cognofcendi Principia. . De Praejudiciis. 7. De Dubitatione. 8. De
Auftoritate. 9. De Demonftrationis natura & ratione. xo. De Demonftrationis
neceffitate , ejufque gradibus, xx. De reliquis Demonftrationis conditionibus. De Demonftrationis
exemplis. De Demonftrationis formis. De Demonftratione in orbem. DE SIGNIS
QVIBVS SIT DEMONSTRATIO A POSTERIORI De Demonftrationis effeftu , . ideft
fcientia. x 7. De veterum Phyficorum, & Platonis fcientia. 18. De
Scepticorum , Academicorum Epicureo-
rum, & Stoicorum fcientia. De
Scientiae origine* ao. De Ignorantia. si
TABULA STNOPTIC A. ii ai. De Sapientia 22. De Opinione. 23. De
Sagacitate. 24. De Materia , & inftrumento demonft rationis, ay. De Caufiis
ad definiendum, & demonftrandura idoneis . 26 . De Definitionis natura ,
& partibus. 27. De Locis definitionis, qua: eflentiam rei aperit, a 8. De
Locis definitionis, quae cauflam rei continet. 29. De iis, quae definitionem
capiunt. 30. De
Quaeftionibus. PARS IV. DE TOPICIS. j. De nomine , & materia Topicorum. .
De Syllogifmo diale&ico. 3. De Problemate. 4. De Propofitione . 5. De locis
Problematis, & Propofitionis . . De
loco Generis. 7. De loco Definitionis. 8. De loco Proprii. 5. De loco
Accidentis. PARS V. DE ELENCHIS SOPHISTICIS . * De nomine , natura , 4 c fu
doftrinae Sophiftice. 2. De Fallaciis
vocum 3. De Fallaciis rerum. 4. De fine
Elenchi Sophiftici . j. De folutione vera, & fucata Elenchi Sophiftici. *
De Inexplicabilibus* Digitized by Google NOI RIFORMATORI * DELLO STUDIO DI PADOVA. * Vendo veduto per la
Fede di Revifione, ed Ap- provazione dei P. F. Tommafo Maria Gennari
Inquifitore nel LiSro intitolato : Jacobi Facciolati In- ftitutiones Logica
Peripatetica Editio altera retra&a -
tior , non vi eflere cofa alcuna contro la Santa Fede Cattolica , e parimente
per Atteftato dei Segretario Noftro , niente contro Principi , e buoni coftumi
, concediamo Licenza a Giambatifla Albrizzi q.Girolamo Stampatore , che pofla
eflere ftampato , oflervando gli Ordini in materia di Stampe , e prefentando le
folite copie alie Pubbliche Librerie di Venezia, e di Pado* va. Dat. Ii 8. Maggio 1729. ( Gio: Francefco
Morofini Kay. Rif. r 0 ( Andrea Soranzo Proc. Rif. ( Pietro
Grimani Kav. Proc. Ri . Agoftino Gadaldint Segr. LOGICAE PERIPATETICAE P K O T H EO R 1 A DE OPERIS NOMINE, RATIONE,
ATQUE ORDINE. t QUID INT ELLIG1S LOGICAE PERIPATETICAE NOMINE ? * * . * - JJL!
1 X more veterum Peripateticorum Logicam ap- 1 ^ pello totam difierendi artem ;
quamvis Arifto- -d teles ad eam folam partem hoc nomen adhi- beat , quae
difputat ex probabilibus . Peripateticam vo- co, ideft Ariftoteleam : nam qui
funt ab Ariftotele, Peripatetici dicuntur ; quia olim ( ut fcribit Cicero in
Academ. x. c. 4. ) dil^utabant inambulantes, in Ly- ceo . , Boethius in Topica
Cicer. Hac e fi difciplina quafi dif- ferendi quadam tnegiftra , quam Logicam
Peripatetici vete- ret appellaverunt . Hanc deero definient differendi diligen-
tem rationem vocavit . Hac vario modo a plerifque traSiata efi , varioque etiam
vocabulo nuncupata . Ut enim ditium eft , a Peripatetici t hac ratio diligent
differendi Logica vo- catur , continent tn fe inveniendi , judicandique
peritiam . Stoici vero hanc eamdem rationem differendi pat/llo anguftiue
traHavere . Nibil enim de inventione laberantet , in fola tantum judicatione
conftfiunt ; de eoque pracepta multiplici - - ter dantes , DialeSHcam
nuncupaverunt , Plato , etiam D ia- le Ricam vocat facultatem , qua id , quod
unum eft , pojfit in plura partiri , vclut filet genus per propriat
differentiae tifque ad ultimat fpeciet feparare ; atque ea , qua . multa funt ,
in unum genui ratione colligere . Quinque DialeIicx fu partes Plato fecit,
definitionem, divilionem , refolutionem , induftionem , ratiocinationem } de
quibus vide Alcinoum de dotr, Piat, ca, 5, -
T J4 LOGICAE PERIPATETICAE Qua in re Logica Peripatetica verfatur )
Campus , in quo Logica Peripatetica verfatur, eft oratio quaevis, per quam quaeritur,
quid de quo dicatur ; uno verbo , quseftiQ omnis . Et quia in quaeftione eft
fubjeflum de quo quaeritur , & praedica- tum quod quaeritur , de utroque
Logicus praecipit. Ex. g. cum quaero , num anima fit immortalis , du- bito ,
num primae voci ultima conveniat ., ideft num immortalifas de anima dici
poffit. Utraque igitur vox . eil cognofcenda . . ( z ) 9 Quot nam pars verfatur
in fubjedo, quae nam in praidicato? % Subjeflum eft res omnis \ quia de re omni
quaf- ri aliquid poteft : ideoque de fubjebo agitur in Ca- tegoriis , quae omnia
, rerum genera , per fimplices notiones diftributa , complebuntur . Praedicatum
ad Topica pertinet , quae locos aperiunt inveniendi , quid- quid de re aliqua
dici poteft Topicis accedunt Analytka ,
& Sophifiica , in quibus oftenditur , quo- modo praedicata dijudicentur,
& ad fidem vel bene, vel male faciendam accommodentur Igitur a Ca- tegoriis incipere debemus, quae
erit Pars Prima ha- rum Inftitutionum . ( \ ) ( % ) Res , de quibus , & per
quas in contrpveriia qua- libet diTputamus , funt proprios ejus artis ac
difciplin , cujus eil controverfia ipfa j modus autem & ratio diipu* tandi
pertinet ad Logicam Itaque Phyiici eil
oftendere $ num anima conveniat immortalitat : at Logici eil prsefcfi- bere ,
qua via inveniri & conii rui argumenta poilint ad jrede oilendendum ,
ddemque parandam ( 3 ) Quidquid eil , dc
quo qusri * aut pronunciari ali- quid Digitized by Google PROTHEORIA . *S Cur C
a tegor iis promittitur Vorphyril commentariolum - de Vradicabilibus ?
PradicablUa cum fint aliud nihil, quam modi prardicandi , rebe ab Ariftotele
explicantur in To- picis ideft i ea
Logicae parte , quas praedicata complebitur . Attamen nos ab his exordimur ,
tum Icholarum confuetudine dubi , tum etiam ratione aliqua, ut mox apparebit.
(4) quid poflit , eft unum aliquid cat : quidquid eft , quod Qu*ri , aut pron
undari de re aliqua poffit , eft unum aliquid ex pmdicahilibut . ( 4 )
Porphyrius libellum fcripfit de Prxdicabilibus , cu- jus van* feruntur
infcriptiones } fed maxime Criticis probatur tamquam genuina , t int yuyi Wr
*.w*/s* , i*, troduilte ad Cbyfaorium . Hujus enim gratia fcripta eft , ut mox
dicemus. Audivit Porpbyrius Longinum Se PJotiaum 5 floruitqoe Rom foculo
Chrifii tertio ; fed impietatis fama laboravit. Vitant ejus fcripfit Lucas
Holftenius , quam vide ia Gtm- ca Fabricii Bibliotheca lib.4, cap.ay. DE
PRAEDICABILIBUS EX PORPHYRIO. # 4 *l
* '
f tffe ridendi &
philosophandi capaeem Siquidem haec de
illo dicuntur , & ad ejus .naturam aperiendam adhibentur ( 1 ) *
Quot funt Praedicabilia ? * Quinque funt Praedicabilia , genus ,
fpecies * differentia , proprium ,
accidens : cujus numeri ea . ratio eft > quam attulimus in Rudimentis
Syntagm# 3. Par. 1. c. 3. (2) / V
Praedicabilia Stoici confiderant ) ut funt in rebus ideaque nnpn rx
vocant , ideft notiones . Peripatetici ea conO* derant , ut de rebus Sicuntur $
ideoque appellant xccri yopvjdjv*, pr a di cata . Philoponut 1 vocat ,
fimplices voces 1 Grasci alii vspts $&***
quinque voces. ( 1 ) Quidam rem ita explicant ; Pnedicabilo eft notio
ttni- Digitized by Google *7 P APS I. CAPUT I. Quinam e fi Prcdicabilium ufus ?
$. Magnus eft Prcdicabilium ufus in definiendo , dividendo , & argumentando
. Sed ea prcfertim Ca- tegoriis inferviunt; atque adeo in harum gratiam fcripta
funt a Porphyrio, ut apparet ex ejus Pra> fatione. Cum enim Chryfaorius
Patricius Romanus in Ariftotelis Categorias incidiflet, nec eas, poflet facile
intelligere ; obtinuit a Porphyrio praeceptore fuo , ut hanc fibi
Introdu&ionem componeret , colle- gis velut in unum corpus, que in tota
Ariftotelis Logica, maxime vero in Topicis & Metaphy ficis difperfa funt. (
$ ) Praedicabilia quomodo differunt a Praedicamentis ? Categoriae vulgo
appellantur Praedicamenta . Differunt autem a Praedicabilibus , quia
Praedicabilia funt modi praedicandi; Praedicamenta funt res, quae,
praedicantur. Itaque Praedicabilia funt fecundae notio- nes, per quas
fignificantur, & explicantur primae; (prima: autem funt ipfa
Praedicamenta B . . Prae - * univerfalis
, qua; convenit multis; convenire autem poteft Vel ut aliquid infitum , vel ut
aliquid ajfumtum , Infixa funt Genui , Differentia , Specie!, Proprium .
Affumtum eft Ac- cidant , quia extrinfecus advenit. Alii hoc modo: Quid- quid
eft prxdicabile , vel prsdicatur in quid ut part : &c eft Genut ; vel in quid
ut totum , & eft Speciet ; vel in quale per ejfentiam , & eft
Differentia $ vel in qnale nec/f- fario , & , eft Proprium ; vel in quale
fortuito , & eft Ac- cident . Duas has rationes oppugnat Voflius de natura
Lo- gic* cap. 10. n. 19. Sed iftiufmodi pugna; numquam exitum invenient . ( 3 )
Totam przdicabilium doflrinam ex Platonis diwis collegide Porphyrium , Amonius
feribit . Fuit ille quidem phiiofophus Platonicus ; fd in hoc opufculo , ut DE
PRAEDICABILIBUS EX P0RPHTR10. C . ' r ; 'i * "i/'. ; , j DE PRAEDICABILIBUS IN UNIVERSUM . QUID
EST PRAEDICABILE? T)R*dicabile eft , quod poteft praedicari , hoc A. eft, dici
& enunciari de aliquo . Quo no- mine fignificantur communes quaedam
notiones & vocabula , quibus res quaelibet continetur , & per fuas
partes explicatur ; velut in Socrate praedicabi- lia funt , effe animal , effe
rationalem , effe hominem > effe ridendi & philosophandi capacem .
Siquidem hxc de illo dicuntur , & ad ejus naturam aperiendam adhibentur .
Quot funt Trtedtcabilia? * R Quinque funt Praedicabilia , genus , [pedes ,
differentia , proprium , & accidens : cujus numeri ea ratio eft , quam
attulimus in Rudimentis Syntagm. 3. Par. 1. c. 3. ( a ) /- ( 1 ) Pratdicabilia
Stoici confiderant * ut funt io rebus j ideaque raipvTx vocant, kleft nationes.
Peripatetici ea con fi- derant , ut de rebus dicuntur $ ideoque appellant
xrrxyopii'^* p radicata . Philoponus vocat ***** Quitis , / implieet voets a Grseci
alii tstrs Quivit , quinque vocet. {%) Quidam rem ita explicant ; Prxdicabile
eft notio uni- Digitized by Google 17 PARS I. CAPUT I. Quinam e fi
Predicabilium ufus ? $. Magnus eft Prardicabilium ufus in deiiniendo ,
dividendo , & argumentando Sed ea
pnefertim Ca- tegoriis inferviunt; atque adeo in harum gratiam fcripta funt a
Porphyrio, ut apparet ex ejus Prae- fatione. Cum enim Chryfaorius Patricius
Romanus in Ariftotelis Categorias incidiflet , nec eas t poflet facile
intelligere ; obtinuit a Porphyrio praeceptore fuo , ut hanc fibi
Introduftionem componeret , colle- gis velut in unum corpus, quae in tota
Ariftotelis Logica, maxime vero in Topicis & Metaphyficis difpcrfa funt. (?) Praedicabilia quomodo differunt a Praedicamentis
? ' - ** > $. Categoriae vulgo appellantur Praedicamenta * Differunt autem a
Praedicabilibus , quia Praedicabilia funt modi praedicandi; Praedicamenta funt
res, quae praedicantur. Itaque Praedicabilia funt fecundae notio- nes, per quas
fignificantur, & explicantur primae ; rrimau autem funt ipfa Pr Species, Proprium Ajfumtum eft Acr sidens, quia extrinfecus
advenit. Alii hoc modo: Quid- quid eft prodicabile , vel prodicatur in quid ut
pars : & eft Genus vel in quid ut
totum , & eft Species vel in quale
per ejfentiam , & eft Differentia $ vel in qnale nectf- fario , &.eft
Proprium ; vel in quale fortuito , & eft Ac - eidens. Duas b*s rationes
oppugnat Voflius de natura Lo- gico cap. 10. 11.19. Sed iftiufmodi pugno
numquam exitum invenient . (3) Totam prodicabilium doftrinam ex 'Platonis *U6Us
collegae Porphyrium , Amonius fcribit . Fuit ille quidem philofophus Platonicus
; fed in hoc opufculo , uc |8 P. Praedicabilia nonne dicuntur univerfalia ? I. Ita appellantur , quia funt
communia multis, & late patent. Nam genus dicitur de multis fpecie- bus;
fpecies de multis individuis; differentia , & pro - prium de illis omnibus
, de quibus dicitur fpecies ; accidens de multis rebus, quibus ineft. ( 4 ) * Suntne omnia aque
univerfalia? $. Singula enunciantur de multis , ut modo dixi- mus; ideoque dici
debent univerfalia. In hoc enim fita eft natura univerfalis , ut una cum fit ,
multis tribui poflit . Ceterum fingula tribuuntur diverfo modo: & hic modus
conftituit eorum diferimen. Ita prorfus ut circulus, & quadratum conveniunt
in eo, quod fint figura; fed differunt modo, quia alterius figura eft rotunda,
alterius quadrata. Quid efl univerfale ? $. Quid fit univerfale, & quomodo formetur, di-
ximus in Rudimentis Syntagm. 3. Par. Ii c. 2. In fcholis quadrifariam dividi
folet. Primum dicitur uni- verfale effefiione , & funt ideae archetypae,
per quas efficitur, quidquid efficitur. Secundum reprafentatio* ne , & eft
notio communis, quae multa reprafentat ; tertium fgnificatione , & eft
nomen commune , quod mul- mihi videtur, magis Ariftotelem , quam Platonem
fecutus eft. Quamquam in eo certe Platonicus eft, quod Dialefti- , cam a
Metaphyfica non diftrahit , fed fua hzc univerfalia modo definit per id, quod
eft, modo per id, quod praedi- catur, modo per utrumque. ( 4 ) Vocabulum
univerfale valde difplicet cultioribus Logicis , non tam ipfuni per fe , quam
quod nimis mul- ta & abftrufa de illo Scholaftici feriptitarunt . Acerrime oppugnatur a Nizoiio in lib, i, de veris
principiis , cap* 7 . 8. & 9. . i 9 multa fignificat ; quartum ejjentia ,
& praedicatione , & eft natura communis , quai ineft in multis , &
de multis dicitur . Exemplum fecundi , tertii , & quarti univerfalis poteft
efie animal ; quod quidem , ut notio univerfalis , multa repraefentat ; ut vox
uni- verfalis , multa fignificat ; ut natura univerfalis , in multis eft ; ut
attributio univerfalis , de multis pra*- dicatur . Primum, dicitur univerfale
Platonicum , fe- cundum Stoicum & Epicureum , tertium Nominale , quartum
Peripateticum . Nam Plato per ideas ar- chetypas philofophatur ; Stoici &
Epicurei per com- munes notiones \ Nominales per nomina communia ; Peripatetici
per id , quod in multis eft , & de mul- tis praedicatur . ( j ) Quid eft
igitur univerfale Peripateticum ? Univerfale Peripateticum nihil eft aliud,
quam communis quaedam notio , ex multarum rerum fimi- litudine collecta , &
m unam formam effidta . Vul- go definitur Unum aptum inejfe multis fecundum
eam- dem rationem : vel unum aptum praedicari de multis . ( 6 ) Prima definitio
eft Metaphyftca , quia Metaphyfica confiderat eflentiam rerum ; fecunda Logica
, quia Lo- gica confiderat praedicandi modum . * B a Cur . ( 5 ) Ide* archetyp* funt
univerfalia quaedam rerum fi- mulacra & exemplaria, per qua: Plato omnia
fieri putabat, Sc omnia cognofci; de quibus poffea dicemus. Univerfale dicitur
unum , ideft natura quadam fim- plex 5 qu* de multis quidem lingularibus
prxdicatur , & in multis e(l , fed concipitur per modum uniut , unitate
qua- dem eflentix, non numeri , ut Scholaftici loquuntur . ( 7 ) Diftin&fo
h*c non habet locum apud Platonico : quia Plato eam partem Metaphyfici ftudii ,
quam noftri Ontologiani dicunt , Dialetlicx nomine nuncupat , uc appare tj ex
lib, 7. deRep, ex Politico , & ex Parmenide. L Cur Logici non difputant potius de ftngulari y quam de
universali ? Quia compendia laboris quaerunt. Itaque cum lingularia fint
innumera , res omnes in clafles uni- verfales conjiciunt pro varia earum natura
& cogna- tione: quas clafTes poftea contemplantur , & qua- cumque in
illis cognofcunt, ad lingularia ejufdem rationis , cum opus eft , facile
transferunt . Ita qui naturam hominis univerfe cognofcit , lingulos homi- nes
cognofcit. ( 8 ) Quid funt Platonis idc qua divi- na quadam facultar eft ,
entia cognofcent , quatenus entia funt . Adde Alcinoum de do&rina Platonis
c. Plotinum Ennead. x.l. 3. c. 4. cujus hic titulus eft ex editione Ficini :
D**- leSiica , ideft Metapbyfica , totam entium latitudinem contem- platur ,
&c. (8) Qui fubtilius philofophantur , ajunt fola univerfalia proprie efle,
quia funt immutabilia ; ideoque ea fola fciri . x hoc philofophi genere fcribit
Pindarus Nemeor. od. 6. Homines nihil ejfe . Vide quae fequuntur de ideis
Platonicis , & Sex. Empiricum lib, i, adverfus Logic, c. x. n. 7. t. tt fpecies rerum omnium : quas fpecies
mentibus ho- min um ex divinitate delibati/ infitas dixit . ( 9 ) In quo
Platonis ideae fimiles funt notionibus & formis , quas Peripatetici &
Epicurei per impulfionem rerum externarum in animo gigni dicunt Nam ex ho- rum Philofophorum dobrina per has
formas & no- tiones de rebus omnibus judicamus , & alias ab aliis
diftinguimus. , . ' Nonne ideas quafdam pofuit a rebus omnibus feparatas ? Pofuit enimvero ideas quafdam per fe conflan-
tes, & a rebus omnibus feparatas , ex quibus ideas aliae funt expreflae ,
quas nos animo complebimur . Et quemadmodum per illas & ad illas omnia
gignun- tur & formantur ; ita per has omnia a nobis cogno- fcuntur . Sed
ideas feparatas Ariftoteles labefaba- vit. ( 10 ) B 3 Non- f 9 ) In has quoque ideas videntur
Ciceronis verba con- venire , qu* hic apponam $ quamquam magis proprie ad fe-
paratas pertinent. In Orator, c. 3. Has Perum format appel- lat ideas ille non
intelltgendi folutn , fed etiam dicendi gra - vijjimvs auflor & magifter
Viato ; eafque gigni negat , ait femper ejfe , ae ratione (2 intelligentia
contineri : cetera nafci , occidere > fuere , labi nec diutius e(fe uno & eodem flatu .
Seneca epift. 38 . Tertium genus eft eorum , qua pro* prie funt . Innumerabilia
hac funt , fed extra noflrvtn pofita confpefium. Qua fint , interrogas ?
Propria Platoni fupellex eft . Ideas vocat , ex quibus omnia > quacumque
videmus , fiunt ; & ad quas cunfla formantur , Ha immortales , im-
mutabiles , inviolabiles funt . Quid fit idea , ideft quid Via - toni ejfe
videatur , audi ; Idea eft eorum > qua natura fiunt y PARS 1. CAPUT /. I .
Kcnne etiam in mente divina eas pofuit ? !. Pofuit formas iftas in mente
divina, tamquam in fonte fuo, ut eflent illi exemplaria rerum omnium
condendarum . ( 1 1 ) Nibilne infuper de universalibus doces ? I Nihil aliud
neceflarium duco , atque adeo ne utile quidem nifi otiolis ad fallendum
tempus Qui plura cupit , Scholafticos
adeat , qui hac in parte co- piofillimi funt , eas quoque qutfftiones ( ut
feribit Ca- nus de loc. Theol. 1 . 9. c. 7. ) latijftme perfequentes , quibus
Porpbyrius abfiinuit , homo impius , fed inhaere prudens tamen , ut Platonis
Arijiotelifque difcipulum c 1. Enus eft notio maxime communis, qua? a- \J lias
notiones minus communes ab fe pro- pagatas comprehendit , deque illis
enunciatur . A Porphyrio dicitur notio univerfalis , qua de pluribus pra-
dicatur fpecie differentibus , cum , quid Jint , quatitur . ex. gr. Animal,
hominis &equi genus eft, quia no- tionem utrique communem defignat ; &
afferri folet a^jto, qui refpondet interroganti, quid homo, quid equus fit. ( i
) B 4 Efine ( I ) Cicero lib. i. de Orat. c.\l, Genus id eft , quod fui fimilet
communione quadam , fpecie autem differentes , duae plure fve compleHitur
partes. Idem in Topic. c.
7. Genus eft notio ad plurer differentias pertinens . Seneca ep. 58. Horno
fpecies eft , ut Ariftoteles ait , equus fpecies eft , canis fpe - ciet p ergo
commune aliquod quarendum eft bis omnibus vin- culum , quod illa comple flatur
, & fub 'fe babeat . Hoc quid eft ? Animal . Ergo genus effe coepit omnium
horum , qua mo- do retuli , Animal. Sed funt quadam , qua animam habent , animalia
. Placet enim fatis arbuftis animam inejfe i itaque vivere illa & mori
dicimus . Quadam a- nitna carent , / //* 1
. ' Vulgo Scholaflici dicunt
Genus generali fimum , / 3 - alternum , Cf fpeeialifimum . Verba fibi formarunt
cx hoc Laertii loco: v 0 ykv@ 09 , 'ygva* x g v ^/ i/SntTNT9r V/V, er, oihs x *. Seneca ep. 58. QUOD ST, 0;
corporale ejl , *0f incorporale . Hoc ergo genur eft primam tif amiquijjimum ,
, 0; dicam , g***- cetera genera quidem lunt , / pedalia Loquitur ex do&rina Stoicorum. ( 6 -) Latini feriptores faepe utuntur voce genetis
pro/pr- *** ^ ra Cicero 2. de Fio. c. 9 genera cupiditatum . In 5 fufcul. c.
13. Natura quidquid genuit , in fuo quodque ge nere perfeftum ejfe voluit ln I.
de Leg. c. 7. E* m */m- mantium generibus atque naturis . Ita de offic.
Juftitra gene- rj genera quatuor officii $ duplex jocorum genus , &c. Nam
quidquid habet rationem univerfahs multa comprehen- dentis, etiam ab Ariiloteie
in Topicis gr/w/ dicitur DE SPECIE. U I D V E S T SPECIES ? #. C Pecks, quo fenfu
a Dialeflicis accipitur, tri- w3 bus modis definiri pofie videtur ex Porphyrii
do&rina . Primo fpecies eft id, quod generi fubjicitur cujufmodi eft homo , qui fubjicitur animali .
Secun- do fpecies eft id, de quo genus refpondetur fcifcitanti , quid fit : nam
fcifcitanti, quid fit homo , refpondetur animal . Tertio fpecies eft univer falis
notio , qua: de pluribus dicitur numero differentibus ; cum , quid res fit,
quaeritur \ ut homo , qui enunciatur de Petro, de Paulo , & aliis humana:
natura individuis . Duas priores definitiones fpeciebus omnibus conveniunt tum
mediis , tum infimis ; tertia infimis tantum , qua: individua attingunt, (*)
uid * ' ' ' > ( i ) Cicero in voce fpeciet duos cafus non probat , fpeeierum
, & fpeciebus . Itaque in Topic. c. 7 . Nofiri ( inquit ) fpecies appellant
, non pejfime id quidem , fed inutiliter ad mutandos cafus in dicende . Nolim enim
, ne fi Latine quidem diei poffit , fpeeierum & fpeciebus dice- re ; it
fape bis cafibus utendum eft: at formis & forma- rum velim . Cum autem
utroque verbo idem fignifieetur , commoditatem in dicendo non arbitror
negligendam . Spe- ciem definit ibidem : Forma eft notio , cujus differentia ad
Caput generir quafi fontem ref rri poteft . Et paul- lo poft ; Forma funi ba ,
in quas genut fine ulliut prater- Digitized by Google PARS L CAPUT 111. aS Quid
efl fpecies media & infima? Species medi* idem efl: ac genus medium , feu
inter] e 8 um , de quo in fuperiori capite diflum efl ; videlicet quae ita efl
fpecies , ut poffit efle genus . Nam fi comparetur cum fuperiori , fpecies efl
; fi Cum inferiori , efl genus . Ex. gr. Animal , fi re- feratur ad corpus , fpecies
efl ; fi ad hominem , efl genus . Species infima ita efl fpecies , ut non
poffit efle genus : proxime enim attingit individua , ut homo ; ac proinde
neceflario praedicatur de pluribus differentibus numero . ( a ) Quid fignificat
praedicari de pluribus differentibus numero f #. Significat , fpeciem efle
nomen commune pluribus individuis , quae folo numero differunt . Ex. gr. homo
communis appellatio efl Socratis , Democriti , Platonis , & aliorum ; qui
fcilicet eamdem hominis rationem habent , & homines atque dicuntur , fed
per quafdam individuas pro- prie- UrmijJiene dividitur. Nam ex. gr. prudentia
> judicis tem- perantia fortitudo dicuntur efle fpttitt virtutis quia vir- tus quod genut efl in eas
dividitur* (z) Species infima a Grzcis dicitur tiSnturr re z Scholaflicis fpttitt fptcialijfima . Hsec
una vere ac proprie fpeciet efl: nam mtdia quidem non efl hujufinodi nifi com-
paratione quadam . Igitur notio quaelibet communis qu* continet alias communes proprie genut efl notio comma* i qu continet alias Angulares
> proprie efl fpedt f Digitized by
Googl PARSJ.CAPVTIIL 29 prietates numerum diverfum faciunt . Et quia , fi ab
iis hominis rationem tollas , non fimplicem affe- &ionem tollis, fed
eflentiam ipfam & naturam; ex hoc fit , ut quaeftio inftituatur per quid ,
non per quale , quoties de fpecie quaerimus , quid ejl Socrates ? quid
Democritus ? &c. (3) * * Quid eft individuum ? Individuum , ut ex nomine
ipfo patet , eft id , quod in plura talia , quale ipfum eft > dividi nequit
, ut Petrus , qui dividi non poteft in plures Petros Bi- fariam definiri pofle videtur . Primo
individuum eft id , quod de uno tantum enunciatur Secundo individuum eft id , quod
proprietatibus quibufdam conflat , qua omnes eadem convenire alii nullo modo
pojfunt . Proprietates iftae carmine comprehenduntur memoriae caufla : For- ma
, figura , locus , ftirps , nomen , patria , tempus ( 4 ) Quotuple x eft individuum ? Triplex :
definitum , quod exprimitur nomi- ne proprio , vel demonftratur per pronomen
hic , ut Petrus , hic homo : vagum , quod effertur per nomen particulare
Syncategorematicum , ut quidam homo : % ( 3 ) ScholafUci ajunt , qusefiionem
fpeciei fieri per quid > quia fpecies conflit uitur per prsdicata
efftntialia 5 quod eodem recidit ( 4 )
Per has defcribitur Cacusab Ovidio Fa{lor.I.i.veFf,55i* Cacut Aventi na timor
atque infamia ftlva , Non leve finitimis bofpitibufqtte malum , Dira viro
faciet , viret pro corpore , eerpor Grande} pater monftri Mulciber hujus
erat $0 . homo : ex hypothefi , per
antonomafiam , aut per peri * phrafim , ut cum lingulare aliquid certis (ignis
de- fcribitur; ex. gr. cum dico Romana eloquentia prin- cipem , Filium
Sophronifci , & fimilia , qua: certas perfonas deiignant . ( J ) .. A Quid eft , quod
efficit rem aliquam fi figularem & indit- iduam ? \ $. Ejus exiftentla .
Sola enim fingularia & in- dividua exiftunt . Itaque cujuslibet rei
exiftentia dici potefl: individuationis principium , ut fchola- rum verbis
utamur Proprietates porro illae >
quas paullo ante memoravimus, individuum non faciunt, fed martifeftant . Hinc
collige , quidquid exiftit , e (Te individuum ; five per fe , five per aliud
exi- flat ; five natura , five arte fit fadum . Ab his porro individuis retfe
perceptis mens imaginem quamdam ducit , & informat , quam fpeciem dici- mus
: & in hac quidem omnia conveniunt , & per hanc fingula cognofcuntur .
( 5 ) ' Species ( 5 ) Lib. 12. Dig.tit. 1, 1 . 6 . Rodius Miro primo de
Stipula- tionibut nihil referre ait , proprio nomine nt appelletur , an digito
oflendatur , an vocabulis quibufdam demonfiretur . (6) Speciet pro individuo
ufurpafur a Lucretio 1 . 2 . 3 ^ 4 . Nec vitulorum alia fptcies tue. I oquitur
de Vacca , quSe a- miflo vitulo uno, ita dolet, ut per alios curam levare notr
poffit. Cererum Individuum definitur a Volfio in
Philofi Ra tien. p. 1. fel. 2. c. 3. n. 74. Ens omnimode determinatum : prin-
cipium autem individuationis definitur n. 75, Omnimoda de terminatio eorum y qu( rebus in funi * Species poteftne conflare uno individuo ,
& genus fpecie una ? Nihil prohibet , quominus tota fpeciei natura uno
individuo comprehendatur, ex. gr. tota homi- nis natura fit in Socrate \ qui
& animal , & ratio - nale eft . Nihil item prohibet , quominus tota ge-
neris ratio fit in unica fpecie , ex. gr. tota ratio animalis in homine . Neque
vero necefie eft , ut genus , & fpecies de multis reipfa enuncientur .*
fatis eft , fi enunciari poffint . Ratio fiquidem uni- verfalis &
praedicabilis non in attu , fed in pote- ftate pofita eft . . . , * . t Quid docent Scbolaftici de fpecie
fubjicibiii, & praedicabili/ $. Quia fpecies fubjicitur generi , &
praeeft in- dividuis , de quibus enunciatur , illam duplici nomi- ne appellare
, ac diftinguere folent ; nam ut fpecies fubeft generi , vocant fubjicibilem ;
ut piaeeft indivi- duis , appellant praedicabilem . Primo modo non eft quid
univerfale , quia refpicit unum tantum , cui fub- jicitur ; & habet
rationem partis : altero inter uni- verfalia loctim habet, quia enunciatur de pluribus,
& habet vim rationemque totius. ( 7 ) Quo- ( 7 ) Species pradicabilis
dicitur genus a Seneca epifi. 58. Homo genus ejt . Habet enim in fe nationum
fpecies , Gra- tos , Romanos f "Parthos $ habet finguloty Catonem ,
Cicero- nem , Lue retium , Itaque qua multa (enfinet > in genus ta - ei it ;
qua fub alio e fi , in [pedem. Digitized by Google PARS I. CAPUT n, I* Quomodo fubeunt animum notiones
generis , fpeciei , individui ? *
, fi. Ita prorfus . Si videam procul
venientem Pam- philum , ea forma oculis oblata , continuo generis notionem in
animo informat , tum fpeciei , poftremo individui . Primum enim corpus efle
intelligo ; deinde ut propius accedit , agnofco efle animal ; tum efle ho-
minem \ denique Pamphilum . Sed individua quidem fenfibus; genera, &fpecies
cogitatione percipio . Ita- que illa dici folent in fcholis entia natur* , hzc
entia rationis . CA - ( t ) DialeSici
ScholafUci tria h*c , uni ver f ale , fecundam intentionem 8c ent rationi t pro uno eodetnque habent j
idque in plura cogitata dividunt , Sc per varias qusflio- aes agitant. DE
DIFFERENTIA.' VOT MODIS ACCIPITUR A PORPHTRIO ; DIFFERENTIA ? . ,
"T"'Ribus. Alia eft enim differentia communis , X alia propria , alia
maxime propria . Commu - yix eft , qua res una differt ab alia , aut a feipfa
per communem aliquam affectionem ; quomodo ho- mo feribens, differt a fe
ipfo & ab alio non feri- bente .
Propria eft , qua unum ab alio differt per af- feCtionem rei propriam , quomodo
latrans differt a non latrante. Maxime propria eft illud ipfum praedi- cabile
> de quo difputamus ; ideft id , quod generi jun&um fpeciem conftituit ;
x. gr. ratio , quae addi- ta animali , efficit hominem , hoc eft animal quoddam
a reliquis omnibus diftinftum . ( i ) In quo conveniunt differentia ifta ,
& i* quo differunt i %t. In eo conveniunt , quia fingulae varietatem
tribuunt At multis rebus differunt Primum diffe- rentiae communes , &
propria adveniunt rei jam con- ftitutae ; faciuntque alteram , ut in fcholis
dicitur , C hoc ( t ) Per differentiam communem Tigellius dicitur ab Horatio
lib. t. fat. 3. impar fibi , quod alia alio tempore vellet, & faceret. .
fioc eft diverfam ; differentia maxime propria rem conftituit, facitque aliam ,
Jioc eft natura eflen- tia a rebus aliis difcrepantem . Deinde differenti* haec
vulgo fpeclfica appellatur y quia fpeciem . facit ; illae dicuntur accidentales
, quia funt adventitiae > nec eftentiam attigunt . Tum differentia maxime
pro- pria genus in ipecies dividit , & a i accurate , defi- niendum valet :
illae autem ad. rudes & imperfe&as defcriptiones dumtaxat appofitae
funt , ; , * , # i W
altera a fpecie Prima uti genus
ipfiim enunciatur de pluribus fpecie
differentibus Hujufibaodt eft ex. gr.
fenfus in homine > per quem differt ab *iis viventibus > quae non
fentiunt Secunda uti fpc ' , cies fi)
Differentia exprimitur per modum adjiedm; genus > r Jpecies per modum
fubftantivi Proinde non ell mirum* fi
duo haec praedicantur in f id,, illa in quale.* , c Pars i. caput ir. cies ipfa
, enunciatur de pluribus numero differentibus , ideft de individuis . Hanc
Scholaftici appellant dif- ferentiam fpecrficam , illam geneticam . Quomodo
differentia dicitur notio univerfalis? T. Dicitur univerfalis ratione
individuorum , de quibus per fpeciem enunciatur . Ceterum fi refera- tur ad
genus , quod dividit , vel ad fpeciem , quam conftituit , dici nequit
univerfalis . Nam genus qui- dem unum quid eft , ipfaque differentia diffufius
; fpecies item eft notio una , tamque diffufa , quam differentia ipfa : uni
verfale autem debet efle aliquid late patens , quod de pluribus enuncietur ipfi
fub- jefti s . Quomodo differentia genus dividit , & fpeciem conftituit ? T
Genus dividit fecafido in fpccies illi fub}eas . Ita rationale fecat animal in
hominem , & brutum . Speciem conftituit j quia differentia eft pars rei
maxi- me propria , quae partem communem contrahit per modum formae , & in
certam naturam compellit . ^Nam genus , ex. gr. animal , eft veluti materia va-
ga & communis, qua; per rationem coercetur, unde homo extat. (3 J C * dif- Cum differentia fpeciem conflituat, apparet
cur d illis omnibus prodicetur , de quibus fpecies ; hoc eft de plu- ribus
differentibus numero . Praedicatur autem non per le , fed per -fpeciem ; quia
fola fubftantiva , quippe res com- plet* , praedicantur p*r fe . ' - ' Differenti# , qu nec omnia pervadere mente
poffumus, quafdam re- rum fpecies per unam differentiam aperimus , alias per
plures Nam fi circulum definire velim ,
aut triangulum , video unam illam differentiam , per quam utriufque natura confKtuitur
: at fi mihi ada- mas fit deferibendus , Cogor multas ejus affe&iones &
proprietates congerere \ quia intimam ejus naturam & ra- . > Quas
differentiae a nobis diverfa dicuntur , vulgo in fc holis vocantur dijparatce *
Sed vox hsec illis potius tri- bui debet j quae a nobis eppofita: funt appellat
. Siquidem Cicero in lib. t. de 1 nvent. c. 28. ea utitur ad fignifican- da
contradicentia ; qualia funt rationale , Sc non rationale ; ferjus particeps ,
Sc non particeps a 1 & rationem non
video , per quam ab aliis gemmis diftinguitur . DE PROPRIO. PROPRIUM UOT MODIS
DICITUR APUD PORP HTRIU M? /"A Uatuor dicitur modis. Primo proprium eft,
quod foli fpeciei accidit , fed non toti i ut efle medicum accidit foli homini
, neque tamen qui- libet homo medicus eft . Secundo proprium eft e converfo ,
quod toti fpeciei accidit , fed non foli ; ut efte bipedem convenit quidem
omnibus hominibus , non tamen folis. Tertio proprium eft , quod foli , &
toti fpeciei accidit, fed non femper ; ut canefcere convenit quidem omnibus
hominibus , & folis ho- minibus, non tamen quavis *tate. Quarto proprium
eft , quod foli , & toti fpeciei , & femper accidit . Hoc modo convenit
homini efte rifibile , quod ejus naturam confequitur , tamquam proprietas
necefla- ria; & cum ea reciprocatur : nam quidquid eft ra C 3 tiona- ( 5 )
Tanta eft differentiarum ignoratio, 6 c vocabulorum inopia ad eas explicandas,
uc interdum fpecies fui generis nomine appelletur. Ica Caefar initio lib. 1.
Bel. Gal. divi- dit Gallos in tres fpccies, quarum primam appellat Belgas ,
alteram Aquitanos , tertiam Gallos , adhibito generis nomi- ne ob inopiam
proprii . Idem -f pe
accidit in Phyiicis rc- . tionale , eft rifibile quidquid eft rifibile , eft
rati* cale . ( i ) Quodnam ex his eft quartum Pradicablle ad hunc locum
pertinens ? I. Poftremum; quoti proinde definiri poteft, No- tio univerfalis ,
qua fpeciei naturam jam conftitutam ne- cejfario confequitur , & per eam
pradicatur de pluribus differentibus numero . Difcrepat a differentia , quia
illa fpeciem conftituit ; ab accidente , quia accidens rei natu- ram fequitur,
tamquam aliquid adventitium. Quodnam judicium ferendum eft de exemplis a Porphyrio
allatis ? Homines contentionum ftudiofi cum Polphy- rii dottrinam oppugnare non
pollent , in exempla ftilum exacuerunt. Nos ne tempus line caufla tera- mus ,
dicimus exempla adhiberi ad manifeftandam veritatem, neque opus efle, ut ipfa
vera fint. Qui ha?c non probat , alia reponat , fed
pergat porro fi- ce litibus, (a) C A- ( i ) Proprium a Lucretio dicitur
Conjungium lib. x. v. 452. ConjunHum eft id , quod numquam fine perniciali ,
Difcidio potis eft fejungi , Jeque gregari , Pondus uti faxis , calor 'ignibus
, liquor aquai . * * r * 1 ' i *ARS I.
CAPUT K DE ACCIDENTE. &UQTUPLEX EST ACCIDENSl *%** - * f. A Ntequam Porphyrii divifionesaflferam ,
anim- jlJL adverto , accidens in toto
genere fum- tura , vel eflfe Categorkum , vel Pradicab/le . Illud eft , quod
Categoriam conftituit fubftantiai oppofitam ; ideoque per fe confiftere nequit
, ut figura , & mo- dus quilibet. De eo difputabitur in Categoriis. Prae-
dicabile eft attributio quaedam Logica , quae rei ad- venit , per eftentiam &
intimas proprietates jam con- llitucar, five fit aliquid per fe confiftens ,
five non fit i ut veftis , quae quamvis fubftantia fit , alteri ta- C 4 men ( *
} Haec maxime referri volumus ad facultatem riden- di y de qua ita Ladantius in
lib. de ira Dei > cap. 7* Eifus homini proprius eft , quod deceat] in f adis diSif- que quis modus
, , > Digitized by Google 4 o PARS I. CAPUT Vlj mcn fubftantia: adjefta ,
convenit illi ut accidens Hoc igitur
quintum Praedicabile dicitur , efle toga- tum, efle doftum efle album. ( i )
Quomodo definitur? $. Notio univerfalis , quae pluribus adefle & abe fe poteft,
incolumi eorum natura; deque iis praedica- ri , ut efle armatum , efle
coloratum . (Accidens nonne dividitur a Porphyrio in fepara- bile, &
infeparabile? Ita videlicet, nifi nos nova nomina offendunt, quae funt ab
interpretibus . Sed nomine accidenti infeparabilis id idtelligit Porphyrius,
quod reipfe le- parari nequit; per mentem tamen feparatur, quotiei cogitamus,
adventitium quid efle , reique naturani fme illo confiftere . Hujufmodi eft
color niger ia corvo, albus in cycno. ''
Nonne hoc modo etiam Proprium feparatur } w ~ \ Proprium feparari cogitando
poteft , non t* quia eft accidens : at crocitandi facultas negari de corvo non
poteft , quia eft proprietas , quas ne- pedario eflentiam ejus confequitur,
& cum ea reci- procatur* Cedo mihi alias accidentis divifiones , Qt.
Accidens vel eft externum , vel internum , Ex ternum eft, quod rem extrinfecus
denominat ; quo- modo laus dicitur accidens ejus, qui laudatur in- ternum dicitur , quod eft in re ipfa , ad
quam perti- net: idque vel eft Pbyficum , vel Metapbyficum . Vh? ficum rem vere ac naturaliter afficit , ut
motus : Me- tapbyficum rem dumtaxat denominat, ut relatio , op- pofitio , &
fimi lia. Solet etiam accidens dividi in ab folatum , & relatum . Illud eft
, quod rem afficit ab omni alia folutam , & in ipfa natura fua confide ra-
tam , ut figura ; hoc relationem & comparationem exprimit unius rqi ad
aliam , ut aequalitas, (*) Qua ratione dicitur univerfale & praedicabile ?
: / j , . * * ' * ' Bt. Quia eft totum logicam , quod ineft
variis fubje&is , & praedicatur de illis . Praedicatur autesor in quale
fortuito , ut formula fchoiarum eft* t _
_ _ ( 1 ) Tota haec divido transferri poteft etiam ad acci- dens categoricum ,
Nam hoc ipfum comprehenditur in pne- IMiir. ( 3 ) Accidens, quatenus
accidens, praedicatur de fubje- lis, in quae fpargitur. Cum prodicatur de
formis fuis, ut figura de quadrata , & rotunda } generis ratione induit , C
A. Digitized by Google 4* Vk \ . L DE MODO ET RATIONE PRAEDICANDI. f . . k * 1
% 4 % V
A 4 b 4 ANTEQUAM PRAEDICABILIA DIMITTAS , DIC
ALIQUID DE MODO PRAEDICANDI? Jjk Ti4" Odus pr^dicandi > cujus gratia
tam. mul- * aXVX ta de Praedicabilibus > . & Praedicamentis
t-ogici.difputant > dicitur ab iis Praedicatio , idefl e- nunciatio unius
rei de alia:, ut cum. dico.,. Avaritia $ .ifi vitium , praedico &,enuncio
vitium de avaritia , ideft genus de. fua fpccie. ( i ) l * .* i r ) 1 ' ^
.1 > 3* . i : I ** * Quot up
lex e fi pr qui nullum dividendi linem fa- ciunt , dividere folent ordinatum
praedicandi modum in internum & externum , in ejfentialem &
accidentalem , in ufitatum & inuf\tatum > in necejfarium & continge
n - in pojjibilem & impojftbilem , quale : quas quidem omnia divifionum
genera ex ipfis voci- bus , quibus efferuntur , manifefta funt ; fiquidem quale
eft prsedicatum , talis dicitur praedicandi mo- dus. ( 3 ) PAR- I * f Vv \ ' .jr
*- a ' ' ( 3 ) Si quis dividere velit ordinatum praedicandi modum . in
proximum , remotum , non inepte dividet . ad tollendas difficultates , quae
contra praedicabilium definitiones afferri folent . Nam g?# j ex. gr. proxime
praedicatur de pluribus differentibus fpecie, remote de pluribus differentibus
numero . . . . * 4 i PARTIS SECUNDAS
PROTHEORIjE. vu l c o . ANTEPRAEDICAMENTA. a OVID SVNT ANTEPRA.D1C AMENTA , E7*
QVO SPECT ANTt "O OR modum praedicandi , ordine fequitur id , JL quod
praedicatur * Explicandae funt igitur nobis Categoriae , qua; vulgo dicuntur
Praedicamenta ideft clafles rerum , quae poffunt praedicari . Id ut commode
fiat, praemittuntur ab Arifiotele Protheo- riae, quae in fcholis Antepradic
amenta vocantur. Sunt autem praenotiones quaedam neceffariae ad inteliigenda
Praedicamenta . Continentur tribus definitionibus , dua* bus divifionibus ,
& regulis item duabus . f ' . ( i )
Idem Porphyrius , a quo fumfimus fuperiorem Prae- dicabilium doRrinam ,
Ariftotelis Pr medicamenta expofiut exiguo libello , ,cui titulus : '$ . ideft,
In Ariftotelis Cate- gorias expofitio per interrogationem & refponfionem .
Eadem ipfa expolitione Antepradic amentorum doctrina comprehen- ditur . Nos
tamen hic Porphyrio dimiflo, Ariftotciem ipfum aggredimur ad explicandum .
Quanam funt definitiones ? . . > I > ]. Prima eft Homonymorum. Homonyma ,
feu Am- bigua , fune ea , quorum nomen commune eft , fed notio & natura,
qua; nomine fignificatur , plane di- verfa ; ut aries , qua; vox modo belluam
fignificat , modo fignum calefle , modo bellicam machinam . H arc in Scholis
dicuntur AZquivoca , de quibus vide plura in Rudimentis Diale#. Par. i. cap. 4.
Secunda defi- nitio eft Synonymorum. Synonyma autem funt, quorum nomen, &
ratio, quae nomine fignificatur, eft ea- dem; ut animal , quse vox arque
hominem , ac belluam fignificat . Harc
a Scholafticis dicuntur Univoca , a Ci- cerone Cognominata . Tertia eft
Paronymorum. Varony - ma funt nomina concreta , qua; denominantur ab ea forma,
a qua oriuntur; ut juflus , quod oritur a jufti- tia ; fortis , quod a
fortitudine ducitur. Ab Ariftotele dicuntur ea , qua ab aliquo , a quo cafu
differunt , ap- pellationem habent ; a Latinis Grammaticis vocantur
Denominativa , a Cicerone Conjugata. Habent ne omnia locum in Categoriis ? I.
Sola Synonyma in Categoriis locum habent , quia harc fola unius rationis funt ,
& una clafle coer- ceri poliunt. Quot ( t ) Cicer. Topic. c. 3. Conjugata
dicuntur , qua; funt ex verbis generis e juf dem . Ejufdem autem generis verba
funt , qua orta ab uno varie commutantur , ut fapiens , fapienter , fapientia .
Ex quo genere faepe argumentari folemus , ut idem Cicero 1 . 3. de Nat. Deor.
c.i i.Si omnis cera commutabilis ef- fet , nihil effit cereum , quod commutari
non pojfet . ? RsDICJiMENTA. Quot funt
divifiones ? r \ I. Duas funt divifiones , prima vocum , *kera re- %um .
Dlvifio vocum eft hujufmodi . Voces jtfix funi complex 4 ( * rv^TXex ) quas
plura fignificant > ut figura pltna : alise fmplices ( ut accides* univtrfalia , v. gr. color , qui
femper cft ip aliqu* aftantijt , & de multis colorum formis enunciatur. r d
neque in fubjeSo funt , neque de fubjeSo dicuntur * t lingulares fubftantix ,
Petrus, Socrates x &c. Res IA fubje&o fchemate clarior apparebit. v, r
/ f-H ", ' Eft Digitized by Google
4* ANTE E& In (iibjcclo . Subjc
fiunt quot modis dicitur} I ! I I k .
> i I \Z> : rjfcfi ji U Non eft in lubje- elo (A C te (A H > H M
> A o c r-* (A Non di* citur de
fubiefto . 1 Jt. Subje&um aliud dicationis , aliud inb^Jtonis Primum eft , de quo aliquid praedicatur ;
fecundum eft* in quo aliquid inhaeret
Ex. gr. homo habet fubjedum pr de quo homo enun- ciatur: figura habet
fubje&um inhafionis ; eftque cera * lignum , marmor , & alia * quibus
figwr* inhaerere folei . ATiTE PRODIC AME NT A. 49 ' . > Quo fpeflant brec ? Eo nempe ut intelligamus , quidquid eft , vel
fle [ubftantiam , vel accidens , Hoc habet fubje&um in- ftafion/s , &
in [ubjeflo effe dicitur ; quia per fe confi- fle re nequit : illa non item.
Praeterea ut intelligamus, tum fubftantiarum , tum accidentium alia efte
univer- salia , alia fingularia . Illa habent fubje&um praedica- tionis ,
tc de [ubjefto dicuntur , quia enunciantur de multis : haec non item 1 m
Quanam funt Regula ? 1 Prima regula eft
, Cum quippiam de quopiam dicitur y qua de pradicato enunciantur , ea poffunt
etiam de fubjefto enunciari : ex. gr. quia Grammatica dicitur ars y quaecumque
arti tribuuntur , etiam Grammatica tribui pofTunt . Itaque quoniam ars dicitur
habitus > etiam Grammatica habitus eft . ( i ) Secunda regula duas habet
partes. Prima eft. Omnium generum y quo- rum nec alterum fub altero pofitum eft
, nec ambo fub eo- dem tertio y differentia ftngula prorfus diffident : ut ani-
malis y Sc [cientia differentiae nullam affinitatem ha- bent, quia animal
fubeft fubftantiae, [cientia accidenti. Secunda pars hujus regulae eft. Eorum
generum , quo- D rum ( 1 J Ratio regulae eft, quia in cnunciatione ajente prae-
dicatum debet omnino fubjefto convenire, in negante de- bet omnino diferepare ;
ne fallaciae locus fit . Porro
fi quid * praedicato conveniat, non proprie & per fe , feJ .fortuito , id
non debet de fubjefto enunciari : v. gr. Ars dicitur ge- nus; non tamen iccirco
Grammatica dici genus debet . Vi- de fallaciam accidentis in Eiench. Sophilt.
90 ANTE PRAEDIC AMENT A. rum alterum fub altero collocatur , vel ambo fub eodem
tertio , quadam funt communes differentia: ut planta & animal conveniunt in
differentia corporea , quia utrum- que corpori fubeft . Ratio eft , quia natura
fuperioris continetur in inferiori, eique attribuitur, fi reclus fit
praedicandi modus ; veluti cum dico , planta eft corpus , animal eft corpus . (
a ) PARS . * 4 \ ( t ) Quidam excipiunt Corpus Sc Spiritum ; quae cum fint fub
eodem genere Subftantia , in nulla tamen differen- tia conveniunt* Porro autem
quae no s Antepradic amentorum nomine com- plexi fumus, ea Ariftoteles
explicuit in capite primo , fe- cundo , & tertio Categoriarum . Ex quo fit
, ut quod proxi- me fequitur , Sc a nobis primum dicitur , in Ariftotelico
Organo quartum fit . Eumdem ordinem fequentes , fex po- firema Categoriarum
capita uno nomine comprehendemus , & Pojlpradic amenta vocabimus ex
inveterato fcholarttm more. DigRizenv Google ft . PARS II. DE CATEGORIIS fete
PRALDIC AMENTIS C A P V T P I M V M. DE CATEGORIIS IN UNIVERSUM, (i) - c .
' [ riD EST CATEGORIA ? 1. /'"A Uid fit Categoria , fatis notum eft ex Ru-
i Umentis . ( z ) Et numerum Categoriarum, & nomen ipfum quidam referunt ad
Archytam Ta- rentinum: quia de re nobis laborandum non eft, mo- do fciamus ,
haec efle fumma rerum omnium genera , quorum cognitio Diale&ico neceflaria
eft ad dilputan* D z dum , ( i ) Inlcriptio haec non eft Ariftoteiis ipfius , i
deoque faepe variata eft. Nam ( ut fcribit Simplicius in Prolegom. G'a tegor. )
ab aliis Ante Topica liber infcriptus eft ; ab a- Iiis T)e Generibus entis i ab
aliis De decem Generibus ; ab aliis Categoria decem ; ab aliis Categoria. Porro
Ante To- pica infcripfit Adraftus Aphrodilaeus , quia iis Topica fub- jecit. ^
( z ) Categoria difta eft a verbo Graeco x*Tiyp*7r$i , enttnciari ,pradicari.
Hinc Categoriae, vulgo Pradicamenta dicuntur ; a Quinttiliano vocabulorum
elementa ; ab Ale- xandro Aphrodifienfi rparx t 7( $r\9rovl*f , principia
Philofo- phia . Sunt enim clafles rerum omnium , quibus natura coercetur .
Cladis porro quaeque dividitur in fua genera * fpecies , atque individua ;
nihilque eft in Categoriis , quod non uno aliquo ex iis nominibus appelletur ,
quae Predica- bilia diximus . Ex quo apparet , quomodo Pr^dicabilia ad,.'.,.-,
Predit amenta pertineant, & qua ratione ab iis differant': - " qua de
re fatis diximus in Rudimentis Par. i. cap. 3 .
L dum , ne fubftantias cum modis earum , aut modos jpfos inter fc , aut
relata cum abfolut is confundat . * Quaenam conditiones ccir.it ari debent
voces & notiones Categoricas ? -
Quod in Categoria aliqua rede collocatur , primo debet efle verum ens ;
qua ratione excluduntur entia rationis, privationes, & negationes. (4 ) De-
inde debet . efle ens per fe unum , non ex pluri- bus conflatum ; qua ratione
excluduntur voces com- plexae , & concreta quadibet . Tum debet efle ens
completum y perfedumque ; qua conditione excludun- tur entia omnia , quae
partis rationem habent . Hinc habes, cur differentiae in arbore Porphyriananon
col- locentur in reda Categoriae cla fle , fed latera teneant ; jquia fcilicet
non tota quaedam , fed partes funt . Poftea debet efle ens jynonymum , hoc eft
unius nominis & rationis ; qua conditione excluduntur homonyma , &
paro- Boethius in Pra?fit. lib. 1.
Praedicam. Archytas et - iam duos compefuit libros , quorum in primo h$c decem
prq- dic amenta difpofuit . Unde pojleriores quidam , non ejje A riftotflem
hujus diviftonis inventorem , fufpicati funt , quod Pythagoricus vir eadem
fcripfijfet ; in quafententia Jamblicus Philcjophus eft non ignobilis ; cui non
confentit Thcmiftius > neque concedit , eum fuijfe Arcbytam , qui
Pythagoricus Ta - rentinufquc ejfet , quique cum Platone aliquantulum vixif-
fet 5 fed Peripateticum aliquem Archytam , qui novo operi auctoritatem
vetuftatc nominis conderet . Vide Voflium de natura Art. 1 . 4 c. 8.$, 3. Per entia rationis hoc loco fig,nificantur notiones
il- is , quibus nihil in natura refpondet , ut Centaurus, Chi- maera , &
fimilia 1 . paronyma [cf. Grice, “ARISTOTLE ON THE
MULTIPLICITY OF BEING, AUSTIN ON PRICHARD ON PARONYMY] . Poftremo debet e (Te ens cert vel el per fe , vel per
accidens : fi per fe , conftituit fubfiantiam ; li per accidens , vel eft
abfolutum , vel relatum ; fi abfolu- tum , vel fluit a materia , &
conilituit quantitatem ; vel a forma , & conftituit qualitatem fi relatum , conftituit rela- tionem ; ad
quam , tamquam ad genus referuntur reliquas Ca- tegoria . Nam agere tamquam iri fub jeffo . Efle autem in
fubje&o , eft inhxrere alteri $ Sc ab eo pendere ; quomodo fola accidentia
fnnt in fubje&o. ( 1 ) " * Quid eft accidens ? Accidens ( quo nomine
ftgnificantur apud Peri- pateticos reliqux novem Categoriae ) eft id, quod per
fe ( 1 ) Ariftotelica definitio fit per negationem; quia cum fubftantiae natura
nota non fit , explicatio fumitur ab eo , quod eft notum, Ecce , quomodo ex
veteri hac definitione juniorum Philofophorum definitio nata fit . JS fe non condat; vel quod eft in alio tamquam
in fub- jefto; uno verbo Accidens eft id , quod non eft fub- ftantia, fed
fubftantia: inha:ret. Nonne etiam pars rei efl In re} Pars non eft in
fubje&o , fed componit fubje- dum. Itaque anima hominis ex. gr. non eft in
homi- ne , fed eft pars hominis , eumque componit . Quomodo dividitur
fubftantia hoc loco ab Ariftotele ? Dividitur in primam, & fecundam. Quid
eft fuhftantia prima l 1. Eft fingularis fubftantia , & individuum quodli-
bet, ut Plato, hic liber . Grseci dicunt vel **$**. Definitur autem ab
Ariftotele , quod neque in fubje- So eft , nec de fubjeSo dicitur . Per primam
conditio- nem diftinguitur ab accidente ; quod eft in fubje&o , ideft
alteri inhasret. Per fecundam diftinguitur a fub-- ftantiis univerfalibus ,
quae de fubjefto dicuntur, ideft de aliis multis enunciantur. ( a ) Quid eft
fubftantia fecunda} Subftantia univerfalis, ut genus , & fpecies , vocatur
ab Ariftotele fubftantia fecunda , quia pendet ' ' f , D 4 a pri- ( x ) Quidam
non probarunt definitionem hanc;, quia non reputarunt cfle loicatn. I Digitized by Google 5 6 1*
ARS Ii: CAPUT II. a prima. Univerfalia
enim ipfa per fe nihil funi, fed 2 lingularibus cogitando eliciuntur. Ex quo
fit ut fub- ftantia prima dicatur ab Ariftotele princeps , & maxi- me
fubftantia , * /liKif* Ktyofkin in* . Et quia fpecies propinquior eft lingularibus , quam
gentis , ea dicitur magis fubftantia. Definiri igitur potell fubftan- tia
fecunda per ipfa Ariftotelis verba, quod in fubjeflo non eft, fed de fubjeflo
dicitur Quanam funt fubftantia
proprietates ? IjL Multae numerantur ab Ariftotele , quarum qui- dem aliqua:
communes funt aliis Categoriis, aliqua: vero nullius parne ufus , li credimus
aetatis noftrae Dia* lefticis . Quanam eft prima} v Subftantia de omnibus fibi
fubjeftis enunciatur rwripm 9 ideft univoce , ut verbo fcholarum utar . Con-
venit enim unicuique fecundum unam eamdemque ra- tionem. Proprietas ha:c non
cadit nili in fubftantiam fecundam ; nam prima non dicitur de fubjefto . Ita- que homo eodem modo
praedicatur de Petro & de Paul- lo: Petrus non dicitur nifi de Petro . Cedo
mihi proprietatem fecundam $. Subftantia
prima lignificat t$*t/ , hoc ce , ideft rem certam, lingularem, per fe
conflantem , qu* veluti digito oftendi poteft . Substantia secunda significat
quale aliquid , ideft unirerfale quid , quod de fifcgularibus enunciatur ,
atque iis veluti adjicitur* tamquam praedicatum commune . Hinc apparet , qua- re fubftantia prima dicatur ab
Ariftotele maxime fub~ ftantia . Secunda enim praedicatur per modum acci-
dentis ( 3 ) . v Cedo tertiam . Subftantia per fe , & ratione fuae naturae
nihil habet contrarium . Neque enim fubftantia opponitur fubftantiae nifi
ratione qualitatum , quibus afficitur . Probari poteft ex definitione
contrariorum , quorum ca ratio & natura eft, ut fe expellant a fubje&o:
at- qui fubftantia non eft in fubjedo : non habet igitur contrarium . Quare
ignis contrarius eft: aquar , non qua ignis, fed qua calidus , ficcus;
Ariftoteles diffidet a Democrito * non qua homo , fed qua Philofophus. (4) Ctdo
quartam Subftantia neque intenditur,
neque remittitur . Extendi tamen poteft , quod fit per quantitatem . Ita- que
unus equus non eft magis equus, quam alius, fed major . Scholae dicunt fufeipere
magis , minus . fedo quintam Subftantiae
maxime proprium eft , ut una ea- dem- . ( 3 ) Doftrina haec contra Heraclitum ,
& Platonem eft , qui ajebant , folas ideas efle , hoc eft uuiverfalia . ( 4
) Ovidius lib. x. Metamorph. Frigida pugnabant calidis , humentia ficcis ,
Mollia cum duris . y8 , flemque permanens, fufeipiat contrarias qualitates .
Nam eadem manus ex. gr. modo calida eft, modo frigi- da. f s ) Nonne quidam fex
faciunt fubftanti* proprietates ? Faciunt enimvero, quia numerant inter
fubftan- tiac proprietates e(fe fubjeffum accidentium . Verum harc non
proprietas dici debet , fed ratio & natura fubftan- tia*. Nain quidquid in
natura eft , vel eft fubjc&um* vel eft in fubjefto: fubftantia eft
fubjc&um, accidens fft in fubjedo . Cedo mihi gradus omnes fubftantiee C at
egoricee . Habes ex Arbore Porphyriana in Rudimentis Par. j.cap. j. Eam feriem
quidam exordiuntur ab en- te , quod dividunt in fubftaneiam , & accidens .
Pla- cuit nobis incipere a fubjlantia , quia fola fubftantia eft : accidens
autem vocatur modus ejus, & dicitur nonef- fe , fed inejfe . (6) Deus
continetur ne in Categoria fubftantia} * I. Divina natura nimis excedit humanae
mentis aciem . Attamen de ea quatrentibus non defunt Dia le&i- ( 5 ) Saepe inculcat Aciftoteles e,
*' tutd' p/fl/w-Sr , unum idemque numero permanens :qu\z hoc
quoque contra Heraclitum, & Platonem eft , qui docebant lingulares
fubftantias omnino non efle, ob perpetuas mutationes ex contrariis ortas. ( 6 )
Quod ego Subftantiam dico , Seneca appellat quod eft, v j epift. j8. illud genus QUOD EST generale ,
fupra Je nibil habet ; initium rerum eft ; omnia fub illo funt Efi paullo poft . QUOD EST , in has fpeeies
divido , ut fint cor- poralia, aut incorporalia . Nihil tertium eft. Corpus quomo- do dividi aut inanimantia. \ i PARS 11 . CslPUT II- '59
leftici, qui cxlum terramque mifceant. De his Pru- dentius in Apotheofl
Prarfgt. 2. Statum lacejfunt omnipollentis Dei Calumniofis litibus: Fidem
minutis dijfecant ambagibus , Ut quifque lingua nequior: Solvunt , ligantque
quaftionum vincula Per fyllogifmos plcBilcs . Nobis optime locutusvidetur
D.Dionyfius,qui Deum ait e fle Jvif/mr , ideft fupra fubftantiam . Ipfe unus
vere ac proprie eft , quia nihil eft , nifi per illum : at- tamen quid fit ,
explicari non poteft . Nugatur igitur, fi quis ejus naturam & eflentiam
aperire definiendo conatur (7). Nos tamen, ne nihil dicamus , audemus eam per
efle&a quardam nobis nota defcribere hoc fer- ine paflo: Mens a fe &
per fe conflans , ab omni concretione rerum fegregata , infinita vi ac virtute
prxdita , omnia regens , & per omnia fine ulla men. fura diffufa (l).
CA- A Proclo 1 . 2. Platon. Theol. c.
11. Deus dicitur omni filentio longe inexplicabilior , tJ fvbjlantia omni longe
ig notior. Alludit autem, nifi fallor, ad Oracula Zoroaftri u. 41. ubi mens
divina dicitur fil entium . ( X ) Cicero 1 . 1. de nat. Deor. c. 22. Roges me , quid
% aut quale fit Deus . Au ciere utar Simonide , de quo cum qu deliberandi
caujfa fibl unum diem pofiulavit . Cum idem ex eo pofiridie qucereret , biduum
petivit . Cum feepius duplicaret numerum dierum , admiranfque Hiero requireret
, cur ita faceret ; quia quanto , ' inquit , diutius confiaero , tanto mihi res
videtur obfcurior . Quod Cicero Simonidi tribuit , Tertullianus in A pol. c.
46. tribuit Thaleti, quem facit de re hac interrogatum aCroe- fo Lydorum rege. DE
QUANTITATE. QUANTITAS QUOT MODIS SUMITUR ? TTVUobus . Vel enim fignificat
extenfionem mo- JL/ lis , vel extenfionem virtutis . Prima perti- net ad res corporeas , fecunda ad
incorporeas . Hic non agemus nili de quantitate molis. * Quid eft igitur
quantitas hoc modo fumta > \ A Jfc. Eft modus , & menfura fubftantiae ;
hoc eft Id, per quod fubftantia eft extenfa , & menfurari poteft Ex
quantitate igitur manat rerum dimenfio ac dinu- meratio Quotuple x eft quantitas ? Jfc. Duplex ;
Continua , & Difcreta . Continua dici- tur, cujus partes continuantur, id
eft communi nexu copulantur , atque una cohaerent ; ut linea , & ma-
gnitudo quarlibet ( i ). Difcreta dicitur, cujus partes disjunguntur : quia
nullum habent nexum ipfis inter fe communem , per quem fimul coalefcant j ut
nume- rus y & multitudo quaevis* Conti - ( i ) Seneca natur, quaeft. 1. 2 .
c. i. Continuam eft partium inter fe non intermijfa conjunttio . Igitur
contigua dici potiunt ea inter quae nihil eft ; continua , quorum e'l pars
communis: ut in linea hac A BC D partes AC , & BD continuat lunt ; partes
BC contigus . V \ . Si Continua eftne unius rationis ? Minime vero Alia enim efl Permanens , alia Fluetis . Illa
dicitur Permanens , cujus partes funt fimul; ut linea , fuper fides , corpus .
Litte a fola longitudine con- flat : fuperficies conflat longitudine , &
latitudine : cor - pus longitudine, latitudine , & profunditate . Fluens
eft , cujus partes in fucceflione quadam pofitae funt ; cc magis fieri , quam
efle dicuntur , ut tempus , & motus . ( 2 ) Quid intelligit Ariftoteles
nomine communis nexus} Intelligit individuum quid , quod pars rei non efl , fed
partes nedit tamquam finis unius , & prin- cipium alterius. Hujufmodi efTe
putat punfta in linea, momenta in tempore . Quo- Ad
lineam refertur omne menfurae genus , in quo ni- li 1 fpedatur praeter
longitudinem; ut ftadium. superficies complebitur ea menfune genera , perquse
longitudo, & la- titudo indicatur ; ut jugerum . Corpori fubjiciuntur illa
omnia, in quibus ratio triplex menfuras confideratur , longitudo , la- titudo ,
crafiitudo ; ut cubus . . Empiricus lib.
1. adver. Log. n.^9. Fluente punHo , lineam imaginamur , que efl longitudo
carens latitudine . Flu- ente linea , fingimus fuperficiem , que eft longitudo
, & latitudo fine profunditate . Fluente fuperficie , gignitur corpus
folidum . Macrobius in fomn. Scip. 1 . 2. c. 2. Dicunt punRum corpus ejfe
individuum , in quo neque longitudo , neque latitudo , neque altitudo
deprehendatur ; quippe quod in nullas partes dividi pojfit . Hoc protractum
efficit lineam > Digilized by Google PARS IL CAPUT ZIL (% Quomodo corpus
cenfetur inter fptcles quantitati : ? SfL. Corpus in fchola Peripatetica vel
Phjficum eft * ideft compofitum quoddam ex materia , & forma , 8 c pertinet
ad fubftantiam : vel Mathematicum , ideft ter- gemina rei extenfio > qua res
corporeas metimur i & pertinet ad quantitatem . ( 4 ) Nonne etiam locus
[pedes quantitatis eft ? 51. Ariftoteles etiam locum recenlet inter fpecies
quantitatis continuae , fecutus opinionem illorum , qui putant locum efte
fpatium quoddam inane * quod a corpore occupetur . Ceterum revera locus in
fchola Peripatetica ad fuperficiem revocatur . ( y J Nonne quidam excludunt
tempus ? 3 t. Excludunt fane , fed injuria .. Nam tempus eft modus quidam rei
durantis ab ea dtftin&us, ac veluti externa ( 4 ) Corpus Mathematicum folet
etiam interdum appel- lari f olidum , vel corpus fclidum , Macrobius in
Somn.Scip.l.z* c. *. Omne corpus [olidum trina dimenfione difienditur : ha- bet
enim longitudinem, latitudinem , profunditatem . In hac ter- gsraina dimenfione
naturam & eflentiam corporis Phyfici ponit Cartefius Princip. Philof. P. 1
. . Lucretius lib. 1. iterum ac faepius
milcet locum , fpatium y inane tamquam voces fynonymas . In libello qui tribuitur Archytae Tarent. J ^ -rit&f r jinx*ty linea autem , fpatium
, & locus , con- tinui funt . . $$ externa ejus menfura . Defcribitur a Cicerone lib.
j. de Invene. cap. 26* Tempus eft pnis quadam . aternita- tis cum alicujus
annui > menftrui , diurni , notturhlve [patii . certa fignificatione . Sed de natura temporis Phyfici cer- tent; Logico
fatis eft, efle notiones aliquas, per quas refponderi poffit interroganti per
quando* ( 6 ) .1 * \ Quomodo oratio
refertur ab Ariflotele ad quantitatem dif cretam? oratio ad qualitatem referenda eft. ( 7
) * . . . reprehendi folet ab junioribus Dialefticis/
qui non reputant , conjugata ita fe habere, ut concretum valeat ad definiendum
abltra&um , quia notius eft. Itaque Ariftoteles in lib.2.Pofter. c. 13.
docet ex viris magnanimis cogqofcendam effe naturam & rationem magna ni mi
tatis ad definiendum * * &c. ( 1 )
inanem rejiciunt f E ditur ; Digitized by Google 66 PARS II. CAPUT IV. ditur ;
cum difputanti commoda fit atque opportuna ad tolerabilem aliquam eorum
effe&orum explica- tionem, quae clare diftin&eque manifeftare nequimus.
Logico certe neceflaria eft, qui refpondere debet in- terroganti per quale .
Quot funt qualitatis fpecies?' ! Quatuor veluti paria recenfet Ariftoteles*
Pri- mum eft habitus , & difpofitlo. Secundum naturalispo- ttntia , &
impotentia . Tertium paffio , & patibilis qua- litas . Quartum forma ,
& figura . Explica mihi primam qualitatis fpeciem . Habitus eft firma
quasdam facilitas agendi aliquid, longo ufu comparata ; cujufmodi eft ars
quaelibet . Dif- pofitio eft progreftio ad habitum , ideft expedita quas- dam
animi , aut corporis ad aliquid faciendum com- moditas & proclivitas.
Differunt , non natura , fed gradu ; quemadmodum paria duo , quae fequuntur.
Igitur habitus eft qualitas firma & permanens ; difpofi- tio mobilis &
infirma . Haec afliduo ufu & exercita- tione in illum migrat . Ex- ( z ) Ab Ariftotele dicuntur , )| Ivrttuix
, koiotus , rylu . quibus fideliter refpondent quatuor ufitatx formula a nobis
allar . Ab eo, qui Latine loqui velit , primum par. dici poceft habitus,
perferus 6 imperfeBus , ut ars quaelibet abfoluta , vel inchoata; fecundum
naturalis vis , Ii . re, collocatione,
proportione, & colore orta; ut for- ma hominis.^ Itaque figura (ut Boethius
monet ) fe- re ad res artefa&as pertinet, fonpa ad naturales.. ( 6) - *
' i
Nonne etiam rarum , & denfum , afperum , & leeve funt f pe cies
qualitatis } * * . . 4 * I. Movet
difficultatem hanc Ariftoteles / fibique ipfe refpondet , rarum y & denfum
, afperum , & latve pertinere ad Categoriam fitus , cum variam partium
politionem fignificent . ( 7 ) Jgu quas in nobis excitant afperum , & laeve
, ad qualitatem referuntur; non fecus atque illae, quas excitant ignis , finitionis , Sc qualitatis ' N . . E 3 C A- . ' * , ( 8 ) Haec ex Ariftotele . Illud vero
etiam inter proprietates qualitatis numerari poife videtur , quod res per
qualitates inter fe agunt. . Neque enim fubfcantia ipfa cer ie agendi , aut
patiendi vim habet ,* fed eatenws agit , aut patitur , quatenus eft
qualitatibus praedita . I t. DE RELATIONE. &UID EST RELATIO ? Elatio eft
ordo & affe&io quaedam rei ad rem Itaque relata dicuntur a Graecis T *
'V* ' ** > qu & explicari abfque ulla com- paratione poffunt . Hoc modo
pes , & manus relata dicuntur quia alterum cum altero interdum confer- tur
, quamvis etiam fine collatione cognofci poffit . Relatio rei eft, quas
fecundum ejfe in fcholis vocatur; ideft quse datur in rerum natura citra
cogitationem ( i ) Scholaftici relativa dicunt : Cicero , & Quinti- lianus
modo coli at a , modo comparata , mo&d affella , modo ut ab altis /eparetur , alio modo eam
definire debemus , 7te femper parum conficter antibus error oriatur .Tunc ergo,
c it vere , it proprie ad aliquid dicitur , cum Jub uno ortu , atque cccaju ,
it id, quod jungitur t it id, cui jungitur , inverrur ; ut puta fervus , it
dominus utrumque fimul efl> vel fimul
non eft . , . ( ) Seneca 1 . 5. de Benef. c. io.^.aod comparatur , fi- ne
altero non intelligitur . Digitized by G
& paflio habent contrarium. Secunda, utraque intendi poteft , ac remitti .
Nam calefacere, & frigefacere , itemque calefieri , & frigefieri fibi
inter fe opponuntur Jam vero poteft
aliquid magis * & minus calefacere ; magis, & minuS calefieri . .Utra-
que proprietas, oritur ex qualitate , * per quam fub- ftantia quaelibet agit,
& patitur. CA- . * * r ( i ) Multas
praeterea efle poflunt a&ionis divifiones . nam alias funt corporis , alias
animi ; .alias liberas > ali* neceflarias , Scc.Sed ad noftram hanc
difciplinam non pertinent ; quamvis eas Dialeftici multi augendi voluminis
ftudio complexi fint . v DE UBI, QUANDO, SITU, HABITU. JOUID DE
QfJATUOR HIS CATEGORIIS DOCET AR 1ST0T ELES? TJAullo plus, quam di&um eft a
nobis in Ru- JL dimentis Logic. Par. i.cap. 3. Illud in primis animadvertendum
eft, vocibus iftisnon fignificari res ipfas , fed ordinem quemdam , modum ,
& affe&io- nem ad res . Nam ubi eft affeclio rei , prout eft in loco;
quando, prout eft in tempore; fitus , prout col- locatur; habitus , prout
veftitur & ornatur. Sunt ne in loco res omnes eodem modo} t . . * . $. Ajunt Seholaftici fua quadam lingua,
corpora efle in loco circumfcriptive , fpiritus definitive , Deum repletive .
Efle in loco circumfcriptive , ut ipfi expli- cant , eft ita locum occupare ,
ut totum toti , & pars parti refpondeat ; quo modo eft in hac fchola qui-
libet noftrum . Efle definitive , eft ita in loco efle ,
& ab eo definiri , ut tamen totum fit in toto loco , & totum in
qualibet parte. Efle repletive , eft loca omnia pervadere ac replere , ea
ratione , qua Deum defcripfimus in fine eap. 2. PAR. | PARTIS SECUNDA HYPOTHEORIjE. VULGO,
POSTPR-/EDICAMENTA. ' QV/D S V NT P OSTP R/E DICA ME NT Ai > %
' , ' * * * * i I. TTa appellantur in
fcholis hypotheoria? quardam, * X .quas c Ariftotelcs fubjicit Praedicamentis.
, **t/ ) funt ea , quae fub eodem genere pofita, maxime inter fe diffident.
Contrariorum porro alia medio carent , x tit par , &i/w- par in numero;
eaque ita fe habent, ut alterutrum femper fubje&o infit : alia medium
habent, eaque t funt ejufmodi , ut utrumque abefle poffit a fubje- ra inus
7 S ,P ,0 Si T -i , ^ ' res omnes
e fle albas , aut nigras , cum multae, .medio quodam colore tingantur . Porro
medium aliud dicitur per participationem utriufque extremi, ut color fufcus\
aliud per negationem utriufque, ut virtus , quae medium vitiorum eft , fed
utrimque te - duflum, ut ait Horatius lib. i.epift. 18. (}) , guot funt
conditiones Contrariorum? Quinque conditiones Contrariis tribuit Arifto- teles
. Et prima quidem duabus partibus conftat , quae funt hujufmodi : Bono
contrarium eft malum dum- taxat \ malo contrarium eft tum bonum tum malum . Nam
virtuti opponitur vitium ; vitio autem opponi- tur non foium virtus, fed vitium
ipfum. Exemplum fit
avaritia , cui adverfatur Sc liber alitas , & prodigen- tia . (4) Secunda conditio eft; Uno contrario pofito , non
( 3 ) Cicero ibid.Contrqriorum genera funt plura. Unum eorum t qu Sc ejus
privatio in fubje&o utriufque capaci , ut vifus , Sc ta- citas . Si
fubje&um alterius capax non fit , dicitur ne- gatio * . 0 , ( 5 ) Id fieri non pofle contendit
Gellius Noh Attic. 1 neteffe eft tumul-
tum , f belli non fit > pacis efie . * * c So P o 5 T i gatio , non privatio ; ut excitas
in animali dicitur privatio vifus, in lapide negatio. (7) ut fapit t . non fapit . Et quia hic agitur
de contradi&ione^ fimpUcis vocis, non enunciationis , oppofitio
contradicens dici poteft eadem vox ajens , negans. (9) f * #
y Prioris quot funt ? , : * Quinque modis aliquid dicitur prius . Primo aliquid eft prius
tempore , hoc eft vetuftius ; ut So- crates eft prior Ariftotele. Secunda
aliquid eft prius natura ; ut quod ratiocinando infertur ex alio eft prius
illo Ita genus eft prius, fpecie , quia
polita fpecie infertur genus, non contra
Nam fi- dicas , ' eft * , 'i ( 7 ) Vim iftiufmodi negationis
deferibit Cicero TufcuU i.cap. 36 . Cum non habeas > quod tibi nec ufu>
nec natura fit aptum y non c areas , etiam fi fentias , te non habere . Idem de privantibus Topic. c. 1 1 . Sunt alia
contraria > qu hoc modo f aper e , 6* non / aper e .In Topicis dicuntur negan - tia . Sic enim
feribit cap. 1 1 . Sunt etiam illa valde con- traria , quot appellantur
negantia . Ea xxovxti* Gr contraria ajentibus : ut , fi hoc eft , illud non eft
. i 9 J Oportet, ut non modo eadem iit vox , fed etiam em vocis fignihcatio,
non ambigua . In quo luiit Mar- tialis L 8 . epigr. 20. ... Cum facias verfus
nulla non luce ducentos , Vare y nihil recitas. Non fapis , atque /apis .
Digitized by Google I PRsEDlC AMENT A. Si eft platanus, retfe infers , ergo
arbor : fi dicas, e Jl ar- bor , non potes inferie , ergo platanus . Tertio aliquid eft prius
ordine, ut in oratione exordium eft prius nar- ratione. Quarto aliquid eft prius dignitate , ut rex po- pulo
, dux milite . Quinto aliquid eft prius cauffa , ideft quod efficit, ut alterum
ftt . Hoc modo veritas rei eft prior veritate orationis; quia hxc oritur ab il-
la. Difticho memoria; caufta rem totam comprehendo: i ' * e \
Dicitur effc prius natura , tempore , honore , Ordine cum caufta dicitur ejfe
prius . - * * : . t Quinam funt modi , quibus dicitur Simul
? 1. Tribus modis aliqua dicuntur efte fimul. Primo tempore ea funt fimul ,
quorum ortus eodem tempore eft , cujufmodi funt gemelli . Secundo natura ea
funt fimul, quorum unum necefle eft efte, fi alterum fit, fed neutrum eft
caufta alterius ; ut duplum , & dimi- dium . Nam ft duplum eft , dimidium
quoque eft , & contra* Tertio divifione ea funt fimul , quae ejufdem
generis partes funt; ut hotno , Sc bellua , qua; animal dividunt io duas
fpecies . ( i o ) Cur tradit Ariftoteles dottrinam hanc de modis t
.Prioris, (9 ) Quae a nobis immutatio
dicitur , vulgo in ScholisPe- ripateticis vocari folet alter atio , a graeca
voce A 'htoiuns . Porro nutritionem non memorat Arilloteles , quia refertur ad
generationem , & eodem modo fufctfantiam mutat ; ideoque ea- dem ratione
refpondetiir interroganti de illa .
Digitized by Google VX^EDICRMENTA. ut fcientia. Secundo quantitas ut
magnitudo bipeda-- Jjh . Tertio ea , quot circa corpus funt , ut gladius .
Quarto ea, quee in parte corporis funt , ut annulus in digito* Quinto pars
haberi dicitur , ut pes . Sexto id, quod in alio continetur , haberi dicitur ab
illo, ut vinum a dolio. Septimo res poffeffa , ut domus. Otfta- vo uxor haberi
dicitur , qui modus eft maxime im- proprius .(io) . . . Cur reetnfentur fignificationes hujus verbi?
1 I. Ut liberetur ab ambiguitate Categoria Habitus , & cognofcatur germana
ejus ratio: tum etiam ut lux accedat 'reliquis Categoriis , quarum eft habere ,
& haberi . F i PAR - ( io ) Huc pertinet
illud , quod eft apud Laftantium lib. c* 1 5. Ariftippo Cyrenaicorum magiftro ,
cum Laide nobili fcorro fuit confuetudo : quod flagitium gravis ille philej
ephi de doftor fic defendebat > ut diceret , multum inter fe , r ceteros
Laidis a- matores interejfe , quod ipfe haberet Laidem , alii vero a Laide
haberentur : (11) Si proprie loquamur , foli fubftantiae convenit habere ,
reliquia haberi . * . * c l i .
1 H PARTIS SECUNDA MANTISSA DE PLATONICORUM , ET STOICORUM CATEGORIIS .
Quartam funt Platonicorum Categoria l > * w i Q Eptem funt , quae multis
aetatis noftrae Dia- l3 le&icis fupra Ariftotclicas placucrlint ; fpiritus
, corpus , quantitas , figura , motus , , fitus
Atque duae quidem primas ad fubftantiam referuntur , reli- quae ad fubft
antiae modos feu affectiones ( t )
Corpus SUBSTANTIA Spiritus 'Vit* caper* Vita pttdimm t tmium &c. Non
dentiens iit pldnta* /\ Petfeflus
ImPtrftdus it Dttu . - - Sentiens Atitlus Mens hunutu ut nnxnuU 1 j\
Irrationale ut Mina. Rationale ut hema Ex* ( i ) Alcinous in Inflitut.ad
doflrin. Platon, c. 5. fcribit , Platonem in Parmenide & in aliisDialogis
decem Categorias ? quas haftenus ex Ariftotelis dodlrina explicuimus ,
quanadum- brafTe . Plotinus in libro de generibus entis quinque confutuit ex
Platonis lententia Categorias , ejfsntiam > fubftantiam , mo- tum c ftatum
> quietem Digitized by Google P ARTIS
SECUNDAE. pf Explica mihi fingulas , earumque gradus . Subftantia apud
Platonicos vel eft cogitans , & dicitur mens , feu fpbritus ; vclextenfa,
& dicitur ma- teria y feu corpus. Spiritus rei eft fumme perferus , &
dicitur Deus; vel imperfe&us, ifque duplex ; vel corpori adjunftus , ut
mens humana , vel a corpore li- ber , ut Angelus . Corpus vel eft vitae expers
, ut coelum > & elementa; vel vita praeditum > non tamen fenfu, ut
planta i vel vita > & fenfu , ut bellua ; vel vita fen- fu , & ratione , ut homo . Quinam
funt [ubflanti Stoicorum Categorias, atque adeo tota illorum differendi ars
olim dominata in fcholis ?ff. Quo tem- pore Peripateticos ipfos , a quibus
optima qu*que Stoi- ci fumferant , conticefcere coegerunt ; nomenque com r mune
ita (ibi fecere proprium, urffoli per quamdam excellentiam Dialectici
vocarentur . Itaque & Cicero hac in parte fere totiis Stoicus eft f & ipfi quoque nobiliffimi Academici
Arcefilas A Carneades a Stoi- cis, tametli adverfariis fuis , Dialefticam
didicerunt. Nunc Stoicus
dillerendi modus penitus intercidit. (4) .
: ' . -ii' -t F 4 PARS- . 1 * (
4 ) Cicero audivit a puero Diodorum , 8c poftea familiarem habuit Poflidonium ,
utrumque Stoicum . Arcefilas auditor fuit Diodori , Carneades Diogenis Stoici .
Non eft autem mirum , Stoicos tantopere excoluiffe Diale&icam , quia ( ut
feribtf A- lexander Aphrodif. ad lib. t . Topic. ) proprium thilofofhi exifii *
mabant bene differ ere , idque perfeci iffnue effc pbilofophi a j arta- bant :
i deoque ex illorum Jentent i a philffophus non craty ni fi Dialeiticus ' . L
\ v , , . / * *. / . , t * f 4 +' * +
* M * * . . V' J>E ANALTTICIS POSTERIORIBVS . - - \ *
' * ' '
; - ' ' , E Go in hac Organi Ariftotelici parte
aliquantum Se mihi Se fseculo indulfi . Itaque textus , ut ap- pellant , fuis
notis fignavi , nequis Ariftotelis ftudio- fus inter aliena Ariftotelem
quaerat. Tum ipfam quo- que Ariftotelis do&rinam alia quadam via &
ratione diftribui , quae mihi ad docendum Sc difeendum com- modior vifa eft .
Ceterum moneo , in Pofterioribus Analyticis principia contineri totius
Peripateticae Phi- lofophix. Harc, nifi fallor j adverfus Academicos ea
tempeftate late dominantes feripta eft ; quorum alii plane Socratici nihil
fciri pofte dicebant , alii ***- t* >>>* una quae dicitur confequentia
, altera confequentis . Confequentia porro eft notionum atque enunciationum
inter fe colligatio ad perfe&um fyllo- gifmum componendum. Confequtns funt
notiones ipfse & enunciationes perfe&um fyllogifmum componentes. Illa
refpicit formam, hoc materiam. Refolvimus igi- tur fyllogifmum per analyfim
confequenti elementa pervenia- mus . Digitized
by Google tfo PARS III. CAPUT I. ftm consequentis , cum , ejus materia eocfem.
modo ex- cufla , firmum e fle oftendimus ; propterea quod notio- nibus atque
enunciationibus confiet veris ac necefla- riis, ex quibus tamquam cauflis
oriatur conclufio, & ex conclufione fcientia . Hi ncAnalytici AriftoteJis libri
Priores ac Pofteriores . In Prioribus agitur de analyfi con- fequentia , in
Pofterioribus autem de analyji confequen- tis: quia confequentia cft prior
& latius fufa, quam con- fequensy cum illa ad omnem fyllogifmum pertineat ,
hoc dumtaxat ad demonftrativum & neceflarium . Priorum dodtrinam in tertia
Rudimentorum parte con- clufimus ; nunc de Plerioribus . (2 J Quanam ejl
Pofieriorum Analyticorum materia ? Nobilifiima fyllogifini fpecies , ideft
Demon- ftratio . Et in primo quidem libro de natura & ra- tione
Demonftrationis agitur j inaltero de Definitio- ne, quatenus Demonftrationis
medium & inftrumen- tum eft . ( 3 ) , . . . ( z ) Priorum & Pojferiorum
titulus increbuit aetate Galeni . Ceterum Arilloteles cum Priorum meminit ,
libros dejyllogifmo dicit; cum Pofteriores nominat , libros de Demon firatione
vo- cat . ( 3 ) Demonftrationis nomen plerumque refertur ad mate- riam , nomen
fyllogifmi plerumque ad formam . Ex utroque fit Jyllogifmus Demonjtrativus .
Porro demonftrarc eft rem veluti digito oftendere ; quia enunciata,ex quibus
demon f trano confiat, ita debent efle perlpicua , ut nulla probatione nulloque
teftimo- nio indigeant . A Grxcis dicitur , a Cicerone argu- menti conclufio in
Acad, 4. c. 8. Argumenti conclufio , qua eft Grace ita definitur : ratio i qua
ex rebus perceptis ad id , quod non percipiebatur , adducit . . &t ' i ' {
s panem quoq. ipfam aliquo modo teneri ?
ARS III. CARUT II. $1 Quid & quot up! ex efi Vrxnotio f 1 !. Prxnotio eft anticipata cognitio Dux autem funt praenotiones , an fit, &
quid fit. Utraque bifariam dividitur . Nam quid fit modo nomen rei fignificat ,
modo rei eftentiam . Hinc formulas
apud Scholafticos quid nominis , ic quid rei . Ita an fit modo refertur ad rei
exiftentiam , modo ad veritatem. Nam fi res fit una & fimplex, de ea
praenofcitur, an fit in rerum na-* tura ; ut an fit eclipfis . Sin autem fit
complexa , cu- jufmodi eft enunciatum quodlibet ,, de ea praenofcitur, m fit
vera Cedo mihi rationem aliquam hujus
divi/tonis fy. Cum omnis praenotio
referatur ad quxftionem , tot poliunt praenofci , quot pofliint quaeri . ( 3 )
At de re qualibet vel quaeri poteft exiftentia ? ideft an fit ; vel eflentia ,
i itii quid fit \ vel affectio f ideft qualis fit, & cur talis fit. Si
quaeratur exiftentia, praenofci debet nomen ; quia ante exiftentiam nihil eft
nifi nomen Si quaeratur edentia,
praenofci debet an fit, ideft exi- . .
'* .. : ften- * ( 3
) Ad quaeftionem folvendam in ea ipfa inveniendum eft a- liquid > quod nobis
fit notum ; ut ex eo perfpicuum faciamus , quod nobis eft ignotum Si refoluta quaeftione in elementa fua r
nihil eft ex illis , quod praenofcamUs > caremus inftrumento ad aperiendum
quod quaeritur : velut fi caecus quacftionem de colo* ribus refolyat dc
examinet . , .. flentia . Si quaeratur affe&io , prarnofci debet quid fit
ideft eflentu* ( 4 ) . Quartam funt Pr Recognita) Quemadmodum praenotiones^ unt
modi praenofcen- di , ita pr a cognita funt res , quae praenofcuntur ( 1 1 1 ) Tria autem in qualibet
ratiocinatione funt prscognita: Subjcflum conclufionis ; Praedicatum ejus ;
& Principia , ex quibus aliquid concludendo efficitur ; quae uno no- mine
dicuntur antecedens . De principiis prarnofcete o- portet , an fint vera , quia
funt enunciata . ( y ) De pradicato prsenofcere oportet quid fit . De fubjcBo
prae- nofcere oportet, quid fit , & an fit . (6) C A- ttt L. i. t. 76. ( 4
) H*c ex fententia Themiftii ; quo uno nemo felicius Analyticam doftrinam ex
Interpretibus Grsecis explicuit . Ce- terum de ordine praenotionum, &
quaeftionum inter fe alii a- liter . rilud animadvertendum eft , nominis
cognitionem, ita fle pratnotionem , ut numquam poflit efle quadtio ; quia nihil
illam praecedit , per quod folvatur.- quadiionem cur fit ita efle quseftionem ,
ut numquam poflit efle prxnotio: quia nihil illam confequitur. -T*""
v ( 5 ) Haec funt praecognita , quae a Cicerone vocantur per- fpicua lib. 4.
deFin. c.4. Jam argumenti ratione conclufi ca- put
effle faciunt ea , qua per/picua dicunt . In his tamquam fe- . munibus latent
cetera , quae cognofcuntur dilputando . . Ex.gr. fitquaeftio, num materia cogitet .
Regitur hoc principio: Q_uod extenjum eft , cogitare nequit. Dehocprat- nofcere oportet , an
fit verum . Subjedum eft materia , de qua praenofci debet , an fit , & quid
fit . Praedicatum eft cogitatio , de qua fatis eft praenofcere quid fit . Nam an fit in mate- ria,
debet apparere per iplam demonftrationem . Porro cusi praedicatum fit femper
affeftio aliqua , ut poftea apparebit , idem eft de ea quaerere an fit , ut nos
dicimus j atque an infit , ut quidam dicere malunt . DE PLATONIS, EPICURI,
& STOICORUM PR/ENOTIONIBUS. PLATO ADMITTIT NE PRAENOTIONES ? : ' / /^Um
Platonis fcientia nihil fit aliud, quam reminifcentia , ut poftea dicemus , non
indi- get praenotionibus , fed notionibus . Admittit igitur Plato in hominum
animis notiones rerum omnium , quas vocat ; eafque in illis confignatas fuifle
putat , antequam in corpora migrarent . Ex quo ap- paret difcrimen (ciendae
Platonicae , & Ariftoteleas . Nam mens, ut Platoni videtur, non cognofcit
ra- tiocinando ignotum per notum , nec efficit unum ex alio; fed quafi admonita
per ha;C fenfibilia , fefe colli- git; & agnofcit reminifcendo , quae in
corpus attule- rat . Qua nam funt Epicuri pranotiones ? 1. Epicurus totam
Diale&icam fuam paucis regu- lis . lis complexus eft , quos Canonas dixit .
( r ) Ex his quofdam refert ad fimpticem perceptionem , quofdam ad
ratiocinationem . Qui ad ratiocinationem pertinent , praenotiones complertuntur
; quia nemo poteft nifi ex praecognitis ratiocinari. Praenotio igitur ,
Graece , - ex doftrina Epicuri eft
fpecies quxdam animo comprehenfa , & quafi monumentum ejus rei , qua:
fenfibus noftris aliquando objefta eft, aut ope fenfuum a nobis formata; ut ex
illa rem quamlibet individuam generis ejufdem cognofcere, nominare, diftinguere
, judicare poflimus . Cedo Neque enim
contemfit Epicurus Dialefticam omnem, fed Stoicam dumtaxat, tamquam Sophillicam
& coptiofam. Sex.Em- piricns 1 . 1. adverf.Logicm.i4.$*jV , /ut *o/w5 ivrst
mV hiynuir tKfiTt&iu, Si' t' t ai 2 tuttiur .Attamen Diogenes Laert. in
Vita Epie, feribit , Dialefticam artem ab epicureis tamquam fupervacaneam
fuifle rejettam . Coah' tamen ea uti ad refte dilputandum , ne leves viderentur
, nomen mutarunt , & Phy- fic* partem fecerunt . Seneca epill. 8g. Deinde
cum rebus ipfis cogerentur ambigua fecernere , falja fub fpecie latentia veri
co- arguere , ipfi quoque locum , quem de. judicio , & nomine apel- iant ,
Rationalem induxerunt : fed eam accejjionem ejfe na- turalis partis exiftimant
. (2 ) Notitia dicitur a Cicerone in
Acad.4. c. 7. Quo e genere nobis notitia: rerum imprimuntur , fine quibus nec
in- telligi quicquam , nec quari aut difputari poteft. Quod fi ef- fent falf a
notitia: (1 /** enim notitias appellare tu vide- bare ) fi igitur e/fent ha
falf a : , aut ejufmodi vifis imprejfa , qualia vifa a falfis difeerni non
poffent , quo tandem his mo- do uteremur ? Admifit etiam Epicurus Deorum , quae
eflet a natura, non ab exercitatione fenfuum, fi Vei- lejo credimus apud
Ciceronem 1 . 1. de nat. Deor. c. 16. Solus vidit primum ejfe Deos , quod in
omnium animis eorum notionem imprejfijfet ipfa natura . Qua eft enim gens , aut
quod genus ho- minum , quod non habeat fine doElrir.a anticipationem quam- dam
Deorum? quam appellat Epicurus , ideft anttee- / tam animo rei quamdam
informationem , fine qua nec inrelligi fuidquam , nee quari , nec difputari
poteft . 7 i * t * _ j Cedo mihi quomodo gignatur in nobis ; , .. , forma. ^ **'* * , #
* feu honorariam ftntcntiam : qua de re
vide Muretum var. ledi. 1 . 6. c. 2. Stoici quamlibet enunciationem axioma
voca- bant , ut ed apud Gellium lib. 16. c. 8. apud Ciceronem de Fato c. 10.
& in Acad. 4. c. 29. Id faciebant , opinor, quia omnis Dialedtica
enunciatio judicium continet . / DE MODO COGNOSCENDI PRINCIPIA. QUOMODO PRINCIPIA COGNOSCUNTUR ? TJRincipia neque
innata dici debent , ut putant JL Platonici: (f) nam fi innata eflent ,
infantes quoque ea tenerent ( i ) . Neque ratiocinando acqui- fita: nam
cognitio, qua: hoc modo comparatur, ex anticipata notitia fit ; nihil autem eft
ante principia notum . Inductione igitur quadam & experientia re- rum
lingularum formatur intelligentia principiorum. Nam fenfus lingularia percipit,
& memorise commit- tit ; deinde r^tio ea componit & comparat ; unde
ori- tur univerfale iliud , quod axioma & commune cogno- fcendi principium
dicitur. (2) Quomodo a fenfu
, qui belluis communis eji , talia ducis ? $. Tres funt animalium gradus, (tt)
Primus ell G 5. eo- t L. 2. t, ion 10;. tf L. x. 1. 103. 104. ( 1 ) Totum hoc
Joannes Lokius furafit ab Ariftotele , & ingenio fe amplificavit in l.z.de
humana intelligentia c. 1. Principia
fyllogifmij quia funt univerfalia , cogno- fcuntur indu&iooe ; priucipia
inductionis , quia funt lingu- laria , cognofcuntur fenfu. Hinc Arilloteles
lib. 6. Ethic.c.3 feribit , univtrfale r(J'e ex indufiione , fyllogifmutn ex
uxittr- fali t Digitized by Google I t os PARS III. CAVUTU. -eorum, qua; fenfum
habent, non memoriam ; ideft quae praefentia fentiunt , fed praterita non tenerit;
cujufmodi funt infcfta. Secundus eft eorum, qua non prafentia modo fentiunt ,
fed & praeterita recordan- tur, ut bruta reliqua * Tertius eft eorum, qua:
praeter fenfum rerum prarfentium, & memoriam praeterita- rum , habent
nobiliorem quamdam facultatem , ideft rationem, qua; res perceptas comparans
& expendens, ind e principia univerfalia deducit. Nonne faltem notiones
quadam funt innata ? Plato, 5 c qui Platonis philofophiam hac tetate
inftaurarunt, ideas quafdam mentibus noftris configna- tas exiftimant, quae
fint veluti rudimenta omnis co- gnitionis aefeientiae. Nos ratum habemus
Ariftoteli- cum illud , Nihil eft in intelle&u , quin prius fuerit in
fenfu: ac proinde notiones omnes , cujufcumque fint generis, per fenfum &
experientiam acquiri dicimus. Cum enim natura dederit nobis facultates ac vires
ad quamlibet notionem comparandam ; argre admodum intelligi poteft , quomodo
notiones ipfas in animis noftris infculpferit : quafi vero , datis oculis ad
co- lores videndos, aliquas infuper colorum formas indi- derit. Ex hoc ipfo colligimus , cognitionis principia &
axiomata non efte in nobis a natura informafa . Nam ubi non funt notiones , ne
ipfa quidem poliunt efte principia , quae ex iis conftant ; quemadmodum -gaon
poteft efte exercitus, ubi non funt milites. JguiJ Digitized by Google Pars hi.
c aput V. toj * * . . jQuid cum SaCri
Scriptores invata quadam effe dicunt > 9 Reverentia Sacris Scriptoribus
debita pofclt * tiC quoties innata quaedam dicunt ad cognofcendum vel agendum,
ex aequo & bono illorum verba interpre- temur 4 Interdum enim rationis
& ingenii lumen , quod revera innatum cft , capiunt pro notionibus &
veritatibus illis, quae maxime huic lumini confenta- neae funt. Hinc fit , ut
non aliquas modo nojoncst, fed etiam axiomata interdum vppent innata quod
naturae in primis conformia fi nt > quod omnibus npta Sc perfpicua , quod
ipfo pame cum lacie a teneris tui* guiculis arrepta, & memorias cortfignata
* ( 3 ) \ Cur Platonici ideas innatas admittunt .a Cur Plato & veteres illi
a Platone , ideas in- natas admitterent, facile intelligitur ; quia cum fibi
perfuaderent , animas hominum ante corpora conditas fili fle , & in mundo
quodam intelligibili collocatas, oportebat eas intelligendo Sc contemplando
viguifle- At non apparet , cur noftri , qui fatentur quamlibet animam in fuo
corpore condi , optiones quafdam illi affigant * divinitus confignatas \ quibus
nullus homo G 4 uta* ( 3 ) Sacrorum Scriptorum verba de Dei notione nobis
innata, referri etiam pofTunt ad naturale quoddara & inge- nitum caudarum
cognoicendarum defiderium ; ex quo fit, ue mundum-afpicerenon poflimus , quin
de ejuscaufa cogitemus De hoc defiderio multa multis locis D.Thomas, . utatur ,
nifi cum ad eam aetatem pervenit , in qua eas ipfas notiones fuis viribus fibi
comparare poteft. f 1 ) D.Auguftinus ,
ut Platonis reminifeentiam icjcnfque nnatas cum religionis veritate conciliaret
, ita fcripfit lib.i.Re- ra&.c.8.I libro de Anima quantitati quod dixi ,
omnes artet 'animam fecum attulijfe mihi videri , nec aliud quidquam effe , id
quod dicitur difeere , quam reminifei ac recordari , non ftc accipiendum eft ,
quafi ex hoc approbetur, animam vel hic in alio corpore , vel alibi , five in
corpore , ftve extra corpus , ali- quando vixijfe ; & ea , 00* interrogata
refpondet , eum hic non didicerit, in alia vita ante didici ffe . Fieri enim
potzfi, ftcut jam in hoc Opere Cupra diximus, utbocideo pojftt , quia natura
intelligibilis eft, & connedlitur non folum intelligibi- libus , verum
etiam immutabilibus rebus ; eo ordine fatta , ut cum [e ad eas res movet,
quibus connexa efl , vel ad fe ipfam , in quantum eas videt , in tantum de his
vera refpondeat . DE PRAEJUDICIIS. CUR HIC DE PR/t JUDICIIS AGIS ? I. Uia multi
loco principiorum adhibent prarju-
dicia': cc quia conclufiones principiis refpon- dent,pro fcientia
germana & firma fallaces opiniones difputando colligunt. * ' i a natur a
que defciffimut . Digitized Google 'J 07 CAPUT VII. DE DUBITATIONE. s * .
I I .gt/ID EST DUBITATIO ? I p 1 St cogitatio qusedam fluduans , qua mens in :
JLj re aliqua hseret , nec videt , quo fit inclinan- dum ; tamdiuque fe revocat
& aflenfum fuftinet , donec inftaurato farpius examine, veritas illucefcat.
Philosophus debet ne de rebus omnibus dubitare ? IjK. Quidam de rebus omnibus
dubitant, & undique rationes dubitandi quserunt ; ut lucem rebus eripiant ,
nodemque offundant: unde Aporetiei didi funt a Grae- co Tapsu. Sed horum
inflitutum jam obfolevit . A- lii de rebus omnibus fibi dubitandum putant , ut
prarjudicia tollant^ profitentes fe initio dubitare , ut tandem aliquando
dubitare definant . Atque ifti qui- dem qui hodie multis in fcholis regnant , videntur nobis
fimiles Medicis illis, qui ut humores noxios ab humano corpore expellant ,
animam expellunt . Nos quidem primum dicimus , non efle dubitandum nifi de
rebus illis, quas nos per nos ipfos cognofcere vo- lumus. Nam fi quis de re aliqua fibi imperavit cre- dere
alteri , is in ea minime debet efle dubius . Pro- inde ftulte facit Chriftianus
, qui de fux religionis arcanis dubitat ; cum jam conftituerit in facrarum lit-
Digitized by Google ioS III. CAPUT VII. litterarum teftimonio conquiefcere Deinde dicimus* fiqua funt evidentiffima, de
iis dubitari neque debe- re, neque omnino pofle
Quis enim dubitare potefl , num fit , num rivat , num cogitet ? Poftremo
dici- mus, utiliflimum efTe, atque adeo neceflarium phi- losophari volenti ,
illa omnia in dubium revocare , qu nondum perfpicue cognofcit . Philofophi enim
cft fcire, non credere. ( i ) CA- ( i ) Ufum & utilitatem dubitationis ad
re&e philofophan^ dum explicat Ariftoteles in cap. i. lib. 3.
Metapjiyf.^quod infcribitur , AVop/cc* Xi^ Tt ^ * ^ ' Ks ? k Kvspwtct 5
x^utop Dubitationis ufus , us
au&oritatem prin- cipii loco habent. Hujufmodi fuere vetuftiflimis tem-
poribus Pythagorei, poftea vero ipli quoque Peripa- tetici, qui quali
facramento adacti nihilo plus quae- rebant in qualibet controverfia , quam quid
magifter fenfififet . ( i ) Quid igitur fentis de auBorttate ? I. Au&oritas principii loco
eft, quoties de rebus agitur ad religionem pertinentibus ; quas quidem non
ratione , fed teftimonio nituntur . At
cum res in controverfiam veniunt, qua: funt a ratione haurien- da:. ( i ) Plato
& Platonici aliam viam inibant. Clemens A- lexandr. !. i. Strom. p. m. 290, 0 '
TXa-r*! , omv j iym TO/a -ni; , pin , tittti >i tZ X - ys/i 7j9-a5t, ot r
/u. 3 i rxovtvu 8 /ju >Xt/s-o?0u's/to. Veritatit (ludi oitit Plato , tamquam
a Deo conei tatut , ego , inquit , ita comparatur fum , ut nulli credam ni fi
rationi , qua miti ctnfidcranti optima videatur. L dx , nihil eft obtufius, quam folas
auftoritates quae- rcrc , & pro hominibus pugnare , era . Si enim fal ia;
eflent , non pare- rent fcientiam , fed errorem; fi verifimiles, parerent
opinionem , Tum debent eflTe prima ftris
f L. x. t. i y. t t L. i. f. 11. 22. 2
3. (i) PraimiiTa; hujufmodi dicuntur a Griccis irp*r / , zus- o-3/, xvxralhnizs
e . Non eft tamen nece (Te , ut utraque fit o- mnino prima, St medio careat .
Nam aftumtio interdum non eft hujufmodi , nifi virtute quadam & poteftate ,
quatenus proxime refolvitur in primam & medio carentem. Videcap. I2.de
Exempli: . Ratio porro prarcepti ea eft , quia fi pra> miftas demon ft ratio
ne indigerent , iretur in infinitumjquod fieri neque debet, neque poteft , ut
docet Ariftoieles lib. i.t. 145. 152. & iib. a, t. 14. Hanc eatndem in rem Clemens
Alexandr. Strom. 1 . 8 . cc/t H yass ,
xt&piv ix. 3 ws'ps$x Cujuslibet
demonftraiionis demonftrat ionern pe- tentes y ibimus in infinitum PARS IIL CAPUT IX. ij ? . flris fenfibus
propiora funt, ideft fingularia. Omnis au- tem demonftratio, quae fcientiam parit , ex
univerfa- libus conflatur. (*)(t) Denique debent efle caujf Ouarto fi
praedicatum fit propria fubjech caufla ; cui opponitur caufla minus propria
& fortuita , qua: vul- go caufla per accidens dicitur. Ex. gr. Titius
jugulatus interiit , & dum interiret , fulguravit. In hac enuncia- tione
interitus cum jugulatione proprie & per fi con- jungitur, quia jugulatio
propria ejus caufla eft-, cum fulguratione minus proprie & fortuito, quia
fulgura- tio nihil ad Titii interitum facit .
' /e sjis Da mihi tertium gradum pradicationis necejfari* Tertius gradus dicitur ( i* ) universe primum
\ eftque in eo pofitus, ut praedicatum fit univerfale & reciprocum ;
ideoque tantum pateat , quantum fubje- r ftum ( t i* i* r jj s .. . ft * i t 34 t
L. i. r. i6. O* 0 /ai Prsdicata, qua
neque primo, neque fecundo modo infunt, ideft qus neque effentiam coniUtuunt ,
nec eam ne- ce fla r io confequuntur, funt communes affeftiones, ut fi di- cam,
canis de qua in Rudimsnt, Logic.
P,i.c.ide Enunciat. nat. PARS ITT CAPUT X, 117 um ipfam , eique primo conveniat
. ( ; )In hoc igl* tur tertio neceflitatis gradu , qui reliquos complebi- tur,
tres requiruntur conditiones : prima /eft, ut prae- dicatum conveniat toti
fubjefto , & femper ; fecun- da ut infit per fc; tertia ut infit illi,
quatenus ipfum eft , primo , proxime , nullaque re media . Kx. gr. cum dico,
homo eft rationis particeps y enunciatio eftuniver- fe prima; quia ratio
convenit omnibus hominibus , femper, perfe, proxime, Sc quatenus homines
funt At cum dico , homo fentit ,
enunciatio non eft hu- jufmodi ; quia fentire convenit quidem omnibus ho-
minibus, & convenit femper, & convenit per fe > non tamen quatenus
homines funt , fed quatenus a- nimalia. Neque enim homo eft primum , & proxi-
mum fubjedtum, cui conveniat praedicatum fentiens y fei primum hoc fubjeftum
eft animal. ( 6 ) Confer in pauca dotrlna?ft hanc . I. Summa fummarum haec eft.
Praedicatum enun- ciationis apodifticas dici debet de toto fubjedo fuo , H 3
& quo- ( 5 ) Hujufmodi praedicatum z quibufdara folet appellari Catholicum
, a graeca voce xx^Aa. Magis proprie & Lati- ne dicitur rfiiprocum .
Quamquam & vox Catholicum ferri poteft, qua ufus eft Plinius in lib. i.
nat. hifu ad Elenchum lib. i. n. 15. & 53. Apulejus in Trifmeg. p, 100.
& Tertullia- nus inultis in locis. Sunt qui dicant, per vocem urtiverfc ,
figni- ficari praedicatum , quatentis refertur ad fubjeftum $ per vo- cem
TJfuTov , primum , fignificari fubje&um , quatenus com- pleftitnr
prsdicatum. Prasdicatum enim debet inefle fubje&o ut univerfale quid $
fubjeftum debet excipere praedicatum pri mo > per fe } quatenus tale eft ,
fine ope aliena. n8 P ARS lll CAPUT X. & quovis tempore dici; deinde dici
debet proprie per fe; poftremo dici debet tamquam aequale ipfi reciprocum Id fi fiat , enunciatio erit neceflaria , ad
fcientiam parandam idonea . ( 7 ) CA~
* (7 ) Differt primus
neceffitatis gradus a tertio ; quia per primum quidem totum fubjelum efl intra
ambitum praedi- cati 5 per tertium autem totum praedicatum efl intra ambi- tum
fubjelti. Exemplum primi fit . Omnir planta eft putre - di ni obnoxia :
exemplum tertii > Omne forput mixtum eft pu~ tredini obnoxium . \ . ? 1
DE RELIQUIS DEMONSTRATIONIS CONDITIONIBUS. CEDO MIHI RELIjQUAS CONDITIONES ET
NOTAS DEMONSTRATIONIS. - / . . * I. T} X
iis , quae difla funt , colligit Ariftoteles X _ j demonftrationem conflare
primum ex propriis deinde ex uni verfalibus & aeternis* Quomodo debet
conflare ex propriis ? I?. Cum dicit Ariftoteles demonftrationem conflaro ex
propriis , excludit tum aliena , tum communia: a- liena quidem , quia non licet
fine fallacia tranfire de genere in genus (f)i communia , quia probationes ex
communibus Dialeflicas funt; ideoque opinionem pa* riunt , non fcientiam. (ff) (i) i H 4 Cur t L. f . t. f6. tt L. u f . *6, (y [tqq. Axiomata^ quibus utimur in demonftrando >
dici fo- lent aliquando enunciata communis non alia ratione , nili quia multa
continent. Dicuntur etiam interdum communia , quod in duabus * vel pluribus
difciplinis locum habeant quarum altera
alteri fubjicitur. Qualfacumque fint, non va- lent ad fcientiam gignendam >
nifi coerceantur ad genus rei quas
demonfiracur & fiant plane propria *
Digitized by Google TARS III CAVUT XI. - Cur demonftratio confiat ex
univerfaIibus-& aternh? IJt. Quia debet conflare ex iis , quae pariant
fcien- 'tiam , hoc eft cognitionem certam , & firmam rei ne~ ceflariac.
Sola autem univerfalia funt hujufmodi ; quia fiunt orttis, & interitus
expertia , & fiemper tino mo- do fe habent. Ex.gr. ratio & efflentia
hominis artema & immutabilis eft ; humana individua modo funt , mo- do non
funt ; modo uno modo fe habent , modo a- lio. (f) CA- t L. f. t. 61. (a) Etiam Plato ajebat ,
fiola univerfali* vere ac proprie efle , ideoque fola cognofci pofle . Hac de
cauffa ideas fuas excogitavit. Id acceperat ex antiqua Heracliti difciplina ,
qui negabat fingulariaeflfe . Seneca ep. 58. Quacumq\ videmus ac tangimur >
Viato in illis non numerat , qua e /fe proprie putat. F luunt enim , & in
ajfltdua di minutione , atque adje- Slione funt . Nemo noflrum idem eft in
feneflute , qui fuit juvenis; nemo eft mane , qui fuit pridie . Corpora noflra
ra- piuntur fluminum more : quidquid vides , currit cum tempor rt : nihil exiit
t qua videmur , manet. F go ipfe y dum Itquo- tnutari i fla , mutatur fum . Hoc
eft , quod ait Heraclitus , In idem flumen bis non defcenditnut . Manet idem flum nu nomen , aqua
traenflmiffla eft . DE DEMONSTRATIONIS EXEMPLIS. - \ * * t % * ( D>A MIHI EXEMPLUM PERFECTISSIMA,
DEMONSTRATIONIS. I ' * > V t T7 Tfi nullum afferri poflet exemplum
perfe&if- JLj fimx demonflrationis , non tamen idcirco re- prehendendus
Ariftoteles effet . Nam quidquid eft.(in~ quit Cicero in Orat, cap. 2 . ) de
quo ratione & via difpu - tetur , id efi ad ultimam fui generis formam
fpeciemque redigendum . ( 1) Attamen exemplum poteft effe hu- jufmodi :
Quacitmque habent infitam vim contrariorum perpetuo inter fe pugnantium , necejfe
efi aliquando diffoU vi\ omnia mixta habent infitam vim contrariorum perpe- tuo
inter fe pugnantium : necejfe efi igitur omnia mixta a- Trquando diffohi Hoc petitum eft ex caufla interna af.
feftionis, quas demonftratur . Siquis per cauilam ex- ternam demonftrare
aliquid velit , fumat e-clipfim Lu- nas, eamque demonftret per
interje&ionem terrx inter ipfam & folem , & habebit plenam
abfolutamque de- monftrationem* * { x )
Sententiam Ciceronis pluribus expreifit QuinlIiamrs in procem. 1 , i*Inftit. &
in cap, 10. Injuria igitur Ariflote- lera reprehendunt hac in parte Patritius,
Ramus, Nizolius; quafi vero ejufmodi demon Arationem commentus fit , cujus
exemplum invenirineque apud ipfum> neque apud alios pof- Digitized by Googls
ili PARS III C A PVT XI. Debetur
utraque demonfl rationis perfefta enuntiatu ejfe ( f ) quarum altera vulgo dicitur a . priori
, altera a pofteriori . Haec oftendit rem ede per ligna & effecia; illa
rationem affert ^ cur fit* Itaque a Scholafticis prima dicitur demonftratio pro
- fecunda demonffratio quia ; a Graecis voci- bus hSrtp atque 9 * .
I. Caufta remota nimis infirma eft; (f) & valet quidem in argumentationibus
negantibus, at in ajen- tibus minime valet. Siquidem fublata caufta remota ,
tolli ttt lbid. t . 06 , , ' t T i. t. 09 * Eftctus allata; demonflrationis
proximus eft, qui re- ciprocatur cum fua caufta; ideoque demonftratio
iftiufmodi facile convertitur in fuperiorem , fi propofitionis prasdicatum
ponatur loco fubje&i , fub;elum loco pradicati. Sin autem demonftretur per
effe&a remota , hujufmodi demonflratio nullo modo converti in alteram
poteft . Ex.gr. Rijur eft ef- fe&us remotus ani malis ; ideoquere&e
dico, Ridet , ergo eft animali non refte , eft animal , ergo videt . Colligitur
hac dotrina ex cap. 13. lib. i. Pofter. (2) Plerique Dialedtici ajunt, unam
tantum efte demon- ftrationem a priori , quse hoc nomine digna fit; quia illi
u- ni convenft definitio demonflrationis /Iiperius aliata & ex- plicata;
reliquas probationes, cujufcumque fint ordinis, ap- pellari demonflrationes
minus proprie per quamdam analo- giam & fi mi! i 7u di nem . 1 TT. i if
tollitur effe&us ab ea pendens; pofita, non ponitur 5 ut fi dicam , paries
anima caret ; recte colligo > ergo non rejpirat : at fi dicam, paries animam
habet , non re&e colligo, ergo refpirat . (3) Quia anima efl cau fa remota
refpirandi, ideoque animata funt quaedam, quae non refpirant ; quamvis nihil
fit , quod refpiret fine anima. ( 4 ) CA- ( 3 ) Argumenta per caudam remotam
fiunt in fecundo fecundae figurae modo, qui dicitur Camefirer , ut colligitur
ex cap. 13. lib. 1. Pofler. Quod refpirat , habet animam pa- rier non habet animam ; ergo non refpirat
* Cauda proxima refpirandi efl habere pulmones 5 & per hanc quidem fieri
pof- funt argumenta tum ajenria , tum negantia . (4 ) CaufTa remota interdum
lubet urbanitatem Hinc Anacharfis Scytha
interrogatus a Graecis , num in Scythia edent tibicines, refpondit per caufTam
valde remotam , in Scythia non efle vites. Scilicet eorum intemperantiam urba-
ne caftigavit : quia ubi non funt vites , ibi non efl vinum ubi non efl vinum, ibi non funt ebrii >
ubi non funt ebrii , ibi non funt tibicines & faltatores. Ceterum in gravi
difpu- tatione ipfe quoque Rhetor Quinflilianus monet libf5.cap* 10. ne caujfa
ab ultimo repetantur \ * } * V *
t - ^ . * ' * I. T^\ Emonftratio in orbem modo a
Logicis dici- jlJ tur Regrejfus, modo Circulus
Ilia utilis eft , hxc inutilis* . V
Quinam eft Regrejfus } Cum ab eflfe&u nobis noto progredimur ad
cauf- fam latentem cognofcendam ; (f^) deinde vero ab ea jam cognita regredimur
ad effeftum , ejufque ratio- nem per cauflam demonftramus; tum dicitur fieri
de- monftratio per regrejjum : ( i ) ex. gr. ex eo quod Lu* na illuftretur a
Sole, non tota fimul , fed per gra- dus , colligo eam efte orbicx figuras ,
quas quidem or- bica figura caufta eft, ut Luna gradatim illuftretur . Inventa
igitur hac caufta, per eam demonftro, Lu- nam neceftario illuftrari per gradus,
nec aliter fieri pofte . Non eft autem vitiofus hic regreftus , quia non fit
per t L. I. t. 23 * (t) Efferus dicitur
notus cognitione ccnfufa; cum autem per caudam demonftratur , fit notus
cognitione di fl infla i qui ordo pertinet ad Phyficum procedentem a toto ad
par- tes, ab effe&is ad caudas, ut docet Ariftotelesin 1. 1. Pbyf. per idem demonftrationis genus, nec eamdem
parit fcientiam . Prima demonft ratio eft a pofieriori , altera a priori; prima
parit fcientiam confufam & imperfe- dam , altera diftin&am &
perfe&am ( 2 J Quinam efi Circulus ?
I. Argumentatio , quae proprie in orbem recurrit , circulus dicitur ab,
Ariftotele, (f) & damnatur tam- quam vitiofa. Procedit enim ab eodem ad
idem per eamdem demonftrationis formam ; Sc cognitio utrim- que orta nugatoria
futilifque eft : ut fiquis dicat ; So- crates efi homo ) quia rationalis ; efi
rationalis , ' quia ho- mo. ( 3 ) Quid , cum termini funt reciproci ? HjU
Quemadmodum in natura , ita in Logica , quaedam redprocari videntur, & ab
eodem in idem redire: ( f) ut cum dico, ex pluvia oriri terrae ma- dorem, ex
terras madore oriri vapores, ex vaporibus nubes , ex nubibus pluviam Movet difficultatem hanc Ariftoteles, quae
facile folvitur, fi dicamus, non eam- dem t L, I. t L. 2. t . 66 . (2) Ejufdetn
ordinis deroonftratio eft , cum quis probat, aliquod animal efle rationale ,
quod (it ridendi capax ; rur- fus autem efle ridendi capax , quod (it rationale
, ut eft in ' 1. 2. Prior, c. 5. Scientia porro per regreffum parta dicitur ab
Ariftotele exquifitiflima omnium in lib. 1. 1. 178. Pofter. 0 n Ito t / n uti , una atque eadem per ejfeflvm &
caujfam . (3) Per hujufmodi argumentationem nihil efficitur. Kinc dicitur
oTtepx rpori , piflilli verfatioz & adhibetur proverbii loco a Philemone in
Heroib. adverfus eos, qui eadem fa- ciendo nihil promovent V, Elench, Sophift, de Petitione
principii n 8 pars iir e apvt xnr f dem
numero efle pluviam, qua& terram madefacit r atque illam, quae ex terra
madefafta oritur ideoque re vera regreffum efle, qui circulus videtur. ( 4/ CA-
' . ( 4 ) Quemadmodum circulus
Geometricus perfeftitiiman* rotunditatem requirit , ita circulus Logicus
abfolutam per- fe&amque reciprocationem. Minima quasque rariatiflt utriuf-
que naturam corrumpit - Tres igitur funtcirctillconditiones prima, ut utraque
demonflratio fit per cautiam; fecunda , ut utraque fie per idem genus cautis;
tertia, ut idem neti folum specie fed etiam numero iit id, quod probat, &
quod-, probatur. t DE SIGNIS, QUIBUS FIT
DEMONSTRATIO A POSTER IQRI. QV 1 D EST SIGJVVMi i , : R?. O lgnum efi ( ut
fcribit Cicero 1 . 1, de Invent. Ci 30 .) quod sub senfum aliquem cadit ; et quiddam SIGNIFICAT
} quod ex ipso profetlum videtur. Ita fumus GRICE DARK CLOUDS dicitur signum
ignis GRICE RAIN, gladius cruentus signum caedis. Quotuplcx cjtl Duplex
.neceffarium, quod graeci vocant ts xpn'p/9; et non necessarium, quod illi
dicunt. Quodnam efi signum necessarium? RU Est illud, quod numquam aliter sit,
certumque declarat. Neceffarle ( inquit CICERONE 1 . de Invent. c **. )
demonfirantur ea, qua aliter a- dicuntur , nec fieri, nec probari pejfunt , hoc
modo : fi peperit, cum viro cen* I cubuit. Signum non necessarium ab Aristotel
Rhet, c. iz. dicitur itot-ofi.tr , canat ntmint. Ego fumfi a Quintiliano, cujui
hac sunt verba in lib. 5. ltrflit., Dividuntur signa in lat duat primas
fpteits, quia torum a liqua rvetjfaria [nat, qua Grati votant Tixuip/e ,, alia
non nectjfaria, qua . ijo. rubuit. Hoc
utuntur Philosophi, quoties demonstrant cujufmodi sunt pori corporis nostri,
quos per signa rationalia demonftrando aperimus CA- Has rerum obscurarum differentias vide apud
Sextum Empiricum adverf. Logic.
Pyrr. byp. . Porro ea qu sunt perpetuo obscura, magis proprie di ci poiliint
ignota . u? DE DEMONSTRATIONIS EFFECTU,
IDES T SCIENTIA, f I ! m QUIXAM EST DE MOMST R AT IONlf EFFECTUS ? O
Cierttia , non tamen quaelibet * fed quae deii- LJ nitur , Cognitio firma &
evidens rei neceffaria per demonftratlonem ac qui fit a , Ver firmitatem ab
opinio- ne differt, quae eft afifenfus infirmus; ( i ) per evi- dentiam a fide
, quae obfcuritate non vacat : per rei necefiitatem a prudentia & arte ;
quae in lingularibus & fortuitis vertantur; per dtmonfirationem denique di-
ftinguitur ab intelligentia , quae eft cognitio princi- piorum & axiomatum
ipfa per fe perfpicua . Quotupkx eft firmitas & evidentia ? Triplex:
Moralis , Pbjfica , & Metapbyfica . Mo- I 3 ralis \ ( i ) Ob hanc
firmitatem ficientia a Graecis dicitur ittrt- ft \ , ut feribit Clemens
Alexandr. 1. 4.. Strom. V/ 'Usnt >i / uue o 73i? Xfttyvu tn 7 a> vfuyi ,
quod nofiratn in tebas fi fi at men- tem , Itaque Iciens ab Ariftotcle dicitur
KeTVr*>T@- , & a Platone , inconcufftst (3 quadratus . Quo perti- nent
illa D.Auguftini 1. 3, contra Acad. c- 19. S denti a no n fo/um eomprebenfis ,
fed ita eomprebenfis rebus confiat j ut ae- que in ea quit umquam errare , net
quibuslibet adverfaatibue impulfut nutare debeat , Digitized by Google ; 4 P
ARS /II. C APUT XVI. miis eft firma & evidens perfuafio ejus rei, quz ple-
rumque vera eft, more & eonfuetudine fulta : ex.gr. certum mihi eft ,
vacationes a ftudiis proxima aeftate luturas . Pbyfica eft firma & evidens
ejus rei perfua- fio, quae fecundum naturae ordinem aliter fe habere non poteft
, quamvis aliter poflit cogitari : ita certum eft, hieme dies cfle breviflimos,
aeftate longi lTimos. Metapbyfica eft firma & evidens perfuafio ejus rei ,
qua; ne cogitari quidem aliter poteft : quo modo cer- tum mihi eft, eum qui
difputat, efle . Quxnam ex bis ad f dentiam requiritur ? Metapbyfica , fi fieri
poflit , aut faltem \Phyfica . Moralis Diale&icis probationibus apta eft,
Analyticis inepta Quotuplex efi fidentia
? : . i 15?. Duplex: altera, quae vulgo dicitur a pofterhriy feu quia y altera,
quae a priori vocatur , feu propter quid. Secunda haec vere ac proprie fcientia
eft ; quia per potiflimam demonftrationem acquiritur, hoc eft per cauffx
proximx cognitionem . Prima vix fcientix nomen retinere poteft; quia oritur ex
demonftratio- ne imperfetta, qux fit per figna & effe&a, vel per
cauflas remotas; ideoque rem eflc eftendit , cur fit non oftendit. Digitized by
Google PARS III, CAPUT XVI. M5 , Quomodo definitur [cientia ab Ariflotele ? i'
f i . Ille [cit( inquit Ariftoteles) Qf) proprie aefim-, pliciter , non ex
parte aliqua ut Sopbifta [olent , qui cau[- [am co?no[cit , cur res fit\ non quatenus habitus & difciplina ell,
fed ut cert* alicujus rei coghitio* quae ra- tiocinando comparatur. Difputat
enim adverfus illos ; qui ajebant, nihil fciri pofle aut fciri dumtaxat per reminifeen- tiam .
Ipfilfima ejus verba , quorum interpretationem dedi- mus y funt ha?c in cap. 2.
lib. r. E 'vtsxT^xt oilue^x ixxrar Xthut , kAKX MI 73 trtQrSIKlt Tp 31 T 3 , T
XXTZ y 7 * 1 TU T OfTMt Oli
jdcS-X yttdrxOO J/ i' T' TfatyMie' *?/ y 97 / sxdtu tuTitc esi y fti etSt^ea-d-tu
t7t' x\Xuf,e\f vocant tujrvut IT* (5) In Metaphyfica tres fnnt rationes, quibus
Piato ideas probat .Primo enim ait,abfurdum videri, fi fit fingulare, in quo
occupetur fenfus , non efle univerfale , in quo occupe- tur intelle&us :
deinde , ficuti multitudo quasvis ad unitatem revocatur , ita formasfir naturas
omnes ad univerfalem quam- dam & fimplicera formam revocari debere :
poftremo non ap- parere, quomodo fingularia ejufdem rationis convenire inter fc
poflint , & ab aliis differre , nifi admittatur communis 'tjusdam forma ,
tamquam menfura convenientias omnis ac diferiminis . Labe&SUutur ab
Ariftotcle praefertim ia lib. 1. Metaph,c.7 . .13? tamen hinc colligi
Platonicas ideas. Nam Plato hoc nomine intelligit univerfale ante multa &
prater mul- ta , ideft rerum fimulacra quardam & exemplaria , ex quibus
omnia fiant & cognofcantur . Satis eft autem ad demonftrandum , fi fit
univerfale Peripateticum , quod dicitur pcft multa c in multis , ideft genera
& fpecies , quae a rebus finguiis effinguntur , & in ipfis funt . Quomodo ex doBrina Platonis fenfibilia
cognofcuntur ? Platonici hanc omnem partem opinabilem appellant , inquit Cicero
in Acad. i.c. S.Senfibilia igitur opinione ftare dicunt, & opinando
cognofci. Quibus [ciendi inflrumcntis Platonici utuntur ? I. Platonici
libentiflime adhibent in difputando de- finitionem tum rei , tum nominis ,
idque habent tam- quam princeps fciendi inftrumentum . Secundum de- finitionem
argumentis utuntur & conclufionibus . Qui- dam ( 6 ) Adde quod univerfale
Platonicum eft ambiguum , ut ' dicitur in textu ; quippe a rebus demonftrandis
feparatum > & alia quadam natura prseditum . Demonftratio autem per
ambigua fieri nequit , Hac ipfa ratione utitur iu cap.6. lib. i.Ethic, ad
excludendam Platonicam boni ideam. t40
PARS inCAPUTXVlL dam ex Illis etiam divifionem inter modos fciendi re-
tulerunt, quar tamen re vera pediflequa defini tioniseft, eique fervit, ut
poftea declarabimus. (q J C A- * x -
*** , "i 1 / * Cicero Acae!. i.c.
S. Scientiam Platonici tiufquam ef- [e anfebant nifi in animi notionibus atque
rationibus . Qj*a Ai caujja definitiones rerum probabant , & has ad omnia ,
de quibus difceptabatur , adhibebant . Verborum etiam explicatio probabatur idefi qua de cauffa quaque ejfent ita
nominata quam etymologiam appellant .
Vofl argumentis & quafi rerum notis utebantur ad probandum concludendum id
> quod ex- planari volebant , A / \ *
. * 9 t- -A , I > 1 r' 4 1. 1 v> n 1 It * * t*- * * # I X r :v:& 1 M DE SCEPTICORUM , ACADEMICORUM j EPICUREORUM,
ET STOICORUM SCIENTIA. &U/ENAM EST SCEPT ICORVM OPINid D E SCIENTIA f ]. OCepticorum opinio de
fcientia grandi volumi- ne explicatur a Sexto Empirico . Gellius rem totam
paucis verbis complefti voluit I. xr. c. 5. jQuos Pyrrbonios , inquit ,
Philosophos vocamus , ii Grac 0 co- gnomento
1 Princeps fciendi fundamentum infenfuum fide ponit Epicurus , quos nec
fallere umquam , nec falli pofle putat, Vifa igitur omnia apud ipfumvera funt i
fed opiniones, quae viforum judicia continent , aliae funt vera? , aliae falfae
. Exempli gr.cum oculi remum infradum in aqua vident, & infradum effe menti
nun- ciant , ita prorfus vident & nunciant , ut eorum pofeit officium . Nam fpecies remi eo modo ad
oculos ve- jiiunt ; ac proinde eo modo recipi ac reprarfentari de- bent . Error
autem in judicio mentis efl , fi fibi perfuadeat , remum efiTe re vera fradum ;
neque re- putet , ubi fit , & quomodo fui fpecies effundat . Ex f D. Auguflinus contra Acad.I.j.c.io. Cicero
ait ? illit morem fuijfe occultandi fententiam fuam , nec eam cuiquam , ftifi
qui fetum ad feneflutem ufque vixijfet , aperire confue- vijfe . Fortaflfe [locus Ciceronis efl in Acad. 4. c. 1
%.Reflat illud , quod dicunt veri inveniendi cauffa contra omnia dici oportere
, & pro omnibuf . Volo igitur videre , quid invene- rint > Non f ciemus
, inquit , oftendere , Qua funt tandem ifl* myjleria? Aut cur celati f qua fi
turpe aliquid fententiam ve - firan t? Ut qui audient , inquit , ratione potius , quam au -
dloritate ducantur. ( 4 ) Rem eamdem
alio exemplo explicat Sex . Empiric. I. U adverf. Log. n. 208.& feq. Vide
etiam lib. 2.n.9.Hinc Ti- magoras Epicureus ajebat apud Ciceronem in Acad. 4.
c. 25. Siquid aliter
cerneretur, atque effet , opinionis effe menda- cium , non oculorum . Et D.
Auguflinus de vera Relig. 0,33. Si
qui e rernum frangi in aqua opinatur , & cum aufertur , in- tegrari , non
malum labet internuntium > fcd malus efl j udex a . Ex his porro perceptionibus ac
judiciis oriuntur no- titia;, de quibus didium eft in cap. 3. Ex notitiis fit
ra- tiocinatio & fcientia. Admittuntne Epicurei demonjlr at ionem ?
Admittunt demonftrationem , eamque adverfus Scepticos tueri conantur . Sed
nihilo plus demon- ftranti praecipiunt , quam ut ex eo, quod eft: evidens,
efficiat & iliuftret id, quod non eft evidens. Eviden- tia autem colligitur
per fenfus re&e adhibitos, ( 5 ) & per notiones, quibus fenfus non
repugnent . Ex.gr. Epicurus dicit efse vacuum , quod non eft evidens. Probat
autem per id , quod fenfibus eft evidens , ideft per motum hoc modo : fi eft
motus , eft va- cuum; nam ubi plena funt omnia, corpus mobile de- ftituitur
loco , in quem fe recipiat ; efi autem motus : igi- tur vacuum . ( 6 ) Quartam
efi fcientia Stoicorum ? / \ Scientiam
Stoicornin explicat Cicero his verbis fri Academ.i.c.i a.Z , eno, quod erat
fienfiu comprebtnfum idipfurn fenfum appellabat :& fi ita erat
comprebenfium , ut convelli ra- tione non pofifiet , fidentiam', fin aliter ,
inficient iam nominabat: ex qua exifieret etiam opinio y qua effiet imbecilla ,
& cum falfio incognitoque communis > Scientia igitur eft firma cognitio,
opinio infirma; comprehenfio autem men fura ( 5 ) Quomodo fenfus adhibendi fint
, docet Lucullo* apud Ciceronem in Acad.4. c. 7. quem locum attulimus ia
Rudimtntit Syntagm. 1. ( 6 ) Tota h*c do&rina explicatur a Sex. Empirico
lil* i.adver.Log. 1^213, & fe q. . i 4 jr fura utriufque. Itaque ajebant
Stoici fcientiam e fle ir* fapientibus , opinionem in fluitis : comprehenfionem
neque inter re&a > neque inter prava numerabant > ut ibidem Cicero
declarat . ( k 4 i * Efine demonflratio
apud Stoicos ? i * , * Yft. Eft fane y
& definitur ab iis. Argumentatio, qu quia* con- clufionem obfcuram
declarat . - - "i w; Quomodo
dividitur Stoica demonftratio ? I. Stoici dividunt demonftrationem in primariam
, & fecundariam . Primaria illa eft , quas id , quod con- cludit, ratione
manifeftat; ut cum dico, fi {udor es flu- unt ex humano corpore , porifunt ;
fied f udor es fluunt \ ergo fiunt pori . Secundaria, & minus perfe&a
eft illa, cujus tota virtus pendet ex fide , & memoria *, ut cum dico , fi
Deus pronuntiavit fore utditeficam , certe ditefcam \ fed Deus pronuntiavit
fore ut ditefcam ; ergo ditefcam. Vis argumenti hujus cogit nos aflentiri rei
manifeftae per fidem , quam habemus Deo praenuntianti DE SCIENTIAE ORIGINE. SCIENTIA VNDE ORITVR TAMQVAM A C A V I T E? QI quis
(cienti* originem altius qu*rat * inve- v 3 niet eam a fenfibus efle , ideft a
rerum fingu- larium induttione atque experientia* Nam primo qui- dem ex. gr.
oculis luflramus hunc & illum colorem in fingulis corporibus ; deinde vero
per quamdam indu- ctionem colligimus, quid fit color in univerfum; po- (tremo
per univerfalem hanc cognitionem demonftra- tiones conficimus ad coloris
naturam & rationem a- periendam. (f) Hinc Ariftoteles fcribit , eum, qui
caret fenfu , carere (cientia Nam fi
quis oculis careat , numquam coloris fcientiam acquiret . Tota Ariftotelis
doctrina hoc Sorite concludi poteft: : fi fenfus deficit , deficit indutio ; fi
deficit indudtio , deficit univerfa- le ; fi deficit univerfale , deficit
(cientia \ ergo fi fenfus deficit , deficit fcientia * ( 1 ) K 2 Scicn - t L.
1. r. 1J4. & L. x. t ioz ( 1 ) Idem
docet homo Platonicus , Clemens Alexandr, I* 8. Stroni, p. ra. 778, xxtk tiv
wVJwv iy, hxT gV.xs** xcpx- Xcmktcw T5 . ocp^i yx? tvt izjxyoy^s i curd-ir/s y
Wpx* $s To Per fenfurn ex fingularibut colligitur univerfa - le $ XnduSlionis
enim principium eft fenfu r y finit univerfale , Vide etiam Maxim, Tyrium
differt . * . \y?i Scientia igitur eftne
fingulariiim an univerjaliutn ? * Scientia non eft nifi univerfalium , (t) qua?
de- finita funt , & femper eodem modo fe habent . Nam fingularia &
innumera funt , & mutabilia ; ideoque fenfu percipi po fiunt , fcientia
comprehendi non pof- funt. Quidam fingularia iccirco excludunt a fcientia, quod non
fint : qua de re vide c. 1 1. ( * ) r. : CA- t L . l. T. 61. 6j. ( 2 ) Idem confirmat
Arilloteles in lib. i Rhetor, cap i^i. idemque feribie Clemens Aiexandrin. 1 .
8. Strom. p. m. 7 82. t y# V L ?jtl ecrwpwv orreo9> u. i ntt gir/WfUl*.
''$'*> issnri/W xxSiJuw* eopy.x quod nefciam . . : m; 1 ftfili; ; 31 S' >i
/ f' * , *rr.;r r ffltf !.'V f . i. itr. * ,n * i vir , . ^ + a ' 2 i*,
t*" ii 9 ^ 4 .!*> ^ T .
* *V M |i L % * f / > *'
: ? ; 90 t 4 I 3 , ' '-T*'. \J *
* >* * ) / . 'AUiqcsZ q:M c 1 A P U T XXI. DE SAPIENTIA. gUID EST SAPIENTIA?
OUm fcientia ad faftigium pervenit , nobiliu# V.J nomen induit , & vocatur
fapientia . Nam Sc Dialedlicus , & Phyficus , & Mathematicus , fi ma-
xime excellat , fapiens dicitur . Hinc veteres illi au- dtores artium ac
difciplinarum fapientes a Gra:cis fune nominati . ( i ) Efine alia fapientia /tgnificatio ? Nulla vox
eft in orbe difciplinarum, quae plura fignificet . Sed ut fignificationes minus
proprias omitta- mus, interdum fapientia eft habitus quidam fimplex , a cereris
diftindtu* & ceterorum princeps, qui per altifilmas cauflasingrediens,
& fua fibi principia conftituit , &cu- juslibet fcientiae principia
dijudicat: quo nomine infcho- iis Peripateticis fignificaturMetaphyfica. ( 2 )
Interdum K 4 fapien- ( 1 ) Interdum traducitur nomen hoc etiam ad excellente*
artifice* , ut ad Phidiam & Polycletum , ut fcribit Atiftote- leS lib.6.
Ethic.cap. 7. (x) Hac ab Ariftotele ibidem vocatur iTr/yffti ravr,fxia~ rxruv y
f cienti* rerum bonoratijfimarum , & dicitur haberera- tionem capitis. Sine
hac Plato fcribit in lib. 7. de rep. reli- quas difciplinas efle cxas .
Quamquam a Platone non Me- taphyfic*, fed Dialeftica vocatur tura eo lo$o , tum
alibi fis pe . . lapientia efl cumulus quidam multorum habituum , ideft:
perfeba & abfbluta omnium comprehenfio difciplina- rum , per quam de rebus
omnibus difleri poteft quibus ha res
continentur , [den- tiam . ( 3 ) c - *
i** Quid efi fapientia Stoicorum
? +? Rebe quxris, & loco quseris; fed nihil eft, de quo minus refpondere
veiim : quia Stoici hoc nomine invidiofo &obfcuro( ut dicitur a Cicerone de
Amicit, c. 5. ) nimis multa complebuntur ; & quidem ejufmo- di , ut quaedam
vix in hominem cadere poffint Qui modum
fervant , fapientiam efle dicunt excellentem quamdam & prxftabilem
intelligendi & agendi virtu- tem, qux nullo tempore, nullo loco, nullaque
con- ditione varietur. Ceterum qui dicunt , fapientem in quovis fortunae flatu
ede liberum , ede fanum, efle for- mofum , efle divitem , efle regem , efle
beatum ; Sc o- mnia, quae ubique funt, efle fapientisi abeunt ad ex- trema. (4)
Sa - 1 j -j-l * , . % . . J -J i' : . ^ 1 J Jk ** . J A j*
1 (3) Seneca idem habet multis in locis, nifi quod cenfet tollendam efle vocem
cauffaram ; Ita epift. 89. Supervacua ( inquit ) mihi videtur hac adjetUo ,
quia c au (fa divinorum humanorumque partet funt . Ego opinor cauffar contineri
in voce f cientia : quia nihil f ciri potell nifi per cauflas. De hoc genere fapientia Stoicse > quce in
hominem cadere nequit, vide Ciceronem in Orat, pro Muraena, & in principio
de Amicit. Horatium lib. i,
Serm, Sar, 3. & lib. 1. epift. i. *
i Sapienti* nomen nonne etiam prudentia
tribuitur } * $. Sapientia vulgo ufurpatur pro prudentia. Nam qui in rep.
adminiftranda , in regenda familia , & in totius vita; morumque cultu
plurimum prxftat , fapiens nominatur. Ceterum Thales & Anaxagoras ( ut
feri- bie Ariftoteles in lib. 6 . Ethic. c. 7.) cum minime pru- dentes eflent,
attamen ob eximiam do&rinam fapien- tes funt appellati. Ex quo apparet ,
fapientiam fepa- rari a prudentia pofle . ( 5 ) CA- ( 5 ) Ad hoc fapientbe
genus referenda funt Afranii carmi- na apud Gellium lib/ 13, c. 8, Ufut me
genuit ^ mater peperit memoria. Sophiam vocant me Graji , vot fapientiam.
Carmina hc pertinere dicit Gellius ad eum 5 qui fapient ejfe rerum humanarum
velit . Cicero quoque fapientiam pro prudentia ufurparit in Orat, c, 21, n. 70,
% t ' ( j t * > c *V 4 . *S 4 C A DE OPINIONE. QUID
EST OPINIO ? f - * T7 St imbecilla
aftenfio cum metu partis adverfae JLi conjunda. (f) Differt a fcientia tura
ratio- ne materia: , quia fcientia verfatur in rebus univerfali- bus ac neceffariis
, opinio in Angularibus & mutabili- bus; tum ratione modi& cauflae,
quia fcientia oritur ex demonftratione , opinio ex probatione communi ; ideoque
illa firma eft , hac infirma . Differt a fide hu- mana; quia hsec non ratione,
fed audoritate nititur : & interdum quidem audoritas tanti eft apud nos ,
ut omnem formidinem excludat . Differt
demum a fufpicione ; quia haec eft levis quaedam credulitas , ex conjedura
orta. Opinio pote fine confijiere cum fcientia ? Opinio non poteft in eodem de
re eadem cum fcientia confiftere ; ( ft ) quia mens non poteft fimul efte certa
& incerta , firma & infirma . Nam qui fcit , evi t L.i.r. 194.197. 196. tt L 1. r. 195.
iso. toi. (t) Ob hanc
rationem feribit Ariftoteles in lib. * Topic. cap. 5 . Fidem tjft opinionem
vcbtmtnum , Digitized by Google PARS III CAPUT XXII. JSf evidentiflimecognofcit
, rem aliter fe habere non pofle ; qui opinatur, metuit, neres aliter fe habeat
. Id Stoi- ci adeo ratum habebant , ut qui femel ad fapientiam perveniflet, eum
de re nulla amplius opinari polle di- cerent. Nos fapienti concedimus , ut
aliquando opi- netur , non tamen de re, quam fcientia comprehen- dit . Potcfine fimul ejfe cum fide ? #. Opinio cum
fide humana coalefcere poteft ; mo- do hacc ab ejufmodi oriatur au&oritate
, qua; non o- xnnem prorfus dubitationem excludat: at cum fide di- vina nullo
modo poteft confociari ; quia fides divina immutabilem animi firmitatem fine
controverfia re- quirit . CA- (2) Stoici ingentem imaginem rei vanse fingentes
, fapien- tem fuum fupra communem humana vitz neceflitatem pone- bant. Cicero pro Muraena cap. 29 .Sapienttm nihil opinari ,
nullius rti panittr* , nulla in n falli , f inttntiam mutaro nunquam . / Y'i ij 6 * . o m l R KMi r>i f CAPUT XXIII. DE SAGACITATE. iiiii.: b r :nt
non t 'tustft QUID EST SAGACITAS? 'C St naturalis qua;dam follertia &
calliditas ad C/ inveftigandas celeriter caufias, (f) qua; ad- hibentur in
demonftrando : ut fiquis videns Lunam , qua parte Solem afpicit , valde fulgere
, ftatim conji- ciat, eam non fuo, fed alieno lumine illufhari. ( \) Sagacitas
pertinet ne ad fcientiam , an ad . opinionem ? R. Tota fagacitatis vis &
natura in acuta celeri- que inventione cauffie feu argumenti pofita eft .
Itaque fi argumentum fit neceflarium , fagacitas pertinet ad fcientiam ; fi fit
probabile , pertinet ad opinionem . Dif- fert autem ab utraque , non re , fed
ratione & mo- do quodam. CA- t
Lib. I t. lOi. (i ) Cicero de Divinat. I. i.c. }r. Sagire^ fentire acute eft :
ex quo Saga anus > quia multa /cire vtlunt ; (tf fagacet di fit canet , .-.t
: - . ... r tjfi 1 tr ~ -'jn-., nteas .DE
MATERIA ET INSTRUMENTO DEMONSTRATIONIS . QUID EST, QUOD DEMONSTRATUR ? T D , quod cauflam habet
neceflariam, perquam A demonftretur; (f) ideffc propria rei aflfedlio . Nam res
ipfa feu fubflantia, cum fit per fe, demon- ftrari non potefl . Itaque in
homine ex. gr. facultas ridendi demonflrationem capit, ratio non capit. ( i )
Quodnam efi demonflrationis medium ? I. Demonflrationis medium Definitio efl ,
qusrcauf- fam rei demonflrandx continet, five fit definitio fubje- ti , five
praedicati , five utriufque Ita fi
probare velim , hominem pofie ridere , medium erit hominis definitio, idefl
animal rationale : fi probare ve- lim , Lunam deficere per eclipfim , medium
erit ecli- pfeos t Ls *. t, Nomine
proprias affe&ionis intelligitur non ca tan- tum , quas caufsam habet
internam, ut eft facultas ridendi fed
etiam illa , qu caufsam habet externam ) modo fitcauf- fa propria &
neceflaria* ut eclipfis Luna , quas demonftra- tur per interjeftionem terrse . Utraque demonftratur percauf- fam illa per materiam > haec per efficientem
. pfeos definitio , ideft interjeiSio
terra inter Solem & Lu- nam . ( 2 ) Definitio poteftne demonflrari ? I efl
ejus definitio ; bdec efl oratio conflans ex genere & differentia hominis \
efl igi- tur hominis definitio Sed hoc
fyllogifmo idem proba- tur per idem, & principium petitur . Nam medium non
differt a prsedicato conclufionis. Quid efl enim defini- tio , nifi oratio
conflans genere & differentia ? Duo hxc verbo differunt , re idem funt . Num faltem demonflrari poteft per definitionem
contrarii ? I. Sunt qui definitionem contrarii fumant ad rei de- finitionem
demonflrandam . ( ff ) ex. gr. ut probent , bonum efle id , cujus ratio 6*
natura efl individua , fumunt definitionem mali, cu)usratio nec differta fyllogifmo nifi ordine verborum.
DE CAUSSIS AD
DEFINIENDUM ET DEMONSTRANDUM IDONEIS. JOVID EST CAUSSA IU UN /VERSUM? ^ I * I / I. Aufla efi , quae fua vi efficit id ,
cujus efi Vw/ caufla . ( f ) Quatuor porro numerantur , ma- teria , forma ,
efficiens , & finis Materia dicitur
id , ex quo aliquid fit ; forma per quod ; efficiens a quo *, finis propter
quod . ( i ) Qudenam cauffa adbibetur in affeflionis definitione ? Scilicet
illa , a qua atfeciio proxime oritur - Et fi forte multxfint x una tamen efi:
propria & proxima y L quae* t quo ,
forma efi 5 qua aptatur illi id . 47//
quod > exemplar efi ^ quod imitatur it 9 qui facit * id 9 propter quod 9
facientis propofitum efi id y quod ex
iflit efi , ipfa fiatua, Qnintum genus cauff admittebat Plato propte* ideas
fuas 9 quas putabat exemplaria effe rerum omnium r Alii quidam nullam cauflam
admittunt praeter efficientem. y quia huc una vere & proprie facit . Finit
non facit 9 fect allicit: materia & forma non faciunt 9 fed conflit uunc
& com- pouunt mms&mms M 62 .
PARS 111. CAPUT XXV. quae in definitione collocatur , & ad demonftrandum
valet AffeBio a quanam cauff a proxime
oritur ? Affecliones quaedam oriuntur a fubje&o, in quo funt, &
dicuntur habere cauflam internam; ut facul- tas ridendi in homine, quae oritur
ab ipfa hominis na- tura: quaedam oriuntur aliunde , & dicuntur habere
cauflam externam ; ut eclipfis Lunse , quae oritur ab Snterje&ione terrae ;
mercatorum labores , qui oriuntur a contemplatione divitiarum . ( ij 4 A *
Quomodo appellatur cauff a interna ? Modo 7nateria dicitur, (f) modo
'necejfitas ma- teria y quia , quae ita oriuntur , necefTario oriuntur . ( 3 ) Quo- t L, 1 . t . 53. (2)
In iis, quas cauflam externam habent, cauda non dif- fert re, cujus eft cauda, nifi quatenus pars
differt a par- te. Itaque quoties
demonftrantur , demonftratio non differt a medio fuo , idefl a definitione ,
nifi per ordinem verbo- rum ; ex. gr. Eclipfis Lunas definitur : obfcuratio
Luna ob inter jcftionem terra. Per eadem h&c verba formatur demonftra- -
tio , adhibita intexfeBione loco antecedentis , obfcuratione \o- co
confequentis. Hoc modo pars definitionis dicitur demon- ftrari per partem , ac
veluti materia per formam; In iis , quas cauffam habent internam, demonftratio
differt a medio fuo; ut cum facultas ridendi detnonftratur per definitiorem -
hominis . Hz c pertinent ad inteiligenda obfcura qujedam & involuta a tex.
37. ufque ad t.47. ( 3) Cauflit igitur interna in demonflrando una eft, ideft
fubjeBum afieftionis , quas demonftrarur : quod fubjeBum mo- do materia
(dicitur , modo materia necejfitas , modo efficient per emanatronem . Porro
materia dicitur ; quia affeHonis rna- teria non eft alia y quam fubjedluin
ipfum , unde oritur, & cui ineft .
16} , Quomodo* appellatur
externa? . I . -* % Modo efficiens ,
cujufmodi eft in primo exem- plo inter jejftio terrx ; modo finis r cujufmodi
eft divi- tiarum contemplatio in altero^ Queenam ex bis potijfitna eft ? \ . ^ * v i *
Pro rerum diverfitate ea eft omnium potiffima , quae proxime effedlum
attingit, five fit interna, ftve excerha
, * lg. Forma in demonftrando locum non habet Nam forma quidem ipfius- aflfe&ionis
demonftrandae inepta eft: fiquidem nihil demonftratur per fe ipfum . For- ma
vero fubjecli , in quo eft affe&io , gaudet materia: nomine: fiquidem totum
fubje&um , Sc quidquid in fubje&o eft , unde affe&io oriatur ,
materia ejus dici- tur . - ; ' v * * \ ' * * * > L \ 2 . C A- s X f r*
* f - , t / - j . M ^ * 1 * pr " , * ^ r 1 'l*.* * - . {3) Hinc apparet 5 cur
ridendi facultas dicatur ab Ariflo* tele oriri ex neceffitate mate ria 2
fciHcefc quia oritur ex toto fubjela* inquoeft ; eoque pofico , neceilario
fequitur. Ap- paret etiam tres tantum caudas habere locum in demonflran- dOj
videlicet externas duas , efficientem^ & finem $ internam unam, quocumque
appelletur nomine , five materia , five ne- ceffitat materia. Sicubi formam
nominat Ariftoteles , hac vo- ce definitionem fignificat; i 1^4 C A P U T ' XXVI. r DE DEFINITIONIS- NATURA- ET P ARTIB USi Vji
!: QUOMODO ARISTOTELES DEFINITIONEM EXPLICATI , * ' . *
" . + t . ' > lg. Uod attinet ad rem praefentem ,
.definitio i. in tres formas dividitur ; atque ita divifa cum demonftratione ab
A riftotele comparatur . I.AJia eft definitio, quas vulgo effentialis dicitur-,
alia, quas vocatur 'cauffdiis\ alia denique plena 6* perfefta . Ef- fentialis
eft, quse eflentiam aftedionis aperit, ut cum eclipfis .Lunas dicitur efle
defeSus luminis Jn Luna . Caujfalis , quas caufifam exprimit, a qua pendet
affe-; dio, ut cum eclipfis Lunas. dicitur interjeftio terra in? ter Solem
& Lunam . Perfefla & abfoluta , quae utram- que compleditut; ut cum;
eclipfis Lunas dicitur de- feBus luminis in luna ob interj e Bionem terra inter
tpfam & Solem . Prima appellatur ab Ariftotele conclvjio de- mon fi
rationis ; ( t ) quia cum eclipfis Lunas ratione de- monftratur , hoc eft per
fuam cauftam veram & pro- priam, locum tenet conclufionis. Secunda
appellatur principium demonflrationis , quiafumitur tamquam prin- cipium &
argumentum ad oftendendum defedum lu- minis in Luna. Tertia appellatur oratio
pofitione tan* tum a demon flratione differens Y Nam cum contineat r * * - . . j . rei t i A 64 & l. l. t, 4Jo 46
47* , Digitized by Google PARS III. CAPUT XXVI. 16? rei eflendam & cauflam
, continet totam demonftra- tionem , verborum dumtaxat ordine diverfam , qua-
tenus prima definitionis pars occupat locum poftre- mum in demonftratione. ( i)
Porro tota ha;c doctri- na pertinet ad definitionem affeCHonis> quaj fimul
de- clarat quid fit y 3 c cur fit; non ad definitionem fub- fiantiar, qua?
caufla caret , & fignificat dumtaxat quid fit. Id monet Ariftoteles ipfe in
t. 46.I. . , L 5 CA . . ( i ) Syllogifmus , qui huic do!rinae refpondet & defini- tionem continet, eft hujufinodi
: Quoti tt interjicitur terra inter Salem & Luuam , totiet efl J.>feFit
lumini t * n > nunc interjicitur terra inter Solem & Lunam ; nu jjf eji
defeSlut lumini t in Luna . Luna enim ( inquit Cicero lib. 2. de nat. Deor.
c.49. ) incidens in umbram terrz > -um elt e regione foiis , interpofitu
interjeluque terra repente deficit . ...
' . : v. . ' 1 m t66 i t '> *
i * * . . I 1 I ' 'J * . . i r DE LO CIS
DEFINITIONIS , QU.E ESSENTIAM REI APERIT. UBI AGIT DE LOCIS DEFINITIONIS
ARISTOTELES ? * 1 *. n E Locis definitionis inveniendae incipit age- (i.-JL J
re Ariftpteles in cap. 13.L2.quae pars To- pica demonftrationis dici poteft .
Ac .primum quidem docet, quomodo invenienda fit
V ^ # . * Xr Cedo mihi quomodo inveniatur colligendo . * ^ 4 . yv Modus jhic appellatur Induflio ( t )
Quoties igitur alicujus rei definitionem inveftigare volumus , quae res
univerfalis fit ( neque enim definiri poliunt jiifi univerfalia J confiderare
oportet, quomodo con- ve- t Z t, J* I
Digitized bjtGoogle PARS III. CAPUT XXVII. 167 veniant, & quomodo differant
fingula quae in ilra continentur j donec inveniatur communis quxdam rap- tio ;
quae ratio inventa cum fuerit, habebitur defini- tio. Quod fi ratio haec rebus
fingulis communis in- veniri non poterit , argumento erit , eas genere diver-
fo contineri , nec una definitione comprehendi pof- . ( Fac ut explices exemplo
aliquo . i Exemplum ab Ariftotele fumo. ( f ) Si mihi inveftiganda fit
magnanimitatis definitio, quxro qui- nam dicantur viri magnanimi ; cumque
inveniam ? magnanimos dici Achillem , Ajacem , & Alcibiadem , quia injurias
ferre noluerunt ; tum vero etiam Ly- fandrum, & Socratem, qui xquum animum
in utra- que fortuna fervarunt ; diligenter examino, num duo haec, non ferre
injurias , & aquum fervar c animum in utraque fortuna , ad unam aliquam
communem ratio- nem revocari poffint. Sipofliint, habeo definitionem unam &
perfe&am : fi non poflunt , flatuere oportet > L 4 g e - . , . ' t L .
2. r. 81. ' ' , * 4 (. 3 ) Modum hunc
invenienda definitionis non alienum e(Te a do&rina Platonis, contendit
Patritius in DifcuffiPe- ripat. t. 3. L 4. p. 319. & quidem jure , ut
colligiturex Alcinoi Inftitut ad do&r. Platon. c. 5. 1*8 PARS III C APUT
XXVII . geminam efle magnanimitatis rationem, ideoque -defi- nitiones duas
poftulare. (4) Cedo nunc quomodo inveniatur definitio dividendo ' > 1. Primum quidem videre oportet , res
definienda cujus fit categoriae : ( t ) deinde illius categoriae ge- nera per
oppofitas differentias dividenda funt ; donec ea differentia inveniatur, per
quam conflet rei defi- nitae natura: tum ex hac & genere proxime divifo
conficitur oratio, quam definitionem dicimus. Ex.gr. definiendus fit homo .
Statim apparet, hominem com- prehendi in categoria fubftantiae . A primo igitur
fub- flantiar genere exorfus , dividendo progredior ufque ad animal , quod
ipfum dividens in rationis particeps , & ra~ t I. 2. r, 7Z. 7 }, 74 ly feq
. \ (4) Ariftoteles in lib. 4 .Ethic.c.
3.fcribit, magnanimi ef- fe quum animum in utraque fortuna fervare; quod fece-
re Lyfander, & Socrates: at de intolerantia injuriarum non meminit quas proinde alio revocanda videtur. Quamquam
hsec ipfa ad magnanimitatem eo nomine traduci poteft , quod qui magno eft
animo. & magna omnia fpeftat , non patitur ie contemni. Non defunt qui
putent, quidquid magnum & eximium eft in virtutibus omnibus-, ad
magnanimitatem re- ferri $ ideoque ejus rationem efle multiplicem &
ambiguam. Porro ex hujus loci do&rina apparet , quomodo conjugata concreta
adhibeantur ad aperiendam naturam abftra&orutn : qua de re vide Parr.2. c.
4. de qualitate* . 1 6) Sc rationis expers ,
facile cognofco me in hominis dif- ferentiam incidifle , quae ratio eft . Ex
hac igitur & proximo genere hominis definitionem compono ita pror- fus ,
animal rationis particeps . ( j ) Nonne hic e fi modus quidam demonfiranda e fj
e Miae ? Ita vifum eft Platonicis quibufdam , qui
pro- inde demonftrandi vim divifioni tribuerunt. ( f ) A- junt autem, hoc ferme
pafto fieri lyllogifmum: Ani- mal vel eft rationis particeps , vel rationis
expers ; homo eft animal; ergo vel rationis particeps, vel ex- pers : non eft
autem expers , ergo particeps . At hic argumentandi modys peccat ea fallacia ,
qua; dicitur petitio principii , iv Sumit enim tam- quam notum Sc conceftum ,
hominem non effe rationis expertem , quod ipfum erat probandum. Divifio igitur
fer- 4 L i . t. ij. 24. if. ( 5 ) Vide modum hunc inveftigandte definitionis
apud Cle- mentem Alexandrinum lib. 8, Stromat. pag. ni. 779. Monet autem
Arilloteles, utilem efle methodum hanc inveftigand definitionis , tum quia
facit ut omnes rei definita partes fumamus, quas funt *VJ7fsf, h. e.
ejfentiales , ut fchol vocant; tura quia facit, ut folas fumamus ; tum demum
quia facit, ut eas refte atque ordine collocemus. Digitized by Google r-Tr-Bga
. , 7 o v ars m caput xxra fervit definitioni, & vakt ad invefligandas
partes e, lentiae , non ad probandas ( 6
) C Ar ( 6 ) Inde etiaro colligi poteft vitium fyllogifprf hujus > ouod
fubjeaura propofitionis latius patet prsdipato
Nara rationir partiteps , & raliutU expers , cum disjungantur per
mrticulam veU non potfunt aquare animal . Hoc autem con- tra leges enunciandi
eft. Prxterea cum animal , & rationi t partifepr fint partes definitionis,
in hac argumentatione de- eft medium, quo partes ifta; conjungantur. Ubi autem
de- eft medium, non poteft efle dempnftratio. Totum id eo lpe- * at ut appareat
definitionem efle mraSeucV, hoc eft de- mon ji ratione carere , quia ipfa debet
efse demon Arationis medium* V*Cap. 2,4 k T * *
i DE Locrs DEFINITIONIS, QU^E CAUSSAM REI CONTINET. , .. ***'* . * , ' .
) ' . QVOMODO INVENITUR I) E F I NIT IO PER C AV SS A M defeendere debemus a
genere ad fpeciem, a fpecie ad individua f ;,ut ea demum detegatur *
q^a^offe&ui pro- xima eft , .propria , & reciproca . ( 3 ) ,> ; i - CA- , *
I '1 > * > Ov> . V tii :v. r ' . 1 > k Digitized by Google V T 7$ C - 4 DE IIS, QU 7 E DEFINITIONEM CAPIUNT. . J ' * * ' v ' * t CUR DIXISTI PAULLO ANTE SOLA
UNIVERSALU DEFINIRI ? fjL. /~\ Uia ficuti res lingulares non capiunt demon-
ftrationem ( f ) ita neque definitionem . ( i ) Uno verbo eorum efl definitio,
quorum eft fiden- tia i fidentiam autem non efle nifi rerum univerfa- lium ,
oftendimus in cap. 1 9. hujus Partis , & in Par. x. cap. i. Poffuntne
'Universalia omnia definiri ? " Ea fola definiri pofliint , quse certo
genere & certa differentia confiant; aut cauflas habent nqtas at- que
exploratas , per quas aperiantur . ( 2 } "e * * Natura fimplices poffuntne definiri ?
Animadverterunt juniores Dialettici , naturas fim- t L. r. t. 64. ( 1 ) Cum
quis res fingulares, earumque naturam oratio- ne aperit, non definitione, fed
defcriptione uti dicitur. (2) Definitio dici poteft refolutio alicujus rei in
partes , ex quibus confiat: ut cum dico, hominem efle animal ratio- nali ,
refolvo hominem induas partes, ex quibus ejusnatu- ra componitur. Qu igitur
partibus carent , cujtffmodi e fi Deus, definiri non pofiunt . . plices
definiri non pofle ; quia quod partes non habet, non poteft per partes
explicari, ideft per genus & dif- fererftiarrr. ttijufmodi funt apud illos*
motus , dolor , voluptas , . lux , color , & fimilia , quae fenfibus quidem
percipi polfunt , at explicari per definitionem non pof- funt . Ariftoteles tamen in his
ipfis aliquid invenit , quod partium loco eft, & Scholafticam definitionem
capit. Itaque ab eo* definitur motus, attus
entis in pa- tentia protc^efi in patentia .* Nam revera quod movetur , in aliu
eft, fed in aftu porro pergente, ideoque cum potentia quadam conjunfto. Extra
fcholam , ubi quid fit alius & potentia non plane conftat , haec definitio
minus videtur idonea . : [ \) 'CA- ' i *
t x * r (3) Plutarchus dc Placit; Philofoph. I. i.e. 23. feribit , mer*
.tum ab Ariftotele duobus verbis definiri , bvt eKsyelxp at/var** alium
perpgtem t rei mobilis. Ceterum ideas fimpiices definiri non pofle , magna
contentione probat Lokius 1. 3. de hum. intell.c.4.& eum fequutus Clericus
in. Logic part. 1. cap.
2. . 11. & fe q. Uterque autem loquitur de definitione ptena Sc perfe&a
. Nam imperfefta cadit in fimplicia quaelibet \ qu** tenus cauflas habent &
effe&a , antecedentia & confejquen- tia, adjunfta & conjun&a ,
attributionefque alias , per quas deferibi poliunt y & ab aliis rebus
feparari: modo cum^co di/puremus , qui ih/egm fenfibus prarditus fit . *
Digitized * 75 Z1U-: CAPUT XXX. DE QUAESTIONI BUS. QV ID .EST UJEST 10 > I
Uaeftio, ut definitur a Cicerone in Acad. 4. VV c. 8. eft appetitio cognitionis
, quse modos affe&ionefque com-
plectuntur Per fimplices quaero ex. gr.
an fit , 6* nec propriam ha- bet . ( 4 )
Quodnam e fi modium compofitaruml Medium quseftionum compofitarum modo defi-
nitio rei eft , modo definitio ipfius affe&ionis demon- ftrandae, ut eft a
nobis explicatum in cap.24.de ma- teria demonftr. , & in cap.25.de Cauffis.
( 5 ) Vnum idemque medium poteflne folverc quafiiones omnes ? V/L. Cum
affe&io quoque habeat efTentiam fuam > fi confideretur ut eft , non ut
ineft , capere poteft dua$ quseftiones fimplices, an fit , & quid fit \ ut
cum quad- ro an fit Eclipfis, kquid fit . Hinc fit, ut cum Ecli- pfis demonftratur
per definitionem plenam , quas rei efTentiam & cauflam continet, omnes
qua-ftionesTol* M vat , (4) Cum dicimus *n fit , modo quodam me taphy fico
loqui- mur, non phyficoy proindeque cum definimus, non necefte eft id a&u
efle, quod definimus, modo efle poflit. (5) Definitionis eft patefacere, quid
nt fit . Regit enim primam mentis cognitionem , qu perceptio dicitur . Atta-
men nihil repugnat, quin adhibeatur tamquam medium de* monftrationis , ideoque
per demonftrationem ipfam folrat qtwe* ftionem compofitara cur fit. aa atms .
Vat , oftendens an fit Eclipfis , quid fit , qualis fit , turfit. (f) (O PARS
(6) Ha&enus quoeftiones Logicas numeravimus , & qui- dem ex difciplina
Peripatetica. Ceterum univerfe quaefliones dividi poffunt vel pro rerUm, de
quibus quaeritur, differen- tia,- qua ratione alia quaeflio Analytica dici
potcft , quae ver- fatur in rebus neceflariis ; alia Dialeftica , quae verfatur
in probabilibus : vel pro vario quaerendi modo / qua ratione alia quaeft/o quae
unum de uno quaerit alia cotn - fefita ,
quae de uno quaerit plura; vel pro artium) ad quas pertinent , diTcrimine ; qua
ratione quaefliones ali funt co- gnitioni* , duae ex Phy fica & Metaphyfica
; aliae aflionit cx Ethica & Politica; aliae modia ex iis artibus * quae ad
0- rationem formandam pertinent , Grammatica , Rhetorica * Diale&ica .
Etiam Auftor artis cogitandi fuam quamdaw quaeftionum divifionem affert ex
Cartefio part, 4 . c. 2, t I, 1 . t* 6 ..t DE TOPICIS. 4 * 1 * T Opica Ariftoteles fufe explicuit libris
oiflo : ego paucis pagellis complexus fum. Attamen ope- ra tam exigua , ni me
amor rerum mearum fal- lit , partem potiflimam & pulcherrimam dodlrin* hu-
jus in ea luce collocavi quam jamdiu deflderabat r Si plura dare voluiflem , ad
exilia veniendum erat . & noftris adolefcentibus minus commoda . Proxime
fequuntur Elenchi Sophiftici; qui , fi verum quieri- mus , ne feparandi quidem
funt, fed unum idemque opus efficiunt. Societas & conjunftio hatc apparet
ex poftremis Elenchorum verbis, quibus Ariftoteles de- clarat , fe omnia
perfecifle , qua: initio Topicorum pro- pofuorat; totamque hano dotfrinam uno
epilogo con- cludit.- M a CA- \ 1 ;r
. . i , * \ ' ' ) >! . c
- DE NOMINE, ET MATERIA TOPICORUM. TOPICA UNDE DI CUNTV ) - 1 *'T"'
Opica dicuntur a gratca voce t 1 5 ,
idefl locus . 1 Eft autem locus communis qusedam nota , cnjus admonitu , quid
in quaque re probabile fit , in- - veniri potefl ad problemata Dialectica
conftituenda > & folvenda . Quanam eft Topicorum materia ? i Triplex ;
Problemata , de quibus difputatur ; Propofitipnes , ex quibus difputatur ; Loci
tum Pro- blematum , tum Propofitionum . Quinam eft Topicorum finis ? Difputatio
redta & idonea de rebus omnibus in partem utramque . ( a ) Dijpu- ( i )
Cicero in Topic. c. I. Ut tarum rerum , qua abfeondi- ta funi , dttni nftratod
metat e leco , fatilit tft intentio \ fit eum pervejhgare argumentum ait quod
volumnt , letet nefit df bemut . ... -n Hujus difputationis utilitates recenfet Ar lU
otele* ia Li. Top,c.a.&Cic.
in Tufcul, a.c. 3, 1. iSz Difputatio bac
quibus fit inftrumentis ? Inftrumenta, quibus Dialecticus utitur in dis-
putando , duo funt , Indu&io, & Syllogifmus. At- que Igdu&io quidem
facilior eft, &ad vulgi fenfum accommodatior ; Syllogifmus majorem vim
habet , & dodorum virorum difputationibus magis convenit. ( 3 ) M 3 CA-
Difcrimen hocaflfert Ariftoteles in I. 1. Top. cap. 12. Ratio in promtu eft
> quia indubio progreditur ex lingu- laribus, qu* fenfibus proxima funt;
fyllogifmus ex univer- falibus, qua; funt a fenfibus remota . Ramus in Animad-
verf.AriftoteIJ.il. p. m. 17. contendit unam efle argumen- tandi rationem ,
fyllogifmum > indu&ionem autem non dif- ferre a fyllogifrno feci efte
fyllogifmum quemdam ex parti- bus . Digitized by Google iSt .V r M C It . DE SYLLOGISMO DIALECTICO. U % *
r EST STLL0G1SMUS VULECT1CUS? Q
Yllogifmus Dialefticus ( qui uno nomine E- pichirema vocatur ) eft ille >
qui fit ex pro-' habilibus , & parit opinionem ; quemadmo- dum demonftrativus
fit . ex neceflariis, & parit fcien- tiam . Quomodo igitur differt.
Epichirema a . . demonftratione f V/U Demonftratio eft probatio perfeftiftima
per cauf- fam rei propriam & neceftariam ; Epichirema eft pro- batio
quaedam per figna & effefta . Itaque illa ad A- nalyticum , hoc ad
Dialecticum pertinet , ut docet Ariftoteles Topic. 1. 8. c. 1 1. ( i ) Con - Epichirema Grsca vox eft , qu* aggrejftonem
fignifi- cat ivi t Diale&icus enim) qui epichiremate u- titur) rem non
pervincit) fed quodammodo aggrediendo ten- tat. Et quia hoc genus argumentandi
pertinet etiam ad O- ratores ) Jbrinc Rhetoricas artisMagiftri nomen ipfum fibi
fu- munt. Vide Auctorem ad Herenn. !. 2, cap. 2. Clemens A- lexandrinus lib. 8
. Strom. mavult Epichirema efle opus Rhe- toricas artis > Agonifiua
Dialecticas. Digilized by Google PARS IV. CAPUT TI. :iS$ t * ' Conclufo ex
probabili eftne firma ? Firmifliraa eft ad difputandum , fi concedatur
propofitio & aflumtio ab adverfario . Itaque veteres Dialedici fingulas
enunciationes prius interrogabant; deinde vero ex concedis fyllogifmum
conficie- bant . Quid eft probabile ?
Ig. Probabile ( definitur ab Ariftotele lib. i. Topic. c. i. quod probatur
omnibus , vel pluribus , vel fap tentibus ; hifque vel omnibus, vel plurimis ,
vel maxi- me notis & illuflribus . Itaque tota ratio probabilitatis pendet
ab judiciis hominum , quemadmodum veritas pendet a natura rerum . Eft porro
probabile omni- bus , v. g. parentes colendos efte ; eft probabile pluribus , M
4 mun- (z) Difcrimen inter modum concludendi ex concedis > & ex
demonftratis explicat Clemens Alexandr. 1 . 8 . Strom. p. m. 771. K*4>' to (jSj) xc r tuv 6 |S 4 P
ARS ir CA PVT l!. mundum non e fle nifi unum ; eft
probabile Rapientibus terram moveri .
Rurfus eft probabile Rapientibus omni- bus , fine virtute beatum efle neminem ;
eft probabile plurimis , foiam virtutem fufficere ad beatitudinem ; eft
probabile maxime notis 6* illuftribus , quidquid pla- cet Ariftoteli , aut
Platoni , aut aliis, quorum fapien- tia maxime cognita & perfpe&a eft .
( Quomodo definitur probabile a Cicerone ? R. Probabile eft /'inquit Cicero
Ilb. i.de Invent. c. 29. ) quod fere fieri Rolet ; aut quod in opinione pofitum
eft \ aut quod habet ad bite quamdam fimilitudinem ; five id falfium fit , five
verum . Itaque probabile neque fal- fum eft, neque verum; fed ita in alteram
partem in- clinat, ut tamen alteri non plane repugnet. Triafunt ejus genera .
Nam primo probabile eft , quod fere fieri Rolet: qua ratione dicimus filium a
matre diligi; quia ita plerumque fit. fj) Deinde probabile eft , quod in
communi opinione pofitum eft ; ut Philofophos efle incre- dulos ; quia ita
vulgo fertur . Denique probabile dicitur , quod iftiufmodi probabilibus fimile
eft ; ex. grat. fi filius a ma- (4) Videndum tamen eft, ne quod probatur
rapientibus, Tepugnet communi opinioni, ut monet Arifloteles Topic. 1. cap. 10.
Huc pertinet illud Ciceronis lib. 1. Offic. cap. 41. Nec quem quam boc errore
duci oportet , ut fiquid Soereetet , aut Ariflipput contra morem
ccnfuetudinemque quod Diale- flicus
projiceret in medium quseftionem bipartitam , fumtu- rus utraui partem fibi
dediffet adverfarius , Digitized by Google . 187 Secunda divifio: Aut nulla eft
de problemate ho- minum opinio; (a) aut in eo diffentit vulgus a fa- pientibus;
aut fapientes ipfi inter fe diffident ; aut vulgus fecum. Tertia divifio: Alia
funt problemata vere ac pro- prie Diale&ica , quia rationes probabiles
habent in partem utramque : alia funt problemata , qua; re ve- ra Apodi&ica
funt , & capiunt demonftrationem ; fed tamen Dialeftico more pertrahantur ,
ad quam- dam animi praeparationem . ( 3 ) v Qua in re problema ver fatur 1 Problema
Dialefticum nullis finibus coercetur : attamen non debet efte exlex. Itaque
illi conditio- nes quafdam pracfcribit Ariftoteles. Prima eft, nefit improbum
& poena dignum ; ut fi quis quarrat , num Deus fit colendus . Secunda , ne de iis rebus
inftitua- tur, quae funt fenfibus manifeftae, v. gr .utrum nix fit alba .
Tertia, ne de iis fit, quar vel nimis facilia vi- deantur, vel nimis
difficilia: nam priora nullam du- bitationem afferunt, pofteriora nimiam. CA- (
1 ) Velut fi quzratur, utrum ift Luna fint animalia ; utrum Stellae fint pares
, an impares ; & fimiiia , qus ignota potius, quam dubia dici poflunt . Efl etiam quadam problematis fpecies , quam
tbtfim vocat. Hoc nomine fignificatur fententia , qua: omnium ho- minum
opinioni adverfatur ; quamvis levi aliqua ratione ni- tatur, aut etiam aiicujus
Philofophi auftoritate : cujufmodi erat thefis Zenonis , nihil moveri . Attamen aliquando tbefit late
fumitur pro quovis problemate. Digitized by Google tU CAPUT IV. DE
PROPOSITIONE. &UID EST PROPOSITIO ?
* % A Lterum materiae genus , in quo Topica Ari- XA ftotelica yerfantur,
eft Propofitio . Eft au- tem propofitio generalis fententia per quam brevi- ter
locus is exponitur, ex quo omnis vis emanat ra- tiocinationis ad problema
folvendum . Haec ipfa ef- ferebatur a veteribus
Diale&icis per interrogationem , & conflabat parte una : ex. gr. nonne
quod dele fiat , eft expetendum ? Apud nos primam Syllogifrai partem conftituit
, quam majorem Scholaflici dicunt , & caret interrogatione pro modo
difputandi noftro . ( i ) Quinam eft ptopofitionis ufus ? $. Inventa
propofitione ad ' problema folvendum ido- ' .. (i) A Cornificio dicitur
expofitio in lib. 2. ad Herenni, c. 20. A Quintiliano modo intentum , modo
intentio > habita ra- tione grseci vocabuli irpalzJ/?, quod eft a tfsl&i
intende- re , quia intenditur ad problema. Itaque Ariftoteles fcribit ,
propofitiones & problemata effe paria numero, quod fibi in- vicem
refpondeant . Pofito enim problemate , ponitur propo- iitio, qua; illud folvat.
Et fi quod problema propofitione caret fibi refpondente , problema dici nequit
> fed dicitur thefis per fe nota, vel inexplicabilis. Digitized by Google
PARS IV. CAPUT IV. 189 idonea , faeile cft addere fumtionem , & fyllogifmum
conficere : ideoque prseftantiflimus quifque difputator propofitionum copia
abundare debet. Unde fumitur propofitionum copia ? #. Ex communi fermone , ex
difputationibus > ex libris dodorum virorum . Hinc enim fiunt appara- tus ,
quibus pro re nata ad propofitiones formandas uti poffumus. Quomodo fit
Apparatus ? #. Quinque regulas faciendi apparatus tradit A- riftoteles in libr.
1. Topic. capit. 14. Prima eft , ut diverfa rerum capita feparatim notentur ,
v. gr. de Bono , de Natura , de Arte. Secunda , ut unum- quodque definiendo
explicetur, in partes tribuatur , & affedionibus fuis ornetur Tertia, ut adfcriban- tur fingulisfententiae
illuftrium virorum . Quar- ta , ut diftinguantur tria fumma genera. Logicum ,
Ethicum , Phyficum Quinta , ut
incipiamus a com- munibus & late fufis , ordine defcendentes ad fingu-
laria & angufta . ( 3 ) Qu & Tenebra i ub relatis Emptio , &
Venditio , &c. I$0 . t Quanam funt inflrumenta paranda propojit tonis} Tria
recenfentur ab Ariftotelc , diftin&io am- biguitatis , ' declaratio
differentia , inventio Jimilitudi - TUS
Explica mihi primum , ejufque commoda
T. Primum parandae propofitionis inftrumentum eft diftin&io ambiguitatis Hoc enim valet ad perfpi- cue cognofcendum ,
quid fit id , de quo difleritur , ut differamus de rebus, non de vocabulis ;
tum fa- cit , ut facile diflolvamus adverfariorum argumenta ex ambiguo
du&a; denique ut adverfarios ipfos am- biguitatibus implicemus. Quamquam
tertium hoc ma- gis Sophiftae convenit, quam Diale&ico . Porro am- biguorum
diftin&io fumi poteft ex oppofitis , ex con- jugatis, ex generibus, ex
categoriis , ex definitioni- bus, ex comparatis. Ex. gr. illud eft ambiguum 6c
multiplex, cujus oppofitum multiplicis naturae eft ; cujus conjugata funt
ambigua ; quod refertur ad va- ria genera proxima ; quod pertinet ad diverfas
ca- tegorias; cujus definitio multiplex eft; cujus membra inter fe comparari
non poliunt. (4) Ex- ( 4 )
Exemplum hujus poftremi articulielTe poteft acutum , quod ambigue dicitur de
fapore , voce. Quamvis enim & fapor acutuf dicatur, & vox acuta ;
attamen vox fle fapor nul- lo modo inter fe comparantur. Neque enim fapor dici
po- teft acutior voce , aut vox fapore . Exempla reliquorum fa- ciliora funt)
& peti poliunt ab ipfo Ariftot, 1, i, c, 15, Digitized by Google PARS IV
CAPVT IV. ~* 9 * , . Explica fecundum* * . * -i Secundum propofitionis parandae
inftrumentum eft inveftigatio differentia , qua fit., ut. cognofcamus naturas
rerum , quas per differentias conftituuntur ; .& problemata folvamus de
eodem ac diverfo ( 5 ) . Por- ro ut differentiae cognofcantur , fpe&anda
genera funt : & primum quidem cognofci debent differentiae eorum, quae funt
fub eodem genere , ut fortitudo , & jufti- tia; deinde eorum, quas cum
generibus diverfiscon- tineantur, tamen aliquo modo fimilia funt, ut fen- fus,
& f cientia. (6J Cedo mihi tertium A
% i I Tertium inftrumentum eft explicatio pmilitudi - nisy quae plurimum
confert primo quidem ad indu- Iliones Dialedlicas, per quas. tx pluribus
fimilibusfi- mile concludimus : deinde ad fyllogifmos hypothe- ticos ; quia v.
gr. cum firmatum eft , eumdem efle con- trariorum fenfum; ex hypothefi efficio
, eamdemefte contrariorum fcientiam, ob fimilitudinem , quae inter- cedit inter
utrumque : denique ad inveniendas defi- nitiones; nam quae in aliquo genere
fimilia efle de- prehenduntur , unam definitionem capiunt; quae ad varia genera
pertinent , pluribus definitionibus funt ex- pli- ( $J Hoc eft, ttt probemus,
alia effe eadem, alia effe di- verfa 5 quod apparet ex differentiis , quas
generibus additas conflituunt fpecies, C 6) Juvat etiam cognofcere differentias
quaslibet , ex quibus fumi poliunt propofitiones minus firma;, . plicandi.
Monet autem Ariftoteles, ut fimilia quae- rantur non modo in eodem genere, fed
etiam in di^ verfis & valde diftantibus ; idque tum per particu- lam ad y
ut cum dico, ita fe habere fcientiam ad ea , quas fciuntur, ut fe habet fenfus
ad ea , quas fentiun- tur ; tum per particulam in , ut cum dico , ita eile
mntem in anima, ut eft vifus in oculo. CA+ i \ DE LOCIS PROBLEMATIS, ET PROPOSITIONIS. QUINAM SUNT LOCI PROBLEMATIS ?
#. A D locos ventum eft ; quod ordine tertium JlX facimus, fed natura princeps
eft Topico- rum argumentum * Loci igitur Problematis fumun- tur ab ejus
praedicato . Praedicatum autem fpeCtari po- *eft, vel ut prima notio, vel ut
fecunda.. Ut prima notio, dividitur per decem Categorias, ut aliud fit Problema
fubftantiae, aliud quantitatis, aliud quali- tatis , &c. Sed hac ratione
non pertinet ad Dialecti- cum* Ut notio fecunda, dividitur in genus , defini-
tionem , proprium , & accidens : atque hi quidem funt principes loci
Dialectici , qui recenfentur ab Arifto- tele in 1 * i.Topic.c. 4. Nam quidquid
alicui rei tri- buitur, vel eft aliquid communius, & dicitur genus \ vel
eft aliquid ex aequo refpondens , & dicitur defi- nitio ; vel eft affeCtio
neceflaria, & dicitur proprium ; vel eft affeCtio communis, & dicitur
accidens . Hinc problemata DialeCtica quatuor , generis , definitionis ,
proprii y accidentis . N Quod - \ Quoties igitur quaero quid iit aliquid, qua/e
, quan- tum , &c, problema phyficum eft. Aliiajunt, decem Catego- rias
conftituere fubjeftum problematis ' a genere autem , de- finitione ) proprio ,
& sf eidem t fumi prxdicatum * ij4 .
Quodnam eft Problema Definitionis ? Problema Definitionis , ut etiam aliorum
loco- rum , vel expreflum eft , vel tacitum : expreflum eft . fi quaeram ex*
gr. utrum habitus rationi confentaneus fit virtutis definitio , necne : tacitum
eft > fi ita quaeram > utrum virtus fit habitus rationi confentaneus ,
necne . Ad problema
definitionis revocat Ariftoteles quaeftionem, utrum fit idem , an diverjum .
Nam hoc nihil eft a- liud, quam quaerere, utrum eadem definitione compre-
hendatur > an diverfia. Quodnam eft problema Generis ? \ Problema Generis
eft , cum quaero , utrum prae- dicatum conveniat fubje&o tamquam commune
ali- quid ad eflentiam & naturam pertinens . Illa quoque ad problema Generis referuntur , quo in
Genere fit ali- quid y & utrum duo quapiam fint in eodem , an diverf*
genere. Quanam funt problemata Proprii , it Accidentis \ Proprii problema eft ,
cum quaeritur , Utrum prae- dicatum conveniat fubjefto tamquam propria
affe&io ; Accidentis , cum quaeritur , utrum conveniat tam- quam
afle&io communis . Ad Accidentis problema refert Ariftoteles comparationem
quamlibet , utrum ex duobus fit utilius , utrum fit jucundius , utrum honeftius
Cur t . *9f Cur non memorat Ariflotcles
problema fpechui l Speciem non memorat, quia fpecies eft id, de quo quaeritur ,
ideoque fubje&um qua?ftionis confli- tuit : problemata autem fumuntur &
nominantur a praedicato ( 2 ) Cur non
memorat problema differenti* ? * rju Quia differentia , fi generis eft ,
refertur ad ge- nus ; fin autem fpeciei eft , vel eft pars ipfius effentiar,
qua ratione ad definitionem pertinet ; vel eft congeries quaedam affettionum ,
quae fimul con- proprium aliquid efficiunt ; ideoque problema proprii
conftituit Quinam funt hei Vropcfitionh
i I. Cum omnis Propofitio referatur ad problema folvendum, idem eft quaerere
locos propofitionum , atque argumentorum ad folvendum problema Por- ro autem iifdem locis % problema
folvitur , quibus N a con- ( 2 ) Si quaeras utram fpecies aliqua fubjiciatur
generi , vel cui generi fubjiciatur , v. gr. utrum homo fit fpeetet ani- malis
; qtueftio generis eft Incidit enim ia
illam , utrum animal fit &enut bminit , t9 g . conftituitur , genere ,
definitione , proprio , acciden- te. {*,) CA- * i V ( 1 HaQenus fideliter exprimo Ariftoteli*
libro. Iniis ouse fequentur, aliquanto liberius verfati fumus , ut Ari-
flotelicam doirinam per reliquos libros fufam , in pauca co- geremus. 1 DE LOCO GENERIS. Quid G cruris nomine
intelligitur ? T T Ic Generis nomine intelligitur quidquid to- X X tius
rationem habet ; cui refpondet quidquid habet rationem partis . Et quia totum
vel eft aliquid Logicum, ut diximus in Rudimentis Par. i. cap. 6 . quod partes
habet fibi fubjeftas; vel Phyficum, quod partes habet, ex quibus re ipfa
componitur; ex utro- que argumenta fumuntur , tamquam a loco Generis . Attamen
proprie Genus dicitur totum Logicum , cui refpondent fpecies & individua
tamquam partes . Et in hoc quidem fpecies non differt ab individuo , fed
utrumque fignificat aliquid Generi fubjedum , veluti partem ejus. Quod fi a
fpecie tamquam a fuperlori ar- gumentum ducatur , tum fpecies induic rationem
Ge- neris, & argumentum a Genere dicitur. ( ij Quomodo fumantur argumenta ex toto * Logico ?
Valet hic locus, qui proprie dicitur a genere , ad refellendum; regiturque hoc
axiomate: Sublato ge- nere , tollitur quidquid generi [abjicitur . Verbigr. Si
non N 3 ejl ( i ) Hinc apparet, cur Ariftoteles non pofuerit locum Jpe* citi :
qua de re tam multa divinant ejus Interpretes. . eft virtus , neque prudentia
eft , neque juftitia , neque tempe - * tantia , neque fortitudo . In
confirmando non valet, nifi quatenus pofito genere , ponitur aliquid ex iis ,
quae ge- nere continentur : ut fi dicam, Virtus eft; ergo vel pru- dentia , vel
juftitia , vel temperantia , vel fortitudo
Nul- la tamen ex his per fe fola concludi poteft . Quod fi non a genere
ipfo , fed ab iis , quae genus neceflario confe- quuntur, argumenta ducere
velimus ; omnino valet difputatio, tum ajendo, tum negando. Ex.gr. Virtus eft
laudanda \ ergo tum prudentia , tum juftitia , tum tem- perantia , tum
fortitudo laudari debent : Virtus reprehen- di non poteft ; ergo nec prudentia
9 nec juftitia , nec tempe- rantia , nec fortitudo . Laudari enim , & non
reprehendi funt confequentia quaedam virtutis . Ex partibus Logicis quomodo
difputatur ? f % * R. Si ex formis ad genus progrediamur , argu- mentatio in
confirmando valet , in refellendo non i- tem . Nam pofita parte aliqua generis
, ponitur genus ; fub- . lata, non tollitur. Ita fi dicam, juftitia eft , ergo
virtus eft , re&e difputo : non tamen re I. Vofito toto Pbyfico , ponuntur
partes omnes: ut fi eft: homo , confiat mente , & corpore . At fublato toto
, non Jlatim tolluntur partes . Nam pereunte homine , pars ejus potiffima non
perit. Id vero locum habet non mo- do in totis naturalibus, fed etiam in
arcefadis. Itaque pofita domo, ponitur fundamentum , paries , & te- dum :
ac ea everla , non necefte eft , everti partes omnes . (1 N 4 Quo- (3) Ad hunc
locum pertinet illud Virgilii 4.. AELneid. verf. 534. ubi Dido, exclufis
omnibus doloris fui remediis prster mortem , demum concludit ; Quin morere y ut
merita et ferro que averte delerem , (4)
Videndum tamen , ne pars aliqua omittatur, quod fa- cile contingit. Nam fiquis
verbigr. contendat , mortem non cflfe malum, ut eft apud Ciceronem Tufcul. 1.
quod neque morituris malum fit , quia nondum eft j neque mortuis, quia amplius
non eft; incidit in fallaciam partis ornifTs : fiquidem mors malum eft
morientibus . (5) Id accidit, quia partes Phyfics in rei cujuslibetcon-
ftitutione vel primaria funt , fine quibus nec efle res , nec 1 nominari poteft
; vel funt fecundari a , qus ad eam abfolven- dam & perficiendam valent .
Rurfus alis funt cognats , h. e. ejufdem generis & nominis, qus Grsca voce
bomogenea 1 dici folent alis generis fir nominis diverfi , qus beteroge nex vocantur. Utramque hanc differentiam qui
non relete- fi- . ( 1 ) Quidam ad locum Accidenti* referunt Oppofita , p*+ ria
, fimi lia , conjugata 9 effetta^ &c. Sed hae notas qua- dam funt , quas
per omnes locos vagantur ad diftinguendas propofitiones a propofitionibus ,
& argumenta ab argumen- tis . Rhetores prsefertim locos appellant , deque
iis inulta praecipiunt. a6 T ARS IV C
APUT IX. ftgnum neeeffarium , Jignum commune . Sunt autem loci illi communes
omnibus generibus ; fed fingnla genera proprios habent locos; Judiciale juftum
& injuftum ; De- liberativum utile 6 inutile \ Exornati vum boneftum
inboneftum . Ciceronem lib.i. de Orat. c. 31. Porro hl funtloci argumentorum
infitorum . Nam qua; etlexvx Greci vocant , hoc eft ab arte remota (3 ajjumta ,
non debent inveniri ab Oratore . Antonius apud Cic. lib. 2. de Orat. c. 27. Ad
proban- dum duplex eft Oratori fubjeda materier
una rerum earum , qua non excogitantur ab Oratore , fed tradantur , ut
tabula > teftimonia ( 3 c. altera ejt j qua tota in difputatione , t 3 argu-
mentatione Oratorit collocata eft . Ita in fuperiore genere de tradandit
argumentis , in hoc autem etiam de invenienda cogitandum eft. DE SOPHISTICIS. DE NOMINE, ET NATURA ELENCHI
SOPHISTICI. QV1D EST ELENCHVi? JJL "C St Syllogifmus , qui arguit
enunciatum ali- JL-/ quod , eique contrarium concludit . ( i ) Quid eft
'Elenchus Sophifticus 1 Jft. Eft Syllogifmus fallax , oppofitus Dialettico ,
Grae- ce : fitque vel ex iis, quae probabilia vi- dentur , fed non funt ; vel
ex iis , quae probabilia funt , fed praeter leges fyllogifticas componuntur . Pri- mo modo dicitur peccare maneria , altero forma .
Quamquam is , cujus forma deficit , & ad concluden- dum ( i ) Ducitur a
Grzco iKsyy t trgme . Itaque condici- tur uti Elenchis, nifi qui difputat
adverfus aliquem, Sc ra- tiocinando difputat, ut colligitur ex Ariftotele lib.
a, Prior, cap, zo. TARSVCAPVTL dura
inepta eft, proprie neque Syllogifmus , neque E* lenchus dici debet , fed
Paralogifmus . Cur dicitur Sophiflicus? lg. Quia Sophiftac videri malebant
fapientes , quam efle, ut fcribit Ariftoteles cap. i. hujus libri: ideoque per
ea difputabant, quibus fallerent, (a) Jjifftrtne Elenchus Sophiflicus a
Contentio fi? Differt fine & inftituto, non re. Nam Conten - tbfi illi
dicebantur uti , qui oftentationis caufla difpu- tabant , & viftoriae gloriolam
quarrebant ; Sophiflico autem , qui ex difputatione quaeftum aucupaban- tur. * In quo differt ah Apatetico? R. Syllogifmus
Apateticus , feu Pfiudograpbus ( nam utroque modo vocatur ab Ariftotele ) fit
ex falfis , fed propriis ejus difciplinar, in qua difputatur . Itaque op- po-
{%) Dicitur etiam Sophisma : quamquam SopHfma eft quae- libet cavillatio ,
quocumque modo fiat . Nomina Graeca funr , quia res ipfa apud Romanos non valde
in ulu erat , ideo- que nominibus Latinis carebat , ut fcribit Seneca epift, 1
1 1. Haec fumfi ex Elenchis Ariftotelis
cap. 11. Attamen etiam oftentatio Soph iftam facit , Si Ciceroni credimus, qui
ita fcribit in Academ. 4. cap. 23. Sophi fla appellantur ii , f ui
cfientationis , aut quaflus caujfa pbilofopbamur , Digitized by Google PARS V.
CAPUT I. Z09 ponitur demonftrationi . Sophiflicus fit ex commu- nibus, & opponitur
epichiremati . Cur de Elenchis Sophifticls agit Diale&icus ? * Ut viam
& rationem fibi comparet , qua poffit Sophitis refiftere. Nam, ut feri bit
Quintilianus lib. I2.1nftit. c. 1 .Remedia melius adhibebit
, cui nota , qua nocent , fuerint . ) Clemens Alexan. !ib.6. Strom.cap. io.jfy/ , yxV V/ J/x-
XsxTfxV , fi' r.xTxTxr&eStu vtfot nuv troQicZv riv Didi fllca vallum e fi ,
/ veritae aSopbiftit conculcetur . Nam
ut feribit Cicero in Acad. 4. c. l 5. Fallacibus it capti t/it inter-
rogationibus circumfcripti atque decepti quidam , cum eat dtp folvere moti
pejfvn : , defeifeunta veritate . Primus autem omnium fuit Protagoras
Abderites, quiconfulto adhibuit Sophifticos elenchos, & per eos ad fallendum
difputavit $ ut feribit Sui- das , dc Diogenes Laertius in ejus vita. 2X0 . - -
% *
* * 4 DE FALLACIIS VOCUM, f . .
UNDE SUMUNTUR ELENCHI SOPHISTICI ? i | * M * t I , * #v ITA Uo fdnt eorum fumma genera ; alterum
JL/ verfatur in voce , alterum in re In
voce fex poliunt efle fallacias x lu re feptem
* * i * - ' , # , ' 4 , 4 r * * -***. * - r I Tres pertinent ad vocem unam ac
fimplicen*, accentus , diftionis , 6* bomonymia : tres autem ad voces plure?s
limul compolitas , amphibolia , compofitio , & divifio Quanam efi fallacia accentus? Accentus
fallacia valet prasfertim apud Grar- cos, quorum vocabula, variato accentu ,
aut fpiritu , mirum in modum variantur* Apud Latinos fallacia haec ex
fyllabarum quantitate ducitur Hoc modo
lud e bat Nero ( ut efl apud Sueton. in ejus vita* cap. ,33. ) cum ajebat ,
Claudium defiifle inter homines tno- r ii 11 1 Digitized by Google V ARS V.
CAPUT II. mi morari Nam moror prima
fyllaba correpta, figniiicat manere ; produfta , fignificat infanire . ( i ) Quaertam
eft fallacia figurae diftionh ? Cum quis
fimili politione deceptus, eafdemYO- cabulis diverfis affe&iones tribuit .
Hinc Ariftotelesait , Sophiftas interdum fpe&are foloecifmos . ( z ) Quid
efl homonymia ? $. Eft ambiguitas orta vel ex
neceflitate , .vel ex infcitia , vel ex fraude ejus, qui uno verbo plura fi-
gnificat . ( 3 ) O 2 Quo- i -( i ) Ad hanc fallaciam
pertinet prnnunciandi vitium , cum conjun&a feparantur , aut feparata
conjunguntur; quo fit, ut varietur accentus . Hujus generis eft illud
Capitolini in M. Antonino Philofopho ca p- 29 ^Crimini ei datum tfl , quod adulteror
uxoris promoverit , inter quot Tertullum
Huic al- ludens Mimus in theatro , ipfo fpe&ante Antonino , fcifci*
tatus a fervo eft , auifnam eflet uxoris fu* adulter . Cum is refpondiflet ,
Tuitur , T 'ullus y Tullur ; & adhuc Mimus querendo pergeret , tum fervus
quafi fubiratus , nonne di- xi ( inquit ) ter Tullur ? Duo poftrema verba eodem
ac- cenru & pronunciandi modo conjun&a efficiunt nomen a- dulteri . Per
hanc fallaciam ludebat Diogenes Cynicus , cum Euclydis Diale&ici fed alienis commodati f que , 2 I 2 P ARS V.
CAPUT II. * . Quotuplex e fi bomonymia ? % $. Duplex. Nam vox interdum res
plures fignifi- cat nulla fibi proportione refpondentes ; ex. gr.fi fidus
latrare dicas,- quod fidus quoddam canis vocetur Interdum vox pluribus rebus
tribuitur analogia & pro- portione quadam ; cujufmodi funt metaphorae omnes
> ut cum caput defummo diverfarum rerum faftigio di- citur ; & ex hac
fimilitudine fallaces ducuntur elenchi . - Quid cfi amphibolia ? J. Eft
fallacia, quae oritur ex conjuntione ambigua multarum vocum, quarum fingulae
ipfae per fe ambi- guitate carent. Hujufmodi eft Apollinis oraculum , Pyrrho
redditum , quod refertur a Cicerone lib. a. de Divinat, cap. 56.de a
Quintiliano lib. 7. cap. 10. Ajo te y sEacida , Romanos vincere pojfe Cafus fimiles faciunt, ut non magis in
Pyrrhum va- leat , quam in Romanos r QuidHujus homonymis habemus exemplum apud
Cicero- nem de Fato cap. 3. in Daphita, qui praecipitatus eft ex ru- pe , quae
vocabatur Equur , quemadmodum illi ab Apolline Delphico per ambiguam hanc vocem
prainunciatum fuerat . Q*id enim , inquit, fi Vapbita fatum fuit , ex equo
cadere y atque ita perire ? Ex bocne equo , qui cum equus non effet , nomen habebat
alienum? Exempla paflim occurrunt apud Oratores
& Poetas . Sed funt apud Philofophos quoque. Nam per ambiguamin- finiti
fignificationera peccafte MelifTum in argumentando 9 oftendit Ariftoteles Phyf.
lib. 1. cap. 3. Alia exempla habes
ibidem apud Ciceronem & Quin- tilianum ; itemque in lib. 1. ad Herennium
cap. 12. Porro i- ftiufmodi Oracula ancipiti errore involuta urbane irridet Lu-
cianus in Jove confutato PARS V. CAPVT
II. **3 Quid e fi compofitio ? Ij. Eft fallacia, qua: oritur ex conjunftione
earum vocum & notionum, quae refte intelligi nequeunt , nifi disjungantur:
ut fiquis dicat, fedentem non pojfefta - re . Nam fedens fedendo non poteft
ftare ; at fi fo- dere definat, ftare poterit. Quid e fi divifio ? Eft fallacia , quas ea
dividit , quas dividenda non funt : ut liquis dicat , quinque effie numerum
parem , & imparem , quod quinque fint duo , & tria ) duo au- tem fint
paria, tria imparia. (8 ) O 3 CA- Hac
fallacia peccaret , fiquis contenderet , neque cas- cos videre, neque claudos
ambulare, neque furdos audire/ ac proinde reprehenderet, quod eft apud Lucam
cap. 7. C(ci vident^ tUmdi ambulant , fardi audiunt . Scilicet caeci vident ,
cum delinunt efte caeci, 3 cc. (8) Fallacia haec a Scholafticis dicitur fenfut
divifi , fu- perior ftnjut comptfiti . Huc revocari poteft illa Zenonis (ut eft
apud Ariftotelem Phyfic. lib.7.cap. 5.) qua contendebat , fingula milii grana
in terram dejeda ftrepitum edere, quod edat milii modiusuno impetu effuftu. Digilized by Google p u T III
C A ' DE FALLACIIS RERUM. . R. 'O Opliiftarum finis vel remotus eft, vel proxi- O
mus. Remotus eft duplex,
de quo initiodi- ximus , quteflus , Sc visoria. Proximus eft in rebus, vel in
fermone . In rebus funt pugnantia , falfa , pa- radoxa ; in fermone foloecifmus
, & battologia . Sophifta igitur eo fpeftat , ut compellat eos , quibufcum
di- fputat , ad concedenda modo pugnantia , modo falfa , modo paradoxa .
Interdum etiam eos compellit ad foloecifmum & battologiam , ut opinionem
fcientix & e- legantias ftbi comparet
\ * Quid eft Varadcxum ? 1 - - R.
Paradoxum ( *p iV ) eft id , quod re- pugnat communi opinioni , quemadmodum
falfum re- pu- ( i) Exemplum battologi* poteft efle illud Gracchi apud Gel-
lium lib, II. c. 13 . Qua vos cupide per bofce armos appetiflis atque volui fti
s , ea fi temere repudiaretis , aiejfe non poteft * quin aut olitn cupide
appetijfe , aut nunc temere repudiaffe di- camini. Vides, id quod antecedit ,
& quod confequitur , efle idem. . pugnat veritati . Itaque Paradoxum poteft
efle ve- rum, quamvis nUn appareat. Immo
Socratica omnia dicuntur longe veriffima a Cicerone in ipfo Parado- xorum
initio. (2) Sophiftas tamen non laborant, ut- 'rum paradoxa vera fint, an
falfa' , modo admiratio- nem moveant ( $
) CA- ( 2 ) Arrianus de Sermon. Epiteli lib. 2 . cap. i. & 25. Pa- radoxa
dicit efle illa, qua; Tolis Sapientibus videntur vera. A Cicerone vocantwr
Mirabilis in 4 # Academ. cap. 44. & Admirabilia in Paradox. cap. 1. ( l )
Itaque Clemens Alexandr.l. i.Strom. p.m. 289. finem Sophifl* vocat tiV mxvKiZ
fluportm. / - x 2ZI DE SOLUTIONE VERA, ET FUCATA ELENCHI SOPHISTICI . . QUOMODO
SOLVENDVS EST ELENCHUS SOPHIS TICUS? *
ft R. OUm Elenchus Sophifticus
peccet vel forma, quia non re&e concludit , vel materia , quae fucata eft ;
utramque confiderare oportet . Si peccet forma , neganda conclufio eft : fi
materia , diftinguere oportet pronunciatum; & oftendere, quatenus verunl
fit, & quatenus falfum. Poteflne umquam adhiberi folutio fucata ? R.
Solutio fucata non folum adhiberi poteft , fed interdum etiam verae ac folidse
praeferenda eft , fi cum iis difputemus, quos redarguere praeftat, quam doce-
re. Quemadmodum enim contentiofa quaedam ingenia funt, quae nihil aliud
qua-runt, quam redarguendi glo- riolam ; ita qui contra difputat , non tam
curare de- bet, ne redarguatur, quam ne redargui videatur. Do- lus , an virtus
, quis in hofte requirat ? ( i ) &u qpodgft- nutdraci oerspsv vocant ,
Latine id non n : mif inco*ntnode in- explicabile dici poteft , Vide Ciceronem
1 . 2. de Divin,c.4. &c Acad,4. c. 16. & 29, C A P VI fane '* Digitized
by Google ajunt procedente Jermone
oportere infiftere & fuftinere fe , ne incidant in abfurdum . (3) Vide
Acroafim noftram deTfeudemeno . Nam res eft ejufmodi , ut paucis verbis
explicari non poftit . Hinc certe apparet, locum Cireronis in Acad. 4. c. 29.
ita legendum ef- fe; Site mentiri dicis j idque verum dicit , te mentiri : ve-
rum dicis . Vel tria poftrema verba ita funt legenda : men- tiris , verum
dicit. Vel it a: mentiendo verum dicit , Si poftrema hzc leQh> retinenda ftt
, oportebit Sophifmaita ef- ferre : Si, dum verum dicis , te mentiri dicis ,
mentiendo ve- rum dicis i dum autem verum dicis , te mentiri dicit i men-
tiendo igitur verum dicis . Digitized by Google VARS V. CAVVT Vh Si fatum tibi
e fi , ex hoc morbo convalefcere , five medicum adhibueris , five non ,
convalejces : item , fi fatum tibi e fi , ex hoc morbo non convalefcece , five
medicum adhibueris , five non , ac# convalefces : at alterutrum fatum eft :
medicum ergo adhibere nihil attinet
Siquid interrogatio ifta vale- ret , omnis e vita tolleretur a&io .
Sed refpondendum eft , in fola divina mente , quae futura omnia fibi prae-
fentia videt , res ede fatales , & modos earum confa- tales . Alterutrum
igitur , quod rogatur , procul dubio futurum eft ; quamvis nec modus agendi
& cognofcen- di nofter , nec ipfa rei natura patiatur , ut fit necefla-
rium , & poflit definiri , antequam fit . Ejufdem ordinis fallacia eft
"Dominans ratio 9 de qua Arrianus de Serm. Epite&. L 2. cap. 19. Per
hanc colligebant > fatum in rebus omnibus dominari * unde illi nomen
fortafie eft. Ejufdem item eft ordinis Uie ens ^ Graece > unde efficiebant 9
nullam mejfit curam efle fufeipiendam 9 quae fata- libus cauflis regeretur.
Vide Acroafim noftramde Ignava ra* ticne : ubi tota ha;c controverfia 9 qu* de
Futuris eontin* gentibus vulgo dici folet , abunde explicatur . F 1 $1 1 s. INDEX RERUM, ET VERBORUM. A Cademicorum
fcientia p. 141. Accentus fallacia 210. Accidens , vox Scholaftica 40 Ufurpatur
a Seneca 1 6 . Quid & quotuplex fit 99. & feq. & 54. Qua ra- tione
dicatur univerfale 41. Quomodo fit in fubje- &o , & dicatur de
fubje&o 49. Ejus locus in arte Topica 205. Ejus problema 194. Ejus fallacia
214. A&io quid & quotuplex fit 73. Ejus proprietates 74. sEquivoca vox
Scholaftica 46. Agonifma 182. Alcibiades, Ajax, Achilles num magnanimi 167,
Altcratio vox Scholaftica 82. Ambigua 4$. Quomodo diftinguantur 190. Amphibolia
qua; . Anacharfis mj, Analyfis quid fit , & quotuplex 85. vox Geometri- -
ca. 91 Analyticis libris continentur principia totius Peripate- ticae
Philofophiae . " 8JL Analytici libri quomodo dividantur 90. cur dicantur
Priores, & Pofteriores ibid. Eorum finis. 91. P Ana- t*6 I 2 \? D E X Anaxagoras fapiens , non
prudens i^, Animalium gradus in
cognofcendo ioi. 102, Anteprsedicamenta quae 41 - & 5 C. Antoninus
Philofophus irrifus a Mimo per fallaciam 211 * Apparatus ad copiam
difputationis quomodo fiat *>9. Archytas Tarentinus num auCtor Iit
Categoriarum 51. & $2. Auctoritas quem habeat ttfbm in probando 109 i to.
Axioma quid fit, & quomodo differat ab aliis principiis. Cur Axiomata
dicantur communia 1 ' : : . : . ; B **..
* * %
* * * ' Bellum generis rationem lubet , tumultus
fpeciei . hibeatur in definiendo &
dexnonfirando 161. Sc t feq. Cauffa remota quanti valeat 124* 125. Caufla una
multorum effectuum 172, Parit fallaciam 116 4 * Ison caufla pro caufla ialiacia
efl - . . * Ci- RERUM , ET VERBORUM . Uj Cicero Stoicos audivit , & Stoicus
eft 87. Circulus in argumentando quinam fit rifi. & feq. Ejus conditiones
a8. Cleanthes & Chryfippus principes feholae Stoicae 98, Cognominata 4$.
Compofitio Epicurea fj. Comet* non funt caufl rerum 2it. Compolitionis fallacia
. Comprehenfio quid fit apud Stoicos 1 & 147. Conclufio ex probabili quam
firma fit' . 183. Conjugata quarnam fint
. 4 6, Confequens quid fit x 89 Gonfequentia quid 89. Confequentis
fallacia 21$. Contiguum quid 60. Continuum quid 60. Contradicentia qua; ,
. 7 . : 0. Contraria quae 77; Contrariorum conditiones 78. & feq. Corporalia
& incorporalia apud $tokos 86. Corpus quid ii* & 6. Corvi albi , * 40.
Cynici in propatulo coibant a 15. D D Aphita deceptus ab Oraculo per fallaciam
21 a. Definitio quid & quotuplex 99. & 164. Eli me- dium
demonftrationis i t 7 Ipfe non demonftratur - nec demonftrat , ibid. &
likNurofit modus fcien- di ibid. Quinam fint definitionis loci' 1 66. &
feq. Quae capiant definitionem 172. & feq. Quomodo P 2 de- Digitized by
Google li% 1 'K D E X . definitio adhibeatur iu Topicis 194* 2C>J * Demo
nftrare. quid fit 9 Demonftratio quid m. Demonftratio in orbem x *.
Demonftratio Stoica J 45 Demonftrationis praemifla? quibus conditionibus prae-
dita? m. & feq. Demonftrationis neceffitas 1 14* Demonftrationis exempla
iai. & feq. Demonftra- . tinnis materia & medium jj 7. Demonftratio a
priori , & a poficriori 123. & feq. Ex quibus fiat 1 19. 120. Deus quid
fit 5^. Num collocetur in Categoria fub- ftantiae 55. Definiri non poteft.
ibid. Quomodo fit in loco , y 7 5 m Dialedica quid fit apud Stoicosic Platonicos
13. & 15^ Dialedicus per excellentiam Dici de omni > 1 i? Didi non
fimpliciter fallacia **5 Differentia quid & quotuplex H- & feq. Dividit
& conftituit 35. Differentia propria una efle videtur 36. Ejus magna eft
ignoratio, ibid. & 17* Differentia quomodo inveftigetur 19* Differre fpecie
& Differre numero a 4.15. & 34 Diogenes m* Difparata qua; fint - !$
Difpofitio quid fit Diverfa qua; dicantur 1^* Divifio fervit definitioni 1 j 8.
Divifionis fallacia 2 1 3* Divifiones vocum & rerum 4 47 Dubitatio quid
fit> & quando adhibenda 107. & feq. RERVM , ET VERBORUM. 2 )^ E
FfeAa quomodo cognofcantur . . Efficiens fola vera cauffaeft . Elenchus
Sophiflicus quid fit *o 7 . A quo primum adhibitus ao9 v Quomodo differat ab
elencho con- tentiofo , & apatetico ao8. Cur de eo difputetur ao 9 . Unde
fumatur zro. Elenchi Sophiftici finis *o8. a 19. Ejus folutio vera, &
fucata **i & feq. Entia rationis , . Epichirema quid fit * * f |
Epicureorum fcientia& demonftratio 14*. & feq Epicurus non contemfit
Dialedicam a*. Admifit no- tionem Deorum a natura impreffam 9 6 .hen> p Z
notiones aliarum rerum fenfibus comparatas Euclides Dialedicus irrifus per
fallaciam * >JO I ' M J D E X G / G Enus quid fit 2
3. 19 7. Perperam definitur a Scho- lafiicis 24. Quotuplex ay. & feq. '
Interdum pro fpecie ufurpatur atf. Quam pr*dtcationerrt ca- piat 44. Generum
differentiae 49. Sc feq. A gene- re quomodo fumantur argumenta* 198. ic feq.
Ge- neris problema Generum differenti & $0, Gracchi battologia . 19. H H
Abire quot inodis dicatur -8 a. dt feq. Habitus quid fit 66, & yy. Homonyma qur 4 6.
Homonymia quid & quotuple* fit ' atr *ra. Hypothefis quid fit % % I Deae Platonicas quid 19* 6c
feq. Ideas innatas cur a Platone admifl
102. 128. Ideas quomodo a * Platone probentur * 4 V * " ^ - Ignava ratio quid fit - Ignorantia quid & : ;quotuplex " .
Individuationis principium : 30. Individuum quid & iquotuptex fit Ejus
necas v. ,ibid. -?*> y * Indubio
fervit definitioni 154, Ejus^prmcijtia^ ior
Inexplicabilia qua: ,v 0 o> Interrogationis geminat fallacia juxjjlu
sfc ^ Leib- J IERVM, ET VERBORVM, aji .
l L 1 . 1 1 J Eibnitii demonflratio . .. . A Isi. Line quid fit 6 1, Refla ,
& curva non finit . . contraria. - ; . i.' r; : . 1 4
M ' . * * f M Agnanimitas quid fit -: * 6 j,t 6 t* Materia , & Materi*
neceffitas caufTa eft j 6 Medium demonfirationis 177 . Quomodo Latine vo- cetur
jf8. Medium folvend* quxfiionis quodnam fit 17 6. & feq. Metens , qu*nam
fit argumentatio . . 224. Momentum quid fit
& diffe- rentiae cur non fif
- 195* Pro- 79. & 8o # 79. & A i 134
rvN-0 B X . / Propofitio quid apud ArittotelCm 188. Unde furnax r i . tur pf
opofitioncs ; 184: 190. 141* 195. Proprium quid & quotuplex 37. Proprium
hominis quid fit 39. Locus proprii in arte Topica 104. Ejus problema ' : ;;
194. Protagoras Abderites .209. Pfeudomenos 23* Pfeudographus fyllogifmus 208.
Pun&um quid fit > . 6 1. Pyrrhus deceptus ab Oraculo per fallaciam 212 r
1 - ^ V- r# ^ * Uaeftio omnis ad Logicam pertinet - - i>4.
^Quaeftio quid & quotuplex ' ' i r
*. i. * R Arum & denfum num fpecies fint qualitatis 62 . :* ; : * :* > . Regreffus quid fit ii$. & feq.
Regulae Antepntdicamentorum > . r
* ; 58* Superficies quid fit , &
quomodo gignatur 61, Syllogifmi principia r ; . f r fOk' Syllogifmus
Dialefticus quinam fit > v 1 .-r8a#.. Synonyma quae 46. Sola habent locum in
Categoriis 4 *. * r .. 0
% * | 1 > >f, .i 't } V >
* r .1^1 J ci- / ' ' . . - 0 ,1 %
... n * l V ,\ol. , j '*' *t* inal r;* i
c * * <+* * # t . 't 3 1 i - ) r
-*A < V JU 0 ' IY i , <* f.
* * RERUM, ET FERRORUM. 237 T Empus 6 i. & feq. f Termini reciproci X
Termini reciproci 1*7. Thales fapiens, non prudens 153. Themiftius optimus
Analyticorum interpres 94. Thefis 98. 187. Topica conjungenda cum Elenchis
fophifticis 179.' Unde dicantur; quas fit eorum materia , qui finis 180. Topicx
difputationis inftrumentum 181. Topica Rhetorica quomodo differant a
Dialefticis 205. Totum Logicum , & totum Phyficum quomodo ad- hibeantur in
argumentando 197. & feq. Tranfcendentia quar dicantur 73. Tumultus fpecies belli 198. U Bi 75.
Velleji Epicurei fallacia 214. Verifimile 184. Veritas odium parere dicitur per
fallaciam a 16. Vifum apd Stoicos & Epicureos quid fit 96.97.98. Univerfale
qnid & quotuplex 18. Univerfale Peri- pateticum 19. De Univerfali cur
agatur in Logi- ca e a;8 INDEX ea 20. De illo mulca Scholaftici 22. Sola
Univerfa- lia fcientiam capiunt 148. Sola capiunt definitionem * 7 3 Vniverfe primum quid fignificet Ilff. &
feq. "Univoca quomodo Latine dicantur Voces quomodo dividantif 4 *. 47 - z
Enonis fallacia Zenonis fcientia *?
FINIS. Facciolati. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Facciolati,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Faccioli – il deutero-esperanto – da Harborne a Villa Franca – la
scuola di Villa Franca – il villa-francese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Venezia,
Veneto. Albani IL VENETO COME LINGUA
UNIVERSALE. Il sogno di una lingua universale, cioè di una lingua ausiliaria
parlata da tutti gl’uomini della terra, non è mai svanito. Periodicamente
ricompare, nelle forme più strane, vagheggiato spesso da paladini di utopie in
pensione o da linguisti della domenica. Alcuni anni fa questo sogno ha
attraversato la vita di F.. Di F. non sappiamo nulla, se non che, sotto il
cielo di Volpare, un sobborgo di Villafranca di Verona, elabora un progetto
di lingua universale basato sul dialetto
veneto, il «dialeto più simile al latin, più breve di esto e d’on’i lingua
sorela. – Grice: “I tried to construct my Deutero-Esperanto according to the
grammatical idiosyncrasies of the vernacular of my native Harborne, in
Staffordshire, to no avail! Not even my mother (who was from Warwickshire) could understand it!”
--. Secondo la “teoria scientifica della parola” di F. la
parola vera è quella che meglio ritrae l’armonia imitativa e il senso interno
delle cose e la lingua "milior" è quella più in armonia con le leggi
dell’arte e del pensiero. Una lingua non è un’invenzione arbitraria, ma una
creazione dello spirito umano che apprende con facilità quello che è vero
secondo la logica o la filosofia del linguaggio. La lingua universale
dev’essere la lingua più logicamente vera, la più adatta all’arte oratoria e letteraria.
Dev’essere semplice e viva, nata dalla lingua morta migliore, cioè il latino di
CICERONE (morto), e non del Papa! --, corretta secondo i princìpi fondamentali
dell’idioma naturale, abbellita, sostenuta dal pensiero forte degli scrittori
(vale dire, filosofi) abili. Il dialetto veneto - ben parlato, pulito,
ingentilito, senza doppie, con troncamento delle parole che rende poetico,
vivace e robusto un idioma, oltre che telegrafico per la soppressione quasi
completa dell’articolo - si presta perfettamente al compito di lingua
universale. Ed e anche operatico (La Fenice!). F. stampa una serie di
periodici, intitolati “Lingua de nazioni e la lingua universale,” per
propangandare l’italiano moderno, cioè il suo “italiano-veneto”. In un opuscolo
stampato idall’Editrice “Estremo Oriente” di Villafranca di Verona e conservato
nel Fondo Bruno Migliorini presso la Crusca a Firenze, F. annuncia «il più
grande avvenimento filosofico de’tutti i tempi dopo la distruzione di Babele –
che mai ha essistito --, ovvero la nascita della vera lingua universale, la cui
culla è il mio veneto, e propriamente il vernacolare di Villafranca dove si
parla il più musicale e semplice dialetto italiano. I fondamenti dell’Italiano
moderno sono tutti razionali. Quante unità di suono, tante unità di segno. Per solo suono, solo segno.A
suono eguale, segno eguale – cf. Grice on the annoyance of perceiving some
idiolect-ers pronouncing ‘suit’ when they mean ‘soot’ and vice versa (‘Studies
in the Way of Words’). L’alfabeto della lingua universale è costituito da
XXII lettere: a, be, che, de, e, fe, ge,
ce, i, le, me, ne, gne, o, pe, ghe, re,
se, te, u, ve, e ze Il suono,
sempre invariato, si ottiene semplicemente levando la “e” – tanto alto come e
possibile. F. sottolinea che il dialetto veneto non ha “alcun suono aspirato
come in Toscana e altrove, né la doppia”, ma solo suoni “chiari, precisi, ben
definiti -- inconfondibili”. È breve e armonioso come si deduce da questo
esempio. La frase “Sono andato al mercato e ò comperato un paio di buoi” assume la forma abbreviata – sincopatta --:
“Son andà al mercà e ò conprà un par de bo”. Il dialetto veneto di Villa-Franca
ha una grafia perfetta, degna di essere imitata. Troppe ascendenti o
discendenti, segni diacritici, o dis-armonici, come “j” – comune in siciliano
--, “k” – mai usato dai Romani --, “x” – stravaante per Cicerone --, ed “y”, --
deprecativamente chiamata la i reca -- deformano totalmente la grafia “ch’è
scienza e arte pedagogica a servizio della vita – della vita felice, se si
vuole”. F., come Grice, è molto sensibile all’estetica grafica perché essa si
risolve in igiene visiva (“And Faccioli had beautiful handwriting” – Grice). In
caso di omonimi l’italiano moderno adopera l’accento grave per la voce più
forte (fatto fato; fato fàto; mese meze; mezze mèze). Sono omesse la “i” atona
in "cia, cie, cio, ciu, gia, gie, gio, giu”. Società divenne ‘socetà’;
igiene ‘igene’) e la “i” e la “d” eufoniche; è naturale poi che non si scriva
la “g” di "gli" se muta – ‘figlio’ si scrive ‘filio’. Il dialetto veneto di Villa Franca non usa
“passato e tra-passato remoto, il più irregolare e difficile tempo dei verbi
italiani.” Questi due tempi si traducono col passato e trapassato prossimo, o
con una locuzione equivalente, così “nacque” è "nato" oppure “quando
ebbe ricordato” diventa "cuando aveva ricordato". La parte
morfologica -remmo del modo cosedetto condizionale è sostituita dal veneto
-ésimo. Cosi, ‘saremmo’ e ‘avremmo’ si trasformano in ‘saresimo’ ed ‘avresimo’.
Ancora. OGNI vocale forma sillaba (questo: 1 cu- 2 e- 3 sto). L’accento
circonflesso, non esistendo nel Veneto vocale lunga, è abolito. Le
pre-posizioni, articolate con “ll” e “gli” conviene smembrarle: ‘dello’
s’analizza come ‘de + lo’; ‘degli’ come ‘de + li’. Per non dare luogo a errore
o incertezza di pronuncia, nel vocabolario della lingua universale portano
l’accento tutte le sdrucciole e bisdrucciole e le vocali “e” “o” – ma solo
quando sono aperte. Le parole d’altre lingue si pronunciano all’italiana e si
scrivono come suonano, non coem i forestieri le scrivono. ‘Bordeaux’ si
pronuncia e scrive ‘Bordò’. ‘Shakespeare’ si pronuncia e scrive ‘Sèspir.’ Nella
lingua universale da lui inventata, F. scrive lettere a suoi amici di Villa
Franca ed altrove, poesie metrica e con rima, traduzioni di passi biblici,
incluso quale di Babele. Ecco un breve testo in Italiano moderno. La vera
lingua universale è la baze de la hiviltà. Le invenzioni e le scoperte atuali
non consentono più oltre la sciavitù de la parola. Le comunicasioni fra nasione
e nasione – o comune (come Villa Franca) e comune --, ogi ance istantànee
mediante la radio, riciedono una linqua comune, per non dovere ignorare o aver
bizogno di traduzioni. Frequentissima nel Veneto è la terminazione in “l”, “n”,
“r”, pregio che - fa notare F. - conferisce musicalità ‘allo stile della
Fenice’ -- e robustezza alla lingua, così da renderla adatta alla migliore
poesia – attamente messa a musica e cantata alla Fenice. In conclusione F. dichiara che il dialetto
veneto, non come lo parla il popolo innorante, ovviamente, ma come lo deve
parlare un filosofo erudito come lui o Grice (professore di Oxford), vale dire,
lo scienziato della parola, nella sua chiara semplicità e vigorosa bellezza, si
presta “a essere tornito per farne uscire il capolavoro della lingua universale”.
Quest’ultima, una volta affermatasi come lingua LEGALMENTE e obbligatoriamente
UFFICIALE di tutte le nazioni del mondo civilizzato – o al meno dell’unione
europea, cioè fra 400-500 anni, diffonderà nel mondo dei filosofi dotti – come
vuoleva Platone – quella filosofia chi F. – seguendo Kant -- denomina “universalismo”
– cf. Kennan, “The Universality of Conversational Implicature” --, dalla quale
discenderà naturalmente il democratico governo universale dell’avvenire. Perciò
si raccomanda di conservare accuratamente tutti gli “incunaboli” della vera lingua
universale perché nei secoli lontani “saranno ricercati come preziosi cimeli”.
Al termine di questo documento storico” dell’Italiano moderno F. annuncia che
«nel luogo [vale dire, Villafranca], donde è uscita la prima voce nella lingua
universale, è costruita la SEDE o capitale della lingua universale – e non una
isola deserta, come vuoleva Campanella. I nomi di coloro che, per la sua
costruzione, liberamente donano da 1.000 a 10.000 Lire, sono tramandati alla
storia a mezzo delle pubblicazioni documentarie. Quelli che elargino somme
maggiori, hanno inoltre l’onore del marmo nel campidoglio della sede stessa,
destinata certo a divenire “monumento e ricordo presso le età future”». «il Caffè illustrato», Lingue de nazioni e
lingua universale. Nome compiuto: Angelo Faccioli. Faccioli. Keywords:
Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Faccioli,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza --
Grice e Fadio: la ragione conversazionale a Roma antica – l’orto a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo italiano. Garden. Friend of Cicerone. Nome compiuto: Marco
Fabio Gallo. Marco Fadio Gallo. Fadio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di
Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fadio,” The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Faggin: la ragione
conversazionale dei bei -- metrica filosofica – inno orfico – scuola di Vicenza
– filosofia vicentina – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Isola Vicentina). Filosofo italiano. Isola
Vicentina, Vicenza, Veneto. Grice: “I like Faggin: he is obsessed with love; he
translated Fedro, he selected some passages from the Roman philosopher Plotino
and titled it, implicaturally “Dal bello al divino,” but surely for Plotino,
via hypernegation, the divine IS beautiful – and finally, being an Italian, he
became interested in “Dutch Protestantism” – “il Pellegrino cherubico”!” Si laurea a Padova sotto Troilo. Insegna a Padova, Bassano
del Grappa, Campobasso, Vicenza.
Studioso del platonismo, della tradizione mistica e dell'occultismo,
commenta le Enneadi di Plotino. Altri suoi lavori riguardano Eckhart e la
mistica medioevale, Schopenhauer, la stregoneria e l'occultismo
rinascimentale. Altre opere: “Van Gogh,
Padova, MILANI); Plotino, Milano, Garzanti); “Eckhart e la mistica” Bocca,
Milano); “Schopenhauer: il mistico senza Dio, Firenze, La nuova Italia); “Le
streghe: trentatré incisioni dell'epoca, Milano, Longanesi et C.); “Gli
occultisti dell'età rinascimentale, Milano, Marzorati); “Storia della
filosofia: ad uso dei licei classici, Milano, Principato); “Dal Rinascimento a
Immanuel Kant, Milano, Principato); “La filosofia antica” (Milano, Principato);
“Diabolicità del rospo” (Vicenza, Neri Pozza); “Dal Romanticismo alla scuola di
Francoforte, Milano, Principato); “Enneadi” Milano, Istituto Editoriale),
“Sulla libertà del volere”; “Sul fondamento della morale” (Torino,
Boringhieri); Eckhart, Trattati e prediche, Milano, Rusconi); Inni orfici,
Giuseppe Faggin, Roma, Āśram Vidyā). Platone Fedro Edizione Acrobat
a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it) Platone Fedro SOCRATE:
Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia,
Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle
mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il
consiglio di Acumeno,(2) compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le
strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i
portici. SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto
pare. FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al
tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi
ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo
di ascoltarmi mentre cammino. SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con
Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una
faccenda «superiore a ogni negozio? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi
parlare. FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il
discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore.
Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha
comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene
infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E
bravo! Avesse scritto che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco,
un vecchio piuttosto che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e
alla maggior parte di voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e
utili al popolo! Io ora ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi
la tua passeggiata fino a Megara e, seguendo Erodico, arrivato alle mura
tornassi di nuovo, non rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate?
Credi che io, da profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che
Lisia, il più bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto
tempo e a suo agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto
oro. SOCRATE: Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me
stesso! Ma non è vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un
discorso di Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte
sopra lo ha pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri.
Poi però neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha
esaminato i passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene
seduto fin dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata,
conoscendo, corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che
non fosse troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo.
Imbattutosi poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e
nel vederlo si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui e lo
ha invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di
declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine
avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu
dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto.
FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come
sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima
che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO:
Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola
per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti
con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella
di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE:
Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello;
ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente
che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente
intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo!
FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di
esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e
andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo.
FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo
sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi
nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE:
Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi
quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza
moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi
pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte
dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si
dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e
limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o
tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra:
appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho
mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo
racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non
sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un
soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed
essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure
dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da
qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di
un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro
perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e
poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e
Pegasi e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e
portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri
al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto
tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro
amico, è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica,
di conoscere me stesso; quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono
estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste
storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho
detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso
non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un
essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e
priva di vanità fumosa.Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo
l'albero a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un
bel luogo per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto
agnocasto è bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura
rende il luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima
fonte di acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di
fanciulle e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad
Acheloo. E se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo!
Una melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più
leggiadra di tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta
apposta per distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai
fatto da guida a un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile
amico, sembri una persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un
forestiero condotto da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la
città per recarti oltre confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle
mura. SOCRATE: Perdonami, carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e
gli alberi non vogliono insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi
sembra però che tu abbia trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti
quelli che conducono gli animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello
verde o qualche frutto, così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti
sui libri, sembra che mi porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi
altro luogo vorrai. Ma per ì l momento, ora che sono giunto qui io intendo
sdraiarmi, tu scegli la posizione in cui pensi di poter leggere più comodamente
e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque. «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai
udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo
giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo
amante. Gli innamorati si pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando
cessa la loro passione, mentre per gli altri non viene mai un tempo in cui
conviene cambiare parere. Infatti fanno benefici secondo le loro possibilità
non per costrizione, ma spontaneamente, per provvedere nel migliore dei modi
alle proprie cose. Inoltre coloro che amano considerano sia ciò che è andato
loro male a causa dell'amore, sia i benefici che hanno fatto, e aggiungendo a
questo l'affanno che provavano pensano di aver reso già da tempo la degna
ricompensa ai loro amati. Invece coloro che non amano non possono addurre come
scusa la scarsa cura delle proprie cose per questo motivo, né mettere in conto
gli affanni trascorsi, né incolpare gli amati delle discordie con i familiari;
sicché, tolti di mezzo tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura
ciò che pensano sarà loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la
pena di tenere in grande considerazione gli amanti perché dicono di essere
amici al sommo grado di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi
fatti a rendersi odiosi agli altri pur di compiacere gli amati, è facile
comprendere che, se dicono il vero, terranno in maggior conto quelli di cui si
innamoreranno in seguito, ed è chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi
faranno persino del male. D'altronde come può essere conveniente concedere una
cosa del genere a chi ha una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto,
potrebbe tentare di allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere
malati più che assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi;
di conseguenza, una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene
ciò di cui decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il
migliore degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi
quello più adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più
speranza che quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi,
secondo l'usanza corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo
venga a sapere, è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli
altri così come si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per
ambizione mostrino a tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non
amano, essendo più padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama
presso gli uomini. Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano
gli amanti accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando
li vedono discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro
desiderio si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto
ad accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è
necessario parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi
hai paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe
involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove
di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non
possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo
tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche
acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una
tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di
tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici
non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali,
serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle
feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e
ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li
seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno
non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere
non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore;
non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore
della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti
faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano,
se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con
tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno
amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga». FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma
dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e
che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi
veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i
Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli, Socrate:
precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha tralasciato nulla
di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che nessuno mai saprebbe
dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle dette. SOCRATE: In
questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e sapienti, che hanno
parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per farti piacere
convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato cose migliori di
queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che le ho udite da
qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche scrittore in
prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo, divino
fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse dalle
sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto ciò,
dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche altra
fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per indolenza
ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai detto cose
bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da chi e come
le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai promesso di
dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto a quelle
contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti prometto
che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza naturale,
non solo mia ma anche tua. SOCRATE: Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se
pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è possibile dire cose
diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare neanche allo
scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo all'argomento del
discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere coloro che non amano
piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire quando abbia
tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la dissennatezza
degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano concedere e
perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non
l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili
da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO:
Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto
farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più
ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in
maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come statua
lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE:
L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho attaccato il tuo
amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di diverso e di più
vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai
dato l'occasione per un'uguale presa. Ora tu devi parlare assolutamente, così
come sei capace, in modo da non essere obbligati a fare quella cosa volgare da
commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar
fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato
anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma
tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò
che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io
sono più forte e più giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,
e vedi di non parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato
Fedro, mi coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti,
da profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è
la questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una
cosa che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela!
FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti
giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti
giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano,
non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno.
SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo
amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti
giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché
tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce
melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate
dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il
racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo,
uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna
sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più
sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna cosa. Perciò, nella convinzione
di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e proseguendo ne
pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con se stessi né tra
loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo agli altri, ma
dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare in amicizia con
chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune accordo una
definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo presente
questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso apporta un
vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro a tutti;
che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa
allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere presente che in
ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci guidano, e che noi
seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio dei piaceri,
l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta questi due
princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono in
disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando
l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria
ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione verso
i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La
dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti;
e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il
soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi.
Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e
sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga
chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce
in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche
per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a
seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene
chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso
precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta
detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto
verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso
congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome
dal suo stesso vigore, è chiamato eros. Ma caro Fedro, non sembra anche a te,
come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha
preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE:
Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non
meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe:
le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi. FEDRO: Dici
cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché
forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo
provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al
fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni,
è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire
il resto, ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno
che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al
desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più
possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza
è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un
amante non sopporterà di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole
sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al
saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha
abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è
inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti
difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che
essere privato del piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso
e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie
vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa
grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla quale
diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da cui
inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere disprezzato,
così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che sia ignorante
di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione l'amato sarebbe
fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per se stesso.
Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in
nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la
costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone,
dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà
seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole
ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta
invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti
altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a
ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un
punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra
come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli
amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar
perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo,
cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la
protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli
si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari,
più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre,
parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima
compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli
penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato,
trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto
del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante
si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a
lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto
della sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla
maggior parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga. L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso
uguali parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di
essere costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate,
non prima che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno,
l'ora che viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo
detto; non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi
sei divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i
discorsi prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te,
o perché li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a
pronunciarli (faccio eccezione per Simmia il Tebano, ma gli altri li vinci di
gran lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo
discorso. FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo
discorso? SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è
manifestato quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene
sempre da ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa
voce che non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se
avessi commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino,
per la verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo
per me stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche
l'anima, caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche
prima, mentre pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice
Ibico, che «commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece
tra gli umani. Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici?
SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come
quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e
sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di
questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che
Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si
dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato
pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è,
un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi
pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque
hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è
proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle
arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno
fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi;
per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito
purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato
della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da
amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo
discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti
alla troiana Pergamo. E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia
gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno
sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros
tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato
come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di
queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza
siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se
un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o
lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti
sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei
confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare
persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero,
e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros?
FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi
confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine
che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a
Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni,
conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che
sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che
Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso
argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti
coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in
modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi
favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è
accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel
ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di
Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di
Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è
veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve
piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a
"mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania
fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci
vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa
di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania,
procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla e di
tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un dio, con le
loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone verso il futuro,
ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente di essere addotto
come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che coniavano i nomi non
ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole; altrimenti non avrebbero
chiamato "manica" l'arte più bella, con la quale si discerne il
futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma considerandola una cosa bella
quando nasca per sorte divina, le imposero questo nome, mentre gli uomini
d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la "t" l'hanno chiamata
"mantica". Così anche la ricerca del futuro che fanno gli uomini
assennati mediante il volo degli uccelli e gli altri segni del cielo, dal
momento che tramite l'intelletto procurano assennatezza e cognizione alla
"oiesi", cioè alla credenza umana, la denominarono
"oionoistica", mentre i contemporanei, volendola nobilitare con la
"o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto più l'arte mantica
è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera dell'una rispetto al
nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la testimonianza degli
antichi, è la mania che viene da un dio rispetto all'assennatezza che viene
dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in coloro in cui doveva
manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie e dalle pene più
gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a causa di antiche
colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi, attraverso
purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il tempo presente
e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per chi era in preda
a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto vengono
l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece
dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra
più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga. I cavalli e gli aurighi
degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono misti. E
innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due cavalli
uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è contrario e nato
da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda, è di necessità
difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che senso il vivente
è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò
che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è
perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo, se invece ha
perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a qualcosa di solido;
qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che per la forza
derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto di anima e
corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale. Viceversa ciò che
è immortale non può essere spiegato con un solo discorso razionale, ma senza
averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un dio, un essere
vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo eternamente connaturati.
Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace al dio; noi cerchiamo di
cogliere la causa della perdita delle ali, per la quale esse si staccano
dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza dell'ala tende per sua
natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo dove abita la stirpe
degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte le cose inerenti
il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che è tale; da queste
qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo grado, mentre viene
consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il
grande sovrano che è in cielo, procede per primo alla guida del carro alato, dà
ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo segue un esercito di dèi e di
demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi;
quanto agli altri dèi, quelli che in numero di dodici sono stati posti come
capi guidano ciascuno la propria schiera secondo l'ordine assegnato. Molte e
beate sono le visioni e i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la
stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E
tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori
del coro divino. Quando poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua
salita verso la sommità della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben
equilibrati e agili da guidare, procedono facilmente, gli altri invece a
fatica; infatti il cavallo che partecipa del male si inclina, e piegando verso
terra grava col suo peso l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si
presenta la fatica e la prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate
immortali, una volta giunte alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul
dorso del cielo, la cui rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse
contemplano ciò che sta fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai
cantato né mai canterà in modo degno il luogo iperuranio. La cosa sta in questo
modo (bisogna infatti avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla
della verità): l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e
invisibile, che può essere contemplato solo dall'intelletto timoniere
dell'anima e intorno al quale verte il genere della vera conoscenza, occupa
questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è nutrita da un intelletto e da
una scienza pura, anche quella di ogni anima cui preme di ricevere ciò che
conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo l'essere, e contemplando il
vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione ciclica del cielo non l'abbia
riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie vede la giustizia stessa,
vede la temperanza, vede la scienza, 9 Platone Fedro non quella cui
è connesso il divenire, e neppure quella che in certo modo è altra perché si
fonda su altre cose da quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza
che si fonda su ciò che è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo
stesso modo gli altri esseri che realmente sono e se ne è saziata, si immerge
nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta
arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro
ambrosia e in più dà loro da bere del nettare. Questa è la vita degli dèi.
Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel migliore dei modi il dio e
rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga verso il luogo fuori del
cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma essendo turbata dai cavalli
vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il capo, ora piega verso il
basso, e poiché i cavalli la costringono a forza riesce a vedere alcuni esseri,
altri no. Seguono le altre anime, che aspirano tutte quante a salire in alto,
ma non essendone capaci vengono sommerse e trasportate tutt'intorno,
calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di arrivare una prima
dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita del massimo sudore,
nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime restano azzoppate, e
a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la grande fatica, se ne
partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere e una volta tornate
indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per cui esse mettono
tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è questa: il cibo
adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si trova là, e di
esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è
la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto
qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a
fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a
tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di
oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada
sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella
prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si
trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del
bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda
si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e
al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato
o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o
degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad
avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà
confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano
dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino,
all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella
di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia
partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una
peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per
diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo,
tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i
fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se
hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo
le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre,
quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo
essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a
scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del
cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in
forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla
scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima
umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può
ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non
giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò
che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene
raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un
tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò
dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente
è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al
ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in
virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di
tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di
mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha
comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le
persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è
detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non
si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri
procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle
che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute
qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in
sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e beate
in una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora
chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come
un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per
il desiderio delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto
alla bellezza, come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere,
e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre
sensazioni, in quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è
la più acuta delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci
permette di vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se
giungendo alla nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le
altre realtà degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte,
di essere ciò che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato
di recente, o è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso
la bellezza in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di
conseguenza quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere
imprende a montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con
tracotanza non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura.
Invece chi è iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora,
quando vede un volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una
qualche forma ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra
qualcuna delle paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se
non temesse di acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo
amato come a una statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione
provocata dai brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso
gli occhi il flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si
abbevera. Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto
donde l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della
bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è
turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte
né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di
poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è
imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti,
riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento
presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di
sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di
madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue
sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a
servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più
vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in
colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A
questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini
danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo,
data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi
citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali
è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così :
I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere
l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la
causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da
Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso
del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e
giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire
qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il
proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro
era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta
incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e
ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra
i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli
edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I
seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro
dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e
quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia effettivamente
tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del genere, da quel
momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile, continuando poi
anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro conto la natura
del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a volgere lo sguardo
verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e
tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è
possibile a un uomo partecipare della natura di un dio. E poiché ne
attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene
attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima
dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro che invece
erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei
esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli
altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio fanciullo
abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano essi
stessi il dio e con la persuasione e 11 Platone Fedro
l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello,
ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato
con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza
più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore
e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano
nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga
conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è
conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione
in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di
cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un
punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no:
quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non
l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova
nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto
e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito
a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta
e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto,
grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il
pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e
vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli
speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in
tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei
pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a
freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso
all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta, ma
imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta di
molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso
l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si
oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e
inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano
trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro
ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante
dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla
temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade
supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte
che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non
recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano,
l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro,
cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende
fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole
l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato
il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la
loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta.
Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo
rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad
accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono
vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li
trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa
impressione di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira
indietro ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina
la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo
dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa
più volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito
dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza
accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e
timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni
venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo
sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in
precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le
quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo
avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo
inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un
malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E
dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare
in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino,
colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non
offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un
dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato
incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di
quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore,
scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne
è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da
corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della
bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura
arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i
condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche
l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a
conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una
malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli
non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in
presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è
assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una
sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede
amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole,
desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in
seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo
sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo
guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da
dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante,
manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui
si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua
l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme
all'auriga 12 Platone Fedro si oppone a ciò, obbedendo al pudore e
alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che
guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di
quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati,
avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui
nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina
possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di
vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato
di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di
giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa
direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e
mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne
avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono
approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno
di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi
dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito
sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono
dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio
non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali
hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella
tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice
compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano
le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o
fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi
non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali
e misere, dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo
come virtù, la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per
novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e
virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione,
costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con
alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba
gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì
per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in
onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io
e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a
Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni,
volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello Polemarco, affinché
anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la
sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua
preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho
ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi
temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro
discorso. Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava
criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava
logografo; perciò forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro.
SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli
di grosso, se credi che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che
chi lo biasimava dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO:
Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città
hanno il massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere
discorsi e a lasciare propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di
essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha
preso il nome dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che
gli uomini di governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e
lasciare propri scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso,
apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di
quelli che li devono lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici
ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo
politico per primo viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come?
SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha
deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore
cita se stesso con grande reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare,
mostrando a chi lo loda la sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto
assai lungo. O ti pare che una cosa del genere sia altro che un discorso
scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge,
l'autore esce di scena tutto lieto; se invece viene escluso e radiato dallo
scrivere discorsi e dall'essere degno di scriverli, piangono lui e i suoi
compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano
questa attività, ma l'ammirano. FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un
retore o un re è in grado di raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di
Dario (45) e di diventare un logografo immortale nella sua città, non si crede
forse egli stesso pari agli dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di
lui la stessa cosa, contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE:
Credi allora che uno di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a
Lisia, lo biasimi proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro
FEDRO: Non è verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe
anche il proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa
turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo
turpe questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente
chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che
in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci
siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non
lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo
bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il
vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro
Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la
necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto
alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco?
FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti
accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti
sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di
ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO:
Pare di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel
discorso di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle
cose che definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra
cosa, poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi
adeguati. SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati
pronunciati due discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero,
giocando con le parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io,
Fedro, ne attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse
delle Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo
dono, poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO:
Sia come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio
del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai
udito che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo
giusto non poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo
amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che
cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è
forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di
queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo
pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la
parola "ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la
stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve
innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare
di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe
dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi
che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non
ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e
in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso
seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso.
Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio
lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia
utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere
ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si
pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...».
SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette
mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e
prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso
di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? 16 Platone Fedro SOCRATE: Esamina dunque il discorso del
tuo compagno, se è composto così o in altro modo, e troverai che non differisce
in nulla dall'epigramma che secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida
il Frigio.(54) FEDRO: Qual è questo epigramma, e cos'ha di particolare?
SOCRATE: è questo qui: Vergine bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che
l'acqua scorra e alberi grandi verdeggino, stando qui sulla tomba di molte
lacrime aspersa, annuncerò a chi passa che Mida qui è sepolto. Capisci
senz'altro, come credo, che non c'è alcuna differenza se un verso viene
recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu ti fai beffe del nostro discorso,
Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere, così non ti crucci (eppure mi
sembra che contenga parecchi esempi ai quali gioverebbe porre attenzione,
cercando di non imitarli in alcun modo); e passiamo agli altri due discorsi. In
essi, mi sembra, c'era qualcosa che per chi vuole fare indagini sui discorsi è
conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa alludi? SOCRATE: In qualche modo erano
opposti: uno diceva che si deve compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO:
E con molto vigore! SOCRATE: Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con
mania: ciò che cercavo è appunto questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è
una forma di mania. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: E che ci sono due forme di
mania, una che nasce da malattie umane, l'altra che nasce da un mutamento
divino delle consuete abitudini. FEDRO: Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro
parti di quella divina in relazione a quattro dèi, abbiamo attribuito
l'ispirazione mantica ad Apollo, quella iniziatica a Dioniso, quella poetica
alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros, e abbiamo detto che la mania amorosa
è la migliore. E non so come, rappresentando con immagini la passione amorosa,
forse toccando da un lato un che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada,
abbiamo composto un discorso non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato
quasi per gioco, con parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore
di Eros, mio e tuo signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E
almeno per me, un discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE:
Prendiamo dunque in esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal
biasimo alla lode. FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il
resto sia stato fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a
caso ci sono due procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a
coglierne con arte la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel
ricondurre le cose disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in
uno sguardo d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui
si vuole di volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa
su Eros, una volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o
male, è appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato
chiarezza e coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici,
SOcrate? SOCRATE: Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le
idee in base alle loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna
parte, alla maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa
concepivano la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da
un corpo unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte
destra della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro,
ma è divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei
nostri più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono
amante di questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di
essere in grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per
sua natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle
sue orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare
ciò, lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento
li chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di
cui si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa
l'arte dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati
abili a parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di
doni come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi procedimenti
si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si trovano
nei libri scritti sull'arte del dire. Platone Fedro SOCRATE: Hai fatto
bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del discorso dev'essere
pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte, non è
vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita da
testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi
vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente
uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro?
SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una
confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo
Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; (55) alcuni
sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per
esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare
Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto
più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è
piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo
voterebbe con lui. FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi alle
Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il parlare per
sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio gli
fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di
Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa
Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai
discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e sciogliere
calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra tutti sulla
conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di riepilogo, altri
un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli ascoltatori,
alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati? SOCRATE: Intendo
questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei discorsi...
FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE: Lasciamo perdere le
cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale potenza dell'arte
hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una potenza davvero
forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE: Infatti l'hanno. Ma
guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra anche te, come a me,
slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora dimmi: se uno si
presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e dicesse loro:
«Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e raffreddarli, se lo
voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e persino evacuare, e
moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho queste conoscenze sono
convinto di essere un medico e di far diventare medico un altro a cui comunico
la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero dopo averlo ascoltato?
FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e quando bisogna fare
ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se allora rispondesse:
«Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso queste conoscenze da me
sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»? FEDRO: Direbbero, credo, che
quell'uomo è pazzo, e che crede di essere diventato un medico per aver sentito
qualcosa da qualche libro o per aver usato casualmente dei farmaci, senza avere
alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se uno si presentasse a Sofocle e ad
Euripide dicendo che sa comporre discorsi lunghissimi su un argomento piccolo e
piccolissimi su un argomento grande, commoventi, quando lo vuole, e al
contrario spaventevoli e minacciosi, e tante altre cose del genere, e che
insegnando ciò crede di trasmettere il modo di comporre una tragedia? FEDRO:
Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se uno pensa che la tragedia sia
altra cosa che l'unione di questi elementi ben connessi tra loro e accordati
con il tutto. SOCRATE: Però non lo rimprovererebbero con villania, credo, ma
come un musico, se incontrasse un uomo che crede di essere esperto
nell'armonia, perché il caso vuole che sappia come si fa a produrre il suono
più acuto e quello più grave, non gli direbbe villanamente: «Disgraziato, tu
sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in modo più affabile: «Carissimo,
chi vuole essere un esperto di armonia è necessario che conosca anche questo,
tuttavia nulla vieta che chi ha le tue capacità non sappia neppure un poco di
armonia; tu infatti conosci le nozioni necessarie e preliminari dell'armonia,
non come si produce l'armonia». FEDRO: Giustissimo. SOCRATE: Allora anche
Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte a loro che conosce i preliminari
dell'arte tragica ma non il modo di comporre una tragedia, e Acumeno direbbe
all'altro che conosce i preliminari della medicina, non la scienza medica.
FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo che direbbero Adrasto voce di
miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli accorgimenti che abbiamo
elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per immagini e tutte le altre
cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso affermando che erano da
esaminare in piena luce? Forse per villania, come abbiamo fatto io e te, si
rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha scritto queste cose e le
insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più saggi di noi, ci
lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna essere aspri, ma
indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della dialettica, non hanno
saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza di questa condizione,
possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte, hanno creduto di
averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri ritengono di averli
istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i loro discepoli debbano
procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre ciascuna di queste cose in
maniera convincente e di collegare tutto l'insieme, come se fosse opera da
nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio un qualcosa del
genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e presentano per
iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero; ma allora come
e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente esperto di retorica
e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto campione della
retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia come negli altri
campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un retore famoso, a patto
d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una di queste qualità,
resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non mi sembra che il
metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco. FEDRO: Qual è il
metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle sia stato
probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché? SOCRATE:
Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi celesti sulla
natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di condurre
tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle, oltre
alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi, credo,
in Anassagora,(62) uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse
alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per
l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di
procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE:
In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e
nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la
natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi, senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la natura
del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
19 Platone Fedro FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto
pare! SOCRATE: Pertanto, caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo
non sarà mai detto o scritto con arte, né su questo né su un altro argomento.
Ma quelli che oggi scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono
scaltri, e pur conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare;
perciò, prima che parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere
da loro, credendo che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE:
Già usare le espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è
possibile voglio dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte.
FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida
delle anime, chi vuole essere esperto di retorica è necessario che sappia
quante forme ha l'anima. Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di
conseguenza alcuni uomini sono di un certo tipo, altri di un altro; e dato che
le forme dell'anima risultano così divise, a loro volta sono tantissime anche
le forme dei discorsi, ciascuna di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini
di un certo tipo si lasciano facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo
su determinati argomenti, mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo
motivo, sono difficili da persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve
innanzitutto tenere in adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il
loro modo di essere e di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di
seguirle acutamente con le sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente
più dei discorsi che ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia
dire in modo adeguato quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi,
e sia in grado di accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si
tratta di quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i
discorsi, e poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella
maniera prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia
in possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui
bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere
l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e
di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata
in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste
cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi
non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e
Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è
detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure
sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna
rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare
una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere
inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta
e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o
da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così,
per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi
dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano
di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è
giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu.
SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in
alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche
all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella
retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e
buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non
importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo
ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi
intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti,
a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli
verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve
seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è
appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte.
FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a
vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in
precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di
enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai
studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se
per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E
che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza
e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha
percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro,
viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile
deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi
deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente
argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani
addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma
cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione
all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o meno
di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè, sembra che
abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta, Tisia o
chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il nome! Ma a
costui, amico, dobbiamo dire o no. FEDRO: Cosa? Platone Fedro SOCRATE:
Questo: «O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a
dire che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e
poco fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le
somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo
ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè
che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in
grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in
un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a
un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad
essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con
gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa
in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, (64) c'era uno degli
antichi dèi del luogo, al quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome
della divinità era Theuth. Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la
geometria e l'astronomia, poi il gioco della scacchiera e dei dadi, infine
anche la scrittura. Re di tutto l'Egitto era allora Thamus e abitava nella
grande città della regione superiore che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre
chiamano il suo dio Ammone.Theuth, recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e
disse che dovevano essere trasmesse agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale
fosse l'utilità di ciascuna di esse, e mentre Theuth le passava in rassegna, a
seconda che gli sembrasse parlare bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava.
Molti, a quanto si racconta, furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e
nell'altro senso a Theuth su ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo
ripercorrerli; quando poi fu alla scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza,
o re, renderà gli Egizi più sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa
è stato trovato il farmaco della memoria e della sapienza». Allora il re
rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è chi sa partorire le arti e chi sa
giudicare quale danno o quale vantaggio sono destinate ad arrecare a chi
intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura, per benevolenza hai detto il
contrario di quello che essa vale. Questa scoperta infatti, per la mancanza di
esercizio della memoria, produrrà nell'anima di coloro che la impareranno la
dimenticanza, perché fidandosi della scrittura ricorderanno dal di fuori
mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da se stessi; perciò tu hai
scoperto il farmaco non della memoria, ma del richiamare alla memoria. Della
sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità: ascoltando
per tuo tramite molte cose senza insegnamento, crederanno di conoscere molte
cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché
sono divenuti portatori di opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu
pronunci con facilità discorsi egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E
pensa che alcuni, mio caro, hanno asserito che i primi discorsi profetici nel
tempio di Zeus a Dodona venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato
che non erano sapienti come voi giovani, bastava, nella loro semplicità,
ascoltare una quercia o una roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te
fa differenza chi è colui che parla e da dove viene. Non miri infatti solamente
a questo, se le cose stanno così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e
mi sembra che riguardo alla scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe.
SOCRATE: Allora chi crede di tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua
volta la riceve nella convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di
chiaro e di saldo, dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente
il vaticinio di Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del
riportare alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per
la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di
fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in
venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti
anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se
domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo
qualcosa suona sempre e Platone Fedro solo identico. E, una volta che è
scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di
chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con
esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato
ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di
difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue
parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro
discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua
natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come,
secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno
pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a
cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in
otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E
riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte
dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha
seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul
serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo
dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno
senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE:
Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la
canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci
di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile.
SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di
scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla
memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio»,(68) e per
chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando
gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i
divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi
passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello
quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa
divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di
cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose
diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica,
prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da
conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha
piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano
nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza
immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per
un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo
d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO:
Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a
questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i
discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte.
Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta
come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a
ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa
in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue
specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver
scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie
adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo
procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena
armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto
è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per
insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha
chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE:
Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere
discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha
forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto?
SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti
d'interesse privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica,
nella convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), Platone
Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la
memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul
giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far
apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e
pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti
suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel
caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo,
sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e
ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che
sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi
auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda
i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che
noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato
dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga
discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in
terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi
con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è
il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e
quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è
stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di
costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO:
Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra
che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece
filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente.
FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di
maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù
per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a
buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non
bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui?
FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo?
SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo
di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore
a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più
nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere
dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se
fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo
non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi;
giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di
filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio
amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma
andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene rivolgere
una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come no?
SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di diventare
bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò che ho
nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro quanto
nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar via. Abbiamo
bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in giusta misura.
FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono comuni.
SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro Celebre oratore ateniese vissuto tra il
quinto e il quarto secolo a.C., di cui restano orazioni giudiziarie. Il
discorso sull'amore che gli viene attribuito nel dialogo è probabilmente
fittizio. Il padre Cefalo, originario della Sicilia, aveva una fabbrica d'armi
al Pireo; nella sua casa è ambientata la Repubblica. 2) Noto medico dell'epoca.
Epicrate era un oratore democratico; Morico, forse il proprietario precedente
della casa, era un cittadino ateniese che per le sue ricchezze e il suo lusso
divenne frequente bersaglio dei poeti comici. 4) Pindaro, Isthmia 2. Erodico di
Megara, divenuto poi cittadino di Selimbria, era un medico famoso per il suo
regime di vita "salutistico"; Platone lo menziona anche nella
Repubblica e nel Protagora. 6) I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele,
i cui culti erano caratterizzati da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume
che scorre vicino ad Atene. Il dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno.
Borea, vento del nord, rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio
concesse agli Ateniesi il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata
poco sotto, era una ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. Demo dell'Attica.
Letteralmente 'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più
antico tribunale della città, formato dagli arconti usciti di carica. 12) Sono
tutti esseri mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di
Issione con una nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro
con tre teste, una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le
Gorgoni, mostri marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano
immortali, mentre Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era
mortale e fu uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue
della testa di Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise
la Chimera) Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di
Apollo a Delfi) Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle
molte teste che emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo
fulmina e lo scaglia sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia
seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo
portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in
italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio
di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo
"atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel
dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da
mantenere nella traduzione, per creare paretimologie) Alle Ninfe, divinità dei
boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione.
Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei
fiumi) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade) Saffo è la famosa
poetessa lirica di Lesbo, autrice di carmi soprattutto d'amore omoerotico,
divisi dagli Alessandrini in nove libri; di essi ci sono pervenuti un'ode
intera, una quasi completa e parecchi frammenti di varia lunghezza. Anacreonte
di Teo, lirico monodico del sesto secolo, fu autore tra l'altro di poesie
amorose dal tono leggero, di cui restano pochi frammenti. Non è invece
possibile sapere a quali autori in prosa si allude nel passo. Gli arconti
ateniesi, al momento di entrare in carica, giuravano che se avessero
trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a Delfi una statua d'oro
della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di Corinto nel sesto secolo e
fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui si allude era forse una
statua. 20) Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende che Socrate a sua
volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento 105 Snell-Maehler
(citato anche in Meno). 22) Il testo greco gioca sull'assonanza tra
"ligús", 'dalla voce melodiosa', e "ligús" 'Ligure' (con
lambda maiuscolo). Questo gioco paretimologico è probabilmente alla base della
leggenda secondo cui i Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un
nesso paretimologico tra "èros" e "róme" ('forza'). Il
ditirambo, componimento lirico corale associato al culto di Dioniso, ai tempi
di Platone era in piena decadenza. Qui il termine ha una connotazione negativa,
indicando una forma di invasamento non ispirata da "mania" divina, e
quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con un
coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori, divisi
in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che risultava
lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora significa che
l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima pitagorico, poi
discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone. Ibico, frammnto,
Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui restano un'ode e pochi
frammenti. 28. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel sesto secolo a.C.
Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena di infedeltà in un
carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia (la
'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la vera
Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu ripresa
da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa, rimase
cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del discorso
precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli aveva
mosso. Platone Fedro) A Delfi, in Beozia, c'era il più famoso santuario di
Apollo, che dava i responsi per bocca della sua sacerdotessa, la Pizia; a
Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus. Questo nome designava in
origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di cui era nota l'ambiguità
dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma, in Campania. L'arte
divinatoria, "mantike", viene fatta derivare da "manikos"
cioè 'affetto da mania'; il composto "oionoistike", di invenzione platonica,
viene ricondotto a "oieris" ('opinione', 'credenza'), e accostato a
"oionistike", ovvero l'"arte di trarre gli auspici" dal
volo degli uccelli. Il gioco paretimologico, di cui si è provato a rendere
ragione nella traduzione, è importante in quanto è funzionale al rovesciamento
della tesi sostenuta da Lisia. è il celebre mito dell'anima come una biga
alata, metafora complessa e non facile da interpretare. Se infatti l'auriga
rappresenta palesemente la ragione, non è del tutto chiaro il significato dei
due cavalli; è poco soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui
il cavallo nero rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima
impulsiva, e l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione
dell'anima che Platone teorizza nella Repubblica (libri 4 e 9). Infatti nel
Timeo si dice che anima concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre
qui i due cavalli fanno parte proprio della struttura dell'anima immortale,
come prova anche il fatto che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda
degli dèi, e che tale struttura è comune sia all'anima umana sia a quella
divina. è preferibile pensare che i cavalli indichino due componenti opposte
connaturate comunque all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di
conciliare per trovare un equilibrio. 33) Estia, dea del focolare, nella
cosmologia antica veniva identificata col centro dell'universo, che era
immobile; per questo essa, unica tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le
divinità che guidano le dodici schiere sono probabilmente quelle olimpiche. 34)
L'Iperuranio, il luogo 'oltre il cielo', è il mondo delle Idee. Luogo
metafisico, immagine della sfera dell'intelligibile che nella sua immutabilità
trascende la realtà sensibile, esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea,
letteralmente 'l'inevitabile', in questo caso è una personificazione del
destino; in Repubblica (libro 5) impersonifica invece la vendetta. Viene qui
esposto il destino escatologico delle anime e la teoria della metempsicosi,
argomento che ha una più ampia trattazione con il mito di Er nel libro decimo
della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della vita futura è strettamente
determinata dalla misura in cui le anime hanno contemplato la pianura della
verità prima di tornare sulla terra, poiché ad esso corrisponde il grado di
verità connesso alla vita in cui si reincarnano. Altro gioco verbale basato su
una paretimologia il termine "imeros" ('desiderio'), collegato per
assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-, radice di "eiri"
('andare'), "mer-" radice di "méros" ('parte'),
"ro-", radice di "roé" ('flusso'). Gli Omeridi erano una
scuola di aedi nell'isola di Chio che la tradizione voleva fondata dallo stesso
Omero. Invenzione platonica sono sia i poemi segreti cui si allude ironicamente
sia i due versi citati, nei quali c'è un gioco di parole tra "Eros" e
Ptéros" (epiteto scherzosamente coniato da "pterós" ('alato'),
probabilmente suggerito da quei passi omerici (Iliade, versi; libro, verso;
libro, verso in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli uomini.
38) è impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di
aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fece il coppiere degli dèi. Per il gioco
linguistico su "imeros". L'espressione significa che né la temperanza
umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a costruire una
scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta mescolanza delle due
cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del mito della biga alata.
L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare, allude probabilmente al
fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare l'avversario tre volte)
Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle persecuzioni politiche
sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei processi e l'assenza del
patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o l'accusato a parlare
personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la professione del logografo
('scrittore di discorsi'), che preparava su commissione i testi da pronunciare
in tribunale; le orazioni di Lisia sono appunto la testimonianza della sua
attività di logografo. Il termine ha nel contesto una connotazione negativa,
tanto da essere poco sotto equiparato a sofista. Il parallelo ritorna più
avanti, dove si allude ai compensi che i sofisti chiedevano per i loro
insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica, significa probabilmente che da
una cosa semplice ne è derivata una difficile. Figura storicamente
indeterminata, Licurgo fu, secondo la tradizione, il legislatore di Sparta.
Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi, Solone attuò, durante il
suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che prevedeva la divisione dei
cittadini in classi in base al censo. Dario, re di Persia., fu il promotore
della prima guerra greco-persiana. Il mito che segue è probabilmente creazione
platonica. Il canto delle cicale è metafora dell'ispirazione a comporre
discorsi ma anche del rischio, da parte dell'ascoltatore, di lasciarsene
ammaliare senza sottoporli a vaglio critico, un atteggiamento passivo che le
cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e le Muse, non approvano. Sulla
scia del catalogo esiodeo (Theogonia), le Muse qui citate hanno nomi parlanti
Tersicore è 'colei che gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è
'dalla bella voce', Urania 'la celeste'. Platone Fedro) Omero, Iliade. Per
Spartano qui si intende semplicemente una persona che dice la verità in modo
franco e lapidario. I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto
gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie. LEONZIO (si veda) fu uno dei principali esponenti della sofistica; a
lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano
pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto
nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in
modo combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro
di Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un
trattato di retorica. Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai
paradossi con i quali cerca di confutare dialetticamente i concetti di
molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e
la tartaruga. Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di
ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che
toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro,
pregò il dio di liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è
attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e sofista contemporaneo
di Socrate. Tisia fu maestro di Gorgia e iniziatore, assieme a Corace, della
scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo, uno dei più importanti esponenti
della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui
prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di
Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di
Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti,
come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora di Abdera, protagonista
dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato
il principale esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo
agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo
relativismo, sintetizzato nella massima «l'uomo è misura di tutte le cose».
Nulla ci rimane delle sue numerose opere) Adrasto, il re di Argo che guidò la
spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici
come abile oratore; l'epiteto «voce di miele» gli è già riferito da Tirteo
(frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un
personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista
ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis
portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le
sue capacità oratorie) Anassagora di Clazomene visse per molti anni ad Atene,
dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo
pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui
chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di Cos fu il fondatore
della medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della
medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti
riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. 64) Città sul delta del Nilo, sede
di un emporio commerciale greco.) Theuth o Thoth era il dio egizio
dell'invenzione,che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la
testa di ibis, era scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone
assegna alla scrittura un valore puramente "ipomnematico", ovvero la
considera un mero supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la
trasmissione del vero sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica) «La
regione superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto,
viene considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali
divinità egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai
Greci con Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata
«vaticinio di Ammone») I «giardini di Adone» erano recipienti in cui d'estate
si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano; il rito
simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato da
Afrodite. Allo stesso modo i «giardini di scrittura», ovvero i discorsi
scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi latori
di verità sono affidati alla dimensione orale. 68) Citazione poetica di autore
ignoto) Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con
l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate era fautore di
un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in
vista di una spedizione contro i Persiani) Pan, figlio di Ermes, era la
principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da
intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Wikipedia
Ricerca Orfeo personaggio della mitologia greca Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orfeo
(disambigua). Orfeo - Orfeo (epoca romana) - Foto G. Dall'Orto.jpg Orfeo
circondato dagli animali. Mosaico pavimentale romano, Museo archeologico
regionale di Palermo. Nome orig.Ὀρφεύς Specieumana SessoMaschio Luogo di
nascitaTracia Professionecantore e argonauta Orfeo (Ὀρφεύς [or.pʰeú̯s]:
Orpheus) è un personaggio della mitologia greca. Bassorilievo in marmo di
epoca romana, copia di originale greco, che rappresenta Ermes, Euridice e
Orfeo. L'opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata perduta. Questo
bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di Napoli, è tra le
testimonianze che attesterebbero l'esito negativo della catabasi di Orfeo già a
partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso Euridice, le alza il velo,
forse per verificare l'identità della donna e quindi la perde. Secondo
l'opinione di Cristopher Riedweg sarebbe infatti evidente che Ermes a questo
punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge quindi il piede
destro per tornare indietro. Orfeo ritratto in un kratēr (κρατήρ) attico
a figure rosse risalente al V secolo a.C. e oggi conservato presso il
Metropolitan Museum di New York. Orfeo, che siede a sinistra impugnando la lira
(λύρα), veste un abito tipicamente greco, a differenza dell'uomo che gli si
pone in piedi davanti che invece indossa un costume tracio. Questo particolare,
unitamente alla presenza, a destra, della donna che impugna una piccola falce,
può rappresentare una delle varianti della sua leggenda che lo vuole
missionario greco in Tracia, ucciso lì dalle donne in quanto escludendole dai
suoi riti induceva i loro mariti ad abbandonarle: «Dicono poi che le
donne di Tracia tramavano la sua morte, perché aveva persuaso i loro uomini a
seguirlo nei suoi vagabondaggi, ma non osavano passare all'azione per paura dei
loro mariti. Ma una volta, riempitesi di vino, attuarono la scellerata impresa.
E da quel momento invalse per gli uomini il costume di andare ebbri alle
battaglie.» (Pausania, Periegesi della Grecia) Mappa dei luoghi che,
secondo la mitologia, Orfeo avrebbe visitato e legato a sé. Il nome di Orfeo è
attestato a partire dal VI secolo a.C., ma, secondo Mircea Eliade, «non è
difficile immaginare che sia vissuto 'prima di Omero'». Si tratta dell'artista
per eccellenza, che dell'arte incarna i valori eterni, ma anche di uno
«sciamano, capace di incantare animali e di compiere il viaggio dell'anima
lungo gli oscuri sentieri della morte»[7], fondatore dell'Orfismo. I molteplici
temi chiamati in causa dal suo mito - l'amore, l'arte, l'elemento misterico -
sono alla base di una fortuna senza pari nella tradizione letteraria,
filosofica, musicale, culturale e scultorea dei secoli successivi. Orfeo
e l'Orfismo Il primo riferimento a noi pervenuto sulla figura di Orfeo è nel
frammento del lirico di Rhegion (REGGIO (si veda) Reggio Calabria) Ibico
vissuto nella Magna Grecia, nel quale appare già famoso. Attorno alla sua
figura mitica, capace di incantare persino gli animali, si assesta una
tradizione che non gli attribuisce un normale modo di fare musica, bensì la
psychagogia, che si estende alle anime dei morti. Il papiro di Derveni,
rinvenuto vicino a Salonicco, offre un'interpretazione allegorica di un poema
orfico non a caso in concomitanza con un rituale per placare i morti.
Associato alla figura di Dioniso, divorato dai Titani con i quali rappresenta,
da un lato la componente dionisiaca della vita –ossia l'elemento divino o
"anima"– e dall'altro il corpo mortale, Orfeo è la figura centrale
dell'Orfismo, una tradizione religiosa che, per prima nel mondo occidentale,
introduce la nozione di dualità fra corpo mortale e anima immortale. Il
mito Orfeo ucciso dalle menadi, in uno stamnos a figure rosse, conservato
al Museo del Louvre di Parigi. Questo dipinto racconta la morte di Orfeo
secondo il mito che lo vuole ucciso dalle seguaci di Dioniso, da questo dio a
lui inviate in quanto mosso dalla gelosia per l'ardore religioso che il poeta
conservava nei confronti di Apollo, da lui invocato sul monte Pangaio (anche
Pangeo) quando il sole, immagine di Apollo, sorgeva: «[Orfeo] Non onorò
più Dioniso, mentre considerò più grande Elio, che egli chiamò anche Apollo; e
svegliandosi la notte sul far del mattino, per prima cosa aspettava il sorgere
del sole sul monte chiamato Pangeo per vedere Elio; perciò Dioniso, adirato,
gli inviò contro le Bassaridi, come racconta il poeta tragico Eschilo: esse lo
dilaniarono e ne gettarono via le membra, ciascuna separatamente; le Muse poi
riunitele, le seppellirono nel luogo chiamato Libetra.» (fr. in
Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern; traduzione di Elena
Verzura. Milano, Bompiani) Le originiModifica Ulteriori informazioni Questa
voce o sezione sugli argomenti religione e mitologia greca è priva o carente di
note e riferimenti bibliografici puntuali. Secondo le più antiche fonti Orfeo è
nativo della città di Lebetra in Tracia, situata sotto la Pieria, terra nella
quale fino ai tempi di Erodoto era testimoniata l'esistenza di sciamani che
fungevano da tramite fra il mondo dei vivi e dei morti, dotati di poteri magici
operanti sul mondo della natura, capaci tra l'altro di provocare uno stato di
trance tramite la musica. Figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio
Eagro (o, secondo altre versioni meno accreditate, del dio Apollo), appartiene
alla generazione precedente degli eroi che parteciparono alla guerra di Troia,
tra i quali ci sarebbe stato il cugino Reso. Secondo un'altra versione Orfeo fu
il sesto discendente di Atlante e nacque undici generazioni prima della guerra
di Troia. Egli, con la potenza incantatrice della sua lira e del suo canto,
placava le bestie feroci e animava le rocce e gli elementi della natura.
Gli è spesso associato, come figlio o allievo, Museo. Orfeo fonde in sé
gli elementi apollineo e dionisiaco: come figura apollinea è il figlio o il
pupillo del dio Apollo, che ne protegge le spoglie, è un eroe culturale,
benefattore del genere umano, promotore delle arti umane e maestro religioso;
in quanto figura dionisiaca, egli gode di un rapporto simpatetico con il mondo
naturale, di intima comprensione del ciclo di decadimento e rigenerazione della
natura, è dotato di una conoscenza intuitiva e nella vicenda stessa vi sono
evidenti analogie con la figura di Dioniso per il riscatto dagli Inferi di una
fanciulla (Euridice nel caso di Orfeo e la madre Semele in quello di Dioniso).
Orfeo domina la natura selvaggia e può addirittura sconfiggere la morte temporaneamente
(anche se alla fine viene sconfitto perdendo la persona che doveva salvare, a
differenza di Dioniso). La letteratura, d'altra parte, mostra la figura
di Orfeo anche in contrasto con le due divinità: la perdita dell'amata Euridice
sarebbe da rintracciarsi nella colpa di Orfeo di aver assunto prerogative del
dio Apollo di controllo della natura attraverso il canto; tornato dagli Inferi,
Orfeo abbandona il culto del dio Dionisorinunciando all'amore eterosessuale. In
tale contesto si innamora profondamente di Calaide, figlio di Borea, e insegna
l'amore omosessuale ai Traci. Per questo motivo, le Baccanti della Tracia,
seguaci del dio, furenti per non essere più considerate dai loro mariti, lo
assalgono e lo fanno a pezzi (vedi: Fanocle). Nella versione del mito contenuta
nelle Georgiche di Virgiliola causa della sua morte è invece da ricercarsi
nell'ira delle Baccanti per la sua decisione di non amare più nessuno dopo la
morte di Euridice. Le imprese di Orfeo e la sua morteModifica Le
ninfe ritrovano la testa di Orfeo di Waterhouse. Secondo la mitologia classica,
Orfeo prese parte alla spedizione degli Argonauti: durante la spedizione Orfeo
diede innumerevoli prove della forza invincibile della sua arte, salvando la
truppa in molte occasioni; con la lira e con il canto fece salpare la nave
rimasta inchiodata nel porto di Jolco, diede coraggio ai naviganti esausti a
Lemno, placò a Cizico l'ira di Rea, fermò le rocce semoventi alle Simplegadi,
addormentò il drago e superò la potenza ammaliante delle sirene. La sua
fama è legata però soprattutto alla tragica vicenda d'amore che lo vide
separato dalla driadeEuridice, che era sua moglie. Come Virgilio narra nelle
Georgiche, Aristeo, uno dei tanti figli di Apollo, amava perdutamente Euridice
e, sebbene il suo amore non fosse corrisposto, continuava a rivolgerle le sue
attenzioni fino a che un giorno ella, per sfuggirgli, mise il piede su un
serpente, che la uccise col suo morso. Orfeo, lacerato dal dolore, scese allora
negli inferi per riportarla nel mondo dei vivi. Raggiunto lo Stige, fu dapprima
fermato da Caronte: Orfeo, per oltrepassare il fiume, incantò il traghettatore
con la sua musica. Sempre con la musica placò anche Cerbero, il guardiano
dell'Ade. Raggiunse poi la prigione di Issione, che, per aver desiderato Era,
era stato condannato da Zeus a essere legato a una ruota che avrebbe girato
all'infinito: Orfeo, cedendo alle suppliche dell'uomo, decise di usare la lira
per fermare momentaneamente la ruota, che, una volta che il musico smise di
suonare, cominciò di nuovo a girare. L'ultimo ostacolo che si presentò fu
la prigione del crudele semidio Tantalo, che aveva ucciso il figlio Pelope
(antenato di Agamennone) per dare la sua carne agli dei e aveva rubato
l'Ambrosia per darla agli uomini. Qui, Tantalo è condannato a rimanere legato a
un albero carico di frutta ed immerso fino al mento nell'acqua: ogni volta che
prova a bere, l'acqua si abbassa, mentre ogni volta che cerca di prendere i
frutti con la bocca, i rami si alzano. Tantalo chiede quindi a Orfeo di suonare
la lira per far fermare l'acqua e i frutti. Suonando però, anche il suppliziato
rimane immobilizzato e quindi, non potendo sfamarsi, continua il suo tormento.
A questo punto l'eroe scese una scalinata di 1000 gradini: si trovò così al
centro del mondo oscuro, e i demoni si sorpresero nel vederlo. Una volta
raggiunta la sala del trono degli Inferi, Orfeo incontrò Ade (Plutone) e
Persefone (Proserpina). Ovidio racconta nel decimo libro delle
Metamorfosi come Orfeo, per addolcirli, diede voce alla lira e al canto. Il
discorso di Orfeo fece leva sulla commozione, richiamando alla gioventù perduta
di Euridice e l'enfasi sulla forza di un amore impossibile da dimenticare e
sullo straziante dolore che la morte dell'amata ha provocato. Orfeo assicurò anche
che, quando fosse venuta la sua ora, Euridice sarebbe tornata nell'Ade come
tutti. A questo punto Orfeo rimase immobile, pronto a non muoversi finché non
fosse stato accontentato. Paesaggio con Orfeo ed Euridice di
Poussin. Mossi dalla commozione, che colse persino le Erinnistesse, Ade e
Persefone acconsentirono al desiderio. «Intonando al canto le corde della
lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi, dove noi tutti,
esseri mortali, dobbiamo finire, se è lecito e consentite che dica il vero,
senza i sotterfugi di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare le
tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole, irte di serpenti,
del mostro che discende da Medusa. Causa del viaggio è mia moglie: una vipera,
che aveva calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha
reciso. Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto
Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non
so, ma almeno io lo spero: se non è inventata la novella di quell’antico
rapimento, anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi, per
questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego,
ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice! Si dice che alle Furie,
commosse dal canto, per la prima volta si bagnassero allora di lacrime le
guance. Né ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla
sua preghiera, e chiamarono Euridice.» (Ovidio, Metamorfosi) Essi posero
però la condizione che Orfeo avrebbe dovuto precedere Euridice per tutto il
cammino fino all'uscita dell'Ade senza voltarsi mai all'indietro. Esattamente
sulla soglia degli Inferi, temendo che lei non lo stesse più seguendo, Orfeo
non riuscì più a resistere al dubbio e si voltò per assicurarsi che la moglie
lo stesse seguendo. Avendo rotto la promessa, Euridice viene riportata
all'istante nell'Oltretomba. Orfeo, tornato sulla terra, espresse il
dolore fino ai limiti delle possibilità artistiche, incantando nuovamente le fiere
e animando gli alberi. Pianse per sette mesi ininterrottamente, secondo VIRGILIO
(si veda), ]mentre Ovidio riduce il numero a sette giorni. Sa che non potrà
amare più nessun'altra, e malgrado ciò molte ambiscono a unirsi a lui. Secondo
la versione virgiliana le donne dei Ciconi videro che la fedeltà del Trace nei
confronti della moglie morta non si piegava; allora, in preda all'ira e ai culti
bacchici cui erano devote, lo fecero a pezzi (il famoso sparagmòs) e ne
sparsero i resti per la campagna. Un po' diversa è la rivisitazione del poeta
sulmonese, che aggiunge un tassello alla reazione anti-femminile di Orfeo,
coinvolgendo il cantore nella fondazione dell'amore omoerotico (questo elemento
non è di invenzione ovidiana visto che ne abbiamo attestazione già nel poeta
alessandrino Fanocle). Orfeo avrebbe quindi ripiegato sull'amore per i
fanciulli, facendo innamorare anche i mariti delle donne di Tracia, che
venivano così trascurate. Le Menadi si infuriarono dilaniando il poeta,
nutrendosi anche di parte del suo corpo, in una scena ben più cruda di quella
virgiliana. Piatto con Orfeo circondato da animali presso il Museo
Romano-Germanico di Colonia. In entrambi i poeti si narra che la testa di Orfeo
finì nel fiume Ebro, dove continuò prodigiosamente a cantare, simbolo
dell'immortalità dell'arte, scendendo (qui solo OVIDIO (si veda)) fino al mare
e da qui alle rive di Metimna, presso l'isola di Lesbo, dove Febo Apollo la
protesse da un serpente che le si era avventato contro. Il sofista del III
secolo Filostrato nell'Eroico racconta che la testa di Orfeo, giunta a Lesbo
dopo il delitto commesso dalle donne, stava in una grotta dell'isola e aveva il
potere di dare oracoli. Secondo altre versioni, i resti del cantore sarebbero
stati seppelliti dalle impietosite Muse nella città di Libetra. Tornando a
Ovidio, eccoci al punto culminante dell'avventura, forse inaspettato; Orfeo
ritrova Euridice fra le anime pie, e qui potrà guardarla senza più temere. Orfeo
vede ora scomparire Euridice e si dispera, perché sa che non la vedrà più.
Decide allora di non desiderare più nessuna donna dopo la sua Euridice. Un
gruppo di Baccanti ubriache, poi, lo invita a partecipare a un'orgia
dionisiaca. Per tener fede a ciò che ha detto, rinuncia, ed è proprio questo
che porta anche lui alla morte: le Baccanti, infuriate, lo uccidono, lo fanno a
pezzi e gettano la sua testa nel fiume Evros, insieme alla sua lira. La testa
cade proprio sulla lira e galleggia, continuando a cantare soavemente. Zeus,
toccato da questo evento commovente, prende la lira e la mette in cielo
formando una costellazione (la quale in alternativa, secondo le Fabulae di
Igino, sarebbe non la lira di Orfeo ma quella di Arione). Secondo quanto
afferma Virgilio nel sesto libro dell'Eneide, l'anima di Orfeo venne accolta
nei Campi Elisi. Evoluzione del mitoModifica Ragazza tracia con la
testa di Orfeo, di Moreau. «Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo
traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la
pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora
dissi "sia finita" e mi voltai» (Orfeo ne L'inconsolabile di
Cesare Pavese, dai Dialoghi con Leucò, Einaudi 1947) Il mito di Orfeo nasce
forse come mito di fertilità, come è possibile desumere dagli elementi del
riscatto della Kore e dello σπαραγμος (sparagmòs) al greco antico "corpo
fatto a pezzi") che subisce il corpo di Orfeo, elementi che indicano il
riportare la vita sulla terra dopo l'inverno. La prima attestazione di
Orfeo è nel poeta IBICO (si veda) di REGGIO (si veda), che parla di Orfeo dal
nome famoso. In seguito Eschilo, nella tragedia perduta Le bassaridi, fornisce
le prime informazioni attinenti alla catabasi di Orfeo. Importanti anche i
riferimenti di Euripide, che in Ifigenia in Aulide e ne Le baccantirende
manifesta la potenza suasoria dell'arte di Orfeo, mentre nell'Alcesti spuntano
indizi che portano in direzione di un Orfeo trionfatore. La linea del lieto
fine, sconosciuta ai più, non si limita a Euripide, dato che è possibile
intuirla anche in Isocrate (Busiride) e in Ermesianatte (Leonzio). Altri due
autori greci che si sono occupati del mito di Orfeo proponendo due diverse
versioni di esso sono il filosofo Platone e il poeta Apollonio Rodio. Nel
discorso di Fedro, contenuto nell'opera Simposio, Platone inserisce Orfeo nella
schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per
esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell'episteme. Per
questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi un phasma di
Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti
poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere
antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo
nell'Ade, non osando morire per amore. Il phasma di Euridice simboleggia
l'inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza
che può essere conseguita solo tramite le forme superiori dell'eros. Apollonio
Rodio inserisce il personaggio di Orfeo nelle Argonautiche, presentato anche
qui come un eroe culturale, fondatore di una setta religiosa. Il ruolo
attribuito a Orfeo esprime la visione che del poeta hanno gli alessandrini:
attraverso la propria arte, intesa come abile manipolazione della parola, il
poeta è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà; a tal proposito è
emblematico l'episodio nel quale Orfeo riesce a sedare una lite scoppiata tra
gli argonauti cantando una personale cosmogonia. Nell'Alto Medioevo
Boezio, nel De consolatione philosophiae, pone Orfeo a emblema dell'uomo che si
chiude al trascendente, mentre il suo sguardo, come quello della moglie di Lot,
rappresenta l'attaccamento ai beni terreni. Nei secoli successivi, tuttavia, il
Medioevo vedrà in Orfeo un'autentica figura Christi, considerando la sua
discesa agli Inferi come un'anticipazione di quella del Signore, e il cantore
come un trionfante lottatore contro il male e il demonio (così anche più tardi,
con El divino Orfeo di Barca). Dante lo colloca nel Limbo, nel castello degli
"spiriti magni" (Inf.). Compare la prima rivoluzionaria avvisaglia
di un tema che sarà caro soprattutto al secolo successivo: il respicere di
Orfeo non è più frutto di un destino avverso o di un errore, ma matura da una
precisa volontà, ora sua, ora d'Euridice. Nel componimento Euridice a Orfeo del
poeta inglese Robert Browning, lei gli urla di voltarsi per abbracciare in
quello sguardo l'immensità del tutto, in una empatia tale da rendere superfluo
qualsiasi futuro. Il XX secolo si è appropriato della tesi secondo cui il
gesto di Orfeo sarebbe stato volontario. Come è d'uopo, i primi casi non sono
italiani. Jean Cocteau, ossessionato da questo mito lungo tutta la propria
parabola artistica, diede alle stampe il proprio singolare Orfeo, opera
teatrale che è alla base di tutte le rivisitazioni successive. Qui Orfeo
capovolge il mito; decide di congiungersi con Euridice tra i morti, perché l'al
di qua ha ormai reso impossibile l'amore e la pace. Laggiù non ci sono più
rischi. Gli fa eco il connazionale Jean Anouilh, in un'opera pur molto diversa,
ma concorde nel vedere la morte come unica via di fuga e di realizzazione del
proprio sogno d'amore: si tratta di Eurydice. Nel dialogo pavesiano
L'inconsolabile (Dialoghi con Leucò), Orfeo si confida con Bacca: trova sé
stesso nel Nulla che intravede nel regno dei morti e che lo sgancia da ogni
esigenza terrena. Totalmente estraneo alla vita, egli ha compiuto il proprio
destino. Euridice, al pari di tutto il resto, non conta più nulla per lui, e
non potrebbe che traviarlo da siffatta realizzazione di sé: ha nelle fattezze
ormai il gelo della morte che ha conosciuto, e non rappresenta più l'infanzia
innocente con cui il poeta l'identificava. Voltarsi diviene un'esigenza
ineludibile. «L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io
cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non
sa. L'ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto. Ho visto le ombre
irrigidirsi e guardar vuoto, i lamenti cessare, Persefone nascondersi il volto,
lo stesso tenebroso-impassibile, Ade, protendersi come un mortale e ascoltare.
Ho capito che i morti non sono più nulla» Più cinico, l'Orfeo delineato
da Bufalino intona, al momento del "respicere", la famosa aria
dell'opera di Gluck (Che farò senza Euridice?). La donna così capisce: il gesto
era stato premeditato, nell'intenzione di acquisire gloria personale attraverso
una (finta) espressione del dolore, in un'esaltazione delle proprie capacità
artistiche. Opere in cui appare o è trattata la sua figura Letteratura Simposio
(discorso di Fedro) - opera filosofica di Platone. Argonautiche - poema epico
di Apollonio Rodio. Elegia n.1 Powell - Orfeo e Calais - elegia contenuta ne
Gli amori o i belli di Fanocle. Georgiche - poema di Virgilio. Eneide - poema
di Virgilio (Orfeo è tra gli spiriti dei Campi Elisi; Virgilio lo chiama
sacerdote di Tracia, senza dunque nominarlo) Metamorfosi - poema di Ovidio.
Fabula di Orfeo - Opera teatrale di Angiolo Poliziano. Orfeo - idillio di
Marino. Euridice ad Orfeo - epistola lirica di Antonio Bruni. Sonetti a Orfeo -
raccolta poetica di Rainer Maria Rilke. Orfeo, Euridice ed Hermes - poesia di
Rainer Maria Rilke La persuasione e la rettorica - saggio di Carlo
Michelstaedter (il rimando al mito di Orfeo è centrale anche nel ciclo di
poesie A Senia, del medesimo Michelstaedter). Canti orfici - raccolta poetica
di Dino Campana. Orfeo Vedovo - opera teatrale di Alberto Savinio. Tutte le
cosmicomiche di Italo Calvino (racconti Senza Colori, Il cielo di pietra,
L'altra Euridice). Il ritorno di Euridice (da L'uomo invaso) - racconto di Gesualdo
Bufalino. Eurydice to Orpheus - poesia di Robert Browning. Eurydice (da
Collected Poems) - poesia di Doolittle. Orphée - opera teatrale di Jean
Cocteau. Eurydice - opera teatrale di Jean Anouilh. Orfeo - poema di Juan
Martinez Jáuregui. Racconto di Orfeo - poema di Robert Henryson (o Henderson).
Bestiaire ou Le cortège d'Orphée - raccolta poetica di Guillaume Apollinaire.
La presenza di Orfeo - prima raccolta poetica di Alda Merini. Orfeo emerso -
romanzo di Jack Kerouac. La terra sotto i suoi piedi - romanzo di Salman
Rushdie. Il lamento d'Orfeo - opera teatrale di Valentino Bompiani. Dialoghi
con Leucò - raccolta di racconti di Cesare Pavese (Orfeo appare nel dialogo
L'inconsolabile). La discesa di Orfeo (Orpheus Descending), opera teatrale di
Williams. La Saga dei Mitago - Il Tempio Verde - di Robert Holdstock. Orfeo
africano - romanzo breve di Werewere Liking. Lei dunque capirà - monologo di
Claudio Magris. Orpheus - opera teatrale di Giuliano Angeletti.
"Schatten" Euridyke sagt - opera teatrale di Elfriede Jelinek Poema a
fumetti, (racconto per immagini del mito di Orfeo in chiave moderna) di Buzzati,
Mondadori. La Musica, Orfeo, Euridice – Il mitema e l'adeguamento al
contemporaneo, di Francesca Bonaita, Virginio Cremona Editore Orfeo
sconsacrato. Viaggio nelle vite di Orfeo, Danilo Laccetti, Jouvence, Musica Lo
stesso argomento in dettaglio: Orfeo (musica). Euridice (opera) - opere
teatrali su libretto di Rinuccini musicate da Iacopo Peri e da Giulio Caccini
(1600). L'Orfeo - Melodramma di Monteverdi. Orfeo dolente - Opera musicale di
Domenico Belli. La morte di Orfeo - Tragicommedia pastorale di Landi. Orfeus
und Euridice - Opera-ballo di Schütz. Orfeo - Opera musicale di Rossi Orfeo (Sartorio) - Opera musicale di Antonio
Sartorio, su libretto d’Aureli Orfeo - Opera musicale di Jean-Baptiste Lully e
Louis Lully. Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Gluck. Orfeo ed Euridice -
Ballo di Deller. Orfeo ed Euridice - Opera lirica di Naumann. L'anima del
filosofo ossia Orfeo ed Euridice - Opera musicale di Haydn. Orpheus - Poema
sinfonico di Liszt. Orfeo all'inferno - Operetta di Offenbach. Orfeo -
Mimodramma di Ducasse. Orpheus und Eurydike - Opera lirica di Krenek. La favola
di Orfeo - Opera in un atto di Casella Orpheus - Balletto di Stravinskij. Orfeu
da Conceiçāo - Dramma musicale di Moraes. Orfeo - Opera rock di Schipa Jr.
Orpheus - Canzone di David Sylvian contenuta nell'album Secrets of the Beehive.
Euridice - Canzone di Roberto Vecchioni dall'album Blumùn Orfeo - Singolo di
Carmen Consoli contenuta nell'album Stato di necessità. Orfeo a Fumetti - Opera
da camera di Filippo del Corno. Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus – album di Cave and The Bad Seeds,
che contiene la traccia The Lyre Of Orpheus. Metamorpheus - Concept album dedicato al mito di
Orfeo di Hackett. Eurydice - singolo d'esordio del progetto Sleepthief. Orfeo
Coatto - Mp3dramma di Francesco Redig de Campos. Caliti junku, canzone
dell'album Apriti sesamo di Battiato. Awful Sound (Oh Eurydice) e It's Never
Over (Hey Orpheus), canzoni dell'album Reflektor degli Arcade Fire. King of Shadows - track 1
dell'album R-Evolution - Martiria featuring ex Black Sabbath Vinny Appice. Pittura Orfeo morto - Dipinto di Delville. Le ninfe
ritrovano la testa di Orfeo - Dipinto di Waterhouse. Orfeo - Dipinto di
Tintoretto. Orfeo solitario - Dipinto di Chirico Orfeo all'inferno - Dipinto di
Rubens. La leggenda di Orfeo - Trittico di Luigi Bonazza. Ragazza tracia con la
testa di Orfeo - Dipinto di Gustave Moreau. Orfeo - Dipinto di Pierre
Marcel-Béronneau Scultura La morte di Orfeo di Michele Tripisciano a
Caltanissetta. Orfeo, Euridice ed Hermes - Rilievo fidiaco. Orfeo, formella di
Luca della Robbia per il Campanile di Giotto. Orfeo ed Euridice, scultura di
Auguste Rodin, New York, Metropolitan Museum of Art. La morte di Orfeo scultura
di Michele Tripisciano, Caltanissetta, Museo Tripisciano di Palazzo Moncada.
Cinema Le sang d'un poète, di Jean Cocteau Orfeo (Orphée), di Cocteau Il
testamento di Orfeo (Le Testament d'Orphée, ou ne me demandez pas pourquoi!),
di Cocteau Pelle di serpente (The fugitive kind) di Sidney Lumet, dal dramma di
Tennessee Williams Orpheus Descending Orfeo negro (Orfeu Negro), di Camus; dal
dramma di Moraes. Harry a pezzi di Woody Allen Tre colori - Film blu (Film
bleu) di Kieslowski Al di là dei sogni (Where dreams may come, di Vincent Ward
Solaris di Steven Soderbergh Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma
Fumetti e animazione Orfeo della Lira è un personaggio del manga e anime Saint
Seiya (I cavalieri dello zodiaco). Orfeo è figlio di Sogno nei fumetti
Sandman scritti da Neil Gaiman. VideogiochiModifica Orfeo (Orpheus) è il
Persona iniziale del protagonista del videogioco Shin Megami Tensei: Persona
3 Orfeo (Orpheus) compare anche nel viodeogioco Hades come personaggio
secondario, legato ad una questline che, riprendendo il mito greco, coinvolge
anche il personaggio di Euridice. Modifica ^ Cristopher Riedweg, Orfeo, in
Salvatore De Settis (cur.), Storia Einaudi dei Greci e dei Romani,
Milano-Torino, Il Sole 24 Ore – Einaudi Pausania, Viaggio in Grecia, traduzione
di Rizzo, Milano, Rizzoli, Anche Conone (Frammenti orfici, nella edizione di
Otto Kern). ^ «Orfeo, fondatore dell'Orfismo» è l'incipit della voce
nell'Oxford Classical Dictionary (trad. it. Dizionario di antichità classiche,
Cinisello Balsamo (Milano), San Paolo,, voce firmata da Nilsson, Croon e Robertson.
La voce dell'Oxford Classical Dictionary prosegue precisando: «La sua fama di
cantore nella mitologia greca deriva dalle composizione nelle quali erano
esposte le dottrine e le leggende orfiche». In modo analogo la Encyclopedia of Religion ( NY,
Macmillan, avvia la voce Orpheus a firma di Detienne e Bernabé: «In the sixth
century BCE, a religious movement that modern historians call Orphism appeared
in Greece around the figure of Orpheus, the Thracian enchanter.». Werner Jaeger evidenzia tuttavia che «nella tarda
antichità Orfeo era un nome collettivo il quale più o meno raccoglieva tutto
quanto esisteva in fatto di letteratura mistica e di orge liturgiche.» (Cfr. La teologia dei primi
pensatori greci, traduzione di Ervino Pocar, Firenze, La Nuova Italia, Orfeo,
Pitagora e la nuova escatologia, in Storia delle credenze e delle idee
religiose, Milano, Rizzoli, Detienne e Bernabé, Encyclopedia of Religion, NY,
Macmillan, Thus, before he becomes the founding hero of a new religion or even
the founder of a way of life that will be named after him, Orpheus is a voice—a
voice that is like no other. It begins before songs that recite and recount. It
precedes the voice of the bards, the citharists who extol the great deeds of
men or the privileges of the divine powers. It is a song that stands outside
the closed circle of its hearers, a voice that precedes articulate speech.
Around it, in abundance and joy, gather trees, rocks, birds, and fish. In this
voice—before the song has become a theogony and at the same time an
anthropogony—there is the great freedom to embrace all things without being
lost in confusion, the freedom to accept each life and everything and to renounce
a world inhabited by fragmentation and division. When representatives of the
human race first appear in the presence of Orpheus, they wear faces that are of
war and savagery yet seem to be pacified, faces that seem to have turned aside
from their outward fury. Guidorizzi,
Il mito greco, Milano, Mondadori, La sapienza greca, traduzione di Giorgio
Colli, Milano, Adelphi ὀνομακλυτὸν Ὀρφήν. Orfeo dal nome famoso.» (Ibico)
Orfici. Testimonianze e frammenti nell'edizione di Otto Kern, traduzione di
Elena Verzura, Milano, Bompiani «τοῦ καὶ ὰπειρέσιοι ποτῶντο ὄρνιζες ὑπὲρ
κεφαλᾶς, ἀνὰ δ'ἰχθύες ὀρθοὶ κνανέου ἐξ ὓδατος ἃλλοντο καλᾶι σὺν ἀοιδᾷι»
Sul suo capo volavano anche innumerevoli uccelli e diritti dalla profondità
dell'acqua cerulea i pesci guizzavano in alto al suo bel canto.» (Simonides; PLG IBetegh, G.,
The Derveni Papyrus: Cosmology, Theology and Interpretation, Cambridge. REALE (si veda), La novità di fondo dell'Orfismo, in
Storia della filosofia romana, Milano, Bompiani, DK Georgiche Metamorfosi Virgilio
Nel libro XI delle Met. Il mito è narrato. Jacquemard e Brosse, Orfeo o
l'iniziazione mistica, traduzione di Dag Tessore, Roma, Borla, Rodighiero, Gli autori e i testi, in Ciani e
Rodighiero, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Discorso di Fedro, in Platone,
Simposio, Siamo nel racconto Il ritorno di Euridice, ne L'uomo invaso; per
questo e tutti gli altri riferimenti cfr. A. Rodighiero; per una panoramica
dettagliata delle riprese novecentesche della vicenda del cantore tracio cfr.
M. di Simone, Amore e morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra
passato e presente, Firenze, Michele Tripisciano, su
storiapatriacaltanissetta.it, Caltanissetta, Società Nissena di Storia Patria,
Jacques Brosse e Simone Jacquemard, Orfeo o l'iniziazione mistica, traduzione
di Dag Tessore, Roma, Borla, Cannas, Lo sguardo di Orfeo, Roma, Bulzoni, Ciani
e Rodighiero, Orfeo. Variazioni sul mito, Venezia, Marsilio, Simone, Amore e
morte in uno sguardo. Il mito di Orfeo e Euridice tra passato e presente,
Firenze, Libri liberi, Guidorizzi e Melotti (et al.), Orfeo e le sue
metamorfosi, Roma, Carocci, Lonardi, Alcibiade e il suo demone. Parabole del
moderno tra D'Annunzio e Pirandello, Verona, Essedue Edizioni, Schuré, I grandi
iniziati, traduzione di Arnaldo Cervesato, Bari, Laterza, 1 Charles Segal,
Orfeo. Il mito del poeta, traduzione di Morante, Torino, Einaudi, Sorel, Orfeo
e l'orfismo, traduzione di Luigi Ruggeri, Nardò, Besa, Orphée et l'orphisme,
Parigi, Presses Universitaires de France, Euridice (ninfa) Orfeo (musica)
Orfismo Decapitazione. Orfeo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Rostagni,
ORFEO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Orfeo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Portale Letteratura
Portale Mitologia greca Orfeo (nome) prenome maschile Euridice
(ninfa) driade della mitologia greca, moglie di Orfeo Fabula di Orfeo. Nome
compiuto: Giuseppe Faggin. Faggin. Keywords: metrica filosofica, Lucrezio, inno
orfico, inni orfici, philosophy of the toad – rospo – l’orfismo nella Roma
antica; filosofia antica – l’antico nel rinascimento italiano – occultismo –
misticismo – protestantismo italiano – Italia contro Roma. Fedro, ovvero del
bellow, Dal bello al divino – Il peregrine cherubico – l’arbero come simbolo –
il fuoco come simbolo – la luce come simbolo – canti orfici – sul bello -- Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Faggin,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Falciglia: la ragione
conversazionale del senso e la sensibilità – scuola di Salemi – filosofia
trapanese – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo salemese. Filosofo trapanese.
Filosofo siciliano Filosofo italiano. Salemi, Trapani, Sicilia. Grice: “I like Falciglia; for
one, he took dialectic seriously, as any Aristotelian does! So he wrote on sensus compositum, on ‘definitio,’ on
‘demonstratio,’ and he even ventured on moral philosophy – in a nutshell, the
perfect Aristotelite!” -- Studia a
Salemi per essere poi trasferito a Padova per proseguine negli studi sotto
Paolo da Venezia e Giovanni di Cipro. Insegna a Siena, Bologna, Rimini. Altre opere:
“Statuta pro conventu Parisiensi”; “De sensu composito”; “De medio
demostrationis”, “De sophistarum regulis, Terminorum moralium, tractatus
singularis, Definitiones et additions super constitutions, necnon formularium
et privilegia ordinis -- Dizionario biografico degli italiani. Grice: Falciglia’s “De sensu
composito” should not be mistaken with
“De sensu composito et diviso” by another Philosopher – Paolo di Pergamo -- sensus
compositus: composite or compounded sense. The term has two applications. A
logical application, as distinguished from a divided or isolated sense (sensus
divisus). In the composite sense (in sensu composito), a subject is understood
in necessary connection with or as conditioned by its predicates or attributes;
in the divided sense (in sensu diviso), the subject is understood in a
hypothetical or contingent relationship to its predicates or attributes. Thus
in the composite sense, it is necessary that a blind man cannot see or that a
man who is running is in motion; whereas in the divided sense, a man is now
blind, but it is possible that he could see; a man is now running, and it is
possible that he stand still. The sensus compositus can be used to indicate a
necessity of the consequent thing (necessitas consequentis), while the sensus
divisus can be used to indicate a contingency, namely, a necessity of the
consequence (necessitas consequentiae). And a rhetorical or exegetical
application, also identified as the sensus literalis compositus: composite or
compounded literal sense; viz., either the literal meaning understood as a
figure or type, with the allegorical, mystical, or moral sense embedded figuratively
in the text as part of the literal meaning, or the literal sense of a larger
unit as distinguished from the sense of an individual term, particularly in
cases where one term is in itself unclear or subject to multiple
interpretations but capable of a clear, unitary sense in its context. When the
composite sense of a text rests on figurative meaning or on a type that is
fully understood only with a view to its antitype, the Protestant exegesis
stands in positive relation to the medieval quadriga, albeit capable of denying
multiple meanings. sensus divisus: the divided sense; i.e., the meaning
of a word or idea in itself apart from its general relation to other words of a
text or apart from its logical relation to another term or thing; the opposite of
sensus compositus and fear of death. Thus physics is entirely subordinate to
ethics, being merely the necessary means whereby the ethical goal is achieved.
This is a point which it is particularly important to remember when reading the
DRN, for although LUCREZIO is a perfectly orthodox memberof L’ORTO and is not
concerned with scientific inquiry for its own sake, the great bulk of his
subject-matter is scientific and he gives no systematic account of Epicurean
ethical theory. His reasons for concentrating on physics will be considered in
§ 3. As Diogenes Laertius points out, the system of L’ORTO “is divided
into three parts: Canonic, Physics, and Ethics.” The Canonic44 is his
theory of knowledge. There are three criteria of truth: sensation,
preconceptions, and feelings. Sensation (αἴσθησις, sensus) is the primary
standard of truth (LUCREZIO). If an error is made, that is not because the
sensation is not true, but because the reason draws a wrong conclusion from the
evidence which the sensation provides (Lucrezio). With the repetition of
sensations, images of each class of things accumulate in the mind to form a
general idea or preconception (πpόληψις, notities, anticipatio, praenotio) to which other examples are referred
(.Lucrezio). Without these preconceptions, attainment of scientific xxx
knowledge would be impossible, for sensation by itself is “irrational and
incapable of memory” (Diogenes Laertius). As for the third criterion of truth,
“there are two feelings (πάθη), pleasure and pain, which
affect every living creature, the former being congenial to it, the latter
repugnant; it is through these that choice and avoidance are determined”
(Diogenes Laertius). Thus the feelings of pleasure and pain are the supreme test
in matters of morality and conduct, and since they are a part of sensation, it
is true to say that Epicurus’ ethical theory, like his physical theory, is
founded on the validity of sensation. Epicurus derived his physical theory from
Democritus, who had adopted and elaborated the atomic theory invented by
Leucippus. However, he made some important alterations to Democritus’ theory,
and differed from him in making physics subservient to ethics. The first
principles of Epicurean physics are that “nothing is created out of nothing”
(Lucrezio) and “nothing is destroyed into nothing” (Lucrezio). In other words,
Epicurus shared the belief of other ancient physicists in the conservation of
matter. The universe (τὸ πᾶν, omne) consists of matter (σῶμα, corpus) and void (τὸ κενόν, inane). These are the only
ultimate realities: nothing that is distinct from them can exist (Lucrezio).
That matter exists is proved by sensation; and if there were no void, matter
would be unable to move (Lucrezio), whereas sensation tells us that it does
move. Mentre nella storia della filosofia la
parola sensocompare, a partire dalla αίσθησις di Aristotele, per indicare la
facoltà di "sentire" (cioè di percepire l'azione di oggetti interni
al corpo o esterni ad esso), le origini del sensismo, come filosofia, possono
ritrovarsi in alcune affermazioni dei sofisti. [1] Aristotele, De anima aveva
dato una definizione del tutto corretta e coerente col pensiero del tempo,
ancora molto lontano dal concepire una possibile sensibilità specifica di un
essere umano come caratteristica peculiare della sua individualità. Nome compiuto: Giuliano
Falciglia. Falciglia. Keywords: sensus, sentiment, sense and sensibilia,
sentient, sensus divisus, sensus compositum – philosophy of the ‘senses’ – the
use of Roman ‘sensus’ in Boezio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Falciglia,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Falcone: la ragione conversazionale e la lingua universale -- Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library. (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. He thought it would be a good idea to translate PORTA
(si veda)’s Ars reminiscendi into ‘L’arte del ricordare’, and he did! Se
yendeno per Marco Antonio P affari d Sergio Capuano, Josephus
Tavjplona. V.lJ), ir- V y ; H T :51 A.
AK-HDia jaq a^Aa-'iooia i a T A T 2 I T T A a .O l.S : -1
O ‘I A J aaa P.tfATUO'IAM '.'7 • a CIÌCTIkA «UlM
WJOIlillttV V-. A^jO 0»5^2Ì!> .fi .1.^ .iKcViWtfT CHS?
C O'fA; SIA!- MEMO o reminiscenza [Cf. Grice, “Personal Identity,” Grice
on Benjamin on Remembering] ./ r ‘">•,-v E L L E
cofi^«alùnqK€Ìefifianttd)dhU * ò memorilo remtmfeer^ap Che, cose ft firn
è l’una,è l'altra il dichiareremo, y fendo ncHofcriut re{ come fi
dice ) vnafiu craffit M inerba, accio che le hofìre regole con piu chiare zsa si
intenda ifOilàfdando' dtffifctè le varie}dtjjicfli opinioni de
Etltfefe^hehimìòfefira ctbftrtfàyptf'nènefo luoghi di raggioname-.
Vujjki*delaimagmami là qtMa-Ufud flanta nel capo )fi è di femore per me^zo
delle finefireftejhffetógUoCchifym chiede l nafe t cjalti efimilifiguifà
d’ un pittore eccettcntcjvti ritratto deli le cofe materiali r dtiìfignàt
Wlfió permèìlo neÙajdemìm, che come vna muoia ben acconcia lejìa
dinanzi-accio che venendoci poi uolunti di ricordarci di qttcUo,per mezzo
dell'intelletto, che tpflo alla memoria ricor* te* qui quella r-jcor^mo
delle cofe che rft» vogliamo à punto come feci fijfero
prefcntlfiglioixhiyE'vòm^mlfr veggia w,cbeh per difetto della molalo pur
di cduiyìhedfegnando non preparane compartì bene i coloricene dopo
qualche tempo quella littori a [conciar fi, fi ella farà talmente
guafia,cbe non ui appaiano punto ifuoi prifìini lineamenti, noi ci
ritrouiqmohauerpeifo il ritratto di quella cofe if téme con la
me^oriarMtfemto^y^in piè, che il pittore con Va* iu:o di quel pòco
circonfcridendò htoàrgm intorno^ tjimdo da vn capò ali' altro
lalìnèà.nepub rfferciredxpttu'ra^ùr ilritrattofenereintegra, la memoria
riprende vita : E qufioèfeeHo’chevhtamiamo il ricordarci D f*fi Con $*
vriairitìera finora enfio fo ÌH quella tou'daàtimmitfo m zhimiamo:0erebro
; ttcminejcenz} trtcorjdrtfoi}' quello] ài qigfc ftcvfàJJéohipftJu&ri
jiio ejftpfjftomf farò veglio intens dere, Io imparai qqejló yerfi. ' '
iì - Nel tempo che rinuoua i miei fijfiiri.; Se le i magmi di
cfuejìe parole mi JLinno cofi chiare nel cerebro, confi i prima ve le
difcgnciimaginatiu,fe pur nqnVh^owfi chiamata dal fine, poi che il tuttofi
fa per accrescere la memoria, perche pojfiamo S\. n? zH. ’.r; a Y :
j r?i ù Z \\ f.y i !rA5i«y.V;;55 vroìjjtwta';.- « >\wh àm>i o,
Chela Renrtiwfcensa ila naturale et, 5 j j-artificiale. •' Il f; f•*?? I* • j.t*c ' Q
VeflaReminificenza edi'due maniere, l'unac naturale, l'atra e artficiefe,
la naturale^ quella thcconwiijlfffi najcej’ artificiale che
còn-regp1é.m ibi, e la caggione, onde fi fia introdotte à pori » t r Onde
fi a nato il poi de luoghi in quella :;"ìv ^aite di Reminiscenza.
P Er mojfrare che queJT arti di ricordare fa tolta dalle naturali ifi
rieme faremo qui chiaro, come non Jènza caggione gli antichi cojlia
tuironojchc fi debbano primieramente el igere i luoghi . Noi vediamo no
ruralmente >che chiunque vuole ricorda fi di vn lungo fotti) fi forza
fempre di ricor darfi de luoghi prima, doue quel fittigli auetàjfe ; e
poi ari K. gii Jkmh T ordine^ luoghi} fitto
intier amento racconta . Introduce limai rmgliofc Poeta non fcrtza
mifìerio ENEA, che battendo h raccontare a Di (Ione ciò, che accaduto li
fijfi doppò la prej S di Troia, per ricordarft di tut te le cafri puntola
rimemorandofi i luoghi prima, dotte quelle accadute particolarmente li fino
. Partito di Troia fine viene in Tracia. Qmktra ra la crudel
morte di Polidoro . Indi ne viene in’ Deio, doue defcriùe d empio, c
fi mentione del vaticinio di Apollo. Ne viene apprejfo in Gre ta,e quella
bombile peJlilenzaracconta.Comc pòi nell'lfde Strofidi rag* giona delle
Har pie. Nella Città del monte Leucate, attacca alle pone deb Tempio il
feudo jebe tolfr ad Ab ante greco. Neita Cifrò di Buti-oto riuc# de
Andromaohejùr Hàlcno . Ne va in Sicilia \ vede Bina, i ciclopi, gli more il
padre . Simonide Melico ( come Cicerone, è Quintiliano firi^ uono) per
che fi ricordo l'ordine^ il luogo de corniti iti > cb’eran inòrti'
nella rouina di quella cajà, venne ageuolmente à ricordarf di tutti’cbe al cimenti
non fipeuemoi parenti riconofcerlijper frpelirli. E di qui ne uens
tleegli inpenjiero di firnef arte del ricordare.Ne mi ptjjò imagginare
htomò cojì infinfato efàocco^chépaj] andò per un luogo non uenga tofloi
foieord'arfianchcrjcbe ejfi non uogliaji cofrche qui gli accadevo fi#
ceffi fé àie di molto piacere,}) difiiacere li fijfi. li caùallo di D ario
pafi findo per quel luogo,doue la fira innanzi hauea della Caualla goduto,
tofìo fi ricordò del fitto,ir annu endo fi caggione } che il fio
Gaualiero nefiljc, corte vuol T rogo, della corona di Perfia
adornoMediamo ancho che ciafcbuno che vuole ricordarft di vn detto, i
fitto yfi u^fempre firz randa incominciar da capo, e figuir poi per
ordine : per ciocbe da quello come da vn filomene à poco à poco à
ricordarft del tutto. Ci ricordiamo con maggior agevolezza delle cofe di
Mathematica, le quali fi feguorm luna l'altra, che non degli A pborifmi
di Hipocratt,che fino finza ordine. Le fiuolèfi le
bijìorie^per^uejìacaggior.e fi imparano à mente ancho dui dònnkctuokfida
contodini,ppr che fi comincia daun-espo,efiuàpmpft\ tardine fine al fini ;
Dice Atriflohle nel libre (Idia Rèmmfcema,(he Vm nimo nojlro fi motte con
molta ageuolezza ne’ luoghi, E quantunque ab- etini per h luoghi iute
ridano, l? interpretino i luoghi T opic t ; non dimeni T bemiflio
eccellente Veripantico intende di qufiìi luoghi materiali . M« che cofi
potrà far maà.che con piu ordine un ricordo proceda, che ojjei guari o a
i luoghi de fi figliano l’un l’altro }. Per che dotte non e ordine j iut
e confusione. Ei poi che fi trouano tutte quefie cofi ne’ noflri luoghi,
incominciamo à dijhnguerli,&- à raggioname particolarmente 1 ..'-l V r u \ «3 rM "iCome si debbano elegere
i luoghi fine flra, angolo# filmile. Nella ekttione di quejlo luogo ymuerfale
bifegna éuertire alcune conditiom. Prima che in cfi'o noi halinamo } o
uerfidmé ontinouamente,e che ne jappiamo ogni minima particella \ I
peregrini eli ganfi quello, doueefìnati fieno} douehabliano battuta
qualche lor dolce fidtsfimoneyche quefli piu de gli altri ci fighono
refìar impreft nella mea» moria. Apprejfo, che le parti fue fumo
dfifitenttl'una dall'altra, come fis nò camere, file, fiale, i loggia,
palchi^entratr, portichì,0' altri fimili ; Ori* de debbiamo fiiggire 17
beatici Colonnat i,! giardini le firade, 1? altri " cofi
fimiglianti, poi che non è cofi doue tanta varietà fi ricerchi, quanto in
quefila . Di più che fiano figuenti l’un ì* altra, ciò e che dalle ficaie fi
fa* glia in filabile camere, djr da quefie alle loggie, e palchi fienza
intvrromi pimento alcuno fra loro,? finalmente fiano quefìi luoghi
chiari, et lumia nofi, perche hauendo à locarui dentro le pitrure delle
parole, la poca luce 1 farebbe lorjòfichi i colori,e le pitture infieme
con la luce ifltffa monchi #4 Imi 9 r e fitr
ciò tante uolte, finche gU habbiamo ottimamente in memoria, tal che firmi
in un luogo con gli occhi chiufi, e AifcorrenAo con la imaginatiua It
vaiamo come fi prefinti ci fijjero . Nc cirincrefca reiterarli trenta, e
cinquanta uolte il giorno, che quejìo è il fendamene dell'opera . Per ciò
che non ejjèndo quefii luoghi ben fondati, e fijji nella memoria,fi nói
ui Jnbrichcremo [opra altre ima a gimmonifiuno fiera caufa della
deflruthone fie rouina dell’altro Quelle lofi, chcgiouano d Jàrci
ricordare di quello che non Zappiamo, btfigtta ohe elle ottimamente fi
fippianojaltrimente fi fibrica f òpra l'arena’ Di alcune opinioni
confutate r# j SI potrà adunque per do raggioneuolmente
incolpare MetroAoro di vanagloria, è di pazziajpoiche uolendo manififì
arci gli unii precetti della memoria, fi ( come fcriue Quintiliano )i
fiuoi luoghi nelle dodeci imagtni del Zodiaco, doue trecento fijfantn
luoghi vi defifie, ponédone un $ per grado : E chi non fi } che ejfindono
tutti quefii luoghi filmili, Lr urna firmi turberanno non poco la memoria
nel recitare f e che cfji filano mos bili, e luoghi tuli, che mai fu
huomo che li uedejfie ? Vuole Cicerone, che fi non potrà alcuno ritrouare
tutte le già dette conditioni ne’ luoghi, che fi •hdnoda
cllcgerc,fingafii da fi JleJJòutta Città in una fiolitudine,e quiui a fi
a uolutotà i fuoi luoghi fi eìega } et imagini . la quale opinione aedo
io che dislaccia à tutti coloro, die hanno qualche ifperienza di quefii’
arte, per t io che potendo noi ritrouare le già dette conditioni reali in
ogni luogo, per de fiopra le imaginationi ordinarie uogliamo noi aggrauar
dtpiula memo % di altre Soie ìmagìnatiorn )Ì phantafini l Die? parimente)
che per ogni decimo luogo fi finga una mano d'oro : le quali coffe a me
paiono fu perflitioni difutili . Che fi pur ci aggrada far quefile difl in
fiotti, potremo in ogni camera/o fiala locar diece luoghi, òr bauremo d
medefimo coma m odofinza ingombrarci luoghi d'altre nuoue imaginatìont .
Se alcuno in Cicerone legejfcji luoghi douer ejfier lontani trenta piedi
l’uno dall'ala irò, òr alcune altre regole dalle nofìre differenti, non
fi ne marauigli, poi che il suo intento, è fiato affai differente dal
nofìro . bjfo fi Jèruiua di que fila arte ne’giudttij,doue bifogna
recitar concetti,e non parole ; òr haueg di bifigno t di luogo ampio,
doue hauejfe potuto accomodare diucrjc perfioa ne, che rapprefèntaffèro
ilfitto;&à noi ha mqjlro laijferienzajche co'l nojlro modo poJJiamo
fruirci dell'arte j Lr perii concetti, ir perle paa rele,òr per ogni
(Atra coffa occorrente ; quello,chc non potrà firfii col fiuo. Onde Ha
natoli porre delle persone ne’luoghi. P lEr ciò che io fino il primo,fie
non twi inganno che uoglb.chc ne y hot ghigia eletti fi accomodino le
perfine, quello, di che gli altri ne fin nodi fienza;parmi di fir beneà mo/lrar
alcune caggioni,che m'hanno i/iof fio i ciofire. Coloro, che fiorifero di
quejl'arte } quafi per tutte le 'magmi) ehe figurano per dimofìrar un
fatto, ò ungejlo, uanno cercando fra i lo* ro amici, quale fiia piu
attojche fi debba à quello ufi accomodare, et in porre in cjficutionc
quefiio penJiero,ui fi tr amette # fende fitiga, e tema po;la doue noi
ritrouando una perfino dritta in quel luogo, e Rapendone tutti icoJìumi,e
conditi oni ( come diremo appreffò) in un punto nell’atto de fiderato
Accomodiamo ; e potremo fogliarla, e ueflirla ; e figurarla in tutte
quelle ; tozze, e modi che parrà che bifigni. Vediamo anchora, cìie fi
nel luogo Me cofi piemie, et inanimate non fit pone alcuna perfim uiua. de
le dimoflri} fitdaparerqqgeudtmenié tette dimentichiamo, la dotte con
quefia ne trrrannofimpte la memoria e piu defilale piu uiua . A ppref fi
chi non fi, de a figure un luogo ji firlo dagl' altri differente ( de in
quefia arte è molto necejfttrio ) non fi potrebbe ntrouaec cofi piu utile
ne piu commoda, che illocarci perfine utue,che ne djflinguano i
luohit\c drà ancho chi fitrrà delle noflre regole ifferienza con quanta
aUegrczza$ e chiarezza fi uiene al luoco.ouefia collocata alcuna pei fina
goduta} o dea fiderata ; che doue le altre perfine ci danno il ricordo
d’urta fola parola > quefia ne mofirarà un uerfi # e duo uerfi ««(imi
: E come in quefìo luogo ci parrà quefia imaginc uiua,rifilei]e noi
riprendiamogli altri, per che noi aggrauiamo la memoria di molte nuoue
iaaginationi . Alche non accade eh’ io rifionda altro, fe non che fi noi,
grauiamo la memoria di cofi alcuna per una uolta, la difgr aitiamo
all'ino contro d’ \nfimte altre nclfeJfirciào,che noi lodiamo. Come si debbano
locare le persone. Noi porremo ne’già detk luòghi alcune perfine da noi piu
conofiiu tejnongia qualunque ci capiterà per le mani jìici uerrà in finta
(io, ma firemo una feelta de piu cari amici, di dieceo uentt donne beh
fiime, 'le quali habbiamo godutelo amate, 0 reuerite, e di altre tante
perfine ridia ' cole, come fino bufoni, e fimilifC ini mefcolarcmo
matrone } perfine no lih ffime,e perfine uilifftme e con cofloro ancho infìeme
firati, preti, fra* tcelli, fanciulli,1? altri, che fra loro facciano
uarta mcfcolanza, e di tutti quefii Infogna fiperne i cofiumi,eilor fitti
à pieno con le cofi di loro oc* cadutecele giocofi principalmente. E ne
porremo un per luogo nt? già difegnati prima, in gu\ fi, che fra loro
uengano mefcolaU inficine, £ * V»i dorma, un ’gmanèìvn fraterna finte, un
parente : un uecchto finche, tutti i luoghi riempiamo .E fi non pojjiamo
di quefhhauer tanto numeroy effendo poveri di amici;empiendo i luoghi di
perfine communi rijcrberca \ mo per ogni terzo/) quinto luogo una di
quelle, accio che in effe la memo a. ria come fianca armando ui fi ripofi
. guffìe perfine fi uogliono cotto? care in piè dritte nel luogo con le
fratte al muro, e con le braccia pendentif accio che poffiamo noi poi
accomodarle in quelle atooni f cbe ne farà necefis - firio, Hor locate,
die le hauremonel luogo, bifigna con gli occhi detta mente stempiarle al
quanto, cpme fi uiue fiffero, ir poffeggtare loro molte uolte ùicinof
toccarle con mano,è chiamarle per dritto, e per rouera feto tante uolte
>che ritrouandoci poi lontani dal luogo ce ne ricordiamo, eoa me fe
prefintiui fòjftmo . 1/ quale effercitio faremo noi per duo giorni
contmoui. Quando vedremo poi che la memoria finza fruga alcuna Jè ne
ricor da, e dopp'o befferemo non ne refla turbata, potremo ben dire, che
quefìoèfigno ch’ella ottimamente le fippia. i. . > . à. *. Come si
debbano fingere rimaglili de concetti. Abbiamo ragionato detuoghi, è
delle perfine ;ragg\omeifìo JLl h ora dette imagini, (he è la terza parte
e la piu difficile delnojlto effercitio ; e doue confijle l’accortezza,el
giudicio del recitare. Chiamo io IMAGINE, similitudine, idea, forma, o simulacro,
che cosi leri trovo chiamate dagl’antichi quella pittura animata che recamo
nella imaginauua per RAPPRESENTARE cosi un fitto, come una PAROLA.
Parlaremo prima come ' ft fingono i fotti, O CONCETTI, e poi passaremo à
dire dette parole, che è piu difficile, per ciò che ogni cosi che si può
fireft puo DIPINGERE, ma non eoa si
UNA PAROLA che non fippiamo come sia fatta. Queste imagni di concetti sono
o fimpìiafi composite. Chiamo simplici quelle che si potino una parola
diptngcre. Composte quell’altre, che con piu d’una favela, quara io
bifigna raccontarsi il fatto inaero. Per essempiom s’io voglio raccordate
mi Jòlo della fauoltt d’Andromeda, fingerà la perfina del luocò ignuda,
legata a un fioglio con catene di fèrro, tutta tramortita piangente. Ma si io
vorrò ricordarmi d’una fauola ò btjloria intiera, dove intervengono piu persone,
ridurrò il fitto in quella breue fcmma, e di perfine, e di cosi chi Jta
pojftbile, accomodandola al luogo. Ed in questo mi piace imitar i pitto?
ri^ouero gli poeti Xragici, o Comicide Jctpprerappre fintano la lor
fiìh la con quelle piu puocbe perfine che poffonoi Ne ehij hria cofì piena
di varietà di cosi che diece perfine non b fiino a rappre fintarla . Se a
me piace di ricordarmidella hijloria degli Ke,quàndofurono cacciati di R
ot ma. Tingo rieia prima imagine T arquinio inbabim reale ò con vna ffada
•n manose ch’habbia vna donna ignuda infino nel fecondo luogo, la quale
fingerò che fia L ucretia,che piangendo uolgagliocchi al dèlo in atto,
che dimoflri cedere à fòrza alla voglia dtshonejla fila. Tingeremo, terza
pefia n a parimente LUCREZIA afflitta ir dogliofàraggionareaUa quarta per
fia ttaufiita da Collcttino, il quale fla attonito ad ofiolatria; Ir ella
cauacofi Impugnata difètto la utflè y fincfcrifcamomlmente il
petfo.lAquinta per fina wimagincanchi Realc con la corona toltali di tejlafe
dal fuo folio dea poflafiràmedefmamcnte T arquinio. E coft nel medefmo
modo firn* pre ci onderemo dipingendo la bifloria tutta Philomena in
queflo modo iifinfiintolaUhfioriàde’fioifùcceJftjquandolamfirQà Progne
fua fittila ; doue ejfireffi. tutti quegli atti principaliirte* quali
confifleua la ina telligentia del fiuto. Di qufia maniera è LE MEMORIA DI
CICERONE, berta thè egli in un luogo filofingefft [a hifloria tutta; la
douenot col nojlrt ordine Tbabbiamoancbo effreffad firfi con piu ordine racconterajfi,
Paffiamo bora A RAGGIONAR DELLE PAROLE., i [' et fileremo alt A. V A
quanto per trattar di cosi non poco necessaria alle nostre regole; E
firkyche avendo insegnata, e mojlra l’arte del ricordare } magniamo qui
anebo L’ARTE DEL DIMENTICARE. Di questo nostro esscrdtio una parte ne è
jhbilcjunaltra mobile. Stabde fino i luoghi, e le perfine. Mobile
fino limagini cosi de concetti, come delle PAROLE « Uluoco fa quello
effetto in questo esserctio che fa la caria inuernicatv, o pietra de
compositori di musica. Le perfine fino le righe, che iui fino, le imagini fino
le note, che ui fi fanno di fipra cfiruito chcfièil compofmre di quelle,
firegadole con fi uto,b con un panno humido le manda via, per firuirfi
della carta per l'altra wlta. Noi delle cosi che recitiamo, di alcune vogliamo
a fatto dimena tic arci te altre uogliamo che tomamente ne refiino nella
memoria. Vos Aliamo dimenticarci di quelle parole, ò concetti, cheti
poniamo in memoria ’éarà di per affidar art,e difi orzar l’ingegno, e
recitate che l habiamo y non te ne firuiamo piu dirimente . Il medefmo
dico di quelle cofi, che redo Homo a pompdfa ai oJ1entmonc,quafi per vn
gran miracolo / una tana ta fiUati, di memoria. E ne ho ueduti io non
pochi farne le marauiglie. Vogliamo anelo dimenticarci delle comedie f
deHeletuniy delle Orattoni, e Prediche/percbe fatta U rapprefintatione
poco adiriamo, che elle ci rea fiino ; anzi procuriamo dliauer i luoghi
uacùi.e netti per poter firuirccne deir altre uoltr, Il per che bifigna
imitare i pittori,i quali dijfiaccndo loro il ritratto,con ingejfire di
nuouo la tcuola y la redono bianca r preparati per la nuoua pittura . A
quejìo modo bfigna,clje noi con vnaffogrta in* tinta di rubrica
tfcancelhamo tutte k imagini fatte, e con gli occhi della mente vediamo
tutte le perfine ignudo, e con le braccia penderti, o rac a coltela
lenzuola biancheirte andiamo difeorrendo con la memoria tre fa quattro
volte } facendo penfiero,tomc fi mai noi figurate l’hauejjimo f € che mai
ptù nonjvi ritornino. Di quefiiprecctà banca di bjfigno The a melode (
come feriti^ Cicero**) che ejfindg dimandato da S moiude, fc egli volata
imparare Torte ài ricordarft, rjfiofi > eh ejfo lenirebbe piu
volentieri l’arte di dimenticar fi apparati, per potere di quelle cofi
dimenticar fi, che ejfo defideraua di [[cancellar fi dalla memoria . Ma
quelle cofi che vogliamo ricordarci, che ci paiono vtili j e necejprrie :
bis j legna doppo di hauerle recitate in quefo modo otto, e dieci volte,
indi à poche bore far il medefmo, cofi per alquanti giorni, e la notte in
quel fts lenti o, che gli occhi fin riuocati dalle cofi finfibili, à vero
la mattina per far il cercbro meglio dijfojlo, per ejferegia digejìi, e
confumati i va* pori del cibo, bifigna far ancho firmo penfiero alle
imagini recitando* accio che s’imprimano bene nella memoria ; che poi fi
ben vogliamo, non ce ne pofftamo dimenticare ; per non ejfir altro
memoria, ch’un habito di tener firmo le imagini . Però veggiamo i tardi
di memoria dopp'o, che hanno imparata vna cofi non dimenticar {eia più :
per ciò che confidando poco a fi Jlejft, fanno con tutto il penfiero all’effetto
4 el ricordare, la dos ucgli ingenioft confidati nella bontà dell’ingegno,
poco dopp'o d'kauera ! recitato fi ne dimenticano. Come possiamo
ricordarci delle parole dal proprio. H Orrt raggionaremo, come pojffimo
ricordarci delle parole, opri più difficile dalla pajfata . A ciò fare
terremo vna regola da Aris Jloicle nel libro della remmjcenm, che ci
ricordiamo delle cofi > ò dal proprio * ò dal fimile * o dal contrario
. Noi di ciafcbeduna di quejle fi remo particolar raggionamento, cominciando
dal Proprio * Le parole, che ci occorrono à ricordare, altre hanno le
loro imagini, altre ne fan* Hodifinxa . Chiamo io quelle parole bauereje
imagini, che DENOTANO cosi materiali jome TAVOLA, che è un legno piano, ò
PIETRA, che Jèra calce marmo,'ocrtta cotta: A kun altre ne faranno di
finita ft come qoefla proli PERCHE,\yw T £ N T O, àieTun dinota v«
dimandar cè cominciaremo da quef1e>cke fi fon dette) per ejfer piu fk
t cili: per che ciascuno avendo à dipingere queste nella memoria, sa
meglio dipingere una mola o pietra che un perchefo tanto j che non fa
come fumo fitti. Co/i l'ingegno di colui che fi eserciterà, s auezzerà à
pocojà poco a ricordarsi. Ajcolta: Not della PRIMA PAROLA CHE VOGLIAMO
RICORDAR esporremo l’imagine in mano della prima persona che habbiamo
lacata nel primo luogo e la dipingeremo qui con la imaginatiua, come
diremo Off prejfofe fingeremo quella persòna tenerla in quello atto che si
con sa più Con l’età, co'l portamento, e co’cuoi cofium 't che come
abbiamo prima ietto bijògna hauerli lenijfimo conofciutì Se da per caso UCCELLO.j
e toccherà ad un FIGLIUOLO, ci imaginaremo un UCCELLACCIO GRANDE che lo tiene
abbracciato, e cinto, come habbtam visto L’AQUILA CON GANIMEDE. Se toc?
cherà il medesimo ad UNA MERETRICE, la fingeremo tenerlo nel grembo Jlret
lo, come habbtam visto LEDA tener GIOVE MUTATO IN CIGNO. Se toccherà ad
un cuoco che lo Jlia, ad arrojlire . Ma jè per case dice TORO; è toccherà ad
vngiouanc gagliardo, lo fingeremo Jìarin quell’atto co*/ toro, che
habbiamo uifio in più-ritratti d’ERCOLE con Acheloo Se ad un uillano,
nella gufa che Argo pafceua lo vacca. Se ad una vergine 3 che ui feda
fipra, e ut Jcherzi, e lo inghirlandi) come fi legge di EUROPA. Se ad una
MERETRICE qual ne deferiueno i Poeti, Pafifi congionta con quello. Daremo
urialà tro essempio, Se dirà CORNO, e tocca ad un sacerdote)Ct imagmere ino un sacerdote antico che tiene una uitnma
per unxprno. Una vergine> (he l’habbia pieno di fiori, e di fiuta
ncliaguifà che le ninfi Notaci tengo# no il CORNUCOPIA che unànergine
fi-fàccia dormir nel grembo un LEO a corno ) che co’l fùono della Citerà,
ue lo halite indotto,‘Vn cacciatore 4 qual habbiam visto ADONE per le seluv.
Vn infime detia moglie, come A leeone lacerato da-Qm; e filmili imaginano
ni cfxpvffpno ejjert infinte^- « fr.U fr. Il mete fimo firn ALLA SECONDA
PAROLA, dipingendola aìU seconda Peri fina, co ft della terza in fino
all‘ulama, Jìn die fiano ripieni i luoghi Dopo comincieremo a recitarle da
capo tutte, e dimenticandoci di akunajlcjvres mo di nuouo LA FIGURAZIONE;
apprcJfi le reciteremo a rouerfeio, poi traladaremo le Jparijpoi reciteremo le
trdafàate : ne penfire che fia piu dijji àie dirle a rouerfcio t che a
dritto,per che auendo le parole dipinte ne’luoghi come colui che ha le parole
deferitte sopra una carta poco li fard cofi dal capOiCome dal fine
recttarlc; e do farai il giorno tante volte, finche eoa nqfcerai, che db
ft faccia poi finza fatica veruna. t >, *MÌk « • Hs'*« it-
ik - Alcune condizioni che (i ricercano alle r imagini. Perche aviene
Mora che dipingendo l’imagine d’una parola, o fatto non ne fouuiene con
quella ageuolezza che noi vorremo, o no ce ne ricordiamo punto; per do che
non di tutte LE FIGURAZIONI che fingia 0 no, ci poffiamo noi
ricordare;rcnderemo noi la caggione onde possa accadere, aedo che effircitandod
in qucflo, ricorriamo fimprc in quel modo di imaginare che ne tenga la
memoria e piu defla, e piu yiua ; e non dicano gli poco esercitati al
ricordare che piu lofio si ricorderanno da per loro di una parola finza
l’aiuto diqucfl’arte jche per quella fila parola non farano no in
ricordar fi del luogo, detta per fina, e dell’imagine. Noi per confa guir
qurflo lamineremo per quella firada per la quale LA NATURA iflcjfi c guida jn
tutte le cofi ARTEFICE maravigliosa. Mediamo naturalmente che dette cosi
prime e nuove d ricordiamo assai volctiticri. Io mi ricordo me gito dette
fiuolc mal composte } cbc mi recitava la bada mia qua/tdo io era
fnnciullo t cbe di quelle che leggo ogni di ne’poeti. Pcr affimi in quel tempo
ogni cosi prima è nuova, come dice il LIZIO, e non come dice Attieni: i
fanciulli Uno lantani da oem {enfierò Jt C da noiofc fàjlidió,
Veliamo anchórd:che ri ricordiamo Ielle eojè marauta gl iofejper che la
marauiglia najce Ma nouita, Ci ricordiamo anchora dei le cose rare, ir
inufitare per che ne taufino maraviglia, eia furo fi ricora Aera piu d’un
Cometn apparsele delle stelle, che habbia vifìe Ceffate dia Jtorrere per
lo (telo, piu d’un eclisse del Solere della Luna; ptu d’ur, ara co
celejle di notte, che dt giorno, per ejjere cofe più rare. Per ciò che
delle eojc.che ogni giorno facciamo ci dimentichiamo assai uoluntieri. Ci
ria cordiamo ancho delle cose fàcilmente che ne muouono à giuoco, i i
rt(è; Per che il rifi najce dalla marauigUa, e le cose piu tofìo dishonefìe
e bruto te ci fanno ridere che le buone. Ci ricordiamo piu della gentil
dorma, e dell’asino, die ne defenue Apuleio, cìie delHionorato atto di
Regolo j ò di Mutio Scevola. Ci ricordiamo anchora delle cose che ne
piacciono, ir anchora, che non voglidmo la memoria ce le rapprefinta dinamica
dove de fate cose che ne diffiacciono gonfilo non ce ne ricordiamo, ma le
alhorrfa mo ancho co'l pensiero, e fuggmo piu che pojfamo il ricordo di
loro coll’imaginatiua. Le cose bombili e ffaucnteuoli ci danno anchora caufa di
ricordo; per che l’horribiltà del fatto, d tiene per qualche tempo
l’animo fercoffo, e foJfefo, e cbicordiamo piu di coloro, che muoiono per
fet^a di gtrocijfmcgiuflitic che di coloro che muoiono di film, ò d’altre
malattie. Ci ricordiamo anchora delle cose varie fra loro e differenti, che fe
ne òli 3 e nella Mufuacida piu diletto la varietà che l’abondanza
nelle cose della natura, e della martoria fono non filo vtdi, ma necessarie;
di una pittura di BUONARROTI (si veda), o di Tiziano ci ricordiamo meglio
che di quella d’un pittore comun; perche dove in quejìe fi veggono
ogni: giorno cofè filamenti Ordinane, cofi in quelle fi veggono dtuerfi
mouia menti, ir infilile attitudini. Se adunque ciò conojciamo, per che
non -, debbiamo noi figuir quello, thè fa Natura ifleffa ri rnofìra 1
Hora con ogni noflro penfiero alfigurarc facciamo le imaginationi nelle
perfine » de gagliardamente muouano le membra, che imitinogli atti degli
Ijlria . ni, piu del fiUito granii, ornati ii colori splendenti l e
viui, t bruttezze incomparabili, e di altri p radicamenti, che ne
rapprefintmo all'animo una nuoua forane, marauigliofi, mu finita +
piaceuole, varia, c faauenteuole pittura. Si io voglio ricordarmi ii
INNAMORATO; non fingerò la perfino del luogho ben ve a fiita, ir acconcia
fijjnrare > e fir fintili altre co fi conuementi ad vn gentiluomo
innamorato ; ma la dipingerò qual deferiue OVIDIO (si veda) Polifit mo
innamorato, con la falce raderfi la barba, co’l rajìro pettinar fi la tea
fia;ffacchiarfi nell’acqua; con vnflr omento di mufica forano finare,e
cantare . Per che ejfinio cofi ridicola timagine, mi defiera con maga
gior ageuolezza il ricordo nella memoria . Il fonile farai ancho
nettale tre cosi Onde fia nato il ricordar dal Simile; e come fi
faccia S Jamogiontìiraggionarc, come fi pojfano dipingere quelle parole J
chejìanno finza le loro imagini ; il che è opra dijficiùjfima, e doue fia
tutta l'importanza dell’arte. Per do che dice il LIZIO, ejjer net
eejfario k ciafauno j che faecola che vada fae colando l’imagim et queU
la cofi t ne può l'intelletto noflro vfir il fuo vfacio, fi £ intorno non
fi gli rapprejènta Immagine di quella . Onde non confijlcndo in altro
quet fi* arte > che nello cfarimerc intieramente in difigno nella
memoria il rittratto delle parole; come potrà chi far il volefie a gufi di
eccellente pitt tore fi ngcrc con l'imaginatiua,ò mojhrar in difigno
cofajche egliifìcjfi no fàppia come fatta fi fiaitìora duque forziamoci
di moflrar molte rego kjc uie, accio che hauédole J’esercitate dindzi
tutte ) fi uada firuendo di quelle, che più proto li uegono, e più comode
fi le ritrouaie co queflo fi reco f c/i la fatiga del faito.U feudo modo
adùque, che babbiamo detto di [opra Jìc il ri cordar/ dal Sfatile,
e queflo modo daremo noi a quelle parole, che non hanno imagmi . Chiamo
io queflo modo dal fimile.per ciò che non ha uendo le lor proprie imagini
quefìeparolejaremo loro le propinque, affini, e fi non in tutto, almeno
raffomiglianti in qualche parte. Ma prima, che di quejlojàcciamo parola,
parmi conueneuole a narrare alcune caggiìrà, onde filmiamo noi che queflo modo
ne pojfa efiergioucuole in qualche parte. Che un simile ci fa ricordare d'uri
altra cefi fimile/ecofi funda tu fui naturale, e l if peri mentiamo ogni
giorno. Ogni madre, che uedrà un JìgUuolotch’habligliocchiye la faccia, e
le mani,e'lgeJlo di alcun fio, figlio^chegia gran tempo non hahbia
ueduto,fine ricorda fibitv. Andro machc uedendò Afcanio figliuolo dt F
neaper la simiglianza degl’occhi, delle mani, e del volto si ricorda del suo
Ajhanatte, onde piange, egli (à prefinti. Sempre che veggo una donna che
quando parla lo ride fi certi mpuimenti di labbra, e di facciami ricordo
dt un’altra donna conosciuta, che ridendo, o parlando ficea fimiì atti.
Sempre thè fintiti) cantare l'aria Sun madrigale, ch’hablia alcuna
fimiglianza con alcun altro, mi ricordo di quello di chi lo cantaua. La
fimiglianza c nel predicamene della ree, lattone : conofciuto un e [Iremo,
e fòrza che Ji conofca l’altro. Cosa di troppo gran fiocco, e finza mente
firia,che hauendo locata una parola fio mile ad un'altra, e finttndo,o
ueggendo quella non cene fitiuenga fibito. E fi ben fintiamo in noi un
cere che di /confidarci, non ce ne /marnami però punto. per che la
memoria nofira ancbora, chc non uogliamo, lo ci torà ita per fina fa
mente. Come possiamo ricordarci dall’Aggiuns, - ti od e L itfr » * '
a H Oro trattiamo k flette detSimileJe quali fino molte, e le
Jiuideo remo in due parti una terremo dalla intesone della parola?
l'dtrp. dalla frittura, dai con fiderando come ellafìl, cmincktremo h
quefìa, che e lene afficurarààn quella, ch‘è piu certa dell’ altre. La
chiamo dalla fcrit tura, per che occorrendo una parola, la cui
fignificatione non ajjomiz glia ad alcuna altrado alterando quelle
lèttere, ò frllabe > che la componga no de darò famigliatila nel suono.
De’ modi d‘ alterarla non mi fi untene bora piu di cinque. Aggiungere,
Mancare, Trajjwrre, Mutare,}: Parure. Cominciaremo dall’aggiungere j il
(piale può ejftrc nel principio, è nel mezzo, e nel fine della ditaone. Chiamo
io aggiungere nel principio della ditti onestila figura cb’igr ematici
chiamano Prolhefis, de fifa aggiungendo una fillaba, b al meno una
lettera al principio, come con magi gtor prontezza,ò comodità ne occorre
in mente . S’io uorro ricordarmi di CH E, non fitprei,chc imaginarmi da
porre in mano delle perfine, ò ne* luoghi, ma, aggiungendo una lettera O
nel principio della ditaone diri OCHE, che fino le Papere, quejìi animali
in mano della perfetta mi fa ranno ricordare di ChE.llmcdcfimo faro a
LOMBO, per aggeuolan mi tifilo ricordo, per che fi io aggiungo la fillaba
CO nel principio, barn rbCOLOMBO,quefìo animale adunque mi farà ricordare
dùLO M BO. Farò amhora nel mezzo della dittione l’aggiuntone di una
fillabafi lettera, Ì7 4 e da grammatici chiamata quefla figura epentesi.
Se io cera co ricordarmi di R I A, che non si come fìtafitta, aggiungendo
un V nèl mezzo dirà RIVA, vna rtua adunque, b vero vn colie fiorito in
quel luogo mi darà il ricordo di RI A; cofi per ricordarmi di
INSTRQ, porrò nel mezzo CHIO.è dirà INCHIOSTRO) le manilla fàccia
dela per fina del luogo imbrattata di inchitni firà ricordare di IN* STRO.
Qucflo parimente faremo nel ultimo, aggiungendoui pur una fillaba come
per ricordami di FINE aggiungerò STRA, e fà T h NESTR A, che fi bene come
fia fittmeoft à DI aggiungerò vn O fedi ÙDIO, chiamata pur da grammatici
Proparalejfifi Paragoge. Come portiamo ricordarci dal nancamento S Egutil
Mancamento, che e il contrario di (fucilo, che habbiamo dettò, mancando
dal principio ; dal mezzo, edal fine della dittione alcuna lettera,ò
fillaba ; e prima ragioneremo del principio y chiamando tfuejìa figura
con i Granatici Apherefijir auerra,chc terremo al principio del la
dittione.lncontrandomi a ricordar di SPERO j togliendo il primo e dirà
COSCIE: fingerò aduna ape la perfina del luoco moftrarmi le cofcie, e mi
Jòuucrrà ancho fubito di CONOSCE, e da Grammatici c chiamata quejla figura
di torre di mezzo la dittione Sincopa. Atterrii il medesimo alla fine
della dittione. Occorre CAN IT ferrò l’ultima, e dina CANI. Ecco duo cani insieme
mi daranno C ANIT. Se vorrò ricordarmi di SOLEMO, un SOLE mifirà ricordar
di SOLEMO: togliendo parimente quella sillaba MO tire detta questa apocope
k ' r v.,et * rv V v ì
-‘‘-t Come possiamo ricordarci pet lottai sponimento. I L
traffonimcnto auiene ogni uolta,che le lettere, ò filiale della dittione
mutano luogo fia loro. Prima diremo del traffonimcnto delle lettere. Ciò è
della prima all’ultima, della feconda alla penultima, e cosi di mona, in
mano dell’ due. Se mi vorrò ricordar di ROMA vvolgerò tutte le fd tale al
touerfciofi irta AMOR, vrt Cupitine m mattò, curro all'ract àato con la
persona del luogo mi porràinmentoj ROMA. Si trafiongos no medefimantfnto
le filiale, cóme dicendo REGO; che non si come fa fittvìvolgo In seconda
fittala al primo luogo } t la prima àtt’t ihma, e dirò CORE, potrà meglio
dipingerfi un CORE che un RECO. Cefi di R 1SEM I, porro fióre MISERI ;
che ficn le filiale riuolte.Si potranno anchora trofporre le lettere
altiimcnte ponendo la fecondò al primo luogo • non mutando le ah e } come
vedendo ricordarmi di ALTO, porrò la Jet tonda lettere L al primo luogo
poi quelle, che figuono, e dirà LATO, la perfino del luogo tvccandofi il
lato, mi fitrà ricordar di ALTO . Il me* dejmo porremo far attefittabe:
Se per tifo eeicarò ricordarmi LO ME* N l, pongo la feconda fittala M E
manzi,e dirà cofi trafijwfiìa MELONI, Ecco due meloni in mano delt afifidente
del luogo, mi fiora ricordare del primo . Il fimile fiorai degli altri
traff>oriimenti,ché pofifono effereim Jmti t e bqfimo quefiìi
effempi.per non efijèr piu lungo. Come polliamo ricordarci per la ' '
mutatione. Cap. ier cafi ricordarmi di SELO, utdo ìb mutando le uocali
potrà dir SOLO, anchora SALE, e SOLE. Se narrò gncborn ricordarmi di una
donna chiamata MENICA, me ne ricorderò fingendo vn MANICO di fiata/* di
Qppa, fingendo parimente vn i MONACO,e ftmiU.Per SA GG IO ; SEGGIA, per
BENCHÉ vn BANCO, per PARLA, PERLA : tAa pajiamo alla divisione. Il
dividere che faremo della dittione in piu fillttbee una di quelle
par? tijche fono ytìlifftmc a farci ricordare pcr che ne nafcenonjolo il
por? te a memoria ogni cosa che occorre j ma di qualunque nomejìrano,
bar? laro,& inulto, che fùffe. Ma parliamo prima come fi fàccia
quefìa dia ui fotte in partì fignificatìue, per che fegliono occorrere,
alcuni nomi, de ancho diuift figtòfi canone poi riforniremo di quelli, le
cui parti nonfàps piamo a chi aJfomigliarle. Occorrendo per.auentura
AMOROSA >s'io {fluido per mezzo questa parola diri) AMO, ROSA J
fìngendo dunque vn Amoda prender pefc i, et yna pùnta di Kofi mi fòri
ricordar AMOROSA, che, fi intiero fife non faprei ritromlo. Il medesimo frrcmoà
SOLE KE'Chediufodirà SQLE ieKE'VnReaiun que yefìito col Scettro^ conia
corona, e con yn Sole di legno, quale ftam filiti veder dipinto, ci farà
ricordar di quello. Coftanchora di APOLLODORO Vn A polline indorato. Vegliamo b
era all’altra parte . Di* uidaft il nome Jlranoin tutte le Jueftllabe, c
daremo per ognifillaba alcun sogno mannaie in mano dela perfina del luogo,
il cui nomo cominci da, % quella ftlkka r Con yneffimpio mi farò meglio
intendere Volendomi t Come possiamo ricordarci dalla divisione. U
/empiici A Diofcòtidc, 'cfimAi Cmè STÀEfLODEttDR A} li prima fillaba e
STA. trio fingerò la prima perfona tener in mani una Jìatua A marmo. FI
nell’altra un ramo A fico : LO > ne* pick una locujìa. DEN, chef altra
perfona co una mano fi tocchi uniente.DRA e con l’altra abbracci un D
ragoneionde legenda le prime fiUabe di 1.! - j t o. r ; Coti che fegno
debbiamo fegnaile ^ n, jff Z'm un ATA perche patria dir
colui, chela da fir effreitio A epuffarte, à 1’ Ichcfcgno potrò
conofcereio t fi in la figura ui è aggiunto, mancar io jfrdjpojlo.fò
altramente alterato i perciò che guardandoti mfap ri piu Affetti à
ricordarmi A ciò che-mi magmi che della sola parola ifìeffa. A queflp noi
ripareremo con uuabreue regola, che dobbiamo cefi figurarci la pittura
come è la co fa ifìeffa . S e io ho aggiunto alla dittione torri alla
figvra,efi ho tplfp ui aggiungerò,ò la mtarò mediche parte, come
pcreffempio, (colendo ricordarci di CHE mifinfi 3ueOCHE> per Amojlrart
chefa letterati capo, della ditone c fouerchiaj smammi Capo all’oche,e le
fingeremo cofi, acfipchc il mancamento Alle teff alti pH ! muttrafi
parimente ifs tUnW fiu VnfliENNAflratmdinmaccn le piume ritcrte^un
BAN* CO rifinito, un SO L E cdifjaàjt tenebrò fc, òr una PERLA tqal
con da in quella parte mutata, doue habbiamo di lei fitta la mutotione.La
Db uifione fi una ROSA cui manchilo
aktyfìe^altdti’jÀPQÌ&QtndoratD: rotto per mezzo, et fimili figurati
ori come piu n piacciono^ ti uegono à uerfo.Ne ti w r* jy m j „
jti '*jri i » o pensi » tfijnd’ u tòtrinciàua c irosi 'in fcr
mt&c | .‘^1 ri ©drtfcfofà lafctitttì£i regole che altro noi non
vogliamo xth'uftre interini in uece delle le t ter e t per patrie
depingcrc nella memoria. Il Tempo lo dipingeano figurane Jo il Sole, x
là, Lurknii faggif* cbequtflì fmetmrù o emfdfe m fo ..Perii Moruk
dipittgeanavo Serpe.lon inbocca-jjl Serpe è punteggiate di oro 3 òr
dipinte dt fiutane, che r effe mkaH jietvtm la jlelle, è rotondo fenkh
'principio 3 e fcn^ofne^Qmé tl 'cmkofd&klo:} rinuoua di fiogUa alla
primauera, v-Và 1 V é* :5 **>$• i . r r- m iwfci&t "t\r: o* T
"yOtremo parimente col Gejlo effimere alcune fgwfimonidi paro A le ;
e ne diremo piu particolarmente quache non barbiamo fitto rag ? gionando
delle I magini de* concetti, e dtquejlo potremo fruirci con molta
comodità, per ciò che à firci ricordare la perfino del luogo figurata
inquel gffio; ne porge molto vtile, e quella pittura figurata in un
decente gefìoj quantunque taccia, che non paia che raggioni, ed efjrimi «
fio con detti piu che la voce vma tVn muto effitme coi Gejlo ciò che egli
de fiz dera,'V fóndo le mani in uecedi lingua Philomena efireffi col
gejlo dia ferrila più chiaramente la violenza vfatde daTereo, che non
fice con la pittura* N efil cifignificano quijli atti nelli hnomini, ma
neUi animali ondo, che io*i filo mouerfi ci accennano ciò che ejfi
defiderano. Chi non giudica /thè dinoti humiltà vn capo chef a inchinato
alla dea fira, vnritto arroganza, piegato innanzi accetta, ti pendente in
dietro neghi deche con bocca, mani, e con ogni altro membro del corpo non
fi fojfino dimjk'are infinite pajfmi fi parole ì Chi non giudicara
mejlo, et di mah voglia vno,che ft veggSpalhdonel volto,con la fronte
dea prefiy col collo languido, e pigró intuiti ifinfi,e nelle fòrze dir
un’altro infiammato (tira, thè hahbiail colore gli occh gonfi,cr
(facondo, t rutre le membra nfiritite, e fiia èon tutta la perfimtin moto
gagliar difi fimod Jf of occorrendoci adunque (come per cafifi
IMBRIACO a 'V* * - a I •• # ^ v - fìngeremo quella perfètta in imagine,
quale veliamo deferita Sileno da VIRGILIO (si veda); Jìar dijlefo in
terra me^go finnacchiofi, con le vene gonfie di vino, con vna corona
difirondi di vite, con yn fiafeo, che gli fenda via cino, a cui la Ninfa
Egle dipinga la faccia di mora rojjc V
cigliamo ria cordarci di INVIDIOSÒ, fingeremo quella perfena guaine
deferiite O uidio l’invidia, Jederin terra facendofi cibo de jer penti,femprc
meta ero, fofairando, e piangendo } di faccia pallida, col guardo torto,
co denti ruggmosi ) egli difiilli veleno dalla bocca. Se anchora dicejli
OCCI DE j qual ancho VIRGILIO (si veda) ne dejcriue ENEA fipra TURNO, il quale
confe braccia JòpplicheuolijCt djflejò interra chieda perdono ENEA
minaccia te gli habiiafittu la spada nel petto. Il filmile farai nell’
altre parole, che ft potranno efarimcrc co’lgejlo.Cosi chi con le braccia
aperte,chi con dia Jlefi t chi dritti, chi piegati,et finalmente tutti in
diuerfe attioni faggen a do quanto fi pojfa ? atto dell’uno
rajfomigliarfi con l’altro, acciochcal rea àmre non pigliammo errore. Come
ci possiamo ricordare dal contrario. j Vf 7 % . 0», Efìami quejla
terza j Ir vltima parte a trattare, ciò e come ci pof fi amo ricordare
dal contrario > il che io promifi al principio, quatta io infegnai et
ricordar dal proprio . Il ricordar dal contrario ci porge non piccola
vnlità ;per ciò che ciafcuno per vno ejìremo fi ricorda dcllaltro eferemo
. 1/ color nero mi farà ricordar del bianco, nella infamità mi ricorderò
della finita e nella infelicità fempre della pajfita felicità . Ina
Produce Euripide tìccuba nella fra T rageìta, che ritrouandofi nel colmo
della infelicità che hauea dt bifogtto d’ognt cafi, rtcordarfi del colmo
della Jùa felicità ; dclrcgno dejf flfia> de cinquantafigli, e
cinquanta nuore, del Marito, della cafi tonto ricca : ir iHuflre .Nel
caldo ci ricordiamo Helfeido, 1 caualierì Tranztfi combattendo
neU'cJferdto di Morto Craffo contro i Parthijper lo caldo che fintiuano
fi ricordauanodelfed do di Francia, e per lafite che papuano j fi ricord
auano di tutte quelle ac 0 guef’iui haueano vfie., Ma prima,
che mi parta di raggiane di queflo, racconterò anchora un al tira regola,
che non fife la debbo dal contrario, ò da altro chiamare, che fi fi ra
fra quante ne babbiamo raccontate digrandiffimogiouamcntv. La refi gobi c
quejla,che colui haura da fcruirfi di quefl'arte, elegaft primierafi
•niente in de vfifi nt haura a firuire, ciò e fi in predicare, b in ree
idre O rationifi altre co fi fé pojforìo ejfcrc tafanitele fra queflo fio
v o eleggasi da duecento o trecento parole, che ptìtgli firuorw, e piu gli
intinte# rgono, e che meno fi pojfino ajsomgliare, per ciò .che quejìe
parole piu dell’ altre ci f cglione effir molefic al ricordare . Soia ci
fama di quelle daremo un figno manale jò dal contrio/o dui diffamile, a
come a lui meglio piacerà elegerle, e quefie notarle in un librone
porfile beniffimo à memo; tiaytedo che occorrendo al ricordare le potigli
in mano delle perfine del luogo in uece defle'parolé . Fingerò fa me j
che una gran 'Zucca dica POI CHE, vn Melone dica POSCIA, vn Ccdruolo DAL,
vw Tomo P ER y e fmilijcofi con molta prefie^a locaremo le imagini
alle parole fenza andar molto vagando con l'tmaginatiua per porle, e pat
irne» te con molta prefezza uedendole con l'intelletto ci ricordiamo
delle parò* le . Quel la regola è tolta da coloro f e raccogiicuano le
orationi antica mente dalli vtua voce mentre fi recitauanont’l Senato f e
con certe tifica^ refi caratteri da loro imaginati alle parole piu
occorrenti } le Jcriueuano (on molta jtgeuole^za.e.Fu quefia regola molto
commendata da Greci per mio parere fé fcrijfero dt qu fi’ arte, ammonendo
coloro f e hauea* noà fr tpieflja profcJfione,ne haucjfcro à
memoriiynagran moltttydi fi, La quaU opinione à torto Cdcerom. la ri
prende, intendetiJojtfpiwenfy U da quello f che faa.penfindofi., che 'a
tutte le Rarefi che,pq^ Falcone. Keywords: caratteristica universale. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Falcone,’ The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Falzea:
all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- QVOD
PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM – il sentimento condiviso – scuola di
Messina – filosofo messinese – filosofia siciliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Messina). Filosofo
messinese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Messina, Sicilia. Grice: “I
like Falzea; for one he applies Apollonian principles to H. L. A. Hart’s
analysis of ‘discorso giuridico’ – alla ‘discorso musicale’ – after all, there
is ‘armonia’ in justice!” – Si laurea sotto Pugliatti a Messina. Insegna a
Messina. Lincei. Sua costante preoccupazione è stata quella di integrare,
sempre ed opportunamente, la prospettiva astratta logico-formale e filosofica
con quella pragmatica del diritto mirante a fornire quel necessario ordine
giuridico indispensabile alla co-esistenza pacifica di vita materiale, vita
spirituale e vita sociale. Fra i suoi maggiori risultati, la centralità della
nozione dell’’intersoggettivo”, “l’interazione” – “l’interpersonale” -- pensato
sia astrattamente che in relazione alle correlative persone la fondazione di
una etica giuridica e l'elaborazione di una assiologia del diritto, frutto
rispettivamente della sua incisiva indagine critica ed ampia comprensione
concettuale delle nozioni di ”valore“ da porre, al centro della sua filosofia
giuridica, assieme a quello di “interesse” (cf. Prichard), e di “categoria
giuridica” formale, quali nuclei fondanti del corpus dottrinario della
giurisprudenza. Da qui, la constatazione di principio secondo cui “il
giuridico”, nella sua accezione più ampia come fatto storico-sociale dinamico e
non statico, si analizza nelle sue due componenti principali, quella ”formale“
e quella “materiale”, da considerarsi sempre in un reciproco, razionale
equilibrio co-relativo garante di quella realtà umana fattuale del interesse e
del valore. Il perno epistemologico dell'impianto teorico, quale presupposto
ineludibile per l'esistenza di un qualsiasi “stato di diritto”, è quello che fa
leva sull'imprescindibile ruolo formalizzante che ogni determinazione giuridica
cogente deve avere nel catturare, indi razionalizzare (forma), quel nucleo affettivo-emotivo
(materia) insito in ogni fatto umano consuetudinario della vita. Il diritto,
come realtà assiologica, è quella naturale concezione cui si perviene allorché
si abbandona quella riduttiva visione formalistica ed astratta della
giurisprudenza la quale, invece, deve guardare alla realtà fattuale ed alle sue
dinamiche complesse e multi-fattoriali, ai suoi contenuti pragmatici, di valore
ed d’interesse. Da qui, la necessaria interdisciplinarità cui deve
sottostarepur mantenendo la propria autonomia la costante giurisprudenza per
non cadere in un anacronistico e sterile formalismo privo di materia. La forte,
quasi esasperata dimensione teoretica (ma mai grettamente dogmatica) espressa
non solo da un punto di vista meramente logico-formale ma sempre
contestualizzata alla variegata problematicità e storicità della realtà umana,
si evince, in tutta la sua evidenza, dagli scritti dedicati ai problemi di
teoria generale del diritto, affrontati, oltre che in alcuni suoi lavori
monografici, in certe voci la lui redatte per l'Enciclopedia del Diritto, sì da
costituire dei classici della letteratura giuridica contemporanea: fra queste,
accertare, apparire, efficacia giuridica, fatto giuridico. Fra i molti
contributi dati da Falzea all'elaborazione teorica dell'ordinamento giuridico,
in raccordo a quanto detto sopra, degno di nota è l'aver egli richiamata
l'attenzione nella voce ”I fatti del sentimento“, sulla scia di parte del
pensiero di Pugliatti sulla rilevanza giuridica del sentimento, inteso non come
un principio generale dell'ordinamento, bensì come un vero e proprio sentimento
soggetivo ed intersoggetivo – shared feelings -- fattualmente rilevante per l’interazione
interpersonale, che la norma giuridica, specie quelle del diritto civile,
classificano come un valore positivo, da rispettare dunque, o negativo (“disvalore”),
da reprimere invece. Da questa presupposizione quindi, con metodo
contraddistinto da ampiezza dell'indagine storica e improntato al rigore
concettuale, consegue uno dei suoi maggiori risultati, riguardante l'analisi
del concetto generale di diritto, quale diritto positivo, cioè effettivamente
vigente, incardinato entro un sistema assiologico fondato su un ordine
razionale intersoggetivo che rispetta il valore di una determinate
intersoggetivo in un assegnato luogo ed in un certo tempo (storicità del
diritto), secondo una scala della loro importanza. Quest'ordinamento razionale
è un tratto distintivo sia del sistema intersoggetivo che dei suoi sottosistemi,
fra i quali preminenti son oil sistema di comunicazione, e quello giuridico,
che è il sistema normativo attualizzato dell'interazione. Da questa
prospettiva, anche sulla base di un parallelo analogico-concettuale con la
struttura della logica, perviene, tra l'altro, ad una elementare quanto
fondamentale distinzione meta-giuridica fra teoria generale del diritto e
dogmatica giuridica, argomentando solidamente a favore della tesi per cui
la teoria generale del diritto opera ad un livello superiore di generalità
rispetto a quello in cui si colloca la dogmatica giacché quest'ultima è sempre
inerente a diritti positivi storicamente attualizzati, oggetti di studio della
teoria generale che, in quanto tale, non discende dunque da alcun diritto
positivo particolare, e quindi neppure dalla dogmatica. La teoria generale del
diritto è piuttosto riflessione meta-teorica su quei particolari sistemi
vigenti di diritto positivo, sistemi che verranno quindi interpretati
speculativamente e spiegati razionalmente (interpretazione giuridica) tramite
metodi centrati sulla individuazione e ordinazione concettuale. Solo in questi
termini, si può allora più propriamente parlare di ”filosofia del diritto”. Altre
opere: “L’intersoggetivo giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore, Milano);
“L’intersoggetivo giuridico, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); La separazione
personale, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); L'offerta reale e la liberazione
co-attiva del debitore, Dott. A. Giuffrè Editore, Milano); Il fatto naturale, MILANI-Casa
Editrice Dott. Antonio Milani, Padova); Voci di teoria generale del diritto, Dott.
A. Giuffrè Editore, Milano); Il gene giuridico” Dott. A. Giuffrè Editore,
Milano, Introduzione alle giurisprudenza filosofica”. “Il concetto di diritto” Dott.
A. Giuffrè Editore, Milano); Teoria generale del diritto, Dott. A. Giuffrè Editore,
Milano,Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, Dogmatica Giuridica, Dott. A. Giuffrè
Editore, Milano, Scritti d'occasione,
Dott. A. Giuffrè Editore, Milano. giuscivilista.
Il civilista. Il nesso fra la fattispecie, ossia la premessa normativa (ovvero,
il caso particolare fattuale), e la conseguenza, ossia il suo possibile effetto
giuridico. norma giuridica Diritto e
interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto. Il diritto può essere
consuetudinario. consuetudine. Antropologia giuridica. diritto civile, Oltre il
”positivismo giuridico“, regola giuridica. Motivi volontaristici e
imperativistici sono presenti nel pratico e volitivo spirito dei romani.
Nemmeno tra i romani tuttavia troviamo formulate dottrine filosofiche che si
propongano di ricondurre compiutamente il diritto alla volontà o al comando. Il
lato imperativistico del diritto emerge piuttosto in singole tesi o massime di
giuristi. Si ricordi il noto passo di Modestino riportato nel Digesto: « Legis
virtus haec est: imperare, vetare, permittere, punire" (Digesto); o
l'altro detto, di Ulpiano, ancora piu indicativo sotto il profilo
volontaristico che sottolinea l'importanza della volonta del sovrano per la
validita della legge: "quod principi placuit legis habet vigorem" (Digesto).
Ma le espressione forse piu significative si trovano in un luogo di Gaio, nel
quale egli, dopo aver distinto varie fonti del diritto romano, le caratterizza
cosi: "Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet
atque constituit... Senatusconsultum est quod Senatus iubet atque
constituit" (Gaio). Il
rapporto regola giuridica-commando risulta ormai fissato in maniera esplicita,
mentre e IMPLICITAmente enunciato il rapporto tra il comando (iubere) e
l'imperativo (constituere). Rientra in questa configurazione
volontaristica e imperativistica del diritto la concezione della consuetudine
come iussum populi, un comando del popolo alla stessa stregua della legge: lex
lata sine suffragio. Ma e con la compilazione giustinianea che, associato al
processo politico dell'epoca imperiale, il volontarismo giuridico ottiene la
sua prima grande e compiuta affermazione. A cio concorsero due fattori
strettamente collegati. La volonta d'onde promana la regola giuridica e adesso
individuata e circoscritta nella persona dell'imperatore. La netta separazione,
su piano empirico, tra interpretazione e applicazione della legge e la regolar
rigorosa che riservava allo stesso imperatore il POTERE INTERPRETATIVO (nel
senso di risoluzione dei casi dubbi) esaltano il peso della volonta imperiale,
impedendo che altri, giurista o giudice che sia, possa sustituirsi, alterandola
o integrandola, a quella volonta. E ben noto il monito che Giustiniano, sulla
presunzione della completezza e perfezione della propria opera di legislatore,
rivolgeva ai giuristi: nullis iuris peritis in posterum audentibus
commentarios illi adplicare et verbositate sua supra dicti codicis
compendium confundere: quemadmodum et in antiquioribus temporibus factum est,
cum per contrarias interpretantium sententias totum ius paene conturbatum est
sed sufficiat per indices tantummodo et titulorum subtilitatem quae paratitla
nuncupantur quaedam admonitoria eius facere nullo ex interpretatione eorum
vitio oriundo"; e quello ancor piu energico e perentorio che gia in
precedenza era stato fato ai giudici da Valentiniano e da Marciano: "Si
quid vero in idsem legibus latum fortassis obscurius fuerit, oportet id
imperatoria interpretatione patefieri duritiamque legum nostrae humanitati
incongruant emendari". La prassi non poteva non smentire questo ambizioso
proposito, la cui formulazione, tuttavia, giova a chiarire come una concezione
volontaristica possa trovare un effetivo riscontro nella realta solo a patto
che la VOLONTA legistlativa venga aggiunta a fonte unica del diritto al di
fuori di ogni condizionamento esterno e risultati garantita nella sua fedele
applicazione ed esecuzione. Può il diritto penale di una
moderna democrazia liberale essere invocato a tutela di sentimenti? L’idea
della protezione penale sembra di primo acchito stridere nell’accostamento a
oggetti come i sentimenti. Eppure, il problema non è estraneo alla realtà
normativa italiana: nel codice Rocco il sen- timento religioso, il pudore, la
pietà dei defunti, il sentimento per gli animali sono gli esemp i più
evidenti. Di fronte all’impiego legislativo di suddetta terminologia, si apre
il problema della definizione dell’oggetto di tutela: il presidio è rivolto a
stati psicologici individuali? Oppure l’evocazione di sentimenti va ri- ferita
alla collettività, quale salvaguardia di una sensibilità che si as- sume come
propria della maggioranza dei consociati? La definizione in termini di
sentimento comunica, in prima istan- za, l’attenzione verso aspetti non
strettamente materiali della vita de- gli individui: riconosce la possibilità
di recare offesa alla persona su versanti che trascendono la mera fisicità. Un
richiamo a fenomeni che interessano la sfera psichica, e che si pongono di
fronte al diritto come realtà da decifrare. La prima parte dell’indagine sarà
dedicata a una mappatura del- l’orizzonte conoscitivo, attraverso contributi di
conoscenza esterni al mondo del diritto. Cercheremo di sviluppare un dialogo
interdisciplinare esteso non soltanto alle scienze lato sensu psicologiche, ma
anche alle discipline sociologiche e filosofiche, secondo un’apertura che dà
rilievo ai ca- noni metodologici elaborati in seno alla branca di studi della
dottrina statunitense denominata ‘Law and Emotion’. A seguito di tale sintetico
ma importante excursus, entreremo nel- la dimensione normativa, analizzando sia
le fattispecie penali del- l’ordinamento italiano in cui l’oggetto di tutela
viene definito come ‘sentimento’, sia le peculiari sfumature di significato che
emergono dai discorsi dei giuristi. Culminata tale parte della ricerca, la
quale è finalizzata a delinea- Tra sentimenti ed eguale rispetto re il
quadro di riferimento normativo e a fissare le coordinate meto- dologiche di
fondo, cercheremo di analizzare una specifica declina- zione del problema della
tutela di sentimenti: i rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di
espressione. L’approfondimento di tale questione assume oggi una peculiare ri-
levanza dovuta alla crescente conflittualità che si registra nel discor- so
pubblico delle società occidentali, con particolare riferimento ad argomenti ad
alto tasso emotivo dove vengono in gioco ‘appartenenze significative’
dell’individuo. L’asserita impossibilità che il diritto possa muoversi
all’interno di coordinate eticamente neutrali impone di riflettere attentamente
sul- la dimensione politica del problema penale, all’interno di una dialet-
tica i cui poli opposti sono rappresentati da posizioni di individuali- smo
democratico contrapposte a concezioni di tipo comunitarista- identitario. La
parzialità dei sentimenti, la loro mutevolezza, la loro essenzia- lità per la
persona acutizzano il problema degli equilibri fra coerci- zione e libertà.
L’obiettivo è riuscire a bilanciare esigenze di rispetto per le persone con la
salvaguardia di forme e contenuti comunicativi la cui libertà è anch’essa parte
essenziale del reciproco rispetto dovu- to da ciascuno a tutti. Una misurata e
accorta diffidenza verso il tessuto affettivo- emozionale è la premessa per un
approccio critico che metta il diritto penale in condizione di distinguere
richieste di riconoscimento da tentativi di sopraffazione, per «non confondere
il pensiero e l’auten- tico sentimento – che è sempre rigoroso – con la
convinzione fanatica e le viscerali reazioni emotive» 1. In questo senso, un
confronto con i sentimenti sarà forse utile a meditare sugli spazi per una
convivenza tra le diverse libertà che chiedono ascolto nella società
pluralista. 1 MAGRIS, Laicità e religione, a cura di Preterossi G., Le
ragioni dei laici, Roma-Bari. EMOZIONI E SENTIMENTI TRA FATTO E NORMATIVITÀ. Tra
sentimenti ed eguale rispetto Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica. I FENOMENI AFFETTIVI E DIMENSIONE GIURIDICA: COORDINATE
EPISTEMOLOGICHE E METODOLOGICHE se trascuriamo tutte le reazioni emozionali che
ci legano a questo mondo, noi trascuriamo anche gran parte della nostra
umanità, e precisamente quella parte che sta alla base del perché noi abbiamo
una legislazione civile e penale, e di quale aspetto essa prenda» NUSSBAUM. Nascondere
l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge. L’orizzonte di indagine. Diritto
penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi. Fulcro dell’indagine: il richiamo al
sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela. Oltre il lessico
legislativo. Diritto penale, sentimenti, emozioni: panoramica dei problemi
«Anche se nel diritto penale domina il fenomeno oggettivo ed esterno del
comportamento, si trovano in esso frequenti espliciti ri- chiami ai fenomeni
soggettivi e interiori del sentimento. Purtroppo si tratta di semplici
richiami, dai quali nessuno finoggi ha tentato di as- surgere a una trattazione
sistematica unitaria. Il peso di queste lacu- ne non può non accusarsi in
sede di teoria generale perché sono gli [Tra sentimenti ed eguale
rispetto istituti penalistici a offrire a uno studio giuridico del sentimento
gli esempi più numerosi e più importanti» Con queste parole Falzea richiama l’attenzione
sulla rilevanza che i fenomeni affettivi assumono nella dimensione penalistica,
lamentando l’assenza di stu- di specifici che avrebbero potuto giovare a un più
esaustivo inqua- dramento teorico dei fatti di sentimento nella sfera
giuridica. A distanza di decenni le parole di Falzea mantengono inalterato il
loro valore di impulso a riflettere su ruolo e significato del sentimen- to nel
diritto penale. Ad oggi il tema non è stato ancora compiuta- mente indagato in
una prospettiva di sistema, per quanto l’attenzione della dottrina penalistica
italiana sia andata crescendo negli ultimi decenni. I limiti dell’approfondimento,
quasi una ‘presa di distanza’ dai fat- tori affettivi, non costituiscono una
peculiarità del microcosmo pena- listico ma sono da contestualizzarsi in un
atteggiamento del pensiero occidentale che ha considerato sentimenti ed
emozioni come un fat- tore di distorsione del pensiero cognitivo e,
conseguentemente, anche come elemento distonico in rapporto all’asserita
‘razionalità’ degli isti- tuti giuridici e delle riflessioni ad essi inerenti
2. 1 F., I fatti di sentimento, in Studi in onore di Passarelli, Napoli. «Si è soliti associare al concetto di
“decisione” il qualificativo “razionale”, come garanzia di esattezza dei
presupposti da cui promana e di “bontà”/coerenza delle ripercussioni che
intende provocare. Ragione/razionalità come promessa di succes- so, di
eliminazione dell’errore, di metodo fondato su argomentazioni logiche e su-
scettibili di controllo critico», così CAPUTO, Occasioni di razionalità nel
diritto penale. Fiducia nell’“assolo della legge” o nel “giudice compositore”?,
Jus. Il tema della razionalità giuridica e penalistica affiora in innumerevoli
scritti che non appare possibile menzionare esaustivamente; per un quadro di
sintesi v. LA TORRE, Sullo spirito mite delle leggi. Ragione, razionalità,
ragionevolezza, Napoli; con riferimento all’ambito penalistico, v. ex plurimis,
LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale, in AA.VV., Logos dell’essere Logos
della norma. Studi per una ricerca coordina- ta da Luigi Lombardi Vallauri,
Bari, Un eloquente monito a non dare per scontata la razionalità del giuridico
si deve a GRECO, Premessa, in BIANCHI
D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali
della giurisprudenza, Bari: «nel mondo del diritto l’attenzione è
tradizionalmente rivolta ai contenuti strettamente giuridici delle leggi e
della giurisprudenza e v’è una propensione ad attribuire significati razionali
o ideali non soltanto al reale giuridico, ma anche a quello che tale non è. Ora
in un mondo ampiamente dominato da leggi economiche e dai corrispondenti dinamismi
socio-politici, la pretesa di considerare il fenomeno giuridico in linea
generale negli stretti limiti della scienza giuridica propriamente detta è
illusoria e illusionistica. Per un’interessante prospettiva sui rapporti tra
razionalità dell’intervento penale ed emozioni mo- [ Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica [Il modo di intendere le dinamiche del
diritto, soprattutto del diritto penale, si è fondato implicitamente, forse
anche inconsciamente, su una narrazione convenzionale che ha attribuito a
sentimenti ed emozioni un ruolo negativo, quasi antagonistico rispetto alla
ragione, e che ha portato in questo senso a marginalizzare il ruolo dei
fenomeni affettivi, sia riguardo alla dimensione di razionalità della condotta
del reo, sia soprattutto in relazione al modo di concepire l’agire delle figure
tecniche cui sono affidate le dinamiche applicative del diritto: soggetti,
questi ultimi, idealmente assimilati, anche a livello di immaginario
collettivo, a modelli di razionalità pura, secondo veri e propri stereotipi che
caratterizzano il modello culturale di diritto radicato nel mondo occidentale.
Tale vulgata influisce tutt’oggi sull’insegnamento per la preparazione di
giudici e avvocati, tendenzialmente, e forse talvolta ingenuamente, proiettati
alla ricercadi una non ben definita razionalità, ma forse non ancora
adeguatamente messi in condizione di conoscere, studiare e gestire la
complessità delle euristiche del pensiero e dei rapporti con l’emotività 6.
rali v. MURPHY, Punishment and the Moral Emotions, Oxford. Quale testo di
riferimento per un inquadramento in chiave socio-psicologica della razionalità
umana, v. ELSTER, Ulisse e le Sirene. Indagini sulla razionalità e
l’irrazionalità, Bologna. Definizione di BANDES, Introduction, in ed. Bandes,
The Passion of Law, New York. Il tema è sviluppato principalmente in ambito
criminologico; per una sintesi v. FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del
crimine e controllo penale, Milano.; cfr. PALIERO, L’economia della pena (un
work in progress), in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di
Marinucci, Milano, il quale, in
superamento di tale teorica, afferma che ormai non è pensabile immaginare un
attore della scena penalistica che sia contemporaneamente affekt-, tradition- e
wert-frei». È la critica di BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law, in Review of Law and Social Science, HARRIS,
“Another Critique of Pure Reason”: Toward Civic Virtue in Legal Education, in
Stanford Law Review; per la critica al modello di pensiero sotteso all’insegnamento
del diritto nel panorama occidentale vedi il saggio. Emblematica è la figura
del giudice, il quale per definizione si dovrebbe differenziare da figure
atecniche, prive di una formazione giuridica e che dunque dovrebbero essere più
esposte a condizionamenti emotivi (testimoni, imputato, pubblico), ma che andrebbe
più realisticamente inteso, e studiato, anche come soggetto emotivo. Judges are human and
experience emotion when hearing cases -- v. MARONEY, Emotional Regulation and
Judicial Behaviour, in California Law Review; si veda soprattutto per il
discorso sulla gestione delle emozioni; EAD., Angry Judges, in Vanderbilt Law
Review; cfr. BANDES, Introduction. Sul
tema delle emozioni del giu- [Tra sentimenti ed eguale rispetto I tempi
sembrano però essere cambiati: i saperi sul mondo, e dunque le scienze con cui
anche il mondo del diritto deve confrontar- si utilizziamo il termine ‘scienze’
in un’accezione lata che comprende sia le scienze c.d. ‘dure’, sia le scienze
sociali e le discipline filosofiche – inducono oggi a un ripensamento di fondo:
non solo relativamente alla distinzione dicotomica ragione/emozioni, ma più in
generale al ruolo che emozioni e sentimenti assumono anche in rapporto alla
qualità morale delle scelte di un individuo dicante si veda anche
WIENER-BORNSTEIN-VOSS, Emotion and the Law: A Framework for Inquiry, in Law and
Human Behaviour, L’emotività del giudice viene analizzata anche nel panorama
italiano: fra le monografie v. FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. La
decisione tra ragione ed emozione, Bologna.; CALLEGARI, Il giudice fra
emozioni, biases ed empatia, Milano. Fra gl’articoli v. CERETTI, Introduzione,
in Criminalia; LANZA, Emozioni e libero convincimento nella decisione del
giudice penale, in Criminalia.; BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di
responsabilità penale, in Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della
sanzione penale alla prova del processo, Napoli. Per una critica all’attuale
formazione dei giuristi, e la proposta di introdurre le scienze cognitive nel
percorso di studi universitario v. PASCUZZI, Scienze cognitive e formazione
universitaria del giurista, in Sistemi intelligenti; si sofferma sulla debolezza
del modello di azione razionale fatto proprio dal diritto, in una prospettiva
mirata principalmente al diritto civile, CATERINA, Processi cognitivi e regole
giuridiche, in Sistemi intelligenti. Traggo tale definizione da PULITANÒ,
Difesa penale e saperi sul mondo, in Carlizzi-Tuzet, La giustizia penale tra
conoscenza scientifica e sapere comune, Torino, in corso di pubblicazione. La
bibliografia sul tema è sterminata. Ci limitiamo a indicare alcune opere che,
anche in virtù dell’attitudine divulgativa, hanno contribuito a favorire un
dialogo interdisciplinare. Un autore che in tempi recenti ha impresso una
svolta, anche dal punto di vista comunicativo, per la confutazione della
dicotomia ragio- ne/emozioni è Damasio, a partire del cele- bre studio intitolato
L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, al quale si
sono aggiunti successivamente Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e
cervello, Milano, e Il sé viene alla
mente. La costruzione del cervello cosciente, Milano. Si vedano anche i saggi
di Doux, il quale pone lo studio delle
emozioni come base per la conoscenza della mente umana, DOUX, Il cervello
emotivo. Alle origini delle emozioni, Milano. Per una prospettiva
interdisciplinare, di taglio socio-filosofico, opera di riferimento è NUSSBAUM,
L’intelligenza delle emozioni, Bologna. Per un quadro di sintesi di taglio
prettamente divulgativo v. EVANS, Emozioni. La scienza del sentimento, Roma. Il
problema non è mai stato, soprattutto da Hume in poi, ammettere che le emozioni
possano essere motivi dell’azione umana, ma semmai ammettere che ne siano
ragioni morali, che abbiano un’autorità, una forza normativa, pari a quella che
il razionalismo classico attribuiva a principi della ragione incontaminati
dalle Fenomeni affettivi e dimensione giuridicaNon è possibile in questa
sede addentrarci nello sconfinato dibattito. Riteniamo però di poter
sintetizzare lo stato dell’arte con un’eloquente affermazione di Haidt,
psicologo di matrice intuizionista, e dunque incline a riconoscere la primazia
dell’intuizione emotiva nell’economia dell’agire umano. La razionalità umana
dipende in maniera cruciale da un’emotività sofisticata: è solo perché il
nostro cervello emotivo lavora così bene che i nostri ragionamenti possono
funzionare. Un’emotività sofisticata: se la razionalità umana è il risultato di
una complessa combinazione in cui anche la dimensione emotiva ha un ruolo
importante, ne deriva l’esigenza di un ridimensionamento delle pretese di
razionalità pura che ci si ostina o ci si illude a ricercare nei prodotti
legislativi e anche nelle condotte degli operatori del diritto (giudici,
avvocati). In altri termini, appare tutt’altro che inscalfibile la plausibilità
dell’impostazione veteror-azionalistica cui la tradizione giuridica occidentale
ha conformato i propri paradigmi e alla cui ombra sembra ancora coltivare
l’autor-assicurante illusione della legge e del sistema giuridico come dominio
della razionalità’ passioni e che il sentimentalismo, d’altra parte, finiva per
trattare solo nella contingenza del loro incidere su una ragione pratica, v.
PAGNINI, Il rispetto al centro della morale, in Il Sole-24Ore; sul rapporto fra
emozioni e ragioni morali, un’opera che riassume lo stato dell’arte è Bagnoli,
Morality and the Emotions, Oxford, HAIDT, Felicità. Un’ipotesi, Torino; per
un’esplicazione più dettagliata v. The Emotional Dog and Its Rational Tail: A
Social Intuitionist Approach to Moral Judgment, in Psychological Review. Il
tema è sconfinato; per una sintesi del dibattito v. MACKENZIE, Emotions,
Reflection and Moral Agency, in Langdon-Mackenzie, Emotions, Imagination and
Moral Reasoning, London; OATLEY, Psicologia ed emozioni, Bologna. Una posizione
che afferma l’esigenza di non trascurare l’effetto di possibile alterazione
della razionalità da parte delle emozioni è quella di ELSTER, Emotions and
Rationality, in Mansted-Frijda- Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam
Symposium, Cambridge. Un’efficace sintesi, anche sul piano comunicativo, è il saggio
di GOLEMAN, Intelligenza emotiva. Che cos’è e perché può renderci felici, Milano.
Da ultimo, v. MORIN, Sette lezioni sul pensiero globale, Milano. Per un
interessante quadro di sintesi sull’atteggiamento del pensiero giuridico
occidentale teso a prendere le distanze dalla dimensione emotiva (senza
peraltro riuscirci), v. MUSUMECI, Emozioni, crimine e giustizia. Un’indagine storico-giuridica,
Milano. The main-stream notion of the rule of law greatly overstates both the
demarcation between reason and emotion, and the possibility of keeping
reasoning processes free of emotional variables. It is also likely that
emotion, by its very nature, threatens much of what law hopes to be. To the extent legal systems Tra sentimenti ed
eguale rispetto È emblematico l’assunto con cui la giurista Bandes apre un
importante studio collettaneo intitolato ‘The Passions of Law’. Le emozioni
pervadono il diritto. Possiamo dire che ne impregnano sia la fase genetica sia
la dimensione applicativa. la domanda cruciale non è se emozioni e sentimenti
diano luogo a forme di interazione con la realtà giuridica, bensì in quali
termini essi interagiscano e come possano essere gestiti a livello teoretico e
in ambito applicativo. L’osservazione di Bandes vale in misura ancora maggiore
per il diritto penale, il quale intrattiene con le emozioni un rapporto di
problematica contiguità, poiché coinvolge, e spesso travolge, beni che
rivestono un ruolo importante nella scala dei bisogni e delle preferenze
soggettive: per proteggere interessi rilevanti per la sopravvivenza e lo
sviluppo della persona umana è chiamato a incidere su interessi altrettanto
essenziali (le libertà) 1thrive on categorical rules, emotion in all its messy
individuality makes such categories harder to maintain. The notion of the rule of law
is based, at least in part, on the belief that laws can be applied
mechanically, inexorably, without human fallibility, v. BANDES, Introduction. Nella
cospicua letteratura si vedano, ex plurimis, BRENNAN, Reason, passion, and the
progress of the law, in Cardozo Law Review; DEIGH, Emotions, Values and the
Law, Oxford; KARSTED, Emotion and Criminal Justice, in Theoretical Criminology;
MARONEY, The Persistent Cultural Script of Judicial Dispassion, in California
Law Review; BANDES, Introduction. Per
una panoramica di taglio generale si vedano anche i contributi pubblicati in Palma-Silva
Dias-de Sousa Mendes, Emoções e Crime. Filosofia, Ciência, Arte e Direito
Penal, Coimbra. Il problema della razionalità del punire si identifica con
anche l’esigenza di un equilibrato rapporto con la dimensione affettiva. Nella
sua versione più primitiva e brutale, la pena si manifesta come reazione
istintiva a un torto. Definendo la pena primitiva come ragione cieca,
determinata ed adeguata soltanto agl’istinti ed agl’impulsi – in una parola,
come azione istintiva – volevo innanzitutto ed in primo luogo porre con ciò in
rilievo, nella maniera più efficace possibile, una caratteristica negativa della
pena primitiva. LISZT, La teoria dello scopo nel diritto penale, Milano. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria
del garantismo penale, Roma-Bari. Il diritto penale costituisce il ramo
dell’ordinamento in cui è maggiore è il rischio di assecondare istanze
vendicative o bramosie punitive slegate da una razionalità strumentale e
guidate da una cieca emotività, esso vive in una continua dialettica con
l’irrazionale: cfr., ex plurimis, DONINI, “Danno” e offesa nella c.d. tutela
penale dei sentimenti. Note su morale e sicurezza come beni giuridici, a
margine della categoria dell’offense di Feinberg, Riv. it. dir. proc. pen.; v.
anche Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e
politica, in Stortoni-Foffani, Critica e giustificazione del diritto penale:
L’analisi critica della scuola di Francoforte, Milano; BARTOLI, Il diritto
penale tra vendetta e riparazione, in Riv. it. dir. proc. pen.; Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica; L’azione dello strumento penale è di per sé
‘emotigena’, ossia fat- tore di stimolo a emozioni 15. Vale per la fase
precettiva, ossia l’espressione di divieti che, a se- conda degli interessi
coinvolti, possono suscitare negli individui atteg- giamenti emotivi di diverso
tipo 16 i quali finiscono per influire sul gra- do di adesione alla norma e
dunque sulle condizioni di osservanza del precetto, in una dimensione che
potremmo definire come ‘risvolto emozionale’ del problema della legittimazione
delle norme penali 17. E vale, forse in modo più rilevante, per la fase
applicativa, in cui si accertano le responsabilità e la sanzione ‘prende
corpo’. Non è un ca- so che la dimensione emotiva nel diritto penale venga
convenzional- mente collocata, e sovente circoscritta, a fasi e momenti in cui
emo- zioni e sentimenti risultano più ‘visibili’: la realtà delle aule di tri-
ss.; PADOVANI, Alla ricerca di una razionalità penale, in Riv. it. dir. proc.
pen., «In effetti, il reato è la mistura
di un fatto che suscita reazioni immediate negative e di un’imputazione dalle
origini spesso motivate politicamente e dagli effetti sempre stigmatizzanti»,
LÜDERSSEN, L’irrazionale nel diritto penale. Per uno studio ad ampio spettro
sulle emozioni suscitate dal fatto crimina- le, con particolare riferimento al
sublime, v. BINIK, Quando il crimine è sublime. La fascinazione per la violenza
nella società contemporanea, Milano, 2017. 16 Sul richiamo ad atteggiamenti
emotivi della collettività come parte di un più ampio problema concernente
adesione a valori, consenso sociale e normazione penale, v., per tutti,
PALIERO, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., Nella
letteratura italiana v. FORTI, Le ragioni extrapenali dell’osservanza della
legge penale: esperienze e prospettive, in Riv. it. dir. proc. pen., Sui
rapporti fra la dimensione sociale delle emozioni e le scelte di politica del
di- ritto si soffermano BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. Sui rapporti
tra dimensione ‘visiva’ del crimine e ruolo delle emozioni v., per un’ampia
panoramica,a cura di Forti-Bertolino, La televisione del crimi- ne, Milano,
2005; per l’analisi di un caso emblematico, v. CERETTI, Il caso di Novi Ligure
nella rappresentazione mediatica, in AA.VV., a cura di Forti-Bertolino, La
televisione del crimine; sul tema v. anche PALIERO, Verità e distor- sioni nel
racconto mediatico della giustizia. Uno sguardo d’insieme, in AA.VV., a cura di
Forti-Mazzucato-Visconti A., Giustizia e letteratura, vol. II, Milano, 2014,
pp. 671 ss.; più diffusamente, ID., La maschera e il volto (percezione sociale
del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen.;
PALAZZO, Mezzi di comunicazione e giustizia penale, in Politica del diritto;
volendo, v. BACCO, Visioni ‘a occhi chiusi’: sguardi sul problema penale tra
immaginazione, emozioni e senso di realtà, in The Cardozo Law Bulletin,
Sull’approccio ‘visuale’ in criminologia v., per una sintesi globale e per le
coordinate di fondo, v. BROWN, Visual Crimonology, criminology. oxfordre. com/view/10.1093/a
crefore/ 9780190 264079.001.0001 /acrefore-97801902 64079-e-206? Tra sentimenti
ed eguale rispetto bunale e la dialettica spesso tumultuosa fra i soggetti del
processo 19. E infine il carcere, il dramma umano della pena, da sempre intriso
di atteggiamenti emotivi che si dividono fra vendetta, odio per il tra-
sgressore e compassione 20. Siamo solo alla punta affiorante di un intreccio
che affonda le proprie radici in un substrato per lo più invisibile 21. È bene
riflettere non solo sulle emozioni che il diritto penale su- scita, ma anche sugli
atteggiamenti emotivi e di pensiero che sono alla base e che modellano la
fisionomia dell’intervento punitivo22, nelle forme e nei presupposti23.
L’esigenza di riconoscere e proble- Sulle emozioni della vittima, v. da ultimo
BANDES, Share your Grief but Not Your Anger. Victims and the Expression of Emotion in Criminal
Justice, Abell-Smith, The Espression of Emotion. Philosophical, Psychological an Legal Perspectives,
Cambridge. Richiamiamo, nella sconfinata letteratura, alcune opere in cui viene
affron- tato lo specifico tema delle matrici affettive; per una sintetica
ricognizione filoso- fica, a partire da un’analisi etimologica, v. CURI, I
paradossi della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.,; nella letteratura
angloamericana, SOLOMON, Justice v. Vengeance. On Law and the Satisfaction of Emotion, in AA.VV., ed.
by Bandes, The Passions of Law.; POSNER, Emotion versus Emotional- ism in Law,
in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law; MURPHY, Punishment and the Moral
Emotions, cit., pp. 94 ss.; NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni; EAD.,
Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, tr. it., Bologna. Emotions
pervades not just the criminal courts, with their heat-of-passion, and insanity
defenses and their angry or compassionate jurors but the civil court- rooms,
the appellate courtrooms, the legislatures. It propels judges and lawyers, as
well as jurors, litigants, and the lay public. Indeed, the emotions that
pervade law are often so ancient and deeply ingrained that they are largely
invisible», v. BANDES, Introduction, Cfr. ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and
the Emotions?, in 94 Minnesota Law Review. Secondo l’istanza razionalistica che è alla base del
diritto penale postillumi- nistico, le emozioni sembrano subire una
sublimazione che ne rende più difficol- toso riconoscerne la presenza pur
avvertendone gli effetti: «The institutions of criminal justice thus find
themselves in a paradoxical situation. They offer a space for the most intensely felt
emotions – of individuals as well as collectivities – while simultaneously
providing mechanisms that are capable of ‘coolig off’ emotions, converting them
into more sociable emotions, or channelling them back into reasonable and more
standardised patterns of actions and thought», v. KARSTED, Handle with Care:
Emotions, Crime and Justice, Karsted-Loader-Strang, Emotions, Crime and
Justice, Oxford and Portland, 2011, p. 2. 23 Nella dottrina penalistica italiana è stata
avviata una riflessione concernente il raffronto fra la logica
razionalistico-consequenzialista e una diversa prospetti- va, più marcatamente
intuitiva e a base emozionale, nell’approccio a problemi di
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 11 matizzare il ruolo della
dimensione emotiva si pone dunque anche in rapporto al processo di
deliberazione delle politiche penali e più in generale all’esercizio delle
scelte pubbliche 24. Appare opportuna una tematizzazione delle connessioni fra
diritto penale e dimensione affettiva, in relazione non solo al funzionamento
di istituti del diritto vigente, ma più in generale all’assetto logico e te-
leologico delle categorie penalistiche, le quali sono frutto di atteg- giamenti
di pensiero e di cultura intrisi di emotività. In altri termini, il ruolo delle
emozioni e dei sentimenti va concepito non solo come elemento da ‘incastrare’
all’interno di geometrie concettuali tradizio- nali, ma soprattutto come
fattore che contribuisce, e ha contribuito fino ad oggi, a influire sulle
geometrie. Le relazioni tra emozioni, sentimenti e diritto penale non sono
dunque confinabili a singoli territori della c.d. ‘dogmatica’, né posso- no
circoscriversi a particolari settori della parte speciale del codice. Il
rapporto fra dimensione affettiva e diritto penale appare in defini- tiva come
un intreccio di questioni che si dispiegano da monte (fase genetica) a valle
(fase applicativa) dell’ordinamento normativo. Più radicalmente, è l’idea stessa
della responsabilità penale, il suo dover essere e i suoi obiettivi, a essere
in buona parte co-determinati da at- teggiamenti emotivi, dalla sensibilità
sociale e dal sentire dei legisla- tori: un presupposto fondamentale per ogni
riflessione penalistica, e che giustamente viene oggi evidenziato come dato
preliminare nella presentazione del problema penale. regolamentazione normativa
e a casi concreti: v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Diritto
penale, bioetica, neuroetica, Torino, 2009, passim; EAD., Una let- tura
evoluzionistica del diritto penale. A proposito delle emozioni, in AA.VV., a
cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica, Padova, WESTEN, La mente
politica, tr. it., Milano; più recentemente, sul ruolo della componente emotiva
nelle scelte politiche e nell’adesione a orientamenti va- loriali, fedi,
ideologie, si veda HAIDT, Menti morali. Perché le brave persone si divi- dono
su politica e religione, tr. it., Milano, 2013, pp. 93 ss.; una sintesi dei
proble- mi in ROSSI, Emozioni e deliberazione razionale, Sistemi intelligenti. Un’analisi
del ruolo del fattore emotivo nel contesto applicativo evidenzia come il
richiamo a emozioni sia ben presente nelle argomentazioni giurispruden- ziali
anche al di là di un definito inquadramento in particolari istituti, e rappre-
senti in questo senso un ausilio argomentativo polivalente, adoperato
soprattutto in relazione alla colpevolezza e ai criteri soggettivi dell’art.
c.p., v. AMATO, Di- ritto penale e fattore emotivo: spunti di indagine, in Riv.
it. med. leg. FIANDACA, Prima lezione di diritto penale, Roma-Bari. Tra
sentimenti ed eguale rispetto 2. Fulcro dell’indagine: il richiamo al
sentimento nella definizione dell’oggetto di tutela La dottrina penalistica
parla oggi espressamente di ‘ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi
e nell’applicazione delle leggi penali’, proponendo una classificazione dei
profili di interazione fra stati affettivi e diritto penale basata su cinque
piani prospettici i quali possono a nostro avviso sintetizzarsi in due
macrocategorie: 1) profili pertinenti la genesi del diritto, della legge
penale, e il dover essere della pena (ruolo della dimensione affettiva nelle
scelte di politica del dirit- to e riflessi sulla configurazione del bene
oggetto di tutela penale; in- fluenza sul modo di concepire i concetti o le
categorie della teoria del reato, riflessi sul modo di concepire significato e
scopi della pena); profili concernenti la dimensione applicativa (ruolo di
emozioni e sen- timenti nel giudizio di colpevolezza; influenza della
dimensione affet- tiva nella riflessione del giudicante) 27. Questioni come
l’influenza della dimensione affettiva sulla teoriz- zazione dei concetti della
categoria del reato, sul modo di concepirele funzioni della pena e sulla
graduazione della colpevolezza costitui- scono tematiche che, secondo un gergo
‘endopenalistico’, orientano la riflessione verso temi più vicini alla ‘parte
generale’; appaiono maggiormente pertinenti a problemi di ‘parte speciale’
profili riguar- danti il ruolo di sentimenti ed emozioni nella configurazione
di og- getti di tutela. Una prima ricognizione può essere condotta attraverso
uno sguardo al diritto penale vigente, al testo prima che al contesto 28, alla
ricerca di norme in cui vengano evocati fenomeni psichici lato sensu
riconducibili a sentimenti ed emozioni; ed effettivamente nel codice penale
italiano tali richiami non mancano. Un’avvertenza: partire da una lettura delle
norme è funzionale a fornire delle coordinate di base per l’inquadramento delle
questioni 27 FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti nella genesi e
nell’ap- plicazione delle leggi penali,
a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neu- roetica, cit., pp. 215
ss. 28 Adoperiamo la diade testo/contesto per indicare due distinti livelli di
analisi: il primo relativo alla dimensione letterale delle norme, il secondo,
che non affron- teremo nella presente indagine, relativo all’emersione del
lessico emotivo nelle applicazioni giurisprudenziali anche in relazione a disposizioni
e istituti che non richiamano espressamente stati affettivi. Sul rapporto fra
testo e contesto v. PALAZZO, Testo, contesto e sistema nell’interpretazione
penalistica, in AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Marinucci.
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 13 che sono più strettamente legate
al diritto vigente, evidenziando in questo modo le connessioni più immediate,
ma non traduce una scel- ta metodologica tesa a ‘ontologizzare’ il lessico
legislativo e a farne la chiave di lettura prioritaria. Al contrario, il
lessico delle norme, con le sue approssimazioni, deve indurre a chiedersi quale
sia, al di là delle formule, il ruolo dei fenomeni affettivi richiamati nelle
dinami- che della penalità. Prendiamo le mosse dalla parte generale del codice
penale29. Ri- chiami al lessico dei sentimenti e delle emozioni emergono in
istituti relativi alla graduazione della colpevolezza: nel titolo relativo
all’im- putabilità, l’art. 90 c.p. parla di stati emotivi e passionali 30; fra
le cir- costanze del reato spiccano il riferimento allo ‘stato d’ira
determinato da un fatto ingiusto altrui’ e la ‘suggestione di una folla in
tumulto’ (artt. c.p.). Menzioniamo le suddette norme poiché contengono richiami
testuali, senza allargare il campo a ulte- riori situazioni in cui gli stati
affettivi rappresentano un elemento che può concorrere a integrare, o a
influire dal punto di vista naturalisti- co, sulla configurazione di importanti
istituti: pensiamo al dolo e alla 29 Menzioniamo gli istituti e le fattispecie
in cui vengono richiamati espressa- mente fenomeni psichici definiti come
sentimenti ed emozioni, o comunque a essi riconducibili; non si tratta quindi
dell’elencazione di tutti gli istituti che rimandi- no a concetti psicologici;
per una sintesi in tal senso vedi di recente NISCO, La tu- tela penale
dell’integrità psichica, Torino. La norma che stabilisce che gli stati emotivi
e passionali non escludono l’imputabilità è una disposizione controversa e
dibattuta fin dalla genesi; per una sintesi v. MUSUMECI, Emozioni, crimine,
giustizia; FORTUNA, Gli stati emotivi e passionali. Le radici storiche della
questione, in Vinci- guerra-Dassano, Scritti in memoria di Giuliano Marini,
Napoli. La rigidità della disposizione normativa viene oggi criticata, fino a
farla definire da attenta dottrina come una delle finzioni più odiose del
sistema, v. DI GIOVINE O., Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e
psicologia del senso comune, penalecontemporaneo.it; BARTOLI R., Colpevolezza:
tra persona- lismo e prevenzione, Torino; ma è tuttora ben solida nella giuri-
sprudenza, v., ex plurimis, Cass. pen., sez., con nota di VISCONTI A., in Riv.
it. med. leg.; cfr. Cass. pen.L’unico spazio di rilevanza per stati emotivi e
passionali viene ammesso nel caso di fenomeni già radicati in un pregresso
quadro di infermità, v. EAD. In relazione alle circostanze dello stato d’ira e
della suggestione della folla, secondo la giurisprudenza, nel primo caso lo
stato emotivo deve corri- spondere a un impulso incontenibile, v. Cass. pen.,
sez.; Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez.; per le spora- diche applicazioni
dell’attenuante della suggestione della folla v. Cass. pen., sez. VI,
27/02/2014, n. 11915; Cass. pen., sez. Tra sentimenti ed eguale rispetto
colpa e, più in generale, a tutta la materia dell’imputazione soggettiva. È
oggetto di discussione se e in che misura la componente affettiva (emo- zioni e
sentimenti) sia da prendere in considerazione quale fattore costitutivo dei
coefficienti psichici che il diritto penale definisce ‘dolo’ e ‘colpa’, e, più
in genera- le, si discute sul grado di rispondenza fenomenica della categoria
della colpevo- lezza in rapporto allo stato soggettivo della persona; in
relazione a tale aspetto il concetto di colpevolezza assume un ruolo che è
stato definito ‘ambiguo’: «da un lato presidio del rilievo da attribuirsi allo
stato soggettivo reale dell’imputato, on- de evitare una condanna che si fondi
su mere istanze di esemplarità sanzionato- ria; ma nel contempo fattore che
autorizza, quando la colpevolezza non viene esclusa, l’insignificanza di quel
medesimo stato soggettivo (cioè della condizione vera in cui versi il soggetto
agente) rispetto al contenuto della condanna», così EUSEBI, Le forme della
verità nel sistema penale e i loro effetti. Giustizia e verità come
«approssimazione», in Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del pre- cetto e della
sanzione penale. L’impostazione dominante in dottrina tende a escludere una
rilevanza degli stati affettivi sul piano normativo: «Estranei alla natura del
dolo sono affetti, emozioni, motivi di qualsivoglia natura che stan- no ‘a
monte’ della decisione di agire. In via di principio, elementi emozionali non
servono a fondare il dolo, né valgono a escluderlo», così PULITANÒ, Diritto
penale, Torino, Cauta è l’apertura di FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli
e delle categorie del diritto penale contemporaneo, in La Cor- te d’Assise, il
quale osserva che «[o]ccorrerebbe evitare, invero già nell’individuare
l’essenza generale o nucleo centrale del dolo nella coscienza e vo- lontà del
fatto, di concepire tali requisiti psicologici in termini eccessivamente
razionalistici e idealisticamente depurati da corrispondenti componenti
emotive». Appare difficilmente contestabile che a livello naturalistico la
componente affetti- va sia un fattore costitutivo degli stati psicologici che
fondano dolo e colpa; gli spazi per una eventuale considerazione del ruolo
degli stati affettivi nella fisio- nomia del dolo e della colpa penale
potrebbero eventualmente ampliarsi o re- stringersi a seconda che si propenda
per una concezione ‘normativizzante’ dei coefficienti psichici oppure per una
concezione più ‘naturalistica’, tema in rela- zione al quale il dibattito nella
dottrina penalistica italiana è amplissimo: si veda- no, ex plurimis,
VENEZIANI, Motivi e colpevolezza, Torino; EUSEBI, Formula di Frank e dolo
eventuale in Cass., S.U., (Thyssen- krupp), in Riv. it. dir. proc. pen.,, e più
ampiamente ID., Il dolo come volontà, Brescia, 1993; DE VERO, Dolo eventuale,
colpa cosciente e costruzione “separata” dei tipi criminosi, a cura di
Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore di Romano, Napoli; DONINI, Il dolo
eventuale, fatto-illecito e colpevolezza, Diritto penale; 103 ss.; FIANDACA,
Sul dolo eventuale nella giurisprudenza più recente, tra approccio
oggettivizzante-probatorio e messaggio generalpreventivo, Diritto penale;
DEMURO, Il dolo. II. L’accertamento, Milano; PULITANÒ, I confini del dolo. Una
riflessione sulla moralità del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., Per
una riflessione sulla consistenza psicologica del dolo eventuale alla luce
delle più recenti acquisizioni della psicologia e delle neuroscienze v.
BERTOLINO, Prove neuro-psicologiche di responsabilità penale, in AA.VV., a cura
di Forti- Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 15 Si tratta di
norme problematiche il cui specifico approfondimento non sarà oggetto della
presente indagine; nondimeno va dato conto della rilevanza di tali disposizioni
nell’impianto della responsabilità penale. Nella parte speciale del codice la
definizione di oggetti di tutela in termini di sentimento rappresenta
un’evidenza palmare: si parla di ‘sentimento religioso’, di ‘pietà dei
defunti’, di ‘sentimento per gli ani- mali’, di condotte atte a ‘deprimere lo
spirito pubblico’ (art. 2c.p.), a ‘distruggere o deprimere il sentimento
nazionale’ (artt. dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale -- c.p.) e
a istigare all’odio fra le classi sociali (art. c.p.), di atti finalizzati a
incutere ‘pubblico timore’ (art. c.p.), di ‘comune sentimento del pudore’ (art.
c.p.), di ‘perdurante e grave stato di ansia o di paura e timore per
l’incolumità propria o di un prossimo congiunto’ (art. c.p.), di ‘passioni di
una persona minore’ (art. c.p.). Allargando lo sguardo al di là del codice, la
legislazione comple- mentare offre ulteriori esempi: la legge nota come Legge
sulla stampa, parla di sensibilità e impressionabilità di fanciulli e
adolescenti e incrimina condotte idonee a offendere il loro ‘sentimento morale’
(art.); sempre nell’ambito del medesimo testo normativo, è considerata penalmente
rilevante la pubblicazione di stampati i quali descrivano o illustrino, con
particolari impressionan- ti o raccapriccianti, avvenimenti realmente
verificatisi o anche sol- tanto immaginari, ‘in modo da poter turbare il comune
sentimento della morale’ (art.). Estremamente significative sono infine le nor-
me contro la discriminazione razziale (legge), nelle quali la tipicità della
condotta è fondata sulla nota caratterizzante di ciò che comunemente è definito
come un sentimento, ossia l’odio. Abbiamo constatato che «nel linguaggio
legislativo penale il rife- rimento a sentimenti è ben presente» e che «sentimenti e stati emo-
Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale; DI GIOVINE O.,
Il dolo (eventuale) tra psicologia scientifica e psicologia del senso co- mune,
cit.; per una sintesi del ruolo delle scienze extranormative in rapporto al
problema dell’imputazione soggettiva, v. da ultimo FIANDACA, Prima lezione. Nondimeno,
nelle motivazioni dei giudici il richiamo alla dimensione affettiva figura
quale corollario argomentativo in relazione all’elemento soggetti- vo,
all’ipotesi di concessione di attenuanti generiche e più in generale in ordine
alla commisurazione della pena; per un quadro di sintesi v. AMATO, Diritto
penale e fattore emotivo, C. cost. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale
del diritto penale, Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto tivi non sono
certo realtà sconosciute al diritto penale»34: «i “senti- menti”, [...]
ancorché di natura psichico-emozionale, sono [...] delle realtà personalistiche
innegabili. Le disposizioni della parte speciale (sentimento religioso, pudore,
pietà dei defunti, sentimento per gli animali, sentimento nazionale)
rappresentano la rispondenza più univoca e immediata di ciò che si suole definire
‘tutela di sentimenti’, con una formula tanto accatti- vante quanto ambigua e
problematica nei contenuti, la quale soprat- tutto nell’attuale momento storico
sta riscuotendo un inedito interes- se da parte della dottrina penalistica
italiana 36. Le norme codicistiche forniscono una prima cornice, un panora- ma
dalla capacità esplicativa simile a quella di una visione in contro- luce:
sostanzialmente definiti appaiono i contorni, il tratteggio ester- no che
inquadra il teatro dei fatti oggetto di interesse normativo; più nebuloso è il
nucleo interno, legato al retroterra dei fenomeni e alle loro dimensioni di
significato. Un primo ordine di problemi ha a che fare col profilo fattuale,
legato all’inquadramento e alla decifrazione di ciò che i saperi sul mondo, e
in particolare le scienze empirico-sociali, definiscono ‘sen- timenti’,
soprattutto in rapporto ad altri fenomeni affettivi, come ad 34 FIANDACA, Sul
bene giuridico. Un consuntivo critico, Torino, PALAZZO, Laicità del diritto
penale e democrazia “sostanziale”, in Quaderni co- stituzionali, 2/2010, p.
441. 36 Menzioniamo gli scritti che si sono dedicati ex professo al tema,
lasciando al momento da parte la cospicua produzione letteraria in cui
l’argomento viene tocca- to in modo incidentale. Oltre al già menzionato saggio
di FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti, si segnala del medesimo
Autore un ulte- riore approfondimento in occasione dello studio sul bene
giuridico: v. FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., pp. 81 ss. Si vedano quindi
DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti; GIUNTA,
Verso un rinnovato romantici- smo penale? I reati in materia di religione e il
problema della tutela dei sentimenti, in Bertolino-Eusebi-Forti, Studi in onore
di Mario Romano, vol. III, Napoli; CAPUTO, Eventi e sentimenti nel delitto di
atti persecutori, in Studi in onore di Mario Romano; NISCO, La tutela penale
dell’integrità psichica; PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale del diritto
penale; volendo, BACCO, Sentimenti e tutela penale: alla ricerca di una
dimensione liberale, in Riv. it. dir. proc pen., 3/2010, pp. 1165 ss. Fra i
costituzionalisti v. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del pensiero tra
fatti di senti- mento e fatti di conoscenza, in Quaderni costituzionali, Per
un’analisi del sentimento quale elemento che concorre a fondare ragioni e
struttura di di- sposizioni normative non solo penalistiche, v. ITALIA, I
sentimenti nelle leggi, Milano, 2017. Per una sintesi delle più recenti
posizioni della dottrina continentale, nel con- testo di un’analisi incentrata
sull’ordinamento spagnolo, v. ALONSO ALAMO, Senti- mientos y derecho penal, in
Cuadernos del polìtica criminal, Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 17
esempio le emozioni. In termini complementari si pone un problema concettuale
che riguarda le regole d’uso dei termini sia nell’ambito extragiuridico e, di
riflesso, nella specifica dimensione giuridico-pe- nalistica: si tratta di
prendere in considerazione le tassonomie scien- tifiche in rapporto alle esigenze
di normatività, alla chiarezza defini- toria e alla funzionalità comunicativa
del diritto. Un secondo ordine di problemi concerne gli spazi di legittimità di
norme finalizzate a una tutela penale di interessi legati alla sfera affettiva
degli individui: tema che proietta verso percorsi differenti a seconda del
significato e del senso normativo attribuibile all’evoca- zione del peculiare
sentimento o dell’emozione, in un discorso che chiama in gioco pregiudiziali di
tipo filosofico, morale, politico. In questo senso la problematica si presta a
essere sviluppata ad un pri- mo livello su un piano generale (la tutelabilità
di sentimenti come problema di principio), e, successivamente, in una
prospettiva più circoscritta concernente lo specifico problema di tutela che
sia dato individuare dietro il richiamo alla dimensione affettiva della
persona. Come detto, prendere le mosse dalle norme positive è volto a
facilitare l’inquadramento dei problemi; una volta fotografato l’esistente, il
lessico dei legislatori è destinato a divenire oggetto di analisi criti- ca,
nel tentativo di superarne la cortina di artificialità. 2.1. Oltre il lessico
legislativo Un primo obiettivo è dissolvere l’alone di retorica e guardare ‘in
trasparenza’, oltre le formule. La tendenza a costruire norme penali attraverso
richiami alla di- mensione affettiva, pur manifestatasi in momenti storici
differenti, rivela una sostanziale continuità 38, animata da variabili che si
legano a fattori sociali e culturali i quali hanno concorso a dare stimolo a
una sensibilità dei legislatori39. Si tratta di scelte culturalmente 37 Più
remoti sono il codice penale e la c.d. legge sulla stampa, distanti anche
culturalmente dall’attuale momento storico; più prossima cronologicamente è la
c.d. ‘Legge Mancino’ (incriminazione di condotte d’odio razziale), mentre è
relati- vamente recente la scelta di dare riconoscimento a esigenze di tutela
di animali non umani attraverso la formula ‘Delitti contro il sentimento per
gli animali’. Una panoramica in MUSUMECI, Emozioni crimine, giustizia. I testi
legislativi, che parlano di sentimenti, sono spia di un sentire dei legislatori
che, ieri come oggi, hanno adottato quel lessico, così PULITANÒ, Introduzione
alla parte speciale. Tra sentimenti ed eguale rispetto orientate, nel contesto
di una complessità di fondo 40 che è confluita in determinazioni di politica
del diritto le quali, secondo un processo ricorsivo 41, si caratterizzano a
loro volta per un elevato grado di pre- gnanza culturale e una forte valenza
simbolica, nel senso che le nor- me giuridiche a loro volta contribuiscono a
modellare atteggiamenti di pensiero ed emotivi. Seguendo le traiettorie del
pensiero di Edgar Morin troviamo un efficace quadro riassuntivo della
complessità di ciò che chiamiamo ‘cultura’: «La cultura, peculiarità della
società umana, è organizzata/organiz- zatrice attraverso il veicolo cognitivo
costituito dal linguaggio, a parti- re dal capitale cognitivo collettivo delle
conoscenze acquisite, dei saper-fare appresi, delle esperienze vissute, della
memoria storica, delle credenze mitiche di una società. Così si manifestano
“rappresentazio- ni collettive”, “coscienza collettiva”, “immaginario
collettivo”. E la cul- tura, sfruttando il suo capitale cognitivo, instaura le
regole/norme che organizzano la società e governano i comportamenti
individuali. Le regole/norme culturali generano processi sociali e rigenerano
global- mente la complessità sociale acquisita dalla stessa cultura» 42. In che
termini il giurista penale deve rapportarsi a tale complessità? Solo se lo si
considera da una prospettiva esterna, il diritto penale è un coacervo di norme:
se si guarda con più attenzione, però, esso si ri- vela come una parte della
cultura in cui viviamo», ricorda Winfried 40 Nel senso in cui il concetto è
stato sviluppato da Morin: «Complexus significa ciò che è tessuto insieme; in
effetti, si ha complessità quando sono inse- parabili i differenti elementi che
costituiscono un tutto (come l’economico, il poli- tico, il sociologico, lo
psicologico, l’affettivo, il mitologico) e quando vi è tessuto interdipendente,
interattivo e inter-retroattivo tra l’oggetto di conoscenza e il suo contesto,
le parti e il tutto, il tutto e le parti, le parti tra di loro. La complessità
è, perciò, legame tra l’unità e la molteplicità. Gli sviluppi propri della
nostra era planetaria ci mettono a confronto sempre più ineluttabilmente con le
sfide della complessità», v. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del
futuro, tr. it., Milano; sempre Morin afferma che «Il problema della
complessità è quello che pongono i fenomeni non riducibili agli schemi semplici
dell’osser- vatore», v. ID., Scienza con coscienza, tr. it., Milano; cfr. più
diffusamente, ID., Introduzione al pensiero complesso, tr. it., Milano. I
prodotti e gli effetti generati da un processo ricorsivo sono contempora-
neamente co-generatori e co-causanti di tale processo», MORIN, Le idee:
habitat, vita, organizzazione usi e costumi, tr. it., Milano, MORIN, Le idee:
habitat, vita, organizzazione usi e costumi. Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica 19 Hassemer43. L’osservazione dello studioso tedesco è un invito a
riflet- tere sul diritto penale munendosi di ‘lenti’ che sappiano mettere a
fuo- co non solo norme ma anche la cultura che fa loro da sfondo: gli uni-
versi fattuali, valoriali, simbolici ed emotivi che la formano. Il giurista
penale dovrebbe volgere il proprio sguardo verso i fe- nomeni al fine di
costruire esplorazioni ‘a partire dal capitale cogni- tivo collettivo delle
conoscenze acquisite’: delle conoscenze che han- no contribuito a dare
un’impronta alla cultura, e dunque anche alla sensibilità dei legislatori; e
del panorama di conoscenze del tempo presente, con l’annesso potenziale
epistemico. Un approccio critico al lessico del diritto significa in questo
senso presa di distanza da ‘ontologismi giuspositivistici’ o da riduzionismi
pangiuridici’ della realtà, e traduce l’esigenza di tenere ben presente la
distanza tra il diritto, inteso come ideale regolativo, e i fatti della vita
L’‘inemendabilità’ di cui parla il filosofo Maurizio Ferraris, «il fatto che
ciò che ci sta di fronte non può essere corretto o trasforma- to attraverso il
mero ricorso a schemi concettuali»45, suona per il giurista come un monito
aprendere sul serio la distinzione tra di- mensione ‘costruttivistica’ degli
schemi del diritto e il piano ontologico dei fenomeni HASSEMER, Perché punire è
necessario, tr. it., Bologna. Non è vero e completo giurista colui che, pure
conoscendo con scientifica precisione il diritto positivo di un determinato
paese, non si rende conto della in- colmabile distanza tra il diritto e la
vita, ossia della assoluta impossibilità di sod- disfare totalmente l’esigenza,
presente in tutte le società, di razionalizzare le azioni degli uomini dando a
esse un ordine stabile mediante regole». v. CESARINI SFORZA [si veda],
Filosofia del diritto, Milano; FERRARIS,
Manifesto del nuovo realismo, Roma-Bari; si veda an- che la riflessione di un
filosofo del diritto di matrice analitica SCARPELLI, Filosofia analitica, norme
e valori, Milano: le norme e le asserzioni svolgono nell’esperienza dell’uomo
una differente funzione, ma le une e le altre possono svolgere la loro funzione
solo se si riferiscono a stati ed eventi dentro l’esperienza e distinguibili
dagli altri stati ed eventi dentro l’esperienza». 46 Non intendiamo prendere
posizione sui rapporti tra ontologia ed epistemo- logia, addentrandoci nel
ginepraio di problemi legati alla dialettica fra concezioni ‘realiste’ e
‘postmoderne’. Nella letteratura italiana, oltre al citato ‘manifesto’ di
Maurizio Ferraris, si veda ID., Documentalità. Perché è necessario lasciar
tracce, Roma-Bari, 2009, pp. 62 ss.; per una cristallina sintesi del dibattito
sul realismo vedi D’AGOSTINI, Realismo? Una questione non controversa, Torino. In
termini generali, segnaliamo come tale produzione letteraria sia da inquadrarsi
quale risposta al trend postmoderno che nella seconda metà del Novecento ha
sottoposto i concetti di ‘verità’ e di ‘realtà’ a tentativi di destruttura-
zione da parte di correnti filosofiche che possiamo approssimativamente
definire Tra sentimenti ed eguale rispetto Nella dottrina penalistica
italiana si parla di vincoli di realtà, e si potrebbero definire tali istanze
anche attraverso il richiamo a con- cetti meno abituali ma oggi non più alieni
al discorso penalistico, come quello di ‘verità’ 48. Lo specifico caso dei
sentimenti come pro- blema di tutela porta a riflettere sulla «verità dei
presupposti su cui si fonda il ragionamento funzionalistico all’origine dei precetti»49.
Si tratta di un impegno anche sul piano metodologico: come approccio di studio
che pone la conoscenza dei fenomeni a fondamento di ana- lisi volte a testare
la qualità delle scelte e delle possibili risposte da parte del diritto,
emancipandosi dalla prospettiva di patenti ‘ontolo- giche’ alle formule coniate
dal legislatore 50. Il punto di osservazione dello studioso non dovrebbe
pertanto col- locarsi in un’ottica del tutto interna al linguaggio e agli
schemi con- cettuali del diritto posto, ma, come ogni punto di osservazione,
ne- cessita di una collocazione anche esterna rispetto all’oggetto che si come
relativistico-ermeneutiche. La bibliografia è sterminata; ci limitiamo a
menzionare il testo forse più emblematico, e raffinato, del trend postmoderno,
ossia RORTY, La filosofia e lo specchio della natura, tr. it., Milano, 2004. 47
«Come impresa ‘di ragione’, il diritto è vincolato al principio di realtà. Il
le- gislatore deve fare i conti con la realtà che intende regolare, nella quale
ha da ri- tagliare gli oggetti e cercare le condizioni di una regolazione
possibile e razionale rispetto agli scopi. Nei concreti orizzonti storici, i
vincoli di realtà (ontologici) si traducono in vincoli epistemologici di
razionalità rispetto al sapere disponibile», v. PULITANÒ, Il diritto penale fra
vincoli di realtà e sapere scientifico, in Riv. it. dir. proc. pen., 3/2006,
pp. 798 ss. 48 Le questioni di fondo sono oggi compendiate nell’importante
volume a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione
pena- le, cit.; si veda inoltre il denso scritto di DI GIOVINE O., A proposito
di un recente dibattito su “Verità e diritto penale”, in Criminalia, 2014, pp.
539 ss., quale tentati- vo di superamento, nella prospettiva
giuridica, della radicalità insita nell’alter- nativa tra teorie
corrispondentiste e pragmatiste. PALAZZO, Verità come metodo di legiferazione.
Fatti e valori nella formulazione del precetto penale, in AA.VV., a cura di
Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della sanzione penale, cit., p.
101. 50 Umberto Vincenti afferma la necessità di «combattere ogni formalismo
in- terpretativo che ha la pretesa, per malintese aspirazioni di autonomia
della scien- za giuridica, di risolvere ogni questione – e gli stessi casi
della pratica – ragionan- do esclusivamente all’interno del testo normativo,
levigando e combinando le sua parole, per comporre un certo prodotto
linguistico – una certa massima di decisione – da accollare all’esperienza:
alla nuova esperienza da conoscere e, nei fatti, destinata a rimanere, non
volendosi andare oltre le parole di un testo (o, anche, di molti testi), di
necessità sconosciuta (o quasi) perché impenetrabile attraverso il solo
strumento verbale», v. VINCENTI, voce Linguaggio normativo, in Enciclopedia del
diritto, Annali, vol. VII, Milano. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 21
vuole indagare: «a partire dall’insopprimibile “eccedenza” della vita rispetto
a tutte le forme», e nella consapevolezza che il diritto, rispet- to ai
fenomeni che ne costituiscono il campo applicativo, costituisce ormai una
semantica influente in cui quello di cui si parla è molto di più di quello che
si dice. Le citazioni sono tratte da
RESTA, Diritto vivente, Bari. Si veda anche RODOTÀ, La vita e le regole. Tra
diritto e non diritto, Milano, il quale sembra farsi sostenitore di istanze
simili quando afferma che il ri- chiamo alla ‘verità’ dei presupposti implica
che è in gioco qualcosa di più profon- do della precisione linguistica e
dell’efficacia descrittiva di una norma: osserva Rodotà che «In realtà il
diritto è più che una regola. Prima di tutto è un linguag- gio. Si può davvero
dire tutto con le parole del diritto o è proprio la grammatica dei diritti a
dimostrarsi povera di fronte alla complessità sociale e alla sua ric- chezza?
Il radicarsi del diritto nella realtà segue itinerari complessi, e meno
lineari, di quello che misura l’effettività della norma unicamente da una sua
diret- ta e immediata applicabilità in una situazione determinata. Già la sola
trascrizio- ne nell’ordine giuridico di un valore o di un principio o di un
fine pubblico porta con sé una variazione del contesto in cui collocare gli
atti della vita, del discorso giuridico a cui fare riferimento, del sistema
normativo con il quale misurarsi». Tra sentimenti ed eguale rispetto
SEZIONE II Percorsi concettuali e interdisciplinari SOMMARIO: 3. Spunti di
riflessione attraverso le ‘Law and Emotion Theories’. Sentimenti ed emozioni:
approcci di studio e questioni di linguaggio. Quale concezione di emozione per
il giurista? Sull’uso del termine emozione. Spunti di riflessione attraverso le
‘Law and Emotion Theories’ Un approccio orientato a problematizzare il profilo
ontologico- fattuale dei fenomeni affettivi, e dunque a dialogare con ambiti
disci- plinari diversi dalla scienza giuridica, trova un importante punto di
riferimento dal punto di vista metodologico nel campo di studi di matrice
statunitense denominato ‘Law and Emotion’ Si tratta di un’area di discussione
orientata a rimeditare i termini dell’interazione fra diritto e dimensione
emotiva per ragioni che si le- gano non solo a un complessivo aggiornamento
delle conoscenze ex- tragiuridiche sul tema, ma soprattutto per favorire una
maggiore con- sapevolezza e un ‘uso’ più intelligente delle emozioni nel campo
giuri- dico («intelligent and responsible engagement by law») Secondo i teorici
di ‘Law and Emotion’ i giuristi tendono a non prendere sufficien- temente in
considerazione le acquisizioni delle scienze extragiuridiche sugli stati
affettivi, rivelando un’autoreferenzialità frutto di mentalità chiusa e una
riluttanza ad apprendere da altre discipline Per un inquadramento dei temi
trattati e delle diverse impostazioni v. BANDES- BLUMENTHAL, Emotion and the
Law, cit., passim; MARONEY, Law and Emotion: A Proposed Taxonomy of an Emerging
Field, in 30 Law and Human Behavior.; cfr. anche ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of
Law and the Emotions? ABRAMS-KEREN,
Who’s Afraid of Law and the Emotions? BANDES, Introduction. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica Gli studi
di ‘Law and Emotion’ mirano a mettere in luce l’influenza che la dimensione
affettiva esplica sul modo di concepire ratio e struttura di istituti di
diritto positivo e, più in generale, sulle ragioni addotte per legittimare
l’essere e il dover essere del diritto, soprattutto del diritto penale. Si
approfondisce la conoscenza dei fenomeni affettivi attraverso una base
epistemica che non si limita alla dimen- sione bio-psicologica, ma che si apre
alla sfera sociologico-umani- stico-letteraria, attraverso la filosofia, la
letteratura, l’antropologia, la sociologia, in una prospettiva volta a
dischiudere orizzonti di senso e a guardare ai fenomeni affettivi attraverso un
filtro interpretativo multidisciplinare. Ciò che sembra meglio riassumere
l’istanza sottesa agli studi di ‘Law and Emotion’ è la ricerca di un dialogo
finalizzato non solo a in- crementare consapevolezza e competenze dei giuristi
sul tema delle emozioni, e dunque a favorire una maggiore attendibilità
scientifica dei lavori dei giuristi, ma anche a promuovere un feedback virtuoso
fra scienza giuridica e saperi empirico-sociali sugli stati affettivi 58. I
contributi di ‘Law and Emotion’ non si identificano con una linea teorica
univoca, ma si articolano in diverse correnti; una fra le BANDES-BLUMENTHAL,
Emotion and the Law. BANDES-BLUMENTHAL,
Emotion and the Law; MARONEY, Law and Emotion, cit., pp. 123 ss.; ABRAMS-KEREN,
Who’s Afraid of Law and the Emotions? Sotto
tale profilo sembrano esservi sostanziali differenze rispetto ad altre branche
di studi, affini ma distinte da ‘Law and Emotion’: in particolare ‘Law and
Economics’ e ‘Law and Neuroscience’, le quali, peraltro, sembrano essere tenute
in maggiore considerazione dai giuristi. Una possibile chiave di lettura di
tale atteg- giamento è il fatto che ‘Law and Economics’ e ‘Law and
Neuroscience’ sembrano basarsi su assunzioni che sono più vicine al modello di
razionalità ‘classica’ con cui i giuristi hanno maggiore confidenza, v.
ABRAMS-KEREN, Who’s Afraid of Law and the Emotions?, MARONEY, Law and Emotion:
«We see as well a persistent divide between empiricists and theorists. The lack of dialogue across
these dividing lines lessens opportunities for cross-fertilization. We
therefore would do well to foster dynamic collaborations among social
scientists, those trained in the life sciences, philosophers, lawyers, and
legal scholars. The exercise of forging such collabora- tions would encourage
creation of a common language, and resulting scholarship would be both more
complex and more accessible to those across the range of implicated disciplines.
Quali caratteristiche deve avere uno
studio per potersi inquadrare come contributo su ‘Law and emotion’? Questa la risposta di
MARONEY, Law and Emo- tion, cit., p. 124: «The question as to at what point any
given project is sufficiently about both “law” and “emotion” to productively be
claimed for this particular en- Tra sentimenti ed eguale rispetto più
autorevoli studiose, la giurista Terry Maroney, individua ben sei tipologie di
approccio60. Tale schematizzazione assume in primo
luogo un valore descrittivo, individuando snodi concettuali che carat-
terizzano le peculiarità dei singoli contributi nel contesto della pro- duzione
scientifica sul tema; sotto un diverso profilo, la tassonomia degli approcci
possiede anche la funzione di canone metodologico volto a evidenziare questioni
fondamentali con cui il singolo studioso che intenda approfondire il tema delle
interazioni fra diritto e dimen- sione affettiva si troverà a fare i conti 61.
I percorsi individuati da Ter- ry Maroney fissano in questo senso delle
coordinate che possono con- tribuire a suggerire al singolo studioso
l’impostazione che meglio si attaglia al tipo di indagine che intende
affrontare: la conoscenza dei nodi teorici fondamentali e, correlativamente,
della possibilità di percorsi e di approcci alternativi, dovrebbe costituire un
impegno ad acquisire consapevolezza riguardo l’impostazione adottata, anche al
fine di renderne esplicita l’adesione. clave is worthy of greater exploration
than is possible here. I offer,
nonetheless, two premises, one pertaining to motivation and the other to
method. First, contemporary law and emotion scholarship is based on the beliefs
that human emo- tion is amenable to being specifically and searchingly studied,
that it is highly relevant to the theory and practice of law, and that its
relevance is deserving of clos- er scrutiny than it historically has received.
Second, such scholarship explicitly directs itself to both sides of the “and”;
it takes on a question regarding law and brings to bear a perspective grounded
in the study or theory of emotions. MARONEY,
Law and Emotion. Nel dettaglio, si parla di: emotion centered approach’, come
approccio che si focalizza su una singola emo- zione e ne analizza le possibili
interazioni con la dimensione giuridica; emotional phenomenon approach, il
quale muove dallo studio di processi mentali e comportamentali che non
corrispondono propriamente a emozioni, ma che rap- presentano condizioni per
l’elicitazione o la esternazione di stati emozionali emotion theory approach’,
approccio porta a sviluppare riflessioni in linea con una o più teorie
interpretative delle emozioni; legal doctrine approach, il quale mira a far
interagire il sapere su emozioni e stati affettivi con aree determinate del
diritto o con particolari istituti; theory of law approach, il quale studia i
nessi tra emozioni e diritto a un livello puramente teoretico, facendo
interagire teorie sulle emozioni con teorie generali sul diritto; legal actor
approach, il quale si occupa di analizzare come la dimensione emotiva influisce
sull’attività dei soggetti che operano nell’ambito applicativo: giudici,
avvocati, ecc. MARONEY, Law and Emotion, careful consideration of the
analytical approaches potentially implicated in any given project will help
identify blind spots or force unstated assumptions to the surface, and may
further encourage scholars to justify why they make the choices they do. Thus, academic inquiry into
the intersection of law and emotion should identify which emotion(s) it takes
as its focus; carefully distinguish be- tween those emotions and any implicated
emotion-driven mental processes or Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica 25 4. Sentimenti ed emozioni: approcci di
studio e questioni di linguaggio Gli studi su ‘Law and Emotion’ mettono in
evidenza questioni teo- riche le quali riteniamo debbano essere prese in
considerazione an- che nella presente indagine: in particolare, un importante
step è rappresentato dalla ricerca di punti di convergenza fra contributi di
ma- trici scientifiche eterogenee, e dunque dall’esigenza di uno sguardo
d’insieme alle acquisizioni elaborate dalle discipline che studiano gli stati
affettivi. Sentimenti ed emozioni sono fenomeni relativi al sentire della
persona: per comprenderne i profili di rilevanza nella dimensione del singolo e
l’incidenza nelle dinamiche relazionali il giurista penale de- ve
necessariamente rivolgersi a saperi esterni al diritto che potremmo definire
lato sensu ‘psicologici’, ma che non si limitano alla sola psicologia.
Nell’attuale momento storico le dinamiche interiori dell’individuo sono poste
sotto osservazione da una molteplicità di punti di vista: un’interazione fra
discipline che dà luogo a complesse mappe epistemiche. Difficilmente potrà
trovare appagamento la bramosia di defini- zioni che spesso anima le operazioni
intellettuali dei giuristi quando si addentrano in campi di conoscenza diversi
dal proprio. La lettera- tura sugli stati affettivi non è semplicemente una
sovrapposizione di varianti tassonomiche e definitorie; differenti sono le
discipline coin- volte, con angolazioni prospettiche e linguaggi che
valorizzano profili differenti e complementari: non esiste un’unica ‘scienza
dell’emozio- ne e dei sentimenti’. Come modello di approccio penalistico alle
scienze extranormati- ve si è recentemente parlato di una prospettiva
‘separatista’ e di una ‘dialogante’64. La soluzione a nostro avviso preferibile
è la seconda; nel presente caso, il dialogo si caratterizza per una particolare
com- plessità, poiché le voci che il giurista si trova di fronte rappresentano
una variegata polifonia da cui emergono prospettive di ricostruzione behaviors;
explore relevant and competing theories of those emotions’ origin, purpose, or
functioning; limit itself to a particular type of legal doctrine or legal
determination; expose any underlying theories of law on which the analysis
rests; and make clear which legal actors are implicated», v. MARONEY, Law and
Emotion. Condividiamo in questo senso l’impostazione metodologica di NISCO, La
tu- tela penale dell’integrità psichica, FIANDACA, Prima lezione. Tra
sentimenti ed eguale rispetto e di classificazione alquanto diverse. Sarebbe
segno di chiusura cul- turale se ci si accontentasse di identificare le
rispondenze fenomeni- che del richiamo a sentimenti sulla base del senso
comune, senza ap- profondire le articolate classificazioni proposte dai diversi
saperi sul mondo 65; nondimeno, la non omogeneità del panorama di conoscen- ze
grava il giurista di un compito severo. In primo luogo appare opportuno
individuare le branche della co- noscenza che oggi tracciano le coordinate di
riferimento. Al fine di delineare i presupposti di un’interazione fra scienza
penale e saperi sugli stati affettivi, nella dottrina penalistica italiana è
stata proposta una schematizzazione utile a mappare l’orizzonte conoscitivo.
Tre le tipologie di approccio evidenziate: approccio psicologico; approccio neurofisiologico e
neuroscientifico; approccio filosofico La dimensione biologica e quella
psicologica offrono un quadro in- centrato sulle dinamiche interne alla
persona, ossia relativo a come gli stati affettivi si manifestano e a quale
influenza possono avere sul- l’agire, sull’autodeterminazione individuale e
dunque nella globale eco- nomia di vita di un soggetto. Prospettive come quella
filosofica e so- ciologica forniscono chiavi di lettura differenti, facendo
luce non solo sulla dimensione soggettivo-interiore e solipsistica dei fenomeni
af- fettivi, ma proiettandoli nelle complesse dinamiche della vita di rela-
zione e dunque nella sfera interpersonale. Nella prospettiva penalistica sono
importanti entrambi i profili, sia quelli più legati al ruolo degli stati
affettivi nella dimensione indi- viduale, sia quelli concernenti
l’intersoggettività e la dimensione col- lettiva, i quali potranno assumere una
maggiore o minore pertinenza a seconda dei problemi esaminati dal giurista.
Rispetto ai temi oggetto della presente indagine, la parte definitoria è in
larga pare debitrice di contributi di ambito psicologico; quanto al- lo
sviluppo che riguarderà la specifica connessione della tutela di sen- timenti
al tema del rispetto reciproco e dei limiti penali alla libertà di espressione,
le traiettorie di pensiero a nostro avviso più feconde risul- tano intrecciate
alla filosofia politica e a recenti sviluppi della filosofia fenomenologica.
Non va infine dimenticata un’ulteriore branca del sa- pere che si focalizza su
dinamiche di intersoggettività nella dimensione Per una critica all’habitus
culturale del penalista, talvolta poco propenso al confronto con il mondo dei
fatti, e una conseguente esortazione a fare proprio uno spirito scientifico e
una modalità di pensiero diversi dal mero senso comune, v. FORTI, L’immane
concretezza, FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti; cfr. NISCO,
La tutela penale dell’integrità psichica. Fenomeni affettivi e dimensione
giuridica 27 sociale: parliamo della sociologia delle emozioni, un campo di
studi relativamente giovane e alquanto promettente per le prospettive di
interazione con la riflessione giuridica 69. Nel prosieguo cercheremo di compiere
un excursus, necessaria- mente approssimativo, al fine di fare maggiore
chiarezza sui tratti che distinguono in particolare il sentimento da un’altra
manifesta- zione del sentire: l’emozione. Si tratta di un compito spinoso.
Eloquente è quanto affermato nella letteratura psicologica italiana. Nell’affrontare
lo studio della vita emotiva si resta colpiti dal disaccordo che vi è tra gli
psicologi sull’uso e sul si- gnificato dei termini fondamentali, sulla
classificazione e sui caratteri differenziali degli stati affettivi, sul
meccanismo della loro produzione. L’ambiguità e la vaghezza presenti nel
linguaggio comune non do- vrebbero rinnovarsi nel linguaggio scientifico, e,
soprattutto, quan- do si tratta di gestire l’interazione fra discipline
differenti «le parole [non dovrebbero essere] introdotte in un sistema di
linguaggio scien- tifico, serbando a tradimento il significato che loro viene
dal modo in 67 Sul tema, amplius, v. a cura di Turnaturi, La sociologia delle
emozioni, tr. it., Milano. TURNATURI, Introduzione, in AA.VV., a cura di
Turnaturi, La sociologia delle emozioni, BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law.
SCHERER, What are
emotions? And how can they be measured?, Social Science Information. ZAVALLONI, La vita emotiva, in Ancona, Questioni di
psico- logia. Principi e applicazioni per psicologi, medici, insegnanti ed
educatori, Milano. Problemi di natura terminologica sono posti in evidenza
anche da ABBAGNANO [si veda], Storia filosofica delle emozioni, in GALATI,
Prospettive sulle emozioni e teorie del soggetto, Milano. [cf. H. P. Grice,
“Grice ed Abbagnano”]. Oltre ai complessi rapporti tra definizioni
scientifiche, l’inquadramento di profili di rilevanza giuridica di sentimenti
ed emozioni richiede di non trascurare il vocabolario tramite cui gli attori
sociali connotano gli stati affettivi, e dunque le sfumature del linguaggio che
possono concorrere a illuminare dimensioni di sen- so dei fenomeni. In altri
termini, la ricerca di una tendenziale coerenza tra cate- gorie giuridiche e
concettualizzazioni scientificamente fondate dovrebbe essere veicolata anche
attraverso un esame di usi linguistici che, pur caratterizzati da
approssimazioni e da una logica comunicativa incline al ‘senso comune’ o alla
c.d. ‘psicologia ingenua’, possono nondimeno contribuire ad additare problemi
di fondo e a identificare l’area di significato dei termini. Sul ‘senso comune’
come categoria che definisce ciò che è ritenuto ovvio e condiviso all’interno
di una cer- chia sociale, v., per tutti, JEDLOWSKY, “Quello che tutti sanno”.
Per una discussione sul concetto di senso comune, in Rass. it. sociologia, Tra
sentimenti ed eguale rispetto cui sono usate in un altro sistema, o nel
linguaggio comune» 73. Tale monito, proveniente da un filosofo italiano del
diritto, trova rispondenza in ambito anglo-americano proprio negli scritti
legati a ‘Law and Emotion’ il lessico degli stati affettivi muta a seconda dei
contesti di studio, e l’opera di consultazione di saperi esterni da parte del
giurista penale dovrebbe essere accompagnata da una rielabora- zione dei
contenuti, poiché le ipotesi definitorie e classificatorie pro- poste in ambito
extragiuridico possono non assumere una corrispon- dente rilevanza nella
prospettiva della valutazione penalistica. I concetti di emozione e di
sentimento vanno conseguentemente mo- dulati sulla dimensione giuridica,
tenendo ben presente la base epi- stemica alla quale si sta facendo
riferimento, ma senza vincoli sul piano strettamente lessicale né concettuale.
Il problema non è certo inedito, e può essere ricollegato agli inter- rogativi
formulati, ormai qualche decennio fa, da autorevole dottrina, relativi a come
rendere metodologicamente compatibili il punto di vista normativo e quello delle
scienze empirico-sociali di fronte al- l’esigenza di definire la rilevanza
giuridica di fenomeni psichici Scarpelli richiama l’attenzione sull’esigenza di
pulitura, ed eventualmente di ri-strutturazione, del lessico giuridico, con
l’importante avvertenza di non limitarsi a importare terminologie esterne in
modo pedissequo e irriflessivo, senza procedere a un’adeguata
concettualizzazione: v. SCARPELLI, Scienza del diritto e ANALISI DEL LINGUAGGIO,
a cura di Scarpelli-Di Lucia, Il linguaggio del diritto, Milano, MARONEY, Law
and Emotion; BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the Law. FIANDACA, Sul ruolo delle
emozioni e dei sentimenti: «il giurista contemporaneo, se da un lato non può
fare a meno di rivisitare i concetti di emozione e sentimento alla luce delle
acquisizioni scientifiche e della riflessione filosofica più recenti, rimane
per altro verso pur sempre vincolato all’esigenza di ri- pensare i concetti
elaborati in altri ambiti disciplinari secondo la sua specifica ottica». Dello stesso avviso, BANDES,
Introduction, cit., p. 8, secondo la quale it is also true that law has its own
set of purposes, demands and limitations. The knowledge we gain about emotion
is usable in a legal context only if it can be translated in light of law
requities». 76 FIANDACA, I presupposti della
responsabilità penale tra dogmatica e scienze so- ciali, in AA.VV., a cura di
de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la fluidità del sapere:
ragionamento sul metodo, Padova. L’analisi di Fiandaca è in questo caso
incentrata sui presupposti soggettivi della responsabilità penale, e pone in
evidenza due distinti ordini di problemi: da un lato, il grado di affidabili-
tà del sapere metagiuridico, che, specie con riferimento alle scienze
psicologiche, offre contributi i cui esiti si prestano a letture non univoche.
Dall’altro lato, evi- denzia come determinate acquisizioni in ambito
psicologico siano tali da porre in dubbio la base fattuale di principi
normativi come la colpevolezza, esponendone Fenomeni affettivi e
dimensione giuridica 29 Nello scenario contemporaneo, l’ampliamento
dell’offerta epistemi- ca, ossia l’incremento delle branche della conoscenza
che oggi si sof- fermano sullo studio dei fenomeni affettivi, rende ancora più
com- plesso tale compito. A fronte di tali difficoltà, e nella consapevolezza
che sia opportuno tenere distinte le finalità delle categorizzazioni dei saperi
sul mondo dalla teleologia delle categorie penalistiche77, resta l’obiettivo di
ridurre la distanza fra l’artificialità delle concettualizzazioni giuridiche e
la realtà dei fenomeni 78, sia al fine di individuare re- gole d’uso dei
termini non ‘arbitrarie’, ossia fondate su connessioni fra le diverse proposte
in ambito extragiuridico le quali siano adeguata- mente esplicative rispetto ai
problemi in gioco; sia nella prospettiva di dare anche un impulso alla
rivisitazione di categorie e di modelli con- cettuali presenti nel discorso
giuridico 79 – non solo dei teorici ma an- che, soprattutto, degli applicatori
– che risentono di schemi di pensiero legati al senso comune e alla cosiddetta
psicologia ingenua 80. però a rischio anche il ruolo individual-garantistico;
oppure, con riferimento a un possibile allineamento con quanto espresso da
determinate teorie sociologiche, rimarca il rischio di una funzionalizzazione
del diritto penale all’ascolto di istanze di mera difesa sociale. 77 Rileva
tale problema, con riferimento al tema dell’imputabilità, BERTOLINO,
L’imputabilità e il vizio di mente nel sistema penale, Milano, 1990, pp. 25
ss., 44 ss. Sul tema della costruzione di un modello di scienza penale
integrale, non asservi- ta ai saperi empirici ma comunque attenta a limiti
epistemologici, v. DONINI, La scienza penale integrale fra utopia e limiti
garantistici, a cura di Moccia- Cavaliere, Il modello integrato di scienza
penale di fronte alle nuove questioni socia- li, Napoli, 2016, pp. 26 ss. 78
Anche aprendo la riflessione verso un’eventuale ‘rivisitazione’ di categorie
che dovessero risultare mero riflesso di una psicologia cosiddetta ‘esoterica’:
su tale definizione v. FIANDACA, Appunti sul ‘pluralismo’ dei modelli e delle
categorie; cfr. VENEZIANI, Motivi e colpevolezza. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion
and the Law, cit., p. 165. 80 Si è osservato che «il diritto può venire
considerato un caso particolarmente brillante di scienza “ingenua”. Esso
infatti impiega massicciamente una propria concezione della psicologia ma senza
dichiararne i teoremi ed i postulati», v. PE- RUSSIA, Criteri giuridici e
criteri psicologici: note sullo scambio epistemologico fra psicologia e
diritto, in AA.VV., a cura di de Cataldo Neuburger, La giustizia penale e la
fluidità del sapere, cit., p. 89. Per un quadro generale sulla ‘psicologia
inge- nua’, con cui si intende la capacità spontanea degli esseri umani «di
interpretare i comportamenti di un agente attribuendogli stati mentali quali
credenze, desideri, piacere, interesse», v. MEINI, Alle origini della
psicologia ingenua: interpretare se stessi o interpretare gli altri?, Sistemi
intelligenti; con riferimento alla dimensione giuridica, v. di recente
FORZA-MENEGON-RUMIATI, Il giudice emotivo. Per una sintesi del ruolo della
commonsense psychology nel di- ritto penale, in una prospettiva tesa a non
demonizzarne il ruolo ma ad analiz- Tra sentimenti ed eguale rispetto 4.1.
Quale concezione di emozione per il giurista? Non si tratta dunque di
effettuare un travaso lessicale che intro- duca nomenclature e classificazioni
ab externo; le diverse ‘emotion theories’ si prestano a sviluppi fra loro
profondamente differenti, e il giurista non può limitarsi a importazioni
passive di saperi 81. zarne i risvolti positivi quale alternativa a prospettive
‘comportamentiste’ e ‘ridu- zioniste’, v. SIFFERD, In defense of the Use of
Commonsense Psychology in the Cri- minal Law, in 25 Law and Philosophy, 2006,
pp. 571 ss.; per un’opinione differen- te v. COMMONS-MILLER, Folk Psychology
and Criminal Law: Why We Need to Repla- ce Folk Psychology with Behavioral
Science, The Journal of Psychiatry and Law. Quando si parla di psicologia folk
ci si riferisce a un terri- torio che non corrisponde a un sistema armonico di
concetti (peraltro si tende anche a distinguere folk psychology da commonsense
psychology), ma che è un campo variegato, caratterizzato anche da incongruenze
interne, nel quale i saperi scientifici costituiscono l’humus di
concettualizzazioni che vanno ad assumere forme differenti in relazione ai
momenti storici; è più corretto parlare al plurale di ‘folk conceptions’
piuttosto che di un’unica visione ‘folk’ dei fenomeni affettivi. La dimensione
folk resta eminentemente esplicativa, ma non descrittiva: è condi- zionata da
un sapere approssimativo sulla fisiologia degli stati affettivi, e accom- pagna
tale gap epistemico con congetture che rivelano un approccio tendenzial- mente
valutativo del fenomeno emotivo, il quale trova espressione in immagini
significative che traspongono in termini metaforici i caratteri del fenomeno.
In generale possiamo affermare che la vita di relazione è in larga parte
regolata da deliberazioni interiori assunte sulla base di postulati di ‘folk
psychology’, in parte come frutto di competenze innate, e in parte effetto di
deduzioni influenzate della cultura. Si osserva che nella dimensione
penalistica la ‘folk psychology’ può rap- presentare un formante in relazione a
tre distinti profili: influisce sulla confor- mazione categorie generali del
diritto penale; influenza le argomentazioni degli studiosi di diritto; si
insinua concretamente nel sistema legale attraverso argo- mentazioni che gli
operatori pratici adoperano nella loro professione (giudici, av- vocati, e, con
riferimento al sistema americano, giurati), v. FINKEL-GERROD PAR- ROT, Emotions
and culpability. How the Law is at
Odds with Psychology, Jurors, and itself, Washington, 2006, p. 48. Sull’interazione fra senso comune e studio delle
emozioni, in una prospettiva che ne rimarca le reciproche implicazioni, v.
GALATI, Prospettive sulle emozioni. Si veda anche CALABI, Le varietà del
sentimento, in Sistemi intelligenti, la quale afferma che la psicologia del
senso comune contribuisce a fornire una rappresentazione del fe- nomeno emotivo
che ne comunica la complessità in modo più coerente e attendi- bile rispetto
alle tendenze riduzioniste o eliminativiste. 81 Per il giurista, oltre alla
necessità di riuscire a districarsi fra gli ‘overlap- ping fields’ sulle
emozioni (secondo la definizione di BANDES, Introduction, cit., p. 8) si pone
l’esigenza di non introdurre tali conoscenze in termini meramente strumentali
alla costruzione delle proprie teorie, importandoli e magari ‘co- stringendoli’
all’interno di argomentazioni giuridiche senza renderne manifesto il margine di
opinabilità e la possibilità di ricostruzioni alternative, e senza dunque
osservare il dovuto rispetto per la complessità a cui si sta facendo ri-
Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 31 Il richiamo a vincoli di
realtà si potrebbe così articolare: un primo livello, relativo all’esplorazione
del panorama di conoscenze disponi- bili, all’esame di nozioni, di tassonomie e
di differenti prospettive di ricostruzione; un secondo livello, incentrato su
una concezione di sentimento e di emozione che sia suscettibile di entrare in
connes- sione con i fatti e con le dinamiche che interessano i problemi di re-
golamentazione penale. Nel complesso, a una fase di ricognizione epi- stemica
si aggiunge un processo interpretativo e al tempo stesso ‘crea- tivo’, nel
senso che il giurista finisce per concepire una particolare idea di emozione e
di sentimento. Una critica mossa ad alcuni fra i primi contributi sul tema di
‘Law and Emotion’ è stata quella di non aver adeguatamente problematiz- zato ed
esplicitato un importante passaggio metodologico, ossia di- scutere apertamente
quale sia la concezione di emozione assunta alla base delle riflessioni 82.
Parallelamente a tale critica, riteniamo che si attaglino anche al giurista le
osservazioni del sociologo Sergio Manghi, quando afferma che per lo studioso di
scienze sociali non è possibile limitarsi a de- scrivere il modo in cui le
emozioni vengono socialmente definite: allo stesso modo per il giurista non è
possibile far interagire la dimensio- ne giuridica con le diverse prospettive
attraverso cui emozioni e sen- timenti vengono socialmente e scientificamente
definiti, senza pren- dere al contempo una posizione che traduca maggiore o
minore pre- ferenza per una determinata impostazione. Va dunque inoculato an-
che nella riflessività dello studioso di diritto l’interrogativo di natura
epistemologica su quale sia la concezione di emozione alla base del proprio
discorso: «attraverso quale idea di ‘emozione’ parlo di ‘emozioni’? Essere o
me- no dotati di un’idea di ‘emozione’, o per dirla con una parola più im-
pegnativa, di una teoria delle emozioni, non è questione di scelta, per nessun
essere umano che ricorra alla parola ‘emozione’. A maggior ra- gione, non è una
questione di scelta per uno scienziato sociale. Una teoria c’è comunque. Possiamo scegliere solo se
mantenerla implicita, colludendo con il senso comune, o possiamo cercare di
esplicitar- mando: «Legal scholars, as well as lawyers, legislators, judges,
need to guard against this temptation to pillage other fields without regard
for their full com- plexity and to use the spoils selectively to make legal
arguments», v. BANDES, Introduction, LITTLE, Negotiating the Tangle of Law and
Emotion, in 86 Cornell Law Re- view. Tra
sentimenti ed eguale rispetto la: ben sapendo, beninteso, che l’esplicitazione
non tocca che uno scam- polo del vasto sistema delle nostre premesse implicite.
L’assunzione di un’idea da altri ambiti testuali rimane comunque un gesto
attivo, un atto linguistico generativo, del quale non possiamo non assumerci la
responsabilità epistemologica» 83. Il problema non è solo definitorio ma
implica una presa di posi- zione sul piano epistemologico, con conseguenze sul
merito delle ri- flessioni84: tematizzare problemi concernenti i rapporti fra
diritto e dimensione affettiva porta anche il giurista a prediligere e a
identifi- carsi con una o più proposte ricostruttive. Formarsi un’idea di cosa
siano l’emozione e il sentimento, e in quale accezione si intenda in- trodurre
tali concetti nel discorso penalistico, rappresenta in primo luogo
un’acquisizione importante dal punto di vista della qualità epistemica
dell’indagine e delle proposte eventualmente avanzate, e co- stituisce un
impegno sul piano metodologico. 4.2. Sull’uso del termine ‘emozione’ Esigenze
di chiarezza e di coerenza con le fonti bibliografiche ri- chiedono una
puntualizzazione sul piano lessicale, o più precisamen- te, meta-lessicale.
Nella lingua italiana i termini che definiscono gli stati affettivi so- no
diversi: ‘sentimento’ ed ‘emozione’ sono quelli probabilmente più noti, cui si
affiancano anche vocaboli come ‘passione’, ‘sensazione’, ‘impressione’,
‘affezione’, ‘stato d’animo’. In lingua inglese il termine di uso più comune e
dal significato più ampio è ‘emotion’, il quale, a seconda dei diversi
contesti, sembra po- tersi tradurre in italiano sia con ‘emozione’, sia con
‘sentimento’. Più circoscritto appare l’uso del termine ‘feeling’, il quale si
presta a esse- re tradotto letteralmente come ‘sentimento’, al pari dell’ancor
più univoco, ma meno frequente, ‘sentiment’. Diffuso è inoltre l’uso del
termine ‘passion’, il quale sembra connotare un particolare modo 83 MANGHI, Le
emozioni come processi sociali. Considerazioni teorico-epistemo- logiche, in
AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e sentimenti nella vita sociale,
Milano. LITTLE,
Negotiating the Tangle of Law and Emotion, cit., p. 982: «The tax- onomy issue
is not a battle just about what goes on the list; the issue also goes to the
core of what constitutes an emotion and how emotions emerge and
transform». Fenomeni
affettivi e dimensione giuridica 33 d’essere degli stati affettivi, ossia
l’effetto condizionante nei confronti dell’agire umano 85. Se si cerca una
corrispondenza in lingua inglese con la formula ‘tutela di sentimenti’ non si
trova praticamente mai il vocabolo ‘fee- ling’: il discorso giuridico sugli
stati affettivi è fondamentalmente in- centrato sul termine ‘emotion’. Quando
si parla di ‘Law and Emotion’, tale ultimo vocabolo non si riferisce solo ai
fenomeni psichici che possono ricondursi a emozioni in senso stretto, ma
comprende anche gli stati che, come avremo modo di osservare, in lingua
italiana corrisponderebbero a ‘sentimen- ti’. Le questioni che nel panorama di
studi giuridici in lingua italiana richiamano espressamente ‘sentimenti’ trovano
dunque nella dottrina nordamericana una rispondenza col termine, più generico e
com- prensivo, ‘emotion’ 86. Tale ambivalenza, se da un lato appare foriera di
ambiguità, da un altro lato mostra una compenetrazione fra i due fenomeni che
sugge- risce, in fase di esposizione e di impostazione dei problemi, l’uso del
termine ‘emozione’ quale traduzione di ‘emotion’ in tutta la sua porta- ta
semantica87, e dunque in modo sostanzialmente intercambiabile col termine
‘sentimento’. 85 Una panoramica
in DIXON, “Emotion”: The History of a Keyword in Crisis, in Emotion Review. Da notare l’interessante equivoco linguistico nella
traduzione del titolo del celeberrimo romanzo di JANE AUSTEN, Sense and
Sensibility, tradotto, come noto, in italiano come Ragione e sentimento. In
realtà in inglese ‘sensibility’ indica la sensibilità come emotività; sarebbe
stato preferibi- le, come segnalato da Griffith e Davies, autori di un saggio
sull’opera di Jane Austen citato in
http://www.unteconjaneausten.com/senno-e-sensibilita-
piu-che-ragione-e-sentimento/, intendere ‘sense’ come risposta ragionata o
pratica a una situazione, mentre ‘sensibility’, come percezione emotiva di tale
situazione. Debbo la segnalazione di tale interessante questione all’amico
Alessandro Corda, che ringrazio. Sull’uso del termine ‘passione’ v. anche
infra, cap. II, nota 1. 86 Un’eccezione da noi riscontrata è relativa a un
saggio di FEINBERG, Senti- ment and Sentimentality in Practical Ethics, in 56
Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, nel quale
il termine ‘senti- ment’ è utilizzato per indicare stati affettivi non
episodici, distinti dall’‘emotion’ sia per la durata, sia per la presenza di un
oggetto cognitivo. In controluce a tale impostazione emerge un complementare
uso del termine emotion volto a indicare stati psicologici privi un oggetto
cognitivo definito, in controtendenza dunque all’opinione di autori come Kahan
e Nussbaum. Osserva DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. Etica e teoria del
sentire, Milano, 2008, pp. 21 ss. che «nella lingua franca della filosofia
contemporanea la parte del leone affettivo la fa oggi la parola “emozione”. È
questo il termine che viene di pre- ferenza usato con la stessa generosità
onnicomprensiva di “passioni” in Cartesio, anche se a volte l’uso italiano è
stridente, come lo sono spesso, prima che l’abitu- 34 Tra
sentimenti ed eguale rispetto Il problema di un uso più sorvegliato si porrà al
momento di in- quadrare i profili naturalistici che caratterizzano il
sentimento e l’emozione al fine di verificare, nella prospettiva giuridica, il
senso di una distinzione fra una ‘tutela di sentimenti’ e una ‘tutela di
emozio- ni. Sinossi Il significato e il ruolo del sentimento nel diritto penale
costitui- scono un argomento poco esplorato, il quale può inquadrarsi all’in-
terno di un macroambito riguardante i rapporti fra diritto penale e stati
affettivi. L’insufficiente attenzione ad oggi riservata a tali temi si motiva
anche come effetto di un più generale atteggiamento del pen- siero occidentale
tendente a relegare la dimensione affettiva nella sfe- ra dell’indominabile e
dell’irrazionale; una vulgata attualmente in fa- se remissiva alla quale sta
subentrando una nuova considerazione di sentimenti ed emozioni come elementi
dotati di una peculiare forza non necessariamente negativa, ma anche
potenzialmente virtuosa, nelle dinamiche del pensiero e dell’agire umano. Fra i
diversi problemi concernenti il ruolo degli stati affettivi nella genesi e
nell’applicazione delle leggi penali, quello che ci sembra di più immediata
evidenza, quantomeno se si ha riguardo al lessico dei legislatori, ha a che
fare con la c.d. ‘tutela penale di sentimenti’, o, in termini meno retorici,
con il ruolo del sentimento quale oggetto di tutela. Per tematizzare tale
problema, e più in generale tutte le questioni concernenti i rapporti fra
diritto e dimensione affettiva, si rendono necessarie delle riflessioni
preliminari sul piano epistemologico e me- todologico, profili teorici su cui
si è mostrata particolarmente sensi- bile la dottrina giuridica statunitense
attraverso il filone di studi noto come ‘Law and Emotion’. Seguendo i percorsi
tracciati dai contributi afferenti al suddetto ambito, riteniamo che la
presente indagine debba prendere le mosse da un inquadramento dei fenomeni cui
le norme fanno richiamo. Un impegno che non dovrebbe limitarsi a
un’importazione passiva di sa- peri e definizioni, e che sollecita piuttosto il
giurista a interrogarsi su quale sia la concezione di emozione e di sentimento
più funzionale e dine spenga il disagio, gli anglicismi (sospettiamo infatti
che il senso del termine inglese “emotions” sia più lato di quello del suo
falso amico italiano. Fenomeni affettivi e dimensione giuridica 35 meglio
esplicativa rispetto ai diversi problemi in gioco. Vedremo nel prossimo
capitolo quali siano i principali criteri di differenziazione fra stati
affettivi, e quali profili distintivi appaiano più funzionali al discorso sul
problema del sentimento come oggetto di tutela. 36 Tra sentimenti
ed eguale rispetto SENTIMENTI ED EMOZIONI: CLASSIFICAZIONI E
DISAMBIGUAZIONI «Capire tu non puoi Tu chiamale se vuoi Emozioni» BATTISTI
L.-MOGOL, «Io penso che un uomo senza utopia, senza sogno, senza ideali, vale a
dire senza passioni e senza slanci sarebbe un mostruoso animale fatto
semplicemente di istinto e di raziocinio... una specie di cinghiale laureato in
matematica pura» DE ANDRÈ F., intervista tratta dal documentario ‘Dentro Faber,
l’anarchia’ Definire gli stati
affettivi: una sfida continua. Emozioni.
Un quadro ricostruttivo: dalla matrice filosofica alle neuroscienze. Le emo-
zioni come giudizi di valore: la concezione di Nussbaum. Concezioni
‘meccanicistiche’ e concezioni valutative dell’emozione: profili di rile- vanza
giuridica. La dimensione sociale delle emozioni. – 3. Sentimenti: componente di
riflessività e dimensione morale. Il pensiero filosofico e i sentimenti morali.
Un’interpretazione fenomenologica. Emozioni e sen- timenti: il senso della
distinzione concettuale. Definire gli stati affettivi: una sfida continua I
termini ‘sentimento’ ed ‘emozione’ definiscono fenomeni appar- tenenti alla
categoria dei cosiddetti ‘stati affettivi’, e additano in que- sto senso
differenze fattuali il cui approfondimento richiede di attin- gere da saperi
esterni al mondo del diritto, tenendo presente che ri- spondere alla domanda ‘che
cosa sia un’emozione o un sentimento’ rappresenta ancora oggi una sfida
continua 1, data la difficoltà di cri- 1 BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and
the Law; cfr. SCHERER, What 38 Tra sentimenti ed eguale rispetto
stallizzare nozioni univocamente condivise a livello interdisciplinare. Nella
prospettiva giuridica è opportuno avere chiaro a quali fini si intenda
evidenziarne le differenze2: non si tratta di perseguire una fedeltà al
linguaggio dei legislatori ove adoperino una terminologia più o meno dettagliata,
ma piuttosto di dotarsi di strumenti episte- mici per un’adeguata
interpretazione delle situazioni descritte in eventuali norme e per una
comprensione delle questioni di fondo, anche in una prospettiva de jure
condendo 3. Il rinvio alle scienze psicologiche è funzionale a elaborare delle
definizioni operative idonee a essere impiegate quale chiave di lettura di
problemi penalistici. Ad esempio, in relazione a un interrogativo
particolarmente rilevante nella presente indagine: per quale motivo si tende a
parlare di tutela di ‘sentimenti’ e non di ‘emozioni’? Da un la- to vi è il
riflesso condizionato dal lessico delle disposizioni, ma si tratta ovviamente
di una spiegazione insufficiente ad accreditarne la coerenza. Appare invece
necessario fare chiarezza sulla distinzione fattuale tra i suddetti stati
affettivi e sulle conseguenti ripercussioni sul piano concettuale, al fine di
chiedersi quali differenze possano di- scendere dall’orientare un’eventuale
prospettiva di intervento sulle emozioni piuttosto che sui sentimenti. are
emotions? And how can they be measured? Non adoperemo il ter- mine ‘passione’,
il quale è spesso utilizzato quale sinonimo d’emozione soprat- tutto in
relazione agli aspetti di reattività e di passività, ma assume un significato
più esteso, il quale non si limita al piano psicologico e fenomenico ma tende a
includere una dimensione sociale e culturale, specie nel discorso che
storicamen- te contrappone ‘passione’ e ‘ragione’. Come osserva BODEI,
Geometria delle passioni, Milano: «“Ragione” e “passioni” [fanno] parte di
costellazioni di senso teoricamente e culturalmente condizionate sono cioè
termini pre-giu- dicati, che occorre abituarsi a considerare come nozioni
correlate e non ovvie, che si definiscono a vicenda (per contrasto o per
differenza) solo all’interno di de- terminati orizzonti concettuali e di
specifici parametri valutativi»; cfr. CURI, Pas- sione, Milano. Il termine
passione connota in definitiva una tipologia di stati affettivi caratterizzati
dalla durata transitoria, fra cui rientrano an- che le emozioni, ma non, ad
esempio, i sentimenti; per una ricostruzione in tal senso v. GOZZANO, Ipotesi
sulla metafisica delle passioni, a cura di Ma- gri, Filosofia ed emozioni,
Milano. Nella dottrina penalistica si soffermano sulla distinzione fra
sentimento ed emozione FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti;
NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica; volendo si veda anche BACCO,
Sentimenti e tutela penale, cit., pp. 1186 ss. 3 Si veda l’indagine di NISCO,
La tutela penale dell’integrità psichica, il quale procede a una distinzione
fra emozione e sentimento nell’ambito di una più ampia analisi volta a definire
i tratti identificativi della ‘sofferenza’ come categoria esplicativa
dell’offesa dei processi psichici. Sentimenti ed emozioni:
classificazioni e disambiguazioni Non si possono sviluppare adeguatamente tali
problemi affidan- dosi alla sola psicologia del senso comune, senza tener conto
di come i saperi sugli stati affettivi configurano oggi il rapporto fra
emozioni e sentimenti, e, più in generale, il ruolo della dimensione affettiva
nella vita della persona. Cerchiamo pertanto di procedere a una di-
sambiguazione che evidenzi i tratti distintivi fra i fenomeni definiti
‘emozione’ e ‘sentimento’. 2. Emozioni. Un quadro ricostruttivo: dalla matrice
filosofica alle neuroscienze Prendiamo le mosse dalle emozioni; la definizione
di altri stati af- fettivi viene formulata spesso in termini di comparazione e
di differen- za con l’emozione, la quale mostra pertanto una rilevanza
primaria. Ripercorreremo in estrema sintesi alcuni degli snodi fondamentali
della storia delle emozioni, con particolare attenzione alle teorie del- l’età
moderna e contemporanea, ossia quelle elaborate a partire da quando la
psicologia ha assunto lo statuto di disciplina autonoma 4. Non va però
dimenticato che l’interrogativo su cosa siano le emozioni ha interessato il
pensiero umano fin dall’antichità, ed è a partire dai classici del pensiero
filosofico che si aprono oggi buona parte delle trattazioni sulle emozioni 5.
Osserva lo psicologo Dario Galati che lo studio delle emozioni na- sce come
indagine filosofica; i fenomeni affettivi sono stati conside- rati da sempre
una fondamentale chiave di lettura per lo studio della natura umana, e anche
nell’attuale variegato panorama di branche della conoscenza la matrice
filosofica mantiene una rilevanza pecu- liare: non si può fare psicologia delle
emozioni senza avere un’opi- nione generale – e diciamo pure filosofica – su
ciò che le emozioni sono, sul valore che hanno e sul ruolo che svolgono
nell’esistenza quotidiana degli esseri umani» 6. 4 RIMÈ, La dimensione sociale
delle emozioni, tr. it., Bologna, 2008, p. 29. 5 Un importante esempio è
l’opera di GRIFFITHS, What Emotions Really Are. The Problem of Psychological Categories, Chicago;
SOLOMON, The Philosophy of Emotions, in The Psychologists’ Point of View,
Lewis–Haviland- Jones, Handbook of Emotions, London. Per un’in- teressante prospettiva sulla ‘priorità’
delle emozioni da un punto di vista filosofico si veda VECA, Sulle emozioni, in
Iride. GALATI, Prospettive sulle emozioni, cit., p. 29. Sulla stessa linea di
pensiero v. 40 Tra sentimenti ed eguale rispetto In questa sede possiamo
solo limitarci a rinviare alle belle pagine con cui il filosofo Nicola
Abbagnano riassume la storia filosofica del- le emozioni, descrivendo la
concezione platonica del Filebo (la pri-ma analisi delle emozioni che la
filosofia occidentale ci ha dato) e la teorizzazione aristotelica della
Retorica («una delle più interessanti analisi di cui la filosofia dispone»)7.
Ai fini della presente indagine appare opportuno compiere un salto cronologico
a epoche caratte- rizzate da una più definita differenziazione tra approcci di
studio, e a prospettive che si estendono anche ai profili fisiologici e
‘corporali’ dei fenomeni affettivi. Arriviamo dunque all’Ottocento, cioè quando
lo studio delle emo- zioni viene a focalizzarsi su un approccio empirico-sperimentale
in relazione a movimenti corporei e pattern comportamentali. L’opera di Charles
Darwin segna in questo senso uno spartiacque e la sua teoria evoluzionistica
dell’emozione rappresenta il primo studio pro- priamente moderno 8. Ma è soprattutto
un articolo di William James 9 a consolidare l’approccio empirico, con la
celebre teoria secondo cui lo stato emotivo scaturisce dalla percezione dei
cambiamenti biologi- ci e neurovegetativi innescati da uno stimolo emotigeno.
Il carattere innovativo, ma anche l’aspetto più criticato di tale teoria, è
l’inver- sione del rapporto tra elaborazione cognitiva e stimolo viscerale:
l’espe- rienza emotiva come esito dalla percezione di mutamenti a livello
corporeo, e non viceversa. Altrettanto importante, ma di opinione opposta, è la
posizione di Walter Cannon, il quale, al contrario di James, riteneva che i
centri di attivazione dei processi emotivi siano localizzati in regioni
periferi- che del corpo (da cui la denominazione ‘teoria periferica’), propo- nendo
un radicamento del processo di elaborazione emotiva nella re- gione talamica,
in un’area che interessa principalmente le strutture dell’ipotalamo e
dell’amigdala. Su tale ultima regione del sistema limbico si sono concentrati
gli studi in epoca contemporanea; in particolare, secondo il neuroscien-
FRIJDA, voce Emozioni e sentimenti, in Enciclopedia delle scienze sociali,
Roma, Sono parole di ABBAGNANO, Storia filosofica delle emozioni. DARWIN, L’ESPRESSIONE DELL’EMOZIONE
NELL’ANINMALE E NELL’UOMO. Torino, JAMES, What is an emotion, Mind. CANNON, The
James-Lange Theory of Emotions: A Critical Examination and an Alternative
Theory, The American Journal of Psychology. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e
disambiguazioni 41 ziato Joseph LeDoux, è l’amigdala ad assumere un ruolo
primario nelle dinamiche dei fenomeni emozionali: non solo nella generazione
delle emozioni, ma anche nella gestione della vita emozionale di un soggetto
11. Questi, in estrema sintesi, alcuni dei contributi più significativi che
orientano verso una descrizione che pone in primo piano aspetti di attivazione
a livello corporeo. Una prospettiva più genuinamente psicologica 12 si deve
agli studi condotti da Stanley Schachter con la teoria c.d.
‘cognitivo-attivazio- nale’ 13. Lo psicologo statunitense riconduce l’emozione
all’attivazione di una componente di tipo materiale-corporeo compresa fra due
atti cognitivi: il primo è rappresentato dalla percezione e dalla valutazio- ne
di uno stimolo elicitante; il secondo, successivo all’attivazione
dell’arousal14, è costituito dalla riflessione sul legame causale fra lo
stimolo esterno e l’attivazione emozionale interna, secondo un pro- cesso che
viene letteralmente definito come ‘etichettamento’ (label- ling) e che
corrisponde a un’elaborazione e a un’interpretazione del rapporto tra stimolo
emotivo ed arousal. Si tratta di un significativo passo oltre la dimensione
fisica delle emozioni, nel quale viene in considerazione l’esperienza cognitiva
del soggetto: l’emozione assu- me una fisionomia complessa e multifattoriale
rivelandosi come mo- mento dialettico fra mente e corpo, secondo un’interazione
guidata da processi non meramente istintuali. Su tali premesse troveranno
sviluppo teorie che assegnano impor- tanza centrale alle elaborazioni cognitive
e alle valutazioni di cui si compone l’esperienza emotiva, meglio note come
‘teorie dell’appraisal’. Opera di riferimento è uno studio di Magda Arnold15,
che definì 11 LE DOUX, Emotion circuits in the brain, in Annual review of
neuroscience.; ID., Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, cit., pp.
49 ss. 12 Sulla definizione del punto di vista psicologico sulle emozioni v.
FRIJDA, The Psychologists’ Point of View, Handbook of Emotions,
SCHACHTER-SINGER, Cognitive, Social and Psychological Determinants of Emotional
State, in Psychological Review. L’arousal (eccitazione, risveglio) rappresenta
il risvolto più propriamente fisico dell’emozione, ossia l’attivazione nervosa
che viene per- cepita dal soggetto a seguito di uno stimolo emotigeno, la quale
può avere diverse gradazioni di intensità e provocare differenti stati
affettivi: ad esempio nell’emo- zione vi sarebbe un intenso arousal provocato
da eventi edonicamente rilevanti che sollecitano una risposta comportamentale,
v. voce Arousal, in Enciclopedia della scienza e della tecnica, Roma. ARNOLD,
Emotion and Personality, New York. Tra sentimenti ed eguale rispetto l’emozione
come una spinta tendente all’attrazione o all’allontana- mento da un
determinato oggetto a seguito di una valutazione di es- so; tale fase,
cosiddetto ‘appraisal’, è seguita da una valutazione se- condaria, detta
‘reappraisal’, la quale di fatto implica una riflessività sugli stati che il
soggetto ha percepito. Nel solco tracciato delle teorie dell’appraisal si
sviluppano le elabo- razioni di Nico Frijda, secondo il quale le emozioni
costituiscono ri- sposte modulate sulla struttura di significato di una
determinata situa- zione: ‘significato’ da intendersi come attribuzione di
senso in termini di positività o negatività da parte di un individuo. Elemento
centrale dell’esperienza emotiva è la soggettività: la dimensione individuale è
chiave di lettura della complessità e della variabilità delle emozioni 16. Le
considerazioni di Frijda, e più in generale le teorie dell’appraisal, conducono
verso l’inquadramento delle emozioni come «mediatori complessi fra il mondo
interno e quello esterno che variano secon- do alcune dimensioni continue, quali
la valenza edonica (piacevolez- za o spiacevolezza), la novità (o meno) degli
eventi elicitanti, il livello di attivazione, il grado di controllo dei
medesimi, la compatibilità (o meno) con le norme sociali di riferimento. La
prospettiva intrapsichica si apre in questo modo all’inclusione di aspetti
cognitivo-valutativi che sono esito del continuo processo di giudizio che il
soggetto compie nel suo rapportarsi alla realtà: «l’indi- viduo è continuamente
impegnato in operazioni di valutazione cogni- tiva, con le quali egli mette a
confronto la sua percezione della situa- zione attuale con una sorta di visione
prospettica, che gli deriva dalla conoscenza del mondo, dalle sue credenze di
base, dalle norme a cui si conforma e dai diversi obiettivi temporanei e
permanenti che persegue. Negli anni a noi più vicini il panorama di conoscenze
e di approc- ci di studio è andato arricchendosi, anche a seguito dell’avvento
delle neuroscienze cognitive, una disciplina che nasce all’inizio degli anni
Ottanta del Novecento e che porta a una nuova auge la dimensione
neurobiologica19, grazie a innovative tecniche che consentono di vi- FRIJDA,
voce Emozioni e sentimenti, cit., p. 568; più ampiamente v. ID., Emozioni, tr.
it., Bologna, ANOLLI-LEGRENZI, Psicologia generale, Bologna, RIMÈ, La
dimensione sociale delle emozioni. DAMASIO, Emotions and feelings: a neurobiological
perspective, ed. by Mansted-Frijda-Fischer, Feelings and Emotions. The Amsterdam Symposium, Cambridge, Sentimenti ed
emozioni: classificazioni e disambiguazioni 43 sualizzare l’attività del
sistema neurale delle emozioni. Si deve soprattutto all’opera scientifica e
divulgativa del neuro- scienziato Antonio Damasio un importante tentativo di
definire l’emo- zione e di studiarne le strette connessioni con il ragionamento
e con l’agire che definiamo ‘razionale’. L’articolata proposta di Damasio per
dare una fisionomia all’emozione è la seguente: «l’insieme dei cambiamenti dello
stato corporeo che sono indotti in miriadi di organi dai terminali delle
cellule nervose, sotto il controllo di un apposito sistema del cervello che
risponde al contenuto dei pen- sieri relativi a una particolare entità, o
evento. Per concludere, l’emo- zione è frutto del combinarsi di un processo
valutativo mentale, sem- plice o complesso, con le risposte disposizionali a
tale processo, per lo più dirette verso il corpo, che hanno come risultato uno
stato emotivo del corpo, ma anche verso il cervello stesso che hanno come
risul- tato altri cambiamenti mentali. Per un quadro generale v. DE PLATO, Il
modello delle emozioni, a cu- ra di De Plato, Psicologia e psicopatologia delle
emozioni, Bologna; BELLODI-PERNA, Emozioni e neuroscienze, in AA.VV., a cura di
Rossi, Psichiatria e neuroscienze, in Trattato italiano di psichiatria, Milano,
2006, pp. 35 ss. Fra gli studi sulle emozioni che si avvalgono di tecniche
neuroscientifiche possiamo includere i già citati contributi di Antonio Damasio
e di Le Doux (v. supra, nota 11); di quest’ul- timo ricordiamo inoltre LE DOUX,
Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diven- tare quello che siamo,
tr. it., Milano, 2002. L’oggetto di studio delle neuroscienze co- gnitive si
estende anche al di là delle emozioni, e le acquisizioni delle neuroscienze
sono sempre più frequentemente oggetto di interesse da parte dei giuristi
penali: per una sintesi v. GRANDI, Neuroscienze e responsabilità penale. Nuove
soluzioni per problemi antichi?, Torino, 2016; BERTOLINO, Il vizio di mente tra
prospettive neuro- scientifiche e giudizi di responsabilità penale, in Rass.
it. criminologia; EAD., Imputabilità: scienze, neuroscienze e diritto penale,
in AA.VV., a cura di Pa- lazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze. Non
“siamo” i nostri cervelli, Torino, 2013, pp. 145 ss.; EAD., L’imputabilità
penale fra cervello e mente, in Riv. it. med. leg.; GIOVINE O., Chi ha paura
delle neuroscienze, in Arch. pen.; EAD., voce Neuroscienze (diritto penale), in
Enciclopedia del dirit- to, Annali VII, 2014, pp. 711 ss. EUSEBI, Neuroscienze
e diritto penale: un ruolo diver- so del riferimento alla libertà, in AA.VV., a
cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle neuroscienze; CORDA, Riflessioni
sul rapporto tra neuroscienze e im- putabilità nel prisma della dimensione
processuale, in Criminalia, 2013, pp. 497 ss.; ID., Neuroscienze forensi e
giustizia penale tra diritto e prova (Disorientamenti giuri- sprudenziali e
questioni aperte), in Arch. pen. (Rivista web), 3/2014, pp. 1 ss.; ID., La
prova neuroscientifica. Possibilità e limiti di utilizzo in materia penale,
Ragion Pratica; FUSELLI, Le emozioni nell’esperienza giuridica: l’impatto delle
neuroscienze, in AA.VV, a cura di Palazzani-Zannotti, Il diritto nelle
neuroscienze, cit., pp. 53 ss. 21 DAMASIO, L’errore di Cartesio, cit.,
pp. 201 s. 44 Tra sentimenti ed eguale rispetto Com’è evidente anche da
questa sintetica trattazione, la mole di approcci e di contributi è tale da
rendere difficoltoso definire l’emo- zione: è possibile individuare dei punti
di convergenza tali da poter indicare al giurista dei tratti caratterizzanti?
Nella dottrina giuridica americana gli studiosi Bandes e Blumen- thal, dopo
aver formulato il caveat metodologico di non avventurarsi alla ricerca di
‘definizioni universali’, propongono una sintesi di ciò che a loro avviso può
ritenersi condiviso nei diversi ambiti disciplina- ri, inquadrando le emozioni
come: «un insieme di processi valutativi e motivazionali, che coinvolgono
completamente il cervello, i quali ci aiutano a valutare e a reagire agli
stimoli, e che prendono forma, significato e vengono comunicati in un contesto
sociale e culturale. Le emozioni influiscono sul modo in cui selezioniamo,
classifichiamo e interpretiamo informazioni; influenza- no le nostre valutazioni
sulle intenzioni e sulla credibilità degli altri; e ci aiutano a decidere cosa
sia importante o abbia valore. Cosa forse più importante, ci guidano nel fare
attenzione ai risultati del nostro agire e forniscono motivazioni per agire o
per astenersi dall’agire nelle situazioni che valutiamo. Riteniamo tale
definizione una buona base per il prosieguo dell’in- dagine, in quanto
l’ampiezza è tale da coinvolgere diversi profili del- l’esperienza affettiva: è
presente la dimensione neurobiologica, si fa riferimento all’interazione col
contesto sociale e culturale, viene evi- denziato che le emozioni
contribuiscono a guidare sia il pensiero co- gnitivo sia, conseguentemente,
l’azione umana. Approfondiamo alcuni dei suddetti aspetti, a partire dal
chiari- mento di cosa si intenda per emozione come ‘giudizio di valore,
analizzando di seguito due prospettive di approccio alle emozioni nel discorso
giuridico, ossia la concezione meccanicistica e quella valutativa. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion
and the Law. Ex plurimis, v. VECA, Dell’incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano. Sentimenti ed
emozioni: classificazioni e disambiguazioni Le emozioni come giudizi di valore:
la concezione di Nussbaum Un’opera che a nostro avviso sintetizza
emblematicamente la ri- scoperta della dimensione emozionale nella vita di
relazione, e so- prattutto nella dimensione politica, è il saggio di Nussbaum
‘Upheveals of Thought’, autentico esempio di approccio interdisciplinare allo
studio dei fenomeni emotivi: psicologia cognitiva, neuroscienze, antropologia,
etologia, filosofia morale vengono convogliate in un flusso epistemico nel
quale non si avverte disomo- geneità ma sincretismo. Uno studio non collocabile
in una corrente definita, il quale interseca differenti campi e prospettive al
fine di in- terpretare il ruolo delle emozioni nelle scelte del singolo e nella
di- mensione collettiva. Il titolo italiano si distacca dalla traduzione
letterale (sommovimenti del pensiero), e con enfasi retorica forse eccessiva
recita ‘L’intelligenza delle emozioni’; il messaggio dell’opera è più comples-
so, ma il tema di fondo può essere sostanzialmente identificato con una ricerca
sull’intelligenza nelle emozioni: un dato non scontato ma da valutarsi con
attenzione, intendendo con intelligenza un giudizio sulla ‘bontà’ e sull’affidabilità
dell’emozione. Secondo Martha Nussbaum l’emozione si fonda su un giudizio di
valore: ha cioè un contenuto proposizionale di tipo valutativo e una componente
intenzionale-cognitiva26 che la pone in relazione con un oggetto (c.d. ‘oggetto
intenzionale’). Non è un evento prettamen- te fisico, ‘meccanico’ e viscerale,
ma si articola in un giudizio sulla realtà esterna il quale è a sua volta
modulato sulle credenze del sog- getto. Sono le credenze a influire in modo
determinante sulla qualità dell’emozione, la quale non è giudicabile in sé come
vera o falsa, bensì come più o meno appropriata. Credenze errate possono gene-
NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni, cit. 25 Viene fatto notare come tale
traduzione avrebbe consentito di salvare la ci- tazione di Proust, il quale
definì le emozioni ‘soulèvements géologiques de la pen- sée’, v. FURST,
Sommovimenti del pensiero: la teoria delle emozioni di Nussbaum,
athenenoctua.it/sommovimenti-del-pensiero. NUSSBAUM, L’intelligenza delle
emozioni. Ciò che può essere valutato in termini di verità o falsità sono le
credenze re- trostanti l’emozione; credenze false generano emozioni che possono
essere valu- tate come più o meno appropriate, ma si tratta comunque di
emozioni ‘vere’, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni. Tra sentimenti ed
eguale rispetto rare emozioni inappropriate a seconda dei contesti: le emozioni
pos- sono essere dunque, a loro volta, valutate. Questo rapporto fra ‘nor-
matività interna’ e ‘normatività esterna’ all’emozione risulta cruciale per
l’evoluzione degli sviluppi del pensiero della studiosa americana: è infatti su
tale presupposto che si fondano i successivi studi sull’affi- dabilità politica
delle emozioni. A quali condizioni un determinato atteggiamento emotivo dei
sin- goli e, soprattutto, della collettività – inteso come emozione social-
mente diffusa – può essere assecondato dalle istituzioni e ‘riconosciu- to’
anche attraverso norme giuridiche? L’interrogativo rimanda al raffronto tra il
giudizio di valore sulla base del quale l’emozione si genera, e l’orizzonte
assiologico che si assuma a riferimento per gli assetti sociali e
istituzionali. Martha Nussbaum ha il merito di aver messo a tema la dimensio-
ne politica delle emozioni evidenziandone le profonde connessioni con l’etica
pubblica, con i valori costitutivi di un ordinamento e dun- que con la genesi e
le ricadute applicative di istituti giuridici, in un discorso che attraversa
numerose discipline ma che cerca costante- mente nel diritto e nella teoria
politica gli interlocutori privilegiati. La sua opera, dall’eloquente titolo
‘Emozioni politiche’, rappresenta in questo senso una proposta teorica ispirata
ai canoni del liberali- smo, nella quale si esorta al buon uso delle emozioni
in sede pubblica quale strumento di pedagogia civile. Non vanno però
dimenticati ulteriori contributi della studiosa americana, incentrati su
profili più vicini alla dimensione giuridica, e in particolare sulla concezione
di emozione che dovrebbe essere adottata dal giurista come punto di partenza
nelle riflessioni perti- nenti Law and Emotion, alla luce dell’alternativa fra
un modello bio- logico-meccanicistico e un modello cognitivo-valutativo.
Vediamo in dettaglio quanto osservato in tale studio. NUSSBAUM, Emozioni
politiche. Perché l’amore conta per la giustizia, tr. it., Bologna, 2014. 29
Anche in relazione alla figura del giudicante e alle sue emozioni, e con par-
ticolare riguardo alla giusta compassione che dovrebbe accompagnarne le deci-
sioni, v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni; NUSSBAUM, Giu- stizia
poetica. Immaginazione letteraria e vita civile, tr. it., Milano. KAHAN-NUSSBAUM,
Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, in 96 Co- lumbia Law Review,
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni. Concezioni
‘meccanicistiche’ e concezioni valutative del- l’emozione: profili di rilevanza
giuridica Nella prospettiva giuridica è fondamentale interrogarsi sull’alter-
nativa fra interpretazioni dell’emozione legate a paradigmi stretta- mente
fisicalistici e concezioni incentrate sull’emozione come giudi- zio di valore.
Dan Kahan e Martha Nussbaum riassumono tali ap- procci nella diade composta da
concezione meccanicistica e concezione valutativa (mechanistic and evalutative
conception). Secondo la visione meccanicistica, le emozioni sono equiparabili a
forze ‘non pensanti’ che spingono una persona all’azione; per la ‘evalutative
conception’ invece l’emozione scaturisce dalla relazione, definibile in base a
un valore edonico (ossia di maggiore o minore piacere), con un oggetto cosiddetto
intenzionale. Le emozioni sono rivolte a un quid materiale, cognitivo o
immaginativo: non sono energie naturali prive di oggetto ma sono in relazione
about a qualcosa. In secondo luogo l’oggetto è intenzionale: ovvero, esso
appare nell’emozione nel modo in cui lo vede o lo interpreta la per- sona che
prova l’emozione stessa. L’approccio valutativo mostra una migliore rispondenza
in rap- porto ai fenomeni e trova oggi un maggiore consenso rispetto all’al-
ternativa meccanicistica. Ma quali conseguenze discendono dall’aval- lo di
concezioni valutative piuttosto che meccanicistiche in relazione ai problemi
penali? Ragionare in termini di approccio meccanicistico, e trattare le
emozioni come meri impulsi senza considerarne la componente co- gnitiva, non
offre strumenti per spiegare come le emozioni si possano differenziare
‘qualitativamente’ e dunque valutare. Come abbiamo precedentemente osservato,
il nucleo della concezione valutativa po- 31 «without embodying ways of
thinking about or perceiving objects or situa- tions in the world», v.
KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion in Criminal Law, «thought of a
particular sort, namely appraisal or evaluation and, moreover, evaluation that
ascribes a reasonably high importance to the object in question», v.
KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion; il concetto è ripreso in NUSSBAUM,
L’intelligenza delle emozioni, cit., pp. 50 ss.; cfr. CALABI, Le varietà del
sentimento, cit., pp. 276 ss., la quale ricostrusce il concetto di
‘razionalità’ del- l’emozione in base al rapporto tra fondamenti cognitivi e
antecedenti cognitivi. Sulla definizione di ‘cattive emozioni’ intese come
fallimentari dal punto di vista cognitivo, v. TAPPOLET, Le cattive emozioni, in
AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni- Konzelmann Ziv, Le ombre dell’anima. Pensare
le emozioni negative, tr. it., Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto stula
che l’emozione nasca da un giudizio che il soggetto elabora sul- la base di
credenze; si può parlare in questo senso di una ‘razionalità’ dell’emozione in
termini normativi, ossia modulata su pretese e aspettative che hanno a che fare
con gli equilibri della convivenza 33. Secondo Kahan e Nussbaum il significato,
e il disvalore, di una condotta non coincidono semplicemente con le conseguenze
prodotte ma sono l’esito di una contestualizzazione che deve prendere in esame
anche le motivazioni, e dunque, la matrice emozionale dell’agire 34.
Un’implicita adesione alla concezione valutativa è alla base del modello di
responsabilità che fa leva sul principio di colpevolezza e sulla
rieducazione36: è l’idea di emozione come giudizio di valore piuttosto che come
moto irriflessivo a porsi come criterio per la valu- tazione della
responsabilità penale e anche come chiave di lettura criminologica delle
condotte. La concezione meccanicistica non riesce a dar
conto dell’intreccio fra stati soggettivi e percezioni di valore, e
configura una sensibilità meramente epidermica senza coloriture di senso, la
quale non appare funzionale a tematizzare la problematica dell’attendibilità
del giudi- zio sulla situazione che abbia cagionato un’emozione negativa. Rileva
Nussbaum che il diritto definisce l’adeguatezza di una rea- zione emotiva
adottando una prospettiva basata sull’immagine di ‘uomo ragionevole’, v.
NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Il disgusto, la vergogna, la legge, tr. it.,
Bari. KAHAN-NUSSBAUM, Two Conceptions of Emotion, cit., p. 352. 35 La
concezione normativa della colpevolezza come ‘atteggiamento antidove- roso’
sottende la possibilità di un giudizio concernente ciò che è stato fatto in
rapporto a ciò che si sarebbe dovuto fare. Le diverse articolazioni di questo
giudi- zio, soprattutto il nesso psichico (dolo e colpa) e la verifica
dell’imputabilità, non funzionerebbero se si attribuisse all’agente
un’emotività priva di contenuti cogni- tivi apprezzabili sotto il profilo della
normatività, ossia ‘giudicabili’ in base a cri- teri di ragionevolezza e
adeguatezza alle situazioni; per una sintesi, v., ex pluri- mis, BARTOLI R.,
Colpevolezza. L’approccio valutativo apre alla possibilità che le emozioni di
un soggetto si prestino anche a percorsi rieducativi, v. KAHAN-NUSSBAUM, Two
Conceptions of Emotion. Per un’analisi criminologica dei rapporti tra emozioni,
riflessività ed agire violento v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente. Percorsi
di vite criminali, Milano. È emblematico il saggio di FEINBERG, Sentiment and
Sentimentality, avente ad oggetto problemi del tutto collimanti con la tutela
di sentimenti del codice penale italiano, nel quale l’Autore dichiara
espressamente che la nozione di ‘sentimento’ da lui adoperata si caratterizza per
il fatto di avere un oggetto cogniti- vo, di essere ‘riguardo a qualcosa’:
«there is an irreducible “aboutness” to it». Sentimenti ed emozioni:
classificazioni e disambiguazioni 49 Anche con riferimento al problema della
tutela di sentimenti (e/o di emozioni), assumere come presupposto la concezione
meccanici- stica non avrebbe semplicemente senso, poiché non consentirebbe di
focalizzare l’attenzione sulla cause emotigene e sugli oggetti inten- zionali,
e non sarebbe pertanto funzionale allo sviluppo di un discor- so sui criteri di
rilevanza normativa (di adeguatezza e di meritevolez- za) di un determinato
atteggiamento del sentire. La dimensione sociale delle emozioni Analizzata
l’emozione come giudizio di valore, è importante prenderne in considerazione la
dimensione sociale: una prospettiva incentrata non sul versante solipsistico
bensì sul piano interperso- nale e collettivo, e dunque sul ruolo cognitivo e
comunicativo delle emozioni 39, considerate come oggetto di costruzione sociale
il quale è in grado di influenzare, a sua volta, l’esperienza delle situazioni
sociali 40. La principale disciplina che si occupa di questi temi è la sociolo-
gia delle emozioni, la cui nascita viene convenzionalmente collocata a metà
degli anni Settanta 41. Ciò non significa che i sociologi avesse- ro ignorato
le emozioni, ma fino ad allora gli studi ad esse specifica- mente dedicati
risultavano di pertinenza di altre discipline. Il muta- mento di paradigma
coincide con una diversa considerazione del fe- nomeno emotivo, visto non più
come espressione irrazionale e di- storsiva dell’organizzazione sociale, ma
come fattore indispensabile per la comprensione dei fatti sociali. L’attore
sociale si sveste dell’aura di pura razionalità per divenire anche attore
emozionale, il quale non è in contrapposizione con l’attore razionale «ma ne è
invece un’altra faccia, una sua parte costi- tutiva e ineliminabile e non va
inteso come un soggetto spontaneo, 39 Per una panoramica di sintesi e per
richiami bibliografici su approccio in- tra-personale e inter-personale, v.
VELOTTI-ZAVATTINI-GAROFALO, Lo studio della regolazione delle emozioni:
prospettive future, in Giornale italiano di psicologia, 2/2013, pp. 249 ss.;
PULCINI, Per una sociologia delle emozioni, in Rassegna italiana di sociologia.
RIMÈ, La dimensione sociale delle emozioni, WENTWORTH-RYAN, L’equilibrio fra
corpo, mente e cultura: il posto dell’emozione nella vita sociale, La
sociologia delle emozioni. CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni nella
riflessione sociologica, in AA.VV., a cura di Cattarinussi, Emozioni e
sentimenti nella vita sociale. Tra sentimenti ed eguale rispetto libero da
vincoli e costrizioni»42. Da un lato le emozioni vengono considerate come un importante
elemento per la comprensione del- l’agire sociale 43, e simmetricamente
l’ambiente sociale si pone a sua volta come chiave di lettura di atteggiamenti
emozionali dei singoli, in un rapporto di influenza reciproca 44. Questa
prospettiva rappresenta un importante contributo non solo allo studio delle
emozioni45, ma anche in relazione all’approfondi- mento dei temi di Law and
Emotion, poiché gli approcci focalizzati sulla dimensione individuale rischiano
di essere limitanti, in ragione del fatto che esistono emozioni la cui genesi e
le cui dinamiche sono meglio definibili attraverso il riferimento all’ambiente
sociale 46. Uno sguardo alla dimensione sociale e culturale dei fenomeni
emotivi può favorire un più esaustivo approfondimento delle intera- zioni fra
emozioni e diritto, aprendo la strada a molteplici traiettorie di ricerca, come
sottolinea la dottrina statunitense 47. Basta uno sguar- do ad alcuni dei
capisaldi teorici che la sociologa Gabriella Turnaturi inquadra come linee
conduttrici dell’analisi sociologica delle emo- zioni48 per individuare
questioni che possono intrecciarsi virtuosa- mente con la riflessione
giuridica. Qualche cursorio esempio: ci sem- 42 TURNATURI, Introduzione, in La
sociologia delle emozioni. DOYLE MCCARTHY, Le emozioni sono oggetti sociali.
Saggio sulla sociologia delle emozioni, in AA.VV., a cura di Turnaturi, La
sociologia delle emozioni. Il termine sociale, molto semplicemente, vuole qui
richiamare l’idea che la parola “emozioni” possa/debba evocare eventi e
processi che hanno luogo entro contesti interattivi e comunicativi, piuttosto
che eventi e processi che hanno luo- go entro i confini del singolo organismo
e/o della singola psiche», v. MANGHI, Le emozioni come processi sociali, cit.,
p. 40. 45 La sociologa Arlie Hochschild identifica quale ostacolo a un serio
studio sul- la natura delle emozioni la tendenza a considerarle esclusivamente
come un fe- nomeno affettivo individuale, v. BANDES-BLUMENTHAL, Emotion and the
Law. Osserva KEMPNER, Social Models in the Explanation of Emotions, Handbook of
Emotions, che lo sviluppo di una larga parte di ciò che chiamiamo ‘personalità’
è un prodotto sociale. 46 Pensiamo ad esempio alla vergogna, e al radicamento
che essa può raggiun- gere fino a connotare la fisionomia di una società; si
parla di questo senso di ‘cul- ture della vergogna’ in alternativa alle
cosiddette ‘culture della colpa’. Su tale di- stinzione, originariamente
elaborata dall’antropologa statunitense Ruth Benedict, v., sintenticamente,
CATTARINUSSI, Sentimenti ed emozioni. Per un’analisi della dimensione
pre-sociale della vergogna, v. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. BANDES-BLUMENTHAL,
Emotion and the Law, TURNATURI, Introduzione, in La sociologia delle emozioni. Sentimenti
ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni bra di particolare interesse
l’osservazione secondo cui ogni società ha delle regole implicite concernenti
le situazioni attivanti e le modalità espressive delle emozioni: le cosiddette
feeling rules. Ebbene, il te- ma potrebbe assumere rilevanza anche in relazione
al problema del sentimento quale oggetto di tutela: le regole, più o meno
implicite, che definiscono quali emozioni siano giustificate, accettabili,
dovero- se o immotivate rappresentano una coordinata importante, forse
l’elemento più significativo, per la definizione di quello che il diritto
penale ha spesso evocato sotto le forme del ‘sentire comune. Potremmo in questo
senso parlare di feeling rules come elemento del contesto sociale che
contribuisce a imprimere una fisionomia a ciò che i legislatori hanno definito
‘sentimenti’. Ma sono diversi, e non analizzabili in questa sede, gli ulteriori
profili in rapporto ai quali l’analisi sociologica dell’emozione può fornire
importanti chiavi di lettura di problemi afferenti al diritto pe- nale 51. Si
tratta quindi di non limitare l’angolo visuale alla dimensio- ne soggettiva del
fenomeno emotivo, soprattutto in relazione a temi in cui risulta fondamentale
la riflessione sugli equilibri politico- deliberativi e sulla ‘normatività’
delle emozioni. 3. Sentimenti: componente di riflessività e dimensione morale
Veniamo ora a esaminare il sentimento, e prendiamo le mosse dalla dimensione
neurobiologica. Sono d’aiuto ancora una volta gli spunti di DAMASIO (si veda),
il quale nel suo ‘L’errore di Cartesio’ define l’emozione come processo
valutativo mentale che induce cambiamenti a livello corporeo, e ha successiva-
mente distinto i sentimenti in due categorie: ‘sentimenti delle emo- zioni’ e
‘sentimenti di fondo’. I primi, strettamente legati alle emozio- ni, sono
costituiti dall’esperienza che il soggetto prova a seguito dei Sulla genesi del
concetto, v. HOCHSCHILD, Emotion Work, Feeling Rules, and Social Structure, in
American Journal of Sociology. In questo senso si potrebbero teorizzare
connessioni anche con il tema pe- nalistico delle c.d. Kulturnormen; v., per
tutti, CADOPPI, Il reato omissivo proprio, vol. I, Profili introduttivi e
politico criminali, Padova. Si veda ad esempio NISCO, La tutela penale
dell’integrità psichica, quando afferma che strutturare le emozioni, a partire
dal tipo di situazione sociale in grado di generarle, può aiutare, nell’analisi
delle norme penali, ad indi- viduare una soglia di rischio illecito all’interno
della condotta tipica. Tra sentimenti ed eguale rispetto cambiamenti indotti
dalle emozioni: «l’essenza del sentire un’emo- zione è l’esperienza di tali
cambiamenti in giustapposizione alle im- magini mentali che hanno dato avvio al
ciclo» 52; mentre i ‘sentimenti di fondo’ appaiono come stati duraturi,
radicati nel soggetto e non legati a emozioni contingenti. La distinzione viene
affinata in uno studio successivo, ove si os- serva che nel sentimento vi è
qualcosa di più che la percezione di un oggetto intenzionale; secondo Damasio
ad essere oggetto di perce- zione è lo stato edonico che si manifesta a seguito
del contatto con un determinato stimolo emotigeno: «un sentimento è la
percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una
particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti.
Le emozioni sono movimenti in larga misura pubblici, ossia percepi- bili e
visibili; i sentimenti appaiono invece come moti di pensiero di tipo
riflessivo, «invisibili a chiunque salvo che al loro legittimo pro- prietari.
Le emozioni si esibiscono nel teatro del corpo; i senti- menti in quello della
mente. Al di là delle osservazioni sul piano neuroscientifico, ciò che in
questa sede è bene sottolineare sono le implicazioni su un piano più
propriamente antropologico-filosofico56, e in particolare sul ruolo che i
sentimenti assumono nelle dinamiche comportamentali. L’ipo- tesi di Damasio è
che il sentimento rappresenti una guida nei proces- si decisionali, e risulta
particolarmente interessante l’osservazione secondo cui tale fenomeno affettivo
assume una funzione riflessiva in grado di fornire coordinate e criteri di
demarcazione fra piacere e do- lore più complessi e stratificati rispetto a
quelli che la mappe neurali trasmettono sulla base delle sole funzioni vitali a
livello biologico: «I sentimenti coscienti sono eventi mentali cospicui che
richiamano l’attenzione sulle emozioni che li hanno generati e sugli oggetti
che, a loro volta, hanno indotto quelle emozioni. Negli individui che hanno
anche un sé autobiografico – il senso di un passato personale e di un DAMASIO,
L’errore di Cartesio. DAMASIO, L’errore di Cartesio. DAMASIO, Alla ricerca di
Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Per la verità tutt’altro che
trascurate dallo stesso Damasio, il quale inquadra la propria opera come ideale
prosecuzione del pensiero di Baruch Spinoza, v. DAMASIO, Alla ricerca di
Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. Sentimenti ed emozioni:
classificazioni e disambiguazioni 53 futuro anticipato, senso noto anche come
coscienza estesa – lo stato del sentimento induce il cervello a porre in
posizione saliente gli og- getti e le situazioni legate all’emozione. Se
necessario, il processo di stima che porta dall’isolamento dell’oggetto al
sorgere dell’emozione può essere rivisitato e analizzato. Poiché hanno luogo in
uno scenario autobiografico, i sentimenti generano un interesse per l’individuo
che li sperimenta. Il passato, il presente e il futuro anticipato ricevono la
giusta attenzione e hanno maggiori possibilità di influenzare il ragio- namento
e il processo decisionale» 58. La teorizzazione di Damasio descrive sentimenti
ed emozioni co- me parti complementari di un processo, non come fenomeni
dicoto- mizzati: richiamare l’emozione significa additare l’esteriorità e la
di- namicità di uno stimolo, le contingenze dovute al contatto con un certo
tipo di fattori emotigeni; richiamare il sentimento significa en- trare ‘in
interiore homine’, confrontarsi con l’elaborazione che analiz- za lo stimolo
emotivo e ne valuta il peso nella soggettività dell’indi- viduo: «un sentimento
è la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una
particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti»
59. Il sentimento appare in definitiva come esito di una mediazione riflessiva
che può avvenire non in tutti gli organismi, ma solo in quel- li che posseggono
la capacità di rappresentarsi il proprio corpo all’in- terno di sé stesso. Il
pensiero filosofico e i sentimenti morali. Un’interpreta- zione fenomenologica
Quanto osservato in ambito neuroscientifico sembra accreditare la portata del
tutto peculiare che il sentimento assume nella dimen- sione affettiva
dell’individuo come momento di incontro tra perce- zione e riflessione, ossia
come «medio necessario tra il sentire sensi- tivo e l’intelligenza concettuale.
Passando ora a un approccio incentrato più sulla dimensione teo-
retico-concettuale che sulla distinzione fenomenica, va specificato DAMASIO,
Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla ricerca di Spinoza. DAMASIO, Alla
ricerca di Spinoza. MASULLO, voce Sentimento, Enciclopedia filosofica, Milano. Tra
sentimenti ed eguale rispetto che l’inquadramento di una specifica nozione di
sentimento non fi- gura nei classici della filosofia, da Aristotele, a Cartesio
e fino a Hume [cf. Grice, HUMEIAN PROJECTION], ma comincia a delinearsi a
partire dal XVIII secolo. Sottolinea Aldo Masullo che un simile affinamento è
legato anche a sviluppi del- la teoria politica: «L’assunzione da parte del
sentimento di una sua specificazione forte è promosso dalla diffusa tensione
della cultura illuministica che, per la nuova esigenza storica di fondare
un’etica cosmopolitica, è assillata dal bisogno di scoprire un principio
coesivo razionalmente argomen- tabile e nient’affatto razionalmente relativistico,
generalmente ricono- scibile ma non dommaticamente irrigidibile» 63. Sono
soprattutto alcuni studi dei cosiddetti filosofi moralisti in- glesi a definire
il sentimento ‘forma sintetica dell’universale’ e fon- damento dell’umana
convivenza, ossia principio coesivo nei rapporti umani, come recita l’opera di
Adam Smith sui sentimenti morali 64. Si tratta di un indirizzo filosofico che
ha come esponente di spicco Da- vid Hume, e che affonda le proprie radici nel
sentimentalismo inglese di Shaftesbury e Hutcheson 65. Idea portante è la
riconducibilità della moralità dell’agire a una matrice affettiva (per Hume, il
cosiddetto PRINCIPIO DELLA SIMPATIA). CURI, Passione, cit., p. 9. 63 MASULLO,
voce Sentimento/ SMITH, Teoria dei sentimenti morali, tr. it., Milano; per una
riflessione sulle interazioni fra le teorie smithiane, in particolare il
concetto di ‘simpatia’, e il diritto penale, v. CADOPPI, Simpatia, antipatia e
diritto penale, a cura di Di Giovine O., Diritto penale e neuroetica. MORRA-BONAN,
voce Sentimentalismo, in AA.VV., Enciclopedia filosofica, vol. XVI, Milano. Per
una sintesi v. LECALDANO, Prima lezione di filosofia morale, Bari L’Autore
osserva che «non bisogna confondere il piano della rico- struzione genealogica
o genetica della nostra capacità di trarre distinzioni mo- rali, con la
riflessione su quali siano i giudizi morali corretti». L’opzione per una teoria
sentimentalistica ha una valenza in primo luogo metaetica; a livello di etica
sostantiva si apre infatti il problema di «[affiancare] una concezione
normativa sul contenuto da privilegiare come moralmente rilevante», v. ID.,
Prima lezione. Da ciò, la critica a concezioni che, sulla base degli studi di
neuroscienze, si sono mosse nella direzione di offrire una ricostruzione in
termini ‘realistico-emozionali’ del sentimentalismo morale: «queste ricerche
[...] suscitano dubbi laddove accampano la pretesa di aver identificato una
base fisiologica o biologica a cui l’etica può essere ridotta nella sua
interezza. Il sentimento morale non va caratterizzato sostantivamente, anche
per non con- Sentimenti ed emozioni: classificazioni e
disambiguazioni. Venendo a sviluppi più recenti, relativamente ai rapporti tra
senti- re e dimensione morale appare a nostro avviso particolarmente inte-
ressante per il giurista uno studio di matrice fenomenologica di Monticelli,
nel quale il tema del sentire diviene oggetto di un problema etico in relazione
sia alla formazione del singolo individuo (l’etica del sentire intesa come
qualità etica – maggiore o minore ‘correttezza’ – delle disposizioni del
sentire di un soggetto) sia ad aspetti relazionali (la ricerca del giusto
spazio – e dunque di limiti eticamente tollerabili – alla fioritura
dell’individuo, intesa come realizzazione della sua personalità, resa unica e
peculiare dalle disposi- zioni del sentire). Secondo tale studio, l’esperienza
affettiva è riconducibile a due di- mensioni essenziali: il sentire e il
tendere. Il sentire implica un recepi- re, il tendere è invece un vettore
d’azione: «se diciamo che una persona è sensibile non intendiamo affatto dire
che è eccitabile, e neppure che manca di obiettività, al contrario intendiamo
dire che è più di altri ca- pace di discriminazione, e quindi di verità
nell’esercizio del sentire» 68. Negli individui non è infatti riscontrabile il
medesimo livello di matu- razione affettiva: «una sensibilità si attiva per
strati o segmenti – e in- tendiamo dire con questo che uno sentirà più o meno
realtà a se- conda che più o meno “strati” della sua sensibilità siano attivati»
69. Ta- le soglia può variare ed essere incrementata positivamente durante
l’esistenza; nondimeno, la diversità insita nelle molteplici varianti di
sviluppo del sentire fonda le diversità di ordini assiologici dei singoli,
quella che è in definitiva la loro identità morale 70. fonderlo con qualche
emozione immediata: è invece proprio del sentimento morale il punto di vista
riflessivo su tutte le passioni che si presentano senza qualificazione
valutativa nella mente di una persona», v. ID., Prima lezione, cit., pp. 42 s.
Per una differente impostazione, non propriamente ‘riduzionista’ ma comunque
orientata a ricercare dei fondamenti naturalistici della morale v., ex
plurimis, CHANGEUX, Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale,
tr. it., Milano. La fenomenologia del sentire e l’approccio fenomenologico ai
sentimenti sono debitori dell’opera di SCHELER, Il formalismo nell’etica e
l’etica materiale dei valori, tr. it., a cura di Guccinelli, Milano, 2013, il
quale inquadra il sentimento come fattore costitutivo nell’ontologia della
persona e come interfaccia tra sogget- tività e valori. Per una sintesi dei
tratti caratterizzanti la fenomenologia come corrente filosofica v.
GALLAGHER-ZAHAVI, La mente fenomenologica. Filosofia della mente e scienze
cognitive, tr. it., Milano. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 26. 69
DE MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 79. 70 «L’ethos di una persona è la
sua identità morale, ma questa identità morale Tra sentimenti ed eguale
rispetto Così definito il fenomeno del sentire e delle sue manifestazioni, si
pone il problema di inquadrare specificamente il sentimento: è uno stato
momentaneo? un evento? un atto? Roberta De Monticelli af- ferma che esso è:
«una disposizione reale – e non semplicemente virtuale – del sentire. È una
disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo
all’essere di ciò che la suscita, un più o meno profon- do dissentire da
questo, e un atteggiamento caratteristico nei confron- ti di questo essere,
capace di motivare altri sentimenti, emozioni, pas- sioni, scelte, decisioni,
azioni, comportamenti. Il sentimento è ciò che forma le risposte all’esperienza
dei valori: in questo senso viene definito ‘matrice di risposte’. Le emozioni
sono maggiormente legate all’attualità contingente, poiché costituiscono
un’alterazione reattiva e presuppongono l’attivazione di uno strato minimo di
sensibilità, anche di livello puramente sensoriale. I sentimenti hanno un ruolo
fondante nell’approccio dei singoli alla realtà, agli eventi, e, soprattutto,
al rapporto con i propri simili: i sentimenti costituiscono lo strato del
sentire propriamente diretto sulla realtà personale. Se il sentire, in
generale, è percezione di valore, i sentimenti sono, o perlomeno implicano,
disposizioni a sentire gli altri sotto l’aspetto dei valori che la loro
esistenza realizza o delle esi- genze che essa pone. si manifesta primariamente
nella vita affettiva che queste scelte e comporta- menti motiva, e nella quale
si esprime infine il modo di sentire che le è irrepeti- bilmente,
inconfondibilmente proprio. Il modo di sentire è segnato da una storia
individuale, ancorato agli incontri di una vita: è, come vedremo, il profilo
stesso dell’individualità essenziale»: v. DE MONTICELLI, L’ordine del cuore. MONTICELLI,
L’ordine del cuore. MONTICELLI, L’ordine del cuore. In presenza di una sensi-
bilità strutturata la quantità di reazioni affettive è maggiore, ed è anche
possibile che da emozioni scaturiscano risposte strutturanti, ossia che le
emozioni stesse inducano alla formazione di nuovi sentimenti. Diverso discorso
per le passioni, le quali costituiscono una manifestazione del volere e del
tendere, e presuppongono la strutturazione di sentimenti, v. MONTICELLI,
L’ordine del cuore. La tradizionale contrapposizione delle passioni alla
ragione non è intrinseca alle passioni stesse, ma risale a un livello
precedente, ossia al sentimento di cui quelle passioni sono manifestazione:
«“irrazionali” sono dunque le passioni nella misura in cui sono “disordini del
cuore”, ovvero ordinamenti assiologici perversi o inadeguati – per quanto
difficile sia stabilire in positivo lo standard rispetto a cui definire la
deviazione»: v. MONTICELLI, L’ordine del cuore. MONTICELLI, L’ordine del cuore.
Sentimenti ed emozioni: classificazioni e disambiguazioni Emozioni e
sentimenti: il senso della distinzione concettuale In questa sede non è nostro
obiettivo individuare un’esaustiva on- tologia dei fenomeni, bensì intendiamo
verificare se vi siano diffe- renze che possano assumere una rilevanza
concettuale nella prospet- tiva giuridica. Sentimenti ed emozioni hanno la
funzione di classificare, in base al binomio piacere-dolore, le esperienze del
sentire individuale. Un punto di contatto utile al fine di ricercare coerenza
nella complessità delle de- finizioni, è il fatto che entrambi i fenomeni –
naturalisticamente distin- guibili in base a criteri basati sull’intensità e la
durata – da un punto di vista adattivo-funzionale rappresentano ‘proiezioni del
sé’, ossia marca- tori dell’originalità che rende unico ogni individuo: «le
emozioni guar- dano al mondo dal punto di vista del soggetto, e ordinano gli
eventi in base alla cognizione della loro importanza o valore per il soggetto.
Relativamente alle differenze, una prima, fondamentale, distinzione tra
sentimento ed emozione è relativa ad aspetti di tipo ‘fisico-quan- titativo’,
legati alla durata e all’intensità dell’esperienza affettiva: più bre- ve e
accentuata nell’emozione, più duratura, ma meno intensa, nel sentimento.
Secondo una definizione offerta da uno studio di psicologia: sentimento e umore
si riferiscono a stati affettivi di bassa intensità, durevoli e pervasivi,
senza una causa direttamente percepibile e con la capacità di influenzare
eventi inizialmente neutri. Il sentimento, come stato affettivo ‘radicato’, non
si esaurisce in stimoli momentanei. Un tratto caratterizzante l’emozione è la
componente reattiva: «il termine emozione dovrebbe indicare, in accordo anche
con il senso comune, stati affettivi intensi di breve durata, con una causa
precisa, esterna o interna, un chiaro contenuto cognitivo e la funzione di rio-
rientare l’attenzione» 77. Uno stato affettivo di durata limitata, diverso
dunque da stati duraturi NUSSBAUM, L’intelligenza delle emozioni. Si veda anche
OATLEY, Psicologia ed emozioni, il quale parla di ‘condizioni di elicitazione’
per indicare che le emozioni insorgono sulla base della valutazione soggettiva
di un evento da parte dell’agente in relazione alla sua condizione e ai suoi
scopi. Cfr. OATLEY, Breve storia delle emozioni, tr. it., Bologna. D’URSO-TRENTIN,
Introduzione alla psicologia delle emozioni, Bari; cfr. CATTARINUSSI,
Sentimenti ed emozioni, PIETRINI, Dalle emozioni ai sentimenti: come il
cervello anima la nostra vita, a cura di Colombo-Lanzavecchia, La società
infobiologica, Milano. Per un esempio di tassonomia degli stati affettivi e per
una conseguente ap- Tra sentimenti ed eguale rispetto Passando a un piano
di lettura differente, non limitato alla ‘di- mensionalità’ (intensità,
durata), richiamiamo quanto osservato in ambito neuroscientifico da Damasio,
secondo il quale il sentimento costituisce il momento della rappresentazione
cosciente dell’emo- zione: la percezione che il soggetto ha di sé stesso. Viene
evidenziata in questo modo una dimensione riflessivo-speculativa che trova ri-
scontro anche nell’analisi di un altro neuroscienziato, Joseph Le Doux, il
quale osserva le emozioni sono funzioni biologiche che si sono evolute per
permettere agli animali di sopravvivere in un am- biente ostile e di
riprodursi; i sentimenti invece sono un prodotto del- la coscienza, «stati di
consapevolezza legati all’esperienza interna dell’emozione. Emerge qui una
differenziazione che attiene a un piano funzionale, e che vede il sentimento
come fenomeno che ha più a che fare con la sfera cognitivo-riflessiva del
soggetto. E veniamo infine a un terzo criterio distintivo, quello forse più
importante ai fini della presente indagine. L’analisi fenomenologica di
Monticelli ha richiamato il carattere disposizionale del sentimento, l’essere
una matrice che può generare e formare ulteriori stati affettivi. Introduciamo
dunque l’importante distinzione tra fe- nomeni affettivi ‘in atto’ e
‘disposizioni’ del sentire: «un’emozione in atto è un episodio nel quale
proviamo effettivamente collera, paura, gioia o altro. Una disposizione emotiva
è la suscettibilità a provare emozioni in atto» 81. Cosa significa
‘disposizionale’? Il concetto è stato approfondito in particolare da Ryle,
secondo il quale le espressioni disposi-zionali contengono l’affermazione che
un uomo o un animale o una plicazione a un tema penalistico-criminologico, v.
CORNELLI, Paura e ordine nella modernità, Milano, DOUX, Feelings: What Are They
et How does the Brain Make Them?, in Daedalus Si osserva che le concezioni
speculative del sentimento, da Platone a Vi- co, sottolineandone l’ambiguità di
regione “intermedia” tra il senso e l’intelletto, cioè il suo partecipare
marginale tanto all’uno quanto all’altro, tematizzano il sen- timento come una
delle categorie o generi sommi della vita umana. Questa infatti è tale – umana
–, solo in quanto è “soggettività”, il modo di essere che consiste nel-
l’avvertire stimoli dal mondo esterno (senso) e ordinare gli avvertimenti in
rap- presentazioni generali e ben connesse (intelletto), avendo come necessaria
condi- zione il riferimento dei primi e delle seconde a un chiaramente o
oscuramente avvertito “sé”, ossia comportando un sentimento fondamentale», v.
MASULLO, voce Sentimento. ELSTER, Sensazioni forti, tr. it., Bologna, il quale
cita, quali esempi di disposizioni emotive, la misoginia e
l’antisemitismo. Sentimenti ed emozioni: classificazioni e
disambiguazioni 59 cosa ha una certa capacità o una certa inclinazione, o è
esposto ad una determinata tendenza. Le definizione ‘disposizionale’ può rap-
presentare in questo senso un’antitesi rispetto a ‘episodico’, poiché
«possedere una proprietà disposizionale non vuol dire trovarsi in un certo
stato particolare o essere soggetto a un certo cangiamento» 83. Più in generale
la distinzione fra stati ‘episodici’ e ‘disposizionali’ descrive una diversità
funzionale nella complessiva esperienza affet- tiva della persona, e si presta
a evidenziare il rapporto fra mera reat- tività soggettiva contingente e
carattere fondativo e ‘personologico’ (vedi infra, cap. IV) degli stati
affettivi, i quali appaiono in questo senso come strutture di base della
soggettività. È questa a nostro avviso un’importante chiave di lettura per la
presente indagine: ciò che appare decisivo nel problema della tutela di
sentimenti non è capire se si debba far riferimento a emozioni in senso stretto
o ad altri fenomeni affettivi, ma è invece importante de- cidere se il fulcro
dei problemi debba riguardare la reattività emozio- nale, oppure se si debba
assumere quale vettore di senso l’affettività come base di stati disposizionali
non episodici, ossia come strutture portanti della identità morale degli
individui. Un richiamo alla sfera affettiva intesa come ‘struttura
disposizionale’ orienta l’attenzione sul sentire quale marcatore della
personalità, e pone in questo modo sen- timenti ed emozioni al centro di
questioni concernenti la diversità di preferenze e di ordini assiologici fra
individui. Tale ultima opzione è quella a nostro avviso più funzionale a in-
staurare connessioni con le accezioni del termine ‘sentimento’ che emergono nel
discorso penalistico: l’uso dei legislatori e della dot- trina. Nel prosieguo
dell’indagine approfondiremo entrambi gli aspetti. 5. Sinossi Il panorama di
fenomeni che costituiscono il tessuto affettivo de- gli individui è oggetto di
definizioni dall’uso non univoco e talvolta polisenso. Il rimando a saperi lato
sensu psicologici, pur assumendo 82 RYLE, Il concetto di mente, tr. it.,
Roma-Bari, RYLE, LO SPIRITO COME COMPORTAMENTO, tr. it., Roma-Bari; cfr. ID., IL
CONCETTO DI MENTE [citato da H. P. Grice]: Le tendenze sono cosa diversa dalle
capacità e dalle suscettibilità. RYLEIAN AGITATION. Tra sentimenti ed eguale
rispetto una notevole complessità, sembra nondimeno costituire per il giuri-
sta penale un indispensabile tassello. Lo studio di contributi prodotti in ambito
neuroscientifico, psico- logico e filosofico evidenzia come, al di là di
possibili aree di contat- to, sentimenti ed emozioni non siano fenomeni del
tutto accomuna- bili. Vi è una connessione di fondo relativa al fatto che
entrambi, pur in modo differente, sono funzionali a classificare in base al
binomio piacere-dolore le esperienze e le inclinazioni del sentire individuale,
e contribuiscono così a definire l’identità e la peculiare originalità di ogni
individuo. Da un altro lato, emergono differenze relative sia al- l’intensità,
sia alla consistenza e alla durata. La distinzione che sembra maggiormente
funzionale alla riflessio- ne sul problema del sentimento come oggetto di
tutela concerne la nozione di stati episodici e disposizionali: con la prima accezione
si definiscono fenomeni che si esauriscono in una contingente reattività
psichica, con la seconda si indicano stati duraturi a loro volta matrici di
ulteriori reazioni, i quali si intrecciano con le trame costitutive del- la
personalità. Alla luce di tale ultimo distinguo cercheremo di trovare connes-
sioni con le categorizzazioni che emergono dal diritto positivo e dal discorso
dottrinale. DIMENSIONE CODICISTICA E FUNZIONE DISCORSIVA DELLA FORMULA
‘TUTELA PENALE DI SENTIMENTI’ SOMMARIO: ‘Tutela di sentimenti’: usi e
significati della formula. Le tipologie di interessi dietro le norme
codicistiche: sentimenti-valori e disagio psichico. La tutela di
sentimenti-valori. Il sentimento religioso. Il pudore. La pietà dei defunti. Il
sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi
sociali. Il sentimento per gli animali.
Il comune sentimento della morale. Lessico delle norme e piano fenomenico:
sentimenti o emozioni? Atti persecutori: sofferenza psichica e libertà di
autodeterminazione. La definizione di ‘sentimento’ come connotazione simbolica
negativa nel discorso penalistico. Una virtuosa prospettiva di interazione:
‘sentire comune’ e legittimazione delle norme penali. – Sinossi. ‘Tutela di sentimenti’: usi e
significati della formula Volgiamo ora lo sguardo alla dimensione giuridica e
cerchiamo di inquadrare le rispondenze della formula ‘tutela di sentimenti’.
Sono a nostro avviso distinguibili due accezioni: la prima, di tipo
descrittivo-classificatoria, è strettamente legata al diritto positivo, e si
presta a sintetizzare le disposizioni in cui l’interesse protetto viene de-
finito nei termini di un sentimento o di un’emozione: si pensi alle nor- me
codicistiche che parlano di sentimento religioso, pudore, pietà dei defunti et
similia. La seconda accezione, che definiamo connotativa, è funzionale a
tematizzare norme e problemi di tutela in cui la matrice emozionale non
traspare da definizioni normative, ma emerge nei discorsi della dottrina
penalistica in sede di speculazione teorica o di interpreta- zione,
tendenzialmente per richiamare beni dalla fisionomia protei- forme,
suscettibili di ricostruzioni profondamente differenti in quan- 62 Tra
sentimenti ed eguale rispetto to esposte al condizionamento emotivo: interessi parificati
dunque a sentimenti per via di un’intrinseca inafferrabilità 1. L’accezione
connotativa enfatizza in chiave critica l’associazione tra fenomeni affettivi e
oggetti di tutela dai confini incerti, disancora- ti da una base oggettiva e
tendenti a sfociare in ricostruzioni di ma- trice soggettivistica. Parlare di
sentimenti attiva nel lettore e nell’in- terprete frames psicologici che
risentono della nebulosità epistemica che caratterizza le condizioni di
conoscenza dei fenomeni psichici, contribuendo in questo modo a comunicare una
sostanziale diffiden- za: «[le] parole non sono semplicemente dei mezzi per
individuare gli oggetti. Le parole intervengono nella nostra percezione degli
oggetti, e infatti trasmettono interpretazioni e attribuiscono senso ai loro
referenti. Associare un oggetto di tutela penale a un sentimento equivale a
sottolinearne il potenziale di criticità, come coacervo di interessi ‘su-
blimati’ che non rispondano a requisiti di razionalità e coerenza ri- spetto a
principi ‘di sistema’ 3. Menzioniamo, per ora a titolo esempli- ficativo, il
richiamo alla dignità umana, e pensiamo anche alla cosid- detta ‘sicurezza
pubblica’ la quale è stata in tempi recenti associata criticamente a uno stato
di tranquillità soggettiva dei singoli; si può inoltre ascrivere a tale
categoria anche il concetto di onore, ben noto ai penalisti e da sempre oggetto
di faticosi sforzi ermeneutici. Si trat- ta di interessi che non a caso vengono
additati come ‘problematici’ dalla dottrina4, i quali evidenziano tutti una forte
connessione con matrici emotive, tale da indurre a definirli anche come
‘sentimenti’. Nel prosieguo approfondiremo gli ambiti e i problemi connessi sia
all’accezione descrittiva, sia a quella connotativa, a partire da una
panoramica sulle fattispecie dell’ordinamento italiano in cui il senti- 1 Con
riferimento alla dottrina tedesca si veda la ricostruzione di NISCO, La tu-
tela penale dell’integrità psichica, cit., p. 84, il quale sottolinea come
anche in Germania l’espressione ‘Gefühlschutzdelikte’ sia intesa in chiave
essenzialmente critica. 2 SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze
sociali, Bologna. Sulla specifica accezione del diritto penale come ‘sistema’ –
definizione che attiene al piano del dover essere piuttosto che alla
descrizione della realtà del- l’ordinamento – e sulle distinzioni tra principi
di rilevanza normativa che entrano in gioco nel diritto penale, v. per tutti
FIANDACA, Diritto penale, in FIANDACA-DI CHIARA, Un’introduzione al sistema
penale. Per una lettura costituzionalmente orientata, Napoli. FIANDACA, Sul
bene giuridico. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 63
mento figura testualmente come coordinata descrittiva dell’interesse protetto
Le tipologie di interessi dietro le norme codicistiche: ‘senti- menti-valori’ e
disagio psichico Nel codice penale il sentimento viene espressamente evocato
dalle norme poste a tutela del sentimento religioso, del pudore, della pietà
dei defunti, del sentimento nazionale; nella legislazione complemen- tare viene
menzionato come oggetto di tutela il ‘comune sentimento della morale’ 6. Oltre
a tali ipotesi, riteniamo, in accordo con autorevole dottrina, che la
problematica del sentimento come oggetto di tutela investa, pur con i dovuti
distinguo, anche una norma di più recente introdu- zione, ossia l’art. 612 bis
c.p., la quale incrimina il delitto di atti per- secutori. Si tratta di una
fattispecie la cui tipicità appare fortemente improntata in senso emotivistico:
‘perdurante e grave stato d’ansia e di paura’, ‘fondato timore’ sono eventi di
tipo psichico, e precisamen- te sono assimilabili a emozioni negative. Anche il
delitto di atti per- secutori appare orientato a tutelare un sentire, o, più
propriamente, 5 Non analizzeremo in questa sede ulteriori fattispecie
codicistiche il cui so- strato di offensività sembra rimandare a un retroterra
di tipo emozionale. Al di là dell’onore, che è unanimemente riconosciuto come
interesse della persona caratterizzato da un’evidente componente ‘di
sentimento’ che la dottrina si è impegnata a razionalizzare mediante il
richiamo, comunque problematico, alla ‘dignità sociale’, v. MUSCO, Bene
giuridico e tutela dell’onore, Milano, vi sono altre norme la cui afferenza al
tema in esame appare meno uni- voca. Una recente ricostruzione include ad
esempio il vilipendio alla bandiera (come forma di offesa al sentimento
nazionale), la corruzione impropria susse- guente (offesa al sentimento di
onestà che dovrebbe guidare i pubblici ufficiali), l’ingiuria semplice,
l’incesto (offesa al sentimento della morale familiare), la pedopornografia
(sentimenti moralistici inerenti la sessualità) e infine il nega- zionismo: si
tratta di un panorama variegato ed eterogeneo, il quale meritereb- be una
dettagliata analisi volta a verificare in che termini dietro i casi menzio-
nati si possa davvero parlare di sentimenti, v. GIUNTA, Verso un rinnovato ro-
manticismo penale?, cit., pp. 1556 ss. 6 Si pongono al di fuori dell’area
concettuale della tutela di sentimenti le pro- blematiche concernenti gli stati
emotivi e passionali e le circostanze attenuanti fondate su emozioni; il
profilo che viene qui in gioco è il ruolo che i fenomeni af- fettivi possono
assumere in relazione alla graduazione della responsabilità pena- le,
attraverso gli istituti dell’imputabilità e delle circostanze del reato (vedi
anche supra, cap. I, nota 30). 64 Tra sentimenti ed eguale rispetto
presidia l’equilibrio emotivo di un soggetto in chiave strumentale rispetto
alla libertà di autodeterminazione. È plausibile definire tale ultima
fattispecie come una forma di tu- tela di sentimenti8 (fatte salve le criticità
che possono derivare da un’interpretazione meramente emozionale e
soggettivistica degli even- ti), ma è altrettanto evidente che rispetto alle
ipotesi precedentemen- te menzionate in cui il legislatore parla espressamente
di ‘sentimento’ vi sono delle differenze: nel caso della religione, del pudore,
della pie- tà dei defunti et similia, la parola ‘sentimento’ viene associata a
ulte- riori concetti che indicano valori e oggetti significativi per il singolo
e per la collettività, dando vita a un’entità in parte psicologica e in par- te
di consistenza prettamente socio-valoriale. Nel caso dello stalking lo stato
psichico assume una rilevanza autonoma, senza alcuna cor- relazione con
specifici oggetti del sentire, ed è proprio il turbamento emotivo a rivestire
importanza centrale nell’economia della fattispe- cie, precisamente come evento
tipico 9. Si tratta di due diverse declinazioni del sentimento come oggetto di
tutela, le quali necessitano di una trattazione distinta. 2.1. La tutela di
‘sentimenti-valori’ Con riferimento ai delitti contro il sentimento religioso,
contro il pudore e contro la pietà dei defunti, sia l’interpretazione oggi do-
minante in dottrina sia la realtà applicativa depongono per una linea
depsicologizzante, secondo la quale il disvalore del fatto non dipende
dall’impatto della condotta tipica sullo stato psichico del soggetto passivo.
Si è osservato che l’ordinamento penale non tutela sentimenti, 7 Sul tema, pur
con diversità di accenti, v. MAUGERI, Lo stalking tra necessità
politico-criminale e promozione mediatica, Torino; NISCO, La tutela penale
dell’integrità psichica; COCO, La tutela della libertà indivi- duale nel nuovo
sistema ‘anti-stalking’, Napoli FIANDACA, Sul bene giuridico. Uno tra gli
aspetti più discussi della fattispecie di atti persecutori concerne
l’alternativa fra reato di danno o di pericolo; per un’interessante prospettiva
in- terpretativa MAUGERI, Lo stalking; sulla stessa linea di pensiero, CADOPPI,
Efficace la misura dell’ammonimento del questore, in Guida dir. In
giurisprudenza tende a prevalere la qualificazione come reato di danno; v., ex
plurimis, Cass. pen., sez.; Cass. pen., sez. Dimensione codicistica e funzione
discorsiva della formula 65 «anche se talora lo stesso codice penale si esprime
in questi termini, ma tutela la loro obiettivazione in situazioni sociali, in
interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto
che essi vengono tutelati a prescindere dalla prova di quella percezione in
capo a un qualche individuo determinato» 10. Tale osservazione è ineccepibile,
e trova riscontro nel panorama applicativo: la prova di un effettivo turbamento
psichico soggettivo non è mai venuta seriamente in considerazione. Le
situazioni de- scritte nelle disposizioni codicistiche non richiedono la
verifica di una concreta elicitazione della sensibilità di singoli individui:
l’asserita attitudine lesiva della sensibilità costituisce esito di un proces-
so interpretativo di elementi di fatto e di condizioni di contesto esa- minati
alla luce di criteri di adeguatezza e di tollerabilità modulati su parametri di
tipo socio-culturale, in base a un’ipotizzata sensibilità media dei consociati.
Come osserva Angelo Falzea, non è il mero fatto emozionale ad assumere ruolo
decisivo, ma è piuttosto la sua traducibilità in valori e disvalori secondo un
punto di vista sociale. Nel complesso, il senti- mento assume rilevanza sub
specie iuris e non sub specie facti: «Non ogni volta che il diritto pone a base
delle sue regole il sentimen- to si è in presenza di un fatto giuridico
affettivo. Vi sono norme giuri- diche ispirate all’esigenza di tutelare un
sentimento condiviso dalla 10 DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela
penale dei sentimenti. Si prendano a riferimento gli ambiti della tutela penale
della religione e del pudore, nei quali si registra un congruo numero di
pronunce. Per una panorami- ca sulla tutela del sentimento religioso in Italia
fino agli anni Ottanta v. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione. Beni
giuridici e limiti dell’intervento penale, Milano; per uno sguardo sugli
sviluppi più recenti v. BASILE, art. 403 c.p., in AA.VV., Codice penale
commentato, diretto da Dolcini-Gatta, Milano; PECORELLA, Delitti contro il
sentimento religioso, in AA.VV., a cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale.
Parte speciale, vol. I, I reati contro la persona, II ed., Torino; per una
panoramica della giurispruden- za in materia di offese al pudore v.
PROTETTÌ-SODANO, Offesa al pudore e all’onore sessuale nella giurisprudenza,
Padova; PULITANÒ, Il buon costume, in BIANCHI
D’ESPINOSA-CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio- culturali
della giurisprudenza; FIANDACA, Problematica dell’osceno e tutela del buon
costume, Padova, 1984, pp. 33 ss.; sugli sviluppi più recenti sia consentito il
rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della riservatezza sessuale, in AA.VV., a
cura di Pulitanò, Manuale di diritto penale. I reati contro la persona. In
psicologia è d’uso il termine ‘elicitazione’ per indicare l’azione di stimolo
volta a suscitare emozioni e/o a indurre comportamenti. Tra sentimenti ed
eguale rispetto comunità o di reprimere un sentimento che la comunità
disapprova, ma nelle quali la considerazione del fenomeno emozionale resta al
livello dell’interesse normativo e non si traduce in elemento della fatti-
specie: il sentimento tende allora a svincolarsi dalla necessità di una sua
specifica manifestazione e a confondersi coi valori etici ogget- tivi» 13. Ciò
che rileva è la ‘personalità affettiva comune’, ossia «l’insieme dei fatti
biologici e psichici che influiscono sul comportamento emo- zionale affettivo e
reattivo della persona» definito «in relazione al pa- trimonio sentimentale e
alla sensibilità che sono propri in linea di principio dell’intero gruppo
sociale. Il sentimento viene in questo modo proiettato in una dimensione
collettiva come modo di sentire diffuso che accomuna più individui (c.d.
‘atmosfera emozionale’). Alla luce di tale fisionomia dell’oggetto di tutela,
il sentire indivi- duale viene filtrato «in funzione e sotto l’angolo visuale
del sistema dei valori di un gruppo diverso e più comprensivo la valutazione
contenuta nel sentimento di certe persone o comunità diventa ogget- to di
un’altra valutazione contenuta nel modo di sentire o comunque nel sistema dei
valori di altre persone o comunità» 15. In definitiva, attraverso le «regole e
gl’istituti con cui il legislatore predispone una tutela penalistica a
salvaguardia di sentimenti che nel- l’animo e nel costume dei consociati
assumono un alto valore» 16, il di- ritto penale finisce per tutelare non un
stato soggettivo della persona, bensì l’oggetto e il valore impersonale che
fonda quel dato modo di F. I FATTI DI SENTIMENTO. L’Autore inoltre distingue
fra ‘reati di sentimento’, ossia quelli in cui il diritto «punisce il disprezzo
verso valori ritenuti fondamentali», ossia le varie forme di vilipendio alle
istituzioni (Repubblica, nazione, bandiera), dai casi in cui il sentimento
dell’agente è tale da influire sulla gravità della pena in funzione di
circostanza (crudeltà, futilità dei motivi etc. A ben vedere, una simile
prospettazione potrebbe creare fraintendimenti: nella definizione del
vilipendio quale reato di sentimento (la cui ragion d’essere trova dunque
spiegazione nella mera censura di uno stato interiore considerato contrario a
valori ‘oggettivi’) l’occhio del penalista non può fare a meno di riscon- trare
una sottile caratterizzazione soggettivistica, secondo tecniche di incrimina-
zione tipiche del Gesinnungsstrafrecht. Il suddetto schema non sembra inoltre
funzionale ad una prospettiva di bilanciamento, poiché se l’aver provato
disprez- zo diviene motivo di incriminazione tout court, relegando in secondo
piano i pro- fili di turbamento del sentimento di altri, risulta assai più
difficoltoso procedere sulla strada di un equilibrio tra
posizioni. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula
sentire. Il lessico degli stati affettivi si rivela dunque un orpello retorico
volto a porre sotto protezione penale gli oggetti del sentire, ossia valori e
simboli ritenuti socialmente significativi nella comunità: «nell’apprestare
tutela a determinati sentimenti, il codice non tende a proteggere stati
affettivi duraturi in quanto tali: si tratta, piuttosto, di sentimenti –
individuali e/o collettivi – concepiti altresì come atteg- giamenti intrisi di
valore in una accezione culturale e normativa. Sic- ché si può dire, da questo
punto di vista, che la legge penale mira a proteggere più che sentimenti in sé,
sentimenti-valori, se non valori tout court» 17. Vediamo nel dettaglio quali
sono i valori che, dietro le effigie del sentimento, sono entrati nel catalogo
dei beni tutelati dal diritto penale italiano. Il sentimento religioso I
delitti in tema di religione sono un elemento sintomatico del tas- so di
secolarizzazione del sistema 18. Nelle legislazioni penali moder- ne, la
religione è stata di rado identificata come bene di esclusiva per- tinenza del
singolo, e più frequentemente come forma di adesione collettiva o come
sentimento istituzionalizzato, ossia entità storica- mente e culturalmente
determinata nella quale sono trasfusi valori e patrimoni propri di una o più
confessioni. Il codice Rocco parla di ‘sentimento religioso’ 19, ma la
legislazione del 1930, fedele nelle rubriche e nella sostanza alla sola
religione di Stato, si identificava nel modello di tutela definito come bene di
civiltà: era la religione cattolica, affiancata dalla timida presenza dei culti
ammessi, e non un qualsiasi sentimento religioso individual- FIANDACA, Sul
ruolo delle emozioni e dei sentimenti, FIANDACA, Laicità del diritto penale e
secolarizzazione dei beni tutelati, in AA.VV., a cura di Pisani, Studi in
memoria di Pietro Nuvolone, vol. I, Milano, 1991, pp. 180 ss.; SIRACUSANO,
Pluralismo e secolarizzazione dei valori: la superstite tutela penale del
fattore religioso nell’ordinamento italiano, a cura di Risicato-La Rosa,
Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali, Torino. Per una
panoramica, v. a cura di Brunelli, Diritto penale della libertà religiosa,
Torino, Cfr. MARCHEI, Sentimento religioso e bene giuridico. Tra giurisprudenza
costi- tuzionale e novella legislativa, Milano; PACILLO, I delitti contro le
confessioni religiose dopo la legge, Milano. SIRACUSANO, I delitti in materia
di religione, cit., Milano Tra sentimenti ed eguale rispetto mente avvertito, a
godere di un privilegiato regime di tutela 21. L’impianto codicistico ha subito
profonde modifiche ad opera del- la Corte costituzionale, la quale, nel corso
degli anni, ha ‘rabbercia- to’ 22 il sistema dei reati riducendo le distonie
con i principi codificati nella Carta costituzionale. Particolarmente
significativa è la linea giu- risprudenziale inaugurata con la pronuncia n.
440/1995 (sulla con- travvenzione di bestemmia) e seguita dalle pronunce
(equiparazione del trattamento sanzionatorio fra religione di Stato e culti
ammessi, in relazione all’art. 403 c.p.) e soprattutto n. 508/2000 (ablazione
della fattispecie di vilipendio della religione di Stato, art. c.p.): decisioni
che attuano un cambio di rotta rispetto alla giu- risprudenza costituzionale
che, fino a pochi decenni prima, ancora legittimava il trattamento privilegiato
della religione cattolica sulla base di criteri quantitativi e sociologici 25.
Argomentando sulla base del principio di laicità, la Corte ha iden- tificato
nella dimensione religiosa individuale il corollario di una li- 21 In linea con
l’afflato statocentrico che ispira l’intera codificazione, le fatti- specie in
tema di religione sono espressione di autoritarismo etico da parte del governo
fascista, congeniale al sodalizio politico con la Chiesa Romana formaliz- zato
nei Patti Lateranensi: La religione dice Rocco è non tanto un feno- meno
attinente alla coscienza individuale, quanto un fenomeno sociale della più alta
importanza, anche per il raggiungimento dei fini etici dello Stato», v. Codice
penale, illustrato con i lavori preparatori, a cura di Mangini-Gabrieli-Cosentino,
Roma. Per una sintesi, v., ex plurimis, PACILLO, I delitti contro le
confessioni religiose. L’espressione è di FIANDACA, Altro passo avanti della
Consulta nella rabbercia- tura dei reati contro la religione, in Foro it. Per
un’ampia e pun- tuale sintesi della giurisprudenza costituzionale vedi il
saggio di VISCONTI C., La tutela penale della religione nell’età post-secolare
e il ruolo della Corte costituzionale, in Riv. it. dir. proc. pen. Sul tema v.,
ex plurimis, PALAZZO, La tutela della religione tra eguaglianza e
secolarizzazione (a proposito della dichiarazione di incostituzionalità della
bestem- mia), in Cass. pen.; DI GIOVINE O., La bestemmia al vaglio della Corte
costituzionale: sui difficili rapporti tra Consulta e legge penale, in Riv. it.
dir. proc. pen. Ex plurimis, VENAFRO, Il reato di vilipendio della religione
non passa il vaglio della Corte Costituzionale, in Legislazione penale. Cfr.
FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, entro la nuova tipici-
tà dei delitti contro le confessioni religiose, in AA.VV., a cura di Brunelli,
Diritto penale della libertà religiosa, Torino; MORMANDO, Religione, laicità,
tol- leranza e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.; MARCHEI, Sentimento
religioso e bene giuridico. Dimensione codicistica e funzione discorsiva della
formula 69 bertà costituzionale 26; parametro costituzionale decisivo che ha
sup- portato le modifiche più rilevanti è stato il principio di uguaglianza. La
riforma, nel dichiarato intento di superare l’anacro- nistico e illiberale
modello del codice fascista, ha eliminato il riferi- mento alla religione
introducendo il concetto di ‘confessione religio- sa’. In merito all’interesse
protetto, la lettura critica offerta dalla pre- valente dottrina individua una
sostanziale continuità con la vecchia normativa28, identificando l’oggetto di
tutela in una prospettiva che oscilla tra il bene di civiltà
‘pluriconfessionalmente articolato’ e il sentimento collettivo della pluralità
dei fedeli che si riconoscono in una determinata confessione religiosa29. Non
mancano però letture alternative che cercano di armonizzare la duplice natura,
individuale e collettiva, del bene protetto, sottolineando come «la nozione di
sen- 26 Pur aderendo sostanzialmente al principio di laicità dello Stato, la
giuri- sprudenza costituzionale presenta sensibili oscillazioni circa
l’effettiva portata del concetto: cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici del
discorso pubblico, Torino; ID., La tutela penale della religione, cit., p.
1050. Istanze personalistiche sono emerse quando si è parlato di «sentimento
religioso, il quale vive nell’in- timo della coscienza individuale e si estende
anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della
professione di una fede comune», v. C. cost.; cfr. MARCHEI, Sentimento
religioso. Così PULITANÒ, Laicità e diritto penale, a cura di Ceretti-Garlati,
Laicità e stato di diritto, Milano; cfr. VISCONTI C., Aspetti penalistici. Sui
rapporti tra uguaglianza e diritto penale, v. DODARO, Uguaglianza e diritto
penale. Uno studio di giurisprudenza costituzionale, Milano, 2013; FIANDACA,
Uguaglianza e diritto penale, a cura di Cartabia-Vettor, Le ragioni del-
l’uguaglianza, Milano. Si rileva che la Corte non ha assunto decisioni
dirompenti, tali da condur- re all’abbattimento del sistema esistente, talvolta
riducendo a un semplice pas- saggio ermeneutico, secondo alcuni Autori, lo
stesso richiamo alla realtà reli- giosa individuale, nei fatti seguito dalla
rilegittimazione del paradigma esi- stente: cfr. l’analisi di MARCHEI,
Sentimento religioso, cit., pp. 143 ss. Osserva PIEMONTESE, Offese alla
religione e pluralismo religioso, Religione e re- ligioni: prospettive di
tutela, tutela delle libertà, a cura di De Francesco-Piemontese-Venafro,
Torino, che «la libertà individuale parrebbe valoriz- zata, qui, solo in
chiusura e ad abundantiam, all’interno di un iter argomentati- vo volto a
preservare comunque l’originaria dimensione pubblica ed istituziona- le della
tutela»; cfr. PADOVANI, Un intervento normativo scoordinato che investe anche i
delitti contro lo Stato, in Guida dir.; BASILE, art. c.p. Nel primo senso
SIRACUSANO, Pluralismo e secolarizzazione dei valori; per la seconda opzione v.
BASILE, art. c.p. Cfr. anche VISCON- TI C., Aspetti penalistici. Ritiene che la
riforma abbia fatto assurgere il sentimento religioso individuale a bene
protetto in via diretta e immediata, PACILLO, I delitti contro le confessioni
religiose Tra sentimenti ed eguale rispetto timento è solamente un connotato –
innegabile quanto imprescindibile – di un ben più articolato valore di libertà
religiosa. Il pudore Il richiamo al sentimento è centrale nella definizione
delle osceni- tà penalmente rilevanti: sono da considerarsi osceni gli atti e
gli og- getti che ‘secondo il comune sentimento’ offendono il pudore (art.
c.p.). L’elemento normativo ‘comune sentimento del pudore’31 attinge da un
fenomeno di reattività interiore dell’individuo: il pudo- re, genericamente
definibile come disposizione soggettiva che induce al riserbo su quanto attiene
alla vita sessuale, fonda la soglia sogget- tiva di eventuale disagio
avvertibile di fronte a manifestazioni della sessualità. Inteso nella
dimensione comunitaria il pudore si emancipa dal rapporto di implicazione
emotiva individuale e dalla sua concreta sussistenza, scivolando verso
un’identificazione con concezioni della morale sessuale: la valorizzazione
normativa del pudore diviene in questo modo funzionale a introdurre soglie atte
a delimitare manife- stazioni e rappresentazioni aventi contenuto sessuale 33.
Il problema del buon costume e della pubblica moralità quali beni di categoria
in ambito penalistico ha finito per tradursi nel richiamo a canoni di moralità
sessuale, concetto quest’ultimo la cui delimita- 30 È la condivisibile
notazione di FALCINELLI, Il valore penale del sentimento religioso, cit., p.
48, la quale definisce l’interesse protetto dalle norme post riforma 2006 come
sentimento religioso collettivo e al contempo individuale. Sul tema degli
elementi normativi, e in particolare sui rapporti fra il coeffi- ciente di
certezza degli elementi normativi culturali e giuridici, v. lo studio di
BONINI, L’elemento normativo nella fattispecie penale. Questioni sistematiche e
costitu- zionali, Napoli, 2016, pp. 320 ss.; sul tema v. anche RISICATO, Gli
elementi norma- tivi della fattispecie penale. Profili generali e problemi
applicativi, Milano Per un’analisi in chiave psicanalitica v., ex plurimis,
APPIANI, Tabù. Elogio del pudore, Milano, Fondamentale FIANDACA, Problematica
dell’osceno, cit., pp. 4 ss. Sul proble- ma definitorio del pudore, nella
letteratura penalistica più risalente v. ALLEGRA, Il “comune” sentimento del
pudore, in Iustitia.; LATAGLIATA, voce Atti osceni e atti contrari alla
pubblica decenza, in Enciclopedia del diritto, vol. IV, Mi- lano; VENDITTI, La
tutela penale del pudore e della pubblica decen- za, Milano; GALLISAI PILO,
voce Oscenità e offese alla decenza, in Dig. disc. pen., Torino; FARINA, Il
reato di atti osceni in luogo pub- blico: tensioni interpretative e prospettive
personalistiche nella tutela del pudore, in Dir. pen. proc. Cfr. FIANDACA,
Problematica dell’osceno, cit., pp. 78 ss. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 71 zione è però nondimeno ardua, al punto da
costituire classicamente un luogo di forti tensioni tra il diritto punitivo e i
principi liberali. Ad oggi gli sviluppi giurisprudenziali, incentivati e
affinati da im- portanti contributi della dottrina 36, depongono per una riconversione
dell’interesse di tutela, il quale è identificato nel diritto a essere pro-
tetti da indebite violazioni del proprio riserbo sessuale: esempio tipi- co,
l’assistere a manifestazioni di contenuto erotico senza avervi pre-
ventivamente acconsentito. Ciò ha condotto a un modello di interven- to
incentrato non più su una lesione astratta e potenziale del pudore collettivo,
ma teso a reprimere solo le manifestazioni oscene che si impongano a
determinati soggetti senza che questi abbiano prestato un preventivo consenso
37. È il carattere della pubblicità più o meno indesiderata dell’atto o della
pubblicazione, inteso come capacità di diffusione e percepibilità da parte di
soggetti non consenzienti, a fondare l’illiceità, e non la sua natura eventualmente
oscena. Si tratta di un ragionevole distacco da modelli di intervento non 35
Sul punto rimarca FIANDACA, Problematica dell’osceno, che il principio della
tolleranza ideologica e della tutela delle minoranze impediscono di trasformare
il diritto penale di uno Stato democratico in tutore della virtù. Ciò induce a
dover giustificare sotto ogni aspetto l’assunto, secondo il quale la punizione
dell’immoralità non può rientrare tra gli scopi del diritto penale con-
temporaneo. Tanto più che l’esplicito riferimento, contenuto nella
Costituzione, alla tutela del buon costume potrebbe essere da taluno
interpretato – come di fat- to è avvenuto – appunto in chiave di “copertura”
costituzionale all’incriminazione di fatti lesivi di semplici valori morali».
Cfr. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di
orientamenti sociali di carattere assiologico? Pro- blemi di legittimazione da
una prospettiva europea continentale e da una angloame- ricana, a cura di
Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale. Culture
europeo-continentale e anglo-americana a confronto, Torino Il riferimento è
sempre a FIANDACA, Problematica dell’osceno In giurisprudenza, sentenza
capostipite è quella del Tribunale di Torino, 2/04/1982, in Foro it. Nella giurisprudenza
di legittimità, Cass. pen., sez. in Foro it.; v. anche Cass. pen., SS. UU.,
24/03/1995, in Foro it., 1996, II, c. 17 ss. Da ultimo, v. Cass. pen., sez. e
Cass. pen., sez., che conferma la per- cepibilità dell’osceno da parte del
pubblico come elemento costitutivo della fattispe- cie il cui onere probatorio
deve essere fornito dall’accusa. Per un avallo del suddetto orientamento da
parte della Corte costituzionale, v. la sentenza n. 368/1992, secon- do cui «la
misura di illiceità dell’osceno è data dalla capacità offensiva di
questo verso gli altri, considerata in relazione alle modalità di
espressione e alle circostan- ze in cui l’osceno è manifestato», v. C. cost.,
n. 368/1992; sia consentito il rinvio a BACCO, Tutela del pudore e della
riservatezza sessuale Tra sentimenti ed eguale rispetto compatibili con uno
Stato liberale e pluralista38. Ad oggi l’ordina- mento italiano non tutela un
moralistico pudore collettivo 39, ma ap- presta gli strumenti affinché le
persone non assistano a manifesta- zioni della sessualità per loro
indesiderate: l’equilibrio si fonda su po- tenzialità nell’agire che trovano un
limite nell’altrui pretesa di non subire contatti sgraditi. Vi è sì una
depsicologizzazione dell’interesse protetto, presentato nelle fogge di una
libertà negativa, ma va non- dimeno riconosciuto che il problema della tutela
del pudore resta profondamente legato, nella sua matrice, anche a una
sensibilità di tipo ‘epidermico’40, non semplicemente morale, ma saldamente in-
trecciata alla reattività emotiva della persona. La pietà dei defunti Pochi termini denotano
un’appartenenza al lessico emozionale come la pietà: traduzione del latino
pietas, essa, al di là dell’uso gene- rico che connota il sentimento di
solidale comprensione nei confronti della sofferenza altrui, designa ancora
oggi la dimensione psicologica che scaturisce dall’esperienza della morte dei
propri simili, e fa la sua comparsa nel codice penale al capo II del titolo IV.
38 Esigenze di riforma sono state invocate evidenziando un ormai critico rap-
porto tra il diritto vivente e la tipicità formale, sottolineando come lo
stesso rein- quadramento in termini personalistici del bene giuridico disveli,
in definitiva, un’irragionevole disparità sanzionatoria tra l’offesa al pudore
(rectius, libertà da visioni indesiderate) e altre offese alla persona: v.
FARINA, Il reato di atti osceni I sentimenti individuali rimangono sullo
sfondo, preservati nella loro auto- nomia e senza dover render conto dei propri
contenuti: le generalizzazioni e i giudizi su base quantitativa dovrebbero
rimanere al di fuori della norma, poiché la libertà del singolo è anche libertà
di usufruire e concedersi quello che per molti dei suoi simili potrebbe
apparire indecoroso o ripugnante, ovviamente senza in- vadere le altrui sfere
di libertà. Autorevoli esponenti del pensiero liberale hanno affermato in
questo senso la necessità di una politica ‘anticollettivista’, nella quale cioè
«gli interessi della maggioranza non possono mettere a tacere i diritti fon-
damentali dell’individuo, se non in circostanze eccezionali, solitamente
laddove siano ipotizzabili danni ad altre persone o qualche grave pericolo per
l’intera na- zione», v. NUSSBAUM, Disgusto e umanità, tr. it., Milano; cfr. H.
L. A. HART [citato da H. P. Gice], Diritto, morale e libertà, tr. it., a cura
di Gavazzi, Acireale È stato osservato come sia doveroso un approfondimento
delle ragioni psi- cologiche alla base di atteggiamenti repulsivi dell’altro,
al fine di disvelare (e ar- ginare) l’irrazionalità di fondo che, se trasfusa
in dettami normativi, potrebbe condurre a esiti discriminatori: un tipico
esempio sono istanze di tutela che tro- vino la propria motivazione in un mero
‘disgusto collettivo’, v. NUSSBAUM, Na- scondere l’umanità Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula L’interpretazione consolidatasi
in dottrina individua in tali norme un presidio a un sentimento universale, non
una forma di difesa della salute pubblica . La tutela è incentrata su oggetti
materiali e postula la rilevanza simbolica delle res: oggetti la cui violazione
integra il pa- radigma delittuoso in quanto la materialità delle azioni assuma
il si- gnificato di dileggio alla memoria 42. Al di là della topografia
codicistica, pare opportuno rimarcare l’autonomia concettuale del sentimento di
pietà per i defunti dalle eventuali caratterizzazioni religiose43: è sul
presupposto di una di- mensione laica di tale sentimento 44, oltre il manto di
ritualità cultua- li, che si pone la discussione sulla legittimità e opportunità
di un pre- sidio sanzionatorio. Autorevole dottrina è critica nei confronti
della scelta politico criminale del codice Rocco: «la previsione autonoma di
delitti contro la pietà dei defunti non appare, nell’attuale momento storico,
perfet- tamente congrua con la funzione propria di un diritto penale di uno
Stato democratico e secolarizzato: il mero sentimento non sembra infatti poter
assurgere al rango di bene giuridico, non intaccando la sua semplice violazione
quelle condizioni minime della vita in comu- ne la cui salvaguardia legittima
l’uso dello strumento penalistico» 45. L’osservazione ha il merito di
evidenziare uno dei punti critici del rapporto tra sentimenti e tutela penale:
libertà che rischiano di essere soggette alla coercizione di fronte a moti
dell’animo umano, il cui turbamento, pur intenso, non dovrebbe essere
destinatario di una priorità assoluta all’interno di un contesto pluralista. 41
FIANDACA, voce Pietà dei defunti (Delitti contro la), in Enc. giur., Roma; per
l’orientamento incline all’interpretazione della norma come tutela della salute
pubblica, v. GABRIELI, Delitti contro il sentimento religioso e la pietà verso
i defunti, Milano, ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti (delitti contro), in
Dig. disc. pen., Torino Ex plurimis, cfr. FIANDACA, voce Pietà dei defunti,
cit., p. 1; ROSSI VANNINI, voce Pietà dei defunti, Non potendo in questa sede
offrire un quadro della sconfinata bibliografia, ci limitiamo a segnalare le
intense riflessioni contenute nella pubblicazione di AA.VV., a cura di Monti,
Che cosa vuol dire morire, Torino, 2010. Argomentazioni condivise da parte di
autori di estrazione laica e autori cattolici emergono nei saggi di BODEI,
L’epoca dell’antidestino MONTICELLI, La libertà di divenire sé stessi, pp. 83
ss.; per i secondi, v. REALE, L’uomo non si accorge più di morire; MANCUSO, Se
si ha paura della morte, si ha paura della vita, pp. 109 ss. 45 FIANDACA-MUSCO,
Diritto penale. Parte speciale, vol. I, IV ed., Bologna, Tra sentimenti ed
eguale rispetto Nell’attuale configurazione normativa, tuttavia, la tutela del
de- funto evoca sentimenti, ma non ha ad oggetto stati psicologici di pa- renti
o delle persone ad esso affettivamente legate. Si tratta di un ri- conoscimento
dovuto all’essere umano in quanto tale, a prescindere da metafisiche
ultraterrene, ma anzi ben ancorato a una concezione secolare dell’esistenza,
secondo cui il soggetto può e deve meritare rispetto anche dopo il trapasso 46.
È in quest’ottica che può eventual- mente valutarsi l’opportunità del
mantenimento di un presidio e i suoi limiti: secondo logiche non pervasive ma
ragionevolmente orien- tate alla salvaguardia di un nucleo minimo di rispetto
verso chi ha abbandonato la dimensione fisica dell’esistenza. 2.1.4. Il
sentimento nazionale e la condotta di istigazione all’odio fra le classi
sociali Fra i delitti contro la personalità dello Stato troviamo menzionati lo
‘spirito pubblico’ e il ‘sentimento nazionale’. Si tratta di fattispecie cadute
ormai nel dimenticatoio e sostanzialmente inapplicate: l’am- bito di operatività
dell’art. 265 (disfattismo politico) è circoscritto, per espressa previsione
legislativa, al tempo di guerra; gli artt.
(nella parte in cui faceva riferimento al ‘sentimento nazionale’) sono
stati oggetto di dichiarazioni di incostituzionalità con le senten- ze n.
87/1966 e n. 243/2001 47. Al di là del valore di ‘archeologia giuridica’, fra
gli elementi costi- tutivi delle suddette fattispecie troviamo il cosiddetto
‘spirito pubbli- co’ e il ‘sentimento nazionale’: concetti strettamente legati,
i quali evocano una disposizione affettiva, ossia l’atteggiamento di fede e di
attaccamento del cittadino alla nazione. 46 GIUNTA, Verso un rinnovato
romanticismo penale? ; cfr. DONINI, “Danno” e “ offesa”nella c.d. tutela penale
dei sentimenti, il quale sot- tolinea la possibilità che dall’assenza di tali
presidi scaturiscano esiti negativi per la stessa pace sociale; ERONIA, La
turbatio sacrorum tra legge e cultura: il caso del- la riesumazione della salma
di S. Pio, in Cass. pen. Nella relazione al progetto di riforma del codice
penale elaborato dalla commissione Pagliaro era stato osservato che: «il bene
personalistico della dignità della persona defunta appare costituire l’oggetto
primario e costante della tutela contro gli atti irriguar- dosi delle spoglie
umane e dei sepolcri, mentre il pur rilevante bene collettivo del suddetto
sentimento si presenta come bene secondario ed eventuale», v. Relazione alla
bozza di articolato per un progetto di riforma del Codice Penale, consultabile
in http://www.ristretti.it/ areestudio/giuridici/riforma/relazionepagliaro.htm.
47 L’art. 272 c.p. è stato poi integralmente abrogato dalla legge n. 85 del
2006. Sul tema, v. ALESIANI, I reati di opinione. Una rilettura in chiave
costituzionale, Milano, 2006, pp. 275 ss. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula Il
concetto di spirito pubblico appare più generico e va delimitato a contesti in
cui, a causa dello stato di guerra, viene richiesta al citta- dino fiducia
nelle sorti del Paese. Non si tratta di una disposizione da accertarsi in capo
a singoli soggetti, bensì di un atteggiamento di col- lettiva partecipazione al
sostegno morale della nazione, il quale, se- condo il legislatore del 1930,
poteva essere frustrato dalla diffusione di notizie false, esagerate o
tendenziose così da menomare la resisten- za della nazione di fronte al nemico.
Il ‘sentimento nazionale’, secondo le parole della Corte costituzio- nale, è da
intendersi come corrispondente «al modo di sentire della maggioranza della
Nazione e contribuisce al senso di unità etnica e sociale dello Stato» 48.
Anche in questo caso il pensiero giurispruden- ziale rifugge da interpretazioni
emotivistiche e incentra la tutela pe- nale su un nucleo di valori
asseritamente condivisi. La natura puramente ideologica di tale oggetto di
tutela ne ha de- cretato l’incompatibilità con la libertà di manifestazione del
pensiero. Va però evidenziato che, mentre nella prima parte della motivazione
della sentenza n. 87/1966 la Corte descrive tale interesse in termini col- lettivistici,
al momento di decretare l’illegittimità della norma incrimi- natrice la
fisionomia dell’oggetto di tutela viene riproposta ponendo l’accento in chiave
critica sulla componente soggettivo-emozionale: di- ce infatti la Corte che «è
pur tuttavia soltanto un sentimento, che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo
della coscienza di ciascuno, fa parte esclusivamente del mondo del pensiero e
delle idealità». Facendo leva su tale carattere impalpabile 49 viene affermata
l’ille- gittimità anche dell’art. nella parte in cui incrimina la propa- ganda
per distruggere o deprimere il sentimento nazionale, salvando invece (fino alla
formale abrogazione del 2006) l’incriminazione della propaganda per
l’instaurazione violenta della dittatura, per la sop- pressione violenta di una
classe sociale e per il sovvertimento violen- to degli ordinamenti economici o
sociali costituiti nello Stato, rico- noscendo in tali norme una tutela del
metodo democratico da forme di pensiero prodromiche ad azioni violente. Diversamente
da altri ambiti in cui il richiamo a un sentire collet- 48 C. cost. n. 87/1966.
49 Lo sottolinea, ex plurimis, CAVALIERE, La discussione intorno alla
punibilità del negazionismo, i principi di offensività e libera manifestazione
del pensiero e la funzione della pena, in Riv. it. dir. proc. pen.Mero reato di
opinione, sia pure in senso lato» secondo VASSALLI, Propaganda sovversiva e
sentimento nazionale, in Giur. cost., 1966, II, p. 1100. 76 Tra
sentimenti ed eguale rispetto tivo è stato riconvertito dagli interpreti in una
prospettiva di tutela della persona, il sentimento nazionale non è riuscito a
beneficiare di alcun maquillage ermeneutico, e, dissipatosi il manto della
retorica di regime, è scomparso dai beni penalmente tutelati in quanto non in grado
di sostenere il confronto con la libertà di espressione. Una vicenda similare
ha caratterizzato la problematica disposizione dell’art. c.p. (istigazione
all’odio fra le classi sociali), che la Corte costituzionale ha dichiarato
costituzionalmente illegittimo «nella parte in cui non specifica che tale
istigazione deve essere at- tuata in modo pericoloso per la pubblica
tranquillità». L’eccezione sollevata con riferimento al contrasto con l’art. 21
Cost. viene accolta dalla Corte motivando che la norma, poiché non indica come
oggetto dell’istigazione un fatto criminoso specifico o un’attività diretta
con- tro l’ordine pubblico o verso la disobbedienza alle leggi, ma sempli-
cemente l’ingenerare un sentimento senza nel contempo richiedere che le
modalità con le quali ciò si attui siano tali da costituire perico- lo
all’ordine pubblico e alla pubblica tranquillità, «non esclude che essa possa
colpire la semplice manifestazione ed incitamento alla persuasione della verità
di una dottrina ed ideologia politica o filoso- fica della necessità di un
contrasto e di una lotta fra portatori di op- posti interessi economici e
sociali» 51. Si tratta di una piana applicazione di principi già evidenziati
nella sentenza, che culmina in questo caso in una pronuncia additiva la quale
di fatto espunge dall’ordinamento l’incri- minazione dell’istigazione all’odio
fra le classi sociali, riconoscendo la preminenza del diritto di libertà alla
manifestazione di «teorie del- la necessità del contrasto e della lotta tra le
classi sociali che sor- gendo e sviluppandosi nell’intimo della coscienza e
delle concezioni e convinzioni politiche, sociali e filosofiche dell’individuo
appartengo- no al mondo del pensiero e dell’ideologia Il sentimento per gli
animali Un ambito del tutto peculiare è costituito dalle norme codicistiche a
tutela del cosiddetto ‘sentimento per gli animali’. Èstata introdotta nel
codice penale la disciplina che sanziona, in forma di delitto, le condotte di
uccisione e maltrattamento di animali; stando alle parole del legislatore,
l’interesse tutelato sarebbe il sentimento
C. cost., n. 108/1974. 52 C. cost., n. 108/1974. Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula per gli animali, ossia l’umana
compassione che scaturisce dal rapporto con la sofferenza dell’animale.
L’evidenza testuale suggerisce una connessione con i problemi og- getto della
presente indagine, ma l’inquadramento dell’interesse pro- tetto in ossequio al
verbo legislativo appare una lettura superficiale. Le tesi dottrinali nel
panorama italiano sono espressione di diversi orientamenti53: il primo tendente
a dare rilievo alla definizione del legislatore; il secondo proiettato
all’affermazione di una soggettività giuridica dell’animale; un terzo
orientamento di compromesso, e infine una quarta soluzione che appare protesa
al riconoscimento di una tutela diretta dell’essere non umano, senza scivolare
in proble- matiche (soprattutto da un punto di vista filosofico)
‘soggettivizza- zioni’ dell’animale, ma rimarcando come la tutela diretta dell’animale
non umano sia da contestualizzarsi all’interno di un quadro di inte- ressi e
controinteressi umani 57. Non potendo approfondire nel corso della presente
indagine l’amplissima questione, ci limitiamo ad alcune osservazioni finalizza-
te a definire il senso e la peculiarità dell’impianto normativo della tu- tela
del sentimento per gli animali in rapporto agli altri ‘sentimenti- valori’
presenti nel codice penale. In primo luogo la tipicità delle fattispecie di cui
agli art. 544 bis e 53 Secondo la ricostruzione di FASANI, L’animale come bene
giuridico, in Riv. it. dir. proc. pen. Così GATTA, Art. c.p., in AA.VV.,
diretto da Dolcini-Gatta, Codice penale commentato,; PISTORELLI, Così il
legislatore traduce i nuovi sentimenti e fa un passo avanti verso la tutela
diretta, in Guida dir. Per una sintesi della problematica, v. VALASTRO, La
tutela giuridica degli ani- mali, fra nuove sensibilità e vecchie insidie, in
Annali di Ferrara. Va evidenziata la posizione di MANTOVANI F., Diritto penale,
Padova, il quale individua la ratio della tutela penale degli animali in una
prospettiva promozionale della stessa dignità umana, in quanto «la riduzione
dell’immensa crudeltà verso gli animali attenuando la crudeltà complessiva del
mondo, se non rende l’animale più uomo, rende l’uomo meno animale e migliore la
Terra. POCAR, Gli animali non umani. Per
una sociologia dei diritti, Bari; RESCIGNO, I diritti degli animali. Da res a
soggetti, Torino. Testo di riferimento per l’introduzione alle teorie
animaliste è SINGER, Liberazione animale, tr. it., Milano. MAZZUCATO, Bene
giuridico e “questione sentimento” nella tutela penale della relazione
uomo-animale. Ridisegnare i confini, ripensare le sanzioni, ia cura di
Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto-La questione animale,
Milano. FASANI, L’animale come bene giuridico, Tra sentimenti ed eguale
rispetto ss.58 non lascia spazio a valutazioni in termini emozionali; al senti-
mento umano di rispetto per gli animali può essere riconosciuto un ruolo
propulsivo nei confronti della scelta politico-criminale, ma per ricondurre
l’oggetto della tutela ad una sorta di pietas verso gli esseri non umani,
dovrebbe essere necessario richiedere nelle condotte quantomeno un grado di
pubblicità tale da riflettersi sul sentire col- lettivo. Ciò che fonda la
tipicità degli artt. 544 bis e 544 ter è aver uc- ciso con crudeltà un animale
o averlo maltrattato con carichi di lavo- ro insopportabili: azioni che possono
senz’altro indurre sentimenti negativi nella gran parte degli esseri umani, ma
che rilevano norma- tivamente per il semplice fatto di essere state realizzate,
e dunque quale offesa ad animali non umani Per una panoramica v. VALASTRO, La
tutela penale degli animali: problemi e prospettive, in AA.VV., a cura di
Castignone-Lombardi Vallauri, Trattato di biodiritto – La questione animale. Sul
tema, prima della riforma, vedi i saggi contenuti in a cu- ra di
Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, Milano. Sottolinea FIANDACA,
Prospettive di maggiore tutela penale degli animali, a cura di
Mannucci-Tallacchini, Per un codice degli animali, che, al di là della
possibile disputa circa un’ipotetica soggettività giuridica animale, per
legittimare una tutela penalistica possa essere sufficiente «parlare di
“interessi animali” degni di riconoscimento e tutela: interessi considerati in
una dimensione oggettiva, a pre- scindere dal problema di una loro riferibilità
all’animale come soggetto giuridico», ritenendo plausibile che «gli animali
[siano] portatori di due interessi fondamentali: l’interesse alla sopravvivenza
e l’interesse alla minore sofferenza possibile». Il di- stacco da un’ottica
antropocentrica, con implicita emancipazione da una ratio di tutela incentrata
sul sentimento umano per gli animali, appare peraltro ravvisabile anche nella
giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, relativa all’art., il quale,
prima dell’introduzione del titolo IX bis, incriminava le condotte di maltrat-
tamento di animali: v., in particolare, Cass. pen., sez., in Cass. pen., 1992,
p. 951, la quale afferma che «in via di principio l’art., in considerazio- ne
del tenore letterale della norma (maltrattamento) e del contenuto di essa (ove
si parla non solo di sevizie ma anche di sofferenze e di affaticamento) tutela
gli ani- mali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica
e capaci di reagire agli stimoli del dolore, ove essi superino la soglia di
normale tollerabilità. La tutela è, dunque, rivolta agli animali in
considerazione della loro natura»; in senso conforme, v. Cass. pen., sez., in
Dir. giust.; Cass. pen., sez., in Nuovo dir., secondo cui «La “ratio” della
disposizione di cui all’art. c.p. è quella di voler perseguire condotte
caratterizzate da un’apprezzabile componente di lesività dell’integrità fisi-
ca e-o psichica dello animale». Più contraddittoria appare invece la
giurisprudenza di legittimità dopo la novella: si veda, ad esempio, Cass. pen.,
sez., ove si afferma che «La norma è volta a proibire comporta- menti arrecanti
sofferenze e tormenti agli animali, nel rispetto del principio di evitare
all’animale, anche quando questo debba essere sacrificato per un ragionevole
motivo, inutili crudeltà ed ingiustificate sofferenze», rimarcando tuttavia che
«in Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula
L’identificazione dell’oggetto di tutela in un (non meglio identifi- cato)
sentire comune costituisce una lettura pregna di risvolti pro- blematici60, e
sono in questo senso condivisibili interpretazioni più ragionevoli che
suggeriscono di configurare l’interesse tutelato in termini di relazionalità e
‘interspecificità’: «andare oltre la dicotomia radicale e guardare nel mezzo
[...] cioè nel rapporto tra l’uomo e l’animale; lì si rinviene il bene
giuridico davvero tutelabile dal diritto penale, nel quadro delle garanzie
costituzionali. L’animale non riempie, non esaurisce, l’orizzonte di tutela
penale. L’uomo (che prova qualcosa davanti all’animale e che invoca per
quest’ultimo un dignitoso trattamento) non scompare dalla scena» 61. Nel
complesso, i problemi connessi alla tutela del sentimento per gli animali non
sembrano propriamente accomunabili a quelli riscontrati in relazione agli altri
‘sentimenti’ tutelati dalle norme pena- li. Una differenza di fondo è che le
disposizioni a tutela della religio- ne o del pudore chiamano in gioco un
bilanciamento fra interessi in- terno al confronto fra esseri umani e basato su
entità immateriali come i valori normativo-ideali; dall’altra parte, per quanto
il ricono- scimento di una soggettività giuridica all’animale sia un problema
aperto, in sede di ricostruzione dell’oggetto di tutela appare preferibi- le
tenere conto della soggettività animale senza sublimarla né in un impalpabile
sentire dell’uomo né in un mero contenuto ideale, ma piuttosto come problema
che sollecita un approfondito studio delle condizioni di compatibilità fra
esigenze umane e rispetto della vita di esseri non umani. Per tali ragioni, il
tema del sentimento degli animali pone que- stioni non inquadrabili nella
tutela dei cosiddetti ‘sentimenti-valori’, né appare accostabile al tema del disagio
emotivo, rivelandosi piutto- sto la proiezione di un problema antico e ancora
attuale, concernente gli equilibri di vita e sopravvivenza fra uomo ed
ecosistema. tali disposizioni l’oggetto di tutela è il sentimento di pietà e di
compassione che l’uo- mo prova verso gli animali e che viene offeso quando un
animale subisce crudeltà e ingiustificate sofferenze. Scopo dell’incriminazione
è quindi di impedire manifesta- zioni di violenza che possono divenire scuola
di insensibilità delle altrui sofferenze. Ben evidenziati da MAZZUCATO, Bene
giuridico e “questione sentimento. MAZZUCATO, Bene giuridico e questione
“sentimento”, cit., p. 703. 62 Un’interessante lettura sulla complessità del
rapporto fra uomo e animali non umani è il libro di HERZOG, Amati, odiati,
mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali, tr. it., Torino.
Per un inquadramento dell’impianto di tutela penale degli animali nel più ampio
contesto dei reati contro l’ambiente e Tra sentimenti ed eguale rispetto.
Il comune sentimento della morale Passando all’ambito extracodicistico, le
disposizioni normative in cui è più evidente ed univoco il richiamo al
sentimento quale oggetto di tutela sono gli artt. 14 e 15 della legge: l’art.
stabilisce la rilevanza penale, ai sensi dell’art. c.p., di pubblicazioni
destinate ai fanciulli e agli adolescenti quando, per la sensibilità e
l’impressionabilità ad essi proprie, siano idonee a offendere il loro
sentimento morale o a costituire per essi incitamento alla corruzione, al
delitto, al suicidio; l’art. 15 si rivolge parallelamente alla tutela di
soggetti adulti, vietando la pubblicazione di stampati i quali descri- vano o
illustrino, con particolari impressionanti o raccapriccianti, avvenimenti
realmente verificatisi o anche soltanto immaginari, in modo da poter turbare il
‘comune sentimento della morale’ 63. Punto centrale delle fattispecie, che ne
determina (fortunatamente) anche le difficoltà applicative, è l’esigenza di
accertare l’idoneità delle condotte alla causazione di eventi determinati
(«favorire il disfrenarsi di istinti di violenza, diffondersi di suicidi o
delitti»). Al fianco di tali eventi si pone l’offesa o il turbamento al
sentimento morale, formula tanto eloquente quanto indeterminata: «fondata sopra
un presupposto empirico e nebuloso di morale corrente, essa reca con sé tutti i
pericoli che le norme ispirate a concetti vaghi, a intuizioni, a sentimenti
porta- no sempre nella loro applicazione concreta» 64. L’accostamento esplicito
fra il sentire e la morale trova probabil- mente la sua ragione nell’intento di
introdurre una disposizione il più possibile assonante con l’art. c.p. (comune
sentimento del pudore), rielaborando in termini più estensivi i divieti
stabiliti in tema di buon costume sessuale65; una connessione che si motiva
anche con l’obiettivo di trovare un aggancio costituzionale esplicito a un
inte- resse che deve essere bilanciato con la libertà di espressione 66.
l’ecosistema v. RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, II ed., Torino. Per
una prospettiva socio-criminologica sul rapporto uomo-ambiente v. NATA- LI,
Green Criminology. Prospettive emergenti sui crimini ambientali, Milano. Sul
tema, per tutti, NUVOLONE, Il diritto penale della stampa, Padova; ID., I
limiti della libertà di stampa nell’art. della legge, Arch. pen. NUVOLONE, Il
diritto penale della stampa, cit., p. 234. 65 Parla di ‘triplice oggetto del
reato’ (sentimento della morale, ordine familia- re, ordine pubblico) NUVOLONE,
I limiti della libertà di stampa. La connessione fra sentire, morale e buon
costume emerge anche in C. cost., n. 9/1965, la quale ha ritenuto non fondate
le questioni di legittimità costituzionale sol- Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 81 Le sporadiche applicazioni
confermano la centralità a livello teo- rico del nesso fra turbamento emotivo e
offesa alla morale: appare significativa ad esempio una pronuncia della Corte
di Appello di Ro- ma nella quale si nega la sussistenza della fattispecie in
relazione alle immagini di una donna col cordone ombelicale attaccato, sulla
base della motivazione che simili immagini non potrebbero provocare tur-
bamento o orrore, e pertanto non offendono la morale. Il più eloquente
contributo alla definizione dell’interesse protetto dall’art. 15 è la sentenza
n. 293/2000, con la quale la Corte costituzio- nale ha ritenuto inammissibile
l’eccezione di incostituzionalità della norma per contrasto con l’art. 21
Cost.: «L’art. 15 della legge sulla stampa del 1948, esteso anche al sistema
radiotelevisivo pubblico e privato dall’art. della legge, non intende andare al
di là del tenore letterale della formula quando vieta gli stampati idonei a
“turbare il comune senti- mento della morale”. Vale a dire, non soltanto ciò
che è comune alle di- verse morali del nostro tempo, ma anche alla pluralità
delle concezioni etiche che convivono nella società contemporanea. Tale
contenuto mi- nimo altro non è se non il rispetto della persona umana, valore
che anima l’art. 2 della Costituzione, alla luce del quale va letta la
previsione incriminatrice denunciata. La descrizione dell’elemento materiale
del fatto-reato, indubbiamente caratterizzato dal riferimento a concetti
elastici, trova nella tutela della dignità umana il suo limite, sì che appa- re
escluso il pericolo di arbitrarie dilatazioni della fattispecie, risultando
quindi infondate le censure di genericità e indeterminatezza» 68. Come è stato
osservato in dottrina, tale sentenza ha compiuto un’operazione di
rivisitazione/trapianto, finendo per concepire come vasi comunicanti il comune
sentimento del pudore e il comune sentimento della morale attraverso il
passepartout della dignità uma- levate in relazione all’art. c.p. (incitamento
a pratiche contro la procreazione), osservando in motivazione che non
diversamente il buon costume risulta da un insieme di precetti che impongono un
determinato comportamento nella vita sociale di relazione, la inosservanza dei
quali comporta in particolare la violazione del pu- dore sessuale, sia fuori
sia soprattutto nell’ambito della famiglia, della dignità perso- nale che con
esso si congiunge, e del sentimento morale dei giovani, ed apre la via al
contrario del buon costume, al mal costume e, come è stato anche detto, può
com- portare la perversione dei costumi, il prevalere, cioè, di regole e di
comportamenti contrari ed opposti. App. Roma, 13 maggio 1958, in Arch. pen. C.
cost., n. 293/2000. Tali conclusioni sono state confermate in una succes- siva
ordinanza che ha dichiarato la manifesta infondatezza della medesima ecce-
zione di costituzionalità, v. C. cost. Tra sentimenti ed eguale rispetto na69.
La chiosa della Corte, quando esclude censure di genericità e indeterminatezza,
è alquanto frettolosa, per non dire superficiale, e fonda il discorso su un
valore sì fondamentale, ma tutt’altro che definito nei risvolti applicativi. Merita
attenzione la triade concettuale ‘sentimento-morale-di- gnità’: l’evocazione
del sentimento è disgiunta da profili di reattività psichica, e dunque
dall’aggancio a una dimensione individuale, po- nendosi come sinonimo di
minimum etico. Il delitto di cui all’art. 15 della legge sulla stampa, pur
essendo sostanzialmente inapplicato, riveste a nostro avviso importanza
centrale, dal punto di vista teorico, nel ‘microsistema’ delle disposizioni a
tutela di ‘sentimenti’; ne rivela i tratti più problematici, poiché attribuisce
a stati affettivi come disgusto e orrore il ruolo di parametro etico per la
valutazione di cosa possa considerarsi moralmente adeguato, riconoscendo dunque
a tali emozioni un ruolo cognitivo-valutativo che oggi sappiamo essere
tutt’altro che attendibile (vedi infra, cap. IV). 2.2. Lessico delle norme e
piano fenomenico: sentimenti o emo- zioni? Un passaggio concettualmente
importante consiste nel decodifica- re il richiamo giuridico a emozioni e
sentimenti in rapporto all’alternativa fra concezioni meccanicistiche e
concezioni valutative. A nostro avviso la chiave di lettura più funzionale
all’analisi delle norme che l’ordinamento italiano pone a tutela di
‘sentimenti’ è la concezione valutativa: gli interessi denominati dal
legislatore ‘senti- menti’ acquistano rilevanza normativa in virtù di una
peculiare tra- iettoria dell’intenzionalità dello stato affettivo. Si tratta di
un modo di concepire il sentimento del tutto simile al significato che Joel
Feinberg propone quando analizza il cosiddetto ‘appello ai sentimen- VISCONTI
C., Aspetti penalistici. Cfr. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana,
bilanciamento e propa- ganda razzista, Torino. Intendiamo il concetto di
intenzionalità secondo l’accezione proposta da Searle, ossia «quella proprietà
di molti stati ed eventi mentali tramite la quale essi sono direzionati verso,
o sono relativi a oggetti e stati di cose del mondo, SEARLE, Sull’intenzionalità.
Un saggio di filosofia della conoscenza, tr. it., Milano. In termini generali,
sul concetto di intenzionalità v. GALLAGHER- ZAHAVI, La mente fenomenologica,
cit., Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 83 ti’ nelle
questioni etiche: il filosofo americano ritiene infatti che ciò a cui si fa
riferimento non sia un mero stato emotivo, ma la peculiare risposta soggettiva
che gli individui possono provare nel rapporto con determinati oggetti. È bene
distinguere tra l’oggetto del sentire e la sindrome affettiva, quali elementi
costitutivi delle entità psico-sociali che il diritto pren- de in
considerazione. L’uso giuridico, in accordo col senso comune, adopera la
categoria del sentimento in un modo che tende a fondere il profilo soggettivo
dell’affettività con la sua proiezione esterna e dunque con l’oggetto del
sentire 73. La distinzione fra sindrome affet- tiva e oggetto del sentire
permette di tematizzare in modo separato i profili pertinenti da un lato alla
selezione degli ‘oggetti emotigeni’, e dall’altra alla tipologia di stati
affettivi che potrebbero eventualmente venire in gioco. L’oggetto del sentire è
ciò che definisce il substrato materiale o ideologico dell’offesa: ad esempio
si parla di sentimento religioso per dare rilevanza non a un astratto sentire
ma quel genere di esperienza emotiva che ha a che fare con la fede religiosa.
Stesso discorso per altri interessi definiti ‘sentimenti’: il sentimento del
pudore come di- sposizione a provare un certo tipo di reazioni soggettive in
rapporto a manifestazioni della sessualità; oppure il sentimento nazionale
quale FEINBERG, Sentiment and sentimentality: «Unlike some emotions, sentiments
are not mere objectless perturbations with subtle but neutral affective
colorings. They too have an
essential polarity to them (pleasant-unpleasant, friendly-unfriendly,
postive-negative), though unlike attitudes, the positive or negative character
of sentiments is not simply a “pro” or “con,” “for” or “against” posture. Some
of the terms we apply to the objects of positive or negative sen- timents are
themselves definable not in terms of the inherent properties of those objects
but rather in terms of the sentiments they are thought naturally or properly to
awaken. È significativo quanto osservato in
ambito psicologico: in genere, le persone dichiarano sentimenti patriottici più
o meno intensi in momenti diversi del- la loro vita; come sono tali sentimenti?
L’ovvia risposta a tale domanda è che que- sti sentimenti non hanno alcun senso
di esistere, per lo meno non al di fuori della tendenza del singolo a provare
altri tipi di sentimenti (orgoglio, dolore, vergo- gna), nei quali la sua vita
affettiva appare in linea con sorti della nazione. In tal senso, da un patriota
ci si aspetta che provi gioia e orgoglio quando la sua nazione vince, dolore o
compassione quando essa è in crisi, rabbia se è ingiustamente diffamata, e
disperazione nella sconfitta umiliante. Pertanto, osservando attentamente la
vita interiore e le abitudini di un patriota, non vi si troverà mai una traccia
di quel sentimento particolare chiamato “patriottismo” al di fuori di quanto
scritto sopra, v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da Platone a Putnam: quattro mo- di
di pensare all’odio, a cura di Sternberg, Psicologia dell’odio. Cono- scerlo
per superarlo, tr. it., Gardolo. Tra sentimenti ed eguale rispetto forma di
partecipazione affettiva, ‘patriottica’, alle vicende della pro- pria nazione.
Veniamo ad analizzare il versante della sindrome affettiva: qual è il fenomeno
che appare più aderente alle situazioni descritte nel con- testo codicistico?
Una importante differenza fra emozione e sentimen- to è identificabile nella
consistenza e nella durata: l’emozione, secon- do quanto abbiamo
precedentemente osservato in accordo con le ela- borazioni delle diverse
branche dei saperi lato sensu psicologici, rap- presenta una componente
dinamica del sentire, ossia uno stato men- tale di breve durata, caratterizzato
da una predominante componente reattiva; il sentimento è uno stato più durevole
e radicato. Parlare di una tutela di emozioni in senso stretto è improprio; ma
appare non del tutto corretta con anche un’eventuale associazio- ne degli
oggetti tutelati dal codice a stati psichici più duraturi. L’accezione che in
relazione ai ‘sentimenti-valori’ consente di in- staurare una connessione ‘non
irrealistica’ con la dimensione feno- menica è rappresentata a nostro avviso
dal concetto di ‘disposizione individuale del sentire’: non un accostamento a
emozioni in senso stretto e neanche a stati duraturi in quanto tali, ma
piuttosto ad at- teggiamenti che delineano l’orientamento affettivo e
assiologico della persona in conseguenza della maggiore o minore partecipazione
emotiva nel rapporto con determinati oggetti e situazioni. Entità come il
sentimento religioso, il sentimento del pudore et similia, appaiono funzionali
a richiamare disposizioni soggettive a provare emozioni. Atti persecutori:
sofferenza psichica e libertà di autodetermi- nazione Parlando di sentimenti
come ‘disposizioni del sentire’ si potrebbe intendere il problema di tutela
anche come protezione delle condi- zioni di formazione del sentire, e dunque
come assenza di forme di coartazione psichica. In questo modo si finirebbe però
per identificare nella libertà morale l’interesse di fondo, accomunando in modo
improprio ambiti di intervento che restano ben distinti nel codice Cfr.
FIANDACA, Sul ruolo delle emozioni e dei sentimenti. Si veda anche
l’impostazione di FEINBERG, Sentiment and Sentimentality. Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula penale e che la dottrina ha
contribuito anche di recente a definire nelle rispettive sfere di autonomia. Ci
sembra più adeguato tenere in evidenza la distinzione concettuale e collocare
la problematica dei ‘sentimenti-valori’ e delle dispo- sizioni del sentire a
uno stadio nel quale la libertà morale, intesa come libertà di conservare la
propria personalità psichica, di ragionare con la propria testa, di formarsi
una propria fede religio-sa politica e di conservarla come di mutarla, sia da
considerarsi elemento acquisito, e dunque come precondizione delle situazioni
in cui possono eventualmente crearsi conflitti relativi al piano dei
‘sentimenti-valori’. Il tema della tutela da forme di turbamento emotivo e di coarta-
zione psichica viene in gioco in relazione a un’altra fattispecie del codice
italiano, anch’essa formulata attraverso il richiamo a stati af- fettivi, ossia
il delitto di ‘atti persecutori’. La condotta tipica consiste nel porre in
essere azioni di minaccia o molestia tali da ingenerare un perdurante e grave
stato d’ansia e di paura, ossia stati psichici caratterizzati da un tono
edonico negativo e dunque in grado di alterare l’equilibrio emotivo
dell’individuo e la sua tranquillità 78. Si può parlare di tutela di sentimenti
in un senso che contribuisce a rimarcare che l’interesse protetto ha a che fare
in primo luogo con la dimensione affettiva del singolo; in questo senso si è
ben sottoli- neato che il delitto di atti persecutori rappresenta l’avvio di un
trend politico criminale «attento a consolidare la finora striminzita tutela
codicistica dei sentimenti di stampo individuale, in luogo della classi- ca e
per certi aspetti controversa tutela dei sentimenti di tipo collettivo virando
verso una maggiore concretizzazione personologica del bene giuridico. La
rilevanza giuridica dello stato affettivo non è però qualificata dall’oggetto
del sentire, ma piuttosto dall’impatto 76 NISCO, La tutela penale
dell’integrità psichica; VITARELLI, Manipolazione psicologica e diritto penale,
Roma. Quest’ul- tima si sofferma in particolare sulle interferenze fra tutela
della libertà psichica e della libertà di manifestazione del pensiero
osservando che il semplice utilizzo della parola, in assenza di violenza e
inganno, resta comunque resistibile e dun- que non può considerarsi come forma
di compressione della libertà morale. 77 È la cristallina definizione di
VASSALLI, Il diritto alla libertà morale, in AA.VV., Studi giuridici in memoria
di Filippo Vassalli, vol. II, Roma. Ex plurimis, MAUGERI, Lo stalking. COCO, La
tutela della liber- tà individuale nel nuovo sistema ‘anti-stalking’, Napoli. CAPUTO,
Eventi e sentimenti. Tra sentimenti ed eguale rispetto sull’equilibrio
psico-fisico del soggetto. Non sono in gioco ‘sentimen- ti-valori’: nella
fattispecie di atti persecutori il bene-sentimento as- sume una connotazione
più psicologica che simbolico-valoriale. Il richiamo a stati affettivi nel
delitto di stalking ha una funzione rilevante sul piano della tipicità: gli eventi
emotivi descritti nella fat- tispecie devono essere oggetto di prova.
L’alternativa di fondo è fra una concezione patologica, secondo la quale è
necessario un accer- tamento medico-legale della sussistenza (quantomeno nel
caso dello stato d’ansia) di disturbi diagnosticabili secondo un paradigma me-
dico-psicologico80, e un orientamento differente secondo il quale è sufficiente
un disagio accertabile in autonomia dal giudice 81. Appare comunque riduttivo
appiattire il disvalore dello stalking sullo stimolo di sensazioni negative
identificate attraverso standard cognitivi basati sul senso comune. La tipicità
penale è imperniata su un’interazione di tipo psicologico e sulle conseguenti
reazioni in- dotte nella vittima, e gli eventi psichici assumono rilevanza in
un’ot- tica strumentale all’evento finale, sostanziandosi «in percorsi motiva-
zionali diretti all’assunzione di una decisione da parte del soggetto passivo.
Nel delitto di atti persecutori il fatto emozionale assume rilievo quale causa
potenzialmente condizionante il comportamento e la vita di un soggetto. Non
dovrebbe essere sufficiente un mero stato edoni- co negativo, ma si dovrebbe, a
nostro avviso, verificare la sussistenza di stimoli emotivi tali da produrre
alterazioni della funzionalità di scopo nella complessiva economia di azione
dell’individuo: forme di turbamento psicologico che la dottrina penalistica ha
collocato nella 80 BRICCHETTI-PISTORELLI, Entra nel codice la molestia
reiterata, in Guida dir., 10/2009, pp. 58 s.; cfr. BARBAZZA-GAZZETTA, Il nuovo
reato di atti persecutori, in Altalex. VALSECCHI, Il delitto di atti
persecutori (il cd. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen. A favore di una
concezione intermedia si pongono FIANDA- CA-MUSCO, Diritto penale. Parte
speciale, Bologna; CAPUTO, Eventi e sentimenti. In giurisprudenza è discusso se
debba trattarsi di uno stato tale da integrare gli estremi di una malattia
mentale; per ora sembra prevalere l’orientamento che non richiede
l’accertamento di uno stato patologico, ritenendo sufficiente che gli atti
ritenuti persecutori «abbiano un effetto destabilizzante della serenità e
dell’equilibrio psicologico della vittima», così Cass. pen., sez.; cfr. Cass.
pen., sez.; Cass. pen., sez. In questo senso la condivisibile posizione di
NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica. Così li definisce
efficacemente CAPUTO, Eventi e sentimenti, cit., p. 1400. Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 87 categoria della ‘sofferenza
psichica’, corrispondenti a «un’alterazione della mente nella sua consistenza,
né più né meno di quanto possa accadere ad una macchina danneggiabile; ed
un’alterazione del fun- zionamento di questa ‘macchina’ come entità diretta ad
uno scopo, secondo una prospettiva nella quale la sofferenza emerge come misu-
ra eccessiva di frustrazione di tale scopo, a prescindere dal danneg- giamento
della macchina La definizione di sentimento come connotazione simbolica
negativa nel discorso penalistico Attraverso un excursus sulle norme di diritto
positivo abbiamo cercato di dare una dimensione al versante descrittivo della
formula ‘tutela penale di sentimenti’. Passiamo ora a considerare il profilo
che abbiamo definito ‘connotativo’ e che attiene alla dimensione teoreti-
co-speculativa. Nel discorso penalistico è oggi frequente l’uso della parola
‘senti- mento’ per definire in termini critici oggetti di tutela la cui
fisiono- mia appare difficilmente determinabile, esposti al rischio di
interpre- tazioni soggettivistiche e suscettibili di incentivare problematiche
espansioni dell’intervento penale; il lessico dei sentimenti non emer- ge in
questo caso da norme, ma dai discorsi dei giuristi. L’interrogativo concernente
la tutelabilità di sentimenti per mezzo del diritto penale ha tradizionalmente
suscitato la diffidenza della dot- trina penalistica, non solo nel panorama
italiano ma anche nel conte- sto europeo-continentale85: più in generale, il
pensiero penale che NISCO, La tutela penale dell’integrità psichica. Ampio
consenso sussiste circa il fatto che l’utilizzo di norme penali è il- legittimo
quando si tratti di tutelare sentimenti o rappresentazioni morali o di valore»,
v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento di
orientamenti sociali di carattere assiologico? Nella dottrina tedesca, il
richiamo a sentimenti è presente nello storico saggio di BIRNBAUM, Über das
Erfoderniß einer Rechtsverletzung zum Begriffe des Verbrechens, mit besonderer
Rücksicht auf den Begriff der Ehrenkränkung, in Archiv des Criminalrechts, Neue
Folge, Vi è poi l’analisi di MISCH, Der Strafrechtliche Schutz der Gefühle,
Frankfurt am Main. Le opere successive mantengono il focus sul problema della
configurabilità come bene giu- ridico (Rechtsgut) soffermandosi su un’analisi
che privilegia l’aspetto dogmatico piuttosto che la dimensione di politica del
diritto; cfr. VOLK, Gefühlte Rech- tsgüter?, in FS für Roxin, Berlin; SEELMAN,
Verhaltensdelikte: Kulturschutz durch Recht?, in FS für Jung, Tra
sentimenti ed eguale rispetto identifichi la propria guida assiologica nei
principi liberali ha da sempre un rapporto problematico con le norme a tutela
di sentimenti. Le motivazioni non si limitano a questioni di tassatività e
deter- minatezza delle fattispecie, ma hanno a che fare con ragioni di politi-
ca del diritto: dietro gli oggetti di tutela definiti ‘sentimenti’ i legisla-
tori hanno di fatto apprestato forme di presidio a valori, ossia a con- cezioni
della vita buona, o della morale sessuale, o in generale a con- cezioni
normativo-ideali. Le norme a tutela di sentimenti hanno dunque un altissimo
coefficiente di pregnanza etica e riflettono at- teggiamenti valoriali di fondo
la cui tutela per mezzo del diritto pena- le può rappresentare un fattore di
alterazione degli equilibri fra mag- gioranze e minoranze in un contesto
pluralista. Non deve dunque sorprendere il fatto che il problema della tu- tela
di sentimenti rappresenti un capitolo importante nel discorso sulla
legittimazione delle norme penali, per quanto spesso non venga richiamato
attraverso la formula che qui stiamo analizzan- do, ma si trovi inserito
all’interno di altri macrotemi; ad esempio nel discorso concernente i rapporti
fra diritto penale e morale 88 o Baden-Baden; più diffusamente HÖRNLE, Grob
anstößiges Verhalten. Strafrechtlicher Schutz von Moral, Gefühlen und Tabus,
Frankfurt, Nella dottrina spagnola v. ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho
penal.; GIMBERNAT ORDEIG, Presentaciòn, a cargo de Alcàcer Guirao-Lorenzo-
Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Fundamento de legitimaciòn del
Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico?, Madrid-Barcelona. Cfr. HÖRNLE,
La protecciòn de sentimientos en el StGb, a cargo de Alcàcer
Guirao-Lorenzo-Ortiz de Urbina Gimeno, La teorìa del bien jurìdico. Funda-
mento de legitimaciòn del Derecho penal o juego de abalarios dogmàtico? Cfr. TESAURO, La propaganda razzista tra tutela della
dignità umana e danno ad altri, in Riv. it. dir. proc. pen. Il richiamo a
sentimenti ed emozioni intrattiene un legame particolarmente stretto con i
problemi relativi al rapporto tra diritto penale e morale; nella pro- spettiva
liberale l’incriminazione di condotte ritenute contrarie a dettami morali o a
tabù in assenza di veri e propri danni viene motivata, in termini critici,
quale violazione di un sentire. Se da un lato le incriminazioni, o le ipotesi
di incriminazione, di violazioni morali vengono definite criticamente come
offese a sentimen- ti, non bisogna tuttavia inferire frettolosamente la
veridicità dell’eventuale per- corso logico inverso, ossia che anche tutte le
ipotesi di tutela di un particolare sentimento costituiscano delle proiezioni
del più ampio problema della punizione della mera immoralità: sarebbe infatti
una conclusione che pecca di genericità e non consentirebbe di riservare la
dovuta attenzione ai diversi problemi di tutela, anche non meramente
‘moralistici’, che potrebbero ragionevolmente emergere dietro l’evocazione di
un sentimento. Sul tema della punizione dell’immoralità, in una prospettiva che
mette in dialogo i criteri di legittimazione di matrice euro- peo-continentale
e anglo-americana, v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?
Dimensione codicistica e funzione discorsiva della formula 89 in
relazione al problema del paternalismo penale 89. Nella dottrina italiana le
perplessità di fronte a istanze di tutela caratterizzate da una componente
emozionale sono inizialmente formulate in contesti di analisi incentrati su
temi di diritto positivo o di teoria generale del reato, e mantengono un angolo
visuale definibi- le come ‘endopenalistico’, se non proprio ‘endocodicistico’.
Risulta particolarmente significativo il richiamo che viene fatto al sentimento
in un autorevole studio sul bene giuridico 90: nell’esporre Un vecchio
interrogativo che tende a riproporsi, a cura di Cadoppi, Lai- cità, valori, e
diritto penale. The Moral Limits of The Criminal Law. In ricordo di Joel
Feinberg, Milano; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali?, in Riv. it. dir.
proc. pen., CADOPPI, Paternalismo e diritto penale: cenni introduttivi, in
Criminalia; ID., Liberalismo, paternalismo e diritto penale, a cura di
Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del diritto penale; CANESTRARI-
FAENZA, Paternalismo penale e libertà individuale: incerti equilibri e nuove
prospettive nella tutela della persona, a cura di Cadoppi, Laicità, valori e
diritto penale; CORNACCHIA, Placing care. Spunti in tema di paternalismo
penale, in Criminalia; PULITANÒ, Paternalismo penale, a cura Forti-
Bertolino-Eusebi, Studi in onore di Romano; ROMANO, Danno a sé stessi,
paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen.;
SPENA, Esiste il paternalismo penale? Un contributo al dibat- tito sui principi
di criminalizzazione, in Riv. it. dir. proc. pen. Con riferimento al tema del
potenziamento cognitivo, v. ZANNOTTI, Potenziamento umano: le considerazioni di
un penalista, a cura di Palazzani, Verso la sa- lute perfetta. Enhancement tra
bioetica e biodiritto, Roma. ANGIONI F., Contenuto e funzioni del concetto di
bene giuridico, Milano. Sul tema è d’obbligo il riferimento a BRICOLA, Teoria
generale del reato, in Noviss. dig. it., Torino; v. anche MAZZACUVA, Diritto
penale e Costituzione, a cura di
Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti, Intro- duzione al sistema penale, III ed.,
Torino, 2006, pp. 83 ss. Fra le opere che hanno avuto maggiore rilievo per
l’elaborazione di un concetto di bene giuridico costitu- zionalmente orientato
v. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, cit.: anche in questo caso il
problema nasce dalla problematica fisionomia dell’oggetto di tute- la, il quale
secondo alcune correnti interpretative viene fatto coincidere con un sentimento
soggettivo. Per una panoramica sui differenti sviluppi della teoria del bene
giuridico nei rapporti con la Costituzione, v. FIANDACA, Il bene giuridico come
problema teorico e come criterio di politica criminale, a cura di
Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione, Milano; DONINI, Teoria del
reato. Un’introduzione, Padova; ID., Ragioni e limiti della fondazione del
diritto penale sulla Carta costitu- zionale, in ID., Alla ricerca di un
disegno. Scritti sulle riforme penali in Italia, Padova; per un raffronto con
la giurisprudenza costituzionale, v. PULITANÒ, Bene giuridico e giustizia
costituzionale, a cura di Stile, Bene giu- ridico e riforma della parte
speciale, Napoli.; MANES, Il principio di offensività nel diritto penale.
Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di
ragionevolezza, Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto la problematica
relativa a fattispecie penali che sembrerebbero rivol- gersi esclusivamente
alla tutela di principi etici, si osserva che «con la realizzazione di un fatto
che contrasta con quelle norme etiche si ur- ta in pari tempo, o si può urtare,
contro i sentimenti di quella parte della popolazione che in quei principi
morali crede, o che addirittura attribuisce loro tale rilievo da averne, come
forza politica o culturale organizzata, difesa la conservazione al rango di
valori penali. Offendere valori può significare offendere i sentimenti di chi
crede in quei valori: questa, in sintesi, la motivazione che, secondo Angioni,
sarebbe a fondamento di norme quali, ad esempio, quelle a tutela del pudore e
del sentimento religioso. Il riferimento a sentimenti appare in questo caso
finalizzato a in- centrare il fuoco del disvalore su un bene della persona, così
da poter rinvenire una base di legittimità ancorata a una prospettiva persona-
listica di danno, o comunque non meramente moralistica. Non si tratta però di
una soluzione appagante, in quanto, rileva successiva- mente lo stesso Autore,
resta aperto il problema della necessità e del- la meritevolezza di pena: la
considerazione che l’offesa a un senti- mento sia un criterio di per sé
sufficiente a fondare il ricorso allo strumento penale sembra cozzare contro un
naturale senso di proporzione e di misura. L’argomentazione che Angioni espone
tramite categorie endopenalistiche (principio di proporzione) rimanda in ultima
istanza a ra- gioni che hanno a che fare con valori di fondo della democrazia
libe- rale e con i principi costituzionali: ritenere che l’offesa a meri senti-
menti non sia sufficiente a fondare una criminalizzazione legittima è l’esito
di un ragionamento che assume a presupposto un pacchetto di principi di
ispirazione liberale, laicità ed uguaglianza in primis 93. Ciò mostra come il
discorso sia tutt’altro che limitabile a un piano tecnico-giuridico, ma investa
in pieno la dimensione politica del pro- blema penale, anche in forza dei
profondi nessi che legano, in termini di interdipendenza, la presenza di
oggetti di tutela ad alta pregnanza etica, come i ‘sentimenti’, in rapporto
alla laicità dell’ordinamento. ANGIONI F., Contenuto e funzioni. ANGIONI F.,
Contenuto e funzioni. È stato messo in
evidenza come, soprattutto a partire dagli anni Settanta e Ottanta, la
riflessione sul dover essere del diritto penale si sia fondata non tanto
sull’affinamento di principi ‘endopenalistici’, compreso il c.d. ‘bene
giuridico’, ma piuttosto sul principio di uguaglianza, il quale ha assunto un
ruolo decisivo nel contribuire a delineare i cardini del costituzionalismo
penale: v. DODARO, Ugua- glianza e diritto penale. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 91 Sulla base di questa consapevolezza la
dottrina penalistica si è impegnata in un’opera di reinterpretazione delle
diverse disposizioni del codice Rocco, offrendo un importante contributo al
consolida- mento di un ideale di democrazia penale laica e costituzionalmente
orientata 94. Esempi emblematici sono gli studi sui delitti di religione e sui
rea- ti a tutela del pudore, ad opera rispettivamente di Placido Siracusano e
di Giovanni Fiandaca. Con riferimento ai delitti di religione, Siracusano
sottopone a cri- tica il modello del cosiddetto ‘bene di civiltà’ e del
sentimento religio- so collettivo: «al bene giuridico sentimento religioso individuale
si addice, di regola, una protezione penale dalle caratteristiche fonda-
mentalmente “liberali”; o perlomeno dai tratti più aperti e tolleranti
possibile» 95, tale dunque da attribuirgli un respiro costituzionale che invece
non è riconducibile al paradigma del cosiddetto ‘bene di civil- tà’. L’approdo
finale è di segno abrogazionista, ossia a sostegno di un ordinamento penale che
non contempli fattispecie poste specifica- mente a presidio del sentimento
religioso. Siracusano lascia comun- que intravedere la possibilità che
attraverso un riorientamento in senso personalistico si possa realizzare una
intervento penale compa- tibile con i principi costituzionali, e precisamente
come apertura ver- so qualsiasi ideale di trascendenza, in quanto manifestazione
della coscienza ed espressione della personalità dell’individuo 96. Anche i
reati contro la cosiddetta ‘moralità pubblica’ e il comune sentimento del
pudore sono stati oggetto negli anni ’80 di un’analisi che, orientata a
spezzare i legami con l’impostazione del codice, so- stiene una riconversione
in termini personalistici dell’interesse pro- tetto: dalla moralità pubblica
alla riservatezza sessuale di quanti non intendano fruire di un certo tipo di
manifestazioni. Si deve a uno studio di Giovanni Fiandaca la critica decisiva
al moralismo conservatore che impregnava l’universo applicativo delle
fattispecie a tutela del cosiddetto ‘comune sentimento del pudore’, a sostegno
di un cambio di direzione per il rispetto di diritti di libertà 94 Come autorevolmente
osservato, «la laicità del diritto penale esprime in qualche modo addirittura
la sintesi e in un certo senso il coronamento del costi- tuzionalismo penale
essa evoca lo “spirito” più profondo del costituzionali- smo penale», V.
PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia sostanziale, SIRACUSANO, I
delitti in materia di religione. SIRACUSANO, I delitti in materia di religione.
Tra sentimenti ed eguale rispetto che trovano riconoscimento nella Carta
costituzionale, e che risulta- vano compressi dai modelli di intervento del
codice Rocco e da orien- tamenti illiberali della giurisprudenza. Presupposto
di fondo è che in una società liberale e pluralista lo Stato non debba ergersi
a tutore della virtù 97. Il legame col sentimen- to – schermo retorico che
ammanta di una patina personalistica l’impianto di tutela – viene radicalmente
confutato: «non sarebbe suf- ficiente asserire che il danno provocato dai
comportamenti contrari al buon costume consiste nell’“offesa ai sentimenti nel
passaggio dal bene moralità al bene sentimento, il mutamento della dimen- sione
qualitativa dell’oggetto della tutela è appena percepibile: quest’ul- timo
finisce infatti col trasferirsi nel riflesso psicologico di una regola etica di
condotta» 98. Sotto un profilo metodologico l’angolo visuale adottato nei sud-
detti studi appare ancora definibile come ‘endopenalistico’, se non proprio
‘endocodicistico’: in altri termini, la tematizzazione del pro- blema resta
incentrata su profili che attengono precipuamente le scelte di intervento del
codice. In questo senso, l’approccio muove dalla so- luzione normativa, e tende
a seguire un percorso d’analisi che man- tiene come referente primario gli
schemi d’intervento descritti nelle fattispecie di reato. Fulcro dell’interesse
è la risposta normativa; più circoscritto è lo spazio per l’analisi della
dimensione extragiuridica del fenomeno. In tempi più recenti, a partire dagli
anni Duemila, il tema dei sen- timenti è divenuto oggetto di un rinnovato
interesse da parte della dottrina, caratterizzato da mutamenti nell’apparato
concettuale e da una maggior propensione a estendere lo studio a profili
extragiuridi- ci. Si tratta di un ammodernamento che porta a superare lo
statico quesito sulla configurabilità o meno del sentimento come oggetto di
tutela, andando a tematizzare in termini più complessi la questione
dell’incidenza dei fattori emotivi sulle scelte di politica penale, ossia del
rilievo della componente affettiva come elemento che concorre a integrare
l’oggetto di tutela anche senza identificarsi espressamente con esso 99. In
questo senso l’orizzonte di problemi additato dalla formula ‘tu- tela di
sentimenti’ viene esteso al di là degli ambiti tradizionali, favo- rendo una
riflessione critica sulla consistenza di interessi di tutela FIANDACA,
Problematica dell’osceno. FIANDACA, Problematica dell’osceno. Si veda, ad
esempio, ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal. Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 93 che apparentemente non evidenziano una
matrice affettiva, ma che ad uno sguardo attento rivelano una forte pregnanza
emozionale. È emblematico un saggio di Giovanni Fiandaca dedicato ai rap- porti
tra bioetica e diritto penale, nel quale, definendo criticamente delle
innovazioni legislative come riflesso di un clima sociale e politi- co italiano
tendente a una rieticizzazione del diritto, l’Autore rileva che ai sentimenti e
ai fenomeni a essi correlati spetti un ruolo tut- t’altro che secondario
nell’economia del dibattito pubblico e soprat- tutto nelle scelte di politica
del diritto volte a disciplinare i cosiddetti ambiti ‘eticamente sensibili’. Il
terreno della bioetica si trova infatti a essere soggetto a contrapposizioni
fondate su «timori e reazioni emo- tive che hanno a che fare con la sfera più
irrazionale ed oscura di ciascuno, ossia reazioni di orrore, spavento,
raccapriccio, disgusto, definite dall’Autore «sentimenti e sensazioni»;
reazioni emotive che possono indurre un uso distorto della politica penale
tramite divieti assimilabili a mero palliativo psicologico per i cittadini. La
parificazione di istanze di tutela penale a meri sentimenti è una strategia di
critica argomentativa che diverrà sempre più frequente. Prendiamo ad esempio il
discorso sulla dignità umana 102. Si tratta di un valore caratterizzato da una
spiccata componente emozionale che la rende strumento retorico particolarmente
efficace, ma che la 100 FIANDACA, Considerazioni intorno a bioetica e diritto
penale, tra laicità e “post-secolarismo”, in Riv. it. dir. proc. pen. FIANDACA,
Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale, cit., p. 554. 102 Ad oggi
nel panorama penalistico lo studio più approfondito è quello di TE- SAURO,
Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 89 ss. Il tema della dignità
umana come bene penalmente tutelabile è oggetto di riflessioni critiche in
FIAN- DACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia, in AA.VV., a cura
di Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed
extrapenali; ID., Considerazioni intorno a bioetica e diritto penale; VISCONTI
C., Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione,
in Jus; più favorevole a un recupero (tramite un uso accorto e non
inflazionistico) del concetto di dignità umana, PULITANÒ, Etica e politica del
diritto penale ad 80 anni dal Codice Rocco, in Riv. it. dir. proc. pen. Nella
dottrina tedesca si veda l’importante saggio di HASSEMER, Argomentazione con
concetti fondamentali. L’esempio della dignità umana, in Ars interpretandi;
profili critici del concetto di dignità in ambito pe- nalistico sono
evidenziati anche in ZIPF, Politica criminale, tr. it., Milano. Nel panorama
statunitense, per una sintesi del dibattito v. MCCRUDDEN, Human Dignity and
Judicial Interpretation of Human Rights, in The European Journal of International
Law; per una panoramica di taglio più divul- gativo v. ROSEN, Dignità. Storia e
significato, tr. it., Torino. Tra sentimenti ed eguale rispetto espone
contemporaneamente al rischio di tramutarsi in un «bene- ricettacolo dei
sentimenti di panico morale o delle reazioni emotive sgradite da cui veniamo
sopraffatti di fronte a fatti o eventi insoliti o nuovi che contraddicono
modelli morali consolidati ovvero esulano da una radicata autocomprensione
antropologica dell’identità dell’essere umano» 103. Definire la dignità umana è
certo impresa ardua, ma è ragionevole ritenere che tale valore e il suo
universo di significato non debbano es- sere intesi come mero riflesso di
percezioni soggettive (vedi infra, cap. V). Si tratta di un rischio che trova
esemplificazione in una incrimina- zione oggi fortemente discussa, ossia il
divieto di propaganda razzista, definita «norma che si colloca a metà strada
tra ‘tutela penale dei sen- timenti’ e ‘funzione (pedagogico-)promozionale del
diritto penale. Altro interesse che rivela una problematica osmosi con la
dimen- sione affettiva è la cosiddetta ‘sicurezza’, la cui fisionomia è
alquanto nebulosa e rischia di essere intesa come «fonte di obblighi
legislativi di penalizzazione in funzione ansiolitica. Anche dietro il problema
che nel discorso penalistico è stato definito come ‘sicurezza pubblica’ si può
scorgere una matrice emotiva: la paura della criminalità, intesa come emozione
di risposta a una minaccia, reale o semplicemente percepita. Tale argomento è
oggetto di studio soprattutto in ambito criminologico107, nel quale è stato
osservato come la pervasività in ambito collettivo della paura non sia dovuta
tanto alla percezione dei singoli cittadini, ma finisca per essere esito di
un’insicurezza sovente manipolata108 attraverso stereotipi e modelli culturali
che si incardi- FIANDACA, Sul bene giuridico. TESAURO, Riflessioni in tema di
dignità umana, FIANDACA, Sul bene giuridico, cit., p. 95. 106 Benché non vada
dimenticato che dietro le istanze securitarie mobilitate dalla collettività vi
possono essere, oltre a pretese meramente emotive, anche bi- sogni reali di
tutela, v. PALIERO, Consenso sociale e diritto penale. Sul tema, in un’ottica
critica riguardante le manifestazioni del trend securitario a partire dagli
anni Duemila, v. CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Cinque riflessioni su
criminalità, società e politica, Milano; HASSEMER, Sicurezza mediante il
diritto penale, tr. it., in Critica del diritto; DONINI, Sicu- rezza e diritto
penale, in Cass. pen., 10/2008, pp. 3558 ss.; PULITANÒ, Sicurezza e di- ritto
penale, in Riv. it. dir. proc. pen.; per uno sguardo d’insie- me v. a cura di
Donini-Pavarini Sicurezza e diritto penale, Bologna. Per tutti, CORNELLI, Paura
e ordine nella modernità. DURANTE, Perché l’attuale discorso politico-pubblico
fa leva sulla paura?, FILOSOFIA POLITICA – non POLITICA FILOSOFICA, Dimensione
codicistica e funzione discorsiva della formula 95 nano nelle strutture
istituzionali o che vengono diffuse attraverso i mass media 109, in un processo
di circolarità dove l’insicurezza è al con- tempo motivo di crisi e motore di
legittimazione per le istituzioni 110. Il problema della tutela di sentimenti
ha portato la riflessione penali- stica a meditare anche sugli strumenti
concettuali per lo sviluppo del di- scorso: da un lato la teoria del ‘bene
giuridico’ di matrice continentale, dall’altra lo Harm e l’Offense Principle di
matrice anglo-americana. È emblematico in questo senso un saggio di Massimo
Donini il qua- le evidenzia come anche il ricorso alle categorie
anglo-americane sem- bri deludere aspettative di oggettività delle scelte di
criminalizzazione, in quanto tali categorie «sono spesso definite mediante un
utilizzo ambiguo della categoria dei sentimenti. Troppi sentimenti sia nell’Of-
fense (che si definisce proprio in quanto più sentimentale che dannosa, più
irritante che dolorosa) e sia anche nello Harm, che si fonda pur sempre
(specialmente in Feinberg) sul postulato che la lesione dell’in- teresse
produca un dolore, una sofferenza nel suo titolare. Sullo specifico punto
concernente la tutela di sentimenti la con- clusione dell’Autore è netta: «la
tutela specifica dei sentimenti costituisce un esempio incon- gruo di diritto
penale orientato all’irrazionalità delle funzioni il di- ritto penale non
tutela meri sentimenti anche se talora lo stesso codice penale si esprime in
questi termini, ma tutela la loro obiettivazione in situazioni sociali, in
interessi, in beni giuridici più definiti della percezione soggettiva: tanto
che essi vengono tutelati a prescin- dere dalla prova di quella percezione in
capo a un qualche individuo determinato. La ragione per la quale non è
possibile la tutela di- retta ed esclusiva come oggetto “giuridico”, dei
sentimenti, neppure ovviamente dei sentimenti “morali”, è costituita dal fatto
che essi non sono un oggetto giuridico, e non possono esserlo per carenza di
tassa- tività. È infatti necessario che il sostrato umano fondamentale in cui
si sostanziano le offese e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle
persone, si ancori a realtà socio normative più afferrabili e gestibili» 112.
Così formulata tale osservazione sembrerebbe fondarsi prevalen- CORNELLI, Paura
e ordine nella modernità. CORNELLI, Paura e ordine nella modernità. DONINI,
“Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti. DONINI, “Danno” e
“offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti.Tra sentimenti ed eguale
rispetto temente su ragioni epistemologiche: carenza di tassatività come ‘non
afferrabilità’ e dunque sostanziale ‘non verificabilità’ secondo i prin- cipi
che sovrintendono la responsabilità penale. Diverse le obiezioni avanzate in
dottrina, le quali convergono so- stanzialmente nell’osservare che il pur
ragionevole argomento della non-tassatività dei sentimenti non è decisivo, e
rischia di anticipare troppo con interrogativi sul piano della tipicità che
paiono non offri- re adeguato spazio alla problematica questione dei
bilanciamenti che dovrebbero fondare la legittimazione dei precetti. Si
rischia, insom- ma, di «chiudere la partita prima che cominci. Il monito circa
la carenza di tassatività coglie un aspetto rilevante ma che non pare
sufficiente a escludere in via di principio la legitti- mità di interventi
penali. La questione cruciale è «se e quale tutela [sentimenti ed emozioni]
possano chiedere, a fronte di comporta- menti e manifestazioni espressive del
sentimento di altri, nel contesto di una società aperta. Tirando le fila del
discorso, appare evidente come il mainstream penalistico mostri una sostanziale
diffidenza nei confronti del tessuto emotivo. Si tratta di caveat
condivisibili, ma che riteniamo non deb- bano essere letti, frettolosamente,
come avallo di posizioni ‘veterora- zionalistiche’ che ancora concepiscano in
termini dicotomici i rapporti fra emozioni, sentimenti e diritto penale, o che
intendano negare gli influssi della dimensione affettiva sull’impianto teorico
e prati- co della criminalizzazione. La plausibilità di tali cautele trova una
solida base in studi che hanno evidenziato la possibile inaffidabilità delle
emozioni a causa di contenuti cognitivi falsi, abnormi o più semplicemente
incompatibili con i valori di un ordinamento liberale. Così TESAURO,
Riflessioni in tema di dignità umana; cfr., FIANDA- CA, Sul ruolo delle
emozioni e dei sentimenti. A ben vedere, va ricono- sciuto che l’argomentazione
di Donini sembra andare oltre la questione della me- ra tassatività quando
richiede «che il sostrato umano fondamentale in cui si so- stanziano le offese
e che tocca direttamente la sfera emotiva e morale delle per- sone, si ancori a
realtà socio-normative più afferrabili e gestibili: non solo da par- te della
magistratura, ma prima ancora da parte del legislatore, onde evitare i ri- schi
immanenti di un diritto penale irrazionale». Il richiamo a realtà socio-nor-
mative, e non meramente empirico-fattuali, lascia intendere un disvalore
leggibile non solo in termini di suscettibilità individuale, ma misurabile alla
stregua di va- lori che lo facciano apparire ragionevole e non semplicemente
riflesso di un so- lipsistico puntiglio. PULITANÒ, Introduzione alla parte
speciale. La studiosa che di recente si è impegnata a rivendicare
l’‘intelligenza Dimensione codicistica e funzione discorsiva della
formula 97 Si tratta di prendere atto di una complessità di fondo, riflettendo
su quali siano i contenuti di pensiero che possono rendere l’emozione e il
sentimento interlocutori inaffidabili per il diritto penale, riser- vando però
la dovuta attenzione anche a prospettive differenti, orien- tate a vagliare
anche il potenziale di interazione virtuosa che potreb- be generarsi da un
intelligente ‘ascolto’ delle emozioni e dei senti- menti. Tale ultima istanza
trova oggi riscontro anche nel panorama pena- listico italiano, grazie a
contributi che hanno messo a tema ipoteti- che, auspicabili interazioni fra
diritto penale e dimensione affettiva quale coordinata per una più realistica e
consapevole attenzione al profilo umano delle questioni oggetto di interesse
penalistico. 3.1. Una virtuosa prospettiva di interazione: ‘sentire comune’ e
legittimazione delle norme penali Vi sono opere, di taglio differente, che
fanno espresso riferimento alla dimensione affettiva e al ruolo positivo
dell’emozione e del sen- timento quali elementi di comunanza e quali possibili
vettori di rico- noscimento reciproco fra essere umani; non si tratta si
riflessioni propriamente incentrate sul sentimento come problema di tutela, ma
di profili legati al rapporto fra emozioni, sentimenti, genesi e struttu- ra
dei precetti penali. delle emozioni’, affermandone l’imprescindibile ruolo
anche nelle strategie di politica penale, ha d’altro canto fornito una delle
più approfondite e convin- centi analisi sul potenziale anche negativo che
determinati atteggiamenti emotivi possono assumere in rapporto alla
legiferazione e all’applicazione di norme penali, v. NUSSBAUM, Nascondere
l’umanità, Merita menzione, per quanto sui generis, la posizione espressa
diversi de- cenni fa da Giuseppe Maggiore, la quale, pur derivando da un
retroterra episte- mico ed ideologico profondamente differente dalle
elaborazioni degli autori contemporanei, costituisce nel panorama penalistico
italiano una emblematica af- fermazione del ruolo positivo del sentimento. In
una serrata critica al pensiero che vorrebbe ricondurre il diritto a mero
sillogismo, a puro «congegno di giudizi logici», lo studioso siciliano
rivendica l’importanza di una ‘vocazione affettiva’, di un quid che possa
offrire un senso alla mera logica formale. Ogni mediocre interprete sa bene che
l’applicazione del diritto non si riduce a un accostamento meccanico tra la
legge e il caso concreto: ma che occorre valutare, ossia sentire giuridicamente
la fattispecie – in tutti i suoi lineamenti, in tutte le sue ombre e sfumature
– per ridurla sotto l’impero della norma un giudizio puramente e freddamente
logico può essere iniquo: nel clima della nuda logica il jus può trali- gnare
facilmente in injuria», v. MAGGIORE (si veda), Il sentimento nel diritto, in
Giornale critico della filosofia italiana. Tra sentimenti ed eguale rispetto Ad
esempio, in relazione alle condizioni di osservanza della legge penale si è
definita la forma idealtipica del diritto penale come dirit-to del comune
sentire (declinato rispettivamente in forma di principi e di regole/precetti)
che dovrebbe trovare cioè nei consociati il più alto grado di corrispondenza
ideale, di consonanza soggettiva e dunque di adesione spontanea. Muovendo da
presupposti differenti, si è invece osservato, con ri- ferimento allo specifico
ambito della regolamentazione normativa in materia bioetica, che la ricerca di
risposte normative dovrebbe assu- mere a riferimento anche l’emozione che
scaturisce nei soggetti di fronte a un fatto bioeticamente rilevante. In altri
termini, viene ipo- tizzata una relazione tra la componente emotiva che
caratterizza le scelte individuali e la possibilità che, valorizzando nelle
statuizioni normative elementi fattuali suscettibili di attivare una comune
reatti- vità emozionale, sia possibile addivenire a una maggiore condivisibi-
lità dei precetti. In risposta all’opinione di chi non ritiene che il diritto
penale pos- sa tutelare sentimenti viene obiettato che «non può escludersi che,
quanto meno in materia di bioetica, il diritto penale, se vuole trovare la sua
legittimazione, ben possa, anzi debba, tutelare, in un certo senso, i
sentimenti ed addirittura il sentimento del caso concreto, senza per ciò
trascendere in concezioni soggettivizzanti e sprovvi- ste di sostrato empirico,
ma recuperando, al contrario, insieme alla concretezza, altresì la prospettiva
di un giudizio, se non condiviso, quanto meno diffuso. Nelle linee tracciate da
tali Autori viene attribuita al sentimento la funzione di parametro per
l’‘accreditamento etico’ delle norme penali MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla
luce dei precetti: il lungo cammino del di- ritto penale incontro alla
democrazia, in MAZZUCATO-MARCHETTI, La pena in castigo. Un’analisi critica su
regole e sanzioni, Milano. GIOVINE O., Un diritto penale empatico? Si tratta di
un programma teorico che propone «una rinuncia, pur con tutte le cautele del
caso, a parte della rigidità e della predeterminazione del precetto, per
consentire a quest’ultimo di plasmarsi sul fatto concreto, di valorizzarne le
nuances» Un ango- lo visuale che assume il fenomeno del sentire in una
accezione che potremmo de- finire ‘naturalistico-emozionale’. La funzionalità
del precetto sembra infatti legar- si alla condizione che esso arrivi a
contenere elementi fattuali ad ‘alta carica emo- tiva’: «si porrebbero così le
condizioni perché giochi una empatia che, facendo un punto di forza della sua
natura prosaicamente biologica ed umana, possa svolgere la funzione di
coordinata epistemologica nei suddetti ambiti del penale», v. EAD., Un diritto
penale empatico? GIOVINE, Un diritto penale empatico? Dimensione codicistica e
funzione discorsiva della formula 99 e più in generale per la legittimazione
dell’intervento penale. Tra le due posizioni sussiste però una profonda
differenza: nella prospettiva di Claudia Mazzucato il ‘comune sentire’ pare
doversi intendere in termini normativi, ossia quale richiamo a valori condivisi
modellati su «dati umani, stabili, trasversali, da sempre validi»120; la strada
suggerita da Giovine fa riferimento a un sentire ‘natura- listico’, ossia a un
sostrato di reazioni emotive condivise che dovreb- bero costituire punto di
riferimento per le scelte del legislatore nelle materie eticamente sensibili. A
tali studi va affiancato un importante contributo dedicato al tema delle
ragioni extrapenali della legittimazione della legge penale, il quale, sulla base
di recenti acquisizioni della filosofia morale che evidenziano come le emozioni
siano fra le condizioni della nostra ri- cettività alle considerazioni
razionali e morali, afferma che ogni concretizzazione del giudizio penale,
dalla previsione edittale fino al- la applicazione della sanzione comminata, se
non vuole limitarsi a pretendere la pura «obbedienza degli uomini-bambini»,
debba espri- mere una qualche coerenza rispetto a un tale ‘comune sentire. Vediamo
come anche in questa teorizzazione le emozioni figurino in una veste emancipata
da negatività e irrazionalità, e si propongano nel ruolo di coordinata
epistemica per la ricerca di un terreno di incontro tra la forza motivazionale
del giudizio morale e le ragioni di un’osservanza dei precetti che sia
‘sentita’ e non solo imposta. Il rinnovato, e per certi versi inedito,
interesse che i fenomeni del sentire assumono oggi in diverse branche del
sapere – dalla psicolo- gia, alle neuroscienze, alla filosofia morale – sta
avendo dunque riflessi anche nel pensiero penalistico: la prospettiva di
analisi incen- trata sul sentimento come oggetto di tutela resta tema classico,
ma i suddetti ulteriori spunti rappresentano un’importante base di rifles-
sione che arricchisce, con promettenti intrecci con la dimensione morale, il
discorso sulla legittimazione delle norme penali e sull’os- servanza dei
precetti. 120 Così lo definisce MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei
precetti, FORTI, Le ragioni extrapenali, BAGNOLI, Introduction, Bagnoli,
Morality and the Emotions, FORTI, Le ragioni extrapenali, Tra sentimenti ed
eguale rispetto 4. Sinossi Addentrandoci nel microcosmo giuridico, emergono due
possibili accezioni nel significato della formula ‘tutela di sentimenti’: la
prima, descrittiva, concerne il panorama delle disposizioni in cui il senti-
mento è espressamente evocato quale oggetto di tutela; la seconda, connotativa,
coincide con l’uso che della categoria del sentimento viene fatto nel discorso
penalistico, ossia in una funzione prevalentemente critica. L’accezione
descrittiva ci conduce verso l’analisi delle fattispecie codicistiche ed
extracodicistiche: un panorama variegato che con- templa due differenti
declinazioni del sentimento. La prima, del tutto tendente alla
‘depsicologizzazione’, nella quale non entrano in gioco fenomeni psichici bensì
sentimenti-valori; la seconda, più vicina alla dimensione naturalistica del
sentire, si ricollega a fattispecie come gli ‘atti persecutori’, volte a
tutelare la tranquillità psicologica come bene strumentale rispetto alla
libertà di autodeterminazione. Relativamente all’accezione connotativa e ai
discorsi dei giuristi penali, il tema della tutela di sentimenti ha
rappresentato uno dei terreni in cui si è giocata la sfida culturale per il
superamento dei modelli illiberali di incriminazione del codice Rocco, fungendo
in questo senso da ‘trampolino teoretico’ per il consolidamento dell’in-
terpretazione costituzionalmente orientata degli interessi di tutela penale.
Attualmente i rischi di torsioni illiberali veicolate dall’appello a sentimenti
ed emozioni si legano alla incerta fisionomia di beni e in- teressi
caratterizzati da una marcata componente emozionale (digni- tà, sicurezza). A
fronte di tali istanze di tutela il mainstream penali- stico tende a mantenere
una forte diffidenza. Non vanno tuttavia trascurate anche le prospettive di
interazione virtuosa fra dimensione affettiva e diritto penale, concernenti in
par- ticolare il ruolo di sentimenti ed emozioni nelle dinamiche di adesio- ne
e di osservanza del precetto. FRA DIRITTI ED EMOZIONI: ITINERARI E
PROSPETTIVE Tra sentimenti ed eguale rispetto Sensibilità
individuali e libertà di espressione SENSIBILITÀ INDIVIDUALI E LIBERTÀ DI
ESPRESSIONE Espressioni ed emozioni: prospettive di approccio «Troppo spesso ci
capita di dover affrontare dilemmi postmoderni con un re- pertorio emozionale
adatto alle esigenze del Pleistocene» GOLEMAN D., Intelligenza emotiva: Libertà
di espressione e rispetto reciproco: l’esigenza di nuove pro- spettive di
analisi. Approccio ‘naturalistico-emozionale. La prospet- tiva dell’Offense
secondo Feinberg. Approccio razionalistico-normativo: emozioni ragionevoli e
irragionevoli secondo Nussbaum. Libertà di espressione e rispetto reciproco:
l’esigenza di nuo- ve prospettive di analisi Le disposizioni del codice
italiano nelle quali l’oggetto di tutela viene definito in termini di
sentimento, pur presentando affinità sul piano del comune rimando a interessi
legati alla sfera affettiva, pon- gono l’interprete di fronte a questioni
eterogenee. I problemi relativi al sentimento religioso, al pudore, al
sentimento nazionale, al comu- ne sentimento della morale, si collegano a un
comune substrato in quanto basati su conflittualità di tipo
espressivo-comunicativo e su forme di offesa ‘immateriali’; appare invece
differente il sentimento per gli animali, a tutela del quale vengono
incriminate aggressioni fisiche e maltrattamenti a esseri non umani. Riteniamo
preferibile accantonare per il momento il tema del sen- Tra sentimenti ed
eguale rispetto timento per gli animali e focalizzare l’attenzione sul
retroterra che accomuna i restanti ambiti. Filo conduttore è il coinvolgimento
del piano comunicativo, in un senso non limitato a espressioni verbali, ma
esteso a comportamenti in grado di veicolare significati1 e di esternare in
termini simbolici prese di posizione che vanno a interagire con aspetti
profondamente radicati, potremmo dire ‘costitutivi’, della personalità
individuale e dell’identità morale di un soggetto. Tali profili rimandano, in
ambito giuridico, al tema della libertà di espressione, ampiamente dissodato
dalla dottrina non solo penalisti- ca 2. Nell’impianto del codice Rocco, limiti
alla libertà di espressione sono posti in primo luogo a tutela di interessi
dello Stato, mentre i risvolti personalistici dei conflitti limitati al piano
comunicativo trovano formale riconoscimento esclusivamente nelle disposizioni
sull’ingiuria oggi abrogata e sulla diffamazione: le uniche collocate nel
titolo dei reati contro la persona. Al di là delle etichette legislative e
della voluntas del legislatore, dietro reati come quelli contro il senti-
Sull’equiparazione fra condotte verbali ed espressioni fondate sul valore
simbolico dei comportamenti, v. BERGER, Symbolic conduct and freedom of speech,
in Russel, Freedom, Rights and Pornography. Berger, Amsterdam. Adotta tale
impostazione nella recente letteratura sulla libertà di espressione BROWN A.,
Hate Speech Law. A Philosophical Examination, New York Nel panorama italiano si
sofferma su tale di- stinzione STRADELLA, La libertà di espressione
politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e prassi, Torino. Fra gli
scritti più significativi di taglio generale, provenienti, relativamente al
contesto italiano, dall’ambito costituzionalistico, v. ESPOSITO, La libertà di
manife- stazione del pensiero nell’ordinamento italiano, Milano; BARILE,
Libertà di mani- festazione del pensiero, Milano; GIOVINE A., I confini della
libertà di manife- stazione del pensiero. Linee di riflessione teorica e
profili di diritto comparato come premessa a uno studio sui reati d’opinione,
Milano; PALADIN, Libertà di pensiero e libertà d’informazione: le problematiche
attuali, in Quaderni costituzionali; PUGIOTTO, Le parole sono pietre? I
discorsi di odio e la libertà di espressione nel diritto costituzionale,
penalecontemporaneo.it; CARUSO, La libertà di espressione in azione. Contributo
a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna; fra i penalisti, v.
BETTIOL, Sui limiti penalistici alla libertà di manife- stazione del pensiero,
in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero, Padova.; NUVOLONE, Il problema
dei limiti della libertà di pensiero nella prospettiva logica dell’ordinamento,
in AA.VV., Legge penale e libertà di pensiero; FIORE, I reati d’opinione,
Milano; PULITANÒ, Libertà di pensiero e pensieri cattivi, in Quale giustizia?;
ALESIANI, I reati di opinione, cit.; SPENA, Libertà di espressione e reati di
opinione, in Riv. it. dir. proc. pen.; VISCON- TI C., Aspetti penalistici, cit.
Si vedano inoltre, quale contributo collettaneo più re- cente, gli Atti del IV
Convegno dell’Associazione Professori di Diritto Penale dedica- to al tema ‘La
criminalizzazione del dissenso: legittimazione e limiti’, pubblicati in Riv.
it. dir. proc. pen. Sensibilità individuali e libertà di espressione 105 mento
religioso e contro la moralità pubblica sono in gioco fenomeni relativi
all’universo interiore dell’individuo, alla sfera del sentire co- me nucleo da
proteggere in positivo e in negativo, ossia favorendone la ‘fioritura’ e la
libera espressione, e anche, eventualmente, preser- vandolo da forme di offesa.
Ci sembra che il rispetto della reciproca sensibilità in rapporto a contenuti
espressivi in grado di offenderla rappresenti il problema che con maggiore
immediatezza logico-comunicativa può identificar- si anche come ‘tutela di
sentimenti’. Le questioni che possono celarsi dietro il richiamo a stati
affettivi sono molteplici, ma i rapporti tra forme di espressione e sensibilità
soggettive sembrano costituire oggi una priorità nell’agenda penalistica. A
suggerire un attento sguardo alle ‘guerre per la libertà di espressione è
soprattutto l’importanza nello scenario socio-politico con- temporaneo, il
quale rivela un’inedita complessità derivante dalla consistenza pluralista
della società occidentale, anche di quella ita- liana. È cresciuta la diversità
sul piano quantitativo e parallelamente sono aumentate le sensibilità,
incrementando la possibilità di attriti e portando a emersione, quale riflesso
di difficoltà di integrazione in rapporto agli ingenti flussi migratori, una
conflittualità fortemente radicalizzata in senso identitario4 e minacciata dal
rischio del fon- damentalismo: «l’esperienza comune della diversità e tanto più
la comparazione cul- turale specialistica mostrano che i modi stessi della
sensazione e i ri- sultati della sensibilità sono variabili da cultura a
cultura e all’interno stesso di società complesse, fino ai modi e ai risultati
delle sensibilità individuali, così importanti nella cultura occidentale
moderna» 5. Si è detto che è difficile trovare un argomento su cui si registri
un accordo maggiore di quello relativo alla libertà di espressione, almeno
finché non ci mette mano la ricerca della saggezza»6. Nella SULLIVAN, Free
Speech Wars, in 48 SMU Law Review. Sul problema vedi MANCINA, Laicità e
politica. Prove di ragione pubblica, a cura di Risicato-La Rosa, Laicità e
multiculturalismo. Per una critica alle tendenze identitarie e al concetto di
identità, definita ‘parola avve- lenata’, v. REMOTTI, L’ossessione identitaria,
Roma-Bari. ANGIONI G., Fare, dire, sentire. L’identico e il diverso nelle
culture, Nuoro, BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore:
un’indagine su quanto le parole mettono in gioco, Milano. Tra sentimenti ed
eguale rispetto prospettiva delineata dal filosofo Ermanno Bencivenga tale
ricerca coincide con una paziente opera di analisi filosofica che allontani lo
spettro dei luoghi comuni, nella consapevolezza di non poter risolve- re i
problemi con sentenze o ricette. Per quanto il giurista senta l’onere di
fornire una prestazione in- tellettuale che in qualche modo si identifichi in
una ‘sentenza’ o in una ‘ricetta’, intese come proposte ‘risolutive’, riteniamo
che in rela- zione ai problemi in esame tale ambizione debba essere accompagna-
ta dalla consapevolezza del carattere contingente e parziale delle risposte che
potranno essere eventualmente avanzate8. Non vi sono rimedi taumaturgici e
indolori: se un atteggiamento di tipo repressi- vo potrebbe portare a
comprimere un diritto essenziale delle demo- crazie contemporanee, la
prospettiva opposta di evitare una regola- mentazione lascia aperta la
possibilità di ricadute comunque pro- blematiche. Condividiamo quanto osservato
da attenta dottrina, ossia che per rapportarsi a tali problemi occorra mettere
da parte l’ambizione di elaborare criteri di selezione del penalmente rilevante
di tipo assio- matico-deduttivo, e vada pertanto considerato se «l’approccio
tradi- zionale possa risultare decisivo nel circuito comunicativo delle de-
mocrazie contemporanee; oppure se non vada piuttosto ricalibrato, rivisto, o
quantomeno accompagnato da analisi e valutazioni che si facciano seriamente
carico della complessità culturale, sociale e poli- tica dei contesti locali e
globali in cui risultiamo oggi calati» 9. In altri termini, il tema dei
conflitti in materia di libertà di espres- sione è un significativo banco di
prova che impegna a rendersi fauto- ri di «una scienza non già
autoreferenzialmente chiusa nel giuoco elegante di una dogmatica formalistica,
bensì intenzionata a prende- re in qualche modo posizione sul merito
contenutistico delle questio- ni spinose che il tempo presente prospetta BENCIVENGA,
Prendiamola con filosofia. Parla di carattere ‘contestuale’ ROIG, Libertà di
espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili: paradigmi e nuove
frontiere, in Ars interpretandi, VISCONTI C., Aspetti penalistici. FIANDACA,
Aspetti problematici del rapporto tra diritto penale e democrazia, in Foro it. Afferma
la necessità di un’analisi calata nel contesto socio- politico BOGNETTI, La
libertà di espressione nella giurisprudenza americana. Con- tributo allo studio
dei processi dell’interpretazione giuridica, Milano; cfr. da ultimo ROIG,
Libertà di espressione, discorsi d’odio, soggetti vulnerabili. Sia consentito
il rinvio a BACCO, Dalla dignità all’eguale rispetto: Sensibilità
individuali e libertà di espressione 107 Riteniamo che occorra dunque provare a
immaginare nuovi per- corsi, mettendo in conto l’irriducibile ‘politicità’ del
tema, la quale mette a disagio il giurista che ancora oggi coltivi l’ambizione
illusoria di riuscire a concepire proposte e modelli di interpretazione
asseritamente neutrali e avalutativi. È ricorrente in sede teorica prendere le
mosse dall’interrogativo sul perché la libertà di espressione sia importante.
Il livello di reattività emozionale, e purtroppo anche di violenza fisica, che
hanno caratterizzato alcuni recenti episodi nel contesto eu- ropeo11,
suggeriscono di affrontare il tema attraverso prospettive di analisi che non si
limitino a una, pur problematica, riflessione su norme e principi. La
complessità dei problemi esige un avvicinamento anche al sub- strato umano dei
conflitti e dunque alle emozioni e ai sentimenti che si agitano sullo sfondo e
che sono di fatto i vettori di senso che concor- rono a guidare le preferenze e
le scelte degli individui, e dunque la loro posizionalità assiologica 13: un
discorso che vale non solo per i destina- tari di espressioni avvertite come
offensive, ma che è funzionale a in- quadrare e definire anche la posizione di
chi esprime un pensiero14. libertà di espressione e limiti penalistici, in
Quaderni costituzionali. Su tutti, i violenti disordini seguiti alla
pubblicazione di vignette satiriche sulla religione musulmana in Danimarca, e
il tragico attentato contro il settima- nale francese Charlie Hebdo, colpevole,
agli occhi dei fondamentalisti, di aver pubblicato vignette blasfeme
sull’Islam. Il piano prettamente giuridico, ossia il riconoscimento di libertà
nelle Carte costituzionali nazionali e in fonti sovranazionali, rappresenta una
premessa del problema; né del resto sembra essere risolutivo l’appello a
teorizzazioni classiche, come quella milliana, il cui pur apprezzabile
ottimismo di fondo dalle coloriture utilitaristiche appare oggi forse troppo
irenistico. Ci riferiamo all’obiezione di fondo con cui Mill critica la
prospettiva di limiti alla libertà di espressione, ossia che la compressione
della libertà limiterebbe la circolazione di eventuali verità che potrebbero
arricchire il patrimonio intellettuale di un popolo, v. MILL, Sulla libertà,
tr. it., a cura di Mollica, Milano. Traggo questo concetto dalla teorizzazione
fenomenologica di MONTICELLI (si veda): definito il sentimento come
disposizione del sentire che comporta un consentire più o meno profondo
all’essere di ciò che la suscita, v. MONTICELLI, L’ordine del cuore, è
importante a nostro avviso legare tale concetto al tema della posizionalità,
per evidenziare come l’atto del consentire e dell’espri- mere rappresenti una
presa di posizione nella quale la persona è coinvolta in quanto soggetto, v. DE
MONTICELLI, La novità di ognuno. Persona e libertà, Milano. Non può essere
condiviso l’assunto secondo cui la caratterizzazione di un’espressione di
critica in termini affettivo-emozionali la renderebbe per ciò solo Tra
sentimenti ed eguale rispetto Anche in tempi in cui la considerazione della
dimensione emotiva non poteva avvalersi degli studi che oggi ne affermano la
rilevanza nelle scelte decisionali, e che ne riabilitano in buona parte anche
la salienza morale, nella dottrina penalistica italiana fu osservato che «è il
senti- mento, l’atteggiamento di adesione o indifferenza per questo o quel
valore, e non la ragione raziocinante che di per sé è uno strumento “neu- tro”,
a indicare all’azione i suoi possibili scopi e modi, e in tal modo addirittura
a caratterizzare diverse forme di civiltà. L’atteggiamento dominante della
dottrina penalistica esorta con- divisibilmente alla cautela quando si tratta
di valutare input di politi- ca del diritto che rivelano una componente
emotiva. Ciò non significa cadere nell’eccesso opposto, ossia immaginare o
ipotizzare un diritto penale sordo e cieco rispetto a qualsivoglia istanza di
matrice emoti- va: un ideale ben poco plausibile, poiché la risposta
penalistica è ne- cessariamente anche una risposta a emozioni che si legano
inevita- bilmente ai fatti di vita su cui il diritto interviene, e dovrebbe in
que- sto senso cercare di acquisire una «capacità di rispettoso governo del- le
emozioni e dei sentimenti, come tale autenticamente liberale, ossia
costantemente sostenuta dalla consapevolezza di come lo stesso si- stema di
regolazione debba rassegnarsi, ma anche trarre vantaggio, da questa sorta di
“passività buona”» 16. Da ciò la rilevanza, in primo luogo per la riflessione
teorica, delle risonanze emozionali che trapelano dai conflitti
interrelazionali, fra cui anche quelli legati alla libertà di espressione.
L’obiettivo non è assecondare ciecamente le pretese di una delle incompatibile
con una vera manifestazione del pensiero; tale posizione è esplicitata in
NUVOLONE, Reati di stampa, Milano, poiché critica significa dissenso ragionato
dall’opinione o dal comportamento altrui, sarà estraneo all’at- tività critica
ogni apprezzamento negativo immotivato o motivato da una mera animosità
personale, e che trovi, pertanto, la sua base in un’avversione di caratte- re
sentimentale e non in una contrapposizione di idee». Il problema divise la dot-
trina penalistica: si vedano a sostegno di un’apertura liberale PULITANÒ,
Libertà di pensiero e pensieri cattivi; più recentemente, PELISSERO, Reato
politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli; per l’opinione
opposta v. ZUCCALÀ, Personalità dello Stato, ordine pubblico e tutela della li-
bertà di pensiero, Legge penale e libertà di pensiero, Padova. Tale distinzione
si lega alla categorizzazione fra manifestazioni del pensiero ‘pure’ e forme di
sollecitazione all’azione, utilizzata anche dalla Corte costituzio- nale ad
esempio nella sentenza n. 87/1966; per una critica vedi CARUSO, La libertà di
espressione in azione, PULITANÒ, Spunti critici in tema di vilipendio della
religione, in Riv. it. dir. proc. pen. FORTI, Le ragioni extrapenali. Sensibilità
individuali e libertà di espressione
parti, bensì riuscire ad avere una migliore visuale sulle sfumature as-
siologiche che ogni singola vicenda lascia emergere. Come osservato da
autorevole dottrina, vi è l’esigenza di «riuscire a gettare luce al di là del
magma dei sentimenti, nel tentativo di trarre da essi ragioni argomentabili
nella discussione pubblica e nel dibattito politico cri- minale. Riteniamo che
affrontare problemi concernenti la libertà di espres- sione anche attraverso
una ragionevole attenzione alla dimensione affettiva, possa arricchire i
contenuti del dibattito. In primo luogo, un attento sguardo alle dinamiche
emozionali porta a non perdere di vista la dimensione socio-antropologica dei
conflitti, a non perdersi nel ‘cielo dei concetti’ ma piuttosto a cercare di
indagare le matrici umane del dissenso, le eventuali cause e i potenziali
effetti di una conflittualità che oggi presenta tratti fortemente degenerati,
con pre- occupanti echi che attingono da un inquietante repertorio di odio e di
contrapposizioni. Sul piano della definizione dell’offesa, guardando i problemi
at- traverso la prospettiva dello scontro fra sensibilità emerge un dato di
fondo: non sono coinvolti beni primari quali la vita, l’integrità fisica o la
libertà di autodeterminazione; si attinge un livello non esiziale ma comunque
significativo, poiché dietro un’offesa a sentimenti si profi- la la possibilità
di una sofferenza – in termini di emozione negativa nel venire a contatto, o
anche semplicemente a conoscenza, di for- me di contrasto o di disapprovazione
che hanno ad oggetto idealità, visioni del mondo, valori. Con le parole si
possono toccare corde sen- sibili dell’animo, quando vengono criticati o irrisi
simboli, dogmi nei quali un individuo si riconosce, anche a prescindere dal
fatto che una data espressione sia rivolta a lui e quando colpisce in modo
indistinto una molteplicità di soggetti accomunati da una credenza. Qual è
l’elemento che può legittimare interventi normativi? È il disagio emozionale
soggettivo che scaturisce di fronte a manifesta- zioni di pensiero che
sostengono valori e visioni del mondo opposte a quella in cui ci si identifica?
O l’attenzione va posta su ragioni ulte- FIANDACA, Considerazioni intorno a
bioetica e diritto penale. Giusto il contrario, dunque, di un uso populistico e
meramente retorico dell’appello a sentimenti ed emozioni, il quale peraltro è
assai frequente nel dibattito pubblico come osserva D’AGOSTINI, Verità
avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Torino. Sul
concetto di ‘polarità’ delle emozioni, o ‘valenza’, v., ex plurimis, TERONI,
Più o meno: emozioni e valenza, a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le
ombre dell’anima, Tra sentimenti ed eguale rispetto riori che non hanno
un’univoca corrispondenza con il contenuto co- gnitivo delle reazioni emotive
suscitate? Le risposte a tali interrogativi possono condurre ad approcci pro-
fondamente diversi, sintetizzabili a nostro avviso in forme paradigmatiche: da
un lato un modello di intervento giuridico che potrem- mo definire
‘naturalistico-emozionale’, e dall’altra un modello razionalistico-normativo.
Nel primo caso il sentire individuale è preso in considerazione nella
dimensione fisico-naturalistica, come coefficiente di reattività psichica nelle
interazioni relazionali e dunque come problema di so- glie di sensibilità
soggettiva da verificarsi sul piano empirico, secondo un’impostazione che
individua il bene finale nella tranquillità emotiva della persona. L’approccio
alternativo, ossia il modello ‘razionalistico-normativo’, cerca di
identificare, attraverso le emozioni manifestate e i sen- timenti chiamati in
gioco, istanze e rivendicazioni che possano essere tradotte in concetti
razionalmente e normativamente filtrati, e valuta- te dunque in rapporto a cornici
assiologiche di riferimento 20. In altri termini, l’approccio
‘razionalistico-normativo’ si propone di inquadrare i problemi in una
prospettiva nella quale la dimensione pret- tamente emozionale costituisce
elemento da tradurre in un contesto Utilizzo il concetto di modello-paradigma
nell’accezione di SARTORI, Logica, metodo e linguaggio nelle scienze sociali. Si
tratta di modelli di approccio che evocano alla memoria del penalista soluzioni
metodologiche e interpretative elaborate in relazione all’inquadra- mento
dell’interesse protetto nella tutela penale dell’onore: le concezioni ‘fattua-
le’ e ‘normativa’. La prima configura l’onore come sentimento individuale, o,
in riferimento alle condotte di diffamazione, come elemento sociopsicologico su
base collettiva; secondo la concezione normativa, cui possono affiancarsi le
successive rielaborazioni in chiave di concezione ‘mista’, l’onore è da
intendersi come riflesso del valore dell’individuo in quanto tale, ossia come
proiezione del- la dignità umana. Nel discorso penalistico sull’onore emergono
in nuce que- stioni di fondamentale importanza: il rapporto tra dimensione
fattuale e proie- zione normativa dello stato psicologico associabile al
concetto di onore non è altro che la ricaduta settoriale di un nodo
problematico che ricorre di fronte a ogni tipo di sentimento evocato dal
diritto come oggetto di tutela. Nella dottri- na italiana, ex plurimis, MUSCO,
Bene giuridico e tutela dell’onore; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della
tutela penale dell’onore, Verso un nuovo codice penale. Itinerari, problemi,
prospettive, Milano; GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento
penale. Contributo a una riforma dei delitti contro l’onore, Roma; per
un’originale riela- borazione del tema, v. TESAURO, La diffamazione come reato
debole e incerto, Torino. Sensibilità individuali e libertà di espressione di
diritti di libertà e doveri di rispetto, con tutte le complessità che ne
discendono in termini di bilanciamento. Esporremo i tratti salienti di tali
modelli sulla base del pensiero di due autorevoli studiosi che hanno a nostro
avviso contribuito a mostrarne le coordinate fondamentali. 2. Approccio
‘naturalistico-emozionale’ Intendiamo come ‘naturalistico-emozionale’ un
modello di inter- vento che assuma a riferimento primario la dimensione
naturalistica del sentire, identificata in manifestazioni di reattività emotiva
cui il diritto attribuisca rilevanza tramite la costruzione di precetti fondati
su eventi di tipo psichico. Una simile prospettiva, nel caso sia volta a
preservare la sfera psi- cologica degli individui da turbamenti emotivi dovuti
alla semplice cognizione o al contatto ravvicinato con esternazioni di
opinioni, comunicazione di contenuti di pensiero o più in generale con atteg-
giamenti che suscitino contrasto fra sostenitori di visioni del mondo diverse,
appare un’opzione fortemente problematica, e con buona probabilità
impraticabile. Obiettare la mancanza di un’offesa significativa dal punto di
vista penalistico è però un argomento non decisivo se si apre la riflessione
alle concettualizzazioni di matrice anglo-americana dei cosiddetti Harm
Principle e Offense Principle 21: da questo punto di vista non è af- 21
Constatata la crisi del cosiddetto ‘bene giuridico’, anche nella dottrina
italiana si è fatto sempre più concreto l’interesse per le categorie dello Harm
e dell’Offense, ricostruite soprattutto sulla base del pensiero di Feinberg.
Nella letteratura italiana il pensiero di Feinberg è stato fra i temi
privilegiati di recenti studi collettanei dedicati al tema della legittimazione
del diritto penale: v. a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione del
diritto penale, cit.; a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale,
cit.; si veda lo studio monografico di FRANCOLINI, Ab- bandonare il bene
giuridico? Una prospettiva procedurale per la legittimazione del di- ritto
penale, Torino; fra gli articoli in cui si ‘dialoga’ con le categorie
feinberghiane v. CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale.; ID.,
Presentazione. Principio del danno (Harm Principle) e limiti del diritto
penale, in AA.VV., a cura di Cadoppi, Laicità, valori e diritto penale, cit.,
pp. VII ss.; FORTI, Principio del danno e legittimazione “personalistica” della
tutela penale, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini, Sulla legittimazione
del diritto penale; FIANDACA, Laicità, danno criminale e modelli di democrazia,
in AA.VV., a cura di Ri- sicato-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili
penali ed extrapenali, cit., pp. 18 ss.; ID., Diritto penale, tipi di morale e
tipi di democrazia, a cura di Fianda- Tra sentimenti ed eguale rispetto
fatto scontato che una tutela di meri sentimenti, o, più propriamente, volta a
evitare emozioni negative, sia estranea all’ambito della penaliz- zazione
legittima, ma si tratta al contrario di un problema aperto. Le categorie del
pensiero giuridico anglo-americano sono partico- larmente efficaci
nell’illustrare la stratificazione di soglie di offesa che possono
ipoteticamente essere addotte per legittimare interventi penali: il discorso è
infatti aperto non solo al danno, lo Harm, ma anche a forme di interferenza con
interessi della persona meno incisive, ossia l’Offense, traducibile come
‘molestia’ 22. In particolare, è l’Offense Prin- ciple la categoria che meglio
si presta a riassumere il tipo di offese che si legano al contatto sgradito con
determinati atteggiamenti e contenuti espressivi. ca-Francolini, Sulla
legittimazione del diritto penale, cit., pp. 153 ss. DONINI, “Danno” e “offesa”
nella c.d. tutela penale dei sentimenti, cit., ROMANO, Danno a sé stessi, pa-
ternalismo legale e limiti del diritto penale, cit.; PULITANÒ, Paternalismo
penale, cit.; ID., voce Offensività del reato (principio di), in Enciclopedia
del diritto, Annali VIII, Milano; DE MAGLIE, Punire le condotte immorali? L’approccio
feinberghiano ha suscitato interesse anche in Germania, per quanto, come
espressamente affermato da Tatiana Hörnle, fino ai primi anni Duemila non sia
stato oggetto di particolari approfondimenti, forse anche, secondo la Hörnle,
per la mancata traduzione dei testi di Feinberg in tedesco, v. HÖRNLE,
Offensive Beha- viour and German Penal Law, in 5 Buffalo Criminal Law Review,
anche per una sintetica analisi delle concettualizzazioni feinberghiane in
rapporto al diritto penale tedesco. 22 Va specificato che l’atteggiamento di
maggiore o minore apertura a principi di legittimazione diversi dallo Harm
Principle discende da pregiudiziali politico- filosofiche: ad esempio, secondo
una posizione di ‘liberalismo estremo’ solo il principio del danno (Harm)
dovrebbe costituire criterio legittimo di incrimina- zione. In questo senso la
posizione di Joel Feinberg si presenta più aperta, poiché non esclude che fra
le ‘buone ragioni’ vi possano essere criteri complementari allo Harm: è
Feinberg, sostanzialmente, che amplia il discorso al c.d. offense principle, v.
CADOPPI, Liberalismo, paternalismo; cfr. FIANDACA, Diritto pe- nale, tipi di
morale, cit., p. 156. 23 Il concetto di Harm di matrice feinberghiana non
corrisponde in toto a quel- lo che ha trovato successivamente applicazione nel
sistema statunitense: lo Harm è stato oggetto di una dilatazione che ha portato
ad allargarne lo spettro di rilevanza, e molti dei problemi collocati da
Feinberg nell’Offense sono ricollocati oggi in una versione più estesa dello
Harm; per una sintesi v. DE MAGLIE, Punire le con- dotte immorali?, cit., pp.
947 ss. Si veda anche infra, nota 65. Sull’applicazione dello Harm a problemi
concernenti la libertà di espressione v. COHEN, Psychologi- cal Harm and Free
Speech on Campus, in 54 Society. Harm e Of- fense non sono incompatibili fra
loro, ma come principi di sistema possono inte- ragire in termini di
complementarietà, ossia è possibile che alcune norme dell’or- dinamento penale
si legittimino in nome dello Harm Principle e altre in norme dell’Offense
Principle. Non va peraltro dimenticato che «I principi compendiano le ragioni
morali che possono sostenere le proibizioni penali [...] servono a circo-
Sensibilità individuali e libertà di espressione 113 Illustriamo tali
concetti attraverso un cursorio richiamo alla più importante elaborazione sul
tema, ossia lo studio di Joel Feinberg dedicato ai limiti morali del diritto
penale e in particolare al tema dell’Offense Principle. La prospettiva
dell’Offense secondo Joel Feinberg Cominciamo da un’importante distinzione:
secondo Feinberg quando si parla di tutela della tranquillità psichica volta a
evitare reazioni di disgusto, di rabbia e altre emozioni negative, bisogna di-
stinguere fra molestie in cui vi è la compresenza di soggetto attivo e vittima,
fondate su percezioni di tipo visivo, uditivo o olfattivo, e altre condotte
tali da poter suscitare sensazioni sgradite pur senza un rap- porto di diretta
percezione, ma semplicemente a seguito della presa di conoscenza. Nel primo
caso si tratta della cosiddette ‘nuisance’, ossia offese ai sensi: nelle ‘mere
offensive nuisance’ il torto (wrong) coincide ed è in- scindibile
dall’esperienza di percezione visiva, uditiva, olfattiva o tattile. Nel secondo
caso si tratta di forme di molestia, cosiddette profound offenses’, le quali
attingono una sensibilità di ordine più elevato e sono tali da indurre
sofferenza e disagio anche quando non vi sia percezione sensoriale diretta. Le
‘profound offenses’ si differenziano dalle nuisances in quanto potrebbero
continuare a provocare fastidio anche dopo l’iniziale presa di conoscenza:
esempi addotti da Feinberg sono il voyeurismo, la propaganda nazista e razzista
in generale, le offese a simboli civili e religiosi, l’oltraggio a cadaveri;
una dimen- scrivere l’ambito all’interno del quale la restrizione della libertà
dei consociati è, secondo la concezione che li sostiene, moralmente legittima:
ma non escludono le ulteriori valutazioni di utilità sociale e di effettiva
opportunità che un determina- to legislatore positivo dovrà compiere prima di
decidere se dovrà emanare o meno una norma penale», v. FRANCOLINI, Abbandonare
il bene giuridico, cit., p. 78. 24 FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to
Others, New York-Oxford, 1985. Una
versione in nuce dell’elaborazione feinberghiana sullo Harm e Offense
Principle, precedente alla tetralogia sui limiti morali del diritto penale, è
contenuta in FEINBERG, Filosofia sociale, tr. it., Milano. It is experiencing the
conduct, not merely knowing about it, that of- fends», FEINBERG, The Moral
Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others, FEINBERG, The Moral
Limits of the Criminal Law, vol. II,
Offense to Others. Tra sentimenti ed eguale rispetto sione che potremmo
definire di ‘sensibilità morale’ nella quale la le- sione si lega a qualcosa di
esterno al soggetto e viene definita ‘pro- fonda’ a causa del suo impatto su
una sensibilità non meramente ‘epidermica’, e che non dipende dall’effettivo
coinvolgimento emotivo di individui determinati. Quanto all’eventuale rilevanza
penale, per Feinberg le profund offenses che non siano contemporaneamente anche
nuisances, ossia commesse in un luogo pubblico e percepite da soggetti terzi,
non do- vrebbero rientrare nell’area di criminalizzazione legittima coperta
dall’Offense Principle. Con un’importante conseguenza: se le offese a
sensibilità di alto livello non vengono realizzate attraverso condotte in grado
di colpire anche la sensibilità di soggetti presenti, potrebbe escludersi la
loro incriminabilità secondo il criterio dell’Offense, e si dovrebbe far
ricorso a principi di legittimazione differenti, e del tutto distonici rispetto
alle prospettive liberali: il moralismo giuridico 28. In secondo luogo, anche
se si interpretasse il pensiero feinber- ghiano ammettendo che le cosiddette
‘profund offenses’ possano teo- ricamente costituire oggetto di incriminazione
in quanto riconducibi- li all’Offense Principle, resta il fatto che i criteri
di bilanciamento che Feinberg enuncia come ‘massime di mediazione’ porrebbero
un serio ostacolo all’incriminazione di offese a sensibilità di ‘alto livello’
29. Fra 27 Per una sintesi v. FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico? È
l’opinione di FRANCOLINI, Abbandonare il bene giuridico. Sui rapporti tra
Offense Principle e Harmless Wrongdoing v. FEINBERG, The Moral Limits of
Criminal Law, Harmless Wrongdoing, Oxford; ID., Filosofia sociale. Per una
sintesi v. FIANDACA, Punire la semplice immoralità?MAGLIE, Punire le condotte
immorali? FEINBERG, The
Moral Limits of the Criminal Law, vol. II, Offense to Others. Nella teorizzazione feinberghiana il provare
un’emozione negativa non è requisito che esaurisce gli elementi costituitivi
dell’offense: condotte in grado di suscitare nei terzi sensazioni sgradevoli
possono scaturire da attività che fanno parte dell’agire quotidiano di ogni
individuo, attività comprese nella normale vita di relazione, e che tuttavia
possono produrre quelli che sono dei cosiddetti ‘stati mentali sgraditi’. Per
ovviare a possibili eccessi, Feinberg rimarca l’esigenza di elaborare dei criteri
di bilanciamento che operino nel senso di restringere l’ambi- to di
criminalizzazione della molestia. Secondo le ‘massime di mediazione’ da lui
elaborate, va esaminato il limite della cosiddetta seriousness della molestia,
e del- la reasonableness della condotta attiva: in sintesi, la serietà della
molestia dipende dalla sua intensità, dalla durata; dall’estensione; dal grado
di evitabilità (la difficoltà di sottrarsi senza inconvenienti alla situazione
in cui si è assistito alla mole- stia è un parametro per la gravità della
condotta attiva); dalla massima del con- senso, per cui l’assunzione volontaria
del rischio di incorrere nelle condotte di Sensibilità individuali
e libertà di espressione i parametri di selezione vi è infatti quello della
‘ragionevolezza’ del- l’offesa, valutabile attraverso i criteri dell’importanza
che la condotta riveste per l’agente, e dell’eventuale utilità sociale della
condotta stes- sa, con la conseguenza che azioni pur offensive, ma che siano al
con- tempo forme di espressione dell’individuo, potrebbero essere consi- derate
lecite in forza del valore individualistico (importanza per l’agen- te) e
collettivistico (utilità sociale) della condotta 30. In relazione alla
suscettibilità individuale, Feinberg è categorico nel porre un’obiezione alla
tutela di soggetti caratterizzati da un’ab- norme emotività, definendoli
‘cavalli capricciosi’ (skittish horses): quan- to più un soggetto è
emotivamente suscettibile, tanto meno potrà pre- tendere che il diritto penale
assecondi le sue pretese 31. Fin qui la teorizzazione di Feinberg sembrerebbe
sostanzialmente contraria all’incriminazione di condotte che offendano valori e
sensi- bilità di ordine elevato. Se dovessimo proiettare le categorie
feinberghiane nel diritto ita- liano potremmo associare tendenzialmente la c.d.
tutela di ‘sentimen- ti-valori’ alle ‘profund offenses’, come offese ad aspetti
concernenti il piano dei valori costitutivi dell’identità morale che attingono
strati profondi e relegano in posizione marginale, anche se forse non del tutto
irrilevante, il profilo della nuisance 33. offense esclude la rilevanza penale
di queste, v. ID., The Moral Limits of the Crimi- nal Law, vol. II, Offense to Others, «no amount of offensiveness in an expressed
opinion can counterbalance the vital social value of allowing unfettered
personal expression», FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, Offense
to Others, FEINBERG, The Moral Limits of the Criminal Law, Offense to Others. Negli Stati Uniti d’America si è recentemente
sviluppato un dibattito avente ad oggetto la libertà di espressione nei campus
e nei college, in relazione alla sensibi- lità degli studenti e alla
possibilità che un’assoluta deregolamentazione della li- bertà di manifestare
il proprio pensiero si riveli loro pregiudizievole: il tema è no- to come
‘Snowflakes’ (letteralmente ‘fiocchi di neve’, appellativo per gli studenti
sensibili). L’orientamento maggioritario tende a ritenere illegittime eventuali
re- strizioni alla libertà di espressione nei campus, adducendo il fatto che il
plurali- smo delle idee, e il confronto anche aspro, è ciò che deve contribuire
a formare e rafforzare la personalità degli studenti; per una sintesi di tale
posizione v. COHEN, Psychological Harm and Free Speech. Cfr. SPENA, Libertà di
espressione e reati di opinione., il quale richiama le sensibilità di alto
livello quale chiave di lettura dei c.d. reati d’opinione. Il profilo del
turbamento da contatto visivo o comunque fisico assume una rilevanza,
quantomeno sul piano della costruzione del tipo di reato, nel caso degli atti
osceni; per quanto non si richieda la verifica di un disagio concretamente
esperito da qualcuno, la fisionomia del fatto tipico resta basata su
un’esperienza Tra sentimenti ed eguale rispetto Inferire dalle teorie
feinberghiane l’illegittimità tout court di in- criminazioni come ad esempio la
propaganda razzista sarebbe però affrettato: va infatti rimarcato che Feinberg
introduce una deroga espressa (ad hoc amendment) alla sua costruzione teorica
al fine di dare un fondamento di legittimazione alla criminalizzazione di con-
dotte di insulto rivolte a minoranze etniche, razziali, e religiose. Se infatti
in linea di principio egli afferma che fra le massime di media- zione vada
contemplato anche il cosiddetto ‘standard di universalità’, ossia la verifica
che il comportamento offensivo sia ritenuto tale da una considerevole
maggioranza di persone prese a campione dall’in- tera popolazione34, e dunque
che l’offensività non debba essere dedotta dal capriccio di pochi, nondimeno
egli ritiene che vada fatta una deroga nel caso di offese indirizzate a certe
minoranze, cui la mag- gioranza potrebbe restare indifferente ma che, agli
occhi di Feinberg, dovrebbero meritare una rilevanza normativa. Se da un lato
tale eccezione sembra introdurre una falla nella complessiva coerenza
dell’impianto teorico feinberghiano, dall’altro lato la deroga evidenzia come
anche all’interno di posizioni fortemente li- berali sia avvertita l’esigenza
di lasciare aperta la possibilità di limiti a determinate forme e contenuti
espressivi: la motivazione non risiede nell’eventuale turbamento emotivo
(diversamente ricadrebbe nel di- scorso delle nuisance), ma le ragioni sono più
plausibilmente da ricer- carsi sul piano dei principi normativi e, in
particolare, in relazione alle modalità tramite le quali una democrazia
liberale dovrebbe tutelare le minoranze in una cornice di uguaglianza
sostanziale. Appare evidente che la partita decisiva si gioca su valori; sia il
principio dello Harm, sia il principio dell’Offense, non possono fare
affidamento una base oggettiva e neutrale al punto da poter prescin- dere da
una preliminare scelta assiologica su quali siano gli interessi la cui lesione
deve essere considerata rilevante 36 e soprattutto su co- visiva, e che dunque
richiede un contatto fra soggetti e non può limitarsi alla semplice presa di
conoscenza. FEINBERG, The
Moral Limits of the Criminal Law, Offense to Others. Per un’attenta critica v. MANIACI, Come interpretare
il principio del danno, Ragion pratica. FORTI, Per una discussione sui limiti
morali del diritto penale, tra visioni “liberali” e paternalismi giuridici, in
AA.VV., a cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Marinucci; sulla
componente valoriale del concetto di danno cfr. FIANDACA, Punire la semplice
immoralità? Un vecchio interrogativo che tende a ri- proporsi, in AA.VV., a
cura di Cadoppi, Laicità, valori, diritto penale. Sensibilità individuali e libertà
di espressione 117 me debbano essere bilanciate le opposte pretese.
Nell’impostazione feinberghiana, comunque incentrata su aspetti di sensibilità
soggetti- va, tale ruolo è svolto, come detto, dalle c.d. ‘massime di
mediazione’; va però osservato che dopo Feinberg l’evoluzione dell’Offense
Principle sarà caratterizzato da un processo di depsicologizzazione, il quale
conduce a definizioni normativamente più pregnanti, per quanto ancor
problematiche, come ad esempio quella proposta da Hirsch. Tirando le fila del
discorso, un approccio puramente naturalisti- co-emozionale al problema della
tutela di sentimenti appare difficilmente praticabile poiché finirebbe per
incrementare la conflittualità. Secondariamente, anche le declinazioni a nostro
avviso più vicine all’approccio naturalistico rivelano l’ineludibilità di un
filtro norma- tivo delle pretese, volto a distinguere fra atteggiamenti
ragionevoli e irragionevoli secondo una prospettiva di tollerabilità sociale.
Il passaggio al piano di una considerazione delle emozioni e dei sentimenti da
un punto di vista normativo è dunque inevitabile, così come è ine- vitabile far
confluire le diverse istanze in una prospettiva di bilan- ciamento. Tale
esigenza viene approfondita in particolar modo da Nussbaum, e proprio a partire
dalle sue elaborazioni cercheremo di illustrare le coordinate di un approccio
alternativo. HIRSCH, The
Offence Principle in Criminal Law: Affront to Sensibility or Wrongdoing?, in 11
King’s Law Journal. Il correttivo
adottato da Hirsch – il quale ritiene che, inteso come ‘affront to
sensibility’, l’Offense Principle sia troppo espansivo – consiste nel valutare
la condotta ritenuta offensiva sia secondo parametri di adeguatezza sociale,
sia soprattutto includendo nel giudizio il principio morale del reciproco
rispetto: «All three reasons invoke convention to give social meaning to the
conduct, but entail a further reason of a moral kind, concerned with treating
others with proper respect»; v anche ID., I concetti di “danno” e “molestia”
come criteri politico-criminali nell’ambito della dottrina pena- listica
angloamericana, in AA.VV., a cura di Fiandaca-Francolini. Nel complesso,
l’Offense feinberghiana è stata sottoposta a un graduale processo di
depsicologizzazione che ne ha ridotto in buona parte il divario con lo Harm;
osserva icasticamente HÖRNLE, Offensive Behaviour and German Penal Law, che «If
one does not view offense to others as a psychological phenomenon, as does
Feinberg, but as a normative concept, the conceptual difference between harm
and offense disappears. Tra sentimenti ed eguale rispetto 3. Approccio
‘razionalistico-normativo’: emozioni ragionevoli e irragionevoli secondo Martha
Nussbaum Definiamo ‘razionalistico-normativo’ un approccio teorico che su-
bordini la rilevanza giuridica di atteggiamenti emotivi e di fatti di
sentimento alla valutazione dei relativi contenuti cognitivi, e in parti-
colare alla verifica dell’adeguatezza del giudizio di valore alla base
dell’atteggiamento emozionale, intesa come consonanza o compatibi- lità
rispetto a principi base della convivenza. Martha Nussbaum assume come
presupposto l’innegabile rilevan- za del fattore emozionale nel diritto e nelle
questioni di etica pubbli- ca, sostenendo la necessità di un ‘buon uso’ delle
emozioni, non di un avallo acritico, alla luce di ragioni che si intrecciano
con profili di psicologia sociale e con valori di fondo connessi ai sistemi
politici e ai modelli di democrazia. Per ora ci limitiamo a sintetizzare il
cuore della prospettiva politi- co-normativa della Nussbaum, al fine di
evidenziare come, rispetto alla teorizzazione di Feinberg, la componente
sensoriale-emotiva ri- sulti decisamente in secondo piano. L’obiettivo che
emerge dalle ope- re della Nussbaum è l’educazione dei legislatori e dei
giudici a un ascolto critico e consapevole delle emozioni individuali e
collettive, finalizzato a gettare luce sul riconoscimento di diritti e a non
asse- condare atteggiamenti fondati su generalizzazioni e stereotipi di- scriminatori
che collidono con i valori di una democrazia liberale. Secondo la Nussbaum,
l’emozione ha un ruolo rilevante nella for- mazione delle opinioni e dei
giudizi dell’individuo, non è un moto cieco e irriflesso ma implica credenze
che possono essere più o meno attendibili o ragionevoli. È fondamentale inter-
rogarsi sui contenuti di pensiero alla base delle emozioni per poter maturare
un atteggiamento selettivo sul piano giuridico: «[i] giudizi sulle credenze
valutative sono essenziali per il ruolo giocato dalle emozioni nel diritto»38.
Conseguentemente, l’etica pubblica non do- vrebbe essere fondata su una matrice
puramente emotiva: risulta es- senziale un filtro normativo, ossia un passaggio
di confronto fra l’emozione in senso psicologico, i fondamenti cognitivi e
un’assiologia [H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE] di riferimento. È
emblematico il caso di un’emozione particolarmente radicata nelle società umane
come il disgusto, il quale nella sua dimensione primaria ha la funzione di
proteggere l’essere umano da fattori con- 38 NUSSBAUM, Nascondere
l’umanità, cit., p. 53. Sensibilità individuali e libertà di espressione
119 taminanti, rappresentando un fondamentale strumento di sopravvi- venza in
rapporto a un’importante sfida adattiva 39: quella di evitare il contatto con
sostanze pericolose o nocive per la salute, stando ad esempio lontano da corpi
in decomposizione, non abbeverandosi o nutrendosi da fonti di potenziali
malattie et similia. Il disgusto esiste per condurre l’essere umano a un
approccio se- lettivo, la cui traiettoria era, in origine, rivolta a oggetti
cosiddetti ‘pri- mari’ (sangue, feci, sperma, urina, muco, cadaveri), e che con
l’evolu- zione dei contesti culturali e delle norme sociali ha subìto un
riadat- tamento in termini di proiezione40. Si parla di disgusto ‘proiettivo’
per indicare il caso in cui tale emozione si rivolga a individui o a gruppi di
individui in virtù di un’associazione immaginativa deter- minata da norme
sociali o dallo stretto contatto del gruppo con og- getti ‘primari’ del
disgusto 41. In questo modo esso rischia di farsi por- tatore di una carica
discriminatoria poiché si lega a idee di contami- nazione e a un rifiuto
dell’animalità (e dunque della limitatezza e del- la mortalità) umana che
conduce all’emarginazione e alla stigmatiz- zazione di ciò che può essere
percepito come anomalo o ‘diverso’42, fino all’avversione verso soggetti
riconducibili a cosiddetti ‘gruppi impopolari’ (minoranze razziali, ebrei,
omosessuali, ecc.). Le riflessioni di Martha Nussbaum rappresentano
un’importante coordinata riguardo al problema della tutela di sentimenti, per
quan- to vadano fatte alcune precisazioni: l’oggetto principale delle analisi
della studiosa sono gli atteggiamenti emozionali collettivi e i loro riflessi
sul piano delle scelte di politica del diritto e, in particolare, di politica
penale. In che termini tali indicazioni possono essere utiliz- 39 HAIDT, Menti
tribali.Come osservano gli antropologi Sperber e Hirschfeld, citati da Haidt,
bisogna distinguere tra fattori di attivazione originari, ossia gli oggetti per
i quali la funzione adattiva è stata progettata dall’evoluzione, e fattori
scatenanti che possono accidentalmente attivare quella reazione, anche in
assenza di pericoli reali, in forza di percezioni erronee dovute a distorsioni
sensoriali o a condizionamenti socio-culturali. Osserva Haidt che le variazioni
cultu- rali della morale si possono in parte spiegare con il fatto che le
culture sono in grado di ridurre o moltiplicare il numero di fattori scatenanti
attuali di un qual- siasi modulo», v. HAIDT, Menti tribali. NUSSBAUM, Disgusto
e umanità. NUSSBAUM, Nascondere l’umanità. Per una diversa opinione, volta a
sottolineare aspetti in relazione ai quali l’emozione del disgusto può risul-
tare importante nel giudizio morale e, secondo gli esempi riportati
dall’Autore, anche nelle dinamiche del giudizio penale, v. KAHAN, The Progressive
Appropria- tion of Disgust, in AA.VV., ed. by Bandes, The Passions of Law. Tra
sentimenti ed eguale rispetto zate relativamente ai problemi concernenti la
libertà di espressione e il rispetto dei sentimenti altrui? Il suggerimento
traibile dalle riflessioni della Nussbaum concerne l’esigenza di verificare in
quale misura eventuali richieste di tutela per un dato sentimento trovino la
propria matrice in atteggiamenti che, ad un’attenta valutazione sul piano
cognitivo-razionale, rivelano una tendenza al rifiuto dell’altro, e dunque una
portata sostanzial- mente discriminatoria. Ci sembra un avvertimento quantomeno
opportuno e ben spendi- bile in rapporto alle odierne politiche penali, in cui
l’ascolto di emo- zioni collettive si è talvolta rivelato strumentale
all’emanazione di provvedimenti volti a raccogliere consenso43, senza valutare,
o me- glio omettendo talvolta volutamente di considerare, se e in che misu- ra
certe emozioni siano il riflesso di atteggiamenti che una democra- zia basata
su libertà e uguaglianza non dovrebbe assecondare. Il punto nodale per
addivenire a un modello di intervento orientato in termini non puramente
emozionali è la previa ‘interpretazione’ delle dimensioni di significato di
determinante emozioni e sentimen- ti, da considerarsi dunque non nella loro
‘bruta’ naturalità, bensì soppesandone la rilevanza soggettiva e sociale, e
bilanciandola con un sistema di diritti di libertà il quale è a sua volta il
precipitato di scelte di valore. La questione dell’orizzonte assiologico cui
fare riferimento è cen- trale sia per inquadrare la fisionomia del modello
normativo sia per il successivo sviluppo del discorso concernente gli equilibri
relativi ai rapporti fra sensibilità soggettive e libertà di espressione.
43 Il problema rimanda al tema del cosiddetto ‘populismo penale’: per una pa-
noramica v. PULITANÒ, Populismi e penale. Sull’attuale situazione spirituale
della giustizia penale, in Criminalia, 2013, pp. 125 ss.; FIANDACA, Populismo
politico e populismo giudiziario, in Criminalia. Sensibilità individuali e
libertà di espressione SEZIONE II Coordinate assiologiche «Quando sento parlare
di idee liberali mi meraviglio sempre di come gli uo- mini giochino volentieri
con parole vuote: un’idea non può essere liberale! Deve essere vigorosa,
efficace, in sé compiuta, in modo da adempiere alla sua divina missione di
riuscire feconda. Ancor meno può essere liberale il concetto; infatti ha un
compito completamente diverso» GOETHE Massime e riflessioni. Non possiamo mai
né atteggiarci a difensori radicali del multiculturalismo o
dell’individualismo, né essere semplicemente comunitaristi o liberali,
modernisti o postmodernisti; dobbiamo essere, al contrario, ora una cosa ora
l’altra, a secon- da delle circostanze legate alla ricerca dell’equilibrio WALZER
Sulla tolleranza. E NON ABBIAMO CIASCUNO LO STESSO SENTIMENTO? PIRANDELLO (si
veda), Il fu Mattia Pascal SOMMARIO: 4. Orizzonte costituzionale e spazio della
politica. Dialettica fra prospettive individualiste e collettiviste. Dai valori
collettivi all’individualismo democratico. Sentimenti ed emozioni come richiamo
metonimico’e personologico. Orizzonte costituzionale e spazio della politica Il
modello ‘razionalistico-normativo’ appare quello più funzionale allo sviluppo
delle nostre riflessioni, e pone in primo piano la que- stione di quali debbano
essere gli assunti valoriali e i principi-guida in rapporto ai quali valutare
se determinati ‘sentimenti-valori’ possa- no ragionevolmente accreditarsi come
meritevoli di una qualche pro- tezione. Tale problema si articola in diversi
piani di analisi: a un primo li- Tra sentimenti ed eguale rispetto vello
l’inquadramento di una cornice assiologica è funzionale all’in- terpretazione
delle fattispecie vigenti, e trova nella Carta costituzio- nale il referente
primario. Come abbiamo avuto modo di osservare, l’impronta ideologica che
connota la fisionomia dei reati a tutela di ‘sentimenti’ presenti nel codice
penale mostra una distonia rispetto ai principi della Costi- tuzione italiana:
nei casi più evidenti ciò ha condotto alla caduta di importanti disposizioni
(si pensi all’art. 402 c.p.44), mentre in altri ambiti vi è stata una radicale
reimpostazione, a livello giurispruden- ziale, della prospettiva di tutela (si
pensi ai reati a tutela della pubbli- ca moralità e del buon costume 45). Negli
esempi menzionati si è trattato di eliminare contrasti la cui evidenza ha reso
sostanzialmente agevole all’interprete capire quale potesse essere la strada
‘giusta’, o, più cautamente, la soluzione meno in contrasto con la Carta
fondamentale, facendo leva in particolare sul connubio fra uguaglianza e
laicità: l’uguaglianza ha costituito il parametro costituzionale
fondamentale46, mentre attraverso il prin- cipio supremo di laicità 47 la Corte
ha delineato la cornice assiologica di base, riconoscendo espressamente il
pluralismo come un valore, non solo come un dato di fatto. V. supra per i
riferimenti alla giurisprudenza di legittimità e costituzionale. 46 Si basa sul
principio di uguaglianza il nucleo motivazionale della sentenza C. cost., n.
508/2000; per una contestualizzazione di tale pronuncia nel quadro della
giurisprudenza costituzionale in materia di uguaglianza, v. DODARO, Uguaglianza
e diritto penale. Relativamente al tema del buon costume, la giurisprudenza
costituzionale non è mai arrivata a pronunce di illegittimità, ma solo perché
«il principio di conservazione dei valori giuridici – tanto più in casi in cui
la dichiarazione d’illegittimità costituzionale comporterebbe, quanto- meno per
qualche tempo, l’impunità anche di comportamenti che il legislatore considera
inequivocabilmente come illeciti penali – impone il mantenimento in vita di una
norma di legge quando a questa possa essere riconosciuto almeno un significato
conforme a Costituzione»: con queste parole la Corte, con la sentenza, ha
salvato la norma che incrimina le pubblicazioni oscene rimar- cando la
necessità di un’interpretazione adeguatrice coerente con gli artt. 21, 27, 2,
3, 13 e 25 Cost. Sulla laicità come principio supremo, o più precisamente come
‘meta- principio’, v., nel contesto penalistico, PALIERO, La laicità penale
alla sfida del ‘se- colo delle paure’, in Riv. it. dir. proc. pen. Questo il
messaggio fondamentale che ci sembra leggibile nel richiamo al principio di
laicità che «[caratterizza] in senso pluralistico la forma del nostro Stato,
entro il quale hanno da convivere, in uguaglianza di libertà, fedi, culture
e Sensibilità individuali e libertà di espressione Vi è poi un
secondo livello in cui l’individuazione di coordinate assiologiche ‘vincolanti’
a livello costituzionale diviene più sfumato, e meno univoco: il problema
emerge sia in relazione al quadro di in- criminazioni oggi vigenti in cui
vengono in gioco bilanciamenti con la libertà di espressione – non solo l’ambito
del sentimento religioso ma anche le discusse norme sulla propaganda razzista –
e si proietta, con ulteriore complessità, nella riflessione de jure condendo.
Il sospetto di una illegittima compressione di spazi di libertà sem- bra
richiedere un onere argomentativo più gravoso poiché, pur te- nendo sempre ben
presente la bussola assiologica della Costituzione, il giurista penale si trova
a doverne constatare la limitata precettività, ossia la compatibilità con un
ventaglio di prospettive di segno diverso le quali potrebbero risultare tutte
‘non illegittime’ 49. Proprio quando si fanno più stringenti le esigenze di
individuare soluzioni che ambiscano a una legittimazione costituzionale
‘forte’, e specialmente quando le materie da regolare chiedano al diritto prese
di posizione che implicano l’assunzione di un punto di vista ideologi- camente
pregnante, la speranza di trovare nel testo costituzionale tradizioni diverse»,
testualmente contenuto nella sentenza (ma si veda anche l’inciso finale della
sentenza sulla parziale illegittimità costituzionale dell’incriminazione della
bestemmia). Per la distinzione tra pluralismo come fatto e come atteggiamento
v. MARCONI, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino.; BARBERIS, Etica
per giuristi, Bari.Per una sintesi della portata assiologica e costituzionale
del principio di laicità v., ex plurimis, BARBERA, Il cammino della laicità, a
cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale,
Bologna; nell’ambito penalistico, con diversità di accenti, v. FIANDACA,
Laicità del diritto penale; PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., pp. 283
ss.; PALAZZO, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale; CANESTRARI,
Laicità e diritto penale nelle democrazie costituzionali, in AA.VV., a cura di
Dolcini- Paliero, Studi in onore di Marinucci; EUSEBI, Laicità e dignità umana
nel diritto penale (pena, elementi del reato, biogiuridica), in AA.VV., a cura
di Bertolino-Forti, Scritti per Federico Stella, Napoli; FORTI, Alla ricerca di
un luogo per la laicità: il “potenziale di verità” nelle democrazie libera- li,
in AA.VV., a cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto
penale; ROMANO, Principio di laicità dello Stato, religioni, norme pe- nali, a
cura di Canestrari-Stortoni, Valori e secolarizzazione nel diritto penale. Sul
tema della laicità del diritto penale e delle connessioni con l’etica
cattolica, v., per tutti, STELLA, Laicità dello Stato: fede e diritto penale,
in AA.VV., a cura di Marinucci-Dolcini, Diritto penale in trasformazione. FIANDACA,
Legalità penale e democrazia, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero
giuridico moderno. FIANDACA, I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e
ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen. Tra sentimenti ed eguale rispetto
una risposta definitiva deve fare i conti con una vocazione pluralisti- ca
della Carta 51, la quale non addita soluzioni univoche ma è «suscet- tibile di
subire più interpretazioni e più modalità di attuazione, entro uno spazio di
discrezionalità politico-valutativa all’interno del quale nessuna
interpretazione o modalità di attuazione può vantare titoli per imporsi come
l’unica corretta o, al contrario, essere censurata perché scorretta» 52. Va
dunque ridimensionata l’ambizione di usare il testo costituzio- nale come
strumento di precisione chirurgica’ per tratteggiare diret- tive univoche che
consentano al giurista positivo di accreditare da un punto di vista
intraordinamentale risposte concernenti conflitti fra libertà di espressione e
sensibilità soggettive. Alla luce di tale panorama si è esortato a fare un uso
‘avveduto e parsimonioso della Costituzione. A nostro avviso, tale uso prudente
potrebbe essere accompagnato, financo ‘compensato’, da una rifles- sione che
esplori un ulteriore livello di normatività, trascendente sia il contesto
codicistico sia l’orizzonte costituzionale, nella consape- Sul pluralismo della
Carta costituzionale italiana, in termini problematizzanti, v. ANGIOLINI, Il
«pluralismo» nella Costituzione e la Costituzione per il «pluralismo», a cura
di Bin-Pinelli, I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza costituzionale,
Torino. Fra i penalisti, con particolare riferimento al carat- tere non
esaustivo dei principi costituzionali per la scelta degli oggetti di tutela, v.
PALAZZO, Principi costituzionali, beni giuridici e scelte di criminalizzazione,
a cura di Pisani, Studi in memoria di Nuvolone; MANES, Il principio di
offensività nel diritto penale.VISCONTI C., Aspetti penalistici; cfr. DONINI,
“Danno” e “offesa” nel- la c.d. tutela penale dei sentimenti: «la fondazione
positiva di ciò che può essere reato, esige una ricostruzione più complessa,
che trova nella Costi- tuzione, per es., solo alcuni, pur rilevanti parametri
che convergono insieme nel dare al reato anche un volto positivo di matrice
costituzionalistica.Sulla teorizzazione di diversi modelli di rapporto e di
conflitto fra principi costituzionali (modello ‘minimalista’ e modello del
bilanciamento, a sua volta su- scettibile di essere declinato come modello
‘irenistico’ e modello ‘particolaristi- co’), v. CELANO, Diritti, principi e
valori nello Stato costituzionale di diritto: tre ipo- tesi di ricostruzione,
in Diritto e questioni pubbliche, Sono parole di VISCONTI C., Aspetti
penalistici. Tale istanza metodologica viene tematizzata ad esempio in
FIANDACA, I temi eticamente sensibili, quando parla di ‘coordinate teoriche e
assio- logiche’ del diritto penale contemporaneo facendo riferimento ai
concetti di pluralismo, ragione pubblica, costituzionalismo e laicità. Con
riferimento all’ambito costituzionalistico v. SILVESTRI, Dal potere ai
princìpi. Libertà ed eguaglianza nel costituzionalismo contemporaneo, Bari. Sul
ricorso ad argo- mentazioni morali sostanziali nell’applicazione di
disposizioni costituzionali, v. CELANO, Diritti, principi e valori. Sensibilità
individuali e libertà di espressione volezza che l’interpretazione delle
disposizioni costituzionali sui di- ritti non è questione di pura tecnica
giuridica: è questione politica in senso pieno» 56. Tuttavia, anche una volta
che ci si spinga al di là dello spazio normativo della Costituzione per far
riferimento all’offerta teorica proveniente dall’ambito filosofico-politico i
problemi non svaniscono. Nel discorso penalistico è d’uso il richiamo al
liberalismo quale teoria politica di riferimento, ma anche tale soluzione non è
suffi- ciente a definire prospettive univoche: si parla oggi di «pluralità di
liberalismi. Un generico richiamo al liberalismo rischia di dar luogo oggi a
una ‘comfort zone’ teoretica la quale non favorisce il confronto fatico- so, e
quasi traumatico, con teorie filosofico-politiche che esorbitano da una
prospettiva dicotomica ‘liberale-illiberale’. La diversità di vedute concerne
principalmente, ma non solo, gli equilibri di priorità fra ‘giusto’ e ‘bene’59,
riflesso dell’alternativa fra un liberalismo propriamente politico e un
liberalismo eticamente più spesso. PINTORE, I diritti della democrazia, Bari. Malgrado
l’aspetto ossimorico dell’espressione ‘diritto penale liberale’, v. FORTI, Per
una discussione sui limiti morali, MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del
liberalismo, in DWORKIN-MAFFETTONE, I fondamenti del liberalismo, Bari.
L’osservazione si riferi- sce in primo luogo alla coesistenza di correnti
diverse interne all’idea liberale, ma evidenzia come le distinzioni possano
dipendere anche dal contesto e dall’ambito disciplinare in cui viene spesa la
nozione di ‘liberalismo’: esiste, ad esempio, an- che un «liberalismo dei
giuristi più attento alle caratteristiche legali e istituzionali. È il problema
nel quale si inscrive la dialettica fra posizioni à la Rawls, so- prattutto il
Rawls dell’opera ‘Liberalismo politico’, e posizioni comunitariste. Te- sti di
riferimento sono da un lato RAWLS, Liberalismo politico, tr. it. a cura di Fer-
rara, Roma, 2008, e per le posizioni comunitariste v. per tutti SANDEL, Il
liberali- smo e i limiti della giustizia, tr. it., Milano, 1994. Per una
panoramica, v. VECA, La filosofia politica, Bari. In estrema sintesi, si
definisce come ‘liberalismo politico’ la teoria che ritie- ne che lo Stato
debba assumere a proprio fondamento una concezione morale minimale su cui sia
possibile trovare un punto di incontro e di intersezione fra le diverse teorie
morali presenti nella società plurale. In questo senso lo Stato do- vrebbe
tendere a una neutralità. Dalla parte opposta, si argomenta come la ricer- ca
di una neutralità possa portare da un lato a una eccessiva ‘asetticità
valoriale’ e finisca per riservare un’attenzione insufficiente al discorso
sulle preferenze e sul benessere degli individui, concependo un idealtipo di
essere umano eccessiva- mente ‘vuoto’ e poco realistico. Nell’ampio panorama si
vedano le declinazioni del Tra sentimenti ed eguale rispetto Nel prendere
atto di tale realtà, il giurista penale è chiamato ad adottare uno sguardo più
disincantato anche di fronte all’assioma co- stituito dal richiamo a valori
liberali. Dire oggi ‘liberalismo’ equivale ad aprire un discorso gravido di
implicazioni problematiche: l’Oc-cidente considera oggi scontato il
liberalismo, ma fra tutti i concetti etico-politici odierni, forse, non ve n’è
uno che sia più di- scusso del concetto di liberalismo» 62. Il liberalismo
rappresenta la cornice culturale, più meno consoli- data, nella quale il
pensiero giuridico occidentale, e anche il pensiero penalistico italiano,
contestualizzano le proprie riflessioni, ma «L’opzione per la democrazia
liberale lascia aperti i problemi della po- litica, anche della politica del
diritto. Non addita soluzioni obbligate di questioni eticamente sensibili, o anche
solo politicamente sensibili. Delinea, e non è poco, una cornice nella quale
chiunque può con- frontarsi con ragioni presentate nel quadro di concezioni
comprensive anche molto diverse, ma che possano avere qualcosa da dire su punti
che interessano specificamente la politica del diritto» 63. È come dire che il
rifugio sotto l’ampio ombrello della dizione ‘li- berale’ non è sufficiente a
esaurire gli oneri argomentativi con cui il giurista contemporaneo dovrebbe
sostenere una posizione di fronte a temi ad elevato tasso di pregnanza etica ed
esposti a una marcata di- screzionalità politica 64. problema elaborate da
DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza liberale, in DWOR- KIN-MAFFETTONE, I
fondamenti del liberalismo. (strategia della discontinuità e della continuità),
e da MAFFETTONE, Fondamenti filosofici del liberalismo. (liberalismo critico e
liberalismo realista). Sul tema si ve dano inoltre, ex plurimis, NUSSBAUM,
Perfectionist Liberalism and Political Libera- lism, Philosophy and Public
Affairs; KYMLICKA, Liberal Indivi- dualism and Liberal Neutrality, Ethics; per
una sintesi del dibattito a partire dalle critiche di Dworkin a Rawls v. VIOLA,
Liberalismo e liberalismi, in Per la filosofia/ Sul tema della neutralità, o
maggiore in- clusività del liberalismo politico rawlsiano, v., ex plurimis, DEL
BÒ, La neutralità politica in John Rawls, in Materiali per una storia della
cultura giuridica. In ambito penalistico, per un’approfondita rielaborazione di
tali problemi v. FORTI, Per una discussione sui limiti morali, DWORKIN, I
fondamenti dell’eguaglianza liberale, BARBERIS, Etica per giuristi, PULITANÒ,
Diritto penale, V ed., Torino. Più diffusamente, FIANDACA, I temi eticamente
sensibili; con approccio simile, sebbene con accenti differenti che lo pongono
più vicino alle posizioni rawlsiane, PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale,
in Riv. it. Sensibilità individuali e libertà di espressione A ben
vedere un mero richiamo al liberalismo assume oggi una funzione metaetica,
ossia è un presupposto per avviare un discorso su problemi pertinenti la
dimensione etica sostanziale: le questioni più spinose prendono corpo in un
contesto che dà per acquisiti diritti di libertà, ma è sui contenuti e sulle
modalità di esercizio di determi- nati diritti nei rapporti fra individui che
si annidano le complessità. Dialettica fra prospettive individualiste e
collettiviste Alla luce del quadro descritto, è comprensibile che lo studioso
di problemi penali sia chiamato in definitiva a elaborare proposte ‘poli-
tiche’ nel senso nobile del termine, ossia a disegnare prospettive di politica
del diritto e a emanciparsi da abiti mentali «che postulano una sorta di
obbligo di prestazione scientifica consistente nel conce- pire modelli
dogmatici di interpretazione del (presunto) sistema su- scettibili in quanto
tali di fissare a priori, con nettezza e definitività, quel che è o non è
legittimo trarre penalmente ai sensi della Costitu- zione» 66. L’individuazione
di traiettorie assiologiche è l’esito di scelte che riflettono inevitabilmente
le precomprensioni e la posizione valo- riale dell’interprete, in un contesto
di non-neutralità. Cercheremo a questo punto di formulare ipotesi e proposte a
par- tire da quella che ci sembra essere l’alternativa di fondo su cui si è
imperniata fino ad oggi la discussione sul sentimento come problema di tutela
nel contesto italiano, ossia se esso debba intendersi come richiamo ad
atmosfere emozionali diffuse, e che si traducono in for- me di presidio a
ideologie e concezioni valoriali proprie della mag- gioranza, oppure se nel
richiamo al sentire umano sia rintracciabile dir proc. pen., rimarca l’esigenza
di tenere ben pre- sente a livello concettuale la distinzione fra valori
politici e valori morali, pur ri- conoscendo l’impossibilità di posizioni
neutrali. Tale processo di complessificazione della prospettiva liberale si
riflette an- che su categorie del pensiero giuridico. È importante notare come
il principio del danno, lo Harm, abbia subito un graduale ampliamento dovuto
non a una rifor- mulazione della struttura del concetto, bensì legato all’accentuarsi
della proble- maticità delle premesse politico-filosofiche che ne guidano
l’applicazione: è la ‘mappa del liberalismo’ a essere cambiata, osserva
HARCOURT, The Collapse of the Harm Principle, The Journal of Criminal Law and
Criminology, passando da un orizzonte basato sull’alternativa
liberale-illiberale, a una pro- spettiva modulata su differenti modelli di
liberalismo (Harcourt parla espressa- mente di ‘liberalismo progressista’ e
‘liberalismo conservatore. VISCONTI C., Aspetti penalistici. Tra sentimenti ed
eguale rispetto una istanza normativa differente, in grado di dare risalto alla
dimen- sione del singolo e al connotato personalistico della Costituzione sen-
za necessariamente confluire in un approccio ‘naturalistico-emozio- nale’ modulato
su soggettivismi. Come osservato, nelle fattispecie dell’ordinamento italiano i
‘sen- timenti’ tutelati sono parte di una sfera emotiva sociale, ossia ‘atmo-
sfere emozionali’ legate a valori assunti in un’ottica collettiva. Il sog-
getto portatore degli interessi tutelati è un’entità plurale, una molti- tudine
impersonale caratterizzata da valori asseritamente comuni. Nell’attuale momento
storico la reificazione di entità definite come ‘valori collettivi’ non appare
più legata a una retorica statocentrica, ma si presenta piuttosto come
possibile reazione a un indebolimento del- l’omogeneità etica e culturale
indotto dal pluralismo fattuale. Il principio di massima è che il sentimento,
anche quando rileva come fatto di coscienza individuale, rileva nella misura in
cui è collegato ad un fatto non individuale, appunto a un modo di sentire
sociale, a un’atmosfera emoziona- le socialmente diffusa e divisa in più o meno
larghi ambiti da un’intera comuni- tà», v. FALZEA, I fatti di sentimento, cit.,
p. 320. Si valuti ad esempio l’interesse de- nominato ‘sentimento religioso’:
il codice Rocco si pone a tutela, nelle rubriche e nella sostanza, alla sola
‘religione di Stato’. È interessante notare come anche do- po l’entrata in
vigore della Carta costituzionale, l’oggetto di tutela viene ricostrui- to in
un’ottica prettamente collettivistica che privilegia il dato dell’adesione
quan- titativa. Pensiamo agli argomenti che la giurisprudenza costituzionale
italiana ha adoperato per motivare il differenziato regime di tutela penale del
culto cattolico, sia precedentemente sia successivamente alla modifica del
Concordato: la Corte parla di «antica ininterrotta tradizione del popolo
italiano, la quasi tota- lità del quale ad essa sempre appartiene», e ne
legittima la tutela penale in quanto «professata nello Stato italiano dalla
quasi totalità dei suoi cittadini, e come tale è meritevole di particolare
tutela penale, per la maggiore ampiezza e intensità delle reazioni sociali
naturalmente suscitate dalle offese ad essa dirette in quanto l’universalità di
tradizioni e di sentimenti cattolici nella vita del popo- lo italiano è
rimasta, senza possibilità di dubbio, immutata con l’avvento della
Costituzione», C. cost., n. 79/1958. Per una riflessione penalistica sul
pluralismo delle fedi in Italia v. VISCONTI C., La tutela penale della
religione; per una panoramica extragiuridica v. GARELLI, Il sentimento
religioso in Italia, in Il Mulino. L’impatto della pluralità nella società
contemporanea è parte di un processo «che vede la graduale erosione del
fondamento tradizionalistico e religioso dei co- stumi e delle istituzioni a
vantaggio della coscienza personale, vede crescere l’am- bito delle opzioni
soggette al libero esame e all’adesione interiore, e assottigliarsi, per così
dire, lo spessore di oggettività degli oggetti sociali. Questo processo di
“umanizzazione” – di riconduzione ai suoi soggetti ultimi, le persone umane –
della vita sociale corrisponde anche a una progressiva estensione dell’ambito
delle opzio- ni soggette alla scelta e responsabilità degli individui, e alla
giurisdizione della ra- gione», v. DE MONTICELLI, La questione morale, Milano. Sensibilità
individuali e libertà di espressione In
ambito sociologico si riassume tale fenomeno affermando che la modernità
pluralizza e deistituzionalizza69. La pluralizzazione na- sce dall’incontro di
gruppi diversi, chiamati a condividere territori e spazi comuni in situazioni
di mescolanza nelle quali diviene più dif- ficile, se non addirittura
impossibile, addivenire a un consenso cogni- tivo e normativo, ossia a una
visione del mondo omogenea e condivi- sa. L’allargamento del mercato delle idee
moltiplica la possibilità di approcci alternativi alla realtà e contribuisce in
questo senso a rende- re la costruzione della propria identità una questione di
scelte e non l’esito scontato di programmi socialmente precostituiti. A seconda
delle cadenze, l’appello a valori comuni giustificati sulla base di un sentire
condiviso può rivelare sfumature di autoritarismo etico, soprattutto quando il
‘sentire comune’ sia addotto per sottoli- neare contrapposizioni sul piano
valoriale: paradossalmente l’appello a un substrato di emozionalità condivisa
può essere adoperato al fine di marcare differenze in termini di esclusione
piuttosto che di inclu- sione. Fino a che punto ciò risulta compatibile con i
valori di una demo- crazia liberale? Anche in questo caso l’appello al
paradigma liberale non è suffi- ciente a definire risposte univoche, mantenendo
aperti spazi di di- screzionalità politica, e in particolare rimandando alla
discussione concernente l’alternativa fra un liberalismo di tipo
‘individualistico’ e un liberalismo di marca ‘comunitarista’. Le differenze fra
le due cor- renti investono diversi profili della teoria politica; in estrema
sintesi, secondo le teorie comunitariste «la comunità viene assunta ora come
nucleo centrale di un paradigma normativo, a carattere etico o politi- co, ora
come uno standard meta-etico, un parametro per la giustifi- cazione dei valori
[cf. H. P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE – AXIOLOGY]; l’approccio
individualista, più vicino al modello BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del dubbio.
Come avere convinzioni senza diven- tare fanatici, tr. it., Bologna. Di fronte
alle dinamiche di relativizzazione indotte dall’incremento di plura- lità nel
tessuto sociale gli individui tendono a erigere delle ‘difese cognitive’, ossia
ad affidarsi a esercizi mentali e strategie per mantenere alta la visione del
mondo e l’approccio alla realtà a cui si dà credito. Nelle società contemporanee
tale fe- nomeno può avere riflessi nelle determinazioni di politica del
diritto: per placare l’ansia scaturita dall’irrompere della relativizzazione si
erigono difese cognitive istituzionali, strumentalizzando il diritto quale
veicolo promotore di valori identi- tari, v. BERGER-ZIJDERVELD, Elogio del
dubbio. PARIOTTI, voce Comunitarismo, in Enciclopedia filosofica. Tra
sentimenti ed eguale rispetto liberale classico, pone al centro dell’orizzonte
etico e normativo l’in- dividuo, non la comunità. A partire da queste premesse,
si riflette anche nella prospettiva giuridica l’alternativa fra una
declinazione del problema di tutela del sentimento incentrato sul momento di
condivisione collettiva, ancor- ché parziale e non universalistica, e una
diversa prospettiva che met- ta al centro l’individuo e le sue libertà da
bilanciarsi in un’ottica di reciprocità egualitaria con i propri simili. 4.2.
Dai valori collettivi all’individualismo democratico Autorevoli esponenti del
pensiero liberale hanno criticato a fondo l’evocazione di valori collettivi [H.
P. GRICE, THE CONCEPTION OF VALUE – AXIOLOGY]: uno Stato che assegni rilevanza
72 Per un quadro ricostruttivo si vedano i saggi contenuti in AA.VV., a cura di
Ferrara, Liberalismo e comunitarismo, Roma, 2000; FERRARA, Introduzione, in
AA.VV., a cura di Ferrara, Liberalismo e comunitarismo; per una definizione d’individualismo
comprensivo e una ricostruzione critica v. LARMORE, Dare ra- gioni. Il
soggetto, l’etica, la politica, Torino, 2008, pp. 119 ss. La distinzione fra
li- beralismo di marca individualista e comunitario emerge anche nel discorso
di Joel Feinberg. L’Autore specifica che la sua aderenza all’idea liberale va
conte- stualizzata: Feinberg sembra prendere con cautela, financo negare, la
propria aderenza all’idea liberale classica secondo la quale autonomia
dell’individuo e comunità costituirebbero due antitesi; nel discorso sulla
legittimazione del diritto penale il filosofo americano dichiara di adoperare
una concezione di liberalismo ‘in a narrow sense’ che non si identifica con un
liberalismo estremo inteso quale contrapposizione a un’idea di comunità, v.
FEINBERG, Harmless Wrongdoing. Ricordiamo le parole di H. L. A. Hart [citato da
H. P. Grice]. “Sembra terribilmente facile pensare che la lealtà verso i
principi democratici esiga che si accetti ciò che possiamo chiamare populismo
morale: l’idea che la maggioranza ha un diritto morale a stabilire come tutti
devono vivere. L’errore fondamentale consiste nel non distinguere il principio
accettabile secondo il quale il potere politico è meglio affidato alla
maggioranza, dalla pretesa inaccettabile che ciò che la maggioranza fa con quel
potere, sia al di sopra di ogni critica e che non ci si possa mai opporre ad
esso. Nessuno può dirsi democratico se non accetta il primo di questi principi,
ma nessun democratico è tenuto ad accettare il secondo. v. H. L. A. HART
[citato da H. P. Grice], Diritto, morale e libertà. Si tratta della ben nota
risposta che il FILOSOFO OXONIESE da a Devlin, e al suo ‘The Enforcement of
Morals’, nel quale si riconduce la moralità all’atteggiamento etico dominante
nella popolazione: «Every moral judgement, unless it claims a divine source, is
simply a feeling that no right-minded man could behave in any other way without
admitting that he was doing wrong. It is the power of a common sense and not
the power of reason that is behind the judgements of society, v. DEVLIN, The
Enforcement of Morals, New York-Toronto. Sensibilità
individuali e libertà di espressione 131 normativa a un particolare modo di dar
valore a oggetti e idee in quanto condiviso dalla maggioranza, sta di fatto
considerando gli appartenenti alla maggioranza in una condizione privilegiata
rispetto agli altri cittadini. In altri termini, è ben possibile che il
principio di maggioranza trasmodi in un principio di tracotanza. Più
recentemente, nell’ambito della filosofia analitica, si è affer- mato che il
tema dei valori condivisi è una «questione relativa alle credenze o alle
opinioni condivise, secondo le quali una o più cose pos- siedono un certo
valore» 76. Quando si cerca di spiegare a quali condi- zioni un certo valore
possa dirsi ‘condiviso’, la motivazione più sem- plice e più immediata è la cosiddetta
‘teoria sommativa’: si ha condi- visione quando la maggior parte dei membri di
un dato contesto o di una comunità assegnano valore alla medesima cosa. La
domanda a questo punto è se una spiegazione sommativa sia sufficiente per
affermare che in una società vi è realmente condivi- sione di valori, e, di
conseguenza, per ritenere che ciascun soggetto abbia lo status, ossia la
legittimazione, per pretendere che il compor- tamento dei propri simili debba
essere rispettoso e coerente con i va- lori condivisi dalla maggioranza. Si è
osservato che «se due o più persone hanno una certa opinio- ne, esse
possiedono, evidentemente, un certo grado di identità quali- tativa. In
generale, tuttavia, tale identità fornisce agli individui umani soltanto una
forma superficiale di unità. I valori condivisi in senso sommativo uniscono
soltanto in un modo superficiale. In altri termini, un riscontro
storico-quantitativo della massiva adesione a un determinato valore in una
società non dovrebbe esse- re considerato elemento sufficiente a fondare alcun
tipo di pretesa nei confronti dei cittadini, salvo il caso di un impegno
espresso Ex plurimis, VIOLA, Il principio di maggioranza e la verità in una
democrazia, in Dialoghi. H. L. A. HART [citato da H. P. Grice], Diritto, morale
e libertà, GILBERT, Il noi collettivo. Impegno congiunto e mondo sociale, tr.
it., Milano. GILBERT, Il noi collettivo. Una critica alla concezione
‘sommativa’ della democrazia è leggibile, a no- stro avviso, anche nelle parole
di chi, nella dottrina penalistica, ha sottolineato che aderire al metodo
democratico non significa acconsentire alle idee dei più, bensì optare per una
modalità collettiva, comunitaria, consensuale di creazione delle regole –
valide poi per tutti – non fondate sul fattore-forza. La legalità democratica
richiede ben oltre complesse tecniche di calcolo, l’adesione convinta a
principi formulati in modo condiviso e perciò corresponsabilmente
vincolanti», Tra sentimenti ed eguale rispetto che le parti accettino
consapevolmente. Il sentire umano, nelle forme del sentimento e dell’emozione,
è fattore di diversità, ma è anche, di base, il correlato fenomenico di
un’uguaglianza di fondo fra individui resi al contempo uguali e diver- si dalle
disposizioni del sentire: uguali in potenza, diversi in atto. La varietà di
soglie di sensibilità, di assiologie personali e di repertori emotivi dei
singoli sono parte di una dotazione universalmente con- divisa: tutti gli
esseri umani (in assenza di condizioni patologiche) provano emozioni e
sentimenti, e sulla base di tale potenzialità co- mune prende successivamente
corpo la diversità. Per cercare di dare rilievo alla dimensione del sentire
quale con- notato a vocazione universalistica, e non semplicemente quale base
di frammentazione e di rivendica, ci sembra ragionevole prendere le distanze da
strumentalizzazioni del sentimento in chiave identitaria, per riorientare la
prospettiva a partire da diritti di libertà funzionali a consentire a ciascun
cittadino di vivere la propria ASSIOLOGIA [cf. H. P. GRICE, THE CONCEPT OF
VALUE] vocazionale. La sfida che sentimenti ed emozioni pongono oggi al diritto
pena- le si focalizza sul riconoscimento di un’eguale dignità fra persone
concretamente diverse, nella consapevolezza della varietà di preferen- v.
MAZZUCATO, Dal buio delle pene alla luce dei precetti. Anche EUSEBI, Laicità e
dignità umana nel diritto penale, sottolinea che il principio di laicità
richiede che le regole giuridiche di uno Stato non siano configurate secon- do
ciò che è comprensibile solo nell’ambito di una specifica concezione morale anche
se maggioritaria. L’elemento dirimente, e necessario, affinché si passi da una
semplice condi- visione in senso sommativo a una condivisione tale da poter
generare unità socia- le, è, secondo Margaret Gilbert, il cosiddetto ‘impegno
congiunto’: «l’impegno congiunto è l’impegno a credere come un corpo unitario
che una certa cosa C ab- bia un determinato valore V», v. GILBERT, Il noi
collettivo. Gilbert, pur non discostandosi da un piano analitico-concettuale,
non tralascia considerazioni su profili più propriamente politici:
«[e]videntemente, il fatto che si abbia lo sta- tus per fare pressione sugli
altri, se gli altri agiscono nell’inosservanza di un certo valore, non implica
né che, in fin dei conti, si debba esercitare questa pressione, né che, in
virtù di un impegno, si abbia ragione di farlo». Il caveat più significati- vo
si rivolge, non a caso, all’ipotesi di adoperare il diritto penale quale
strumento per la salvaguardia di valori collettivi. Anche in presenza di valori
che possono dirsi ‘collettivi’ in virtù di presupposti assimilabili all’idea di
‘impegno congiunto’, e non solo di una mera spiegazione sommativa, la
legittimità della pretesa di im- porre il rispetto di tali valori con strumenti
normativi dipende da considerazioni sostanziali sul merito dei valori assunti a
riferimento, sulla loro ‘correttezza’. ‘Va- lore collettivo’ non è di per sé
sinonimo di un sentire corretto. Traggo l’espressione e il concetto da DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore. Sensibilità individuali e libertà di
espressione 133 ze e dei molteplici, possibili stili e concezioni della vita
buona. In questo senso appare importante evidenziare la matrice indivi-
dualistica dei diritti di libertà: significa che prima viene l’individuo, si
badi, l’individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato
e non viceversa, che lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo
stato» 81. Col richiamo al momento individualistico non intendiamo adom- brare
la vocazione solidaristica e la proiezione relazionale dei diritti di libertà,
ben leggibile nelle trame della Carta costituzionale. Riteniamo però che il
problema della tutela di sentimenti debba essere oggetto di un deciso cambio di
prospettiva che rompa con la tradi- zione del passato, nella quale il richiamo
alla socialità era divenuto sinonimo di ‘statualità’, di dominio della collettività
sul singolo, di assorbimento dell’individuo nel gruppo. Si rende in questo
senso ne- cessario rinsaldare la connessione fra il sentimento e il principio
per- sonalistico che pone «a base di tutto il sistema di rapporti fra stato e
singoli l’esigenza di rispetto della persona, della ‘dignità’ corrispon- dente
alla qualità dell’uomo come tale, quale che sia la posizione sociale rivestita.
Rispetto alla retorica comunitarista-identitaria, un’alternativa che emerge
oggi nel pensiero politico e che a nostro avviso si candida come sintesi
ragionevole tra individualismo e ottica solidaristica, è il cosid- detto
‘individualismo democratico’ elaborato da Nadia Urbinat: una 81 BOBBIO, L’età
dei diritti, Torino. Nel panorama penalistico si sof- ferma sul fondamento
individualistico dei diritti PULITANÒ, Diritti umani e diritto penale. Il
rapporto fra liberalismo e attenzione alle differenze è teorizzato in modo
peculiare da Rosenfeld, il quale contrappone il liberalismo in senso classico,
di marca individualistica, a una posizione politica che riconosce valore alla
pluralità, da Rosenfeld definita ‘pluralism’, e che saremmo portati a tradurre
con ‘liberalismo pluralista’. La distinzione di Rosenfeld non ci sembra però
tesa a confutare la matrice individualistica dei diritti di libertà, ma a
sottoli- neare come l’attenzione alla dimensione del singolo, tipica del
liberalismo classi- co, risulti poco funzionale alla tematizzazione delle
appartenenze e dell’identità: v. ROSENFELD, Equality and the Dialectic between
Identity and Difference, in AA.VV., ed. by Payrow Shabani, Multiculturalism and
Law: A Critical Debate, Wales, Ex plurimis, RIDOLA, Diritti fondamentali.
Un’introduzione, Torino. In ambito penalistico si è sottolineato l’intreccio e
la reciproca interdipen- denza tra profilo personalistico e collettivistico di
determinati interessi di tutela, v. DE FRANCESCO, Costituzione, persona,
comunità: beni giuridici e programmi di tutela nella dinamiche della vicenda
penale, in Dir. pen. proc. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova.
Si tratta di un concetto che sottende una ben definita visione
antropologica: 134 Tra sentimenti ed eguale rispetto
reinterpretazione del concetto di individualismo classico, volta a distinguerlo
dal negativo accostamento all’idea di egoismo, di ‘anarchia soggettiva’, di
motore disgregativo a livello sociale. Il concetto di ‘individualismo
democratico’ implica rispetto reci- proco e non-omologazione; una visione che
si pone in antitesi sia con un individualismo egoistico che traduca
disinteresse per la cosa pub- blica, sia con forme di comunitarismo identitario
che comprimereb- bero l’individualità attraverso politiche di assimilazionismo
e di im- posizione di ideali della vita buona. Come osserva la Urbinati: «Il
problema sta quindi nel modo di concepire la comunità, poiché è evidente che le
comunità totalizzanti e ascrittive sono in conflitto con l’individualismo
democratico come lo sono con l’eguale diritto alla di- gnità e all’eguaglianza
della legge. Rispetto alla reificazione dei legami identitari, il richiamo alla
“divinità” di ciascun individuo e al di- ritto che ciascuno ha di contraddirsi
per restare coerente a se stesso suona come un invito tutt’altro che
anacronistico a situare la supre- mazia nella ragione e nel carattere,
rovesciando i criteri di selezione dei valori, facendo cioè della persona
stessa il fulcro senza il quale nessuna comunità potrebbe esistere» 85. In
quest’ottica, il legame fra sentimenti e individualità può acqui- stare una
valenza normativa come presupposto del riconoscimento dovuto agli uomini in
quanto agenti morali 86. Vi sono diversità fat- tuali che derivano dalla
eterogeneità nel sentire, le quali invocano un sostegno normativo come
riconoscimento di libertà e uguaglianza in la democrazia non è solo una forma
di governo ma anche e prima di tutto una ricca cultura dell’individualità.
L’individuo democratico è simile ma non identico a quello liberale ed economico
perché non pensato come un essere puramente razionale che sceglie fra opzioni
diverse in una condizione ipotetica di perfetta informazione e libertà; e
nemmeno come un individuo neutro, vuoto di specificità culturali, economiche o
di genere. È invece una persona che ha un senso morale della propria
indipendenza e dignità e agisce mossa da passioni ed emozioni al- trettanto
forti delle ragioni e degli interessi; che non è soltanto concentrata sulle
proprie realizzazioni, ma anche emotivamente disposta verso gli altri per le
ragioni più diverse, come l’empatia, la curiosità, la volontà imitativa, il
piacere di sperimentare» URBINATI, Liberi e uguali. Contro l’ideologia
individualista, Roma- Bari. URBINATI, Liberi e uguali. Sul tema è fondamentale
l’approfondita analisi di un Autore tendenzialmen- te vicino alle posizioni
comunitariste: TAYLOR, La politica del riconoscimento, in HABERMAS-TAYLOR,
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, tr. it., Milano. Sensibilità
individuali e libertà di espressione 135 dignità e diritti87. La tutela delle
libertà è la dimensione prioritaria; nondimeno, in nome di esigenze legate al
riconoscimento, e in parti- colare tese a evitare il disconoscimento, si può
porre il problema di interventi normativi al fine di salvaguardare equilibri di
rispetto È su questo crinale che si impernia la questione che definiamo ‘tu-
tela di sentimenti’ 89. 5. Sentimenti ed emozioni come richiamo ‘metonimico’ e
personologico Cercando di tirare le somme del discorso, date le suddette pre-
messe filosofico-politiche, quale può essere la sostanza normativa da
identificarsi con il ‘sentimento’? Esclusa l’ipostatizzazione di atteggiamenti
emozionali su base maggioritaria, riteniamo che una visione alternativa
dovrebbe incen- trare la prospettiva sul significato del sentimento come
marcatore dell’originalità individuale che si interlaccia con le trame
costitutive della personalità morale di un soggetto. Definiamo tale prospettiva
come ‘personologica’ per evidenziarne la peculiarità rispetto a una più
generica definizione come personalistica. Il termine personologia in uso nelle
discipline psicologiche e filosofiche, designa, nel suo significato minimale,
il discorso sulle caratteristi- che dell’individuo inteso come soggetto non
riducibile alle dimensioni mentale e corporea 90, ma come esito di
un’interazione con gli altri e con la realtà, all’interno di un percorso
biologico e biografico unico e irripe- tibile. Questa impresa conoscitiva trova
sviluppo soprattutto in seno alla Sul rapporto tra dati di natura e dimensione
dei diritti, fondamentale HER- SCH, I diritti umani da un punto di vista
filosofico, tr. it., a cura di De Vecchi, Milano. L’individuo delle democrazie
si ciba [di riconoscimento e per questa ragione ha bisogno di essere circondato
da simili, da chi è parte di una comunità di significato e di riferimento e con
cui è possibile condividere una lingua, dei se- gni convenzionali che
consentano una comunicazione immediata, delle tradizioni che facciano sentire
sicuri e protetti», v. URBINATI, Liberi e uguali. Condivisibilmente, nella
dottrina penalistica, v. PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale. Testo di
riferimento è MARGOLIS, Persons and Minds. The Prospects of Nonre- ductive
Materialism, Boston. Tra sentimenti ed eguale rispetto psicologia e alla
filosofia; non intendiamo però ricalcare le categorizzazioni elaborate in
ambito filosofico sui rapporti fra personologia e personalismo. Nel discorso
giuridico, e in particolare penalistico, si usa parlare di personalismo e di
concezioni personalistiche per indi- care prospettive teoriche che mettono al
centro dell’orizzonte assio- logico la persona umana92 e che si impegnano
conseguentemente a riconoscere in essa il punto di riferimento ultimo di norme
e di problemi di tutela. Perché allora parlare anche di ‘personologico’? Dalla
prospettiva filosofica riteniamo utile mutuare la definizione di personologia
come ‘discorso su ciò che una persona è’93, in un quadro che non si riduce alle
funzioni psichiche, concependo dunque sentimenti ed emozioni non solo come
addentellato fenomenico che rimanda a stati contingenti e a moti interiori, ma
come elementi co- stitutivi che concorrono a definire le disposizioni
individuali e la complessiva ‘fisionomia morale’ della persona. È di secondaria
importanza l’eventuale puntualizzazione se si stia in questo modo richiamando
il sentimento in senso stretto ovvero l’emozione; è invece importante
evidenziare che la rispondenza col mondo dei fenomeni affettivi deriva dalla
connessione con ciò che abbiamo definito ‘stati disposizionali’: disposizioni
del sentire, ossia coordinate costitutive della personalità morale
dell’individuo, e non semplicemente reazioni episodiche. Nella prospettiva
giuridico-penalistica, e con particolare riferi- mento ai rapporti fra libertà
di espressione e reciproco rispetto, il ri- chiamo a sentimenti ed emozioni può
ragionevolmente costituire una coordinata descrittiva dell’oggetto di tutela in
senso simbolico, trasla- to, o meglio metonimico, come elementi che rimandano
al substrato In ambito filosofico si distingue tra personologia e personalismo:
Roberta De Monticelli intende col primo termine «una teoria della realtà di ciò
che noi siamo», mentre il personalismo «è una tendenza più che una teoria» e i
per- sonalismi del secolo scorso possono definirsi come «visioni del mondo cui
“sta a cuore” una certa interpretazione della condizione umana», v. DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore, cit., p. 30. La distinzione appare più sfumata
nella definizione di MIANO, voce Personalismo, in Enciclopedia filosofica,
secondo il quale IN SENSO LATO (cf. H. P. Grie, LOOSE] è personalistica ogni
filosofia che rivendichi la di- gnità ontologica, gnoseologica, morale, sociale
della persona, contro le negazioni materialistiche o immanentistiche. In senso
rigoroso si dice filosofia personalisti- ca o personalismo la dottrina che
accentra nel concetto di persona il significato della realtà». 92 Per una
sintesi, v. CANALE, Persona, a cura di Ricciardi-Rossetti- Velluzzi, Filosofia
del diritto. Norme, concetti, argomenti, Roma. Sensibilità individuali e
libertà di espressione 137 più profondamente identificativo dell’essenza
individuale: si menzio- na la parte (il sentimento o l’emozione), per additare
il tutto (la per- sona) 94. Dire ‘tutela di sentimenti’ equivale a dire ‘tutela
della persona e della sua libertà di vivere ed essere riconosciuto come
soggetto di pari dignità nella propria personale ‘assiologia vocazionale’ 95.
Non ci si deve dunque limitare alla presa in considerazione di fe- nomeni
psichici ‘bruti’, ma si deve guardare ad essi come segno di individualità che
chiedono di essere tutelate nelle libertà e che al con- tempo non possono
ritenersi titolari di prerogative assolute: l’indi- viduo è uno, ma è al
contempo anche ciascuno96, ossia vive in un contesto di relazioni che implicano
diritti e doveri. 94 L’antropologia alla base del pensiero di Martha Nussbaum è
basata sul fatto che «le emozioni sembrano essere eudaimonistiche, ovvero
concernenti il prosperare della persona», v. NUSSBAUM, L’intelligenza delle
emozioni, Il legame tra sentire e sviluppo della persona, inteso come
realizzazione del sé, emerge anche in altri filosofi, quando si definiscono le
emozioni come ‘atti di base’ che esprimono ‘posizionalità assiologica’, ossia
il «realizzare la salienza, o valenza o valore negativo o positivo della data
cosa o situazione», v. DE MONTICELLI, La novità di ognuno, cit., pp. 195 ss.;
non dunque risposte automatiche bensì posizionali, le quali possono es- sere
più o meno appropriate, ma comunque rappresentano una parte fondamentale di ciò
che una persona è, della sua struttura morale, «che è insieme velata e svelata
dall’espressività personale: la quale indica infine lo stato in cui la persona
si trova rispetto alla fioritura nuova che solo lei poteva portare al mondo»
EAD., La novità di ognuno. In particolare attraverso il concetto di ‘posizionalità’
si osserva che la persona umana si costituisce nella propria individualità
essenziale attraverso ‘atti’: con tale termine si vuole porre una fondamentale
distinzione fra ciò che la persona ‘compie’, rispetto agli ‘eventi’ in cui un
soggetto è coinvolto; l’atto comporta sempre un presa di posizione
relativamente a un dato oggetto, e «[m]ediante le pre- se di posizione, e
dunque, mediante gli atti, noi rispondiamo alla realtà circostante. Una
risposta si distingue da una reazione precisamente in virtù della presa di
posi- zione in essa contenuta. In ogni presa di posizione, pulsa, per così
dire, l’individuo personale che mediante le sue prese di posizione
costantemente si costituisce e si definisce», v. EAD., La novità di ognuno. Si
è parlato di costituzionalizzazione della coscienza delle persone per
sottolineare la rilevanza di «tutto ciò che la persona considera in coscienza
come strettamente richiesto per la propria realizzazione, riconoscendo diritti
collegati alle richieste d’identità e di libertà di scelta», v. VIOLA,
Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale, a cura di Risicato-La Rosa,
Laicità e multiculturalismo. Vi è un termine che ci sembra possa definire la
portata accomunante e al contempo differenziante dei fenomeni affettivi:
ciascunità. Lo prendiamo in prestito dal lessico psicanalitico, in particolare
da HILLMAN, Il codice dell’anima, tr. it., Milano. In questo caso ci atteniamo
però a un senso più let- terale-etimologico che all’accezione specifica
elaborata dallo psicologo statuni- tense: ‘ciascuno’ è pronome che indica la
totalità in modo non indistinto e sper- sonalizzante, bensì richiamando
l’attenzione sui singoli. Tra sentimenti ed eguale rispetto In assenza di
tale filtro normativo fondato sul valore dell’ugua- glianza, il richiamo a
sentimenti ed emozioni può rappresentare una china scivolosa, poiché il
debordare del discorso sul piano emozionale rischia di innescare un processo
che altera la fisionomia delle questio- ni, relegandole a una dimensione di
micro-conflittualità soggettiva. Si rischia in altri termini di alimentare ciò
che la sociologa Isabel- la Turnaturi ha eloquentemente definito
‘rivendicazionismo psicolo- gico’: «un nuovo campo di battaglia in cui gli
individui oppongono l’uno al- l’altro le proprie emozioni. Vissuti, percezioni,
sensibilità si confrontano e si scontrano quotidianamente e conflitti sociali,
di genere e culturali si spostano sul piano dei rapporti interpersonali.
L’uguaglianza dei di- ritti si sposta sul campo emozionale, ciascuno è sempre
più attento alle proprie emozioni e pretende per queste rispetto, attenzione e
libertà di espressione-esibizione. La valorizzazione della sofferenza
psicologi- ca e le narrazioni di sé affidate a un linguaggio esclusivamente
psicolo- gico mentre pongono l’accento sull’individuo cercano l’origine di
torti e offese subiti nell’appartenenza a un gruppo etnico, di genere, o nella
condivisione di preferenze sessuali. Se sono i sentimenti a riscrivere la
storia tutto può essere ri-narrato e ri-costruito secondo i punti di vista di
chi sente offesa oggi la propria sensibilità. Tutto viene affogato in un
confuso mare magnum sentimentale, in un apparente coinvolgimen- to emotivo che
soffoca ogni forma di distanza al rispetto e riconosci- mento reciproco. Quel
diritto di ciascuno alla propria narrazione, giu- stamente rivendicato,
andrebbe forse declinato in un linguaggio meno psicologico e psicologistico,
imposto nel discorso pubblico con la forza dell’argomentazione, ancorato a una
cultura dei diritti liberata dalla co- lonizzazione emotiva. Il discorso
politico mostra una sempre più accentuata tendenza al linguag- gio
psicologistico ed emotivo, e più in generale tutta la comunicazione pubblica è
problematicamente invasa da «confessioni, narrazioni, biografie, programmi e
proclami politici che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso
pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui
discrezione e della distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso
emozionale, il di- scorso marmellata dove tutto diviene appiccicoso e
dolciastro, dove ogni distanza fra Io e Tu, fra me e l’altro viene annullata
nel mare di un presunto coinvolgimento», v. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con
cura, prefazione a ILLOUZ, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei
consumi, tr. it., Milano. Eloquente è l’espressione con cui ALONSO ALAMO,
Sentimientos y derecho penal, cit., p. 64, sintetizza il problema di una
soggettivizzazione incentrata su aspetti di rettività emotiva: «¿Un derecho
penal de sujetos pasivos? TURNATURI, Emozioni: maneggiare con cura. Sensibilità
individuali e libertà di espressione L’approccio del diritto non può
assecondare il rivendicazionismo psicologico ma deve essere declinato in
termini ‘razionalistico-nor- mativi’ facendo riferimento a «norme o principi
che si difendono e argomentano in quanto dotati di universalità, cioè in linea
di prin- cipio valevoli per tutti coloro che si trovano nella medesima
situazio- ne esistenziale» 99. Identifichiamo dunque sentimenti ed emozioni
come ‘matrici di diversità’ tali da sollecitare la prospettiva penalistica in
relazione al- l’esigenza di gestire equilibri di rispetto reciproco nella
società plura- le di fronte a condotte in cui si manifesta l’‘originalità’
degli individui in quanto caratterizzati da culture, concezioni di valore,
stili di vita, che ne identificano la personalità: da una parte richieste di
libertà per poter affermare le proprie visioni del mondo e per vivere confor-
memente a ciò in cui si crede; dall’altra parte istanze simmetriche, fondate
sui medesimi contenuti ma di segno opposto, che chiedono a loro volta
riconoscimento e rispetto attraverso l’altrui astensione da un certo tipo di
espressioni e di comportamenti. Sinossi Delineate le coordinate teoriche per lo
studio dei rapporti fra di- mensione emotiva e diritto penale e, in
particolare, del sentimento quale problema di tutela, l’indagine si focalizza
sui rapporti fra sen- sibilità soggettive e libertà di espressione. A suggerire
l’approfondimento di tale specifica questione sono sia ragioni concernenti gli
interessi emergenti dalle norme codicistiche, sia esigenze legate alla sempre
viva, e per molti versi crescente, conflit- tualità che si registra nel
discorso pubblico delle società occidentali. Il richiamo a sentimenti ed
emozioni può costituire un’utile coordinata esplicativa, a patto di chiarire in
che termini i problemi legati alla libertà di espressione possano essere intesi
anche come ‘fatti di sentimento’. Gli approcci di fondo sono a nostro avviso fondamen-
talmente due: il primo, che definiamo ‘naturalistico-emozionale’, è incentrato
sul turbamento psicologico che può discendere dall’essere oggetto di
determinate espressioni o dal contatto con determinate manifestazioni
espressive; il secondo, che definiamo ‘razionalistico- normativo’, mette al
centro l’analisi critica dell’emozione o del senti- VIOLA,
Multiculturalismo, valori comuni, diritto penale. Tra sentimenti ed eguale
rispetto mento addotti quale ragione di potenziali divieti, al fine di verificarne
la razionalità e la consonanza in rapporto ai valori e ai principi as- sunti
quale riferimento per la regolamentazione politica. La partita decisiva si
gioca sul piano delle alternative filosofico- politiche che concorrono a
definire i tratti dei differenti, possibili modelli di democrazia. Con riguardo
alla tutela di sentimenti, la scelta di fondo – probabilmente quella
logicamente prioritaria – è fra l’avallo di interpretazioni del problema in
chiave collettivistico-co- munitarista oppure in chiave soggettivo-individualistica.
Sulla base delle istanze evidenziate dalla teorica dell’individua- lismo
democratico, come elaborato da Nadia Urbinati, riteniamo che si debba in primo
luogo emancipare la tutela di sentimenti da forme di presidio al sentire della
maggioranza, interpretando il richiamo a fenomeni affettivi come forma
metonimica tesa a evocare simboli- camente la persona nella sua dimensione di
soggetto morale, riassu- mendone contemporaneamente, quale duplice faccia nello
stesso ele- mento, la dotazione universalmente condivisa in termini egualitari
(il provare sentimenti ed emozioni di ciascun individuo) e gli esiti po-
tenzialmente conflittuali (la diversità nel sentire). La pretesa normativa
definita ‘tutela di sentimenti’ viene così a identificarsi con un progetto teso
a garantire il reciproco rispetto a partire da una cornice assiologica di
libertà e pari dignità. FISIONOMIA DELL’OFFESA Oltre i sentimenti: gli
interessi in gioco SOMMARIO Temi ‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida.
Sensibilità religiosa. Sentimento del pudore e pari dignità sessuale. Apparte-
nenza e gruppalità. Rispetto, riconoscimento, stima reciproca. Pari dignità ed
eguale rispetto. Bilanciare le pretese. Dignità e capacità umane. Rispetto di
sé e umiliazione: la concezione di Margalit. Ai confini fra critica e
discriminazione. Offesa ai sentimenti e offesa alla dignità nello hate speech
secondo Waldron. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma. Temi
‘sensibili’ e discorso pubblico: esempi guida Cerchiamo a questo punto di dare
una fisionomia più definita ai conflitti legati alla sensibilità degli
individui. In un importante studio di fine anni Novanta, il giurista Richard
Abel parlava emblematicamente di ‘lotte per il rispetto’ per indicare il tipo
di contesa dialettica che contraddistingueva il dibattito sulla pornografia, il
contrasto al discorso razzista e le prese di posizione seguite alla
pubblicazione di opere ritenute blasfeme in quanto criti- che o irridenti verso
temi religiosi 1. Storie che hanno un nucleo co- mune, le definisce Abel,
poiché «investono valori che ispirano emo- ABEL, La parola e il rispetto,
tr. it., Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto zioni profonde» 2. In
relazione a temi di questo tipo eventuali espres- sioni di critica o di scherno
sono in grado di attivare reazioni anche su scala collettiva, estendendo la
dimensione dei problemi fino a coinvolgere l’ordine pubblico di singole realtà
nazionali e anche del panorama globale. Lo scenario contemporaneo non si
discosta più di tanto dal quadro tracciato qualche decennio fa da Abel:
razza/etnia, fede religiosa/cre- denze, modi di concepire e vivere l’identità
sessuale, sono ancora oggi ambiti tematici in grado di accendere conflittualità
esorbitanti da un ordinario dissenso, dando luogo a un tipo particolare di
scontro fra soggetti che ha a che vedere con la concrezione di affetti,
interessi, ragioni e pregiudizi contrastanti che si fronteggiano e che
paiono o sono fortemente vitali per coloro che ne sono portatori o portati» 3.
Una dialettica ad alto tasso emotivo, nella quale emergono veri e propri ‘campi
minati’ che potremmo definire ‘argomenti-trigger’, i quali hanno contribuito a
riportare oggi il tema della libertà di espressione al centro del dibattito
pubblico prima ancora che scientifico. Per meglio contestualizzare i problemi
esporremo in modo sinte- tico alcune vicende tratte dal panorama nazionale ed
europeo. In questa fase dell’indagine non ci concentreremo sulla qualifica-
zione giuridica dei fatti, ma riteniamo preferibile individuare una ca- sistica
‘tipologica’ che possa fungere da palestra concettuale per riflettere sulle
istanze di tutela che vengono associate a offese a senti- menti. Riportiamo
anche episodi di rilevanza non strettamente pena- listica, i quali evidenziano
come l’appello a sentimenti non sia conno- tato esclusivo della penalità ma
possa presentarsi anche quale giusti- ficazione, più o meno esplicita, di forme
differenti di intervento normativo. Attingeremo dal tema della critica/satira
su temi religiosi e da epi- sodi concernenti le manifestazioni della
sessualità. Riteniamo di non dover introdurre, per il momento, esempi legati al
discorso razzista: in questa fase dell’indagine presentare il discorso razzista
come pro- blema di sentimenti può essere fuorviante perché limitativo. Nel di-
ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 27. 3 CERETTI, Vita offesa, lotta per
il riconoscimento e mediazione, in AA.VV., a cura di Scaparro, Il coraggio di
mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni al- ternative delle
controversie, Milano, definisce tali conflitti ‘di seconda generazione’ per
sottolinearne la diversità da quelli che toccano le sfere della ri- produzione
materiale-economica e della sfera politica. 4 Per le medesime ragioni, in
termini ancora più stringenti, non si presta a fungere da esempio prototipico
il problema dell’incriminazione del c.d. negazio- Fisionomia
dell’offesa 143 battito sullo hate speech, categoria nella quale rientra la
propaganda razzista, la lettura dell’incriminazione come forma di
rassicurazione collettiva e come tutela della sensibilità del soggetto offeso
assume una funzione sostanzialmente critica e confutativa rispetto a un
mainstream che individua quale interesse di fondo la pari dignità, in- tesa
come pericolo di discriminazioni e come offesa a valori sul piano simbolico5. A
prescindere dalle diverse formulazioni mediante le quali lo hate speech assume
rilevanza normativa nelle singole realtà nazionali, non si tratta a nostro
avviso di un esempio prototipico di ambito normativo in cui il sentire,
individuale o collettivo, possa concorrere a definire l’oggetto di tutela, per
quanto le connessioni ri- spetto al tema in esame siano numerose e feconde, ma
necessitino di essere contestualizzate a un livello successivo dell’analisi
(vedi infra). nismo, il quale «non può essere inquadrato soltanto come una
specie del discorso razzista, v. CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà
religiosa: tensioni at- tuali e profili penali, in Riv. it. dir. proc. pen. Fra
le diverse istanze addotte a sostegno dell’incriminazione è ravvisabile anche
l’offesa a un sentire condiviso, come evidenziato anche da BRUNELLI, Attorno
alla punizione del nega- zionismo, in Riv. it. dir. proc. pen., il quale
sottolinea in questo senso la differenza fra ‘negazionismo-vilipendio’ e
‘negazionismo-istigazione’; cfr. GUELLA-PICIOCCHI, Libera manifestazione del
pensiero. Si veda anche FRONZA, Criminalizzazione del dissenso o tutela del
consenso. Profili critici del negazionismo come reato, in Riv. it. dir. proc.
pen., la quale mette in evidenza la natura del reato di negazionismo come
‘modello di crimina- lizzazione altamente consensuale’, rispondente ad
aspettative e a emozioni della collettività. L’ampiezza e la pluralità di
argomenti e controargomenti lascia però in secondo piano la lettura del
problema come mera tutela della sensibilità; per una panoramica v. ex plurimis,
FRONZA, Il negazionismo come reato, Milano; VISCONTI C., Aspetti penalistici;
PULITANÒ, Di fronte al negazioni- smo e al discorso d’odio, in penalecontemporaneo.it,
CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz”, le “verità” del diritto penale. La
criminalizzazione del c.d. negazionismo tra ordine pubblico, dignità e senso di
umanità, in AA.VV., a cura di Forti-Varraso-Caputo, «Verità» del precetto e della
sanzione penale. Per un’accurata sintesi delle strategie di legittimazione e
degli interessi pro- tetti dall’incriminazione dello hate speech nel panorama
internazionale, v. BROWN A., Hate Speech Law; la questione del danno alla
sensibilità sogget- tiva e alla tranquillità psichica è trattata. Si è
osservato che nella trattazione della tematica delle restrizioni normative allo
hate speech sarebbe be- ne evitare generalizzazioni, non solo in relazione alla
fenomenologia delle con- dotte, ma anche con riferimento all’individuazione,
nella realtà dei diversi ordinamenti, del sistema di prodotti normativi che
vanno a costituire ciò che gli stu- diosi definiscono ‘hate speech laws’; si
tratta infatti di un insieme eterogeneo, non limitabile ai soli divieti penali,
ma composto da statuizioni di diverso tipo che ne- cessitano di strategie di
legittimazione differenti.Tra sentimenti ed eguale rispettoSensibilità
religiosa Le contingenze storico-politiche suggeriscono di prestare partico-
lare attenzione alla questione dei rapporti fra libertà di espressione e
rispetto della sensibilità religiosa. L’attuale momento storico si caratterizza
per una peculiare aura di passionalità, e purtroppo anche di violenza, che
accompagnano una conflittualità per molti versi inedita 6. Le fonti mediatiche
ci mettono oggi in condizione di ascoltare la ‘voce’ delle emozioni e di
formularne interpretazioni con immedia- tezza; come ha scritto il filosofo
Ermanno Bencivenga, dopo i tragici fatti di Charlie Hebdo «[i]nsieme con le
emozioni esplosero contenuti intellettuali di ogni genere: commenti e
chiarimenti, diagnosi e previ- sioni, giudizi e proposte. Da un lato le
emozioni di chi, avvertendo una ferita al proprio sentire religioso, ha agito
con brutale violenza; dall’altro un’onda emotiva che di rimando ha stimolato
riflessioni e prese di posizione che si sono rivolte non solo contro la
condotta omicida, ma talvolta, più radicalmente, anche contro la religione e
l’etnia di appartenenza dei soggetti autori del massacro. Per quanto le due
posizioni siano del tutto incomparabili, prendere sul serio le emozioni di
entrambe le parti è utile per provare a decodificarne le pretese. Le violente
reazioni che negli ultimi tempi sono scaturite dalla pubblicazione di vignette
satiriche sulla religione musulmana rap- presentano uno fra i tanti casi in cui
la causticità di determinate forme di satira ha urtato la sensibilità di
credenti di varie fedi religio- se. Riportiamo di seguito una sintesi di alcuni
episodi tratti dalle cronache. 6 Una panoramica storica in HARE, Blasphemy and
Incitement to Religious Hatred: Free Speech Dogma and Doctrine, in AA.VV., ed.
by Hare-Weinstein, Ex- treme Speech and Democracy, Oxford; nella letteratura
italiana, v. a cura di Melloni-Cadeddu-Meloni, Blasfemia, diritti e libertà.
Una discussione dopo le stragi di Parigi, Bologna, 2015; FLORIS, Libertà di
religione e liber- tà di espressione artistica, in Quad. di diritto e politica
ecclesiastica; OZZANO, Il fondamentalismo religioso: implicazioni politiche, in
Nuova infor- mazione bibliografica. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Fisionomia
dell’offesa 145 Caso 1: da una vignetta rispunta l’accusa di deicidio al popolo
ebraico Nell’aprile 2002 un gruppo di palestinesi si rifugia all’interno della
Basilica della Natività di Betlemme per sfuggire a una rappresaglia
dell’esercito israeliano. I militari israeliani minacciano di entrare nel- la
chiesa; chiedono che vengano consegnati loro quattro palestinesi, accusati di
aver assassinato Rehavam Zeevi, ministro del governo Sharon. Giorni dopo, nel
quotidiano italiano ‘La Stampa’ compare una vi- gnetta di Giorgio Forattini dal
titolo ‘Carri armati alla mangiatoia’: la vignetta raffigura un tank israeliano
contrassegnato con la stella di David mentre punta il cannone verso una
mangiatoia sulla quale un bambino impaurito, chiaramente identificabile con
Gesù, esclama: ‘Non vorranno mica farmi fuori un’altra volta?!’. La vignetta
provoca lo sdegno e le proteste dell’allora presidente dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Amos Luzzatto. Queste in sinte- si le motivazioni, così
riportate da fonte giornalistica: «[u]na vignetta che non esito a definire
orripilante. Ritorna così a galla, come da- to indiscutibile a monte della
caricatura stessa, l’accusa di deicidio che pareva esser scomparsa dopo il
Concilio Vaticano II. E questo proprio nel momento in cui l’Europa è scossa da
una nuova ondata di attentati contro le nostre sinagoghe alla valutazione
politica si aggiunge la teologia, ovvero la peggiore delle soluzioni. Cresce in
modo nascosto e strisciante l’avversità per gli ebrei... Si attribuisce a una
fantomatica malvagità giudaica la responsabilità di quanto sta succedendo a
Betlemme» 8. Caso 2: le vignette danesi e l’insurrezione del mondo islamico per
la rappresentazione del Profeta Il 30 settembre 2005 il quotidiano danese
Jyllands Posten pubblica nella versione on line dodici vignette satiriche su
Maometto, in una delle quali il Profeta è raffigurato con una bomba al posto
del turban- te. Le vignette vengono successivamente ripubblicate da diverse te-
state giornalistiche europee, fra cui, il settimanale satirico francese Charlie
Hebdo. Le proteste sono immediate sia nel continente europeo sia nei paesi di
religione islamica 9: il direttore del giornale danese viene mi- 8 L’Unità. In
Danimarca viene avviato un procedimento penale, poi archiviato, per
bla- Tra sentimenti ed eguale rispetto nacciato di morte, e nelle
settimane successive alla pubblicazione vengono organizzate manifestazioni di
protesta da parte di cittadini islamici e anche da parte di esponenti governativi
che chiedono al governo danese di formulare delle scuse ufficiali. Dure le
prese di po- sizione dei governi di paesi arabi. Una significativa sintesi
delle ragioni della protesta si trova nel cosiddetto dossier Akkari-Laban
pubblicato da due Imam immigrati in Danimarca. Queste le principali
rivendicazioni avanzate dagli Imam: viene chiesto un contatto costruttivo con
la stampa ed in particolare con soggetti delle istituzioni (relevant decision
makers), non sbrigativo, ma condotto con meticolosità e lungimiranza (with a
scientific methodology and a planned and long-term programme) per rimuovere i
malintesi tra le due parti. Si afferma che i musulmani non vogliono apparire
arretrati e limitati, e non vogliono neppure accusare i danesi d’ideological
arrogance. Obiettivo è avere relazioni sicure e stabili, e una Danimarca
prospera per tutti. Si lamenta che i fedeli musulmani soffrono la mancanza di
un riconoscimento ufficiale della fede islamica, circostanza che ha fra le
immediate conseguenze la mancanza del diritto di costruire moschee. Si afferma
infine che i musulmani non abbiano bisogno di lezioni di democrazia, e si
ritiene ‘dittatoria- le’ e inaccettabile l’attuale modo europeo di concepire e
gestire la democrazia 11. Caso 3: una discussa opera teatrale e l’offesa alla
religione cattolica Viene presentato in Italia, dopo una tournée densa di polemiche
in Francia, lo spettacolo teatrale di CASTELLUCCI (si veda) dal titolo ‘Sul
concetto di volto del figlio di Dio’. L’opera rappresenta la storia di un
figlio che accudisce il padre, non più autosufficiente. Sullo sfondo della
scena, una rappresentazione del volto del Cristo (il famoso ritratto di
Antonello da Messina), che a fine spettacolo viene lacerato e fatto oggetto del
lancio di varie cose, fra cui del liquido nero da molti interpretato come feci.
Malgrado i tentativi dell’autore di spiegare il significato della prosfemia e
vilipendio di gruppi di persone. Anche in Francia viene aperto un procedimento
contro Charlie Hebdo, poi concluso con un’assoluzione. Una sintesi delle
vicenda processuali in BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette satiriche
sull’Islam costituisce reato in Italia?, in Notizie di Politeia, La Repubblica;
La Repubblica 11 Informazioni tratte dalla voce Wikipedia ‘Akkari-Laban dossier’,
nella cui pa- gina si trova il link alla versione originale del dossier in
lingua araba. Fisionomia dell’offesa 147 pria opera, lo spettacolo
è bersaglio di forti polemiche: si registrano manifestazioni di protesta da
parte di alcuni esponenti del mondo cattolico, e anche il Vaticano arriva a
definirla «un’opera che offende Gesù e i cristiani. Particolarmente
significative le parole usate dal- la Curia milanese in un comunicato ufficiale
per criticare la messa in scena al teatro Parenti: si richiama l’esigenza che
sia «riconosciuta e rispettata la sensibilità di quanti cittadini milanesi
vedono nel Volto di Cristo l’incarnazione di Dio, la pienezza dell’umano e la
ragione della propria esistenza [...]», criticando in questo senso una scelta
che «avrebbe potuto farsi carico più attentamente della “dimensione sociale”
della libertà di espressione Sentimento del pudore e pari dignità sessuale In
relazione alle manifestazioni della sessualità emergono problemi differenti
rispetto al passato in cui Abel si soffermava sul tema della liceità della
pornografia; oggi assumono maggior rilevanza que- stioni legate
all’affermazione e al riconoscimento della pari dignità degli orientamenti
sessuali sul piano del discorso pubblico e anche della regolamentazione normativa.
Al centro dell’attenzione è il fenomeno della cosiddetta ‘omofobia’; nella
Risoluzione sull’omofobia in Europa del gennaio del 2006 essa viene definita
come «una paura e un’avversione irrazionale nei con- fronti dell’omosessualità
e di gay, lesbiche, bisessuali e transessuali, basata sul pregiudizio e analoga
al razzismo, alla xenofobia, all’antisemitismo e al sessismo». La rilevanza
penale di espressioni omofobiche è legge in diversi Paesi europei, non ancora
in Italia14. Il modello di incriminazione privilegiato fa confluire il discorso
omofobico nello hate speech; per Affermazioni di Wells, all’epoca assessore
agli Affari generali della Segreteria di Stato vaticana, cui possono
affiancarsi, per identità di contenuto, le opinioni di Padre Federico Lombardi,
v. Corriere della Sera, Stralcio del comunicato della Curia milanese, così
riportato in Avvenire. Una panoramica in GOISIS, Omofobia e diritto penale.
Profili comparatistici, in penalecontemporaneo.it; DOLCINI, Omofobia e legge
penale. Note a margine di alcune recenti proposte di legge, in Riv. it. dir
proc. pen.; ID., Omofobi: nuovi martiri della libertà di manifestazione del
pensiero?, in Riv. it. dir proc. pen.; RICCARDI, Omofobia e legge penale.
Possibilità e li- miti dell’intervento penale, in penalecontemporaneo.it. Tra
sentimenti ed eguale rispetto tali ragioni riteniamo che anche l’insulto
omofobico non si presti a essere presentato in prima istanza come condotta
offensiva di senti- menti: stati affettivi vengono certo in gioco nelle
condotte omofobi- che, ma, come osservato per lo hate speech razzista, adottare
come ipotesi di lettura primaria l’offesa a sentimenti rischia di incentrare la
prospettiva sulla mera reattività emotiva. Con riferimento al tema della
sessualità e della pari dignità degli orientamenti sessuali, si rivelano
particolarmente problematiche le invocazioni dell’intervento penale che
adducano offese al pudore mo- tivate non dal livello di particolare
esplicitezza di condotte sessuali tenute in pubblico, ma in ragione dell’orientamento
sessuale dei sog- getti 15. Detto in altri termini: può capitare, ed è
capitato, che si invo- chino divieti per condotte sessuali dove il motivo
dell’offesa è ricon- ducibile esclusivamente alla tipologia di relazione e
dunque al- l’identità e alla dignità sessuale dei soggetti 16. Anche in Italia
la stam- pa ha dato notizia di denunce per atti osceni a seguito di semplici
ba- ci realizzati in pubblico nel contesto di un rapporto fra soggetti dello
stesso sesso, benché nessuno dei procedimenti, per quanto ci è noto, sia giunto
a una pronuncia di condanna 17. Caso 4: censura televisiva per un bacio gay
Riteniamo particolarmente significativo, per quanto non sia inte- 15 Si veda il
vasto, e grottesco, panorama di incriminazioni in vigore negli anni Ottanta in
alcuni Stati americani. Definirle ‘leggi antisodomia’ appare improprio poiché i
divieti attengono al tipo di atto piuttosto che al contesto della relazione. Ad
esempio, in Arizona era penalmente rilevante la condotta di «un individuo che
commetta volontariamente e senza costrizione, in qualunque modo innaturale,
qualunque atto osceno libidinoso sul o con il corpo o qualunque parte o membro
del corpo di un adulto di sesso maschile o femminile, con l’intento di
eccitare, solleticare o gratificare la lussuria, la passione, o il desiderio
sessuale di una qua- lunque delle persone coinvolte», v. NUSSBAUM, Disgusto e
umanità. Le radici storiche del problema riportano alle leggi antisodomia,
diffuse so- prattutto in ambito angloamericano; su tale tema in Inghilterra si
sviluppò il ce- lebre confronto dialettico tra il filosofo di Oxford Herbert
Hart e il giudice Patrick Devlin. Hart si oppose alle tesi moralistiche di
Devlin con un’opera divenuta un manifesto del liberalismo giuridico: v. H. L.
A. HART [citato da H. P. Grice], Diritto, morale e libertà, cit., 1968; per una
sintesi, v. CADOPPI, Moralità e buon costume (delitti contro la) (diritto inglese),
in Dig. disc. pen. Si tratta di episodi narrati da organi di stampa; a titolo
esemplificativo si veda
http://www.umbria24.it/cronaca/perugia-bacio-gay-tra-le-sentinelle-in-piedi-
alfano-riferisce-in-aula-diretta-streaming; tg1.rai.it/dl/tg1/2010/articoli/-
ContentItem-81e83656-04b5-4485-ac45-e4e5d912bc58.html. Fisionomia
dell’offesa ressato il piano penalistico, un episodio di vera e propria censura
nel- la televisione italiana di Stato, espressamente motivata da un ‘eccesso di
sensibilità’, che ha portato al taglio e alla mancata messa in onda di una
scena comprendente un bacio omosessuale. Viene trasmesso sul canale nazionale
italiano Rai 2 la serie tv statunitense ‘Le regole del delitto perfetto’. La
puntata va in onda con dei tagli rispetto alla versione origi- nale: vengono
infatti rimosse le sequenze ritraenti un bacio fra sog- getti di sesso
maschile. A seguito delle polemiche levatesi contro una simile censura, la
direttrice di Rai Due commenta «Non c’è stata nes- suna censura, semplicemente
un eccesso di pudore dovuto alla sensi- bilità individuale di chi si occupa di
confezionare l’edizione delle se- rie per il prime time» 18. 2. Appartenenza e
gruppalità Negli argomenti addotti da coloro che lamentano un’offesa rico-
nosciamo un’evidente componente emozionale, soprattutto con rife- rimento alla
vignetta sulla religione ebraica e nell’opera teatrale con- testata da una
parte del mondo cattolico. Nel primo caso lo si può desumere dal lessico
(pensiamo alla parola ‘orripilante’ che evoca una sensazione di disgusto);
nell’opera teatrale si è criticato soprat- tutto il gesto del lanciare
materiali assimilati a feci contro l’immagine del Cristo, azione il cui
significato iconoclasta sarebbe stato, forse, percepito in termini più
attenuati senza il richiamo (peraltro non univoco) alle feci, e che invece ha
indotto nei fedeli una sensazione di ‘disgusto morale’. Nel caso della censura
televisiva, la giustificazione offerta in sede pubblica parla di ‘eccessiva
sensibilità’ volta a evitare l’offesa al pudore, mentre appaiono più complesse
le motivazioni ad- dotte in sede pubblica dai fedeli musulmani con riferimento
alle vi- gnette danesi 19. Tutti i suddetti conflitti possono a nostro avviso
inquadrarsi in Corriere della Sera. La
reazione all’offesa religiosa si unisce ad argomenti inerenti la situazione
politica e le condizioni di vita dei musulmani in Danimarca; al di là della
cautela con cui è bene accogliere tali istanze, resta il fatto che la
rappresentazione attra- verso le vignette si presta a essere interpretata anche
come etichettamento dell’in- tera comunità musulmana nei termini di
‘terrorista’, in questo senso andando ol- tre la semplice irrisione sul piano
religioso. Tra sentimenti ed eguale rispetto contrapposizioni di carattere
gruppale, nelle quali cioè le ragioni del- lo scontro si legano a profili che
sono identificativi di un particolare gruppo o categoria di persone da cui si
vuole prendere una ‘distanza’. Intendiamo il concetto di gruppo in un
significato più esteso della sola appartenenza etnico-culturale, e che non è
limitato a gruppi c.d. ‘minoritari’ o contrapposti alla cultura dominante, ma
che è fun- zionale a designare tensioni tra forme di appartenenza che attraver-
sano i confini delle singole realtà geopolitiche 21. Un’appartenenza che si
radica nel sentire dell’individuo, la cui de- finizione può a nostro avviso
esser fatta coincidere con il termine ethos, il quale rimanda letteralmente ai
concetti di abitudine e di usanza, intesi come elementi costitutivi della
diversità fra popoli e fra individui, e che nella filosofia contemporanea è
adoperato per desi- gnare «una complessiva, non necessariamente esplicita,
concezione del be- ne, o uno stile di vita, che può anche avere una radice
religiosa, e che in molti casi si identifica con la “cultura” di una qualche
comunità di appartenenza, con il modo di sentire e giudicare, i costumi, le norme
di questa comunità: in questo senso un ethos può definire l’identità culturale
o religiosa, e lato sensu morale di una persona. Un’ulteriore connessione può
trovarsi nei concetti di categorizzazione e di autocategorizzazione. Secondo
quanto osservato in psicologia sociale, il sistema cogniti- vo umano per far
fronte alla complessità del mondo esterno sviluppa la tendenza a pensare gli
oggetti raggruppandoli in insiemi, accomu- nandoli sulla base di informazioni e
di dati estendibili alla totalità di A questo livello non vi sono, a nostro
avviso, esigenze penalistiche di delimi- tazione del concetto di appartenenza,
le quali invece appaiono evidenti quando il richiamo al gruppo o alla cultura
sia funzionale a introdurre eventuali fattori di attenuazione della
responsabilità penale, come nel caso dei c.d. ‘reati cultural- mente motivati’.
In tale ultimo caso la rilevanza sul piano penalistico è necessa- riamente
subordinata a una specificità che deve consentirne l’accertamento in sede
processuale: v., per tutti, DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati.
Ideologie e modelli penali, Pisa, 2010, pp. 25 ss.; EAD., voce Reati
culturalmente condizionati, in Enciclopedia del diritto, Annali VII, Milano; in
senso lato, il problema può riconnettersi alla categoria generale della c.d.
inesigibilità, v., per tutti, FORNASARI, Il principio di inesigibilità nel
diritto penale, Padova. Accenna a tale distinzione KYMLICKA, La cittadinanza
multiculturale, tr. it., Bologna, MONTICELLI, La questione morale. Fisionomia
dell’offesa essi. Tale processo classificatorio può avere a riferimento anche
le persone, e si tratta di un momento essenziale del rapporto con l’altro: «Il
mondo sociale, in altri termini, ci appare articolato in insiemi omogenei di
persone unificate da un qualche tratto. Alcune di queste suddivisioni sono più
importanti e cariche di significato, come l’appartenenza etnico culturale, la
lingua, la religione, la famiglia, le ideologie, l’orientamento politico; ma
anche il genere, l’età, l’orientamento sessuale, l’occupazione, la zona di
residenza, e perfino aspetti molto più marginali come gli hobby, gli stili di
consumo o la preferenza per una squadra di calcio, sono in grado di diventare
potenti elementi di identificazione collettiva. La tendenza alla gruppalità
induce una propensione a classifi-care gli altri individui, e si manifesta
anche in senso riflessivo come percezione di sé basata sul sentirsi parte di
una categoria, ossia come autocategorizzazione; più in particolare, l’autocategorizzazione
si pone come fondamentale momento di costruzione dell’identità sociale
relativamente all’edificazione dell’immagine di sé e al modellamento delle
sfere relazionali. Tale assunto ricorre anche in ambito antropologico:
«l’esperienza della diversità di modi di vivere porta spesso a dare giudizi di
valore, sulla base del sapere garante dell’identità del proprio gruppo, su di
noi rispetto agli altri e sugli altri rispetto a noi. Categorizzazione e
autocategorizzazione rappresentano dunque concetti essenziali per la comprensione
di dinamiche relazionali e comunicative in cui vengono in gioco ‘appartenenze
significative’ dell’individuo, tali da renderlo particolarmente sensibile a ciò
che vie- LEONE-MAZZARA-SARRICA, La psicologia sociale. Processi mentali,
comunica- zione e cultura, Roma-Bari, HAIDT, Menti tribali. Si vedano, ex
plurimis, CRISP-TURNER, Psicologia sociale, tr. it., a cura di Mosso, Torino;
BROWN R., Psicologia sociale del pregiudizio, tr. it., Bologna;
CARNAGHI-ARCURI, Parole e categorie. La cognizione sociale nei contesti
intergruppo, Milano; TAJFEL, Gruppi umani e categorie sociali, tr. it.,
Bologna; RAVENNA, Odiare. Quando si vuole il male di una persona o di un
gruppo, Bologna, ANGIONI G., Fare, dire, sentire, Ci riferiamo a
caratteristiche costitutive dell’identità che siano particolar- mente
totalizzanti o ‘dispotiche’, nel senso che, pur essendo oggetto di scelta, ten-
dono ad assumere una portata fortemente invasiva della sfera personale, anche
fino a generare situazioni di concorrenza e incompatibilità con altre
appartenen- Tra sentimenti ed eguale rispetto ne detto28 sia riguardo alla
sua appartenenza a un gruppo, sia ri- guardo al gruppo in sé e a ciò che lo
identifica 29, e anche riguardo a fatti di conoscenza che si pongono a
confutazione o in contrasto con il patrimonio di conoscenze tramandato e
acquisito dal gruppo 30. Secondo la ricostruzione dello psicologo sociale
Jonathan Haidt, l’uomo ha una natura sia egoista sia gruppista, e possiede una
mente ‘tribale’: l’aderenza al gruppo ‘unisce e acceca’, nel senso che crea i
presupposti per la socialità e al contempo può intrappolare le perso- ne nelle
matrici morali del gruppo di appartenenza, ingenerando conflittualità fra
gruppi contrapposti. Un risvolto di tale relazione è l’accentuata emotività che
si lega al- le questioni inerenti l’appartenenza: ma qual è la pretesa che
acco- muna le parti in conflitto? cosa ‘chiedono’ le emozioni in termini di
reciprocità? ze. L’esempio principale è l’identità religiosa; sul tema della
costruzione dell’iden- tità e del particolare ruolo ‘dispotico’ dell’identità
religiosa v. PINO, Identità perso- nale, identità religiosa e libertà
individuali, in Quad. di diritto e politica ecclesiasti- ca. Il linguaggio
trasmette l’interazione con gli altri. Narra le categorizzazioni sociali di cui
ci serviamo. Reiterandoli consolida gli stereotipi. Partecipa alla costruzione
e all’alimentazione dei pregiudizi. E così facendo influenza in modo rilevante
la percezione sociale di un determinato gruppo, v. PUGIOTTO, Le parole sono
pietre? I discorsi d’odio e la libertà di espressione nel diritto
costituzionale, in penale
contemporaneo.it Quali
sono queste appartenenze e in base a quali criteri il diritto può attribuire
una rilevanza? L’interrogativo, nella sua estrema complessità, non può essere
affrontato nel presente lavoro; nondimeno va tenuto conto che sia nelle scienze
sociali, sia, di riflesso, nella prospettiva giuridica, si tratta di un
problema aperto che può influire in modo determinante sull’approccio agli
eventuali limiti alla li- bertà di espressione, v. BROWN A., Hate Speech Law. Il
tipo di identità che sembra assumere una rilevanza peculiare sul piano politico
è ciò che CA- STELLS, Il potere delle identità, tr. it., Milano, definisce come
resistenziale’, ossia quella «generata dagli attori che sono in posizioni o
condizioni svalu- tate e/o stigmatizzate da parte della logica del dominio».
Nondimeno, il valore politico dell’identità può risultare condizionato anche
dal grado di ‘dispoticità’ e della conseguentemente combattività nella sfera
pubblica, v. supra, nota 27. 30 Si soffermano su tale ultima tipologia di
conflitto, tra fatti di sentimento e fatti di conoscenza, GUELLA-PICIOCCHI,
Libera manifestazione del pensiero, analizzando in particolare, in riferimento
al contesto statunitense, il tema dell’opposizione all’insegnamento delle
teorie evoluzionistiche negli istituti di istruzione di orientamento
creazionista. HAIDT, Menti tribali. Sul particolare profilo che Haidt definisce
‘principio di sacralità’, il quale porta a ritenere determinate cose (non
semplicemente materiali ma anche teorie e ideologie) come identifica- tive
della moralità del gruppo. Fisionomia dell’offesa Rispetto,
riconoscimento, stima reciproca Il concetto che meglio definisce
l’atteggiamento relazionale che ciascuno esige dai propri simili è il rispetto.
Ogni individuo si forma una propria intuitiva nozione di rispetto, la quale può
fondarsi su istanze più o meno giustificate; non è però a una tale solipsistica
concezione che il diritto può fare riferimento. La parola ‘rispetto’ ha assunto
nel corso della storia significati differenti, ma ciò che ci interessa oggi è
ricostruirne il contenuto dal punto di vista politico, non solo come
atteggiamento individuale, ma soprattutto come principio per la convivenza
nella diversità. Che cosa vuol dire rispettare le persone? Il pensiero
filosofico ha riservato particolare attenzione a tale que- stione, e
soprattutto nell’epoca attuale il tema ha assunto un’innovativa importanza: il
rispetto per le persone e fra le persone rappresenta una aspetto costitutivo
della qualità morale delle democrazie moderne. Si parla oggi non di un generico
rispetto, ma di un rispetto democratico, non gerarchico, che assume come
presupposto l’uguaglianza e la pari dignità: l’eguale rispetto, definito da
un’autorevole interprete «ragione morale alla base dell’ordinamento
democratico» 33. Sia chiaro: l’eguale rispetto rappresenta un’idea che
riconosce im- portanza morale alla ricerca di ragioni comuni (nel senso di
‘meno comprensive’) 34 da porre a fondamento di scelte normative, ma non è una
teorizzazione neutrale o dai caratteri meramente procedurali. È una concezione
eticamente ‘spessa’ che sintetizza il cardine assiologi- co della democrazia:
«un principio morale che richiede il riconosci- mento degli altri come pari in
virtù della comune umanità. Quando si parla di ‘eguale rispetto’ si intende un
atteggiamento di necessario e aprioristico riguardo di cui ogni essere umano è
con- temporaneamente titolare e debitore nei confronti degli altri indivi- Per
tutti v. MORDACCI, Rispetto, Milano. Si sottolinea che l’eguale rispetto
rappresenta un principio comune alle principali strategie di giustificazione
della legittimità democratica, v. GALEOTTI, La politica del rispetto. I
fondamenti etici della democrazia, Roma-Bari. GALEOTTI, La politica del
rispetto. Sulla definizione di ‘concezione comprensiva’, v. VECA, La filosofia
politica: si usa dire che una teoria morale è comprensiva quando essa include e
si estende sull’intero dominio di ciò che per noi vale. GALEOTTI, La politica
del rispetto. Tra sentimenti ed eguale rispetto dui, secondo una reciprocità
fra pari. Lo si definisce ‘rispetto- riconoscimento’ per distinguerlo dal
cosiddetto ‘rispetto-stima’ «che consegue alla considerazione positiva del
carattere, delle condotte, dei risultati conseguiti da una particolare persona»
38, e che è connes- so a una valutazione di meritevolezza che può mutare. La
distinzione fra le due forme di rispetto esprime anche un’indi- cazione sul
valore e sull’importanza che esse assumono in un oriz- zonte democratico:
l’impegno prioritario è il rispetto-riconoscimen- to 39, mentre l’atteggiamento
di stima è quello che più risente di emo- zioni contingenti e di inclinazioni
individuali, e non è un obiettivo proponibile in un contesto pluralista e
culturalmente disomogeneo, nel quale un dissenso intersoggettivo, anche aspro,
tra opinioni e orientamenti etici, dovrebbe considerarsi fisiologico 40. Le
oscillazioni del rispetto-stima rappresentano in definitiva un risvolto della
libertà 36 Viene sottolineato che il rispetto come riconoscimento non può venir
meno di fronte a nessuno, neppure di fronte al criminale più efferato o a chi
si sia reso autore di azioni che travalicano ogni idea di umanità. Chi afferma
che rispetto a determinati comportamenti esiste l’eventualità che un soggetto
perda tale status, procede sulla base di un’ulteriore specificazione, la quale
individua nel rispetto- riconoscimento due componenti distinte: il sentimento
di riguardo e la dispo- sizione ad agire. La perdita del rispetto come
riconoscimento può intaccare solo il sentimento di riguardo: «mentre possiamo
sospendere l’atteggiamento di ri- spetto – smettendo di considerare quell’uomo
degno del nostro riguardo – non possiamo ignorare i vincoli morali delle nostre
azioni nei suoi confronti, v. GALEOTTI, La politica del rispetto, È sulla
reciprocità che si impernia la dimensione morale del rispetto: pensare
moralmente, costruire un ragionamento morale, significa intrattenere con gli
altri una relazione di mutuo riconoscimento, cioè dar loro pari dignità e
pretendere da loro il rispetto e il riconoscimento della nostra dignità», così
BAGNOLI, L’autorità della morale, Milano, GALEOTTI, La politica del rispetto;
DARWALL, Two Kinds of Respect, Ethics. Sottolinea come la nozione stessa di
democrazia apra «a un concetto del rapporto secondo giustizia con l’altro
fondato sul suo riconoscimento, e non sul giudizio inerente alle sue capacità o
alle sue qualità EUSEBI, Laicità e dignità umana nel diritto penale. Sull’importanza
del principio dell’eguale rispetto-riconoscimento nel diritto penale, v.
PULITANÒ, Introduzione alla parte speciale, cit., pp. 26 ss. 40 Si apre qui il
problema, sconfinato, della tolleranza e degli eventuali limiti alla
tolleranza: sul tema v., ex plurimis, GALEOTTI, La tolleranza. Una proposta
plu- ralista, Napoli; WALZER, Sulla tolleranza, tr. it., Roma-Bari; sul tema
dei limiti, v. BOBBIO, L’età dei diritti; POPPER, Tolleranza e responsabili- tà
intellettuale, a cura di Mendus-Edwards, Saggi sulla tolleranza, Milano,
Fisionomia dell’offesa di critica, diritto da considerarsi fondamentale in una
democrazia ispirata al pluralismo assiologico. A nostro avviso le categorie
della stima e del rispetto-riconosci- mento ripropongono con un diverso lessico
l’esigenza di distinguere tra offese alla sensibilità soggettiva e forme di
offesa che appaiano orientate a minare qualcosa di più radicale, ossia il
rapporto di rico- noscimento reciproco fra persone: nel secondo caso emozioni e
sen- timenti entrano in gioco non solo da un punto di vista esteriore/feno-
menico, bensì quale tratto della personalità che si presta a strumen-
talizzazioni in chiave discriminatoria. Ed è in questi termini che si è
affermata l’assoluta rilevanza del rispetto-riconoscimento per una società:
«Fare del riconoscimento il tema centrale di un ragionamento filosofi- co-politico
significa quindi che le società devono impegnarsi a pro- muovere delle regole
capaci di creare e costituire istituzioni tali da non discriminare alcun
soggetto – persona, famiglia, gruppo inclusivo – considerandolo oggetto, o non
umano. Per approfondire tale ultima prospettiva di significato ci appog- giamo
all’elaborazione di Axel Honneth, il quale definisce il ricono- scimento: «un
processo nel quale il singolo può pervenire ad una identità pratica nella
misura in cui abbia la possibilità di accertarsi del riconoscimento di se
stesso attraverso una cerchia sempre più vasta di partner della comunicazione.
Al mancato riconoscimento può conseguire, secondo Honneth, un vulnus definibile
come ‘spre- gio’ o ‘offesa’, il cui effetto è l’alterazione dell’immagine che
una per- sona ha di sé 43. Secondo Honneth le forme di mancato riconoscimento
possono avere differenti gradazioni: si può avere uno spregio che coinvolge la
dimensione fisica, conculcando la libertà di autodeterminazione; e si CERETTI,
Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione, cit., p. 66;
nell’elaborazione di Ceretti la centralità del concetto di riconoscimento si
inqua- dra in una prospettiva di applicazione della mediazione ai conflitti
legati all’ap- partenenza. Più diffusamente sul tema del riconoscimento nella
mediazione e nel- la giustizia riparativa, v. ID., Mediazione. Una ricognizione
filosofica, in AA.VV., a cura di Picotti, La mediazione nel sistema penale
minorile, Padova; MANNOZZI-LODIGIANI, La Giustizia riparativa. Formanti,
parole, metodi, Torino, HONNETH, Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di
un’etica post- tradizionale, tr. it., Messina. Sul tema vedi anche TAYLOR, La
politica del riconoscimento. Tra sentimenti ed eguale rispetto possono avere
forme di umiliazione che influiscono sulla cosiddetta ‘autocomprensione
normativa’ della persona, escludendola struttu- ralmente dal godimento di
diritti, oppure – ed è questa la forma per la quale il termine ‘spregio’ viene
più comunemente in uso – negandole valore sociale tramite lo svilimento di modi
di vita individuali o collettivi 44. Riguardo a tale ultima dimensione di
significato si è detto che la questione del riconoscimento è cruciale nella
costituzione dell’iden- tità personale, la quale si forma attraverso una «negoziazione
che av- viene via dialogo, in parte esterno e in parte interiore, con altre
per- sone», con l’importante conseguenza che «sia sul piano intimo sia su
quello sociale (quello della politica dell’uguale dignità) la nostra iden- tità
si forma (o deforma) in relazione ai nostri incontri con “altri si-
gnificativi. Ebbene, è fondamentale il passaggio dal piano intimo a quello so-
ciale, in un percorso che deve tenere ben presenti e ben distinti en- trambi i
profili: nella individuazione di un’offesa il piano intimo en- tra in gioco ma
non può rappresentare un criterio assoluto; il richia- mo al piano sociale, e a
una dimensione di normatività oggettivabile, risulta cruciale. Honneth afferma
che «ciò che lo spregio qui sottrae alla persona, in termini di riconoscimento,
è l’approvazione sociale di una forma di autorealizzazione, alla quale essa
stessa ha prima dovuto faticosamente pervenire attraverso l’inco- raggiamento
della solidarietà di un gruppo, v. HONNETH, Riconoscimento e di- sprezzo. CERETTI,
Vita offesa, lotta per il riconoscimento e mediazione. È in base a tale
distinzione, tra piano intimo e piano sociale, che possono eventualmente essere
tematizzate questioni relative a quali siano gli ideali, le cre- denze, le
concezioni valoriali, e più in generale quali profili dell’identità morale
della persona possano essere presi in considerazione dal diritto, v. HÖRNLE,
Prote- zione penale di identità religiose?, Ragion pratica. La studiosa lascia
volutamente in sospeso la questione della soglia al di là della quale uno Sta-
to dovrebbe adoperarsi per promuovere il mutuo riconoscimento, pur non na-
scondendo notevoli perplessità sull’eventuale ricorso al diritto penale, e si
limita a rimarcare che il dare rilevanza a particolari profili dell’identità
morale, come ad esempio la fede religiosa, crei problemi di disuguaglianza
rispetto ad altre forme di propensione alla trascendenza, e pertanto, non
potendosi ragionevolmente ga- rantire a tutte lo stesso regime di tutela, lo
Stato dovrebbe mantenere un atteg- giamento di neutralità astenendosi dal
tutelare l’identità religiosa. Fisionomia dell’offesa Pari dignità
ed eguale rispetto Il disconoscimento è anche un’offesa al sentire, nella
misura in cui tocca corde significative dell’animo; ma non è scontato che
un’offesa al sentire possa anche considerarsi come negazione del
riconoscimento. Il rispetto-riconoscimento non è il riflesso univoco di
reazioni emotive, ma ha più a che fare, naturalmente, con quella dignità ultima
che non si inchina, che pretende il rispetto in forza di un valore
intrinseco della persona, un valore che ciascuno rivendica per sé stesso come
inviolabile: si tratta, in definitiva, della proiezione relazionale del valore
della dignità umana. Parlare di violazione del rispetto-riconoscimento ricalca
prima fa- cie le cadenze dell’offesa alla dignità: un accostamento tutt’altro
che risolutivo, e anzi assai problematico poiché rimanda alle profonde
criticità che sono state espresse con riferimento alla configurabilità della
dignità umana come oggetto di tutela penale 48. L’indeterminatezza penalistica
è la ricaduta di una più generale difficoltà di dare alla dignità un contenuto
e una dimensione oggetti- vi. La forte pregnanza emotiva che innerva tale
concetto lo rende par- ticolarmente esposto a ricostruzioni di parte, e dunque
a un uso che sul piano della politica del diritto appare problematico in
rapporto alle dinamiche di una società pluralista. Il rischio è che il
contenuto del concetto di dignità umana si tramuti nel mero riflesso di concezioni
comprensive, le quali, ove tra- sfuse nella dimensione giuridica,
incrementerebbero dissensi e frammentazioni. In altri termini, la dignità umana
è un concetto «fondamentale ma “manipolabile. Si tratta di obiezioni che hanno
il merito di mettere a nudo da un lato la forza retorica, e dall’altro la
fragilità contenutistica di un ri- chiamo alla dignità umana tout court,
probabilmente anche fino al MORDACCI, Rispetto. Per una panoramica sul
dibattito a livello internazionale v. ROSEN, Dignità. Storia e significato; per
un’approfondita critica dell’appello alla dignità v.CARMI, Dignity – The Enemy
from Within: A Theoretical and Comparative Analysis of Human Dignity as a Free
Speech Justification, in 9 Journal of Constitutional Law. Per una sintesi v. VERONESI, La dignità uma- na tra
teoria dell’interpretazione e topica costituzionale, in Quaderni
costituzionali, RAWLS, Liberalismo politico. CANESTRARI, Libertà di espressione
e libertà religiosa. Tra sentimenti ed eguale rispetto punto di non passare il
vaglio dei principi penalistici; ma sono ragio- ni sufficienti a espungere
radicalmente il valore della dignità dal di- scorso sui problemi di tutela? Il
richiamo alla dignità umana non sembra un postulato da cui prendere le mosse
per l’elaborazione di argomenti di parte, bensì dovrebbe essere considerato
come la dimensione di senso di ogni di- scorso che abbia a che fare con
problemi di convivenza fra uomini. Le difficoltà, financo l’impossibilità, di
un utilizzo del concetto di dignità sul piano tecnico-giuridico non ci sembrano
una ragione suf- ficiente a mettere da parte l’orizzonte simbolico e semantico
che ruota intorno alla dignità. Anche le critiche più radicali ci sembrano
rivolte all’uso piuttosto che al valore sostanziale e alla pertinenza rispetto
alle questioni in gioco53: si sta maneggiando un ‘superconcetto’ che sarebbe
necessario introdurre nel discorso con maggiore cautela, per ragioni di tipo
epistemico ed etico. Pur partendo dal presupposto che il concetto di dignità «è
intuiti- vo, nient’affatto chiaro di per sé», pare difficile poterne fare del
tutto a meno: sebbene sia un’idea imprecisa, il cui contenuto va appro- fondito
in rapporto a nozioni correlate, l’idea di dignità fa comunque la differenza»
55. Martha Nussbaum esorta a non abbandonare le co- È fuorviante contrapporre
in modo meccanico e astratto la dignità uma- na ai diritti che la Costituzione
riconosce», v. AMBROSI, Costituzione italiana e manifestazione di idee razziste
o xenofobe, a cura di Riondato, Discri- minazione razziale, xenofobia, odio
religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Padova. Condivisibilmente,
VERONESI, La dignità umana, sostiene che la dignità non debba essere
identificata né con un diritto, né con la piana conseguenza della violazione di
un diritto, né come un principio auto- nomamente azionabile, evidenziando in
questo senso ragionevoli obiezioni a un appiattimento della dignità sulla
dimensione del diritto positivo. La distinzione fra il concetto di dignità
(concept) e le plurivoche concezioni che da esso derivano (conceptions) è
evidenziato da MCCRUDDEN, Human Dignity, in un discorso che cerca di
evidenziare il rapporto fra il ‘nucleo duro’ del significato (core value) e le
diverse declinazioni che emergono dal discorso giuridico. 54 Per tutti, v.
HASSEMER, Argomentazione con concetti fondamentali. Pretendere di dare una
veste conchiusa e definita della dignità, identifican- dola univocamente in un
interesse ‘a senso unico’, rischia di essere una mossa azzardata sul piano
epistemico e anche una forzatura sul piano etico, ove si pre- tenda di identificare
il contenuto della dignità con istanze fondate su concezioni comprensive.
NUSSBAUM, Creare capacità, tr. it., Bologna. Nel panorama italia- no, si veda
la difesa del valore e del ruolo della dignità proposta da FLICK, Elogio della
dignità (se non ora, quando?), in Politica del diritto, Fisionomia dell’offesa
ordinate tracciate dal concetto di dignità, e a trovare delle nozioni correlate
e specificative che possano aiutare a renderlo meno liquido e più aderente ai
contesti. Un importante suggerimento è quello di focalizzare l’attenzione sul
concetto di rispetto: «La dignità è un’idea difficile da definire con
precisione, e probabil- mente non dovremmo cercare di farlo nell’ambito politico,
poiché di- verse religioni e prospettive laiche la descrivono in modi
differenti. Probabilmente dovremmo evitare che la dignità abbia un conte- nuto
specifico tutto suo: sembra essere un concetto che acquista for- ma attraverso
i legami con altri concetti, come quello di rispetto, e una varietà di principi
politici più specifici. Riteniamo tale passaggio di fondamentale importanza
poiché con- tribuisce a ridisegnare la fisionomia della dignità in termini
relazio- nali e non come valore assoluto, scisso da un rapporto fra individui.
Parlare di rispetto reciproco significa chiamare in gioco non un valo- re
esterno alla relazione, ma focalizza l’attenzione su un bilancia- mento. Le
dinamiche del rispetto-riconoscimento non esauriscono lo spa- zio etico della
dignità ma evidenziano il rapporto di simmetrica reci- procità nel quale devono
essere collocate le pretese avanzate dagli at- tori nella dialettica
pluralista, le quali appaiono tendenzialmente in- terpretabili come riflesso di
due esigenze di fondo: il rifiuto dell’imposizione, sia essa in nome della
neutralità e della verità e il rifiuto di una considerazione diseguale che
deriverebbe dal trionfo della posizione politica avversa» 57. Una ridefinizione
dell’orizzonte di tutela nei termini dell’eguale e reciproco rispetto può
rappresentare a nostro avviso un’opzione epi- stemicamente più cauta di
un’asserita ‘tutela della dignità’: a risultare decisiva non è una ricerca di
fondamenti ontologici del superconcet- to ‘dignità’, ma l’elaborazione di criteri
di bilanciamento fra opposte posizioni secondo una prospettiva di uguaglianza.
NUSSBAUM, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una
società più libera, tr. it., Milano. GALEOTTI, La politica del rispetto. A
chiosa della posizione della Galeotti, si è osservato che «il
rispetto-riconoscimento è dunque un atteggiamen- to verso una persona, prima
ancora che nei confronti di un’identità gruppale, che reclama azioni non
umilianti e non degradanti», così CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Tra
sentimenti ed eguale rispetto Bilanciare le pretese Dignità e capacità umane In
merito al problema dei limiti alla libertà di espressione, la digni- tà umana
mal si presta ad assumere le vesti di argomento ‘a senso uni- co’, tale da
offrire univoca giustificazione a una sola delle pretese che si confrontano, ma
è potenzialmente in grado di valere su più fronti. Parlare di tutela della
dignità assume in primo luogo il significato di un sostegno alle libertà, in
quanto l’attenzione e la cura nei con- fronti della dignità costituiscono da un
lato la condizione generativa «di un “pensiero critico, eterodosso, collidente
con pensieri e senti- menti dominanti”» e dall’altro lato «la condizione nei
soggetti istitu- zionali, della stessa capacità di resistere alla tentazione di
soffocarne la manifestazione. Secondariamente, va tenuto in considerazione che
nella dialettica fra istanze di libertà e richieste di rispetto vi sono più
dignità che en- trano in gioco: quella di colui che manifesta il proprio
pensiero e quella che si considera offesa dalla manifestazione espressiva 59.
An- che nel linguaggio può essere importante esplicitare la connessione fra
dignità e uguaglianza richiamando non semplicemente la dignità di ognuno, ma la
pari dignità come presupposto di una relazione di eguale rispetto 60. Resta
aperto il problema di contestualizzare pari dignità ed eguale rispetto in
relazione a esigenze concrete dell’essere umano, e dunque di limitare la
distanza fra la metafisica di tali concetti e le situazioni da cui scaturiscono
problemi di convivenza. FORTI, Le tinte forti del dissenso nel tempo
dell’ipercomunicazione pulviscola- re. Quale compito per il diritto penale?, in
Riv. it. dir. proc. pen. Evidenzia tale
ambiguità SCHAUER, Speaking of Dignity, ed. by Meyer-Paren, The Constitution of
rights. Human Dignity and American Values, London, the conflation of dignity
and speech, as a general proposition, is mistaken, for although speaking is
sometimes a manifestation of the dignity of the speaker, speech is also often
the instrument through use which the dignity of others is deprived»; cfr.
AMBROSI, Libertà di pensiero e manifesta- zione di opinioni razziste e
xenofobe, in Quaderni costituzionali. Cfr.
SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione. L’istigazione all’odio
razziale, Padova. Si veda anche l’icastica osservazione di Nadia Urbinati,
secondo la quale «eguale libertà è dunque il nome della difesa della dignità
umana nel tempo della modernità, v. URBINATI, Ai confini della democra- zia.
Opportunità e rischi dell’universalismo democratico, Roma.Cfr., con diversità
di accenti, CARUSO, La libertà di espressione in azione. Fisionomia dell’offesa.
Nel contesto penalistico italiano si è fatto di recente carico di tale onere
Gabrio Forti, il quale, attingendo da una recente pubblicazione di Aaron
Barak61, ha definito la dignità umana come «principio complesso che,
necessariamente sganciato da visioni o concezioni fi- losofiche unilaterali, è
suscettibile di scomposizione in entità valoria- li che devono essere
rapportate tra loro. Il richiamo alla distinzio- ne di Barak tra dignità-madre
e diritti-figli è funzionale, per Forti, a evidenziare che la libertà
d’espressione potrebbe incontrare limita- zioni volte alla tutela di altri
‘diritti-figli’ della stessa ‘dignità-madre’, a patto di uscire da un
ragionamento meramente astratto e di procedere a una ‘lettura situazionale’ che
sappia decifrare i contesti e gli specifici bisogni che possono emergere quale
interesse da contrap- porre a eventuali manifestazioni espressive. Si tratta in
altri termini di dare spessore e pregnanza personologi- ca all’interrogativo
sul perché la libertà di espressione sia così impor- tante, al di là del
riconoscimento che le è dato nelle carte costituzionali; e correlativamente, di
chiedersi quale possa essere il peso delle parole nell’economia di vita sia di
chi le esprime sia dei destinatari. Per abbozzare delle coordinate prendiamo le
mosse dal pensiero di John Searle che individua la caratteristica fondamentale
dell’essere umano nell’attitudine a porre in essere atti linguistici («we are
speech act performing primates»), e fa conseguentemente derivare la piena
dignità di un individuo dalla sua capacità di espressione. A nostro avviso non
basta tuttavia configurare una semplice pro- pensione ad atti linguistici, ma
sono necessarie ulteriori connessioni che ne mettano in luce la strumentalità
rispetto a un quadro più va- riegato di capacità e di prospettive concernenti la
realizzazione della persona. Nella riflessione filosofica contemporanea, il
discorso sulle capaci- tà trova una fondamentale elaborazione nel ‘capability
approach’ di BARAK, Human Dignity. The Constitutional Value and the Constitutional Right,
Cambridge, FORTI, Le tinte forti del dissenso. Sulle istanze partecipative
legate al discorso pubblico v. CARUSO, La libertà di espressione in azione,
SEARLE, Social Ontology and Free Speech, The Hedgehog Review: «we attain our
full dignity, our full stature as speech-act peforming animals, when we
exercise our capacities for expression. The need for dignity, self-esteem, and
autonomy come with the genetic territory, and a healthy society has to
recognize these needs and recognize that verbal self-expression is an essential
component in their satisfaction. Tra
sentimenti ed eguale rispetto Martha Nussbaum: si tratta di un’antropologia dei
bisogni dell’uomo pensata come riferimento per le strategie politiche e di
organizzazio- ne della società, basata sull’individuazione di un novero di
capacità le quali integrano e danno sostanza umana all’idea di dignità 65.
L’importanza di tale riflessione nella prospettiva penalistica è stata messa in
luce quale criterio di interpretazione dei bisogni e degli aspetti di
vulnerabilità degli esseri umani al fine di tracciare le coor- dinate per un
apporto del diritto penale alla difesa, al rispetto e an- che alla
‘costruzione’ della dignità umana. Nel condividere la suddetta impostazione,
riteniamo che attraver- so il linguaggio delle capacità si possano meglio
definire anche i con- torni delle istanze di libertà e delle richieste di
rispetto che animano la dialettica sulla libertà di espressione. Ci sembra che
un’immer- sione nelle note caratterizzanti la natura e la socialità umane possa
contribuire a tradurre le pretese in una dimensione meno astratta, per
verificare se e in che termini siano reciprocamente esigibili 67. Entrando nel
dettaglio del catalogo della Nussbaum individuiamo un novero di capacità che
definiscono una base di contenuti funzio- nale non solo alla ricognizione dei
contorni di un’ipotetica dignità of- fesa, ma che si prestano a dare senso e
sostanza alla posizione di chi chiede rispetto per la propria libertà di
esprimere contenuti pur ‘di- scutibili’, fungendo in questo senso da
connessione giustificativa an- che per la posizione di chi invoca il diritto
alla libertà di espressione: 65 «Consideriamo la persona, proprio perché
caratterizzata da attività, mete, progetti, in qualche modo capace di suscitare
un rispetto che trascende l’azione meccanica della natura, eppure bisognosa di
sostegno per portare a compimento molti progetti importanti», v. NUSSBAUM,
Diventare persone, tr. it., Bologna, FORTI, «La nostra arte è un essere
abbagliati dalla verità». L’apporto delle di- scipline penalistiche nella costruzione
della dignità umana, in Jus.L’approccio delle capacità può rappresentare
un’importante coordinata de- scrittiva e una chiave di lettura delle istanze di
tutela; in questo senso condivi- diamo e rilanciamo quale buon esempio la
proposta di ‘lettura situazionale’ basata sull’approccio delle capacità
formulata da Caputo in tema di repressio- ne penale del negazionismo, CAPUTO, La “Menzogna di Auschwitz. A un
livello successivo, relativo al problema della soglia di intervento normati-
vo, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., pp. 108 ss., evidenzia
in termini critici come anche tale chiave di lettura non sarebbe però
sufficiente a configurare un substrato di offensività verificabile in termini
conformi allo standard di bilanciamento che dovrebbe supportare eventuali norme
basate sullo schema applicativo del pericolo concreto. Fisionomia
dell’offesa 163 «Sensi, immaginazione, pensiero. Essere in grado di usare
l’imma- ginazione e il pensiero in collegamento con l’esperienza e la produzio-
ne di opere autoespressive, di eventi, scelti autonomamente, di natura
religiosa, letteraria, musicale, e così via. Poter usare la propria mente in
modi protetti dalla garanzia delle libertà di espressione rispetto sia al
discorso politico, sia artistico, nonché della libertà di pratica religiosa. Sentimenti.
Poter provare attaccamento per cose e persone oltre che per noi stessi. Non
vedere il proprio sviluppo emotivo distrutto da ansie o paure eccessive. Ragion
pratica. Essere in grado di formarsi una concezione di ciò che è bene e
impegnarsi in una riflessione critica su come programmare la propria vita.
Appartenenza. Avere le basi sociali per il rispetto di sé e per non essere
umiliati; poter essere trattato come persona dignitosa il cui valore eguaglia quello
altrui. Questo implica, al livello minimo, prote- zione contro la
discriminazione in base a razza, sesso, tendenza sessuale, religione, casta,
etnia, origine nazionale. [...]» 68. Le suddette capacità appaiono connaturate
a una società aperta, presupposto e obiettivo di una tutela delle libertà
strumentale a mettere ogni individuo nella condizione di formarsi una
concezione di ciò che è bene potendo usare la propria mente in modi protetti
dalla libertà di espressione. Emerge però anche un livello minimo di protezione
il quale sem- bra richiamare l’esigenza di un fare attivo da parte della
politica e del- l’ordinamento giuridico, fra le cui finalità viene messo in
evidenza il contrasto alla discriminazione: significa che uno Stato dovrebbe
im- pegnarsi per garantire «le basi sociali per il rispetto di sé e per non
essere umiliati; poter essere trattato come una persona dignitosa il cui valore
eguaglia quello altrui». Ritorna anche nel pensiero della Nussbaum l’esigenza
di prestare attenzione al problema del mancato riconoscimento, qui richiamato
attraverso i concetti del ‘rispetto di sé’ e dell’‘umiliazione’. In altri ter-
mini, quando si creano le condizioni perché un soggetto venga umi- liato si
potrebbero incrinare gli equilibri che costituiscono l’humus per le capacità
umane fondamentali, e potrebbe rendersi necessario un intervento dello Stato
per cercare di ripristinarle; libertà non può si- gnificare umiliazione
dell’altro. Per quanto ispirato alla massima apertura liberale, anche il
di- NUSSBAUM, Diventare persone. Tra sentimenti ed eguale rispetto scorso
di Martha Nussbaum pone il problema di eventuali limiti e suggerisce un
approfondimento del concetto di umiliazione. Rispetto di sé e umiliazione: la
concezione di Avishai Margalit Un tentativo di elaborare una nozione
politicamente spendibile – non soggettivistica o emotivistica – dei concetti di
‘rispetto di sé’ 69 e ‘umiliazione’ si deve ad Avishai Margalit e alla sua
teorizzazione sulla ‘società decente’, da intendersi come ‘società che non umilia.
La nozione di umiliazione proposta da Margalit è, per stessa ammis- sione
dell’Autore, di tipo normativo e non psicologico: umiliazione è ogni
comportamento o condizione che costituisce una valida ragione perché una
persona consideri offeso il proprio rispetto di sé. È di particolare
importanza, ai fini della presente indagine, la di- stinzione fra insulto e
umiliazione: pur essendo situati lungo un con- tinuum, rappresentano forme di
offesa qualitativamente differenti, la prima delle quali si rivolge all’onore
sociale, mentre la seconda lede il rispetto di sé inteso come percezione del
valore intrinseco della persona. L’insulto è contraddistinto da contenuti che
possono essere in un certo senso razionalizzati dal destinatario (ad esempio
anche in relazione alla verità o falsità degli asserti), l’umiliazione è più
gravo- sa: riprendendo la distinzione di Williams fra emozioni bianche e rosse,
Margalit ritiene che l’umiliazione sia associabile a un’emozione bianca, la
quale comporta che il soggetto umiliato si 69 Sul concetto di ‘rispetto di sé’,
con un’impostazione differente, si veda anche BAGNOLI, L’autorità della morale;
DWORKIN, Giustizia per i ricci, tr. it., Milano, MARGALIT, La società decente,
tr. it., Milano. MARGALIT, La società decente: questo è un significato
normativo piuttosto che psicologico dell’umiliazione. Il significato normativo
non comporta per sé che la persona che abbia una buona ragione per sentirsi
umiliata, di fatto si senta tale. D’altra parte, il significato psicologico
dell’umiliazione non compor- ta che la persona che si sente umiliata abbia una
buona motivazione per questo sentimento. La sottolineatura è sui motivi per
provare umiliazione come risultato di un comportamento altrui». Nel panorama
italiano, cfr. l’ampia analisi critica di TESAURO, Riflessioni in tema di
dignità umana, MARGALIT, La società decente. WILLIAMS, Vergogna e necessità,
tr. it., Bologna, 2007; un’emozione rossa è un’emozione in cui ci si vede
attraverso gli occhi dell’altro, e perciò si arrossisce. Con un’emozione bianca
una persona si vede attraverso l’‘occhio interno’ della propria coscienza, che
può farla impallidire. Fisionomia dell’offesa 165 guardi col
proprio occhio interno ma applicando al contempo il pun- to di vista del
soggetto umiliante, e dunque senza riuscire ad assume- re una distanza critica
dall’addebito, poiché l’umiliazione attecchisce in contesti di squilibrio fra
umiliatore e vittima, e assume l’effetto di una ‘minaccia esistenziale L’umiliazione
è più che un semplice insulto: «rifiutare un essere umano umiliandolo significa
rifiutare il modo in cui egli esprime se stesso come umano»75, radicalizzando
l’addebito su modi di essere costitutivi dell’individuo e negando l’umanità
dell’altro a causa di un’ap- partenenza significativa 76 che concorre a
definirne l’identità. Risulta perciò fondamentale distinguere quando
un’espressione abbia il significato di forte critica e quando invece sottenda
un’umi- liante esclusione e, di fatto, una discriminazione. 5. Ai confini fra
critica e discriminazione Dal punto di vista concettuale la differenza fra
critica e discrimi- nazione ricalca le due varianti del rispetto:
rispetto-stima come at- teggiamento le cui oscillazioni in positivo o in
negativo possono dar luogo a forme di critica legittima; rispetto-riconoscimento
come va- lore che può essere negato attraverso manifestazioni espressive volte
a umiliare e a marginalizzare. Si aggiunge in questo modo un ulteriore,
importante, tassello al- l’itinerario concettuale che ha preso le mosse
dall’esigenza di distin- guere offese ai meri sentimenti da condotte, e in
particolare, da for- me di espressione, che, non limitandosi a offendere
l’emotività sog- gettiva, si facciano veicolo di umiliazione e di negazione
dell’eguale libertà e dignità delle persone. MARGALIT, La società decente. MARGALIT,
La società decente. MARGALIT, La società decente, cit., pp. 165 ss. Secondo
l’Autore, ciò che rende più pregnante l’umiliazione è la connessione con il
concetto di ‘gruppo inclusivo’: si intende con tale definizione «un gruppo
che ha un comune carattere e una comune cultura, che include molti importanti e
vari aspetti della vita [nel quale] le persone che crescono nel gruppo ne
acquisiscono la cultura, e possiedono le sue particolari caratteristiche». Un
tratto particolarmente significativo riguarda il fatto che l’appartenenza al
gruppo è in parte materia di mutuo riconoscimento, nel senso che l’inclusione
nel gruppo non è determinata da una scelta personale: «esse appartengono [al
gruppo] a causa di quello che sono». 166 Tra sentimenti ed eguale
rispetto È però assai problematico trovare le rispondenze di tali distinzioni
all’atto pratico: «non è così netta, nella percezione viva, la differenza fra
l’offesa alla stima e l’offesa al riconoscimento come semplice per- sona,
perché le persone si identificano non solo con la propria umani- tà, ma
soprattutto con le loro qualità, le loro storie individuali» 77. Sia la critica
sia la discriminazione possono definirsi come forme di espressione
‘irrispettose’, e il sottile confine che le separa a livello fenomenico espone
al rischio, nella prospettiva giuridica, di continue oscillazioni tra vuoti di
tutela ed eccessi di intervento. Come osserva Michael Rosen, «[è] evidente che
il diritto a comportarsi in maniera irrispettosa debba essere maneggiato con
cura. Probabilmente vi sono dei limiti a ciò che dovrebbe essere permesso ma
dovremmo rifiu- tare l’idea che il linguaggio volto a irritare o insultare
violi automati- camente l’essenza intrinseca di ciò che ha valore nelle persone
con la conseguenza di “deprivarle della loro dignità di esseri umani”» 78.
All’inizio del capitolo abbiamo riportato alcuni episodi tratti dalle cronache
per identificare il tipo di conflitti in cui appare a nostro av- viso più
evidente il coinvolgimento di sensibilità soggettive, esclu- dendo da tale
apparato esemplificativo il tema del discorso d’odio (c.d. hate speech) e della
propaganda razzista. Ora, alla luce dell’esi- genza di distinguere fra critica
ed esclusione/discriminazione, il ri- chiamo al discorso d’odio diviene di
importanza centrale poiché è proprio l’elaborazione teorica in materia di hate
speech 79 a fornire in- teressanti spunti in tal senso. 77 MORDACCI, Rispetto. In
questi termini Michael Rosen rimarca l’esigenza di procedere con cautela nelle
restrizioni a forme di espressione: ROSEN, Dignità.Il tema dello hate speech è
indagato in modo particolarmente approfondito nel panorama anglo-americano, nel
quale l’orientamento maggioritario è di con- trasto alle limitazioni alla
libertà di espressione. In questo senso vi sono forti dif- ferenze rispetto al
panorama europeo, le cui ragioni affondano nella storia geopo- litica dei due
continenti. Quali esempi di contrarietà ai cosiddetti ‘hate speech bans’, pur
con diversità di accenti, v. HEINZE, Hate Speech and Democratic Citizenship,
Oxford; cfr. DWORKIN, Foreword, ed. by Hare-Weinstein, Extreme Speech and
Democracy, cit., pp. V ss.; POST, Hate
Speech, ed by Hare-Weinstein, Extreme Speech and Democracy. Nella vasta
letteratura, v., fra le opere collettanee, ed. by Hare- Weinstein, Extreme
Speech and Democracy, cit.; AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The Content and the
Context of Hate Speech: Rethinking Regulation and Responses, Cambridge, 2012. Per un quadro di sintesi sulle differenze emergenti
fra la giu- risprudenza statunitense ed europea v. KISKA, Hate speech: a
Comparison between the European Court of Human Rights and the United States
Supreme Court Juris- prudence, in 25 Regent University Law Review, Fisionomia
dell’offesa La connessione della problematica della tutela di sentimenti al
tema della discriminazione si lega a ragioni di maggiore selettività, mirate a
differenziare offese alla sensibilità, le quali dovrebbero con- siderarsi come
ricaduta di un fisiologico e pluralistico dissenso e co- me evento collaterale
alla libertà di critica, da manifestazioni di ne- gazione della pari dignità e
dunque del rispetto-riconoscimento. 5.1. Offesa ai sentimenti e offesa alla
dignità nello hate speech secondo Jeremy Waldron Un importante contributo viene
dal giurista Jeremy Waldron il quale argomenta sulla dannosità del discorso
d’odio a partire da quel- la che considera una fuorviante commistione fra hate
speech e tutela di sentimenti. Lo studioso sostiene che il disvalore dello hate
speech non vada identificato nello stato psichico negativo concretamente o
potenzial- mente indotto da manifestazioni espressive, e adotta in questo senso
una posizione di contrasto a incriminazioni fondate sulla logica dell’offense
di feinberghiana memoria; la protezione di sentimenti è un effetto solo
indiretto, così come l’induzione di stati psichici nega- tivi è un elemento
collaterale che non esaurisce il disvalore del di- scorso d’odio. L’orizzonte
dello hate speech dovrebbe coincidere con offese alla dignità del singolo in
quanto appartenente a determinati gruppi o credente in determinati ideali; le
forme di critica anche aspre e irriverenti che non rappresentino una
stigmatizzazione dell’individuo in ragione di suoi specifici tratti, dovrebbero
considerarsi al di fuori dell’area di interventi normativi 81. 80 Waldron si
caratterizza per un approccio più disincantato nei confronti del- la libertà di
espressione: l’Autore è aperto a prospettive di regolamentazione nor- mativa
del discorso pubblico e in questo senso si distingue nel panorama statuni-
tense in virtù di una posizione minoritaria, espressa in particolare negli
studi raccolti in WALDRON, The Harm in Hate Speech, Harvard. Per un quadro
generale e un excursus storico sulla libertà di espressione negli Stati Uniti,
v. KALVEN, A Worthy Tradition: Freedom of Speech in America, New York; per una
sintesi del dibattito su pornografia e blasfemia v. POST, Cultural
Heterogeneity and Law: Pornography, Blasphemy, and the First Amendment, in
California Law Review. Interessanti spunti sul tema sono offerti anche da
Robert Post il quale inter- preta la distinzione tra espressioni tollerabili e
intollerabili come riflesso di di- namiche di egemonia sociale delle classi
dominanti: secondo Post il discorso Tra sentimenti ed eguale rispetto
Ricondurre la questione dello hate speech a un problema di offesa a sentimenti
significherebbe sminuirne la portata 82, poiché una con- cezione emotivistica
dell’interesse protetto non dà adeguatamente conto del radicamento del discorso
d’odio e di come esso possa con- taminare l’ambiente sociale anche al di là del
turbamento emotivo indotto su singoli individui. Lo hate speech non appare
pertanto riducibile a un mero insulto dal forte impatto emotivo, ma piuttosto a
un discorso che può intac- care la considerazione sociale dei destinatari
dell’offesa, a detrimento di interessi come l’inclusività (inclusiveness) e la
garanzia (assurance) di non essere discriminati 84. Il punto fondamentale, secondo
Waldron, è distinguere fra espres- sioni che suscitano emozioni e dunque
‘offendono’ in un senso affine all’offense principle, ed espressioni che
‘aggrediscono’ la dignità del d’odio è ritenuto illegittimo poiché esorbita da
standard che rinviano a norme so- ciali dettate dai gruppi dominanti: quando il
diritto impone una determinata di- stinzione, come quella che richiede di non
accomunare espressioni di fisiologico disaccordo a manifestazioni d’odio, sta
in definitiva imponendo egemonicamente standard sociali di decorosità nei
rapporti intersoggettivi: «This suggests that whenever law chooses to enforce
cultural norms, as for example by enforcing norms that distinguish hate speech
from normal disagreement, law hegemonical- ly imposes a particular vision of
these norms. Hate speech
regulation imagines itself as simply enforcing the given and natural norms of a
decent society, á la Devlin; but from a sociological or anthropological point
of view we know that law is always actually enforcing the mores of the dominant
group that controls the content of law», v. POST, Hate Speech, cit., p. 130. Sembra fondarsi invece sulla ‘non astinenza
epistemica’ che accompagna i divieti in materia di hate speech, e che sarebbe
dunque incompatibile con una dimensione democratica del discorso pubblico, la
critica di fondo di HEINZE, Hate Speech. Nella letteratura italiana, con
diversità di accenti, sul problema della (tendenzialmente impossibile)
‘astinenza epistemica’ del legislatore in materia di regolamentazione del
discorso pubblico VISCONTI C., Aspetti penalistici; TESAURO, Ri- flessioni in
tema di dignità umana. La differenza
risiede nella distinzione «between undermining a person’s dignity and causing
offense to the same individual [...] to protect people from of- fense or from
being offended is to protect them from a certain sort of effect on their
feelings. And that is different from protecting their dignity and the assurance
of their decent treatment in society», WALDRON, The Harm in Hate Speech. WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 116; per
un approfondimento critico sul rischio di interpretazioni soggettivistiche, e
un riorientamento della categoria degli hate crimes in una prospettiva
incentrata su dissenso politico e rispetto per le differenze v. PERRY, A Crime
by Any Other Name: The Semantics of Hate, in 4 Journal of Hate Studies. WALDRON, The Harm in Hate
speech. Fisionomia dell’offesa soggetto («offending people and assaulting their
dignity»), intesa come basic social standing, the basis of their recognition as
social equals and as bearers of human rights and constitutional entitlements. Il turbamento che un soggetto possa eventualmente
avvertire, e dunque le emozioni negative che plausibilmente si accompagnano
alle parole87, non sono del tutto irrilevanti (e testimoniano come l’offesa
coinvolga qualcosa di importante per la persona), ma enfatizzarne il rilievo
significherebbe, secondo Waldron, esporsi alla critica che lo hate speech
tuteli meri sentimenti. L’offesa emotiva rappresen- ta una proiezione
soggettiva, ‘metonimica’ nel senso che descrive solo una parte della dimensione
del danno. Perché un’espressione di negazione del riconoscimento dovrebbe
essere ritenuta più grave di una critica irridente che offende il sentire
soggettivo? Fra le ragioni addotte a sostegno della diversa gravità di tali
forme di offesa, anche Waldron richiama l’insondabilità delle emozioni
soggettive e la mutevolezza delle soglie di suscettibilità individuale, the
basic distinction between an attack on the body of beliefs and an attack on the
basic social standing and reputation of a group of people is clear. In every aspect of democratic
society, we distinguish between the respect accorded to a citizen and the
disagreement we might have concerning his or her social and political
convictions. Defaming the group that comprises all Christians, as op- posed to
defaming Christians as members of that group, means defaming the creeds,
Christ, and the saints», WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 120. 86 WALDRON, The Harm in Hate speech, cit., p. 59. 87
Assumiamo come presupposto che le parole possano ferire, quantomeno in- ducendo
emozioni negative; il fatto che tali conseguenze possano non essere con-
siderate rilevanti in quanto non integrino la dimensione normativa del danno, è
un problema successivo, ma che non dovrebbe portare a disconoscere una di-
mensione di lesività a livello naturalistico. Sul punto risulta interessante la
posi- zione di Schauer, il quale sostiene che definire aprioristicamente come
‘minore’ il danno provocato da parole, solo perché ‘non fisico’ o meno
visibile, sia altamente opinabile. Riconoscere che un danno, inteso come sofferenza
fisica, possa crearsi, non significa automaticamente inferirne la rilevanza sul
piano giuridico in termi- ni di compressioni di libertà: «If there is a free
speech principle, then a conse- quence will be that a range of distresses and
negative outcomes produced by the relevant category of speech act will be
considered not to have caused harms in the legally redressable sense, but that
is very different from saying pretheoretically that it is a characteristic of
the acts that they are as category less harmful», SCHAUER, The Phenomenology of
Speech and Harm,Ethics. WALDRON, The Harm in Hate Speech. WALDRON, The Harm in
Hate Speech. Tra sentimenti ed eguale rispetto ma non
appaiono queste le ragioni decisive. L’offesa discriminatoria fa leva sulla
diversità per comunicare esclusione da ogni prospettiva di dialogo: in questo
senso realizza un’interazione con lo status sociale e relazionale delle persone
attraverso la negazione del patto etico su cui si fonda la convivenza, ossia la
pari dignità dell’altro 90. L’intru- sione nella sfera di libertà altrui si
realizza attraverso una potenziale compromissione delle trame sociali e relazionali,
e più in generale dell’ambiente sociale in cui dispiegano la propria esistenza
gli indivi- dui destinatari di determinate espressioni. Un’ulteriore importante
precisazione avanzata da JWaldron concerne la distinzione a livello concettuale
tra offese alla reputazio- ne del gruppo ed espressioni discriminatorie che si
riflettono sul sin- golo individuo in quanto appartenente al gruppo. Troppo
spesso, os- serva Waldron, la c.d. ‘diffamazione di gruppo’ (defamation group)
Si è osservato che l’incriminazione di tale tipologia di espressioni potrebbe
essere l’unica eccezione al principio secondo cui in uno Stato liberale non si
do- vrebbero incriminare concezioni di valore e modi di pensare:
«[d]iversamente ac- cade, eccezionalmente, soltanto quando certi comportamenti
manifestano e/o realizzano modi di pensare, convinzioni e concezioni di valore
con i quali viene propagandato e/o trasformato un certo stile di vita che
esclude in modo combat- tivo altre concezioni del bene, oppure addirittura nega
a certi gruppi all’interno della società lo stato di membri aventi gli stessi
diritti», v. WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mantenimento
di orientamenti sociali di carattere assiologico [cf. H. P. Grice, CONCEPTION
OF VALUE – AXIOLOGY]? ABEL, La parola e il rispetto, cit., pp. 101 ss., il
quale individua la c.d. ‘riproduzione della disuguaglianza di status’ come uno
dei possi- bili danni realizzabili dalle parole. D’obbligo il richiamo alla
cosiddetta ‘Critical Race Theory’ quale esempio di teoria che ha esposto con
dovizia argomentativa, per quanto non immune da obie- zioni, le ricadute
dannose del discorso denigratorio basandosi sulle espressioni a sfondo
razziale: in estrema sintesi si sostiene che la diffusione dell’odio, e in
parti- colare l’odio razzista, produrrebbe a livello individuale fenomeni di
ansia, disagio psichico e perdita di autostima tali da poter influire sulla
vita relazionale degli individui, mentre a livello sociale porterebbe alla
formazione di un clima culturale di ostilità fino a poter generare anche il
c.d. ‘Silencing Effect’, ossia l’effetto silenziatore consistente nello
screditare socialmente le minoranze offese fino a minare il loro status di
partner a livello comunicativo in ambito sociale. Per un’ampia e dettagliata sintesi
v. TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana; cfr. PINO, Discorso razzista
e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto; si veda
anche a cura di Thomas-Zanetti, Legge razza diritti. La Critical Race Theory
negli Stati Uniti, Reggio Emilia. Il lessico inglese distingue fra individual
defamation e group defamation intendendo con il secondo termine l’area di
problemi che viene comunemente identificata come hate speech. In many countries, a
different term or set of terms is used by jurist: instead of “hate speech”,
they talk about “group libel” or “group defamation”», v. WALDRON, The Harm in
Hate Speech. Mal- Fisionomia dell’offesa
171 viene intesa come offesa che, indirizzandosi ai valori che fondano
l’identità del gruppo, coinvolgono il singolo solo in termini di disagio
emotivo: non è questa la prospettiva con cui identificare lo hate speech.
L’offesa che dovrebbe rilevare come discorso discriminatorio è quella che
strumentalizza l’appartenenza al gruppo come fattore di degradazione e di
inferiorità della persona. In altri termini, una prospettiva di intervento
normativo non do- vrebbe avere ad oggetto principi o concezioni valoriali in
sé, neppure nella forma mediata di carattere identificativo di un gruppo, e
dunque nella loro dimensione sovraindividuale e impersonale. I cosiddetti ‘va-
lori’, intesi come principi su cui un soggetto impronta la propria vita specie
con riferimento alla sfera morale, possono assumere rilevanza in quanto
elementi costitutivi del modo d’essere degli individui. Al termine di tale
complessa disamina, un dato di fondo sembra difficilmente contestabile:
distinguere fra espressioni di odio e di cri- tica, tra offese alla dignità del
singolo in quanto aderente a un grup- po e offese alla reputazione del gruppo
stesso, e più in generale stabilire la portata offensiva di un’espressione
verbale o simbolica, è un’operazione ermeneutica che necessita di un’attenta
lettura di contesti e situazioni, e che non può essere imbrigliata in
categorizzazioni di carattere ‘assoluto. Ermeneutica del fatto ed ermeneutica
della norma Prima di verificare la rispondenza di tali distinzioni nelle eventuali
prassi applicative, si pone l’esigenza di una riflessione sul piano dei
presupposti del ragionamento. L’individuazione di un confine fra critica e
discriminazione si ri- grado la sostanziale identità sul piano lessicale, la
defamation group non appare perfettamente sovrapponibile a ciò che nel contesto
italiano viene definito diffamazione di gruppo come variante plurisoggettiva
del reato di diffamazione semplice, la quale è volta, quantomeno in via
teorica, a reprimere le medesime offese che rileverebbero ex art. 595 c.p.,
ossia un novero più ampio rispetto a ciò che si potrebbe definire ‘discorso
d’odio’ (v. infra, nota 120). 93 WALDRON, The Harm in Hate Speech. Sul tema, v.
DE MONTICELLI, La questione morale; cfr. RAZ, I va- lori fra attaccamento e
rispetto, tr. it., cur. di Belvisi, Reggio Emilia. Osserva GALEOTTI, La
politica del rispetto, che «culture e tradizioni possono avere un valore
estetico, storico e archeologico, ma non intrinsecamente morale. Il loro valore
morale deriva dal fatto che sono importanti e fonti d’ispi- razione per i loro
membri e non in sé. Tra sentimenti ed eguale rispetto flette sul raggio
applicativo di norme giuridiche, sia vigenti sia in prospettiva de iure
condendo, e dipende in primo luogo dall’interpre- tazione di dinamiche
intersoggettive e di aspetti fattuali: non sempli- cemente conoscenza di fatti,
bensì attribuzione di significato ad azioni ed espressioni. La distinzione fra
questi profili non sembra adeguatamente ap- profondita in sede teorica95, ed è
del tutto trascurata nel contesto giurisprudenziale, ove l’interpretazione del
fatto finisce per essere as- sorbita, e data per scontata, rispetto alla
sussunzione normativa, sen- za riconoscere che le peculiarità del fatto possono
dar luogo a pro- blemi logicamente autonomi e complementari all’ermeneutica
della norma giuridica: problemi «di interpretazione del fatto, e che si riflet-
tono sulla applicazione del diritto» 96. In questa sede ci limitiamo a
evidenziare come la distinzione fra ermeneutica del fatto ed ermeneutica della
norma si ponga a livello concettuale quale richiamo, a nostro avviso
necessario, per eviden- ziare fasi differenti nella gestione epistemica del
ragionamento giu- diziale 97. La soglia di rilevanza penale di manifestazioni
espressive costitui- sce un tema in relazione al quale i rapporti fra
ermeneutica del fatto ed ermeneutica della norma appaiono fortemente
compenetrati; co- me osservato da Richard Abel: «gli sforzi giuridici per
regolare l’espressione sprofondano nell’inelimi- nabile ambiguità dei
significati. Il senso e la valenza morale dei sim- 95 Un’opera dedicata ex
professo al rapporto fra giudicante e interpretazione di elementi
extragiuridici, e più in generale, al tema del ruolo dei valori culturali quale
fattore di influenza nelle decisioni giudiziali, è lo studio di BIANCHI
D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ, Valori socio-culturali
della giuri- sprudenza, cit. 96 PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni
penalistiche,a cura di Biscotti-Borsellino-Pocar-Pulitanò, La fabbrica delle
interpretazioni, Milano. Problema differente è se la distinzione fra
ermeneutica del fatto ed erme- neutica della norma sia meramente
concettualistica, finendo per restare assorbita nella spirale ermeneutica e
nell’intreccio tra fatto e diritto; sul tema, con diversità di accenti, v.
FIANDACA, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in ID., Il
diritto penale tra legge e giudice, Padova; DI GIOVINE O., L’in- terpretazione
nel diritto penale. Tra creatività e vincolo alla legge, Milano DONINI,
Disposizione e norma nell’ermeneutica penale, La fab- brica delle
interpretazioni; PULITANÒ, Nella fabbrica delle interpretazioni penalistiche;
PALAZZO, Testo e contesto. Fisionomia dell’offesa 173 boli variano radicalmente
a seconda di chi parla e di chi ascolta e pos- sono capovolgersi rapidamente,
perfino istantaneamente. Quando si ha a che fare con forme di espressione non
si pone tan- to un problema di conoscenza di fatti, quanto di selezione e
valuta- zione di elementi di contesto chiamati a definirne la dimensione di
significato: l’interpretazione di una manifestazione espressiva non si riduce a
un esame della lessicalità o a un riscontro oggettivo di gesti simbolici senza
tenere in considerazione la relazione intersoggettiva di base e il contesto di
sfondo. Lo studioso, ed eventualmente il giudice, si trovano alle prese con una
complessa ermeneutica finalizzata a concretizzare il volto del fatto punibile,
complementare rispetto all’ermeneutica della norma. Problemi simili sono emersi
con riferimento anche ad altri ambiti, ad esempio nell’interpretazione del
concetto di osceno in rapporto alla libertà di creazione artistica 100, in
relazione all’accertamento del- l’appartenenza culturale di un soggetto quale
eventuale causa di attenuazione della responsabilità101, e anche in relazione
all’interpretazione del gesto del bacio come condotta sessualmente pregnante
piuttosto che come approccio confidenziale e innocente. Come è stato osservato
in dottrina, la ricostruzione del fatto è probabilmente il momento più delicato
del procedimento interpretativo, avvinto in un intreccio col diritto che è
stato definito diabolico: l’interprete non è un semplice spettatore che importa
passiva- ABEL, La parola e il rispetto. FIANDACA, Problematica dell’osceno. FIANDACA,
Problematica dell’osceno. Una caso emblematico è la vicenda giudiziaria
relativa al film ‘Ultimo tango a Parigi’ di Bertolucci, oggi riassunta nel
volume di AA.VV., a cura di Massaro, Ultimo tango a Parigi quarant’anni dopo.
Osceno e comune sentimento del pudore tra arte cine- matografica, diritto e
processo penale, Roma; v. in particolare il saggio di MASSARO, Lo spettacolo
cinematografico osceno tra elementi elastici e difetto di determinatezza. DE
MAGLIE, I reati culturalmente motivati. In relazione a tale ultima questione si
è osservato come l’interpretazione del gesto non possa limitarsi a una statica
rispondenza con pattern comportamentali, ma richieda piuttosto una prospettiva
ermeneutica «incline a prendere in consi- derazione anche il contesto in cui il
contatto fisico si realizza e dunque la complessa dinamica intersoggettiva che
si sviluppa nell’ambito della situazioni coartanti, v. FIANDACA, Ermeneutica e
applicazione giudiziale. GIOVINE O., Considerazioni su interpretazione,
retorica e deontologia in di- ritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen. Tra
sentimenti ed eguale rispetto mente e acriticamente elementi della realtà
all’interno del proprio procedimento cognitivo, ma opera una selezione
determinata dalle peculiari modalità di apprendimento che caratterizzano in
modo dif- ferente ogni singolo individuo, sulla base di fattori che comprendono
il corredo neurobiologico, la dimensione delle esperienze personali, la matrice
culturale 104 e, piaccia o non piaccia, l’ideologia 105. In altri termini, il
giudicante non si limita a prendere atto di ele- menti di fatto, ma interpreta
i significati del fatto selezionando gli aspetti rilevanti per la decisione. In
fase applicativa tali questioni finiscono per restare assorbite, e non sufficientemente
distinte, dal piano strettamente giuridico, e si espongono in questo senso a
una gestione epistemica sulla quale in- combe il rischio di un uso non
adeguatamente sorvegliato di nozioni e di concetti che attengono al piano
socio-psicologico. In altri termini, sarebbe opportuno far sì che determinate
interpre- tazioni dei significati del fatto divenissero oggetto di analisi ed
even- tualmente di confutazione, «piuttosto che essere semplicemente fatte
passare per conoscenza generale o per ciò che i giudici ritengono esse- re, non
sempre correttamente, e non sempre indipendentemente dal 104 Per tutti, DI
GIOVINE O., L’interpretazione nel diritto penale. Per un’approfondita
riflessione, ancora attuale, sull’ideologia del giudice v. GRECO, Premessa,
Cfr. DE MAGLIE, I reati culturalmente motivati. Nel panorama italiano il
problema di una perizia relativa ai profili socio- culturali del fatto si è
posto, soprattutto in passato, con riferimento ai rapporti fra valore artistico
e oscenità, e ad oggi è discusso prevalentemente in relazione ai c.d. reati
‘culturalmente motivati’; in riferimento al tema della perizia artistica v.
LUCIANI, La nozione penalistica di “opera d’arte” di cui all’art. 529 c.p.
Considera- zioni di diritto sostanziale e processuale, a cura di Massaro,
Ultimo tango a Parigi. In relazione alla perizia culturale, oltre al citato
studio di Cristina de Maglie, va menzionato un ulteriore importante contributo
proveniente dall’ambito costituzionalistico nel quale viene tematizzata la
necessità di un avvaloramento epistemico del ragionamento giudiziale attra-
verso l’elaborazione un percorso volto a rendere tendenzialmente più oggettivo
l’accertamento di un conflitto culturale: v. RUGGIU, Il giudice antropologo.
Costitu- zione e tecniche di composizione dei conflitti multiculturali, Milano.
Sempre in tema di reati culturalmente motivati, con riferimento alla
valutazione della motivazione culturale, è frequente riscontrare nella
giurisprudenza di legittimità argomentazioni carenti e approssimative, sovente
esito di posizioni ideologiche pur benintenzionate ma nondimeno fortemente
discutibili: per un esempio v. Cass. pen., sez., con nota di FERLA, Il pugnale
dei Sikh tra esigenze di sicurezza e divieti normativo-culturali, in Giur. it. Fisionomia
dell’offesa loro retroterra culturale,
la saggezza comune dell’umanità» 108. Per tali ragioni ben si comprende che la
valutazione del margine di confine fra espressioni tollerabili ed espressioni
non consentite, anche ove sia tenuta a distanza dalla sensibilità della
vittima, finisca poi per essere esposta, e dipendere in larga misura, anche
dalla sen- sibilità dell’interprete, sia esso studioso teorico o applicatore di
even- tuali norme 109. Si tratta di un fattore problematico del quale va tenu-
to conto sia come chiave di lettura delle oscillazioni riscontrabili nel- la
casistica giurisprudenziale, sia quale elemento di riflessione in rapporto al
ruolo che i giudici assumono, o potrebbero assumere, nel farsi arbitri della
soglia di intervento penale 110. In relazione a un ulteriore profilo, sempre
legato alla ricerca di SCHAUER, Il ragionamento giuridico, tr. it., Bari.
Sottolinea con chiarezza TARUFFO, Senso comune, esperienza e scienza nel
ragionamento del giudice, in ID., Sui confini. Scritti sulla giustizia civile,
Bologna, che il ragionamento del giudice non è determinato da criteri o norme
di carattere giuri- dico, bensì, quando supera i confini di ciò che
convenzionalmente si intende per ‘diritto’, risulta impregnato anche del
cosiddetto ‘senso comune’. Da ciò la neces- sità che il giudice sia
«consapevole della frammentazione e della variabilità delle coordinate
conoscitive e valutative che ormai sono i tratti dominanti della società
attuale. In ambito penalistico, HASSEMER, Perché punire è necessario., osserva,
con realismo, che il giudice fa ricorso a teorie del senso comu- ne sia per
questioni inerenti al contenimento dei tempi del giudizio, ma anche perché il
suo ruolo deve restare comunque centrale rispetto ai pareri della scien- za;
nondimeno egli deve assumersi tale responsabilità epistemica: il giudice penale
ha il diritto e il dovere di apportare il suo sapere fattuale e di assumer-
sene la responsabilità. Da questa responsabilità non può liberarlo alcun pare-
re». Sul cosiddetto ‘senso comune’ v. Supra. Esempio emblematico di ermeneutica
del fatto impregnata di discutibili principi di psicologia del senso comune,
per lo più riflesso di precomprensioni del giudicante, sono le sentenze
relative alla vicenda del film ‘Ultimo tango a Parigi, Ultimo tango a Parigi.
Un’altra pronuncia, più recente, in cui risulta altamente opinabile
l’ermeneutica del fatto è Trib. Latina, riportata in SIRACUSANO, Vilipendio
religioso e satira: “nuove” incriminazioni e nuove soluzioni giurisprudenziali,
in Stato, Chiese e pluralismo confessionale; per una critica v. VISCONTI C.,
Aspetti penalistici. Il fenomeno è evidente soprattutto in quelle disposizioni
che hanno un’importanza politica, che regolano cioè, in senso lato i rapporti
fra lo Stato e i cittadini, e che – naturalmente – consentano più di
un’interpretazione. E, nella possibilità di una duplice interpretazione, l’una
e l’altra certamente, per così dire, politica, può stabilirsi, attraverso
l’esame di una decisione, l’indirizzo ideo- logico del giudice», v. BIANCHI
D’ESPINOSA, Introduzione, in BIANCHI D’ESPINOSA- CELORIA-GRECO-ODORISIO-PETRELLA-PULITANÒ,
Valori socio-culturali della giurisprudenza. Tra sentimenti ed eguale rispetto
una soglia oggettiva di tollerabilità delle forme di espressione e, più in
generale riferibile alle norme che richiamino, implicitamente o espressamente,
fatti di sentimento, è stato condivisibilmente osserva- to in dottrina che
quando vengono in gioco interessi di tutela assimi- labili in tutto o in parte
a sentimenti la tipicità diviene prevalente- mente valutativa, rimettendo al
giudice bilanciamenti che, teorica- mente, il diritto avrebbe dovuto
cristallizzare in astratto 111. Un caso emblematico è l’onore personale, in
relazione al quale si è osservato come esso non si presti a una
predeterminazione esaustiva, ma sia in definitiva co-determinato dall’incidenza
che i diritti costituzionalmente rilevanti esercitano nel determinarne i limiti
di estensione. Si è parlato di una ‘tipicità on balance’ «nel senso che la
figura criminosa in questione, lungi dall’essere ricostruita una volta per tut-
te in modo stabile e definitivo assume una fisionomia variabile che dipende
dalle caratteristiche del caso concreto. In altri termini, un intreccio
simbiotico tra fatto e antigiuridicità, alla luce del quale non è appropriato
parlare di un giudizio di tipicità del tutto indipendente dalla eventuale
sussistenza di cause di giustificazione, con la conse- guenza che le operazioni
di bilanciamento sottese al momento giusti- ficativo finiscono per avere una
funzione indispensabile al fine di integrare la tipicità stessa. Fattispecie così
strutturate, prive cioè di una dimensione lesiva compiutamente apprezzabile in
sede di tipicità, scaricano sul momento applicativo la definizione di requisiti
strutturali, imponendo in via surrogatoria al giudice di tracciare
autonomamente i confini dell’illi- ceità attraverso tecniche di bilanciamento a
vocazione “tipologica. GIUNTA, Verso un rinnovato romanticismo penale? TESAURO,
La diffamazione. TESAURO, La diffamazione. TESAURO, La diffamazione. TESAURO,
La diffamazione. Oltre a tale profilo, e alle connesse implicazioni di teoria
del reato, un simile intreccio fra tipicità e giustificazione rappresenta a
nostro avviso la conferma che l’interpretazione dei conflitti in tema di
libertà di espressione si sottrae a una logica binaria, tale per cui o vi è
offesa o vi è esercizio di libertà; si tratta di un ambito dominato da
situazioni in cui il con- fine tra lecito e lecito non solo non appare
predeterminabile in chiave di tipicità astratta, ma è poroso, labile. Si è
osservato che uno dei limiti della giurispruden- za italiana sul vilipendio
alla religione è quello di adottare, con discutibili percor- si argomentativi,
un’impostazione secondo la quale l’operatività della scriminante dell’esercizio
di un diritto rappresenta un’alternativa che si pone in rapporti dico-
Fisionomia dell’offesa L’incardinamento dei bilanciamenti sottesi alla
giustificazione fra le trame di una tipicità ‘di matrice giudiziale’, se da un
lato può ac- crescere il potenziale di discrezionalità degli applicatori, dall’altra
parte produce l’effetto di concepire il fatto tipico come struttura in fieri,
aperta alla presa in carico di problemi e di istanze sociali che trovano voce
attraverso le cause di giustificazione 116, ricollocandone il raggio d’azione
non semplicemente come elementi tali da neutra- lizzare una precedente
offensività, ma come fattori che influiscono sul disvalore del fatto in
concreto. In questo senso si potrebbe ipotizzare che l’intreccio fra tipicità e
giustificazione finisca per assegnare alle scriminanti un ruolo di ‘re- spiro’
della fattispecie astratta simile a quello svolto dagli elementi normativi di
matrice culturale. Le norme limitative della libertà di espressione appaiono in
questo senso ‘a geometria variabile’117, ossia modellate su bilanciamenti che
risentono dei mutamenti dei costumi e delle soglie di tollerabilità so- ciale,
non fissabili aprioristicamente ma da determinarsi in relazione a un quadro di
contingenze storiche e culturali. A conferma del fatto che non si possono
affrontare tali questioni senza una chiara messa a fuo- co del contesto che fa
da sfondo alle espressioni, ai mondi morali a confronto e alle contingenze
storico-politiche: «[l]a apparentemente distaccata, analisi di diritto positivo
su libertà di parola e repressione penale è [...] insidiata e talora travolta
dal calore dell’urgenza della realtà così com’è, e quindi dal confronto
politico tout court» 118. tomici con eventuali interessi concorrenti; in questo
modo la ricognizione dei conflitti finisce per adagiarsi su una logica binaria,
trascurando, o negando, che ciò che rende legittimo l’esercizio di una libertà
o di una eventuale limitazione non è la radicale inconfigurabilità di un
eventuale controinteresse, ma si tratta invece di un giudizio legato a
contingenze del caso concreto e a criteri di oppor- tunità della sanzione; v.
VISCONTI Aspetti penalistici.Come osservato da Donini, il mondo dei diritti
riflesso nelle cause di giustificazione riguarda la continua evoluzione della
società civile una varietà ed evoluzione che sottostà all’apparente staticità
delle incriminazioni e produce a volte nuove fattispecie di reato create in via
legislativa, ma è capace di bilanciare tali diritti anche dentro e contro le
vecchie incriminazioni, le quali non sanno darci un’immagine della società se
non attraverso il mondo dei diritti, che cambiano il vero contenuto dei beni
protetti dal codice penale, anche se questo può restare apparentemente
invariato per decenni, v. DONINI, Critica dell’antigiuridicità e collaudo
processuale delle categorie. I bilanciamenti d’interessi dentro e oltre la
giustificazione del reato, in Riv. it. dir. proc. pen. Traggo l’espressione da
PULITANÒ, Diritto penale, VII ed., cit., p. 126, il quale la usa per definire
gli elementi normativi di valutazione culturale. 118 VISCONTI C., Aspetti
penalisticiTra sentimenti ed eguale rispetto SEZIONE II Alla prova dei fatti:
blasfemia e propaganda razzista Non ho niente contro Dio, è il suo fan club che
mi spaventa WOODY ALLEN SOMMARIO: 6. Illegittimità o tollerabilità delle restrizioni
penalistiche al discorso pubblico? Il dibattito sui rapporti fra libertà di
espressione e sensibilità religiosa. L’ambiguità dell’art. c.p. Le vignette di
Charlie Hebdo: diritto di offendere o offesa tollerabile? Le norme sulla propaganda razzista in Italia:
quale spazio a sentimenti? Il discorso razzista fra estremismo politico e
insulto discriminatorio. Sinossi. Illegittimità o tollerabilità delle
restrizioni penalistiche al discorso pubblico? Il tema della potenziale
dannosità a livello sociale di determinati contenuti espressivi chiama in causa
l’orizzonte comunicativo del di- scorso pubblico, il quale per definizione
caratterizza il livello di liber- tà e di apertura della democrazia in rapporto
al pluralismo delle idee e ai margini di tolleranza e di repressione del
dissenso. Si tratta dell’area in cui la legittimazione di eventuali restrizioni
normative è più problematica: offese circoscrivibili alla dialettica fra
persone fisiche possono essere ricomprese nella tutela dell’onore in- L’oggetto
della libertà di espressione è il discorso. Non qualsiasi tipo di di- scorso,
bensì il discorso pubblico. L’esercizio della libertà di espressione ha una
vocazione di pubblicità, di trascendenza nella sfera pubblica. La libertà di
espressione è, in questa misura, il requisito fondamentale della comunicazione
politica in democrazia», v. ROIG., Libertà di espressione, cit., p. 36.
Sull’etica del discorso pubblico come strumento volto alla realizzazione, e non
solo all’affermazione, di valori, v. VIOLA, La via europea della ragione
pubblica, in AA.VV., a cura di Trujillo- Viola, Identità, diritti, ragione
pubblica in Europa, Bologna. Fisionomia dell’offesa 179 dividuale120,
eventualmente come condotte qualificate da contenuti tali da aggravare la
responsabilità, situandosi in un’area di crimina- lizzazione che, per quanto
problematica 121, non è mai stata messa se- riamente in discussione dal punto
di vista della legittimità costitu- zionale 122. Maggiori criticità si
addensano su altre fattispecie tese a incrimi- nare manifestazioni del
pensiero, in primo luogo la propaganda raz- zista di cui all’art. 3 comma 1,
lett. a, della legge n. 654 (introdotto dalla c.d. Legge Mancino,
cronologicamente successiva): non atti di istigazione alla discriminazione o
alla violenza 123, ma pa- L’ambito applicativo della fattispecie di cui
all’art. 595 c.p. (diffamazione semplice) non si estende, secondo
giurisprudenza costante, a offese rivolte a col- lettività, anche se
circoscritte, di persone. Per una panoramica della giurispru- denza della Corte
Edu e della giurisprudenza italiana v. CUCCIA, Libertà di espres- sione e
identità collettive, Torino; Nella giurisprudenza italiana, v. Cass. pen., sez.
V, 04/04/2017, n. 16612; cfr. Cass. pen., sez. V, 09/12/2014, n. 51096; più
datata è Cass. pen., sez., in Giur. it., con nota di LARICCIA, Sulla tutela
penale delle confessioni religiose acattoliche; in senso favorevole, v. Cass.
pen, sez. V, 16/01/1986, in Dir. inf., Per una sintesi del problema v. LA ROSA,
Onore, sentimento religioso e libertà di ricerca scientifica, nota a Trib.
Mondovì, 22 febbraio 2007, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Da
ultimo, FIANDACA, Sul bene giuridico. Si veda C. cost., n. 86/1974. Cfr.
ROMANO, Legislazione penale e tutela della per- sona umana (Contributo alla
revisione del Titolo del codice penale), in Riv. it. dir. proc. pen., 1/1989,
p. 61; SIRACUSANO, Problemi e prospettive della tutela penale dell’onore, Verso
un nuovo codice penale, Milano; DONINI, Ana- tomia dogmatica del duello. L’onore
dal gentiluomo al colletto bianco, in Indice pena- le, 2000, pp. 1080 ss.; per
una sintesi, nel quadro di una posizione non radicalmente abolizionista ma tesa
a limitare l’intervento penale a offese particolarmente gravi (attribuzione di
fatti non corrispondenti a verità in contesti comunicativi estesi a più
persone), v. GULLO, Diffamazione e legittimazione dell’intervento penale. Fra i
costituzionalisti v. PUGIOTTO, Le parole sono pietre?, cit., p. 15; MANETTI,
Libertà di pensiero e tutela delle identità religiose. Introduzione ad
un’analisi comparata, in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, 1/2008, p.
46. La legittimità del- la tutela dell’onore individuale non è messa in
discussione dalla Corte Edu, la quale si è limitata, fino ad oggi, a rilevare
gli eccessi della risposta penale dell’ordina- mento italiano, in quanto,
secondo la Corte Edu, non dovrebbe essere prevista, sal- vo casi eccezionali,
la sottoposizione a pena detentiva; v. per tutte, Corte eur. dir. uomo, Sez.
II, sent. 24/09/2913, Belpietro c. Italia, ric. n. 42612/10; per una sintesi
del problema e per un’analisi della giurisprudenza italiana più recente sul
tema del trattamento sanzionatorio della diffamazione v. GULLO, Diffamazione e
pena detenti- va, in www.penalecontemporaneo.it, 3/2016, pp. 1 ss. 123
Incriminati ai sensi dell’art. 3 della legge n. 654/1975 lett. seconda parte –,
e lett. Tra sentimenti ed eguale rispetto role e discorsi che possono
costituirne un volano. Secondariamente, vengono in gioco le residue ipotesi di vilipendio
alla religione, soprattutto l’art. 403 c.p., il quale si presenta nelle fogge
di un’offesa al- l’onore personale ma sembra assumere nelle applicazioni
giurispru- denziali un ruolo dai contorni più ampi. È soprattutto con riguardo
a tali tipologie di incriminazione che oggi la dottrina penalistica fa ricorso
al lessico dei sentimenti per sot- tolineare in chiave critica un’asserita
impalpabilità del substrato dell’offesa: valga, come sintesi, il rilievo di
Tesauro il quale si chiede se tramite l’incriminazione della propaganda
razzista non si finisca per tutelare emozioni collettive (di scandalo,
imbarazzo, disgusto, inquietudine o paura), e se, dunque, non assomigli molto
da vicino alla tutela penale di un sentimento a cavallo tra solidarietà e allarme
sociale. Insomma, un impasto a metà strada fra sentimenti individuali di
umiliazio- ne pubblica, reputazione di gruppo, uguaglianza formale senza
distinzioni di razza, ordine pubblico ideale, universalismo morale
anti-discriminazione. È plausibile ritenere che dietro tale norma vi siano
anche, in buo- na parte, input che promanano da un disagio socialmente diffuso
di fronte al fenomeno razzista, e che dunque la norma in un certo senso finisca
per assumere anche la funzione di tutela di un sentire democratico. Tale
rilievo, per quanto difficilmente confutabile, non sembra però sufficiente a
chiudere il discorso sulla legittimazione. Al di là delle indiscutibili
criticità, è lo stesso Tesauro a riconoscere che la que- stione non va
declinata in termini meramente concettualistici ma è «irriducibilmente
etico-politica e dagli esiti altamente controvertibili e resta aperta a opposte
soluzioni che convogliano giudizi di valore, preferenze culturali e scelte di
politica criminale. TESAURO, La propaganda razzista; si veda anche SPENA,
Libertà di espressione e reati di opinione. L’analisi destrutturante di Tesauro
evidenzia inoltre come il ricorso al cor- rettivo ermeneutico del pericolo
concreto non appaia sufficiente a contenere l’ambito di applicazione della
disposizione entro una ragionevole area di oggettività, v. TESAURO, Riflessioni
in tema di dignità umana. TESAURO, La propaganda razzista. Nella dottrina
statunitense si è osservato criticamente che i discorsi a favore o contro il
disvalore degli hate crimes sono affetti da un elevato grado di concettualismo,
poiché, attraverso la ricerca di un danno oggettivo riconducibile all’odio,
cercano di rendere meno Fisionomia dell’offesa È una questione
politicamente e costituzionalmente aperta, non archiviabile frettolosamente
dietro l’invocazione, pur benintenziona- ta, dell’art. 21 Cost.: sono in gioco
valori costitutivi della democrazia costituzionale, la cui protezione ha
importanza rilevante anche (non solo) da un punto di vista simbolico. Il
problema di un equilibrio con la libertà di espressione finisce per scaricarsi
sul momento applicativo, alla ricerca di una ragionevolezza con mitezza
attenuata, secondo una formula che è stata adoperata per indicare che il
bilanciamento costituzionale fra valori confliggenti, e l’eventuale sacrificio
di uno di essi (questo il senso della ‘non mitezza’), devono essere comunque
accompagnati da ragionevolezza 128. Previsioni incriminatrici ‘non illegittime’
come quelle che l’ordina- mento italiano annovera nella legge Mancino necessitano
di un regime di sorveglianza speciale: la loro tollerabilità è legata al grado
di ragionevolezza applicativa. Un problema di qualità delle decisioni
giudiziali, i cui esiti di giustizia non possono darsi per scontati: il ri-
spetto del principio costituzionale della libertà di espressione richiede che
le interpretazioni e le applicazioni siano fortemente selettive, calibrate su
criteri fra i quali deve a nostro avviso essere tenuta ben presente, quantomeno
a livello concettuale, la necessità di distingue- re tra espressioni che
offendono la mera sensibilità ed espressioni che veicolano contenuti di
umiliazione. Tale delega alla phronresis giudiziale è motivata dalla
constatazione, a nostro avviso, di una non eliminabilità dall’ordinamento di
fattispecie pur discutibili come quelle che incriminano la propaganda razzista:
troppo forte la risonanza etica e la consustanzialità dei beni in gioco in
rapporto ai valori che la democrazia riconosce come proprio fondamento.
evidente il portato assiologico della scelta di politica del diritto al fine di
restare coerenti con un liberalismo asseritamente neutrale: v. KAHAN, Two
Liberal Falla- cies in the Hate Crimes Debate, in 20 Law and Philosophy. Si
veda anche WOHLERS, Le fattispecie penali come strumento per il mante- nimento
di orientamenti sociali di carattere assiologico?, secondo il quale
rappresentazioni di valore e convinzioni possono essere considerati come
legittimi beni da proteggere nel caso in cui la loro lesione metta in
discussione l’«intesa sociale-normativa dominante. Traggo l’espressione da
SALAZAR, I destini incrociati della libertà di espres- sione e della libertà di
religione: conflitti e sinergie attraverso il prisma del principio di laicità,
in Quad. di diritto e politica ecclesiastica, la quale sottoli- nea che il
bilanciamento fra valori costituzionali potrebbe portare al sacrificio di uno
di essi, non ‘mite’ dunque, ma pur sempre (necessariamente) ragionevole; vi può
essere ragionevolezza senza mitezza, ma non mitezza senza ragionevolezza. Tra
sentimenti ed eguale rispetto Non si tratta però di un assunto risolutivo,
bensì di un fattore che rende ancora più complesso il gioco di equilibri e che,
soprattutto, responsabilizza la figura del giudicante quale anello ultimo e
decisivo di una ‘catena della ragionevolezza’129 necessaria per affrontare il
problema di limiti alla libertà di espressione. A risultare determinanti
saranno doti di sensibilità culturale e ca- pacità interpretativa dei fenomeni
da parte del giudice, nel quadro di una sapienza non ‘algoritmica’ 130 bensì
auspicabilmente vicina a una saggezza pratica. È tutt’altro che scontato, e
sarebbe ingenuo pensare, che tali doti risiedano in misura sufficiente nella
totalità dei giudici, ma sarebbe forse altrettanto frettoloso dare per scontato
che non vi siano margini per una intelligente e ‘non intollerabile’ gestione
dell’arsenale penali- stico in materia di libertà di espressione. Il problema è
aperto, e sollecita l’intero mondo della cultura giuridica a meditare su
percorsi di studio e di formazione funzionali a dare ai soggetti giudicanti gli
strumenti per un’attenta lettura delle vicende e dei contesti fattuali, non
semplicemente delle norme 131. Nel prosieguo compiremo una sintetica disamina
di alcuni recenti sviluppi giurisprudenziali in relazione alla tutela del
sentimento reli- gioso e alla normativa sulla discriminazione razziale. Il tema
del discorso razzista rappresenta la palestra concettuale più significativa per
verificare la tenuta della distinzione fra critica e discriminazione. 129 Sul
tema della ragionevolezza nel diritto penale v. per tutti PULITANÒ,
Ragionevolezza e diritto penale, Napoli, ZAGREBELSKY, Su tre aspetti della
ragionevolezza, in Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della
Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, in Atti del Seminario
svoltosi in Roma, Palazzo della Consulta, Milano. Osserva FIANDACA, Il giudice
tra giustizia e democrazia nella società complessa, in ID., Il diritto penale
tra legge e giudice, che sarebbe necessario un affinamento culturale nella
preparazione dei magistrati, attraverso uno studio specifico delle logiche del
ragionamento giudiziale e di altri aspetti che regolano il giudizio di fatto
oltre che il giudizio di diritto. Istanze che vengono rimarcate da VINCENTI,
Diritto e menzogna. La questione della giustizia in Italia, Roma, quando
descrive criticamente il giudice contemporaneo come «funzionario o burocrate,
vittorioso in un concorso a cui segue una progressione in carriera pressoché
automatica, formatosi su di una letteratura accademica di stampo ma-
nualistico, spesso obsoleta e comunque aliena dal ricercare il perché delle
regole, abituato a ragionar per massime, naturalmente assai poco curioso di
andare oltre le rappresentazioni istituzionali e poco propenso ad assumere il
dubbio metodico quale cifra del proprio agire. Fisionomia
dell’offesa Quanto alla residua fattispecie di vilipendio di cui all’art. 403
c.p., non si richiede che le espressioni siano discriminatorie; lo schema
tipico rimane quello della condotta di insulto, del tenere a vile. Nondimeno,
si pone l’esigenza di distinguere tra offese al patrimonio ideale delle
confessioni, plausibilmente foriere di affronti alla sensibi- lità dei credenti
ma che oggi dovrebbero considerarsi penalmente ir- rilevanti, da offese
all’onore della persona. Iniziamo dai rapporti fra religione e libertà di
espressione con particolare riferimento alla satira, per sondare alcuni recenti
ap- prodi giurisprudenziali nel contesto italiano e per dedicare una ri- flessione
al caso delle pubblicazioni del settimanale francese Charlie Hebdo, al centro
dell’attenzione dopo i tragici episodi. Il dibattito sui rapporti fra libertà
di espressione e sensibili- tà religiosa In nome di sentimenti religiosi è
stato di recente versato del san- gue; l’esercizio di una libertà che è cifra
simbolica dell’occidente libe- rale ha attivato spirali di violenza e generato
un clima di terrore al cospetto del quale la riflessione sui modi d’uso della
libertà non può abbandonarsi a cliché morali, pur benintenzionati, o a ingenui
ireni- smi. Su un piano fattuale non sembra esservi ragione più immediata e
plausibile della suscettibilità emotiva per dar conto delle conflittuali- tà
emerse; se pure nella prospettiva penalistica i sentimenti possono difettare di
tassatività, dall’altro lato, essi sono però in grado di pro- durre conseguenze
ben visibili, a conferma della loro rilevanza indi- viduale e sociale. 132
PROSDOCIMI, voce Vilipendio (reati di), in Enciclopedia del diritto, Milano. Sul
vilipendio religioso v. MORMANDO, I delitti contro il sentimento religioso e
contro la pietà dei defunti, in Trattato di diritto penale. Parte speciale,
diretto da Marinucci-Dolcini, vol. V, Padova, 2005, pp. 148 ss.; ID., «Lai-
cità penale» e determinatezza. Contenuti e limiti del vilipendio, in AA.VV., a
cura di Dolcini-Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, vol. III, Milano.
Per un’accurata e ben documentata silloge di episodi in cui sono emersi at-
triti fra satira e religione v. RUOZZI, Piccolo manuale di blasfemia
audiovisiva. Dal Mistero Buffo televisivo a Southpark, in AA.VV., a cura di
Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Tra sentimenti ed eguale
rispetto Il traumatico ritorno in scena della sensibilità, o forse, più pro-
priamente, della suscettibilità religiosa nel contesto occidentale costituisce
un attacco frontale alla libertà di espressione per mano di for- ze che hanno
usato il linguaggio della violenza e dell’annientamento dell’altro. A
prescindere da quello che sia il giudizio sul merito delle rappre- sentazioni
satiriche danesi e di Charlie Hebdo, va detto in premessa che le reazioni
suscitate «non possono essere assunte a parametro di un “sentimento religioso”
rilevante per il nostro ordinamento. Proprio le caratteristiche che ne fondano
il forte e preoccupante rilievo politico, sullo sfondo di un te- muto “scontro
di civiltà”, e sollecitano adeguate valutazioni e risposte politiche, impongono
di tenere ferma la valutazione di estraneità e per così dire irricevibilità giuridica.
Il sentimento religioso, che può porre un problema di tutela, non può essere
misurato sulle fatwe né su vio- lenze aizzate politicamente in altri paesi»
134. L’agire violento esclude ogni prospettiva di considerazione giuri- dica
per le istanze avanzate; resta tuttavia in piedi l’interrogativo su come sia
più ragionevole oggi configurare una tutela del sentimento religioso ‘a misura
liberale’. Uno dei nodi di fondo si identifica nell’al- ternativa fra tutela
della/e religioni e tutela delle persone che profes- sano una religione 135: se
la prima ipotesi rappresenta un retaggio del passato incompatibile con i
principi del pluralismo assiologico e di laicità136, la seconda è aperta a
diverse declinazioni. Riorientare la tutela sulla persona del credente esclude
la prospettiva del bene di civiltà; meno scontato è l’approdo ultimo. Vediamo
in che termini la distinzione fra tutela della confessione e della persona del
credente entra oggi in gioco nel panorama appli- cativo dell’ordinamento
italiano. 134 PULITANÒ, Laicità e diritto penale. Cfr. FERRARI, La blasfemia in
Europa, dalla tutela di Dio alla tutela dei credenti, in resetdoc.org,;
CIANITTO, Libertà di espressione liber- tà di religione: un conflitto
apparente?, a cura di Melloni-Cadeddu- Meloni, Blasfemia, diritti e libertà. Cfr.
CANESTRARI, Libertà di espressione e libertà religiosa, Ex plurimis, PALAZZO,
La tutela della religione tra eguaglianza e secolarizzazione. Fisionomia
dell’offesa L’ambiguità dell’art. 403 c.p. La distinzione tra offesa alle
credenze e offesa alla persona trova un punto di riferimento nell’art. 403 c.p.
La fattispecie costituisce, in- sieme all’art. 404 c.p., un residuo delle
ipotesi di vilipendio origina- riamente previste, fra le quali l’art. 402 c.p.
(dichiarato costituzionalmente illegittimo con la sentenza) costituiva la norma
più emblematica e dai risvolti più critici. Davvero il vilipendio alla
religione può dirsi decriminalizzato sul piano della sostanza? L’art. 403 c.p.
e l’art. 404 c.p. ne recuperano in parte l’eredità residua, circoscrivendo le
ipotesi di rilevanza penale a una casistica più definita (quantomeno
formalmente) di azioni le quali dovrebbero avere a oggetto le persone che
professano una religione o cose destinate al culto 140. Dopo la caduta
dell’art. 402 c.p., è l’offesa alla persona che potrebbe rendere legittima una
restrizione alla libertà di manifestazione del pensiero, lasciando fuori
dall’area di intervento le forme di critica al patrimonio ideale di una confes-
sione. In realtà l’art. c.p. appare caratterizzato da una formulazione non
particolarmente felice, la quale persiste nella rubrica e nel te- 138
L’incriminazione del vilipendio della religione cattolica è caduta sotto la
scure della Consulta non per contrasto con l’art. 21 Cost., bensì per violazione
degli artt. 3 e 8 Cost., in linea con un trend interpretativo che non ha mai
asseconda- to le pochissime richieste di illegittimità dei vilipendi alla
religione per violazione dell’art. 21 Cost. Risulta solo un ordinanza, la n.
479/1989, nella quale è stata sol- levata questione di legittimità
costituzionale dell’art. 403 c.p. per contrasto anche con l’art. 21. In quel
caso la declaratoria della Corte è stata la manifesta inammis- sibilità per la
non pertinenza della questione rispetto al giudizio in corso, senza alcuna
riflessione sul merito dei rapporti tra l’art. 403 c.p. e l’art. 21 Cost. Per
una panoramica della giurisprudenza costituzionale sull’art. 402 c.p., v.
SALAZAR, I «destini incrociati» della libertà di espressione. Sembra aderire a
un recupero pressoché pieno della portata dell’art. c.p. FALCINELLI, Il valore
penale del sentimento religioso, la quale, adesiva- mente alla giurisprudenza,
osserva che il vilipendio generico a una confessione religiosa, anche in assenza
del riferimento a persone determinate, possa rientrare nell’art. 403 c.p., e
che anche l’offesa a simboli, come ad esempio il crocifisso, possa assumere
rilevanza penale ai sensi della medesima disposizione. Di diverso avviso
PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale, in AA.VV., a cura di
Risica- to-La Rosa, Laicità e multiculturalismo. Profili penali ed extrapenali,
cit., pp. 245 s. 140 Le condotte descritte dalle fattispecie non sono del tutto
simmetriche: nel caso dell’art. 403 c.p. il vilipendio esprime la modalità di
lesione, mentre nell’art. 404 c.p. è l’offesa alla confessione religiosa a
costituire l’evento strumentale alla realizzazione del vilipendio a cose che
formino oggetto di culto. Tra sentimenti ed eguale rispetto sto141 a
riconoscere la centralità del vilipendio alla confessione reli- giosa 142,
relegando in una posizione strumentale l’offesa a chi la pro- fessa: «l’offesa
alla religione resta il criterio ermeneutico essenziale del settore. Non sono
mancate applicazioni in cui la Corte di Cassazione ha optato per un approccio
repressivo, sostenendo che ai fini dell’inte- grazione dell’art. 403 c.p. sia
sufficiente che le espressioni di vilipen- dio siano genericamente riferite
alla indistinta generalità dei fedeli «tutelando la norma il sentimento religioso
e non la persona (fisica o giuridica) offesa in quanto appartenente ad una
determinata confes- sione religiosa» 144. Tale pronuncia si esprime con
nettezza a favore di un’interpretazione impersonale del vilipendio; sentenze
successive, pur senza la medesima univocità, ne hanno ricalcato gli itinerari
logico-argomentativi, rivelando nel complesso un’adesione (inconscia?)
all’impostazione del defunto art. 402 c.p. In un caso un soggetto è stato
condannato per aver esposto «nel centro di Milano un trittico da lui realizzato
– tre fotocopie in bianco e nero, stampate su tela – raffigurante,
rispettivamente, il Pontefice in carica, un pene con testicoli e il segretario
personale del Pontefice, con la didascalia, Chi di voi non è culo scagli la
prima pietra. E anche nel regime della perseguibilità, prevista d’ufficio, la
quale enfatizza la dimensione istituzionale dell’interesse protetto. 142 Un
problema ben noto alla dottrina penalistica già negli anni Settanta; per
un’approfondita critica agli orientamenti giurisprudenziali che operavano una
sostanziale commistione fra artt. 402 e 403 c.p., applicando quest’ultimo anche
a casi di offesa impersonale a contenuti di fede v. PULITANÒ, Spunti critici. MORMANDO,
I delitti contro il sentimento religioso; sulla stessa li- nea di pensiero v.
FLORIS, Libertà di religione; MANETTI, Libertà di pen- siero e tutela delle
identità religiose, cit., p. 65; PACILLO, I delitti contro le confessioni
religiose, cit., pp. 39 ss. Cfr. ROMANO, Principio di laicità dello Stato, cit.,
p. 214: «il fatto vietato e punito resta il vilipendio delle religioni». Viene
fatto notare come il trattamento sanzionatorio più grave per il vilipendio del
ministro di culto con- fermi l’orientamento della tutela verso l’assetto
istituzionale delle confessioni re- ligiose, così SIRACUSANO, Pluralismo e
secolarizzazione dei valori. La di- sposizione è dunque ambigua e si presta a
usi discutibili; in dottrina si è rilevato che per salvarla sul piano della
legittimità costituzionale occorrerebbe prendere sul serio la direzione
personale del vilipendio e il legame da accertarsi in concreto, non in via
presuntiva, del vilipendio alla confessione con l’offesa alla persona, v.
PULITANÒ, Laicità e diritto penale, cit., p. 313; cfr. SERENI, Sulla tutela
penale della libertà religiosa, Cass. pen., sez. Cass. pen., sez. Fisionomia
dell’offesa 187 In un secondo episodio vi è stata condanna per aver esposto un
cartellone raffigurante sullo sfondo una sagoma costituita dall’im- magine del
Pontefice in carica, e, in primo piano, un bersaglio costituito da una serie di
cerchi concentrici con l’indicazione di punteggi vari, riportante in calce la
scritta: «1.000 punti, caramelle, preservati- vi, vino e ostie sconsacrate se
centri quel buco di culo da cui quoti- dianamente vomita fiumi di merda» 146.
La Corte di Cassazione sembra riproporre la teoria dei limiti logici, quando
afferma che in materia religiosa la critica è lecita quando – sulla base di
dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – si traduca nella
espres- sione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora
antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di meto- do, da
persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione: mentre
trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudi- zio sommario e gratuito –
manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla
istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di
valore e di pregio ad essa rico- nosciute dalla comunità. In entrambi i casi
menzionati la rilevanza penale delle condotte non appare in discussione; si
pone però la questione se l’offesa sia da considerarsi rivolta alla persona del
Pontefice o piuttosto al ruolo istituzionale e dunque al legame con un certo
tipo di opinioni espres- se dall’istituzione ecclesiastica in tema di etica
sessuale; l’integrazione della diffamazione appare pacifica, meno scontato è il
vilipen- dio alla religione ex art. 403 c.p. Secondo la lettura proposta dalla
Corte tale fattispecie non sem- brerebbe configurarsi come delitto contro
l’onore e la dignità della persona, ma assumerebbe piuttosto le vesti di un
mero surrogato del vecchio vilipendio ex art. 402 c.p., orientato alla tutela
di un interesse affine al bene di civiltà. In occasione della condanna per il
trittico 146 Cass. pen., sez. Per una ricostruzione del panorama
giurisprudenziale sul punto v. SIRACU- SANO, I delitti in materia di religione;
PACILLO, I delitti contro le con- fessioni religiose, cit., pp. 111 ss.; in
termini generali, sulla teoria dei limiti logici v. CARUSO, Tecniche
argomentative della Corte costituzionale e libertà di manifesta- zione del
pensiero, in forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/-
pdf/documenti_forum/paper/0360_caruso. Cass. pen., sez. III, 07/04/2015, n.
41044. 149 Cfr. SIRACUSANO, Vilipendio religioso e satira. Tra sentimenti ed
eguale rispetto raffigurante il Pontefice, la Cassazione ha osservato che: «ai
fini della configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive
siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente
riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa.
Perciò il vilipendio di una reli- gione, tanto più se posto in essere attraverso
il vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto
rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa,
legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21» 150. Si
tratta di un orientamento che inverte il rapporto tra offesa alla persona e
offesa al credo: la religione non appare come elemento qualificante l’offesa
alla persona ma è il bene ultimo di un’incrimi- nazione che concepisce l’offesa
individuale in termini strumentali ed episodici. Appare in questo senso
avvalorata la tesi di chi ha individuato l’interesse protetto dalle nuove
norme, post riforma, in un bene «a carattere superindividuale, la cui
“consistenza” si gioca prevalentemente sul piano ideale, così come sul medesimo
piano si pone la condotta espressiva ritenuta lesiva del bene protetto. Possiamo
in definitiva affermare che l’offesa alla persona del credente resti ancora
oggi marginale, pur in presenza di una disposizione che, nel suo tenore
formale, si presenta come un delitto contro l’onore qualificato dallo status
della persona offesa, ma che di fatto 150 Cass. pen., sez. VISCONTI C., Aspetti
penalistici; cfr. PELISSERO, La parola perico- losa. Il confine incerto del
controllo penale del dissenso, in Questione giustizia. Nel complesso si rimane
ancorati a un sistema che differenzia tra forme di religiosità classiche e
forme di religiosità diversa o c.d. negativa. Il legislatore conferma un favor
verso manifestazioni della spiritualità ancora- te a un’ottica tradizionale che
si identifica nelle forme di organizzazione delle religioni; sul punto gli
orientamenti nella dottrina divergono: da un lato SIRACUSA- NO, Pluralismo e
secolarizzazione dei valori, rileva che
«siamo ben lontani dall’unica possibile prospettiva di tutela nello Stato
laico: quella che si fonda su una considerazione paritaria di tutte le opzioni
individuali in materia di fede, quindi anche delle opzioni agnostiche ed atee»;
diversa è l’opinione di ROMANO, Principio di laicità dello Stato, il quale
riconosce il completo silenzio serbato dal legislatore «su forme di agnosticismo
o di ateismo attivo, prati- cato con personali accenti di doverosità morale»,
concludendo tuttavia che esso «non porterebbe ad alcuna “discriminazione
ideologica perché per eventuali offese arrecate a forme associative ispirate a
pur radicate convinzioni areligiose o agnostiche non è parso seriamente
evocabile, nella situazione del nostro Paese, un qualsiasi rischio per la
tranquillità». Fisionomia dell’offesa 189 guarda più alla matrice
dello status che a colui che ne è il rappresentante: la tutela di un’asserita
sensibilità collettiva, legata all’offesa del patrimonio ideale di una
confessione, costituisce ancora oggi il punto di riferimento principale 152. La
casistica esaminata appare tutto sommato non particolar- mente problematica,
quantomeno sul piano della rilevanza penale: vi è il coinvolgimento di soggetti
concretamente individuabili, e a fronte di espressioni ingiuriose resta tutt’al
più aperto il problema se si tratti di vilipendio alla religione o di offese
tali da integrare la diffamazione. Problemi più complessi sorgerebbero se le
forme di espressione avessero ad oggetto non persone reali, ma simboli, icone,
e in generale i dogmi di una confessione. Nel contesto italiano la caduta del
vili- pendio ex art. 402 c.p. dovrebbe deporre per l’irrilevanza penale; il
problema merita però di essere analizzato anche in un’ottica extraor-
dinamentale, in riferimento a episodi dove l’irrisione satirica ha su- scitato
reazioni violente, con un’evidente sovraesposizione del fattore emotivo. Le
vignette di Charlie Hebdo: ‘diritto di offendere’ o offesa tollerabile?
Prendiamo in esame quello che è stato definito uno ‘stress test’ per i modelli
di tutela, ossia il caso delle vignette pubblicate dal setti- manale francese
Charlie Hebdo e, originariamente, dal settimanale danese Jyilland Posten. Anche
la dottrina penalistica italiana si è po- sta l’interrogativo se tali
manifestazioni espressive possano assumere rilevanza penale nell’ordinamento
italiano; la risposta, condivisibil- mente argomentata, è stata di segno
negativo 154: nell’attuale panora- ma normativo le vignette irridenti la
religione islamica non sarebbero incriminabili poiché non rivolte a soggetti
determinati ma orientate a ironizzare su dogmi e contenuti di fede 155. 152 Per
un’approfondita disamina del problema della diffamazione delle reli- gioni in
ambito internazionale v. ANGELETTI, La diffamazione delle religioni nella
protezione ultranazionale dei diritti umani, in AA.VV., a cura di Brunelli,
Diritto penale della libertà religiosa. CIANITTO, Quando la parola ferisce.
Blasfemia e incitamento all’odio religioso nella società contemporanea, Torino,
BASILE, La pubblicazione delle dodici vignette, BASILE, La pubblicazione delle
dodici vignette. Tra sentimenti ed eguale rispetto Al di là della riconducibilità
a una norma incriminatrice, è oppor- tuno chiedersi se i contenuti delle
vignette siano accostabili a un’of- fesa ai sentimenti o al venir meno del
rispetto-riconoscimento. Le vignette danesi (oggi facilmente visualizzabili su
internet) non sembrano operare una vera e propria critica o messa in
discussione di asserti religiosi, ma adoperano uno stile comunicativo
particolar- mente forte nelle rappresentazione di figure sacre, violando in
primo luogo il divieto di rappresentazione del Profeta. Si può a nostro avviso
parlare di blasfemia, nel senso di rappre- sentazioni empie per l’ottica di un
fedele, e dunque plausibilmente offensive del sentimento religioso. Non sembra
però potersi chiamare in causa una vera e propria discriminazione assimilabile
a hate speech: solo nel caso di un’unica vignetta, raffigurante il Profeta con
una bomba in testa, si è osservato, a nostro avviso in modo forse un po’
forzato, che potrebbe veicolare un messaggio discriminatorio in forza di
un’assimilazione dell’Islam a una religione di guerra e a una considerazione di
tutti gli islamici come terroristi. Il discorso sulle vignette pubblicate nel
corso degli anni dal settimanale francese Charlie Hebdo necessiterebbe di
essere sviluppato attraverso un’analisi dettagliata delle singole immagini: non
essendo possibile in questa sede, ci limitiamo ad alcune considerazioni di li-
vello generale sui rapporti fra libertà di satira ed eguale rispetto. Partiamo
da un presupposto: l’interpretazione dei contesti, gli at- tori delle vicende e
le contingenze storico-sociali sono fattori coessenziali nella configurazione
degli equilibri di rispetto. Conseguen- temente l’interrogativo sulla
tollerabilità di un’espressione satirica appare destinato a ricevere risposte
differenti a seconda dei soggetti coinvolti, dei contesti e delle epoche.
L’umorismo e la satira possono essere gravemente irrispettosi a seconda delle
cadenze adoperate e degli aspetti della persona che mettono in ridicolo. Si
tratta di un buon punto di partenza per uscire dalla ingannatoria ricostruzione
che vorrebbe distinguere tra ‘satira buona’ o vera satira, e ‘satira cattiva’:
il fine della satira è toccare cor- de sensibili, e l’irrispettosità non è un
aspetto patologico, bensì è connaturato al fenomeno satirico. È plausibile che
la satira offenda dal punto di vista emotivo chi ne è oggetto, nel senso che a
nessuno piace essere preso in giro e che l’essere irrisi induce tendenzialmente
emozioni negative. 156 CIANITTO, Libertà di espressione e libertà di religione:
un conflitto apparente?; amplius, v. EAD., Quando la parola ferisce. Fisionomia
dell’offesa. Pensiamo alla solidarietà che il nostro Paese ha giustamente
tributato al giornale francese Charlie Hebdo per l’inaccettabile e brutale
aggressione subita: rimarchiamo che il gesto criminale non ha atte- nuanti, e
l’affermazione della libertà di satira rappresenta un princi- pio fondamentale.
Nondimeno, va considerato che l’appoggio solidale a Charlie è frutto di
un’intrinseca parzialità, poiché concernente un fatto (le vignette sull’Islam)
che non aveva un impatto emotivo pari a quello provato dai fedeli di religione
musulmana. Basta cambiare esempio per accorgersi come anche nel nostro Paese
l’atteggiamento nei confronti della satira muti radicalmente ove vi sia un diverso
coinvolgimento. Si pensi alle vignette pubblicate sempre da Charlie Hebdo in
occasione del terremoto avvenuto nel- l’Italia centrale ad agosto 2016: le
risposte dell’opinione pubblica so- no state ben differenti, fino ad arrivare,
da parte di soggetti delle isti- tuzioni, alla definizione di schifo. Ben
diverso era il clima emoti- vo che aveva indotto molti cittadini ad adottare
come effige dei propri profili telematici il logo ‘je suis Charlie’. Rispetto
alle vignette sull’Islam cambia l’atteggiamento perché so- no diverse le
emozioni suscitate nei destinatari, ma la sostanza dei fatti appare non
dissimile: in entrambi i casi la satira ha colto nel se- gno, stimolando
sensazioni forti, probabilmente offendendo emoti- vamente, e suscitando
reazioni sdegnate da parte dei diretti destina- tari, ma sempre di satira si
tratta. A partire da queste premesse, forse poco politically correct ma ade-
renti alla realtà dei fenomeni, si pone il problema su come legittima- re
l’esercizio della satira in quanto potenzialmente irrispettosa e in grado di
dare fastidio 158. Nel contesto penalistico si è talvolta tracciato il confine
fra espres- sioni tollerabili e non tollerabili attraverso una ricerca
‘ontologica’ di cosa sia satira e cosa invece si collochi al di là di essa, al
fine di far derivare da tale ricostruzione effetti sul piano normativo,
adottando. Così le ha definite il Presidente del Senato della Repubblica; la
notizia è re- peribile su
tgcom24.mediaset.it/politica/vignetta-charlie-su-sisma-gras-
so-libero-di-dire-che-fa-schifo.Diritto di satira e libertà di religione godono
entrambi di protezione a li- vello costituzionale, e sono pertanto «due beni,
dunque, destinati ad una convi- venza mite, senza sopraffazioni dell’uno
rispetto all’altro», così COLAIANNI, Dirit- to di satira e libertà di
religione, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Per una definizione e
una panoramica ricostruttiva del genere espressivo della satira, v. RATANO, La
satira italiana nel dopoguerra, Messina- Firenze. Tra sentimenti ed eguale
rispetto una concezione ‘deontologica’ della satira. Un simile modo di
argomentare si caratterizza a nostro avviso per una fallacia che possiamo
ricondurre alla violazione della Legge di Hume in senso inverso, ossia come
ricostruzione fattuale a partire da un presupposto normativo: sarebbe satira
ciò che non viola una certa soglia di continenza e che dunque non offende. Tale
modo di procedere non consente di scindere adeguatamente i confini
identificativi della satira da quelli che debbano essere, eventualmente, i
limiti normativi. Come è stato efficacemente osservato: «Alla fine, sembra
dunque non si possa fare a meno di accettare che la satira non abbia confini,
benché in un senso diverso rispetto a quello che intendono quanti declinano
questa tesi come tesi morale libertaria (“la satira non deve avere confini”);
nel senso, invece, di una tesi con- cettuale che afferma che la libertà di
satira non ha confini certi, poi- ché ci manca la possibilità di realizzare una
precisa delimitazione teori- ca, attraverso la quale stabilire in maniera
incontrovertibile quando ci si è mossi nell’alveo della libertà di satira e
quando invece si è trasceso e si è entrati in un altro terreno, che, per quanto
lo si possa continuare a considerare satirico, diventa sanzionabile
dall’ordinamento. Ciò non significa postulare una ‘amoralità’ della satira, ma
al con- trario pone le condizioni per giudicare in modo distinto il fine
dell’espressione satirica dalle modalità con le quali essa si manifesta: il
fine positivo della satira non è incompatibile con un umorismo par-
ticolarmente caustico tale da essere financo irrispettoso e desacraliz- zante.
Quale argomento a sostegno della libertà di satira si è osservato che una
politica di tolleranza, e dunque non restrittiva, rappresenti un mi- Si veda ad
esempio Trib. Latina, quando osserva che «[l]a satira è, dunque, un punto di
vista che si distingue dal dileggio, dal vilipendio, dall’offesa, perché
fornisce una lettura diversa della realtà e manifesta un giudizio di valore»; e
ancor più netta è Cass. pen., sez. I, 24/02/2006 n. 9246: «La satira,
notoriamente, è quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo
livello) che nei tempi si è addossata il compito di ‘castigare ridendo mores’;
ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di
persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di
carattere etico, correttivo cioè verso il bene». Per una panoramica sulla
giurisprudenza v. FLORIS, Libertà di religione; INFANTE, Satira: diritto o
delitto?, in Dir. inf.; CAROBENE, Satira, tutela del sentimento religioso e
libertà di espressione. Una sfida per le moderne democrazie, in Calumet. BÒ,
Col sorriso sulle labbra. La satira tra libertà di espressione e dovere di
rispetto, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Fisionomia
dell’offesa 193 gliore humus per l’attecchimento di principi fondamentali che
hanno una base dialettica e che, ove venissero cristallizzati in una teca al
ri- paro da aggressioni, rischierebbero di trasformarsi in dogmi. Un simile
modo di argomentare è stato definito come ‘utilitarismo delle regole’:
l’atteggiamento di chi ha risolto la ‘questione Charlie’ af- fermando sì la
presenza di un’offesa, ma optando per il pieno risco- noscimento della libertà
di espressione, sarebbe viziato dal fatto che «nel dirigere l’attenzione verso
le regole, l’utilitarismo insinua il so- spetto che le conseguenze di un atto o
di una regola non siano in fondo determinanti per i giudizi e i valori etici di
una persona: che lo siano invece le regole in quanto tali, in quanto vengono
considerate intrinsecamente giuste, quali che siano le conseguenze della loro
appli- cazione» 162. Si può riassumere tale critica anche come un’obiezione di
‘disinte- resse alle conseguenze’: «la sicurezza con la quale si proclama tale
opinione è totalmente aliena dai calcoli pazienti e minuziosi che sa- rebbero
richiesti per sostanziare quella giustificazione (e ne rivela la vanità. L’argomento
definito come ‘utilitarismo delle regole’ è da tenere in seria considerazione
anche nella prospettiva giuridica; tuttavia, ciò che agli occhi del filosofo
appare come un disinteresse alle conseguenze può rappresentare nella
prospettiva penalistica una scelta di prudenza in rapporto a eventi offensivi
la cui prevedibilità non appaia supporta- ta da una base nomologica sufficiente
a legittimare divieti penali. Tenderemmo quindi a ritenere preferibile come
opzione ultima la non restrizione della libertà di satira, ma al di là
dell’atteggiamento BÒ, Col sorriso sulle labbra. BENCIVENGA, Prendiamola con
filosofia. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. Tutt’altro che risolutivo si
rivela anche il ricorso a criteri di selezione delle condotte ben consolidati
nel pensiero penalistico e avallati dalla Corte costituzionale: ci riferiamo
allo schema del pericolo concreto, in merito al quale, come è stato
efficacemente rilevato da Alessandro Tesauro, anche la selezione delle pro-
prietà universalizzabili del caso concreto da utilizzare come criteri indiziari
di una pericolosità effettiva della condotta, costituisce un’attività
‘normativamente compromessa’, nel senso che non porterà comunque a individuare
criteri di corri- spondenza suscettibili di verifiche empiriche, ma il ruolo
determinante sarà pur sempre giocato da scelte di valore dell’interprete, v.
TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana. Ciò che allora deve spingerci a
non censurare quelle espressioni satiriche che, pur non istigando alla
violenza, mancano gravemente di rispetto ai gruppi deboli e svantaggiati non è
una generica libertà di espressione (questo, in alcuni 194 Tra
sentimenti ed eguale rispetto prudenziale, riteniamo che la soluzione liberale
possa trovare legit- timazione anche attraverso un ragionamento che si richiami
al criterio dell’eguale rispetto e al bilanciamento fra reciproche pretese.
Quando si analizzano i disaccordi in materia di satira religiosa bi- sogna
individuare dei presupposti valoriali per impostare la discus- sione, ossia dei
compromessi sul cui equilibrio ciascuna delle parti possa avere voce in
capitolo: anche «coloro che credono in una reli- gione presa di mira possono
dover considerare che il diritto di ridere di qualunque religione può esso
stesso essere considerato dagli altri come un articolo di fede» 166. La sostanza
di tale argomento è condi- visibile, anche se il percorso concettuale, con una
‘moltiplicazione di articoli di fede’, rischia di tramutarsi in un pendio
scivoloso. Eguale rispetto dovrebbe significare preservare la libertà di pro-
fessare una religione da un lato, e la fede nella libertà di satira, dal-
l’altra: un impegno a far sì che nessun pregiudizio venga arrecato alle due
libertà. Ebbene, la pretesa di coloro che chiedono restrizioni alla libertà di
satira appare in questo senso sproporzionata poiché mentre vignette ed
espressioni anche ‘urticanti’ non arrecano un vero e pro- prio pregiudizio alla
libertà del credente e alla sua identità religiosa, la pretesa di comprimere la
libertà di espressione altrui risulte- rebbe un vulnus sproporzionato. Si potrebbe
a questo punto prendere in esame un ulteriore argo- mento, basato sulla
maggiore suscettibilità che determinati fedeli, come ad esempio quelli di
religione islamica, adducono sostenendo che ogni offesa alla propria religione
è anche, intrinsecamente, un’of- fesa alla dignità delle persone che la
professano. Ebbene, quale spazio di legittimità può essere riconosciuto a tale
obiezione? Abbiamo introdotto il problema parlando della suscettibilità sog-
casi, come abbiamo visto, è sbagliato) e nemmeno il fatto che quelle
espressioni contribuiscano in qualche modo al raggiungimento della “verità” (in
molti casi, questo è falso); piuttosto, a caldeggiare una politica di
tolleranza nei loro con- fronti è il fatto che consentono ai principi che ci
sono cari di difendersi sempre meglio e mantenersi vivi e tonici, e con essi il
tipo di società nella quale aspiriamo a vivere», v. BÒ, Col sorriso sulle
labbra. TELFER, Umorismo ed eguale rispetto, in AA.VV., a cura di
Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto, Milano. Utilizzo tale concetto
nell’accezione sviluppata da PINO, Sulla rilevanza giuridica e costituzionale
dell’identità religiosa, in Ragion pratica, ossia come «l’insieme delle
credenze, dei valori, delle appartenenze che un individuo ha in materia specificamente
religiosa», e dunque come aspetto specifico della sfera della coscienza.
168 WALDRON, The Harm in Hate Speech. Fisionomia dell’offesa gettiva nella
trattazione di Joel Feinberg; in questo caso il discorso è però differente,
poiché riguarda non la suscettibilità di un singolo soggetto, ma di un gruppo:
l’interrogativo è se si tratti di una vulne- rabilità meramente emozionale o
se, diversamente, sia anche ricon- ducibile a una particolare debolezza sociale
del gruppo. Con riferimento a tale seconda ipotesi, esponiamo le tesi di due
Autori già incontrati nel corso dell’indagine. Da un lato, Margalit osserva che
un gruppo vulnerabile, con una storia di umiliazione e sospetto da parte di
coloro che lo circondano, specialmente da parte della cultura dominante, è
suscettibile di interpretare ogni critica come umiliazione. Waldron tematizza
il problema senza richiamare l’eventuale debolezza di un gruppo, ma incentrando
il discorso sulla totale identificazione fra soggetto e ideologie/credenze. Di
fronte all’interrogativo sul peso che possa essere riconosciuto alla percezione
soggettiva nel caso di gruppi vulnerabili, e dunque al- la rilevanza della
vulnerabilità nell’interpretazione dell’offensività di un’espressione, le
posizioni di Margalit e Waldron divergono: biografia personale e matrici
culturali sono fattori che probabilmente in- fluiscono su prese di posizione
concernenti ‘scelte ultime’170, la cui argomentazione in termini razionali è
particolarmente difficoltosa. Il filosofo israeliano propone i seguenti criteri
di soluzione: un primo criterio, basato
sulla reciprocità secondo cui dovreb- be essere considerato critica qualunque
cosa si desideri offrire ad altri e che si accetterebbe ove venisse offerta a
noi stessi; un secondo criterio, in favore dell’interpretazione del gruppo
vulnerabile, si lega alla «necessità morale di far pendere la bilancia
dell’errore nell’interpretazione verso la parte del debole», e va però
bilanciato da un altro principio secondo cui «qualunque cosa fosse considerata
critica piuttosto che umiliazione se avvenisse “in fami- glia”, cioè
all’interno del gruppo, dovrebbe pure essere considerata tale se proveniente
dall’esterno del gruppo. Diversamente da Margalit, il quale dunque non esclude
una carità interpretativa a favore dei gruppi vulnerabili, Waldron rimarca la
ne- cessità di non assecondare normativamente pretese avanzate in forza di
un’identificazione fra persona e ideali religiosi o politici: richieste
MARGALIT, La società decente. Traggo questo concetto da BOBBIO, L’età dei
diritti, Torino, MARGALIT, La società decente. [H. P. GRICE, principle of conversational helpfulness:
what a decent chap does!] MARGALIT,
La società decente. Tra sentimenti ed eguale rispetto di tutela di questo tipo
sono da considerarsi esorbitanti in un conte- sto pluralista. Vi è l’esigenza
di una limitazione delle pretese sogget- tive, pur tenendo conto che il legame
identificativo fra individuo e ideali può essere così intenso da essere
assimilabile a una ‘seconda pelle’; ma ciò non può giustificare sul piano
politico provvedimenti normativi che limitino le libertà di tutti per
preservare la serenità interiore di alcuni . Sintetizzando: sia Margalit sia
Waldron concordano sulla necessi- tà di prendere atto che determinate
espressioni meritino una partico- lare attenzione da parte del diritto poiché
possono esorbitare dall’or- dinario range della critica e del mero insulto e divenire
forme di umi- liazione e discriminazione della persona. Per Margalit il
discrimine fra insulto e umiliazione può essere diverso a seconda del tipo di
de- stinatari in quanto di fronte a un gruppo cosiddetto vulnerabile
l’interpretazione delle espressioni dovrebbe essere condotta tenendo conto
anche, eventualmente, della peculiare sensibilità; secondo Wal- dron tale
differenziazione non è mai normativamente giustificabile e si presterebbe a
divenire un problematico moltiplicatore di divieti sulla base di pretese
soggettivistiche. Concordiamo con Waldron che l’identificazione fra critica a
fedi e valori e offesa alla persona, rappresenti un argomento knock-out che
sbilancerebbe le posizioni in gioco. Il credente il quale esige che i propri
principi non vengano mai irrisi, adducendo che ciò significherebbe
automaticamente offendere lui come persona, sta implicitamente cercando di
sottrarre le proprie posizioni assiologico-religiose dal dibattito, ponendosi
in questo senso in una posizione di supremazia, limitando la libertà di
espressione altrui secondo criteri che non sono confutabili poiché si
sottraggono per definizione a ogni ti- po di confronto. La prova di tale
incommensurabilità fra posizioni emerge in relazione a un ulteriore test
secondo il quale dovrebbe essere ritenuta of- fensiva un’espressione che nessun
membro del gruppo avrebbe rite- nuto divertente, anche se a pronunciarla fosse
stato uno del grup- po stesso. Tale test trascura a nostro avviso un dato
fondamentale, ossia che i conflitti fra sensibilità nascono proprio dal fatto
che vi possono essere gruppi che non accettano un certo modo di fare ironia
tout court; non è un problema di qualità della satira, ma semplicemente la
WALDRON, The Harm in Hate Speech. TELFER, Umorismo ed eguale rispetto,
Fisionomia dell’offesa satira su certi temi potrebbe non essere ritenuta mai
ammissibile. Un test di questo tipo non appare ad esempio risolutivo se
applicato alle vignette sul Profeta Maometto poiché la religione islamica non
sem- bra tollerare alcun tipo di ironia in questo senso. Bisogna dunque
prendere atto che tali test sono poco funzionali quando pretendono di mettere a
confronto pretese fra loro incompatibili poiché ricondu- cibili a gruppi che
non si riconoscono nei medesimi valori. L’analisi filosofica di Ermanno
Bencivenga è in questo senso spie- tata quando osserva che dal fedele di
qualsivoglia religione non si può esigere un atteggiamento lassista e
compromissorio sul rispetto della propria fede. Il carattere radicale del
vincolo è tale per cui l’al- trui libertà di satira non potrebbe mai essere
ritenuta tollerabile. In definitiva, il tema dell’identificazione fra soggetto
e credenze spinge verso esiti illiberali: pretese modulate su una simile
rigidità non possono essere accolte in un contesto pluralista, nel quale un in-
teresse, pur di rango elevato, va comunque calato in una prospettiva di
bilanciamento. Sintetizzando, la risposta all’interrogativo sulla libertà di
satira, anche quando consista in vignette dissacranti come quelle pubblicate in
Danimarca e come alcune di quelle pubblicate dal settimanale Charlie Hebdo,
deve essere a nostro avviso positiva: nessuna rilevanza penale secondo
l’attuale normativa italiana, ma anche nessuna futu- ribile prospettiva di
censura. Attenzione però a non fare della satira un dogma: parlare di libertà
di deridere è una formula schietta ma che rischia di prestar- si a distorsioni.
Esprimersi a favore della libertà di satira non signifi- ca ritenerla
insindacabile; da un lato il riconoscere l’irrispettosità del- la satira può
non essere elemento sufficiente per inferirne l’opportu- nità di una
criminalizzazione; dall’altro l’irrilevanza penale non im- plica la
certificazione di un buon uso della libertà di espressione BENCIVENGA,
Prendiamola con filosofia. Cfr. PINO, Sulla rilevanza giuridica e
costituzionale dell’identità religiosa. Concordiamo in questo senso con
CANESTRARI, Libertà di espressione e liber- tà religiosa. TELFER, Umorismo ed
eguale rispetto, Problema che si riconnette al più ampio tema dei valori e di
un’etica della convivenza le cui polarità non dovrebbero essere determinate
dalle dicotomie del- la liceità e illecità penale: «un’etica non legale e non
penalistica di comportamen- to», come condivisibilmente osservato da DONINI, Il
diritto penale come etica pub- blica, Modena, Tra sentimenti ed eguale rispetto
Non appare opportuno diffondere a livello comunicativo formule come ‘libertà di
offesa’ o ‘diritto di offendere’, mentre è bene riflettere su come gestire da
un punto di vista sociale e comunicativo quelle che possono essere definite
‘offese tollerabili’, o meglio offese che i cittadini devono (imparare a)
tollerare. La liceità dell’irrispettosità umoristica lascia aperto il problema
di una ricostituzione del rispetto reciproco, di luoghi simbolici in cui possa
essere offerta una compensazione a offese che, come nel caso delle reli- gioni,
toccano strati profondi della persona. Riconoscere che le vignette di Charlie
Hebdo possano ferire e abbiano offeso credenti di religione islamica non significa
avallare la bestialità omicida dei terroristi, né comporta quale immediata
implicazione quella di invocare lo strumento penale quale saracinesca. È però
un punto importante per avviare un riconoscimento a soggetti che abbiano
avvertito soggettivamente un’umi- liazione per la derisione ai propri simboli,
anche in virtù del fatto che si tratta di appartenenti a gruppi deboli o
comunque a minoranze, nei confronti dei quali l’irrisione satirica può comunque
rappresentare una forma di amplificazione della disuguaglianza di status
sociale. 8. Le norme sulla propaganda razzista in Italia: quale spazio a
sentimenti? Sentimenti, pari dignità e discriminazione rappresentano concetti
che concorrono a identificare il retroterra delle norme sulla propaganda razzista,
ossia lo hate speech a sfondo razziale che in Italia è incriminato 180 Si è
osservato che l’impatto sociale dell’irrispettosità satirica e la conse- guente
tollerabilità della satira dovrebbe essere correlata alla categoria di soggetti
sui quali la satira va a incidere: massima libertà ove l’irrisione si rivolga a
soggetti che hanno una posizione di supremazia a livello sociale, mentre più
problematico appare il caso in cui si faccia satira nei confronti di categorie
deboli, specie fa- cendo leva su stereotipi e luoghi comuni. Questo criterio,
definito come frutto di una «precomprensione egualitaria del discorso
pubblico», v. CARUSO, La libertà di espressione in azione, appare in definitiva
un bilanciamento tra il fine morale della satira e la sua ‘moralità interna’,
vista attraverso l’egida assiologica del principio di uguaglianza. Per un
interessante commento a una pronuncia del- la Corte Edu che, tramite l’art. 17
CEDU ha respinto il ricorso per violazione dell’art. 10 a seguito della
condanna di un noto comico francese per uno spettaco- lo satirico
sull’Olocausto, v. PUGLISI, La satira “negazionista” al vaglio dei giudici di
Strasburgo: alcune considerazioni in «rime sparse» sulla negazione
dell’Olocausto, in www.penalecontemporaneo.it, Fisionomia dell’offesa ai sensi
dell’art. 3, comma 1, lett. a), della legge. Cominciamo a interrogarci su quale
sia l’effettivo rilievo del sentimento nel richiamo all’odio quale elemento di
fattispecie dell’art. della legge, il cui presupposto è la sussistenza di un’idea
di- scriminatoria fondata sulla diversità determinata da una pretesa su-
periorità razziale o da odio etnico 182. Ad una prima lettura emerge come nel
corpo della disposizione normativa il sentimento non definisca l’oggetto di
tutela, bensì rappre- senti la nota caratterizzante il tipo di espressioni che
la legge intende vietare. La prospettiva appare invertita rispetto alle norme
che abbia- mo precedentemente analizzato con riferimento agli altri
‘sentimenti- valori’ menzionati nel codice: piuttosto che parlare di tutela di
senti- menti, l’assetto delle norme tratteggia una tutela da sentimenti, in
rap- porto alla quale l’odio rappresenta lo stato affettivo da ‘disinnescare’
183. 181 In un’ottica più ampia, sono pertinenti al discorso d’odio a sfondo
razziale anche altre norme: l’apologia di genocidio di cui all’art. 8 della
legge e le disposizioni della c.d. ‘Legge Scelba’ che aggravano la cornice
sanziona- toria per l’apologia di fascismo nel caso in cui venga realizzata
attraverso ‘idee e metodi razzisti’. Nella letteratura penalistica, v. a cura
di Riondato, Di- scriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti
fondamentali e tutela pena- le, cit.; DE FRANCESCO, Commento a D.L. conv. con
modif. dalla legge. Misure urgenti in materia di discriminazione razziale,
etnica, religiosa, in Leg. pen.; FRONZA, Osservazioni sull’attività di propa-
ganda razzista, in Riv. int. dir. dell’uomo; VISCONTI C., Il reato di
propaganda razzista. Per una panoramica sulle applicazioni della normativa v.
PAVICH-BONOMI, Reati in tema di discriminazione: il punto sull’evoluzione
normativa recente, sui principi e va- lori in gioco, sulle prospettive
legislative e sulla possibilità di interpretare in senso con- forme a
Costituzione la normativa vigente, in www.penalecontemporaneo.it; FERLA,
L’applicazione della finalità di discriminazione razziale in alcune recenti
pronunce della Corte di Cassazione, in Riv. it. dir. proc. pen., Evidenzia la
peculiarità delle incriminazioni contro la diffusione e l’incita- mento all’odio,
rispetto al problema generale della cosiddetta ‘tutela penale di sen- timenti’,
anche ALONSO ALAMO, Sentimientos y derecho penal, cit., pp. 59 ss. In realtà,
secondo le indicazioni che emergono principalmente in ambito anglo-americano,
va considerato che l’uso del termine odio, oltre a essere approssimativo,
appare er- rato: «[w]hat has become clear is that the word ‘hate’ is really a
misnomer. An of- fender
need not actually hate his victim in order to have committed a ‘hate crime’;
indeed he may feel no personal hatred towards that particular individual at
all», v. WALTERS, Hate Crime and Restorative Justice, Oxford; cfr. PAREKH, Is
There a Case for Banning Hate Speech?, in AA.VV., ed. by Herz-Molnar, The
Content and the Context of Hate Speech, cit., p. 40. Si veda anche PERRY, A Crime by Any Oth- er Name, Il
concetto di ‘crimine d’odio’ sconta oltretutto un’indeter- minatezza di fondo:
si tratta di una definizione cosiddetta ‘ostensiva’, ossia che pro- cede non
attraverso un’esaustiva esplicazione del definiens (l’odio), ma
attraverso 200 Tra sentimenti ed eguale rispetto Tale precisazione
non risolve ma rilancia l’interrogativo se dietro le norme sulla propaganda
razzista si ponga effettivamente un pro- blema di sentimenti negativi. Nelle
pronunce della giurisprudenza italiana, la maggior parte del- le quali relative
all’applicabilità della circostanza aggravante (art., d.l.), la risposta è
negativa, in quanto è decisamente pre- valente l’orientamento che interpreta il
requisito dell’odio non come tratto affettivo del soggetto attivo, bensì come
sfondo valoriale dei contenuti espressivi e simbolici legati alle condotte 184.
Come osservato dalla Corte di Cassazione: «non può considerarsi sufficiente che
l’odio etnico, nazionale, razziale o religioso sia stato, più o meno
riconoscibilmente, il sentimento che ha ispirato dall’interno l’azione
delittuosa, occorrendo invece che que- sta, per le sue intrinseche
caratteristiche e per il contesto nel quale si colloca, si presenti come
intenzionalmente diretta e almeno poten- zialmente idonea a rendere percepibile
all’esterno ed a suscitare in al- tri il suddetto, riprovevole sentimento o
comunque a dar luogo, in fu- turo o nell’immediato, al concreto pericolo di
comportamenti discri- minatori per ragioni di razza, nazionalità, etnia o
religione» 185. una individuazione del definiendum (l’esempio concreto) il
quale viene successiva- mente ricollegato al definiens. Si tratta delle
cosiddette definizioni mediante esempi, suscettibili di convogliare istanze
normative e culturali che tendono a ricondurre all’odio azioni e condotte le
più diverse: «[c]lassificare un gesto criminale come crimine d’odio è
compatibile in quest’ottica con un’ampia gamma di stati psicologi- ci, dalla
rabbia alla noia, alla paura; perché non parlare, allora, di crimini di rabbia?
Nascosto dietro al concetto di crimine d’odio sembra dunque esserci un altro
significato culturale dell’odio, ossia ciò che motiva gesti di violenza
insensata (normativamente ingiustificati) l’insistenza sul termine “odio” in
una data si- tuazione, più che un fatto descrittivo, è il riflesso dell’impegno
normativo a identificarsi con le sventure della vittima e a prendere le
distanze dal punto di vista dell’aggressore», v. ROYZMAN-MCCAULEY-ROZIN, Da
Platone a Putnam: quattro modi di pensare all’odio. Cass. pen., sez.; si
vedano, ex plurimis, Cass. pen., sez. V, 12/06/2008, n. 38217; Cass. pen., sez.
Un diverso orientamento si pone a sostegno di un’applicazione più ampia, e in
particolare estesa a comprendere anche situazioni in cui vi sia solo la presenza
di soggetto attivo e vittima: «Non è, dunque, richiesta la plateale
ostentazione di tali motiva- zioni sì da ingenerare il rischio di reiterazione
di analoghi comportamenti, essen- do sufficiente che l’azione rechi, in sé, le
prescritte connotazioni, immediatamen- te percepibili nel contesto in cui è
maturata, avuto riguardo al comune sentire ed alla comune accezione
dell’espressione usata» v. Cass. pen., sez. V, 11/07/2006, n. 37609; ulteriori
pronunce sono analizzate in PAVICH-BONOMI, Reati in tema di di- scriminazione,
Cass. pen., sez.; cfr. Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa. L’orientamento
della giurisprudenza italiana sembra aderire alla concezione dello hate speech
come fattore in grado di alterare in ne- gativo il clima sociale e di inoculare
il germe della discriminazio- ne186. Non viene riservato spazio allo stato
soggettivo dell’agente né alla verifica di un’effettiva diffusione del pensiero
razzista e di un ‘contagio emotivo’, adottando un modello di intervento basato
sul pe- ricolo astratto 187 e orientato alla tutela della dignità umana 188.
Un’eloquente evocazione dei sentimenti la troviamo invece in una pronuncia
ormai datata, relativa alla legge (at-tuazione della Convenzione internazionale
per la prevenzione e la repressione del crimine di Genocidio), e in particolare
all’art. 8 che in- crimina l’istigazione e l’apologia di genocidio 189. Ebbene,
nel 1985 la Corte di Cassazione ebbe a definire la ratio di tutela del reato di
pro- paganda come contrasto della «intollerabile disumanità odioso culto
dell’intolleranza razziale che esprime, orrore che suscita nelle coscienze
civili ferite dal ricordo degli stermini perpetrati dai nazisti e dai calvari
tragicamente attuali di talune popolazioni africane e asiatiche. L’idoneità
della con- dotta ad integrare gli estremi del reato non è già quella generale
di un improbabile contagio di idee e di propositi genocidiari, ma quella più
SPENA, La parola odio. Sovraesposizione, criminalizzazione, interpretazione
dello hate speech, in Criminalia; sul tema, in termini generali, cfr. WALDRON,
The Harm in Hate Speech. L’assunto è presente in Cass. pen., sez. Un’interpre-
tazione correttiva è proposta da FRONZA, Osservazioni sul reato di propaganda
razzista; cfr., per un differente percorso argomentativo volto a rico- noscere
che la propaganda di idee razziste è già di per sé concretamente pericolosa per
la dignità della persona, v. PICOTTI, Diffusione di idee razziste ed
incitamento a commettere atti di discriminazione razziale, ss., nota a
Tribunale Verona, in Giur. merito; contra, v. SCAFFARDI, Oltre i confini della
libertà di espressione; più ampiamente, TESAURO, Riflessioni in tema di dignità
umana. Per tutti v. DE FRANCESCO, Commento a D.L. 26/4/1993 n. 122 conv. con
modif. dalla legge; cfr. AMBROSETTI, Beni giuridici tutelati e struttura delle
fattispecie: aspetti problematici della normativa penale contro la di-
scriminazione razziale, in AA.VV., a cura di Riondato, Discriminazione
razziale, xenofobia, odio religioso; PICOTTI, Istigazione e propaganda della
discri- minazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e
libertà di mani- festazione del pensiero, in AA.VV., a cura di Riondato,
Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso, cit., pp. 134 ss. 189 Sul
tema v. CANESTRARI, voce Genocidio, in Enciclopedia giuridica, Roma. Tra
sentimenti ed eguale rispetto strutturalmente semplice di manifestare
chiaramente l’incondizionato plauso per forme ben identificate di fatti di
Genocidio. Attraverso un lessico ad alto impatto emotivo, la Corte afferma la
legittimità dell’incriminazione dell’apologia di genocidio quale argine
all’‘orrore che suscita nelle coscienze’. Si tratta del caso più emblema- tico
in cui una norma penale italiana finalizzata al contrasto al razzismo e alla
discriminazione viene declinata alla stregua di una vera e propria tutela di
sentimenti; un profilo che è stato puntualmente, an- corché sinteticamente,
messo in evidenza nei commenti critici della dottrina dell’epoca, che ne ha
rilevato altresì la profonda distonia con i principi enunciati dalla Corte
costituzionale in tema di apologia ed istigazione, del tutto disattesi dalla
pronuncia della Cassazione. Tale orientamento rimane un caso isolato
nell’ambito della esigua giurisprudenza, e viene espressamente sconfessato
dall’unica pronun- cia successiva, ad opera della Corte di Assise di Milano che
ne confu- ta l’intero impianto motivazionale al fine di restringere
l’operatività della norma alle sole ipotesi in cui l’apologia sia una «forma di
istiga- zione indiretta, caratterizzata dalla nota interna che in essa
l’induzio- ne alla commissione di un certo fatto si realizza attraverso
l’esaltazione di un fatto analogo. Il discorso razzista fra estremismo politico
e insulto discri- minatorio Veniamo infine ad analizzare alcuni profili di
ermeneutica del fat- to che ricorrono nell’analisi della casistica sul discorso
razzista. La giurisprudenza specifica che affinché siano integrati gli estremi
del- l’espressione discriminatoria deve trattarsi di consapevole
esteriorizzazione di un sentimento di avversione o di discriminazione fon- data
su di un pregiudizio: ma cosa consente di distinguere a livello esteriore una
critica da un pregiudizio? Cass. pen., sez. I, 29/03/1985, n. 507, in Foro it.,
La vicenda è relativa all’esposizione di striscioni inneggianti all’Olocausto
durante una manifestazione sportiva: Mathausen reggia degli ebrei, ‘Una cento
mille Mathausen’, ‘Hitler l’ha insegnato, uccidere l’ebreo non è reato. FIANDACA,
nota a Cass. pen., sez., in Foro it., Corte di Assise di Milano, in Ius
explorer. Cass. pen., sez. Fisionomia dell’offesa Nelle applicazioni della
norma sulla propaganda razzista la giuri- sprudenza ha più volte adoperato il
criterio basato sulla distinzione fra considerazioni che fanno leva sulla
diffusione di determinati com- portamenti presso determinate etnie, e l’offesa
all’etnia tramite inde- bite generalizzazioni. Risultano particolarmente
problematiche le vicende riguardanti contesti di dialettica politica, nei quali
è frequente il ricorso a stereo- tipi che, a seconda delle circostanze, possono
assumere le vesti di veri e propri pregiudizi discriminatori. Il processo ai
leghisti di Verona rappresenta un significativo leading case: sinteticamente,
il fatto ri- guarda l’iniziativa di alcuni consiglieri comunali finalizzata a
mandare via gli zingari dal comune scaligero attraverso un coinvolgimento della
popolazione allertata da un volantino che recitava No ai campi nomadi. Firma
anche tu per mandare via gli zingari. Fra le diverse questioni affrontate dai
giudici, è importante ai fini della presente indagine rilevare quanto osservato
dalla Corte di Cas- sazione in occasione dell’ordinanza di annullamento con
rinvio: «La discriminazione si deve fondare sulla qualità del soggetto
(zingaro, nero, ebreo, ecc.) e non sui comportamenti. La discrimina- zione per
l’altrui diversità è cosa diversa dalla discriminazione per l’altrui
criminosità. In definitiva un soggetto può anche essere legitti- mamente
discriminato per il suo comportamento ma non per la sua qualità di essere
diverso. Tale trend interpretativo rimane costante nella giurisprudenza
successiva avente ad oggetto le dichiarazioni di soggetti politici nel-
l’ambito dell’attività istituzionale e della campagna elettorale. Emergono
tuttavia notevoli criticità in una recente pronuncia della Corte di Cassazione
riguardante una condanna della Corte di Appello di Trieste per un volantino di
promozione elettorale stampato e diffuso in occasione delle elezioni per il
rinnovo del Parlamento Europeo, il quale secondo i giudici di merito 194 Un
riassunto della vicenda in CARUSO, Dialettica della libertà di espressione: il
caso Tosi e la propaganda di idee razziste, a cura di Tega, Le discriminazioni
razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, Roma; si veda anche VISCONTI
C., Il reato di propaganda razzista. Cass. pen., sez. Cass. pen., sez.; Cass.
pen., sez. Tra sentimenti ed eguale rispetto «propagandava idee fondate sulla
superiorità di una razza rispetto alle altre e sull’odio razziale, facendo
ricorso, in particolare, allo slogan “basta usurai – basta stranieri” con
sottinteso, ma evidente riferimen- to a persona di religione ebraica ed
esplicito riferimento a persone di nazionalità non comunitaria e, sul retro del
volantino, alla rappresen- tazione grafica esplicativa dello slogan di
un’Italia assediata da sogget- ti di colore dediti allo spaccio di
stupefacenti, da un Abramo Lincoln attorniato da dollari, da un cinese
produttore di merce scadente, da una donna e un bambino Rom sporchi e pronti a
depredare e da un soggetto musulmano con una cintura formata da candelotti di
dinami- te pronti per un attentato terroristico. La Corte di Cassazione dispone
l’annullamento senza rinvio perché il fatto non sussiste, argomentando proprio
sulla base dell’asse- rita differenza del caso trattato rispetto alla condanna
dei leghisti ve- neti, nel quale, secondo la Corte, appariva invece palese la
discrimi- nazione degli zingari per il solo fatto di essere tali, in quanto il
do- cumento diffuso non indicava alcuna plausibile ragione a sostegno
dell’allontanamento, mentre il diverso caso in esame, «ad avviso del Collegio,
in maniera alquanto grossolana, vuole veicola- re un messaggio di avversione
politica verso una serie di comporta- menti illeciti che, con una
generalizzazione che appare una forzatura anche agl’occhi del destinatario più
sprovveduto, vengono attribuiti a soggetti appartenenti a determinate razze o
etnie: il cinese che vende prodotti contraffatti, l’uomo di colore che spaccia
stupefacenti, la rom che tenta di rapire il bambino, l’arabo che si fa
esplodere in un atten- tato terroristico. E poi Abramo Lincoln, con i suoi
dollari, a rappre- sentare la finanza e le banche, probabilmente da mettere in
relazione alla scritta “basta usurai”». Cass. pen., sez.: secondo la
descrizione riportata in sentenza, «su un lato compariva la propria foto
sovrastata dalla scritta “Vota S.”, sotto la quale si leggeva, a grandi caratteri,
la frase “BASTA USURAI, BASTA STRANIERI”. Sotto, il simbolo del partito di
appartenenza (Destra Sociale – Fiamma Tricolore), con una mano che vi appone
una croce e scrive di fianco “ S.”. Più in basso, l’URL del blog del candidato;
sull’altro lato, in alto la scritta: “Elezioni Europee DIFENDI L’ITALIA – VOTA
S.”. Più sotto, sei caricature che raffigurano: un cittadino dai tratti
somatici asiatici che vende prodotti “made in China; un Abramo Lincoln con tanti dollari che gli
svolazzano intorno; un uomo di colore
che offre droga; un arabo con una cintura di candelotti di dinamite pronto a
farsi esplodere; una donna italiana con un bambino in braccio e, di fianco, una
mendicante rom che allunga le mani in direzione dello stesso. Fisionomia
dell’offesa Non sono però solo considerazioni legate al merito delle afferma-
zioni, definite ‘grossolane’, a far propendere la Corte verso un atteg-
giamento di indulgenza, bensì risulta decisiva l’analisi del quadro contestuale
e in particolare il particolare clima nel quale si svolgono le competizioni
elettorali. Ora, la condivisibile apertura della Corte a una lettura dei fatti
il più possibile aperta alla valutazione di tutti i fattori di contesto e alle
prassi comunicative, anche quelle meno ortodosse, conferma in pri- mo luogo il
carattere storicamente e socialmente condizionato delle soglie di liceità e di
tollerabilità del discorso pubblico. Sul merito dell’interpretazione offerta
dal Collegio, possiamo rite- nere avverato il vaticinio di Costantino Visconti
riguardo l’elevata complessità di scindere, a livello di critica, la persona
dal proprio comportamento: la nitidezza della distinzione è solo apparente, in
quanto vi sono ambiti in cui il discorrere sulle differenze in rapporto a un
contesto pluralistico e multiculturale può condurre a un punto in cui «il
profilo della diversità in sé e quello dei comportamenti costituiscono un
tutt’uno, e non è possibile, né verosimilmente avrebbe senso separarli» 198. In
relazione a tale profilo, l’argomentazione dei giudici appare frettolosa e
superficiale. Ciò che desta a nostro avviso perplessità non è tanto l’esito
assolu- torio, il quale, pur opinabile, può trovare ragioni in un complessivo
atteggiamento di favor libertatis; sorprende però che sia la stessa Cor- te ad riconoscere
che siamo di fronte, evidentemente, ad un messaggio politico che risente di un
pregiudizio per cui determinate atti- vità delittuose vengono poste in essere
prevalentemente dai membri di determinate etnie». Ebbene, parlare di
pregiudizio evoca una connessione immediata con la discriminazione: come
ammonisce Norberto Bobbio, «la conseguenza principale del pregiudizio di gruppo
è la discriminazio- ne»200. In altri termini, quanto affermato dalla Corte
depone per un VISCONTI C., Aspetti penalistici Abel osserva che «è impossibile
distinguere le espressioni illegittime dall’opportunismo di routine dei
politici quando vanno incontro ai pregiudizi popolari, v. ABEL, La parola e il
rispetto. Il legame tra pregiudizio e discriminazione non deve tuttavia portare
a inferire automaticamente la sussistenza di un atteggiamento razzista:
pregiudizio e razzismo, per quanto connessi, non sono sovrapponibili, ma si
tratta di concetti distinti, v. RAVENNA, Odiare. Per tutti, BOBBIO, Elogio
della mitezza e altri scritti morali, Milano. Tra sentimenti ed eguale rispetto
univoco accostamento delle opinioni del volantino al pensiero di-
scriminatorio: sono frutto di pregiudizi razziali. Difficile a questo punto
negarne il disvalore, quantomeno se si abbia a cuore un certo rigore concettuale.
L’atteggiamento della Corte lascia perplessi, in quanto la circo- stanza
legittimante l’esercizio della libertà di espressione è così espli- cata: «si
tratta, peraltro, di un pregiudizio che da sempre viene agita- to nelle
campagne elettorali al fine di recuperare consenso in situa- zioni locali in
cui da parte dell’elettorato viene una richiesta di maggiore sicurezza.
Un’indulgenza indotta dalla consuetudine: ma quale dovrebbe es- sere il ruolo
del diritto penale in rapporto a prassi comunicative becere? La constatazione
di una degradazione del linguaggio e di una brutalizzazione della dialettica in
ambito politico è una buona ragione per chiudere un occhio di fronte a casi
come quello preso in e- same? La risposta travalica i confini della questione e
riporta all’inter- rogativo se il diritto penale debba limitarsi a un’azione di
conserva- zione dei valori o possa anche costituire uno strumento di ‘pedagogia
sociale’. Resta il dubbio se in questo caso l’atteggiamento della Corte di Cassazione
sia da avallare per essersi astenuta dal sindacare il merito di un discorso
politico, o sia invece da criticare per non aver adeguatamente stigmatizzato la
diffusione di pensieri offensivi che essa stessa ha implicitamente ammesso
essere frutto di pregiudizi a base razziale. Sinossi La connessione fra tutela
di sentimenti e rispetto reciproco risulta particolarmente evidente nella
dialettica avente ad oggetto argomenti ad alto tasso emotivo, dove vengono in
gioco ‘appartenenze significative’ dell’individuo. Nell’attuale scenario
socio-politico del mondo oc- cidentale gran parte dei conflitti orbitano
intorno al tema dell’appar- tenenza etnica, della fede religiosa, della
identità e pari dignità sessuale. Fra le ragioni dell’effetto emotigeno vi è il
fatto che nel discorso Tale principio viene esplicitato anche in Cass. pen.,
sez. Fisionomia dell’offesa concernente le appartenenze possono emergere
problemi di mancato riconoscimento dell’altro e di categorizzazioni
denigratorie. Ne deriva l’esigenza di distinguere fra espressioni di mera
critica o irrisione, pur emotivamente fastidiose ma comunque espressione della
libertà del dissenso, da forme di diniego del riconoscimento: la priorità
politica è la dimensione del rispetto definita ‘rispetto-riconoscimento’,
diversa dal ‘rispetto-stima’. L’eguale rispetto-riconoscimento costituisce la
ricaduta relaziona- le più immediata del valore della dignità umana. Per quanto
tale richiamo possa risultare problematico agli occhi del penalista, esso
rappresenta comunque una bussola assiologica se ci si impegni a modularne l’uso
attraverso una lettura non metafisico-concettuali- stica ma volta a
identificarne le proiezioni relazionali ed esistenziali, ad esempio attraverso
la cosiddetta ‘teoria delle capacità’ elaborata da Martha Nussbaum. Il non
facile obiettivo di bilanciare istanze di libertà e richieste di rispetto porta
a identificare un livello minimo di protezione il quale sembra poter coincidere
con l’esigenza di non essere umiliati e poter essere trattati come persona
dignitosa il cui valore eguaglia quello al- trui. Nell’approfondimento del
concetto di ‘umiliazione’, viene rimarca- ta l’esigenza di distinguere fra
espressioni di insulto ed espressioni che umiliano. La distinzione, comunque
afferrabile sul piano concettuale, appare sfumare nei suoi contorni essenziali
al momento delle applicazioni in ambito giuridico: il processo interpretativo
dipende in larga misura dall’ermeneutica del fatto, ossia dai diversi
significati che determinate espressioni possono assumere a seconda dei contesti
e dei soggetti coinvolti, e si espone a precomprensioni e a usi poco
sorvegliati di inferenze logiche e valoriali. Un rapido riscontro relativo alle
norme italiane a tutela del senti- mento religioso e della pari dignità mostra
come il richiamo a sentimenti sia residuale nelle argomentazioni della
giurisprudenza: pre- sente in minima parte nelle forme di vilipendio, comunque
ancorate a un modello di tutela incentrato sulla religione piuttosto che sulla
dignità del credente, e assente con riguardo alla normativa sul di- scorso
razzista. Un ambito, quest’ultimo, nel quale meritano particolare attenzione,
quale esempio di ermeneutica del fatto, le argomen- tazioni elaborate per
tracciare la linea di confine fra discorso politico ‘estremo’ e discorso
discriminatorio. Tra sentimenti ed eguale rispetto DILEMMI SOMMARIO: Tutela di sentimenti’: una
formula a più significati. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei
sentimenti’ come sfida fondata sulle libertà. Tutela da sentimenti. Idealtipi
antropologici e realtà umana dei conflitti. Dissensi ed estremismo. Quale ruolo
per il diritto penale? Il tormentato pensiero della dottrina penalistica.
Precetti pedagogici? Sinossi. Tutela di sentimenti: una formula a più
significati Cerchiamo di riannodare le fila di un discorso che ha preso le
mosse dall’esigenza di riservare attenzione ai rapporti fra sentimenti,
emozioni e diritto penale non solo come problema esegetico-inter- pretativo ma,
più radicalmente, come coordinata per la riflessione sull’essere e sul dover
essere del diritto penale. L’osservazione di Mar- tha Nussbaum posta in
epigrafe al I capitolo ci ricorda che uno sguardo alla dimensione affettiva è
fondamentale per non perdere di vista il substrato umano dei problemi e soprattutto
gli aspetti di vul- nerabilità della persona che possono motivare il ricorso
allo strumen- to giuridico. Parlare di tutela di sentimenti rimanda al problema
del rispetto per le diversità coesistenti nella società pluralista: alla
varietà di pre- ferenze e di assiologie personali. Il sentimento viene in gioco
non semplicemente come stato psicologico, ma in termini normativi qua- le
richiamo metonimico al ‘tutto della persona’ e al valore di cui sen- timenti ed
emozioni rappresentano il correlato fenomenico, ossia la personalità e
l’‘unicità’ del singolo. L’eventuale orizzonte di tutela dovrebbe in questo
senso focaliz- zarsi non su risvolti contenutistici di stati affettivi o su
oggetti (ideali, concezioni, fedi) caratterizzati da peculiari connotazioni
valoriali, ma assumere a riferimento eventuali attacchi alla persona che
adope- 210 Tra sentimenti ed eguale rispetto rino strumentalmente il
sentimento (rectius, il modo d’essere e l’iden- tità dell’individuo) come
fattore degradante per la negazione della pari dignità 1. Abbiamo individuato
nell’eguale e reciproco rispetto-riconosci- mento l’atteggiamento che meglio si
presta a definire sia il dover es- sere dei rapporti fra singoli, sia la
tendenziale equidistanza che do- vrebbe caratterizzare eventuali interventi
normativi 2. Sarebbe corretto parlare di eguale rispetto come ‘bene giuridico’,
per riportare il discorso sul piano dei concetti endopenalistici? Al di là
della scarsa risolutività che una tale formula assumerebbe sul pia- no
teoretico, la sostanza dei problemi appare diversa: in primo luogo il rispetto
non definisce un oggetto di tutela a sé stante ma si pone piuttosto come
parametro per valutare sia i rapporti tra singoli sia la qualità di eventuali
risposte normative che abbiano come riferimento finalistico la tutela della
persona. In secondo luogo, quando si analizzano le dimensioni sociologica,
psicologica e filosofica del rispetto emerge una complessità che non appare
comprimibile e ‘isolabile’ nell’involucro concettuale che si è soliti definire
‘bene giuridico’3. Possiamo sì parlare di ‘diritto al ri- 1 Cfr. PULITANÒ,
Introduzione alla parte speciale. Nelle moderne democrazie liberali, le
ricadute effettuali del valore del rispet- to-riconoscimento coinvolgono due
differenti profili. In primo luogo l’atteggia- mento dello Stato verso i
cittadini: il rispetto-riconoscimento è da intendersi co- me aspetto
complementare del principio di eguaglianza, indicando l’approccio che la
normazione statuale dovrebbe assumere nei rapporti con le diverse voci dello
scenario pluralista e nelle dinamiche fra maggioranze minoranze: «l’eguale
rispetto appare in questa luce come una generalizzazione della dignità e
dell’onore è come l’esito di un processo di costituzione di una comunità di
pari, di una comunità di mutuo riconoscimento: la comunità dell’eguale status
di cittadi- nanza» v. VECA, Dizionario minimo. Le parole della filosofia per
una convivenza democratica, Milano; per uno studio sul tema delle
discriminazioni attuate verso individui o gruppi mediante lo strumento
giuridico, v. SALARDI, Di- scriminazioni, linguaggio e diritto. Profili
teorico-giuridici, Torino; per un quadro, e un’analisi critica, di interventi
normativi nel contesto italia- no che sembrano potersi definire come
‘discriminatori’, v. BARTOLI C., Razzisti per legge. L’Italia che discrimina,
Roma-Bari; per un approfondimen- to sull’atteggiamento della Corte
costituzionale in rapporto a questioni in cui so- no venuti in gioco profili di
discriminazione, v. DODARO, Uguaglianza e diritto penale. Sono numerose le voci
che nella dottrina italiana hanno constatato la crisi di tale costrutto
teorico. In termini generali v., per tutti, FIANDACA, Sul bene giuridico; in
relazione a profili più specifici è stato acclarato il «ruolo di strumento
metodologico di chiarificazione concettuale più che di base cogente- mente
normativa delle scelte di criminalizzazione», così PALAZZO, Tendenze e
prospetto’ per descrivere l’interesse della persona a non essere offesa, ma si
tratta di una formula da prendere con cautela e che necessita di
specificazioni. Il filosofo Darwall osserva che rispettare un individuo
significa prendere sul serio le sue richieste e le sue aspettative sul pia- no
morale in forza non di un dovere impersonale ed esterno alla rela- zione, bensì
in virtù dell’autorità morale che è inerente alla persona stessa, alla quale si
deve rispetto per ragioni di uguaglianza (c.d. rispetto in seconda persona). In
altri termini, le richieste di rispetto traggono legittimazione morale dalla
persona in sé, ed è la persona ad essere destinataria dell’atteggiamento di
riguardo fondato sull’ugua- glianza di status nella relazione di reciprocità.
Di fondamentale importanza è lo sviluppo che Anna Elisabetta Galeotti ha dato
al pensiero di Darwall, contribuendo a illuminare la distinzione tra rispetto e
diritti. Riportiamo per esteso un importante passaggio: «Quando si dice “tutti
hanno diritto di essere rispettati dagli altri” non stiamo parlando di diritto
in senso proprio, perché il diritto al rispetto non ha uno specifico contenuto.
Certamente di fronte a una violazione di diritti, si dice che il trasgressore
non ha rispettato il titolare di dirit- ti. Però non possiamo concludere che il
rispetto sia una qualificazione dell’ottemperamento dei diritti tale che, ogni
qualvolta una persona fa il proprio dovere verso qualcun altro, il rispetto si
manifesta come una qualità intrinseca e inestricabile del dovere morale
ottemperato. Non possiamo concludere in quel modo perché, tra le altre cose,
non siamo contenti di essere rispettati per dovere. Il fatto è che non solo non
vogliamo essere rispettati per un dovere in terza persona, ma neanche spettive
nella tutela penale della persona umana, in AA.VV., a cura di Fioravanti, La
tutela penale della persona. Nuove frontiere, difficili equilibri, Milano. Altri
Autori hanno evidenziato la dissoluzione della funzione critica, sul presup-
posto della negazione di una preesistenza dei beni oggetto di tutela alle
scelte del legislatore, v. DI GIOVINE O., Un diritto penale empatico?,
rimarcando inoltre l’appannamento della capacità descrittiva del concetto, e
suggerendone una dismissione o un sostanzioso restyling, v. FORTI, Le tinte
forti del dissenso. Si veda anche PALIERO, La laicità penale, il quale rimarca
il perdurante ruolo di orientamento del ‘bene giuridico’ in rapporto al
formante legislativo e giurisprudenziale, pur confermando la crisi sostanziale
del costrutto in relazione ai suoi confini. DARWALL, Respect and the Second-Person Standpoint, in
Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association. Si è osservato che il rispetto-riconoscimento è
dunque un atteggiamento verso una persona, prima ancora che nei confronti di
un’identità gruppale, che reclama azioni non umilianti e non degradanti, così
CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura. Tra sentimenti ed eguale rispetto per uno in
seconda persona. Non vogliamo essere rispettati per dovere, punto e basta. In
effetti credo che la prospettiva diritti/doveri collassi sempre in qualche
forma di morale impersonale che non soddisfa pro- priamente le nostre aspettative
circa l’essere rispettati. La richiesta reciproca di rispetto pur se avanzata
in termine di diritto non può mai essere soddisfatta per dovere, anche se
ciascuno di noi ha l’obbligo di rispettare gl’altri. La mancanza di rispetto
non si rimedia attraverso l’imposizione di rispettare gli altri, ma solo
attraverso una comprensio- ne autentica di ciò che la richiesta reciproca
implica. Solo allora chi ha mancato di rispetto può riparare il suo torto, non
già facendo per dovere qualche atto, ma riconoscendo la propria mancanza e
riparando l’offesa con un atto individualizzante di riconoscimento. La natura
del rispetto ‘in seconda persona’ implica che il rapporto di reciproco
riconoscimento debba avvenire tramite un atto ‘indivi- dualizzante’, la cui
sostanza è quella di dare valore morale a un soggetto considerandolo nella sua
concretezza di persona umana, non dunque come mera proiezione di una comune
appartenenza di genere che prescinde dalle particolarità che lo caratterizzano.
Un realistico disincanto suggerisce a questo punto una constatazio- ne: il
rispetto, inteso come disposizione comportamentale dell’individuo, non è
coercibile: «[l]a prospettiva dei diritti e dei doveri è una prospettiva
impersonale, che non soddisfa compiutamente le aspettative di ricono- scimento
e rispetto morale. Non le soddisfa perché se il rispetto deve essere ‘in
seconda persona’, un eventuale divieto rappresenta invece una fonte eteronoma
di doveri. Un rispetto giuridicamente imposto può es- sere una componente
importante negli equilibri della convivenza, ma non esaurisce lo spazio morale
delle relazioni e soprattutto non è da considerarsi strumento prioritario da un
punto di vista politico. Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è
prima di tutto un atto ‘sentito’ che discende da disposizioni soggettive sulle
quali influi- scono strumenti di controllo sociale fra i quali può rientrare
anche, eventualmente, il diritto penale; ma se prendiamo sul serio la matrice
affettiva dell’atteggiamento di rispetto8, e dunque la sua natura an- GALEOTTI,
La politica del rispetto. Questa diversa prospettiva dell’atteggiamento di
rispetto viene approfondita in GALEOTTI, Rispetto come riconoscimento, in
AA.VV., a cura di Carter-Galeotti- Ottonelli, Eguale rispetto. PULITANÒ,
Introduzione alla parte speciale. BAGNOLI, L’autorità della morale; MORDACCI,
Rispetto. Dilemmi che di sentimento, ne consegue che l’obiettivo del rispetto
per le per- sone discende in primo luogo dalle possibilità di uno sviluppo
sogget- tivo di tale sentire 9. Emerge un’importante indicazione per definire
il progetto norma- tivo della ‘tutela di sentimenti’: la strategia dei divieti
è del tutto residuale, certo non prioritaria. Il giurista penale è portato a
pensare al concetto di tutela prevalentemente in chiave negativa o ‘difensiva’,
come protezione di un dato oggetto da danni o da pericoli, ma si trat- ta di
un’accezione che rispetto ai problemi in esame appare limitante, e che è
preferibile scorporare in traiettorie differenti. Possiamo individuare una
prima prospettiva che declina il concet- to di tutela come agire positivo, un
‘aver cura’ di sentimenti ed emo- zioni nella dimensione sociale, inteso come
coltivazione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al
reciproco rispetto. Oltre la prospettiva penalistica: ‘cura dei sentimenti’
come sfida fondata sulle libertà Cura dei sentimenti è un concetto estraneo al
tradizionale repertorio di categorie non solo penalistiche, ma più in generale
giuridi- che. Perché si dovrebbe aver cura dei sentimenti nella società con-
temporanea? Una eloquente risposta è fornita da Nussbaum in una cri- tica al
pensiero liberale, reo di non aver adeguatamente tenuto in considerazione
sentimenti ed emozioni, vedendoli come destabilizzanti e più confacenti a
visioni politiche orientate in senso populista, ai fascismi e alle forme dittatoriali.
C’è chi pensa che soltanto le società fasciste o aggressive siano intensamente
emotive e che solo tali società abbiano bisogno di coltiva- re emozioni. Sono
convinzioni sbagliate e pericolose. Cedere sul terreno delle emozioni,
permettere che le forze illiberali vi trovino Non basta dare l’ordine di farlo
perché la gente sia trattata effettivamente con rispetto. Il riconoscimento
reciproco va negoziato, e questo vuol dire coinvol- gere in tutta la loro
complessità il carattere degli individui tanto quanto la struttura sociale, v.
SENNETT, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, tr. it., a cura
di Turnaturi, Bologna. Traggo questo termine dal lessico di Nussbaum. NUSSBAUM,
Emozioni politiche. Tra sentimenti ed eguale rispetto spazio significa dare
loro un grosso vantaggio nel cuore delle persone e rischiare che queste pensino
ai valori liberali come a qualcosa di noioso e inefficace. Tutti i principi
politici, buoni e cattivi, necessitano di supporto emotivo per consolidarsi nel
tempo, e ogni società giusta deve guardarsi dalle divisioni e dalle gerarchie
coltivando sentimenti appropriati di amore e simpatia» 12. La critica di fondo
della studiosa statunitense si può articolare in due profili. Su un piano
filosofico, l’ambizione a un liberalismo politico (il quale cioè cerchi di
mantenere una tendenziale equidistanza senza promuovere una particolare
concezione del bene) avrebbe prodotto teorizzazioni eccessivamente asettiche
sul piano dei valori, o comun- que non adeguatamente esplicite nell’affermare
il sostegno a un pac- chetto di principi. Conseguentemente, l’immagine di un
liberalismo troppo preoccu- pato di presentarsi come neutrale14 ha
disincentivato la riflessione sulle ragioni delle scelte valoriali degli
individui, trascurando le emo- zioni e i sentimenti come fattori che
influenzano gli atteggiamenti verso i valori. La seconda carenza di fondo è non
aver adeguatamente riflettuto sulla ‘psicologia di una società dignitosa. .
Secondo Nussbaum è fondamentale che una riflessione filosofico-politica prenda
le mosse dalla psicologia umana, che cerchi chiavi di comprensione dei com-
portamenti per evitare di elaborare teorie fondate su immagini stereotipate
dell’essere umano. Lo studio delle emozioni e dei sentimen- NUSSBAUM, Emozioni
politiche. Secondo la Nussbaum, quando invece i liberali hanno tentato di
addivenire a un liberalismo più ‘comprensivo’, si è arrivati a teorizzare una
sorta di ‘religione civile’, ossia pacchetti di principi non adeguatamente
inclusivi, bensì escludenti (come esempi vengono riportati la religione civile
di Mill e Comte). Nel panorama statunitense la critica al tentativo liberale di
mostrarsi come asseritamente neutrale ha avuto ad oggetto anche il pensiero
penalistico, visto come del tutto incentrato sul piano funzionalistico e
consequenzialistico, e ten- dente non offrire il giusto risalto alla componente
valoriale nella definizione del danno e della responsabilità, v. KAHAN, Two
Liberal Fallacies. Da tale critica non sono esenti pensatori fra i più
importanti della tradizione liberale, con la sola esclusione di Rawls, al quale
si deve, nello studio intitolato ‘Giustizia come equità’, un fondamentale
richiamo alla psicologia morale ragionevole, v. NUSSBAUM, Emozioni politiche;
cfr. RAWLS, Giustizia come equità. Una riformulazione, tr. it., a cura di Veca,
Milano. Dilemmi ti si pone in questo senso come passo per identificare matrici
di atteggiamenti di pensiero e di comportamenti che possono rivelarsi
problematici, e vieppiù dissonanti, in rapporto ai principi liberali. Il buon
uso pubblico delle emozioni costituisce il nucleo di una strategia politica che
riconosce al fattore affettivo una peculiare forza normativa e una salienza
morale le quali dovrebbero contribuire a dare sostanza e a vivificare i
principi guida del paradigma liberale attraverso un intelligente stimolo delle
coscienze basato su virtuose interazioni con la sfera emotiva18. Si configura
in questo senso un vero e proprio progetto culturale volto a ‘reinventare la
religione civile’ 19, e a rendere la compagine sociale permeabile a emozioni
positive al fine di dare al rispetto reciproco una dimensione più pregnante.
Solo a uno sguardo superficiale la teorizzazione di Martha Nus- sbaum potrebbe
risultare accomunabile a una sorta di moralismo au- toritario, come tentativo
di porre le fondamenta di un ‘pensiero uni- co’. La studiosa, consapevolmente,
ne prende le distanze: una cultura critica vigile è fondamentale per la
stabilità dei valori liberali. Un’intensa cura delle emozioni può coesistere,
anche se talvolta a fatica, con la presenza di uno spazio critico aperto» 21.
Una simile prospettiva sembra di primo acchito esulare rispetto al campo del
diritto penale. In verità essa contiene un messaggio impor- tante anche per la
prospettiva penalistica: la ‘cura’ dei sentimenti de- Da questo punto di vista,
il percorso additato dalla Nussbaum pare potersi accostare a obiezioni critiche
di altri Autori che hanno rimproverato al pensiero liberale un’eccessiva
‘asetticità’: in altri termini, un punto di vista troppo restritti- vo e
‘astensionistico’ dal punto di vista etico, a esclusivo vantaggio della
prospet- tiva di giustizia e a detrimento di una riflessione sul bene, sia
collettivo sia indivi- duale, v., per tutti, DWORKIN, I fondamenti
dell’eguaglianza liberale. Un progetto politico normativo si legittima se può
essere stabile. Le emozioni sono interessanti perché giocano un ruolo in questa
stabilità» NUSSBAUM, Emozioni politiche. Le strategie proposte da Martha
Nussbaum si ba- sano su esempi tratti dalla storia recente: discorsi pubblici,
sostegno alle arti, educazione alla lettura e alla frequentazione di testi
letterari sono alcune delle parti di un vasto programma che la studiosa pone come
base per favorire lo sviluppo di un ‘sentire democratico’, predisponente
all’ascolto reciproco e alla capa- cità di immedesimarsi nell’altro, per
stimolare negli individui emozioni consone ai valori liberali e per tenere di
conseguenza sotto controllo la tendenza «radicata in tutta la società e, in
ultima analisi, in tutti noi, a proteggere un Sé fragile deni- grando e
mettendo in secondo piano gli altri», v. NUSSBAUM, Emozioni politiche. NUSSBAUM,
Emozioni politiche. NUSSBAUM, Emozioni politiche. NUSSBAUM, Emozioni politiche.
Tra sentimenti ed eguale rispetto finisce un progetto che dà priorità alle
libertà, alla promozione di una dialettica pubblica aperta al confronto anche
aspro fra le idee, volta a creare per i cittadini la possibilità di costruzione
di un’IDENTITÀ DIALOGICA. Tutela da sentimenti Da un altro lato, si pone il
problema di quale strategia politico- sociale debba adottarsi di fronte a
spinte emotive negative: vi sono emozioni e sentimenti per i quali si può porre
un problema di tutela non nel senso di cura, bensì in termini opposti, come
presidio disin- centivante che definiamo ‘tutela da sentimenti’. Si tratta
della pro- spettiva più suscettibile di creare tensioni con i diritti di
libertà, e che riguarda in modo più diretto l’eventuale coinvolgimento dello
stru- mento penale. È abbastanza immediato pensare all’odio come atteggiamento
emotivo che contrasta con l’eguale rispetto; esso rappresenta già oggi, a
prescindere dalla concreta rilevanza assunta in fase applicativa, l’elemento caratterizzante
condotte che molti ordinamenti vietano sotto l’appellativo di hate speech e
hate crimes. Si tratta di un nucleo di atteggiamenti che, per quanto non
definiti esaustivamente dalle fonti normative, presentano quale minimo comune
denominatore l’avversione verso gruppi e categorie di persone che patiscono una
debolezza e una marginalizzazione socialmente significativa. La formula tutela
da sentimenti può assumere un significato più esteso dell’accezione descrittiva
degli ambiti normativi di contrasto all’odio: la si potrebbe intendere come
istanza focalizzata non su at- teggiamenti emozionali definiti, bensì
funzionale alla messa a tema di profili inerenti, più in generale, la
dimensione psico-sociale delle matrici e delle ragioni dei dissensi. In altri
termini, un’istanza che riassume l’esortazione all’approfondimento della
‘psicologia di una società dignitosa’. Parlare di odio come tratto univocamente
identificativo di manife- stazioni offensive è un’approssimazione che rischia
di peccare per eccesso. Anche nella quotidianità emerge come l’odio venga usato
per definire e per connotare atteggiamenti di dissenso radicale frequen-
temente riscontrabili nel contesto mediatico: ad esempio, in riferi- mento
all’ambiente dei social network, si parla frequentemente di 22 SPENA, La
parola(-)odio, cit., pp. 598 ss. Dilemmi 217 ‘haters’23, ossia
‘odiatori’, termine col quale si indicano soggetti che aggrediscono verbalmente
gli altri internauti escludendo ogni possi- bile approccio di mediazione con
l’interlocutore. L’atteggiamento emotivo che definiamo ‘odio’ appare
particolar- mente sovraesposto; la tendenza a focalizzare l’attenzione su di
esso può però indurre a trascurare il ruolo di ulteriori atteggiamenti emo-
tivi, altrettanto meritevoli di attenzione come fattori di degradazione del
discorso e della dialettica pubblica. In altri termini, la realtà psico-sociale
è probabilmente più complessa e stratificata e le contrapposizioni anche
estreme non dovrebbero essere ricondotte tout court all’odio, il quale è forse
una componente che, se presa sul serio, potrebbe essere residuale in rapporto
ad altri atteggiamenti antago- nisti dell’eguale rispetto, quali rabbia, paura,
vergogna, invidia, disgusto: più diffusi, e difficili da riconoscere e da
ammettere, anche nei confronti di sé stessi. A nostro avviso si pone l’esigenza
di pensare alla tutela da senti- menti come istanza normativa che suggerisca di
«coltivare una certa attenzione verso i fattori in grado di favorire la
conoscenza delle libertà e le condizioni che permettono di farne concretamente
uso, individuando come punto nodale della questione l’interrogativo sui
«margini di flessibilità di cui dispongono, di fatto, e soprattutto di cui
hanno reale coscienza, le persone nell’espressione di un “dissenso” rispetto al
senso, o meglio, ai sensi che vengono trasmessi nei rispettivi contesti di
vita. In altri termini, il giurista penale deve oggi considerare che per la Una
panoramica in ZICCARDI, L’odio online. Violenza verbale e ossessioni in rete,
Milano. Si tratta di odiatori o semplicemente di stupidi? L’equiparazione fra
intol- leranza, specie in ambito razziale, e stupidità, proposta in un breve
saggio sul- l’analisi psicologica del razzismo ad opera di BLUM, Razzismo e
stupidità, in AA.VV., a cura di Tappolet-Teroni-Konzelmann Ziv, Le ombre
dell’anima, sembra da un lato suggerire il ridimensionamento della portata di
un richiamo all’odio quale matrice dell’intolleranza, e dall’altro lato sposta
sul piano culturale e della decostruzione dialettica, soprattutto tramite lo
strumento del- l’ironia, il contrasto al discorso razzista. Rabbia e odio sono
due emozioni autonome, per quanto non prive di forti connessioni. Osserva
RAVENNA, Odiare, che la rabbia è sperimenta- ta più di frequente rispetto
all’odio, e che quest’ultimo presenta delle caratteristi- che peculiari che lo
rendono distinguibile sia a livello psicologico che psico- sociale. Sul ruolo
politicamente negativo della vergogna, dell’invidia e del disgu- sto v., per
tutti, NUSSBAUM, Emozioni politiche, FORTI, Le tinte forti del dissenso, Tra
sentimenti ed eguale rispetto comprensione dei percorsi attraverso cui il
potere pubblico esprime le sue istanze repressive, occorra alzare e allargare
lo sguardo al con- testo socio-culturale complessivo in cui i sensi e i
relativi dissensi trovano il loro terreno di generazione. Coerentemente con la
suddetta esortazione, riteniamo che una ra- gionevole attenzione al versante
affettivo, orientata a sondare la dimensione umana dei conflitti e soprattutto
lo sfondo antropologico, possa rappresentare un tassello importante per
addivenire a un qua- dro fenomenicamente più realistico degli atteggiamenti
degli indivi- dui e, conseguentemente, anche a una più dettagliata base di
rifles- sione per la politica penale e per un razionale orientamento alle
conseguenze. Appare infatti poco sensato, in una riflessione sulle dinamiche
del reciproco rispetto a livello espressivo-comunicativo, non prendere in
considerazione le matrici dei dissensi, i canali di diffusione, e più in generale
un’idea realistica di essere umano con cui il diritto si trova a interloquire,
anche attraverso eventuali precetti. Più in generale, si tratta a nostro avviso
di ricercare degli adden- tellati sul piano socio-fenomenico per sondare in
modo non concet- tualistico margini di opportunità, oltre che di legittimità,
circa la pro- spettiva di interventi normativi. Idealtipi antropologici e
realtà umana dei conflitti Sia la ‘cura’ dei sentimenti, sia la tutela ‘da’
sentimenti presup- pongono che negli individui vi sia la capacità di recepire
un certo ti- po di stimoli cognitivi ed emotivi. Viene da chiedersi quale sia
il riscontro che una tale ambizione trova oggi nella compagine sociale: se si
tratti di una prospettiva rea- listica o se invece presupponga un modello
ideal-tipico di cittadino eccessivamente ottimistico. FORTI, Le tinte forti del
dissenso. Osserva PALAZZO, Tendenze e prospettive nella tutela penale della
persona umana, cit., p. 404, che «nel configurare il sistema di tutela penale
della persona, sarà del tutto legittimo prestare ascolto alle suggestioni anche
di tipo antropolo- gico che possono provenire dalle convinzioni sociali
sull’essere umano; ma, dal- l’altro, una razionale scelta politico criminale
sulla tutela della persona e sui suoi limiti dovrà necessariamente essere
ispirata ai princìpi di ultima ratio, di tolleranza e di laicità del diritto
penale. Dilemmi La possibilità che la riflessione teorica finisca
per fare affidamen- to su modelli non del tutto aderenti alla realtà sociale
costituisce un avvertimento che la dottrina penalistica non ha mancato di
evidenziare. Alberto Cadoppi in uno scritto sul paternalismo giuridico
dall’impronta fortemente liberale, in tendenziale accordo con la posizione di
Feinberg propensa alla massima valorizzazione dell’autonomia di scelta e della
volontà dell’individuo, evidenzia come il discorso sull’autonomia personale
vada preso con molta attenzione e serietà, per non cadere nell’errore,
attribuito anche a Mill, di elaborare teorie assumendo quale prototipo di
persona un soggetto apparentemente immune da inciampi cognitivi e da
condizionamenti emotivi che potrebbero gettare un alone di problematicità sulla
reale consapevolezza delle scelte adottate 29. Solleva problemi simili con
riferimento al tema della libertà di espressione Visconti, quando si chiede se
gli argomenti volti a ridimensionare l’impatto delle parole offensive, e a
metterne in dubbio la dannosità, siano dettati anche (soprattutto?) da un
irenisti- co, e tutt’altro che giustificato, affidamento su un modello di
cittadi- no ‘ragionevole, colto e tollerante’, in grado di elaborare l’insulto
e di non patirne gli effetti. Tale categoria personologica non appare del tutto
rispondente alla realtà; ed è per tale motivo che Visconti osser- va,
condivisibilmente, che è con riferimento alla tipologia di soggetti che non
hanno la ca- pacità di controllare razionalmente e dialetticamente la
potenziale pe- CADOPPI, Liberalismo, paternalismo e diritto penale.
L’osservazione di Cadoppi è volta a sottolineare in modo puntuale e
condivisibile il ri- schio di una tendenza semplificante nella teorizzazione
giuridica, e rilancia la problematizzazione dell’idea di essere umano, dei
modelli di scelta razionale, de- gli interessi finali che dovrebbero idealmente
rappresentarne il fine delle condot- te, tema pregno di ricadute sul piano
politico. Ad esempio, si veda la questione relativa al benessere individuale,
all’ideale normativo di vita buona, alla distinzione fra interessi volizionali
e interessi critici, presente in DWORKIN, I fondamenti dell’eguaglianza
liberale, e ripreso, con diversità di vedute, in FIAN- DACA, Diritto penale,
tipi di morale, e FORTI, Per una discussione sui limiti morali. A un livello
successivo, la problematizzazione del ruolo delle emozioni, della riflessività,
della consapevolezza delle proprie scelte da parte dell’individuo, si pone in
termini funzionali alla lettura e all’interpretazione delle condotte umane, nel
tentativo, sempre fallibile, di trovare dei signi- ficati: per una tematizzazione
di tale problema in ambito criminologico, e sul rapporto fra riflessività e
opacità, v. CERETTI-NATALI, Cosmologie violente, e bibliografia ivi
citata. Tra sentimenti ed eguale rispetto ricolosità di certe forme di
discorso pubblico, o che – peggio – ne strumentalizzerebbero intenzionalmente i
possibili effetti sociali dannosi, che si prospetta di fatto il problema di una
scelta politico-criminale tra l’intervento e l’astensione. Emerge da tali
notazioni una necessità di realismo, di problematizzazione del modello
antropologico di individuo che il diritto pena- le assuma a punto di
riferimento, nella consapevolezza di non poter e non dover dare per scontate
caratteristiche che finiscono per condur- re ad astrazioni perfezionistiche.
Ricollegandoci a quanto osservato da Visconti, il discorso sui limi- ti alla
libertà di espressione sembra talvolta presupporre la presenza di determinate
capacità dell’essere umano le quali appaiono oggi non condivise dalla totalità
degli individui. Tale rilievo si pone in primo luogo per i destinatari di
espressioni offensive, ma è bene allargare la riflessione anche al versante
degli autori, e dunque alle particolari di- sposizioni emotive e di pensiero
che li caratterizzano: il carico emoti- vo della vittima e la spinta emotiva
che anima chi offende sono en- trambi esposti al rischio di atteggiamenti
radicali. All’interno del macro tema del dissenso intersoggettivo riteniamo che
le traiettorie di ricerca per il giurista debbano focalizzarsi su differenti
aspetti, uno dei quali, concernente le matrici cognitive del dis- senso e la
qualità del flusso epistemico che alimenta le opinioni, è stato sinteticamente
messo in luce nel saggio di Gabrio Forti poc’anzi citato. L’Autore evidenzia
come il contesto generativo del senso e del dissenso versi oggi in condizioni
alquanto problematiche, che mettono a dura prova le risorse cognitive dei
singoli e alimentano un gri- giore epistemico il quale si accompagna a uno
sbiadimento globale dell’etica della comunicazione. L’avvento del web, oltre a
indurre la percezione di una deresponsabilizzazione del discorso pubblico, ha
portato a un «sovraccarico informativo che espone ognuno al rischio di
mobilitare non risorse cognitive adeguate, bensì una “ca- VISCONTI C., Aspetti
penalistici; cfr. FORTI, Le tinte forti del dissenso, il quale parla
criticamente di credo neo-liberale, costruito a mi- sura di soggetti capaci di
farsi robustamente valere nell’agone socio-culturale (ivi compresi storici e
intellettuali in grado di rintuzzare con gli argomenti della loro scienza le
farneticazioni negazioniste. Tematizza il problema di una tendenza a elaborare
modelli ‘deontologici’ di persona umana poco rispondenti con la realtà sociale
anche FIANDACA, Diritto penale, tipi di morale. AGOSTINI, Verità avvelenata. Dilemmi
pacità attentiva deteriorata”, generando così risposte meccaniche,
“comportamenti automatici che evitano la paralisi al prezzo della qualità
decisionale. A costituire un rischio per il pensiero critico, e dunque per la
qua- lità etica ed epistemica del discorso pubblico, sarebbe, secondo Forti:
«il manifestarsi in tale contesto di voci che si distaccano — solo perché
rumorose, violente, sorprendenti — dal magma confuso dell’over- crowding
informativo, riuscendo così a incanalare tunnel visions di schiere di followers
a conseguire quella che potremmo definire una ve- ste “istituzionalizzata
mediaticamente” L’aspettativa di poter trar- re da tali voci “salienti”
rassicuranti semplificazioni del complesso e angosciante overcrowding informativo
che ci stringe, sarà potenziata laddove esse si sostengano su una violenza
espressiva che sembri ap- pagare altresì, sia pure con un sortilegio illusorio,
quella nostalgia di fisicità e corporeità che l’immersione quotidiana nei mondi
virtuali e artificiali non può che acutizzare. Come emerge da tali
considerazioni, le cause dell’alterazione della dialettica pubblica e la
conseguente canalizzazione della violenza e dell’aggressività verbale sembrano
doversi ricondurre a una stratifi- cazione di fattori, non a un univoco
atteggiamento emotivo. Dissensi ed estremismo A nostro avviso si può inquadrare
un secondo ambito di problemi legati alle matrici generative dei dissensi,
riguardante più da vicino i microcosmi soggettivi e concernente l’analisi dei
fattori psico-sociali che possono portare un individuo ad aderire in modo più o
meno marcato, se non addirittura ‘estremo’ a certe idee e a convinzioni fino a
porsi in radicale conflittualità con opinioni concorrenti e con i sog- getti
che vi aderiscono. Perché anche soggetti ragionevoli sono spesso protagonisti
di con- trapposizioni radicali? A un primo livello, relativo a uno stadio che
potremmo definire ‘fi- siologico’ del dissenso, una buona chiave di lettura ci
sembra quella proposta di recente da Jonathan Haidt, il quale rimarca come
l’ade- sione a ideologie e credenze sia frutto di scelte basate su matrici
pret- FORTI, Le tinte forti del dissenso.
FORTI, Le tinte forti del dissenso. Tra sentimenti ed eguale rispetto tamente
emotive: gli individui decidono quali idee appoggiare sulla base di emozioni
che sono modellate dall’appartenenza gruppale, e tendono a elaborare narrazioni
e adattamenti per riuscire a trovarsi in sintonia, inconsciamente e
intuitivamente, con le proprie idee, svi- luppando dunque una tendenza a
ricercare conferme alle proprie opinioni la quale rischia di tramutarsi in una
cieca ottusità verso ra- gioni concorrenti. La morale unisce e acceca: ci
unisce in schie- ramenti ideologici che si danno battaglia come se il destino
del mon- do dipendesse dalla vittoria della nostra squadra. Ci acceca rispetto
al fatto che ogni schieramento è composto da brave persone che hanno qualcosa
di importante da dire» . Lo studio di Haidt si attesta su un piano prettamente
descrittivo: esplica le ragioni per le quali le persone tendono a dividersi su
argo- menti importanti come la politica e la religione, ma non fornisce
proposte per limitare i dissidi, affermando, con disincanto, che la no- stra
parte intuitiva è alquanto difficile da dominare. Il fatto che gli esseri umani
siano portati ad allinearsi in schiera- menti che si identificano nei valori
del gruppo di appartenenza, svi- luppando una conflittualità su base gruppale,
contribuisce a fornire delle spiegazioni, corroborate da evidenze sperimentali,
sul ruolo dominante giocato dalla componente emotiva piuttosto che da un’as-
serita dimensione ‘razionale’. Se bene intendiamo la posizione di Haidt,
riteniamo si possano instaurare virtuose connessioni con i percorsi di crescita
emotiva che Martha Nussbaum individua quale impegno per uno Stato liberale: per
quanto i disaccordi possano essere forti, Haidt invita a non radi- calizzare le
alternative in senso manicheo ma a leggerle come ricadu- ta di un’emozionalità
istintuale che può essere educata a un maggio- re rispetto delle ragioni
altrui37, in una prospettiva dunque che sa- HAIDT, Menti tribali. Si veda anche
FROMM, Marx e Freud, tr. it., Milano: «l’individuo deve chiudere gli occhi e
non vedere quello che il suo gruppo dichiara inesistente, o deve accettare come
vero ciò che la maggio- ranza considera tale, anche se gli occhi lo
convincessero che ciò è falso. Il gruppo è di importanza così vitale per
l’individuo che per lui le opinioni, le convinzioni e i sentimenti del gruppo
costituiscono la realtà, una realtà più valida di quella che gli trasmettono i
sensi e la ragione. La metafora utilizzata da Haidt è quella dell’elefante e
del suo portatore. Sinteticamente, l’elefante rappresenta la parte emotiva
dell’uomo, il portatore il pen- siero riflessivo, v. HAIDT, Felicità:
un’ipotesi; ID., Menti tribali. Noi tutti siamo risucchiati in comunità morali
tribali. Gravitiamo attorno a valori sacri e condividiamo argomentazioni post
hoc sul perché noi abbiamo ra- Dilemmi remmo portati a ricollegare
alla ‘cura dei sentimenti’. Eccoci però giunti a un ulteriore profilo
problematico: il tipo di conflittualità che oggi desta maggiore preoccupazione
si manifesta attraverso cadenze espressive, e anche attraverso condotte, che
rive- lano un attaccamento a ideali e a credenze in forme tendenti
all’esclusione di ogni tipo di confronto e all’annullamento della posizione
contrapposta. Si tratta di un fenomeno definito come ‘pensiero estremo’, nel
quale l’individuo moderno rischia di scivolare anche a causa di una destabilizzazione
soggettivamente avvertita di fronte al pluralismo etico e informativo, e dalla
quale cerca rifugio e rassicurazione affidandosi a morali e visioni del mondo
autoritarie. Prendiamo a riferimento uno studio del sociologo francese Gèrald
Bronner, il quale identifica quali caratteristiche di fondo del pen- siero
estremo la debole trans-soggettività e l’attitudine sociopatica39 delle idee.
Alla base della concezione di Bronner vi è la convinzione, ampia- mente
argomentata nel corso dell’opera, che le derive estremiste del pensiero, spesso
legate anche a tragici esiti sul piano delle condotte, non siano affatto da
considerarsi come frutto di anomalie sul piano psichico, ma al contrario
possiedano una solida, inquietante raziona- lità. Partendo dalla consapevolezza
che nelle considerazioni e nelle azioni di un estremista vi è una logica, si
possono indagare le matrici di determinate forme di pensiero. È importante
notare come una fra le diverse modalità di adesione a forme di pensiero estremo
sia strettamente legata al contesto de- mocratico: col concetto di adesione
‘per frustrazione’ si indica il rifu- giarsi di un soggetto in una convinzione
fanatica volta a compensare l’insoddisfazione dovuta al non possedere o
possedere meno di ciò che ritiene di meritare. Bronner afferma che la
democrazia, a causa all’essenza competiti- gione e gli altri torto. Pensiamo
che nell’altro schieramento siano tutti ciechi alla verità, alla ragione, alla
scienza e al buonsenso, ma in effetti siamo tutti ciechi quando parliamo di ciò
che è sacro. E se davvero volete aprire la vostra men- te, prima di tutto
aprite il vostro cuore, v. HAIDT, Menti tribali, BRONNER, Il pensiero estremo.
Come si diventa fanatici, tr. it., Bologna. La trans-soggettività di un’idea
sta a indicare la capacità di essere accolta da altre persone a parità di
condizioni; la sociopatia viene definita come una carica agonistica intrinseca
che implica l’impossibilità per alcuni individui di vivere insieme ad altri, e
per un’idea, di poter coesistere con altre idee, v. BRONNER, Il pensiero
estremo. Tra sentimenti ed eguale rispetto va che stimola e delle aspettative
che non può compiutamente soddi- sfare, possa in un certo senso favorire la
proliferazione e l’adesione a ideologie estremiste le quali si proiettano in un
rapporto di competizione ad excludendum con il restante mercato delle idee,
stimolando forme di particolare aggressività e di disprezzo nei confronti degli
in- terlocutori: «la frustrazione e il desiderio di affermazione costitui-
scono un mix esplosivo in un sistema in cui troppi si sentono eleggibili benché
il numero degli eletti non aumenti, dobbiamo aspet- tarci di osservare le
conseguenze negative che l’amarezza condivisa non mancherà di produrre. Tirando
le fila del discorso, questo breve excursus a metà fra psicologia sociale e
sociologia vorrebbe provare a offrire un quadro me- no astratto e disincarnato
del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti, al fine di
contestualizzare i conflitti legati ad appartenenze significative, e dunque ad
alto grado di pregnanza emotiva, sia in relazione all’ambiente di diffusione
delle idee, sia al sub- strato personologico dei dissidi 41. Sarebbe infatti
ingenuo e irenistico costruire un discorso soltanto su principi, levando gli
occhi al cielo senza cercare di assumere reali- sticamente consapevolezza dei
mondi sociali che si pongono alla base dei fenomeni. Diversamente, si rischia
di cadere nel rischio paventato da Benci- venga, quando afferma che in
discussioni su temi del genere, è abba- stanza comune prendere posizioni nette,
a incrollabile sostegno di de- terminate regole», mostrando dunque un’aderenza
quasi dogmatica a principi, nella convinzione, o nella speranza, che portare
avanti una battaglia in nome di valori giusti conduca a decisioni anch’esse
giuste. L’esperienza storica mostra come tale aspettativa possa rivelarsi
fallace, non a causa del travisamento etico di regole che riteniamo BRONNER, Il pensiero estremo. Utilizziamo il
termine ‘dissidio’ nell’accezione proposta da CERETTI-GARLATI, Presentazione, cur.
Ceretti-Garlati, Laicità e stato di diritto, i quali citano in senso adesivo la
teorizzazione di Lyotard: dissidio come conflitto fra interessi contrastanti e
orientati a sistemi di riferimento non condivi- si, in totale asimmetricità.
Col concetto di mondo sociale vogliamo evidenziare ulteriormente come le
dinamiche dei conflitti vadano interpretate prendendo in debita considerazione
il concetto di gruppo e l’importanza che esso riveste nella sfera affettiva e
decisio- nale del singolo; per una sintesi, v. STRAUSS, Il concetto di mondo
sociale, tr. it., a cura di Toscano, Milano, BENCIVENGA, Prendiamola con
filosofia. Dilemmi abbiano autorità su di noi, bensì poiché l’esistenza di un
conflitto fra regole entrambe ‘giuste’ porta comunque a violarne una, la quale
avrebbe potuto (forse) indurre esiti differenti sul piano fattuale. Non potendo
però sapere quale sia all’interno di un dilemma etico l’al- ternativa migliore,
bisogna realisticamente accettare che qualsiasi scelta ci pone di fronte a
responsabilità: «l’aderenza a un principio non ci assolve; la nostra anima
dovrà portare il carico della scelta che abbiamo fatto. In altri termini, quale
esercizio di onestà intellettuale appare preferibile immergere i principi nel
contatto con la realtà, non perché in questo modo si possa risolvere un
dilemma, ma quantomeno perché così facen- do si può avere una migliore
percezione delle contingenze, sostituendo l’ambizione a cristallizzare una
scelta con un più umile discorso che as- suma a propria bussola le categorie
della necessità e della opportunità: è per le strade tortuose, e spesso fra i
detriti e le macerie, della vita quotidiana che le leggi universali vanno
applicate, con tutta l’incertezza che compete a tali applicazioni; e non
dobbiamo dimenticarlo. Quale ruolo per il diritto penale? Il ‘tormentato’
pensiero della dottrina penalistica Il monito responsabilizzante formulato da
Ermanno Bencivenga induce una comprensibile prudenza, e la complessità del
dilemma di fondo si manifesta in modo evidente anche nel discorso penalistico,
dove le riflessioni recenti sul tema dei rapporti fra libertà di espressione e
reciproco rispetto sono confluite in prese di posizione in bili- co fra il
recondito ottimismo in uno spazio comunicativo senza limi- ti, e la sofferta
apertura verso la possibilità di risposte penali. Un atteggiamento
profondamente combattuto, potremmo dire ‘tor- mentato’, di fronte a scelte che
comporterebbero in ogni caso il sacrificio di principi fondamentali; lo ha ben
sottolineato Alessandro Te- sauro quando, in tema di limiti alla propaganda
razzista, ha parlato di un ‘Io diviso’, in senso psicanalitico, tra impegno
antirazzista e passione liberal per la libertà di espressione BENCIVENGA,
Prendiamola con filosofia. BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia. TESAURO,
Riflessioni in tema di dignità umana. Tra sentimenti ed eguale rispetto
Nell’orizzonte penalistico prevale una linea di forte cautela, spesso con
posizioni ‘ibride’: anche le opere che hanno approfondito con maggiore dovizia
obiezioni demolitorie rispetto a eventuali incrimina- zioni, sembrano escludere
un atteggiamento di completa chiusura Nel complesso sembra essersi affievolita
la tendenza a voler elabo- rare modelli interpretativi orientati alla ricerca
di conclusioni assio- maticamente deducibili dal diritto positivo, sia con
riferimento a norme ordinarie che al testo costituzionale. Rispetto al
mainstream tradizionale, nel quale l’emancipazione dall’AUTORITARISMO del CODICE
FASCISTA puo ragionevolmente identificarsi come rinascita in senso liberale,
l’approccio odierno si scontra con la complessità delle diverse declinazioni
del liberalismo contemporaneo, ragion per cui è av- vertita l’esigenza di non
scivolare in un uso dei principi liberali emotivamente appagante ma proprio per
questo ad alto contenuto retorico. L’esito ‘scontatamente liberale’48 del
dibattito, coincidente con l’assoluto diniego a ogni forma di responsabilità
per l’uso della libertà di manifestazione del pensiero, è oggi una risposta che
rischia di ar- chiviare troppo prematuramente le questioni. Al fine di
‘guardare in faccia’ i problemi, autorevoli voci della dot- trina penalistica
hanno sollevato interrogativi in una chiave meno convenzionale: ad esempio
riorientando l’attenzione sugli effetti ne- Ci sembra interpretabile in questo
senso lo studio di TESAURO, Riflessioni in tema di dignità umana, cit., e
soprattutto il contributo di VISCONTI C., Aspetti pena- listici, cit. Anche il
lavoro di SPENA, La parola (-) odio, riconosce che il diritto alla libertà di
espressione nel caso del discorso d’odio è comunque più de- bole e più
bilanciabile con interessi confliggenti; cfr. CANESTRARI, Libertà di
espressione e libertà religiosa. Più netta la chiusura di Autori come
CAVALIERE, La discussione intorno alla punibilità del negazionismo; FRONZA,
Criminalizzazione del dissenso. Più univoche sono invece le aperture di
PULITANÒ, Di fronte al negazionismo e al discorso d’odio; FORTI, Le tinte forti
del dissenso. La dottrina penalistica manifesta con sostanziale univocità,
anche se con diversità di accenti, la contrarietà a restrizioni penalistiche
alla libertà di espressione, quale reazione all’auto- ritarismo delle
fattispecie del codice Rocco, v. la sintesi di VISCONTI C., Aspetti penalistici.
Nell’ambito costituzionalistico sembra prevalere una linea di contrarietà a
regolamentazioni del discorso pubblico, sia con riferimento allo hate speech,
sia al negazionismo, v. ex plurimis, CARUSO, La libertà di espressione in
azione; ID., L’hate speech a Strasburgo: il pluralismo militante del sistema
convenzionale, in Quaderni costituzionali; PUGIOT- TO, Le parole sono pietre?;
PARISI, Il negazionismo dell’Olocausto e la sconfitta del diritto penale, in
Quaderni costituzionali; in tema di hate speech una posizione di non chiusura
ai divieti è quella di SCAFFARDI, Oltre i confini della libertà di espressione.
FORTI, Le tinte forti del dissenso. Dilemmi gativi di un’assoluta
deregolamentazione del discorso pubblico (par- lando di dilagante, confuso
‘overcrowding informativo), o facendo ricorso a distopie immaginative fondate
sulla possibilità che deter- minati atteggiamenti di pensiero possano
effettivamente acquisire consenso 50. Per quanto i profili di disvalore che si
accompagnano alle condot- te comunicative possano apparire sfuggenti rispetto
alle esigenze di concretezza e di verificabilità empirica richieste dal diritto
penale, in sede di speculazione teorica il giurista ha il compito di dar conto
di una complessità di fondo, anche prendendo laicamente atto che ci si trova di
fronte a «grandezze valoriali difficilmente contenibili nei no- stri beni
giuridici» 51. Coglie nel segno, a nostro avviso, chi ha definito la questione
dei limiti penali alla libertà di espressione come ‘sfida o scommessa’ 52, evidenziando
la prospettiva del tutto aleatoria che si lega sia alle concezioni libertarie
sia a quelle regolazioniste. L’incertezza empi- rico-cognitiva sugli effetti
pericolosi o dannosi di determinati con- tenuti espressivi53 si accompagna al
fatto che non è dato sapere quali conseguenze possano scaturire nel breve e nel
lungo periodo da un’assoluta deregolamentazione del discorso pubblico; e ove si
voglia propendere per un intervento del diritto penale resta da chie- dersi
quali possano essere i metodi e gli effetti di un’eventuale cri-
minalizzazione, sia essa solo minacciata, tramite precetti, o anche applicata.
La ragione dell’impasse nella quale ci si trova al cospetto delle suddette
alternative si motiva in primo luogo con il fatto che il richiamo al diritto
penale è, plausibilmente, percepito come minaccia di sanzione e, in
particolare, di una sanzione che si identifica con la pena detentiva. Ma
proprio in merito a tale ultimo profilo, ossia alla prospettiva lato sensu
‘sanzionatoria’, la dottrina penalistica più aperturista – che non esclude
radicalmente l’eventualità di interventi penali in materia di libertà di
espressione – si fa portatrice di un dif- ferente modo di intendere, in
prospettiva futura, le dinamiche dello 49 FORTI, Le tinte forti del dissenso. PULITANÒ,
Cura della verità e diritto penale, in AA.VV., a cura di Forti- Varraso-Caputo,
«Verità» del precetto e della sanzione penale. FORTI, Le tinte forti del
dissenso.VISCONTI C., Aspetti penalistici. Per tutti, TESAURO, Riflessioni in
tema di dignità umana. Tra sentimenti ed eguale rispetto strumento penale. Sono
emerse riflessioni volte a non limitare lo sguardo all’angusto orizzonte della
pena, proiettate verso nuovi itine- rari, financo eclettiche ed ‘eterodosse’
rispetto al tradizionale reperto- rio concettuale penalistico. Ci riferiamo in
particolare a interessanti proposte formulate in relazione ad ambiti specifici
(sentimento religioso, negazionismo), il cui filo conduttore, pur con i dovuti
distinguo, appare potersi individuare in una rivalutazione dell’efficacia
‘virtuosamente simbolica’ del precetto penale. Precetti pedagogici? Con
riferimento alla tutela del sentimento religioso si è avanzata la proposta di
una protezione giuridico-penale «costruita prevalen- temente (se non esclusivamente)
attorno alla capacità di orien- tamento culturale svolta dai precetti, mettendo
finalmente da parte la forza inutile ed espressiva delle pene in senso stretto»
per addivenire a un sistema di tutela «più mite e ‘relativo’ in quanto radicato
sugli spazi di confronto dischiusi dal precetto penale che sancisce, ma non
punisce. In altri termini, uno strumento normativo che agisca al di fuori
dell’ottica retributiva e di deterrenza, seguendo le coordinate della
prevenzione generale cosiddetta ‘positiva’, ossia quella funzione della pena
tesa a rinsaldare e a confermare valori già acquisiti e (più o me- no) radicati
nei processi di socializzazione dell’individuo, tema ampiamente dibattuto nella
dottrina italiana e non affrontabile nell’eco- nomia del presente lavoro. Al
precetto viene in questo senso assegnata una funzione centrale, sulla base del
presupposto che la prevenzione di forme di offesa lega- te al sentire religioso
debba consistere in un rispetto volontario e spontaneo. Dal piano dei semplici
propositi si passa a una teorizza- 54 MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa
e scelte di criminalizzazione. Riflessioni de iure condendo sulla
percorribilità di una politica mite e democratica, in AA.VV., a cura di De
Francesco-Piemontese-Venafro, Religione e religioni. Per tutti, PULITANÒ,
Diritto penale; PALAZZO, Corso di diritto penale, Torino; FORTI, L’immane
concretezza. Per una sintesi si rinvia a DE FRANCESCO, La prevenzione generale
tra normativi- tà ed empiria, in AA.VV., Scritti in onore di Alfonso M. Stile,
Napoli. Dilemmi 229 zione più dettagliata ipotizzando una norma che faccia
coincidere la sanzione con una formale declaratoria del contenuto del precetto:
il giudice sarebbe chiamato, ove l’agente si rifiuti di riparare le conse-
guenze del reato attraverso percorsi di mediazione con la persona of- fesa, a
«enunciare il disvalore del fatto colpevole nel dispositivo della sentenza,
dandone conto nella motivazione», e ordinandone even- tualmente la
pubblicazione nei casi più gravi. La prospettiva appena descritta sembra
fondarsi su una connes- sione tra proposta dialogica e stigma penale58,
finalizzata a una re- sponsabilizzazione dell’autore in assenza di rimedi
prettamente coer- citivi, cercando di salvaguardare il pluralismo delle parti
dalla violen- za di provvedimenti autoritativi, e delegando alla forza del
precetto la funzione espressiva di un richiamo responsabilizzante 59. Si
inscrive in una traiettoria similare uno studio dedicato al tema del
negazionismo, il quale si distingue nel mainstream penalistico per una
esplicita apertura alla criminalizzazione di condotte che neghino l’Olocausto.
Rileviamo come anche in questo caso le conclusioni di non contrarietà a
interventi penali siano correlate alla proposta di una tipologia di intervento che
non si inquadra nella canonica diade ‘pena detentiva-pena pecuniaria’, ma che
cerca di elaborare soluzioni che valorizzino il dato simbolico del precetto,
veicolato dalla portata dichiarativa della vicenda processuale e
dall’eventuale, conseguente, provvedimento del giudice. Con le parole
dell’Autore: «Si tratterebbe, già nella comminatoria edittale, di pensare a
qualcosa di diverso dalla classica “caditoia” verso la reclusione. Per quanto
la proposta possa spiazzare, e determinare un ripensamento del catalogo delle
pene principali, il calibro della reclusione andrebbe accompa- gnato con
l’immediata conversione in una pena di sostanza espressiva e reputazionale.
Perché non approfondire, ad esempio, la soluzio- MAZZUCATO, Offese alla libertà
religiosa. Per una panoramica sul tema v. AA.VV., a cura di Mannozzi-Lodigiani,
Giu- stizia riparativa. Ricostruire legami, ricostruire persone, Bologna.
L’ipotesi della mediazione come ‘risposta istituzionalizzata’, ossia elemento
necessario di un percorso processuale di responsabilizzazione, è oggetto di
dibattito in dottri- na; in merito a tale soluzione appare scettico PULITANÒ,
Sulla pena. Fra teoria, principi e politica, in Riv. it. dir. proc. pen.; di
opinione opposta DONINI, La situazione spirituale della ricerca giuridica
penalistica. Profili di diritto sostanziale, in Cass. pen. Di recente, VISCONTI
A., Contenuti ‘informativi’ della sanzione penale e coe- renza del ‘sistema’,
cur. Forti-Varraso-Caputo, Verità del precetto e della sanzione penale. Tra
sentimenti ed eguale rispetto ne della lettura in udienza di un dispositivo
munito di una speciale narrativa, da cui traspaia – con formulazioni più estese
ed efficaci del- l’ordinario – la disapprovazione dell’ordinamento
all’indirizzo del- l’autore delle espressioni negazioniste, al quale
ricollegare, ove possi- bile, una sanzione accessoria di natura
inibitoria/interdittiva e la pub- blicazione della sentenza di condanna? Una
pena/giudizio, dal caratte- re accentuatamente didascalico e “simbolico” per
rispondere al “dia- bolico” del negare, volta a rendere il dispositivo una
sorta di sanzione veritativa che renda giustizia, oltre all’esistenza delle
camere a gas e dei forni crematori, all’esperienza della discriminazione e al
senso di umanità. In tal modo, al contro-logos dell’annientamento, agito dai
negazionisti, verrebbe opposto, con la solennità delle forme del pro- cesso
penale, un potere di nominazione che, sancendo il limite, il confine tra
libertà di espressione e abuso della possibilità di offendere, impedisce che
l’ultima parola sia di menzogna» 60. Anche in questo caso sullo sfondo delle
argomentazioni si pone un modo di pensare al potenziale simbolico del precetto
come risorsa positiva che può contribuire a una responsabilizzazione non
tramite il consueto binario repressivo, ma impegnandosi a contrastare de-
terminate forme di discorso pubblico sul terreno comunicativo, senza cadere in
eccessi punitivi che si esporrebbero a obiezioni sul piano della
proporzionalità. Per quanto si tratti di posizioni che in definitiva avallano
la pro- spettiva di interventi penali quale forma di contrasto alla diffusione
di determinati contenuti di pensiero, collocarle sotto il segno di un trend
repressivo sarebbe a nostro avviso un’approssimazione che non rende giustizia
alla profondità delle opinioni espresse. La sanzione, CAPUTO, La Menzogna di
Auschwitz. Netta è la presa di distanza di DI MARTINO, Assassini della memoria:
strategie argomentative in tema di rilevanza penale del negazionismo, cur. Cocco,
Per un manifesto del neoilluminismo penale, Padova, il quale definisce Meno
convincente, anzi deleteria la sanzione accessoria della pubblicazione della
sentenza: essa finirebbe con l’offrire ancora l’arena che i negazionisti
desiderano, trasmettere l’idea del martirio, risultare paradossalmente
co-funzionale all’offesa: conse- guenze, queste, suscettibili di
controbilanciare pesantemente il perseguito effetto di stigmatizzazione. Ben
vengano, dunque, caveat e ammonimenti sui pericoli di strumentaliz- zazione dei
singoli per bisogni di utilità sociale, purché non si finisca per disco-
noscere, tra i caratteri della norma penale, il connotato di profonda
stigmatizzazione di un fatto, di affilato giudizio etico-sociale, e
un’attitudine a sollecitare, più di ogni altra norma, l’attenzione diffusa per
i valori tutelati e la conseguente di- sapprovazione sociale per l’offesa che
li riguardi», v. CAPUTO, La ‘Menzogna di Auschwitz. Dilemmi pur restando
contrassegno formale della norma penale, viene rivesti- ta con fogge che ne
mutano la natura prettamente afflittiva per dare luogo a forme
narrativo-pedagogiche tese a potenziare la dimensio- ne contenutistica e
comunicativa del precetto. Non si può a nostro avviso parlare di una vera e
propria opzione a favore della soluzione penalistica dei conflitti, quantomeno
ove si in- tenda il diritto penale nel senso tradizionalmente sanzionocentrico.
In realtà, le suddette proposte ci sembrano da inscrivere all’interno di un più
complesso movimento di pensiero, quale ricerca di percorsi che diano pratica
attuazione a quella che per ora sembra ancora rimanere solo una massima
elaborata dalla dottrina, ossia che la ragione del penale non è, solo,
l’inflizione della pena: «sul piano delle norme, la ragione del penale è
l’osservanza dei precetti, Quale corollario alle riflessioni sul ruolo
pedagogico dei precetti, riteniamo importante dar conto di uno studio che il
giurista statuni- tense Fredrick Schauer ha dedicato al tema della forza del
diritto, e in particolare al legame fra diritto e forza: si tratta di un
indissolubile nesso di implicazione reciproca o è immaginabile un diritto senza
coercizione? L’interrogativo porta in luce una questione fondamentale anche
(soprattutto) per il giurista penale. Va detto anticipatamente che lo studio di
Schauer non giunge a esiti ‘sconvolgenti’, in quanto la con- clusione non è nel
segno di una superfluità del momento coercitivo; individua però importanti
argomenti a confutazione del fatto che la coercizione e le sanzioni debbano
essere al centro dell’idea di diritto. Bisogna distinguere due profili: il
primo di tipo concettuale, il secondo di tipo empirico. Dal punto di vista
concettuale, Schauer sostiene che l’esistenza dell’obbligo giuridico sia
logicamente distinta dalla sanzione, e l’in- teriorizzazione di un obbligo non
accompagnato da sanzione sia possibile. Se però ci si sposta sul piano dei
riscontri empirici e ci si chiede se la gente obbedisca, o sarebbe disposta a
obbedire, a un di- [Per una critica all’atteggiamento sanzionocentrico, che
cioè assume la pena come principale e ineluttabile dimensione di senso cui
orientare la attività di elaborazione concettuale», e la controproposta di
prediligere una riflessione guidata dalla precomprensione che la pena non è lo
scontato punto di partenza e di arrivo, ma è e non può non essere il problema
(iniziale e finale) che pone le domande fondamentali, v. FIANDACA, Rocco: è
plausibile una de-specializza- zione della scienza penalistica?, in Criminalia,
PULITANÒ, Sulla pena. Fra teoria, principi e politica. SCHAUER, La forza del
diritto, tr. it., Milano-Udine. Tra sentimenti ed eguale rispetto ritto privo
di sanzioni il problema diviene più articolato; vi sono studi di psicologia
sociale che affermano che, in assenza di sanzioni, il li- vello di obbedienza
alle leggi con cui le persone dissentono è alquanto basso. Ora, se da un lato
ciò conferma che un apparato coercitivo resta importante per assicurare
effettività al diritto, Schauer invita però a considerare che una statuizione
giuridica dispiega comunque effetti, anche quando il diritto si trovi a fare da
‘apripista’ culturale: «Sarebbe ingenuo credere, senza una prova evidente, che
una semplice modifica legislativa possa ottenere un alto livello di obbedienza
senza il supporto della coercizione e di sanzioni di vario genere. Ma le
dinamiche psicologiche e sociologiche sono complesse. La semplice approvazione
di un divieto giuridico, solo perché enunciato dal dirit- to, può indurre sia
un cambiamento di attitudine che di comportamento. L’Autore prosegue osservando
che tale cambiamento sarà più fa- cilmente verificabile in relazione ad
argomenti su cui i cittadini non hanno un’opinione consolidata piuttosto che su
temi oggetto di divi- sione; nondimeno, anche in assenza di vere e proprie
sanzioni il diritto può avere il potere di modificare comportamenti sociali.
Senza addentrarci ulteriormente nel denso scritto di Schauer, ci sembra che
tali osservazioni rappresentino un input sufficiente per guardare al diritto, e
in particolare al diritto penale, anche come strumento che tramite i precetti,
piuttosto che con le sanzioni, può contribuire a veicolare un messaggio di
forte disapprovazione. Diritto penale ‘simbolico’? È innegabile che si avverta
più di una remora ad avallare questa discussa formula; il termine ‘simbolico’
associato al penale suscita una condivisibile diffidenza, ma non si può negare
che l’aspetto simbolico, che pure è terreno di pericolose (o inutili)
deformazioni del sistema penale, è un aspetto non trascurabi- le per una
efficace comunicazione politica, anche a livello legislativo. SCHAUER, La forza
del diritto. SCHAUER, La forza del diritto; sul tema, più diffusamente, v. MCA-
DAMS, The Expressive Powers of Law. Theories and Limits, Harvard.Per la
precisazione del concetto v. SCHAUER, La forza del diritto. SCHAUER, La forza
del diritto. PULITANÒ, La cultura giuridica e la fabbrica delle leggi,
penalecontemporaneo.it; in termini adesivi a tale posizione v. FORTI, Le tinte
forti Dilemmi Ebbene, il disagio connesso all’opzione
sanzionatorio-detentiva quale eventuale risposta penale in tema di libertà di
espressione, induce a chiedersi se la dimensione simbolica possa assurgere
anche al rango di ‘funzione primaria’, tramite norme costruite in modo da
relegare la restrizione di libertà a semplice minaccia disinnescabile in virtù
di percorsi alternativi per il reo, o, in termini più radicali, tra- mite un
aggiornamento del catalogo delle pene principali che introduca nuove forme di
stigmatizzazione dotate di una specifica efficacia sul piano comunicativo, come
ipotizzato dai contributi preceden- temente menzionati. Si tratta, com’è
evidente, di percorsi innovativi la cui complessità esigerebbe un’analisi
distinta rispetto ai nuclei tematici del presente lavoro. Riteniamo però che
non sia irrealistico pensare al giudizio pena- le anche quale luogo di
confronto e rettifica in un contesto di dialettica sorvegliata, funzionale a
far emergere e a dichiarare i profili di disvalore di determinate espressioni
attraverso la sottolineatura in sede pubblica del carattere intrinsecamente
fallace o della grossolana offensività dell’eguale rispetto, magari avvalendosi
del contribu- to di esperti che ne analizzino la portata sul piano sociologico
e psicologico. Siamo al confine estremo della legittimità dell’intervento
penale: problemi di eccezionale delimitazione di una libertà che in linea di
principio è anche di libertà di ferire, e che per questo suo potere può
tuttavia rendere opportuna una responsabilizzazione, la quale non do- vrebbe
tracimare in censura autoritaria, bensì dovrebbe essere finalizzata a
un’eventuale declaratoria di responsabilità concepita come del dissenso. Sembra
essersi affievolita l’ostilità della dottrina per la funzione simbolica,
rivalutando in tal senso proprio quella ‘finalizzazione enun- ciativa’ che era
stata fortemente stigmatizzata in sede di prima lettura della nor- mativa sulla
repressione penale delle condotte di discriminazione, v. STORTONI, Le nuove
norme contro l’intolleranza: legge o proclama?, in Critica del diritto. Sul
tema dell’uso simbolico del diritto penale, v. per tutti, nella letteratura
italiana, v. BONINI, Quali spazi per una funzione simbolica del diritto
penale?, in Indice penale. Abel ha parlato di ‘trattamento informale delle
dispute’ per indicare il modo in cui la comunità dovrebbe reagire ai danni
della parola, in un procedimento che sembra voler evitare il ricorso al potere
coercitivo ma che appare nondimeno fondato su una proceduta normativizzata: si
parla di una ‘conversazione istituzionalizzata’ ma informale fra vittima e offensore,
nel quale quest’ultimo deve «riconoscere la norma, ammetterne la violazione ed
accettarne la responsabilità, nella convinzione che un simile scambio sociale
di rispetto possa neutra- lizzare l’insulto, ABEL, La parola e il rispetto. Tra
sentimenti ed eguale rispetto confutazione delle espressioni proferite dal reo,
cercando dunque di disinnescarne il potenziale offensivo sul piano dei
contenuti. Di primo acchito tale prospettiva potrebbe apparire come una sor- ta
di ‘tribunale delle opinioni’, esposto al rischio di torsioni illiberali; tale
obiezione, è però ben applicabile anche all’attuale situazione ordinamentale.
Di fatto il sindacato su forme di espressione è presente anche oggi: un
giudizio su opinioni il quale risulta prevalentemente affidato alla sensibilità
culturale del giudicante, senza potersi sottrar- re alle relative
precomprensioni. Si tratta di un procedimento molto delicato poiché, come
osserva Judith Butler, l’uso che lo Stato, attraverso il potere delle sentenza,
fa del linguaggio offensivo e discriminatorio dà luogo a una ripetizione dello
stesso, contribuendo, pur con finalità differenti, a una sua reiterazione.
Nondimeno: [Prendiamo atto della critica formulata da DI MARTINO, Assassini
della memoria: «l’idea della pena-giudizio in quanto tale è intrinsecamente
pro- blematica. La paternale didascalica finisce con l’essere risibile di
fronte ai delin- quenti per convinzione ed ai fanatici; ed è una ipocrita
autoassoluzione dell’ordinamento per le omissioni od i fallimenti delle sue agenzie
educative, di fronte ai miserandi frustrati, reietti e falliti». La sfiducia
verso una prospettiva rieducativa può essere anche condivisa, ma, più
radicalmente, va osservato che l’eventuale approntamento di sanzioni di tipo
‘espressivo-pedagogico’ non dovrebbe essere letto in una prospettiva di
prevenzione speciale, bensì quale strumento di preven- zione generale positiva;
la ‘risibilità’, che assumiamo come impossibilità fattuale di indurre un
cambiamento di opinione, è un aspetto comunque secondario poiché l’obiettivo
del diritto, nel rispetto della libertà morale della persona anche quando
delinquente per convinzione o fanatico, non è indurre un cambiamento di
opinione coattivo nel reo. Non condividiamo però l’afflato rinunciatario il
qua- le rischia di condurre a un vero e proprio vicolo cieco, e significherebbe
consentire che davvero l’ultima parola sia di menzogna, o di insulto, o di
umiliazione. Pur essendo sostenitori di uno spazio comunicativo libero e
aperto, facciamo fatica a immaginare il diritto spettatore del tutto inerte di
fronte al potere performativo delle parole, soprattutto in tempi in cui
l’indominabilità delle capacità di diffu- sione dei messaggi dovrebbe rendere
più accorti nel formulare prognosi di perico- losità. Un terreno comunque
scivoloso e che necessita di attente riflessioni, senza nutrire eccessiva
fiducia nello strumento normativo, ma anche senza restare avvinti in un
disincanto rinunciatario che amplificherebbe le asserite mancanze del- le
agenzie educative primarie. Si osserva provocatoriamente che «è la decisione
dello Stato, l’enunciazione ratificata dallo Stato, che produce (produce ma non
causa) l’atto dello hate speech, v. BUTLER, Parole che provocano. Per una
politica del performativo, tr. it., Milano. L’atto di produzione a cui si
riferisce la BUTLER riguarda il fatto che prima che una sentenza definisca come
hate speech delle semplici paro- le, queste non erano hate speech; più che una
vera e propria produzione sembra potersi intendere come effetto del potere di nominazione.
La stessa BUTLER specifica successivamente che le parole che lo Stato adopera
per emettere una sen- [Dilemmi «Nessuno ha mai elaborato un’ingiuria senza
ripeterla: la sua reitera- zione rappresenta sia la continuazione del trauma
sia ciò che segna una presa di distanza all’interno della struttura stessa del
trauma, la sua possibilità costitutiva di essere qualcosa di diverso. Non c’è
possibilità di non ripetere. La sola questione che rimane aperta è: come av-
verrà quella ripetizione, in quale sede – giuridica o non giuridica – e con
quale dolore e quali speranze? Una questione aperta e complessa, la quale
carica di responsabilità il momento giudiziario e la produzione narrativa del
giudice. Dovendo fare i conti con la reimmissione in circolo di parole
offensive, ritenia- mo che sarebbe opportuno riflettere su forme di ritualità
che possano dare un valido supporto epistemico all’autorità giudiziale,
contribuen- do a dare la giusta rilevanza e il necessario approfondimento
all’erme- neutica del fatto, con l’auspicio di trasformare il processo in un
mo- mento anche educativo e di apprendimento. Da penalisti, e dunque da
studiosi delle possibilità negative del- l’umano, ci sembra doveroso
interrogarci sul ruolo che lo strumento penale potrebbe eventualmente assumere
in una prospettiva di cura degli equilibri di rispetto, cercando di
privilegiare non la dimensione interdittiva e censoria ma facendo leva sulle
potenzialità di quello che, tra le diverse manifestazioni del giuridico,
rappresenta, piaccia o non piaccia, il più formidabile, e terribile, ‘marcatore
etico’. Sinossi Rispettare le persone, e rispettarsi fra persone è prima di
tutto un atto sentito che discende da disposizioni soggettive. Il progetto
normativo definito ‘tutela di sentimenti’ può essere scorporato in due distinte
traiettorie. La prima, definibile come ‘cura dei sentimenti’, è da intendersi
come promozione di atteggiamenti emotivi che favoriscano un clima favorevole al
reciproco rispetto. La seconda, definibile ‘tutela da sentimenti’, può
identificarsi co- tenza sullo hate speech non sono certo la stessa cosa del
discorso pronunciato dai soggetti di cui si sta giudicando la posizione;
nondimeno, le due cose appaiono «indissociabili in maniera specifica e
consequenziale»; cfr. ABEL, La parola e il rispetto, cit., p. 99. 73
BUTLER, Parole che provocano. Tra sentimenti ed eguale rispetto me strategia
politica di contrasto a spinte emozionali negative, l’odio in primis, ma non
solo. Più in generale, ciò che definiamo come ‘tute- la da sentimenti’
rappresenta un’istanza funzionale alla messa a tema di profili inerenti la
dimensione psico-sociale delle matrici dei dis- sensi, e dunque
all’approfondimento delle concezioni antropologiche che guidano la riflessione
penalistica. Obiettivo di fondo è addivenire a una visione meno astratta e
disincarnata del mondo umano con cui il diritto penale si trova a fare i conti.
Tale atteggiamento di ‘realismo antropologico’ tende oggi a emergere anche
nella dottrina penalistica. Riguardo il tema dei limiti penalistici alla
libertà di espressione e ai problemi dell’eguale e reciproco rispetto, i
penalisti mostrano un atteggiamento meno ‘concettualistico’ rispetto al
passato; emergono posizioni di cauta apertura alla prospettiva di interventi
normativi, modellati sul distacco da prospettive eminentemente sanzionatorie e
fondati sulla valorizzazione del simbolismo positivo del precetto. «[...]
la mentalità sociale è in movimento, ciò che prima si diceva gratis oggi ha un
costo etico, ci sono nuove libertà e nuove dignità e ne conseguono nuo- vi
problemi, di pensiero e di linguaggio. Siamo le parole che usiamo» SERRA M.,
Amaca, Repubblica Bilanci e prospettive. Cura dei sentimenti e attenzione alle
differenze. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili
problematici e spunti di riformulazione per la tutela della dignità del creden-
te. – 2. La priorità delle libertà, l’importanza delle regole. Bilanci e
prospettive Recuperiamo l’interrogativo di fondo da cui è partita la presente
indagine, ossia se il diritto penale di una moderna democrazia libera- le possa
essere invocato a tutela di sentimenti. La tentazione di opporre un assoluto,
per quanto benintenzionato diniego, appare destinata a scontrarsi con un maturo
senso di realtà. Beninteso, non stiamo in questo modo cercando di assegnare
fretto- lose patenti di legittimità a una delle più controverse modalità di
esplicazione dell’intervento penale, ma riteniamo che nell’analisi del problema
si debba cercare di andare oltre le etichette retoriche, senza farsi abbagliare
né in positivo né in negativo dalla ambigua parola ‘sentimento’. Il percorso
compiuto finora riteniamo abbia mostrato come un’asserzione netta, sia in
termini affermativi sia in termini negativi, peccherebbe per approssimazione.
Sarebbe dunque più opportuno partire da una più articolata formulazione
dell’interrogativo: in rela- zione a quali fenomeni e in quali accezioni, al di
là delle scelte dei le- gislatori storici, sentimenti ed emozioni possono
essere ragionevol- mente evocati quali elementi costitutivi e/o integrativi
nella descrizione dell’oggetto di tutela penale? 238 Tra sentimenti ed
eguale rispetto Le incrostazioni di matrice collettivistica, che nel contesto
italiano hanno ammantato gli interessi definiti dai legislatori ‘sentimenti’,
hanno contribuito ad acutizzare, in modo giustificato, la diffidenza della
dottrina penalistica di stampo liberale. Il senso di un nuova tematizzazione
del sentimento quale problema di tutela deve essere in primo luogo funzionale a
svincolare dalle ‘col- lettivizzazioni normative’ un fenomeno legato
all’interiorità dell’indivi- duo e che invece si è prestato, con evidente
slittamento di significato, a divenire veicolo di incriminazioni di stampo
moralistico-identitario. Riteniamo che debba essere presa in considerazione,
quale ulte- riore sfaccettatura, una dimensione di significato che valorizzi la
proiezione universalistica e, per certi versi egualitaria, dei fenomeni
affettivi: sentimenti ed emozioni come ‘addentellato fenomenico’ di una dotazione
universalmente condivisa dagli esseri umani. In base a quest’ultima
prospettiva, declinare determinate questio- ni di interesse penalistico, come
ad esempio i rapporti fra manifesta- zioni espressive e sensibilità, anche come
problema di sentimenti acutizza i dilemmi, poiché il sentimento non può esser
limitato all’eventuale, problematica, identificazione con l’interesse di una
sola delle parti, col rischio di modulare eventuali, ipotetici, interventi
normativi sulle cadenze di uno sterile rivendicazionismo psicologico
soggettivo. Il risvolto di reciprocità egualitaria assume il significato di una
pretesa ‘responsabilizzante’ nei confronti di tutti individui, quale do-
verosa, e in primo luogo spontanea, autolimitazione: «Se ognuno ha diritto alla
propria narrazione individuale, ugualmente non può, in nome dei propri
sentimenti, dichiararla “intoccabile”, af- fermarla come pretesa di verità
assoluta e non metterla in discussione e confrontarla con quella degli altri»
1. È nella distinzione tra ethos ed etica che si inquadra uno dei fon-
damentali tratti costitutivi del pluralismo: ethos come ordine valoriale
costitutivo del singolo, ed etica come limite che tutti i diversi ethe de- vono
osservare, nel rispetto di «ciò che è dovuto da ciascuno a tutti. Lo stesso
diritto a vivere e fiorire secondo il proprio ethos, che si chiede per sé» 2,
secondo dinamiche di simmetrica reciprocità che uni- scono profili di diversità
fattuale e accenti di doverosità normativa. TURNATURI, Emozioni: maneggiare con
cura, DE MONTICELLI, La questione morale, Osservazioni finali La focalizzazione
sul problema di un eguale e reciproco rispetto porta a emersione la duplice
prospettiva di una tutela di sentimenti intesa come ‘cura’ del sentire
individuale e collettivo, e come forma di contrasto a espressioni tese al
disconoscimento dell’altro. Nell’atto di formulare delle osservazioni finali al
presente lavoro emerge l’esigenza di distinguere fra linee di politica
legislativa di va- lenza generale e spunti più dettagliati che richiedono di
essere circo- scritti a singoli campi di materia. Il problema della tutela di
senti- menti non può essere fatto confluire in un unico prospetto di model-
lizzazione normativa, ma necessita di essere affrontato attraverso percorsi
differenti: solo in rapporto al profilo della ‘cura’ si possono a nostro avviso
proporre delle linee generali, mentre il tema, più stret- tamente penalistico,
della tutela da sentimenti richiede di essere più attentamente
contestualizzato. Cura dei sentimenti e attenzione alle differenze Come abbiamo
già specificato, il rapporto fra ‘cura’ e ‘tutela da’ è di complementarietà,
per quanto sia la ‘cura’ a definire la declinazio- ne primaria del problema di
tutela. La dimensione ‘ostativa’, ossia quella della ‘tutela da’, resta una
parte residuale e strumentale al profilo della ‘cura’, finalizzata even-
tualmente ed esclusivamente, al mantenimento di equilibri. Obiettivo di fondo,
probabilmente non raggiungibile mediante il solo strumen- to giuridico, resta
quello di un’adeguata formazione del sentire degli individui, intesa come
capacità di rapportarsi all’altro nelle forme dell’ascolto, del confronto e
anche della critica, da contestualizzarsi in un’arena polifonica aperta alla
pluralità, poiché «di quanta più realtà una sensibilità diventa capace, tanto
più esatto sarà, da un la- to, il sentimento delle differenze e delle priorità»
3. Il ruolo delle agenzie educative diviene in questo senso cruciale, a partire
dalle istituzioni scolastiche: l’arricchimento della giustizia da una
condizione essenzialmente normativa a una condizione etica è l’esito
(un’aspirazione più che un traguardo certo) di un lavoro lungo e 3 DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore, Si veda ad esempio la pubblicazione dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Abc: Teaching Human
Rights – Practical Activities for Primary and Secondary Schools, disponibile in
http://www.ineesite.org/-
en/resources/abc_teaching_human_rights_-_practical_activities_for_primary_and_se-
condary. Tra sentimenti ed eguale rispetto lento di educazione dei
sentimenti, al quale partecipano le istituzioni politiche e quelle sociali, la
vita pubblica e quella privata» 5. Qual è il messaggio di fondo che dovrebbe
essere veicolato quale coordinata etica di una cura dei sentimenti?
L’atteggiamento che ragionevolmente si pone a monte del recipro- co rispetto è
la capacità di immedesimazione 6 e soprattutto di usare l’immedesimazione in
modo da includere la differenza. In altri termini, «il rispetto basato
sull’idea di dignità umana risulterà insufficiente a includere tutti i
cittadini in termini di uguaglianza, a me- no che non sia nutrito da uno sforzo
immaginativo nei confronti della vita degli altri e da una comprensione più
intima della loro piena e comune umanità. Ritorna anche in questo caso
l’esigenza di non ridurre la dignità umana a un simulacro dispotico declinato
in termini deonto- logici, bensì a modularne l’essenza su cadenze il più
possibile inclusive. L’attenzione alle differenze può maturare attraverso
percorsi di crescita emotiva finalizzati a migliorare la capacità di apertura
all’altro 8, soprattutto ove si riesca a riconoscere e a dominare un’emo- zione
che è tanto tremendamente umana quanto problematica nelle dinamiche di una
società pluralista: la paura. La funzione primordia- le della paura è la difesa
dell’essere umano da fonti di pericolo, ma la sua attuale variante sociale e
adattiva corrisponde a un’emozione repulsiva e narcisistica, che si declina
come una «pre- occupazione offuscante [e] un’intensa concentrazione su di sé
che getta gli altri nell’ombra URBINATI, Liberi e uguali. L’Autrice rimarca che
tale passaggio è propriamente ciò che denota la cultura dell’individualismo
democratico. 6 Richiamiamo il tema dell’empatia, soprattutto in relazione al
suo valore etico per la vita di relazione: v., per tutti, BOELLA, Sentire
l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Milano, NUSSBAUM, Emozioni politiche,
Riteniamo sia da accogliere positivamente l’iniziativa del governo italiano che
ha presentato, per voce della Ministra dell’Istruzione, il ‘Piano nazionale per
l’educazione al rispetto’, ossia un progetto teso a introdurre nella formazione
scolastica momenti di apprendimento per «promuovere nelle istituzioni scolastiche
di ogni ordine e grado un insieme di azioni educative e for- mative volte ad
assicurare l’acquisizione e lo sviluppo di competenze trasversali, sociali e
civiche, che rientrano nel più ampio concetto di educazione alla cittadi- nanza
attiva e globale» e per «promuover[e] azioni specifiche per un uso consa-
pevole del linguaggio e per la diffusione della cultura del rispetto, con
l’obiettivo di arrivare a un reale superamento delle disuguaglianze e dei
pregiudizi, coinvol- gendo le studentesse e gli studenti, le e i docenti, le
famiglie». 9 NUSSBAUM, La nuova intolleranza, cit., p. 67.
Osservazioni finali 241 Si pone dunque l’esigenza di non cedere alle chiusure
indotte dalla paura, al fine di «adottare uno sguardo diverso, che dia
rilevanza a mentalità, valori, idee, convinzioni e sensibilità culturali capaci
di conferire significati inediti alle nostre paure» 10. In uno studio dedicato
all’intolleranza come effetto della paura dell’altro, Martha Nussbaum afferma
che l’eguale e reciproco rispetto richiede lo sviluppo dei cosiddetti ‘occhi
interni’, ossia dello sguardo immaginativo, non corporeo, che consente di
vedere l’altro 11: è preci- samente ciò che manca nell’odio, dove il sentire è
cieco12 davanti all’individualità altrui. La promozione di un orizzonte di
rispetto si gioca in primo luogo a un livello che ha a che fare con lo sviluppo
di tale profondità di sguardo e di immaginazione: per rispettare l’altro
bisogna ‘sentirlo’ 13, attraverso capacità di apertura, di ascolto, di
discernimento. Tra offesa alla sensibilità e discorso discriminatorio: profili
problematici e spunti di riformulazione per la tutela della di- gnità del
credente Venendo al profilo più strettamente penalistico, un primo bilancio può
essere stilato in relazione al panorama normativo italiano vigente.
L’impressione è che nel complesso il lavoro di rielaborazione concettuale e di
riassetto etico compiuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina abbia condotto a
norme il cui coefficiente di compatibilità con le libertà costituzionali è
tutto sommato accettabile. Come già osservato, non appare possibile in questa
sede procedere all’enucleazione di prospettive de jure condendo calibrate su
ogni singolo ambito in cui il codice fa riferimento a sentimenti come oggetto
di tutela. Ci limitiamo a prendere in analisi il settore in cui, a nostro
avviso, CERETTI-CORNELLI, Oltre la paura, NUSSBAUM, La nuova intolleranza, DE
MONTICELLI, L’ordine del cuore. In questo senso la dimensione della ‘cura’ si
proietta verso un rispetto non meramente ‘passivo’, bensì guarda anche,
soprattutto, a un rispetto ‘attivo’. Con la prima accezione si indica un
atteggiamento di astensione dall’ostilità e dalla violenza; il rispetto
‘attivo’ si traduce in qualcosa di più: «un’attenzione per i bisogni, le
esigenze, gli obiettivi e anche i progetti esistenziali delle persone, il
riconoscimento del fatto che esse attribuiscono valore a qualcosa che sta loro
a cuore e che intendono realizzare», v. MORDACCI, Rispetto, Tra sentimenti ed
eguale rispetto emerge maggiormente l’esigenza di procedere a una disambiguazione
tra forme di intervento a tutela della sensibilità e presidi contro di- scorsi
discriminatori. In quest’ottica l’impianto dei reati a tutela del sentimento
religioso presenta delle criticità che si addensano nella portata applicativa
dell’art. 403 c.p., ossia l’offesa a una confessione religiosa mediante vili-
pendio di persone. Partiamo dal presupposto che sia ragionevole che lo stato
laico tuteli lo spazio umano-personale e sociale in cui si dispiega la dimen-
sione religiosa dell’individuo: il problema è con quali modalità. Una delle più
acute posizioni a difesa della tutela del sentimento religioso osserva che
«discussione non è offesa. A maggior ragione quando il bene tutelato diventa la
dignità e la personalità dell’essere umano sotto lo specifico profilo della
dimensione religiosa», e formula con- seguentemente la propria proposta
normativa, a superamento delle attuali disposizioni, elaborando una fattispecie
che incrimina «i comportamenti o le espressioni oltraggiose tenuti in pubblico
che le- dono intenzionalmente la dignità delle persone a causa delle loro
convinzioni sul significato ultimo dell’esistenza. Ebbene, concordiamo con le
ragioni di fondo di tale proposta, la quale ci sembra coerente con l’intenzione
di circoscrivere l’impianto di tutela alla dignità della persona e non al
prestigio e al patrimonio ideologico della confessione Resta a nostro avviso il
dubbio se sia opportuno mantenere una disposizione dedicata al fenomeno
religioso, la quale potrebbe espor- si al rischio di assumere nuovamente le
vesti di incriminazione surrogatoria del vilipendio, come del resto oggi sembra
capitare per l’art. 403 c.p., il quale tende a estendersi all’insulto alla
confessione MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, MAZZUCATO, Offese alla
libertà religiosa, La proposta di norma parla di ‘Offese alla libertà
religiosa’, ma il richiamo alla dignità ‘a causa delle convinzioni sul
significato ultimo dell’esistenza’ sem- brerebbe aprire anche alla tutela della
dignità del non credente. Su tale ultima prospettiva si veda, anche per
richiami comparatistici, PACILLO, I delitti contro le confessioni religiose,
Benché non compaia il termine ‘vilipendio’, anche il modello di norma
ipotizzato dalla Mazzucato parla, con formula rischiosa, di «comportamenti o
espressioni oltraggiose tenuti in pubblico, anche rivolti a cose che formino
oggetto di culto o siano consacrate al culto». Ad un’attenta lettura,
l’emancipazione dal modello del vilipendio della confessione emerge però dalla
traiettoria dell’offesa, la quale deve «[ledere] intenzionalmente la dignità
delle persone», v. MAZZUCATO, Offese alla libertà religiosa, Osservazioni
finali piuttosto che limitarsi a sanzionare l’offesa alla persona 18. A nostro
avviso, un riassetto e, soprattutto, una decisa disambiguazione della linea di
intervento penale potrebbe aversi attraverso un’abrogazione secca dell’art. 403
c.p., accompagnato da una parallela modifica dell’art. della legge che estenda
ai motivi religiosi il tipo di discorso discriminatorio suscettibile di
assumere rile- vanza penale, secondo una formula che incrimini «chi propaganda
idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico o religioso. Ciò
non porterebbe, ci sembra, ad alcun vuoto di tutela: si tratte- Anche partendo
dal presupposto che la libertà di espressione non sia assoluta, ma incontri
limiti espressamente riconosciuti dall’ordinamento interno e anche da fonti
sovranazionali, incriminare una manifestazione del pensiero consistente nel
‘tenere a vile’, e dunque nel formulare critiche anche sferzanti e in grado di
ferire la sensibilità del credente, è esposta al rischio di tracimare in una
forma di illegittima compressione della libertà di critica e di satira; come
osserva SERENI, Sulla tutela penale della libertà religiosa, cit., p. 12, il
vilipendio del credente è costantemente a rischio di trasformarsi in
«vilipendio teologale, più prossimo alla iper-sensibilità del credente rispetto
al contenuto della verità di fede, al rigore della sua Autorità religiosa
contro le critiche (anche satiriche) rivol- te a danno della Divinità, dei suoi
simboli e dei suoi ministri di culto». Si è osservato criticamente che
ipotetiche interpretazioni estensive della norma sul vilipendio ex art. 403
c.p., alla luce del dettato codicistico post riforma 2006, e dunque nel segno
dell’uguaglianza fra confessioni religiose, sono da ritenersi applicabili anche
alla tu- tela di religioni come l’Islam: un esito definito «non nello spirito
dei tempi» da PULITANÒ, Laicità, multiculturalismo, diritto penale,,
plausibilmente per evidenziare come l’estensione della tutela, doverosa in
quanto sancita dal principio di uguaglianza, rischi di introdurre uno strumento
giuridico invasivo a disposizione di fedeli di religioni particolarmente
suscettibili. Esprime contrarietà rispetto all’ipotesi di un presidio penale
specifico del fenomeno religioso VISCONTI C., La tutela penale, cit.,.; si pone
a favore di una tutela incentrata sulle fattispecie comuni, senza necessità di
norme ad hoc sulla religione, anche MANTOVANI M., L’oggetto tutelato nelle
fattispecie penali in materia di religione, in AA.VV., a cura di De Francesco-
Piemontese-Venafro, Religione e religioni, Per una posizione favorevole al
mantenimento del vilipendio, considerato prototipo dell’insulto
all’atteggiamento individuale verso il problema religioso, v. STELLA, Il nuovo
Concordato fra l’Italia e la Santa Sede: riflessi di diritto penale, in Jus. Per
un’analisi dei modelli di tutela imperniati sulla persona del credente e che si
identificano nel paradigma dello hate speech, v. CIANITTO, Quando la parola
ferisce, Si veda in particolare il caso della Gran Bretagna, Paese nel quale
non esiste più l’incriminazione per la condotta di Blasphemy (abolita), e che
ha introdotto (Racial and Religious Hatred Act) una fattispecie di reato che
incrimina le manifestazioni di incitamento all’odio religio- so, v. EAD.,
Quando la parola ferisce,.; GIANFREDA, La blasphemy nell’ordinamento inglese di
Common Law e la tutela penale della “religione”: problemi aperti e nuove
prospettive, in AA.VV., a cura di De Francesco-Piemontese- Venafro, Religione e
religioni, Tra sentimenti ed eguale rispetto rebbe di una più netta
ridefinizione di confini tra fattispecie, senza intaccare la soglia ‘inferiore’
dell’intervento penale (il nucleo duro delle offese alla persona e alla sua
dignità), lasciando univocamente al di fuori offese limitate al piano
ideologico, e incentrando l’intervento su espressioni discriminatorie basate su
motivi religiosi Da un lato le offese al singolo potrebbero assumere rilevanza
come delitti contro l’onore (oggi, dopo l’abrogazione dell’ingiuria, resi-
duerebbe la sola diffamazione), eventualmente aggravati ai sensi dell’art. del
d.l. n. (aggravante relativa alle finalità di discriminazione); dall’altro
lato, l’orizzonte del discorso pubblico in mate- ria di critica e satira
religiosa si troverebbe affrancato dall’incom- bente censura del vilipendio,
fermo restando il limite, comunque pro- blematico ma ben più selettivo, di non
tracimare in propaganda discriminatoria. Un impianto di tutela così strutturato
consentirebbe a nostro avvi- so di mantenere aperto uno spazio di illiceità per
forme di espressio- ne volte a negare la pari dignità del credente, le quali
chiamano in gioco un profilo altamente significativo della condizione esistenziale
umana come l’identità religiosa. Al contempo, la necessità di valu- Si veda in
questo senso il parere rilasciato dalla Commissione Europea per la democrazia
attraverso il diritto (c.d. ‘Commissione Venezia’, organo consultivo del
Consiglio d’Europa), nel quale si suggerisce agli Stati membri l’abrogazione
delle leggi sulla blasfemia e il mantenimento di presidi basati sulle generiche
norme che incriminano ingiuria e diffamazione e, soprattutto, sulle norme che
incriminano la diffusione di idee fondate sull’odio religioso, v. Compilazione
di pareri e rapporti della Commissione di Venezia riguardante la libertà
d’espressione e i media, La strada della tutela antidiscriminatoria è additata
anche da DONINI, “Danno” e “offesa” nella c.d. tutela penale dei sentimenti,
cit., p. 1586, il quale sembra però aprire alla prospettiva di un’applicazione
dei delitti contro la discriminazio- ne solo nei casi di incitamento alla
discriminazione o ad atti discriminazione nei confronti di persone, lasciando
fuori dal raggio dell’intervento penale le offese collettive che potrebbero, a
nostro avviso, essere invece vagliate come eventuali forme di propaganda
razzista, previa opportuna modifica dell’art. 3 della legge n. 654 del 1975.
Richiama la prospettiva di una tutela tramite le norme antidiscri- minazione
proprio al fine di tutelare anche i gruppi, e non solo i singoli, MAZZOLA,
Diritto penale e libertà religiosa dopo le sentenze della Corte costituzionale,
in Quad. di diritto e politica ecclesiastica,; cfr. PACILLO, I delitti contro
le con- fessioni religiose, Nella dottrina penalistica italiana l’autorevole e
cristallina posizione di ROMANO, Principio di laicità dello Stato, a sostegno
di un presidio penale speci- fico per le religioni si basa su argomenti i quali
possono, a nostro avviso, essere re- cuperati anche nella prospettiva da noi
delineata. Secondo Romano, la non inopportunità dell’intervento penale deriva
dall’esigenza di mantenere all’interno del si- Osservazioni finali
tare l’illiceità attraverso lo stretto filtro dell’incriminazione della
propaganda discriminatoria potrebbe portare a un più cauto uso del diritto
penale nei rapporti con la libertà di espressione e in particolare con la
satira. Ci sembra questa una futuribile modifica che potrebbe contribuire a
fissare in modo più definito spazi di libertà nella salvaguardia di un nucleo
minimo di rispetto che tenga conto del diritto liberale di critica e della
necessaria distinzione con l’orizzonte della discriminazione. La priorità delle
libertà, l’importanza delle regole Dietro il velo retorico dei sentimenti si
pongono questioni di vitale importanza per la convivenza, non liquidabili
dietro affrettate declaratorie di irrazionalità, e che richiedono un serio
impegno in primo luogo nella prospettiva che abbiamo definito come cura. Resta
aperto, in via residuale, il problema di interventi limitativi delle libertà.
Il giurista penale avverte il disagio di un’alternativa dilemmatica tra la
fedeltà a principi di libertà e la violazione che potrebbe scaturire dall’avallo
di politiche di intervento; sì, perché di violazione si tratta in quanto un
dilemma non ammette vie di fuga ma costringe, piaccia o non piaccia, ad
accollarsi le conseguenze del cosiddetto male minore. Condividiamo
l’atteggiamento combattuto che altre voci, ben più autorevoli, hanno
confessato. Non lo diciamo semplicemente a nostra discolpa, bensì a conferma
della profondità del dilemma che ci attanaglia, nella convinzione che
proclamare in questi casi un’asserita soluzione rischi di sfociare in una
hybris intellettuale, e che sia stema strumenti per marcare l’essenziale
differenza fra libertà di critica, anche in forme aspramente satiriche, e pura
e semplice denigrazione o dileggio: differenza che deve modellarsi su quanto
comunemente accolto per le ingiurie rivolte ai singoli. Il richiamo all’offesa
che caratterizza l’ingiuria contribuisce a connotare in termini personalistici
l’interesse protetto, avvicinandolo univocamente alla, pur problematica,
dimensione della dignità del credente. Fermo restando che le fatti- specie a
tutela dell’onore restano comunque un presidio attivo per le offese ai singoli,
l’estensione dell'art. della legge nella parte relativa alla propaganda si
presterebbe, a nostro avviso, a perseguire l’auspicabile risultato teorizzato
da Romano. Se intendiamo denigrazione o dileggio come forme di disconoscimento
della pari dignità delle persone in quanto credenti in una determinata fede o
visione del mondo, l’incriminazione della propaganda discriminatoria,
debitamente estesa nella formulazione lessicale, può, a nostro avviso,
assolvere in modo meno ambiguo dell’art. c.p. ai predetti scopi di
tutela. Tra sentimenti ed eguale rispetto invece preferibile affrontare i
problemi col dovuto rispetto per la complessità: Un dilemma comporta un’oscillazione
infinita; in quanto la nostra esperienza è teatro di continui dilemmi, la sua
struttura è infinitamen- te provvisoria e le si fa torto ogniqualvolta si
cerchi di rinchiuderla nello steccato di un arrogante e definitivo
pronunciamento, nella superba convinzione di aver già sempre (prima che un
qualsiasi problema si ponga) visto giusto. È comprensibile la tendenza a optare
per la soluzione in grado di lasciare in sospeso il più possibile le
conseguenze di uno dei due mai, per evitare una violazione certa (delle
libertà) nella speranza che il male alternativo non trovi realizzazione.
Riteniamo che questa sia una possibile chiave di lettura, come
autorassicurazione psicologica, di ciò che la filosofia ha definito
utilitarismo delle regole, ossia l’atteggiamento con cui si risponda
all’incertezza di fronte a un conflitto cercando l’applicazione di una regola
ritenuta giusta in quanto tale, quali che siano le conseguenze della sua
applicazione, accettando il rischio di affidarsi a ragionamenti talvolta anche
non adeguatamente orientati sul piano delle possibili conseguenze. Ed è
altrettanto comprensibile che il cultore delle discipline pena- listiche, nella
consapevolezza dei mali insiti nella coercizione, faccia il possibile per
evitare di dare impulso e fornire ragioni allo strumento penale, cercando
piuttosto di contenerne la pervasività. Vorremmo essere sicuri che la fede
liberale ci porti nel giusto; ma un sano senso critico esorta a mettere in
conto che potremmo anche aver torto. In linea di principio, sarebbero da
evitare alcuni degli errori attribuiti a un pensiero irenisticamente liberale,
che talvolta finisce per esaltare la forma a discapito del contesto, magari
erigendo steccati intellettualistici esibiti come fieri esercizi di democrazia.
Quello che a nostro avviso va tenuto presente, e che parte della dottrina
penalistica ha ben messo in luce, è il fatto che non vi sono risposte che
possano considerarsi come esito indefettibile di un’ade- [BENCIVENGA,
Prendiamola con filosofia, BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, ABEL, La
parola e il rispetto, Così, efficacemente, BRUNELLI, Attorno alla punizione del
negazionismo, Osservazioni finali] sione ai principi liberali (quale tipo di
liberalismo?) o come soluzione ricavabile ‘a rime obbligate’ dal testo
costituzionale, ma ogni eventua- le prospettiva resta legata a opzioni
politiche che vanno attentamente commisurate sia a criteri di legittimità sia a
criteri di opportunità. La posta in gioco è estremamente significativa. La
difesa dell’eser- cizio di una libertà del pensiero critico, aperto anche a
manifestazioni disturbanti è ciò che identifica e distingue il nostro mondo
liberale, pur con tutti i suoi difetti, dalle oscurità del fondamentalismo: non
dobbiamo dimenticarlo. La costruzione di una campana di vetro al fine di
garantire immunità emotiva agli individui suscettibili non può far parte dello
strumentario giuridico di una democrazia liberale, la quale può (deve) esigere
dai cittadini responsabilizzazione e capacità di elaborazione della limitata
efficacia pratica delle proprie convinzioni, o, più icasticamente, una certa
dose di robustezza. Si tratta in altri termini di favorire l’interiorizzazione
di un onere di tolleranza consistente nella consapevolezza di poter realizzare
il proprio ethos solo nei limiti di ciò che compete parimenti a tutti». Il
richiamo alla robustezza vale sia come monito a non cadere in uno sterile e
polemogeno sentimentalismo vittimocentrico, acriticamente proclive ad avallare
doglianze di animi suscettibili, ma costituisce a nostro avviso anche un monito
a non dare per scontata tale condizione di tenuta etica nelle persone,
dovendosi mantenere l’occhio vigile e l’orecchio proteso a captare segnali in
grado di mostrare le crepe prima che si arrivi a un collasso. È di tutta
evidenza come nell’attuale momento storico le dinamiche del reciproco rispetto
stiano subendo una particolare curvatura, probabilmente una deformazione, sia
sul piano dei contenuti, sia sul piano dei canali espressivi. Rispetto al
passato, anche recente, siamo oggi portati a constatare quasi quotidianamente,
grazie ai o a causa dei media, condotte che sono dettate da atteggiamenti di
repulsione dell’altro. Se è vero che rinvenirne la dannosità immediata risulta
operazione assai complessa, la quale molto difficilmente riesce a soddisfare
appieno i filtri dell’armamentario concettuale penalistico, non può essere però
escluso che volgere gli occhi al cielo, confidando sul fatto che lo spirito
critico e gli ideali di tolleranza riescano ad avere la meglio, possa rivelarsi
un atteggiamento totalmente alieno dai calcoli PULITANÒ, Laicità e diritto
penale, HÖRNLE, Protezione penale di identità religiose?, HABERMAS, Tra scienza
e fede, tr. it., Roma-Bari Tra sentimenti ed eguale rispetto pazienti e
minuziosi che sarebbero richiesti per sostanziare quella giustificazione. Tali
riflessioni ci vengono suggerite dall’esigenza di non sottovalutare un
repertorio ormai troppo consistente di fatti che rimandano a un passato non del
tutto trascorso e con preoccupanti echi nel tempo presente. Le ragioni del
diritto si intrecciano con un tessuto anche emozionale, il quale costantemente
ci ricorda che il diritto è prioritariamente una risposta alla memoria del
male, che esseri umani possono fare ad altri esseri umani. Tenere ben ferma
l’attenzione sui mondi umani e sulla realtà sociale è un impegno necessario per
monitorare la qualità delle libertà in un contesto pluralista. Il diritto
penale non rappresenta lo strumento più idoneo a svolgere una funzione
promozionale, ma riteniamo non debba essere aprioristicamente tacciato di vena
illiberale il proposito di immaginare strumenti perché vi possa essere anche,
eventualmente, un redde rationem sull’uso della libertà di espressione, non
quale forma di soffocamento ma quale chiamata a dare spiegazioni e ad assumersi
la responsabilità di un certo uso del linguaggio, il quale è performativo non
solo nei confronti della realtà esterna ma anche di sé stessi. Non intendiamo
avallare forme di democrazia protetta, bensì evitare di chiudere aprioristicamente
il discorso su ciò che il diritto, e anche eventualmente il diritto penale,
potrebbe fare nelle forme non BENCIVENGA, Prendiamola con filosofia, VECA, La
priorità del male e l’offerta filosofica, Milano FIANDACA, Laicità, danno
criminale e modelli di democrazia. Secondo quanto osservato da Michele Serra in
esergo a questo capitolo, di fronte a nuove libertà e a nuove dignità
conseguono nuovi problemi, di pensiero e di linguaggio, e le parole che usiamo definiscono
gli altri ma al contempo ci definiscono. Concetto che peraltro rischia di
prestarsi a usi retorici. Cosa vuol dire democrazia protetta? Una democrazia
liberale di tipo aperto ha dei valori da difendere? Certamente non può dirsi
che la democrazia sia una forma di governo relativistica; al contrario, essa
«non ha fedi o valori assoluti da difendere a eccezione di quelli su cui essa
stessa si basa. Nei confronti dei principi democratici, la pratica democratica
non può essere relativistica», v. ZAGREBELSKY, Imparare democrazia, Torino. A
partire da queste premesse, si può concordare con quanto osservato da SALAZAR,
I destini incrociati della libertà di espressione, ossia che non esistono
democrazie indifese, cioè impossibilitate a difendersi se vogliono rimanere
fedeli a se stesse, dovendo semmai distinguersi tra Costituzioni dotate di un
sistema di protezione meno appariscente e quelle che, invece, ne esibiscono uno
maggiormente strutturato». di una censura autoritaria, ma quale veicolo,
tramite i precetti, di richiamo simbolico a valori della convivenza liberale,
nella convinzio- ne che lo strumento giuridico debba essere pensato non
soltanto come un mezzo di giustizia, ma possa anche assumere le vesti di un
luogo di scoperta del giusto. È l’idea che l’istituzione del diritto nella sua
essenza sia precisamente il mezzo che la nostra ragione ha indi- cato non solo
per garantire il dovuto da ciascuno a tutti, ma anche per scoprire attraverso
il confronto e non più lo scontro delle diverse concezioni del bene sempre
nuovi aspetti di questo dovuto. DE MONTICELLI, La questione morale. Grice: “Falzea interprets,
correctly, Roman law as imperativistic or better, volitive – volontarismo
giuridico – My reflections on “Aspects of Reasons” point to the same direction.
Indeed my focus is on the conversational IMPERATIVE!”. Nome compiuto: Angelo
Falzea. Falzea. Keywords: QVOD PRINCIPII PLACVIT LEGIS HABET RIGOREM, interesse,
valore, disvalore, assiologia, accertare, apparire, efficacia, interesse, does
moral philosophy rest on a mistake, duty cashes on interest, on desire. ‘sentimento condiviso’ -- H. L. A. Hart. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Falzea” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Fannio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Fanc. Fannio conosce
Panezio di Rodi per mezzo di C.Lelio, e ne segue l’insegnamento. C. Fannio
combattè contro Cartagine, e tribuno della plebe e si distingue contro
Viriato.C. Fannio e pretore e console. C. Fannio oppose alla proposta di C.
Gracco di concedere la piena cittadinanza romana ai meri latini e i diritti di
questi ai meri italici, con una orazione famosa, di cui però, gli e contestata
la paternità. C. Fannio scrive un saggio storico spesso ricordata da
Cicerone ("Annales"), che forse comincia con le origini di Roma -- e
orazioni. Gaio
Fannio Gaius Fannius. Gaius Fannius is a Roman republican philosopher and
politician who was elected consul and was one of the principal opponents of
Gaius Gracchus. Fannio is a member of the Scipionic Circle. Gaius Fannius
was the son of Marcus Fannius (whose brother was probably Gaius Fannius Strabo,
the consul). On the assumption that this Gaius Fannius is not the historian who
fought in the Punic War, he was a member of Quintus Caecilius Metellus
Macedonicus’s staff in Macedonia, who sent him as part of an embassy to the
Achaean League to convince them not to enter the war against Rome. After the
embassy was insulted and their warnings disregarded, Fannius left and went to
Athens. Fannius next appears, serving with distinction as a military tribune in
Hispania Ulterior under Quintus Fabius Maximus Servilianus in his war against
Viriathus. Fannius was elected as Plebeian Tribune. Then he was elected to the
office of Praetor, during which time he was mentioned in a decree responding to
the request for Roman assistance by John Hyrcanus, the ruler of the Hasmonean
Kingdom. With the support of the Tribune of the Plebs Gaius Gracchus, Fannius
was elected consul, serving alongside Gnaeus Domitius Ahenobarbus. However,
once he was in office, he turned against Gracchus, opposing his reforming
measures and supporting the traditional senatorial group who were against any
reforms which impacted upon their wealth and status. During his consulship he
obeyed the Senate's directive and issued a proclamation commanding all of the
Italian allies to leave Rome. He also spoke against Gracchus's proposal to
extend the franchise to the Latins. Fannius's speech was regarded as an
oratorical masterpiece in Cicero's time, and was widely read. Gaius Fannius
married Laelia, the daughter of Gaius Laelius Sapiens. On the advice of his
father-in-law, Fannius attended the lectures of the Stoic philosopher,
Panaetius, at Rhodes. There has been a long-standing debate over whether this
Gaius Fannius was the historian who served under Scipio Aemilianus during the
Third Punic War, and together with Tiberius Gracchus were the first to mount
the walls of Carthage on the capture of the city. Cicero, from whose letters
much of this is derived, was incorrect in identifying Fannius the consul as the
son of Gaius. Inscriptions clearly reveal that his father was Marcus Fannius.
It is now generally accepted that Cicero, although mistaken about some of the
details, was probably not mistaken when he distinguished between Gaius Fannius,
the Consul and Gaius Fannius, the historian who served under Scipio Aemilianus.
See Cornell, T. J. The Fragments of the Roman Historians, for a detailed
analysis of the evidence. References Cornell, Broughton, Broughton
Broughton Cornell, Broughton Smith Broughton Smith Cornell Smith Smith Sources
Broughton, T. Robert S., The Magistrates of the Roman Republic, Broughton, T.
Robert S., The Magistrates of the Roman Republic, Cornell, The Fragments of the
Roman Historians, Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology,
Smith, William, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Political
offices Preceded by Q. Caecilius Metellus Balearicus T. Quinctius Flamininus
Roman consul With: Gnaeus Domitius Ahenobarbus Succeeded by Lucius Opimius Q.
Fabius Maximus Allobrogicus FASTISNIVIAF NationalGermanyUnited States People Deutsche
Biographie Categories: Roman augurs Roman
consuls Fannii. Nome compiuto: Gaio Fannio. Fannio. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fannio,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fano: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della glossogonia – imago
acustica e immagine sensibile – scuola di Trieste – filosofia trestina –
filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Trieste, Friuli-Venezia Giulia. Grice:
“I like Fano; for one, he took very seriously Plato’s Cratilo – “origine e
natura del linguaggio,’ he has also explored a rather extravagant trend for
Italian philosophers, when philosophy is reduced to ‘analisi del linguaggio’!” Neo-idealista, appartene a quel gruppo di artisti,
letterati, e scrittori che hanno reso famosa Trieste. Legge in modo originale
l'opera di Croce e Gentile. Sottolinea l'importanza delle scienze naturali e
della matematica, che nel suo sistema non sono governate dagli pseudo-concetti.
Da molta importanza agli aspetti più semplici e ferini dello spirito seguendo
le riflessioni di Vico. Suo padre Guglielmo era un medico affermato, sua
madre Amalia Sanguinetti. Il padre fu uno dei pochi ebrei di allora che passano
al cattolicesimo per sincera fede. Ma tale conversione e accompagnata da manie
religiose e disordini mentali precoci. Fin dall'adolescenza F. ha un
impulso di rivolta contro gli adulti, il loro conformismo, il loro spirito
oppressivo. Nel romanzo Quasi una fantasia di Ettore Cantoni si parla di due
ragazzi, in cui è facile riconoscere l'autore Ettore e Fano, che viaggiano e
arrivano addirittura in Africa, appunto per sfuggire all'atmosfera pesante
instaurata dagli adulti. Fu un ragazzo ribelle, non volle accettare la
disciplina della scuola. Un episodio contraddistingue il suo carattere, quando
getta nella stufa il registro di classe. Frequenta la scuole austriaca con
scarso profitto. Afferma che una parte delle sue difficoltà era dovuta al fatto
di avere poca memoria (non quella concettuale, in cui eccelleva, ma quella
specifica, dettagliata, necessaria ad es. nello studio della storia e della
geografia). Così abbandona gli studi assai prima di aver conseguito la
maturità. Ritiratosi da scuola, i suoi congiunti gli procurarono un posto
di impiegato. Ma abbandonò l’impiego e affitta, assieme ad alcuni coetanei, una
cameretta sul colle di Scorcola, dove si dedica non solo a discussioni senza
fine con gli amici, ma passò ore e ore a studiare filosofia. Più tardi a Vienna
poté sentire le lezioni universitarie di alcuni luminari del tempo. Fu la
lettura dei classici tedeschi, da Leibnitz a Schopenhauer, da Kant a Fichte e
Hegel, a dare al suo pensiero un indirizzo al quale sarebbe rimasto fedele per
tutta la vita, a fargli trovare le armi per la sua personale battaglia contro
il dogmatismo, il fideismo, il clericalismo del proprio ambiente
familiare. Certo alla formazione di F. ha contribuito anche l'ambiente
eccezionale della Trieste di allora. Fu suo amico Poli, il cui pseudonimo,
Saba, fu inventato proprio da lui. Si ispira certamente alla figura di F.
anche il sesto de I prigioni di Saba: «L’Appassionato/Natura, perché ardo, m’ha
di rosso/pelo le guance rivestite e il mento./ Non è una brezza lo spirito: è
un vento /impetuoso, onde anche il F. è scosso. /…../ Ero Mosè che ti trasse
d’Egitto, / ed ho sofferto per te sulla croce. / Mi chiamano in Arabia Maometto». Saba
e F. comprano in società la libreria antiquaria Mayländer, la futura
"Libreria antica e moderna", ma non andano d’accordo, perché Fano non
era persona da accollarsi diligentemente troppi compiti "noiosi".
Così i due decisero di separarsi e, poiché entrambi volevano rimanere
proprietari, Fano propose di giocare questo diritto a testa o croce e vinse. Ma
Saba, che era amante e cultore di libri antichi, non accettò il verdetto della
sorte e convinse l’amico a cedergli ugualmente la libreria. Un'altra
persona dell'ambiente triestino con cui Fano ebbe grande amicizia è stato Giotti.
E un incontro come di un artista toscano con un profeta ebreo. Io ne ebbi un
grande giovamento. Egli leggeva a quel tempo Zola, Maupassant e Flaubert che io
non conosco. Per il suo carattere indolente, in molte cose esteriori della vita
fece ciò che gli consigliavo io. Se ne venne via da Trieste, poi fece venire la
famiglia a Firenze e cose simili. Ma l'amicizia fra i due subì un tremendo
contraccolpo a causa delle drammatiche vicende in cui fu coinvolta Maria, sorella
di Virgilio, che F. sposa. Ebbero un figlio minorato mentale, Piero, che fu
ucciso dalla madre, la quale si tolse a sua volta la vita. È una tragedia che
scosse profondamente tutto Trieste. Sposa Anna Curiel, da cui ha un figlio di
nome Guido. Durante il periodo della grande guerrafu irredentista, come
molti dei suoi amici, Benco, Saba, Giotti, Schiffrer e altri. In seguito il suo
atteggiamento e molto simile a quello di Croce, e per analoghi motivi
ideologici. Gli ideali egalitari non facevano presa su di lui e gli sembrava
utopistico, e comunque non desiderabile, l’instaurare una società comunista.
Anzi si oppose con decisione al socialismo massimalista e turbolento di allora,
tanto da dimostrare, per un breve periodo, una certa comprensione per la
reazione fascista. Ma, già prima di Croce, divenne un antifascista, che non
perdeva alcuna occasione per manifestare apertamente le sue opinioni. Si
laurea in filosofia a Padova con “Dell’universo ovvero di me stesso: saggio di
una filosofia solipsistica” pubblicata sulla Rivista d’Italia. Probabilmente
non frequenta le lezioni universitarie a Padova, anche perché era già sposato e
dove pensare a mantenere la sua famiglia. Semmai la sua formazione si compì,
oltre che a Vienna, a Firenze, dove aveva trascorso qualche anno prima della
guerra e dove aveva frequentato l’ambiente de La Voce. Professore di
filosofia presso vari licei di Trieste, F. aspira tuttavia all’insegnamento
universitario, a cui giunse dopo molte traversie causate da intralci posti
dalle autorità. Il motivo di queste difficoltà si deve alla fama di
antifascista che egli si procurò quando, commemorando il cugino Elia, volontario nella grande guerra e morto
sul Podgora, tenne un discorso in cui traspariva, in maniera non molto velata,
la convinzione che il sacrificio di tante vite per la libertà veniva rinnegato
dal regime politico allora dominante. Questa sua presa di posizione gli costò
alcuni giorni di carcere nella fortezza di Capodistria e la fama di
antifascista si ripercosse sulla sua carriera universitaria. Attorno a quegli
anni a Trieste si andavano diffondendo le idee della psicoanalisi di Weiss, discepolo
di Freud. A F. non piaceva questa teoria, affermando che si basava su supposte
attività del pensiero immaginarie e non verificabili. Il concetto di inconscio
non posse venir accettato da chi come lui basava tutto sull' ‘auto-coscienza’.
Studioso di Croce, che conosce, pubblicò vari articoli sulla filosofia
crociana. Il saggio “La negazione della filosofia nell’idealismo” gli procurò
l’attenzione di Radice, che gli offrì un posto di assistente a Roma. Da notare
che nel suo primo saggio viene esposto organicamente il suo pensiero, Il
sistema dialettico dello spirito. Dopo l'invasione tedesca trova rifugio a
Rocca di Mezzo, in Abruzzo. La tranquilla sicurezza, la noncuranza dei pericoli
non gli vennero mai meno, né per il rischio di venir scoperti dai tedeschi (lui
e la moglie avevano falsificato le carte d’identità), né per i bombardamenti
alleati. I tedeschi lo usarono spesso come interprete e poiché la sua casa
stava proprio sulla strada maestra, spesso la cucina era piena di soldati che
avevano bisogno di qualcosa. Lì, in quella cucina mal riscaldata, incurante dei
rischi immediati, lavora forse più di quanto non avesse mai fatto in precedenza
e portò a termine l'opera: La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi
lineamenti di un sistema dialettico dello spirito. Finita la guerra ritrovò il
suo posto a Roma. Nel saggio sul Croce aveva rivendicato l'importanza delle
scienze empiriche, che nella filosofia crociana non avevano dignità
conoscitiva. In Teosofia orientale e filosofia greca troviamo una descrizione dello sviluppo
storico del pensiero umano, in cui tra l'altro viene rivendicata l'importanza
della matematica, mentre Croce sostene che la matematica è uno pseudo-concetto.
Inoltre cura la traduzione integrale dei Prolegomena ad ogni futura metafisica
di Kant. Infine le sue ricerche lo portarono ad esaminare il problema
dell'origine della lingua, su cui espresse il suo pensiero nel Saggio sulle
origini del linguaggio, poi riedito accresciuto a cura di F.. Altre
opere: “Il sistema dialettico dello spirito” *Roma, Servizi editoriali del
GUF/); “La filosofia del Croce. Saggi di critica e primi lineamenti di un
sistema dialettico dello spirito” (Milano, Istituto editoriale italiano); “Teosofia
orientale e filosofia greca. Preliminari ad ogni storiografia filosofica”
(Firenze, La nuova Italia); “Saggio sulle origini del linguaggio. Con una
storia critica delle dottrine glottogoniche” (Torino, Einaudi); “Origini e
natura del linguaggio” (Torino, Einaudi); “Neo-positivismo, analisi del
linguaggio e cibernetica” (Torino, Einaudi);
“Prolegomeni ad ogni futura metafisica” (Firenze, G. C. Sansoni). Ettore
Cantoni, Quasi una fantasia: romanzo, Milano, Treves, Cantóni, Ettore, su
treccani. Voghera su Il Piccolo. Viene venduta a F. e Poli, Saba, che ne
diventa proprietario unico. Dice che una teoria può essere accettata solo se si
prospettano anche delle ipotesi — che poi appariranno assurde e non si
verificheranno concretamente — nelle quali essa dovrebbe venir respinta. La
psicanalisi, invece, si mette accuratamente al coperto da ogni prova contraria.
L'estetica nel sistema di Croce, L'Anima, da filosofia di Croce, Giornale
critico della filosofia italiana, Un episodio illustra bene sia l’importanza
che egli annetteva al suo lavoro, sia il suo coraggio. Una mattina, scendendo
in cucina, che e diventata il suo studio, la trova invasa da soldati tedeschi
che cercano acqua ed altro. Con l’abituale tono tranquillo, dimenticando con
chi aveva a che fare, lui l’ebreo, col suo viso di profeta, addita ai soldati
della Wehrmacht la porta. Prego, dice in tedesco se lor signori avessero la
compiacenza di andare da un’altra parte. Io ho da lavorare. Senza fiatare, i
soldati infilano la porta ed egli si rimise tranquillamente al suo tavolo di
lavoro per battagliare con Croce, dimentico che la più superficiale inchiesta e
sufficiente a convogliarlo assieme alla sua famiglia verso i campi di sterminio.
L'ottimismo di Fano e il pessimismo di Voghera. Brani da lettere e testi,
Milano, Mimesis, Silvano Lantier, La filosofia del linguaggio (Trieste, Riva);
Silvano Lantier, “Vico e Fano: motivi di un'affinità ideale, Udine, Del
Bianco); Dizionario biografico degli italiani, Roma. The ‘signifier’, drawn from
Saussurean linguistics, was arguably the central concept in Jacques Lacan’s
engagement with psychoanalysis. As indicated in its programmatic texts, the
effort to develop a ‘logic of the signifier’ that would account for the relations
between subject, science, and ideology, was one of the guiding concerns of the
Cahiers pour l’Analyse. See also: Linguistics, Logic, Meaning, Speech,
Structure, Subject, Unconscious Three conceptual distinctions lay at the heart
of Ferdinand de Saussure’s innovative structural linguistics, the science that
was foundational for twentieth-century French structuralism. The first was the
distinction between langue [language] and parole [speech]. For Saussure, the
former was to be considered in synchronic terms and as the primary terrain of
linguistic analysis; in this it was opposed to the diachronic reality of the
latter, which put language to use in time in spoken form. In his synchronic
analysis of language, Saussure insisted on another distinction, that between
the sign and the referent. For example, the sign ‘cat’ may in multiple
instances refer to an actual cat which would be its real world referent, i.e.,
this cat. Most crucial, however, was the third distinction, that within the
sign between the ‘signified’ and the ‘signifier’. The former was the conceptual
content of the sign, in this case the idea of a cat, as a four-legged mammal,
often domesticated, distinct from ‘dogs’ and other domestic pets. Opposed to
this mental concept or ideational content, was the signifier ‘cat’ – as an
‘acoustic image’ or phoneme, a sequence of letters, i.e., the word itself apart
from its meaning or content. For Saussure, meaning was produced through a
sequence of differential relations in which signifiers were correlated to
signified contents; in all instances, it was the difference between signifiers
that allowed them to function as linked to specific signifieds or contents. In
this regard, the production of the signified was the locus of Saussure’s
linguistic concerns. Jacques Lacan’s meeting of Roman Jakobson (a
follower of Saussure’s, via their mutual friend Claude Lévi-Strauss) in 1950
was arguably the central event in Lacan’s own intellectual itinerary. His
introduction to structural linguistics moved him away from the Hegelianism of
his youth, and paved the way for his later concern with mathematics,
formalisation, and systems theory analysis. Inspired by Saussure, Lacan
nonetheless departed from him on several significant points. First, the
sign/referent distinction was of minimal concern for Lacan. Second, where
Saussure tended to denigrate parole in favour of a thoroughly synchronic
approach to language, Lacan, as a psychoanalyst, was eminently concerned with
speech, itself the medium of psychoanalytic practice and the crucial mechanism
for the emergence of the subject of the unconscious. Finally, and most
importantly, Lacan reversed the priority of the signified/signifier
relationship found in Saussure’s example. For Lacan, meaning was the result of
the play of signifiers apart from any synchronic correlation to fixed signified
contents. Lacan introduced his new structural interrogation of Freud in his
famous ‘Rome Discourse’, reprinted in the Écrits as ‘The Function and Field of
Speech and Language in Psychoanalysis’. The increasing pertinence granted to
the signifier would be evident in the later texts of this volume, culminating
in ‘The Subversion of the Subject and the Dialectic of Desire in the Freudian
Unconscious’, wherein Lacan claims that ‘[s]tarting with Freud, the unconscious
becomes a chain of signifiers that repeats and insists somewhere (on another
stage or in a different scene, as he wrote), interfering in the cuts offered it
by actual discourse and the cogitation it informs’. For Lacan, the
primacy of signifier was what accounted for the uniqueness of the human and
distinguished its relationship to language from any notion of mere
communication or the simple transfer of meaning. In his third seminar, on the
psychoses, Lacan provides an illuminating example of this phenomenon that
deserves to be quoted at length: I’m at sea, the captain of a small ship.
I see things moving about in the night, in a way that gives me cause to think
that there may be a sign there. How shall I react? If I’m not yet a human
being, I shall react with all sorts of displays, as they say – modelled, motor,
and emotional I satisfy the descriptions of the psychologists, I understand
something, in fact I do everything I’m telling you that you must know how not
to do. If on the other hand I am a human being, I write in my log book – At
such and such a time, at such and such a degree of latitude and longitude, we
noticed this and that. This is what is fundamental. I shelter my
responsibility. What distinguishes the signifier is here. I make a note of the
sign as such. It’s the acknowledgment of receipt [l’accusé de réception] that
is essential to communication insofar as it is not significant, but signifying.
If you don’t articulate this distinction clearly, you will keep falling back
upon meanings that can only mask from you the original mainspring of the
signifier insofar as it carries out its true function. Indeed, it isn’t as all
or nothing that something is a signifier, it’s to the extent that something constituting
a whole, the sign, exists and signifies precisely nothing. This is where the
order of the signifier, insofar as it differs from the order of meaning,
begins. If psychoanalysis teaches us anything, if psychoanalysis
constitutes a novelty, it’s precisely that the human being’s development is in
no way directly deducible from the construction of, from the interferences
between, from the composition of, meanings, that is, instincts. The human
world, the world that we know and live in, in the midst of which we orientate
ourselves, and without which we are absolutely unable to orientate ourselves,
doesn’t only imply the existence of meanings, but the order of the signifier as
well.1 Lacan will ultimately link the ‘signifier, as such, signifying
nothing’ to the Oedipus complex, and argue that the entry to the symbolic order
of language is a result of a submission to the ‘law’ of the phallic signifier,
grounded in the ‘Name-of-the-father’. More broadly, the signifier, distinct
from meaning, lacking fixed signified or referent, will for Lacan come to be
the concept for sexual difference as such – the integral incompleteness or
indeed lack that constitutes the subject. In the Cahiers pour l’Analyse
Much as in Lacan’s teaching, the signifier is a ubiquitous concept in the
Cahiers pour l’Analyse. In the inaugural article, ‘La Science et la vérité’,
Lacan develops his theses concerning lack and ‘truth as cause’ in scientific
discourse. After making a distinction between the formal and material cause along
Aristotelian lines, Lacan specifies that psychoanalyse is concerned with the
latter and its relation to the former: This material cause is truly the
form of impact of the signifier that I define therein. The
signifier is defined by psychoanalysis as acting first of all as if it were
separate from its signification. Here we see the literal character trait that
specifies the copulatory signifier, the phallus, when – arising outside of the
limits of the subject’s biological maturation – it is effectively (im)printed;
it is unable, however, to be the sign representing sex, the partner’s sex –
that is the partner’s biological sign; recall, in this connection, my
formulations differentiating the signifier from the sign. Conveyed by a
signifier in its relation to another signifier, the subject must be as
rigorously distinguished from the biological individual as from any
psychological evolution subsumable under the subject of understanding.
The primacy of the signifier in Lacan’s teaching, and his attempt to provide a
‘rigorous’ account of it, are the inspiration behind Jacques-Alain’s Miller’s
attempt in ‘La Suture’ to provide, as the subtitle suggests, the ‘elements for
a logic of the signifier’. Note, however, that in ‘La Science et la vérité’
Lacan is already gesturing toward tying the signifier back to the body, without
however reducing it to anything that could be confused with biology. Miller’s
contribution to the Cahiers will emphasize the formal elements of Lacan’s
account, whereas others, chiefly André Green and Serge Leclaire will work to
bring the body back in to analysis in response to Miller’s
ultra-formalism. Miller presents the ‘concept of logic of the signifier’
in clear terms at the outset of ‘La Suture’: What I am aiming to restore,
piecing together indications dispersed through the work of Lacan, is to be
designated the logic of the signifier - it is a general logic in that its
functioning is formal in relation to all fields of knowledge including that of
psychoanalysiswhich, in acquiring a specificity there, it governs; it is a
minimal logic in that within it are given those pieces only which are necessary
to assure it a progression reduced to a linear movement, uniformly generated at
each point of its necessary sequence. That this logic should be called the
logic of the signifier avoids the partiality of the conception which would
limit its validity to the field in which it was first produced as a category;
to correct its linguistic declension is to prepare the way for its importation
into other discourses, an importation which we will not fail to carry out once
we have grasped its essentials here. The analysis that follows is a reading of
Frege’s Grundlagen der Arithmetik, based around a demonstration that Frege’s
attempt to give a logical construction of the series of whole natural numbers
is predicated on this prior logic of the signifier. Frege’s concept of zero
involves a simultaneous ‘summoning’ and ‘annulment’ of the non-identical that
Miller claims can be related to Lacan’s account of primary repression and
metonymic displacement in the ‘signifying chain’. For Miller, Frege does not
recognize that the truth of his own discourse is predicated on a suturing over
of an inaugural non-identity. He misrecognises ‘the paradox of the signifier’,
that ‘the trait of the identical represents the non-identical’. In
the concluding section of this article, Miller ties the logic of the signifier
to the subject (CpA). In effect, Miller follows Lacan in defining the subject
as ‘the possibility for one signifier more’: In order to ensure that this
recourse to the subject as the founder of iteration is not a recourse to
psychology, we simply substitute for thematisation the representation of the
subject (as signifier) which excludes consciousness because it is not effected
for someone, but, in the chain, in the field of truth, for the signifier which
precedes it. The key point is that the signifying chain, in which the
subject ‘flicker[s] in eclipses’, is marked by a constitutive lack that is sutured
over. It is this lack, in its determinant capacity, that accounts for the
persistence of the subject in his own discourse. The signifier is a
crucial concept in the first segment of Serge Leclaire’s seminar ‘Compter avec
la psychanalyse’ that concludes Volume 1 (CpA 1.5). According to Leclaire, the
analyst does not obey a logic of meaning [logique du sens], but in listening
for the unconscious must rather follow the formal paths opened up by the
signifier. In a discussion of clinical approaches to fantasy, Leclaire
says that ‘two references are essential for the determination of the structure
of the fantasy’. On the one hand, fantasies are tied to an emotion that is
corporeally localized. He gives examples: anal excitation, oral or dental
excitations, or ‘sensations of threshold or passage [émoi de seuil, de
passage]’. On the other hand, they are attached to signifiers; and more
particularly to ‘signifiers as such’, that is, signifiers detached from their
relation to the signified. This is how one should understand Freud’s suggestion
that fantasies are ‘made up from things that are heard, and made use of
subsequently’. Leclaire gives examples of how certain signifiers used by the
mother (proper names and pet names) can become detached from their common
significance for the child and become sites for unconscious signifying
chains. Later, Leclaire turns to the notion of the ‘unconscious concept’,
emphasizing its role in the constitution of signifiers which mark the body.
Indeed, the chain created by the unconscious concept, the concept of the ‘small
piece’ detached from the body, as Freud says, ‘in order to gain the favour of
some other person whom he loves’ is the libidinal condition for the emergence
of the signifier. Leclaire goes on to elaborate that ‘this wandering piece that
can be separated, by figuring the place of separation, transgresses, in the
literal sense of the term, the surface’s function of limit. And as a limit
itself, it marks difference, thus transcending the effaceable trace of the
sensible: the pain of the wound becomes an ineradicable mark’. This initial
transgression, he says, is rediscovered in orgasm and in sadistic jouissance.
It is, says Leclaire, ‘the void or hole around which fantasy turns’. In
his ‘Réponse à des étudiants en philosophie sur l’objet de la psychanalyse’
which opens Volume 3, Lacan insists that, while posing a challenge to
dialectical materialism, his theory of language is nonetheless materialist; the
signifier, he claims, is ‘matter transcending itself in language’. This is in
fact a crucial moment for the legacy of the Cahiers, e.g. in the work of Badiou
and Slavoj Žižek, in that the symbolic nature of the signifier, as it well as
its transcendentalizing character, remains grounded in a materialism
irreducible to an account of raw inchoate matter. In a section titled
‘The Suture of the Signifier, its Representation and the Object (a)’ from his
contribution to this volume, André Green further develops some of Leclaire’s
criticisms of Miller and also seeks to link the logic of the signifier to a
more robust account of affect and the body. The signifier plays a key role in
Irigaray’s contribution to Volume 3 as well. Developing Miller’s arguments from
‘La Suture’, and supplementing them with a more extensive engagement with linguistics,
Irigaray focuses on the family romance of the Oedipus complex and the emergence
of subjectivity out of this scene. Irigaray maps out and explains the
linguistic and intersubjective features of the transformation produced by the
entrance of a third term into the original dyad of child and Other. In his or
her very first relationship with the first Other, the child starts out as a
fluid entity, ‘not yet structured as “I” by the signifier’. ‘At the
introduction of the third party into the primitive relation between the child
and the mother, “I” and “you” are established as disjunction, separation’. The
mere presence of a third term, however, is insufficient for a radical break
with the imaginary dyad, since the third initially appears in the form of a rival.
‘This opposition of “I” and “you”, of “you” and “I” remains “one” [on], without
potential for inversion or permutation - the father being only another “you” -
if the mother and the father do not communicate with each other’. Later,
Irigaray develops some of Lacan’s theses concerning the crucial role of the
phallic signifier. The ‘fundamental fantasy’ of the hysteric is that they ‘did
not get enough love’. With regard to his or her mother’s desire, he or she
experiences themselves as marked by the sign of incompleteness and rejection,
‘unable to sustain the comparison with the phallic signifier’. For the male
hysteric, ‘the confrontation with the mirror is like the test of his
insignificance’. The obsessional neurotic, on the other hand, suffers
from an early excess of love. ‘His mother found him too appropriate a signifier
for her desire’. The phallic reference is attributed to some absent hero, an
all-powerful figure, whose death (as with the death of the father of the primal
horde in Freud’s Totem and Taboo) would only in any case guarantee the
subject’s ongoing acquiescence. The neurotic’s problem comes down to the
adequacy of his signified to his signifier; he remains ‘riveted to what he has
been’, unable to become. He is trapped in an empty ‘metonymy’, unable to
metaphorise, and thus enter a ‘true temporal succession’. As the title
suggests, the ‘signifier’ is the central concept of Jean-Claude Milner’s
reading of Plato’s Sophist in Volume 3, ‘Le Point du signifiant’. For Milner,
deeply inspired in this instance by Miller’s ‘La Suture’ the key movement in
Plato’s text is the vacillation of non-being as alternately function and term
in the chain of Plato’s discourse, a movement which evokes the summoning and
annulment of the subject that Miller found in Frege’s discourse. The signifying
chain is the ‘sole space suited to support the play of vacillation’. Wherever
an element in a linear sequence is replaced by an element which, as element,
transgresses this linearity (as in the mechanism of structural causality
identified by Miller in ‘Action de la structure’, CpA), a ‘vacillation’ is
produced within the chain. Milner gives the examples of (1) the founding
exception of a chain, and (2) any marking of the place of an erasure. The
institution of a linear sequence is governed by a vacillation that testifies to
a ‘double formal dependence’, and which ‘retroactively defines the signifier as
a chain’ (CpA). Plato’s chain of genera thus points towards the possibility of
an ‘order of the signifier in which being and non-being would regain those
traits whose very coupling guarantees truth and authorizes discourse’.
Milner speculates that the notions of being and non-being might borrow their
traits from the order of the signifier itself in its basic constitution. In a
passage cited by Leclaire, Milner mentions three aspects of vacillation. First,
there is ‘the vacillation of the element’, which is ‘the effect of a singular
property of the signifier’, and develops in a space ‘where the only laws are
production and repetition: being and non-being recover this relation through
their inverse symmetry, dividing themselves between term and expansion, between
mark and abyss’ (CpA). There is also a ‘vacillation of the cause’ insofar as
both being and non-being cannot posit themselves as cause except by revealing
themselves to be the effect of the other. Finally, there is the movement of
vacillation whereby the term that initially ‘transgresses the sequence’ calls
up a transgression that annuls the whole chain. Milner claims that
grounding Platonic ontology on the logic of the signifier also makes possible a
new understanding of the opposition between being and subjectivity. On the one
hand, there is being as the order of the signifier, the ‘radical register of
all computations’, totality of all chains, and on the other hand, the ‘one’ of
the signifier, the unity of computation, the element of the chain, non-being,
as the signifier of the subject (CpA). This latter reappears as such every time
that discourse deploys its power to ‘annul’ signifying chains. In the
next segment of his seminar, Leclaire focuses on the concept of drive
[pulsion]. He asks: is the object of the drive a signifier or the objet petit a
in Lacan’s sense? Leclaire explains that these two are indissociable: insofar
as it is the terminus of sought-for satisfaction, it is the objet petit a, but
insofar as it is connected with a differentiation in the body, it is a
signifier. The difference between the objet petit a and the obtained corporeal
satisfaction is ‘lived’ as an ‘antinomy of pleasure’, and through ‘the
representation of the splitting of the subject’ [la schize du sujet].
Derrida’s contribution to Volume 4, on the ‘writing lesson’ in Claude
Lévi-Strauss’s Tristes Tropiques, presents his general case for a concept of
‘arche-writing’ that is in many respects distinct from the logic of the
signifier (CpA). For Derrida, the metaphysical tradition and classical
linguisticshave always presented writing as secondary to and dependent upon
speech, which they understood as the absolute immediacy of meaning, of the
signified to the signifier. Nevertheless, the rigorous development of
linguistics by Saussure and his followers demonstrated that spoken language was
structured not by a referential relationship to a signified but rather by the
homology of the differences between signifiers and the differences between
signifieds. In this situation, despite Saussure’s continued and classical
disdain for writing, the traditional understanding of writing provided a better
model for structural linguistics, because it also forewent the immediate
presence of a signified to its signifier. The general structure of language
then could be named ‘arche-writing.’ From this perspective, ‘the passage from
arche-writing to writing as it is commonly understoodis not a passage from
speech to writing, it operates within writing in general’ (CpA). In the
first section of his reading of Freud’s ‘Wolf Man’ case in Volume 5, ‘On the
Signifier’, Leclaire distinguishes the psychoanalytic signifier from the
linguistic signifier, which he describes a ‘psychic entity with two faces:’ a
combination of two elements - signifier (Saussure’s ‘acoustic image’) and
signified - that together constitute the sign; as such, it refers to the
signified object it denotes. According to this definition, ‘the signifier is
the phonic manifestation of the linguistic sign’ (CpA). As used by Jacques
Lacan, however, the signifier cannot be considered as an element derived from
the problematic of the sign, but rather as a fundamental element constituting
the nature and truth of the unconscious (CpA). While Peirce famously defined
the signifier as what ‘represents something for someone,’ Lacan declares that
the psychoanalytic signifier ‘represents a subject for another signifier.’
Their functions of representation thus differ radically. To elucidate
this function, Leclaire cites two important essays from previous issues of the
Cahiers, Jacques-Alain Miller’s ‘La Suture’ (CpA) and Jean-Claude Milner’s ‘Le
Point du signifiant’. For Miller, the central paradox of the Lacanian signifier
is that ‘the trait of the identical represents the non-identical, from which
can be deduced the impossibility of its redoubling, and from that impossibility
the structure of repetition as the process of differentiation of the
identical’. Milner adds that ‘The signifying order develops itself as a chain,
and every chain bears the specific marks of its formality’: the vacillation of
the element, the vacillation of the cause, and ultimately the vacillation of
transgression itself, ‘where the term that transgresses the sequence, situating
as a term the founding authority of all terms, calls the one to be repeated as
term transgression itself, an agent [instance] which annuls every chain’ (CpA).
Leclaire embraces these formulations, but points out that they do not explain
how the psychoanalyst can distinguish a given signifier. While any element of
discourse may be a signifier, the psychoanalyst must be able to differentiate
between signifiers, to privilege some over others. He warns against ‘the error
of making the signifier no more than a letter open to all meanings,’ and argues
that ‘a signifier can be named as such only to the extent that the letter that
constitutes one of its slopes necessarily refers back to a movement of the
body. It is this elective anchoring of a letter (gramma) in a movement of the
body that constitutes the unconscious element, the signifier properly speaking’
(CpA). Its development of a kind of prototype of the sought-after ‘logic
of the signifier’ accounts for the inclusion of Dumézil’s ‘Les Transformations
du troisième du triple’. DUMEZIL argues that the multiple references in ROMAN legend
to figures named ‘ORAZIO’ (for instance, the story of ORAZIO Cocles in LIVIO)
‘have a signifying trait in common’ [un trait significatif]. All the narratives
concern single combatants performing feats of extraordinary military prowess.
The recurrence of these narratives, suggests Dumézil, indicate the remnants of
a ritual function. This emphasis on a recurrent function resonates with
Milner’s insistence to Leclaire on the homogeneity of places, as opposed to the
heterogeneity of terms, in the ‘Compter avec la psychanalyse’ segment in Volume
3 (CpA). In his analysis of Freud’s ‘A Child is Being Beaten’, also in
Volume 7, Jacques Nassif arrives at an account of ‘the place assigned to the
subject in the signifying order’ (CpA). He suggests that the model can also
help to explain the process of the overdetermination of symptoms, which can be
thought as a ‘co-presence in the same archaeological disposition’ of superseded
phases (CpA). Fantasy thus becomes the privileged site where the unconscious,
structured like a language, ‘communicates with the signifying order that is
language properly speaking’ (CpA). In their questions to Foucault which
open Volume 9, the Cercle d’Épistémologie enquires into Foucault’s method for
reading texts, navigating his conception of language and the signifier. ‘What
use of the letter does archaeology suppose? This is to say: what operations
does it practice on a statement in order to decipher, through what it says, its
conditions of possibility, and to guarantee that one attains the non-thought
which, beyond it, in it, incites it and systematises it? Does leading a discourse
back to its unthought make it pointless to give it internal structures, and to
reconstitute its autonomous functioning?’ (CpA). In his ‘Remarques pour
une théorie générale des idéologies’ in Volume 9, Thomas Herbert [Michel
Pêcheux] develops an Althusserian account of ideology in which the logic of the
signifier plays a key role. Herbert establishes how operations which take place
within the ‘ideology of the empirical form’ are ‘fascinated by the problem of
the reality to which the signifier must adjust’ (CpA). In establishing these
semantic adjustments, the process itself is never forgotten or hidden. Indeed,
it is the very process of adjustment itself that is the motor of ideological
operations, and ruptures, at this level. By contrast, with ideologies of the
speculative form, the operation takes place at the level of syntax, that is, in
the relation of signifier to signifier, not in the ‘adjustment’ of signifier to
signified. In Herbert’s reading, the ‘social effect’ is well described by
Lacan’s description of the mechanism in the signifying chain which produces the
subject effect in language: ‘the signifier represents the subject for another
signifier.’ What is essential to this Lacanian formulation is that the sequence
is one that covers its own traces; unlike the adjustment between signifier and
signified that occurs out in the open in type ‘A’ ideologies (empirical form),
in type ‘B’ (speculative form) the subjectification that occurs is
constitutively forgotten. The ‘subject effect’ covers over the rupture that was
its own condition. The ideas of Nicos Poulantzas serve Herbert in the following
formulation: ‘let us say briefly that the putting into place of subjects [i.e.,
the syntactic chain] refers to the economic instance of the relations of production,
and the forgetting of this putting into place to the political instance’ (CpA).
In other words, what goes by the name of ‘politics’ in this social formation,
i.e., the ‘State’, is the sign of the forgetting of the social ordering itself,
which is anterior to ‘politics’. In their preamble to the dossier on the
‘Chimie de la Raison’ which concludes Volume 9, the Cercle d’Épistémologie
presents the ‘chemistry of reason’ – found in the works of D’Alembert,
Lavoisier, Mendeleev, or Cuvier – in a manner that evokes the ‘logic of the
signifier’ that has been the journal’s guiding concern: To construct a
chemistry of reason is thus to refer the sciences to the jurisdiction of the
whole [tout], but this is also by the same stroke to submit them to another
necessity. For this whole is also substantial since, being the science of the
simple and the compound [composée], chemistry must direct its effort toward
generating, through the sole operation of combination, all the materials that
make all the things of the world; saving phenomena thus requires that chemistry
constitute them as such, as a plenitude and liaison of substances. We see here
that the crucial relation [relation] to the whole is but the reverse of a
relation [rapport] to the representation to which chemistry is so intimately
tied, namely that, given that anything representable is an object of analysis,
all analysis is thus deduction from a representable body (CpA).Grice: “Fano is
too obsessed with the ‘acoustic image’ (imagine Acustica) whereas Saussure is
careful to add “acosutique ou sensible” – ‘immagine Acustica o imagine
sensibile” – if we allow for imagine sensibile, the priority of the sound
evaporates, and so does that of the tongue – and all the glossological
societies of Europe!” – Nome compiuto: Giorgio Fano. Fano. Keywords: Fano
insists that the semiogonia, i. e. the origin of meaningful gestures will
provide a clue as to the essence of the semiotic communication. He relies on
Morris, Ferruccio Landi, Peirce, and Croce. He is interested in Croce’s views
on ‘expression’ and Landi’s views on ‘lavoro.’ Fano is critical of Peirce. This
is going on at the same time as Grice is giving seminars on Peirce at Oxford.
Grice: “I agree with Fano that ontogenesis repeats phylogenesis, and that we
should concentrate on utterances which are meaningful generally – ‘signare’ is
a good verb in Italian for that.’ Grice: “In my view, it is the agent who signs
that… ‘signa che’ – signat quod. The ‘-ficare’ only complicates things. A dark
cloud ‘signa’ rain. And, by my hand gesture, I sign that going out is not a
good day in view of the coming rain. Keywords:
glossogonia, glottogonia, teoria glottogonica, dottrina glottogonica, teoria
glossogonica, dottrina glossogonica, semiotics of the tongue, Croce. La glossogonia.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fano”, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fardella: all’isola – FILOSOFO
SICILIANO, NON ITALIANO -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del sensuale -- sensismo, sensualismo – romano – scuola di
Trapani – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trapani). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo
italiano. Trapani, Sicilia. Grice: I like Fardella; for one, he is a systematic
philosopher; for another, he compares Aristotle (demonstratio peripatetica)
with Cartesio, as the Italians call him (demonstratio cartesiana) And while Italians consider him a reactionary
Cartesian, I deem him a closet Aristotelian!. Studia a Messina sotto BORELLI (si veda), dal quale
accetta latomismo di LUCREZIO, ma abbraccia il pensiero di Cartesio, dopo
averne appreso glinsegnamenti durante il suo soggiorno a Parigi, grazie alle
conversazioni con Arnauld, Malebranche e Lamy. Insegna matematica a Roma,
Modena, e Padova. Tenne corrispondenza con Leibniz e polemizza con Giorgi
attacca il cartesianesimo. Il suo razionalismo, per quanto riconosca che solo
Cartesio trova, fra glantichi e i moderni, il retto e naturale metodo di
filosofare, tuttavia relativo, adeguato
com' al platonismo. Il mondo organizzato
secondo principi daritmetica e geometria. Ogni cosa ha peso, numero e misura,
ossia secondo le leggi statiche, aritmetiche e geometriche. Mediante
laritmetica e la geomtria si comprende il mondo e si comprende cos la logica.
Nel punto, che non ha peso, non ha grandezza, non divisibile,
tuttavia l'origine di ogni estensione. Nel punto, come il numero
nell'unit, si risolve l'estensione. L'anima, che non ha estensione (non e res
extensa), un punto. Non possibile dimostrare l'esistenza indipendente
della realt materiale. La stessa esperienza ci insegna che spesso nel sogno
percepiamo oggetti che veramente non possiamo ammettere realmente esistenti.
Quante volte, la notte, mentre dormo, vedo splendere il sole sopra l'orizzonte
e vedo muoversi in vari modi moltissime cose prodigiose, che non sono niente
extra ideam? Dunque, quel che sento e *vedo* non pu in nessun modo essere
dedotto come realmente esistente. E se si obbietta che una cosa sognare, altra cosa la veglia, per lui le cose che percepiamo
nella veglia potrebbe anche essere soltanto cose percepite con maggiore
chiarezza, distinzione e ordine, bench non siano niente in s. I sensi non danno
certezza del mondo, la quale pu ritrovarsi soltanto in la legge dellaritmetica
e della geometria. Altre opere: Universae philosophiae systema, in qua nova
quadam et extricata Methodo, Naturalis scientiae et Moralis fundamenta
explanantur (Venezia); Universae usualis mathematicae theoria (Venezia);
Utraque dialectica rationalis et mathemathica; Animae humanae natura ab
Augustino detecta in libris de Animae Quantitate, decimo de Trinitate, et de
Animae Immortalitate (Venezia); Pensieri (Napoli); Lettera antiscolastica
(Napoli). Recensito immediatamente dopo la pubblicazione del primo e unico
volume sulla rivista scientifica Acta Eruditorum Universae Philosophae Systema,
Descartes e l'eredit cartesiana in Italia Dizionario biografico degli italiani.
Fardella
elaborated a Cartesian philosophy of language, pretty much avant Chomsky, but
using the same sources: Arnauld. While Chomsky focuses on Harris and others, he
could at least have dropped the Fardella name! Grice: He possibly did have some
Italian friends in the Bronx! Wikipedia
Ricerca Sensismo Lingua Segui Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Sensazione (filosofia). Infatti, dato che ogni
sensazione necessariamente gradevole o
sgradevole, si interessati a godere
delle prime e a sottrarsi alle seconde. Questo interesse sufficiente a spiegare le origini delle
operazioni dell'intelletto e della volont. Il giudizio, la riflessione, i
desideri, le passioni e via dicendo, non sono altro che la sensazione stessa,
la quale si trasforma in diverse maniere (E. Condillac, da Trattato sulle
sensazioni) Il sensismo un termine che
designa quelle dottrine filosofiche che riportano ogni contenuto e la stessa
azione del conoscere al sentire, ossia al processo di trasformazione delle
sensazioni, escludendo in tal modo dalla conoscenza tutto quello che non sia
riportabile ai sensi. A volte viene usato come suo sinonimo sensualismo, che
per trova definizione diversa. Mentre nella storia della filosofia la parola
senso compare, a partire dalla di
Aristotele, per indicare la facolt di "sentire" (cio di percepire
l'azione di oggetti interni al corpo o esterni ad esso), le origini del
sensismo, come filosofia, possono ritrovarsi in alcune affermazioni dei
sofisti. Gi Protagora affermava che l'anima non fosse altro che un complesso di
sensazioni: fu una tesi ripresa in maniera pi approfondita dagli stoici e dagli
epicurei. La cultura romana e quella medievale hanno conservato il concetto
riduttivo di senso, proprio della definizione aristotelica: solo nei tempi moderni, con Locke prima e poi
specialmente con Kant, che la parola senso assume il significato di sentire
insieme alla consapevolezza di ci che avviene sentendo. I sensisti
moderniModifica La dottrina sensista si precisa nella filosofia moderna, con il
pensiero rinascimentale, nella filosofia della natura di TELESIO (si veda), che
d vita a una prima forma di metodologia scientifica basata sull'esperienza, e
poi in CAMPANELLA (si veda) e PERSIO. Quest'ultimo intende la natura come un
complesso di realt viventi, ciascuna senziente, animata e tendente al proprio
fine (in base al concetto aristotelico di entelechia), e d'altra parte tutte
unificate e armoniosamente dirette verso un fine universale da una comune Anima
del mondo, secondo la concezione tipicamente neoplatonica. La visione
campanelliana detta per questo
pansensismo cosmico, (dal greco , pn, che significa tutto, e sensismo) a
indicare una specie di sensibilit cosciente di tutto l'universo: il grande
bestione vivente nella visione di BRUNO (si veda). Caratteristiche del
sensismo, che lo accostano al materialismo, si trovano in Hobbes il quale negli
Elementi e nel De corpore sviluppa il suo sistema materialistico,
meccanicistico onnicomprensivo, basandolo sull'elemento sostanziale corpo e su
quello accidentale di moto. La sensazione
il risultato del moto dei corpi che generano le immagini, le sensazioni
di piacere e dolore e le passioni. Tutto si origina da un moto, da un'azione a
cui corrisponde un contromovimento, una reazione, che produce immagini
fenomeniche; tutta la vita teoretica e morale pu essere ricondotta alla
sensazione. Pur da una posizione di deciso rigetto della filosofia di Hobbes,
anche Anthony Ashley-Cooper, III conte di Shaftesbury esprimer una teoria di
tipo sensista. Il sensismo di CondillacModifica Condillac Il termine
"sensismo" stato attribuito
prevalentemente alla dottrina di Condillac espressa nel Trait des sensation, la
quale riprende molte formulazioni che erano state proprie delle teorie di
Locke, eliminandone per gli aspetti pi propriamente psicologici, e
sottolineando come tutte le facolt conoscitive si sviluppino, in modo pi o meno
diretto, dall'azione dei sensi. In questo senso, famoso l'esempio di Condillac, il quale
suggerisce di immaginare una statua dalle fattezze umane, la quale
progressivamente si anima a mano a mano che prendono vita i vari sensi, e in
particolare il tatto, il quale le permette la consapevolezza della realt
propria e del mondo circostante. Ci che finora veniva attribuito all'attivit
spirituale, al giudizio, al desiderio e alla volont non sono che
"sensazioni trasformate". Va sottolineato che il sensismo non
coincide con il materialismo, giacch il primo si limita a esprimere la
posizione di chi afferma il primato della conoscenza sensibile, senza tuttavia
determinare in alcun modo i contenuti che questa conoscenza possa raggiungere.
La posizione sensista riguarda quindi esclusivamente la forma della conoscenza,
in particolare il modo in cui si formano e si espletano le varie facolt
conoscitive. Dire che la nostra conoscenza si origina dalla sensazione non vuol
dire che la materia di per s sia causa di movimento e sensazione per cui l'uomo
alla fine sia un essere completamente materiale. Proprio in ragione di questo,
Condillac pot teorizzare l'esistenza di Dio e l'immortalit dell'anima,
congiungendo sensismo gnoseologico e spiritualismo. La via del materialismo su
base sensistica venne intrapresa invece da Mettrie, Helvtius e Holbach, pi conosciuto
con lo pseudonimo di Mirabaud. Per Mettrie estensione, movimento e sensibilit
caratterizzano tutto ci che materiale;
l'uomo stesso una macchina
("L'homme machine") condizionata da leggi biologiche. Helvetius
condivide con Condillac l'idea che la conoscenza derivi dalle sensazioni ed
estende quindi, nell'opera Lo Spirito (1758), la natura sensibile anche alla
moralit riducendola a pure motivazioni utilitaristiche. Per Holbach
l'affermazione decisa del materialismo
collegata all'ateismo e alla negazione di ogni libera volont nel
comportamento dell'uomo. Il materialismo in effetti era negato dagli
illuministipoich essi vi vedevano il mascheramento della vecchia pretesa
metafisica di spiegare in maniera onnicomprensiva e totale l'universo. Si pu
affermare che, da molti di loro, il materialismo era sostenuto non tanto per
ragioni gnoseologiche quanto per fini politici e morali come una polemica
protesta, cio, nei confronti dell'autoritarismo politico e religioso dei loro
tempi. NoteModifica ^ Aristotele, De anima aveva dato una definizione del tutto
corretta e coerente col pensiero del tempo, ancora molto lontano dal concepire
una possibile sensibilit specifica di un essere umano come caratteristica
peculiare della sua individualit. Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu. (Locke Saggio sull'Intelletto Umano. Ed aggiungeva
Leibniz: excipe: nisi intellectus ipse (Leibniz Nuovi saggi sull'intelletto
umano) fatta eccezione per l'intelletto stesso. Calogero, SENSISMO, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Intuito
Sensibilit (filosofia) Senso comune Pensiero Percezione Collabora a
Wikizionario Wikizionario contiene il lemma di dizionario sensismo Collegamenti
esterniModifica sensismo, su Treccani.it
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Guido
Calogero, SENSISMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1936. sensismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, (Sensismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopdia Britannica,
Inc.Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di filosofia
Materialismo concezione filosofica tienne Bonnot de Condillac filosofo,
enciclopedista e economista francese Sensazione (filosofia) concetto filosofico
Wikipedia Il contenuto Sessualit nell'antica Roma Lingua Segui Modifica Gli
atteggiamenti e i comportamenti riferibili alla sessualit nell'antica Roma sono
stati variamente descritti nell'arte romana, nella letteratura latina e nel
Corpus Inscriptionum Latinarum; in misura minore anche da reperti di
archeologia classica, quali manufatti di arte erotica (vedi ad esempio l'arte
erotica a Pompei e Ercolano) e di architettura romana. Rapporto sessuale in
posizione con donna sopra, calco in gesso di un medaglione in terracotta del I
secolo. L'iscrizione dice: "guarda come mi stai aprendo bene". stato talvolta ipotizzato che la
"licenza sessuale illimitata" fosse una delle caratteristiche pi
peculiari del mondo Romano antico: "La sessualit degli antichi Romani non
ha mai avuto buona stampa in Occidente, da quando si verificato il predomino culturale del
cristianesimo. Nella fantasia popolare e nella cultura di massa questa sinonimo di licenziosit e abuso sessuale.
Tuttavia la sessualit non stata affatto
esclusa dalle preoccupazioni del mos maiorum, il nucleo della tradizione etica
della civilt romana; ci si verificato
attraverso consolidate norme sociali che hanno interessato la vita pubblica,
privata e finanche militare. "Pudor", ossia vergogna-pudore, stato un fattore di regolazione del
comportamento, oltre che parte di sentenze legali riguardanti casi di
trasgressioni sessuali avvenute sia durante il periodo della repubblica romana
che in quello dell'impero romano[6]. Il censore, pubblico ufficiale nonch magistrato
adibito alla supervisione della "moralit pubblica", era anche atto a
determinare il rango (ossia la classe sociale) degli individui; egli aveva tra
gli altri anche il potere di rimuovere quei cittadini ritenuti colpevoli di
cattiva condotta sessuale dal senato romano e/o dall'antica casta aristocratica
del patriziato, ed in alcuni casi ci
effettivamente avvenuto. Lo studioso e filosofo francese Foucault, nella
sua opera Storia della sessualit, ha considerato la realt sessuale in tutto il
mondo greco-romano come severamente disciplinata dalla moderazione e dall'arte
di gestire il piacere sessuale[8]. La societ romana era fortemente intrisa di
patriarcato(vedi la figura del Pater familias), e il concetto di mascolinit si
basava essenzialmente sulla capacit di governare se stessi e gli altri, cio
oltre che gli schiavi e i sottoposti anche la propria persona, e ci valeva pure
nell'ambito delle relazioni sessuali. "Virtus", la virt-il
valore, stato un ideale mascolino di
auto-disciplina attiva e che si viene direttamente a riferire alla parola
latina indicante il maschio-Vir (la virt
pertanto caratteristica dell'uomo inteso come rappresentante mascolino
della societ). Un satiro in compagnia di una ninfa, simboli mitologici della
sessualit. Mosaico rinvenuto nella casa del Fauno a Pompei. L'ideale
corrispondente al termine "Vir" per la donna era la pudicitia, spesso
tradotta come castit o modestia; ma essa rappresentava in realt anche una
qualit personale pi pro-positiva e finanche competitiva, che doveva ben
raffigurare sia il fascino che l'auto controllo di cui doveva essere dotata per
Natura la matrona romana. Le donne delle classi superiori avrebbero dovuto
essere colte, forti di carattere, ed attive nell'impegnarsi a mantenere la
posizione del proprio clan familiare all'interno della societ civile. Ma,
tranne pochissime eccezioni, la letteratura ha conservato nei riguardi della
sessualit solamente le voci dei colti patrizi di sesso maschile; sopravvissuta quindi soltanto una parte del
"discorso sessuale" presente nell'antica Roma. L'arte visiva era
invece solitamente creata da individui di status sociale inferiore e
rappresentanti di una gamma etnica pi ampia di quella pi prettamente
letteraria; ma essa si anche trovata a
doversi adattare al gusto ed alle inclinazioni di coloro che erano abbastanza
ricchi da permettersela e che potevano includere durante l'epoca imperiale
anche alcuni liberti; pertanto, anche in tal caso, non risulta essere
completamente affidabile. Alcuni atteggiamenti e comportamenti di natura
sessuale ben presenti all'interno della cultura romanadifferiscono notevolmente
da quelli della successiva cultura occidentale[13]. La religione romana ad
esempio promuoveva la sessualit come uno degli aspetti fondamentali di
prosperit per l'intero Stato; singoli individui potevano rivolgersi alla
pratica religiosa privata, o anche alla magia, per migliorare la loro vita
erotica o la salute e capacit riproduttiva; inoltre la prostituzione
nell'antica Roma era legale, pubblica e diffusa. Soggetti artistici che oggi
definiremmo senza esitazione come pornografia erano ampiamente presenti tra le
collezioni d'arte delle famiglie pi rispettabili e di elevato status sociale.
Si riteneva del tutto naturale, e il fatto in s era "moralmente"
irrilevante, che un uomo adulto potesse essere attratto sessualmente da
adolescenti di entrambi i sessi; la pederastia veniva tranquillamente accettata
fintanto che essa riguardava partner maschili - anche giovanissimi - che non
fossero cittadini romani, quindi coloro che non erano nati liberi o attualmente
in una condizione di schiavit. La dicotomia moderna di eterosessuale ed
omosessualenon costituiva in alcuna maniera la distinzione primaria del
pensiero romano nei riguardi della sessualit ed in lingua latina non esistono neppure
parole indicanti gli attuali termini che vengono a distinguere nella sua
totalit l'identit di genere o l'orientamento sessuale. Nessuna censura morale
vigeva contro l'uomo che godesse degli atti sessuali compiuti con donne o altri
uomini di livello inferiore al suo; a patto che questi comportamenti non
venissero a rivelare carenze o eccessi nel carattere, n violassero i diritti e
le prerogative degli altri coetanei maschi. Era invece la caratteristica
dell'effeminatezza a venir percepita in maniera unanimemente negativa, con casi
divenuti celebri di denuncia letteraria pubblica a mo' di scherno e invettiva;
questo poteva accadere particolarmente all'interno della retorica politica,
quando si accusavano spesso e volentieri gli avversari di essere effemminati,
cio affetti da forti carenze caratteriali e pertanto del tutto inaffidabili
anche per quel che concerneva la gestione della cosa pubblica. Il sesso
praticato con moderazione con prostitute o giovani schiavi maschi non mai stato considerato come improprio o un
rischio che potesse "viziare" l'intrinseca mascolinit, costitutiva
dell'uomo romano adulto; l'importante era che il cittadino assumesse sempre il
ruolo sessuale attivo e mai quello passivo (vedi attivo e passivo nel sesso).
L'ipersessualittuttavia stata d'altro
canto condannata sia moralmente che come patologia medica, questo sia negli
uomini che nelle donne. La componente femminile della societ era solitamente
tenuta ad un codice morale pi rigoroso rispetto alla sua controparte maschile;
relazioni omosessuali tra donne sono scarsamente documentate, ma la sessualit
femminile in genere stata ampiamente
celebrata o insultata, a seconda dei casi, in tutta la letteratura latina.
Nella sua generalit, gli antichi Romani si trovarono ad avere categorie di
genere, se cos si pu dire, pi flessibili rispetto all'antica Grecia. Anche se
analizzare la sessualit nell'antica Roma in rigidi termini di opposizione
binaria "penetratore-penetrato" pu risultare in parte fuorviante e
dunque pu oscurare la pienezza dell'espressivit sessuale antica tra individui
presi nella loro singolarit, l'assenza d'una qualsiasi altra
"etichetta" per l'interpretazione culturale dell'esperienza erotica
fa s che tale distinzione continui ad essere utilizzata[19]. Anche la rilevanza
stessa data alla parola "sessualit" nella cultura romana antica stata da alcuni contestata ed oggetto di disputa. Arte e letteratura
eroticaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Arte erotica e Letteratura erotica. Pan che insegna al suo eromenosDafni a
suonare il flauto. La letteratura antica concernente la sessualit romana
rientra principalmente in quattro categorie: testi giuridici, medici, poetici e
politici. Riferimenti a tipologie di espressivit sessuale ci provengono dalla
commedia del teatro latino, dalla satira, dalla poesia amorosa e
dall'invettiva, dai graffiti, dagli incantesimi magici e dalle iscrizioni; tali
forme culturali considerate come minori nell'antichit hanno avuto molto pi da
dire nei riguardi della sessualit che i generi cosiddetti pi elevati della
tragedia e dell'epica. Varie informazioni sulla vita sessuale della
popolazione sparsa anche nella
storiografia (nei riguardi di personalit conosciute), nell'oratoria e in alcuni
testi filosofici, oltre che negli scritti di medicina, agricoltura e di altri
argomenti tecnici. I testi di diritto romanosi soffermano su quei comportamenti
che si volevano disciplinare o vietare, senza necessariamente indicare quel che
le persone realmente facevano o meno. I principali autori latini le cui opere
hanno contribuito significativamente alla comprensione della sessualit
nell'antica Roma comprendono: Il commediografo Tito Maccio Plauto, le cui opere
ruotano spesso su trame concernenti casi sessuali, con giovani amanti ad
esempio tenuti separati dalle avverse circostanze. Lo statista e moralista
Marco Porcio Catone(detto "il Vecchio") il quale offre scorci sulla
sessualit vigente in un momento storico che successivamente fu considerato come
epoca avente gli standard morali pi elevati, di tutta la storia latina. Il
poeta e filosofo LUCREZIO (si veda), che presenta un lungo trattato sulla
sessualit epicurea nella sua opera De rerum natura. Gaio Valerio Catullo, le
cui poesie esplorano tutta una serie di esperienze erotiche avvenute verso la
fine dell'epoca repubblicana; esse spaziano da un pi delicato sentimento
romantico (l'amore verso le donne-Lesbia e nei confronti dei ragazzi-Giovenzio)
per giungere fino alle invettive pi brutalmente oscene ("Pedicabo ego vos
et irrumabo"-io ve lo metto in culo e in bocca). CICERONE (si veda) con
numerosi interventi avvenuti in Senato in cui attacca il comportamento sessuale
degli avversari politici, a cominciare da Gaio Giulio Cesare pi volte additato
come sessualmente ambiguo e quindi anche pericoloso per l'incolumit statale; ma
anche con lettere disseminate di pettegolezzi contro l'lite romana che gli si
opponeva. I poeti Sesto Properzio e Albio Tibullo, che rivelano alcuni degli
atteggiamenti sociali dell'epoca quando descrivono le loro storie d'amore
avvenute con giovani donne e adolescenti maschi. Publio Ovidio Nasone, in
particolare con i suoi Amores e Ars amatoria i quali, secondo la tradizione,
hanno contribuito notevolmente ad affrettare la decisione dell'imperatore
romanoAugusto di esiliare il poeta; ma anche tramite la sua raccolta epica
Metamorfosi la quale presenta tutta una serie di miti a forte impronta sessuale
(e ancora una volta sia con esempi di amori tra uomini e donne che tra uomini e
ragazzi) riguardante figure divine ed esseri umani, con un'enfasi particolare
data allo stupro - alla violenta aggressione di tipo sessuale - attraverso la
lente della lettura mitologica. Marco Valerio Marziale, le cui osservazioni
sulla societ in genere sono spesso e volentieri arricchite e rinforzate da
invettive sessualmente esplicite. Decimo Giunio Giovenale, che inveisce contro
i costumi sessuali del suo tempo, attaccando con particolare fervore le donne e
gli uomini effeminati. Ovidio elenca anche un certo numero di scrittori molto
noti al tempo per il materiale salace contenuto nelle rispettive opere, nessuna
delle quali per riuscita a giungere fino
a noi. Manuali sessuali greci, ma anche semplici testi di natura pornografica
sono stati pubblicati sotto il nome di famose etere (-cortigiane) e diffusi
ampiamente. Le novelle erotiche di Aristide di Mileto, i Milesiak furono
tradotte da Sisenna, uno dei pretori; Ovidio definisce il libro come una
raccolta di misfatti-crimina e ci dice che l'intera narrazione era infarcita
con "barzellette sporche". A seguito della battaglia di Carre i parti
sarebbero rimasti scioccati nel trovare proprio quel libro nel bagaglio
ufficiale appartenente a Marco Licinio Crasso. L'arte erotica a Pompei e
Ercolano, rinvenuta solamente a partire dal tardo XVIII secolo, una ricca fonte di indizi sulla natura della
sessualit nell'antica Roma, anche se non del tutto priva di ambiguit; alcune
delle immagini paiono difatti contraddire almeno in parte le preferenze sessuali
sottolineate in letteratura, ma potevano queste essere destinate ad un intento
satirico, per provocare quindi il riso o alternativamente per sfidare gli
atteggiamenti convenzionali seguiti. Oggetti di uso quotidiano quali specchi e
vasi in ceramica sigillata potevano essere decorati con scene decisamente
erotiche le quali potevano andare dalle eleganti danze compiute in abiti
succinti a disegni espliciti di penetrazione sessuale. Dipinti erotici sono
stati trovati nelle case pi rispettabili della nobilt romana, come nota Ovidio:
"vi un piccolo dipinto
(-tabella[30]) raffigurante varie tipologie di accoppiamenti... ma anche una
Venere bagnata che si asciuga i capelli gocciolanti con le dita, a malapena
coperta dalle acque. Questa Venere carica di erotismo appare tra le vari
immagini che un intenditore d'arte potrebbe sicuramente apprezzare. Tutta una
serie di dipinti rinvenuti all'interno delle terme suburbane di Pompei,
pubblicati in riproduzione, presentano una variet di scenari erotici che paiono
destinati a divertire lo spettatore con rappresentazioni sessuali assai
scandalose, tra cui un ampio numero di posizioni sessuali, sesso orale e sesso
di gruppo eterosessuale, omosessuale e lesbico a scelta[33]. L'arredamento di
una camera da letto romano poteva riflettere letteralmente il suo uso sessuale:
il poeta augusteo Orazio possedeva presumibilmente una stanza con le pareti
interamente ricoperte di specchi, di modo che quando aveva la compagnia di una
prostituta poteva osservarla da tutte le angolazioni possibili[34].
L'imperatore Tiberio aveva le camere da letto decorate con i pi lascivi e
sconci dipinti e sculture, ma veniva rifornito costantemente di "guide del
sesso" ricche di consigli e proposte scritte appositamente per lui dal
medico greco Elefantide. Si verifica un autentico boom di testi riguardanti la
sessualit, scritti sia in lingua greca che in lingua latina, assieme ai romanzi
d'amore; ma questo discorso franco e sincero sulla sessualit scompare quasi del
tutto dalla letteratura successiva, con i temi sessuali che vengono riservati
alla scrittura medica o alla teologia cristiana. Il celibato era divenuto un
ideale per un crescente numero di fedeli cristiani; gli stessi padri della
Chiesa come Tertulliano e Clemente di Alessandria hanno disquisito sul fatto
che anche il sesso coniugale dovesse essere consentito solamente per la
procreazione. Nel martirologio la sessualit viene descritta come una delle
peggiori torture rivolte contro la santa castit del cristiano, soffermandosi
anche sugli atti di mutilazione sessuale (in particolare i seni) a cui venivano
sottoposte in special modo le donne. L'umorismo osceno di Marziale stato per breve tempo fatto rivivere nel IV
secolo dallo studioso e poeta Ausonio, seppur nominalmente cristiano, evitando
per la predilezione dell'autore latino nei confronti della pederastia. Sesso,
religione e StatoModifica Cos come per gli altri aspetti della vita romana,
anche la sessualit stata sostenuta e
regolata da precise tradizioni religiose (vedi religione romana), sia per
quanto concerne il culto pubblico statale sia per quel che riguarda le pratiche
religiose private e magiche. La sessualit
in ogni caso una categoria importante del pensiero religioso romano[40].
Il complemento di maschile e femminile
stato di particolare importanza per la definizione del concetto romano
di divinit. I Dei Consenti erano un consiglio di coppie divine maschio-femmina
equivalenti in qualche misura alle dodici maggiori divinit Greche (vedi gli
Olimpi). Almeno due tra i "sacerdozi statali" erano svolti
congiuntamente da una coppia di coniugi. Le vergini Vestali, uno status
sacerdotale riservato alle donne, prendendo il voto di castit perenne, si
vedevano riconosciuta una relativa indipendenza dal controllo maschile; tra gli
oggetti religiosi di maggior pregio che avevano in custodia vi era anche il
"fallo sacro. il fuoco di Vesta doveva evocare l'idea della purezza
sessuale nella femmina e contemporaneamente rappresentare il potere procreativo
del maschio. Gli uomini che servivano nei vari collegia di sacerdoti (vedi
pontefice (storia romana)) avrebbero dovuto in ogni caso sposarsi e crearsi una
famiglia. Cicerone ha dichiarato che il desiderio di procreare era il vivaio
della repubblica, causa prima per l'esistenza di quella forma di istituzione
sociale chiamata matrimonio; a sua volta la casa-domus rappresentava l'unit
familiare ch'era il mattone della vita urbana. Molte delle festivit romane
stagionali contenevano in s degli elementi sessuali: i Lupercalia del mese di
febbraio sono stati celebrati fino al V secolo ed includevano un rito arcaico
di fertilit; mentre i Floraliaerano caratterizzati da danze che si svolgevano
tra persone nude. In alcune tra le pi importanti feste religiose del mese di
aprile, partecipavano e venivano ufficialmente riconosciute anche le
prostitute. Le connessioni esistenti tra riproduzione umana, prosperit generale
e benessere dello Stato vengono ben incarnate dal culto romano di Venere, che
si differenzia dalla sua controparte Greca Afrodite soprattutto per il suo
ruolo di madre dell'intero popolo romano, questo attraverso il figlio per met
mortale Enea. Durante il periodo delle guerre civili Silla, in procinto
d'invadere il proprio stesso paese con le legioni assoggettate al proprio
comando, ha fatto emettere una moneta raffigurante una Venere incoronata in qualit
di suo personale nume tutelare, affiancata da un Cupido in possesso di un
rametto di Palma (segno di vittoria). Sul retro vi erano tropaion (trofei
militari) assieme a simboli degli uguri, sacerdoti statali che svelano il
volere degli dei. L'iconografia collega quindi la divinit dell'amore col buon
augurio di successo militare e con l'autorit religiosa. Il dittatore romano
assunse anche il titolo di Epafrodito-appartenente ad Afrodite. Il fascinus
fallico era onnipresente nella cultura romana ed appare praticamente su ogni
tipo di oggetto, dai gioielli agli antichi campanelli eoliche o tintinnabulum
fino alle lampade; era inoltre un potente amuleto atto a proteggere i bambini e
ai generali che celebravano il proprio trionfo. Cupido colui che ispira il desiderio erotico; Priapo
invece, importato dalla Grecia, rappresenta pi la vera e propria lussuria,
intrisa per d'un fondamento fortemente umoristico; Mutunus Tutunus promuoveva
infine il sesso coniugale. Il dio Liber (versione latina di Dioniso) si prendeva
cura, tra le altre cose, anche delle "risposte fisiologiche" durante
l'atto sessuale. Vi erano infine tutta una serie di divinit atte a
supervisionare ogni aspetto della relazione amorosa, dal concepimento fino al
parto. Quando un maschio assumeva la toga virile Libero diveniva il suo
patrono; secondo quel che raccontano i poeti, in questo momento egli lasciava
la modestia innocente (-pudor) caratteristica dell'infanzia per acquisire la
libert sociale (-Libertas) e poter iniziare cos la sua personale vita sessuale.
La mitologia classica tratta spesso di temi sessuali anche molto impegnativi,
quali adulterio, incesto e stupro; l'arte e la letteratura hanno proseguito con
la scuola alessandrina la trattazione di figure mitologiche erotiche le quali
compivano in modo molto umano, ma anche umoristico, atti sessuali in seguito
del tutto rimossi dalla dimensione religiosa. Concetti morali e
giuridiciModifica CastitasModifica La parola latina castitas, da cui deriva
l'attuale castit, un sostantivo astratto
che denota "una purezza morale e fisica di solito in un contesto
specificamente religioso" e a volte, ma non sempre, riferendosi
specificatamente alla castit sessuale. Il relativo aggettivo castus-puro poteva
esser usato sia per riferirsi a luoghi ed oggetti, cos come anche alle persone;
l'aggettivo "pudicus" (da cui pudicizia, pudore) descrive in maniera
pi particolareggiata una persona che
sessualmente morale. I rituali di Cerere concernevano sia la castitas che
la sessualit, incarnando la Dea anche la maternit; la torcia portata in suo
onore in processione durante lo svolgersi del corteo nuziale era associata alla
purezza sessuale della sposa. Vesta era la divinit primaria del pantheon romano
associata al concetto di castitas, ed era essa stessa una Dea vergine; le sue
sacerdotesse vestali dovevano mantenersi vergini per tutta la vita, avendo
fatto voto di rimanere nubili. IncestumModifica L'incestum, da cui deriva
l'attuale incesto, ossia ci che
"non castum", un atto
che viola la purezza religiosa, forse sinonimo di ci che "nefas" (nefasto) ovvero
religiosamente inammissibile. La violazione ad esempio del voto di castit professato
da una Vestale era considerato come incestum: la punizione riguardava sia la
donna che l'uomo che la rendeva impura attraverso il rapporto sessuale, sia che
l'atto fosse stato consensuale che ottenuto con la forza. Lei veniva seppellita
viva, lui lapidato nel Foro. La perdita di castitas di una vestale equivaleva
alla rottura del patto stipulato tra Roma e gli dei, la pax deorum e veniva
generalmente accompagnata dall'osservazione di cattivi presagi (-prodigia).
L'accusa d'incestum che veniva a coinvolgere una vestale poteva spesso
coincidere con una situazione di agitazione politica e con pericoli di
sommosse. Marco Licinio Crasso venne assolto dall'accusa d'aver commesso
incestum con una vestale che condivideva il proprio nome di famiglia. Quello
che oggi s'intende per rapporti incestuosi erano solo una delle forme di
incestum, a volte tradotto anche come sacrilegio. Quando Publio Clodio Pulcro
si travest da donna, violando cos i riti della Bona Dea rivolti esclusivamente
alla componente femminile della societ, si attir l'accusa di incestum. Nel
diritto romano, ma anche nella morale vigente comune, lo stuprum il rapporto sessuale illecito, traducibile
come depravazione criminale o crimine sessuale; esso viene a comprendere
diversi reati di natura sessuale, tra cui vi
anche "l'atto sessuale illegale ottenuto con la forza e l'adulterio
(uno stupro morale rivolto contro il coniuge). Inizialmente col termine
stuprum stato considerato un atto
vergognoso in generale, o qualsiasi disgrazia pubblica, il che includeva ma non
si limitava alla sessualit considerata illecita, ma ai tempi della commedia
romana di Tito Maccio Plauto la parola aveva gi acquisto il suo pi ristretto
significato sessuale: innanzitutto uno stuprum pu avvenire solo tra cittadini,
in quanto qualsiasi violenza sessualecommessa contro la schiavit era
perfettamente lecita e quindi non punibile. Proprio la protezione contro la
cattiva condotta sessuale sempre stato
tra i diritti legali che maggiormente contraddistinguono il cittadino dal
non-cittadino. Raptus Derivante dal verbo latino rapio/rapere, significa
"strappar via, portar via, rapire". Nel diritto romano il termine
raptio viene utilizzato principalmente per indicare il rapimento o sequestro.
Il mitico ratto delle Sabine rappresenta un sequestro della sposa o rapimento a
scopo matrimoniale in cui la violazione sessuale delle donne diviene un
problema del tutto secondario. Il sequestro di una ragazza non sposata dalla
casa di suo padre era in certi casi una "fuga di coppia" messa in
atto in quanto non vi era il permesso paterno alla celebrazione delle nozze.
Leggi relative alla violenza sessuale (azioni sessuali commesse con violenza o
coercizione) sono state codificate per la prima volta solo verso la fine
dell'era repubblicana, mentre il rapimento avvenuto con lo scopo di commettere
un reato sessuale emerso come
distinzione giuridica. Offerte votive di Pompei: peni, seni e un utero.
Guarigione e Magia L'aiuto divino poteva essere ricercato anche tramite rituali
religiosi privati che avvenivano, associati a lunghi trattamenti medici, col
compito di migliorare o bloccare la fertilit, o per cerar di curare malattie
degli organi riproduttivi Teorie della sessualitModifica Antiche teorie
riguardanti l'ambito sessuale sono stati prodotti da e per un'lite istruita. La
misura in cui queste teorizzazione del sesso abbia effettivamente interessato
il comportamento quotidiano rimane discutibile, anche tra coloro che fossero
stati attenti agli scritti filosofici e medici che hanno presentato tali
opinioni. Questo si presenta come un discorso elitario, mentre spesso
deliberatamente critica i comportamenti pi tipici o comuni, ma allo stesso
tempo non pu essere assunta per escludere la possibilit che questi valori
fossero pi o meno ampiamente seguiti nella societ. Una coppia eterosessuale,
lampada a olio. Nel IV libro di Lucrezio, il De rerum natura viene fornito uno
dei passaggi pi estesi sulla sessualit umana nella letteratura latina. Yeats
descrivendo la traduzione da John Dryden l'ha definita la pi bella descrizione
del rapporto sessuale mai scritto. Lucrezio
contemporaneo di Catullo e di Cicerone(verso la met del I secolo a.C. ed
il suo poema didattico una presentazione
della filosofia epicureaall'interno della tradizione della tradizione della
poesia latina di Ennio. L'epicureismo era materialista e dedito all'edonismo;
il sommo bene qui il piacere, definito
come l'assenza di dolore fisico e stress emotivo. L'epicureo cerca di
gratificare i suoi desideri con il minimo dispendio di passione e fatica. I
desideri sono classificati come quelli che sono naturali e necessari, come la
fame e la sete; quelli che sono naturali ma non necessari, come il sesso; e
quelli che non sono n naturali n necessari, compreso il desiderio di dominare
sugli altri e glorificare se stessi. in
questo contesto che Lucrezio presenta la sua analisi dell'amore e del desiderio
sessuale, che contrasta l'ethos erotico di Catullo e ha influenzato i poeti
d'amore del periodo augusteo. La sessualit maschileModifica Durante tutta
l'epoca repubblicana la libert politica di un cittadino romano
("Libertas") stata definita in
parte dal diritto come un preservare il corpo dalla costrizione fisica, il che
comprendeva sia la punizione corporale che l'abuso sessuale. Il valore-virtus
era quella cosa che rendeva un uomo adulto ancor pi completamente
uomo/maschio-vir ed era questa una delle principali tra le virt considerate
attive. Gli ideali romani di mascolinit furono cos la premessa per l'assunzione
di un ruolo attivo e dominante in ogni campo e sfera della vita; questa era
anche la prima tra le direttive imposte al comportamento sessuale maschile:
"lo slancio verso l'azione potrebbe esprimersi pi intensamente in un
ideale di dominio che riflette la gerarchia della societ patriarcale romana. La
mentalit di conquista faceva parte di un vero e proprio culto della virilit
che, in particolare, dava forma alle "regole" riguardanti le pratiche
omosessuali. Un tal accento posto sull'idea di sottomissione e dominio ha
portato gli studiosi a vedere le espressioni della sessualit maschile degli
antichi romani esclusivamente in termini di modello binario penetratore-penetrato;
cio l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare gratificazione
sessuale era quello d'inserire il suo pene nel/nella partner. Permettere di
lasciarsi penetrare invece rappresentava una minaccia contro la sua libert in
quanto cittadino e contro la propria integrit sessuale: l'attivit sessuale
definisce cos, almeno in parte, la definizione di libero cittadino rispettabile
dallo schiavo o dalla persona "libera ma sottomessa-passiva". Ci si
aspettava ed era socialmente accettabile per un maschio romano nato libero il
voler intrattenere rapporti intimi con partner di entrambi i sessi, questo
almeno fintanto che egli prendeva ed assumeva su di s il ruolo dominante.
Oggetti consentiti del desiderio erano quindi le donne di qualsiasi condizione
sociale o giuridica, coloro che esercitavano la prostituzione maschile o gli
schiavi, mentre i comportamenti sessuali al di fuori dal vincolo matrimoniale
dovevano essere limitati a schiavi e prostitute o, meno frequentemente, ad una
concubina. La mancanza di autocontrollo, anche nella gestione della propria
vita sessuale, era un'indicazione che quell'uomo era incapace di governare gli
altri[76]; il puro e semplice godimento dato dal "basso piacere
sensuale" minacciava pertanto di erodere l'identit maschile elitaria della
societ, cos come la stima ed il rispetto rivolti naturalmente alla persona
istruita. Era un punto di orgoglio per Caio Gracco il sostenere che durante il
suo mandato come governatore provinciale rimase senza alcuno schiavo scelto tra
i ragazzi di pi bell'aspetto, che nessuna prostituta visit la sua casa, e che
non avvicin mai gli schiavi-bambini appartenenti ad altri uomini. In epoca
imperiale, preoccupazioni circa la perdita della libert politica e la
subordinazione del cittadino all'imperatore sono stati espressi da un
percepibile aumento di comportamento omosessuale passivo tra gli uomini liberi,
accompagnato ci anche da una crescita documentata di punizioni corporali
inflitte ai cittadini[79]. La dissoluzione degli ideali repubblicani di interit
fisica in relazione alla Libertas contribuisce e viene riflessa dalla licenza
sessuale e dalla decadenza associata con l'Impero[80]. Nudo eroico
rappresentante Eurialo e Niso, esempio di omoerotismo maschile in linea con la
morale romana a detta di Publio Virgilio Marone. Jean-Baptiste Roman. Nudit
maschile Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della nudit. Mostrarsi nudi
in pubblico poteva essere offensivo o sgradevole anche in ambienti
tradizionali; Cicerone deride Marco Antonio come indegno di apparire quasi nudo
come partecipante al Lupercalia, anche se ci veniva ritualmente richiesto. La
nudit uno dei temi principali di questa
festa religiosa che attira l'attenzione di Ovidio nei Fasti, il suo lungo forma
poema sul calendario romano[82]. Augusto, durante il suo programma di
revivalismo religioso, tent di riformare i Lupercalia, in parte sopprimendo
l'uso della nudit, nonostante il suo aspetto di fertilit/ Connotazioni negative
di nudit includono la sconfitta in guerra, dal momento che i prigionieri sono
stati spogliati, e la schiavit, dal momento che gli schiavi in vendita sono
stati spesso esposti nudi. La disapprovazione nei confronti della nudit era
quindi nei tutta nei confronti della "marcatura" ch'essa dava al
corpo (esser nudi marchiava d'indegnit il corpo deprivandolo della nobilt che
lo caratterizza in quanto cittadino; questo significato era molto pi presente
rispetto a quello d'esser una mera questione di cercare di reprimere il
desiderio sessuale considerato inadeguato. L'influenza proveniente dall'arte
greca tuttavia ha portato sempre pi a creare ritratti di nudit eroicariferibili
sia agli uomini che alle divinit romane, pratica questa che ha avuto inizio nel
II secolo a.C. Quando le statue dei generali romani nudi alla maniera del culto
rivolto ai sovrani ellenistici cominciarono per la prima volta a diffondersi,
vi fu da parte della popolazione una forte reazione "scandalizzata",
non tanto o non semplicemente perch veniva esposta la figura maschile nuda, ma
soprattutto in quanto evocante concetti di regalit e divinit che si trovavano
in contrasto con gli ideali repubblicani di cittadinanza cos com'era incarnata
dalla toga. Il dio Marte si presenta come uomo barbuto maturo in abito di
generale, ci quando viene concepito come padre del popolo in tutta la sua
dignit, mentre le sue raffigurazioni giovanili, senza barba e nudo, mostrano
tutta l'influenza proveniente dalla rappresentazione greca di Ares. Nella prima
arte augustea e giulio-claudia l'adozione programmatica dello stile neoatticoe
dell'arte ellenistica ha portato alla pi complessa significazione del corpo
maschile mostrato nudo, parzialmente nudo oppure indossante una lorica
musculata (o corazza eroica). Una notevole eccezione nei confronti della nudit
in pubblico riguardava le terme, purtuttavia anche in quest'ambito gli
atteggiamenti sono cambiati nel corso del tempo. CATONE (si veda) il Vecchio
preferiva non fare il bagno nudo alle terme in presenza del figlio, mentre
Plutarco pare sottolineare il fatto che nei suoi tempi e in quelli immediatamente
precedenti poteva esser ritenuto assai vergognoso per gli uomini maturi esporre
i loro corpi davanti a maschi pi giovani. In seguito vi fu addirittura la
possibilit per uomini e donne di fare il bagno assieme. Fallicismo Lo stesso
argomento in dettaglio: Simbolismo fallico. La sessualit romana, cos com'
ripetutamente rappresentata in letteratura,
stata descritta come essenzialmente fallocentrica. Il "fallo"
(simbologia del pene in erezione) doveva avere il potere di scacciare il
malocchio ed altre forze soprannaturali malefiche; stato utilizzato come amuleto dalle capacit
"fascinatorie" (fascinus), di cui sopravvivono molti esempi in
particolare sotto forma di tintinnabulum. Il fallo dalle dimensioni e dalla
lunghezza esagerata stato associato
nell'arte romana col dio Priapo, divinit itifallica per eccellenza). La
raccolta poetica di autori anonimi intitolata Carmina Priapea fa parlare
direttamente il "dio dei giardini", che minaccia allegramente di
stupro tramite sesso anale qualsiasi ladro potenziale e chiunque si azzardi ad
oltrepassare i confini della casa quando non ben accetto dai padroni. La
maledizione scagliata da Priapo pu causare sia l'impotenza che uno stato
tormentoso di eccitazione perenne senza alcuna possibilit di remissione, il
priapismo. Ci sono all'incirca 120 termini latini registrati per indicare
metaforicamente l'organo sessuale maschile e nella stragrande maggioranza dei
casi questi vengono a descrivere il sesso del maschio come uno strumento
d'aggressione, quando non come una vera e propria arma. L'oscenit pi comune per
chiamare il pene "mentula",
molto utilizzato da Marziale al posto di termini pi gentili o soft. Virga, come
altre parole significanti ramo, asta, palo, trave erano metafore comuni, cos
anche vomere o aratro. Castrazione e circoncisioneModifica Alcuni romani,
bramosi di conservare il pi a lungo possibile la bellezza pre-adolescenziale e
femminea dei propri schiavi (considerati e chiamati come deliciae o delicati-"giocattoli,
delizie") a volte li facevano sottoporre poco dopo la pubert alla
castrazione, cio all'asportazione dei testicoli nel tentativo di preservare
l'aspetto androgino della loro giovinezza. L'imperatore Nerone aveva il suo
castrato preferito di nome Sporo, che giunse fino al punto di sposarlo in una cerimonia
pubblica. Effeminatezza e travestitismo Quella di effeminatezza era tra le
accuse preferite rivolte agli avversari nel corso dell'invettiva politica; essa
colpiva soprattutto coloro che difendevano le istanze dei populares, quella
fazione politica i cui capi si presentavano come difensori del popolo
(democratici), che si trovava perennemente in contrasto con gli ottimati,
l'lite conservatrice nobiliare. Negli ultimi anni della repubblica varie
personalit tra i populares sono state tacciate d'esser irrimediabilmente
effeminate, oltre a Gaio Giulio Cesare anche Marco Antonio, Publio Clodio
Pulcro e Lucio Sergio Catilina assieme a tutti i suoi amici cospiratori (vedi
congiura di Catilina): venivano tutti derisi in quanto eccessivamente curati
(ben vestiti e profumati) o perch giravano voci insistenti su loro trascorsi
sessuali con altri uomini nei cui confronti avrebbero assunto il ruolo
denigrato della femmina; allo stesso tempo per l'effeminato era anche il
donnaiolo, il Don Giovanni impenitente in possesso di fascino e carisma
superiori alla norma e che amava vestirsi elegantemente ed esser sempre
profumato. Forse l'episodio pi celebre di crossdressingnell'antica Roma si verificato quando il succitato Clodio Pulcro
viol i riti annuali della Bona Dea e che erano riservati alle sole donne; essi
si svolsero nella casa di Cesare, nell'epoca in cui questi si trovava quasi al
termine del suo mandato di pretoree s'apprestava ad assumere l'investitura di
pontefice massimo. Clodio si travest come una flautista per riuscire ad
entrare, come viene descritto da Cicerone che lo addita come sacrilego Togli il
suo vestito color zafferano, la sua tiara, le sue scarpette dai lacci viola, il
suo reggiseno e il suo Salterio, togli il suo comportamento sfacciato e il suo
crimine sessuale, ed ecco che allora Clodio si rivela improvvisamente come un
democratico. Le azioni di Clodio, che era stato appena eletto questore ed era
in procinto di compiere trent'anni, sono spesso state considerate come un
ultimo scherzo giovanile. La natura tutta femminile di questi riti notturni ha
attirato nel corso del tempo molta speculazione pruriginosa negli uomini; sono
state fantasticate come enormi orge lesbiche compiute tra i fumi dell'alcol e
che potevano pertanto anche essere molto divertenti da osservare. Clodio si
suppone che avesse avuto lo scopo di sedurre la moglie di Cesare, ma la sua
voce maschile lo ha smascherato prima di poter riuscire ad averne la
possibilit. Lo scandalo ha spinto Cesare a cercare di ottenere un divorzio
immediato per poter in tal maniera tenere sotto controllo i danni sopravvenuti
alla propria reputazione, dando origine alla famosa frase divenuta proverbiale
"la moglie di Cesare deve essere sopra di ogni sospetto." L'incidente
ha riassunto comunque il disordine vigente durante gli ultimi anni della
repubblica romana. L'ambiguit sessuale
poi una caratteristica peculiare dei sacerdoti della dea Cibele
conosciuti come Galli, il cui abbigliamento rituale includeva capi femminile.
Essi sono a volte considerati come una specie di sacerdozio transgender, in
quanto veniva richiesto loro di sottoporsi ad auto-evirazione ad imitazione di
Attis. La complessit dell'identit di genere nella religione di Cibele e Attis e
nel relativo mito sono ben esplorate da Catullo in una delle sue poesie pi
lunghe, il Carme .Rapporti omosessualiModifica mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Omosessualit nell'Antica Roma. Lato della Coppa Warren che mostra il
"conquistatore erotico" del puer delicatus (ragazzino), incoronato. Gli
uomini romani erano del tutto liberi di avere rapporti sessuali con maschi di
status inferiore, senza per questo aver alcuna percezione di una qualche
perdita di mascolinit; soltanto coloro che prendevano il ruolo passivo nel
rapporto (a volte indicati come sottomessi) venivano fortemente denigrati come
deboli e privi di virilit. I cittadini romani che erano solitamente
contrassegnati come "maschile" potevano attuare la penetrazione
sessuale di uomini sia verso coloro che esercitavano la prostituzione maschile
che nei confronti degli schiavi i quali solitamente erano ragazzi sotto i
vent'anni d'et. La letteratura comprende molte opere che parlano di
omoerotismo; comprende le poesie di Catullo dedicate al suo ragazzino
quattordicenne di nome Giovenzio, le elegie di Tibullo e Properzio, la seconda
egloga delle Bucoliche di Virgilio e diverse poesie di Orazio. Lucrezio
affronta il tema dell'amore provato nei confronti dei ragazzi nel suo De Rerum
Natura . Sebbene OVIDIO (si veda) includa di trattare esempi mitologici di
omoerotismo nelle sue Metamorfosi, egli risulta altres prendere al riguardo una
posizione che insolita fra i poeti
d'amore latini, ed in effetti tra i Romani in generale, quando esprime opinioni
aggressivamente eterosessuali. Il Satyricon di Petronio Arbitro talmente permeato di erotismo culturale di
tipo omosessuale che nei circoli letterari europei, il suo nome diventato addirittura un sinonimo di
omosessualit. Anche se il diritto romano non riconosceva il matrimonio tra
uomini, nel periodo imperiale alcune coppie maschili celebrarono riti
matrimoniali tradizionali. Tali forme di matrimonio tra persone dello stesso
sesso sono riportati da fonti che li deridono; i sentimenti dei partecipanti
non sono registrati. Lo stupro sugli uominiModifica Gli uomini che erano stati
violentati perdevano la legittimazione all'agire sociale, ne venivano esentati;
acquisivano lo status di infamia, lo stesso degli uomini dediti alla
prostituzione maschile o di quelli che assumevano volontariamente il ruolo
passivo nell'atto sessuale. Secondo il giurista Pomponio, dopo che l'uomo stato violentato con la forza dai ladri o dal
nemico in tempo di guerra, dovrebbe sopportarne lo stigma. I timori di stupri
di massa a seguito di una sconfitta militare veniva esteso anche ai maschi
oltre che alle potenziali vittime di sesso femminile. Il diritto romano ha
affrontato lo stupro di un cittadino di sesso maschile gi nel II secolo a.C.,
quando venne emessa una sentenza riguardante una causa che potrebbe aver
coinvolto un maschio di orientamento omosessuale; anche se un uomo che aveva
lavorato nell'ambito della prostituzione non poteva essere violentato per una
questione di diritto, stato stabilito
difatti che anche un uomo poco raccomandabile e discutibile fosse in pieno
possesso degli stessi diritti degli altri uomini liberi di non avere il proprio
corpo sottoposto da una sessualit forzata. In un libro sull'arte della retorica
lo stupro di un maschio nato libero (ingenuus)
equiparato a quello di una matrona ed in quanto ci trattarsi di un
crimine capitale. La Leges Iuliae#Lex Iulia de vi publica et privata definisce
lo stupro come il sesso forzato contro un ragazzo o una donna e lo stupratore
era oggetto di esecuzione, una sanzione alquanto rara nel diritto romano.
Costituiva inoltre un delitto capitale per un uomo rapire un bambino nato
libero per utilizzarlo in scopi eminentemente sessuali; la corruzione del
protettore del ragazzo per averne l'opportunit ne rappresentava un'aggravante:
in questo caso la negligenza degli accompagnatori poteva essere perseguita
sotto varie leggi, riversando patte della colpa su coloro che non erano
riusciti nelle loro responsabilit come guardiani, piuttosto che sulla vittima.
Anche se la legge riconosceva l'irreprensibilit della vittima, la retorica utilizzata
dalla difesa indica che i cosiddetti "atteggiamenti colpevoli"
avrebbeto potuto essere sfruttati fra i giurati. Nella sua collezione di codici
aneddotici che si occupavano d assalti alla castit, lo storico Valerio Massimo
dispone in egual misura di un numero di vittime di sesso maschile rispetto a
quelle di sesso femminile. Sessualit militare. Il soldato romano, come ogni
romano libero e rispettabile dello Stato, avrebbe dovuto mostrare
autodisciplina in materia di sesso. Ai soldati colpevoli di adulterio veniva
dato un congedo disonorevole, mentre agli adulteri condannati era impedito
l'arruolamento, con condanne rigorose che potevano vietare le prostitute e i
magnaccia dal campo, Anche se in generale l'esercito romano, sia in marcia che
in un forte permanente (castra) mantenevano tra i partecipanti un numero di
seguaci di campo che potevano includere anche le prostitute. La loro presenza
sembra essere data per scontata e menzionata soprattutto quando poteva
diventare un dato problematico; per esempio quando Scipione Emiliano stava
partecipando all'assedio di Numanzia respinse i seguaci sessuali del campo come
una delle sue misure per il ripristino della disciplina. Forse la cosa pi
singolare il divieto contro il
matrimonio romano mentre si faceva parte degli effettivi dell'esercito
imperiale. Nel suo primo periodo, Roma aveva un esercito di cittadini che
avevano lasciato le proprie famiglie per prendere le armi, quando ve ne fosse
stato bisogno. Durante l'espansionismo della media repubblica romana, Roma
inizi ad acquisire vasti territori da difendere come le province (vedi la
provincia romana), ma nel corso dell'epoca di Gaio Mario l'esercito era stato
sempre pi professionalizzato. Il divieto di matrimonio per i soldati in
servizio inizi sotto Augusto,forse per scoraggiare le famiglie al seguito
dell'esercito e compromettendone cos la sua mobilit. Il divieto di matrimonio
era applicato a tutti i ranghi fino a quello del centurione; mentre per gli
uomini delle classi dirigenti c'era l'esenzione. Con il II secolo la stabilit
dell'impero conosciuta come pax romana ha costretto la maggior parte delle unit
a forti permanenze in terre lontane, cosicch si potevano spesso sviluppare
rapporti anche con donne locali. Sebbene legalmente queste unioni non potevano
essere formalizzate in matrimonio legittimo,
stato riconosciuto che il loro valore stava nel fornire un supporto
emotivo. Dopo che un soldato fosse stato dimesso, alla coppia era concesso il
diritto di matrimonio legale in quanto cittadini (il connubium) e tutti i
bambini che gi eventualmente avevano veniva loro concesso lo status di esser
nati cittadini. Settimio Severo revoc il divieto augusteo. Altre forme di
gratificazione sessuale a disposizione dei soldati erano l'uso di schiavi, gli
stupri di guerra e la relazione tra persone dello stesso sesso. Il
comportamento omosessuale tra i soldati
stato oggetto di sanzioni, compresa la pena la morte in quanto
violazione della disciplina e del diritto militare. Polibio riferisce che
l'attivit omosessuale all'interno delle forze armate era punita con la
fustuarium, una fustigazione fino a morte. Il sesso tra commilitoni violava il
decoro romano in quanto s'intratteneva un rapporto sessuale con un altro
maschio nato libero. Un soldato aveva sopra ogni altra cosa il dovere di
mantenere la propria mascolinit, non consentendo in nessun caso pertanto che il
proprio corpo potesse essere utilizzato per scopi sessuali. Questa integrit
fisica era in contrasto con i limiti imposti sulle sue azioni come uomo libero
all'interno della gerarchia militare; pi sorprendentemente, i soldati romani
erano i soli cittadini regolarmente sottoposti a punizioni corporali, riservate
al mondo civile soprattutto agli schiavi. L'integrit sessuale ha contribuito a
distinguere lo status del soldato, che altrimenti avrebbe sacrificato molto
della sua autonomia civile rispetto a quella dello schiavo. Nella guerra,
subire lo stupro equivaleva alla sconfitta, un altro motivo per il soldato di
non compromettere il proprio corpo sessualmente. La sessualit femminile A causa
dell'enfasi romana data alla famiglia, la sessualit femminile stata considerata una delle basi per l'ordine
sociale e la prosperit. Ci si aspettava che le donne romane esercitassero la
propria sessualit all'interno del matrimonio, e venissero premiate per la loro
integrit sessuale (pudicitia) e fecondit. Augusto concesse onori e privilegi
speciali alle donne che avevano dato alla luce almeno tre bambini, attraverso
lo Ius trium liberorum; la sua legge morale era incentrata sullo sfruttamento
della sessualit delle donne. Il controllo della sessualit femminile era
considerata necessaria per la stabilit dello Stato, tanto che era sancito nella
forma pi vistosa data dalla verginitassoluta delle Vestali attendenti al sacro
fuoco. Una vestale che avesse violato il proprio voto sarebbe stata sepolta
viva in un rituale che avrebbe imitato per alcuni aspetti le pratiche funerarie
romane ed il suo amante l'avrebbe seguita. La sessualit femminile, sia
disordinata sia esemplare, spesso poteva avere impatti anche profondi sulla
religione di Stato in tempo di crisi per la repubblica romana. Come avveniva
per gli uomini, anche per le donne libere che si fossero esposte sessualmente,
come prostitute od esecutrici di lenocinio, o che si fossero rese disponibili
indiscriminatamente, sarebbero state escluse dalla protezione legale dovuta
loro nonch dalla rispettabilit sociale. Molte fonti letterarie romane approvano
le donne rispettabili che esercitano la passione esclusivamente all'interno
dell'istituzione matrimoniale; mentre la letteratura antica prende con
prepotenza una visione fortemente maschilista della sessualit, il poeta
augusteo Publio Ovidio Nasone esprime invece un interesse esplicito e
praticamente unico del modo in cui le donne subiscono il rapporto sessuale (ci
innanzi tutto nellArs amatoria ma anche negli Amores). Il corpo
femminileModifica Gli atteggiamenti morali nei confronti della nudit femminile
differivano, almeno in parte, da quelli dei Greci, pur essendo notevolmente
influenzati da loro; questi ultimi avevano idealizzato il corpo maschile nudo -
il nudo eroico - mentre ritraggono sempre le donne rispettabili coperte. La
parziale nudit delle de nell'arte imperiale romana, tuttavia, poteva mettere in
evidenza il seno come parte fisica dignitosa, ma in quanto per renderne un'idea
piacevole d'immagine di nutrimento, abbondanza e tranquillit. L'arte erotica
sopravvissuta di questo periodo indica che le donne con seni piccoli e fianchi
larghi raffiguravano l'ideale forma del corpo umano femminile. Dal I secolo
d.C. l'arte romana comincia a mostrare un vasto interesse per il nudo
artisticofemminile impegnato in varie attivit tra le quali anche la sessualit
(vedi l'arte erotica a Pompei e Ercolano); l'arte pornografica rappresentante
donne in qualit di presunte prostitute nel momento in cui svolgono atti
sessuali poteva mostrare il seno coperto da uno "strophium" (una
sorta di reggiseno) anche quando il resto del corpo era nudo. Nel mondo reale,
cos come viene descritto in letteratura, le prostitute a volte si presentavano
nude all'ingresso del cubicolo del bordello a loro riservato, oppure si
mostravano indossare abiti di seta trasparente; gli schiavi (e schiave) in
vendita sono stati spesso esposti nudi per consentire agli acquirenti d'ispezionare
i loro eventuali difetti, ma anche per simboleggiare che non avevano il diritto
di controllare il proprio corpo. Seneca il Vecchio descrive il momento della
vendita di una donna: "lei si present nuda sulla riva, a piacere
dell'acquirente: ogni parte del suo corpo
stato esaminato e ritenuto. Volete ascoltare il risultato della vendita?
Il pirata ha venduto, il protettore ha comprato, che la si potesse impiegare
come una prostituta. La visualizzazione del corpo femminile lo rendeva
maggiormente vulnerabile, Varrone ha detto che la vista era il pi grande dei
sensi, perch mentre gli altri sono in un modo o nell'altro limitati dalla
vicinanza, la vista poteva penetrare anche fino all'altezza delle stelle; egli
pensava che la parola latina per vista-lo sguardo intenso, "visus",
fosse etimologicamente collegato a vis-forza/potere. Ma il legame tra visus e
vis, continua, implica anche la possibilit sempre presente di violazione
(tramite quindi lo sguardo maschile), come Atteone guardando nuda Diana ne
aveva violato la divinit. Il corpo femminile completamente nudo come viene
ritratto nella scultura romana stato
pensato essenzialmente per incarnare un concetto universale di Venere, la cui
controparte greca Afrodite la Deapi
spesso dipinta in stato di nudit nell'arte greca. Genitali femminili Il termine
basilare osceno per i genitali femminili
"cunnus"-fica, anche se forse non cos fortemente offensiva
come per la moderna lingua anglosassone. Marziale utilizza la parola pi di
trenta volte, Catullo una volta e Orazio tre solo nei suoi primi lavori; appare
anche nei Priapea e nei graffiti. Una delle parole gergali usate dalle donne
per i loro genitali era "porcus", in particolare quando donne mature
discutevano di ragazze; Varrone collega quest'uso della parola al sacrificio di
un maiale alla dea Cerere nel corso dei riti preliminari di nozze. Le metafore
di campi, giardini e prati sono anch'esse comuni, come lo l'immagine dell'aratro maschile riferito al
solco femminile; altre metafore includono la grotta, la fossa, il sacchetto, il
vaso, la stufa, il forno e l'altare. Anche se i genitali delle donne appaiono
spesso nelle invettive e all'interno dei versi satirici come oggetti di
disgusto, sono invero raramente presenti nell'elegia d'amore. OVIDIO (si veda),
il pi eterosessuale dei poeti classici d'amore,
l'unico che si riferisce al dare un piacere alla donna attraverso la
stimolazione dei genitali; Marziale invece scrive dei genitali femminili
solamente in una maniera offensiva, descrivendo la vagina di una donna come
fosse l'esofago di un pellicano. e la paragona inoltre al sedere del ragazzo
come ricettacolo per il fallo. La funzione della clitoride
("landica") stata ben compresa[135];
nel latino classico il termine era di un'oscenit altamente indecorosa ritrovato
solo nei graffiti e nei Priapea. Il clitoride era solitamente indicato come una
metafora, come ad esempio fa Giovenale quando lo chiama "crista"
(cresta) Omosessualit femminile Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del
lesbismo. Le parole greche indicanti una donna che preferisce il sesso con
un'altra donna includono l'hetairistria (da confrontare con
hetaira-cortigiana/compagna), tribas (plurale tribadi) e lesbia Sessualit e
gioventModifica Sia i maschi che le femmine nati liberi potevano indossare la
"Toga praetexta", una toga bianca normale con una larga striscia
viola sui bordi; era riservata ai ragazzi cittadini che non avevano per ancora
raggiunto la maggiore et. Questa toga assegnava chi la portava lo status di
inviolabilit; lo stupro di un ragazzo nato libero costituiva un crimine
capitale. Riti di passaggioModifica Ulteriori informazioni Questa sezione
sull'argomento sessualit ancora vuota.
Aiutaci a scriverla! Sesso, matrimonio e societModifica Relazione
padrone-schiavoModifica L'attrattiva sessuale era una delle caratteristiche
principali richieste negli schiavi in quanto considerati propriet oggettiva, il
loro padrone poteva utilizzarli sessualmente a piacimento o anche richiederli
in prestito se appartenevano ad altri. Le lettere di Cicerone hanno suggerito
ad alcuni studiosi che egli potesse aver avuto una relazione omosessuale a
lungo termine col proprio schiavo, e poi liberto, di nome Marco Tullio Tirone.
Prostituzione Lo stesso argomento in dettaglio: Prostituzione nell'antica Roma.
Atti sessuali e relative posizioniModifica MasturbazioneModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Storia della
masturbazione. Ermafroditismo e androginiaModifica Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ermafrodito, Afrodito e Androgino.
NoteModifica ^ Catharine Edwards, The Politics of Immorality in Ancient Rome
(Cambridge Verstraete and Vernon Provencal, introduzione a Same-Sex Desire and
Love in Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Per una
pi estesa discussione su come la percezione moderna della decadenza sessuale
romana sia stata prodotta ad arte dalla polemistica cristiana nei suoi strali
anti-pagani, vedi Blanshard, "Roman Vice," in Sex: Vice and Love from
Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, Langlands, Sexual Morality in Ancient
Rome (Cambridge Hlkeskamp, Reconstructing the Roman Republic: An Ancient
Political Culture and Modern Research (Princeton Langlands, Sexual Morality,
p.17. ^ Langlands,
Sexual Morality, Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for
Sexual Offences in Republican Rome", in Roman Readings: Roman Response to
Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter,
Richlin, "Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and
the Roman Law against Love between Men", Journal of the History of
Sexuality. Under the Empire, the emperor assumed the powers of the censors
Foucault, Storia della sessualit vol. II:
la cura di s (New York: Vintage (in contrasto con la visione cristiana della
sessualit come "legata al male") et passim, e come viene sintetizzato
da Inger Furseth and Pl Repstad, An Introduction to the Sociology of Religion:
Classical and Contemporary Perspectives (Ashgate, Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo
antico (Yale, originariamente in italiano Langlands, Sexual Morality,
Cantarella, Bisessualit nel mondo antico, Clarke, Looking at Lovemaking:
Constructions of Sexuality in Roman Art (California Press, Langlands, Sexual
Morality; Clarke, Looking at Lovemaking, McGinn, The Economy of Prostitution in
the Roman World (University of Michigan Press, 2004), p. 164. ^ Craig Williams,
Roman Homosexuality (Oxford, citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican
and Augustan Rome (Societas Scientiarum Fennica, Nussbaum, "The Incomplete
Feminism of Musonius Rufus, Platonist, Stoic, and Roman", in The Sleep of
Reason: Erotic Experience and Sexual Ethics in Ancient Greece and Rome
(University of Chicago Skinner, introduction to Roman Sexualities (Princeton
Langlands, Sexual Morality, Edwards, The Politics of Immorality, Clarke,
Looking at Lovemaking, p. 8, sostiene che gli antichi romani "non hanno
un'idea consapevole della loro sessualit". Vedi anche Diana M. Swancutt,
"Still before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of
Masculinity and the Roman Invention of the tribas", in Mapping Gender in
Ancient Religious Discourses (Brill, e la discussione di costruttivismo sociale
contrario all'essenzialismo di Thomas Habinek, "The Invention of Sexuality
in the World-City of Rome", in The Roman Cultural Revolution (Cambridge
Clarke, Looking at Lovemaking, Richlin, "Sexuality in the Roman
Empire", in A Companion to the Roman Empire (Blackwell, Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," Ovid, Tristia Griffin,
"Propertius and Antony", Journal of Roman Studies Ovid, Tristia
Hofmann, Latin Fiction: The Latin Novel in Context (Routledge, Plutarco, Vita
di Crasso Clarke, Looking at Lovemaking, p. 3 et passim. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, La
"Tabella" era un piccolo dipinto portatile, distinto dalla pittura
murale permanente. ^ Ovidio, Tristia
2, cos com' citato da Clarke in Looking at Lovemaking, Clarke, Looking at
Lovemaking, Clarke, Looking at Lovemaking, quotation. L'osservazione critica
proviene da Svetonio, Vita di Orazio: Ad res Venerias intemperantior traditur;
nam speculato cubiculo scorta dicitur habuisse disposita, ut quocumque
respexisset ibi ei imago coitus referretur; Clarke, Looking at Lovemaking,
Svetonio, Vita di Tiberio Clarke, Looking at Lovemaking, Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," Richlin, "Sexuality in the
Roman Empire, Ad esempio, Agatha of Sicily e Febronia of Nisibis; Sebastian P.
Brock and Susan Ashbrook Harvey, introduction to Holy Women of the Syrian
Orient (University of California Harvey, "Women in Early Byzantine
Hagiography: Reversing the Story," in That Gentle Strength: Historical
Perspectives on Women in Christianity (University Press of Virginia,. I racconti di mutilazione del seno si trovano nelle
fonti e nell'iconografia cristiana, non nell'arte e nella letteratura romana..
^ Richlin, "Sexuality in the Roman Empire, Anche se non vi sono dubbi sul
fatto che Ausonio fosse un cristiano, le sue opere contengono molte indicazioni
che dimostrano un notevole interesse - forse addirittura ne stato un praticante - nei riguardi delle
religioni tradizionali romane e celtiche. Come sostenuto da Ariadne Staples in tutto il suo From
Good Goddess to Vestal Virgins: Sex and Category in Roman Religion (Routledge,
Schultz, Women's Religious Activity in the Roman Republic (University of North
Carolina Lipka, Roman Gods: A Conceptual Approach (Brill, See Flamen Dialis and
rex sacrorum. Beard, North, and Price, Religions of Rome: A History (Cambridge
Wildfang, Rome's Vestal Virgins: A Study of Rome's Vestal Priestesses in the
Late Republic and Early Empire (Routledge, Staples, From Good Goddess to Vestal
Virgins, CICERONE (si veda), De officiis: nam cum sit hoc natura commune
animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio
est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est
principium urbis et quasi seminarium reipublicae; MacCormack, "Sin,
Citizenship, and the Salvation of Souls: The Impact of Christian Priorities on
Late-Roman and Post-Roman Society," Comparative Studies in Society and
History Com' espresso nella prima invocazione a Venere di Tito Lucrezio Caro
nel De rerum natura: "Begetter (genetrix) of the line of Aeneas, the
pleasure (voluptas) of human and divine." ^ J. Rufus Fears, "The Theology
of Victory at Rome: Approaches and Problem," Aufstieg und Niedergang der
rmischen Welt. Silla poteva in quel momento essere o
meno stato un ugure. Williams, Roman Homosexuality: Ideologies of Masculinity
in Classical Antiquity (Oxford Henig, Religion in Roman Britain(London:
Batsford, PLINIO (si veda), Naturalis historia, dice che quando un generale
celebrava un trionfo, le Vestali appendevano l'effigie del Fascinus nella parte
inferiore del suo carro per proteggerlo dall'invidia. Turcan, The Gods of Ancient
Rome (Routledge; originally published in French; Rpke, Religion in Republican
Rome: Rationalization and Ritual Change (University of Pennsylvania Iter
amoris, "journey" or "course of love". See Propertius; Ovidio, Fasti;George, "The 'Dark
Side' of the Toga," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture,
Toronto; Palmer, "Mutinus Titinus: A Study in Etrusco-Roman Religion and
Topography," in Roman Religion and Roman Empire, Pennsylvania, ha
sostenuto che quello di Mutunus Tutunus fosse un sotto-culto di quello che era
dedicato a Libero; Agostino di Ippona, De civitate Dei, ha detto che un fallo
era un oggetto divino utilizzato durante la Liberalia per respingere le
influenze malevoli dalle colture. ^ Clarke, Looking at Lovemaking, Langlands, Sexual
Morality, Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas Press,, citing
Festus (87 in the edition of Mller) parlando della torcia, rileva che le
sacerdotesse devote e dedicate al culto di Cerere nelle province romane
nordafricane fanno voto di castit come avviene tra le Vestali (Tertulliano, Ad
uxorem 1.6 Oehler). Ovidio nota che Cerere
soddisfatta anche da piccole offerte, purch siano caste (Fasti). Statius
dice che Cerere stessa casta (Silvae).
La preoccupazione di associare la dea con la "castitas" pu avere a
che fare con la sua funzione di tutelare i passaggi oltre i confini, compresa
quindi anche la transizione tra la vita e la morte, come avviene nelle
religioni misteriche. Brouwer, Bona
Dea: The Sources and a Description of the Cult (Brill; Mueller, Roman Religion
in Valerius Maximus; Rasmussen, Public Portents in Republican Rome (L'Erma di
Bretschneider, Wildfang, Rome's Vestal Virgins, Crassus's nomen was Licinius;
the Vestal's name was Licinia (see Roman naming conventions). His reputation
for greed and sharp business dealings helped save him; he objected that he had
spent time with Licinia to obtain some real estate she owned. For sources, see
Alexander, Trials in the Late Roman Republic (Toronto; Plutarch, Life of
Crassus, implies that the prosecution was motivated by political utility. One
or more Vestals were also brought before the College of Pontiffs for incestum
in connection with the Catiline Conspiracy (Alexander, Trials, The sources on
this notorious incident are numerous; Brouwer, Bona Dea, p. 144ff., gathers the
ancient accounts. Frier and McGinn, A Casebook on Roman Family Law, Oxford
Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford
Stuprum cum vi or per vim stuprum: Richlin, "Not before Homosexuality, For
instance, in the mid-3rd century BC, Naevius uses the word stuprum in his
Bellum Punicum for the military disgrace of desertion or cowardice; Elaine
Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences in
Republican Rome," in Roman Readings: Roman Response to Greek Literature
from Plautus to Statius and Quintilian (Walter de Gruyter, Fantham,
"Stuprum: Public Attitudes and Penalties," p. Moses, "LIVIO (si
veda)s Lucretia and the Validity of Coerced Consent in Roman Law," in
Consent and Coercion to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies
(Dunbarton; Gillian Clark, Women in Late Antiquity: Pagan and Christian
Life-styles (Oxford Moses, "Livy's Lucretia, Gillespie and Hardie,
introduction to The Cambridge Companion to LUCREZIO (si veda) (Cambridge). A
scholiast gives an example of an unnatural and unnecessary desire as acquiring
crowns and setting up statues for oneself; see J.M. Rist, Epicurus: An
Introduction (Cambridge Hardie, "Lucretius and Later Latin Literature in
Antiquity," in The Cambridge Companion to LUCREZIO (si veda); McGinn,
Prostitution, Sexuality and the Law in Ancient Rome (Oxford. See the statement
preserved by Aulus Gellius that " it was an injustice to bring force to
bear against the body of those who are free" (vim in corpus liberum non
aecum adferri). Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and
Statius' Thebiad," Arachnion; Bell, "Cicero and the Spectacle of
Power," Journal of Roman Studies Ramage, Aspects of Propaganda in the De
bello gallico: Caesars Virtues and Attributes, Athenaeum Myles Anthony
McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic (Cambridge); Evans,
Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and Decline at Rome (Routledge,
Craig A. Williams, Roman Homosexuality(Oxford Cantarella, Bisexuality in the
Ancient World, p. xi; Skinner, introduction to Roman Sexualities, Richlin, The
Garden of Priapus, Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance
and Prostitution in Ancient Rome," in Roman Sexualities, Edwards, "Unspeakable
Professions, Aulus Gellius; Williams, Roman Homosexuality, Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," in A Companion to the Roman
Empire.The law began to specify harsher punishments for the lower classes
(humiliores) than for the elite (honestiores). ^ This is a theme throughout
Carlin A. Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The Gladiator and the
Monster (Princeton Heskel, "Cicero as Evidence for Attitudes to Dress in
the Late Republic," in The World of Roman Costume (University of Wisconsin
Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," in American Journal
of Archaeology Ovid, Fasti Newlands, Playing with Time: Ovid and the Fasti
(Cornell Williams, Roman Homosexuality, Zanker, The Power of Images in the Age
of Augustus (Michigan; Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus,
Plutarch, Life of Cato 20.5; Williams, Roman Homosexuality, Zanker, The Power
of Images in the Age of Augustus, p. 6. ^
Fino alla tarda Repubblica, un bagno di casa probabilmente offerto le donne
un'ala o struttura separata, o ha avuto un programma che permetteva alle donne
e agli uomini di fare il bagno in tempi diversi. Dalla tarda Repubblica fino
alla prevalenza del cristianesimo nel tardo impero, non vi una chiara evidenza di balneazione mista.
Alcuni studiosi hanno pensato che solo le donne delle classi inferiori si
bagnassero con gli uomini, o le prostitute che erano infames, ma Clemente di
Alessandria ha osservato che le donne delle pi alte classi sociali potevano
essere viste nude ai bagni. Adriano vietata la balneazione mista, ma il divieto
non sembra fosse rigorosamente rispettato. In breve, i costumi variavano non
solo nel tempo e nei luoghi, ma anche rispetto alla struttura sociale
predominante; vedi Garrett G. Fagan, Bathing in Public in the Roman World
(University of Michigan Clarke, Looking at Lovemaking, p. 84; David J.
Mattingly, Imperialism, Power, and Identity: Experiencing the Roman Empire
(Princeton Richlin, "Pliny's Brassiere," in Roman Sexualities,
Mattingly, Imperialism, Power, and Identity, Williams, Roman Homosexuality,
citing Suetonius, Life of Nero. ^ Edwards, The Politics of Immorality, Edwards, Politics of Immorality,
The case, which nearly shipwrecked Clodius's political career, is discussed at
length by his biographer, Tatum, The Patrician Tribune: Publius Clodius
Pulcher, North Carolina; Clodius, a crocota, a mitra, a muliebribus soleis
purpureisque fasceolis, a strophio, a psalterio, a flagitio, a stupro est
factus repente popularis: Cicero, the speech De Haruspicium Responso, given a
Lacanian analysis by Leach, Gendering Clodius, Classical World Williams, Roman
Homosexuality, Edwards, The Politics of Immorality see also Tatum, Always I Am
Caesar (Blackwell Murray, Homosexualities (University of Chicago Bachvarova,
"Sumerian Gala Priests and Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic
Lamentation in Cross-Cultural Perspective," in Lament: Studies in the
Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford See also "Hermaphroditism and
androgyny" below. ^ Williams, Roman Homosexuality, Catullo, Carmina
Tibullus, Book One, elegies Propertius McGinn, Prostitution, Sexuality and the
Law in Ancient Rome (Oxford McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law,
Potter, "The Roman Army and Navy," in The Cambridge Companion to the
Roman Republic, Southern, The Roman Army: A Social and Institutional History
(Oxford; Phang, The Marriage of Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial
Army (Brill, Phang, The Marriage of Roman Soldiers Il [[De Bello
Hispaniensi|]], circa la guerra civile di Cesare sul fronte della Spagna
romana, parla di un ufficiale che ha una concubina di sesso maschile
(concubinus) che si porta appresso. Polibio, Storie (translated as bastinado).
Phang, Roman Military Service: Ideologies of Discipline in the Late Republic
and Early Principate (Cambridge See also "Master-slave relations. Phang,
Roman Military Service, Roman law recognized that a soldier was vulnerable to
rape by the enemy: Digest, as discussed by Richlin, "Not before
Homosexuality, Severy, Augustus and the Family at the Birth of the Roman Empire
(Routledge, 2003), p. 39. ^ Hans-Friedrich Mueller, Roman Religion in Valerius
Maximus (Routledge; Langlands, Sexual Morality; See further discussion at
Pleasure and infamy below. Clarke, Looking at Lovemaking, Gibson, Ars Amatoria
(Cambridge Cohen, "Divesting the Female Breast; Cameron, The Last Pagans,
p. 725; Bonfante, "Nudity as a Costume in Classical Art," passim. See
discussion of the iconography of breastsfollowing. Olson, "The Appearance
of the Young Roman Girl," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture
(University of Toronto Clarke, Looking at Lovemaking, Clarke, "Look Who's
Laughing at Sex," in The Roman Gaze, Blanshard, Sex: Vice and Love from
Antiquity to Modernity (Wiley-Blackwell, Harper, Slavery in the Late Roman
Mediterranean, Cambridge Seneca, Controversia VARRONE (si veda), De lingua
latina, citing a fragment from the Latin tragedian Accius on Actaeon that plays
with the verb video, videre, visum, "see," and its presumed
connection to vis (ablative vi, "by force") and violare, "to
violate": "He who saw what should not be seen violated that with his
eyes" (Cum illud oculis violavit is, qui invidit invidendum); David
Frederic, "Invisible Rome," in The Roman Gaze. Ancient etymology was
not a matter of scientific linguistics, but of associative interpretation based
on similarity of sound and implications of theology and philosophy; see Davide
Del Bello, Forgotten Paths: Etymology and the Allegorical Mindset (Catholic
University of America Clement of Alexandria, Protrepticus; Allison R. Sharrock,
"Looking at Looking: Can You Resist a Reading?" in The Roman Gaze;
Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Adams, The Latin Sexual Vocabulary; VARRONE
(si veda), On Agriculture; Hersch, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in
Antiquity (Cambridge Spaeth, The Roman Goddess Ceres (University of Texas
Press, Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Adams, The Latin Sexual Vocabulary;
Richlin, The Garden of Priapus. Throughout the Ars Amatoria ("Art of
Love"); Gibson, Ars Amatoria Martial, Epigrams: tam laxa ... quam turpe
guttur onocrotali; Richlin, The Garden of Priapus, Richlin, The Garden of
Priapus, Clarke, Looking at Lovemaking, Adams, The Latin Sexual Vocabulary,
Juvenal; Adams, The Latin Sexual Vocabulary, Il bordo viola appare anche sulle
toghe dei magistrati tra le cui funzioni vi
anche quella di presiedere ai sacrifici; era inoltre la toga indossata
da un figlio in lutto dopo aver effettuato i riti funebri, ed infine lo stesso
colore appariva sui veli delle Vestali; Judith Lynn Sebesta, "Women's
Costume and Feminine Civic Morality in Augustan Rome," Gender et History
and "Symbolism in the Costume of the Roman Woman; Adams, J.N. The Latin
Sexual Vocabulary. Johns Hopkins Brown, Robert D. Lucretius on Love and Sex.
Brill; Cantarella, Eva. Bisexuality in the Ancient World. Yale Clarke, John R.
Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art University of
California Edwards, Catharine. The Politics of Immorality in Ancient Rome.
Cambridge; Fantham, Stuprum: Public Attitudes and Penalties for Sexual Offences
in Republican Rome." In Roman Readings: Roman Response to Greek Literature
from Plautus to Statius and Quintilian. Gruyter, Frederic, David, ed. The Roman
Gaze: Vision, Power, and the Body. Johns Hopkins Gaca, Kathy L. The Making of
Fornication: Eros, Ethics and Political Reform in Greek Philosophy and Early
Christianity. University of California Gardner, Women in Roman Law and Society.
Indiana Hallett, Judith P., and Skinner, Marilyn, eds. Roman Sexualities.
Princeton Hubbard, Thomas K. Homosexuality in Greece and Rome: A Sourcebook of
Basic Documents. University of California Langlands, Rebecca. Sexual Morality
in Ancient Rome. Cambridge McGinn, Prostitution, Sexuality and the Law in
Ancient Rome. Oxford; McGinn, The Economy of Prostitution in the Roman World.
Michigan Press, Nussbaum, The Incomplete Feminism of Musonius Rufus, Platonist,
Stoic, and Roman." In The Sleep of Reason: Erotic Experience and Sexual
Ethics in Ancient Greece and Rome. University of Chicago Phang, The Marriage of
Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial Army. Brill, Richlin, Amy.
"Not before Homosexuality: The Materiality of the cinaedus and the Roman
Law against Love between Men." Journal of the History of Sexuality
Richlin, Amy. The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor.
Oxford; Verstraete and Provencal, Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman
Antiquity and in the Classical Tradition. Haworth, Williams, Craig A. Roman
Homosexuality: Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. Oxford
Younger, Sex in the Ancient World from A to Z. Routledge; Ancona, Ronnie, and
Greene, Ellen eds. Gender Dynamics in Latin Love Poetry. Johns Hopkins
University Press, Skinner, Marilyn. Sexuality
in Greek And Roman Culture. Blackwell Publishing. Voci correlateModifica Arte
erotica a Pompei e Ercolano Omosessualit nell'Antica Roma Sessualit nell'antica
Grecia Storia della sessualit umana. Portale Antica Roma Portale Erotismo.
Baraldini Omosessualit nell'antica Roma Irrumatio tipo di pratica del sesso
orale Lex Scantinia Wikipedia Il contenuto Omosessualit nell'antica Roma Lingua
Segui Modifica Gli atteggiamenti sociali nei confronti dell'omosessualit nell'antica
Roma e i comportamenti relativi differiscono - spesso in una maniera assai
notevole - da quelli assunti della contemporanea civilt occidentale e presenti
in essa; il tema deve pertanto essere affrontato necessariamente attraverso la
visione del mondo e della sessualit tipica della maggioranza delle societ
antiche, molto diversa da quella moderna. Graffito in versi proveniente da
Pompei antica. Lo scrivente, bruciato dalle fiamme d'amore, incita il
mulattiere a smetterla di bere e a pungolare semmai i muli per arrivare prima a
casa, dove un bel ragazzo, di cui egli
innamorato, lo attende (l ove l'amore
dolce). Il ruolo passivo come discriminante moraleModifica Per le antiche
civilt precristiane intrise di paganesimo, soprattutto per quelle del mondo
classico (antica Grecia e antica Roma), non esisteva un'autentica
differenziazione individuale basata sull'orientamento sessuale o di identit di
genere. Piuttosto, questa esisteva in base al ruolo assunto all'interno del
rapporto sessuale: l'identificazione e le leggi che regolavano le relazioni e
le varie pratiche amorose non si fondavano sull'oggetto del desiderio (una
persona dello stesso sesso o di quello opposto), ma la discriminante era bens
data dal fatto che quella persona ricoprisse un ruolo attivo e associato quindi
alla virilit e alla mascolinit, oppure uno passivo, generalmente considerato
come estremamente degradante e tipico della femminilit (era dato cio dall'atto
che poteva essere dominante o sottomesso, come viene indicato anche nell'uso dei
termini catamite e irrumatio). Agli antichi romani era peraltro completamente
sconosciuta anche la dicotomia del concetto moderno tra un'esclusiva
omosessualit e un'altrettanto esclusiva eterosessualit, proprio per il fatto
che l'identificazione sessuale avveniva per lo pi in base al ruolo svolto
durante l'atto intimo (vedi attivo e passivo nel sesso); la stessa lingua
latina manca di parole traducibili con eterosessuale o omosessuale come
un'identit consapevole di chi prova attrazione solo nei confronti di persone
dell'altro o del proprio stesso sesso. Antinoo, il giovane di cui s'innamor
l'imperatore romanodel II secolo Publio Elio Traiano Adriano. Quando l'amato
mor, Adriano ne fece letteralmente un dio, innalzandogli decine di statue in
tutto l'impero. La societ romana seguiva i dettami del patriarcato, un sistema
impregnato da forti connotazioni di maschilismo; per i maschi adulti ingenui,
quelli che possedevano cio a tutti gli effetti la cittadinanza romana (la
Libertas-libert politica e il diritto di governare s stessi e la propria
familia con l'autorit derivante dal pater familias), la Virtus stata sempre intesa come una delle qualit
attive per eccellenza e attraverso la quale l'uomo-vir si viene maggiormente a
definire. Gli uomini erano liberi d'intrattenere rapporti sessuali con altri
maschi senza alcuna percezione di perdita di virilit o di status sociale,
fintanto e a condizione che avessero assunto la posizione di comando
(sessualmente penetrativa). Il ruolo attivo come segno di virilit Modifica La
mentalit di conquista e il culto della virilit formano nel corso del tempo
anche le relazioni omoerotiche; la pratica omosessuale a Roma si afferma molto
presto come rapporto di dominazione, ad esempio del cittadino sopra lo schiavo,
il tutto a conferma della decisa virilit mascolina dell'uomo romano; la
schiavit nell'antica Roma contemplava difatti anche una decisiva sudditanza
sessuale nei confronti di chi deteneva il potere sopra altre persone. L'ideale
romano di mascolinit funge in tal modo da premessa all'assunzione di un ruolo
attivo sempre e comunque, preso e innalzato a valore supremo: ci costituiva
"la prima direttiva del comportamento sessuale maschile per i Romani.
Partner maschili accettabili erano sia gli schiavi sia tutti coloro che si dedicavano
alla prostituzione maschile ma anche quelli il cui stile di vita li immetteva
nel nebuloso campo sociale dell'infamia, gli esclusi dalle normali protezioni
accordate a ogni cittadino, questo anche se fossero stati tecnicamente liberi.
Pur preferendo nella generalit dei casi la pederastia(compagnia intima con
giovani di et compresa tra i 12 e i 20 anni), con i minori di sesso maschile
nati liberi agli uomini adulti era rigorosamente proibito qualsivoglia tipo di
approccio, mentre i prostituti di professione e gli schiavi potevano essere
anche molto pi vecchi[4]. Omosessualit femminileModifica Le relazioni
omosessuali tra le donne sono meno documentate. Anche se le donne nell'antica
Romaappartenenti alle classi pi alte (come le matrone) erano solitamente
istruite e vi sono esempi noti di scrittura poetica e vaste corrispondenze con
parenti di sesso maschile, molto poco e frammentario ci che
sopravvissuto rispetto a quello che potrebbe essere stato effettivamente
scritto da mani femminili. Gli scrittori maschi hanno mostrato ben poco
interesse al modo in cui le donne hanno sperimentato e vissuto la sessualit in
generale; il poeta latino dell'era augustea (vedi Storia della letteratura
latina Publio Ovidio Nasone risulta qui un'eccezione, dimostrandosi particolarmente
acuto e sensibile al riguardo; ma egli
anche uno dei pi strenui sostenitori di uno stile di vita fortemente
improntato all'amore verso le donne e in opposizione alle norme sessuali romane
alternative a esso. Durante la repubblica romana e nel corso dell'epoca
costituita dal principato e dall'inizio dell'alto impero romano assai poco
viene registrato riguardo a relazioni sentimentali tra donne, mentre prove
migliori e di pi ampio genere sussistono, anche se variamente disperse, per il
successivo periodo del tardo impero romano e della tarda antichit. Excursus
storicoModifica Quando si parla di omosessualit nella romanit antica bisogna
necessariamente distinguere almeno tre grandi periodizzazioni storiche, in cui
spesso cambia la concezione e la visione e accettazione stessa dei rapporti
omosessuali: il periodo dell'Et regia di Roma e quello repubblicano antecedente
al 146 a.C. (Grecia romana); il periodo repubblicano successivo alla conquista
della Grecia fino all'Alto Impero romano; infine il periodo del basso Impero.
Busto antico romano di ignoto adolescente, conservato all'Ermitage di San
Pietroburgo e datato al II secolo d.C. Periodo antecedente la conquista della
Grecia Lo stesso argomento in dettaglio: Vizio greco (antica Roma). Nel periodo
repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali
erano osteggiati e visti con sospetto. I Romani identificavano infatti il
rapporto tra persone dello stesso sesso come il vizio greco, sostenendo che nei
loro antenati non esistesse l'omosessualit, ritenuta un'offesa al costume degli
avi (il famoso mos maiorum), contraria al rigore del "civis Romanus"
e motivo dell'indebolimento e del rammollimento della societ romana stessa. La
libert politica di un cittadino stata
definita in parte dal diritto di preservare il proprio corpo da qualsivoglia
costrizione fisica, comprendente pertanto sia la punizione corporale sia
l'abuso sessuale; il sentimento di mascolinit era la premessa imprescindibile
della capacit di governare sia s stessi sia altre persone di status inferiore e
la Virtus, come gi sottolineato, il
valore che rende l'uomo pi pienamente uomo: la virt attiva per eccellenza,
quindi. Periodo successivo alla conquista della Grecia e Alto ImperoModifica
Con la conquista della Grecia, assieme alla cultura della Grecia classica, Roma
assorbe anche molte usanze, tra cui il cosiddetto "amore greco". Ma i
civesromani praticavano l'omosessualit solamente con gli schiavi e con i
liberti. Era deprecabile che un cittadino assumesse il ruolo passivo in un
rapporto omosessuale, perch questo era in conflitto con una certa ideologia
virile e dominatrice presente in tutta la societ romana. La conquista sessuale
diviene presto metaforacomune, utilizzata spesso nell'arte retorica romana pi
favorevole all'imperialismo[9], e la mentalit da conquistatori, inerente anche
alla sfera della sessualit nell'antica Roma, faceva parte di un culto generico
della virilit il quale poteva condurre anche a particolari forme di pratiche
omosessuali tra gli uomini. Gli studiosi contemporanei tendono pertanto a
vedere le espressioni inerenti alla sessualit maschile umana all'interno della
civilt romana in termini di opposizione binaria nel modello
penetratore-penetrato; cio l'unico modo corretto per un maschio romano di cercare
gratificazione sessuale era quello di inserire il suo pene nel/nella partner:
permettere di lasciarsi penetrare avrebbe invece minacciato la propria libert
come cittadino, oltre che la sua intrinseca integrit sessuale. Il ruolo passivo
indicante sottomissione era sommamente disprezzato e visto come sintomo di
mollezza, di rinuncia alla virilit e perci deprecabile e vergognoso,
specialmente se era un cittadino romano a ricoprirlo. Ci si aspettava ed era
socialmente accettabile per un uomo romano nato libero di voler consumare
esperienze sessuali con entrambi i tipi di partner, sia maschili sia femminili,
l'importante era mantenere un ruolo dominante[13]. La moralit del comportamento
dipendeva poi anche dalla posizione sociale del partner, indipendentemente dal
fatto che fosse un uomo o una donna; le donne e i giovani uomini sono stati
entrambi considerati normali oggetti del desiderio, ma fintanto che si
manteneva al di fuori del vincolo matrimoniale un uomo avrebbe dovuto cercare
di soddisfare i propri desideri solo con schiavi, prostitute (che spesso erano
schiave o ex-schiave anch'esse) e gli infames (i succitati sottoposti a
infamia). Il sesso di un partner non determinava se questa relazione fosse
accettabile o meno, sempre per a patto che il godimento di un uomo non
usurpasse l'integrit di un altro uomo: era altamente immorale ad esempio avere
una relazione con la moglie di un altro uomo nato libero, con una ragazza in et
da marito o con un ragazzo minorenne di buona famiglia, o con lo stesso cittadino
libero adulto; mentre l'uso sessuale degli schiavi di un altro uomo doveva
sottostare al permesso del proprietario. La mancanza di autocontrollo, anche
nell'ambito della gestione della propria vita sessuale, indicava platealmente
che quell'uomo era del tutto incapace di governare gli altri; troppa indulgenza
nei confronti dei "bassi piaceri sensuali" minacciava di erodere
l'identit del maschio dell'lite nella sua qualit di persona istruita (quindi
migliore e destinata a governare). Particolare della tomba-monumento di un
giovane che mostra un antico ragazzo romano con indosso una bulla,
l'amuletopensato per proteggere un bambino nato libero da influenze
sovrannaturali malevoli e lo segnava come sessualmente
indisponibile/intoccabile. La Lex Scantinia condanna espressamente l'uomo nel
caso di rapporti omosessuali tra un adulto e un puer o praetextati (da
praetexta, la toga bianca orlata di porpora che portavano i ragazzi che non
avevano ancora raggiunto l'et della piena maturit sessuale (fino ai 15-17 anni)),
mentre nel caso di rapporto omosessuale tra cittadini liberi adulti veniva
punito quello che tra i due assumeva il ruolo passivo, con una multa che poteva
ammontare fino a 10.000 sesterzi. La Lex Scantinia, di cui non ci pervenuto il testo ma che abbiamo solamente
attraverso citazioni tratte dagli scritti del filosofo Marco Tullio Cicerone,
di Decimo Magno Ausonio, dello storico Gaio Svetonio Tranquillo, del poeta
Decimo Giunio Giovenale e infine da parte degli autori cristiani Tertulliano e
Prudenzio, un'importante testimonianza a
dimostrazione del fatto che l'omosessualit veniva praticata in tutti gli
ambienti sociali. Stele funebre dell'adolescente Philetos, del demo di Aixone
che indossa la toga. Esposta nel cortile interno coperto del "Museo
archeologico del Ceramico" ad Atene. In et imperiale, le ansie circa la
perdita della libert politica e la subordinazione del cittadino all'imperatore
si sono espresse nella percezione di un aumento del volontario comportamento
omosessuale passivo tra gli uomini liberi, accompagnato da una crescita
documentata nell'esecuzione di punizioni corporali sui cittadini. La
dissoluzione degli ideali repubblicani di integrit fisica in relazione alla
"libertas" contribuisce alla licenza sessuale e si riflette nella
decadenza associata con l'impero. A ogni modo, analizzando i testi e i poemi
degli scrittori antichi, non si pu fare a meno di notare alcune contraddizioni,
almeno dal punto di vista del pensiero moderno, sul tema dell'omosessualit: se
da una parte infatti molti scrittori esaltano e descrivono le gesta
omoerotiche, vantandosi di conquiste amorose nei confronti di giovani, schiavi
e liberti (in molte tra le poesie di Caio Valerio Catullo, o addirittura dando
consigli su come conquistare i ragazzi (come fa Albio Tibullo); dall'altra
altri scrittori, se non gli stessi, ironizzano, in modo molto spesso violento,
contro chi si macchia di effeminatezza (gli uomini che ricoprono il ruolo
passivo nei rapporti omosessuali maschili) soprattutto se cittadini romani, scherniti
e derisi quando non violentemente attaccati come causa di decadimento sociale
(lo stesso Catullo nei Carmina). Questa apparente contraddizione in un certo senso giustificata dalla visione
che della societ avevano i romani, tipicamente e prettamente maschilista, dove
il ruolo attivo in un rapporto sessuale, sia con donne sia con uomini, era
sintomo di virilit e veniva esaltato, in rapporto anche alla superiorit della
Gens Romana sopra gli altri popoli, destinata quindi a dominarli anche
sessualmente. Statua di Giulio Cesare, esempio di nudo eroico. Anche molti
uomini illustri tra i pi noti e stimati, uno fra tutti Gaio GIULIO (si veda)
Cesare - membro autorevole della Gens Giulia e capostipite della dinastia
giulio-claudia - provavano una forte attrazione nei confronti di persone dello
stesso sesso: l'omosessualit, o meglio la bisessualit, di Cesare ben testimoniata da Cicerone secondo cui egli
era "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti". I
suoi gusti nella sfera sessuale furono spesso motivo di pettegolezzo e
canzonatura da parte sia dei detrattori sia degli stessi soldati a lui
sottoposti; Plutarco e Svetonio narrano approfonditamente della sua relazione
omoerotica avuta in giovent con l'ultimo sovrano del regno di Bitinia Nicomede IV;
non vi fu nemico o personaggio pubblico che non cogliesse l'occasione, anche a
distanza di anni, per fare della maldicenza a proposito dei rapporti
particolari intercorsi fra il giovane Cesare e il re. Cesare veniva di volta in
volta definito "rivale della regina di Bitinia", "stalla di
Nicomede", "bordello di Bitinia". Marco Campurnio Bibulo,
collega di Cesare nel consolato, riprendendo la vecchia accusa che lo dipingeva
come regina di Bitinia, per attaccare la sfrenata ambizione di Cesare che
manifestava tendenze monarchiche afferm: "Questa regina, una volta aveva
voluto un re, ora vuole un regno". I legionari, il giorno del trionfo di
Cesare sui Galli, seguendo il costume che consentiva ai soldati di indirizzare
il giorno del trionfo versi piccanti e scurrili al proprio comandante,
intonarono un canto che suonava pi o meno cos. Gallias Caesar subegit,
Nicomedes Caesarem: ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias, Nicomedes
non triumphat qui subegit Caesarem. (Svetonio, Vita di Cesare.) Lo stesso Cicerone,
riferendosi ai fatti di Bitinia, scriveva nelle sue lettere che con Nicomede
Cesare ha perso il fiore della giovinezza e un giorno, in Senato, durante una
seduta in cui Cesare per perorare la causa di Nisa, figlia di Nicomede, ricorda
i benefici ricevuti da quel re, Cicerone pubblicamente lo interruppe
esclamando. Lascia perdere questi argomenti, ti prego, poich nessuno ignora che
cosa egli ha dato a te e ci che tu hai dato a lui. Gaio Valerio Catullo ebbe a
sostenere che Cesare e il suo ufficiale Mamurra durante la campagna di
Galliaavessero avuto una relazione, ma pi tardi si scus: in quest'episodio
Cesare dimostr tutta la sua clementia, concedendo al poeta il suo perdono e
lasciandogli frequentare la sua domus. Marco Antonio, infine, insinu, nel tentativo
di diffamare il suo avversario durante la guerra civile, che Cesare avesse
avuto un rapporto anche con il nipote Ottaviano, e che la causa della sua
adozione fosse stata proprio la loro relazione amorosa. Ottaviano Augusto da
giovinetto. Omoerotismo tra gli imperatoriModifica D'altra parte, tra i primi
imperatori romani tutti (tranne Claudio) ebbero predisposizione ad abituali e
ripetute esperienze omoerotiche: dopo Cesare, soprannominato con dileggio la
"Regina di Bitinia" e la "moglie di tutti i mariti";
Augusto, il quale quand'era chiamato ancora solo Ottaviano veniva additato con
disprezzo dai detrattori col nome di Ottavia: Marco Antonio ebbe modo in
seguito di accusare Ottaviano di essersi guadagnato la sua adozione da parte di
Cesare attraverso favori sessuali, anche se occorre dire che Svetonio descrive
l'accusa rivoltagli da Antonio come pura calunnia politica. Dopo che Marco
Favonio fu catturato e giustiziato a seguito della battaglia di Filippi
Ottaviano acquist uno dei suoi schiavi, un certo Sarmento, quando tutte le
propriet del nemico sconfitto vennero messe in vendita: stato affermato poi ch'egli divenne il
catamite preferito dello stesso futuro imperatore. Quinto Dellio dir in seguito
a Cleopatra che, mentre lui e gli altri dignitari venivano trattati come vino
acido da Antonio, Ottaviano si stava gustando il "catamite Falerno" a
Roma. Busto di Tiberio. Tiberio a Capri predilige i ragazzini appena puberi
raccolti tra i figli della comunit locale e li chiamava i suoi
"pesciolini", spiandoli mentre nuotavano nudi in piscina o
intrattenevano rapporti sessuali tra di loro;
sempre Svetonio a dirci, forse volutamente esagerando (tanto da fargli
commentare: "si rese colpevole anche di azioni ancora pi turpi e
infamanti, che a mala pena si possono riferire e ascoltare, o addirittura
credere"), che l'anziano imperatore avesse addestrato dei fanciulli in
tenerissima et per andare in seguito a vivere con lui nella residenza di Villa
Jovis, li invitava poi a scherzare tra le sue gambe mentre nuotava e a
risvegliare i suoi sensi con baci e morsi. Nelle ville capresi infine, le orge
sarebbero state all'ordine del giorno e si sarebbero svolte davanti a una
collezione di dipinti erotici di arte greca da prendere a modello. Caligola era
bisessuale e incestuoso; Neronesottopose a castrazione il suo schiavo
adolescente Sporo per poi incoronarlo come propria sposa reale, ma spos anche
un uomo di nome Pitagora. Anche i successivi imperatori pare non fossero immuni
dall'amore tutto maschile: Servio Sulpicio Galba, che amava gli uomini grandi e
grossi; Vitellio, soprannominato spintria ("marchetta") per esser
stato tra i favoriti di Tiberio quando si trova alla sua corte a Capri;
Domiziano, accusato dagli avversari di essersi prostituito per far carriera al
pretore Clodio Pollione e poi per interesse al predecessore Marco Cocceio
Nerva, fu accusato anche di mollezza e di essere un dissoluto. Ebbe varie
relazioni con uomini, come del resto anche il fratello Tito: il grande amore
provato nei confronti dell'eunuco Flavio Earino, suo schiavo affrancato, fu
celebrato sia da Stazio sia da Marco Valerio Marziale. Traiano era noto per la
sua predilezione nei confronti dei bei ragazzi; Publio Elio Traiano Adriano
fece diventare il suo giovane amante Antinoo dopo la morte niente meno che un
dio, innalzandolo in apoteosi; Eliogabalo a 18 anni promise met dell'impero a
chi fosse riuscito a dotarlo di genitali femminili per poter cos diventare una
donna a tutti gli effetti, scandalizzando l'intera Roma che lo vide sposarsi con
un auriga, un certo Ierocle di Smirne. I busti di Adriano e Antinoo al British
Museum. Adriano e AntinooModifica Il caso riguardante la relazione d'amore tra
Adriano e Antinoo particolarmente
significativo; l'imperatore ebbe per anni come suo amasio preferito questo
giovinetto di origini greche (che molto probabilmente non era uno schiavo)
proveniente dalla Bitinia. Dopo la sua morte, avvenuta in circostanze rimaste
in parte oscure, Adriano innalz in apoteosi l'amato Antinoo e fond un culto
organizzato dedicato alla sua persona che si diffuse presto a macchia d'olio in
tutto l'Impero; poi, sempre per commemorare il proprio diletto, fond la citt di
Antinopoli, fatta sorgere vicino al luogo dove il ragazzo aveva trovato la sua
prematura fine terrena e che divenne un centro di culto per l'adorazione del
"dio Antinoo" in forma di Osiride. Infine Adriano, per commemorare il
ragazzo, organizz dei giochi che si tenevano in contemporanea ad Antinopoli e
ad Atene, con Antinoo divenuto simbolo dei sogni panellenici dell'imperatore.
Busto di Polideuce, allievo e amante di Erode Attico; quando egli mor in
giovane et divenne un autentico oggetto di culto da parte di Erode. Erode
Attico e Polideuce. Il filosofo di origini greche ed esponente della seconda
sofistica Erode Attico (Lucius Vibullius Hipparchus Tiberius Claudius Herodes
Atticus), stato un retore e politico al
servizio dell'impero; amico personale di Adriano, tra i suoi allievi vi fu
anche il giovane erede al trono Marco Aurelio. Erode era noto, oltre che per la
ricchezza e munificenza (fece costruire tra gli altri anche l'Odeo di Erode
Attico) nella sua qualit di filantropo e mecenate di opere pubbliche, anche per
i numerosi rapporti amorosi con i propri discepoli, in riferimento alla
tradizione della pederastia greca. Il suo affetto nei confronti del figlio
adottivo Polideuce (Polydeukes/Polydeukion, da "Polluce") ha creato
uno scandalo, non per il rapporto omosessuale intercorrente tra i due o per la
giovane et del ragazzo, ma per l'intensit della passione dimostrata,
considerata smodata e del tutto sconveniente. Quando l'adolescente mor
prematuramente Erode - come gi precedentemente l'imperatore Adriano aveva fatto
con Antinoo - incominci un plateale culto della personalit del defunto e
proclamandolo "eroe", facendo costruire tutta una serie di statue e
monumenti in suo onore. L'anziano visse in un parossismo di disperazione
pubblica alla morte del suo eromenos, arrivando a commissionare giochi
sontuosi, iscrizioni e sculture su ampia scala, Rilievo votivo in marmo
pentelico del II secolo raffigurante l'apoteosidi Polideuce, il ragazzo amato
da Erode Attico. Qui mostrato con
attributi eroici: il serpente e la sua nudit. Lo scrittore Luciano di Samosata
racconta, nella sua biografia del filosofo esponente del cinismoDemonatte che
questi afferm di avere in suo possesso una lettera proveniente dal defunto
giovinetto; quando Erode chiese di essere informato su che cosa vi fosse
scritto, Demonatte gli disse che il ragazzo dichiarava di essere triste perch
il suo amante non era ancora giunto a fargli visita (nell'aldil). Demonatte
vuol qui criticare come eccessiva e indegna di un filosofo l'espressione dei
sentimenti di dolore di Erode: soltanto l'enorme ricchezza e l'enorme potere di
Erode gli permisero di esprimerlo in modo pubblico, anzich celarlo nel
silenzio. Arte erotica e oggetti di uso quotidiano. Lo stesso argomento in
dettaglio: Arte erotica a Pompei e Ercolano e Simbolismo fallico. Le
rappresentazioni della sessualit omosessuale maschile e lesbica sono meno rappresentate
nell'arte erotica dell'antica Roma rispetto a quelle che mostrano atti sessuali
tra maschio e femmina. Un fregio di Pompei antica presente alle Terme
Suburbanemostra una serie di sedici scene di posizioni sessuali, in cui ve n'
una omosessuale e un'altra lesbica, oltre ad abbinamenti omosessuali in
rappresentazioni di sesso di gruppo. Due uomini e una donna che si accoppiano.
Pittura parietale pompeiana, da una delle Therms (bagni), parete sud degli
spogliatoi - dipinta intorno al 79 a.C. Il sesso a tre (o threesome) nell'arte
romana mostra solitamente due uomini che penetrano una donna, ma in una delle
tante scene presenti nei muri delle "Terme suburbane" si vede un uomo
penetrare una donna in posizione da dietro mentre a sua volta viene penetrato
da un altro uomo posto dietro di lui: questo scenario viene descritto anche da
Catullo nel Carmen 56ritenendolo un fatto umoristico. L'uomo in mezzo potrebbe
essere un cinaedus-cinedo, un uomo cio a cui piace subire il sesso anale ma che
al contempo anche considerato attraente
dalle donne[44]. Anche l'attivit sessuale a quattro (foursome o
"quartetto") appare, in genere composta da due donne e due uomini e a
volte in coppie composte da persone dello stesso sesso. Gli atteggiamenti
romani verso la nudit maschile (vedi storia della nudit) differiscono anche in
maniera notevole se confrontati con quelli assunti dagli antichi Greci, che
hanno sempre considerato le rappresentazioni idealizzate del nudo maschile come
espressione di eccellenza, ad esempio attraverso il nudo eroico. L'uso della
toga virile designa un uomo romano come libero cittadino; connotazioni negative
della nudit includono anche la sconfitta in guerra, dal momento che i
prigionieri venivano spogliati, e la schiavit, poich gli schiavi messi in
vendita in piazza erano spesso esposti nudi. Amuleti fallici della fertilit e
della buona fortuna. Al tempo stesso il Phallus-fallo stato visualizzato ubiquitariamente in forma
di fascinus, ossia un "fascino magico" pensato per allontanare le
forze maligne (come i moderni cornetti portafortuna), ed divenuto col tempo una decorazione facente
parte delle consuetudini e che si ritrova ampiamente tra le rovine pompeiane,
in particolare sotto forma di speciali campanelli eolici detti Tintinnabulum.
Il fallo eretto e smisurato del dio Priapo potrebbe originariamente essere
servito per uno scopo apotropaico, ma in arte il suo aspetto grottesco ed
esagerato provoca spesso una grande risata. L'ellenizzazione tuttavia ha influenzato
la rappresentazione della nudit maschile all'interno dell'arte romana, portando
a una pi complessa significazione della forma del corpo umano maschile mostrato
nudo, parzialmente nudo o indossando la lorica musculata. La coppa Warren,
skyphos romano d'argento che rappresenta una scena erotica omosessuale. Warren
CupModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Warren Cup. La Coppa Warren una coppa
d'argento raffigurante due scene di atti omosessuali in ambiente di simposio(pratica
socio-rituale della convivialit collegata al banchetto), di solito datata al
tempo della dinastia giulio-claudia. Si
sostenuto che i due lati di questo calice rappresentino la dualit nella
tradizione presente nel mondo classico dell'istituzione della pederastia greca
in contrasto con la forma esistente all'interno della cultura romana. Sulla
parte della coppa che rappresenta l'ideale greco vediamo un uomo maturo con la
barba mentre si unisce in posizione da dietro a un giovane maschio gi sviluppato
e muscoloso il quale gli sta seduto sopra. L'adolescente si tiene in equilibrio
rimanendo attaccato con la mano sinistra a un sostegno, cos da mantenere una
posizione sessuale altrimenti imbarazzante o scomoda. Uno schiavo bambino
osserva la scena di nascosto attraverso una porta socchiusa. L'uomo con la
corona del "conquistatore erotico" e il suo puer delicatus. Lato B
della Warren Cup Il lato romano della coppa invece mostra un puer delicatus,
all'incirca di 12 o 13 anni, mentre viene tenuto saldamente stretto tra le
braccia di un maschio pi anziano, ben rasato e in perfetta forma fisica. Mentre
il primo uomo con la barba pu essere greco, con un partner che partecipa pi
liberamente all'incontro e con uno sguardo di piacere, la sua controparte, che
ha un taglio di capelli pi grave, sembra a tutti gli effetti essere romano e
quindi utilizza uno schiavo; la corona di mirto che indossa simboleggia inoltre
il suo ruolo di conquistatore erotico. La coppa potrebbe essere stato concepita
come un ritratto atto a stimolare la conversazione su quel tipo di ideali di
amore e di sesso, che avevano luogo durante i banchetti simposiali tradizionali
greci. L'antichit della Coppa Warren
stata per contestata e potrebbe invece rappresentare la percezione
dell'omosessualit greco-romana com'era al momento della sua ipotetica
fabbricazione. Busto di Publio Virgilio Marone. Letteratura omoeroticaModifica
Numerose testimonianze riguardanti la presenza dell'omosessualit e
dell'omoerotismo in generale ci vengono da poeti e scrittori dell'epoca. Il
tema omoerotico viene introdotto in letteratura latina a partire dal II secolo
a.C. con la crescente ellenizzazione e una sempre maggior influenza Greca sulla
cultura romana. Il console nonch letterato Quinto Lutazio Catulofaceva parte di
un circolo letterario frequentato da poeti che componevano brevi strofe
richiamantesi alla moda della poesia ellenistica; uno dei suoi pochi frammenti
superstiti costituito da una poesia
d'amore rivolta a un maschio con un nome greco. L'innalzamento della
letteratura greca, ma anche dell'arte greca in generale a modello espressivo in
ambito poetico ha promosso tra le altre cose anche la celebrazione
dell'omoerotismo come uno dei segni distintivi delle personalit urbanizzate e
maggiormente sofisticate[56]. Nonostante ci non vi sono prove o ipotesi
generali su come questo abbia potuto avere un qualsiasi effetto
sull'espressione del comportamento sessuale nella vita quotidiana reale tra i
romani. L'amore greco ha influenzato esteticamente i latini in relazione ai
mezzi di espressione, molto meno nei riguardi della natura dell'omosessualit
romana in quanto tale. L'omosessualit nell'antica Greciadifferiva da quella
Romana principalmente nell'idealizzare dell'eros tra i cittadini maschi nati
liberi di pari status, anche se di solito con una differenza di et (vedi
pederastia greca) inserita nell'istituto erastes-eromenos. L'esistenza di un
rapporto erotico-sentimentale tra un ragazzo e un adulto al di fuori della
famiglia, visto come un'influenza positiva tra i Greci, nella societ romana
avrebbe minacciato l'autorit del paterfamilias. Poich le donne romane erano
attive nell'educazione dei figli e si mescolarono con gli uomini socialmente, e
le donne delle classi dirigenti spesso continuavano a consigliare e influenzare
i loro figli e mariti anche nella vita politica, l'omosocialit non era cos
diffusa a Roma cos come lo era stata ad esempio nell'antica Atene la quale ha
indubbiamente contribuito a produrre il pi avanzato livello di cultura
pederastica, quella della pederastia ateniese. La poesia neoterica dei Poetae
novi si concretizza preminentemente con l'opera poetica di Caio Valerio Catullo
(i Liber o Carmina) la quale include diverse poesie che esprimono il suo forte
desiderio nei riguardi di un giovane nato libero chiamato esplicitamente
"Giovenzio; il poeta, oltre ad amare l'amica Lesbia non era quindi meno
ambiziosamente desideroso dei baci del suo bel ragazzo quattordicenne, che
esalta in vari versi di volta in volta amorosi o ironici, definendolo
effeminatoe passivo. Il nome latino e lo status di cittadino libero del ragazzo
amato da Catullo sovverte totalmente la tradizione romana, ma
contemporaneamente a lui anche Tito Lucrezio Caro nel suo De rerum natura
riconosce esplicitamente la propria attrazione nei confronti dei
"ragazzi"-pueri, il che pu designare invero un partner sottomesso
accettabile e non necessariamente ragazzino appena adolescente; vi si pu
leggere inoltre che il piacere sublime consiste nel trasferire il proprio seme
in un'altra persona, preferibilmente in un ragazzo piuttosto che in una donna.
Si agita in noi questo seme, appena l'adolescenza rafforza le membra.
Dall'uomo, solo l'attrattiva dell'uomo fa scaturire il seme Cos dunque, chi
riceve i colpi dai dardi di Venere lo trafigga un fanciullo di membra femminee
tende l ove ferito e anela a
congiungersi e in quel corpo spandere l'umore tratto dal corpo. Eurialo e Niso,
Louvre. A testimoniare il fatto che il fenomeno omosessuale stava divenendo
sempre pi un rapporto di desiderio e amore, interviene anche VIRGILIO (si
veda), il quale racconta nell'Eneide le storie di due coppie di guerrieri, gli
appartenenti al popolo dei troiani Eurialo e Niso e i latini Cidone e Clizio,
che nel reciproco amore trovano la forza per combattere da autentici eroi
(soltanto Cidone scamper alla morte); coppie di giovani uniti da un tenero
legame omoerotico. Di Clizio, Virgilio ci dice che ancora un giovinetto, solo una leggerissima
barba bionda incornicia il suo bellissimo volto; su Cidone invece il poeta non
d una descrizione fisica: scrive invece che prima di Clizio ha amato altri
adolescenti, sicch da ritenere che
rispetto al compagno egli abbia un'et leggermente superiore (Eneide). Il
particolare rapporto che lega Eurialo e Niso
definito dall'autore "amore", ci che nel contesto dell'epoca
va inteso come serena manifestazione di continuit tra l'amicizia fraterna e
l'affettuosit omoerotica. Qui il poeta si avvale della tradizione
dell'omosessualit militare nell'antica Grecia, ritraendo apertamente il
rapporto amoroso esistente tra questi giovani il cui valore militare li segna
solidamente come autentici uomini romani (viri). Virgilio descrive il loro
legame come "pius", collegandolo alla virt suprema della
"pietas", in egual modo posseduto dallo stesso eroe Enea; una
relazione avallata come "onorevole, dignitosa e collegata ai valori della
centralit di Roma. Ancora nelle Bucoliche il poeta latino canta e descrive
numerosi amori omosessuali e riconducibili alla pederastia greca, come la
vicenda riguardante il giovane schiavo Alessi che viene concupito sia dal suo
padrone Iolla sia dal bel pastore Coridone (Ecloga II), o quella di un altro
pastore di nome Menalca il quale elogia la bellezza di Aminta (Ecloga). Il mito
di Ciparisso e Apollo, tratto dal racconto di Ovidio descritto nelle
Metamorfosi (Ovidio). Temi omoerotici appaiono anche nelle opere di altri poeti
del periodo augusteo (vedi Storia della letteratura latina: Albio Tibullo,
Sesto Properzio e ORAZIO (si veda) fra tutti. A schierarsi invece decisamente a
favore dell'amore femminile sar OVIDIO (si veda): avere una relazione sessuale
con una donna pi piacevole perch, a
differenza delle forme di comportamento omosessuale ammesse all'interno della
cultura romana, qui il piacere
reciproco. Non mancano comunque anche in questo autore descrizioni di
amori omosessuali, tutti appartenenti alla tradizione della mitologia greca:
Ati e Licabas, il dio Apollo con Giacinto e Ciparisso. Habinek fa infine notare
che il significato di rottura presentato da OVIDIO (si veda) nella
categorizzazione delle preferenze sessuali
stata oscurata nella storia della sessualit umana dal concetto di
eterosessualit (considerata normale e innata) sopravvenuto nella pi tarda
cultura occidentale. Nella letteratura del primo periodo dell'impero romanoun
posto privilegiato spetta al Satyricon di Petronio Arbitro; la narrazione talmente permeata da riferimenti al
comportamento omosessuale che nei circoli letterari europei il nome dell'opera
fin col divenirne un sinonimo. Anche il poeta e autore di epigrammi Marco
Valerio Marziale spesso deride le donne come uniche partner sessuali preferendo
di gran lunga i bei ragazzi-pueri. Atti sessuali Modifica Oltre al sesso anale,
che viene frequentemente descritto sia nell'arte figurativa sia in quella
letteraria, era comune anche il sesso orale. Uno dei graffiti di Pompei in questo caso inequivocabile: "Secundus
felator rarus" ("Secundus un
fellatore di rara abilit. A differenza che nell'antica Grecia, il pene di
grandi dimensioni era un importante elemento d'attrattiva; Petronio ne descrive
uno veduto in un bagno pubblico. Molti imperatori vengono raffigurati
circondati da uomini con grandi sessi. Il poeta Ausonio fa una battuta su un
trio sessuale maschile in cui "quello che sta nel mezzo compie il doppio
dovere. Il sostantivo astratto impudicitia (aggettivo impudicus) raffigura la
negazione assoluta della pudicitia (morale sessuale, castit); come
caratteristica dei maschi spesso implica la volont e il desiderio di essere
penetrati sessualmente[80]. Ballare era espressione, per un maschio, di
impudicitia (la danza era difatti caratteristica della prostituta e
dell'effeminato). L'impudicitia pu anche essere associata a comportamenti in
quegli uomini giovani che avevano conservato un certo grado di fascino da
ragazzini, ma che erano comunque abbastanza grandi da esser tenuti a
comportarsi secondo le ferree regole maschili e a sottostare alle sue
normative. GIULIO (si veda) Cesare
accusato di portare l'infamia su di s perch quando aveva circa 19 anni
assunse per un certo periodo di tempo il ruolo passivo in una relazione
pederastica con Nicomede re di Bitinia e in seguito anche per i molti
"affari sessuali" avuti con donne adultere. Lucio Anneo Seneca il
giovane (il tutore di Nerone) ha osservato che "l'impudicitia un crimine per colui che nato libero, una necessit in uno schiavo, un
dovere per il liberto. La pratica omosessuale a Roma afferma il potere del
cittadino sopra gli schiavi, confermandone al di sopra di ogni dubbio la
propria mascolinit. Ganimede rapito dall'aquila di Giove. Scultura romana copia
di un originale greco, esposta nel Palazzo Grimani a Venezia. Il termine
catamite, indicante per lo pi un giovane prostituto, una derivazione latina del nome
"Ganimede". Ruoli sessuali Un uomo o un ragazzo che assumeva il ruolo
passivo all'interno della relazione omosessuale poteva venir denominato in vari
modi, tra cui i pi comuni e frequenti erano cinaedus, pathicus, exoletus,
concubinus (prostituto), spintria (marchetta), puer(ragazzo), pullus (pulcino),
puso, delicatus(specialmente come puer delicatus-ragazzino squisito), mollis
(molle, utilizzata in genere come qualit estetica in contrapposizione alla
naturale aggressivit maschile), tener (tenero, in opposizione alla durezza
mascolina), debilis (debole), effeminatus(effeminato), discintus (discinto,
volgare come una prostituta) e morbosus (malato). Come si pu notare, il
significato del termine moderno gay (come anche di omosessuale) non contemplato in quest'elenco, in quanto nel
pensiero antico non v'era alcun'idea di identit sessuale: la persona era invece
definita solo dal ruolo svolto all'interno dell'atto sessuale (attivo=maschio;
passivo=femmina). Alcuni di questi termini, come exoletus, vengono a riferirsi
specificamente a un adulto: gli antichi romani, fra cui vigeva il valore sociale
contrassegnato come mascolinit, limitavano genericamente la penetrazione anale
ai prostituti maschi o agli schiavi di et inferiore a 20 anni (chiamati
ragazzi). Alcuni uomini pi anziani potevano a volte preferire il ruolo passivo;
Marco Valerio Marziale descrive ad esempio, nella sua solita maniera molto
schietta, il caso di un uomo che aveva assunto il ruolo passivo facendo
occupare al suo giovane schiavo quello attivo: Mentula cum doleat puero, tibi,
Naevole, culus Non sum divinus, sed scio quid facias. Epigrammi (Marziale) Il
desiderio di un maschio adulto di essere penetrato sessualmente veniva
considerato un morbus, una malattia; il desiderio di penetrare un bel ragazzo
era invece considerato del tutto normale. Cinaedus Cinedo una parola dispregiativa che denotava un
maschio con una identit di genere considerata deviante dalla norma, per la sua
scelta di determinati atti sessuali o per la preferenza di certi partner
sessuali; tali preferenze erano percepite come una carenza di virilit. Catullo
definisce cinedo (cio un effeminato senza attributi virili) il collega poeta
Marco Furio Bibaculo che si trova in compagnia d'un suo amico, nel famoso Carme
osceno numero 16, in cui afferma senza tanti giri di parole che "pedicabo
ego vos et irrumabo" (io ve lo metto prima nel didietro e poi direttamente
in bocca). Anche se in alcuni contesti il cinedo pu denotare l'omosessuale
passivo, ed il termine pi frequentemente
usato per indicare un maschio che si
lasciato penetrare analmente[89], un uomo chiamato cinedo poteva bens,
in certi determinati casi, anzi esser considerato molto attraente e
desiderabile per le donne (non necessariamente quindi equivale al termine dispregiativo
inglese faggot o agli italiani frocio-checca, tranne per il fatto che tutti
questi termini vengono usati per deridere e insultare un uomo considerato
carente di virilit): con caratteristiche cos ambiguamente androgine che le
donne possono trovare sessualmente anche molto eccitanti). L'abbigliamento,
l'uso di cosmetici e i manierismi (atteggiamenti, movimenti, modi di parlare)
di un cinedo lo contrassegnavano inequivocabilmente come un effeminato: ma la
stessa effeminatezza che gli uomini romani potrebbero trovare allettante in un
puer, diventa assolutamente poco attraente nel maschio adulto e anziano. I
cinaedus rappresentano quindi l'assenza generalizzata fatta persona di quello
che i Romani consideravano un vero uomo, e la parola rimane di fatto
intraducibile nelle lingue moderne. In origine un cinaedus (parola derivante
dal Greco Kinaidos) era un ballerino professionista generalmente poco pi che
adolescente, di origini persiane o comunque orientali, la cui performance era
caratterizzata da una danza accompagnata dal suono di tamburelli e timpani e da
movimenti ancheggianti del sedere che mimavano il rapporto anale. Alcuni uomini
romani tenevano un concubinus (concubina maschio) in casa fino a quando non si
sposavano con una donna: Eva Cantarella ha descritto questa forma di
concubinato come "una relazione sessuale stabile, non esclusiva ma
privilegiata. All'interno della gerarchia degli schiavi domestici, il
concubinus sembra essere stato considerato in possesso di uno status speciale o
comunque abbastanza elevato, e che veniva minacciato con l'arrivo di una
moglie. In uno dei suoi inni nuziali (Ephitalamium) Catullo il concubinus dello
sposo si ritrova ansioso per il suo futuro e con la paura d'esser abbandonato:
i suoi lunghi capelli saranno tagliati e dovr d'ora in poi ricorrere alle
schiave per la sua gratificazione sessuale, il che indica ch'egli prevedeva di
dover presto cambiare ruolo sessuale da passivo ad attivo. Al concubino poteva
poi anche capitare di intrattenere relazioni sessuali con le donne della casa,
diventando magari anche padre di qualche bambino, questo almeno a seguire le invettive
di Marziale (Epigrammi. I sentimenti e la situazione del concubino sono
trattati nella citata poesia matrimoniale di Catullo e occupano 5 strofe: egli
svolge un ruolo attivo durante la cerimonia, distribuendo le noci tradizionali
che poi i ragazzi dovevano lanciare in segno di buon augurio (un po' come il
riso nella tradizione occidentale moderna). Il rapporto di un cittadino romano
col proprio concubino poteva essere sia discretamente tenuto nell'ombra sia
manifestato in modo pi aperto: i concubini maschi a volte partecipavano anche
alle cene (convivium) indette dal padrone di casa e rappresentar ufficialmente
la parte di compagno, un ruolo particolarmente ambito e pregiato. Marziale
sembra anche suggerire che il concubino del padrone di casa poteva esser
ereditato dal figlio alla morte de padre. Un ufficiale poteva anche essere
accompagnato durante le campagne militari dal proprio concubino. Come il
catamite e il puer delicatus (vedi sotto) il ruolo del concubino stato regolamentato ispirandosi al mito greco
di Ganimede (il cui nome in latino diventa Catamitus), il principe adolescente
troiano rapito da Zeus affinch lo servisse sull'Olimpo come coppiere. La
concubina femminile, che poteva anche essere una donna libera, manteneva uno
status legale tutalato dal diritto romano, ma i concubinus no dal momento che
erano tipicamente degli schiavi, Pathicus
una parola un po' soft per indicare l'uomo che stato penetrato sessualmente; deriva
dall'aggettivo greco phatikos (verbo paskhein) ed equivalente al latino
patior-pati-passus (subire, sottomettersi, sopportare e soffrire): il termine
passivo deriva proprio dal latino passus. Pathicus e cinaedus non sono spesso
cos distinti nell'uso che ne fanno gli scrittori latini, ma cinedo pu essere
indicativamente il termine pi generale per indicare un maschio non conforme al
suo ruolo di vir - vero uomo; mentre pathicus denota precisamente un maschio
adulto che ha assunto il ruolo passivo da donna all'interno di un rapporto, che
desidera essere usato cos. Nella cultura romana sodomizzare un altro maschio
adulto esprime quasi sempre disprezzo e desiderio d'umiliazione; il pathicus pu
essere interpretato allora, ancor pi che come omosessuale passivo, come un
masochista a cui piace farsi umiliare (da un uomo o da una donna
indifferentemente): potrebbe anche esser penetrato da una donna tramite un
dildo o essere costretto a eseguire cunnilingus, senza dimostrare alcun
desiderio di assumere un ruolo attivo o alcuna eccitazione sessuale. Con la
parola puer s'indicava sia un ruolo nell'ambito sessuale sia uno specifico
gruppo d'et, Sia puer sia il suo equivalente femminile puella-ragazza possono
riferirsi al partner sessuale di un uomo. Il cittadino romano nato libero
all'et di 14 anni assumeva la toga virile e questo era il primo rito di
passaggio oltre l'infanzia, ma doveva attendere poi fino a 17-18 anni prima di
poter cominciare a prender parte attivamente alla vita pubblica. Uno schiavo,
che non veniva mai considerato un vir, un uomo vero, sarebbe stato chiamato
puer, ragazzo, per tutta la vita. I pueri venivano utilizzati come alternativa
sessuale alle donne, cosa che non si poteva assolutamente fare con gli
adolescenti maschi nati liberi: accusare un uomo romano d'essere un puer era un
insulto contro la sua virilit, soprattutto in campo politico. Un cinedo
anziano, un omosessuale passivo potevano anche voler presentare s stessi come
puer. Il puer delicatus era uno "squisito" schiavo giovanissimo,
scelto dal padrone per la sua bellezza come giovane amante, citato anche al
plurale come deliciaem 'dolcetti' o 'delizie', A differenza dell'eromenos
greco, che era protetto dal costume sociale, il romano delicatus rimaneva
sempre invece, sia fisicamente sia moralmente, inferiore rispetto all'adulto
che ne disponeva. La relazione spesso coercitiva, di sfruttamento e non certo
alla pari, tra il padre di famiglia e il delicatus (il quale poteva benissimo
anche essere un minore di 12 anni), pu essere definita come pedofila a
differenza della pederastia greca. Il ragazzino, appena compiuti 13 anni,
veniva a volte castrato nel tentativo di preservare intatti nel tempo i suoi
caratteri giovanili: l'imperatore Nerone fece questo nei confronti del suo puer
Sporo, che fece evirare per poterlo poi sposare. Vari pueri delicati sono stati
idealizzati nella poesia latina: nelle Elegie erotiche di Tibullo il delicatus
di nome Marathus indossa abiti sontuosi e molto costosi. La bellezza che doveva
caratterizzare il delicatus stata
misurata mediante le norme e misure apollinee, soprattutto per quanto
riguardava i lunghi capelli i quali avrebbero dovuto sempre essere ondulati e
profumati. Il tipo mitologico per eccellenza del delicatus era rappresentato da
Ganimede, il principino troiano rapito da Zeus per diventare il proprio
compagno divino nonch coppiere alla corte olimpica. Nel Satyricon, il ricco
liberto Trimalcione parla del puer delicatuscome di un bambino-schiavo al
servizio sia del padrone sia della padrona di casa. Il termine pullus indica
genericamente un piccolo animaletto e in particolare il pulcino: una parola affettuosa usata tradizionalmente
per un ragazzo-puer che era stato amato da qualcuno in senso osceno. Il
lessicografo Sesto Pompeo Festo ne fornisce la definizione illustrandola con un
aneddoto comico: Quinto Fabio Massimo Eburno, console e censore molto noto per il suo rigore morale, tanto da
guadagnarsi il soprannome (Cognomen) di Eburno che significa avorio
(l'equivalente moderno pi simile potrebbe essere anche porcellana); questo a
causa del suo candido e avvenente aspetto. Si diceva fosse stato colpito tempo
addietro da un fulmineproprio sulle natiche (riferimento a una voglia che aveva
sul sedere. Si scherz quindi sul fatto che fosse stato contrassegnato da Zeus
signore dei fulmini che s'era accorto della sua bellezza tanto da farne il
proprio pullus/pulcino pensando anche al rapporto esistente tra il re degli Dei
col giovanissimo coppiere catamite Ganimede. Anche se l'inviolabilit sessuale
dei cittadini maschi minorenni era di solito molto ben sottolineata,
quest'aneddoto una prova che anche i
giovani romani di buona famiglia avrebbero potuto passare attraverso una fase
in cui potevano esser veduti come oggetti sessuali. Forse colpito dal destino,
questo stesso membro della illustre Gens Fabia ha dovuto concludere la sua vita
in esilio come punizione per aver ucciso suo figlio dopo averlo incolpato di
impudicitia[130]. Nel IV secolo il poeta Ausonio registra la parola pullipremo
e dice che per primo tale termine stato
utilizzato dal poeta satirico Lucilio. Etimologicamente relazionato a puer,
anche pusio significa ragazzetto; spesso aveva una connotazione spiccatamente
sessuale e umiliante. Giovenale indica che il pusio era desiderabile in quanto
pi compiacente e al contempo meno impegnativo di quanto fosse una donna. Scultimidonus
Questo un relativamente raro termine
gergale tra i pi volgari (equivalente a pezzo di m. o buco di c.) che appare in
uno dei frammenti di Lucilio e glossato come: "coloro che elargiscono
gratuitamente il proprio orifizio anale-scultima" (cio la parte corporea
pi intima di s, come fosse la parte interna di una prostituta/scortorum intima.
Iolao assieme all'eroe e amante Ercole. Mosaico dalla Fontana del Ninfeo di
Anzio, Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo alle Terme, Roma. Sottoculture
Il mondo e la cultura latina hanno avuto una tale ricchezza di parole per
indicare gli uomini al di fuori della norma maschile-vir, che alcuni studiosi
sostengono l'esistenza di una vera e propria sottocultura di tipo omosessuale a
Roma. Plauto menziona una strada che era conosciuta come luogo d'incontro con
giovani che praticavano la prostituzione maschile, e anche i bagni pubblici
sono indicati come uno dei luoghi pi usuali quando si voleva andar in cerca di
partner sessuali maschi: Giovenale indica il grattarsi la testa con l'indice
come segno di riconoscimento reciproco (nella II delle sue Satire). Apuleio
dice che i cinaedi formavano una vera e propria alleanza sociale allo scopo di
realizzar il piacere generale, soprattutto organizzando banchetti e feste: nelle
Metamorfosi (Auleio) (o Asino d'oro) descrive un gruppo che ha acquistato e
condiviso un concubinus; mentre in un'altra occasione hanno invitato un giovane
molto ben dotato (rusticanus iuvenis) alternandosi subito dopo nel sesso orale
su di lui, Altri studiosi, soprattutto quelli che sostengono il punto di vista
del costruttivismo socio-culturale, sostengono invece che non vi mai stato un gruppo sociale identificabile di
maschi che si sarebbero auto-identificati come appartenenti a una qualche
"comunit omosessuale. Matrimonio omosessuale Liceat modo vivere; fient,
fient ista palam, cupient et in acta referri, Giovenale, Satira. Anche se, in
generale, i romani consideravano il matrimonio come unione eterosessuale al
fine di generare figli, durante il periodo imperiale si sono verificati episodi
in cui coppie maschili hanno celebrato il rito tradizionale del matrimonio
romano in presenza di amici; queste forme di matrimonio tra persone dello
stesso sesso sono riportati da fonti che ne deridono gli intenti, mentre non
vengono registrati i sentimenti dei partecipanti. Il primo riferimento nella
letteratura latina di un matrimonio avvenuto tra uomini si trova nelle
Filippiche di CICERONE (si veda), il quale si trova a insultare MARCANTONIO (si
veda) per essere stato in giovent "la sgualdrina" di Gaio Scribonio
Curione e aver "stabilito con lui un matrimonio vero e proprio
(matrimonium), come se avesse indossato una stola(l'abito tradizionale di una
donna sposata) da matrona. Anche se le implicazioni sessuali a cui vuole
alludere Cicerone sono chiare, il punto fondamentale del passaggio oratoriale
del filosofo stoico latino quello di gettare discredito su Antonio indicandolo
nel ruolo di sottomesso all'interno del rapporto omosessuale, mettendo cos in
tal maniera in dubbio la sua virilit di cittadino; non vi alcun motivo di pensare che siano stati
effettivamente eseguiti riti matrimoniali ufficiali. Sia Marziale sia Giovenale
- nelle sue Satire - si riferiscono al matrimonio tra uomini come a un fatto
che non accade di rado, cio come qualcosa di usuale e diffuso, abbastanza
ricorrente all'interno della societ dell'epoca, anche se poi i due autori
citati si ritrovano a disapprovarlo. Il diritto romano non ha mai ufficialmente
riconosciuto il matrimonio tra uomini, ma uno dei motivi principali di
disapprovazione espressi nella satira datata alla prima met del II secolo che continuare a celebrarne i riti avrebbe
anche potuto condurre a un'aspettativa di registrazione ufficiale per tali
unioni. Giovenale si scaglia contro la diffusione dei rapporti omosessuali,
identificati dal poeta con l'effeminatezzae il vizio in generale; passa a
descrivere coloro che mascherano i propri vizi sotto il mantello della
filosofia greca: i pervertiti si vestono effeminatamente in pubblico, vi poi chi difende la sua causa in vesti
trasparenti, chi giunge fino al punto di sposare un qualche "suonatore di
corno"... ma peggio ancora sono coloro che partecipano ai misteri della
Bona Deavestiti e truccati come fossero delle donne (satira). Busto di Nerone.
Nerone Varie fonti antiche (tra cui Svetonio, Tacito, Dione Cassio, e Aurelio
Vittore) affermano che l'imperatore romano del I secolo Nerone abbia celebrato
ben due matrimoni pubblici con degli uomini, una volta assumendo per s il ruolo
della moglie (questo accadde col liberto chiamato Pitagora), un'altra volta
invece prendendo il ruolo del marito (con l'eunucoSporo); vi sono poi indizi su
un terzo caso in cui sembra aver avuto ancora la parte della moglie. Le
cerimonie neroniane includevano elementi tradizionali come la dote e
l'indossare il velo da sposa romana. Anche se le fonti al riguardo si trovano a
essere nella loro generalit pregiudizialmente ostili, lo stesso Dione Cassio fa
implicitamente notare che gli atti pubblici e politici di Nerone venivano
considerati molto pi scandalosi dei suoi matrimoni con degli uomini. Sporo
rimase accanto a Nerone fino all'ultimo giorno, e si tramanda che fu presente
anche alla sua morte (Vita di Nerone), e, addirittura, secondo Sesto Aurelio
Vittore (Epitome de Caesaribus), sarebbe colui che resse il gladio con cui egli
si dava la morte. Un ruolo di rilievo al suo personaggio compare viene dato
anche in varie opere teatrali che descrivono tale evento (ad esempio Martello).
Alcuni studiosi considerano quella effettuata su Sporo come la prima operazione
di cambiamento di sesso storicamente descritta. Profilo dell'imperatore
Eliogabalo. EliogabaloModifica Agli inizi del III secolo il giovanissimo
imperatore di origini siriache Eliogabalo
indicato per esser stato la sposa in un matrimonio che ha voluto
celebrare col suo partner maschile; ma anche molti altri uomini maturi della
sua corte sembra avessero dei mariti ufficiali, facendo per lo pi notare che ci
era fatto a imitazione dei matrimoni imperiali. L'orientamento sessuale di
Eliogabalo e la sua identit di genere sono stati origine di controversie e
dibattiti; va notato, per, che in Eliogabalo l'aspetto religioso e quello
sessuale erano profondamente intrecciati, come normale nella cultura orientale,
ma la societ romana non comprese questo aspetto a essa alieno e dunque consider
stravaganti e scandalose le pratiche sessuali del proprio imperatore, tra cui
le orge, i rapporti omosessuali e transessuali, la prostituzione, all'interno
delle quali va intesa la ricerca - nella figura dell'androgino - del desiderio
di castrazione. Stando a quanto ne dice il membro del senato romanoe storico
contemporaneo Cassio Dione Cocceiano, la sua relazione pi stabile sarebbe stata
quella con un auriga, uno schiavo biondo proveniente dalla Caria di nome
Ierocle, al quale l'imperatore si riferiva chiamandolo suo marito. La Historia
Augusta, scritta un secolo dopo i fatti, afferma che spos anche un uomo di nome
Zotico, un atleta di Smirne, con una cerimonia pubblica svoltasi nella
capitale. Cassio Dione scrisse inoltre che Eliogabalo si dipingeva le palpebre,
si depilava e indossava parrucche prima di darsi alla prostituzione nelle
taverne e nei bordelli di Roma, e persino all'interno del palazzo imperiale:
Infine, riserv una stanza nel palazzo e l commetteva le sue indecenze,
standosene sempre nudo sulla porta della camera, come fanno le prostitute, e
scuotendo le tende che pendevano da anelli d'oro, mentre con voce dolce e
melliflua sollecitava i passanti. (Cassio Dione Cocceiano, Storia romana,
lxxx.13) Erodiano commenta che Eliogabalo sciup il suo bell'aspetto naturale
facendo uso di troppo trucco. Venne spesso descritto mentre si deliziava di
essere chiamato l'amante, la moglie, la regina di Ierocle, e si narra che abbia
offerto met dell'Impero romano al medico che potesse dotarlo di genitali
femminili. Di conseguenza, Eliogabalo
stato spesso descritto dagli scrittori moderni come transgender, molto
probabilmente transessuale. Proibizioni legali chiare e nette contrarie al
matrimonio omosessuale cominciarono ad apparire durante il IV secolo, via via
che la popolazione dell'impero romanostava sempre pi convertendosi al
cristianesimo. Sileno ed Eros abbracciati. Bassorilievo in terracotta degli
inizi del I secolo. Lo stupro omosessuale Il diritto romano ha affrontato la
questione relativa allo stupro di un cittadino di sesso maschile, quando venne
emessa una sentenza all'interno di una causa che potrebbe aver coinvolto un
maschio di orientamento omosessuale.
stato stabilito che anche un uomo "disdicevole e discutibile"
(infamis e suspiciosus) aveva lo stesso diritto appartenente a tutti gli altri
uomini liberi che il proprio corpo non fosse sottoposto al sesso forzato. Nella
Lex Julia de vi publica, risalente al tempo del dittatore romano Gaio GIULIO
(si veda) Cesare lo stupro viene definito come un forzare al rapporto sessuale
un ragazzo o una donna e lo stupratore
oggetto di esecuzione capitale, una sanzione abbastanza rara nel diritto
romano. Gli uomini che erano stati stuprati venivano esentati dalla perdita
dello status giuridico e sociale subita da coloro che concedevano
volontariamente il proprio corpo per dare piacere agli altri (soprattutto
attraverso il sesso anale e la fellatio); un giovane che si dedicava alla
prostituzione maschile o che comunque intratteneva sessualmente altri
uomini sottoposto a infamia e pertanto
escluso dalle protezioni legali di regola concesse ed estese a tutti gli altri
cittadini. Considerata come una questione di diritto, uno schiavo o una schiava
non avrebbero potuto essere violentati, ma in quanto oggetto di propriet e non
in quanto persone il proprietario dello schiavo poteva tuttavia perseguire il
violentatore per danni alla propriet. Il timore di stupri di massa a seguito di
una sconfitta militare si estendeva anche a tutte le potenziali vittime di
sesso maschile (in primis i bambini) oltre che alle donne. Secondo il giurista
Pomponio qualunque cosa l'uomo abbia subito (compresa la violenza sessuale a
causa della forza soverchiante dei ladri o da parte del nemico in tempo di
guerra), una cosa che si deve sopportare
senza alcuna stigmatizzazione. La minaccia di un uomo di sottoporne un altro
alla pedicatio (rapporto anale) o irrumatio (rapporto orale) un tema assai frequente delle invettive poetiche,
particolarmente famosa quella espressa da Catullo nel suo "Carmen ed stata anche una forma comune di millanteria
maschile; lo stupro stato inoltre una
delle punizioni tradizionali inflitte su un uomo adultero da parte del marito
offeso, anche se forse pi come fantasia di vendetta che effettivamente
realizzato nella pratica[166]. In una raccolta di dodici aneddoti che si
occupano di "assalti subiti dalla castit" lo storico Valerio
Massimodispone le vittime di sesso maschile a parit di numero se confrontate
con le donne. In un caso di processo farsa (esempio processuale) descritto da
Seneca il Vecchio, un adulescens (un giovane che non ha ancora formalmente
incominciato la propria vita da adulto) viene violentato da dieci suoi
coetanei; anche se il caso ipotetico
Seneca qui presuppone che la legge contempli la possibilit effettiva di un tal
accadimento. Un'altra ipotesi immagina un caso estremo in cui la vittima di
stupro venga indotta al suicidio; qui il maschio nato libero (appartenente agli
ingenui) che ha subito violenza si uccide: i romani consideravano lo stupro su
un ingenuus come uno tra i peggiori crimini che potevano essere commessi,
assieme col parricidio, la violenza su una ragazza ancora in condizione di
verginit e il furto all'interno di un tempio romano. Relazioni omoerotiche
nelle forze armate Lo stesso argomento in dettaglio: Omosessualit militare
nell'antica Grecia. Il soldato romano, come ogni altro cittadino maschio libero
e rispettoso dello Stato, avrebbe dovuto mostrare autodisciplina anche in
materia sessuale. Augusto aveva vietato ai militari di sposarsi e questa
proibizione rimasta in vigore per
l'esercito romano imperiale per quasi due secoli; le forme di gratificazione
sessuale a disposizione dei soldati rimanevano quindi la prostituzione e
l'utilizzo di persone ridotte in schiavit, lo stupro di guerra e le relazioni
tra persone dello stesso sesso. Il Bellum Hispaniense, narrante gli eventi
della guerra civile romana nella Spagna romana, cita un ufficiale che tiene con
s un concubinus/prostituto durante tutta la campagna militare. Il sesso tra
commilitoni tuttavia violava il decoro romano, contrario a ogni tipo di
rapporto sessuale tra cittadini liberi; di primaria importanza per un soldato
era mantenere intatta la propria virilit (da vir, la sua condizione di uomo)
non permettendo mai quindi che il suo corpo potesse venir utilizzato da altri
per soddisfare scopi sessuali. In guerra lo stupro simboleggiava la sconfitta,
un motivo che rendeva il corpo del soldato costantemente vulnerabile
sessualmente. Durante il periodo della repubblica romana gli atti omosessuali
tra commilitoni erano soggetti a sanzioni severe, che potevano comprendere
anche la condanna capitale, in quanto violazione della disciplina militare;
Polibio riferisce che la punizione per un soldato che volontariamente avesse
acconsentito a essere sottomesso sessualmente, quindi sottoposto a
penetrazione, era il fustuarium(ossia la bastonatura a morte). Gli storici
romani registrano racconti cautelativi di ufficiali che abusano del loro potere
per costringere i propri sottoposti a compiere atti sessuali e quindi a subire
conseguenze disastrose. Agli ufficiali pi giovani, che ancora potevano
mantenere alcune delle caratteristiche attrattive adolescenziali favorite maggiormente
nelle relazioni tra maschi, era consigliato di rinforzare le proprie qualit
maschili e non usare profumi, n tagliarsi i peli alle narici e non radersi le
ascelle. Un episodio riferito da Plutarco nella sua biografia di Gaio Mario
illustra il dovere del soldato di mantenere la propria integrit sessuale
nonostante le pressioni che potevano provenire dai suoi superiori. Una bella e
giovane recluta di nome Trebonio ha subito molestie sessuali per un certo
periodo di tempo dal suo ufficiale superiore, che si trovava anche a essere il
nipote di Mario, Gaio Luscius. Una notte, dopo essersi nuovamente difeso, in
una delle numerose occasioni in cui era stato sottoposto alle attenzioni
indesiderate dell'uomo, Trebonio stato
convocato alla tenda di Luscius. Incapace di disobbedire al comando del suo
superiore, si trova cos a essere improvvisamente l'oggetto di una violenza
sessuale e, a questo punto, sfoderata la spada uccide Luscius. La condanna per
l'uccisione di un ufficiale tipicamente provocava l'esecuzione immediata.
Quando stato portato a processo, il
ragazzo stato per in grado di produrre
testimoni per dimostrare che aveva ripetutamente dovuto respingere Luscius, e
che "non aveva mai prostituito il suo corpo a nessuno, nonostante le
profferte di regali costosi". Marius non solo ha assolto Trebonio
dall'accusa di aver assassinato un suo parente, ma gli ha consegnato una corona
(vedi ricompense militari romane) per il coraggio dimostrato. Diana e Callisto,
di Jollain. Lesbismo Lo stesso argomento in dettaglio: Storia del lesbismo. I
riferimenti al sesso tra donne non sono frequenti nella letteratura latina
della repubblica romana e dell'inizio del principato (storia romana). Ovidio,
che uno dei massimi sostenitori d'uno
stile di vita generalmente rivolto all'amore per le donne, descrive e nota poi
con partecipazione la storia di Ifi (o Ifide, cresciuta e allevata come fosse
un maschio) che s'innamora di Iante e in seguito anche di Anassarete: si tratta
di uno dei pochissimi miti lesbici presenti nella tradizione classica. Scena di
sesso lesbico. Terme Suburbane (Pompei). In epoca imperiale successiva le fonti
riguardanti relazioni omosessuali tra donne divengono via via pi abbondanti, in
forma di ricette mediche, incantesimi e pozioni d'amore, tesi di astrologia e
interpretazione dei sogni. Un graffito rinvenuto nei muri di Pompei antica
esprime il desiderio di una donna nei confronti di un'altra: "vorrei poter
tenerla stretta al collo, abbracciandola ed accoglier tutti i suoi baci sulle
mie labbra. Parole di lingua greca indicanti una donna che preferisce la
compagnia intima di un'altra donna includono hetairistria (in parallelo a
hetaira-compagna (l'etera o cortigiana), tribas (tribade, da cui deriva
tribadismo) e lesbia (dall'isola di Lesbo patria della poetessa Saffo). Alcuni
termini della lingua latina sono tribas (per prestito linguistico,
fricatrix-colei che strofina o sfrega (i propri genitali su quelli di un'altra)
e virago (da vir-uomo, quindi una donna-maschio). Saffo e le sue amiche a
Lesbo, dipinto erotico di douard-Henri Avril. Un primo riferimento ai rapporti
omosessuali tra donne definito come lesbismo si trova nello scrittore greco del
II secolo Luciano di Samosata: "dicono che ci sono donne come quelle di
Lesbo, di aspetto maschile e che si prendono come consorti altre donne, proprio
come se fossero uomini. Dato che il modo di pensare romano nei riguardi del
rapporto sessuale era eminentemente fallocratico e richiedeva in ogni caso un
partner attivo dominante gli scrittori uomini immaginavano che nella sessualit
tra lesbiche una delle due donne avrebbe dovuto utilizzare un fallo finto
(dildo) oppure avere una clitoride eccezionalmente grande tanto da consentire
con essa la penetrazione sessuale; per entrambe sarebbe stata un'esperienza
piacevole proprio in quanto si verificava l'atto penetrante. Raramente
menzionati nelle fonti romane, oggetti a forma di fallo da utilizzare al posto
del reale penemaschile sono un popolare elemento di comicit nella letteratura
greca e nell'arte in genere, anche attraverso la tradizione del simbolismo
fallico; esiste invece una sola raffigurazione nota nell'arte romana di una
donna che penetra con questo sistema un'altra donna, mentre l'utilizzo di un
fallo artificiale da parte di donne pi
comune nella pittura vascolare greca. Marco Valerio Marziale descrive le
lesbiche come aventi appetiti sessuali fuor di misura che, prese da
quest'esagerazione di desiderio, potevano giungere a eseguire atti sessuali con
penetrazione su altre donne, ma anche su bambini; i ritratti imperiali di donne
che sodomizzano ragazzi, che bevono e mangiano come i maschi e che s'impegnano
in vigorosi regimi fisici, possono riflettere in parte le ansie culturali circa
la crescente indipendenza delle donne romane. Identit di genereModifica Mosaico
che mostra Ercole mentre porta un abbigliamento femminile ed in possesso di un gomitolo di lana (a
sinistra), mentre Onfaleindossa la pelle del Leone di Nemea. Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Temi transgender nell'antica
Grecia. Travestitismo e crossdressing Lo stesso argomento in dettaglio: Storia
del crossdressing. Il crossdressing appare nell'arte e nella letteratura latina
in vari modi per contrassegnare l'incertezza nell'identit di genere: come
invettiva politica, quando un uomo pubblico
accusato di indossare abiti eleganti e seducenti al modo degli
effeminati. come tropo mitologico, come nella storia di Ercole e Onfale che si
scambiano gli abiti e con essi anche i ruoli sessuali. come una forma di
investitura religiosa, ad esempio nel sacerdozio degli adoratori di Cibele.
molto raramente come feticismo di travestimento. Ulpiano categorizza
l'abbigliamento romano sulla base di coloro che possono pi opportunamente
indossarlo: l'abbigliamento virilia-da uomo e caratteristico dei
paterfamilias-i capi famiglia; puerilia
invece l'abbigliamento che marca chi lo indossa come bambino o minore;
muliebria sono i capi d'abbigliamento della materfamilias; communia quelli che
possono essere indossati da entrambi i sessi; infine i familiarica ovvero gli
abiti per i famigli, i subalterni e gli schiavi di una casa. Un uomo che
volesse indossare abiti adatti alle donne, osserva sempre Ulpiano, rischierebbe
di farsi oggetto di scherno: le prostitute erano le uniche donne a cui era
concesso d'indossare a piacere anche la togamaschile, essendo loro di fatto al
di fuori della categoria sociale e legale normativa indicante la donna. Un
frammento del commediografo Accio sembra riferirsi a un uomo che indossava
segretamente "fronzoli pi adatti a una vergine. Un esempio di
travestitismo riferito in una causa
legale, in cui "un certo senatore era abituato a indossare di sera vestiti
da donna. In una delle lezioni di diritto lasciateci da Seneca un
giovane-adulescens viene violentato mente indossava abiti da donna in pubblico,
ma il suo abbigliamento spiegato come
atto di sfida compiuto davanti agli amici, non come una scelta basata sulla
ricerca del piacere erotico. L'ambiguit di genere era una caratteristica dei
sacerdoti della Dea Frigia Cibele: conosciuti come Galli, il loro guardaroba
rituale comprendeva capi di abbigliamento femminile. Essi sono a volte
considerati come un'autentica casta sacerdotale transgender o transessuale:
durante la celebrazione pi importante in onore della Dea, a imitazione di Attis
si auto-eviravano presi da smania e follia sacra. La complessit della religione
e del mito di Cibele e Attis viene esplorata in una delle poesie pi lunghe di
Catullo. L'Ermafrodito dormiente, conservato al museo del Louvre.
Ermafroditismo e androginia Il termine ermafroditismo viene riferito a una
persona nata con caratteristiche fisiche di entrambi i sessi (vedi
intersessualit); nell'antichit la figura dell'ermafrodita era una delle
questioni primarie riguardanti l'identit di genere. Plinio il Vecchioosserva
nella sua Naturalis historia che "ci sono anche coloro che sono nati con
entrambi i sessi, sono quelli che noi chiamiamo ermafroditi, un tempo detti
androgini" (dal Greco Andr-uomo + Gyn-donna; un uomo che anche una donna quindi). Lo storico Diodoro
Siculo del I secolo a.C. scrisse che "alcuni dichiarano che il nascere di
creature di questo tipo sia un evento meraviglioso (teratogenesi) in quanto,
essendo un fatto molto raro, sia annunziatore del futuro, a volte con profezie
benevole e altre con previsioni pi malevoli. Isidoro di Siviglia descrive in
maniera abbastanza fantasiosa un ermafrodito come colui "che ha il seno
destro di un uomo e quello sinistro di una donna e dopo l'atto sessuale possono
diventare sia il padre sia la madre dei loro eventuali figli. Secondo il
diritto romano un ermafrodito doveva essere classificato o come maschio o come
femmina, non esistendo una terza possibilit all'interno della categorizzazione
giuridica: l'ermafrodito rappresenta cos una "violazione dei confini
sociali, in particolare di quelli fondamentali per la vita quotidiana, come
l'essere maschio o l'essere femmina. Nella religione romana tradizionale la
nascita di un ermafrodito rientrava nell'ambito del prodigium, un evento cio
che segna un'interruzione nella pace tra Dei e umani; ma Plutarco osserva anche
che mentre una volta erano considerati dei presagi divini, ora gli ermafroditi
erano diventati oggetto di piacere-deliciae e venivano ampiamente contrattati e
venduti al mercato degli schiavi. Ermafrodito in un dipinto murale di Ercolano
(prima met del I secolo). Nella tradizione mitologica classica Ermafrodito era
un ragazzino molto avvenente e grazioso figlio di Mercurio e Venere. OVIDIO (si
veda) ne ha scrive in dettaglio il racconto pi famoso e influente, nelle sue
Metamorfosi sottolineando che, anche se il bel giovane nel pieno della sua bellezza e attrattiva
adolescenziale, respinse l'amore che gli veniva offerto esattamente come gi
aveva fatto Narciso. La ninfa Salmace che lo aveva scorto lo desider
immediatamente: rifiutata lei finse di ritirarsi ma poi, appena il ragazzo
cominci a spogliarsi per poter fare il bagno nel fiume, si slanci su di lui
abbracciandolo stretto e nel contempo pregando gli Dei di non essere mai
separati. Gli spiriti benevoli accolsero la sua richiesta supplicante e cos i
due corpi, quello del ragazzo e quello della ninfa, si fusero in uno dando
luogo a un essere fisicamente bisessuato. Come risultato tutti gli uomini che
andavano a bere dalle acque di quella sorgente avrebbero sentito sempre pi
crescere dentro s caratteri da effeminatoe il morbo dell'impudicitia. Il mito
di Ila, il giovane compagno e amante maschio di Ercole che venne rapito da una
ninfa delle acque (Lympha), condivide con Ermafrodito e Narciso il tema dei
pericoli che si affacciano sul maschio adolescente nell'et della transizione
che lo dovrebbe portare alla riconosciuta virilit adulta, e che invece ha esiti
differenti per ognuno. Raffigurazioni di Ermafrodito erano molto popolari tra i
romani: "Rappresentazioni artistiche di Ermafrodito portano in primo piano
le ambiguit concernenti le differenze sessuali costitutive di uomini e donne,
nonch l'intima ambiguit esistente in tutti gli atti sessuali... Gli artisti
trattano sempre Ermafrodito in qualit di spettatore di s stesso, che scopre
improvvisamente la sua pi autentica identit sessuale... La figura di
Ermafrodito una rappresentazione
altamente sofisticata, invadendo i confini esistenti tra i due sessi che sembra
essere cos chiara nel pensiero classico. Macrobio descrive infine una forma
maschile della Dea Venere la quale aveva il suo culto principale nell'isola di
Cipro: dotata di barba e genitali femminili, indossava invece abiti femminili.
Gli adoratori di tale divinit travestita erano uomini vestiti da donna e donne
vestite da uomini. Il poeta latino LEVIO (si veda) parla dell'adorazione di una
Venere che non si sapeva bene se fosse maschio o femmina (sive femina sive
mas); questi stato talvolta chiamato
Afrodito e in diversi esemplari di scultura questi si tira su le vesti
rivelando d'avere genitali maschili, gesto tradizionalmente riconducibile a un
rito magico dal potere apotropaico. La transizione da paganesimo a
cristianesimoModifica Infine non va sottovalutato il fatto che, vero, nel tardo impero romano fu la condanna
cristiana a rendere l'omosessualit un reato (cio uno stuprum) sempre e
comunque; tuttavia la terminologia usata per giustificare la condanna non cristiana, ma
ripresa dalla filosofia greca e non dalla teologica ebraica. Il concetto
di "contro natura", per esempio, viene da Platone, non dalla Bibbia.
Per l'ebraismo, l'omosessualit non
contro natura, ma semmai impura, abominazione (to'ebah) Lo stesso
argomento in dettaglio: Omosessualit ed Ebraismo. Tuttavia innegabile che il cristianesimo e la morale
giudaica e testamentaria funzionarono da base e fulcro alle leggi che,
successivamente adottate dagli imperatori cristiani come Costante, Teodosio I e
Giustiniano, proibirono e punirono con la pena capitale il nuovo reato di
omosessualit. Teodosio era infatti fortemente influenzato dal vescovo di Milano
Sant'Ambrogio, tanto che quando promulg la legge che condannava gli atti
omosessuali passivi era sotto una penitenza assegnata dallo stesso Ambrogioin
un contesto in cui si stava svolgendo una lotta tra ariani e cattolici e in cui
gli "eunuchi", molto influenti nella corte imperiale, erano schierati
per la maggior parte con gli ariani affermando la natura umana di Ges, ed
esercitavano pressioni nei municipi contro i cristiani niceni, cio cattolici,
che sostenevano la duplice natura, divina e umana di Ges, figlio di Dio. Un
anno prima del decreto che puniva gli atti omosessuali, un decreto di Teodosio
tolse agli eunuchi neo-ariani il diritto di fare e ricevere testamento. Sotto
il dominio cristiano Nel Basso Impero il modo di concepire l'omosessualit
cambia via via in modo sempre pi restrittivo, fino ad arrivare al codice
Teodosiano che, recependo due leggi precedenti, reprimeva l'omosessualit
passiva e l'effeminatezza con la pena capitale o la mutilazione, mentre con
Giustiniano ogni manifestazione di omosessualit, anche attiva, fu bandita perch
in ogni caso offendeva Dio, con riordino del sistema della persecuzione
criminale e con pena di morte per infanda libido, formulando anche un giudizio
morale ("infanda" = letteralmente che non pu esser detta,
innominabile). Le cause di questo cambiamento legislativo, di irrigidimento e
intolleranza sempre pi crescente verso l'omosessualit sono ancora oggi
dibattute da alcuni storici e studiosi. Indubbiamente un ruolo importante fu
svolto dalla morale cristiana e dal passaggio del Cristianesimo da religione
segreta e proibita a religione di Stato, unica ammessa in tutto l'Impero. La
morale cristiana infatti, a differenza di quella pagana greco-romana, considerava
comunque peccato l'atto omosessuale, di l dal ruolo svolto, contrapponendo,
alla visione maschilista tipica della societ romana sul sesso, una visione pi
ascetica e distaccata in cui il sesso era sempre considerato un peccato e un
atto impuro, al di fuori della finalit di unione nella complementarit sessuale
evocata in Genesi e della apertura alla procreazione, e quindi dividendo le
pratiche sessuali in lecite (rapporto tra uomo-donna atto alla riproduzione,
sacralizzato a Dio tramite il matrimonio) e in illecite (tutto il resto, cio
gli atti sessuali non atti alla riproduzione, tra cui anche l'omosessualit
attiva e passiva, oltre che la masturbazione). Alcuni studiosi tuttavia
ritengono che l'irrigidimento fosse stato coadiuvato, senza niente togliere
alla morale cristiana sempre pi dominante, anche a un certo puritanesimo pagano
sempre pi crescente di fronte alla decadenza dei costumi tipica del Tardo
Impero. Apollo tra gli amati Giacinto (mitologia) e Ciparisso, del pittore
Ivanov. Scultura di Bissen che ritrae Ila, bellissimo giovinetto amato da
Ercole. Uno dei tanti busti dedicati dADRIANO (si veda) ad Antinoo. Rapporto
sessuale tra Antinoo e l'imperatore Adriano in uno dei tanti dipinti erotici di
douard-Henri Avril. Corteo trionfale del dio Bacco. Mosaico del II secolo.
Busto romano di ragazzo (forse Polydeukes amato da Erode Attico), conservato
all'Ermitage di San Pietroburgo Craig Williams, Roman Homosexuality (Oxford,
citando Saara Lilja, Homosexuality in Republican and Augustan Rome (Societas
Scientiarum Fennica, Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico, Williams, Roman
Homosexuality (Oxford Williams, Roman Homosexuality, passim; Elizabeth Manwell,
"Gender and Masculinity," in A Companion to Catullus (Blackwell,
Habinek, "The Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in
The Roman Cultural Revolution (Cambridge McGinn, Prostitution, Sexuality and
the Law in Ancient Rome (Oxford. Si
veda la dichiarazione conservata in Aulo Gellio sul fatto che vim in corpus
liberum non aecum adferri). Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo
antico-"Bisexuality in the Ancient World" (Yale, originariamente in
italiano), Fantham, "The Ambiguity of Virtus in Lucan's Civil War and
Statius' Thebiad," Arachnion; Bell, CICERONE (si veda) and the Spectacle
of Power," Journal of Roman Studies Ramage, Aspects of Propaganda in the
De bello gallico: GIULIO (si veda) CESAREs Virtues and Attributes, Athenaeum;
Myles Anthony McDonnell, Roman manliness: virtus and the Roman Republic,
Cambridge; Rhiannon Evans, Utopia Antiqua: Readings of the Golden Age and
Decline at Rome (Routledge, Lopez, "Before Your Very Eyes: Roman Imperial
Ideology, Gender Constructs and Paul's Inter-Nationalism," in Mapping
Gender in Ancient Religious Discourses (Brill, Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico, p. xi; Marilyn B.
Skinner, introduzione a Roman Sexualities (Princeton Langlands, Sexual Morality
in Ancient Rome (Cambridge Per un ulteriore approfondimento su come l'attivit
sessuale definisce il libero cittadino rispettabile dallo schiavo considerato
non-persona e quindi passibile di qualsiasi abuso, vedi anche la voce Sessualit
nell'antica Roma nella parte riguardante la relazione schiavo-padrone. ^ Amy
Richlin, The Garden of Priapus: Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford
Edwards, "Unspeakable Professions: Public Performance and Prostitution in
Ancient Rome," in Roman Sexualities, Richlin, "Sexuality in the Roman
Empire," in A Companion to the Roman Empire (Blackwell La legge ha
cominciato con l'indicare pene pi severe per le classi pi basse (humiliores)
rispetto all'elite (honestiores). ^ Questo
un tema esposto da Barton, The Sorrows of the Ancient Romans: The
Gladiator and the Monster (Princeton Liber (Catullo) Carmina Elegie (Tibullo)
Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico (Yale,
originariamente in italiano) Svetonio, Vita di Cesare; Carmina, Svetonio, Vita
di Cesare, (Vita di Augusto) Osgood, J. Caesar's Legacy: Civil War and the
Emergence of the Roman Empire, CUP, in books.google. com Plutarco, penelope.
uchicago. edu/Thayer/E/ Roman/Texts/ Plutarch/Lives/Antony Vite parallele:
Antonio] Fraquelli Omosessuali di destra Svetonio, Vite dei Cesari: Tiberio
Svetonio, Vite dei Cesari: Vitellio III. Cassio Dione,; Tacito, Agricola,
Cassio Dione, Pollione&source= bl&ots=ma--4gCTxi&sig=
BLfjJsIiqk0vwvEuu2 VA Qh45m2Q&hl=it &sa=X &ei= UQ2vVOTfHMf7
ygOVl4K4 CA&ved=0CCYQ6A EwAQ#v= onepage&q= Clodio%20 Pollione&
f=false ^ Silvae, Marziale Epigrammi (Marziale) NAr3Riy4EYMC &pg
=PA60&lpg= PA60&dq= Clodio+Pollione& source=bl&ots=
FTuncuSDtC&sig= Hwrnh0vVLuL C6digxZLfe KFhMyE&hl =it&sa=
X&ei=UQ2vVO TfHMf7 yg OVl4K4CA&ved= 0 CDAQ6AEw Aw#v=onepage &q=
Clodio%20 Pollion e&f=false M. Fraquelli Omosessuali di destra; Mambella,
Antinoo. L'ultimo mito dell'antichit nella storia e nell'arte, Ed. Nuovi
Autori, Milano Luciano di Samosata, Dialoghi e epigrammi IG Polydeukion, su
Aedicula Antinoi: A Small Shrine of Antinous. Lambert, Beloved and God: The Story of Hadrian and
Antinous, Luciano de Samosata, I dialoghi e gli epigrammi, Casini/I dioscuri,
Genova, Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in Roman Art
(University of California Press, Clarke, Looking at Lovemaking, Habinek, The
Invention of Sexuality in the World-City of Rome," in The Roman Cultural
Revolution, Williams, Roman Homosexuality, Richlin, "Pliny's
Brassiere," in Roman Sexualities, Fredrick, The Roman Gaze: Vision, Power,
and the Body (Johns Hopkins Zanker, The Power of Images in the Age of Augustus,
Michigan Pollini, "The Warren Cup: Homoerotic Love and Symposial Rhetoric
in Silver," Art Bulletin Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of
Sexuality in Roman Art, California, asserts that the Warren cup is valuable for
art history and as a document of Roman sexuality precisely because of its
"relatively secure date. Pollini,
"The Warren Cup, Pollini, "Warren Cup," Pollini, "Warren
Cup, Marabini Moevs, Per una storia del gusto: riconsiderazioni sul Calice
Warren, Ministero per i Beni e le Attivit Culturali Bollettino d'Arte
Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo antico, Courtney, The Fragmentary Latin Poets,
Oxford MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love," Historia Halperin,
"The First Homosexuality?" in The Sleep of Reason: Erotic Experience
and Sexual Ethics in Ancient Greece (Chicago, with criticism of MacMullen. Cantarella, Secondo natura. La bisessualit nel mondo
antico, p. xi; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, Cantarella, Secondo
natura. La bisessualit
nel mondo antico; Skinner, introduzione a Roman Sexualities, Vedi i Carmina
Pollini, "The Warren Cup: Homoerotic Love and Symposial Rhetoric in
Silver," Art Bulletin Richlin, "Not before Homosexuality: The
Materiality of the cinaedus and the Roman Law against Love between Men, Journal
of the History of Sexuality LUCREZIO (si veda), De rerum natura). Vedi anche Sessualit nell'antica Roma#Rapporti
omosessuali; Prima che sia peccato. L'omosessualit nella letteratura latina. A cura di
Manni, Williams, Roman Homosexuality VIRGILIO (si veda), Eneide, Petrini, The
Child and the Hero: Coming of Age in Catullus and Vergil (University of
Michigan, Winn, The Poetry of War (Cambridge Ecloga Tibullo, Elegie (Tibullo)-
Properzio OVIDIO (si veda), Ars Amatoria; Pollini, "Warren Cup,"
Metamorfosi (Ovidio) Habinek, "The Invention of Sexuality in the
World-City of Rome, Crompton, Byron and Greek Love (London, CIL; tr. from
Hubbard, Homosexuality, Petronius: Satyricon, Aelius Lampridius: Scripta
Historia Augusta, Commodus, Ausonius, Epigramma Green Kuefler, The Manly
Eunuch: Masculinity, Gender Ambiguity, and Christian Ideology in Late Antiquity
(University of Chicago RIchlin, "Not before Homosexuality," RIchlin,
The Garden of Priapus, Svetonio, Vita di Cesare; Richlin, "Not before
Homosexuality," Come citato da Cantarella, Bisexuality in the Ancient
World, Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, Richlin, "Not before
Homosexuality," Williams, Roman Homosexuality, Williams, Roman
Homosexuality, Williams, Roman Homosexuality, Williams, Roman Homosexuality,
Williams, Roman Homosexuality. Butrica, "Some Myths and Anomalies in the
Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and Love in Greco-Roman
Antiquity, confronta l'uso di cinaedus come "faggot" nella canzone dei
Dire Straits intitolata "Money for Nothing", in cui un cantante chiamato esplicitamente "that little
faggot with the earring and the make-up" e "gets his money for
nothing and his chicks for free. Williams, Roman Homosexuality, Williams, Roman
Homosexuality, Cantarella, Secondo natura. Bisesualit nel mondo antico,
Catullus, Carmen Butrica, "Some Myths and Anomalies in the Study of Roman
Sexuality," Richlin, "Not before Homosexuality; Ronnie Ancona,
"(Un)Constrained Male Desire: An Intertextual Reading of ORAZIO (si veda)
Odes and Catullus Poem 61," in Gendered Dynamics in Latin Love Poetry
(Hopkins, Petrini, The Child and the Hero: Coming of Age in Catullus and Vergil
(University of Michigan Williams, Roman Homosexuality: Martial: "quartus
cinaeda fronte, candido voltu / ex concubino natus est tibi Lygdo: / percide,
si vis, filium: nefas non est. Cantarella,
Bisexuality in the Ancient World; Robinson Ellis, A Commentary on Catullus
(Cambridge Petrini, The Child and the Hero, Quintiliano, Institutio oratoria,
disapprova la frequentazione sia di concubini sia di (amicae) di fronte ai
propri figli. Ramsey MacMullen,
"Roman Attitudes to Greek Love," Historia Williams, Roman
Homosexuality, citing Martial: tuoque tristis filius, velis nolis, cum
concubino nocte dormiet prima Caesarian Corpus, De Bello Hispaniensi;
MacMullen, "Roman Attitudes to Greek Love, They use the word Catamitus for
Ganymede, who was the concubinus of Jove," according to the lexicographer
Festus (as cited by Williams, Roman Homosexuality, Butrica, "Some Myths
and Anomalies in the Study of Roman Sexuality," in Same-Sex Desire and
Love in Greco-Roman Antiquity, Parker, "The Teratogenic Grid," in
Roman Sexualities, p. 56; Williams, Roman Homosexuality. Parker, "The
Teratogenic Grid, citing Martial Richlin, "Not before Homosexuality,"
Williams, Roman Homosexuality, Richlin, "Not before Homosexuality,"
Richlin, "Not before Homosexuality; Williams, Roman Homosexuality,
Richlin, Not before Homosexuality, Fantham, "Stuprum: Public Attitudes and
Penalties for Sexual Offences in Republican Rome," in Roman Readings:
Roman Response to Greek Literature from Plautus to Statius and Quintilian
(Walter de Gruyter, Richlin, "Not before Homosexuality," Williams,
Roman Homosexuality, Manwell, "Gender and Masculinity, A Companion to
Catullus, Blackwell, Vioque, Manwell, "Gender and Masculinity,"
Verstraete and Vernon Provencal, introduction to Same-Sex Desire and Love in
Greco-Roman Antiquity and in the Classical Tradition (Haworth Vout, Power and
Eroticism in Imperial Rome (Cambridge (for Sporus in Alexander Pope's poem
"Epistle to Arbuthnot", see Who breaks a butterfly upon a wheel?).
Keith, "Sartorial Elegance and Poetic Finesse in the Sulpician
Corpus," in Roman Dress and the Fabrics of Roman Culture, Antoln,
Lygdamus. Corpus Tibullianum: Lygdami Elegiarum Liber (Brill, Vioque,
Fitzgerald, Slavery and the Roman Literary Imagination (Cambridge. As at
Orazio, Satire e Svetonio, Vita di Caligola, as noted by Dutsch, Feminine
Discourse in Roman Comedy: On Echoes and Voices (Oxford See also Plauto, Poenulus,
come osserva Saller, "The Social Dynamics of Consent to Marriage and
Sexual Relations: The Evidence of Roman Comedy," in Consent and Coercion
to Sex and Marriage in Ancient and Medieval Societies (Dumbarton Oaks, Le
parole pullus e puer possono derivare dalla stessa radice Indo-Europea; vedi
Martin Huld, la definizione "child," nell' Encyclopedia of
Indo-European Culture (Fitzroy Dearborn, Richlin, The Garden of Priapus:
Sexuality and Aggression in Roman Humor (Oxford University Press, Festus in the
Teubner edition of Lindsay; Williams, Roman Homosexuality, Leclercq, Histoire
de la divination dans l'antiquit (Millon Richlin, The Garden of Priapus,
Richlin, The Garden of Priapus, trova la reputazione di Eburno come pulcino di
Giove e la sua successiva estrema severit contro l'impudicitia del figlio come
molto significativa e stimolante. CICERONE (si veda), Pro Balbo; VALERIO (si
veda) Massimo; Pseudo-Quintiliano, Decl; Paolo Orosio; Broughton, The
Magistrates of the Roman Republic (American Philological Association, Kelly, A
History of Exile in the Roman Republic (Cambridge; Richlin, The Garden of
Priapus. Williams, Roman Sexuality. As at Apuleio, L'asino d'oro; Cicerone, Pro
Caelio (in riferimento al suo nemico personale Publio Clodio Pulcro); Adams, The
Latin Sexual Vocabulary (Johns Hopkins Geffcken, Comedy in the Pro Caelio
(Bolchazy-Carducci, Giovenale, Satire; Erik Gunderson, "The Libidinal
Rhetoric of Satire," in The Cambridge Companion to Roman Satire, Cambridge
Richlin, The Garden of Priapus, Glossarium codicis Vatinici, Corpus Glossarum
Latinarum IV p. xviii; see Gtz, Rheinisches Museum Primarily Amy Richlin, as in
"Not before Homosexuality. Plautus, Curculio Williams, Roman
Homosexuality, As summarized by Clarke, "Representation of the Cinaedus in
Roman Art: Evidence of 'Gay' Subculture," in Same-sex Desire and Love in
Greco-Roman Antiquity, Cicerone, Fillippiche, citato da Williams, Roman
Homosexuality Williams, Roman Homosexuality, Martial; Juvenal. Williams, Roman
Homosexuality, Hersh, The Roman Wedding: Ritual and Meaning in Antiquity
(Cambridge Vout, Power and Eroticism in Imperial Rome (Cambridge, Williams,
Roman Homosexuality, Le fonti sono citate da Williams, Roman Homosexuality,
Dione Cassio; Williams, Roman Homosexuality. Tra gli altri: Durant; Koranyi Williams, Roman
Homosexuality, citando Dione Cassio e Elio Lampridio. Cassio Dione, Historia
Augusta, Cassio Dione, Erodiano Cassio Dione, Benjamin Godbout Richlin,
"Not before Homosexuality,". As recorded in a fragment of the speech De Re Floria
by CATONE (si veda) the Elder (frg. Jordan = AULO GELLIO (si veda), as noted
and discussed by Richlin, "Not before Homosexuality," Digest Richlin,
"Not before Homosexuality,". See also Digest on legal definitions of
rape that included boys. Richlin, "Not before Homosexuality,"
Cantarella, Bisexuality in the Ancient World, McGinn, Prostitution, Sexuality
and the Law, Williams, Roman Homosexuality. Digest, as noted by Richlin,
"Not before Homosexuality," Richlin, The Garden of Priapus, in
Marziale, Williams, Roman Homosexuality; Skinner, introduzione a Roman
Sexualities; Richlin, "The Meaning of irrumare in Catullus and
Martial," Classical Philology. Williams, Roman Homosexuality (con un
esempio proveniente da Marziale Edwards, The Politics of Immorality in Ancient
Rome (Cambridge) Valerio Massimo; Richlin, "Not before
Homosexuality," Richlin, "Not before Homosexuality,"
Quintiliano, Institutio oratoria; Richlin, "Not before
Homosexuality," Richlin, "Not before Homosexuality, citando il
passaggio proveniente da Quintiliano. ^ Men of the governing classes, who would
have been officers above the rank of centurion, were exempt. Pat Southern, The
Roman Army: A Social and Institutional History (Oxford University Press, Phang,
The Marriage of Roman Soldiers: Law and Family in the Imperial Army (Brill,
Phang, The Marriage of Roman Soldiers, Phang, Roman Military Service:
Ideologies of Discipline in the Late Republic and Early Principate (Cambridge
University Press, Phang, Roman Military Service. See section above on male
rape: Roman law recognized that a soldier might be raped by the enemy, and
specified that a man raped in war should not suffer the loss of social standing
that an infamis did when willingly undergoing penetration; Digest, as discussed
by Richlin, "Not before Homosexuality, McGinn, Prostitution, Sexuality and
the Law in Ancient Rome (Oxford Polibio, Storie (metodo antico di bastinado).
Phang, The Marriage of Roman Soldiers, Phang, Roman Military Service, citing
among other examples Juvenal, Satire Lo stesso nome citato anche altrove in Plozio Tucca. Plutarco, Vita di Mario; vedi anche Valerio Massimo;
Cicerone, Pro Milone, in Dillon e Garland, Ancient Rome,; in Dionigi di
Alicarnasso 16.4. Discussione di
Phang, Roman Military Service, e The Marriage of Roman Soldiers, Cantarella,
Secondo natura. La bisessualit nell'antica Roma, Ovidio, Metamorfosi (Ovidio),
citato in Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," Brooten, Love
between Women: Early Christian Responses to Female Homoeroticism, Chicago, The
Latin indicates that the I is of feminine gender; CIL, as cited by Richlin,
"Sexuality in the Roman Empire," Brooten, Love between Women,Luciano,
Dialoghi delle cortigiane. Walters, "Invading the Roman Body: Manliness
and Impenetrability in Roman Though, and Gordon, "The Lover's Voice in
Heroides: Or, Why Is Sappho a Man?," p. 283, both in Roman Sexualities;
Clarke, "Look Who's Laughing at Sex: Men and Women Viewers in the
Apodyterium of the Suburban Baths at Pompeii," both in The Roman Gaze,
Richlin, "Sexuality in the Roman Empire," Swancutt, "Still
before Sexuality: 'Greek' Androgyny, the Roman Imperial Politics of Masculinity
and the Roman Invention of the tribas," in Mapping Gender in Ancient
Religious Discourses (Brill), Martiale, 50; Richlin, "Sexuality in the
Roman Empire, Clarke, Looking at Lovemaking: Constructions of Sexuality in
Roman Art, California Press, Clarke, Looking at Lovemaking, Digest, as cited by
Richlin, "Not before Homosexuality," Edwards, "Unspeakable
Professions," Cum virginali mundo clam pater: Kelly Olson, "The
Appearance of the Young Roman Girl, in Roman Dress and the Fabrics of Roman
Culture(University of Toronto Press, Digest as cited by Richlin, "Not
before Homosexuality," Vedi sopra alla sezione stupro maschio-maschio.
Lucio Anneo Seneca il Vecchio, Controversia; Richlin, Not before Homosexuality,
Murray, Homosexualities (Chicago, Bachvarova, "Sumerian Gala Priests and
Eastern Mediterranean Returning Gods: Tragic Lamentation in Cross-Cultural
Perspective, Lament: Studies in the Ancient Mediterranean and Beyond (Oxford
University Press, Clarke, Looking at Lovemaking, Taylor, The Moral Mirror of
Roman Art (Cambridge) Pliny, Natural History: gignuntur et utriusque sexus quos
hermaphroditos vocamus, olim androgynos vocatos; Veronique Dasen,
"Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," Oxford Journal of
Archaeology Diodorus Siculus, Roscoe, "Priests of the Goddess: Gender
Transgression in Ancient Religion," in History of Religions, Isidoro di
Siviglia, Etimologie, Roller, "The Ideology of the Eunuch Priest,"
Gender et History, Roscoe, "Priests of the Goddess," Plutarco,
Moralia; Dasen, "Multiple Births in Graeco-Roman Antiquity," Ovid,
Metamorphoses Taylor, The Moral Mirror of Roman Art; Clarke, Looking at Lovemaking,
Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, Paulus ex Festo; Richlin, "Not
before Homosexuality," Taylor, The Moral Mirror of Roman Art, Clarke,
Looking at Lovemaking, Macrobio, Saturnalia, Macrobio dice che Aristofane
chiama una tale figura col nome di Aphroditos. Ensslin, Die Religionspolitik
des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco, In: Sitzungsberichte der
Bayerischen Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische
Klasse,Atanasio, Storia degli Ariani, Codice di Teodosio. Gaio Valerio Catullo, I Carmi. Publio Virgilio
Marone, Bucoliche. Albio Tibullo, Elegie. Tito Petronio Nigro, Satyricon.
Ensslin, Die Religionspolitik des Kaisers Theodosius des Grossen, Monaco,
Foucault, La volont di sapere. (Storia della sessualit), Feltinelli, Milano
Foucault, L'uso dei piaceri. (Storia della sessualit), Feltrinelli, Milano Williams: Roman
Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity. in: Oxford:
Ideologies of Desire. Oxford, Vioque, Martial, A Commentary, traduzione di
Zoltowski, Brill, Hubbard: Homosexuality in Greece and Rome, a Sourcebook of
Basic Documents. Los Angeles, London, Cantarella, Secondo
natura - La bisessualit nel mondo antico, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, RAYOR, Homosexuality
in Greece and Rome: A sourcebook of basic documents. Univ of California Press, Voci correlate Storia LGBT
Omosessualit nell'antica Grecia Omosessualit nel Medioevo Pederastia Pederastia
greca Storia dell'omosessualit in Italia Collabora a Commons Commons contiene
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Portale LGBT Lex Scantinia Sessualit nell'antica Roma Terminologia
dell'omosessualit Grice: And then theres
Roman sex. Grice: Like me in
Some remarks about the senses, Fardella with Giorgi follow Lucrezios
materialism, -- and Ciceros sensible terminology on sensibilia! Nome compiuto: Michelangelo
Fardella. Fardella. Keywords: metafisica, ontologia, razionalismo, aritmetica,
geometria, solipsismo, percezione, vedere
sentire atomismo di lucrezio,
sensismo di Giorgi Cartesio is actually
borrowing it all from Platones Timeo for
whom the world is also only interpretable more geometrico. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Fardella,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fariano: la ragione
conversazionale e il circolo di Giuliano -- Roma antica -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Friend of
Giuliano. Studies philosophy with
Giuliano and Eumenio.
Luigi Speranza -- Grice
e Fassò: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Igitur
est RES PVBLICA RES POPVLI – l’implicatura di Bruto – scuola di Bologna –
filosofia bolognese – filofosia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo
bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I
like Fassò; for one,
he was, like my friend H. L. A. Hart, a philosophical lawyer! But unlike Hart,
Fassò, being a Roman, knew what he was talking about!” “My favourite is his
explication of Bruto’s reaction when being brought the corpses of his two
sons!” Fassò, mi viene a conforto col suo ottimo
lavoro, che dà una diligentissima ed acuta interpretazione ed esposizione del
corso non già logico ma storico, o per meglio dire, psicologico della
formazione della Scienza nuova; esposizione che è utile possedere e che si
segue con curiosità. Con pari bravura è condotta la ricerca di quel che VICO
attinse o credette di attingere ai quattro suoi autori. Croce, Illusione degli
autori sui “loro” autori,). Figlio di Ernesto, generale dell'esercito, e
Caterina Barbieri, discendente dalle famiglie Barbieri (il di lei nonno è
Lodovico Barbieri) e Dallolio (Maria Sofia, moglie di Lodovico, era sorella di
Alberto e Alfredo Dallolio), trascorre i suoi primi anni, fino all'adolescenza,
fra il Piemonte (Mondovì), l'Emilia-Romagna (Parma) e la Lombardia (Mantova).
Temperamento religioso, ereditato dall'educazione famigliare e dalla
frequentazione con un anziano sacerdote, si caratterizza sempre per il rigore
negli studi (perciò Mazzetti, suo compagno di gioventù, poté definirlo schivo
degli incontri e quasi della società, teso in un impegno di chiarezza mentale,
di serietà e finezza di sentire. Conseguita la maturità classica al Virgilio di
Mantova, si laurea a Bologna, sotto Borsi con “L'elemento demografico nelle
provvidenze assistenziali a favore dei lavoratori: la legislazione del lavoro”.
Dopo aver rinunciato ad impiegarsi come funzionario nell'unione industriale, ottiene
anche la laurea in Filosofia, sotto SAITTA (si veda), con “Vico e Michelet”. Confide
poi al suo allievo,Pattaro, che la scelta della filosofia, lungi dall'essere
redditizia, è un matrimonio con «madonna povertà», cui egli, tuttavia, non
volle sottrarsi, non essendo versato, come rivelò a Nicolini, nella
«professione forense. Svolse, quindi, l'attività di docente di storia e
filosofia, inizialmente come supplente al "Galvani" di Bologna, poi a
Forlì e, infine, al Liceo Righi di Bologna. Il suo saggio, dedicato a Vico nel
pensiero del suo primo traduttore francese, che, però, a causa dell'indisponibilità
degli editori, sarebbe stato pubblicato, grazie all'intervento di Saitta come
memoria dell'Accademia delle scienze dell'Istituto di Bologna. Vicino al
Partito Liberale Italiano, a guerra conclusa accetta di candidarsi, per il
medesimo partito, alle elezioni comunali bolognesi. Divenuto assistente
volontario di Filosofia del diritto nell'Ateneo felsineo, fu convinto da Felice
Battaglia a concorrere per la libera docenza, che ottenne. Nel medesimo anno,
al Parma, gli viene quindi assegnato l'incarico in Filosofia del diritto. Aggiudicatosi
l'ordinariato, si trasferì successivamente a Bologna, dove insegnò filosofia
giuridica, presso la Facoltà di Giurisprudenza, e Storia delle dottrine
politiche, nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Si occupa di studi
vichiani (della cui validità scientifica è testimonianza una epistola di
Solari, in cui si apprende che l'interpretazione giuridica della Scienza nuova
proposta da F. supera la visione Croce-Nicolini, ponendosi al livello
qualitativo di quelle di Fubini e di Donati) e groziani, della cura e
traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della pace di Grozio e
scrisse VICO (si veda) e Grozio, nonché, la Storia della filosofia del diritto
in tre volumi, giudicata da Bobbio come la storia della filosofia del diritto più
completa» esistente sulla faccia della terra. Oltre Croce, F. criticò
anche GENTILE (si veda), autore di una concezione speculativa indubbiamente
grandiosa, che si risolveva, però, in vana retorica, negante, entro la
dialettica dello spirito, la realtà del fenomeno giuridico. Fra le altre opere,
La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; dello stesso anno è La legge
della ragione, considerata una «tra le opere migliori di filosofia del diritto
uscite in Italia» al tempo, e consistente in una «appassionata rivalutazione»
del diritto naturale; Società, legge e ragione, apparso nell'anno della morte
(i due ultimi volumi citati, tuttavia, ripropongono scritti precedenti). Le
pubblicazioni in cui si esprime con più chiarezza l'ispirazione teoretica di F.
sono, invece, La storia come esperienza giuridica (in cui, ha commentato BOBBIO (si veda) si
dimostra che tutti i rapporti che l'uomo ha con gli altri uomini, contengono un
germe di organizzazione, e quindi sono istituzioni giuridiche») e Cristianesimo
e società, che susciterà un vivace dibattito nell'ambiente cattolico,
incontrando financo il favore di Prezzolini. Il suo testament disponeva
funerali semplici, «senza fiori e senza seguito di estranei. In un codicillo,
inoltre, soggiungeva che, se si trovassero miei scritti incompiuti, manoscritti
o dattilografati, non si stampino, perché non possono essere stati riveduti
come avrei ritenuto necessario», congiuntamente all'invito a non raccogliere
«in volume opuscoli sparsi o scritti minori, operazione che non dovrebbe mai
esser fatta se non dall'autore». Alla memoria di F., oltre che a quella di
Gaudenzi, è intitolato il Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del
Diritto, Filosofia e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica a Bologna,.
Benché F. abbia apprezzato il Romano sostenitore della concezione non
normativistica del diritto, egli non poté tacerne il limite, consistente
nell'assenza di una «definizione esauriente» dell'istituzione, dovuto alla
volontà di Romano di tenersi «fuori dal campo della filosofia». Il più limpido
storico del giusnaturalismo». Formatosi filosoficamente nella temperie
culturale neoidealistica, Fassò se ne distaccò, rifiutandone soprattutto
l'immanentismo, con La storia come esperienza giuridica, opera ispirata dalle
suggestioni istituzionalistiche di Romano (ma di questi deplorerà, nella
successiva Storia della filosofia del diritto, il circolo vizioso, per cui una
istituzione è giuridica solo quando è giuridica. A Croce, che faceva coincidere
storia e filosofia, F. replica con l'identificazione di storia e giuridicità,
estendendo il concetto di istituzione — contrariamente a quanto aveva fatto Romano,
e risolvendone così il circolo vizioso — a tutti gli aspetti della vita
sociale, cioè della vita dell'uomo nella storia, che è sempre vita dell'uomo in
società. L'elisione dell'identità fra realtà storica e razionalità filosofica
non implica la rimozione dell'Assoluto, ma egli ne negava ogni possibilità
conoscitiva, ricadendo la «concreta unità del reale» (sotto l'aspetto
gnoseologico) nell'ambito del privo di senso, sebbene restasse attingibile in
uno slancio mistico, descritto, in una pagina de La legge della ragione, come
partecipazione dell'«uomo al valore divino, ma solo quando si faccia anch'egli
Dio per unirsi a lui, trascendendo la propria umanità, la propria soggettività
empirica, storica». È importante tener fermo come Fassò, quantunque abbia
legato l'Assoluto a uno slancio mistico, non si sia fatto teorico di un irrazionalismo
misticheggiante, ma — giusta l'osservazione di Vallauri — abbia formulato un
«dittico» in cui si afferma, da un lato, la «sopragiuridicità dell'etica intesa
come esperienza religiosa» e, dall'altro, «la funzione essenziale della ragione
giuridica nel mondo. Proprio il riconoscimento della centralità della ragione
giuridica nel governo della «concreta molteplicità del reale» costituì, per F.,
un ulteriore motivo critico nei confronti dell'anti-gius-naturalismo crociano,
da cui, dopo l'approfondimento della storia del giusnaturalismo, prese più
convintamente le distanze. La concezione giusnaturalistica fassoiana, infatti,
cerca di non cadere nell'errore proprio della tradizione precedente (errore che
nella Storia della filosofia del diritto, non esitò a indicare quale «difetto
capitale» della scuola del diritto naturale, consistente nell'astrattismo e nel
conseguente antistoricismo), intendendo il diritto naturale quale ordine che
nasce dalla storia, e nel quale l'uomo non può non essere inserito proprio per
la sua dimensione storica, che è la sua dimensione essenziale. Medaglia d'oro
ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte. Croce,
Illusione degli autori sui “loro” autori, su Quaderni della Critica, Laterza, Ora
anche in Id., Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici, Savorelli, Napoli,
Bibliopolis, Cfr. Garin, Cronache di filosofia italiana, Bari, Laterza. La sua
ricerca di Saitta, anche storica, sembra inscindibile da una polemica e da una
protesta. Polemica e protesta che attraversano ugualmente l'attività così di
Calogero come dello Spirito, annoverati talora col Saitta fra gli esponenti
della sinistra gentiliana, e come lui accusati a volte, e non certo
benevolmente, di crocianesimo». Pattaro, Sull'Assoluto. Contributo allo studio
del pensiero di F.. F. segue con particolare attenzione i corsi di Saitta, che
gli suggerì di approfondire Michelet, che lo avrebbe condotto a Vico. Scheda senatore Dallolio, su Scheda senator
Dallolio, su senato. Le parole di Mazzetti sono riportate in Faralli, Il
maestro e lo studioso, in Rivista di filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino,
Elenco dei laureati e diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno
Accademico, Bologna, Società Tipografica già Compositori,Elenco dei laureati e
diplomati nell'Anno Scolastico, in Annuario dell'Anno Accademico. Bologna,
Tipografia Compositori, Pattaro, Alcuni ricordi personali e cenni sulla
gnoseologia, ontologia e concezione della filosofia di F., in Rivista di
filosofia del diritto, Bologna, Il Mulino. “Mi disse che ci sarebbe stato un
concorso per assistente ordinario alla cattedra e mi chiese se fossi
interessato a partecipare. Ma mi prevenne con due avvertimenti sui quali avrei
dovuto meditare prima di dargli una risposta. Essi sono: "chi fa filosofia
del diritto in una facoltà di Giurisprudenza sposa madonna povertà e nell'università
occorre sapere ingoiare amaro e sputare dolce perché l'intelligenza degli
accademici è di regola superiore a quella dei comuni mortali, e ciò implica che
essi siano capaci di cattiverie più raffinate e perfide di quelle di cui sono
capaci i comuni mortali. La citazione è tratta dal carteggio Fassò-Nicolini,
richiamato da E. Pattaro, nel suo Sull'Assoluto. Contributo allo studio del
pensiero di F., premesso. In altre lettere allo stesso Nicolini, scrive di non
sentire nessuna vocazione per la professione forense. Curriculum vitae di
Andrea Fassò, Consiglio Nazionale del Notariato.. Gli studi vichiani di F., in
Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida, Ha ultimato VICO nel
pensiero del suo primo traduttore francese nel ma causa la difficoltà di
trovare un editore — non gli fu possibile pubblicarlo allora: soltanto poté
presentarlo all'Accademia delle scienze di Bologna per il tramite di Saitta. Pattaro,
Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F., in F., Scritti di
filosofia del diritto, Pattaro, Faralli,
Zucchini, Milano, Giuffrè. Dopo i disagi della guerra, aveva ripreso le
proprie ricerche incoraggiato da Battaglia, che lo convinse ad affrontare
l'esame di libera docenza in filosofia del diritto. Conseguita la libera
docenza in filosofia del diritto, F. ebbe il suo primo incarico in questa
materia, a Parma. Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Battaglia, F.:
in memoria, in Rivista di filosofia del diritto [giunse] alla libera docenza, e
nello stesso anno lo abilitarono a tenere l'incarico della filosofia del diritto
nella Parma, ove divenne professore della materia. Passa all'Bologna, dove
rimase titolare della disciplina, tenuta con alto prestigio e qualificata
dignità fino alla morte che ne chiuse la laboriosa giornata». Pattaro, Gli studi vichiani di F., in
Bollettino del Centro Studi Vichiani, Napoli, Guida. Tra le carte personali di
F. ho trovato una cartolina postale, vergata fitta fitta da Solari. In essa,
tra le altre cose, è scritto: ‘Da tempo ero convinto della verità della interpretazione
giuridica della Scienza Nuova: ma Lei ne ha dato ampia, profonda, persuasiva
dimostrazione. La cautela con cui è sostenuta è frutto della Sua modestia, e
della Sua serietà di studioso. Il suo saggio sui quattro autori può stare a
paro cogli scritti vichiani di Donati e Fubini e supera la visione
Croce-Nicolini che sul punto della genesi giuridica della scienza nuova stanno
ancora sulle generali. Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei
dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non
angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più complete. Così
Bobbio saluta la Storia della filosofia del diritto. In tutta la filosofia del
Gentile si ha una concezione speculativa indubbiamente grandiosa, ma che si
risolve in vana retorica, negante l'esperienza della realtà effettuale. Non è
tuttavia dalla negazione della molteplicità dei soggetti che discende la negazione
della realtà del diritto nella filosofia gentiliana. Come in quella del Croce,
essa è compiuta in relazione alla dialettica dello spirito, cioè del soggetto
assoluto. È importante, infine, sottolineare il valore di impegno civile che il
filosofo bolognese riconosceva al testo e che ad esso venne riconosciuto dalla
traduzione greca. Thessalonike, Poseidonas], all'epoca della dittatura militare
in Grecia». Bobbio, Giusnaturalismo e
positivismo giuridico, prefazione di Ferrajoli, Roma-Bari, Laterza, Bobbio, La filosofia del diritto in Italia,
in Jus, Milano, Faralli, I momenti della
riflessione critica su F., Prezzolini chiosa Cristianesimo e società sia in un
articolo su Il resto del carlino sia nel libro Cristo e/o Machiavelli. Conservo
la prima edizione di Cristianesimo e società, egli scrive. La volli come
compagna perché dovevo moltissimo a quel libro, cioè non dirò l'apertura, ma la
conferma dotta, serena, eppure appassionata di un punto di vista importante. Prezzolini
ritiene di aver trovato in Fassò, argomentate con un'alta filologia, sempre al
corrente della produzione critica e accompagnata dalla conoscenza dei testi
filosofici, quelle stesse idee che anch'egli aveva manifestato ‘lanciate
piuttosto da un intuito che da un sapere storico Annuario, Bologna, Tipografia
Compositori, Pattaro, Ricordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura
civile, Centro Interdipartimentale di Ricerca in Storia del Diritto, Filosofia
e Sociologia del Diritto e Informatica Giuridica, sStoria della filosofia del
diritto, edizione aggiornata Faralli, Roma-Bari,
Laterza. Romano si tiene deliberatamente fuori dal campo della filosofia, non
sfruttando neppure quegli indirizzi di essa, primo fra tutti quello del Croce,
che potevano valere a suffragar la sua tesi. Questa è sostenuta unicamente sul
terreno della considerazione empirica del diritto, e non vuole avere né premesse
né conclusioni che stiano al di fuori o al di sopra di essa. Neppure il Romano
dà del concetto di istituzione una definizione esauriente». Marini, Il giusnaturalismo nella cultura
filosofica italiana del Novecento, in Storicità del diritto e dignità dell'uomo,
Napoli, Morano, Cfr. Matteucci, recensione a F., Cristianesimo e società,
Giuffrè, Milano, in Il Mulino, «L'esigenza filosofica fondamentale che si palesa
nei lavori del F. è quella di uscire dallo storicismo immanentistico dei Croce
e dei Gentile che vedeva nella storia la manifestazione di un principio assoluto
(lo Spirito, l'Atto. Cfr. Pattaro, In che senso la storia è esperienza
giuridica: l'istituzionalismo trascendentale, in appendice a F., La storia come
esperienza giuridica, Faralli, Soveria Mannelli, Rubbettino. L'esperienza che
Fassò aveva avuto della filosofia idealistica egemone in Italia nella prima
metà del secolo, la quale all'interno dei suoi precedenti studi vichiani,
condotti in chiave di storia della filosofia, non necessariamente costituiva
un'ipoteca con cui dover fare conti precisi, in sede teoretica, sia pure di
filosofia del diritto, venne chiamata ad un inevitabile redde rationem. F.,
Storia della filosofia del diritto, Faralli, Roma-Bari, Laterza, Il giudizio,
tuttavia, è già presente in F., La storia come esperienza giuridica. È proprio
questo, del resto, il punto debole della dottrina del Romano, che fu subito
rilevato dai suoi critici: il circolo vizioso in cui egli si aggira,
presupponendo la giuridicità di quella istituzione che poi identifica con il
diritto. In altre parole, Romano afferma che sono istituzione, ossia
ordinamento giuridico, ossia diritto, quegli enti o corpi sociali che hanno
carattere giuridico. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Farnetti,
con una nota al testo di Sasso, Napoli, Bibliopolis, Croce, La storia come
pensiero e come azione, Conforti, con una nota al testo di Sasso, Napoli,
Bibliopolis, «Si può dire che, con la critica storica della filosofia
trascendente, la filosofia stessa, nella sua autonomia, sia morta, perché la
sua pretesa di autonomia era fondata appunto nel carattere suo di metafisica.
Quella che ne ha preso il luogo, non è più filosofia, ma storia, o, che viene a
dire il medesimo, filosofia in quanto storia e storia in quanto filosofia:
la filosofia-storia, che ha per suo principio l'identità di universale ed
individuale, d'intelletto e intuizione, e dichiara arbitrario o illegittimo
ogni distacco dei due elementi, i quali realmente sono un solo. La storia
come esperienza giuridica. L'esperienza giuridica non è altro che l'esperienza
umana nella sua totalità, la storia stessa insomma dell'uomo. In che senso la
storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di F., «La
concreta unità del reale, l'universale concreto, è un residuato della grandiosa
retorica metafisica idealistica. F., con l'onore delle armi, lo colloca nella
dimensione che gli compete, ossia dell'inconoscibile, indicibile,
incomunicabile per definizione: dell'indiscutibile che è tale non perché sia
vero o certo di là da ogni ragionevole dubbio, bensì perché non è possibile
oggetto di discorso, non è suscettibile di ragionamento, sfugge ad ogni
comprensione e spiegazione razionale. Lo colloca nella dimensione del privo di
senso. Pattaro, In che senso la storia è esperienza giuridica:
l'istituzionalismo trascendentale. Resti chiaro, peraltro, che F. rinvia sì al
piano mistico l'unità del reale, l'assoluto, l'universale concreto, ecc., ma
che, non per questo, egli professa una filosofia mistica intuizionistica. Il
giudizio di Vallauri è espresso nel suo Amicizia, carità, diritto, Giuffrè,
Milano. Considerata nel suo arco complessivo, forma un dittico, che da un lato
ribadisce rigorosamente la sopragiuridicità della esperienza cristiana giunta
al suo culmine (identificato nella carità), e dall'altro lato riconosce la
funzione preziosa della ragione giuridica nel mondo, dove ogni individuo limita
e contraddice l'altro e dove una norma di coesistenza è indispensabile’») e
accolto in F., Società, legge e ragione, Milano, Comunità, Pattaro, In che
senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo trascendentale di F.,
La concreta molteplicità del reale, il flusso eracliteo dei particolari
concrerti, l'eterogeneo continuum di cui parla richiamando Ross, è la realtà
empirica, fenomenica: molteplicità infinita di eventi originali e irripetibili,
non essendovi nello spazio, e più ancora nel tempo, due fenomeni perfettamente
identici. Sulla posizione crociana rispetto al giusnaturalismo cfr., per
esempio, Croce, Filosofia della pratica. Economica ed etica, Tarantino, con una
nota al testo di Sasso, Napoli, Bibliopolis. Contraddittorio è altresì il
concetto di un codice eterno, di una legislazione-limite o modello, di un
diritto universale, razionale o naturale, o come altro lo si è venuto
variamente intitolando. Il diritto naturale, la legislazione universale, il
codice eterno, che pretende fissare il transeunte, urta contro il principio
della mutevolezza delle leggi, che è conseguenza necessaria del carattere
contingente e storico del loro contenuto. Se al diritto naturale si lasciasse
fare quel che esso annunzia, se Dio permettesse che gli affari della Realtà
fossero amministrati secondo le astratte idee degli scrittori e dei professori,
si vedrebbe, con la formazione e applicazione del Codice eterno, arrestarsi di
colpo lo svolgimento, concludersi la Storia, morire la vita, disfarsi la
realtà. Sulla presa esplicita di distanza di F. da Croce, cfr. Società, legge e
ragione. Ho continuato a ripetere la stessa cosa. Il diritto nasce dalla natura
umana, la quale è natura storica e natura sociale. Ho rifiutato dapprima, sotto
la suggestione dell'anti-gius-naturalismo del tempo in cui ero cresciuto, di
chiamare naturale un siffatto diritto. Più tardi, dopo avere approfondito la
conoscenza storica del gius-naturalismo ed essermi meglio chiarito la parte che
esso ha avuto nella difesa della libertà contro l'assolutismo politico, mi sono
deciso a designare con quell'aggettivo in realtà equivoco il diritto che la
ragione trova nella natura della società. Laddove, invece, si è riscontrata
coincidenza cronologica, si è preferito seguire l'ordine alfabetico. Altre
saggi: “I quattro auttori del Vico: saggio sulla genesi della Scienza nuova”
(Milano, Giuffre); “La storia come esperienza giuridica, Faralli, Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Cristianesimo e società” (Milano, Giuffrè); “La
democrazia in Grecia, Faralli, Pattaro e Zucchini (Milano, Giuffrè); “Il
diritto naturale” (Torino, ERI, “La legge della ragione, Faralli, Pattaro e
Zucchini (Milano, Giuffrè); “Storia della filosofia del diritto, Roma-Bari,
Laterza); “VICO e Grozio” (Napoli, Guida); “Società, legge e ragione” (Milano, Edizioni
di Comunità); “La flosofia del diritto” (Milano, Giuffrè); Diritto della
guerra” (Napoli, Morano). Dizionario biografico degli italiani, Gli studi
vichiani di F., Centro Studi Vichiani,
Napoli, Guida), “Sull'Assoluto. Contributo allo studio del pensiero di F.”,
“In che senso la storia è esperienza giuridica: l'istituzionalismo
trascendentale di F.”, “Lo storicismo di F.”, “Sulla annosa e ricorrente
disputa tra positivisti e giusnaturalisti”, “Un itinerario filosofico tra
diritto e natura umana”. L'iniziativa di raccogliere gli scritti di
filosofia del diritto di F. è altamente opportuna e meritoria. Gli studiosi ne
debbono essere grati ai curatori: Pattaro (che al Maestro è succeduto sulla
cattedra bolognese), Faralli, Zucchini. Con questi tre ricchi volumi diviene
facilmente accessibile una produzione, altri- menti sparsa in riviste e in atti
occasionali, che sta a testimoniare il cammino limpido e coerente di una tra le
personalità intellettualmente più vive ed oneste della nostra cultura del
secondo dopoguerra, purtroppo strappata anzi tempo agli studi. I curatori
avvertono che del- l'opera di F. rimangono escluse da questa pur ampia raccolta
le opere pubblicate quali volumi separati, articoli occasionali che sono parsi
non riconducibili alla filosofia del diritto, e scritti di letteratura e di
critica cinematografica. Si può convenire sull’opportunità di preservare la
purezza e omogeneità scientifica della raccolta, escludendo gli scritti delle
due ultime categorie menzionate; giudicheranno i curatori, o altri studiosi
interessati, se non sia opportuna la pubblicazione separata degli scritti
minori ora esclusi, per dare un’immagine completa della cultura e dell’evoluzione
di F., ovvero di uno studioso che, alieno quant’altri mai da digressioni e
dilettantismi, mostra però in ogni pagina la vastità e classicità delle proprie
conoscenze. Evidente è invece la necessità di escludere le opere apparse quali
volumi separati. Tra esse sono opere a tutti note, che hanno saldamente
stabilito il prestigio scientifico di F. Basti ricordare gli studi vichiani e
groziani (da I (( quattro auttori D del VICO. Saggio sulla genesi della Scienza
nuova, alla cura e traduzione dei Prolegomeni al diritto della guerra e della
pace di Grozio, dello stesso anno, a Vico e Grozio, e la fondamentale STORIA
DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO – DA CICERONE A CICERONE. Sono anche da ricordare:
La democrazia in Grecia; Il diritto naturale; La legge della ragione, dello
stesso anno; Società, legge e ragione, apparso nell’anno della morte (ma i due
ultimi volumi raccolgono e rifondono scritti precedenti, che si trovano in
questa stessa raccolta). Ricordiamo per ultimi, non per caso, i due scritti in
cui è documentata la fisionomia teoretica di F., il quale, se fu grande storico
del pensiero, ebbe anche un’impronta filosofica originalissima, e una chiarezza
ideale che diede senso unitario ai molti interventi su problemi teoretici, oggi
raccolti nei presenti volumi. Ci riferiamo alle opere L a storia come
esperienza giuridica, e Cristianesimo e società. Oltre agli scritti di F., la
raccolta contiene: una Nota dei curatori, che spiega i criteri seguiti;un’ampia
Introduzione di Pattaro, dal titolo Sull’assoluto. Contributo allo studio del
pensiero di F.; na Bibliografia degli scritti filosofico- giuridici di F., a
cura di Zucchini; uno studio di Faralli dal titolo I momenti della riflessione
critica su F.. Di modo che questi volumi offrono una base per chiunque si
accosti criticamente all’opera e al pensiero di F.: lo status quaestionis è
chiaramente delineato. È ancora da dire che gli scritti di F. sono ripartiti in
tre categorie: saggi e articoli, voci di
enciclopedia, e recensioni. Saggie articoli occupano la maggior parte dei
volumi, notevole è però anche la mole delle voci di enciclopedia: un genere che
F. coltiva con assiduità, e che era particolarmente congeniale alla sua mente
storica, e alla chiarezza concettuale alla quale egli era sempre solito
congiungere rigorosamente la ricostruzione storica: poche pagine sono in grado,
in queste voci, di dare le linee maestre di Milano un tema, o dell’opera
di un autore (esemplari ci sembrano, tra le voci su temi teoretici,
Democrazia,e Giusnaturalisrno;tra le voci su temi storici, quelle sui due
autori di F. per eccellenza, Groot, e VICO Non molte sono invece le recensioni
in chi pure e studioso di larghissime letture. Se si tolgono le recensioni
legate agli esordi scientifici e ai loro temi, rimangono pochi interventi; tra
questi dobbiamo ricordare, per l’interesse oggettivo e per la luce che portano
sulla personalità di Fassò, le recensioni dedicate ad autori coi quali egli fu
in singolare vicinanza spirituale: come le recensioni a volumi di BOBBIO su
temi filosofico-giuridici, o al volume di PIOVANI, Giusnaturalismo ed etica
moderna -- la recensione. Peraltro, per valutare la presenza attiva, insieme
critica e costruttiva, di F. nella filosofia italiana, si deve pensare alle
molte discussioni che egli costantemente e con passione sollevava su temi
storici e teoretici: più della recensione, lo attraeva la discussione ampia che
ruotasse intorno a un problema a lui congeniale. Si pensi alle osservazioni che
egli svolse su due saggi di COTTA, ancora uno studioso col quale egli fu in
profondo dialogo: i libri di questo su AQUINO e su AGOSTINO sollecitarono la
meditazione di F. in due articoli: AQUINO giurista laico? e Agostino e il
giusnaturalismo.Inoltre, tutta l’attività di . fu segnata dalla polemica,
spesso anche dura o sarcastica, che egli rivolgeva ad autori grandi e piccoli,
lontani e vicini. Polemizza su temi filologici ed eruditi, riprendendo e
correggendo; polemizzava su problemi teoretici, dove non trovasse chiarezza di
pensiero, egli che era scrittore limpido e rifuggiva da qualsiasi ambiguità o
da compiacenti silenzi. Talvolta colpisce, ancor oggi, la durezza della
polemica; ed egli ne era certo consapevole, e scrisse una volta queste parole,
che valgono a spiegare un tratto della sua personalità: nella sua connaturata
avversione ai radicatissimi luoghi comuni nella ricerca scientifica come nei
modi del pensare politico, egli replica sempre con vigore, e talora con troppo
vigore, e metteva in luce componenti opposte a quelle Comunemente accettate,
Seri- veva: (Forse, nel cercare di metterle in luce, ho calcato troppo sulla
loro importanza? Se questo è avvenuto, è stato (per ricorrere ancora una volta
a Grozio e prendere a prestito da lui l’immagine di cui si serve a proposito di
Erasmo con l’intenzione con cui si piegano in senso opposto gli oggetti
incurvatisi, per cercare di farli tornare nella posizione giusta D. In
quell’occasione, egli parlava delle convinzioni diffuse sulle componenti
originarie dell’etica laica, di solito vista derivare dal protestantesimo e dai
suoi moti preparatori; mentre egli vedeva componenti più ampie, e radici che
egli individua per gran parte proprio in AQUINO (si veda).. Egli era quindi in
uno dei campi prediletti della sua indagine; ma quell‘intenzione lì dichiarata
e illustrata, con l’immagine degl’oggetti incurvatisi vale a farci comprendere
la intransigente vena polemica, strumento per riportare alla posizione giusta, che nel suo caso era la
posizione della verità scientifica e del rigore metodologico. Di quella vena
polemica, gran parte degli scritti qui pubblicati sono testimonianza, talora
vivacissima. C’e in F. tutta la serietà intellettuale di chi conosce la fatica
della paziente ricerca quotidiana. Non solo la storia del pensiero propriamente
detta, con le sue regole filologiche; anche la filosofia aveva i suoi canoni e
le sue conoscenze tecniche. Nel corso di una polemica, su uno dei temi che più
gli stettero a cuore, quello del rapporto fra cristianesimo e società, egli
scrisse, sulla dignità della filosofia, parole di sapore hegeliano, che hanno
la loro permanente e ritornante validità. Allora, ammoniva disinvolti ((
giuristi cristiani a starsene nei propri confini di giuristi; il cristianesimo
era altra cosa, e scrive. E strano, ma mentre tutti fanno a gara a dire che LA
FILOSOFIA è cosa astrusa, non v’è
nessuno che non si senta legittimato a discuterne senza alcuna preparazione:
ciò che non si sognerebbe di fare riguardo a qualsiasi altro argomento
scientifico o tecnico. Perché egli, che era in senso proprio e fino in fondo FILOSOFO
del diritto, ha chiara la dimensione filosofica e CONCETTUALE della propria
ricerca, e non intese mai che la propria controversa disciplina fosse
riducibile a riflessione o generalizzazione di giuristi dotati di vocazione,
temperamento, sia pure cultura, Opportunamente, gli scritti di F. sono
riprodotti in ordine cronologico -- all’interno delle tre categorie citate
sopra: saggi e articoli; voci di enciclopedia; recensioni. Se si tengono
presenti anche i saggi pubblicati come volumi a parte, e sopra ricordati, ne
viene la possibilità di giungere ad una periodizzazione. Pattaro, nel suo
studio intro- duttivo, suggerisce la quadripartizione seguente: il periodo
dedicato alla STORIA della filosofia, in particolare a VICO. Il periodo che
comprende La stovia come esfierienza giuridica e Cristianesimo e società, caratterizzato
precipuamente dalla tematica, che potrebbe dargli il nome, ‘Assoluto e storia e
il periodo culminante nei volumi primo e secondo della Storia della filosofia
del divitto che potrebbe intitolarsi a ‘ I1 diritto naturale, il periodo nel
quale si conclude la grande opera storiografica, che potrebbe di converso
intitolarsi a ‘il diritto positivo.’ Così Pattaro, e con buone ragioni. Ma egli
stesso ricorda che il Maestro (( riconobbe valida in uno dei suoi ultimi
scritti la distinzione-periodizzazione suggerita da Vallauri, il quale
vedittico affermante - così riferiva F. consentendo intesa come esperienza
religiosa, e dall’altro la funzione essenziale della ragione giuridica nel
mondo. Società, legge e vagione. Vallauri formula quel suggerimento deva nella
sua opera come un da un lato la sopragiuridicità dell’eticità in Amicizia,
carità, diritto, Milano. Tenendo presenti i punti di vista espressi dai due
studiosi, saremmo propensi a vedere una tri-partizione, che è insieme una
partizione temporale e tematica, una periodizzazione e una distinzione di
interessi scientifici; dove i periodi si collegano l’un l’altro per affinità e
per approfondimenti in- terni. Il primo periodo vede nascere gli studi su VICO e
su Grozio, e che è segnato dalla presenza di motivi neo-idealistici e
dall’emergere dell’originale storicismo di F. Il secondo periodo vede apparire
il dittico di cui parla Vallauri, quel dittico a cui Pattaro dà il nome di assoluto
e storia. In questo, è enunciata la filosofia di F.; gli anni successivi
approfondiranno e talora ritoccheranno, ma i pilastri sono già posti
saldamente. Dove la periodizzazione di Pattaro sembra meno giustificata, perché
forse c’è soltanto accentuazione all’interno di un’unità, è in una cesura che
pone. Sembra di poter dire che tutta l’attività e che muove, come Pattaro
ricorda, dall’articolo ‘AQUINO, giurista laico?’, è dedicata alla meditazione
integrale, per estensione dia-cronica e sin-cronica, del problema della ragione
giuridica nel mondo storico-sociale: è ripercorso tutto il pensiero
occidentale; si ha la progressiva accettazione di un diritto di ragione, il
quale ha una sua autonomia di fronte al diritto tradotto in leggi. Anche la
riflessione politica di F. e più, certamente, dopo gli sconvolgimenti, rientra
in quella visione di una ragione che opera nella storia con i suoi equilibri e
meccanismi. Gli scritti raccolti in questi volumi consentono di ritrovare gli
aspetti salienti della meditazione di F., di ripercorrerla nelle singole tappe
del suo maturarsi, di seguire, come in una fuga a più voci, l’accedere di nuovi
motivi a quelli di datazione più antica. In questo senso, come s’è già detto
all’inizio, grande è l’utilità di questa raccolta per chi studi l’opera di F.;
non solo, ma per chi si dedichi a ricostruire la vita intellettuale e morale,
la cultura politica di quegli anni, I n questa occasione, a chi scrive
interessa porre in luce alcuni essenziali aspetti teoretici di quella
riflessione. Ma ciò non intende certo sminuire il rilievo che si deve
riconoscere a F. storico delle idee. Lo studioso di VICO e di Grozio, del
diritto naturale classico, cristiano e moderno, è tale che ogni suo contributo
è degno di attento studio vuoi per l’oggetto trattato, vuoi per ricostruire in
modo più adeguato l’evoluzione dello stile di ricerca storiografica del suo
autore, vuoi infine per gli apporti d’ordine teoretico che esso fornisce. In
quest’ultimo senso, quello che qui interessa maggiormente, molti studi storici
apportano argomenti per la visione della storia e della sua organizzazione
giuridico-politica. Ma per fermarsi al solo rilievo storiografico, si deve
ricordare che in questi volumi tornano studi su molti temi tipici e prediletti
dell’attività di F.. Si vedano i vari ritorni su VICO: Vico nel pensiero del
suo primo traduttore francese (dedicato al rapporto Vico-Michelet); al quale si
ricollega, ventun anni dopo, U n presunto discepolo di Vico. Michelet; e
inoltre vari interventi critici sulla Scienza Nuova e su temi vichiani, a
cominciare dalla Genesi storica e genesi logica della filosofia della Scienza
nuova, per finire con lo Il problema del
diritto e l’origine storica della Scienza Nuova. Si vedano anche gli scritti
vari su Grozio: Grozio tra medioevo ed età moderna, e il saggio, assai
significativo per l’evoluzione personale di F., Ragione e storia nella dottrina
di Grozio. Accanto a tali studi dovrebbero esserne menzionati molti altri, a
cominciare da quello su Sociologia e diritto nella filosofia civile di
ROMAGNOSI, fino ai molti studi su temi storici, sulla laicità immanente in
pensatori cristiani, o sull’evoluzione del pensiero giuridico in senso più
stretto, come nel saggio postumo, scritto per la Storia delle idee politiche, economiche
e sociali diretta da FIRPO, dal titolo La scienza e la filosofia del diritto:
ricostruzione storica ammirevole nella sua lucida sinteticità, frutto maturo di
una mente storica che aveva già prodotto le sue opere maggiori. Né si devono
dimenticare i ritornanti interessi per il mondo greco, e per la forma
democratica che in esso si realizzò: valga l’esempio dello studio dLa
democrazia nell’antica Grecia e la riforma agraria. Si può dire che non manchi,
in questa raccolta, nessuno dei grandi temi storiografici di Fassò: VICO e
Grozio, il pensiero cristiano, l’affermarsi della ragione giuridica, la
grecità. Chi voglia ricostruire l’itinerario scientifico di F. storico delle
idee, avrà ora a disposizione un materiale imponente, qui riunito dalle varie
sedi in cui egli usava pubblicare i suoi saggi e articoli, e che erano quasi
sempre riviste giuridiche: singolare e significativa predilezione in un autore
che non ridusse mai la filosofia del diritto a teoria generale del diritto, ne
volle preservata la filosoficità, ma volle anche mostrare come non si potesse
prescindere dalla cono- scenza dei problemi scientifici del diritto. In questo
senso si può esser certi che F. ebbe profonda e genuina dimestichezza con i
problemi dei giuristi. Anche lo stile del suo pensiero e il suo stesso modo di
esprimersi, serio e sobrio, tutto attento alle prove e ai nessi concettuali,
risentiva beneficamente della formazione giuridica e degli interessi giuridici,
anche se questi non furono peculiari ad un ramo specifico del diritto, ma si
rivolsero piuttosto alla teoria generale, e semmai ai modi procedurali del
divenire del diritto - si pensi all’interesse per il problema del giudice -
come a quelli in cui meglio si scorge l’originalità della ragione giuridica nel
suo affermarsi. Si può anche dire che la cultura giuridica di F. influì
sull’originale forma del suo storicismo, al quale, fino agli ultimi anni, egli
non venne mai meno, Gli scritti appartenenti al primo periodo mostrano F. che,
movendo dall’interno della prospettiva neoidealistica, ne esce con una propria
visione della realtà come storia, e della storia come struttura in sé
organizzata, razionale, scandita in istituzioni. Lo stori- cismo assoluto di
Croce (un autore che, pure, F. ha ben conosciuto) è estraneo a questa forma di
storicismo, tutto fatto di cose e di nessi reali, Vico e Grozio sono stati i
fondamenti filosofici di questa visione della storia, Pattaro pone bene in luce
come l'avversione di F. a un razionalismo astratto divenga visione storicistica
nei primi studi vichiani riferisce quanto F. stesso scriveva, sull’esser
vichiani per il fatto di avere una visione della storia come concreta
razionalità. Pattaro prosegue illustrando il passaggio di F. dagli studi
vichiani, condotti in quell'atmosfera speculativa (non necessariamente o
integralmente condivisa), alla personale visione storicistica del diritto. Qui
influirono le nuove correnti che si affacciavano in Italia. Le suggestioni del
neoempirismo che si affaccia nella nostra cultura trovarono un'accoglienza non
ostile in un F. convinto che, nella filosofia del diritto, molto spesso
l'empirismo non è lontano dallo storicismo, La specifica tematica
giuridico-filosofica, lo fa incontrare con le correnti sociologiche ed
istituzionalistiche, ma nel contempo lo induceva, per superarne 1’oggettivismo
naturalistico, ad adottare un'impostazione filosofica di fondo lato sensu
kantiana, così Pattaro. In queste parole è detto l'essenziale sulla visione
filosofica di F. I1 quale descrive egli stesso come vede la crisi dell'idealismo,
provocata da varie correnti di pensiero, che egli enumera: il marxismo,
l'esistenzialismo, lo spiritualismo cristiano, il neopositivismo. Empirismo e
storicismo, egli li accosta nelle parole prima citate, tratte dall'Introduzione
ai Prolegomeni di Grozio e nuovamente li accosta, parlando dell'opera di Levi,
quando ritene utile muovere, sia pur con misura e senso delle sfumature, dalla
constatazione delle affinità tra storicismo idealistico e sociologismo
positivistico. In quello stesso scritto su Levi, F. avverte un'analogia tra due
generazioni in crisi, quella di Levi, che usce dal positivismo, la sua, che usce
dall'idealismo: due generazioni accomunate da una posizione che conduce ad
apprezzare, non già i beati possessori della verità, ma coloro che sono andati
faticosamente fabbricandosene una, senza cieche fedeltà a dogmi e senza
chiudere gli occhi davanti alla storia in cammino. Quello scritto su Levi vede,
come altri scritti, lo sgretolarsi dell'idealismo per l'irruzione di nuove
tendenze di pensiero, più legate all'osservazione diretta dell'esperienza.
Rientrano in questo quadro anche le polemiche che F. conduce contro le facili
riesumazioni del diritto naturale, talora troppo coerenti, e inconsapevoli
nella loro professione di un diritto astorico, talora troppo incoerenti e
disinvolte nella loro combinazione di diritto naturale e storia. Lo storicismo
era così diffuso in quegli anni, e senza effettiva consapevolezza critica, che
si ebbero anche coloro che F. chiama i giusnatural-storicisti. Lo storicismo di
quegli anni, e specialmente all’interno della cultura filosofico-giuridica (una
cultura, in quel periodo, assai vivace, in ricambio con altri àmbiti filosofici
e culturali), è uno storicismo di origine, più che filosofica, empiristica, o
addirittura empirica: fu lo storicismo di chi era cresciuto nell’indagine delle
teorie giuridiche sociologiche e istituzionalistiche, e medita sul diritto e
sui modi del suo farsi.I1diritto come sistema storicamente progrediente,
avrebbe detto Savigny; e in modi affini pensano Romano, Gurvitch, Capograssi,
per fare soltanto pochissimi ma influenti nomi (per la valutazione
dell’influenza di Capograssi, si può qui vedere la recensione di F. alla
IntevFYetazione di Capograssi, pubblicata da Carnelutti). Anche lo storicismo
di F. si modellò in aspetti affini, pur nella indubbia sua penetrazione
filosofica. Ma quello storicismo, se aveva le sue basi in Vico e in Grozio, si
approfondì e dispiegò nella visione istituzionalistica del diritto. Tra gli
autori di . non è Hegel (né in sé né nelle scuole che a lui si richiamarono), e
non sono gli autori del moderno storicismo indivi- dualistico, da Dilthey in
poi, che tanta influenza avrebbero avuto su Piovani, pure affine a F. per più
interessi ed aspetti. Si può dire allora che lo storicismo professato da F. fu
di impronta giuridica. Ebbe tratti affini allo storicismo post-crociano da
molti condi- viso in quegli anni; ma non derivava tanto da precise correnti
filosofiche, quanto dai giuristi non strettamente positivisti: la scuola
storica del diritto in Germania; ma molto di più le correnti
istituzionalistiche; e infine la tradizione di common-law, da F. ammirata come
esem- plare organizzazione giuridica e politica e presidio del valore liberale
della dignità deli’individuo. La storia era, secondo il titolo dell’opera,
ESPERIENZA giuridica; e non era questo
un pensiero da poco, ma anzi una robusta e meditata posizione storicistica,
perché il diritto, come struttura razionalizzatrice e regolatrice della
convivenza, mo- strava la ragione immanente alla storia, che era anche l’unica
ragione accessibile all’uomo. Avverso al razionalismo omnicomprendente - fosse
la metafisica metastorica della tradizione o la metafisica della storia come
totalità (idealismo, materialismo storico) -, F. crede in una razionalità che
guida la convivenza, che nasce dall’interazione di individui e di gruppi, che è
garanzia di libertà per gli individui. I valori nltimi, invece, non sono
accessibili agli uomini per via razionale; la ragione non può che fermassi a
questo mondo terreno, e studiarlo nelle strutture che in esso si formano e
variano. Era una visione, se vogliamo parlar filosoficamente, neokantiana, nel
senso di tanto neokantismo diffuso nella filosofia del diritto e nelle scienze
sociali. Conoscibile razionalmente il mondo dei fenomeni come mondo storico;
non-conoscibile, ma soltanto sperimentabile emozionalmente, il mondo del
valore. Cade la fondazione pratica della morale; restava la inconoscibilità dei
valori ultimi. In questo senso, Radbruch o Weber non pensano diversamente. Quel
che ebbe F., a differenza di questi autori (ma non del neokantismo in genere),
è l’interesse per quel sopramondo che egli affermava non-conoscibile, e che
vede tradotto, nella forma più pura, nel cristianesimo, è questo l’altro
versante della filosofia di F., che si tradusse in Cristianesimo e società,
opera tra le più alte della nostra cultura recente. E forse interessante notare
quel che scrive F., recensendo Piovani sul giusnaturalismo. Piovani fa sua la
proposizione (la personalità stessa è l’assoluto), che d’altronde traeva da
Kierkegaard, e la svolgeva nel senso di un individualismo visto come unico
coerente sbocco dell’etica moderna. Scrive F. E qui si potrebbe, naturalmente,
discutere a lungo e del resto anche chi,
come me, davanti alle affermazioni di una presenza, che non sia totalmente
mistica, dell’assoluto nell’individuo, rimanga perplesso, e non veda come un
ipersoggettivismo quale quello professato da Piovani possa sfuggire al
relativismo, non può non apprezzarne il profondo significato morale: assai più
alto in ogni caso di quello delle etiche oggettivistiche, che, coprendosi della
retorica dei valori eterni, conducono all’alienazione dell’uomo, e lo privano
di ciò che costituisce la sua umana essenza morale. Tre affermazioni sono da
rilevare in questo passo: v’è il rifiuto della retorica dei valori eterni,
giudicata alienante e tale da privare l’uomo della sua essenza morale, che è,
evidentemente, collegata alla ricerca e all’irrequietezza; l’iper-soggettivismo
(ma tanto varrebbe dire soggettivismo) non può sfuggire al relativismo, sentito
da F. come pericolo. F. si dichiara perplesso davanti alle affermazioni di una
presenza dell’assoluto nell’individuo, ma con l’eccezione che si tratti di una
presenza a totalmente mistica B. Rifiutate un’etica oggettivistica e un’etica
soggettivistica, che cosa rimane nella visione morale di F.? Rimangono: la
razionalità formale del diritto come ragione vivente nella storia e
l’esperienza mistica come unica via di accesso all’assoluto. Questi due piani
sono privi di relazione; ma essi appaiono tali da produrre queste conseguenze:
è salvata l’irrequietezza che è condizione della morale; è evitato il pericolo
del relativismo; è consentito l’accesso all’assoluto. Il mondo dei valori
assoluti è accessibile soltanto all’esperienza mistico-religiosa. La carità,
intesa in senso teologico, ovvero come virtù teologale, è proprio questa
capacità di inserirsi nella vita divina, La simpatia di F. va agli spiriti
capaci di questa immedesimazione: da Paolo a Kierkegaard, va a coloro che hanno
ben chiara la distinzione tra mondo della terra, della legge, della ragione, e
mondo divino, della carità. Quella linea del cristianesimo aveva contrapposto
il mondo, regno del peccato e della legge, al regno della carità,
dell’immedesimazione in Dio quel mondo che non conosce diritto. Tra
cristiaizesimo e società v’è quindi un contrasto ineliminabile, come tra generi
diversi e inconciliabili, come tra santità e peccato, come tra l’assolutezza
dei valori e il mondo degli uomini comuni, I1 saggio in cui queste tesi erano
argomentate fu quello che sollevò le maggiori polemiche. Sul piano più
propriamente filosofico, BAGOLINI è il critico più attento - come PATTARO ricorda
a lucida analisi quella divisione netta tra la realtà e il valore, per
affermarne l’insostenibilità: gli appare inconseguente negare la conoscibilità
razionale del valore e allo stesso tempo parlarne. Ma si può dire - prosegue
Pattaro che F. (intenzionalmente rinvia tutti i valori che si pretende siano di
questo mondo nel cielo indefinito e indefinibile dell’assoluto). F. conobbe e
trattò il mondo imperfetto e relativo; non dimenticò - è la strada della
mistica - il mondo perfetto e assoluto del quale ci hanno dato testimonianza
grandi spiriti, e che noi stessi avvertiamo nel nostro desiderio di perfezione.
Ma quella divisione così recisamente affermata provocò le polemiche più accese
al di fuori del campo propriamente filosofico, e se è discussa e rispettata da
teologi e da uomini di fede e di chiesa (questa raccolta ne reca più tracce:
dai giudizii Lener fino a quelli espressi nel colloquio di Strasburgo, dedicato
proprio al tema tipico di F.: L a révélation chrétienne et le droit), è
trattata invece con non altrettanta serietà e consapevolezza da giuristi, e da
coloro che, professandosi i giuristi cristiani o, o (( giuristi cattolici)), si
fondano proprio sulla tesi opposta a quella sostenuta da F. nel suo libro. Sono
due tesi teologiche a confronto, dov’era conoscenza dei problemi; ma F. ha buon
gioco a spiegare ai suoi interolcutori giuristi che la carità e la giustizia di
cui parla il Vangelo riguardano il rapporto con Dio, rispetto al quale tutto il
resto vien dato per soprappiù, e non il rapporto con gli uomini, che è soltanto
una conseguenza del vivere in Dio. Se carità e mondo sono in un tale contrasto,
non si può parlare, senza cadere in contraddizione, di diritto cristiano, di
giuristi cristiani, di politica cristiana, di cristianesimo sociale.
Ripetutamente F. polemizza con i giuristi cristiani, innanzi a tutti con CARNELUTTI;
e ricorda che carità non è filantropia, e che la giustizia, nel vangelo, sta a indicare
una situazione d’ordine esclusivamente religioso, l’elezione, la perfezione, la
santità – cf. H. P. Grice on J. O. Urmson, eroi e santi --, e non è la virtù
sociale pur teorizzata da teologi e filosofi morali cristiani, e che AQUINO
definisce IVSTITIA METAPHORICE DICTA. Rispondendo a Carnelutti è lo stesso
scritto nel quale deplora, con parole prima ricordate, che tutti si sentissero
autorizzati a parlar di filosofia), F. precisa: Ciò di cui non posso
ringraziare l’illustre maestro è d’aver pensato che a me non garberebbe
d’aggiungere al mio titolo di filosofo del diritto l’aggettivo cristiano il che
mi fa ritenere che anche a me, anzi soprattutto a me egli si rivolga, quando,
nell’intitolare il suo scritto garbatamente parodiando l’intitolazione del e
sottopose mio, parla di pericoli per i filosofi non cristiani Non vedo in
verità perché quell’aggettivo non dovrebbe garbarmi, né che cosa abbia potuto
far sospettare ciò al pur benigno lettore: forse perché ho criticato qualche giurista
cattolico il quale mostrava di non conoscere con troppa esattezza alcuni
termini usati nei testi cristiani? Quei concetti venivano organicamente
presentati, dal punto di vista storico e teorico, nel saggio “Giustizia, carità
e filantropia,” e sono anche inseriti negli scritti in onore di JEMOLO (si
veda), grande giurista storico e grande spirito religioso, uno degli spiriti
più congeniali a F., se non forse il più congeniale. La separazione di
cristianesimo e società era pure destinata a scontrarsi con l’opinione
dominante nel mondo religioso, e di coloro che, richiamandosi al cristianesimo,
intendevano tradurlo nella società. F. dissente in maniera totale dalle idee di
BALBO (si veda). Ritorna il sufposto cristianesimo sociale, e il titolo di una
nota polemica come pure, naturalmente, dalle idee di chi nutrisse progetti
politici meno radicali. Ribade che il cristianesimo è una religione, e che la
religione ha per oggetto Dio e soltanto Dio, e che la novità, e quindi
l’essenziale significato del cristianesimo rispetto alla filosofia ed alla
morale greca ed alla morale ebraica sta tutta in questa sua proiezione totale
verso Dio, che consuma e supera ogni interesse umano e mondano e perciò anche
sociale. Non nega certo un ideale di vita cristiano; nega che il cristianesimo
potesse tradursi in dettami politici. Facciamo cristiani noi stessi, dice; ma
guardiamoci dall’a immischiare Dio nei problemi di Cesare. E conclude quelle
pagine ammirando la scelta religiosa di Dossetti, che così commentava: a Questo
sì è il vero ideale cristiano; ed è bello vedere che c’è chi, riconosciutolo,
ha - o riceve - la forza di realizzarlo. 1 superficiali interpreteranno tutto ciò
come una rinuncia, come l’accettazione dolorosa di una sconfitta. Io penso che
sia una grande vittoria, la sola vera vittoria cristiana. Questa visione del
problema andava risoluta- mente, e con insofferenza dichiarata, contro la
sintesi politico-religiosa di Maritain, che tanto ha influenzato nel nostro
tempo il cristianesimo sociale (si vedano in proposito i vari cenni di F. E
anda contro le soluzioni e conciliazioni dello spiritualismo cattolico del
quale spesso si trova menzione in queste pagine), nel quale ultimo F. svelava
(( una grave contraddizione nello sforzo di assumere una posizione che sia ad
un tempo religiosa e razionalistica, trascendentistica e storicistica, salvando
in pari tempo, e connettendoli e conciliandoli, il valore (trascendente) e la
storia, la moralità e la giuridicità, la città di Dio e quella città terrena,
che è pur sempre, per chi senta davvero religiosamente, la città del demonio e
del peccato: soddisfacendo ecletticamente due istanze pienamente legittime e
valide, certo, ma irriducibili fra di loro. Tutto un periodo della vita di F. -
quello che sopra si è detto il secondo - gravita intorno a questi pensieri; ma
è il periodo in ogni senso centrale della vita di F.. Quel che vale per il
problema religioso vale per L’ÀMBITO FILOSOFICO generale, Di qui anche
l’avversione di F. alle facili combinazioni di diritto naturale e storia, e ai
teorici di un diritto naturale razionalmente deducibile e perciò anche
applicabile (si vedano le ripetute e dure critiche a Strauss, e particolarmente
lo scritto Diritto naturale e storicismo, appunto in polemica con questo).
L’assoluto non è conoscibile; conoscibile è soltanto il mondo della storia, e
ad essa, come a mondo pervaso da strutture e istituzioni che si formano, volge
lo sguardo lo studioso del fenomeno giuridico, La storia, aveva scritto F.
nell’opera è esperienza giuridica; e su quella visione egli avrebbe fondato
negli anni le sue riflessioni, le sue ricerche storiche, i suoi interventi sui
prblemi politici e culturali. Di lì nascevano la sua concezione del diritto e
la sua concezione della vita associata. La storia del pensiero giuridico
occidentale conduceva a una visione razionalistica, che poteva ben dirsi laica e
liberale. Questi due attributi sono usati da Pattaro, e si può esser d’accordo
con quella definizione; naturalmente non dimenticando tutto quel che s’è detto
finora sulla com- plessità e ricchezza del pensiero di F.: nel senso, in ogni
modo, nel quale se ne potrebbe parlare per JEMOLO (si veda), ma anche per
studiosi prima menzionati, e a lui in quel tempo vicini per affinità di sentire
su molti temi, come BOBBIO (si veda), PIOVANI (si veda), COTTA (si veda). In
questo senso può dirsi che la meditazione di F. sia tutta rivolta alla inve-
stigazione storiografica e teoretica di quella visione razionalistica, laica e
liberale della storia, I1 diritto diviene, allora, la ragione conoscibile agli
uomini, la ragione che salva la convivenza degli individui. L’assoluto può
essere attinto da invididui eccezionali o in momenti eccezionali, è un dono
concesso e non una strada consentita alla ragione; ma il mondo della storia ha
una sua dimensione razionale proprio nel diritto, che assicura istituzioni in
grado di garantire gli individui nel loro vivere in comune, Se Cristianesimo e
società insegna che non si può mescolare Dio a Cesare, le opere, insistendo
sull’indagine del mondo storico-giuridico, già avviata nell’opera, insegnano
che neppure si può, né si deve, trasformare Cesare in Dio, e vedere nella
storia valori e significati immanenti. Questa etica e questa visione politica
si chiariscono e arricchiscono via via nella ricerca di F.. I1 problema si
intreccia con quello del rispetto della legge, e quindi con la valutazione del
positivismo giuridico. F. si domandava, e concludeva senza risposte perentorie:
Dobbiamo insegnare l’obbedienza assoluta alla legge. È il problema del
fondamento della convivenza e del fondamento dell’obbligatorietà della legge.
Diventa anche il problema se fosse razionalmente deducibile la democrazia, F.
nega, e con chiarezza in uno scritto, LETTURE, che fra diritto naturale e
democrazia ci fosse nesso necessario, contraddicendo in tal modo diffuse
concezioni. Conveniva invece su di un fondamento morale della forma democratica
(che per la cristal- lina mente di F. volle sempre dire forma
democratico-liberale) della convivenza. È un diritto che puo magari esser detto
naturale, ma ricordando la storicità della natura umana: il diritto naturale
sul quale la libertà e la democrazia possono fondarsi non può essere un
astratto dogma esterno alla storia dell’uomo: esso non può consistere che
nell’idea di giustizia che l’uomo ritrova nella propria coscienza morale, il
cui valore è sì certamente assoluto, ma il cui con- tenuto può essere soltanto
quello che lo sviluppo storico di questa coscienza comporta. La limpida
relazione su Stato di diritto e stato di gizlstizia, rivendicava il valore
dello stato liberale di diritto, che non ha fra i suoi scopi – F. conclude con
i versi di Holderlin - di far dello stato il paradiso dell’uomo, col risultato
di farne un inferno, Si richiamava all’esperienza costituzionale inglese, che
avrebbe ribadita come modello di sviluppo giuridico, civile e politico nella
prolusione bolognese, La legge della ragione. In quell’occasione, contemporanea
al saggio dallo stesso titolo, F. afferma che non possiamo, oggi, rifiutare il
giusnaturalismo, quando il giusnaturalismo si propone come appello alla legge
della ragione. È un modo di affermare, più che un diritto naturale, il diritto
di giudicare le circostanze storiche al lume della ragione; al modo seguito dai
giuristi inglesi di common law. Le leggi, il diritto positivo, avevano il loro
valore, e si doveva loro obbedienza, ma la ragione giuridica non si limita a
sistemare i loro dettami, in un modo che sarebbe anch’esso astratto, pur se in
modo opposto a quello tenuto dal giucnaturalismo meta-storico ma se continuiamo
a rifiutare - obietta F. a SCARPELLI (si veda) come abbiamo sempre rifiutato,
l’idea di un diritto naturale extra-storico, immutabile ed eterno, dobbiamo per
questo abbracciare il culto di un diritto positivo altrettanto extrastorico e
astratto?. Sta avvenendo in F. un passaggio dal rifiuto dell’espressione
diritto naturale ove non fosse coerentemente inserita in una metafisica
soprastorica, ad un’accettazione della medesima espressione in un senso più
lato, come diritto di una natura dell’uomo che è ragione operante nella storia.
In questo senso si poteva anche affermare un diritto naturale, che giudicasse
razionalmente, in modo storico, fatti, istituzioni, leggi, ma senza
sistemazioni assolute. Era il sistema pragmatico, empirico, storico, anche
antiilluministico, seguito dalla civiltà giuridica anglosas- sone, la quale,
non a caso, era anche quella che aveva dato il più duraturo esempio di stato
democratico-liberale. Su questa base, scientifica e politico-morale, si sarebbe
espresso F. negli ultimi anni della sua vita, durante i sussulti e degli anni
seguenti, durante quegli avvenimenti e quelle teorizzazioni che tanto avrebbero
influito sulla [Giuffrè, Milano] nostra ultima storia, e che da lui furono
giudicati senza le incertezze, le ambiguità, i silenzi, le fragili adesioni, di
cui molti si resero responsabili. In verità, tutta la formazione culturale,
oltreché l’intransigenza morale, garantiva F. di fronte alla crisi di quegli
anni. Era stato sempre convinto che il diritto è il momento razionalizzatore
nella storia, e che è esso stesso fenomeno storico. I1 riferimento
all’esperienza anglosassone gli permetteva di criticare con misura il
positivismo giuridico-legalistico si veda Il positivismo giuvidico, contestato;
ma lo faceva anche accorto, sul piano politico, del valore irrinunciabile dello
stato democratico-liberale, coi suoi valori di tutela della libertà
individilale attraverso metri comuni a tutti gli individui e attraverso misure
inevitabilmente repressive. Contro la riduzione del diritto a politica, egli
non cedette alle nuove idee che si diffondevano tra giuristi e magistrati, e
che pretendevano di richiamarsi a una democrazia sostanziale; seppe subito
additare le fonti teoriche di quelle idee, e le rintraccia in Schmitt, nelle
parole, certo, di un insigne giurista; il giurista più insigne del Terzo Reich.
Puo parlare, per quelle correnti, di nazismo giuridico, e dovendo scegliere tra
Positivismo e nazismo giuvidico, egli potè richiamarsi tranquillamente ai suoi
autori, e a quella ragione artificiale di cui aveva parlato Coke. Si tratta,
come egli intitolava un saggio, di vedere in modo razionale e insieme storico
il rapporto tra giudice e legge (si veda Il giudice e l’adeguamento del diritto
alla realtà storico-sociale, ampia indagine teorica e storica del problema).
Vede i pericoli insiti nel rifiuto del principio di legalità; rifiutava che si
potesse parlare del diritto di resistenza nella società democratico-liberale, e
vedeva nella contestazione di quegli anni non il riferimento a una ragione
diversa per stabilire un ordine più giusto, ma la negazione di qualsiasi
ordine, di qualsiasi istituzione repressiva, della stessa ragione, in nome di
un atteggiamento che definiva anarchico e religioso; ripeteva che diritto è
necessariamente repressione, e che si trattava soltanto di fare in modo che
quella repressione fosse frutto della ragione (si veda, Società, diritto e
repressione. Da questi stessi principi e preoccupazioni era ispirato l’ampio
saggio postumo già menzionato su La sciefiza e la filosofia del diritto, viste
nel loro sviluppo storico. Questa indagine, come d’altronde tutta la Stovia
della filosofia del divitto, ribadiva la visione del diritto come F. era venuto
maturandola negli anni della sua coerente meditazione. In queste occasioni, di
fronte ai problemi più gravi dei tempi, Fassò poteva richiamarsi a quanto aveva
pensato, sul rapporto fra cristianesimo e storia, nel suo periodo teoretico. Nella
società che non è società, e neppure comunità, ma comunione dei santi, come si
è liberi dal diritto, così lo si è dalla ragione. Siccome invece purtroppo non
siamo guidati dallo spirito, siamo, come ci ricorda San Paolo, sotto la legge;
e l’unica cosa che possiam fare per non sentirne troppo la repressione è
cercare che essa sia conforme alla RAGIONE. Ma è riduttivo vedere l’ultimo
periodo della riflessione di F. nella luce di queste polemiche contro idee
effimere; anche se si dove ricordarle per rendere onore alla coerenza e alla
rettitudine dello studioso. In realtà, alla base di quelle polemiche è la
meditazione di tutta una vita, nella quale è sempre stato operante l’amore per
la distinzione: distinzione tra Dio e GIULIO (si veda) CESARE, tra esperienza
religiosa ed ESPERIENZA GIURIDICA, tra assoluto e STORIA. Ricerca Lucio Giunio
Bruto politico romano Lingua Segui Modifica Lucio Giunio Bruto Project Rome
logo Clear. png Console della Repubblica romana Capitoline Brutus Musei
Capitolini MC1183. jpg Busto di Bruto, nei Musei Capitolini in Roma. Nome
originale Lucius Iunius Brutus Nascita Roma Morte Roma GensIunia Consolato Lucio
Giunio Bruto è stato il fondatore della Repubblica romana e secondo la
tradizione uno dei due primi consoli. Il nome di Bruto è legato alla
leggendaria cacciata dell'ultimo re di Roma, Tarquinio il Superbo.
Secondo la narrazione di Livio, rafforzata da Ovidio, Bruto aveva molti motivi
di ostilità contro il re, di cui era nipote in quanto figlio di una sorella:
nel corso degli eccidi familiari che spesso accompagnano la presa di potere di
un despota, Tarquinio aveva disposto fra l'altro l'omicidio del fratello di
Bruto, il senatore Marco Giunio. Bruto, temendo di subire la stessa sorte,
allora si mimetizzò nella famiglia di Tarquinio, impersonando la parte dello
sciocco (in latino brutus significa sciocco). Lui accompagnò i figli di
Tarquinio, Tito ed Arrunte, in un viaggio all'oracolo di Delfi. I figli
chiesero all'oracolo chi sarebbe stato il successivo sovrano a Roma e l'oracolo
rispose che la prossima persona che avesse baciato sua madre sarebbe diventato
re. Bruto interpretò la parola "madre" nel significato di
"Terra" così, al ritorno a Roma, finse di inciampare e baciò il
suolo. In seguito Bruto dovette combattere in una delle tante guerre di Roma
contro le tribù vicine e tornò in città solo quando venne a sapere della morte
di Lucrezia. Lucio Giunio Bruto da giovane Il giuramento di
Bruto, Jacques-Antoine Beaufort, I littori portano a Bruto i corpi dei due
figli, Jacques-Louis David. Secondo la leggenda, la cacciata dell'ultimo re da
Roma ebbe inizio con il suicidio di Lucrezia, moglie di Collatino e parente di
Bruto, perché costretta a cedere con le minacce alle richieste amorose di Sesto
Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo. Livio racconta che, suicidatasi
davanti ai suoi occhi, del marito Collatino e del padre di lei Spurio Lucrezio,
Bruto estrasse il coltello dalla ferita e disse: «Su questo sangue,
purissimo prima che il principe Sesto Tarquinio lo contaminasse, giuro e vi
chiamo testimoni, o dei, che da ora in poi perseguiterò Lucio Tarquinio il
Superbo e la sua scellerata moglie, insieme a tutta la sua stirpe, col ferro e
con il fuoco e ogni mezzo mi sarà possibile, che non lascerò che né loro, né
alcun altro possano regnare a Roma.» (Tito Livio, Ab Urbe condita libri)
Bruto, il padre ed il marito di Lucrezia giurarono di vendicarne la morte.
Quindi trasportarono il corpo della donna nella piazza principale della città
di Collatia, dove la donna si era suicidata, attirando l'attenzione della
folla, che dopo aver saputo dell'accaduto si indignò per la protervia di Sesto
Tarquinio. Molti dei giovani lì presenti si offrirono volontari per
condurre una guerra contro i Tarquini. Le truppe ora riunite riconobbero in
Bruto il loro comandante, facendo rotta su Roma per conquistarne il potere.
Giunti a Roma, Bruto si rivolse al popolo romano riunito nel Foro, raccontando
della triste sorte toccata a Lucrezia. Aggiunse quindi della superbia del
re, Tarquinio, e della miseria della plebe romana, costretta dal tiranno a
costruire ed a ripulire le fogne, invece che portata a combattere come era
nella natura dei Romani. Ancora ricordò dell'indegna morte di re Servio Tullio,
calpestato da sua figlia, moglie di Tarquinio, con un cocchio. Invocò infine
gli dei vendicatori, infiammando gli animi del popolo romano alla rivolta
contro il tiranno, tanto da trascinarlo ad abbattere l'autorità regale e a
esiliare Lucio Tarquinio, insieme alla moglie ed i figli. Partì quindi per Ardea,
dove il re era accampato, per ottenere che anche l'esercito si schierasse dalla
sua parte, dopo aver lasciato il comando di Roma a Lucrezio (in precedenza
nominato praefectus della città, da parte dello stesso Superbo). Frattanto,
Tullia, moglie di Lucio Tarquinio riuscì a fuggire dalla città. Quando la
notizia di questi avvenimenti arrivò ad Ardea, Tarquinio il Superbo, allarmato
dal pericolo inatteso, partì per Roma per reprimere la rivolta. Bruto, allora,
informato che il re si stava avvicinando, per evitare l'incontro, fece una
breve diversione e raggiunse l'accampamento regio ad Ardea dove fu accolto con
entusiasmo da tutti i soldati, i quali espulsero i figli del re, mentre a
quest'ultimo venivano chiuse in faccia le porte di Roma e comunicata la
condanna all'esilio. Due dei figli seguirono il padre in esilio a
Cere(Cerveteri), Sesto Tarquinio invece, partito per Gabii, qui fu assassinato,
da coloro che si vendicarono delle stragi e razzie da quello compiute. In
seguito a questi eventi, il prefetto della città di Roma convocò i comizi
centuriati, che elessero i primi due consoli della città: Lucio Giunio Bruto e
Lucio Tarquinio Collatino. Busto conservato al Museo archeologico nazionale di
Napoli I primi provvedimenti di Bruto furono: evitare che il popolo, preso
dalla novità di essere libero, potesse lasciarsi convincere dalle suppliche
allettanti dei Tarquini, costringendolo a giurare che non avrebbe permesso più
a nessuno di diventare re a Roma; rinforzare il senato ridotto ai minimi
termini dalle continue esecuzioni dell'ultimo re, portandone il totale a
trecento, nominando quali nuovi senatori i personaggi più in vista anche
dell'ordine equestre. Da qui l'uso di convocare per le sedute del senato i
padri (patres) ed i coscritti (dove è chiaro che con questo termine si alludeva
agli ultimi eletti). Il provvedimento aiutò notevolmente l'armonia cittadina ed
il riavvicinamento della plebe alla classe senatoriale. Durante il consolato i
suoi figli, Tiberio e Giunio, complottarono con il deposto re Tarquinio il
Superbo, per farlo tornare a Roma come re, ma furono scoperti grazie ad uno
schiavo. Incatenati, chiesero pietà e il popolo, impietosito, ne chiedeva la
loro liberazione. Ma Bruto fu irremovibile, e li fece uccidere, assistendo
personalmente senza versare una lacrima per la loro morte. In seguito
alle dimissioni forzate del collega Lucio Tarquinio Collatino, Bruto chiese al
popolo di nominare un altro console in sua sostituzione, così da non dare adito
al sospetto che volesse governare sulla città come un monarca. Allora i
cittadini riuniti elessero Publio Valerio Publicola. Il suo consolato terminò
con la battaglia della Selva Arsia, combattuta contro gli Etruschi, che si
erano alleati con i Tarquini, per restaurarne il potere. Durante la battaglia
Bruto si scontrò con Arrunte Tarquinio, figlio di Tarquinio il Superbo e cugino
di Bruto; i due, spronati i loro cavalli al galoppo, si trafissero
vicendevolmente con le loro lance, perdendo la vita nello scontro. Il
console superstite, Valerio, dopo aver celebrato un trionfo per la vittoria,
tenne un funerale di grande magnificenza per Bruto, che fu pianto dalle
nobildonne per un anno. Altro Servilio Ahala e Bruto in un denario di
Marco Giunio Bruto. Marco Giunio Bruto, il cesaricida che si vantava di essere
un discendente di Lucio Giunio Bruto, nel 54 a.C., dieci anni prima delle Idi
di marzo quando Giulio Cesare rimase ucciso, emise un denario con al diritto la
testa di Lucio Giunio Bruto, il fondatore della repubblica romana e la scritta
BRVTVS ed al rovescio la testa di Gaio Servilio Strutto Ahala e la scritta
AHALA. Secondo Crawford (Roman Repubblican Coinage) il denario fu emesso quando
a Roma corse la voce che Pompeo volesse diventare dittatore. Critica
storica Il racconto proviene dall'Ab Urbe condita di Livio e tratta di un punto
della storia di Roma che precede le annotazioni storicamente affidabili
(praticamente tutte le annotazioni precedenti furono distrutte dai Galliquando
saccheggiarono Roma) La figura di Bruto nell'arte Il busto di Bruto si
trova nel palazzo dei Conservatoridi Roma. Proveniva dalla collezione privata
del Cardinale Rodolfo Pio da Carpi, che la donò alla città nel XVII secolo.
Trafugato da Napoleone che lo fece esporre al Louvre, fu riportato a Roma.
ALIGHIERI (si veda) lo cita nel limbo, nell’Inferno, quando scrive. VIDI QUEL
BRUTO CHE CACCIÒ TARQUINO (Alighieri, Divina Commedia, Inferno) Shakespeare,
nella sua tragedia Giulio Cesare, fa un riferimento a Lucio Giunio, quando fa
ricordare a Cassio che parlava a Bruto, l'altro cesaricida, lo spirito
repubblicano dei propri antenati. Lucio Giunio Bruto è uno dei personaggi
principali de Il ratto di Lucrezia, un poema sempre di Shakespeare, e nella
tragedia di Nathaniel Lee, Lucius Junius Brutus; Father of his Country. A
Giovan Francesco Maineri è attribuito un dipinto, databile tra il 1490 e il
1493, dal titolo Lucrezia, Bruto e Collatino. Nel 1789, all'alba della
rivoluzione francese, il pittore francese Jacques-Louis David realizzò il
dipinto I littori riportano a Bruto i corpi dei suoi figli, oggi esposto al
Louvre di Parigi. Il dipinto provocò grandi timori nelle autorità, poiché si
temeva un paragone tra l'intransigenza del console Lucio Giunio Bruto, che non
esitò a sacrificare i figli che cospiravano contro la Repubblica, e la
debolezza di Luigi XVI rispetto al fratello conte d'Artois, favorevole alla
repressione dei rappresentanti del Terzo Stato. Giunio Bruto è anche
un'opera seria musicata da CIMAROSA (si veda), libretto di ACANZIO (s veda) Matyszak,
Eutropio, Breviarium ab Urbe condita Eutropio, Breviarium ab Urbe condita Livio,
Ab Urbe condita libri Santillana e Dechend, Il mulino di Amleto, Adelphi Livio,
Periochae ab Urbe condita libri, Livio, Ab Urbe condita libri, Livio, Ab Urbe
condita libri Livio, Ab Urbe condita libri Livio, Periochae ab Urbe condita
libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Livio, Ab Urbe condita libri Livio,
Ab urbe condita libri Livio, Ab urbe condita libri Dionigi racconta che furono
due i figli accusati ed uccisi da Bruto, Antichità romane, Libro VIII, 79. ^
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Livio, Ab Urbe condita libri Iunia e
Servilia; Sydenham; Crawford.Fonti primarie Livio, Ab Urbe condita. Fonti secondarie William
Smith, Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, Taylor, Walton
and Maberly, London. Matyszak, Chronicle of the roman Republic, New York,
Thames et Hudson. Carandini, Res publica: Come Bruto cacciò
l'ultimo re di Roma, Milano, RCS Libri S.p.A. Voci correlate Bruto capitolino
Consoli repubblicani romani Gens Iunia Lapis Satricanus Elenco degli oracoli di
Delfi. Bruto, Lucio Giunio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Lucio Giunio Bruto, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Lucio Giunio Bruto nel Dizionario delle antichità greco-romane
di William Smith Portale Antica Roma Portale Biografie PAGINE
CORRELATE Tarquinio il Superbo settimo e ultimo re di Roma Lucrezia
(antica Roma) figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino e moglie di Collatino
Lucio Tarquinio Collatino politico romano. Nome compiuto: Guido Fassò. Fassò. Keywords:
RES PVBLICA RES POPVLI, ius, Grice on Hart, Hart’s failure as a
jurisprudentialist – “La filosofia romana” “La giurisprudenza romana” la genesi
logica della scienza nuova di Vico, la genesi storica della scienza nova di
vico, Michelet, filosofo uganotto discipolo di Vico, Croce su F., F. su
Gentile, F. su Romano – iurisprudenza, ius-naturalismo – legge e raggione,
legge raggione, societa – positivismo – storia come esperienza giuridica,
l’assoluto giuridico – natura umana – grozio e vico – lo stato fascista di
Gentile. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Fassò” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Fausto: la ragione conversazionale a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo italiano– Riez --.
Contra Claudiano Mamerto. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Fausto,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Favonio: la ragione conversazionale a Roma antica – il portico a Roma –
il cinargo a Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filosofo del portico,
amico e ammiratore di CATONE (si veda) Uticense. Fugge con Pompeo. E
giustiziato per essere proscritto. Dopo che Marco F. E catturato e giustiziato
a seguito della battaglia di Filippi Ottaviano acquistò uno dei suoi schiavi,
un certo Sarmento, quando tutte le proprietà del nemico sconfitto vennero messe
in vendita: è stato affermato poi ch'egli divenne il catamite preferito dello
stesso futuro imperatore. Osgood, J.
Caesar's Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire, Cambridge. Marcus
F., a Roman politician during the period of the fall of the Roman Republic. Noted
for his imitation of Catone the Younger, his espousal of the Cynic philosophy –
CINARGO --, and for his appearance as the Poet in William Shakespeare's play
Julius Caesar. Life Aerial view of Terracina with the Circeo
promontory in the background Favonius was born in around 90 BC[1] in Tarracina
(the modern Terracina), a Roman colony on the Appian Way at the edge of the
Volscian Hills.[2] Favonius in Latin means "favourable"; in Roman
mythology Favonius was the west wind, whose counterpart in Greek mythology was
Zephyrus.[3] Political career Favonius,
with the support of Cato, was chosen aedile at some time between 53 and 52
BC.[2] According to Plutarch, Favonius
stood to be chosen aedile, and was like to lose it; but Cato, who was there to
assist him, observed that all the votes were written in one hand, and
discovering the cheat, appealed to the tribunes, who stopped the election.
Favonius was afterwards chosen aedile, and Cato, who assisted him in all things
that belonged to his office, also undertook the care of the spectacles that
were exhibited in the theatre.[4] As
well as being chosen aedile, he was also chosen quaestor and served as legatus
in Sicily, "probably after his quaestorship".[2] Although many
classical reference works list Favonius as having been a praetor in 49 BC, it
is a matter of some controversy whether or not he was a praetor at any time
between 52 and 48 BC. According to F. X. Ryan, in his 1994 article 'The
Praetorship of Favonius', the matter hinges on the meeting at the senate at
which he bade Pompey "stamp on the ground". "When we are forced
to decide whether a man who spoke at a meeting summoned by consuls was a
praetor or a senator, all we can say is that probability greatly favors the
latter alternative."[2] Cassius Dio wrote of Favonius' relation to Cato
that Favonius "imitated him in everything",[5] while Plutarch wrote
that Favonius was "a fair character ... who supposed his own petulance and
abusive talking a copy of Cato's straightforwardness".[6] An instance of
his imitation of Cato's plainspeaking that was ruder and more vehement than the
behaviour of his model might have allowed came in 49 BC; in a dispute in the
Senate, Pompey, challenged as to the paucity of his forces when Julius Caesar
was approaching Rome from Gaul, answered that he not only could call upon the
two legions that he had lent to Caesar but could make up an army of 30,000 men.
At which Favonius "bade Pompey stamp upon the ground, and call forth the
forces he had promised".[6]
According to Plutarch, Favonius was known amongst his fellow Roman
aristocrats as a Cynic because of his outspokenness,[7] but a modern writer on
Greek philosophy labels him as an "early representative of Cynic
type" who fell short of the (possibly unattainable) ideal cynicism of the
earliest Greek proponents of the doctrine (a slightly later example of the type
was Dio Chrysostom). Despite his wild, vehement manner, F. is capable of acts
of humility, such as he performed to Pompey when he entertained Deiotarus I of
Galatia aboard ship. Pompey, for want of
his servants, began to undo his shoes himself, which Favonius noticing, ran to him
and undid them, and helped him to anoint himself, and always after continued to
wait upon, and attended him in all things, as servants do their masters, even
to the washing of his feet and preparing his supper. Against the triumvirate F.
was a member of the optimates faction within the Roman aristocracy; in a letter
to Caesar on ruling a state (Ad Caesarem senem de re publica oratio),
traditionally attributed to Sallust but probably by the rhetorician Marcus
Porcius Latro, Caesar is told of the qualities of some of these nobles. Bibulus
and Lucius Domitius are dismissed as wicked and dishonourable while Cato is
someone "whose versatile, eloquent and clever talents I do not
despise." The writer continues, In
addition to those whom I have mentioned the party consists of nobles of utter
incapacity, who, like an inscription, contribute nothing but a famous name. Men
like Lucius Postumius and Marcus F. seem to me like the superfluous deckload of
a great ship. When they arrive safely, some use can be made of them; if any
disaster occurs, they are the first to be jettisoned because they are of least
value. Like Cato, F. opposed the
corruption of many of Rome's leading politicians in general and the rise of the
First Triumvirate in particular. When Caesar returned from his praetorship in
Spain and successfully stood for consul, he allied himself with Pompey (to whom
he gave his daughter Julia in marriage) and Clodius. Following an incident in
which Cato prevented Caesar from both having a triumph and standing for
consulship by a filibustering tactic, after which Cato and Bibulus were
physically attacked by Caesar's supporters, Caesar's party demanded two things
of the senate: first, that it sign a law concerning the distribution of land; second,
that all senators swear an oath promising that they would uphold the law.
Silver denarius of Cato the Younger. According to Plutarch, "heavy
penalties were pronounced against such as would not take the oath", which
in this case meant exile. A party led by Cicero, Lucullus and Bibulus, to which
Cato and F. allied themselves, opposed these measures, but eventually either
swore the oath or abstained. Cato, however, feared these laws and the oath as
not being for the common good but as extensions of the power of Caesar and
Pompey; Plutarch writes of Cato that "he was afraid, not of the
distribution of land, but of the reward which would be paid for this to those
who were enticing the people with such favours." Eventually all senators
except Cato and F. agreed to Caesar and Pompeys's measures, whereupon Cicero
made an oration urging Cato to soften his attitude. According to Plutarch, The one who was most successful in persuading
and inducing him [Cato] to take the oath was Cicero the orator, who advised and
showed him that it was possibly even a wrong thing to think himself alone in
duty bound to disobey the general will; and that his desperate conduct, where
it was impossible to make any change in what had been done, was altogether
senseless and mad; moreover, it would be the greatest of evils if he should
abandon the city in behalf of which all his efforts had been made, hand her
over to her enemies, and so, apparently with pleasure, get rid of his struggles
in her defence; for even if Cato did not need Rome, still, Rome needed Cato,
and so did all his friends; and among these Cicero said that he himself was
foremost, since he was the object of the plots of Clodius, who was openly
attacking him by means of the tribuneship. Finally Cato was persuaded to give
up his opposition, followed by F., the last to submit. Plutarch writes,
"By these and similar arguments and entreaties, we are told, both at home
and in the forum, Cato was softened and at last prevailed upon. He came forward
to take the oath last of all, except F., one of his friends and intimates. Upon
hearing the news that of the members of the Triumvirate, Caesar was to be given
a fresh supply of money, and Pompey and Crassus were to be consuls again the
following year, F., "when he found he could do no good by opposing it,
broke out of the house, and loudly declaimed against these proceedings to the
people, but none gave him any hearing; some slighting him out of respect to
Crassus and Pompey, and the greater part to gratify Caesar, on whom depended
their hopes. Assassination of Caesar Despite the fact that he opposed Caesar, F.,
like Cicero, was not invited by Brutus and Cassius to participate in the plot
to assassinate Caesar. In his Life of Brutus, Plutarch wrote, As indeed there were also two others that
were companions of Brutus, Statilius the Epicurean, and F. the admirer of CATONE
(si veda), whom he left out for this reason: as he was conversing one day with
them, trying them at a distance, and proposing some such question to be
disputed of as among philosophers, to see what opinion they were of, Favonius
declared his judgment to be that a civil war was worse than the most illegal
monarchy. Execution after Philippi After Caesar's death, F. became an opponent
of his successors in the Second Triumvirate. According to Cicero's letter to
Atticus, F. was present at a meeting of the Liberatores who opposes Antony's
near-dictatorial regime. Also present at this meeting were Cicero, Brutus,
Cassius, Porcia Catonis, Servilia and Junia Tertia. Along with Cicero, his
brother Quintus Tullius CICERONE (si veda), and Lucius Julius Caesar, F. is
proscribed by the triumvirate, and imprisoned after Antony and Octavian (later
Augustus) defeated the forces of Brutus and Cassius at the Battle of Philippi.
His imprisonment did little to assuage his intemperate behaviour. According to
Suetonius, "Marco F., the well-known imitator of Cato, saluted Antonius
respectfully as Imperator when they were led out in chains, but lashed Augustus
to his face with the foulest abuse. F.’s abuse was apparently as a result of
Octavian's brutal treatment of the prisoners captured at Philippi. Of his death Cassius Dio wrote, Most of the prominent men who had held
offices or still survived of the number of Caesar's assassins or of those who
had been proscribed straightway kill themselves, or, like F., are captured and
put to death; the remainder escaped to the sea at this time and later joined
Sextus. F.’s slave Sarmentus, who was bought after his master's death when his
estate was sold, is claimed to have become a catamite of the emperor Augustus. Osgood
says this might have been as a slander planted by supporters of MARC’ANTONIO,
but both ancient and contemporary students of Roman sexuality have observed
that a man's sexual use of his own slaves, male or female, is not a target for
social condemnation. Sarmentus was the subject of Quintus Dellius' complaint to
Cleopatra that while he and other dignitaries were served sour wine by Antony
in Greece, Augustus' catamite was drinking Falernian in Rome. Legacy
Shakespeare's GIULIO (si veda) CESARE
Facsimile of the first page of Julius Caesar from the First Folio. F. is
the character known as the Poet who appears in Shakespeare's play GIULIO (si
veda) CESARE. Shakespeare takes the details of this scene from Plutarch's
Parallel Lives, in which, on Brutus' journey to Sardis, Plutarch writes that
Brutus and Cassius fell into a dispute in an apartment (Shakespeare assigns
this scene to Brutus' tent), which ultimately led to their sharing angry words
and both of them bursting in tears. Their friends attempted to break into the
room to see what the dispute was about and forestall any mischief, but were
prevented from doing so by a number of attendants. F., however, was not to be
stopped. According to Plutarch, Marcus F., who had been an ardent admirer of
Cato, and, not so much by his learning or wisdom as by his wild, vehement
manner, maintained the character of a philosopher, was rushing in upon them,
but was hindered by the attendants. But it was a hard matter to stop F.,
wherever his wildness hurried him; for he was fierce in all his behaviour, and
ready to do anything to get his will. And though he was a senator, yet,
thinking that one of the least of his excellences, he valued himself more upon
a sort of cynical liberty of speaking what he pleased, which sometimes, indeed,
did away with the rudeness and unseasonableness of his addresses with those
that would interpret it in jest. F., breaking by force through those that kept
the doors, entered into the chamber, and with a set voice declaimed the verses
that Homer makes Nestor use – "Be ruled, for I am older than ye
both." At this Cassius laughed; but BRUTO (si veda) thrust him out,
calling him impudent dog and counterfeit Cynic; but yet for the present they
let it put an end to their dispute, and parted. Cassius made a supper that
night, and Brutus invited the guests; and when they were set down, F., having
bathed, came in among them. Brutus called out aloud and told him he was not
invited, and bade him go to the upper couch; but he violently thrust himself
in, and lay down on the middle one; and the entertainment passed in sportive
talk, not wanting either wit or philosophy. In Shakespeare's version of this
encounter in Julius Caesar, Favonius' opening lines in his role as Poet are:
POET. [Within] Let me go in to see the generals; There is some grudge between
'em, 'tis not meet they be alone. Forcing his way into Brutus' tent, he
addresses Brutus and Cassius: POET. For shame, you generals! what do you mean?
Love, and be friends, as two such men should be; For I have seen more years,
I'm sure, than ye. To which, Cassius replies: CASSIUS. Ha, ha! how vilely doth
this cynic rhyme![20] and Brutus drives
him from his tent. Here Shakespeare departs from Plutarch's account of the
scene, as F. does not feature in Brutus and Cassius' subsequent drinking
bout. Dudley, A History of Cynicism –
From Diogenes on, Read Books, at books.google.com, Ryan, The Praetorship of F.,
at accessmylibrary.com, Brewer, E. Cobham, Brewer's Dictionary of Phrase and
Fable at Bartleby Plutarch, Life of CATONE (si veda) the Younger Cassius Dio, Roman History, at uchicago Plutarch,
Life of Pompey Plutarch, Life of Brutus
Dawson, D. Cities of the Gods: Communist Utopias in Greek Thought OUP,
Pseudo-Sallust, Letter to Caesar on the State, at uchicago Dillon, M. and
Garland, L. Ancient Rome, Taylor e Francis, Plutarch, Life of Caesar CICERONE (si veda), Letters to Atticus,
Suetonius, Life of Augustus, Cassius Dio, Roman History, at uchicago Osgood, GIULIO
(si veda) CESARE’s Legacy: Civil War and the Emergence of the Roman Empire,
CUP, books.google Osgood, GIULIO (si veda) CESARE’s Legacy: Civil War and the
Emergence of the Roman Empire, CUP, books.google.com, Craig Williams: Roman
Homosexuality: Oxford Plutarch, Life of MARC’ANTONIO (si veda), Shakespeare, GIULIO (si veda) CESARE, cur. Danniel,
editorial note, GIULIO (si veda) CESARE at books.google.com, Shakespeare,
Julius Caesar, Geiger, Favonius: three notes". RSA. Linderski, J. "The Aedileship of Favonius, Curio the
Younger and CICERONE (si veda)’s Election to the Augurate". Harvard
Studies in Classical Philology. Ryan, F. X. "The Praetorship of
Favonius". American Journal of Philology. Ryan, The Quaestorship of
Favonius and the Tribunate of Metellus SCIPIONE (si veda)". Athenaeum. vte
Cynic philosophers Greek eraAntisthenes Diogenes Onesicritus Monimus Philiscus Hegesias
of Sinope Anaximenes of Lampsacus Crates Hipparchia Metrocles Cleomenes Bion Menippus
Menedemus Cercidas Teles Meleager Roman eraFavonius Demetrius Dio Chrysostom Agathobulus
Demonax Peregrinus Proteus Theagenes Oenomaus Pancrates Crescens Heraclius Asclepiades
Maximus I of Constantinople Horus Sallustius Categories: births deaths People
from Terracina Romans Ancient Roman politiciansSenators of the Roman Republic People
executed by the Roman Republic Roman aediles executions Roman-era Cynic
philosophers Roman governors of Macedonia. A Cynic. He attached himself to CATONE
Minore, whom he sought to imitate. He was also a friend of Marco BRUTO, but
they fell out and Bruto told him that while he only PRETENDED to be a Cynic, he
really WAS a dog! Favonio. Keywords: implicature. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Favonio”, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Favonio: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italianao. Eulogio. F. Eulogio. Cartaginese, ha come maestro di
retorica Agostino, dal quale risulta che esercita quell’arte in Africa, Dedicò
la sua "Disputatio de sommio Scipionis" a Superio, consolare della
provincia di Bizacena. Questa disputazione in ultimo deve derivare dal
commento posidoniano al "Timeo," mediato da Varrone, al quale si
ritengono attinte le fonti citate. La prima parte della disputazione presenta
la teoria dei numeri, essenza delle cose e tratta del significato simbolico di
essi, dall’I al IX. La seconda parte della disputazione si occupa dell’armonia
delle sfere. Queste teorie sono pitagoriche in generale.Ma il
Neo-Pitagorismo appare in ciò che Favonio Eulogio dice della monade, in cui
espone in modo poco chiaro una teoria monistica che deriva da essa ogni
realtà. Il numero è eterno, intelligibile, incorruttibile, e include con
la potenza tutto ciò che è.Ma inteso in senso proprio è una pluralità unificata
e divisibile e perciò comincia con la diade.Invece la monade, l’unità assoluta
e indivisibile e identica al divino, è il seme e l’inizio dei numeri. I
numeri poi sì distinguono dalle cose corporee numerabili che sono accidenti e
sostrati dei primi, che sono riducibili alla monade. Però le cose
numerabili non sono altro che tale unità assoluta, che è prima, entro e dopo
tutte le cose. Infatti, ogni quantità proviene dall’uno e in esso mette
capo ed esso permane immutabile quando periscono le altre cose che possono
accoglierlo in sè. Retore romano, discepolo d’Agostino ed operò a
Cartagine. È noto per un episodio narrato dal suo maestro, che lo rende
identificabile con F. autore dell'operetta Disputatio de somnio Scipionis. Il
suo scritto lo pone fra gli studiosi neopitagorici e neoplatonici. La
Disputatio, dedicata a Superio, vir clarissimus atque sublimis, è suddivisa in
due parti: la prima è dedicata all'aritmologia; la seconda espone in breve la
teoria musicale greca. Holder, F. Disputatio de Somnio Scipionis, Lipsiaem Weddingen,
F. Disputatio de Somnio Scipionis, édition et traduction, Collection Latomus, Bruxelles;
Scarpa, Favonii Eulogii Disputatio de Somnio Scipionis, Accademia patavina di
Scienze, Lettere e Arti, Università di Padova. Istituto di filologia latina,
Padova; Lukas J. Dorfbauer: Überlieferung und historischer Kontext der
Disputatio de Somnio Scipionis des Favonius Eulogius. Latomus. Marcellino, F.
Disputatio de Somnio Scipionis, edizione critica, traduzione e commento,
Napoli, D'Auria, Camille Gerzaguet - Béatrice Bakhouche - Mylène
Pradel-Baquerre; Drelon: F. Exposé sur le songe de Scipion.
Les Belles Lettres, Paris, edizione critica con annotazioni Heberlein: F.,
Abhandlung über das Somnium Scipionis. Mit
einem Essay von Lukas J. Dorfbauer. Steiner, Stuttgart, edizione critica con
traduzione e commento. F. in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, 1932. Opere di F., su digilibLT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Opere di F., su Open Library, Internet Archive.
Portale Biografie: accedi alle voci di che trattano di biografie
Categoria: Retori romani[altre]. Favonio Eulogio was a pupil of Agostino and wrote an
analysis of Cicero’s Dream of Scipione. Favonio
Eulogio. Favonio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Favonio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Favorino: la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia
italiano – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo
italiano. Comes from Arelate. Said by Flavio Filostrato to have been a
hermaphrodite. Pupil of Dion Cocceianos. Achieves fame as a sophist. Writes
many books on philosophy, including works on Epitteto. He is exiled by Adriano. Favorino. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Favorino,” The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice
e Fazio: all’isola -- la ragione conversazionale all’isola -- l’implicatura
conversazionale della colloquenza – scuola di Palermo – filosofia palermitana
-- filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo palermitano. Filosofo siciliano. Filosofo
Italiano. Palermo, Sicilia. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on
Roman philosophy when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very
datable beginning: that infamous embassy that terrified the old Romans but
charmed the younger ones, such as Scipione!” --
Grice: “Due to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian
philosophy, and Gentile allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice:
“Allmayer’s pragmatics is Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’
empirico recognises another soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a
‘noi’ – for this he appeals to concepts of objectivity as intersubjectivity –
If I imply, it is the UTTERER’s expression and implication that is primary, but
I INTEND my implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not
‘alienate’ my concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely
re-invoked by the other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is
what the ‘assoluto’ stands for, that terrified Bradley!” -- Grice: “I love the fact that Allmayer taught
the history of logic, with a focus on ‘stoic’ logic – and it’s only natural
that ‘stoicismo’ was his favourite stage in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly,
Allmayer has a genial commentary on my favourite of Arisotle’s treatises and
the foundation of my method in philosophical psychology – “De Anima””! Insieme a GENTILE (si veda), e altri filosofi, uno
degl’esponenti di spicco della corrente filosofica detta
attualismo. Nacque da Giuseppe Emanuele FAZIO, originario di Alcamo (ex
garibaldino e in servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina
Allmayer, di origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si
interessa alla storia dell'arte. Si laurea in giurisprudenza ma poiché è
appassionato alla filosofia, inizia subito gli studi filosofici e a frequentare
la biblioteca filosofica di Palermo, dove ha modo di conoscere GENTILE (si
veda). Si laurea. Insegna al liceo "Umberto I" di Palermo, dove
comincia la sua ricca produzione saggistica che lo rende famoso in
Italia. La sua carriera continua a Roma. Subito dopo la caduta del
fascismo, F. è sospeso dall'insegnamento; per essere reintegrato dopo la fine
della guerra. Dopo un periodo travagliato della sua vita riprende la
molteplice attività di saggista e critico, oltre che di docente. Si sposa
con Concettina Carta, con cui ha tre figli. Rimasto vedovo, si sposa in seconde
nozze con Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i
maggiori critici di Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere
(Firenze). F., colpito da infarto tre anni prima, muore a Pisa. In
memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di origine alcamese, il liceo
delle Scienze Umane, Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed autorizzato
per le Arti coreutiche) è stato intitolato al suo nome. Professore presso
il liceo di Matera: professore al liceo di Agrigento, vince una borsa di studio
per perfezionamento presso l'Roma docente presso il liceo "Umberto I"
di Palermo: libero docente di storia della filosofia a Roma trasferito a
Palermo, è condirettore del Giornale critico della filosofia italiana,
fondato da GENTILE (si veda) e diretto dallo stesso prima di essere ministro:
docente di filosofia a Palermo: docente di storia della filosofia (con corsi su
Bacone e sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in sostituzione di GENTILE (si
veda) e incaricato di pedagogia al magistero di Roma: collaboratore di GENTILE
(si veda) per la riforma scolastica e, con l'incarico di ispettore centrale
degli istituti medi di istruzione, ha affidata la redazione dei programmi della
scuola media: professore non stabile di storia della filosofia medievale e
moderna: ha la cattedra di filosofia teoretica in sostituzione di CARABELLESE
(si veda): preside della facoltà di lettere: commissario per l'amministrazione
straordinaria della sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e
industriale di Palermo in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle
Arti: sospeso dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra:
cattedra di storia della filosofia dell'Pisa: direttore dell'istituto di
filosofia. Il tramonto del positivismo e l'amicizia con GENTILE (si veda) lo
portano a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che sembra poter
portare a un rinnovamento culturale e civile. Secondo l'attualismo, è l'atto
del pensare in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto
immaginazione, a definire la realtà. Assieme a GENTILE (si veda) e RUGGIERO
(si veda), è uno dei sostenitori di quell'attualismo che ha tutta la seduzione
romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a séi migliori dei scontenti,
quelli che non si muovevano verso ANNUNZIO (si veda) o MARINETTI (si veda), e
appoggia apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel
conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare. Nelle parole
di Boldrini, che tende a sottolineare la sostanziale autonomia della ricerca
del F. dalla metafisica di GENTILE (si veda), F. giunge a giustificare
l'esperienza storica come vita concreta, in cui le molteplici e diverse forme
confluiscono in un rapporto intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella
specificità di ciascuna. D'altronde, anche CROCE (si veda) in una recensione
del saggio Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere),
mettein dubbio che si puo parlare ancora di idealismo attuale per F. Nel
secondo dopoguerra, in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente
dell'attualismo, che è accusato di connivenza col FASCISMO, la posizione di F. è
di aperta difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio
pensiero. Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma
entrare in un processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su
questa certezza di F., si basa una spinta pedagogica di tipo socratico, per cui
il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più giovani, ma
protesi verso il nuovo. L'educatore, nel suo farsi persona, diventa
storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve riconoscere
nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli altri è il
contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di solidarietà col
tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia. Quindi il senso della
vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non sono
antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io. Ognuno di
noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che ripiglia
dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e quest'ultimo nel
particolare. Per F. la speranza è nella certezza che il futuro è nel
presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che, presi dal passato, trovano
disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente, e sciocchi i giovani, e
sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se non riesce a vedere il
mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si racchiude nelle memorie del
passato, manifesta la malattia mortale che si chiama vecchiaia.
Fondazione La Fondazione Nazionale F. è
sorta a Palermo, creata da Giambalvo e F., che venne in Sicilia dalla Toscana
per insegnare Filosofia morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è
stata fondata per onorare il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani
generazioni l'interesse per la filosofia. Opere Su: La Sicile illustrée,
articoli e saggi Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi, Studi sul pensiero
antico; Sansoni, Galilei; R. Sandron,
Galilei, Palermo, poi in Opere, GALILEI (si veda); Sansoni, Novum
organum: Bacon; Laterza, Dell'anima Aristotele; Laterza, la formazione del problema kantiano, in
Annali della Bibl. filosofica di Palermo, poi in Opere) La scuola popolare e
altri discorsi ai maestri: Battiato, Introduzione allo studio della storia
della filosofia; Zanichelli; Materia e sensazione (Sandron, Palermo, in Opere)
Materia e sensazione; Sansoni, Introduzione alla filosofia; Sansoni, La teoria
della libertà nella filosofia di Hegel (Messina, in Opere) Saggio su Bacone
(Palermo, in Opere) Saggio su Bacone; Il problema morale come problema della
costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze, Monnier, in Opere) Il
problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi;
Sansoni, Il significato della vita; Sansoni, Il significato della vita;
Divagazioni e capricci su PINOCCHIO; G.C. Sansoni, Divagazioni e capricci su PINOCCHIO;
Fondazione nazionale F., Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, Ricerche hegeliane;
Fondazione nazionale F., Storia della filosofia; Palumbo, Storia della
filosofia; Sansoni, I vigenti programmi della scuola elementare: Commento e
interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, Morale e diritto; Sansoni, Discorsi,
lezioni; Sansoni, Saggi e problemi; Sansoni, Recensioni e varie, La Pinacoteca
del Museo di Palermo e altri saggi; notizie dei pittori palermitani, Palermo,
Prolusioni e discorsi inaugurali; Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite;
Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, Spunti di storia della
pedagogia Moralita dell'arte: rievocazione estetica e rievocazione suggestiva
(con postille); Sansoni, Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. Logica e
metafisica; Sansoni, La storia; Sansoni, Lettere a Bruna; Fondo F. Lettere a GENTILE
(si veda); Fondo F., Introduzione allo studio della storia della filosofia e
della pedagogia; Sansoni, La teoria della liberta' nella filosofia di Hegel;
Principato, Opere; Sansoni, Commento a PINOCCHIO; G. C. Sansoni, Il problema
PIRANDELLO (si veda); Firenze, Belfagor, treccani/ enciclopedia f. (Dizionario-Biografico
GARIN (si veda), Cronache di filosofia italiana., Bari, ad Indicem; f. treccani,
treccani enciclopedia vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. F.,//faf. /index//.
Vita e pensiero di F., Firenze, Palermo, con
degli scritti del e sul F., alle
Massolo: F. e la logica della compossibilità, Giornale critico della
filosofia italiana, LUPORINI (si veda), Ricordo di F. in Belfagor, Francesco:
Intenzionalità ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di F.:
implicazioni pedagogiche; Fondazione F., A. GUZZO (si veda), F. e ROSSI (si
veda), Filosofia, Giornale critico della filosofia italiana, (scritti di SAITTA
(si veda), MASSOLO (si veda), CARAMELLA (si veda), ALBEGGIANI (si veda), MINEO
(si veda), F.); SANTUCCI (si veda), Esistenzialismo e FILOSOFIA ITALIANA,
Bologna, Negri, In ricordo di F., in Filosofia, GARIN (si veda), Cronache di
filosofia italiana, Bari ad Indicem; F. Esistenza e realtà nella fenomenologia
di F., Bologna, Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di
F., in Per una storiografia filosofica, Urbino
Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e l'esigenza della
metafisica in F., Palermo, SINI (si veda): Studi e prospettive sul pensiero di
F. il Pensiero, ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del Congresso di
filosofia F., oggi, Palermo Atti del Convegno su l'estetica come ricerca e
l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo
(con interventi di Lugarini, Mirabelli, Russo. Attualismo (filosofia) GENTILE
(si veda) RUGGIERO (si veda) Alcamo
treccani, treccani/enciclopedia vito-fazio-allmayer Dizionario-Biografico Filosofia Filosofo Filosofi italiani Pedagogisti
italiani Insegnanti italiani Insegnanti italiani Professore. Lezione sulla
logica. LORENZINI (si veda). Vito Fazio. Fazio. Keywords: colloquenza, colloquio, dialettica,
dialogo, hegel – fascism – he was forced to retire after the fall of fascism,
altmeyer wurd allmeier, LORENZINI, PIRANDELLO. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Fazio” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice
e Fazzini: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola
di Vieste – filosofia viestese – filosofia foggiana – filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Vieste). Filosofo viestese. Filosofo
foggiano. Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Vieste, Foggia, Puglia. Grice:
“I like Fazzini; he can be too theological, but that’s okay!” Divulgatore
di materie filosofiche e il fondatore
dell'omonima scuola private a Napoli, una delle più celebri nel regno delle Due
Sicilie. Figlio di Tommaso e Porzia Medina, che apparteneno a due delle
famiglie più agiate della città. Il suo talento per la filosofia e la
matematica è notato fin dai primi anni. I genitori decisero quindi di far
proseguire i suoi studi in ambienti che potessero garantire una formazione adeguata.
F. si trasferì a Foggia, poi a Benevento e in ultimo nel seminario di Nusco. Qui
trascorse l'adolescenza approfondendo anche lo studio dei
classici. Terminato il seminario, torna a Vieste. Lì, poco dopo il suo
rientro, recita in duomo un'orazione in lode dell'Arcangelo Michele che è molto
apprezzata dal clero e dai fedeli. Il rientro nella città natale è
comunque di breve durata. Desiderando continuare i suoi studi, si trasfere a
Napoli. Venne ordinato sacerdote e nello stesso anno ha come insegnante FERGOLA
(si veda). La scuola di quest'ultimo è un rinomato centro per la formazione e
un punto di incontro per studiosi e ricercatori del Mezzogiorno. Ne è uno degl’allievi
più illustri. Prosegue anche gli studi in filosofia. Si avvicina al
sensismo (empirismo). Ottenne dalla chiesa il permesso di acquisire testi
proibiti sul sensismo, a patto che non ne divulga i contenuti. Questo aspetto
della formazione filosofica influe sulla sua docenza e sulla sua personalità,
determinando una contraddizione che, secondo le testimonianze d’allievi e
amici, lo accompagna per tutta la vita. Apre una scuola privata in cui
venivano insegnate filosofia, matematica e fisica. La scuola ha sede nella
Strada nuova dei Pellegrini, nel quartiere di Montecalvario, e divenne uno dei
centri di studio più rinomati di Napoli. Nel periodo di maggior successo La F. arriva a
contare tra i 300 e i 400 allievi. In una data non precisabile, dovette quindi
spostare la scuola in una sede più grande, in via Magnacavallo, nello stesso
quartiere. Anche dopo aver aperto la propria scuola, comunque, insegna
presso altre scuole private. Dedica all'insegnamento sei o sette ore al giorno.
La maggior parte del tempo di insegnamento di F. è dedicata alla matematica. Al
servizio di questa attività F. pubblica aritmetica, geometria piana e geometria
solida. Oltre all'insegnamento della filosofia, si dedica alla ricerca e alla
divulgazione. Al servizio di queste tre attività allestì anche un laboratorio
scientifico, considerato uno dei migliori di Napoli. Per F. venne composta da
DONIZETTI (si veda) una messa da Requiem oggi perduta, mentre PUOTI (si veda) recita
un elogio di F., di cui è amico. Si occupa a lungo di ricerche scientifiche in
vari campi della fisica. In particolare, studia l'induzione elettromagnetica,
il magnetismo in generale e la relazione tra luce e magnetismo. Non pubblica
però quasi nulla a proposito di queste ricerche, che sono note soprattutto
attraverso le testimonianze di TELLINI (si veda) e di F. È convinto che
diverse delle forze naturali allora note, e in particolare il calorico, la
luce, l’elettricismo, il galvanismo e il magnetismo, sono in realtà diverse
manifestazioni di un'unica forza. Partendo da questa idea di base, studia
soprattutto il magnetismo, e in particolare due fenomeni d’induzione, oggi
spiegati in base alla legge di Faraday, scoperta negl’anni immediatamente
precedenti: il magnetismo di rotazione, scoperto d’ARAGO (si veda)-- il
fenomeno per cui un ago magnetico posto sopra un disco di rame in rotazione
inizia a sua volta a ruotare -- l'induzione tellurica, scoperta da Faraday: la
generazione di una corrente elettrica indotta in un circuito che si muove
attraverso il campo geo-magnetico. Per quanto riguarda il magnetismo di
rotazione, ripeté e approfondì le esperienze d’ARAGO (si veda) notando che la
rotazione dell'ago magnetico si verifica anche quando al di sopra del disco di
rame si sovrappone materiale isolante, mentre non si verifica se il disco di
rame vienne sostituito da un disco di materiale isolante. Per quanto
riguarda l'induzione tellurica, ne identifica con maggiore chiarezza le
modalità. Cerca poi di combinare lo studio di questo fenomeno con quello del
magnetismo di rotazione, costruendo per questo tre diversi apparecchi. Una
ricostruzione dettagliata del modo in cui gli apparecchi operano è fornita sulla
base delle testimonianze lasciate da CIRELLI (si veda) e F.. Descrie una dvelle
sue esperienze sull'induzione tellurica in una lettera a Faraday. Questa
lettera è l'unica descrizione lasciata da F. in persona riguardo ai propri
esperimenti. Esegue inoltre esperimenti sul rapporto tra luce e magnetismo,
proiettando raggi di luce su un ago magnetico. Le testimonianze rimaste, tutte
indirette, non permettono però di ricostruire in modo sicuro le intenzioni di F.
e i risultati dei suoi esperimenti. Altri saggi:: “Elementi di geometria piana”
(Napoli), “Geometria solida: la sfera e il cilindro (Napoli); Elementi di
aritmetica (Napoli). Dizionario biografico degli italiani. La terna dei numeri
primi dispari entro la decade. Il pentalfa pitagorico e la stella fiammeggiante.
La tavola tripartite. La Grande Opera e la Palingenesi. La Tetractis pitagorica
ed il Delta massonico II - La quaterna dei numeri composti o sintetici. Il
numero e le sue potenze REGHINI (si veda). Il matematico ed erudito
fiorentino REGHINI (si veda), alto dignitario della Massoneria prima del suo
scioglimento ad opera del FASCISMO, è il più noto esponente del neo-pitagorismo
nel XX secolo e teorico dell’“lmperialismo Pagano”. Amico di AMENDOLA (si veda)
e di PAPINI (si veda), personaggio di punta della scapigliatura fiorentina
all’epoca delle riviste “Leonardo”, “Lacerba” e “La Voce”, fu a sua volta
fondatore delle riviste “Atanòr”, “Ignis”, e - con EVOLA (si veda) - “UR” - Alla
sua opera sono legate la riproposizione della “magia colta”, neo-platonica e
rinascimentale, che contrappose al Cristianesimo come via d’accesso al divino,
ed una critica radicale dell’occultismo e degli pseudo-esoterismi moderni. In
collaborazione con René Guénon, auspicò la rinascita spirituale dell'Occidente
attraverso la formazione di un’élite iniziatica nel quadro di un processo di
rigenerazione della Massoneria, in cui vedeva un residuo “deviato” di un'antica
organizzazione ermetico-pitagorica, d’origine pre-cristiana ed erede degli
antichi Misteri. Polemista efficacissimo; fu interventista e fautore del primo
fascismo, ma ruppe con Mussolini all’epoca del delitto Matteotti e con
l’instaurazione della dittatura, ritirandosi nello studio della geometria e
della matematica pitagoriche. Già in vita, sul suo conto s’era formata una
corposa leggenda di “mago” e di facitore di prodigi, arricchitasi con il tempo
di altre fantasiose aggiunte». In questi termini, icastici ma sostanzialmente
esatti, una recente biografia (1) presentava la complessa figura di Arturo
Reghini. La storia della presente opera, l’ultima scritta da Reghini prima
della morte, è stata brevemente narrata dal suo discepolo PARISE (si veda) nella
“Nota” di presentazione ad un opuscolo postumo dello stesso REGHINI (si veda):
Chiesi ad A. R. lo sviluppo filosofico ed iniziatico della opera sui numeri
pitagorici; poté condurre a termine, in circa due mesi, un volume su I numeri
sacri nella tradizione pitagorica massonica. LUCA, Reghini. Un intellettuale
neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma, REGHINI A.,
Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore con una nota sulla
vita e l’attività massonica dell’Autore di Giulio Parise, Edizioni di Studi Iniziatici,
Napoli. Il saggio è finito di stampare per i tipi dello stab. tip. S. Barbara
di Ugo Pinnarò, Roma – Via Pompeo Magno. Editore è il già citato PARISE (si
veda), attraverso Ignis, la medesima che pubblica il saggio reghiniano Per la
restituzione della geometria pitagorica. REGHINI (si veda) muore sei mesi prima.
Nell’elaborazione del testo elettronico si è provveduto ad operare le
correzioni indicate dall’Editore nell’Errata Corrige in allegato alla prima
edizione, nonché quelle di errori di stampa individuati nel corso della
trascrizione, come pure a rettificare talune (rarissime) imprecisioni
bibliografiche sparse qua e là ed indubbiamente dovute alle particolari
condizioni in cui Reghini si trovò a lavorare nell’immediato dopoguerra, senza
la possibilità di effettuare gli opportuni riscontri. Con ciò il Curatore ha
inteso assolvere un debito di riconoscenza contratto esattamente 40 anni fa nei
confronti di PARISE (si veda), sebbene all’insaputa di quest’ultimo. Cosmopoli.
REGHINI I NUMERI SACRI NELLA TRADIZIONE PITAGORICA MASSONICA. Reghini. I
Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse Premesse
Libertà va cercando ch'è sì cara Come sa chi per lei vita rifiuta. DANTE,
Purg.,Secondo quanto affermano concordemente gli antichi rituali e le antiche
costituzioni massoniche, la Massoneria ha per fine il perfezionamento
dell'uomo. Anche gli antichi misteri classici avevano lo stesso scopo e
conferivano la teleté, la perfezione iniziatica; e questo termine tecnico era
etimologicamente connesso ai tre significati di fine, morte e perfezione, come
osservava già il pitagorico Plutarco. Ed anche Gesù ricorre alla stessa parola,
tèleios, quando esorta i suoi discepoli ad essere «perfetti come il Padre
vostro che è nei cieli, sebbene, con una delle frequenti incongruenze delle
Sacre Scritture, lo stesso Gesù affermi che nessuno è perfetto ad eccezione del
Padre mio che è nei cieli. La definizione che abbiamo riportato sembrerebbe
esplicita e precisa; eppure con una lieve alterazione formale essa ha subìto
una grave alterazione nel concetto. Per esempio, il dizionario etimologico del
Pianigiani afferma che il fine della Massoneria è il perfezionamento dell'umanità;
e non soltanto molti profani ma anche molti massoni accettano questa seconda
definizione. A prima vista può sembrare che perfezionamento dell'uomo e
perfezionamento dell'umanità significhino la stessa cosa; di fatto si
riferiscono a due, concetti profondamente diversi, e l'apparente sinonimia
genera un equivoco e nasconde una incomprensione. Altri adopera l'espressione:
perfezionamento degli uomini, anche essa equivoca. Ora, evidentemente, non è
possibile sentenziare quale sia l'interpretazione giusta, perché ogni massone
può dichiarare giusta quella che si confà ai suoi gusti, e magari può
compiacersi dell'equivoco. Se però si vuole determinare quale sia, storicamente
e tradizionalmente, la interpretazione corretta e conforme al simbolismo
muratorio, la questione cambia aspetto e non è più questione di gusti. Il
manoscritto rinvenuto dal Locke nella Biblioteca Bodleyana e pubblicato solo
nel 1748 e che è attribuito alla mano di Enrico VI di Inghilterra, definisce la
Massoneria come «la conoscenza della natura e la comprensione delle forze che
sono in essa»; ed enuncia espressamente l'esistenza di un legame tra la
Massoneria e LA SCUOLA ITALA, perché afferma che Pitagora, un greco, viaggiò
per istruirsi in Egitto, in Siria, ed in tutti i paesi dove i Veneziani (leggi
i Fenicii) avevano impiantato la Massoneria. Ammesso in tutte le loggie di
Massoni, acquistò un grande sapere, tornò in Magna Grecia e vi fonda una
importante loggia in CROTONE. A vero dire il manoscritto parla di Peter Gower;
e, siccome il cognome Gower esiste in Inghilterra, Locke rimase alquanto
perplesso nella identificazione di Peter Gower con Pitagora. Ma altri (1)
HUTCHINSON, Spirit of Masonry; PRESTON, Illustrations of Masonry; DE CASTRO,
Mondo segreto, REGHINI, Noterelle iniziatiche. Sull’origine del simbolismo
muratorio, Rassegna Massonica, REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse manoscritti e le stesse
Costituzioni dell'Anderson fanno esplicita menzione di Pitagora. Il manoscritto
Cooke dice che la Massoneria è la parte principale della Geometria, e che fu
Euclide, un sottilissimo e savio inventore, che regolò quest'arte e le dette il
nome di Massoneria. E delle reminiscenze pitagoriche nelle Old Charges è
traccia anche nel più antico rituale stampato il quale attribuisce un pregio
speciale ai numeri dispari, conforme alla tradizione pitagorica. Gli antichi
manoscritti massonici concordano dunque nell'indicare come fine della
massoneria quello del perfezionamento dell'uomo, del singolo individuo; e le
prove iniziatiche, i viaggi simbolici, il lavoro dell'apprendista e del
compagno hanno un manifesto carattere individuale e non collettivo. Secondo la
concezione massonica più antica, la «grande opera» del perfezionamento va
attuata operando sopra la «pietra grezza», ossia sopra l'individuo singolo,
squadrando, levigando e rettificando la pietra grezza sino a trasformarla nella
pietra cubica della Maestria, ed applicando nella operazione le norme
tradizionali dell'Arte Regia muratoria di edificazione spirituale. Con perfetta
analogia una tradizione parallela, la tradizione ermetica che compare anche
innestata a quella puramente muratoria, insegna che la grande opera si attua
operando sopra la «materia prima» e trasformandola in «pietra filosofale» seguendo
le norme dell'Arte Regia ermetica. Essa è compendiata nella massima di Basilio
Valentino: Visita interiora terrae, rectificando invenies occultum lapidem
oppure nella Tabula smaragdina attribuita da moderni arabisti al pitagorico
Apollonio Tianeo. Secondo invece la concezione massonica profana e meno antica,
il lavoro del perfezionamento va attuato sopra la collettività umana, è la
umanità ossia la società che bisogna trasformare e perfezionare; e in questo
modo all'ascesi spirituale del singolo si sostituisce la politica collettiva. I
lavori massonici acquistano in tal modo uno scopo ed un carattere
prevalentemente sociali, se non unicamente sociali; ed il fine vero e proprio
della massoneria, cioè il perfezionamento dell'individuo, viene posto in seconda
linea, se non addirittura trascurato, dimenticato ed ignorato. La concezione
tradizionalmente corretta è sicuramente la prima, e nella letteratura massonica
di due secoli fa ebbero grande voga esagerati e fantasiosi avvicinamenti ed
identificazioni dei misteri eleusini e massonici. Senza ombra di dubbio il
patrimonio ritualistico e simbolico dell'Ordine muratorio è in armonia soltanto
con la concezione più antica del fine della massoneria; infatti il testamento
dell'iniziando, i viaggi simbolici, le terribili prove, la nascita alla luce
iniziatica, la morte e resurrezione di Hiram, non si capisce quale relazione
possano avere coi lavori massonici e con lo scopo della Massoneria se tutto si
deve ridurre a fare della politica. Storicamente l'interessamento e
l'intervento della Massoneria nelle questioni politiche e sociali si manifesta solo
in alcune regioni europee col trapiantamento della Massoneria inglese nel
continente. Quel poco che si conosce delle antiche loggie muratorie mostra la
presenza e l'uso nei lavori massonici di un simbolismo di mestiere,
architettonico, geometrico, numerico; il quale per sua natura ha un carattere
universale, non è legato ad una civiltà determinata e neppure ad una lingua
particolare, ed è indipendente da ogni credenza di ordine politico e religioso.
Per questa ragione il massone, secondo il rituale, non sa né leggere né
scrivere. Un elemento ebraico compare nella leggenda di Hiram e della
costruzione del Tempio, e le parole sacre del novizio e del compagno (i soli
gradi allora esistenti) che si riferiscono a questa leg(2) The Grand Mystery of
Free-masons discovered wherein are the several questions put to them at their
Meetings and installation, London. VERGILIO VIRGILIO (si veda) Bucolicon, Eglo:
Numero impari Deus gaudet. Le iniziali di questa massima formano la parola
vitriol, il solvente universale degli alchimisti, detto ancor oggi acqua
regia. REGHINI (si veda) I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica
massonica - Premesse genda sono ebraiche. Questa leggenda non fa parte
del patrimonio tradizionale dell'Ordine; la morte di Hiram non figura negli
antichi manoscritti massonici, e le costituzioni dell'Anderson ignorano il
terzo grado. Comunque la presenza di elementi e parole ebraiche non deve
stupire in un tempo in cui l'ebraico era considerato una lingua sacra, anzi la
lingua sacra in cui Dio aveva parlato all'uomo nel Paradiso terrestre; è una
presenza di cui non va esagerata l'importanza ed il significato, e che non
basta certo a giustificare l'asserzione del carattere ebraico della Massoneria.
La lettera G dell'alfabeto greco-latino, iniziale di geometria e dell'inglese
God, che compare talora nella Stella Fiammeggiante o nel Delta massonico,
sembra che sia una innovazione (senza utilità per chi non sa né leggere né
scrivere), mentre quei due simboli fondamentali dell'Ordine non sono altro che
i due più importanti simboli del pitagoreismo: il pentalfa o pentagramma e la
tetractis pitagorica. L'arte muratoria od arte reale od arte regia, termine di
cui fa uso il filosofo neoplatonico Massimo di Tiro, era identificata con la
geometria, una delle scienze del quadrivio pitagorico, e non si capisce come
Wirth, il dotto massone ed ermetista, possa scrivere che i Massoni hanno potuto
proclamarsi adepti dell'Arte reale perché dei re si interessarono un tempo
all'opera delle corporazioni costruttive privilegiate del Medio Evo. Gli
elementi di carattere muratorio puro costituiscono, insieme al simbolismo
numerico e geometrico, il patrimonio simbolico e ritualistico arcaico e genuino
della fratellanza. Non diciamo patrimonio caratteristico perché questi elementi
compaiono, almeno parzialmente, anche nel compagnonnage, del resto assai affine
alla Massoneria. In seguito, quando le loggie inglesi principiano ad accettare
come fratelli anche gli accepted masons, vale a dire anche persone che non
esercitano la professione di architetto od il mestiere di muratore, compaiono
anche elementi ermetici e rosacroce, ad esempio Elia Ashmole, come mostra il
Gould nella sua storia della Massoneria. Questo contatto tra la tradizione
ermetica e quella muratoria avviene anche fuori dell'Inghilterra presso a poco
nel medesimo tempo, il che naturalmente implica l'esistenza nel continente di
loggie massoniche non derivanti dalla Gran Loggia d'Inghilterra. Il
frontespizio di un importante testo di ermetismo contiene accanto a simboli
ermetici (il Rebis) anche i simboli prettamente muratori della squadra e del
compasso, ed altrettanto accade in un libretto italiano di alchimia impresso in
lamine di piombo e che risale presso a poco a quel periodo. In questo libretto
è raffigurato, tra l'altro, Tubalcain che tiene nelle mani una squadra ed un
compasso. Ora Tubalcain è nella Bibbia il primo fabbro; e per un errore
etimologico allora accettato ed assai diffuso, per esempio dall'erudito Vossio,
venne identificato con Vulcano, il fabbro degli Dei e Dio del fuoco, che
secondo il concetto degli alchimisti ed ermetisti presiedeva al fuoco ermetico
(od ardore spirituale), fuoco il quale compiva da solo la grande opera della
trasmutazione. In un nostro lavoro giovanile (9) abbiamo dato una errata
interpretazione della parola di passo Tubalcain, non conoscendo la errata
identificazione di Vulcano con Tubalcain accettata dagli ermetisti ed in
generale dagli eruditi del seicento e del settecento. Ci sembra oggi manifesto
che questa parola ed altre parole di passo traggano la loro derivazione
dall'ermetismo, e riteniamo probabile che siano state introdotte in massoneria
e poste a lato delle parole sacre a testimonianza del contatto stabilito tra le
due tradizioni, la muratoria e l'ermetica. Le parole di passo non esistono
TYR, Discours Philosophiques, FORMEY, Leida. Cfr. WIRTH, Le Livre du Maître. Si tratta della Basilica Philosophica MYLII, Francof.
(NEGRI, Un codice plumbeo alchemico italiano, nella rivista UR [“Pietro Negri” è lo pseudonimo impiegato
dallo stesso REGHINI (si veda) sulla rivista «UR»] REGHINI, Le parole sacre e
di passo ed il massimo mistero massonico, Todi. Reghini - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse nel rituale del Prichard.
Ermetismo e Massoneria hanno per fine la «grande opera della trasmutazione», e
le due tradizioni trasmettono il segreto di un'arte, che entrambe designano con
il termine di arte regia, già usato da Massimo di Tiro. Era quindi naturale che
si riconoscessero mutuamente affini. Osserviamo come l'adozione del simbolismo
ermetico non avvenga a detrimento della universalità massonica e della sua
indipendenza dalla religione e dalla politica, perché anche il simbolismo
ermetico od alchemico è per sua natura estraneo ad ogni credenza religiosa o
politica. L'arte massonica e l'arte ermetica, detta anche semplicemente l'arte,
è un'arte e non una dottrina od una confessione. Ogni loggia massonica è libera
ed autonoma; i fratelli di una officina erano ricevuti come visitatori nelle
altre purché sapessero rispondere alla tegolatura, ma ogni maestro Venerabile
era l'autorità unica e suprema per i fratelli di una officina. Si ha un
mutamento con la costituzione della prima Grande Loggia, la Grande Loggia di
Londra, e poco dopo venivano compilate per opera del pastore protestante
Anderson le Costituzioni massoniche per le Loggie all'Obbedienza della Gran
Loggia di Londra; e, sebbene teoricamente un'officina potesse e possa mantenere
la propria autonomia o mettersi all'Obbedienza di una Gran Loggia, nella
pratica vengono oggi considerate loggie regolari quelle che direttamente od
indirettamente sono emanazione e derivazione della Gran Loggia di Londra,
supponendo che questa derivazione e soltanto essa possa conferire la
regolarità. Ora è molto importante notare che le Costituzioni dell'Anderson
affermano esplicitamente che per essere iniziato ed appartenere alla Massoneria
si richiede solo di essere un uomo libero e di buoni costumi, ed esaltando (a
differenza delle varie sette cristiane) il principio della tolleranza reciproca
di ogni fratello per le altrui credenze, aggiungendo solo che un massone non
sarà mai uno «stupido ateo. Taluno potrà forse pensare che l'Anderson ammetta
che il massone possa essere un ateo intelligente, ma è più verosimile che
l'Anderson da buon cristiano ammetta che un ateo è necessariamente uno stupido,
seguendo la massima che dice: Dixit stultus in corde suo: Non est Deus.
Bisognerebbe qui fare una digressione ed osservare che in questa disputa tanto
chi afferma quanto chi nega non ha in generale nozione alcuna di quanto afferma
esistere o no, e che la parola Dio viene adoperata di solito con un senso
talmente indeterminato da rendere vana qualunque discussione. Comunque le
Costituzioni della Massoneria sono esplicitamente teistiche; e quei profani che
accusano la Massoneria di ateismo sono in mala fede od ignorano che essa lavora
alla gloria del Grande Architetto dell'Universo; ed osserviamo ancora che
questa designazione oltre ad essere in armonia col carattere del simbolismo
muratorio ha un significato preciso ed intelligibile a differenza di altre
designazioni vaghe o prive di senso come quella di «Nostro Signore», di «Padre
di tutti gli uomini» ecc. Maggiore interesse offre il requisito di uomo libero
fatto al profano per iniziarlo ed al massone per considerarlo fratello.
L'Anderson non fa che continuare a chiamare liberi Muratori i FreeMasons, e
resta solo da esaminare in che cosa consista questa freedom dei Free masons. Si
tratta solo di franchigia economica e sociale che esclude gli schiavi o servi e
delle franchigie e dei privilegi di cui godeva la corporazione dei liberi
muratori rispetto ai governi degli stati e delle varie regioni in cui essa
svolgeva la sua attività? Oppure questo appellativo di liberi muratori va
inteso anche in altro senso di non schiavo dei pregiudizii e delle credenze che
non era il caso di ostentare? Se cosi fosse sarebbe vano cercarne le prove
documentate, e la questione resterebbe indecisa. Pure è possibile dire qualche
cosa in proposito grazie ad un documento del 1509 la cui esistenza od
importanza sembra non sia stata finora avvertita, (10) O. WIRTH esprime
categoricamente questa opinione (Livre du Maître). REGHINI (si veda) I
Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse Si tratta
di una lettera ad Agrippa da un suo amico italiano, certo LANDOLFO (si veda),
per raccomandargli un iniziando. Scrive LANDOLFO (si veda). È un tedesco come
te, originario di Norimberga, ma abita a Lione. Curioso indagatore degli arcani
della natura, ed uomo libero, completamente indipendente del resto, vuole sulla
reputazione che tu hai già, esplorare anche lui il tuo abisso. Lancialo dunque
per provarlo nello spazio; e portato sulle ali di Mercurio vola dalle regioni
dell'Austro a quelle dell'Aquilone, prendi anche lo scettro di Giove; e se
questo neofita vuole giurare i nostri statuti, associalo alla nostra
confraternita». Si tratta di una associazione segreta ermetica fondata da
Agrippa ed è manifesta l'analogia tra questa prova dello spazio da fare
affrontare all'iniziando e le terribili prove ed i viaggi simbolici della
iniziazione massonica, sebbene qui la prova si effettui sulle ali di Ermete;
Ermete psicopompo, il padre dei filosofi secondo la tradizione ermetica, è la
guida delle anime nell'al di là classico e nei misteri iniziatici. Anche qui
compare la qualifica di uomo libero, sufficiente ad aprire le porte a chi bussa
profanamente alla porta del tempio; anche qui compare in sostanza il principio
della libertà di coscienza e conseguentemente della tolleranza; le due
tradizioni parallele muratoria ed ermetica pongono la stessa unica condizione
al profano da iniziare: quella di essere un uomo libero; e ne deriva che
presumibilmente essa non si riferiva alle franchigie particolari delle
corporazioni di mestiere, che sarebbe stato del resto fuori di luogo pretendere
dagli accepted Masons che non erano muratori di mestiere ma liberi muratori. Il
carattere fondamentale delle Costituzioni massoniche d’Anderson sta adunque nel
principio della libertà di coscienza e della tolleranza, che rende possibile
anche ai non cristiani di appartenere all'Ordine. Nelle Costituzioni
dell'Anderson la Massoneria conserva il suo carattere universale, non è
subordinata ad alcuna credenza filosofica particolare né ad alcuna setta
religiosa, e non manifesta alcuna tendenza a lavori di ordine sociale e
politico; può darsi che questo carattere aconfessionaJe e libero inspirasse
anche la Massoneria e che Anderson non abbia fatto altro che sancirlo nelle
Costituzioni. Trapiantandosi in America e nel continente europeo la Massoneria
conserva in generale questo suo carattere universale di tolleranza religiosa e
filosofica e resta aliena da ogni partecipazione ai movimenti politici e
sociali, talora accentuando, come in Germania, il suo interesse per
l'ermetismo. Sorgono per altro i nuovi riti e gli alti gradi, i quali però hanno
cura di mantenere intatti il rito ed i rituali dei primi tre gradi, ossia della
vera e propria massoneria detta anche massoneria simbolica od azzurra. I
rituali di questi alti gradi sono talora uno sviluppo della leggenda di Hiram,
oppure si riattaccano ai Rosacroce, all'ermetismo, ai Templari, allo
gnosticismo, ai catari, vale a dire non hanno un vero e proprio carattere
massonico, e dal punto di vista della iniziazione massonica sono assolutamente
superflui. La massoneria sta tutta nei primi tre gradi, riconosciuti da tutti i
riti, e posti alla base degli alti gradi e delle camere superiori dei varii
riti. Il compagno libero muratore, una volta divenuto maestro ha simbolicamente
terminato la sua grande opera; e gli alti gradi potrebbero avere una qualche
funzione veramente massonica soltanto se contribuissero alla corretta
interpretazione della tradizione muratoria ed a una più intelligente
comprensione ed applicazione del rito ossia dell'arte regia. Naturalmente
questo non significa che si debbano abolire gli alti gradi perché i fratelli
insigniti degli alti gradi sono liberi, e quelli di loro cui piace di riunirsi
in riti e corpi per svolgere lavori non in contrasto con quelli massonici
debbono avere la libertà di farlo. Però dal punto di vista strettamente
massonico questa loro appartenenza ad altri riti ed a camere superiori non li
pone in alcun AGRIPPA, Epistol. Cfr. anche la monografia di REGHINI premessa
alla versione italiana della Filosofia Occulta di Agrippa. Reghini - I
Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse modo al di
sopra di quei maestri che non sentono il bisogno di altro lavoro che quello
della universale massoneria dei primi tre gradi. Del resto è manifesto che riti
distinti, come quello di Swedenborg, quelli scozzesi, quello della Stretta
Osservanza, quello di Memphis... appunto perché differenti non sono più
universali, oppure lo sono solo in quanto si basano sopra i primi tre gradi.
Dimenticarlo o tentare di snaturare il carattere universale, libero e tollerante
della Massoneria, per imporre ai fratelli delle Loggie particolari punti di
vista ed obbiettivi, sarebbe mettersi contro lo spirito della tradizione
muratoria e contro la lettera delle Costituzioni della Fratellanza. La prima
alterazione appare in Francia, simultaneamente alla fioritura degli alti gradi.
Il fermento degli spiriti in cotesto periodo, il movimento dell'Enciclopedia,
si ripercuotono nella Massoneria, che si diffonde largamente e rapidamente; ed
accade cosi per la prima volta che l'interesse dell'Ordine si dirige e si
concentra nelle questioni politiche e sociali. Affermare che la rivoluzione
francese sia stata opera della Massoneria ci sembra per lo meno esagerato; è
invece innegabile che la Massoneria subì in Francia, e sarebbe stato difficile che
ciò non avvenisse, l'influenza del grande movimento profano che condusse alla
rivoluzione e culminò poi nell'impero. La Massoneria francese divenne e rimase
anche in seguito una massoneria colorata politicamente ed interessata nelle
questioni politiche e sociali, e si formò quella che da taluni è considerata
come la tradizione massonica, sebbene sia tutt'al più la tradizione massonica
francese, ben distinta dalla antica tradizione. Questa deviazione e questa
persuasione è la causa prima, sebbene non la sola, del contrasto che è poi
sorto tra la massoneria anglosassone e la massoneria francese; anche in Italia
essa è stata la sorgente dei dissensi massonici di questi ultimi cinquanta anni
e della conseguente disunione e debolezza della Massoneria di fronte agli
attacchi ed alla persecuzione fascista e gesuitica. Comunque anche i fratelli
che seguono questa tradizione massonica francese non hanno dimenticato il
principio della tolleranza, e nelle loggie massoniche italiane, anche prima
della persecuzione fascista, si trovavano fratelli di ogni fede politica e
religiosa, compresi i cattolici ed i monarchici. Va anche ricordato che nel
periodo di poco precedente lo scoppio della rivoluzione francese non tutti i
massoni dimenticarono la vera natura della Massoneria, sebbene disorientati
dalla pleiade di riti diversi e contrastanti; e si tenne il Convento dei
Filaleti allo scopo di rintracciare quale fosse la vera tradizione massonica,
ossia, la vera parola di maestro che, secondo la stessa leggenda di Hiram, era
andata perduta. Al Convento dei Filaleti convennero massoni di ogni rito, tutti
desiderosi di ristabilire l'unità. Il solo Cagliostro, che aveva fondato il
rito della Massoneria Egiziana in soli tre gradi, dedito esclusivamente
all'opera della edificazione spirituale, rifiutava di partecipare al Convento
dei Filaleti per ragioni che sarebbe lungo esporre. L'influenza massonica
francese si affermò, dopo la rivoluzione e durante l'impero, anche in Italia;
la presenza anche oggi di alcuni termini tecnici nei «travagli» massonici come
il «maglietto» del Venerabile, versione poco felice del maillet ossia del
martello, ne fa testimonianza La massoneria francese e quella italiana ebbero
durante tutto lo scorso secolo intimi rapporti, ed assunsero insieme talora atteggiamento
rivoluzionario, repubblicano ed anche materialista e positivista seguendo la
voga filosofica del tempo. Non si può dire per altro che la massoneria divenne
in Italia una massoneria materialista, perché non soltanto fu sempre tollerante
di tutte le opinioni, ma venerò in modo speciale la grande anima di MAZZINI (si
veda); ed i grandi massoni italiani come GARIBALDI (si veda), BOVIO (si veda),
CARDUCCI (si veda), FILOPANTI (si vda), PASCOLI (si veda), TORRIGIANI (si veda)
ed AMENDOLA (si veda) sono tutti idealisti e spiritualisti. È riserbata alla TEPPA
FASCISTA la selvaggia furia di devastazione dei Cosi pure pietra polita invece
di pietra levigata dal francese pierre polie; lupetto ed anche lupicino che è
una versione di louveton, a sua volta trasformazione fonetica e semantica da
Lufton, figlio di Gabaon, nome generico del massone secondo i primitivi rituali
inglesi e francesi. REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione
pitagorica massonica - Premesse nostri templi, delle nostre biblioteche
ed il vandalismo che fece a pezzi i ritratti ed i busti dei grandi
spiritualisti come MAZZINI (si veda) e GARIBALDI (si veda) che decorano le
nostre sedi. D'altra parte bisogna riconoscere che, se la massoneria
anglosassone ha sempre mantenuto il carattere spiritualista e non ha mai
pensato a dichiarare la inesistenza del Grande Architetto dell'Universo, essa è
stata spesso incline, e lo è ancora, a conferire un colorito cristiano al suo
spiritualismo, allontanandosi dallo spirito di assoluta imparzialità ed
aconfessionalità delle Costituzioni dell'Anderson. Non si può negare che
l'imporre il giuramento sul Vangelo di Giovanni sia una manifestazione non
troppo tollerante rispetto a quei profani ed a quei fratelli che, essendo
agnostici, o pagani, od ebrei o liberi pensatori, non sentono particolare simpatia
per il Vangelo di Giovanni e non sanno nulla della tradizione gioannita.
L'intolleranza si accentua con l'andazzo di infliggere la lettura ed il
commento di versetti del Vangelo durante i lavori di Loggia. Questo mal vezzo,
qualora si affermasse, ridurrebbe i lavori di Loggia al livello di un service
di una chiesa quacchera o puritana, ad una specie di rosario e vespro
fastidioso, inconcludente, e ripugnante alla libera coscienza dei moltissimi
fratelli i quali, anche in Inghilterra, ed in America, non solo non vanno alla
messa, e non accettano l'infallibilità del Papa, ma non accettano più neppure
l'autorità della Bibbia. Vale la pena di provocare il disagio e l'insofferenza
tra le colonne senza sensibile compenso? Si crede proprio con simili mezzi di convertire
gli altri alla propria credenza, e di arginare la potente ondata
dell'agnosticismo inglese ed americano? Queste considerazioni inducono a
mantenere alla Massoneria il suo carattere universale al di sopra di ogni
credenza religiosa e filosofica e di ogni fede politica. Il che non vuol dire
che si debba fare astrazione dalla politica. Occorre infatti difendersi.
L'intolleranza non può lasciare prosperare la tolleranza; e la tolleranza tutto
può tollerare salvo l'intolleranza dichiaratamente ostile. Appena comparvero le
Costituzioni dell'Anderson col loro principio della libertà e della tolleranza
la Chiesa cattolica scomunicò la Massoneria rea appunto di tolleranza; e
l'accanimento contro la Massoneria non si è mai più smentito. In Italia la
persecuzione contro la Massoneria in questo ultimo ventennio è stata iniziata e
sostenuta dai gesuiti e dai nazionalisti; ed i fascisti per ingraziarsi questi
messeri non esitarono a provocare l'avversione del mondo civile contro l'Italia
con le loro gesta vandaliche contro la massoneria. I gesuiti hanno perduto
questa guerra; ma la peste dell'intolleranza non è finita, anzi si affaccia
sotto nuove forme e ne segue la necessità di prevenirla. D'altra parte giunge
l'ora, se non erriamo, di spargere la Massoneria sopra tutta la superficie
della terra e di stabilire una fratellanza tra gli uomini di tutte le razze,
civiltà e religioni; e per assolvere questo compito è necessario che la
Massoneria non abbia una fisionomia ed un colorito che appartiene solo alla minoranza
dell'umanità a cui le grandi civiltà orientali, tutta la Cina, tutta l'India,
il Giappone, la Malesia, il mondo dell'Islam si sono dimostrati refrattarii. La
cosa è possibile sin tanto che la Massoneria non si circoscrive in una
qualunque credenza e resta fedele al suo patrimonio spirituale che non consiste
in una fede codificata, in un credo religioso o filosofico, in un complesso di
postulati o pregiudizii ideologici e moralistici, in un bagaglio dottrinale in
cui si creda contenuta ed espressa la verità cui convertire i miscredenti.
Bisogna pensare che, anche se esiste la vera religione o la vera filosofia, è
una illusione il credere di poterla conquistare o comunicare con una
conversione o con una confessione od una recitazione di formule determinate,
perché ognuno intende le parole di questi credi e formule a modo suo, conforme
alla sua cultura ed intelligenza: ed in fondo esse non sono, come diceva
Amleto, che words, words, words. Fin tanto che non ci si ragiona sopra, permane
l'illusione di comprendere queste parole nello stesso modo; appena si comincia
a ragionare, sor Cfr. gli art. Di BODRERO nell'organo della Compagnia di Gesù,
la Civiltà cattolica, ed il giornale Roma Fascista; cfr. et.: Ignis e Rassegna
Mass., annata REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica
massonica – Premesse] gono le sette e le eresie, ciascuna persuasa di possedere
la verità. La sapienza non può essere razionalmente intesa, espressa e
comunicata; essa è una visione, una vidya, essenzialmente e necessariamente
indeterminata, incerta; e, aprendo gli occhi alla luce con la nascita alla
nuova vita, ci si avvia a questa visione. L'arte muratoria od arte regia è
l'arte di lavorare la pietra grezza in modo da rendere possibile la
trasmutazione umana e la graduale percezione della luce iniziatica. Il che non
significa naturalmente che la Massoneria abbia il monopolio dell'arte regia.
Durante questi ultimi due secoli la grande maggioranza dei nemici della
massoneria ha fatto sistematicamente ed unicamente ricorso soltanto
all'ingiuria ed alla calunnia facendo leva sui sentimenti moralistici e
patriottici. Si è affermato che i lavori massonici consistono in orgie
abbominevoli, svisando a questo scopo i rituali, si sono svelate le cerimonie
massoniche ponendole in ridicolo, si è accusato i massoni di tradire la loro
patria a causa del carattere internazionale dell'Ordine, si è affermato che la
Massoneria non è altro che uno strumento degli Ebrei, sempre mirando ad
ingannare ed aizzare i fedeli credenti ed il grosso pubblico contro la «Società
Segreta». I massoni naturalmente sapevano bene che non si trattava che di
calunnie; e, non potendoli persuadere, si è pensato a sopprimerli od a togliere
ad essi la possibilità di adunarsi, di lavorare, di rispondere e di difendersi.
Recentemente uno scrittore cattolico ha pubblicato uno studio storico sopra «la
Tradizione Segreta» condotto con competenza ed abilità, ed in cui le contumelie
e le solite calunnie dirette a fare presa sull'animo dei profani sono state
sostituite da una critica insidiosa diretta a fare presa sul lettore colto ed
anche sull'animo dei fratelli. Questa critica afferma che nel fondo della
tradizione segreta è contenuto il vuoto assoluto e conclude con l'affermare che
«la Scuola Iniziatica o per essa la Tradizione Segreta, non ha insegnato
assolutamente nulla all'umanità. Veramente non si capisce bene come si possa
allora anche affermare che questo vuoto assoluto, «questa tradizione segreta
coincide, se pure spesso in forma corrotta, con le dottrine gnostiche», ma non
pretendiamo troppo. La Massoneria è dunque, secondo l'autore, una sfinge senza
segreto perché non insegna alcuna dottrina, ed il lettore è così portato a
concludere che essendo priva di contenuto la Massoneria non val niente. In
quanto precede noi abbiamo mostrato che la Massoneria non insegua alcuna
dottrina e non deve insegnarne; e che questo è un merito e non un demerito
della Massoneria. Per concludere poi che, non contenendo una dottrina, la
Tradizione segreta contiene il vuoto assoluto bisogna credere che soltanto una
dottrina possa occupare il vuoto. Afferma ancora il Del Castillo che «il
sistema iniziatico suppone che l'uomo possa arrivare a capire con lo sforzo del
cervello i problemi insoluti del cosmo e dell'al di là»; e che la Chiesa cattolica
oppone alle vane elucubrazioni dei così detti iniziati la forza intangibile del
suo dogma che deve essere unico perché non possono esistere due verità»; e che IL
SISTEMA INIZIATICO è incompatibile can
il cristianesimo. A queste e simili affermazioni rispondiamo che ignoriamo la
esistenza di un sistema iniziatico, che non conosciamo iniziati che facciano
delle supposizioni, e tanto meno che si illudano di potere capire col solo
cervello e con elucubrazioni di problemi insoluti: ma non ci è possibile
ammettere che la fede in un dogma costituisca una conoscenza perché sapere non
è credere. Anzi noi comprendiamo che la verità è necessariamente ineffabile ed
indefinibile, e lasciamo ai profani l'ingenua e consolante illusione che sia
possibile una qualsiasi formulazione della verità e della conoscenza in credi,
formule, dottrine, sistemi e teorie. Anche Gesù, del resto, sapeva che le sue
parabole non erano che delle parabole, ma diceva anche ai suoi discepoli che ad
essi «era dato intendere il mistero del regno dei cieli». Evidentemente sola
fides sufficit ad firmandum cor sincerum, ma non sufficit per intendere i
misteri. Lo stesso dicasi naturalmente per il solo raziocinio. E con questo
CASTILLO, La tradizione segreta, Milano, Bompiani, REGHINI (si veda) I Numeri
Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Premesse non intendiamo
menomare il valore della fede e del raziocinio; la sola fede conduce al
fanatismo ignorante, il solo raziocinio conduce alla disperazione filosofica;
sono un po' come il tabacco ed il caffè: due veleni che si compensano; ma
naturalmente non basta fumare la pipa e centellinare il caffè per assurgere
alla conoscenza. Alla conoscenza multi vocati sunt, non tutti; e, tra questi
molti, pauci electi sunt; secondo la Chiesa cattolica invece basta la fede nel
Dogma, e conoscenza e paradiso sono alla portata di tutte le borse a prezzi di
vera concorrenza. Riassumendo: Non esiste una dottrina segreta massonica; ma
esiste un'arte segreta, detta arte reale, od arte regia o semplicemente l'Arte;
è l'arte della edificazione spirituale cui corrisponde l'architettura sacra.
Gli strumenti muratorii hanno perciò un senso figurato nell'opera della
trasmutazione; ed al segreto dell'arte regia corrisponde il segreto
architettonico dei costruttori delle grandi cattedrali medioevali. E' naturale
che i liberi muratori venerino il Grande ARCHITETTO dell'Universo, anche se non
si definisce cosa si debba intendere con questa formola. Nell'architettura
antica, specialmente in quella sacra, avevano grande importanza le questioni di
rapporto e di proporzione; l'architettura classica regolava la proporzione
delle varie parti di un edificio, ed in particolare dei templi, basandosi sopra
un modulo segreto cui accenna Vitruvio; sopra l'architettura egiziana e specialmente
sopra la Piramide di Cheope esiste tutta una letteratura che ne mostra il
carattere matematico; ed, anche procedendo con molto scetticismo, è certo ad
esempio che tale piramide si trova esattamente alla latitudine di 30° in modo
da formare col centro della terra e col polo Nord un triangolo equilatero, è
certo che essa è perfettamente orientata e che la faccia rivolta a settentrione
è esattamente perpendicolare all'asse di rotazione terrestre, anzi alla
posizione di questo asse al tempo della sua costruzione. Ed anche i costruttori
medioevali non erano guidati da criterii puramente estetici, e si preoccupavano
dell'orientazione della chiesa, del numero delle navate ecc.; e l'arte dei
costruttori era posta in connessione con la scienza della geometria. La squadra
ed il compasso sono i due simboli fondamentali di mestiere dell'arte muratoria;
e la riga ed il compasso sono i due strumenti fondamentali per la geometria
elementare. La Bibbia afferma che Iddio ha fatto omnia in numero, pondere et
mensura; i pitagorici hanno coniato la parola cosmo per indicare la bellezza
del cosmo in cui riconoscevano una unità, un ordine, un'armonia, una
proporzione; e tra le quattro scienze liberali del quadrivio pitagorico, cioè
l'aritmetica, la geometria, la musica e la sferica, la prima stava alla base di
tutte le altre. ALIGHIERI (si veda) compara il cielo del Sole all'aritmetica
perché come del lume del Sole tutte le stelle si alluminano, cosi del lume
dell'aritmetica tutte le scienze si alluminano, e perché come l'occhio non può
mirare il sole così l'occhio dell'intelletto non può mirare il numero che è
infinito. Lasciando da parte ogni critica di questo passo resta stabilita la
posizione occupata secondo Dante dalla Aritmetica. Tanto la Bibbia quanto
l'architettura portavano alla considerazione dei numeri. Oggi, anche rifiutando
di riconoscere nel cosmo un'unità, un ordine, un'armonia, una legge ed
accettando solo un determinismo limitato dalla legge di probabilità la fisica
moderna si riduce sempre alla considerazione di numeri e rapporti numerici;
anzi non restano altro che quelli, e tanto Einstein quanto Bertrand Russel
hanno constatato e riconosciuto il ritorno della scienza moderna al
pitagoreismo. La stessa cosa era
già stata detta dal WIRTH: «Comme la méthode initiatique se refuse à inculquer
qui que ce soit, il n'est guère admissible qu'une doctrine positive ait été
enseignée au sein des Mystères» (Le livre du Maître). Il DEL CASTILLO invece sostiene senza alcuna prova
che la Massoneria ha preteso insegnare una tale dottrina segreta, constata che
di questa dottrina positiva non si trova traccia, ed invece di riconoscere che
la sua personale asserzione non ha fondamento, accusa la Massoneria di
millantato credito e di incapacità. O Vos qui cum Jesu itis, non ite cum
Jesuitis. ALGHIERI (si veda), Conv. REGHINI (si veda) - I Numeri Sacri nella
tradizione pitagorica massonica - Premesse Non stupisce quindi che i
liberi muratori identificassero l'arte architettonica con la scienza della
geometria e dessero alla conoscenza dei numeri tale importanza da giustificare
la loro pretesa tradizionale di essere i soli ad avere conoscenza dei «numeri
sacri». Dobbiamo per altro fare ancora alcune osservazioni. La geometria nella
sua parte metrica, ossia nelle misure, richiede la conoscenza dell'aritmetica;
inoltre l'accezione della parola geometria era anticamente più generica che ora
non sia, e geometria indicava genericamente tutta la matematica; di modo che la
identificazione dell'arte reale con la geometria, tradizionale in Massoneria,
si riferisce non alla sola geometria intesa nel senso moderno, ma anche alla
aritmetica. In secondo luogo dobbiamo osservare che questa relazione fra la
geometria e l'arte regia dell'architettura e della edificazione spirituale è la
stessa che inspira la massima platonica ACCADEMIA: NESSUN IGNARO DELLA
GEOMETRIA ENTRI SOTTO IL MIO TETTO. Questa massima è di attribuzione un po’
dubbia perché è riportata solo da un tardo commentatore: ma in opere che
indiscutibilmente appartengono a Platone leggiamo essere «la geometria un
metodo per dirigere l'anima verso l'essere eterno; una scuola preparatoria per
una mente scientifica, capace di rivolgere le attività dell'anima verso le cose
sovrumane», essere «perfino impossibile arrivare ad una vera fede in Dio se non
si conosce la matematica e l'astronomia e l'intimo legame di quest'ultima con
la musica. Questa concezione ed attitudine di Platone è la medesima che si ritrova
nella SCUOLA ITALA o pitagorica che esercitò sopra Platone grandissima
influenza, di modo che anche volendo sostenere che la Massoneria si sia
inspirata a Platone, si è sempre in ultima analisi ricondotti alla geometria ed
all'aritmetica dei pitagorici. Il legame tra la Massoneria e l'Ordine
pitagorico, anche se non si tratta di ininterrotta derivazione storica, ma
soltanto di filiazione spirituale, è certo e manifesto. ANGHERÀ (si veda) nella
prefazione alla ristampa degli Statuti Generali della Società dei Liberi
Muratori del Rito Scozzese Antico ed Accettato, già pubblicati in NAPOLI, afferma
categoricamente che l'Ordine massonico è la stessa, stessissima cosa
dell'Ordine pitagorico; ma anche senza spingersi tanto oltre l'affinità tra i
due ordini è sicura. In particolare l'arte geometrica della Massoneria deriva,
direttamente od indirettamente, dalla geometria ed aritmetica pitagoriche; e
non più in là, perché i pitagorici furono i creatori di queste scienze
liberali, a quanto risulta storicamente e secondo la attestazione di Proclo. Ad
eccezione di alcune poche proprietà geometriche attribuite, probabilmente a
torto, a Talete, la geometria, dice il Tannery, scaturisce completa dal genio
di Pitagora come Minerva balza armata di tutto punto dal cervello di Giove; ed
i pitagorici sono stati i primi ad iniziare lo studio dell'aritmetica e dei
numeri. Per studiare le proprietà dei numeri sacri ai Liberi Muratori e la loro
funzione in Massoneria, la via che si presenta spontaneamente è dunque quella di
studiare l'antica aritmetica pitagorica; e di studiarla sia dal punto di vista
aritmetico ordinario, sia dal punto di vista dell'aritmetica simbolica od
aritmetica formale, come la chiama Pico della Mirandola, corrispondente al
compito filosofico e spirituale assegnato da Platone alla geometria. I due
sensi si trovano strettamente connessi nello sviluppo dell'aritmetica
pitagorica. La comprensione dei numeri pitagorici faciliterà la comprensione
dei numeri sacri alla massoneria. LORIA, Le scienze esatte nell'antica
Grecia, 2a ed., Milano, Hoepli Reghini - I Numeri Sacri nella tradizione
pitagorica massonica La Tetractis pitagorica ed il Delta massonico La
Tetractis pitagorica ed il Delta massonico No, io lo giuro per colui che ha
trasmesso alla nostra anima la tetractys nella quale si trovano la sorgente e
la radice dell'eterna natura. Detti aurei. Riesumare e restituire
l'antica aritmetica pitagorica è opera quanto mai ardua, perché le notizie che
ne sono rimaste sono scarse e non tutte attendibili. Bisognerebbe ad ogni passo
ed affermazione citare le fonti e discuterne il valore; ma questo renderebbe la
esposizione lunga e pesante e meno facile la intelligenza della restituzione.
Perciò, in generale, ci asterremo da ogni apparato filologico, ci atterremo soltanto
a quanto resulta meno controverso e dichiareremo sempre quanto è soltanto
nostra opinione o resultato del nostro lavoro. La bibliografia pitagorica
antica e moderna è assai estesa, e rinunciamo alla enumerazione delle centinaia
di libri, studii, articoli, e passi di autori antichi e moderni che la
costituiscono. Secondo alcuni critici, storici e filosofi, Pitagora sarebbe
stato un semplice moralista e non si sarebbe mai occupato di matematica;
secondo certi ipercritici Pitagora non sarebbe mai esistito; ma noi abbiamo per
certa la esistenza di Pitagora, e, accettando la testimonianza del filosofo
Empedocle di GIRGENTI (si veda) quasi contemporaneo, riteniamo che le sue
conoscenze in ogni campo dello scibile erano grandissime. Pitagora di CROTONE
(si veda) visse nel sesto secolo prima di Cristo, fonda in Calabria una scuola
ed un ordine che Aristotile del LIZIO chiama scuola itala, ed insegna tra le
altre cose l'aritmetica e la geometria. Secondo Proclo, capo della scuola di
Atenee, è Pitagora che per il primo eleva la geometria alla dignità di scienza
liberale, e secondo Tannery la geometria esce dal cervello di Pitagora come
Athena esce armata di tutto punto dal cervello di Giove. Però nessuno scritto
di Pitagora od a lui attribuito è pervenuto sino a noi, ed è possibile che non
scrive nulla. Se anche è diversamente, oltre alla remota antichità che ne
avrebbe ostacolato la trasmissione, va tenuta presente la circostanza del
segreto che i pitagorici manteneno, sopra i loro insegnamenti, o parte almeno
di essi. Il fìlologo Delatte, in Études sur la littérature pythagoricienne,
Paris, fa una dottissima critica delle fonti della letteratura pitagorica; ed
mette in chiaro tra le altre cose che i famosi detti aurei o versi aurei,
sebbene sono una compilazione ad opera di un neo-pitagorico, permettono di
risalire quasi all'inizio della scuola pitagorica perché trasmettono materiale
arcaico. Questo saggio di Delatte è la nostra fonte principale. Altre antiche
testimonianze si hanno negli scritti di Filolao, di Platone, di Aristotile e di
TIMEO (si veda) di Tauromenia. FILOLAO (si veda), insieme al tarentino ARCHITA
(TARANTO (si veda)), uno dei più eminenti pitagorici nei tempi vicini a
Pitagora, TIMEO (si veda) è uno storico del pitagoreismo, ed il grande filosofo
Platone risenti fortemente l'influenza del pitagoreismo e 12 REGHINI (si
veda), I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonicaLa Tetractis
pitagorica ed il Delta massonico] possiamo considerarlo come un pitagorico,
anche se non appartenente alla setta. Assai meno antichi sono i biografi di
Pitagora cioè Giamblico, Porfirio e Diogene, che sono dei neopitagorici e gli
scrittori matematici Teone da Smirne e Nicomaco di Gerasa. Gli scritti
matematici di questi due ultimi autori costituiscono la fonte che ci ha
trasmesso l'aritmetica pitagorica. Anche BOEZIO (si veda) ha assolto questo
compito. Molte notizie si debbono a Plutarco. Tra i moderni, oltre a Delatte ed
al saggio un po' vecchio di Chaignet su Pythagore et la philosophie
pythagoricienne, Paris, ed al Verbo di Pitagora di ROSTAGNI (si veda), Torino,
faremo uso dell'opera The Theoretic Arithmetic of the Pythagoreans, London del
dotto grecista Taylor che è un neo-platonico ed un neo-pitagorico; e tra gli
storici della matematica faremo uso delle Scienze esatte nell'antica Grecia,
Milano, Hoepli, di LORIA (si veda), e dell'opera A History of Greeck
Mathematics di Heath. Per la matematica l'unità è il primo numero della serie
naturale dei numeri interi. Essi si ottengono partendo dall'unità ed
aggiungendo successivamente un'altra unità. La stessa cosa non accade per
l'aritmetica pitagorica. Infatti una stessa parola, monade, indica l'unità
dell'aritmetica e la monade intesa nel senso che oggi diremmo meta-fisico; ed
il passaggio dalla monade universale alla dualità non è così semplice come il
passaggio dall'uno al due mediante l'addizione di due unità. In aritmetica,
anche pitagorica, vi sono TRE operazioni dirette: l'addizione, la
moltiplicazione e l'innalzamento a potenza, accompagnate dalle tre operazioni
inverse. Ora il prodotto dell'unità per sé stessa è ancora l'unità, ed una
potenza dell'unità è ancora l'unità. Quindi soltanto l'addizione permette il
passaggio dall'unità alla dualità. Questo significa che, per ottenere il due, bisogna
ammettere che vi possano essere DUE UNITÀ, ossia avere già il concetto del DUE
– cf. Kant: 1 + 1 = 2, sintetico a priori --, ossia, che la monade puo perdere
il suo carattere di unicità, che essa puo distinguersi e che vi puo essere una
duplice unità od una MOLTEPLICITÀ di unità. Filosoficamente si ha la questione
del MONISMO e del dualismo, meta-fisicamente la questione dell'essere (Grice,
“Aristotle on the mutliplicity of being”) e della sua rappresentazione,
biologicamente la questione della cellula e della sua riproduzione. Ora, se si
ammette la intrinseca ed essenziale unicità – the uniqueness of the king of
France (Grice) -- dell'unità, bisogna ammettere che un'altra unità non può
essere che una apparenza; e che il suo apparire è una ALTERAZIONE (othering –
Grice on ‘other than’) dell'unicità proveniente da una distinzione che la monade
opera in sé stessa. La coscienza opera in simil modo una distinzione tra l'IO
ed il “NON-IO.” (“I am hearing a sound”). Secondo il Vedanta advaita questa è
una illusione, anzi è la grande illusione (film francese), e non c'è da fare
altro che liberarsene. Non è però una illusione che vi è questa illusione,
anche se essa può essere superata. I pitagorici diceno che la diade è generata
dall'unità che si allontana o separa da sé stessa, che si scinde in due: ed
indicano questa differenziazione o polarizzazione con varie parole: DIERESI,
TOLMA. Per la matematica pitagorica l'unità non è un numero, ma è il principio,
l' di tutti i numeri, diciamo principio e non inizio. Una volta ammessa
resistenza di un'altra unità e di più unità, dall'unità derivano poi, per
addizione, il due e tutti i numeri. I pitagorici concivano i numeri come
formati o costituiti o raffigurati da PUNTI variamente disposti. Il punto è
definito dai pitagorici l'unità avente posizione, mentre per Euclide il punto è
ciò che non ha parti. L'unità è rappresentata dal punto ( = segno) od anche,
quando venne in uso il sistema alfabetico di numerazione scritta, dalla lettera
A od “α,” che serve per scrivere l'unità. Una volta ammessa la possibilità
dell'addizione dell'unità ed ottenuto il due, raffigurato dai due punti estremi
di un segmento di retta, si può seguitare ad aggiungere delle unità, ed
ottenere successivamente tutti i numeri rappresentati da due, tre, quattro...
punti allineati. Si ha in tal modo lo sviluppo lineare dei numeri. Tranne il
due che si può ottenere soltanto come addizione di due unità, 13 REGHINI
(si veda) - I Numeri Sacri nella tradizione pitagorica massonica - Cap. I - La
Tetractis pitagorica ed il Delta massonico tutti i numeri interi possono
essere considerati sia come somma di altri numeri; per esempio il cinque è 5 =
1 + 1 + 1 + 1 + 1; ma è anche 5 = 1 + 4 e 5 = 2 + 3. L'uno ed il due non godono
di questa proprietà generale dei numeri: e perciò come l'unità anche il due non
era un numero per gli antichi pitagorici ma il principio dei numeri pari.
Questa concezione si perdette col tempo perché Platone parla del due come pari
(1), ed Aristotile (2) parla del due come del solo numero primo pari. Il tre a
sua volta può essere considerato solo come somma dell'uno e del due: mentre
tutti gli altri numeri, oltre ad essere somma di più unità, sono anche somma di
parti ambedue diverse dall'unità; alcuni di essi possono essere considerati
come somma di due parti eguali tra loro nello stesso modo che il due è somma di
due unità e si chiamano i numeri pari per questa loro simiglianza col paio,
così per esempio il 4 = 2 + 2, il 6 = 3 + 3 ecc. sono dei numeri pari; mentre
gli altri, come il tre ed il cinque che non sono la somma di due parti o due
addendi eguali, si chiamano numeri dispari. Dunque la triade 1, 2, 3 gode di
proprietà di cui non godono i numeri maggiori del 3. Nella serie naturale dei
numeri, i numeri pari e dispari si succedono alternativamente; i numeri pari
hanno a comune col due il carattere cui abbiamo accennato e si possono quindi
sempre rappresentare sotto forma di un rettangolo (epipedo) in cui un lato
contiene due punti, mentre i numeri dispari non presentano come l'unità questo
carattere, e, quando si possono rappresentare sotto forma rettangolare, accade
che la base e l'altezza contengono rispettivamente un numero di punti che è a
sua volta un numero dispari. Nicomaco riporta anche una definizione più antica:
esclusa la diade fondamentale, pari è un numero che si può dividere in due
parti eguali o disuguali, parti che sono entrambe pari o dispari, ossia, come
noi diremmo, che hanno la stessa parità; mentre il numero dispari si può
dividere solo in due parti diseguali, di cui una pari e l'altra dispari, ossia
in parti che hanno diversa parità. Secondo l'Heath questa distinzione tra pari
e dispari rimonta senza dubbio a Pitagora, cosa che non stentiamo a credere; ed
il Reidemeister dice che la teoria del pari e del dispari è pitagorica, che in
questa nozione si adombra la scienza logica matematica dei pitagorici e che
essa è il fondamento della metafisica pitagorica. Numero impari, dice VIRGILIO
(si veda), Deus gaudet. La tradizione massonica si conforma a questo
riconoscimento del carattere sacro o divino dei numeri dispari, come risulta
dai numeri che esprimono le età iniziatiche, dal numero delle luci, dei
gioielli, dei fratelli componenti una officina ecc. Dovunque si presenta una
distinzione, una polarità, si ha una analogia con la coppia del pari e del
dispari, e si può stabilire una corrispondenza tra i due poli ed il pari ed il
dispari; cosi per i Pitagorici il maschile era dispari ed il femminile pari, il
destro era dispari ed il sinistro era pari.... I numeri, a cominciare dal tre,
ammettono oltre alla raffigurazione lineare anche una raffigurazione
superficiale, per esempio nel piano. Il tre è il primo numero che ammette oltre
alla raffigurazione lineare una raffigurazione piana, mediante i tre vertici di
un triangolo (equilatero). Il tre è un triangolo, o numero triangolare; esso è
il risultato del mutuo accoppiamento della monade e della diade; il due è
l'analisi dell'unità, il tre è la sintesi dell'unità e della diade. Si ha così
con la trinità la manifestazione od epifania della monade nel mondo
superficiale. Aritmeticamente 1 + 2 = 3. Proclo (5) osservò che il due ha un
carattere in certo modo intermedio tra l'unità ed il tre. Non soltanto perché
ne è la media aritmetica, ma anche perché è il solo numero per il quale accade
che PLATO dell’ACCADEMIA, Parmenide di VELIA, ARISTOTILE del LIZIO, Topiche,
HEATH, A History of Greek Mathematics, REIDEMEISTER, Die arithmetic der
Griechen, PROCLO, Comm. alla proposizione di Euclide, e cfr. TAYLOR, The
Theoretic Arithmetic of Pythagoreans, Los Angeles, REGHINI, I Numeri Sacri
nella tradizione pitagorica massonica, La Tetractis pitagorica ed il Delta
massonico sommandolo con sé stesso o moltiplicandolo per sé stesso, si
ottiene il medesimo resultato, mentre per l'unità il prodotto dà di meno della
somma e per il tre il prodotto dà di più, ossia, si ha: 1+1=2>1.1
; 2+2=4=2.2 ; 3+3=6. Grice: “Some of my Oxonian friends are masonic, and
some are Pythagorean!” Nome compiuto:
Lorenzo Fazzini. Laurentis Maria Antonius Fazzini. Fazzini. Keywords: la
matematica di Pitagora, Platone, aritmetica, geometria, definizione di assioma,
problema, lemma, numero, demonstrazione, ragione, postulato, numero sacro,
reghini – crotona, Taranto, aristosseno, meloponto filolao crotone crotona -- ecc.
Grice. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice. “Grice e
Fazzini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fedro: la ragione
conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract.
Grice: “Hardie, my tutor at Corpus, never displayed his philosophical views to
me – which was a shame – but then he said he was following Fedro’s advice in
teaching Cicero!” Nome compiuto: Fedro. Keywords: pupil-tutor. Filosofo
italiano. The philosophy teacher of Cicerone at Rome. F. follows the doctrines
of The Garden, and succeeds Zenone as the head of the school. Refs.: Luigi Speranza,
pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fedro,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Feliceto
search.
Luigi Speranza -- Grice
e Ferdinando: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dela
masculinità, il maschio e la tarantella – scuola di Mesagne – filosofia
brindisese – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mesagne). Filosof
italiano. Mesagne, Brindisi, Puglia. Grice: “I like Ferdinando; for one he
describes himself as a ‘philosophus,’ which is good – second, he deals with
‘philosophia’ in terms of this or that ‘theorema,’ which is good, and third he
follows Aristotle!” Definito dai suoi concittadini “Socrate Salentino”,
studia grammatica, poetica, greco e latino sotto RICCIO (si veda), intimo amico
di Paolo e Aldo MANUNZIO (si veda). Si trasfere successivamente a Napoli dove
studia FILOSOFIA. Si laurea in filosofia. Ha dieci figli. Tra le saggi principali
di F. grande rilievo assumono i “teoremi filosofici”, dedicati alla sua amata
città natale; Morso della tarantola, che testimonia l'importanza del tarantismo
e della tradizione salentina nel suo pensiero; Centum Historie o Casi Medici,
raccolta di cento casi clinici più peculiari analizzati dal medico nella sua
vita professionale; infine Antiqua Messapographia, attenta e appassionata
analisi della storia di Mesagne. Dal punto di vista culturale, l'opera di
riferimento per eccellenza del F. è fuor di dubbio Centum Historiæ, dedicata a
Giulia Farnese, Marchesa di Mesagne, di cui l'autore è medico di fiducia,
intimo amico e compagno di viaggio, come quello che li conduce a Roma dove F. conosce
Clemente, medico di Paolo V ed è contattato, per la sua fama, da noti
scienziati e medici romani dell'epoca tra cui Severino, con cui ebbe una
disputa riguardo al metodo migliore di operare l'incisione della salvatella, la
vena presente sul dorso della mano che parte dalla base del mignolo e si
connette con la vena ulnare. Profondo conoscitore dei classici e seguace non
solo delle teorie d’Ippocrate di Kos e Galeno, ma anche di quelle formulate da MERCURIALE
(si veda), Eustachio, Falloppia e FRACASTORO (si veda), attento alle tradizioni
della sua terra, propone un nuovo metodo di insegnamento con lezioni al letto
del malato, in una perfetta sinergia tra lo studio teorico e la sua
applicazione clinica. Per la sua grande cultura e competenza è richiesto non
solo in tutta la provincia, ma anche a Bari, Napoli e Lecce. Noto fra i
concittadini per la sua bontà d'animo, cura anche senza compenso somministrando
farmaci costosi pure ai poveri. Nelle sue diagnosi si concentra sull'importanza
delle analisi del sangue valutandone consistenza, opacità, densità e colore e
ritene centrale per la terapia attenersi ad una adeguata dieta. Per curare i
suoi pazienti si serve non solo di salassi, purghe e clisteri, secondo la
prassi ordinaria, ma prepara anche dei farmaci di origine vegetale ottenuti
miscelando quantità variabili d’erbe mediche a seconda della terapia. Nella sua
vita si occupa anche di due casi di interesse neurologico e pediatrico,
descritti nei particolari nelle Centum Historiæ, e nutre anche uno spiccato
interesse nei confronti del tarantismo e della musica come terapia certissima.
Grazie alle sue opere, in cui l'impostazione medico-scientifica si compenetra
con quella storica, grazie ad uno stile tendente al genere narrativo, ed ai contatti
che mantenne con i medici napoletani, è uno dei più importanti intermediari fra
la cultura medica napoletana e quella di terra d'Otranto. Studiosi, soprattuto F.,
si sono interrogati sulla natura del tarantismo, o tarantolismo, dopo essere
venuti a conoscenza delle cure previste dalla tradizione popolare per questo
morbo, tra cui la più importante di tutte è senza dubbio la musico-terapia somministrata
al malato da vere e proprie orchestre composte da violinisti, chitarristi e
soprattutto tamburellisti a pagamento. Proprio il tamburello assume una
funzione fondamentale in questo tipo di terapia poiché scandisce il tempo
modificando via via il ritmo del brano che, divenuto frenetico, viene
assecondato dai movimenti della danza del tarantato. La credenza vuole che il
malato dopo essere stato morso dove espellere il veleno scatenandosi a ritmo di
musica, ma non di una qualunque. Il tema musicale dove essere scelto in base al
colore della tarantola responsabile del morso. Il primo documento che
testimonia il legame tra musica e taranta è il Sertum Papale de Venenis
redatto, presumibilmente da Marra da Padova, nel pontificato di Urbano V. Il secondo
a documentare per esperienza diretta questa connessione è F.. Nelle sue Centum
Historiæ analizza, tra gl’altri, il caso di un suo concittadino, tale Simeone,
pizzicato mentre dorme di notte in un campo. Il medico crede fermamente nella
musica come terapia certissima criticando chi sostene che il tarantismo non è necessariamente
scatenato da un morso tanto reale quanto velenoso. Inoltre, è il primo a
proporre come metodo di cura per i tarantati morsi da tarantole le malinconiche
(nenie funebri). Kircher riferisce nel
suo Magnes un episodio accaduto ad Andria, nel barese, talmente singolare da
destare ragionevoli sospetti su quanto sta alla base di questa terapia. Come il
veleno stimolato dalla musica spinge l'uomo alla danza mediante continua
eccitazione dei muscoli, lo stesso fa con la tarantola; il che non avrei mai
creduto se non l'avessi appreso per testimonianza dei padri ricordati, che son
degnissimi di fede. Essi infatti mi scrivono che in proposito è tenuto un
esperimento nel palazzo ducale di Andria, in presenza di uno dei nostri padri,
e di tutti i cortigiani. La duchessa infatti, per mostrare nel modo più adatto
questo ammirabile prodigio della natura, ordina che si trovasse a bella posta
una taranta, la si collocasse, librata su una piccola festuca, in un vasetto
colmo d'acqua, e che fossero quindi chiamati i suonatori. In un primo momento
la taranta non dette alcun segno di muoversi al suono della chitarra. Ma poi,
allorché il suonatore dette inizio ad una musica proporzionata al suo umore, la
bestiola non soltanto faceva le viste di eseguire una danza saltellando sulle
zampe e agitando il corpo, ma addirittura danzava sul serio, rispettando il
tempo. E se il suonatore cessa di suonare anche la bestiola sospendeva il
ballo. I Padri vennero a sapere che ciò che in Andria ammirarono in quella
circostanza come episodio straordinario, era a Taranto fato consueto. Infatti i
suonatori di Taranto, i quali erano soliti curare con la musica questo morbo
anche in qualità di pubblici funzionari retribuiti con regolari stipendi (e ciò
per venire incontro ai più poveri, e sollevarli dalle spese), per accelerare la
cura dei pazienti in modo più certo e più facile, sogliono chiedere ai colpiti
il luogo dove la taranta li ha morsicati, e il suo colore. Dopo ciò i medici
citaredi sogliono portarsi subito sul luogo indicato, dove in gran numero le
diverse specie di tarante si adoperano a tessere le loro tele: e quivi tentano
vari generi di armonie, a cui, cosa mirabile a dirsi, or queste or quelle
saltano. E quando abbiano scorto saltare una taranta di quel colore indicata
dal paziente, tengono per segno certissimo di aver trovato con ciò il modulo
esattamente proporzionato all'umore velenoso del tarantato e adattissimo alla
cura, eseguendo la quale essi dicono che ne deriva un sicuro effetto
terapeutico. Altre opere: Theoremata philosophica (Venezia); “De vita
proroganda seu iuventute conservanda et senectute retardanda” (Neapoli); “Centum
Historiae seu Observationes et Casus medici” (Venezia); Aureus De Peste
Libellus (Napoli); “Libellus de apibus”; “Tractatus de natura leporis”; “De
coelo Messapiensi”; “De bonitate aquae cisternae”; “Libellus de morsu
tarantolae.” Martino La terra del rimorso, Milano, Est, Magnes sive de arte
magnetica opus tripartitum, Le notizie biografiche sono tratte da: Mario Marti e Domenico Urgesi, F., medico e
storico. Atti del convegno di studi, Besa, Nardò, Altre fonti: Kircher, Magnes sive de arte magnetica opus
tripartitum, Martino, La terra del rimorso, Est, Milano, Portulano Scoditti,
Distante, Alfonsetti, Poci. Assessorato alla Cultura Città di Mesagne, Mesagne,
Nicola Caputo, De tarantulae anatome et morsu, Lecce, Scoditti e Distante, La
peste, traduzione del De peste aureus libellus, Scoditti e Distante, F. Le
centum historiae e la medicina del suo tempo, Città di MesagnM. Luisa Portulano
Scoditti e Amedeo Elio Distante, F., De Vita Proroganda, Città di Mesagne, traduzione
del De Vita Proroganda seu juventute conservanda, Napoli, Scoditti e Distante,,
Atti del Congresso della Società Italiana Storia della Medicina, Mesagne. Grice:
“Ferdinando says that tarantella proves that the aspects of reason are not
sufficient, since the dance is irrational – Churchill liked it though and he
thought his bronze of the male dancer in his garde reminded him of his
adventures in Southern Italy when he would dance nude in the hills!” Epifanio Ferdnando.
Ferdinando. Keywords: mito, taranta, tarantella, Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferdinando” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fergnani: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del gesto e la passione – la scuola di Milano – filosofia
milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo
milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Grice: “I love Fergnani;
especially his “Il gesto e la passione,” which I apply to them extravagant
Victorian male-only interactions!” Si laurea a Milano sotto BANFI (si veda).
Insegna a Crema e Bergamo, Milano. Saggi in “Il pensiero critico”, “Rivista di
filosofia”, “aut aut”, “Rivista critica di storia della filosofia” e “Nuova
corrente”. È figura di spicco
nell’esistenzialismo. Si dedica a Sartre, Marx, Merleau-Ponty, Bloch, Lukács,
Althusser, Heidegger, Lévinas, Bergson. Altre opere: “Marx” (Padus, Cremona);
“Un critico di se stesso”; “More geometrico” (TET, Torino), “Prassi di GRAMSCI
(si veda)” (Unicopli, Milano); “Materialismo” (il Saggiatore, Milano); “La
dialettica dell’esistere” Feltrinelli, Milano);
L'essere e il nulla” (Il Saggiatore, Milano); “Da Heidegger a Sartre” (Farina,
Milano), “Sartre sadico” (Farina Milano); “Esistire” (Farina, Milano); Kierkegaard
(Farina, Milano); “Il gesto e la passione” Farina, Milano, “Merleau-Ponty”,
Farina, Milano. “L’Esistenzialismo”
Farina, Milano, “Sartre” (Farina, Milano); “Jaspers, Farina, Milano); Manzoni, “Il filosofo che ci “spiega” Sartre”,
Corriere della Sera. La lezione di F.",
in Materiali di Estetica, Massimo Recalcati, L'ora di lezione, Einaudi, Torino,
Papi. Fisiognomica interpretazione del
carattere di una persona sulla base del suo aspetto esteriore Lingua Segui
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando l'album di Battiato, vedi
Fisiognomica (album). La fisiognomica o fisiognomonica è una disciplina
pseudoscientifica che attraverso la fisiognomia o fisiognomonia pretende
di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto
fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine
deriva dalle parole greche physis(natura) e gnosis (conoscenza). Questa
disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle
università. La parola fisiognomica o fisiognomia venne usata fra gli studiosi
per distinguerla dal termine fisionomia (o fisonomia) che ha un significato
simile ma più generico. Esempi di fisiognomica di criminali, secondo LOMBROSO
(si veda): "Rivoluzionari e criminali politici, matti e folli". Tutto
il sapere umano si basa infatti sulla fisio-gnomica derivata dalla fisio-nomia
estetica della realtà. Ovverosia dal dedurre, attraverso i sensi e
l'osservazione morfo-genetica della natura, la sua intrinseca legge del
divenire in atto. La cosiddetta " fisio-gnosia " in cui rientrava
pure l'uomo quale cosciente parte della legge naturale. Descrizione Esistono
due principali tipi di fisiognomica: la fisiognomica predittiva assoluta,
che sostiene una correlazione assoluta tra alcune caratteristiche fisiche (in
particolare del viso) e i tratti caratteriali; queste teorie non godono più di
credito scientifico. la fisiognomica scientifica, che sostiene una qualche
correlazione statistica tra le caratteristiche fisiche (in particolare del
viso) e i tratti caratteriali a causa delle preferenze fisiche di una persona
dovute al comportamento corrispondente. La correlazione è dovuta al
rimescolamento genetico. Questo tipo di fisiognomica trova fondamento nel
determinismo genetico del carattere. La fisiognomica nell'antichità Riferimenti
a relazioni tra l'aspetto di una persona e il suo carattere risalgono
all'antichità e si possono rinvenire in alcune antiche poesie greche. Le prime
indicazioni allo sviluppo di una teoria in questo senso risultano nell'Atene
dove un certo Zopyrus si proclamava esperto di quest'arte. I giovani che
volevano entrare nella scuola pitagorica a CROTONE nella Calabria doveno
dimostrare di essere già istruiti nella fisiognomica (ephysiognomonei). Il
filosofo Aristotele del LIZIO si riferiva spesso a questo tipo di teorie anche
con citazioni letterarie. Aristotele stesso è d'accordo con queste teorie come
testimonia un passaggio di Analitici primi. È possibile inferire il carattere
dalle sembianze, se si dà per assodato che il corpo e l'anima vengono cambiati
assieme da influenze naturali. Dico naturali perché se forse, apprendendo la
musica, un uomo fa qualche cambiamento alla sua anima, questa non è una di
quelle influenze che sono per noi naturali. Piuttosto faccio riferimento a
passioni e desideri quando parlo di emozioni naturali. Se quindi questo è
accettato e anche il fatto che per ogni cambiamento c'è un segno
corrispondente, e possiamo affermare l'influenza e il segno adeguati ad ogni
specie di animale, saremmo in grado di inferire il carattere dalle sembianze.
(Jenkinson) Il primo trattato sistematico sulla fisiognomica giunto fino ad
oggi è il Physiognomica attribuito ad Aristotele ma più probabilmente frutto
della sua scuola nel LIZIO. È diviso in due parti e quindi probabilmente in
origine sono due saggi separati. La prima sezione tratta soprattutto del
comportamento umano sorvolando su quello degl’animali. La seconda sezione è
incentrata sul comportamento animale dividendo il regno animale in maschile e
femminile. Da questo vengono dedotte corrispondenze tra l'aspetto umano e il
comportamento. Dopo Aristotele, i trattati più importanti sono:
Polemo di Laodicea, de Physiognomonia, in greco Adamanzio il Sofista,
Physiognomica, in greco Anonimo LATINO, de Physiognomonia, La fisiognomica
moderna. Tipica illustrazione di un libro ottocentesco sulla fisiognomica (a
sinistra: profonda disperazione; a destra: collera mischiata con paura) La
fisiognomica, in quanto studio delle particolarità del volto umano in grado di
rivelare peculiarità caratteriali, è piuttosto diffusa nel Rinascimento ed è
risaputo che VINCI (si veda) ne è appassionato, come pure BUONARROTI (si veda).
Nello stesso passo, Condivi accenna all'intenzione di BUONARROTI (si veda) di
scrivere un trattato di anatomia con particolare riguardo ai moti e alle
"apparenze" del corpo umano. Esso evidentemente non si fonda sui
rapporti e sulla geometria, e nemmeno è strato empirico come quello che avrebbe
potuto scrivere VINCI (si veda). I termini "moti" (che fa pensare
alle "emozioni" oltre che ai "movimenti") e
"apparenze" fanno invece ritenere che BUONARROTI (si veda) insiste
sugl’effetti psicologici e visuali delle funzioni del corpo (Ackerman,
L'architettura di BUONARROTI (si veda), Torino.Il trattato di GAURICO (si veda)
intitolato De Sculptura, pubblicato a Firenze presenta questo tipo di
conoscenza nei termini seguenti. La fisiognomica è un tipo di osservazione,
grazie alla quale dalle caratteristiche del corpo rileviamo anche le qualità
dell'animo. Se gl’occhi sono piuttosto grandi e con uno sguardo un po’umido,
mostreranno un grande spirito, un'anima eccelsa e capace di grandissime cose,
ma anche l'iracondo, l'amante del vino e il superbo senza misura: così dicono
che è Alessandro il Macedone. Se vede un naso pieno, solido e tozzo, come
quello dei leoni e dei molossi, lo considera segno di forza e arroganza. La fronte quadrata, che ha la lunghezza
quanto l'altezza, è indice evidentissimo di prudenza, saggezza, intelligenza,
animo splendido (Estratti citati da Koshikawa, Individualità e concetto. Note
sulla ritrattistica, in Rinascimento. Capolavori dei musei italiani. Roma
catalogo della mostra di Roma, Scuderie Papali del Quirinale, Milano,Skira. Gli
studi di fisiognomica influenzarono artisti come Anguissola (Fanciullo morso da
un gambero) e Galizia (Ritratto di Paolo Morigia) nell'interpretazione
dell'emotività del soggetto ritratto. Il principale esponente della
fisiognomica pre-positivista è stato il pastore svizzero Lavater che fu amico,
per un breve periodo, di Goethe. Il saggio di Lavater sulla fisiognomica fu
pubblicato per la prima volta in tedesco e divenne subito popolare. Venne poi
tradotto in francese ed inglese influenzando molti lavori successivi. Le fonti
principali dalle quali Lavater trasse conferma per le sue idee furono gli
scritti di PORTA (si veda) e del fisico e filosofo Browne del quale lesse e
apprezzò Religio medici. In questo lavoro Browne discute della possibilità di
dedurre le qualità interne di un individuo dall'aspetto esteriore del
viso: nei tratti del nostro volto è scolpito il ritratto della nostra
anima (...).» (R.M.) In seguito Browne affermò le sue convinzioni sulla
fisiognomica nella sua opera Christian Morals: Poiché il sopracciglio
spesso dice il vero, poiché occhi e nasi hanno la lingua, e l'aspetto proclama
il cuore e le inclinazioni basta l'osservazione ad istruirti sui fondamenti
della fisiognomica....spesso osserviamo che persone con tratti simili compiono
azioni simili. Su questo si basa la fisiognomica. A Browne è accreditato l'uso
della parola caricatura in inglese, sulla quale si cercò di basare con fini
illustrativi l'insegnamento della fisiognomica. Browne possedeva alcuni
scritti di PORTA (si veda0 tra cui Della celeste fisionomia nel quale egli
sosteneva che non sono gli astri ma il temperamento ad influenzare sia
l'aspetto che il carattere. In De humana physiognomia. Porta usò delle
xilografie di animali per illustrare i tratti caratteristici dell'uomo. I
lavori di Porta sono ben rappresentati nella libreria di Browne ed entrambi
erano sostenitori della dottrina delle firme — cioè, le strutture fisiche in
natura come le radici, i gambi e i fiori di una pianta, sono chiavi indicative
o firme delle loro proprietà medicamentose. La popolarità della
fisiognomica, nonostante precursori come Chambre, crebbe. Trovò in particolare
nuovo vigore negli studi del celebre antropologo e criminologo italiano LOMBROSO
(si veda), il quale ne trasse ipotesi di applicazioni pratiche nella
criminologia forense e nella prevenzione dei reati, giungendo a predicare la
pena capitale come unica soluzione contro la tendenza criminale innata e
pertanto non educabile con la sola pena detentiva. La fisiognomica
influenzò anche altri campi al di fuori della scienza, come molti romanzieri
europei tra i quali Balzac; nel frattempo la Norwich connection' alla
fisiognomica si sviluppò attraverso gli scritti di Opie e del viaggiatore e
linguista Borrow, inoltre fra molti romanzieri si diffuse l'uso di passaggi
molto descrittivi dei personaggi e del loro aspetto fisiognomico in particolare
Dickens, Hardy e Brontë. Questa dottrina è stata da più parti tirata in
campo a supporto di ideologie xenofobe e pseudo-studi sulla razza. La
frenologia era pure considerata fisiognomica. È creata intorno dai fisici t Gall
e Spurzheim e si diffuse in Europa e negli Stati Uniti. In sostanza la
fisiognomica moderna subisce nel tempo una serie di modificazioni strutturali
che la specializzano in varie discipline (dai primi rudimenti di psicanalisi
alla antropologia criminale di LOMBROSO (si veda))). Essa infatti è
proporzionale alle conoscenze del periodo, ma ancor più alle metodologie
impiegate. Parlando infatti di fisiognomica moderna, si invade un campo
vastissimo fatto di congetture neo-aristoteliche, ma anche di mirabolanti
imprese antropologiche, come la macchina che misura le capacità intellettive
umane partendo dall'analisi della forma del cranio, inventata dai fratelli
Fowler. Tuttavia, che si tratti di tentativi pseudo-scientifici, o di volontari
indottrinamenti razzisti, questo spesso strato di ricerche resta un monumento
alle buone e alle cattive intenzioni umane, in quanto mai ha concesso prove
scientificamente insindacabili. Il recentissimo studio del naturalista David
(La vera storia del cranio di PULCINELLA: le ragioni di LOMBROSO (si veda) e le
verità della fisiognomica), ha messo in evidenza quanto effimero sia il
piedistallo antropocentrico, e nel contempo come possa essere studiato il volto
umano, in relazione al comportamento, utilizzando il solo grandangolo
dell'etologia comparata e dell'ecologia. I tratti somatici sono infatti
indicativi di una regione ben identificabile per cultura, religione, storia,
tradizioni o magari isolamento geografico. Se quei tratti somatici (ammesso che
siano effettivamente diversi) si associano quindi ad un comportamento, che
magari sarà tipico o frequente nel luogo, allora ecco la fisiognomica, o per lo
meno una sua versione scientificamente accessibile, in grado di relazionare
comportamento e sembianza. Per Lust questa scienza non ha nulla di
pseudo-scientifico; egli osserva, per il rigoroso metodo naturopatico che
sviluppava in quegli anni, che quando la gente guariva, cambia anche in volto.
Eliminando le scorie e le tossine, il viso diventa più "snello": il
doppio mento scompariva, torna a vedersi il collo in quei volti che prima lo
avevano "sepolto" sotto strati di tessuto adiposo, anche i capelli in
alcuni casi erano più folti. Per tutto questo comincia a sviluppare un
sistema di diagnosi all'inverso, ossia: se le modificazioni, una volta che la
gente guariva da un determinato male sono costanti, allora significa anche che,
quando e quanto più quelle caratteristiche facciali sintomatiche sono presenti
in una persona, tanto più la persona è anche affetta da quel determinato male
specifico di cui le alterazioni nel viso sono soltanto un sintomo.
Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano alla voce corrispondente.
fisiognomonìa o fisiognomìa, in Enciclopedia generale Sapere.it De
Agostini.Vocabolario Treccani alla voce "Fisiognomia" Aulo Gellio,
Noctes Atticae Porta, Coelestis Physiognomonia, in Alfonso Paolella, Edizione
Nazionale delle opere di Giovan Battista della Porta, Napoli, Edizioni
Scientifiche Italiane Paolella, Porta e l'astrologia: la Coelestis
Physiognomonia, in Montanile, Atti del Convegno "L'Edizione nazionale del
teatro e l'opera di Porta", Salerno, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e
Poligrafici internazionali, Porta, Humana Physiognomonia / Della Fisionomia
dell'uomo libri sei, in Paolella, Edizione Nazionale delle opere di Porta,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane Paolella, L’autore delle illustrazioni
delle Fisiognomiche di Della Porta e la ritrattistica. Esperienze filologiche,
in "Atti del Convegno La “mirabile” Natura. Magia e scienza in
Porta", Pisa-Roma, Serra Paolella, La fisiognomica di Porta e la sua
influenza sulle ricerche posteriori, in "Atti del Convegno Porta, Piano di
Sorrento, Roma, ed. Scienze e Lettere, Paolella, Die Physiognomonie von Della
Porta und Lavater und die Phrenologie von Gall, in Morgen-Glantz Zeitschrift
der Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft Naturmagie und Deutungskunst.
Wege und Motive der Rezeption von Porta in Europa - Akten der Tagung der
Christian Knorr von Rosenroth-Gesellschaft" - Herausgegeben von Rosmarie
Zeller und Laura Balbiani Voci correlate Lüdke, la più celebre vittima della
Antropologia Criminale di Lombroso. Emanuel Felke, studioso di naturopatia,
applica l'omeopatia, l'iridologia e la fisiognomica Benedict Lust, utilizza la
Fisiognomica nella sua diagnosi medica e ne sviluppa una vertente tutta sua.
DisciplineModifica Frenologia Patognomia Caratterologia Personologia
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Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale
Antropologia Portale Sociologia Frenologia teoria
pseudoscientifica Lavater scrittore, filosofo e teologo svizzero
Porta filosofo, scienziato, alchimista e commediografo italiano Wikipedia
Il Nudo eroico concetto dell'arte classica Lingua Segui Il nudo eroico o
nudità ideale è un concetto dell'arte e della cultura classica che si propone di
descrivere l'utilizzo del corpo umano nudo soprattutto, ma non solo, nella
scultura greca; con esso si vuole indicare che il soggetto umano apparentemente
mortale raffigurato nella scultura è in realtà un essere semi-divino, ossia un
Eroe. L'Apollo del Belvedere attribuito a Leocare, esempio tipico di nudo
eroico-divino dell'antichità, al Museo Pio-Clementino. Questa convenzione ha
avuto il suo inizio durante il periodo della Grecia arcaica ed in seguito
adottato anche dalla scultura ellenistica e dalla scultura romana. Il concetto
ha operato sia per i ritratti di figure maschili che per quelli di figure
femminili (nei ritratti di Venere e altre dee[1]). Particolarmente in alcuni
esempi romani ci ha potuto portare alla strana giustapposizione tra un gusto
iper-realistico (difetti fisici o elaborate acconciature femminili) con la
visione idealizzata del "corpo divino" in perfetto stile greco.
Il Galata morente. Come concetto è stato modificato fin dalla sua nascita
con altri tipologie di nudità appartenenti alla scultura classica, ad esempio
la nudità (che richiama al pathos) dei valorosi combattenti sconfitti in
battaglia dai nemici barbari, come il Galata morente. Dopo essere
scomparsa per quasi tutto il Medioevo[3]l'idea è stata reintegrata nell'arte
moderna quale esempio di Virtù (il vero, il bello e il buono) incarnate dal
corpo umano maschile nudo. Questa metafora ha rappresentato la perfetta
raffigurazione di grandi uomini, coloro cioè le cui azioni potrebbero incarnare
il più alto status esistenziale. Riapparso con grande vigore soprattutto
durante il Rinascimento e il Neoclassicismo, periodi in cui l'eredità classica
ha potentemente influenzato tutte le forme di arte alta: molto famosi sono i
nudi eroici di Michelangelo Buonarroti (esemplare è la figura del suo David) o
quelli di Antonio Canova (con Perseo trionfante che tiene in mano la testa di
Medusa e Napoleone Bonaparte come Marte pacificatore, per fare solo due esempi
tra i tanti). Un principe seleucide raffigurato in nudità eroica, Museo nazionale
romano. Statua eroica di un generale romano con la testa di
Augusto, al museo del Louvre. Statura romana con la testa di
Marcello (da un prototipo greco). Napoleone Bonaparte come Marte
pacificatore di Canova, all'Apsley House a Londra. StoriaModifica
Leonida alle Termopili di David Lo stesso argomento in dettaglio: Storia della
nudità. Achille in assetto da battaglia, rilievo ateniese La nudità
maschile era di norma socialmente accettata entro certi contesti sportivi e
militari dell'antica Greciae ciò è divenuto col tempo un tratto distintivo
della cultura ellenica. A quanto pare, come risulta da un passo di Tucidide, la
nudità fu praticata per primi dagli Spartani nelle loro esercitazioni militari
e da loro in seguito introdotta anche nei giochi olimpici antichi, ma altre
fonti invece sostengono che l'usanza ebbe invece origine quando un atleta vinse
la gara di corsa durante la V olimpiade il quale a metà percorso si liberò
della fascia che aveva attorno ai fianchi e che lo intralciava nei movimenti.
La studiosa Larisse Bonfante pensa che la nudità potesse servire ad uno scopo
magico-protettivo, così com'era comune a quel tempo il simbolismo fallico e
l'uso dell'amuleto; ora, qualunque sia stata la forma della sua introduzione,
la nudità è rapidamente adottata dalla società greca e dalle arti in una sua
idealizzante formale e concettuale, generando una prolifica ed influente
iconografia attestata fin dall'VIII secolo a.C. in dipinti di navi e numerosi
kouroiarcaici. Nel V secolo a.C., quando appaiono le prime palestre o
ginnasio di atletica, la nudità atletica era già diffusa: la stessa parola
ginnastica, per inciso, deriva dal greco gymnos che significa nudo. Trajanic woman as Venus
(Capitoline Museums), su indiana.edu, Indiana University. Hallett Sorabella,
"The Nude in Western Art and its Beginnings in Antiquity", su
Heilbrunn Timeline of Art History, metmuseum.org, The Metropolitan Museum of
Art Colton, Monuments to Men of Genius: a Study of Eighteenth Century English
and French Sculptural Works, NewYork University Spivey, Greek Sculpture,
Cambridge, Osborne, "Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek
Art", in Gender et History Stevenson, "The 'Problem' with Nude
Honorific Statuary and Portrait in Late Republican and Augustan Rome", in
Greece and Rome, Stevenson, "Nacktleben", in Dominic Montserrat (a
cura di), Changing Bodies, Changing Meanings: Studies on the Human Body in
Antiquity, Routledge, Bonfante, Etruscan Dress, The Johns Hopkins University, Hallett,
The Roman Nude: Heroic Portrait Statuary Oxford, Casana, The Problem with
Dexileos: Heroic and Other Nudities in Greek Art, in American Journal of
Archaeology, vOsborne, Men Without Clothes: Heroic Nakedness and Greek Art, in
Gender et History, Tom Stevenson, The 'Problem' with Nude Honorific Statuary
and Portraits in Late Republican and Augustan Rome, in Greece et Rome, Nudo
artistico Altri progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia
Commons contiene immagini o altri file su nudo eroico Portale Arte:
accedi alle voci di Wikipedia che trattano di arte Ultima modifica 6 mesi fa di
InternetArchiveBot Storia della nudità Storia degli atteggiamenti sociali delle
varie culture verso la nudità Apollo di Piombino Perizonium Wikipedia Il contenutoGrice:
“Napoleon, an Italian, thought he was French, but he was a Corsican – “No, I
don’t know Corsica” – however he thought he was an emperor and as such, as
every student at Milano laughs at, that he should convince Canova to go nudist!
Nelson tries but Vivian Leigh opposed!” Franco Fergnani. Fergnani. Keywords: il
gesto e la passione, exist, Grice on ‘a is’ Grice on ‘a exists’ – E-committal –
Peano on ‘existent’ – esistono – es gibt, there is/there are, some, or at least
one, il y a, c’e, Warnock on ‘exist’ I gesti dei imperatori romani nudita
eroica! Fisionomia
– porta ---- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Fergnani” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrabino: la ragione conversazionale
e l’implicatura conversazionale della terza Roma – la base mitologica del latino
– scuola di Cuneo – filosofia cuneana – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cuneo).
Filosofo cuneano.
Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Cuneo, Piemonte. Grice: I like
Ferrabino; if I were not into the unity of philosophy, I would say he is a
philosophical historian and a Roman
historian, too! Strictly, a philosopher of Roman history,
alla Gibbon! Si compie il mio ottantesimo anno. Declinano le stelle della sera
sulla diuturna milizia di storia e di magistero che fu la mia vocazione, non
tradita ma superata. Misticamente m'accoglie la dimora del Verbo dove l'Io
s'incontra col suo Dio nascosto. Figlio di Angelica Toesca, donna sensibile e
generosa e di Vincenzo Agostino, funzionario dello Stato, uomo dalla natura
affettuosa e sobria e di idee agnostiche, che per questo motivo non volle far
battezzare i figli. Compe il primo ciclo di studi dimostrandosi subito allievo
modello e con rare doti di intelligenza. Prosegue gli studi classici a Cremona,
e quando la famiglia dovette nuovamente trasferirsi in Alessandria, terminato
il Liceo, si iscrive a Torino. Inizia a frequentare assiduamente l'ambiente universitario
dedicandosi con il massimo impegno allo studio e dando lezioni private per non
dover pesare troppo sulle finanze paterne. Il suo tutore Graf. Verso il terzo anno inizi a seguire con
crescente interesse la filosofia antica frequentando le lezioni di SANCTIS (si
veda), sotto il quale si laurea con Kalypso. Insegna a a Torino, Palermo,
Napoli, e Padova. rettore dell'ateneo
fino al anno in cui ottenne la cattedra di filosofia romana presso a Roma.
Morta la moglie, F. conclude il suo periodo di avvicinamento alla religione
cattolica facendosi battezzare. Sposa Paola Zancan, proveniente da agiata e
cattolica famiglia, con la quale si stabil a Roma. Inizia in quel periodo a
frequentare "La Cittadella dAssisi" diventando grande amico di ROSSI
(si veda), fondatore di Pro Civitate Christiana e La Rocca. Ad Assisi, F.
prende l'abitudine di trascorrere con la moglie e le nipoti lunghi periodi
durante le vacanze estive alternate a quelle trascorse a Fregene. Venne eletto
senatore per la democrazia cristiana e rimane al Senato. Divenne presidente
dellENCICLOPEDIA ITALIANA, incarico che detenne, insieme a quello di direttore
scientifico. stato intanto incaricato di presiedere al Consiglio Superiore
dellAccademie e promosse il Centro nazionale per il catalogo unico delle
biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche diventandone il
presidente. Divenne corrispondente dell'Accademia del LINCEI e corrispondente
nazionale della stessa e presidente dell'Istituto italiano per la storia
antica. Presidente della Societ Nazionale "Dante Alighieri" e insieme
a Cappelletti (si veda), fonda "Il Veltro". Pubblica sull'Italia
romana, l'et dei Cesari, la filosofia fatalistica della storia. Alter opere:
Calisso: la storia di un mito (Bocca, Torino)
with a section on the myth among the Latins, and a later section on the
treatment by Roman authors, Arato di Sicione e l'idea federale (Monnier,
Firenze); L'impero ateniese note that
its Roman empire and impero ateniense, but BRITISH empire not London empire,
and American empire, rather than Washington empire La dissoluzione della libert nella Grecia
antica (Milani, Padova); L'Italia romana (Mondadori, Milano); GIULIO (si veda)
Cesare (Unione Tipografica, Torinese); La vocazione umana (Edizione Ivrea,
Ivrea); L'esperienza Cristiana (Libreria Draghi, Padova); Le speranze immortali
(Societ per Azioni, Padova); Trilogia del Cristo (Le tre venezie); Adamo
(Morcelliana, Brescia); Le vie della storia romana (Sansoni, Firenze,
Rivelazione e cultura (La Scuola, Brescia); Storia dell'uomo avanti e dopo
Cristo (Pro Civitate Christiana, Assisi); L'essenza del Romanesimo (Tumminelli,
Roma); L'inno del Simposio di S. Metodio Martire (Giappichelli, Torino); Storia
di Roma (Tumminelli, Roma); La filosofia della storia (Sansoni); Trasfigurazioni
(Martello, Milano); Pagine italiane, Il Veltro, Roma); Misticamente (Stamperia
Valdonega, Verona); La bonifica benedettina (Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Enciclopedia dell'Arte Antica: Classica e Orientale, (presidente),
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, Dizionario Enciclopedico
Illustrato, Jannaccone, Sturzo, Istituto della Enciclopedia italiana fondata da
Treccani, Roma, Nel Centenario Della Battaglia Del Volturno, Ente Autonomo
Volturno, Napoli. Prefazione in Misticamente, Verona, L'Erma di Bretschneider,
Il figlio dell'uomo (nella testimonianza di Matteo) II: Il figlio di Dio (nella
testimonianza di Giovanni) III: Il risorto (nella testimonianza di Paolo),
Lincei, Roma. Treccani, Dizionario biografico degli italiani. Roma il sogno de' miei giovani anni, l'idea-madre
nel concetto della mente, la religione dell'anima; Cv'entrai, la sera, a piedi,
sui primi del marzo, trepido e quasi adorando. Per me, Roma - ed
tuttavia malgrado le vergogne dell'oggi - il Tempio dell'umanit; da Roma
escir quando che sia la trasformazione religiosa che dar, per la terza volta,
uni- t morale all'Europa!. Cos, MAZZINI (si veda) ricorda il proprio ingresso
nella citt poco dopo che vi era stata proclamata la repubblica; e, insieme a
ci, ribadiva l'importanza che Roma aveva nella sua visione politica, secondo la
quale l'unit e l'indipendenza d'Italia si collegavano a una missione universale
di liberazione dei popoli e a una vera e pro- pria riforma religiosa. Dopo la
Roma dei Cesari GIULIO (si veda) Cesare
-- e la Roma dei Papi, affermava in tono profetico Mazzini, sarebbe nata la
Roma del Popolo, centro della nuova religione dell'umanit. Si trattava di una.
concezione peculiare, in cui confluivano tuttavia vari elementi .dell!! cultura
dell'epoca: dall'enfasi con cui il romanticismo aveva predi- cato l'idea della
particolare missione di ciascun popolo, al posto che l'istruzione scolastica
riservavaalla storia greco-romana, alimentan- do indirettamente la passione per
le idee di libert e di repubblica.
indicativo che anche in un uomo dalla cultura piuttosto approssi- mativa
come Garibaldi avesserolargo spazio concetti fon- dati su reminiscenze
classiche, in primo luogo romane, da cui deri- torit moderatrice del pontefice;
inoltre il primato italiano veni- va fatto dipendere proprio dalla presenza di
quella Roma cattolica e poqtificale che Mazzini voleva invece distruggere.
Tuttavia era anch'esso un modo di'legare inscindibilmente Roma all'Italia. Non
era sempre stato cos. Nei primi decenni del secolo - ha scritto Chabod. Roma
era stata relegata sullo sfondo e, in sua vece, entusiasmi e affetti s'eran
riversati verso l'Italia medievale, l'Italia dei Comuni, di Pontida, della'
Lega Lombarda e di Legnano, l'Italia di Gregorio VII e di Alessandro II!, o,
ancor pi su, l'Italia di Arduino, nella quale s'eran visti gli albori della
nazione italiana2.Dopo la Repubblica romana del 1849,invece, il richiamo a Roma
divenne centrale nel processo di indipendenza nazionale, per l'aura di gloria
che aveva accompagnato la sconfitta e anche per il particolare ruolo di traino
che su questo argomento svolsero Mazzini e i democratici. Ma l'importanza di
quel richiamo dipende, in fondo, dalle peculiarit stesse dell'idea nazionale
italiana, che s'era fondata e costruita su richiami al passato e alla
tradizione culturale che ben difficilmente avrebbero potuto prescindere da
Roma. L non V]sarebbero state molte
delle tragedie che hanno segnato la storia dell'Italia unita; M- Z%!^-'^^J1'V,
j^i;-' AL bO FLRRABI MO Kf\\ypso PIC BIBLIOTtCB S?254 bi SCIENZE nODLRME
r"i'BOCCB EDIT. KALYPSO F. KALYPSO Saggio d'una Storia del Mito TORINO
BOCCA. KALYPSO. STORIA. La storia del mito .
necessaria e legittima Il suo triplice valore. Caratteri. Il genio
mitopeico. Kalypso. Andromeda. Prima di Euripide, Euripide, Dopo Euripide, La
Demetra d'Enna Il mito siculo, Il mito greco. Il mito siracusano. Il mito
contaminato. L'abigeato di Caco. Presso gli Indiani e i Greci. Presso i Latini.
I poeti. Gli storici. I razionalisti. Cirene mitica 11 sostrato storico. L'
" Eea, di Cirene e d'Aristeo. Cirene in Tessaglia. Cirene in Libia.
Euripilo ed Eufemo. GlEufemidi e Batto. Kalypso. L'intuizione mitica. Le
manifestazioni mitiche,. L'evoluzione della mitopeja letteraria, Il flusso e
riflusso delle saghe, La fine, - INDAGINE. Andromeda Il racconto di Ferecide Perseo. Acrisie,
Preto, Polidette, Ditti. Atena e la Gorgone Medusa. Cefeo, Fineo e Cassiopea,
341 I miti etimologici presso Erodotoed
EU ani co (frr. 159. 160), I frammenti dell'* Andromeda di Euripide, Euripide nel 412 Il culto di
Demetra inEnnajart. La questione. I caratteri del culto ennense nell'et
storica. Il primitivo probabile nucleo siculo, Le versioni greche del nitto di
Kora,L'abigeato di Caco . . 2>('l- 397-420 11 problema, Il valore del mito
indiano. Vergilio e Ovidio ; Properzio. Livio e Dionisio. I particolari
etiologici del culto. Gli eruditi, Cirene mitica Bibliografia e metodo, La
ninfa Cirene, Apollo Carneo. Aristeo, La ricostruzione dell'Eea di Cirene.
Euripilo ed Eu- femo, Gli Argonauti in Libia. Callimaco e il mito di Cirene.
Esegesi novissima STORIA La Storia del Mito, nitto di Kora. L'abigeato di Caco
. . 2>('l- 397-420 Il problema. Il valore del mito indiano. Vergilio e
Ovidio. Properzio. Livio e Dionisio. I particolari etiologici del culto. Gli
eruditi. Cirene mitica. Bibliografia e metodo. La ninfa Cirene. Apollo Carneo.
Aristeo. La ricostruzione dell'Eea di Cirene. Euripilo ed Eufemo. Gli Argonauti
in Libia. Callimaco e il mito di Cirene. Esegesi novissima, STORIA. F. Kalypso.
La Storia del Mito. necessaria e
legittima. Non esatta, anzi pu dirsi fallace la nozione del mito che pi diffusa. Andromeda, esposta sullo scoglio
al mostro marino; la ninfa Cirene, domatrice di leoni ; Cora di Demetra, rapita
da Aidoneo; Caco che, ladro di bovi, la forza dErcole pieg annientandolo. Tali
persone e vicende, come l'altre il cui insieme assunse presso noi nome di
MITOLOGIA greca e LATINA, inducono, ciascuna, al pensiero un racconto, non pur
definito netermini e preciso neparticolari, ma costante nel contenuto, si da
valere (usando espressioni proprie a fenomeni differenti) per E cosi
rispettivamente ogni volta chC; Nel saggio si allude a uno fra questi quattro
miti. classico o canonico, da apparire quel mito. N il prevalente costume, a
pari di molti, senza motivi: gi che si
ricollega per un lato ai modi che, nel concepire ed esporre miti, tennero i
compilatori alessandrini, quando miti non pi sinventavano, ma si raccoglievano
in contesti dotti, e a scopo di conservazione erudita ciascuno si ordina
secondo uno schema principale, nemargini sol tanto apposte discrepanze minori e
facili a obliterarsi. Si ricollega esso costume per altro lato al vezzo, malo
quanto diffuso, suffragato dall'ignoranza, pel quale la saga chiude in s una
sostanza di verit, in ispecie storica; si che, la verit non potendo esser che
singola, unico similmente sarebbe l'intreccio della FIABA onde compresa. Ora, poich i criterii degramatici
in nessun modo possono essere pi i nostri; e n meno pi nostra, per ci che non sodisfa la
riflessione n il senso storico, una tanto facile fede nella veridicit del
RACCONTO MITOLOGICO. Bisogna risolutamente farsi a considerare qual via puo
divenire la buona non che la nuova. Sbito sgombra la mente di assai equivoci e
di troppe astrazioni il porre, con precisione storica, i materiali grezzi della
mitologia. Ilmito di Cirene, dimostrano questi, non esiste. Meglio, esiste
bens, ma soltanto dopo le odi pitioniche di Pindaro, i capitoli erodotei,
l'inno di Callimaco, questa o quell'altra anfora, un'iscrizione di Rodi. Dopo
ci, e dopo tutto che andato perduto
nell'esserci trasmesso dai secoli e che di conseguenza ignoriamo. In altre
parole, l'indagine concreta non conosce se non un complesso di componimenti
letterarii, manufatti artistici, riti cultuali; e sente entro ciascun
componimento, ciascun manufatto, ciascun culto, in s e per s, IL MITO.
All'infuori, questo pu tuttavia sussistere. E per vero in due modi risulta da
quelli, sia per ordinata compilazione, sia per alterazion fantastica. Ma allora diverso e nuovo, UN ALTRO MITO [cf.
Grice on myth Meaning Revisited] a pena
affine a qualunque l'uno di quelli. pm-e rende conto dei varii componimenti
manufatti culti e spiega i singoli stadii e i singoli trapassi. Ma in tal
caso divenuto, non la forma canonica o
classica, bens LA STORIA DEL MITO. Lartista clie ci ripete una fra le
molteplici fiabe pagane, prosegue, e non termina, una serie di vicende, cui
sottost quella FIABA gi nel passato. Egli, insomma, elabora UNA FIABA NUOVA, la
quale pu essere per certe analogie di casi e identit di nomi avvicinata a
talune antiche meglio che ad altre, ma non diviene per questo la fiaba di quei
nomi e di quei casi. Questa in qualclie modo ci d, solo, lo storico,
comprendendo nel suo dire tutte le trascorse apparenze della FAVOLA e
organandole geneticamente ed evolutivamente. Chi vuole IL MITO di Andromeda, ne
legga LA STORIA. Se non che, ond' nato il concetto di racconti principi nella
mitologia pagana? Da due radici: UN FATTO, e una tendenza. Riandando storie di
miti accade di avvertire, chi anche sia grossolano osservatore, quale e quanta
rete dinteressi politici, di orgogli civici, di odii regionali, di vanti
principeschi, di rivalit religiose, ricopra, musco boschivo, il crescente
tronco della LEGGENDA. Indi, la preferenza decisa vien concessa, in certo luogo
e in certo momento, a quella tra le forme esprimenti LA SAGA, la qual contenga
il particolare simpatico, LANEDDOTOfavorevole, o (che basta) si atteggi nella
luce che pi appaga. Un fine pratico, per conseguenza, pu CANONIZZARE i miti
altre volte, lala d' un poeta, la vigoria d'uno storico. O, infine, il pi
fortuito caso. Sempre, tuttavia, a canto di questa preminenza d'una fra le
forme mitiche, valse a traviare il pensiero, l'abito, ch' talora il vezzo,
dell'astrazione, sovente inopportuna. E perch, comparati tra loro DIVERSI
RACCONTI DUNA SAGA, parte coincideno, e pareva il pi, parte differano, e sembra
il meno. Si ritenne lecito prescinder dalle differenze per insistere su le
coincidenze, e di queste costituire la saga, e quelle giustaporre in guisa di
varianti secondarie. Cosi le simiglianze riscontrate in cinque testi di cinque
autori intorno alle vicende, poniamo, di Cora, legittimavano la creazione
arbitraria d'un FITTIZIO MITO di Cora. Grossolano errore contrassegnato di
superficialit. Difatti, oltre le minori discrepanze notate, pure sotto luguali
apparenze slontanava l'un l'altro i varii testi alcunch, men ponderabile forse,
ma altrettanto reale: LA COMPLESSIVA INTONAZIONE DEL RACCONTO. Il paesaggio
medesimo, certo; ma incombente la luce di tramutati soli. L'artificio cosi palese che stupisce potesse ingannare e
diffondersi. E pure condusse pi oltre: a fngere, dopo IL MITO di ciascun
personaggio e. g. GANIMEDE, ENEA,
EURIALO, NISO, ROMOLO, REMO, CORIOLANO --, IL MITO IN S, quasi ENTE SEPARATO,
capace di influssi attivi e passivi; senza che diviene tosto palese, come
cotesto ente non sussiste se non col suo predecessore logico; come quest'ultimo
sorga duna contaminazione di varie forme letterarie artistiche cultuali; come
quindi uniche esse forme costituiscano la realt da pensarsi e studiarsi. Alle
quali noi ritorniamo con franchezza; per asserire, e lo asserimmo dianzi, che
conoscerle significa giustificarne le vicende. Ossia: per affermare che SOLO
STORICAMENTE SI PU CONOSCERE IL MITO. Ma dopo tale asserto, e dopo scoperti i
motivi reconditi dellequivoco consueto, rimane ancor dubbio, se o no legittima LA STORIA DEL MITO. Difatti chi sa
daver innanzi espressioni multiformi, cui sono mezzo le pi disparate materie,
DALLA PAROLA AL COLORE, DAL BRONZO AL GESTO SACERDOTALE, pu sospettare a
ragione che trasceglier quelle espressioni, connetterle in serie, narrarle in
istoria dove accadere per nessi, non intimi, ma estrinseci: per identit di nomi
di figure dimprese; mentre tempi lontani, fibre tanto varie d'uomini, caratteri
cosi mutati dambiente, sembrerebbero permettere, o comandare, la distinzion pi
recisa. Sospetto lecito, questo -- ma specioso. Non importa che certa temperie
(dico, ad esempio, l'epoca dOTTAVIANO, o il magistero di OVIDIO) accosti molto
fra loro due saghe di soggetto diverso; l dove lontananza d'anni e di spazii
separan spesso saghe dell'identico soggetto. Ci vale, o ci ajuta, a informarci
dell'epoca augustea o di Ovidio, e del posto che LA MITOLOGIA prende in quella
o presso questo. Ma d'altra parte
irrecusabile che ciascuna espressione di un mito, in qualsivoglia materia
avvenga, stretta alle precedenti da un
vincolo pi profondo e pi intimo che largomento: le conosce, ci , e le
ri-elabora. Disposte quindi in serie cronologica coteste espressioni,
ciascuna materia greggia rispetto alle
successive, ed sintesi originale (anche
negativamente originale, si capisce) a confronto con le anteriori. Ne segue che
la storia ha buon diritto di farle scaturire l'una dall'altra: essa, cosuoi
criterii di tempi e di luoghi, con tutti i sussidii di cui pu valersi, riesce a
costruirne quasi una genealogia; della quale i rami e i gradi son segnati da
reciproci influssi pi o meno profondi, da modelli pi o meno diversi, sempre da
caratteri intrinseci ed essenziali. Del resto, il resultato medesimo o, se
piace di pi, il medesimo soggetto di questa, che diciamo, STORIA DEL MITO ne
legittima, dopo glargomenti or ora esposti, la esistenza. Giunge essa a
costruire sopra VARIANTI FORME FAVOLOSE un individuo organico e definito:
individuo ch', come mostrammo, LA LEGGENDA. Ma quali sono per essere i modi di
tale istoria? Il suo procedimento
chiaro. Raccolte, supponiamo, le espressioni del racconto su Cirene o su
Cora, sia per notizie tramandate sia per industria di congetture ne , quasi
sempre, presto determinato lordine cronologico, se non nelle sue minuzie,
almeno in linee sufficienti. Solo di poi s'inizia un pi arduo lavoro. Il
pensiero, insomma, prende a conoscere quelle espressioni. Di ciascuna distingue
prima gli elementi costitutivi. Ci sono I PARTICOLARI DELLA SAGA, e quanti ne
sieno espressi, e quali, che scene e che episodi!: in sguito, ne ravvisa la
tempera, il punto di veduta onde i particolari le scene gli episodii furon
guardati: per ultimo, discerne ove consiste o se esista la forza sintetica che
i par- ticolari le scene gli episodii trascelse, aggrupp, fuse. Triplice
processo: valevole come per un carme, cosi per una pittura e, checch sembri,
per un culto. Giusta poi le risultanze di questa nostra fatica, le diverse
espressioni mitiche in- torno a Cirene o a Cora, si raccolgono, quasi per s,
secondo nessi ed influssi, sino a costruire lo schema delle lor geniture.
Allora lo scopo conseguito e l'indagine
ha fine; mentre un'altra specie di conoscenza si avvia: non pi dubitosa, qual
si conviene alla ricerca, e faticosa di controversie; ma conscia e sicura. Quel
che rimane incerto delimitato; quel che
pu essere certo, posseduto; si che le
lacune e il ricolmo si distinguono nette. Altrui giudizii su la materia son
superati con l'approvarli o respingerli o modificarli. E insomma stabilito
l'ordine; pel quale lo schema ch'era conquista ultima dell'indagine, diviene
poi quasi base; e sovr' esso si erige, pei suoi muri maestri nei suoi archi di
commessione co' suoi travi intelajati, 1edificio definitivo. Il mito ha la
propria storia. Il mito , da questo momento, vera ricchezza nello spirito
nostro. Si obietta che acquisto mal
certo, per che sieno per pensarsi o seriversi ancora, nell'avvenire come nel
passato, di quella stessa leggenda storie molto o poco di- verse con asserzioni
contradittorie alle prece- denti e con intelletto nuovo. Il clie ridonda in
parte al difetto delle nostre fonti, mal perve- nuteci frammentarie o lacunose,
e in parte alla discordia dei pensieri individuali. Ma n l'una n l'altra verit
scema l'importanza dell'acquisto. E in primo luogo : l'insufficienza delle
fonti tra- mandate o cosi fatta che
impedisca la storia o pure solo qua e col la fiacca. Se l'impedisce (e son
taluni casi), il danno davvero grave.
Ma, ove solo la fiacchi (e sonvi gradazioni mol- teplici che non perseguiamo
qui), la jattura pu variare di entit ma si riduce tutta, in ultimo, al fenomeno
comune della individuale memoria e, traverso questa, della memoria collettiva;
si riduce, quindi, alla condizione imprescindibile della nostra conoscenza
intorno al passato. In se- condo luogo, il differire degli storici intorno a
una saga, se dimostra che nessuna storia deve a nes- suno parere domma, prova
insieme che ciascuna acquisizione viva a
cui lo spirito muove libero per indursi ad accettarla, e poi difenderla, con
agile freschezza e cura non intermessa ; attesta quindi di ciascuna
l'importanza, assidua perch dinamica. Nell'uno e nell'altro luogo, poi: quello
spirito che ha conosciuto la storia d'una leggenda, o di per se o con
assimilare 1' opera altrui, ferma con ci duplice possesso; sia tra- mutando in
organismo il tutto insieme inorga- nico delle fonti; sia impregnando della
propria essenza quell'organismo. Ha, in somma, composto armonia del discorde, e
reso personale l'alieno. Quindi, l'acquisto, come non dubbio, cosi anche materiato della pi alta virt di
pensiero. Dura come una fatica ; splende come una vittoria. Che se di poi
mutazioni intervengano e pentimenti, non se ne scema, ma pi tosto se ne
innalza, superando, il pregio insigne. H quale consiste, fi- nalmente,
nell'aver provocato la sintesi, se non immutabile, certo personale, in tutta la
serie co- nosciuta di determinate espressioni mitiche, lon- tane e disperse. Il
mito , dunque, da quel punto viva ric- chezza nello spirito nostro. Se facile
mostrare tal verit, sottile per
discernere i valori di- versi della conoscenza in quella guisa procurata.
Ma necessario, per farla pi conscia. Lo
storico si , durante i successivi momenti della saga, uguagliato a' successivi
artefici di essa. Un ignoto cantor popolare vi trasfuse il suo sogno? Io, per
comprenderlo, debbo mirare con gli occhi di lui ; e dinanzi a me la visione ha
da concre- tarsi in quelle fogge che f m-on di lui. Erodoto ? Pindaro? Claudio
Claudiano? Uno appresso al- l'altro, s'immedesimano per l'istante con lo sto-
rico e questi con loro, fin quando similmente a ciascuno la materia si sublimi
in arte. Tuttavia, in si fatte individuazioni, o mischianze con gl'in- dividui
creatori, la Storia avverte tosto il suo vantaggio. Nell'atto d'intuire la saga
il poeta o il pittore muovono dalle sue forme anteriori, che conoscono, verso
la nuova espressione, che igno- rano e producono; a quell'atto rifacendosi
l'in- telligenza dello storico, deve muovere tanto dalla loro espressione
quanto dall'altre precedenti, e quella conosce, e queste conosce del pari. Si
che l dove l'artista si trova di fronte a un che di imprevisto, in cui l' impreveggibile determinato dalla potenza della sua energia
creativa ; per contro lo storico si trova sbito a conoscere, traverso l'opera
compiuta, appunto quella potenza dell'artista e pu ponderarla e giudicarla.
L'effetto che non solo egli si identificato con una delle espressioni nelle
quali la saga visse, ma anche l'ha valutata. L'attimo di possesso si conclude
in giudizio. Di pi lo storico non si
considera pago n pur di questo giudizio che gi di per s lo eleva sopra l'artista
intuente : vi avverte un valor m omentaneo e, tenendo l'occhio a ben pi alto
segno, vuole e pu assurgere a quell'intuizione sintetica della saga, da cui
appajono giustificate le intuizioni singole degli stadii e delle forme come
dallo scopo il mezzo. Tale pregio, che
della storia del mito, pu quindi esser detto pregio intuitivo. Ce n' un
secondo: scientifico. Non poche discipline difatti van di continuo preparando
al pensiero cognizioni che gli giovino nell' opera sua: attinenti ai linguaggi
dell' antichit, agli scrittori co' lor caratteri e con la misura in cui sono
attendibili, ai culti con le fogge che divennero consuetudinarie, ai popoli con
le credenze e i pregiudizii, con le superbie le ire e le menzogne. Certo, non
son leggi rigide e fisse, quelle che cotesto discipline ci offrono, n tanto
meno impongono ceppi all'intelligenza. Sono, pi tosto, formule in cui
l'esperienze vannosi condensando; consigli, che risparmino fatica individuale o
suppliscano a irrimediabili ignoranze. Costituiscono il tesoro comune, cui
possono tutti riferirsi, che stolto
trascurare, n si pu senza fallacia. Orbene ; anche le cognizioni cosi cumulate
lungo gli anni da tanti sforzi concordi, convergono nella storia della
leggenda; e quanto pi numerose, meglio l'afforzano, rassodandole l'ossatura, e
permettendole o promettendole consenso pi vasto e interesse pi vario.Fra tutte,
precipue quelle in cui s' tradotta la coscienza dell'antico e recente, vicino e
lontano, favoleggiare : maraviglioso sempre, di rado inconsueto. Cento numi
agresti si rinvengono fra cento popoli, dagli Urali alle Ande, dall'Islanda
all'Equatore. E i riti, le danze, i canti, i vestimenti, le fiabe, si mischiano
somigliandosi e differendo insieme, vario concento sopra un ritmo unico: che
ogni gente reca il suo contributo. E cielo, monti, acque silvestri marine
lacustri, paschi pingui di bovi opimi, biade che la golpe uccide, biade che la
zolla e il Sole indorano, notti illuni, meriggi piovosi, silenzii delle cime,
fragori delle spiagge e dei tuoni, fauci di caverne e fenditure del suolo : l'immenso
respiro pnico, che penetra pei sensi ed abbacina l'anime, ritoma costante nelle
voci e nei gesti di viventi in terre lontane. E ritornando erudisce l'uomo
dell'uomo. Ond' che son opere in cui questa variet speciosa ricercata con amore intento, disposta con
cura e scrupolo in chiaro ordine . Ivi Cito ad esempio W. Makshardt
Mythologische Forschungen (Strasburg); H. Usexer Sintfluthsagen (Bonn); J. G.
Frazer The golden Bough ^ spec. parte V Spirits ofthe corn and of the wild
(London 1912); W. v. Bau molte leggende sono narrate, molte cerimonie
descritte, quelle che gli uomini dicono e compiono da quando sorge il lor Sole
a quando tramonta, e quelle anche che la notte conosce. Ma ivi nessuna leggenda
vale per s, nessun rito pel suo modo; anzi, non a pena ripetuta l'una,
tracciato l'altro, si distrugge tosto l'individuazione, perch si vuole, badando
al generale ed al comune, conseguire identit spirituali contro distanze di
tempi di luoghi e differenze di forme. Vi si fa propedeutica; non storia. Cosi
in altre opere, le quali scaltriscono su g' infingimenti obliqui di interessate
invenzioni che non lieve scoprire ; o
vero su i traviamenti della intelligenza che tenta le cause del fenomeno
ignoto, ma s'abbaglia di fantasmi. Avvertono, queste, come un nome frainteso
generasse talvolta un popolare etimo errato, e l'etimo la fiaba: come Scaevola
connesso con l'aggettivo che significa " mancino determin il racconto dell'intrepido Muzio e
della destra bruciata. Insegnano che per dar ragione al nome di una citt
(Roma?) s'invent pari pari un eroe o un nume (Romolo?). Spiegano che un culto
greco fra culti romani parve agli antichi giustificato col narrare qualmente al
dio stesso fosse piaciuto recarsi da l'Eliade nel Lazio. Procurano, infine, di
segnare in classi i fatti; e creano alle classi fin la denominazione
discorrendo di " miti etimologici
per i primi casi ; di " miti etiologici per l'ul DissiN Adonis und Esmun (Leipzig);
E. S. Haktland The legend of Perseus (voli. 3, London 1894-6). timo . Tutti
bisogna che lo storico sappia, per sviscerare gli stadii della sua saga, senza
equivoco grande n troppe dubbiezze. Di tutti, quindi, conscia la storia di una leggenda. La quale
leggenda nel tempo stesso cbe ne riesce definita, si da impedir confusioni con
altre pur simiglianti, si allaccia poi tutta, o quasi tutta, con le formule
della propedeutica confermandole in presso che ogni sua vicenda. Non che in tal
modo scemi la singolarit sua propria; e allora perch farne storia? N manco che
non aggiunga tal volta materia alla propedeutica medesima; gi che questa
non mai conchiusa, e di continuo si
accresce, per l'appunto come la esperienza dell'uomo in cui la contenemmo. Ma
anzi la storia di un mito ha questo pregio scientifico: mentre impregnata, come pi latamente pu, del sapere
collettivo intorno alla propria materia; mentre
dissimile da quel sapere, ed esiste per la sua dissimiglianza ; pronta a contribuirvi con tutta s medesima,
per quanto contiene di insolito, e per quanto riafferma del consueto. Terzo
pregio un altro, fors' anche maggiore.
Cfr. G. De Sanctis Per la scienza dell'antichit (Torino), ove in polemica chiarito assai bene anche con esempii il
contenuto di quelle due denominazioni. Chi poi voglia avere rapidamente un'idea
su la vastit e gl'indirizzi dell'indagine mitologica pu per gli anni 1898-1905
consultare la intelligente rassegna di 0. Gruppeu " Jahresbericht tber die
Fortschritte der klassischen Altertumswissenschaft Supplementband. Filosofico, si riferisce a
un' alta visione del jiassato e del presente. La saga dell' uomo, nasce di lui, or come nebbia da
piani pigri, or come da lago ninfea. Le vicende della luce la iridano durante
un giorno, e le compongono varia bellezza, fin che la tenebra giunga. Ma il
motivo delle trasfigurazioni luminose come del sopravvenir tenebroso, secreto dello spirito umano. Secreto
dell'uomo, che ha fermati i suoi saldi piedi sul suolo tenace, e vede intorno a
s la meraviglia del cielo nel sole nelle nubi negli astri, purezze nivee e
dentate di vette inviolabili, scompigli di chiome arboree nello squassar dei
vnti, rigidit delle rupi cui arcana opera finge sembianze umane, mefiti di
putizze dagli acri fumi ; vede, e conosce, mentre un empito indicibile gli urta
su la fronte le tempie, illudendolo centro a quel mondo ; o mentre una forza
ineffabile lo gitta prono nello stupore che paventa ed adora. Secreto, in fine,
dell'uomo che con occhi incerti guata, fra il mento e i capelli, la maschera
fosca del suo rivale, ad apprenderlo ed eluderlo ; e con occhi scaltri studia nel
moto i muscoli e gli artigli della belva silvana, per farla sua preda o
imitarne il destro miracolo ; e poi, con occhi ebbri di sogno, nelle improvvise
forme che la natura plasma tra cielo e terra, nelle prepotenti energie che essa
suscita ovunque, ammira il volto del suo nimico o la violenza della fiera.
Appresso, su la prima trama esigua, quasi ragna d' oro fra due rami d' un
mirto, si consuma la dolorosa fatica dei posteri ; che l'invenzione originaria
non si perde, ma, serbata tal volta in reliquarii preziosi, salva altre volte
per caso, regge su le sue fila tenui il trascorrer lento e difficile dei
travagli clie martellano Fumanit nei secoli e le rodono il cuore invincibile.
Ogni fiaba s'impregna cosi di sapori dolci e agri, forti ed amari : abbrividisce
delle cose tremende, s'esalta delle cose salienti, supplica, spera, esorta,
rampogna. Il suo intreccio si foggia su i meandri dello spirito. E nello
spirito la sua virtii cerca le potenze dell' espressione ; stimola 1' energia
onde si crea il diafano contesto verbale o si plasma nella dura materia il moto
o si finge l'ansito nel colore; e con lei genera creature d'ale e di fiamma, o
per lei si corrompe in miserevoli mostri e deformi. Far quindi la storia del
mito significa spremerne cotesto succo occulto, il quale si mischia col nostro
pi profondo pensiero su la vita e saggia le nostre idee sul bello sul buono sul
vero, su l'uomo e la forza della sua visione, e la forza della sua espressione,
e il suo lungo cammino. Idee che costituiscono d'altro lato lo scheletro stesso
della storia d' un mito. Del quale il trapasso di forme pu venir concepito
geneticamente, l'una determinando l'altra ; o staticamente, i nessi essendo
privi di forza generatrice; o in rapporto all'evolversi complessivo dello
spirito ; o in altre maniere, di cui ciascuna dipende da una teoria filosofica.
Persino chi per orror metafisico mai abbia voluto impacciarsi di problemi si
fatti, porter la sua avversione nella storia e ve ne lascer i segni, non giova
dire di quale specie. Onde la conoscenza del mito di Caco o di Andromeda, pur
contenendosi nei termini di un limitatissimo fenomeno, pur fermando nel
pensiero una porzioncella minima del grande moto di cui tutto il passato pieno nella memoria degli anni, tuttavia
impegna con s un'idea di quel moto e del nostro pensiero: la stimola e la
cimenta. FILOSOFIA: senza cui, il breve mito sarebbe assai poco ; con cui,
diviene moltissimo. in. Caratteri. Che se a quest'ultimo i3regio filosofico
pensiamo ora aggiunti in perfetta fusione di Storia gli altri due, intuitivo e
scientifico, non appare sbito qual sia la lega comune onde tanto compatto il resultato. Ma lega si rivela l'intelletto
dello storico ; ove i concetti assimilati dalle discipline propedeutiche, e le
idee elaborate dal pensiero meditante, s'illuminano di luce nuova nella vita
dellintuizione, quando vengono esposti all'attrito della realt testimoniata. Di
pi non pu dirsi: che ha da restare intatto il mistero creativo. Tuttavia, pur
da questo si vede come larghissima parte della intelligenza vada a imprimere la
storia d'una semplice saga; come quindi questa storia sia, anzi tutto,
soggettiva. N forse detto ci senza
stupore di molti ; perch prevale oggi il principio della oggettivit storica,
tanto che il riconoscimento del contrario nell'opera di chi che sia suona quasi
a rampogna. Si avvezzano cosi i lettori d'istorie a cercarvi le parole della
certezza assoluta, allettandoli con un equivoco ch' quasi una mistificazione.
Si proclami dunque chiaro e alto. Nel racconto delle vicende storielle per cui
un mito si svolse sono le stimmate d'una personalit; n solo, ma il valore di
quel racconto in queste stimmate ; in
quanto la personalit, non pure assomma, si anche fonde e ritempra, com'
necessario, quelle cognizioni dottrinali, quella teoria filosofica, quella
geniale potenza intuitiva, che si riconoscono indispensabili alla costruzione
d'una qual siasi storia; e in quanto, inoltre, dalla misura di esse cognizioni
teoria potenza e del loro commettersi, dalla misura, in breve, della personalit
medesima, segnato il pregio del contesto
narrativo. Dal qual evidentissimo principio si definisce anche l'atteggiamento
di chi legge a fronte di chi ha scritto. Non accettazione sbita ; n reverenza
ad autorit indiscussa : invece, ragionevole assenso, ora parziale ora totale,
ora nei particolari ora nella sintesi. E sempre, al di l degli uni e
dell'altra, valutazione del pensiero che
solo responsabile e che, scoprendosi con arditezza, accetta onestamente
d'essere imputato. Compito arduo, adunque,
il leggere non meno che lo scrivere storie; si che pu ben dirsi, che
quasi mai viene assolto integro. Ma, per lo pi, solo per il lato si adempie che
costituisce l'interesse onde mosse la lettura ; e da quel lato soltanto
sogliono originarsi le censure, le pi modeste e le pi burbanzose. E a volta a
volta la storia della saga di Cirene deve soddisfare le pretese del filosofo,
la dottrina dello scienziato, il gusto del contemplatore. Ora, affinch sia pi
lieve a tutti costoro l'opera di critica rielaboratrice, lo storico mostra
sempre (fra noi, almeno; non costumava cosi Tucidide, n Machiavelli ; con pena
della moderna indagine) mostra, in una qualunque parte del suo lavoro, i mezzi
di cui si valso e le vie che ha seguite;
onde ne pronto il riscontro . Per che si
giunge a scoprire l'opposto aspetto della soggettivit fin qui rilevata. Quando
l'artefice medesimo scinde, pei lettori critici, l'opera propria ; allora,
sopra le testimonianze e le formule e i giudizii, ch'egli cita e discute, si
fan concrete ed esteriori le sue idee e intuizioni, si cristallizzano in
materia nuova su la materia che vedemmo preesistere allo storico. Accade perci,
da tal momento, che si possa misurare quanto ciascuna individuazione sia piena
di realt, cimentandola con tutti gli elementi, divenuti esteriori e concreti,
di cui nella intimit e fluidezza dello spirito creativo essa si era nutrita. Il
critico, se (fenomeno raro) compiuto,
vaglia, in qualit di scienziato di filosofo di individuatore, tutti questi
elementi, scissi prima, organati poi; e valuta il pregio dei singoli e della
mischianza loro. Cosi, quel che fu gi emanazione viva d'una vivente persona;
imponderabile, quindi, oltre la sfera di essa persona; e definito, per tanto,
'' soggettivo : diventa passibile di
metro, di scandaglio e di analisi; definito, per tanto, " oggettivo .
Sempre, per opera dello storico la leggenda assume la finitezza della persona e
i caratteri dell'organismo. Si scevera da l'altre: quella. In questo volume ci fatto nel libro II: Indagine. una. Le sue
vicende hanno, inoltre, un principio e un termine, per conseguenza un culmine ;
v' quindi un nascimento e un corrompimento, fra cui si tocca la maturit. La
storia d'una saga sarebbe dunque una ^ storia catastrofica,, e sul suo finire
sonerebbe l'elegia, inetta a risuscitar la creatura morta, ma pretensiosa di
balsamarla? . Si risponde: catastrofica;
gi che si chiude col dissolversi di quel che al suo inizio si compone :
non elegiaca ; per che, pur lamentando,
se crede, la morte avvenuta, ne indaga i motivi e prociu-a comprenderli col
pensiero senza stingerli col sentimento. Ma entrambe queste risposte esigono
d'esser pi ampiamente delucidate. Qualche pagina innanzi fu provato (per quanto
io credo) che non solo necessaria la
storia del mito per conoscer il mito, ma
in tutto legittima, perch opera sopra un individuo preciso il quale ha
una reale e non disconoscibile esistenza. E. gi sappiamo del pari che
quell'individuo risulta da una serie di stadii, e ciascun d'essi non pu star
solo, ma in intima attinenza coi
precedenti e coi successivi. Ora possiamo specificare meglio : che ciascuno
stadio rappresenta una creazione spirituale. Sia di poco o di molto momento, vi immancabile l'attivit Contro le storie
catastrofiche ed elegiache si pronuncia Benedetto Croce in Questioni
storiografiche [" Atti dell'Acc. Pontaniana]. Egli muove, s' intende,
dalla sua identificazione della storia con la filosofia. d'un artefice che ha
segnato di s medesimo, con grande o con piccola impronta, la materia
leggendaria. Ognuno di questi artefici apporta speciali energie e del mito
sviluppa potenze che o vi giacevano celate o n'erano state mal svolte. Per
conseguenza, astraendo si possono considerare, in un qual siasi stadio
leggendario, tre elementi : la manifestazione, senza cui non sarebbe ; la
sostanza del mito desunta dagli stadii anteriori ; l'energia innovatrice
dell'artefice. Di qui, son possibili varie evenienze: o che a un certo momento
ogni manifestazione cessi, per qual siasi motivo, sebbene ce ne fosse la
potenza ancora negli spiriti e nel mito; o che la manifestazione appaja
inadeguata alle precedenti e per ci monca e non bastevole ; o che, in fine,
l'energie dell'artefice apportino alla sostanza della saga violenze che la
rinneghino. Nel primo caso, la catastrofe
sbita e tronca un rigoglio; nel secondo
preceduta da uno scadimento, che la prepara; nel terzo, da una
corrosione, che la vuole ; i quali due ultimi
evidente che debban spesso coincidere. Ma la catastrofe, la morte, sempre. E la storia, in quanto storia, deve
narrarla, come narr il nascimento ; ed essere, inevitabilmente, catastrofica.
Non , dicemmo, elegiaca. Sarebbe, senza dubbio, se lo spegnersi d'una luce non
significasse, fra gli uomini che hanno assiduo il fermentar delle forze nello
spirito, l'accensione di un'altra, di pi altre, quasi pel ripetersi ardito di
magie misteriose. Ma qui dove dai vecchi ceppi si spiccano a dieci i virgulti
giovani, v' motivo a sconforto sol tanto per chi brami, come meglio, la
distruzion del tutto. Rimane, per altro, legittimo, se non lo sconforto, il
senso del danno. Lo stampo di Caco s'infranse, e qual egli era stato concepito,
quale gli artefici l'avevano formato, ninna potenza terrena pu ricrearlo
indipendentemente: un individuo insostituibile scompare. E^ scomparso, non lui
solo perdiamo. Molte saghe venner create con bell'impeto dalla giovine mitopeja
dei Pagani; molte, non tutte le nate, si svolsero traverso gl'inni dei poeti, i
bronzi degli statuarii, i gesti sacerdotali; non molte, poche divennero
nell'epoca del pili adulto pensiero classico, quando per contaminazioni la
ricchezza del numero si fu assottigliata in bellezza della specie. E ogni nuova
morte sminuisce quella dovizia di una unit, scema questa bellezza di grande
efficacia : quel che sottentra copia e
grazia dello spirito umano, della mitopeja classica non pi... Una maggior
individualit, dunque, minacciata dalle
morti di questi minori individui mitici. Un colpo di accetta, ognuna ; e la
quercia si squassa. Il genio mitopeico.Quella individualit maggiore oramai embrionalmente posseduta dal nostro
pensiero. Quando siasi letta la saga di Andromeda, e poi di Cirene, e di Caco,
e anche di Cora; appresso, non si conoscono pure quattro vite di saghe, come
fossero di eroi o di santi o di statisti; ma
gi vivo, se anche non maturo, nell'intelletto un nuovo sapere. La ancor
recente esperienza, rotti i termini entro cui si formata, tenta di organarsi in altro stampo,
infrange l'intuizione del singolo per disporsi, in che ? come ? Per la
risposta, da principio ingannano due parvenze, contradittorie nella forma,
entrambe erronee. La prima parvenza
brevemente questa. Con l'ajuto delle cognizioni acquisite nello studio
di quattro miti si possono perseguire due compiti differenti. Uno, pi modesto,
consiste nel raccogliere tutti i fatti constatati durante lo studio e nel
disporli con altro criterio che il cronologico e genetico : nel guardare, in
breve, il medesimo mondo, nei medesimi margini, ma da altro pimto di veduta. H
secondo compito, in vece, costringe a trascendere i limiti segnati dalle
quattro saghe, fino ad affermare di tutte le saghe qualcosa che per le quattro
soltanto venne sperimentato : costringe a varcare verso l'ignoto l'esperienza
acquisita, pregiudicando da questa quello. Entrambi i compiti hanno natura e scopo
pratico ; come quelli che servono a concludere ordinatamente sotto la specie di
leggi (nel secondo caso) o di formule (nel primo) esperienze compiute
storicamente sotto la specie delFindividuo. E sono, perch pratici, utilissimi ;
n giova, secondo piace a taluno, predicarli ridevoli o in altro modo
spregiarli. Non mostrano, tuttavia, lo stremo di quanto possa e voglia il
nostro pensiero, elaborato che abbia un certo numero di storie su fiabe. Non pu
esistere un soggetto vivo cui attribuire quelle formule e quelle leggi, si cke
gli aderiscano come i caratteri all'uomo ; ond' che ci appajono e le une e le
altre, dopo che arbitrarie, insufficienti. Arbitrarie le formule, perch
incardinate su criterii che non sono immanenti al loro soggetto, ignoto e
irreale, ma che vengono dal di fuori imposti alla massa dei fatti storici ; e
le leggi, perch temerariamente affermano pi del conosciuto, impegnando in s,
insieme con il gi intuito, il non mai visto. Cosi le prime, avulse dalla realt
viva onde germinano, incadaveriscono in freddo schema e, come schema, lasciano
straripare oltre di s e sfuggire sotto di s la vita vera delle quattro saghe ;
le seconde, pur danneggiando tal vita nella stessa guisa, non sodisfano i^oi
affatto un intelletto veramente avido di sapere concreto : entrambe, quindi,
definimmo or ora insufficienti. Fallita la prova di questa parvenza, l'altra
vediamo qual sia, e ]Derch non appaghi. Dove fu avvertita mancanza d'un
soggetto che sostituisca nella nuova opera i miti, soggetti delle singole
storie, ci s'illude di coglierne uno ; se ne crea uno difatti, f)ur che si
astragga un poco come suole il pensiero. Si crea un (diciamo) ente o spirito,
cui competano tutti i caratteri dei varii intelletti che influirono, di stadio
in stadio, su l'uno o su l'altro dei quattro miti storicamente appresi; cui,
quindi, appartengano patriottismo e fede, scettico scherno e dubbio religioso,
preoccupazione sociale, sensualit voluttuosa e i)regiudizio manchevole ; e che
concilii inoltre ogni virt in una sintesi superiore alle contradizioni
apparenti. Cotesto ente o spirito avrebbe, forse. esso pure una evoluzione, e
certi stadii lungo i quali si disporrebbero le sue energie e i suoi attributi.
Parrebbe, per tanto, assai bene passibile di storia. Ma l'artificio pi palese
l'ha origina to. Difatti, mentre chi narra la storia di un mito opera (vedemmo)
su stadii, che sono di per s congiunti, e che senza nesso non sono n pure
compiutamente intelligibili ; i caratteri in vece e le energie di quel pseudo
spirito vengono solo per caso delimitati, avvicinati e graduati : gi che unico
motivo per cui quel falso ente si afferma con alcune qualit, e non altre, con
alcune vicende, e non altre, la scelta,
precedentemente fatta con criteri! estranei, di quattro miti, e non d'altri.
Che se dieci o diversi fossero, gli attributi muterebbero numero, specie e
successione. Segue, che necessario
guardarsi dall'insistere sopra un soggetto cosi fittizio, se non si voglia ricadere
negli stessi vantaggi pratici e svantaggi teorici in cui trascinano formule e
leggi. Vinto l'errore, la salute appare spontanea. Basta che si trovi uno
spirito, il qual sia vero e non artificiato, intuibile dallo storico e soggetto
vivo delle nostre esperienze anteriori, limitate per qualit e per quantit. Ora,
se (come dicemmo) arbitrario determinare
un individuo mitopeico valevole per quattro miti, perch introdotto dal caso, ossia dalla nostra
anterior ricerca, il numero di quattro : sopprimendo quel numero, ci troveremo
dinanzi a un reale individuo, allo spirito greco-romano in quanto elabora
saghe, o al genio mitopeico dei Pagani: dinanzi, ci , a un che di esistito
effettivamente, di certamente vivifcabile, di indbitabilmente storico. Qui il
pensiero si ritrova a suo agio e, intuendo, lotta a sottomettersi la realt
proteiforme ; qui formule e leggi vanno a confluire nella materia ignea,
rimettendo di lor rigidezza fino a liquefarsi nel flusso incandescente. E
conquistato una volta questo certo soggetto, si comprende d'un tratto come
tutto che si afferma nell'ambito delle quattro fiabe conosciute vale ed esatto per il genio mitopeico, ne la storia ; , sol tanto, incompiuto e
insufficiente : perch lembo di un tutto ; lembo casuale di un tutto reale. Ma,
appunto in forza di questo tutto, ha importanza, dev'essere affermato, e pu
assumere, esprimendosi, un tono generale. La medesima sua incompiutezza
poi solo in parte insufficienza. E, in
quanto oltre alle quattro fiabe cnte altre assai sarebbero a disposizione del
pensiero che volesse conoscerle in istoria e attribuirle poi al genio
mitopeico. Non , quando si avverta che, i)ur conoscendo tutte le fiabe, quel
genio mitopeico risulterebbe per noi sempre, dalle fortune del caso e dal
decorso del tempo, privo di qualche sua saga, e quindi scemo di talune energie,
per guisa che dovr in ogni maniera venir intuito traverso molte si ma non tutte
le sue manifestazioni ; non dissimilmente dall'indole degli uomini che la sorte
ci pone su la via o dalle vicende degli istituti che remoti echi ci tramandano
irregolari. Quattro miti son dunque poco i3er possedere, nei suoi confini e
nelle sue virt, l'animo leggendario dei Pagani ; tuttavia il loro
insegnamento certo, se bene incompiuto;
insufficiente, non arbitrario. Cosi le storie di quattro miti conducono alla
storia della mitopeja. La quale pertanto non pu consistere nell'insieme
inorganico di quelle quattro singole storie, se si mantenga incompiuta, n, se
voglia integrarsi, nell'insieme inorganico delle storie su le varie saghe
conosciute. Tale l'uso dei manuali;
ed uso degno del nome e dei libri: che
noi vedemmo dianzi la esigenza di quella pi larga istoria emergere a punto dal
succedersi (che stimolo, dunque, non
sodisf acimento) di taluni racconti men larghi. Come, per analogia, le
biografie di cento individui non souD la storia della nazione cui appartengono,
e che li comprende in s e in s li distrugge. Flutti nel mare, le molteplici
saghe non s'individuano che a patto di delimitar volta per volta il total genio
mitopeico in margini che non sono i suoi proprii. E a quel modo che l'Uomo non
attua le sue potenze tutte se non nella umanit ; il Mito non sviluppa tutte le
sue virt se non se nella mitopeja. E tutte non si conoscono, che spezzando in
un testo pi ampio i termini in cui si conchiusero le conoscenze dei singoli.
Evidenza pari ha, o dovrebbe avere, un altro vero eh' parallelo a questo. Dianzi, giustificandosi
legittima la storia di un mito, nell'atto di mostrare come le molteplici
manifestazioni leggendarie potessero aggrupparsi in tanti cespiti quanti sono i
nomi e le fondamentali vicende che accomunano talune fra esse ; disegnavasi
pure, come possibile, l'impresa di ridurre quelle manifestazioni molteplici pi
tosto sotto le rubriche delle diverse epoche e dei differenti luoghi, per
comporre, con criterio cronologico e geografico, la storia della mitopeja
pagana lungo i secoli e traverso le regioni del mondo classico. Et per et si
vedrebbero gli spiriti, informati da quella determinata temperie, intervenire
su tutto il patrimonio favoloso; e ciascuna avrebbe le sue predilezioni nello
scegliere i soggetti e le sue attitudini nel foggiarli. Or bene : dopo una tale
opera, cosi se siasi estesa a intero l'ambito temporale e regionale dei
Gentili, come se sia stata ristretta in taluni confini di paese o di momento, tutto sodisfatto il desiderio di conoscenza?
o pure, anche da essa deriva allo spirito un bisogno pi alto? Senza dubbio, un
paragone con l'insieme inorganico delle singole storie di miti sarebbe a
sproposito. In questo secondo caso difatti v' organicit : ogni epoca influendo
su la susseguente dopo che la precedente su essa aveva operato ; ogni luogo fra
i Glreco-romani riconnettendosi, quant'alla mitopeja, con qualcbe altro, o in
senso negativo o in positivo. Ma, a parte tal rilievo, certo che il bisogno sussiste tuttavia. Sopra
le differenze pi o men notevoli fra regioni e tempi, colpisce in tutt'e due i
casi la costanza con cui talune energie dell'anima nostra, e sol tanto quelle,
e sempre quelle, influiscono su le saghe: siano la fede e Tamor patrio, il
senso naturalistico e l'acume psicologico, lo scetticismo ragionevole ed il
razionale. Colpisce che, come pi si risalga nei secoli, meno fra esse
intervengono nella mitopeja, fin che alle scaturigini pochissime si ritrovano ;
e che, come pi si discenda nei secoli, non solo si accrescono per numero ma
quasi si succedono per dignit, tramandandosi tal volta nel corso la fiaccola,
umanamente. Si comprende che son le potenze del genio pagano in officio di
mitopeja ; s'indovina, entro la libert delle manifestazioni, cosi traverso l'epoche
come sotto i cespiti nominativi, un'armonia ch' ancora imprecisa ma merita
indagine; e si desidera cercare questa armonia e quelle potenze. Concetti
empirici, dunque, tali potenze? arbitrio di astrazione a scopo pratico? Non
cosi. Il tono generico solo esteriore ;
nell'intimo, chi ben guardi, ciascuna di quelle parole vuol indicare qualcosa
di assai individuo e concreto : altr' e tante energie spirituali che, in certi
momenti della storia, e in determinati punti della terra, hanno gittate
singolari riflessi su la saga, ora iridandola di sfumature, ora riardendola fin
nell'essenza : altr'e tanti fatti passibili di storia, e solo per storia
conoscibili. Le carit patrie di Euripide e di Vergilio ; i razionalismi di
Dionisio e di Luciano ; le religioni d'un esiodeo e d'un latino : fatta breccia
nei confini onde storicamente son racchiusi entro un'opera e un temperamento,
si compenetrano, ricalcano l'un l'altro i caratteri comuni, contraddistinguono
le differenze, quelli e queste ordinano in sintesi: fino a divenire, in diverso
contesto storico, la carit patria, il razionalismo, la religione del genio
mitopeico pagano,con valore (si vide) bensi non compiuto, ma pm- sufficiente ;
generale e individuato a un tempo. Generale, rispetto alle singole saghe: individuato,
rispetto al genio mitopeico., Di che pu aversi riprova. A quel modo che durante
la storia d'una specifi.ca fiaba, linteresse pi attento soverchia il cerchio
breve del palco ove poche persone son mosse in non molte vicende, e tocca, al
di l, la forza animatrice di quel moto ; del pari, per l'interesse pi attento,
anche gli amor patrii di Vergilio e di Euripide, e i razionalismi di Dionisio e
di Luciano, competono fin da principio, dopo che a Vergilio a Luciano a
Dionisio ad Euripide, alla mentalit pagana di cui son pregni, alla vita de'
Grrecoromani nella quale immersi son trascinati subendo e reagendo, come massi
che il fiume ha composti e disgretola poi con la medesima forza. Si che, a
rigor di discorso, gi i successivi stadii d'un mito superano il mito, e si
proiettano, in altra serie, su lo sfondo comune, dove li dispone non pi affinit
di nomi e di casi, ma di potenze spmtuali. Per a questa disposizione nuova
manca tuttora l'ordine della successione : che , anche, l'ordine secondo cui la
mitopeja si evolve. Non pu valerci pi, adesso, il criterio cronologico : atto
bens a graduare strati di leggende ; inetto del tutto a decider, con certezza
che non sia di pallida congettura o non nasca da arbitrio di pregiudizio, a
decider se la fede versi la purezza delle sue acque nel mito prima che l'
analisi psicologica vi gitti i suoi dati. Interrogata al proposito, ogni saga
darebbe una propria risposta, diversa secondo vicende casuali o necessarie .
Qualcuna persino mostrerebbe contemporanee le manifestazioni in apparenza pi
Sul valore di queste es^pressioni LA STORIA DEL MITO disparate o in sostanza pi
contradittorie. E, per tanto, necessario sceglier altro mezzo allo scopo di
vedere il genio mitopeico vivere, com' d'ogni individuo definito, evolvendo le
sue speciali energie. Ora, esso ha, tra i Pagani, alcune espressioni che ci
richiamano senza dubbio alla sua origine ; altre, che ci riportano quasi con
certezza al suo termine. Basta dunque, jier graduare ciascuna delle
caratteristiche mitopeiche, compararle o alle qualit originarie o agl i ultimi
corrompimenti. Ma perch pi certe appajono le prime, a esse la com[)arazione va
riferita. E tanto pi si sente, allora, tarda (nell'essenza) quell'energia che,
acquisita allo spirito mitopeico, pi lo distorna dai suoi primi sogni : per
essa, in vero, lo spirito procede, nel tutto suo insieme, a una tappa nuova ;
si che il momento della conquista ben
paragonabile all'oscillazione d'una lancetta sul quadrante : s'inizia l'ora.
Una storia compiuta dovrebbe per seguire il mostrarsi di ciascuna energia,
segnalando il punto in cui dopo la precedente essa confluisce nella saga a
nutrirla e deformarla, e precisando il modo del deformare. Una storia, per
contro, incompiuta e provvisoria dovrebbe, facendo i suoi raffronti, mantenersi
entro gli argini della sua incompiutezza, col tratteggiare senza disegnarle le
linee dell'opera propria. Tutt'e due vedrebbero, oltre l'assiduo rinnovellarsi
delle forme e il disordine scapigliato in ciascuna saga introdotto dall'insita
sorte, la vasta e chiara armonia del complessivo progresso geniale, le cui
pietre miliari hanno nome dalle potenze dell'animo e dalle forze del pensiero.
Legame, da ultimo, fra quel disordine e questa armonia, apparirebbe la
constatazione che tutte quasi le saghe, le quali la storia pu scegliere a suo
oggetto, fanno testimonianza di s di fronte a noi, in lavori di arte letteraria
e manuale o in riti di culto, quando oramai o per intiero o in buona parte lo
spirito onde sono elaborate ha acquisito le sue virt: pel che quest'ultime
possono manifestarsi od occultarsi, secondo nessi stabiliti non dal loro
reciproco grado, ma dalle vicende della fiaba. Succede, in somma, nei singoli
miti, un perpetuo rinnovarsi di quei fenomeni che segnano, ciascuno, un diverso
stadio del genio mitopeico ; rinnovarsi che non
senza evoluzione ma con evoluzione diversa dall'originaria. Condizioni
di ambiente fanno si che in una sola et, l'augustea, la leggenda di Caco si
manifesti infusa di x^atriottismo e zelo religioso presso Vergilio, incrinata
di scettico dubbio e di saccente sofisticheria presso Dionisio ; ma, contro
questa contemporaneit cronologica, non esitiamo a proclamare pi vetusta l'una
forma a petto dell'altra nel riguardo della complessiva mitopeja. Tal certezza
si conforta, in questo caso, dell'esame delle fonti, donde appare VergiKo
attingere a pi antica sorgente che Dionisio ; certezza dovrebbe durar tuttavia
anche quando il riscontro non fosse possibile per qual siasi motivo. Com' del
mito di Andromeda, il quale gi scaduto
in un tentativo di travestimento storico allor che Euripide lo solleva al
culmine della sua vita penetrandolo di passione patria e di pensiero religioso.
Crii che la mitopeja ha oramai il
possesso sicuro di ciascuna tra quelle sue forze e di volta in volta ne fa uso
secondo richieggano sorti diverse. Spetta all'occliio dello storico separare,
caso per caso, dal suo rinnovarsi il primigenio acquisto: per decidere se lo
stadio di una fiaba sia evolutivo solo rispetto agli stadii anteriori di quella
fiaba; o sia in vece, insieme, evolutivo nel progresso del genio mitopeico. Va
perduto cosi l'impetuoso rigoglio di forme, per cui le figure si moltiplicano
disponendosi l'una a canto dell'altra, affini sorelle, non identiche
aggeminazioni ; e i casi si ripetono e s'intrecciano simiglianti e differenti ;
e si dispongono in racconti svariati, che ciascuno possiede, quasi nome
personale, una peculiare orma, n confusioni son lecite, e taluno, fatto vivo
dall'arte, ha destino qualche volta non perituro. La storia della mitopeja per
contro diviene scaltra a scoprire, in luogo dell'abbondanza creativa, la
limitatezza fondamentale della manifestazione : il sottostrato di potenza
definita, di l dalla superficie delle creazioni che si tramutano lungo serie
senza termine e fogge senza numero. E n meno qui, in quest'altro ufficio, essa
si converte in scienza astraente e classificante. Quando vengono disegnate le
vie che la mitopeja trov per le sue creature, si adoperano certo concetti
empirici e partizioni; quali fra letteratura e arte pittorica, fra statuaria e
culto, per cui il filosofo userebbe termini ben diversi. Ma i medesimi concetti
intervengono nelle storie dei singoli miti, insieme con altri, e non
impediscono che quelle storie concretino individui ben precisi e reali. Si che a
ogni modo la loro presenza non pu decidere senz'altro contro la natura storica
di un' opera. Difatti, ancor questa di cui parliamo lata storia mitopeica fonde
leggi categorie e formule nello scoprire: in primo luogo, i confini entro cui
tutte le manifestazioni favolose son racchiuse; in secondo luogo, i gradi
secondo cui esse sono disposte; onde riesce a precisare una risposta a questo
problema, ch' denso di realt storica : con che mezzi e con quale sodisfacimento
lo spirito pagano mitopeico si manifesta ? Il badile ed il coltello han diritto
alla loro epopea, dopo le pagine ove Tincruento travaglio campestre e la
sanguinolenta strage hanno diffuso riflessi dolci e selvaggi. Ma poi che questa
diversa istoria del genio mitopeico, nel suo nascere, nel succedersi delle sue
potenze, nell'ordine dei suoi mezzi, siasi compiuta, e non ancora conchiusa,
riapparir a sua volta catastrofica e non elegiaca : segnando, senza sconforto,
la fine della mitopeja pagana. Non senza rimpianto per, ch' differente cosa.
Non vediamo pili Centauri scender galoppando dai ventosi antri dei monti : n
per noi ogni sera il Sole muove verso l'ombra a combattere mostri marini e
piegare tracotanza di violenti. Quella cecit e questa negazione sono stati il
prezzo con cui pagammo altri spettacoli ed altre certezze. Ma il prezzo duole,
nel fondo del cuore, alla nostra avarizia di uomini, a questa cupidigia di
opulenza spirituale. Sin qui tentammo della mitopeja e della sua storia il
concetto compiuto. Ma un motivo, che si forma nella pratica degli studii e
della vita, e si rafforza di esigenze, estranee bens alle fiabe e alle storie
loro, ma non agli storici ; un motivo interviene spesso a ridurre le indagini e
le ricostruzioni del mito nei confini di una sol tanto fra le maniere
dell'espressione mitica: nei confini della letteratura. Certo, il genio
letterario dei Grreci e dei Latini ha saputo rendere immortale il tessuto de'
suoi sogni mitici con l'opera di non so qual spola d'oro. E anche sia concesso
senz'altro esser la letteratura di gran lunga preminente rispetto e alle altre
arti e ad ogni diversa forma del significare le saghe . Non cessa per che di
queste ridurre la storia nell'ambito di pur una fra le loro espressioni compiere una arbitraria amputazione.
Lealmente riconoscendola, questa colpa
grave. N medicabile. Si pu palliarla: come suole lo storico dell'arte
richiamarsi per accenni alla storia civile e alla letteraria ; e cosi in
reciproca guisa. In ispecie quando, per le lacune che sono ampie e non rade nel
pur ricco patrimonio trasmessoci dagli antichi, uno o pi stadii d'un mito sieno
costituiti da nessuna forma di letteratura, bensi da prodotti scolpiti o
dipinti o in altro modo artisticamente lavorati dall'attrezzo e dalla mano.
Allora la storia monca deve a forza integrarsi di quella sua parte che un caso
rende ben necessaria e come vitale. Con simile pensiero fatto ricorso alle notizie cultuali, e le
formule de' sacerdoti le litanie dei fedeli si cercano, farmachi preziosi, a
supplire e lenire organiche deficienze. Ma la plenitudine non se non nell'intreccio del tutto ; e i
riferimenti, fngendola, tradiscono il vuoto. Mal colmato, il difetto permane, e
si appaja con la incompiutezza cui limitate esperienze entro esiguo numero di
miti costringono il ritratto del genio pagano facitore di saghe. Permane : la
sua radice s'insinua fra stretto] e rupestri, si che non pronto lo svellerla ; ineffettuabile tal
volta. Onde avviene che dinanzi la storia insufficiente cosi della singola
favola come della total mitopeja antica, la nostra insoddisfazione si cresce
del diffcile sforzo per rimanerne sgombri. Tant': nell'isola ove piaceva a
Kalypso di amarlo, con promessa di rendergli " senza vecchiezza n morte
per sempre la vita, Odisseo, da la rupe
a fronte del mare, piangeva la patria lontana. L'anno avanti Cristo
quattrocento dodici Euripide fece rappresentare in Atene una sua tragedia
intitolata Andromeda^ alla quale forniva materia un episodio del mito di
Perseo. Ma se l'opera dramatica aveva tratto dalla saga la sostanza a nutrire
la sua compagine, nell'opera la saga viveva una vita altra da l'anteriore: per
che lunga gi e complessa ne fosse stata, innanzi, l'evoluzione.
Antichissimamente, negli anni cui corrispondono, eco affievolita, i pi vetusti
canti della epopea e poche mal certe tracce, una assai uber ei) Cfr. per tutto
questo cap. l'Indagine in libro II cap. I; di cui si citano i nelle note successive. tosa terra di Grecia
aveva fecondato di s un semplice racconto . Si narrava in Tessaglia, e in
ispecie nella pianura pelasgia che fu detta Pelasgiotide poi, di un re, cui era
regno in Ai'go (Pelasgico), molto potente ma triste. Vecchio, difatti, e non
lontano da morte, egli era tuttora senza prole maschile, unica essendogli nata
una figlia a nome Danae. Ansioso per l' avvenire di sua schiatta, si sarebbe
recato a consultare in Delfi l'oracolo di Apollo, dal quale ebbe in risposta,
non essergli per nascer maschi se non da Danae, ma dovergli il nipote togliere
e trono e vita. Non fu vano il grave mnito; ed ogni cura fu posta a che la vergine
restasse dal generare, contro la sorte. Ma Preto, fratello del re Acrisio,
riusci occultamente a renderla madre d'un bimbo che fu chiamato Perseo. La
nascita, che si volle tener celata, fu in vece scoperta e caus l'irosa vendetta
del re impaurito, il quale decretava che la giovine e il neonato fossero, come
Preto per altra parte fu, cacciati, e derelitti in bala della violenta natura e
delle intemperie. Mossero Danae e Perseo verso l'oriente e pervennero in
Magnesia: ove per loro fortuna li accolse un pescatore, Ditti, che li ospit di
poi nella casa sua e del fratel Polidette. Il bambino crebbe fanciullo, giovane
agile e vigoroso: tra i coetanei valente in giuochi ginnici ove nerbo di
muscoli e destrezza di ginocchia d'occhi di braccia si rivelassero. Allora
piacque al caso Cfr. II e III. che il re
di Larisa indicesse fra' giovani ima gara pubblica e che all'agone partecipasse
l'adolescente Perseo e assistesse il vecchio Acrisio ospite del dinaste vicino.
Accadde l'inevitabile, che la Pizia aveva predetto e a cui non si poteva
sfuggire: il disco venne dalla mano di Perseo lanciato, opera d'un nume! contro
le deboli membra del nonno, che ne fu morto. L'oracolo per tal modo
compiendosi, il nepote riconosciuto si ebbe il trono e la dignit dell'avo. Una
tal fiaba parrebbe germogliata, semplice e intiera, su dal suolo mitico d'una
trib aria, frutto non insolito d'un seme a pi altri simigliante: ove la stessa
sua trasparenza non ne scernesse, una ad una, le fibre. C', in quel breve
racconto, lo spunto originario della morte inflitta dal giovine, che si
rivendica l'avvenire, al vecchio progenitore, che il passato ha curvo e fiacco
: dal Sole, ci sono, nascente circonfuso di purpureo sangue, per illuminare
l'oggi, al Sole occidente verso il bujo, circonfuso di pm-pureo sangue, dopo
aver rischiarato il jeri. Durante la notte, nell'ombre, il delitto si compiuto ; e l'astro giovine regna in luogo
dell'antico, nato da una Danae (donna di quei Danai che nella leggenda
combattono i Liei o ^' Luminosi ) e sorto, oltre la linea dell'orizzonte, su
dalle case sotterranee diPolidette ("l'accoglitoredi molti sovrano dell'oltretomba). A cotesto schema
rozzo, cui il mal grato biancore di ossa
a pena commesse, diedero nel principio veste di muscoli e colori i nomi locali,
che tante reminiscenze di bellezza e di rigoglio traevano con s e richiamavano
a tanti concreti particolari della realt : le pianure d'Argo Pelasgico ; Larisa
; il venerando oracolo di Delfi; le montagne della Magnesia in ispecie,
nell'est, dalle cui giogaje ride prima la luce su i pascoli, e che dalle grotte
temibili, disagiato ospizio di fuggiaschi, recavano al mito un brivido tra di
paura e di piet. Di poi sul racconto naturalistico, come i3 venne foggiandosi
in forme di plastica umana, s'innest una di quelle novelle, simili tra loro
come tra essi i cristalli di medesima specie, nelle quali il popolo par
condensare, con la propria esperienza, la propria filosofa della vita, i^erch
vi fissa gli esempli tipici delle consuete vicende (per lo pi, familiari) e le
sembianze caratteristiche delle figure che sospinge la sorte comune. Traverso
la fantasia delle masse, come traverso un vaglio singolare, il complesso, per
esempio, dei pastori o de' pescatori e l'insieme de' vizii e delle virt che in
genere presso quelli si riscontrano, si affina in una selezione di cui vano cercar le leggi, per comporsi nella
sintesi d'un personaggio tradizionale con tradizionali e pregi e difetti : il
pastore, dico, o il pescatore soccorrevole e onesto che come suo alleva, dopo
averlo accolto ed ospitato, il figlio non suo. Analogo lo schema della fanciulla cui nasce
illegittimo un bimbo e che l'ira del padre discaccia per pena. Grracili
virgulti quello e questo ; cosi fatti per che improvvisa linfa vi rifluisce non
a pena s'immettano sopra una determinata leggenda : cui recano, per altro, non
esiguo contributo in compiutezza e bellezza. Nella Pelasgiotide appunto
impressero alla fiaba tutta una diversa vivacit romanzesca e forza dramatica.
Non fu tuttavia sovrapporsi d'uno strato a un altro, cosi che il pi recente
prevalesse sul pi antico fino a ridurlo in oblio: fu, come mi espressi,
innesto; onde l'essenza solare di Perseo, la sede orientale del bujo Polidette,
permasero a costituire il volto significativo del mito durante tutto questo
primo stadio, tessalico, della sua formazione. Il che fu chiaro in sguito .
L'Argo Pelasgico o v'erano re nella fiaba Acrisio prima e Perseo poi, venne
confondendosi, nei canti dei poeti e per gli scambi! mitici fra i varii popoli
della Grecia, con altro Argo, che sorgeva a offuscar in gloria e potenza il pi
antico, ed era situato in un conchiuso piano del Peloponneso fra monti e mare,
nell'oriente della penisola. I due Argo furon quindi, in realt, uno: prima il
tessalico, poi il peloponnesiaco; per guisa che a questo si riportarono via via
le leggende che a quello si erano dianzi riferite. Fra l'altre, anche la nostra
di Perseo: il quale divenne adunque, se pm" nipote dello stesso nonno,
rampollo di schiatta cresciuta sopra altro suolo. La popolazione argolica
assimil ben presto la saga tessala con i suoi particolari e le sue figure:
persino l'accenno a la Magnesia, che quanto mai disconveniva alle sedi mutate,
si serb in solco profondo ; persino, e specialmente, la morte di Acrisio in
Larisa, cui grande varco di terre e di mare separava dal Peloponneso, si
mantenne non alterata. Al conservarsi contribuirono due motivi. La Magnesia era
nel mito ricordata per mezzo del suo eponimo Magnete, che si fngeva padre di
Polidette e Ditti: facile quindi sottrarre al nome della persona ogni valore di
riferimento al luogo geografico e ripeterlo fuor d'ogni attinenza concreta, A
Larisa poi dur alquanto un sacrario {heroon) dedicato ad Acrisie : sicuro perno
adimque, che nemmeno la nuova leggenda poteva facilmente trascurare. Ma col
proceder degli anni tutto che nel mito non fosse o compatibile senz'altro con
la mutata sede o ineliminabile per cause intrinseche fini con l'alterarsi. Il
ricetto, in particolare, ove Ditti figlio di Magnete avrebbe accolto Danae, e
il padre di Perseo vennero corretti e adattati: n a dirsi qual de' due ritocchi sia il pi
antico ; ma si vede bene quale per
essere il pi importante. A Preto fu, nella seduzion furtiva, sostituito Zeus,
il dio veneratissimo in Argo, da cui si faceva discendere anche l'eroe eponimo
Argo : gi che forse piacque cosi adombrare quel Preto che in Argolide doveva
riuscir meno noto, e che aveva, per quanto ci
dato supporre, contenuto naturalistico simile a Zeus. Ai monti poi della
Magnesia, pur permanendo Magnete, fu sostituita l'isola di Serifo ch' di fronte
all'orientai costa del Peloponneso nel mare del golfo argivo. Perch quell'isola
fosse la prescelta, s'ignora; notevole a ogni modo che per essa un lembo di territorio jonico
sia tocco dalla leggenda nata fra Eoli e trapiantata in Argolide. Da Argo fra
tanto il mito si diffonde: attinge Micene, penetra a Tirinto. Nella quale anzi
cosi si radica, che s'invent come Perseo, ucciso il nonno, avesse onta di
rientrare in Argo e preferissenceder questa, per riceverne Tirinto, a suo
cugino Megapnte figlio di Preto. Se non che: con l'irradiarsi la saga, perno
Argo, nel Peloponneso; e col pervenire essa in territorio jonico: si prepara
all'evoluzione futura una base duplice in cui son contenuti potenzialmente due
ulteriori sviluppi. Entrambi si devolvono nel fatto, simiglianti tra loro per
sostrato e valore, e paralleli in modo che non
riuscibile lo stabilire la priorit dell'uno su l'altro. Era leggenda fra
i Joni che la dea Atena, cui molto culto si tributava e particolar reverenza,
recasse sopra il suo scudo la testa di un mostro pauroso e ricinto d'ombre :
Medusa, una delle Grrgoni dimoranti al limite estremo dell'Oceano, oltre la
terra, dove il Sole scompare e si profonda nel bujo. Su lo scudo quel capo
significava trofeo d'una vittoria conseguita dall'iddia avverso la protervia
nefasta di quella figlia di abissi marini. La leggenda era antica, traccia
della natura xDrima ond'era informata Atena, divinit della luce solare, nume
del temporale, in cui pi vivo il
contrasto fra le forze luminose e la potenza delle tenebre. E del Sole per vero
un altro attributo si riferiva, tra i Joni, alla dea Pallade: il possesso d'una
cappa, lavorata nella pelle canina, onde si dissimulava il suo splendoreogni
qualvolta piacesse a lei di occultarsi : a quel modo che l'astro sparisce agli
occhi umani per molte ore vestendosi di oscuro. C'erano adunque, in racconti
embrionali tuttavia, spunti di gesta eroiche o divine: le quali, se si
accoglievano bene nella figura di Atena, non formavano ancora intorno alla sua
persona una veste cosi aderente, che non fosse possibile separamela in parte
con lievi alterazioni. Si direbbe anzi che la vittoria contro la Grrgone e la
propriet della cappa invisibile si riportavano assai meglio al sostrato
naturalistico della Dea che non al suo individuo, alla folgorante luce che non
alla sostanza corporea della effigie umanata. E perch Perseo quando pervenne in
Serifo, e come in Serifo in Atene in Mileto nella Jonia, ancor traeva alimento
al suo essere dall'energia naturale (la veemenza del Sole) di cui era forma e
onde era nato, e poteva pertanto in facil guisa accostarsi, simile nume, a
Pallade; accadde che a lui pure si attribuissero e l'impresa contro Medusa e il
cappuccio canino : cosi che alla dea non rimase altro ufficio se non quello di
ajutare e protegger l'eroe. Fu quasi una contaminazione delle due leggende in
una; ma di due leggende non indipendenti n ciascuna distinta per s, si di due
che si originavano da una medesima intuizione delle forze naturali, e aggeminate
si erano dopo che aspetti simigliantissimi dell'unico Astro avevan tolto in
luoghi distinti doppio nome di Atena e di Perseo. Il racconto che ne nacque,
come prese a vivere d'una essenza propria, ebbe la sorte d'ogni materia vivente
in organismo : si accrebbe. La fantasia che plasma le leggende ha certi suoi
modi, quasi formule, quasi schemi, nei quali va foggiando analoghe le sue opere
: essa imprime del suo segno terreno il racconto di quegli spettacoli della
Natui'a cui aveva gi dato volti e gesti umani : prende una seconda volta
possesso della sua materia. Cosi non concede essa all'eroe, e sia pur grande
d'assai pi che l'uomo, e assistito da soccorrevoli iddii. facile e pronto il
conquisto; vuole sia arduo: preparato con forza ed astuzia. Ecco imaginati
talismani senza cui l'opera non pu compiersi e per i quali trovare si
richiederanno altre fatiche : ecco pensata, prima dell'impresa, un'awentui'a
preparatoria, ch' mezzo non fine, ma non
dispensabile : e all'avventura apparecchiati i personaggi. Qui, furono
le figure in cui la novella fissa ed esagera la vecchiaia: le tre sorelle
Graje, canute fin dalla nascita, veggenti, tre, per un occhio solo
vicendevolmente, masticanti, tre, con un dente. Esse, si narr, sapevano la sede
di certe Ninfe dai calzari alati, senza cui non era concesso ad uomo trasvolar
fino al limite dell'Oceano presso le Grgni, e dalla bisaccia (xi^iaig) magica,
che fosse atta a contenere, dopo spiccato, il capo di Medusa. Perseo vi si rec
dunque ma non ottenne n quelli n questa se prima non ebbe con violenza privato
le tre vecchiarde dell' occhio e del dente, esigendo a compenso della
restituzione i due oggetti cui mirava. Gli fu agevole poi, auspice Atena,
conseguire lo scopo. Arma gli venne attribuita la falce. Ermes glie l'avrebbe donata,
nume in particolare diletto, se pur non quanto Atena, agli Ateniesi; il quale,
avendo allora gi assunto rilievo di dio luminoso, era affine a Perseo e
dicevole soccorritore contro i mostri bui. Cosi erasi d'assai allargata la
saga. A concliiuder la quale non rimaneva oramai se non motivare l'impresa
strana del fanciullo cacciato con la madre da Argo e accolto in Serifo.
Cronologicamente essa non poteva cadere ciie nell'intervallo fra l'ordine
iniquo di Acrisio e il ritorno del giovine sul trono avito. Logicamente la
causa dell'avventura e del pericolo aveva a connettersi con gli ospiti di Danae
: Ditti e Polidette. E poich non certo l'originalit pi ricercata nella mitopeja, fu sfruttato
ancor qui un comune motivo leggendario, stracco per quel che parrebbe a noi,
non tuttavia si sterile da non riuscire ad arricchii'e la fiaba di quei tramiti
episodici onde abbisognava. Come contro la Chimera fu spinto Bellerofonte da
chi ne desider la morte; come Q-isone in Colchide venne inviato perch perdesse
nell'arduo cimento la vita; cosi Perseo avrebbe assunto il rischio meduso per
stimolo di Polidette, che innamorato di Danae bramava toglier di mezzo il
giovine difensor della donna. Oramai il racconto era compiuto : armonico,
organico, uno: vibrava d'una forza sintetica dalla quale eran fusi i diversi
elementi confluitivi da parti lontane. 11 lavorio invisibile di penetrazione,
lata e i)rofonda, nel suolo jonico a traverso strati naturalistici e nove]
listici aveva dato alla fine il suo bel frutto maturo. Analogo al processo
d'evoluzione mitica per cui il nucleo tessalo-argolico della saga s'era
accresciuto d'un episodio e di due campeggianti figure, Atena e Medusa, fu
l'altro che in diverso terreno prepar novella sixnigliante . Ma, a un tempo,
incomparabilmente pi complesso ed inviluppato: tanto che l'indagine riesce a
ricostruirlo non con la fondata probabilit ch' concessa all'esame del mito di
Medusa, ma con incertezze non jDOclie, e con grande cautela. Se l'ipotesi non
erra, due personaggi costituirono i X^erni fondamentali di quel processo: e
l'uno Perseo nella sua natura di eroe
luminoso in lotta con i mostri tenebrosi ; l'altro Cassiepa o, come il suo nome significa senza
dubbio, la " millantatrice ; tipo popolaresco della donna orgogliosa
troppo di sua bellezza che osa competere in gara ineguale con le Dee, e n'
punita per fiere pene nella sua prole. Due perni adunque di essenza diversa,
che l'uno naturalistico, novellistico
l'altro ; cui tuttavia compete un comune carattere precipuo: l'attitudine, cio,
a commettersi con pi altri elementi, a raccoglierli intorno a s, quasi per
energia magnetica; cosi da allacciare in maglia e in rete pi trame mitiche
distinte. Per essi si formarono due compagini leggendarie che insieme li
contenevano e n'erano quindi accostate fra loro. L'una. Si conosceva, fra i
Peloponnesiaci in particolare, un re mitico Cfeo o, in altra forma, Cfeo, che
sar x)i tardi venerato con carattere e attributi di divinit ctonia in Cafe,
luogo dell'Arcadia ; e che veniva creduto signore di popoli abitanti
all'orizzonte fra la luce e l'ombra. Quivi eran, secondo gi l'epopea omerica,
gli Etiopi, arsi appunto dal Sol nascente e dal tramontante, tcchi dal bujo per
un lato, immersi nella vampa per l'altro. Cfeo dunque re degli Etiopi reggeva
il suo popolo in quelle stesse lontane regioni, o in tutt'affatto conformi,
nelle quali ritrovammo aver sede le Grorgoni, e verso cui come a simili mete
muovono in awentm'a i simili eroi solari. Che anche fra gli Etiopi nella terra
di Cefeo fosse condotto Perseo, a pena
bisogno, quindi, di dire. Per scopo fu scelto non an mostro specifico, quale
Medusa, ma una vagamente indicata belva che sorgesse da l'onde a esterminio e
terrore: il ketos. Soccorrevole, nell'officio di Atena contro la preda gorgona,
s'indusse un diffuso tipo di Vergine, strenua in combattere, ignara di mollezze
feminee, il cui maschio nome istesso rendeva imagine di possanza non muliebre
si virile: l'Andromeda. Qual motivo in fine si ritrovasse alla impresa
ignoriamo; ma possiam senza errore fngercene uno non dissimile da quel che
apprendemmo nell'altro episodio, cosi concorde con questo per contenuto forma e
valore. Si ottiene un mito modellato sopra i medesimi schemi su cui foggiata l'impresa fra i Joni ; nel quale i
nomi a pena pajon mutati; ma tutte le tinte sarebber identiche se non fosser
d'alquanto pi sbiadite, e tutti i particolari invariati se non apparissero
scemi al paragone. Un arricchimento per venne ad esso mito quando Cassiepa vi
fu introdotta. E consistette non nell' aggiungersi d'un personaggio all'azione.
si pi tosto nel trasformarsi profondo del significato complessivo che
quell'acquisto ebbe a preparare. Due avventure di Perseo contro mostri delle
tenebre non potevano non venir avvicinate prima, e dissimilate i)oi. Si tramut
Tuna, la minore e pi svigorita. E fu iDer un evolversi, si direbbe spontaneo,
della sostanza eroica di Andromeda. La " Maschia v, si and raggentilendo
fin che si transfuse del tutto nel tipo novellistico della fanciulla che l'eroe
libera di prigionia, ama e sposa. Gli era stata al fianco nella lotta, in gara
aveva lanciato i sassi contro il ketos avanzante dal mare, e un vaso del secolo
sesto ce raffigura nell'atto sgraziato del lancio, constringendole e movendole
le membra l'animo pugnace. Fu poi dinanzi al prode, premio insigne alla
vittoria, bella non forte. Allora, divenne indispensabile giustificar la
cattivit della fanciulla, motivar la lotta di Perseo contro il mostro a
liberarla : e Cassiepea servi allo scopo. n vanto della " millantatrice ,
dalle Dee offese punito nella vita giovine e florida della figlia, Andromeda fu
tramutata in sua figlia, sarebbe appunto stato la causa prima del pericolo
orrendo e della pugna eroica. Per tal modo tutto l'aspetto originario
dell'episodio alterato, nel profondo. La
seconda forma possiede la vita che non la prima. E individuata come non la
prima. Da l'una a l'altra segna il passaggio Andromeda trasformantesi, e
accanto a lei resta Cefeo che con lei si evolve. Ma se questi sono di tal mito
i personaggi caratteristici, i fondamentali sono Perseo e Cassiepea. Cassiepea
e Perseo prevalsero pure, sembra, in un'altra leggenda differente di origine.
Protagonista qui Fineo : divinit del
fosco settentrione di cui le saghe lumeggiarono due aspetti opposti. Benefico e
malefico egli pu esser difatti : secondo che dietro lui muova il rigente
turbine del nord a offuscare le chiarit solatie ; o che la freschezza dei suoi
vnti temperi l'afe estive ricacciando a mezzod gli affocati avversarli che il
Sole suscita su l'equatore. Quest'ultimo carattere fu, in vero, la base del
racconto, giusta cui egli sarebbe stato fin nelle sue sedi assalito dalle
Arpie, mostruosi uccelli, mossegli contro da Elios ene sarebbe perito senza
l'intervento de'fgli di Brea i quali respinsero le moleste e perseguitarono a
ritroso fin l dond'erano venute. In tutto parallelo al formarsi di questo mito
delle Arpie, ma mosso da principio diverso, fu il formarsi della nostra saga
intorno a Fineo. Contro di lui il Sole non si sarebbe levato col maleficio
deleterio de' suoi vnti meridionali, ma con la forza purificatrice dei suoi
raggi chiari: per vincerlo, non per esserne sopraffatto. Non l'autunno
sopravviene, nella nostra leggenda, a mitigare le ardenze della riarsa estate ;
si la primavera a dissipar le brume e i geli foschi dello inverno. Ora l'eroe
solare che trionfa del re nordico fu, sembra, appunto Perseo, in singoiar
duello. E cotesto embrionale racconto, cerc, e trov, un motivo in Cassiepea :
ancor una volta pare che il vanto di lei fosse addotto a spiegar la sorte inferiore
di Fineo, suo figlio : figlio per vero alla donna ce lo testimonia l'epica che
si dice da Esiodo. Col che si ottenne anche di fornire compiutezza romanzesca
alla favola, quando il significato naturalistico ne andasse smarrito. C era
dunque la materia, idonea a produrre, ove uno spirito creatore trovasse in s il
levame opportuno, un mito pur esso dramatico n meno denso di bellezza poetica.
In vece, prima ancora che riuscisse a comporsi in opera ben delimitata, fu
travolta e assorbita in diverso complesso. Per che i due intrecci di Andromeda
e di Fineo, ne' quali entrambi Perseo e Cassiepea apparivano non pure
nell'identit de' nomi ma e nella analogia degli uffici, non potevano rimanere
distinti: e tanto meno potevano se, come non
provato ma forse da ritenere, un
medesimo suolo li generava. Si com penetrarono difatti fin che divennero una
narrazione sola in cui gli elementi delle due generatrici sussistevano tuttavia
presso che integri, l sol tanto alterati ove fosse parso inevitabile alla
logica della commessura. Rimase il duello fra Perseo e Fineo; rimase la
discendenza di Andromeda da Cassiepea: ma, e fu il segno della connessione fra
le 'due saghe indipendenti, la causa della lotta fra i due eroi, fu
rintracciata non pi nel supposto vanto d'una madre, ma nella stessa precedente
vittoria di Perseo contro il ketos e nelle successive nozze. Fineo, si disse,
sarebbe stato il promesso sposo di Andromeda avanti la venuta del giovine
liberatore: cosi ignavo prima a soccorrerla, come presuntuoso poi nell'accampare
diritti di precedenza. Inascoltato ricorse, ancora si disse, al coperto agguato
con l'armi. Fu abbattuto. Cosi si conchiuse questa fiaba di doppia scatuiigine
: senza che nulla dei due miti che vi si fusero (su Cefeo l'uno e Andromeda, su
rineo r altro) andasse perduto, tranne il nesso di maternit fra Cassiepea e
Fineo. Chi confronti ora da un lato l'avventura medusa di Perseo con
l'assistenza di Atena ed Ermes, e l'impresa d'altro lato avverso il ketos con
il premio della vergine e il contrasto con Fineo ; e si fermi alla superfcie
variopinta dei due episodii, senza indagarne il significato recondito ; non vi
trova pili tracce di quella simigliali za che le saghe della "Maschia,, e
della Gorgone rendeva pallide entrambe ; bens li avverte dramaticamente
diversi, materiati entrambi di moti sentimentali ma or verso la madre Danae or
verso la liberata Andromeda; di cimenti perigliosi ma ora contro Medusa
spietata ora contro la famelica belva ora contro l'imbelle ostinato. La cosi
ottenuta diversit formale, permise a chi volle aggruppare intorno al nome di
Perseo tutte le vicende di lui, di comporre queste due in ordine insieme con la
nascita dell'eroe e la uccisione del nonno Acrisio. Un'opera siffatta fu
compiuta da Ferecide, il quale ci trasmise tutto il mito, nel suo insieme
organico, e divenne per tanto la base prima d'ogni ricerca costruttrice . Ne
possediamo un sunto per opera d'uno scoliaste; lacunoso, j)er, onde necessario integrarlo col testo del ben pi
tardo Apollodoro. Non ridaremo qui la trama disadorna. Essa non pi per noi, nella forma con cui ci pervenne,
il corpo, plasmatosi dopo la lunga gestazione per effetto della sintesi
narrativa; ma , di quel corpo, lo scheletro. Dalla nascita misteriosa vediamo
Perseo compiere, dopo l'infanzia trascorsa in Serifo, le sue avventure, la
medusa e l'etiopica, per ritornarsene in Serifo a impietrar Polidette e in
Larisa a uccidere per equivoco Acrisio, stabilendo poi in Tirinto il suo regno,
che Argo gli era divenuta infesta. Ma effetto dell'esser stata raccolta in
sintesi la serie delle gesta eroiche di Perseo non fu solo di fargli attribuire
per arma contro Fineo il capo della Gorgone o di condurre sul trono di Argo
Andromeda regina; ma fu, pi tosto e meglio, di sottraiTe all' episodio del
ketos ogni vita autonoma : valse esso qual momento d'una complessiva azione ed
ebbe valore di conseguenza da un lato, di premessa da l'altro. Parte d'un
tutto, doveva dal tutto ricever sua norma e sua importanza: fin che al meno non
ne fosse mutato il sostanziai contenuto; e l'essenza sua romanzesca, gradita a'
novellatori, tanto pi quanto pi di fatti si 'arricchiva la trama, di
particolari le vicende, di gesti le figure, non si trasformasse in essenza
diversa. Nel molto che and perduto eran certo forme varie di cotesta indispensabile
trasformazione. Una ne ravvisiamo tuttavia appresso gli storici del secolo
quinto . Per essi la favola di Perseo e Andromeda acquista una importanza nuova
di reliquia fededegna serbata a traverso gli anni. La cagione un avvicinamento verbale : uno de' consueti
di cui si compiacque la fantasia degli anticM nel conato e nella pretesa di
farsi pensiero critico : fra Perseo e i Persiani. L' analogia non etimologica
ma fonica indusse a ritener quello capostipite di questi: non direttamente per,
si bene per mezzo d'un figlio suo di cui fu coniato il nome " Perse per pi di verisimiglianza. A dar poi un
aspetto anche meglio credibile alla congettm^a fu addotto il nome d'impronta
ria di cui doveva esser memoria fra i Persiani, " Arti : questo
ritenendosi epiteto primitivo ; quello, posteriore, tolto dall'eroe e dalla sua
discendenza. Naturalmente si lasci, a tal fine, sbiadire fino alla scomparsa il
ricordo degli Etiopi, sudditi di Cefeo nella pi antica saga: per che essi si
riconoscessero, in quell'epoca, or mai identici a reali " Etiopi , situati
al sud dell' Egitto. In luogo loro si coniarono i " Cefni desumendoli, come traspare, dall'appellativo
medesimo del re. E si pens che a Cefeo succedesse nel regno il nipote Perse,
figlio di Andromeda e Perseo ; che Perse, guidando i Cefeni, li conducesse a
sottometter gli Artei ; e il popolo fuso dei vincitori e vinti da lui si
denominasse Persiano. La garbata ricostruzione critica non fini in questo :
perch, difatti, i Cefeni con Perse sarebbero mossi a sottoporsi gli Artei? La
risposta si trov combinando questa congettm:"a con un'altra. Oltre ai
Caldi semiti che avevan sede intorno a Babilonia, eran noti altri Caldei
abitanti lungo il Ponto, presso i Mariandini e i Paflgoni; e il gruppo esiguo
di questi si riteneva un ramo da quelli staccatosi in et antichissime. Poich
inoltre sul Ponto la leggenda delle Arpie affermava abitar Fineo fratello di
Cefeo e principe per tanto dei Cefeni; fu facile dire che i Cefeni avevano
abbandonato la regione loro, allor quando da Babilonia i Caldei eran mossi
verso il nord. E costrurre quindi in un sol tutto la trasmigrazione totale
cosi: da Babilonia si diparte una schiera di Caldei ad occupare la terra
settentrionale dei Cefeni e scaccia questi ; che si spingono verso gli Allei,
li sottomettono e insieme divengono il popolo de' Persiani. Se non che questa
mitopeja di eruditi pur riuscendo a staccar l'episodio di Andromeda in singoiar
guisa dalla leggenda di Perseo, infondendogli una essenza nuova dissonante dal
resto della fiaba, finiva per in una soppressione dell'avventura. La venuta di
Perseo fra i Cefeni, la lotta col ketos, le nozze con Andromeda, il duello con
Fineo, sono un niente a petto della conseguenza precipua su cui ogni altro
fatto s'impernia : la nascita di Perse. Le premesse non hanno pi vita
artistica; le conseguenze, ne hanno una storica. Una pseudo realt nasce; ma la
bellezza muore. Per tanto, se le gravi lacune del nostro patrimonio letterario
troppo non ci traggono in inganno, l'episodio di Andromeda, che nacque dal
combinarsi di esigui intrecci leggendarii emergenti a lor volta su da rigide
abitudini mentali e in mezzo a consueti aspetti della fantasia mitopeica, non
solo perde presto la sua autonomia col commettersi ad altre vicende, ma indugi
a svincolarsi da F impaccio, e a circoscriversi in forma e colore : a bastanza,
perch il senso critico lo adulterasse e, un poco, lo vituperasse. n. Euripide.
Fu sorte della tragedia dare a esso episodio di Andromeda il contenuto nuovo :
che non fu n romanzesco n storico ; ma psicologico. Di altri non ci rimase
sufficiente notizia. Di Euripide possediamo i frammenti bastevoli a ricostruire
il drama, se non ne' suoi particolari di arte e nelle sue forme di tecnica
teatrale, certo nelle sue linee maestre . Era consuetudine ferrea che la
tragedia nei suoi episodii svolgesse un mito. Ma in quale modo i tragedi
pervenissero all' elezione del tema e alla scelta dell'argomento non possibile dire, per la oscurit
imperscrutabile de' processi artistici tal volta inconsci, e per la penui'ia I
frammenti, naturalmente, son citati e tradotti su Nauck Fragmenta tragicorum
graecorum^ (Lipsia 1889). delle notizie tradizionali. Sol tanto si pu con
qualche chiarezza intendere come il problema di arte si presentasse al poeta
allor quando si accinse a elaborare la fiaba di Perseo e Andromeda ; come, in
somma, lo spirito di lui prendesse possesso, nell'impeto creatore, della
materia leggendaria. Nel mito del ketos si trovavano fusi, come ai)pare dal
testo di Ferecide, due elementi distinti : e l'uno era il divino, palese nel
potere singolare della Gorgone e nel volo miracoloso traverso l'aria, segni
d'una forza mossa da l'alto per consenso di Dei ; e l'altro era l'umano,
sensibile nell'amore dell'eroe con la fanciulla, nel corruccio di Fineo, nel
vanto di Cassieijea, nel patto nuziale di Cefeo. Entrambi cotesti elementi
trovano la loro unit in un terzo, che , in somma, del mito il carattere eroico
e la forma romanzesca. Euripide adunque ebbe, dinanzi al suo pensiero, l'umano,
il divino, l'eroico. Di questi, uno suscitava spontaneamente il suo pi vivo
interesse. Non solo difatti egli staccava nella tragedia l'episodio mitico
dalla serie narrativa sua I)ropria; ma lo indirizzava al fine, eh' di tutta la dramatica greca, di appassionare
non la fantasia bens il sentimento degli sf)ettatori; e lo sottoponeva
all'esigenza di \brare per pregio e forza intrinseci non per smaglianza
esteriore di tinte. Le menti in cui il mito ora si accoglie, come sono ben
lontane da quelle che l'hanno creato dinanzi la natura e complicato in novella,
cosi son anche pi mature dell'altre che ne han goduto, con puerile compiacenza,
lo straordinario e l'impossibile. Per certo le pi antiche e le moderne cerca
van tutte nella saga una verit ; ma la verit naturalistica e la verit eroica
non appagavano ora quei cittadini di Atene che vi desideravano una verit
psichica. Ora, con si fatto spostarsi dell'interesse mitologico, il colorito
romanzesco che un tempo riusciva opportuna o indispensabile commessione fra i
due diversi elementi della fiaba, sopravviveva adesso, insieme col divino,
quale materia in apparenza superflua. In qual maniera difatti allivellare sopra
un piano medesimo una gesta miracolosa, un affetto terreno, un intervento di
Dei? E ovvio per che il poeta non vide, come qui criticamente si espone, il suo
problema; ma che lo intui da artista. A punto per questo egli non ebbe un modo
costante di risolverlo in tutte le sue opere; ma il genio gli soccorse, or
peggio or meglio, di volta in volta, e a seconda dei casi in guise diverse.
Poich ci sono rimaste nella loro integrit V Elettra ch' del 413 e V Elena ch'
di quel medesimo 412 da cui V Andromeda si data, intrawediamo a bastanza la
vita dello spirito euripideo nel torno di tempo in cui la sua arte tentava il
nodo mitico di Perseo. Il nucleo primo cosi dell'una come dell'altra
tragedia un contrasto di passioni.
Elettra ed Oreste che, contro ogni vincolo di stirpe, per L'analisi, che segue,
del pensiero religioso e sociale d'Euripide intorno al 412 fatta di sul testo (edizione Murray Oxford s.
a.) di&WEletta e AqW Elettra ed emana da quello. Di pi cfr. Vili. vendicare il padre uccidono la madre ;
clie odiano fino a darle la morte la donna da cui nacquero, ma le sono tuttavia
carnalmente congiunti, cosi che col sangue di lei scorre nelle lor vene una
indicibile virt di amore e rispetto : protendono da la scena una dolorante
maschera umana ; fraterna con la grande pallida faccia intenta dagli scanni del
teatro. E quando Menelao reduce da Troja naufraga su le spiagge d'Egitto recando
con s la riconquistata Elena ; e vi s'imbatte nell'Elena vera, quella che gli
Dei recarono celatamente in Egitto, mentre un vuoto simulacro fuggiva con
Paride e presedeva alla decennale guerra; e la gioja irrompente per la
ritrovata sposa s'urta nello spirito del principe con lo sconforto per i
travagli sopportati in vano e la vita gittata in vano da centina] a di prodi :
allora con la sua s'agita la sorte di tutte le creature terrene, cui piacere e
sofferenza giungono inseparabili per tramutarsi a vicenda l'uno nell'altra. E
in queste situazioni palese l'immergersi dell'artista nella sostanza dei
personaggi, nella correntia delle vicende, con un oblio completo di tutto
l'estraneo : stolto cercarvi un sistema filosofico applicato, co' suoi postulati
generali, ai casi particolari. Qui l'uomo
espresso, dal profondo, con la freschezza d'una polla cui s'apra nel
terreno la via. Ma di qui non possibile
indurre riferimenti con l'ambiente storico del poeta o, peggio, conseguenze
intorno allo stato psichico di lui in quegli anni; ma solo intorno al consueto
modo della sua forza d'arte. L'animo di Euripide si rivela pi in l. In quello
anzitutto che dalla tradizione egli accett. ANDROMEDA Giacch nei miti di
Clitemestra uccisa e di Elena in Egitto erano affermati fatti ch'egli non
poteva respingeren poteva non alterare. Tali l'oracolo delfico di Apollo, che
avrebbe imposto a Oreste di compiere l'esecrando delitto ; e l'ordine di Zeus,
che Ermes recasse di nascosto Elena in Egitto e un simulacro inviasse a Troja,
permettendo sperpero immane di energie e valore. Cotali interventi divini eran
la premessa indispensabile dell'azione ; divennero per Euripide radice di nuova
tragicit : per che, tanto pi gli parve orribile il delitto di Elettra, in
quanto era ineluttabile ; e in quanto voluto dal Dio sommo, tanto pi spaventoso
il vacuo scempio di vite intorno ad Ilio. Sotto questo aspetto adunque le parti
divine della tragedia si connettono per lui strettamente con il travaglio umano
; ma costituiscono una forza cieca e buja contro cui bisogna urtare : simile al
peso corporeo che non s'evita con gli slanci dello spirito, all'aderenza col
suolo che non si sopprime con i trovati dell'ingegno. Onde il poeta accett
l'oracolo di Apollo ; ma chiese ' come pot il Dio saggio ordinar cose non savie
? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri, "Febo Febo... taccio: certo
egli saggio; ma vaticin cose non
saggio : o sia non rispose. E anche si
domandava, e fece suo interprete il Coro, " perch o Dioscuri, essendo Dei
e fratelli di questa ch' morta Clitemestra, non distornaste la sciagura dalla
casa ? ; per farsi Elett. vv. 1245-6.
rispondere con una parola ch' poco o molto, vdyxr] " Necessit . E chiaro : il suo spirito s' formato un concetto alto della divinit :
giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non pu concepire derivi il delitto
; n la stoltizia, n alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e quel
concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato gli
manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non
decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col
prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza. Del iDari, se non
forse in guisa pi a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha voluto
il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di Era le
toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo che
nella realt si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclmeno,
successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per
Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne,
migliori che gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono secondo
purezza di virt : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp ' come pot
il Dio saggio ordinar cose non savie ? ' ; rispose, per bocca dei Dioscuri,
"Febo Febo... taccio: certo egli saggio;
ma vaticin cose non saggio : o sia non
rispose. E anche si domandava, e fece suo interprete il Coro, " perch o
Dioscuri, essendo Dei e fratelli di questa ch' morta Clitemestra, non
distornaste la sciagura dalla casa ? ;
per farsi Elett. rispondere con una parola ch' poco o molto, vdyxr] "
Necessit . E chiaro : il suo spirito
s' formato un concetto alto della
divinit : giusta, la pensa, e misericordiosa; da essa non pu concepire derivi
il delitto ; n la stoltizia, n alcuna forma di male ; ma sol tanto il bene : e
quel concetto urta contro le affermazioni del mito, contro l'eco che il passato
gli manda. Urta; non supera. Il poeta, in quanto poeta, resta perplesso ; non
decide, ma porge intatta la questione al pubblico, dopo averla agitata col
prestigio dell'arte, e posta con lucidezza di intelligenza. Del iDari, se non
forse in guisa pi a^Dcrta, si comporta nelVElena. Un capriccio di Afrodite ha
voluto il ratto della bellissima per opera di Paride ; l'ambizione rivale di
Era le toglie di conseguir il fine, e a Paride concede una parvenza di quel corpo
che nella realt si cela appresso Proteo in Egitto. Non basta : la contesa delle
feminette continua ; e mentre la dea amante vuol Elena sposa di Teoclmeno,
successo a Proteo nel trono, la moglie di Zeus la vuol salva e casta per
Menelao : indi volgare bisticcio. Su la terra fra tanto, uomini e donne,
migliori che gli " abitatori delle case olimpie,,, procedono secondo
purezza di virt : Elena si mantiene fedele al marito lontano e sopp orta
paziente l'ignominia che cade sopra lei incolpevole, confusa con il simulacro ;
Teonoe, sorella di Teoclimeno, ajuta lei nel proposito, non il fratello Elett.
vv. 1298-1301. ne' suoi tentativi di coniugio ; Menelao onesto, cortese e affettuoso. Che dunque ?
Cotesti iddii sarebbero d'assai pi piccini, nell'animo, che i terreni ?
risibili ? Eui'ipide non dice. Anche qui il problema si formula ; ma nulla lo
risolve ; nessun raggio fende il cumulo nero nel cielo. Osserva il Coro :
" Chi dio, chi non dio, chi
semidio? qual fra i mortali, anche spingendo molto lontano la sua ricerca, dir
di saperlo? quale, dopo aver visto l'opere divine or qua or l balzare con
contradittorie e inaspettate vicende?,,. Nessuno risponde. Questo silenzio una tragedia a s. Non si svolge materialmente
su la scena, accanto i personaggi s moventi, ma
nello spirito del poeta, ed a noi
non meno fraterna. Ben sua, la seconda tragedia, pi che la prima. Non di
compassione, di simpatia geniale verso la sofferenza d'un'Elettra o d'un
Menelao ; ma di spasimo e strazio interiore. E la tragedia del dubbio. La quale
nasce ad Euripide nel seno medesimo della sua arte, lungi a ogni filosofa. Il
suo pensiero di critico e filosofo, nel fatto, ha superato or mai la concezione
omerica e infantile degli Dei, non vi crede ; l'ha sostituita con una pi
matura. Ma, poeta, vi deve credere per rivivere il suo mito, che rivivere gli
bisogna per crear il drama. Poeta, sente l'urto fra le due idee; se ne tormenta
: ripete a chi l'ode la favola bella degli antichi, fa trasparire a chi
l'intende la sua filo Elena tv. 1136 sgg. sofia ; questa e quella compone,
senz'accordo logico, entro il suo affanno. Ma oltre agl'interventi divini, che
la tradizione postulava nel mito, ed Euripide accetta travagliandosene ; sono
neW Elettra e, di pi anche hqW Eena^ giunte che il poeta solo volle e in cui
espresse il pili personale tra' suoi aneliti ; intrusioni sgorgate da un animo
che, non pure assorbe in s per rielaborarla la saga, ma nella saga si profonda
e si abbandona, anche con quelle forze e ricchezze che le sarebbero estranee.
Tale s'origin nel drama di Clitemestra la figura del contadino, povero e rozzo,
ma pur squisito di sentimenti e schietto di azioni : VaixovQyc,, a cui Elettra
sarebbe stata costretta in sposa dalla madre, la qual ne temeva i figli se nati
da nobile genitore. Egli, come apprese la condizione della fanciulla che gli
veniva destinata e gli scopi della regina, fece rinunzia a' suoi diritti
coniugali, pur continuando ad ospitare nell'umile sua capanna la donna e
fngendo, per eluder la maligna, nozze felici. A lui, quando aijpare su la scena
verso l'alba e l'ultime ombre son vinte da le prime luci, fanno sfondo i campi
arati e le file degli alberi e i freschi pozzi : la Terra, la grande
generatrice di frutti buoni e di forze sane. Dopo, ogni suo gesto virile e sobrio, contenuto e cordiale ; il
suo spirito si rivela semplice perch diritto : e mentre Elettra ed Oreste si
laniano di x^assioni, di odii, di paure, egli va crescendo in valore fino a
superarli nella sua persona salda e nel suo fermo polso. N basta. Il poeta,
sottolineando s stesso, richiama gli sguardi su la sua creatura : e ad Oreste
fa A. Feekabino, Kalypso. 5 esclamare con maraviglia un poco attonita:
"Ahim! Non v' criterio alcuno a distinguere la nobilt : v' scompiglio
nella natura degli uomini. Ecco io vidi esser da nulla il figlio di padre
generoso; e rampolli onesti di genitori perversi ; la penuria nello spirito
d'un ricco ; la magnanimit in un corpo povero. C'ome orientarsi ? secondo il
danaro ? mal fido criterio questo sarebbe : secondo la povert ? ma la miseria una malattia, cattivo maestro il bisogno : secondo l'esercizio dell'armi ?
ma cM risguardando a la lancia giudicherebbe qual sia il virtuoso ? Meglio
sembra lasciare indecisi codesti problemi. Costui per esempio grande non fra gli Argivi [VadTOVQyg], non insigne per
rinomata schiatta : uno dei molti : e
pure si rivela ottimo . Ottimo si che la sua onesta figura divien quasi di
maniera e par disegnata per dimostrar una tesi o attingere uno scopo. Quale
tesi o quale scopo si propose Euripide nel concepirla e nello stagliarla? Non
meno larga che neV Elettra nelV Elena la
novit introdotta. E anzitutto nella scelta medesima della favola : un mito
secondario che risale a Stesicoro (2) e che, a lato della principal leggenda di
Menelao e Paride a Troja, sembrava destinato a viversi gramo nell'oblio. Il
tragico lo preferi per motivi ch' vano indagare; che forse si assommano nel
desiderio di met Elett. vv. 367 sgg. (2) Cfr. Bethe Helene in Pauly-Wissowa
" R. Encyclopdie, VII (1912) pag. 2833. terne in risalto il singoiar
contenuto. La donna bellissima che, secondo la tradizione diffusa, sarebbe
stata causa unica di ire e guerre per un decennio, di sventure ed errori per
altri dieci anni di poi ; la donna su cui pittarono tutti gli strali
dell'ironia del sarcasmo e fin dell'odio i poeti misogini ; di colpo trasformata nella pi pura e casta
moglie che fiaba conosca. Ella ha giurato a Menelao di " morire ma non mai
violare il letto ; n ha giurato in vano,
che di morire sul punto, e attiene la
parola, ed beata di cadere, dice al
marito, " vicino a te (2). E a lei
fa degno riscontro (forse troppo) il coniugale amore di Menelao ; che le
afferma " Privo di te, io finir la vita
(3). Onde sol pi li preoccupa di scomparir degnamente cosi " da
acquistare gloria (4). Ora tanta fedelt
di affetti traverso anni e vicende acquista il suo pi vero significato quando
venga contrapposta all'adulterio di Clitemestra verso Agamemnone, di cui era
intessuta l' Elettra. Fra questa difatti e V Elena le attinenze sono indubbie,
non pure cronologicamente, ma anche, e si direbbe pi, spiritualmente : su la
fine difatti di quella prima viene annunziato e svolto in breve il tema della
seconda (5). E le attinenze divengono palesi quando le due cognate si
paragonino fra loro e le due sorti. Clitemestra non presso Euripide se non la malvagia donna :
tale la condanna Elettra che le rinfaccia il lusso e i Elena v. 836. (2) Ih. v.
837. (3) Ih. v. 840. (4) Ib. V. 841. (5) Elett. v. 1278 sgg. vezzi durante
l'assenza del re. Si difende ella bens rimproverando ad Agamemnone l'uccisione
di Ifigenia ; in vano : " la moglie bisogna che, s' savia, tutto consenta
al marito ; non giustoj per una figlia, ammazzar lo sposo,
uomo insigne nell'Eliade (2). No, osserva sdegnata Elettra, tu nascesti cattiva
(3) : " tu, prima che fosse decisa l'uccisione della tua figlia, lontano
appena da le sue case il marito, intrecciavi allo sj^ecchio le bionde trecce
della tua chioma (4) : e " la donna
che, assente il marito, adorna la sua bellezza, si cancelli come cattiva (5). Appropriato amico di cotesta non buona,
figura Egisto, non prode, non nobile, ma ambizioso della sua grazia corporea e
avventurato sol tanto fra mezzo alle donne. C' dunque nelle due tragedie il
riscontro fra due coppie : riscontro a base morale, ma introdotto dall'arbitrio
dell'artista in miti privi d'ogni cosi fatta preoccupazione. E perch
introdotto? perch l'arbitrio? Alla domanda che per la seconda volta in breve
esame ci si presenta non si deve rispondere se non dopo aver rilevato un altro
particolare. Il Nunzio, veduto vanii*e in fumo il simulacro d'Elena e ridursi
in nulla sforzi durissimi e sacrifzii immensi, si accende di sdegno contro
gl'indovini che, prendendo parte all'impresa, non scorsero la verit, non
svelarono il comune abbaglio, n evitarono vittime inutili. Dice al suo Signore
: " Vedi quanto l' opere Elett. V. 1052. (2) Ih. vv. 1066 sgg. (3) ib. v.
1061. (4) Ib. vv. 1069-71. (5) Ib. vv. 1072-3. degli auguri sono stolte e
menzognere!... Calcante non disse n rivel all'esercito vedendo gli amici morire
per una nuvola ; e n pure Eleno : e la citt fu predata in vano. Dirai forse,
che un Dio non volle. E perch allora ci rivolgiamo agli auguri ? agli Dei basta
far sacrifizio invocando fortuna ; e non badar ai vaticinii : furono inventati
ad allettamnto della vita, ma nessun ozioso divenne ricco per gl'ignispicii. Il
senno e il buon consiglio sono l'augure migliore . Per contro
nella tragedia personaggio, non pur dramaticamente notevole, ma anche
moralmente insigne, Teonoe sorella di Teoclimeno, la quale dagli Dei possiede
la virt di saper tutte quante cose avvengono ;
quindi invasa da una potenza profetica analoga alla magia d'un Calcante
o d'un Eleno. Ma ella buona, ella giusta, ella
savia : sa, ove occorra, tacere al fratello gli avvenimenti pi vicini
affinch trionfi la fede amorosa di Elena e Menelao. Perch aver creato questo
contrasto ? Che non fittizio n casuale :
Euripide parla cosi per bocca del Nunzio come per bocca de' Dioscuri lodanti
Teonoe : esprime in entrambi i casi il suo pi soggettivo pensiero. In questo
suo pensiero sta di fatti la ragione e dell'esser stato concepito VadxovQyg, e
della purezza di Elena, e del dissidio tra le due forme di vaticinio. Il
poeta percosso da un'unica ansia, di cui
quelle son le forme momentanee ; morso
Elena vv. 744 da convinzioni contradittorie, di cui quelli sono gl'indizii
occasionali. Egli appare un moralista. Ecco i personaggi per cui parteggia con
simpatia : una moglie onesta, un marito fedele, un'indovina equa ; la figura
che crea con compiacenza paterna : un lavoratore dignitoso e saggio ; gli
esseri che avversa acre e violento : un bellimbusto galante, una feminetta
vana, un augm'e stolto. Da un lato coloro che rientrano nel suo concetto del
bene e del giusto ; dall'altro quelli che appartengono al suo concetto del male
e dell'iniquo. Ed dicevole : nessuno pu
disconvenire sul principio che regola la sua morale ; solo la espressione pu
venirne discussa. Ma quando gli si scruta pi dentro nell'animo ci s'accorge che
quel bene e quel giusto egli vuole a pr dello Stato, che VavtovQyg egli reputa
degno e capace di governare la pubblica cosa, che di mariti e di mogli simili
ad Elcna e Menelao gli piace constituita la polis a scopo di fermezza e quiete
politica. Ci s'accorge che il suo occhio mira pi in l d'una teoria morale:
mira, fiso e intento, ad Atene, alla patria. Mentre scrive, navi e uomini
ateniesi sono in pericolo in Sicilia : pericolo grave che si tramuter di K a
poco in disastro immane. I Dioscuri si affrettano a conchiuder V Elettra perch
debbon " salvare le prore nel mar siciliano . Il Peloponneso minaccia dal
Sud. Negli altri territori! la sorte non volge migliore. E all'interno ? E
peggio. La democrazia non d buoni frutti dopo la morte di Pericle. Il partito
de' temperati si alterna nel potere con quello degli estremi : ed tale la EURIPIDE 71 sfortuna di Atene che gli
uni non attingono il governo se non quando le disfatte han dimostrato
rinettitudine degli altri, e non son per per lasciarlo fin che disastri non li
colpiscano a lor volta. Ogni mutamento
una esperienza; ed ogni esperienza, fruttifera di tosco . Sopra tutti,
male comune nell'inettitudine comune, si stende la piovra della cupidigia, la
sete del guadagno a ogni costo e in ogni modo. Corrono massime cui ciascuno
informa l'opere se non le parole : ' beato chi
ricco ', ' la ricchezza potenza
', ' il ricco libero, anche se schiavo ;
il povero servo, anche se cittadino';
'l'uomo il danaro '. E la sete inesausta
travolge ognuno in una lotta, ove il pregio morale non conta, la forza
intellettiva non importa pi che il tesoro cumulato ; forse meno. Aspra e
grovigliata situazione adunque ; difficile a risolversi. Che per risolverla
bisognava superarla ; piegar la realt possedendola sino al fondo, conoscendola
in ogni forma ed esigenza. E difatti voci di riforma e tentativi d'un
rivolgimento costituzionale serpeggiavano e fermentavano all'oscuro : si
preparava la rivoluzione dei Quattrocento. Il lievito che era in tutta la
materia sociale tocc Euripide ; il suo spirito ne fu macerato e sconvolto : per
che contro l'immediata e ineluttabile realt dello Stato, ineriva il suo ideale
con i pallidi sogni. Egli non Cfr. su questi anni Beloch Attische Politik
(Leipzig 1884). Naturalmente il rapido quadro che se ne d qui veduto con gli occhi di Euripide. segui n
l'uno n l'altro dei partiti. Fu in vece con la classe di mezzo. Ebbe il cuore
con gli adxovgyoi della sua fantasia, con l'Elene e i Menelai del suo mito.
Trasfuse l'esigenza politica, che il suo genio d'artista non poteva n doveva
sodisfare, in esigenza morale: spostando i problemi dalla sfera pratica a
quella etica. E divenne malinconico di speranze deluse e rinascenti. A canto
alla tragedia religiosa sussistette nel suo spirito quest'altra: di patriota,
di statista, che a bastanza acuto per
vedere i problemi, troppo poeta per saperli risolvere.Tragedia flebile, nella
quale confluiscono, opportunamente, tutte quante le quistioni minori della vita
sociale e familiare ; le contese minute su questa legge o quel decreto : le
spine sparse lungo i sentieri del grande roveto. Tale l'invettiva contro gli
auguri, secondaria piaga dello Stato ateniese e di tutte le poleis greche, che
repugnava, ancor \)\\x che al suo intelletto di filosofo evoluto, alla sua
coscienza di cittadino probo ; e il riscontro di Teonoe in cui il vero dono
divino si rivela appunto pel modo del suo uso e la bont delle sue conseguenze.
" Attuale corruccio ancor questo:
che favore di auguri aveva secondato l'infausta spedizione siciliana. Cosi
tutta Atene pu entrare, ed entra, nell'animo del poeta per tal via: melanconico
spiraglio alla pi intensa vita. Mirabile di intuito psicologico nell'elaborar
la materia umana del mito ; pensoso su' dubbii della Tucidide VII 50; Vili
1.religione e della filosofia ; preoccupato dalle sorti politiclie e dalle
condizioni sociali della sua patria Atene : Euripide crea i drami fra l'urto di
due interiori tragedie. Crea, dopo V Elettra e con VElena^ V Andromeda. Il suo
spirito si fece largo, sbito, di fra i particolari minori e grinciampanti
aneddoti della saga ; e colse di questa il profondo cuore. Nel pensiero di chi
imagin la lotta di Perseo col ketos la tragedia era nel combattimento delle due
potenze avverse ; l'ansia, nell'esito incerto. Nel pensiero di cii raccolse,
ordinando, tutta la leggenda dell'eroe argivo e ne divenne mitografo, la
bellezza era constituita dal numero e dall'intreccio delle gesta. Nel pensiero,
ora, del poeta di Atene, il pregio consistette nell'amore di Perseo e di
Andromeda : il congiungersi dei due giovini fu ritmo fondamentale all'opera in
cui novellamente l'antico mito viveva. Ogni altro elemento si dispose intorno a
questo : dal quale ebbero tutti l'armonia di composizione. Era il primo flusso
del nuovo sangue infuso nella vecchia compagine: fu vigoroso ancor pili che non
sembri. Come dichiarano i frammenti, a l'inizio della tragedia appariva la
fanciulla sospesa a una rupe, in abiti di cerimonia festiva, mestissima e
piangente. I lamenti di lei Eco ripete da lungi; non lontano il mare onde la belva vorace verr al
selvaggio convito ; sono li presso, in Coro, fanciulle etiopi, le eguali di
Andromeda, che tentano vani conforti a la tremenda sciagm-a. E notte. All'alba
il ketos deve sopravvenire. E nell'animo degli astanti la deprecazione del male
imminente lotta con la tormentosa ansia pel greve indugio : l'attesa gravita su
i capi come un mostro informe. " sacra notte, qual lungo cammino con i
cavalli percorri, reggendo il tuo cocchio su gli stellanti dorsi del divino
etra, traverso il santissimo Olim^DO ! :
tale parla nei silenzii l'aspettazione. E il cuore si ribella contro l'asprezza
del fato e la trista disparit del dolore : " loerch pi larga parte di mali
Andromeda s'ebbe^ che misera presso alla
morte ? (2). Il Coro s'impietosisce e
tenta il conforto dividendo il dolore : " perch chi soffre sente alleviato
il suo male, se del pianto fa parte con altri
(3). La sofferenza che sta nel petto, senza sollievo, con la durezza
della materia minerale, e non prorompe se non per voci d'ira e suoni di sdegno,
non a pena ha inteso il moto compassionevole delle compagne, si discioglie
nella rievocazione lacrimosa di tutta la vicenda : la vanit f eminea e il
puntiglio divino onde la fanciulla fu addotta, incolpevole, alla pena. I
presupj)osti dell'eiDisodio vibrano non di forza narrativa, si di spasimo
lirico : che si assommano nel presente pianto della figlia punita, e di quel
pianto s'impregnano. Ve su la scena, nell'ambiente creatovi dall'arte, un'amara
volutt del dolore stesso onde si soffre, e una insistenza : non sposa a nozze,
e delle nozze avrebbe diritto pel fiore della sua giovinezza, ma vittima a
sacrifizio la fanciulla recata; non fra
i cori delle compagne, si avvinta in funi Fr. 114. (2) Fr. 115. (3) Fr. 119. e
tra il compianto virgineo . Ma a rompere Tuniformit di questo tormento, giunge
a traverso l'aria con l'alato piede Perseo, reduce dal rischio di morte
incontro a Medusa: il capo ne reca in Argo (2). E radioso della sua recente
gloria ; bello della sua giovinezza. Stupisce prima : "" Dei ! a qual
terra di barbari col veloce sandalo siam giunti? (3) Che vedo? Timagine d'una
vergine, come scolpita da mano sapiente tra i rupestri rilievi! (4). Si fa poi sollecito. E richiede
l'avvinta. Ma invano. " Tu taci la
persuade " ma il silenzio
inadeguato interprete del pensiero
(5). Non senza rancuna son le prime parole di quella : " ma tu chi
sei ? ; se non che la forza stessa del
dolore la tradisce e senz'altro, per la veemenza del soffrire, non definisce
audace colui che persiste nel voler sapere, si comx)assionevole : " ma tu
chi sei, c'hai piet del mio male ? (6).
" vergine, ho piet di te che veggo sospesa
(7). Ogni freddezza si dissipa. Quel che d'ostile era ancora nelle
parole della fanciulla si placa. Quel che di vago era nell'animo dell'eroe si
concreta. Fr. 117, 121-122. Convengo col Bethe " Jahrb. des Arch.
Inst. XI (1896) pa^. 252 sgg. che questa
scena, nei particolari esteriori,
rappresentata sul cratere del Beri. Mus. Inv. N. 3237. Lascio indiscussa
la quistione, per, ntorno al coro che il Bethe riconoscerebbe nella figura a
sinistra di Ermes. (2) Fr. 123. (3) Principio del fr. 124. Fr. 125, parafrasi.
(5) Fr. 126. (6) Fr. 127. (7) ibid. Inverto l'ordine dei due versi
ipoteticamente dato dal Nauck. La frase dell'uno accende quella dell'altra ; si
susseguono rincalzandosi per armonizzarsi in un concento unico di vivace
simpatia vicendevole. E alla fine la generosit dell'eroe, la quale si forma
adesso assai pi nell'inconscio secreto del cuore desideroso che nella vigoria
dei muscoli forti e pronti, erompe in promessa : " vergine! s'io ti salvi,
mi sarai grata?,, , Egli si traditela
sua prodezza non vuole compenso per solito ; la gloria gli premio valevole. Ma quel che ora chiede pi che una gloria : il possesso magnifico, Andromeda intende ; se
non che il suo animo troppo ancora
tenuto dall'imminenza mortale per abbandonarsi alla fede: teme d'illudersi : e
lo dice " Non m' esser cagione di pianto, inducendomi speranze! . La
risposta, che nasce da l'immensit del suo soffrire, pu parer dura al generoso
offertore; l'istinto femineo se ne avvede e la spinge a soggiungere : non per
colpa di te " ma molto pu avvenire contro l'aspettazione... (2), La speranza di campar la vita non nata o almeno non del tutto salda; nata la fiducia in Perseo. Ma questi, in nome
del suo passato di vittoria, della sua strenua energia, dell'animo bramoso che
lo incende e gli moltiplica le forze, riesce finalmente a trascinarla con s nel
sogno, a persuaderle certa la liberazione prossima. E Andromeda allora lascia
ch'esca diritto dall'anima il grido di promessa onde dato al giovane, oltre l'avanzante mostro
oltre la minacciata morte, su la rupe triste sul Fr. 129. (2) Fr. 131. mare
vicino, gaudio maraviglioso : " Straniero ! e tu conducimi, come tu vuoi,
sia ancella, sia moglie, sia schiava ! Abbi piet di me che soffro tutto; mi
sciogli dai vincoli! Perseo combatter difatti il ketos sorgente da "
l'Atlantico mare . E gli s'affoller intorno " tutto il popolo dei pastori
: a ristoro della fatica, chi recando una tazza d'edera colma di latte, chi
succo di grappoli . I principi, " in casa, a torno la tavola del banchetto
. Si vuoter il xsiog, la coppa del salvatore (2). Sbito profondo si manifesta,
in questa ch' la fondamental intuizione psicologica della tragedia, il progresso
rispetto al mito ferecideo. In quello Andromeda non pi, nel suo intrinseco valore, che una fronda
di alloro o un raro cammeo offerto da Cefeo al vincitore Perseo. La
fanciulla mezzo nelle loro mani ;
come vittima nelle mani di Cassiepea.
L'anima le sottratta: meglio, l'anima
non le data. Euripide per contro ne fa
il centro della scena : plasmandola d'una sostanza indipendente, la costituisce
di sensazioni affetti empiti ; e, conchiudendola in una persona non comparabile
con altre, la crea fuor dalla materia ove si giaceva informe. Ella gitta
nell'aria lo spirito sofferente; eia natura mesta le si accoglie d'intorno nel
compianto di Eco. Ella contrappone il proprio forsennato desiderio di vivere
alla sorte tremenda che la vuol morta ; e ogni volto, dal cielo dalla terra dal
mare, la guarda. E quando il giovine eroe giunge, Frr. 132 e 128. (2) Dai frr.
145-148. la divinit di lui si menoma e si abbassa dinanzi la sventiu'a di lei:
ella chiusa in una corazza dura di dolore,
ed egli supplica. Poi, tutto sembra invertirsi : nel riandar le sue glorie
Perseo si accresce, nel narrar la sua doglia Andromeda si piega in lacrime, e
il giovane venuto per l'aria pare alla fine attrarre sopra di s, ch' per
affrontare il ketos, tutta la luce. Ma
parvenza fallace. La vergine lancia al fervido desiderio del prode il
grido della sua dedizione, e si afferma per tanto di nuovo, vivace, nella sua
libert che dalla passione forma il volere, del volere compone il proprio
decreto. La " Maschia che nel
primitivo antichissimo mito ajutava d'opera e di consiglio Perseo contro la
belva, era pi vigorosa corporalmente; non era cosi forte nell'interiore
spirito. Certo, nella tragedia euripidea, una tanto geniale innovazione doveva
sembrare anche anarchica urtando contro le consuetudini legali e morali della
vita ateniese; e per ci senza dubbio si dovette velare e temiDcrare agli occhi
dei cittadini. E chiaro che Cefeo interveniva in qualche modo, o prima o dopo,
a simulare la sanzione paterna, e a ricomporre nello schema giuridico la mossa
ardita della figlia. E fine si manifestava forse, in questo, l'arte del poeta.
Ma s'ignora. L'intervento, tuttavia, di Cefeo non fu senza effetti. L'amore
della vergine che prima della lotta trionfale era come offuscato di paura e di
speranza egoistica se ben legittima, dopo si vel di malinconia contrastando con
gli affetti filiali. " Conducimi con te
aveva esclamato : dove ? Lontano : in Ai'go, in Serif o. Ma ell'era
unica al vecchio padre canuto : e la dipartita ne diveniva grave, aspra la
lontananza : era svlta ancora (da un eroe, sia pure, non dalla morte) alla
vecchiezza di lui. Accanto al padre, la madre : colpevole, vero, del rischio; madre tuttavia. Nel
doloroso contrasto levasi l'appello al dio che travaglia, a Eros, il quale
dovrebbe soccorrere i mortali che affligge : " Ma tu, tiranno di uomini e
Dei, Eros, o non mostrarci belle le cose belle o ajuta benigno gli amanti che
penano pene di cui tu sei l'artefice ! E, per tal modo facendo, onorando sarai
ai mortali ; non facendo, per lo stesso insegnare l'amore, tu perderai la
grazia di che ti onorano . Calda
invocazione che tanto piacque al pubblico perch nella veemenza dell'amante
incontro al Dio della sua passione traspare il profondo gaudio, onde, pur nel
soffrire, non invoca la salute del morbo, ma un ajuto a tollerarlo. Eros
soccorrer nel fatto : l'amore vince. Era ancor questa una giunta di Euripide al
mito. Ma secondaria: un che di convenzionale la gravava ; non improntandola il
segno del pensiero innovatore, ma parendo scaturir ovvia dalla situazione
medesima. Per ci lo spirito dell'artista, inappagato, volle nutrir d'altro
sangue quel dissidio sorto dalla piet e dall' affetto e dirizzarlo a scopi
diversi, pi profondi o pi larghi. S'innestarono difatti sopra l'analisi
psicologica queir ansia pregna di preoccupazione Fr. 136, leggendo dvjzots al
v. 5. Cfr. VII. politica, quel travaglio
complesso di meditazione sociale, che vedemmo costituire Tuna delle due
tragedie soggettive al poeta e tutta l'opera magnificamente arricchire. Quando
l'ingegno di lui crede di aver esaurito per una via la materia psichica del
dramma, una nuova senza indugio gli s'apre : cessa di toccare la pi schietta ma
generica umanit del suo pubblico, per eccitarne peculiari moti e destarne i
singolari interessi. Parlava all'uomo : parla all'ateniese. E, al solito,
l'idealismo lo tradisce, conducendolo senz'altro alla difesa della giovinezza e
della passione, da lui concette e atteggiate sotto la piti seducente specie: a
Perseo e Andromeda fa esprimere il pensiero eh' egli dilige; a Cefeo e forse a
Cassiepea spetta di combatterlo. Qualunque sia la quistione giuridica o sociale
o politica di cui per far cenno, dalla
sola impostatura dei termini si comprende che Euripide, anche una volta, aspira
a risolvere una difficolt empirica col criterio non dell' utile e del pratico
ma del buono e del bello. La quistione poi non
sola, si consta pi veramente di due. I genitori della vergine s'armano
oltre che dei proprii diritti sentimentali, di sofismi ed argomentazioni. Il
congiungimento degli esseri si trasforma in un contratto economico: nel quale
l'eroe detronizzato, e cresciuto da la piet ospitale, ha troppo palesemente la
peggio di fronte a le ricchezze dell'unica figlia del fastoso re etiopico. Dice
l'un parente : " Oro io voglio sovra tutto avere nelle mie case : anche se
schiavo, onorabile l'uomo ricco ; il
libero, bisognoso, a nulla riesce : l'oro riconosci causa della felicit! . Che importa forza di giovent, ardimento di
cuore ? clie importa la gloria immortale, per cui " gi morto, gi sotto la
terra, sii venerato ancora ? Nulla :
" vano : fin ch'uno viva, l'agio
gli giova (2). N basta obiettargli, con
l'esempio recente, che si pu per ricchezze fiorire, e tuttavia giacersi nella
sventura (3). Risponde, al ricco anche la sventura esser pi lieve che al
povero: gi che quello non soffre se non del presente ; questo " ogni
giorno spaventa il futuro, che non sia dell' attuale il dolore avvenire pi
grande (4). Il dissidio fra la fiducia idealistica
e il materialismo gretto si assomma in una sentenza : " questa delle
ricchezze la maggiore : nobili nozze
contrarre (5). Euripide ha torto ; la
ragion pratica lo deve condannare, se pure lo asseconda il sentimento. Ha torto
tanto pi quanto che egli ha lo sguardo non al singolo caso svolgentesi su la
scena, ma alla plutocrazia d'Atene e alla cupidigia immorale dei suoi
concittadini. Ma se il fine propostosi dal tragico non vien conseguito, un
altro lo , pi dramatico : di far sorgere il dubbio, di irritare la piaga, di
stimolare i cuori. La memoria recente
della sconfitta tcca in Sicilia ; vivo
il lutto de' numerosi uomini perduti ; dalle Latomie di Siracusa gli urli de'
suppliziati giungono ancora in Atene ; ognuno interroga l' imminente destino;
ma le risposte scavano inutili l'aria torbida d'ansie. Su questi spiriti
Euripide lasciando Fr. 142. (2) Fr. 154. Cfr.
VII. (3) Fr. 143. (4) Fr. 135. (5) Fr. 137. A. Ferbabiko, Kalypso. cader
la sua massima morale il suo rigido e teorico principio, se non insegna una
via, disgusta del presente cammino. Nel male generico poi rocchio di lui
scorge, e rileva, un difetto specifico. Nel 451 a. C, quarant'anni circa prima
deVAndromeda^ Pericle aveva proposto e fatto votare un psfisma, secondo cui si
ritenevano illegittimi (vd'Oi) i nati da genitori di cui l'uno fosse non
cittadino. E tale legge era durata in vigore di poi fino ad attirarsi nel 414
gli strali sarcastici di Aristofane. In verit se si pensa agli scambii continui
fra Aliene e gli alleati e gli stranieri, ci s'avvede subito in qual forte numero
gli Ateniesi dovevano veder diseredati i x3roprii figli e decaduti a un grado
inferiore, solo per aver contratto unioni con donne straniere. Pericle stesso
fu colpito a causa di Aspasia da Mileto. N solo il sentimento coniugale e
l'affetto paterno urtava quel decreto incresciosamente; ma tutte le esigenze
politi clie gli eran contrarie. Se n pure la cittadinanza dello sposo poteva
far ateniese, per esempio, una donna nata in citt della Lega marittima, dura e
perigliosa barriera si rincalzava fra gli alleati ed Atene, la quale pur del
loro ajuto di continuo abbisognava, e su la loro fedele assistenza doveva
contare specie durante le guerre infelici. Onde il largo spirito euripideo, il
qual tutto accoglieva che agitasse la societ de' suoi tempi, si giov dell'attributo
etnico che la saga conferiva ad Andromeda per riproporre al suo pubblico il
quesito scabro. Ad Andromeda difatti diceva il padre, o la madre : " Non
voglio che tu n' abbia figli illegittimi ! che, ai legittimi in nulla essendo
inferiori, soffrono per legge: da questo
necessario che ti guardi . L'accortezza artistica di un cosi fatto
mnito pari alla profondit del problema
toccato. Perseo accoglie su di s le simpatie non pur dell'autore si del
pubblico, per la sua generosa attitudine verso la vergine. Ch'egli proprio sia
la eventual vittima della dura legge ; che la ragion giuridica stia con il
cattivo genio della tragedia avverso il buono : trasporta l' uditorio intiero
contro il decreto e gli strappa, non per raziocinio ma per sentimento, il
solenne biasimo. Aristofane muove a riso se un suo cotale perde l'eredit a
causa del psfisma periclo. Eurij^ide indigna se fnge Perseo offeso non nell'
avere ma, dopo un estremo rischio, nel giusto compenso d' amore. All'
architettura passionale la scenica doveva corrispondere per modo che non
s'adombrasse alcuno n dell'anacronismo n dell'irrazionaUt (2), di cui qualche
mediocre spirito potrebbe menare grande scalpore. Anacronismo e irrazionalit
era difatti mostrare Perseo ed Andromeda sotto l'aspetto che so ? di Pericle e
Aspasia : l'arte forse non se ne avvide, certo non li discoperse. Ma restano
essi indizio d'un' alterazione del mito ben pi profonda ed esiziale di quella
operata dalla genialit iDsicologica : ch'era tuttavia un modo di Fr. 141. Cfr. VII. (2) Mi piace qui ricordare l'arguto e
acuto studio di G. Fraccaroli su L'irrazionale nella letteratura (Torino 1903).
rivivere il mito, di serrare e appalesare i tramiti fra la nostra essenza umana
e le favolose vicende. Invece, una volta intrusi fini di riprensione politica e
di biasimo sociale sopra la trama della sa^a, essa ne rimane soffocata e
asservita. Eppure il poeta che, a proposito di Perseo e del ketos, affronta
problemi proprii dello statista, non prosegue se non l'opera del mitologo che,
al medesimo proposito, finse l'amore di Andromeda e il vanto di Cassiepea :
quegli immette nel mito la societ, questi l'uomo ; e tutt'e due sviluppano r
antropomorfismo contenuto nel primissimo germe. Si assiste cosi a una
penetrazione successiva e graduale del fenomeno solare nella sostanza umana. Ma
quanto pi l'assorbimento procede, tanto meno il mito serbasi, qual era, mito di
maraviglia cui si presta la fede non razionale ma fantastica: tanto meglio si
tramuta in paradigma d'una teoria logica, in schema di una tesi politica. In
vero, dopo che Perseo divenuto pretesto
a un problema giuridico, egli per
diventare l'esempio aggraziato d'una fra le possibili soluzioni : segno che gi
l'intelletto si preoccupa d'altro. Cosi la saga si avvince alla vita con nuovi
sottili filamenti, che non valgono per le sue prime rigogliose radici. Mentre
da questo lato la leggenda si profonda verso la terra, per l'altro richiama al
cielo i pensieri. Il religioso spirito di Euripide non manc di agitare, anche
per Andromeda e Perseo e le vicende loro, i dubbii e le incertezze della fede.
Quanto e come, impossibile dire: solo
per barlumi s'intravvede alcunch : " Non vedi come la divinit sconvolge la
sorte ? in un giorno ri EUKIPIDE 85 volge l'un qua l'altro l Quegli era felice
; lui, un dio oscur dell'antico splendore: piega la vita, piega la fortuna con
lo spirar dei vnti , " Non v' mortale che nasca felice, senza che in molto
l'assecondi il Divino (2). E ancora:
" La Giustizia si dice esser figlia di Zeus e seder presso ai falli degli
uomini (3). N manca un moto d'ira contro
la divinit che ha voluto il sacrifizio di Andromeda ; ma espresso in forma accorta e velata : non
avverso a Posidone e alle Nereidi, si a Cefeo che ha ubbidito loro. "
Spietato quegli dice ad Andromeda il Coro " che dopo
averti generata, o afflittissima fra i mortali, ti concesse all'Ade in favor
della patria ! (4). Di questi frammenti
il principale, da cui traggono luce gli altri,
intorno a Dike, la Giustizia : e si compie esso con un suo analogo,
rimastoci della Melanippe incatenata (5). " Pensate voi che le colpe
balzino su con le ali presso gli Dei? e che poi qualcuno vi sia per inscriverle
entro le tavolette di 'Zeus? che Zeus le vegga e ne renda giustizia ai mortali?
L'intiero cielo non basterebbe, se Zeus volesse annotare i peccati degli uomini
; non basterebbe Egli stesso a tutti esaminarli e aggiudicare le pene. Aprite
gli occhi : Dike [non l su: ella] qui basso, vicino a voi,,. Dunque Euripide ha
un concetto di giustizia Fr. 152-3. Nel primo leggo (Aolgav al v. 2. Nel
secondo, Tv al V. 1. (2) Fr. 150. (3) Fr. 151. Leggo f^aQziag, non TifioQlag.
(4) Fr. 120. (5j Fr. 506. a cui non vede rispondere n l'opere n i decreti
divini, a cui gli pare meglio s' addica la condotta degli uomini. Per lui v' disaccordo fra Zeus eDike: questa non pu
seder presso quello. Per lui v' incoerenza fra colpe e pene: queste mal
rispondono a quelle n sempre presso al " fallo dei mortali abita Griustizia. In verit: un re felice tramutato in infelicissimo per l'ambizione di
talune iddie ; un eroe vittorioso non ha la gioja del premio e deve superare
nuovi contrasti; la figlia punita per la
madre. E pure tutto ci vogliono gli Dei dall'alto. Che cos' dio? che cosa non
dio? che cosa semidio? La domanda angosciosa, l'eterna del dubbio tragico, -
ritorna, e accompagna, in tono minore, il concerto delle passioni eroiche e dei
problemi sociali. Ma cotesto non pi
mito. E critica del mito : in quanto esso contiene un ricco elemento religioso.
Critica singolare per : che insieme atto
di negazione e atto di fede. Euripide accetta la leggenda, la narra senza
alterarne il lineamento essenziale. Solo dopo si domanda s'essa riveli un
legittimo procedere della divinit. E la sua risposta ha un sottinteso profondo.
Egli potrebbe difatti negar di credere al racconto per le azioni che vi sono
attribuite agli Dei. Al contrario, perch le sente, dopo averle psicologicamente
vivificate, umane e, come umane, verisimili, se ne fa una base al suo dubbio di
filosofo. E una maniera di sceverar, nella fiaba, la incorruttibile verit, il
dolore l'amore la morte, dalla verit caduca, onde sorgono gli aspetti e le
forme divine. Se non che essa verit caduca non
morta, ha vita in assai spiriti ancora: quindi la ribellione difficile, faticosa; lo svilupparsi da' suoi
impacci un travaglio. E il tentativo di
ripossedere totalmente il mito fallisce; una rocca resta inespugnata. Cosi fu
adunque, dal genio artistico di Euripide investito il problema che la leggenda
eroica di Perseo e Andromeda offriva al suo magistero. Della leggenda la
sostanza umana fu la pi riccamente rielaborata : quella in cui lo spirito
creatore si profond con la sua potenza d'intuito da un lato, con le sue
preoccupazioni di politica da l'altro; quella per cui l'animo si compiacque
della finzione antica, e la godette ricreandola. L'elemento divino fu
contemplato con occhi di esitazione, accettato quasi rassegnatamente. Al di
sopra si conservava intanto la patina eroica, lo splendore delle avventure, la
maest delle figure e dei gesti. Perseo giunge a volo.; reca il capo di Medusa;
trionfa di un mostro orrendo : v' quanto basta perch chi s' appaga dell'
ap]3arenza lo senta d' un' altra specie, immensamente lontano. Non si sa se
nella tragedia avesse luogo, come nel racconto di Ferecide, l'ostilit di Fineo
e il duello fra i due rivali: certo questo fu, se mai, un fatto di pi, non un
sentimento nuovo: rientr insomma nella sfera estrinseca eroica della tragedia.
Ma sostanza umana, elemento divino, vernice romanzesca non trovarono la loro
sintesi se non nell'unit dello spirito euripideo : sintesi che non concordia logica, n armonia estetica ; si
bene vita in angoscioso travaglio ; nel quale l'intuito psicologico e l'affanno
politico e il dubbio religioso si fondono ; pel quale il personaggio di Perseo,
la sorte di Perseo assommano in un solo vivo vertice le divergenti passioni
dell' intera tragedia. Per comprender questa nella sua forma poliedrica, per
ravvisarla una, oltre le superfcie molteplici, bisogna aver ricostruito l'animo
del poeta e essersi immedesimati con lui. Con lui pot identificarsi anche il
popolo d'Atene: una sola volta: quello stesso anno 412 onde nacque e in cui fu
rappresentato il drama. Preoccupato del pari, aveva sotto gli occhi uguali
spettacoli, sentimenti simili ne scaturivano. Agli spettatori come al poeta il
fato travaglioso dell'eroe, audace generoso e mal soccorso dagli Dei,
suscitando il dubbio d'una vera Dike, si tramutava a poco a poco in un'altra
angoscia pi sorda di spavento : chi avrebbe retto e vigilato, da l'alto, le infortunate
vicende della grande Atene ? Questo Perseo che la leggenda pretende argivo,
si quasi fatto cittadino ateniese
dinanzi gl'inconsci risguardanti, da quando un psfsma di Pericle viene opposto
al suo amore; si quasi fatto simbolo
concreto e doloroso di Atene, da quando il suo impulso ideale vien premuto
dalla material cupidigia. L'incerto futuro che lo elude ha la maschera ambigua
dell' avvenire che attende, lontano, la Citt confusa. A lui definisce la sorte
Atena, apparendo a predirgli le nozze con Andromeda, il ritorno in Argo,
l'assunzione in cielo con la sposa e Cefeo e Cassiepea tramutati in
constellazioni. I problemi umani della sua vita sono tronchi da un intervento
divino : non resoluti. Onde pi tragico ricade sugli ascoltanti il timore per le
imminenti sorti della patria; s'accresce il senso vivace del mistero che regola
le fortune terrene. Se non che Tessersi l'umano, il celeste e l'eroico del mito
compaginati negli spiriti di Euripide e del primo suo pubblico, non significa
che si fosser fusi nell'opera d'arte: perch la scissione pu, nello spirito,
comporsi per il dolore medesimo di cui
causa; ma rende, senza dubbio, disarmonica la forma estetica che la
esi^rimeQuindi l'unit momentanea, non
stabile. Le diverse materie della leggenda si serbano disgregate e inorganiche.
E, non potendosi nel tempo, se non per via di critica, riprodurre identico
l'ambiente spirituale del tragedo e dell'et che fu sua, le innovazioni che al
mito ne erano derivate non accolgono simpatie e non trovan cultori. Ond' che il drama nella storia della fiaba
rappresent una pausa senza echi. Dopo Euripide. Si assiste, nell'ulteriore
vicenda del mito, a un lento ma spiccato impoverirsi della sua vita. Fino ad
Euripide, il processo era stato, in vece, di arricchimento; la tendenza verso
una poliedrica complessit: onde naturalismo e novelHstica s'eran da prima
complicati insieme, avevan avuto giunta dal romanzesco, per attingere il sommo
della pienezza nel dramatico travaglio del pensiero religioso e politico, il
vertice dell'altitudine nella fine intuizione psicologica. Dopo Euripide, la
parabola discende sino ai confini d'una pi consueta mediocrit: si che par nel
principio che fuor dalla corteccia non si sviluppi se non il midollo originario
della fiaba, ma si mostra poi ch'esso medesimo
presso che inaridito. Che la saga non ritorna in sua vecchiezza alle
fogge giovanili, acerbe pi che esigue; si bene lo spirito che negli inizii
verso lei convergeva intiero, vie meglio alimentandola nel suo assiduo
allargarsi, se ne distrae ora insensibilmente, e si immerge in altre creazioni.
L'impoverirsi della leggenda di Andromeda
parallelo al formarsi del disinteresse mitico; ed quindi preludio d'un nuovo stadio spirituale,
in cui l'uomo, colmato a pena uno stampo, prende a foggiarsene e riempire un
altro : maggiore. Il lamento ch' solito allo storico del mito si deve ripetere
ancor qui: assai fu perduto che ci avrebbe di molto giovato nello studio di
cosi fatta decadenza mitica. Non son pi che quattro gli autori, in cui ci
ritorni il racconto del ketos; ma per fortuna rappresenta ciascuno una tappa
caratteristica. Apollodoro, raccogliendo nella Biblioteca con l'altre ancor
questa favola, si riconnette a Ferecide : muove ci , non dalle forme eh' essa
aveva assunte nei pi vicini tempi, ma dalla sua origine. N vi aggiunge gran
cosa ; al pi, pio ti) Dal numero escluso
Igino Fav., come quello che contiene varianti di particolari, ma non imprime
d'un propi'io segno la fiaba. coli insignificanti particolari; qua e col, quasi
in margine, ferma la notizia d' una tradizione alcun poco diversa dalla
ferecidea. Chi legga distratto vi bada a pena. Vi s' indugia sol chi abbia
intenti d'investigazione erudita : nel che si appalesa dunque la caratteristica
di questo strato evolutivo. All'autore che la narra la leggenda morta:
cadavere che egli ricompone fra bende, con qualche cautela, a fin che
poco di quelle membra che furono organismo vada disperso. E vi sono ragioni pratiche
per cui, nell'opera, si preferisca modello l'antichissimo compilatore ; presso
il quale gi armonia di contesto e
compiutezza di termini. V', inoltre, una ragione pi alta, intima alla logica
dello sviluppo storico, onde Euripide dev' essere taciuto : la singolare opera
di lui non ha vinto, e la volgata con tutte le sue piccole e grandi
varianti oltre; pi sopra o pi sotto, non
importa ; distinta e prevale. Quindi ben
fa chi compila a lasciar quella in oblio: le compete luogo fra le produzioni
libere dell'arte, non fra le specifiche della mitopeja; gi che la distinzione
deve valere, se mai per alcuno, per il mitografo tardo. Se non che tale aspetto
non fu del solo Apollodoro. Anche di un poeta. Ovidio mosse del pari, se pure
non nell'atto materiale del suo lavoro, certo nella sfera fantastica della sua
mente, da Ferecide : o sia da quelle che in Ferecide erano le fondamentali
intuizioni della saga. Ci sono : lo stupore simpatico verso il romanzesco ; la
ricchezza dei gesti e dei movimenti nei personaggi ; il pathos sobrio dell'
idillio fra i due giovini. Ciascuna di queste intuizioni ripresa e svolta a costituire l'ordito del
racconto; e sol tanto entro i loro limiti il poeta si concede di imitare altre
fonti, sia pure Euripide. Il romanzesco imprenta tutto quanto il compatto
manipolo degli esametri tra la fine del quarto e il principio del quinto libro
nelle Metamorfosi. Sottinteso costante e necessario il miracolo della potenza oltreumana: dal
volo che conduce Perseo fra i Cefeni, alla virt del capo gorgoneo che termina
l'episodio. In apparenza per Ovidio non se ne compiace con la maraviglia
schietta di Ferecide ; si tenta di comprimerlo in termini di umanit. E
fallacia. Certo, il ketos avanzante al feroce convito vien paragonato a nave
rapida: onde n' ridotto il confine mostruoso. E Perseo gli piomba di sopra con
l'empito discendente dell'aquila: non insolito spettacolo. Ed essa belva si
dibatte a simiglianza di cignale fra cani in torma : scena cui abitudine nella vita comune. E lo scoppiar
degli applausi su la spiaggia dopo la vittoria dell'eroe richiama l'eco dei
fragorosi anfiteatri. In realt, queste similitudini umane riescono una pi
sicura esaltazione dello stupefacente: necessarie perch le intuizioni si
concretino, escano dall'indefinito ferecideo, e conseguano una plasticit chiusa
e viva, che non sarebbe senza il riscontro consueto e terreno : utili, di pi,
per creare, di l del riscontro, il contrasto fra lo straordinario e il normale.
Si compie qui, accanto a un magistero d' arte pi evoluto che vede i particolari
e li esprime non li accenna, uno sforzo per accrescere la distanza di cui
separasi la terra dal cielo, la creatura dal semidio. Gli corrisponde il rombo
del verso. A che fine? Per la metamorfosi che conchiude, in due riprese, il
racconto. In quella il romanzesco si dissolve, come in sua foce : il capo di
Medusa che impietra in coralli le verghe del mare e converte lo stuolo dei
congiurati in affoltata marmorea di statue danno una sanzione estrema a
l'inverosimile che precede. Non in egual modo, a dir vero ; che ciascuna di
quelle trasformazioni ha importanza speciale, n pu valere se non congiunta con
la prima o la seconda delle scene in cui il racconto si divide. La prima intorno alla venuta di Perseo, al duello con
la fiera, alla vittoria . Novamente da l'una parte e da l'altra egli si avvince
con le penne i piedi ; della curva spada s arma : e il limpido etra fende
movendo i talari. D'intoi'no e di sotto innumeri genti lasciate, scorge le
schiatte etiopiche e i campi cefi. Ivi l'ingiusto Ammone aveva ingiunto che
l'incolpevole Andromeda della materna lingua scontasse le colpe. Lei come
l'Abantade vide, avvinta le braccia su la dura rupe, se Paura lieve non avesse
agitato i capelli n gh occhi stillato un tepido pianto, opera di marmo
l'avrebbe creduta. Ignaro ne avvampa e stupisce, e rapito all'aspetto
dell'apparsa IV vv. 665-752. Traduco sul testo di H. Magnus (Berlino 1914).
bellezza dimentica quasi d'agitare le penne per l'aria. Si ferma. "0 tu
dice degna non di queste catene, ma di quelle che serran fra loro i cupidi
amanti, il nome a chi '1 chiede rivela della terra e di te, e perch porti
legami . Si tace ella da prima n osa parlare, vergine, a un uomo : delle mani
celerebbesi il volto pudico, se legata non fosse. Gli occhi, e poteva, di
sgorgante pianto colmava. A lui, che insiste pi spesso, svela, perch celar non
sembrasse delitti suoi proprii, il nome della terra e di s, e quanta fosse
stata fiducia della materna bellezza. Ancor non compiuto il racconto, l'onda
risuona : avanzando, la belva a l'immenso mare sovrasta, e molta sotto il petto
acqua soggioga. Stride la vergine. Doloroso il padre, e insieme la madre presente : miseri entrambi, pi giustamente
questa. Non recano ajuto con s, ma, come vuole il momento, pianti e lamenti, e
si serrano al corpo legato. Or cosi l'ospite parla : " Di lacrime molti
giorni vi potranno restare ; a porger salvezza
breve l'ora. Questa s'io vi chiedessi, Perseo nato da Giove e da quella
che rinchiusa Giove f' pregna d'oro fecondo; Perseo vincitor della Gorgone
anguicoma, e per gli spazii etrei agitando le ali volatore ardito, sarei qual
genero a tutti, per certo, anteposto. A tante doti io tento di aggiungere un
benefizio, pur che m'assistan gli Dei. Che, dal mio valore salvata, sia mia, fo
patto,. Accettano (chi avrebbe per vero esitato ?) e pregano, e promettono
inoltre in dote il lor regno, i genitori. Ecco, quale nave veloce solca col
prominente rostro le acque, da sudanti braccia di giovini condotta ; tale la
fiera, spartendo con l'empito del petto le onde, tanto dalla rupe distava,
quanto del cielo interposto possa Balearica fionda col piombo vibrato varcare :
allorquando d'un sbito il giovane, da i piedi respinta la terra, alto si leva
verso le nubi. Come alla sommit dell'acque fu vista l'ombra dell'uomo,
s'infuria contro la vista ombra la belva. E come l'uccel di Giove, vedendo che
nel campo sgombro un serpe al Sole le livide terga concede, da dietro lo
afferra, perch la nefasta bocca non torca, e figge i bramosi artigli nella
cervice squammea; cosi con volo rapido a piombo calando pel vuoto, della fiera
fremente oppresse le terga, nel fianco destro l'Inachide le nascose il ferro,
fin dove ricurvo . Laniata da grave
ferita, ora eretta si aderge nell'aria, ora si asconde nell'acque, ora voltando
si avventa a guisa di fiero cignale cui la turba de' cani latranti d'intorno
spaura. Egli causa con l'ale veloci gli avidi morsi ; adesso le terga
soprasparse di cave conchiglie, adesso dei fianchi i margini, adesso dove la
tenuissima coda si termina in pesce, ovunque si porga indifesa, flagella con la
spada falcata. La belva da le fauci vome i fiotti misti con purpureo sangue. Le
penne asperse s'appesantiron madide : n Perseo osando pi oltre affidarsi a'
zuppi talari, scorse uno scoglio che col supremo vertice l'onde supera
chete, coperto da l'onde agitate. A
quello poggiato, con la sinistra della rupe tenendo i gioghi estremi, tre
quattro volte inferisce la spada nei fianchi colpiti. D'applausi il clamore
riempie la spiaggia e le superne case de' Numi. S'allietano, lo salutano
genero, ausilio della schiatta e salvator io proclamano, Cassope e Per avere
una idea precisa della " spada ricurva, " falcata di Perseo e per comprendere il v. 720 {curvo
tenus hamo) si veda il disegno in Roscher Lexicon d. Gr. ti. R. Mythologie III
2 (Leipzig Cefeo padre. Sciolta da le catene s'avanza la vergine, della fatica
e causa e premio. Egli in acqua attinta purifica le vincitrici mani : e perch
dura non offenda l'arena il capo gorgoneo, f' molle di foglie il terreno,
virgulti distese nati nel mare, e sopra vi pose la testa di Medusa Porcinide.
Il recente virgulto, dal succoso midollo ancor vivo assorb la forza del mostro,
al contatto di questo fu duro, nelle fronde e nei rami assunse rigidezza
inusata. Ma sperimentan le ninfe del pelago il mu-abile fatto in pi verghe e
con gaudio lo vedon ripetersi uguale. Poi che di quelle i semi sparser su
l'acque, ancora ai coralli la stessa natura
rimasta, che dal tocco dell'aria ricevan durezza, e ci ch'era verga nel
mare, sopra il mare sasso diventi. Seguono le scene di festoso tripudio cui
s'abbandonano con Cefeo e Cassiepea i Cefeni tutti. E si termina, col libro
quarto, il primo episodio, per s stante, del mito. Chi lo cerchi pi a fondo,
deve soffermarsi sopra il dialogo fra Perseo e Andromeda, fra Perseo e Cefeo
con Cassiepea. Vibra, ivi, il sentimento attorno cui Ferecide aveva trovato
raccolta la fiaba del ketos. Ma, si direbbe, in sordina. Un che d'ignoto par
che l'attenui come d'un velo. Cosa non senza maraviglia, giustificandosi tutto
il successivo evento appunto dal sorger dell'amore in Perseo e dalla promessa
del padre. Anzi, se l'origine dei coralli
il vertice avventuroso del racconto, questa scena a l'inizio dovrebbe
esser il perno sentimentale o, meglio, umano. Ora in ci a punto la causa del poco rilievo concessole dal
poeta. Il suo senso d'arte l'avverti che questo poteva divenire "iin
elemento disgregatore, una disarmonia nell'opera: e la passione tramut in
accordo nuziale. I due protagonisti impiccioliscono visibilmente: ella s'induce
a rivelare allo straniero il perch di sua xDOsitura " a fin clie non
sembri celare colpe sue proprie , e accusa la madre: egli sciorina dinanzi ai
piangenti genitori, mentre la belva avanza e il terror tragico martella i
cuori, i proprii titoli, quelli per cui si ritiene onorevole genero al re. I pi
generosi appajono, poveretti, quei due vecchi che di tutto cuore danno, con la
figlia, il regno! Si che l'artista fu, in questo argomento, volubile ; n gli
soccorse alcuno di quei fini tratti di psicologia di cui capace in altri casi. I soli accenni pi
appropriati toglie a Euripide: tali lo stupor del veniente Perseo per l'aria, e
il pudore silenzioso della vergine. Ma deliba a pena il calice, e l'ampiezza
numerica della forma cela l'esiguit della intuizione. Il romanzo gli ha, non
pur scemato, ma un poco anche guasto la vita. Dopo che tra grande esultanza si
sono raccolti a banchetto nuziale il re e la regina con la figlia e il genero
nuovo, si fa innanzi Fineo. E l'uomo di Ferecide: il fratello di Cefeo gi
fidanzato con Andromeda ; il quale non ha avuto il coraggio di liberarla col
proprio rischio ; ma tenta ora di riaverla quando il ketos ben morto. Mentre fra mezzo alla schiera
cefena quell' imprese l'eroe danaejo racconta, gli atrii regali riempie Le
precedenti sue avventure : le Graje, Medusa, ecc. una turba fremente ; sorge un
clamore, non di canti alle feste nuziali, ma d'annunzio a feroce contesa. E i
conviti mutati in sibiti tumulti potresti assomigliare a golfo che, quieto,
sollevi in onde commosse la fervida rabbia dei vnti. Primo Fineo tra quelli,
temerario autore della contesa, agitando un'asta di frassino con bronzea punta,
" Ecco dice * ecco, mi avanzo a
vendetta della carpita sposa. N a me te le penne, n sottrarr Giove in falso oro
converso . A lui clie tentava scagliare,
Cefeo opponeva " Che fai ? qual mente ti spinge infuriato al delitto ?
tale grazia si rende a ineriti grandi ? con questa mercede compensi la vita di
lei ch' salvata ? La quale ritolse, se tu cerchi il vero, non Perseo a te, ma
l'aspro nume delle Nereidi, ma il corngero Ammone, ma quella belva del mare che
veniva per farsi satolla delle viscere mie ! Allora rapita ti fu, quand'era a
morire. Se non se, crudele, ci stesso tu brami, che muoja, e t'allieti del
nostro dolore. non basta che nel tuo cospetto ella fu avvinta ? che nullo
soccorso recasti, tu sposo, tu zio ? in oltre, ti duoli che fu da taluno
salvata, e gli carpisci il premio ? Questo se a te grande paresse, da quegli
scogli dov'era affisso l'avresti richiesto. Ora lascia che quegli il qual lo
richiese, pel qual non orba questa
vecchiezza, si porti quanto con opre e parole pattu ; e comprendi come lui
s'antepone non a te, ma a una morte sicui'a . Non cede Fineo a' consigli del
fratello, anzi forse inutile ricordare
che, secondo il mito, Zeus avrebbe generato Perseo (sopra pag. 94) cadendo dal
soffitto in forma di pioggia aurea nel grembo di Danae. comincia il combattere.
E il racconto si distende lungo per circa due centinaja di versi : che la
battaglia seguita ne' suoi particolari
con abbondanza di nomi di persone di gesti. Il tumulto grande . " Le congiurate schiere d'ogni
lato combatton per la causa che impugna inerito e fede. Per questi il vanamente
pio suocero, e con la madre la nuova sposa, son favorevoli, e d'ululato
riempiono gli atrii. Ma prevaleva il suon dell'armi e il gemito dei caduti .
Per poco ancora dura la lotta. " Per quando alla turba soccombere vide il
valore, Perseo : " Poi che mi costringete voi stessi, ausilio richieder al
nemico. Rivolga il viso chi, propizio,
presente : e trasse il capo della
Gorgone. " Cerca un altro, che i tuoi vanti commuovano! esclam Tscelo; ma, mentre con la mano
apprestavasi a scagliare il dardo fatale, in tal gesto rimase statua di marmo,.
All'ultimo prostrato, dopo assai altri
come Tescelo irrigiditi dal mostro meduseo, lo stesso Fineo. E implora : "
Vinci, Perseo : allontana i fieri mostri, togli il capo impietrante della tua
Medusa, qual che si sia. Togli, ti prego. Non odio ci spinse a contesa, n brama
di regno ; per la sposa movemmo le armi ; migliore fu la tua causa per opre,
pel tempo la mia. Non m' grave di cedere. Nulla, fortissimo, fuor che
quest'anima concedi a me! tuo il resto ti sia . A lui, che cosi parlava, n
risguardare ardiva quello cui con la voce pregava, rispose : " Ci che, o
timidissimo Fineo, concederti posso, ed al vile
dono ben grande, lascia il timore. ; la parafrasi dei vv. 150 sgg. ti conceder: da ferro non
sarai violato. Che anzi vo' darti un monumento che duri perenne ; e sempre,
nella casa del suocero nostro, sarai guardato si che la mia sposa da l'imagine
del fidanzato abbia conforto . E lo impietra. Cosi la vasta e agitata folla che
nel principio commoveva la scena si tramuta in un popolo rigido di statue, di
cui ciascuna serba, nella fissit, un gesto di vita. Ed qui a punto il cardine del secondo episodio
mitico: efficace trapasso per il quale la compiacenza ferecidea verso la
riccliezza del movimento e l'ampiezza dell'azione si sublima in motivo di
armoniosa bellezza. Che quasi esclusivamente
merito di Ovidio; come di quello che, sviluppando a s tutta la seconda parte
della leggenda, la equilibr con l'ampUarne, ai due estremi, il combatmento e la
metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inser nella sua materia anche la nobile
fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta pace, e l'ironia
ultima di Perseo non priva di malignit n di un grossolano sale. Se bene gi
questa non era una giunta che compiesse, si pi tosto una intrusione che
alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le vicende della
contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo nella pi
stucchevole prolissit. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si bene
monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine, senza
garbo n acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrit s' intende
quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne un
qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or l,
la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il ritmo.
Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d' esser
profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo. Contrario ci
apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialit psicologica
accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo
nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro il poeta non ha colto il
cuore del mito, n ha, da quello, vissuto il mito. Altrimenti, egK non avrebbe
errato : il suo respiro coinciderebbe con il respiro della fiaba. In vece, essa
gli fu estranea : pagina fredda di volume svolto. Il suo interesse la tent con
approcci successivi, e di ciascuno rimase una traccia: ora piacque l'analisi
psichica, ora la smaglianza dell'avventura, ora l'agitazione bellicosa; in
parte fu possibile imitare Euripide, Omero in parte. Mai per, in alcun punto,
l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore. Sembra che la leggenda uncini
con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito stanco, che reagisce
pigramente se ben non dorma ancora. In realt lo spirito distolto ; vive altrove. Un secolo e mezzo
dopo, il pensiero umano molto lungi. Ha
nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca . Ecco il quattordicesimo
dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e Andromeda si stan celebrando
; il ketos a pena morto. In non si sa
qual recesso del mare Tritone e le Nereidi cambian fra s quattro ciance. un mormorio di donnicciuole con un
rivenditore del mercato. L'uno d le notizie ; l'altre gli si fanno attorno, e
ov' la bellezza dei volti? con moti curiosi: ora questa ora quella alza la voce
; le compagne in tanto ascoltano con stupor muto. Sono ignare de' pi recenti
fatti, e l'amico li ha appresi origliando. L'eco della terra par muovere da una
lontananza. Ma la terra presente .
Tritone e le Nereidi. Tbit. Quel vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro
la figlia di Cefeo, Andromeda, non solo non f' danno alla fanciulla come
credete, ma fu ucciso gi esso medesimo. Ner. Da chi, o Tritone ? forse Cefeo,
esposta come sca la vergine, lo assalse ed uccise, attendendolo in agguato con
molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il
bambino di Danae, che fu cacciato sul mare nell'arca insieme con la madre ad
opera del nonno e che per compassione di loro voi avete salvato. Ifian. So di
chi parli: suppongo che ora sia un giovine e molto prode e bello di aspetto.
Trit. Egli uccise il ketos. If. E perch, o Tritone ? non questo compenso per
vero egli ci doveva. Trit. Vi dir tutto, come avvenne. Egli fu mandato contro
le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ; dopo poi che fu pervenuto in
Libia... If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva compagni? che altrimenti la
via difficile. Testo del Jacobitz
(Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria : Atena lo aveva fornito d'ali. Quando
dunque fu pervenuto l dove dimoravano, esse dormivano, ritengo, ed egli pot
tagliare il capo a Medusa e scapparsene a volo. If. Ma come le guardava ? sono
difatti inguardabili : o pure chi le guardi, non vedr altro dopo di esse. Trit.
Atena col porgli innanzi lo scudo (queste cose udii ch'egli raccontava di poi
ad Andromeda e a Cefeo) Atena dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su
lo scudo risplendente, come sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la
sinistra la chioma, sempre riguardando nell'imagine, recise con la falce nella
destra il capo di lei, e prima che le sorelle si destassero vol via. Come poi
giunse a questa spiaggia d'Etiopia, gi basso su la terra volando scorge
Andromeda esposta sopra una sporgente rupe, infissavi, bellissima, o di !,
sciolta le chiome, seminuda assai sotto i seni : e da prima, compassionando la
sorte di lei, dimandava la causa del supplizio, ma a poco a poco preso da amore
(bisognava pure che uscisse salva la fanciulla) decise di soccorrerla. Fra
tanto il ketos avanzava pauroso come per divorar Andromeda ; e il giovine,
pendendogli di sopra, e brandendo la falce, con una mano lo colpi, con l'altra
gli mostr la Gorgone e lo fece pietra: la belva tosto mori e divenne rigida in
molte membra, quante avevan veduto Medusa : egli sciolse i vincoli della vergine,
e porgendole la mano la sostenne mentre scendeva in punta de' piedi dalla rupe
sdrucciolevole; e ora celebra le nozze nelle case di Cefeo e la condurr in Argo
: cosi che in luogo della morte ella trov un marito, e non comune. Ir. Io gi
dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa di fatti aveva verso noi la figlia se la
madre menava vanto e riteneva d'esser pi bella ? DoB. Ma in tal modo, come
madre, avrebbe sofferto per la figlia sua. If. Non rammentiamo pi tali cose, o
Doride, se una donna barbara ciarl un po' pi del giusto. Basti, a nostra
vendetta, cbe fu spaventata per la figlia. Rallegriamoci dunque delle nozze.
Certo, la terra presente. E nei gesti
che si sottintendono ; e, pi, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte
di Luciano li designa con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a
Tritone le Nereidi. Da principio, annunziata la morte del ketos, suppongono,
com'era pi semplice, un agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : il primo ingresso dello stupefacente. Perseo
s'era recato in Libia. E quelle pensano a una regolare spedizione con compagni,
^' che altrimenti la via difficile .
Ragionan bene; ma, per altro, Perseo volava : nuova maraviglia. Or egli aveva,
prima, ucciso Medusa. " Ma come la guardava?! . L'inverosimile al colmo. Da quel momento Tritone pu
continuar ininterrotto. E continua; ma svela, in un suo breve inciso,
improvvisamente, l'importanza di quelle interrogazioni. Perch Perseo fu "
preso da amore per Andromeda? Risponde:
" bisognava salvar la fanciulla . Tal motivo non vale per l'animo
dell'eroe, che in esso quella non causa
sufficiente e appropriata ; bens smaschera l'artificio del mitologo, e mostra
la passione inventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica
genetica, diremmo oggi. Ed la stessa che
avevan fatta, pi coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali rilevato come stromento mitopeico perch
Perseo potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefciato
ad eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva attribuire
Dunque, deduzione implicita, ci fu una
interessata volont, la qual condusse con varie furberie il giovine in Libia e
contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito
favola che imagin taluno. Passo a passo i colpi son recati, fin che la
leggenda non ha pi una base di fede, si una di scetticismo sorridente e
maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore crescente delle Nereidi dinanzi
all'avventura: per che il pensiero da cui sono animate , non cosi ristretto da
non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da negarlo. E nell'ultime parole la
larghezza si accresce d'un contenuto morale, estrema vetta di cotesta saliente
bellezza d'arte : non era giusto colpir la figlia per Terrore materno ; fu
molto che Cassiepea avesse a temere tanta sventura ; n dovrebbe importare a Dee
la gara in bellezza d'una donna barbara con loro. Son questi, si, ancor gli
attacchi che al mito avrebbe mossi la coscienza etica di Euripide; ma la
tragedia manca, n pu sussistere adesso. La fiaba stata svlta da l'anima, e respinta al di
fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore stesso
dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva
sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni
denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in
cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che
nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica tuttavia indizio di un sopravvissuto
interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue
l'andazzo letterario, e non illumina n pure con la luce della sfera pi alta le
tenebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso
Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo
spunto, donde il raccnto si diparte : le
anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo
imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di
accoglienza fra i Latini . Si che qui si misura, con precisa esattezza, il
regresso dell'efficacia leggendaria. N Luciano n Manilio accennano a Fineo. Se
per ci si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel
drama, non a dirsi. La natura del tema,
in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro n ebbe
attinenze col ketos. Per contro notevole
che non essi, come non Apollodoro n Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E
per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito,
scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen) II 2
pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori
vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa
leggenda, sta adunque una singolare originalit ch' in contrapposto ad un tempo
con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza
psichica, che dell'originalit la causa
diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare,
non lungi a un lago cui oggi il nome di
Pergusa e di Pergo era nella antichit, sopra una larga groppa dei monti Erei
(2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le
pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi,
la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia
Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note
successive si citano i . La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach
Castrogiovanni, das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei,
Trittolemo dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto.
Le donne, cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi
vicini; tutte fin da Panrmo da Drpano da Catana da Camarina da Siracusa da
l'Etna vi lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la
famiglia ed i campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: per elle di l
la Dea, la quale nume ad un tempo del
matrimonio e delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere
l'isolane in casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano
vantava, nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine
antichissima : ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'et vetuste le
case dei numi ed i riti sacri. E l'antichit asseriva riconosciuta da ogni
popolo senza contrasto . Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al
santuario ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto,
che le arcane leggende dei primordii rendevano pi intimo e sentito. N la
memoria secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da
poi che, forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni
che s'ignoravano allora, riesce a dare un pi saldo fondamento alla credenza di
quei Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffcilmente
serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e
mito. CicER. in Verr. IV 106. IL MITO SICULO.
probabile che gli avvenimenti seguissero cosi . Enna, nella sua forte
positura montana, da presumere fosse uno
dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla trib dei Siculi ebbero a cercar
rifugio sul finire dell'et micenea, nel sec. IX avanti l'ra. Le coste, pi
agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori
troppo ben armati perch fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei
violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo
che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'et
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la
vita civile dei Siculi ; tra cui, com' ovvio, prendeva consistenza anche il
pensiero religioso, con la leggenda divina che n', fra gli Arii, foggia
consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio
informati su gli oggetti delle pi vetuste necropoli e su gli stili loro, che
non su la maturit mentale, su gli di, su le fiabe, di questa trib in quell'epoca.
Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare una
caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e
nella Grrecia. L'affinit concede bens volontieri l'analogia; ma questa deve,
sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ci la congettura ancor che
acuta lascia intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che
insieme ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli
dell'istituto familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei
dividendosi recavano seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e
famiglia, vie meglio possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano
per s pi e pi secoli di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro
celata forza e importanza, due poli essenziali nella vita presente. Essenziali
e magnetici tanto, da attrarre parecchie fra le medesime divinit della luce e
del cielo, e sopra tutto fra le divinit delle tenebre e di quella morte, che la
mente bambina dei primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la
non palese bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra ove
scompajono i corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a
ritroso la progressiva formazione, conduce a origini tra s lontane. Il
naturismo che venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del
grano ; l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la
potenza del seme ; il pi maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di
tutta la terra una divinit sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro
gradi pi recisi, e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia
sintetica del Nume agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e
disciplina intorno al suo proprio culto.
un'ascesa dalla pianta al dio, dalla terra al cielo : un germogliare della credenza su da quel suolo
cui si richiama. Altra via tien la famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio
padre, che morto dopo aver in vita
esercitata la suprema autorit su le mogli e i figli ; ed morto lasciando nella dimora le cose tutte
che gi furono segnate del suo possesso e cedendole ai successori insieme con le
vendette da compiere e gli odii da esaurire; ed
morto spezzando con l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva
intorno a lui e sciogliendo i suoi nati dal vincolo che li legava per la sua
difesa : rappresenta con la scomparsa un troppo profondo evento, j)erch l'ombra
di lui non debba venir placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre ripetuto. E quando, anche qui, la
intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si
accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la
divinit del Padre prossima a precisarsi.
Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il
matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali presuppongono
per sensi d'affetto di gran lunga pi svilupx3ati e squisiti tra i diversi membri
della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra l'ombre, si addensa di
luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in sintesi, protegge per la sua
parte la vita familiare. Ed processo
comparativamente recente, se si pensa all'istituto e agli affetti che lo
precedono; ma comparativamente vetusto
se si pensa alla non piccola serie di alterazioni cui gi andato soggetto in poemi antichi come gli
omerici. Ma, se la formazione originaria degli iddii agresti su dalla
natura diversa da quella dei A.
Febeabino, Kalypso. 8 familiari su dalla morte, non mancano, tra le due,
attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su
l'altro, vicendevolmente, ben noto. Ma
nel caso speciale anche pi efficace influenza vi doveva essere. Per che la
terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, la
famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza;
perch sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di
uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che
s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perch protegga i suoi che lo
placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e
provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma
anche maggiore, l'attinenza tra il
concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei
semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i
primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la
rinnovazione perenne di quel mistero ch' la vita. " Schiatta senza pi
seme in Omero la schiatta che muore.
Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco :
e intende il talamo maritale . E o pu sembrare un antropomorfismo capovolto :
una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realt, deve
pi tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18.
morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella
terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, padre della pioggia, e i campi hanno dopo il
raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo
antichissima: perch, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla
fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione
umana, quanto della produzione terrestre : e perch contraddistinta da una elementare semplicit,
che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad
ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che
figura gli Dei a s costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da
genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinit dei
campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro
i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra
regnano su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto
la terra profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e
tenacia che duro abbattere una quercia;
sotto terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano
polle, che l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca
dei bimbi e i grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo
dei morti si svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi
segni : la vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s' indugiata
prima tra i meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che
la protegge e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed
ecco l'attinenza fra i due, diversi. Quanto per sono facili rapporti fra la
zolla feconda e l'invisibile profondit sotterranea, tanto, e pi, sono palesi
tra il campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e
colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virt. Dopo che il tralcio ha
forato la crosta del suolo, e s' vestito di pampini, e s' onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti.
Dopo che la spiga s' eretta a sommo del culmo perch l'aria l'impregni, da la
calda aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per
converso l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono
in desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della
volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai
probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elabor il mito. E tutti i
concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto
sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono
Una sintesi su la religione deglarii e sullantichissima romana, in SANCTIS (si
veda), STORIA DEI ROMANI I (Torino) capp. Ili e Vili. ormai ricca la mente, le fiabe che possono
esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza
di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le
vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito
dalla siccit o squassato dai vnti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il
bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e
l'abbondante capellatura delle arste ; la seminagione e il riposo invernale:
posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto
sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei
del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo
senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta
nasce, del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie
sotto la terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiam i riti
degli uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le
nozze richiam in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la
potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribu. Disse il lamento della
Madre biada cui la biada sua Figlia
rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegn lo sfondo
delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione
usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella
probabilit storica la congettura pu affermare della originaria saga sicula. Per
che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di s, sopraffatta, pi tardi, da
nuove vicende, e non fermata, quel che pi importa, in canti che il pregio
dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e
tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E
forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era
l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle
Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di pi ch' vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata
tra veli mistici. Oggi , e rester, nelle tenebre. E certo tenebre graverebbero
del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia, ove l'arte non ce ne
avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per cui in Grecia trapass
la leggenda furono, secondo verisimile,
a un di presso quei medesimi che si possono tracciare in sintesi svelta pei
Siculi: cosi che le due saghe sono strette, come i due popoli, da intima
parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo ario, dissimili certo ma certo anche
analoghi fra loro. Se non che quando l'arte, almeno nella pi vetusta
espressione a noi pervenuta, elabora il mito presso gli Elini, questo ha gi
raggiunto uno sviluppo maggiore, che non toccasse i)robabilmente
nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a Demetra^ il quale da attribuire, sembra, al secolo VII avanti
l'ra , la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le vicende del seme
durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicit costante con cui la
seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei mesi dell'anno :
coglie in somma il fenomeno con uno sguardo pi ampio, oltre il singolo momento.
La figlia pertanto tolta prima, poi
ricondotta alla madre; col patto per cbe abbia ad intervalli determinati a
ritornare nel grembo della terra, soggiornando con vicenda alterna otto mesi
nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del fatto cercata, com' ovvio, nell'essersi ormai
consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, pi rettamente, nel
simbolo di questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a rivelare
cotesta sostanziale maturit mitica, l'Inno a Demetra palesa anche divenuta pi
ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali,
giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo
nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la
Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa
chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes
The homeric hymns (London 1904) pag. 10 sgg. i pili arcaici personaggi entrati
su la scena accanto ai protagonisti : per che essi fossero i pi adatti (ognun
lo nota) a informare la " Madre su
la " Figlia perduta, essi che son
gli occhi diurni e notturni del cielo. N l'originario lor valore al tutto obliterato nel carme; se bene non vi
permanga senza alterazione. Di pi, altro segno di compiutosi progresso mitico,
nell'Inno ogni figura precisa perch
risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e
una teogonia. Ciascun Dio figlio di un
certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben
suo. Le due principali Dee del racconto, le divinit agresti, hanno assunto
definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra , ha
profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : delirante nel suo dolore di madre cui l'unica
figlia tolta X3er tradimento ; d'altra parte padrona della vita degli
uomini, che pu prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi
senz'esse: porta in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virt
germinativa. La Figlia, in greco " Cora , spazia, vivente d'una vita che
par s'alimenti da sangue nostro, su tutti i campi ov' vegetazione, e le grazie
della sua feminea giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo
valore naturalistico d seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : dea,
bella, ingenua, e le vergini
Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale individuata
determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di
analogia che vedemmo pili sopra. L'infero Nume rapitore " Ade
o " Aidneo ; signoreggia su
la vasta moltitudine degli estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza
dalle tenebre alla luce per preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo
cocchio sono caliginosi: e la corsa del suo cocchio un vortice travolgente. Sul trono, al suo
fianco, siede Persfone, regina fra i trapassati com'egli re; com'egli veneranda
e truce fra le xDallide larve. Dal cielo le potenze luminose, gl'Iddii supremi,
partecipano alle scene del dramma : Zeus, giusto in sue sentenze, x^adre di
uomini e numi; Iride, messaggera di lui a Demetra per placarne il dolore, se
bene vano le riesca il viaggio; Ermes, loquace ambasciatore ed accorto, che
induce Ade a cedere la recente conquista. Fra tutti, agresti tenebrosi chiari
Dei, si stringono attinenze come sogliono tra gli umani : Zeus, fecondatore dei
campi con la pioggia di cui padre, appar
fratello di Demetra : Zeus, risplendente face della terra, germano di Ade, come quegli che da l'alto
ajuta il suolo nella secreta germinazione del grano. Uniche non potevano
congiungersi in parentela, perch s'elidevano l'una con l'altra, Cora e Persfone
: la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poich il contrasto non si poteva
dalla fantasia superare in altro modo, il quale non offendesse l'una delle Dee,
le due figure diverse si ridussero a differenti nomi dalla medesima persona
scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto il tono austero della
Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata. La creatura
leggendaria e religiosa che ne scatur tenne delle due onde fu composta, ma
risult armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre, rigidezza e
austerit fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette dalla
tradizione una trama di leggenda ben pi ricca che la povera da noi ricostruita
per Enna ; i^ersonaggi pi precisi e raccolti in gruppo organico. Vi apport in
oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La vagheggia
egli difatti non senza raccoglimento religioso n senza coscienza, al meno
complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto quale una
creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe potuto
carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella corsa.
Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla sua origine;
e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in un fervore
pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura
severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee
disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi , pi che in ogni altro senso,
in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature
mitiche. Intercalato per nel mito un
lungo racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in
preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta
sopra un sasso, " la pietra del pianto , assumendo l'aspetto d'una vecchia
donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Cleo, e l'intrattengono col
chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il
sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,
accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure.
Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofnte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalit ;
onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non
combusto, si accresce di vigore e acquista la virt sovrumana. Se non che
Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura,
urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sar libero di morte. Ma per
compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittlemo
Eumlpo Diocle e Polissno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra dunque indirizzata tutta questa ampia parte
del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque
un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo
che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturit di pensiero e
soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del mito
ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita
religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga
si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un
venerando colore di antichit sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed
etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione . All'uno e all'altre sostrato un'idea r)rincipale che importa
porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora rapita da l'Ade, gli uomini conoscono gi
l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi
cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano
trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile
cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame
periva (2). E solo dopo la sentenza di
Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente
anno ritorna in terra la gloria del
biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi
contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera
all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato
il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra la biada il cui chicco scompar sotterra per
germinare e risorgere culmo, giusto che
le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col
ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza
dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanit siasi
trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non
corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la
diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che,
per essere del pari eleusinia, pu dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il
mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di
maniera che la violenza di Ade causa,
oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini
la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che
ricorre gi nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con
altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la
prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica,
col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica
novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo
prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore
ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso
naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perch il rapimento di
Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea, l'inizio
storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano coltivato su la
terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con importanza maggiore
Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ; bensi sopprime anche
la vendetta di Demetra, che in verit non avrebbe pi modo di attuarsi; e riduce
Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di Trittolemo, a quella condizione
di misera vita, ch' acconcia a uomini privi della vera e primissima fonte di
agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo largo diffondersi sub, vero, non pochie, sviluppando a s tutta la
seconda parte della leggenda, la equilibr con l'ampUarne, ai due estremi, il
combatmento e la metamorfosi. Ma non fu pago a tanto. Inser nella sua materia
anche la nobile fede di Cefeo che si oppone al fratello esortandolo a giusta
pace, e l'ironia ultima di Perseo non priva di malignit n di un grossolano
sale. Se bene gi questa non era una giunta che compiesse, si pi tosto una
intrusione che alterava, il jDoeta volle perseguir fin nelle minuzie anche le
vicende della contesa; e tradusse il duello in una battaglia omerica; cadendo
nella pi stucchevole prolissit. Non fu ricco, ma pletorico : non diverso, si
bene monotono. Nella scialba sostanza impresse poi, su l'inizio e su la fine,
senza garbo n acume, tracce d' umane passioni. Della cui banale mediocrit s'
intende quindi il motivo : fu necessario all'autore inspessirle per ottenerne
un qualche rilievo da 1' immenso piano uniforme dello sfondo. Sola, or qui or
l, la perizia tecnica foggia il verso con eleganza; e varia musicalmente il
ritmo. Nell'insieme, sopra un ben intuito fondamental contrasto, lo sforzo d'
esser profondo deforma e rigonfia gli elementi dell'opera. E ricordiamo.
Contrario ci apparve il difetto nel primo episodio: volubile superficialit
psicologica accanto a larghezza romanzesca. Ma analogo nella sua radice. Nell'un caso e nell'altro
il poeta non ha colto il cuore del mito, n ha, da quello, vissuto il mito.
Altrimenti, egK non avrebbe errato : il suo respiro coinciderebbe con il
respiro della fiaba. In vece, essa gli fu estranea : pagina fredda di volume
svolto. Il suo interesse la tent con approcci successivi, e di ciascuno rimase
una traccia: ora piacque l'analisi psichica, ora la smaglianza dell'avventura,
ora l'agitazione bellicosa; in parte fu possibile imitare Euripide, Omero in
parte. Mai per, in alcun punto, l'interesse divenne simpatia, tanto meno amore.
Sembra che la leggenda uncini con tutte le molteplici sue bellezze uno spirito
stanco, che reagisce pigramente se ben non dorma ancora. In realt lo
spirito distolto ; vive altrove. Un
secolo e mezzo dopo, il pensiero umano
molto lungi. Ha nel trattare il mito una grazia nuova, '' lucianesca .
Ecco il quattordicesimo dei Dialoghi marini di Luciano. Le nozze di Perseo e
Andromeda si stan celebrando ; il ketos
a pena morto. In non si sa qual recesso del mare Tritone e le Nereidi
cambian fra s quattro ciance. un
mormorio di donnicciuole con un rivenditore del mercato. L'uno d le notizie ;
l'altre gli si fanno attorno, e ov' la bellezza dei volti? con moti curiosi:
ora questa ora quella alza la voce ; le compagne in tanto ascoltano con stupor
muto. Sono ignare de' pi recenti fatti, e l'amico li ha appresi origliando.
L'eco della terra par muovere da una lontananza. Ma la terra presente. Tritone e le Nereidi. Tbit. Quel
vostro ketos, o Nereidi, che inviaste contro la figlia di Cefeo, Andromeda, non
solo non f' danno alla fanciulla come credete, ma fu ucciso gi esso medesimo. Ner.
Da chi, o Tritone ? forse Cefeo, esposta come sca la vergine, lo assalse ed
uccise, attendendolo in agguato con molti guerrieri ? Trit. No. Ma voi
conoscete, credo o Ifianassa Perseo, il bambino di Danae, che fu cacciato sul
mare nell'arca insieme con la madre ad opera del nonno e che per compassione di
loro voi avete salvato. Ifian. So di chi parli: suppongo che ora sia un giovine
e molto prode e bello di aspetto. Trit. Egli uccise il ketos. If. E perch, o
Tritone ? non questo compenso per vero egli ci doveva. Trit. Vi dir tutto, come
avvenne. Egli fu mandato contro le Gorgoni per compiere al re quest'impresa ;
dopo poi che fu pervenuto in Libia... If. Come, o Tritone ? solo ? o conduceva
compagni? che altrimenti la via
difficile. Testo del Jacobitz (Lipsia, Teubner). Tbit. Traverso l'aria :
Atena lo aveva fornito d'ali. Quando dunque fu pervenuto l dove dimoravano,
esse dormivano, ritengo, ed egli pot tagliare il capo a Medusa e scapparsene a
volo. If. Ma come le guardava ? sono difatti inguardabili : o pure chi le
guardi, non vedr altro dopo di esse. Trit. Atena col porgli innanzi lo scudo
(queste cose udii ch'egli raccontava di poi ad Andromeda e a Cefeo) Atena
dunque gli diede a vedere l'imagine di Medusa su lo scudo risplendente, come
sur uno specchio : allora egli aflPerrata con la sinistra la chioma, sempre
riguardando nell'imagine, recise con la falce nella destra il capo di lei, e
prima che le sorelle si destassero vol via. Come poi giunse a questa spiaggia
d'Etiopia, gi basso su la terra volando scorge Andromeda esposta sopra una sporgente
rupe, infissavi, bellissima, o di !, sciolta le chiome, seminuda assai sotto i
seni : e da prima, compassionando la sorte di lei, dimandava la causa del
supplizio, ma a poco a poco preso da amore (bisognava pure che uscisse salva la
fanciulla) decise di soccorrerla. Fra tanto il ketos avanzava pauroso come per
divorar Andromeda ; e il giovine, pendendogli di sopra, e brandendo la falce,
con una mano lo colpi, con l'altra gli mostr la Gorgone e lo fece pietra: la
belva tosto mori e divenne rigida in molte membra, quante avevan veduto Medusa
: egli sciolse i vincoli della vergine, e porgendole la mano la sostenne mentre
scendeva in punta de' piedi dalla rupe sdrucciolevole; e ora celebra le nozze
nelle case di Cefeo e la condurr in Argo : cosi che in luogo della morte ella
trov un marito, e non comune. Ir. Io gi dell'avvenuto non mi sdegno; che colpa
di fatti aveva verso noi la figlia se la madre menava vanto e riteneva d'esser
pi bella ? DoB. Ma in tal modo, come madre, avrebbe sofferto per la figlia sua.
If. Non rammentiamo pi tali cose, o Doride, se una donna barbara ciarl un po'
pi del giusto. Basti, a nostra vendetta, cbe fu spaventata per la figlia.
Rallegriamoci dunque delle nozze. Certo, la terra presente. E nei gesti che si sottintendono ;
e, pi, nei confini mentali degli interlocutori. L'arte di Luciano li designa
con perizia finissima nelle varie domande chemuovon a Tritone le Nereidi. Da
principio, annunziata la morte del ketos, suppongono, com'era pi semplice, un
agguato di Cef eo. No ; fu Perseo : il
primo ingresso dello stupefacente. Perseo s'era recato in Libia. E quelle
pensano a una regolare spedizione con compagni, ^' che altrimenti la via difficile . Ragionan bene; ma, per altro,
Perseo volava : nuova maraviglia. Or egli aveva, prima, ucciso Medusa. "
Ma come la guardava?! . L'inverosimile
al colmo. Da quel momento Tritone pu continuar ininterrotto. E continua;
ma svela, in un suo breve inciso, improvvisamente, l'importanza di quelle
interrogazioni. Perch Perseo fu " preso da amore per Andromeda? Risponde: " bisognava
salvar la fanciulla . Tal motivo non vale per l'animo dell'eroe, che in esso
quella non causa sufficiente e
appropriata ; bens smaschera l'artificio del mitologo, e mostra la passione
inventata a giustificare la salvezza della vergine. E una critica genetica,
diremmo oggi. Ed la stessa che avevan
fatta, pi coperta, le figlie di Nereo. Il dono delle ali rilevato come stromento mitopeico perch Perseo
potesse recarsi in Libia ; l'astuzia dello scudo, come mezzo artefciato ad
eliminar in Medusa quella medesima nefasta efficacia che le si soleva
attribuire Dunque, deduzione implicita,
ci fu una interessata volont, la qual condusse con varie furberie il giovine in
Libia e contro Medusa e fra gli Etiopi. Dunque il mito favola che imagin taluno. Passo a passo i
colpi son recati, fin che la leggenda non ha pi una base di fede, si una di
scetticismo sorridente e maligno. Onde si appalesa fittizio lo stupore
crescente delle Nereidi dinanzi all'avventura: per che il pensiero da cui sono
animate , non cosi ristretto da non concepir l'insueto, ma largo a bastanza da
negarlo. E nell'ultime parole la larghezza si accresce d'un contenuto morale,
estrema vetta di cotesta saliente bellezza d'arte : non era giusto colpir la
figlia per Terrore materno ; fu molto che Cassiepea avesse a temere tanta
sventura ; n dovrebbe importare a Dee la gara in bellezza d'una donna barbara
con loro. Son questi, si, ancor gli attacchi che al mito avrebbe mossi la
coscienza etica di Euripide; ma la tragedia manca, n pu sussistere adesso. La
fiaba stata svlta da l'anima, e respinta
al di fuori ; onde il biasimo tocca alcun che di esterno, non logora il cuore
stesso dell'artista. Come un luogo comune dell'ornamentazione retorica l'aveva
sfruttata Manilio per le sue Astronomiche^ a proposito delle costellazioni
denominate da Perseo e da Andromeda. Ma senza vigoria originale. E difatti in
cotesto uso (non importa se anteriore nel tempo) assai men vita leggendaria che
nello stesso Luciano: nel quale l'intellettual sorriso della critica tuttavia indizio di un sopravvissuto
interesse, come a passato recente e sentito ancora. Manilio per contro segue
l'andazzo letterario, e non illumina n pure con la luce della sfera pi alta le
tenebre deir ormai superata. La conversione dei personaggi in astri, che presso
Euripide era giunta a troncare ardui problemi dello spirito, diviene qui lo
spunto, donde il raccnto si diparte : le
anzi asservito il racconto medesimo, il quale nella mente all'astrologo
imbelletta la pseudo scienza celeste, che di Grecia aveva trovato favor di
accoglienza fra i Latini . Si che qui si misura, con precisa esattezza, il
regresso dell'efficacia leggendaria. N Luciano n Manilio accennano a Fineo. Se
per ci si connettano con il tragico che, forse, non gli aveva trovato luogo nel
drama, non a dirsi. La natura del tema,
in entrambi, giustifica il silenzio: che Fineo non divenne astro n ebbe
attinenze col ketos. Per contro notevole
che non essi, come non Apollodoro n Ovidio, accettano la Andromeda euripidea. E
per chiaro motivo. Creata quella nel momento del culminante interesse pel mito,
scompare di Cfr. M. ScHANZ Geschichte der romischen Litteratur^ (Miinchen 1913)
II 2 pagg. 28 e 37. poi con lo scemarsi della simpatia traverso le posteriori
vicende del pensiero. Nel sommo della parabola, che segna lo sviluppo di questa
leggenda, sta adunque una singolare originalit ch' in contrapposto ad un tempo
con gli stadii precedenti e con i successivi. E una singolare ricchezza
psichica, che dell'originalit la causa
diretta. Enna: nell'interno della Sicilia, a presso che mille metri sul mare,
non lungi a un lago cui oggi il nome di
Pergusa e di Pergo era nella antichit, sopra una larga groppa dei monti Erei
(2), onde, traverso l'aria diafana delle aurore e dei tramonti settembrini, le
pupille bevono, oltre le giogaje lungo le valli e i tortuosi solchi dei fiumi,
la dorata luce dei piani. Demetra genitrice delle biade, Cora-Persef one figlia
Per questo capitolo v. Vlndagine in libro II cap. II, di cui nelle note successive
si citano i . (2) La descrizione d'uno straniero : 0. Rossbach Castrogiovanni,
das alte Henna in Sizilien (Leipzig LA DEMETRA d'bNNA di lei, Trittolemo
dall'aratro, vi avevano negli anni di Cicerone templi statue culto. Le donne,
cui talune cerimonie eran riservate, vi salivano forse dai paesi vicini; tutte
fin da Panrmo da Drpano da Catana da Camarina da Siracusa da l'Etna vi
lasciavano giungere certo il pensiero divoto, supplice per la famiglia ed i
campi, timoroso dell'ire e delle vendette divine: per elle di l la Dea, la
quale nume ad un tempo del matrimonio e
delle spighe, sembrasse vegliare su l'intiera isola, e proteggere l'isolane in
casa, gl'isolani su le glebe. Di quella religione l'oratore romano vantava,
nell'arringa scritta contro il mal governo di Verre, l'origine antichissima :
ivi nate le Dee, ivi vissute e viventi ; ivi dall'et vetuste le case dei numi
ed i riti sacri. E l'antichit asseriva riconosciuta da ogni popolo senza
contrasto . Contrasto certo non sussisteva, in Sicilia, ove al santuario
ennense si guardava, come a reliquia dei tempi, con un profondo rispetto, che
le arcane leggende dei primordii rendevano pi intimo e sentito. N la memoria
secreta del popolo o il suo pronto intuito di fedele s'ingannavano. Da poi che,
forse, la Storia oggi, molti nessi ravvisando e molte trasformazioni che
s'ignoravano allora, riesce a dare un pi saldo fondamento alla credenza di quei
Siciliani, un contenuto meglio ampio al loro ricordo; se bene diffcilmente
serbi la grata bellezza poetica di cui insieme erano pregnanti religione e
mito. CICERONE (si veda) in Verr. IV 106.
probabile che gli avvenimenti seguissero cosi . Enna, nella sua forte
positura montana, da presumere fosse uno
dei luoghi ove gl'Italici appartenenti alla trib dei Siculi ebbero a cercar
rifugio sul finire dell'et micenea, nel sec. IX avanti l'ra. Le coste, pi
agevole sede, eran divenute mal fide per l'incursione dall'Oriente di predatori
troppo ben armati perch fosse riuscibile la resistenza. Sotto l'irrompere dei
violenti s'era per alcun tempo spostato verso l'interno il processo evolutivo
che, non senza influssi esterni e tal volta notevoli, durava fin dall'et
eneolitica. E sulle vette dei monti si stratificava fino a cristallizzarsi la
vita civile dei Siculi ; tra cui, com' ovvio, prendeva consistenza anche il
pensiero religioso, con la leggenda divina che n', fra gli Arii, foggia
consueta. Per disavventura, dagli scavi archeologici noi siamo assai meglio
informati su gli oggetti delle pi vetuste necropoli e su gli stili loro, che
non su la maturit mentale, su gli di, su le fiabe, di questa trib in
quell'epoca. Ci manca, sovra tutto, qua! si sia testimonianza atta a fermare
una caratteristica dell'intelletto siculo antichissimo la quale valga a
contraddistinguerne, p. es., i miti da quelli dei popoli affini nel Lazio e
nella Grrecia. L'affinit concede bens volontieri l'analogia; ma questa deve,
sobria, fermarsi a linee sommarie e incompiute. Per ci la congettura ancor che
acuta lascia (Ij Cfr. 1 e III. 112 III.
- intrawedere, se cauta, poco. Gl'incunabuli dell'arte e scienza che insieme
ammaestra a sparger il seme nelle zolle e stringe i vincoli dell'istituto
familiare, erano stati il tesoro comune che gl'Indoeuropei dividendosi recavano
seco traverso le regioni dissimili. Agricoltura e famiglia, vie meglio
possedute e costituite col cessar del nomadismo, avevano per s pi e pi secoli
di trionfo nell'avvenire : costituivano, con la loro celata forza e importanza,
due poli essenziali nella vita presente. Essenziali e magnetici tanto, da
attrarre parecchie fra le medesime divinit della luce e del cielo, e sopra
tutto fra le divinit delle tenebre e di quella morte, che la mente bambina dei
primitivi, iDer non averne compreso il profondo valore e la non palese
bellezza, circondava di ombra nelle celate viscere della terra ove scompajono i
corpi di uomini'ed animali. Di questi due poli religiosi seguire a ritroso la
progressiva formazione, conduce a origini tra s lontane. Il naturismo che
venera l'albero e il sasso, il ruscello e la zolla, la spiga del grano ;
l'animismo, che poi se ne evolve, e adora lo spirito del sasso e la potenza del
seme ; il pi maturo pensiero che, in fine, riesce a foggiarsi di tutta la terra
una divinit sola o di tutte le biade: ci riassumono, nei loro gradi pi recisi,
e nelle loro sfumature assai meno formulabili, la storia sintetica del Nume
agreste, il quale tutta la vita degli agricoltori accoglie e disciplina intorno
al suo proprio culto. un'ascesa dalla
pianta al dio, dalla terra al cielo : un
germogliare della credenza su da quel suolo cui si richiama. Altra via tien la
famiglia nel venerare i suoi iddii. Il vecchio padre, che morto dopo aver in vita esercitata la suprema
autorit su le mogli e i figli ; ed morto
lasciando nella dimora le cose tutte che gi furono segnate del suo possesso e
cedendole ai successori insieme con le vendette da compiere e gli odii da
esaurire; ed morto spezzando con
l'ultimo alito la compagine che si raccoglieva intorno a lui e sciogliendo i
suoi nati dal vincolo che li legava per la sua difesa : rappresenta con la
scomparsa un troppo profondo evento, j)erch l'ombra di lui non debba venir
placata dai nepoti, e il suo nome di " Padre ripetuto. E quando, anche qui, la
intelligenza divien sensibile ai nessi, e i padri delle diverse famiglie si
accostano si penetrano si fondono nella simiglianza della lor figura, la
divinit del Padre prossima a precisarsi.
Prossima, j)ure, a influire su l'altre simili della Madre (ove anche il
matriarcato le sia al tutto estraneo) del Figlio della Figlia; le quali
presuppongono per sensi d'affetto di gran lunga pi svilupx3ati e squisiti tra i
diversi membri della famiglia. Cosi l'uomo vivo, che s'era sminuito tra
l'ombre, si addensa di luce: si scioglie dal suo proprio sepolcro; e, in
sintesi, protegge per la sua parte la vita familiare. Ed processo comparativamente recente, se si
pensa all'istituto e agli affetti che lo precedono; ma comparativamente vetusto se si pensa alla non
piccola serie di alterazioni cui gi
andato soggetto in poemi antichi come gli omerici. Ma, se la formazione
originaria degli iddii agresti su dalla natura
diversa da quella dei familiari su dalla morte, non mancano, tra le due,
attinenze. Che il culto dei morti e il culto de' divini influiscano l'uno su
l'altro, vicendevolmente, ben noto. Ma
nel caso speciale anche pi efficace influenza vi doveva essere. Per che la
terra sola faccia (se fecondata dal cielo) prosperare il gregge ed i figli, la
famiglia, in somma. Il campo dell'erba e quel delle biade son la ricchezza;
perch sono il nutrimento la salute la vigoria, de' buoi e delle capre l'uno, di
uomini e donne l'altro. Il padre vivo ha gittato il seme e ha fatto che
s'indorasse al sole la spiga; il Padre morto, perch protegga i suoi che lo
placano e pregano, deve tener lontana dal grano la tempesta e la rubigine, e
provveder che carestia non affami gli agricoltori. Antica accanto a questa, ma
anche maggiore, l'attinenza tra il
concepimento e la nascita dei figli per opera delle madri, e il germogliar dei
semi in seno alla terra ; riflessi a pena diversi d'un unico miracolo, cui i
primi, se non i primissimi, uomini apersero gli occhi: la conservazione e la
rinnovazione perenne di quel mistero ch' la vita. " Schiatta senza pi
seme in Omero la schiatta che muore.
Dice, in Euripide, Febo a Lajo: " re, non seminare di figli il tuo solco :
e intende il talamo maritale . E o pu sembrare un antropomorfismo capovolto :
una figurazione dell'uomo a simiglianza della terra. Se non che, in realt, deve
pi tosto dirsi una tra le forme dell'antropo- Biade I 303, Euripide Fenici 18.
morfismo, per cui il fenomeno naturale assume, nel cielo o sulla terra o nella
terra, l'aspetto dell'atto umano: cosi che Zeus, nell'alto delTaria, padre della pioggia, e i campi hanno dopo il
raccolto un abbandono puerperale. E tra le forme questa appare certo
antichissima: perch, anche psicologicamente, sembra tosto suggerita alla
fantasia dalla frequenza periodica e dalla importanza, tanto della generazione
umana, quanto della produzione terrestre : e perch contraddistinta da una elementare semplicit,
che la rende compatibile con uno stadio civile ancor a bastanza involuto. E ad
ogni modo, come principio ad effetto, forma anteriore a quella teogonia che
figura gli Dei a s costituiti, come gli uomini, in famiglie composte da
genitori e figli, da parenti ed affini. Or come per un lato le divinit dei
campi e della famiglia si avvicinano e fan intimi i lor nessi, cosi per l'altro
i Numi della terra feconda richiamano al pensiero quelli che sotto la terra regnano
su i morti. Sotto la terra sta nascosto il seme per lunghi mesi; sotto la terra
profondano le radici gli alberi, e ve le abbarbicano con tanta forza e tenacia
che duro abbattere una quercia; sotto
terra scompaiono tal volta alcuni tra i fiumi; da la terra sgorgano polle, che
l'uomo ignora dove abbiano origine, e dissetano del pari la bocca dei bimbi e i
grumi inariditi del suolo. Nelle viscere che inghiottono il corpo dei morti si
svolge un mistero tenebroso, di cui si scorgono al sole pochi segni : la
vicenda della spiga, ad esempio, matura e granita, che s' indugiata prima tra i
meandri terrosi, e ad essi deve in parte tornare di poi. La Dea che la protegge
e ch'essa rappresenta forse sa ; gli Dei inferi forse sanno. Ed ecco
l'attinenza fra i due, diversi. Quanto per sono facili rapporti fra la zolla
feconda e l'invisibile profondit sotterranea, tanto, e pi, sono palesi tra il
campo ed il cielo. La luce del Sole, la pioggia delle nubi danno forza e
colore, spirano nella vegetazione la loro secreta virt. Dopo che il tralcio ha
forato la crosta del suolo, e s' vestito di pampini, e s' onusto di grappoli,
l'Astro sol tanto par dargli il verde per le frondi e il rosso per i frutti.
Dopo che la spiga s' eretta a sommo del culmo perch l'aria l'impregni, da la calda
aria pure essa sembra ricevere l'oro e il peso per che si flette. Per converso
l'impeto rabido d'un vento, l'assalto cieco della gragnuola convertono in
desolazione la speranza, in strage la messe. Le potenze della luce e della
volta celeste reggono, per una grande lor parte, benigne o maligne, le vicende
della terra ferace. A tale stadio di evoluzione religiosa eran assai
probabilmente giunti i Siculi quando in Enna si elabor il mito. E tutti i
concetti fondamentali, tutti i principali stami di questo incipiente tessuto
sacro, nel mito appunto conversero. Quando delle figurazioni che si accennarono
Una sintesi su la religione degli Indoeuropei e su Fantichissima romana, in De
Sanctis Storia dei Romani I (Torino 1907) capp. Ili e Vili. ormai ricca la mente, le fiabe che possono
esserne conteste sono molteplici, e solo il caso o la preponderante importanza
di taluno tra i fenomeni riesce a far prevalere qualunque l'una di esse. Le
vicende del grano assalito dalla golpe o fecondato dalla pioggia o isterilito
dalla siccit o squassato dai vnti ; il suo nascer e i primi fili gracili che il
bestiame calpesta e tenta brucare; l'incurvarsi sotto il peso della spiga e
l'abbondante capellatura delle arste ; la seminagione e il riposo invernale:
posson del pari offrire contenuto alla leggenda, si prestano a foggiarsi sotto
sembianza umana e familiare, si attengono per l'uno o per T altro modo agli Dei
del cielo e delle tenebre. Ma principalissimo
senza dubbio, nel suo assiduo mistero, il miracolo, onde la pianta nasce,
del soggiorno lungo che il seme, spiccato alla messe matura, compie sotto la
terra. Tal miracolo il mito ennense venne ad elaborare. Richiam i riti degli
uomini, tra cui avevan parte le nozze della figlia tolta alla madre; le nozze
richiam in una delle forme consuete, il ratto. Fece salire su la terra la
potenza delle sotteiTanee ombre, e il ratto le attribu. Disse il lamento della
Madre biada cui la biada sua Figlia
rapita, simile al lamento delle madri umane. Alla scena disegn lo sfondo
delle selve che circondavano il lago di Pergo, da cui, secondo l'ideazione
usuale, sarebbe salito il Dio inferno. A questo poco si limita quel che nella
probabilit storica la congettura pu affermare della originaria saga sicula. Per
che troppo esigue tracce ella abbia lasciate di s, sopraffatta, pi tardi, da
nuove vicende, e non fermata, quel che pi importa, in canti che il pregio
dell'arte e la fortuna ci serbassero. Visse nel culto ; i sacerdoti ne ebbero e
tramandarono forse memoria traverso gli anni; ma col suggello del segreto. E
forse ancora nei primi secoli avanti e dopo Cristo, le donne, cui solo era
l'accesso ai riti, conoscevano alcun particolare che ignoriamo : il nome delle
Dee agresti, antichissimo; quel del rapitore; o le circostanze del ratto; o
tutto il di pi ch' vano e impossibile supporre. Ma ogni rivelazione era celata
tra veli mistici. Oggi , e rester, nelle tenebre. n. Il mito greco. E certo
tenebre graverebbero del pari sopra un altro consimile mito e culto in Grecia,
ove l'arte non ce ne avesse serbato ampio e colorito ricordo. Gli stadii per
cui in Grecia trapass la leggenda furono, secondo verisimile, a un di presso quei medesimi che
si possono tracciare in sintesi svelta pei Siculi: cosi che le due saghe sono
strette, come i due popoli, da intima parentela. Rami e fiori dell'unico ceppo
ario, dissimili certo ma certo anche analoghi fra loro. Se non che quando
l'arte, almeno nella pi vetusta espressione a noi pervenuta, elabora il mito
presso gli Elini, questo ha gi raggiunto uno sviluppo maggiore, che non
toccasse i)robabilmente nell'antichissima Enna. Certo nelVlnno omerico a
Demetra^ il quale da attribuire, sembra,
al secolo VII avanti l'ra , la leggenda si preoccupa, non pur di adombrare le
vicende del seme durante l'inverno, ma ancbe di giustificar la periodicit
costante con cui la seminagione la vegetazione e il raccolto si alternano nei
mesi dell'anno : coglie in somma il fenomeno con uno sguardo pi ampio, oltre il
singolo momento. La figlia pertanto
tolta prima, poi ricondotta alla madre; col patto per cbe abbia ad
intervalli determinati a ritornare nel grembo della terra, soggiornando con
vicenda alterna otto mesi nel sole e quattro nelle tenebre. La ragione del
fatto cercata, com' ovvio, nell'essersi
ormai consumato tra la rapita e il dio rapitore il matrimonio : e, pi
rettamente, nel simbolo di questo, il gustato frutto del melograno. Oltre poi a
rivelare cotesta sostanziale maturit mitica, l'Inno a Demetra palesa anche
divenuta pi ricca la leggenda. Un primo a bastanza antico innesto accrescitivo da scorgersi nella presenza di Ecate "
bendata di luce,, e di Elios " chdaro figlio di Iperione,. ; i quali,
giusta l'Inno, rivelerebbero alla Dea delle biade il modo del ratto e, dopo
nove giorni di vana e affannosa ricerca, la persona del rapitore. Ecate, sia la
Luna che risplende su le notti della terra ; Elios, o sia il Sole, che fa
chiari i giorni e vede tutto degli uomini: sono probabilmente Allen and Sikes
The homeric hymns (London LA DKMETRA d'eNNA i pili arcaici personaggi entrati
su la scena accanto ai protagonisti : per che essi fossero i pi adatti (ognun
lo nota) a informare la " Madre su
la " Figlia perduta, essi che son
gli occhi diurni e notturni del cielo. N l'originario lor valore al tutto obliterato nel carme; se bene non vi
permanga senza alterazione. Di pi, altro segno di compiutosi progresso mitico,
nell'Inno ogni figura precisa perch
risponde a un modulo sancito, e il poeta possiede con sicurezza una teologia e
una teogonia. Ciascun Dio figlio di un
certo, padre di un altro e fratello, ha caratteristiche sue, un passato ben
suo. Le due principali Dee del racconto, le divinit agresti, hanno assunto
definito aspetto. La Madre, la Signora delle biade " Demetra , ha
profondamente evoluto la sua duplice essenza agricola e familiare : delirante nel suo dolore di madre cui l'unica
figlia tolta X3er tradimento ; d'altra parte padrona della vita degli uomini,
che pu prosperar per il dono gramiminaceo di lei ed esaurirsi senz'esse: porta
in somma al supremo vertice la sua natura umana e la sua virt germinativa. La
Figlia, in greco " Cora , spazia, vivente d'una vita che par s'alimenti da
sangue nostro, su tutti i campi ov' vegetazione, e le grazie della sua feminea
giovinezza cercan a preferenza fiori profumi e prati. Il suo valore
naturalistico d seme che i primitivi trasfigurarono in lei) s' adombra : dea,
bella, ingenua, e le vergini
Oceanine le fanno corteo. Presso agli agresti, con uguale individuata
determinatezza appajono gli Dei sotterranei, addotti da quel vincolo di analogia
che vedemmo pili sopra . L'infero Nume rapitore
" Ade o " Aidneo ; signoreggia su la vasta moltitudine degli
estinti : fiero astuto atro ; non gradevole. Balza dalle tenebre alla luce per
preda; ripiomba nel bujo: e i cavalli del suo cocchio sono caliginosi: e la
corsa del suo cocchio un vortice
travolgente. Sul trono, al suo fianco, siede Persfone, regina fra i trapassati
com'egli re; com'egli veneranda e truce fra le xDallide larve. Dal cielo le
potenze luminose, gl'Iddii supremi, partecipano alle scene del dramma : Zeus,
giusto in sue sentenze, x^adre di uomini e numi; Iride, messaggera di lui a
Demetra per placarne il dolore, se bene vano le riesca il viaggio; Ermes,
loquace ambasciatore ed accorto, che induce Ade a cedere la recente conquista.
Fra tutti, agresti tenebrosi chiari Dei, si stringono attinenze come sogliono
tra gli umani : Zeus, fecondatore dei campi con la pioggia di cui padre, appar fratello di Demetra : Zeus,
risplendente face della terra, germano
di Ade, come quegli che da l'alto ajuta il suolo nella secreta germinazione del
grano. Uniche non potevano congiungersi in parentela, perch s'elidevano l'una
con l'altra, Cora e Persfone : la rapita di Aidoneo e la moglie del He. E poich
il contrasto non si poteva dalla fantasia superare in altro modo, il quale non
offendesse l'una delle Dee, le due figure diverse si ridussero a differenti
nomi dalla medesima persona scambievolmente usati, e la Figlia assunse alquanto
il tono austero della Regina, di cui tuttavia mitigava la maschera accigliata.
La creatura leggendaria e religiosa che ne scatur tenne delle due onde fu
composta, ma risult armonica ed ebbe riso e vezzi su la terra i)resso la Madre,
rigidezza e austerit fra i morti i^resso il marito. Il poeta adunque ricevette
dalla tradizione una trama di leggenda ben pi ricca che la povera da noi
ricostruita per Enna ; i^ersonaggi pi precisi e raccolti in gruppo organico. Vi
apport in oltre la sua arte che addusse la saga a nuovo grado di progresso. La
vagheggia egli difatti non senza raccoglimento religioso n senza coscienza, al
meno complessiva, del suo significato riposto. Ma la vagheggia sovra tutto
quale una creazione bella dello sph'ito : come il suo sguardo di greco avrebbe
potuto carezzare il torso nudo di un efebo o le ginocchia del vincitore nella
corsa. Insensibilmente per lui, sensibilmente per noi, la fiaba si stacca dalla
sua origine; e le mani pajono comporla e plasmarla allora per la prima volta in
un fervore pacato di concezione e di espressione. Tutto si ordina secondo un'architettura
severa, dal respiro ampio e calmo. E il centro di quel mondo di Dei e di Dee
disegnato sopra la tela dei secoli lontanissimi , pi che in ogni altro senso,
in un tranquillo godimento. Segno non piccolo, di fronte all'oscuro mito
siculo, dell'efficacia che all'arte compete qual balsamo delle belle creature
mitiche. Intercalato per nel mito un
lungo racconto, diverso . Demetra, appreso da Elios il nome del rapitore, in
preda alla sua folle sofferenza giunge neir Attica ad Eleusi e qui^d sosta sopra
un sasso, " la pietra del pianto , assumendo l'aspetto d'una vecchia
donna. L'incontrano le figlie del Re del luogo, Cleo, e l'intrattengono col
chiederle e col darle notizie: attratte anzi dalla simpatia che spira il
sembiante venerando, l'invitano nella casa della madre loro, Metanira,
accennandole d'un bimbo di recente nato cui ella potrebbe prodigar sue cure.
Nella reggia la Dea diviene infatti nutrice prov\dda e attenta al piccolo
Demofnte. Al quale anzi l'Iddia vorrebbe donare il sacro dono dell'immortalit ;
onde di notte lo pone, con certe sue arti magiche, tra le fiamme, fra cui, non
combusto, si accresce di vigore e acquista la virt sovrumana. Se non che
Metanira, destatasi d'improvviso e scorta Demetra nell'atto, se ne impaura,
urla e distrugge l'incantesimo. Demofonte non sar libero di morte. Ma per
compenso la Madre delle biade insegna a Celeo a ai principi eleusini! Trittlemo
Eumlpo Diocle e Polissno i secreti del suo culto. A spiegare, appimto, il culto
che in Eleusi con specialissima pompa si rendeva a Demetra dunque indirizzata tutta questa ampia parte
del carme ; la quale cosi nell'insieme come nei particolari costituisce dunque
un complesso etiologico ben distinto dal complesso mitologico. E a quel modo
che quest'ultimo ci mostrava quanto a\Tebber potuto maturit di pensiero e Yv.
91-304. soffio d' artista svolgere e imbellire il nucleo rozzo e imperfetto del
mito ennense ; quel primo fa intrawedere la guisa per cui, nel seno della vita
religiosa che in Enna si svolgeva intorno alla Dea agreste innominata, la saga
si sarebbe potuta complicare di personaggi e di episodii, rivestendo un
venerando colore di antichit sacra. Ma anche per altro rispetto mito ed
etiologie deirinno attraggono la nostra attenzione . All'uno e all'altre sostrato un'idea r)rincipale che importa
porre in tutto il suo risalto. Questa: nel momento in cui Cora rapita da l'Ade, gli uomini conoscono gi
l'uso del grano, come si semini e come cresca fra le zolle ; quel momento anzi
cagiona un temporaneo danno ai campi : che " molti nei campi in vano
trascinarono i bovi aratri ricurvi; molto su la gleba bianco orzo sterile
cadde; ed ecco dei parlanti uomini tutta quanta la schiatta per fiera fame
periva (2). E solo dopo la sentenza di
Zeus che ridona alla Madre la figlia per " due terzi del volgente
anno ritorna in terra la gloria del
biondo cibo. Il soggiorno di Demetra in Eleusi
contemporaneo al danno, e la sua conseguenza si riduce intera
all'iniziazione dei misteri sacri. In somma, appare qui a bastanza conservato
il contenuto originario del mito naturalistico: se difatti Demetra la biada il cui chicco scompar sotterra per
germinare e risorgere culmo, giusto che
le biade esistano prima del ratto sotterraneo, scompaiano poi, riappajano col
ritorno della rapita. E la sentenza di Zeus giova a rendere periodico, ma senza
dolore, questo alternarsi agreste. Cosi, sebbene un nuovo senso di umanit siasi
trasfuso nel racconto a velarne il significato primitivo, questo permase non
corrotto; si che la leggenda dell'Inno merita il nome di prisca. E noi la
diremo protoattica, in confronto con un'altra meno antica (del V secolo) che,
per essere del pari eleusinia, pu dirsi neoattica. Questa seconda concepisce il
mondo ignaro di messe prima che si compisse il ratto, esperto solo di poi : di
maniera che la violenza di Ade causa,
oltre che de' Misteri e del giudizio di Zeus, anche dell'apprendere gli uomini
la seminagione e l'aratura. E l'apprendono a opera di Trittolemo : nome che
ricorre gi nell'Inno qual di principe in Eleusi a lato di Celeo re in una con
altri (Eumolpo, Diocle, Polisseno); figura per contro che appare adesso la
prima volta, e prevale, e si diffonde nell'arte letteraria plastica pittorica,
col carattere di adolescente giovinezza e con l'officio di maestro nella fatica
novissima e preziosa. Semi ed aratro definiscono il pregio del fanciullo
prediletto alla Dea; e la triade recente spezza lo schema anteriore
ricostituendone un altro. Nel quale, dunque, non si oblitera tutto il senso
naturalistico del mito, ma acquista un valore riflesso : perch il rapimento di
Cora diviene, meglio che la trasfigurazione umana della sorte graminacea,
l'inizio storico, cronologicamente e geograficamente inteso, del grano
coltivato su la terra. Tal diverso concetto non sostituisce soltanto con
importanza maggiore Trittolemo al Demofonte deirinno per la magia del fuoco ;
bensi sopprime anche la vendetta di Demetra, che in verit non avrebbe pi modo
di attuarsi; e riduce Celeo e Metanira, genitori di Demofonte e or di
Trittolemo, a quella condizione di misera vita, ch' acconcia a uomini privi
della vera e primissima fonte di agio. Accetta permase questa leggenda. Nel suo
largo diffondersi sub, vero, non
pochimutamenti, n tutti soltanto di particolari; giacch, dovunque a Demetra e
Cora fosse culto, divenne costume lecito alterare la saga per adattarla alle
esigenze e ai vanti locali. Ma sul xjullulare di coteste piccole invenzioni
essa si ergeva con l'alto suo fusto, destinata a varcare i confini di un Comune
per attingere gli estremi del mondo colto. Unica pu starle a paro, per intima
vgoria di concepimento, e per potenza espansiva, la favola composta nell'ambito
di quel moto filosofico e religioso onde il pensiero greco, e specie
nell'Attica, fu travagliato al tempo dei Pisistratidi, moto che conosciamo col
termine di " Orficismo . Serbandosi solo le due Dee e Trittolemo, nuova
veste di nomi e nuovo intreccio di casi assunse il mito di Cora fra gli Orfici
; ma non tutti i suoi particolari ci importano qui : quelli soltanto che furono
poi efficaci sul vetusto nucleo leggendario dei Siculi in Enna. Per che tutt'e
tre, la proto e neoattica e l'orfica, s'incontrassero queste versioni greche
con la siciliana, tenace per antichit, infantile per incompiutezza. E
dall'incontro scaturiva un lungo moto di storia. in. Il mito siracusano. I
Siculi, che si erano ritirati su i monti dell'interno perch incapaci di
resistere ai predoni dell'Oriente venuti a loro traverso i mari, e che in Enna
avevan con pi insistenza fissato il lor mito agreste, lasciarono nello scorcio
dell'^TH secolo le coste dell'isola popolarsi di Greci, sonare dei nuovi
linguaggi e dell'armi nnove, ornarsi di sedi le quali si trasformavano via via,
divenendo sempre pi salde pi ampie pi belle, in citt ricche. E gli EUeni in
quel secolo e nel VII e nel VI seguenti, trovando sgombro per s il terreno, o
sgombro facendolo con distruggere e sottoporre gl'indigeni, s'insediarono nella
teri'a siciliana con tutto agio, fino a giungere in breve a fiore civile
intellettuale e artistico grandissimo in paragone di quelli, e a distendere sn
tutte le portuose spiagge dell' isola un incancellabile smalto greco . Di miti
templi cerimonie della loro mentalit religiosa si radicano ivi senza
resistenza, e, nel trapiantamento fuor dalla patria, pajon rinascere con rinnovellata
vigoria e bellezza. Certo la lor somma di progresso spirituale e Ampio racconto
su la colonizzazione greca dell'Occidente, in HoLM Storia della Sicilia (trad.
ital.) voi. I (Torino 1896) lib. Il; Freeman History of Sicihj voi. I (Oxford
1891); Pais Storia della Sicilia e Magna Grecia voi. I (Torino 1894). di culto
civico, accopj)iandosi con la congenita irrequieta genialit e l'inconculcabile
aspirazione ad accrescere il possesso, doveva spingerli presto a violare i
segreti delle regioni pi interne e a portarvi il soffio della propria opera
contro le resistenze dei Siculi, non restii ad evolversi si a sottomettersi. E
forse, traverso anche i commerci di scambio, a Enna ebbero a pervenire folate
di vento greco fin dal secolo VI. Eorse . Ma quante e quali nessuno direbbe ;
percli non la minima traccia n' rimasta
; n fino ad ora gli scavi archeologici e' illuminano alcun poco. La palese
influenza dei Grreci su Enna comincia nel V secolo e per opera di Sii^acusa. Dopo
che Gelone ebbe, con il sussidio del suo alleato Terone tiranno di Agrigento,
sconftti ad Imera circa il 480 a. C. gli eserciti cartaginesi di Amilcare, Enna
entr nella sfera siracusana e ne fu assorbita. Qual resistenza politica
opponesse non importa qui sapere. Senza dubbio oppose una resistenza riguardo
al suo culto e al suo mito, che non poterono venir eliminati, ma rispettati
dovettero essere. La risultante di queste due forze (la siracusana che
assorbiva e la ennense che non cedeva) fu una leggenda, la quale impropriamente
si direbbe contaminata, perch pi tosto
un compromesso di politica religiosa, una formula felice per conciliare le
pretese o, se piace, i diritti dei due centri diversi. In Siracusa Grelone fu
un institutore e un propagatore zelante del culto delle greche iddie Demetra e
Cora (-Persefone). Di queste il culto aveva, come fu visto poc' anzi, a base il
mito del rapimento. E a quel modo che nelr Inno a Demetra la favola
naturalistica, non spoglia della sua prisca indeterminatezza, vien ad arte
connessa con un preciso e determinato centro religioso, Eleusi; cosi un'
analoga tendenza doveva indurre i Siracusani, per mezzo dei loro sacerdoti e
poeti (questi gli artefici delle saghe), a sostituire i nomi dei lor proprii
luoglii alle indeterminate frasi del racconto mitico e a applicare quest'ultimo
non senza artifcio su le cerimonie sacre vigenti nella loro citt. Era un moto
religioso, tanto spontaneo e consueto fra Greci, quanto egoisticamente
esclusivo, per la preferenza che cosi ciascun paese si attribuisce di fronte a
un certo nume. Di qui nascono difatti sovente contese tra regioni ; in
particolare se vi partecipa, com' per le dee agresti, il vanto della maggior
fecondit d'un suolo a paragone d'un altro. N pare che Siracusa derogasse alla
generale tendenza: per che ci sia rimasto indizio, se bene esiguo, d' una sua
leggenda la quale vi s'informa per l'appunto. ^q\V Epitafo di Bione ch' del
sec. I a. C. non che in altri testi il ratto di Cora localizzato su l'Etna ; onde Ade sarebbe molto
dicevolmente scaturito, come da una delle bocche dell'Erebo e del sotterraneo
fuoco. Che se accanto a questo parti ci) V. 133. A. Ferrabino, Kalypao. colare
si pone Taltro, secondo cui il Dio infernale si apre la via del ritorno presso
lo stagno di Ciane ; si ottengono i due estremi punti topografici di una saga
che adatta il vecchio mito greco agl'interessi di Siracusa: perch Ciane una palude nelle vicinanze della citt ; e
sulla zona dell'Etna l'influenza politica e militare dei Siracusani si sempre estesa o nel fatto o nell'intenzioni.
Ma come tale tentativo mitico prettamente libero da Enna dimostra qual fosse
l'impulso originario del culto instituito da Gelone ; cosi la penombra in cui
permane e la caducit che lo contraddistingue provano quanto diffcile fosse
serbar nella leggenda di Demetra l'indipendenza contro i diritti di prima
occupante che competevano alla fiaba dei Siculi. La quale s'imponeva difatti
tanto pi quanto maggiormente s' era, traverso gli anni molti, radicata nelle
coscienze degl'indigeni rifugiati su i monti, e quanto era pi stretta, nel
nucleo essenziale per lo meno, la sua simiglianza con il mito ellenico. Il
ratto, sul lago di Pergo potevasi rivestir di fogge e definire con nomi greci ;
non asportare dal lago : ove del resto la feracit del luogo e la credenza, anche
greca, che dai laghi o da vicine grotte sorgessero sovente i numi sotterranei,
ne difendevan la vita. E difatti il ratto rimase. I Siracusani diedero alla
divinit delle biade il nome di Demetra; ne chiamaron la figlia col duplice
termine di Cora-Persef one ; il rapitore con quello V. sotto pag. 131. di Ade o
Aidoneo. Colorirono i loro artisti tutto l'episodio con quei pennelli che gli
Elleni ben sapevano, e con quei particolari che eran divenuti fissi e
tradizionali. Ma sottostettero ai diritti di precedenza. Nel resto si valsero
del campo libero : la palude siracusana di Ciane fu l'apertura per il ritorno,
dopo che Ade sul cocchio vi aveva da Enna trascinata Cora-Persefone. A
Siracusa, sembra, si poneva pure 1' " anagoge di Cora dall' rebo alla terra su bianchi
cavalli. E noi non sappiamo molto di pi; ma
facile che altri particolari della leggenda si connettessero al culto ai
suoi riti ed ai sacerdoti. Suggello poi di questo compromesso religioso tra
Enna e Siracusa l' elaborazione
caratteristica d'un motivo orfico attinente al ratto di Cora. Questa avrebbe
avuto compagne durante la raccolta dei fiori (1' " antologia ), oltre le
Oceanine, anche Artemide ed Atena, le dee vergini. Ora Artemide grandemente
importava nel culto siracusano ; Atena in quello di Imera, citt a Siracusa
amica durante le guerre del V secolo specie contro Atene. Per ci in uno dei
suoi rami la leggenda, la quale ancor qui si vede costretta a riconoscere che a
Demetra doveva esser spettata la signoria di Enna, attribuisce al meno quella
di Imera ad Atena, di Siracusa ad Artemide ; introducendo pertanto questi due
luoghi per obliqua via a lato di Enna e, quel che importava, al medesimo
livello. Conchiuso in tal modo il compromesso tra l'esigenze dell'antichissima
saga ennense e le pretese della pili recentemente sopraggiunta saga siracusana,
i due centri dovettero trovarsi concordi nell'adattare a s la figura e gli
uffici di Trittolemo. Non poteva esservi dubbio. A Enna Cora rapita mentre coglie fiori mirabili per
vaghezza e profumo ; presso Ciane Cora scende sotterra e in Siracusa risale
alla luce; Demetra e la figlia prediligono l'isola e dal suo ombelico la
proteggono; Atena ed Artemide, compagne alla violata, signoreggiano due citt
siciliane ; il suolo opulento di biade
come non altrove : certo dunque che in Sicilia, non altrove, cadde il primo
seme, e il primo culmo spunt da zolla sicana. Ma la leggenda neoattica,
prevalente, diceva l'attico Trittolemo beneficato primo del grano. Bisognava
dunque, da che respinger Trittolemo non era dicevole, adattarlo in Sii^acusa ed
Enna. E l'adattamento avvenne non senza garbo . Si concedette che un eleusinio,
Trittolemo, avesse avuto il favore di Demetra e comunicato alle terre il dono
preziosissimo; si concedette che ci accadesse in occasione del ratto di Cora ;
e fu lasciato cosi senza ritocco tutto il racconto. Ma, gli si premise, gi
dianzi, avanti il ratto e avanti Trittolemo, la Sicilia produceva grano,
prediletta alle due Dee per la sua fertilit e scelta a loro dimora. Quindi, si
conchiuse, Trittolemo fu primo rispetto agli altri popoli; secondo dopo i
Siciliani. Una separazione dunque della Sicilia dal restante paese, onde il
ratto divenne il momento propizio per diffondere al mondo il privilegio siculo.
Che era non poco orgoglio. Dopo ci esistevano in Sicilia oramai tutti
senz'eccezione gli elementi per un ben contesto tessuto leggendario che un
poeta potesse far suo tema : i luoghi pittoreschi fra Enna e Siracusa offrivano
dicevole sfondo, il racconto mitico aveva i suoi punti topografici fssi e
armonicamente collegati ; il culto preparava salda e e vasta base per
un'accorta serie di invenzioni etiologiche ; gli stessi orgogli delle singole
citt s'eran tradotti in accrescimenti della favola, la stessa gara con Eleusi
le aveva tribuito qualche particolare non privo di attraenza. N mancarono forse
i cantori che la materia non indegnamente lusingasse. E pure a noi non rimane
se non il testo, povero non chiaro e senza vigoria espressiva, di Diodoro che
attinge a Timeo. Perch tutto vivace si senta il contrasto fra la potenzialit
artistica del mito e la mancata espressione di esso, eh' a un tempo mancata intuizione, piace qui
tradurre dalla Biblioteca istorica , lasciando il racconto nel suo disordinato
svolgimento. I Sicelioti che abitano l' isola appresero dai loro progenitori la
fama, tramandatasi traverso il tempo nelle generazioni, ch'essa fosse sacra a
Demetra e Cora; e che le predette Dee in questa isola primamente apparvero ; e
che questa per prima produsse il fi-utto del grano a cagione della feracit del
suolo... (2). A riprova Cfr. Geffcken Timaios' Geographie des Westens in Phi
lologische Untersuchungen, XIII (1892) pag. 103 sgg. (2) DioDORo V 2, 3. 4
passim. adducono il ratto di Cora che avvenne in quest'isola e che mostra
chiarissimamente come in questa le Dee soggiornassero e di questa sovra tutto
si compiacessero. Favoleggiano poi che il ratto di Cora accadde ne' prati
intorno ad Enna. Questo luogo vicino
alla citt, per viole insigne e altri fiori d'ogni genere, e degno di vedersi. A
causa del profumo di quei fiori si narra che i cani avvezzi a cacciare perdon
le tracce ottundendosi loro la naturai virt.
il prato predetto piano e d'ogni parte ben irriguo; ai lati per scosceso
e rotto tutt'intorno da burroni. Sembra giacere nel mezzo dell'isola : per
che detto anche da alcuni l'ombelico
della Sicilia. Ha vicino boschi e, intorno a questi, paludi, e un grande speco
con apertura sotterranea rivolta a settentrione; dal quale favoleggiano che
balzasse col cocchio Plutone a rapire Cora. Le viole e gli altri fiori col
odoranti rimangon fioriti miracolosamente per l'intero anno e rendono lo
spettacolo pittoresco e gradito. Favoleggiano ancora che insieme con Cora
crescessero Atena e Artemide, tutt'e tre vergini, e che insieme raccogliessero
fioH e preparassero in comune il peplo al padre Zeus. Per l'intimit e la
conversazione reciproca si compiacquero specialmente di quest'isola; e ciascuna
si ebbe un territorio : Atena dalle parti di Imera..., cosi che gli indigeni
consacrarono a lei la citt e il territorio chiamato fino ad oggi Ateno :
Artemide ebbe in Siracusa dagli Iddii l'isola che per lei da oracoli e uomini chiamata Ortigia: e,
parimenti alle due predette dee, anche Cora ottenne i prati intorno a Enna. Favoleggiano
poi che Plutone, compiuto il ratto, rec Cora sul cocchio presso Siracusa ; e
che, spalancata la terra, scomparve con la rapita nell'Ade ; e che ivi fece
sgorgare la fonte detta Ciane. Dopo il ratto di Cora favoleggiano che Demetra,
non potendo ritrovare la figlia, accese fiaccole nei crateri dell'Etna, si rec
in molte parti della terra abitata e benefic, donando il frutto del grano, gli
uomini i quali meglio l'accolsero. Pi benignamente avendola accolta gli
Ateniesi, a essi primi dopo i Sicelioti don il frutto del grano ; pel che questo
popolo pi d'ogni altro onora la dea con splendidi sacrifzii e coi misteri
eleusinii. Il mito siracusano qui per
intero : ogni linea ne viene accennata; pietra a pietra, chi nmeri, l'edifcio
esiste. N mancano (che noi tralasciammo per brevit) cenni etiologici alle feste
sacre. Fece difetto il genio architettonico: e il difetto si tradisce ogni
volta che Diodoro ripete, ed spesso,
quel suo " favoleggiano . Altri; non egli: eh' estraneo a quel che racconta. Modello
insigne, questo, del come possano mascelle di erudito maciullare e rugumare il
fiore della saga. Il mito contaminato. Il mito siracusano di Demetra e Cora,
imperniato in Enna e Ciane, e nato dal compromesso dei due centri religiosi,
venne accolto nell'ambiente poetico di Alessandria. E fu questo l'i- DioDOBo V
3-4:, 4 con qualche omissione. nizio d'una sua vita nuova. In Alessandria di
fatti, oltre alla forma siracusana della favola, erano affluite, ed affluivano,
la primitiva forma dell' Inno omerico, insieme con la variante di Trittolemo
inventor dell'aratro : cosi che quella diveniva la fucina ove cotesti elementi,
parte simili, parte dissimili, mossi da origini diverse, avevan da commettersi
l'un l'altro e penetrarsi. E non pur cotesti elementi precipui ; bens anche
alcuni altri secondarii, che per varie ragioni fossero riusciti a trascendere i
limiti della mediocrit espressiva e della ristrettezza geografica, per
intrudersi nella letteratura tradizionale. La mitopeja orfica in ispecie aveva
trovato accoglienza favorevole nel colto ambiente alessandrino ; e a canto
d'essa fiorivano ivi le differenti e notevoli saghe metamorfiche, che presso i
pi antichi non erano se non una forma, fra l'altre, dell'intuizione
naturalistica, e che il gusto posteriore, compiacendosene, moltiplic artefece.
La storia per tanto del mito siculo fuor di Sicilia la storia della sua seconda immersione nel
flusso del pensiero e dell'arte greca;
la storia del successivo accogliersi intorno ad esso di giunte e di
innovazioni via via pi complesse. Si sono smarrite per noi parecchie fra
l'opere dell'arte letteraria in cui cotesto processo ci sarebbe stato
trasparente: dei maggiori alessandrini medesimi. Sola di quelle ci rimasta traccia Sul culto di Demetra e Cora
in Alessandria cfr., p. es., Scolio a Callimaco Inni VI (Schneider I 133). e
tal volta quasi copia in autori romani. Con questo valore, ci appare un ampio
tratto del quinto delle Metamorfosi ovidiane , in cui appunto si rivela la
contaminazione fra diverse correnti leggendarie. Vige l'indirizzo siracusano,
senza dubbio. Anzi vi si manifesta con talun nuovo particolare ; cosi il poeta
sembra seguire pi tosto una tradizione tutt'affatto sicula, che abbandonarsi a
una variazion fantastica, quando nel luogo di Ecate fa dare a Demetra, durante
la ricerca affannosa e dolorante di Cora, il primo indizio del ratto dalla
fonte Ciane ; e in luogo di Elios introduce la ninfa del siracusano lago di
Aretusa, nell'isola di Ortigia fra mezzo i due Porti. Se non che questi
elementi siciliani, che al pari di Enna pajono saldati con il concetto duplice
di una Sicilia esperta del grano prima del ratto e di una umanit esperta sol
dopo (si ricordi Timeo), qui invece sono trasfusi in uno schema diverso. Quando
Proserpina rapita, la terra, se non tutta
per buona parte, gi ha avuto il dono del seme ; e Cerere del suo dolore si
vendica col privare gli uomini di aratri di bovi di spighe : dunque, come nel
mito protoattico. Ma, come nel neoattico, Trittolemo, dopo il verdetto di
Giove, sparge per segno di pace la semenza. E i due miti si conciliano nel
pensiero che uguale bisogno del nuovo dono ha cosi la zolla mai colta come
quella di cui per la vendetta divina fu pretermessa la coltura. In tale
contaminazione Vv. 341-661. Cfr. IV. dei
due miti protoattico e neoattico la saga siciliana s'inquadra umiliandosi un
poco, col porre la propria terra fra pi altre, prima nel godere le biade, i)oi
nel riaverle. Resta il vanto di fertilit singolare e di fedelt a Demetra.
D'altra parte il poeta asseconda, cosi per l'attitudine sua mentale come per la
natura del suo tema, con particolar compiacenza l'impulso letterario delle
metamorfosi. Sembra persino che ogni vicenda del mito in tanto g' importi in
quanto si risolve in uno di cotesti travestimenti di forme. Ciane, ad esempio,
che solo perch palude era sembrata luogo dicevole alla scomparsa di Ade come un
lago alla comparsa, offre spunto a una d'esse, quale ninfa tramutata in acqua.
E anche. L'episodio di Cora-Persefone che gusta la melagrana sfruttato per immettervi un Ascalafo ; il
quale scorge la Dea nell'atto, ne riferisce ed
converso in gufo. Sovra tutto per, l'efficacia della tradizione
letteraria si risente in Ovidio per il tentativo di analisi psicologica nei
personaggi: in Cora specialmente, per cui egli giunge sino a finezze troppo
cerebrali per esser vere, sino a farla piangere, non che per il ratto, j)er lo
smarrimento dei fiori raccolti. Anzi, passionale diventa tutto l' antefatto del
mito : il ratto voluto, non da un
decreto di Zeus, bens da Afrodite cui
sdegno che tante dee si sottraggano al suo potere e che libero ne resti
il medesimo Ade (latinamente Dite). Amore sostituisce cosi, quando psicologico
diviene il racconto, un particolare che, allor che esso era naturalistico,
valeva con tutt' altra importanza: la fecondante pioggia. Tuttavia lo spunto
viene, non senza garbo, inserito sullo sfondo siciliano della fiaba : Afrodite
difatti l'Ericina, che i Siculi facevan
oggetto di culto singolare. Cosi perch pili appaja la giustizia di Griove e ne
risalti la umanit del mito, l'anno pel
doppio soggiorno di Proserpina con la madre e col marito diviso a mezzo non pi
per terzi. Simile attenzione psicologica governa i discorsi di Aretusa a
Demetra, di Demetra a Giove, materiati di accortezza feminea e l'uno e l'altro.
Al qual carattere corrisponde poi lo studio dei gesti in ciascuna figura, per
toccare di quelli che a ciascun momento dell'animo competono, l dove tecniche
mitologiche pi elementari non cercano se non il consueto e costante attributo
del Nume : cosi che Aretusa, e basti per tutti l' esempio solo, ritrae prima di
parlare i capelli roridi via dalla fronte sino alle orecchie per lasciar nudi
la bocca e il viso. Siam lontani dal cristallizzato epiteto omerico che
s'addice alla Dea; il gesto si conviene alla donna. Siamo allo stremo dell' allegoria
agreste. E su la soglia dell'umanit. Non lungi a le mura di Enna son le
profonde aeque d'un lago: Pergo, di nome. Pi numerosi non spande canti di cigno
Castro su l'onde scorrenti. L'acque corona una selva, d'ogni lato le cinge ;
con le sue fronde di schermo alla vampa
solare. Frescura, i rami; purpurei fiori d l'umida terra. Primavera perjDetua. Mentre nel bosco Proserpina gioca
ed or viole or Vv. 885 sgg. Edizione H. Magnus (Berlino 1914). gigli candidi
coglie, mentre con fanciullesca cura seno e canestri empie e nella raccolta
studia superar le compagne ad un punto
veduta amata rapita da Dite. Tanto fu pronto amore! Atterrita la Diva
con mesta voce madre e compagne chiamava; la madre pi spesso ; e poi che lacerata
dal sommo s'era la veste, da r allentata tunica caddero i fiori raccolti. Ed
ecco anche questa sventura, cosi fur ingenui gli anni puerili, il virgineo
dolore commosse. Il rapitor regge il cocchio, e ciascuno chiamando per nome
esorta i cavalli: scuote su colli e criniere le redini tinte di ferruggine
persa . nel mezzo fra Ciane ed Aretusa
un golfo d'angusti bracci raccolto e chiuso. Quivi fu gi e dal suo nome lo
stagno ha nome tra le siciliane ninfe notissima, Ciane. Ella fino a sommo il
ventre sorse tra mezzo il gorgo, e riconobbe la Dea. " Non pi lungi
andrete ! esclam " non puoi di
Cerere essere il genero contra sua voglia: chiederla non rapirla dovevi. Che se
m' lecito alle grandi le piccole cose accostare, me pure Anpi amava; ma pregata
sposa mi addusse non, come questa, atterrita . Disse, e con aperte le braccia
si oppose. Non pi non pi l'ira il Saturnio frenava: i cavalli terribile
esortando, nel fondo del gorgo il vibrato scettro regale con forte braccio
affond : la terra percossa una via pel Trtaro aperse ed i precipiti carri nel
mezzo della voragine accolse. Ma Ciane, la rapita Dea piangendo ed i violati
diritti della sua fonte, tacita soffri ferita inconsolabile e si consunse tutta
di pianto. Neil' acque di cui grande nume gi era, or s'estenuava: molli le
membra, flettevansi Omessi i vv. 405-8. l'ossa, la rigidezza perdevano l'unghie
; le tenerissime parti da prima si sciolser fra tutte, le cerulee chiome, le
dita le gambe ed i piedi, che di delicate membra in acque gelide il
trapasso breve: gli omeri poi e le terga
ed i fianchi vanescendo ed il petto in tenui si dissolvono rivi: nelle
tramutate vene alla fine al vivo sangue la linfa subentra, e nulla rimane che
prender si possa . Per quali terre la Dea, e per quali acque errasse, lungo indugio
sarebbe narrare. A lei che cercava venne meno la ten'a. Ritorn in Sicilia ; e
mentre ogni dove indaga vagando, a Ciane viene. Tutto le avrebbe narrato, se
non fosse mutata; ma lei che voleva, non ajutavan la bocca e la lingua, n con
altro poteva parlare. Ma segni palesi ella diede e indizio alla madre: di
Persefone il cinto, in quel luogo per caso caduto nel gurgite sacro, a fiore
dell'acqua mostrava. Come lo riconobbe, quasi il ratto appena allora
apprendesse, i disadorni capelli si lacerava la Dea ed una e pi volte il petto
con le sue mani percosse. Dove la figlia si sia ancora non sa ; ma le terre
biasima tutte ed ingrate le chiama n degne del dono di biade: Trinacria su
tutte, dove le tracce del danno aveva trovate. Ed ecco col di sua mano spezzava
gli aratri che fendono duri le glebe, ed a pari morte nell'ira mandava e i
coloni ed i bovi aratori, ed ai campi di sperdere il lor aflSdato tesoro ordin,
ed i semi corruppe. La molto nota nel mondo fertilit del paese fiaccata: senza far csto muojon le biade, ed
ora le vizia l'eccesso di sole ed ora di piogge l'ec- Omessi i w. 438-461:
errore di Cerere; metamorfosi di Ascalabo. cesso, le stelle ed i vnti fan
danno, gli sparsi semi ingordi nccelli colgono, triboli e loglio fan guerra a
le piante del grano e non estirpabil gramigna. Il capo allora da l'ele onde
solleva Alfjade e dalla fronte le roride chiome a l'orecchie ritrae. Dice:
" tu della vergine cercata nel mondo, o tu genitrice di biade, cessa da
tue immense fatiche e da la violenta ira contro la teiTa a te fida. Non ha
colpa la terra ; la rapina toller contro sua voglia. N per la pati'ia supplico
: ospite son qui venuta. Pisa mia
patria, l'Elide diede i nataK. Sicania abito straniera, ma d'ogni suolo pili
grata m' questa terra. Ai-etusa, questi ora ho per penati, questa per sede : e
tu clementissima la salva ! Perch mi sia mossa per tanto spazio, e per tanto
grande mare all'Ortigia mi rechi, tempo verr ch'io ti dica, opportuno, quando
alleviato TatPanno e migliore il tuo volto sar. A me un sotterraneo varco offre
il cammino e, traverso profonde caverne scendendo, qui il capo sollevo e a le
stelle di nuovo mi avvezzo. Or mentre l sotto nel gurgite Stigio scorreva, l
sotto dai nostri occhi veduta la tua Proserpina fu. Triste ella per vero, n per
anco tranquilla nel volto; ma Regina, ma nell'oscuro mondo Signora, ma
dell'inferno tiranno Sposa potente . La madre udendo le voci stupisce ed
impietra, ed attonita a lungo rimane. Appena dal grave dolore la grave
demenza rimossa, a l'aure superne col
cocchio ella ascende. Ivi tenebrosa il volto, scarmigliata i capelli, d'odio
riarsa, sti innanzi a Giove. " Per il mio (dice) supplice a te venni o
Giove e per il tuo sangue ! se nessuno gode favore la madre, la figlia il padre
commuova; n meno cara preghiamo ti sia perch da nostro parto nata. La figlia
che a lungo cercai ecco rinvenni: se rinvenire tu chiami il perder pi cex-to,
se rinvenire tu chiami il saper dove sia. Rapita, sopporto : pur ch'egK la
renda : che d'un marito predone degna non
la tua figlia..., se anche mia figlia non ,. E Giove obiettava : "
Pegno comune e gravame a me con te la
figlia. Ma, se i veri nomi alle cose noi vogliam dare, non questa un'offesa : amore ! N ci sar quel genero a vergogna, sol
che tu voglia o Dea. Se pur altri pregi non sieno, qua! pregio fratello dirsi di Giove ! N mancano gli altri
; n fuor che per sorte mi cede. Ma se tanto di separarli hai desiderio, ritomi
Proserpina al cielo, fermo il patto restando che con la bocca l gi cibo alcuno
non abbia toccato: che delle Parche tal fu la legge . Avea detto. Ma Cerere ferma di ricondur la figlia. Non cosi
vogliono i fati ; la vergine aveva rotto il digiuno e, ingenua errando per gli
adorni giardini, dal ricurvo albero dispiccato un pomo fenicio e fuor da la
gialla corteccia sette chicchi fra i denti premuti . Ma, tra il fratello e la
mesta sorella, imparziale, il volgente anno per mezzo Giove divide. Ora la Dea,
di due regni nume comune, altrettanti mesi
con la madre, altrettanti con lo
sposo. D'animo si muta ella e di volto ; e la fronte che dianzi poteva allo stesso
Dite mesta parere, lieta fronte diviene: simile a Sole che da gravide nubi
coperto era gi e da le vinte nubi riappare (2). A coppia i serpenti la fertile
Dea al cocchio aggioga, e costringe coi freni le bocche, e nel mezzo per l'aria
fra il cielo e la terra coire e conduce il lieve Omessi i vv. 538-563:
metamorfosi di Ascalafo e delle Sirene. (2j Omessi i vv. 572-641 : metamorfosi
di Aretusa. SUO carro nella citt Tritonide, a Trittolemo : e parte dei semi
donati comandava di sparger sul suolo mai colto, parte sul suolo dopo assai
tempo rilavorato. Contaminato ma diversamente, ci appare il racconto appresso
Ovidio medesimo, nei Fasti libro quarto . Occasione gli offerta dai romani Ludi Cereri. E alle
cerimonie rituali tien difatti rocchio alquanto il poeta (o il suo modello). La
mente che ricorda il racconto delle Metamorfosi, pur riconoscendo nel principio
del nuovo carme (2), con la mano del medesimo poeta, il I)aesaggio siculo del
ratto, nota tuttavia un ritegno, quasi una schiva attenzione per evitar
d'insistervi troppo. In Enna le Dee sono invitate da Aretusa; non quella la lor sede: n nella palude Ciane si
sprofonda Dite, o al meno non detto. Il
mito sorto dal compromesso tacito fra Enna e Siracusa senza dubbio noto ; ma non usurpa da signore
lo schema greco pi antico: vi s'insinua. E quando la ricerca affannosa della
Madre comincia (" dai tuoi campi, o Enna ), Ciane l'Anapo Oela Ortigia
Mgara Imera Agrigento Tauromnio Camarina ed altri luoghi ancora e i tre capi
Peloro Pachino e Lilibeo, offrono bens materia alla fantasia del poeta non
ignaro di geografa siciliana, ma sono per ci a punto introdotti dal suo solo
arbitrio nella leggenda, onde costituiscono un elenco di Vv. 393-620. Edizione
H. Peter* (Leipzig 1907). Confronta IV.
(2) Vv. 419-50. nomi regionali, non gi altr'e tanti addentellati mitici. C'
dunque una cauta fedelt al mito siracusano : speciosa fedelt che per risolversi sbito dopo in abbandono. Quel
che oggi si chiama la Cereale Eleusi, questo del vecchio Cleo fu il campo. Egli
in casa porta le ghiande e le more spiccate agli spini e le risecche legna pel
focolare che l'arda. La figlia piccina riconduce due caprette dal monte ; e
nella zana un tenero figlio giace malato. " Madre la fanciulla dice e commossa la Diva pel nome di madre " che fai in
solitarii luoghi senza compagnia ? . Si
sofferma anche il vecchio, quantunque il peso lo spinga, e la prega, ella vada
sotto il come che misero tetto della sua capanna. Si rifiuta. Assemprava una
vecchia e d'una mitra i capelli avea cinti. A quello, che insiste, tali parole
risponde : " Salvo tu stia ! e padre per sempre. A me fu rapita la figlia.
Oh la tua sorte di quanto migliore che
la mia sorte!. Disse, e come di lacrima che non piangon gli Dei cadde sul
tepido seno una lucida goccia. Piangon, del pari teneri in cuore, la fanciulla
ed il vecchio ; e dopo, del giusto vecchio le parole son queste : " Se a
te, che la piangi rapita, sia salva la figlia, levati, non disprezzare il tetto
della misera casa . Cui la Dea " Conducimi
dice " come mi potessi costringer, hai ben saputo ! . E s'alza dal sasso ed al vecchio tien
dietro. Alla compagna la guida racconta, come sia il figlio malato e sonni non
prenda ma vegli pel male. Ella, pria di varcare la povera soglia, soporoso il
papavero coglie lene nella terra agreste. Mentre raccoglie, si narra che ne
gustasse con bocca obliosa, e involontaria rompesse A. Ferrabino, Kalypso. 10
la lunga fame: e perch della notte in principio ella finiva i digiuni,
gl'iniziati ritengon per tempo del cibo l'apparir delle stelle. Come varc la
soglia, piena di pianto vede ogni cosa : gi speranza alcuna non v'era di
salvezza pel bimbo. Salutata la madre Metanra la madre si chiama alla sua
congiunger degnava la bocca puerile. Fugge il pallore, sbite forze vengon nel
corpo: tanto vigore viene da la celeste bocca. Tutta la casa lieta : la madre il padre ci sono e la figlia
: tutta la casa, quei tre. Pongon tosto le mense, e cagli stemprati nel latte e
pomi e nei favi suoi proprii miele dorato. L'alma Cerere non mangia, ma a te, o
bimbo, a bere con tiepido latte d i papaveri causa del sonno. Della notte era
il mezzo, era nel placido sonno silenzio ; ed ella nel grembo Trittolemo
prende, con la mano tre volte lo palpa, tre dice scongiuri : scongiuri, che non
ripete parola mortale. E nel focolare il corpo del bimbo entro la calda cinigia
nasconde, che l'ardore purghi l'umano incarco. Si scuote dal sonno la madre a
torto pietosa, ed insensata esclama " che fai ?, e rapisce dal fuoco le
membra. A lei la Dea : " Per non esser scellerata tal fosti dice ; " vani i miei doni divengon pel
timore materno. Questi sar bens mortale; ma primo e con aratro e con seme da le
coltivate terre coglier premii . " Disse : uscendo d'una nube s'avvolse,
su i serpenti sali, e con l'alato cocchio Cerere riparte . Qui non
pi il racconto dell'Inno con il Vv. 507-562. mito protoattico ; non n meno il racconto di Timeo con il mito
siracusano : per che a differenza profonda dal primo la umanit presentata ignara di biade e cibata di
ghiande prima del ratto; e a differenza caratteristica dal secondo la Sicilia
non ha privilegio alcuno rispetto all'altre terre. Qui dunque il mito neoattico di cui dicemmo, che ha
sostituito Trittolemo a Demofonte nella magia del fuoco, e ha tramutato il
semplice istitutore di un rituale sacro nel giovinetto onde per favore della
Dea un inestimabile benefizio si largiva agli umani. Celeo e Metanira recano
identici i loro nomi, ma intorno ad essi il polito palazzo regale s' tramutato
in povera capanna: sul desco stanno cagli; nei cuori ingenua ignoranza. Cosi pertanto la versione
siciliana, dianzi cautamente seguita,
soppiantata, senz'urti, da una seconda. Ma finisce apjjena questo brano,
che un terzo influsso si rivela. Come nell' Inno, informatori di Cerere su la
persona del rapitore sono due astri ; identico
il nome dell'uno, il Sole (EHos) ; analogo l'officio dell'altro. Elice,
che per non la Luna (Ecate), ma la
stella dell'Orsa maggiore che mai non tramonta nel mare, e per ci tutto vede,
di notte. D'altra parte, dopo il colloquio fra Cerere e Griove, questi decide
di dividere l'anno in due parti perch Proserpina rimanga sei mesi col marito e
sei con la madre . Ora, Elice sostituisce Ecate perch preferita nella consueta
mitopoetica alessandrina; e l'anno diviso Vv. .575-614. pel mezzo gi ritrovammo
nel gusto alessandrino delle Metamorfosi. E sotto la medesima luce posson
venire considerati anche l'idilliaca scena in casa di Celeo, dal tono dolce dal
colore delicato dall'insieme grazioso ; e il quadro del florilegio in Enna. L'arte
per converte la triplice mischianza in armonia. Onde la vicenda si snoda men
lenta che nelle Metamorfosi, s'indugia solo nel pastorale abbandono di Eleusi,
e diviene rapida nel termine ove pi personaggi agiscono e parlano con una
stringata prontezza che culmina forse nelle parole di Ermes " La rapita
ruppe il digiuno con tre di quei grani che le melagrane ricopron con molle
corteccia . Le varie correnti mitiche
son fuse ed scomparsa ogni traccia di
mosaico mitologico; una inspirazione centrale muove tutto il carme, lo
ricollega con qualche sparso accenno a questo o a quel particolare del culto,
su dal culto lo stacca elevandolo a ricordo solenne del benefzio divino,
scaturito dal dolore d'una Madre e compiuto nella capanna d'un misero. La
gratitudine verso la Dea si traduce bens in sacrifzii suini e in vestimenta
candide, ma non di origine religiosa, si
pi tosto muove da una intima commozione umana, di simpatia per la sofferenza
eterna, per la semplicit primeva, per la faticosa Terra. Nei Fasti quindi minor
parte fatta al mito siracusano; ma per
compenso conseguito pi alto pregio
letterario che non nell'altro carme Vv. 606-7. ovidiano, ove il poeta con
l'innesto delle frequenti trasformazioni deforma la sua materia, or riducendola
a magrezza or distraendola a rimoti oggetti. Oltre che elementi siculi proto e
neoattici, anche particolari orfici compose insieme con abbondanza Claudiano
nel poemetto che al Ratto di Proserpina volle dedicare, senza per altro
condurlo a termine. Grli spunti siciliani sono i ben noti: Enna sede del
rapimento, Ciane oppressa dal rapitore e tramutata in fonte , le fiaccole
notturne accese su l'Etna. Gli spunti protoattici dovevano esser copiosi nella
parte del poemetto che non fu scritta e trattava del soggiorno della Madre in
Eleusi, forse nella casa di Coleo e Metanira. Gli spunti neoattici in fine si
assommano nella figura di Trittolemo a cui par probabile che venisse attribuito
il dono delle biade (2). Su questa trama vennero innestati parecchi motivi che
si dovevano all'orficismo. Leggevasi presso gli Orfici che Demetra aveva
affidato la propria figlia alle Ninfe ai Coribanti e ai Cm-eti e che in loro
custodia Cora trascorreva il tempo intenta a tessere un tessuto ove fossero
affigurate le stelle del cielo. E ancora : che il ratto accadde si per volont
del Fato {aifiovog aiarj) sotto cui traspare il favore di Zeus pluvio, ma con
l' inganno delle sorelle {pvvfiaifio) : o sia Artemide ed Atena. Pi tardi
cotesta circostanza fu alterata ; da chi, pare, non III 246 sgg. (2) I 12 sgg.,
Ili 51.s'accorse o non volle accorgersi che il concorso delle due Dee al ratto
non era se non un assecondar le leggi fatali e irremovibili ; ma ritenne che pi
nobile officio loro, nel punto in cui Cora, vergine com'esse erano vergini,
soggiaceva a violenza, fosse la lotta contro il fosco Aidoneo : nelVElena di
Euripide difatti elleno gli appajono ostili. Se non che scemato cosi al ratto
il favore di Atena e d'Artemide, a compenso vi fu introdotto quello, che pareva
pi dicevole, d'Afrodite, nume propizio agli amori (2). L'antico aneddoto orfico
pertanto fu e rinnovato nel suo contenuto e ampliato nelle sue linee : rimase
tuttavia, e Claudiano ne fece suo possesso. Molte altre fiabe erano nella
poesia orfica attinenti a Demetra e a Persef one ; ma poi che vertono su quella
parte la quale nel poemetto sul Ratto non
svolta sar qui da tacerne. Oramai difatti sono stati raccolti tutti i
materiali che da triplice fonte il poeta adun per l'opera sua e che gli bastarono,
con giunte e innovazioni, a narrare del ratto e i precedenti e le primissime
conseguenze. Importa ora vedere come lo spirito del poeta investisse quella
sostanza leggendaria e la elaborasse esprimendo. Il suo racconto si spezza
spontaneamente in due parti: delle quali la prima ha termine col ratto. Plutone
nell'Ade infelice perch privo di moglie
e ignaro delle dolcezze che la paternit concede. Tanto l'assilla il suo
veemente Vv. 1301 sgg. (2) V. Igino Fav. 146 e cfr. IV. desiderio, ch'egli giunge a minacciare lo
stesso Zeus di sovvertirgli l'ordine dell'universo e liberare i Titani
incatenati, ove non sia fatto pago. E Zeus, intimorito, cede e promette:
solo in dubbio intorno alla scelta della
sposa, gi che nessuna volentieri accetterebbe marito il tenebroso Re dei morti.
Contemporanea a cotesta scena per si svolge l'altra in cui Demetra, per
sottrarre l'unica sua figlia Cora allo stuolo degli insistenti proci fra cui
Apollo e Ares primeggiano, la reca in Sicilia ove l'affida alle cure della
nutrice Elettra delle Ninfe e di Ciane (ritornano, come si vede, sott' altra
specie, le orfiche Ninfe e i Coribanti e i Cureti) e la ritiene certa da ogni
attentato sotto l'alta protezione celeste del padre Zeus : onde si ritorna ella
poi in Frigia appresso Cibele. Si congiungono alla fine queste due linee
narrative da quando il Signore degli Dei decide di maritare Cora appunto,
profittando della lontananza materna, a Plutone, e j)repara le nozze.
Connivente Afrodite, egli fa si che la vergine esca con le compagne e Artemide
ed Atena e la stessa dea dell'amore a raccoglier fiori su i prati smaglianti di
Enna e che su quelli, balzando improvviso dal suolo spalancato in voragine, la
rapisca il sotterraneo Nume. Grande scompiglio ne sorge. Fuggono le giovani
amiche. Atena e Artemide tentano opporsi con l'armi che sono lor proprie. Ma
Zeus da l'alto tuona il suo assentimento. E presto Cora, trascinata dai cavalli
dell'oltretomba, fa il suo solenne ingresso nelle sedi buje, ove l'accolgono,
con festa ch' insueta col, gl'iddii torvi e le paurose iddie de' regni flegetonti.
La seconda parte possiede quell'unit di struttura che manca a questa prima. Il
centro naturale dell'azione offerto da
Demetra; intorno a cui ogni altra luce si deve comporre. La Madre non vive
tranquilli i giorni presso i Frigi: un presentimento vago ma assiduo la turba
con sogni atri che mal si dileguano nel risveglio. Alla fine, decide di
abbandonar le terre di Cibele e recarsi a visitar la figlia fra i Siciliani.
Parte, tutto temendo, nulla sperando. Da Imigi le appajono i luoghi ove
s'aspetta di trovar Cora ; ma ben presto scorge deserta e sconvolta la casa.
Entra, e vede incompiuta l'opera tessile della vergine, e lacrimante in
profondo dolore la nutrice Elettra. Chiede con voce ch' gi di disperazione; e
apprende il ratto. Lo schianto le per
quasi sbito superato dallo sdegno contro gli Dei tutti, e Zeus in ispecie, che
permisero il delitto, lo lasciarono impune, non curando se per tal modo si
sovvertissero leggi di giustizia e principii di morale. Giura che non cesser di
percorrere, intenta alla ricerca, l'universo intero fin che non le sia
ritrovata la figlia. E la ricerca inizia senz'altro, dopo aver fatto a s, per
la notte, fiaccole di due pini recisi presso il fiume Aci in bosco sacro a
Zeus. Il resto si desidera. Ne importa gran fatto, che poco pi apprenderemmo
nel sguito. Il poeta si era assunto ben grave soma, chi guardi alla difficolt
insita in ogni forma leggendaria, ove sempre la materia poetica molta, ma sorda ad artefice che non sia di
assai fermo polso; e ove la stessa potenziale bellezza contribuisce a rendere
scabro l'officio dell'attuarla. Claudiano vi manc: non esito a dire che vi manc
per intiero. Noi lo giudichiamo qui a fronte della sua saga, e possiamo farlo
con pienezza di giudizio, che la sua saga
la nostra: abbiam appreso a conoscerla da l'origine lungo la vita
complessa. Non c'illude quindi, e sarebbe facile errore, quella, che prima
colpisce, bellezza formale di particolari, eleganza di scene, armonia di verso.
Riconosciamo cotesti pregi ; ma come perfezion delle parti in un tutto su cui
si volge il nostro interesse e l'esame pi vero. N la perfezione stessa anche da concedersi intera : guasta per certa
esuberanza, che assempra il vecchio pescatore teocriteo dalle vene gonfie sul
collo, spiace dopo le prove d'un'arte pi cauta se bene gi troppo a s
indulgente. Ma in ogni modo, sopra le singole pennellate riuscite e oltre le
mancate, com' composto il grande affresco ? Claudiano avverti primi, e svolse
gli spunti psichici di cui tutto il racconto
pregno: non diversamente operando, in ci, da Ovidio. Le sue dee per
tanto divennero donne; uomini, i suoi numi. E suo grande compiacimento si fu
narrare ora il cordoglio della madre, ora lo spavento della figlia; qua i
coniugali rimpianti di Plutone, l le dolcezze filiali di Cora. Se non che in
Ovidio tal via era tenuta con due pregi: la accorta profondit
dell'investigazione intima; e, Giudizio opposto tenne W. Pater, nel suo garbato
essay su Demeter and Persephone in " Greek Studies, (London LA DEMETRA
d'eNNA inoltre, una grazia di tocco per cui, oltre la donna o l'uomo, figuravan
sempre senza stridenza di contrasti la Dea e il Dio. Nel Ratto per contro cosi
quello come questo pregio mancano del tutto. Nulla, che non sia vieto e
grossolano richiamo di motivi abusati,
infuso nell'ordito passionale; le finezze di certi gesti, le sfumature
di talune emozioni gli sono ignote ; i suoi personaggi, non pur non condensano
la loro personalit per l'arte di lui, si scemano per la imperizia fin quel
vigore e scancellano quella determinatezza ch'era lor impressa dalla
tradizionale teologia. Una madre, una figlia, un marito recente, un giudice un
po' pauroso e a bastanza ingiusto: ecco i protagonisti: non importano nomi, non
colori, non linee. Basta, che per ciascun tipo sono applicati i luoghi comuni
della retorica. Che se poi ci s'avvicina alla scena, colpisce la solennit
jeratica dei paesaggi. Lungo periodo di versi circoscrive la Sicilia con un
senso di sacro rispetto. Enna, poco prima che le Dee l'onorino di lor presenza,
invoca da Zefiro splendor di fiori ; ed ha nell'atto una compostezza e un
contenuto orgoglio matronali. La Frigia lontana riceve da Cibele, quasi un
recondito balsamo religioso. Persino il bosco onde Demetra svelle i due pini a
illuminare la notte un lucus Jovis. Lo
sfondo, pertanto, delle scene, se pur varia,
tuttavia sempre ampio alto e severo : non in proporzione con la statura degli attori ;
o meglio, non con la loro statura d'uomini, si con un'altra, fittizia, di Dei.
Onde si a\^erte il primo contrasto, che par creato a posta dal poeta, IL MITO
CONTAMINATO fra la diminuita materia divina della fiaba e l'accresciuta materia
terrena: quasi fosse stato trasferito al paesaggio il decoro che avrebbe dovuto
essere dei Numi. Primo contrasto ; non solo. Ben presto si nota che nessuno dei
consueti attributi stato tolto da
Claudiano n a Demetra n a Cora n a Plutone n ad Atena n ad Artemide n ad
alcun'altra figura celeste del poemetto. Il re dei morti Ila tutta la sua
terrificante corte ; la vergine Figlia ha intero il suo sguito di bellissime
ninfe; hanno l'armi Pallade e la Cacciatrice, quella lo scudo gorgono, questa
l'arco e le frecce; la Madre corre per l'aria su cocchio trainato da draghi e
doma leoni. Il meccanismo oltreumano resta inalterato, e il poeta v'insiste.
Ond' che la vita umana e affettiva vi
poi spirata dentro senza che Fautore mostri di accorgersi del dissidio
che ne risulta. Il quale , a volte, men grave. Ma a volte attinge a dirittura
il grottesco e tramuta il poema in commedia. Quando, gli esempii potrebber
essere moltissimi, desunti ogni cento versi ; basti l'uno pi notevole, quando
Plutone ha rapito Cora e ne ha uditi i primi gemiti e poi gli urli e i lamenti
pietosi e le invocazioni alla Madre, si commuove : " Da tali detti il
feroce e dal pianto vezzoso convinto, e
sente i palpiti del primo amore. Le lacrime (le) deterge con ferruginea tunica,
e con pacata voce consola il mesto dolore (di lei) . E, questa, una innovazione di II 273-276.
Claudiano : gi che le parole che seguono e che vantano di Plutone i pregi qual
marito e re son le medesime che l' Inno attribuiva ad Elios e Ovidio a Giove,
per consolar Demetra. Ma rinnovazione a punto svela a maraviglia a qual grado
di risibile pervenga il poeta nel colorire pateticamente quello spauracchio
" feroce di Aidoneo che egli stesso
ha poc'anzi dipinto mostro a tutte tremendo. Dai medesimi errori iniziali
consegue l'essere artisticamente (non dico logicamente, che sarebbe inutile
rilevarlo) mal connesso il mondo divino del breve poema. Tutti gli Dei balzano
all'improvviso su dalla terra al cielo. Demetra ridiviene di colpo sorella di
Zeus, dopo che il tono dei suoi lamenti e l'incertezza dell'angoscia ce
l'avevano affigurata di Zeus suddita umile e meschina al pari d'una qualsiasi
siracusana. Ciascun dio sembra supinamente soggetto a Zeus; ma Zeus a sua volta
prende a impaurirsi e tremare non a pena Plutone lo minaccia di far liberi i
Titani. Non c'ispirano quindi reverenza n timore cotesti numi ambigui. E
l'invettiva che contr'essi scaglia la Madre nell'ira non per nulla sacrilega : ci scende fredda nel
pensiero, perch vuota cosi di dolore
materno come di ribellion religiosa. Se per poco fosse spinta in l la tendenza
del poeta, i suoi di finirebbero con l'apparirci, nella loro scema sostanza
um^ana, e tracotante pompa esteriore, marionette fngenti per gioco di fili
occulti e virt di orpelli gravit olimpica, in un consesso di stolidi e in una
famiglia disamorata. L'errore d'intuizione artistica in fine culmina in quel
solenne decreto di Zeus con cui s'apre il libroni: il quale vorrebbe mostrare
come, col decretar da Demetra il dono del seme, la suprema volont sapesse
ritrarre un vantaggio agli uomini dalla vicenda di Cora; ma non prova nel fatto
se non quanto Claudiano ha deformato il sommo Iddio. Conchiudendo, il poeta giunto proprio al contrario di quel che era
compito dell'arte: ha dissimilato in luogo di ordinare in armonia ; ha
contrapposto, in vece di avvicinare senza contrasto. Ora, gli elementi del
dissidio erano gi tutti nella primitiva saga di Cora, e avevan perdurato
identici lungo il suo evolversi. E pure non gli avevamo avvertiti: non so che
secreta forza li faceva coerire in unit e bellezza. Se adesso adunque si
frangono e s'iu"tano, segno che non
pure s' svigorita l'arte, ma l'organismo del mito moribondo, e si dissolve. Cosi n pur la
contaminazione di motivi, desunti dalle pi diverse fonti, riesce a infondere
ricchezza di contenuto alla leggenda agreste. Un pi profondo guasto la uccide,
senza rimedio. Onde finisce l'ultima forma di quell'antichissimo racconto
siculo, che una prima volta aveva sentito, per opera di Siracusa, vigoroso
l'influsso greco, e trov una seconda volta, traverso gli AlessandiTni,
arricchimento di bellezza poetica da iDrincipio, gravame in sguito di mal
congesti elementi. Indra e Vritra si combattono. Nel profondo cielo dove il
Sole si vela di ardore, Indra teneva le sue smaglianti mucche al pascolo e
lasciava vagare leggre, qua e col, nell'azzurro. Non sfuggirono a Vritra, turpe
figura di serx^e dalle tre teste, n tentarono in vano la sua maligna cupidigia.
Le rapi, e trassele nell'antro che gli era dimora; e ve le tenne secrete. I ben
colorati animali furono avvolti dalle tenebre, celati sotto un' incupita
parvenza uniforme. Ma Indra corse alla vendetta. Dall'antro, ove segregato si
stava il bottino, gli Per tutto questo capitolo v. Vlndagine, in libro II cap.
Ili ; di cui si citano i nelle note
successive. giunse un profondo e rauco muggito che gli svel e il furto e il
luogo. Vi si precipita, fende con la sua possente forza la grotta, di frecce e
di clava colpisce pi e pi volte il mostro nemico, l'abbatte, lo uccide. E
riconduce le mucche nel cielo, onde lasciano esse scorrere il latte fin sopra
la terra. Cosi nel Rigveda indiano si adombra per noi la vicenda del temporale,
i bianchi cirri sparsi per l'azzurro mutandosi in torvi cumuli, che dopo tuoni
e lampi scatenano benefica la pioggia. L' odio, che un' anima paganamente
infusa nella natura nutre acre contro il velame dal quale tal volta celato il Sole agli sguardi, ha
sentito nelle nubi gravide d'acqua e di fuoco la presenza di una forza attiva,
e nemica cosi della luce benefica come della fiamma benefica, per che si
compiaccia, in vece, di tenebrori e di vampe distruggitrici. Vampe escono dalla
caverna di Vritra : fulmini percuotono 1' opere umane e le annientano. Il bujo
della notte; l'ombra dei secreti abissi sotterranei, ove occhio non si spinge,
e che, quando spiragli appajono traverso il suolo, atterriscono i cuori ;
l'atra tinta del fumo, che g' incendii sprigionano, pregno di odori corrotti,
su dai possessi degli uomini ; l'ambiguo rossastro delle lame di fuoco, che
s'insinuano avide fra cosa e cosa, per far di tutte cenere uguale ; la negra
cortina dei cumuli ; l'abbagliante incandescenza del baleno, che acceca le
pupille: questi colori queste Cfr. fino a pag. 163 E. PRESSO gl'indiani E I GRECI 161 forme
quest' energie si accostano nel pensiero primitivo, si compongono variamente e
diversi si foggiano in figurazioni molte, ripetendo per con ritmo unico il
malefcio costante e il duro danno, in antitesi violenta contro il dono, in
cui prodigo l'Astro, di luce e di
calore. La fiammata che cuoce l'alimento
una scintilla tolta dal Sole per gli uomini : e, come il Sole, ha virt
di respingere l'oscurit intomo a s. La fiammata in vece che rade una selva nemica del Sole perch nemica dell'uomo: e,
poi che teme la luce solare, s'avvolge di bujo. La mente bambina non sa che la
tenebra un modo della luce, e che il
fuoco un solo principio, distrugga o
giovi. Contrappone le parvenze ; crea, dagli effetti, delle antinomie fallaci
nelle cause. Cosi fatto l'atteggiamento fondamentale del pensiero. Che comune, come si sa, agli Arii ; e comuni, se
bene traverso le differenze a volte non piccole, sono le forme di cui si veste
e le associazioni psichiche di cui si vale : l'antropomorfismo, ci sono, ed i
nessi fra la notte e il sotterraneo mondo, fra il bujo e la fiamma malefica,
fra gli ascosi meandri del suolo ed il cielo. E questo d'ogni singolo mito del
fuoco, quale che sia per esserne il valore pi immediato, permane il riposto
senso di allegoria naturalistica. Anzi, in grazia a punto di essa affinit di
concetti, poco importa se la fiaba si connetta pi tosto con la freccia del
fulmine che squarcia il perso involucro dei nuvoli, o pi tosto col dente
infocato che appare impro\^iso e avido tra le sph'e di un fumo caliginoso, o
altrimenti con altro. Griacch la fantasia primigenia, la quale ha narrato sotto
la specie dell'uomo una spettacolosa vicenda della natura, deve esser stata
indotta dalle medesime sue associazioni analogiclie a ripetere, nelle aridit
della concezione, un solo racconto per fenomeni simili. Ci spiega perch, fuor
del E-igveda, il mito ritorni bens presso assai popoli arii, ma presso pochi
come l simboleggi il temporale. Presso gli Eranii tramutato si , pur serbando
parecchie simiglianze, in una forma, per cui Tistrj^a e Apaosha si combattono ;
e a dirittura rinnovato in altra forma, la quale, per il nesso che nel pensiero
gi intercede fra tenebra e male, luce e bene, trasporta il mito a significare
il contrasto tra Ormuzd il buono e il cattivo Ahriman. Che se, dopo averle
spiegate, non grande conto da farsi di
queste trasposizioni della fiaba da uno ad altro fenomeno ; molto maggiore se ne
deve attribuire in vece all'alterarsi o al persistere di taluni particolari
significanti. In essi il segno di
qilanto si accosti o allontani dalla saga originaria il nuovo racconto : simili
a quei tratti caratteristici che permangono a contraddistinguere il volto di
una famiglia nei secoli. E quando del mito si
poi perduto tutto il senso riposto, restano testimoni veritieri ed
irrefutabili dell'origine prima e dimostrano che in fondo scarsa fu la
elaborazione innovatrice sul modello pi antico. Quando in vece un significato
s'intrude sopra e contro l'originario e lo modifica o lo soffoca, si perdono
insieme i primitivi particolari episodici, come un muro coinvolge nella sua
caduta gli affreschi. o solo tanti se ne serbano quanti non disconvengono al
nuovo dominante pensiero. Giaccli l'energia conservatrice insita in quei
particolari costituita, in somma, da una
non pi cosciente memoria dell'importanza essenziale clie tutti, in vario modo,
avevano, quando ancora la saga travestiva un reale fenomeno. E cessa pertanto,
allorcli al ricordo incosciente sottentra nel racconto la coscienza d'un
contenuto e d'un fine diverso. Un fine e un contenuto del tutto nuovi ha
assunti il mito primitivo appresso i Greci. Ed ecco difatti tramutarsi anche la
foggia esteriore e l'intreccio dei casi. Come il furto di buoi perpetrato a
danno d'una divinit solare venisse narrato insieme con la successiva vendetta
nelle saghe antichissime degli Elleni, ignoriamo : e ci sembra inutile pel
nostro assunto la congettura. Certo che in secolo a bastanza antico la
metamorfosi del racconto si rivela profondissima. L'omerico i Inno a Ermes la nostra fonte in una sua ampia parte.
Ed pervaso tutto dalla minore anima
greca: quella che baratta e commercia; che ruba con astuzia, e nega con
impudenza ; che scaltra in ben parlare,
e avvolge di parole artificiate, di periodi fluenti, di frasi ambigue,
d'esclamazioni infinte e do li) Tralascio tutte le quistioni su gli "
strati,, la cronologia, ecc. dell'/nno, come estranee al tema. Confronta A.
Gemoll Die homerischen Hymnen (Leipzig 1886) 181 sgg. e T. W. Allen and E. E.
Sikes The homeric hymns (London 1904) 128 sgg. mande coperte, l'infelice
derubato ; che giura invocando i men pericolosi di, nella speranza di averli
meglio indulgenti ; che non ignora alcuna furberia, e si vanta di tutte ; e
nessuno pi le crede, e ognuno le s'arma di sospetto, ma ne resta poco o molto
gabbato. L'uomo il quale discorre a lungo e lascia i suoi detti vagare per
l'aria, incurante se assai ne cadano a vuoto, certo che giungono in parte al
brocco, e tiene fra tanto i suoi occhi, sotto le palpebre basse, fissi qua e l
su oggetti che non guarda; il Grreco dei proverbi e dei motti ironici: vive
intiero, per una fresca vivacit di dipintura, nel ladro di buoi. E lo ritrae la
maggiore anima greca, la virile, cui la cupidigia di guadagno s' congiunta con
la brama di gloria, cui il buono anche
bello, e forza indirizzata al suo fine
anche il bene. Ma fra questa maggiore e la minore anima greca i tramiti
non sono affatto tronchi. Onde una celata coscienza della superiorit di quello
spirito che pu, se voglia, rinchiudere in un labii"into di dubbii e di
certezze, entrambi illusorii, l'intelligenza del suo interlocutore, serpeggia
per il racconto. E un sorriso di compiacimento interno lo illumina : il sorriso
mal palese degli aruspici, secondo Catone; il sorriso, dagli occhi assai pi che
dalla bocca, con cui gli ambasciatori d'Atene dovevan accogliere, pacati
d'indulgenza ironica, la dichiarazione frequente dei Peloponnesiaci : "
Grli Ateniesi discorrono troppo bene perch si possa lor credere . C un biasimo tacito del furto ; ma c' una lode
sobria del ladro abile. E la commedia nasce. Comico, il racconto eh' era stato
tragico allorquando Vritra cadeva sotto la invitta clava di Indra. Perno del
mito diviene adunque l'astuzia clie elude la forza. I protagonisti sono mutati.
Caduti taluni particolari, altri s'improvvisano dal largo patrimonio
novellistico. Lo sfondo diverso, perch
alla furberia del mortale compete scena la terra, come alla violenza del
mostruoso iddio sede il cielo. Resta la pascente mandra divina, di splendido
aspetto ; e il secreto del furto ; e l'antro ove l'ombra accoglie i mugghianti.
Apollo il derubato, Ermes il ladro;
Ermes, nella sera del giorno in cui nacque, piccolo bimbo di inverosimile forza
e di mente gi dotta nelle oblique vie. Fra il neonato dalla tenera pelle ed
esigua statura, e il Dio vigoroso e alto, si svolge la principal scena. Due
altre la precedono. La prima narra il furto. Non opera di violenza, ma di scaltrezza. I buoi,
cinquanta, pascevano nella Pieria mentre " con il suo carro e i
cavalli il Sole spariva sotto la terra.
Ermes, per celare ogni traccia dell' abigeato sul suolo sabbioso, condusse le
bestie all'indietro, intrecciando per s accorti e leggeri sandali con vincastri
e sarmenti. Giunto presso TAlfeo cela la refurtiva in una grotta " da la
volta elevata . Poi, ritorna presso la madre, sul monte Cillne. E ha luogo la
seconda scena . E di Cillene, tosto, egli ai divi gioghi toi'nava in sul
mattino ; n per la lunga via alcuno scontrossi con Vv. 142 sgg. Edizione T. W.
Allen (Oxford l'abigeato di caco lui o tra gli Dei beati o tra i mortali
uomini; e non latravano i cani. Ermete, il benefico figlio di Zeus, obliquo per
il serrarne della casa scomparve, simile a vento d'autunno o pure a la nebbia.
Avanza dix-itto nell'antro fino al ricco recesso, piano coi piedi movendo : n
cos fa rumore sul suolo. Subitamente entr nella zana l'inclito Ermes, le fasce
a le spaUe avvolgendo, come d'un piccolo bimbo che in braccio alla balia i lini
scompone coi piedi . Ma non sfuggiva l'Iddio alla sua madre Dea, che gli disse
parole. " E perch mai tu, o ben furbo, e donde in ora di notte ne giungi,
o cinto d'inverecondia ? Ed ecco te pi'eveggo, da indissolubili vincoli intorno
allo sterno legato, uscir da queste soglie fra le mani di Apollo, o finir per
recarti a predar nelle valli al pari di ladro. Prditi, stolto : che per grande
sventura ti generava il Padre agli uomini mortali e agl'immortali Dei . Ed
Ermete a lei scaltre parole rendeva : " Madre, perch queste cose tu
m'ammonisci, come ad un piccolo bimbo, che malizie ben poche conosca nel cuore,
e timido tema fin della madre i rimprocei ? Ma io un'arte apprendere voglio,
ch' la pi bella (2). N fra gli Dei immortali spogli di doni e negletti, quivi
restando, ci rimarremo come tu vuoi. Meglio
per sempre frequentar gl'immortali ricco ed agiato di beni e di messi
che nella casa sederci, nell'oscura caverna. Quanto ad onore, il convenevole
anch'io voglio ottenere, ben come Apollo. E se il mio padre non me lo dona, io
stesso per certo tenter che posso dei rapinatori divenire il capo. Che se mi
ricerchi il figlio dell'illustre Omesso il v. 153. Omesso il v. 167 ch'
corrotto. Latna, altr'e tanto (io mi credo) avrebbe in ricambio e anche pi : mi
reco in Pitne al saccheggio della grande sua casa, molto da quella rubando
stupendi tripodi ed oro e lebti, molto sfavillante ferro, e vesti di molte. Tu
certo vedrai se ti piaccia . n senso d'umanit e la sostanza greca che sono
divenuti il nucleo nuovo del mito appaiono qui in tutta la loro vivace
contrapiDOsizione alla forma indiana di cui fu veduto. Perch la difesa, che il
poeta adorna cosi bene su le labbra bambine,
un breve mal represso anelito di simpatia per il ladro perspicace ed
ardimentoso, simile a profondo brivido onde nelle fibre arcane della carne si
ax)provi quel che la ragione condanna. Ben altro era l'odio atterrito per cui,
nel Rigveda, il rapinatore trascinava la sua mole serpentina nel dimenio
orrendo delle tre teste. L, freme il ribrezzo contro Vritra, l'ignobile, e
l'ombra della sua caverna, dalla quale il mugghio bovino suscita un' eco di
sgomento negli animi. Qui, noi abbiamo ormai preso parte in favor del breve
Ermes fasciato, che si crogiola di caldo nella zana, orgoglioso senza pudore di
quanto ha compiuto, pronto a difender s e la i)ropria opera, certo di saperla
proseguire nel futuro. E non v' dubbio
che a Maja piacciano le vesti che l'arti del figlio le recheranno rapite! Le
due spanne onde il corpicino si misura sono molto piccola cosa di fronte alle
cinquanta terga di tori: e nella grazia furbesca del contrasto, che la
onnipotenza divina giustifica e legittima, sta il motivo della simpatia e
nostra e del poeta. l'abigeato di caco Come lui scorse di Zeus e di Mjade il
figlio, adirato pel furto dei bovi l'arciero Apollo, dentro la fascia odorosa
s'immerse : quale del legno la cenere molta brace di ceppi nasconde
all'intorno, tale celava s stesso Ermes, il Lungisaettante vedendo : in breve
raccolse il capo le mani ed i piedi, come se per bagno dolce sonno chiamasse a
ristoro, sveglio restando per. Il figlio di Leto e di Zeus riconobbe, n gli
sfugg, la montana bellissima ninfa con il suo figlio, bimbo piccino, avvolto
dentro ingannevoli astuzie. Della grande casa i recessi mirando, con la
splendida chiave tre ripostigli schiudeva, di nettare colmi e di gradita
ambrosia : molto oro ed argento dentro giaceva, molte della Ninfa purpuree
vesti e smaglianti : tutto che dei beati dentro sogliono avere le sacre dimore.
Della grande casa i seni esplorati, il Latoide con detti parlava ad Ermes
illustre. " bimbo che nella zana ti giaci, mostrami i bovi : presto, che
tosto in disdicevole modo contenderemo fra noi. Ti piglier ti scaglier nel
fosco Tartaro nella tenebra triste irreparabile ; n te la madre n il padre alla
luce potr ritrarre ; ma' sotto terra errerai primeggiando fra i bimbi . Ed
Ermete a lui scaltre parole rendeva : " Latoide, qual mai aspro discorso
parlasti ? e perch ricercando agresti bovi qui sei venuto ? Non vidi, non so, n
d'altri intesi parole, n mostrare potrei, n vprenderne premio, n somiglio ad un
ladro di buoi, uomo possente. Non questo
da me, e prima altre cose mi piacciono : il sonno a me piace, ed il
latte della mia madre, e attorno alle spalle le fasce, ed i tiepidi bagni. Vv.
235 sgg. Nessuno potrebbe sapere donde sorse tale contesa, che per vero gran
maraviglia fra gl'immortali sarebbe che un bimbo nato da poco varcasse la
soglia fra mezzo di bovi silvani. Oh male tu parli ! Ieri mi nacqui ; i piedi
son molli ; scabra, di sotto, la teri'a. Ma se vuoi, su la testa del padre un
grande giuramento far : n io affermo n io stesso fai causa, n vidi alcun altro
ladro dei vostri buoi checch i bovi si sieno, poi che per fama sol tanto ne odo
Cosi dunque parl, e di frequente con le palpebre ammiccava, inarcando le
ciglia, e qua e l guardando . Ma a lui lene ridendo l'arciero Apollo rispose :
" amico, in dolo scaltro e in inganni, io preveggo per vero che spesso per
invader le ben abitate case durante la notte, pi c'uno stenderai sul suolo, senza
rumore ripulendo la casa : tale tu parli. E molti nelle valli dei monti
molesterai agresti pastori, allor che, bramoso di carne, t'imbatta in mandre di
bovi o in pecore lanute. Ma via! l'ultimo ed estremo sonno se non vuoi dormire,
scendi dalla zana, o compagno della nera notte. Questo per certo anche poi tra
gl'immortali avi'ai officio, di esser per sempre chiamato capo dei ladri . Cosi
disse adunque e il bimbo prendendo trasse Apolline Febo. Allora, il forte
Argicida, tra le mani levato, tutto serio, un presagio emetteva, ardito servo
del ventre, e messaggero impronto. Dopo esso, starnuti tosto : poi che Apollo
l'udiva, da le mani sul suolo l'illustre Ermes gittava. Gli si mise dinanzi e,
pur affrettando il cammino, Ermes gabbava ed a lui diceva Omesso il v.
l'abigeato di oaco parole : * Coraggio, o fasciato, figlio di Majade e Zeus:
con questi presagi trover pure, alla fine, i capi gagliardi dei buoi : tu, per
altro, m'insegnerai la strada . La
contesa continua un po', fin che si decidono entrambi a recarsi nel cospetto
del Cronio Zeus per aver giustizia. Li Ermete giura di nuovo solennemente il
falso ; ma poco vale. Pur troppo Zeus conosce ogni cosa e anche dell' abigeato
ben sa. Sorride, il gran Dio, e comanda ai due Dei di cercare insieme "
con animo concorde i buoi e ad Ermes
ordina d'indicarne il rifugio. Ubbidiscono. E la commedia finisce come le
commedie sogliono terminare: con una buona pace. Di essa rimangono cardini
notevoli l'accortezza del trascinare le mucche all'indietro per disperderne
l'orme e travolger gl'indizii ; e l'insistente ammiccante spergiui'o di Ermes
dinanzi ad Apollo ed a Zeus : particolari che, pur appartenendo forse ad
antiche trame novellistiche, sono tuttavia qui per il loro piglio maliziato
probabilmente a bastanza tardi. Presso i Latini. Le fila s'intrecciano poi
presso gl'Italici, e presso i Latini in ispecie . N della trasposizione, per
cui il mito vien riportato da un fenomeno all'altro analogo ; n Cfr., di qui
fino a pag. 182, V e (in parte) VI. dell'intrusione, per la quale un nuovo
significato scaccia, d'entro lo schema leggendario, l'antico, e rinnova per
conseguenza i particolari del racconto : si deve tener parola a proposito della
saga romana di Caco. Altre vicende essa ha subite allor quando ci appare
formata in et di storia. Non quelle. Segno certo, che rimase da prima ben
radicata nella memoria delle generazioni, approfondita nel sangue della stirpe
; che vi si cristallizz in una foggia, la quale non aveva pi il contenuto
cosciente della antica, ma dell'antica tutti serbava i tratti, anche i pi
minuti, e dall'antica ripetendo il suo essere ne diveniva veneranda e
intangibile. E per allora che r elaborazione artistica sopravvenne con voce pi
sicura e lievito pi possente, non pot distruggere per ricreare ; dovette costringersi
nella materia, n sorda n asx^ra, ma irrigidita dai secoli : sopravveniva
difatto troppo tardi. Il rispetto, per vero, di tutti i particolari, che furono
proprii della saga primordiale aria e che si rinvengono intatti nel Rigveda,
contraddistingue, senza eccezione, la serie intiera delle vicende che il
racconto attraversa di poi, tanto nei carmi dei poeti, quanto nelle storie e
nelle interpretazioni dei dotti. La presentazione dei protagonisti. Per che
forse la differenza pi notevole fra il racconto indiano e il probabile, d'una
probabilit ottimamente fondata, i^rimitivo racconto latino, consista nei mutati
nomi delle iDersone. N da ammirare. Sono
molteplici gli aspetti onde un qual siasi spettacolo naturale si presenta
all'occhio ingenuo : e tanto pi quanto meno il pensiero scorge tra i varii il
nesso unico e ha vigoria per riportare ciascun parvente alla sola sostanza.
Ogni aspetto poi si presta a tramutarsi, da prima, assai pi che in una
personale figura di Dio, in un nome cui risponde una sbiadita ombra divina.
Spiccatisi pi tardi dal comune ceppo ario i rami diversi, l'evoluzione
linguistica da un lato trasforma quei nomi per fenomeni fonetici appresso le
differenti razze; dall'altro, il caso lascia smarrire taluni di essi, e taluno
fa prevalere, addensando di questo il contenuto e concretando il valore . Cosi
l'intuizione fondamentale della fiamma aveva certo moltissimi termini che le
corrispondevano : ma uno ne trionfava l, ed un altro qui. Onde accade che un
solo mito del fuoco possa rinvenirsi in fogge bens quasi identiche presso
gl'Indiani e i Latini, ma non mai con identici nomi. La presentazione, adunque,
dei protagonisti. Quando i Latini (e forse si potrebbe dii-e senz'altro
gl'Italici ; ma, se bene intorno a ci le loro leggende ci appajono per barlumi,
in fondo ne siamo all'oscuro, ed quindi
prudenza non affermare alcun che) ripeterono l'antichissimo mito indoeuropeo
senza ancora averne dimenticato il valore naturalistico, s'indussero ad usare i
nomi di Caco e di un non sappiamo se Garano o Recarano. Di fronte ai quali la
storia si trova in ben diverse condizioni. Non solo il primo Cfr. G. De Sanctis Storia dei Bomani I
(Torino 1907) 88. ben certo, l dove il secondo non n pur formalmente sicuro e varia nei due
testi ove appare sol tanto ; ma quello
analizzabile con un etimo di cui riflessi si rinvengono pure fra i
Grreci, e questo offre difficolt molto maggiori. Glie in Caco ritorni la radice
che anche in xaio) (" brucio, ardo ) e nel prenestino Caeculus, probabilissimo e consuona bene alla sua
natura ed ai suoi offcii. Ma Garano-Recarano
restio a tentativi cosi fatti ; ed
preferibile comprenderlo fra gli di cui non di certa analisi il nome. Inoltre a lui tocc
di esser pi tardi soppiantato da un altro Iddio, ond' impossibile definire,
quali sieno gli attributi suoi proprii, e quali al personaggio sieno stati
aggiunti dal secondo attore. Unica certezza, cbe se fu prescelto a significare
la forza della natm-a la quale nel Rigveda esprime Indra, da Indra non differ
forse troppo. E difatti Caco non differisce n pure, nel tutt' insieme, molto da
Vritra. Indubitata la forma mostruosa ;
certo l'atto del vomitar fuoco da le
fauci e nerissimo fumo ; congetturabile, l'orribile cervice tripartita. Un
antro immane sua dimora, fra le tenebre
cupe. AlFintorno, egli rapisce e distrugge: n forza gli resiste, n ostacolo lo
rattiene. Il terrore lo circonda. L'odio invano lo minaccia. Tale sua effgie
ripugnante ed immonda per si deve riferire ad un secondo stadio del suo
evolversi mitico, perch son tracce palesi d'una sua pi vasta comprensione. Egli
dovette, ci , nell'inizio, valere come non pur malefico si anche fuoco
benefico: e senza dubbio i due aspetti antitetici erano potenzialmente, pi che
in lui, 174 IV. - l'abigeato di caco nel suo nome. Difatti sotto sembianze
piacevoli ed amicali Cacu ritorna presso gli Etruschi in certi specclii dipinti
che ne pervennero unica reliquia. E, sopra tutto, in Roma attestato il culto d'una Caca^ cui vergini
avrebbero con assidua cura vigilato un sacro focolare, non dissimilmente da
Vesta. Eorse il termine non significava da principio se non il fuoco nell'atto
dell'ardere e in quanto arde ; e solo poi le due contrapposte concezioni della
fiamma confluirono in esso, e valsero a derivarne ben due figure divine. Il terzo
stadio in fine della sua evoluzione Caco toccava quando nei posteriori
tentativi di genealogie divine divenne figlio di Vulcano, che aveva a sua volta
assunto il primo posto fra i Numi della fiamma. Dei due protagonisti, il furto
e il duello si svolgeva quasi certamente in modo simile al racconto del
Rigveda. Vi ritornavano il muggito bovino rivelatore dell'inganno; le frecce e
la clava, forse ; con certezza, la distruzione violenta della caverna e
l'abbattimento del mostro tra il fragore il fumo ed il fuoco. E tutto il mito
latino si esauriva, per quanto ci
concesso sapere, dentro questi termini : senza n originalit sua propria
di particolari e di figure n smaglianza singolare di colorito formale. Un primo
arricchimento gli deriv dall'avere, in proceder di tempi, localizzato con pi
esattezza la fiaba, topograficamente vaga nelle origini, come quasi ogni altra.
Nello spazzo che s'apre su la riva sinistra del Tevere tra il Palatino a
oriente, a sud l'Aventino, il Campidoglio a nord, e dove erano nell'et storica
il Foro Boario e il Velabro, trov la sua fssa sede la saga. E fu pi vicina alla
terra, e pi lontana come dal cielo cosi dal suo proprio senso naturalistico.
Fra i colli romani essa divenne il racconto di avventure terrene, il ricordo di
tempi lontanissimi, di cui testimoni unici restavano i monti ed il fiume. Prese
a trasformarsi in una leggenda che la pretende a storia accampando una verit
fallace e diversa dalla sua prima, ben j)u effettiva. Un particolare locale
s'insinua : la caverna di Caco pensata
nel monte Aventino. E, assai pi di quanto possiamo scorgere nelle
testimonianze, i luoghi ove poi saranno le scalae Caci e Vatrium Caci danno
contributo di piccoli nuovi tocchi precisanti alla fiaba. La quale si forma
pertanto col in uno stadio, che il suo
primo fra i Latini, e di cui il colle Aventino e i due numi Caco e
Garano-Recarano costituiscono i iDerni. Acquistare una sede significa per per
un mito, non pure raggiungere una consistenza e saldezza maggiori, bensi
allargarsi via via per attinenze nuove, suggerite dai luoghi ove altri miti son
radicati. E un contagio cui il suolo serve di conduttore: e che qui fu invero
non presto, ma fu per compenso profondo. Quando il dio greco Eracle penetrasse
nel patrimonio leggendario latino e sotto la veste di Ercole venisse
definitivamente adottato e sar del tutto
incerto . Senza dubbio poi alquanto tempo dovette trascorrere innanzi ch'egli
potesse fondersi con gli Cfr. De Sanctis St. d. R. l'abigeato di caco di latini
a lui simiglianti o per qual si voglia modo contigui : prima, dovette divenire
familiare, ottenere culto e insediarsi sugli altari, esser conosciuto anche nei
suoi minori attributi, assimilarsi infine air ambiente. Non presto dunque dall'
" Ara massima ove nel Foro Boario
gli si faceva sacrifizio, presso al Palatino, sopravvenne ad assorbire in s ed
annientare la figura di Grarano-Recarano. La quale difatti non cade in cosi
profondo oblio clie non se ne serbino tracce fra gli eruditi dell'et imperiale.
Ma come l'ebbe assorbita. Ercole prevalse onninamente. Il dio solare poco noto
che era di fronte al dio solare notissimo, impresso di grecit? A entrambi,
sembra, competevano e le frecce e la clava: simboli dei raggi della Stella. E
le lotte erculee avverso l'Ade o avverso Neleo non erano se non se i riscontri
analoghi del duello fra Grarano-Recarano e Caco. Ma l dove l'uno apparteneva a
una religione poco evoluta qual la latina, l'altre recavano con s grande
maturit religiosa. Una poi di cotesto imprese di Eracle, la fatica con cui
uccise il ^' ruggente Gerione e gli tolse la stux)enda mandra, offriva il
pretesto per rinsaldare quel nesso fra Ercole e Caco, che circostanze di luogo
e simiglianza di forma e contenuto tanto favorivano. Fra Eritia nell'occidente
spagnolo, ove quella fatica avrebbe avuto luogo, e la Grecia, cui doveva
ritornare l'eroe, l' Italia era ponte, e nell' Italia Roma. Della positura
geografica approfittarono molti facitori di saghe per le loro combinazioni ;
Per es. Stesicoeo nella sua Gerioneide: cfr. U. Man per nessuna forse cosi
felicemente come per la latina di Caco. Giacch la vittoria conseguita in Eritia
sul Ruggente giustificava, oltre che la presenza di Ercole su l'Aventino, il
possesso della mandra che Caco rapisce. In progressione, quanto pi Ercole
prevaleva su Recarano-Grarano, tanto pi s'allarg la leggenda. Vi si aggiunsero
i particolari sul culto romano dell'eroe nel Foro Boario, e se ne fece tutto un
paragrafo nuovo del racconto, contraddistinto per profondi caratteri dal resto.
Non pi il mito della natura; ma l'impasto non sempre coerente di etiologie, con
le quali si tenta di spiegare l'uno o l'altro aspetto del rituale, un costume,
un gesto, projettando il tutto, senza prospettiva di tempo, sopra uno schermo
unico. Del paragrafo che cosi accresce la leggenda, uno strato appare, se
l'ipotesi non erra, di unica origine; rispetto a cui sussistono inserzioni pi
tarde. Addette al culto di Ercole nell'Ara Massima erano in et storica, prima
che il servizio vi fosse assunto da pubblici ufficiali (anno 312 a. C), le famiglie
dei Potizii e dei Pinarii ; se non che a questi ultimi sembra che non spettasse
come a quei primi di partecipare al banchetto in cui dopo il sacrifizio si
consumavano i resti delle vittime. Era inoltre uso di offrire al Nume la
decima, per consueto, d'un proprio guadagno o CUBO La Urica classica greca in
Sicilia e nella Magna Grecia I (Pisa 1912) (" Annali della R. Scuola
Normale Sup. di Pisa l'abigeato di caco d'un bottino conseguito in guerra : e
l'offerta era lecita cosi a generali come a privati cittadini. Il primo fra
questi fatti e forse anche il secondo costituiscono la trama originaria della
leggenda etiologica. Per essa Ercole avrebbe instituito, subito dopo la sua
vittoria su Caco, un altare, l'Ara Massima, e vi avrebbe sacrificato la decima
del bottino strappato al mostro: sacrifizio cui sarebber stati partecipi membri
dei Potizii e dei Pinarii, con zelo e per tempo quelli, con ritardo questi onde
non poteron partecipare al banchetto delle viscere. Ercole decret allora che
tale nei secoli restasse il costume fra le due famiglie. Se non che dal culto
erculeo dell'Ara le donne erano escluse. Anche qui occorrendo un motivo, non si
pens che in Roma Ercole anche dio della
generazione maschile ; ma si disse che le donne avevano offeso il Nume, in qualche
maniera, durante quel primo sacrifizio. L'etiologia dev'essere a bastanza
tarda, e discorda nei testi ov' riferita. Per gli uni Carmenta (e la Porta
Carmentalis che ne ha il nome prossima
al Foro Boario) avrebbe respinto l'invito di assistere l'eroe presso l'ara ; o
vi sarebbe pervenuta in ritardo : ancor pi che i Pinarii ! Per una redazione
forse pi antica in vece, donne rinchiuse presso il Velabro pel culto della Bona
Dea avrebbero, per mezzo della loro sacerdotessa, rifiutato al Dio sitibondo di
concedergli un po' d'acqua, per non lasciar violare il sacrario da un uomo :
onde la vendetta di lui. E anche recente , sembra, il nesso che si strinse fra
Ercole e un'ara, esistente vicino alla Porta Trigemina non lungi al Foro
Boario, dedicata Jovi inventori. Certo
secondario, e per ci non da tutti accolto, il particolare che essa fosse
eretta da Ercole per ringraziare, col sacrifizio di un giovenco, il suo padre
Giove. Ora, se tutti cotesti accrescimenti leggendarii, i quali si commettono
con la figura di Ercole ed il culto di lui nell'Ara Massima, rappresentano, pur
tenendo conto di talune interpolazioni pi tarde, nel complesso un secondo
stadio del racconto; un terzo venne di poi a sovrapporsi. Entr nel mito la
figura di Evandro. Le cause furono, come per Ercole, due. L'una identica per entrambi : la contiguit delle
sedi ; poich di Evandro era un altare presso la Porta Trigemina non lungi
all'Aventino e al Foro Boario. L'altra
analoga, non uguale. Come per Ercole era valsa la simiglianza di lui con
Garano-Recarano, cosi per Evandro influ la forma del suo nome. La mente non
matura che cerca di motivarsi le tradizioni, quasi sem^^re ritiene d'aver tutto
spiegato allor che ha supposto l'etimo d'un termine. Caco ad esempio venne, e
forse da eruditi greci, accostato per omofonia all'aggettivo xaTt^ ^' cattivo ^
; il quale parve del resto convenir bene al mostruoso ladrone. D'altra parte
Euander che volto in greco divenne EdavQog, fu inteso " buon uomo . Indi
fu facile il riscontro tra il " malvagio,, dell'Aventino e il ' buon
uomo della Porta Trigemina. Evandro era,
in una leggenda che qui non l'abigeato di caco accade di analizzare, un signore
di Arcadi dalla Grecia venuti a insediarsi sul Palatino, accanto agli Aborigeni
retti da Fauno. La sua persona pareva dunque acconcia a esser legata per pi
attinenze con quella di Ercole e Caco; e se il racconto lo avesse accolto in et
pili antica senza dubbio troveremmo una volgata concorde intorno a ci.
L'accoglimento in vece fu tardo, e la volgata non esiste. Esistono racconti cbe
oscillano, dalla forma in cui egli
ostile ad Ercole, alla forma in cui egli ospita Feroe e gli rende culto.
Ma evidentemente la natura stessa dei suoi ra^Dporti etimologici con Caco rende
certo ch'egli dovette in prevalenza figurar contro di questo e a favore del
greco figlio di Zeus. In questo medesimo terzo stadio venne a confluire,
confondendovisi, e innestandosi con Evandro, un'altra tarda invenzione. Quella
Carmenta, di cui era un anticbissimo sacrario presso la Porta Carmentalis e che
gi vedevamo usufruita per una etiologia del racconto, fu in altra guisa
sfruttata per accrescere di solennit la venuta di Ercole in Roma e immetterla
nelle tradizioni pi propriamente indigene. Ella avrebbe, cio, predetto in un
suo vaticinio l'avvento dell'eroe e la futura divinit di lui. Il fato cosi
rendeva veneranda la gesta; e la favoletta serviva assai bene a vantare per
antichissimo fra tutti il culto romano di Ercole. Tarda trovata, che si foggia
tal volta coi nomi, in vece che di L'analisi v. in De Sanctis St. d. R.
Carmenta, di Nicostrata, di Temide o, presso Greci, con quel dell'oracolo
Delfico. Tarda, che si trov la maniera di unire all'altra di Evandro questo
facendo figlio o amico della profetessa, e col ricordo del vaticinio
giustificando l'accoglienza di lui al Tirinzio. Basti di coteste invenzioni,
cosi povere e recenti che anche presso i poeti mal si collegano col restante
racconto. E impossibile dire chi per primo abbia in un testo scritto accolto il
nucleo leggendario pi antico, dai successivi stadi! delFet volgenti deformato
in parte, in parte svolto e compiuto ; chi abbia, bene o male composto un
organismo di quel che era opera, non del tutto compaginata, d' una lenta e
libera evoluzione traverso slanci fantastici ed erudizieni grame. Sol tanto si
pu congetturare che Ennio commettesse nel suo poema la materia come del primo
(Caco), cosi anche del secondo stadio (Ercole), al meno nella sua pi vetusta
parte. E di poi un annalista del II sec. a. C. desse adito al terzo stadio
(Evandro) ed alle sue propaggini. La quale ipotesi potrebbe sussistere
parallelamente ad un' altra che giustifica assai bene taluni aspetti del mito
di Caco ax)presso gli scrittori dell'et augustea. E probabile difatti, la fiaba
greca di, Ermes ed Apollo, che l' Inno omerico divulgava in degna veste d'arte
e con autorevole efficacia, non rimanesse senza influsso su quel mito il quale
tra i Latini riproduce, con fedelt maggiore, lo stesso unico spunto allegorico
indoeuropeo. E se l'abigeato del figlio di l'abigeato di caco Maja fu nella
mente di talun culto scrittore, come Ennio, non privo di analogie con
l'abigeato di Caco, da quello questo ebbe forse a ripetere qualche particolare
attinente pi tosto all'astuzia che alla forza. Tale lo scaltro accorgimento del
condurre per la coda all'indietro i buoi fino all'antro per disperderne le
tracce ; tale anche lo spergiuro del ladro che nega il furto : questi difatti
ritrovammo nella G-recia tratti essenziali della saga rielaborata. Certamente
per, quanto al di l di coteste innovazioni e giunte s' conservato intatto il
primo profilo del mito, cosi che i particolari posteriori si sono aggregati ma
non sostituiti ai precedenti ; tanto se ne son venute alterando la luce e la
prospettiva e se n' obliterata la coscienza. Chi ricorda pi se la rapina e la
vendetta narrino del temporale che il Sole vince o del fuoco malefico e
tenebroso cui la luce nemica ? Ora, il
fenomeno naturale lontano : la terra il
cielo il fiume ^ sono intorno alla leggenda, non dentro ; la colorano, non la
costituiscono. Ora, essa duplice nella
sua parvenza. Narrata con un certo abbandono della fantasia, con una cura
precisa di non omettere le pi vivide tinte,
una fiaba, da ripetersi perch gradita, da ripetersi con arte per non
guastarla, da apprezzarsi come l'eco di due cose venerande : il tempo e la
bellezza. E i poeti la toccheranno con il loro tocco pi lieve e pi esperto.
Tramandata in vece con un ritegno sobrio che la contenga dentro i margini
dell'umano e dell'eroico, riman sospesa ambigua tra la realt e il sogno, che la
fiaba muore e non storia ancora;
riempirebbe la lacuna dei tempi bui, ma non elimina ogni dubbio e non genera
certezza di conoscenza. E gli storici dotati di senso d'arte la riprodurranno
guardinghi e pur non spiacenti. Una fiaba, dunque, presso e il poeta e lo
storico. Ma una, cui quello pago di
ammirare, questo desideroso di credere.
Noi non possediamo per n i versi degli artisti pi antichi n le prose dei pi
antichi annalisti che in Roma accolsero il mito : solo li conosciamo riprodotti
e compiuti nell'opere mature dell'et di Augusto. ni. I Poeti. Quando, dopo
Ennio, l'arte incaston nel verso il fulgore della fiaba, gi la tecnica aveva
polito r esametro e, temprandolo per la forza l'aveva reso agile per la grazia
delle movenze. La parola regnava : scelta, limata, contesta, vigeva nel tono
quanto nel significato; aveva un senso nel pensiero, e un ritmo nella frase.
Esprimeva, e aggiungeva. E il mito visse nella parola, che gli divenne fine pi
che mezzo. Valse in quella come la congiuntura nella vita: per gli effetti che
produceva, scelto a pretesto o a tema di un carme; per i distici che
l'infrenavano e gli esametri in cui adagiavasi; per gli aggettivi che esigeva e
i sostantivi ove si distillava. Ond' che
raro il poeta innov, sempre quasi si attenne alla tradizione. L'arte era
nell'abigeato di caco l'adattamento, che non fosse trito, della ribelle massa
linguistica allo schema rigido e inviolabile : mentre la licenza facilitava
l'opera, il merito splendeva nel difficile. Il gesto della mano che elegge e
soppesa la parola, simboleggia, riguardo a Caco, l'opera e di Properzio e di
Vergilio e di Ovidio: emblema cui sol tanto non si attennero l dove altro
procedere esigesse il general tema dell'opera loro, il quarto libro delle
Elegie^ l'ottavo dTEneide^ il primo dei Fasti. Properzio occupa rispetto agli
altri due un posto singolare. La sua dipendenza da Vergilio, difficile
cronologicamente a dimostrarsi, anche
artisticamente improbabile, cosi che gli sembra pi tosto parallelo. In tal
caso, sia che egli attingesse a un modello diverso, sia che con Ennio non
contaminasse altre fonti, sia che infine si ritenesse lecita una libert
maggiore, il suo racconto non comprende Evandro, il terzo stadio della
leggenda, ma, solo i due primi. Caco ed Ercole : per noi quindi, qual che ne sia la causa, un esempio
della forma che avrebbe potuto assumere la fiaba senza il mito etimologico sul
" cattivo ladro. Pel resto, il
racconto in tutto personale. I vero tema
dell'elegia Ercole Anfitrioniade, in
qualit di Dio venerato nel foro boario con rito greco e senso romano. La sua
sola figura campeggia in due quadri, che uniscono egli e il momento del tempo e
la postura della scena. Nel primo combatte Caco in una lotta brevemente
descritta, la quale sembra importare al poeta pi nel suo insieme cbe nei
particolari. Nel secondo invoca dalle donne, raccolte nel mistico culto della
Bona Dea, l'acqua che gli negano e ne trae vendetta. Sono dunque le due sole
avversioni che Teroe abbia trovate innanzi a s sul suolo dell'Urbe, superate
entrambe con un moto di violenza, concretate entrambe in prescrizione di rito.
Una caverna dell'Aventino, e il riposto limitare sacro d'un bosco presso il
Velabro, si fanno riscontro; le tre teste di Caco, e le chiome bianche d'una
sacerdotessa. E l'antichissimo mito della natura si dispone allo stesso piano e
nella medesima luce del recente mito etiologico. L'arte, serbata la bellezza di
quello, ha creato la bellezza di questo ; svolgendone una fantasiosa scena cui
rende grata e fresca il murmure d'un fonte. Quando l'Anfitriomade da le tue
stalle, o Eritia, aveva stornato i giovenchi, vincitor venne agli alti pecorosi
palatini monti, ed i bovi stanchi stanco egli stesso pos, l dove il Velbro con
la sua propria corrente stagnava, dove su le urbane acque apriva le vele il
nocchiero. Ma su la terra dell'infido Caco salvi non furono : quegli di furto
Giove macchiava. Indigeno Caco si era, ladrone da l'antro pauroso, che suoni
emetteva per tre bocche divisi. Egh, perch non fos-Properzio Elegie IV 9; edizione
Phillimore^ (Oxford l'abigeato di caco sere indizi! certi di palese rapina, per
la coda all'indietro trasse nell'antro i buoi ; ma non sfuggiva al Dio: i
giovenchi muggirono il ladro, del ladro le tane spietate l'ira abbatt. Dalla
Menalia clava le tre tempie percosso, giacque Caco, ed Alcide si parla : "
bovi andate, o d'Ercole bovi andate, fatica estrema della clava nostra, due
volte da me ricercati, due volte mia preda, o buoi, ed i campi Boarii con lungo
muggito sacrate : il pascolo vostro sar nobile Foro di Eoma . Avea detto, e per
la sete ond' secco il palato il volto
contratto ma nessun'acqua gli procacciava umida la terra. Il riso ode
lungi di rinchiuse fanciulle. In ombrosa cerchia gli alberi un bosco avevan formato,
clausura di feminea dea, con venerandi fonti e sacelli, a maschio nessuno
impunemente aperti. Le riposte soglie purpuree bende velavano; nella vecchia
dimora odoroso fuoco splendeva ; il tempio adornava con lunghe fronde un pioppo
e cantanti uccelli densa ombra copriva. Quivi egli corre, con ammucchiata la
polvere su l'arida barba, e parole non degne d'un Dio gitta dinanzi
all'ingresso : " voij che nel sacro recesso del bosco giocate, aprite, vi
prego, allo stanco eroe ospitale il santuario ! Erro una fonte cercando, e qui
intorno sonoro di acque ; del ruscello
mi basta quanto nel concavo palmo si accoglie. Udiste di alcuno che il mondo
con le spalle sostenne ? Quegli son io : Alcide la sostenuta terra mi chiama.
Chi dell'Erculea clava le forti imjirese non ode ? e contro le immense fiere le
non mai vane frecce ? e che ad un uomo solo si diradar le tenebre di Stige? E
s'anche celebraste Omesso il v. [42J. sacrifizio all'avversa Giunone ? le sue
acque non mi avrebbe negate la stessa matrigna. Ma se qualcuno il mio volto e
del leone il vello e le chiome riarse dal libico Sole spaventano, io pure, in
veste Sidonia, compii offici di schiava, e cotidiani pennecchi con Lida
conocchia ; ed anche a me cinse una fascia morbida l'irsuto petto e fui con le
dure mani garbata fanciulla,. Con tali detti Alcide ; ma con tali l'alma
sacerdotessa, da purpureo nastro ricinta le chiome bianche : * Non riguardar, o
straniero, e lascia l'inviolabil bosco; ritirati or su, abbandona, sicuro
fuggendo, la soglia. Per temibile legge interdetta ai maschi, si venera un'ara
che del rimoto sacello si fa riparo. Con gran danno scorse il vate Tiresia
Pallade mentre, la Gorgone deposta, le forti membra lavava! Altre fonti gli Dei
ti donino : quest'acqua scorre per le fanciulle solo, appartata dentro limitare
secreto . Cosi la vecchia : quegli con le spalle scuote gli opachi battenti : n
l'uscio chiuso all'adirata sete resiste. Ma poi che col ruscello bevuto aveva
placato l'ardore, un triste giuro con le a pena rasciutte labbra pronuncia.
" Quest'angolo del mondo ora me con i miei fati accoglie : questa terra a
me stanco s'apre con pena. La massima ara
egli dice " che dai ritrovati greggi consacrata, l'ara da queste mani Massima
fatta, questa nessuna donna mai veneri, perch senza vendetta non resti la sete
d'Ercole escluso . Padre santo salve! di cui si compiace oramai l'avversa
Giunone ; o santo vogliti rivolgere benigno al libro mio. Cosi il breve carme
assempra il magistero delle pause musicali, cui si affida pi espressione tal
volta che al contesto delle note : giacch l'abigeato di caco quando il mito
vive di forza verbale, la pausa lo costituisce non meno della parola. Dal
complesso della leggenda volgata e nota, che rinchiude abbozzato nella mente di
tutti il lavoro dell'arte, il poeta crea con pochi tocchi i rilievi e le luci,
le ombre e gli sfondi lascia alla memoria comune ; e nel silenzio di lui vibra
il ricordo di tutti. Noi non sappiamo oggi a pieno ci che tale ricordo potesse
supplire; ma in parte l'abbiamo supposto, in parte ci verr mostrato da Vergilio
ed Ovidio. Intendiamo per tanto quest'arte. E insieme ne scorgiamo il carattere
profondo: eulta. Il mito, nella sua
squisitezza formale, dottrina; e il
compiacimento del poeta di una garbata
esumazione dinanzi a lettori cui la raffinatezza ha svigorito la forza delle
sensazioni. Non il senso religiosa non l'idea nazionale anima quei distici, se
bene dell'uno e dell'altra vi sieno echi. Li regola un senso fine dello stile e
un gusto aristocratico dell'accenno sapiente, della misurata allusione
mitologica. Nei limiti dell'arte, che non pu esser mai volgare, assai meno
aristocratica, ma in compenso atta a una pi vasta cerchia di lettori, la narrazione di Vergilio: perch l'informano
quei caldi sensi trascendenti, i quali sono Tamor patrio e la santit della
fede. Dentro la cornice del poema, che esalta la nazione nei suoi principi!
primi, ed percorso tutto dal rispetto
alla leggenda, come a quella onde scaturisce l'orgoglio del nome romano e si
giustifica la gloriosa istoria dei tempi pi vicini; accanto alla I POETI figura
del pio eroe Enea, che opera per volere di Griove e abbassa la fronte sotto
l'afflato degl'incombenti Numi : il mito, cbe narra Tinstituzione del culto
erculeo, e celebra et anteriori alla venuta dei Trojani nel Lazio, non pu non
essere circonfuso d'una luce due volte sacra, e ascoltato in atteggiamento
inchinevole. Il libro ottavo dell'Eneide si equilibra su i due suoi estremi:
comincia con le lotte cruente di Enea contro Turno; finisce con l'inno alle
mirabili vittorie romane e alla battaglia d'Azio, significate da Vulcano su lo
scudo dell'eroe. Dalle prime alle estreme gesta, balza il pensiero senza
intervallo in un constante sentimento ; e, nella compagine salda degli
esametri, appajono le divinit di tre Dei, Venere Ercole e Vulcano. La leggenda
si affonda nella realt; la religione le penetra entrambe ; e il canto muove
dalle radici profonde dei profondi sentimenti del popolo che diede la fantasia
alle fiabe, i soldati forti alle imprese, al culto i divoti. Per ci, e il mito
di Caco vien esposto durante un sacrifizio ad Ercole, e spazia abbondante di
particolari. Qui detto quel che
Properzio accenna. Qui Ennio non si lchiama, ma si sostituisce. E la
primordiale figura della saga, Caco, non
svolta meno della seconda, Ercole, n della terza, Evandro: per che
rappresentino, in ordine, la divinit mostruosa e la divinit bella e un
antichissimo assetto politico presso il colle Palatino. E tutt'e tre sono
edizione Sabbadini' (Torino). l'abigeato di caco cosi collegate che Evandro, il
quale d il segno dell'epoca, il
narratore, e nel racconto di lui le due forze divine si combattono. Il
combatti- mento assume, difatti, la parte pi notevole perch il canto intiero
suona d'armi e perch nella lotta si rivelano a pieno tutti gli aspetti dei due
awersarii. Quindi, per l'esigenze del tema generale, il mito adombra quei
particolari di astuzia che supponemmo dedotti dalla Grecia, e lumeggia bene
ogni forma di violenza; riconducendoci per obliqua via alla sua probabile
foggia originaria: breve in ispecie l'accenno allo spergiuro del ladro, che pi
si accosta al furbo diniego di Ermes. Ma allora, quasi insensibilmente, il
gravitar dell'importanza su questo duello ne accresce le conseguenze e, insieme
col pretenzioso sfondo storico, le spinge al di l dell'origine di un culto.
Poich il poeta vuol credere alla leggenda, e la pareggia alla storia, in Caco
con la belva muore la vita selvaggia, e dalla sua fine principia non sol tanto
il rito d'Ercole, con i Potizii e i Pinarii, ma la quiete per gli abitanti del
Palatino. E il suo cadavere trascinato per i piedi empie d'un'avida curiosit le
menti e non basta ad appagare i cuori, atterriti dal lor terrore morto; e i
fuochi spenti su le fauci somigliano un simbolo. Le lotte saran poi di
guerrieri con guerrieri. E sullAventino, ove ENEA contempla ancora le tracce
del passato, i contemporanei d'OTTAVIANO (si veda) scorgono marmoree dimore.
Parla Evandro ad ENEA: Guarda da prima questo masso tra le rupi sospeso: e come
lungi son sparsi i macigni, e deserta la
dimora nel monte, e rovinarono le pietre in frana. Qui fu la spelonca, remota
in suo immenso recesso, che il semiumano Caco di feroce aspetto abitava non
tcca dai raggi del sole ; e sempre di strage recente era calda la terra ed
affissi su la soglia violenta pendevano volti foschi di lurida tabe. A un tal
mostro Vulcano era padre, del quale atri fuochi dalla bocca recendo trascinava
la sua vasta mole. A noi bramanti il tempo alla fine recava soccorso, e
l'avvento del Dio. Infatti vendicator supremo Alcide giunse, di Gerone ucciso e
deUe spoglie superbo, e i tori ingenti qui vittorioso guidava, e la valle ed il
fiume occupavano i buoi. Ma l'efferata mente bramosa di Caco a ci che nullo
delitto ed inganno inosato o intentato restasse dal pascolo quattro di mirabile
corpo tori distorna e altr'e tante di magnifiche forme giovenche. Poi, perch
nessun'orma diretta vi sia, per la coda li trascina nell'antro, del cammino
capovolgendo gl'indizii, e li occulta nell'opaca caverna. Traccia nessuna
guidava chi cercasse allo speco. Fra tanto, quando gi dal pascolo il gregge
pasciuto moveva l'Anfitrionade, e procacciava il partire, nella partenza
mugghiano i buoi e tutta di lamenti riempion la selva e con clamore abbandonano
i colli. Alle voci una delle giovenche rispose per l'enorme antro mugghiando,
onde deluse le speranze di Caco la prigioniera. Allor per la rabbia il dolore
d'Alcide d'atra bile riarse: con la mano afferra l'armi e la quercia gravata di
nocchi, e a corsa raggiunge l'erta dell'aereo monte. Per la prima volta videro
i nostri occhi Caco pauroso e turbato. Fugge senz'altro pi veloce dell'Euro,
l'antro raggiunge : ai piedi il timore presta le l'abigeato di caco ali. A pena
vi s'era rinchiuso, ed un immane macigno, che per ferro e per l'arte patema
stava sospeso, avea fatto cadere le catene spezzando, e di quello munito le
porte rinchiuse : ed ecco furente nel cuore incalza il Tirinzio, e ogni accesso
indagava, ratto qua e l movendo, e digrignando i denti. Tre volte, d'ira
fremente, tutto perlustra il monte Aventino : tre volte le pietrose soglie in
vano tenta : tre volte, stanco, nella valle riposa. Vera, tra i diruti intorno
macigni, acuminata una roccia, a la caverna sorgente sul dorso, altissima allo
sguardo, sede opportuna a nidi d'inauspicati uccelli. Questa che, prona, dal
giogo a sinistra incombeva sul fiume, verso destra all'incontro spingendo
scrollava; da le profonde radici la strappa e la svelle ; indi d'un sbito la
scaglia con impeto onde risuona l'etra grandissimo, sussultano le rive, e si
ritira spaventato il fiume. E lo speco, e di Caco la reggia immane appar
scoperta, e l'ombrosa caverna si mostr nel profondo, non diversa che se nel
profondo spalancandosi per forza secreta la terra aprisse le inferne sedi e
dischiudesse gl'invisi agli Dei pallidi regni, e dall'alto l'immenso bratro si
scorgesse, e pel penetrato lucore tremassero i Mani. Lui, colto improvviso da
la inattesa luce e nella cava rupe rinchiuso e per insolito modo ruggente, di
sopra Alcide opprime di dardi, e si vale di tutte le armi, e con rami l'incalza
e con enormi macigni. Quegli allora (non sopravanza difatti al pericolo scampo
nessuno) da le fauci, mirabile a dirsi, moltissimo fumo vomita, ed avvolge la
casa in caligine cieca, agli occhi togliendo il vedere, e nell'antro una fumosa
notte aduna, tenebre miste con fuoco. Non sopporta Alcide 'nel cuore, e con
precipite salto si scaglia nel fuoco, l dove pi fitto il fumo volge sua spira e
nel grande speco fluttua atra la nebbia. Qui nelle tenebre afferra in stretto
nodo Caco, che vani incendii rece, compresso schiacciato gli esorbitan occhi e
la gola si ingorga di sangue. Si spalanca tosto, abbattute le porte, la nera
casa: i buoi rubati, la spergiurata rapina, riappajono al cielo, e il deforme
cadavere trascinato pei piedi. Non
possono placarsi i cuori mirando gli occhi tremendi, il volto, ed il petto
della mezza fiera, villoso di ste, e su le fauci i fuochi spenti. Da allora gli
si celebra onore, e i posteri lieti ricordarono il giorno ; e primo Potizio
institutore ne fu con la schiatta Pinaria, custode del sacrifizio erculeo.
Quest'ara Ercole eresse nel bosco, che massima sempre verr detta da noi, e
massima sempre sar. AVIRGILIO (si veda) sembrerebbe di poter fare seguire
senz'altro OVIDIO (si veda); che lo imita su questo punto assai strettamente e
ne finge anche il senso religioso e patrio, non inoioportuni n l'uno n l'altro
in quei Fasti ove si rassegnano le feste sacre e nazionali di Roma. In realt
sotto una superficiale simiglianza si cela ben profonda differenza. La vita
artistica del mito, pregnante in Properzio, rigogliosa in Vergilio, vi
agonizza. Ce ne accorgiamo prima dalla parola; che s' esaurita, che non osa
violare il modello i^er rinnovarne le linee e si sforza imj)otente di mutarne i
suoni. Cosi che si perde nel vanto piccolo d'un nuovo vocabolo coniato, allor
che -- edizione Petee (Lipsia). l'abigeato di caco claviger detto con falsa audacia Ercole; si sminuisce
nel gioco artificioso d'una frase, quando
eletta a costituire un verso cosi: Dira viro facies, vires pr corpore,
corpus Grande; sorride bolsa nel bisticcio etimologico Cacus non leve malum
Non pi la finezza properziana e la ricca
concisione: il lezio ricercato a far un
poco attonito chi legga. Ci spiega poi anche la freddezza riposta di tutto il
racconto. Di esso l'occasione son le Carmentalia dell'll gennaio, e il legame
che alla cerimonia sacra lo congiunge
rappresentato dal nesso ' Carmenta-Evandro-Ercole-Caco. Carmenta
difatti, e perch madre di Evandro, e perch profetessa del culto erculeo,
giustifica tutta la seconda parte del carme ovidiano. Ma il legame sottile. Carmenta, numen p-aesens della
poesia, ne lontana dal verso; e la sua
lontananza nell'essenza e nella forma (e nell'essenza persiste forse anche
quando cessa nella forma) sottrae parte della forza reKgiosa al mito: il quale
tutta l'avrebbe avuta, se raccontato a proposito der sacrifcio ad Ercole nel 12
agosto. E parte similmente della sua forza patria la fiaba smarrisce (inconscio
il poeta) per il colore eh' dato alla
figura di Evandro. Questi non pi, come
in Vergilio, il re che, ormai latinizzato, ajuta Enea, e appare nell'atto di
celebrar un sacro rito romano : lo
straniero, l'Arcade, giunto da poco, nuovo alla terra, foruscito dalla sua
patria, il quale lia bisogno ad apprezzar il Lazio dell'incitamento e dello
sprone materno. Indi, senza dubbio, la luce, per coerenza al tema, si addensa
su la figura di Carmenta; ma il figlio di lei se ne menoma. E menomato, stronca
il vigore nazionale del mito. Non solo : che ^ stabant nova tecta quando Ercole giunse, straniero egli pure.
Unico indigeno, Caco: ossia proprio il personaggio odioso del racconto ; Caco
terrore ed infamia della selva aventina. Cosi una inezia apparente ha tramutato
la situazione. Ma l'inezia non sarebbe sfuggita all'artista se il suo
sentimento patrio fosse stato, nei riguardi di questo mito, reale ed efficace.
In vece egli imit Vergilio nella superfcie; e all'artifizio di tale imitazione
sospese il suo racconto. Pur nella facile vena del verso, nella sonorit
scorrevole, nella fantasia corriva, l'artifizio s'eleva ad arte. Ecco i bovi
d'Eritia conduce col il clavigero eroe che del lungo orbe ha misurato il
percorso. Mentre lui ospita la casa d'Evandro, incustoditi vagano pei campi
feraci i bovi. Il mattino sorgeva, e desto dal sonno il Tirinzio pastore dal novero
avverte mancare due tori. Del tacito furto non vede, cercando, vestigia; le
bestie airindietro aveva tratte Caco nell'antro ; Caco, terrore ed infamia
della selva aventina, danno non lieve a l'abigeato di caco stranieri e a
vicini. Spietato del forte l'aspetto, le
forze rispondono al corpo, il corpo ha grande. Del mostro, Mulcbero padre : per casa, ingente di lunghi recessi
ha una spelonca nascosta, che mal troverebbero fino le belve. Teste
all'ingresso e braccia pendono infisse: la terra squallida d'umane ossa
biancheggia. Con la mal serbata parte dei buoi, o nato da Giove, ne andavi :
diedero un mugghio i nibati con rauco suono. " Accolgo il richiamo dice e, seguendo la voce, vincitor per la
selva all'empio antro perviene. L'adito quegli con un masso strappato dal monte
aveva munito, che cinque a stento e cinque avrebbero smosso pariglie. Delle
spalle questi si serve anche il cielo v'aveva posato e il peso immane smuove
crollando. L'abbatte, e il fragore lo stesso etra spaventa ; da la pesante mole
percossa cede la terra. Da prima, venuti alle mani, Caco combatte, e feroce con
travi e con sassi sostien la difesa. Ma poscia che non n'ha vantaggio, ricorre,
mal forte, alle arti del padre, e fiamme vomita da la sonora bocca. Le quali
sempre che esala, crederesti che respiri Tifeo e che dal fuoco dell'Etna ratto
baleno si scagli. Alcide, incalza, e la vibrata trinocchiuta mazza
dell'avversario il capo tre quattro volte percuote. Egli cade, e misto col
sangue vomita il fumo, e batte morendo col vasto petto la terra. Un toro fra
quelli, o Giove, t'immola il vincitore, e chiama Evandro con gli agricoltoii. A
s costituiva quell'ara che Massima detta
: qui, dove una parte dell'Urbe ha il nome dal bue. N tace la madre di Evandro,
che prossimo il tempo, in cui la terra
abbia a bastanza goduto l'Ercole suo. Il gesto pi significante clie insieme
compiano Livio e Dionisio (i due storici dell'et di Augusto, i quali riferirono
la leggenda di Caco) la dichiarazione
con cui rifiutano di accettare responsabilit per quanto raccontano. Cosi si
suol tramandare dice Livio; e richiama tacitamente le parole del suo prologo: n
di affermare n di negare ho in animo. E Dionisio: " vi sono intorno al
nume d'Eracle racconti pi favolosi, e altri pi credibili. Il pi favoloso questo. E vero che, nel gesto comune, Livio
crede pi di Dionisio ; tuttavia entrambi hanno accettato l'opinione che il mito
abbia un contenuto storico (opinione la quale, come si disse dianzi, dovette
prender radice col primo insediarsi laleggenda sull'Aventino) ed entrambi si
pongono, e risolvono male, il problema della sua attendibilit. Anzi, per
diminuire quasi l'importanza stessa del problema, giunsero ad accrescerla. Se
avessero riferito il racconto com' in Vergilio, n pur Livio, con la scarsa
perspicacia critica che lo segnala, avrebbe esitato a respingerlo tra le
favole. In vece essi lo trovano attenuato presso i pi antichi annalisti: lo
rinvengono sotto quella veste di fiaba si, ma umana, che vedemmo convenirgli
alla fine delia sua evoluzione. Caco vale a dire,^non vome fiamma n un mostro. E (Ij Su Livio e Dionisio
l'abigeato di caco un uomo malvagio (xaxg), un violento, un ladro : uomo. La
possibilit terrena informa la fiaba e non ammette sopra s che l'eroico, Ercole
; onde le due forze divine avverse si spogliano del soprannaturale e il valore
del racconto pesa assai pi sul furto che su la vendetta. In questa difatti
troppo palese appare la natura mostruosa di Caco, troppo il padre mitico di lui
si rivela nelle armi ch'egli usa. Un cenno breve d, cosi in Livio come in
Dionisio, notizia della vittoria d'Ercole. All'offesa serve la clava, arma
d'eroe. Alla difesa dovrebbe valere l'ajuto dei vicini ; ma il malvagio lo
invoca in vano. Resta, tuttavia, la fiaba. Il colore la tradisce, i buoi
stupendi di Gerione la palesano. Fuor dai nitidi periodi di Livio appaiono,
negl'incunaboli di Roma, il fiume Tevere cosparso le ripe di erbosi pascoli, ed
Ercole dormiente nella queta ombra sotto il peso del cibo e del vino. Sorge
l'aurora, si svolge la ricerca inutile, la vendetta ; poi una breve folla
d'uomini vigorosi si accoglie intorno a un'ara, consuma il sacrificio fumante,
il banchetto ; su tutto, il carme profetico di Carmenta. E l'aura favolosa si
forma, oltre il preciso linguaggio prosastico, nel pensiero di chi legge. Resta
la fiaba. E nella trama della storia si tinge d'una gravit un po' paludata,
d'una seriet riflessiva, le quali non la soffocano affatto, si al contrario
l'abbellano di un candore ingenuo. Ma solo la stessa arte di Livio pu dare quel
senso secreto -- edizione Weissknbohn'^ (Lipsia). GLI STORICI Che Ercole in
quei luoghi conducesse dopo l'uccisione di Gerione magnifici buoi e che presso
il fiume Tevere, per dove aveva nuotando traghettato innanzi a s la mandra, in
luogo erboso si giacesse, stanco egli stesso del viaggio e per ristorar con la
quiete e con un buon pascolo i buoi, si suol tramandare. Ivi, come per la
gravezza del cibo e del vino il sopore l'oppresse, un pastore di quei dintorni,
a nome Caco e di violenta forza, allettato dalla bellezza dei buoi e volendo
stornar quella preda, perch, se avesse spinto all'inuanzi la mandra verso la
spelonca, le impronte medesime vi avrebbero addotto il padrone nella ricerca,
trasse per le code all'indietro verso la spelonca i bovi, quelli insigni per
bellezza. Ercole in sul far dell'aurora come, desto dal sonno, esamin con gli
occhi il gregge e s'accorse che una parte ne mancava dal numero, si diresse
alla vicina spelonca, se per caso col conducesser le impronte. Quando queste
vide tutte rivolte al di fuori n altrove dirette, confuso e mal certo prese a
condurre la mandra lungi dall'inospite luogo. Ma poi, avendo alcune delle
giovenche sospinte muggito, come accade, per desiderio delle restanti, il
risponder dalla spelonca dei buoi rinchiusi rivolse Ercole. Lui che assaltava
la spelonca Caco tent di rattener con la forza, ma colpito dalla clava in vano
invocando l'ajuto dei pastori cadde. Evandro allora reggeva quei luoghi.
Quest'Evandro, turbato dall'accorrer dei pastori trepidanti pel forestiero reo
di manifesta ucsione, dopo ch'ebbe udito il fatto e del fatto la causa,
scorgendo l'aspetto e i modi dell'eroe alquanto maggiori e pi augusti degli
umani, gli chiede chi mai Omesso in parte il l'abigeato di caco si sia. Quando
il nome e la paternit e la patria ne apprese: nato da Giove, Ercole, disse
salve! Che tu avresti accresciuto il numero dei celesti predisse a me la madre,
veritiera interprete degli Dei, e che a te qui un'ara sarebbe stata dedicata,
la quale un giorno il popolo pi opulento della terra chiamer massima e venerer
secondo il tuo rito. Dando la destra Ercole dichiara di accoglier l'augurio e
di adempiere i fati, instituita e dedicata a lui l'ara. Ivi allora per la prima
volta con una stupenda giovenca della mandra il sacrifizio di Ercole, attendendo
al ministero e al banchetto i Potizii e i Pinarii, che allora eran le famiglie
pi insigni abitanti quei luoghi, fu celebrato. Ora accadde che i Potizii fosser
pronti per tempo e ad essi venissero imbandite le interiora, i Pinarii
giungessero per i restanti cibi ma gi consumate le interiora. Di qui rimase
stabilito, finch la schiatta dei Pinarii visse, che non mangiassero le
interiora del sacrifizio. I Potizii istruiti da Evandro furon i capi di quella
cerimonia per molte et, fin quando trasferito a pubblici servi il ministero
sacro della famiglia, tutta la schiatta dei Potizii peri. Tale,
nell'insieme, Dionisio: se se ne toglie
che Caco per lui non un pastor ma un
predone dei luoglii; che Carmenta mutata
in Temide; che il ladro, interrogato, nega la sua rapina ; che Ercole, prima
che a s, alza un altare a Giove Inventore; e pochi altri particolari minori su
la cui natura e sul cui valore non qui
da dir nulla, poi che fiu'on sopra vagliati. Se non che in Dionisio , di pi,
una stanchezza che Livio ignora. Si dilunga per due capitoli sopra un racconto
cui non crede affatto; scrive ciascun particolare, ma reputa di vedervi
adombrato un simbolo che riveler poi, con sicumera da erudito certo di s e del
proprio sapere (povera certezza in vero!). Eppure non nervoso; non sorvola n condensa: insiste e
stanca. Il suo pensiero critico
estraneo: si afferma all'inizio, si ritrae poi, non ricompare se non
alla fine : Intorno ad Ercole questo il
racconto favoloso che si tramanda. Alla fiaba manca l'amore. I Razionalisti.
Quando alla fiaba manca l'amore, essa non pu che singhiozzare i suoi ultimi
guizzi fra le stretto j e fatali del razionalismo. I don Ferrante
dell'erudizione romana trovarono il fatto loro come i poeti in Ennio, gli
storici negli antichi annalisti, negli annalisti dell'et dei Gracchi: Cassio
Emina e Gneo Gelilo. Su la forma precisa del racconto che si trovava presso
l'uno e l'altro siam tanto jdoco certi quanto non possiamo dubitare su la forma
generale. Entrambi, abbandonandosi alla pi rigorosa critica razionalista,
concordano nel ridurre il mito a un gramo cencio per tramutarlo in realt; ma si
l'abigeato di caco direbbe che il primo abbia l'occhio pi tosto alla redazione
poetica della favola siccome apparve poi in Vergilio ed era apparsa prima in
Ennio, il secondo invece si parta pi tosto dalla redazione storica che con
riserve riprodurranno Livio e Dionisio. Cassio Emina difatti narrava un preteso
" racconto veritiero ove Caco
appariva in qualit di servo. Suo padrone sarebbe stato Evandro, il buono
Evandro signore del cattivo servo. Cotesta concezione fondamentale ci ritorna
in due testimonianze, ma un po' diversamente: presso il commentator di Vergilio
Servio e il suo interpolatore ; e presso uno scritto L'origine del popolo
romano^ opera probabile d'un erudito del IV secolo che compilava con grami
intenti storici. Quest'ultimo solo cita Cassio per sua fonte; il primo sembra
contaminarlo con altre informazioni, ma certo non l'ignora. Per Servio adunque
(e chi l'interpola) Caco fu un uomo, soggetto al re degli Arcadi, che per
l'abitudine malvagia di devastare i campi col fuoco fu detto vomitar fumo e
fiamme dalla bocca. Il nome gli venne dal greco xang col ritiro dell'accento^
come fu di 'EMvtj in Hlena. Ercole lo abbatt ponendo fine al suo mal fare. Dunque:
il racconto di Vergilio resta, ma, ridotto Ercole a uomo forte e il fuoco di
Caco a simbolo, travisato nella sua
essenza. A tale effetto furono bastevoli tre interventi del razionalismo: l'uno
a spiegar e ridurre la natura mostruosa del ladro, l'altro a legittimarne il
nome, l'ultimo a giustificarne i rapporti con Evandro. Pi in l si spinge in
vece L'origine nell' attinger forse pi compiutamente, certo in modo pi
esclusivo, a Cassio Emina. Non solo Ercole
un uomo forte (il suo vero nome
Recarano), e Caco uno schiavo ribelle; ma il furto punito per autorit di Evandro senza duello n
lotta. I motivi razionali di questa notevole soppressione son due : lo
scrittore non aveva spiegato allegoricamente il fuoco di Caco e doveva quindi
sorvolare su la circostanza in cui pi il fuoco ha parte ; la qual necessit poi
gli servi anche per metter in rilievo la buona figura di Evandro e la giustizia
di lui. Ma in cosi fare egli si allontana dalla fiaba poetica molto pi che non appaja
Servio, se bene come questo la tenga presente. Come per questa di Cassio Emina
doveva essere, rispetto ad Ennio, una considerevole riduzione del mito
fantastico nei termini della realt possibile, ma, rispetto al racconto degli
annalisti pi antichi, non era se non se un lieve i tocco; cosi su questo
racconto altri critici inrtervennero assai pi profondamente. Ridurre il mostro
a servo: ecco una trovata buona. Ma m.utare l'uomo singolo in condottiero di
eserciti: ecco uno spunto ottimo per inquadrare meglio nella storia dei popoli
anche la breve favola. Quest'atteggiamento era assunto in Gelilo; e da un
contemporaneo di lui, per qual si voglia via, la deriv a s Dionisio per il suo
pi credibile racconto; edizione Jacoby (Lipsia). l'abigeato di caco Quale
capitano fra tutti fortissimo nei tempi suoi e comandante d'un numeroso
esercito, Eracle percorse tutta la terra compresa dall'Oceano; abbattendo, ove
c'ei'ano, le tirannidi gravi ed aspre per i sudditi o le repubbliche violente e
dannose ai vicini o i ridotti di uomini dalla condotta selvaggia ed iniqui
uccisori di stranieri; instituendo in vece legittimi regni e savie repubbliche
e costumanze socievoli e umanitarie; collegando inoltre gli Elleni con i
barbari, i popoli marittimi con i continentali, che fin allora vivevano
disuniti e diffidenti; eostruendo citt ne' luoghi deserti, deviando fiumi che
inondavano i piani, aprendo strade nei monti inaccessibili; e l'altre opere
compiendo, per modo che l'intiera terra ed il mare divenisse comune pel
vantaggio di tutti. Venne dunque in Italia, non da solo n conducendo una mandra
di buoi (n di fatti la regione sulla via
di chi si rechi ad Argo dall'Iberia, n per aver traversato la contrada avi'ebbe
meritato tanto onore); ma guidando numeroso esercito per sottomettere e
dominare questi abitanti dopo avere ormai soggiogato l'Iberia: e a col
permanere pi a lungo fu costretto e dall'assenza della flotta phe avvenne pel
sopraggiunger dell'inverno e dal non accettare tutti i popoli che occupavano
l'Italia di sottoporsi a lui. Quindi
narrata la sottomissione armata dei LIGURI, non che d'altri ; per
continuare: Fra costoro che furono superati in battaglia, si dice che anche il
favoleggiato Caco dei Romani, un re affatto barbaro e signore di sudditi
selvaggi avesse con Eracle contesa, perch occupando luoghi forti era di danno
ai finitimi. Costui, tosto ch'ebbe appreso Eracle essersi accampato nella
pianura vicina, con apparecchio da ladrone attacc in sbita mossa l'esercito
dormiente, e quanto del bottino rinvenne incustodito caricandosene pred. Dopo
per, stretto d'assedio dagli Elleni, vide i presidi! conquistati a forza e fu
ucciso egli stesso nelle fortificazioni. Abbattuti i presidi! di lui, i
territorii all'intorno presero per s i seguaci d'Eracle e alcuni Arcadi con
Evandro. Quest'ultima asserzione rivela quanta libert il razionalista si
arrogasse; fino a far giunger nel Lazio insieme con Ercole quell'Evandro
signore degli Arcadi che la volgata afferma insediato sul Palatino al momento
del duello. Libert intesa al servizio del vero " secondo i filosofi e gli
storici come s'esprime Servio, ossia di quella critica, che conduce a creare,
accanto alla favola pi propria una fiaba fittizia e grottesca : la fiaba
dell'Ercole errante in awentm'e cavalleresche, a liberare gli oppressi, render
civili i barbari, pacificar i nemici. N del resto sarebbe cosi risibile un tale
sforzo verso il " vero , n cosi miserandi apparirebber i suoi risultati;
se non gl'inquinasse una mal celata boria, un vanto sicuro di superiorit
intellettiva che solamente sterile
miseria. Su queste rovine pochi poveri racconti si stremano ancora. Evandro
richiama con s la figura di Fauno di cui era divenuto un equivalente sotto
l'aspetto di buona mitezza: Fauno attira il nome di Latino, suo figlio : il
sacrario di Caca suggerisce la storiella che la dea abbia otte- l'abigeato di
caco nuto il culto sacro rivelando il furto di Caco, suo fratello. Poi, il silenzio. Singolare sorte della saga, in
verit. Ricca di densa materia; vissuta traverso il succedersi delle geniture in
una propaggine del vigoroso ceppo ario; maturatasi lentamente tra il Palatino
l'Aventino e il Tevere : ebbe nel II secolo a. C. non pur la sua forma poetica
e la sua foggia istorica, si anclie soffri su quella e su questa lo spruzzo
livido dei razionalisti : per modo, che sopra il quadruplice schema l'et pi
possente del pensiero romano, l'augustea, non seppe se non disporre adorne
trame di ben vagliate parole, ma di poco varii disegni. Onde il mito ebbe
preclusa nel sguito ogni ulteriore vita : per che dovesse morire intero con
l'estinguersi la potenza alla sua bellezza verbale. Cirene mitica t^roj; libera
Ditti e la madre Danae; impietra Polidette e quei di Serifo : compie in somma
parecchi fra i consueti atti degli eroi solari. Che il sole nascente sia
considerato l'assassino del sole, suo padre, scomparso la sera innanzi : che al
sole competa la perenne lotta contro le tenebre, nei paesi del Nord
dell'estremo occidente, e contro i mostri tenebrosi che ivi abitano : e ormai
cosf risaputo che pu esser per criteri soggettivi negato, ma non deve pi esser
ribadito con argomenti. Cfr. Beloch Griech. Gesch. Absch. VI Mythos und
Religion e SANCTIS (si veda), Storia dei Romani Religione primitiva dei Romani
e GLINDO-EUROPEI IN ITALIA. GLARII IN ITALIA. Un eroe solare ritiene difatti
Perseo, a. e., 0. Gruppe nella sua Griech. Mythologie. N sono sufficienti, anzi
non sono valevoli, le argomentazioni in contrario di E. Kuhneet, in Roscher
Lex.: giacch egli dimentica la differenza profonda A parte (e, secondo noi,
insostenibile) sta la teoria di A. J. Reinach " Rev. de l'hist. d. relig.:
Perseus 'le destructeur' n'est sans doute qu'un vocable qu'on donnait son arme, la harp, adore comme Vakineks
l'tait chez les Scythes e sensibile che intercede fra i motivi naturalistici e
gli spunti novellistici, cui tutto il mito di Perseo vuol ridotto. A questo
proposito sar anzi bene osservare che, per reagire agli eccessi di quegli
studiosi che in ogni eroe videro un dio solare e un fenomeno meteorologico in
ogni episodio dei miti, i recenti indagatori caddero nell'eccesso opposto di
negare ogni sostrato o nucleo naturalistico e di ridurre ogni episodio a
novella. Sintomo significativo di questo secondo eccesso l'articolo di R. Sciava in " Atene e
Roma. Assai equilibrato era in vece il saggio del Comparetti Edipo e la
mitologia comparata Pisa. Ma notevole
che quest'ultimo autore deve lasciar nel bujo il significato e l'origine della
Sfinge; e quel primo, trattando di BELLEROFONTE (si veda H. P. Grice, Vacuous Names), non spiega la
CHIMERA (Grice, Vacuous Names). Entrambi quindi appajono per ci stesso attenti
a un aspetto del fenomeno mitologico non a tutti. quindi metodo migliore, credo, far giusta
parte nel mito cosi al naturalismo come alla novellistica. Il problema poi intorno
alla priorit dell'uno o dell'altra entro le singole saghe va, in parte,
resoluto caso per caso; in parte
d'indole generale e vien trattato in questo saggio. Qui diremo solo, in
breve, che l'intuizione naturalistica suppone una grossolana conoscenza della
natura e dell'uomo, mentre la novella gi
densa di pi larga e pi ricca esperienza umana. Comunque, procureremo, dopo
queste premesse, di sceverare quei due elementi, naturalistico e novellistico,
nei varii nuclei in cui abbiam veduto per s stesso spezzarsi il racconto di
Perseo. tesi vecchia: cfr. per es. il
sennato art. diJ. RviLLK in " Rev. de l'hist. d. relig. Acrisie, Prete,
Polidette e Ditti. Nel racconto Ferecideo, riassunto dallo scoliaste e ricostrutto
dalla critica, attira fortemente l'attenzione il particolare della fuga di
Acrisie re da Argo in Larisa, dal Peloponneso alla Pelasgiodide tessalica: fuga
con cui connessa la menzione del re
pelasgico Teutamida e di un ijQipov in onore di Acrisie medesimo (Scoi. Apoll.
R.). Si son sempre in ci vedute tracce d'un'influenza tessalica sul mito di
Perseo (cfr. Kuhnert). Ma ben pi sembra che se ne possa dedurre ricordando
quanto, dopo il Busolt e il Beloch, ha dimostrato P. Cauer Grandfragen der
Homerkritik, intorno allo scambio fra Argo peloponnesiaca e Argo tessalica
["Aqyos JleaayiKv deVHiad. B 681). Se difatti si danno casi in cui l'Argo
pelasgica dei Tessali s' potuta identificare con l'Argo del Peloponneso cosi
che gli eroi di quella furono a questa attribuiti, molto probabile che l'Argo di cui re quell'Acrisio che la stessa leggenda
peloponnesiaca fa pertinacemente morire in Larisa sia, in origine al meno, non
quella pretesa dai mitografi antichi e critici moderni, si l'altra di
Tessaglia. E si pu con probabilit scientifica ritenere che abbiamo in Perseo un
nuovo caso d'un equivoco di cui altri casi furono gi constatati e che si
ripresenta con i caratteri consueti. Da questa constatazione fondamentale
traggono rilievo alcuni particolari, a cosi dire, laterali del mito, il cui
valore era fin qui stato in gran parte misconosciuto; particolari i quali son
pure, a un tempo, riprova della verit di essa ipotesi. Cosi fatti sono: 1. la
discendenza di Ditti e Polidette da Magnete; di cui d notizia Apoll. I 88, in
un luogo che non , come il v., sotto l'influsso di Ferecide ma rispecchia fonte
diversa; 2. la nascita di Perseo non per opera di Zeus si di Preto fratello di
Acrisie : sulla quale informano Apoll. II 34, che riferisce questa come una
tradizione parallela alla ferecidea, e lo Scoi. A II. S, che fa risalir la
notizia a Pindaro. 11 primo di questi particolari lascia chiaramente
iutravvedere una forma della fiaba in cui i due salvatori di Perseo e Danae
sono personaggi tessalici della Magnesia: se adunque Acrisie , in origine, re
pelasgico, quella ha da essere la forma primitiva della fiaba. Onde e
assicurato al nucleo originario del mito l'intervento di quelle due figure. 11
secondo particolare poi d'importanza
anche maggiore. Per esso noi dobbiamo di fatti scegliere fra la tradizione che
dice Zeus padre di Perseo e quella che padre afferma Preto : e non possiamo non
propendere a riconoscere carattere argolieo nella prima, ricordando quanto nei
miti e nella vita dell'Argo peloponnesiaca Zeus abbia parte, cosi che fin Argo
l'eponimo del luogo, figlio di lui
(Esiodo fr. RzACH^ = Paus. Il 26, 2; cfr. Feeec. fr., MLLER FHG). La tradizione
pertanto che dice di Preto sarebbe da ritenersi, in contrapposto, tessalica, e
quindi anteriore a quella su cui gl'influssi peloponnesiaci son gi palesissimi.
E poich col delitto di Preto si riconnette bene la cacciata di lui per opera di
Acrisie irato, allo strato tessalico appartiene, forse, anche quest'altro
spunto: su cui vedi Apoll. Il 24 (diverso da Paus. Il 25, 7 e pili ancora da
Ovidio Metani. versi; i quali riproducono una tradizione gi alterata da elementi
estranei introdotti dalle genealogie peloponnesiache, per cui poteva
interessare che Preto riuscisse pari ad Acrisie addirittura lo superasse). N
contro l'ipotesi che Preto appartenga allo strato tessalico del mito crea
ostacoli il rilievo ch'egli acquist poi nelle saghe tirinzie : che potrebbe
essere, come riteniamo, posteriore al suo trasporto nell'Argolide insieme con
Perseo e Acrisie. Anzi la nostra congettura, ove paja ragionevole, spiega forse
anche il valore naturalistico di Prete, ritenendolo analogo a Zeus, e da Zeus
sostituito in regioni ov'egli era poco noto in sul principio e ove pot
localizzarsi solo obliterando il proprio valore. Che per, velatamente, appare
anche nella connessione con i Liei C Luminosi) in cui egli posto dtiVIliade Z. Tuttavia gli elementi
cosi sceverati, che appartengono potrebbero appartenere a uno strato tessalico
della leggenda, non sarebbero di per s sufficienti a provare di quello strato
l'esistenza, ove accostati l'un l'altro non dessero modo di trarne un racconto
organico e coerente, che potesse reggere al paragone di altri svolgimenti
mitici e novellistici analoghi. Ora
notevole in vece che, tenendo conto dei materiali tessalici, espungendo
le inserzioni argoliche, si giunge a ricostruire la trama compiuta d'un mito:
serbate le due figure di Acrisio e di Preto di cui l'una ha avuto culto in
Larisa, l'altra anteriore a Zeus
peloponnesiaco e ne sar sostituita; serbato l'oracolo delfico (Feeec. in
Scol.ApoU. R.) che diviene anche pi dicevole per la vicinanza e le attinenze
fra Delfi e la Tessaglia; serbati Ditti e Polidette figli di Magnete, onde si
acquista anche sufficiente notizia del luogo ove trovarono asilo Perseo e
Danae; serbata in fine l'uccisione di Acrisio a' giuochi larisei: ne nasce un
racconto che omogeneo e definito, e si
raccomanda quindi tanto per la sua localizzazione geografica uniforme quanto
per la sua coerenza interiore. Incerto potrebbe rimanere sol tanto se allo
strato tessalico a quello peloponnesiaco abbia a farsi risalire il nome e la
figura di Danae: giacch se il secondo caso fosse il vero bisognerebbe supporre
che essa sostituisse un nome e una figura pi antichi. Ora se certo che nell'Argo del Peloponneso Danao e
le Danaidi, cui Danae si riconnette senza dubbio, costituiscono un vigoroso e
caratteristico ceppo mitico; non per man
certa la presenza di Danaidi in Tessaglia, se si cfr. Scoi. Apoll. R. e
Antonino Liberale. Va pertanto conchiuso che Danae pu appartenere assai bene
allo strato tessalico del nostro mito; e che, se non dicevole ai fini della ricerca presente il
vagliare il problema mitico di Danao, in questo problema tuttavia la nostra
ipotesi intorno alla primitiva sede della saga di Perseo s'inquadra
ottimamente. Restano cosi delimitate a sufficienza le due stratificazioni distinte
in cui si spezza quell'episodio del nostro mito ch' intorno ad Acrisio e alla
sua morte. N difficile stabilire l'epoca
approssimativa in cui la seconda si sovrappone alla prima di esse. Se difatti
Zeus , come congetturammo, la sostituzione peloponnesiaca del Prete tessalico,
quando Vlliad. S 319 dice Perseo figlio appunto di Zeus, se ne deve dedurre che
come l'et tarda del passo lascia buon margine alla leggenda tessalica di Prete,
cosi la sua comparativa antichit, giacch anche le meno antiche interpolazioni
dell'Iliade son certo abbastanza vetuste, fa risalire non poco nei tempi
l'intervento del Peloponneso. Non rimane adunque che studiare partitamente
l'uno e l'altro strato. Affermata una volta l'esistenza dello strato
peloponnesiaco come posteriore al tessalico, il problema critico consiste non
tanto nel cercar le cause singole dei singoli nessi instituiti fra il mito di
Perseo e il Peloponneso, quanto nel graduarli cronologicamente per seguire
passo passo, fin che possibile, il
processo di penetrazione di quel mito in quel territorio. (Le testimonianze si
veggano raccolte dal Kuhnert in Roschee Lex.; cui mi richiamer volta a volta).
Ora non v'ha dubbio che al complesso di piccole saghe esistenti in Micene in
Tirinto in Lerna in Midea e nella stessa Argo non che in Elo e in Cinuria
dev'esser andata innanzi la diffusione del culto a Perseo e alle figure che a
lui si attengono miticamente. Ed del
pari certo che cotesta germinazione di miti secondari sul ceppo del principale
dev'essere stata a bastanza tarda se nella trama vera e propria della leggenda
le peculiarit locali non han potuto trovar posto adatto. Ma ben altro da dirsi riguardo a Serifo: per cui a priori possibile cosi che il culto abbia
preceduto la leggenda onde ivi son localizzati Ditti e Polidette, come che sia
avvenuto l'opposto. Nel primo caso sarebbe per da spiegare perch il culto di
Perseo abbia toccato Serifo, a preferenza di ogni altra dell'isole vicine. Nel
secondo caso in vece rimarrebbe senza risposta la domanda che chiedesse il
motivo onde Serifo fu dai mitologi preferita ad altre isole, anche pili .vicine
all'Argolide, come sede del salvator di Perseo. N l'esame della genealogia di
Ditti e Polidette conduce ad alcun che (Febeo, fr. -= Scoi. Apoll. R.), come di
quella la quale contiene bens riferimenti a Danao e all'Argolide, non a Serifo.
Nel mito primitivo il luogo donde Perseo avea da venire per uccidere Acrisie
era senza dubbio indicato, in modo vago s'intende, a oriente. Pi tardi la
localizzazione dev'esser divenuta pi esplicita, e sappiamo che nella Magnesia
s'era trovato il punto dicevole, di cui per altro ignoriamo il nome. E non e
improbabile che questo fosse tale da determinar per analogia a dirittura
omonimia la scelta di Serifo fra l'isole che sono ad oriente e non lontano da
Argo peloponnesiaca. Pure accettabile sembra l'ipotesi che la scelta avesse un
motivo unicamente geografico l'est; ma
ipotesi non sufficiente a spiegar tutti i fatti se si guarda all'isole
che sono nella stessa giacitura di Serifo; ed ipotesi che dovrebbe, quindi,
integrarsi con altra la quale supponesse un intervento di casualit. Il problema
rimane ACBISIO, PBETO, POLIDETTE E DITTI 333 dunque senza soluzione recisa. A
ogni modo Serifo deve essere entrata assai presto nel mito peloponnesiaco perch
vi rimase nettamente e saldamente incastrata. E poich lo stesso da dire di Zeus che prende il posto di Preto,
bisogna ritenere che questi due punti fossero ben fissati gi quando il culto di
Perseo prese a difiondersi per tutto il Peloponneso. Un momento successivo occupato dalla saga di Tirinto (Apoll.).
Questa saga non si sarebbe dovuta creare se il culto di Perseo non avesse in
Tirinto assunto importanza ben maggiore che nell'Argo medesima, costringendo i
mitologi a darne una giustificazione. D'altra parte se era plausibile che, come
si disse da quelli, dopo aver ucciso il nonno i e d'Argo, Perseo si vergognasse
sls "Aqyos nave&Elv, era facile legittimare la scelta di Tirinto
ch'egli avrebbe fatta in cambio, se a Tirinto s'era radicato e svolto quel
Preto che importato forse dall'Argo tessalica non aveva trovato favore
nell'Argo peloponnesiaca. Onde i miti tirinzii di Preto e Bellerofonte e di
Perseo e Megapente mostrano entrambi che i personaggi della saga tessala
attecchirono assai meglio in Tirinto che in Argo. Seguono poi tutte l'altre
saghe minori e meno importanti (quella di Micene p. e.: Pads.), che sfuggono al
racconto dApollodoro, testimoniando per tal modo la loro recenziorit. La
sanzione definitiva per dell'insediarsi nel Peloponneso, specialmente
nell'Argolide, il mito di Perseo, i; data dai genealogisti. Combinando
Apollodoro (con Ferec. fr. = Scoi. Ap. R.) risulta il seguente schema che pu
valere come volgata su questo punto: Linceo Ipermestra Lacedemone Abante
Euridice ACRISIO Prkto Zeus Danae Megapente PERSEO Andromeda Posidone Amimone
Nauplio Damaatore Pericastore Peristene Androtoe Alceo Elettrione Stenelo
Mestore Ditti Polidette Anfitrione Alcmene Euristeo Ippotoe ERACLE Tafio
Poich troppo chiaro che di questa
genealogia i punti fermi sono Danao ed Eracle, il Kuhnert vi vedeva la riprova
che Acrisio e Preto sono originarie divinit argive (predoriche) cui si vuol
imparentare l'eroe dorico pi recente Eracle, non senza che nel contrasto fra
questo ed Euristeo sussista traccia della diversit dei ceppi. Ma se a Kuhnert
si pu concedere che tardo sia l'intervento di Eracle nei miti argolici, non gli
si pu consentire in vece intorno ad Acrisio e Preto. Per vero il posto che essi
occupano nello schema genealogico ben
motivato, ma da tutt'altre ragioni che la lor origine peloponnesiaca. Il nome
di Danae doveva riportar sibito a Danao, cui sarebbe stato da avvicinare per
quanto era possibile; ma due generazioni dovevano necessariamente intercedere:
una, quella di Acrisio e Preto; l'altra, quella delle Danaidi. Pi oscura resta
la presenza della terza generazione: di Abante. Ma non mancano elementi per la
congettura. Abante ritenuto l'eponimo di
Abe in Focide (Stef. Biz. g. v. "Affai; Paus. X 35, 1); capo degli Abanti
di Eubea (Stef. Biz. s. v. 'Affaviig, Scoi. B II. B 536, Scoi. Pind. FU. Vili
77). Su di lui Strabone 431 ha un luogo che merita comento : oc oh [r
"AQyog t Ileaaytiv] o itiv [xovrai] ^ t zojv Qerza&v 7tiov oSrcog
voiiuTtyiaig eyfievov, &ef.tvov zovvofia ''Aj^avTog, ^ "Agyovg Ssvq
Tioixi^aavTog. Qui , sbito evidente, un giuoco di omonimia fra le due Argo;
ma del pari evidente che un motivo deve
aver indotto a sceglier per l'appunto Abante per attribuirgli l'introduzione
del nome Argo in Tessaglia. E il motivo non pu esser altro che il trovarsi come
nel Peloponneso cosi nella Pelasgiotide tessalica tracce o di lui o del suo
culto. La quale ipotesi concorda bene con la presenza di nomi affini a quello
di lui in Eubea e nella Focide: territori miticamente affini alla Tessaglia. Ma
se ci probabile, ne deriva che Abante
pot essere importato in Argolide in una con Acrisio e Preto da l'Argo pelasgica
e si spiega in fine la presenza di lui, terzo, fra Danao e Danae. Per Ditti e
Polidette non si trattava in vece che di porli nella medesima generazione di
Perseo e Andromeda, di imparentarli con essi per meglio giustificarne
l'accoglienza: e a ci valsero nomi come quello di Nauplio, eponimo di Nauplia,
di Damastore, padre dell'argivo Tlepolemo in U., di Peristene, sposo d'una
danaide Elettra in Apoll. Or come lo schema genealogico studiato fin qui mostra
Acrisio e Danae innestati fra Danao (gi anticamente peloponnesiaco) ed Eracle
(meno anticamente peloponnesiaco.', cosi i matrimonii fra i figli di Perseo e
le Sglie di Pelope (le testimonianze presso Kuhnert) rivelano la analoga
tendenza a collegar il nuovo venuto eroe con il pili vetusto. E l'opposto vale
per Dioniso che la leggenda fa superar da Perseo [cfr. Edseb. Chron. II 44 Schone; Cirillo c.
lui.; Agost. de Civ.; Scoi. Totr.
IL. Questa dev'essere la leggenda pi antica; l'altra in cui il vinto Perseo (cfr. Kthnert) dov nascere allor che
Dioniso fu pi a fondo penetrato in Argolide]. Che se per lo strato argohco pu
esser suddiviso in parti cronologicamente succedentisi, il tessalico offre
occasione a diverso studio. Il personaggio di Danae serve a gittar, di fatti,
molta luce su elementi che a tutta prima sfuggirebbero nel mito e che sono
tutt'afFatto novellistici. Certo esso , originariamente, vivo di sostanza
naturalistica ; si riconnette con Danao e, come esso, deve valere quale divinit
del mare (Beloch Gr. G.) della nuvola nera o di alcun che di simile: e, se bene
forse sia eccessivo precisare di pi, in ciascuno di questi casi chiarissima la ragione per che Perseo, l'eroe
solare, fu detto nato da lei. Tuttavia, sopra questo innegabile strato, nel
mito tessalico Danae ci appare gi ricca di un nuovo contenuto. Il motivo invero
della figlia o, pi latamente, della vergine che contro un esplicito divieto
divien madre e paga il fio di questa sua colpa insieme con la sua piccola
creatura svolto in larga diffusione nel
folk-lore. E non ha nulla in comune con lo spunto, che si fonda sopra una
primitiva bambinesca intuizione del succedersi dei soli, intorno al delitto di
Perseo contro il nonno. Ugual carattere novellistico si riscontra poi in Ditti:
il cui nome non se non il generico
appellativo " pescatore, (cosi che
quasi vana postilla quella di Ferec. fr. iy.Tvi>) ievmv) e la cui
natura per tanto assimilabile a quella
del consueto pastore agricoltore che rinviene la derelitta ed il figliolo
abbandonati alla violenza delle forze naturali. Potrebbe bens pensarsi anche a
una divinit pescatrice (cfr. la cretese Diktynna, su cui bene giudica Maass
presso Wide Lahonische Kulte e il Gruppe Gr. Myth.). Ma il contesto della fiaba
lo esclude, e al pili concede di supporre che il caso sia per Ditti analogo a
quello di Danae: che cio l'indubitabile carattere novellistico offuschi un
antico sostrato naturalistico. Certo in ogni modo che per quel primo carattere
non per questo sostrato Ditti entr e rimase nel mito di Perseo. Altro di Polidette: questa stessa forma verbale si
rintraccia difatti in un attributo di Plutone-Ade, onde, tra altri, 0. Crusios
Jbb. Phil. ha creduto di identitcar con Ade appunto anche l'ospite di Danae e
Perseo. L'ipotesi ci par ragionevole, a patto che si facciano due restrizioni :
anzi tutto non da credere col Crusius
che Ditti fosse epiteto primitivo di questa figura dell'Ade- Polidette, e da
epiteto si trasformasse in fratello; ma tenendo conto del folk-lore e delle sue
forme consuete, da pensare invece che
originario fosse Polidette, il cui significato trasparente fa intra vvedere un
fondo naturalistico al suo episodio come a tutto il primo nucleo della saga, e
posteriore Ditti. Inoltre altra la
interpretazione da darsi, io credo, ai rapporti fra Polidette-Ade e Perseo con
Danae. Il Crusius difatti, col far gravitar tutta l'importanza del mito su
questa, la riteneva simbolo dell'anima che il re sotterraneo rapisce e Perseo
(= Ermes) libera. Se al contrario vero
che Danae divinit del mare o del bujo e
Polidette nume sotterraneo, la
spiegazione di entrambi esiste rispetto a Perseo in un concetto unico. Nel
fatto l'eroe solore Perseo si pretendeva nato da Danae come il sole dall'ombra;
ma poi, sopravvenuta per Danae la forma novellistica, fu concepito un doppione
di lei m Polidette. per cui Perseo viene ad uccidere Acrisio non pur
dall'onental Magnesia (v. sopra) si anche dall'ombra, dalla regione
sotterranea, onde ogni mattina il sole emerge. La cattivit di Danae presso
Ade-Polidette dunque giustificata anche
dalla affinit F., Kalypso. ANDROMEDA sostanziale dei due personaggi. In tal
caso, ammettendo la diversit di Ditti e di Polidette, la tradizione ferecidea
che li fa fratelli e figli di Magnete par che si debba spiegare come un atto
unico di elaborazione mitologica per cui dalla Magnesia (per la sua positura
astronomica rispetto ad Argo pelasgica) fu desunto il nome del padre, e dalla
paternit dedotto il rapporto fraterno. Considerati nel loro insieme lo strato
argolico, di cui vedemmo i successivi momenti, e il tessalico, di cui tentammo
scernere gli elementi naturalistici e novellistici, costituiscono per un lato
una fiaba di schema consueto e di per s bastevole, ma offrono per altro lato
appiglio a giunte e svolgimenti mitici. L'indagine, continuando, ce ne dar
conferma. Atena e la Gorgone Medusa. Glelementi che caratterizzano la prima
avventura di Perseo in quell'intervallo di azione ch' compreso fra la sua cacciata
da Argo e il suo ritorno, sono tutti a un tempo elementi jonici. La Dea che lo
protegge Atena, la quale ci riporta
senz'altro ad Atene; il Dio che l'ajuta
Ermes, di cui in Atene culto
notevolissimo (cfr. p. e. Roscher nel suo Lex.); il mostro che combatte e
vince quel medesimo di cui il capo sullo scudo di Pallade (Iliade); il luogo
onde si muove Serifo, colonia di Joni. A
questi dati fanno buon riscontro le notizie che per altra via si posseggono
intorno al culto di Perseo in Serifo (Paus., per le monete cfr. Head H. N), in
Atene (Kchnert), in Mileto (Strab. cfr. Erod., Edrip. Elena, Kuhnert): in
Mileto, specialmente, tali da risalire al VII sec. a. C. Da tutto ci, poich
anche il mito di Perseo e Medusa non contiene altri elementi all'infuori di
questi n favorevoli n contrarli, lecito
dedurre che quell'episodio dev'essersi formato in territorio jonico; e che per
conseguenza la sua formazione posteriore
ai principii dello strato peloponnesiaco, del quale appare un effetto.
Quanto probabile questo risultato tanto
par certo il contenuto naturalistico dell'impresa. Le Gorgoni abitano (presso
[Esiodo] Teog.) nQrjv kvtov 'Qxeavoo oxa^tfl TCQg vvCTg, tv' 'EajtEQisg
iy^cpcovoi ; sono pertanto evidenti mostri delle tenebre e della notte che
dicevolmente si contrappongono all'eroe solare in aperto contrasto. L presso si
devono ritrovare gli Etiopi che abitano dove sorge e dove tramonta il Sole
{Odissea. A Nord, ma con egual significato tenebroso, stanno gli Iperborei
(cfr. Pind. Pit. X 50 sgg. e SniiA di Rodi appr. Tzetze Chil.). Non dunque dubbio, anzi tutto che l'avventura
contro le Gorgoni si riconnette pel sostrato naturalistico e con l'uccisione di
Acrisie e con quella del kjtos (v. sotto) ; in secondo luogo che quando in
territorio jonico il mito di Perseo venne importato e diffuso, il suo valore
era ancor a sufficienza noto e chiaro. E da origine rintracciabile con
probabilit derivano anche i singoli elementi constitutivi della saga. Che Atena
avesse sul suo scudo il capo di Medusa non
spunto vano: il suo valore di Dea nata dal cielo e in (Ij Su le Gorgoni
v. Roschee Gorgonen u. Verwandtes (Leipzig 1879). Un recente lavoro (Berlin
1912) su lo stesso tema non merita d'esser citato. (2) Cfr. WiLAMOwiTZ Hom.
TJnters. {= " Phil. Unt. Cfr. Knaack Hermes. Su gl'Iperborei v. 0. Schrder
" Archiv f. Religionswiss., A. KoETE ibid. X (1907) 152 sgg.; Gruppe in
Bubsian-Kroll ' Jahresb. particolar modo di Dea del temporale (Beloch Griech.
Gesch} I 1, 154) d risalto a quello spunto, cosi che vi fa trasparire un'antica
antitesi fra Pallade e le tenebrose Gorgoni. Antitesi invero che si serb
sempre, accanto al mito di Perseo, se Eurip. Jone la ricorda e Apoll. II
46 costretto a farne menzione. E, ultima
riprova di un fatto gi a bastanza palese, anche quando alla Dea si sottrae il
merito della vittoria contro Medusa, a lei sempre si attribuisce l'ausilio in
favor di Perseo (Ferec. fr. 26 e Apoll. ). Se non che il capo di Medusa pure su lo scudo di Agamennone in //. A
Pensando alla natura prima di lui (Beloch Griech. Gesch.) si potrebbe supporre
per lui un'antitesi con Medusa analoga a quella che fra Atena e la stessa Medusa. Ma bisogna
rammentare che su lo scudo il capo della Gorgone divent ben presto un costante
e diffuso ornamento senz'altro motivo che di estetica e di tradizione. Dalla
medesima Atena desunta la y.vvi\ ond'
coperto, e reso invisibile, Perseo: si trova di fatti menzionata per lei in //.
E 845 ("^'^os KvvrJ. Di natura diversa, e novellistica, sembrano in vece e
i calzari alati e la Kifiiacg e l'episodio delle Graje. Queste non sono mostri
analoghi alle Gorgoni bens tipi esagerati della vecchiaia, di cui la novella
suol compiacersi; ma perch un aspetto mostruoso
in loro innegabile, per ci bene [Esiodo] Teog. 270 sgg.; Esch. Promet.;
Apoll.; TzETZE a Licofr. 838. 846 fanno le une sorelle delle altre. Accadde per
che la parentela con le Gorgoni e la paternit di Forco traviasse i critici; che
vollero in gran numero ritener le Graje personaggi naturalistici (Rapp in
RoscHER Lex.). Ma bisognava prima provare (e la prova manca) che la parentela e
la paternit sono originarie nel mito, e non indotte dall'essersi nella fiaba le
tre Graje e le tre Gorgoni (di diversa origine) trovate vicine. Di fatti delle
Graje la novella approfitt per farne i personaggi di una pre-avventura, la
quale trova moltissime analogie, e le depositarie di alcuni talismani, che
ritornano sotto mutati aspetti con frequenza nelle fiabe. Ufficio analogo (e
analoga origine per conseguenza compete al suo intervento) esercita Ermes e la
falce di lui. Mentre per le Graje dovevano contrapporsi a Perseo, come quelle
che la notte ricinge, Ermes dove essergli propizio, come quello che quando si
scontr con Perseo aveva caratteri di dio della luce esso pure (Beloch Griech.
Gesch. Mentre inoltre le Graje nel cammino dell'eroe si trovano solo per motivi
novellistici; Ermes si trovava in vece anche nella real sfera della diffusione
cui and soggetto il culto di Perseo. Riassumendo, dunque : l'episodio di Medusa
nel mito di Perseo pare concepito in territorio jonico; , nel suo fondamento,
senza dubbio naturalistico; ma coi personaggi naturalistici (le Gorgoni, Atena,
Ermes) si mischiano gli elementi novellistici (le Graie, la Kt^iffig, i
talari); e tutto il contesto per tal
modo novellistico che anche quei personaggi vi intervengono con offici proprii
della novella. V. Cefeo Fineo e Cassiepea. Gli elementi onde costituita la impresa di Perseo contro il
x^roy sono di natura e origine assai pi incerta che quelli raccolti intorno a
Medusa. Tuttavia, anche a prescindere dalla prima forma del racconto e a
limitar l'indagine pur ai In quanto al valore originario di Ermes lascio qui
intatto il problema e solo rimando a E. Metek G. d. A. IRicordo anche Roscher
Heines der Windgott (Leipzig) (cfr. l'art, nel Lex.); e Siecke Hermes der
Mondgott (Leipzig 1908) che determin una polemica appunto col Roscher. dati
tardi delle genealogie e delle saghe secondarie, la diffusione di Cefeo
nell'Arcadia e nell'Acaja (v. sotto), la constatata presenza di Fineo in quei
luoghi (v. sotto), inducono a cercar di preferenza nel Peloponneso il
territorio forse di formazione e probabilmente di diffusione di quell'episodio
mitico. Molto pi deve dire un esame delle figure singole. La lotta di Perseo
contro il v,f}zog , bisogna a pena osservarlo, parallela per significato
all'impresa avverso Medusa. Sarebbe quindi gi a priori da attender notizia
intomo a un Nume che in quell'avventura compiesse gli uffici i quali nell'altra
esercita Atena; e un cosi fatto nume sarebbe anche, per pura indagine
etimologica, da ravvisar in Andromeda, nel cui nome non dubbia la radicale di vfjQ; se a conferma
validissima non ci fosse serbato un cratere (" Mon. d. Inst.; KuNHERT) in
cui Andromeda appare non legata, vittima prossima del n^Tog e premio futuro
all'eroico liberatore, ma ritta presso l'eroe nell'atto di ajutarlo a respinger
la belva col lanciar sassi, che sono raccolti in mucchio li presso. Ivi
ella senza dubbio queir "
ajutatrice che la congettura avrebbe per
s supposta. N la comparativamente tarda et del vaso (VI sec.) deve
stupire: ovvio che la stilizzata
tradizione artistica dei vasai deve aver serbato in anni posteriori, quando il
mito s'era al tutto tramutato, memoria della forma che esso aveva pia anticamente
assunta. Questa ipotesi per intorno al primitivo racconto sul x^rof, se tanto evidente da indur meraviglia che il
cratere possa esser stato prima non cosi interpretato (Kuhnert o, c. 2020),
pone anche il problema su le cause del passaggio da quello stadio mitico a
quello ch' in Ferecide. Ora chiaro che
l'episodio di Medusa e quel del tijTog non potevano, nella veste pi arcaica,
venir raccontati l'uno appresso all'altro senza che se ne dovesse notare,
sbito, la simiglianza strettissima: quindi il bisogno di dissimilarli. Inoltre,
a sodisfar quel bisogno giovava il facile innesto su quella saga naturalistica
di uno spunto novellistico : la fanciulla cattiva e liberata, premio al prode
che la salva (si ricordino le epopee cavalleresche). Se non che alla medesima
forma vetusta e primordiale dell'episodio non dovevano mancare gli Etiopi. Fu
veduto dianzi come le sedi loro nella concezione mitica li raccostassero ai
mostri tenebrosi. E tanto pi qui il loro ricordo era importante in quanto,
mentre le Gorgoni richiamavano, sole, a sufficienza i luoghi di lor sede, il
nrjTog per s non sarebbe stato indizio locale bastevole. cosi preparato il terreno a giudicar di
Cefeo. Le testimonianze intorno a lui (doricamente Cafeo) sono tali da non
permettere dubbi sul luogo ove il mito lo ha pi a fondo radicato. I testi
fondamentali di Apoll., di Paus., di Apoll. R. Argoti., che tutti lo fanno
figlio di Aleo, eponimo di Alea in Arcadia, e re di Tegea; le monete di Tegea
appunto, in cui abbondanti volte ritorna (cfr. Deexlek in Roschee Lex.: fissano
in modo esplicito per l'et storica la sede prevalente del suo essere mitico
presso gli Arcadi. In particolare poi Paus. asserisce che da Cafeo avrebbe
preso nome la citt arcadica di Cafe. Il problema, che non in questo caso solo
si presenta alla critica, fra le attinenze reciproche de' due nomi non pu esser
risolto fin che manchino notizie sul culto di Cefeo, che solo risolverebbe la
quistione col far deri- Cfr. Immerwahr Die Kulte u. Myihen Arkadiens; che mi
sembra per superficiale. vare alla citt il nome dal Dio. Ma ad ogni modo quelle
attinenze non sono da negare. E queste notizie sono non infirmate, ma
consolidate da Licofkone Aless. ove Cefeo
n:' ^Qevov \ Avfii^ re BovQaiotoiv ijyef*)v OTQazov : perch nell'Acuja
dobbiamo ravvisare uno dei punti tcchi dall' irradiarsi di lui fuor
dell'Arcadia nel restante Peloponneso. Analogamente Cefeo fu, fuor
dell'Arcadia, introdotto nel mito spartano degli Ippocoontidi, cacciati da
Eracle, cui egli avrebbe recalo ajuto ottenendone in premio la perenne salvezza
del suo dominio in Tegea: saga, pare, a bastanza antica, se gi Alcmane fr. Bgk.
{^ax ztg audcpevg [Kaq>evs Nelmann] vdao)v) ne aveva sentore: cfr. inoltre
Apoll. II 144, Stef. Biz. s. v. Kacpvai. Ma se eifetto d'una pi tosto tarda
irradiazione sono coteste attinenze fra Cefeo e l'Acaja, fra Cefeo e Sparta, di
gran lunga posteriore va ritenuto, sembra, il trasporto di lui in Beozia: scoi.
B a lliad. B 498 QeaTCEiov zov Ki^q>ews ^ d-vyatQe^ ^aav v' . 11 TiMPEL
Kephcus presso Roscher Lex. II 1, 1113 esclude, senza peraltro addur motivi,
che queste parole derivino dal facile equivoco tra Cefeo e Cefiso, o da una
combinazione tra le 50 figlie di Tespio e 60 figli di Cefeo ; e ne deduce,
richiamandosi alle sue ipotesi su Cassiepea, che in Beozia va cercata la sede
prima di Cefeo! Lasciando ora di discutere le asserzioni del Tumpel su
Cassiepea (v. sotto), va qui solo rilevato che non difficile chiarire la genesi, posto che
equivoco di nome non siavi, della notizia serbata in quello scolio. Le genealogie
che esamineremo pi tardi (v. sotto) uniscono Cefeo con Fenice e Cadmo, tebani e
beoti per Queste genealogie sono studiate ampiamente, se non acutamente, da A.
W. Gomme " Jour. of Hell. Stud.
XXXIII (1913) 53 sgg. eccellenza: con Fenice e Cadmo, tardi quindi,
Cefeo dev'essere pertanto giunto in Beozia. Tra queste notizie, pi meno tarde,
che ci riportano all'Acaja a Sparta alla Beozia, e quelle che ci richiamano
all'Arcadia il criterio per scegliere in modo decisivo non manca. 11 Cefeo
arcade secondo Ellanico (fr. = scoi.
Apoll. R. I 162 combinato col fr. senza numero = scoi. MTA a Eurip. Fenice;
contro l'opinione del Tumpel a. e.) figlio di Posidone; e secondo Apoll.
fratello di Licurgo (per contro di Licurgo
figlio presso Apoll.). Questi dati genealogici, come ci vengono riferiti
solo per il Cefeo dell'Arcadia, cosi concordano del tutto e con il suo
carattere di re degli Etiopi (v. sopra) e con la probabile etimologia del suo
nome. Di fatti sia che vi si voglia riscontrare la radice kuF- sia che con gli
antichi gramatici lo si riconnetta con ncjcpg (confr. x^go^f), sempre vi
traspare la natura d'una divinit ctonica e tenebrosa: la quale in vero viene
pensata o abitante nelle oscure cavit che sono oltre la linea donde sorge il
sole, pure priva della voce. Se ne conclude che la localizzazione di Cefeo in
Arcadia dev'essere la pi antica, come quella con cui va tuttavia connesso il
ricordo di quell'essenza naturalistica di lui che mito e nome rivelano del
pari. Mentre per il nesso fra Cefeo e gli Etiopi risulta in tal modo se non
primordiale certo antichissimo, non si pu dire altrettanto del nesso con
Andromeda. In vero se questa sul
principio 1' " ajutatrice, di Perseo, solo quando, ed , come si vide,
assai per tempo, l'avventura dell'eroe contro il xijvos fu localizzata fra gli
Etiopi, e solo a traverso questa localizzazione, pervenne a commettersi con
Cefeo. Perseo, Andromeda, Cefeo, gli Etiopi, il x^roj, erano per tal modo
sufficienti a costituire, per s soli, la trama di un episodio mitico; onde la
presenza di Fineo e Gassiepea, per non sembrare un' intrusione superflua deve
venir giustificata con l'indagare partitamente il valore di quelle due figure.
Quanto a Cassiepea, lo stesso nome rende non dubbio che si tratta del tipo
novellistico della " millantatrce
(cfr. TMPEL in Roschek Lex.) che compete in bellezza con le dee e
ne punita in s o nella prole. I luoghi
per tanto dove vien fatto di rintracciarla non hanno attinenza alcuna con la
sua natura e solo ella vi indotta a
traverso i miti in cui penetra. Cosi per esser stata congiunta (miticamente e
genealogicamente) con Cefeo Fenice e Cadmo, viene sostituita a Memphis come
moglie di Epafo presso Igino Fav. 149 e, altrove (Esiodo fr. Rz.), fatta
discendere da Thronie, l'eponima d'un luogo Thronion della Locride : cfr. scoi.
D a, II. B. Si sa difatti che con Epafo ed Egitto han nessi mitici e
genealogici Fenice e Cadmo ; e che con la Beozia (e quindi con le regioni
vicine) han nessi cultuali e geografici. Fu dunque abbagliato da
localizzazioni, che son conseguenza d'una erudita elaborazione mitologica, il
Tumpel quando su la fede dei luoghi citati asser Cassiepea esser beota. Ma se
la Millantatrice originariamente
estranea a ogni luogo, essa anche con Andromeda e Cefeo si deve esser connessa
non per contiguit di luoghi ma a compimento della trama novellistica che quelli
comprendeva. Non quindi dubbio che la
sua presenza accanto Andromeda risalga a quel momento in cui la figura di
questa viene appunto novellisticamente atteggiata nel tipo della vergine che un
prode libera da prossima morte (v. sopra). Allora di fatti diventava necessario
giustificare in qualche modo la cattivit della fanciulla; alla quale il vanto
della Millantatrice, pot divenire argomento sufficiente (contro Tumpel). E solo
a traverso Andromeda si strinse il legame di lei con Cefeo e gli Etiopi. La
riprova di questa ipotesi sta nel non potersi rintracciare nella sua figura e
in quella parte del mito ohe pi le attiene alcun indizio d'un'antica e diversa
vita mitica. Quanto a Fineo, il Sittig in Fault- Wissowa R.-Encr . mette a
sufficenza in luce il sostrato naturalistico del mito, che pi propriamente suo, delle Arpie di Elios e
de' Boreadi; ci la lotta dei caldi venti
del Sud, che il Sole suscita apportatori di nuvole e di danno, contro i venti
del Nord, che insorgono a respinger quelli e a difendere il nume cieco del bujo
settentrione. In questo sostrato per non si vede elemento alcuno onde possa
giustificarsi l'intervento di Fineo nel mito di Andromeda, all'infuori del
contrasto che fra la sua figura e l'eroe
solare Perseo : contrasto che rendeva anche dicevole la presenza sua fra gli
Etiopi. Ma se le sedi mitiche di Fineo si potevano cercare senza contraddizione
cosi al nord come a l'estremo oriente o a l'estremo occidente, la sede
geografica di lui fu rintracciata sul Ponto quando divenne pei coloni Greci
quello l'estremo punto settentrionale conosciuto (cfr. le testimonianze
raccolte dalJESSEN sul Roscher Lex.). Col egli divenne l'eponimo della regione
vicina e de' popoli : onde si commise con Fenice ritenuto l'eponimo dei Fenici
(Bkloch Griech. Gesch.) e con Egitto e Libia. Di qui appare possibile anche
l'ipotesi, contraddicente quella cui si pervenne pur ora, che il nesso fra
Fineo e Perseo si sia stretto non per motivi di sostrato naturalistico ma
traverso Cefeo, considerato re e rappresentante degli Etiopi in senso
geografico.Senza dubbio per le tracce che si riscontrano intorno a un Fineo
Arcade (presso Apoll. ove Fineo figlio
dell'arcade Licaone e presso Servio a Verg, Eneid. Ili 209 ove rex Arcadiae) debbono ritenersi posteriori al
nesso con Cefeo ANDROMEDA e determinate da questo. N giova a sostegno del
contrario addurre l'analogia fra le Stinfalidi e le Arpie ; perch non giusto che ci uniformiamo al sincretismo de'
mitografi Greci, onde pi figure analoghe di numi erano unificati in un solo
aspetto leggendario ; ma dobbiamo, giusta i pili savi e moderni concetti
critici, ritenere che in luoghi diversi esistessero divinit analoghe parte
simili parte dissimili, senza che la localit dell'una possa illuminarci su quella,
probabile, delle altre. Restano ancra da indagare le attinenze tra Fineo e
Cassiepea, prima che il problema critico si presenti in tutta la sua
complessit. A tale scopo necessario
ricostruire lo schema genealogico la cui esistenza sia presumibile presso
Tepica esiodea. Il Tmpel (negli articoli citi del RoscHER Lex.) ha considerati
divisi e distinti i due frr. di 'ESiq-do {Rzach) 31 e 23. E ha pertanto
ritenuto provata l'esistenza mitica di due Cassiepee, secondo questi due
schemi: I (fr.): Tronie Ermes Arabo I Cassiepea (fr.): Agenore Cassiepea ~
Fenice I Fineo Il testo SU cui si fonda
Strab: che per vero egli interpreta male. Strabene sostiene che Erembi
ed Arabi sono nomi diversi d'uno stesso popolo: TteQ Che han per fondamento, insieme con l'altro
art. del Lex., il voluminoso saggio dello stesso TMPEL in " Jahbb. Phil.,
Supplbnd. II concetto essenziale di questo saggio (che nella pi antica forma
del mito la sede dell'episodio di Andromeda
Rodi) stato, mi sembra a ragione,
confutato dal KuHNERT 0- e.CEFEO FINEO E CASSIEPEA Tv 'EQf*p}v Tto fiv
s'iQrizai, 7if&av)raT0t S elaiv ol voui^ovreg zovg "A^afiag
yea&ai. Tuttavia nel verso omerico Aid-iOTidg '&' ly,fA,t]v koI
Siovlovg nal 'EQefi^ovg {S 84) non ritiene dicevole il sostituire con Zenone
"AQa^dg te : perch, dice, non v' corruttela di testo; v' bens mutazione di
nome dalla pi antica all'et posteriore. Omero difatti ricorda gli E r e m b i ;
Esiodo in vece v KaiaXyqj conosce Arabo: Kal xoijQ']v 'Aqc^oio ...KT [fr.].
Bisogna dunque dedurre (slad^eiv) che gi ai tempi di Esiodo il nome di Arabia
esistesse, e non esistesse ancora ai tempi di Omero (aar tovg rJQcoag). Di
questo passo l'interpretazione non pu essere, pare, che una : Esiodo faceva
fCassiepea] figlia di Arabo, figlio a sua volta di Tronie ed Ermes. Il Tmpel in
vece si lascia fuorviare dalla menzione, che quivi fatta brevemente, degli Etiopi, e ritiene che
per Strabene Arabia sia il nome esiodeo d'Etiopia e che quindi la KovQri
^Aqufioio sia la regina degli Etiopi moglie di Cefeo ; onde integra il fr.
cosi: Tronie Ermes Arabo I Cassiepea Cefeo Andromeda. Se non che nel luogo di
Strabene gli Etiopi non costi- Il nome si supplisce da Scoi. Apoll. R. e Anton.
Lib. 40. tuiscono che un argomento a mo' di parentesi. \7t yQ xov elg zjv ^Qav
/*fiavetv tog 'EQe/*fiovg zv(ji,ooyovat, oUvcg ol tiooI, ofig fieraafivzeg ol
dareQov nl T aacpateQOv TQtyoviag ndeaav ' otoi S (ol 'E Q e fi fio i) e la IV
^A Qd fi wv olTcl&dzegov fiQog Tov 'Agafilov ktiov ksk i fivo i, t TiQg
Aly7tx(fi v.a\ AI& ton la. E, continua, per tal motivo appunto questi
Erembi son ricordati da Omero: in causa, ci , della lor vicinanza con gli
Etiopi, citati nel verso medesimo : to-tov (twv 'E^efifi&v) elug
fiefivja&ai Tv TioifjTjv xal TiQg vovTOvg (pl%d-aL Xyeiv Tv MevXaov, xad'
hv tqtiov sQrjxai, xal TtQg zovg Ald'loTiag' zfj yQ Orjfiatdt nal odzoi
TtTjaid^ovoi. E parimenti {/A.ol(og) son rammentati tov fn^aovg zi^g Tiorjfilag
(xdQLv) y,al zov v^ov. Come si vede, gli Etiopi servono a dare un'idea della
positura geografica degli Erembi {^Qg) e a fornire un motivo dell'averli Omero
ricordati insieme. Ma si ben lungi da
una qual si voglia identificazione " Erembi = Etiopi ! L'unico dato positivo adunque che dal luogo
cit. di Strab. si ricava la discendenza
di Cassiepea da Arabo. La qual notizia spiega un'altra, poco appresso (I 43),
da cui a sua volta integrata. " Vi
sono alcuni ot xal ttjv Al&ioniav elg Tjv Kad"' ^f*g ^otvlTirjv
fA.Ezdyovai, nal za nsQ ztjv 'Av~ QOftSav v 'lTZ] avfifiy\val (paai ' oi>
r'jnov xar' ayvoiav Tonimjv aal zovzcv eyofivcov, ^ v ^v&ov fiov a^'^fiazi
" xad-dyie^ tial zwv Jiaq 'HaiSq) aul zog aoig 7tQ0(pQei
' AnoXXoQog ... Vi erano adunque
alcuni che fondandosi su Esiodo portavano gli Cfr. Ps.-SciL. GGM. I 79, Stef. Biz. s. v.
'Unti, Eust. Cotnm. in GGM. II
375- Di questa localizzazione fenicia del mito non mi sono occupato, che
ritengo essa possa e debba studiarsi e spiegarsi del tutto a parte. Etiopi fra
i F enici. L'ipotesi pili semplice chespieghi questo fatto che in Esiodo era moglie di Fenice (fr. 31
Rz.) quella Cassiopea che nel mito di Andromeda
regina degli Etiopi. Non quindi
in nessun modo lecito dedurre che in Esiodo la figlia di Arabo avesse ad essere
moglie di Cefeo : n si vede a che condurrebbe, COSI fatta interpretazione, se
non a confonder il testo altrimenti chiaro. Concludendo, da Strabene, ben
letto; pu risultar soltanto: che Cassiopea era figlia di Arabo in Esiodo ; 2)
che era moglie di Fenice. E quindi permesso unificare i fr. 23 e 31 Rz.' e
costruire il seguente schema esiodeo: I-f II (fr. 23 + 31): Tronie - Ermes I
Agenore Arabo j I I Cassiepea - Fenice I Fineo. Nel quale schema, analizzando
si ravvisano svibito elementi secondari quali Arabo ed Agenore, ed elementi
principali raccolti nei due nessi Cassiepea-Fineo e Fenice-Fineo. Quest'ultimo senza alcun dubbio da spiegarsi al modo
medesimo del nesso Arabo-Fenice, Fenice-Egitto; come, ci , un avvicinamento di
numi eroi creduti eponimi o rappresentanti di popoli stranieri. Ma il primo di
quei nessi non pu legittimarsi se non pensando a possibili analogie mitiche tra
Fineo e Cassiepea (poich l'ipotesi d'un legame casuale non servirebbe che ove
tutte le altre non fosser riuscibili). E difatti un'affinit si vede sbito tra
le due figure invise agli di e dagli di punite : l'una come millantatrice;
l'altra come dio tenebroso vinto dal Sole. Di pi poi permette di discernere
l'esame dei motivi dalla tradizione addotti a spiegar la pena di Fineo. Tre
sono : Fineo avrebbe preferito una lunga vita alla vista, offendendo Elios
(Esiodo fr. 52 Rz^.); Fineo avrebbe additato la via a Frisso; Fineo avrebbe
ajutato nel viaggio fra le Simplgadi gli Argonauti (Apollod. 1 124; Apoll. R.
Il). Ora ovvio che il terzo motivo ricalcato sul secondo, e molto tardo ; che il
secondo posteriore alla localizzazione
di Fineo sul Ponto, e quindi recente ; che il primo il pii antico. Ma del pari ovvio che di questo motivo si dove cominciar
a sentir bisogno quando il sostrato naturalistico delle Arpie e di Fineo and
inavvertito ; giacch prima era sufBciente a tutto legittimare la natura di lui
e quella di Elios. Non pertanto
improbabile che in quell'et comparativamente non antica in cui si ebbero a
cercar gli spunii novellistici a fin di motivare l'antitesi tra Fineo e la
luce, come piacque l'aneddoto dell'offesa al prezioso dono del vedere, COSI
piacesse (e forse per una pena analoga ma diversa) l'aneddoto del vanto di
Cassiepea punito nel figlio, Dell'invenzione unica traccia ci rimarrebbe la
genealogia esiodea. In somma, pu darsi sia che Cassiepea e Fineo si
connettessero primamente per i motivi or ora supposti, sia che si connettessero
poi, traverso Fenice, al par del quale Fineo era considerato eponimo di popoli
stranieri. Riassumendo ora in breve i risultati delle singole indagini, veniamo
a importanti ipotesi: Cassiepea offre al mito di Perseo -Cefeo Andromeda
(Etiopi), uno spunto, ed entra in quella trama; Fineo si unisce a Cassiepea per
lo spunto no- L'ipotesi del mio maestro
SANCTIS (si veda); la responsabilit dell'argomentazione mia. vellistico che trova in questa la causa
della pena di quello; o, in linea secondaria, col marito di Cassiepea (Fenice),
come rappresentante di genti straniere; Fineo si unisce a Perseo come nume del
bujo ad eroe solare; o, in linea secondaria, a Cefeo come rappresentante di
genti straniere. Di questo triplice rapporto rimangono le tracce sensibili : a)
nel racconto ferecideo del mito di Perseo; V nella genealogia esiodea di Fineo;
e) in Ferecide e specie nel duello tra Perseo e Fineo. Se non che questa una matassa confusa di cui bisogna sceverare
le fila conduttrici. Un gruppo a s, e d'importanza minore, costituito dalle attinenze a sostrato
etnico-geografico (tra Fineo e Fenice; Fineo e Cefeo) la loro natura
evidentemente tarda tale, che ove
accanto a una di esse se ne possa ravvisare un'altra a sostrato naturalistico o
novellistico, a questa da dar la
preferenza su quella, in via d'ipotesi. Un secondo gruppo costituito da questo racconto, coerente e
conchiuso: Cassiepea si vanta e la divinit offesa la punisce nel figlio Fineo
(h); questi condannato a venir superato
in duello da Perseo. Un terzo gruppo infine
costituito da quest'altro racconto, esso pure coerente e conchiuso;
Cassiepea si vanta; la figlia Andromeda ne
punita 5 Perseo libera la fanciulla (a). Di questi gruppi il terzo testimoniato in Ferecide (= Apollodoro) ; il
pili ipotetico il secondo : esso suppone
in vero e una variante su la causa della pena di Fineo, e una variante su
questa pena medesima : vale a dire tutto un mito parallelo a quel dell'Arpie.
Ma come l'esistenza di coteste varianti non
affatto improbabile nella ricchezza di produzione mitica originaria,
cosi esso gruppo spiega molto bene, e insieme, tanto la discendenza esiodea di
Fineo da Cassiepea quanto il duello tra Perseo e Fineo; F., Kalypso. discendenza
e duello che si potrebber bens giustificare pensando per l'una a un errore di
genealogia, per l'altro a una tarda aggiunta novellistica; con due ipotesi per
che non ci saprebbero render ragione n della singolarit per cui l'errore
sopravviene appunto tra due nomi che uno spunto mitico pu ottimamente
congiungere, n della preferenza data a Fineo su ogni altro per farne il
protagonista dello spunto novellistico. Poich invece l'equivoco si pu ammettere
solo ove sieno confusi elementi tra s inconciliabili e discrepanti; e la
preferenza casuale si pu concedere solo quando la preferenza logica sia
impossibile; dobbiam conchiudere che l'ipotesi nostra, pur non pretendendo di
rispondere con esattezza alla verit n di essere perentoria, spiega almeno nel
modo che pare pili semplice tutte le testimonianze che sono a noi conosciute.
E, ultimo vantaggio, non piccolo, ci fa intendere come il secondo gruppo e il
terzo, in entrambi i quali eran Cassiepea e Perseo, si fondessero,
trasformandosi accanto ad Andromeda la figura di Fineo, in un racconto unico,
in cui Cassiepea si vanta, la figlia di Andromeda ne punita e Perseo la libera col tradimento di
Fineo che ucciso da Perseo. Dopo le
quali conclusioni, non resta che da determinar conpid esattezza il valore di
alcuni trai personaggi secondari cui la genealogia collega con Cefeo Cassiepea
Fineo e Perseo. L'Egitto e la Libia son gi noti all'epopea omerica: Il; Od.; e
sono trasparentissimi simboli di quelle regioni i personaggi delle genealogie.
Ma pi oscura la essenza di Agenore (cfr.
Stoll in RoscHEK Lex). Se si prescinde da II. A 467 A 59 M 93 S'425 545-90 ove
appare un Agenore figlio del trojano Antenore, con una non dubbia consistenza
eroica, tutte l'altre testimonianze come son tarde cosi ci dan una scialba
imagine di cotesta persona, senza attinenze chiare con miti, con alcuni dei
quali a mala pena si collega per nessi insignificanti e punto caratteristici.
Tranne la notizia ([Plut.] de fltiv.) singolare di un Agenore padre di Sipilo,
la quale potrebbe riconnettersi con l'epopea in qualche modo, i testi su un
Agenore argivo (Pads.; Apoll.; Igino Fav.; Ellan. app. scoi. A II. F) o un
Agenore avo di Patreo eponimo di Patre in Acaia (Pads.) un Agenore figlio di
Fegeo re di Psofide in Arcadia (Apollod.) un Agenore etolico figlio di
Pleurone, genero di Calidone, zio di Meleagro (Apoll. 1 58 cfr. Igino fav.), se
rendono non dubbia una larga diffusione di quel nome, non son tuttavia
sufficienti a orientar con certezza sul centro onde quella ebbe a prender
inizio. Poich non pu esser qui da discutere l'Agenore etolico, il problema
consiste nel decidere se il peloponnesiaco siasi introdotto nella genealogia di
Cefeo e Fenice per motivi di contiguit geografica con il primo d'essi e con
Danao ; oppure se la presenza sporadica del nome di lui negli schemi del
Peloponneso sia posteriore al nesso con Cefeo e con Danao. Ora, tenuto conto
dell'esser la genealogia di Cefeo e Fineo contesta o sopra fondamento
naturalistico-novellistico o sopra base etnicogeografica, sembra da preferirsi la
congettura che in quest'ultimo caso rientri anche Agenore, in qualit di
rappresentante dei popoli che abitavano la Troade, grossolanamente limitrofi di
quei del Ponto, cui Fineo simboleggia : congettura che confortata dal nesso di Agenore con le
genealogie ove appajono Cadmo e Fenice (cfr. DuMMLER in Pauly-Wissowa
R.-Encl.). L'indagine laboriosa che ora finisce conferma, secondo a noi pare,
quel che affermammo nell'inizio. ANDROMEDA Il personaggio fondamentale di questo
episodio mitico, Cefeo, peloponnesiaco;
l'altro personaggio che come Cefeo ha valore naturalistico, Fineo, nel
Peloponneso si diiFon,de: dunque il Peloponneso
l'area dove s'informa il mito, se pure non quella ove si crea. Fuori da quell'area, come
fuori da ogni altra stanno, o possono stare. Cassiopea "millantatrice,, e
Andromeda, "maschia prima, in
seguito vittima del n^rog: personaggi novellistici della fiaba. Per quale
intreccio di casi e d'influssi poi la trama cosi si serrasse e cosi si
connettessero quelle quattro figure tentammo di concepire, per ipotesi ; ma il
risultato rimane, d'uopo convenirne,
opinabile. Tale, credemmo tuttavia di manifestarlo e sostenerlo : sia perch ci
parve tesi rispondente, meglio dell'altre fin qui difese, a quei criteri! su la
mitopeja che riteniamo validi; sia perch ci parve tesi, se non di per s
probabile, molto possibile al meno, e dalla probabilit certo non lontana. I
miti etimologici presso Erodoto ed Ellanico (frr.). Che il nome di Perseo sia
stato a bastanza presto collegato con i Persiani, non pu far meraviglia ad
alcuno. Importa solo precisare i particolari di quel collegamento. A tale scopo
si confronti anzi tutto Erodoto: 'EKaovTO
ndai Ji [*hv 'E^viv Krjip^veg, vti fivroi. aq>(Ov atx&v nal T)v
7t(iiox)v ^ AQtaloi. 'Enel oh HeQaevg
Aavdt^g Te Kai A log nineio na^ K'^ifpa xv B^ov, nal 'aj^e aitov T]v
d-vyatQa ^AvS^OfieS'Tjv, ylverai aUt^ nalg r^ oi!vo/A^a ed'ETO TlQarjVj
tovtov airov y^avasCnei ' vy^ave yQ naig
v Kt]rjvg, XaSaloi. Il soggetto di voTrjaav qual ?
Dev'essere Xaaoi. Noi sappiamo che esistevan dei Caldei sul Ponto (cfr.
Baumstark in Pauly-Wissowa R-E.). L'omonimia con i Semiti di Babilonia non
poteva non indurre gli eruditi antichi a connetter, senza alcun altro
fondamento che verbale, i due popoli lontanissimi. E, come quei di Babilonia
eran di gran lunga pi noti, da questi si fecero derivare gli abitanti sul
Ponto. Se non che tutti i popoli (Tini Mariandini Paflagoni ecc.) che fino alla
Colchide occupavano le rive di quel mare erano da alcuni supposti sotto il
dominio di Fineo (cfr. Jessen in RoscHER Lex.); e da Fineo rappresentati. Se
dunque i Caldei del Ponto venivan dal sud (Babilonia) e se quindi alla regione
ch'essi migrando occuparono conveniva dare un anteriore nome ; questo si poteva
scegliere dal mito di Fineo. Nel mito, Fineo
fratello di Cefeo: tra i Cefeni, adunque. Ed ecco che Cefenia e Cefeni
vennero assunti a nomi pristini della regione e del popolo su cui si sarebbero
insediati poi, fuor da Babilonia, i Caldei. I frammenti dell'Andromeda di
Euripide. Su i framm. che di questa tragedia euripidea ci son pervenuti e che
si trovan raccolti presso Nauck Su questo punto sono insufficienti cosi il
cemento dello Stein come quello del Macan a Erodoto. FTG}. furon tentate piti
di una volta ricostruzioni della tragedia : cfr. Matthiae Eurip. fragm.,
Wklckek Die Griechische Tragedie, Hartcng Eurip. restitutus, Wagner fragni.
Eurip., Fr. Fedde De Perseo et Andromeda (diss.), P. Johne Die Andromeda des
Euripidea in Elfter Jahresbericht des K. K. StaatsObergymnasiums zu Landskron in
Bhmen, Wernicke Andromeda in Fault- Wissowa R-E.^ I 2156 sgg., E. Kuhxert
Perseus in Roscher Lex., Wecklein in Sitz.-Ber. d. K. Bayr. Akad. d. Wiss. H.-Phil. Kl., Mller Die Andromeda des
Euripides in '' Philologus (N. F.). Di tutte le trattazioni citate scopo ricostruire la tragedia frammentaria per modo
che ne riescan fissati i singoli episodi nel loro succedersi, la struttura
complessiva nel suo organamento tecnico e scenico, le parti dei varii
personaggi. Ma appunto perch tale il
loro fine, n pur una fra esse riesce a liberarsi da una duplice inevitabile
contraddizione. Anzi tutto mentre
pacifico oramai che Euripide si deve essere pili o men liberamente
allontanato dallo schema mitico tradizionale qual riprodotto in Ferecide e che deve aver pi o
men profondamente rielaborato non pur la trama tutta si anche le diverse
figure, per contro si tende da tutti a far coincidere quanto pi e meglio possibile i frammenti con il racconto
ferecideo, ripugnandosi ad ammettere nei particolari quella libert che in generale
si concede al poeta Pel rapporto coi vasi dipinti, cfr. Hcddilston Greek Trag.
in the tight of vases painting (London); con le antichit sceniche, Engelmann
Arch. Stud. zu den Trag. (Berlin tragico. Inoltre laddove riesce a chi che sia
impossibile dar ai ditferenti attori del dramma un contenuto il qual non derivi
dallo studio dei frammenti, i frammenti appunto si distribuiscono poi tra gli
attori in armonia a quel contenuto che in questi avevan fatto pensare essi
medesimi. Uscire da questi circoli viziosi, che sono i fondamentali e in cui
altri minori si assommano, non si pu, io credo, se non ponendo alla ricerca un
altro scopo: il raggruppare i frammenti intorno a ciascuno dei motivi e degli
spunti di sentimento e di pensiero onde la tragedia doveva vibrare e onde
sembra vibrasse dai pochi suoi avanzi. Non resta dunque che interpretare e
scernere. I framm. debbono venir lasciati in disparte per l'ambiguit della loro
interpretazione: giacch se b innegabile che in essi asserita la instabilit delle umane vicende e
l'incostanza della fortuna, non men vero
che tale asserzione pu colorire assai bene, cosi l'angoscia di Andromeda
offerta preda al x^zog, come l'ansia di Perseo, cui Cefeo neghi la figlia in
isposa, o Fineo tenda insidia sbito dopo l'esultanza pel trionfo. Del pari il
151 si conviene tanto a un discorso di ammonimento rivolto a Cefeo o a Fineo
per distoglierli dall'^a^rm; quanto a uno indirizzato a Cassiepea, il cui vanto
deve scontar la figlia. I framm. in vece lasciano trasparire una situazione di
fatto piena di forza tragica, ma non tale da permetterci di dedurne conseguenze
sul resto del dramma: debbono pertanto essi pure venire, al nostro scopo,
omessi. E quasi lo stesso da ripetersi
per i frammenti, che tanto svelano in parte l'azione quanto 8on vuoti di
contrasto passionale. n primo gruppo che attira la nostra attenzione quello. Perseo giunge volando traverso l'aria
a una terra di barbari; scorge sbito, su la riva del mare, TteQQQVTOv (pQ(p
&ad(jat]g, una vergine, nag^vov eixo) riva, Andromeda. I versi che seguono
non possono non appartenere, com' concorde giudizio, a un colloquio fra Perseo
e Andromeda. Ora sembra chiaro che tra la situazione 124-125 e il colloquio
126-32 dev'essere troppo stretta attinenza perch sia possibile pensare tra
l'una e l'altro un abboccamento tra Perseo e Cefeo. Il quale pertanto da escludere prima del colloquio tra
il giovine e la fanciulla. Del colloquio, ora, attirano lo sguardo due
frammenti specialmente. Nel primo Perseo chiede ad Andromeda qual compenso egli
potr avere dopo la sua vittoria contro la belva {eiofj ftoi ;ifa()tv/): e avere
da lei. Nel secondo Andromeda si offre, ed
questo da ritener il compenso, ette riQaitoov &eig \ elY aoy^ov ehe
f^coi'... Da entrambi risulta chiarissima, sgombra d'ogni possibile dubbio,
l'intuizione artistica di Euripide: per cui da un lato Perseo chiedendo, in
garbato modo, l'amore di Andromeda mostra di ritenere ch'ella gli si possa
concedere; dall'altro lato la fanciulla promettendosi mostra di ritenersi
libera nel disporre della propria persona. Onde, confrontando questi
incontrovertibili risultati con Apoll. (= Febecide, V. 1) II 44 (TavTTiV ["AvQOftSav]
d'eaaduevog HeQaevg Kal gaad'elg,
vai^i^asiv vna'x^szo Krjq>st T y.fjTog, el ^kXei a&etaav adtrjv aiz(p
(asiv yvvatxa) appare, in tutta la sua profondit, la discrepanza tra le due
forme del mito: la Euripidea, in cui il patto si stringe tra i due giovini; la
Ferecidea, per la quale le nozze si promettono da Cefeo e su Cefeo grava
l'importanza della deliberazione. Per conseguenza bisogna conchiudere che : o
come non prima cosi non dopo il colloquio tra i due giovini, avesse luogo
l'abboccamento tra Perseo e Cefeo; o pure, avvenendo, avesse esso tutt'altra
importanza che presso Ferecide ed Apollodoro, tutt'altro contenuto, forma
diversa. N si obietti che la tradizione posteriore concorde nel serbar quell'abboccamento e nel
serbarlo com' presso Ferecide ; poich tal fatto deve, di fronte alla logica
argomentazione svolta or ora, indurre pili tosto ad affermare la genialit innovatrice
di Euripide non esser stata imitata che a negar fede a conseguenze logiche di
premesse certe. Un secondo grappo che dev'essere studiato nel suo insieme costituito dai framm. Essi si dividono sbito
in due serie, contrapponendosi l'una all'altra. La prima un vanto del valore, degl'ideali, della
nobilt spirituale, di tutto che s'origina per un ardimentoso slancio dell'animo
{d'Qccaog Tov vov) : il fr. 134 e il 149 in particolare esaltano la fama
conseguita con fatiche (svKeiav eXa^ov on avev noXXiv nvcav) e con rigoglio di
giovinezza {vezrjg fi' jiTlQe..); il 137 e 138 contrappongono alle ricchezze un
nobile amore {yevvalov X^og ... a&Jv Q}fiv(v) ; il 143 afferma il denaro
insufficiente alla felicit. La seconda serie in vece tutta una dichiarazione di preferenza del
denaro a ogni altro bene : il povero non solo soffre ma teme di continuo il
futuro, che non gli rechi dolore pili grave del presente (135"); il ricco
anche se schiavo stimato (ta dovog S)v
yQ tC/Mog tiXovtGv vfiQ 142^ 2) laddove il libero bisognoso othv ad'vei: onde
di tutta la serie pu esser conchiusione il verso ultimo del fr. 142 : XQvaov
vfii^s aavzv e^vex' etvxeIv. Fra queste due serie pu trovar posto anche il fr.
154 : ove per venga letto non nella forma in cui lo d il Nadck 404, che inintellegibile, ma nell'emendazione del
Hkrwekden Exerc. crii. 35 t ^ijv cpvza ae Kaz yijs r/*d)ff' l'awg ; e del
MnsGBAVE nsvv y' ' 5vav yQ ^fl tig sTvxtv XQ^^^- Cosi letto di fatti esso asI
FBAMME^TI DELLANDROMEDA, DI EURIPIDE 3omma bene in s il contrasto delle due
serie opposte che furono esaminate : tra l'idealismo che non trascura la fama
la quale dopo morte conforta l'egregie opere ; e il materialismo gretto che
nella vita vuole il godimento e aborre dal morire e non scorge pi oltre. Ora,
se si pu questionare, ove si voglia, su l'attribuzione di tutti cotesti framm.
ai singoli personaggi, non pu in vece dubitarsi su la realt del contrasto
passionale che abbiamo delineato. Su questa certezza si deve dunque, a mio
avviso, costruire una parte della trama del dramma ; tralasciando del tutto il
litigio su quei punti troppo mal sicuri e fors'anche inutili. Terzo spunto
ci offerto il fr. 141 : y) Ss TiaSag
oiy. cj v&ovg aiSetv' T)V yvrjaiitv yQ oiv vieg veelg vfKp voaovai ' S ae
(pvXd^aad-at, yQEvia; KQu. Siibito, questa necessaria eliminazione di taluni
elementi deVInno induce una conseguenza: se nellet probabile della composizione
di esso, il mito era gi cosi maturo da poter e accogliere elementi nuovi e localizzarsi
in un determinato centro di culto ; se inoltre non probabile che a favor di questo centro
appunto sia stato inventato, come quello il quale nel suo riposto senso troppo intimamente connesso con i primordiali
riti delia madre terra; si pu senz'altro affermare che doveva, prima di
quell'epoca, aver vissuta oramai una, certo non molto breve, vita mitologica. E
poco quindi importa che neV Iliade non appaja (v. le opinioni contrastanti del
Forster Raiib und Rilckkehr d. Persephone; Welcker Griech. Gotterl.; Preller
Griech. Mith}; Bloch; Malten Archiv. ftr Religionswiss.): soltanto significa
che manc l'occasione o non fu colta per introdurvelo. Ora, nell'epopea omerica
Persefone non ha alcun carattere (come fu notato) che l'avvicini, anche di
poco, all'aspetto ch'ella assume, sotto la foggia "Persefone-Kora ,
noVInno om. citato, all'in fuori di questo: ella la signora dell'Ade, regina dei morti accanto
al re delle tenebre. Demetra per contro vi appare gi col suo aspetto di Dea
campestre {E 500 JV 322 = iavd-QQios. Tal differenza acquista valore se la si
contrappone alla concordia con cui due poeti indipendenti, VIRGILIO (si veda) e
Properzio, raffigurano Caco sotto la specie del mostro. Gli che in questi ritorna l'immutato concetto
primordiale; negli storici in vece si rispecchiano razionalizzazioni, simili
non identiche, dell'unico mito: non identiche, perch dif. fcile raggiunger l'accordo nel travestir
le fiabe : dell'unico mito, perch nel " ferox viribus, come nel yi^/oTTjj
ri j traspare ugualmente il ' monstrum . (Contro MNZER). In Dionisio Caco ad
Ercole che lo interroga risponde di non aver visto i buoi. Ci, fu notato,
corrisponde a Vergilio (abiurat rapin). In Livio (e in Ovidio in Properzio)
manca il particolare. Se non che cosi della presenza come dell'omissione difficile far giudizio. Cotesta astuzia di
Caco da avvicinare all'altra di condurre
" aversos i buoi : ed entrambe
ritornano nell'omer. Inno a Ermes. Nel quale, ove si narrano le astute imprese
del Dio, son per vero dicevolissime e consuonano al tono burlesco di tutto il
racconto; l dove sembra che la fiaba di Caco, che contesta su la lotta violenta della luce
contro il tenebroso fuoco, male armonizzi con scaltrezze COSI fatte. Si
propenderebbe quindi a ritenere tutt'e due i particolari pi tosto ornamenti
introdotti sotto l'influsso letterario greco che analogie originarie. La quale
ipotesi spiegherebbe anche la brevit degli accenni in Vergilio e Dionisio.
Mentre ben altra la natura del muggire i
buoi nell'antro di Caco: che primitivo
simbolo del tuono (Bkal 0. e. 93 sgg.). (Contro Mnzer). E anche sotto
l'influsso greco di Polifemo {Odiss. i) pu essersi introdotta l'invocazione di
Caco ai pastori vicini a quelli che solevano adz^ avvayQavslv : la quale
difatti manca nel Rigveda, e non intrinsecamente
connessa con la forma prima del mito. N si erra forse di molto attribuendo a
Ennio stesso queste imitazioni di fonti greche che si ritrovano poi, cosi nei
poeti come negli storici; cosi, cio, nel mito come nei suoi travestimenti
razionali. Risulta adunque che la fonte di Livio e, in parte, di Dionisio
conteneva un racconto umanato rispetto a quello poetico che fonte di Vergilio, di Ovidio e di Properzio;
ma tale che lascia trasparire a sufficienza la forma primitiva, in ispecie
negli episodii di astuzia. Ma comune agli storici e ai poeti anche un'altra parte del mito: la etiologica,
che attende ora il nostro esame. I particolari etiologici del culto. Quella
parte del racconto, in VIRGILIO (si veda), OVIDIO (si veda), Properzio, LIVIO
(si veda), Dionisio, che narra gli avvenimenti seguiti all'uccisione di Caco fu
presto riconosciuta posteriore alla prima e intessuta di particolari
etiologicamente desunti dal culto di Ercole. Ma se non pi possibile questionare su ci, bisogna ancor
discutere su i singoli particolari. A tal proposito il MNZEE (p. 88) asserisce:
dassin der Tat Cacus l'abigeato di caco und Euander nichts miteinander zu tun
haben; dass zwei ganz rerschiedene Erzhlungen, die nur die Persoti des Hercules
als einen Trdger der Handlung gemeinsam haben, rein usserlich zusammengeschweisst
worden sind. E anche: Der Einfluss der Verbindung mit Euander usserte sich am
frubesten und am bedeutssamsten dadurch, dass der Scbauplatz des
Cacusabenteuers naher bestimmt wurde. A questa concezione si contrappongono le
parole del De Sanctis (S^^. d. jB. I 154): "hanno contribuito a suggerirne
del mito i particolari l'Ara Massima dErcole vincitore nel foro boario e le
vicine scale di Caco sul pendio del Palatino (Solino; Diod.). Tardo poi e
dovuto soprattutto a un giuoco etimologico
il contrapposto fra l'uomo buono e benefico del Palatino, Evandro , e il
cattivo ladrone (xax^) dell'Aventino (su questo punto ha giudicato rettamente
A. Bormann ... Kritik der Sage vom Konige Evandros). La tesi del De Sanctis si
pu dimostrare pi verisimile. Due son le figure principali del mito: Caco ed
Ercole; e l'una d'esse certo latina o italica, l'altra certo, in quella forma,
greca. Se v' dunque in Roma un luogo cui si attiene il nome di Caco (scal Caci)
e uno ove si rende culto ad Ercole, il metodo e la logica vogliono che questi
due servissero a localizzar il mito e il primo innanzi al secondo. Si
potrebbe, vero, pensare anche che l'Ara
Massima sia stata la causa della localizzazione di Caco (quando a
Recarano-Garano fu sostituito Ercole). Ma l'ipotesi sarebbe difficile da
sostenere perch suppone, prima della comparativamente tarda intrusione di
Ercole, Euander, che nella sua forma greca sonava -E'^av^^o^, e che era la
mitica personificazione della eavQa, fu interpretato buon uomo per un
lunghissimo lasso di tempo non localizzata la saga. L dove l' essersi anche
topograficamente Garano-Recarano ed Ercole trovati vicini giova a spiegarne la
fusione : se difatti l'uno era con Caco fissato presso il Palatino, l'altro si
stabili all'Ara massima, la contiguit dei luoghi giov senza dubbio a fondere le
due simiglianti figure. Se non che nel Thes. L. L. Suppl. {Nom. propr.) a
proposito del Kdxiog diodoreo osservato:
hic perperam idem esse putatus est atque Cacus deus ; fuit re vera auctor
gentis Caci. E il Mnzer accetta, pur ammettendo che il nome alle scale possa
derivar anche da Cacus (non Cacius): " aber dann bleibt eben Cacus ein
Name, der schon for die Romer ohne Tnhalt und Bedeutung war. Ora il testo di
Diod. (che : v xavtrj oh twv Tiicpavcv
'vreg v6Q>v Kamog xal HivaQiog ^avvo tv 'H^UKsa evcoig icoyoig Hai cQealg
xsxccQiafivaig tifirjaav ' noi tovtcov tv vQcv TCOfiv^fiata ftxQi t&ve
t>v KaiQiv iafivet Kor xiv 'PiLfiTjv.TJv yQ vvv eiiysvv vQwv z ziv UtvaQov vofia^o^vcv
yvog ia^vei, nag zog 'Pcoftaloig, )^ vTiccQXov Q^aLzazov, zov Kaxiov v z(p HaazCcj) /.azd^aalg aziv ey^ovaa
i&lvrjv Kifiaaa zrjv vof*a^ofivt]v n y.evov KaKav, oiaav nrjaiov zfjg zve
yevofAvrig oiniag zov Kaxiov.) mostra troppo chiara l'origine del suo contenuto.
I dati certi che possiede sono: l'esistenza di scalae Caci, l'antichit dei
Pinarii; le attinenze amichevoli, tradotte nel culto, tra Pinarii ed Ercole. Da
questi dati sono desunti: per falsa etimologia il nome KaKtog; il nome
Ilivd^tog) (per analogia) le attinenze amichevoli tra Ercole e Cacio, le cui
scale son prossime a quell'Ara Massima (JoedanHuLSEN Topogr.) ove al culto
erculeo i Pinarii partecipavano. Tale costruzione da erudito costringe ad
l'abigeato di caco ammettere l'ignoranza, vera o pretesa, e della lotta fra
Ercole e Caco, e dei Potizii (ignoranza, si badi, che anche il Miinzer deve
presupporre, nella sua ipotesi). E poich i Potizii, estinti (Haug in
Pauly-Wissowa R. E., VITI), avevan avuto di fronte ai Pinarii privilegio nel
culto, non arrischiato pensare che il
racconto in cui di quelli si tace al tutto e si tace del mito ove quelli eran
inevitabilmente da menzionarsi, sia dovuto a questi appunto (cfr. Pais STORIA
CRITICA DI ROMA: contro WiNTER). A ogni modo le scalae Caci del Palatino
derivano, se la nostra ipotesi vera, da
Cacus, come da esse fu tolto Kdxiog: e additano per tanto la prima naturai sede
della lotta. E perch accanto alla menzione di esse va posto il dato
tradizionale su la caverna dell'Aventino (VIRGILIO (si veda)En., OVIDIO (si
veda) Fasti), se ne deve concludere: che la localizzazione di Caco mossa dall'area piana ch' fra Palatino
Aventino e Tevere, diffondendosi in un senso verso il Palatino {scalae: cfr.
poi Evandro, sotto), nell'altro verso l'Aventino (caverna). La seconda sede,
non lontana, fu l'Ara maxima la quale servi a fornire assai pi tratti al
disegno: ci sono, tutti i particolari connessi con il culto romano d'Ercole.
(Cfr. Peter). Che se il mito di Caco , come si vide, italico e vetustissimo, l
dove Ercole un, comparativamente, tardo
travestimento dell'Eracle greco, si deve ritenere che tutto quanto si attiene
solo alla figura di questo costituisca un secondo strato leggendario. Del quale
le diverse derivazioni appajono in genere concordi nella sostanza : cfr. gli
aneddoti sul sacrifizio di buoi, su i Potizii e i Pinarii, su la decima, ecc.
In vece maggior discrepanza si presenta intorno all'esclusione delle donne dal
culto di Eracle, su cui si danno tre versioni : da Properzio; dallo scritto
OHgo geni. rom. 6; e daPtUTAECo Q. r. 60: tutte dififerenti, in ispecie la
prima rispetto alle due altre. TI che significa come un unico fatto venisse
travestito in almeno due forme diverse. Lo stesso si pu dire dell'ara lovi
inventori che ricordata in Dion.,
Solino, Origo geni. rom., OVIDIO (si veda), e taciuta dagli altri. Il qual
silenzio dimostra, se non pi, che il nesso tra quell'altare e YAra maxima non
era nel mito etiologico essenziale, e forse anche che v'era entrato tardi. Onde
non improbabile che il motivo ne vada
cercato nella topografia: giacch secondo Dion. l. e. l'altare lovi
inventori naq tfj TQiifiq) IIvrj ov' un
altro tempio d'Ercole (Cfr. Gilbert Gesch. u. Topogr. d. St. Rom. II 158). Ma
ha certo ragione il Peter quando ritiene tarda invenzione il voto di Ercole per
cui presso Solino I 7 l'eroe erige l'ara a Giove. Or se la discordia delle
fonti giustifica l'ipotesi che il secondo strato leggendario si sia arricchito
parzialmente per pi tarde aggiunte, la medesima discordia conferma l'asserzione
del De Sanctis (nonch del Bormaim) intorno ad Evandro. Di fatti la presenza di
lui, che essenziale nei racconti di
Strab. V 2 30, Veeg. l. e, Lrvio 1. e, Dion. l. e, OVIDIO (si veda) e, Solino,
Serv. En. (= Myth. Vat.) e nello scritto Origo geni. rom. 7, e manca solo in
Propeez. l. e. non si sa bene perch, per
narrata in fogge diverse. Mentre p. e. Livio e Dionisio attribuiscono a lui la
instituzione dell'Ara Massima, in Vergilio in Ovidio in Solino Evandro non che uno, e sia pur il principale, fra gli
spettatori del primo sacrifizio: e secondo Servio egli da prima ostile ad Ercole. D'altra parte la
istituzione medesima dell'Ara attribuita
a un vaticinio ora di Nicostrato (Strab. e Solin.) ora di Carmenta (Liv. e
Ovid.) ora di Temide (Dion.) ora dell'oracolo Delfico l'abigeato di caco (Myth.
Vat.). Ma Carmenta partecipa al mito sol perch la Porta Carmentalis (a
sud-ovest del Campidoglio) a nord del
Foro Boario ov' l'Ara Massima. E Nicostrato e Temide son sue variazioni di
sapore greco. E parimenti chiaro che il
vaticinio di lei un accessorio della leggenda,
parallelo bens a quel di Evandro, per con una base topografica non
pseudo-etimologica. Entrambi poi vennero fusi col far Carmenta madre di
Evandro.Se non che tutto cotesto processo semierudito e semifantastico traspare
ancora nelle fonti dell'et Augustea, in quelle medesime ove non pi incerta la localizzazione della saga nel
Foro boario ed solidamente fissata la
figura greca di Eracle-Ereole: e se ne deve pertanto dedurre che Evandro rispetto a questo di gran lunga pi tardo.
Rappresenta dunque il terzo strato leggendario, fuso con quel di Carmenta; e a
cui un'aggiunta introdotta col far da
lui annimziare la venuta di Ercole a Fauno (Cfr. De Sanctis o. c. 192 su Fauno
ed Evandro, e Origo geni. rom.). Di qui s'inizi poi una mitografia del tutto
secondaria la quale combattente contro Ercole o introduce Fauno in luogo di
Caco (se non parallelamente a questo) (DerCYLUS Italica fr. 6 appr. Mullee); o
di Fauno il figlio, Latino (Conone Narr. appr. Fozio Bibl. cod.; cfr. anche
Schweglee Rom. Gesch.). In breve, il complesso etiologico inseritosi nel mito ,
a prescinder da tarde superfetazioni, sceverabile in tre strati: Caco, con le
scalae e la caverna (Palatino-Aventino) ; Ercole, con l'Ara Massima; Evandro,
con taluni episodii mal fissati e fluttuanti. Anche su queste etiologie, come
sul mito vero e proprio, si esercita il razionalismo degli eruditi. Gli
eruditi. Il riscontro degli errori in cui GLI ERUDITI cade la dimostrazione del
Munzer su Caco offerto dal suo cap. VI
die antike Forschung. Egli si trova di fatti costretto, dinanzi a due
testimonianze che la nostra tesi spiega traendone a sua volta conforto, a
dichiararsi incapace di chiarirle. Nell'Interpol, di Seev. En. Sane de Caco
interempto ab Hercule tam Graeci quam Romani consentiunt: solus Verrius Flaccus
dicit Garanum fuisse, pastorem magnarum virium, qui Cacum adflixit, omnes autem
magnarum virium apud veteres Hercules dictos,) e nello scritto Or. gen. rom.
Recaranus quidam, Graec originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor,
qui erat fortuna et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus) ritoma
sotto due forme diverse un nome differente da quel di Ercole, nella lotta
contro Caco: Garanus e Recaranus. Qual delle due forme sia da preferirsi incerto (con Mukzee contro Peter o. c.,
Pais., Winter, Bohm in Pault-Wissowa R. E.). Ma non incerta, a noi pare, la interpretazione di
esse. Sappiamo che il mito di Caco
antichissimo, che Eracle non divenne Ercole se non pi tardi, che per
tanto una figura indigena, latina o italica, lo deve aver preceduto. Troviamo
ora un nome sotto due forme, che sembra prettamente italico ; troviamo che gli
eruditi si son sforzati di conciliar esso nome (e non potevan quindi senz'altro
eliminarlo) con quel di Ercole per mezzo dell'asserzione " omnes magnarum
virium Hercules dictos,. Riteniamo per conseguenza legittimo attribuire tale
nome appunto al personaggio italico il cui Cfr. H. Peter Die Schrift * Origo
gentis romanae in Berichte der K. Schsischen Gesell. d. Wiss. zu Leipzig,
Phil.-hist. Kl. l'abigeato di caco preesistere ad Eracle era a priori pensato.
Quando in vece Mnzer deve asserire, giusta la sua tesi, che un cotal Garano
(Recarano) invenzione di eruditi (i
quali dunque avrebber voluto, essendo Caco un pastore, dargli avversario un
semplice pastore non un eroe famoso) contraddice in parte s stesso perch, se
Caco originariamente un pastore, un uomo
anzi che un dio, sin dall'origine non doveva essere un dicevole avversario di
Ercole; e non riesce poi a interpretare il nome Garano (Recarano) n a dire donde
Verrio l'abbia ricavato. L dove per noi l'oscuro nome conferma della natura del vetusto iddio. N
giova, per questo secondo rispetto, l'ipotesi dello Schott (che il Pais St.
crii. d. R. I 1, 200 n. e WiNTER accettano), Garano e Recarano esser " due
forme errate di Karanos l'eroe argivo eraclide, fondatore della stirpe dei re
Macedoni . Nulla di fatti pu esser addotto a conferma di tale ipotesi, che non
ha per s se non un'approssimativa simiglianza formale dei nomi, e ha bisogno a
sua volta d'esser spiegata, giacch sembra assai strana cotesta scelta degli
eruditi latini. Il supporre, in fine, col Mnzee 95 che Garanus sia un
obliterato epiteto di Ercole pericoloso
per la tesi di lui : giacch in quel caso diventa di nuovo probabile che
l'epiteto obliteratosi non sia se non il nome stesso della divinit soppiantata
da esso Ercole. In breve l'ostacolo non si supera bene se non da chi, come noi,
abbia preso le mosse dal mito indiano e creda all'antichissimo mito latino.
Altra testimonianza che il M. non spiega quella su Caca. Servio En. (= Myth. Vai.)
parla d'una sorella di Caco, Caca, la quale lo avrebbe denunziato: ed ivi
pure data notizia di un " sacellum
Cacao,, e si aggiunge " in quo ei per virgines sacrificabatur (cod.
Reginensis); per vir- GLI ERUDITI gines Vestae sacrificabatur {codd. rei.);
pervigili igne sicut Vestae sacriflcabatur {cod. Floriacensis) . L'ultima
lettura la preferita; la prima sceglie
il M. Ch'egli abbia torto dimostra la seconda: la quale nella sua concisa
oscurit e nella confusione che contiene,
pili tosto il risultato d'un'amputazione dell'ultima che un ampliamento
della prima. Comunque, lo stesso M. deve ridursi ad ammettere l'esistenza del
sacellum a una dea Caca. Col che ha gi ammesso troppo contro la sua tesi :
perch una dea di quel nome il riscontro
pili magnifico che si potesse sperare a un supposto dio Caco. Se poi si
aggiunge che all'una si sacrifica sicut Vestae, e l'altro emette fiamme dalla bocca,
la deduzione non pu esser che una. Verissimo tuttavia che lo spionaggio attribuito
a Caca in Servio non le da imputare,
come quello ch' una erudita invenzione poco felice in contrasto con tutto il
mito. Che Caca sia poi il travestimento di queir " una boum, che appresso
VIRGILIO (si veda) rivela il furto n meno il M. osa sostenere. E se il sacellum
Cac sia per il M. oscuro al pari dell'atrium Caci, e se entrambi oscuri non
sono per la nostra tesi, par che non vi sia pi molto a discuter su gli
argomenti dell'una e dell'altra parte. Due composizioni erudite meritano di
esser qui ravvicinate, l'una pi compiuta che l'altra. Servio En. si esprime:
Cacus secundum fabulam Vulcani filius fuit, ore ignem ac fumum vomens, qui
vicina omnia populabatur. veritas tamen secundum philologos et historicos hoc
habet, hunc fuisse Euandri nequissimum servum ac furem; ignem autem dictus est
vomere, Cfr. su Caca, Giannelli II sacerdozio delle vestali romane (Firenze
l'abigeato di caco quod agros igne populabatur; novimus autem malum a Graecis
kuhv dici: quem ita ilio tempore Arcades appellabant. postea translato accentu
Cacus dictua est ut 'Evi] Helena (Cfr. Myth. Vat.). Poi a En. si danno le
notizie sull'Ara Massima i Potizii e i Pinarii ecc. in una forma non
inconsueta, che qui non c'interessa pi. Il razionalismo si qui dunque limitato: a ridurre a uomo il dio,
a spiegar il fuoco che il poeta gli fa emettere, a interpretar il nome. Molto
pi si permette il racconto che si trova in Origo gen. rom.: " Recaranus
quidam, Graecae originis, ingentis corporis et magnarum virium pastor, qui erat
forma et virtute ceteris antecellens, Hercules appellatus; Cacus Euandri
servus, nequitiae versutus et praeter caetera furacissimus: tali i due
avversarii. Caco ruba a Recarano i buoi e questi dopo vana ricerca per partirsi quando Enander, excellentissimae
iustitiae vir, postquam rem uti acta erat comperit, servum noxae dedit bovesque
restitui fecit,. Allora Recarano dedica " inventori patri ^ un altare e lo
chiama Ara Massima e vi sacrifica la decima parte dei proprii buoi. Carmenta,
invitata, si rifiuta di parteciparvi e le donne son perci per sempre escluse
dai sacrifizii in quel luogo. Cotesto racconto
di gran lunga pi finito e particolareggiato di quel ch' in Servio.
L'interpretazione razionale qui si estende fin l, dove il primo non si
dilungava da Vergilio. L'antico nome Recarano (Garano) l'autore concilia col pi
noto dErcole, Ercole mutando in soprannome. Inoltre, poich non pu giustificar
l'intervento d'Evandro come p. e. Livio, n valersi di vaticinio alcuno ; poich
d'altra parte il giuoco etimologico ha fatto %aKs servo di EijavQos: omette il
duello tra Recarano e Caco, ch'era ricchissimo di particolari mitici (fuoco
fumo clava ecc.), GLI ERUDITI e attribuisce ad Evandro la scoperta del furto,
senza dircene il modo, nel testo pervenuto almeno, che non si esclude in un
testo piii ampio il muggito indiziale potesse ritornare. E di Carmenta in fine
tralascia la profezia; ma si vale di essa per un mito etiologico. Allo stesso
modo, non potendo l'Ara massima venir instituita da Ercole ch' qui soppresso,
viene a ragion veduta confusa con l'ara lovi inventori, e la gratitudine basta
a spiegarla. Tra Servio e il racconto della Origo v' simiglianza profonda in
taluni punti: cfr. la figura di Caco; dissimiglianza in altri. Di questa si
comprende il valore comparando la sicurezza con cui ixqW Origo si assevera che
Ercole non se non il soprannome di
Recarano, alla prudenza con cui l'Interp. di Servio {En. Vili 203) oltre i
concordi racconti su Caco nota la tesi di Verrio Fiacco su l'identit Garano =
Ercole. Ci mostra che Servio ha presente con altre la fonte medesima oVOrigo;
ma se ne vale solo saltuariamente rispettando molto pili il racconto di
Vergilio che commenta. Qual fosse poi la fonte di cui, in vario modo,
approfittano e Servio e l'autore eWOrigo,
detto quivi haec Cassius libro primo Ossia quasi certamente L. Cassio
Emina. Mnzer a tal proposito suppone che a Cassio venisse attribuito tutto il
racconto per esagerazione, in luogo di un solo passo. Di Cassio per abbiamo
(Peter fr. 4) un frammento su Evandro e Fauno. Egli tratt verisimilmente tutta
la saga di Evandro e quella di Caco. Non v' dunque ragione per negare che nella
tradizione erudita si serbassero (anche e specie mediatamente) di lui estratti
a bastanza ampii intorno a quel mito. Del resto, se anche un solo suo passo
poteva addirsi al racconto dell'Orler, si pu sostenere che in lui era al mena
assai simile la razionalizzazione del duello fra Ercole e F. Kalypso.
l'abigeato di caco Caco. Ma poich questa appare neWOrigo organica e armonica in
tutti i particolari, difficile negare
che, cosi definita, non si trovasse gi anche in Cassio. (Contro M.). Di natura
opposta alle due testimonianze erudite che furon or ora discusse sono i
racconti di Dion. e di Cn. Gellio appr. Solino = Peter fr. Difatti l dove in
quelle la lotta pur umanandosi resta limitata a due soli personaggi; in queste
in vece si allarga ad eserciti. Ma se Dion. non ofi"re grandi difficolt,
quando si conoscano le fiabe degli eruditi latini su gli Arcadi di Evandro e
gli Aborigeni di Fauno (De Sanctis St. d. Bom.); per contro Gellio oscurissimo, Cacus, ut Gellius tradidit, cum
a Tarchone Tyrrheno, ad quem legatus venerat missu Marsj'ae regis, socio Megale
Phryge, custodiae foret datus, frustratus vincula et unde venerat redux,
praesidiis amplioribus occupato circa Vulturnum et Campaniam regno oppressus
est. Megalen Sabini receperunt, disciplinam augurandi ab eo docti. Il carattere
che sbito appare pi evidente in tal racconto
il travestimento erudito razionalista; cosi che, se esso anche avesse a
contenere forme ignorate del mito, le conterrebbe certo sotto un velame.
Inoltre vi son tracce palesi di contaminazione : gli Etruschi difatti, i Marsi,
i Sabini, i Campani sono compresi in queste poche righe, ed difficile che una schietta e unica leggenda
originaria accosti per tal modo tanti popoli. Ora fin che Gellio fa combattere
Ercole contro un Caco insediato sul Volturno pi tosto che contro uno sul
Palatino, possiamo intendere ch'egli preferisse foggiarsi il mito a imagine
della reale storia e si valesse a ci p. e. della prima Sannitica inventandone
un precedente; che non si scosterebbe in questo metodo gran che dalla fonte di
Dionisio la quale di Caco crea un antecessore di Fauno ed Evandro. LI ERUDITI E
non rigorosa l'ipotesi che costretto
egli vi fosse da un mito cumano o campano (il passo di Festo s. V. Romam di lettura troppo mal sicura e nulla se ne
trae). Cosi quando ricorda Megale Frigio e i Sabini, si ricava dalla "
disciplina augurandi, trattarsi d'una secondaria e piccola leggenda etiologica
o etimologica che qui viene inserita per ignoti motivi. Quando in vece introdotto l'eponimo di Tarquinii (Tarchone)
che avrebbe usato violenza contro Caco non si sa per qual modo, sembra
tutt'altro che improbabile, vi sia qui un'elaborazione di quella leggenda
istessa la quale ritratta, sotto forma
mutata, in alcuni specchi etruschi [KETE Etruskische Spiegel V tav., Rilievi
delle tirne etnische; Petersen Jahr. D. Instituts; De Sanctis Elio; MuNZER 0.
e. e Rhein. Mus.] e il cui nucleo dovrebbe consistere nell'assalto proditorio
contro un Caco dal benigno aspetto. Ond' che difficilissimo resta, nell'attuali
condizioni della scienza, decidere se anche per i Marsi si debba attribuire la
loro presenza al desiderio di foggiar il mito su lo schema della storia, come
ci parve probabile per i Campani; o alla contaminazione d'una terza leggenda
con la latina e l'etrusca. Riassumendo adunque, Cassio Emina e Cn. Gelilo
rappresentano bens un unico atteggiamento di fronte alla leggenda di Caco, come
vuole il Mnzer, ma ciascuno ne esprime una forma diversa. Il primo si serba
vicino alla poesia molto piii che il secondo. Quello par travestire la fiaba
che sar poi seguita da VIRGILIO (si veda). Questo, il racconto che narra Livio.
Per ci Dionisio dopo aver esposto il mito assai similmente a LIVIO (si veda), d
il suo Ari- azeQos Myog come un'interpretazione del fiv&ty.g = liviano: d,
in somma, il racconto razionale dell'anna- m. - l'abigeato di caco lista pili
tardo come ermeneutica del racconto favoloso dell'annalista pi antico. Allo
stesso modo che Servio appone la forma cassiana del mito per esegesi al testo
vergiliano, desunto da Ennio. Tra le due teorie che (cme vedemmo in principio)
si combattono intorno a Caco, da
preferire quella che crede ad un antico mito latino in quanto tien maggior
conto di tutte le testimonianze ed
meglio in grado di spiegarle tutte insieme e coerentemente. La
evoluzione letteraria poi del mito, contradicendo il Mnzer e compiendo il breve
disegno del De Sanctis, va tratteggiata cosi: dopo che in tre strati (intorno a
Caco prima, poi ad Ercole, poi ad Evandro) si
contesta la leggenda, la parte sostanziale di essa elaborata con diversit di tono da un poeta
(Ennio) e da un annalista; l'una e l'altra forma vengono, nell'et
succescessiva, razionalizzate in Cassio Emina e Cn, Gellio. L'et augustea
riproduce (con i poeti e Livio da un lato, Dionisio e Verrio Fiacco dall'altro)
tutt'e quattro queste manifestazioni. Cirene mitica. Bibliografa e metodo. Il
complesso dei miti raccolti attorno alla figura di Cirene studiato gi da Theige Res Cyrenensium etc.
(Bafniae) che raccolge i materiali e, in comparazion dei tempi, seppe
vagliarli. Trova poi trattazione minuta ed accurata per opera di Studniczka
Kyrene, eine altgriechische Gottin (Leipzig), che la stessa materia rielabor in
RoscHER Lexicon; e di Malten Kyrene, sagengeschichtliche und historisehe
Untersuchungen in Philologische Untersuchungen, del Kiessling e Wilamowitz
ove tenuto conto anche delle ipotesi
brevemente enunciate da Geecke in Hermes. Nella sostanza identico e sol nella
forma diverso si vegga questo capitolo neglAtti della R. Accademia delle
Scienze di Torino. Qui appare con un'ampiezza pi dicevole, che lo spazio ora
consente. Dopo i quali non si vuol citare che lo scritto di Vincenzo Costanzi Tradizioni
Cirenaiche in Ausonia. Indipendentemente il Costanzi ed io abbiamo nel medesimo
tempo assunto una stessa attitudine di fronte ai miti cirenaici, la quale si
contrappone in modo reciso a quella dei nostri predecessori. A prescindere di
fatti dalle particolari discrepanze che ci dividono, noi siamo concordi nel non
" voler cercare un significato recondito nei miti (Costanzi) p, oom'io mi
espressi (Atti), nel non volervi cercare la chiave delle pi antiche vicende
greche in Tara e in Libia. L dove in vero lo Studniczka {Eyrene) nega di poter
spiegare la leggenda di Cirene senz'ammettere una vetustissima colonizzazione
tessalobeota in Tera; e Malten pure stimava necessaria l'ipotesi che, prima dei
Dori, la Libia fosse stata abitata da un popolo misto tessalico e pelopico
direttamente venuto dal Tenaro recando e figure divine e fogge linguistiche; mi
assumo in vece di provare come le vicende storiche, ben note nell'insieme, tra
cui sorse e visse la Pentapoli cirenaica, sieno sufficienti a spiegar del mito
non pure Toriginarsi si anche, di stadio in stadio, l'evolversi. Determinato
cosi il mio antitetico punto di veduta, passo ai particolari. La ninfa Cirene.
Dopo che il Malten ebbe dimostrato contro lo Studniczka la natura libica di
Cirene e la vera origine del nome e del suo essere mitico non avrei che da
richiamarmi a lui su questo punto, se non dovessi rispondere alle obiezioni a
me mosse, avverso tale tesi, privatamente da 0. Geuppe. Egli, nel permettermi
di pubblicare questa sua let- Ich glaube nicht, dass Kyrene nach der libyschen
Lokalbezeichnung einer Quelle (Kyra) genannt und erst nachtrglich mit Aristaios
in Verbindung gesetzt ist. Die Kyrene von Abdera und Maroneia ist zwar, wie
dies bei der Aehnlichkeit der Namen natrlich ist, friih mit der Pyrene von
Kreston verwechselt worden, war aber gewiss ursprnglich von ihr verschieden,
und es ist zum mindesten unstatthaft, ftr Kyrene, die Mutter des Diomedes bei
Apollodor, Pyrene einzusetzen. Es kommt hinzu, dass eben hier, auf dem
benachbarten Ismaros, auch von Orpheus, Eurydike und Aristaios die Rede ist,
und von dieser Kste stammt der im Schiffskatalog erwhnte Kikonenkonig Euphemos,
der Sohn des Troizenos. Nicht weniger als vier Namen der kyrenaischen Sage,
Kyrene Aristaios Euphemos und Diomedes, kehren auf ganz engem Raum an der
thrakischen Kste wieder. Dass die Verbindung dort eine ganz andere ist, beweist
gerade dass wir es hier mit einer sehr alten, den bekannten Epen
vorausliegenden Ueberlieferung zu tun haben
(Cfr. Malten; Studniczka). " Aber nicht genug damit. Auch in Kroton
ist ein Kyrene (als Mutter des Lakinios) bezeugt, und dass auch hier Aristaios
nicht fehlte ist aus demPersonennamen des krotoniaten Aristaios mit
Wahrscheinlichkeit zu schliessen. Diomedes ist fr Kroton bisher, so viel mir
bekannt, nicht bezeugt, tera, esprime il dubbio che le sue argomentazioni non
potessero riuscire efficaci a bastanza, per la brevit con cui ebbe ad
esprimermele. Del che ogni lettore intelligente gli terr, credo, il dovuto
conto. Quanto a noi, manifestiamo l'augurio che l'illustre e dotto studioso
sostenga presto in pubblico con tutta i'ampiezza la propria Jambl. vii. Pijth.
(N. d. Gr.). CIRENE MITICA aber doch fr das benachbarte Thurioi. Aus alledem
glaube ich entnehmen zu durfen: dass Kyrana und seine Kurzform Kyra
griechischen, nicht libyschen, UrspruDgs sind, also die Quelle nach der Gttin
heisst oder der Quellnamen selbst aus dem dann, aber wohl schon im griechischen
Mutterland, eine Gottin oder Heroine geschopft sein msete von Griechen
tbertragen wurde; dass die vier Namen Euphemos, Aristaios, Kyrene und Diomedes
in einer ausserordentlich alten Sagenberlieferung zusammenstanden. Aus Grnden,
die ich nicht in der Kurze entwickeln kann, bin ich berzeugt, dass die
Verknpfung dieser vier Namen in Troizen erfolgte, das ein bedeutendes
Kolonialreich besessen haben muss. Troizenische Kolonisten werden Diomedes
Kyrene und Aristaios nach Sybaris mitgenommen haben, von wo jener nach Thurioi,
diese nach Kroton ubernommen wurden. Dass Troizenier einst auch in Kyrene sassen,
will ich nicht behaupten obwohl ich es glaube; aber dass diese Bruchstiicke
troizenischer Sagen den ltesten Bestand der Ueberlieferung von Kyrene bilden,
balte ich fiif gesichert. Ora, per dimostrare in modo esauriente che da Trezene
il complesso mitico di Cirene Aristeo Diomede ed Eufemo s'irradi da vero in
Tracia, a Crotone, in Libia; bisogna provare: l'esistenza di questo quadrinomio
a Trezene; il ritorno costante di esso nei luoghi rassegnati or ora, e il
ritorno non dubbio, scevro da possibili equivoci; l'insistente ripetersi, nelle
forme e nei luoghi diversi, del perno o nucleo originario, ove il suo alterarsi
non sia ben motivato. Il carattere spaziato
introdotto solo nella trascrizione. Sul primo punto il Gruppe si scusa
di non insistere in der Kiirze: sorvoleremo noi pure. A CROTONE si sarebbero
potute raccogliere tracce di due al meno fra le quattro figure la cui
presenza riscontrata in Cirenaica;
Aristeo e Cirene. Tuttavia far sbito notare quanto sia debole il fondamento su
cui si basa la supposta esistenza mitica di Aristeo in Crotone: il nome di un
nume notissimo e diffusissimo dato a una persona non prova assolutamente nulla
intorno al culto locale del nume. Inoltre
ben dubbio se sia veramente da mantenere la forma Cirene per la madre di
Lacinio, non sia da correggersi in Pirene (Maltes; cfr. Serv. a VIRGILIO (si
veda) Eneid. Localizzata di fatti Eritia in Spagna e prese a narrare le lotte
di Ercole, reduce in Grecia, traverso la Campania (De Sanctis Storia dei
Romani), non improbabile che a Crotone
si riprendesse il mito di Eracle contrastante con i figli di Pirene, solo al
nome d'uno fra questi sostituendo l'eponimo del Lacinium promontorium li
presso. Ma se mal sicure son le tracce di Aristeo e di Cirene in CROTONE, altr'
e tanto incerte son quelle che Gruppe ne riscontra in Tracia. Si sa che nel
testo di Apollodoro il Malten corregge il nome della madre di Diomede da
Kvqi^vij in IIvQr^vrj. Per Gr. l'equivoco consisterebbe in vece nell'essersi
permutato Cirene in Pirene. E poich pare molto improbabile che in paesi
limitrofi sussistessero due tradizioni diverse, di cui l'una a Crestone facesse
moglie di Ares Pirene con i figli Cieno e Licaone, l'altra in Abdera e Maronia
facesse moglie di Ares Cirene col figlio Diomede; credo d'interpretar bene il
Gruppe attribuendogli la supposizione che, corrottosi Cirene in Pirene, ne
derivasse il nesso con Ares con Cicno e con Licaone. Ma n questa ipotesi semplice, perch presuppone un originario
nesso Cirene-Diomede una corruzione Pirene-Diomede un ampliamento
Ares-Pirene-Diomede-Cicno-Licaone n in
alcun modo giustificata, perch, all'infuori di Apollodoro nessuna fonte
accennando a Cirene in Tracia, nulla ci costringe a supporvela necessariamente
ricorrendo persino a contorte vicende. Pi semplice e giustificata la
supposizione del Malten : in territorio predominato da Pirene un'unica traccia
di Cirene deve attribuirsi a testo corrotto, non ad altro. Del pari Aristeo in
Maronia troppo evidentemente introdotto
da Chio per opera de' Chii che la colonizzarono (Malten 80); troppo vi congiunto con Dioniso; perch non si debba
ritenere ch'egli non fu importato insieme con Diomede e la supposta Cirene, da
cui invece rimane col al tutto indipendente. In fine si resta molto perplessi
su le profonde difi'erenze fra il tracio Eufemo re dei Cleoni, e il beota
Eufemo figlio di Posidone, o il tenario figlio del Fai^oxog. Or come n in
Crotone n in Tracia Cirene e Aristeo son di sicura esistenza, cosi si pu
fondatamente asserire che in Libia Diomede non ha radici profonde: su quelle
coste di fatti naufraga bens, a simiglianza di Euripilo di Protoo di Guneo
tessalici e a simiglianza degli Argonauti; ma sol tanto perch quelle coste
sono, nella tradizione poetica dei vaioi, il luogo tipico delle fortune di
mare: in Argo quindi, sua patria e sede della sua pili elaborata leggenda, probabile fosse foggiato anche quel
particolare. In breve, Aristeo e Cirene son dubbii in CROTONE, dubbii in
Tracia; in Tracia l'Eufemo non con
certezza identico all'avo dei Battiadi; in Libia Diomede non esiste. Per di pi,
oltre ad essere incerta la presenza di tutt'e quattro i numi in CROTONE in
Tracia in Libia, non si capisce, se, come vuole Grappe, tra quelli lin nesso
s'era stabilito prima in Trezene e diffuso poi altrove, perch a CROTONE il perno
del mito sia il APOLLO CARNEO nesso dell'ipotetica Cirene con Lacinio, in
Tracia la linea fondamentale della leggenda sia la discendenza di Diomede da
Cirene, mentre in Libia il nucleo
costituito dalla commessione Cirene-Aristeo. E n pure si capisce perch
in Tracia resti indipendente, come forse a Crotone, Aristeo che in
Cirenaica figura essenziale; e per
converso qui si scemi quasi al tutto la persona di Diomede, la quale l
campeggia. Tutta la fisonomia della leggenda si distrugge e si trasforma: senza
causa evidente. Non posso dunque finora accettare la teoria di Gruppe; e resto
fermo, per Cirene, alla dimostrazione del Malten. Passiamo adesso a studiare la
seconda figura fondamentale del mito. Apollo Carneo. Non cade dubbio che Apollo
e Carneo fossero in origine distinti numi (cfr. gli artt. di Wide e Hofeb in
Roscheb Lex. Ma per il mito di Cirene di
somma importanza il determinare se la fusione tra di essi fosse avvenuta gi in
Tara prima che il VII sec. a. C. finisse, o vero si compiesse soltanto in Cirenaica
(cfr. Malten). Ora tenendo conto dell'esser il culto di 'AnXov Kdgvecog
diffusissimo non pure fra i Dori ma anche fuor del Peloponneso {scoi. Teocr. V
83: Tavzriv t{]v oQvriv... ol fievocy.i^aavTeg ex nsonovvfjaov elg z^ag nXsig
...neTovv : e cfr. gli articc. citt., quello spec. del Hofer), due ipotesi sono
possibili : o che in tutti quei luoghi ove il culto appare di sufficiente
antichit la figura di Apollo, separatamente, sorvenisse ad assimilare a s
Carneo; o pure che l'assimilazione fosse vetustissima e si propaga dal centro
originario nelle altre sedi del culto. E questa ipotesi com' pi verisimile e pi
semplice cosi ritengo preferibile all'altra. CIRENE MITICA N offre difficolt
nello special caso di Tera e Cirene, giacch l'iscrizione di Aglotele (Hilleb v.
Gaektringen Thera) accertando pel VI sec. a. C. il culto teraico di
Apollo-Carneo non imprudente o
arbitrario il supporlo gi sussistente nella seconda met del sec. anteriore. N a
tale ipotesi contrario Malten; il quale
scrive: Gewiss ist die Verbindung ' ApollonKameios ' nicht zum erstenmal um
Kyrenes willen oder erst in der Eoe vorgenommen worden; sie ist alter und hat
sich auf griechischem Boden weit verbreitet. Se non che egli non trae da ci
l'unica deduzione che logicamente
possibile. Poich difatti tutta llliade (prescindendo dai pi meno antichi
strati) dimostra il carattere preminentemente delfico di Apollo; e poich
l'antichit del santuario delfico e della sua preponderanza famosa ben riconosciuta dal Beloch Griech. Gesch.;
se si ammette che gi in Tera Apollo prepondera su Carneo, si da mutar questo in
suo epiteto; si ammette a un tempo che i coloni dori pervenuti in Cirenaica
avevano ormai alla loro principale divinit riconosciuto un rilevante carattere
delfico. E diviene pertanto del tutto superflua la opinione che un tal
carattere a quella non venisse attribuito se non neWEea di Ch'ene. La quale
appar quindi non la causa del fondersi insieme i caratteri di Apollo e quei di
Carneo, ma un effetto di esso, cui tengon dietro in proceder di tempo e per
medesimo impulso Pindaro con le sue Pit. IV e IX, Erodoto IV 158 e Callimaco ad
Apollo. Dove appaja la originalit della Eea ci verr mostrato, crediamo, dalla
terza figura su cui costituita la saga:
Aristeo. Aristeo. Non qui opportuno
studiarne la diffusione: basteranno poche note. (Cfr. il materiale raccolto dal
Malten e neglAtti dell'Accad. di Torino. Il culto di Aristeo in Cirenaica attestato da scoi. Aristof. Cavalieri 894,
Ititi. Anton., scoi. Pit. IV (rv 'A^iaraov, 8v Tia^ KvQrjvaioig )g oIklot^v i
Ttfi^g dyead-at). Dinanzi a queste testimonianze tra due possibilit si pu
scegliere : o Aristeo ha culto in Libia dopo il suo congiungimento con Cirene
(avvenuto in Grecia) e a causa di esso; o pure perviene in Libia prima di
quella connessione e la determina. Tra le due possibili ipotesi va scelta la
seconda. Di fatti Aristeo ha una vasta area di diffusione, nella quale sono
comprese isole dell'Egeo, quali Ceo Chic l'Eubea, e l'Arcadia: onde non per nulla strano che o gi in Tera qualche
strato della popolazione e qualche famiglia gli rendesse culto, vero in Libia
pervenisse con quei coloni che nel principio del sec. VI, regnando Batto II, da
l'isole e dal Peloponneso si recarono ad accrescere il primitivo manipolo di
Dori. Contro la prima supposizione non si pu obiettare l'assenza di
testimonianze da cui un culto teraico di Aristeo sia provato: che troppo poco
conosciamo in proposito e molto in ogni caso, restando nei pi bassi strati, non
emerse alla superficie storica. Contro la seconda non fa ostacolo la
cronologia; gi che cui risale la Pitia IX di Pindaro resta spazio sufficiente
per lEea di Cirene. Nessuno stupore poi che in Libia Aristeo si commettesse con
Apollo (protettore della fonte) e con Cirene (vincitrice del leone); a quel
modo che nessuno Cfr. Stobck Die dltesten Sagen der Insel Keos Diss. Giessen
stupore v', se in Tracia si connette con Dioniso e con Zeus in Arcadia: cfr.
Malten. L'analogia sufficiente motivo.
Stimo in fine inutile discutere se Aristeo sia da vero originario di Tessaglia.
Basti che nel mito nostro egli tessalo
per eccellenza: segno sicuro che doveva avere un vivacissimo carattere
tessalico allor quando del mito venne a far parte. N mi riesce di precisare il
luogo ove potesse connettersi con Gea e le Ore. Ma questi punti riescono di
minore rilievo a confronto con quelli che riteniamo di aver assodati su la
libica Cirene, il delfico Apollo, e Aristeo : e l'averli assodati giova a
ricostruire nelle sue linee principali il componimento da cui quelle tre figure
vennero collegate in racconto: l'Eea. La ricostruzione dell'Eea di Cirene.
Convengo col Malten che le fonti cui dobbiamo attingere pi direttamente per la
ricostruzione dell'^'ea di Cirene sono : Pindaro Pit., Esiodo t'r. 128 Rzach^,
Ferecide in scoi. Pit., Seiivio a VIRGILIO (si veda) Georg. = Esiodo fr. Rz.,
Apoll. Rodio cui vengono aggiunti se bene per la loro sommariet non sieno di
grande valore, Timeo appr. Diod., Nonno Pan. Dionis. (Malten). Quanto poi al
modo di usar cotesti sussidii, mi sono attenuto a due criterii fondamentali. Il
primo il piti Malten lascia in dubbio ob
der Gott schon in der kyrenischen Lokalsage zum Sohne der Kjrene wurde; ma, per
amor della sua tesi, asserisce quasi il contrario. In Thessalien erregte Kyrene
das Gefallen des Gottes. hr Sohn ward Aristaios, elementare : ritenni
originario tutto che ritornasse costantemente nelle diverse forme assunte dal
mito e riflettenti, in vario modo, l'Eea. Il secondo criterio pi complesso. Fu dimostrato poc'anzi che non
pu venir attribuita all'Eea la mischianza de' caratteri proprii di Apollo
Delfico con quelli del Carneo. Altra , chi ben guardi, l'essenza di quel carme.
Per esso, com' noto, Cirene, ninfa e cacciatrice libica, vien trasportata in
Tessaglia av'era ben radicato il culto di Aristeo. Aristeo dunque, non Apollo,
dev'essere stato il motivo del trasferimento da l'una all'altra regione,
l'impulso a trasformare in tessala la dea libica. Ma se l'Eea, con lo spunto
del giovinetto iddio pastorale, atteggia per il mito cirenaico uno sfondo tessalico, legittimo ritenere, ed pure ovvio, che essa contenga pi propriamente
tutti quei particolari i quali pi propriamente sono con Aristeo connessi. Di
questo, nel fatto, meglio che della madre,
il carme : e lo dimostra anche il rilievo che, com' probabile, vi aveva
la sua ulteriore vicenda Cea e il racconto sul figlio di lui Atteone. D'altra
parte la figura di Apollo troppo era di per s notevole e preponderante perch
traverso essa e per sua causa non dovessero penetrare nella favola personaggi
ed episodii a lei aderenti: i quali per ci
dicevole attribuire meglio che al canne esiodeo alle sue pi tarde
propaggini. Nei particolari i criterii esposti conducono a questi risultati;
Cirene figlia di Ipseo re dei Lapiti;
Ipseo nato da Creusa (una Najade) e dal
fiume Peneo: cfr. Malten. Lo storico cirenaico Acesandeo {scoi. Pit. Cfr. sul
mito di Atteone, che per l'economia del nostro lavoro qui si omette, Malten. Si
vegga inoltre, Castiglioni Atteone e Artemis nella miscellanea di Studi critici
offerti a C. Pascal, (Catania). CIRENE MITICA fa discendere Ipseo da Filira,
madre di Chirone. Se non che questa variante
sospetta, come quella che tende a giustificare con la parentela
l'intervento di Chirone nelle nozze tra Apollo e Cirene: intervento che spiace
a Pindaro pure e Apollonio tace: l dove il centauro nell'Eea ha parte solo
perch gi connesso con Aristeo prima che questo con Cirene. Apollo scorge la
ninfa nell'atto di lottare con un leone, sul Pelio. La lotta col leone ricordata da Pino. Pit., da Nonno; non da
Apoll. R.: questi l'introduce nell'officio di pastorella. Il Malten resta per
ci incerto su l'esistenza di essa lotta nell'Eea: mi risolvo pel si. L'esame
del racconto di Apollonio, che si fa pi sopra, mostra come esso si allontani
assai dall'originaria forma del mito a causa dell'influsso del razionalismo: al
quale adunque si deve anche attribuire la soppressione della belva e della
lotta che troppo male consentivano al paese tessalo. Chirone profta le nozze
del dio e della fanciulla: cfr. Stddniczka. Col quale ove si ammetta che
Pindaro tenti invano di ribellarsi all'Eea su questo punto, ne consegue che
Apollonio, allor quando sopprime tutta la scena e induce il Centauro allevatore
sol tanto di Aristeo, non compie se non la prosecuzione di quel tentativo.
Ci confermato dal doppione che ne
risulta : Aristeo di fatti sarebbe in Apollonio allevato e da Chirone e dalle
Muse: originarii essendo, se non nel nome nell'essenza, questi dmoni; inserto
quello. Apollo trasporta la fanciulla in Libia sul suo carro (Malten).
Cirene accolta da Libia. Non v' di fatti
differenza sostanziale tra le xd'viai vifA,q>ai e la eiQVeifiov nTvia
Ai^vrj: cfr. Malten. Mi parrebbe quindi sofisticheria l'insistere su la lieve
dissimiglianza. A ogni modo, se una forma fosse da preferire per antichit
sceglierei Libia: giacch le xd-viai. vfifat sembrano ben proprie di un'epoca pi
tarda in cui dal nome di Libia il concetto di persona, sostituito pili
fermamente da quel di regione, si al
tutto ritirato; mentre se Libia era nella Eea si spiega meglio come mai Pindaro
fosse indotto a raddoppiarla con Afrodite. La quale all'Eea non apparteneva
certo; e fu introdotta a causa di quel KvQdvag yvy.vg nTiog 'AtpQoczag, che era
al nostro poeta ben conosciuto {Pit.) e a cui si pu riportare un passo di
Erodoto II 181 (cfr. Malten); giacch non trascurabile culto a essa dea si
doveva rendere, se quando fu fondata Evesperide venne presso il lago Tritonio a
lei eretto un tempio (Steabone). Aristeo
riportato in Tessaglia da Apollo. Cosi Apoll. R. Pindaro Pit.
attribuisce quell'ufficio a Ermes: ma senza dubbio l'innovazione, a scopo
esornativo, favorita dalle attinenze fra
i due di : cfr. l'omerico Inno a Ermes ed Esiodo fr. Rz. = Anton. LiBEB. XXIII.
E se un'analogia giova, si ricordi che in Euripide Ione Ermes per ordine di
Apollo reca Ione, colatamente, in Delfi. Aristeo allevato dalle Ore e da Gea. Pare qui che il
profilo primitivo meglio si serbi in Pixd. Pit. IX 60 che in Apollon.: per che
tre sieno, principalmente, le varianti poetiche dell'unico fondamentale
concetto; l'una Cea che narra di Bglaai (Aristot. fr. Rose); l'altra pindarica
che introduce le Ore; la terza di Apollonio che ricorda le Muse; varianti delle
quali la prima troppo strettamente Cea disdirebbe alla general intonazione
tessalica del carme esiodeo, l'ultima traspare sbito come un'alterazione dovuta
alla figura di Apollo Musagete (basti ricordare B. A); la mediana pertanto preferibile. (Ci contro Malten 14).
Da ultimo forse da notare che le Ninfe
di Timeo presso Diod. IV 81 sono pili un trascorso impreciso dell'autore che
una vera e propria vaA. Fersabi>-o, Kalypso. CIBENE MITICA riante. Aristeo
ha i nomi di Nomio Agreo Opaone ed
avvicinato a Zeus {Zevg 'Agiaiatos) e ad Apollo (cfr. Malten). Nel
complesso adunque Pindaro pare, a mal grado delle due intrusioni di Ermes e di
Afrodite, pili vicino all'Eea che Apollonio; questi pi razionalista di quello.
Un confronto opportuno con l'Eea di Cirene (o di Aristeo) ci offre l'Eea di
Coronide (oltre che quella di Eufemo su cui v. ): cfr. Malten che qui si
combatte. Sappiamo che Asclepio (figlio di Coronide) nume salutare di Tessaglia [cfr. M. G.
Columba Le origini tessaliche del culto di Asklepios in Rassegna di Antichit
classica contro Kjellberg Asklepios, mythologisch-archdologische Studien in
Srtr. u. Sprakv. Sllsk. forhandl. Upsala Universitets Arsskrift,]. Apollo gli
somiglia nell'aspetto di divinit salutare e sanatrice: cfr. Beloch Griech.
Gesch} e Wilamowitz Isyloi. E bene: prima si congiunge Apollo ad Asclepio; poi
A^jollo si trasporta in Tessaglia. A quel modo che, secondo crediamo, prima si
congiunge Cirene con Aristeo e poi la si trasporta in Tessaglia. Riassumendo
dunque in breve i risultati di queste ricerche, abbiamo: che Cirene nome libio-greco della ninfa che protegge e
abita la fonte dedicata ad Apollo Carneo; che Aristeo tessalo, pervenuto,
durante il diffondersi del suo culto, in Libia, si accosta a Cirene; che
questa la causa per cui Cirene passa in
Tessaglia; che su questi elementi si pu ricostruire l'Eea di Cirene ottenendo
un'opera analoga per indirizzo all'Eea di Coronide, tale quindi da potersi
ricondurre al medesimo centro delaborazione mitopoetica. Euripilo ed Eufemo. Le
due principali figure del racconto di Pindaro Pit. han dato occasione alle pi
diverse ipotesi: cfr. Studniczka e Malten. Il farne oggetto di minuto esame
giover a preparare risultati atti a spiegare e ricostruire quel mito cirenaico
dei Battiadi che fa riscontro al mito della ninfa Cirene. Euripilo si rinviene:
in Tessaglia, figlio di Evemone; in Cos, figlio di Posidone; in Misia, figlio
di Telefo e condottiero dei Cetei; in Acaja, Pads. Ora probabile che l'Euripilo di Cos si possa far
risalire a quello di Tessaglia: cfr. WilamowiTz Isyllos 52 e " Hermes XLIV (1909) 474 sgg. Ma tutti gli altri sono
indipendenti. L'Acaico viene bens da Pausania identificato con il Tessalico;
ma notevole che altri gi allora
combattevano questa teoria: iy^aipav de i]Srj Tivg od tip Oeaaatp av^i^dvza
E-QV7tv(p x siqrijtteVa, XX EdQVTcvov Aeafievov Ttatda xov v ^i2v(p PaoievaavTog
d'sovai afia 'HQay.e aiQatevaavxa g "liov TiaQ Tov 'HQw^Aovs tjv Qvay,a
nt. Evidentemente gli eruditi greci cercavan di precisare l'origine dell'eroe
Euripilo cui si rendeva culto in Acaja; ed era ipotesi di taluno fra essi che
egli fosse il medesimo Euripilo di Tessaglia. Il re dei Cetei da Malten ricondotto in Arcadia. Ammesso che
Keteig possa ricondursi in Arcadia e con lui Telefo; arbitrario dedurne senz'altro un Euripilo
arcadico : perch questi potrebbe esser stato connesso con quelli dopo il loro
trasporto in Misia; il che par dimostrare la nessuna traccia da lui lasciata in
Arcadia al contrario di Telefo e Ceteo. Sarebbe quindi da ritenere probabile
l'esistenza indipendente di un Euripilo in Misia. Alla schiera adunque Cfr.
IiiMEBWAHR Die Kulte und Mythen Arkadiens. di questi tre Euripili (in Tessaglia
in Acaja in Misia) viene ad aggiungersi l'Euripilo della Cirenaica. Contro i
tentativi di ridurre l'uno all'altro i quattro omonimi G. De Sanctis m'insegna
a ritener questi manifestazione, varia nel tempo e nei luoghi, d'una medesima
unica tendenza mitica; la quale ci
dall'etimologia facilmente chiarita, Euripilo essendo il dio dell'
" ampia porta infernale. Era ovvio
che questo comune concetto, questo, meglio, fantasma venisse volta a volta
applicato presso popoli di stirpe greca. In tal caso poich egli appare presso
la i^vij Tgizovlg legittimo credere che
impulso alla sua localizzazione libica desse la grotta del Gioh [su cui
MiNUTiLLi La Tripolitania (Torino)] che era ritenuta appunto apertura di Dite
(cfr. Strab; Tolemeo Geog., 4, 8; PLINIO (si veda). In Cirenaica Euripilo congiunto con altri numi da uno schema
genealogico che si ritrova presso Acesandbo [scoi. Pind. Pit.) cfr. Malten:
Atlante I PosiDONE ->- Celeno lios I I Tritone Euripilo Sterope Pasifae
LicAONE Lbdcippo Se non che questo schema ci appare sbito una combinazione
accorta di eruditi locali. Pasifae (Wide Lak. Kul.), Tritone {fiv^ TqitcovIs
Strab. e Pind. Pit.), Lieeo = Zeus Liceo (Eeod. eSTUDNiczKA) souo accertati in
Libia da altre fonti: elementi arcadici e cretesi la cui presenza non stupisce
(cfr. Maass Hermes e Studniczka). A Liceo corrispondono, miticamente,
Licaone Lieo. Di Lieo in altre fonti
(Ellan. in Scoi., Apoll. Bibl.) padre
Posidone e madre Celano, Atlantide. E il nostro erudito ha serbato la
genealogia, inserendo per fra Licaone e Celeno-Posidone una generazione :
Tritone e Euripilo, il dio della palude e il dio della grotta, l'una e l'altra
vicina. Sorella di Celeno Sterope
(Apoll. Bibl. Ili 110): e questa offre all'erudito lo spunto per introdurre
Pasifae e con lei Elios. Sia per questo o altro il procedimento seguito
dall'autore dello schema, a ogni modo esso dimostra niilla pi che gi non
sapessimo : l'influenza grande di Creta e dell'Arcadia su i miti libici,
influenza che le attinenze commerciali e politiche spiegano senz'altra ipotesi
: a quel modo istesso che Euripilo al Gioh non prova se non la costanza con cui
un unico tipo di nume ctonio fissa la sua sede in luoghi diversi col favor
delle condizioni geografiche. 2. Eufemo
nel mito cirenaico (Pind. Pit.) connesso con la Beozia con Lemno con il
Tenaro con Tera con la Libia. La connessione con Lemno una conseguenza della sua qualit di
Argonauta: sta e cade con questa. A Tera non v' traccia di lui, e anche il mito
vi fa giungere solo i suoi discendenti con Samo o Sesamo {scoi Pit., scoi.
Apoll. R.). Resta adunque ch'egli sarebbe nato in Beozia, il Tenaro avrebbe per
patria (Pind.: ol'aoi), i Battiadi di Cirene per vantati discendenti. Ora in
Beozia v' traccia della sua supposta madre Mecionice (Tzetzk Chiliad.) : e non
v', ch'io vegga, motivo alcuno per dubitare che, se non originario di quella
regione, egli sia tuttavia caratteristicamente beota. Col che si connette la
sua presenza in Lesbo (EsicH. s. v) che lo fa supporre anche in Tessaglia : a
ognuno invero nota l'attinenza stretta
fra i miti beotici e tessalici. Ma perch i Battiadi ne avrebbero fatto il loro
capostipite? Lo Studniczka pensa che i co[CIRENE MITICA] Ioni recassero quel
nome con s daTera: il Malten che in Libia lo trovassero e che per legittimarsi
ne facessero il proprio avo. Costanzi mi par ben pi vicino a una probabile
ipotesi: I Battiadi stanno ad Eufemo come gli Agiadi di Sparta ad Euristene e
gli Euripontidi a Prode; come, soggiungo, i dinasti Molossi ad Achille, i
Pisistratidi a Nestore. E queste analogie ultime, a punto, possono lumeggiare
il fenomeno cirenaico: Pisistrato nome
d'uno dei figli di Nestore; Neottolemo, che ricorre fra i Molossi, figlio di Achille nell'epopea: e similmente
ArcesLlao, appellativo di quattro re di Cirene,
un eroe beota nelVIliade (cfr. Pads.). E se errato sostenere col Mller Orchomenos che di
Beozia fu tratto il nome, non per
arrischiato l'asserire la possibilit che il nome beotico abbia attratto l'avo
beotico. A ogni modo, quand'anche restasse oscuro il preciso motivo di tale
genealogia, non sarebbero meno da respingere, com' ovvio, le due ipotesi dello
Studniczka e del Malten: sproporzionate al fatto che vogliono spiegare. Non
resta da vagliare che la sede al Tenaro. Col non traccia di Eufemo che sia indipendente da
questa leggenda : c' in vece, importantissimo, il culto di Posidone Geaoco (S.
Wide Lak. Kulte). Non solo, ma i caratteri di Eufemo (si ricordi eicprjfielv, e
il suo significato religioso) son pi vicini a quelli di Apollo (Stodniczka) e,
in genere, del dio solare (cfr. Zsg Ecpiifiog, Esich. s. v.) che a quelli d'un
nume sotterraneo. Nume sotterraneo ritennero Eufemo p. es. Studniczka e Maass
(Gtt. Gel. Anz.; Orpheus) solo sul fondaBen altrimenti Gruppe Gr. Myth. I
rapporti di un nume o eroe con Posidone non implicano senz'altro un carattere
ctonio di quello: con Posidone difatti ha mento della sua localizzazione al
Tenaro, bocca dell'Ade : fondamento per cui s'indussero anche a forzare il
significato di eiiq>r,iA,og, spiegandolo come un epiteto, appunto,
eufemistico in luogo del nome pauroso della divinit ctonia. Tutto ci cade, se
la localizzazione al Tenaro risulta artificiosa, e dovuta a tutt'altri motivi
che l'affinit fra Eufemo e l'Ade. Difatti, se tenendo presenti queste
osservazioni, si legge la Pitia, vien fatto d'interpretarla nel seguente modo.
Ai discendenti di Eufemo quattro punti si dovevano necessariamente far toccare,
tre forniti dalla storia, uno dal mito: Lemno, il Peloponneso, Tera, la Libia.
Or bene: a Lemno abbiam gi veduto Eufemo. Ma dopo ci occorrevano due motivi per
spiegare il soggiorno nel Peloponneso e quello a Tera. Per Tera s'invent lo
smarrimento della zolla; per il Peloponneso, lo si disse patria di Eufemo. E siccome
Eufemo figlio, in Beozia, di Posidone, e al Tenaro v'era culto di Posidone
Geaoco, Eufemo fu localizzato al Tenaro. Interpretando in tal modo tutto si
spiega: ed questa ipotesi molto pi
semplice che non quella del Malten. Localizzato per tal guisa al Tenaro Eufemo,
e ovvio che i tardi genealogisti si preoccupassero di introdurlo nelle
genealogie laconiche; difatti lo troviamo nipote dell'Eurota (Tzetze Chil.); o
figlio di una Doride [scoi. Pind. Pit.); o sposo di una Laonome sorella di
Eracle (scoi. Pind. Pit.). Ma ha torto Malten di dar peso a tali genealogie, e
in ispecie all'ultima: bisognerebbe ch'egli potesse dimostrarle indipendenti
dalla localizzazione di Eufemo al Tenaro ; mentre arbitraria anche la soppressione di Eracle
fra Guneo attinenze cultuali anche Apollo (Gerhabd Abh. Beri. Akad. Wiss.).
CIRENE MITICA e Eufemo nello schema che ci d il cit. scoi. Pind. Pif. Ora, al
Tenaro Eufemo localizzato, a quel che
pare, gi nell'Eea di lui (fr. 143 Rzach ^): se lo si deve dedurre dall'epiteto
di Fairioyos che vi si trova e che
quello con cui al Tenaro si venerava Posidone: fi oirj 'TQitj TtVKLVcpQv
MrjKioviiri ^ zxev JEvq)f]fiov yairjxffi Evvoacyaiq) fieix&ela' v (ptTrjzc
nov^Qvaov 'Aq)QodTi]g. Di li dipenderebbero: Pind. Pit. IV, Apoll. R.; Igino
fav.; Acesandro e Teoceesto in scoi. Apoll. B.. Se dunque vero che la localizzazione .al Tenaro tutta a favor degli Eufemidi (= Battiadi),
cotesta Eea non pu esser che sotto l'influsso cirenaico. La qual cosa spiega o
pu spiegare per analogia anche il formarsi dell'Eea di Cirene o (pi
propriamente) di Aristeo, che gi abbiamo accennato dianzi. E poich l'importanza
che in entrambe le Eee ha Apollo
singolare (in quella di Aristeo come padre del fanciullo, in quella di Eufemo
come ecistre), avremmo in esse un modello del come in Delfi si servissero
gl'interessi d'altre regioni : togliendo p. e. lo spunto da Aristeo per
trasportar Cirene in Tessaglia (v. sopra pag. 429); dagli Argonauti, per Eufemo
in Lemno ; da Posidone per Eufemo al Tenaro, ecc. ecc. Cfr. in vece Malten
Crediamo adunque di aver mostrato e che Euripilo in Libia non ci riporta ad
alcuna regione ma solo a un comune concetto mitico dei Greci, e che Eufemo
beota si connette forse per fiabe etimologiche ai Battiadi, certo estraneo al Tenaro. Al Malten pertanto che
afferma Euripilo ed Eufemo costituire eine Reihe, die ihre Endpunkte in der
Kyrenaika und im sudlichen Thessalien hat, e con l'uno d'essi collegarsi
intimamente [EUBIPILO ED EUFEMO] Atlante e Posidone, urpeloponnesisch, possiamo
rispondere di aver troncato a quella " Reihe per Euripilo r Endpunkt, che
sta in Tessaglia, per Eufemo l'estremit che si fissa in Libia e il centro che
si posa sul Tenaro. Abbiamo in somma, se non c'inganniamo, reciso i nervi a
quella teoria. Del pari cadono le analogie con cui la rincalza. In LicoFEONE
naufragano su la costa libica Euri pilo (ma figlio di Evemone tessalico), Guneo
perrebico e Proteo magnete. Onde Malten sostiene che il naufragio in Libia di
Guneo e di Proteo leggenda cirenaica
(LicoFB., Apollod. a Wagner): e rintraccia poi quegli eroi a Creta e in
Tessaglia. Noi per abbiamo gi osservato a proposito di Diomede che nei varoi la
spiaggia libica appare il luogo tipico dei naufragi e che quindi tali leggende
son da ritenere indipendenti affatto da Cirene. Il trovare ora che un mito
secondario, attinente per contenuto all'epopea dei vazoi, fa naufragare in
Libia un Euripilo senza avvertire l'esistenza in quei luoghi di un omonimo,
rilevante figura locale, ci conferma nella nostra opinione, e prova contro il
Malten che Guneo e Proteo non appartennero mai a saghe cirenaiche, se non, al
pili, per molto tardo riflesso. Col che si spezza sin dall'inizio la feste
Kette von Beziehungen zwischen Libyen und Kreta einerseits und Nordthessalien
andererseits, die in Arkadien ihren Knotenpunkt hat, (Malten). Se non che,
secondo il mito cirenaico dei Battiadi, Eufemo ed Euripilo ebbero attinenze in
quanto quegli era Argonauta, e questi agli Argonauti fece dono di una zolla
libica. A noi quindi, che analizzammo partitamente le due figure, non resta che
studiare la trama narrativa in cui si accostano e agiscono: ossia il mito degli
Argonauti in Libia. CIRENE MITICA Gli Argonauti in Libia. Poich su questo punto
io profondamente mi allontano dal Malten terr pi minuto discorso. A quattro
redazioni leggendarie dobbiamo por mente: Pindaro Pit.; Erodoto; Licofronk;
Apoll. Rodio; e tutte bisogna esaminare. Pindaro racconta che gli Argonauti,
ritornando con Medea dall' Oceano sopra lArgo, debbono per dodici giorni
trasportare la loro nave su la terra deserta fino al lago Tritonio, ove nel
punto della partenza appar loro Euripilo a donare all'eroe Eufemo, compagno di
Giasone, una zolla: fatidico dono. In questo racconto non v' nulla che non si
convenga ai desiderii dei Battiadi; nulla quindi che non paja inventato per il
loro compiacimento; fuor che il particolare del Iago Tritonio, il quale l'unico non indispensabile. Dev'essere
difatti questo il lago, di cui Strab., presso Berenice (Bengasi) che esiste
tuttora (i laghi salati). E non si vede bene, svibito, perch per l'appunto quel
lago venisse scelto per il dono. N Euripilo poteva esser causa della
preferenza; per che paja invece piti probabile il contrario: Euripilo esser
intervenuto a cagione del lago. D'altra parte difficilmente, sembra, Eufemo,
avo mitico dei Bat- tiadi, sarebbe stato fatto Argonauta, ove con tal mezzo a
punto non lo si fosse potuto far giungere in Libia: il che lascia supporre che
in Libia una leggenda pi antica recasse gi gli Argonauti. Per queste due
possibilit adunque, nel racconto di Pindaro parrebbe che l'episodio della
palude Tritonide debba risalire a un nucleo mitico pi antico : parvenza
bisognosa d'altri suffragi. Sul valore che tal dono ha nelle leggende cfr. una
interessante nota in Gebckk o. c. 455. Ma gli esempi si potrebbero
moltiplicare. Ora in Erodoto si narra che presso la minor Sirte esiste una
MjAvri f^eydrj T^ubvig: ben lontano dunque da (Bengasi) Berenice; e ivi Giasone
il quale tentava circumnavigare il Peloponneso avrebbe subito naufragio, per ci
che una fortuna di mare ve lo avrebbe improvvisamente trasportato senza
possibile uscita fuor dalle strette del lago. Ma Trtone apparso trasse di
rischio la nave, dimostr la via, e ricevette in dono un tripode. Dopo le quali
cose, profet agli Argonauti che un giomo presso quel lago i Greci avrebbero
fondato cento citt: Taira ytovaavzag rovg 7tix<^Qovg twv Ai^vov KQV'kpat, Tv
zQLJioa. Qui sono due particolari ben distinti : il dono del tripode per
ottener lo scampo, e la profezia. Quest'ultima non si avver perch la piccola
Sirte non ebbe colonie greche ; ed da
vedere in essa (cfr. tra gli altri CosTANzi 0) un riflesso del tentativo com-
piuto nel Cinipe fra le due Sirti dallo spartano Dorieo. Ma il dono del tripode
non che fittisiiamente collegato con la
profezia e il tentativo di Dorieo: suo vero e unico e primo scopo ottenere da Tritone la via. Il resto superfetazione pi tarda. Da ultimo notevole che ritorna ancor qui il lago
Tritonio, localizzato per non pili presso Berenice ma nella piccola Sirte.
Esistono dunque nel breve racconto erodoteo due strati. L'uno recente, e non risale pi in l della
spedizione infelice di Dorieo: appartengono a questo la profezia di Tritone e
il valore fatidico dato al tripode. L'altro
assai pi antico, e preesiste a Dorieo: gli appartengono i nomi degli
Argonauti e del lago Tritonio e il dono di Giasone al dio. Ora, quest'ultimo
strato assomiglia, grossolanamente, al nucleo che ci parve originario in
Pindaro. Esaminiamo pertanto pivi da vicino questi elementi simili. Identico il nome della palude; ma diversi sono i
luoghi: tuttavia pi vetusta appare la identificazione C'IBENE MITICA con il
lago dell'estremo occidente nella minor Sirte (cfr. RoscHER nel Lex. e
Costanzio.). Identico l'apparire di un nume; ma i nomi differiscono: e non dubbio che Tritone, aderente com' al lago
stesso, risalga a pivi vetusta forma che Euripilo, figura recente dei nuovi
coloni. Identica la circostanza d'un dono, ma la vicenda mutata: ed
chiaro come al mito primo deglargonauti si convenga il dono che serve a
favorire il viaggio, pi tosto che quello il quale prepara, a tutto vantaggio
d'una regnante dinastia, una colonia. Lo strato adunque pi antico dErodoto
appare alla nostra analisi come la forma su cui vennero foggiate: da un lato la
leggenda cirenaica a pr dei Battiadi, con alcune alterazioni dicevoli;
dall'altro la leggenda spartana in favor di Dorico, con altri mutamenti
opportuni. Se questo vero si spiegano
facilmente Licofrone e Apollonio. Licofrone dice dei naufragi di Guneo Proteo ed
Euripilo presso Tauchira (citt della Cirenaica non lungi a l'odierna Bengasi).
Quivi (soggiunge) furon gi gli Argonauti, che ad Ausigda seppellirono Mopso
(Ausigda giace fra Tauchira e Cirene). Quivi (insiste) scorre Kivv(pEiog ^og (il Cinipe, cfr. Malten, che
fluisce, in vece, fra le due Sirti, molto lontano di li). Agli Argonauti appare
Tritone, e a lui dona Medea un cratere, per compenso del quale egli insegna
loro la via, e profta che i Greci colonizzeranno quella regione, allorch
riavranno il cratere. Onde gli Asbisti {= i Libii) impauriti lo celano.
Ora evidentissimo che, ove si muti il
cratere in tripode, il colorito e l'andamento della scena son quelli medesimi
erodotei. Mutati sono unicamente i luoghi: i quali, tranne il Cinipe, sono
della Cirenaica. N il Cinipe turba gran che l'armonia: questa irrazionalit
geografica qui indotta dal ricordo, che
tutto il mito del resto nella sua forma erodotea presuppone, di [GLI ARGONAUTI
IN LIBIA] Dorieo sbarcato presso quel fiume : ricordo cosi vivo che in una
fonte anche Guneo tessalo al Cinipe fa naufragio (Apollod. vi 15 a Wagner =
scoi, a Licofr.) (contro Malten). In breve, Licofrone contamina; mischia
insieme, di qui due localit cirenaiche, di l il contesto sirtico-spartano del
mito. Ben pi contamina Apollonio. Dal Peloponneso gli Argonauti naufragano alla
Sirte, dove le Eroine gli esortano a recare per dodici giorni le navi verso
oriente. Giungono cosi al lago Tritonio, presso cui a loro impediti nel viaggio
insegna la via Ti-itone: dona a Eufemo una zolla, riceve da Orfeo il tripode.
Sono, ci , ravvicinati: il tripode erodoteo alla zolla pindarica; Eufemo ad
Orfeo (= Giasone, in lieve vai-iante); la Sirte a Bengasi. E il poeta (o la sua
fonte) cosi conscio della contaminazione,
che i due distanti luoghi (Sirte-Bengasi) congiunge con una fittizia marcia di
dodici giorni da occidente a oriente : marcia il cui modello pu bene esser in
quella, di cui Pindaro, fra l'Oceano e la palude Tritonia. N coteste
contaminazioni erano puro effetto dell'arbitrio di poeti. DioD. narrando (qual
che ne sia la fonte) c'ne gli abitanti di Evesperide pretendevano d'aver
rinvenuto essi il tripode donato a Tritone, dimostra come la leggenda
sirtico-erodotea, la quale nella piccola Sirte, dopo l'insuccesso di Dorieo,
era spostata, avesse trovato terreno propizio, anche nella realt, presso
l'altro lago Tritonio, a Bengasi. Conchiudiamo. La facilit con cui dalle nostre
premesse furono spiegate le complesse narrazioni di Licofrone e Apollonio,
insieme col loro sostrato reale, par buona conferma delle premesse medesime.
Poche parole bastino dunque, ancra, sul posto che, nella complessiva
spedizione, occupa l'episodio deglargonauti . Pindaro e Licofrone lo collocano
dopo la CIRENE MITICA conquista del vello : Medea presente. Apollonio ed Erodoto, prima. Anzi
tutto va osservato che non bisogna dar troppo peso a Licofrone, in cui un
equivoco ben possibile e facile, da poi
che non tratta egli esplicitamente, ma solo parenteticamente, deglargonauti.
Inoltre la discrepanza dimostra a pena che il nucleo primitivo del mito non
aveva carattere cronologico preciso: cosi che ogni poeta poteva tribuirgliene
uno, secondo l'esigenze poetiche o l'estro dell'ispirazione. E possiamo
finalmente raccogliere in breve i risultati delle ricerche sul mito dei
Battiadi. A favore di questi ultimi l'Eea di Eufemo rielabor un antico motivo
favoloso su gli Argonauti in Libia: conducendo quivi e a Lemno, e localizzando
al Tenaro, il capostipite dei Battiadi Eufemo, in qualit di Argonauta;
trasportando i suoi discendenti a Tera; e approfittando del nume di Euripilo,
che fra i Greci di Libia vigoreggiava come altrove. In tutta l'Eea quindi , si,
un complesso rifacimento di miti con scopo dinastico e religioso; ma tal
rifacimento riflette sol tanto le condizioni storiche a noi note, non gi altre,
anteriori e ignote. Questa Eea di Eufemo poi e quella di Cirene crediamo si
possano mostrare contaminate parzialmente in Callimaco. Vili. Callimaco e il
mito di Cirene. Malten vede nel nesso Cirene-Euripilo la forma pi antica della
leggenda, quella che l'Eea adultera. Ora
bens verissimo che Callimaco, come AceSANDRO {scoi. Apoll. R.) e
Filakco, storici, cirenaico l'uno, egizio forse l'altro, sente una pi viva eco
e pi genuina della primitiva forma mitica allorquando fa combattere in Libia,
non in Tessaglia, Cirene col leone. Ma
altr'e tanto' vero, e intui- [CALLIMACO E IL MITO DI CIRENE] tivo, che
il nesso con Euripilo tardo. Se difatti
l'Eea avesse trovato questo nome congiunto, comunque, con quel di Cirene, non
avrebbe omesso di trasportarlo, con Apollo e Aristeo, in Tessaglia: in
Tessaglia invero signore di Ormenio un
Euripilo figlio di Evemone. Che se dunque il nesso posteriore all'Eea e a Pindaro, pur posteriore alla leggenda dinastica
deglEufemidi, gi riflessa in quest'ultimo poeta, e in cui Euripilo ha
preponderante azione. Par quindi legittimo pensare che Euripilo si commetta con
Cirene, dopo che la sua figura ha assunto valore e rilievo indigeni nel mito
deglargonauti su la Tquovc ifivrj. Callimaco pertanto rispecchia una posteriore
forma indigena della leggenda che
oggetto del nostro studio; a quel modo che VIRGILIO (si veda) rispecchia
una posteriore forma straniera. A parte bisogna considerare Filarco l. e. per
la frase di lui fiev jieivv: Cirene di fatti sarebbe pervenuta in Libia non
sola ma con molti. Analogo, se bene un po' diverso, Giustino: mandati dal padre di Cirene, Ipseo
re di Tessaglia, i Tessali si sarebbero fermati in Libia con la fanciulla, loci
amoenitate capti. Ora, come Callimaco fa trasparire un mito ove la favola di
Cirene ninfa e la leggenda dei Battiadi si compenetrano in parte; cosi i due
passi or ora citati continuano lo stesso indirizzo, non pi solo col connettere
Cirene ed Euripilo, bens anche col porre intorno a Cirene coloni tessali, che
vengono imaginati ad analogia dei coloni dori. I gradi di questo processo
mitopeico sono: Euripilo in Libia quando
Eufemo, capostipite dei Battiadi, vi giunge ; dunque molto prima di Batto;
Cirene in Libia rapita da Apollo, essa
pure prima che vi pervenga Batto; Cirene ed Euripilo ebbero rapporti in Libia
in quegli antichi tempi) con Cirene, che ha il trono da Euri- [OIBENE MITICA]
pilo, eran Tessali suoi compatrioti. Lento (ma chiaro) processo, adunque, le
cui forme non si debbon confondere con le primitive quali ci appajono nelle due
Eee. Esegesi novissima. Storia e indagine su Civette mitica soo in questo
volume gi per intero composte quando apparvero di Pasquali le Quaestiones
Callimacheae (Gottingae) ove il mito di Cirene
di nuovo trattato. Ne pubblicheremo altrove una confutazione ("
Atti della R. Accademia delle Scienze di Torino). Torino, BOCCA, TORINO Piccola
Biblioteca di Scienze Moderne Grice: Mussolini lacked a classical
education he was obsessed, if we are
talking alla hymns, of the modern, not the ancient! Grice: Mussolini, who wasnt
from Rome, called Rome the city of prostitutes. Hausmann suggested that he
should build the third Rome somewhere in the Lazio. Aldo Ferrabino. Ferrabino. Keywords: la terza Roma,
Mazzini. Una e unica Roma, one and only. Mussolinis dislike for ruins, Mussolinis use of modern
versus ancient. Calypso. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrabino,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrando:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di CORIOLANO,
ovvero, la filosofia – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Ferarndo; for one, he is what I would call an Anglo-Italian –
cf. Anglo-Argentine; so he philosophised on Otello, Coroliano, la creazione di
Carpenter and the forces of Prentice Mulford; on Byron’s Manfredi, and more
beyond!” Si laurea a Pisa. Insegna a Firenze. Direttore
della Biblioteca Filosofica. In qualità di filosofo s’interessa a Bergson, il
misticismo, il transcendentalism (saggi per L’Annuario Filosofico), come
filosofo anglista s'interessa a Shakespeare (“Otello”, “Corolliano”), e
Coleridge, Carpenter (“La creazione”), Coleridge, Byron (“Manfredi”), “Le forze
che dormono in noi” (Prichard). dando di alcuni di questi anche delle versioni.
È inoltre studioso di psicologia e redattore della rivista Psiche. Collabora
con SALVEMINI (si veda) alla propaganda anti-fascista e firma il manifesto di Croce.
Espatria a New York, dove continua la sua attività anti-fascista, insegna filosofia
e sposa Wilhelmina Anieka Leggett, con cui adotta la figlia Vasanti. Contribue
più a fondare la Besant Hill School di Ojai, California, praticandovi l'insegnamento
more socratico. L’istruzione è un processo d'indagine dove l’studente impara dal
tutore *come* pensare, non *cosa* pensare". RootsWeb's World Connect Project: LEGGETT of ELY,
CAMBRIDGESHIRE, ENGLAND. Fe. appointed Chairman of italian dept. Vassar Miscellany
News, Besanthill. Opere: Saggi, “La Voce” -- Coriolano politico e Generale
dell'Antica Roma Lingua Segui Gneo Marcio Coriolano, in latino Gnaeus Marcius
Coriolanus, generalmente conosciuto come Coriolano, membro dell'antica Gens
Marcia, fu uomo politico e valoroso generale al tempo delle guerre contro i
Volsci. Veturia ai piedi di Coriolano di Nicolas Poussin.
BiografiaModifica Il giovane Gneo Marcio, non ancora Coriolano, partecipò come
semplice soldato alla decisiva battaglia del lago Regillo, distinguendosi per
il proprio valore, tanto da meritare la Corona civica per aver salvato da solo
in battaglia un altro cittadino romano. Secondo Livio e Plutarco a Gneo Marcio
fu attribuito il cognome a seguito della vittoria di Roma contro i Volsci di
Corioli, ottenuta anche grazie al valore del giovane patrizio; secondo altri
storici il cognome indica che la sua famiglia fosse originaria della città
stessa. Q. Marcius, dux
Romanus, qui Coriolos ceperat, Volscorum civitatem, ad ipsos Volscos contendit
iratus et auxilia contra Romanos accepit. Romanos saepe vicit, usque ad quintum
miliarium urbis accessit, oppugnaturus etiam patriam suam, legatis qui pacem petebant,
repudiatis, nisi ad eum mater Veturia et uxor Volumnia ex urbe venissent,
quarum fletu et deprecatione superatus removit exercitum. Atque hic secundus
post Tarquinium fuit, qui dux contra patriam suam esset. Q. Marcio, comandante romano, che aveva conquistato
Corioli, città dei Volsci, accecato dall'ira si recò presso i Volsci e ottenne
aiuti contro i Romani. Sconfisse spesso i Romani, arrivando fino a cinque
miglia da Roma, pronto a combattere anche contro la sua patria, respinti i
legati inviati per chiedere la pace, vinto solamente dal pianto e dalle
suppliche della madre Veturia e della moglie Volumnia, andate a lui da Roma,
ritirò l'esercito. E questo fu il secondo capo, dopo Tarquinio, ad essersi opposto
alla propria patria.» (Eutropio, Breviarium ab Urbe condita) L'Eroe della
presa di Corioli Consoli Postumio Cominio Aurunco e Spurio Cassio Vecellino, a
Roma, per quella che sarebbe stata ricordata come la prima secessione, la plebe
si era ritirata sul Monte Sacro. La situazione era poi resa oltremodo
complicata dalla necessità di definire un nuovo trattato (Fœdus) con i Latini,
compito che fu affidato al console Spurio Cassio, trattato che da lui prese di
nome (Fœdus Cassianum), e dai preparativi bellici intrapresi dai Volsci, contro
cui si decise di intraprendere l'ennesima azione militare, affidandola al
console Postumio Cominio. Postumio Cominio iniziò la campagna militare
guidando l'esercito romano contro i Volsci di Antium, città che venne
espugnata. Successivamente l'esercito romano marciò contro le città volsche di
Longula, Polusca e Corioli, tutte e tre conquistate dai Romani, quest'ultima
con l'apporto decisivo di Gneo Marcio, tanto che Livio annota: L'impresa
di Marcio eclissò la gloria del console al punto che, se il trattato coi
Latini, concluso dal solo Spurio Cassio in assenza del collega, non fosse
rimasto inciso a perenne memoria su una colonna di bronzo, nessuno si
ricorderebbe che Postumio Cominio combatté contro i Volsci LIVIO Ab Urbe condita. Dai contrasti tra
patrizi e plebei all'esilio. Intanto a Roma la prima secessio plebis e la
conseguente mancata coltura dei campi aveva provocato un rincaro del grano e la
necessità della sua importazione. Sotto il consolato di Marco Minucio Augurino
e Aulo Sempronio Atratino, Coriolano si oppose fortemente alla riduzione del
prezzo del grano alla plebe, che lo prese in forte odio. In effetti la
contesa non riguardava tanto il prezzo del grano, ma il conflitto tra plebei e
patrizi, con questi ultimi che ancora non si erano rassegnati all'istituzione
dei tribuni della plebe, e cercavano in tutti i modi di contrastarne l'azione.
In un contesto di feroci attacchi politici, Coriolano rappresentava l'ala più
oltranzista dei patrizi, che propugnava il ritorno alla situazione antecedente
alla concessione del tribunato ai plebei, e per questo motivo era attaccato
violentemente da questi. Durante una di queste infuocate assemblee mancò poco
che Coriolano fosse mandato a morte, gettato dalla rupe Tarpea. «...A
questo punto Sicinnio, il più impudente dei tribuni, dopo una breve
consultazione con i colleghi, proclamò davanti a tutti che Marcio era stato
condannato a morte dai tribuni della plebe, e ordinò agli edili di portarlo
immediatamente sulla rocca Tarpea e di gettarlo giù nella voragine.»
(Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla fine fu
citato in giudizio dai tribuni della plebe, e a questo punto le versioni di
Livio e Plutarco divergono. Secondo Livio, Gneo Marcio rifiutò di andare in
giudizio, scegliendo l'esilio volontario presso i Volsci, e per questo motivo
fu condannato in contumacia all'esilio a vita. Invece per Plutarco[5] Gneo
Marcio fu sottoposto al giudizio del popolo con l'accusa di essersi opposto al
ribasso dei prezzi del grano, e per aver distribuito il tesoro di Anzio tra i
commilitoni, invece di consegnarlo all'Erario. Anche per Plutarco, la condanna
fu quella dell'esilio a vita. La guerra contro RomaModifica Gneo Marcio
scelse di recarsi in esilio nella città di Anzio, ospite di Attio Tullio,
eminente personalità tra i Volsci. I due, animati da forti sentimenti di
rivincita nei confronti di Roma, iniziarono a tramare affinché tra i Volsci,
più volte battuti in scontri campali dall'esercito romano, si sviluppassero
nuovamente motivi di risentimento contro i Romani, tali da far nascere in
questi il desiderio di entrare in guerra contro il potente vicino. Marcio e
Tullo discutevano di nascosto in Anzio con i più potenti e li spingevano a
scatenare la guerra mentre i Romani si combattevano tra loro. Ma mentre i
Volsci erano trattenuti dal pudore perché le due parti avevano concordato una
tregua e un armistizio di due anni, e furono i Romani a fornire loro stessi il
pretesto, annunziando durante certi spettacoli e giochi, sulla base di qualche
sospetto o falsa accusa, che i Volsci dovevano lasciare la città prima del
tramonto. Plutarco, Vite parallele, Gneo Marcio Coriolano e Alcibiade) Alla
fine i Volsci decisero per una nuova guerra contro Roma, ed affidarono a
Coriolano e ad Attio Tullio il comando dell'esercito. Quindi i due comandanti
si risolsero a dividersi le forze, rivolgendosi Attio ai territori dei Latini,
per impedire che portassero soccorso a Roma, e Coriolano a saccheggiare la
campagna romana, evitando però di attaccare le proprietà dei Patrizi, così da
fomentare la discordia tra Plebei e Patrizi. L'espediente ebbe successo, tanto
da permettere ai due eserciti Volsci, di tornare nel proprio territorio,
carichi di bottino e senza aver subito alcun attacco dai Romani.
Successivamente, mentre Attio proteggeva con il proprio esercito la città,
Coriolano volse il proprio esercito contro la colonia romana di Circei che fu
presa, mentre Roma non reagiva per il montare della discordia tra i due
ordini. Alla fine a Roma si decise di arruolare un esercito, e si permise
agli alleati Latini di prepararne uno per proprio conto, in quanto Roma non era
in grado di difenderli dalle incursioni dei Volsci. Ai Volsci, che si preparavano
alla guerra, si aggiunse poi la rivolta degli Equi. Coriolano, al comando del
proprio esercito quindi prese Tolerium, Bola, Labicum, Corbione, Bovillae e
pose l'assedio a Lavinium, senza che i Romani portassero aiuto a queste
città. Quindi Coriolano si accampò a sole cinque miglia dalle mura della
città in località Cluvilie, dove fu raggiunto da un'ambasceria composta da
cinque ambasciatori. Per tutti parlò Marco Minucio Augurino, senza però
riuscire a far desistere Coriolano dal proprio intento; anzi i Volsci, sempre
guidati dal condottiero romano, presero Longula, Satricum, Polusca, le città
degli Albieti, Mugillae e vennero a patti con i Coriolani. Leggermente
diversa la versione di Livio: Quindi conquistò Satrico, Longula, Polusca,
Corioli, Mugilla, tutte città recentemente sottomesse dai Romani. Poi riprese
Lavinio e di lì, raggiungendo la via Latina tramite delle scorciatoie, catturò
una dopo l'altra Corbione, Vetelia, Trebio, Labico, Pedo. Infine da Pedo marciò
su Roma e si accampò presso le fosse Cluilie, a cinque miglia dalla
città» (LIVIO (si veda), Ab Urbe condita libri) Qui, alle porte dell'Urbe
al IV miglio della Via Latina, dove si trovava il confine dell'Ager Romanus
Antiquus (nei pressi dell'attuale Via del Quadraro), mentre i consoli, Spurio
Nauzio e Sesto Furio, organizzano le difese della città, venne fermato dalle
implorazioni della madre Veturia e della moglie Volumnia, accorsa con i due
figlioletti in braccio, che lo convinsero a desistere dal proprio proposito di
distruggere Roma. «....Coriolano saltò giù come una furia dal suo sedile
e corse incontro alla madre per abbracciarla. Lei però, passata dalle suppliche
alla collera, gli disse: «Fermo lì, prima di abbracciarmi: voglio sapere se qui
ci troviamo da un nemico o da un figlio e se nel tuo accampamento devo
considerarmi una prigioniera o una madre.» (LIVIO (si veda), Ab Urbe
condita libri) Morte LIVIO (si veda) riporta come non ci è concordanza sulla
morte di Coriolano. Secondo parte della tradizione, è ucciso dai Volsci, che lo
considerarono un traditore per aver sciolto l'esercito sotto le mura di Roma. Secondo
Fabio, muore di vecchiaia in esilio. Plutarco e Dionigi di Alicarnasso
raccontano come Coriolano è ucciso da una congiura, capitanata da Attio Tullio,
mentre si sta difendendo in un pubblico processo ad Anzio, dove è stato messo
sotto accusa dai Volsci per essersi ritirato, senza aver combattuto, da
Roma.Poi, però, è dimostrato che l’azione non è affatto condivisa da tutti,
sicché fu seppellito con grandi onori e il sepolcro di Coriolano, ornato con
armi e spoglie, fu considerato dalla popolazione il sepolcro di un eroe e di un
grande generale. I Romani, invece, non gli tributarono onori quando seppero
della sua morte, né tuttavia gli serbarono rancore, tant'è vero che alle donne
fu consentito portare il lutto fino a un massimo di 10 mesi. CICERONE (si veda),
nel Brutus, nel paragonare Coriolano a Temistocle ne accomuna la sorte: si
sarebbero entrambi tolti la vita una volta allontanati dalla patria.Critica
storica Secondo parte della moderna storiografia Coriolano rappresenta un
personaggio leggendario, creato per giustificare le sconfitte dei Romani nelle
guerre contro i Volsci nella prima epoca repubblicana, guerre che arrivarono a
minacciare l'esistenza stessa di Roma. I Romani trovarono giustificazione delle
loro ripetute sconfitte, nella credenza che solo un condottiero romano avrebbe
potuto sconfiggere un esercito romano. La circostanza che Coriolano non appaia
tra i fasti consulares aumenta il dubbio che si sia trattato di un personaggio
storico (cf. Grice, “Vacuous Names”). Plutarco, Vite parallele, Vita di
Coriolano, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele Gneo
Marcio Coriolano e Alcibiade, Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Livio, Ab Urbe
condita libri Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità
romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di Alicarnasso,
Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane,
Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane Appiano, Storia romana, Livio, Ab Urbe
condita libri, lib. II, par. 40 ^ Plutarco, Vite parallele, 6. Gneo Marcio
Coriolano e Alcibiade, Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, V Dionigi di
Alicarnasso, Antichità romane CICERONE (si veda), Laelius de amicitia CICERONE
(si veda), Brutus. Livio, Ab Urbe condita libri Plutarco, Vite parallele,
Coriolano Eutropio, Breviarium ab Urbe condita (che lo chiama Quinto) Ispirata
pure alla vicenda di Coriolano è un'ouverture di Beethoven (in do min.),
composta per la tragedia teatrale omonima di Collin. Gens Marcia Volumnia
Veturia Coriolano, tragedia di Shakespeare Coriolano, Gneo Marcio, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Coriolano, Gnèo
Màrcio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Gneo Marcio Coriolano
Gneo Marcio Coriolano (altra versione), su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale
Biografie Portale Guerra Portale Politica Sesto Furio
Medullino Fuso politico romano Roma e le guerre con Equi e Volsci Attio
Tullio Nobile volsco di Antium (le odierne Nettuno ed Anzio) CORIOLANO
Tragedia Note di Raponi. Il testo inglese adottato per la traduzione è quello d’Alexander
(Shakespeare - “The complete Works”, Collins., London), con qualche variante
suggerita da altri testi, specialmente quello prodotto dal Furnivall per la
“Early English Text Society”, l’“Arden Shakespeare” e l’ultima edizione
dell’“Oxford Shakespeare” curata da G. Taylor e G. Wells per la Clarendon. Alcune
didascalie sono state aggiunte dal traduttore di sua iniziativa, per la
migliore comprensione dell’azione scenica alla lettura, cui questa traduzione è
essenzialmente intesa. 3) All’inizio di ciascuna scena i personaggi sono
introdotti con il rituale “Entra” o “Entrano”, che ripete l’“Enter” del testo;
giova avvertire però che tale dizione non implica che i personaggi debbano
“entrare” in scena al levarsi del sipario; è spesso possibile che essi vi si
trovino già, in un qualunque atteggiamento. La reciproca vale per le dizioni
“Exit” - “Exeunt”, “Esce”, “Escono”. 4) Il metro è l’endecasillabo sciolto,
intercalato da settenari, come l’abbia richiesto al traduttore lo scorrere
della verseggiatura. 5) Trattandosi della Roma di Coriolano, la forma del “tu”
(i Romani non ne conoscevano altra) è sembrata imperativa, ad onta del
dialogante alternarsi dello “you” e del “thou” dell’inglese. 6) La divisione in
atti e scene, com’è noto, non si trova nell’in-folio; essa è stata elaborata,
spesso anche con l’elenco dei personaggi, da vari curatori nel tempo, a
cominciare da Rowe. Li si riproduce come figurano nella citata edizione
dell’Alexander. CORIOLANO Nota introduttiva Plutarco, dalle cui “Vite
parallele” Shakespeare trae essenzialmente la trama della sua tragedia, associa
Coriolano con Alcibiade, come esempio di due grandi condottieri e uomini
politici venuti in contrasto con la loro patria e scesi contro di essa in
guerra alla testa di eserciti nemici. I due sono contemporanei: Alcibiade vive
nell’Atene di Pericle (V sec. a.C.), già matura repubblica demo- aristocratica;
Coriolano nella giovane immatura repubblica di una Roma che si è appena
liberata della tirannia dei re etruschi. Ma il parallelismo tra i due è per
contrasto; perché Alcibiade cerca, contro l’aristocrazia di cui è parte (è il
nipote di Pericle), e che gli dà l’ostracismo, il favore del popolo; Coriolano,
all’opposto, nel suo orgoglio di aristocratico rozzo e impolitico, disprezza la
massa plebea ed è da questa prima eletto poi privato del consolato e bandito da
Roma. L’orgoglio di Coriolano e il suo conflitto con l’intima nobiltà dell’uomo
è il “leitmotiv” del dramma shakespeariano; ad esso fa da sfondo una Roma la
cui politica interna è caratterizzata dalle lotte di classe fra patrizi e
plebei, quella esterna dalle prime guerre di espansione. I nemici più vicini
sono i Volsci, che abitano le terre del sud del Lazio, comprese le città di
Anzio e Corioli. La superbia è il peggiore dei vizi, il massimo dei peccati
capitali della dottrina cristiana; tradotta nella persona di un eroe della Roma
pagana essa acquista la dimensione di un vizio legato ad una virtù: nobiltà e
onore. Le parole “nobility” e “honour”, come osserva il Melchiori, con i loro
derivati nominali e verbali ricorrono ben 137 volte nel testo della tragedia.
Questo conflitto, come una fatale condanna, nega a Coriolano la capacità di
convivere con gli oppositori, l’inclinazione al possibilismo che è la massima
dote del politico, e sarà, nel mondo politico nel quale egli si muove, la sua
tragica fine. Il linguaggio di Coriolano, a differenza di quello raffinato e
colto di Alcibiade, è sempre rude, quasi urlato, di rissa; e ad accentuarne la
rudezza Shakespeare crea, in contrapposto, di sua fantasia, il personaggio di
Menenio Agrippa, un modello di scaltrezza politica - questo sì - simile ad
Alcibiade, che parla studiando l’avversario, per saggiarne i punti deboli e,
prima assecondandolo poi demolendolo, averne ragione. Ma Coriolano non è solo
questo. All’intolleranza faziosa egli aggiunge l’incostanza del carattere,
l’ignoranza di sé. Questo lo porta ad ingannarsi non solo sulla realtà politica
che lo circonda, ma sulla sua stessa immagine; si trova così, quasi senza
volerlo, sottomesso alla volontà della madre, Volumnia. Questa è la figura di
matrona romana nelle cui parole par quasi di sentire un’eco ante litteram del
Machiavelli: “Chi diventa principe col favore dei grandi deve anzitutto
guadagnarsi il favore del popolo, farsi “gran simulatore e dissimulatore”.
Coriolano, a differenza di Alcibiade, è il contrario di tutto questo.
CAIO MARCIO, detto poi “Coriolano” TITO LARZIO COMINIO, generali romani nella
guerra contro i Volsci MENENIO AGRIPPA, amico di Coriolano SICINIO VELUTO
GIUNIO BRUTO, tribuni della plebe IL PICCOLO MARCIO, figliolo di Coriolano Un
araldo romano NICANOR, romano al servizio dei Volsci TULLO AUFIDIO, generale
dei Volsci Un luogotenente di Aufidio ADRIANO, volsco Un cittadino di Anzio Due
sentinelle volsche VOLUMNIA, madre di Coriolano VIRGINIA, sposa di Coriolano
VALERIA, amica di Virginia Una dama di compagnia di Virginia Senatori romani e
volsci Patrizi, edili, littori, soldati, cittadini, messaggeri Servi di Aufidio
ed altri dei vari seguiti Cospiratori del partito di Aufidio SCENA: parte a
Roma e nei dintorni di Roma; parte a Corioli e dintorni; parte ad Anzio.
PERSONAGGI Roma, una strada Entra un gruppo di POPOLANI in rivolta, con
mazze, randelli e altri ordigni PRIMO CITTADINO - (Agli altri) Prima d’andare
avanti, m’ascoltate! TUTTI - Parla, parla. PRIMO CITT. - Decisi allora: morti,
piuttosto che affamati! TUTTI - Decisi sì! - Decisi! PRIMO CITT. - Primo:
ciascuno sa che Caio Marcio è il principale nemico del popolo. TUTTI – È Caio
Marcio! Lo sappiamo tutti. PRIMO CITT. - Uccidiamolo, allora, e avremo il grano
al prezzo nostro! Chiaro? TUTTI - Chiaro. Basta parole. Andiamo ai fatti!
SECONDO CITT. - Una parola, buoni cittadini. PRIMO CITT. - “Buoni” dillo ai
patrizi! Noi per loro non siamo che gentaccia! Il sovrappiù che avanza a
lorsignori già ci procurerebbe alcun sollievo; quello che avanza dalla loro
tavola, dico, che fosse appena digeribile; potremmo almeno farci l’illusione
che ci aiutino per umanità; ma pensano che già costiamo troppo. La macilenza
che ci affligge tutti, a specchio della nostra povertà, è per loro un
inventario ad uomo per esibire la loro abbondanza. La nostra sofferenza è il
lor guadagno. Vendichiamoci con le nostre picche prima che diventiamo dei
rastrelli, ché se parlo così, sanno gli dèi ch’è per fame di pane, e non punto
per sete di vendetta! SECONDO CITT. - E vorresti che noi si procedesse
prima di tutti contro Caio Marcio? PRIMO CITT. - Contro di lui per primo; è un
vero cane, quello, per il popolo. SECONDO CITT. - Hai ben considerato,
tuttavia, quali servigi egli ha reso alla patria? PRIMO CITT. - Certamente, e
sarei anche contento di dargliene pubblicamente merito; ma di ciò lui si paga
da se stesso con la sua boria. SECONDO CITT. - Via, non dirne male. PRIMO CITT.
- Io ti dico che tutto che di buono ha fatto è stato per un solo fine; anche se
a certe tenere animucce può piacere di dire che l’ha fatto pel suo paese, in
verità l’ha fatto per piacere a sua madre, ed anche, in parte, per soddisfare
la propria ambizione, ché ce n’ha tanta per quanto ha coraggio. SECONDO CITT. -
Tu gli addebiti a colpa qualcosa contro cui lui non può niente, perché fa parte
della sua natura. Non puoi dire però che sia corrotto. PRIMO CITT. - Questo no,
ma di accuse su di lui ne posso partorire a volontà. Di difetti ce n’ha di
sopravanzo, da stancare ad enumerarli tutti! (Clamori all’interno) Ma che son
queste grida?... L’altra parte della città è in rivolta, e noi ce ne restiamo
qui a cianciare? Al Campidoglio, tutti! TUTTI - Andiamo! Andiamo! PRIMO CITT. -
Un momento! Chi è che viene qui? Entra MENENIO AGRIPPA SECONDO CITT. - Il buon
Menenio Agrippa, un galantuomo, uno che sempre volle bene al popolo.
PRIMO CITT. - Una persona onesta. Fossero tutti gli altri come lui! MENENIO -
Ehi, cittadini, che intendete fare, dove volete andare, così armati di mazze e
di randelli? PRIMO CITT. - Il motivo lo sa bene il Senato. È da due settimane
che sanno quello che vogliamo fare. Ora glielo mostriamo con i fatti. Loro
dicono che noi postulanti abbiamo il fiato forte: ora sapranno che abbiamo
forti pure mani e braccia. MENENIO - Evvia, signori, buoni amici miei, onesti
miei concittadini, diamine!, volete rovinarvi? PRIMO CITT. - Rovinati già
siamo, amico; più non è possibile. MENENIO - Ed io vi dico invece, brava gente,
che i patrizi si curano di voi col più caritatevole riguardo. Quanto a quel che
vi manca, ciò che soffrite in questa carestia, alzare contro lo Stato romano le
vostre mazze, è come alzarle in aria con l’intenzione di colpire il cielo: esso
seguiterà per la sua strada, spezzando mille, diecimila ostacoli più forti che
non possa mai sembrare quello di questa vostra opposizione. Quanto alla
carestia, sono gli dèi che l’han voluta, non punto i patrizi, e davanti agli
dèi sono i ginocchi, non le braccia, che possono soccorrervi. Ahimè, che voi vi
fate trascinare dalla disgrazia dove altri malanni v’aspettano, a calunniar
così e maledir come nemici gli uomini che reggono il timone dello Stato e di
voi son pensosi, come padri. PRIMO CITT. - Di noi pensosi, quelli? Figuriamoci!
Mai se ne son curati fino ad oggi. Ecco, ci lasciano morir di fame, e i
magazzini son pieni di grano; sfornano editti per punir l’usura e favoriscon
solo gli strozzini; abrogano ogni giorno sane leggi promulgate a suo
tempo contro i ricchi ed ogni giorno sfornano decreti sempre più duri per
impastoiare ed affamare la povera gente. Se non saran le guerre, saranno loro a
sterminarci tutti. Ecco qual è l’amore che ci portano. MENENIO - Dovete
ammettere che a dir così siete mostruosamente in malafede, o si dovrà accusarvi
di follia. Vi voglio raccontare una storiella su misura. L’avrete già sentita,
ma poiché ben s’adatta al mio proposito, m’avventuro a ridurla un po’ più
trita. PRIMO CITT. - Beh, sentiamola un po’. Ma non pensare di far sparire con
un raccontino il nostro obbrobrio. Dilla, se ti piace. MENENIO - Successe un
tempo che tutte le membra del corpo si levarono in rivolta contro lo stomaco,
così accusandolo: restarsene esso solo, in mezzo al corpo, a ingozzarsi di cibo
tutto il tempo come un gorgo, infingardo ed inattivo, senza divider mai con
l’altre parti il lavoro comune, mentre quelle eran continuamente ad esso
intente, ad udire, a pensare, a impartir ordini, a camminare, a percepir coi
sensi, sì che aiutandosi l’una con l’altra, provvedevano insieme agli appetiti
e ai bisogni comuni a tutto il corpo. Lo stomaco rispose... PRIMO CITT. - Beh,
sentiamo, quale fu la risposta dello stomaco? MENENIO - Stavo appunto per
dirtelo. Lo stomaco, mostrando loro un certo sorrisetto che non gli venne
affatto dai polmoni(9) ma proprio qui, così...(10) perché, vedete, se posso
farlo parlare, lo stomaco, posso ben farlo egualmente sorridere,
provocatoriamente replicò alle parti che s’eran ribellate invidiose ch’ei solo
ricevesse, esattamente come adesso voi che criticate i nostri senatori
perché non sono quali siete voi. PRIMO CITT. - La risposta del tuo stomaco...
Beh? La testa, sede di regal diadema, l’occhio, vigil guardiano, il cuore,
consigliere, il braccio, nostro difensore armato, la gamba, nostro caval di
battaglia, la lingua, nostro araldo trombettiere, con tutte l’altre nostre
munizioni e piccoli ausiliari di difesa di questa nostra fabbrica, se questi,
tutti insieme... MENENIO - Ebbene, che?... (Tra sé) Parola mia, costui si parla
addosso! (Forte) Ebbene, allora? Avanti, su, che cosa? PRIMO CITT. - ...
dovessero venir prevaricati dal cormorano stomaco, ch’è la fogna del corpo...
MENENIO - Ebbene allora? PRIMO CITT. - Allora, insomma, se questi che ho detto
si lamentavano, che mai rispondere poteva il ventre? MENENIO - Te lo dico io,
se mi concedi un poco di pazienza, anche se, come vedo, ce n’hai poca. PRIMO
CITT. - Eh, quanto la fai lunga! MENENIO - Stammi bene a sentire, buon amico...
Dunque lo stomaco, con gran sussiego, pesando le parole, in tutta calma, al
contrario dei suoi accusatori, dice: “Miei cari consociati, è vero ch’io ricevo
per primo tutto il cibo da cui traete voi sostentamento; ma è giusto e logico
che sia così dal momento ch’io sono il magazzino e l’officina di lavorazione di
tutto il corpo. E se ci riflettete, io lo rimando poi regolarmente, pei canali
del sangue, fino al palazzo della corte, al cuore, al suo trono, il
cervello, e, attraverso i tortuosi labirinti e le diverse stanze di
servizio della persona, i più robusti muscoli, e le più capillari delle vene
ricevono da me regolarmente la naturale dose d’alimento onde ciascuno trae la
propria vita. Ed anche se voi tutti presi insieme...” - attenti, amici, adesso,
attenti bene, a ciò che dice il ventre... PRIMO CITT. - Sì, ma sbrigati.
MENENIO - “... anche se non potete, lì per lì, vedere ciò che fornisco a
ciascuno, cionondimeno alla resa dei conti il mio bilancio è a posto, perché
tutti ricevono da me il fior fiore di tutto, laddove a me non resta che la
crusca”. Beh, che ne dite? PRIMO CITT. - Una risposta l’era, questa; ma come
può adattarsi a noi? MENENIO - Fate conto che siano i senatori di Roma questo
stomaco, e voialtri le membra ammutinate. Perché considerate in generale le lor
delibere e le lor premure, digerite a dovere entro di voi quanto concerne il
pubblico benessere, e troverete che dei benefici che tutti riceviamo dallo
Stato non ce n’è che non vengano da loro, e nessuno da voi. (Al Primo
Cittadino) Beh, che ne pensi, tu che sei, come mi sembri, l’alluce del piede di
codesto assembramento? PRIMO CITT. - Io, alluce? Perché? MENENIO - Perché sei
tra i più bassi, i più schifosi, i più morti di fame di codesta saggissima
rivolta, e vai avanti a tutti, tu, cagnaccio che sei del peggior sangue quanto
a correre, e ti dài arie da caporione sol per trarne vantaggio personale!
Impugnateli pure i vostri arnesi, i nodosi randelli ed i batacchi: Roma ed i
sorci della sua cloaca stan per darsi battaglia, chi sa quale dei due avrà la
peggio(15)! Entra CAIO MARCIO MENENIO - Salute a te, nobile Marcio. MARCIO -
Grazie! (Al popolo) Che vi succede, torpida canaglia, che a furia di grattarvi
notte e giorno la scabbia della vostra ostinazione siete ridotti a una putrida
rogna? PRIMO CITT. - Sempre buone parole da te, Marcio! MARCIO - Buone parole,
ad uno come te, chiunque le dice sse, sarebbe un basso e immondo
adulatore. Che volete, cagnacci, cui non va bene né pace, né guerra, perché
l’una vi fa tanti conigli, l’altra vi fa sfrontati e tracotanti? E a fidarsi di
voi, non che scoprir che siete dei leoni, ci si accorge che siete solo lepri,
oche, invece di volpi. No, si può far meno fiducia in voi che in un tizzone
acceso in mezzo al ghiaccio, che in un granello di grandine al sole. Siete
capaci d’innalzare al cielo chi è punito per qualche sua magagna, e insieme
maledire la giustizia che l’ha punito. Chi merita onore, non può che meritare
l’odio vostro; le vostre simpatie per questo o quello son come l’appetito di un
malato che va desiderando soprattutto ciò che può solo peggiorargli il male.
Chi dipendesse dal vostro favore è come se nuotasse avendo ai piedi pinne di
piombo, o avesse l’illusione di segare una quercia con dei giunchi. Fidare in
voi?... Impiccatevi! Voi mutate gabbana ogni minuto. Siete pronti a dir nobile
chi poco prima coprivate d’odio, e vile chi era prima il vostro eroe. E
adesso che v’ha preso, d’andare urlando per le vie di Roma contro il Senato
che, grazie agli dèi, riesce ancora a mantenervi a freno(17), se no vi
sbranereste l’un con l’altro? (A Menenio) Che van cercando? MENENIO - Grano, al
loro prezzo, perché sostengono che la città n’è ben fornita. MARCIO - Alla
forca! “Sostengono”!... Siedono tutto il tempo accanto al fuoco, e pretendono
di sapere loro tutto quel che succede in Campidoglio: chi può andare più in
alto, chi ci sta con buone prospettive, chi declina; parteggiano or per uno or
per un altro, s’inventano alleanze immaginarie, innalzano alle stelle una
fazione e sotto le lor scarpe rattoppate calpestano chi non va loro a genio.
Dicono che c’è grano in abbondanza! Se i nobili mettessero da parte per una
volta la loro pietà e lasciassero a me d’usar la spada, ne farei un tal
mucchio, fatti a pezzi, di migliaia di questi miserabili alto quanto gittar può
la mia lancia(19). MENENIO - Non c’è bisogno. Quelli che son qui son già quasi
convinti tutti quanti; perché se pur son largamente privi d’ogni criterio di
moderatezza, sono pure abbondantemente vili. Dimmi piuttosto tu, che cosa dice
il resto della mandria. MARCIO - Si son dissolti. Che crepino tutti! Dicevan
d’aver fame, e davan fiato sospirando a sentenze come queste: “La fame fa crepare
anche le mura”; “Pure i cani han diritto di mangiare”; “Gli dèi non hanno dato
il grano agli uomini soltanto per i ricchi”... ed altre simili. E con questi
cascami di saggezza esalavano il loro malcontento; finché han trovato chi gli
ha dato retta ed ha esaudito una lor petizione... una richiesta assurda,
da spezzare il più generoso cuore, e spegnere sul volto del potere ogni
baldanza. E quelli tutti a urlare, gettando i loro cappellacci in aria, come se
li volessero appiccare ai corni della luna. MENENIO - E che cos’è ch’è stato
lor concesso? MARCIO - Cinque tribuni, di lor propria scelta, a difesa della
plebea saggezza. Uno dei cinque è Giunio Bruto, un altro è Sicinio Voluto... e
non so più. Ma, sangue degli dèi, se stesse a me, questa canaglia, prima di
spuntarla doveva scoperchiare tutta Roma! Questi col tempo prenderan la mano
sul potere legittimo, e pian pian accamperanno sempre altre pretese come
pretesto ad una insurrezione. MENENIO - Certo, la cosa è sconcertante assai.
MARCIO - (Alla folla) A casa, a casa, avanti, spazzatura! Entra di corsa un
MESSAGGERO MESSAGGERO - Caio Marcio dov’è? MARCIO - Qui. Che succede?
MESSAGGERO - Marcio, è giunta notizia che i Volsci sono in armi. MARCIO - Ne ho
piacere. Potremo sbarazzarci finalmente di tanto nostro ammuffito superfluo. Ma
ecco i nostri più nobili anziani. Entrano COMINIO, TITO LARZIO, con altri
SENATORI, poi GIUNIO BRUTO e SICINIO VOLUTO PRIMO SENATORE - Marcio, quel che
ci hai detto ultimamente è confermato: i Volsci sono in armi. MARCIO - Ed hanno
a capitano Tullo Aufidio, uno che vi darà filo da torcere. Peccherò, ma
m’invidio il suo valore, e se fossi altro da quello che sono, vorrei
essere lui, e nessun altro. COMINIO - Vi siete già scontrati faccia a faccia.
MARCIO - Se la metà del mondo si scontrasse con l’altra, e Tullo Aufidio si
venisse a trovar dalla mia parte, io cambierei di fronte per guerreggiar con
lui solo. È un leone a cui m’inorgoglisce dar la caccia(25). PRIMO SENAT. - E
allora, degno Marcio, unisciti a Cominio in questa guerra. COMINIO - Me l’hai
promesso, Marcio. MARCIO - E lo mantengo. E mi vedrai ancora, Tito Larzio,
volteggiare la lama in faccia a Aufidio. Che hai? Ti vedo alquanto titubante.
Ti tiri fuori? LARZIO - No, Marcio, che dici? Appoggiato magari a una stampella
e brandendo quell’altra come un’arma, piuttosto che mancare a quest’impresa.
MENENIO - Eh, buon sangue romano... PRIMO SENAT. - Allora tutti insieme in
Campidoglio, dove so che si trovano ad attenderci i più degni ed illustri
nostri amici. LARZIO - (A Cominio) Tu avanti a tutti. (A Marcio) E tu dopo di
lui. Noi seguiremo. A voi la precedenza. COMINIO - (Prendendo sottobraccio
Marcio e avviandosi) Nobile Marcio! (Alla folla) A casa, via, sparite! MARCIO -
Ma no, lascia che vengano anche loro. I Volsci han molto grano. Portiamoli da
loro, questi sorci, a rosicchiare i lor granai, perbacco! Ribelli rispettabili,
il valor vostro ha buone prospettive. Seguiteci, vi prego. (I popolani si
disperdono) (Gli altri escono tutti, meno SICINIO e BRUTO) SICINIO - S’è visto
mai un uomo più arrogante di questo Marcio? BRUTO - Non ce n’è l’uguale.
SICINIO - Quando ci elessero tribuni... BRUTO - Già, notasti pure tu le labbra,
gli occhi? SICINIO - No, notai solo le sue insolenze. BRUTO - Oh, quanto a
quelle, se perde le staffe non esita ad insolentir gli dèi. SICINIO - O a
schernire la vereconda luna. BRUTO - Se questa guerra se lo divorasse! È
diventato troppo strafottente, per essere altrettanto valoroso. SICINIO - Uno
con un carattere così, se il successo gli fa montar la testa, arriverà a
sdegnare la sua ombra e pestarla coi piedi a mezzogiorno. Mi sorprende perciò
che tanta boria giunga a piegarsi tanto docilmente da farsi comandare da
Cominio. BRUTO - La fama, cui palesemente aspira, e che già gli ha concesso i
suoi favori, non c’è mezzo migliore per serbarla intatta ed anche accrescerla
che operare in un posto dopo il primo; così quando le cose vanno male, sarà
colpa del comandante in capo, abbia pur egli fatto tutto il meglio ch’è
possibile a un uomo; ed a quel punto gl’immancabili stupidi censori si daranno
a gridar di Caio Marcio: “Ah, se l’avesse comandata lui quest’impresa!”.
SICINIO - Se invece vanno bene, la voce della pubblica opinione, ch’è già così
favorevole a Marcio, defrauderà Cominio d’ogni merito. BRUTO - E così la
metà di tutti i meriti che spettano a Cominio andranno a Marcio, senza che
questo li abbia meritati. SICINIO - Ma muoviamoci. Andiamo un po’ a sentire che
cosa si decide per la guerra e come intende lui, col suo carattere,
avventurarsi in questa impresa. BRUTO - Andiamo. (Escono) SCENA Corioli, il
Senato Entra TULLO AUFIDIO con alcuni SENATORI PRIMO SENATORE - Così, tu pensi,
Aufidio, che quei di Roma siano a conoscenza dei nostri piani e delle nostre
mosse? AUFIDIO - E voi non lo pensate? Ci fu mai decisione in questo Stato
ch’abbia potuto mandarsi ad effetto prima che Roma se ne impadronisse? Ho
notizie di là abbastanza fresche, meno di quattro giorni, che mi dicono...
Credo d’aver con me il dispaccio... Eccolo (Legge) “Hanno ammassato un poderoso
esercito, “ma non si sa per qual destinazione, “se ad est oppure ad ovest...
“Nella città la carestia è grande, “e nel popolo c’è molto fermento. “Si dice
che Cominio insieme a Marcio, “il vecchio tuo nemico, odiato a Roma “più che da
te, e insieme a Tito Larzio, “un romano di altissimo valore, “saranno i
comandanti designati “di quest’azione, dovunque diretta. “Molto probabilmente
“essa è contro di voi. State in allarme”. PRIMO SENAT. - La nostra armata è in
campo. Eravamo sicuri che da Roma ci sarebbe venuta la risposta)... AUFIDIO -
... a giudicar non certo una follia creder che i vostri piani di
battaglia avessero a tenersi sotto chiave finché non fosse proprio
necessario ch’essi si rivelassero da soli(29); invece, a quanto pare, erano
noti a Roma sin da quando si covavano. Questa brutta scoperta c’impone adesso
d’abbassar la mira, ch’era di prendere molte città prima almeno che Roma
sapesse ch’eravamo scesi in guerra. SECONDO SENAT. - Nobile Aufidio, assumi tu
il comando, raggiungi le tue truppe, e lascia a noi di difender Corioli. Se
s’accampasser qui davanti a noi, porta su le tue forze per cacciarli. Ma penso
ch’essi, lo vedrai tu stesso, non si preparano contro di noi. AUFIDIO - Ah, su
ciò non illuderti. Le mie notizie son di fonte certa. Dirò di più, già alcuni
scaglioni del loro esercito stanno marciando, e soltanto per questa direzione.
Mi congedo, signori. Se Marcio ed io dovessimo incontrarci, ci siamo già
giurati di combattere fin che un non soccomba. TUTTI - Il ciel t’assista!
AUFIDIO - E protegga le vostre signorie. PRIMO SENAT. - Addio! SECONDO SENAT. -
Addio! TUTTI - Addio! (Escono tutti, i Senatori da una parte, Aufidio
dall’altra) SCENA III - Roma, la casa di Caio Marcio VOLUMNIA e VIRGINIA
siedono intente a cucire VOLUMNIA - Canta, figlia, ti prego, o almeno mostrati
un po’ meno triste! Se Marcio invece d’essere mio figlio fosse mio sposo, sarei
più felice di saperlo lontano a farsi onore, che averlo a letto a
gustarne gli amplessi, per quanto amore egli potesse effondere. Quand’era ancora
un tenero fanciullo, e l’unico rampollo del mio ventre, e la sua fascinosa
giovinezza gli attirava gli sguardi della gente; quando una madre, neppure se
un re l’avesse scongiurata un giorno intero, se lo sarebbe fatto allontanare
dalla vista nemmeno per un’ora, io, presaga da allora della gloria cui uno come
lui era votato (ché se brama d’onor non lo animasse, sarebbe stato nulla più
che un quadro da restare appiccato alla parete), ero felice di lasciarlo andare
in cerca di pericolo, dovunque egli potesse incontrar fama. E lo mandai ad una
cruda guerra, dalla quale però fece ritorno col capo cinto di foglie di
quercia. Ti dico, figlia, che di tanta gioia non sussultai sentendo il primo
annuncio che avevo partorito un figlio maschio, quanta fu a veder la prima
volta qual uomo vero egli s’era mostrato. VIRGINIA - E se fosse caduto in
quell’impresa, madre, che avreste fatto? VOLUMNIA - Avrei serbato al posto di
mio figlio la gloria del suo nome, e in essa avrei ritrovato mio figlio. Senti
quel che ti dico, cuore in mano: avessi pur dodici figli maschi, tutti
egualmente amati, e nessuno di loro meno caro del tuo e mio buon Marcio,
preferirei vederne morir undici nobilmente, in difesa della patria, che saperne
uno solo dissipare la vita nei piaceri, lontano dalle fatiche di guerra. Entra
un’ANCELLA ANCELLA - Padrona, è qui la nobile Valeria, per farti visita.
VIRGINIA - Madre, ti supplico, dammi licenza, vorrei ritirarmi. VOLUMNIA
- Niente affatto, non devi. Mi par già di sentire qui, vicino, il rullo dei
tamburi del tuo sposo, e di vederlo che trascina in terra, presolo pei capelli,
quell’Aufidio, ed i Volsci fuggire innanzi a lui come bambini alla vista
dell’orso... E vederlo che pesta i piedi a terra, così, e gridare: “Avanti,
voi, vigliacchi! Figli della paura, e non di Roma!” e asciugarsi la fronte
insanguinata con una mano inguantata di ferro, ed avanzar pel campo di
battaglia simile a un mietitore che s’imponga di mieter tutto il campo per non
perder la paga giornaliera. VIRGINIA - La fronte insanguinata?... Oh, Giove,
no! VOLUMNIA - Via, sciocca! Il sangue s’addice ad un uomo meglio dell’oro
sopra il suo trofeo(33). I seni d’Ecuba giovane sposa che allattavano Ettore
bambino non erano più belli della fronte di lui quando, sprezzante, schizzava
sangue per le greche spade. (All’ancella) Va’, di’ a Valeria che siamo qui
pronte a darle il benvenuto in casa nostra. (Esce l’ancella) VIRGINIA -
Proteggano gli dèi il mio signore dal terribile Aufidio. VOLUMNIA - Sarà lui,
che schiaccerà del fero Aufidio il capo col suo ginocchio e il collo col suo
piede. Rientra l’Ancella con VALERIA e un servo di questa VALERIA - Buongiorno
a voi, mie donne! VOLUMNIA - Cara amica! VIRGINIA - Son lieta di vederti.
VALERIA - Come state? Brave massaie, vedo. Un bel lavoro: che ricamate?...
E il bimbo come sta? VIRGINIA - Sta bene, buona amica, ti ringrazio. VOLUMNIA -
Preferirebbe stare tutto il giorno a veder spade ed udire tamburi, piuttosto
che star dietro al suo maestro. VALERIA - Parola mia, il figlio di suo padre!
Un frugoletto stupendo, davvero. Vi dirò, sono stata ad osservarlo mercoledì
scorso per una mezz’ora: che piglio risoluto! A un certo punto l’ho visto
correr dietro a una farfalla dalle alucce dorate; l’acchiappò, poi la lasciò
andar libera di nuovo, e lui di nuovo dietro, ruzzolando su e giù, e
rialzandosi, finché riesce ad acchiapparla ancora; e là, o l’avesse urtato il
ruzzolone, o che cos’altro, la serra tra i denti, così, e la sbrana. E come
l’ha ridotta, non vi dico. VOLUMNIA - Gli scatti di suo padre! VALERIA – È così,
vero, un bimbetto di razza. VIRGINIA - Un monello, mia cara. VALERIA - Via,
mettete da parte quel ricamo. Vo’ farvi fare, questo pomeriggio con me la parte
di massaie oziose. VIRGINIA - No, mi dispiace, non mi va uscire. VALERIA - Non
vuoi uscire? VOLUMNIA - Uscirà, uscirà! VIRGINIA - Davvero, no, perdonami,
Valeria, ma ho deciso di non varcar quell’uscio finché non sia tornato il mio
signore dalla guerra. VALERIA - Ma via, è irragionevole. che tu t’imponga un
simile confino. Su, devi pur deciderti a far visita a quell’amica che sta per
sgravarsi. VIRGINIA - Le faccio voti d’un felice parto e le sto accanto
con le mie preghiere; ma visitarla, adesso, no, non posso. VOLUMNIA - Perché?
VIRGINIA - Non per sottrarmi ad un fastidio, e tanto meno per poca affezione.
VALERIA - Vuoi farti proprio una nuova Penelope. Dicon però che tutta quella
lana ch’ella filò nell’assenza di Ulisse non servì che a riempir di tarme
Itaca. Eh, vorrei tanto che questa tua tela fosse sensibile come il tuo dito,
così potresti, almeno per pietà, smettere di bucarla con quell’ago! Su, devi
uscir con noi. VIRGINIA - No, cara amica, perdonami, ma io non uscirò. VALERIA
- Senti, se vieni, sulla mia parola, ti fornirò eccellenti notizie di tuo
marito. VIRGINIA - Ah, mia buona amica, è troppo presto ancora per averne.
VALERIA - T’assicuro, non scherzo. Ne abbiamo ricevute ieri sera. VIRGINIA -
Parli sul serio? VALERIA - In sacra verità. Ne ho sentito parlare un senatore.
Son queste: i Volsci sono scesi in campo, contro di loro è partito Cominio con
una parte delle nostre forze. Con l’altra tuo marito e Tito Larzio sono
accampati davanti a Corioli, la loro capitale. Son sicuri di prenderla, e
concludere presto la campagna. La notizia è sicura, sul mio onore. E dunque
avanti, non farti pregare, vieni con noi. VIRGINIA - Ti chiedo ancora scusa,
mia cara. Un’altra volta, tutto quello che vuoi, te lo prometto. VOLUMNIA
- Evvia, lasciala stare! Con l’umore che adesso si ritrova non farebbe che
rattristar noi pure. VALERIA - Lo penso anch’io. (A Virginia) Allora,
arrivederci. (A Volumnia) Andiamo, cara amica. (Volgendosi di nuovo a Virginia)
Evvia, ti prego, caccia la mutria, vieni via con noi. VIRGINIA - No, non
insistere. Non esco e basta. V’auguro buon divertimento. VALERIA - Addio.
(Escono Volumnia e Valeria. Virginia si richina sul ricamo) SCENA
L’accampamento romano davanti a Corioli Entrano CAIO MARCIO e TITO LARZIO con
un seguito di ufficiali e soldati con tamburi e vessilli. Un MESSAGGERO si fa
loro incontro. MARCIO - Arrivano notizie. Scommetto che si sono già scontrati.
LARZIO - Il mio cavallo contro il tuo che no. MARCIO - Accettato. LARZIO -
D’accordo, affare fatto. MARCIO - (Al Messaggero) Di’, s’è scontrato il nostro
generale col nemico? MESSAGGERO - Si trovano già in vista l’un dell’altro, ma
scontro ancora niente. LARZIO - Il tuo cavallo è mio! MARCIO - Te lo ricompro.
LARZIO - Nient’affatto, né te lo do in regalo. Te lo do in prestito per
cinquant’anni. (Al Trombettiere) Appella a parlamento la città. MARCIO -
(Al Messaggero) Quanto distan da qui i due eserciti? MESSAGGERO - Un miglio e
mezzo circa, non di più. MARCIO - Allora sentiremo il loro allarme d’inizio
della mischia, ed essi il nostro. Ora, Marte, ti prego, facci concludere alla
svelta qui, sì che da qui possiamo poi marciare, con le daghe di sangue ancor
fumanti, in aiuto dei nostri amici in campo. (Al Trombettiere) Avanti, la tua
squilla. (Tromba a parlamento. Sugli spalti delle mura di Corioli appaiono due
SENATORI con altra gente) (Ai due Senatori volsci) Tullo Aufidio è in città?
PRIMO SENATORE - No, né c’è uomo qui che men di lui vi tema: vale a dir meno
che niente. (Rullo di tamburi in lontananza) Ecco i nostri tamburi che chiamano
a battaglia i nostri giovani. E noi, piuttosto che lasciarci chiudere come in
trappola dentro queste mura, le abbatteremo. Queste nostre porte che sembrano
sbarrate fortemente, le abbiam fermate appena con dei giunchi. Si apriranno da
sé. (Frastuono di carica guerresca in lontananza) Laggiù, sentite? Aufidio è
là; potete immaginarlo il bel lavoro ch’egli sta facendo in mezzo al vostro
dimezzato esercito(35). MARCIO - Oh, s’azzuffano! LARZIO - Questo lor clamore
sia il nostro segnale. Qua le scale! (Soldati volsci escono improvvisamente
dalle mura) MARCIO - Non ci temono, questi, anzi, vedete, ci fanno addirittura
una sortita! Avanti allora, scudi avanti al cuore, e col cuore più saldo degli
scudi, all’assalto, mio valoroso Tito! Costoro mostrano d’averci a
spregio più di quanto potessimo pensare; e ciò mi fa sudare dalla rabbia!
All’assalto, all’assalto, miei soldati! Il primo che indietreggia, lo prenderò
per un soldato volsco, e gli farò assaggiare la mia spada! (Allarme di
battaglia. I Romani sono respinti sulle loro posizioni) (Marcio esce
combattendo, poi rientra, infuriato, gridando) Ah, vergogna di Roma! Branco
di... Vi s’attacchino addosso tutti i mali più pestilenti d’Africa! Carogne! Vi
ricoprano pustole e bubboni, sì che ancor prima di guardarvi in faccia vi
possiate infettar l’un con l’altro a un miglio di distanza controvento! Anime d’oca
dentro umane forme! Come avete potuto indietreggiare davanti a un’accozzaglia
di straccioni che perfino le scimmie sarebbero capaci di sconfiggere? Per
Plutone e l’inferno siete feriti tutti nella schiena, con le facce slavate per
la fuga e la paura che vi fa tremare! Pensate a riscattarvi, scellerati!
Ricacciateli indietro, o, per il cielo, mollo il nemico e vi combatto contro!
V’ho avvertiti. Tenete duro! Avanti! E li ricacceremo alle lor tane, in
braccio alle lor mogli, così com’essi ci hanno ricacciati alle nostre trincee.
Su, dietro a noi! (Altra carica. Questa volta i Romani hanno la meglio, i
Volsci sono volti in fuga, e Marcio li insegue da solo fino alle porte della
città) Ecco, le porte adesso sono aperte. Dimostratevi buoni inseguitori. A chi
insegue le apre la Fortuna, le porte, non a chi se la dà a gambe! Guardate me,
e fate come me. (Entra da solo in Corioli) PRIMO SOLDATO - (Arrestandosi cogli
altri davanti alla porta ancora aperta) È prodezza da folle, io non lo
seguo. SECONDO SOLD. - E io nemmeno. (Improvvisamente la porta si chiude)
Toh, guardalo là! L’han chiuso dentro. TUTTI – È in trappola, sicuro! Entra
TITO LARZIO LARZIO - Che succede di Marcio? TUTTI - Ucciso, generale, non c’è
dubbio. PRIMO SOLDATO - Stava inseguendo quelli che fuggivano, è entrato
insieme a loro, e quelli, subito, gli hanno richiuso la porta alle spalle. È
solo, contro tutta la città. LARZIO - Oh, nobile collega! Tu che
sensibilmente(36) in audacia superi l’insensibile tua spada, e resisti, se pur
essa si piega! Tu sei perduto, Marcio! Un diamante della più pura luce(37) e
dello stesso peso del tuo corpo non sarebbe gioiello più prezioso! Tu eri, come
nessun altro a Roma, il soldato voluto da Catone(38), fiero e tremendo non solo
a colpire, ma cui bastava solo un truce sguardo e un grido della tua voce di
tuono, per incuter tal tremito al nemico, come se tutto il mondo fosse preso
subitamente da tremor febbrile. Entra MARCIO, sanguinante, inseguito da soldati
volsci PRIMO SOLDATO - Oh, generale, guarda, guarda là! Ma quello è Marcio!
Corriamo a salvarlo, o qui si muore tutti insieme a lui! (Zuffa. I Romani
sopraffanno i Volsci ed entrano tutti in Corioli) SCENA V - Corioli, una strada
Entrano alcuni legionari romani recando in mano delle spoglie di guerra PRIMO
SOLDATO - (Mostrando un oggetto d’argento) Io questa roba me la porto a
Roma. SECONDO SOLD. - E io con quest’altra. TERZO SOLDATO - (Gettando via
il proprio bottino) Accidentaccio!... Questo l’avevo preso per argento! (In
lontananza, il fragore di cariche che continuano) Entra CAIO MARCIO,
sanguinante, con TITO LARZIO e un trombettiere. Al vederli, i soldati con le
spoglie di guerra escono. Marcio si ferma a seguirli con lo sguardo. MARCIO -
Eccoli là, questi eroi da strapazzo! L’onore di soldato(40) per costoro non
vale più d’una dracma crepata(41). Ferri vecchi, cuscini, cucchiaiacci,
giaccacce lise che perfino il boia seppellirebbe con chi le portava(42),
saccheggian tutto, questi manigoldi, tutto imballano, per portarlo a casa,
prima ancora che cessi la battaglia! Che crepassero tutti!... Senti, senti che
chiasso leva di là il generale(43)! A lui adesso! Là c’è un uomo, Aufidio,
ch’io odio sovra ogni altra cosa al mondo, e sta facendo strage di Romani!
Perciò, trattieniti, mio prode Tito, quanti soldati credi che ti servano per
tener la città; io, nel frattempo, con quelli che hanno l’animo di farlo,
accorro a dare man forte a Cominio. LARZIO - Ma tu sanguini, mio nobile Marcio.
Già troppo dura prova hai sostenuto, per combattere ancora. MARCIO - Niente lodi.
Quel che ho fatto non m’ha manco scaldato. Perdere un po’ di sangue, col mio
fisico, fa più bene che male. Voglio apparir così davanti a Aufidio, e battermi
con lui. LARZIO - Possa allora la bella dea Fortuna innamorarsi di te
follemente, e con la forza dei suoi incantesimi sviar da te le spade dei
nemici, ed il Successo diventar tuo paggio. MARCIO - E a te non meno sia il
Successo amico di quanto l’è a coloro cui Fortuna decide di portare in
alto. Addio. (Esce) LARZIO - Nobile Marcio! (Al trombettiere) Va’, recati al
Foro e chiama con la tromba a parlamento tutti i notabili della città: che
s’adunino in piazza, per conoscere i nostri intendimenti. (Escono) SCENA VI -Il
campo di Cominio Entra COMINIO alla testa di soldati romani in ritirata COMINIO
- Alt, riprendete fiato, miei soldati! Vi siete ben battuti! Ne siamo usciti
fuori da Romani, senza resistere spavaldamente, senza vigliaccamente ritirarci.
Ci attaccheranno ancora, son sicuro. Mentre ci scontravamo, di quando in
quando, portate dal vento, si sentivan le cariche dei nostri dall’altra parte.
Che gli dèi di Roma li vogliano guidare alla vittoria, come speriamo vogliano
con noi, così che al fine entrambi i nostri eserciti, incontrandosi col sorriso
in fronte, possano offrirvi, o dèi, i sacrifici di ringraziamento! Entra un
MESSAGGERO Che nuove porti? MESSAGGERO - Quelli di Corioli, han fatto
all’imprevisto una sortita e hanno dato battaglia a Larzio e Marcio. Ho visto
io stesso i nostri che venivano ricacciati indietro nelle loro trincee; e son
partito. COMINIO - Sarà come tu dici, ma non mi pare sia proprio così. Da
quanto tempo sei venuto via? MESSAGGERO - Da più di un’ora. COMINIO - Ma
da qui a Corioli non c’è nemmeno un miglio di distanza, e da poco si sono uditi
qui i lor tamburi. Come hai tu potuto metterci un’ora a percorrere un miglio, e
recar così tardi il tuo messaggio? MESSAGGERO - Sulle mie tracce alcune spie
dei Volsci m’hanno dato la caccia, e m’ha costretto a fare un giro di tre o
quattro miglia, per evitarle; se no, generale, t’avrei recato già mezz’ora fa
il mio messaggio. Entra MARCIO dal fondo Ma chi è laggiù, che par come se
l’abbian scorticato? O dèi! Dalla figura sembra Marcio! L’ho visto già altre
volte in quello stato. MARCIO - (Da lontano) Arrivo troppo tardi? COMINIO – È
la sua voce. Saprei distinguerla da altre mille, meglio di quanto non sappia il
pastore il fragore di un tuono da un tamburo. MARCIO - (Avvicinandosi) Arrivo
troppo tardi? COMINIO - Sì, se quel sangue che t’ammanta tutto, è sangue tuo, e
non sangue nemico(45). MARCIO - Ah, lascia ch’io ti abbracci forte, Cominio, e
con la stessa gioia con la quale abbracciai la mia ragazza al declinar del
giorno delle nozze, quando ardenti bruciavano le fiaccole a farmi luce sulla
via del talamo! COMINIO - Fior di tutti i guerrieri! E Tito Larzio, che mi dici
di lui? MARCIO - Ch’è tutto preso ad emanar decreti di giustizia, chi
condannando a morte, chi all’esilio, di chi accettando il prezzo del
riscatto, con chi indulgente, con chi rigoroso; tiene Corioli, nel nome
di Roma, al guinzaglio, come un levriero docile da lasciar libero come si
voglia. COMINIO - (Volgendosi intorno) Dov’è quel miserabile che poc’anzi è
venuto ad annunciarmi che il nemico v’aveva ricacciati nelle vostre trincee?...
Dov’è? Chiamatelo! MARCIO - Lascialo stare. T’ha informato bene. A parte i
nobili, la bassa forza - peste li colga! E gli han dato i tribuni! - son
fuggiti, come da gatto sorcio, davanti a scalcagnati più di loro. COMINIO - E
come avete fatto a prevalere? MARCIO - C’è tempo per spiegartelo? Non credo. Ma
il nemico dov’è? Siete rimasti, a quanto pare, padroni del campo. Se no, perché
cessaste di combattere? COMINIO - Finora, Marcio, abbiamo combattuto in una
posizione di svantaggio, e ci siam ritirati di proposito, per poi rifarci e
vincerli. MARCIO - Sai com’hanno schierato il loro esercito? E dove han messo
gli uomini migliori? COMINIO - Da quel che m’è dato indovinare, in prima linea
son quelli di Anzio, che sono i combattenti più affidabili, e li comanda
Aufidio, il vero cuore delle lor speranze. MARCIO - Ti supplico, Cominio, per
le battaglie combattute insieme, per il sangue che insieme abbiam versato, pei
giuramenti che ci siam fatti, fa’ in modo ch’io mi trovi faccia a faccia con
Aufidio e con tutti i suoi Anziati, e non tardare ad attaccar battaglia;
affrontiamoli subito, riempiamo di frecce l’aria, e di spade brandite. COMINIO
- Sarebbe meglio, penso, nel tuo stato, ch’io ti faccia condurre ad un bel
bagno e spalmarti d’unguenti le ferite; ma non saprò giammai negarti
nulla. Scegli tu stesso gli uomini più adatti a secondarti nell’azione. MARCIO
- Saranno solo quelli che mi diranno d’esservi disposti. (Forte, ai soldati) Se
c’è qualcuno qui - e sarebbe peccato dubitarlo - cui piaccia questa tinta
ond’io, vedete, sono imbrattato dalla testa ai piedi; se c’è qualcuno che ha
meno paura di rischiare la vita che il suo nome, che pensa che una morte
valorosa vale più d’una vita senza onore; e che la patria val più che se
stesso, egli solo, o quant’altri in mezzo a voi si trovino a pensarla come lui,
levino in alto il lor gladio, così, per dir che sono pronti a seguir Marcio.
(Tutti, con un grido, agitano in alto i gladii; alcuni sollevano Marcio sulle
loro braccia, altri lanciano in aria i berretti) Di me solo, di me fate una
spada(46)! Se queste vostre manifestazioni non son soltanto mostra, quale di
voi non vale quattro Volsci? Non c’è nessuno che non sia capace d’opporre al
grande Aufidio uno scudo robusto come il suo. Io vi ringrazio tutti, ma tra voi
debbo scegliere solo un certo numero. Gli altri daranno prova in altra impresa,
quando se ne presenti l’occasione. Ora vi piaccia di sfilarmi innanzi in
bell’ordine, sì ch’io possa scegliere subito quelli più adatti a seguirmi.
COMINIO - In marcia, miei soldati! Date prova d’avere quel coraggio che avete
sì altamente proclamato, e ciascuno dividerà con noi la sua parte di rischi e
di bottino. (Escono marciando) SCENA Davanti alle porte di Corioli TITO
LARZIO con un tamburino, un trombettiere e una guida è sul punto di partire per
recare aiuto a Cominio e Caio Marcio; con lui è anche un LUOGOTENENTE con altri
soldati LARZIO - (Al Luogotenente) Dunque, le porte siano ben guardate.
Attenetevi agli ordini impartiti. Se lo richiederò, mandate subito quelle
centurie in nostro aiuto. Il resto basterà a tenere per poco la città; per
poco, sì, ché se perdiamo in campo, la città non potremo più tenerla.
LUOGOTENENTE - Va bene, generale, sarà fatto(48). LARZIO - Muoviamo, dunque, e
chiudete le porte dietro di noi. (Alla Guida) Andiamo, battistrada, scortaci
fino al campo dei Romani. (Escono) SCENA - Il campo di battaglia. Allarme
d’assalto Entrano da parti opposte, AUFIDIO e MARCIO MARCIO - Con te e con
nessun altro voglio battermi, ché ti porto un odio quale nemmeno al peggiore
spergiuro. AUFIDIO - Siamo pari. Non c’è serpente in Africa ch’io aborrisca più
della tua fama e della tua rivalità. Difenditi(49)! MARCIO - Il primo che fa un
solo passo indietro muoia schiavo dell’altro, e poi gli dèi lo dannino in
eterno. AUFIDIO - Se mi vedi fuggire, urlami dietro, Marcio, come un cane corre
abbaiando dietro ad una lepre. MARCIO - Tullo, da meno di tre ore, io, da solo
ho combattuto contro tutti dentro le mura della tua Corioli, facendo tutto
quello che ho voluto. Lo vedi questo sangue di cui sono imbrattato? Non è mio.
Chiama a raccolta tutte le tue forze, adesso, se vuoi farne tu vendetta.
AUFIDIO - Fossi tu pure l’Ettore di Troia che della tua altezzosa progenie fu
la frusta(50), stavolta non mi scappi. (Si battono. Soldati volsci accorrono in
aiuto ad Aufidio, ma Marcio li ricaccia tutti indietro) (Ai suoi soldati) Gente
zelante, ma non valorosa, con questo vostro maledetto aiuto m’avete sol coperto
di vergogna! (Escono) SCENA Il campo romano Squilli di tromba come segnali di
carica. Trambusto e cozzo d’armi all’interno. Poi, segnale di ritirata Entra da
una parte COMINIO con l’esercito romano; dall’altra MARCIO con un braccio al
collo COMINIO - Marcio, foss’io a raccontare a te quel che t’ho visto fare oggi
in battaglia, tu stesso non mi presteresti fede. Ma lo riferirò dove saranno a
udirlo senatori che mesceranno lacrime a sospiri ad ascoltarlo: dove grandi
nobili ascolteranno, prima spallucciando tra loro increduli, infine ammirati;
dove matrone, dapprima atterrite, poi trepidanti d’intimo piacere, vorranno
udirmi raccontare ancora; dove gli ottusi, stupidi tribuni, che insieme alla
lor plebe puzzolente t’hanno in odio, dovranno a malincuore pur esclamare:
“Sien grazie agli dèi che Roma ha un tal soldato!”. Senza dire che tu, ad un
tal banchetto sei venuto per dare solo un morso, avendo già mangiato a sazietà.
Entra TITO LARZIO con l’esercito, di ritorno dall’aver inseguito i Volsci in
rotta LARZIO - (A Cominio, indicando Marcio) Generale, il cavallo di battaglia
è lui, noi siamo la sua bardatura. Lo avessi visto!... MARCIO - Evvia,
basta, ti prego! Anche mia madre, che pure ha il diritto di vantar con orgoglio
il proprio sangue, se si mette ad elogiarmi, mi fa male. Ho fatto ciò che avete
fatto tutti, cioè quanto ho potuto, come voi animato da un solo sentimento, l’amor
della mia patria. Chiunque abbia operato con nient’altro che con la propria
buona volontà, ha fatto esattamente come me. COMINIO - Non sarai tu la tomba
dei tuoi meriti(53). Roma deve sapere quanto vali. Tener nascoste al mondo le
tue gesta, sarebbe compiere un trafugamento peggior d’un furto; ammantar di
silenzio qualcosa che quand’anche proclamata sui vertici più alti dell’elogio
apparirebbe ancor ben più modesta della realtà, non è minor delitto d’una
calunnia. Perciò ti scongiuro: per quello che tu sei, e non in premio di quello
ch’hai fatto, ascoltami davanti al nostro esercito. MARCIO - Le ferite ch’ho
addosso mi dolgono a sentirsi ricordare. COMINIO - Potrebbero, se non le
ricordassimo, esulcerate dall’ingratitudine, curarsi da se stesse con la morte.
Di tutti quei cavalli - e ne abbiam catturati d’assai buoni ed in gran numero -
e del bottino conquistato sul campo ed in città, noi ti assegniamo la decima
parte, che potrai scegliere liberamente prima che sia spartito tutto il resto.
MARCIO - No, generale, grazie, ma non potrei convincere il mio cuore ad
accettare un dono sottobanco per pagar la mia spada. Lo rifiuto, e reclamo per
me semplicemente la parte che hanno avuto tutti gli altri ch’hanno partecipato
alla battaglia. (Lunga fanfara(55). Tutti gridano: “Marcio!”, lanciando in aria
i berretti e le lance. Cominio e Larzio restano a capo scoperto) Questi
strumenti che voi profanate non risuonino più così a sproposito! Quando tamburi
e trombe son ridotti, sul campo di battaglia, a strumenti per adulare, allora
si riempian le corti e le città di genti dalle facce false e ipocrite. Quando
l’acciaio si fa così morbido come la seta addosso al parassita, s’elevi questo
a simbolo di guerra(57)! Basta, basta, vi dico! Sol perch’io non mi son lavato
il naso che sanguinava, sol ch’abbia abbattuto qualche misero scarto di natura
- ciò che molti altri han fatto come me senza la minima nota di elogio - ecco
che voi mi portate alle stelle con iperboliche acclamazioni, come s’io fossi un
uomo che tenesse a vedere la pochezza ch’ei sa di essere alimentata dalle lodi
con salsa di menzogne. COMINIO - Tu sei troppo modesto, e più spietato contro
la tua fama che grato a noi che te la tributiamo con tutto il cuore. Con tua
buona pace, però, se sei irritato con te stesso, ti metteremo le manette ai
polsi come ad uno deciso a farsi male, così potremo ragionare insieme senza
incorrere in chi sa quali rischi(58). Perciò sia proclamato a tutto il mondo,
come a noi tutti qui, che Caio Marcio di questa guerra è il vero vincitore(59),
ed io per questa sua benemerenza gli faccio dono del mio bel corsiero, animale
famoso in tutto il campo, e della relativa bardatura. E d’ora in poi per quanto
egli ha compiuto di valoroso davanti a Corioli, con unanime applauso ed un sol
grido, si chiami Caio Marcio “Coriolano”. (A Coriolano) Di questo titolo sii
sempre degno! TUTTI - (Con applausi e suon di trombe e tamburi) Sia gloria a
Caio Marcio Coriolano! CORIOLANO - Ora vado a lavarmi, e sul mio viso poi
che l’avrò pulito, osserverete se me l’avrete fatto o no arrossire. Comunque vi
ringrazio. (A Cominio) Intendo cavalcare il tuo destriero, ed il bel soprannome
che m’hai dato porterò sempre, e nel modo più degno, in cima al mio cimiero.
COMINIO - Ora torni ciascuno alla sua tenda: io, nella mia, prima di riposare,
scriverò a Roma del nostro successo. Tu, però, Tito Larzio, è necessario che
torni a Corioli, e mandi a Roma i loro più autorevoli, coi quali, per il bene
loro e nostro, si possa negoziare. LARZIO - Lo farò. CORIOLANO - Gli dèi cominciano
a prendermi a gioco: ho appena rifiutato d’accettare doni degni d’un principe,
ed eccomi costretto a mendicare qualcosa dal mio comandante in capo. COMINIO -
Già concessa, è tua. Di che si tratta? CORIOLANO - Io, a Corioli, più d’una
volta fui ospite di un certo pover’uomo che mi si dimostrò molto cortese. L’ho
visto adesso qui, tra i prigionieri, che mi gridava aiuto; in quell’istante
però m’è apparso innanzi agli occhi Aufidio, e l’ira ha sopraffatto la pietà.
Ecco, ti chiedo di lasciare libero quel mio buon ospite. COMINIO - E bene hai
chiesto! Fosse pur l’assassino di mio figlio, libero se n’andrebbe, come
l’aria. (A Larzio) Rilàsciaglielo, Tito. LARZIO - Il nome, Marcio? CORIOLANO -
Per gli dèi, me lo son dimenticato! Sono stanco, ho la mente affaticata... Non
avreste del vino? COMINIO - Alla mia tenda, Marcio, andiamo, vieni. Il
sangue sulla faccia ti si secca. Pensiamo intanto a questo, adesso. Vieni.
(Escono) Il campo dei Volsci Fanfara di cornette. Entra AUFIDIO tutto coperto
di sangue, con dei soldati AUFIDIO - La città è presa. PRIMO SOLDATO - Ce la
renderanno a buone condizioni. AUFIDIO - Condizioni!... Romano vorrei essere,
ché da volsco non sono più me stesso! Condizioni!... Che buone condizioni può
portare una resa a discrezione alla parte ch’è alla mercé dell’altra? O Marcio,
ho combattuto cinque volte con te, e cinque volte tu m’hai vinto; e faresti
altrettanto, son sicuro, c’incontrassimo pure tante volte quante ogni giorno ci
sediamo a mensa. Ma, pel cielo e la terra!, se accadrà ch’io mi trovi un’altra
volta faccia a faccia con lui, o io o lui! Il mio spirito di rivalità ha
perduto ogni scrupolo d’onore; ché, se prima pensavo di schiacciarlo ad armi
pari, spada contro spada, ora, sia l’ira a darmelo o l’astuzia, non più,
qualsiasi mezzo sarà buono a spacciarlo. PRIMO SOLDATO – È il diavolo in
persona. AUFIDIO - Più ardito, anche, se pur meno furbo. Il mio valore è come
avvelenato solo a soffrire d’essere oscurato per colpa sua; e per causa di lui
sarà costretto a fuggir da se stesso(62). Non ci sarà né sonno né
santuario(63), sia nudo o infermo, non ci sarà tempio né Campidoglio, non sacre
preghiere né cerimonia d’offerta agli dèi, - tutti freni al furore scatenato -
ad arginare l’odio mio per Marcio in forza del lor marcio privilegio e
dell’usanza che ancor li sostiene. Dovunque me lo trovi innanzi agli
occhi, foss’anche a casa mia, pure là, l’avesse pur mio fratello in custodia,
contro ogni legge d’ospitalità, laverò la mia mano inferocita nel suo cuore...
Tu ora va’ in città, informati in che modo è presidiata e chi son quelli
ch’essi hanno prescelto per inviarli a Roma come ostaggi. PRIMO SOLDATO - Tu
non ti muovi? AUFIDIO - Sì, sono aspettato al bosco dei cipressi. Là, ti prego
(è a sud della città, dopo i mulini) fammi sapere come stan le cose, ch’io
possa regolarmi su quale corso muovere i miei passi. PRIMO SOLDATO - E così
sarà fatto, comandante. (Escono) ATTO SCENA Roma, una piazza Entrano MENENIO e
i tribuni SICINIO e BRUTO, incontrandosi MENENIO - L’augure dice che per questa
sera avremo novità. BRUTO - Buone o cattive? MENENIO - Non certo tali da
piacere al popolo, che non vuol bene a Marcio. SICINIO - Natura insegna pure
agli animali a conoscere chi è loro amico. MENENIO - Già, guarda, infatti: a
chi vuol bene il lupo? SICINIO - All’agnello. MENENIO - Sì, appunto: per
sbranarselo; come vorrebbero fare con Marcio gli affamati plebei. BRUTO -
Quello è un agnello però che bela come un orso. MENENIO - Un orso, che vive
tuttavia come un agnello. Beh, voi siete due uomini maturi, ditemi solo questo.
I DUE TRIBUNI - Ossia, che cosa? MENENIO - Che vizi possono imputarsi a Marcio,
che voi due non abbiate in abbondanza? BRUTO - Nessuno gliene manca; anzi, di
tutti, si può dir che possieda ampia provvista. SICINIO - Specialmente di boria.
BRUTO - E di alterigia come nessun altro. MENENIO - Ah, questo sì che è buffo!
Lo sapete voi due come vi giudicano in città... Sì, qui, dico, in mezzo a noi
della fila di destra(67)? Lo sapete? I DUE TRIBUNI - Ebbene, come siamo
giudicati? MENENIO - Voi che parlate tanto d’alterigia... se ve lo dico non
andrete in collera? I DUE TRIBUNI - Bene, allora?... MENENIO - Del resto, poco
male, tanto si sa che a voi basta un’inezia per farvi uscire dai
gangheri(68)... Ma sì, lasciate pur andar la briglia sciolta sul collo ai
vostri permalosi umori, e andate in collera quanto vi pare, se ci provate
gusto!... Proprio voi, accusar d’alterigia Caio Marcio? BRUTO - Non siamo i
soli. MENENIO - Ah, questo lo so bene! Da soli voi sapete far ben poco; ed è
perché son tanti ad aiutarvi che riuscite a fare anche quel poco: troppo
infantili sono i vostri mezzi perché riusciate a far molto da soli. E venite a
parlare d’alterigia! Ah, poteste rivolger gli occhi in dentro, nei
meandri dei vostri cervicali e fare un bell’esame di coscienza! Magari lo
poteste! BRUTO - Ebbene, allora? MENENIO - Allora scoprireste un’accoppiata di
magistrati scialbi, senza meriti, e tuttavia boriosi, prepotenti, lunatici,
bizzosi, e insomma stolidi, come non ce n’è a Roma nessun altro. SICINIO - Va’
là, Menenio, che anche tu sei noto... MENENIO - Sì, lo so, sono noto per essere
un patrizio un poco estroso, al quale piace un buon bicchier di vino(69) non
annacquato nell’acqua del Tevere; uno di cui si dice che ha il difetto di dar
ragione al primo che reclama; uno che prende fuoco facilmente; uno che bazzica
più volentieri il nero deretano della notte che non la chiara fronte del
mattino. Io quel che ho dentro ce l’ho sulla bocca e la malizia m’esce via col
fiato. Se mi trovo con due politici (che non posso dir certo due Licurghi(70) )
come voi, e volete darmi a bere qualcosa ch’è sgradito al mio palato, fo
boccacce. Non posso certo dire che le signorie vostre han detto bene una cosa,
se in ogni vostra sillaba io trovo tutto un concentrato d’asino(71). E se
sopporto con rassegnazione chi mi dice che siete uomini seri e rispettabili,
dico ch’è un bugiardo chiunque dica che le vostre facce. son facce oneste. E
ammesso che voi due riusciate a legger questo sulla mappa del microcosmo della
mia persona, ne segue forse che possiate dire di conoscermi bene? E se pur
fosse, qual difetto riescono a discernere le vostre miopi facoltà visive in
questa mia natura? BRUTO - Via, Menenio, pensiamo di conoscerti
abbastanza! MENENIO - No, voi non conoscete né Menenio, né voi stessi, né
niente! Siete solo ambiziosi di scappellate e inchini dalla parte di misere
canaglie. Siete capaci di buttare ai cani il tempo d’una intera mattinata ad
ascoltare la banale bega tra un’ortolana e un venditor di zaffi, per rinviare
poi ad altra udienza quella controversiuccia da tre soldi. E se, mentre sedete
ad ascoltare in una lite l’una e l’altra parte, v’accade d’esser colti dalla
strizza d’andar di corpo, fate mille smorfie, da somigliare a delle marionette,
innalzate bandiera rosso-sangue(74) contro chiunque non voglia aspettare, e,
bofonchiando in cerca d’un pitale, lasciate lì la causa nel bel mezzo, a
sanguinar più imbrogliata di prima; col risultato che la conclusione che sarete
riusciti ad apportare alla vertenza sarà stata in tutto l’aver chiamato
entrambi i litiganti “farabutti”. Che bella coppia, siete! BRUTO - E tu? Va’ là
che tu sei meglio noto come un brillante pigliaingiro a tavola che come un
altrettanto indispensabile occupante d’un seggio in Campidoglio! MENENIO -
Perfino i nostri bravi sacerdoti devono diventar delle linguacce se son
costretti ad aver a che fare con tipi della vostra bassa tacca. Quel che sapete
dire di più acconcio non vale l’agitarsi che nel dirlo fanno le vostre barbe;
quelle barbe che non meritan fine più onorata che d’andare a servir da
imbottitura al cuscino di qualche tappezziere o d’esser chiuse dentro a un
basto d’asino(79). E tuttavia dovete andar dicendo a destra e a manca che
Marcio è superbo; lui, che a stimarlo poco, val più di tutti i vostri antecessori
presi insieme, da Deucalione in giù(80); anche se casualmente, tra coloro, ci
sia stato qualcuno, tra i migliori, col mestiere di boia ereditario. Ma buona
sera alle eccellenze vostre; ché a star ancora a discuter con voi,
mandriani del plebeo bestiale armento, c’è rischio d’infettarsi le cervella. Fa
per allontanarsi, quando vede arrivare VOLUMNIA, VIRGINIA e VALERIA. Bruto e
Sicinio si fanno da parte mentre Menenio va loro incontro Oh, le mie belle e
nobili matrone! Non sarebbe più nobile la Luna, se mai fosse terrena creatura.
Dov’è che indirizzate in tanta fretta i vostri passi? VOLUMNIA - Nobile
Menenio, sta per giungere qui mio figlio Marcio. Lasciaci andare, per Giove e
Giunone! MENENIO - Ah, Marcio torna a casa? VOLUMNIA - Sì, Menenio, e accompagnato
dal più vivo applauso, e dai migliori auspici. MENENIO - (Gettando in aria il
berretto in segno di gioia) Oh allora, Giove, prenditi il mio berretto, e ti
ringrazio! Dunque, Marcio ritorna? VIRGINIA E VALERIA - Sì, Menenio. VOLUMNIA -
Guarda, ho qui una sua lettera; un’altra l’ha il Senato, una sua moglie; e ce
n’è un’altra, credo, anche per te, a casa tua. MENENIO - Per me? Una sua
lettera?... Uh, uh, stanotte, per tutti gli dèi, mi metto a far ballar tutta la
casa! VIRGINIA - Proprio così, una lettera per te. L’ho vista con i miei occhi.
MENENIO - Una sua lettera! Mi regala sette anni di salute! Per sette anni farò
boccacce al medico! A fronte d’una tale medicina, la ricetta più eccelsa di
Galeno è uno specifico da ciarlatano! Peggio d’un beverone da cavallo! Non è
mica ferito?... Perché sempre tornò a casa ferito le altre volte.
VIRGINIA - Oh, no, no, no, no, no! VOLUMNIA - Ferito, sì, ed io di ciò rendo
grazie agli dèi. MENENIO - Anch’io, se non lo sia di troppo grave... Le ferite
stan bene a chi si porta la vittoria in tasca. VOLUMNIA - Lui se la porta in
fronte, la vittoria, ed è la terza volta che mi torna col capo cinto di foglie
di quercia! MENENIO - E Aufidio? L’ha sistemato a dovere? VOLUMNIA - Secondo
quanto scrive Tito Larzio, si son scontrati, ma quello è scappato. MENENIO - E
per fortuna sua, gliel’assicuro! Ché se fosse rimasto, io, al suo posto, non mi
sarei voluto “aufidizzare” per tutto l’oro che sta custodito dentro le
casseforti di Corioli. Il Senato è informato? VOLUMNIA - (A Virginia e Valeria)
Andiamo, donne. VALERIA - Oh, sì, di lui si dicon meraviglie. MENENIO -
Meraviglie! Ma certo! E tutte vere(83), garantito! VIRGINIA - Così voglion gli
dèi! VOLUMNIA - Che siano vere? Toh, sentite questa! MENENIO - Che siano vere,
son pronto a giurarlo. Dov’è ferito?... (S’interrompe vedendo avvicinarsi i due
Tribuni) Vostre signorie, che Dio le salvi, Marcio sta tornando, ed ha ancor
più ragioni, questa volta, d’esser superbo. (Alle due donne) Dov’è ch’è ferito?
VOLUMNIA - Alla spalla ed al braccio, qui, a sinistra. Ce ne saran di belle
cicatrici da scodellare al popolo quando concorrerà per la sua carica!
Sette ne ha ricevute per il corpo nel cacciare Tarquinio. MENENIO - Un’altra al
collo, altre due alla coscia, e fanno nove, ch’io conosca. VOLUMNIA - Ne aveva
venticinque quando è iniziata questa spedizione. MENENIO - Sicché con queste
fanno ventisette: e ogni tacca la tomba d’un nemico. (Uno squillo di tromba,
poi fanfara da dentro, con clamori di popolo) Ecco le trombe. VOLUMNIA - Sono i
suoi araldi. Egli si porta innanzi a sé i clamori, dietro si lascia lacrime.
Nel suo possente braccio sta di stanza il tenebroso spirito, la Morte. Esso
avanza con lui, con lui colpisce, e gli uomini periscono(86). Fanfara. Entrano,
in pompa, COMINIO e TITO LARZIO, in mezzo a loro CORIOLANO cinto il capo di
foglie di quercia, indi ufficiali, soldati e un ARALDO ARALDO - Sappia Roma che
Marcio ha combattuto, lui solo, tra le mura di Corioli, dove s’è guadagnato,
con la gloria, un nome: Coriolano, che va aggiunto, quale segno d’onore, d’ora
in poi, a quello suo. Sii benvenuto a Roma, illustre Caio Marcio Coriolano!
TUTTI - Benvenuto, illustre Coriolano! CORIOLANO - Basta! M’offende l’anima. Vi
prego! COMINIO - Guarda, Marcio, tua madre. CORIOLANO - Oh, tu, lo so, hai
pregato gli dèi pel mio successo. (S’inginocchia) VOLUMNIA - No, mio bravo
soldato, alzati, su! Marcio mio nobile, mio degno Caio... ora che t’hanno
dato un soprannome in onore delle tue grandi gesta, come debbo chiamarti...
Coriolano? Mah, oh!, ecco tua moglie! CORIOLANO - (A Virginia) Mio grazioso
silenzio(87), ti saluto! Piangi a vedermi tornar vittorioso, perché? Avresti
atteso, per sorridere, ch’io ti fossi tornato in una bara? Occhi, mia cara,
come questi tuoi hanno a Corioli le madri e le vedove rimaste senza i lor figli
e mariti. MENENIO - E ora t’incoronino gli dèi! CORIOLANO - Anche tu qui,
Menenio(88)? (A Valeria) Oh, mia gentile signora, perdonami. VOLUMNIA - Non so
dove voltarmi... (A Cominio) Generale, ben tornato anche a te... ed a voi
tutti! MENENIO - Bentornati, sì, centomila volte! Mi vien da piangere, mi vien
da ridere, son triste e allegro insieme. (A Coriolano) Bentornato! Un
cancro(90) morda il cuore alla radice a chi non è contento di vederti! Siete
tre uomini che tutta Roma dovrebbe amare; e invece, guarda un po’(91), abbiamo
in casa dei meli selvatici che non si vogliono far innestare al vostro gusto.
Ma, a loro dispetto, bentornati guerrieri! Noi l’ortica chiamiamo ortica, e
chiamiamo sciocchezza l’errore degli sciocchi. COMINIO - Sempre giusto,
Menenio. CORIOLANO - Sempre, sempre. ARALDO - (Alla folla) Largo, largo!
CORIOLANO - (A Volumnia e Virginia, prendendole per mano) La tua mano, e la
tua. Prima di ritirarmi in casa nostra(92), debbo rendere omaggio ai
senatori dai quali insieme col loro saluto ho ricevuto anche nuovi onori.
VOLUMNIA - Sarò vissuta fino a veder oggi realizzati i desideri miei ed
avverate le mie fantasie. Manca solo una cosa, ma non dubito che la nostra Roma
te la concederà. CORIOLANO - Ricordati, però, mia buona madre, che tuo figlio
preferirà comunque d’essere loro servo a modo suo, piuttosto che padrone a modo
loro. COMINIO - Avanti, al Campidoglio! (Trombe. Escono tutti in corteo, meno
BRUTO e SICINIO) BRUTO - Tutte le lingue parlano di lui, ed anche quelli che
han la vista debole si procurano occhiali per vederlo. La balia, per pettegolar
di lui, lascia il proprio marmocchio a urlare e piangere fino a venirgli il
convulso; la sguattera s’appunta attorno al suo bisunto collo la stola più
vistosa e per vederlo s’arrampica sul muro per guardarlo; gremiti stalli,
banchine, finestre; su i tetti, a cavalcioni sui comignoli gente d’ogni colore
e d’ogni risma, tutti presi dall’ansia di vederlo. Persino i flàmini(96) (che
raramente è dato di vedere per la via) si pigiano affannati tra la calca per
conquistarsi un posto in mezzo a loro. Le matrone le delicate guance
solitamente protette da un velo, sulle quali con sfida civettuola lottano il
bianco e il rosa damaschino, espongon oggi al lascivo saccheggio degli
infuocati baci del Dio Sole(98): un’atmosfera così surreale, da far pensar che
un dio, per guidarlo, si sia insinuato furtivo nelle sue facoltà umane, e gli
abbia dato una forma divina. SICINIO - Io, per me, già lo vedo fatto
console. BRUTO - Allora sì che il nostro tribunato potrà dormire i suoi
sonni beati per tutto il suo mandato! SICINIO - Non è uomo capace di tenersi in
quella carica fino al termine. Finirà col perderla. BRUTO - Ciò mi conforta.
SICINIO - Puoi restarne certo. Il popolo, che noi rappresentiamo, non fosse che
per antico rancore, si scorderà, alla minima occasione, di queste nuove sue
benemerenze; e l’occasione l’offrirà lui stesso, cosa ch’io tengo altrettanto
per certa come la sua superbia nell’offrirglielo. BRUTO - L’ho sentito giurare
che se dovesse candidarsi a console, mai lo farebbe scendendo nel Foro, e
nemmeno umiliandosi a indossare la lisa tunica dell’umiltà, né mostrando le sue
ferite al popolo per mendicarne i puzzolenti voti(99). SICINIO - Bene. BRUTO -
Son sue parole. Oh, lui piuttosto vi rinuncerebbe se lo dovesse chiedere
altrimenti che per espressa richiesta dei nobili e per unanime loro volere.
SICINIO - Per me, io non desidero di meglio: si tenga fermo in un tale
proposito, e agisca in conseguenza. BRUTO – È assai probabile che lo farà.
SICINIO - E sarà allora, come ci auguriamo, per lui andare a sicura rovina.
BRUTO - Così dev’essere; se no, per noi sarà la fine del nostro potere. Perciò
sta a noi di ricordare al popolo l’odio ch’egli nutrì sempre per loro; spiegar
a tutti che, fosse per lui, avrebbe fatto di ciascun di loro bestia da soma,
ridotto al silenzio i loro difensori; conculcate le loro libertà: perché
li stima, quanto alla lor capacità di fare, inferiori per facoltà d’intendere
ed attitudine di stare al mondo, ai dromedari usati per la guerra, a cui si
somministrano foraggi sol perché possano portare il carico, salvo ad ucciderli
a bastonate quando sotto quel carico stramazzano. SICINIO - Sì, appunto,
questo, come tu lo dici va ricordato al momento opportuno, quando la tracotante
sua burbanza toccherà il colmo sì da urtare il popolo (e l’occasione non potrà
mancare se saremo noi stessi a trascinarvelo, cosa altrettanto facile quanto
aizzar dei cani contro un gregge); e sarà questa l’esca che d’un colpo accenderà
le loro vecchie stoppie; e la loro fiammata l’oscurerà per sempre. Entra un
MESSAGGERO BRUTO - (Al Messaggero) Che c’è adesso? MESSAGGERO - Vengo a dirvi
di andare in Campidoglio. Sembra che Marcio sarà fatto console. Ho visto fare
ressa, per vederlo, pure i muti, ed i ciechi per udirlo; le matrone gettargli i
loro guanti mentre passava, e donne e giovinette le loro sciarpe, i loro
fazzoletti; i nobili inchinarsi avanti a lui come davanti alla statua di Giove,
e il popol tutto fare pioggia e tuono coi lor berretti in aria e i loro
strilli... Cose mai viste! BRUTO - Andiamo in Campidoglio. Occhi e orecchi
attenti, e cuore pronto a tutto. SICINIO - Eccomi, andiamo. (Escono)
SCENA II -Roma, il Campidoglio Due USCIERI stanno disponendo i cuscini sui
seggi dei senatori PRIMO USCIERE - Su, su, sbrighiamoci. Son qui che arrivano.
Quanti sono a concorrere per console? SECONDO USC. - Dicono tre, ma tutti son
convinti che ad ottenerlo sarà Coriolano. PRIMO USCIERE - Un tipo valoroso, ma
superbo come nessuno; e poi non ama il popolo. SECONDO USC. - Oh, quanto a
questo se ne son ben visti uomini illustri che te l’han lisciato, e mai gli
sono entrati in simpatia; così come altri ch’esso ha benvoluto senza saper
perché. II popolo è così: vuol bene o male a questo o a quello senza una
ragione. Perciò, dunque, riguardo a Coriolano, il fatto ch’egli non tenga alcun
conto s’essi l’abbiano in odio o in simpatia prova solo che li conosce bene, e
glielo lascia intendere ben chiaro con la sua signorile indifferenza. PRIMO
USCIERE - Mah! Se davvero non gliene importasse ch’essi l’abbiano o no in lor
favore, dovrebbe mantenersi in equilibrio, senza far loro né bene né male;
invece va cercando il loro odio più che non faccian essi a ricambiarglielo, e
non trascura nessuna occasione perch’essi possano scoprire in lui apertamente
il loro gran nemico. SECONDO USC. - Ha bene meritato della patria, e va detto
altresì che la sua ascesa non è stata per facili gradini come quella di chi,
facendo mostra di sorrisi e premure per il popolo, è riverito a inchini e
scappellate dallo stesso, senza aver fatto nulla per meritarsene stima e
rispetto. Ma lui è riuscito così bene a imprimere nei lor occhi i suoi meriti e
in tutti i loro cuori le sue gesta, che s’essi non volessero parlarne e rifiutassero
di riconoscerli, si renderebbero certo colpevoli di una forma di nera
ingratitudine. Così come il parlar male di lui sarebbe veramente una malizia
destinata a smentirsi da se stessa, perché chiunque si trovasse a udirla, la
smentirebbe subito, con sdegno. PRIMO USCIERE - Insomma, è un uomo di tutto
rispetto. Basta, facciamo luogo. Ecco che arrivano. Preceduti da squilli di
tromba e da littori entrano i SENATORI, i TRIBUNI DELLA PLEBE, poi CORIOLANO,
MENENIO, COMINIO. Siedono tutti sui loro scanni, i senatori da una parte, i
tribuni dall’altra. Coriolano resta in piedi MENENIO - Dunque, poiché dei
Volsci s’è deciso, ed altresì di richiamare in patria Tito Larzio, non resta
che decidere in questa nostra coda di seduta come ed in che misura compensare i
servigi di chi sì nobilmente ha combattuto per la propria patria. Perciò vi
piaccia chiedere, reverendissimi e saggi maggiori, a colui che ha la carica di
console ed è stato alla testa dell’esercito in questa nostra fortunata impresa,
di farci una succinta esposizione dell’encomiabile comportamento di Caio Marcio
Coriolano; al quale siamo qui riuniti per dar merito e decretare, in
riconoscimento, onori che a tal merito sian pari. (Coriolano si siede) PRIMO
SENATORE - Bene, a te la parola, buon Cominio. Non omettere alcun particolare
per il timore d’apparir prolisso; dicci anzi cose da farci pensare che sia
piuttosto la nostra repubblica a mancare dei mezzi convenienti a sdebitarsi,
che l’animo nostro a voler ch’essi sian quanto più alti. (Ai tribuni) A voi, capi
del popolo, chiediamo di prestar cortese orecchio, e di voler, dopo aver
ascoltato, usar la vostra influenza col popolo, per ottenere ch’esso sia
concorde con quanto sarà qui deliberato. SICINIO - Siamo qui convocati
per discutere sopra una materia che trova tutto il nostro gradimento; e siam di
tutto cuore favorevoli ad onorare e innalzare l’uomo ch’è l’argomento di questa
assemblea. BRUTO - E tanto più favorevoli a farlo saremo, s’egli si ricorderà
di nutrir per il popolo una stima un poco più benevola di quella che ha finora
dimostrato. MENENIO - Questo non c’entra! Non ci azzecca niente! Avresti fatto
meglio a stare zitto! Volete compiacervi, sì o no, di ascoltare Cominio? BRUTO
- Volentieri. Ma il mio avvertimento di poc’anzi era più pertinente all’argomento
di quanto non sia ora il tuo rabbuffo! MENENIO - Coriolano vuol bene al vostro
popolo; Ma non puoi obbligarlo fino al punto di diventar suo compagno di letto.
Parla, degno Cominio, ti ascoltiamo(102). (Coriolano, a questo punto, s’alza e
fa per lasciar la sala) Ehi, che fai?... Fermo là. Resta al tuo posto! PRIMO
SENATORE - Sì, siedi, Coriolano. Non dev’esser motivo di vergogna per te
ascoltare tutto ciò ch’hai fatto di nobile. CORIOLANO - Le vostre signorie mi
scuseranno, ma preferirei vedermi riaperte e doloranti le ferite, che stare ad
ascoltare come le ho ricevute... BRUTO - Non siano state le parole mie, voglio
sperare, a farti alzar dal seggio. CORIOLANO - No, se pur siano state le parole
spesso a farmi scappare anche da luoghi da cui nemmeno dure sciabolate
sarebbero riuscite a trattenermi. Tu non m’hai adulato, tuttavia, e le
parole tue non m’han ferito. Quanto però al tuo popolo, gli voglio bene per
quel ch’esso vale... MENENIO - Ti prego, avanti, siedi. CORIOLANO - Preferirei
restare sotto il sole, in ozio, a farmi grattare la testa quando suonasse
l’allarme di guerra, che starmene seduto qui, per niente, ad udir magnificare i
miei nonnulla. (Esce) MENENIO - (Ai tribuni) Ecco, capi del popolo, ditemi
adesso voi come un tal uomo potrebbe mai ridursi ad adulare il prolifico vostro
canagliume - ché di buoni ce n’è uno su mille - quando voi stessi l’avete ora
visto pronto a tutto rischiare per l’onore, piuttosto che prestare un solo
orecchio a sentire esaltare le sue gesta... Parla, avanti, Cominio. COMINIO -
Mi mancherà la voce. Troppo flebile è la mia per ridir di Coriolano le
gesta(104). Se il valore militare è nell’uomo la massima virtù, che nobilita
assai chi la possiede, l’uomo del quale mi accingo a parlare non ha chi possa
stargli a pari al mondo. Aveva sedici anni quando Tarquinio mosse contro Roma,
e combatteva già meglio di tutti; e il nostro dittatore di quel tempo che
voglio ricordar con ogni lode, l’osservava, col suo mento d’Amazzone(106),
battersi in armi e ricacciare in fuga avversari con baffi sulle labbra; e lo
vide piantarsi a gambe larghe su un Romano caduto, e in quella posa affrontare
ed uccider tre nemici. Poi si scontrò con lo stesso Tarquinio e, d’un sol
colpo, lo forzò in ginocchio. Tra i fasti di quel dì, quel giovinetto che
avrebbe ben potuto recitare una parte di donna sulle scene, si dimostrò il
miglior soldato in campo meritandosi, in degna ricompensa, una corona di
foglie di quercia. Entrato poi dall’età minorile nella virilità, simile al mare
quando ingrossa, è venuto su crescendo e in diciassette battaglie, da allora,
ha rubato la palma a ogni altra spada. Quanto poi a quest’ultima sua gesta,
fuori e dentro le mura di Corioli, devo dire che non ho parole adatte a
riferirne come si conviene. Ha fermato i suoi legionari in fuga, e col suo raro
esempio ha volto in gioco quella ch’era paura nei codardi. Davanti alla sua
prua, come alghe sotto l’urto d’un vascello lanciato a tutto vento, obbedienti,
si piegavano gli uomini e cadevano; la sua spada, come mortal sigillo lasciava
il segno ovunque s’abbattesse, Era, da capo a piedi, tutto sangue ogni suo
gesto essendo punteggiato dal grido dei morenti. Varcò da solo la fatale porta
della città, segnandola così col crisma d’un destino inesorabile; poi senza
alcun aiuto ne sortì, e, ricevuto un rapido rinforzo, piombò sopra Corioli con
la forza d’un fatal pianeta. Da quel punto, tutto era in mano sua, quando, di
nuovo, il lontano clamor della battaglia ferisce i suoi sempre vigili sensi:
allora il suo coraggio, raddoppiato, ravviva subito nella sua carne quel che
v’era di stanco e affaticato, e lì torna sul campo di battaglia, dove
imperversa, fumante di sangue, sopra i nemici come in una strage che non
dovesse avere mai più fine; e fino a che non potemmo dir nostro tutto il terreno
e nostra la città, non si concesse un attimo di tregua, anche solo per dare
alcun sollievo al respiro affannato. MENENIO - Degno uomo! PRIMO SENATORE -
Sicuramente degno degli onori che abbiamo in animo di conferirgli.
COMINIO - Ha respinto con sdegno la parte di bottino a lui spettante guardando
a quegli oggetti di valore come a vil spazzatura. Per se stesso desidera di
meno di quello che la stessa povertà potrebbe dargli, unico compenso alle sue
gesta essendo a lui il compierle; ed è contento di spendere il tempo della vita
così, a lasciarlo scorrere(111). MENENIO - Animo nobile! Lo si richiami. PRIMO
SENATORE - (Ad un ufficiale) Chiamate Coriolano. UFFICIALE - Sta venendo.
Rientra CORIOLANO MENENIO - Il Senato altamente si compiace, Coriolano, di nominarti
console. CORIOLANO - Son suoi la mia vita e i miei servigi. MENENIO - Rimane
solo che tu parli al popolo. CORIOLANO - Vi supplico, vogliate dispensarmi da
quell’usanza. Io, quella tunica, non me la sento di portarla addosso, d’espormi
in piazza, nudo della mia, e pregarli di darmi il lor suffragio solo a cagione
delle mie ferite... Esoneratemi da tutto questo. SICINIO - Il popolo dovrà pur
dir la sua, né vorrà consentir che si tralasci un solo punto del cerimoniale.
MENENIO - (A Coriolano) Non starli a contrastare, ora, ti prego. Confòrmati
all’usanza nelle forme da questa stabilite, così come hanno fatto puntualmente
tutti quelli che t’hanno preceduto. CORIOLANO – È una parte che mi farà
arrossire a recitarla: un “diritto del popolo” che si farebbe bene ad abolire.
BRUTO - (A parte, a Sicinio) Hai sentito? CORIOLANO - ... Sbracarmi
avanti a loro a vantarmi che ho fatto questo e quello, mettere in mostra le mie
cicatrici ormai indolori, che dovrei nascondere, come chi se le fosse procurate
solo per guadagnarsi i loro voti... MENENIO - E via, non farne un caso proprio
adesso! (Ai due tribuni) Ed ora a voi, tribuni della plebe, raccomandiamo la
nostra delibera perché la sosteniate presso il popolo; e al nostro nobile
novello console auguriamo felicità ed onore. TUTTI - Felicità ed onore a
Coriolano! (Squilli di tromba. Escono tutti nell’ordine in cui sono entrati,
tranne i due tribuni) BRUTO - Ecco, hai sentito con quali intenzioni vuol
trattar con il popolo. SICINIO - Ho sentito, e speriamo che il popolo capisca.
Andrà a sollecitare il lor suffragio con l’aria d’uno che tenga a disdegno che
siano loro a doverglielo dare. BRUTO - Andiamo, adesso. Bisogna informarli di
quanto è stato qui deliberato. So che sono nel Foro ad aspettarci. (Escono)
Entra un gruppo di CITTADINI SCENA Roma, il Foro PRIMO CITTADINO - Insomma, se
ci chiede il nostro voto, rifiutarglielo certo non possiamo. SECONDO CITT. - E
invece sì; basterà che vogliamo! TERZO CITTADINO - Il potere di farlo ce
l’abbiamo: ci manca quello di tradurlo in atto. Perché se mette in mostra le
ferite e ci spiattella tutto quel che ha fatto ci tocca cedere la nostra
lingua a quelle, e far che parlino per noi. Così se si presenta avanti a
noi a raccontar le sue nobili gesta, come facciamo a non significargli la
nostra generosa gratitudine? L’ingratitudine è cosa mostruosa, e per il popolo
mostrarsi ingrato vuol dire farsi mostro da se stesso; e noi tutti, che ne
facciamo parte, passeremo così per tanti mostri. PRIMO CITTADINO - E ci vuol
poco a far ch’essi ci vedano non meglio di così. Quando insorgemmo per il
grano, non esitò un istante proprio lui, Coriolano, a definirci “una plebaglia
dalle molte teste”. TERZO CITTADINO - Oh, quanti ci chiamavano così! E non
perché la testa fra tutti noi c’è chi la tiene grigia, chi castana, corvina e
chi pelata, ma son le nostre idee che sono tutte di color diverso. Del resto
penso anch’io, per parte mia, che se le idee di ciascuno di noi dovessero uscir
tutte da un sol cranio, sciamerebbero in ogni direzione, a est, a ovest, a nord
e a sud; e il solo punto su cui accordarsi circa la direzione dove andare,
sarebbe di volarsene ciascuna per tutti i quattro punti cardinali. SECONDO
CITT. - Così pensi? Ed in quale direzione volerebbe la mia, secondo te? TERZO
CITTADINO - Beh, intanto non è facile, alla tua, di venirsene fuori come
l’altre, chiusa com’è in una zucca di legno; ma direi che, se uscisse in
libertà, tirerebbe filato verso sud. SECONDO CITT. - E perché proprio là? TERZO
CITTADINO - Per andare a disfarsi nella nebbia; dove si scioglierebbe per tre
quarti mischiata con vapori puzzolenti, mentre la quarta, presa dallo scrupolo,
ritornerebbe a te, per aiutarti a sceglierti una moglie. SECONDO CITT. -
A te la voglia di sfottere il prossimo non manca mai. Ma fa’ pure, fa’ pure!
TERZO CITTADINO - Allora, siete tutti risoluti a dargli il vostro voto? Anche
se, poi, sì o no, non cambia niente. La maggioranza è quella che decide. Però
se si mostrasse un po’ più incline al popolo, più degno uomo di lui non c’è mai
stato. Eccolo che viene, e con la tunica dell’umiltà. Entra CORIOLANO. Ha
indosso la “tunica dell’umiltà”. Con lui è MENENIO Stiamo a vedere come si
comporta... Ma non restiamo qui tutti ammassati; avviciniamolo, pochi per
volta, a uno, a due, a tre, dove si ferma... Deve rivolgere la sua richiesta a
ciascuno di noi, singolarmente: perché ciascuno di noi ha diritto di dargli il
voto con la propria voce. Perciò statemi dietro, vi mostrerò come dovete fare
quando l’avvicinate. TUTTI - Ti seguiamo. (Escono tutti) MENENIO - No, hai
torto, mio caro, a far così! Ma non hai mai saputo che persone degnissime l’han
fatto, prima di te? CORIOLANO - Che cosa devo fare? “Ti prego,
cittadino...”. Dannazione! Non me la sento proprio di forzare la lingua ad
un tal passo! “Guarda le mie ferite, cittadino, le ho buscate al servizio della
patria, quando non pochi dei compagni vostri se la davano a gambe schiamazzando
al primo rullo dei nostri tamburi...”. MENENIO - O dèi, per carità, poveri noi!
Non devi tirar fuori tutto questo! Tu non devi far altro che pregarli che si
ricordino di te. CORIOLANO - Di me... Loro!... Che s’impiccassero
piuttosto! Di me magari si dimenticassero, invece, come fanno coi precetti di
virtù che gli predicano i preti! MENENIO - Tu rischi di mandare tutto all’aria.
Ti lascio adesso. Vedi di parlare a quella gente in maniera garbata. CORIOLANO
- Sì, chieder loro di lavarsi il viso e di pulirsi i denti. (Esce Menenio)
(Entrano il SECONDO e il TERZO CITTADINO) Eccone appunto un paio. (Al Terzo
Cittadino) Cittadino, tu sai il motivo per cui io sto qui. TERZO CITTADINO -
Già. Ma dicci che cosa ti ci porta. CORIOLANO - I miei meriti. SECONDO CITT. -
I tuoi meriti? CORIOLANO - Già, non certo il mio volere personale. TERZO
CITTADINO - Ah, non il tuo volere... CORIOLANO - Nossignore; non fu mai voler
mio importunare la povera gente chiedendo io l’elemosina a loro. TERZO
CITTADINO - Beh, devi pur pensare che se noi plebe ti diamo qualcosa speriamo
d’ottener qualcosa in cambio. CORIOLANO - Bene, ditemi allora, per favore, qual
è il prezzo che date al consolato. SECONDO CITT. - Che tu ce lo richieda
gentilmente. CORIOLANO - E gentilmente, amico, io ti chiedo di farmelo
ottenere. Ho qui delle ferite da mostrarti, che puoi vedere, se lo vuoi, in
privato. (All’altro) Il tuo buon voto, amico. Che mi dici? TERZO
CITTADINO - Che l’avrai, degno Marcio. CORIOLANO - Affare fatto. Ecco già due
magnifici suffragi mendicati. Ho intascato l’elemosina. Statevi bene! (Volta
loro le spalle, come per andarsene) TERZO CITTADINO - Ma che strano modo!
SECONDO CITT. - Mah, se dovessi darglielo di nuovo, chissà... Comunque, beh,
lasciamo stare. (Escono i due cittadini) Entrano il QUARTO e il QUINTO
CITTADINO CORIOLANO - (Andando loro incontro) Di grazia, amici, se mai
s’accordasse col tono stesso dei vostri suffragi il fatto ch’io sia nominato
console, eccomi qua vestito come richiesto dalla consuetudine. QUARTO CITT. -
Hai meritato bene della patria, ma hai anche non bene meritato. CORIOLANO -
Cos’è, un indovinello? QUARTO CITT. - Pei suoi nemici sei stato un flagello, ma
per i suoi amici una tortura(115). Tu, la povera gente, in verità, non l’hai
tenuta mai in simpatia. CORIOLANO - Tanto più meritevole per questo dovresti
ritenermi, perché “povero” non sono stato nel volerle bene(116). Comunque,
cittadino, d’ora in poi l’adulerò il mio grande fratello, il popolo, per
conquistar da lui maggiore stima: ché questo per loro vuol dire “esser gentili
con il popolo”. E dal momento che la lor saggezza preferisce guardare al mio
cappello piuttosto che al mio cuore, d’ora innanzi li tratterò col più ipocrita
inchino e con la più leccosa scappellata. Vale a dire che imiterò, brav’uomo,
le smancerie di certi capipopolo, che elargirò con generosità a quanti
gradiranno di riceverne. Perciò, vi supplico, fatemi console. QUINTO CITTADINO
- Noi speriamo poterti avere amico; perciò ti diamo di buon cuore il voto.
QUARTO CITT. - Ti sei buscato un sacco di ferite per la tua patria... CORIOLANO
- Non suggellerò col mostrarvele la lor conoscenza, che del resto già avete.
Farò gran conto dei vostri suffragi, e così non vi disturberò più(117). I DUE
CITTADINI - Gli dèi ti diano felicità, te l’auguriamo molto cordialmente.
(Escono i due cittadini) CORIOLANO - Che dolcezza di voti!... Meglio morire,
crepare di fame che andare accattonando una mercede che pur ci spetta, perché
meritata. Ed io dovrei restarmene qui, fermo, in questa veste da sembrare un
lupo, a questuar dal primo Tizio e Caio voti dei quali non c’è alcun bisogno?
Dicono che così vuole l’usanza. Ma se dovessimo in tutte le cose far quel che
vuol l’usanza, la polvere che copre il tempo andato mai non sarebbe più
spazzata via, ed ammucchiando errore sopra errore si formerebbe tale una
montagna di tutti errori, che la verità sarebbe poi impedita a sovrastarla. Ah,
no! Piuttosto che starmene qui a recitar la parte del buffone, che l’alto
ufficio e i relativi onori vadano ad altri, più di me disposto ad eseguire quel
che vuol l’usanza. Ma son già a mezza strada... Ho sopportato la prima metà,
farò anche l’altra...(118) Entrano il SESTO e SETTIMO CITTADINO Ma ecco altri
voti. (Ai due) I vostri voti, amici. Pei vostri voti io ho combattuto.
Pei vostri voti ho vegliato la notte. Pei vostri voti porto su di me almeno due
dozzine di ferite. Pei vostri voti ho visto e raccontato diciotto fatti d’arme.
Pei vostri voti ho fatto tante cose qual più qual meno, ma tutte importanti. I
vostri voti, sì, per esser console. SESTO CITTADINO - S’è ben portato, e non
gli può mancare il voto d’ogni cittadino onesto. SETTIMO CITT. - Sia console,
perciò. Gli diano gli dèi felicità e faccian ch’egli voglia bene al popolo.
SESTO CITTADINO - E così sia! Che gli dèi ti proteggano, nobile console!
(Escono) CORIOLANO - Che fior di voti! Entrano MENENIO, SICINIO e BRUTO MENENIO
- Sei stato qui per il tempo prescritto, ed i Tribuni, col voto del popolo, ora
ti conferiscono il potere. Resta che con le insegne della carica tu ti presenti
subito al Senato. CORIOLANO - Allora è fatto? SICINIO - Hai fatto la richiesta
secondo il rito: il popolo ti accetta ed è già convocato in assemblea per la
ratifica. CORIOLANO - Dove, al Senato? SICINIO - Sì, Coriolano, là. CORIOLANO -
Posso togliermi allora questa veste? SICINIO - Certo. CORIOLANO - Allora non
esito un istante, così potrò riconoscer me stesso. Poi andrò al Senato.
MENENIO - T’accompagno. (Ai due tribuni) Voi che fate, venite via con noi?
BRUTO - Restiamo qui ad attendere il popolo. SICINIO - Ci rivediamo dopo.
(Escono Coriolano e Menenio) Ce l’ha fatta. È suo, e a giudicar dagli sguardi
ha il cuore in festa. BRUTO - Ma con quale sdegno portava indosso quell’umile
veste!... Che facciamo? Lo congediamo il popolo? (Entrano parecchi CITTADINI)
SICINIO - Ebbene, miei compagni? Avete dunque preferito lui? PRIMO CITTADINO -
Abbiamo dato a lui il nostro voto. BRUTO - Voglia il cielo che sappia meritarla
la vostra preferenza. SECONDO CITT. – È quel che dico. Perché a mio povero,
modesto avviso, quello mentre ci domandava il voto, si beffava di noi. TERZO
CITTADINO - E come no! Ci ha preso pei fondelli a tutto spiano! PRIMO CITTADINO
– È il suo modo di fare; quello. No, lui non s’è fatto gioco di nessuno.
SECONDO CITT. - Qui non ci sei che tu a dir così, fra tutti noi. Ci doveva
mostrare i segni delle sue benemerenze: le ferite buscate per la patria...
SICINIO - Ma l’avrà fatto, spero, son sicuro. TUTTI - Niente affatto! Nessuno
qui le ha viste. TERZO CITTADINO - Ha detto, sì, che aveva le ferite, ma che
poteva mostrarle in privato; e col berretto in mano, ecco, così,
agitandolo in aria come a beffa, “Vorrei - dice - esser console; “e antica
usanza senza i vostri voti “me l’impedisce. I vostri voti, dunque”. E quando
glieli abbiamo assicurati, lui: “Vi ringrazio del vostro favore, “grazie dei
vostri carissimi voti. “Ora che avete espresso i vostri voti, “con voi non ho
più nulla da spartire”. Non è questa una beffa? SICINIO - Ma eravate
incoscienti a non capirlo? O, avendolo capito, tanto ingenui da dargli il voto
come dei bambocci? BRUTO - Eppure v’avevamo ammaestrati - e avreste ben potuto
ricordarglielo - che quando non aveva alcun potere, piccolo servitore dello
Stato, vi si mostrò nemico e parlò sempre contro i vostri diritti e privilegi
di cui godete in seno alla repubblica; e adesso, giunto che fosse al potere e a
governar lo Stato, se seguitasse ad essere lo stesso il nemico giurato dei
plebei i vostri voti potrebbero essere per tutti voi tante maledizioni. E
ancora questo dovevate dirgli: che come le sue gesta valorose gli meritavano
una ricompensa non inferiore a quella cui aspira, così la sua generosa natura
dovrebbe spingerlo a pensare a voi, che l’avete votato, e volgere in affetto il
malvolere, facendolo patrono e amico vostro. SICINIO - A parlargli così, come,
del resto, vi fu consigliato, avreste scosso le sue fibre all’intimo e saggiato
il suo animo; e strappato gli avreste forse una bella promessa, da vincolarlo
alla prima occasione; oppure, al peggio, avreste esasperato quel suo
caratteraccio insofferente incapace di assumersi un impegno che lo leghi a
qualsiasi adempimento; e, fattegli così perder le staffe, avreste poi potuto
trar partito dalla sua collera, per non eleggerlo. BRUTO - Ma come avete
fatto a non vedere con che aria palese di disprezzo vi domandava il voto,
mentre gli abbisognava il vostro appoggio? E come avete fatto a non pensare che
quel disprezzo vi potrà recare chi sa quale malanno, ora ch’egli ha il potere
di schiacciarci? Diamine! Solo corpi e nessun cuore tutti quanti? E avevate sol
la lingua per sbraitare, come avete fatto, contro il buonsenso per cacciarlo
via? SICINIO - E dire che altre volte, nel passato, avete pur rifiutato il
consenso a postulanti in cerca di suffragi; ed ora regalate come niente i
vostri voti tanto ricercati ad uno che nemmeno ve li ha chiesti in buona forma,
e per di più schernendovi? TERZO CITTADINO - Comunque ancora non è
confermato(121). Possiamo sempre revocargli il voto. SECONDO CITT. - E lo
revocheremo! Io, per me, posso accordare cinquecento voci su questa nota. PRIMO
CITTADINO - Ed io due volte tante. E tutti i loro amici in sovrappiù. BRUTO -
Presto, allora muovetevi di qui e andate a dire a questi vostri amici che hanno
scelto per diventare console uno che torrà loro ogni diritto, e non darà lor
voce più che a quei cani bastonati apposta per abbaiare, e a questo mantenuti.
SICINIO - Fateli riunire in assemblea, e unanimi, su più serio giudizio,
revocate questo inconsulto voto. Battete sul suo orgoglio e sull’antico odio
che ha per voi; e non dimenticatevi, per giunta, con quale aria sprezzante egli
indossò l’umile veste, e si schernì di voi nell’atto stesso di chiedervi il
voto. Dite loro che è stato il vostro affetto, memore dei servigi da lui
resi, a non farvi capire, in quel momento, il suo comportamento provocante,
offensivo per voi, indecoroso, volutamente da lui conformato all’odio radicale
che vi porta. BRUTO - Gettate su di noi, vostri Tribuni, tutta la colpa: che
nulla abbiam fatto - dite - perché non sorgessero ostacoli alla sua elezione
presso il popolo. SICINIO - E che l’avete eletto per conformarvi ad un nostro
comando più che per vostra vera convinzione; che le vostre coscienze, in
conseguenza, preoccupate più di conformarsi a ciò che ad esse era stato
ordinato, che a ciò che esse avrebbero dovuto, v’hanno indotto ad esprimere
quel voto contro la vostra propria inclinazione. Insomma, date a noi tutta la
colpa. BRUTO - Sì, non vi fate scrupolo per noi. Dite che vi abbiam fatto su di
lui, per istruirvi sulla sua persona, lunghi discorsi: come, ancora imberbe,
abbia iniziato a servire la patria, e seguitato a farlo poi negli anni; da qual
nobile stirpe egli discenda, la nobilissima gente “marciana”, da cui discese
pur quell’Anco Marcio nipote di re Numa, che regnò a Roma dopo il grande
Ostilio; donde provennero e Publio e Quinto che con la costruzione di
acquedotti ci addussero la nostra acqua migliore; e suo grande avo fu quel
Censorino, così meritamente nominato per esser stato due volte censore, per
voto popolare. SICINIO - Ed un tal uomo discendente da sì nobile stirpe e
onusto per di più di tanti meriti per ricoprire una sì alta carica, siamo stati
noi stessi, noi tribuni, a segnalarlo alla vostra attenzione; ma voi, dopo aver
bene soppesato il suo comportamento nel presente a confronto con quello del
passato, avete tutti in lui riconosciuto un vostro irriducibile nemico, e
gli avete pertanto revocato un gradimento dato troppo in fretta. BRUTO - E non
sareste giunti mai a tanto - battete sempre sopra questo tasto - se non vi
avessimo incitato noi. TUTTI - Sì, sì, faremo come dite voi. Ormai qui quasi
tutti si son pentiti della scelta fatta. (Escono i cittadini) BRUTO - Ora non
c’è che da lasciarli fare. Meglio rischiare adesso una sommossa, piuttosto che
tirarsi addosso il peggio, che certamente verrà, se aspettiamo. Se lui, per
questo loro voltafaccia, si facesse, con quella sua natura, prendere dalla
rabbia, attenti noi a saper profittar dell’occasione e trar vantaggio da questa
sua collera. SICINIO - Al Campidoglio. Troviamoci là prima che vi affluisca
tutto il popolo. Dovrà apparire - come in parte è - tutta e soltanto loro
iniziativa, cui noi ci siamo solo limitati a fornire uno sprone dall’esterno.
(Escono) ATTO TERZO SCENA I -Roma, una strada Fanfara. Entrano CORIOLANO,
MENENIO, COMINIO, TITO LARZIO e SENATORI CORIOLANO - (A Larzio) Tullo Aufidio
sicché è riuscito a rimettere in piedi un nuovo esercito? LARZIO - Sì,
Coriolano, ed è questo il motivo che ci ha deciso a negoziar l’accordo.
CORIOLANO - I Volsci son lì, dunque, come prima, pronti a saltarci addosso
appena s’offra loro l’occasione. COMINIO - Sono sfiancati, Console: è difficile
che rivedremo, noi di nostre età, garrire ancora i lor vessilli al vento.
CORIOLANO - (A Larzio) Tu Aufidio l’hai visto? LARZIO - Venne da me sotto
salvacondotto, solo per dirmi peste e vituperio contro i Volsci, che avevano
ceduto così vilmente la loro città. S’è ritirato ad Anzio. CORIOLANO - T’ha
parlato di me? LARZIO - Sì, Coriolano. CORIOLANO - In che modo? Che ha detto?
LARZIO - Ha ricordato come si sia spesso con te scontrato solo, spada a spada;
che per la tua persona nutre un odio come per nessun altro al mondo; e inoltre
che sarebbe disposto - ha dichiarato -, ad impegnarsi tutto che possiede, così,
senza speranza di riscatto, pur di potersi dir tuo vincitore. CORIOLANO - E
vive ad Anzio, adesso? LARZIO - Ad Anzio, sì. CORIOLANO - Come vorrei che
mi s’offrisse il destro d’andare là a scovarlo dove sta, e affrontare il suo
odio faccia a faccia! Ma ben tornato, Larzio. Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO
Ecco, guardate: questi sono i Tribuni della plebe, le lingue della sua volgare
bocca. Sento per loro un disprezzo istintivo perché si bardano d’autorità
contro ogni nobile sopportazione. SICINIO - (A Coriolano) Fermo! Non andar
oltre! CORIOLANO - Che vuol dire? BRUTO - Che è rischioso per te andar oltre.
Fèrmati. CORIOLANO - Che diavolo di voltafaccia è questo! MENENIO - Che
succede? COMINIO - Non ha forse il consenso dei nobili e del popolo? BRUTO -
Del popolo, Cominio, proprio no. CORIOLANO - Son voti di fanciulli allora
quelli ch’essi m’hanno dato? UN SENATORE - Tribuni, andiamo, fateci passare.
Coriolano deve recarsi al Foro. BRUTO - Il popolo è in fermento. Non lo vuole.
SICINIO - Fermi, o qui si finisce in un tumulto. CORIOLANO - Il vostro gregge,
eh? E deve dunque questa gentaglia aver diritto al voto, se prima te lo danno,
e poi, subito dopo, lo rinnegano? E voi, che state a fare? Voi che siete la
loro stessa bocca, perché non governate i loro denti? O siete stati voi ad
aizzarli? MENENIO - (A Coriolano) Calma, sta’ calmo! CORIOLANO - (Ai
Senatori) È tutta una manovra, una combutta preparata ad arte, per piegare la
volontà dei nobili. Se li lasciate fare, rassegnatevi a vivere con gente
incapace così di governare, come d’esser comunque governata. BRUTO - Non parlar
di combutta. Il popolo vocifera di rabbia perché ha capito che l’hai preso in
giro; e perché quando fu distribuito, ultimamente, a loro il grano gratis,
fosti tu solo ad alzare la voce, e a coprire d’insulti e vituperi chiunque
fosse dalla loro parte, tacciandolo di basso opportunista, adulatore, nemico
dei nobili. CORIOLANO - Ebbene? Questa è cosa risaputa. BRUTO - Non tutti la
sapevano, di loro. CORIOLANO - E così hai pensato ad informarli. BRUTO -
Informarli, chi, io? CORIOLANO - Non sei tu il tipo ben tagliato per simili
faccende? BRUTO - Non meno bene che per far le tue meglio che possa farle tu.
CORIOLANO - Ma certo! Perché dovrei io diventare console? Per tutti i fulmini,
datemi il tempo di diventare un nulla come te, e fatemi tribuno, tuo collega!
SICINIO - Tu porti ancora addosso troppo di quello che dispiace al popolo; se
ti preme raggiungere il tuo scopo, devi chieder la strada, che hai smarrita,
con uno spirito più malleabile, o non sarai giammai tanto virtuoso da poter
esser console, e nemmeno da stare accanto a lui (Indica Bruto) come
tribuno. MENENIO - Calmi, state calmi! COMINIO - Il popolo è ingannato, è
subornato. Questo ondeggiare tra il sì e il no non è degno di Roma, e Coriolano
non merita davvero un’ostruzione così disonorante posta ad arte lungo il piano
cammino del suo merito. CORIOLANO - Venirmi adesso a parlare del grano! Quello
che ho detto allora lo ripeto! MENENIO - Non adesso, però, per carità. UN
SENATORE - No, Marcio, non in tanta eccitazione. CORIOLANO - Sì, invece,
adesso! Sì, per la mia vita! I miei nobili amici mi perdonino; ma la fetida,
bassa minuzzaglia voltagabbana s’ha da render conto ch’io non son uomo che
sappia adulare, si specchi in me, piuttosto, e in ciò che dico. Lo ripeto: a
cercar di assecondarla, noi non facciamo che dare alimento alla malerba della
ribellione, dell’insolenza, della sedizione contro il Senato; per la qual
zizzania noi stessi abbiamo arato, seminato e consentito che si propagasse
mescolandosi a noi, gente d’onore, cui non manca virtù né autorità, salvo
quella ceduta a dei pezzenti. MENENIO - Bene, ora basta. UN SENATORE - Basta,
ti preghiamo. CORIOLANO - Basta? E perché? Com’io ho sparso sangue per la mia
patria senza aver paura, così nessuna forza impedirà ai miei polmoni di coniar
parole, fino a diventar marci, contro questi pestiferi miasmi di cui tutti
temiamo d’infettarci avendo tuttavia fatto del tutto per buscarceli. BRUTO - Tu
parli del popolo né più e né meno che se fossi un dio, che sia pronto a
punirlo, e non un uomo affetto dalle stesse debolezze. SICINIO - Ed è
bene che il popolo lo sappia. MENENIO - Sappia che cosa? Questa sua sfuriata?
CORIOLANO - Sfuriata!... Foss’io calmo, per Giove!, come il sonno a mezzanotte,
sarei sempre di questa stessa idea! SICINIO – È un’idea velenosa che tale deve
rimaner dov’è, senza infettare gli altri intorno a sé. CORIOLANO - “Deve”!...
Sentitelo questo Tritone dei lattarini(124)! Avete preso nota di codesto suo
“deve” perentorio? COMINIO – È contro regola, senz’altro. CORIOLANO - “Deve”! O
buoni ma incautissimi patrizi, voi, gravi ed imprudenti Senatori, voi che avete
permesso qui a quest’Idra di scegliersi un suo proprio magistrato che con
questo suo “deve” perentorio, qual rumoroso corno di quel mostro non si fa
scrupolo di minacciare d’esser capace di deviare altrove, entro altra fossa, la
vostra corrente, e di far suo l’attuale suo letto! Se è vero ch’ei possiede un
tal potere, s’inchini allora a lui la vostra ignavia; ma se non l’ha, svegliate
dal suo sonno la vostra mite e rischiosa indulgenza. Se saggezza è in voi, non
comportatevi come volgari sprovveduti sciocchi; se saggezza non v’è, fateli pur
sedere accanto a voi. Sarete voi la plebe, ed essi i senatori; e tali sono, già
ora se, quando le loro voci son mischiate alle vostre, il loro accento è il
tono che prevale nell’insieme. Si scelgono il lor proprio magistrato, e questo
è uno che sbatte in faccia il suo “deve”, quel suo “deve” plebeo, contro
un’assise che nemmen la Grecia ebbe mai di più seria e veneranda. Ma, tutto
questo, per il sommo Giove!, riduce i consoli a ben poca cosa! E mi
sanguina il cuore a pensare che quando due poteri sono in sella
contemporaneamente, sì che nessun dei due può prevalere, nel loro vuoto può
infilarsi il caos, e far che si distruggano a vicenda! COMINIO - Al Foro,
dunque, andiamo. CORIOLANO - Chiunque siano ch’abbian consigliato di far
distribuir gratuitamente il grano dei depositi statali, come s’è fatto qualche
volta in Grecia... MENENIO - Via, via, non ne parliamo più. CORIOLANO -
(Seguendo il suo discorso) (... ma in Grecia ben più ampi poteri aveva il
popolo...), io dico che costoro, chi essi siano, hanno nutrito la
disobbedienza, cibato la rovina dello Stato. BRUTO - E il popolo dovrebbe dare
il voto ad uno che si esprime in questi termini? CORIOLANO - Al popolo dirò le
mie ragioni, che valgono ben più dei loro voti. Essi sanno benissimo che il grano
non doveva servir da ricompensa, essendo noto che per meritarlo nessun servizio
avevano essi reso. Chiamati per la guerra, in un momento in cui il cuore stesso
dello Stato correva gran pericolo, ricusaron perfino di varcare le porte di
città; non si può dire che sia stato codesto un tal servizio da meritare loro
il grano a ufo. Né, partiti che furon per la guerra, hanno parlato poi a lor
favore le sedizioni e gli ammutinamenti in cui han fatto prova - oh, allora sì!
- di tutto il lor valore di guerrieri. Così come plausibile motivo non potevano
certamente offrire per così generosa elargizione le assurde accuse da loro
lanciate contro il Senato, l’una dopo l’altra. E adesso? Come questo milleteste
digerirà nel suo multiplo ventre la cortesia che gli ha fatto il Senato?
Dai fatti si può già pronosticare quali saranno le loro parole: “L’abbiamo
chiesto, siamo maggioranza, e ci hanno accontentati, per paura”. Così noi
degradiamo i nostri seggi, ed offriamo motivo alla marmaglia di dir che quanto
facciamo per loro lo facciamo soltanto per paura; il qual ragionamento, con il
tempo, scardinerà le porte del Senato, e allor v’irromperanno le cornacchie a
dar di becco all’aquile. MENENIO - Via, basta! BRUTO - Basta ed avanza.
CORIOLANO - No, ce n’è di più! E sia suggello a quanto sto per dire tutto
quello che al mondo c’è d’umano e di divino sopra cui giurare. Questo nostro
bicipite potere dove una delle teste, con ragione, disdegna l’altra che, senza
ragione insulta, dove nobiltà di nascita e titoli e saggezza di governo non
possono decidere un bel niente senza aver ottenuto il “sì” o il “no”
dell’ignoranza di un’intera classe, è costretto per forza a trascurare i reali
interessi dello Stato per dare spazio a fanfaluche inutili; talché, sbarrato
qualsiasi proposito, ne vien che nulla è fatto più a proposito. Perciò vi
supplico - se la paura non ha offuscato in voi ogni saggezza - voi, cui le
fondamenta dello Stato stan troppo a cuore perché dubitiate della necessità di
migliorarle; voi che a una vita lunga preferite una vita dignitosa, e siete
pronti a medicine estreme per un corpo malato, destinato altrimenti a morte
certa, strappate via di colpo, di violenza, questa lingua dal corpo dello
Stato, ch’essa non abbia più a leccar quel dolce ch’è anche il suo veleno! La
vostra indecorosa umiliazione rende monco ogni sano giudicare, priva lo
Stato di quell’unità che dovrebb’essere sempre la sua, rendendolo impotente ad
operare, come vorrebbe, pel bene comune, per colpa di un tal male, che lo
domina. BRUTO - Ha detto quanto basta(132). SICINIO - Ha parlato da vero
traditore, e come tale ne dovrà rispondere. CORIOLANO - Miserabile! La tua
stessa bile ti seppellisca!... Che può fare il popolo con queste zucche vuote
di tribuni? Finché avranno costoro come guida, si sentiranno tutti esonerati
dall’obbedire a maggior dignità. A quella carica li hanno eletti in un momento
di piena rivolta, quando non la giustizia ma soltanto la forza era la legge. I
tempi son cambiati, per fortuna: oggi si dica che dev’esser giusto quello che è
giusto, e si getti alle ortiche il lor potere. BRUTO - Questo è tradimento!
Flagrante! SICINIO - Console costui? Giammai! BRUTO - Gli Edili(134), oh!
Venite! Entra un EDILE (Indicandogli Coriolano) Sia arrestato! SICINIO -
(All’Edile) Va’ e riunisci il popolo in comizio. (Esce l’edile) (A Coriolano)
Ed in nome del popolo, io qui t’arresto come traditore, sovvertitor di modi e
di costumi, e nemico del popolo romano! T’ordino di obbedirmi e di venire
subito con me, a risponder di quanto sei accusato. CORIOLANO - (Respingendo con
forza Sicinio) Sta’ lontano da me, vecchio caprone! SENATORI e PATRIZI -
Ci facciamo garanti noi per lui. COMINIO - (A Sicinio, che cerca d’impadronirsi
di Coriolano) Ehi, vecchio, giù le mani. CORIOLANO - Via, carogna, o ti sparpaglio
l’ossa dai tuoi stracci! Entrano i due EDILI con una folla di PLEBEI SICINIO -
Aiuto, cittadini! MENENIO - Cittadini, più rispetto, dall’una e l’altra parte!
SICINIO - (Indicando alla folla Coriolano) Ecco colui che intende spodestarvi
d’ogni potere! BRUTO - Arrestatelo, edili! PLEBEI - Abbasso! A morte! UN
SENATORE - L’armi! L’armi! L’armi! (Zuffa generale attorno a Coriolano) TUTTI A
VICENDA - Senatori! Patrizi! Cittadini! Sicinio! Bruto! Coriolano!... MENENIO -
Pace!!!! Calmatevi un momento!... Che succede? Non ho più fiato... Ma qui si va
diritti alla rovina!... Non posso più parlare... Voi, tribuni, parlate voi al
popolo. (A Coriolano) Sta’ calmo. Sicinio, parla tu. SICINIO - Ascoltatemi,
gente mia... Silenzio! PLEBEI - Udiamo il nostro tribuno. Silenzio! Fate
silenzio! Parla, parla, parla! SICINIO - Le vostre libertà sono in
pericolo. Marcio, che avete appena eletto console, vuol togliervele tutte.
MENENIO - No così! Ma tu invece di spegnere la fiamma, l’attizzi! UN SENATORE -
Demolisci la città, in questo modo, tu la radi al suolo! SICINIO - Che cos’è la
città, se non il popolo? PLEBEI - Giusto, Sicinio, la città è il popolo!
SICINIO - E noi, per loro unanime consenso, siamo i loro legali difensori.
PLEBEI - E tali resterete! MENENIO - Resteranno, sì, certo, resteranno. COMINIO
- Questa è la via per demolirla al suolo, la città, e tirarne il tetto giù fino
alle fondamenta, seppellendo tra ammassi di rovine tutto quello che ancora ci
rimane d’ordinato. SICINIO - Costui merita morte. BRUTO - Qui è in gioco la
nostra autorità, o la perdiamo. Ed in nome del popolo, nella cui potestà noi
fummo eletti a suoi legittimi rappresentanti, noi dichiariamo qui che Caio
Marcio è meritevole di morte, subito. SICINIO - (Agli Edili) Arrestatelo
dunque; che aspettate! Lo si conduca alla Rupe Tarpea, e che sia di lassù
precipitato, alla sua fine! BRUTO - Prendetelo, Edili! PLEBEI - Marcio,
arrenditi! MENENIO - Ancora una parola, Tribuni, ve ne supplico. EDILI -
(Alla folla) Silenzio! MENENIO - (Ai Tribuni) Siate per una volta quelli che
sempre volete apparire: sinceri amici della vostra patria; e procedete con
ponderazione a ciò che invece con tanta violenza, a quanto vedo, intendete
distruggere. BRUTO - Menenio, questi tuoi gelidi modi, che sembrano consigli di
prudenza son un veleno pericolosissimo per un male violento come questo. (Agli
Edili) Avanti, impadronitevi di lui, ho detto, e conducetelo alla Rupe!
CORIOLANO - (Sguainando la daga) No, morirò qui stesso. Ci sarà pur qualcuno in
mezzo a voi che m’ha visto combattere. Beh, avanti, venga a provare adesso su
di sé quel che m’ha visto fare. MENENIO - Via quell’arma! Tribuni,
allontanatevi un momento. BRUTO - (Agli Edili) Afferratelo! MENENIO - Aiuto a
Marcio, aiuto! Nobili, giovani, vecchi, aiutatelo! PLEBEI - A morte! A morte! A
morte! (Mischia. I tribuni, gli edili e i plebei sono respinti ed escono)
MENENIO - (A Coriolano) Va’, torna a casa, presto! Via da qui. Altrimenti sarà
rovina piena. UN SENATORE - (A Coriolano) Parti da qui. CORIOLANO - Dobbiamo
tener duro! Siamo, amici e nemici, in pari numero. MENENIO - S’ha da
arrivare a questo? UN SENATORE - Gli dèi non vogliano! (A Coriolano) Nobile
amico, ti prego, adesso tornatene a casa; lascia a noi di curar questa
faccenda. MENENIO - Perché è una piaga che portiamo addosso tutti quanti, e che
tu non puoi curare. Va’, ti scongiuro. COMINIO - Vieni via con noi. CORIOLANO -
Come vorrei che fossero costoro barbari - come sono in realtà, se pure furono
partoriti a Roma - e non Romani, come non lo sono, fossero pure stati partoriti
di sotto al portico del Campidoglio!... MENENIO - Va’, va’, non affidare alla
tua lingua la tua rabbia, per quanto giusta sia. Lasciamo tempo al tempo.
CORIOLANO - (Senza ascoltarlo) Ne abbatterei quaranta, in campo aperto! MENENIO
- Io pure saprei farne fuori un paio, tra i lor migliori: i tribuni, ad
esempio. COMINIO - Ma qui la sproporzione è troppo grande, tra noi e loro, e il
coraggio è follia quando pretende di tenere in piedi un edificio che sta per
crollare. È meglio che tu vada via di qua, prima che ci ritorni la plebaglia.
La sua furia oramai è come un fiume cui si sia posto un blocco, che,
straripando fuor da tutti gli argini entro i quali scorreva normalmente,
travolge e abbatte tutto quel che incontra. MENENIO - Sì, va’ via, te ne supplico...
Vedrò io se il mio antico spirito potrà servire a qualcosa di buono con gente
che sì poco ne possiede. Questo strappo dev’esser rattoppato con una pezza di
qualsiasi tinta. COMINIO - Sì, Marcio, andiamo via. (Escono Coriolano e
Cominio) UN PATRIZIO - Quest’uomo ha danneggiato seriamente le sue fortune di
uomo politico. MENENIO – È che la sua natura è troppo nobile per conformarsi
alle cose del mondo. Mai s’indurrebbe ad adular Nettuno pel suo tridente, o
Giove pel suo tuono. Ha in bocca quel che ha in cuore: la sua lingua deve dar
fiato a ciò che detta il cuore; e se s’infuria, non ricorda più d’avere udito
la parola “morte”. (Rumori da dentro) Eccoli. Qui l’affare s’ingarbuglia! UN
PATRIZIO - Come vorrei saperli tutti a letto! MENENIO - Sì, nel letto del
Tevere!... Che diamine, però! Che gli costava di parlar loro in modo più
civile? Entrano BRUTO e SICINIO con la folla dei plebei SICINIO - Dove sta
quella vipera cui piacerebbe di vedere Roma spopolata, per esser tutta lui?
MENENIO - Tribuni... SICINIO - Giù dalla Rupe Tarpea merita d’essere
precipitato con la forza di mani inesorabili! S’è messo contro la legge, e la
legge altro giudizio non dovrà concedergli che la severa giustizia del popolo,
da lui costantemente disprezzato. PRIMO CITTADINO - Imparerà così che i nobili
Tribuni son la bocca del popolo, e noi siamo le sue mani. PLEBEI - Dovrà
impararlo, certo! MENENIO - (A Sicinio) Amico, ascolta... SICINIO - (Alla
folla) Silenzio, olà! MENENIO - Non gridate “Sterminio!”, quando invece
dovreste limitare la vostra caccia in modesti confini. SICINIO - Di’ piuttosto,
Menenio, la ragione perché hai favorito la sua fuga. MENENIO - Sentimi bene:
come so a memoria i meriti del Console, so dirti ad uno ad uno i suoi difetti.
SICINIO - “Il Console”! Di che console parli? MENENIO - Di Coriolano, diamine!
SICINIO - Lui, Console! PLEBEI - No, no, no, no, no, no! MENENIO - (Alla folla)
Se, con licenza dei Tribuni e vostra, brava gente, mi si vorrà ascoltare, mi
basta dirvi una parola o due: ad ascoltarla non vi costerà più d’una lieve
perdita di tempo. SICINIO - Ebbene parla, ma senza lungaggini, perché qui siamo
tutti ben decisi a sbarazzarci subito e per sempre di questo velenoso
traditore. Esiliarlo sarebbe già rischioso per noi; ma trattenerlo vivo qui,
sarebbe morte certa per noi tutti. Perciò s’è decretato in assemblea ch’egli
sia messo a morte questa notte. MENENIO - Ahimè, non vogliano gli dèi benigni
che la nostra famosa, illustre Roma, la cui riconoscenza verso i figli che
d’essa han meritato è registrata nel grande libro dello stesso Giove, divori,
come madre snaturata, le proprie creature! SICINIO - È un cancro che dev’essere
estirpato! MENENIO - No, Sicinio, se mai è solo un arto, malato, ma è la morte
ad amputarlo; curarlo, è facile. Che male ha fatto egli, a Roma, per
esser messo a morte? Il sangue che ha perduto a imperversare sui nostri nemici
- e posso dire ch’è assai più di un’oncia di quello che gli scorre nelle vene -
l’ha ben versato per il suo paese; che ora, ad opera della sua patria debba perdere
quello che gli resta, sarebbe una vergogna per noi tutti, chi lo facesse e chi
lo permettesse, una macchia che porteremmo addosso per sempre, fino alla fine
del mondo. SICINIO - Questo vuol dir mistificare i fatti! BRUTO - Semplicemente
il contrario del vero. Tutte le volte ch’egli ha dato prova di amare il suo
paese, il suo paese l’ha ben onorato. SICINIO - Se un piede va in cancrena, non
s’esita davvero ad amputarlo per i servizi resi in precedenza. BRUTO - Basta
con le parole. (Agli Edili) Ricercatelo a casa, ed arrestatelo, ché la sua
infezione è contagiosa, e può diffondersi tra l’altra gente. MENENIO - Ancora
una parola! Una parola!... Questo vostro furore piè-di-tigre(140) quando vedrà
qual danno avrà prodotto tanta precipitosa avventatezza, vorrà legarsi dei pesi
di piombo ai calcagni, ma sarà troppo tardi! Processatelo per le vie legali, se
volete evitar che le fazioni si scatenino, perché è molto amato, e che alla
grande Roma tocchi in sorte d’essere messa a sacco dai Romani. BRUTO - Se così
fosse... SICINIO - Ma che vieni a dirci! Non abbiam forse avuto un primo
assaggio del suo rispetto per l’autorità? Non ha forse percosso i nostri Edili?
Aggredito noi stessi?... Andiamo, via! MENENIO - Considerate questo che
vi dico: egli è uno cresciuto tra le guerre da quando seppe impugnare una
spada, e non ha avuto mai chi gli insegnasse ad usare un linguaggio raffinato.
Mischia farina e crusca, tutto insieme, senza badarci. Datemi licenza d’andar
da lui, ed io ve lo conduco, parola mia, dove potrà rispondere in piena calma
ed in forma legale, ad assoluto suo rischio e pericolo. PRIMO SENATORE – È
questo il modo, nobili Tribuni, di trattare la cosa umanamente; l’altro sarebbe
via troppo cruenta, e di sbocco imprevisto e imprevedibile. SICINIO - Ebbene, allora,
nobile Menenio, sii tu il rappresentante della plebe. (Alla folla) Mastri, giù
l’armi. BRUTO - Ma senza disperdervi. SICINIO - E radunatevi di nuovo al Foro.
(A Menenio) Ti aspetteremo là; e se torni senza condurre Marcio, procederemo
come stabilito. MENENIO - Ve lo conduco. (Ai Senatori) Mi sia consentito di
chiedere la vostra compagnia. Dovrà venire, o ne seguirà il peggio. PRIMO
SENATORE - Sì, vi prego, rechiamoci da lui. (Escono tutti) SCENA II -Roma, in
casa di Coriolano Entra CORIOLANO con alcuni PATRIZI CORIOLANO - Mi facciano
crollare il mondo addosso, mi minaccino morte sulla ruota, o trascinato da
cavalli bradi, o accatastino l’una sopra l’altra sulla Rupe Tarpea dieci
colline, sì che non sia più manifesto agli occhi il fondo stesso di quel
precipizio, io con loro, sarò sempre così! PRIMO PATRIZIO - E ciò ti rende di
tanto più nobile. CORIOLANO - Quello che mi stupisce è che mia madre non
approvi più questa mia condotta, lei che ha sempre chiamato quella gente
servitoracci imbottiti di lana(143), cose fatte per essere comprate e rivendute
poi per quattro soldi(144) o per mostrar nelle loro assemblee zucche pelate,
bocche spalancate, ferme inchiodate lì, in ammirazione, se solamente alcuno del
mio rango si levasse a parlar di pace o guerra. Entra VOLUMNIA Di te parlavo
appunto: perché vuoi ch’io mi mostri più tenero? Dovrei tradir la mia vera
natura? Dimmi piuttosto che ad agir così non faccio che mostrarmi quel che
sono. VOLUMNIA - Ah, figliolo, figliolo, tu, il potere avrei voluto l’avessi indossato(145)
prima di consumarlo, come hai fatto... CORIOLANO - Lascia andare. VOLUMNIA -
... e restare pur te stesso senza sforzarti tanto di ostentarlo. E ti saresti
posto meno ostacoli ai tuoi fini, se non li avessi esposti così scopertamente
agli occhi loro prima ch’essi perdessero il potere di frapporti essi stessi
degli ostacoli. CORIOLANO - Vadano tutti quanti ad impiccarsi! VOLUMNIA - Ah,
per me, vadano a bruciarsi vivi! Entra MENENIO, coi SENATORI MENENIO - Troppo
rude sei stato, su, un po’ troppo! Ora devi ripresentarti a loro, e
rimediare. PRIMO SENATORE – È l’unico rimedio, o la città si spacca e va
in rovina. VOLUMNIA - Segui il loro consiglio, te ne prego. Ho un cuore anch’io
poco incline alla resa simile al tuo, ma ho pure un cervello che sa sfruttare a
suo pro l’ira altrui. MENENIO - Ben detto, nobilissima matrona! Anch’io
piuttosto che vederlo prono ad umiliarsi innanzi a questo gregge, se non fosse
che il corso degli eventi lo rende necessario come un farmaco per la salute
dell’intero Stato, indosserei la mia vecchia armatura, con tutto che ne regga
appena il peso. CORIOLANO - Che devo fare? MENENIO - Tornar dai Tribuni.
CORIOLANO - Va bene, e poi? MENENIO - Far finta di pentirti di tutto ciò che
hai detto. CORIOLANO - Innanzi a loro? Non lo faccio nemmeno con gli dèi, devo
farlo con loro? VOLUMNIA - Figlio mio(146), sei troppo altero, troppo
distaccato, pur se questo non può mai dirsi troppo per un nobile; salvo che a
parlare non siano le esigenze del momento. T’ho udito dire sovente che in guerra
onore e astuzia crescon di conserta, da amici inseparabili. È così? Spiegami
allora che cosa han da perdere i due dal seguitare quest’accordo anche in tempo
di pace. CORIOLANO - Che discorsi! MENENIO - Una domanda pertinente, invece!
VOLUMNIA - Se in guerra tu consideri onorevole sembrar quello che non sei, e
fai di questo il mezzo per raggiungere i tuoi fini, perché dovrebbe questa tua
politica perdere d’efficacia e di valore, accoppiandosi in pace, come in
guerra, all’onore, se d’ambedue le cose si presenti l’egual necessità?
CORIOLANO - Perché insisti su questo? VOLUMNIA - Perché è questo per te il
momento di parlare al popolo, non seguendo la tua ispirazione, o quello che ti
suggerisca il cuore, ma con parole mandate a memoria sulla lingua, se pur solo
bastarde e sillabate senza alcun rapporto con quella verità che hai nel petto.
Ebbene, non c’è nulla in tutto questo che ti possa recare disonore; non più che
conquistare una città col mezzo di gentili paroline, in un momento in cui ogni
altro mezzo t’avrebbe esposto ai colpi di fortuna o al rischio di far correr
molto sangue. Io non avrei alcuna esitazione a nasconder la mia vera natura, se
mi fosse richiesto dall’onore essendo in gioco la mia stessa sorte, o quella
degli amici. Ebbene, figlio, in tal frangente adesso ci troviamo io, tua
moglie, tuo figlio, i senatori, i nobili; e tu stimi che sia meglio mostrare a
questa turba di pagliacci come sei bravo a far la faccia dura, invece di
sprecare una moina per guadagnarti le lor simpatie e per salvare ciò che, senza
questo, può andar perduto. MENENIO - Nobile matrona! (A Coriolano) Vieni dunque
con noi, e parla loro con parole acconce. Potrai così non soltanto salvare quel
che oggi è in pericolo, ma rimediare alle passate perdite. VOLUMNIA - Sì,
figlio mio, ti prego, ti scongiuro, va’ da loro con il cappello in mano(149),
e, tesolo così, con largo gesto - perché così devi fare con loro - le tue
ginocchia sfiorando le pietre - in certe cose il gesto è più eloquente delle
parole, ché degli ignoranti son più istruiti gli occhi che le orecchie -
ed abbassando e rialzando il capo come a correggere, con questo gesto, l’altero
cuore, divenuto docile per l’occasione come mora sfatta che si stacca dal rovo
al primo tocco, di’ loro che tu sei il lor soldato, e che, cresciuto in mezzo
alle battaglie, non hai quel tanto di buone maniere che - lo confesserai -
sarebbe giusto per te di usare e per loro di esigere nel momento in cui chiedi
il loro voto; ma che, d’ora in avanti, a giuramento, modellerai te stesso a lor
talento, per quanto sarà in te e in tuo potere. MENENIO - Una volta che avrai
fatto così, esattamente come lei ti dice, ebbene, i loro cuori saran tuoi:
perché quelli, se uno glielo chiede, sono altrettanto facili al perdono che a
sbraitare per cose da nulla. VOLUMNIA - Ti prego, va’ e riesci a dominarti;
anche se so che con un tuo nemico preferiresti magari inseguirlo fin dentro una
voragine di fuoco piuttosto che adularlo in un salotto. Entra COMINIO Ecco
Cominio. COMINIO - Sono stato al Foro; bisognerà davvero, Coriolano, che tu ci
vada bene accompagnato, e che sappi difenderti con calma, o non andarci
affatto. È tutto furia. MENENIO - Basta parlare con un po’ di garbo. COMINIO -
Sì, basterà, se saprà contenersi. VOLUMNIA - Si deve contenere, e lo farà. Ti
prego, dimmi che sei pronto a farlo, e vacci. CORIOLANO - Debbo andare a
mostrar loro la mia zucca scoperta(150)? Dare con vile lingua una smentita al
mio nobile cuore, e comandargli di sopportarla?... Bene, lo farò.
Sebbene, si trattasse sol di perdere questo pugno di fango, per mio conto
questa forma che porta nome Marcio la potrebbero macinare in polvere e
disperderla al vento... Andiamo al Foro! Però la parte che m’avete imposta non
saprò mai rappresentarla al vivo. COMINIO - Via, via, te la suggeriremo noi.
VOLUMNIA - Figlio caro, ti prego, hai sempre detto che le mie lodi furono le
prime a far di te un soldato, e questa volta per meritarle recita una parte mai
fatta prima. CORIOLANO - Bene, devo farlo. Natura mia, abbandonami, e di me
s’impossessi ora lo spirito d’una puttana! La voce di guerra che si fondeva con
il mio tamburo si tramuti nell’esile falsetto da sottile cannuccia dell’eunuco
e da vocina della verginella che culla i bimbi con la ninna-nanna! Sulle mie
guance restino accampati i ghignosi sorrisi dei furfanti, le lacrimucce dello
scolaretto m’inondino gli specchi della vista; tra le mie labbra venga ad
agitarsi una lingua d’abbietto mendicante, ed i ginocchi che nell’armatura si
piegavano solo sulla staffa, si flettan come quelli del pitocco ch’abbia pur
mo’ buscato l’elemosina! Non lo farò, non voglio tralignare dal rimanere fedele
a me stesso, e col comportamento del mio corpo indurmi ad insegnare alla mia
anima una bassezza non più cancellabile. VOLUMNIA - Fa’ come credi. Sento più
vergogna io a pregare te, che tu non senta a pregar loro. Vada tutto a male! E
lascia che tua madre abbia a soffrire del tuo orgoglio, più di quanto tema per
questa tua rischiosa ostinazione; perch’io so farmi beffa quanto te della
morte. Ma fa’ a tuo talento. Il tuo coraggio è mio: tu l’hai succhiato da
me. Ma la superbia è solo tua. CORIOLANO - Non inquietarti, madre, te ne prego.
Vado al Foro. Non farmi più rimbrotti. Farò sfoggio di ciarlataneria per
conquistar le loro simpatie, riuscirò a scroccare i loro cuori, e mi vedrai
tornare a casa amato da tutte le romane mestieranze. Guarda, sto andando.
Saluta mia moglie. Tornerò console, o d’ora in poi non fidarti di quanto saprà
fare la mia lingua nell’arte di adulare. VOLUMNIA - Fa’ come vuoi. Addio. (Esce)
COMINIO - I Tribuni t’aspettano. Muoviamoci. Preparati a rispondere con calma,
ché quelli, a quanto sento, hanno approntato contro di te accuse assai più
gravi di quelle che già porti sulle spalle. CORIOLANO - “Con calma”, sì, è la
parola d’ordine. Andiamo pure. Risponderò loro come mi detta il cuore,: per
quante accuse vorranno inventarsi. MENENIO - Sì, ma garbatamente. CORIOLANO - E
come no! Garbatamente, sì, garbatamente! (Escono) Entrano BRUTO e SICINIO SCENA
III -Roma, il Foro BRUTO - Su questo punto attacchiamolo a fondo: che la sua
mira è il potere assoluto. Se qui ci sfugge, dobbiamo incalzarlo sul suo
comportamento ostile al popolo, e sul bottino tolto a quelli di Anzio, che non
è stato mai distribuito. Entra un EDILE Allora, viene? EDILE – È qui che
sta arrivando. BRUTO - Chi l’accompagna? EDILE - Il solito Menenio e i patrizi
che l’han sempre appoggiato. SICINIO - Hai la lista completa dei voti che gli
abbiamo procurato, suddivisi per singoli comizi? EDILE - L’ho qui con me,
completa. SICINIO - Per tribù(152)? EDILE - Sì. SICINIO - Convochiamo allora in
assemblea la plebe, subito. E quando udranno da me queste parole: “Così sia,
per il diritto e il potere del popolo”, o si tratti di condannarlo a morte, o a
pagare un’ammenda, o all’esilio, s’io grido: “Ammenda!”, ripetano: “Ammenda!”,
se grido: “Morte!”, ripetano: “Morte!”, riaffermando con questa procedura
l’antico privilegio ed il potere di giudicare nella giusta causa. EDILE - Li
informerò di queste tue istruzioni. BRUTO - E che non cessino più di gridare,
ma reclamino, con maggior clamore la pronta ed immediata esecuzione di quanto
sarà stato sentenziato. EDILE - Perfettamente. SICINIO - E vengano in gran
numero, e siano tutti pronti all’imbeccata che noi daremo loro al punto giusto.
BRUTO - Va’, provvedi che tutto ciò sia fatto. (Esce l’Edile) (A Sicinio)
Portalo subito a perder la calma. È uso a vincere e s’avvampa subito se
contraddetto: una volta scaldato, non ha più freni alla moderazione,
spiattella tutto ciò che tiene in petto; ed è a quel punto che ci porge il
destro di farsi rompere l’osso del collo. Entrano CORIOLANO, MENENIO, COMINIO,
con senatori e patrizi SICINIO - Bene, arriva. MENENIO - (Piano, a Coriolano)
Mi raccomando, calma. CORIOLANO - Sì, calma, calma, come uno stalliere che per i
quattro soldi della paga sopporta d’essere chiamato “bestia”! (Forte) Vogliano
sempre i venerandi dèi serbar sicura Roma e provvedere che agli alti seggi
della sua giustizia seggan uomini degni! Vogliano seminar tra noi l’amore,
affollar di pacifici cortei i nostri templi, e non d’interne lotte le nostre
strade. PRIMO SENATORE - Amèn. MENENIO - Nobile augurio. Rientra l’EDILE con la
folla dei plebei SICINIO - Venite pure avanti, cittadini. EDILE - Ascoltate i
Tribuni. Olà, silenzio! CORIOLANO - Prima ascoltate me. I DUE TRIBUNI - Va
bene, parla. (Alla folla) Silenzio, voi, laggiù! CORIOLANO - Ci saranno altre
accuse aggiunte a queste, oppure tutto si decide qui? SICINIO - Io ti chiedo se
intendi sottostare a quel che il popolo andrà a votare, riconoscere i suoi
rappresentanti, se accetterai di scontare la pena prevista dalla legge per le
colpe che saranno a tuo carico provate. CORIOLANO - Accetto. MENENIO - Lo
sentite, cittadini? Ecco, dice che è pronto ad accettare! A voi di valutare
giustamente tutti i servizi da lui resi in guerra; considerate pure le ferite
che porta numerose sul suo corpo, come tombe in un santo cimitero. CORIOLANO -
Solo graffi di spine, cicatrici da ridere, nient’altro. MENENIO - Considerate
poi che nell’esprimersi, se non parla come uno di città, dovete in lui vedere
il soldato. Non prendete l’asprezza del suo dire per malagrazia nei riguardi
vostri, ma, come dico, lo dovete prendere come il parlare proprio d’un soldato
e non già d’uno che vi vuole male. COMINIO - Bene, basta così. CORIOLANO - Per
qual motivo, dopo che sono stato eletto console con voto unanime, devo sentirmi
leso nell’onore a tal punto, che, dopo appena un’ora, volete ritrattare il
vostro voto? SICINIO - Rispondi a noi, piuttosto. CORIOLANO - Già, tocca a me
rispondere. Di’ pure. SICINIO - Noi t’accusiamo d’aver macchinato con l’intento
di spazzar via da Roma tutte le cariche costituite, e di puntare, per traverse
vie, al potere assoluto: onde tu sei traditore del popolo romano. CORIOLANO -
Che! Traditore, io? MENENIO - No, no, sta’ calmo. Ricorda la promessa...
CORIOLANO - Questo popolo, che se lo inghiotta il più profondo inferno! Io,
traditore! Insolente tribuno! Avessi tu stampata nei tuoi occhi la morte
ventimila volte, e in mano ne avessi tu milioni, e ancora il doppio su quella
tua linguaccia di bugiardo, ti griderò: “Tu menti!” con quella stessa mia voce
dell’animo altrettanto spontanea come quella con cui prego gli dèi: SICINIO -
(Alla folla) Lo senti, popolo? PLEBEI - Alla Rupe! Alla Rupe quello là! SICINIO
- Basta così, non servono altre accuse! Avete visto tutti quel che ha fatto,
udito che ha detto: ha malmenato i vostri delegati, v’ha insultati, ha
resistito violento alla legge, ed ha sfidato qui l’alto potere di coloro che
devon giudicarlo: tutto questo è delitto capitale, da meritar nient’altro che
la morte. BRUTO - Tuttavia, poiché ha ben servito per il bene di Roma...
CORIOLANO - Che vuoi cianciare tu di ben servire? BRUTO - Dico ciò che conosco.
CORIOLANO - Proprio tu! MENENIO - (A Coriolano) È così che mantieni la promessa
fatta a tua madre? COMINIO - Sappi, amico, che... CORIOLANO - Non voglio saper
altro! Mi condannino pure come vogliono: ad essere buttato dalla Rupe, ad
andare in esilio vagabondo, magari ad essere scuoiato vivo, o a languire di fame
in una cella con un granello di frumento al giorno: mai m’indurrò a comprare la
pietà al prezzo d’una sola parolina d’adulazione, mai mi s’indurrà a trattenere
la mia repulsione dall’ottener da loro qualche cosa, bastasse pure dir
solo “buongiorno”! SICINIO - Attesoché in diverse occasioni ha fatto tutto
ch’era in suo potere per mostrare il suo odio contro il popolo, cercando ogni
possibile espediente per strappargli il potere; ed anche in questa s’è mostrato
ostile non solo contro l’austera giustizia ma contro chi la deve amministrare,
noi, in nome del popolo e nella nostra veste di tribuni, lo bandiamo da questo
stesso istante dalla nostra città, sotto minaccia d’esser precipitato dalla
Rupe, se ancor varcasse le porte di Roma. Così sentenzio, nel nome del popolo.
PLEBEI - E così sia! E così sia! Cacciamolo! È bandito da Roma, e così sia!
COMINIO - Ch’io vi parli, miei mastri, amici miei... Ascoltatemi. Sono stato
console, e sul mio corpo porto le ferite che m’hanno fatto i nemici di Roma. Io
di questa mia patria ho caro il bene con più tenero, più sacro rispetto, più
profondo della mia stessa vita, dell’onore della mia cara sposa, dei frutti del
suo grembo, e prezioso tesoro dei miei lombi. Perciò s’io vi dicessi... SICINIO
- Che vuoi dire? Sappiamo già dove vuoi arrivare. BRUTO - Non c’è altro da
dire, se non che questi è bandito da Roma, come nemico di Roma e del popolo. E
così sia. PLEBEI - E così ha da essere! CORIOLANO - Branco di miserabili
cagnacci, il cui fiato fetente io detesto come l’aria d’una palude infetta, i
cui favori apprezzo quanto il lezzo ammorbante l’atmosfera delle carcasse
d’uomini insepolti, son io che vi bandisco ora da me! E qui restate coi vostri
orgasmi! Che ogni minima voce metta a tutti in cuor la tremarella! Ed i
nemici col solo scuotere delle lor piume, vi piombino nella disperazione.
Tenetevelo stretto un tal potere di dare il bando a chi vi può difendere,
finché alla lunga la vostra insipienza, che nulla impara finché non lo prova,
non risparmiando nemmeno voi stessi, di voi stessi facendovi nemici, non vi
consegni, come prigionieri i più disonorati, a una nazione, che vi avrà vinti
senza un solo colpo! Così, sprezzando io la mia città per causa vostra, le
volto le spalle. C’è un mondo pure altrove! (Esce con Cominio, Menenio e gli
altri patrizi) EDILE - Il nemico del popolo è partito! PLEBEI - Via il nostro
nemico! Al bando! Evviva! (Gridano tutti, gettando in aria i berretti) SICINIO
- Ora andate a vederlo quand’esce dalla porta di città, e con lo sguardo lo
segua ciascuno con lo stesso disprezzo col quale egli ha guardato sempre voi.
Dategli la tortura che si merita. Che una guardia ci scorti, nel mentre
attraversiamo la città. PLEBEI - Alla porta! Alla porta! Andiamo, andiamo! A
vederlo mentre esce di città! Gli dèi proteggano i nostri Tribuni! Andiamo,
andiamo tutti! (Escono) ATTO QUARTO SCENA I -Roma, davanti a una porta
della città(155) Entrano CORIOLANO, VOLUMNIA, VIRGINIA, MENENIO, COMINIO e
giovani patrizi CORIOLANO - (Alla madre e alla moglie) Basta, via, con le lacrime.
Un addio breve. Mi caccia a cornate la mala bestia dalle molte teste(156)...
Madre, suvvia, fa’ cuore! Dov’è dunque l’antico tuo coraggio? M’hai sempre
detto che gli estremi mali sono le grandi prove dello spirito; che le comuni
avversità son cose che anche la gente bassa sa patire; che con calma di mare,
ogni naviglio, qual che sia la stazza, si mostra in grado di tenere il mare;
che quanto più in profondo si dirigono i colpi della sorte, tanto più
nobilmente i nostri sensi devon sopportarne le ferite. M’hai sempre caricato di
precetti che dovevano rendere invincibile il cuore che li avesse
assimilati(157)... VIRGINIA - O cieli! O cieli! CORIOLANO - No, ti prego,
donna... VOLUMNIA - La peste colga tutti i mestieranti di Roma, e muoiano tutti
i mestieri! CORIOLANO - Via, via, che assente mi rimpiangeranno. Su, su, madre,
ritrova il vecchio spirito di quando non facevi che ripetermi - ricordi? - che
se fossi stata tu la moglie d’Ercole, avresti fatto sei delle sue fatiche,
risparmiando metà dei suoi sudori a tuo marito... Cominio, non ti contristare.
Adieu! Addio, mia sposa, addio, madre mia! Saprò cavarmela, malgrado tutto. E
tu, mio vecchio e fedele Menenio, le tue lacrime sono più salate delle lacrime
d’occhi giovanili, e son come veleno per i tuoi. (A Cominio) Mio caro
generale, t’ho visto spesso fermo ed impassibile davanti a viste da impietrire
il cuore: fa’ tu capire a queste afflitte donne che piangere per colpi
inevitabili è tanto stolto quanto è stolto il riderne. Madre, sai bene che per
te i miei rischi sono stati la tua consolazione, e sta’ certa che s’anche me ne
vado solo, solingo come un drago solitario che fa temibile la sua palude e del
quale la gente parla tanto quanto meno lo vede, questo figlio farà qualcosa di
straordinario; se non riusciranno a catturarlo col mezzo dell’inganno e
dell’astuzia. VOLUMNIA - Ma dove te ne andrai, figliolo mio? Prendi almeno con
te, per qualche tempo, il buon Cominio. Decidi che fare, non esporti alla cieca
ad ogni evento che ti si possa offrire sul cammino. VIRGINIA - O dèi!...
COMINIO - Vengo con te per tutto un mese; così potremo decidere insieme dove
fermarti sì che poi di te possiamo aver notizia e tu di noi; così se con il
tempo fiorirà l’occasione del tuo richiamo in patria, non dovremo mandare per
un uomo alla ricerca in tutto il vasto mondo e perdere il vantaggio del
momento, che sempre fatalmente si raffredda nell’assenza di chi deve
giovarsene. CORIOLANO - Addio, Cominio. Sei carico d’anni, e pesano ancor
troppo su di te le fatiche di guerra, per pensare d’andare alla ventura per il
mondo con uno che ce la può far da sé. Accompagnami solo per un pezzo fuori le
mura. Vieni, dolce sposa, madre amatissima, amici miei di nobil tempra; e
appena sarò fuori ditemi tutti addio con un sorriso. Vi prego, andiamo. Avrete
mie notizie fintanto che avrò i piedi sulla terra; e non saprete mai nulla di
me se non di quel che sono sempre stato. MENENIO - Questo parlare è
quanto di più nobile può udire orecchio. Ebbene, niente lacrime! Potessi
scuotermi solo sett’anni da queste stagionate braccia e gambe, ti seguirei, per
gli dèi, passo passo! CORIOLANO - Qua la tua mano nella mia. Andiamo. (Escono)
SCENA Roma, davanti a una porta della città Entrano i due TRIBUNI con un EDILE
SICINIO - Rimandiamoli a casa. È andato via. È inutile che procediamo oltre. I
nobili non l’han mandata giù. Tutti dalla sua parte, abbiamo visto. BRUTO -
Ora, però, che abbiam mostrato i denti ci conviene mostrarci più dimessi di
quando tutto questo era da fare. SICINIO - (All’Edile) Mandali a casa. Di’ che
il gran nemico se n’è andato, e la loro antica forza è sempre intatta. BRUTO -
(All’Edile) Sì, mandali a casa. Esce l’Edile Ecco sua madre. Entrano VOLUMNIA,
VIRGINIA e MENENIO SICINIO - Evitiamola. È meglio. BRUTO - Perché? SICINIO - La
dicon furibonda pazza. BRUTO - Ci hanno visti. Cammina, tira dritto. VOLUMNIA -
Oh, v’incontro a buon punto! Tutte le più schifose pestilenze tenute in serbo dagli
dèi per gli uomini possano ripagare il vostro zelo! MENENIO - Non gridare
così! VOLUMNIA - Ancor più forte mi sentiresti, se non fosse il pianto... Anzi,
mi sentirai lo stesso, adesso... (A Bruto) Che! Te ne vai? VIRGINIA - (A
Sicinio) Resta qui anche tu... Potessi dir lo stesso a mio marito! SICINIO - (A
Volumnia) Diamine, siete diventate uomini? VOLUMNIA - Certo, imbecille, è forse
una vergogna? Stammi a sentire, pezzo di babbeo: uomo non era forse il padre
mio? Tu invece no, tu sei solo la volpe ch’è riuscita a cacciar via da Roma un
uomo che per Roma ha dispensato più colpi che parole tu abbia detto. SICINIO -
O dèi beati! VOLUMNIA - Sì, colpi più nobili che tu sagge parole, e dispensati
per il bene di Roma. Sai che ti dico?... Ma va’, va’... No, invece, no, anzi
resta... Vorrei che mio figlio si trovasse in Arabia, spada in pugno, a faccia
a faccia con la tua tribù. SICINIO - Ebbene, allora? VIRGINIA - Allora
sentiresti! Porrebbe fine a tutta la tua schiatta. VOLUMNIA - A tutta la tua
razza di bastardi. Quel gagliardo, con tutte le ferite che si porta per Roma!
MENENIO - Via, sta’ calma. SICINIO - Se avesse seguitato a comportarsi verso la
patria come da principio, e non avesse spezzato lui stesso il generoso nodo da
lui stretto... BRUTO - Ah, sì, magari avesse... VOLUMNIA - “Ah, sì,
magari”! Ma se vi siete dati proprio voi ad infiammar la folla! Voi, gattacci,
che siete in grado di stimare i meriti non più di quanto io sappia scrutare i
misteri insondabili del cielo! BRUTO - Andiamo, prego. VOLUMNIA - Prego,
andate, andate. Avete fatto una bella prodezza. Prima, però, sentite che vi
dico: di quanto s’erge in alto il Campidoglio sopra il più misero tetto di
Roma, di tanto il figlio mio e di costei sposo - di questa donna qui, vedete?
-, da voi bandito, vi sovrasta tutti. BRUTO - Bene, bene, ma adesso vi
lasciamo. SICINIO - Perché star qui a sorbirci gli improperi d’una che ha perso
chiaramente il senno? (Escono i due Tribuni) VOLUMNIA - E v’accompagnino le mie
preghiere. Non avesser gli dèi altro da fare che confermar le mie maledizioni!
Ah, potessi incontrarli, questi due, anche una volta al giorno: già basterebbe
per sentirmi il cuore sollevato dal peso che l’opprime. MENENIO - Gli hai detto
il fatto loro, e, francamente, ne avevi ragione. Non vorreste cenare insieme a
me? VOLUMNIA - È la rabbia il mio cibo. La mia cena la farò su me stessa,
divorandomi, così mangiando morirò di fame. (A Virginia) Andiamo, cessa di
piagnucolare, e lamentati, come faccio io, di rabbia, alla maniera di Giunone.
Andiamo. (Escono Volumnia e Virginia) MENENIO - Vituperio, vituperio!
(Esce) SCENA La strada fra Roma e Anzio Entrano NICANOR, soldato romano, e
ADRIANO, soldato volsco, incontrandosi NICANOR - Io ti conosco, amico; ed anche
tu devi conoscer me. Se non mi sbaglio, ti chiami Adriano. ADRIANO -
Esattamente, amico; ma, in coscienza, di te non mi ricordo. NICANOR - Son
romano, ma uno che lavora, come te, contro i Romani. Mi ravvisi adesso? ADRIANO
- Nicanor?... NICANOR - Sì, amico, proprio lui. ADRIANO - Più barba avevi,
quando t’ho incontrato l’ultima volta, ma la voce è quella. Bene, che novità ci
sono a Roma? Ho qui un mandato del governo volsco di ricercarti là; ma adesso
tu m’hai risparmiato un giorno di cammino. NICANOR - Ci sono state a Roma
insurrezioni mai viste prima(163): il popolo in rivolta contro il Senato, i
nobili, i patrizi. ADRIANO - “Ci sono state...”. Perché, son finite? I nostri
governanti non lo credono; stanno facendo grandi apprestamenti per la guerra,
sperando di sorprenderli nel pieno ardore delle lor discordie. NICANOR - Beh,
la grande fiammata ormai è spenta; ma basta una scintilla a ravvivarla, perché
i nobili han preso così male la cacciata del prode Coriolano, da ritener matura
l’occasione per togliere alla plebe ogni potere e strapparle per sempre i suoi
tribuni. C’è fuoco sotto cenere, ti dico, e sta lì lì per divampar di nuovo.
ADRIANO - Coriolano bandito! NICANOR - Sì, bandito. ADRIANO - A Corioli
farà molto piacere, Nicanor, questa tua informazione. NICANOR - Lo credo; è un
buon momento, ora, per loro. Ho sempre udito che il miglior momento per sedurre
la moglie di qualcuno è quando ha litigato col marito. Il vostro valoroso Tullo
Aufidio avrà modo di mettersi in gran luce in questa guerra, il suo grande
avversario, Coriolano, trovandosi in disgrazia col suo paese. ADRIANO - Per
forza di cose. È stata veramente una fortuna per me incontrarti, così,
casualmente; hai concluso così la mia missione, e con piacere t’accompagno a
casa. NICANOR - Fino all’ora di cena avrò da dirti molte cose stranissime da
Roma, e tutte vantaggiose ai suoi nemici. Hai detto che hanno pronto già un
esercito? ADRIANO - E che fiore d’esercito! Magnifico! I centurioni, con i loro
uomini, già arruolati, al soldo dello Stato, equipaggiati e pronti a entrare in
campo in termine di un’ora. NICANOR - Son contento di udire che son pronti,
perché ritengo d’esser proprio io quello che li farà mettere in marcia con la
massima urgenza. Bene incontrato, dunque, amico mio, e molto lieto della
compagnia. ADRIANO - Tu mi rubi di bocca le parole, amico; sono io che ho più
ragione di rallegrarmi. NICANOR - Bene, incamminiamoci. (Escono) SCENA IV -
Anzio, davanti alla casa di Aufidio Entra CORIOLANO in abito dimesso,
travestito e imbacuccato CORIOLANO - Bella città quest’Anzio! E son io qui,
Anzio, che le tue donne ha reso vedove. Ho udito gemere sotto i miei colpi
molti eredi di queste tue magioni e cadere. Perciò non riconoscermi, che le tue
donne con i loro spiedi ed i ragazzi con le lor sassate non m’uccidano in un
puerile scontro. Entra un CITTADINO Salve, amico. CITTADINO - Salute a te.
CORIOLANO - Di grazia, sapresti dirmi dove sta di casa il grande Aufidio? Si
trova qui ad Anzio? CITTADINO - Sì, e banchetta a casa sua stasera con i
notabili della città. CORIOLANO - Qual è la casa sua? CITTADINO - Ce l’hai
davanti. CORIOLANO - Grazie, amico, salute. (Esce il Cittadino) O mondo, le tue
scivolose curve! Amici uniti da antica affezione, da sembrare un sol cuore
entro due petti, da trascorrere insieme tutti i giorni le ore, il letto, la
mensa, il lavoro, inseparabili nel loro affetto come fossero stati due gemelli,
basta uno screzio, un dissenso da niente per rompere in tremenda inimicizia.
Così ugualmente nemici giurati cui l’ira e il furore dell’intrigo tolsero il
sonno a forza di pensare come distruggersi l’uno con l’altro, ecco che per un
caso, una sciocchezza che vale meno d’una coccia d’uovo, possono diventare
grandi amici e unir le loro sorti. Così io: detesto il luogo dove sono nato e
guardo con amore a una città che mi è stata nemica... Beh, io entro. Se
m’uccide, si sarà solo preso una giusta rivalsa. Se m’accetta, mi metterò a
servire il suo paese. (Esce) Musica da dentro SCENA V - Anzio, l’interno della
casa di Aufidio Entra un SERVO, gridando, affaccendato e traversando la scena
PRIMO SERVO - Vino, vino!... Che razza di servizio! Qui mi paiono tutti
addormentati! (Esce) Entra un altro SERVO SECONDO SERVO - (Chiamando) Coto!...
Ma dove s’è cacciato?... Coto! Il padrone lo vuole. Entra CORIOLANO CORIOLANO -
Bella casa... Dal banchetto promana un buon odore; ma io non sembro certo un
convitato. Rientra il PRIMO SERVO PRIMO SERVO - Che vuoi, amico? Da che parte
vieni? Qui per te non c’è posto. Fila, prego. (Esce) CORIOLANO - Essendo
Coriolano, non mi merito da questa gente miglior trattamento(164). Rientra il
SECONDO SERVO SECONDO SERVO - Da dove spunti, amico?... Ma il portiere ce l’ha
gli occhi, che lascia entrare qui figuri come te? Va’ fuori, via! CORIOLANO -
Via tu, piuttosto. SECONDO SERVO - Io? Aria, sparisci! CORIOLANO - Ora
cominci a infastidirmi. SECONDO SERVO - Ah! Ci fai pure il gradasso? Ora
vedrai: ti faccio dire io due paroline. Entra un TERZO SERVO, insieme con il
PRIMO TERZO SERVO - Chi è costui? PRIMO SERVO - Uno strano figuro quale mai m’è
caduto sotto gli occhi. Non mi riesce di mandarlo via. Fammi il favore, chiama
tu il padrone. TERZO SERVO - (A Coriolano) Che ci fai qui, compare? Su, va’
fuori. CORIOLANO - Lasciami solo starmene qui, in piedi. Non ti farò alcun
danno al focolare. TERZO SERVO - Chi sei? CORIOLANO - Un nobile. TERZO SERVO -
Sarai un nobile, ma sei meravigliosamente povero. CORIOLANO - È vero. TERZO
SERVO - E dunque, nobile spiantato, ti prego, scegliti qualche altro posto.
Questo non è per te. Sgombrare, via! CORIOLANO - Seguita pure a far le tue
faccende, va’ ad ingozzarti con i loro avanzi. (Gli dà una spinta, mentre il
Terzo Servo gli si avvicina) TERZO SERVO - Che! Non vuoi? (Al Secondo Servo)
Per favore, di’ al padrone che strano convitato ha dentro casa. SECONDO SERVO -
Vado subito. (Esce) TERZO SERVO - (A Coriolano) Dove stai di casa?
CORIOLANO - Sotto il gran baldacchino(165). TERZO SERVO - Il baldacchino?
CORIOLANO - Sì. TERZO SERVO - E dov’è codesto baldacchino? CORIOLANO - Nella
città dei nibbi e dei corbacchi. TERZO SERVO - Nella città dei nibbi e dei
corbacchi? Che razza di somaro è mai costui! Allora alloggi pure con le
taccole(167)? CORIOLANO - No, questo no: non mi trovo al servizio del tuo
padrone. TERZO SERVO - Che vuoi dir, compare? Vuoi avere a che far col mio
padrone? CORIOLANO - Certo, e sarebbe più onesto servizio dell’aver a che far
con la tua ganza. Tu cianci troppo. Va’ a servir la tavola col tuo tagliere.
Lèvati di mezzo! (Lo caccia via percuotendolo) Entra TULLO AUFIDIO col SECONDO
SERVO AUFIDIO - Dov’è dunque quest’uomo? SECONDO SERVO - (Indicando Coriolano)
È qui, padrone. L’avrei cacciato a calci come un cane; non l’ho fatto per non
recar disturbo alle lor signorie che son di là. (Il Primo e Secondo Servo si
fanno da parte) AUFIDIO - (A Coriolano) Da dove vieni? Che vuoi? Il tuo
nome?... Perché non parli?... Avanti, di’ chi sei. CORIOLANO - (Scoprendosi il
volto) Tullo, se ancor non m’hai riconosciuto, e se, a guardarmi, non sai
ravvisarmi per quel che sono, ti dirò il mio nome. AUFIDIO - Cioè? CORIOLANO -
Un nome che non suona musica agli orecchi dei Volsci, e soprattutto deve
suonar ben aspro a quelli tuoi. AUFIDIO - E dillo, questo nome! Hai l’aria
fiera e impresso in faccia il segno del comando. Anche se il tuo sartiame va a
brandelli, la struttura completa dello scafo rivela nobiltà. Qual è il tuo
nome? CORIOLANO - Prepara la tua fronte ad aggrottarsi. Ancora dunque non mi
riconosci? AUFIDIO - No, non ti riconosco. Dimmi il nome. CORIOLANO - Son Caio
Marcio: l’uomo che ha procurato a te in particolare e a tutti i Volsci assai
malanni e lutti. N’è testimone questo soprannome: Coriolano, che m’hanno dato a
Roma. Il gravoso servizio militare, i pericoli estremi da me corsi e le gocce
di sangue che ho versato per l’irriconoscente patria mia m’hanno fruttato,
quale ricompensa, nulla di più che questo soprannome: un bel ricordo, una
testimonianza per te di tutto l’odio ed il rancore che dovresti portarmi.
Questo nome è però tutto ciò che mi rimane: le crudeltà, l’invidia della plebe
secondata da nobili vigliacchi che m’han lasciato a lottare da solo, si sono
divorate tutto il resto ed han permesso ch’io fossi cacciato da Roma per i voti
degli schiavi. È stato questo estremo di sventura che m’ha portato qui, al tuo
focolare; non già con la speranza - non fraintendermi - d’aver salva la vita,
ché, se avessi paura della morte, e c’è un uomo da cui dovrei guardarmi, quello
sei tu, ma per puro dispetto, e per rifarmi in pieno con coloro che m’han
bandito. E son davanti a te. Se tu covi nel cuore una rivincita che ti ripaghi
dei torti subiti, se brami cancellare la vergogna delle mutilazioni che si
vedono in ogni angolo del tuo paese, non esitare a trarre beneficio dalla mia
situazione di disgrazia: usala in modo da trarre un vantaggio da quanto
io possa far per vendicarmi. Perch’io ti dico che combatterò contro
l’incancrenito mio paese con la rabbia dei diavoli d’inferno. Ma se di tanto
osare non ti senti, e stanco sei di tentar nuove sorti, anch’io sono
stanchissimo di vivere, e pronto a presentare la mia gola a te ed all’antico
tuo rancore. E se ti rifiutassi di tagliarla, ti mostreresti soltanto uno
stolto, perché il mio odio t’ha sempre inseguito, ha fatto correre botti di
sangue dalla tua terra, ed io non potrei vivere se non che a tuo completo
disonore, salvo che non vivessi per servirti. AUFIDIO - (Dopo un cenno al
servo, che si ritira) Oh, Marcio, Marcio! Come ogni parola di queste tue m’ha
strappato dal cuore una radice dell’antico odio! Se Giove stesso su da quella
nuvola mi rivelasse divini misteri, e mi dicesse: “Questa è verità!” a lui non
crederei più che ora a te, nobilissimo Marcio! Ch’io recinga in un abbraccio
codesto tuo corpo contro il quale la mia forcuta lancia si spezzò cento volte,
e le sue schegge sfregiarono la faccia della luna! E adesso invece stringo fra
le braccia la stessa incudine della mia spada, e caldamente quanto nobilmente
gareggio col tuo ardore, come prima, con ambiziosa forza, col tuo valore. Sappi
solo questo: ho amato molto colei che ho sposato; mai uomo sospirò più
lealmente. Ma ora, nel vederti avanti a me, nobilissimo uomo, con più gioia mi
sobbalza rapito il cuore in petto di quando vidi per la prima volta la mia
sposa varcare la mia soglia. Ebbene, dico a te, come al dio Marte, che abbiamo
già un esercito allestito, pronto all’azione, ed ancora una volta m’ero
proposto di falciarti via con la mia spada lo scudo dal braccio, o di perdere
il mio; dodici volte, l’una dopo l’altra, tu m’hai piegato, e da allora
ogni notte non sogno che di scontri tra noi due: ci vedo tutti e due avvinti a
terra, e lì, dopo esserci slacciati gli elmi, afferrarci l’un l’altro per la
gola... per poi svegliarmi tutto tramortito, e perché?, per un nulla, solo un
sogno. Degno Marcio, se pur altra querela non avessimo che la tua cacciata con
Roma, chiameremmo tutti gli uomini alle armi, dai dodici ai settanta, e,
rovesciando rivoli di guerra nelle viscere dell’ingrata Roma, strariperemmo su
tutto il suo corpo con la violenza d’un torrente in piena. Ma entra, vieni a
stringere la mano ai senatori amici qui venuti a salutarmi, poi che mi preparo
ad attaccare i vostri territori, se non proprio la stessa Roma. CORIOLANO - O
dèi, questa è una vostra benedizione! AUFIDIO - Perciò se vuoi, nobilissimo
amico, prender la guida della tua vendetta, prenditi la metà delle mie forze e
decidi il da fare, a tuo talento come ti detta meglio l’esperienza; ché tu
conosci più di chiunque altro del tuo paese forza e debolezza, se sia meglio,
cioè, picchiare d’impeto alle porte di Roma, o se investirli con violenza nella
periferia, per spaventarli prima di distruggerli. Ma vieni dentro, ch’io per
prima cosa ti presenti a coloro cui compete di secondare i tuoi desiderata. Sii
dunque mille volte benvenuto, più amico oggi che nemico ieri (e lo sei stato,
Marcio, e che nemico!). Qua la mano. Sii molto benvenuto. (Escono) Il PRIMO e
il SECONDO SERVO si fanno avanti(169) PRIMO SERVO - Quale sbalorditiva
metamorfosi! SECONDO SERVO - Per questa mano, avevo già pensato, ti giuro, di
cacciarlo a bastonate... Però dentro di me lo sentivo che il suo abito
non diceva il vero... PRIMO SERVO - E che braccia!... M’ha fatto fare un giro
con la presa del pollice e del medio, come se avesse avviato una trottola.
SECONDO SERVO - Eh, l’ho capito subito dal viso che c’era in lui qualcosa; una
tal faccia che mi pareva... non so come dire. PRIMO SERVO - Sì, sì, aveva
un’aria, quasi fosse... Eh, m’impicchino se non ho capito che quello lì ci
aveva qualche cosa in più di quanto potessi pensare. SECONDO SERVO - E io lo
stesso, lo potrei giurare. Senz’altro è l’uomo più straordinario che ho visto
al mondo. PRIMO SERVO - Penso anch’io così. Però, come soldato, c’è qualcuno di
lui più grande, e tu lo sai chi è. SECONDO SERVO - Chi, il padrone? PRIMO SERVO
- Non c’è discussione. SECONDO SERVO - Ne vale sei. PRIMO SERVO - No, non
esageriamo. Però lo reputo miglior soldato. SECONDO SERVO - Guarda, in
coscienza, non so come metterla: nella difesa d’una roccaforte il nostro
generale è ineguagliabile. PRIMO SERVO - Certamente, ma pure nell’attacco.
Entra il TERZO SERVO TERZO SERVO - Ehi, furfantacci! Ho notizie da darvi, e che
notizie, figli di puttana! I DUE - Quali, quali, su, spùtale! TERZO SERVO - Fra
tutte le nazioni della terra, non vorrei essere proprio un romano: sarebbe come
una condanna a morte. I DUE - Perché, perché? TERZO SERVO - Perché quel
Caio Marcio che le ha suonate non so quante volte al nostro generale, è qui con
noi. PRIMO SERVO - “Suonate al nostro generale” hai detto? TERZO SERVO -
“Suonate” proprio no, non dico, via, però gli ha dato del filo da torcere. SECONDO
SERVO - Ah, per questo, sia detto fra di noi, per lui è stato sempre un osso
duro. L’ho udito spesso dirlo da lui stesso. PRIMO SERVO - Un osso troppo duro,
sì, per lui, a dire il vero: davanti a Corioli l’ha tagliuzzato come una
braciola. SECONDO SERVO - Se avesse avuto gusti da cannibale se lo sarebbe pur
cotto e mangiato. PRIMO SERVO - Beh, tutte qui le tue grandi notizie? TERZO
SERVO - No, lì dentro lo trattan tutti quanti che pare il figlio e l’erede di
Marte: l’hanno fatto sedere a capotavola; e i senatori, per fargli domande,
s’alzano in piedi e si scoprono il capo. Il nostro generale, poi, lo tratta
come fosse la sua cara morosa: lo sfiora con la mano come un santo, e a
sentirlo parlar strabuzza gli occhi. Ma il vero succo sapete qual è? Che il nostro
generale è dimezzato rispetto a ieri, perché l’altro mezzo se l’è preso
quell’altro, col consenso e le preghiere di tutta la tavola. Andrà, egli dice,
a tirare le orecchie a chi sta a guardia delle porte di Roma, che falcerà ogni
cosa avanti a sé, per far pulito e sgombro il suo passaggio. SECONDO SERVO - Ed
è uomo capace di far questo, quant’altri al mondo. TERZO SERVO - Farlo, lo
farà; perché, vedi, avrà, sì, tanti nemici, ma anche tanti amici; i quali amici
non hanno avuto, diciamo, il coraggio, di mostrarsi, diciamo, amici suoi mentre
lui è in discapito... PRIMO SERVO - “Discapito”? E che cos’è? TERZO SERVO
- ... ma quando lo vedranno con la cresta rialzata e bene in sangue salteran
fuori dalle loro tane come conigli dopo l’acquazzone e tutti insieme a fargli
grande festa. PRIMO SERVO - Ma quando ciò? TERZO SERVO - Domani, oggi, subito.
Potresti sentir battere il tamburo addirittura questo pomeriggio, come se fosse
l’ultima portata del lor banchetto, da tradurre in atto prima ch’essi s’asciughino
la bocca. SECONDO SERVO - Così riavremo almeno intorno a noi un po’ di
movimento. Questa pace serve solo ad arrugginire il ferro, ad accrescere il
numero dei sarti e partorire autori di ballate. PRIMO SERVO - Ah, per me, dico,
datemi la guerra! È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore
della notte; la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di
sorprese. La pace è apoplessia, è letargia: spenta, sorda, insensibile,
assonnata, e fa mettere al mondo più bastardi che non uccida uomini la guerra.
SECONDO SERVO - Proprio così. La guerra la puoi dire, per un verso, una grande
scopatrice, così come la pace una grande fattrice di cornuti. PRIMO SERVO -
Già, e fa odiare gli uomini tra loro. TERZO SERVO - Logico: perché quando sono
in pace, hanno meno bisogno l’un dell’altro. Eh, sì, la guerra a me va proprio
a genio! E spero che vedremo qui Romani a pochi soldi l’uno, come i Volsci. Si
alzano da tavola! Si alzano! PRIMO e SEC. SERVO - Dentro, dentro,
sbrighiamoci! (Escono entrando nella sala da pranzo) SCENA VI -Roma, una
piazza Entrano i tribuni SICINIO e BRUTO SICINIO - Di lui non s’è sentito più
parlare, né c’è luogo a temerne: le sue armi sono spuntate... Il popolo sta
quieto e in pace, la selvaggia agitazione è finita. Che tutto ora vada bene a
Roma, grazie a noi, fa arrossire di rabbia i suoi amici, che avrebbero di certo
preferito, a costo di soffrirne loro stessi, vedere moltitudini in rivolta per
le strade di Roma anziché udire cantare i nostri nelle lor botteghe, serenamente
intenti ai lor mestieri. BRUTO - Abbiam puntato i piedi al punto giusto. Entra
MENENIO Non è Menenio, questo? SICINIO - È lui, è lui, s’è fatto gentilissimo
con noi, da qualche tempo in qua. Salute, amico. MENENIO - Salute a voi.
SICINIO - Il vostro Coriolano non sembra essere molto rimpianto, tranne che
nella cerchia degli amici. La repubblica regge bene in piedi senza di lui, e
reggerebbe sempre, foss’egli ancor più in collera con lei. MENENIO - Sì, tutto
bene, infatti. Andrebbe meglio però, se avesse saputo aspettare. SICINIO - Hai
notizie di lui? Dove si trova? MENENIO - Non ne so nulla. La madre e la moglie
sono anch’esse sprovviste di notizie. Entrano alcuni POPOLANI I POPOLANI - (In
coro) Gli dèi v’assistano sempre, tribuni! SICINIO - Buona sera a voi
tutti. BRUTO - Buona sera! PRIMO POPOLANO - Dovremmo stare sempre
inginocchiati, noi, con le nostre mogli e i nostri figli, a pregare gli dèi per
voi due! SICINIO - Vivete e prosperate, brava gente! BRUTO - Addio, buona
salute, cari amici! Avesse avuto per voi Coriolano la premura che vi portiamo
noi! I POPOLANI - (In coro) Il cielo vi protegga! I DUE TRIBUNI - State bene.
(Escono i popolani) SICINIO - Grazie al cielo, son tempi più felici questi,
rispetto a quando questa gente si riversava in massa per le strade urlando e
seminando la rivolta. BRUTO - Marcio alla guerra è stato certamente un bravo
condottiero, ma altezzoso, ambiziosissimo, pieno di sé... SICINIO - ... e
quanto mai smanioso di diventare il padrone assoluto della repubblica, senza
collega. MENENIO - No, questo non lo credo. SICINIO - Eh, a quest’ora ce lo
saremmo ritrovato tale, a nostro gran rimpianto, s’egli fosse salito al
consolato. BRUTO - Gli dèi l’hanno impedito, per fortuna; e Roma, lui assente,
può viver tranquilla e in sicurezza. Entra un EDILE EDILE - Onorandi tribuni,
c’è uno schiavo che abbiam messo in prigione, ch’era in giro spargendo
dappertutto la notizia che i Volsci, da due parti, con due eserciti, son
penetrati nei nostri confini in armi, e van con furia micidiale, distruggendo
ogni cosa che si para sulla loro avanzata. MENENIO - Questo è Aufidio, che,
avendo appreso del bando di Marcio, tira fuori di nuovo ora le corna che ha
mantenuto sempre dentro il guscio senza osar di mostrarle, finché per Roma
combatteva Marcio. SICINIO - Evvia! Che c’entra tirar fuori Marcio! (All’Edile)
Va’, fallo fustigare l’allarmista! Non può esser che i Volsci osino tanto da
romperla con noi! MENENIO - Ah, può ben essere! Abbiamo precedenti che può
essere. Però interrogatelo quest’uomo prima di castigarlo: che dica da che
fonte ha la notizia, se non volete andar incontro al rischio di frustare la
vostra informazione e bastonare chi vi mette in guardia contro qualcosa ch’è da
far paura. SICINIO - Ma son fandonie. So che non può essere. BRUTO - No, no,
non è possibile. Entra un MESSO MESSO - Tutti i patrizi, in grande agitazione,
stanno andando al Senato. Ci son notizie che li hanno sconvolti. SICINIO - È
tutto questo schiavo... (All’Edile) Va’, fallo fustigare avanti a tutti.
L’allarme è suo; nient’altro che fandonie. MESSO - No, onorevole tribuno, no!
Il suo racconto è tutto confermato. E c’è dell’altro, ancora più terribile!
SICINIO - Ancora più terribile? Che cosa? MESSO - È tutto un dire, da bocche
diverse - quanto ci sia di vero non lo so - che Caio Marcio, unito a
Tullo Aufidio, vien marciando alla testa d’un esercito contro Roma, e giurando
una vendetta generale, così indiscriminata da includere i più giovani e i più
vecchi. SICINIO - Per chi ci crede! BRUTO - Voci sparse ad arte, per ravvivar
negli animi più fiacchi l’augurio che il “buon Marcio” torni a casa. SICINIO -
Già, questo è il loro gioco. MENENIO - Anch’io ci credo poco. Aufidio e lui son
due che possono andare d’accordo non più di quanto può l’acqua col fuoco. Entra
un altro MESSO SECONDO MESSO - Siete attesi in Senato. Un grande esercito al
comando di Marcio e Aufidio uniti, imperversa sui nostri territori,
travolgendo, incendiando, distruggendo tutto quello che incontra avanti a sé.
Entra COMINIO COMINIO - (Ai due tribuni) Che bel capolavoro avete fatto!
MENENIO - Perché, che sai, che sai? COMINIO - (Come sopra) Non potevate meglio
dare mano a farvi violentar le vostre figlie, a far piovere sulle vostre zucche
il piombo fuso dai tetti di Roma, a vedervi stuprare sotto gli occhi le vostre
mogli... MENENIO - Perché? Che succede? COMINIO - ... a vedervi bruciare,
incenerire i vostri templi, e vedervi ridotte sì sottili le vostre guarentigie
e poteri, cui tenevate tanto, da entrar nel forellino d’un succhiello! MENENIO
- Insomma, che notizie sai? Ti prego! (Ai due Tribuni) Avete fatto, ho
paura, voi due un bel capolavoro... (A Cominio) Di’, ti prego. Che nuove porti?
Se davvero Marcio s’è unito ai Volsci... COMINIO - Se? È il loro dio! Li guida
come fosse un’entità non generata da madre Natura, da deità diversa, e più
capace della Natura stessa a fare un uomo; e quelli là lo seguono contro di
noi, mocciosi bamboccioni, con la stessa svagata sicurezza di ragazzi che
inseguono farfalle sotto il sole d’estate, o di beccai che si trovino a macellare
mosche. MENENIO - (Ai tribuni) Che bel lavoro avete combinato, voi ed i vostri
grembiulati amici(174)! Voi, che tanto eravate infatuati del voto della vostra
mestieranza e del fiato dei mangiatori d’aglio! COMINIO - Ve la farà crollare
sulla testa, la vostra Roma! MENENIO - Come quando Ercole, scrollò le mele
mature dall’albero!(175). Avete fatto proprio un bel lavoro! BRUTO - Insomma, è
proprio vero? COMINIO - Tanto vero, che prima di scoprire che non l’è, dovrete
divenir pallidi morti. Tutte le genti gli aprono le porte sorridendo, ed i
pochi che resistono, derisi per il lor vano eroismo, periscono da stolidi
lealisti. Chi può muovergli biasimo, del resto? Anche i nemici, i vostri come i
suoi, riconoscono che c’è in lui qualcosa. MENENIO - Siete tutti spacciati, se
quel nobile non avrà pietà. COMINIO - Pietà! Chi dovrà chiederla? I
Tribuni? Almeno per pudore, quelli no! Il popolo? Ma il popolo da lui
merita tanta pietà quanto il lupo dai pastori. Chi altro? I suoi seguaci? Ma se
costoro gli andassero a dire: “Sii pietoso con Roma”, la lor preghiera avrebbe
l’accoglienza di quella di chi merita il suo odio, e cioè di chi fosse suo
nemico. MENENIO - È vero. S’anche m’appiccasse fuoco alla casa e me
l’incendiasse tutta, io non avrei la faccia di gridargli: “Fermati, ti
scongiuro!”. Avete fatto proprio un bel lavoro, voi due, con tutto il vostro
artigianume! COMINIO - Per colpa vostra Roma sta tremando, come non ha mai
fatto nel passato. I DUE TRIBUNI - Non direte che questo è colpa nostra.
MENENIO - Ah, no? Sarebbe dunque colpa nostra? Marcio noi l’amavamo, ma da
nobili bestie, quanto vili, abbiam ceduto alla vostra ciurmaglia che urlando
l’ha cacciato via da Roma. COMINIO - Ho paura però che questa volta dovranno
urlando chiedergli pietà. Tullo Aufidio, il cui nome di soldato è secondo nel
mondo, gli obbedisce come un qualunque suo subordinato. Ormai tutta la tattica
di guerra tutta la forza, tutte le difese che Roma potrà opporre a questi due
sarà solo la sua disperazione. Entra un gruppo di POPOLANI MENENIO - Arriva il
branco... E Aufidio è insieme a lui? (Ai popolani) Voi siete quelli che gli
avete reso irrespirabile l’aria di Roma, quando gettaste in aria quelle coppole
vostre unte e fetenti per acclamare la sua messa al bando! Adesso egli ritorna,
e non c’è pelo in testa a un suo soldato che non si farà sferza per voi
tutti: farà cadere a terra tante zucche quanti berretti voi gettaste in
aria, e vi salderà il conto dei voti che gli avete ritrattato. E se poi ci
mandasse tutti a fuoco, fino a ridurci un unico tizzone, tanto peggio! L’avremo
meritato! I POPOLANI - Certo, udiamo terribili notizie. PRIMO POPOLANO - Per
parte mia, quando gridai: “Al bando!” aggiunsi pure che mi dispiaceva...
SECONDO POPOL. - E così io. TERZO POPOLANO - E io no?... In coscienza, fece
così la gran parte di noi. Quel che abbiam fatto è stato a fin di bene; e se
pur assentimmo volentieri a bandirlo, fu certo controvoglia. COMINIO -
Bravissimi, voi tutti e i vostri voti! MENENIO - Avete combinato un bel lavoro,
voi e i vostri schiamazzi! (A Cominio) Che facciamo, saliamo al Campidoglio?
COMINIO - Mi pare non ci sia altro da fare. (Escono Cominio e Menenio) SICINIO
- (Alla folla) A casa, amici; ma non vi allarmate. Quelli là appartengono a una
parte cui farebbe davvero gran piacere se dovesse avverarsi quello che fanno
finta di temere. A casa, e che nessuno dia a vedere d’aver paura. PRIMO
POPOLANO - Gli dèi ci proteggano! Compagni, a casa!... Io l’ho sempre detto che
facevamo male ad esiliarlo. SECONDO POPOL. - Tutti l’abbiamo detto, s’è per
questo! Andiamo, andiamo a casa! (Escono i popolani) BRUTO - Brutte
notizie. Proprio non mi piacciono. SICINIO - Nemmeno a me. Darei metà del mio,
se servisse a saper che sono false. BRUTO - Saliamo al Campidoglio. SICINIO -
Prego, andiamo. (Escono) SCENA - Il campo dei Volsci presso Roma Entrano
AUFIDIO e il suo LUOGOTENENTE AUFIDIO - Passano ancora molti col Romano(178)?
LUOGOTENENTE - Non so quale magia egli abbia addosso ma i tuoi soldati l’hanno
sempre in bocca manco fosse il “Signore benedicite” prima dei pasti, il lor
discorso a tavola e il lor ringraziamento a fine pasto(179); e tu sei messo in
ombra, generale, anche dai tuoi, in questa spedizione. AUFIDIO - Per il momento
non ci posso nulla, a men di far ricorso a tali mezzi che finirebbero con
l’azzoppare i nostri stessi piani. Anche con me si mostra assai più altero di
quanto avessi mai immaginato, il giorno che lo accolsi a braccia aperte. Ma è
sua natura, in ciò non si smentisce e io debbo per forza perdonare ciò che non
è possibile correggere. LUOGOTENENTE - Avrei desiderato tuttavia - nel tuo
stesso interesse, intendo dire - che non lo avessi associato al comando, ma che
avessi da solo preso in mano la suprema condotta dell’impresa; o l’avessi
lasciata solo a lui. AUFIDIO - Intendo quel che dici, ma sta’ certo, quando
verrà che dovrà render conto, non sa quel che saprò tirare in ballo contro di
lui. Sebbene in apparenza, come egli stesso crede - e come appare non meno bene
agli occhi della gente - ei compia tutto in piena lealtà e dimostri
d’avere buona cura degli interessi dello Stato volsco, che si batta per esso
come un drago e che tutto riesca ad ottenere col solo sguainar della sua spada,
c’è una cosa però che ha trascurato, e sarà tale da spezzargli il collo, o a
mettere il mio a pari rischio, quando verremo alla resa dei conti. LUOGOTENENTE
- Che pensi, generale, sarà capace di prendere Roma? AUFIDIO - Ogni località
s’arrende a lui, prima ch’egli s’appresti ad assediarla; la nobiltà di Roma è
tutta sua: senatori, patrizi fanno a gara a chi più l’ama. I tribuni del popolo
non son uomini d’arme, e il loro popolo sarà altrettanto pronto a richiamarlo
quanto lo è stato a decretarne il bando. Penso ch’ei sia per Roma e pei Romani
quel ch’è la procellaria per il pesce, che lo divora per suprema legge della
natura. D’essi è stato prima nobile servitore, ma incapace in seguito di
mantener le cariche con tutto l’equilibrio necessario. Sia stato orgoglio -
che, con il successo, sempre contagia l’uomo che lo coglie - sia stata assenza
di discernimento nel lasciarsi sfuggire le occasioni che pure aveva saldamente
in pugno; sia stata pure la sua stessa indole che lo rende istintivamente
inabile a mostrarsi diverso da se stesso quando passa dall’elmo del guerriero
al cuscino del seggio consolare, e a concepire che non è possibile governare la
pace col piglio e la durezza usati in guerra, sta che uno solo di questi
difetti - ché in lui di tutti quanti c’è sentore, seppur nessuno ne possieda al
massimo, ciò che finora me l’ha fatto assolvere - l’ha reso un uomo da tutti
temuto, e così odiato, e così messo al bando. Ha certamente un merito che
annulla ogni difetto al solo dirlo. Ma le virtù degli uomini, si sa,
soggiacciono alla stima del momento; e il potere, in se stesso
pregiatissimo, non ha tomba più certa che lo scanno su cui siede a esaltare ciò
che ha fatto. Così il fuoco divora un altro fuoco, e un chiodo scaccia l’altro;
così cade un diritto per forza d’un diritto, la forza per la forza d’altra
forza. Ma muoviamoci adesso... Caio Marcio, quando tua sarà Roma, tu sarai il
più povero di tutti, ed allora sarai subito mio! (Escono) SCENA Roma, una
piazza Entrano MENENIO, COMINIO, SICINIO, BRUTO e altri MENENIO - No, non ci
vado. Avete tutti udito come ha parlato a colui che fu un tempo suo comandante
e ch’era a lui legato dal più tenero affetto. Mi chiamava suo padre. E che con
ciò? Andate voi, che l’avete bandito, e prima d’arrivare alla sua tenda, un
miglio prima cadete in ginocchio e implorate la sua misericordia. No, se s’è
dimostrato indifferente a sentire Cominio, io resto a casa. COMINIO - Era come
se non mi conoscesse... MENENIO - Ecco, sentite?... COMINIO - Eppure nel
passato mi chiamò sempre per nome: Cominio. Gli ho richiamato la vecchia
amicizia ed il sangue che abbiam versato insieme; ma a chiamarlo col nome
“Coriolano” non rispondeva, e lo stesso con gli altri; come se fosse un nulla,
un senza nome, fin quando non si fosse da se stesso forgiato un altro nome, un
nome nuovo, nel braciere di Roma messa a fuoco. MENENIO - Addirittura! (Ai
Tribuni) Ecco, ora vedete, che bel lavoro avete combinato? Una bella pariglia
di tribuni che han fatto il necessario perché a Roma ci fosse del carbone a
buon mercato. Che nobile epitaffio(182)! COMINIO - Non ho mancato poi di
ricordargli come regale sia il perdonare specie se meno atteso. M’ha risposto.
ch’era quella richiesta senza senso da parte di uno Stato a una persona ch’esso
stesso aveva castigato. ATTO QUINTO MENENIO - Benissimo! Poteva dir di
meno? COMINIO - Ho cercato di risvegliare in lui l’attaccamento agli amici più
cari: m’ha risposto che non poteva certo star lì a sceverarli uno per uno in un
mucchio di pula infetta e putrida; e che sarebbe stato da imbecilli, per salvar
qualche chicco di frumento in quel putrido ammasso, astenersi dall’appiccarvi
il fuoco e seguitare ad annusarne il lezzo. MENENIO - “Per qualche chicco di
frumento”, ha detto? Uno son io di quelli, e sua madre, e sua moglie, e il suo
figliolo, ed anche questo valoroso amico, (Indica Cominio) siam tutti i
granellini ch’egli dice... (Ai Tribuni) ... ma voi siete la lolla imputridita,
che spande il suo fetore oltre la luna. E noi, per causa vostra, sarem forzati
a farci abbrustolire! SICINIO - Evvia, ti prego, non t’imbestialire! Se ti
rifiuti di prestarci aiuto, ora ch’esso ci occorre come mai, non rinfacciarci
almeno la disgrazia! Certo, però, se tu fossi disposto ad intercedere presso di
lui pel tuo paese, l’abile tua lingua sarebbe ben capace di fermarlo il nostro,
come non potrebbe fare qualunque esercito che gli opponessimo. MENENIO - No,
non voglio immischiarmi. SICINIO - Ti prego, va’ da lui. MENENIO - A far che
cosa? SICINIO - Soltanto un tentativo, quale può fare a favore di Roma il tuo
legame d’affetto con Marcio. MENENIO - Beh, mettiamo che mi rimandi indietro, senza
ascoltarmi, come pure ha fatto con Cominio... Che cosa ne verrebbe?
Nient’altro che un amico disilluso, ferito dalla sua indifferenza. Non ti pare?
SICINIO - Quand’anche così fosse, la tua prova di buona volontà non potrà non
ricevere da Roma la gratitudine commisurata alla buona intenzione dimostrata.
MENENIO - Bah, mi ci proverò. Chissà che non si degni d’ascoltarmi; sebbene
quel suo mordersi le labbra, quell’inarticolato bofonchiare che ci ha detto
Cominio, non son cose che m’incoraggino un gran che a tentare... Ma forse non
fu colto il buon momento: non aveva pranzato, e il sangue è ancora freddo nelle
vene quando queste non son ben riempite, al mattino, imbronciati come siamo,
siamo sempre, si sa, poco disposti a dare o a perdonare; quando, invece, abbiamo
riempito in abbondanza con vino e cibo queste condutture in cui si canalizza il
nostro sangue abbiamo l’animo più disponibile che non nei nostri digiuni da
preti. Perciò starò lì attento ad aspettare che sia sazio e disposto ad
ascoltarmi, e allora cercherò di avvicinarlo. BRUTO - Tu conosci qual è la
strada giusta per giungere alla sua arrendevolezza, e non ti puoi smarrire.
MENENIO - Per mia buona coscienza, io ci provo; poi vada come vuole. Non ci
sarà poi tanto da aspettare per constatare se sarò riuscito. (Esce) COMINIO -
Non sarà mai che voglia dargli ascolto. SICINIO - No? COMINIO - Ve l’ho detto:
se ne sta seduto in un seggio dorato(183), l’occhio rosso quasi a volere, col
solo suo sguardo, incenerire Roma; e la sua offesa(184) è il carceriere
della sua pietà. Gli son caduto davanti in ginocchio, e lui m’ha detto appena,
in un sussurro: “Rialzati”, e d’un gesto della mano in silenzio, così, m’ha
congedato. M’ha fatto poi sapere per iscritto quel ch’è disposto a fare e quel
che no: impegnato com’è da un giuramento ad osservare certe condizioni. È così;
non c’è nulla da sperare, salvoché, come ho udito, la sua nobile madre e la sua
sposa non vadano esse stesse a implorargli mercé per la sua patria. Perciò
muoviamoci, andiamo a pregarle di recarsi da lui quanto più presto. (Escono)
SCENA - Il campo volsco, davanti a Roma Entra MENENIO, e avanza verso due
SENTINELLE 1a SENTINELLA - Alto là! Dove vai? 2a SENTINELLA - Fermati!
Indietro! MENENIO - Voi fate buona guardia, e fate bene. Ma, con vostra licenza,
io sono qui in veste di ufficiale dello Stato, e vengo per parlare a Coriolano.
1a SENTINELLA - E da dove? MENENIO - Da Roma. 1a SENTINELLA - Non si passa!
Devi tornare indietro: il generale da lì non vuol ricevere nessuno. 2a
SENTINELLA - Potrai vedere la tua Roma in fiamme prima di colloquiar con
Coriolano. MENENIO - Miei buoni amici, se vi sia occorso d’udir parlare il
vostro generale di Roma e degli amici ch’egli ha là, c’è da scommetter mille
contro uno che il nome mio vi sia giunto all’orecchio: è Menenio. 1a
SENTINELLA - Può darsi, ma va’ indietro, perché il tuo nome qua non conta
niente. MENENIO - Ti dico, amico, ascolta, ch’io son uno al quale il generale
tuo vuol bene, uno che è stato, vedi, in qualche modo il libro delle sue famose
imprese, e dove gli uomini han potuto leggere le sue gesta. magari un po’
gonfiate, per via che degli amici (e lui è il primo) ho cercato di dire sempre
bene ed in tutta l’ampiezza consentita da verità, senza toglierci un ette.
Talvolta posso aver passato il segno, come accade a una boccia, tirata sopra un
fondo diseguale; e nel far le sue lodi m’è accaduto quasi di fabbricar moneta
falsa... Pertanto, amico, credo d’aver titolo e che tu debba lasciarmi passare.
1a SENTINELLA - Senti, amico, se pure avessi detto in favore di lui tante bugie
per quante chiacchiere hai speso per te, di qui non passi; manco se
fregare(185) fosse virtù come vivere casti. Perciò indietro. MENENIO - Ma per
favore, amico, ricordati che il mio nome è Menenio, e sono sempre stato partigiano
del partito del vostro generale. 2a SENTINELLA - Tu potrai essere, come tu
dici, il suo bugiardo, quanto ti fa comodo, io son uno che sta sotto di lui e
non dico bugie, perciò ti debbo dire che non passi. Avanti, sgombra! MENENIO -
Puoi dirmi soltanto se ha già pranzato? Non vorrei parlargli prima ch’abbia
mangiato. 1a SENTINELLA - Sei romano? MENENIO - Romano, come il vostro
generale. 1a SENTINELLA - Allora tu dovresti odiare Roma né più né meno quanto
l’odia lui. Come fate a pensare che dopo aver cacciato dalle porte colui
che era il loro difensore e dopo aver regalato al nemico il vostro scudo,
possiate sperare ora di fronteggiar la sua vendetta con i facili piagnistei di
vecchie o in virtù delle virginali palme giunte in preghiera delle vostre
figlie, o per l’intercessione paralitica d’un vecchio rimbambito come te? Come
puoi credere di poter spegnere con un debole fiato come il tuo le fiamme in cui
fra poco dovrà ardere la tua città? Ti fai illusioni, vecchio, e perciò fila,
tornatene a Roma, e prepàrati per l’esecuzione. Perché là siete tutti
condannati; il generale non v’accorderà, l’ha giurato, né tregua né perdono.
MENENIO - Stammi a sentire, amico: se il tuo capo fosse informato ch’io mi
trovo qui, mi tratterebbe con ogni riguardo. 1a SENTINELLA - Il mio capo?
Nemmeno sa chi sei. MENENIO - Volevo intendere il tuo generale. 1a SENTINELLA -
Che vuoi che gliene importi, al generale, di uno come te! Va’ indietro, via, se
non vuoi che ti faccia spillar fuori quel bicchiere di sangue che ti resta.
Sloggiare, via, sloggiare! Via di qua! MENENIO - Eh, ma... amico, un momento!
Entra CORIOLANO con AUFIDIO CORIOLANO - Che succede? MENENIO - (Alla
sentinella) Oh, adesso, amico, te lo faccio io un bel rapporto col tuo
superiore! Così saprai se m’ha riguardo o no. Vedrai se un bischero di
sentinella si può permettere di trattenermi dall’incontrarmi col mio Coriolano.
Già dal modo con cui mi tratterà potrai immaginare se per te c’è già pronta la
forca o altra sorta di più lungo supplizio. Sta’ a guardare e poi svieni,
per quello che t’aspetta! (A Coriolano) Gli dèi gloriosi seggano in consesso
ora per ora a conservarti prospero e non t’abbiano essi meno caro del tuo
vecchio Menenio. Figlio mio tu ci stai preparando fuoco e fiamme. Guarda: ecco
qui l’acqua per estinguerle. A stento hanno cercato di convincermi a venir qui
da te; ma quando io stesso alla fine mi sono persuaso che nessun altro
all’infuori di me potesse fare tanto da commuoverti, coi lor sospiri sono stato
spinto fuor dalle porte della tua città ad implorarti il perdono per Roma e pei
supplici tuoi compatrioti. Gli dèi benigni plachino il tuo sdegno e ne faccian
cader l’ultima feccia sulla testa di questo manigoldo (Indica la 2a Sentinella)
che s’è impuntato, duro come un ciocco, a sbarrarmi l’accesso a te... CORIOLANO
- Va’ via! MENENIO - Come! Che dici? CORIOLANO - Moglie, madre, figlio, non li
conosco. Tutte le mie cose son sottomesse ad altri. La vendetta è tutto quanto
mi resta di mio; il mio perdono è nel cuore dei Volsci. Che un’amicizia sia
stata fra noi, sia l’ingrata oblivione suo veleno piuttosto che venirci la
pietà a ricordar quant’essa fosse grande. Perciò vattene. A queste vostre
suppliche i miei orecchi son più resistenti che le porte di Roma alle mie armi.
Tuttavia, per l’affetto che t’ho avuto, prendi questo con te: (Gli consegna una
lettera) per te l’ho scritto, e te l’avrei mandato. Altro da te, Menenio, non
starò ad ascoltare. (Ad Aufidio) Quest’uomo a Roma m’era molto caro fra tutti:
eppure tu lo vedi, Aufidio. AUFIDIO - Vedo: sei uomo di tempra costante.
(Escono Coriolano e Aufidio) 1a SENTINELLA - Sicché, compare, il tuo nome è
Menenio? 2a SENTINELLA - Caspita, un nome di molto potere. La via di casa la
conosci. Va’. 1a SENTINELLA - Hai sentito che striglia abbiamo preso per aver
bloccato Tua Eccellenza? 2° SENTINELLA - Che motivo ci avrei io di svenire,
secondo te? MENENIO - Non me ne importa più né del tuo generale, né del mondo!
Quanto ad arnesi della vostra specie faccio fatica soltanto a pensare che siete
al mondo, tanto vi considero! Chi è deciso a morir di propria mano non teme di
morir per mano altrui. Faccia pure quanto di peggio ha in mente, il vostro
generale; quanto a voi, restate pure a lungo quel che siete, e vi cresca, cogli
anni, la miseria! Dico a voi quel ch’è stato detto a me. (Esce) 1a SENTINELLA -
Un brav’uomo, però, non c’è che dire. 2a SENTINELLA - Che tipo in gamba il
nostro generale! Una roccia, una quercia che non crolla per quanti venti gli
soffino contro. (Escono) SCENA -La tenda di Coriolano Entrano CORIOLANO,
AUFIDIO e Ufficiali. Si siedono CORIOLANO - Accamperemo domani l’esercito
proprio davanti alle mura di Roma. Tu, mio collega in questa spedizione, farai
sapere ai senatori volsci con quanta lealtà verso di loro io l’ho portata
avanti. AUFIDIO - Hai guardato soltanto ai loro fini e sei rimasto
pienamente sordo alle suppliche dell’intera Roma; non hai ammesso a privato
colloquio nessuno, no, nemmeno quegli amici ch’eran sicuri di poterlo fare.
CORIOLANO - Quest’ultimo venuto, quel vegliardo che ho rinviato con il cuore a
pezzi a Roma, mi teneva ancor più caro che se fosse mio padre, ed io per lui
ero un dio. Mandarlo ora da me è stata l’ultima loro risorsa; ed io, in nome
dell’antico affetto, pur mostrandomi duro anche con lui, ho loro offerto una
seconda volta per suo mezzo le prime condizioni, le stesse ch’essi avevan
rifiutato e che ora non posson più accettare; e ciò solo per un riguardo a lui
che pensava poter fare di più. Ho ceduto ben poco. Non presterò più orecchio,
d’ora in poi, a suppliche o altre ambascerie, che vengan dallo Stato o dagli
amici... (Grida dall’esterno) Che grida sono queste? Non dovrò mica vedermi
tentato a ritrattare una promessa fatta appena adesso?... No, non lo farò.
Entrano VIRGINIA, VOLUMNIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO e altri del seguito (Tra
sé) Prima, davanti a tutti, la mia sposa; poi l’onorato grembo da cui forma
prese questo mio tronco, ed in mano a lei il nipotino del suo stesso sangue...
Ma via da me la piena degli affetti! Spezzatevi legami di natura e diritti del
sangue! La caparbia sia virtù. Che valore ha quell’inchino? Che valgono per me
gli sguardi di quegli occhi di colomba che spergiurar farebbero gli dèi?... Ma
oh!, m’intenerisco, non son di terra più forte degli altri! Mia madre mi
s’inchina... È come se l’Olimpo si curvasse ad implorare una tana di talpa; e
il mio ragazzo ha un’aria così supplice ha un’espressione così
supplichevole che par sia la Natura che mi gridi a tutta voce: “Non dire di
no!”. Ma passino coi loro aratri i Volsci sopra il suolo che vide eretta Roma,
e rompano col vomere l’Italia! Non sarò così insulso da cedere alla forza
dell’istinto, ma resterò deciso ed incrollabile come uomo padrone di se stesso
ignorando qualsiasi parentela. VIRGINIA - Mio signore e marito!... CORIOLANO -
Questi occhi non son più i miei di Roma. VIRGINIA - È la grande afflizione che
ci fa sì mutate agli occhi tuoi. CORIOLANO - (A parte) Ecco che adesso, da
cattivo attore, dimentico la parte, m’impappino fino a un fiasco completo!...
(Alzandosi e andando verso la moglie) Tu, della carne mia la miglior parte,
perdona la spietata mia durezza, ma non chiedermi in cambio di perdonar “questi
nostri Romani”. (Virginia lo abbraccia e lo bacia) Oh, mia diletta, questo
lungo bacio, lungo come l’esilio, un bacio dolce come la mia vendetta! Per la
gelosa regina del cielo, quel tuo bacio d’addio io l’ho portato sempre con me e
vergine il mio labbro da quell’istante l’ha serbato... O dèi, io sto lasciando
senza il mio saluto la più nobile madre della terra! (S’inginocchia ai piedi di
Volumnia) Già, mio ginocchio, affòndati per terra, lasciaci il calco d’una
devozione, la più grande che figlio abbia sentito. VOLUMNIA - Oh, rialzati,
figlio benedetto! (Coriolano si rialza) Son io che m’inginocchio avanti a
te su questo duro cuscino di pietra, mostrando in un tal gesto per se
stesso irriguardoso di civil decoro, come finora mal sia stato inteso il
rispetto fra figlio e genitore. (S’inginocchia) CORIOLANO - Che significa
questo? Tu inginocchiata qui davanti a me? Davanti a questo figlio tante volte
da te rimproverato? Oh, allora volino a punger le stelle anche le ghiaie
dell’arida spiaggia! Allora scaglino i venti in rivolta gli alteri cedri contro
il sole ardente, spazzando via dal mondo l’impossibile, sì che diventi all’uomo
facil opra fare che ciò che non può esser sia. VOLUMNIA - Tu sei il mio
guerriero e a farti tale io t’aiutai. Conosci questa donna? (Indica Valeria)
CORIOLANO - La nobile sorella di Publicola, luna di Roma, casta come il
ghiaccio che da neve purissima s’aggruma col gelo, e pende sul tempio di
Diana... Cara Valeria!... VOLUMNIA - (Indicando il piccolo Marcio) Questo è la
tua copia, un acerbo compendio di te stesso, che quando il tempo l’avrà
maturato potrà essere tutto il tuo ritratto. CORIOLANO - (Carezzando il viso del
piccolo Marcio) Possa il dio dei soldati, col consenso di Giove ottimo-massimo,
informarti di nobiltà la mente sì da renderti immune al disonore e farti
emergere nelle battaglie come un gran promontorio in mezzo al mare, che regge
l’impeto delle burrasche e salva tutti quelli che lo vedono! VOLUMNIA - (Al
piccolo Marcio) Giù, in ginocchio! CORIOLANO - Il mio bravo figlietto!
(Il piccolo Marcio s’inginocchia, ma il padre lo tira su) VOLUMNIA - Ecco,
anche lui, tua moglie, questa donna(195) ed io, tua madre, siamo qui tuoi
supplici. CORIOLANO - Ti scongiuro, non domandarmi nulla! O, se qualcosa devi
domandarmi, prima di tutto tieni in mente questo: le cose che giurai di non
concedere non siano mai da te considerate come rifiuti, se non le concedo. Non
chiedermi di rimandare a casa i miei soldati, o di capitolare alla plebe di
Roma un’altra volta. Non dirmi snaturato se ricuso non smorzare con più freddi
argomenti la mia rabbiosa sete di vendetta. VOLUMNIA - Oh, basta, basta, hai
detto: non sei disposto a concedere nulla... e noi qui non abbiamo che da
chiedere quello che tu hai detto di negarci. E tuttavia te lo vogliamo
chiedere, sì che, se ci fai vana la richiesta se ne possa dar colpa solo alla
tua protervia. Perciò ascolta. CORIOLANO - Aufidio, ed anche voi, Volsci,
sentite; perché in privato qui nulla da Roma s’ha da sentire. (Si siede) Che
cos’hai da chiedere? VOLUMNIA - Quand’anche rimanessimo in silenzio, senza
profferir verbo, il nostro aspetto e queste nostre vesti ti direbbero che
genere di vita abbiam vissuto da quando sei partito per l’esilio. Considera che
donne sventurate noi siamo, come nessun’altra al mondo, nel venir qui da te, se
il sol vederti, che ci dovrebbe empir di gioia gli occhi e far danzare di
conforto i cuori, li costringe al contrario a lacrimare e tremar di paura e di
dolore, e far che madre, sposa e figlioletto vedano il loro figlio, sposo e
padre che strappa i visceri alla propria terra. E l’esser tu di questa nostra
terra divenuto nemico è più funesto per noi, povere donne, che per gli
altri. Ché almeno agli altri è concesso il conforto di pregare gli dèi, a
noi per causa tua proibito. Come possiamo, ahimè, noi le tue donne, pregare il
cielo per la nostra patria (come sarebbe pur nostro dovere) e nel contempo per
la tua vittoria (come sarebbe pur nostro dovere)? Ahimè, tra dover perdere la
patria, nostra cara nutrice, o perder te, che nella patria sei nostro conforto,
andiamo incontro a una sciagura certa, qualunque sia la parte, delle due, che
possiamo augurarci vittoriosa: ché o dovrem vederti tratto in ceppi come un
nemico vinto attraversare le strade di Roma, oppur calcare da trionfatore le
rovine di questa tua città con la palma d’aver sparso da eroe il sangue di tua
moglie e dei tuoi figli(196). Quanto a me, figlio mio, non ho certo intenzione
d’aspettare qual esito la sorte avrà voluto serbare a questa guerra. Se non
potrò convincerti a far grazia con nobiltà di cuore alle due parti piuttosto
che cercare la rovina d’una sola di esse, non potrai - credimi, tu non potrai!
- muovere ad assaltare il tuo paese, figlio, senza aver prima calpestato il
ventre di tua madre che t’ha portato al mondo. VIRGINIA - E quello mio che ha
partorito a te questo ragazzo per far vivere il nome tuo nel tempo! IL PICCOLO
MARCIO - A me, però, non mi calpesterai! Io scapperò finché non sarò grande, ma
poi voglio combattere! CORIOLANO - Per non intenerirsi come femmine bisogna non
vedere innanzi a sé facce di donne o di fanciulli... Basta, ho già troppo
ascoltato. (Si alza dal seggio e fa per andarsene) VOLUMNIA - No, no, Marcio,
non lasciarci così! Se il nostro chiedere mirasse solo a salvare i Romani
e a distruggere i Volsci che tu servi, ci potresti accusar d’esser venute come
avvelenatrici del tuo onore. No, ti chiediamo di riconciliarli, sì che, da un
lato i Volsci possan dire: “Ecco mostrata la nostra clemenza”, e i Romani:
“L’abbiamo ricevuta”; e ciascuno ti acclami, da ogni parte, ed esclami: “Che tu
sia benedetto, per aver combinato questa pace!”. Tu sai, nobile figlio, come
incerte siano sempre le sorti della guerra; ma questo è certo: se conquisti
Roma il beneficio che potrai raccoglierne sarà un nome che, appena menzionato,
sarà inseguito da maledizioni come cervo da una canea latrante(197), e così
d’esso scriverà la storia: “L’uomo fu certo di gran nobiltà, della quale però
l’ultima impresa ha spazzato fin l’ultimo vestigio, ha distrutto la patria, ed
il suo nome resta esecrato per le età future”. Parlami, figlio. Tu ch’hai
sempre amato i generosi slanci dell’onore, tu ch’hai sempre aspirato ad imitar
gli dèi nella clemenza, a lacerar col tuono l’ampio spazio, come puoi caricare
la tua collera con un fulmine buono appena appena a buttar giù un querciolo...
Perché taci? Credi sia degno d’un animo nobile non saper cancellar dalla
memoria le offese ricevute? (A Virginia) Parla, figlia, parla anche tu, perché
delle tue lacrime lui non si cura. (Al piccolo Marcio) Parla anche tu, piccolo.
Forse la tenera tua fanciullezza più che i nostri argomenti può riuscire a
dargli un briciolo di commozione. Non c’è uomo che debba più di lui a sua
madre, e mi lascia qui a cianciare come una alla gogna... (A Coriolano) Per tua
madre non hai avuto mai in vita tua un tratto di filiale gentilezza; per
lei che, invece, da povera chioccia, incurante d’aver altra covata, t’ha sempre
accompagnato chiocciolando alla guerra, e t’ha ricondotto a casa felicemente e
carico d’onori. Di’ che la mia richiesta non è giusta e respingimi pure con
disprezzo; ma se tale non è, non sei onesto, e gli dèi ti faranno ripagare
questo tuo rifiutare l’obbedienza che spetta di diritto ad una madre...
(Coriolano guarda da un’altra parte) Ah, volge il viso altrove!... Donne, giù!
(S’inginocchia, e gli altri la imitano) Ci veda inginocchiati, e si vergogni!
Al soprannome suo di Coriolano meglio s’addice la boria proterva che la pietà
per le nostre preghiere. Giù, sia finita, per l’ultima volta! Poi torneremo a
Roma, e moriremo coi nostri vicini. No, no, devi guardarci! Questo bimbo, che
non sa profferir ciò che vorrebbe ma s’inginocchia e ti tende le mani con noi,
sostiene la nostra preghiera con più forza di quanto tu ne adoperi nel
respingerla. Via, andiamo via! (Si alzano) Quest’uomo ha avuto per madre una
Volsca, sua moglie sta a Corioli, e suo figlio somiglia a lui per caso. (A
Coriolano) Parla, per dirci almeno “Andate via”! Io, da qui innanzi resterò in
silenzio finché la nostra Roma non sia in fiamme; solo allora dirò qualche
parola. CORIOLANO - (Prendendole la mano, dopo lungo silenzio) Ah, madre, madre
mia che cosa hai fatto!... Guarda, s’aprono i cieli e di lassù irridono gli dèi
a questa scena innaturale! Oh, madre, madre, hai vinto! Una felice vittoria per
Roma; ma per tuo figlio - credilo, ah, credilo! - hai prevalso su lui, ma
esponendolo a un pericolo estremo, se non proprio alla morte. E così sia!
(Ad Aufidio) Aufidio, io non potrò più condurre questa guerra in piena lealtà.
Negozierò perciò una congrua pace. Ma dimmi, buon Aufidio, al posto mio,
avresti dato tu ad una madre minore ascolto? O concesso di meno? AUFIDIO - Sono
commosso anch’io. CORIOLANO - L’avrei giurato! Ché non è poco, Aufidio, che i
miei occhi trasudino pietà. Ma dimmi tu, buon collega, che pace vuoi
concludere. Per parte mia, non resterò a Roma; torno con te a Corioli e ti
prego di darmi il tuo sostegno in questa contingenza. O madre! O moglie!
AUFIDIO - (A parte) Godo a veder che ti sei messo dentro questo conflitto tra
pietà ed onore; ed è proprio su questo che farò rifiorir la mia fortuna.
CORIOLANO - (Alle donne) Subito, sì. Beviamo prima insieme. Ma voi dovete
riportare a Roma miglior testimonianza della cosa che non sian le parole: un
documento dalle due parti rato e sigillato. Venite, dunque, entrate insieme a
noi. Donne, voi meritate a Roma un tempio: tutte le spade che sono in Italia e
i suoi eserciti confederati non avrebbero fatto questa pace. (Escono) SCENA. Roma,
una piazza Entrano MENENIO e SICINIO MENENIO - Lo vedi quello spigolo di pietra
lassù sul Campidoglio? SICINIO - Ebbene, allora? MENENIO - Ebbene allora
se tu col tuo mignolo riesci a smuoverlo, qualche speranza vuol dir che c’è che
le donne di Roma, soprattutto sua madre, lo convincano. Ma io ti dico che non
c’è speranza. Le nostre gole sono condannate, si tratta solo d’aspettare il
boia. SICINIO - Possibile che in così poco tempo possa cambiare l’animo di un
uomo? MENENIO - Tra un bruco e una farfalla ce ne corre; eppure la farfalla è
stata un bruco. Questo Marcio, da uomo ch’era prima s’è tramutato in drago. Ha
messo l’ali. Non è più cosa che striscia per terra. SICINIO - A sua madre era
molto affezionato. MENENIO - Ah, per questo anche a me; ma di sua madre adesso
si ricorda non più che della sua uno stallone partorito da lei ott’anni fa.
Porta sul viso i segni di un’asprezza da far inacidir l’uva matura. Quando
cammina par né più e né meno che stia muovendosi una catapulta: la terra si
raggrinza al suo passare. Ha uno sguardo che fora le corazze, parla rintocchi
di campana a morto, e borbotta come una sparatoria. A vederlo seduto sul suo
scanno pare la statua d’Alessandro Magno. Se dà un ordine, questo è già
eseguito prima ch’abbia finito d’impartirlo. Gli manca solo, per essere un dio,
l’eternità e un cielo in cui regnare. SICINIO - E la pietà, se è vero il tuo
ritratto. MENENIO - Io lo dipingo per quello che è. Vedrai quanta pietà saprà
ottenere da lui sua madre. Ce n’è meno in lui pietà, che latte in una tigre
maschio. Se ne avvedrà questa povera Roma. SICINIO - N’abbian gli dèi
misericordia! MENENIO - No, in questo caso gli dèi non ne avranno! Non avemmo
per loro alcun rispetto quando l’abbiam cacciato e messo al bando; ora
che torna a fracassarci il collo, non possiamo dagli dèi rispetto. Entra un
MESSO MESSO - (A Sicinio) Se vuoi salva la vita, corri a casa, i plebei hanno
preso il tuo collega e lo trascinano di su e di giù, giurando in coro che se le
matrone non dovessero riportare a casa qualcosa che dia loro alcun conforto, lo
linceranno, lo faranno a pezzi. Entra un SECONDO MESSO SICINIO - Notizie?
SECONDO MESSO - Buone! Buone! Le matrone ce l’hanno fatta: i Volsci hanno
sloggiato e Marcio è andato via. Roma non salutò più fausto giorno, nemmeno
alla cacciata dei Tarquinii. SICINIO - Amico, sei sicuro che sia vero? Proprio
sicuro? SECONDO MESSO - Come il sole è fuoco. Ma tu dove sei stato fino ad ora
che non ci credi? Mai un fiume in piena irruppe sotto l’arcata d’un ponte, con
l’impeto con cui s’è riversata tutta la gente, ormai rassicurata, attraverso le
porte. Ecco, li senti? (Frastuono all’interno di trombe, oboi, tamburi, voci,
alla rinfusa) Trombe, sambuche, pifferi, salterii, cimbali, tamburelli(200), e
tutta Roma urla da far ballare il sole. Senti? (Grida di gioia all’interno)
MENENIO - Splendido! Vado incontro alle matrone. Questa Volumnia vale, solo
lei, tanti consoli, senatori, nobili da popolare un’intera città; tribuni come te,
poi, ce ne vogliono, appetto a lei, un mare, un continente. Oggi dovete aver
pregato bene: stamattina non avrei dato un soldo per diecimila delle
vostre teste. Senti come si sgolano di gioia! (Altre voci e grida all’interno)
SICINIO - (Al Messo) Prima, ti benedicano gli dèi per la bella notizia che hai
portato; e poi accetta i miei ringraziamenti. SECONDO MESSO - Tribuno, qui di
far ringraziamenti abbiamo tutti abbondanti ragioni. SICINIO - Son presso la
città? SECONDO MESSO - Quasi alle porte. SICINIO - Allora andiamo tutti loro
incontro, ad accrescer la gioia della festa. (Escono) SCENA V - Strada presso
la porta della città Entrano, attraversando la scena, due SENATORI con
VOLUMNIA, VIRGINIA, VALERIA, il PICCOLO MARCIO, seguiti da altri PRIMO SENATORE
- Ecco, guardate, la nostra patrona, la salvezza di Roma! Chiamate ad adunata
le tribù, innalzate agli dèi ringraziamenti, ed accendete fuochi trionfali!
Spargete fiori sul loro cammino, e cancellate con gioiose grida il clamore che
mise al bando Marcio; richiamatelo dando il benvenuto a sua madre, gridando
tutti in coro: “Benvenute, matrone, benvenute!”. TUTTI - Benvenute, matrone,
benvenute! (Fanfara con trombe e tamburi. Escono tutti) SCENA Corioli, una
piazza Entra TULLO AUFIDIO con seguito AUFIDIO - Andate ad annunciare ai
senatori ch’io sono qui a Corioli, e consegnate loro questa carta. La
leggano e poi vadano nel Foro dove dinanzi a loro e a tutto il popolo io
fornirò le prove di tutto quanto v’han trovato scritto. L’uomo che in essa
accuso a quest’ora si trova già in città e intende presentarsi avanti al popolo
nella speranza che con un discorso riesca a scagionarsi. Fate presto. (Escono
alcuni del seguito) Entrano alcuni CONGIURATI del partito di Aufidio Benvenuti!
1° CONGIURATO - Stai bene, generale? AUFIDIO - Come uno ch’è rimasto avvelenato
dalle proprie elemosine ed ucciso dalla sua stessa generosità. 2° CONGIURATO -
Aufidio nobilissimo, se ancora sei dello stesso proposito del quale ci hai
voluto tuoi partecipi, noi siamo pronti a sbarazzarti subito di questo gran
pericolo. AUFIDIO - Non so che dirti. Bisognerà agire come troviamo gli umori
del popolo. 3° CONGIURATO - Il popolo non si saprà decidere, finché duri il
contrasto fra voi due; ma una volta caduto l’uno o l’altro, sarà tutto per
quello che rimane. AUFIDIO - Lo so, e il mio pretesto per colpirlo è basato su
solidi argomenti. Io l’ho fatto salire, ed ho impegnato sulla sua lealtà
l’onore mio; ma, giunto così in alto, egli ha innaffiato i suoi nuovi germogli
con la rugiada dell’adulazione, seducendomi tutte le amicizie. Ed a questo ha
piegato la sua indole, mai conosciuta prima altro che rude, indomabile, chiusa,
indipendente. 3° CONGIURATO - Già, quella sua proterva ostinazione,
quando concorse per il consolato che perdette per non voler piegarsi... AUFIDIO
- Stavo per dirlo. Bandito per questo, venne a cercar rifugio a casa mia,
presentando la gola al mio coltello. Io l’accolsi, lo feci mio collega nel
comando, gli detti aperta via a soddisfare ogni suo desiderio; anzi, gli feci
sceglier da lui stesso tra le mie file gli uomini migliori per meglio
perseguire i suoi disegni; mi misi io stesso a sua disposizione e l’ho aiutato
a mieter quella fama che ha finito per fare tutta sua, al punto da sentirmi io
stesso fiero di recare a me stesso questo torto. Ho fatto fino all’ultimo la
parte d’un umile e modesto suo seguace, e non già quella d’un suo pari grado,
ed egli me l’ha sempre ripagato con ostentata altera sufficienza, manco se
fossi stato un mercenario... 1° CONGIURATO - È vero, generale; la truppa n’è
rimasta sbalordita. E infine, quando aveva in mano Roma e ci arrideva a tutti
un gran bottino, oltre alla gloria... AUFIDIO - Questo è proprio il punto su
cui concentrerò contro di lui tutte le fibre; il sangue ed il sudore che ci è
costata questa grande impresa egli li ha bassamente barattati per quattro
lagrimucce di donnette, che non valgono più delle bugie. Perciò deve morire, ed
io risorgerò dal suo tramonto. Ma eccolo, sentite queste grida? (Tamburi e
trombe da dentro, fra grida di popolo) 1° CONGIURATO - Tu sei entrato nella tua
città come un qualsiasi comune corriere: nessuno t’aspettava a salutarti; ed
ecco che lui torna, e il lor clamore spacca l’arco del cielo! 2° CONGIURATO - E
questi idioti avvezzi a ogni sopruso ai quali lui ha massacrato i figli
si spellano i lor vili gargarozzi ad osannarlo. 3° CONGIURATO - Tu, al momento
giusto, prima che parli e che commuova il popolo, fagli sentir la lama della
spada, noi ti daremo mano. Lui caduto, racconta lor la storia a modo tuo: avrai
così seppellito per sempre le sue ragioni insieme al suo cadavere. AUFIDIO -
Silenzio, i senatori. Entrano i SENATORI della città TUTTI I SENATORI - (Ad
Aufidio) Un caldissimo bentornato a casa! AUFIDIO - Non lo merito... Nobili
signori avete letto bene quanto ho scritto? TUTTI I SENATORI - Sì, certo. PRIMO
SENATORE - E con non poco dispiacere. Perché quali che fossero le colpe da lui
commesse prima di quest’ultima avrebbero trovato, a mio giudizio, facile
ammenda; ma finire là dove avrebbe dovuto cominciare, gettando via l’indubbio
beneficio d’avere nelle mani il nostro esercito con le spese di guerra a nostro
carico, e stipulando un trattato di pace con un nemico che s’era già arreso...
tutto questo non può presso di noi trovare alcuna giustificazione. AUFIDIO - È
qui che viene. Potete ascoltarlo. Entra CORIOLANO, alla testa di soldati in
marcia, con tamburi e vessilli; dietro una folla di popolo CORIOLANO - Salute a
voi, signori! Ritorno a voi come vostro soldato, non più preso d’amor per la
mia patria di quando son partito; e sempre sottomesso ed ossequiente alla
vostra suprema autorità. Sappiate che ho condotto questa impresa con successo,
e guidato i vostri eserciti attraverso passaggi sanguinosi fino davanti
alle porte di Roma. Il bottino che abbiamo riportato può compensare per almeno
un terzo la spesa sostenuta per la guerra. Abbiam fatto una pace altrettanto
onorevole pei Volsci quanto disonorevole per Roma; e qui vi consegniamo il
documento col testo del trattato stipulato, sottoscritto da consoli e patrizi,
munito del sigillo del Senato. AUFIDIO - Non leggetelo, nobili signori! Dite
piuttosto a questo traditore ch’egli ha abusato fuor d’ogni misura dei poteri
che voi gli avete dato. CORIOLANO - Io, traditore? AUFIDIO - Sì, tu, Marcio!
CORIOLANO - Marcio... AUFIDIO - Sì Marcio, Marcio, dico: Caio Marcio! O credi
forse ch’io ti faccia bello chiamandoti col tuo nome rubato, Coriolano, a
Corioli?... Senatori, voi che sedete a capo dello Stato, costui s’è comportato
con perfidia da traditore della vostra causa ed ha ceduto la vostra città, sì,
dico, Roma, ch’era già vostra, per poche goccioline d’acqua salsa, alla madre e
alla moglie, stracciando via giuramenti e propositi come una stringa di seta
tarlata, senza curarsi mai di convocare un consiglio di guerra. Così alle
lacrime della sua balia, egli, tra molti gemiti e guaiti ha dato ai cani la
nostra vittoria, sì da far arrossire di vergogna perfino le ramazze
dell’esercito(203) e costringere gli uomini di tempra a guardarsi in silenzio,
sbalorditi. CORIOLANO - O Marte, ascolti? AUFIDIO - Non lo nominare quel dio,
piagnucoloso ragazzotto! CORIOLANO - Eh?... AUFIDIO - Non sei altro!
CORIOLANO - Sfacciato bugiardo! Vil carogna, mi fai scoppiare il cuore!
“Piagnucoloso ragazzotto”, a me! Signori, perdonatemi, questa è la prima volta
in vita mia che mi vedo costretto ad insultare. Questo cane, signori venerandi,
sarà smentito dal vostro giudizio; e tutto quanto potrà dir di me - lui, che
porta stampati nella carne i segni dei miei colpi, lui, che deve portarsi nella
tomba le cicatrici delle mie batoste - dovrà unirsi alla vostra verità per
ricacciargli in gola la menzogna. 1° SENATORE - Calmatevi, voi due, ed
ascoltatemi. CORIOLANO - Volsci, fatemi a pezzi! Grandi e piccini, uomini e
ragazzi, intingete le lame nel mio sangue! “Ragazzotto”!... A me! Cane
bastardo! Se nelle cronache in vostro possesso c’è scritto il vero, ci
dev’esser scritto ch’io, come un’aquila in un colombaio, ho seminato tra i
vostri, a Corioli, il putiferio. E l’ho fatto da solo! “Piagnucoloso ragazzotto”...
Eh?! AUFIDIO - E voi, nobili padri, permettete a questo maledetto fanfarone di
richiamare alla vostra memoria, innanzi agli occhi vostri, ai vostri orecchi,
quello che fu un suo colpo di fortuna, e la vostra vergogna? TUTTI I
COSPIRATORI - E per ciò, muoia! TUTTI I POPOLANI - Sì, facciamolo subito!
Linciamolo! A me ha ucciso un figlio! A me una figlia! A me il cugino Marco! A
me mio padre! 2° SENATORE - Calma, oh! Niente violenze! Calma! È un uomo di
valore, ed il suo nome abbraccia tutto l’orbe della terra. Il suo
colpevole comportamento in questa guerra sarà giudicato secondo legge. Aufidio,
tu non muoverti, e non turbare la pubblica quiete. CORIOLANO - Ah, se potessi
usar contro di lui, contro sei altri Aufidi ed anche più, e tutta la sua razza,
questa spada! La farei io la legge! AUFIDIO - Insolente canaglia! (A questo
punto, d’improvviso i cospiratori traggono le spade e uccidono Coriolano, che
crolla a terra. Aufidio gli mette un piede sopra) I COSPIRATORI - Ammazza!
Ammazza! Ammazza! Ammazza! Ammazza! I SENATORI - Fermi! Fermi! Fermatevi!
Fermatevi! AUFIDIO - Ascoltatemi, nobili signori! 1° SENATORE - Ah, Tullo,
cos’hai fatto! 2° SENATORE - Tullo, ti sei macchiato di un’azione sulla quale
il valore piangerà. 3° SENATORE - Togli quel piede da sopra il suo corpo! E voi
tutti, silenzio! Via le spade! AUFIDIO - Signori, quando avrete conosciuto (ora
non lo potete certamente, nello scompiglio da lui provocato) qual pericolo
fosse per voi tutti quest’uomo, vi dovrete rallegrare che sia stato così
eliminato. Piaccia alle vostre signorie onorevoli di convocarmi davanti al
Senato: mi metterò, da fedel servitore, alla mercé della vostra giustizia,
accetterò la più grave condanna. 1° SENATORE - Portate via il cadavere. Si
prepari per lui un funerale con la solennità che si conviene ad onorare
la salma più nobile che mai araldo accompagnò alla tomba. 2° SENATORE -
L’irruenza di lui libera Aufidio da gran parte di colpa. Ora ciascuno faccia
tesoro di quel che è successo. AUFIDIO - La mia collera è, ora, tutta spenta,
mi sento sol pervaso da tristezza. Solleviamolo. Diano qua una mano tre dei
soldati di più alto grado. Io sarò il quarto. (Al tamburino) Tu, batti il
tamburo, voi, voltate le picche, punta a terra. Pur se in questa città molte
mogli egli abbia reso vedove e molte madri privato dei figli, s’abbia da noi la
degna sepoltura che spetta a un grande cuore. Su, aiutatemi! (Escono portando a
spalla il corpo di Coriolano, al rullo prolungato del tamburo). Sapeva, come
nessun altro, l’arte di “flatter le peuple” e farsi da esso benvolere,
ricorrendo senza scrupoli ad ogni sorta d’intrighi personali (Senofonte,
“Memorabili”, citato da Romilly in “Alcibiade”, ed. De Fallois, Parigi,
Melchiori, “Shakespeare”, Laterza, Bari “Il préférait l’opportunitè aux
principes” (Romilly, “But they think we are too dear”: frase d’incerta
interpretazione. Qualcuno (D’Agostino) intende: “Ma per loro stiamo bene così
come siamo”, cioè magri. “Ere we become
rakes”: “rake”, era simbolo di magrezza; si diceva “magro come un rastrello”
(“as lean as a rake”). “I need not be
barren of...” letteralm.: “Non c’è bisogno ch’io ne sia sterile...”. Il testo
gioca sull’aggettivo “strong” che con “breath” ha il significato di “bad
smelling”, “fiato che puzza”. “I shall tell you a pretty tale”: qui “pretty” ha
il senso di “properly”, “shaperly formed”, “tagliato al caso”, “ben tagliato”.
(9) Cioè non con la parola ma col gesto delle labbra. (10) Cioè sulle labbra.
“Fore me, this fellow speaks!”: “Parola mia, questo compare ha la lingua sciolta!”
Il primo cittadino fa anche il saputo, e Menenio esprime a se stesso la propria
stizza. “... the cormorant belly”: il cormorano, vorace uccello dei mari
australi, è simbolo dell’insaziabilità (cfr. “Riccardo II” “Light vanity,
insatiate cormorant”). Simile immagine dello stomaco è in Dante, “Inferno”:
“... il tristo sacco/ che merda fa di quel che si trangugia”. “... and fit it is”: “is fit”
ha qui valore imperativo di “is duty of...”, “is due to...”; e “and” ha valore
avversativo. “The one side must have the bale”: la
frase è ironica, per intendere che si sa bene chi avrà la peggio. È il gesto di
scherno con cui Menenio chiude il suo apologo. Cominciato in tono amichevole,
quasi sottomesso, questo è venuto man mano crescendo d’enfasi e di efficacia
persuasiva, fino all’invettiva finale di Menenio contro il suo interlocutore
principale, il Primo cittadino, e al sarcasmo per l’esito della sommossa.
L’entrata in scena di Caio Marcio e il tono trionfale con cui Menenio lo saluta
sono il suo magistrale coronamento. “The one affrights you”, letteralm.: “L’una
vi terrorizza”; ma Coriolano è uno d’arme, e nel suo “affrights you” c’è il
disprezzo di chi ha paura di andare a battersi in armi. (17) “Keep you in awe”:
“to keep in awe” è espressione colloquiale per “trattenere qualcuno, se
necessario, con la forza”. In realtà il Senato romano non si riuniva in
Campidoglio, ma nella Curia Hostilia, al Foro, o nella Curia Pompeiana, presso
il teatro di Pompeo, dove fu ucciso Cesare. Ma per Shakespeare il Campidoglio è
il centro politico della Roma antica.
“... as high as I could pick my lance”: “pick”, nell’inglese del ’500
era sinonimo di “throw”, “lanciare (in ogni direzione)”. “Convinti”, cioè, a
desistere dalla sommossa. “What says the
other troop?”: Marcio proviene da un’altra parte della città, dove - come ha
detto prima il Primo cittadino - la plebe è già insorta. Il testo, come spesso
in Shakespeare, ha la frase in astratto: “... da spezzare il cuore alla
generosità”. Così dice Plutarco; in verità, quanti fossero i “tribuni plebis”
nella prima repubblica, non si sa, le fonti si contraddicono. Con certezza si
sa che furono dieci dopo il 448 a.C. Qui, per tutto il dramma, ne compaiono
soltanto due, Bruto e Sicinio. Per Coriolano, rappresentante della classe
guerriera, una guerra è rimedio sicuro per interrompere le lotte interne e,
insieme, togliere di mezzo quello che egli chiama “ammuffito superfluo” (“musty
superfluity”) negli uomini e nelle istituzioni. È il primo tratto, dopo le
sprezzanti invettive alla plebe, che Coriolano fa da se stesso del suo
carattere: orgoglioso, fazioso, intollerante; e il primo accenno alla sua
rivalità con l’altro grande guerriero del dramma, il volsco Aufidio. “.. his
lips and eyes”: boccacce e occhiatacce. La luna come divinità era impersonata
da Diana, la dea della castità muliebre. Marcio, quando s’arrabbia, è sboccato
anche in senso lubrico. “We never yet made doubt but Roma was ready to aswer
us”: letteralm.: “Mai noi finora ponemmo in dubbio che Roma fosse pronta a
risponderci”. Cioè al momento della loro messa in atto. Plutarco - ch’è la
fonte di Shakespeare per questo dramma - così spiega la ragione per cui i
Romani usavano incoronare di fronde di quercia la fronte dell’eroe: “... o
perché riverissero sovra l’altre piante la quercia in onore degli Arcadi... o
perché tosto e in ogni parte i soldati trovavano fronde di quercia... l’albero
sacro a Giove, protettore della città” (“Vita di Coriolano”). La guerra cui
accennava Volumnia è quella contro Tarquinio il Superbo, che tentava di
rientrare a Roma dopo la vittoria del Lago Regillo sui Latini. Questa immagine
nella mente esaltata della madre, che vede il figlio/eroe trascinar nella
polvere, presolo pei capelli, il nemico ucciso, e, più sotto, quella di lui che
schiaccia al nemico abbattuto la testa col ginocchio, si rivelerà un tragico
presagio all’inverso del destino di Marcio. “You were got in fear, though you
were born in Rome”: letteralm.: “Voi siete stati concepiti nella paura, sebbene
siate nati a Roma”.“It more becomes a man than gilt his trophy”: il “trofeo”
era il cumulo delle armi e delle spoglie del nemico vinto, che il vincitore
appendeva ad un albero o ammucchiava sul luogo della battaglia, per offrirlo in
voto di ringraziamento agli dèi: tanto più bello e prezioso se le armi
luccicassero d’oro. Cioè conquistare la città di Corioli assediata. “Amongst
your cloven army”: i Volsci sanno che quello che li assedia è metà
dell’esercito romano, l’altra metà essendo impegnata a respingere il loro,
capitanato da Tullo Aufidio. “Sensibilmente” (“sensibly”) ha qui valore di “con
sensi vivi del tuo essere”, in opposto all’inerte materia della tua spada (cfr.
in Dante, “Inferno”: “Tu dici che di Silvio lo parente / Corruttibile ancora,
ad immortale / Secolo andò e fu sensibilmente”). “A carbuncle entire”: “entire”
è qui nel suo significato di “perfect”, e la perfezione di un diamante si
giudica dalla sua luce. In verità, Catone è vissuto 250 anni dopo Coriolano; ma
Shakespeare segue pedissequamente Plutarco, e non si cura degli anacronismi.
Questa didascalia, che figura in molte fonti, lascia intendere, se ce ne fosse
bisogno, che il corso dell’azione scenica ha saltato quel che è successo a
Marcio dopo che è rimasto chiuso da solo in Corioli. Lo si saprà dall’elogio
che gli farà più sotto Cominio. “their honours”: si accetta la lezione
“honours” dell’“Oxford Shakespeare”, in luogo di quella “... their hours”
dell’Alexander (la cui traduzione sarebbe: “Un’ora di battaglia per
costoro...”). “A craked drachma”: le monete crepate hanno un suono
fasullo e non valgono più. Ma la dracma era moneta greca. È un’altra prova che
Shakespeare copia acriticamente il greco Plutarco. Il boia aveva il diritto di
appropriarsi dei vestiti del condannato da lui giustiziato. “The general” è,
s’intende, Aufidio, che si sta battendo con Cominio, a meno di un miglio e
mezzo di distanza, come ha annunciato prima il Messaggero. La traduzione
letterale di queste parole di Cominio sarebbe: “Non distingue il pastore il
tuono da un tamburo/ più di quanto io distingua il suono della voce di Marcio
da quello di qualsiasi altra”. Cioè:
“Arrivi tardi, se sei ferito (se fossi venuto prima non lo saresti stato). Ma
se quello che hai addosso è sangue nemico, non sei affatto in ritardo”. “O me alone, make you a sword of me”: è uno
dei versi più discussi del dramma. La lezione è incerta. C’è chi lo fa seguire
da un punto interrogativo (“Oxford Shakespeare”, cit.), come se Marcio dica ai
soldati che lo sollevano in aria: “Povero me, volete fare di me una spada?”;
chi ci mette un esclamativo (è la lezione qui adottata); chi addirittura
(Brockbanck) l’attribuisce ai soldati. Secondo noi, Shakespeare fa esclamare
Marcio con l’espressione massima del condottiero che incita i suoi alla
battaglia: “Di me solo, fate la vostra spada!”; che è, tra le altre lezioni,
anche la più poetica. “... dispatch
those centuries to our aid”: quali centurie intenda Larzio, non si capisce;
forse egli accompagna la frase con un gesto ad indicare le truppe rimaste
accampate fuori le mura di Corioli; o forse “quelle” vuol indicare “quelle
sulle quali ci siamo già intesi che ci avreste mandato”. “Fear not out care,
Sir”: letteralm.: “Non aver timori sulla nostra premura, signore”. “Fix thy foot”: letteralm.: “Tienti saldo sui
piedi”, espressione che nel gergo cavalleresco significava: “Sta’ in guardia!”.
“Wert thou Hector/ That was the hip of your bragged progeny”: Aufidio chiama
Ettore “frusta” dei suoi Troiani, dai quali i Romani, da Enea, discendevano, ad
intendere che anche Marcio, come Ettore, è per i suoi esempio di virtù
guerriera. Per i segnali musicali in tutto il teatro shakespeariano, v. la
“Nota preliminare” alla mia traduzione del “Re Lear”. Senso: “Eppure a questo
banchetto (l’orgia di sangue della battaglia) al quale tu sei venuto tardi, tu
non hai mangiato che un boccone, rispetto al grande banchetto che avevi già
fatto (a Corioli)”. Queste battute tra Marcio e Cominio danno un’altra forte
pennellata al ritratto dell’eroe. Cominio - per la cui bocca è Shakespeare che
parla - non crede alla modestia di Marcio: il suo rifiuto d’ogni lode per
l’impresa di Corioli, che gli darà il trionfale soprannome di Coriolano, e di
partecipare in forma privilegiata alla divisione del bottino di guerra è solo
una manifestazione dell’egocentrismo dell’uomo e della sua smisurata superbia.
E Cominio, elegantemente, con moderazione e senza offenderlo, ce lo fa
intendere. “But cannot make my heart consent to take e bribe to pay my sword”:
in quel “bribe” che vale, più che “mancia”, “compenso dato a qualcuno per
corromperlo”, c’è tutto il carattere sdegnoso di Marcio. La didascalia ha
“Flourish”, che è uno dei segnali musicali del teatro shakespeariano. Perché la
loro funzione è quella di strumenti di guerra e non di adulazione. “Let him be
made an ovator for th’ wars”: si accetta la lezione “ovator” in luogo di
“ouverture” di altri testi, perché, pur nella relativa oscurità della frase,
sembra la più pertinente, oltre che la più poetica. “Ovator” è termine creato
da Shakespeare forse in derivazione da “ovate”, derivato a sua volta dal latino
“vates”, “vate”, “bardo”, “profeta”; sì che il senso ci sembra essere: “Sia
ormai il parassita, vestito di morbida seta, e non più il guerriero vestito di
duro ferro, il simbolo della guerra”. Pertanto “him” sarebbe riferito a
“parasite” del verso precedente. Il testo ha semplicemente: “safety”, che non è
tanto “con calma” o “serenamente”, ma “in safety”, “in security” (che
giustifica le manette). “... that Caius Marcius wears this war’s garland”:
letteralm.: “... che Caio Marcio veste la ghirlanda (di trionfatore) di questa
guerra”. D’ora in poi, il personaggio
sarà indicato col nome di Coriolano, non più con quello di Caio Marcio. Questo
episodio del prigioniero di Corioli che l’aveva ospitato e del quale egli
chiede la liberazione, ma non ne ricorda il nome, introduce un magistrale tocco
psicologico sulla personalità dell’eroe. L’episodio è in Plutarco, dove però
l’ospitante è “un ricco e onesto cittadino”: in Shakespeare diventa “a poor
man”, senza nome, del quale nel dramma non si saprà più nulla; nemmeno se è
stato liberato. “La magnanimità del condottiero non sa estendersi alla comune
umanità, i poveri non hanno nome e perciò sono dimenticati” (Melchiori,
“Shakespeare” Ripete, con altre parole, il concetto di prima: è sparito in lui
ogni scrupolo d’onore; il suo valore - di cui l’onore è cospicuo componente - è
avvelenato. Aufidio enumera qui tutte le situazioni che, secondo le leggi della
cavalleria medioevale (ma agli anacronismi di Shakespeare siamo abituati)
impedivano di perseguire un avversario: quando dormisse; quando trovasse asilo
in un luogo sacro (“sanctuary”); quando assistesse in un tempio a funzioni
religiose o sacrificali. A Corioli, occupata dai Romani. Questa scena, che
chiude l’atto, chiude anche la serie di avvenimenti incentrati intorno
all’impresa di Corioli, dalla quale Marcio ha tratto il suo soprannome. Il
quadro è ormai completo: alla figura di guerriero violento e perfidamente
machiavellico di Aufidio fa riscontro lo sfrenato orgoglio di Marcio, che
disprezza e insulta la soldataglia romana che pensa più a far
bottino che a combattere, la saggezza politica di Cominio, il comportamento
smargiasso dei notabili volsci che fanno tentare ai loro una sortita sotto gli
occhi degli assedianti. “Will not you go”: è improbabile che il soldato dica ad
Aufidio: “Tu non vieni?”, come intendono molti. Aufidio non può andare in una
città occupata dai Romani, che sarebbe riconosciuto; e il soldato non può non
saperlo. “In what enormity is Martius poor...”: “poor” non ha qui il senso di
“povero”, “privo”, “difettoso”, ma di “contemptible”: altrimenti la frase non
avrebbe senso. “... I mean of us of the right-hand file...”: solo al tempo di
Shakespeare, nelle parate militari, la fila a destra del sovrano era riservata
ai nobili. È uno dei soliti anacronismi shakespeariani. “... for a very little
tief of occasion will rob you of great deal of patience”: letteralm: “...
perché anche un piccolo furtarello d’occasione vi deruba di molta pazienza”.
Senso: “A gente come voi basta il minimo pretesto per farla diventare
sproporzionatamente irascibile e intollerante”. “One that loves a cup of hot
wine”: “hot” sta qui per “generoso”, ma anche, secondo alcuni, proprio per
“caldo”, il vino caldo (che però si diceva “mulled wine”) essendo molto in uso
in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Si legga come si vuole. Licurgo, il grande uomo politico greco,
divenuto esempio di saggezza politica. “... I find the ass in compound”: letteralm:
“... trovo l’asino in amalgama”, “un concentrato d’asineria”. Il testo ha “an
orange-wife”, “una venditrice di arance”. Menenio parla qui come se i tribuni
della plebe avessero anche funzioni giurisdizionali; il che non è storicamente
esatto. Plutarco parla di loro come “magistrati”, ma nel senso classico di
persone investite di pubblica carica.
“...(you)... set up the bloody flag...”: la bandiera rossa era la
bandiera di guerra, o di resistenza nelle città assediate, in contrapposto alla
bandiera bianca della resa. “... against
all patience”: cioè non curandovi, o a dispetto di quelli che aspettano
giustizia. Ma si può anche intendere: “Contro ogni limite di tolleranza”. Il
testo ha: “... the more entangled by your hearing”, letteralm.: “... tanto più
imbrogliata dalla vostra udienza”. “... such ridiculous subjects as you”:
“ridiculous” ha qui il senso di “risibile”, “da poco”, “insignificante”, non
quello di “che fa ridere”. Con capelli e crini s’usava imbottire cuscini,
sellame per cavalcature e anche palle da tennis. Deucalione è il corrispondente
pagano del biblico Noè, progenitore dell’umanità, dopo Adamo. Il suo mito è che
quando Zeus, nell’età del bronzo, scatenò sulla terra il diluvio per punire gli
uomini, Deucalione costruì un’arca e vi entrò insieme con la moglie Pirra. I due,
rimasti gli unici scampati al diluvio, su consiglio di Temi ripopolarono il
mondo, gettando sassi alle loro spalle all’uscita del tempio della dea: i sassi
scagliati da Deucalione diventarono uomini, donne quelli scagliati da Pirra.
Galeno, il padre della medicina greco-romana, soprannominato “principe dei
medici”, autore di circa 500 trattati. Solo che Galeno è vissuto nel II secolo
dopo Cristo, dunque almeno 600 anni dopo Coriolano! “... is but empiricutic”:
“empiricutique” nell’in-folio è, verosimilmente una deformazione, in chiave
comico- dispregiativa, di “empirical”.
“... and not without his true purchesing”: letteralm.: “... e non senza
che egli l’abbia pagate di tasca sua”. Coriolano ha bisogno di “vere” ferite da
mostrare al popolo, quando ne chiederà il favore per ottenere il consolato.
Perciò s’insiste qui sulla “verità” delle sue ferite. “God save your
worships!”: “God” al singolare è nel testo, e così lo si è tradotto. Ma è
invocazione cristiana. I pagani di Coriolano invocavano gli dèi (“Gods”).
Coriolano aveva partecipato alla cacciata dei Tarquini da Roma (provocata dallo
stupro che Tarquinio Sesto, figlio di Tarquinio il Superbo, aveva fatto a
Lucrezia) e alla instaurazione della Repubblica. Questa battuta di Volumnia,
ritenuta di palese fattura non-shakespeariana, è omessa da molti testi; ma
serve teatralmente a preparare l’ingresso in scena del corteo dei
vincitori. “My gracious silence, hail!”:
questo saluto di Coriolano alla sua sposa contiene una tale carica di poetica
tenerezza, che comunque tradotta diversamente dalla sua lettera, si perderebbe.
Baldini traduce: “Mia tacita sposa”, altri “mia graziosa taciturna”, “mia bella
silenziosa”... ma non è lo stesso! “And
live you yet?”: letteralm.: “E sei ancor vivo?”. Ma in italiano un saluto del
genere è tutt’altro che un saluto. Si scusa con Valeria per non averla vista
prima. “A curse... at very root on’s heart...”: “curse” qui non è
“maledizione”, come intendono molti; il vocabolo, nell’inglese aveva lo stesso
significato di “bane”, termine che esprime tutto ciò che distrugge fisicamente,
fino a far morire; perciò “cancro”. “By faith of men...”: espressione da
intendere non altro che come semplice esclamazione derivata dalla più usata “By
my faith”, che riecheggia il francese “ma foi”. Non credo si possa intendere
“Per la mia fiducia negli uomini” (Baldini e altri), che non sembra avere molto
senso, specie in bocca a Menenio. “Ere in our own house I do shade my head”: “To shade
his own’s head” significa “togliersi alla vista degli altri”, “to shade” avendo
il senso di “screan”, “mask”, “recess”. “The
good patricians must be visited”: qui, come altrove, Shakespeare chiama
“patricians” i membri del Senato. Altro smaccato anacronismo: nella Roma
di Coriolano gli occhiali non esistevano (furono inventati intorno al 1300 dopo
Cristo!). “... her richest lockram”: il
“lockram” era un tipo di stoffa che prendeva il nome dall’omonimo villaggio
della Britannia, dove si fabbricava. Qui deve trattarsi di una sciarpa o di una
stola, se è indumento da “appuntarsi al collo” (“pins... about her neck”). I Flàmini (“Flamines”) sono sacerdoti
incaricati del culto di una singola divinità (per opposto a “pontefici”,
sacerdoti del culto di tutti gli dèi). Erano così chiamati perché portavano
attorno al capo scoperto, o intorno al berretto sacerdotale, un filo di lana
(filamen). “... their nicely gawded cheeks”: si segue la lezione “gawded” in
luogo della più corrente “guarded”, perché il termine esprime meglio - come
verosimilmente Shakespeare abbia voluto - la civetteria femminile nella
circostanza. “Gawded” è sinonimo di “gaudy”, “vistoso”, “sgargiante”.
Nell’“Amleto” Polonio raccomanda al figlio Laerte, che va a vivere a Parigi, di
vestire “rich, non gaudy”. Le matrone romane, in verità, non avevano la fobia
del sole che avevano le dame inglesi, e non andavano velate per proteggere il
viso dai raggi solari. Secondo Plutarco (“Vita di Coriolano”) era consuetudine
che un generale romano che aspirasse al consolato dovesse presentarsi al popolo
nel Foro, per chiederne il suffragio, indossando solo la “tunica dell’umiltà” (“the
vesture of humility”), che era normalmente portata dalla povera gente e dagli
schiavi; doveva inoltre mettere in mostra le cicatrici delle ferite riportate
nelle guerre. La tunica era il capo di abbigliamento di uso generale; ma da
sola la portava solo il popolo minuto e gli schiavi: i patrizi la coprivano con
la toga; le matrone con la stola o la “palla”; i cavalieri con l’“angustus
clavus”; i senatori col “laticlavio”. “Most reverend and grave elders”:
“elders” è il corrispondente del latino “patres” con cui si chiamavano i membri
del Senato, ritenuto esser composto tutto di uomini in età venerabile. “We are
convented upon a pleasing treaty”: letteralm.: “Siamo qui convocati per una
piacevole trattativa”. I due tribuni, si noti, si astengono dal nominare
Coriolano: per loro è solo un “aderire a portare a buon esito la discussione su
un ordine del giorno (“the theme of our assembly”)”. “Ti ascoltiamo” non è nel testo. “I had
rather one scratch my head in th’ sun / When alarum were struck...”: senso: “provo
tanta smania di andarmene, per non star qui a sentir esaltare le mie gesta,
quanto non ne proverei nemmeno se dovessi restare neghittoso a farmi
massaggiare il capo da qualcuno, quando fosse squillato sul campo l’allarme di
guerra”. Il che è tutto dire. “I shall lack voice. The deeds of Coriolanus /
Should not be uttered feeby”: letteralm.: “Mi mancherà la voce. Le gesta di
Coriolano non dovrebbero essere scandite da una voce flebile (come la mia)”.
Nella Roma repubblicana il dittatore (“dictator”) era il magistrato investito
dal Senato della suprema autorità civile e militare nei momenti difficili della
nazione; l’incarico cessava col cessare delle condizioni che l’avevano reso
necessario. “... with his Amazonian chin...”, cioè col suo mento ancora imberbe,
da donna. Le Amazzoni erano le donne guerriere della mitologia greca, e il viso
femmineo di Marcio giovinetto è messo in contrasto con le “baffute labbra”
(“bristled lips”) dei nemici che egli batte. Al tempo di Shakespeare le parti
femminili nel teatro erano sostenute da giovinetti imberbi, alle donne essendo
vietato di far parte di compagnie drammatiche. Non così nella Roma di
Coriolano. “... like a planet”: “planet” in senso figurativo indica vagamente
un potere occulto che, come l’influsso d’una maligna stella, s’abbatte
fatalmente su uomini e cose. “He cannot but with measure fit the honours which we devise him”: “Egli
non può che essere adeguato agli onori che intendiamo decretagli”. “Fit with measure” è appunto “corrispondente”,
“adeguato” (a qualcuno o a qualcosa) secondo il senso biblico di “measure” che
include il concetto di paragone/contraccambio, come nel titolo della commedia
“Measure for Measure”. “... and is
content to spend the time to end it”: frase ambigua. L’interpretazione più comune è: “Usa il tempo senza
ambizioni, senza pensar di trarne alcun vantaggio”. Qualcuno intende “it” come
riferito idealmente al precedente “deeds” e traduce “è contento di spendere il
tempo per compierle (le sue gesta)” (Lodovici). Questo racconto di Cominio ha
una funzione fondamentale nella impalcatura della tragedia; quasi la
prosecuzione della parola di Volumnia nella 3a scena del I atto, a
completamento dell’immagine di Coriolano come forza cieca, per quanto nobile,
della natura, alla quale immagine il poeta opporrà quella dell’uomo debole e
indeciso, privo del tutto di senso politico: contrapposizione che è la ragione
e il contrappunto teatrale di tutta la tragedia. Il candidato che chiedeva la
carica di console doveva presentarsi al Foro, davanti al popolo e chiederne il
suffragio. Roma, al tempo di Coriolano, è una repubblica aristocratica, cioè
con il potere nelle mani dei nobili, ma il voto della plebe, per consuetudine
non codificata, è necessario. “... to all the point of the compass”: “... per
tutti i quattro punti della bussola (“compass”)”;... ma la bussola è stata
inventata nel Medioevo! “If it may stand with the tune of your
voices...”: Coriolano gioca sul doppio significato di “voices”, che vale “voti”
ma anche “voci”. S’è cercato di rendere il bisticcio alla meglio. “... you have been a rod to her friends”:
“rod”, “corda”, “nerbo”, “sferza”, era uno strumento di tortura. Altro
bisticcio del testo inglese sul termine “common”. Il cittadino ha detto: “You
have not indeed loved the common people”, dove “common” riferito a persone
(“people”) ha il senso di “of inferior quality”, “of inferior value”; ma
significa anche “comune”, “popolare”. Coriolano dice il suo amore per il popolo
essere stato nei due sensi. “... and so trouble you no farther”: c’è chi
intende qui: “E così vi tolgo il disturbo”, come se Coriolano stesse per
andarsene; ma sono i due che se ne vanno, mentre Coriolano resta; sarebbe
inoltre difficile, grammaticalmente, non vedere che quel “trouble” è retto dal
precedente “will”. Questo monologo di Coriolano completa il ritratto che
Shakespeare vuol fare dell’eroe; all’orgoglio si aggiunge e contrappone
l’indecisione. Coriolano aborre il popolo, e la consuetudine che costringe a
mendicare da esso il voto, ma alla fine l’accetta, ci si adegua, trovando un
alibi al suo impulso a reagire a tale imposizione nel: “Sono ormai a mezza
strada, meglio proseguire”. Sarà lo stesso conflitto interno a farlo cedere
alle preghiere della madre e della sposa davanti alle mura di Roma. “...
battles thrice six I have seen and heard of”: “Heard of” ha qui valore di
“called to account for”: “Ho visto diciotto (tre volte sei) battaglie e
altrettante volte ne ho riferito”. Il condottiero doveva riferire al Senato
sullo svolgimento del fatto d’arme, come ha fatto Cominio qui per la battaglia
di Corioli. “... have you chose this
man?”: si ricorderà che, come si son detti tra loro gli uscieri del Senato
all’inizio della 2a scena del II atto, i candidati al consolato sono tre.
Secondo una prescrizione d’allora, introdotta con l’istituzione del tribunato
della plebe, il candidato alla carica di console, dopo che avesse ricevuto
l’accettazione da parte del popolo, richiesta nella forma della vestizione
della “tunica dell’umiltà”, doveva ricevere la conferma, con voto formale, dai
“comitia tributa”, l’assemblea, appunto, di cui parla qui Sicinio. Il testo
inglese gioca ancora sul doppio senso di “voices”. Questa genealogia della
“gens” marcia, o marzia, è tratta di peso da Plutarco. Ma poiché Plutarco
nomina questi personaggi senza datarli, Shakespeare mette qui in bocca a Bruto
alcuni anacronismi: Bruto non poteva conoscere tutti i personaggi della “gens”
che nomina, perché a lui posteriori, eccetto il primo, Anco Marzio, re di Roma.
Caio Marcio Rutilio, detto il “Censorino”; Quinto è il Quinto Marcio
costruttore dell’acquedotto dell’acqua detta appunto “marcia”, che è stato
pretore. “... this Triton of the minnows”: si dice “a Triton of or among the
minnows” di uno che appare grande solo grazie all’estrema piccolezza di quelli
che gli stanno intorno. Tritone è il dio marino del mito classico; “minnows” è
la minuzzaglia ittica. Il mitico serpente dalle molte teste che infestava le
paludi di Lerna e le cui teste rinascevano appena tagliate. L’immagine della
folla come “mostro dalle molte teste” è frequente in Shakespeare. “... being
but the horn and the noise o’ th’ monster”: che l’Idra avesse un corno
attraverso il quale diffondere il suo strepito, non sta scritto in nessun
luogo, ma l’immagine serve a Shakespeare per designare il tribuno come
“portavoce” del mostro. Questo discorso di Coriolano sulla distribuzione del
grano alla plebe, come la seguente apostrofe ai senatori, sono tratti quasi di
peso dal testo della “Vita di Coriolano” di Plutarco, nella traduzione inglese
del North. È quasi un secondo monologo dell’eroe, che sbozza ancor meglio la
sua immagine di rappresentante dell’aristocrazia al potere, e getta altra luce
sulla lotta delle due classi, la patrizia e la plebea, nella Roma agli albori
della repubblica. “... by yea and no of
general ignorance...”: “general” è qui da intendere come sinonimo di “common”,
che equivale a “belonging to a given community” (“Oxford International
Dictionary”). “Therefore beseech you /
You that will be less fearful than discreet...”: letteralm.: “Perciò vi
supplico / Voi che volete avere in voi meno timore che discernimento...”;
frase, in italiano, insopportabilmente artificiosa. “... dal corpo dello
Stato...” non è nel testo. “Your dishonour”: “Il vostro disonore”, ma si
capisce che è un disonore imposto dall’esterno a gente onorata. In italiano,
“il vostro disonore” suonerebbe ambiguo. “Has said enough”: intendi: quanto
basta a confermarlo nemico del popolo. “... when what’s not meet, but what must
be, was law...”: letteralm.: “... quando era legge non ciò che era lecito fare,
ma ciò che si doveva fare per imposizione”. Gli Edili erano magistrati con
funzioni amministrative di custodia dei pubblici edifici (“aedes”, donde il
nome), oltre che dei templi, e di organizzazione di pubblici spettacoli. Al
tempo di Coriolano si chiamavano “aediles plebis”, e affiancavano i tribuni
nella difesa degli interessi civili della plebe. Donde il loro intervento qui.
Come i tribuni, erano due e duravano in carica un anno. Successivamente ad essi
se ne aggiunsero due, detti “curuli”, dalla “sedia curule” (“sella curulis”)
simbolo di tutte le magistrature dello Stato; questi potevano essere eletti
anche tra i patrizi. “One time will owe another”: letteralm.: “Un momento sarà
debitore all’altro”. S’è dovuto tradurre a senso. “When it stands against a
falling fabric”: s’è reso “stands” con “pretende di tenere in piedi” e non come
intendono molti, con “s’oppone”, per evitare l’immagine peregrina data dal
“volersi opporre” ad un edificio che sta per crollare. “His nature is too noble for the world”: “world” ha
qui il senso di “interests of the present life” o anche “state of human
affairs” (v. “Oxford International Dictionary”, alla voce). “Where you should but hunt with modeste warrant”.
Senso: “Laddove dovreste esercitare i vostri poteri con maggior discrezione”.
L’immagine è tolta dal linguaggio venatorio, dove “warrant” era il permesso di
esercitare la caccia entro un certo raggio e in certi periodi dell’anno. Questa
battuta è attribuita da molti, compreso l’autorevole “New Arden”, a Menenio,
con il senso d’una interrogazione che questi rivolge a Sicinio a continuazione
del suo traslato dell’arto infetto: “E se un piede va in cancrena, vuol dire
forse che i servizi resi da esso quand’era sano non si debbano tenere in
conto?”; ma m’è sembrato che la battuta, in bocca a Sicinio, s’attagli meglio
al contesto. Il testo ha “This tiger-footed rage”, “Questo furore dalle zampe
di tigre”, ossia violento, precipitoso e famelico. “Let them pull all about
mine ears”: “to pull (something) about one’s ears” è frase idiomatica usata nel
senso di provocare una pioggia di oggetti sul capo o il crollo di una casa su
qualcuno, e simili. La ruota era uno strumento di tortura: il condannato veniva
legato intorno al suo cerchio e dilaniato dai chiodi che essa incontrava
girando. “Wollen vassals”: le robe di
lana erano la veste dei poveri. I ricchi invece vestivano di seta. “Vassal” è
“umile servitore”, col senso di moralmente abbietto. “To buy and sell with
groats”: “da comprare e rivendere a pochi soldi”. Il “groat” (dal latino
medioev. “grossum”, italiano “grosso”) era una moneta di poco valore (circa 1/8
di oncia d’argento) in circolazione in Inghilterra al tempo di Shakespeare. Era
il “soldino” senza valore per eccellenza (cfr. il titolo del pamphlet di Greene
“A groatsworth of wit bought with a million of repentance”, uno dei rari
scritti dell’epoca in cui si può scorgere un accenno alla persona di Shakespeare).
“I would had you put your power well on / before you had worn it out”: Volumnia
qui paragona la carica di console di suo figlio ad un vestito da indossare
(“put on”) e che egli, prima ancora di indossare, ha ridotto liso (“worn out”).
“Figlio mio” non è nel testo. “Not by your own instruction”: “instruction” è
termine che contiene la nozione di intelletto affinato dall’istruzione -
ispirazione raziocinante - per contrapposto al sentimento (“passion”), ispirato
dal cuore. “Ispirazione” è piuttosto riduttivo, ma non si è trovato termine più
proprio. Queste esclamazioni di Menenio - la prima e la seconda - punteggiano
drammaticamente, come un applauso, la grande “tirata” di Volumnia, che dà
lezione di politica al figlio riecheggiando sorprendentemente MACHIAVELLI (si
veda) (che Shakespeare non risulta conoscesse). Il principe che, per regnare,
deve guadagnarsi il favore del popolo, a costo di essere “gran simulatore e
dissimulatore” (“Il Principe”); l’arte politica che richiede, in chi la
esercita, d’essere ad un tempo leone e volpe, colomba e serpe, sono tra i
massimi insegnamenti del grande Segretario fiorentino. Coriolano, uomo d’arme e
di cuore, quest’arte non possiede; ne è tragico segno la sua domanda: “Che
debbo fare?”, che corona, con l’immagine dell’uomo indeciso e votato ormai al
suo destino, lo scontro verbale dell’eroe “too absolute” con la machiavellica e
volitiva genitrice. Il “cappello in
mano” in segno di ossequio è immagine ed espressione del parlare del tempo di
Shakespeare. I Romani non avevano altro copricapo all’infuori dell’elmo. “Must
I go show them my unbarbed sconce?”. La frase è volutamente ambigua, perché può
anche significare: “Devo andare a mostrar loro la mia fortezza indifesa?”.
Perché “sconce” ha il doppio significato di “testa”, “zucca” e di “fortezza”,
“roccaforte”; e “unbarbed” significa “senza peli”, “senza capelli”, ma anche
“indifesa”. Il significato figurato si attaglia perfettamente al discorso. “I
will not do’t lest I surcease to honour mine own truth”: letteralm.: “Non lo
farò, almeno ch’io non voglia rinunciare ad onorare la mia intima verità”. Il
senso di questa richiesta di Sicinio all’Edile è così spiegato da Plutarco
(“Vita di Coriolano”): “Congregandosi dunque il popolo, tentarono i tribuni con
ogni sforzo in prima che si rendessero i voti non a centurie, ma a tribù,
perché in questo modo la turba vile dei poveri e saccenti, che non tien conto
d’onore, veniva ad aver più forza nei voti, ciascuno porgendo il suo, di quanta
non avessero gli abbienti e conosciuti, che andavano alla guerra”. Le
“centurie” erano le 193 divisioni in cui Servio Tullio aveva ripartito i
cittadini di Roma secondo il censo. “Every feeble rumour”: ogni voce di
pericolo (per la presenza di nemici dall’esterno); si capisce da quel che dice
dopo. Le piume dei loro cimieri,
s’intende. Di quale porta si tratti, non si sa. I testi non hanno alcuna
didascalia per questa scena; si capisce, tuttavia, che essa si svolge presso
una porta di Roma. La plebe: Coriolano l’ha chiamata così prima. “... with precepts that would make
invincible...”: il “would” è palesemente riferito alle intenzioni della madre
nel dare al figlio i precetti; il che giustifica, nella traduzione, il “dovevano”.
“Ti ricordi?” non è nel testo. Il testo ha “... with one / that is umbruised”,“...
con uno che non è contuso”, e prosegue la metafora del corpo (di Cominio)
sopraffatto (“too full”) dalle fatiche della guerra. Il testo ha “Ora che
abbiam mostrato il nostro potere” (“Now we have shown our power”). “Are
you mankind?”. C’è chi ha creduto di vedere in questa battuta di Sicinio una
sottile intenzione di equivoco, perché la frase significherebbe anche “Siete
matte?”. Ma il senso di “matto” in “mankind” non si trova in alcun testo; e del
resto la risposta di Volumnia sarebbe diversa, perché la donna avrebbe capito
l’allusione. Giunone è il simbolo dell’ira femminile vendicativa. Prese parte
alla sommossa degli dèi contro lo stesso suo marito, Zeus (cfr. VIRGILIO (si
veda), “Eneide”: “saeve memorem Junonis ob iram”). “Strange insurrections”:
“strange” qui ha il valore di “abnormal”, “unknown”, “unfamiliar”. “I have
deserved no better entertainement / in being Coriolanus”: “Non m’aspettavo
miglior trattamento, essendo Coriolano”; ma mi pare grammaticalmente errata (“I
would have...” sarebbe stato d’obbligo) e incongrua di senso (il servo non sa
di trovarsi di fronte a Coriolano). “Under the canopy”: “canopy” è il
baldacchino sospeso su un trono, un letto, un altare, tradizionale segno di
regalità; ma in senso figurato vale “cielo”, “firmamento” (il baldacchino del
cielo). Coriolano, giocando sul doppio senso, si attribuisce la regalità. Che
cosa sia questa città, nella mente di Coriolano, è incerto; forse egli allude
all’esilio o al campo di battaglia. È comunque, una figurazione sinistra:
l’unico esempio - secondo iBradley - in tutto il dramma di accostamento della
Natura a uno stato d’animo. “Then thou
dwells with daws too”. Doppio senso: “Daw”, “taccola” (uccello della famiglia
dei corvacei) è usato familiarmente anche per “simpleton”, “sciocco”, “scemo”.
“Che m’hanno dato a Roma” non è nel testo inglese. I servi sono introdotti qui
quasi in funzione di coro; le loro battute preparano e, alla fine, commentano,
quasi fosse uno spettacolo, lo “strano” incontro tra Coriolano e Aufidio. Nel loro
dialogo rozzo e ironicamente dissacrante s’avverte la tragica impossibilità di
un accordo tra i due grandi guerrieri, la cui cordialità presente nasconde, in
Aufidio, l’invidia e il sordo quasi inconscio desiderio di rivalsa, e in
Coriolano e nella sua forzata “voglia di servire” il nemico, l’intima debolezza
che lo porterà a cedere alle preghiere della madre e della sposa. “Whilst he’s in directitude”: sta
verosimilmente per “in discredit”. È uno degli “humourous blunders”,
strafalcioni lessicali che Shakespeare si compiace di mettere in bocca ai suoi
personaggi minori, per l’ilarità del pubblico. “The wars for my money”: l’espressione colloquiale
“for my money” in frasi come “this is for my money” equivale a “this is what I
desire”, “this is my choice”, eccetera. “His
remedies are tame”: frase di senso ambiguo, che si può intendere diversamente,
a seconda del senso che si dia a “his”, “i suoi rimedi”, e cioè: “i rimedi che
egli può adottare contro di noi”, oppure “i rimedi che noi abbiamo contro di
lui”: s’è preferita la prima, intendendo “remedies” nella sua accezione di
“means of counteracting an outward evil” (“Oxford Dictionary”), traducendo a
senso. “And affecting one sole throne
without assistance”; letteralm.: “E aspirando ad esser solo in trono senza
collega”. I consoli, nella Roma repubblicana, erano due. “You and your
apron-men”: il grembiule, normalmente di pelle, era, in certo modo, il
distintivo di chi esercitava a Roma un mestiere e che, non essendo né nobile né
cavaliere, apparteneva alla plebe (cfr. “Giulio Cesare”: “Where is thy leather
apron?”). Allusione alla leggenda dei pomi d’oro delle Esperidi che Ercole, per
ordine di Euristeo, andò a rubare nel giardino di quelle, custodito dal drago
Ladone. “... and you’ll look pale before
you find it other”. Senso: “Morirete di vecchiaia, prima di poter dimostrare
che non è vero”. Si capisce che “quelli” (“these”) si riferisce a Cominio e
Menenio testé usciti. “Do they fly to
th’ Roman?”. Qui “fly to” ha piuttosto il significato di “to flee from” che
contiene l’idea di chi fugge da un luogo ad un altro, oppure “sfugge” ad una
certa situazione; ed è l’idea insita nella domanda di Aufidio che vede i suoi
soldati abbandonare sempre in maggior numero le sue file attratti dal fascino
di Coriolano. È l’inizio del voltafaccia di Aufidio e la svolta del dramma.
Tutta la scena sarà lo spiegamento di questo stato d’animo dell’eroe volsco,
che verso Coriolano, poco prima amato ed ammirato, cova un odio mortale. Il suo
colloquio col luogotenente ne farà risaltare il carattere torbido, ambiguo,
tortuoso, teso quasi inconsciamente alla fine dell’avversario, che lo sovrasta.
“... as the grace fore meat...”: è ancora Shakespeare che anacronisticamente
attribuisce ai tempi di Coriolano un uso, come quello della preghiera di ringraziamento
prima e dopo i pasti, tipico della civiltà del suo tempo. La frase è ambigua,
come è oscuro il concetto del passo seguente, quasi sicuramente guasto. A quale
“merito” di Coriolano si riferisca Aufidio non è chiaro, forse all’unico
ch’egli possa apprezzare: quello di aver tradito Roma per venire da lui. Il
testo ha: “A mile before his tent, fall down”: “un miglio prima della sua
tenda, cadete in ginocchio”; a parte l’anacronismo del miglio, si tratta di
un’esagerazione dialettica di Cominio per sottolineare la colpevolezza dei
tribuni.“A noble memory!”: è come se Menenio dicesse: “Scriveremo sulle vostre
tombe, come epitaffio, quando sarete morti: - Fecero il necessario perché Roma
avesse il carbone a buon mercato -”; cioè fosse tutta ridotta a carbone. “He
does sits in gold”. Coriolano che siede su un seggio d’oro come un trionfatore
circonfuso di gloria poco prima della sua tragica fine: un magistrale
espediente del drammaturgo ad accentuare il contrasto delle tinte del dramma.
“And his injury / the gaoler to his pity”: “... e l’ingiuria (da lui sofferta
ad opera dei Romani) a far da carceriere perché non esca da lui il minimo moto
di pietà”. “Thoug it were as virtuous to lie as to live chastely”:
è il solito gioco di doppi sensi sulla parola “lie” che significa “mentire” e
“giacersi” (nel senso sessuale). “Nay,
but fellow, fellow...”: la battuta lascia intendere che Menenio ha visto
arrivare Coriolano.“Col tuo superiore” non è nel testo. È la scena culminante
del dramma. Con l’ingresso, in silenzio, della madre e del figlioletto
dell’eroe nella tenda di questi, Shakespeare ha bisogno di guardare, in un
soliloquio che sarà l’ultimo, nell’animo di Coriolano e scavarne i più intimi
sentimenti, suscitati dallo svolgersi fatale dell’azione. È la lotta dell’eroe
contro il suo destino, che lo vedrà ineluttabilmente perdente. Si confronti
questa esclamazione con quella di Antonio nell’“Antonio e Cleopatra”: “Let home
in Tiber melt, and the wide arch/ of the ranged empire fall...”, che
accomunano, nelle due tragedie, la catarsi dell’eroe. Cioè “io ti vedo in una luce diversa da
quando ero a Roma”. È l’ultima espressione di irrigidimento dell’eroe. La
battuta seguente dirà che la piena degli affetti lo ha già vinto. È uno dei
frequenti riferimenti di Shakespeare, uomo di teatro, a immagini del mondo del
teatro. La gelosia di Giunone è proverbiale. Shakespeare la ricorda spesso nei
suoi drammi. “To your corrected son?”:
frase ambigua, che si può intendere “(davanti) al tuo figlio punito (da Roma,
col bando)”, oppure “(davanti) al tuo figlio da te rimproverato”. S’è scelta la
seconda. Diana è la dea protettrice della castità virginale. Il suo tempio a
Roma era stato eretto da Servio Tullio sull’Aventino. Secondo Plutarco, è
Valeria che spinge Volumnia e Virginia a recarsi da Coriolano. Indica Valeria. Così nel testo: “thy wife and
children’s blood”; una evidente distrazione dell’Autore indotta dal fatto che
in Plutarco (“Vita di Coriolano”) i figli di Coriolano sono due, laddove
Shakespeare ha assegnato all’eroe solo il piccolo Marcio. Testo: “... will be dogged with curses”: “...
sarà inseguito da una canea di maledizioni”. Si è creduto di ampliare, nella
traduzione, la bella immagine venatoria. Plutarco, unica fonte di Shakespeare
per questo suo dramma, narra che, tornate a Roma, la madre e la moglie di
Coriolano, insieme a Valeria furono salutate in Senato come salvatrici della
patria e vennero loro offerti dallo stesso Senato onori e ricompense, che esse
rifiutarono, solo chiedendo che fosse eretto un tempio alla “Fortuna
muliebris”, sulla Via Latina. Sparatorie, al tempo di Coriolano, evidentemente,
non ce n’erano, e Menenio non poteva pensare a un siffatto termine di paragone.
È un altro dei frequenti anacronismi del poeta. Alcuni di questi strumenti -
come la sambuca e il salterio - non esistevano al tempo di Coriolano: è un
altro degli scusabili e, per certi versi, suggestivi, anacronismi di
Shakespeare. Plutarco (“Vita di Coriolano”) pone questa scena e tutti gli
eventi che seguono, fino alla morte di Coriolano, ad Anzio, dove l’eroe è
tornato con l’esercito volsco. L’ubicazione della scena a Corioli sembra
tuttavia giustificata dalle parole del 1° Congiurato: “Your native town you
entered”, e da quelle dello stesso Aufidio: “Though this city he hath
widowed...”. Il testo ha “una pace onorevole per Anzio”. “Pages”: il termine
sta ad indicare, spesso in senso spregiativo, qualsiasi persona, di sesso
maschile, addetta a mansioni umili e subordinate; nel gergo militare le
“ramazze” sono gli uomini addetti alle pulizie delle caserme. thou has made my
heart / too great for what contains it...”; letteralm.: “... m’hai fatto
diventare il cuore troppo grosso per quello che lo contiene. Guido Ferrando.
Ferrando. Keywords: CORIOLIANO, ovvero, la filosofia. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrando” – The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Ferranti: implicatura conversazionale, ragione, deutero-Esperanto – e
lingua universale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma. Collo pseudonimo
d’“ingegnere Filopanton,” presenta il “simplo,” ispirato al progetto di PEANO
(si veda), nel saggio “SIMPLO INTERNATIONALE LINGO: CONTRIBUTO AL STUDIOS DIL
INTER-NATIONE LINGO PEM SIMPLIGITE FONETICE-GRAFICE SISTEMO”. Lo scopo è quello
di creare un SISTEMA in grado di rendere l'apprendimento della lingua
internazionale facile e veloce, tramite l'abolizione delle desinenze, dei
suffissi e dei prefissi e un rapporto intuitivo tra idea e parola. Per F., idee
tra loro collegate devono essere espresse da parole tra loro simili; per
esempio, aventi la stessa radice. Mario Ferranti. Ferranti. Keywords: system,
sistemo, lingua, lingo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Ferranti,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Ferrari: implicatura conversazionale e ragione nella
lingua universale – la scuola di Modena – filosofia modenese – filosofia
emiliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Modena). Filosofo modenese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Modena, Emilia-Romagna. Insegna etica. Sotto lo pseudonimo di
Callicrate Aletiano, F. pubblica “Mono-glottica: considerazioni
storico-critiche e FILOSOFICHE intorno alla ricerca d’una lingua universale,”
Vincenzi, Modena, -- un contributo rilevante per la discussione intorno alla
lingua universale, con le proprie considerazioni in materia, dedicando il
saggio a un certo Aristodemo Euganeo. “Callicrate” ricalca il nome di un
architetto della Grecia antica; Aletiano riconduce alla parola greca per
'rivelazione', 'verità'. Allora F. si configura come l'architetto – cf. Grice,
engineer -- di un sistema linguistico che rispecchi la verità delle cose, che
si rifà direttamente alle idee. Aristodemo invece è una figura della mitologia greca
che sacrifica la propria figlia in nome della vittoria sulla città di Sparta;
Euganeo deve essere ricondotto alle origini del dedicatario. Il modus di F. è
del tutto simile a quello di SOAVE (si
veda). Dopo una disamina del tipo d’alfabeto
utilizzato dagl’italiani, F. dichiara che le tradizionali disformità della lingua
e della scrittura accumularono ostacoli d'ogni sorta alle scambievoli
comunicazioni delle genti, ed alla diffusione della generale socievolezza e
coltura, arrivando perfino ad essere causa di incomprensioni sì grandi da
condurre i popoli alla guerra, giacché: diversitas linguarum hominem alienat ab
homine (AGOSTINO, De Civitate Dei, Venezia, Albizziano). Conscio degli studi
dei suoi predecessori, tra cui nomina anche gl’italiani CESAROTTI (si veda),
CERUTI (si veda), e SOAVE (si veda), F. espone e passa in rassegna i progetti,
esprimendo elogi e rimproveri per
ciascun sistema. F. propone un indice dei sezioni che formano il nuovo saggio
di studi e di proposte riguardanti l'istituzione di una lingua universale --di
cui “Monoglottica” è un mero riassunto. In
nota, riporta: Premessi alcuni principi generali, seguiti da alquante
norme direttive, lo schema espone l'alfabeto universale, che, da poche
modificazioni in fuori, s'identifica con quello della favella aria italiana. Il
comune alfabeto vocale ipotizzato da F. comprende le V vocali a, e, i, o, u
poiché esse formano il sostrato primitivo ed essenziale de’varii sistemi FONETICI
– FONEMICI – cf. Grice, disctinctive features -- di tutti i popoli da lui
considerati. Per quanto riguarda le consonanti esse sono «b, c, d, f, g, h, j,
k, 1, m, n, q, r, s, tv, w, X, y, z» e a ciascuna di esse è associato un suono
e uno soltanto. Graficamente esso deve essere latino -- quel che l'autore
intende è che la lingua non può essere simile a una lingua romanza come
l’italiano --, poiché il meno appuntabile rispetto agl’altri, e corredato delle
note tipografiche. La lingua proposta è - moderatamente - flettente e
combinante, a stregua però di una calcolata ECONOMIA (cf. Grice, efficiency,
cooperative efficiency), nello svolgimento del VERBO. Valendosi rispetto al
NOME (e predicato – ‘shaggy’) --, a forma delle lingue analitiche, dell’ARTICOLO
DETERMINATIVO. Salvo il differenziare con minima flessione la desinenza plurale
dalla singolare – “irrelevant in logic” (Grice): “(Ex): “Some, at least one”.
Per questo è evitata quanto più la FLESSIONE, la derivazion, l’agglutinamento e
l'uso dell’accento non giustificato d’una reale esigenza. La lingua oxoniense in
discorso non è ideografica, siccome quella concepita da Delgarno e da Wilkins,
né semi-algebrica, come la caratteristica leibniziana, né tampoco tachigrafica
o stenografica a mo’della pasigrafia di Taylor. È puramente alfabetica, e
costituita con una base e un processo grammaticale, epperò con opportuno
corredo dell’ARTICOLO (“the,” “a”) e il pronome (“I am hearing a sound”), della
congiunzione (“and” – but cf. ‘or’ and ‘if’), la preposizione (cf. Grice on ‘to’ and ‘between’) ell’avverbo
(cf. ‘not’). Essa discerne due generi
nominali, l'uno maschile o concreto, l'altro femminile o astratto, lo che giova
non meno alla perspicuità che all'armonica varietà del favellare. Adotta sei
verbi di uso frequentissimo, come primi ed AUSILIARI (cf. Grice, “Actions and
Events” on ‘do’), semplificandone le forme e gli svolgimenti, e rilevandone le
funzioni rispetto agli altri verbi. Con somma parsimonia si vale
dell'applicazione di lettere vocali e delle consonanti a denotare maniere e
rapporti di senso nominale e verbale; tenendosi lungi anzichenò, dal sistema gallico
d’OCHANDO. Segue un procedimento metodico per l’evoluzione delle parole
primitive e radicali, allo scopo di ritrarre le molte parvenze e trapassi
nell'esplicazione delle idee fondamentali. Poscia sono stabilite le norme
relative alla SINTASSI, ed il regime sì diretto, che indiretto. Infine si
traccia il disegno costitutivo della lessicografia. L'autore cura soprammodo,
in tutte le parti dello schema, la semplicità, il collegamento e la regolarità,
che debbono esser le doti primarie e congenite della lingua universale, perchè
puo ella riescire perspicua, gradita, e
mirabile per esattezza ed energia. La lingua di F. deve anch'essa essere
esente di sinonimi, neologismi, solecismi, irregolarità, e deve piuttosto fare
ampio uso dell'analogia, che quindi deve essere assurta a regola; tanto che F. sostiene «l'analogia è un
giorno, quando che sia questo per ispuntare, l'oracolo e la salvaguardia della lingua
universale, deve essere attuato un procedimento di logo=genesi, per il quale il
suono ESPRIMENTE (SEGNANTE) un'idea o proposizione semplice deve in qualche modo
essere presente anche in qualunque suono che compone la parole da esso derivate.
La SINTASSI deve seguire quanto più l'ordine logico dei pensieri. Nome
compiuto: Gaetano Ferrari. Ferrari. Keywords: lingua universale,
Deutero-Esperanto. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Ferrari”, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Ferrari: la ragione conversazionale e FILOSOFIA della
RIVOLVZIONE – la scuola di Milano – filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Filosofo
italiano. Grice: Ferrari is important in at least two fronts: as a philosopher,
he promotes what has been called a critical illuminism and who but an Italian philosopher can have
as a claim to fame a treatise on the philosophy of revolution? The second front
is my proof of the latitudinal unity of philosophy; for Ferrari counts as the
best interpreters, with his La strana sorte di Vico, of Vico! My pupil at
Oxford my first one, actually Flew, once called Humpty Dumpty an
anarchist semantic anarchism, he called
it. But he was wrong. Humpty Dumpty
cannot mean that by uttering Impenetrability, Alice will know that he means
that a change of topic is required! Essential Italian philosopher. Federalista, repubblicano, di
posizioni democratiche e socialiste, fu deputato della Sinistra nel Parlamento
italiano per sei legislature e senatore del Regno. Nato da una famiglia
borghese il padre era medico -- dopo la morte dei suoi genitori pot godere di
una rendita grazie alla quale visse senza particolari problemi economici. Fece
i suoi stud nel ginnasio S. Alessandro, fu poi alunno dell'Almo Collegio
Borromeo. Si laurea a Pavia. Fu per pi interessato dalla filosofia, che coltiv
nel cerchio di Romagnosi. Giunto a posizioni irreligiose e scettiche, nutre per
la cultura filosofica, storica e politica francese un'ammirazione che lo porta
a Parigi. Si laurea in filosofia alla Sorbona, con Sullerrore, ossia, De
religiosis Campanellae opinionibus. Nella prima parte presenta positivamente la
filosofia di Campanella. Nella seconda parte giunge ad una conclusione scettica
a proposito dei giudiz. Un giudizio infatti non consente di giungere alla verit
oggettiva. Grice:
The problem with Ferraris analysis is etymological. For the Romans, indeed the
Indo-Europeans cf. German irren --, to
err was to wander FROM THE TRUTH. Its a metaphor, a figure of speech. Un giudizio indissolubilmente intrecciato a questo che
Ferrari chiama un errore. F. define un errore come un vero un vero relativo, non assoluto. Similarmente,
il vero e un errore relativo giudizio
vero relativo al soggetto errore
intersoggetivo. -una vero relativo. Speaking of relative/absolute allows
you to avoid objective and subjective, but we do want to use subjective and
inter-subjective. An error can still be inter-subjective, for Ferrari, un vero
relativo a S1-S2. Introdotto nei circoli
intellettuali di Parigi da lettere di presentazione di Peyron e Valerio (due
allievi piemontesi di Cattaneo) e di Ballanche, Ferrari frequenta Cousin,
Thierry, Fauriel, Michelet e Quinet, come pure gli che si riunivano nel Palazzo
Belgiojoso. Insegna a Rochefort-sur-mer e Strasburgo dove, attaccato da Roma
per le affermazioni irreligiose e scettiche espresse nel suo corso sulla
filosofia del Rinascimento e per la sua presentazione favorevole della Riforma
luterana, fu anche accusato di insegnare dottrine atee e socialiste e sospeso
dall'insegnamento, e, bench avesse ottenuto la cittazidanza francese e il
titolo di "professore di filosofia che lo abilita ad insegnare non fu pi
reintegrato nell'insegnamento, poich la raccomandazione di Quinet per una sua
nomina a professor al Collge de France, bench accettata dalla Facolt, fu
rifiutata dal ministero dell'Educazione. L'allontanamento di Strasburgo fu
all'origine del suo rapporto con Proudhon che, avendo appreso il "caso
F." dalla stampa, s'interess a lui e ai suoi scritti e dette inizio ad
un'amicizia. Ferrari fu tra gli avversari repubblicani della monarchia
orleanista, con Schoelcher. Durante il sollevamento delle cinque giornate di
Milano contro il governo austriaco fu accanto a Cattaneo ma, deluso dai
risultati della rivoluzione, fece rientro in Francia, dove fece un altro
tentativo infruttuoso (per l'opposizione di Cousin) di ottenere una cattedra a
Strasburgo. Insegna filosofia a Bourges. Divenne il colpo di Stato che mise
fine alla repubblica e porta al trono Napoleone III.Ricercato come
repubblicano, si rifugia Bruxelles.
Ritorna definitivamente a Milano per partecipare alle vicende che porteranno
all'unificazione e alla nascita dello stato italiano. Fu eletto deputato al
Parlamento del Regno di Sardegna nel collegio di Luino (elezioni suppletive),
confermato nelle elezioni (eletto in secondo scrutinio nello stesso collegio di
Luino, nel frattempo allargato a Gavirate). Sedette ala Camera dei deputati sui
banchi della sinistra per sei legislature. Fu pure eletto nel primo collegio di
Como, ma si mantenne fedele ai suoi primi elettori. Il suo programma politico
pu essere riassunto nella formula: "irreligione e legge agraria", cio
lotta contro Roma e il clericalismo e riforma della propriet terriera dei
latifondi, con la distribuzione di terre coltivabili ai contadini. Roma e i
proprietari terrieri, sostenendosi a vicenda sono i nemici naturali
delluguaglianza. Per quel che concerne la forma dello stato italiano, F.
domandava una costituzione federale, con un esercito, delle finanze e delle
leggi federali comuni, ma anche con la pi ampia de-centralizzazione
amministrativa possibile. Dopo essersi recato sul posto, scrisse una relazione
parlamentare sul Massacro di Pontelandolfo e Casalduni. Fu nominato dal re
Cavaliere Ufficiale dell'Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, e rimanda
immediatamente il decreto di nomina al ministro della Pubblica Istruzione, che
glielo aveva inviato. Ma la nomina era irrevocabile, essendo stata pubblicata
nella Gazzetta ufficiale. Nominato professore di filosofia a Milano, bench non
ci fosse a quel tempo nessuna indennit parlamentare e i parlamentari non
godessero di nessun beneficio, rinuncia allo stipendio per poter rimanere in
Parlamento pur continuando a insegnare. Prese posizione in sede di discussione
sull'intitolazione degli atti del governo, contro la denominazione di secondo,
e non primo re d'Italia, assunta da Vittorio Emanuele, a pi riprese contro uno
stato unitario, in favore di una costituzione federale e dell'autonomia delle
regioni, in particolare del Mezzogiorno. Nonostante riconoscesse nell'articolo
che l'unit italiana non esiste che nelle regioni della filosofia. In una
regione astratta come e la filosofia, non si trova un popolo, non si posse
reclutare un esercito, non si pu organizzare nessun governo. Esprime l'auspicio
che l'Unit Italiana si potesse prima o poi realizzare. LItalia tutta deve
domandare alla libert. La liberta non ha leggi, n costumi politici, essa non
appartiene a se medesima; essa non n una
n confederata; essa non progredir se non col cominciare a chiedere
costituzioni, poi la confederazione, indi la guerra, da ultimo lUnit, se la
fatalit lo permette. Nel Parlamento di Torino sconfessa queste sue parole
dicendo. Io non muto d'avviso. Sono stato avversario dell'unit italiana. Credo
lunita tragica nell'azione sua, destinata a creare immemorabili martirii e
crudelissimi disinganni, bench necessaria come gli scandali alla storia, come i
sacrifizi e gli olocausti alle religioni. Si
pure pronunciato contro la cessione di Nizza e della Savoia alla
Francia, contro il trattato di commercio con la Francia e contro gli accordi
con il governo francese per la ripartizione del debito gi pontificio (lui,
"francese al peggiorativo", come ama definirlo il suo irriducibile
avversario, Mazzini), in difesa di Garibaldi per i fatti d'Aspromonte in favore
della Polonia e dello spostamento della capitale da Torino a Firenze, prese
parte attiva ai dibattiti parlamentari sulla proclamazione di Roma capitale,
sul brigantaggio, sulla situazione finanziaria del nuovo regno. E fatto
senatore. Assolutamente solitario e totalmente estraneo ad ogni gruppo politico
e ad ogni consorteria, non ebbe seguito.
una delle illustrazioni del parlamento, ma non esprime se non che le sue
idee individuali. La sua azione parlamentare
stata cos caratterizzata e riassunta. Sedeva suo banco della Sinistra
difendendo le opinioni liberali, combattendo gli arbitri e gli errori
dell'amministrazione, denunciando nel piemontesismo l'indebita preminenza di
una consorteria, vagheggiando la demolizione di ogni privilegio romano, e per
tutto questo poteva sembrare d'accordo con i suoi colleghi dell'Estrema, anche se
talvolta si divertiva a pungerli e sgomentarli con l'indisciplinata libert dei
suoi atteggiamenti; ma intimamente non era con loro. Discorsi: Contro la
cessione di Nizza e della Savoia alla Francia. Contro le annessioni
incondizionate. Sulla interpellanza del deputato Audinot intorno alla questione
romana. Interpellanza relativa alle condizioni delle province meridionali. Il
battesimo del Regno. Contro il prestito di 500 milioni, La questione romana e
le condizioni delle province meridionali. La ferrovia da Gallarate al Lago
Maggiore. Sull'esercizio provvisorio (bilancio, Interpellanza sul proclama del
Re (Aspromonte) Interpellanza sugli affari di Roma. Sulla questione della
Polonia. Contro il trattato di commercio con la Francia. Intorno al bilancio
dell'Interno. Sulla situazione del Tesoro e sulle condizioni finanziarie del
Regno. Il trasporto della capitale. sul giuramento politico. sulle giornate di
Torino, Interpellanza al Ministero sulla crisi del Ministero Ricasoli. Contro
la convenzione col governo francese per l'assunzione del debito pubblico degli
ex Stati pontifici. Contro le trattative con Roma e la nomina dei vescovi da
parte del Papa. Sulla violazione del diritto del non intervento, Interpellanza
su Mentana. Inchiesta sul corso forzoso. Per la guardia nazionale. Legge sul
macinato. Sulla sospensione dei professori all'Bologna. Sulla Regia
cointeressata dei tabacchi. Sull'assassinio di Monti e Tognetti. Sui disordini
per la legge sul macinato. Inchiesta sulla Regia. Sul bilancio dell'Interno.
Sul consiglio Superiore d'Istruzione. I fatti di Francia. Contro la
convalidazione del decreto di accettazione del plebiscito di Roma.
Interpellanza per la pubblicazione del Libro verde. Contro la politica estera.
Sulla nomina dei vescovi. Interpellanza intorno al divieto del comizio popolare
al Colosseo, Sulla politica estera. Sul ripristinamento dell'appannaggio al
principe Amedeo. La soppressione degli ordini religiosi in Roma. Gli arresti di
Villa Ruffi.Carriera universitaria, Professore supplente di storia
all'Strasburgo. Professore onorario dell'Napoli. Professore di Filosofia della
storia all'Accademia scientifico-letteraria di Milano, Professore di Filosofia
all'Torino. Professore di Filosofia della storia all'Istituto di studi
superiori pratici e di perfezionamento di Firenze. Direttore e fondatore della
rivista L'Ateneo. Membro corrispondente dell'Istituto lombardo di scienze e
lettere di Milano.Membro ordinario della Societ reale di Napoli. Membro
effettivo dell'Istituto lombardo di scienze e lettere di Milano. Membro
straordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Membro
ordinario del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Socio
corrispondente della Deputazione di storia patria per le antiche province
modenesi. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei di Roma. Onorificenze
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoianastrino per uniforme ordinaria
Cavaliere dell'Ordine al Merito Civile di Savoia, Ufficiale dell'Ordine dei
Santi Maurizio e Lazzaronastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine
dei Santi Maurizio e Lazzaro, Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia
nastrino per uniforme ordinaria Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.
Come tutti i socialisti italiani, Ferrari
fortemente influenzato dall'Illuminismo e da Proudhon. Il suo socialismo
si costituisce come una radicalizzazione del principio di uguaglianza affermato
dalla rivoluzione francese. Riconosce come unico fondamento della propriet il
lavoro. Propone quindi un socialismo che, non strettamente in opposizione al
liberalismo, fosse fondato sul merito individuale e sul diritto di godere dei
frutti del proprio lavoro. Pi che con la nascente borghesia, si pone dunque in
contrasto con i residui feudali ancora presenti in Italia, e auspica uno
sviluppo industriale e una rivoluzione borghese. Partecipa anche attivamente al
dibattito risorgimentale. Contrario all'unificazione della penisola, propone
come obiettivo la formazione di una federazione di repubbliche, in modo da
tutelare le particolarit e l'unicit delle singole regioni. Questo progetto dove
essere attuato attraverso un'insurrezione armata, aiutata dall'intervento
francese. Al contrario della maggioranza dei teorici risorgimentali (in
particolare Mazzini), i quali credevano che l'Italia avesse una missione
storica, credeva abbastanza pragmaticamente che fosse necessario l'intervento
di uno stato estero per sconfiggere gli eserciti organizzati dei diversi stati
italiani. L'opinione pubblica dove essere preparata alla rivoluzione (che dove
avvenire spontaneamente e non guidata da un gruppo di cospiratori) da un
partito di stampo democratico, repubblicano, federalista e socialista. La
questione sociale era infatti inscindibile da quella istituzionale. Il stato
federale dei republiche regionali sarebbe stato gestito da un'assemblea
nazionale e da tante assemblee regionali. Insieme a Pepe elabor il
neo-guelfismo -- per sottolineare il carattere re-azionario di restaurare la
presenza attiva di Roma nella vita politica dItalia. Critico verso la formula
liberale Libera Chiesa in libero stato, e afferma la superiorit dello stato
dItalia rispetto alla Roma, corrispondente alla superiorit della ragione
rispetto alla credenza religiosa, un rapporto Stato-Roma che si riallaccia alla
politica ecclesiastica di Giuseppe II in Lombardia e a quella di Leopoldo I di
Toscana. Consta dai registri della Parrocchia di S. Satiro, che Giuseppe
Michele Giovanni Francesco dei coniugi Giovanni e Rosalinda Ferrari nacque.
Cenno su Giuseppe Ferrari e le sue dottrine", di Luigi Ferri. Altre opere:
Romagnosi (O. Campa, Milano); Sulle opinioni religiose di Campanella (Milano,
Franco Angeli); "La fede in Dio
l'ERRORE pi primitivo, pi NATURALE del genere umano. La religione la pratica della servit. Roma presenta tutti
i vizi della ri-velazione sopra-naturale. Roma conduce alla dominazione
dell'uomo sull'uomo. Il romano c morto, l'uomo deve nascere, nato, ha gi respinto dallo Stato gli apostoli
e la Chiesa. Filosofia della rivoluzione, in: Scritti politici di Giuseppe
Ferrari, Silvia Rota Ghibaudi, Torino, POMBA, Camera dei Deputati, Atti del
Parlamento Italiano sessione, discussioni della Camera dei Deputati, Torino,
Eredi Botta, Atti del parlamento italiano, Le pi belle pagine di Scrittori
italiani scelte da scrittori viventi. F., Milano, Garzanti, Altre opere:
Romagnosi; Vico; La Federazione repubblicana; Filosofia della rivoluzione;
L'Italia dopo il colpo di Stato; Opuscoli politici e letterari; La mente di
Vico, Corso sugli scrittori politici italiani, Corso sugli scrittori politici
italiani; Il governo a Firenze, Giannone; Lettere chinesi sull'Italia, Storia
delle Rivoluzioni d'Italia; Teoria dei periodi politici, L'aritmetica nella
storia; Proudhon (Andrea Girardi, Napoli, Edizioni Immanenza);La Rivoluzione e
i rivoluzionari in Italia, Il genio di Vico, I partiti politici italiani, Le pi
belle pagine, Opere (Ernesto Sestan); Scritti politici, Ghibaudi, I filosofi
salariati, L. La Puma, Scritti di filosofia e di politica, M. Martirano, Il
genio di Vico, Sulle opinioni religiose di Campanella, Epistolario Peruta,
"Contributo all'epistolario di F.", in: Franco Della Peruta, I
democratici e la rivoluzione italiana, Milano, Franco Della Peruta
(ed.),"Contributo all'epistolario di Ferrari", Rivista storica del
socialismo, Lettere a Proudhon, Annali dell'Istituto Giangiacomo Feltrinelli,
C. Lovett, "La Questione Meridionale con lettere inedite", Rassegna
storica del Risorgimento; Milano e la Convenzione di Settembre dalla
corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lombardia dalla
corrispondenza inedita di Ferrari", Nuova rivista storica, Lovett,
"Il Secondo Impero, il Papato e la Questione Romana. Lettere inedite di
Wallon a F.", Rassegna storica del Risorgimento e la politica interna
della Destra. Con un carteggio inedito, Milano. Altro A. Agnelli, "Giuseppe
Ferrari e la filosofia della rivoluzione", in: Per conoscere Romagnosi,
Ghiringhelli e F. Invernici. La vita sociale e politica nel collegio di
Gavirate-Luino", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il
nuovo stato italiano, Milano, Luigi Ambrosoli, "Cattaneo e Ferrari:
l'edizione di Capolago delle opere di F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato italiano, Milano, Paolo Bagnoli,
"F. e Montanelli", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Bruno
Barillari, "Ferrari critico di Mazzini", Pensiero mazziniano,
Francesco Brancato, Ferrari e i Siciliani, Trapani, Bruno Brunello, Ferrari,
Roma, Bruno Brunello, "Ferrari e Proudhon", Rivista internazionale di
filosofia del diritto, Michele Cavaleri, Ferrari, Milano, Cosimo Ceccuti,
"Ferrari e la Nuova antologia: il destino della Francia
repubblicana", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo
stato italiano, Milano, Arturo Colombo, "Il F. del Corso", in: Silvia
Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Luigi Compagna, "Ferrari collaboratore della "Revue des deux
mondes", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, F. e il nuovo
stato italiano, Milano, Corona, "Il filosofo "rivoluzionario"
visto da Asproni", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carmelo D'Amato, Ideologia e
politica in Giuseppe Ferrari", Studi storici, Amato, "La formazione
di Giuseppe Ferrari e la cultura italiana della prima met dell'Ottocento",
Studi storici, Peruta, "Il socialismo risorgimentale di F., Pisacane e
Montanelli", Movimento operaio, Franco Della Peruta, Un capitolo di storia
del socialismo risorgimentale: Proudhon e Ferrari", Studi storici, Franco
della Peruta, "F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino
Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Aldo Ferrari,
F., Saggio critico, Genova, Ferri, "Cenno su F. e le sue dottrine",
in: Ferrari, La mente di G. D. Romagnosi, Milano. Gian Biagio Furiozzi,
"Olivetti e F.", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato
italiano, Milano, Gastaldi, "Nella galassia dell'Estrema", in:
Ghibaudi, e Ghiringhelli, [a cura di], Giuseppe Ferrari e il nuovo stato
italiano, Milano, Robertino Ghiringhelli, Robertino Ghiringhelli,
"Romagnosi e F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Carlo G. Lacaita, "Il problema
della storia in F.", in: Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli,
Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Eugenio Guccione, "Il laicismo
politico di Ferrari", in: Ghibaudi, e Ghiringhelli, F. e il nuovo stato
italiano, Milano, Grosso, "Il Medioevo in F.", in: Ghibaudi, e
Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Lovett, "Europa e
Cina nell'opera di F.", Rassegna storica del Risorgimento, Maurizio
Martirano, Ferrari, interprete di Vico. Maurizio Martirano, Filosofia, storia,
rivoluzione. Saggio su F., Napoli, Liguori, Gilda Manganaro Favaretto, Angelo
Mazzoleni, Ferrari. Il pensatore, lo storico, lo scrittore politico, Roma,
Angelo Mazzoleni, F.. I suoi tempi e le sue opere, Milano, Antonio Monti,
"La posizione di Ferrari nel primo Parlamento italiano", Critica politica,
Giulio Panizza, L'illuminismo critico di Ferrari, Giulio Panizza, "La
teoria della fatalit nell'Histoire de la Raison d'Etat", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
Giacomo Perticone, "La concezione etico-politica di Ferrari", Rivista
internazionale di filosofia del diritto, Luigi Polo Friz, "Ferrari e
Frapolli: un rapporto di amore e odio tra due interpreti del Risorgimento
Italiano", in: Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Il nuovo stato
italiano, Milano, Nello Rosselli, "Italia e Francia in Ferrari", Il
Ponte, Silvia Rota Ghibaudi, Ferrari, lFirenze, Silvia Rota Ghibaudi,
"Ferrari e la Teoria fatalista dei periodi politici", in: Silvia Rota
Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano,
Milano, Silvia Rota Ghibaudi, e Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il
nuovo stato italiano, Milano, Luciano Russi, "Pisacane e Ferrari: esiti
socialisti dopo una rivoluzione fallita", in: Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, M.
Schiattone, Alle origini del federalismo italiano, Ferrari, Nicola Tranfaglia,
"Ferrari e la storia d'Italia", Belfagor, Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Giuseppe Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano,
Luigi Zanzi, "un filosofo"militante", in:Silvia Rota Ghibaudi, e
Robertino Ghiringhelli, Ferrari e il nuovo stato italiano, Milano, Stefano
Carraro, "Alcuni aspetti del pensiero politico", BAUM, Venezia. Gian
Domenico Romagnosi Carlo Cattaneo Cinque giornate di Milano Lodovico Frapolli
Pierre-Joseph Proudhon Giuseppe Mazzini Carlo Pisacane Federalismo.
TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.F., su siusa.archivi.beniculturali,
Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di
Giuseppe F., su Liber Liber. Il primo radicalsocialista italiano, dal sito del
Movimento RadicalSocialista. Concludiamo. Interrogala sotto ogni aspetto, la filosofia
conduce a due inevitabili conseguenze, il regno della scienza, il regno
dell'eguaglianza. Questo era l'intento dei primi filosofi, questo l'intento della rivouzione. 'I primi filosofi
ne furono i precursori: ma traditi dalla metafisica, sentivansi solitari,
impotenti, inviluppati da ostacoli infiniti; e invocando i demoni, le favole,
un artifizio estrinseco, un felice inganno, cadevano sotto il felicissimo
inganno della chiesa; Socrate non poteva regnare se non sotto la protezione di
Cristo. Ma la rivoluzione liber questo prigioniero delia teologia, ne divulg la
parola, la trasmise a tutti gli uomini, e vuol costituire l'umanit sulla terra
colla forza della scienza e con quella del diritto. Da mezzo secolo la
metafisica tende un'ultima insidia alla rivoluzione trasportando il problema
della scienza nelle antinomie dell'essere, e il problema dell'eguaglianza nelle
antinomie del diritto. Ne consegue, che abbiamo il regno della scienza fatta
astrazione dalla verit, il regno della libert falla astrazione dai dogmi, il
regno dell'eguaglianza falla astrazione dal riparlo, il regno dell'industria
fatta astrazione dal capitale: e s'incoraggiano le nazionalit senza badare
all'umanit; si pensava perfino a fondare un impero meno l'impero, un papato
meno il papato, quasi fosse proposito deliberalo di predicare la rivoluzione
meno la rivoluzione, mantenendoci in eterno nel regno dell'impossibile. I
miseri cavilli della metafisica sarebbero morti nel vuoto delle scuole, se
leggi equivoche a disegno non li avessero tratti in piazza per stabilire una
tregua tra la rivoluzione e la controrivoluzione. Ma la tregua non regge; ad
ogni momento vediamo avvicinarsi il giorno della guerra, e se ad alcuni pu
parere lontano, e se altri possono consigliare di dare tempo al tempo, si
ricordino gli uomini di poca fede che quando la scienza scopre un errore per
quanto sia teorica, lo lascia smascherato per sempre, e chi lo difende pi non
regna, e se s ostina cade sconfitto e accusato d'impostura. Si ricordino che la
fede negli avvenimenti imprevisti non
cieca e viene autorizzala dalla forza del vero che oggi tradito si
vendica domani col corso naturale degli affari, delle guerre, delle paci, della
ricchezza, e perch ogni verit un valore,
chi la scorge se ne impossessa e la sconta, e tiranno o tribuno giova a lutti
sotto le forme pi inaspettate. Si ricordino che non vi fu mai progresso che non
toccasse alla propriet o alla religione che non venisse dalla scienza e
dall'eguaglianza e che non si dovesse irnaginare con ardimento scandaloso quasi
fosse una profanazione. Si ricordino da ultimo che il dato di Voltaire, di
Rousseau, di Weisshaupt ferve in ogni cuore; e, tolto il velo dell'astrattezza,
gi dairso al 93 quattro soli anni bastavano per passare dalla teoria alla
pratica e per sostituire una generazione di tribuni, di generali, di
insorgenti, di dittatori, di uomini d'azione all'inoffensiva generazione dei
filosofi mandati alla bastiglia e qualche volta perfino protetti tanto
sembravano lontani dalla realt. Quanto a noi figli del passato, discepoli degli
stessi maestri da noi discussi, visto nella critica l'arme che ferma la
metafisica e che ne scaccia le vane larve e gli inutili tormenti dal campo
della rivelazione naturale, visto che rinchiusi nel fatto, legali alla terra
ogni giorno, ci sottrae alla rivelazione sopranaturale comunque si gradui il
progresso e possa prendere delle forme mostruose e talora nemiche, dal momento
che sentimmo compiersi nella nostra mente la filosofia della rivoluzione
secondo l'inflessibile suo disegno, la linea retta fiparve la migliore e il
dissimulare ci parve tradimento. Per sette anni il F. tacque : non pia studi
pubblicati sulle riviste francesi per far conoscere al mondo T Italia del
passato e del preseme, non pi opuscoli politici per tracciare piani d'azione
pamphlets violenti contro i suoi avversari: gli amici lo avrebbero potuto
creder morto. EpIHjre la sua operosit si svolgeva occulta sotterranea
silenziosa, tanto pi assidua quanto meno era visibile: abbandonato il campo del
giornalismo dove le tracce del lavoro sono ben presto cancellate dall'incalzare
di sempre nuovi problemi e dalle richieste di gusti sempre mutati, lasciato il
tumulto della vita politica, U Ferrari si era dedicato totalmente alla pura
scienza. Il presente Io affliggeva ed e^i si volgeva al passato; l'Italia
pareva ricaduta nella schiavit e nell'abiezione, ed egli la volle studiare
libera e regina, quando marciando a capo di tutte le nazioni trasmetteva l'urto
delle sue continue rivoluzioni al mondo. Il Medio Evo italiano, il campo chiuso
della sua attivit storica, era sempre stato il suo lavoro e il suo tormento:
grande nell'insieme e nei suoi pi piccoli frammenti pareva che volesse
sottrarsi ad ogni interpretazione razionale e organica, come se sotto il bel
cielo d'Italia l'unica legge che governava le continue rivoluzioni di cento
stati differenti gli uni da^i altri come posti agli antipodi fosse il caso, il
capriccio della fornina, l'arbitrio dell'individuo. Tutte le altre nazioni
presentavano uno svolgimento storico organico, una forma politica costante che
le contradistingueva in ogni epoca : ai tempi di Ugo Capeto come a quelli di
Napoleone III la Francia era sempre stata la nazione della monarchia unitaria;
la Germania era ancora governata dalla Dieta federale, l'Inghilterra dalla
Camera dei Lordi come ai tempi di Ottone I e di Guglielmo il Conquistatore. Ma
l'Italia Qon poteva ridursi sotto nessuna categoria politica; u al principio
della monarchia n a quello ddla repubblica, n all'Impero n al Papato : ftemmeno
ad un sistema federale che raccogliesse in organismo la variet tumultuosa ed
eslege dei ^uoi stati. Rivoluzioni d'Italia. Da molti anni queste
considerazioni si svolgevano lentamente nel mio spirito, per rendermi
enigmatiche e impenetrabili le vicessitudini di Milano di Firenze di Roma di
Genova di Venezia, di tante citt unite dal suolo e separate da irreduttibili
diiTerenze. Qualunque fosse lo splendore estemo dei fatti, eran pur sempre
vittorie senza scopo, sconfitte senza causa, rivoluzioni senza idee, guerre senza
soluzione. Le cronache degli Scriptores rerum Italicarum mi apparivano quasi
statue rovesciate, quadri capovolti, medaglie sparse di un museo che una
vandalica ignoranza avesse devastato. Tutte le serie, tutte le simmetrie
essendo dissestate da una mano sconosciuta; potevasi dire che TAriosto solo
colla noncurante sua ironia avesse il diritto di sognare liberamente in mezzo a
questi cenci pomposi. Ma se la fecondit lussureggiante degli avvenimenti si
rivoltava contro ogni unit imperiale o pontificia; se essa facevasi gioco delle
repubbliche, delle signore, del candore dei cronisti e degli artifizi della
retorica; se essa compiacevasi di sconcertare tutti i sentimenti e tutte le
analogie: io vedevo tanta grandezza dell'insieme e una tal forza nel minimo frammento,
da non potermi arrendere all'idea che la patria di Gregorio VII e della Divina
Commedia ingannasse l'aspettativa destata dal sentimento del bello, .per non
essere se non un cumulo di accidenti eslegi. n Ferrari volle scoprire il spreto
di una cosi misteriosa apparenza, la legge vitale di un organismo cos
complesso, lo scopo di una coA abbagliante fantasmagoria. Si tuff nella storia
medievale fino agli occhi : senza fermarsi alle compilazioni volle risalire
alle fonti originali, medit su tutte le pagine degli Scrptores rerum
Italicarum, rsfogli le cronache, rivisse tra la polvere erudita coi vescovi e
coi consoli coi settari e coi signori del buon tempo antico: e cosi mentre la
turba degli gnomi, non comprendendo la sua solitaria libert superiore alle
borie del nazionalismo miope e pettegolo, lo accusava di vilipendere la sua
lingua e la sua patria, egli preparava in silenzio airitalia uno tra i pi bei
monumenti di gloria che potessero inalzarle i suoi figli. Le Rivoluzioni
d'Italia furono pubblicate la prima volta a Parigi in francese nel 1858,
ripubblicate in italiano tradotte dell'autore: in questa seconda edizione,
nonostante gli studi posteriori in seguito ai quali credette di avere scoperto
la filosofia della storia e la legge periodica del movimento storico, guidato
da un istinto fortunato, non la ritocc quasi affatto, non os guastarla per
farla servire alla sua teoria; quindi noi terremo sott*occhio pel nostro studio
Tedizione italiana, da cui son tolte le citazioni e a cui si riferiscono i rimandi.
Per quel che gi conosciamo della costinizione intellettuale del Ferrari,
possiamo fin d'ora giudicarlo 11 tipo dello storico perfetto, perch egli
riunisce l'intelligenza artistica alla comprensione filosofica e al criterio di
un sistema formato. Tutti grandi storici
sono artisti: artisti neil'interpretare gli uomini e i fatti, artisti nel
rappresentarli e atteggiarli davanti al lettore in modo che sembrino attuali e
spirino vita. Sono anche filosofi, in quanto hanno una WeUanschaung da cui
traggono i criteri della interpretazione e del giudizio; ma di solito il loro
sistema non che implicito e irrflesso
come quello di qualsiasi individuo che non si dedichi di proposito alla
filosofia; qualche pi rara volta c', ma preso a prestito, non rielaborato n rivissuto
individualmente, rimane estrinseco e astratto. Orbene la grandezza unica del
F., la sua caratteristica qualit, consiste nell'avere a fondamento della sua
interpretazione un vero formato originale sistema filosofico. Non solo. Questo
suo sistema, che anche oggi in gran
parte vivo perch rientra nel corso delle grandi concezioni, il pi adatto a dare una base filosofica
all'interpretazione storica; perch considera la reah come movimento, ed tutto pervaso dalla persuasione della
razionalit che governa la realt e la storia. Cosicch per quanto il Ferrari come
politico sia un uomo di partito militante e quanti altri mai fermo nelle sue
idee, amante delle posizioni nette, insofferente degli equivoci; come storico
noi possiamo essere sicuri che guarder la storia dall'alto, sapr giudicare
libero totalmente dalle preoccupazioni politiche del momento, sapr rispettare
la veneranda grandezza del passato senza querimonie per gli eroi mancanti e per
le cause sconfitte, non far ddla narrazione dd passato un pamphlet da una specie di lotta di cla|^e^arbaro che
avrebbe imbrgliato la rivoluzione sodale, legato i gran centri romani nella
rete delle citt militari in arretrato, sepellito sotto un'alluvione barbarica
le reliquie della civilt romana conservate dal cattolicismo. E per impedire che
potesse mai formarsi un regno su questa terra sacra alle rivoluzioni, destinata
a spandere il fuoco della libert su tutta l'Europa, l'Italia trasport l'Impero
in Occidente. Come rappresentanti del nuovo patto sociale che doveva essere la
base del diritto pubblico dell'Occidente a loro sottoposto, il Papa e
l'Imperatore si divisero la penisola destinata ad essere la custode del loro
duplice potere europeo : l'Imperatore ebbe l'Italia superiore, il Papa Ravenna
il centro occidentale e tutta l'Italia meridionale con le isole da conquistarsi
ancora 3ui Bizantini. {Trasporto dell'Impero in Ocddente). L'Italia perde
quindi l'indipendenza nazionale, ma acquistava la libert: e per tutti i domini
del Papa e dell'Imperatore il progresso sociale migliorava le condizioni dei
Romani, non pi sottomessi alla legge della spada barbarica, ma alla
giurisdizione dei loro vescovi; rialzava la sorte delle citt dell'industria e
del commercio a danno (dei centri militari; soffiava nelle ceneri calde della coltura
romana ad attivarne nuove scintille .Solo le terre ancora escluse dal patto
papaie-imperiale, Venezia, le repubbliche meridionali, la Sicilia, scontavano
amaramente la loro indipendenza politica con una inferiorit sociale, prodotta
dalla confusione bizantina dd potere temporale e del potere spirituale, la
quale impediva la gran libert del pensiero. Intanto Tunit dell'Impero
d'Occidente andava decomponendosi sotto gli inetti successori di Carlo Magno, e
l'Italia marciava ancora alla testa delle nazioni insegnando loro a
conquistarsi una libert federale. Ma poich da questa risorge lo spettro
micidiale d'un regno barbaro interno, la rivoluzione papale e imperiale sempre
regnante approfittando delle rivalit tra i feudatari rende impossibile il regno
d'Italia, lo condanna a non essere che una lotta di pretendenti, offrendo
sempre la corona a due rivali e rialzando sempre il vinto contro il vincitore
(Lotta contro il regno barbaro interno) finch invocato dalle rivoluzioni
italiane giunge Ottone I a rinnovare il patto papaieimperiale. Egli distrugge
per sempre il regno, disorganizza le marche dei discendenti dei barbari, esalta
il clero romano, protegge i comuni italiani. La rivoluzione italiana si propaga
a tutte le nazioni europee e modifica al suo esempio anche la Chiesa. {Riv.
d'Italia): L'Europa trovasi disposta come gli intervalli di no scacchiere, gli
uni bianchi gli altri neri, gli um unitari gli altri federali; presso gli uni
la religione prevale sulla legge, presso gli altri la legge primeggia sulla religione;
i primi progrediscono con l'eguaglianza, i secondi con la libert. La necessit
della guerra condanna tutti i popoli a svolgersi al rovescio gli uni degli
altri; la stessa necessit della guerra li obbliga pure ad accettare coll'una o
coiraltra delle due forme la rivoluzione italiana che si propaga. Cigni stato
in ritardo, ogni popolo che dimentica s stesso che non prende la sua base
d'operazione in opposizione ai suoi vicini, si trova debole impotente in
contradizione con se stesso e soggiogato. Se si cerca Tinfluenza italiana in
.una propaganda diretta uniforme, non si scopre e bisogna negarla; se invece si
segue nell'urto delle azioni e delle reazioni che si estendono opposte le une
alle altre.... si vede dappertutto la catastrofe del regno d'Italia riprodotta
con esattezza similare, dappertutto l'antico stato carlovingio o pagano
sparisce per cedere il posto ad un nuovo stato libero colle diete o popolare
col re. Liberata cosi per sempre dalla tirannia unitaria di un re l'Italia pu
abbandonarsi alla carrera magica delle sue rivoluzioni, che sembrano frantumare
in moti individuali variati disordinati la sua ideale unit di nazione, e a
prima vista ci appaiono refrattarie a qualsiasi principio organico di
interpretazione (Riv. d'Italia): Fin qui noi abbiamo potuto sottomettere tutto
all'azione dei principi; e la storia d'Italia si svolgeva una e logica,
dominando i pi svariati avvenimenti con una specie di continuit drammatica un
tempo vasta come il mondo. Odoacre abbraccia l'intera nazione col fatto unico
del regno proclamato contro gli ultimi imperatori, che accampati da .banditi a
Ravenna abbandonavano Milano ed Aquileia agli Unni e Roma ai Vandali. I Goti
continuavano l'opera di Odoacre, fissando l'invasione unica del re in tutta
l'Italia. Bdisaro e Narsele lottavano pure quali capitani dell'unit Imporde
contro il ragno tondKo so Ravenna; e tutte le citt, scacciando i Goti, si
rianimavano con un risorgimento quasi repubblicano. Pi tardi i due principi
opposti dell'unit imperiale e dell'invasione regia si spartivano materialmente
la penisola; e la terra, met romana, met longobarda, rimaneva una nella guerra
dei popoli cattolici del Mezzod contro la dominazione ariana di Pavia; ancora
una nel doppio slancio che estolleva le repubbliche cattoliche e il regno
longobardo; sempre una nell'infallibile trionfo della religione delle
repubbliche, che consegnava il regno a Carlo Magno per rifare l'Impero
d'Occidente. L'unit sopravviveva nel patto di Carlo Magno esteso a tutta la
vera Italia dipendente da Roma e da Pavia; continuava colla reazione dei
Berengario degli Ugo e dei papi quasi bisantini, tutti egualmente nemici del
Papato e dell'Impero; l'unit si mostrava di nuovo nelle rivoluzioni posteriori
contro la falsa indipendenza dei dogi di Roma e dei re italiani. Ad onta
dell'anarchia e dei rivolgimenti di quattordici rivoluzioni, noi abbiamo visto
la terra ordinata nelle sue lotte, uniforme nel suo ultimo trionfo, unanime nel
disegno che rinnovava il patto della Chiesa coli 'Impero. Costituendo fin dai
primordi t due principi della rivoluzione cattolica e del regno nazionale,
s'intendeva facilmente il senso di tutte le lotte; dal momento che una guerra
scoppiava doveva essere la guerra dei due principi: ci bastava il seguire le
due correnti, il nostro lavoro era eccezionale senza esser diffcile, l'unit
delle idee suppliva all'unit materiale dei fatti. Noi avevamo il diritto di
sottomettere ad una unit eccezionale il moto eccezionale del Papato e
dell'Impero; Napoli, Venezia, Bari, la Sicilia, Amalfi, Gaeta si scostavano da
se stesse per lasciare il posto alla geografa pontifcia imperiale; e queste
repubbliche ordinate al rovescio della vera Italia ne confermavano l'unit
rivoluzionaria, la sola che importava di seguire. M dai primi anni del XI
secolo cambia la scena; il moto generale scioglie ^uestltalia che gi
sconcertava la critica: o^i citt ha il suo eroe, le sue rivolttzioni, le sue
guerre, il suo destino. I comuni non sembrano punto associati; nesstma
federazione, nessuna lega, nessun' unione generale e apparente: Milano straniera ad Ancona qtianto Arles Trever o
Cambra!. I popoli si combattono, gli avvenimenti si incrocicchiano in tutti i
sensi, gli episodi sono innumerevoli. Alcune citt fondano delle colonie, altre
si estendono colle conquiste, giungono i Normanni, la Chiesa si rivolta contro
Tlmpero: quanto piti c'inoltriamo, tanto pi le forze della guerra e della
libert sembrano scatenarsi a caso. Lo spirito si turba; l'Italia cessa di
comprendere se stessa; i suoi storici non abbracciano pi l'insieme della
penisola: Giordanes, Paolo Diacono, Vamefrdo e Liutprando non hanno successori;
pi non si scoprono se non dei frammenti di cronache, delle scene staccate. Pi
tardi ogni citt ci presenta la sua biblioteca d scrittori, i suoi poeti della
barbarie municipale, il suo Cimer che canta nuove Iliadi. Eccoci in presenza di
cento storie distinte diverse contradittorie, senza legame palese: noi lo
domandiamo, dove sar la storia d'Italia? Le nostre proprie idee ci danno il
filo che ci guida attraverso il labirinto italiano. I comuni s'impadroniscono
del suolo per interpretare la vittoria da essi riportata col Papato e coli
'Impero; essi proseguono la loro guerra contro il regno, combattendo ogni
rimembranza, ogni istituzione che richiama la legge, la forza, l'aristocrazia,
l'esercito, la dominazione dei re; questo
lo scopo loro; essi marciano contro il Papa e l'Imperatore per
distruggere nell'uno e nell'altro ogni principio che conserva le tracce dei
Goti, dei Longobardi, dei barbari dell'Italia o dell'Europa. La storia dei
comuni non dunque altro che la storia di
una rivoluzione continua, lenta, fatale, e sempre trascinata dai suoi propri
antecedenti a combattere il vecchio Papa e il vecchio Imperatore della
barbarie, per creare un Papato, un Impero ideale, donde spariscano in modo
cosmopolita tutte le traceie della dominazione delFuomo sull'uomo. Un grand
'errore ingombra la storia d'Italia, ne sconvolge i prncipi il moto le epoche
il progresso, e snatura il senso di tutti gli avvenimenti: ed l'errore che la considera come il racconto di
una guerra continua contro il Papa e l'Imperatore per conquistare
l'indipendenza politica del governo o, come si dice in oggi, per respingere
l'invasione dello straniero. Sotto questo aspetto l'Italia non sarebbe mai
stata, la prima delle nazioni, e la sua storia riuscirebbe a questa assurdit
inammissibile: che dopo cinque secoli d guerra non avrebbe n raggiunto, n
voluto lo scopo stesso della guerra. No! nacque l'Italia pontificia e imperiale
contro i Goti, contro i Longobardi, contro i re italiani provenzali e burgundi;
nacque creando e interpretando il gran patto della Chiesa coli 'Impero; domin
le stesse conquiste carlovinge cogli incanti della religione e colla magia
della consacrazione imperiale: fino dai tempi di Teodorico la Chiesa e l'Impero
sono stati i simboli della sua libert, della sua redenzione, di ogni sua idea
liberatrice sulla terra e nel cielo nel fatto e nel possibile; e con la
costituzione dei due poteri essa ha organizzato una rivoluzione permanente,
universale, indefinita nelle sue aspirazioni verso l'avvenire. Il primo dei
suoi capi sotto l'aspetto politico
l'Imperatore, il pi debole il piii legale il piti federale dei re; il
secondo suo capo il Papa, cio il pi
inerme tra i principi, il meno conquistatore dei sovrani: non avvi dunque
conquista alcuna sul suolo italiano, ed al contrario il regno che era
conquistatore venne schiantato con una guerra cos violenta che tutti gli stati
dell'Europa ne rimasero scossi. Pertanto non vi ha, n vi sar mai guerra alcuna
d'indipendenza; Il Pontefice e l'Imperatore non avranno se non pochissimi
soldati, sempre costretti a fondarsi sulla forza stessa della terra. Che, ss
sono assaliti, si perch sono
oltrepassati dagli Italiani che vogliono riformare il patto che chiedono sempre
un miglior Papa che non esiste, un Imperatore che dev'essere rifatto: n punto
reclamano una vuota indipendenza; ma sostengono una guerra costituzionale
intima organica per trasformare le idee le istituzioni la religione, una guerra
dove il principio di respingere gli stranieri
sempre posposto al principio di distruggere ogni istituzione regia o
feudale. E se il Papa e Tlmperatore resistono, non combattono se non come
conservatori quasi indigeni, sostenuti dalle reazioni inteme che la libert
provoca e sormonta, imponendosi loro cosi d'epoca in epoca fino agli ultimi
giorni del risorgimento italiano. La storia dei comuni, considerata in tutta la
sua durata, non dunque la storia di una
guerra contro lo straniero, fatto unico materiale mille volte impotente;
ma la storia di un fatto ideale organico
sempre crescente: e poich l dove le idee regnano il caso non pu regnare,
l'oscurit del labirinto italiano deve sparire - e qualora restasse la colpa
sarebbe nostra. La rivoluzione la stessa
in tutte le citt : da per tutto essa ha lo stesso punto di partenza la caduta
del regno, lo stesso punto d'arrivo il risorgimento italiano; da per tutto si
svolge colle medesime idee rette dalla medesima logica; lenta o rapida,
squallida o splendida, vittoriosa o vinta, le sue fasi sono determinate
anticipatamente dall'inflessbile destino che sforza i principi a generare le
loro conseguenze. Che i mille accidenti della guerra turbino adunque l'Italia,
essi saranno tutti travolti da una sola corrente; e vi sar sempre una storia ideale
e uniforme, comune a tutte le citt da Ottone I alla flne del risorgimento. La
storia ideale della citt italiana si ripete a un patto di Carlo Magno, che essa
interpreta e che trasforma di continuo. Di fatto il Papa e l'Imperatore noli
intendono che a mantenerlo nel senso il pih tardo, se ne dichiarano apertamente
conservatori; la loro opera sempre una
restaurazione imperiale e pontificia. Ma hannovi forse restaurazioni nella
storia? Noi non ne conosciamo: gli antichi poteri che diconsi ristabiliti si
trovano sempre trasformati, e non trionfano se non accettando Topera del tempo,
e non ricompaiono sulla scena se non alla condizione di rappresentare i
principi che la fatale ignoranza del governo tradizionale lasciava ai loro
nemici. Stessamente il Papa e l'Imperatore compiono 'le loro restaurazioni cos
dette eterne, seguendo passo passo la storia delle citt italiane di cui
amnistiano le ribellioni e accolgono le innovazioni. Egli giusto che resistano; se non resistessero la
rivoluzione non avrebbe nessuna ragione per manifestarsi e nel medesimo tempo
la storia ideale si fermerebbe. Ma egli
altres giusto che, una volta sconfitti, si ristabiliscano, accettando il
progresso che si fatto strada e che
passa allo stato di fatto compiuto o di fato ineluttabile; ed cos che tutte le epoche della storia ideale
si riproducono nel patto di Carlo Magno colla Chiesa. Una volta nel patto, esse
si ripetono in tutti gli stati dell'Europa. Non sono forse il Papa e
l'Imperatore i due grandi personaggi dell'Occidente? bisogna dunque che
propaghino da per tutto le idee da essi rappresentate: d'altronde tutti gli
stati non si svolgono forse simultaneamente gli uni contro gli altri? devono
quindi accettare ogni progresso, non foss'altro per combatterlo. Ecco quindi la
trama ideale su cui scorrono tutte le rivoluzioni italiane; la legge che ne
governa la variet a prima vista irreducibile di forme, e le costringe ad essere
incasellate entro il quadro di due reazioni imperiali e pontificie. E' questo
il periodo storico che il Ferrari ha studiato con pi amore e trattato con pi
larghezza i la storia an- t^rorc al 962 e posteriore al 1530 rispetdvamente conaiderata come imrochizione
e come epilogo alla epopea di quel che egli chiama risorgimento italiano.
Allontanato per sempre il percolo d'una tirainide regia colla rinnovazione del
patto papaloimperale e col trasporto dell'Impero in Germania, r Italia che fln
qui era stata l'alleata dd Papa e dell'Imperatore comincia a combatterli ma non
per distruggerli, bens per riformarli, trascinata dagli antecedenti aUa lotta
senza quartiere contro ogni rimembranza del regno. La rivoluzione dt Vescovi
apre la serie. Nella citt sfuggita ormai all'incubo dd re^ gno ecco si trovano
di fronte due poteri : il conte goto longobardo o franco di discendenza, che
vorrebbe riprodurre in piccolo dentro la cerchia ddle mura cittadine la
tinmnide regia, che governa cdla legge ddla spada il popolo di discendenza
romana; e il vescovo romano di razza e di tradizione che protegge i deboli
contro la prepotenza regia del conte barbaro, aprendo loro le porte del suo
palazzo dove l'esenzione ottenuta da Ottone impedisce agli sgherri del tiranno
di entrare. B. popolo si serra attorno al suo vescovo, vuol essere giudicato
dalla sua giustizia superiore a quella del conte come la ragione alla spada, si
appassiona per tutte le sup*stizioni dd cattolicismo voltandde come armi ideali
contro le alabarde degli sgherri comitali^ finch un giorno scoppia
improwisame&ie una sollevazione annata. Il conte si trova espulso, e nella
citt si comincia a sbozzare colla formazione dd primo popolo raccolto dalla
corte del conte e da quella del vescovo Torganismo comunale italiano, che
non una derivazione germanica o romana
ma nasoe adesso oomh battendo contro le memorie del regno. La rivoluzione
vescovile irraggiata dal focolare di ribelto> ne delle citt penetra nei
feudi, ove sostituisce famiglie pie di tradizione romana e avversa al regtto
(Canossa, Savoia, Este) alle famiglie discendenti dagli invasori; conquista il
Mezzogiorno paralizzato dalla confusione bizantina dei due poteri, al seguito
delie schiere avventurose dei Normasni; e in RomB trionfa coHa libera elezione
popolare e clericale di Gregorio VI nemico dei conti e dei patrizi. Ma i centi
espulsi daUe citt da un esercito d! straccicmi capitanati da un prete ricorrono
all'autorit legale del loro supremo tutore, l'Imperatore, che vede oltraggiata
la sua legge; e Corrado II di GebeHno comincia la reazione contro i vescovi.
Invano : sconfitto da Eriberto di Milano, che oppone alla cavalleria feudale le
picche dei popolani raccolti attorno al carroccio novdlamente creato, vede la
sua reazione abortire nelle citt e nei feudi deiritaUa imperiale e in Roma, e
deve legalizzare la rivoluzione. It sovrano ddritalia meridionale il Papa, che l'ha avuta fai seguito al ^an
patto carolingio: a lui quindi spetta di guidare la necessaria reazione contro
i Normanni rappresentanti meridionali del principio vescovile, i quali dopo
averto vinto sforzano S. Leone IX ad accettare la loro rivoluzione. E cosi Imperatore
e Papa dopo avere ammistiata e legalizzata la rivoluzione italiana, come poteri
europei la diffondono in tutta l'Europa; e perfino ndla Chiesa, la quale si
appassiona per la verginit mistica in odio dei preti ammogliati, che profanano
la sua repubblica immacolata con una specie di feudalit clericale. Appena
ottenuta la legalizzazione della cacciata del conte, la rivoluzione entra in
una seconda fase, continuando contro i vescovi nominati dall'Imperatore che li
incarica di sostenere la parte dei conti, per strappare la libera elezione dei
vescovi stessi e una volta vittoriosa vuole la libera elezione del pi grande
dei vescovi, del Papa, che l'Imperatore si arrogava il diritto di imporre. Il
monaco Ildebrando riunisce tutte le forze della rivoluzione per togliere Roma
ai papi tedeschi, prima con l'elezione di Nicola II, poi con quella di
Alessandro II contro l'antipapa Cadaloo; e infine salito lui stesso sul trono
pontificio assale per la prima volta la supremazia imperiale, e trasporta nella
Chiesa la rivoluzione vescovile compita predicando la crociata. Senonch
l'utopia di Gregorio VII conteneva il germe d'una reazione pontificia contro la
libera elezione dei vescovi, che si sarebbe voluto trasportare dalle mani
dell'Imperatore a quelle del Papa: cosicch al suo avvento gli uomini della
rivoluzione passano nel campo nemico; dichiarano che il Papa non il padrone della Chiesa ma, sottoposto al
Vangelo alla tradizione ai concili, il
servitore dei servitori, e pu essere deposto se manca alla sua missione. Ecco
cosi la guerra delle investiture che la
reazione papaie-imperiale contro la libera elezione dei vescovi : i due capi
sempre in ritardo si sforzano di rassicurarsi interpretando con mente retograda
l'antica tradizione; ma i popoli al seguito dei loro vescovi, come avevano
atterrato il vecchio Impero sotto 1 colpi di Gregorio VII, atterrano il nuovo
Papato sotto quelli del nuovo Cesare rigenerato. Le citt dirigono il Papa e
l'Imperatore: sono imperiali quando il Papa trionfa e pontificie quando
l'Imperatore prepondera, e finiscono col seguire l'alleanza imperiale sulle
terre della donazione e quella papale sulle terre dell'Imperatore. Roma
determina l'azione di Gregorio VII sulla Germania; le citt lombarde decidono
Arrigo IV a resistere e gli danno la vittoria nonostante la sua sciocca
sottomissione di Canossa, ma quando la sua vittoria diventa minacciosa
disertano il suo campo e rialzano il Papa; e continuano in questo gioco a
rimbalzello Anche riescono ad ottenere la libera elezione dei vescovi, che il Papa
e l'Imperatore diffondono al solito dopo concessa a tutta l'Europa. Anche la
prima crociata cade sotto la legge della rivoluzione vescovile: costituita coi
quattro elementi della citt italiana, la moltitudine il popolo i consoli e i
vescovi, altro non se non Te spetrazioae
volontaria della feudalit che lascia libera la terra alla giuriadizion^ dei
vescovi. Abbiamo dato un sunto diffuso di questo periodo per offrire un esempio
pi chiaro del metodo interpretativo del Ferrari : ora potremo procedere pi rapidamente.
Qi stati dell'Europa non avevano ancora compita la prima met della rivoluzione
dei vescovi che nelle citt italiane dov'era nam essa era assalila da una nuova
rivoluzione, nei principi oscura e indecisa, dopo cosi splendida e scandalosa
c^ tuid i vescovi della cristiania ne erano scQS^ nelle loro sedi. La
rivoluzione dei Couso^ 2ipassava anch'essa per due tesi: prima sostituiva il
governo vescovUe ed governo consolare; poi scatenava le une contro le i|kre
citt consolari, divise in due campi per conquistarsi con la guerra una pi larga
libert dentro il patto papaie-imperiale. Nella citt vescovile il vescovo essere
religiosa e u-asmondano si trovava a capo della moltitudine, agitata da
tend^ize industriali e commerciali completamenie mondane ch'egli non poteva
soddisfare n raffrenare. Dall'opposizione nasce rifisurrezione : la citt si
muove prima conservando le apparenze dell'obbedienza, poi rinnova le sue
istituzioni e crea un nuovo popolo pi allargato e democratico chiamato a
legiferare nd parlamenti che, col tradizionale intervertimento di aUeanze
nemico del Papa negli stati della Chiesa e nemico dell imperatore nellitalia
imperiale, assale il diritto del regno a nome nel risorto diritto romano. La.
immancabile reazione pontificia e imperiale procedeva questa volta unita :
Innocenzo II e il suo alteato Lotario IH, capo dell'opposizione cattolica
tedesca allora vittoriosa nellimpero, secondo la formula generale di tutte le
reazioni opponevano il passato sempre vivo in essi al presente da cui erano assaliti;
e combattevano i consoli fondandosi sui vescovi liberamente eletti ed altra
volta si ardentemente invocati dai popoli, ma non riuscivano che ad ottenere la
fatale sconfitta. Ed ecco che appena vittoriosi della duplice reazione i
consoli spingono le citt le une contro le altre in quella guerra municipale,
che fa la maraviglia e lo sdegno degli storici maldicenti con le lacrime agli
occhi a tanto inesplicabile odio fratemo. E' questo uno dei misteri pi profondi
della storia ditalia: la guerra municipale non si spiega n colla volont del
Papa e dell imperatore, n colla lotta fra i due capi della cristianit, n colla
duidit geografica di Roma e di Pavia, n colle vertenze fra i diversi distretti,
n colla HbeDione dei castelli. (Riv. d'Italia): Guardiamo alla terra dove
sorgono le citt libere : la sua geografla
anticipatamente determinata da una rivoluzione anteriore. La rivoluzione
dei vescovi ha disorganizzato il regno, ne ha paralizzata la capitale, lia
isolata, ha degradato le citt militari che l'assecondavano, le ha spodestate
delle loro funzioni strategiche, ha soppiantato Pavia e i centri secondari che
erano padroni delle vie dei fiumi del commercio di tutto. Le citt romane sono
state rialzate, opposte alle citt militari; restituite all'importanza naturale
che loro davano il conmiercio, la ricchezza, la facilit delle comunicazioni, le
circoscrizioni diocesane stabilite dai Romani sotto l'impero della civilt. Ne
nasce che la terra dualizzata in ogni
parte, la rivoluzione dei vescovi ha voltate tutte le citt le une contro le
altre: ogni centro militare si trova in presenza di un centro romano a lui
ostile; Tuno declina, l'altro s'inalza; l'uno immiserisce, l'altro prospera;
l'uno langue, l'altro risorge. Nell'era dei vescovi la dualizzazione delle citt
non ancora apparente, la legge imperiale
e pontificia regna ancora, la guerra si dissimula; e se i conti sono congedati,
la met della gerarchia sussiste ancora col vescovo che supplisce al conte,
nasconde la guerra - e non vedonsi che lotte momentanee. Eriberto di Milano non
combatte le citt dei dintorni se non per ordine dell'Imperatore. Ma nel momento
dei consoli la disorganizzazione vescovile del regno si fa laica, la
dualizzazione delle citt diventa economica: pi non trattasi di reclamare
precedenze, giurisdizioni ecclesiastiche o feudali; si reclamano la ricchezza,
i fiumi, le strade, i transiti trasformati in istrumenti di prosperit o di
miseria; il mercante, il fabbricante, il ricco si sostituiscono al vescovo;
nessuna gerarchia, nessuna diplomazia superiore che raffreni le rivalit; non i
giudici per decidere sulle vertenze, le citt devono giudicarsi da s. Esse sono
in contatto immediato; il contatto diventa lotta, la rivoluzione dei consoli
diventa guerra si potrebbe forse evitarla? Guardiamo sempre la terra. La
rivoluzione dei consoli si sviluppa sul fondo stesso della prima rivoluzione
dei vescovi, per raddoppiare la disorganizzazione del regno e la degradazione
delle citt militari. Questa degradazione
fatta dal commercio, dall'industria; diventa la miseria dei centri regi,
la prosperit dei centri commerciali : i primi son condannati a difendersi sotto
pena di morire, i secondi combattono anche prima di dichiarare guerra perch
basta loro il vivere il progredire per spegnere le citt dell'antico regno; esse
assorbono t frutti il succo gli umori del suolo italiano, esse rifanno tutte le
strade tutte le comunicazioni al rovescio del sistema militare, esse
sostituiscono alla strategia regia quella del commercio che procede lenta sorda
implacabile col libero spaccio di tutte le merci. Come resistere loro se non
colle armi? Ecco l'ostilit dichiarata: ogni citt militare lotta colle armi,
coll'astuzia, con tutti i mezzi della politica; tutti soa buoni, tutti giusti
trattandosi di difendere la patria. Se occorre si rivolgeranno le forze stesse
della libert e della civilt contro le citt pi libere, pi civili; si spingeranno
alla ribellione i comuni intermediari promettendo loro l'indipendenza; si
tenter di smembrare le citt romane, di attorniarle con borghi insorti, di
disorganizzare questo centro di disorganizzazione e ne nascer l'aff
razionamento dell'aff razionamento, la guerra della guerra. Fin qui abbiamo
considerata solo la natura del suolo: e l'abbiamo trovato friabile,
inconsistente, disposto alle frane, e dualizzato come se avesse subito in tutte
le sue molecole una doppia polarizzazione sotto la pressione del Papato e
dell'Impero. Prendiamo ora il compasso, misuriamolo; e noi vedremo che la
guerra deve raddoppiare d'intensit. Qual' la circoscrizione della terra ove
sorgono i consoli? La citt vescovile si ferma ai corpi santi; pivi oltre
tutto occupato dai feudatari
dell'Impero, la campagna cosa loro,
l'irradiazione popolare della prima rivoluzione ha dovuto soffermarsi nei
limiti determinati dall'ombra della cattedrale. Ma i consoli possono forse
rimanere in questi limiti? Essi rappresentano un nuovo popolo, del doppio pi
potente coll'avvenimento ddrinttstra e del commercio, due volte pi ricco grazie
alla sua attivit che moltiplicandosi trabocca oltre il vecchio recinto delle
nmra; quindi si rinnovano i bastioni, gli edilizi pubblici, il palazzo del
conume, le fortezze, i cimiteri; la citt s*adoma, s'ingrandisce e pi non pu
capire nel proprio territorio, e segue coll'occhio i suoi fiumi le sue strade i
suoi sbocchi: dei pedaggi altre volte insignificanti intralciano il corso delle
merci, dei villaggi un tempo inosservati le tagliano le comunicazioni; la citt
smania di estendersi, di svincolarsi dalle sue pastoie, di rompere ogni
ostacolo. Pisa e Genova, die si trovano dinanzi delle terre lontane sul mare,
fondano delle colonie consolari; ma per le citt delFintemo non hannovi terre
vacue, la campagna appartiene alla feudalit, tutte le giurisdizioni son armate,
i confini sono spietati e le citt si gettano sull'unico spazio che sia vuoto,
sullo spazio della rivoluzione consolare. Ogni citt che si governa coi consoli
sfugge all'Impero o alla Chiesa nella misura stessa del consolato, e si
presenta come la preda naturale del nemico che l'osserva; essa res nuUius: 9 combattimento permesso naturale inevitabile; ed ogni citt,
ogni borgo aspira a diventare una capitale; la guerra deve durare fino alla
liquidazione generale di tutte le pretensioni; l'Italia dev'essere rifatta per
intero. Ora supponete il Papa e l'Imperatore animati da sentimenti patemi e da
benefiche intenzioni; supponeteli sempre pronti a intervenire per predicare la
pace l'unione la concordia; supponeteli abbastanza forti per ottenere
innumerevoli conciliazioni,per riparare mille torti, per render giustizia agli
oppressi; supponeteli protettori, conservatori come devono essere secondo il
dato primo del Papato e dell'Impero: le citt riporteranno vittorie che non
saranno vittorie; le-sconfitte non saranno sconfitte; nessuna guerra riuscir ad
alcuna soluzione; tosto ottenuto un vantaggio bisogner rialzare le torri
spianate, ricostruire le mura smantellate, riedificare le citt incendiate,
restituire il territorio conquistato; e alla partenza del Papa deirimperatore e
dei loro delegati, le cause della guerra sussistendo ricondurranno le citt al
combattimento; si rimarr per secoli a battagliare in una casamatta, ai piedi di
un bastione, sull'orlo di un fosso - per riportare mille vittorie inutili, per
subire mille sconfitte sempre riparate. La guerra municipale che rimane dentro
i confini della regione viene quindi ridotta al dualismo delle citt militari e
delle citt romane costrutte le une a controsenso delle altre : di Milano e di
Pavia la capitale di Alboino, di Mantova e di Verona la prediletta di Teodorico,
di Bologna e di Ravenna la capitale di Odoacre, di Firenze e di Fiesole, di
Pisa e di Lucca, di Roma e delle citt latine : anche il regno di Napoli si
toglie all'analogia degli altri regni per seguire la legge delle citt italiane,
funzionando come una gran citt cambattente con Palermo contro i rimasugli
federali dei piccoli stati greco-longobardi. Questa guerra che oggi si
considera come un disordine odioso era nel secolo XII un progresso, una
rivoluzione, il primo passo delle citt per determinare i loro confini a nome
della propria libert insultata e disconosciuta dalle vecchie giurisdizioni.
Intanto Fed. Barbarossa,capo della rivoluzione vescovile in Germania, si
propone di combattere in Italia la seconda fase della rivoluzione consolare,
sopprimendo la libert della guerra municipale che insulta alla sovranit
dell'Impero: e A. PrrraRI Giuseppa F. la sua reazione subisce vicende diverse
secondo che si muove sulla terra delPantco regno o su quella del Papa o del
regno normanno. Nell'Alta Italia diventa capitano municipale delle citt romane,
manovrante da bandito con l'uniforme d* Imperatore, e invece di spegnere la
guerra la conferma. Dopo i successi effmeri dovuti alle citt che lo secondavano
nelle prime discese, vinto dalla Lega Veronese dalla Lega Lombarda e dalla
fondazione d'Alessandria, accorda il diritto alla guerra sanzionando nel
trattato di Costanza le due leghe di Pavia e di Milano. La battaglia di Legnano
non dunque una lotta repubblicana e
nazionale dei liberi comuni contro l'Imperatore tedesco (1); ma una lotta fra
le citt romane guidate da Milano le citt
militari guidate da Pavia, per ottenere dentro la gran giurisdizione
dell'Impero la libert della guerra. La nuova rivoluzione, appena legalizzata
dalla duplice repubblica europea del Papa e ddl' Imperatore, si diffonde
dappertutto dando ad ogni nazione dei governi con missioni consolari : perfino
nella Chiesa, che assalita da ogni parte prende al rovescio i suoi nemici colle
creazioni consolari dei cardinali, dei concili, dei nuovi ordini francescani; e
sostituisce la conquista vicina dell' Inquisizione alla conquista oltremarina
della Crociata, e la scolastica di S. Tomaso e S. Bonaventura all'indisciplina
dei Francesi e dei cappuccini. Cfr. J BRyCF. : lite Holy Roman Empire, London,
Macmillan, Non si dichiaraTano prncipi repubblicani, n si faceva appello alla
nazionalit italiana. La terza grande rivoluzione italica prende nome dai
Cittadini e Concittadini e pa9sa per le fasi della guerra ai castelli e della
guerra cittadina che provoca la creazione del podesta. La citt consolare, la
quale non altro se non un'oasi in mezzo
alla foresta feudale del regno che copre ancora tutta la campagna inceppando il
libero espandersi del commercio, una volta ottenuta la libert della guerra
riflette che le citt rivali sono troppo radicate alla terra, mentre i nobili
della campagna si presentano come vittime facili; e volta contro di loro
l'impeto irresistibile della sua espansione economica e politica. Le citt
romane specialmente combattono con furore contro la moltitudine dei feudatari
che le accerchiano impedendo loro il respiro; e questa ultima rivoluzione che
estende la libert alle campagne si presenta come la conclusione della gran
guerra contro il regno, distrutto nelle sue sopravvivenze campagnole dei castelli.
Nella Bassa Italia, che funziona come un gran municipio, la guerra ai castelli
si confonde con la continuata guerra municipale di Palermo contro gli antichi
centri, ultimi nidi di feudatari di sangue longobardo sognatori di sorpassate
franchige aristocratiche. La soluzione della prima fase, vittoriosa della
reazione, apre una nuova lotta. I castellani, naturalizzati e deportati per
forza nel cuore della citt che loro impone l'odiosa legge dell'uguaglianza, si
vendicano costruendo delle fortezze inteme, armando i loro servi,
conquistandosi coil'oro la moltitudine che voltano contro il popolo e
ricominciano un combattimento che come quello fra citt e citt non pu finire;
perch il denaro alle prese col denaro,
la borsa colla borsa, la finanza colla finanza : i proprietari della terra
(concittadini) sono almeno forti come i possessori deifabbriche (cittadini). La
lotta fra il Papa e l'Imperatore si presenta ai cittadini e ai concittadini per
riassumere ed eternizzare il loro combattimento: con la solita interversione
d'alleanze i cittadini dell'Alta Italia seguono il Papa, quelli di Roma e delle
Due Sicilie invocano l'Imperatore; al contrario i concittadini dell'Alta Italia
seguono l'Imperatore, mentre quelli della Bassa Italia invocano il Papa contro
Palermo. I torbidi continui, le prese d'armi improvvise, l'anarchia imperante,
conducono alla creazione di un nuovo governo : i consoli nella loro qualit di
capi dei cittadini come parti in causa non hanno quell'autorit imparziale che
possa giudicare i due partiti, e lasciano il posto ad un nuovo magistrato nel
tempo stesso giudice e capitano, ad una specie di dittatore annuale che si
chiama podest. Preso all'estero e quindi superiore ai partiti egli stesso
giudica e applica la sua legge con potere discrezionaro ma spirato il suo
mandato sottoposto a giudizio, e se
trovato colpevole condannato a multe a
prigonia e talvolta alla morte. La reazione immancabile questa volta si
semplifica. Il Papa il protettore delle
citt romane del Nord, T Imperatore lui
stesso il gran podest delle Due Sicilie : la reazione imperlale non opprime
quindi che i sudditi diretti dell'Impero, mentre la reazione pontificia non
percuote che i popoli della Chiesa. Federico II assale qua! console della
Germania i podest della Lombardia, diventa capo dei concittadini delle citt
romane e dei cittadini delle citt militari; ma dentro al laberinto incrociato
delle inimicizie dualizzate si trova impegnato in un combattimento a cui
l'equivalenza delle forze non permette nessuna soluzione ed costretto a riconoscere col fatta della
guerra interna la nuova rivoluzione. (Riv. d'ItaUa): Visto da lungi nella
confusione del XIIl secolo, Federico inganna gli storici col suo doppio
prestigio di console della Germania e di podest delle Due Sicilie, e vien
considerato come un essere onnipoten-^ te che avrebbe potuto fare Tltalia come
voleva; e la poesia, che segue le grandi figure della storia per trasportarvi
di pianta i suoi sogni i suoi disegni le sue utopie le sue speranze o i suoi
rimpianti, stende silenziosamente il dito sul gran Federico, quasi abbia seco
perduto non si sa qual misterioso destino d'Italia. Ma ha perduto le tradizioni
solo dei Gebelini, condannati alla demenza delle reazioni impossibili : il
fatto della sua sconfitta non ammette n pentimenti n correzioni; egli resta
qual' nel suo tempo nel suo giorno nell'ora sua, simile all'uno dei mille
geroglifici che la stenografia della storia traccia con la rapidit del lampo
per un'eterna immobilit. Utile al Mezzod, l'ultimo degli Hohenstauffen non poteva
n essere il podest dell'alta Italia, n equilibrar runa coll'altra le due
regioni del Mezzod e del Nord, n reggere tutta la penisola con un potere di
screzionaro e profressivo; le nozioni stesse di compensi, di equit giudiziaria,
di discrezione politica o di despotismo beneflco erano anticipatamente
eliminate dal progresso dalla vita e dalle rivoluzioni delritalia, che si
svolgevano diverse variate affrazionate da cento stati contradittori, la cui
suprema felicit era di rovesciare il Papa o Tlmperatore. Il male fatto a
Firenze non era compensato dal bene fatto a Lucca, un'umiliazione di Milano non
toglievasi con alcuna indennit concessa a Pavia. Un podest unico regnante a
Palermo a Roma ed a Milano; un regno unitario improvvisato ed esteso a tutta la
penisola; una sola dominazione imposta d'un tratto all'antico regno ed alla
donazione, ai conti, ai marchesi, ai cittadini, ai concittadini ed alla Santa
Sede sarebbe stata come una montagna sovrapposta a tutte le montagne, una
devastazione inaudita di tutte le libert, una esagerazione iperbolica del regno
dei Longobardi, un cesariato neroniano che avrebbe d'un tratto fermata e
inaridita la civilizzazione dell'Occidente. E come mai l'uomo che non poteva
evitare la sua sconfitta decretata dai secoli avrebbe potuto riportare una
simile vittoria? Dove avrebbe preso le sue frze? I suoi stessi pensieri
partivano dal basso come la libert generale... Al certo l'elevazione non
mancava a Federico; e fissando lo sguardo su lui, a traverso i delitti della
corona, lo spettacolo dell'Impero e la commedia estema delle pompe, si scopre
quell'irrefrenabile arditezza che si manifesta sempre m tutte le epoche della
storia; nel momento delle grandi rivoluzioni, quando gli eroi nello spasimo
Cfr. P. VlLLARi. L Italia da Carlo Magno alia morte di Arrigo F/Z-MUbo, HoepU*
N*to in un secoio di disordini e di contradioDi le quali spesso in Ini si
pCTSonJlicaroiM>, chiamato a Kovemare regioni cba come hi G^mania V lulia
meridionale e U aellatttcieiiale avrebbero richiesto una politica diversa un
indirizzo qualche veka addiritura opposto, pi volte egli disfece con una roano
ci che aveva costruito con 1' altra. del dolore dimenticavano un istante di
essere tribuni re imperatori, per chiedere alla natura e agli astri se pu darsi
un esito ragionevole alle pazzie deirumanit. Egli si rivolge ai sapienti
dell'Islamismo, per cercare delle verit che la sua religione gli vieta di
conquistare; li turba colle sue orgogliose interrogazioni su Dio, sull'anima,
sulla provvidenza, sulla vita futura. Qualche volta, stomacato dalla furberia
dei miracoli cristiani, si direbbe che sogna un califato d'occidente, col quale
la ragione gli renderebbe la met del potere ceduto da Carlo Magno alla Chiesa.
La tradizione profana lo segue appassionatamente e, guerreggiando con le
calunnie cattoliche, gli attribuisce confusamente il pensiero di voler regnare
quale podest delle tre religioni che si contendono la terra; essa gli fa dire
che Mos Ges Cristo e Maometto sono i tre grandi impostori dell'umanit, che
ingannano i mortali, che seminano sulla terra il furore delle crociate, che
bisogna domarli e dominarli; e che ci dev'essere qualche cosa ad essi
superiore, non fosse altro un etemo sonno, per calmare la ragione oltraggiata
dai pontefici dagli ebrei dai cristiani e dai musulmani. Porse, nel suo
disprezzo per i commedianti di Roma, nel suo amore per i Romani e per i
castellani minacciati dal fuoco della moltitudine e dell'inquisizione, pensava
egli ad una rivoluzione religiosa; nel mentre che numerosi insensati si
attendevano a vedere trasformato l'universo da un incanto che rovescerebbe la
tirannia imperiale. Ma nelle alte regioni del potere il libero arbitrio del
pensiero, che si fa strada in mezzo alle pi astratte possibilit, non serve che
a rivelare di rimbalzo tutta la forza della fatalit. Sciagurati i Cesari che
lottano coi pontefici! Essi sono obbligati di parere ancora pi religiosi degli
altri; devono imporre il silenzio l'obbedienza la cecit, e farsi ipocriti
impostori e persecutori di ogni filosofia; perch la moltitudine adora i suoi
preti i suoi ierofanti i suoi mistificatori, essa si nutre di favole di
iperboli di miracoli questo il suo
pasto; e non sacrifica i suoi capi pi assurdi se non agli uomini che le
promettono con maggior energia di continuarne gli errori. Podest occulto di tre
religioni, Federico IIgemeva sotto il peso occulto di una filosofia che lo
condannava a dissimulare il suo pensiero, a dirsi cattolico, ad abbruciare gli
eretici e a disprezzare lumanit. Viceversa nel regno delle Due Sicilie la reazione guidata dal Papa, che come console dei
concittadini del Mezzod assale con le armi della rivolta federale e della
superstizione cattolica il suo vassallo Federico 11 supremo podest, ma vinto nel momento stesso in cui trionfa
nell'Alta Italia. E la sua sconfitta si ripet a Roma, che organizzata a forma
repubblicana lo obbliga a cedere di fronte a Brancaleone dell' Andalo podest
bolognese. La libert della democrazia della sedizione e delle battaglie si
svolge in tutta l'Italia proclamando il grande interregno, e si diffonde per
tutta l'Europa e anche nella Chiesa dove i dottori combattono come cittadini e
concittadini prendendo al rovescio gli stati, finch il Papa diventa il
giustiziere universale di tutte le dissidenze presenti passate e future come un
podest mitriato. Ma nemmeno il podest poteva durare sulla Il possesso del regno
di Sicilia lo metteva nella falsa posizione di un vassallo resistente al sno
legittimo sovrano. BRyCE : Iloly Roman Empire, pag. 208. scena un tempo
maggiore di quello concessogli dal fato della rivoluzione^ la quale entrava
nella nuova fase dei Guelfi e Ghibellini che si divide in periodo delle sette e
dei tiranni, al momento in cui la guerra civile straripava al disopra del
governo pacificatore e i combattenti disprezzavano gli ordini del podest. Chi
sono questi furibondi che si scannano a vicenda proprio adesso che il grande
interregno li libera alle lofo tendenze, permette ai Lombardi di adorare il
loro Papa, ai Meridionali di venerare il loro Imperatore? Essi non derivano dal
Papa e dall'Imperatore non sono altro che le due sette dei cittadini e dei
concittadini che rinascono con duplicato furore, per darsi delle sempre nuove
battaglie al seguito della quale una met degli abitanti deve prendere la via
dell'esilio. I cittadini delle citt romane sono guelfi, all'opposto dei
cittadini delle citt militari di Roma e del Regno delle Due Sicilie : i
concittadini delle citt romane sono ghibellini, mentre quelli delle citt
militari di Roma e del regno sono guelfi. Con una guerra tutta sociale figli di
una stessa citt, essi combattono per conquistarla non per distruggerla;
riconoscendo per la prima volta l'unit i Cfr. Volpe : Pisa, Firenze e Impero in
Studi storici. Pisa: I-e varie cagioni delle lotte interne ed esteme dei conuni
sono al di fuori di Papi e di Imperatori, e indipendenti dalle cagioni che
questi aggiungono di proprio quando si mescolano nelle gare dei comuni: quelle
preetistono a queste e sono le vere arbitre della storia d' Italia del Medio
Evo, a cui le due podest servono pur illudendosi di comandare. deale della
nazione si stringono in alleanza coi settari del loro stesso colore, onde tutta
la penisola corsa come dalla rete di una
circolazione di vene e di arterie moventisi a controsenso. Pari la forza degli interessi, pari la forza delle
idee; la lotta adunque nel complesso della nazione eterna e senza soluzione come una antinomia
metafisica; ma prende possesso delle contradtzioni della guerra municipale,
secondo la legge che dopo una minore o maggiore alternativa di espulsioni fa
inclinare sempre la vittoria a favore dei cittadini, del popolo : dei Guelfa
quindi nelle citt romane, dei Ghibellini nelle citt militari. Essa allarga
ancora la libert nazionale dentro il patto di Carlo Magno, istituisce un nuovo
popolo pi numeroso dilatando la democrazia, e mira a creare secondo il tipo
ideale formatosi con la generalizzazione delle sue due tendenze una nuova
Chiesa democratica e un nuovo Impero legale. Minacciato dalle due sette che
fanno traballare il suo ux)no, il Papa non pu regnare a Roma se non facendo un
passo indietro per fermare la rivoluzione, chiamando Carlo d'Angi alla
conquista della Sicilia affinch domini come un podest imparziale sulle sette
italiane. Ma Carlo diventa guelfo prima d'aver visto l'Italia e la reazione
papale sconfitta. Questo orribile
sconvolgimento rivoluzionario, cio
benefico e liberatore : dirocca innumerevoli castelli sfuggiti alla guerra
consolare, estende la libert alle arti ai mestieri alla plebe, compensa il
decadimento delle citt militari col fiorire delle citt romane arricchite
dall'industria e dal commercio, rivela attraverso il collegamento antitetico
delle sette Tunit nazionale, e d due linguaggi due poesie due nuove religioni
all'Italia. Il francese, lingua guelfa adottata dall'aristocrazia popolare
delle citt romane, bilancia l'italiano coltivato dalla corte ghibellina di
Federico II e di Manfredi, artificiosamente scelto dai dialetti di tutte le
citt; finch viene a trionfare la nuova lingua guelfa della democrazia di
Firenze. Il periodo dei Guelfi e Ghibellini entra adesso nella seconda fase dei
tiranni. Il tiranno il capo di una delle
due sette che gli concedono un potere dispotico sacrificando la loro libert
quasi feudale nell'interesse della vittoria: esso compensa la violazione di
tutli i diritti acquisiti coi favori prodigati alla moltitudine e colla
condotta vittoriosa della guerra estema, e per la prima volta rappresenta la
terra sotto una forma individuale. Ma, capo di un partito destinato
dall'equilibrio delle forze ad alternare te sconfitte con le vittorie, si avvia
anch'egli ad una catastrofe certissima. Le citt che non entrano nell'era dei
tiranni si contorcono nelle angosce della guerra civile non ancora disciplinata
imbrigliata e mitigata, e in ritardo di una generazione nel corso della civilt
sono sorpassate dalle rivali come Firenze che rifiuta un tiranno guelfo in Gian
della Bella, o son costrette a ricorrere a tiranni stranieri come Brescia o^
Piacenza fondate sul tiranno di Napoli. Bonihido Vili minaeciato tenta la reazione
opponendo la guerra pura e semplice all'ordine nasceme delle tirannie, per
suscitare attraverso alla penisola un ondulazione guelfa che distrugga le
tirannie ghibelline; e ricorre a Carlo di Valois. Lo scaglia Contro la Sicilia
ma uivano : in tutte le citt i Guelfi si trovano senza capi senza riputazione
senza potere e disonorati dall'invettiva immortale della Dmna Commedia.
Invocato da Ghibellini d'Italia arriva infine Arrigo VII, che in ritardo come
la sua patria di due rvduzioni non vuole essere n guelfo n ghibeliino; e guida
quindi una reazione opponendo ai furori delle tirannie la pacificazione
sorpassata del podest. Ma appena messo il piede sul suolo fatale ditalia, come
i suoi predessori vien preso nell'ingranaggio politico delle inimicizie, costretto
a diventar ghibellino, e muore sconfitto e si dice avvelenato dall'ostia guelfa
dei monaci di Buonconvento, dopo ruminazione di Roma e l'affronto di Roberto di
Napoli. La rivoluzione dei tiranni penetra infine nel patto di Carlo Magno
colle teorie antitetiche di S. Tomaso e di Colonna, di Tolomeo da Lucca e
dALIGHIERI (vedasi), che propongono come stato modello gli uni la tirannia
guelfa gli altri la tirannia ghibellina. La Divina Commedia la grande epopea della tirannia ghibellina
trasportata nell'universo soprannaturale, dove Dio sostiene la parte del
tiranno supremo; Dante il poeta del
terrore, dell'odio, della rabbia, dell'esterminio sanzionato dalla necessit su^
prema di salvare il genere umano; che da per tutto immola sacrifica consacra i
Guelfi del suo temp ad una eterna infamia, pur accettando tutta la democrazia
guelfa del passato. La rivoluzione vittoriosa si diffonde per tutta l'Europa;
si riproduce nella Chiesa grazie a Bonifacio Vili e ai suoi successori
d'Avignone; penetra nei conventi colle esplosioni guelfe e ghibelline dei
domenicani tomisti e dei francescani scottisti, nelle scuole coi realisti e
nominalisti, e perfino nell'altro mondo dove si vogliono scacciar gli angeli
dal cielo per ristabilirvi i demoni dell'inferno. A un certo momento il tiranno
s'accorge che per regnare deve sfuggire alle ondulazioni guelfe e ghibelline,
stabilendo il regno dell'imparzialit col disarmo colla corruzzione o con la
distruzione dei settari nobili e repubblicani, nell'interesse dell'agricoltura
dell'industria e del commercio che vogliono ora la pace. Il reggimento
repubblicano gi compromesso dai tiranni viene quindi abolito dai Signori che
regnano da despoti colla forza della intelligenza, sfuggendo di traverso al
Papato e all'Impero senza prenderli mai di fronte; finiscono le guerre ai
castelli e le guerre municipali fin qui insolute, dando predominio alle citt
progressive romane; si estendono colla forza della necessit, migliorando la
sorte delle citt conquistate trattate coll'imparzialit usata verso le due
sette; e sempliflcando la geografia delle due Italie, utilizzano ormai
direttamente il Papa nel Sud quasi guelfo e Tlmperatore nel Nord quasi
ghibellino (Avvento dei Signori). Traviati derisi traditi dalla giurisprudenza
che dimostrava in qual modo si poteva vivere nello stesso tempo nei due campi o
passare sapientemente da un campo all'altro; i Guelfi e i Ghibellini non
avevano altro mezzo che d'invocare ^ uni il tiranno d'Avignone gli altri il-
gran tiranno dell'Impero, per disfare con una reazione generale le nuove
costruzioni delle signorie imparziali. Ma la signoria definitivamente
vittoriosa di tre reazioni, una papale una imperiale e una combinata, penetra
nel patto di Carlomagno, mentre i giureconsulti proclamano per la prima volta
la sovranit popolare di ogni nazione astrazion fatta dalla Chiesa e
dall'Impero. Nella seconda fase della Prosperit dei Signori a regno dei
furfanti benefci si propaga in tutte le citt : le terre pi timide, i centri pi
disgraziati, i villaggi pi infelici vogliono crearsi dei capi al di fuori dei
vecchi partiti: ogni citt prende definitivamente il posto che le era stato
indicato dai vescovi durante la rivoluzione del 1000: indi l'importanza di
Milano, la petulanza di Verona, l'inferiorit della Toscana e del Mezzod. La
signoria di Milano era frattanto giunta a tanta potenza cfie provoc per
contraccolpo la reazione di una federazione repubblicana pontificia e
imperiale, in cui le citt minacciate dalla voracit dd Biscione si alleavano coi
poteri retrogradi per difendersi. Ma Tltalia ben presto lasciava a s i suoi
capi retrogradi e la reazione finiva colla catastrofe dell'Impero, sceso con
Carlo IV alTimperdonabile bassezza di farsi mercante di dijplomi; e col gran
scisma della Chiesa divisa fra Urbano VII quasi ghibellino e Roberto di Savoia,
che coi loro vicendevoli anatemi liberavano la ragione individuale dalle catene
della religione. La terza fase del periodo dei signori dominata dal dualismo fra Milano e Firenze.
Un nuovo progresso inalza Milano, dove per cancellare ogni rimembranza di
atrocit tiranniche Galeazzo tradisce Barnab suo zio. L'ambizione illumina i
cronisti milanesi e suggerisce al Mussi Tidea di sopprimere la dominazione
temporale della Chiesa per sottomettere T Italia all'unica signoria dei
Visconti. Ma quest'idea trasforma la signoria milanese benefica e
rivoluzionaria lungo il suo raggio legittimo in un flagello per il resto della
penisola, ed obbliga Firenze a difendere la liberta le leggi le tradizioni e le
federazioni dei popoli italiani. Da quest'istante tutti i fenomeni della
nazione si spiegano col contrasto fra Milano e Firenze, che si riflette nelle
due rispettive scuole dei cronisti. Ma la vera Italia si trova superiore al
contrasto, rappresentata dal Petrarca da Bartolo e da Boccaccio, che tradiscono
il Medio Evo a profitto dei moderni e impersonano l'empiet del nuovo scisma:
l'uno conciliando ogni contradizione col suo classicismo accademico feroce solo
contro la Chiesa d'Avignone, l'altro liberando ' le nazioni dal gran patto
papaie-imperiale per mezzo della romanit, il terzo sepelleiido le imposture del
Medio Evo sotto le risate della sua novella federale. E* questo il momento in
cui la bisantina Venezia esiliatasi fin dall'era dei vescovi toma nel sistema
italiano. (Riv. d'Italia Dimenticata fino dalla caduta del regno, appena
frammista qua e l alle battaglie lombarde e friulane come una terra secondaria
e affatto straniera, quasi sconosciuta al Papa e all'Imperatore non meno che ai
popoli e ai poeti d'Italia; si presenta d'un tratt ancorata a Rialto, carica di
prede di ricchezze di simboli, simile ad una nave d'alta velatura che sarebbe
entrata nel porto durante la notte, di ritomo da un lungo viaggio nelle regioni
favolose d'Oriente. La signoria si propaga in tutta l'Europa, dove tutti gli stati
capovolti dalla rivoluzione anteriore riprendono il loro atteggiamento
naturale; e la Chiesa rinuncia alle lotte della scolastica fra i sostenitori
dell'individuo e quelli del genere, per diventare ciceroniana ed eclettica ad
imitazione del Petrarca. Le conquiste sociali e politiche della signora vengono
adesso minacciate dalla Crisi militare. I signori avevano composto i loro
eserciti di mercenari per disarmare i Guelfi e i Ghibellini e per
tranquilizzare i cittadini tradizionalmente antimilitari; ma poich, affascinati
dal demone della conquista vogliono mantenere eserciti superiori alla loro
potenzialit economica, finiscono per fallire e per cadere in balia della plebe
irritata e dei soldati insorti. La crisi si compie in tre tempi : prima la
plebe insorgendo contro il flagello della miseria distrugge la signoria,
risuscitando le forme politiche sorpassate della repubblica o della tirannia;
poi vedendo che quella libert la ripiomba nelle demenze del passato accetta una
nuova signoria, che limiti le sue ambizioni conquistatrici al raggio legittimo
consentitole dai suoi mezzi finanziari. Il signore cosi ritemprato da una nuova
consacrazione plebea si trova adesso di fronte al condotdere capo di una
signoria volante di soldati su d'un territorio che non pu sostenerli tutti e
due, bisogna che uno scompaia : ora il
condotdere che diventa signore come Francesco Sforza, ora la signora che toglie di mezzo il condottiero
come Venezia fa del Carmagnola. La garanzia dell'oro, l'unica che resiste
ancora in mezzo alla derisione universale di tutti i principi, conserva tutto
il lavorio dei secoli precedenti : la federazione italiana si semplifica colla
vittorai dei gran centri romani sulle citt militari e le dualit invincibili;
detronizzando diciassette dinastie e distruggendo diciassette indipendenze
inutili, uccise dai poveri e dai plebei secondo la gran legge che da Carlomagno
in poi sacrificava l'orgoglio della nazionalit alle necessit della democrazia,
perch la fame superiore all'ambizione
delle monarchie e delle repubbliche. Indipendenti A. Ferrari Giuseppe Ferrari.
nel fatto dal Papa e dall* Imperatore le signore secolarizzate si uniscono
nella cdebre lega del 1484, in cui Milano Venezia Firenze Roma e Napoli,
dichiarando di assoldare un condottiere a spese comuni, stabiliscono il
principio di tutte le federazioni : di formare uno stato solo contro al nemico
bench ogni stato resti distinto e sovrano nel proprio territorio. Le reazioni
di questo periodo sono appena accennate e non servono che a confermare la rivoluzione
flnanziaria. La quale si riflette nelle lettere, dove si ha prima la ricerca di
tutti i valori, poi il rinascere delle opere originali con Lorenzo col
Poliziano e col Pulci, che malizioso come un signore liquida il Papa e
l'Imperatore senza contestare i principi del Papato e dell'Impero. E penetra
inflne nella Chiesa la quale, assalita dalla ribellione federale del Concilio
di Costanza, si rigenera all'imi tazione di tutti gli stati mostrandovi le
scintille d'un incendio universale di democrazia, che presto avrebbe divorato
tutti i re e i dottori protettori della libert e delle riforme; inventa la
visione beatificata mettendo d'accordo l'Apocalisse e il purgatorio; e fa
adorare un Dio che vende le indulgenze per rendersi visibile nei capolavori dell'arte.
L'Italia aveva fin qui squassato la face ideale della rivoluzione; marciando
alla testa della civUt essa creava man mano le nuove forme politiche. che
diffondeva per mezzo del Papa e dell imperatore a tutte le nazioni d'Europa. Ma
ecco che durante il periodo della Decadenza dei Signori la civilt trasporta i
nuovi centri incendiari in un'altra nazione; e la Francia chiamata da Ludovico
il Moro straripa improvvisamente con una espansione militare nellitalia, la
quale sorpresa da questo imprevedibile progresso costretta a difendersi restaurando il Papato
e l'Impero che l'astuzia dei signori aveva quasi esiliato, e resuscitando le
forze indigene delle sette guelfe e ghibelline che il tradimento dei signori
aveva addormentato. Il meccanismo politico cosi adesso si rovescia : prima era
l'Italia che trasmetteva all'Europa l'impulso delle sue sempre nuove forme
politiche per mezzo dei poteri europei del Papa e dell'Imperatore; adesso l'Euror pa che, mossa da un'altra nazione,
per mezzo del Papa e dell'Imperatore trasmette il progresso allitalia. Succede
un altro passo indietro quando l'Italia
costretta a mettere il Papa e l'Imperatore sotto la Spagna per
difendersi dall'insurrezione germanica e federale di Lutero contro le sue
rivoluzioni, contro la sua civilt passata attaccata nel Papa; che rappresentava
tutto il suo lavorio religioso, la sua supremazia mondiale e che era pure uno
dei due membri della federazione europea da essa creata (Riv. d'ItaUa) r Cfr.
C. Balbo: Dciln stona d' Italia: Finiva V et del primato (qualunque fosse) d*
Italia; iocominciava quella dei primati occidentali di Spagna, poi Francia, poi
Inghilterra. L'eresia che aveva serpeggiato nel Nord fra le due patrie di Huss
e di Wicleif reclamava anch'essa la sua espansione; le regioni che avevano
respinto il giogo della centralizzazione dell'antica Roma si levano con nuovi
Arminii, per respingere con le forze invisibili del pensiero l'unit pontifcia
che era sottentrata all'unit conquistatrice dei Romani; i popoli la cui antica
barbarie aveva imposto le sue federazioni nomadi ai Cesari, opponevano le nuove
federazioni degli spiriti indipendenti ai demiurgo di Roma e al Cesare guelfo
dell'Austria. II Nord dell'Europa sorgeva dunque alla voce di Lutero; ed 0gni
individuo, diventato libero nel fro intemo della propria coscienza, formulava
cento gravami contro la monarchia del . Pontefice e contro le rivoluzioni
d'Italia che l'avevano creata. Si sorgeva dunque contro la prima rivoluzione,
che in odio del re di Pavia aveva divinizzato i preti i vescovi e il loro capo;
contro il prestigio magico che essi avevano messo negli antichi simboli
dell'eucaristia, della messa e delle reliquie a confusione dei barbari; contro
la santificazione dell'antica capitale con una gerarchia misteriosa che aveva
umiliate tutte le citt regie; e contro la superstizione incendiaria che aveva
dato all'ordalia, all'altare e all'acqua benedetta il potere di sottrarre i
delinquenti ai tribunali ed i popoli ai re. Non si risparmi poi alcuna delle
creazioni di Carlo Magno : n la separazione dei due poteri; n la donazione che
faceva della Chiesa una potenza politica; n la penitenza che metteva i suoi
giudici al di sopra di tutti i giudici, le sue sentenze al di sopra di tutte le
sentenze; n la liturgia che propagava il culto col fascino dei canti, delle
pitture, delle sculture sconosciute alla Chiesa primitiva; n il purgatorio che
raddoppiava la distanza fra il cielo e l'inferno, per far luogo agli incanti
delle preghiere clericali; n in una parola il pontefice che arrivava all'anno mille
come un Dio fuori di Dio, vera ipostasi della giustizia divina e proconsole di
tutti i proconsoli istituiti sotto il nome di primati. La devastazione luterana
si estendeva a tutte le rivoluzioni posteriori : e proscrveva dell'era dei
vescovi il celibato dei preti e tutte le riforme che fornivano armi spirituali
temporali allunit pontifcia; dellera dei consoli gli ordini mendicanti, le
feste imponenti, Tesaltazione dei cardinali, Timpostura regnante e rimplacabile
inquisizione; delfera delle due sette i tomisti e gli scottasti, le ecceit, i
flatus vocis, le dotte puerilit che profanavano Do trasformandolo in tiranno or
guelfo e ora ghibeilino; del tempo dei signori il culto nell'atto stesso
capriccioso, materiale, e abbandonato al despotismo della frase ai periodi
ciceroniani e al pennello di artisti sostituiti alrinsegnamento degli apostoli;
del tempo della crisi fnalmente si assaliva il delitto che riassumeva tutti i
delitti e che consisteva nel vendere le preghiere le assoluzioni le indulgenze
le dispense tutto, per far denaro con una religione gi materiale, e per
moltiplicare cosi i capolavori che sostituivano ai miracoli di Crsto quelli
delle nove Muse. Non si voleva pi ascoltare l'oracolo di Roma, le coscienze si
rivoltavano contro la sua religione, le intelligenze contro i suoi dogmi, il
pudore contro la sua morale. L'ira generale denunciava il sacerdote giudice
confessore inquisitore funzionario e papista come un nemico del genere umano.
Si chiedeva di vivere in una chiesa dove, ogni uomo diventato il proprio
pontefice, la religione incatenata al senso letterale della Bibbia, tutto
l'andamento divino ridotto alla stessa legalit di questo documento primitivo -
l'opera arbitraria delle rivoluzioni italiane sarebbe definitivamente abolita
come una epidemia satanica, e tutta la signoria di Roma maledetta come un
sacrilegio commesso contro la libert del Vangelo. L'Italia non era mai stata pi
violentemente oltraggiata : i Longobardi avevano rispettato la civilt romana, i
Goti di Teodorico l'avevano protetta Lutero la fulminava; e se prima di lui si
era declamato contro la nuova Babilonia, le si attribuivano adesso come delitti
non solo i suoi vizi e le sue virt ma altres la sua grandezza e magnificenza.
Gli Italiani difendono dunque il Papa e 1.Imperatore che rappresentano le loro
rivoluzioni legalizzate, e questi si mettono sotto la protezione della Spagna
per resistere al federalismo protestante dei luterani; mentre i signori
rinunziano alla lega del 1484 che aveva congedato silenziosamente il Papa e
l'Imperatore, e la nazione rinnova per un'ultima volta il patto di Carlo Magno
colla Chiesa. La restaurazione di Cario V non era una reazione: delle
rivoluzioni italiane rispettava nitto il lavorio geografico e sociale, ben
differente dalle reazioni anteriori che pretendevano farlo ren*ogradare; essa
venne quindi accettata. Leone X riassume e sviluppa la grandezza dei suoi
predecessori, mentre gl'increduli del suo tempo si burlano della Chiesa e
dell'Impero. L'arte e la scienza trasportano nel campo ideale la rivoluzione di
quell'epoca. L'Ariosto ne riBette l'immagine nella sua poe^a dove nello stesso
tempo deride ed ammira il Medio Evo, dove sono ammessi all'onore dell'arte
tutti i contrari della politica e della religione ^uabnente ridicoli e
venerabili, tutto il fantastico pagano e orientale non meno rispettabile delle
favole della Chiesa e la sua arte che rappresenta ancora oggi l'indole
italiana imitata da tutta la
letteratura. Il Machiavelli pu dirsi l'Ariosto in azione : volendo insegnare le
norme della politica rimane vuoto e asirattOy mentre fonda la teora che
determina le leggi secondo cui si svolgono tutte le rivoluzioni possibili. Cosi
nella vita malpratico improvido senza
importanza, ma la sua fama si estende lentamente colle rivoluzioni ulteriori
contro il patto di Carlo Magno colla Chiesa, man mano che l'umanit si svincola
dalle credenze soprannaturali e si basa sul razionale. La nuova era politica
della Rivoluzione protestante propagata dalla Germania consiste in un movimento
che estende la fraternit umana oln*e assai la benedizione del Papa e la memoria
di Roma e, conservando la distinzione dei due poteri che aveva inaugurato il
regno del pensiero puro, la affida ad ogni individuo divenuto papa di se stesso
una volta in regola colle leggi del suo stato. Essa si attua in forma opposta
negli stati germanici e negli stati latini: nei primi individuale legale
federale distrugge il potere di Roma confermando quello dei prncipi; nei
secondi riforma le antiche dottrine della teocrazia romana, opponendo alla rvoluzione
protestante la fraternit e la democrazia, le concentrazioni ispaniche e le
centralizzazioni francesi. In Italia produce il tronfo degli stati ghibellini
(Milano Genova Firenze Napoli) sui loro opponenti guelfi e francesi d'alleanza,
e il sacrificio dei Ghibellini nella minoranza degli stati dove i Guelfi devon
regnare (Venezia Savoia Roma). La rivolizione rinnova la letteratura col Tasso,
il poeta della tenerezza che celebra la grande impresa cattolica della prima
crociata; fonda la musica; e ringiovanisce la Chiesa coi Gesuiti e colle teorie
della fraternit in opposizione alla libert protestante. La riforma appena
vittoriosa assalita da una reazione :
cattolica e unitaria nei paesi protestanti, protestante e federale nei paesi
cattolici, essa non fa che confermarla; sacrificando in Germania Wallenstein e
in Francia gli Ugonotti; negli stati ghibeliini d'Italia i Guelfi francesi i
Guisa i Vacchero, e negli stati guelfi i Ghibellini spagnoli d'alleanza come i
500 cospiratori annegati da Venezia. La letteratura nazionale sta per
soccombere airinsurrezione dei dialetti; mentre che la ragion di stato liquida
senza parere la religione e spegne il senso morale cogli scritti di mille
mediocrit misteriose; e la filosofia d Bruno e T. Campanella : Tuno il martire
del panteismo che afferma Punita della materia e la pluralit dei mondi; Taltro
il rappresentante pi grande deiTutopia politica dei popoli latini esagerante
alTinfihito la fraternit l'unit e il despotismo, contro l'utopia opposta che si
svolge secondo Lutero colla forza della libert delle federazioni delle leggi.
Il nuovo periodo storico che va dal 1648 al 1789 e che si potrebbe definire del
Despotisma illuminato guidato dalla
Francia; la quale insegna a tutte le nazioni d'Europa l'indifferenza religiosa
che secolarizza lo stato, la semplificazione del governo colla distruzione
dell'indipendenza quasi feudale d'una nobilt costretta a modernizzarsi,
l'impostura e la libert della ragion di stato nell'interesse delle moltitudini.
Esso si attua in senso inverso negli stati monarchici e negli stati federali
colla centralizzazione o colla legalit. In Italia la democratizzazione
dell'aristocrazia viene diffusa negli stati ghibellini dall'Impero d'Austria,
nei guelfi dall' imitazione della Francia. I politici della ragion di stato
sospendono le loro cicalate, i poeti dei dialetti cessano dalle loro
divagazioni, e le pompe dell'opera traducono il secolo di Luigi XIV nella
lingua universale della musica diffusa dall'Italia a tutta l'Europa (Riv.
d'Italia) : La nazione mantiene ormai la 3ua supremazia coirestatica inazione
dei suoi cantanti. Non si affrettano mai : gli eroi si precipitano al
combattimento colla misura dell'andante, il nemico fugge senza potersi staccare
dalla scena dove l'incatenano i ritomeli, le tenebrose sorprese si svolgono con
cavatine i cui accenti riempiono le pi vaste sale, si danno le pugnalate in
battuta, le vittime cadono colle vibrazioni isocrone del trillo - e nessuno
s'impazienta perch rartista coll'arco alla mano ha abolite tutte le leggi delle
verosimiglianze. Ma contro la secolarizzazione d'Europa abbiamo l'immancabile
reazione guidata dal cardinale Alberoni, che cupido di riconquistare alla
Spagna i domini di Carlo V aiuta in ogni stato i vecchi partiti per distruggere
il nuovo progresso. Ma il suo bieco disegno
distrutto in Francia dagli uomini della reggenza e dai filosofi
delPenciclopedia, che diffondono in tutta l'Europa le idee del despotismo
illuminato, mentre la Massoneria succede ai Gesuiti. In Italia l'Austria prende
l'iniziativa delle riforme, il Regno di Napoli diventa indipendente, il
Piemonte si ricostituisce e si estende; mentre le repubbliche rimangono
indietro attardate dalla loro retrograda aristocrazia. La nazione rivela la sua
grandezza nella filosofia con Vico, il quale colle idee del despotismo
illuminato mette a livello tutte le societ e tutte le religioni; nella poesia
con Metastasio il pi tenero nemico degli dei, e con Alfieri il tragico poeta
della guerra che vuole tutte le idee alla altezza dei nuovi tempi {Riv.
d'ItaliaDeliziosamente illusa da queste cantilene rimate [di Metastasio] che
svegliavano gli echi di tutti i teatri d'Europa, la folla italiana fu un giorno
sorpresa e si direbbe intimorita da un nuovo spettacolo che portava la sfida
alle pompe asiatiche dell'orchestra. Senza musica, senza cori, senza strofe,
senza rime, Alfieri fece salire i suoi attori su d'una scena squallida triste e
nuda; e l quattro personaggi dalle figure astratte, impegnati in una azione
unica stincata rapida, obbligata a giungere alla meta in ventiquattr'ore
coli'orologio alla mano con un cadavere in terra e colla nuova moralit del
vizio vittorioso e della virt sacrificata questi miserabili mezzi a controsenso
di tutti i pregiudizi fecero Teffetto di un drappello d Spartani che fennassero
Tannata di Serse. Il melodramma ne ricevette uno smacco irreparabile, i suoi
pomposi personaggi furono scompigliati, i loro gemiti sospirosi si fermarono
subito; nessun poeta succedette a Metastasio; i maestri rimasero soli con
taluni poeti pagati, con libretti insignificanti, con parole vuote di senso che
si chiamano ancora in oggi le parole e la poesia lasci per sempre le rime
effeminate, le pugnalate fantastiche, le virti ridicolmente languide e i
cantanti castrati delle cappelle principesche. Perch Alfieri faceva finalmente
vibrare la corda della guerra, sconosciuta a tutti i drammaturghi dagli
Arlecchini fino ai poeti cesarei. Pi nuovo di Dante, pi moderno di Shakespeare,
egli inventava dei personaggi poetici per formarne dei veri; nuovo Orfeo voleva
destare la libert nazionale, che nella sua immobilit secolare non sapevasi
ornai come intendere. I cicisbei impallidirono, lo spasimante il patito il
cavalier servente ed anche il signor marito si sentirono ridicoli, le civette
si morsero le labbra, gli abbati si accigliarono, i patrizi dalle code
impdverate si guardarono intomo, e i capitani capirono che si poteva morire
alla guerra. Il fuoco sacro di Parnaso rendeva la scena inviolabile al cospetto
del governo, la tragedia penetrava nei gabinetti, qualche volta esiliata dalle
scene investiva il lettore a casa sua e i suoi spettri inattesi gli intimavano
di spogliarsi del vecchio uomo, di levarsi, di pensare. L'ultimo perodo storco,
non ancor chiuso quando il Ferrari scriveva,
quello della Rivoluzione francese. Il suo principio consiste nella
divulgazione dei misteri del despotisir.o illuminato per modo che il
razionalismo libero pensatore trionfi presso tutti i popoli, neiristimzione del
codice che uguaglia politicamente tutti i cittadini, nell'avvento della
propriet borghese figlia dell'industria e del commercio. La rivoluzione
francese ricorre alla forma repubblicana antipatica alla nazione come a
strumento di distruzione, finch Napoleone trasporta nella forma tradizionale
dell'assolutismo il contenuto nuovo, l'ultimo progresso; e lo diffonde con le
armi a nitta l'Europa dove l'esordio
quindi assolutistico e la conclusione libera. Cosi la Germania dal
despotismo della conquista napoleonica necessaria per trasmetterle la
rivoluzione torna alla sua federazione quasi repubblicana, alle speculazioni
astratte, aUa libert della sua arte; 1 Austria ritorna alla patema democrazia e
alla burocrazia meccanicamente esatta; l'Inghilterra aveva gi avuto nel suo
territorio la esplosione che creava gH Stati Uniti anticipando le idee della
rivoluzione francese; ma la Russia copia il progresso francese direttamente
coli' assolutismo degli Czar. L*ltalia si volge alla Francia per distruggere
Papato e Impero a Une di acquistare il nuovo progresso; e ad una prima tenue succede
una seconda pi radicale trasformazione all'unitaria, Anche conquistati i
principi nuovi ritoma con lavorio lento alla sua tradizionale federazione. Al
solito la rivoluzione francese assalita
da una reazione, che impone alla Francia la libert costituzionale della
dinastia borbonica, e viceversa air Europa il despotismo; ma essa si
avviticchia alle forme stesse della reazione per combatterla e sconfiggerla, in
Francia colla repubblica che conduce al governo assoluto di Napoleone III,
presso i suoi avversari col ristabilimento delle libert costituzionali. In
Italia abbiamo pure assolutismo al rovescio della Francia; ma assolutismo
che costretto a diffondere il contenuto
della rivoluzione, a far riforme amministrative, ad appellarsi alla moltitudine
che tenta di voltare contro i liberali. Per la nazione volle scuotere questo
odioso giogo dell'assolutismo e alla rivoluzione di febbraio corrispose
l'esplosione unitaria del Piemonte accettata per riformare il Papa e
l'Imperatore; finch la religione e la politica federalista si volsero contro
Carlo Alberto, che trasformava la guerra di libert in guerra di conquista
interna non legittimata nemmeno dalla vittoria napoleonica, e da Villafranca a
Novara si distrusse un regno immaginario a profitto della federazione italiana.
Ma il progresso richiesto tanto
all'Austria costretta alle riforme e bilanciata dalla Francia, quanto al Papato
compromesso politicamente dalla doppia occupazione dei due imperi rivali. Tutti
i governi cedono ai principi deir89 per il rumore confuso delle nuove idee che
attaccano la propriet. E dalla lotta fra la religione e la filosofia, fra i
preti e i tribuni scaturisce il progresso; secondo che gli uni o gli altri,
essendo detronizzati, trovansi nella necessit di proporre una pi vasta democrazia
per risalire al potere. Il sunto a bella posta diffuso che noi abbiamo steso
tessendolo spesso di frasi e perodi dell'autore baster a dare un'idea adeguata
della importanza unica di quest'opera, in cui il Ferrar dispiega netta la sua
incomparabile grandezza di storico. Per averne la misura paragonate la sua
storia d'Italia, non dir con uno di quei manuali in cui i fatti e i personaggi
sono infilzati l'uno dietro all'altro come una corona di nocciole, ma anche coi
libri di coloro che vanno per la maggiore fra i moderni : con la voluminosa
storia politica d'Italia pubblicata dal Vallardi, o con la storia del Villari,
che passa per il migliore dei nostri storici viventi, in corso di pubblicazione
adesso presso Hoepli). Anche per una persona di quelle cosidette colte che
frequentano le societ di lettura e fondano le universit popolari la storia,
secondo l'idea che ne ha portato dal liceo,
come una fantasmagoria irragionevole, che sarebbe comica se non
stillasse il sangue di innumerevoli vittime. II capriccio la pazzia il caso
sembrano movere questi innumerevoli fantocci di un dramma senza processo e
senza scioglimento; dove si vedono degli individui che si scannano senza
ragione, delle nazioni che si combattono senza sapere il perch, delle invasioni
barbariche piovute dal cielo, e sopratutto una incessante lotta intema dei
popoli Lf' /mvfsi'oni barba r'hf, Milano, Hoepli; L' Ita^ Ita da Carlo Magno ad
Arrigo VJJy id., contro i governi che pare non proporsi mai uno scopo, fatta
per para cattiveria. Pur troppo molti manuali di storia sembrano scritti da
gente che la pensa cosi! Ma anche molti degli storici pi elevati, pi
scientifici diciamo, mancano del metodo interpretativo in una maniera
impressionante. La loro storia, costretta a rimanere attaccata ai personaggi
ufficiali per avere almeno una unit apparente,
un seguito di biografie e di raccontini legati gli uni agli altri dalla
meccanica successione cronologica o da metafore vuote. A quel modo che i
letterati seguaci del cosi detto metodo storico che per eccellenza il metodo antistorico
credevano che la critica avesse esaurito il suo compito, una volta dimostrato
che la tal canzone del Petrarca era stata scritta nella tale occasione per quel
tal personaggio; cosi molti storici credono ancora che il lavoro della storia
si limiti a mettere in sodo se un tal fatto pi o meno particolare accaduto in quel dato modo, se quella data
istituzione politica era costituita cos e non altrimenti. Ma come di fronte a
quei pseudo-letterati la critica afferma la necessit di completare e integrare
il loro lavoro da puri manuali della letteratura con la ricostruzione con
l'interpretazione col giudizio; cosi contro questa specie di positivismo
storico non sar mai abbastanza forte affermato che la storia non deve limitarsi
alla descrizione estema dei fatti, ma li deve interpretare spiegare
resuscitare, collocare in una lnea di sviluppo per cui si veda sotto alle
apparenti fermate o alle parziali decadenze lo sviluppo continuo e progressivo
della civiltil umana. Sta bene la ricerca del documento nuovo: noi non
proclamiamo affatto inutile questo lavoro che
anzi la base necessaria su cui si deve svolgere il lavoro veramente
storico, ma affermiamo che il documento di per s inutile se non usato, che
muto se non vien fatto parlare, che deve essere bruciato per rischiarare
la storia; la quale non soltanto, la Dio
grazia, scovamento e pubblicazione della nota della lavandaia di Alessandro
Manzoni o degli avvisi di fiere del comune di Simifonti, ma narrazione dello sviluppo civile dell'umanit.
Non basta raccontare un fatto come
avvenuto; bisogna penetrare al di sotto della sua superficie squallida o
brillante per ritrovarne l'intima ragione; bisogna i fatti singoli sgranati
collegarli colKunit d'un principio che
il loro motore e la loro spiegazione; bisogna il succedersi dei diversi
principi, dei diversi sistemi sociali dimostrarlo dominato da una legge di
continuo sviluppo, di progresso continuo. Or bene l'opera del Ferrari un modello incomparabile di storia
interpretativa, di storia cio vera. Di pi, il Ferrari uno storico completo. Cfr. T. B. Macaulay:
History in Miscellaneous WriiififTi Longmans, Green and Co.. London: Nella
invenzione sono dati i principi per tro%'are i fatti, nella storia sono dati i
fatti per trovare principi; e lo
scrittore che non sa spiegare i fenomeni ueualmente bene come li narra compie
solo una met del suo ufficio. I fatti sono semplicecernente la scoria della
storia. dall' astratta verit che li
penetra e sta latente fra essi come 1oro nel minerale che la massa deriva tutto
il suo valore. Storia vera la narrazione
e interpretazione di tutta l'attivit umana, quindi non semplicemente della
politica ma anche della artistica e della filosofica; perch l'uomo uno in nitte le sue manifestazioni. Lo
storico completo deve dunque dimostrare come tutta l'attivit umana di uno
stesso periodo abbia unit di caratteri, come arte e filosofia e politica siano
tutte dominate da uno stesso principio storico; questo, come abbiam visto, il
Ferrari fa; giudicando inoltre senza pregiudizi di aorta l'arte dal puro punto
di vista estetico, il pensiero dal puro punto di vista filosofico. Ma la sua
dote migliore quella di essere
totalmente libero dai pregiudizi della morale miope dei buoni padri di
famiglia, che vorrebbero ridurre la storia a qualche cosa come un dramma a fine
morale, con l'obbligo del n*ionfo per personaggi dotati di tutte le sette virt
cardinali e teologali. Nulla di pi noioso che gli scritti di certi signori,
perpetuamente scandalizzati di fronte alla vitalit umana potente nei vizi come
nelle virt, perpetuamente predicanti contro le orge di Nerone o le crudelt
della Rivoluzione francese, ridotti alla disperazione di dover ricercare a
forza dentro i fatti ribelli il trionfo della loro moralit di scomunicare il
90% della storia. (La Chine) : Non c' niente di meno storico che Io scopo
morale perseguito s ostinatamente da certi storici, i quali trasformano la
storia in una specie di catechismo. Essa al contrario ammette tutti gli
scioglimenti : A. F, Giuseppa F.ora tragica, ora comica, a volta indulgente e
crudele, non si incarica di punire di ricompensare alcun eroe; e domanda senza
fine dei tiranni dei condottieri dei martiri degli stolti delle vittime. Perch
si vorrebbe qui ch'essa s'inchinasse davanti a un innocente, l che s'irritasse
contro un malvagio, e che si sostituisse a Dio per ricompensare gli uomini
secondo il loro merito; che fosse in una parola edificante per le madri di
famiglia e per i bambini poppanti! Che l'arte debba essere giudicata da! puro
punto di vista artistico, la fliosofia dal fllosoflco, si finalmente cominciato a capire : pare che non
si sia invece capito ancora che, per intendere e giudicare la storia, bisogna
mettersi da un punto di vista superiore a quello della propria moralit
individuale e contingente. La storia un
tessuto di azioni pratiche, che io posso quindi giudicare sia dal punto di
vista economico che dal punto di vista morale; posso cio determinare se
l'azione di quel dato individuo fu prodotta puramente da fini individuali, da
Ani universali. Devo ad ogni modo ricordarmi bene che la moralit formale, che
morale quello che l'uomo crede e sente morale; devo quindi rinunziare
alla mia rivelazione morale come direbbe F. per rimettermi nei panni
dell'individuo che pretendo sottomettere al mio tribunale; e non portare le
idee del secolo XX nel secolo V avanti Cristo, e non giudicare il Valentino coi
criteri con cui si giudica un onesto impiegato municipale padre di numerosa
prole. Ma lo storico non deve limitarsi a mettere in sodo seVisconti trad lo
zio Barnab per pura libidine di regno o per beneflcare i suoi popoli,
liberandoli dall'ultimo vestigio della tirannia a nome di una pi completa
imparzialit; anche nel caso del resto piuttosto raro in cui fazione sia
determinata dal solo interesse individuale, lo storico vero deve saperci
discernere il bene, quel bene che l'individuo non cerca e non cura ma che il
destino gli impone di compiere, e che solo permette alla sua azione di essere e
le d un senso. Cosi si viene veramente a dimostrare che la storia il trionfo della moralit, che non quella degli storici pudibondi; della moralit
che non esiste senza il vizio perch appunto
lotta contro il vizio; della moralit che si vale per i suoi fini di
tutti gli istinti, di tutte le passioni, di tutte le colpe dell'uomo,
condannato dal destino ad essere sempre e dovunque angelo e bruto. E veniamo
ora a giudicare il valore della interpretazione concreta. Pensate che ai tempi
del Ferrari la piti importante storia d'Italia era il Sommario di C. Balbo (1),
il quale in fondo non molto superiore ad
un manuale scolastico, come del resto riconosceva l'autore stesso: Finch non
avremo un grande e vero corpo d storia nazionale, da cui si faccia poi con pi
facilit Ediz. definitiva: Firenze, Le Monnier, iS^n, ed esattezza uno di quei
ristretti destinati ad andar per le mani di tutti, o come si dice un manuale;
k> non so se mi ingannino le mie speranze di scrittore, ma tal mi pare possa
esser questo e dove lo sguardo dello storico
velato dal pregiudizio deirindipendenza. Con le Rvolutions d'ItaUe di E.
Quinet (2) l'opera del Ferrari non ha altro serio punto di contatto che
l'identit del titolo, del resto ormai classico (3). Se qualche vaga somiglianza
di concezione ci si trova (l'Italia spiega l'Europa la sua lotta per la libert non per l'indipendenza
Venezia estranea alla vera Italia) si
tratta di osservazioni ormai comuni fra gli storici, o gi anticipate dal
Ferrari stesso nei suoi saggi sull'Italia anteriori al 1848 (4). Non parliamo
degli storici anteriori di cui il Ferrari stesso mette in luce nella prefazione
all'opera sua la deficenza interpretativa, per cui alcuni volevano spiegare
l'Italia col principio dell'Impero (Dante, Mussato) e altri con quello della
Chiesa (Baronio, Rajnal, Fleury), alcuni ridurla sotto la forma politica dei
principati (Guicciardini) e altri sotto quella delle repubbliche (Sigjmondi).
Ma chi ha mai ancora oggi sessant'anni dopo vistq con tanta giustezza e
profondit, giudicato da tanta altezza, narrato con tanta ala di poesia e forza
di rappresentazione la storia d'Italia? (i) e. Balbo : Della storia tf Italia,
Bari, Laterza, Paris, Dagnerre Cfr. Le Rri*oluziom d" Italia di C. Denina
Cfr. D. LiOV: G, Ferrari ^ Torino, Pomba 1864, pag. 88. Chi potrebbe oppugnare
la scoperta da lui fatta del ststema politico italiano impiantato sulla gran
repubblica papato-imperiale che ha fatto dell' Italia una nazione senza
confini, perch possa diventare U centro d'Europa che irraggia le sue
continuamente nuove creazioni politiche a tutti gli stati? Solo questa idea pu
dominare e spiegare coU'unit d'una legge la esuberante variet delle forme
politiche che prende lo spirito italiano, scisso nelle due eteme antitesi dei
Guelfi e dei Ghibellini. E solo quando si parta dal concetto che gli Italiani
lottano non per l'indipendenza che sottragga la nazione al patto
papaie-imperiale, ma per la libert e per il progresso sociale, non per
distruggere ma per riformare la repubblica dualizzata che la loro franchigia; diventano intelligibili
le innumerevoli battaglie che ebbero il loro campo fra le Alpi e il mare. Non
contro il Papa e l'Imperatore che proteggono la sua libert dal pericolo d'un
regno, che danno alla nazione la gloria di essere il centro politico di tutta
l'Europa, combattono i suoi Guelfi e i suoi Ghibellini per conquistare il
lustro vano di una gretta indipendenza chiusa nei suoi confini; ma per
riformare il Papa e l'Imperatore e costringerli ad ammettere grado a grado nel
loro patto il progresso sociale delle nuove forme politiche create dalla forza
rivoluzionaria ddlitalia. Il po^ polo italiano
il gran protagonista che adopera i Papi e gli Imperatori, imponendo loro
le parti che devono recitare sulla scena mobile ddla storia; che distrugge o
chiama gii stranieri, sfrutta tutte le invasioni, maneggia Francesi e Tedeschi
come strumenti per conquistare una sempre pi larga democrazia. Tutta la gran
guerra delle rivoluzioni italiane si riduce, come per Vico la guerra intema
della repubblica romana, a un contrasto sociale del popolo con l'aristocrazia; che
diventa anche contrasto di razza perch il popolo italico e romano, l'aristocrazia formata dai Goti dai Longobardi dai Franchi
da tutti gli invasori e dai loro discendenti. Ltt gran guerra contro il regno
barbaro estemo dei Goti e Longobardi e contro il regno barbaro intemo dei
Berengar e degli Arduini, la rivoluzione dei vescovi contro i conti sono nello
stesso tempo lotte di classe e di razza; da una parte il popolo romano,
dall'altra i conquistatori barbari. E poich i barbari hanno piantato pi profonde
radici nelle citt militari da essi colonizzate; la lotta fra le citt romane e
le militari si classifica pure sotto questa doppia antitesi; come la lotta ddle
citt contro i CMtdH, dei Cittadini coatro i Coocttttdini, dei GQdfi contro i
GUbdliiii. Se non che man mano che si procede nella fusione barbarica, la lotta
attenua il suo carattere di razza per accentuare quello di classe; gi ncUt
guorra cqmm 1 castelli i feudatari combtttoti daDe citt altari barbare di
tendenza si romanizzano facendo amicizia colle citt romane; cosicch nell'era
seguente noi vediamo la lotta incrociata in modo che nelle citt romane i
Cittadini sono romani e i Concittadini barbari, mentre nelle citt militari viceversa; e nel periodo ancora successivo il
popolo guelfo nelle citt romane e
ghibellino nelle militari. E siccome la vittoria data all'elemento romano e all'elemento
popolare insieme uniti : noi vediamo trionfare le grandi citt dell'industria e
del commercio; e il progresso della democrazia va di pari passo col risorgere
dei grandi focolari della civilt romana; finch colla costituzione della lega
federale il processo indigeno compiuto e
i nuovi progressi della democrazia vengono dall'esterno, trasmessi a noi dal
Papa e dall'Impero per mezzo dei Guelfi e dei Ghibellini. Chi ha mai saputo
disegnare con tanta chiarezza i lineamenti della storia italiana, decomposta
cosi nei suoi fattori e spiegata nelle sue leggi? Il sistema papaie-imperiale e
la lotta non nazionale ma democratica per riformarlo non per distruggerlo,
rimangono sempre le due idee che ci danno la chiave della storia nostra. Ma non
meno giusta l'interpretazione che F. ci
d dei particolari periodi storici. Alcuni periodi, come quelli dei vescovi, dei
cittadmi e concittadini, dei tiranni sono da lui addirittura scoperti; ma anche
quegli altri che erano gi conoscenza acquisita di qual luce non vengono da lui
illuminati! Egli non usa le partizioni comuni che hanno il difetto di
abbracciare troppo tempo e di sottomettere la nostra storia a un principio
straniero che mai ebbe fra noi cittadinanza e fu sempre combattuto
dall'espansione originaria nostra; per es. l'enorme periodo del feudalismo che
va da Carlo Magno ai Comuni da lui
decompoSto nei due perodi della lotta contro il regno barbaro intemo e dei
vescovi. Chi meglio di lui ha saputo spiegare la gran catastrofe dellimpero
romano, che percuote di spavento come un miracolo dimostrando che fu rovesciato
dai popoli irritati dalla sua fiscalit, i quali vollero piuttosto una invasione
stabile che il continuamente rnnovantesi disastro delle invasioni maneggiate
dall'Impero? Chi ha meglio di lui spiegato la lotta delle investiture, condotta
non dal Papa e dall'Imperatore, ma dai popoli italiani che si giovavano
dell'uno contro l'altro per modificarli a vicenda, e costringerli a lasciar
penetrare nd patto di Carlo Magno la gran rivoluzione della libera elezione dei
vescovi? Chi meglio di lui ha saputo ritrovare il filo del progresso logico in
mezzo allo sconvolgimento vertiginoso della crisi militare; chi ha meglio di
lui definito il periodo della decadenza dei signori come restaurazione
papaie-imperiale non conquista, perch liberamente invocata e accettata dai
popoli che non si difendodono nemmeno con una battaglia? Nella storia moderna
F. un po' meno preciso e la interpretazione
in qualche punto ancora soggetta a
completamento e a correzione come egli stesso fa piti tardi, quando trasporta
dalla Francia all'Inghilterra il vanto di essere il centro d'irradiazione
politica deir Europa, e anticipa il periodo della Rivoluzione francese alla
pace d'Aquisgrana. L'opera del di F. in
conclusione la messa in valore degli Scrptores rerum Italicarum del
Muratori, la riabilitazione del Medio
Evo; che anche oggi comunemente
considerato dalla gente cosi detta di cultura, la quale giudica coU'occhio
velato dal pregiudizio classicistico del Rinascimento, come un periodo di
decadenza di barbarie di traviamento mistico. I romantici specialmente
stranieri nella loro nostalgia mistica e nel loro orgoglio nazionale furono i
primi a rivendicare il Medio Evo, per pi dal punto di vista del sentimento che
della ragione, finendo col considerarlo come un territorio di sogno dove la
fantasia urtata dalle volgarit del presente potesse ricoverarsi, in mezzo allo
splendore magico di una societ fantastica in cui un cavaliere poteva col suo
valore conquistarsi un regno. Poi vennero i cattolici che lo celebrarono come
la loro et deiToro; il perodo di trionfo delle loro idee; l'et in cui tutta la
terra, popolata di gente che passava come pellegrina cogli occhi fissi al
cielo, era sottoposta all'alta sovranit del Papa, che poteva imporre agli
imperatori l'umiliazione di Canossa. Questa
per es. la concezione di Gioberti che, combinando col sentimento
cattolico l'orgoglio nazionale, celebr il Papato come la ragjone della
grandezza medievale d'Italia, dominante il mondo colla religione come una volta
coll'armi. Del primato civile e moraU degli Italiani BniaelUs. Adesso per
converso, dove lui vedeva la luce e appunto per la stessa ragione la folla
delle persone colte vede le tenebre; e il Medio Evo ancora per loro come un enorme deserto di
schiavit di barbarie di abiezione mistica, in cui fioriscono non si sa come le
oasi dei liberi comuni a un certo punto distrutte dal simoun delle signmie.
Nessuno ha saputo riabilitare con cos alta giustizia il Medio Evo come il
Ferrari. Esso sfata l'assurda leggenda della decadenza, dimostrando come anche
nei secoli pi bui il progresso sociale continui sotterraneo; come il popolo
d'Italia non sia mai stato schiavo ma abbia, o accettato liberamente le
invasioni perch gli portavano un progresso sociale, o lottato contro i
conquistatori cos terrbilmente da distruggerli; come egli solo protagonista
oscuro e possente abbia creato e atterrato Papi e Imperatori, invocandoli per
distruggere il regno o combattendoli per riformarli. Non si tenti dunque di far
passare per un popolo di puri mistici questo che, anche nelle epoche pi
teocratiche volto alla terra, si giovava della religione come di un'arma
spirituale pi terribile delle spade gotiche e delle aste longobarde, per
raffrenare e dominare colla magia di tma superstizione terribile gli enormi
bestioni vellosi e truculenti dei barbari tremanti dinanzi all'invisibile Dio
dei Romani; che poi al tempo dei consoli, rigettando l'aiuto della Chiesa ormai
inutile, si voltava con una energia meravigliosa alle opere dell'industria e
del commercio e diventava il banchiere dei re dell'Europa,ritenendo la
religione come una tradizione da cui gli artisti potessero evocare un popolo di
capolavori che pass nove secoli in mezzo alle passioni forse pi forti della
vita, quelle della politica, colla spada alla manp. La decadenza poUtica
comincia proprio nel perodo del Rinascimento, quando la civilt trasporta
altrove i suoi centri incendiari e V impulso viene dal di fuori. Ma decadenza
sociale, civile non c' : come non c' alia caduta dell'Impero romano, come non
c' all'avvento delle signorie sopra il comune: il gran processo sociale della
democrazia aliargantesi continua, anche se non originario proviene dall'Europa
pi avanti ormai nella scala storica; questo progresso sociale della democrazia
si traduce in un continuo aumento di potenza dei centri romani, delle citt
industriali e commerciali. Non c' salto come non c' decadenza, non si pu quindi
accettare l'interpretazione del Rinascimento come di un movimento che prenda a
rovescio il Medio Evo, di cui invece la
continuit ideale; anche qui F.
confermato dai resultati ultimi dell'investigazione particolare dei
nostri storici: Si vede dunque come le radici dell 'Umanesimo siano
profondamente penetrate e ramiflcate nel terreno dell'Italia comunale; come
esso sia intimamente moderno e nuovo, sia uno, come statua liberata dal blocco
di marmo. Volpe : Bizantinismo e Rinascenza in Critica, Bari, Laterza. Ma F.
non solo un interpretatore ih nico, anche un artista di primissimo ordine, che il
buon Cantoni non si peritava di paragonare per la sua potenza drammatica di
rappresentazione a Shakespeare. Duno sguardo psicologico acuto e profondo,
d'una mirabile facolt di ridar vita movimento e colore agli uomini e ai fatti
della storia; egli aveva in ci le qualit pi difficili che fanno i grandi
drammatici, e avrebbe potuto forse divenire il pi grande dei nostri se un*altra
tendenza pi forte non lo avesse spinto alla filosofia : la tendenza cio
precocissima in lui ad ascendere ai principi assoluti, ai principi supremi ed
etemi che regolano la vita degli individui e delle nazioni (!) Le abbondanti e
frequenti citazioni bastano a dare una idea della forza artistica con cui sa
caratterizzare uomini e cose, descrivere citt, rappresentare movimenti
politici. Un periodo ampio; una vivezza calda e mossa di rappresentazione; un
sottile humour tenue come il sorriso dun uomo superiore che compatisce alle
debolezze umane, e nei tempo stesso un'accensione lirica una foga d'entusiasmo
che gii fa mettere in luce la grandezza epica della storia in ogni minimo
fatto; la forza dell'immagini che, atteggiando come esseri viventi citt e
stati, vi si piantano nel cervello senza abbandonarvi pi; formano le Cantons:
(/. F., doti di questo scrittore che avrebbe potuto anche nel campo dell'arte
pura lasciare un'orma immortale. Con una fecondit versatilit profondit
veramente shakespeariana egli ha saputo creare una folla di personaggi e
rappresentare una serie innumerevole di rivolgimenti senza mai ripetersi, perch
sa colpire nella sua caratteristica la realt che mai si ripete. Per avere
un'idea della sua forza drammatica leggete per esempio la narrazione della
lotta di Milano contro il vescovo papista Grossolano {Riv. d'Italia) e delle
imprese di Ezelno da Romano; per dare ancora un esempio della sua vivezza
rappresentativa eccovi la descrizione di Genova che pare d'oggi: Genova un magnifico anfiteatro gettato fra il mare e
la montagna, e tale che suoi abitanti
non possono fare un passo senza salire sulle rupi o senza ondeggiare
sull'acqua: sono montanari marittimi che riuniscono tutti gli estremi della
miseria e della munificenza. Nei loro viottoli stretti neri fangosi
inaccessibili alle carrozze si rizzano immensi palazzi, che disegnano le linee
della loro abbagliante architettura sulle case piccole e misere che li
accerchiano da ogni lato; le due riviere ci versano i loro marchesi, che vi si
incontrano alla ventura colia moltitudine cenciosa dei marinai. Ad ogni
rivoluzione la citt ondeggia dall'aristocrazia alla democrazia come una goletta
di smisurata alberatura; e i suoi cronisti non possono dissimulare
l'ondulazione dei consoli, specie di marea tumultuosa che monta a poco a poco
fino a insabbiare il potere del vescovo. Superiore in questo al De Saiictis in
cui D'Anunzio poteva notare tante manchevolezze artistiche e stilistiche da
presagire a torto la sua dimenticanza, F. anche dovesse la sua interpretazione
essere dimostrata falsa da una critica superiore rimarrebbe ancora immortale in
questo capolavoro, che continuerebbe ad essere letto come uno dei pi bei
romanzi storici dItalia. Eppure con tanto valore artistico e storico questa sua
opera non ebbe fortuna, n nella prima edizione francese fatta per T Europa, n
nella seconda edizione italiana. Quello che
il suo pregio caratteristico fu appunto la causa del suo insuccesso, la
concezione filosofica cosi profonda che era a base del suo lavoro di
interpretazione rese quest'opera inintelligibile in un periodo di barbarie, in
cui il positivismo dominante ottundeva tutte le menti : la sua altezza cosi
serena di giudizio Io fece trascurare da quegli uomini ancor tutti accesi delle
passioni politiche dal cui cozzo usciva r Italia. Tipica a questo proposito la recensione larghissima di Rosa; essa univa
a qualcuna delle solite immancabili osservazioni di dettaglio la critica di uno
che, irretito ancora nei pregiudizi comuni della nazionalit e del liberalismo
astratto, pare spaventato che si possa refutare l'apologia dei Longobardi o
giustificare l'azione dei Gesuiti; sebbene abbia una certa confusa sensazione
che in ci consiste la grandezza di F. Per questa altezza nuova, per
Tindipendenza dalle idee vecchie, per la vastit del concetto specialmente noi
facciamo plauso alla storia del Ferrari. Che se non possiamo accettare tutte le
di lui argomentazioni, se anche tutte le di lui teorie non reggeranno alla
prova della scienza storica progrediente; egli avr prestato prezioso servigio
agli studi italiani, avr educato a sollevarsi dalle angustie delle idee
storiche, dalle tradizioni tiranniche dei partiti nazionali e scolastici. Per
lui i giovani apprenderanno a contemplare la storia da un'altezza che la
ragguaglia a quella della civilt, dove non giungono le ire delle passioni, dove
il male parziale appare coordinato a pi vasto bene. Gli accade in piccolo e in
breve come a quel Vico ch'egli venerava col nome di maestro: troppo alto per il
suo tempo non venne compreso. Anche coloro fra i moderni che citano questa sua
opera, come per es. Romano o Gianani, paiono non comprenderne affatto la
terribile profondit il metodo l'interpretazione e somigliano un po' a fanciulli
che giochino colla clava di Ercole. Solo uno straniero, che am e studi ritalia,
J. A. Sysmonds, autore di quella Renaissance in Italy non meno importante del
piiji noto lavoro del Burkardt, ebbe l'esatta percezione dell'importanza di
questo libro. Infatti come nella prefazione del I voi. (L'era dei tiranni)
ricor- Archivio storico italiano, Firenze.Le Invasioni barbariche. Milano,
Vallardi. I Comuni, Milano, Vallardi. dava espressamente, nel cap. II {La
storia italiana) ne ripete con parole diverse e con qualche ampliamento o
dilucidazione tutte le grandi idee per da un punto di vista un p* meno alto e
non del tutto superiore ai pregiudizi del senso comune, e nel seguito del
volume non ne tiene molto conto. Nessuno tra gli storici moderni, tra cui ce ne
sono diversi molto meritevoli per ricerche particolari, riuscito a sollevarsi all'altezza del Ferrari
che rimane ancora unico solitario gigante, per darci un'interpretazione
completa della storia d'Italia. O meglio ci fu uno che tent sebbene con forze
inferiori : Alfredo Oriani. Solo in mezzo a una folla di positivisti che
abbassavano arte e storia alla portata dei loro intelletti piccini, Oriani ben
comprese e l'aveva appreso in gran parte da F. come la storia sia
interpretazione, spiegazione, visione dall'alto, resurrezione secondo la parola
di Michelet. Non c' bisogno di abbassare l 'Oriani per innalzare il Ferrari :
la condotta poco delicata di quello verso quest'ultimo, rammentato con
citazioni che nascondono pi che rivelare la derivazione, non deve indurci a
negare il valore storico all'autore della Lotta p-Sysmonds: // Rinascinunto in
Italia; Cera dei tiranni (vcrs. it,). Torino, Roux e Viarciigo: Debbo anche
manife&tare speciale gratitudine al Ferrari, del quale ho fatto miei non
pochi {^iudirj nel capitolo sulla storia italiana scrtto per la seconda
edizione di questo volume, Oriani: Fino a Dogali, - Bologna, Gherardi litica.
Esso fu il solo degno continuatore di Ferrari; continuatore in quanto non
propriamente storico del Medio Evo i libri I e II della Lotta politica
come stato dimostrato non sono altro se
non un riassunto spesso colle stesse parole dal suo gran predecessore ma
storico del Risorgimento italiano. Ad ogni modo, per quanto sia runico che
possa tentare la prova del paragone, Oriani soccombe; come storico per
l'ineguaglianza deirinterpretazione ora indovinata ora superficiale, come
artista per la non rada enfatica esagerazione romagnola inferiore alla potente
precisione lombarda. Oriani si trova inoltre in una posizione sentimentale un
po' meno adatta che non quella del Ferrari. In questo il senso del sublime
storico e l'entusiasmo di fronte alla grandezza va accompagnato a una calma
serena, a una specie di fine bonario umorismo che sa trovare l'uomo magari
contro il suo volere benefico anche sotto i cenci del mascalzone. Oriani ha
della storia solo il senso tragico; brontola un po' troppo; troppo spesso va in
collera col passato; non sa mantenersi cabno davanti agli errori dei suoi
personaggi, errori spesso imposti dalla storia che qualche volta egli vorrebbe
correggere. Questi difetti sono pi sensibili nei due primi libri per mancanza
di quella conoscenza diretta che
necessaria alla storia. Dopo si va avanti meglio, ma anche qui c' da
notare un po' di semplicismo e astrattismo, pi nelle forme che nel con ci) l.
Ambrosini : La lotta politica di A, Oriani nella Voce, Prrrari Oimeppe F.,
cetto. Per es. egli d come ragione dello scacco delta rivoluzione del 48 la sua
forma federale, mentre poi nell'esposizione fa vedere come fu l'equivoco del
popolo e il tradimento dei prncipi. Ragionando a questa maniera vedrebbe pi
giusto il Ferrari che pensa precisamente l'opposto. Certo qualche po' delle
lodi che danno all'rani storico i crdci moderni, il Croce e il Borgfte- se,
spetta di diritto a F., di cui sono tre fra le immagini che quello cita per
dare un esempio della forza rappresentativa del suo autore (Venezia I
Condottieri Pellico). Concludiamo. Sare6be un'impossibile pretesa l'affermare
che l'opera del Ferrari sia definitiva, perch nulla c' al mondo di definitivo,
n la vita n la filosofia n l'interpretazione storica. Ma come una filosofia viva finch non sorpassata e inverata, cos una storia. Orbene
prima di buttare il saggio di F, fra le anticaglie bisogna averlo sorpassato, e
finora nessuno non solo non Tha superato ma non si nemmeno sollevato al suo livello. Noi
consigliamo quindi a studiarlo: primo per imparare il metodo di Inter* pretare
la storia; secondo per meditare la sua interpretazione concreta, anche oggi
tanto vera che 1 moderni studi particolari la confermano invece di
distruggerla. E non solo in Italia, ma in tutta l'Europa il Ferrari merita un
posto a parte superiore ai pi famosi : a Macaulay citato da Grice -- a Mommsen a Taine, per la
stessa ragione che rende il De La Critica^ genn. i<)og. La vita e il libro.
Torino, Bocca. Sanctis superiore a tutti i critici della letteratura^ per il
senso filosofico che gli diresse la potenza interpretativa a risultati cos
grandi. Per racchiudere in una frase il resultato di queste mie osservazioni,
Ferrari il De Sanctis della storia
politica, lo storico dell'Italia medievale. Noi non esitiamo a considerarlo
come il pi gran rappresentante della storiografia romantica (1), sorpassato
nelle sue fisime di filosofo della storia, ma ancor degno come storico concreto
di essere il gran maestro della nostra generazione. Grice: I use
revolution occasionally minor ones! --.
Grice: Mussolini kept saying that Ferrari was talking of rivoluzione
fascista Garibaldi hardly used
rivoluzione! Grice: Nothing pleased Mussolini more than the collocation
rivoluzione fascista almost as much as
Washington did American revolution, and Cromwell, The Glorious Revolution! – Nome
compiuto: Giuseppe Ferrari. Giuseppe Michele Giovanni Francesco Ferrari. Ferrari.
Keywords: FILOSOFIA della RIVOLVZIONE, A. Ferrari on storia dItalia i rivoluzionarii italiani Vico, Romagnosi. Luso del termine rivoluzione
nella storia italiana la rivoluzione
dellunificazione, la rivoluzione fascista
il risorgimento dellunita hardly qualifies as a revolution. Refs.: Luigi
Speranza, "Grice e Ferrari," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferrari:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’anarchici di
Mussolini – scuola della Spezia – scuola d’Arcola – filosofia speziana –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Arcola). Filosofo arcolese. Filosofo speziano.
Filosofo ligure. Filosofo italiano. Arcola, La Spezia, Liguria. Grice: I like Ferrari; he was
a philosopher AND a poet a combo we dont
find too often at Oxford! -Ferrari (alias Novatore) Renzo Novatore. Oggi cerco un'ora sola di furibonda anarchia e per
quell'ora darei tutti i miei sogni, tutti i miei amori, tutta la mia vita.
Refrattario a ogni disciplina fin da giovanissimo, frequenta la scuola soltanto
per alcuni mesi prima di abbandonarla definitivamente ed essere costretto dal
padre a lavorare nei campi. Il suo profondo desiderio di conoscenza, unito ad
una notevole forza di volont, lo spinse per ad un personalissimo studio da
autodidatta che lo port a leggere Stirner, Nietzsche, Palante, Wilde, Ibsen,
Schopenhauer, Baudelaire. Non rinunci comunque ad elaborare una visione
autonoma, che costru giorno dopo giorno, come ricorda il suo amico Auro
D'Arcola, attraverso una costante attivit meditativa. Si sposa con Emma Rolla e
con lei ebbe tre figli, uno dei quali morto in tenera et. Gli altri due, Renzo
e Stelio, proseguirono sulle orme paterne una personalissima riflessione
esistenzialista che svilupparono nell'ambito della produzione artistica e
letteraria. Questo nonostante fosse contrario alla famiglia tradizionale e alla
visione idealizzata della donna: O ciniche prostitute, o espropriatrici audaci,
ergetevi sopra la putredine ove il mondo sta immerso e fatelo impallidire sotto
la luce perversa dei vostri grandi occhi profondi. Voi siete il sole pi bello
che oggi il sole bacia. Voi siete di un'altra razza. E l'anima vostra un canto, un sogno la vostra vita. Scardinate
il mondo o libere prostitute, o espropriatrici audaci. Io canter per voi. Il
resto fango! (Le mie sentenze)
L'anarchico disertore La prima volta in cui le cronache s'interessarono di lui
fu nel 1910, quando un incendio distrusse la chiesa della Madonna degli Angeli
nella notte: le indagini dei regi carabinieri portarono infatti a identificare
i responsabili del gesto in un gruppo di giovani anarchici del posto, tra i
quali anche Ferrari. Contrario alla guerra, venne richiamato sotto le armi ma
si rese irreperibile. Venne dunque imputato di diserzione e condannato in
contumacia alla pena di morte. Sar poi arrestato e scarcerato in seguito ad
amnistia. E le rane partirono... Partirono verso il regno della suprema vilt
umana. Partirono verso il fango di tutte le trincee. Partirono.... E la morte
venne! Venne ebbra di sangue e danz macabramente sul mondo. Danz con piedi di
folgore... Danz e rise... Rise e danz... Per cinque lunghi anni. Ah, Come volgare la morte che danza senza avere sul
dorso le ali di un'idea... Che cosa idiota morire senza sapere il perch. (Dal
poema Verso il nulla creatore) Anarchico individualista, assunto lo pseudonimo
di Renzo Novatore, protagonista con i
suoi compagni Dante Carnesecchi e Tintino Persio Rasi di alcuni dei pi
importanti episodi della lotta operaia del biennio rosso nella Provincia della
Spezia: episodi la cui importanza non si comprende se non tenendo conto che
allora La Spezia era una delle pi importanti roccaforti militari italiane,
circondata da una serie di forti e polveriere che ne dominavano il golfo, e
caratterizzata dalla presenza di un arsenale militare e di alcune delle pi
importanti industrie belliche. In quel periodo molti lavoratori anelavano a
"fare come in Russia", tanto che era in molti anarchici, come Errico
Malatesta, la convinzione che la rivoluzione fosse dietro l'angolo e bastasse
dare solo una spallata decisa. L'antifascismo e la morte Coerente fino alla
fine nella prima lotta al nascente fascismo, entr nel mirino delle camicie
nere, coadiuvate dalla polizia di Stato, e dovette fuggire per garantirsi
l'incolumit; per sopravvivere si un al bandito piemontese Sante Pollastri che
era noto anche per proteggere e finanziare gli anarchici con la sua banda di
rapinatori, data la simpatia politica che aveva per loro e il suo odio per il
fascismo. Qualche tempo dopo la banda di Pollastri rapin un importante cassiere
di una banca, che portava una borsa piena d'oro: durante la colluttazione il
ragionier Achille Casalegno venne colpito da un proiettile e mor; sebbene
probabilmente fu Pollastri, che aveva gi diversi omicidi di poliziotti e
fascisti alle spalle, ad esplodere il colpo, al processo costui avrebbe
accusato il defunto Novatore. Le forze dell'ordine, su incarico del governo
Mussolini, intensificarono la caccia alla banda Pollastri. Un mezzogiorno, il
maresciallo Lupano e i carabinieri Corbella e Marchetti entrarono in abiti
civili nell'Osteria della Salute di Teglia, nel genovese, perch avevano
individuato Pollastro ed intendevano arrestarlo. Novatore era seduto accanto al
celebre bandito e ad un altro componente del gruppo, e probabilmente fu proprio
lui il primo a sparare sui carabinieri, scatenando la risposta di quest'ultimi.
Nello scontro a fuoco rimasero uccisi il maresciallo Lupano e un amico del
bandito, il cui corpo crivellato di colpi si rivel essere quello dell'anarchico
Ricieri Ferrari, noto come Renzo Novatore, ricercato per attivit sovversiva e
antifascismo, mentre Pollastri e l'altro compagno riuscirono a scappare.
Novatore, al momento della morte, aveva con s una pistola Browning, due
caricatori di riserva, una bomba a mano ed un anello con spazio nascosto
contenente una dose letale di cianuro, per suicidarsi se fosse caduto vivo
nelle mani dei fascisti, oltre ad un documento falso recante il nome di
Giovanni Governato. Si define anarchico individualista. Lotta per la libert e
per i diritti delle masse, ma era anche sicuro, dopo il fallimento delle
insurrezioni del 1919, che non si potesse fare affidamento sul popolo: Le masse
che sembrano adoratrici di Errico Malatesta sono vili e impotenti. Il governo e
la borghesia lo sanno e sogghignano. Io so, noi sappiamo, che cento uominidegni
di questo nomepotrebbero fare quello che cinquecentomila
"organizzati" incoscienti non sono e non saranno mai capaci di fare. Il
suo pensiero nichilista, anticlericale, anarchico e iconoclasta si
caratterizzava soprattutto per il fortissimo individualismo, un individualismo
fine a s stesso che lo pose spesso in conflitto con altri membri del movimento
anarchico di quegli anni, come Camillo Berneri (di ispirazione
anarco-comunista). L'individualismo com'io lo sento, lo comprendo e lo intendo,
non ha per fine n il Socialismo, n il Comunismo, n l'Umanit. L'individualismo
ha per fine s stesso. (Dallo scritto Il mio individualismo iconoclasta in Iconoclasta!)
L'anarchia per me un mezzo per giungere
alla realizzazione dell'individuo; e non l'individuo un mezzo per la
realizzazione di quella. Se cos fosse anche l'anarchia sarebbe un fantasma. Se
i deboli sognano l'anarchia per un fine sociale; i forti praticano l'anarchia
come un mezzo d'individuazione. Nella vita io cerco la gioia dello spirito e la
lussuriosa volutt dell'istinto. E non m'importa sapere se queste abbiano le
loro radici perverse entro la caverna del bene o entro i vorticosi abissi del male.
Nessun avvenire e nessuna umanit, nessun comunismo e nessuna anarchia valgono
il sacrificio della mia vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me
stesso come meta suprema. Rimaneva salda nel suo pensiero la convinzione che
agire e schierarsi fosse una necessit irrinunciabile tanto che di lui si disse
che scriveva come un angelo, combatteva come un demonio. Su di lui rest sempre
fortissima l'ispirazione di Max Stirner e di Nietzsche. Opere scritte Le opere
e il ricordo del Novatore sono state in gran parte distrutte dal regime
fascista e sostanzialmente a lungo dimenticate anche da alcune parti del
movimento anarchico. Le sue firme compaiono con molti pseudonimi diversi (oltre
al gi citato "Renzo Novatore", anche "Mario Ferrento",
"Andrea Del Ferro", "Sibilla Vane", "Brunetta
l'Incendiaria") su svariate pubblicazioni anarchiche dell'epoca, tra cui
Il Libertario (pubblicato a La Spezia), Gli Scamiciati (Pegli), Cronaca
Libertaria (Milano), Il Proletario (Pontremoli), Pagine Libertarie, Iconoclasta!
(Pistoia), L'Avvenire Anarchico, Vertice (La Spezia), Nichilismo, L'Adunata dei
Refrattari (New York) e Veglia (Parigi). Da ricordare inoltre due libri di
pubblicazione postuma: "Verso il nulla creatore" e "Al di sopra
dell'arco". Libri ed opuscoli Renzo Novatore, prefazione de Il figlio
dell'Etna, Verso il nulla creatore, Siracusa, "Figli dell'Etna",
Renzo Novatore, prefazione biografica di Auro d'Arcola, appendice di Tot Di
Mauro, illustrazioni di G. Scaccia, Al di sopra dell'arco, Siracusa,
"Figli dell'Etna", Renzo Novatore, prefazioni di Virginio De Martin e
Il figlio dell'Etna, Verso il nulla creatore, New York, Renzo Novatore,
prefazione di Auro d'Arcola, Il mio individualismo iconoclasta, Firenze,
Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, Camillo da Lodi [Camillo Berneri], Mario
Senigallesi, Polemica, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazioni
di Tot Di Mauro, Tito Eschini e Lato Latini, illustrazioni di G. Scaccia, Al di
sopra dell'arco, Firenze, Pistoia, Albatros, Renzo Novatore, prefazione
biografica di Auro d'Arcola, appendice di Tot Di Mauro, illustrazioni di G.
Scaccia, Al di sopra dell'arco, Torino, Reprint Assandri, Verso il nulla
creatore, Catania, Centrolibri, RAlberto Ciampi, Un fiore selvaggio. Scritti
scelti e note biografiche, Pisa, BFS Edizioni, Renzo Novatore, Toward the
Creative Nothing, Portland, Venomous Butterfly Publications, Renzo Novatore,
introduzione di Alfredo M. Bonanno, Verso il nulla creatore, Trieste, Edizioni
Anarchismo. Renzo Novatore, Novatore, Ardent Press,. Renzo Novatore, Le rose,
dove sono le rose?, Gratis Edizioni,. Renzo Novatore, Flores silvestres,
Lisbona, Textos Subterraneos. Novatore: una biografia Archiviato iRenzo
NovatoreAnarchopedia, su ita.anarchopedia.org. dal personaggio di Sybil Vane,
presente nel romanzo Il ritratto di Dorian Gray di Wilde Maurizio Antonioli
(diretto da), Dizionario biografico degli anarchici italiani, Biblioteca Franco
Serantini, Massimo Novelli, La furibonda anarchia. Renzo Novatore poeta, Bra
(CN), Araba Fenice, Scritti, citazioni e aforismi di Renzo Novatore Archivio di
testi di Renzo Novatore. Ricerca Anarchismo filosofia politica Lingua Segui
Modifica L'anarchismo definito come la
filosofia politicaapplicata o il metodo di lotta alla base dei movimenti
libertari volti fattualmente gi dal XIX secolo al raggiungimento dell'anarchia
come organizzazionesocietaria, teorizzante che lo Stato sia indesiderabile, non
necessario e dannoso o in alternativa come la filosofia politica che si oppone
all'autorit o all'organizzazione gerarchica nello svolgimento delle relazioni
umane. La A cerchiata, il pi celebre simbolo anarchico I fautori
dell'anarchismo, noti come anarchici, propongono societ senza Stato basate
sulle associazioni volontarie e non gerarchiche. Il termine inteso in senso
politico venne inizialmente utilizzato dal girondino Jacques Pierre Brissot nel
1793, definendo negativamente la corrente politica degli enrags o arrabbiati,
gruppo rivoluzionario radicale critico di ogni forma d'autorit. Nel 1840 con
Pierre-Joseph Proudhon e il suo saggio Che cos' la propriet? (Qu'est-ce que la
proprit ?) i termini anarchia e anarchismo assumeranno una connotazione
positiva. Ci sono alcune tradizioni di anarchismo e sulla base della storia del
movimento transitata attraverso il dibattito fine-ottocentesco dell'anarchismo
senza aggettivi. Le scuole di pensiero anarchico possono differire tra loro
anche in modo sostanziale, spaziando dall'individualismo estremo al totale
collettivismo. Le tipologie di anarchismo sono state suddivise in due categorie,
ovvero anarchismo sociale e anarchismo individualista, tuttavia compaiono anche
altre suddivisioni basate comunque su classificazioni dualiste simili.
L'anarchismo in quanto movimento sociale ha registrato regolarmente
fluttuazioni di popolarit. La tendenza centrale dell'anarchismo a coniugarsi
come movimento sociale di massa si avuta
con l'anarco-comunismo e con l'anarco-sindacalismo mentre
l'anarco-individualismo principalmente
un fenomeno letterario, che tuttavia ha avuto un impatto sulle correnti pi
grandi. La maggior parte degli anarchici sostiene l'autodifesa o la
nonviolenza(anarco-pacifismo) mentre alcuni anarchici hanno approvato l'uso di
alcune misure coercitive, tra le quali la rivoluzione violenta e il terrorismo,
per ottenere la societ anarchica. Chomsky descrive l'anarchismo, insieme al
marxismo libertario, come "l'ala libertaria del socialismo". Come
padre fondatore del pensiero anarchico in senso moderno, troviamo William
Godwin, politico e filosofo britannico, che, con le sue riflessioni sulla
caduta della Rivoluzione francese nella dittatura giacobina, precorrer e
ispirer il pensiero anarchico dominante del XIX secolo. Abitualmente comunque
ci si riferisce a Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin, Ptr Kropotkin e
Johann Kaspar Schmidt, alias Max Stirner, come ai quattro principali teorici di
questa corrente di pensiero. Per quanto riguarda Stirner, il suo pensiero
rimane in ogni caso fino all'inizio del XX secolo praticamente sconosciuto
fuori dalla Germania(L'Unico fu tradotto in inglese come The Ego and Its Own e
tutte le traduzioni delle opere sono novecentesche) e totalmente estraneo alla
nascita del movimento libertario propriamente detto, ma si inserisce in una
corrente di pensiero individualista, estranea ai movimenti pi o meno di massa
dell'epoca. Quanto a Proudhon, che pu essere considerato giustamente come il
padre dell'anarchismo ottocentesco, il suo pensiero ha subito anche lunghi
momenti di oblio ed stato oggetto, in
alcuni casi, di grossolane deformazioni derivanti dalla decontestualizzazione
di molte asserzioni, prima fra tutte quella relativa alla propriet. Per quanto
riguarda Bakunin, se la sua influenza
diretta e decisiva sul movimento libertario, almeno sotto gli aspetti pratici,
se non sotto quelli teorici, questo prende il suo slancio ed assume le sue
caratteristiche solamente dopo la morte. In realt, molte idee anarchiche sono
conosciute essenzialmente attraverso l'opera di Ptr Kropotkinche non esita su
punti importanti a modificare, precisare, allargare l'eredit bakuniniana
approdando esplicitamente al comunismo libertario. Sul piano filosofico e delle
idee, l'anarchismo pu essere considerato come la manifestazione estrema del
processo di laicizzazione del pensiero occidentale che approda al rifiuto di
ogni forma d'autorit esterna o superiore agli uomini, sia essa
"divina" o umana, e al rifiuto di tutti i principi che, in tempi,
forme e con modalit differenti, sono stati utilizzati dalle classi dominanti
per giustificare la loro dominazione sul resto della popolazione. Sul piano
politico e sociale, l'anarchismo si ritiene continuatore dell'opera della
Rivoluzione francese, depurata dagli errori ad essa immediatamente successivi,
attraverso la realizzazione, accanto all'eguaglianza politica, di una vera
eguaglianza economica e sociale; eguaglianza che nella societ borghese si
realizza attraverso la lotta contro il capitalismo e per l'abolizione del
salariato. A questa visione contrapposta
quella dell'anarco-capitalismo che mette invece il diritto di propriet e il libero
scambio come fondamenti di una societ in cui lo Stato non pi necessario: qualsiasi limitazione alla
propriet di s stessi e di ci che un individuo si procura con il lavoro o il
libero scambio vista come una lesione
dei suoi inalienabili diritti naturali e della sua libert di scelta. Da questo
punto di vista considerato scorretto
pensare di poter formare l'anarchia in un'unica ideologia: essa deve
semplicemente costituire una cornice dentro la quale ogni individuo pu cercare
liberamente di realizzare la propria volont ma senza mai cercare di imporla
agli altri (principio di non aggressione). Il comunismo, allora, pu diventare
una delle opzioni scelte da un gruppo di individui (che ad esempio decidono di
investire in una cooperativa), ma mai un'imposizione su altri individui, in
quanto con un'imposizione non si avrebbe pi un'anarchia. Etimologia I termini
anarchia e anarchismo derivano dal greco , ovvero senza arch (principio
regolatore). La parola anarchia per come
utilizzata dalla maggior parte degli anarchici non ha nulla a che fare
con il caos o l'armonia e rappresenta piuttosto una forma egualitaria di
relazioni umane stabilite ed effettuate intenzionalmente. Origini
dell'anarchismo Modifica Storicamente, il movimento anarchico si sviluppato in seno al movimento operaio in
quanto espressione, al pari delle altre correnti socialiste, della protesta dei
lavoratori contro lo sfruttamento moderno. Su questo punto, esso pu essere
considerato come una reazione radicale alla condizione operaia del XIX secolo,
caratterizzata dalla forte gerarchizzazione del salariato e dalla netta
divisione in classi della societ. Dalla loro nascita, tuttavia le idee
anarchiche entrano in conflitto sia con le concezioni riformiste del socialismo
(che sostenevano la possibilit di cambiare "progressivamente" le basi
inegualitarie della societ capitalista) che con le concezioni marxiste, in
particolare per quanto riguarda l'uso dello stato come mezzo rivoluzionario.
Specificit della dottrina anarchica L'obiettivo della teoria anarchica la nascita di una societ di uomini e donne
liberi e uguali dal punto di vista dei diritti. Libert ed eguaglianza dei
diritti sono i due concetti chiave attorno ai quali si articolano tutti i
progetti libertari. Differenze sorgono sull'interpretazione del concetto di
eguaglianza: mentre infatti le correnti che si rifanno al comunismo considerano
desiderabile e perseguono l'eguaglianza considerata come uniformit dal punto di
vista dei mezzi a disposizione di ogni individuo per perseguire i propri scopi,
le correnti che sostengono il libero mercato (i sostenitori del cosiddetto
"socialismo di mercato") considerano l'uniformit come un'utopia che
oltre ad essere indesiderabile , a causa della naturale diversit degli
individui, irraggiungibile. In quanto socialisti, tutti gli anarchici
sostengono il possesso collettivo dei mezzi di produzione e di distribuzione.
In quanto libertari, essi pensano che la libert dispieghi il suo reale
significato in quanto accompagnata dall'eguaglianza. Libert ed eguaglianza
devono essere "concrete", cio sociali e fondate sul riconoscimento
uguale e reciproco della libert di tutti. Mentre il pensiero borghese liberale
aveva come motto "la mia libert finisce dove inizia la tua", per gli
anarchici (a eccezione degli anarco-individualisti) la libert dell'individuo
non limitata ma confermata dalla libert
altrui. "Sono partigiano convinto dell'eguaglianza economica e
sociale scrive Bakunin perch so che al di fuori di questa
eguaglianza, la libert, la giustizia, la dignit umana, la moralit e il
benessere degli individui cos come la prosperit delle nazioni non saranno
nient'altro che menzogne; ma, in quanto partigiano della libert, questa
condizione primaria dell'umanit, penso che l'eguaglianza debba stabilirsi
attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della propriet collettiva
delle associazioni dei produttori liberamente organizzate e federate nei
comuni, non attraverso l'azione suprema e tutelare dello Stato". Per
realizzare una tale societ, gli anarchici ritengono indispensabile combattere
non solo le forme di sfruttamento economico ma anche quelle di dominazione
politica, ideologica e religiosa. Per gli anarchici, tutti i governi, tutti i
poteri statali, quale che sia la loro composizione, origine e legittimit, rendono
materialmente possibile la dominazione e lo sfruttamento di una parte della
societ sull'altra. Secondo Proudhon, lo Stato non che un parassita della societ che la libera
organizzazione dei produttori e dei consumatori deve e pu rendere inutile. Su
questo punto le concezioni anarchiche sono totalmente divergenti dalle
concezioni liberali che fanno dello Stato l'arbitro necessario ad assicurare la
pace civile. Per la critica anarchica, il ricorso ad una dittatura, definita
proletaria, non ha condotto al deperimento dello Stato (e alla sua
"estinzione" in termini marxiani) ma allo sviluppo di una enorme
burocrazia fonte di soffocamento della vita sociale e della libera iniziativa
individuale. D'altra parte, fino alla sua caduta, proprio a tale burocrazia
venivano imputate le ineguaglianze e i privilegi nei paesi dell'Est dove pure
avevano abolito la propriet capitalista. Come gi aveva sottolineato Bakunin
nella sua polemica con Marx "La libert senza eguaglianza una malsana finzione. L'eguaglianza, senza
libert, il dispotismo dello Stato e lo
Stato dispotico non potrebbe esistere per un solo giorno senza avere almeno una
classe sfruttatrice e privilegiata: la burocrazia". Al modo di
organizzazione della vita sociale governativo e centralizzatore, i libertari oppongono
un modo di organizzazione federalista che permetta di sostituire lo Stato, e
tutta la sua macchina amministrativa burocratica, attraverso la presa in carico
collettiva da parte degli stessi interessati di tutte le funzioni inerenti alla
vita sociale che si trovano precedentemente monopolizzate e gestite da
organismi statali, posti al di sopra della societ. Il federalismo, in quanto
modo di organizzazione, costituisce il punto di riferimento centrale
dell'anarchismo, il fondamento e il metodo sul quale si costruisce il
socialismo libertario. Il federalismo cos inteso ha ovviamente ben poco a che
vedere con le forme conosciute di federalismo politico praticato da un buon
numero di Stati. Per i libertari non si tratta di una semplice tecnica di governo
ma di un principio di organizzazione sociale a s stante, capace cio di
inglobare tutti gli aspetti della vita di una collettivit umana. Organizzazione
anarchicaModifica Il pensiero anarchico
dunque ben lontano dal negare il problema dell'importanza dell'organizzazione,
ma esso si pone come obiettivo un'altra forma di organizzazione con la quale
rispondere agli imperativi collettivi. Gli uni e le altre si associano per
garantirsi vicendevolmente e per provvedere ai bisogni individuali e
collettivi. Cos, se l'autogestione nelle imprese rende possibile la
sostituzione del salariato con la realizzazione del lavoro associato,
l'organizzazione federativa dei produttori, delle comuni, delle regioni
permette la sostituzione dello Stato. Essa intende presentarsi come il
complemento indispensabile per la realizzazione del socialismo e la migliore
garanzia della libert individuale. Il fondamento di tale organizzazione il contratto, uguale e reciproco, volontario,
non "teorico" ma effettivo, che si pu modificare per volont dei
contraenti (associazioni dei produttori e dei consumatori, ecc.) e capace di
riconoscere il diritto di iniziativa di tutti i componenti della societ. Cos
definito, il contratto federativo permette di precisare anche i diritti e i
doveri di ciascuno e di sviluppare i principi di un vero diritto sociale in
grado di regolamentare gli eventuali conflitti che possono sorgere tra
individui, gruppi o collettivit, o anche fra regioni, senza per altro rimettere
in causa l'autonomia dei suoi componenti, il che permette all'organizzazione
federalista di opporsi tanto al centralismo che al "lasciar fare"
dell'individualismo liberale. Secondo gli anarchici tuttavia una tale
organizzazione non pu pretendere di sopprimere tutti i conflitti ed essi potranno
continuare a prodursi a tutti i livelli anche nella societ federalista.
Tuttavia il federalismo costituisce un metodo per risolvere le questioni
sociali nel rispetto della massima libert di ciascuno senza dar ricorso ad
arbitraggi governativi possibili fonti di nuovi privilegi. Inoltre gli
anarchici sostengono che i problemi sociali, nell'organizzazione socialista
verrebbero affrontati e risolti nell'interesse di tutti, non semplicemente
repressi come solito fare lo Stato
(quando addirittura non li favorisce per aumentare nei sottoposti il bisogno di
un'autorit regolatrice). Azione anarchica Per gli anarchici esiste un legame
indissolubile tra il fine perseguito e i metodi adoperati per raggiungerlo.
Tuttavia essi pensano che il fine non giustifichi i mezzi e che questi ultimi
devono sempre, nella misura del possibile, essere in accordo con il fine
perseguito. Lo scopo dell'azione anarchica non vuole essere in alcun caso la
"conquista" del potere o la gestione dell'esistente. Il Congresso di
Saint-Imier, in Svizzera, dette ufficialmente vita alla branca antiautoritaria
dell'Associazione internazionale dei lavoratori (AIL) in opposizione alle tesi
marxiste. In quella sede si afferm che il primo dovere del proletariato
non la conquista del potere all'interno
dello Stato ma la sua distruzione. L'approccio dei libertari quello di opporre soluzioni sociali alle
soluzioni politiche dimostrandosi con ci non politici ma antipolitici. D'altra
parte, storicamente, i libertari hanno sempre considerato almeno con
scetticismo l'idea di poter utilizzare l'arma elettorale o il parlamentarismo
per mutare le condizioni di vita in seno alle democrazie borghesi. All'azione
politica e parlamentare, tesa alla conquista del potere, essi preferiscono
l'azione diretta di massa, vale a dire l'autogestione generalizzata e senza
deleghe di potere. I libertari ritengono che per i lavoratori la pratica
dell'azione diretta, e in particolare dello sciopero, sia anche il migliore e
pi efficace mezzo di lotta. Essi propagandano inoltre l'autorganizzazione e
l'azione collettiva e autonoma dei lavoratori. Gli anarchici non sono e non
aspirano a divenire un'avanguardia o a svolgere un ruolo dirigente, poich
ritengono che non esista nessuno che possa occuparsi dei propri affari meglio
dell'interessato stesso. Ma perch ci sia possibile occorre che i lavoratori
prendano coscienza di ci che Proudhon ha definito la "loro capacit
politica". I lavoratori rappresentano la forza reale di una societ e solo
da essi pu venire una sua trasformazione profonda. L'azione anarchica ha sempre
mirato, prima di ogni altra cosa, alla difesa degli sfruttati e appoggia tutte
le rivendicazioni che vanno nel senso di un miglioramento delle condizioni di
vita e del progresso sociale. Numerosi libertari hanno visto nelle organizzazioni
sindacali non soltanto degli organismi di difesa degli interessi dei salariati,
ma anche una potenziale forza di trasformazione sociale. Da questo punto di
vista, il federalismo libertario non pu essere realizzato senza il concorso
attivo dei sindacati operai poich, da una parte, questi ultimi sono qualificati
ad organizzare la produzione e, dall'altra, essi hanno il vantaggio di
raggruppare i lavoratori in quanto produttori. Da un punto di vista libertario,
un'organizzazione sindacale deve, nel suo funzionamento come nei suoi principi:
cercare di mantenere la sua autonomia nei riguardi di tutte le organizzazioni
politiche che vorrebbero controllarla e nei riguardi dello Stato; praticare il
federalismo e una vera democrazia diretta dal basso, sole garanzie solide
contro ogni forma di burocratizzazione; darsi contemporaneamente l'obiettivo di
ottenere la soddisfazione delle rivendicazioni immediate, materiali, e di
preparare i lavoratori ad assicurare la gestione della produzione nel futuro.
Quest'ultimo punto assai importante
poich, per gli anarchici, il sindacato e l'azione sindacale non sono e non
possono essere considerati come una finalit in s. La sua autonomia non deve
significare "neutralit" nei riguardi del potere o dei partiti perch
ci significherebbe perdere una gran parte delle sue potenzialit di cambiamento
e di rottura. Gli anarchici ritengono che il sindacato, se non vuol cadere nel
tradeunionismo, si doti di un programma di trasformazione sociale e di una
pratica conseguente. L'azione sindacale non
tuttavia il solo mezzo di lotta di cui dispongono i lavoratori, che
possono e devono, secondo le circostanze dotarsi delle forme organizzative e di
resistenza che paiono loro utili e opportune. Dottrine di carattere
libero-mercatista. Le teorie anarchiche di impronta individualistaamericane,
come quelle di Benjamin Tucker, che in un'accezione lievemente differente da
quella all'epoca egemone si definiva socialista[31], convergono sulla necessit
di una prospettiva di eguaglianza sociale attraverso una redistribuzione delle
risorse basata su un mercato libero[32] e non distorto, come mediatore degli
impulsi egoistici[33], convergono con il concetto marxista della teoria del
valore del lavoro e si distaccano da ipotesi come l'anarco-capitalismointese a
giustificare la propriet privata del capitale. Queste sono dottrine di origine
liberale che possono essere considerate come fautrici di un liberismo portato
alle estreme conseguenze, cio alla scomparsa dello Stato. Sia i fautori di
queste ultime che quelli dell'anarchismo classico vedono comunque le due
dottrine come due corpus teorici distinti senza alcun punto di contatto tra
loro. Cos' la propriet? La propriet un
furto (Pierre-Joseph Proudhon) Proudhon, noto per questa famosa espressione,
era fautore del libero scambio tra lavoratori autonomi e/o cooperative
autogestionarie e nella "Teoria della propriet" arriv ad affermare
che "la propriet libert".
L'apparente contraddizione dovuta al
fatto che Proudhon intendeva come furto non la propriet individuale, ma quella
propriet che seppur utilizzata da altri individui fonte di profitto o rendita per il proprietario
mentre come libert quella propriet, chiamata "propriet-possesso",
frutto del proprio lavoro, che viene direttamente utilizzata dal proprietario
senza determinare sfruttamento del lavoro altrui. Questi concetti rientrano nel
mutualismo ed escludono il profitto, inteso nel senso economico di utile, come
scopo. Anarchismo di ieri e di oggi. Anche se oggi viene trascurata,
l'influenza che nel corso del XX secolo il movimento libertario ha esercitato
sul movimento operaio stata notevole.
Gli anarchici rappresentano una parte a s stante del movimento sindacale e
operaio internazionale, e la loro presenza si rintraccia in tutti i movimenti
rivoluzionari, del XIX e del XX secolo, come la Comune di Parigi del 1871, la
rivoluzione russa del 1917 e la guerra civile spagnola del 1936. L'influenza
delle idee anarchiche si soprattutto
manifestata in maniera significativa in seno alle organizzazioni sindacali come
la CGT in Francia, l'Unione Sindacale Italiana in Italia, la CNT in Spagna, ma
anche la FORA in Argentina, le IWW negli Stati Uniti, la FAU in Germania o la
SAC in Svezia. Basti pensare che nel 1922 l'Associazione Internazionale dei
Lavoratori (AIT), che raggruppava le organizzazioni anarcosindacaliste che
avevano rifiutato di aderire all'Internazionale bolscevica, contava pi di un
milione di aderenti. L'anarchismo ha tuttavia conosciuto nel corso degli anni
'20 e '30 un periodo di crisi. Se la rivoluzione russa apre in Europa e nel
mondo una nuova fase rivoluzionaria, contemporaneamente in molte nazioni, anche
in opposizione al bolscevismo, emergono e si affermano movimenti di tipo
fascista. In particolare il movimento libertario si trova al centro di un
doppio attacco. Eliminato in Russia dalla repressione prima leninista e poi
staliniana, esso deve far fronte ai metodi staliniani in seno al movimento
operaio e sindacale anche negli altri Paesi. Il mito della rivoluzione
bolscevica e l'atteggiamento dei vari partiti comunisti occidentali provocano
una crescente marginalizzazione dell'influenza anarchica. D'altra parte laddove
le organizzazioni sono rimaste forti, esse vengono annientate dai governi
nazionalisti. In Italia, in Germania, in Argentina, in Bulgaria e in altri
paesi governati da regimi autoritari il movimento anarchico ridotto al silenzio, e i suoi militanti
spesso assassinati o costretti all'esilio. In generale si pu dire che gli
anarchici si trovano in questo periodo sempre pi isolati, anche sul piano
internazionale, potendo trovare al loro fianco solo alcuni settori socialisti e
comunisti dissidenti. La rivoluzione di Spagna del luglio 1936 ha rappresentato
l'ultima occasione per i lavoratori di rispondere al fascismo e alla guerra
attraverso pratiche rivoluzionarie anarchiche. Gli avvenimenti di Spagna, con
il ruolo determinante avutovi dalle organizzazioni anarchiche e
anarcosindacaliste, sono stati forse l'espressione storica pi importante delle
idee libertarie. Questo anche per le dimensioni del movimento anarchico nella
Spagna di quel periodo. All'inizio della guerra civile infatti, nel fronte
antifascista sono presenti la centrale anarcosindacalista, la Confederazione
Nazionale del Lavoro (CNT), che nel maggio 1936, nel suo Congresso di
Saragozza, contava su 982 sindacati e 550.595 aderenti, la Federazione
Anarchica Iberica e la Federazione Iberica delle Giovent Libertarie(FIJL). Dopo
il 1946, la spartizione del mondo in due blocchi imperialisti contrapposti, la
guerra fredda e le minacce atomiche hanno ridotto le possibilit di azione per i
libertari. Il radicarsi del legame tra lavoratori da una parte e sindacati e
partiti politici dall'altra ha marginalizzato sempre pi le correnti anarchiche.
Dopo il Sessantotto, tuttavia, a seguito dell'esplodere della rivolta
studentesca e giovanile, le idee libertarie hanno conosciuto un ritorno di
vigore, anche all'interno del movimento sociale, con la generalizzazione di
concetti come "autogestione" o "gestione diretta". A tutto
questo occorre aggiungere la reazione sempre pi viva di vasti settori della
popolazione contro la burocratizzazione delle societ sia del blocco
"socialista" (in realt trattasi di Capitalismo di Stato) che di
quello liberale. In Italia, anche all'interno della contestazione, queste idee
non sono state appannaggio dei soli gruppi anarchici, ma anzi sono state fatte
proprie in modo pi o meno coerente, anche dai gruppi che si rifacevano al
trotskismo e al maoismo quando non addirittura al marxismo-leninismo. Oggi il
movimento anarchico ancora vitale in
tutto il mondo. Tra la fine degli anni novanta e l'inizio del nuovo secolo il
movimento contro la globalizzazione neoliberista (la cui nascita si fa
coincidere con le proteste contro la riunione del WTO di Seattle nel novembre
1999) si giovato del contributo delle
analisi libertarie e dell'impegno dei militanti anarchici nelle tante
organizzazioni specifiche, nelle strutture popolari di base e nei sindacati
autonomi. Degno di nota anche il movimento anarchico greco, uno dei pi
importanti in Europa, che si visto
protagonista delle grandi rivolte divampate nel paese nel dicembre 2008 (in
seguito all'uccisione del quindicenne anarchico Alexandros Grigoropoulos) e nel
maggio 2010, in cui sono insorte anche ampie fasce della popolazione greca.
L'anarchismo pu ancora contare su un consistente patrimonio culturale in grado
di rispondere, in un'ottica alternativa e radicale, alle sfide globali del
nuovo millennio (guerra permanente, terrorismo internazionale, corsa agli
armamenti, fanatismo religioso, involuzione autoritaria delle democrazie,
inquinamento, devastazione ambientale, crisi della rappresentanza
istituzionale, divario tra paesi ricchi e paesi poveri, precarizzazione del
lavoro, ecc.) che sembrano riproporre in chiave postmoderna i tradizionali
ambiti di intervento dell'anarchismo e delle sue istanze di uguaglianza e
libert. L'anarchia l'ideale che potrebbe
anche non realizzarsi mai, cos come non si raggiunge mai la linea
dell'orizzonte, l'anarchismo il metodo
di vita e di lotta e deve essere dagli anarchici praticato oggi e sempre, nei
limiti delle possibilit, variabili secondo i tempi e le circostanze. Errico
Malatesta, Repubblicanesimo sociale e anarchia, Umanit Nova, Roma, 1922. Siri
Agrell, Working for The Man, in The Globe and Mail, 2007. URL consultato il 14
aprile 2012 (archiviato dall' url originale il 16 maggio 2007). Anarchism, su Encyclopdia
Britannica, 2006. URL consultato il 14 aprile 2012. ^ ( EN ) Anarchism, in The
Shorter Routledge Encyclopedia of Philosophy, 2005, p. 14. Anarchism is the
view that a society without the state, or government, is both possible and
desirable. ^ ( EN ) Paul Mclaughlin, Anarchism and Authority, Aldershot,
Ashgate, 2007, p. 59, Johnston, The Dictionary of Human Geography, Cambridge,
Blackwell Publishers, Slevin, Carl. "Anarchism." The Concise Oxford
Dictionary of Politics. Ed. Iain McLean and Alistair McMillan. Oxford University Press, 2003 ^ a b L'Internazionale
delle Federazioni Anarchiche lotta per: l'abolizione di ogni forma di autorit,
sia essa economica, politica, sociale, religiosa, culturale o sessuale. Vedi: (
EN ) I principi dell'IFA, su iaf-ifa.org. URL consultato il 14 aprile 2012
(archiviato dall' url originale il 3 aprile 2012). ^ Anarchism, then, really
stands for the liberation of the human mind from the dominion of religion; the
liberation of the human body from the dominion of property; liberation from the
shackles and restraint of government. Anarchism stands for a social order based
on the free grouping of individuals for the purpose of producing real social
wealth; an order that will guarantee to every human being free access to the
earth and full enjoyment of the necessities of life, according to individual
desires, tastes, and inclinations. Emma Goldman, "What it Really Stands
for Anarchy" in Anarchism and Other Essays ^ L'anarco-individualista
Benjamin Tucker ha definito l'anarchismo come opposizione all'autorit nel
seguente modo: They found that they must turn either to the right or to the
left, follow either the path of Authority or the path of Liberty. Marx went one
way; Warren and Proudhon the other. Thus were born State Socialism and
Anarchism...Authority, takes many shapes, but, broadly speaking, her enemies
divide themselves into three classes: first, those who abhor her both as a
means and as an end of progress, opposing her openly, avowedly, sincerely,
consistently, universally; second, those who profess to believe in her as a
means of progress, but who accept her only so far as they think she will
subserve their own selfish interests, denying her and her blessings to the rest
of the world; third, those who distrust her as a means of progress, believing
in her only as an end to be obtained by first trampling upon, violating, and
outraging her. These three phases of opposition to Liberty are met in almost
every sphere of thought and human activity. Good representatives of the first
are seen in the Catholic Church and the Russian autocracy; of the second, in
the Protestant Church and the Manchester school of politics and political
economy; of the third, in the atheism of Gambetta and the socialism of the
socialism off Karl Marg. Benjamin Tucker, Individual Liberty, su
theanarchistlibrary.Ward, Anarchism as a Theory of Organization, su
panarchy.org, 1966. URL consultato il
14 aprile 2012. ^ Lo storico anarchico George Woodcockriferisce
dell'anti-autoritarismo di Michail Bakunine mostra la sua opposizione alle
forme di autorit statali e non statali nel seguente modo: All anarchists deny
authority; many of them fight against it ... Bakunin did not convert the League's central committee
to his full program, but he did persuade them to accept a remarkably radical
recommendation to the Berne Congress of September 1868, demanding economic
equality and implicitly attacking authority in both Church and State ^ citt
Susan L. Brown, Anarchism as a Political Philosophy of Existential
Individualism: Implications for Feminism, in The Politics of Individualism:
Liberalism, Liberal Feminism and Anarchism, Black Rose Books Ltd. Publishing,
2002, p. 106. ^ ANARCHISM, a social philosophy that rejects authoritarian
government and maintains that voluntary institutions are best suited to express
man's natural social tendencies, George Woodcock, "Anarchism" in The
Encyclopedia of Philosophy ^ In a society developed on these lines, the
voluntary associations which already now begin to cover all the fields of human
activity would take a still greater extension so as to substitute themselves
for the state in all its functions. Ptr Alekseevi Kropotkin,
"Anarchism" in Encyclopdia Britannica ^ That is why Anarchy, when it
works to destroy authority in all its aspects, when it demands the abrogation
of laws and the abolition of the mechanism that serves to impose them, when it
refuses all hierarchical organization and preaches free agreement at the same
time strives to maintain and enlarge the precious kernel of social customs
without which no human or animal society can exist. Ptr Alekseevi Kropotkin,
Anarchism: its philosophy and ideal, su theanarchistlibrary.. ^ anarchists are
opposed to irrational (e.g., illegitimate) authority, in other words, hierarchy
hierarchy being the institutionalisation of authority within a society. B.1 Why
are anarchists against authority and hierarchy?, in An Anarchist FAQ.
Ostergaard, Anarchism, in The Blackwell Dictionary of Modern Social Thought,
Blackwell Publishing, p. 14. ^ Peter Kropotkin, Anarchism: A Collection of
Revolutionary Writings, Courier Dover Publications, Fowler, The Anarchist
Tradition of Political Thought, in Western Political Quarterly, Skirda, Facing
the Enemy: A History of Anarchist Organization from Proudhon to May 1968, AK
Press, Lo storico catalano Xavier Diez riporta che la stampa
anarco-individualista spagnola fu ampiamente letta da membri di gruppi
anarco-comunisti e da appartenenti al sindacato anarchico CNT. Ci furono anche casi di anarco-individualisti di
spicco come Federico Urales e Miguel Gimenez Igualada che furono membri del CNT
e come J. Elizalde che fu un membro fondatore e primo segretario della Federazione
Anarchica Iberica. Vedi Xavier Diez,
El anarquismo individualista en Espaa: Resisting the Nation State, the pacifist
and anarchist tradition" by Geoffrey Ostergaard, su ppu. Woodcock,
Anarchism: A History of Libertarian Ideas and Movements, 1962. ^ R. B Fowler,
The Anarchist Tradition of Political Thought, in The Western Political
Quarterly, Chomsky, On anarchism, Woodcock, L'anarchia: storia delle idee e dei
movimenti libertari, Feltrinelli Editore, 1966. Max Stirner, trad. Steven Tracy
Byington, The Ego and Its Own, 1st engl ed. New York, 1907 ^ Con l'esclusione della prima
edizione, incompleta, francese del 1899: Max Stirner, trad. R.L. Reclaire
L'Unique et sa proprit, P.V. Stock, diteur, 1899, ma riedito l'anno successivo,
Max Stirner, Trad. Henri Lasvignes, L'Unique et sa proprit, ditions de La Revue
Blanche, 1900 ^ Prima edizione, incompleta italiana, 1902: Max Stirner, trad.
Ettore Zoccoli, l'Unico, f.lli Bocca, 1902 riedito completo per i tipi della
Libreria Editrice Sociale ^ Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History
of Anarchism, PM Press, Tucker, State Socialism and Anarchism, su fair-use.org.
^ Brown. Susan Love. 1997.
The Free Market as Salvation from Government. In Meanings of the Market: The
Free Market in Western Culture. p. 107. Berg
Publishers. Voci correlate: Anarchia Economia anarchica Anarcopunk
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l'anarchismo. BIBLIOTECA Luparini ANARCHICI DI MUSSOLINI rali vere SETTIMANALE
ANARCHICO INTERVENTISTA Ta Pisetemenzar via Garibaldi A | assonimion i Ami 13]
CRITNTEINTA] o f= Niue] | Senesi Aia
MILANO - Dc t9rs. | "iSToNIO su oi RIA | ore 2 Spina sovdrela jattonza,
spogli. d'agnt fiomposit retorien, agli anici ed agli nvvornarl not ci
presentiamo. iper ur Drrepprinsibile dinoziio det ilmo nostro di affermare ut;
colla Nancics nel campo amrehve vi 20 rie site 1 commi. dl pectore i dia in
questa vigilia d'armi, quello che y pi sai Mi iaia alli domantpquando vibrabte
squiller Ia diana + ho gl chiamer al elmonto, riaffermeremo Quatt nurca La cdl. fuetlo nelle, trincee o
sulle barricate, 50 = Medea re pico per
no vogljamo formulare da queste colorin nt gle 1 ti romina. ch ancora non perufptione
iocolieri della politica i probleini Nindaedi e) hibertari. ni per l'unit
d'Itata oggi dia sarei Mali netta
rivolta " dicaro ciod'ad alta voce il nostro diritto rd ? i is
ri to in i; k conferenza di De Ambris
riprodoti vin internazio: ; sto | . n sn commento di parte repubblicana,
significativo in vista o ge So dellinterventismo rivoluzionario, si veda
larticolo Una voce sindacalista, LInizia ; agosto 1914. Li H x) rs sian
Belgio n Francia ad opera dei tedeschi
determin la 1 posizione a favore dellIntes i i Sr a da parte di alcuni degli
ini pi rappresentativi dellanarchi qualiv iS chismo, non solo fi i i Pi Db? 9
10, rancese, tra i quali Piotr Fnac Jezn n James Guillaume e litaliano Amilcare
ppi il rio colonnello della Com ichi o) e 1 une. Le loro dich ioni Poni a
Cc ichiarazioni, che a i la naturale e
antica simpatia dei rivoluzionari europei verso di E ella Grande Rvolution e
che, a distanza di un anno e mezzo, ag ubi espressione definitiva nel
cosiddetto Manifesto dei suscitarono
polemiche e divisioni i dici ni anche tra gli anarchici italiani primo
intervento eterodosso di ico i dia i 1 segno anarchico in materia di i
neutralit fu opera proprio di io Gi Reit i io di Mario Gioda. Ad ui i i fu o c i na settimana dal on \ suo articolo
BIO Gioda, scrivendo per Volont (il principale periodico go ita iano), rilev il
fallimento improvviso e devastante He age D sostenne la necessit che, in caso
dinvasione austriaca, anche gli anarchici impu i i i } >, pugnassero le armi
per difendere il ici i il suolo azionale
. La Folla, la rivista di Paolo Valera di cui Gioda era da tempo S 8 assiduo
collaboratore li offr, a breve distanza, I Opportunit di precisare In i pieni
torinese interpretando lo sbigottimento di molti ello e troppo forse si sognato. La guerra il ri Wi Intanto, il fallimento dello) izi e
A en i ILL pposizione socialista e democratica nepaesi I social esi dell
FEFUIONIA imperiale e delle quadrate organizzazioni operaie [...] ci tone i
prebiaia S : Ag its do FEDELI, Breve storia dell'Unione Sindacale Italiana. HI,
in Rec ana ngi ni Vac i due volumi di FELICE Mussolini il nario,, Einaudi,, p.
235 ss., e Sindacalismo riv N zii i rig nel heidi; De Ambris-D'Annunzio,
Brescia, Morcelliana, 196 19.35. ln si, per il valore della testimonianza, ARM
o di (1398-1905) NIGOlIEREARAI pp v [BORGHI, Mezzo secolo di anarchia dat Psa
reo) be fog la luce il 28 febbraio 1916, mentre ottenne il consenso di sti
(cfr. Gli anarchici intelligenti son dichiarazione storica, LInternazion:
linate j ale, 25 marzo 1915), fu i da parte del movimento anarchico itali i i
GATE ROMEA taliano (si veda, in particol: arti i nba } _In particolare,
larticolo di ERRICO ; governo, Le Rveil communiste- i i N g uniste-anarchiste, 1 maggio 1915 si n arts
rie sea Li n. ee della grande guerra, ai pagina a 14. 9 re di Valera, aveva contribuito
alla ri; ita di e 1912, e vi scriveva regolarmente, i so imi ai 12, per lo pi sotto pseudonimi (l Amico di
Vautrin, i I torinese). Fondamentali, per capire il raj *anzi sat rese).
mentali, per pporto tra lanziano scrittore e agitato! iali Porlinia gli
articoli di questultimo Paolo Valera, e Ancora di Paolo Valera, nai Fa = inni i
ll o 1911. Su questo punto v. altres Miano i LI, rchici italiani e la prima
guerra mondial 1 ici interventisti (1914-1915), in Rivista Storica dell
Anarchismo, 1995, TCA ig 14 di difendere domani la nostra casa da qualsiasi
eventuale minaccia contro la integrit di essa, nel mentre a gran voce, dai
nemici di dentro, dalla monarchia [...], reclamiamo e vigiliamo per la assoluta
neutralit" Gli articoli di Gioda (che pure erano ancora lontani da una
netta presa di posizione in senso interventista) scatenarono una polemica a
distanza fra lautore, il direttore dell Avanti! Benito Mussolini e Nella
Giacomelli, una delle voci pi autorevoli di Volont! In essa sinser ben presto
anche lanarchico individualista Oberdan Gigli, coetaneo e amico di Gioda,
recandovi nuove e pi profonde inquietudini". In una lettera aperta alla
Giacomelli, Gigli prese senz'altro le difese del compagno. GIODA, Mentre
trionfa la guerra, La Folla, 9 agosto 1914 U Sul numero di Volont dell8 agosto
era apparso anche un contributo di Petit Jardin (pseudonimo di Nella
Giacomelli), intitolato La pi grande mistificazione: da Herv a .. Mussolini. In
esso, la Giacomelli, traendo spunto da alcuni articoli di Mussolini che
lasciavano intravedere un possibile allontanamento dal neutralismo assoluto,
aveva paragonato il dubbioso direttore dellAvanti! a Gustave Herv, laraldo
dellantipatriottismo estremo, arruolatosi volontario nellesercito francese
subito dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Mussolini
aveva replicato con una lettera nella quale, rifacendosi a sua volta
allarticolo di Mario Gioda, rimarcava lincoerenza di Volont, che, nel mentre
accusava lui di aver tradito le sue idee internazionaliste, non aveva esitato a
pubblicare una pagina di quel tenore. La replica di Mussolini trov spazio in un
secondo articolo della Giacomelli (In pieno patriottismo!!! Da Herv a
Mussolini: da Mario Gioda a Oberdan Gigli, Volont), molto critico nei riguardi
di Gioda e degli altri sovversivi guerrafondai. Infine, il 29 agosto, il
giornale ospit una lettera dello stesso Gioda, che, respingendo laccusa di
patriottismo, affermava per il dovere degli anarchici, proprio in quanto tali,
di difendere la causa della libert - rappresentata dalla Francia e dai popoli
latini - dalla minaccia del pangermanesimo. In merito a questi avvenimenti
v.ANTONIOLI, Gli anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di
Luigi Fabbri e di Cesare Agostinelli a Giacomelli Rivista Storica dell
Anarchismo. Il ragioniere Oberdan (in realt Oberdank) Gigli era nato a
Gallarate nel 1883, ma si era formato a Genova, dove la famiglia Gigli si era
trasferita dopo la nascita del figlio. Il carattere mite e la propensione per
gli studi filosofici, che ne facevano pi il tipo dellintellettuale che delluomo
d'azione, non gli avevano impedito di farsi strada con sicurezza negli ambienti
anarchici del capoluogo ligure, con i quali era entrato in stretti rapporti
ancora giovanissimo. La prefettura genovese ne aveva tracciato questo breve
profilo: Individualista, professa con ardore i principi extralegali, riuscendo
ad avere non poca influenza sui correligionari, non solo in Genova e
Sanpierdarena, ma anche in provincia [sell instancabile nella propaganda delle
teorie da lui con calore professate, esplicando tale propaganda con buon
profitto, specialmente fra la classe operaia. ACS, CPC, Busta [Gigli]. 15 I
problemi dello spirito affermava sono tramontati per ora: forza e della razza e
della nazionalit ritornano a predominare coi ferocia. I valori sociali hanno
subito un'inversione. Linternazion spezzato [...]. Chi doveva non ha fatto il
suo dovere; neppure noi' i problemi della n raccapricciante alismo operaio Agli anarchici - concludeva Gigli - restava da
riscoprire la loro comune anima umana, non escludendo lopportunit di combattere
gli invasori austriaci (quantunque, come suggeriva, in libere schiere non
governative), il giorno in cui questi avessero minacciato lintegrit
territoriale italiana! i Ai primi di settembre Volont pubblic una nuova lettera
di Gi li Il concetto fondamentale espresso dal giovane anarchico era che il
crohn della rivoluzione sociale non potesse.essere posto dove fossero ancora ai
rt le questioni della libert e dellindipendenza nazionali. son Lanarchismo
sosteneva lautore non rinnega, ma supera il concetto di patria: rinnega per il
patriottismo, che concezione
perfettamente borghese e sibi la rivoluzione liberatrice anche contro i
connazionali. Ma lanarchismo curdo me,
una filiazione della filosofia e delle istituzioni borghesi: perci esso
Fon presupporre una societ borghese dove possa svilupparsi fino alla vittoria.
La storia ela tradizione sono quindi progenitrici non ripudiate. Ritengo quindi
che i roblemi essenziali della borghesia debbano essere risolti per poter
liberamente clara verso sistemi libertari. E fra tali problemi v quello delle
nazionali la risolvere libert: fr: I bi
Ilo dell pi Il lit, da risol A Tar n 1 Un eventuale Vittoriosa invasione
delle armi austro-tedesche non solo cn lasciato drammaticamente irrisolta la
questione nazionale, ma, sotto . TEC . . Z il profilo delle conquiste politiche
e sociali, avrebbe altres determinato un Volont, un Pot in riferimento
all'articolo di Mario Gioda dell8 agosto, era inserita insieme que a di
Mussolini nel citato articolo di Nella Giacomelli, /n pieno patriottismo!!! dr
parole di Gigli la redazione di Volont (retta allora da Cesare Agostinelli,
trovandosi esu rilusi i fatti della settimana rossa, sia Errico Malatesta che
Luigi Fabbri) fece seguire una de i aperto disappunto. A noi pare vi si leggeva
che la situazione di quelli che, come io x e Gigli, si lasciano trasportare dal
sentimento patriottico sia la medesima di quegli E rici che, tempo addietro,
andarono volontari a combattere per le patrie dei greci, dei cubani, dei boeri,
degli albanesi. Il fatto materiale potrebbe anche riuscire simpatico; ma esso
esula dal compito specifico degli anarchici divi on questo incoerente se si
arriv: i anarchici, e pu entare c P qi Incoe; si a regresso: l'avvento, anche
in Italia, di un sistema feudale e militaristico sul modello di quello degli
Imperi Centrali. Impedire che ci avvenisse aveva di per s un valore
rivoluzionario; significava combattere per la causa anarchica e, allo stesso tempo,
salvare lanarchismo dallisolamento, riportarlo a contatto con le masse,
ravvivato alla fiamma dellumanit dolorante!?. La condanna fatta seguire dalla
redazione di Volont alle parole di Gigli hiuse definitivamente la polemica,
almeno per quel che riguardava il giornale di Ancona. Nondimeno, le defezioni
di Gioda ed Oberdan Gigli, considerati fra i migliori giovani ingegni
dellanarchismo italiano, segnarono un passaggio doloroso nella storia del
movimento libertario. Rygier, intanto, gi paladina dellantimilitarismo e, in
assoluto, una delle personalit pi stimate del campo rivoluzionario, aveva
firmato un sorprendente articolo per Il Libertario di La Spezia, nel quale,
richiamandosi alle tradizioni garibaldine del Risorgimento, aveva plaudito alla
fine della Triplice Alleanza, il patto infame gi vincolante lItalia agli Imperi
Centrali, auspicando la guerra liberatrice contro gli Asburgo, i carnefici di
Oberdan? Rygier era da poco rientrata da un giro di conferenze in Francia, dove
era stata sorpresa dallo scoppio della guerra, e dove pare avesse rinsaldato i
suoi legami con i gruppi herveisti e soreliani e con la massoneria francese
(con cui sembra fosse in rapporti gi dallanno precedente), legami comunemente
ritenuti la ragione principale della sua invero repentina conversione |a stessa
Giacomelli, nellarticolo del 22 agosto, li aveva definiti i nostri migliori
uomini; mentre Errico Malatesta, nella su prima affermazione ufficiale contro
la guerra (larticolo Anarchists have forgotten their principles, pubblicato sul
numero di novembre della rivista londinese Freedom, poi ripreso dai principali
giornali libertari italiani), si rammaricava che tra gli anarchici
interventisti vi fossero dei compagni che amiamo: rispettiamo profondamente. Rygier, nata a
Firenze, aveva militato nelle fila del sindacalismo rivoluzionario. Nel 1907,
con Corridoni, aveva dato vita al giornale antimilitarista Rompete le file!. La
sua fervida propaganda (culminata, dopo la guerra di Libia, con la campagna in
favore di Augusto Masetti, di cui era stata la principale agitatrice) le era
valsa il carcere e numerosi processi, contribuendo ad accrescerne la fama negli
ambienti sovversivi. Nel 1909 era passata al movimento anarchico. Cfr.
ANDREUCCI, DETTI, // movimento operaio italiano. Dizionario biografico, Vol.
IV, Roma, Editori Riuniti, ad nomen. Per una breve storia de Il Libertario v.
BIANCO, COSTANTINI, Per la storia dell'anarchismo. Il Libertario dalla
fondazione alla prima guerra mondiale, in Movimento Operaio e Socialista in
Liguria, RYGIER, La bancarotta della politica monarchica in Italia, Il
Libertario, allinterventismo. Nei mesi che intercorrono tra la settimana rossa
e il suo ritorno in Italia nelle vesti di propagandista dellintervento ha
scritto a questo proposito uno storico dellanarchismo Maria Rygier trova la sua
strada proprio con laiuto dei circoli herveisti parigini e del Grande Oriente
di Francia, che laccoglie nelle sue logge istruendola nel compito che dovr
assolvere nei confronti dei vecchi compagni e del direttore dell Avanti!?, A
sua volta un altro autore, in uno dei rari studi dedicati al fenomeno
dellanarco-interventismo, riferendosi ai motivi determinanti la svolta della
Rygier e degli altri anarchici favorevoli alla guerra, ha scritto n pi n meno
di tradimento nero, mercanteggiato, prezzolato?. In questottica, anche in
considerazione del ruolo che molti anarchici interventisti ebbero nel fascismo,
non difficile capire il perch, a
posteriori, si sia finito semplicemente per negare loro il diritto di
cittadinanza nella storia dellanarchismo italiano. Senza dubbio, al di l delle
durissime e CERRITO, L'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del
secolo, Pistoia, RL, 1968, p. 34. Quello
dei finanziamenti, pi o meno occulti, della massoneria al movimento
interventista, fu uno dei motivi dominanti della polemica che precedette
lentrata in guerra dellItalia (e basti pensare alla nota questione dei fondi de
Il Popolo dItalia). Nel caso di Maria Rygier, quel che certo
che ella era da tempo in stretto contatto con gli ambienti
dellemigrazione italiana in Francia, specialmente con i gruppi socialisti e
anarchici di Marsiglia, citt dove la questione dei rapporti tra le frange
interventiste di estrema sinistra e le logge massoniche era sentita in modo
particolare. A Marsiglia, infatti, su iniziativa dellanarchico Raffaele
Nerucci, si costitu un agguerrito Fascio rivoluzionario interventista italiano,
accusato dagli avversari, fin dal suo apparire, di loschi connubi con la
massoneria. Un anonimo articolista dellAvarti!, commentando la pubblicazione ad
opera del Fascio di Marsiglia di un numero unico a sostegno dellintervento (La
nostra guerra, 21 marzo 1915), rimprover a Nerucci e agli altri interventisti
rivoluzionari marsigliesi dessersi serviti del denaro dei massoni, nonch del
sostegno del Ministero degli Esteri italiano (cfr. Gli interventisti a
Marsiglia, Avanti!). Personaggio ambiguo e contraddittorio, Nerucci era nato a
Castelfranco di Sotto, in provincia di Firenze (oggi Pisa). A Marsiglia, dovera
emigrato nellaprile del 1901 e dove gestiva un ristorante, Nerucci aveva a
lungo esercitato una grande influenza, conseguenza di un carattere che
lambasciata italiana aveva definito audace e pronto, ma anche della sua
spregiudicatezza (pare, del resto, che egli fosse in qualche modo legato alla
malavita locale). Nerucci era stato corrispondente da Marsiglia de La Protesta
Umana, de Il Libertario e de L'Avvenire Anarchico. Nel dopoguerra fu tra i
fondatori del Fascio di combattimento marsigliese, da cui fu tuttavia espulso nel
1927 per indegnit morale e politica. Condusse il resto della sua vita sotto
lattenta sorveglianza delle autorit fasciste. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci
Raffaello]. MASINI, Gli anarchici italiani fra interventismo e disfattismo
rivoluzionario, in Rivista Storica del Socialismo, comprensibili polemiche del
momento, che hanno spesso sisi anche nel tono, i giudizi e le interpretazioni
successive, la scelta i campo c Maria Rygier, per quello che il suo nome
evocava nell immaginario simbolico dellestrema sinistra italiana, rappresent un
trauma n pe riassorbito, cui pu essere paragonato (ma solo in minima parte)
quello a fece seguito alla professione di fede interventista di un altro
protagonis delle battaglie antimilitariste dinizio secolo: Antonio Moroni ;
Lbatnn Circa le ragioni ideali, se non devono essere sottovalutati, ne i inire
il mutato atteggiamento della Rygier che prima di aderire all anaro ismo e
stata sindacalista rivoluzionaria, i debiti con il sorelismo e con 1 Giga 46he
ad ogni modo costituivano un substrato culturale comune a molti rivoluzionari,
non solo del campo interventista), ben pi rilevanti, come emerge dalla febbrile
attivit propagandistica della stessa Nico vr precedenti e immediatamente
successivi all entrata in guerra o alia, appaiono i riferimenti al
mazzinianesimo. Non certo un eri pe Pan
veste della Rygier fosse particolarmente apprezzata dai repubblicani n lei
medesima finisse vieppi per accostarsi al dpi . ni repubblicano, fino 2a n la
confluenza di tutte le [ *interventismo rivoluzionario ne i manifestazione ufficiale dellinterventismo
della Rygier Li lettera di adesione alle tesi di Ambris, che ella pn 20 agosto,
allindomani della discussa conferenza milanese del dirige i i i i i in Volont
del 19 2 Basti, al riguardo, ci che della Rygier preti slo sini settembre 1914:
Io trovo in te solo un merito: que i i
al tuo dnerottiio doccasione, rivelandoti femmina fino alla radice dei capelli
per morbosit di i i; inti i spirito. NOILIA . sentimenti; per intima debolezza
di spiri G i RG 27 Il caso del giovane militare di leva Antonio Moroni, nie su
vela di pria i i impatie anarchiche, eri San Leo di Romagna a motivo delle sue
simp: T i Ma i imilitari inistra
(battaglia che egli stesso avi battaglia antimilitarista dellestrema sinis
negre i ie di l carcere, regolarmente pubblicat limentare con una lunga serie
di lettere dal ere, ) d ssovveniivafi Sul suo nome, insieme a quello di Augusto
Masetti, era sa DRSAATE campagna da cui ebbe origine la settimana rossa.
Congedato il no A vs ci de i del sovversivismo; il che pu era stato accolto
come un vero e proprio eroe de ) E i i vecchi compagni allorch egli, al della sorpresa e dello sgomento dei suoi vec
T di A E i i tari garibaldini (a ti dove
fin per arruolarsi fra i voloni I prese la via della Francia, i i $ I IN Arti i
*arti i l'i LAvvenire Anarchico, 8 g 6 lempio v. larticolo Moroni l'ingrato, i
Pulcino) Su Antonio Moroni v. FRANCO ANDREUCCI, TOMMASO DETTI, op. cit., Vol.
III, ad Oltre i Iniziati i ropria penna
a 28 Oltre che allorgano nazionale del PRI, L Iniziativa, la Rygier 9 la pi sa
pci molti altri giornali repubblicani, tra cui principalmente La Libert
(Ravenna), Repubblicano (Roma) e Il Lucifero (Ancona). sindacalista Ma la
Rygier fu anche i ratrice del Manifesto yg spirat le anife degli anarchici
Interventisti ; redatto da Oberdan Gigl dietro invito di lei 3 gli di anifesto
ne quale egli VI orma di programma, le manif riprende a, ordinandole in fi d
prog! 8 Si 5) = 1 gia espresse nelle su ue lettere a Vo lont ppello, steso 1
tesi gi espresse nell ed Vol ); La Il t 120 sette re e diffuso alla fine de
(ese, critto da alcuni noti e meno ne del mese, era sottosi ettembre e diff Ila
f I tt tto d. 1 noti esponenti dell anarchismo italiano Insieme a sindac. I 1
ns d t tal ; sinda alisti, socialisti dissidenti e repubblicani, e non fu un
caso ch Ve pressi In e vedesse la luce essoch contemporanea a un manifesto
Intransigentemente neutralista diramato dalla e: s Quasi ad anticipare la
nascita (; C lavi Direzione del PSI d I anche in chiave anti nu ista) del primo
Fascio rivoluzionario d azione internazionalista. el testo di Gigli, accanto a
Immagini e richiami della simbologia libertaria, SI trovavano, confusi in un
unico disegno, concetti apertamente democratici e mazziniani (noi riteniamo che
| Internazionalismo sar possibile solo q o nazioni saranno libere, P' ich l
dove odio divide lIrredento uando le na: i, po l di lodio divid I eden dallo,
ressore, ogni altro problema economico e politico no! pu trovare ppi p! P' liti
n ti SO uzione), romantiche visioni camicie rosse (la ri Li I, per mi isioni di camici (l I neutralit. 088
P' utti solamente un a 0 egoismo nazionale; essa (CISA azioni lett gO. ional p
legazione tutti solamente ui bbie iazionale; essa la recisa neg dello inter nazionalismo mater
iato di solidariet e sacrificio, che ci ha spinto sui campi della Francia,
della Grecia, del Messico, della Serbia) e roboanti ! p proclam di stampo
roto-mussoliniano (I Inerzia
vigliaccheria e la neutralit, che ancora disconosce la volont po
olare, trad mento. E? lora ) pop:, ti 1
I 29 n E, n kia pon fn LInternazionale,
Edizione Nazionale [dora innanzi Ed.Naz.], 12 4. La lettera si trova riprodotta
anche in MARIA R soglia t i i YG ia di Lana nostra patria, Roma, Libreria
Politica, 1915. pp. 19-24 drain questo scopo ella si era segretamente in n Gigli pi di cre. ils ver ola pae i contrata
con Gigli pi di una volta. Cfr. ACS, pi poi Hi RyGIER, Sulla soglia di
un'epoca, cit., p.25 e firme apposte al manifesto erano i: e igli i 1 ap al m
quelle di: Oberdan Gigli, Maria Rygi i pe que Paolinelli, Edoardo Malusardi,
Gino Tenerani, ta elit Di i e di ss Sa ua Martello, Emanuele Carletti, Ugo
Piermattei, Len } I asquali, Bruno Bernabei, Giovanni Provinciali, Ezi ? ini
eni Ardisson, Gesualdo Grossi, Otriade Gigliucci, Francesco Sarti. Aigle 63 ai
DIE i ese hi p articolo di poco successivo (Dedicato agli anarchici caiser,
Inizi , 10 ottobre 1914), ebbe tuttavi; i 3 ii i sui intervenzionisti a suo
tempo. Lo firmerei den ae6 ia AREA appello della Direzione socialista, opera
prevalentemente di Mussolini, fu pubblicato dallAvanti! del 22 settembre 1914 i
rivolazionario, ite pp, 250251, colato FELICE, Miasolini:1 L'invito finale,
rivolto a tutti i sovversivi, era quello a mobilitarsi per la loro Francia, la
Francia della libert e della rivoluzione**. Gigli, in verit, avrebbe voluto
inserire nel testo almeno un accenno alle terre italiane Irredente, ma ne fu
dissuaso dalla Rygier, convinta che non fosse ancora il momento per unesplicita
dichiarazione in senso nazionale. In calce al manifesto degli anarchici
interventisti figurava anche la firma di Tancredi, pseudonimo di Massimo Rocca.
Se i casi di Gioda, di Gigli, di Rygier e di altri che ne sarebbero seguiti
destarono lo stupore e il rammarico di molti, il fatto che Rocca si schierasse
per l'intervento non sorprese quasi nessuno: fu visto, anzi, come una logica
cofiseguenza degli atteggiamenti da lui presi in passato, specie in relazione
alla guerra di Libia. Un giudizio di Berneri del 1924 (mentre volgeva al
termine la parabola di Rocca come dirigente fascista) racchiude in poche parole
il comune sentire degli anarchici italiani e si pu dire riassuma buona parte
della successiva riflessione storiografica sul personaggio. Massimo Rocca
scriveva Berneri non mai stato
anarchico. Fu individualista; il che non
la stessa cosa. Comunque si voglia vedere, per indiscutibile che fu nel clima culturale
e politico dellanarchismo V Per il testo completo del manifesto del 20
settembre v. RYGIER, Sulle soglie di un'epoca, cit., pp. 27-29. Il manifesto,
intitolato Per la Francia e per la libert, fu pubblicato a stralci su Il Resto
del Carlino del 21 settembre 1914 (Un manifesto di anarchici e di rivoluzionari
a favore della guerra), su Il Corriere della Sera del 23 e su LIniziativa del
26. Eloquente il commento del quotidiano liberale bolognese: Oggi gli anarchici
ed i rivoluzionari italiani si levano in piedi a respingere la neutralit e a
richiamare il soccorso di tutti gli uomini di libert, per dar mano alla
Francia, per schiacciare il blocco austro-tedesco, per riportare in Europa il
soffio della rivoluzione. Quale rivoluzione? Quella francese, quella borghese,
quella dellindividuo e della nazione: la nostra! Per le ripercussioni del
documento in seno al movimento anarchico v. gli articoli / sovversivi
guerrafondai, Avanti!, 23 settembre 1914 (cui fece seguito una risposta di
Gigli a Mussolini, pubblicata dallorgano nazionale socialista quattro giorni
dopo), e // manifesto dei falliti, Volont, 3 ottobre 1914. Sullintera vicenda
v. altres FEDELI. Note su! 19141915. Gli anarchici e la guerra, in Volont,
1950, n. 10, pp. 622-628. 35 Cfr. RyGIER, Sulla soglia di un'epoca, cit., p.26
36 CAMILLO BERNERI, Uomini e idee. Libero Tancredi, La Rivoluzione Liberale, 18
marzo 1924. Il profilo tracciato da Berneri non nasceva unicamente da una
valutazione di carattere personale, ma sinseriva in una lunga consuetudine di
pensiero. A proposito della campagna interventista intrapresa da Rocca, Volont
del 5 settembre 1914 lo definiva un anarchico che... non mai stato dei nostri; e Luigi Molinari, uno
dei padri dellanarchismo italiano, in suo intervento su L Avvenire Anarchico
del 15 ottobre, gli contestava fermamente il diritto a dirsi anarchico, almeno
nel senso scientifico della parola. Su Massimo Rocca si veda anche la voce
corrispondente in ANDREUCCI, DETTI, gra n. che si formarono uomini come Massimo
Rocca e che questi Icolare si pone come una delle fi i i x i igure pi
controverse e a tuttoggi cin definite della storia politica italiana del
Novecento. seal so n fon il 26 ni 1884
da una famiglia di modeste condizioni, operaio tipografo come il compagno Mario
Gi i i ; io Gioda, Rocca accostato allanarchismo agli inizi del ole
lel 900, nel momento in cui, insi prime suggestioni nietzschiane e
allinqui IRR Inquieta poesia di Henrik
Ibsen, si TARA ni nel nostro paese le idee di Johan C Schmidt mosciuto con lo
pseudonimo di M i il fil ueglicicoa i ax Stirner), il filosofo de n x Attratto
dalle teorie degli individualisti, che a quelle idee e a iaia i 5 apici Rocca
si era contraddistinto per unintensa nferenziere, collaborando nel frattem i gi
i ttivit d ere, collal po a numerosi giornali o anarcoindividualista, fra i
quali Il Grido della Folla di ip ; Pi 1906 al 1911, con lamico Alfredo
Consalvi, aveva dato vita PR lata rino del Novatore, rivista improntata a un
marcato alismo intellettualistico; esperienza che gli d | istici e gli era
valsa lunghe ed acri polemiche con gli ambienti dellanarchismo ufficiale, Agli
eccessi Pics E ; a Gipi ear opera di Max
Stimer, L'Unico e le sue propriet, apparve nel P i Torino, a cura del tipografo
modenese Ettore Z. i, gi i gruppi anarchici degli Stati Uniti e lo, i i ua FR
pera di Max Stirner, una i i i del Geni met 1a d ner, prima introduzione al
pensiero $ ; pali divulgatori delle
teorie individualiste i i libertario italiano furono - con i i an eri Nella
Giacomelli - Ettore Molinari, Giuseppe Monanni e Leda Sulle fortune e le
diverse correnti dellindivi i ellindividualismo anarchico nel nostri DA A pu Pena piace alla settimana rossa. Per una
storia dell Di. Italia (1881-, Firenze, 1977, p. 97 ss., e PIER CARLO M. i i
ici vet csi; HRR degli attentati, Milano, Rizzoli, 1981, p. 193 i Vf perg rido
della Folla fu il primo giornale a hico italia i Il ( fuvil narchico italiano
di schietta int i HR ino acri ni sia del 1902 da Ettore Molinari e Nella
Giacomelli cad i ovanni Gavilli, cess le pubblicazioni cinque anni pi tardi i i
7 Vai toi PIER. . ardi. T CAS ira din videro la luce in quegli anni, i pi Sposi
frico (Firenze, 5), La Protesta Umana
(Mil: 3 1 i ire 1907-1908), Sciarpa Nera (Milano, 1910 veli Gil INIT A |, -) e
La Rivolta (Milano, 1910 ueste pubblicazioni ebbero fra i | i assidui i si i 9
i loro pi assidui collaboratori Oberdan Gigli e Mario Gi i loda. V a ale a i.
nel ve Anarchico individualista, stretto collaboratore oca, 1 protagonisti
dellanarcointerventismo. Nel do)
convinzione al fascismo e nel 1929, anche in virt ' fottla chi paria ; i
; rt della stretta amici Rossoni, fu radiato dallelen i ivi Mir gira gs co dei
sovversivi. Cfr. ACS, CPC, Busta 1441 [Consalvi 40 : . 13 Ra SS anni (poi
semplicemente Novatore) usc in tre serie successive: la Lr n Pose A psi ottobre
1906; la seconda dopo che Rocca e Consalvi alia per gli Stati Uniti a New York,
dal 15 ottobri i i a i 7 i } e 1910 al 4 de Wperzia di nuovo in Italia (prima a
Milano, poi ancora a Roma), dal 29 luglio al Nel 1907 il giornale anarchico
romano La Giovent Libertaria accus MRO PEPATE PITT TT ATER RPVOR polemici, che
ne avrebbero segnato tutta la vita, lo spingevano daltra parte il carattere
irrequieto ed un acceso orgoglio intellettuale, tipico della sua formazione di
autodidatta. Lo scoppio della guerra libica lo aveva visto a fianco di Arturo
Labriola e degli altri sindacalisti rivoluzionari sostenitori dell'impresa (ai
quali si sentiva affine per vocazione ideale), su posizioni decisamente
tripoline'. Con la sua propaganda a favore dellavventura coloniale, il solco
che gi lo Alivideva dai suoi vecchi compagni si era fatto incolmabile.
Nellestate del 1914, tuttavia, grazie anche allinteressamento di Mario Gioda,
aveva tentato di riavvicinarsi al movimento anarchico, chiedendo, con qualche
speranza, di poter prender parte al progettato - e presto abortito - congresso
di Firenze. Con ostinazione, cui non era stata estranea una buona dose di
autocompiacimento, e a dispetto dei suoi molti avversari, Rocca aveva
continuato (e, in fondo, sempre avrebbe continuato) a considerarsi anarchico.
Rocca e Consalvi dessersi appropriati dei fondi raccolti in Italia e allestero
per finanziare la rivista. BETTINI, Bibliografia dell'anarchismo, Firenze, CP,
ad indicem. dl Sul Tibicismo di Rocca v. soprattutto LiBERO TANCREDI, Una
conquista rivoluzionaria. In pro e in contro la guerra di Libia, Napoli,
Editrice Partenopea. Rocca era in stretti rapporti con gli ambienti del
sindacalismo rivoluzionario. Tra il 1909 e il 1911 suoi scritti erano comparsi
su Pagine Libere di Paolo Orano e Angelo Oliviero Olivetti e su La Lupa, la
rivista fiorentina fondata da Orano che fu arena dincontro fra sindacalisti e
nazionalisti (Orano, tra laltro, scrisse la prefazione al volume di Rocca La
tragedia di Barcellona, pubblicato nel 1911). Quanto al nazionalismo, bisogna
dire che Rocca ne aveva seguito con grande interesse lavventura politica, come
anche testimoniato dallarticolo. // neo nazionalismo, scritto per il Novatore
di New York nel dicembre del 1910, allapertura del congresso nazionalista di
Firenze che decret la trasformazione del movimento in Associazione. E notevole
aveva scritto Rocca in quelloccasione che nell'Italia democratica del presente,
tutta piena di pacifisti e di umanitari, vi sia un Corradini abbastanza
coraggioso per inneggiare alla guerra ed alle armi [...]. Certo, il
nazionalismo in Italia un fenomeno
nuovo, che sconvolge molte teorie, ma che comincia ad imporsi e col quale
bisogner confrontarsi. Bisogner, se non altro, considerarlo come unonda di
sincerit lia, e che non manca dun lato che avvolge gli ultimi residui virili
deila borghesia dItal onorevole e grandioso. #? Gioda (un intervento del quale
figurava nel programma congressuale) av Gli anarchici di fronte agli altri
partiti sovversivi eva accompagnato una nota di raccomandazione alla lettera
indirizzata da Rocca al comitato ordinatore del congresso fiorentino. In quella
lettera - che Volont rifiut di pubblicare Rocca aveva auspicato che il
congresso potesse servire di spiegazione fra compagni e di mezzo di
pacificazione e aveva chiesto desservi ammesso come relatore sul tema Guerra e
militarismo, al riguardo assicurando che la sua tesi era meno eterodossa di
quanto potesse sembrare di essere in
grado di spiegarsi fraternamente su Tripoli. Cfr. ANTONIOLI, Gli anarchici
italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti Nelli 7
f 4 7 ellintroduzione a un suo libro di quel periodo, che possiamo leggere come
La programmatico del suo modo di interpretare lanarchismo, aveva ritto: i Dal
momento chio persisto a dichiararmi ed a sentirmi anarchico senza curarmi dellaltrui
divieto o permesso [...], credo e persisto a credere che lanarchismo quale
energia. critica di pensiero e di temperamento individuale, e le affermazione
ribelle di valori etici nuovi, possa avere una vasta ed m Bi funzione da
compiere, a lato dei movimenti pratici: credo anzi che dell'anfchismo ve ne sia
molto oggid fuori degli anarchici ufficiali nelle minoranze ch formano la parte
pi viva e suscitatrice della vita pubblica odierna i A ; questa visione
concettuale, estetizzante e fortemente elitaria dell anarchismo, inteso pi come
uno stato danimo che come un corpo certo di dottrine e di programmi, Rocca rest
in definitiva sempre fedele, pur nel mutare delle esperienze politiche e
personali, e ad essa si sarebbe fiheli richiamato, negli anni della sua
adesione al fascismo, a motivare le posizioni assunte allinti del ito! interno
del partito". E n 5 RSA ott ; regni; contro l'anarchia. Studio
critico-documentario, Pistoia, Il Punto focale della riflessione di Rocca era
la contrapposizione fra la rigidit formale dell anarchia, intesa come dottrina
politico-filosofica, e lenergia liberatoria dellanarchism Se lanarchia
rappresentava il mito elevato a dogma, una concezione trascendente [ n
superiore e padrona anche di chi vi crede; lanarchismo era invece pi
propriamente 104 disposizione dello spirito leterna sete di progresso, di
libert, di novit, incarnantesi nell: rivolta, nel senso pi puro ed etico del
termine, al punto che tutte le rivolte passate
future, tutti glideali nel loro senso dinamico potevano considerarsi sue
mai istazioni AI libro di Rocca era premessa una breve lettera di Arturo
Labriola (a riprova dei legami esistenti ia individualista torinese e il mondo
del sindacalismo rivoluzionario), che Gol da
ci Sia ammirazione per lautore, definendolo uno degli scrittori politici
pi Nel 1924, in una lettera/dedica a Mario Gioda premessa ad una raccolta dei
suoi articoli revisionisti sul fascismo, Rocca avrebbe scritto: Tu, Gioda, sei
tra i pochi che mi furono compagni di spirito anche prima che il fascismo
sorgesse: tra quel gruppo di sovversivi che volevano esser tali per disprezzo
delle classi dirigenti autodemolitrici di se medesime e della nazione, ma che
affermavano ereticamente la realt della patria fra le masse sovversive di
allora. Orbene, io ho ripassato in questi giorni quel mio libro L'anarchismo
contro l'anarchia [..] ein quelle cinquecento pagine, ho ritrovato, esplicito o
in nuce, moltissimo di ci che oggi il
fascista che ti scrive. Vi ho ritrovato cio [...] il riconoscimento del sentimento
nazionale quale dato integratore dellindividuo e quale spinta indispensabile al
progres umano; l'immortalit dell stato e del diritto, pur attraverso le sue
trasbordo fol organo necessario a consolidare e conservare le conquiste operate
dalla societ su se stess concretandone la coscienza e selezionando, con la
resistenza del potere politico, le Pisi veramente rivoluzionarie e rinnovatrici
dalle irrequietudini dissolventi; il diritto alla libert Non mancher di stupire
chi conosce qual sia la concezione politica per la quale io milito scriveva Rocca
allesordio della sua campagna interventista - sebbene sia coerentissimo con ci
che penso da dieci anni e che da tre anni sostengo apertamente, nella
previsione dellattuale catastrofe. Fulero della nuova impresa polemica di
Massimo Rocca era la rivendicazione, ribadita fra il settembre e lottobre in
numerosi altri interventi, della natura sostanzialmente anarchica della lotta
contro il militarismo e lespansionismo desco in difesa dei popoli latini, dal
momento che Ia latinit aveva sempre rappresentato la libert, il progresso e la
rivoluzione*. Alla maggioranza degli anarchici rimproverava perci di. aver
tradito leredit e il messaggio ideale del vero anarchismo, quello che
combatteva Mazzini per completarlo, pi che per negarlo'*, e di essersi messi al
giogo dellopportunismo ministerialista e del complice teutonismo dei socialisti
ufficiali. interiore per chi capace di
foggiarsi nel proprio spirito una legge, e la legittimit della coazione su chi
non si eleva a tanto ROCCA, Idee sul fascismo, Firenze, La Voce, TANCREDI, //
dovere della guerra, LIniziativa, 29 agosto 1914. Questo e altri scritti del
periodo sono anche contenuti (ma spesso in forma incompleta o rimaneggiata) nel
volume di Rocca, Dieci anni di nazionalismo fra i sovversivi d'Italia, Milano,
Il Rinascimento, Oltre agli articoli direttamente citati v. anche L'accordo che
commuove, LIniziativa, Gli eterni vinti, Il Resto del Carlino, 3 ottobre 1914,
e Gli anarchici, i sindacalisti e la situazione internazionale, Il Lavoro,
TANCREDI, // dovere della guerra, cit. 4" Ip., Gli anarchici del kaiser,
LIniziativa, L'organo del PRI pubblic la seconda parte di quest'articolo il 26
settembre. La controversia che ne segu coinvolse soprattutto Ottorino Manni,
indicato da Rocca fra gli anarchici favorevoli alla guerra contro gli Imperi
Centrali (insieme ai fiorentini Lato Latini e Giovanni Canapa), per via di due
suoi interventi apparsi su Il Libertario del 27 agosto e del 10 settembre (Gli
eroi della guerra e Polemica sulla guerra). Manni, che aveva effettivamente
ammesso di trovare realistiche e pi positiviste, rispetto alle astratte prese
di posizione dell'ortodossia anarchica, le considerazioni di Mario Gioda e di
Oberdan Gigli a proposito delleventualit della difesa in armi del territorio
nazionale, respinse per ogni addebito Interventista, dapprima con un nuovo
articolo su Il Libertario del 24 settembre (La guerra no!), poi con una lettera
di poco successiva a Volont. A parte il caso di Manni, bisogna dire che gli
esempi portati da Rocca nel suo celebre articolo non erano granch probanti.
Infatti, se Giovanni Canapa (meglio conosciuto con lo pseudonimo Brunetto
DAmbra) era un nome noto dellanarchismo italiano, altrettanto non si poteva
dire di Lato Latini. Il Prefetto di Firenze - dove Latini, nativo della
provincia di Arezzo, esercita il mestiere di tipografo - aveva informato la
Direzione Generale di Pubblica Sicurezza di non averne fino ad allora segnalato
il caso, perch modestissimo gregario della setta anarchica. ACS, CPC, Busta
2729 [Latini Lato]. 4 Per un giudizio di Rocca sulla politica del Partito
Socialista si veda la sua prefazione al volume di LASKINE, / socialisti del
kaiser, Milano, Sonzogno,Lardente propaganda di Rocca per la guerra, propaganda
che egli (come del resto gli altri anarchici interventisti) riteneva potesse
indurre la base del movimento ad abbandonare la ferma pregiudiziale
neutralista, contribu a esacerbare gli animi, mentre si moltiplicavano le
provocazioni e le intemperanze, da una parte e dallaltra. La sera del 4 ottobre
Rocca e Maria Rygier sincontrarono alla Societ Operaia di Bologna per una
conferenza sulla Morale della guerra, ma la decisione non si rivel molto
felice, vuoi per la sede prescelta il pubblico essendo costituito per lo pi da
operai anarchici e socialisti vuoi per il momento poco propizio, e lannunciata
discussione si concluse in un prevedibile tumulto, con tanto di lancio di
sedie, nel quale i due oratori e le loro improvvisate guardie del corpo (fra
cui il giovane romagnolo Leandro Arpinati) ebbero inevitabilmente la peggio. Si
era tenuto a Bologna un comizio del deputato belga Lorand in Italia allo scopo
di sensibilizzare lopinione pubblica alla causa del proprio paese in occasione
del quale gli organizzatori avevano fatto circolare un volantino in cui si
affermava che i repubblicani, i sindacalisti, gli anarchici pi colti e
intelligenti erano per la guerra all'Austria. Il Fascio Libertario bolognese e
il gruppo del foglio antimilitarista Rompete le file! avevano reagito con
sdegno alla pretesa degli interventisti di ascrivere anche gli anarchici tra i
fautori della guerra (una loro lettera di protesta era stata pubblicata
dallAvanti! il 3 ottobre). ! Cfr. La conferenza di un anarchico sospesa con una
sedia in testa, Il Secolo, 5 ottobre 1914, e Violenze e tumulti di socialisti
ad un comizio di anarchici, Il Corriere della Sera, 6 ottobre 1914. Sul periodo
anarchico di Leandro Arpinati, 0, meglio, sui legami tra lazione politica di
Arpinati durante il fascismo e le sue radici anarcoindividualiste, v. WHITAKER,
Arpinati anarcoindividualista, fascista, fascista pentito, in Italia
Contemporanea. Per il resto, le poche notizie sulla formazione politica di
Leandro Arpinati sono mediate dal vecchio volume di NANNI, Leandro Arpinati e
il fascismo bolognese (Bologna, Edizioni Autarchia7), unopera agiografica,
scritta nel pieno delle fortune politiche dellArpinati fascista, alla quale
occorre guardare con molta cautela. A quel primo lavoro, ritirato dal commercio
subito dopo la pubblicazione (sembra per volont dello stesso Arpinati) e mai pi
ristampato, hanno attinto tutti i successivi biografi di Arpinati, da SUSMEL
(Arpinati, in La Domenica del Corriere, 1967, n. 36 pp. 16-20) a IRACI
(Arpinati l'oppositore di Mussolini, Roma, Bulzoni, 1970). Nato a Civitella di
Romagna, in provincia di Forl, Arpinati si era trasferito a Torino
giovanissimo, lavorando prima come sguattero dalbergo, poi come operaio alla
fabbrica automobilistica Diatto. Di estrazione socialista (suo padre Sante era
stato uno dei maggiori esponenti della sezione socialista di Civitella), il
giovane Arpinati si era avvicinato allanarchismo intorno al 1910, restando
affascinato dalle teorie degli individualisti e divenendo, a quanto pare,
grande ammiratore di Massimo Rocca. Risalirebbe a questo periodo anche il primo
contatto di Arpinati con Mussolini, allepoca direttore de La Lotta di Classe,
chiamato a inaugurare il nuovo mercato coperto di Civitella intitolato ad
Andrea Costa. Nell'occasione, gli anarchici locali, con alla testa Arpinati,
avrebbero inscenato una dura contestazione, suscitando il risentimento di
Mussolini (ma non v' traccia di questepisodio nelle pagine dellorgano
socialista forlivese). Da quel momento - secondo gli autori sopra PPANTPP 777
VIP PRRPPIA Le seggiolate rimediate alla Societ Operaia bolognese non Fine Rei
effetto che quello di confermare Rocca nella propria capar campo, n gli
impedirono in alcun modo di proseguire, E: e n proselitismo, pur in un clima di
sempre maggior tensione. % si g D i dopo lepisodio di Bologna e un momento prima
di lasciare sn ia o ; Francia alla volta delle truppe garibaldine - Rocca, che
era da an > rapporti con Mussolini e lAvanti!, ottenne anzi il suo per pi
yritido e importante, firmando i celebri e controversi articoli su ua Carlino
che forzarono il futuro duce del fascismo ad accelerare i temp: del suo strappo
interventista". citati Arpinati e Mussolini sarebbero comunque rimasti in
seria Fata sunt E) ri . . A icizi ipazione di Arpinati alla vita politica
amicizia. Quel che certo che la partecipazi T a Fi i ico itali i
ionale collaborazione con un giorn: ino, anarchico italiano, fatta eccezione
per un'occasi x DE dpr arti i i Socialismo e anarchismo (L Alleanz ; che aveva
fruttato larticolo in due parti 4 % nt gent i he rilevante, e che solo
lintervei), era stata tutt'altro cl ] ) i re ) A it di i notare. Secondo la
figlia, autrice anc! futuro gerarca lopportunit di farsi noi rice | na iscutibi
i i lo prese parte attivissima ; i iscutibile biografia, lanarchico romagno i
ima 4 a Fira dopo quello famoso della Societ Operaia, in papea RE incidenti, al
punto da assumere un nome falso - Vittorio Neri -, da saga panda all'oscuro la
madre delle sue disavventure (Oo Cari erinen eigen i r ittari ttera a
firma io padre, Roma, Il Sagittario,
1968. p. 37). Una lett O ( Civitella che si proclama al fianco di Mussolini per
la A i verso sa rr, i i Italia del 25 novembre . Impiegato, comparve in effetti
su Il Popolo d Ita i | pi aopinti fu
riformato dal servizio militare perch figlio maggiore di madre vedova, rese
parte alla guerra. i iris fi ida A I} GI i 6 ottobre, la testa ancora fasciata
per le ferite riportate due gio! se i gii artecip ad una conferenza, indetta
dall Unione Repubblicana bolognese Ure SR ochist e macchinisti, con una
relazione sulla Triplice Alleanza. Cfr. LInizi: n ail il i izioni Librarie
Italiane, 1954), Rocca S In Come il fascismo divenne una dittatura (Milano,
Edizioni Librarie anni cbr scrisse di
aver conosciuto Mussolini nellestate del 191 pra a pa dr n del fi i i lini direttore dellAvanti!, Rocc: i del futuro duce. Divenuto Musso! V HAN gie zi ialista (firmandosi con gli
pseudonimi a collaborazione con lorgano social 1 i i juidi il larticolo 4/
rimorchio dei ciechi., ve Guidi), conclusasi 18 agosto 1914 con colo i c Sligo
soin isagli i P in Dieci anni di nazionalismo di ui 2g ( avvisaglia ricordava
lautore in n eta A is la censura di Mussolini, allora fe; t d'interventismo,
non aveva passato la cei h IR M Si i articoli // direttore dellAvanti!
smascherato. 9 i Si tratta degli articoli /
ato. U xa aperta a Benito Mussolini, e La polemica fra Benito Mussolini
e Libero patata ; ed del socialismo contro la guerra. Un uomo di bronzo, Il
Resto del Carlino, 7 e sd Ai abissi . n,, o 9 s questa vicenda v. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario, cit, p. 255 ss.,
Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura, I casi fin qui
considerati (ai quali dev'essere senz'altro aggiunto quello del famoso
pubblicista Roberto DAngi) 5 sono sicuramente i pi noti ed emblematici, ma
lirrompere del conflitto europeo, lungi dal trovare gli anarchici tutti
risolutamente ostili e impenetrabili ad ogni incanto guerresco, suscit anche
nel movimento libertario non pochi dubbi e ripensamenti, che, se non sfociarono
tutti in atteggiamenti positivi di sostegno allintervento, fermandosi a volte
al limite dell eresia, o non andando oltre un generico - e del resto largamente
condiviso - sentimento di simpatia per la causa dellIntesa, testimoniavano di
unincertezza diffusa e sotto molti aspetti inevitabile, considerata lasprezza
della prova, capace di segnare in modo indelebile la coscienza di molti. Cos,
via via che gli eventi bellici maturavano e si modificava la situazione
politica interna, numerosi altri anarchici (alcuni dei quali, allora semplici
gregari - come Arpinati e un altro giovane romagnolo, Edmondo Mazzucato? -, si
sarebbero fatti le ossa Angi, nato a Foggia, era stato redattore de Il
Libertario. La sua attivit si era dispiegata per la maggior parte allestero: in
Egitto, dove aveva soggiornato per quattro anni, dal 1902 al 1906,
contribuendo, grazie soprattutto a due giornali da lui fondati e diretti
(LOperaio e Lux), a rinsaldare la gi fertile comunit anarchica italo-egiziana;
e a Montevideo, in Uruguay, dove era giunto nellaprile del 1906 e dove aveva
dato vita al foglio La Giustizia. A differenza di Rocca e degli altri esponenti
di punta dellanarcointerventismo, DAngi non ebbe un ruolo determinante nella
propaganda per lintervento, ma le sue dichiarazioni pubbliche a favore della
guerra contro gli Imperi Centrali destarono egualmente sconcerto. Nel
dopoguerra - come vedremo -Angi avrebbe rivendicato con pervicacia la scelta
interventista, tentando anche, senza successo, di raccogliere i superstiti
dellanarcointerventismo intorno ad un progetto politico autonomo. Cfr. ACS, CPC,
Busta 1612 [DAngi Roberto]. Sulla figura e lopera di Roberto DAngi v. altres
BETTINI, op. cit., ad indicem. Il percorso politico di Mazzucato era stato
sotto molti aspetti simile a quello di Leandro Arpinati. Nato a Forl nel 1887,
il repubblicano Edmondo Mazzucato si era trasferito a Milano appena
diciottenne, in cerca di miglior fortuna. Nel capoluogo lombardo aveva trovato
dapprima lavoro nellufficio pubblicitario del giornale socialista Il Tempo,
poi, come tipografo, presso la tipografia Politti e Galimberti, dove si
stampava lanarchico Il Grido della Folla. Risalivano dunque a quel periodo i
primi contatti di Mazzucato con lanarchismo, testimoniati dalla sua
collaborazione ai fogli libertari milanesi, La Protesta Umana e LOperaio. Nel
gennaio del 1906, il giovane anarchico era stato tratto in arresto per aver
preso parte a una manifestazione commemorativa della domenica di sangue in
Russia. Tre anni pi tardi, militare di leva, era stato condannato a un anno di
reclusione per aver percosso un superiore e internato nel carcere napoletano di
Sant'Elmo. Nell'ottobre del 1910 aveva assistito come osservatore al congresso
milanese del PSI, durante il quale - come sembra - conobbe il conterraneo
Mussolini. Nove anni dopo, scrivendo per lorgano dellAssociazione fra gli
Arditi dItalia, Mazzucato avrebbe rievocato quellepisodio con queste parole: Lo
ricordiamo fin dalle giornate del congresso socialista di Milano nel 1910,
quando con la sua eloquenza incisiva e tagliente sferz tutto un sistema di
obbrobrio, di patteggiamenti osceni, di volute rinunce della parte cosiddetta
intellettuale del Partito Socialista. Fu una rivelazione MAZZUCATO, Governo di
pigmei, L Ardito, proprio nella lotta interventista) si lasciarono attrarre dal
fascino e dalle ragioni della guerra. Fra questi dovevano emergere due uomini,
diversi per indole e per esperienze di vita (e ai quali il dopoguerra avrebbe
riservato opposti destini), ma uniti allora nella comune battaglia
interventista, nella quale avrebbero riversato tutte le loro energie. Erano
Attilio Paolinelli, di Grottaferrata?, e il lodigiano Edoardo Malusardi,
entrambi firmatari del manifesto del 20 settembre. Lo stuccatore Edoardo
Malusardi, che allepoca dei fatti aveva appena venticinque anni (era nato il 30
agosto 1889), era poco conosciuto negli ambienti anarchici nazionali. La sua
esperienza di maggior rilievo era stata la collaborazione con il foglio
bolognese LAgitatore, per il quale aveva curato una rubrica di corrispondenze
da Lodi, firmandosi con gli pseudonimi Turbolente e Odroade, e rivelando, gi
allora, una naturale propensione per la polemica giornalistica. Attivo nella
propaganda spicciola, specie in ambito sindacale, e noto alle autorit di
Pubblica Sicurezza per lirruenza dei comportamenti, il contributo di Malusardi
alla vita politica del movimento libertario era stato comunque limitato (sembra
anzi che molti compagni lo tenessero in conto di buono a nulla) e la sua sola
uscita pubblica di una certa importanza risaliva ad un comizio pro scioperanti
di Piombino e Isola D'Elba, il 7 settembre del 1911, a Lodi; comizio durante il
quale aveva avuto il compito dintrodurre loratore principale, che nelloccasione
era stato Massimo Rocca. ; i Bench influenzato dalle teorie dei sindacalisti
rivoluzionari, lanarchismo di Malusardi appariva intensamente venato
dindividualismo. Lanarchia -). Allo scoppio della guerra europea Mazzucato segu
dunque Mussolini nell'avventura interventista e si arruol volontario,
combattendo negli arditi. Nel opoguerra wi rese protagonista nelle file del fascismo.
Cfr. ACS, CPC, Busta [Mazzucato], e MAZZUCATO, Da anarchico a sansepolcrista,
MRO EEgIeTE 1934 (per quanto edulcorata questa breve autobiografia di Mazzucato
A si n; i rappresentazione significativa non solo ne av politico dellautore, ma
anche del cl >) a il primo movimento fascista). Matino iaia db nel 1882. Approdato
allanarchismo dopo travagliate esperienze personali (nel 1898 era stato
condannato a 11 anni e otto mesi di carcere per aver a la matrigna), fu uno dei
grandi protagonisti dellanarcointerventismo. Cfr. ACS, CPC, Busi Paolinelli
Attilio]. 7 liaison che Ho vita, con qualche interruzione, dal maggio 1910 al
luglio E nta stato uno dei pi importanti periodici anarchici italiani, potendo
contare sul contri uto di alcuni tra i nomi pi rappresentativi dellanarchismo,
da Luigi Fabbri a Domenico Li da Armando Borghi alla stessa Maria Rygier. Oltre
che al settimanale bolognese, Malusari i aveva occasionalmente collaborato a Il
Grido della Folla, a LAvvenire Anarchico e alla sindacalista L'Internazionale,
sempre occupandosi-di cronaca locale lodigiana. Cfr, ACS, CPC, Busta 2964
[Malusardi Edoardo]. aveva scritto in polemica con un foglio cattolico di Lodi
ai tempi della sua collaborazione a LAgitatore - un sublime Ideale di redenzione proletaria,
avente per seguaci tutti gli spiriti ribelli delle innumerevoli nazioni e per
compito quello di combattere ogni tirannia. Noi per aveva concluso Malusardi
non ci illudiamo, lo sappiamo che la realizzazione di questIdeale molto lontana, ed ecco perci che, basandoci
sulla realt, bench siamo umanitari per eccellenza, giustifichiamo tutti gli
atti di violenza diretti contro lautorit, le alte personalit e lordine
costituito, poich fintantoch voi adoprerete la violenza per sopprimerci, e
fintantoch vi cardio diseguaglianze, esisteranno sempre individui risoluti, i
quali, facendo getto della propria vita, emergeranno dalle moltitudini belanti
per vendicare la propria classe! La realt opposta alla dottrina, la violenza
come forza sovvertitrice e pedagogica, la massa amorfa e, in antitesi, la
figura del ribelle, l'individuo eroicamente consapevole, erano motivi
ricorrenti nella simbologia e nella fraseologia dellindividualismo anarchico e
gi contenevano, in potenza, il germe dellanarcointerventismo. Nel caso specifico
di Edoardo Malusardi, si pu affermare che ne avrebbero accompagnato, segnandolo
profondamente. lintero percorso politico. i Nella propaganda per lintervento
Malusardi manifest unancor pi spiccata vis polemica e una notevole
intraprendenza organizzativa rendendosi sin dallinizio protagonista di un
vivace dibattito, nientemeno che con Luigi Molinari?. La contesa sollevata dal
giovane anarchico lombardo. che investiva proprio la consistenza e la misura
delladesione anarchica alle tesi interventiste, fin per coinvolgere il
direttore de Il Libertario, Pasquale Binazzi. Malusardi, infatti, aveva citato
alcuni articoli filo intesisti apparsi sul giornale spezzino (uno dei pi
diffusi e autorevoli dellanarchismo italiano) come segno dellorientamento
tuttaltro che univoco degli anarchici in merito alla guerra europea. Binazzi fu
costretto a replicare che il condannare e disprezzare fatti odiosi compiuti
dagli aggressori austro- TURBOLENTE, Buffe denigrazioni. Lettera aperta al
direttore del giornale Il Cittadino di sal LAgitatore, La prima sortita
interventista di Malusardi apparve su LIniziativa del 12 settembre 1914 (i
articolo Anarchici per la guerra). Il 3 ottobre, sempre sulle pagine dellorgano
nazionale repubblicano, Malusardi si scagli contro Luigi Molinari, il quale,
sull Avanti! del 25 settembre, aveva definito bugiarda ed interessata
lopinione, diffusa soprattutto negli ambienti borghesi e democratici, che gli
anarchici italiani fossero per lo pi favorevoli all intervento. La polemica fra
i due si trascin per diversi giomi. Molinari aveva conosciuto Malusardi tre
anni prima, in occasione di una commemorazione di Francisco Ferrer avvenuta a
Lodi il 26 ottobre 1911. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi]. tedeschi contro
i serbi, i belgi e i francesi? era cosa assai diversa dal far attiva propaganda
per lintervento, con ci riaffermando lindirizzo indiscutibilmente anarchico del
suo giornale. In verit, la condotta de Il Libertario, improntata, rispetto a
quella di Volont e de L'Avvenire Anarchico, a una maggiore elasticit,
costituiva di per s la spia di un non trascurabile disagio. Non si pu negare,
infatti, che il foglio di Binazzi che, come si
visto, aveva pubblicato il primo articolo revisionista di Maria Rygier
concedesse ampio spazio ad enunciati e proposte che, agli occhi dellortodossia
anarchica, dovevano apparire quanto meno discutibili. Negli scritti di Tanini,
di Baldassarre e del socialista-anarchico Francia (collaboratori di lunga data
del giornale e figure non marginali dellanarchismo italiano) ci, scritti
ispirati ad un radicale filo-francesismo e intrisi di un odio altrettanto
violento per 1 Austria e la Germania, non si esitava a parlare di nuove orde di
Attila che mettevano a repentaglio la sopravvivenza stessa della civilt
occidentale; del terribile pericolo rappresentato dal pangermanesimo delirante,
negatore violento delle razze e del genio latini; di Francesco Giuseppe e
Guglielmo II come di due semi umani [...] avvinazzati, due bruti appestati di
grandezza imperialista e di delirio militare; e si evocava il tragico lievito
rosso della guerra, da cui sarebbe dovuta scaturire, sulle rovine delle antiche
tirannie, la palingenesi rivoluzionaria. Il fatto che, col passare del tempo,
queste posizioni si andassero mitigando*
che Binazzi (come anche ebbe modo di chiarire nel dibattito a distanza
con BINAZZI, Non equivochiamo, Il Libertario Tanini, in particolare, in virt
della sua costante attivit politica e propagandistica nonostante la giovane et (era del 1889),
godeva di molta considerazione. Costretto a riparare In Svizzera per sottrarsi
alle ricerche della polizia (da Losanna aveva regolarmente curato una rubrica
per Il Libertario), era rientrato in Italia alla vigilia della settimana rossa.
Cfr. ACS, CPC, Busta 5023 [Tanini Alighiero].
le citazioni sono tratte, nellordine, da: TANINI, La guerra dei titani,
Il Libertario, 20 agosto 1914, e La triplice alleanza morta per il bene del mondo,BALDASSARRE,
/mperialismo barbaro, Ivi; FRANCIA, l.'apocalisse storica, Ivi. Forse per non dar adito ad altre divisioni,
Alighiero Tanini e Marino Baldassarre chiarirono che la loro manifesta simpatia
per la Francia e per il Belgio non celava assolutamente il desiderio di vedere
lItalia in guerra a fianco delle Democrazie, e riaffermarono in pi di una
eircostanza la loro fede internazionalista. Tanini singegn anche a mostrare la
via per una soluzione pacifica della questione nazionale: fare di Trieste una
citt libera e del Trentino una provincia indipendente (si vedano, per quanto
riguarda Tanini, gli articoli // nostro pensiero pacifista, La fine del
teutonismo e Il nostro ideale pacifista, Il Libertario; e, per quel che attiene
a Baldassarre, l'articolo / tocchi dell'agonia). Malusardi) fosse personalmente
del tutto contrario al coinvolgimento degli anarchici nel nascente movimento
interventista rivoluzionario, non toglie che il suo giornale, si consideri o no
un segno di discutibile larghezza, rappresent, almeno sino alla fine del 1914,
una tribuna affatto secondaria di confronto, anche estremo, sui temi della guerra.
Fondamenti ideologici e riferimenti politici dellinterventismo anarchico
Patrimonio di tutti (o di quasi tutti) gli anarchici interventisti era - come
si gi pi volte accennato - leredit
dellindividualismo. Poich lindividualismo fu fenomeno complesso e
variegato, indispensabile cercare di
definire i contorni di questa comune matrice dellinterventismo anarchico e, pi
in generale, provare ad evidenziarne i tratti caratterizzanti. A tale
proposito, considerata la sua influenza,
il caso di soffermarsi ancora una volta sul pensiero di Massimo Rocca,
per il quale, nonostante liniziale infatuazione per Stirner, lindividualismo
non sidentificava - e non si era mai del tutto identificato - con lo
stirnerismo, quanto meno nella sua accezione pi diffusa, velleitaria e
amoralistica. Alla volgarizzazione di Stirner e alle sue conseguenti
degenerazioni metafisiche (di cui egli imputava la responsabilit a giornali
come Il Grido della Folla e che non riteneva meno dannose per lanarchismo
dellutopia comunista kropotkiniana) Rocca opponeva una valutazione storica e
sentimentale dello stirnerismo, che sostanzialmente non avrebbe mai abbandonato
e che costituir il substrato culturale dei suoi futuri approdi politici. AI
contrario di Tanini e Baldassarre, l'avvocato Francia (che era nato nel 1869 a
Minervino Murge, in provincia di Bari, e vantava una lunga militanza nelle file
dellestrema sinistra pugliese) non torn affatto sui propri passi. Smessa la
collaborazione con Il Libertario, si schier senza esitazioni per lintervento e
si arruol volontario nei reparti garibaldini impegnati sulle Argonne. Nel
dopoguerra ader al movimento fascista e prese parte, in rappresentanza dei
Fasci di combattimento pugliesi, al primo congresso nazionale fascista (cfr. Il
Popolo dItalia, 11 ottobre 1919). Rimasto fedele allidea socialista- anarchica,
si distacc dal fascismo non appena questo ebbe assunto una marcata coloritura
di destra. Pur senza mai assumere un atteggiamento di netta opposizione al
regime (anche in virt di un carattere eccentrico e incline alla misantropia,
che lo spingeva allisolamento) Francia visse il resto della sua vita sotto la
stretta sorveglianza dellautorit di Pubblica Sicurezza. Cfr. ACS, CPC, Busta
2155 [Francia]. CERRITO, L 'antimilitarismo anarchico nel primo ventennio del
secolo, cit., p.37. Sullatteggiamento de Il Libertario riguardo alla guerra
europea v. anche COSTANTINI, Gli anarchici in Liguria durante la prima guerra
mondiale, in Movimento operaio e socialista in Liguria, Egli aveva scritto di
Stirner ai tempi del NOVATORE non predica il delitto pel delitto, la forza
bruta per la forza bruta, ma le invoca perch nella Germania profondamente
statica ne rappresentavano lo sfasciamento. La sua potenza, il suo sacrilegio,
il suo egoismo hanno unintenzione, un significato, una portata non Individuale,
ma sociale [...]. Lindividuo di Stirner non
dunque lo scialbo calcolatore egoistico del giorno per giorno o dei
quattro soldi per truffare. E luomo che si erge di fronte al sole e al mondo,
pieno di tutta lumanit che il passato gli ha trasmesso, ma innalzato a questa
base di ereditariet, comune a tutti i suoi simili, dalla gigantesca statura
della sua personalit individuale Rocca sottolineava pertanto la grandezza
passionale della filosofia di Stirner, di cui intravedeva la forza trainante e
rivoluzionaria nellesaltazione del sentimento e dellistinto. Ammettere questo
significava riconoscere, accanto allindividuo, ogni entit collettiva, dalla
famiglia, alla classe, alla nazione, cementate e fondate da una comunanza sentimentale;
significava, in una parola, negare lastratto a favore del reale. Muovendo da
queste premesse, Rocca era approdato a quello che definiva liberismo
rivoluzionario o novatorismo, che era poi lindividualismo anarchico ampliato e
confrontato con la realt. Noi sono ancora sue parole affermiamo altamente
limportanza dellindividuo singolo, quale novatore, inventore e ribelle [...] Ma
comprendiamo pure le folle che rovesciano impetuose un ostacolo al progresso
dietro la spinta di una minoranza rivoluzionaria; comprendiamo la classe che si
materia soggettivamente dellavversit sorda verso la classe opprimente;
comprendiamo la nazione che si forma per lunga eredit storica e si afferma
contro lo straniero o contro lo stato suo Interno che la sfrutta e la trascina
alla vergogna. Comprendiamo insomma tutte le rivolte; comprendiamo tutte le
volont di affermazione e di dominio e le esaltiamo quando sono sorrette da una
fede sincera dentusiasmo che le innalza al di sopra del meschino determinismo
quotidiano. Per noi gli statisti che tiranneggiano in nome di un principio
confessato e francamente servito sono infinitamente pi nobili e
rivoluzionariamente pi fecondi dei Giolitti che inaugurano laccordo delle
classi corrompendole nella generale mangiatoia TANCREDI, Liberismo
rivoluzionario o individualismo democratico, Novatore, New York, Ivi Ivi,
"Ivi, A proposito dellindividualismo di Rocca si veda anche il lungo
articolo auto-apologetico, Una difesa postuma (agli ex amici della Vir), in
Quand-meme (un numero unico pubblicato a Parigi nel luglio del 1908 su
interessamento di Alfredo Consalvi), articolo nel quale Rocca difendeva la
propria interpretazione dello stirnerismo dallaccusa di morbosit Solo tenendo
presente questo punto di vista possibile
comprendere i presupposti teorici dellinterventismo di segno
anarchico-novatoriano (quanto meno nei suoi artefici pi consapevoli, come
Gigli) e le ragioni profonde della successiva adesione al fascismo di molti dei
suoi protagonisti. Quantunque il novatorismo fosse il tratto saliente
dellinterventismo anarchico, pure questultimo non pu non esser considerato
nellambito di quella vera e propria esperienza di sincretismo politico e
ideologico che fu linterventismo rivoluzionario. Mentre il riaffiorare delle
passioni risorgimentali e dellutopia garibaldina fece da ponte tra le forze
dellestrema sinistra sindacalista e anarchica ed il Partito Repubblicano, i
miti dellazione e della violenza rivoluzionaria, incarnati nel sorelismo,
rimandavano a un linguaggio e a una simbologia noti tanto ai sindacalisti
quanto ai discepoli di Massimo Rocca, Lo stesso individualismo, per la sua
carica eversiva e iconoclasta, servi da punto d'incontro fra gli anarchici
propugnatori della guerra e le correnti pi radicali della cultura italiana del
tempo, in primo luogo le avanguardie futuriste, che ebbero una parte non
trascurabile nella campagna interventista. mossagli dalla rivista fiorentina di
Giuseppe Monanni e Leda Rafanelli (cfr. Per l individualismo, Vir).
Fondamentali, per una testimonianza diretta a questo riguardo (prescindendo
dagli inevitabili accenti propagandistici e agiografici), le pagine dellallora
segretario del PRI Oliviero Zuccarini, Storia della vigilia. Il Partito
Repubblicano e la guerra d'Italia, Roma, Edizioni de LIniziativa, 1916. ? Circa
i legami fra il mondo anarchico italiano e le dottrine di Georges Sorel e, in
senso pi ampio, lideologia e la prassi politica sindacalista v. FURIOZZI,
Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Rimini, Maggioli, 1981.
Sul nesso tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, specie in relazione
alla nascita e allattivit dellUSI, v. anche lintroduzione di Maurizio Antonioli
a LEHNING, L'anarcosindacalismo. Scritti scelti, Pisa, BFS, 1994, pp. 11-27, e
EMiLIo DE FALCO, Armando Borghi e gli anarchici italiani, Urbino, QuattroVenti,
1992, p. ll ss. A partire dal numero del 15 agosto 1914, la rivista fiorentina
Lacerba, fondata lanno precedente da Giovanni Papini, assunse un contenuto
esclusivamente politico, dando un appoggio incondizionato alla propaganda per
lintervento. Nel quadro di un indirizzo sostanzialmente nazionalista, le pagine
di Lacerba non disdegnarono di accogliere posizioni di segno rivoluzionario.
Valga per tutti un articolo di Ardengo Soffici del primo settembre, Per la
guerra, nel quale lartista sposava la tesi della guerra rivoluzionaria e
tesseva lelogio di Herv. Sui rapporti tra anarchici e futuristi v. soprattutto
CIAMPI, Futuristi e anarchici. Quali rapporti? Dal primo manifesto alla prima
guerra mondiale e dintorni, Pistoia, Archivio famiglia Berneri, Le differenti
impostazioni ideologiche, cui per sottostava una molteplicit di riferimenti
culturali comuni, sintrecciavano dunque nella complessa trama dellinterventismo
rivoluzionario, del quale gli anarchici novatoriani andarono a costituire uno
degli elementi formanti. Guerra e Germinal (ovvero guerra e rivoluzione
sociale, guerra come mezzo per labbattimento violento del militarismo e delle
strutture politiche ed economiche borghesi), la meta additata da Ottavio Dinale
ai sovversivi italiani in unintervista a Il Resto del Carlino, divenne il tema
dominante della campagna interventista dei partiti estremi; e il mito della
guerra rivoluzionaria - come lo ha chiamato Renzo De Felice - s'impadron anche
dellinterventismo anarchico. Massimo Rocca firm il famoso appello ai lavoratori
italiani, lanciato a Milano, per la costituzione di un Fascio rivoluzionario
dazione internazionalista, punto dinizio di un movimento che, di l a pochi
mesi, avrebbe messo radici in tutta lItalia centro-settentrionale?. Da quel
L'intervista a Dinale (Ottavio Dinale dice guerra e germinal) si trova in Il
Resto del Carlino. La biografia politica di Dinale offre un esempio emblematico
del clima culturale nel quale prese forma e matur la corrente interventista
rivoluzionaria. Inizialmente socialista, organizzatore e agitatore sindacale
nella bassa modenese, Ottavio Dinale era stato tra i promotori del sindacalismo
rivoluzionario in Italia e fondatore del primo giornale ufficialmente
sindacalista, il settimanale La Lotta proletaria. Quattro anni pi tardi aveva
Iniziato la pubblicazione prima a Nizza, poi a Milano del periodico La
Demolizione, caratterizzato da unimpostazione marcatamente antilegalitaria e da
frequenti richiami sia all'individualismo stirneriano, sia al nascente
movimento futurista. Interventista, attivo collaboratore del mussoliniano Il
Popolo dItalia, nel dopoguerra sostenitore dellimpresa fiumana e candidato
repubblicano alle elezioni del 1921, Dinale si avvicin infine al fascismo,
diventando amico intimo (e poi persino biografo) di Mussolini. Nel 1928 fu
nominato Prefetto del Regno. Cfr. ANDREUCCI, DETTI, op. cit., Vol. II, ad
nomen, CIAMPI, op. cit., ad indicem.
"3 11 manifesto/appello del Fascio Rivoluzionario (sottoscritto, oltre che
da Massimo Rocca, da Decio Bacchi, Michele Bianchi, Ugo Clerici, Filippo
Corridoni, Amilcare De Ambris, Attilio Deffenu, Aurelio Galassi, Angelo
Oliviero Olivetti, Decio Papa, Cesare Rossi, Silvio Rossi, Sincero Rugarli) fu
edito in prima battuta da La Folla del 4 ottobre 1914, quindi, sei giorni dopo,
dal primo numero della nuova serie di Pagine Libere (la rivista quindicinale di
Olivetti, che si stampava a Lugano), contemporaneamente a un lungo articolo,
Inchiesta sulla guerra europea, contenente i pareri, tra gli altri, di Massimo
Rocca e di Maria Rygier. Sulla nascita, la diffusione e il significato politico
dei Fasci Rivoluzionari v. in particolare il classico VIGEZZI, L'Italia di
fronte alla prima guerra mondiale, Vol. 1, L'Italia neutrale, Milano-Napoli, Ricciardi,
1966, p. 860 ss., e FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 305 ss. Di
questultimo autore v. altres il breve saggio L 'interventismo rivoluzionario,
in Il trauma dell'intervento, Firenze Vallecchi, Infine, per una riflessione
sui primi giorni dellinterventismo rivoluzionario v. SERENI: alle origini
dellinterventismo rivoluzionario, in Ricerche Storiche, 1981, nn. 2-3, pp.
525-574. momento gli anarchici interventisti furono parte integrante dei Fasci,
collaborando attivamente ad essi e intensificando i rapporti con le testate
dellinterventismo rivoluzionario. Nondimeno, essi avrebbero sempre conservato
una loro specificit. Alla fine di ottobre Attilio Paolinelli, con Rocca, la
Rygier, Antonio Agresti e Torquato Malagola, pubblic La Sfida, giornale di
polemica anarchica, un numero unico che, se testimoniava dellorganicit del
manipolo anarcointerventista in grembo al neonato movimento dei Fasci, voleva
anche dar prova di una peculiarit ideologica rivendicata con fierezza e
destinata, pi tardi, a trovare eco nelle pagine de La Guerra Sociale*. Poco
dopo la nascita de Il Popolo dItalia, Paolinelli (che peraltro auspicava per il
nuovo giornale di Mussolini il ruolo di portavoce ufficiale dellinterventismo
rivoluzionario) scrisse al direttore dell'organo milanese di sentirsene, in un
certo qual modo, addirittura un precursore Il fiorentino Agresti (1864-1926),
incisore, anarchico vicino al sindacalismo rivoluzionario, collaboratore de La
Lupa di Paolo Orano, fu autore di uno dei pochissimi contributi di parte
anarcointerventista sul conflitto mondiale, il pamphlet Perch sono
interventista. Risposta allopuscolo La guerra europea e gli anarchici, Roma,
LAgave, 1917 (lopuscolo citato nel titolo era quello di Luigi Fabbri,
pubblicato a Torino per la Tipografica Editrice). Nel corso della campagna
interventista, come altri suoi compagni, a cominciare dalla Rygier, Agresti fin
per accostarsi al mazzinianesimo (esemplare, a questo proposito, una sua
lettera pubblicata da La Libert, organo del PRI ravennate). Nel dopoguerra, pur
mostrando simpatia per il fascismo, si ritir sostanzialmente dalla vita
politica. Da molti anni- annotava nel marzo del 1925 la Prefettura di Roma,
proponendone la radiazione dal registro dei sovversivi si allontanato dai compagni di fede e non
professa pi principi anarchici. E un valoroso pubblicista, redattore de La
Tribuna, uomo d'ordine. ACS, CPC, Busta 31 [Agresti Antonio]. 7 Il sarto
Torquato Malagola, di S.Alberto in provincia di Ravenna, era nato nel 1876.
Come Agresti, anchegli nel dopoguerra si allontan dallimpegno politico,
rompendo i ponti con lanarchismo. /bidem, Busta 2946 [Malagola Torquato]. 7 La
Sfida si apriva con una dichiarazione programmatica a .firma gli anarchici
indipendenti dItalia - e si componeva di cinque articoli (PAOLINELLI, Comunismo
e individualismo. Ideologie metafisiche e realt anarchiche; TANCREDI,
Dellanarchismo; AGRESTI, Oggi e domani; RYGIER, Per la civilt contro la
barbarie; MALAGOLA, Alle armi!), pi alcuni estratti da Lectres un francais sur la crise actuelle, un testo
di Bakunin del 1870 sulla guerra franco-prussiana (dal quale trasparivano le
simpatie del vecchio cospiratore per la patria dell Ottantanove), comunemente
citato dagli anarchici interventisti a sostegno delle loro posizioni
filo-intesiste. Per le reazioni in campo anarchico ufficiale alliniziativa di
Paolinelli v. Accettando La Sfida. Ritratto del grafomane pseudo-anarchico
Libero Tancredi, L Avvenire Anarchico, 12 novembre 1914, e BERTONI, Agli
sfidatori, Volont, 28 novembre 1914. ? Caro Mussolini scriveva Paolinelli noi
ci conosciamo: io mi ti presento a traverso un foglio La Sfida, del quale ti
mando alcune copie [...]. Il nostro numero unico di Roma, come vedi, precorre
il tuo bel quotidiano (Il Popolo dItalia, 19 novembre 1914). Inesorabilmente,
pi gli schieramenti si andavano definendo e pi laccanimento col quale il gruppo
degli anarchici interventisti reclamava il diritto alla qualifica anarchica
doveva destare scompiglio ed imbarazzo. La sera del primo novembre, al Teatro
Garibaldi del Testaccio, a Roma, ebbe luogo un comizio dei Fasci, cui presero
parte i redattori de La Sfida ed altri anarchici dissidenti. A proposito di
questi ultimi commentava quasi divertito un quotidiano liberale occorre notare
che essi sono invasati dallidea che la guerra si debba fare; il che desta
alquanta meraviglia e stupore. Le reazioni degli ambienti anarchici ufficiali
non si fecero attendere, mentre gi da tempo, nel fluire ininterrotto delle
questioni di principio e delle polemiche verbali, il movimento libertario si
trovava di fronte alla spinosa e assai pi concreta questione dei volontari.
Anarchici o garibaldini? ] Errico Malatesta, pur riconoscendo a Garibaldi e ai
patrioti del Risorgimento la nobilt dellispirazione e alla loro opera
disinteressata il merito di aver educato le future schiere rivoluzionarie allo
spirito di sacrificio, non nutriva per gran simpatia per il garibaldinismo.
Nella definizione del celebre capo anarchico, che pure da giovane, come quasi
tutti i protagonisti del primo internazionalismo italiano, aveva pagato il suo
tributo di affetti al mazzinianesimo, lo spirito garibaldino era la malattia
infantile dellestrema sinistra italiana, retaggio di unepoca lontana,
sentimento generoso ma sterile, tanto pi pernicioso in quanto distoglieva i
partiti popolari da quello che avrebbe dovuto essere il loro solo scopo, la
rivoluzione sociale. Certo che, come il
patrimonio storico e ideale del pensiero democratico risorgimentale continu ad
esercitare un forte ascendente anche sui pi 0 Un comizio al Testaccio in favore
della guerra. Gli anarchici vogliono diventare soldati, Il Giornale dItalia, 2
novembre 1914. Alla fine di novembre si costitu anche a Roma un Fascio
rivoluzionario dazione Internazionalista, che ebbe proprio in Attilio Paolinelli
e Torquato Malagola due dei pi attivi propugnatori (cfr. LInternazionale,
Ed.Naz., 28 novembre 1914). dal i ' Al riguardo v. Soprattutto TONIETTI,
Alienazione mentale o mistificazione, L'Avvenire Anarchico, 5 novembre 1914, e
la lettera di protesta del gruppo libertario romano Martiri di Chicago,
pubblicata dall Avanti! del 7 novembre. "? Per l'opinione di Malatesta su
Garibaldi e le forze della Democrazia risorgimentale se ne veda la prefazione a
NETTLAU, Bakunin e l'Internazionale in Italia, Ginevra, Il Risveglio, accesi
internazionalisti, che non di rado su di esso si erano formati, cos il
garibaldinismo costitu, almeno sino al giro di boa impresso dalla prima guerra
mondiale, lanima avventurosa, romantica e un po ingenua, del sovversivismo italiano.
Se ci non sorprende affatto per i repubblicani, i quali, nonostante la sempre
maggior attenzione posta alle questioni di politica sociale, non avevano mai
abbandonato le idealit mazziniane, non deve del pari sorprendere per quel che
riguarda il Partito Socialista, quanto meno in alcune sue correnti, quelle pi
vicine al socialismo delle origini. Allo stesso modo, sebbene gli anarchici
indulgessero assai meno alle suggestioni della camicia rossa, anche in seno al
movimento libertario sopravviveva, qua e l, un residuo di mentalit
risorgimentale, in cui - com stato scritto - libert dei singoli e libert dei
popoli si intrecciavano e si confondevano e in cui la pianta
dellinternazionalismo affondava le sue radici in un terreno impregnato pi del
volontarismo mazziniano che del determinismo del socialismo scientifico.
Lesempio pi noto e certamente pi suggestivo di questo modo di concepire
lanarchismo senz'altro quello di
Cipriani; ma egli era, in fin dei conti, un uomo daltri tempi, di quellepoca di
mezzo che aveva visto germogliare lidea internazionalista dal tronco del
mazzinianesimo, sotto il pungolo della predicazione di Bakunin'. Quel medesimo
clima ideale che aveva generato uomini come il romagnolo PCeccarelli, compagno
di Cafiero e Malatesta nella cosiddetta banda del ANTONIOLI, Gli anarchici
italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici interventisti Su
LInternazionale del 5 dicembre 1914, per la rubrica Lettere dalla Francia in
guerra - inaugurata il 21 novembre comparve un'intervista di Alceste De Ambris
ad Amilcare Cipriani. In essa, che ebbe larga risonanza in tutto il campo
dellinterventismo rivoluzionario (fu ripresa anche da Il Popolo dItalia),
Cipriani ribadiva le ragioni del proprio filo- intesismo. Commentando le
dichiarazioni di Cipriani, il sindacalista anarchico Boldrini tracci un acuto
profilo del vecchio rivoluzionario. Cipriani scrisse Boldrini luomo che sintetizza lavvenire, ma con
sistemi e con emotivit passate. Non siamo feticisti: Amilcare Cipriani dominato da quella psicologia da cui furono
dominati tutti i grandi uomini del risorgimento italiano; il suo socialismo
doggi, come il suo anarchismo del processo di Roma, infarcito di repubblicanesimo e la sua
rivoluzione sociale la rivoluzione
dellindipendenza italiana, che, con lidealit umana di Mazzini, fu prima del 70
come oggi, per gli uomini dazione repubblicana, la conquista per l'indipendenza
e per la libert di tutti i popoli oppressi, al di fuori dogni preconcetto,
sotto per qualunque forma di stato (BOLDRINI, A proposito di un'intervista di
De Ambris a Cipriani, L Avvenire Anarchico ibdiaibbici. Matese (di cui era
stato lideologo militare), un anarchico che aveva vestito la camicia rossa dei
Mille, combattendo a Bezzecca e a Digione. Ma qui pi che altro importante ricordare come
giovani volontari anarchici, senza legami diretti con il garibaldinismo delle
origini, non avevano esitato a seguire Cipriani sui campi di Grecia, nel 1897
(e allanarchico Filippo Troja, caduto a Zaverda durante quella campagna,
sarebbe stato persino intitolato un circolo libertario della capitale, proprio
comera nel costume e nella tradizione del martirologio repubblicano) , e poi di
nuovo, nnon ancora spentasi leco per le agitazioni antimilitariste contro la
guerra di Libia, a riprendere le armi contro i turchi! Sulla scelta di questi
giovani, accanto alle memorie risorgimentali, aveva pesato in modo determinante
la concezione (tipica, come si visto,
Sulla figura di Ceccarelli v. ANDREUCCI, DETTI, 0p. cit., Vol. II, ad nomen. In
merito alla sua importanza quale teorico militare dellanarchismo v. PERUTA,
Democrazia e socialismo nel risorgimento, Roma, Editori Riuniti, 1973, ad
indicem. Cfr. L Alleanza Libertaria, 27
luglio 1911. Per il rientro in Italia delle spoglie di Filippo Troja, alla fine
di agosto del 1912, i gruppi libertari romani, riuniti in un apposito comitato,
avevano addirittura organizzato solenni onoranze funebri. Il funerale
dellanarchico garibaldino era stato motivo di gravi incidenti fra gli anarchici
e gruppi di nazionalisti che manifestavano a favore della guerra libica. Il
racconto che di quellepisodio aveva dato LAgitatore di Bologna sintmatico del favore e del rispetto con i
quali, anche in taluni ambienti dellestrema sinistra libertaria, si guardava al
garibaldinismo. Cosa non pu aspettarsi aveva scritto lanonimo articolista de
L'Agitatore - il buon pubblico italiano in questo quarto dora di solenne e
malefica sbornia di fesso patriottardume poliziesco? Tutto. Anche
l'impossibile. Infatti si piglia qualunque pretesto [...] per inscenare della
manifestazioni nazionalistoidi [...]. La canaglia studentesca del nazionalismo
da vedova allegra pretende dimpossessarsi dei resti mortali dun nostro eroico
compagno, Filippo Troia, caduto gloriosamente a Zaverda, insieme ai suoi
commilitoni della leggendaria camicia rossa, per lindipendenza del popolo
ellenico oppresso dalla dominazione turca. Ma il generoso popolo di Roma [...]
non permesso una profanazione e
violazione mostruosa. Ha gridato alto e forte che i resti del cittadino romano,
cittadino del mondo, appartenevano al popolo, perch egli aveva combattuto, si
era volontariamente sacrificato, per la libert e l'indipendenza del popolo [ A
Zaverda, in Grecia, un idealista, un propugnatore dellidea anarchica, indossa
la rossa divisa dei liberatori di popoli oppressi, e cade colpito da una palla
[...] contento di aver fatto del suo meglio per donare la tanto desiata libert
a quel popolo torturato dalla barbarie turca. Quel giovane nato in Italia, a Roma. l'ornando le sue
ceneri nella terra di nascita, dei falsi patrioti [...] pretendono di servirsi
del ricordo terreno di chi per la libert mora, per dimostrare alla Turchia, da
loro oggi combattuta, che anche uno di quelli odiatori di guerre e di qualsiasi
forma di governo combatt contro di loro (SPARTACO, // caso Troja, LAgitatore).
N Le insegne rosso-nere dellanarchia si erano levate anche nella lontana Cuba,
per la guerra d'indipendenza cubana, cui aveva preso parte come volontario
lanarchico napoletano Oreste Ferrara. Cfr. TAMBURINI, L'indipendenza di Cuba
nella coscienza dell'estrema sinistra italiana, in Spagna Contemporanea,
PROPONI PORNIA dellanarchismo individualista) dellazione anarchica anzitutto
come ribellione istintiva: una concezione assai poco dogmatica ed anzi intrisa
di spontaneismo, che ben si sposava, per questa via, con lepica del
garibaldinismo. Pochi giorni dopo linizio della guerra, mentre prendevano corpo
i primi confusi progetti di una spedizione garibaldina in Francia e si
preparavano le infuocate polemiche dellautunno, sette giovani italiani,
raccolto lappello di Ricciotti Garibaldi a mobilitarsi per la Serbia, si erano
imbarcati alla volta della Grecia e avevano raggiunto il comando serbo di
Salonicco*. Erano repubblicani? Erano anarchici? comment un foglio repubblicano
qualche tempo dopo Non importa sapere: erano italiani e seguivano una
tradizione che gloria dItalia: quella
garibaldina*. Con loro, tutti militanti del PRI, si trovava in effetti anche
lanarchico Cesare Colizza, di Marino Laziale, un veterano della camicia rossa
(aveva preso parte come ufficiale alla seconda spedizione garibaldina in
Grecia, nel 1912, combattendo a Drisko). Cinque dei sette volontari, fra i
quali lo stesso Cesare Colizza, erano caduti nello scontro di Babina Glava,
presso Visegrad, il 20 agosto 1914. Era anarchico scrisse di Colizza lorgano
romano del PRI il suo ideale muoveva verso l universalit, ma la sua anima
ribelle sentiva la protesta contro ogni ingiustizia'. Molti anni dopo il
repubblicano Aldo Spallicci, che lo aveva avuto compagno a Drisko, ne avrebbe
tracciato un breve profilo ideale che merita di esser ricordato perch
rivelatore del modo dintendere lanarchismo cui si pi volte accennato. Il suo dio ricordava
Spallicci era Max Stirner e sulla sua opera, L'Unico e le sue propriet, aveva
fondato il suo credo. Essere in guerra contro tutto e contro tutti, in pace e
sul campo di battaglia, era la sua divisa. Contro le ingiustizie sociali come
contro le infamie nazionali. Contro il capitalismo sfruttatore, come contro il
L'appello di Ricciotti Garibaldi [si veda], incitante la giovent italiana a
prendere posizione di difesa e, in caso, di offesa, fu diffuso a mezzo stampa
dal giornalista ed ex garibaldino Ravasini. Lo si veda in Il Fascio
Repubblicano, 2 agosto 1914. Su tutta la vicenda v. MANNUCCI, Volontarismo
garibaldino in Serbia nel 1914: nel solco della prima guerra mondiale, Roma,
Associazione nazionale veterani e reduci garibaldini, [s.d.]. MENEGHETTI, La
Serbia bagnata dal sangue italiano, La Libert, 12 settembre 1914. Gli altri membri della spedizione erano Ugo
Colizza, fratello di Cesare, Nicola Goretti, Arturo Reali, Vincenzo Bucca,
Marino Corvisieri e Francesco Conforti. Nella sostanza, la loro fu uniniziativa
personale, priva di referenti politici veri e propri. Ricciotti Garibaldi,
infatti, dopo aver inizialmente accarezzato lidea di una spedizione di camicie
rosse in Serbia (e dopo aver preso contatti, a questo fine, con l'ambasciata
serba a Roma tramite Ravasini), gi il 9 agosto aveva diffuso una nota,
pubblicata da Il Fascio Repubblicano, con la quale sconsigliava apertamente
linvio di volontari. ! Eroi italiani caduti in Serbia, Il Fascio Repubblicano,
6 settembre 1914. turco che aggrediva la Grecia e, come nellultima sua trincea,
contro laustriaco che aggrediva la Serbia? La morte dei volontari italiani
aveva offerto il destro agli interventisti rivoluzionari per una delle loro
prime uscite pubbliche. Il 14 settembre i garibaldini caduti in Serbia erano
stati commemorati alla Casa del Popolo di Roma, in via Capo dAfrica, su
proposta della locale sezione del Partito Repubblicano. A quella celebrazione,
che fu la prima manifestazione di un certo rilievo dellinterventismo di
sinistra (anticipante, non solo sul piano simbolico e iconografico, ma anche su
quello pi strettamente politico, le assemblee dei Fasci rivoluzionari), avevano
preso parte anche alcuni anarchici, fra i quali Rygier e Paolinelli. E indice
ulteriore delle incertezze e delle ambiguit di quel momento il fatto che la
Rygier avesse il giorno innanzi presieduto a una riunione indetta dai gruppi
anarchici capitolini, conclusasi con la votazione di un ordine del giorno
nettamente contrario alliniziativa repubblicana, e che, ciononostante, ella
fosse convinta di poter avere con s la maggior parte del movimento. I miei
compagni aveva detto anzi nel suo applauditissimo discorso alla Casa del Popolo
saranno ove occorra, al fianco di quanti
soffrono e gemono sotto le percosse di secolari violenze. Lepisodio aveva
profondamente turbato lambiente anarchico della capitale, suscitando in
particolare la dura reazione di Ceccarelli, personalit di spicco dellanarchismo
romano, e la risposta non meno infuocata di Paolinelli. A Ceccarelli, che in
una lettera a Il Giornale dItalia aveva affermato essere ormai la Rygier
lontanissima dai suoi trascorsi anarchici e antimilitaristi, Paolinelli aveva
replicat, in questo modo: n MANNUCCI " Cfr. Azione Socialista, e Il Fascio
Repubblicano. I due soli superstiti della spedizione,Colizza e Reali, erano
rientrati in Italia da ochi giorni. Cfr. Il Corriere della Sera, 5 settembre
1914 e Il Lavoro, Il Giornale dItalia del 15 settembre e Il Fascio Repubblicano
del 20, nel riportare la cronaca della commemorazione, sostenevano essere
presenti anche i gruppi anarchici Arganti, Salucci e Martiri di Chicago. Cfr.
Volont, LIniziativa Ceccarelli era il fondatore del gruppo libertario Martiri
di Chicago, operante nel rione Esquilino, gruppo che alcuni giornali avevano
indicato tra gli aderenti alla commemorazione del 14 settembre " Polemiche
fra anarchici, Il Giornale dItalia, 17 settembre 1914. In quanto [...] alla
scomunica lanciata dal Ceccarelli pontificalmente contro l'atteggiamento di
Maria Rygier e nostro di fronte alla realt della guerra, si convinca il
Ceccarelli che la essa scomunica non ha valore maggiore di quelle che possono
lanciare i papi veri. Lanarchismo non
disciplinato, interpretato e letto da alcun dittatore, n il Ceccarelli
pu arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli anarchici, come se egli
fosse lunico depositario della verit e della coerenza? Se la spedizione in
Serbia di un pugno di giovani avventurosi aveva destato clamore e suscitato
accesi dibattiti, ancor pi ne sollev quella in Francia, ben pi consistente e
organizzata. Essa fu il definitivo canto del cigno della camicia rossa (che
peraltro non venne nemmeno utilizzata), ultimo bagliore di utopie ottocentesche
prima che la moderna guerra tecnologica e le mutate condizioni della lotta
politica facessero piazza pulita dogni residuo romanticismo. Gi ai primi
dagosto del 1914, mentre i figli di Ricciotti Garibaldi si ritrovavano a Parigi
per discutere sul da farsi, diversi, fra anarchici, sindacalisti, socialisti e
repubblicani [...] inclinavano a partire per la Francia, ad agire per loro
conto, o a riprendere senz'altro la camicia rossa, magari con organizzazioni
proprie', Dalla met di settembre, operanti in molte localit del centro nord dei
comitati di arruolamento repubblicani, erano cominciate le prime partenze di
volontari italiani per la Francia. L'indirizzo allimpresa, tanto sul piano
militare quanto su quello politico vero e proprio, era dato dal Partito
Repubblicano, il quale, sopravvalutando l'appoggio inizialmente ricevuto dalle
autorit francesi, mirava ad organizzare una spedizione per la liberazione di
Trento e Trieste, nonch a strappare liniziativa dalle mani della diplomazia
sabauda, cos accelerando la formazione di un vasto moto insurrezionale
allinterno del Paese e la caduta della monarchia'. Allintransigenza dei
dirigenti repubblicani (soprattutto di Eugenio Chiesa, il pi risoluto
sostenitore della spedizione adriatica, mentre il segretario del partito
Oliviero Zuccarini si sarebbe dimostrato pi possibilista) ', avrebbe fatto da
contraltare la disinvolta malleabilit di Peppino Garibaldi, il maggiore dei figli
di Ricciotti, al quale, non senza perpiessit (legate pi che altro alle ambiguit
ideologiche del personaggio), in molti riconoscevano il diritto a comandare la
spedizione. Peppino VIGEZZI, A questo riguardo v. ZUCCARINI, Storia della
vigilia, cit. 12 Per quanto attiene al ruolo e alla centralit del PRI nelle
vicende descritte v. anche CAPRARIIS, Partiti ed opinione pubblica durante la
Grande Guerra, in Atti del XLI Congresso di storia del Risorgimento Italiano,
Roma, Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, 1965, p. 86 ss.
Garibaldi, di fronte alle resistenze opposte dal governo francese alla
costituzione di un corpo franco di camicie rosse, aveva finito per accettare il
semplice inquadramento dei volontari italiani nella Legione Straniera. Era dunque
nata la Legione Italiana, composta di tre battaglioni, con sede a Montlimar e a
Nimes (poi ricongiuntisi al campo di Mailly allinizio di novembre), mentre una
compagnia Mazzini, di netto orientamento repubblicano, costituitasi a Nizza ai
primi di settembre e forte di trecento uomini, era stata sciolta gi il 14
ottobre dietro una precisa disposizione del Comitato Centrale del PRI". La
maggior parte dei suoi membri aveva fatto ritorno in Italia; altri, come
Massimo Rocca (che aveva raggiunto la compagnia il giorno stesso del suo
scioglimento) 104. si erano aggregati alla Legione Italiana di Peppino
Garibaldi, in tempo per aver parte ai sanguinosi combattimenti delle Argonne
nel dicembre-gennaio. Oltre a Rocca (che, a quanto risulta dalla carte di
Zuccarini, fu tra coloro che pi si adoperarono perch la Legione fosse inviata
al fronte) !%, facevano parte di quel corpo di volontari altri anarchici, fra i
quali sono certi il veneto Gino Coletti, autore fra laltro di una breve storia
della spedizione", i romagnoli Agostino Masetti, di Ravenna!, Pezzi Su
tutti questi punti v. VIGEZZI La fine della compagnia Mazzini non signific
solamente il tramonto del progetto politico repubblicano, ma fu, in un certo
senso, la. dimostrazione dellimpossibilit, per l'interventismo rivoluzionario,
di costituire un movimento davvero autonomo, in grado dinfluire in modo
determinante sulle scelte del Governo. Mario Gioda, in un commento
all'episodio, sostenne che, essendo venuti a mancare i presupposti per i quali
molti sovversivi erano partiti volontari, quelli di loro che avevano scelto di
rientrare in Italia avevano agito correttamente (cfr. GioDA, A proposito del
battaglione Mazzini, La Folla). 104 |a data del 14 ottobre sicura. A quel giorno, infatti, risale una
nota (sottoscritta anche da Libero Tancredi) con la quale i volontari raccolti
a Nizza, preso atto della comunicazione ufficiale del PRI, dichiaravano sciolta
la compagnia. Cfr. ARCHIVIO DELLA DOMUS MAZZINIANA DI Pisa (dora innanzi ADM),
Fondo Zuccarini, FI e 3/18. 08 La Legione Italiana lasci il campo di Mailly
solo il 17 dicembre, dopo un lungo temporeggiamento, dovuto ai molti contrasti
che dividevano il Comando francese da Peppino Garibaldi e questultimo dalla
dirigenza repubblicana. Zuccarini riferiva di aver raggiunto un accordo con gli
uomini a lui pi vicini (fra i quali citava Libero Tancredi) per partire al
fonte da soli, qualora lordine di partenza non fosse giunto per la fine
dellanno, V. ZUCCARINI, La missione a Parigi, i Garibaldi e il corpo volontari,
ADM, Fondo Zuccarini, FI e 1/3. + 10 Si
tratta di Peppino Garibaldi e la Legione Garibaldina, Bologna, Stabilimento
Poligrafico Emiliano, 1915. Sulla figura di Gino Coletti (che nel dopoguerra
assurse a breve fama come segretario dellAssociazione Nazionale fra gli Arditi
dItalia) ci permettiamo di rimandare a LUPARINI, Gli anarchici interventisti e
il fascismo. Il caso di Gino Coletti in una lettera a Mussolini, in Nuova
Storia Contemporanea, e Panzavolta, di Faenza (ma entrambi da tempo residenti a
Parigi) e un certo Perati, descritto
proprio da Coletti come anarchico romagnolo profugo della settimana rossa, che
perde la vita nello scontro delle Argonne. A tal episodio partecip anche Rocca,
che pare vi rimanesse ferito. Di sicuro egli si trovava ricoverato in un ospedale
francese quando La Folla pubblica un suo articolo presentandolo quale eminente
anarchico disilluso, andato in Francia coi garibaldini [...], ora in un
ospedale Cfr. Il Resto del Carlino, 16 ottobre 1914 (recante una lettera di
Masetti dalla Francia, nella quale lanarchico romagnolo si lamentava del
trattamento al quale i volontari italiani erano sottoposti dalle autorit
militari francesi e, in particolare, del fatto che la Legione Italiana fosse
stata inquadrata nella Legione Straniera). Masetti era nato a Ravenna. Tra i
rappresentanti pi in vista dellanarchismo ravennate dinizio secolo,
collaboratore assiduo de LAgitatore, amico di Fabbri, di Zavattero e di Borghi,
Masetti, gi prima della guerra, aveva avuto motivi di forte attrito con i suoi
compagni di fede politica. Allepoca dellaspro conflitto per il possesso delle
macchine trebbiatrici, che aveva a lungo insanguinato la Romagna mettendo gli
uni contro gli altri lavoratori socialisti e lavoratori repubblicani (i rossi e
i gialli, secondo la terminologia del tempo), Masetti, pur parteggiando per la
causa dei primi, era stato contrario a un impegno diretto degli anarchici in
quella lotta, temendo che ci potesse significare la compromissione
dellanarchismo con il riformismo socialista, che egli detestava. Il dissenso
con gli anarchici ravennati (alimentato dalle simpatie di Masetti per certo
repubblicanesimo intransigente) si era spinto fino a indurre Masetti a
dichiarare di non aver pi nulla in comune con loro (LAgitatore 21 agosto 1910).
In realt, la separazione era stata di breve durata e Masetti era rientrato a
pieno titolo nel movimento. Direttamente coinvolto nei tumulti della settimana
rossa, e accusato di omicidio, Masetti si era rifugiato a Marsiglia, ospite di
Domenico Zavattero. Terminata lesperienza nella Legione Italiana, pot far
ritorno a Ravenna, dove fu tra i promotori del locale Fascio rivoluzionario
dazione internazionalista (cfr. La Libert, Ravenna). Richiamato alle armi,
cadde in battaglia. Cfr. ACS, CPC, Busta 3125 [Masetti]. 8 Cfr. Il Popolo
dItalia, 12 febbraio 1915. Panzavolta e Pezzi militavano da anni nel movimento
anarchico, allinterno del quale godevano di buona fama. Agostino Panzavolta era
nato a Faenza. Era espatriato in Francia, da dove non avrebbe pi fatto ritorno
e dove, almeno sino allinizio del conflitto mondiale, aveva mantenuto i
contatti con gli ambienti anarchici romagnoli. Tenuto costantemente sotto
controllo dalle autorit di Pubblica Sicurezza, nonostante avesse, dopo la
guerra, progressivamente abbandonato limpegno politico dietro sua esplicita
istanza fu cancellato dal registro dei sovversivi, per avere, fra le altre
cose, dimostrato buoni sentimenti patriottici. ACS, CPC, Busta [Panzavolta].
Domenico Pezzi, al contrario del vecchio compagno, non avrebbe mai rinnegato le
proprie origini, segnalandosi anzi per limpegno antifascista, sia pur modesto.
Dalle informazioni della polizia doveva risultare iscritto alla loggia
massonica Italia (nota come focolaio di opposizione al regime), sostenitore
della Concentrazione antifascista nonch regolarmente abbonato a Giustizia e
Libert. Cfr. /bidem, Busta [Pezzi Domenico]. Cfr. LInternazionale, 27 gennaio
1915. !! Cfr. LIniziativa, gravemente ferito. Intorno a questa vicenda si
scatenarono in realt le ipotese e le illazioni pi svariate. Lepisodio aveva
invero del misterioso, se le stesse autorit - come sembra - non erano in grado
di far piena luce sull'accaduto. Il 5 febbraio 1915, in una nota indirizzata
alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero degli Interni, la
Regia Ambasciata dItalia a Parigi segnalava Rocca tra i feriti nei
combattimenti delle Argonne, salvo comunicare, dieci giorni dopo, che egli si
trovava ricoverato perch ammalato di febbri!!?. Il nuovo caso legato al nome di
Massimo Rocca trov eco sulle pagine della stampa anarchica italiana. Ancora a
distanza di due mesi dallepisodio, scrivendo sotto pseudonimo (Dyali) per la
milanese La Libert, la nota scrittrice e propagandista libertaria Leda
Rafanelli neg che Rocca fosse stato ferito in battaglia e afferm trovarsi egli
in ospedale vittima di una angina pectoris, non avendo preso parte ad alcuno
scontro ed essendosi limitato a prestare servizio nella Croce Rossa. Libero
Tancredi ironizza Dyali fino a oggi ha portato alla Francia un aiuto un po discutibile:
ha occupato un letto che poteva servire a un ferito di guerra; a un
francese!!?. A Leda Rafanelli, prima ancora del diretto interessato, replic
Edoardo Malusardi sul foglio anarcointerventista La Guerra Sociale, sostenendo
che, se effettivamente Rocca si trovava ricoverato per lacuirsi di una malattia
respiratoria che da tempo lo tormentava, pure egli aveva combattuto negli
scontri, restando ferito a una mano. Fu lo stesso Rocca, in una lettera da
Parigi, a chiarire definitivamente la questione. Egli racconta - ammalato
realmente di angina pectoris, cui in Francia si era aggiunta una stupidissima
bronchite, era stato ricoverato per motivi di ll L'articolo, intitolato La
rejetta, unaccorata difesa di Maria Rygier, sort come effetto di far nascere
nuove discussioni. In risposta alle parole di Rocca, Ceccarelli serisse fra
l'altro: Costoro [gli individualisti] hanno arrecato danno al nostro movimento
pi di quanto non gliene abbiano fatto tutte le polizie del mondo messe insieme
(CRCCARELLI, 4/ garibaldino ferito in Francia, La Folla, 31 gennaio 1915). !!?
ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca Massimo]. !!! La Libert, Milano. Il La Guerra
Sociale. Il trafiletto di Malusardi era firmato con uno pseudonimo (Emme). ] La
polemica tra Malusardi e la Rafanelli aveva avuto un prologo qualche tempo
prima, rincora a proposito di Massimo Rocca e del suo ruolo nella campagna per
la guerra. Ad un intervento della Rafanelli sul giornale milanese Il Ribelle,
nel quale lautrice aveva riconosciuto la figura morale di Rocca, il babau dei
pontificanti dellanarchismo, sostenendo per essersi egli, merc il suo acceso
interventismo, del tutto isolato dal resto del movimento anarchico, Malusardi
aveva replicato con sdegno, rivendicando al compagno e quindi a s stesso e a
tutti gli altri anarchici interventisti il diritto a dirsi anarchico (cfr.
EipoARDO MALUSARDI, Per la verit, LIniziativa). MA A A Ai salute il 9 gennaio.
Non era dunque mai stato ferito sul campo, ma aveva nondimeno preso parte ai
primi tre combattimenti sulle Argonne ed era anzi stato proposto per il grado
di sergente'!. La lettera di Rocca precedette di poco il suo rientro in Italia,
a Milano, il 18 marzo 1915"!9, Durante il soggiorno nella clinica militare
di Guyon, Rocca aveva inviato a Il Resto del Carlino una lunga corrispondenza.
In essa, prendendo a pretesto la propria esperienza come volontario
garibaldino, era giunto, in mezzo a reminiscenze ed abusate affermazioni di
sapore libico (per le quali il garibaldinismo era lespressione pi genuina e pi
profonda del rinascente imperialismo italiano e questultimo altro non era che
lesuberanza delle forze vitali) !!, ad evocare una sorta di sovversivismo
nazionale permanente e, per cos dire, istituzionalizzato, di cui vedeva il
modello proprio nel garibaldinismo e che avrebbe dovuto costituire, perfetta
combinazione tra libert del singolo ed esigenze nazionali, lo spirito di una
nuova Italia. Il fenomeno garibaldino aveva scritto, in questo modo definendo
le coordinate del proprio anarco-nazionalismo
un egoismo intimo, perch lungi dimporsi collettivamente dalla nazione
allindividuo, trova lorigine e la spinta nellindividuo singolo che sente, da
solo, tutta la propria nazione!" E ancora: Io sogno ed io scorgo una nuova
Italia [...]; una pi grande e consapevole Italia garibaldina, ove la sintesi
squisitamente italiana del pensiero e dellazione, della disciplina e della
libert, raggiunga la sua massima espressione di forza nella nazione interamente
padrona desuoi destini [...], nellindividuo eternamente libero, pur nei limiti
della compresa e voluta, perch necessaria, disciplina Una rettifica di
Tancredi, La Guerra Sociale, Fatto rientro a Milano, dove come si affrettava a
comunicare la Prefettura era convenientemente vigilato, Rocca riprese subito la
sua propaganda interventista. Il 30 marzo era alle scuole comunali di via Circo
per una conferenza sul tema Classe e nazione. ACS, CPC, Busta [Rocca].
TANCREDI, L'imperialismo garibaldino, Il Resto del Carlino. In questo stesso
periodo la rinnovata collaborazione con il quotidiano di Filippo Naldi frutt a
Rocca altri tre articoli, dedicati a questioni di politica internazionale. Il
rapporto fra Rocca e Il'Resto del Carlino si nutriva evidentemente di stima
reciproca. Poco tempo prima della pubblicazione di detti articoli, lautorevole
quotidiano bolognese aveva favorevolmente recensito lultimo libro di Rocca,
Dopo Tripoli e la guerra balcanica: appunti storici per Sono parole,
quest'ultime, nelle quali si pu ragionevolmente cogliere unanticipazione delle
future battaglie revisioniste condotte dal Rocca in seno al fascismo. Le
vicende dei volontari italiani caduti in Francia ebbero larga eco in patria,
destando anche a sinistra unondata di commozione (non si deve dimenticare che
sulle Argonne persero la vita Bruno e Sante Garibaldi, nomi ancora in grado di
risvegliare palpiti di entusiasmo nazionale). Cos, un foglio anarchico di
Senigallia che si definiva giornale razionalista indirizzava ai volontari
italiani caduti nelle Argonne per un Ideale di Libert, il saluto di tutti i
militi di unIdea', mentre il segretario della Camera del Lavoro di Carrara
Alberto Meschi, dindiscusso credo neutralista, pur non approvando le idee
guerraiole di parecchi suoi amici e compagni, non si sentiva per questo di
ritenerli dei rinnegati e dei venduti, e si augurava comunque la sconfitta
degli Imperi Centrali, causa di tanti mali e di tanto danno!?!. Persino Volont,
nel momento in cui ribadiva la propria totale avversione alla guerra, non pot
evitare di esprimere simpatia e financo ammirazione sincera per quei sovversivi,
pure anarchici, andati a morire sui campi di Francia'. Sono esempi importanti,
che attestano di un malessere vero, a riprova che spesso, anche tra gli
anarchici pi intransigenti, le posizioni erano ben pi sfumate e problematiche
di quanto gi allora si volesse far credere. La conquista di uno spazio politico
Quando si esuli dai casi pi noti, la diffusione delle idee e degli argomenti
interventisti in seno al movimento anarchico, per le caratteristiche stesse di
fissarne le responsabilit (Lugano, Rinascimento, 1914), lodandone i caratteri
di originalit e di onest intellettuale (cfr. VALORI, Un volume di Libero
Tancredi sulle due guerre della vigilia, Il Resto del Carlino). Il Resto del
Carlino occup un posto di primo piano tanto nella direzione della campagna per
lintervento, quanto nel dibattito politico del dopoguerra, seguendo con
interesse il processo di ridefinizione in senso nazionale dell'estrema sinistra
interventista (a cominciare dal caso Mussolini). A tale riguardo (in merito,
soprattutto, al ruolo di Naldi) v. MALATESTA, Il Resto del Carlino: potere
politico ed economico a Bologn, Milano, Guanda. Il Solco, 17 gennaio 1915. Il
Solco era diretto da Ottorino Manni. !:! MESCHI, Contro la guerra, Il Cavatore,
Il Cavatore era lorgano della USI carrarese. 12 Ancora dei volontari e la
guerra, Volont quella corrente politica, in genere refrattaria a precise regole
dinquadramento e di organizzazione,
difficilmente quantificabile. Un aiuto ci viene senz'altro dalle pagine
dei giornali"? e soprattutto dalla rubrica Adesioni de Il Popolo dItalia,
che ci offre uno spaccato significativo delle divisioni in atto nel campo
libertario. In appena dieci giorni il nuovo organo socialista mussoliniano, che
aveva iniziato le pubblicazioni il 10 novembre del 1914, riportava le adesioni
di quattordici anarchici!, svelando una realt altrimenti destinata alloblio e
aprendo uno scorcio su alcune realt locali particolarmente interessanti!. A
titolo di esempio si considerino i casi degli anarchici interventisti toscani Duilio
Lotti, di Fucecchio, al centro di unaccesa polemica con il gruppo libertario di
Santa Croce sull Arno (cfr. Ad un emerito girella, L Avvenire Anarchico), e
Baronti, di Firenze. In una lettera a un foglio liberale fiorentino, Baronti si
dissoci peraltro dallanarchismo, dichiarandosi di idee nazionaliste (Una
lettera significante, L Alfiere). Lindividualista Baronti, un violento con
numerosi precedenti penali (e senza alcuna influenza nel partito, secondo
quanto scriveva di lui la Questura fiorentina) si fa strada nel fascismo.
Siscrisse al Fascio di combattimento di Bettolle, in provincia di Siena, dove
si era trasferito alla fine della guerra, divenendo capo squadra della
milizia. addirittura chiamato alla
segreteria dei sindacati fascisti di Sinalunga e lanno successivo, descritto
ormai nelle carte della Pubblica Sicurezza come un puro fascista, venne radiato
dal registro dei sovversivi. ACS, CPC, Busta [Baronti]. Nellordine: Pietro
Battaglino, anarchico liberista milanese (19 novembre); Bernardo Pieraccini,
anarchico individualista di Genova; Navacchio, operaio anarchico individualista
di Pisa; Far e Franceschelli anarchici novatori di Milano (24 novembre); Pietro
Rossi, Balilla Petrocchi, Alessandro Clelotti, Lorenzo e Torquato Pasquinelli,
Amerigo Lodenzetti e Monaci, tutti piombinesi (25 novembre); Ferrari, anarchico
non fossilizzato milanese; Facchini, del gruppo anarchico bresciano.
Sfortunatamente, con leccezione di Battaglino, la sommaria testimonianza de Il
Popolo dItalia tutto ci che ci stato tramandato di questi uomini.
Battaglino, nato a Novara, di professione venditore ambulante, aveva
collaborato a La Protesta Umana. Operoso nel campo dellorganizzazione sindacale
aveva dato vita a una lega di miglioramento fra venditori ambulanti, aderente
alla Camera del Lavoro di Milano, e nera stato eletto segretario. Nel
dopoguerra Battaglino fu tra i primi ad iscriversi al Fascio di combattimento
milanese, dal quale venne tuttavia espulso nel 1923. Cfr. ACS, CPC, Busta 407
[Battaglino]. 125 E? il caso di Piombino, citt a forte presenza operaia, dove
lo scontro a sinistra tra neutralisti e interventisti fu molto acceso. Del
gruppo di anarcointerventisti piombinesi citati da Il Popolo dItalia il pi
conosciuto era senzaltro Edoardo Monaci. Nativo di Castel del Piano in
provincia di Grosseto, era stato membro del gruppo giovanile anarchico LAlba
dei liberi e si era guadagnato una certa notoriet grazie allintensa
partecipazione agli imponenti scioperi siderurgici del 1910-1911. Fu quindi tra
gli iniziatori del fascismo piombinese, ma venne allontanato dal Fascio nel
marzo del 1923 perch iscritto alla massoneria. Cfr. ACS, CPC, Busta [Monaci].
Che le dimensioni e i termini del fenomeno e delle controversie ad esso legate
fossero niente affatto marginali (pur non potendosi certo sostenere; come fece
ad esempio lorgano del partito Social Riformista con chiaro intento
provocatore, che la maggior parte degli anarchici italiani fosse per
lintervento) lo dimostrano anche il rinfocolarsi delle polemiche e il fatto che
i nomi pi autorevoli dellanarchismo italiano sentissero la necessit
dintervenire personalmente nel dibattito. In particolare, prima con una
vibrante lettera pubblicata su un numero unico dei sindacalisti parmensi!, poi
con una serie di articoli su Volont, Luigi Fabbri dovette ribadire le
motivazioni ideali e politiche dellopposizione anarchica al conflitto in corso,
contestando una ad una le affermazioni degli anarcointerventisti, ai quali di
volta in volta si rivolgeva, con allarmata puntigliosit'?8. Il protrarsi
ininterrotto dello scontro tra fautori e detrattori dellintervento,
laccanimento della lotta, non di rado alimentata da amarezze e da rancori
personali, contribuivano del resto a tener alta la tensione!?. E in questo 10
Egli [I Avanti!] scrisse Azione Socialista- ci accusa di malafede perch abbiamo
contato gli anarchici e i sindacalisti tra gli antineutralisti e porta in campo
il deliberato dellUnione Sindacale. La met pi uno! E questa la norma
valutatrice di questi rivoluzionari dellet della pietra! Noi invece, con buona
pace dellorgano milanese, crediamo di non commettere un falso annoverando tra i
nostri vicini in questo momento i sindacalisti e gli anarchici; quando tali si
vogliono considerare quasi tutti coloro che rappresentano un pensiero e che a
queste correnti didee danno importanza nella vita nazionale. ; 127 Si tratta di Contro la guerra!, edito a
Parma il 6 febbraio 1915 a cura di un gruppo di sindacalisti, in aperta
contrapposizione alla linea politica di De Ambris. 28 Si veda in particolare
larticolo in cinque parti Le idee anarchiche e la guerra (Volont). Gli scritti
di Fabbri, pubblicati in contemporanea con luscita de La Guerra Sociale, furono
bersaglio di molte e appassionate repliche da parte della redazione del nuovo
giornale anarcointerventista (nellordine: RYGIER, Coerenza verbale o azione
liberatrice, La Guerra Sociale; POLEDRELLI, A guisa di risposta, Ivi; MARIO
Giona, Contro una stupida speculazione; GIGLI, Anarchismo: concezione storica e
concezione razionale, Ibidem, 20 marzo 1915, e Nella vita e nella teoria,
Ibidem, 10 aprile 1915; MARIA RYGIER, Le idee anarchiche e la guerra, Ivi;
TANCREDI, Chiusura: per finire con Luigi Fabbri, Ivi, e Per finire con Don
Abbondio e c.,). ubi, Circa la posizione di Fabbri v. altres ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Il diario di Fabbri, in Rivista
Storica dell Anarchismo, Un ulteriore motivo di contrasto fra le opposte
tendenze scatur dalla diffusione di un manifesto anarchico contro la guerra,
redatto da Libero Merlino, nel quale si affermava: Che ben vengano i tedeschi
in Italia. O essi sono pi civili di noi e che vengano a portarci questa civilt,
o sono pi barbari e che vengano a civilizzarsi. Mario Gioda lo defin un
documento clima e su questo sfondo di passioni che devessere inquadrata la
violenta aggressione subita da Oberdan Gigli il 24 gennaio 1915 a Massa
Finalese, una frazione di Finale Emilia, nella provincia di Modena, dove
lanarchico genovese risiedeva ormai da undici anni e dove era conosciutissimo,
per avere tra laltro a lungo diretto la locale Camera del Lavoro! Il fatto,
condannato dalla redazione di Volont!!, fu invece accolto con soddisfazione sia
da Il Libertario, che anzi deplorava il buon cuore del foglio anconetano",
sia da L'Avvenire Anarchico, che laconicamente commentava: Di fronte a tanto
strazio di vite non ci debbono essere rispetti umani, Nel frattempo il processo
di organizzazione dellinterventismo rivoluzionario e della sua frazione
anarchica non aveva subito rallentamenti. Si era riunito a Milano il primo
convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari dazione internazionalista, al ipa
avevano preso parte, applauditi protagonisti, la Rygier e Paolinelli. L'impegno
penoso, esortando gli anarchici pi consapevoli - fra i quali annoverava lo stesso
Luigi Fabbri, che infatti non aveva esitato a manifestare le proprie perplessit
al riguardo - a non farsene complici con un ancor pi penosissimo silenzio
(GIODA, Ben vengano?, Il Popolo dItalia. Per la cronaca degli avvenimenti v.
Oberdan Gigli ferito da neutralisti, Il Popolo dItalia, e Argomenti
neutralisti, LInternazionale. Il giornale di Mussolini pubblica una lettera
aperta di Gigli al deputato socialista Gregorio Agnini, nel cui collegio
elettorale si era verificata laggressione. In tale missiva, scritta allindomani
dellinfelice episodio, Gigli contestava ai suoi assalitori, in maggioranza
operai, il diritto a chiamarsi socialisti. In questa folla feroce scriveva non
vi pi, se mai v stata, lanima
socialista. In conseguenza di questi fatti la maggioranza socialista al
Consiglio Comunale della piccola cittadina emiliana fu indotta alle dimissioni
(cfr. Crisi comunale a Finale Emilia per una conferenza intervenzionista, Il
Resto del Carlino). Cfr. Volont Alla riprovazione per la manifestazione
dintolleranza da parte degli irruenti neutralisti finalesi, Volont aggiunse
comunque un commento significativo. Oberdan Gigli sostenne lorgano anconetano
che persona di cuore e ragionevole deve
pure rendersi conto dei moventi pi intimi del fatto lamentato. Pensi egli
allimpressione che deve fare nelle anime primitive e nelle menti incolte questo
fenomeno, di vedere proprio uno che fino a ieri consideravano loro amico,
patrocinatore dei loro interessi, avversario del militarismo e della guerra,
esaltatore della massima libert individuale, cambiare di un tratto
atteggiamento e mettersi a fare una propaganda che, se ascoltato, avr per
risultato labdicazione dogni libert individuale nelle mani dello stato, la
guerra e la chiamata sotto le armi per forza di tanta parte di operai. 12 LUoMO
CHE RIDE, Tenerezze fuori posto, Il Libertario, CHELOTTI, Giuste
argomentazioni, L Avvenire Anarchico, A questo riguardo v. FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, cit., pp. 305-306. Per il resoconto del congresso si vedano
principalmente Il Popolo dItalia e LInternazionale del 30 (ma anche gli
articoli di Azione Socialista e de LIdea degli anarchici nella campagna a
sostegno dellintervento italiano trov la definitiva consacrazione circa un mese
dopo, con la pubblicazione de La Guerra Sociale. Il primo numero del nuovo
settimanale anarchico interventista usc il 20 febbraio". Il nome rimandava
esplicitamente a La Guerre Sociale, il noto foglio antimilitarista di Gustave
Herv, mentre il motto, rubato a Giuseppe Garibaldi (E inutile sperar alustizia
se non dall'anima di una carabina), testimoniava una volta di pi della
commistione, in seno allinterventismo anarchico, di elementi eterogenei, tratti
tanto dalla tradizione libertaria quanto da quella democratica e
risorgimentale. Il compito nostro recitava larticolo di fondo della
redazione ben preciso: rivendicare cio
ad alta voce il nostro diritto di cittadinanza nel campo anarchico che i
teologhi dellanarchismo, in nome di non sappiamo quale sacro comandamento ci
vogliono negare; prepararci ad incitare allazione la parte migliore degli
anarchici dItalia: quegli anarchici cio che non sono infarciti di femmineo
sentimentalismo, ma che bens son convinti che lumanit non pu camminare verso la
civilt se non attraverso a lotte aspre e sanguinose. La Guerra Sociale dunque
sar anarchica, prettamente anarchica" In prima pagina, Gigli riassumeva a
titolo programmatico i fondamenti ideali e le giustificazioni storiche e
politiche dellanarcointer- ventismo. Nazionale, organo ufficiale
dellAssociazione Nazionalista). Si ricordi che, quasi contemporaneamente
allassise degli interventisti rivoluzionari nel capoluogo lombardo, si era
riunito il congresso nazionale anarchico di Pisa. Il Popolo dItalia del 10
febbraio 1915 forn la cronaca di una riunione degli anarchici interventisti
milanesi, avvenuta la sera prima al circolo repubblicano Cattaneo di via Sala
(che era sede del Fascio). Nel corso di quellincontro era stata decisa la
pubblicazione di un giornale di segno anarcointerventista, che, oltre che
propugnare le tesi dellintervento dal punto di vista anarchico, proponesse
anche di iniziare una sana ed audace discussione d'idee nel campo stesso, onde
salvarlo dallondata di ridicolo in cui l'avevano trascinato i pontificanti
dellanarchismo ufficiale. NES Rui Herv era stato il simbolo stesso
dellantimilitarismo e dell'antipatriottismo. Per anni, sulle pagine del La
Guerre Sociale, aveva condotto una feroce battaglia contro le istituzioni
militari. E singolare che gli anarcointerventisti italiani si richiamassero a quella
storica testata dellestremismo antimilitarista (che aveva avuto
un'inconcludente edizione italiana nel 1908), proprio nel momento in cui Herv,
passato alla causa dellIntesa, labbandonava per dar vita a La Victoire, organo
del nuovo Movimento Socialista Nazionale da lui fondato. Sulla diffusione e la
fortuna dellherveismo nel nostro pnese v. GIACOMINI, Antimilitarismo e
pacifismo nel primo novecento. Alfredo Bartalini e La Pace, Milano, Angeli, La
Guerra Sociale, SI Vi sono guerre e rivoluzioni liberatrici scriveva e
accettiamo la guerra per evitare una oppressione. Noi vediamo lanima anarchica
in ogni rivolta liberatrice. Noi siamo gli eterni rvoltes, e nel secolo scorso
avremmo cospirato con Mazzini per lunit dItalia e oggi, nellIndia, saremmo coi
nazionalisti nella rivolta contro gli inglesi. Noi riteniamo che la vittoria
degli Imperi Centrali sarebbe un enorme male per la civilt nostra. Sarebbero
prevalenti i focolai dellautoritarismo cattolico pi inflessibile,
dellimperialismo pi pazzesco, del militarismo pi prepotente: sarebbe rimandato
di anni e anni il problema rivoluzionario nostro pel riaffacciarsi dei problemi
democratici e nazionali. Noi vogliamo al contrario che tutti i nostri sforzi
siano volti a preparare le basi storiche della rivoluzione proletaria. Noi
manteniamo integro e purissimo il nostro ideale anarchico! Pi oltre, in una
lettera indirizzata al direttore Edoardo Malusardi, lettera che esprimeva il
comune sentire di tutti gli anarchici interventisti, Mario Poledrelli negava di
sentirsi un revisionista dellanarchismo per il fatto dessere favorevole alla
guerra, ritenendo anzi di pensare e di agire nel solco della migliore
tradizione libertaria!. La Guerra Sociale, che usc con una discreta diffusione,
compendiava quindi, per la prima volta in forma unitaria e immediatamente
riconoscibile, tutti i motivi, le tematiche e le passioni proprie
dellinterventismo anarchico. Molto importante, sotto questo profilo, la rubrica
Dagli amici, dalla quale apparivano nitidamente, nelle varie coloriture, gli
umori della base. Cos, fianco a fianco allanziano anarchico rivoluzionario
Alfeo Davoli, gi garibaldino, che da Milano esortava alla guerra rivoluzionaria
che abbattesse per sempre qualunque sia forma di governo"', si schieravano
il maestro elementare GIGLI, Perch siamo interventisti, POLEDRELLI, Revisione?,
Ivi. Poledrelli si era formato negli ambienti anarchici di Ferrara. Nellaprile
del 1912 si era trasferito a Milano, entrando a far parte del locale Fascio
libertario. A Milano aveva anche progettato la pubblicazione di un periodico,
che avrebbe dovuto intitolarsi L Adunata, ma era stato fatto rimpatriare a
Ferrara su ordine della Questura milanese, perch disoccupato. Arruolatosi
volontario, cadde in combattimento il 3 giugno 1917. Cfr. ACS, CPC, Busta 4053
[Poledrelli Mario]. 10 Nellarco dei suoi due mesi di vita il giornale vendette
28 abbonamenti, di cui dieci a Milano, e benefici di 157 sottoscrizioni (la
maggior parte provenienti dal capoluogo lombardo, fra le quali due a nome di
Mussolini), per un totale di 251, 56 lire. Non erano grandi cifre tanto che il
10 aprile, in un trafiletto indirizzato ai compagni, la redazione invitava
apertamente i lettori ad essere pi generosi, pena la sospensione delle
pubblicazioni ma in linea con la media degli altri fogli anarchici editi nello
stesso periodo (fatta ovviamente eccezione per le tre grandi testate a
diffusione nazionale La Guerra Sociale, Salvadori, ammiratore delle teorie di
Francisco Ferrer, che si dichiarava per lintervento, a dispetto dello slombato
anarchismo menefreghista!!, e lanarchico individualista Costa, di Verona, il
quale affermava di desiderare la guerra semplicemente in virt dei propri
convincimenti catastrofici; mentre il genovese Ciotto chiama a fondamento del
proprio interventismo entrambe le eredit del bakuninismo e del mazzinianesimo!
Sulle pagine de La Guerra Sociale si avvicendarono dunque i principali
portavoce della corrente anarcointerventista, da Rocca alla Rygier, da
Paolinelli a Malusardi, e una serie di nomi minori, la cui testimonianza resta
per non meno significativa. Non di tutti, purtroppo, ci stato possibile ricostruire la biografia
politica. Dalle informazioni raccolte emergono comunque alcune caratteristiche
ricorrenti: lorigine proletaria, la cultura approssimativa, la fede
individualista, il ribellismo, vissuto talvolta nelle sue manifestazioni pi
eccessive (requisiti, questi, comuni del resto alla maggioranza dei semplici
militanti del movimento anarchico), ma anche il valore successivamente
dimostrato sui campi di battaglia. Quanto alladesione al fascismo di alcuni di
tali uomini, essa fu conseguenza, non automatica n tanto meno ineluttabile, di
scelte personali, diverse caso per caso. Ci a conferma che la semplicistica
equazione anarcointerventisti prima-fascisti poi, non motivo sufficiente - e daltronde nemmeno
Davoli era nato a Reggio Emilia nel 1849. Mor nel 1918. Cfr. ACS, CPC, Busta
1630 Davoli Alfeo]. 4 La Guerra Sociale, 20 febbraio 1915. Alceste Salvadori,
nato a Palaia, un piccolo borgo in provincia di Pisa, nel 1884, insegnava a
Castelfiorentino, dove risiedeva dal 1905. Per le sue idee libertarie,
antimilitariste e radicalmente anticlericali (era membro di un Associazione
Razionalista), e in virt del suo ruolo di educatore, era dalle autorit
considerato estremamente pericoloso in linea politica. Dopo la guerra (cui
prese parte come volontario, congedandosi col grado di sottotenente) Salvadori
vest la camicia nera del fascismo. Nellaprile del 1921 siscrisse infatti al
Fascio di Castelfiorentino (del quale, per breve tempo, fu anche segretario),
per giungere, qualche anno pi tardi, alla direzione della locale organizzazione
sindacale fascista. ACS, CPC, Busta 4543 {Salvadori Alceste]. 4 La Guerra
Sociale, Cfr. /bidem, 10 marzo 1915. Qualche tempo dopo, alla vigilia di
arruolarsi volontario in fanteria, Dal Ciotto si disse persuaso che la divisa
non avrebbe intaccato i suoi convincimenti rivoluzionari e manifest la speranza
di tornare, un giorno, a fianco dei compagni in buona fede contro la guerra per
combattere insieme le future battaglie (// saluto di un anarchico
interventista, Il Popolo d'Italia, 5 luglio 1915). ragionevole. - per
disconoscere lappartenenza allanarchismo degli interventisti di estrazione
libertaria! Scrissero per La Guerra Sociale: Consalvi, Canapa (Ambra),
Rivellini, Fraschini, M.Benedetti, Effebo Scaramelli, Armando Senigallia,
Sabatino Di Loreto, Silvio Colla e Raffaele De Rango. Canapa, che di mestiere
era rilegatore di libri, era nato a Firenze. La sua partecipazione alla vita
del movimento anarchico era stata contrassegnata da numerose disavventure
giudiziarie. La Prefettura fiorentina lo aveva dipinto tra i pi entusiasti
seguaci delle dottrine libertarie a Firenze, assiduo a tutte le riunioni e
manifestazioni proletari, ma privo di un ruolo di rilievo in seno ai circoli
anarchici, attesa la sua scarsa intelligenza e la niuna cultura. In realt,
Canapa aveva collaborato a numerosi fogli anarchici, specie dindirizzo
individualista, celandosi dietro la maschera di Brunetto DAmbra. Nella campagna
interventista lanarchico fiorentino che fu membro del Fascio rivoluzionario del
capoluogo toscano dimostr un particolare accanimento, per lo pi ricorrendo al
consueto pseudonimo e solo occasionalmente servendosi del suo vero nome (come
nel caso del lungo articolo polemico Anime di fango, LIniziativa). Canapa si
arruol volontario (cfr. Il Popolo dItalia) e cadde sul Carso. ACS, CPC, Busta
992 [Canapa Giovanni]. Edoardo Malusardi ne celebr la figura di eterodosso
dellanarchismo, eretico impenitente, scomunicato del Santo Sinodo (ODROADE,
Ricordi di un amico su Giovanni Canapa, LIniziativa); mentre Massimo Rocca, che
gli era particolarmente legato, ne avrebbe richiamato il nome nellintroduzione
al suo Dieci anni di nazionalismo. Rivellini era nato a Milano, da famiglia
poverissima. Carattere fra i pi irrequieti e impulsivi - come scrive di lui la
Prefettura milanese n -, Rivellini, nonostante la giovanissima et, era assai
noto negli ambienti libertari del capoluogo lombardo e aveva subito gi numerosi
arresti per attivit sovversive. Allo scoppio della guerra fece da subito lega
con gli interventisti, ritenendo, comebbe a scrivere a Mussolini, di difendere
cos i supremi interessi del proletariato di tutto il mondo (Il Popolo dItalia).
Si arruol volontario nel giugno 1915 (nel 68 reggimento fanteria, lo stesso di
Malusardi) e combatt valorosamente, guadagnandosi una medaglia di bronzo e un
encomio solenne. Si conged con il grado di tenente degli arditi. Nel dopoguerra
prese parte allimpresa di Fiume (e come delegato fiumano presenzi al congresso
nazionale fascista), conclusasi la quale si ritir sostanzialmente dalla lotta
politica. Risulta iscritto al PNF. Cfr. ACS, CPC, Busta 4348 [Rivellini Carlo].
Effebo Scaramelli, bracciante, era nato a Casciavola, una frazione di Cascina,
provincia di Pisa, nel 1880. Legatissimo al noto pubblicista e propagandista
anarchico Giovanni Gavilli, che spesso ebbe modo di accompagnare e di assistere
nei suoi giri di conferenze (Gavilli era non vedente), Scaramelli aveva
collaborato saltuariamente a Il Grido della Folla. Nel dicembre del 1906 aveva
preso parte al congresso regionale anarchico di Pontedera. Volontario di guerra
nel 1915, il suo Comando lo segnalava come un soldato disciplinato, rispettoso
e contento della vita militare. Dismessa la divisa, lasci l'impegno politico e
muore. /bidem, Busta 4662 [Scaramelli Effebo]. Armando Senigallia era nato ad
Ancona nel 1883. Ritenuto anarchico molto pericoloso, Senigallia, pur senza mai
abbandonare la professione di venditore ambulante, aveva collaborato
assiduamente a Il Grido della Folla, a La Protesta Umana e al romano Il
Pensiero Anarchico, subendo, in virt della sua prosa infuocata, numerose
condanne per istigazione a delinquere. Attivo nel campo dellorganizzazione di
partito, Senigallia aveva pPAT TEST PRIA TRRE PROT OTITEAPTETI VIRATA STUPITO
PROP VOR. VIRA VPI ROTTO MIPPAPMPERPERERABE RIFPI BE 1177171777 Grazie a La
Guerra Sociale, per un periodo di tempo tanto breve quanto decisivo, gli
anarchici interventisti poterono dunque disporre di uno spazio autonomo ed
ebbero modo di precisare, una volta per sempre, il proprio particolare punto di
vista allinterno della multiforme realt dellinterventismo rivoluzionario. La
partecipazione anarchica alla vita dei Fasci risult comunque assai intensa,
specie l dove il movimento era pi forte. A Parma gli anarchici collaborarono
fattivamente al quindicinale Guerra alla guerra (24 gennaio- I maggio 1915),
edito a cura del Fascio locale, roccaforte della politica deambrisiana e fra i
principali centri propulsivi dellinterventismo rivoluzionario. Allincirca nello
stesso periodo in cui vedeva la luce il giornale di Malusardi, era anche degno
di nota (vuoi per il rilievo dei protagonisti, vuoi perch Pisa era una delle
citt italiane dove il movimento anarchico era maggiormente radicato) il
contributo degli anarchici Alberto Fontana e Ruffo Sarti alla nascita e alla
diffusione de La Guerra del Popolo, organo del Fascio rivoluzionario pisano!.
preso parte al congresso interprovinciale anarchico di Ancona (gennaio 1910) e
al convegno anarchico umbro-marchigiano di Fabriano (febbraio 1913), discutendo
temi relativi alla struttura interna del movimento e ai rapporti con le altre
forze operaie. Nel gennaio del 1914 la Prefettura di Ancona annotava sul suo
conto: E sempre uno dei pi ferventi anarchici di Ancona, prende parte a tutte
le riunioni del partito ed iscritto al
Circolo anarchico Studi Sociali. Nell'agosto del 1916, avendo fatta
dichiarazione scritta dalla quale si rilevava la mitezza delle sue idee
politiche e la completa adesione alla guerra, fu inviato al fronte con una
squadra di lavoro. Richiamato alle armi nel luglio 1917, si comport
coraggiosamente, finch non cadde prigioniero degli austriaci. Ader al fascismo
e, nel gennaio del 1935, divenne membro e fiduciario del sindacato provinciale
fascista dei venditori ambulanti. Ibidem, Busta 4746 [Senigallia Armando].
Silvio Colla, nato a Parma nel 1896, era assai noto negli ambienti dellestrema
sinistra parmense, in quanto segretario di un Circolo socialista
antimilitarista rivoluzionario intitolato ad Amilcare Cipriani. Divenuto
interventista, Colla si arruol volontario, combattendo negli arditi ed
ottenendo ben due medaglie al valore. Cfr. Ibidem, Busta [Colla]. Di Rango,
nato a Rende in provincia di Cosenza nel 1888, sappiamo ben poco, se non che
egli, dopo la parentesi interventista, che lo aveva visto magnificare la guerra
come mezzo per far piazza pulita di tutti i rivoluzionari di carta e da comizio
(Liquidazione di rivoluzionari, La Guerra Sociale, 10 marzo 1915), riallacci i
rapporti col movimento libertario. Nel dopoguerra, De Rango emigr negli Stati
Uniti (prima a Chicago, poi a Oakland in California), dove prese parte attiva
alla vita della numerosa comunit anarchica italiana, collaborando al foglio di
San Francisco LEmancipazione. Da oltre oceano l'anarchico calabrese mantenne
regolari contatti con i compagni italiani, non escluso Errico Malatesta, col
quale era anzi in amichevole corrispondenza. Cfr. ACS, CPC, Busta 1739 [Rango].
14% 1] primo numero de La Guerra del Popolo usc. Liniziativa di Ruffo Sarti e
Fontana fu contestatissima dai gruppi anarchici di Pisa (si veda in particolare
D'altra parte, i Fasci compivano il massimo sforzo di coordinamento. Pur nella
diversit di vedute, la preoccupazione principale di tutte le forze che
componevano lo schieramento interventista rivoluzionario era allora quella di
affrettare lingresso dellItalia nel conflitto europeo, anche a costo di dover
accantonare le pregiudiziali ideologiche e di scendere a patti col Governo. Il
10 aprile LInternazionale pubblic una Dichiarazione, con la quale il gruppo
dirigente dei Fasci smpegnava ad una tregua rivoluzionaria se la monarchia si
fosse alfine decisa a dichiarare la guerra. Tra i firmatari di quel documento. figuravano
anche la Rygier e Mario Poledrelli (il 24 aprile lorgano sindacalista ricevette
le adesioni di Rocca e Malusardi) Commentando lo sciopero generale indetto a
Milano il 14 aprile per protestare contro luccisione del giovane operaio
elettricista Innocente Marcora - avvenuta tre giorni avanti ad opera della
polizia durante una manifestazione contro la guerra'* -, sciopero al quale
avevano aderito anche i Fasci interventisti (Alceste De Ambris fu tra gli
oratori principali), Rocca auspica che non si verificassero pi simili episodi,
temendo altrimenti chessi potessero trasformarsi in un pretesto per una
manifestazione neutralista, comunque un tentativo per intimidire il Governo
larticolo in tre parti di OTONIETTI, Aberrazione mentale collettiva, L'Avvenire
Anarchico, 1, 8 e 16 aprile 1915), che tenevano soprattutto ad affermare la
sostanziale estraneit dei due interessati alla vita del movimento libertario
pisano. Quello di negare ai compagni passati allinterventismo ogni parentela,
anche trascorsa, con lanarchismo era una delle scappatoie di cui gli anarchici
si avvalevano con pi frequenza. Del pari, la storiografia ha sostanzialmente
accolto questindirizzo, che potremmo definire negazionista. Cos, nel caso
specifico di Sarti e Fontana, stato
scritto che i due rappresentavano poca cosa, politicamente e quantitativamente,
nei confronti del vasto movimento cittadino SACCHETTI, Sovversivi in Toscana,
1900-1919, Todi, Altre Edizioni, 1983, p.88). In realt, Sarti e Fontana erano
entrambi conosciutissimi ed entrambi - come ci ha lasciato scritto la
Prefettura di Pisa - risultavano avere nel movimento molta influenza. Fontana
era stato redattore de LAvvenire Anarchico. Cfr. ACS, CPC, Busta [Fontana].
Sarti era noto anche a livello nazionale, avendo collaborato a Il Libertario e
al milanese Il Grido della Folla e potendo vantare, come sembra, stretti
rapporti di amicizia col celebre avvocato anarchico Pietro Gori. Nell'ottobre
del 1904 Sarti si era reso protagonista di un attentato a un brigadiere dei
carabinieri, avvenimento che aveva messo in subbuglio lintero lambiente
anarchico e che gli era costato lunghe disavventure giudiziarie e due mesi di
carcere. Durante la detenzione annotava la Questura fu largamente aiutato dagli
anarchici di qui, i quali sopportarono anche le spese occorrenti per la sua
difesa. /bidem, Busta 4614 [Sarti Ruffo]. Il testo completo della Dichiarazione
si trova in appendice a FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Cfr. Un giovane
ucciso da una bastonata durante le dimostrazioni dell'altra sera, Il Corriere
della Sera, 13 aprile 1915. con disordini interni e farlo tentennare nella
risoluzione di decidere la guerra; ed esortava gli interventisti rivoluzionari
a tutto subordinare alleventualit del conflitto! Il periodo bellico A poco pi
di un mese dalla proposta de LInternazionale per la tregua rivoluzionaria, la
dichiarazione di guerra dellItalia all Austria realizz gli auspici di tutti gli
interventisti. La partenza per il fronte dei principali esponenti
dellinterventismo rivoluzionario e la situazione di eccitazione e di generale
incertezza determinata dagli avvenimenti bellici, situazione non certo propizia
al normale dispiegarsi dellattivit politica, contribuirono peraltro a sfaldare
progressivamente il movimento dei Fasci. ua Anche Rocca, Gigli e Malusardi, si
arruolarono volontari". L'altro grande protagonista dellanarcointerven-
tismo, Gioda, che a suo tempo era stato riformato, part per il fronte soltanto
nellestate del 1916". Prima di allora, incalzato dalle accuse dimboscamento,
Gioda (che era membro del Gruppo di Azione Civile di Torino, avente lo scopo di
assistere i combattenti e di svolgere propaganda a TANCREDI, A proposito di
sciopero generale, La Guerra Sociale Rocca si arruol volontario ai primi di
luglio del 1915, prest giuramento in una caserma milanese il giorno 11 (cfr. /
volontari del 7 reggimento fanteria prestano giuramento, Il Corriere della
Sera) e fu inviato al fronte alla fine del mese. Cfr. ACS, CPC, Busta 4362
[Rocca Massimo]. Oberdan Gigli, ammesso al corso ufficiali di complemento nel 2
reggimento artiglieria campale pesante di Modena, part per la zona di guerra il
giorno 26 luglio. Cfr. Ibidem, Busta 2407 [Gigli Oberdan]. Edoardo Malusardi si
arruol nel 68 reggimento fanteria il 12 agosto. Cfr. Ibidem, Busta 2964 [Malusardi
Edoardo]. mia i o Mentre lesperienza di guerra di Rocca fu limitata, Gigli e
Malusardi presero parte all intero svolgimento del conflitto. Da notare che un
estratto del diario di guerra di Malusardi - un memoriale di un certo
interesse, anche se, con tutta probabilit, rielaborato ad arte dall autore - si
trova in EDOARDO MALUSARDI, Filippo Corridoni. Commemorazione tenuta in Parma,
Torino, Druetto, Per l'esattezza, Gioda fu richiamato alle armi il giorno 21
luglio e destinato al 7 reggimento bersaglieri di Brescia (cfr. Il Popolo
dItalia, e LIniziativa). Per le sue cattive condizioni di salute, tuttavia,
Gioda rimase al fronte solo pochi mesi. favore della guerra) si batt con passione, che non c motivo di non
ritenere sincera, per la revisione dei riformati!, Insieme ai nomi pi celebri
dellanarcointerventismo, partirono, volontariamente o perch richiamati alle
armi, la maggior parte degli altri anarchici interventisti. In taluni casi la
frenesia delle armi raggiunse livelli quasi parossistici. Lanarchico romagnolo
Ghetti, ad esempio, riformato per evidenti questioni di salute, pass gli anni
di guerra nellestenuante tentativo di farsi arruolare. Cosa c'entra la visita
scrisse ad un periodico fiorentino labilit o linabilit, quando uno vuol
sacrificare volontariamente, noncurante dei difetti organici, tutto s stesso
nei campi di battaglia contro il pericolo che oggi minaccia pi che mai lintera
umanit? Per la mia libert, che la libert
di un popolo, dellumanit, voglio dare il mio sangue, la mia vita contro
loppressione e la prepotenza militaristica prussiana. Senza far sfoggio di
coraggio, cos il mio sentimento di
libertario Qualche giorno dopo Ghetti si present in zona operativa vestito da
bersagliere, ottenendo soltanto di essere arrestato Il Gruppo di Azione Civile
si era costituito ad opera del tipografo mazziniano Grandi e di altri esponenti
del repubblicanesimo torinese e rest in vita sino allagosto del 1917, quando
conflu nella ricostituita Fratellanza Artigiana di Torino (cfr. LIniziativa, 1
settembre 1917). Come si desume da alcune lettere di Gioda a Grandi (pubblicate
in Vita di Gioda narrata da Croce, cit.), i due si conoscevano da tempo ed
erano in ottimi rapporti. In una lettera al giornale di Mussolini, Gioda
respinse laccusa dessersi imboscato e spieg la propria intenzione dimpegnarsi
affinch fosse al pi presto riconsiderata la posizione di tutti i riformati. Io
poi scrisse prima categoria della classe 1883, sono stato riformato...per
deficienza toracica! Ragione che mi fa oggi invocare, daccordo con gli amici
del Popolo dItalia, la revisione dei riformati (Per /a revisione dei riformati,
Il Popolo dItalia). In autunno, dopo che il Governo ebbe annunciato lintenzione
di varare una tassa sui riformati, Gioda torn decisamente sullargomento. E unumiliazione
afferm inflitta a tutti i cittadini che sono stati scartati alla leva
militare, quasi un bollo, che
contrassegner, agli occhi di qualcuno, una deficienza umiliante e discutibile.
Noi avremmo capito la revisione dei riformati da noi ardentemente sollecitata e
poscia magari se necessit assoluta lavesse richiesta la tassa applicata ai veri
riformati, a quelli cio che non potendo offrire alla patria tributo di sangue
avrebbero rassegnatamente accolto limposta, onde contribuire in qualche modo
per la salvezza nazionale GIODA, A proposito della tassa dei riformati. La
revisione doveva avere la precedenza, Il Nuovo Giornale Ghetti era nato a
Dovadola, nel forlivese, hel 1891. A sedici anni era emigrato in Germania, poi
in Svizzera, cambiando pi volte residenza, e stabilendosi infine a Berna. In
quella citt Ghetti aveva svolto unintensa propaganda anarchica, facendosi anche
promotore D'altra parte, anche al di fuori della corrente anarcointerventista
vera e propria, lentrata in guerra dellItalia provoc, in seno al movimento
libertario italiano, reazioni emotive contrastanti. Ai primi di giugno del
1915, amplificata dal quotidiano romano Il Messaggero, si diffuse la notizia
(parallelamente alla voce, subito smentita, di contatti segreti tra anarchici
ed emissari degli Imperi Centrali a Villa Malta) che i gruppi libertari
capitolini Sante Caserio e Francisco Ferrer avrebbero invitato i propri
aderenti ad arruolarsi volontari nella Croce Rossa. In una cartolina riportata
da L Avvenire Anarchico del 10 giugno 1915 (Gli anarchici non si corrompono),
Ceccarelli condann senza mezzi termini quelliniziativa, negando lesistenza di
un circolo anarchico intitolato a Francisco Ferrer. Ciononostante, il 24
giugno, il foglio pisano pubblic una dichiarazione degli anarchici Luigi
Pallotta, Ettore Piattini e Giuseppe Frate, a nome dei gruppi Caserio e Ferrer,
nella quale si affermava che il comunicato apparso su Il Messaggero, invitante
gli anarchici a inscriversi nella Croce Rossa, doveva interpretarsi nel senso
che i compagni soggetti al richiamo avrebbero dovuto scegliere, indossando la
divisa del soldato, quella della suddetta istituzione, sempre umanitaria, per
quanto militarista; e dunque chera erroneo il commento dei compagni che avevano
creduto sottolineare tale invito come addirittura un reclutamento anarchico ced
adesione di anarchici alla Croce Rossa. Sebbene rimasto senza seguito,
questepisodio a nostro avviso indicativo
dellincertezza che colse parte degli anarchici all'indomani. i Nonostante il
clima di eccezionalit seguito allo stato di guerra, la tnsione tra gli opposti
schieramenti della vigilia non diminu che in minima parte (ed significativo che persino larruolamento di
Rocca, il cui nome bastava evidentemente ad evocare malumori e risentimenti,
suscitasse una coda di di un Comitato di difesa sociale pro Masetti (ma pare
che i suoi rapporti con la comunit anarchica italo-svizzera, e in particolare
con Luigi Bertoni, fossero tempestosi). Un suo articolo violentemente antimilitarista
(Cos' /a caserma?, L'Avvenire anarchico) gli era valso unincriminazione per
istigazione a delinquere. Due mesi pi tardi Ghetti era rientrato in Italia, a
Milano, ed era stato arrestato perch trovato in possesso di numerosi ordigni
esplosivi. Condannato a dieci mesi di carcere, benefici dellamnistia concessa
la momento dellentrata in guerra dellItalia. Non si hanno notizie di un suo
coinvolgimento nella campagna interventista, ma sappiamo che egli fu di nuovo
arrestato (questa volta a Torino) per aver causato gravi incidenti durante un
comizio di Rygier. Ghetti riusc infine ad arruolarsi in fanteria. Cfr. ACS,
CPC, Busta 2355 [Ghetti Domenico]. 156
dea SPERO da 9 polemiche) . La verit che
la frattura tra neutralisti e interventisti non si sarebbe mai pi ricomposta,
protraendosi anzi, come noto, ben oltre la fine delle ostilit. La crisi dei
Fasci, seguita allentrata in guerra dellItalia, non valse affatto a rasserenare
gli animi, aggravando semmai i motivi di attrito, dentro e fuori il movimento.
Linvoluzione subita dallinterventismo rivoluzionario, daltronde, prima ancora
che la sua capacit di sopravvivenza politica, in ogni caso compromessa (i
Fasci, come tali, si sarebbero compiutamente ricostituiti solo alla fine del
1915) '5, investiva la sua stessa ragion dessere. Cos, lungo tutto larco della
guerra, si assistette al tentativo (non sempre fruttuoso) da parte degli
interventisti rivoluzionari, di ricompattare le proprie fila e, soprattutto, di
non smarrire, in mezzo al divenire convulso degli avvenimenti, la propria
specificit ideale. In questo senso, anche la morte in battaglia, il 23 ottobre
1915, di Filippo Corridoni, una delle figure pi carismatiche di tutto
linterventismo rivoluzionario, acquist un significato che trascendeva lepisodio
in s, per assumere una valenza quasi meta-storica. Il giovane milanese assurse
a eroe- simbolo dellinterventismo rivoluzionario, che al nome dellarcangelo
sindacalista si sarebbe pi volte richiamato, nel prosieguo della guerra, come a
un monito di coerenza ideale. Vale la pena, a questo proposito, di ricordare le
parole di Gioda, scritte immediatamente a ridosso del 23 ottobre, perch
specchio di quella concezione volontaristica dellazione politica che ich questo
riguardo, si veda larticolo // giuramento di managgia (Il Risveglio
Comunista-Anarchico, Ginevra), nel quale il giuramento di Massimo Rocca era
fatto oggetto di commenti particolarmente malevoli. Sullaltro versante, un
ottimo esempio di questo stato danimo
rappresentato da un saggio di Nerucci, pubblicato su interessamento di
Fontana e con prefazione di Malato (Da/ di l del Rubicone, Pisa, Tipografia
Mariotti). In quelle pagine, Nerucci riprendeva i temi abituali della
propaganda anarcointerventista (la contrapposizione fra anarchismo reale e
anarchismo ideale, la necessit di difendere la civilt latina, culla della
rivoluzione, dalla minaccia del pangermanesimo ecc.) e si scagliava
violentemente contro gli avversari. Lapologia interventista di Nerucci, scritta
in una prosa magniloquente infarcita di citazioni latine, appariva ancor pi
incongrua in quanto giungeva a quasi un anno dallentrata in guerra dellItalia.
In ogni caso, pochi mesi dopo la pubblicazione di Da/ di l del Rubicone,
Nerucci abiur allanarchismo, e, in una lettera ad un settimanale italiano di
Marsiglia, annunzi di aver preso la tessera del Partito Repubblicano (cfr. LEco
dItalia). Nonostante la conclamata fede interventista, Nerucci fece di tutto
per evitare la trincea, ottenendo di essere chiamato sotto le armi a guerra
quasi conclusa. Cfr. ACS, CPC, Busta 3526 [Nerucci Raffaello]. !57 Per un
quadro complessivo delle traversie dellinterventismo rivoluzionario negli anni
della guerra, v. soprattutto FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p. 288
ss., al quale si rimanda per tutte le vicende qui sommariamente descritte.
aveva animato la condotta degli interventisti rivoluzionari nellora della
vigilia, e che pareva attuarsi, e come prendere corpo, nella vita e nella
tragica sorte di Corridoni. Egli scriv
Gioda ricordando il compagno scomparso - la nostra giovent, tutta la nostra vagabonda,
ardente giovent balzata fuori tra gli sterpi duna bassa politica e il
dissolvimento departiti, tra l'impotenza dedogmatici e la ribalderia demercanti
!5 AI combattimento che cost la vita a Corridoni prese parte anche Edoardo
Malusardi. Il racconto di quellepisodio che lanarchico lombardo invi allorgano
mussoliniano interessante sia come
esempio di autorappresentazione politica (linterventista rivoluzionario che,
ricolmo di fede nelle proprie idee, combatte con grande sprezzo del pericolo),
sia come prima elaborazione del mito corridoniano (Corridoni che cade
eroicamente, intonando un canto patriottico), un mito destinato a crescere in
breve tempo', e al quale avrebbe attinto anche il sindacalismo fascista,
Malusardi in testa. Mi trovo degente in un ospedale da campo riferiva dunque
Malusardi ferito in quattro parti del corpo, per fortuna non gravemente. Sono
caduto in un assalto alla baionetta, in primissima fila; fui fatto prigioniero
dagli austriaci perch impossibilitato a fuggire. Fuggii da questi attraverso a
peripezie che hanno del romanzesco ed a torture inenarrabili [...]. Tra i morti
si conta anche Filippo Corridoni, comportatosi da prode. Questultimo,
anzi, caduto vicino a me cantando linno
dOberdan' 158 Il Popolo dItalia Sulla figura di Corridoni v. il contributo di
MELOTTO, Corridoni fra sindacalismo e interventismo, in Storia in Lombardia,
Gia pochi giorni dopo la morte di Corridoni, Il Popolo dItalia avvi una
sottoscrizione er l'erezione di un ricordo marmoreo delleroe. Il Popolo dItalia La battaglia detta della
trincea delle frasche fatale anche ad un
anarchico interventista toscano di nome Contini. Egli era - scrive di lui
Malusardi - un ANARCHICO NOVATORE. Un eretico su cui grava lanatema del Sinedrio
Anarchista.. Il suo anarchismo, come il mio, non la fronzuta elucubrazione di qualche sofista
a spasso, ma bensi la teoria di tutte le libert e sintesi di ribellione fattiva
controgni oppressione. I suoi precursori, come i nostri, erano due eroi: Troja,
caduto per 1 indipendenza ellenica, e Colizza, la maschia figura di spartano,
caduto sotto gli spalti di Seraievo in difesa della Serbia aggredita
LIniziativa. RI VATTIRP PARO VERI PURI] VAT POV FOVGPRATA IMRE 97 RG "N
Sul piano della concreta riorganizzazione dei Fasci, una delle iniziative pi
interessanti fu la proposta - lanciata proprio dagli anarchici interventisti -
di far confluire tutte le forze dellinterventismo rivoluzionario nel Partito
Repubblicano. Rygier (che dallo scoppio della guerra era andata sempre pi
accentuando la sua vicinanza al mazzinianesimo) ', reputando fondamentale anche
in vista delle sfide politiche del dopoguerra rinsaldare lunit del fronte
interventista rivoluzionario, propose apertamente che gli interventisti
rivoluzionari, di ogni scuola e partito, siscrivessero al PRI!9. Linvito di
Rygier fu raccolto da Malusardi. In una lettera inviata a LIniziativa
lanarchico lodigiano si disse persuaso della necessit di unificare tutti i
partiti della sinistra interventista e daccordo con Rygier nel ritenere che ci
potesse concretamente realizzarsi nel segno dell Edera, a condizione, per, che questo non
significasse un appiattimento sui programmi repubblicani. Gli unici che
potrebbero trovarsi a disagio notava a questo proposito Malusardi saremmo noi
anarchici novatori: per quanto anche noi, non essendo degli impenitenti
utopisti della societ paradisiaca, coi repubblicani ci troviamo molto daccordo.
Noi siamo degli esaltatori dellindividuo, non nel senso esageratamente
Zaratustriano, ma audace e cosciente, che sa imporsi in mezzo al falso ed
imbelle umanesimo grettamente egoista della folla misoneista e dei suoi codardi
capeggiatori. Mentre i repubblicani subordinano la volont individuale a quella
collettiva, quella delle minoranze a quella delle maggioranze, noi anarchici,
Il definitivo approdo di Rygier al mazzinianesimo era avvenuto con larticolo
L'ombra sua ritorna ch'era dipartita (LInternazionale, 1 gennaio 1915), una
lunga e sentita celebrazione di Mazzini. La svolta della Rygier aveva trovato
consensi e destato speranze negli ambienti repubblicani. Si auspica che
lesempio della Rygier aveva scritto Alfredo Poggiali sullorgano del Partito
Mazziniano Italiano chera partita, nesuoi primordi, da premesse non esatte,
possa far breccia anche fra gli altri anarchici (Lettera politica dalla
Romagna, La Terza Italia, 15 gennaio 1915). Dopo lo scoppio della guerra, Maria
Rygier, la cui opera di propaganda non conobbe soste, intensific, se possibile,
la collaborazione con la stampa repubblicana, massime con LIniziativa. Linfatuazione
della Rygier per Mazzini e il mazzinianesimo trovava del resto concordi
numerosi altri interventisti rivoluzionari (a cominciare da Ambris) e
anarcointerventisti. Mario Gioda, in particolare, il quale - come si visto - nutriva gi una viva simpatia per le
idee e per i programmi repubblicani (si veda, a titolo di esempio, larticolo
Mazzini e l'ora storica, Il Popolo dItalia, 11 marzo 1915, in cui Gioda aveva
tra laltro sostenuto che tutti i sovversivi, non schiavi dello sterile
dogmatismo, non avvelenati dalle secche teorie tedesche o intedescate,
avrebbero dovuto riconoscere la grandezza di Mazzini), rafforz negli anni di
guerra il proprio filo-repubblicanesimo. " Cfr. RyGIER, / partiti di
domani. Prepariamoci per le lotte future, LIniziativa, pur coadiuvando in tutte
le contingenze lazione collettiva, non intendiamo che si RA ERI F 16 debba tarpare le ali alle
iniziative individuali e le minoranze Il rispetto delle minoranze e delle
singole individualit era stato a fondamento dellazione dei Fasci interventisti:
qualora il PARTITO REPUBBLICANO avesse offerto le stesse garanzie politiche,
nulla - concludeva Malusardi - avrebbe potuto impedire il confluire in esso di
tutte le forze dellinterventismo rivoluzionario, anarchici compresi'. Il
progetto avanzato da Rygier rimase lettera morta, ma il problema dellunit tra
le forze della sinistra interventista si sarebbe ripresentato pi volte, durante
come dopo la guerra. In ogni caso, quale che fu lesito della sua proposta, il
cammino personale di Maria Rygier verso le idealit nazionali non sub inversioni
di rotta. Ella al congresso nazionale
repubblicano di Roma. Non ho ancora la tessera disse in mezzo agli applausi dei
congressisti ma voglio confermare che la guerra ha fatto maturare in me, come
in altri, una coscienza nuova, perch ha disvelato effetti deleteri duna
propaganda basata sul determinismo economico pi gretto. E noi torneremo al
vostro Mazzini Lex madrina dellantipatriottismo torn in effetti a Mazzini, e
quella tessera che ancora non poteva esibire al Congresso romano lebbe in realt
pochissimo tempo dopo!. Il prolungarsi oltre ogni previsione delle ostilit, il
malumore ognora crescente delle masse e il conseguente, nuovo slancio assunto
dalla propaganda neutralista, aumentarono il senso di smarrimento degli
interventisti rivoluzionari. Lesigenza di opporsi alla presunta opera
disgregatrice del neutralismo socialista-cattolico-giolittiano, un'esigenza
molto spesso tracimante in vera e propria ossessione, fu allorigine della
nascita e della diffusione, un po in tutta Italia, di leghe e di comitati per
la resistenza interna. Nellambito di queste iniziative, tuttavia, gli
interventisti rivoluzionari - o comunque di sinistra - si sarebbero ritrovati
il e su AI congresso giunsero anche i saluti di Gioda, che diceva di seguire
con vivissima simpatia il lavoro dellunico partito che la guerra e le
rivendicazioni nazionali non avevano sconvolto; di Rocca, il quale auspica che
lassise repubblicana potesse porre le basi per un sovversivismo nazionale, meno
settario, pi serio, pi vasto didee e profondo di sentimento; e di Lotti. pi
delle volte in minoranza (tipico il caso del Fronte Interno, costituitosi a
Roma ad opera di forze prevalentemente democratiche, che fin assai presto per
essere egemonizzato dalle destre). Linterventismo di destra, infatti, e in
particolare quello estremo dei nazionalisti, aiutato dalla radicalizzazione
delle prospettive politiche indotta dallo sforzo bellico, prese senz'altro il
sopravvento, finendo per condizionare la stessa azione delle sinistre, ed
aprendo, in questo modo, nuovi e imprevisti scenari. La preoccupazione di
frenare la propaganda neutralista e quella, pi o meno consapevolmente
avvertita, di salvaguardare la purezza dei propri ideali, dominarono il
convegno nazionale dei Fasci rivoluzionari, che si riun a Milano. Pochi giorni
prima dellinizio di quel congresso, Gioda si era fatto interprete dello stato
danimo di grande perplessit che attanagliava linterventismo rivoluzionario.
Prendendo spunto dalle agitazioni contro il caro-viveri scoppiate in Germania e
Austria, agitazioni che i neutralisti italiani avevano portato a esempio
dellinsofferenza popolare verso il protrarsi delle ostilit, Gioda si era
augurato che lItalia rimanesse al di fuori dellondata di malcontento che stava
attraversando gli altri paesi belligeranti e sera detto convinto del buon senso
e delle virt patriottiche del popolo italiano. Malgrado ci, lanarchico torinese
aveva avvertito la necessit di ribadire la ragionevolezza della guerra in atto.
La guerra - aveva affermato Gioda - era giusta perch risolutiva e perch avrebbe
schiuso la via per maggiori conquiste, in un ambiente europeo non pi
accidentato da agguati tedeschi e da barbarie prussiana. Per la cronaca del
convegno v. Il Popolo dItalia, 21, 22 e 23 maggio 1916. V. altres Le
dichiarazioni del Congresso dei Fasci, LIniziativa, 27 maggio 1916, e La grande
adunata di Milano e la parola dei nostri compagni, LInternazionale, GIODA,
Perch questa guerra giusta, Il Popolo dItalia,
17 maggio 1916. Qualche giorno prima, in occasione della festa del lavoro,
Gioda aveva manifestato a chiare lettere quale fosse ormai il proprio pensiero
riguardo alle questioni economiche. Mentre il mondo aveva scritto - si dibatte
nella tragica convulsione duna rivoluzione decisiva per lavvenire dei
popoli, per lo meno fatuo il voler
cianciare ancora di garofani rossi e di feste di primo maggio per quella
ascensione economica di classe che il proletariato non conquister se non a
condizione di essersi reso degno di rimanere libero entro libere nazioni
(GIODA, / socialneutralisti industrializzano il primo di maggio, LIniziativa, 1
maggio 1916). Del resto, in un articolo intitolato Valori e limiti della lotta
di classe, pubblicato da Il Popolo dItalia del 22 febbraio 1915, Gioda aveva
sostenuto che il materialismo non avrebbe mai potuto offrire una chiave
interpretativa univoca dei grandi fenomeni storici e che lo stesso socialismo,
se avesse voluto mantenere la sua primigenia forza morale, non avrebbe dovuto
risolversi, edonisticamente, in una mera questione economica. La lotta di
classe, perci, non avrebbe dovuto porsi come fine del socialismo, ma come
semplice mezzo, da valutare secondo le circostanze. Nel caso contrario,
lorganizzazione di classe sarebbe diventata fine AI convegno milanese presero
parte Maria Rygier, che vi svolse una relazione sul tema Neutralismo e
neutralisti!, eRocca, in licenza dal fronte!. Proprio Rocca si fece portavoce
di una convinzione che, in forma pi o meno velata, cominciava a circolare anche
tra gli interventisti di sinistra: la convinzione, cio, che il Governo dovesse
adottare dei provvedimenti, i pi severi possibili, per eliminare il pericolo
neutralista. Lazione contro i neutralisti - sostenne Rocca - doveva essere di
due tipi: positiva e negativa. Positiva, nel senso che gli interventisti
avrebbero dovuto intensificare lopera di propaganda tra le masse, negativa,
perch era giunto il momento, nellinteresse del Paese, di rispondere con misure
energiche alle provocazioni dei nemici di dentro. Noi afferma Rocca dobbiamo
avere il coraggio di dire: contro i neutralisti abbiamo fatto tutto quello che
si poteva fare. Noi dobbiamo avere il coraggio di domandare che il Governo
faccia unopera che sia di repressione, che sia capace di porre un freno. La
posizione di Rocca, per quanto radicale, era coerente con quanto da lui
sostenuto alla vigilia della guerra in merito allopportunit di una condotta
realmente unitaria della crisi bellica. Non per niente, in risposta a quanti,
in a se stessa, e nessun alito di umanit e di generosit avrebbe animato il
popolo, rinchiuso nelle sue ghilde, nelle sue fratellanze, nelle sue leghe. La
classe - aveva concluso Gioda - non doveva considerarsi un semplice agglomerato
di uomini economici, ma un insieme complesso di individui, formanti una comunit
con pi alte e profonde aspirazioni; ed era pertanto inutile, sciocco e
disonesto il ripetere al popolo che solo la lotta di classe lo avrebbe dovuto
interessare, ogni altro problema essendo problema borghese. Questi passaggi sono a nostro avviso di capitale
importanza. E infatti in questa visione dei rapporti sociali, intrisa tanto di
misticismo mazziniano quanto di elitarismo individualista, che deve
rintracciarsi il motivo delladesione di Mario Gioda e di tanti
anarcointerventisti alle ideologie del sindacalismo nazionale e del
produttivismo fascista, nonch, per successive corruzioni dellimpostazione
originaria, la ragione del passaggio di molti di loro dallantisocialismo
allantioperaismo tout court. In Il Popolo dItalia sati !! Il Popolo dItalia
riporta le adesioni al convegno di altri due anarcointerventisti: Fanelli e
Ciotto. Il nome di Fanelli, che incontriamo qui per la prima volta, pu esser
preso a simbolo degli anarchici interventisti dei quali non ci giunta notizia. Il panettiere Fanelli nato a La Spezia. Anarchico convinto, che
prende parte a tutte le riunioni e manifestazioni del partito (come lo descrive
un funzionario della Prefettura di Genova in un rapporto), Fanelli gerente responsabile de Il Libertario.
Divenuto interventista, fu membro del Comitato Esecutivo del Fascio dazione
internazionalista di La Spezia. Nel dopoguerra adere al fascismo, iscrivendosi
al PNF. ACS, CPC, Busta [Fanelli].Il Popolo dItalia sede di discussione,
avevano affermato lopportunit di scindere nettamente loperato dei Fasci da
quello di casa Savoia, Rocca (dimostrando maggiore realismo politico) sostenne
che linterventismo rivoluzionario doveva assumersi per intero le proprie
responsabilit riguardo alla monarchia, con la quale, e non contro la quale, la
guerra era stata decisa!?. Nei restanti due anni di guerra Rocca , insieme alla
Rygier, il pi attivo del gruppo degli originari anarchici interventisti.
D'altronde egli venne ricoverato allospedale militare di Milano per una grave
forma dipertrofia tonsillare, ottenendo cos una licenza di sei mesi (rinnovata
nel marzo dellanno successivo) ! che gli consent di dedicarsi a pieno ritmo
allopera di propaganda e di organizzazione politica. Vede altres la ripresa, da
parte di Rocca, della sua antica predilezione per i grandi problemi di ordine
internazionale, come attestato dalla pubblicazione - per la casa editrice
Sonzogno - del libro // Mare Adriatico, volume nel quale lautore sposava le
rivendicazioni dei nazionalisti sullIstria e la Dalmazia. Non si trattava di un
interesse passeggero, visto che la questione adriatica, destinata a segnare in
modo drammatico il dopoguerra italiano, sarebbe stata - insieme ai temi di
politica economica. - la nota predominante dellattivit di Massimo Rocca nel
biennio 1918-1920. Nel febbraio del 1918, del resto, Rocca entr nella redazione
del quotidiano milanese La Perseveranza, avviando, sulle pagine di quel
giornale, una serrata campagna a sostegno dellitalianit della Dalmazia,
campagna che gli attir gli strali polemici di Salvemini. Cfr. ACS, CPC, Busta
4362, [Rocca]. Loperato di Rocca in questo periodo fu caratterizzato da un
attivismo capillare che non disdegnava la propaganda spicciola (lo troviamo, ad
esempio, oratore principale alla riunione indetta dal Fascio interventista milanese,
per salutare i fascisti della classe 1897 in procinto di partire per il fronte.
Cfr. Il Popolo dItalia). Ancora la Prefettura romana annota che Rocca, pur
conservando le sue idee sovversive, continua a svolgere attiva propaganda a
favore della guerra. ACS, CPC, Busta [Rocca]. La posizione di Salvemini
(espressa a chiare lettere nel volume La questione dell'Adriatico, pubblicato
allinizio del 1918), che si rifaceva a Mazzini e al principio di nazionalit, e
che gli avversari bollavano come rinunciataria, e quella annessionista di
Massimo Rocca erano diametralmente opposte. Sulle pagine della sua rivista
settimanale, LUnit, Salvemini accus Rocca di essersi appiattito sulle tesi dei
nazionalisti. Rocca, dal canto suo, non risparmi le critiche a Salvemini (si
vedano, in particolare, gli articoli Per l'onest politica e la Dalmazia
italiana, e Operai, libertari, Dalmazia e nazionalismo, La Perseveranza).
Lapprodo di Rocca al giornale del conte Giangaleazzo Arrivabene, un foglio di
chiaro orientamento conservatore, non deve sorprendere. Infatti, sebbene Rocca
avesse gi in passato manifestato simpatie per la destra, fu in questo arco di
tempo, compreso tra il congedo dalle armi e la fine della guerra, che si consum
la sua definitiva trasformazione politica; fu allora, per meglio dire, che lex
anarchico matur un completo distacco, non tanto dal movimento libertario, ormai
del tutto abbandonato, quanto da ogni residuo sinistrismo. A conclusione di un
lungo cammino umano e ideale, passando attraverso le decisive esperienze
dellinterventismo e della guerra, Massimo Rocca fin dunque per virare
decisamente a destra, verso posizioni che semplificando - potremmo definire di
conservatorismo illuminato sul piano politico; di liberismo radicale, con forti
inflessioni produttiviste, sul piano economico. In entrambi i casi, per, i
legami con il fondo elitario del novatorismo restavano evidenti.
Lindividualismo di Rocca, rafforzato dalla . sua personale convinzione di
appartenere a un aristocrazia, alla parte nobile - pi meritevole perch pi
capace - del popolo italiano (proprio in quegli anni, daltra parte, lex
tipografo autodidatta compiva con successo il suo ciclo di studi) ', giunse in
pratica al suo esito naturale. In questo passaggio era gi compreso, in potenza,
tutto il futuro politico di Rocca, dalla riscoperta della Destra storica alla
rivalutazione dellistituto monarchico, dal programma economico del 1922 ai
Gruppi di Competenza, fino alla trincea revisionista. In ultima analisi,
infatti, il fascismo di Rocca non fu mai, nella sostanza, granch diverso dal
suo liberalismo. Rocca ader al Comitato dazione per la resistenza interna,
sorto a Milano su iniziativa di Dinale allo scopo di coordinare tutte le forze
interventiste e dinfondere nuovo vigore alla loro opera'??. In qualit di
delegato di quellorganizzazione, Rocca partecip al secondo convegno nazionale
dei Fasci dazione internazionalista, convocato a Roma allinizio di luglio, il
quale si concluse con lapprovazione di una Rocca consegu la licenza tecnica
superiore subito dopo la guerra, iscrivendosi quindi alla facolt dingegneria
del Regio Politecnico di Milano. Quale fosse lo scopo principale di questa
nuova associazione patriottica, bene lo illustrava un ordine del giorno votato
a una riunione del Comitato: Reclamare dal. Governo provvedimenti immediati
contro i troppi tedeschi, turchi, bulgari e austriaci che infestano il nostro
Paese (Il Popolo dItalia). Alla fine del mese il Comitato invi un memoriale al
Presidente del Consiglio, nel quale, dipinta a tinte fosche lazione
destabilizzatrice del neutralismo disfattista, s'invocava unazione draconiana
contro tutti i nemici di dentro. Il memoriale, pubblicato in parte anche da Il
Popolo dItalia del 27 maggio, si trova in ACS, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI
MINISTRI. GUERRA EUROPEA, Fascicolo [Movimento interventista]. sorta di
documento programmatico dellinterventismo rivoluzionario!?. Nonostante il
tentativo dimprimere allazione dei Fasci un indirizzo certo, tanto sul piano
politico quanto su quello delle rivendicazioni sociali, le grandi questioni
delineatesi nel corso dei due anni precedenti, quella delle misure da opporre
alla ripresa del neutralismo, e quella (per cos dire relativa allindole stessa
del movimento) della salvaguardia della propria identit rivoluzionaria, rimanevano,
complice linasprirsi delle tensioni interne al Paese, pi che mai aperte!*. La
tragedia di Caporetto, con ci che ne segu, a livello politico-militare come a
livello emotivo, e la conseguente demonizzazione dei cosiddetti disfattisti,
avrebbe contribuito non poco a mischiare le carte in tavola, spostando
decisamente a destra lasse della politica interventista. Le divergenze tra le
diverse forze dellinterventismo finirono per appianarsi, a tutto vantaggio
della destra nazionalista, salvo poi riproporsi, ma in un contesto nel
frattempo profondamente mutato, alla fine della guerra. V. Il Popolo dItalia e
larticolo // Congresso Interventista di Roma in difesa degli operai e della
pace giusta, LInternazionale (lorgano sindacalista parmense riprese le pubblicazioni
dopo una sospensione di quasi un anno). E molto difficile, per lassoluta
mancanza d'informazioni, sapere cosa gli anarcointerventisti pensassero
riguardo a queste due tematiche, ma
ragionevole credere che la loro opinione non differisse da quella degli
altri protagonisti dellinterventismo rivoluzionario, sempre pi orientati verso
una linea di ferma intransigenza. Una testimonianza importante, anche per
lestremismo del linguaggio usato, quella
di Edoardo Malusardi, il quale, prendendo le mosse dalla proposta di dimissioni
generali avanzata ai sindaci e agli amministratori socialisti da Lazzari (un
gesto che, nellopinione del segretario del Partito Socialista, si sarebbe
rivelato un utile strumento di pressione sul Governo e avrebbe potuto accelerare
luscita dellItalia dalla guerra), si appellava direttamente al popolo italiano
perch facesse alfine giustizia di un cos ributtante fenomeno di perfidia e di
vigliaccheria (EMME, Son purl.). FASCISMO Lanarcointerventismo alla prova della
nuova Italia Ripercorrere le tracce dellanarcointerventismo nel caos del
dopoguerra non impresa facile. Gi nei
mesi successivi allarmistizio, il blocco dellinterventismo rivoluzionario cess
di esistere come un tutt'uno, per disperdersi e riaggregarsi in mille rivoli,
mentre la nascita di nuove formazioni, che pure ad esso si richiamavano (fra
tutte i Fasci di combattimento), aggiungeva imprevedibilit a unatmosfera
politica di per s gi molto fluida. Lanarcointerventismo, che non aveva mai
posseduto, per sua stessa natura, una rigidit organizzativa e ideologica, non
sfugg a questo processo dissolutivo. Nondimeno, se non ha pi molto senso, dopo
Vittorio Veneto, parlare di interventismo anarchico come corrente politica in
s, tuttavia possibile come si accennava
nellintroduzione -, attraverso la vicenda personale dei suoi maggiori
rappresentanti, provare a ritrovarne i segni nella politica italiana del
dopoguerra. Dei /eaders anarcointerventisti, alcuni, come Gigli e Rygier,
finirono per isolarsi progressivamente dal gioco politico e per non avere che
una parte di secondo piano nella tormentata stagione del prefascismo'; altri,
come Attilio Paolinelli, riallacciarono, sebbene a fatica, i legami con il
movimento anarchico, rientrando a pieno titolo nell ortodossia. Altri ancora, infine,
Nel caso di Gigli, si pu affermare che, con la partecipazione alla guerra, ebbe
del tutto termine la sua militanza pubblica. Nel dopoguerra, infatti, egli
abbandon la politica, tornando a dedicarsi ai suoi studi. Cfr. ANTONIOLI, Gli
anarchici italiani e la prima guerra mondiale. Lettere di anarchici
interventisti. Pi complesso liter politico di Maria Rygier. Negli anni
successivi alla guerra la Rygier si ivvicin allAssociazione Nazionalista,
maturando, nei confronti del fascismo, un atteggiamento sostanzialmente
ambiguo. comunque costretta ad
espatriare in Francia, dove rimase sino alla caduta del regime. Rientrata in
Italia, concluse la sua travagliata milizia politica nelle file del Partito
Liberale. Muore a Roma. (fr. FRANCO ANDREUCCI, DETTI, Paolinelli arrestato con laccusa di aver preso parte al
complotto di Pietralata, allorch un gruppo di anarchici, insieme a repubblicani
e arditi, tent d'impadronirsi dell'omonimo forte militare. Amnistiato, ader poi
- in rappresentanza degli anarchici individualisti - a un comitato romano di
difesa proletaria in funzione antifascista. come Gioda, Malusardi e Rocca, si
guadagnarono un posto di rilievo nel nascente movimento fascista, del quale
divennero, quantunque in ambiti diversi, indiscussi protagonisti. La loro
vicenda allinterno del fascismo (che appunto ci proponiamo di ricostruire nel
prosieguo di questo lavoro) pu, a nostro giudizio, essere considerata in
relazione ai loro precedenti anarchici; e infatti, se arbitrario ricercare in essa un medesimo filo
conduttore, immediatamente e coerentemente riconducibile alla doppia e
complessa eredit dellindividualismo anarchico
riconoscervi, pur | nelleterogeneit delle esperienze e delle posizioni
ideali e politiche, non | e dellanarcointerventismo, per possibile pochi punti di contatto con
quel pensiero e con quella tradizione. Nel valutare lapporto della cultura
anarcointerventista al movimento mussoliniano (un contributo minoritario, ma
non per questo trascurabile), occorre poi tener presente che il fascismo iniziale,
lungi dal formare un | monolito impenetrabile, orbitante attorno alla tetragona
figura di Mussolini, si distingueva piuttosto - come lucidamente nota Felice
nellintroduzione al primo volume della sua biografia mussoliniana - per essere
una serie di stratificazioni, un accumulo di passioni e didee diverse, non di
rado in contrasto tra loro. Di questo multiforme e | contraddittorio universo
che fu il primo fascismo, la vena. anarcointerventista, proprio in ragione
della sua disorganicit evidente nei diversi orientamenti di Gioda, Rocca e
Malusardi -, costituisce inoltre, per cos dire, un modello in scala ridotta. La
storia dellanarcointerventismo nel dopoguerra (la si consideri o meno in ordine
al fascismo) fu dunque, essenzialmente, storia dindividualit, anche se, ancora
per qualche tempo, nei mesi successivi allarmistizio, si verificarono, qua e l,
sporadici tentativi di raccogliere i superstiti della corrente
anarcointerventista intorno a un progetto politico ben definito, in grado di
misurarsi autonomamente con le forze nuove emerse dal rivolgimento bellico. A
prescindere da alcune iniziative isolate, come quella | partita da Domenico
Ghetti, l'esperimento di maggior sostanza in questa | condannato a quattro anni di confino. Il
secondo dopoguerra lo vide ancora attivo nelle fila del movimento libertario.
Cfr. ACS, CPC, Busta 3711 [Paolinelli]. i FELICE, Mussolini il rivoluzionario,
cit., p. XXII. 4 Il 17 maggio 1919, sulle colonne de Il Popolo dItalia, apparve
un appello di Ghetti agli anarchici interventisti milanesi perch facessero
giungere la loro adesione alla nuova iniziativa patrocinata da Mussolini.
Ghetti era un mussoliniano convinto (nel giugno del 1919 la Prefettura di
Milano, citt nella quale lanarchico romagnolo si era trasferito alla fine del
conflitto, lo segnalava tra i pi accesi propagandisti dei principi mussoliniani
in seno al partito anarchico). ACS, CPC, Busta 2355 [Ghetti]. direzione fu
quello tentato da Roberto DAngi. Nella primavera del 1919, gli ambienti
anarchici liguri (DAngi si era trasferito a La Spezia a guerra in corso) furono
messi in subbuglio da una circolare, firmata appunto dal noto propagandista,
nella quale si dava per imminente la pubblicazione di un nuovo giornale
anarchico dispirazione interventista. Le concezioni di DAngi sullanarchia
annota il 31 marzo il Prefetto di Genova non collimano con quelle del Binazzi
Pasquale, direttore e gerente del periodico anarchico Il Libertario che si
pubblica a La Spezia, ed ha pertanto deciso di fare uscire prossimamente col un
nuovo giornale anarchico intitolato La Protesta, che vorrebbe pubblicato
quindicinalmente. Tale nuova pubblicazione avrebbe come programma
lillustrazione del principio anarchico adattato ai nuovi tempi sortiti in
seguito allopera di rivoluzione fatta dalla guerra Il prestigio che ancora
ispirava il nome di DAngi e il ricordo, sempre vivo, delle dure polemiche
danteguerra, indussero Il Libertario a prendere nettamente le distanze da
quelliniziativa. Parecchi compagni da varie localit ammoniva il foglio di Binazzi
- ci chiedono spiegazioni circa una circolare diramata da Roberto DAngi, colla
quale si annunzia la pubblicazione di un nuovo giornale anarchico a Spezia.
Rispondiamo in blocco ai compagni: da tempo il suddetto individuo non ha pi
nulla di comune cogli anarchici di Spezia e tanto meno con noi del Libertario
Alla fine di maggio, Il Popolo dItalia - ormai organo ufficioso dei nuovi Fasci
mussoliniani - ospit un accorato appello di DAngi a tutti i libertari
interventisti, affinch dessero il loro contributo, anche economico, alla
realizzazione de La Protesta. Ci che io desidero scriveva DAngi, precisando il
proprio punto di vista che tutti gli
anarchici dItalia, i quali si dichiararono contro il militarismo prussiano,
abbiano il coraggio civile di affrontare la situazione da noi creata. Non lecito star zitti quando ci definiscono ex
anarchici, volta gabbana, rinnegati, ecc. Noi dobbiamo reagire, dobbiamo
esprimere le nostre idee [...]. Dobbiamo esprimere ed esporre le nostre idee
per snebbiare le menti, per fare viva luce, per dimostrare che noi, che ci
opponemmo con la violenza alla violenza teutonica, fummo e rimaniamo i veri
anarchici + Ibidem, Busta [Angi]. Il Libertario,Il Popolo dItalia IPO VRE PERI
PRIOTOI VIVONO TT Pet POVIOA Il primo numero de La Protesta usc. Noi si afferma
nelleditoriale facciamo qui una pubblicazione anarchica, n pi n meno. Come
prima della guerra, dunque, obiettivo principale degli anarchici interventisti
era quello di rivendicare la propria appartenenza alla famiglia anarchica,
nella convinzione, semmai, che i tempi fossero pi che mai propizi per una
riforma radicale dellanarchismo; riforma che doveva passare attraverso una
selezione delle migliori energie rivoluzionarie. Lo sconvolgimento europeo
sosteneva un anonimo articolista de La Protesta - ha insegnato qualche cosa
alloperaio. Noi anarchici, che a costui predichiamo di emanciparsi, dobbiamo,
come abbiamo fatto nel passato, non seguire il sistema del socialismo
ufficiale, per il quale il numero, o meglio una somma di numeri, tutto. Noi, nel rivolgerci alla massa,
dobbiamo parlare allindividuo Nonostante liniziale sostegno di Mussolini, e
nonostante i favori raccolti in ambito anarcointerventista', il giornale di
Roberto DAngi non sopravvisse al secondo numero, e il suo fallimento convinse
lo stessoAngi a ritirarsi a vita privata. Lo sforzo, tentato da Angi con La
Protesta, di connettere gli anarchici interventisti, come entit politica
autonoma, alla pi vasta corrente rinnovatrice del dopoguerra, rest un caso
isolato, ma il contatto tra gli . narchici e le forze superstiti
dellinterventismo rivoluzionario fu fecondo anche di altre esperienze, che, pur
non avendo un nesso diretto con | lanarcointerventismo, doveroso richiamare brevemente. E nota, ad
esempio, lattenzione con la quale, nel confuso biennio, gli interventisti
rivoluzionari - e in parte gli stessi Fasci di combattimento - guardavano al
movimento libertario. D'altronde, se le divisioni tra i due schieramenti erano
molte e insanabili, non mancavano tuttavia i motivi dincontro, particolarmente
la comune ostilit nei confronti dei socialisti bolscevizzati e del loro
inconcludente rivoluzionarismo, demagogico e parolaio (Malatesta manifesta a pi
riprese le sue riserve nei confronti dellesperimento leninista) '. Sul piano puramente
strategico non 8 La Protesta ? Le coscienze volitive, Dopo il numero saggio del
16 luglio, il giornale di DAngi raccolse oltre 30 sottoscrizioni - per un
totale di 240,45 lire - e 28 abbonamenti. Tra gli entusiasti sostenitori de La
Protesta ritroviamo alcuni dei nomi pi noti dellanarcointerventismo, da Gigli a
Sarti, da Fontana ad Senigallia. Cfr. /bidem.
Angi muore a Milano. Cfr. ACS, CPC, Busta 1612 [D'Angi Roberto]. Liniziale cautela con cui Malatesta accolse
le notizie provenienti dalla Russia lasci gradualmente - ma inesorabilmente -
il posto a una condanna senza appello del comunismo era quindi irragionevole
pensare, da entrambe le parti, ad unintesa dazione in chiave rivoluzionaria; e
basti qui ricordare la vicenda del progettato tentativo insurrezionale che,
auspice Alceste De Ambris, avrebbe dovuto estendersi da Fiume, occupata dai
legionari di Gabriele D Annunzio, a tutta la Penisola. Il piano, che vide
direttamente coinvolto Malatesta (rientrato in Italia nel dicembre 1919, grazie
allinteresse del segretario della Federazione dei lavoratori del mare, il
capitano Giuseppe Giulietti, e accolto favorevolmente dalla stampa
filo-fiumana), fall, a quanto pare, solo per la ferma opposizione dei
socialisti a dare un appoggio anche solo indiretto allimpresa'. La presenza
anarchica nel nebuloso quadro politico del dopoguerra si manifest anche per
altre vie e in altri modi, che, sebbene inconsueti, non devono per meravigliare
pi di tanto, quando si tenga conto. della multiformit delle posizioni allinterno
del mondo anarchico. Daltra parte, il processo di ridefinizione degli spazi
politici si prestava a favorire la nascita di connubi apparentemente
improbabili'. Tipico, in questo senso, il caso de autoritario e soprattutto
della dottrina della dittatura del proletariato. Per valutare la posizione di
Malatesta riguardo al bolscevismo
essenziale la lettura dei molti articoli da lui dedicati allargomento.
Una scelta significativa di questi scritti (originariamente apparsi su Umanit
Nova e Pensiero e Volont) si trova in MALATESTA, Individuo, societ, anarchia.
La scelta del volontarismo etico, a cura di Nico Berti, Roma, Edizioni e/o,
1998. ! Il 27 dicembre, Il Popolo dItalia, che segu con simpatia e
partecipazione il rimpatrio di Malatesta, rilev, a proposito dei rapporti di
questi con linterventista Giulietti, chegli era forse meno intransigente dei
tenenti idioti e nefandi del PUS. Gli apprezzamenti dellorgano mussoliniano, in
verit, non piacquero a Malatesta, consapevole del loro valore strumentale (al riguardo
v. BORGHI). Del resto, linfatuazione del fascismo per il vecchio capo anarchico
fu di breve durata (a questo riguardo si veda il duro articolo Una leggenda che
si sfata, in Il Fascio, 6 marzo 1920), e tuttavia, lantibolscevismo di
Malatesta fu spesso opportunisticamente richiamato, dai iornali fascisti, in
aperta polemica con i pussisti. Su questi fatti v. FELICE, Sindacalismo
rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio Ambris Annunzio. Tra gli esempi pi
significativi di questa sorta di diaspora anarchica devessere ricordato quello
degli anarchici triestini Andriani e Ukmar. Dopo il crollo della monarchia
asburgica, Andriani e Ukmar (che sono membri di riguardo del gruppo libertario
Germinal, il pi importante di Trieste) entrano nel Fascio Nazionale, costituito
dalle forze politiche italiane allo scopo di garantire lunione della citt
irredenta alla madrepatria. Dimentichi di ogni divergenza di programmi recitava
il manifesto del Fascio Nazionale -, fusi nel grande amore di sentirci
italiani, noi, uomini di tutti i ceti, ci siamo costituiti in Fascio Nazionale,
sintesi ed espressione di quanti consentono ad ununione con la Patria [...],
che ogni altro ideale comprende ed ammette (/taliani!, La Nazione). Su Andriani
e Ukmar v. MASERATI, Gli anarchici a Trieste durante il dominio asburgico,
Milano, Giuffr La Testa di Ferro, lorgano dei legionari fiumani diretto
dallardito e futurista Mario Carli!, che fu, per circa un anno, luogo dincontro
e di confronto tra le frange estreme del combattentismo e del futurismo
politico e certo anarchismo violentemente individualista, gravitante attorno a
riviste dal titolo emblematico, come Nichilismo e LIconoclasta!. Attraverso la
rubrica Polemiche danarchismo, il giornale di Carli, che iniziava le Carli,
nato in provincia di Foggia ma fiorentino dadozione, uno dei protagonisti delle avanguardie
futuriste. Verso la fine della guerra, Carli, con il gruppo del giornale Roma
Futurista (Settimelli, Marinetti, Rocca, Bottai, ecc.) tra i fondatori del Partito Politico
Futurista. Il futurismo politico, al quale dettero un apporto considerevole gli
ex-combattenti (lo stesso Carli, che era capitano degli arditi, si fece
promotore dellAssociazione fra gli Arditi dItalia), decisamente orientato a sinistra e costitu
una delle assi portanti dei primi Fasci mussoliniani, contribuendo altres ad
influenzarne gli orientamenti. Il programma dei Fasci di Combattimento creati
da Mussolini commenta Roma Futurista -
sostanzialmente identico al programma del Partito Politico Futurista.
Forse, le due istituzioni finiranno per fondersi. Lo spirito che le anima uno. E lo spirito dellItalia nuova: lItalia
dei combattenti. Sulla figura e lopera di Carli v. Dizionario biografico degli
italiani, Vol. 20, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1960-1997, ad
nomen, nonch il contributo di SCARANTINO, L'Impero. Un quotidiano
reazionario-futurista degli anni Venti, Milano, Guanda, 1978, p. 12 ss. Sul
futurismo politico e i suoi rapporti col primo fascismo v. FELICE, Mussolini il
rivoluzionario, GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, Bari, Laterza,
1975, p. 109 ss., e, con una particolare attenzione alla personalit e al ruolo
di Marinetti, MicHEL OSTENC, Intellettuali e fascismo in Italia, Ravenna,
Longo. Li Nichilismo, diretta da Molaschi, usc a Milano; LIconoclasta, fondata
da Gozzoli, vide la luce a Pistoia. Cfr. BETTINI, op. cit., ad indicem. Per
capire di quale tipo di idee fossero portavoce queste riviste, si veda
larticolo // mio individualismo, a firma Enzo di Villafiore (Enzo Martucci),
comparso su LIconoclasta (ma se ne potrebbero citare molti altri). Quale
differenza vi si legge corre tra il fanatico che si lascia castrare per i suoi
dei, il patriotta che si fa uccidere pel suo paese, e il sovversivo che cade
evocando la redenzione collettiva? Nessuna! Nella stessa guisa han perduto la
coscienza del proprio io, e perseguono un fantasma irraggiungibile. Sono dei
deboli. Essi non sentono la propria individualit che vuole affermarsi, godere,
vivere. E vorrebbero che io li seguissi. Io scettico, iconoclasta, cinico.
Vorrebbero che mi sacrificassi per la plebe stupida, grossolana e volgare. Io
che voglio bere il profumo della Vita e inebriarmi di Bellezza, che voglio
aspirare laere della Libert sconfinata, per ricevere infine il bacio della Morte.
Io tanto superiore alla mediocrit. Io lotto per me, unicamente per me. Sono al
di la del Bene e del Male. In ogni caso, posizioni di questo tenore suscitarono
critiche allinterno della stessa rivista di Gozzoli (che - come recitava il
sottotitolo - era aperta a chiunque). In un articolo significativamente
intitolato /ndividualismo o futurismo?, Berneri defin deliri letterari, prose
pazze e vuote, gli scritti di Villafiore e compagni, e pazzoidi e megalomani i
loro autori, pubblicazioni, si apr ai contributi di quegli anarchici
individualisti, per lo pi molto giovani, che, suggestionati dalla retorica
demolitrice e anticonformista del futurismo, vi scorgevano unarma potente di
rinnovamento della societ e, allo stesso tempo, un mezzo di realizzazione personale"8.
In polemica con Umanit Nova (il primo quotidiano del movimento anarchico
italiano, fondato da SUCKERT Malatesta), che guardava con naturale diffidenza
alla rivoluzione fiumana e alle velleit sovversive dei futuristi, Carli
affermava recisamente il carattere proletario e progressista del futurismo e
definiva in questo modo il proprio rapporto con lanarchismo. Tutti sanno quanta
dose di anarchismo sia nella nostra concezione futurista del mondo, che
vorrebbe abolire tutte le cose inutili ed ingiuste; le dinastie e i carceri, il
papato e i tribunali, il parlamento e i privilegi, larcheologia e i corrieri
della sera, E per questo che, non potendo pi accettare il dominio dellattuale
classe dirigente, n avendo fiducia in quello avvenire delle altre classi, io mi
sento assai vicino alla concezione anarchica, cio individualista, che vuol
preparare un tipo di uomo libero e forte, unico e indiscusso arbitro dei propri
destini A sua volta, Marinetti, rispondendo a un anarchico che, pur plaudendo
allopera novatrice dei futuristi, rimproverava loro il sostegno dato alla causa
fiumana e il loro sentimentalismo patriottico!, invitava gli anarchici a
lasciarsi dietro le spalle il pessimismo vano, per aderire alla lotta
propositiva del futurismo. Il punto era - secondo Marinetti - che, mentre gli
anarchici erano tutti pi o meno dei futuristi antipratici, platonici e
pessimisti, i futuristi erano degli anarchici pratici, fattivi, ottimisti, con
un campo determinato per le Zoro demolizioni e bonifiche, cio la patria. Tra gli
anarchici collaboratori de La Testa di Ferro si contava anche Ghetti,
responsabile dellufficio di corrispondenza del giornale a La Spezia. !9 Si
veda, in modo particolare, larticolo Con /a lenza, a firma Simplicio (Damiani),
in Umanit Nova CARLI, Replica a un avversario ultra-rosso, La Testa di Ferro
Cfr. BrUTNO. 22 Ivi. In quegli stessi giorni, Marinetti pubblicava, per le
edizioni de La Testa di Ferro, l'opuscolo A/ di l del comunismo, che pu
considerarsi il manifesto del suo sinistrismo. In esso, il poeta passava in
rassegna, criticandole, tutte le incarnazioni, vecchie e nuove, della sinistra,
e definiva le coordinate del suo individualismo futurista rivoluzionario.
Vogliamo afferma tra laltro - l'abolizione degli eserciti permanenti, dei
tribunali, delle polizie e dei carceri, perch la nostra razza di geniali possa
sviluppare la maggior quantit possibile di individui liberissimi, forti,
laboriosi, novatori, veloci. K } Sisonialitga al quale facevano riferimento
Carli, Marinetti e u uristi de La Testa di Ferro era il medesimo c in
lindividualista Abele Ricieri F. ov. o ETTARI FRI 3 atore, descriveva come
agilit volitiva, poesia i gli altri he, in quello stesso meglio noto come Renzo
violenza creatrice [ dl . _ x . O . uo: 4 ca di ei o minoritario, puramente
concettuale, pio Ismo nietzschiano, che niente a 6 $ d F Veva a che veder il
movimentismo malatesti sconti stiano,
cos pervaso di i i mala umanesimo, n con
il comunismo libertario di Umanit x i it Nova (col qual i, si i munism i i
quale, anzi, si poneva in netta antitesi) , ma che era, innegabilmente, frutto
di quel periodo storico I primi contatti col fascismo. Chiusa questa
parentesi, dunque il momento di tornare
alle vicende dei protagonisti dellanarco-interventismo in procinto di vestire
la cami ta nese di seguirne il cammino nellimmediato dopoguerra, a Jomiigii re
di Rocca. i vandi. In questo periodo - come si accennava - linteresse di
Rocca per lo pi rivolto alla bruciante
questione adriatica. In essa, allora al pui di sd dibattiti, egli rivers tutto
il suo virtuosismo polemico e la sua abilit di propagandista, con il puntiglio
e la caparbiet che gli erano propri Sebb Vicino ai nazionalisti, alla cui
Associazione ader subito dopo la vera. Rocca non ne condivide le smodate mire
imperialiste. Come si cilea dai MANTRA TORE: Oltre ogni confine, La Testa di
Ferro. Bocea , pag Leni Nazi i tra i pi assidui collaboratori de LIconoclasta.
sponenti della corrente anarco-individualist: i
Una raccolta dei suoi scritti si trova i Vila ae eri; va in F. UN FIORE
SELVAGGIO, Pi A pr E; beds seal con una breve nota biografica e bibliografica a
cura di Cimmii o ui fr vm Testa di Ferro, un certo Atomon ribade che i
futuristi Ri nino ma sh individualisti, bollando come anti-anarchica l'Unione
Anarchica a Malatesta, che, come le organizzazioni social- i i limi e comuniste, si limita a fare della a, la vera
anarchia non dove dare al i fattore economico dellesistenza, ma rici i FI nat)
; ercare la perfezione dellindividuo nella vi i sopra di ogni pregiudizio o di
ogni do, ITA a opr ] gma. Al contempo,
per, lanonimo futuri distinguere il gruppo di Umanit Ni i pic ae a s ova dal
Partito Socialista, mostrando di ire i primo al secondo, e define Malatesta, d
i quaglie do, lel I morale, un agitatore e apostolo. - AE Rocca membro del Fascio delle iazioni iotti 21 ro.
dels associazioni patriottiche e del Comitat i L'ing irredente di Milano. Cfr.
ACS, CPC, Busta [Rocca] Faggi Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura. suoi numerosi articoli per La Perseveranza, a cui continua a
collaborare fino a quando il mutamento della linea editoriale, sopravvenuto a
un cambio di propriet, gli consiglia labbandono), la sua posizione non anda
oltre la rivendicazione dellIstria e della Dalmazia, che egli non dubitava
essere geograficamente, culturalmente e politicamente italiane. Una certa
moderazione, che pur gli va riconosciuta, non gli imped di attaccare
violentemente i cosiddetti rinunciatari, a cominciare da Leonida Bissolati, sia
dopo lintervista da questi rilasciata al Morning Post, sia dopo il suo celebre
discorso alla Scala?. Rocca prende parte allimponente comizio milanese pro
Fiume e Dalmazia italiana, che fu la risposta data dai dalmatofili
alliniziativa del Zeader socialriformista, comizio nel quale - secondo Renzo De
Felice - ebbe il compito di sostituire Mussolini, che prefer non intervenire
per evitare incidenti8. Ai primi di marzo, Rocca intraprese un viaggio di
studio lungo la costa orientale italiana, da Venezia a Brindisi, giungendo
quindi a Spalato, sulla sponda opposta dell Adriatico. Dalla cittadina dalmata,
dove si trattenne qualche giorno, fece pervenire al suo giornale un esteso
reportage, nel quale si prodigava, con la consueta e un po pedante ricchezza di
argomentazioni, a dimostrare l'italianit della Dalmazia. AI suo rientro in
Italia fu protagonista di due nuove manifestazioni patriottiche, a Milano e
Torino; quindi, allinizio di aprile, part per Parigi, inviato speciale de La
Perseveranza, a seguire da vicino i lavori del congresso di pace. Dopo il
messaggio di Wilson agli italiani e il conseguente ritiro della nostra
delegazione dalla capitale francese, Rocca, che fino ad allora aveva tenuto,
nei confronti del wilsonismo, un atteggiamento prudente e non del tutto
ostile*, abbandona 7 A questo riguardo v. TANCREDI, // ministro della piccola
Italia, La Perseveranza, e Una pace di menzogna per un nuovo giolittismo.
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, cit., p.491. Per la cronaca del congresso
v. Il Popolo dItalia, 18 gennaio 1919. 29 Cfr. TANCREDI, La passione di
Spalato, La Perseveranza, Cfr. Il Popolo dItalia, e La Perseveranza, ROCCA,
Come il fascismo divenne una dittatura; cit., p. 77. 32 In occasione del
viaggio di Wilson in Italia, Rocca, pur vagheggiando una sorta di lega latina,
fondata sullalleanza Italia/Francia, che facesse da contraltare al nuovo
imperialismo anglo-statunitense, aveva manifestato interesse per le tesi del
presidente americano, dicendosi favorevole ad una partecipazione italiana alla
Societ delle Nazioni. Essa sola scrisse - avrebbe potuto garantire giustizia
per i vincitori come per i vinti: giustizia per gli italiani dell'Istria e
della Dalmazia, per gli albanesi, per i romeni, per gli stessi tedeschi (LIBERO
TANCREDI, L'Italia e la Societ delle Nazioni, La Perseveranza). ogni remora,
schierandosi senza riserve con il partito dellannessione, ormai - a suo dire -
lunica via percorribile. AI congresso per l'annessione di Fiume e della
Dalmazia, che si tenne a Milano, su iniziativa del Fascio delle associazioni
patriottiche, Rocca non lesina le accuse a Wilson, denunciando il torbido
retroscena bancario internazionale che si nascondeva dietro la figura del
presidente filosofo. Da questo momento i toni della propaganda estera di Rocca
si fecero sempre pi intransigenti. In un fondo per lorgano torinese
dellAssociazione Nazionalista, egli giunse addirittura a prefigurare la
necessit di un imperialismo senza confini, qualora la crescente ostilit
internazionale e Ia fantastica corsa allo sciopero allinterno del paese, con i
suoi effetti negativi sul livello di produzione, avessero a tal punto
danneggiato le esportazioni e fiaccato la ricchezza nazionale da impedire di
provvedere pacificamente allacquisto delle materie prime indispensabili. Questi
ultimi accenni alla situazione interna dellItalia ci consentono di soffermarci
sugli aspetti pi propriamente economici del pensiero di Rocca. La sua visione
economica, infatti, che rimarr pressoch inalterata negli anni a venire, si
veniva proprio allora configurando come una mistura di liberismo, sindacalismo
e produttivismo di stampo mussoliniano. Cos, a proposito della ventilata
introduzione delle otto ore lavorative, Rocca esprimeva lesigenza che ad essa
si accompagnasse tutto un sistema otganico di educazione ed istruzione
professionale che accrescesse il rendimento degli operai; i quali operai, a
loro volta, pena il tracollo economico della nazione, avrebbero dovuto prendere
coscienza delle loro accresciute responsabilit. Ci presupponeva una matura
collaborazione tra capitale e lavoro, dal momento che - secondo Rocca -
lemancipazione dei lavoratori non si sarebbe mai realizzata tramite.
lestraniarsi dalla storia e dal divenire sociale, dai problemi, dai doveri e
dalla responsabilit chessi comportano, ma solo attraverso la piena
compartecipazione al ciclo produttivo, secondo il modello del sindacalismo
nazionale. Quanto alla borghesia industriale, suo compito doveva essere, da un
lato quello di comprendere il cambiamento introdotto dalla guerra, ossia di
prendere consapevolezza dellormai inscindibile legame tra politica ed economia;
dallaltro, quello di dimostrarsi autentica classe dirigente, in grado sia di
Audacia (appunti per l'On. Orlando), Il Popolo dItalia TANCREDI, Per il
nazionalismo proletario. Un fenomeno d impotenza, La Riscossa Nazionale. Le otto
ore internazionali di lavoro, La Perseveranza, ID., Assenteismo e
collaborazione di operai e di industriali, opporsi con fermezza al bolscevismo
dilagante, sia di provvedere allintegrazione e alleducazione del proletariato.
Occorre che la classe dirigente - scrive Rocca - od almeno i suoi elementi
migliori, comprendano che il loro ufficio non
solo di resistere o di concedere, ma di persuadere e di guidare. Questo
modo di pensare era senz'altro condivisibile da Mussolini, il quale, nel
frattempo, aveva ribattezzato il suo quotidiano giornale dei combattenti e dei
produttori e promosso, con i Fasci di combattimento, una formazione che aveva,
tra i suoi primi obiettivi, quello di contrastare la demagogia bolscevica. Rocca,
del resto, ricordava di aver aderito ai Fasci di combattimento fin dal 1919,
poco tempo dopo la loro nascita. Questa affermazione, con tutta probabilit
rispondente al vero, non per altrimenti
accertabile; quel che sicuro che Rocca - almeno per tutto il 1919 - non
dimostr, a differenza di molti suoi compagni, un grande interesse per
liniziativa di Mussolini. Di Il Popolo dItalia lancia un invito per la
costituzione di un nuovo movimento politico d'avanguardia. Tra le molte
adesioni pervenute al giornale prima della data fatidica del 23 marzo,
ritroviamo i nomi di alcuni anarchici interventisti: il vecchio anarchico
Vittorio Boattini (che si dice toto corde con Mussolini, per le sante
bastonature interventiste ed anti-bolsceviche) Rivellini e Ghetti. Gli
anarchici coscienti scriveva questultimo al suo conterraneo Mussolini non
potranno che aderire al vostro appello . i Alla riunione milanese di Piazza san
Sepolcro fu senz'altro presente Mario Gioda, che aveva da subito aderito
allappello di Mussolini i Secondo Mario Giampaoli (che peraltro, pur essendo
stato testimone diretto dellaccaduto, fa riferimento alla cronaca de Il Popolo
dItalia), vi avrebbe preso parte Cfr. Ip., Un po' di cannibalismo economico
dopo la guerra, Ibidem, 18 febbraio 1919. sig In., La svalutazione sociale
della vittoria, Ibidem, 2 aprile 1919. Cfr. Massimo Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura, cit., p. 31. "i olo dItalia, 9 marzo 1919. SIAT
i nato a Meldola, nei pressi di Forl.
Manifesta idee anarchiche. Si trasfere a Milano, dove aveva a Li collaborato a
Il Grido della Folla. la Prefettura milanese scrive che, avendo egli, durante
la guerra, militato nel campo interventista, si dimostra un fervente
nazionalista, in tal senso svolgendo attiva propaganda. Il figlio di Boattini,
pe per qualche tempo segretario politico
del PNF per la provincia di Milano. ACS,CPC, Busta 679 [Boattini]. #2 Il Popolo
dItalia, anche Malusardi*, ma il fatto non
certo. Malusardi stesso, in un telegramma di adesione a Il Popolo
dItalia, si era detto dispiaciuto, trovandosi ancora sotto le armi, di non
poter partecipare personalmente, limitandosi a garantire la sua presenza in
ispirito, per riaffermare recisamente il suo interventismo e la sua apostasia*
- Il fatto che, anni dopo, Malusardi rivendicasse la patente di sansepolcrista,
non affatto probante, vista la tendenza
di molti fascisti, anche della prima ora, a retrodatare il pi possibile il
momento della loro presa di coscienza. GIAMPAOLI, Roma, Libreria del Littorio.
In base alla ricostruzione di Giampaoli (che, in ogni caso, si limita a citare
Il Popolo dItalia), Malusardi sarebbe stato presente in rappresentanza di
Milano e di Bologna. Il Popolo dItalia Si vedano gli articoli di Malusardi Cose
a posto e Commiato, in Audacia, 28 maggio e Degli anarchici interventisti che
sposarono la causa fascista, uno fra i pi intraprendenti Arpinati. Il futuro gerarca, peraltro, adere
al Fascio di Bologna a pi di sei mesi dalla sua costituzione. Nel primo Fascio
bolognese - nato nellaprile ad opera del repubblicano Pietro Nenni e di altri
interventisti di parte democratica - Arpinati ebbe sempre, a quanto pare, un
ruolo del tutto marginale, nonostante la notoriet conquistata, allorch un
comizio elettorale fascista al Teatro Gaffurio di Lodi si concluse in un
violento scontro con i socialisti ed egli, che faceva parte del servizio
dordine, fu arrestato insieme ad altri cinquanta camerati (cfr. Il Popolo
dItalia). in parallelo con linvoluzione
reazionaria del fascismo e la conseguente crisi del Fascio bolognese (culminata
con la fuoriuscita degli elementi democratici e di sinistra), che Arpinati
inizi una spregiudicata ascesa politica. L11 aprile, il Comitato Centrale dei
Fasci di combattimento gli affid la responsabilit per lEmilia centrale; quindi,
in occasione del congresso fascista di Milano, nel maggio, entr a far parte
dello stesso organo direttivo del movimento (cfr. Il Popolo dItalia). Tra il
settembre e lottobre successivi, Arpinati, complice il subbuglio seguito
alloccupazione delle fabbriche, si fece promotore di una vera e propria riorganizzazione
del fascismo bolognese, in senso marcatamente antipopolare, guadagnandosi il
sostegno, anche finanziario, degli ambienti pi conservatori. Il Fascio di
Bologna, cos ricostituito, accrebbe enormemente i propri effettivi, e, forte di
una struttura militare di primo piano, divenne una delle centrali dello
squadrismo emiliano-romagnolo, rendendosi protagonista di unimpressionante
escalation di violenze, culminate il 21 novembre (dopo le elezioni
amministrative vinte dai socialcomunisti) nel famigerato assalto a Palazzo
DAccursio, che consegn il Comune di Bologna nelle mani dei fascisti. Su tutti
questi punti v. TAROZZI, Dal primo al secondo Fascio di combattimento: note
sulle origini del fascismo a Bologna, in Bologna Le origini del fascismo, a
cura di Casali, Bologna, Cappelli, e ONOFRI, La strage di Palazzo Accursio.
Origine e nascita del fascismo bolognese, Milano, Feltrinelli, Gioda: il
difficile equilibrio tra reazione e operaismo A differenza di Massimo Rocca,
che si avvicin al fascismo gradualmente e con un certo distacco, Gioda si gett
anima e corpo nella nuova avventura. Due giorni dopo ladunanza di Piazza San
Sepolcro, Gioda, con lex sindacalista rivoluzionario Attilio Longoni, fu tra i
promotori del Fascio di combattimento torinese, del quale assunse la
segreteria. Gli intervenuti a quella prima riunione erano pochi, e Gioda - come
avrebbe ricordato molti anni dopo un testimone - appariva un ometto dalle
grosse lenti e dalleloquenza inesperta, vestito con un inelegante abito
marrone; piuttosto il tipo dellintellettuale - si direbbe - che quello del
tribuno in camicia nera. Il Fascio, costituitosi ufficialmente prese sede nei
locali della Lega dazione anti-tedesca, unassociazione patriottica di destra
sorta ad opera del nazionalista Cian. Il fascismo torinese - al cui sviluppo
iniziale contribuirono in misura notevole gli ex combattenti (Gioda cerc in
ogni modo di venire incontro alle esigenze e alle richieste dei trinceristi,
sforzandosi di far apparire il fascismo come il legittimo rappresentante dei
loro interessi) nacque dunque con il concorso e sotto gli auspici della destra,
distinguendosi da Secondo un biografo mussoliniano, la ritrosia di Rocca
nellaccostarsi al fascismo fu dovuta anche ai non ottimi rapporti tra
questultimo e Mussolini, il quale non avrebbe avuto granch in simpatia colui
[Rocca] che lo aveva violentemente attaccato, obbligandolo, nei confronti
dellintervento, ad una presa di posizione che egli avrebbe preferito assumere
senza sollecitazioni esterne (YvoN DE BEGNAC, Palazzo Venezia. Storia di un
regime, Roma, Editrice La Rocca). Cfr. Il Popolo dItalia. AVENATI, Dodici anni
dopo. Com' nato il Fascio di Torino, La Stampa In seguito il Fascio si trasfer
nei locali della Pro Torino, in Galleria Nazionale, un'associazione patriottica
di stampo sabaudo presieduta dal CONTE BARBAVARA DI GRAVELLONA.
Contemporaneamente al lavoro di organizzazione nel capoluogo, i fascisti
torinesi iniziarono unopera di penetrazione nella provincia. In una delle
primissime riunioni del Fascio, il 29 marzo, lanarchico trincerista Boario rec
le adesioni dei gruppi fascisti del Canavese, di Ciri, di San Maurizio e di
Caselle. Cfr.GIODA, Il fervido lavoro dei fascisti a Torino, Il Popolo dItalia)
La coscienza combattentistica di Gioda, bench inevitabilmente ammantata di
retorica, appariva sincera. Gi prima della nascita dei Fasci di combattimento,
lanarchico torinese si era fatto promotore di una campagna per il pieno
riconoscimento dellindennit di congedo agli smobilitati, rappresentanti lItalia
pi vera e coraggiosa, quella in grigio verde (ID., Sino all'ultimo sussidio
militare e l'indennit di congedo non viene, Ibidem, 16 marzo 1919). PORT PI
CTPTPM PIO VT PERE RIVER PT ETTI IPPONI OPA REATO O TORRI O PRETE PAPPA PAPA
subito per le forti venature non solo antisocialiste*, ma, spesso, antipopolari
tout court. Ci divenne ancor pi evidente dopo lavvento di Vecchi, un tipico
esponente della borghesia conservatrice piemontese (cattolico militante e
monarchico senza riserve, secondo la definizione che egli da di se stesso) , il
quale, entrato nel Fascio alla met di aprile, ne divenne in breve, a dispetto
di Gioda, il vero deus ex machina. La convivenza tra i due uomini forti del
fascismo torinese, cos diversi per indole, per estrazione sociale e per
esperienze politiche, si rivel subito molto difficile. Emblematico, a questo
riguardo, il giudizio, sospeso tra lironia e la commiserazione, che Vecchi,
nella sua autobiografia, ci ha lasciato di Gioda: un povero diavolo dalle molte
vicende. Il giovane Fascio torinese fu quindi immediatamente attorniato dalla
simpatia e dalla complicit dei ceti pi tradizionalisti. Se Torino - come
rimarcava lorgano del nazionalismo piemontese - era stanca di essere diffamata
da chi voleva farla credere bolscevica e giolittiana*, allora il fascismo
poteva segnarne la definitiva rinascita, poteva rivelarsi un elemento dordine,
pi che mai indispensabile a svolgere una decisa azione di vigilanza e di
controbatteria. Cos, gi alla fine di aprile, il Fascio di combattimento poteva
vantare ladesione di ben 31 associazioni liberali torinesi, e non v' dubbio
che, nonostante gli impedimenti inizialmente frapposti dallautorit prefettizia,
lapporto delle destre valse a favorire la graduale espansione del fascismo nel
capoluogo piemontese. Il lavoro Sul piano della stretta organizzazione
antisocialista i fascisti torinesi si dimostrarono molto efficienti. In un
telegramma del 22 maggio al Ministero degli Interni, il Prefetto di Torino
riferiva dell'avvenuta costituzione, in seno al Fascio, di un ufficio [...] con
mandato di seguire e segnalare le manifestazioni ed il movimento nel campo
socialista ed anarchico, vale a dire di un vero e proprio apparato di
spionaggio. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Direzione Generale di Pubblica
Sicurezza (dora innanzi Dir. Gen. PS), Affari generali e riservati (dora
innanzi Affari gen.e ris.), 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. Wp DE VECCHI,
// quadrumviro scomodo, a cura di Luigi Romersa, Milano, Mursia, p.I/. Sulla
figura di De Vecchi v. Dizionario biografico degli italiani, cit., Vol. 39, ad
nomen. VECCHI, La Riscossa Nazionale Cf. Il Popolo dItalia, Al Fascio ader
anche il comitato madri dei combattenti, presieduto dalla contessa Eleonora
Contini di Castelseprio. Nei primi mesi di vita del Fascio Gioda ebbe a
lamentarsi in pi di unoccasione, sulle pagine de Il Popolo dItalia (per il
quale curava la cronaca di Torino), del trattamento riservato ai fascisti
torinesi dalle autorit cittadine, nonch della presunta campagna diffamatoria
della giolittiana La Stampa nei confronti del Fascio di combattimento. scriveva
Gioda a Bianchi a un mese dallentrata in funzione del Fascio - procede
benissimo e tra molto entusiasmo. Il Fascio si
imposto confermava di l a poco a Mussolini e se noi non ci lasciamo
sfuggire il momento opportuno, otterremo risultati incalcolabili!. Ma qual era,
in tutto questo, il vero ruolo di Gioda? Se egli era senz'altro consapevole dei
vantaggi che potevano venire al Fascio di Torino dallaccordo con loligarchia
conservatrice piemontese, ci sembra per scorretto affermare - com stato fatto -
che egli ritenesse quella della reazione antipopolare lunica strada da battere.
In realt, l'approccio dellex tipografo alla questione delle alleanze politiche,
cos come a quella, pi complessa, dellorientamento generale del fascismo, era -
e sempre sarebbe rimasto - ben pi problematico. Gioda, infatti, pur difendendo
il carattere antibolscevico del Fascio torinese e pur desiderando che ad esso
accorressero tutte le forze sane, giovani, italiane, senza distinzione di parte
o di colore politico (perch il fascismo doveva essere anarchicamente -
lantipartito), teneva comunque a distinguere tra antibolscevismo e
antioperaismo e ribadiva che i fascisti non dovevano passare per dei nemici del
proletariato. Questa stessa esigenza fu da lui espressa al primo convegno
regionale dei Fasci piemontesi, allinizio del giugno 1919%, e a ACS, MOSTRA
DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA (dora innanzi MRF), Carte del Partito Nazionale
Fascista, Adesione ai Fasci Italiani di Combattimento, Busta, Lettera di Gioda
a Bianchi, Lettera di Gioda a Mussolini, MANA, Origini del fascismo a Torino,
in Torino fra liberalismo e fascismo, a cura di Nicola Tranfaglia e Ugo Levra,
Milano, Angeli, L'idea di antipartito era gi da tempo al centro della
riflessione politica di Mario Gioda. Lavversione alle forme tradizionali di
organizzazione politica, gi tipica dellanarchismo individualista, trovava del
resto un corrispettivo nelle nuove tensioni antipartitiche e antiparlamentari
del dopoguerra. Lantipartito aveva scritto Gioda vuol essere il sunto della
nausea che in Italia nutrono combattenti e produttori verso i politicanti.
Contro il feticcio partito, ormai incapace di conciliarsi collelettamente
dinamica modernit civile (la nuova societ scaturita dalla guerra), occorreva
suscitare lidea sovvertitrice dellantipartito, un'iniziativa iconoclasta e
squisitamente anarchica, in grado di restituire dignit e centralit ai singoli
individui (GIODA, L'antipartito, Il Popolo dItalia). AI di l dei riferimenti ai
temi del reducismo e del produttivismo, tipici dellaumus del periodo e dai
quali il trincerista e prossimo fascista Mario Gioda non poteva prescindere, la
radice libertaria e individualista di una simile impostazione di pensiero
appare comunque evidente (non a caso Gioda indicava in Henrik Ibsen uno dei
padri spirituali dellantipartito). Sul concetto di antipartito nel primo
fascismo v. GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista, GIODA, Aspetti del
fascismo torinese, Il Fascio Cfr, Il Popolo dItalia riaffermata poi in pi di un
frangente. Ad esempio, Il Popolo dItalia riportava unintervista di Gioda al
sindacalista Angelo Scalzotto, che lautore stesso definiva un saldo e vigoroso
lottatore, ben noto nel campo dellorganizzazione e del socialismo italiano.
Lintervista verteva sulla situazione dei ferrovieri italiani (in particolare
sulla questione delle otto ore lavorative) e Gioda non esitava a dichiarare che
lapprovazione, da parte del Governo, di concedere altre migliorie ai ferrovieri
non poteva non destare un senso di legittima soddisfazione, dal momento che
vedeva tutelati i sacrosanti diritti dei lavoratori. Il fatto che poi, in
occasione dello scioperissimo, il Fascio di Torino assumesse, nei confronti
degli scioperanti, una posizione di aperta sfida, non muta i termini del problema,
in quanto liniziativa dei fascisti era ancora indirizzata contro la politica
irresponsabile dei bolscevichi (ed era pienamente condivisa da tutti i partiti
della sinistra interventista) e non contro la totalit dei lavoratori!. E per
vero che, di fronte al primo programma fascista, fortemente sbilanciato a
sinistra, Gioda - come ricorda Felice - espresse qualche perplessit,
soprattutto, lui repubblicano, in merito alla cosiddetta pregiudiziale
istituzionale. Qualcuno -- scriveva il 6 giugno ad Attilio Longoni - rimasto male poich ha intravisto tra le
riforme anche quella definitiva della monarchia. Forse necessario mettere i puntini sugli i e Un
manifesto, fatto circolare dal Fascio torinese in quelloccasione, faceva
intendere senza mezzi termini che i fascisti, qualora fosse stato necessario,
sarebbero intervenuti a tutela dellordine, onde salvare il paese dal tragico
caos bolscevico. Allo stesso tempo, il manifesto ricordava ai lavoratori che
nessun partito socialista ufficiale aveva scopi violentemente innovatori come i
Fasci di combattimento, e di immediata attuazione. Sullo scioperissimo a
Torino, che si concluse senza incidenti degni di rilievo, v. La Stampa.
Latteggiamento dei fascisti nei confronti dello scioperissimo ben rappresentato dalle lettere di due
anarcointerventisti, entrambi operai. Edmondo Mazzucato, che lavorava alla
redazione de LArdito, il giornale dellAssociazione fra gli arditi dItalia,
scrisse a Mussolini (che ne defin la lettera un gesto di fierezza e di dignit)
di non aver alcuna intenzione di subire supinamente le imposizioni della
Federazione del libro, il sindacato a cui aderiva, e che si sarebbe recato come
di consueto sul posto di lavoro (Il Popolo dItalia). Su Il Giornale del mattino
del 30 luglio (organo ufficioso del Fascio bolognese, diretto da Pietro Nenni)
comparve una lettera non meno polemica del ferroviere Arpinati. Secondo il suo
primo biografo, Arpinati ricomparve sulla scena politica proprio in occasione
dellassemblea generale dei ferrovieri del compartimento di Bologna, il 20
luglio, allorch si sarebbe scontrato duramente con i colleghi favorevoli
allastensione dal lavoro (cfr. NANNI programma, elaborato da Agostino Lanzillo
e intitolato / postulati dei Fasci. Per la rappresentanza integrale, fu reso
noto da Il Popolo dItalia, chiarire i nostri rapporti coi fascisti monarchici.
La preoccupazione di Gioda era dunque, innanzi tutto, quella di non spezzare i
delicati equilibri interni del fascismo torinese, dove gli elementi monarchici
erano in netta preminenza, e non
difficile leggere nel qualcuno della sua lettera a Longoni un esplicito
riferimento a De Vecchi. Ma Gioda, come avrebbero dimostrato le vicende
successive alle elezioni politiche, non aveva rinnegato il proprio repubblicanesimo.
Le sue cautele erano quindi dettate da considerazioni di ordine strategico e in
questo senso, piuttosto che in quello di un suo personale mutamento di rotta,
devono essere interpretate le sue pur numerose concessioni alla destra. La
questione delle alleanze, la questione, in particolare del rapporto con la
sinistra interventista (repubblicani, sindacalisti della USI, socialisti
riformisti), si present con sempre maggior forza in previsione delle elezioni
politiche dellautunno. Si trattava di un problema che coinvolgeva tutto il movimento
fascista (e basti pensare al travaglio che colse il fascismo romano a ridosso
del voto) , ma che, a Torino, prendeva un significato particolare. Gi il primo
agosto 1919, in una nuova lettera allamico Longoni, Gioda defin leventualit che
si addivenisse a un blocco elettorale di tutto linterventismo di sinistra la
soluzione preferita da Mussolini - una sterile palla di piombo!. E chiaro che
Gioda pensava a salvaguardare lunit del Fascio da lui guidato, dove le forze di
destra, che erano preponderanti, non avrebbero mai condiviso una piattaforma
programmatica che ponesse tra i propri obiettivi quello della costituente. Non
a caso il direttore de La Riscossa Nazionale espresse il proprio rammarico per
le ripetute dichiarazioni di Mussolini in senso repubblicano, chiedendosi se
anche i fascisti torinesi intendessero seguire il loro duce in quella china.
Gioda, consapevole di doversi misurare con le ubbie monarchiche di De Vecchi,
intervenne a dissipare le perplessit dei destri. Mussolini sostenne - esprimeva
una posizione del tutto personale, che tale sarebbe rimasta, almeno sino alla
convocazione del primo congresso nazionale fascista. Quanto al Fascio di
Torino, esso non aveva, e non poteva avere, pregiudiziali di sorta. FELICE,
Mussolini il rivoluzionario. A Roma, la sinistra futurista guidata da Enrico
Rocca e Giuseppe Bottai si oppose alla decisione, votata dalla Giunta Esecutiva
del Fascio capitolino, di aderire alla Alleanza Nazionale, lintesa elettorale
promossa dai liberali di destra e dai nazionalisti (cfr. Dichiarazioni
futuriste sulla situazione elettorale romana, Roma Futurista, 2 novembre
FELICE, Mussolini il rivoluzionario RAVA, Posizione di battaglia, La Riscossa
Nazionale, 3 agosto 1919. Se fuori dal Fascio affermava Gioda - stimo
politicamente certi nazionalisti di indubbio valore e intelligenza, al Fascio
io non ne conosco nessuno. Cos come ignoro repubblicani, monarchici,
socialisti, radicali, anarchici e sindacalisti. AI Fascio, che non pu essere un
partito, io conosco solo dei fascisti concordanti su un dato programma di
realizzazione immediata. Tra parentesi, sono stato proprio io, anarchico, a
proporre a suo tempo di includere [Angelo] Cavalli, nazionalista, e Vecchi,
monarchico, nel Comitato Esecutivo del Fascio Ora, ci che queste parole
mettevano in evidenza non era soltanto uno scrupolo elettoralistico, ma la
fermezza di Gioda nel difendere il carattere antidogmatico dellidea fascista;
una presa di posizione tipica della vocazione movimentista del primo fascismo,
ma nella quale, nel caso specifico di Mario Gioda, possibile scorgere (almeno in qualche misura)
anche il retaggio dellanarcoindividualismo. Non
privo di significato, daltronde, che il fascista Gioda, consapevole
della novit rappresentata dal fascismo rispetto alle categorie politiche
danteguerra, richiamasse tuttavia la propria identit di anarchico, e non gi
come semplice attitudine o abitudine mentale, ma come un dato di fatto
politico. In ogni caso, chiarito che il fascismo, quanto meno in Piemonte, non
nutriva propositi sovversivi, Gioda pot confermare che il Fascio di Torino
avrebbe davvero costituito lasse per una grande intesa degli interventisti in
vista delle elezioni; ma che questa. sarebbe appunto avvenuta fascisticamente,
fuori dagli schemi destra-sinistra, ormai superati, astraendo dal colore della
tessera di partito. La marcia di Ronchi e loccupazione militare di Fiume da
parte di Gabriele. DAnnunzio parvero poter accelerare questo processo di
unificazione. Il 30 settembre, infatti, il Fascio di Torino si fece promotore
di in comitato pro Fiume (ne sorsero di analoghi un po in tutta Italia), nel
quale erano rappresentate tutte le forze nazionali, di sinistra e di destra,
dai repubblicani ai nazionalisti. Ma si trattava di un entusiasmo passeggero,
che avrebbe ben presto ceduto il passo a una pi grande incertezza.GIODA, /
nazionalisti e l'intesa di sinistra, tai Ip., Gli aspetti del fascismo
torinese, cit. Nel corso di unadunata del Fascio torinese alla presenza del
segretario politico generale del movimento Pasella, Gioda ribad che a Torino i
fascisti si sarebbero battuti per unintesa elettorale degli interventisti di
tutti i partiti. Cfr. Il Popolo dItalia Cfr. Il Fascio. Dal congresso fascista
di Firenze non venne affatto, contrariamente alle aspettative del segretario
del Fascio torinese (che vi ebbe peraltro un ruolo defilato), unindicazione
univoca in senso elettorale. Alla relazione di Bianchi, fautore di una linea
politica possibilista (la politica del caso per caso), fece da contraltare
quella di Mussolini, che, quantunque in modo non esplicito, lasci per
trasparire lintenzione di perseguire laccordo con le sinistre interventiste.
Quel che ne usc fu un ordine del giorno compromissorio, che, di fatto, lasciava
libert di azione ai singoli Fasci. Questa libert, venuta meno ogni possibilit
di accordo a sinistra, fin per concretarsi nellalleanza con la destra
liberal-nazionale (nella sola Milano, infatti, il fascismo riusc nellintento di
presentare una lista autonoma) 7. I deliberati del congresso di Firenze, nella loro
elasticit, andavano sostanzialmente nella direzione auspicata da Gioda, il
quale, libero da condizionamenti di sorta, pot rivolgersi alle forze politiche
torinesi con linvito ad abbandonare le fazioni e a dar corpo ad un potente
fascio di energie, in funzione antibolscevica e antigiolittiana. Per questa via
si addivenne infine alla costituzione di un Blocco della Vittoria, peraltro
chiaramente orientato a destra, quanto meno nella sua composizione. Ne facevano
parte, infatti, radicali, liberali di destra e antigiolittiani, tra i quali
alcuni membri del disciolto Fascio Parlamentare (Daneo, Sulloccupazione di
Fiume e le sue ripercussioni sul movimento fascista v. VIVARELLI, /! dopoguerra
in Italia e l'avvento del fascismo Dalla fine della guerra all'impresa di
Fiume, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, LEDEEN, D'Annunzio a
Fiume, Bari, Laterza, PERFETTI, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma,
Bonacci, e OSTENC, Si veda inoltre lintroduzione di Renzo De Felice a ANNUNZIO,
La penultima ventura: scritti e discorsi fiumani, Milano, Mondadori, Cfr.
FELICE, Mussolini il rivoluzionario, Il congresso ebbe luogo al Teatro
Nazionale, in via dei Cimatori, nei giorni (per la cronaca v. Il Popolo
dItalia). Vecchi entra a far parte del nuovo Comitato Centrale del movimento,
in rappresentanza dei Fasci piemontesi. Di tale lista faceva parte Edmondo
Mazzucato. Questi aveva aderito al Fascio di combattimento di Milano al momento
della sua costituzione ed era stato tra gli assaltatori della sede dell Avanti!.
La sua candidatura scriveva Il Popolo dItalia significa elevazione delle classi
lavoratrici, lo sforzo per formare tra gli operai una aristocrazia di pensiero
e di azione. Nella lista dei Fasci egli rappresenta loperaio onesto e che non
usurpa il nome di lavoratore. Mazzucato risult 14, su un novero di 19
candidati, con 56 voti di preferenza. GIODA, La piattaforma elettorale
piemontese, Il Popolo dItalia, 24 ottobre 1919, e Il Fascio, Bevione e lex
Presidente del Consiglio Boselli), mentre il Fascio vi era rappresentato da
quattro combattenti: De Vecchi, il generale Etna, gi comandante del corpo
darmata di Torino (deposto su ordine di Nitti nel settembre), il maggiore degli
alpini Garino e il capitano Revelli. LUnione Socialista Italiana, che in un
primo momento sembr poter entrare nel Blocco, se ne tir fuori quasi subito, per
far causa comune con i repubblicani nella Alleanza Elettorale. A questo punto,
Mario Gioda parve rendersi conto di aver imboccato una strada a rischio. Si
nota infatti, nella sua attivit politica prima delle elezioni, la
preoccupazione ricorrente di non far apparire la lista del Blocco della
Vittoria troppo sbilanciata a destra. Essa - sottolineava Gioda in un articolo
illustrativo per Il Popolo dItalia - era la pi organica, la pi rappresentativa
anche delle esigenze popolari, e il suo programma aveva un contenuto sociale
notevolissimo? In particolare, egli rimarcava ancora una volta che il fascismo
intendeva combattere il bolscevismo, non i lavoratori nel loro insieme, ed
operava altres una netta distinzione tra pussisti e socialisti rivoluzionari.
Un accenno alla lotta contro il bolscevismo scriveva Gioda a commento di un
passo della piattaforma elettorale del Blocco - non troppo felice. Si confuse, da Cfr. Il Popolo
dItalia, 25 ottobre 1919. AI Blocco della vittoria non ader la sezione torinese
dell Associazione Nazionale Combattenti, che si pronunci a favore
dellastensione. Nel corso di un'assemblea del Fascio, Gioda critica duramente
la scelta dei combattenti, non tanto perch non ne condividesse le ragioni
ideali (la volont, cio, di non compromettersi nella lotta parlamentare),
quanto, piuttosto, perch la riteneva controproducente sul piano tattico. I
fascisti disse Gioda hanno accettato anche la lotta schedaiuola per rintuzzare,
ovunque e comunque, la sfida dei giolittiani, dei clericali dei socialisti
ufficiali. Si noti che, nel testo originale autografo del discorso di Gioda, la
parola anche sottolineata, a evidenziare
il carattere strumentale attribuito dallo stesso Gioda alla battaglia
elettorale fascista. ACS, MRF, Esposizione, Busta[Documenti]. Il Fascio
commentava a questo riguardo Gioda non ha potuto far blocco con lUnione
Socialista Italiana, cio con i bissolatiani, non tanto per divergenze
programmatiche, quanto per la diffidenza di questi ultimi verso i nazionalisti
ed anche perch la USI vorrebbe impostare la campagna elettorale prescindendo
dallinterventismo e dal neutralismo. GIODA, /nsinuazioni gesuitiche dei
socialisti rinunciatari contro i fascisti, Il Popolo dItalia). Il programma
elettorale del Blocco della Vittoria. Tra i postulati del programma elettorale
del Blocco della Vittoria figuravano: lintroduzione di una tassa sui
sovraprofitti di guerra, la riforma scolastica, quella del sistema doganale
(per abbattere parassitismi e monopoli) e della burocrazia, lassicurazione
obbligatoria contro linvalidit, la vecchiaia e la disoccupazione, una riforma
degli organi legislativi che garantisse alla classe lavoratrice [...] una
diretta e specifica rappresentanza. nisticntiititnm parte dei redattori del
programma, socialismo rivoluzionario e bolscevismo. Ora, i maggiori e migliori
esponenti internazionali del socialismo rivoluzionario sono antibolscevichi per
eccellenza. Gli interventisti italiani della prima ora, da Cipriani a Corridoni
a De Ambris, sorsero appunto dalle file del socialismo rivoluzionario. Le
elezioni del 16 novembre videro, come noto, la sonora sconfitta dei fascisti. A
Torino risultarono eletti nelle file del Blocco della Vittoria i soli Bevione e
Boselli; primo dei fascisti in ordine di preferenze riusc Vecchi, seguito da
Etna, Revelli e Garino. Rispetto alla vera e propria dbacle registrata dal
fascismo in altre parti dItalia, non si trattava di un esito disastroso, ma
occorre tener presente che i fascisti in quanto tali non ottennero alcunch
(Bevione e Boselli, anzi, finirono per entrare nel gruppo parlamentare
giolittiano!). Gioda, commentando il responso delle urne, sottolineava il
rovescio subito dalla lista giolittiana e scriveva di brillante risultato**, ma
si trattava di un mero artificio tattico, 0, se vogliamo, di una ben magra
consolazione . su In verit, la sconfitta bruciava e fu anzi loccasione per un
chiarimento allinterno del Fascio di Torino. Si riun l'assemblea generale dei
fascisti torinesi. Gli operai sindacalisti Umberto Lelli e Pilo Ruggeri,
spalleggiati da Gioda, criticarono linvoluzione conservatrice del Fascio,
sostenendo la necessit di un pi stretto rapporto con i lavoratori delle
fabbriche??. Riguardo allalleanza con le destre, Gioda dichiara Per lesattezza,
il Blocco della Vittoria riporta 23.321 voti, contro i 116.409 dei socialisti
unitari, i 38.008 dei popolari, i 21.402 della lista giolittiana dellAratro, i
10.093 del Partito Economico, i 6.547 dellAlleanza Elettorale, e i 1.642 del
Partito Agrario. Per un quadro esauriente dei risultati elettorali nel
capoluogo piemontese v. La Stampa. GIODA, / risultati elettorali ottenuti dal
Fascio di Torino, Il Popolo dItalia, 28 novembre 1919. #5 Cfr. Il Fascio, 20
dicembre 1919. Mi l Pilo Ruggeri, che aveva militato nelle file della USI, era
un tipico rappresentante dell ala operaista del fascismo. Quali fossero le sue
convinzioni ben testimoniato da un suo
discorso al Teatro di Pinerolo, innanzi a una platea composta per lo pi di
socialisti. Nel suo intervento Ruggeri si era prodigato a illustrare l'essenza
rivoluzionaria e proletaria del programma fascista, evidenziandone le
differenze ma anche le affinit con quello socialista, in ci rivelando il timore
comune anche a molti altri fascisti - che una troppo accentuata politica
antisocialista potesse condurre allisolamento del movimento fascista dalle
masse. E significativo del clima politico di quei giorni che, nonostante le
aperture di Ruggeri agli avversari, il comizio si fosse concluso con gravi
incidenti tra fascisti Io stesso propugnai i blocchi a larga base, ma credo che
oggid occorra molta, ma molta circospezione prima di avventurarsi ancora in
altri blocchi, se non vogliamo [...] negare sempre la nostra giovinezza didee e
la nostra combattivit a beneficio dei vecchi partiti e dei vecchi loro
rappresentanti. Nella nuova Commissione Esecutiva del Fascio, eletta subito
dopo, entrarono quattro operai (oltre a Lelli e Ruggeri, Cantinetto e Giraudo)
Lallargamento della base del Fascio - come auspicava Gioda (che fu riconfermato
segretario politico) - avrebbe dovuto favorire la ripresa, in vista di nuovi
cimenti e di pi gagliarde lotte politiche e sociali**. Tuttavia, la decisione
di recuperare spazio e credibilit a sinistra rest senza seguito. Lassenza di
una base reale tra i lavoratori (a fronte di un movimento operaio forte e, a
Torino pi che altrove, schierato su posizioni di avanguardia), le irrisolte
contraddizioni della politica fascista - rese ancor pi stridenti dalla nascita
e dalla diffusione del fascismo agrario - e le resistenze della destra interna,
determinarono la sconfitta (ma sarebbe pi opportuno parlare di mancata
realizzazione) di questo progetto. Nella prima met del 1920 il fascismo
torinese attravers quindi una fase di ristagno, per non dire di vera e propria
crisi, che parve poterne compromettere le sorti, tanto che lunico successo
ottenuto da Gioda in questi mesi fu la costituzione, accanto al Fascio, di una
Avanguardia Studentesca, In occasione di una nuova assemblea generale dei
fascisti torinesi, nel maggio, Gioda pronunzi un importante discorso, che,
sebbene non si discostasse granch da quanto egli professava fin dal 1915,
lasciava presagire un nuovo mutamento di prospettiva politica, nel senso di
unattenuazione delle velleit operaiste. Linsuccesso della linea di sinistra
propugnata da Gioda e il prevalere, in seno al movimento fascista nazionale, di
un indirizzo e socialisti. Cfr. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS,
Affari gen. e ris., 1921, Busta 112 [Fascio di Torino]. 80 Il Fascio, cit. n
Cfr. Il Popolo dItalia, 25 dicembre 1919. Di GiODA, Un appello ai fascisti
torinesi, Ivi. AI riguardo v. EMMA MANA, op. cit., p. 251 ss. 2 bt Avanguardia
Studentesca torinese, nata alla fine di aprile del 1920, era presieduta dallo studente
dingegneria e mutilato di guerra Carmelo Cimino, gi membro della nuova
Commissione Esecutiva del Fascio. Cfr. Il Fascio. Sul fenomeno delle
avanguardie studentesche e, in generale, sui rapporti tra fascismo e
associazionismo giovanile, lopera pi circostanziata rimane quella di NELLO,
L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, Roma-Bari, Laterza
marcatamente reazionario, limitavano del resto i margini di manovra del
fascismo torinese. Ancora nellaprile, in risposta della grande agitazione dei
metallurgici (il cosiddetto sciopero delle lancette), un manifestino del
Fascio, vergato a mano da Gioda, invitava gli operai torinesi a rinnegare il
bolscevismo - che aveva corrotto lidea socialista di giustizia e di libert -,
per stringersi fiduciosi intorno ai fascisti, i quali erano per le pi ardite
riforme e le pi audaci rivendicazioni dei lavoratori, purch queste non
significassero la rovina e il sabotaggio degli interessi della Nazione?!. Nel
discorso del maggio laccento si spost (mazzinianamente, potremmo dire) dal
piano dei diritti a quello dei doveri del proletariato, con unaccentuazione dei
temi pi strettamente produttivistici. I fascisti dice Gioda sono delle volont e
delle capacit che seguono direttive senza dogmi e senza battesimi politici. Per
questo sono, alloccorrenza, rivoluzionari e conservatori. Vogliamo tutti i
diritti rivendicati al popolo lavoratore, se questo sa assolvere tutti i suoi
doveri. Un proletariato educato solo al culto del bel vivere una bestia da soma che qualsiasi governo o
classe capitalistica o chiesa politica possono asservire. La questione del
proletariato, invece, un altra cosa. E
una questione innanzitutto di capacit, allinfuori delle ciance rivoluzionarie e
parlamentari. E una questione di volont superiori maturate attraverso
lesperienza produttiva di tutte le energie nazionali? Gioda prese parte al
secondo congresso nazionale fascista, che si riun a Milano, quello della svolta
a destra e della ! ACS, MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Il Fascio, cit. Il
dissidio tra la sua concezione del fascismo, derivante in parte dal suo passato
anarchico e repubblicano, e le ragioni del compromesso (senza per tralasciare
di considerare che la disinvoltura programmatica era un aspetto non secondario
del cosiddetto problemismo fascista), accompagn tutta lopera di Gioda. Durante
ladunata provinciale dei Fasci piemontesi, chebbe luogo a Torino il 27 febbraio
1921, Gioda, commentando la relazione di Umberto Pasella sulla questione
sindacale, difese il principio, in essa affermato, della legittimit dello
sciopero economico anche nei servizi pubblici, essendo lo Stato, molte volte,
un cattivo padrone e un pessimo amministratore. 1 Fasci di combattimento, per
Gioda, non dovevano essere organizzazioni di guardie bianche o comitati di
difesa civile e avevano il dovere di battersi per qualsivoglia riforma, sia pur
audace, quando essa avesse arrecato beneficio ai lavoratori, nel rispetto degli
interessi generali. Riprendendo un concetto caro allala sindacalista del
fascismo, il segretario del Fascio torinese auspic la trasformazione del
movimento politico e sindacale fascista in un unico partito del lavoro. ACS,
MRF, Esposizione, Busta [Documenti]. Sui presupposti ideologici del partito del
lavoro, , pi in generale, sugli orientamenti laburisti allinterno del fascismo.
GENTILE., e soprattutto NELLO, Dino Grandi: la formazione di un leader
fascista, Bologna, Il Mulino, conseguente trasformazione del movimento. Daltro
canto, lingresso di Gioda nel Comitato Centrale dei Fasci, in sostituzione di
De Vecchi, rappresent - come ha sottolineato Felice - lunico successo dellala
sinistra del fascismo. Al riconoscimento di Gioda sul piano nazionale non
corrispose per il rafforzamento della sua leadership nellambito del fascismo
torinese. Alla fine di luglio, anzi, le elezioni per il rinnovo della
Commissione Esecutiva del Fascio videro la netta affermazione della destra. De
Vecchi, chiamato a presiedere la Commissione, accrebbe sensibilmente il proprio
prestigio e la propria influenza, mentre i primi sintomi di una grave malattia
costringevano Gioda a forzati periodi di assenza dalla scena politica
cittadina. Da questo momento, insieme al progressivo dilagare dello squadrismo,
di cui Vecchi seppe essere un abile manovratore, il Fascio di Torino riprese la
sua espansione. Gioda, dal canto suo, recuper il proprio ruolo soltanto a I
nuovi Postulati programmatici del movimento fascista, approvati a Milano,
modificavano radicalmente in senso conservatore - il programma fascista.
Cadevano, tra le altre cose, la pregiudiziale antimonarchica e la richiesta
dellassemblea costituente (lanarchico Ghetti, rappresentante del Fascio di La
Spezia, fu tra i pochi a pronunciarsi per la repubblica). In polemica con il
nuovo corso del fascismo, Marinetti e il gruppo dei futuristi abbandonano il
movimento. Per il resoconto del congresso v. Il Popolo dItalia, e Il Fascio.
Sullintera vicenda v. FELICE, Mussolini il rivoluzionario Cfr. Il Fascio. Il
ritorno in auge di De Vecchi fu senz'altro favorito dalla nuova crisi che colse
il fascismo torinese nella tarda primavera del 1920. Il 12 giugno si era
riunita unassemblea straordinaria del Fascio per decidere circa latteggiamento
da assumere di fronte alla crisi di governo. Caduto il secondo gabinetto Nitti,
si prospettava infatti leventualit di un esecutivo affidato a Giolitti: una
soluzione che trovava il pieno consenso di Mussolini. Nel corso dellassemblea,
che raggiunse toni drammatici, Gioda si disse assolutamente contrario a ogni
intesa con i giolittiani, definendo uningiuria alla nazione vittoriosa il
rientro sulla scena nazionale delluomo politico di Dronero, e minacciando
addirittura di dimettersi qualora i fascisti di Torino avessero dato il loro
assenso alla linea mussoliniana (cfr. Movimentata assemblea generale del Fascio
di Combattimento di Torino Un ordine del giorno contro Giolitti, Il Fascio). Di
fronte alle resistenze incontrate allinterno del Fascio e, soprattutto, di
froni. alla risolutezza dei vertici del movimento, decisi a perseguire laccordo
con Giolitti, Gioda si rese conto che la sua posizione non aveva alcuna
possibilit di affermarsi. Quindi, dietro sollecitazione di Umberto Pasella, si
decise a convocare la nuova assemblea generale che avrebbe portato al rinnovo
della Commissione Esecutiva. Su questi avvenimenti v. MANA. Con loccupazione
delle fabbriche, che ebbe il suo epicentro proprio a Torino, le violenze
fasciste si moltiplicarono. Le imponenti agitazioni operaie del settembre
contribuirono a legare il fascismo torinese agli ambienti del grande capitale (che
si erano visti minacciare nei setter cirrretricdatietnttittztt sac, allorch
assunse la direzione del nuovo settimanale del fascismo torinese: Il Maglio.
Rocca: il fascismo come nuova lite AI congresso fascista di Milano assistette
anche Massimo Rocca. Le sue conclusioni non dovettero dispiacergli, se vero - come ha lasciato scritto - che egli
non si era entusiasmato alloriginario programma sansepolcrista, giudicandolo
troppo impeciato di socialismo. Ma Rocca, sia pur attento osservatore delle
traversie del fascismo, era ancora prevalentemente un giornalista. Inizia le
pubblicazioni la rivista settimanale Il Risorgimento. Lintendimento della
redazione, guidata dal conte Arrivabene, ex direttore de La Perseveranza, era
chiaro: occupare lo spazio lasciato vuoto dal vecchio quotidiano milanese dopo
la sua conversione al nittismo, fare un giornale che riflettesse le idee e le
aspirazioni della borghesia conservatrice. Poich Rocca ne divenne uno dei pi
continui e pi stimati collaboratori, le credenziali dellex novatore anarchico
quale neofita del liberalismo ne uscirono senz'altro irrobustite. Sulle pagine
de Il Risorgimento Rocca riprese la polemica adriatica. E indispensabile
ritornare sullargomento, perch fu proprio su tale delicata questione che si
venne realizzando lincontro definitivo tra Rocca e Mussolini. Inizialmente,
Rocca parve non recedere dalla sua intransigenza, scagliandosi contro la Lissa
diplomatica, cui, a suo parere, la politica dei rinunciatari avrebbe condotto
il Paese. Quasi nello stesso tempo, tuttavia, prese ad emergere, dai suoi
scritti, una posizione diversa, pi conciliante e realistica. Di fronte alle
mille difficolt frapposte dagli Alleati e dalla Jugoslavia alle rivendicazioni
italiane, Rocca si persuase che la sola via loro interessi e non si sentivano
adeguatamente tutelati dal Governo), con ovvi benefici sul iano dei
finanziamenti e del sostegno politico e organizzativo. Il Maglio, fondato dal
capitano Pietro Gorgolini, aveva iniziato le pubblicazioni nel gennaio,
evolvendo dal quotidiano La Patria, un foglio interventista vicino ai
nazionalisti. Per lesattezza, Gioda ne eredit la direzione a partire dal sesto
numero, inaugurando la rubrica Senza guanti (che usava firmare con il vecchio
pseudonimo lAmico di Vautrin), una finestra polemica sulla realt nazionale e
cittadina che lo vide impegnato in schermaglie a distanza con la stampa
avversaria, in particolare con Ordine Nuovo, organo del PCdI torinese. 9
Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura TANCREDI, La lingua nostra,
Il Risorgimento, Milano, duscita fosse quella dellapplicazione integrale del
patto di Londra del 1915. Consapevole che ci sarebbe equivalso a rinunciare a
Fiume, Rocca (che pure aveva avuto una breve esperienza come legionario
dannunziano) ! si disse convinto che la citt, confinante con un'Italia signora
del Carso, delle Alpi Giulie, dellIstria e dell Adriatico, si sarebbe sentita
infinitamente pi forte, che se fosse stata abbandonata, senza continuit
territoriale, ad una larva di sovranit italiana'. Dopo lavvenuta
autoproclamazione di Fiume in stato indipendente, Rocca si rafforz nella
convinzione che lItalia non dovesse legare i propri destini a quelli della citt
martire. In un articolo gli elogi di prammatica al coraggio e alla fede della
popolazione fiumana non bastavano a celare il disappunto per il colpo' di mano
dAnnunzio. Noi - scrive Rocca - rimaniamo convinti e tenaci fautori
dellannessione di Fiume allItalia. Ma non abbiamo mai nascosto ai fiumani che,
oggi, lItalia non pu contemporaneamente annettere la citt del Quarnaro e
realizzare il Patto di Londra: anzi, che nella nostra lotta diplomatica in
difesa dell Adriatico e contro gli Alleati, leroica passione di Fiume pi dimpaccio che daiuto. Il giudizio lusinghiero
riservato da Rocca alla Carta del Carnaro (contemplante in effetti alcune delle
soluzioni da lui stesso auspicate sul piano dellordinamento politico), non ne
scalfiva lopinione che la reggenza dannunziana costituisse un serio ostacolo
alle aspirazioni internazionali dellItalia. Lambizioso esperimento fiumano era,
in ogni caso, votato al fallimento. Il Trattato di Rapallo, stipulato 100 a i d
n sudo Hi Hi 6 u Pi Rocca, giunto a Fiume subito dopo la marcia di Ronchi, vi
era rimasto per circa tre mesi, durante i quali aveva gestito lufficio di
propaganda estera di DAnnunzio. A Fiume si erano ritrovati anche altri
anarchici interventisti, fra i quali Mazzucato e Malusardi. !! LiBeRO TANCREDI,
La sfda di Nitti, Il Risorgimento, 20 maggio 1920. !2 Ip., L'Adriatico e
l'Europa. In particolare, Rocca disse di apprezzare che nella carta dannunziana
(redatta dAmbris e messa in bello stile dAnnunzio) fosse sancito il dovere di
produrre, quale requisito fondamentale per il godimento dei diritti politici. A
parte questo, egli condivideva labolizione del Senato e listituzione di un
camera tecnica, espressione delle diverse corporazioni professionali. Le
corporazioni, secondo Rocca, erano l'istituto fondamentale, il solo in grado di
raccogliere e disciplinare le masse e di dar loro una norma e unidea. (ID., La
costituzione di Fiume). Nondimeno, al di l delle convergenze formali, il
produttivismo meritocratico e sostanzialmente conservatore di Massimo Rocca
differiva in modo profondo dal sindacalismo integrale deambrisiano. Sulla
costituzione fiumana si veda La Carta del Carnaro nei testi dAmbris e
d'Annunzio, a cura di Felice, Bologna, Il Mulino, eli ita tra lItalia e la
Jugoslavia auspice il governo Giolitti, inflisse un duro colpo alle velleit
indipendentiste del comandante. In due suoi interventi su Il Popolo dItalia,
scritti a ridosso dellaccordo italo-jugoslavo, Mussolini mostr di accettare
sostanzialmente lesito dei negoziati!. Si trattava di una mossa a sorpresa,
spregiudicata, frutto di un preciso calcolo politico (in questo modo il duce
avrebbe realizzato il suo inserimento nel gioco politico-parlamentare a livello
nazionale) ', che disorient la maggior parte dei fascisti ma trov consenziente
Massimo Rocca. Il Comitato Centrale dei Fasci di combattimento si riun per
discutere della questione. Rocca, presente come semplice osservatore (e perci
senza diritto di voto), si schier apertamente dalla parte di Mussolini, imitato
dal solo Rossi. Il Trattato di Rapallo - dice Rocca - risolveva il problema
adriatico dal lato di terra, mentre lasciava insoluta la questione dell
Adriatico centrale e meridionale. Riguardo a questultimo punto, il suo parere
era che i fascisti dovessero far buon viso a cattiva sorte, senza perdersi in
uno sterile massimalismo e soprattutto senza assecondare improbabili disegni di
sedizione militare. Non si trattava - sostenne ancora Rocca riecheggiando le
tesi espresse negli articoli di Mussolini! - solo di una ragione di opportunit,
in quanto il problema marittimo per lItalia non si fermava all Adriatico, ed
era quindi uno sbaglio ostinarsi a considerare Fiume e la costa Dalmata come
lunico obiettivo. Occorreva guardare oltre, avere una visione pi ampia dei
problemi di politica estera. O noi concluse Rocca con una provocazione -
riusciamo ad essere i padroni dItalia e facciamo la politica interna ed esterna
che ci piace, oppure persuadiamoci che impiantare una politica estera armata
accanto a quella ufficiale, senza essere capaci di annullare quella ufficiale,
potrebbe forse essere un male gravissimo MuSSOLINI, L'accordo di Rapallo, Il Popolo
dItalia, 12 novembre 1920, e Ci che rimane e ci che verr, . Su questi fatti v.
FELICE, Mussolini il rivoluzionario. Gioda, che avrebbe dovuto rappresentare
Torino, era assente in quanto ammalato e fu sostituito da De Vecchi. Cfr. La
discussione e il voto dei Fasci italiani di combattimento. Il Fascismo innalza
la bandiera della Dalmazia Italiana, Il Popolo dItalia, Gli italiani scrive
Mussolini nel suo fondo non devono ipnotizzarsi sullAdriatico. C' anche se non
ci inganniamo un vasto mare di cui l'Adriatico
un modesto golfo e che si chiama Mediterraneo, nel quale le possibilit
vive dellespansione italiana sono fortissime. La discussione e il voto dei
Fasci italiani di combattimento, cit. Dopo accese discussioni, la riunione
termin con lapprovazione di un ordine del giorno unitario, largamente
compromissorio, che, se snaturava completamente la primitiva mozione di
Mussolini! apparendo come un successo della corrente filo-dannunziana, in realt
non andava oltre una generica dichiarazione di solidariet a D'Annunzio e non
comprometteva affatto la strategia del duce, come gli avvenimenti delle
settimane successive, culminati con il non intervento fascista in occasione del
Natale di sangue, avrebbero ampiamente dimostrato. Il giorno dopo la riunione
del Comitato Centrale, Rocca scrisse a Mussolini di non aver votato contro
lordine del giorno (come aveva fatto Rossi) solo in quanto non ne aveva
legalmente diritto, riconfermando la propria solidariet al duce. Da quel giorno
Rocca entra a pieno titolo nei ranghi del fascismo. Non soltanto, infatti,
riprese la collaborazione con Il Popolo dItalia (per il momento continuando ad
occuparsi del problema adriatico, sempre nellottica mussoliniana) !'?, ma inizi
lascesa politica che, nel giro di pochi mesi, lo avrebbe portato ai vertici del
movimento. D'altronde, le idee di Rocca si rispecchiavano ormai in gran parte
nella nuova fisionomia assunta dal fascismo allindomani del congresso di
Milano. Col tempo, infatti, egli era andato sviluppando posizioni sempre pi
conservatrici. Nella sua riflessione, le ragioni immediate del difficile
momento politico ed economico attraversato dallItalia andavano rintracciate,
oltre che nellignavia e nellincapacit dei suoi governanti, nellirresponsabilit
delle classi operaie. Queste, incapaci di assolvere ai propri doveri e dedite
allo sperpero, erano schiave di un socialismo degenere, alfiere di un
gaudentismo sfarzoso e gastronomico"!. Da qui - secondo Rocca - il
dilagare degli scioperi, quasi sempre ingiustificati; subdole manovre politiche
che mettevano a repentaglio lintegrit della produzione. A fronte di tutto
questo, una borghesia laboriosa, avente il dovere di resistere e di FELICE,
Mussolini il rivoluzionario 1 intesa italo-jugoslava - recita lordine del
giorno ispirato dalla destra fascista (Pietro Marsich, De Vecchi, ecc.) - era
insufficiente per Fiume, nonch deficiente ed inaccettabile per la Dalmazia. !!!
Il Popolo dItalia !2 gi vedano, in modo particolare, gli articoli Dopo Rapallo.
Il problema terrestre e quello marittimo, e Il trattato di Rapallo, pubblicati
dal giornale di Mussolini il 18 e il 25 novembre 1920. Questi e altri scritti
di analogo contenuto furono raccolti da Rocca in un volume dal titolo //
trattato di Rapallo: una pagina di storia ancora aperta, stampato a Milano nellestate
del 1921 per le edizioni de Il Popolo dItalia. !!3 Massimo Rocca, La crisi
maggiore, Il Risorgimento Gli articoli citati facevano parte delle rubrica
Pagine economiche, di cui Rocca il
principale curatore. vincere"!, ma troppo spesso paralizzata dalla
bassezza dei ceti dirigenti, burocratici e parassitari, assolutamente non in
grado di comprendere i fenomeni sociali ed economici del regime capitalistico
industriale!!5. Il nodo ultimo della crisi italiana risiedeva pertanto, a detta
di Rocca, nella perdurante e anacronistica separazione netta fra la casta
burocratica e la classe borghese, e nella sopraffazione della prima sulla
seconda, mentre leconomia andava sempre pi controllando la politica, fino ad
imprimerle le sue necessit e direttive '!. A questo stato di cose occorreva
rispondere con la rivoluzione della competenza: la rivoluzione della classe
borghese. La borghesia produttiva, la sola capace di gestire con criteri
tecnico- produttivi tanto il potere economico quanto il potere politico, aveva
lobbligo morale di realizzare un rivolgimento aristocratico della societ
italiana. Solo cos, contro ogni utopia egalitaria, le leve del comando
effettivo sarebbero tornate in mano ai migliori, anzich ai molti, ai capaci e
ai competenti. Alla borghesia, finalmente consapevole della propria autorit,
sarebbe spettato il compito, altrettanto impegnativo, di cooptare in questo
processo la parte migliore e pi responsabile del proletariato. In attesa che ci
avvenisse, Rocca suggeriva una serie di provvedimenti che, a suo modo di
vedere, avrebbero dovuto correggere le storture del sistema economico, a
cominciare dalla privatizzazione dei servizi essenziali. Se si vuole che si
lavori scriveva Rocca - bisogna tornare allo stimolo dellinteresse e del
puntiglio individuale, alla precisione ed allaccrescimento delle responsabilit
singole, a misura che i diritti e gli stipendi aumentano; allabolizione
radicale dei privilegi di cui godono i funzionari pubblici!!8, Dopo
loccupazione delle fabbriche, Rocca giunse a invocare ferree misure draconiane
contro gli eccessi del bolscevismo!". Il primo obiettivo di un governo che
avesse a cuore le sorti della nazione doveva essere quello di reintegrare il
pieno dominio della legge, senza indulgere a pietismi TANCREDI, Scioperi
politici. L'articolo in questione fu scritto da Rocca a seguito della vertenza
dei metallurgici torinesi. ROCCA, La crisi maggiore, ID., La disperazione dei
servizi pubblici, si In seguito, Rocca torn pi di una volta sulla convenienza
di restituire ai privati lesercizio dei servizi essenziali (si veda, a titolo
di esempio, larticolo / servizi che non servono il pubblico). La
privatizzazione avrebbe costituito uno dei cardini del programma economico
fascista, elaborato da Rocca con Corgini. Cfr, ID., La vertenza dei
metallurgici, democratici. Come si rileva da un articolo Rocca pensa a una
qualche forma di dittatura; a un uomo nuovo, che avesse gi fornito prova di
volont e di giustizia, il quale avrebbe potuto far cessare lorgia di tutti i
disordini. Non chiaro se egli si
riferisse direttamente a Mussolini, ma
molto probabile. E comunque significativo - come si evince da quello
stesso articolo - che Rocca ritene lassunzione dei pieni poteri una soluzione
eccezionale, destinata a rientrare una volta passata lemergenza bolscevica.
Allo stesso modo egli giustificava lo squadrismo, ma solo in quanto strumento
temporaneo dellazione politica fascista, utile a frenare le prepotenze e le
intemperanze dei rossi, Quando la violenza fosse diventata la consuetudine,
erigendosi a sistema, Rocca non avrebbe indugiato - come fece - nello
schierarsi anche contro lestremismo squadristico, in difesa della legalit. Non
riteniamo esservi contraddizione nel diverso atteggiamento - di legittimazione
e di condanna - assunto da Rocca nei confronti dello squadrismo prima e dopo la
marcia su Roma. Certamente, egli non seppe o non volle vedere la gratuit e la
scelleratezza delle violenze fasciste del periodo eroico, e, in senso pi ampio,
che quelle violenze erano il frutto di una visione totalitaria della lotta
politica, visione connaturata allessenza stessa del fascismo, che nello
squadrismo (e prima ancora nella mentalit squadristica, esprimente non soltanto
un disegno rivoluzionario ma, spesso, un ri verso la vita in generale) aveva il
proprio stile politico qualificante; ma occorre tener presente che Rocca si
poneva, appunto, dallangolo visuale del fascismo, vale a dire da una
prospettiva di parte, prigioniero di quella che potremmo definire sindrome da
guerra civile. Da uomo di parte, Rocca riteneva che la violenza delle camicie
nere fosse la risposta pi che legittima alla violenza antinazionale dei i Ip.,
Per una via d'uscita (0 reagire 0 abdicare), Ibidem, 21 ottobre 1920. In un
commento a margine dellassalto a Palazzo DAccursio guidato dalla sua ex guardia
del corpo Arpinati, Rocca espresse chiaramente il proprio punto di vista sullo
squadrismo. I fascisti scrisse costituiscono oggi un comodo paravento per
scusare alle masse linanit anche della violenza [...]. E costituiscono anche un
pietoso alibi per giustificare, di fronte alla borghesia non morta ed al codice
penale non ancora abolito, una propaganda ed unazione da veri delinquenti.
Ma troppo noto che, senza i fascisti, la
violenza delle masse abbrutite ad arte si scatenerebbe pi indisturbata e non
meno atroce (Ip., Bologna, Sulla violenza come aspetto caratterizzante della
cultura e dellazione politica fascista v. il fascicolo n. 6, 1982, di Storia
Contemporanea, per la maggior parte dedicato allargomento, particolarmente il
saggio di NELLO, La violenza fascista ovvero dello squadrismo
nazionalrivoluzionario, Dello stesso autore v. anche le riflessioni in merito
contenute in L'avanguardismo giovanile alle origini del fascismo, cit., e
Liberalismo, democrazia e fascismo. Il caso di Pisa, Pisa, Giardini, pussisti.
Ci non toglie che egli, dopo lascesa al potere di Mussolini, reputando esser
venute meno, con la sconfitta dei socialcomunisti, le ragioni dello squadrismo,
fosse in buona fede nel denunciare il perdurare dellillegalit fascista. Rocca
consolida la sua gi rilevante posizione allinterno del movimento fascista. Un
suo articolo in difesa della monarchia, scritto sotto pseudonimo per il
giornale di Mussolini, contribu a rinfocolare il dibattito circa lorientamento
istituzionale del fascismo. I fascisti - sostenne Rocca - dovevano schierarsi a
tutela dellistituto monarchico, non solo per motivi di opportunit strategica
(una rivoluzione repubblicana avrebbe infatti rimesso in gioco le forze del
sovversivismo, a tutto danno degli equilibri interni del Paese e del fascismo
stesso), ma anche in ossequio a pi complesse valutazioni politiche (monarchico
di ragionamento, si autodefine Rocca molti anni dopo) 1a, che investivano
lintero assetto della realt nazionale. La societ economica e politica che va
sotto lappellativo convenzionale di borghese - scrive Rocca - si capovolta nel suo contenuto produttivo ed
ideologico. Economicamente essa
sindacalista e non pi individualista: tanto che leconomia tende ad
assorbire la politica, compresa quella estera. Se una rivoluzione matura oggigiorno, nel senso di rinnovamento
urgente e non di rissa da arena diurna,
quella che sostituisca, in tutto o in parte, con un colpo di forza se
divenisse indispensabile, la tecnica e i tecnici, borghesi ed operai, e gli
organismi sindacali e tecnici, alla burocrazia, ai politicanti, ai demagoghi.
La funzione dei Parlamenti oggi
totalmente diversa da quella di cent'anni or sono. Allora essi erano le
rappresentanze genuine, non ancora corrotte [...], di nuove /ites in cui il
popolo rispecchiava se stesso. Oggi il Parlamento [...] diventato pur esso una casta chiusa [...] non
meno delle pi diffamate monarchie. E allora resta da chiedersi se alle
minoranze giovani e volitive della Nazione convenga meglio aver di fronte una
sola casta, quella parlamentare, o non sia meglio averne due, cio anche quella
monarchica, per usare delluna qual mezzo di controllo e di pressione
sull'altra. ROCCA, La realt italiana, ABC. ALTAVILLA, Repubblica e monarchia,
Il Popolo dItalia (anche in ROCCA, /dee sul fascismo). L'articolo di Rocca,
scritto in forma di lettera a Mussolini, fa parte della rubrica Orientamenti e
discussioni, inaugurata da Il Popolo dItalia in previsione delle adunate
regionali dei Fasci. Le adunate, convocate dal Comitato Centrale del movimento
nel gennaio, avrebbero dovuto fare il punto sullo stato del fascismo nelle
diverse regioni e dettare le linee orientative dellazione politica fascista per
il nuovo anno. La questione istituzionale, su cui era incentrata una relazione
introduttiva di Cesare Rossi (le altre, curate rispettivamente da Gaetano
Polverelli, Pietro Marsich, Mussolini e Pasella, concernevano il problema
agrario, i A prescindere dai cenni di natura tecnico-politica, ci che ancora
una volta emergeva da queste frasi era il contenuto fortemente elitario della
riflessione di Rocca. Non deve perci stupire pi di tanto il fatto che egli,
dopo aver rivalutato il ruolo della borghesia produttiva come classe dirigente,
riscoprisse il carattere esclusivo della tradizione monarchica (cos come, pi
tardi, avrebbe riscoperto limportanza etica del cattolicesimo) Del resto, in un
articolo dello stesso periodo, ricco dimplicazioni psicologiche e di
riferimenti autobiografici pi o meno espliciti, Rocca espresse il convincimento
che l'elevazione umana fosse sempre un fenomeno parziale, dindividui singoli o
di piccoli gruppi, e che lascesa e l'emancipazione, come la istruzione, fossero
sempre, e per nove decimi, unauto-ascesa, unauto-emancipazione, un
auto-insegnamento. Era dunque necessario - chiude Rocca (con parole dalle quali
traluceva in modo inequivocabile la matrice individualista della sua cultura
politica) - tornare agli individui e farla finita una volta per sempre con il
culto demagogico della massa. Malusardi: il mito del fascismo libertario Il
1921 vide inoltre lingresso nelle fila fasciste di Malusardi. Conclusa una
breve militanza nell Associazione Nazionale Combattenti!?, rapporti con lo
stato, la politica estera e il movimento sindacale), costituiva uno dei punti
chiave del dibattito interno. La riunione dei Fasci lombardi, cui prese parte
anche Rocca, ebbe luogo al Teatro Lirico di Milano il 20 febbraio (cfr. La
grandiosa adunata lombarda dei Fasci i
combattimento, Il Popolo dItalia. ROCCA, Una questione da non risolvere, Il
Risorgimento. La questione menzionata nel titolo era quella romana, che Rocca
riteneva non dovesse essere risolta, nellinteresse dItalia e dello stesso
papato, altrimenti destinato a smarrire il proprio carattere di universalit.
Larticolo conteneva un giudizio altamente positivo della funzione storica e
persino politica del cattolicesimo. L'attenzione di Rocca per la Chiesa e la
dottrina cattolica crebbe notevolmente negli anni a venire. E probabile che
questinteresse fosse da attribuirsi ad unautentica conversione personale;
tuttavia, come vedremo meglio in seguito, Rocca pare interessato al
cattolicesimo pi e altro come a un elemento di autorit e di disciplina
interiore. te ID., Quarto e quinto stato. La seconda parte di questo lungo
articolo comparve sul numero successivo della rivista, il 3 marzo. In esso
Rocca ribadiva lidea che fosse doveroso, oltre che utile, educare il
proletariato, cos da poterne estrarre un nucleo scelto, un/ite responsabile in
grado di cooperare con la borghesia alla gestione della produzione. Spintovi
dalla passione trincerista, Malusardi adere entusiasticamente all ANC (per
qualche tempo ricoprendo la carica di redattore capo de L'Eco della Vittoria,
organo della sezione monzese di quella organizzazione), salvo abbandonarla in
margine al Congresso nazionale di Napoli perch contrario ai ventilati propositi
di trasformazione Malusardi aveva intrapreso una saltuaria collaborazione con
Il Fascio e (come si ricava dalle cronache di quello stesso giornale) una
altrettanto frammentaria attivit di propagandista per conto del Comitato
Centrale fascista, prima di partire alla volta di Fiume, dove era stato
designato a dirigere la Camera del Lavoro dannunziana'*. Chiusa anche
quellesperienza Malusardi giunse a Verona, chiamatovi da Italo Bresciani,
segretario politico del locale Fascio di combattimento (nonch ex
anarcointerventista) ', noto per rappresentare lala di estrema sinistra del
fascismo veneto. Bresciani, che conosceva e apprezzava le doti di organizzatore
di Malusardi, gli affid lincarico di segretario propagandista del Fascio. La
scelta si rivel azzeccata, poich lanarchico lodigiano riusc ad imprimere al
fascismo veronese non solo un maggior dinamismo, ma anche una maggior visibilit
politica. Come prima cosa Malusardi dette vita a un giornale (Audacia), che
doveva immediatamente segnalarsi per il carattere battagliero, contribuendo al
graduale inserimento del Fascio nella realt scaligera. Egli, in particolare, vi
affin le proprie qualit giornalistiche, rispolverando tra laltro una rubrica
dei tempi de La Guerra Sociale (Foglie dortica), che divenne un punto di
riferimento importante nella dialettica politica cittadina. Come si detto, Malusardi proveniva da Fiume: tra i
suoi valori di riferimento, accanto alla fede repubblicana e a confuse (ma
autentiche e mai rinnegate) aspirazioni libertarie, retaggio della sua
militanza anarchica, si trovavano dunque la Carta del Carnaro e il sindacalismo
nazionale di Corridoni il suo compagno di trincea - e Alceste De Ambris. Nel
Fascio veronese, dellAssociazione in partito. A parte i suoi articoli per LEco
della Vittoria, per lo pi improntati al tema dellapoliticit del movimento
combattentistico, lattivit di Malusardi in seno all ANC non agevolmente documentabile. Anche sulle date
dellarrivo e della permanenza di Malusardi a Fiume vi incertezza. Il Fascio riporta un avviso ai
Segretari e Fiduciari dei Fasci e delle Avanguardie e a tutti coloro che
avevano occasione di corrispondere con la Segreteria Politica, annunciando che
Malusardi non ricopriva pi lincarico di segretario propagandista del Comitato
Centrale, in quanto, gi da qualche giorno, si trovava a Fiume. Nella citt
olocausta Malusardi diresse altres il foglio sindacalista La Conquista, del
quale non ci stato possibile reperire una
collezione (lo stesso Felice, dal cui Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo
nel carteggio De Ambris-D'Annunzio traiamo questa informazione, cita da fonte
indiretta). n Bresciani, classe 1890, gi convinto militante anarchico, fra i promotori del Fascio veronese di azione
internazionalista. Cfr. ACS, CPC, Busta [Bresciani]. Cenni alla formazione
sindacalista di Malusardi si trovano in MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, Torino, Stabilimento Tipografico Artistico Commerciale,
PIPTREIPPRRA \PPPTPOT VOTO PIPE PP PPIPT OP. POPRPOTTI TO RPPARE PP decisamente
orientato a sinistra, Malusardi trov lambiente ideale per portare avanti le
proprie idee. Si riun a Venezia ladunata regionale dei Fasci del Veneto".
Alla presenza, tra gli altri, del segretario generale del movimento Umberto
Pasella e del vecchio compagno Massimo Rocca, Malusardi ebbe modo di esporre il
proprio programma. Riguardo alla controversia repubblica/monarchia, egli formul
lauspicio che i fascisti si facessero portavoce di un fiero atteggiamento
antimonarchico. La monarchia sabauda afferm aveva tradito in pi di unoccasione:
prima della guerra perch favorevole al parecchio giolittiano, durante perch
colpevolmente latitante, dopo perch sostenitrice della politica rinunciataria
di Cagoja Nitti, a Fiume perch complice della repressione sanguinosa
dellinsurrezione dannunziana'. Noi, che siamo repubblicani e libertari concluse
Malusardi - in determinati momenti avremmo, quando il governo non agiva e
lItalia sembrava essere gettata nel caos, accettata anche una dittatura
monarchica [...]. Ma quando una monarchia esiste solo di nome ed avalla tutte
le infamie che si commettono nel suo nome, non
per noi che un anacronismo inutile e ingombrante! AI termine della
discussione, Malusardi e Bresciani presentarono un ordine del giorno
repubblicano, che raccolse per soltanto nove voti (quanti erano i delegati del
Fascio veronese), contro gli oltre venti ottenuti da una mozione Pasella,
rivendicante il carattere antidogmatico e antipregiudiziale del fascismo in
materia di regime. sulla questione
sindacale, cui egli era particolarmente sensibile, che Malusardi ottenne i
maggiori riconoscimenti. In quei mesi il problema dellorganizzazione sindacale
era oggetto delle preoccupazioni della dirigenza fascista. Nel novembre del
1920 era sorta infatti la Confederazione Italiana dei Sindacati Economici
(CISE), che raccoglieva i piccoli sindacati autonomi, dispirazione fascista pi
o meno accentuata, operanti - come si usava dire - sul terreno nazionale!*. Il
nodo gordiano dellintera vicenda, Per Ja cronaca v. La grande adunata fascista
di Venezia, Audacia Si noti la determinazione con cui Malusardi teneva a
precisare lessenza libertaria del proprio fascismo Pi n toda re: 4 det H rado
In occasione delle grandi agitazioni dei postelegrafonici e dei ferrovieri, il
fascismo aveva assunto un atteggiamento decisamente anti-operaio. Poich la UIL,
il sindacato interventista, aveva invece appoggiato gli scioperi, i fascisti
ritennero giunto il che avrebbe a lungo condizionato gli sviluppi del
sindacalismo fascista, era se lazione sindacale dovesse avere natura politica
oppure apolitica, vale a dire se i Sindacati Economici dovessero agire in
stretto accordo con i Fasci di combattimento, seguendone i programmi e le direttive;
0, al contrario, se dovessero essere svincolati dalla tutela del fascismo,
liberi, perci, di agire nel campo delle rivendicazioni del lavoro con la pi
ampia autonomia. Nel suo intervento al convegno veneziano, Pasella afferma che
i fasci dovevano ostacolare con ogni mezzo gli scioperi nei servizi pubblici.
Malusardi - facendo cos intendere quale fosse il proprio pensiero riguardo ai
Sindacati Economici - gli oppose che le lotte del lavoro andavano valutate caso
per caso. Infatti rileva -, se i fascisti avevano il dovere di contrastare gli
scioperi dichiaratamente politici, non dovevano per opporsi alle legittime
richieste dei lavoratori, quando questi reclamavano un pi ampio diritto alla
vita, e quando le loro aspirazioni potevano essere armonizzate con gli
interessi superiori della Nazione. Le preoccupazioni operaiste di Malusardi si
rivelarono ancor pi manifestamente allorch egli dichiar che, quando i
lavoratori avessero saputo dimostrare una capacit tecnica intellettuale ed una
preparazione morale superiore agli attuali dirigenti delle fabbriche e delle
officine, i fascisti (che non dovevano essere la guardia bianca di una classe,
ma i difensori della Nazione) avrebbero dovuto riconoscere loro il diritto di
gestire direttamente il frutto del proprio lavoro!. L'ordine del giorno votato
dalladunata accolse le tesi di Malusardi, anche nella parte relativa agli
scioperi nel pubblico impiego, riguardo ai quali recita - i fascisti, pur non
condividendoli in linea di principio, si sarebbero riservati di prendere
posizione volta per volta, in base alle circostanze. Anche in materia di
politica estera, Malusardi prese nettamente le distanze dalla linea ufficiale
del movimento. Egli, che era stato testimone del Natale di sangue, non poteva
ammettere che i fascisti avessero abbandonato D'Annunzio al suo destino. Perci,
pur dichiarando -la propria stima a Mussolini, Malusardi tenne a precisare di
non indulgere ad alcuna forma di momento di misurarsi direttamente nel campo
dellorganizzazione del lavoro. I nuclei sindacali fascisti trovarono il loro
modello in quelle formazioni indipendenti, per lo pi di modeste dimensioni,
che, sorte numerose dopo la guerra, si proclamavano apolitiche. Il primo
sindacato autonomo di marca fascista, il Sindacato Economico Ferrovieri, si
form a Roma il 16 febbraio, dalla fusione dell Associazione Movimentisti e del
Fascio Ferrovieri. In ordine a questi argomenti v. principalmente CORDOVA, Le
origini dei sindacati fascisti, Roma-Bari, Laterza, e ERFETTI, // sindacalismo
fascista. Dalle origini alla vigilia dello stato corporativo, Roma, Bonacci, La
grande adunata fascista di Venezia, feticismo e non esit a rimproverare al duce
di aver ingiustamente sacrificato Fiume sullaltare della ragion di stato. Le
prese di posizione di Malusardi alladunata di Venezia gli valsero severe
critiche da parte sia di Pasella, sia di Freddi (il segretario generale delle
Avanguardie studentesche), che gli rimproverarono di fare della demagogia. In
un fondo per Audacia Malusardi, quasi lusingato di aver suscitato tanta
apprensione nei piani alti del fascismo, replic ai suoi detrattori con queste
parole: Freddi e Pasella hanno chiamato il mio discorso demagogico. E un
aggettivo che non mi spaventa, quando penso poi che dai su citati prodigalmente distribuito a tutti coloro che
si permettono di pensare con la propria testa Riaffiora - come si pu notare -
lo spirito polemico che aveva contraddistinto il giovane anarchico nei giorni
dellinterventismo; riaffiora, soprattutto, lorgoglio individualista, la
presunzione di sentirsi | fuori dal gregge, senza curarsi (ma anzi
compiacendosi) di essere tacciato come eretico. Pochi giorni dopo le sue
dichiarazioni su Audacia, Malusardi
comunque indotto a dimettersi dalla carica di segretario propagandista
del Fascio di Verona. L'assemblea generale dei soci, tuttavia, riunitasi
durgenza, respinse allunanimit le sue dimissioni". I fascisti veronesi
apparivano compatti intorno a Malusardi, e non avrebbero mancato di
dimostrarlo, gi in occasione dellappuntamento elettorale. Queste affermazioni
di Malusardi sul feticcio Mussolini rimandano significativamente a quanto Rocca
ebbe a scrivere sul rapporto tra gli anarchici interventisti e il fascismo. Per
provare poi annota Rocca - che non tutti i primi fascisti erano mussoliniani,
basta ricordare gli anarchici che entrarono nel movimento, quasi tutti, e che
non furono pochi; io solo ne conosco una trentina. La maggior parte si dedic
allorganizzazione operaia, come Malusardi ed altri. Degli anarchici di cui mi
ricordo nessuno stato squadrista,
nessuno entr nel partito dopo la marcia su Roma, parecchi anzi si ritirarono
prima o subito dopo il delitto Matteotti. Si trattava di gente disposta a
servire la Patria o unidea, ma non ad incensare un uomo; la mentalit di questi
anarchici era lantitesi di quella dei socialisti passati al fascismo. I primi
non conoscevano lintransigenza settaria dei secondi: ma possedevano una
coscienza morale solida e indipendente (MASSIMO, Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura MALUSARDI, /n margine alladunata, Audacia, cit.
L'Assemblea generale del fascio Veronese. Una manifestazione di simpatia al
nostro direttore. Dalle elezioni alla marcia su Roma Le consultazioni generali,
merc linclusione dei Fasci di combattimento nei cosiddetti Blocchi Nazionali, realizzarono
lingresso del fascismo nel cuore della vita politica e parlamentare italiana.
Una riunione straordinaria del Comitato Centrale dei Fasci (presente anche
Mario Gioda) ratific la decisione che Mussolini aveva preso gi da tempo - di
dar corpo ad un'intesa elettorale con le altre forze nazionali. Il giorno
successivo, a unassemblea del Fascio milanese, Massimo Rocca difese la
legittimit di quella scelta. Non colpa
nostra dice se quei perfetti reazionari che sono i socialisti e i comunisti
malgrado il rosso di cui sincipriano, ci hanno imposto di scegliere fra lItalia
com, con certe sue caste dirigenti e le incapacit e le brutture che ne
derivano, e la rovina completa della Nazione, sul tipo di quella toccata alla
Russia. La nostra scelta dunque
doverosa, anche se non lieta: salvare ad ogni costo, in qualunque modo lItalia.
Per sia ben chiaro con questo che noi non rinunciamo a nulla delle nostre idee
e del nostro programma conservatore e rinnovatore nello stesso tempo.
Soprattutto non rinunciamo alla nostra lotta contro la propriet e il capitale
improduttivo, quando tale veramente e
non secondo le ciarle dei demagoghi, mentre rendiamo giustizia a tutte le forze
produttive della Nazione. Non rinunciamo alla lotta contro la burocrazia
parassitaria [...] n contro lo Stato a tipo puramente parlamentare-burocratico,
incapace di adempiere le funzioni di cui sincarica, mentre lega le mani alle
energie private, individuali e collettive, capaci di esercitarle con utilit e
convenienza! Del pari, a Torino, Gioda acconsent a sostenere la politica
bloccarda, giustificando lintesa elettorale tra fascismo e liberalismo con
lesigenza di salvare lItalia dal pericolo bolscevico'. Nondimeno, la formazione
del Cfr. / Fasci di Combattimento per la costituzione dei Blocchi Nazionali, Il
Popolo dItalia Su questi punti v. soprattutto FELICE, Mussolini il fascista. La
conquista del potere, Torino, Einaudi, 1! n Popolo dItalia, Rocca riprende
questi concetti in un saggio per Il Maglio, intitolato Arrestare la
dissoluzione. La decisione del Fascio milanese fu salutata con soddisfazione
dalle forze liberali (cfr. Il programma dei fascisti e l'adesione al Blocco, Il
Corriere della Sera. Cfr. Movimentata Assemblea del Fascio di Torino per i
Blocchi Nazionali, Il Popolo d'Italia. Nel corso dell'assemblea generale dei
soci del Fascio, riunitasi sabato 9 aprile, Gioda fatic a imporre la linea
della collaborazione elettorale. Alle perplessit della sinistra interna che (Ai
li A A ici Blocco Nazionale nel capoluogo piemontese si rivel tutt'altro che
agevole. I fascisti torinesi inaugurano la campagna elettorale con un comizio
di Rocca. Gioda annunci lavvenuto raggiungimento di un accordo di massima -
sulla base di alcune condizioni poste dai fascisti!" - tra il Fascio di
combattimento, l'Associazione Nazionalista, 1 Associazione Radicale, il Partito
Socialriformista, 1 Associazione Arditi, il Sindacato Economico Ferrovieri e
l'Associazione Nazionale dei Combattenti. Il segretario del Fascio lasci
trapelare la possibilit che il Blocco comprendesse anche l'Associazione
Liberale Democratica, tenendo per a sottolineare come la fermezza
antigiolittiana dovesse rimanere il criterio orientativo dellazione politica
fascista. Ora, era evidente che trattare con i giolittiani dell Associazione
Liberale. Democratica e, contemporaneamente, pretendere di fare
dellantigiolittismo, era un controsenso, tanto pi a Torino, dove un Blocco che
prescindesse dal sostegno di Giolitti aveva scarse probabilit di affermarsi ed
era perci nellinteresse dei fascisti non tirare troppo la corda. Il 21 aprile,
a conclusione di un negoziato che lo stesso Gioda defin penoso e difficile, si
giunse alla costituzione del Blocco, con linclusione dell Associazione Liberale
Democratica. Cos, non soltanto i fascisti accantonarono ogni remora
antigiolittiana, ma, nonostante Gioda lamentasse lingerenza immorale da parte
del Governo, il Fascio accolse il veto imposto dal Presidente del Consiglio
alla candidatura dellex parlamentare radicale Edoardo Giretti in favore del
responsabile dellUfficio i egli personalmente condivide riguardo allopportunit
di far blocco anche con gli odiati giolittiani, il segretario oppose la
necessit di far fronte allavanzata delle forze antinazionali i e, riprendendo
un concetto proprio dellimpostazione antidogmatica del fascismo, rivendic il
carattere aperto del Fascio, che non doveva conoscere n radicali, n liberali, n
anarchici, | ma solo fascisti, uniti nellinteresse del Paese (// Fascio di
Torino prende posizione nella lotta elettorale, Il Maglio Cfr. ] Fascisti
iniziano la lotta elettorale a Torino, Il Popolo dItalia, 15 aprile 1921, e Un
poderoso discorso di Libero Tancredi, Il Maglio, 16 aprile 1921. Rocca si
dimostr, come di consueto, un instancabile propagandista. Il giorno dopo
lapparizione torinese fu infatti a Milano, tra i principali oratori al comizio
inaugurale della campagna elettorale fascista (cfr. Il primo comizio elettorale
a Milano, Il Popolo dItalia). Queste prevedevano: schede elettorali con il
Fascio dei Littori; un programma che comprendesse la valorizzazione della
guerra e della vittoria, lassistenza ai combattenti, la tutela dellitalianit
allestero; il riconoscimento dellopera di salvamento nazionale compiuta dai
Fasci di Combattimento; uomini nuovi e di fede per le candidature; la difesa e
la valorizzazione dellimpresa fiumana e dalmata; la lista bloccata GIODA, Un
primo accordo fra i vari partiti a Torino. Sar possibile il blocchissimo"?
Trattative e moniti. Stampa presidenziale, Luigi Ambrosini". Nel Blocco
erano compresi unici candidati fascisti Vecchi e Rocca, che fa cos il suo
ingresso nella lotta elettorale. Dove la linea bloccarda incontra fortissime
resistenze fu a Verona. Il 10 aprile, nel corso della prima riunione dei Fasci
e dei Nuclei fascisti della provincia, Edoardo Malusardi fece intendere che i
fascisti veronesi non avrebbero rinnegato le loro origini rivoluzionarie e non
si sarebbero compromessi in unalleanza elettorale con le forze della borghesia
moderata e monarchica". Nonostante i ripetuti inviti al dialogo da parte
dello schieramento governativo (lorgano del liberalismo veronese, arriv a
definire l'eventuale accordo con i fascisti una necessit sacra) , il Fascio di
Verona si attenne alla linea indicata da Malusardi e disert il Blocco. Cos,
unico caso in Italia, nel collegio Verona/Vicenza i fascisti presentarono una
lista autonoma!. Va detto che Mussolini non neg il proprio assenso
alloperazione e che anzi, in una lettera aperta ai fascisti di quel collegio,
si congratul con loro per aver agito fascisticamente, giacch, ove mancavano
certe elementari condizioni di probit politica, occorreva non bloccare ma
sbloccare. Cfr. Ibidem. pl so Giretti fu costretto a rinunziare al suo posto in
lista per non compromettere la formazione e Blocco (cfr. MARIO GIODA, Una
nobile rinuncia dell'On. Giretti). la candidatura di Rocca particolarmente spinta da Gioda. Rocca
scrisse questultimo, presentando lamico agli elettori torinesi stato un novatore e un divinatore. Ha veduto
chiaramente il futuro quando tutti brancicavano nel buio. Per questo Stato scomunicato quale eretico dai pontefici
rivoluzionari (ID., Il Blocco Nazionale a Torino. I candidati fascisti). Cfr. Audacia A questo proposito v. anche /
fascisti veronesi lotteranno da soli, Il Popolo dItalia. I DTA 148 La
costituzione del Blocco Nazionale raggiunta a Verona. Contro il comune nemico:
fascisti a voi!, Arena, 24 aprile 1921. : i fo La composizione della lista
appariva comunque nettamente orientata a destra. Eccezion fatta per Italo
Bresciani e il ferroviere Michele Costantini, ne facevano parte il generale
Umberto Zamboni, gli agrari conte Giuseppe Serenelli e Cesare Piovene, lex
parlamentare Giberto Arrivabene (uno dei fondatori del Fascio Parlamentare del
1917) e il professor Alberto De Stefani (che risult lunico eletto). Cfr.
Audacia i 150 11 Popolo dItalia, 3 maggio 1921 (la lettera di Mussolini, datata
29 aprile, si trova anche in MussoLINI, Opera omnia, a cura di SUSMEL (si veda)
e SUSMEL (si veda) Susmel, Firenze, La Fenice). Mussolini si reca a Verona per
la campagna elettorale e riconferm l'apprezzamento per la decisione dei
fascisti veronesi di affrontare da soli il cimento delle urne. Cfr. Il Popolo
dItalia. Rocca figura dunque candidato fascista a Torino. La Giunta Esecutiva
del Blocco Nazionale per la circoscrizione Milano/Pavia decise di candidarlo
anche in quel collegio", in quanto egli - come scrisse Il Popolo dItalia -
conferiva un tono e un colore patriottico e passionale alla listay. Rocca
espone le linee del suo programma elettorale a cavallo tra laprile e il maggio,
in una serie di articoli per Il Risorgimento. Nel primo di essi (importante
soprattutto alla luce di ci che sarebbero stati i Gruppi di Competenza) Rocca
riprendeva unidea a lui cara: quella della riforma tecnocratica della
rappresentanza parlamentare. Una riforma seria e duratura scrive - dovrebbe
consistere nel riconoscere limpossibilit della politica astratta, limmoralit
parassitaria dei politicanti puri, e nel sostituire loro i valori fondamentali
che leconomia addita attraverso le sue organizzazioni, di ceto, di mestiere.
Distinguere gli uomini per quello che fanno e non per quello che dicono; e
quindi togliere alle mandrie elettorali lincarico di eleggere chi sa parlare,
mentire e intrigare di pi, per affidarlo alle collettivit ed ai nuclei organizzati
sulla base di unattivit specifica a profitto della vita sociale, attivit alla
quale soltanto i veramente capaci possono eccellere. Sarebbe possibile allora
che industriali e operai e scienziati e artisti autentici prendessero parte
alla Vita pubblica, occupandosi ciascuno delle questioni in cui competente: e i Parlamenti tecnici cos
formati conoscerebbero meglio il lavoro fecondo e pratico e meno le
disquisizioni politiche mascheranti i settarismi e i puntigli. A questo
intervento ne seguirono altri, pi specifici (una sorta di vera e propria
piattaforma elettorale in tre parti), nei quali Rocca suggellava i princpi
fondanti del suo rinnovato credo politico: libert economica, decentramento,
rispetto della legge. Leconomia liberista - argomentava Rocca nel primo di
questi articoli programmatici - veniva accusata di essere caotica, anarchica,
antisociale ed egoista, ma ci non rispondeva a verit, poich il vero liberismo
non si risolveva nellindividualismo fine a se stesso. Esso, infatti, trascende
e comprende tanto lindividualismo quanto il collettivismo; racchiudeva, cio,
tutti i sistemi di vita, tutte le forme economiche (tranne le improduttive), di
volta in volta selezionate e messe in atto dalla societ umana. In altri
termini, il liberismo era l'economia spontanea di per se stessa. Per questo
motivo, tornare al liberismo significava, n pi n meno, tornare all'economia
naturale della vita Cir. / candidati per il Blocco, Il Corriere della Sera. ne
Il Popolo dItalia ROCCA, La riforma fondamentale, Il Risorgimentosociale, al
libero dispiegarsi di tutte le energie economiche!'. Le affermazioni di Rocca
in materia economica, come del resto lintero suo pensiero, avevano ormai un
evidente contenuto conservatore, e, in questo senso, non v dubbio che la sua propaganda
contribuisse a rassicurare i ceti moderati sulle buone intenzioni del fascismo.
E per interessante vedere quanto anche la concezione liberista di Massimo Rocca
(soprattutto Ja definizione del liberismo come organizzazione spontanea della
vita economica) discendesse almeno in parte dalla formazione anarco-
individualista del suo ideatore. Del pari, la naturale ostilit anarchica verso
lo stato e, in generale, verso ogni potere accentratore, pareva emergere l dove
Rocca, nella seconda parte del suo manifesto elettorale, additava la necessit
del decentramento amministrativo e politico quale condizione essenziale per una
maggiore libert e una miglior gestione delle risorse nazionali. Nel terzo ed
ultimo articolo, infine, Rocca affrontava la questione della legalit. La
legalit scriveva - era requisito imprescindibile per un corretto esercizio
della libert, la quale, se svincolata da regole e da limiti preordinati, si
risolveva in un non senso, una negazione di se medesima, attraverso larbitrio
individuale e il disordine generale. LItalia, quindi, non sarebbe stata
realmente libera fintanto che non fosse stata restaurata la disciplina, in
tutti i settori della vita civile e politica: disciplina di governo, di vita
pubblica, di nazione, di vita privata. Disciplina era anche sinonimo di
gerarchia; infatti - sosteneva Rocca - bisognava ripristinare Ia gerarchia in
ogni campo, affinch il valore cosciente tornasse a primeggiare sul numero.
Larticolo terminava con lauspicio che finalmente, in Italia, fosse ristabilita
la legge contro tutti !59, i Simili affermazioni imponevano equanimit di
giudizio; imponevano, in altre parole, che quella stessa legge che egli
pretendeva applicata contro gli scioperanti socialcomunisti, valesse anche nei
confronti delle camicie nere. In futuro - come si accenna - Rocca non avrebbe
esitato a prendere posizione contro la perdurante illegalit fascista; ma allora
anchegli riteneva che lo squadrismo fosse uno strumento pi che legittimo di
lotta politica. Cos, ad appena due giorni di distanza dal suo articolo su Il
Risorgimento, commentando un gravissimo episodio di Ritorno all'economia) y
Tornare al liberalismo era anche il titolo di una conferenza tenuta da Rocca il
6 maggio nei locali dellAssociazione Commercianti Industriali Esercenti di
Milano (cfr. Il Popolo d'Italia ROCCA, Ritorno alla semplicit, Il Risorgimento.
Ritorno alla disciplina. a A mm PPTIPONI violenza fascista a Torino (lassalto e
la devastazione della Casa del Popolo), Rocca lo defin una sacrosanta vendetta
contro il dispotismo comunista, dopo mesi e mesi di longanimit!?. In
circostanze misteriose, loperaio fascista Odone
assassinato da un militante comunista. Allalba del giorno seguente,
bande armate di fascisti prendeno dassalto la Casa del Popolo. Nel terribile
conflitto che ne segue restarono gravemente feriti tre comunisti e un studente
fascista di Reggio Emilia, Maramotti, che muore poco dopo in ospedale. La Casa
del Popolo e i locali annessi, invasi dai fascisti, sono prima completamente
devastati, poi incendiati. Gli squadristi - riporta La Stampa - impedirono ai
vigili del fuoco di avvicinarsi alle fiamme e gli edifici andarono quasi del
tutto distrutti. I danni provocati dallassalto fascista sono stimati intorno ad
un milione di lire!. Nei giorni successivi, lautorit giudiziaria ordina il
fermo di nove fascisti, tra i quali il segretario della sezione torinese
dellAssociazione Arditi, Bruno Ricolfi, mentre gli stessi Gioda e Vecchi sono
denunciati con laccusa distigazione e complicit morale (senza peraltro che la denuncia
sorte alcun effetto). Non affatto chiaro
se Gioda coinvolto nella decisione di
assaltare la Casa del Popolo (la spedizione - a quanto rifere il Prefetto di
Torino Taddei al Ministero organizzata
prontamente e nel massimo riserbo), ma appare evidente dal suo comportamento di
quei giorni come anch'egli, al pari di Rocca, fosse prigioniero di un equivoco
di fondo: quello di considerare la violenza un ll Che cosa gi il controllo operaio a Torino, Il Popolo
dItalia. Cfr. Operaio fascista e mutilato di guerra ucciso da un comunista, La
Stampa Per le versioni di parte fascista e comunista v. rispettivamente Giona,
Un fascista mutilato di guerra assassinato da un comunista a Torino, Il Popolo
dItalia, 27 aprile 1921, e Tragico epilogo di una rappresaglia fascista,
L'Ordine Nuovo Cfr. La funesta notte e le sue conseguenze, La Stampa L'organo
del PCdI torinese rifer che le guardie regie di presidio alla Casa del Popolo
(quaranta, secondo i documenti di PS), non solo non avevano ostacolato gli
assalitori, ma gli avevano persino assecondati (cfr. Come stata incendiata e saccheggiata la Casa del
Lavoro di Torino, L'Ordine Nuovo). Il comportamento delle guardie regie fu
oggetto, nei mesi seguenti all'episodio, di una lunga polemica. Un'apposita
inchiesta, voluta dallenergico Prefetto Paolo Taddei, escluse che i militari
avessero preso le parti degli squadristi, ma accert altres - come lo stesso
Taddei scrisse al Ministro in data 6 luglio - la deplorevole negligenza degli
ufficiali preposti al servizio dordine, dimostratisi incapaci di fronteggiare
adeguatamente e con fermezza danimo loffensiva fascista. ACS, MINISTERO DEGLI
INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 112 [Fascio di Torino]. Cfr.
Il Popolo dItalia. !0! ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen.
e ris., cit, aspetto importante ma tutto sommato transitorio (quindi, in un
certo senso, accessorio) del fascismo, mentre essa ne era un elemento
coessenziale imprescindibile, oltre che difficilmente addomesticabile. Un
esempio di questo ambivalente stato danimo si trae da un articolo di Gioda di
poco precedente ai fatti narrati. In esso, commentando l'aggressione subita da
GRAMSCI (si veda) ad opera di alcuni squadristi, il segretario del Fascio
torinese define sacrosante le ritorsioni fasciste contro le vili imboscate e la
violenza liberticida dei pussisti, ma, al contempo, vivamente deplora
quellepisodio, del quale non comprende la necessit. Nel caso poi della
drammatica rappresaglia alla Casa del Popolo, Gioda mostr, almeno allapparenza,
di non averne intesa la reale portata politica, allorch ebbe a dichiarare,
contro levidenza dei fatti, che essa aveva avuto natura anticomunista ma non
antiproletaria tout couri n Fino a che punto Gioda fosse consapevole della
contraddittoriet della propria posizione non
dato sapere, ma certo che egli
non aveva la forza sufficiente per opporsi ad uno stato di cose che sfuggiva
ormai al suo controllo, costringendolo ad improbabili equilibrismi. Allindomani
della prova elettorale (che vide il fascismo conquistare 35 seggi alla Camera)
16, un quotidiano romano pubblic una lunga intervista a Mussolini. Alla domanda
se i neo deputati fascisti avrebbero o no preso parte alla seduta inaugurale
della XXVI Legislatura alla presenza di re Vittorio Emanuele III, il duce
risponde. IL FASCISMO NON HA PREGIUDIZIALI MONARCHICHE O REPUBBLICANE --
ma tendenzialmente repubblicano. In ci
differenziandosi nettamente dai nazionalisti, che sono GRAMSCI (si veda) aggredito alluscita dalla sede di one Nuovo.
Il leader comunista non sube in realt alcuna violenza, mentre lardito del polo
Torrero, accorso in suo aiuto, resta gravemente ferito. Cfr. Ibidem. GIODA, in
tema di violenza, Il Popolo dItalia. E Che Gioda non nutre molta simpatia per
gleccessi degli squadristi me provato
dallimpegno che egli mise nel cercare di frenarne le intemperanze nel pesi c
pipa Lo recrudescenza dello squadrismo torinese, ossia nei mesi immediatamente
precedenti i pe fo pacificazione. Alla fine di giugno, ad esempio, dopo un
ennesimo cruento scontro i fascis e comunisti, Gioda, rivolgendosi direttamente
alle camicie nere, rilev ! urgenza li ata fine una buona volta a quella fosca
teoria di violenze, destinata ad attizzare MEA odio olitico (ID., Un monito
opportuno dopo una lotta sanguinosa, Ibidem, ! luglio 1921). to Ip., Un rilievo
opportuno dopo l'incendio vendicativo. Rocca non eletto. Soltanto 18 su 28 candidati a Milano,
con 5.897 voti di preferenza (cfr. Il Corriere della Sera, 24 maggio 1921),
ottenne un miglior risultato in FERIRE 35,282 voti a Torino citt e 88.670
nellintera circoscrizione (cfr. La Stampa). pregiudizialmente e semplicemente
monarchici. Il gruppo fascista si asterr ufficialmente dal prendere parte alla
seduta reale!$ Le dichiarazioni filo repubblicane di Mussolini scossero profondamente
tutto lambiente fascista. Dinanzi al putiferio da esse suscitato in molti
Fasci, stabilito di rimandare ogni
decisione in merito a una riunione congiunta dei deputati fascisti, dei membri
del Comitato Centrale e dei segretari delle Federazioni regionali, al Teatro
Lirico di Milano. Tra i Fasci dove la questione ha un'eco maggiore vi sono
quello di Verona e quello di Torino. Un editoriale di Audacia (poi rivendicato
da Malusardi) fa giungere a Mussolini il consenso dei fascisti veronesi.
Loriginario programma fascista - vi si legge - quello di piazza San Sepolcro,
intransigentemente repubblicano, stato
purtroppo messo in disparte, mentre
giunto il momento di rinverdire lo spirito rivoluzionario del fascismo.
Le dure apostrofi dellorgano fascista destano viva apprensione neglambienti
moderati di Verona, al punto che, rispondendo allarticolo di Audacia, il
liberale Carli lascia addirittura intendere che la borghesia veronese non esita
a difendersi con le armi da uneventuale insurrezione repubblicana fascista.
Lassemblea generale del Fascio si chiude con lunanime approvazione di un ordine
del giorno Malusardi. Il Fascio Veronese di Combattimento recita il documento -
richiamandosi alle origini eterodosse del fascismo, qui nel veronese mai
smentite, dichiara la propria incondizionata solidariet con Mussolini nella
tanto dibattuta questione della tendenzialit repubblicana e riafferma essere
inconcepibile che i fascisti facciano parte anche di altri partiti. Dopo che la
riunione milanese del 2 giugno, protrattasi fino al giorno successivo, si fu
risolta in un nuovo compromesso (una soluzione molto confusa e contraddittoria,
secondo la definizione di Felice Il Giornale dItalia, L'intervista a Mussolini
fu riprodotta anche da Il Popolo dItalia Sulle conseguenze dellintervista di
Mussolini v. FELICE, Mussolini il fascista, Cfr. NOI, Cose a posto, Audacia,
CARLI, Difendo il Re, Arena, Audacia, FELICE, Mussolini il fascista, che
eludeva lessenza del problema, Malusardi non nascose il proprio malumore e
manifest la speranza che il prossimo congresso nazionale sciogliesse
definitivamente il nodo dellindirizzo istituzionale del fascismo. E? ora di
finirla scrisse tra laltro di vedere e liberaloni e nazionalisti e rancidi
conservatori insinuarsi nelle nostre file collunico scopo di rimorchiare al
loro partito il nostro movimento. Ed ora
di finirla anche con questi Fasci Agrari o dOrdine, che snaturano il nostro
programma e mascherano gretti interessi individuali o di classe!?. La vicenda
ebbe conseguenze assai pi traumatiche a Torino, dove port a un nuovo aspro
scontro tra Gioda e De Vecchi. Quest'ultimo, infatti, in unintervista
rilasciata a un quotidiano locale, dichiar che i deputati fascisti del Piemonte
avrebbero senz'altro presenziato alla seduta reale. Per testimoniare il proprio
dissenso da De Vecchi, Mario Gioda si dimise dalla carica di segretario
politico del Fascio di Torino e dalla direzione de Il Maglio'. La Commissione
Esecutiva del Fascio, riunitasi il giorno seguente, ne rigett tuttavia le
dimissioni, inviando altres un voto di piena, assoluta solidariet al duce. In
un articolo di commento alla vicenda, Gioda, rinfrancato dalle risoluzioni
della Commissione Esecutiva, si lasci andare a valutazioni ottimistiche.
Nessuno scrisse - aveva il diritto di meravigliarsi per la professione di fede
repubblicana fatta da Mussolini. Ben pi strano, infatti, sarebbe stato se il
fascismo, il giorno dopo le elezioni, fosse diventato tanto opportunista da
velare, o tacere, o sorvolare su una delle sue principali caratteristiche;
quella, cio, di essere un movimento tendenzialmente repubblicano. L'intervista
del duce - secondo Gioda - era giunta a proposito, cos da smontare una volta
per sempre la favola di un fascismo antiproletario e incatenato al servizio
della borghesia agraria e Lordine del giorno approvava loperato di Mussolini e
decretava la nascita del gruppo parlamentare fascista, riproponendo in sostanza
la tesi della non partecipazione alla seduta reale, ma non faceva menzione
della questione istituzionale. MALUSARDI, Vogliamo il congresso nazionale!,
Audacia. Cfr. La Gazzetta del popolo. Nel corso di un comizio al teatro Trianon
per la ricorrenza dellentrata in guerra dellItalia, il futuro quadrumviro
riconferma quanto dichiarato il giorno prima al quotidiano torinese (cfr. Il
Popolo dItalia). Nelle sue memorie, De Vecchi si compiacer di ricordare che
Gioda, nellascoltarne il discorso, era diventato sempre pi pallido, finch,
esasperato, aveva abbandonato anzitempo il teatro (cfr. VECCHI). Cfr. Il Popolo
dItalia, cit. In conseguenza dellabbandono di Gioda Il Maglio sospese le
pubblicazioni per quasi un mese. Cfr. Il Popolo dItalia, industriale', Tornava
dunque a mostrarsi la vecchia anima repubblicana e libertaria di Mario Gioda, e
non v dubbio che egli fosse in buona fede. Ciononostante, le sue posizioni non
trovavano corrispondenza nella situazione generale del fascismo, sul piano
locale come su quello nazionale, ed erano, perci, fatalmente destinate a
soccombere. Il giorno prima della prevista riunione di Milano ebbe luogo
lassemblea del Fascio di Torino. Essa - riferiva la cronaca, stranamente non
edulcorata, de Il Popolo dItalia - si risolse in un duello personale tra Gioda
e De Vecchi. Soltanto al termine di un affannoso dibattito fu licenziato un
ordine del giorno anodino (sottolineante il carattere unitario del programma
politico fascista) che, in definitiva, suonava come unattenuazione della linea
intransigente sostenuta da Gioda'. La riunione al Teatro Lirico, nel corso del
quale De Vecchi non manc di fare una manifestazione di fede monarchica!?8,
conferm la vittoria dellindirizzo moderato. A distanza di pochi giorni De
Vecchi prese liniziativa - del tutto personale - di convocare un vertice dei
segretari dei Fasci piemontesi. Gioda non rispose allinvito e non si rec
allincontro. Fu invece presente Umberto Pasella, che riusc a far passare una
mozione rivendicante il pi assoluto agnosticismo in materia di regime.
L'assemblea confer a De Vecchi lincarico di designare il nuovo direttore de Il
Maglio e la scelta, comera logico, cadde su un uomo di sua fiducia, lavv.
Ruella' Torna a riunirsi la Commissione Esecutiva del Fascio torinese. Gioda si
dimise per la seconda volta, lasciando capire di non aver intenzione di
recedere dalla propria decisione'*. Dieci giorni pi tardi, unennesima assemblea
straordinaria dei soci del Fascio | provvide allinsediamento di una nuova
Commissione Esecutiva'*, che a sua volta, riunitasi il 4 luglio, design
segretario politico un altro fedelissimo di De Vecchi, il capitano Aurelio, di
Novara, gi comandante della legione dalmata a Fiume Gioda appariva sconfitto su
tutti fronti. Nel giro di un | la disciplina fascista, Allassemblea del Fascio
torinese prese parte anche Massimo Rocca, senza tuttavia intervenire nella
discussione. LOI imponente convegno fascista a Milano. Cfr. Il Maglio Cfr. Il
Popolo dItalia La segreteria del Fascio di Torino fu assunta in via provvisoria
dal capitano degli arditi Mario Gobbi. Cfr. Il Maglio, e Il Popolo dItalia, I
membri della Commissione Esecutiva furono portati da cinque a sei. Cfr. Il
Maglio, GIODA, Le dichiarazioni di Mussolini e la speculazione idiota degli
avversari. Per mese, tuttavia, merc i contrasti suscitati dal patto di
pacificazione nel frattempo stipulato con i socialisti, la situazione mut ancora
una volta. Il 6 agosto, a riprova della gravit della crisi, Il Maglio
interruppe nuovamente le pubblicazioni (le avrebbe riprese soltanto il 26
novembre). Trascorsa una settimana, Gioda fu richiamato alla segreteria del
Fascio, quindi, lassemblea generale fascisti torinesi vot la nomina di unaltra
Commissione Esecutiva. La sterzata a destra coinvolse, almeno in parte, anche
Edoardo Malusardi. Si svolge unadunata provinciale straordinaria dei Fasci e
dei Nuclei fascisti del veronese. Al centro del dibattito, una volta ancora, il
tema dei Sindacati Economici. Alla tesi facente capo a Giuseppe Serenelli,
contraria alla costituzione di detti sindacati, e a quella di Alessandro
Melchiori, favorevole alla formazione di organizzazioni sindacali ad autonomia
ridotta, si oppose lidea di Malusardi, per il quale, mentre la prima rivelava
chiaramente la qualit di agrario del suo suggeritore, la seconda era troppo
generica e parimenti inaccettabile. Secondo Malusardi, il fascismo doveva
adottare il programma di sindacalismo integrale contenuto nel testamento
politico di Filippo Corridoni". Ma la grande novit delladunata furono le
dimissioni di Malusardi dal suo doppio incarico allinterno del Fascio veronese,
per motivi di salute e non politici. Al riguardo mancano purtroppo notizie
certe, ma non da escludere che la sua
decisione, anzich a ragioni contingenti, fosse dovuta a pressioni esterne, pi o
meno indirette. Daltra parte, leggendo il saluto indirizzato da Malusardi ai
suoi lettori, l'impressione che se ne trae
quella di un uomo tuttaltro che dimesso; un uomo che si sentiva
ingiustamente messo da parte e che, persuaso della bont dei propri
convincimenti, riaffermava la propria indipendenza di giudizio. Su tutta questa
vicenda v. MANA. Melchiori (a lungo segretario politico del Fascio di Brescia)
aveva gi espresso il proprio punto di vista in un precedente intervento su
Audacia. I sindacati - aveva rilevato - dovevano mantenersi il pi possibile
indipendenti, ma, al tempo. stesso, non potevano rinunciare al sostegno e alla protezione
del fascismo, se necessario anche contro gli stessi interessi padronali. Come
fino ad oggi aveva scritto Melchiori - i nostri camions sono serviti per punire
i calunniatori del fascismo, essi serviranno per prelevare a domicilio quei
proprietari che volessero ad ogni costo andare contro corrente. MELCHIORI,
Costituiamo i Sindacati Economici, Audacia). Alla fine dei lavori ladunata
approv un ordine del giorno, formulato da Italo Bresciani dintesa con il
presidente dellassemblea Salvatore Stefanini (membro del Comitato Centrale),
per la costituzione, anche nel veronese, di Sindacati Economici nazionali,
aventi autonomia finanziaria e politica. Ho sempre pensato scriveva Malusardi -
come meglio mi parso. Non ho mai avuto
alcun feticcio. Ho sempre preso il bello ed il buono da qualunque parte
venissero. Perch io non sono di quelli che marciano sulle rotaie dellanchilosi
cerebrale che i partiti e le chiesuole hanno portato su tutte le contrade.
Sempre ho irriso, anzi, a tutte le botteghe multicori politiche che pretendono
daver la privativa dellinfallibilit. E interessante, in questa lunga
confessione di Malusardi, il modo in cui egli tornava ad illustrare la propria
concezione sindacalista. Il tono e i contenuti - come si pu vedere - non erano
granch mutati dai tempi de LAgitatore. Bench sono [sic] orgogliosamente
individualista affermava - fui tra le masse lavoratrici e per esse lottai,
pugnai di persona. Non perch io credessi o creda nella elevazione collettiva
della massa [...], ma per staccare da essa delle individualit e delle minoranze
intelligenti e volitive, capaci dinnalzarsi realmente ad un pi alto livello di
comprendonio e di personalit. Poich io non dimentico che la storia sempre stata scritta dagli individui e dalle
minoranze. Il sindacalismo, quale io lo intendo
individualista ed una realt
avveniristica nella quale predomina il mito della singola responsabilit. Il
sindacalismo logicamente per un continuo
superamento e per il massimo imborghesimento; il socialismo ed il comunismo
statali rappresentano invece il livellamento e la massima proletarizzazione di
tutti!8* Infine, Malusardi rilasciava una dichiarazione dallevidente sapore
programmatico.lo non sar mai per il conservatorume rancido e vilissimo che,
passata la bufera bolscevica, spazzata via dal salutare vento fascista, si riverniciato a nuovo e pretende rimerchiare
la nostra gagliarda giovinezza. Io sono orgoglioso, anzi, di aver molto
contribuito a mantenere al fascismo veronese la sua caratteristica sbarazzina e
ardita, tanto da essere chiamato la punta estrema del movimento fascista! n
definitiva, lallontanamento di Malusardi da Verona - cui fece seguito il suo
temporaneo esilio in provincia - pareva dettato, pi che da cattive condizioni
di salute, da valutazioni di opportunit ambientale. Egli, del resto, non
abbandon affatto lattivit politica. Al congresso provinciale MALUSARDI,
Commiato A seguito delle dimissioni di Malusardi la direzione di Audacia fu
ereditata da Grancelli. fascista, Malusardi
infatti presente in rappresentanza dei piccoli Fasci di Legnago e di
Cologna Veneta, figurando altres quale segretario generale della Federazione
fascista intermandamentale del basso veronese. In quel frangente egli si fece
promotore di una mozione favorevole al patto di pacificazione, da poco
stipulato con i socialisti, per ragioni di ordine nazionale'. L'ordine del
giorno Malusardi fu approvato con 14 voti a favore, il doppio di quelli
ottenuti da una proposta di Bernini, del Fascio di Verona, per laccettazione
condizionata del patto. Ci sembra significativo che, proprio nel momento in cui
il Fascio veronese manifestava al riguardo molte perplessit, Malusardi
appoggiasse la strategia distensiva di Mussolini. Senz'altro, com anche
possibile desumere dalle sue future prese di posizione in tema di violenza,
Malusardi riconosceva il bisogno di una tregua darmi con le sinistre (la sua
intransigenza sui principi non dev'essere confusa con lestremismo
squadristico), ma anche presumibile che
egli mirasse in parte a recuperare credito agli occhi delle gerarchie!, Tra
lagosto e il settembre, Malusardi simpegn in unintensa opera di propaganda a
sostegno del patto di pacificazione, girando tutta la provincia di Verona, con
esiti confortanti. Contemporaneamente riprese a collaborare con Audacia, di cui
riassunse la direzione, poco tempo prima del III congresso nazionale fascista
Favorevole alla tregua con i socialisti si era detto anche Massimo Rocca,
bench, in un articolo di poco precedente alla firma del patto, egli avesse
espresso forti dubbi circa la tenuta di un eventuale accordo, soprattutto nelle
zone, come l'Emilia Romagna, dove la lotta politica aveva raggiunto la massima
asprezza (cfr. Massimo Rocca, Per la pace interna, Il Risorgimento). Dopo che
laccordo fu denunciato - in conseguenza dei gravi incidenti scoppiati al
margine de! III congresso nazionale fascista -, Rocca attribu la responsabilit
del suo fallimento ai socialcomunisti (cfr. Ip., La commedia di una
pacificazione Su tutte le questioni connesse al patto di pacificazione v. FELICE,
Mussolini il fascista. Audacia A questo proposito, il responsabile per la
propaganda del Comitato Centrale, mentre rimproverava a Grancelli e agli altri
dirigenti del Fascio di Verona, il loro semplicismo politico, si disse
piacevolmente sorpreso che l'ex anarchico Malusardi condividesse liniziativa di
Mussolini per la pacificazione (MARINONI, Dopo il Congresso Provinciale). In
preparazione dellassise nazionale di Roma, i Fasci del veronese si radunano a
congresso. Tra i temi dibattuti, oltre a quello dellannunciata trasformazione
del movimento in partito (che avrebbe dominato i lavori dell Augusteo ), vi fu
nuovamente quello dei Sindacati Economici. Infatti, dopo la nascita e la
diffusione dei Gruppi dei ferrovieri fascisti, organismi di categoria dipendenti
dai Fasci, che lasciavano intravedere la possibilit di un sindacalismo
integralmente fascista, si andava vieppi riconsiderando la funzione dei
Sindacati Economici, la cui pretesa apoliticit era ormai oggetto delle critiche
di autorevoli Il congresso fascista, che si riun al Teatro Augusteo di Roma tra
il 7 e il 10 novembre 1921, ebbe tra i suoi maggiori protagonisti Massimo
Rocca. Questi si prepar allappuntamento con una serie di articoli dindubbio
interesse, nei quali per la prima volta in modo compiuto - formul la sua
proposta per un fascismo liberale. Nellopinione di Rocca, i Fasci avrebbero
dovuto essere un movimento di lite, di avanguardia politica e ideale, come lo
era stata la Destra storica cavouriana. La vita politica italiana, costretta in
avvilenti compromessi, aveva bisogno di un eccesso di spiritualit, tale da
bilanciare leccesso di politicantismo mercantile che la sommergeva; e solo una
destra rinnovata, che avesse saputo riappropriarsi della cultura e dello
spirito del vecchio liberalismo piemontese, avrebbe potuto svolgere questo
compito di equilibrio e di correzione. In quella tradizione risiedeva del resto
un grande insegnamento realistico e morale dal quale il fascismo non avrebbe
potuto prescindere, vale a dire che non le masse, ma le minoranze rinnovavano
il mondo e che il progresso consisteva nel succedersi di aristocrazie libere'.
I fascisti - Rocca non ne dubitava - avevano le carte in regola per guidare
quest'opera di rinnovamento della destra italiana, ma dovevano prima definirsi
come forza politica. Il fascismo, infatti, era nato prevalentemente ad opera di
sovversivi, alcuni dei quali non avevano mai del tutto rotto i ponti con il
proprio passato. Erano coloro che difendevano la pregiudiziale repubblicana e i
Sindacati Economici (forse Rocca pensava agli amici Gioda e Malusardi) e
rappresentavano la tendenza filoproletaria del movimento: una tendenza, sia pur
degna del massimo rispetto, che rischiava di ripetere gli errori storici della
sinistra, plasmando una sorta di demagogia fascista, non meno deprecabile di
quella socialcomunista. Sul versante contrario, Rocca poneva esponenti della
gerarchia fascista, da Bianchi a Grandi, da Rocca allo stesso Mussolini (su
questi punti v. CORDOVA). Al congresso veronese Malusardi si pronunci contro la
costituzione di sindacati prettamente fascisti e difese il principio
dellapoliticit dellazione sindacale (la tesi patrocinata a livello nazionale da
Edmondo Rossoni). I sindacati di partito, rilev Malusardi, avrebbero ostacolato
lunit di tutte le forze sindacali nazionali, ch'egli riteneva indispensabile,
anche per contrastare il monopolio dei sindacati socialcomunisti. Se in
politica afferm le divergenze son profonde, sul terreno economico son
facilmente colmabili. Il lavoratore credente e quello miscredente, il
monarchico ed il repubblicano sono tutti daccordo nel volere il proprio
miglioramento economico e morale. Di concerto con Bresciani, Malusardi present
dunque un ordine del giorno, sanzionato a larga maggioranza, affinch sorgesse,
allinfuori dello stesso Partito Fascista, un forte organismo sindacale che
raccogliesse sotto il suo vessillo di battaglia tutti i lavoratori che non
rinnegavano la realt Nazione (Audacia ROCCA, Pr una nuova destra, Il Popolo
dItalia, anche in Idee sul fascismo. la destra reazionaria, formata da certa
borghesia, specialmente terriera, e da residui daristocrazia decaduta, che
vedeva nel fascismo larma di difesa e di offesa da sfruttare al minor prezzo
possibile, ed era responsabile del carattere offensivo e violento assunto dai
Fasci in talune zone del Paese, Tra le due ali estreme del fascismo si situava
tuttavia un folto centro moderatore, che Rocca riteneva essere il legittimo
erede del primo nazionalismo, come questo lo era stato del primo liberalismo di
destra, del liberalismo, cio, non ancora inquinato dallutopia demo-sociale. Una
zona media del fascismo, dunque, fondata sulla disciplina verso la Nazione, al
di sopra degli esclusivismi ideologici e degli interessi particolari, che Rocca
confida sarebbe infine prevalsa sugli opposti estremismi, fino a costituire il
perno della nuova destra di governo! Nel suo intervento al congresso di Roma
Rocca riprese uno ad uno questi temi. Il fascismo disse - doveva innanzi tutto
svolgere unopera di educazione sulle masse, per volgersi infine alla
trasformazione degli organi legislativi, in quanto la crisi italiana era una
crisi dincompetenza e le questioni economiche e amministrative, per le quali lo
stato politico non era adatto, dovevano essere demandate ai tecnici. In quest'opera
di riforma, le organizzazioni sindacali avrebbero potuto giocare un ruolo
importante, a condizione che i sindacati divenissero strumento di selezione
delle lites proletarie. Lassise dell Augusteo decret la nascita del Partito
Nazionale Fascista. Sia Rocca (che a Roma rappresentava il piccolo Fascio
lombardo di Castellanza) sia gli altri ex anarcointerventisti Malusardi e
Gioda, presenti anchessi al Un neo liberalismo?, Il Risorgimento anche in Idee
sul fascismo Su questo aspetto del pensiero politico di Massimo Rocca v. altres
GENTILE, Le origini dell'ideologia fascista Il Popolo dItalia. L'intervento di
Rocca al congresso dell Augusteo fu per la maggior parte incentrato sui
problemi di ordine internazionale. A questo riguardo Rocca conferm la convinzione
che lItalia dovesse avere una politica estera rettilinea e chiara, senza le
incertezze del passato, e che spettasse al fascismo far s che ci avvenisse. Il
discorso, con i suoi richiami alle glorie e alla potenza dItalia, vibrava di
forti acc>nti nazionalistici e non fu un caso che l'organo dellAssociazione
Nazionalista ne facesse l'elogio (cfr. /! discorso polemico di Massimo Rocca,
LIdea Nazionale Cfr. Il popolo dItalia Il Fascio di Castellanza, un piccolo
centro in provincia di Milano (oggi Varese), era stato inaugurato alla presenza
di Rocca, che aveva fatto da padrino. Ne
segretario Schejola e conta 67 soci, in prevalenza operai e impiegati.
L'assemblea generale dei soci designa Rocca a rappresentare il Fascio al
congresso nazionale di Roma. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo
del Comitato Centrale con i Fasci di combattimento,Busta [Castellanza].
congresso, votarono a favore della trasformazione del movimento in partito! Dal
congresso scatur inoltre il nuovo organigramma fascista: Massimo Rocca entr a
far parte della Commissione Esecutiva del PNF%, mentre De Vecchi, a
testimoniare la definitiva virata a destra del fascismo, rilev Gioda nel
Comitato Centrale? Le conclusioni del congresso furono esaltate da Rocca in un
lungo articolo celebrativo, significativo per i numerosi richiami al problema
dellorganizzazione sindacale e, soprattutto, per gli accenni ai Consigli ; A
Errante " Si raduna lassemblea generale dei fascisti torinesi. Nella sua
relazione Gioda si era pronunciato a favore del partito, sebbene - come aveva
tenuto a precisare - la stessa parola partito gli ripugnasse istintivamente. Il
fatto era - aveva sostenuto - che il movimento fascista era ormai un partito de
facto e si trattava, perci, soltanto di ratificarne ufficialmente lesistenza.
La creazione di un partito fascista era altres indispensabile per imprimere un
carattere nazionale al fascismo, di per s troppo frammentato, troppo legato
alle singole realt provinciali; e per porre un freno alle lotte infeconde tra
le sue diverse correnti, espressione, nella maggior parte dei casi, dinteressi
localistici o addirittura personali. Si noti, a questo proposito, la
concordanza tra la posizione di Gioda e quella di Rocca (L'assemblea dei
fascisti torinesi favorevole al Partito Fascista Italiano, Il Popolo dItalia.
Anche Malusardi, in occasione del gi menzionato congresso provinciale veronese
del 30 ottobre, si era detto favorevole alla trasformazione del movimento
fascista in partito, a patto che la nuova compagine politica ereditasse il
patrimonio ideale del vecchio partito dazione mazziniano, plasmandolo, con la
concezione sindacalista della Costituzione Fiumana, alle esigenze della vita
moderna (Audacia). In seguito, Rocca rifer che Vecchi, a nome di amici
nazionalisti e sindacalisti, gli aveva offerto la segreteria del partito, da
egli rifiutata, malgrado le insistenze, per non venirsi a trovare in una
situazione difficilmente gestibile. Qualunque segretario del partito scrive
Rocca ricordando lepisodio avrebbe dovuto scegliere fra il ritirarsi in un
compito amministrativo e di adulatore, o diventare dopo qualche settimana il
rivale e poi il nemico del Duce (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura,
cit., p. 98). Segretario del PNF fu quindi nominato Michele Bianchi. Per la cronaca
del congresso dellAugusteo v. Il Popolo dItalia. Sulle vicende legate a questa
importante tappa della storia del fascismo v. FELICE, Mussolini il fascista.
Stando al resoconto de Il Popolo dItalia del 10 novembre, al momento del voto
pro 0 contro il partito Rocca manifest lintenzione di dimettersi dall
Associazione Nazionalista. In base a quanto da lui stesso riferito anni dopo,
pare invece ch'egli avrebbe conservato la doppia tessera (cfr. Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura). Il tema dei rapporti col nazionalismo domina a
lungo il dibattito interno fascista allindomani del congresso di Roma. In
un'intervista concessa allorgano dellANI, Rocca, dopo aver sottolineato lo
spirito aristocratico che animava il nuovo Partito Fascista, si disse convinto
che il fascismo, il nazionalismo e il risorgente liberalismo di Destra stessero
preparando qualcosa che, un giorno o laltro, li avrebbe compresi e li avrebbe
trascesi, ed auspic la formazione di un unico partito nazionale (Il fascismo e
la crisi italiana in una nostra intervista con Tancredi, LIdea Nazionale),
Tecnici. Rispetto ai sindacati - rileva il neo dirigente fascista -, il partito
poteva scegliere di prevalere aristocraticamente su di essi (come egli si
augurava), oppure di farsene soggiogare, soccombendo a una visione demagogica
della lotta sindacale. Alla necessit di delineare gli orientamenti sindacali
del fascismo si accompagnava quella di riformare gli organi elettivi, in
armonia con la economia sindacale moderna. Secondo Rocca, un primo passo verso
questa riforma era rappresentato dalla decisione, presa in ambito congressuale,
di dar vita a organismi professionali ristretti - i consigli tecnici appunto -,
da affiancare ai Parlamenti generici e politici, inadatti per loro stessa
natura a decidere su argomenti che richiedessero competenze tecniche
specifiche. Chi, a differenza di Rocca, si disse insoddisfatto dei deliberati
del congresso nazionale fu Malusardi. In primo luogo - comebbe a scrivere su
Audacia - egli dissentiva da Mussolini in merito alla concezione statale. Il
ritorno al liberismo e laccantonamento della Carta del Carnaro, sanciti a Roma,
gli apparivano difatti come la negazione dello spirito originario del fascismo.
Quando egli [Mussolini] rileva Malusardi - giustamente dice che vuol inserire,
superando la vecchia concezione della lotta di classe, le classi lavoratrici
nella vita della Nazione, ecco che viene ad ammettere che dalla Carta del
Carnaro possiamo trarre non solo lo spirito, ma anche qualcosa di pi, poich
appunto nella Carta del Carnaro vi
moltissimo di quella ideologia mazziniana che il fascismo, secondo lo
stesso Mussolini, non deve ignorare ma integrare Quanto allannosa questione
istituzionale, Malusardi ribad il proprio repubblicanesimo, solo in parte
stemperato da considerazioni di opportunit politica. Rocca, Un congresso di
vivi, Il Risorgimento (anche in cismo). DIE n prete anre ie del PNE, accolge le
indicazioni del congresso circa lopportunit di dar vita a dei Consigli Tecnici
(o Gruppi di Compare). Questi, che venivano al terzo posto nella struttura
gerarchica del partito, subito dopo gli organi dirigenti (Consiglio Nazionale,
Comitato Centrale, Direzione e Segreteria Generale) ei Fasci, avrebbero dovuto
raccogliere tutti gli iscritti che avessero dimestichezza in materia di servizi
pubblici, o in questioni attinenti alla vita economica ed amministrativa, tanto
sul piano nazionale che su quello locale, in modo tale da rendere possibile !
analisi di ogni problema politico, economico e sociale secondo criteri di competenza
professionale. Cfr. Programma e Statuti del Partito Nazionale Fascista, Roma,
Stabilimento Tipografico Berlutti, (lo statuto/regolamento del partito pubblicato in prima battuta da Ii Popolo
dItalia MALUSARDI, /n margine al congresso, Audacia, Anche Mazzini scrive - pur
mantenendo intatta la sua FEDE REPUBBLICANA, per raggiungere lunit dItalia,
scrive la famosa lettera a Carignano e non ostacola di salire al trono Vittorio
Emanuele SAVOIA (si veda). Ma il veggente ligure, per, mai si adatta a servilismi
o incensamenti cortigianeschi. Cos, pure noi fascisti, pur riconoscendo
inopportuno attualmente qualsiasi tentativo repubblicano, perch verrebbe
sfruttato dagli elementi antinazionali, dovremmo riaffermare chiaramente la
nostra originaria tendenzialit repubblicana? Infine, Malusardi deplor la scarsa
attenzione volta dai congressisti ai problemi sindacali e alla questione
agraria, attribuendo la ragione di questa grave lacuna programmatica alla
presenza, in seno al fascismo, di agrari dalla mentalit antiquata. Per contro,
egli afferm la necessit di combattere il latifondo, per giungere alla
sproletarizzazione delle campagne, incrementando la piccola propriet e la
cooperazione, L'ultimo atto pubblico di Malusardi a Verona la partecipazione al congresso provinciale
fascista. Anche in quella circostanza egli non tralasci di riaffermare la
propria fede sindacalista e di celebrare il sindacalismo/corporativismo
dannunziano genialmente dettato nella Carta di Fiume. Due giorni dopo, il
congresso nazionale delle organizzazioni sindacali fasciste, riunitosi a
Bologna, sanc la fine dei Sindacati Economici, aprendo la via, con la nascita
della Confederazione Nazionale delle Corporazioni, a un modello sindacale
fortemente ideologizzato. Il sindacalismo puro, nella tradizione corridoniana e
Malusardi abbandon la direzione del giornale (che fu rilevata da Grancelli).
Intorno a questi avvenimenti v. CORDOVA. AI congresso di Bologna, punto darrivo
di un lungo e tortuoso dibattito, si scontrarono tre posizioni: quella di
Rossoni, sostenitore della tesi autonomista (cui era propenso Malusardi),
quella del neo segretario del PNF, Bianchi, per listituzione dei sindacati di
partito, e quella, mediana, di Grandi e Rocca, a favore di unautonomia
controllata, che fin per prevalere (a questo riguardo si veda NELLO, Grandi: la
formazione di un leader fascista, Bologna, cit.). Nel corso della discussione
Rocca sostenne che il sindacalismo apolitico avrebbe avuto senso solo dopo
lentrata in funzione dei Gruppi di Competenza. Prima di allora - data
limmaturit delle masse -, era vano sperare di sottrarre i lavoratori al
controllo pervasivo dei socialcomunisti, semplicemente lasciando loro la facolt
di organizzarsi in modo autonomo. Daltro canto, creare dei sindacati fascisti,
come proponeva Bianchi, avrebbe esposto anche il PNF al rischio della
demagogia. Per questi motivi Rocca si espresse - con Grandi - per l'istituzione
di sindacati semplicemente deambrisiana, usce dunque dallorizzonte
programmatico del fascismo, ma Malusardi pare non rendersene conto. Lasciata
Verona per Brescia, dove rileva la direzione del locale organo fascista,
Malusardi si presenta ai camerati bresciani con queste parole. Se noi
dichiariamo senza indugi che, come nel passato, siamo contro a qualsiasi
dittatura bolscevica, ci non significa che siamo dei conservatori e dei
reazionari. Noi siamo, invece, profondamente NOVATORI. Se Malusardi si
considera ancora e sempre un NOVATORE, Rocca, ch liniziatore e il maestro del
NOVATORISMO ANARCHICO, ormai un
integerrimo conservatore. Nel suo cammino di riscoperta delle radici del
liberalismo si spinse anzi sempre pi a fondo, giungendo, in un articolo carico
di reminiscenze sonniniane, ad invocare la restaurazione di tutte le
prerogative della corona, usurpate dal parlamento, secondo la lettera dello
statuto albertino. Di pari passo con la maturazione conservatrice di Rocca
crescevano le sue responsabilit politiche e organizzative allinterno del
Partito Fascista e aumentavano, con esse, il suo prestigio e la sua influenza,
come lesplosione, in marzo, del caso legato a PMarsich, avrebbe pienamente
rivelato. A ridosso del drammatico colpo di mano fascista a Fiume?"!, un
giornale vicino a Marsich, (che nel fascismo rappresentava la destra
oltranzista e rivoluzionaria), rese nota una lettera di questultimo alla
Segreteria del partito, nella quale egli lamentava la degenerazione
parlamentarista del nazionali, guidati da fascisti e da uomini della cui fede
patriottica non fosse possibile dubitare (Il Popolo dItalia. Rocca prende parte
anche al congresso nazionale delle Corporazioni (Milano), durante il quale
svolge una relazione sullemigrazione italiana allestero (cfr. Il Lavoro
dItalia). Malusardi arriv a Brescia, dopo un breve soggiorno a Milano, nei
primi giorni di febbraio. In origine il suo compito avrebbe dovuto limitarsi
allorganizzazione del locale sindacato fascista postelegrafonici. A questo
scopo, infatti, la segreteria del partito (rispondendo alle richieste che gi da
due mesi giungevano dal Fascio bresciano) ne aveva sollecitato il trasferimento
da Verona. Cfr. ACS, MRF, Carteggio politico e amministrativo del Comitato
Centrale con i fasci di combattimento, Busta [Brescia]. MALUSARDI, A guisa di
presentazione, Fiamma ROCCA, La pi grande crisi, Il Risorgimento, col pretesto
di vendicare lassassinio del fascista ed ex legionario Alfredo Fontana, le
camicie nere di Fiume, guidate da Francesco Giunta, rovesciarono il governo
autonomista di Riccardo Zanella e presero possesso della citt. La nuova crisi
fiumana si concluse dopo dieci giorni di trattative, con la nomina di un
fascista, Giovanni Giurati, a capo provvisorio dellesecutivo. fascismo e si
scagliava contro linfausta egemonia di Mussolini, contrapponendogli la figura
incorruttibile di Gabriele DAnnunzio?!. Il duce, a sua volta, in una secca
replica al suo censore, ne defin lo sfogo nientaltro che una tragicommedia, Lo
scontro tra Marsich e Mussolini, che, ben lungi dallesaurirsi in un contrasto
personale, concerneva lindirizzo politico del partito, innest una lunga serie di
polemiche, a tutti i livelli (a Brescia, ad esempio, contrappose Malusardi al
segretario provinciale uscente, Minniti) !*. Dei dirigenti del PNF, Rocca fu
tra i primi a prendere posizione. Quella della presunta egemonia mussoliniana -
scrisse in una lettera a Il Popolo dItalia -
una leggenda priva di fondamento. Quanto alla deriva legalitaria che
negli ultimi tempi, secondo Marsich, si sarebbe venuta a creare nel fascismo
(una situazione che Rocca si vantava di aver contribuito a determinare), essa
era destinata a durare ancora a lungo, dal momento che lItalia stava
attraversando una fase di assestamento e non aveva, perci, alcun bisogno di
rivoluzioni. A che pro, inoltre - si domandava Rocca -, levare la bandiera dellantiparlamentarismo
una volta SIRO Gebo a : Il fascismo nel giudizio di un fascista. Una lettera
inedita di Marsich, La Riscossa dei legionari fiumani, (la lettera ripresa anche dallAvanti! del giorno
seguente). La filippica di Marsich, gi da tempo molto critico nei confronti
dellorientamento politico del fascismo, fu originata da unintervista rilasciata
da Mussolini (I! pensiero di Mussolini sulla crisi ministeriale, Il Resto del
Carlino, 3 febbraio 1922), nella quale il duce, commentando la caduta del
governo Bonomi, si era detto ben disposto verso un eventuale rientro in scena
di Giolitti. Sul caso Marsich v. FELICE, Mussolini il fascista, cit., p. 197
ss. us Il Popolo dItalia. Nel corso di un convegno straordinario dei Fasci del
bresciano, il 15 marzo, Malusardi prese le difese di Marsich, attaccato invece
duramente da Minniti. Secondo Malusardi, tuttavia, il vero problema del
fascismo non stava tanto nellessersi colpevolmente adeguato alle regole e ai
sotterfugi del parlamentarismo, quanto nellassenza di un orientamento politico
univoco; una lacuna grave, in ragione della quale in alcune zone i fascisti
erano elementi novatori e, senza cadere nella demagogia, difendevano
mirabilmente i diritti del lavoro; mentre in alcune altre diventavano
instrumenti inconsci di reazione e di corruzione. Il dibattito di Brescia
riveste unimportanza notevole, soprattutto perch la discussione intorno alla
vicenda Marsich tocc anche il tema della violenza. Turati afferm che i rilievi
contro il parlamentarismo potevano essere condivisi, a condizione che ci, soprattutto
dopo il dilagare dello squadrismo fascista in talune zone del Veneto,
notoriamente feudo di Marsich, non conducesse allapologia dei metodi
extralegali. Il ricorso indiscriminato al manganello, afferm il futuro
segretario del PNF con il consenso di Malusardi, avrebbe fatalmente condotto
allisolamento politico. Il convegno si chiuse con lapprovazione di un ordine
del giorno unitario, col quale i fascisti della provincia di Brescia, non
riconoscendo nelle critiche contenute nella lettera di Marsich le vere ragioni
del proprio dissenso, reclamavano la purificazione del fascismo e facevano
auspicio che alla lotta politica fosse restituita la forma di un civile
contrasto (Fiamma). entrati in Parlamento con ben 35 deputati? Il sistema
rappresentativo, semmai, avrebbe potuto essere migliorato, e ci sarebbe
senzaltro avvenuto, grazie al fascismo e allistituzione di parlamenti tecnici.
Riguardo a Gabriele DAnnunzio - proseguiva Rocca - latteggiamento di Marsich
era poi del tutto irragionevole: non solo perch, dopo le infinite vicissitudini
dei legionari dannunziani, nessuno era in grado di dire quali fossero le idee
politiche del comandante, ma anche, e soprattutto, perch era privo di senso
attaccare Mussolini per poi smarrire ogni senso critico dinanzi alle seduzioni
del dannunzianesimo. Il fascismo concludeva Rocca dev'essere anzitutto
unaccolta di uomini liberi, sia pur disciplinato ad una causa ed unazione
liberamente scelte: non un plotone di soldati al servizio di un uomo. La
Direzione del partito vot una mozione di biasimo a Pietro Marsich!, poi
riconfermata - su iniziativa proprio di Rocca - dal Consiglio Nazionale del
fascismo. Rocca conosce forse il suo periodo di maggior popolarit come
dirigente fascista. In quei mesi, che prepararono lascesa al potere di
Mussolini, sembra per molti versi che le idee di Rocca potessero concretizzarsi
in un progetto politico di ampio respiro. Parve, cio, che il fascismo (com'era
nelle aspirazioni dellex anarchico) potesse davvero configurarsi come lite
ROCCA, Chiarificazioni, Il Popolo dItalia. nonna Poco tempo dopo, ancora in
riferimento alla vicenda Marsich, Edoardo Malusardi ge lo in politica non
concepisco la disciplina cieca e inconsapevole alla militare, ma quella
intelligente e consapevole che viene accettata dagli uomini liberi (MALUSARDI,
Sincerit delle sincerit [cf. GRICE, APING COOPERATIVE PRINCIPLE], Fiamma, 1
aprile 1922). Lo spirito individualista di Rocca e Malusardi se cos si pu dire
- era rimasto fondamentalmente intatto, anche se le nn politiche dei due ex anarcointerventisti
erano ormai divergenti. Per Malusardi, infatti, ; fascismo non doveva
trasformarsi in una riedizione pi o meno aggiornata del tiberalismo i destra
(come appunto credeva Rocca), ma doveva provare a recuperare lispirazione i
ionaria e i programmi del Partito d Azione mazziniano. una pr direzione del
partito. L'On. Piero Marsich deplorato, Il Popolo "Italia). dI Of La prima pra del Consiglio Nazionale
Fascista; Il Consiglio, riunitosi a Milano, si protrasse per tre giorni,
durante i quali furono Pv temi importanti, dalla vicenda di Fiume allindirizzo
politico del partito. SNA lo a questultimo punto, Rocca si schier una volta
ancora tra i moderati. Si poteva (miti cdi - afferm provocatoriamente - che
alcuni fascisti i invocassero 1 azione. extra] lega " rivoluzionaria, ma
in tal caso, pena la perdita della credibilit, si doveva avere il coraggio di
fare la rivoluzione sul serio, non limitandosi ad adorarla (cfr. La seconda
giornata del Consiglio Nazionale Fascista. Rocca dirige anche la Federazione
provinciale fascista torinese. Cfr. ACS, CPC, Busta [Rocca]. PARETI RIE IPP IRT
OT PIPPO TOT REP TO PITT DPR POP ANY PETIT dirigente, capace di raccogliere il
testimone del vecchio liberalismo di destra e di guidare una riforma delle
istituzioni in senso tecnocratico. Allinizio di luglio Rocca ricevette dalla
Direzione del partito lincarico di procedere alla costituzione dei Gruppi di
Competenza (che, sebbene contemplati dallo statuto/regolamento, erano rimasti
sulla carta) !; quindi nel settembre, fu chiamato a presiedere un apposito
Segretariato nazionale. Quest'ultimo, che aveva sede a Roma, doveva coordinare
lopera dei singoli Gruppi di Competenza, locali o provinciali, in modo tale
chessi servissero da legame e da organi dinformazione fra il Partito Nazionale
Fascista e le Corporazioni sindacali, e facessero da punto di raccolta dei
nuovi valori intellettuali e tecnici destinati a formare la classe dirigente
del futuro - Per lex operaio tipografo, orgoglioso e tenace autodidatta, che da
anni andava predicando lurgenza di una rivoluzione dei competenti, si tratta di
un riconoscimento personale importantissimo e di una grande occasione politica.
Anche per questa ragione, il fallimento dei Gruppi di Competenza (al quale
dovevano contribuire le resistenze opposte dalla oligarchia fascista e dai capi
locali pi ignoranti) ?, rappresent, per Rocca, una cocente delusione, che ebbe
un peso non secondario nel definirne | il mutato atteggiamento riguardo al
fascismo. A fine agosto Il Popolo dItalia rese noto un programma in due parti
per il risanamento finanziario dello Stato e degli Enti Locali, Il documento,
che doveva dettare le linee orientative della propaganda fascista in materia
economica, era redatto da Massimo Rocca e dallon. Ottavio Corgini, ed era, in
massima parte, ricalcato sui postulati della scuola liberista. Proprio a motivo
della sua classicit, il programma Rocca/Corgini suscit commenti benevoli nel
mondo borghese e imprenditoriale italiano? e valse, insieme Cfr. Il Popolo
dItalia. Gli unici due Gruppi di Competenza operanti nei mesi successivi
allentrata in vigore dello statuto risultavano essere quello degli ingegneri
fascisti e quello degli assicuratori fascisti triestini (cfr. CORDOVA). Il
Popolo dItalia Su tutti questi punti V. principalmente AQUARONE, Aspirazioni
tecnocratiche del primo fascismo, in Nord e Sud, nonch CORDOVA, Ka cit., p. 101
ss. si Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura p Detto programma
aveva avuto unanticipazione nellarticolo di Rocca Disavanzo cronico, pubblicato
dallorgano mussoliniano il 18 luglio. Il Corriere della Sera, in un fondo del 6
settembre dal titolo Riabbeverarsi alla sorgente (senza firma, ma opera di
Luigi Einaudi), formul un giudizio addirittura entusiasta sul programma
economico fascista. Esso - osserv Einaudi - aveva il merito di risalire alle
sorgenti liberali dell'economia classica, senza niente concedere alla facile
demagogia alle rassicuranti dichiarazioni di Mussolini in tema di regime?4, a
spazzar via le residue diffidenze dellopinione pubblica moderata nei confronti
del fascismo, nel momento in cui esso si candidava scopertamente a forza di
governo. AI centro della riflessione di Rocca e Corgini lidea che il Parlamento italiano ormai diventato un organo di sperpero, in
balia di gruppi parlamentari irresponsabili, e che occorresse per questo
abolire liniziativa parlamentare a proporre nuove spese. Tra i provvedimenti
atti a risanare lerario, il programma annovera: la riforma della burocrazia
(affinch gli uffici pubblici cessassero di essere un ricettacolo di tutti i
vinti anticipati nella lotta per lesistenza e lelevazione); la cessione ai
privati delle industrie di stato; lo smantellamento degli organi statali
inutili; la soppressione dei sussidi - ferroviari e in denaro - ai funzionari
pubblici, ai privati, alle cooperative e agli Enti Locali; la riduzione
allessenziale dei lavori pubblici; la revisione delle leggi sociali che
inceppavano la produzione; e, soprattutto, la ridefinizione dellintero sistema
tributario, nel senso di una riduzione delle imposte dirette, le quali andavano
a detrimento della produzione, e di un corrispondente aumento di quelle
dirette, che, colpendo il consumo interno, lasciavano ampio margine alle
esportazioni, La seconda parte del programma, dedicata alla situazione degli
Enti Locali, era senz'altro molto pi politica. La responsabilit prima del
dissesto dei Comuni e delle Province italiane - affermavano infatti gli
estensori del socialistoide. Rocca stesso, riandando con la memoria agli
avvenimenti di quellestate, scrisse che il programma incontr un successo
rilevante, sebbene esso andasse oltre lideologia liberale. Rocca, Come il
fascismo divenne una dittatura,). nellambito di un intervento al Teatro Sociale
di Udine, Mussolini afferma che la rivoluzione fascista non insidia il trono
dei Savoia. Lasceremo in disparte dice, fuori del nostro gioco, che ha altri
bersagli visibilissimi e formidabili, listituto monarchico, anche perch
pensiamo che la gran parte dellItalia vede con sospetto una trasformazione del
regime che anda fino a quel punto (Un forte e chiaro discorso ammonitore di
Mussolini su l'azione e la dottrina fascista dinanzi alle necessit storiche
della Nazione, Il Popolo dItalia. Il discorso di Mussolini molto apprezzato e non puo essere altrimenti
da Rocca, che, in un telegramma al duce, dichiara di condividerne
entusiasticamente ogni parola. Pi sfumata la reazione di Gioda. Le
considerazioni di Mussolini in ordine alla questione istituzionale - scrive il
segretario del Fascio torinese - doveno essere valutate serenamente. Dopo
tutto, osserva Gioda, anche REPUBBLICANI INTRANSIGENTI come Mazzini e Crispi si
sono piegati, nellinteresse dItalia, ad accettare la monarchia. (GIODA, Il
discorso di Udine, Il Maglio. ROCCA, CORGINI, Pel risanamento finanziario dello
stato italiano. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, Il Popolo dItalia, Ae documento - era delle amministrazioni di
sinistra, socialiste e popolari dellazione immorale, disordinata e
dilapidatrice dei sovversivi. Un rimedio poteva consistere nellobbligare gli
amministratori rossi a preparare e fare approvare i bilanci comunali e
provinciali nei modi e nei tempi stabiliti dalla legge (a costo di agire
fascisticamente, senza mezzi termini ed eufemismi), ma, ancora una volta, la
soluzione vera del problema doveva passare attraverso la riforma tributaria, in
attesa della quale Rocca e Corgini auspicavano la costituzione, in ogni
capoluogo di provincia, di un comitato centrale di difesa dei contribuenti
Dalla met di settembre sino alla vigilia del congresso fascista di Napoli
Rocca impegnato a dirigere la campagna
di comizi per il risanamento finanziario, che attravers tutta lItalia. Quattro
giorni prima dellinaugurazione del congresso partenopeo Il Popolo dItalia
pubblica lo statuto/regolamento dei Gruppi di Competenza. Lo statuto (che
possiamo a ragione considerare il maggior contributo di Rocca ai programmi del
primo fascismo) era preceduto da una lunga relazione introduttiva, nella quale
lautore esponeva in modo lineare la propria dottrina della competenza. Per
prima cosa Rocca sottolineava la differenza tra i Gruppi appena costituiti e i
sindacati nazionali corporativi. Infatti, mentre i secondi erano, a tutti gli
effetti, formazioni di massa, allinterno delle quali i produttori restavano
raggruppati pi con riguardo al numero che alle capacit singole, al fine di
salvaguardare interessi particolari e soprattutto economici; i primi dovevano
configurarsi come nuclei esigui di persone, le quali, in quanto partecipanti ai
gruppi medesimi, non dovevano avere alcun interesse specifico, n personale n di
classe da tutelare. Ai Gruppi doveva quindi competere una funzione
eminentemente consultiva e di studio, ma anche una funzione, per cos dire, di
armonizzazione dei diversi interessi, unopera il cui precipuo carattere
spirituale fosse quello di favorire la concordia fra le diverse classi e
categorie produttive, cos come fra il partito e le corporazioni. Poich, secondo
Rocca, tutte queste caratteristiche non erano compatibili n col numero n con i
metodi democratici di elezioni e i Lo (1g ARA ID., Pel risanamento finanziario
degli Enti Locali. Relazione per i comizi di propaganda del Partito Nazionale
Fascista, Ibidem, 30 agosto 1922. Entrambi i programmi furono in seguito
pubblicati in PNF, Pe/ risanamento della finanza pubblica. Relazioni di Massimo
Rocca e dell'On. Ottavio Corgini sulla situazione finanziaria dello Stato e
degli Enti Locali, Roma, [s.i.t.], 1922. Rocca era a capo di una commissione
finanziaria, incaricata di organizzare i comizi. Rocca loratore principale a Genova, Livorno,
Savona, Alba - dov previsto un suo contraddittorio con Sturzo, saltato
allultimo momento (cfr. Il Popolo dItalia) - e Palermo. di discussioni, i
Gruppi di Competenza dovevano essere posti sotto la diretta sorveglianza degli
organi direttivi del partito. Nella sua relazione al congresso fascista di
Napoli, ufficialmente convocato per discutere i problemi del Mezzogiorno, Rocca
illustr dettagliatamente il progetto di statuto/regolamento, dicendosi altres
convinto che i Gruppi di Competenza avrebbero recato un contributo alla
soluzione della questione meridionale?. Sul meridionalismo di Rocca, che egli
avrebbe in seguito rivendicato come un titolo di merito, necessario aprire una parentesi. Gi da
qualche tempo prima del congresso napoletano, il fascismo, che al sud mancava
di una robusta struttura organizzativa, mirava a mettere radici nel meridione.
Daltronde, lipotesi - ormai sempre pi concreta - di una marcia su Roma
presupponeva, per la sua attuazione, una penetrazione politica e militare anche
nei territori a sud della capitale. Si
riunita la Direzione del PNF, per studiare lorganizzazione fascista in
rapporto ai bisogni delle regioni meridionali e delle isole, e definire lordine
del giorno della prevista adunata partenopea. Nel corso della discussione Rocca
si era mostrato scettico sullopportunit di considerare la questione meridionale
anche in relazione alle tematiche riguardanti lordinamento del partito un
problema a se stante, slegato dalla pi complessa realt nazionale, e aveva
espresso il timore che il congresso potesse risolversi in una contrapposizione
artificiosa tra nord e Il Popolo dItalia A norma dello statuto, che ottenne
l'approvazione della Direzione del PNF nel dicembre, i Gruppi di Competenza
(ripartiti in sette rami principali: industria, commercio, agricoltura,
trasporti, amministrazione pubblica, scuola e difesa) si dividevano in locali,
provinciali e nazionali, nominati rispettivamente dai Fasci, dalle Federazioni
provinciali e dal Segretariato nazionale. Il numero dei componenti i singoli
gruppi non doveva eccedere i venti elementi, scelti, secondo il criterio della
capacit professionale, in tutte le classi sociali, e, in ogni caso, iscritti al
Partito Fascista. Compito precipuo di tali gruppi doveva essere quello di
offrire un sostegno tecnico qualificato agli organismi dirigenti del fascismo;
e, a tal fine, di compiere indagini, raccogliere materiale di studio, emettere
pareri, compilare proposte e relazioni, che servissero di guida al partito e ai
sindacati. Ai Direttori fascisti dei capoluoghi di circondario e a quelli
provinciali era fatto obbligo di richiedere il parere dei Gruppi ogni qual
volta avessero dovuto assumere decisioni su problemi anche solo in parte
tecnici, e quando si fosse trattato di dirimere eventuali vertenze sociali. In
questo caso lo statuto prevedeva che i Gruppi, o parte di essi, potessero
essere costituiti in apposite commissioni arbitrali, atte a comporre i
conflitti tra capitale e lavoro. Lo statuto/regolamento dei Gruppi di
Competenza, con lannessa relazione, si trova anche in Rocca, Relazione al Gran
Consiglio Fascista sui Gruppi di Competenza. Relazione introduttiva e
statuto/regolamento. I Gruppi di Competenza nella nuova vita nazionale.
Discorso pronunciato alladunata di Napoli: vigilia della Marcia su Roma,
Milano, Imperia, Cfr. Il Popolo dItalia, sud del Paese, o, peggio, in una
guerra di frazione o di campanile tra le diverse regioni del Mezzogiorno.
Nellinsieme, si pu dire che il torinese Rocca non manifesta una particolare
sensibilit verso i problemi del meridione. Eppure, nei mesi che seguirono la
nomina di Mussolini a capo del Governo, egli
uno dei dirigenti fascisti maggiormente presenti al sud. Rocca compe un
viaggio di studio in Sicilia per conto della Direzione del partito, e ne rifere
al Gran Consiglio. Sembra peraltro che nel corso delle sue frequentazioni
siciliane egli rimane invischiato in affari torbidi (connessi alla gestione del
consorzio zolfifero), che ne hanno in qualche misura condizionato il futuro
politico. Il punto oscuro, ma deve
essere richiamato, dal momento che, tra le accuse mosse a Rocca da Farinacci e
dagli altri ras provinciali nel pieno della polemica revisionista, quelle di corruzione
hanno un peso non secondario. Stando a quanto ammesso dallo stesso Rocca al
segretario del Fascio di Londra (dove Rocca si trova per seguire i negoziati in
atto tra i produttori di zolfo italiani e nordamericani), egli ha i primi
contatti con i responsabili del consorzio zolfifero siciliano alla vigilia del
congresso di Napoli, in occasione di un suo comizio palermitano nellambito
della campagna fascista per il risanamento finanziario? Il Governo Mussolini -
dichiara Rocca al suo intervistatore - doveva impegnarsi a fondo per risollevare
le sorti dellindustria zolfifera siciliana, da tempo alle prese con una grave
crisi, anche attenuando il proprio intervento nelle faccende del Consorzio.
Ora, a quanto risulta da un documento conservato nelle carte di PS (un
dattiloscritto anonimo), alla sollecitudine dimostrata da Rocca verso le sorti
dellindustria zolfifera sarebbe in realt corrisposta una ricca contropartita. I
produttori di zolfo, riuniti in consorzio, avevano dato vita a un comitato di
agitazione, allo scopo di esercitare pressioni sul Governo e di ottenerne
provvedimenti a favore del settore. Trovandosi a corto di liquidi, detto
comitato aveva prelevato Importante convegno a Roma della Direzione del PNF, Il
Popolo dItalia Cfr. PNF, Il Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era fascista,
Roma, Editrice Nuova Europa, Secondo quanto riferito dallo stesso Rocca, egli
avrebbe individuato nella regolazione delle acque e nel miglioramento delle vie
di comunicazione la misura immediata e necessaria, sebbene non sufficiente per
attenuare i disagi delle popolazioni meridionali (Rocca, Come il fascismo
divenne una dittatura PELIZZI, La questione degli zolf e altre cose.
Un'intervista con Massimo Rocca, Il Popolo dItalia arbitrariamente la somma di
25.000 lire dal fondo assicurazioni del sindacato zolfatari, senza farne
menzione nellobbligo di rendiconto. La decisione, chiaramente illegale, aveva
incontrato lopposizione tanto del Ministro del Lavoro del Governo Facta, quanto
del suo successore nel nuovo esecutivo a guida fascista, il popolare Stefano
Cavazzoni. A questo punto - secondo la medesima fonte -, sarebbe entrato in
gioco Massimo Rocca, il quale, dietro adeguata ricompensa, avrebbe fatto valere
il proprio peso politico, intercedendo con successo a favore del consorzio
zolfifero. Le informazioni contenute nella relazione citata rispondevano
probabilmente al vero, ma non da
escludere, tenuto conto del momento in cui il documento in questione vide la
luce (al termine, cio, della seconda ondata revisionista), che esse fossero
montate ad arte nel tentativo di screditare Massimo Rocca, divenuto nel
frattempo un oppositore dichiarato del Governo. AI di l dei proclami ufficiali,
lassise napoletana serv quale adunata generale in vista della marcia su Roma. Gi
da tempo, e precisamente dopo la prova di forza offerta dalle camicie nere in
occasione dello sciopero legalitario indetto dall Alleanza del Lavoro alla fine
di luglio, molti capi fascisti meditavano il colpo a sorpresa. Gli stati
maggiori del fascismo, riunitisi a Milano, a pochi giorni dalla conclusione
dello sciopero, avevano discusso a lungo sulleventualit o meno di
un'insurrezione armata. Insieme a Grandi, Rocca
il pi convinto fautore della via legalitaria, mentre la linea
insurrezionale aveva trovato i suoi propugnatori soprattutto in Farinacci,
Balbo e lo stesso segretario del partito Bianchi. Dopo la marcia Cfr. ACS, CPC,
Busta [Rocca]. Limportante vertice romano (erano presenti i membri della
Direzione, del Gruppo parlamentare, del Comitato Centrale e la segreteria della
Confederazione delle Corporazioni) era stato dominato dalla relazione di
Bianchi sulla situazione politica. Il segretario del PNF aveva chiaramente
lasciato intendere che il fascismo, dopo la dimostrazione di forza offerta nei
giorni dello sciopero legalitario, non era pi disposto a tollerare lo sfacelo
del Paese e si sarebbe impadronito del potere con le buone o con le cattive.
Rispetto alle due tendenze, la legalitaria e linsurrezionale, delineatesi nel
corso della discussione intorno alla relazione Bianchi, Mussolini, come suo
costume, si era tenuto a mezza via, e i due ordini del giorno votati il 13
agosto (il primo, per listituzione di un comitato militare ristretto; il
secondo, firmato anche da Massimo Rocca, reclamante lo scioglimento anticipato
della Camera e lindizione di nuove elezioni) rispecchiavano la posizione
ambivalente del duce. Cfr. / lavori del Comitato Centrale del Partito Nazionale
Fascista, Il Popolo dItalia Cfr. ANTONINO REPACI, La marcia su Roma, Milano,
Rizzoli, su Roma (a cui egli non prese parte) e la nomina di Mussolini alla
Presidenza del Consiglio, Rocca si convinse sempre pi che lascesa al potere del
fascismo, con lassunzione di responsabilit chessa comportava, dovesse chiudere
per sempre la fase eroica della rivoluzione e inaugurare quella della
ricostruzione, in spirito di concordia nazionale, e soprattutto - nellassoluto
rispetto della legalit. Lesigenza di porre un freno alle intemperanze dello
squadrismo era del resto avvertita, oltre che dallo stesso Mussolini, da molti
fascisti della prima ora, tra i quali Edoardo Malusardi. Nelle sue continue
peregrinazioni (egli stesso amava definirsi un nomade), dopo aver retto per
qualche tempo la Federazione Sindacale padovana??, Malusardi era giunto a
Sestri Ponente, in provincia di Genova, dove aveva assunto il duplice incarico
di segretario politico del Fascio e di direttore del locale organo fascista I
fascisti di Sestri Ponente si radunarono in assemblea straordinaria. in discussione il tema della violenza, reso
scottante a motivo dei reiterati episodi di squadrismo verificatisi in molte
zone del genovese Malusardi, secondo limpostazione cara anche a Rocca, a Gioda
e ai fascisti pi moderati (una forma mentis di cui abbiamo gi rimarcato i
limiti intrinseci), rilev che la violenza squadrista, utile e legittima
fintantoch si manteneva chirurgica e cavalleresca, non era giustificabile
quando assumeva i caratteri della prevaricazione. Inoltre, dopo lascesa al
governo del fascismo, le camicie nere avevano lobbligo, insieme morale e
politico, di essere disciplinate. Su questo punto di grande importanza v.
altres CHIURGO, Storia della Rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, e NELLO,
Dino 4 Grandi: la formazione di un leader fascista Cfr. ACS, CPC, Busta
[Malusardi]. Malusardi chiamato a Padova
e vi si trattenuto, contribuendo, grazie
alle sue capacit di organizzatore e di propagandista, e alla vena popolare del
suo fascismo, alla rinascita del Fascio padovano. Il suo maggior successo il raggiungimento di un concordato con la
locale Associazione Agraria, alla fine di giugno. L'accordo tendenzialmente favorevole ai lavoratori
(prevedeva, tra le altre cose, le otto ore lavorative, limponibile di mano
dopera e la creazione di commissioni paritetiche per dirimere i conflitti
dinteresse), e Malusardi, ligio ai propri convincimenti sindacalisti, si era
adoperato per imporne il rispetto agli agrari, anche i pi riottosi. Di fronte
ai numerosi tentativi di boicottaggio da parte dellassociazione padronale, il
congresso sindacale provinciale si conclude con un ordine del giorno molto
duro, nel quale sinvocava unopera decisa ed inesorabile, per far piegare,
innanzi al giusto ed unanime diritto del lavoratore, i [...] datori di lavoro
(Il Lavoro dItalia. Malusardi rimase a Sestri Ponente sino alla fine di
dicembre. Cfr. ACS, CPC, Busta 2964 [Malusardi Edoardo]. Noi non possiamo pi
sostenne Malusardi a proposito dellautorit politica I scavalcarla ed
esautorarla, bens la dobbiamo coadiuvare e vigilare perch applichi
inflessibilmente lo imperio della legge. E conclude: Lasciate stare, dunque, o
amici, il manganello, lolio di ricino, la gradassata inutile, e chiedete invece
delle biblioteche e delle scuole di cultura Aspettative e delusioni Nonostante
gli auspici di molti la nomina di Mussolini alla Presidenza del Consiglio non
attenu affatto le brutalit fasciste, che anzi subirono unimpennata, culminando
nella strage di Torino. L'episodio fin
troppo noto e costituisce una delle pagine pi fosche nella storia del fascismo,
che qui giova rievocare soprattutto per le conseguenze che ebbe sulle sorti
politiche di Gioda e di Rocca. Accampando come dabitudine il pretesto di
vendicare l'uccisione di due camerati, gli squadristi torinesi, capeggiati da
Brandimarte, scatenarono una sanguinosa rappresaglia contro le organizzazioni
socialcomuniste. In quella che Salvemini define una vera orgia di sangue
trovano la morte una ventina di persone, tra le quali lex anarchico Berruti,
consigliere comunale comunista e noto L'assemblea straordinaria del Fascio,
Giovinezza. sn i pa del dicembre solo
lapice di una lunga teoria di fatti di sangue. In un telegramma al Ministro Di
Interni, il Prefetto di Torino mostrava di aver perfettamente compreso la
situazione (Articoli comparsi su ultimi numeri del giornale fascista Il Maglio
- O rivelano chiaramente intenzione riprendere atti violenza contro
organizzazioni comuniste accendono rancori di parte che potranno esplodere in
forma violenta ed improvvisa) e chiedeva linvio di rinforzi. ACS, MINISTERO
DEGLI INTERNI, Dir. gen. PS, Affari gen. e ris., Busta [Fascio di Torino]. : It
i La ricostruzione pi accurata di questi drammatici avvenimenti si trova in
FELICE, I fani di Torino in Studi Storici, SALVEMINI, Scritti sul fascismo,
Milano, Feltrinelli, esponente del Sindacato Ferrovieri. Gioda, il cui potere effettivo
allinterno del Fascio torinese era andato vieppi scemando (tanto che, negli
ultimi mesi, la sua attivit si era limitata a curare le corrispondenze per Il
Popolo dItalia), non ebbe alcuna responsabilit nellaccaduto?* ed anzi, al pari
di Rocca, non si fece scrupolo di biasimare la ferocia degli squadristi.
Vecchi, al contrario, sebbene egli stesso personalmente estraneo ai fatti, se
ne attribu la paternit, a nessun altro scopo - come sembra - se non quello di
riaffermare, ad onta di Gioda e dello stesso Mussolini (che aveva incaricato
una commissione dinchiesta di far luce sullaccaduto), la sua | figura di ras di
Torino e del Piemonte? Con una mossa a effetto, carica per di significati
politici - e non solo per quanto atteneva agli equilibri interni del fascismo
torinese -, Rocca e Gioda fecero giungere una corona di fiori sul feretro di
Berruti, loro amico di giovent ?. Gli squadristi - nota Rocca a distanza - non
gli avrebbero mai perdonato quel gesto. Episodi come quello di Torino
contrastavano drammaticamente con la | necessit - posta in evidenza da Rocca e
non da lui soltanto - di una | normalizzazione del fascismo. I primi mesi di
vita del governo Mussolini Sulla figura di Berruti v. ANDREUCCI, DETTI, Gioda
scrisse che la mobilitazione fascista era stata ordinata a sua completa
insaputa. Cfr. FELICE, / fatti di Torino Popolo FELICE, / fatti di Torino del
dicembre 1922, cit., p. 82. % Cfr. GIODA, Un nobile gesto fascista in morte del
comunista Berruti, Il Popolo dItalia. Gioda scrive di Berruti chegli era
indubbiamente un uomo in buona fede e dotato di qualit intellettuali non
comuni. Cfr. MASSIMO Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura Linchiesta
ordinata da Mussolini, affidata a Giunta e Gasti, accerta le gravissime
responsabilit degli squadristi torinesi. Nonostante le risultanze delle
indagini, il Gran Consiglio si limit a statuire lo scioglimento del Fascio di
Torino, delegando lincarico della sua ricostruzione allo stesso De Vecchi,
nominato fiduciario con pieni poteri, mentre Gorgolini e Gobbi (due dei pi
stretti collaboratori di Mario Gioda), autori di un memoriale contro il
quadrumviro, furono addirittura espulsi dal PNF, per esservi riammessi solo nel
dicembre. Il deliberato del supremo organo fascista, chiaramente
compromissorio, non significava che Mussolini avesse perdonato a Vecchi la sua
indisciplina. Di l a pochi mesi, infatti, il quadrunviro fu dapprima
allontanato dal Governo, ove ricopriva il ruolo di sottosegretario alle
pensioni e allassistenza militare, quindi, dopo la sua nomina a governatore
della Somalia, costretto a lasciare lItalia. In una vibrante lettera a
Mussolini, poi allegata agli atti dellinchiesta, In un discorso al Teatro
Ambrosiano, il quadrumviro difese loperato di | Brandimarte e si assunse la
responsabilit politica e morale della strage. Cfr. La Gazzetta del | furono
segnati da questa stridente contraddizione, in un difficilissimo equilibrio tra
disordine e legalit, spinte eversive e propositi riformatori, ricerca del
consenso e violenza indiscriminata. Sebbene funzionale agli interessi del
partito, il dibattito sulla legge elettorale, che monopolizz la vita
politico/parlamentare italiana UNO DEI
POCHI MOMENTI REALMENTE COSTRUTTIVI DEL FASCISMO. Rocca, gi da tempo schierato
per il ritorno al sistema maggioritario, entr nella speciale commissione per la
riforma elettorale nominata dal Gran Consiglio, primo passo verso quella che
sarebbe diventata la legge Acerbo. Per un certo MITA] riguardo si veda
larticolo // processo alla proporzionale, in Il Risorgimento. Sulla delicata
questione del sistema elettorale Rocca ha un vivace scambio di vedute con
Farinacci, fautore di un ripristino delluninominale puro. In una lettera a
Farinacci, Rocca defin un passo indietro, anche rispetto al deprecato sistema
proporzionale vigente (che se non altro aveva avuto il merito di immettere
sangue nuovo nellasfittica vita parlamentare italiana), uneventuale
reintegrazione del collegio uninominale; una formula dominata dalle aderenze,
dalle amicizie, dalle clientele personali, coltivate non sempre con mezzi
leciti ed onorevoli, e che per di pi aveva il difetto di acutizzare Io spirito
campanilistico (La discussione sul sistema uninominale. Una lettera di Massimo
Rocca all'on. Farinacci, Cremona Nuova). Nella sua pronta replica, Farinacci
obietta che la rivoluzione fascista ha a tal punto innovato i costumi politici
deglitaliani che il ristabilimento delluninominale non puo considerarsi un
semplice ritorno al passato. Se allora, nel passato sosteneva Farinacci sono le
clientele che decideno, adesso sarebbero da una parte il criterio e il giudizio
della Federazione provinciale fascista e dallaltra la conoscenza personale del
corpo elettorale e il suo giudizio, non pi formulato in virt della potenza
della clientela, ma in forza del valore del candidato, facilmente apprezzabile
dagli elettori per la loro educazione fascista. Quanto al problema del
campanilismo questione niente affatto trascurabile, soprattutto qualora la si
consideri alla luce delle future polemiche tra Rocca e Farinacci in merito al
fascismo provinciale -, il ras di Cremona fu ancora pi esplicito. Tu rimprovera
infatti a Rocca prescindi dallefficacia del nostro movimento, che ha allargato
la visione dei singoli i quali sono inclinati, merc lopera nostra, a conciliare
linteresse della provincia con quello della nazione, subordinando luno allaltro
(FARINACCI, // perch del ritorno al collegio uninominale). a conclusione dei
suoi lavori, la commissione (di cui facevano parte, oltre a Rocca, Michele
Bianchi, Roberto Farinacci, Rossi, Maraviglia, Bastianini e Sansanelli) si
pronuncia ufficialmente per il sistema maggioritario secondo uno schema
elaborato da Bianchi e contro luninominale. Rocca, che si trova in Sicilia e
non pot esser presente alla riunione, invia una lettera di piena adesione, di
cui da conto lo stesso Bianchi (cfr. Il Popolo dItalia). Il Gran Consiglio
accett le decisioni della commissione (il progetto Bianchi raccolse 21 voti a
favore, contro i 2 ottenuti da Farinacci. Cfr. PNF, // Gran Consiglio nei primi
dieci anni dell'era fascista), dopodich il sottosegretario alla presidenza del
consiglio, Giacomo Acerbo, fu incaricato di stendere il relativo disegno di
legge. Questo, sottoposto allesame preventivo di una commissione parlamentare
interpartitica (la cosiddetta commissione dei VIT PATTI VENI "TV ZO E TOPO
VOTO VI VITTI E PP TI periodo, parve che alla riforma elettorale com'era negli
auspici di Michele Bianchi e dello stesso Rocca - potesse accompagnarsi una pi
ampia azione di rinnovamento istituzionale. Nellultima seduta della sessione di
aprile il Gran Consiglio deliber la creazione di un Gruppo di Competenza per la
riforma costituzionale, affidandone la presidenza proprio a Rocca?!. Dinanzi
allallarme suscitato negli ambienti liberali da queste manovre Rocca si affrett
ad assicurare ogni patriota in buona fede che n listituto monarchico, n i
principi informatori dello Statuto sarebbero stati messi in discussione. In
realt, proprio la diffidenza manifestata dagli altri partiti della maggioranza
e il timore che essa potesse incidere negativamente sul cammino della legge
elettorale, indussero Mussolini a lasciar cadere ogni velleit riformatrice.
Rocca, che finalmente intravede la possibilit di legare il proprio nome - e la
funzione stessa del fascismo - ad unopera propositiva di riforma, ne resta
amareggiato. Questa volta scrive a distanza di tempo la delusione profonda. Il movimento fascista, che da
quattro anni parla senza tregua di rivoluzione e gi ne invocava i pretesi e illimitati
diritti contro ogni critica, non osava intraprendere la pi modesta riforma,
meno radicale di quella corporativa attuata dANNUNZIO (si veda) a Fiume; una
riforma capace di giustificare, dinanzi ai contemporanei e ai posteri, le gesta
passate del fascismo, il dominio presente, la chiara intenzione di prolungarlo
nel futuro, la retorica sulla nuova era dischiusa al Paese, le eccessive
intemperanze verbali e le violenze illegali. La sua rivoluzione si riduceva
dunque ad un'etichetta, dal significato puramente negativo, comodo pretesto per
trascurare la legalit | vigente, senza per curarsi di foggiarne unaltra
qualsiasi. Mussolini trascurava diciotto) - che lo approv -, fu ratificato
dalla Camera il 21 luglio, dopo una lunga discussione. Su tutti questi punti v.
FELICE, Mussolini il fascista Cfr. PNF, I! Gran Consiglio nei primi dieci anni
dell'era fascista Il Gruppo comprendeva anche: Bianchi (presidente), Costamagna
(segretario), Corradini, Maraviglia, Casalini, Rossoni, Tamaro, Panunzio,
Lolini, Gatti e Vecchio. Il Popolo dItalia, FELICE, Mussolini il fascista
Fedele a una visione tecnocratica della politica, Rocca si apprestava a
presentare uno schema di riforma i cui punti chiave erano: il riconoscimento
giuridico dei sindacati dogni categoria e dogni classe; lelezione, da parte dei
dirigenti e delle federazioni sindacali, di consigli tecnici dell'economia,
comprendenti tre classi, a livello locale, provinciale e nazionale; il divieto
di sciopero nei servizi pubblici; il passaggio automatico al Senato vitalizio
dei presidenti del Consiglio uscenti, per togliere loro ogni preoccupazione
elettorale ed assicurare il contributo dei migliori uomini agli affari
pubblici; il divieto al Parlamento di proporre nuove spese; lapprovazione in
blocco dei singoli bilanci (MASSIMO ROCCA, Come il fascismo divenne una
dittatura, cit., p. 138). un'occasione unica di mostrarsi grande e dimporsi,
col suo prestigio di riformatore, ai capi locali che cercavano di scimmiottarlo
nei suoi atteggiamenti esteriori La delusione di Rocca fu tanto pi grande in
quanto allaccantonamento dei disegni di riforma costituzionale si aggiunse il
concomitante naufragio dei Gruppi di Competenza, liniziativa nella quale egli
aveva riposto le maggiori speranze. In unintervista a un quotidiano romano
(riprodotta in parte anche da Il Popolo dItalia), Rocca, pur ribadendo che i
Gruppi di Competenza, nati da unidea prettamente aristocratica, rappresentavano
la maggior novit del fascismo, riconobbe che la loro attuazione dipendeva dalla
volont del Governo di utilizzarli?9. Dietro questa semplice constatazione si
nascondeva lamara consapevolezza delle grandi difficolt fin l incontrate dai
Gruppi allinterno stesso del fascismo (si tenga presente che, a quasi quattro
mesi dallentrata in vigore dello statuto/regolamento, i soli due Gruppi
realmente funzionanti erano quello per la pubblica amministrazione e quello per
leducazione, questultimo, peraltro, in pessimi rapporti con il ministro
Gentile) AI Gran Consiglio del 17 marzo, Rocca, dopo aver riferito sulla
situazione generale dei Gruppi, afferm la necessit di riconoscere loro una
franca autonomia, sola condizione per garantirne un'effettiva operativit. Nei
mesi successivi qualcosa parve smuoversi, al punto che, al Gran Consiglio del
28 luglio, Rocca pot annunciare l'avvenuta costituzione di 178 Gruppi di
Competenza provinciali, ottenendo lassicurazione che gli organi direttivi del
partito avrebbero fatto il possibile per promuoverne lo sviluppo. Nonostante le
apparenze, tuttavia, i Gruppi di Competenza conducevano unesistenza stentata,
senza un reale collegamento gli uni con gli altri e con la segreteria
nazionale, mal visti e spesso dichiaratamente osteggiati dai fiduciari del
partito e dalle stesse corporazioni! Linsorgere della prima crisi revisionista,
conclusasi con linsuccesso di Rocca, diede loro il definitivo NicoLA Pascazio,
/l Gran Consiglio, i Gruppi di Competenza, la burocrazia, la scuola, l'Istituto
delle Assicurazioni. Intervista con Rocca, Il Giornale dItalia. A questo
riguardo v. CORDOVA, op. cit., pp. 166-167. 258 PIF, /l Gran Consiglio nei
primi dieci anni dell'era fascista V. altres / gruppi di competenza e la
riforma della scuola nella relazione di Rocca al Gran Consiglio Fascista, Il
Popolo dItalia. Cfr. PNF, /l Gran Consiglio nei primi dieci anni dell'era
fascista E? estremamente significativo, ad esempio, che il primo consiglio
nazionale delle Corporazioni, riunitosi a Roma il 30 giugno 1923, non avesse
minimamente affrontato il tema dei Gruppi di Competenza. Cfr. CORDOVA, op.
cit., p. 164. colpo di grazia. Complessivamente, quindi, il primo anno di vita
del governo Mussolini non rispose alle aspettative, personali e politiche, di
Massimo Rocca e non v dubbio che fu proprio la disillusione a indurre l'ex
anarchico alla sua ultima battaglia polemica. Fatale alle aspirazioni rinnovatrici
di Rocca, mentre Mario Gioda tornava faticosamente alla vita politica (il
Fascio di Torino, sciolto in conseguenza dei fatti del dicembre, fu
ricostituito), il biennio vide la consacrazione di Malusardi come dirigente
sindacale; e tuttavia non sembri un paradosso -, proprio nel 1924 la carriera
dellex stuccatore rischi di spezzarsi per sempre. AI pari dei suoi vecchi
compagni sebbene su un piano diverso -, anche Malusardi si trov a dover fare i
conti con la trasformazione del fascismo in regime. Malusardi lasci Sestri
Ponente, per dirigere la Federazione sindacale di Firenze. In pochi mesi egli
seppe conferire allorganizzazione corporativa dellarea fiorentina maggiore
stabilit ed efficienza. Nell'agosto, a coronamento dei suoi successi, Malusardi
fu nominato segretario della Corporazione nazionale del vetro, da poco
costituita, Quali fossero gli orientamenti generali del fascismo in materia
sindacale e quanto essi si discostassero dalla concezione operaista di
Malusardi, alimentata dai miti corridoniano e dannunziano, lo mostr chiaramente
il cosiddetto patto di Palazzo Chigi, stipulato tra la Confederazione delle
Corporazioni e la Confindustria, un accordo che segn il fallimento, almeno
nellindustria e in quel momento, dellipotesi di In seguito alla sua sospensione
per tre mesi da ogni attivit di partito, Rocca lascia la segreteria dei Gruppi
di Competenza al suo vice Costamagna, che la assunse a titolo definitivo. Nel
frattempo, il Gran Consiglio daveva disposto la trasformazione dei Gruppi in
Consigli Tecnici nazionali, organismi ancor pi evanescenti, dei quali ben
presto non sarebbe rimasta traccia. Cfr.AQUARONE al Teatro Scribe, ha luogo
l'assemblea del Fascio per lelezione del nuovo Direttorio. Questo, radunatosi
quattro giorni dopo, riconferm segretario politico Mario Gioda. Cfr. Il Maglio,
2 giugno 1924, e Il Popolo dItalia. Cfr. MALUSARDI, Elementi di storia del
sindacalismo fascista, E A n past p In base alla relazione presentata da
Malusardi al primo consiglio nazionale delle Corporazioni, le corporazioni
operanti nella provincia di Firenze sei mesi dopo il suo arrivo a Firenze erano XIV (I agricoltura, II commercio, III
industria, IV impiego, V professioni intellettuali, VI scuola, VII sanit, VIII
dipendenti monopoli e aziende statali, IX stampa, X teatro, XI trasporti e
comunicazioni, XII ospitalit nazionale, XIII industrie artistiche, e XIV belle
arti), per un totale di circa 50.000 iscritti. Cfr. Il Lavoro dItalia, Ctr.
sindacalismo integrale. Lintesa, fondata sul principio della collaborazione e
raggiunta grazie alla mediazione decisiva del governo, sollev tensioni e
contrasti allinterno del sindacalismo fascista. Si riun a Roma il consiglio
nazionale delle Corporazioni, nel corso del quale si manifestarono due
tendenze: la prima (pi conciliante e che fin per prevalere) facente capo a
PANUNZIO (si veda) e sostenuta dal segretario generale Rossoni, per il
sindacato unico obbligatorio e il riconoscimento giuridico dei contratti
collettivi di lavoro; la seconda, rappresentata da Bagnasco e Malusardi, a
favore dellazione diretta contro glindustriali. Nel clima di confusione seguito
al rapimento e allassassinio di Matteotti, Malusardi si dimise dalla segreteria
dei sindacati fascisti fiorentini (dove
sostituito da Lusignoli) 2. un
primo atto di ribellione, al quale fa seguito la costituzione - con Galbiati
(segretario della Corporazione nazionale dellarte bianca) e altri dirigenti
sindacali milanesi - dun comitato dazione per rigenerare le Corporazioni,
Nellordine del giorno diramato a mezzo stampa dal Comitato si denunciavano la
debolezza, lincertezza programmatica e lautoritarismo che contraddistinguevano
lopera delle Corporazioni fasciste, e sinvoca un totale revisionismo, nei
metodi, nei programmi e nel gruppo dirigente. Le Corporazioni proseguiva il
documento - dovevano agire in senso nettamente sindacalista, avendo presenti
gli interessi effettivi della classe produttiva, senza lasciarsi condizionare
da pregiudizi ideologici (di lotta di classe e di collaborazione aprioristica)
e politici, ma anzi ricercando l'intesa con le masse e le organizzazioni che si
muovevano sul terreno nazionale. Quanto ai rapporti con il Partito Fascista,
questi dovevano essere fissati in forma di libera e consapevole alleanza? Pochi
giorni dopo, PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Su questi punti v. CORDOVA.
PERFETTI, Il sindacalismo fascista. Per la cronaca del congresso v. Il Popolo
dItalia, e Il Lavoro dItalia. Cfr. La crisi del fascismo fiorentino, La
Giustizia. Cfr. Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle
Corporazioni milanesi, La Voce Repubblicana. AEREI ; i i Dal 13 settembre il
Comitato inizi le pubblicazioni di un proprio settimanale: LIdea Sindacalista.
Jai Un sintomatico pronunciamento fra i dirigenti delle Corporazioni milanesi,
cit. (La Voce Repubblicana, che, da sempre ferocemente critica nei confronti
degli orientamenti sindacali del fascismo, segu con grande attenzione gli
sviluppi della crisi, defin una diagnosi perfetta quella contenuta nellordine
del giorno del Comitato milanese). Direttorio nazionale delle Corporazioni
sanzion lallontanamento dal movimento sindacale fascista di Galbiati e
Malusardi?!, il quale per, allinizio di ottobre, dette le dimissioni dal
Comitato, ottenendo il ritiro del decreto di espulsione. Non chiaro per quale motivo Malusardi si decise a
quella mossa, ma certo che, cos facendo,
egli salvaguard la propria carriera politica. Pertanto, pur senza mai rinnegare
del tutto le proprie radici anarcosindacaliste (si pu dire infatti che la sua
azione nellambito del sindacalismo fascista continu a vivere di velleit
operaiste) ??, Malusardi la cui fedelt al fascismo non fu comunque mai in
discussione - rientr | disciplinatamente nei ranghi, adeguandosi sempre pi ai
modelli imposti dal regime. Nell'autunno del 1924, preludio allavvento di una
lunga dittatura, si concluse quindi almeno formalmente la vicenda libertaria di
Malusardi: unuscita di scena meno appariscente di quella toccata in sorte a
Massimo Rocca e a Mario Gioda, ma egualmente emblematica. Si riune a Roma il
Direttorio nazionale delle Corporazioni. L'iniziativa di Malusardi e Galbiati
fu liquidata come latto di quattro persone che non avevano alcuna autorit e
alcun seguito. Cfr. Il Popolo dItalia Hi Provvedimenti del Direttorio delle
Corporazioni. Sullintera vicenda v. CORDOVA 2a Dimissioni!, LIdea Sindacalista
Un mese dopo Malusardi presenzia regolarmente al secondo congresso nazionale
delle Corporazioni (Roma). Cfr. Il Popolo dItalia. Esemplare, a questo
proposito, lesperienza di Malusardi come segretario dellUnione provinciale dei
sindacati fascisti di Torino, segnata dai continui contrasti con l'Unione
industriale fascista, e la FIAT in particolare (al riguardo v. SAPELLI,
Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino, Milano, Feltrinelli.
Le aspirazioni libertarie di Malusardi trovano un ultimo rifugio nellutopie
socializzatrici della Repubblica Sociale, nella quale egli ha comunque un ruolo
defilato e la cui funesta parabola non gli risparmia dolori e amarezze (uno dei
suoi figli, divenuto partigiano, fatto
prigioniero dai fascisti e condannato a morte, Malusardi si rivolge a
Mussolini, il quale intervenne personalmente affinch al ribelle risparmiata la vita. Cfr. ACS, REPUBBLICA
SOCIALE ITALIANA, Segreteria particolare del duce. Nel dopoguerra, nonostante
la non pi verde et, Malusardi partecipa attivamente alla vita politica e
sindacale nelle file della CISNAL. Il suo approccio alle questioni del lavoro
resta di fatto immutato, sentimentalmente ancorato alle memorie di Corridoni e
Annunzio (a titolo di esempio si vedano i saggi Corridoni e Socialit di
ANNUNZIO (si veda), pubblicati da Malusardi su una risorta edizione de Il
Maglio. Muore a Torino. Sulla figura e lopera di Edoardo Malusardi, quale
rappresentante dellala sinistra del fascismo, v. infine PARLATO, La sinistra
fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino, 2000, ad indicem.
Linizio della polemica revisionista
giustamente fatto coincidere # L pubblicazione su Critica Fascista, dell
articolo Rocca Fascismo e paese . Gi da qualche mese, tuttavia, dinanzi al
protrarsi delle illegalit fasciste, i settori pi lungimiranti del PNF -e I
ambienti ad essi vicini - avvertivano con crescente inquietudine l urgenza di
un cambio di rotta, di una nuova fase che segnasse il definitivo inserimento
del fascismo nellordine statutario. Intervenendo alla Camera, lon. Misuri, gi
parlamentare fascista, anticipa, di fatto, alcuni dei temi poi sollevati da
Rocca nel suo celebre articolo. In RT Misuri chiede la smobilitazione delle
squadre e | inclusione le ; MVSN nellesercito regolare; la cessazione, da parte
del segretario si Partito Fascista e dei responsabili dei singoli Fasci, d ogni
ingerenza srt; i affari di competenza dellesecutivo e delle prefetture; !
allargamento va base del Governo a tutte le sane correnti nazionali. Il
discorso kr deputato perugino, al quale si sarebbe associato Ottavio i Lee Di
breve stagione del dissidentismo fascista (almeno di quello mo lerato, ch Di
furono altri tipi di dissidentismo) , fenomeno parallelo e in un certo sen
Larticolo usc simultaneamente anche sulle pagine de Il Giornale dItalia, che lo
defin notevole. Lira : Epi ? Alfredo Misuri, di estrazione monarchico liberale,
SE tra " n n pn i fasciste, dovette abbandonai Perugia. Eletto al
Parlamento nelle file f, d a r i ua ito di duri i ltri maggiorenti del fascismo
u Li 1922 a seguito di duri contrasti personali con al sa 1 di i P ta nel PNF
rientr per bre i ismo, dopo la fusione deli Associazione Nazional is NF rientr
| lst ferighi del fascismo, per esserne definitivamente espulso ai primi di a.
MISURI, Rivolta morale: confessioni, esperienze e documenti di un uinquennio di
vita italiana, Milano, Edizioni vana 1924. i i i 95-122. | testo completo del
discorso v. /bidem, pp. ar , h vira ore
dalla conclusione del suo intervento, Misuri fu aggredito da alcuni sgherri
fascisti, guidati dallufficiale della Milizia Arconovaldo Bonaccorsi, e
malmenato Cs sullepisodio v. Per l'aggressione allon. Misuri, Il Giornale d
Italia, 31 maggio 1 i ) Il dissidentismo conservatore di Alfredo Misuri e
Ottavio Corgini trov lun pun concreta nel gennaio 1924, con la nascita
dellassociazione Patria e Libert, evocante, gi: speculare = a quello del
revisionismo. Nondimeno, a parte le riserve espresse dai dissidenti - e da
Misuri in particolare sul revisionismo e su Massimo Rocca, tra le due eresie
fasciste correva una differenza sostanziale. Come gi notava acutamente Giacomo
Lumbroso nel 1925, mentre i dissidenti non nutrivano grandi speranze circa la
capacit del fascismo di autoriformarsi (tant' che finirono per distaccarsene
quasi subito), Rocca silludeva di far trionfare la propria idea da dentro il
partito; credeva, in altri termini di poter cambiare il fascismo dal suo
interno, nella convinzione - per dirla con le sue parole - che esso potesse
realmente diventare lala marciante e riformatrice del liberalismo. In questo
vizio dorigine, prima ancora che nei mutevoli umori di Mussolini e nella
protervia di Roberto Farinacci e degli altri ras, in questa valutazione errata
della vera essenza del fascismo (che avrebbe fatto della battaglia revisionista
unestenuante e infruttuosa lotta di posizione) *, devono essere ricercate le
ragioni ultime della sconfitta di Massimo Rocca. Come detto, larticolo di Rocca
vide la luce su Critica Fascista, la nuova rivista di Giuseppe Bottai, che
aveva iniziato le pubblicazioni il 15 giugno nel nome, taluni circoli
monarchici piemontesi di fine Ottocento. Dopo il delitto Matteotti I
associazione prese a pubblicare il settimanale Campane a stormo (poi riesumato
da Misuri nellimmediato secondo dopoguerra). n Sul dissidentismo fascista, la
sua complessa vicenda politica e le sue diverse coloriture e ramificazioni, v.
principalmente LOMBARDI, Per le patrie libert: la dissidenza fascista tra
mussolinismo e Aventino, Milano, Angeli, ma anche con pi esplicito riferimento
alloperato di Misuri e Corgini, ZANI, L'Apsocio4iali costituzionale Patria e
Libert, in Storia Contemporanea, ondamento delle loro critiche al revisionismo
i dissidenti di Patria e Libert ponevano la considerazione che fosse ormai
necessaria la liquidazione, non la revisione del fascismo. Pisi caotici
costruttori di teorie, in quanto convinti di poter salvare qualcosa del
ascismo, lavoravano inconsciamente per esso (Revisionismo, Campane), PSR A E e
Cfr. LUMBRO050, La crisi del fascismo, Firenze, Vallecchi, Lumbroso (gi nella
fiorentina Banda dello sgombero, una delle prime manifestazioni del
dissidentismo fascista) era stato tra i promotori in Toscana dei Fasci Nazi
nali, formazioni autonome che pretendevano riallacciarsi al fascismo puro delle
origini. Fascista di animo e di azione sin dalla vigilia scriveva Lumbroso
nelle pagine ug se suo da Ta sono rimasto tale perch non credo che la dottrina
e lo spirito del cismo debbano confondersi collo scempio che ne stato compi i inetti i f iu indegni. RIA: dae Re) 2a Massimo Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura. ZANI. Fin dai primi numeri, il periodico romano si era fatto
interprete di una concezione legalitaria, costituzionale del fascismo. Sebbene
muovendo da premesse culturali e politiche molto diverse, anche Bottai - come
Rocca - riteneva finito il tempo della rivoluzione e chiedeva il rinnovamento
del partito, la sostituzione del vecchio ceto dirigente fascista con una nuova
lite che fosse in grado di guidare la ricostruzione del Paese. Un mese e mezzo
prima che Rocca aprisse ufficialmente il fronte revisionista, un altro
collaboratore di Bottai, lex sindacalista corridoniano Marsanich, chiara in
modo inequivocabile lorientamento della rivista. Noi scrive Marsanich - diciamo
che il nostro partito deve iniziare subito unopera di revisione, anzi di
liquidazione, di certi suoi precetti e di certi suoi metodi, che se furono
utili prima, oggi non servono pi, se non ad intorbidire le fonti della nostra
forza ideale e politica. Intanto dobbiamo dire alto e forte che proprio uno dei
nostri compiti necessari, in quanto lItalia
nata dal liberalismo e cresciuta nel parlamentarismo, quello di ridonare al Parlamento il suo
valore di massimo istituto storico e politico dellet nostra, di riconciliare
insomma la Nazione col Parlamento. Il Partito Fascista dovrebbe ormai sentire
la necessit di smobilitare e di proporsi nettamente, con un superiore obiettivo
di sintesi nazionale, l'eventualit di avvicinarsi a molti, se non a tutti, i
suoi nemici di ieri"! Essendo queste le premesse, era quasi inevitabile
che Rocca, il quale da tempo esorta alla normalizzazione, trova in Bottai e
nella redazione di Critica Fascista degli interlocutori attenti e ben disposti.
Ma ? Sul ruolo avuto da Bottai e da Critica Fascista nel dibattito interno al
fascismo durante il primo scorcio degli anni venti (con particolare riferimento
al revisionismo) v. soprattutto MANGONI, L interventismo della cultura.
Intellettuali e riviste del fascismo, Bari, Laterza, GENTILE, GUERRI, Bottai
fascista critico, Milano, Feltrinelli, BOTTAI, Disciplina, Critica Fascista.
Che il fascismo, compiuta la sua rivoluzione e conquistate le leve del potere,
dovesse por mano alla ricostruzione morale e materiale della Nazione, secondo
un programma propositivo, era opinione largamente condivisa tra i fascisti pi
politici. Lo stesso Mussolini, in una lettera a Bottai pubblicata sul secondo
numero di Critica Fascista (e riprodotta anche da Il Popolo dItalia del 30
giugno), aveva scritto: Caro Bottai, prima ancora che il programma, mi piace il
titolo della tua rivista, titolo che mi appare come un gesto di consapevole
orgoglio e come un privilegio del nostro movimento. Il quale, raggiunto il suo
secondo tempo costruttivo, deve affinare le sue capacit di controllo e di
critica. !! Augusto DE MARSANICH, Revisione Su MARSANICH (si veda), figura di
rilievo del regime mussoliniano e quindi, nel secondo dopoguerra, uno dei
protagonisti del movimento neo-fascista, v. Dizionario biografico deglitaliani.
cosa scrive Rocca che desta tanto clamore? La rivoluzione fascista questo in
sintesi il suo pensiero aveva avuto il merito di strappare lItalia al baratro
del bolscevismo, ma una rivoluzione aveva ragion dessere soltanto se
finalizzata al bene della Nazione, di tutta la Nazione, e non alla propria
autoconservazione. Il fascismo - spiega Rocca
dove servire il Paese e non viceversa, come preteso dai capi
provinciali, i quali, interessati solo a perpetuare il loro piccolo potere,
erano i primi responsabili del perdurare dellillegalit e del clima di tensione,
da guerra civile permanente, che ancora dominava in certe regioni". Ora,
nella battaglia intrapresa per la sprovincializzazione del fascismo, Rocca era
convinto di trovare in Mussolini un alleato naturale, ma questopinione, se non
mancava di riferimenti nella realt, non teneva nel dovuto conto la
spregiudicatezza tipica del modus operandi del duce, ed era perci, in
definitiva, frutto di una valutazione decisamente ottimistica. Scorrendo larticolo
di Rocca si ha I impressione che lautore tendesse a sopravvalutare certe prese
di posizione di Mussolini che, pi o meno
inconsapevolmente, finisse per attribuire al duce la propria personale visione
del fascismo. I segni pi evidenti della volont conciliatrice del Presidente del
Consiglio - scriveva Rocca - erano stati: la promessa, lanciata nel primo
discorso in Parlamento, di utilizzare a servizio del Paese tutti gli elementi
di valore, persino se provenissero dallestrema sinistra: lappoggio dato alle
Corporazioni fasciste, fino a riconoscerle di fatto, se non di diritto, sebbene
ospitassero nel loro seno vaste masse di non tesserati; I incoraggiamento ai
Gruppi di Competenza, destinati a completare e correggere lopera sindacalista
compiuta nei ceti proletari; la costituzione di un governo non esclusivamente
fascista; l'immissione di ufficiali dellesercito nei quadri della Milizia, per
maturarne la futura fusione con lesercito medesimo; il rifiuto ostinato,
intelligente ed onesto, di soddisfare alle pretese dimpiegati e di favori da
parte di troppi procaccianti in veste fascista, specie dellultima pes; Se
pensiamo alla sorte ingloriosa che, complice proprio la caduta in disgrazia del
loro mentore, sarebbe spettata di l a poco ai Gruppi di Competenza;
alleffettivo strapotere della Milizia e, soprattutto, al vero e proprio
esercito di profittatori, dintriganti e dincapaci che affollava lentourage di
Mussolini (uno stato di cose a cui egli, forse per effetto della Cfr. MassIMo
Rocca, Fascismo e paese, Critica Fascista. Larticolo, con altri due dello
stesso periodo, si trova ri ilti i STE, con, prodotto sotto il titolo //
l'Italia - anche in Idee sul fascismo. pan sua sfiducia negli uomini, trov
sempre inutile opporsi), abbiamo la misura di quanto Rocca singannasse. In ogni
caso, il suo articolo fu bene accolto da Il Popolo dItalia, che anzi ne fece
pubblicamente l'elogio", e nel complesso, lungo tutta la durata della
prima crisi revisionista, il giornale diretto dal fratello del duce, Arnaldo,
ne incoraggi apertamente le fatiche. Mussolini stesso, del resto, sebbene senza
mai esporsi in prima persona, dette una mano alla campagna revisionista, ma la
ragione di questo suo favore non derivava tanto, come crede Rocca, da unintima
convinzione ideale, bens - come ha ben sottolineato Felice (e com'era,
daltronde, nel carattere del duce) - da considerazioni di opportunit politica.
L'obiettivo allora perseguito da Mussolini, infatti, quello di una graduale apertura verso le forze
costituzionali (liberali, cattolici, ma anche socialisti riformisti), che
consentisse un ampliamento e dunque un consolidamento della sua maggioranza. A
questo progetto si opponevano scopertamente gli intransigenti alla Farinacci,
ed ecco, perci, che lesistenza di una corrente revisionista, moderata,
allinterno del fascismo, poteva servire a un duplice scopo: a rassicurare gli
altri partiti e l'opinione pubblica sulle buone intenzioni del governo e a
tenere a freno i ras, in vista di un possibile compromesso! Fu quindi grazie a
Mussolini che il dibattito inaugurato da Rocca sulle pagine di Critica Fascista
pot uscire dallambito piuttosto limitato della rivista di Bottai per diventare,
grazie al coinvolgimento di altri organi di stampa, un fatto politico di
portata nazionale'. Per rimanere allambito strettamente fascista, i giornali
che pi degli altri si fecero carico di assecondare i disegni dei revisionisti
furono tre: Il Corriere Italiano di Filippelli, L'Impero di Carli e Settimelli,
e, inizialmente in misura pi sfumata, Il Nuovo Paese di Carlo Bazzi. Si
trattava di fogli dalla linea editoriale incerta e contraddittoria e - ci che
pi conta - legati a interessi equivoci'5; cos, se innegabile che il loro sostegno Su questo
aspetto non secondario della personalit mussoliniana v. RENZO DE FELICE,
Mussolini il fascista. Cfr. FROMBOLIERE, Un monito fascista: basta con gli
pseudo-Mussolini!, Il Popolo dItalia Cfr. Renzo DE FELICE, Mussolini il
fascista. Il Corriere Italiano era sorto grazie a finanziamenti di origine
imprecisata ed era, a ragione, considerato l'organo ufficioso del Governo,
essendone diretti ispiratori due uomini molto vicini a Mussolini: Finzi,
sottosegretario al Ministero degli Interni, e Rossi, capo dellufficio stampa
del duce e membro del Gran Consiglio del fascismo. L'Impero aveva anch'esso
iniziato le pubblicazioni e si distingueva per l'accento smaccatamente
reazionario, spesso addirittura delirante, dei suoi articoli. I motivi dette a
Rocca lopportunit di far giungere la propria voce a un pubblico pi vasto, altrettanto fuor di dubbio che, a lungo
andare, esso non giov affatto alla seriet della campagna revisionista, e che
anzi, lessersi trovato Rocca anche solo indirettamente coinvolto in certe mene
affaristiche, offr a suoi avversari il destro per muovergli accuse, pi o meno
esplicite e motivate, di corruzione. Rocca rileva al riguardo Lumbroso puo
ridersi di certe accuse poich la sua probit privata era inattaccabile; ma sta
di fatto che i giornali di cui egli si serviva e anche taluni degli uomini che
lo incoraggiavano nella sua campagna non erano certo i pi indicati a parlare di
epurazione del Partito; ed innegabile
che certo fascismo provinciale, illegalista, dispotico e violento, in del
sostegno offerto da Carli e Settimelli alla campagna revisionista, oltre che
nei vincoli strettissimi con Filippelli e il suo giornale (LImpero apparteneva
alla stessa cordata economico/finanziaria editrice de Il Corriere Italiano, la
societ La vita dItalia, di cui Filippelli era amministratore delegato),
andavano ricercati nel loro esasperato mussolinismo, nellammirazione, certo non
disinteressata, per il duce, verso il quale i due | reduci del futurismo, un
tempo cantori dellanticonformismo e dellindividualismo anarchico, tenevano un
atteggiamento adulatorio, sconfinante nel ridicolo, che pi di una volta mise in
imbarazzo lo stesso Mussolini. A riprova dellincostanza e dellopportunismo che
caratterizzava la redazione de LImpero si ricordi che, nel corso della crisi
Matteotti, il giornale, gi revisionista, sarebbe stato in prima linea nel chiedere
il giro di vite e la soppressione violenta delle opposizioni; e che, a
conclusione di quella dolorosa vicenda, Carli pubblica un saggio, con la
prefazione di Farinacci, (Fascismo intransigente. Contributo alla fondazione di
un regime, Firenze, Bemporad), che tutto
un panegirico del ras di Cremona e dei suoi epigoni. Il Nuovo Paese apre i
battenti su iniziativa di Bazzi. Questi, che compagno di Rocca nelle Argonne,
proveniva dal PRI ed apparteneva a quelle frange del movimento repubblicano
che, in polemica con lorientamento antifascista prevals o in seno al partito
dorigine, se n'erano staccate per dar corpo a formazioni autonome
fiancheggiatrici del fascismo (lo stesso Bazzi si era fatto promotore di una
Unione Mazziniana Nazionale). Anche Il Nuovo Paese non era al di fuori di
loschi giri daffari, essendo legato a quel vasto ed equivoco mondo affaristico
che subito dopo la marcia su Roma si annida ai margini del fascismo al governo;
una lobby multiforme che aveva tutto linteresse che il fascismo rimanesse al
potere e mirava, per questo motivo, a una normalizzazione che rafforzasse la
situazione, da cui il contributo recato dal giornale di Bazzi alla causa del
revisionismo FELICE, Mussolini il fascista. Su Il Nuovo Paese e Il Corriere
Italiano si veda CANALI, Cesare Rossi: da rivoluzionario a eminenza grigia del
fascismo, Bologna, Il Mulino. Il medesimo autore ha efficacemente ricostruito
l'intreccio affaristico sottostante al primo esecutivo a guida fascista, in //
Delitto Matteotti: affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Bologna,
Il Mulino. Su Bazzi in particolare v.SALOTTI, Affarismo e politica intorno alla
liquidazione dei residuati bellici, Storia Contemporanea.Infine, a proposito de
LImpero, v. SCARANTINO. complesso si era mantenuto puro dalla piaga
dellaffarismo, e non vi ha dubbio che ci erano dei ras, tipo Farinacci,
persuasi in buona fede di giovare alla causa del fascismo e dellItalia,
dominando nelle loro provincie come despoti incontrollati ed incontrollabili e
riducendo a zero lautorit dei funzionari governativi"? Il giorno dopo la
comparsa dellarticolo di Rocca su Critica Fascista, Il Corriere Italiano prese
di petto la questione e, in un fondo che avrebbe sollevato lindignazione di
Farinacci, si scagli senza mezzi termini contro larbitrio capriccioso e
tirannico dei capi provinciali, arrivando a prospettare, neanche troppo
velatamente, la possibilit di uno scioglimento del PNF, il quale, vivendo ormai
di rendita alle spalle di Mussolini, costituiva linciampo pi grave allazione
del Governo. Lipotesi insinuata dal quotidiano di Filippelli dest, comera
prevedibile, un nugolo di polemiche. L'Impero, per tramite dei suoi
condirettori, afferm che il feticismo ostinato nei confronti del partito non
aveva pi alcuna giustificazione e che, essendosi chiuso il periodo eroico della
rivoluzione fascista ed essendo stati lo spirito e la mentalit del fascismo
gradualmente ma rapidamente assorbiti dallintera Nazione, non vi era pi ragione
di conservare in vita il partito. Nel frattempo, Rocca non perde occasione per
riaffermare il proprio punto di vista. Personalmente contrario, almeno nel
breve periodo, allo scioglimento del PNF, il leader revisionista prosegue
imperterrito lungo la via intrapresa. I problemi pi gravi del fascismo -
insiste Rocca - consisteno nellequivoco perdurante tra partito e governo, vale
a dire nellidentificazione del primo col i secondo; nellirresponsabilit e nella
prepotenza dei fiduciari provinciali; nella LUMBRO50 Cfr. Governo e fascismo,
Il Corriere Italiano. SETTIMELLI, L'ultima svolta del fascismo, L'ImperoCos, ad
esempio, a Torino, in sede dinaugurazione dei nuovi locali dei Gruppi di
Competenza. Nel suo discorso, che riceve il plauso dGioda, Rocca non tralascia
di accennare alle controversie in atto nel fascismo, ribadendo le proprie
critiche aglintransigenti (cfr. Il discorso di Rocca sulle funzioni dei Gruppi
di Competenza, Il Piemonte). In una lettera pubblicata da L'Impero (Partito e
Governo fascista), Rocca scrive non essere ancora giunto il momento in cui
lItalia, pienamente e consapevolmente fascista, si sarebbe potuta sostituire al
partito. Con questo egli non esclude che, in un futuro pi o meno prossimo, ci
sarebbe potuto accadere, e indic nei Gruppi di Competenza e nei sindacati dogni
ceto produttivo gli strumenti necessati di questa trasformazione. Il giorno
seguente Rocca ribade i medesimi concetti in unintervista a Il Corriere
Italiano, parodia duna disciplina formale senza norme n garanzia; nel
predominio deglorgani esclusivamente politici di partito su tutto ci che pur
rientrando nella vita corrente del fascismo, non strettamente ulivo (ad esempio i Gruppi di
Competenza) e che, per questa ragione, il partito ostacolava in ogni modo.
Tutto ci - secondo Rocca - conduce ad una vera forma di nuovo bolscevismo,
DISSOLVITRICE DELLO STATO E DELLITALIA, cui si dove assolutamente porre
rimedio. Contro la campagna revisionista, che raccolge i favori dellopinione
pubblica moderata variamente filo-fascista, insorsero invece glintransigenti.
Nellambito di una riunione del Consiglio Provinciale di Cremona, Farinacci
difende il principio dellintransigenza, si disse contrario all'inserimento
della milizia nellesercito regolare e minacci una seconda ondata rivoluzionaria
contro i falsi fascisti, profittatori senza fede che si servivano del fascismo
per i loro maneggi affaristici, Pi avanti, in un editoriale per il suo
giornale, il ras cremonese replic seccamente alle accuse dei revisionisti. Non
era affatto vero scrisse - che Mussolini non dovesse niente al fascismo
provinciale, il quale, al contrario. costituiva la vera forza, il fondamento
del partito e aveva contribuito in modo schiacciante al trionfo. Se si
distrugge il fascismo delle provincie si domanda Farinacci che cosa resterebbe
del fascismo? Io non ho lacume di Massimo Rocca, ma come caffoncello di
Provincia mi permetto di fare uno sforzo mentale pari a quello di he pero della
terza elementare calcolando che Provincia pi Provincia fa azione! ROCCA,
Partito e Governo fascista, cit. Tra gli organi indipendenti che offrirono
spazio e considerazione alla campagna revisionista, oltre a Il Giornale
dItalia, tradizionalmente vicino alla destra liberale, si segnalarono
soprattutto La Tribuna, lautorevole quotidiano romano diretto da Olindo
Malagodi, Il Corriere dItalia, organo ufficioso della destra cattolica ex
popolare, e LEpoca, un giornale dispirazione combattentistica. Proprio LEpoca
pubblic unintervista di Montalto a Rocca (Il momento attuale e il fascismo),
dando modo allex anarchico di esporre le proprie idee revisioniste a un
pubblico non strettamente fascista. di Un forte discorso dell'on. Farinacci,
Cremona Nuova FARINACCI, /n difesa dei cafoni di provincia. Il giorno avanti,
il quotidiano farinacciano aveva ospitato un intervento del bolognese
Baroncini, membro del Comitato Centrale, una delle figure pi note del fascismo
emiliano/romagnolo (su di lui v. NELLO, Grandi: la formazione di un leader
fascista, cit, ad indicem). Larticolo (intitolato Evviva il Fascismo e
pubblicato in contemporanea anche da La Scure di Piacenza e, naturalmente, dal
bolognese L Assalto) era una difesa appassionata del fascismo di provincia
contro il fascismo spurio, interessato e Il ragionamento di Farinacci, nella
sua schematicit, non mancava di logica e di veridicit e coglieva un aspetto
essenziale del problema, andando al cuore delle contraddizioni della politica
revisionista. Il fascismo delle provincie, caotico, brutale e intimamente
sovversivo, costituiva davvero, assai pi del fascismo addomesticato,
costituzionale e legalitario di Roma e di Milano, lanima del movimento.
Mussolini ne era ben consapevole, tant' vero chegli non pensava affatto, come
Rocca avrebbe voluto, ad una liquidazione in tronco del rassismo, ma, casomai,
ad un suo opportuno ridimensionamento, che lo svuotasse dei contenuti pi
radicali e pi difficilmente gestibili; alla qual cosa, come gi si detto, la propaganda senza anima,
propagandato dai revisionisti. Di analogo tenore - e spesso ben pi sbrigative e
violente - le reazioni degli altri fogli intransigenti. L'organo del fascismo
trevigiano, per mano del suo direttore, lasci intendere che Rocca avrebbe
meritato lo stesso trattamento riservato a Misuri, in quanto il suo larticolo
su Critica Fascista era degno di far pari col famigerato discorso dellex
deputato fascista (PEDRAZZA, Polemica fascista. Rispondiamo a Massimo Rocca,
Camicia Nera. A Piacenza, IL CONTE BARBIELLINI (si veda) punta lindice contro
le trame affaristiche sottostanti alla campagna revisionista. Per quali anonimi
lestofanti tuona il ras piacentino - fate voi da agenti provocatori di torbidi
nel fascismo? Vi secca la attivit fascista di provincia? Vi secca che dai ras
provinciali si siano mandati allaria diversi grossi affari che gruppi
capitalisti avevano qui realizzato ai danni dellErario Nazionale? (BARBIELLINI,
Perch non molliamo, La Scure). Circa le radici e le ragioni culturali e
politiche dellestremismo provinciale fascista con particolare riguardo a
Farinacci v. GENTILE. E interessante, a questo riguardo, ricordare il giudizio
di un esponente della cultura antifascista, Gobetti, secondo il quale non gi i
revisionisti ma Farinacci e gli altri ras del suo stampo erano gli autentici e
pi genuini rappresentanti del fascismo. In due articoli non certo teneri nei
confronti di Rocca, definito un parvenu e un arrivista, Gobetti scrive di
preferire la rozzezza degli intransigenti, non priva di senso di dignit e di
spirito di sacrificio, al politicantismo senza pudore e al trasformismo, senza
decoro e senza intransigenza dei vari Rocca, Bottai e Grandi, professionisti
della politica il cui revisionismo era nato in mezzo alle mollezze romane,
confortato da ricche prebende. A parte gli aspetti volutamente paradossali
delle sue considerazioni (e a parte la predilezione, tipicamente gobettiana,
per la categoria politico/morale dellintransigenza), lintellettuale torinese
coglieva nel segno allorch metteva in risalto la maggior rappresentativit
sociale - e culturale in senso antropologico - del fascismo provinciale, il
quale si faceva portavoce di sentimenti reali, di sincere, per quanto confuse e
primitive, aspirazioni palingenetiche, e godeva di un seguito che mancava
invece completamente alle fredde teorie dei revisionisti. Dietro ai vari ras di
provincia - notava lucidamente GOBETTI (si veda) - vi erano centomila giovani,
che al fascismo non avevano chiesto di guadagnare o di risolvere il problema
della propria disoccupazione, ma vi avevano portato la loro disperata
aberrazione, la repugnanza per i compromessi e gli opportunismi (la prima
citazione tratta da Elogio di Farinacci,
La Rivoluzione Liberale; le restanti da Secondo elogio di Farinacci. Anche in
GOBETTI, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Torino, Einaudi.
revisionista (anche attraverso il ricatto rappresentato dalla ventilata
minaccia di scioglimento del partito) poteva servire in modo egregio. Queste
considerazioni parevano sfuggire a Rocca, il quale, vittima forse anche della
propria presunzione, era invece convinto di avere al suo arco pi frecce di
quante non ne avesse in realt. Per niente intimorito dalla reazione di
Farinacci, ma anzi, data la propria innata vena di polemista, perfettamente a
proprio agio nel clima di roventi discussioni da lui stesso suscitato, Rocca
alz il tiro delle sue accuse. Non ci si
ancora accorti, evidentemente scrisse in un nuovo articolo per Critica
Fascista che oggi governa Mussolini in nome di una monarchia pi salda che mai;
che i nostri antenati e noi abbiamo combattuto per creare e rafforzare e
ingrandire unItalia unitaria, ove la forza armata, anche solo di manganello,
dev'essere una sola e uno il Governo che ne dispone, e uno solo il governo che
fa le leggi e le applica attraverso i prefetti, dando a questi ultimi il
diritto di mettere in galera anche i pi autorevoli fascisti locali se
contravvengono alla legge. Non si adattano ad essere cittadini pur essi come
tutti gli altri, nella loro provincia? Ebbene, facciano essi i prefetti, e
pongano nella legalit il loro dominio personale e continuino pure lopera
meritoria compiuta nel fascismo. Ma questopera
indipendente dalla loro prepotenza personale nelle cose che il partito
non riguardano; ma per continuare tale funzione non necessario instaurare repubbliche
dittatoriali o vicereami con feudi annessi o diarchie lillipuziane. Non basta
federare degli staterelli autonomi, ove laugusto signore sentenzia qui comando
io e fabbrica una legge speciale per lui, senza controllo; non basta federarli
platonicamente sotto legida di Mussolini, sopporta col platonico omaggio di un
alal. Bisogna disfarli.Tutto ci per la fronda fascista, nuova specie di
sovversivismo autentico imbellettato di tricolore: unico sovversivismo attivo e
ingombrante oggigiorno. Tutto ci per la Fronda insorta personalmente contro una
mia tesi impersonale, a minacciare col seguito dei suoi vassalli un modestissimo,
ma convinto pensiero individuale, che non riconosce altro ordine se non quello
del Duce, n altra legge se non quella raccolta nel codice e applicabile dal
procuratore del Re [...]. Ma la Fronda si piegher? La fronda non si pieg. A
distanza di soli tre giorni dalla pubblicazione di questo articolo, la Giunta
Esecutiva del PNF - istigata da Farinacci - decret lespulsione di Rocca dal
partito per grave Rocca, Diciotto brumaio, Critica Fascista (anche in ID., Idee
sul fascismo). Questo saggio di Rocca
preceduto da una significativa postilla della redazione. Siamo
perfettamente solidali con lautore vi si legge - e con gli scopi altissimi
della sua battaglia, che anche la nostra
battaglia. VIPATTTTRA VENTO ile A indisciplina e indegnit politica. MUSSOLINI RICEVE
ROCCA in qualit di vicepresidente dellistituto nazionale dellassicurazioni,
ufficialmente per trattare di questioni riguardanti l'ente ma in realt per aver
modo di esprimergli la propria solidariet. La sortita del duce, da cui egli si
aspettava le dimissioni dellintera Giunta Esecutiva, ebbe invece come effetto
di provocare quelle della Segreteria Generale (cio di una parte soltanto della
Giunta), il che rilevava prontamente Il Popolo dItalia - non risolveva affatto
la questione. Era in atto, come ben notava Il Giornale dItalia, un vero e
proprio regolamento di conti. Ora si domanda il quotidiano romano per le espressioni crude ed aspre adoperate
da Rocca, o per la tesi generale da lui sostenuta che la espulsione dn stabilita? Se vero che il Cremona Nuova di Farinacci
sarebbe dalla Giunta Esecutiva considerato come giornale ufficioso del partito,
sarebbe da dedurre che le lamentate tendenze, diremmo cos, provinciali,
localistiche avrebbero prevalso? E prosegue: La lotta precisamente tra i revisionisti tipo Rocca e
gli ioni ono Farinacci, tra i politici e i selvaggi, tra i romani e i
provinciali IRPROI Crisi i coscienza del Partito Fascista, questa, crisi per la
lotta di due opposti elementi: quelli che vogliono avvicinare il fascismo
allanima, del Paese e quelli che vogliono mantenerne la formazione chiusa e
intransigente La Giunta Esecutiva del Partito Nazionale Fascista riafferma la
necessit della manetta compattezza nell'interesse della Nazione ed a sostegno
del Governo, Il Popolo dItalia. tif, side Hib: La Giunta Esecutiva del PNF,
istituita in luogo della disciolta Direzione, sa composta da: Farinacci,
Lantini, Bianchi, Marinelli, Sansanelli, Teruzzi, Bolzon, Bastianini,
Maraviglia, Caprino, Dudan, Zimolo e Starace. La decisione contro Rocca presa allunanimit. i i 31 Rocca ricopre la
carica di vicepresidente dellINA. Cfr. Ibidem. TSI VII j; La Segreteria
Generale era formata da Bianchi, Marinelli, Bastianini, Sansanelli, Teruzzi,
Starace e Bolzon. bri Bata La Giunta esecutiva del PNF espelle Rocca il
revisionista. Mussolini intende che tale decisione ri-esaminata. La Segreteria Generale del
partito presenta le dimissioni al duce, Il Giornale dItalia gii vl Nellinsieme,
lespulsione di Rocca solleva unondata di sdegno Si scrive di procedimento
sommario, di decisione grottesca che ha il sapore della rappresaglia, mentre
anche il consiglio bazionale dei gruppi di competenza fa sentire la sua voce,
votando un ordine del giorno di pieno sostegno al proprio segretario. A Torino,
Gioda, che fin dallesordio della polemica revisionista aveva preso le parti di
Rocca si dimise dalla segreteria del Fascio in segno di solidariet con il suo
vecchio compagno. Fu un atto coraggioso, che, tenuto conto dei passati
contrasti tra Gioda e De Vecchi (questultimo simpatizzante degli intransigenti)
e delle mai sopite tensioni in seno al fascismo torinese, si colorava di un
forte significato politico. Non la prima
volta riconosce a questo proposito lorgano mussoliniano che, durante clamorose
polemiche, Gioda si schiera apertamente per la corrente temperata del Partito
Nazionale Fascista, ed ancora ricordato
a Torino lomaggio di fiori che, unitamente al comm. Massimo Rocca, tribut al
comunista Berruti, consigliere comunale, ucciso durante i fatti dello scorso
dicembre' Qualche giorno dopo, nel dare lannuncio delle proprie dimissioni
anche dalla direzione de Il Maglio, Gioda fu al proposito pi che esplicito, con
parole che non lasciavano spazio a fraintendimenti. Li LEpoca L'Impero Cfr. Il
Giornale dItalia. In un fondo per il nuovo quotidiano torinese Il Piemonte (Pap
buon senso), Gioda define i saggi revisionisti di Rocca un meraviglioso,
poderosissimo quanto ardito e coraggioso studio sul fascismo. In un articolo di
poco successivo, il segretario del Fascio torinese chiar il proprio punto di
vista, perfettamente in linea con gli assunti dei revisionisti. I fasci scrive
tra laltro Gioda non sono sorti per soddisfare le ambizioni militari o
politiche di TIZIO, CAIO, O SEMPRONIO, ma per lItalia, unicamente per la
salvezza e le fortune dItalia (GIODA, Corf, Roma e il Fascismo, Il Maglio).
Cfr. Il Popolo dItalia Gioda riassume la carica di segretario del fascio e la
direzione de Il Maglio da pochi giorni, dopo essersene allontanato per qualche
mese a seguito del riacutizzarsi della sua grave malattia. Il posto di Gioda,
dopo le sue dimissioni, rilevato da
Bardanzellu, gi presidente della sezione torinese dell Associazione Nazionale
Combattenti. Insieme a Gioda si dimise anche il segretario federale Pino
Mongini, un suo fedelissimo, ufficialmente per ragioni di carattere famigliare
(Il Maglio). Mongini sostituito dal
milanese Rossi. Il Popolo dItalia. Le polemiche de passati giorni scrisse - mi
hanno trovato pienamente, apertamente, risolutamente favorevole alla corrente
cosiddetta revisionista capeggiata da quella catapulta cerebrale di grande
anarchico che Rocca. Mi sono dimesso
dalle cariche [...] perch mi parve inconcepibile che si potesse appartenere ancora
un minuto ad un partito ridotto a defenestrare i suoi uomini pi formidabili
[...], mentre nell'ombra prosperava e vivacchiava alquanta gramigna Mussolini
convoca Bianchi a Palazzo Venezia. Questa volta Il duce richiede espressamente
le dimissioni della giunta esecutiva, decide il rinvio del convegno dei
Fiduciari provinciali e decreta la prossima convocazione del Gran Consiglio del
fascismo. Di fronte alla precisa intimazione di Mussolini, ai membri della
Giunta non rest altro da fare che obbedire. Rocca, dal canto suo, non aveva
disarmato. Colto di sorpresa (cos almeno rivelava Il Giornale dItalia) dal
provvedimento disciplinare comminato nei suoi confronti, era subito passato al
contrattacco, dichiarando in unintervista che la Giunta, essendo parte in
causa, non aveva diritto alcuno di decidere della sua espulsione e che, in ogni
caso, egli non sarebbe indietreggiato di un millimetro. A primi di ottobre
Rocca si ritir nella sua Torino" e l, accanto alla moglie (si era sposato
da pochi mesi) e ai familiari, attese la pronuncia del Gran Consiglio. Dal suo
ritiro torinese lex anarchico invi a Critica Fascista un nuovo articolo, dai
toni fortemente retorici, col quale auspicava una ricomposizione dei contrasti
in nome e in ossequio alla grandezza dItalia. MagriO Giona, Commiato, Il
Maglio. L'articolo di Gioda usce accompagnato da una nota redazionale, opera
probabilmente di Colisi Rossi, che definiva inopportune e intempestive le
parole del direttore uscente. Cfr. Il Giornale dItalia, 30 settembre 1923. In
un editoriale (/ncoscienza?) Il Popolo dItalia plaud alla richiesta di dimissioni
avanzata da Mussolini alla giunta esecutiva. Quest'ultima - secondo lorgano
milanese - manca di rispetto al duce, il quale, oltre a non esser stato messo
al corrente del proposito di mettere fuori gioco Rocca, allora interamente assorbito dimpellenti
questioni dordine internazionale e non dove essere trascinato in polemiche
artificiose. Egli scrive il giornale diretto da Mussolini (A) ha altro da fare.
I capi fascisti delle provincie devono finalmente intenderlo. Se i fascisti
locali non intendono ci, essi non capiscono nulla del Fascismo e sono indegni
di appartenervi. La giunta esecutiva si dimise infatti. Cfr. Il Popolo dItalia.
LEpoca, Cfr. Il Piemonte, Cfr. ACS, CPC, Busta 4362 [Rocca]. AI cospetto di un
fatto cos grandioso scrive -, noi, uomini che alla nuova creazione abbiamo con
devota umilt collaborato, dobbiamo sentire la nostra pochezza individuale al
confronto con la creatura che non
soltanto nostra e ci sovrasta nello spazio e nel tempo; dobbiamo comprendere
che nulla sarebbe pi folle, pi sterile del voler monopolizzare lItalia nuova
per noi. Dobbiamo sentire che anche il Fascismo
una parte, certo la migliore, ma non il tutto del fenomeno storico di
cui siamo propulsori e trascinati assieme: che la grandezza del ai possibile solo in quanto sinquadra nella
grandezza dItalia e le serve di ase Nelle intenzioni dellautore queste parole
avrebbero dovuto placare ogni dissenso personale. In realt, trascinato dal suo
temperamento, Rocca si era ormai invischiato in una fitta ragnatela di
polemiche. Tipica, in questo senso, la controversia che lo oppose in quei
giorni a LANTINI (si veda), uno dei maggiori esponenti del fascismo ligure.
Sulle colonne del suo giornale Lantini chera membro della Giunta Esecutiva -
aveva duramente attaccato Rocca, definendo la campagna revisionista
denigratrice, svalorizzatrice ed offensiva, e denunciandone la ben meschina
origine, di carattere prematuramente e comicamente elettorale. In una lettera
di poco successiva, Rocca replica al suo detrattore con una serie di accuse
minuziose, in particolare rinfacciandogli di aver disertato la battaglia
fascista nei giorni infuocati dello sciopero legalitario, salvo poi ROCCA, L
intangibile grandezza, Critica Fascista, 8 ottobre 1923 (anche in ID. Idee sul
fascismo). f L'articolo in questione fu pubblicato nei giorni successivi anche
da Il Piemonte (10 ottobre) e LImpero (11 ottobre). di ID., /dee sul fascismo,
LANTINI, Dichiarazione, Il Giornale di Genova. AI breve editoriale di Lantini
fa seguito una chiosa di Pala, il fiduciario provinciale per la Liguria (nonch
condirettore del giornale), che si professa completamente solidale con lautore.
Fin dal suo apparire Il Giornale di Genova suscita sospetti circa i suoi
finanziamenti. In polemica con Il Messaggero, che in un articolo svela i legami
esistenti tra il nuovo quotidiano fascista genovese e la Banca Commerciale,
Pala smente [cf. GRICE DISIMPLICATURA] seccamente, dichiarando che la propriet
del giornale appartene alla societ anonima Compagnia Editrice, di cui egli presidente (cfr. Il Popolo dItalia). A
Genova, tradizionale roccaforte del socialismo riformista, lo sciopero
legalitario aveva avuto pesanti conseguenze. Subito dopo la proclamazione delle
agitazioni, il Fascio genovese da corpo a un comitato d'azione, del quale fanno
parte, tra gli altri, Lantini, gli onorevoli Torre e Stefani, e Rocca, il cui
nome per del tutto assente dalle
dettagliatissime cronache de Il Popolo dItalia, la qual cosa fa pensare ad un
coinvolgimento minimo del futuro isetitett fritti tti vu eten ida PP PIPPIOS
servirsene, accampando benemerenze inesistenti, per farsi eleggere Consigliere
Comunale. La diatriba Rocca/Lantini si trascina a lungo, in un intreccio di
querele e cavalleresche quanto stucchevoli sfide a duello (peraltro sempre
onorevolmente risolte, senza bisogno dincrociare le armi) *, a tutto scapito
della credibilit complessiva della campagna revisionista. Come previsto, si
riun il Gran Consiglio del Fascismo. Al termine di una lunga seduta fu votato
un ordine del giorno che tramutava lespulsione di Rocca in una ben pi blanda
sospensione di tre leader revisionista nei disordini di quei giorni. Al termine
di una settimana di aspri scontri, i fascisti si erano ritrovati padroni del
capoluogo ligure. Obiettivo principale della violenta offensiva fascista stato il Consorzio autonomo portuario, cuore
del potere socialista a Genova, che riuniva le cooperative portuarie rosse e
aveva di fatto il controllo del porto. Dopo che i capi fascisti lanciano un
manifesto contro la camorra portuaria dei vigliacchissimi socialisti (Il Popolo
dItalia), le camicie nere genovesi, con il concorso di squadre giunte da
Carrara, da Alessandria e da Torino, assaltano Palazzo San Giorgio, sede del
consorzio (nellattacco, che fa numerose vittime, rimane ucciso lo squadrista
carrarese Martini, poi entrato trionfalmente nel martirologio fascista. Il
senatore Ronco, presidente del Consorzio autonomo, stato costretto a firmare una dichiarazione
capestro, con la quale si impegna a revocare le concessioni di lavoro alle
cooperative socialiste. Per la versione di parte fascista, v. La cronaca delle
giornate di Genova, Il Popolo dItalia. Su questi avvenimenti v. altres REPACI.
La crisi del fascismo in Liguria documentata in una gravissima lettera di
Massimo Rocca a Ferruccio Lantini, Il Secolo XIX (anche in Il Giornale
dItalia). Il Secolo XIX segue con partecipazione le polemiche tra revisionisti
e intransigenti, mostrando di parteggiare chiaramente per i primi. Nondimeno,
Rocca si risente dellavvenuta pubblicazione della sua lettera a Lantini - a suo
dire non destinata alla pubblicit - e ne chiese soddisfazione al direttore del
quotidiano genovese, Mario Fantozzi (cfr. Vertenza cavalleresca, Il Secolo XIX.
A un certo punto, come riferiva il 6 ottobre Il Giornale dItalia, la vicenda
assunse i contorni di un vero e proprio torneo. Si aggiunga che anche il
dissidio tra Rocca e Lantini cela un pi vasto conflitto dinteressi (di cui la
vicenda dei finanziamenti a Il Giornale di Genova costituiva un risvolto),
riguardante i grandi gruppi economico/finanziari che si contendevano il
controllo di Genova: da una parte il trust formato dallAnsaldo, dai fratelli
Perrone e dalla Banca di Sconto (allora in via di liquidazione), sostenuto
dalla corrente del fascismo cittadino facente capo a Mastromattei, amico di
Rocca; dallaltra la potente azienda armatoriale Odero (e, dietro di essa, la
Banca Commerciale), che aveva lappoggio di Lantini e dei suoi (su questi punti
v. LYTTELTON, La conquista del potere. Il fascismo, Bari, Laterza). Tale
contrapposizione travagli a lungo il fascismo genovese, dando luogo a laceranti
lotte intestine. Il primo atto della crisi fu il pestaggio, ad opera di alcuni
squadristi, del segretario delle locali Corporazioni fasciste, Loiacono, di cui
erano note le simpatie revisioniste (cfr. Il Giornale dItalia), +55 de i fee .
mesi. Tutto, dunque, comera nella volont di Mussolini, si risolveva in un
accomodamento, e bene rimarcava Il Giornale dItalia allorch scriveva che: Senza
esaminare il merito delle polemiche da questi Rocca sollevate, certo che tra la prima condanna allespulsione
per indegnit politica e la sospensione per tre mesi inflittagli ieri sera
troppo ci corre, tanto almeno da far credere allintervento di un compromesso.
Ma appunto fra i tumulti della politica e le variabili contingenze che essa
impone, i compromessi diventano non di rado inevitabili Il Gran Consiglio
decret altres un vero e proprio riordinamento del partito, nonch la nomina di
Cesare Maria De Vecchi a governatore della Somalia. Lallontanamento del futuro
conte di Val Cismon dallItalia (un provvedimento ispirato da Mussolini, stanco
di doversi misurare con le irrequietezze del quadrunviro), fu una grande
vittoria di Mario Gioda, il quale - come si
visto - aveva avuto il coraggio di esporsi personalmente nel dibattito
sul revisionismo e poteva ora, merc la messa in disparte del suo rivale,
aspirare a recuperare credito allinterno del fascismo subalpino. Ai primi di
dicembre, con la rielezione a segretario politico del Fascio di Torino, ebbe
inizio lultima fase della sua vicenda politica. In un'intervista di quel
periodo, Gioda espose il suo progetto per la normalizzazione. Occorre dichiara
- puntare sullo sviluppo dei sindacati e delle cooperative, in modo da
allargare la base effettiva del fascismo e porre le condizioni per una piena
collaborazione con le altre forze sociali (al riguardo Gioda si disse convinto
della possibilit di realizzare una federazione di cooperative di tutti i colori
e di tutte le tinte politiche. Come a livello sindacale, cos anche sul piano
politico i fascisti avrebbero dovuto ricercare un insieme di aperta, onesta,
equilibrata concordia con Per lesattezza, il testo dellordine del giorno
recita.Il gran consiglio prende atto delle dimissioni della giunta esecutiva,
revoca lespulsione di Rocca e, per le degenerazioni polemiche alle quali il
Rocca stesso ha contribuito, lo sospende per tre mesi da ogni attivit di
partito a cominciare dalla seduta odierna (Il Popolo dItalia). Una nuova fase,
Il Giornale dItalia. V. anche Le importanti deliberazioni del Gran Consiglio
fascista, Il Nuovo Paesee larticolo di Carli Il palladio della rivoluzione,
LImpero La Giunta Esecutiva sostituita
da un direttorio di IX membri, V con funzioni politiche e IV con funzioni
amministrative. Giunta divenne il nuovo segretario generale del PNF. Cfr. Il
Piemonte. Gioda non riassunse la direzione de Il Maglio, che resta a Rossi,
tutti glelementi politici nazionali. Relativamente ai temi della violenza e del
rassismo, Gioda perentorio. oggi doveroso per i fascisti afferma -
orientarsi verso un'attivit pi Sa ai tempi. A tutelare lordine bastano le
disciplinatissime forze della milizia a Fascio pu svolgere la pi intensa e
doverosa attivit per il suo Caveta nie cli
rappresentato unicamente dal Prefetto. Essendo paladini le 1A ri
fascisti sono e devono essere i primi a dare luminoso esempio. De n ci br
grande partito moderno come il nostro non pu reggersi unicamente sulle Vi o
qualit politiche suggestive e trascinatrici di Tizio 0 di Caio. I ngi vitali e
poter operare fecondamente, non hanno bisogno del : divo DE Mussolini in
sessantaquattresimo, ma piuttosto di coltivare una ferrea organizzazione che
possa esprimere suna lite di dirigenti. Non dunque nu compagnia di guitti
attorno allattore di cartello, ma un insieme di squisite cap: che troveranno
tutte una dura parte da reggere Il programma illustrato da Gioda nella sua
intervista fu in seguito sottoposto al giudizio del nuovo Direttorio del Fascio
e approvato a voti unanimi. Oltre il fascismo La sospensione di Rocca attenua
ma non pose fine alla poni revisionista, che, rimasta latente e come
addomesticata nel tempo presse: Ha le elezioni politiche del 6 aprile 1924,
esplose nuovamente ad pi c iosa per soccombere infine, una volta per sempre,
nell arco di meno i un ie s Il fascismo, del resto (in ci davvero svelando
lanima dinamica Hd decantata dai suoi ideologi), era un corpo in continua
trasformazione e le circostanze che avevano reso possibile 1 pr delle teorie
revisioniste e laffermarsi intorno ad esse di un intenso i % n per quanto funzionale e condizionato -, non
si sarebbero pi simonos e pel mesi successivi. Mutata la situazione politica,
venuta meno, res me ma inesorabilmente, la benevolenza di Mussolini, i
sostenitori di suse defilarono (chi per calcolo, chi come Bottai perch ormai
persua i i i i itico GALETTO, Problemi e propositi del fascismo torinese.
Intervista col segretario pol io Gioda, La Gazzetta del popolo, 12 dicembre
1923. o ; ca parzialmente anche su Il
Maglio) fu rilasciata da Gioda allospedale San Giovanni, durante una delle sue
ormai abituali degenze. Il Direttorio era entrato in carica. IRE SRPORT TE
VINTO VE NIV APRO VO SPTOOT TOT PVA VIRPPOI PITT dellinanit della lotta),
mentre i giornali che glavevano dato man forte manifestarono tutta la propria
ambiguit, dapprima servendosi della copertura revisionista nella logorante
campagna diffamatoria contro il ministro Stefani, quindi, girato il vento, non
esitando a passare dallaltra parte della barricata. Cos, quasi senza rendersene
conto (e forse, come al solito, presumendo troppo da se stesso), Rocca sinfil
in un cu/ de sac vittima di un gioco che trascendeva ormai le sue forze, in
poco tempo mandando a rotoli la sua intera carriera politica. Oltre che a
fattori esterni certo, la sua disfatta fu senz'altro dovuta anche gravi errori
personali. Intrappolato nel vortice della polemica, compiaciuto della propria
cultura, Rocca confer un tono sempre pi concettuale e filosofico al suo
revisionismo e i suoi articoli si fecero vieppi cervellotici, colmi di
citazioni libresche, in uno sfoggio di erudizione spesso fine a se stesso, con
la conseguenza inevitabile - di distogliere il grande pubblico dal cuore del
problema e di stancare anche gli osservatori pi benevoli, facendo apparire la
polemica revisionista in confronto alle concrete argomentazioni di un Farinacci
- poco pi che una bizzarria intellettuale. Scontato il provvedimento di
sospensione, Rocca riprese - inizialmente con cautela lordito dei suoi disegni.
In una sequenza di nuovi articoli, pressoch concomitanti, per Il Nuovo Paese,
per Il Popolo dItalia e per Critica Fascista, lex anarchico torna sul tema
della legalit. Sebbene paretianamente convinto che lindifferenza e la
diffidenza nel Paese verso il Parlamento fossero opera del Parlamento medesimo
(in virt della degenerazione dellistituto parlamentare) e dunque che la
responsabilit della crisi sistemica non potesse essere imputata unicamente alla
rivoluzione delle camicie nere, ma, semmai, ad un processo storico
irreversibile di cui detta rivoluzione era stata un fattore accelerante, Rocca
non cullava sogni palingenetici e restava assertore di un liberalismo
restaurato, restituito dalla cura fascista alla sua forza originaria. Dai
ripetuti episodi di squadrismo, e in particolare dallaggressione ad Amendola,
Rocca trasse motivo per ribadire lurgenza di ristabilire il confronto politico
entro i confini della normale dialettica costituzionale, e lobbligo, per il
fascismo, di abbandonare le pratiche extralegali. Solo cos si sarebbe giunti ad
una nuova e pi alta normalit, fondata sullimperio della legge, di cui il
Governo a guida fascista avrebbe dovuto farsi garante Rocca, Fascismo e
Costituzione, Il Popolo dItalia (anche in Idee sul Fascismo). Cfr. Il Nuovo
Paese (anche in Idee sul Fascismo), nel suo stesso interesse. Il primo segnale
che i rilievi critici di Rocca cominciavano ad esser mal tollerati, oltre che
dagli irriducibili del manganello, anche dai suoi alleati di settembre, si ebbe
dal dietrofront de LImpero. In un editoriale ispirato dagli articoli di Rocca,
Settimelli si chiese se, alla luce delle sue pi recenti affermazioni, egli
potesse ancora esser considerato un fascista o non, piuttosto, un liberale a
tutti gli effetti. Nella sua replica, che non si fece attendere, Rocca non
dissimul affatto il proprio filo-liberalismo. Il fascismo scrive - un superatore pi che un negatore assoluto dei
principi liberali. Infatti, fatto salvo il dogma della Nazione, la cui
accettazione era il requisito essenziale per potersi dire fascisti, tutte le
libert che non avessero minacciato quel dogma e che non si fossero risolte in
una negazione della Patria, doveno essere rispettate. Sul piano strettamente
politico, il torto maggiore del liberalismo
- secondo Rocca - quello di voler ancora comprendere da solo tutta la
societ, assai pi complessa e articolata che in passato, cos come il difetto di
fondo del parlamentarismo era quello di voler fare del Parlamento, un puro
organo politico generico, uno strumento
tuttofare. dunque necessaria
uninversione di rotta e lesecutivo fascista ne possede i mezzi nei consigli
tecnici, lunico proposito veramente rivoluzionario scaturito dal fascismo, la
pietra angolare di ogni autentica riforma in senso tecnocratico. A parte
l'enfasi posta sui Consigli Tecnici (quasi una sorta di compensazione
psicologica a fronte del naufragio dei suoi Gruppi di Competenza, dei quali
essi avrebbero dovuto raccogliere linfruttuosa eredit), lessenza delle
considerazioni di Rocca non si discostava da quanto egli aveva pi volte
sostenuto in passato, con la differenza che nel fascismo pareva non esservi pi
posto per simili posizioni. Non a caso, in contemporanea alla s Ip., Tornare
alla normalit, Il Nuovo Paese, (anche in Idee sul Fascismo,). SETTIMELLI,
Fascista o liberale energico? (Risposta a Rocca), LImpero. Pi tardi, conclusasi
la polemica revisionista con la definitiva espulsione di Massimo Rocca dal PNF,
Settimelli, in risposta allaccusa di doppiogiochismo lanciatagli da parte
socialista (cfr. La ritirata dell'Impero, Avanti!), avrebbe rievocato proprio
quest'articolo quale prova della coerenza del suo giornale (cfr. L'Impero e
Massimo Rocca , L'Impero). Ci non toglie che, nel giro di poco pi di tre mesi,
lorgano romano avesse completamente mutato la propria linea editoriale riguardo
al revisionismo, passando dalliniziale sostegno alla decisa ostilit. Rocca,
Fascismo e liberalismo (anche in ID., Idee sul Fascismo). a i idee
pubblicazione della risposta di Rocca a Settimelli, l'Ufficio Stampa del
Partito Fascista diram un comunicato nel quale sinformava che il Direttorio
Nazionale aveva inviato una lettera di deplorazione a Rocca a motivo dei suoi
ultimi saggi. Forse per evitare altri inconvenienti, il testo di un discorso
che Rocca pronuncia al Teatro Scribe di Torino
sottoposto alla preventiva approvazione del duce, Ci che colpiva nel
lungo intervento torinese di Rocca (un vero e proprio compendio della sua
dottrina dello STATO, quale anda formandosi negli anni) lassenza - certo non casuale - di qualsiasi
riferimento al partito fascista. Perci, nonostante il discorso dello Scribe non
contene cenni al revisionismo, pure, in un certo senso, ne costituiva lo
scheletro, il fondamento concettuale. Nella FILOSOFIA di Rocca, sintesi delle
tre grandi direttive della sua esperienza politica, individualismo,
liberal/nazionalismo e fascismo, non c pi spazio per la mediazione del partito.
LO STATO, vertice della piramide, il
dogma intangibile e indiscutibile, superiore ad ogni temporanea formazione e
vicissitudine partigiana, superiore, quindi, allo stesso fascismo. Il
discorso lultima uscita pubblica di
Rocca prima dellappuntamento elettorale. Egli, tuttavia, non disarma affatto e
anzi lavora ad un volume antologico dei suoi saggi revisionisti (il pi volte
citato Idee sul fascismo), che vede la luce dopo le elezioni, nellambito della
collana I problemi del Fascismo diretta da SUCKERT (si veda). Il saggio,
significativamente dedicato a Gioda (un fratello che sa valutare e comprendere
la testimonianza dun travaglio spirituale) contene anche due inediti di grande
importanza. Nel primo di essi, intitolato Una legge aglitaliani, Rocca invoca
lavvento di una legge che inattaccabile
nella sua imparzialit serena, amministrata da uno stato capace di farne
sostanza della Il Nuovo Paese, Cfr. Il discorso di stasera del comm. Rocca, Il
Piemonte. Il testo completo del discorso si trova anche in MAssIiMO Rocca, Idee
sul Fascismo, come La ricostruzione morale della Nazione. Le considerazioni di
Rocca riceveno commenti benevoli da La Stampa (Il discorso di Rocca), da Il
Nuovo Paese (Il discorso di Rocca a Torino) e financo da Il Maglio, che ne
defin lintervento un mezzo di lento riavvicinamento allanima del fascismo (Il
discorso di Rocca). ROCCA, Idee sul Fascismo sua eternit, al di sopra
degluomini e dei governi e dei partiti e delle classi. Il secondo inedito, Il
Fascismo nel pensiero moderno, rivela pienamente i segni dellinvoluzione
concettualistica che contraddistingue la ripresa della campagna revisionista.
Perno di questa lunga e spesso contorta digressione storico-politico-FILOSOFICA la condanna della modernit, di cui Rocca come
altri anti-modernisti - individua lorigine nella riforma protestante e di cui
segue le successive incarnazioni, dal razionalismo allo scientismo, per giungere,
sul terreno politico, allastrazioni della democrazia demagogica e del
socialismo. Contro la decadenza e la dissoluzione dogni gerarchia innestate
dalla critica moderna, si leva, in passato, la rivolta isolata dalcuni spiriti
liberi (Stirner, Bergson e Sorel), ma -
in Italia - prosegue Rocca - che la reazione anti-intellettuale da i
frutti migliori e pi durevoli, generando prima la riscossa nazionalista, poi
quella futurista e infine, nello sfacelo generale del dopoguerra, quella
fascista. Ma il fascismo, pur nella sua grandezza, ancora, per il teorico del revisionismo, una
energia formidabile ma grezza, contenente i germi duna creazione grandiosa, ma
solo abbozzata nelle linee principali. La pienezza restauratrice del fascismo -
conclude Rocca - dove passare attraverso la riscoperta della centralit e della
missione della chiesa cattolica romana, unica depositaria della certezza del
dogma. Negli ultimi due paragrafi del suo saggio - Il valore del Cattolicesimo
e Fascismo e religione -, Rocca immagina un ritorno al dogmatismo cattolico (un
altro ritorno, dunque, dopo quello al liberalismo), prefigurando addirittura,
quale approdo ultimo del fascismo, una sorta di nazional-cattolicesimo sotto
legida della Chiesa. La critica di Rocca al moderno e la sua rivalutazione
della tradizione mostrano non pochi nessi con la contemporanea riflessione di
Suckert, senza tuttavia possederne n loriginalit, n tanto meno lanima romantica
e sostanzialmente rivoluzionaria. Puramente e Il riconoscimento del
cattolicesimo romano come base fondante dellunit nazionale e, pi in generale,
della religione come elemento di disciplina, non solo morale ma politica, al centro della riflessione di Rocca anche
nel secondo dopoguerra. Sulle pagine di ABC, la rivista fondata da Bottai, Rocca
ampiamente tratta questi temi, sia sotto unangolatura puramente
storico-FILOSOFICA, sia in riferimento alla nuova situazione politica italiana,
indicando nellautorit e nella dottrina della Chiesa cattolica lunico vero
antidoto alla degenerazione partitocratica caratterizzante lItalia repubblicana.
DA proposito dellantimodernismo quale componente dellideologia fascista e della
sua centralit nella riflessione di Curzio Suckert, v. GENTILE, MICHEL deliberatamente conservatrice, la
concezione politica dell'ex anarchico lo fa dunque assomigliare pi a Maistre
che a MAZZINI. AI di l di queste considerazioni, ormai chiaro che Rocca esprime posizioni
personali, che difficilmente, con leccezione di pochi intellettuali, trovano
nel fascismo persone disposte a confrontarvisi (non a caso Farinacci, il
genuino rappresentante della base fascista, non esita a farsi beffe degli
scrupoli cattolici del suo avversario. Le elezioni e la crisi del fascismo
torinese Rocca e Gioda parteciparono alle elezioni nelle file del listone
governativo. La candidatura di Rocca incontra invero moltissime difficolt.
Apertamente osteggiato daglintransigenti, il leader revisionista dove
rinunciare a correre nel sicuro collegio di Torino (dove invece candidato Gioda), per accontentarsi di
un posto in 1 quello di Milano/Pavia, non senza incontrare le forti resistenze
di Farinacci. Sembra, peraltro, che Gioda condiziona la propria candidatura
alla presenza nel listone dellamico Rocca. Avendo Rocca rileva infatti un
giornale torinese -, con cui Gioda
pienamente solidale, accettato la candidatura in Lombardia, OSTENC. Sul
pensiero politico dellintellettuale toscano v. la monografia di PARDINI,
SICKERT (si veda) Malaparte. Una biografia politica, Milano, Luni. Non solo
Farinacci, a dire il vero. E singolare che quasi a voler rinverdire le
polemiche danteguerra, la comunit anarchica di New York, gravitante attorno al
giornale Il Martello (uno degli organi pi autorevoli dellanarchismo italiano
allestero), da alle stampe un saggio intitolato Dio e patria nel pensiero dei
rinnegati, che, accanto a vecchi scritti anti-clericali di Mussolini e di Herv,
riproduce il testo di una conferenza tenuta da Rocca a Providence allo scopo di
dimostrare che il mangiapreti dun tempo
in realt un voltagabbana. Due anni dopo, peraltro, il foglio anarchico
italo/americano non si sarebbe peritato di dar spazio ad un articolo dello
stesso Rocca (ormai un fuoruscito politico), violentemente critico nei
confronti di Mussolini (cfr. Rocca, La verit su Mussolini, Il Martello). Su
tutte le vicende legate alla decisiva consultazione elettorale v. FELICE,
Mussolini il fascista. Cfr. Il Piemonte. Il ras di Cremona non fece mistero di
non condividere la candidatura Rocca. Solo dopo la diramazione della lista
ufficiale dei candidati, Farinacci si rassegna ad accettare il fatto compiuto.
Ora che le liste sono approvate, col sigillo del duce e del PNF - scrive con
evidente disappunto -, devessere bandita ogni discussione, anche se nel
listone. V' qualcosa dindigesto; vi il
nome di qualcuno che credevamo che la rivoluzione nostra avesse sepolto per
sempre (FARINACCI, Ora basta!, Cremona Nuova). il Segretario politico del
fascio di Torino rimane candidato nella lista nazionale. Quella di Rocca ,
necessariamente, una campagna elettorale in tono minore, n molto diversa a
causa della salute malferma quella di
Gioda; ciononostante, entrambi risultarono eletti alla Camera. Il dopo elezioni
apre unennesima deflagrante crisi allinterno del fascismo sub-alpino; crisi
significativa perch, a prescindere dai fattori di ordine ambientale, sinscrive
nel pi generale contrasto tra revisionisti e intransigenti. La Stampa pone
laccento sui contrasti tra la tendenza transigente filo-liberale del fascismo
locale, rappresentata da Rocca, e lala pi, giottosa e ribelle, nostalgica dei
metodi squadristici, arroccata in provincia. Come effetto di queste lacerazioni
intestine, la formazione della lista nazionale era stata difficoltosa e,
complessivamente, la percentuale di voti ottenuta.In Piemonte da tale
schieramento era risultata la pi bassa dItalia (il 43 12%). A una settimana
dalle votazioni si riun a Torino lassise dei Fasci provinciali. In unatmosfera
satura di tensione (il discorso Il Piemonte. Io rinfaccia pi tardi Rocca a
Farinacci -, per disciplina verso il duce, ho accettato di abbandonare Torino,
ove riempio i teatri con le mie conferenze a pagamento; e in Lombardia, quando
ho visto che i tuoi amici boicottavano la mia propaganda per farti piacere, me
ne sono andato, infischiandomi dei voti (ROCCA, All'onorevole Farinacci despota
e censore, Il Nuovo Paese. La propaganda elettorale fascista fu inaugurata
domenica 2 marzo con una serie di comizi per la proclamazione dei candidati.
Gioda non era presente al comizio torinese, chebbe luogo al Teatro Regio il
marted successivo, ma fece giungere allassemblea una lettera programmatica,
nella quale si augurava che il confronto elettorale in Piemonte si mantenesse
nellambito della correttezza, come si conveniva ad una lotta didee e non di
uomini, e professava disciplina e fedelt assoluta a Benito Mussolini (//
messaggio di Mario Gioda ai fascisti torinesi, Il Popolo dItalia. Anche in Il
Piemonte). Il segretario del fascio torinese ebbe modo di illustrare
direttamente il proprio pensiero il 30 marzo, in un lungo intervento al Teatro
Alfieri, che fu lunica sua uscita pubblica durante tutta la campagna elettorale
(cfr. il forte discorso di Gioda al Teatro Alfieri, Il Maglio). Nelle 328
sezioni di Milano/citt Rocca raccolse appena 413 voti di preferenza. Miglior
risultato ottenne in provincia, con 1.071 suffragi (cfr. Il Popolo dItalia). Di
gran lunga pi cospicuo il bottino elettorale di Mario Gioda: 5.694 preferenze
in Torino/citt, 10.439 in provincia (cfr. La Stampa). Posizioni politiche e
questioni di uomini in tema elettorale. A confondere ulteriormente le acque,
accanto alla lista ufficiale si era presentato anche un raggruppamento di
fascisti dissidenti, guidato da Cesare Forni e Raimondo Sala, che vantava un
largo seguito tra gli agrari e gli squadristi pi facinorosi e che pare godesse
delle simpatie di De Vecchi. Su tutti questi punti v. MANA del segretario
federale, Rossi, fu interrotto pi volte), il congresso si risolse in un tumulto
generale, con violenti scontri tra i membri del Fascio del capoluogo e i
rappresentanti delle province. Il punto era - come ancora evidenziava La Stampa
- che, dopo lentrata in carica del nuovo Direttorio, allinizio di dicembre, e
la svolta normalizzatrice avviata da Gioda, 1 margini per una ricomposizione
fra le due anime del fascismo subalpino si erano definitivamente assottigliati.
di fascismo nella provincia registra lorgano giolittiano - tende ad avere una
Cuggino diversa da quella dellattuale Direttorio, un carattere, cio,
legalitario ma rude, antidemocratico ma ossequente delle gerarchie, quasi
intransigente, del tipo, insomma, che fu gi.
i L de, gi ed ancora definito coi i schiettamente
piemontese st GR Nonostante da parte fascista si cercasse di minimizzare, la
gravit della situazione era sotto gli occhi di tutti. Gioda, che non aveva
preso parte alla concitata assemblea provinciale, fu convocato a Roma dalla
Direzione del partito, per chiarire la vicenda di Torino. Le decisioni pi
importanti, in realt, erano gi state prese, indipendentemente dalle valutazioni
di Gioda Sabato 19 aprile, Colisi Rossi annunzi lo scioglimento del Direttorio
del Fascio torinese e la nomina, in sua vece, di un triunvirato composto da
Brandimarte, Orsi e Gorgolini. Il provvedimento colse di sorpresa Gioda, il
quale, in unaccorata lettera a Il Popolo dItalia, lo defin un atto inconsulto e
provocatore e dichiar di non riconoscere nel modo pi assoluto lo scioglimento
del Direttorio del glorioso e laborioso Fascio di Torino. La Segreteria
Federale, forte dellapprovazione dei vertici nazionali del partito, non si cur
minimamente pie si a Incidenti ad un
convegno fascista. Qualche contuso, La Stampa. x tt n : In una lettera della
Segreteria del Fascio di Torino al Prefetto (riportata da Il Popolo d Italia)
lorgano giolittiano veniva accusato di subdole esagerazioni. Il Maglio attribu
la responsabilit dellindegna gazzarra a misteriosi provocatori esterni,
elementi incoscienti, operanti per conto terzi. Il Popolo dItalia, 18 aprile
1924, Rs; situazione del fascismo torinese. Una vivace lettera dell'On. GiodaIl
giorno prima il segretario del fascio torinese invia un telegramma ancor pi
duro a Mussolini, definendo lo scioglimento del direttorio un imbecillesco
provocatore colpo di mano e chiedendo la nomina di un commissario avente pieni
poteri che facesse piena luce su ; pasa na $ quanto accaduto a Torino. ACS,
MIN/S7% DEGLINTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta e delle
rimostranze di Gioda ed anzi ne riprov la lettera come una manifestazione di
deplorevole indisciplina. Giunge a Torino Starace, in qualit di supervisore, Su
decisione di Starace il decreto di scioglimento del direttorio cittadino esteso allintero fascio, la cui
ricostituzione venne in seguito demandata a un commissario straordinario, nella
persona del ras Lantini. La nomina dellintransigente Lantini, uno dei pi
accaniti avversari del revisionismo, ad arbitro delle sorti del fascismo
torinese aveva un evidente significato ammonitore. Gioda, ormai sfinito dalla
lotta contro la malattia, usc definitivamente di scena, assistendo impotente
alla rovina politica dellamico Rocca. Minato dalla leucemia, lex tipografo si
spende in un ospedale torinese. Quale che sia il giudizio sulle sue idee e
sulla sua azione (che avrebbe forse potuto essere pi incisiva ed influente, se
le tortuosit programmatiche del fascismo, le difficolt incontrate nella
gestione del Fascio di Torino - in particolare lannosa contrapposizione con
Vecchi e le sue stesse esitazioni e insicurezze non lo avessero impedito), e
sorvolando sulle celebrazioni postume delloleografia fascista, certo che con Gioda Il Piemonte Cfr. La
Stampa, e Il Piemonte. Cfr. La Stampa, e Il Piemonte. Non a caso, larrivo di
Lantini a Torino fu salutato con soddisfazione da Il Maglio. In un precedente
fondo, lorgano fascista - che significativamente non da spazio alla nuova crisi
del Fascio torinese - aveva aspramente criticato i revisionisti, affermando di
non credere alla utilit di mutamenti programmatici nei postulati fondamentali
del partito e negando addirittura lesistenza del fenomeno rassismo (Rassismo,
revisionismo e speculazioni avversarie. Sullintera vicenda v. anche MANA. Dopo
lespulsione di Rocca dal PNF, l Avanti! sinterroga su quali sarebbero state le
reazioni di Gioda, ipotizzandone le dimissioni, come gi avvenuto in occasione
della prima crisi revisionista (cfr. Le ripercussioni a Torino per l'espulsione
di Rocca. In realt, come rifer a Finzi il Prefetto di Torino dopo un colloquio
con lo stesso Gioda, questi reag serenamente, ormai rassegnato, consapevole
forse di non poter cambiare il corso degli avvenimenti. ACS, MINISTERO DEGLI INTERNI,
Gabinetto Finzi, Busta. si Esemplare, a questo proposito (oltre agli articoli
commemorativi de Il Popolo dItalia, de Ii Piemonte e de Il Maglio, pubblicati
allindomani della sua morte), il gi citato volumetto La vita diGioda narrata da
Croce. Nel secondo dopoguerra, la memoria di Gioda fu recuperata nella cerchia
del sindacalismo di estrazione fascista (pi propriamente salodina), organizzato
nella CISNAL. Fondatore Gioda campeggiava sul frontespizio della nuova serie de
Il Maglio, come periodico del sindacalismo nazionale, In uno dei suoi primi
numeri comparve un sentito ricordo di Gioda, firmato da siii. ef .1.} scompare
un protagonista appassionato di una fase cruciale della storia politica
italiana, una figura complessa e contraddittoria, in un certo senso simbolo
dellirriducibilit del fenomeno fascismo ad un unico criterio interpretativo. Pa
seconda campagna revisionista e la definitiva sconfitta di Rocca. Mentre si
consuma la crisi del fascismo torinese. Rocca riapre formalmente il fronte
revisionista, con lintenzione come confess pi tardi di giungere ad un risultato
pratico di epurazione e di chiarificazione. In una lucida intervista a LEpoca,
che riattizza immediatamente il fuoco delle polemiche, il neo-deputato ribad
uno ad uno i capi-saldi del revisionismo. Di nuovo, Rocca aggiunse un esplicito
attacco contro quelle classi industriali. che, prive dogni idea generale
nobilitante, silludevano di assolvere ogni loro dovere verso la patria e la
civilt foraggiando i vari capetti fascisti, in cambio di utili tranquilli. Alla
domanda, conseguente, se egli ritenesse possibile e opportuno un orientamento
verso sinistra del fascismo, Rocca replica. Verso una sinistra politica,
democratica o liberale didee, no. Verso una democrazia di fatto, nel senso di appoggiarci
su larghi strati di popolazione, si. Il governo fascista - osserva Rocca -,
uscito rafforzato dalle consultazioni politiche, aveva il dovere, e insieme la
necessit, di ampliare la propria base favorendo, a tal scopo, una profonda
collaborazione tra le diverse componenti della societ civile e del mondo del
lavoro. Una collaborazione Malusardi, che di quel giornale fu usuale
collaboratore (cfr. MALUS, Ricordando Gioda, Il Maglio). a MAassIMO Rocca, A
Farinacci despota e censore, cit. Il nuovo orientamento del fascismo.
Intervista dell Epoca con l'on. Massimo Rocca, LEpoca. Rocca riprende questi
concetti in un saggio su Il Nuovo Paese (// bolscevismo degli industriali). Il
fascismo - scrisse in quella circostanza - non era nato per tutelare gli interessi
delle cricche industriali/finanziarie. AI contrario, troppi nuovi e vecchi
imprenditori vedevano nellItalia un paese di conquista economica, proprio come
certi ducini pseudo-fascisti vedevano nelle citt e nelle provincie un terreno
di conquista politica e militare. Tra i due deprecabili fenomeni - aggiunse
Rocca vi era un nesso profondo, in quanto gli squadristi dellultima ora erano
sovente finanziati da industriali e proprietari senza scrupoli. Il nuovo
orientamento del fascismo. Intervista dell Epoca all'on. Massimo Rocca, cit, di
questo tipo, fondata sulla solidariet nazionale e non isterilita da pure
considerazioni economiche o da unopera di gendarmeria a favore di una classe
sola, poteva darsi soltanto a condizione che il Partito Fascista abbandonasse
ogni residuo settarismo per divenire finalmente parte integrante della Nazione.
A queste considerazioni Rocca, incurante dellinvito alla prudenza fattogli
pervenire dallo stesso Mussolini! fece seguire altri interventi - soprattutto
su Il Nuovo Paese! -, ogni volta tornando sugli stessi concetti. In un articolo
particolarmente duro per il giornale di Bazzi (una sferzante requisitoria
contro le camarille locali fasciste), Rocca, quasi presentendo la resa dei
conti finale, sostenne che la normalizzazione non poteva pi esser rimandata.
Dopo le elezioni scrive -, il Paese ha diritto di pretendere un assetto
definitivo del Fascismo. Il 1924 dovr assolutamente assistere allinquadramento
completo del partito nella Nazione, Com lecito attendersi, le rinnovate accuse
di Rocca destarono una pronta levata di scudi da parte del fascismo
provinciale. Questa volta, per, Farinacci e gli altri ras trovarono un
insperato alleato nel ministro delle Finanze Alberto De Stefani, una delle
figure di maggior prestigio del governo Mussolini!?. E noto, infatti, che la
seconda ondata revisionista LEpoca, diretta allora da Madia (subentrato a
Falbo), dedic almeno inizialmente molta attenzione alla seconda fase della
polemica revisionista. Pochi giorni dopo la pubblicazione dellintervista a
Massimo Rocca, il quotidiano romano ne ospit unaltra, anch'essa molto
importante, a Giuseppe Bottai (cfr. Le origini e le finalit del revisionismo.
Intervista dell'Epoca con l'on. Bottai). Mussolini ricorda Rocca a questo
proposito - mi fa pregare, da Paolucci deCalboli Barone, di abbandonare la
polemica. Rifiutai qualsiasi impegno in merito, perch volevo giungere ad una
chiarificazione definitiva (Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura). Il
Nuovo Paese prende, di fatto, il posto che
stato de L'Impero e de Il Corriere Italiano. Il favore accordato dal
giornale di Bazzi al revisionismo era per caratterizzato da unambivalenza di
fondo. Tipico, sotto questo profilo, un editoriale del 7 maggio (Polemica
revisionista), in cui, agli elogi a Massimo Rocca si accompagnavano critiche
alleccessiva astrattezza filosofica delle sue tesi, il tutto in una cornice di
disinvolta celebrazione mussoliniana. Fin dalle prime battute, dunque, apparve
chiaro che Il Nuovo Paese mirava a garantirsi una via di fuga, nellipotesi,
rivelatasi realt, che i revisionisti finissero per soccombere. 102 MassIMO
ROCCA, Politica interna e disciplina nazionale, Questo articolo apparve nel
contesto di una rubrica dal titolo programmatico di Mezzi per normalizzare
veronese Stefani, deputato ( eletto - come si
visto - nellambito della lista fascista patrocinata da Malusardi), era
entrato nel governo Mussolini come ministro delle Finanze, ereditando, dopo la
morte del popolare Vincenzo sintrecci con la violenta campagna scatenata contro
Stefani da Il Nuovo Paese nel tentativo di sottrarre i propri equivoci giri
daffari alla temuta opera moralizzatrice del ministro'. Secondo Felice, il
coinvolgimento di Rocca in quelle oscure - e mai del tutto chiarite - manovre
fu probabilmente il prezzo che egli dovette pagare per conservare il sostegno
di Bazzi, ma certo, in ogni caso, che il
leader revisionista ha in tutta quella vicenda una parte solo marginale. Rocca,
del resto, nega sempre di esser sceso in polemica personale con Stefani; e in
effetti, sfogliando i suoi articoli di quel periodo, non vi troviamo che
sporadici accenni a questioni economico/finanziarie e mai un riferimento
diretto al ministro!. E bens vero che Rocca (il quale era convinto che il
programma elaborato con Corgini fosse il migliore possibile e non aveva mai
digerito il suo accantonamento da parte di Mussolini) pubblic un intero volume
contro la politica economica di De Stefani, ma
anche vero che il saggio usc quando della polemica montata da Il Nuovo
Paese non resta che leco!?. D'altra parte, il discredito derivante a quel
giornale Tangorra, anche il Dicastero del Tesoro. La sua azione di governo,
sostanzialmente improntata ai postulati del liberismo classico, si articol
lungo tre direttive principali: raggiungimento del pareggio (grazie soprattutto
al taglio drastico della spesa pubblica e allintroduzione di nuove imposte);
contenimento della dinamica salariale; ripresa di un liberismo doganale
controllato. Cfr. Dizionario biografico deglitaliani, fe Su questi punti v. FELICE,
Mussolini il fascista. Il Nuovo Paese rimproverava al ministro lostinazione nel
voler perseguire a tutti i costi lequilibrio del bilancio, una politica
definita esiziale per le risorse economiche della Nazione; ma questa era - per
cos dire - laccusa nobile, di facciata, essendo ben altri, in realt, i motivi
dellostilit del giornale nei confronti di Stefani. Tra le principali
imputazioni mosse al ministro, la pi importante - perch pi strettamente
connessa agli interessi della lobby sottostante alliniziativa editoriale di
Bazzi - riguardava i suoi presunti favori alla potente Banca Commerciale
(accusata di mirare al monopolio di tutte le attivit industriali, bancarie e
finanziarie), a discapito soprattutto della Banca di Sconto, gi in via di
liquidazione (ofr. Per gli uomini di buona fede, Il Nuovo Paese). si Cfr. Renzo
DE FELICE, Mussolini il fascista. In una lettera successiva alla sua espulsione
dal Partito Fascista (pubblicata da Il Corriere della Sera), Rocca si sarebbe
detto amareggiato del fatto che il suo nome fosse stato collegato alla diatriba
Nuovo Paese/De Stefani, sottolineando di non aver mai attaccato il ministro. 1?
Una sola volta, con larticolo La tirannide finanziaria (pubblicato da Il Nuovo
Paese il 14 maggio), Rocca prese ufficialmente posizione nella polemica contro
la Banca Commerciale. Ra Cfr. Rocca, Come il fascismo divenne una dittatura. Si
tratta di Fascismo e Finanza (Napoli, Ceccoli). Il saggio, che fa parte della
collana Pagine Politiche diretta dAngiolillo, raccoglie il testo di un dai suoi
ripetuti e spesso triviali attacchi a Stefani ha un riflesso del tutto negativo
sullazione di Rocca. Se per i fascisti delle province lintegerrimo uomo di
governo divenne un simbolo e uno strumento nella lotta contro glaffaristi
romani, all'opinione pubblica moderata, che aveva accompagnato con simpatia la
campagna a favore della normalizzazione del fascismo, le accuse di quello che
veniva considerato il principale organo revisionista ad un conservatore come
Stefani (il quale godeva, tra laltro, della stima di eminenti personalit del
mondo politico ed economico liberale, come Einaudi) apparvero incomprensibili e
gratuite!!!, mentre fu subito chiaro che Mussolini non avrebbe mai accondisceso
a liquidare uno dei suoi pi validi collaboratori. discorso pronunciato da Rocca
alla Camera dei Deputati (anch'esso, dunque, posteriore alla sua radiazione dal
PNF) e una serie di note nelle quali lautore illustrava dettagliatamente i
motivi del suo dissenso dalla linea politica di De Stefani, ribadendo peraltro
la propria estraneit alla polemica tra il ministro e Il Nuovo Paese, e
definendo una leggenda lopinione in base alla quale egli sarebbe stato espulso
dal Partito Fascista a motivo di essa. Quanto alla sostanza delle sue critiche
a Stefani, il punto di partenza di Rocca consisteva nellimputare al
responsabile delle Finanze il suo economismo professorale - troppo legato
allarida teoria e perci fine a se stesso - e la sua incapacit, per converso, di
valutare levoluzione sindacalista della produzione, colta invece dal programma
economico fascista. Per un economista di tal razza argomenta Rocca esiste
soltanto la libert economica, cio della classe borghese, ma non la libert
politica, cio delle altre classi, con la conseguenza di favorire il dominio
della plutocrazia bancaria e affaristica, la quale rappresentava lapplicazione
quotidiana, esagerata e unilaterale della scienza economica classica e
borghese. Pi La lotta contro Stefani scrive Farinacci in tono minaccioso - deve
cessare. Il Direttorio del Partito deve intervenire e sconfessare ancora una
volta il Nuovo Paese e i suoi collaboratori fascisti. Un ministro fascista come
lon. De Stefani non pu essere lasciato aggredire da chi privo di ogni diritto e autorit morale (FARINACCI,
Solidali con Stefani, Cremona Nuova). palla giolittiana La Stampa (CABIATI, Il
ministro Stefani) ai filo-fascisti Il Giornale dItalia (Polemiche interfasciste
sul revisionismo e pro 0 contro De Stefani) e Il Resto del Carlino (FLORA, Per
l'onorevole Stefani), la stampa liberale prese, compatta, le difese delluomo di
governo veronese, lenergico restauratore delle finanze pubbliche. Il commento
di Flora per il quotidiano bolognese
forse il pi indicativo di questo comune sentire. Nulla di pi enigmatico
e di pi doloroso per il pubblico italiano scrisse larticolista de Il Resto del
Carlino della campagna ostile contro il ministro De Stefani, riuscito in soli
due anni con una politica finanziaria coraggiosa e sapiente, che ricorda quella
eroica di Quintino Sella, a salvare le finanze italiane dal fallimento e il
credito della nazione dallestrema rovina. I revisionisti, complice la campagna
de Il Nuovo Paese contro De Stefani, apparivano dunque, alla maggioranza degli
osservatori liberali, per sostenitori della finanza allegra, al punto che tutti
gli altri argomenti (la costituzionalizzazione del fascismo, il ripristino
della legalit ecc.), che costituivano la vera essenza del revisionismo,
finirono per passare in fe TE avitbicee In unatmosfera carica di equivoci e di
tensioni, Massimo Rocca si avvi incontro alla sua fine politica. Le diverse
posizioni, ancora incerte al momento della sua intervista a LEpoca, si andavano
daltronde sempre pi definendo. LImpero, dopo un lungo silenzio, scese in campo
a dar manforte a Farinacci. In un editoriale Il pugno e la biblioteca -,
Settimelli prende le difese dei selvaggi delle province (il pugno), accusando i
revisionisti (la biblioteca) di filosofare vanamente sui massimi sistemi,
tradendo lanima guerriera del fascismo. A parte la disinvoltura dei suoi ex
alleati, per indiscutibile che Rocca si
compiacesse troppo di se stesso, abbandonandosi sovente a virtuosismi da
erudito (come testimoniato da scritti del tipo di La rivoluzione e le fonti del
Fascismo, uscito su LEpoca in contemporanea allarticolo di Settimelli), col
risultato come si diceva - di togliere mordente e immediatezza alla polemica
revisionista, facendola apparire, appunto, uno sterile e noioso esercizio di
critica filosofica. A strappare definitivamente Rocca alle sue speculazioni
provvide Mussolini (A) con un fondo durissimo per Il Popolo dItalia. Gli
onorevoli Rocca e Bottai scrive il fratello del duce -, ai quali non si pu
negare perspicacia nello studio di grandi problemi, si sono dati a demolire, a
precipitare ci che anda semplicemente attenuato. I patriarchi non si mettono a
fare la boxe coi capi di provincia. Se non ci fossero stati gli squadristi, se
non ci fosse stata la violenza, l'ordine, la disciplina, la ripresa di tutta la
nazione italiana sarebbero lontano o lettera morta, e nemmeno i facili critici
secondo piano e che la liquidazione di Rocca sembra infine un mezzo necessario
per salvare lintegrit dei bilanci. Persino Il Mondo, lorgano dellopposizione
costituzionale amendoliana, che pure precisa di non tenere per nessuna delle parti
in causa e che, in ogni caso, non ha mai risparmiato critiche alloperato di
Stefani, convenne sullinopportunit della campagna contro il ministro.
Indifferenti come noi siamo a qualsiasi esito - scrive infatti il giornale
diretto da Cianca di una cosa sola possiamo rallegrarci: che non ha vinto una
campagna che appare troppo minata da rancori e da vendette duomini o di gruppi
che si sono trovati in contrasto con le ragioni dellerario, ed hanno sferrato
contro l'ostacolo Stefani attacchi di stile inusitato perfino nellattuale
depressione del costume politico (Il caso Stefani. La logica del pugno in
opposizione alla biblioteca - replica Rocca a Settimelli -, lesaltazione cieca
della forza, il mito dellITALIANIT, conduce il fascismo alla dissoluzione
morale (Rocca, Il problema morale del fascismo, LEpoca). Il problema deducare e
quindi di responsabilizzare i quadri fascisti
avvertito dai dirigenti pi accorti. Dopo la marcia su Roma, nel pieno
delle polemiche sullo squadrismo, Malusardi - allora a Sestri Ponente - si
batte per lapertura, nei locali del fascio, di una biblioteca di cultura varia,
in modo da offrire ai fascisti un'opportunit di crescita etica e intellettuale
(cfr. Giovinezza). di oggi puo parlare da Roma, sprofondati su le buone piazze,
col gesto ed il tono ieratico degleunuchi. Le brusche parole di Mussolini (A),
in perfetto stile farinacciano, colsero di sorpresa Rocca. Posto dinanzi anche
allimprovviso - ancorch non imprevedibile voltafaccia de Il Nuovo Paese, Rocca
prova dapprima a parare il colpo con una dichiarazione nella quale precisa di
non aver mai inteso offendere leroiche camicie nere. Quindi, di fronte
aglinsistenti affondo di Farinacci, si decide a pubblicare una lettera aperta
al proprio rivale. Bench traboccante di retorica, la lettera di Rocca un fiero atto daccusa a Farinacci (il vicer
spagnolesco di Cremona) e al fascismo provinciale che egli rappresenta,
degenerante nella volgare brutalit del cazzotto o del randello. stato scritto, molto suggestivamente, che in
questo modo Rocca ridiventa lanarchico Libero Tancredi esi prepara a riprendere
la via dellesilio. Non sembra, tuttavia, che Rocca si del tutto reso conto desser giunto al
capo-linea della sua avventura fascista, sebbene non difficile prevedere, come riusc a un giornale
MUSSOLINI, La Fronda, Il Popolo dItalia. Lo stesso giorno, con grande tempismo,
L'Impero titola: Gridiamolo ancora: il fascismo ha fatto la rivoluzione per
avere uno STATO FASCISTA, non per appuntellare lo stato liberale. 3 gu i i ni
C' una fronda in giro? si chiede il giornale di Bazzi, riecheggiando il titolo
del saggio dMussolini (A). Non ci riguarda. Noi chiediamo anzi che spezzata. La dichiarazione di Rocca pubblicata da Il Nuovo Paese e ripresa, il
giorno seguente, anche da Il Popolo dItalia e da Il Giornale d'Italia.
Farinacci, sul suo giornale, si dice indignato per quella che considera
unautentica virata di bordo da parte del suo avversario (Cremona Nuova). In
realt, Rocca si era DERER a esprimere il proprio apprezzamento per gli
squadristi della vecchia guardia (come sO resto aveva sempre fatto), senza
giustificare in alcun modo le violenze dei teppisti pc quelli di tutte le seste
giornate, ma anzi sottolineando che egli continua a attersi per lepurazione
allinterno del panic affinch questo puo realizzare il suo genuino di disciplina
legale e materiale. Ne Masino i A Gale Farinacci despota e censore, cit. (la
lettera si trova riprodotta anche in Come il fascismo divenne una dittatura).
Contemporaneamente alla lettera a Farinacci, Rocca diffunde un comunicato con
il cbr no notizia delle proprie dimissioni da vicepresidente dellINA, nonch da
membro del consiglio damministrazione della Societ Anonima per le raffinerie
petrolifere di Fiume, una carica che ricopriva da qualche mese (cfr. Il
Giornale dItalia, e Il Nuovo Paese). BEGNAC,
ti 18 In. effetti, ancora dopo che il direttorio fascista ne sanziona il
definitivo allontanamento dal PNF, Rocca nutre la speranza che il suo caso ri-esaminato, come gi avvenuto in occasione della sua precedente
espulsione. Ed ora dichiara il dellopposizione, che la sua lettera a Farinacci
ne ha con tutta probabilit determinato lespulsione dal partito. La sera stessa
il direttorio fascista, riunito a Palazzo CHIGI alla presenza di Mussolini
(precipitosamente rientrato da una visita ufficiale in Sicilia), DECRETA
LESPULSIONE DI ROCCA dal PNF. Essa, commenta Il Popolo dItalia, non solo: la punizione ad un sedizioso, ma un
monito severo e una minaccia solenne a tutti quegli PSEUDO fascisti o FALSI
fascisti che rinnegano la fede, offendendo la patria e turbano colla smania e
la follia dellarrivismo quel che il
dovere fascista pi grande: la ricostruzione nazionale. Il direttorio decide
altres lespulsione di Bottai, ma questi, grazie allintercessione di Marinelli
(non si sa a quali eindizioni probabilmente la promessa di rientrare nei
ranghi), ottenne la revoca del provvedimento, cosicch Rocca si trova, di fatto,
a sostenere da solo il peso dellepurazione. Nel giro di pochi mesi, dunque, il
revisionismo passa duna concreta, bench ingannevole, speranza di successo al pi
cocente fallimento, mentre a Il Giornale dItalia pi fascista che mai, se il
fascismo legge statale e disciplina
spirituale, non mi resta che tornare ad attendere un po di giustizia, non
Importa se pi tardiva che nello scorso settembre. Avanti!: Cfr. Il Popolo
dItalia. Ogni commento da parte nostra - rileva Farinacci trionfalmente superfluo. Costui [Rocca], da noi, considerato fuori del fascismo gi da un anno
(FARINACCI Virando di bordo, Cremona Nuova. GUERRI. La marcia indietro di
Bottai addolora Rocca, che ne attribu la ragione alle preoccupazioni
carrieristiche del intellettuale fascista. Bottai scrive Rocca --, teme di
veder spezzata per sempre la sua carriera. Rocca, Come il fascismo divenne una
dittatura. Il punto che il revisionismo
di Rocca e quello di Bottai, sebbene concomitanti, muoveno da premesse
culturali e ideologiche sostanzialmente diverse. Al contrario di Rocca,
infatti, che vanta una militanza politica pre-fascista di tutto rispetto,
Bottai, fatta eccezione per la sua breve stagione futurista, si e form
politicamente col fascismo, al quale dedica tutto se stesso, e di cui se cos si
pu dire - puo considerarsi lunico vero intellettuale organico. Nonostante
lapproccio critico, quindi, la fedelt fascista di Bottai non assolutamente in discussione. cos come sottolinea efficacemente Guerri -
che Bottai, il quale crede nel FASCISMO COME TEORIA POLITICA, non volle
rinunciarvi sempre ripromettendosi di migliorarne la prassi, mentre Rocca,
assai meno fascista e anebra molto anarchico, piuttosto che accettare la
disciplina di un partito che considera irrimediabilmente marcio, prefere
rinunciarvi del tutto (GUERRI. Rocca vienne abbandonato al proprio destino.
Perch MUSSOLINI decide di sacrificare Rocca, di cui aveva personalmente preso
le difese meno di un anno prima,
questione di non facile interpretazione. La risposta pu essere ancora
una volta ricercata nella duttilit strategica del duce. Mussolini, infatti,
coltiva ancora il disegno dun allargamento della maggioranza, da realizzarsi
soprattutto grazie a unintesa con la CGL -- un progetto a cui il capo del
fascismo tiene in modo particolare e che, se non sopraggiunta la vicenda Matteotti, sarebbe
probabilmente andato in porto. Un'operazione tanto importante scrive Felice
dove essere realizzata con le minime possibili scosse interne. Glintransigenti
dovevano essere convinti ad accettarla. Se il prezzo o una parte del prezzo da
pagar loro la fine del revisionismo e la
testa di Rocca, Mussolini non puo certo esimersi da Rocca quindi vittima dintricate manovre politiche,
ma giusto ripetere che egli sconta anche
gravi errori personali. Con la sua definitiva espulsione | commenti della
stampa italiana sono variamente ma unanimemente favorevoli alla decisione del
direttorio. Settimelli, su L'Impero ha parole di stima per Farinacci (il suo
programma semplice e schietto, energico e fiducioso, il nostro programma) e di riprovazione per
Rocca (Rocca non ha una visione chiara e sintetica della situazione. farraginoso e analitico). Il Resto del
Carlino, che vede con favore la battaglia per la legalizzazione del fascismo,
rimarca la degenerazione personalistica della polemica revisionista
concretatasi neglattacchi a Stefani - augurandosi che Rocca si convince dellopportunit
di rientrare in un completo silenzio (Il provvedimento contro l'on. Rocca). Con
argomenti simili, Il Giornale dItalia, pur riconoscendo la validit del
revisionismo deglinizi, ne critica linvoluzione dottrinale (non si capisce
quale la meta, per quali vie concrete
raggiungibile, che i nuovi San Paolo si proponeno) ed espressa soddisfazione
per l'avvenuta risoluzione della crisi (Nube risolta). FELICE, Mussolini il
fascista. A una successiva riunione del gran consiglio del fascismo (in piena
crisi Matteotti), Mussolini si mostra ancora moderatamente ben disposto verso
certe tematiche revisioniste. Dichiaro dice il duce -- che io non ho ben capito
ancora dove i revisionisti vogliono andare a parare. Bisogna che questi nostri
amici specificano. Si tratta di una ricaduta nello STATO democratico/liberale
con tutti glannessi e connessi? Si vuole invece rivedere i quadri ed i gregari?
O si vuole come logico ri-vedere le
posizioni morali e politiche del fascismo per adeguarle alla nuova realt, cio
al possesso del potere politico? In questultimo caso, il revisionismo ha una
reale utilit. E evidente che, assunto il potere, bisogna diventare dei
legalitari e non continuare ad essere dei ribellisti. Oppure il revisionismo vuole
condurci ad un ri-esame delle nostre posizioni programmatiche? Il revisionismo,
insomma, una porta sul futuro, o un ritorno al passato? (PNF, Il Gran
Consiglio nei primi danni dell'ERA FASCISTA). dal PNF, Rocca (che non si dimise
da deputato e presenzia regolarmente alla seduta inaugurale della nuova
Camera) concluse la propria militanza
politica. Senza mai sviluppare una precisa coscienza anti-fascista, per tutto
il resto della sua vita Rocca mantenne, riguardo al fascismo, un atteggiamento
ambivalente (potremmo dire di odio/amore), di cui testimonianza il suo saggio, Come IL FASCISMO
divenne una dittatura. Fatto segno a minacce e persecuzioni", in un primo
momento Rocca - in accordo con altri dissidenti - tenta la via dellopposizione
interna; quindi lascia lItalia per la Francia, dove vive a lungo come appartato
in rapporti di reciproca diffidenza con la concentrazione anti-fascista e in
ristrettezze economiche, scrivendo saltuariamente per Il Pungolo, il giornale
diretto dal socialista Lemmi che raccoglie anche molti ex fascisti espatriati
in seguito alla vicenda Matteotti (fra i quali Rossi e lo stesso Bazzi) !8.
Dalla Francia Rocca passa in Belgio, proseguendo la sua collaborazione a 15
Cfr. Il Giornale dItalia. Rocca, PRIVATO DELLA CITTADINANZA ITALIANA dopo
lespatrio in Francia, dichiarato
decaduto dal mandato parlamentare. Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati,
Legislatura, Discussioni, Rocca
aggredito pi volte: le pi gravi a Roma, tre giorni dopo la sua
espulsione, ad opera di Bonelli, Masini e Nardo (rispettivamente il segretario
del fascio di Genova e i comandanti delle squadre dazione genovesi), indignati
per i riferimenti contenuti nella lettera di Rocca a Farinacci circa i legami
tra il fascismo genovese e i gruppi armatoriali liguri (cfr. La Tribuna,); e in
Galleria a Milano da parte di alcuni facinorosi squadristi milanesi. Cfr. ACS,
MINISTERO DEGLINTERNI, Dir. Gen. PS, Affari gen. e ris., Busta 7 [Rocca comm.
Massimo]. Un telegramma del prefetto di Verona al ministero deglinterni informa
duna riunione in una trattoria di Peschiera, nel corso della quale Rocca,
illustrando il programma revisionista, propugna la formazione di fasci
autonomi, che avrebbero dovuto raccogliere tutti glelementi dissidenti degni di
militare nel fascismo (a questo proposito Rocca lesse le adesioni di Forni,
Padovani, Sala e Marsich) e ricercare la collaborazione dei combattenti e dei
mutilate. Il progetto, caldeggiato da Rocca, di radunare tutte le diverse
espressioni del dissidentismo fascista intorno a un programma e a deglobiettivi
comuni, prende corpo nella Lega Italica, sorta su iniziativa del gruppo di
Patria e Libert e sotto legida del poeta e drammaturgo BENELLI (si veda),
figura, se possibile, politicamente ancor pi contraddittoria di ANNUNZIO (si
veda). La Lega Italica, che avrebbe dovuto costituire lembrione di un vero e
proprio partito dei dissidenti, si dissolve per nel giro di pochi mesi, vittima
delleccessiva eterogeneit e della fumosit dei programmi. ZANI. Cfr. ACS, CPC,
Busta [Rocca]. Per l'editore parigino Alcan, Rocca pubblica il saggio Le
fascisme e l'antifascisme en Italie, anticipante molti dei temi da lui in
seguito sviluppati in Come il fascismo divenne una dittatura. ci giornali e
riviste soprattutto di lingua francese - e sempre mantenendo, nei confronti del
regime, un contegno altalenante (lex anarchico approva pubblicamente limpresa
dEtiopia, ma non ha esitazioni, in seguito, a prendere posizione contro le
leggi razziali). Rientra in patria soltanto dopo un periodo di detenzione nelle
carceri belghe, riprendendo a pieno ritmo la sua attivit di pubblicista. Muore
a Sal. Tra questi spiccavano il settimanale Cassandre e il quotidiano Le manna
entrambi editi a Bruxelles. I saggi di Rocca, per lo pi firmati con pseu toni
il pi ricorrente), vertevano principalmente su questioni di politica RENO RAT. Rocca
arrestato subito dopo la sesta di sg
tgp so ta I Il suo nome appare nella lista egl de ni
iale. L'ex anarchico nega sempre di aver avuto a che fare con nig ela aa e, su
ricorso del figlio, St cancellato dallelenco (al riguardo v. Rocca, Come il dae
pri, i dittatura). Ciononostante a quanto i; a un FOA documentatissimo studio (FRANZINELLI, I
tentacoli dell OVRA. Seen co ADEN e viftime della polizia politica fascista,
Torino, Bollati Boringhieri, ta pare ani Rocca fa effettivamente parte dei
quadri dell OVRA, celato sotto il nome di Omero. Le battaglie perdute sono
generalmente dimenticate, poich i vincitori non sentono alcun interesse a
ricordarle, almeno quando si sono svolte entro uno stesso partito o una stessa
nazione. Ci non toglie che, se non gluomini, almeno le cose e le verit
sconfitte alla lunga si vendichino, attraverso le conseguenze del loro
disconoscimento. Nulla pi facile, ad
esempio, che deridere e sopprimere certi valori spirituali, quando si dispone
della forza sufficiente per impedirne la affermazione e persino il ricordo. Nei
giorni della sventura tuttavia, cio quando la forza vien meno, si misura
limportanza negativa della loro assenza, e meglio ancora la misureranno coloro
che, pi tardi, cercheranno una spiegazione obiettiva agli avvenimenti (Rocca,
Una battaglia perduta: il revisionismo, ABC). Con luscita di scena di Rocca,
coincidente con il fallimento della linea revisionista, ha termine questo
saggio. La caduta in disgrazia di Rocca (cui si accompagnarono, pressoch
contemporaneamente, la scomparsa di Gioda e, prima ancora, la sua sconfitta
politica - e il brusco ridimensionamento delle residue velleit libertarie di
Malusardi), pu infatti essere assunta a limite cronologico della parabola
storica dellanarco-interventismo, quanto meno di quella parte
dellanarco-interventismo, qui presa in esame attraverso le vicende incrociate
dei suoi principali esponenti, che conflu nel movimento fascista. Se infatti,
come giova ripetere, sarebbe improprio, dal punto di vista della correttezza
storiografica, considerare lanarchismo e il fascismo di Rocca, Gioda e
Malusardi come fenomeni correlati, quasi in relazione di causa ed effetto
(perch il conflitto mondiale comport uneffettiva trasformazione della societ
italiana, contribuendo a ridisegnare le tradizionali categorie politiche
prebelliche; e perch il fascismo, al di l delle sue molte anime, fu comunque un
fatto nuovo, impensabile senza la svolta epocale della guerra), pure, come
crediamo di aver illustrato, latteggiamento di fondo con cui questi personaggi
si accostarono al fascismo pu in qualche modo esser ricondotto alla loro
formazione anarcoindividualista. In questo senso, riteniamo si possa parlare
della presenza, nel fascismo delle origini, di una piccola vena anarchica, che,
innestatasi in esso tramite linterventismo, si esaur, progressivamente ma in
modo inesorabile, con il consolidarsi al potere della rivoluzione fascista.
Renzo Novatore (Arcola) filosofo. Renzo Novatore. Nome compiuto: Abele Ricieri
Ferrari. Ferrari. Keywords: implicatura, lanarchismo di Humpty Dumpty, la scusa
anarchista dei fascisti, I anarchici di Mussolini. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrari,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferraris:
la ragione conversazionale e filosofia italiana – la scuola di Galatone -- Luigi
Speranza (Galatone). Abstract. Grice: “At Oxford,
conversazione is a term of art; not in Italy!” Keywords: conversazione. Filosofo
italiano. Grice: I like Ferraris he
analyses all the implicata of The Lords Prayer
pretty complicated my favourite
is his excursus on the implicatum of thy will be done Figlio Pietro De Ferraris
e Giovanna d'Alessandro. Studia
a Nard. Passa quindi a Napoli. Molte sono le conoscenze che fa all'Accademia.
Entra in contatto con Gareth detto il Chariteo, Attaldi, Pontano, Gaza,
Caracciolo, Pardo, Lecce, Sannazaro. Si laurea a Ferrara, dove soggiorna. Si
trasfer poi a Venezia per poi ritornare a Napoli ed entrare nel giro della
reggia partenopea, nella corte di Ferdinando I. Si adatta a Gallipoli, dove si
sposa Maria Lubelli dei baroni di Sanarica. La serenit della sua vita fu
turbata dall'invasione di Otranto da parte dei Turchi. Cerca rifugio a Lecce
annotando gli eventi drammatici che in seguito sarebbero stati il canovaccio
per un'opera composta in latino. Si sposta ripetutamente fra Napoli, apprezzato
dottore al servizio della corte aragonese, e la Puglia, sua zona d'origine e di
residenza. Inizia anche a scrivere, inizialmente in forma epistolare. Manda i
ringraziamenti a Barbaro per la dedica ricevuta; seguente la redazione di Altilio
Galateus e Ad M. Antonium Lupiensem
episcopum de distinctione humani generis et nobilitate; e una seconda epistola
a Barbaro e il saggio Ad Pancratium de dignitate disciplinarum. Dopo la morte
di Ferdinando e Alfonso II, abbandona Napoli non prima di avere composto
Galateus medicus in Alphonsum regem epitaphium. Torna a Lecce dove forma
assieme LAccademia dei lupiensi. Scrisse Ad Chrysostomum De villae incendio,
per celebrare la propria villa di Trepuzzi che era andata distrutta dal fuoco.
E a Napoli, convocato dal re Federico dAragona che lo volle con s, ma
l'inasprimento del conflitto con Francia lo spinse a ritornare nella provincia
salentina. Godette dell'ospitalit di Isabella dAragona, presso cui ebbe modo di
comporre in latino lavori di filosofia, filosofici. Una delle pochissime
trasferte dal Salento fu quella che effettu a Roma presso Giulio II, a cui offr
una copia dell'atto di Donazione di Costantino, che era conservata nella
biblioteca di Casole. Fu uno studioso che, come gli intellettuali suoi
contemporanei, riusc a coniugare una vasta erudizione umanistica con nozioni
scientifiche. Le sue conoscenze erano di ampio respire. Il suo bagaglio
filosofico include la cultura classica di Aristotele, Platone ed Euclide.
Considera che la filosofia classica era stata traviata dai filosofi come
Alberto Magno e Duns Scoto, e dei filosofi dei secoli bui salv solo Boezio e la
sua Consolatio philosophiae. Prediligeva la civilt classica e autori come
Omero, Senofonte e Plutarco; Terenzio, Catullo, Ovidio, Seneca, Svetonio,
Virgilio e Orazio; e insieme il mondo del volgare, con letture di Dante,
Petrarca, il Morgante e Sannazaro fra i tanti. Si interessa anche delle opere
di Strabone, Tolomeo e Plinio. A questo patrimonio di conoscenze associ
Ippocrate e Galeno.Non trascur gli usi e i costumi della sua terra d'origine, e
descrisse in termini molto particolareggiati le zone del salentino, illustrando
con realismo Gallipoli ed esaltando uno stile di vita meditativo in alcune sue
opere. Ma non sfugg a Ferraris il quadro generale della societ dei suoi tempi e
della corruzione morale e politica che la attanagliava; e che fu anch'essa
soggetto degli scritti di De Ferraris nei quali critic la diffusione delle
cattive consuetudini. Il suo De Situ Japygiae e un autorevole trattato
storico-geografico sul Salento. Mentre era a Bari ha notizia della
"Disfida di Barletta" e ne narr per primo la storia nel suo De pugna
tredecim equitum. Altre opere: Oltre a saggi e trattatelli, compose le seguenti
epistole: Ad Accium Sincerum de inconstantia humani animi, Ad Accium Sincerum
de villa Laurentii Vallae, Ad Franciscum Caracciolum de beneficio indignis
collato, Marco Antonio Ptolomaeo Lupiensi episcopus, Antonio Ptolomaeo Lupiensi
episcopo, De Heremita, De podagral, Ad Chrysostomum, suo salutem de nobilitate,
Ad Chrysostomum de morte fratris, Ad illustrem comitem Potentiae, Ad comitem
potentiarum, Ad Maramontium de pugna singulari veterani et tyronis militis Ad
Belisarium Aquevivum marchionem Neritonorum Federico Aragonio regi Apuliae, Ad
Chrysostomum de morte Lucii Pontani Ad Ferdinandum ducem Calabriae, ad
Chrysostomum de pugna tredecim equitum, Ad Hieronymum Carbonem de morte
Pontani, Ad Prosperum Columnam, ad Chrysostomum de Prospero Columna,
phiilosophi praestantissimi de situ elementorum ad Accium Syncerum Sannazarium,
Esposizione del Pater noster De educatione Ad illustrem dominam Bonam Sforciam,
ad Antonium de Caris Neritinum episcopum, regem Ferdinandum, Beatissimo Iulio
II pontifici maximo; philosophi epraestantissimi De situ Japigiae ad
clarissimum virum Ioannem Baptistam Spinellum, comitem Choriati, Ad Nicolaum
Leonicenum medicum, Petro Summontio De suo scribendi genere, Summontio suo
bonam valetudinem Callipolis description, Pyrrum Castriotam, Illustri viro
Belisario Aquevivo, (Vituperatio litterarum), Ad Ioannem et Alfonsum
Castriotas, Ugoni Martello episcopo Lupiensi B. V. La Iapigia. Itinerari e luoghi
dell'antico Salento (Lecce, Messapica Editrice), Gallipoli (Lecce, Messapica
Editrice). Galatone, che ha una strada "Antonio Galateo", onorato il
poeta nel marzo con lapposizione in Piazza Crocefisso di una lapide dedicata
alla sua memoria. Dizionario biografico degli italiani, Treccani Enciclopedie,
Galatone, in Treccani Enciclopedie. PULITEZZA SPECIALE, tifi' m CONVERSAZIONI,
' r Or^ne delle eatwersm Umi e specie. M AUoroh, dopo il IX -secdb, ff mase
sciolto quasi ogni vincolo governativo in Europa, ciascun uomo, secondo le sue
forz6% procur di rapire o distruggerot Dibbmar fortezze per difendersi o adonar
prmi per assalire. Tra gli oggetti rapiti prpieggiavano le donne ragguardevoli
per bellzz. I cavalieri o sia gli uomini a cavallOy che pi de* fanti erano
anticamente pregiati alla gurra, spinti da avidit e da amore, da vanit e da
gloria ^i assunsero il carico di difendere il bel sesso come vedremo nlF articolo seguente.Quindi 8i
uoiiODD in croecbi talora ne' ciiBSteUi de'feudatari, talora nelle corti de' principi
i cavalieri per fare pompa delle loro lAiprese, le doniM/ per onorare i loro
difensori e trarne vanto, i poeti pec cantare il valore degli uni e la bellezza
delle altrer Le donne, i cavalier, rrme, gli aniiori., Ile cortesie, le audaci
imprese io canto. Siccome le dame e le principesse l'oggetto sono della poesia,
cos ne furono le sovrane in ' M giudizio e pr tribunali. Imperocch
tenevano nelle lor Corti e castella
corte W amore o par lamentoi oy trattai^nsi i problemi^ le cause, le liti amorose e cavalleresche; concorrendovi
gen- iiluomini e dame dappresso e da lungi, e sopratutto poeti e cantori, quasi
avvocati e giurisprudenti primarii a quel foro. Che se contenti non sono {
litiganti. (kyUa sentenza de'{>ai:lamenti allora sorgevano le Tenzoni o
sfide poetiche, eolle j> quali r un contra T altro scrivevano i trobadori a
difesa dJoi^ eauT'e di lor belle onde sono sempre in giro messagi e proposte e
risposte, e lamenti e disQde novelle d'^inore e di poesia Cresciuti in fom i
Governi ne suasegnenti secoli, e cessati i pericoli delle belle, non fu pi
necessario,, per ere ammesso in queste conversazioni, Taver rottopi lancia in
onore d-ona prin* eipessa o d' una lama, ma bast Q^ie vi scendesse 1)
BeUifiellf. j ^ oj by vmmztA: sfigxale 30& Per lungo )> pi magoanimi
lombi ordine il sangue Purissimo celeste; per appriezz^re meglio i sentiBient
del poeta e salire air origine degli usi, il lettore pu consultare la nota. Xe
i Londra del dicono: Le pU^ni presentate alla carte dei rUelami nella circostanza
dell'incofonazione delFattufide.re d* InghQterra), cofi tengono pretensioni
singolarissime, e che ricordano usi antlchissimi. il conte d'Abergaf enny, come
signore della cascina di Sculton, riclama l'uffizio di capo deUe dispense
cl:edeta di farne il servizio sia personalmente, sia .col mezzo del sup
deputato, e riclama per suo emolumento tutti gli avanzi deUe pietanze e delle
carni dt^o il pranzo. Due petizioni furono presentale dal duca di Norfolck.
Colla prima, nella sua qualit di conte maresciallo ereditario, egli chiede di
compiere personalmente o col mezzo d'un deputato gli idficii di primo boUiqUm'e
d'Inghilterra, e di ricevere perci la migitor coppa. d'oro con Q[M$relio, tp
rimarranno sotto, il inezzule, e tutti gii orciuoll e coppe, eccetto quelli d'oro
e d'argento che resteranno nel celliere dopo il pranzo. Colla seconda petizione
li nobile duca dimanda, come signore della cascina di Workoop, di presentare al
r^ un guaoto di mano destra, f'di soistoiieife il destro- liran^lo dei re nel
menti ch'e tiene lo scettro reale. n duca di Montrose, grande scui^ere; dimanda
di fare il servizio di sargente di lavatoio dell'argenteria, e di ricevere
tutti i piatti e tondi d'argento serviti sulla mensa del re il giorno
dell'incoronazione, e cogli emolumenti che ne dipendono, e di portare eziandio
gli speroni del re dinanzi S..M. n 8lg^ CampbeU, come signore della cascina fi
Lyston, reclama il diritto di fiir de cialde pel re, e d' imbandirle jsulla
mensa reale al banchetto dell'incoronazione. Rimasero quindi a poco a poco e
dovettero rimanere esclusi i poeti; giacch, se nello stato primitivo delle
conversazioni, mentre il poeta si mostra ricco d'idee, vantavano i cavalieri
destrezza e le donne pericoli^ nel seguente stato il poeta solo sarebbe rimaso
oggetto degli astanti, quindi ne avrebbe sofferto la vanit degli altri. Muniti
di privilegi reali ed onoriQci che dalle altre classi li separavano, facendo,
principalmente in Francia, professione d'ignoranza, i nobili chiusero ad esse
la loro conversazione, e avrebbero creduto di degradarsi, se alla loro
confidenza avessero ammesso chi soltanto di talenti o d'altre abilit personali
si fosse potuto dar vanto. Appena comparvero leprime scintille delle scienze, i
pochi spiriti gentili che non rimanevano impaniati nelle sensazioni materiali
del volgo, provarono il bisogno di unirsi, per fare acquisto delle altrui
cognizioni e dare in cambio le proprie. Questo bisogno era tanto pi forte,
quanto che prima della stampa altissimo era il prezzo de' libri, come tutti
sanno; nacquero cosi le conversazioni letterarie od accademie, le quali da
principi illustri vennero proli) Esistono scritture del XVH secolo, sulle quali
persone dalto rango fecero la croce perch non sapevano scrivere. Nello stesso
secolo parecchi parenti del celebre Cartesio si sforzavano di cancellarlo dalla
loro memoria, i)ersuasi che la filosofia, di cui egli il corifeo, fosse macchia alla loro schiatta.
V. Thomas, Eloge de Dcartes. PUL1tBZZ4 SPBULE tette, giacch i principi illustri
non temono le sciepze sanno che degli
Stati il principale pregio son MSe e lo splendore. Per consimili motivi sors^
eonvecsi^ioni di pit tori, di musei, e con maggiore coneorrenza, giae* b la
capacit d' apprezzare le bellezze di questo, ti egregie men rara di qa$Ua che per appresare le
scienze richiedesi. Lo spirito di commercio svegliatosi dopo I." un decimo
secolo in Itatta^ pisogfessivattiente 4)reseii|U> ne' susseguenti, fu larga
fonte di ricchezze. Si vide allora che si poteva essere ricco e considerato
senza essere nobile o possessore di fondi. Il desiderio di far pompa di
ricchezze, unito al bisogno di conoscersi peraccrescere le relazioni
commerciali, form le adunanze de' commercianti. La ricchezza de' mercanti cozz
colla ricchezza de possidenti, e nette citt libere ottenne quegli o maggi che
altrove si era riservati la nobilt. La classe direttrice de' lavori nieccanlci
si diviso in altrettante masse quante sono le specie di essi. L'analogia
de'lavorit il desiderio d'imporre legge ai lavoranti, la necessit di conoscersi
per ripartire le imposte che i principi esigevano dall' industria, rkniirono i
direttoli delle varie arti, o sia i fabbricatori, in altrettante compagnie o
cow/rafernite che ebbero te loro regole e tennwo le loro Mssioni in gicrni
determinati Le'ricebezze perdute ddia iiobiUyer ie ragimif ehe diremo, furono
raccolte da persone' intelligenti e attive, che, senza appartenere al ceto
de'commercianti o de'fabbrieatori, sepp ero farle. vafere. I (>er spacciare
le loro idee nelle CONVERSAZIONI i^altri per non mostrarsi digiuni delle
notizia pi triviali. La lettura cominciata per vnt, continuata per abitudirte,
talvlta in passione si cambia, e i frivoli gusti tghoreggia o discaccia. Chi
lggCi o per istruirsi o innocentemente intrattenersi, toglie sempre degli
istanti alla covi^ ruzione, e talvolta le toglie de' capitali per la compra
delibri di cui abbisogna. I gabinetti di lettura sono una conseguenza dello
spirito socievole dello scorso secolo; si procura a tutti un mezzo distruzione
con pochi soldi. Non tutti possono leggere tutti i libri; ciascuno costretto a ristringersi nella sua sfera; ma
NELLA CONVERSAZIONE i libri letti da uno, divengono mezzi d'istruzione per gli
altri. In caso di bisogno egli vi d in UQ quarto d'ora il frutto di dieci ore
di' lettura. Se nelle dispute che sogliona nascere NELLE CONVERSAZIONI, i due
contendenti restano per la pi di loro parere, l'influenza delle dispute sulle
opinioni non lascia d'essere reale, giacch. Gli spettatori disinteressati
formano il loro giudizio sulle ragioni allegate pr e contra dai disputanti. La
voce, il gesto, il tuono di essi rendono, per cos dire, pi acuti i tratti del
loro spirito e pi profondamente neir altrui memoria gli imprimono. Quegli tra i
contendenti che ha torto, e che nella disputa chiuse glocchi alla verit, non
conserva questa ostinazione, allorch riflette poscia di sangue fredddo, e
sovente s'accosta al sentimento, che aveva combattuto. In una CONVERSAZIONE
GENERALE, quegli che parla, si vede cinto d'una specie d'uditorio che lo nima e
lo sostiene. Questa circostanza da allo spirito maggiore attivit, alla memoria
maggior fermezza, al giudizio maggior penetrazione, alla fantasia de LIMITI CHE
NON GLI PERMETTONO DI DIVAGARE. IL BISSOGNO DI PARLAR CON CHIAREZZA lo sforza a
dar qualche attenzione allo stile e ad ESPORRE CON QUALCHE ORDINE le sue idee.
Il desiderio d'essere ascoltato favorevolmente gli suggerisce tutti I MEZZI
DELOQUENZA DI CUI LA CONVERSAZIONE famigliare
capace.Quindi LA CONVERSAZIONE la
prima. Intendo qui di parlare delle persone di spirito e di buonafede; giacch
gli spiriti falsi e vani, o gli uomini di parUto, pe quali LA CONVERSAZIONE E
UNARENA OVE COMBATTANO DA GLADIADORI, non aspirando di giungere alla verit, ma
di conseguire un' apparente VITTORIA, quesU non riescono nelle loro dispute che
a raddoppiare il velo che ingombra il loro intelletto, e a vie pi nelle loro
opinioni smarrirsi. e la migliore scuola per gli uomini che {tarlar ia pubblico
si dispongono. Sj: f Air opposto un uomo che vve solitario nel suo gabjiettOr
noD stimolato a farpas^re.le sue idee tjrii'Mtrui'anittio,
noin^eriteiidosr'itvymffiairii a fronte non avendo obbie;{.ioni da combattere,
non impr. ft^ gmm qiiest'acle delicata ebe convincere gli spiriti senza
offender lamor proprio. 0D bel garbo costringe l'altrui inerzia airesame j^tt
prgiuritzie^ pungndota con x^iche tmjU* piccante Altronde sempre solo con s
stesso, e ^imsM aggeUi^^L^4xm/twitoi disposto a niguardmi x^iascuna 4rfeache
gli si pcesdtay.came^una scoperta. Non mai esposto a queste piccole lotte di
societ che danno si prontamente a tiascufiei. la misura delle sue forze, egli
incliner a formarsi mt ppinione esagerata de' supL talenti e ad eBpone le
^nierdee con atsi fmpfariosa edoffenshra. Si pu dire delle CONVERSAZIONI ci che
ALFIERI dice dei. vhiggi;.vY| s impara^ pi assai che in su le cartCi tH\
stimare o spregiar l'uomo^ ^^^j ;Ma a.cnoscer s stesso e gli altri jn parte v.
^i^Lo studio iaatti de'libri rie^oe ua mol languido . ddN)le^ che esercitai non
agita!^ non riseaMa la mente come LA CONVERSAZIONE. S'io discorpo con CdbustO/
ragionatore, dicis Montaigne^, egli mi ein|[e e iB.Incalza da tulteie parti;
l^sa$ fdee ri^egllaiio le umi la^^osia, la gloria, .la QQnte^ziQpe mi spingena,
mi riali^aho sopra di me, e non diradortni presentano nuove combinazioni
ideali. INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI. sfil costume U de6derio 4i piacere a^i
atoi vaddoldsee ia pale mseefen dir mm^i nra questo Aderto si svolge, ci aDiina
NELLE CONVERSAZIONI e l' abitudiM d!eq^ijmerlt forma J'abMdiBe di aeotirlo.
DACCHE LE CONVERSAZIONI DIVENNERO COMUNI, nacq[iie fior /quell'eleganza di
tratto. e quella non 9 80 quale gra^a^-d* urbanit^ quel Aresentorsi pl 9.
disinvolto, quel pi leggiadro atteggiarsi, e quei n versatili modi e politi
cbe. imlla sentano V ioatr titudiiie 6 TimbaMaso; quindi quel wism wtm u pi
dilicato, e que' mutui riguardi e qua' molti* pliei uffieii di olviltt johe
quaai ad egiH .ubante Ja vanit e LAMOR PROPRIO dona e riceve. Le passioni
.medesinia c)ie erano prima iutratta* .iMtt'., Mnreggendo in pfttte la toc
nafitf wtm^ i> biaoza, sonosi anch' esse, dir cos, incivilite. L'oigo^iosa
superbia si maaobei^ata sotto la spoglia
d' doa finta modestia; T invdia siesta sa pronunciar delle lodi, e IL
PUNTIGLIOSO E CALDO RISENTIMENTO V obe quasi ad ogni parola aveva li fuoco
neglocchi e la mano sull'elsa, ha .tesBiperato. queir indole sua ferqee ;
si im parato a dissimulare un'offesa, a
Dasedndelw tipata, a rispondere pacatamente; e bench questa re P if M lusinghiera,
gradita e di realissimi vantaggi sociali /ecandq, ^jper-^^la.^[y&lio ostacolo
a mali gravU-. Finalmente sogliono non pochi giudicare del mento 4' uoa
pecfiona dalla sua maniera di caavMr* sare^' n, si eiitano di porre al vaglio
sue buone 0 cattive qualit^, ma ue^ formailo giudizio dalle idfie cb'ella
.presenta: B^ordeobi sociali; qoiadi 0^ forza entrare nelle societ, giacch le
abitudini del ^eatil couversare aoit possooo in soUngo gabinetto aljgnistarsi.
INFLUENZA DELLE CONVERSAZIONI SULLA MORALE. h AUotcfa gli uomini s'uniscono in
CONVERSEVOLE ecMohior^ 49orge tea di' essi un' opinione la quale condanna
glatti che riescono nocivi a tutti od a qualcuno deglj uniti: ciascuno costretto a nascosi dere 1 eentimQti
criminosi che per avventura cova neiranimp.
aiccMie. anche ci maqa i virt, vuole mostrarne almeno l'apparenza,
quindi, se qualcuno d^li uniU d mentore di v^i, la van^ degli altri . si unise
to6t pericaeeierlo dal loro imo, ae^ non corra voce che lo tollerano o f
approvano. Dnn^e quanto {m. eresc lar bc^ma di PARTECIPARE AI PIACERI DELLE
CONVERSAZIONI, tanto pi cresQono i. motivi per isciogli^sii dai vizii che esse
ooodamiaiiD. 1 ref mordendo a lungo GIOCO,
d'uopo Che r oprare al gridar
conforme eqch^ggi )\ II; Screditando gli altrui vizii ciascuno si lusinga ^
iter provn di .contiaria virt; quindi NELLE CONVERSAZIONI cascuoo cbiSuna a
indicato la riprover vole condotta degli estranei od assenti: ciascuno ride
delle umiliazioni cui condannato un
leccazampe; ciascun parla con orrore d'un tradimento; ciascuno sviluppa le
circostanze che aggravano un delitto ecc. Escono DALLE CONVERSAZIONI dalle de'
gridi che chiamano gli sguardi del pubbblico sul magistrato corrotto, sul
giudice venale, sull' amministratore infedele ecc. Allorch la condotta di
qualche persona potente non ben nota, ciascuno
deglastanti comunica agli altri le sue viste; si mettono al vaglio i fatti e le
congetture, si confrontano le realt e le apparenze; si richiamano le notizie
anteriori e concomitanti, e dualmente si giunge a smascherar l'impostura.
L'opinione pubblica va ad attingere ALLE CONVERSAZINI i documnti che
giustificano i suoi decreti donore o d'infamia. LE CONVERSAZIONI sono come le
sentinelle notturne che ad ogni ora si comunicano il grido di sorveglianza,
onde reprimere ne' pubblici perturbatori il desiderio di far del male. LE
CONVERSAZIONI offrono il destro di pronte benefiche soscrizioni a vantaggio dei
poveri. L'interesse che la padrona di casa sa destare nellanimo de'suoi amici a
favore d'una famiglia o d'una classe sventurata, il desiderio comune di dare
prova di generosit, l'altrui esempio che fa forza anche ai pi renitenti, tutto
concrre a far riuscire immediatamente un progetto generoso, che senza LE
CONVERSAZIONI le resterebbe sventato o verrebbe troppo t^rdi. Quindi con
piccolo incomodo deglastanti si raccoglie ia pi orocebi una-samiQil ragguai:de*
vofi e safficieate ^1 Jbisoguo, INFLUENZI DELLE CONVERSAZIONI sulte crtL Le
conversioni avviemando giornalmente uomini, e ciascuno bramando di comparire
ricco e4 legaste, i:e5C0ifo i compratori dette merci 4^.e adornaao le persone e
le case. Quindi si eslesero toi^amei^te l^.arti cos dette, di lusso. Il popolo
firneese, "^tmi H quale, E MASSIMO IL BISOGNO DI CONVERSA divenuto IL DOMINATORE DELLA MODA.
JBari'addietrqi etmano scarsissime LE CONVERSAZIONI, e moltissimi globbriachi;
ti capitale che ora si spende in abiti,. allora sj spendeva in bagordi. Quelii
cbe ftnaot rimprovero ALLA FILOSOFIA d'avere esteso lo spirito di socievolezza,
son costretti a dire cAteun uomo ubbriaco j preferibile ad,un nomo legante. Per
disgrazia dell' umanit questi Ostrogoti sitrovano talvolta alla testa degli
St^i, e con ottime A Verona, trovandomi un stat alla convetsadon'e d^iHia signora che non soleva andare al
teatro, ma univa nella sua^easi vaeii amici, ella ci dice: Signori : dimani a
sera no^ qi vedremo, perch uadc A teatro, t t:ome al teatro t ^ Si, gbuseh la
serata va avaatagato ^ povecL^Dunque ci vedremo, risposero tulli.. fiaatt' la
ra. susseguente non solo ciascuno deglastanjti and' i -tealro, ma, conduce seco
quattro o cinque amici cosicch il palco dUa signora fu un andirivieni continuo,
ed una specie di goecr a Mdam V ini4$mt0 > la ^te si fonava neUa sua
sconfitta. Beco la ^vOlz^adone : beaefioennt uoit^ alpia^. cerei onore al bel
sesso cbe la proinoveiL intenzioni li rovinano. Pio IV, declamando contro l'uso
delle carrozze, indusse i cardinali a cavalcare le mule; si moltiplicarono le
mule in ragione de'capitali che non erano pi impiegati nelle carrozze cio le
nule presero il posto deglartisti. Non vi par bella e sensata questa
trasformazione? Andate avanti, beatissimo Padre, e, giusta le massime predicate
da altri moralisti, induceteci a privarci del cappello, della giubba, delle
calze, delle scarpe; e cos dopo d' aver fatto sparire gli artisti, se pur
questi vorranno sparire senza cagionarvi qualche timore, venderete le vostre
derrate agluccelli. Torniamo al fatto: IN FORZA DELLE CONVERSAZIONI si sono
cambiate le abitudini economiche, e leleganza
sottentrata all'ubbriachezza. Quella massa di liquori che per Taddietro
consumavasi da un solo con danno della salute e della ragione, ora sopra dieci
innocuamente si distribuisce, cio sopra gli artisti che fabbricano cose comode
ed eleganti. Dunque nell'aumento DELLE CONVERSAZIONI hanno guadagnato larti e
la morale. II lettore che non fosse abbastanza persuaso de' vantaggi che ho
attribuito ALLE CONVERSAZIONI ed in generale allo spirito di socievolezza, pregato a sospendere il suo giudizio sino
all'articolo secondo, ove esaminer gli usi e i costumi de'tempi barbari e semi-barbari,
ne'quali di, socievolezza non v' era quasi traccia., Accennate nel Tranat del
Inerito e ^elt KieomfitnUe. Gli oMPOstt
Oggetti V Rende pi chiaro il paragoo. Distngua,
Meglio ciascun di noi; ic.i.n
NeimalehegIiattnopprm4lb9A. Scelta deHe tantffsaatcni: r .f'/.v;r li Cki
.vcdesgft sfogare il coosoitia di tutti f reprobi, correrebbe pericolo di viver
solo. Pupi restare ia casa nfm ioKdarti kfijoarp^t ma restando in casa ti privi
d'una passeggiata utile e 4^Uzio9a Dpnque non potendosi p^r noi crear uoniiiil
perfetti, sar sempre miglior consiglio accrescere la forza della j[M*opria
virti5 di quello che i'irrita^ biKt agli altrui vizi. Dire che aoa dobbiamo
essere cestii a lordarci ^ le weqMi pi^ jurooucarci una buona passeggiiitaii
nm dire che dobbiamo innoitrarci nel
fango sao agli occhi e con pericolo di spezzarci una gamba : per anpdoga dite
lo stesso delle conversazioni. Adombrati gh' estremi, dir al giovine che nella
soelta delle conversazioni, pi ctie gli adulti ed^ i veoohi egli debb' essere
riservato; giacch, mancandogli la loro esperienza pu facilmente .restare tra
queMaeei che essi spezzerebb^o.. Inoltre il credito degli adulti e de'
vecchi giformato; le loro buone qualit,
sona note, un'ab. tudine provaUi da pi risponde ad ogni dub* bia apparenza.
All'opposto il giovine dee tuttora ar nascere questa b|io)ML, opinione
neir^ltrui animo "^4 di
hidd^oi^eail giadhao ebe gU/a^ d noi, quando dalie persone che frquentiamo ci
giudicano; e fa d' uopo osservare che la yafiit vieta loo di cambiare
j&KitiAiDte h ptt opinione che di noi concepirono, vera o falsa che ella
sia, Dun(]ue, beii|^ ^^iva Aacora molto istrutto, otterr il giovine pi gradi di
stima se correr voce eh' egli conversa . spes$p.^^on parsone di merito e gode
fa loro confidenza. LA CONVERSAZIONE colle ballerine, colle persne di dubbia
fede, o p^leseqiente scellerat, macchia la riputazione di clrinncpie: i cm
'lodt insudiciano queUi tui ft^no maggiori carezze. Tutti consigliano ai
giovani di non trovarsi NELLE CONVERSAZIONI bve s! tengono giucW d'at^ zardo;
giacdi, quaiunqu: sia la lro risoluzione, ossi finiscokio peir tedere e
rovinarsi; Essi cedono, alte suggestioni ed all' esempio altrui, al timore
d'essere dichiarati' spilorci, paurosi, vili o schiavi d^e^voiiri patemi; essi
cedono 1 defsiderlo di dlve* . nire prontamente ricchi, desiderio che
prontamnte SI aperite, 'la brama azsata'dell'oro i|tra caiH crena ciie rode l'animo del
giuoeatore, una sottile fiamma che lo
consuma. Ommetto di parlare de' suicidi prodotti dalle perdite nel giuoco.
Perdita della salute. questa una conseguenza
dell'accennato stato dell'animo. Infatti sotto razione ripetuta del giuoco si
sviluppa un carattere irascibile ed una viziosa energa di sensibilit che alla
macchina corporea riesce sommamente nociva; perci la massima parte
de'giuocatori sono decrepiti a 40 anni. Perdita delle sostanze. Per un
giuoeatore arricchito dal giuoco ne conterete cento rovinati. 4. Perdila delta
fama. Cicerone, per iscreditare i giudici di Clodio, li paragona a quelli che
frequentano le case di giuoco. Bench tutti i giocatori non siano persone
infami, ci non ostante la massima parte non lasciano d'essere riprensibili
perch si espongono al pericolo di divenir tali. Nissuno d la sua figlia per
isposa ad un gioca^ tore; nissuno lo accetta per compagno in uh' intrapresa;
nissuno lo vanta per amico; nissuno lo vorrebbe per padrone; ogni padre vieta
a'suoi figli la di lui compagnia come la peste. Perdita della sensibilit ai
piaceri intellettuali e morali. Siccome le persone abituate all'uso del pi
acuto rap divengono insensibili ai soavi effluvii del garofano e della rosa,
cos le persone abituate alle scosse gagliarde del giuoco rimangono insensibili
ai piaceri della commedia, della trage-; dia, della pittura e delle altre arti
belle; quindi 1* momenti che i giocatori non impiegano nel giuoco, sono
occupati dalla noia. Il giuoco accresce il bisogno di sentire, e diminuisce il
potere di soddisfarlo. Il giuocatore s'espone al pericolo di perdere, e perde
talvolta quell'unico denaro che necessario
alla sussistenza de' figli e della moglie; la sorte infelice di questi fa
dunque minor impressione sopra di lui che il bisogno di giuocare: in quale
punto sar sensibile il di lui animo alle loro carezze ? Un giovine dedito al
giuoco sfugge la compagnia de' suoi genitori, sdegna i loro innocenti piaceri,
sprezza i loro consigli, amareggia i pochi istanti della loro vita, diviene
ladro domestico, e talora i disonora con azioni che gli fruttano la prigionia 0
il capestro. 6. Perdita del senso comune. Ogni giocatore sragiona cosi come
sragiona il volgo, allorch dai sogni deduce
futuri numeri del lotto. L' abitudine di prendere per norma a' suoi
giudizi i rapporti fantastici delle cose distrugge l'abitudine di consultarne i
rapporti reali, costanti e ragionevoli. Un giocatore non avr vergogna
d'attribuire la sua perdita alla sua scatola; un altro alla presenza d'un
nemico ecc.; alcuni non giocano che denaro tolto a prestito, quasi preservativo
contro la sorte; altri destinano parte delle yincite ad opere pie, quasi pegno
di vincita, ecc. L' idea del guadagno allorch soggiorna lungo tempo in una
testa debole, ardente, soggiogata da; vane, combinazioni, converte il dubbio in
certezza, e fa riguardare come infallibile ci che fervidamente desidera.
L'illusione s forte, che non distrutta dall'esperienza delle perdite, e in
onta di esse rinasce e si rinforza. Gli animi frtenfient agitati, dice Tacito,
inclinano alla superstizione, cio la causa delle loro sventure riconoscono in
cose o parole incapaci di produrle; quindi le invocano o le maledicono, ne sperano
o ne temono. La fortuna^ nome vuoto di senso, agisce sull'animo de'giocatori
cme se fosse un ente reale : a lei attribuiscono le vincite e le perdite. La
fortuna un concorso di cause ignote ove
la temerit fa tutto y e la prudenza nulla. I selvaggi dell'America, dice il
padre Lafiteau, si preparano al giuoco con austeri digiuni, quasi volendo
interessare la Divinit al successo de'loro stolti e ingiusti desideri. Dop ^li
antecedenti riflessi quasi inutile
l'osservare che nel giuoco ogni sentimento di decenza si perde e di gentil
costume; si diviene rozzo, villano, grossiere, caustico, mordace: non si ha
riguardo n alle qualit altrui n ai diritti; si offende l'altrui amor proprio,
si tradiscono sent-' menti del proprio
animo, ecc. Dopo la fama di decenti ed oneste il giovine ' preferir quelle
conversazioni ove maggiore la libert.
Siccome il piacere d'indole s
schizzinosa che non sempre apparisce ai cenni del desiderio'; e fugge
rapidamente allorch vede un laccio, fosse anche tessuto di rose, ri di tempo
serba regola n di luogo, ri a tutti i discorsi sorride; quindi dir al giovine:
allontanati da que'crocchi ove devi rendere ragione perch non venisti a tal
ora, perch ti parti pria del consueto, e t' forza al posto assiderti che non
t'aggrada, e con tale foggia d'abito comparire che non ti conviene, e sulle
altrui maniere irremissibilmente atteggiarti e deporre sulla soglia il tuo
carattere originale per rivestirtene allorch n'esci. Fuggi pure, perch il
rituale esat-" tissimo delle cerimonie, i complimenti, gli inchini, i
baciamani si .frappongono ai cuori che corrono a contatto, e i sentimenti ora
rispinti dall' altrui orgoglio, qui
umiliati dai titoli, l repressi dall'aria di comando, e tra imperiosi e inetti
doveri allacciati, non possono scorrere rapidamente qual elettrica scintilla e
propagarsi per tutta 1' assemblea; quindi l'allegrezza sfuma ed ilpiacere, e al
loro posto va assidersi mortai tiranna la noia. Taccio il civile
barbaro-bugiardo V Frasario urbano d'inurbani petti,^ t w Figlio di ratte labbra
e sentir tardo. iVs. k IV. Il giovine
non fuggir la conversazione delle donne oneste, giacch solamente in loro
compagnia imparer a rattemprare l'effervescenza dell'et, a ingentilire colla
grazia le maniere, a piegare i movimenti a leggiadria, la placidezza del
discorso senza vilt, la modestia senza timidezza, il coraggio senza impeto, il
brio che sa rispettar la de, cnza, l'allegrezza che non diviene smodata, quelle
fine attenzioni che prevengono i desiderii senza mostrar d'occuparsene, e quel
conversare libero e cordiale che non degenera in confidenza temeraria e plebea.
v Swift attribuisce LA DEDADENZA DELLA CONVERSAZIONE in Inghilterra
all'esclusione delle donne; da ci nacque una famigliarit grossolana che porta
il titolo d'allegrezza e libert innocente, abitudine dannosa, egli dice, ne'
nostri climi del Nord^ i) ove la poca pulitezza e decenza che abbiamo s r DM.
introdotta, per cos dire, d contrabbando e ^ contro la naturale inclinazione
che ci spinge continuamente verso la
barbarie, ^e non si manfi-T tiene che per artifizio. SOGGETTO DELLE
CONVERSAZIONI. Qualunque argomento frivolo o grave basso o sublime, lepido o
serio, p^rcA piaccia agli astanti, noi
offenda la morale^ PUO ESSERE ARGOMENTO DI CONVERSAZIONE: qui pi che altrove
debb'essere. ragione e legge Ci che il consenso universale elegge. ytl poeti satirici hanno voluto ristringerci
in pi angusti confini; quindi 1. Pongono in ridicolo le dimande relative alla
salute quasi che la salute non fosse l'oggetto pi interessante per gluomini, e
una buona digestione non valesse cento anni d'immortalit; r 2. Non vogliono che
parliamo del tempo, quasi che le vicende delle stagioni sullo stato tsico e
morale della specie umana, sui prodotti delle campagne, sul corso del
commercio, e non di rado sui pensieri degluomini grandi e piccoli aon
influissero ; c giornalmente non fossero occupati i fisici ad osservarne
Tandamento progressivo, retrogrado, irregolare. Qualche poeta ci deride QUANDO
NELLE CONVERSAZIONI PARLIAMO d'arti e di commercio, di pace e di guerra, di
governa e di politica, vuole poi x che
ci occupiamo d'satelliti di Giove
dell'anello; di Saturno. Certamente che anche Giove e Saturno possono
ESSERE OGGETTO DELLE NOSTRE CONVERSAZIONI, ed
cosa desiderabile che Io sieno, s perch pascono l'animo di idee sublimi,
s perch servono di guida al nocchiero che va. errando sulP immensa superficie
de' mari, ecc. Ma avreste voi vietato ai Romani di parlare quando Cesare
ottenne dal Senato il diritto sopra tutte le mogli? Quando Vespasiano, che si
mostrava s tenero pel bene del popolo, pose un'imposta sulle orine? Vi sono
delle cose che ci toccano s dappresso, che
assai difficile di non tenerne discorso, come difficile di non gridare ahi ! quando il
fuoco ci scotta. Se poi, per opposta ragione, si riflette che LO SCOPO
PRINCIPALE DI QUELLI CHE SUNISCONO IN CONVERSEVOLE CROCCHIO si d'intrattenersi e ridere, si scorger che quasi impossibile d'allontanarne glargo menti
ridicoli, da qualunque sorgente provengano. I Romani non potevano contenere le
risa allorch parlavano dell'imperatore Costanzo, perch costui, quand' era in
pubblico non osava movere il capo, n fare un gesto, n tossire, n sputare,
lusingandosi in tale guisa di rendere pi imponente la dignit imperiale. Il
retore Temistlo, il quale era stato fatto senatore da Costanzo, trasform
l'imperatore, che non sapeva sputare, nel pi gran filosofo dell'universo;
avreste voi voluto che i Romani non ridessero n dell'impeiratore n del retore?
Si pu parlare, senza cognizione, della pace e della guerra come delle zucche e
dei ravanelli; dunque IL LIMITE DI FISSARI AI DISCORSI NELLE CONVERSAZIONI,
rispettata la mral, come si disse di sopra non dalia qualit dell' argomeiita
8i-dU)e ildsomere, ma dalh'giioliiiza.di parla o dalla noia di chi ascolta.
Dopo 4 avere eseldso dalle cQiiVi^sjtidid^l discorsi pi interessanti, si fatto loro rimprovero perch spasso non
s'occupano che di coseJrivoJes eoiti jfoal nsbra si d a divedere d^aver
diinenticato che IL PRINCIPALE OGGETTO DELL CONVERSAZIONI si' il piacere: Se il caippo in cui il piacer ap^
l^^cev di gi anche troppo ristretto, per
quale motivo vorrete voi ristringerlo d pi?. Vi furono* de' grand' iiinini che
ridvan di cuore alle tlSt^ tezze di Pulcinella, vorrete voi condannarli? Pi l
spirito 3tato avvolto in cose serie, pi
assav\* por il contrasto delle'frfvolezze' Ne'momenti^'zia non vergognava Esopo
di giuocare alle noci, Ca* tbfif alla pafla nel empo Mairzio; Pascal facevi
delle scarpe, Malebranche cucina delle vivande^ di SCIPIONE e di LELIO dice
CICERONE, che, ritirti alla esfipagna, non isdegnavano di bamboleggiare,
incredibiliter repuescere. Queste frivolezze .offrono uni trastullo
necessai^io, senza che lascino neil' a ttimo alcuna traccia da che sono
svanite. Rispettiam dunque la follia
gradita l^.QWBe balsamo dolce dUa vita.
Cbesterfield dice che le frivolezze DELLE CONVERSAZIONI l^0B& tn ti
compnso delie liiine piccole, eb neri pensano e non amano di pensare. Avrei
fimyandatQ volontieri a questo scrittore s' 6|^i addljMMMte per pensare^ Le
frivolezze DELLE CONVERSAZIONI, simili alle immagini scucite 4el sonno, servono
a farci ridere e nulla pi. Io sono stanooc a segno che non mi reggo in piedi, e
voi mi'con- sigliate di passeggiare? Che cosa direste d'un uomo che per
sgombrarvi dall'animo la melanconia, viponesse tra le mani le Notti di Yung
? Si devono ammirare quelli che dopo
d'essersi occupati di studio 0 d' affari nel gabinetto, possono ritornare
aglaffari o allo studio NELLE CONVERSAZIONI;. hna non si possono spregiar
quelli che dopo avere eseguito il loro dovere, abbisognano di riposo. Sic,
.come i pranzi non sono eccellenti se non quando possono soddisfare tutti i
gusti, cos non sono, eccellenti LE CONVERSAZIONI se una variet di soggetti
corrispondenti ai bisogni di ciascuno, non presentano. Generalmente parlando, i
discorsi serii non possono piacere alla maggior parte deglastanti, giacch la
maggior parte vanno a ricercare NELLE CONVERSAZIONI riposo alla riflessione e
pascolo alla fantasia. Non si pu quindi approvare la condotta d Locke, il
quale, mentre tre milordi, Hallifax, Anglesey., Shaftesbury, jgiocavano tra di-
loro, egli ' occupaVasi a scrivere ie parole che uscivano loro ' di bocca. Per
quale motivo ridete voi, gli disse nglesey? Perch nou perdo nulla di quanto voi
dite, rispose il filosofo, e gli mostr la nota delle parole poco assennate che
ciascun giocatore aveva detto. Questa censura era fuori di proposito, giacch da
persone die giocano, e giocano per divertirsi, non si deve aspettare che
argomentino in barbara o in baralipton. Quando prendiamo una medicina, dobbiamo
noi osservare se bianca o nera, leggiera
o pesante, bella o brutta, graziosa 0 no alia visita, di qualche astante ? Ua
ci ridona la salute,, e bastai Airincontro, dice Gozzi, certi Catoni vorrebbero
che oca si uscisse mai dal malinconica e dal ^rave, come se gli uomiiri fossero
d'aeciaio e non di carne. Questi tali ci, vorrebbero affo. gati nella
noia. quando Fanioio kifastfdilOt
non buono n per s n per altrui.
Il meglio un bocconcello colla salsa di
tempo in tempo, e poscia un grosso
boccone delle vivand usuaK. La misura ne' passatempi rimedio della vita; ed io jtanto ve^ magri
sparati disossati quelli V che non
pensano ad altro che al sollazzo, quanto > queUi che tirano continuamente
quella benedetta li carretta delle fecceade. Soggetti ge^ieralni^nte noiosi
Sogliono essere soggetti noiosi ed opposti allo SCOPO DELLA CONVERSAZIONE i
seguenti. Glincessanti lamenti sopir viali a cui non si pu opporre rimedio..
Talvolta LA CONVERSAZIONE in vette d'essere un tessuto di piacevoli discorsi e
ameni, un vero piangisteo, o, per dir
meglio, un miserere. Se qualcuno riesce a dipenticare i Riali eomuni, T un o
l'ailro degli astanti glieli rammenta con circostanze nuove, e il sentimento
dolorosa ne aggrava colla prospettiva d'un avvenne peggiore. Che cosa direste
di schiavi che per divertirsi parlassero delle loro catene. questo up difetto de' veccM che non snm aprir
l'animo alla speranza; degli ignoranti, incapaci di riguardare le cose da pi
aspetti; delle menti deboli che ad ogni lotta succumbono. Alcuni velano questa
incivile abitudine col sentimento di compassione pe'mali altrui, cio per
mostrarsi compassionevoli verso glassenti tormentano glastanti. Pietro morto improvvisamente; Paolo si ammazzato; il pane troppo caro; la tempesta ha distrutto la
vendemmia ; le imposte sono eccessive; la guerra imminente; la peste s'avvicina, ecc. Poco
manca che non ci predicano la flne del mondo, come si usava negli scorsi
secoli, idea che tuttora s' insinua ne' discorsi della plebe quando afflitta da qualche calamit. Sarebbe pazzia
il pretendere di non sentire i mali della vita, ma pazzia maggiore il non sforzarsi di
dimenticarli. Sarebbe imprudenza l'andare verso il futuro colle spalle
indietro, ma imprudenza maggiore il
riguardare i mali futuri come successi e non distrarne lo sguardo. La novit
della cosa pu qualche rara volta sciorre da incivilt lannunzio d'una trista
novella. Ma richiamare continuamente r idea di mali che tutti conoscono, l'eccesso deirinurbauit, giacch questa
ricordanza, oltre d' essere dolorosa per se stessa, conturba e piega a
melanconia i sentimenti deglastanti. In questa situazione deglanimi non osa
spuntare sul labbro il sorriso. Cento detti spiritosi, pronti a ravvivare LA
CONVERSAZIONE, tornano indietro. Ora rinunziare a cento piaceri per
procacciarsi un dolore un calcolo da
matto. Si pu procurare agli spiriti de' momenti di distrazione fissandoli sopra
oggetti diversi dagli abituali. S po 'Yntiizzare la sensazione 4el dolore
riguardando le cose dal lato ridicolo. CasGuno^ pu cogliere de'jnoti?! d
eoasolaaone paragonandosi con quelli che in pi tristo statoci trovano. Chi vuol
viver tranquillo i giorni sui, Kon conti
quanti son di lui pi lieti, 'Ma gitanti sod pi miseri di lui. Si pu innalzare lanimo alla speranza,
mei]itre il volgo s'abbandona al timore, considerando tutta Festeosione delle
eventualit possiinli Mentre, aeU' ulUmo assedio di Genova, i soldati ca? scanti
(li fame facevano la guardia seduti, uno di essi disse: Ma^sna non voiT
arrendersi inch non ci ha fatto mangiare i ud stivali. Questa facezia induce
glastanti a dioie ai-^ tre, e intanto U sentimento deUa fame fa tr^;ua. Un
generale francese, ferito in battaglia^ sta per far^ta-*. gliarc una ^aniba; il
suo servo piange in un angolo della stanza: Meglio per te^ 'l'n imbecille non crede che T innesto possa
costringere r albero selvaggio a produrre de' fruin domestici e sa. porlti : le
anime deboli non credono che possa lo spirito innalzarsi sul senthnento d^I dolore
e dominarlo : tanto peggio per esse. Al contrarlo lo ho conosdiito m nomo di
tempra ' forte, che, detenuto per opinioni politiche, non sog^^iacciue che un giorno alla melanconia in quattordici
mesi, bench gli fosse negato il conforto de* libri. Far r elogio della
melanconia, come i^ero alcuni scrittori detti sentimentali, fere F elogio delle nubi che f\ tolgonp la
vista dil lriuaniento. In mezzo a tante forze die* tendono a dislrng^ insipide^
6Mi gliezze allorch, divenute triviali affatto, da uq Iato si ripetono eoo
pretensione di novit, con che si d -segno dignophza, daU'aUra riescono ofhn^
sive alfuno o all'altro degli astanti. Il poeta Despraiix^ che iioa eika^
dotate della pazienza di ncia^ daina reoffriti ^ se^tnde'^un giorno Bordaloue a
rpetere le vaghe analogie sulla pretesa follia dei poeti^ gU dis9eHxi(
pp^auslieanlellte: Io so, mio Caro padre, quanto si dice d'ingegnoso su
questo 9fg0jQsento; se v^i y/lete venir
meco aU'o spedate de'matti, io son pronto a mostrarvi dieci predicatori per i^u poeta ^ e^roi vedrete a
tutte lo 4(>ggb deUdjiaal he dividanp il loto dteooiso^ in ti;e punti.-'
r^Uriaql^oedenti riiles^iiaioa condanaano Fuso dir propMie
quistioofdligegncile^ le quali, rispondendo ciascuno a capriccio, servono di
piacevole esercizio ag^fipiiNiti ^'^liti iNToiy^ e vivaci che sci^piana
impftliisamente y -e talvlta a lode di qualche a 8ti^t(^ v.|ieUa mw^m^lkm^
della duchessa del MaifMVfei^liB^ a dar risalto alle pili sfuggevoli differnze
tra i diversi oggetti pro^ ||9^iM^>^^ dis$A,Ma giorno ai cardinale di
p4>)igw%]^Inatot^difi6ie^ passa tra me e il mio oralogio? Il vostro orologio, rispose il cardi* nia^e ^
($tliirieor4a(^/ Sopra le scene; e s'egli
ver che rieda L'astuta Frine che
ben cento folli Milordi rimand nudi al
Tamigi; O se il brillante danzator
IXarciso 9 Torner pure ad agghiacciare i petti
De' palpitsgoiti italici mariti. Ai vcrthfo dfititafidefai conto degli
u^i eivlii, po*' litici, religiosi clie negli anui di sua giovent si
costuinarona, onde . procurarti il piacere d! con* frontarli cogli attuali.
Preparati per a sentire eccessive lodi dei passato; quindi avrai Tavvertenza
^di separare i f alti dal giudizio di chi "gli e^one. Spingerai anco con
bel garbo il di lui animo verso l- piaceri che pi Tadescarono . ' Onde misero
cor, che il ben p^dtita. Non ha pi di
goder speranza alcuna,, Kesii il
conforto stiinen d'aver goduto., Colle donne volgari Or di polii ragiona, or di
bucato* Colle donne galanti parla Di veli e enfile e femminili arredi. Colle donne gentili che uniscono ii bel
costiime airistruzione, porrai sul tappeto le arti belle, e a norma del loro
genio particolare proporrai quaiclie problema, acdocoh al piacere di discorrere
umscano il piacere di soddisfare la tua curiosit. Ad una giovinetta ohe. occupa
vasi a dipingere, chiese un giovine, se provava pi diletto nel ritrarre gli
uomini o le donne ^ i giovani o i vecchi.
Sono indififerente a tutti.
Eppure? Pre/e^ risco le fisonomie
sensibili senza riguardo al sesso.
quali sono i segni fisionomici che caratterizzano la sensibilit? ^ Qui
cominci un discorso che dur due ore, la giovine facendo pompa, di sentimento,
il giovine di metafisica. Le letture, cui talvolta sono occupate le signore, Yf
jfffft^mo U ctesbro di jebider loro ^ii^li f^m le colpiscano di pi, e quali
autori in tale tal altro ramo di
letteratura preferiscano, e se avrete l'av mieuM proporr loro qualche
obbiezione pet dimostrare che non vi sfuggono le loro idee^ pr* curerete ad e^
il diritto di pmlan^ lun^iit^ mmBM
^^nimm/^:e9lL mUoMi poesn Uteek^l d* incivilt y poich ciascuno ba diritto, di
difen^ dflisi: e giusticare cl cbe dm*' Della fanciulla vorrai yedere i dis!^,
i ricini, la scrittura, ecc. Chtederstt drifcaamom ohe ms w^ ^^IpM^ che
brillano neH*azzurra volta del cielo. Per quaH ag4QiiLalciij|^i:sfiH>iB(^^
altri cambiarono. di MlOfe. D' oode. amnga che i pidi^ si n dano per trimestre,
e per cai non di' rad^ Osan profoni e fetidi servacci Di libert mentire il
nobil fuoco. Quanti ancor ne veggiam
d'animo incerto 1^ E di dottrina 5 in cui fondarsi, ignudr, Che quel clie sol
mattino era lor Aoia, * Chiaman perfetto
al tramontar del sole ? A vicenda gli scorgi ora del vro Difensori, or del
falso: ora baciarti 9 In fronte amici, or affrontarti infesti, Tanto che sotto
a due stendardi e volti > A due partiti un d solo li yede. m :}/ Le qifMate^ ripugnanze. Pi Qti gusto^ um
aUbsrimf, wi senliflliefite '' tsemofie, pi :AigM alcuni d mostrarsene^ alieni.
Cos adoperando, i^etnbr loro di tacears dalla massa volgare, e, collocatisi in
alto, divjenire r oggetto degli altrui sguacdi. Essi contrasto- etern \ i.
Fanno a ragion, per voler esser sempre \ P, Singolari dagli altri; e picca
occulta Hanno in s .d'esser d buon gusto
soli/ ! Jton d'altri ppresse, e veder soli il vero;;; V I pi di quQSti
incaputendo avvezzi Son del snno a c^rcpr, lontani ognoi^ Dalle profane
popolari turbe. Onde se ayvjen-che il popolo par caso Dia pur nel segno, e
ragiohevoi pnsi, Sci.nt.onan essi^ e mal pensano e a torto;. \ Perch purificate
ecelse menti. Non seguan mai popolaresche teste. ' ISome vi sareste voi
contenuto con Euripide, il quale assicbrava di non amare le donne,
dopo4'essersi amtaogliato tre volte ? Seguendo i precetti sinora esposti, voi
avreste dovuto, senza lasciar {scorgere dubbio sulla sua sinceriti^^avreste
dovuto ^ c^tedrgli la storia di questi tre^esseri tatfto odiati, e con cui egli
strinse, alie^inz^ forse, ad esercizio di sua pazienza. Gli sforzi della vanit
per cui ciascuno tenta d* associare V idea delia propria persona aWida delle
cose pregiate o delle persane il* lustri. Se taluno vanta un bel libro, un
letterato yi accerter tosto che lo possiede, bench forse Odflii ahbia and'
vodafe fi i^die pti^iAMii r''^ si tratta d'un grand'uotno, questi vuo! essere
suo parente^ e qu^i ^la ^ide a Parigi .0 a Londra ^ o viaggi cn'lai tstXto ^iso
meeilV e wd tm vanto come l'asino della favola, il quale portando delle
reliquie, slnun^gmava d'sere adorato- Orasio si vantava d'urtare impulitamente
chiunque incotrava per if^rada^ purch potesse giungere presto .^"^M^eeniib
i^irefdete l'asMKia o aia il ettraito dieK* ^i'inclr proprio : egli vi d una
parte della sua ri-piitai^we^^ cie ti concede d' essereimpulHo, af finch Io
crediate in lega col ministro' d'AiagteMU in somma quatti .ad ogni istante si
scorge che ^ ttMini iielle loro pretensioni sohcf p^ iirragione* voli di
que'facchini che seqtendo a lodare le belle sonate d'un organista, si gloriane
d'avere levato i mantici. A^'^Aeciocch i giovani non prendano abbaglio, far
>dHervare ebe il vantarsi d'essere i'amioo di qiiid(die persona virtuosa od
altrimenti stintiablle, qtiando 10 si
veramente V non un vanto
irsagtonevole oftie gli anteeedenti -, giaeeli le petiOfle YMMia^ le stimabili
non concedono la loro amicizia^se non 11 persone eh' elle stimano. >r . / pregiudizi comuni. QuSIft
torgent^^i ri* dicolo non ti pu mancare se ti trovi in compagnia di
donneeiuole; giaeeh ae pe)r ea. 'favai oggetto del discorso un male 0 l'altro,
esseti spac^i^attno tosto de'rimedii simili a quelli del medico Quinto Sereno,
il quale, per guarire t quatwia ' j^neva sotto il capo del febbricitante il
quarto li%fo eir Ilade. Contnua tu la storia dellegaia* lattier ed fisa
Mtttiiuieraiiil^ dei recale che ti farebbero ridere, fossi anche moribondof/
Mi stato di^and^to se e come si pu
iotrat* teimrsi e ridere eofievj^aeecherew yeramente il problema un po'difflcile, ma se il'tettora premelte di
noa tradisuii) gli affider il Le pinzochere chiamano chiunque al loro
contoitton^e; e il. loro eootoi^ cresce in ragione delle persole eh eoodamano;
^ Quando adunque mi .tcp vo in compagnia d' una di queste signore, le em^to
avioti ' una ventina di peccatori per te meno, e tutti colle loro colpe sulla
fronte : qui si;iegge rnode^ ik ietfo^ pi Jungi pas^eggiy smmii "La vista
di questi piaceri, a cui per motivi rispettabili, madama ha rinunziato, riscalda
la sua bHe; quindi eceolar assisa pr tribunali, e scrivendo sentenze da
Radiunante, colle mani e co'{icdi eac* la tPotw* filpifi poveri profiud.
-Appunto perch so che la pinzochera
ineso-. rabitef io mi interpongo e chieggo piet ora per Vhi^. ora per
rsAtro : tento Tapologia della moda; dimando qualche tolleranza pel teatro; il
concerto dlie (Sfere mi serve ja difendere i ^oni, gli au gelli vengonoin
soccorso de' canti ecc.; succede dunque una contesa tra il giudice e V oratore,
e coi {a siession. criminale continua^ gicoh ie, ob* bieziofifi ragionevoli ed
a proposito sohq uhq sti"molante DELLA CONVERSAZIONE. E eieoofm lo zelo di
madama . scevro di mallaia, quindi
riscaldandosi ella facilmente, ini permette di i^ere n$l/wdo delsuo euHmof
ravviso allora sotto tinte superstiziose quelle false idee che leggo in alcuni
libri sotto tinte poetiche, ed imparo a stimarne profondamente gli autori!
Crescendo il calore di madama, io diminuisco; l'opposizione, e le lascio
assaporare il piacere d'avermi persuaso e vinto : in questo modo usciamo dalla
conversazione soddisfattissimi entrambi, ella di me, ed io di lei. Gli sforzi
per comparire ricchi; del che vedi un cenno alla pag. 89, .Baster qui il dire
che il ridicolo in questi casi cresce in ragione della differenza che passa tra
l'apparenza e la realt, sicch il massimo ridicolo ci verrebbe offerto da. colro
che imitassero i comici di campagna, i quali, dopo d'avere rappresentato Cesare
e Pompeo, muoiono di fame. La saccenteria la quale si di due specie:), appartengono alla prima
quelle persone che, non^ facendo mai uso del loro giudizio, spacciano le idee
altrui senza discernimento e come proprie. Molti vedrai che proferir non sanno
^ \% ' Mai sentenza da s; corrono in
gra'^ Per la cittade di pareri a caccia;, 1 Intendimento in casa lor, da cant 3 Mobile disusato e
inutil ciarpa. L'opinioni pi travolte e false
Succian avidamente, e a grande onore. Premon la spugna ad opportuno
tempo, E fan lago d'umor sorbito altrove. La seconda specie di saccenti
contiene que* cerretani che, forniti d'un capitale scientifico come 10, fanno
pompa d'un capitale come 100, e otten-,gono facile credenza prineipalmeate
presso le donnicciuole che pizzicano di letteratura. Non basta, dice Gozzi,
l'aver buone merci V nella bottega; ma il saperle mostrare di grande utilit. Succede a'ietteral, quando
sanno acqui starsi l'opinione degli uomini, quello che accade > a qualche
benestante o giocatore, che se il primo ha
tremila ducati d'entrata, si dice cinquemila;
e se il secondo ne vince cinquanta, corre la voce '^di cento. Cos se
l'uomo di lettere avr buona V maniera d'insinuarsi nell'animo altrui, non vi
sar cosa al mondo che non si creda eh' egli i^intenda. Una cos fatta avvertenza
fu buona in ogni tempo. vero che secondo i costumi del> l'et e
delle nazioni la fu anche diversamente
posta in opera. Ma che credete che fosse quella ruvidezza d'Antistene? Che quel mantellaccio,
quella valigia, quel bere con le giumelle, e la casa nella botte, e le altre
poltronerie di quei malcreato di
Diogene? Non altro che un saper vendere
le sue mercanzie. Perch quando uno f a con una certa signoria d'animo quello
che gli ^altri non usano di fare, tira gli occhi di tutti a * s, e a poco a
poco la maraviglia. Aristofane V che intendeva le cose pel buon verso, e diceva
" al pane pane, per aprire gli occhi agli Ateniesi, , volendo far
conoscere l'artifizio di certi studianti,
li fece comparire sulla scena magri, smunti e ^ del colore della terra,
che pareva che si fossero distrutti a
studiare; poi le loro dottrine erano,
quanto spazio salta una pulci, e se la zenzala ha la tromba nella gola, o, con riverenza
vostra, di sotto. Le industrie d'oggid non istanno V pi nelle goffaggini di
Diogene, o nel colorito della faccia che
gialleggi. Non importa pi che ' i
letterati siano magri o scoloriti, no; ch ce
ne pu essere d'ogni corpo e d'ogni colore; solamente necessario un poco di baldanza per dar cognizione di s al mondo. vero che per
rendersi baldanzoso bisogner prima invaghirsi.^ del suo fare e del suo dire; e a forza di
dare ad intendere a s medesimo, che si
sa, comin> fciare a crederlo finch la coscienza noi nega pi, e allora poi
darlo ad intendere anche ad altrui. Poi
entrare in ogni ragionamento tanto animati,
e tanto a bandiera spiegata da far credere che quello che si dice abbia
proprio la radice nel rintelletto, e sia studio di tutta la sua vita.' Qualche picchiata agli autori pu ancora
giovare, M Verbigrazia, se un dice : Come vi piace l'opera' ' del tale Non ho avuto pazienza di leggerla.
ALIGHIERI (vedasi) .J rancido. PETRARCA
(vedasi)? Troppo lavorato;> poi malgrado gli so, perch ha fatti tanti Pe
trarchisti che sono una noia. L'Ariosto? Divino; ma molte volte d nel basso che m'uccide.
Il Tasso? Semper corda oberrat eadem.
Insomma eir come dice Leopardi: a Vuoi
tu parere un' arca di' scienza ? Biasima sempre, e vedrai la brigata Starti d' intorno con gran riverenza. Un grand'uomo, un grand'uomo costui, dir la brigata, che conosce dove sono
difettivi gli autori. Proviamolo. Si
ragiona di questo mondo e dell'altro. Su
due piedi l'uomo ha da saper rispondere
tanto del corso de' pianeti, quanto sentenziare deiinitivamente delio
arricciare ca pelli; e s'egli ha grande animo, sempre terminera col dire : In
un mio Trattato spero di far vedere al
mondo eh' goffo. Le signorie loro tra poco vedranno l'opinione ch'io tengo
sopra ci in un libro che quasi ho
terminato: per modo che empiendo il capo
de' circostanti di sentenze, di libri e
di simili abbondanze letterarie, egli
impossibile che quando prende licenza dalla com pagnia non si bisbigli :
Oh che uomo ! Oh che profondo sapere ! Costui
una libreria che cam mina. Una stamperia che tira il fiato. Ma se ti
permesso di ridere delle stoltezze degli uomini, come gli altri ridono
delle tue, la pulitezza vuole che il tuo sorriso al loro guardo s'asconda, e
che, d'ogni malizia spoglio, non sia diverso dal sentimento che eccitano in te
due puU. Cini che vengono a contesa. /, giuochi di societ. Classificazione
d*giuochi e vantaggi. Da un lato non
sempre possibile nelle lunghe sere iemali alimentare LA CONVERSAZIONE
con soggetti nuovi e interessanti; dall'altro il discorso pende naturalmente
alla satira. Ora meglio giocare che
annoiarsi, meglio giocare che
maledire purch regola si serbi e misura.
Le jeu ft de tout
temps permis p9ur s'muser; Oh ne peut pas t^mjours travailler^ prier, lire; //
vaut, nieux s'ccuper jouer qii mdire. 1 giaoehi poksoAo esher indotti a cpiattro-elattf: La
1. esercita le forze corporee (per es., il orso, la lotta, il pigiato eec^. )
La 2.^ esercita le forze intellettuali ( per es. gli teaochif vari! giuochi
colle carte; eec} La S.* lascia Inerti le fonie corporee e intrilel tuali (per
es. i dadi e tutti i giuochi d'azzardo)^ La . 4 esercita coDtemporaoeaoieDte le
forze fi siche e tntellettualf in diversi gradi,e In parte anco dipende
dall'azzardo ( per es. il giuoco della palla
cavallo^ del pallMe.eo'piedi ecc.). I*r?{^ volanti divertono nel verno
tutte le corti d'oriente: vi si appendono de' fuochi che seml^rano astri in
mezeo al cielo. Quello del i di Stam^ smpre in aria ciascuna notte, e i
mandarini ne tengono alternatvamente il cordone. In Itlia querto diiier^
timento rimasto ai ragazzi ne'giorni
festivi d'estate e nelle ore pomeridiane, e unisce il piacere deHa vista
airesercizio delle membra (t). * L' opinione comune vuole ( ed io l'aveva
segnita Bell0 antecedenti edizioni di questo scritto ) che Fuso delle carte da
giuoco fosse ignoto pria del XV secolo, e che ne sia stato inventore Gi*
cornino Crtn^nneur, pittore di Parigi, verso la fine dei secolo XIV. Pare che
non si possa dubitare della (!) I cervl-volanU meritavano una menidone
pnrtlcoIw?c, |H9cch la loro storia unita
a quatta deU' el^tlrieit. falsit di questa opinione allorch si legge il
manoscritto italiano del 1295, citato dal Tiraboschi e dal Dizionario della
Crusca, nel quale si parla del giuoco delle carte, come gi largamente diffuso
in quelTepoca. Forse ella questa
un'invenzione asiatica come il giuoco degli scacchi. Che che per sia della sua
origine, egli certo che le carte,
ugualmente che altri piaceri innocenti, censurate caldamente da' predicatori,
proscrtte con pene rigorose dai governi, resistettero a tanti nemici potenti
congiurati contro di esse. Dopo che l'esperienza e i progressi dell'economia
politica hanno insegnato ai governi a trarre un partito flscale da ci che
avevano inutilmente proibito, le carte da giuoco godono, per cos dire, d'un
esistenza legale, impinguano il pubblico tesoro, occupano alcuni fabbricatori,
e il piacere deglr uni diviene sorgente di lavoro per gli altri. Le carte
formano parte de' divertimenti delle quattro parti del mondo. Le prime carte
differivano dalle attuali nell'apparenza e nel prezzo; esse erano dorate, e le
loro figure dipinte e alluminate, sicch la fabbricazione richiedeva talento e
lavoro particolare; quindi ne era alto il prezzo, in conseguenza raro Tuso.
L'invenzione delle carte introdusse de' cambiamenti ne'modi di divertirsi. I
differenti giuochi a' quali esse aprirono il campo, costarono pi tempo che
dertaro; quindi anche nel loro abuso furono meno fatali de' dadi. In generale i
giuochi d'industria, quali appartengono
alla seconda classe, possono essere utile e innocente esercizio allo spirito di
combinazione ed io dir francamente alle
madri: Se il vostro ligliuoio stupido i
inspirategli qualche gusto pe^ fuochi d'industria; k vanit punta ed aaiouAa ^Ue
vaende delle pmlile a deHe Tioctto risyegl Tattenzione e d qualche iittivit
allo spirito. Aggiungete che una persom ohe UM sa gioem^ costringe altre due o
tre a rimanere oziose come eis^ in una coaversazione. r o: Additando i iWDtaggi
det giooo tm paioob al bisogno d'intrattenersi, non intendo di vantarne la
passioiie^ amo ehi addita i pragl4el vino, iolande di gkistifioare
rubbriaebeeza.. : vi .v>iJE che dite dei degli scacchi? Quello earia
mutile JiilfatteDHMBta ai kh
gegnoso (risponde il Castiglione); ma parmfebe un sol difetto vi si trovi; e questo che si pu
sapera^ troppo, di modo che a cui vuol ^ssaere eccellente nel giuoco degli scacchi, credo
bisogni consumarvi molto tempo, e
mettervi tanto studio 9 quanto ii^ vatsse^iiiiparar qoaiehe wbil aefeaza, o far qual si voglia altra cosa ben
d'importauiia; e pu; d utolme^ etn tanta
letica, non w altep che un giuoco.
GU^^fOiiiAi^gi^o^i qtiai eh' essi siwa^ purch noi! eseati 'dal liaMi . della
deeema^ s$ao imta pi pregiabiUy quca^o maggiore esercizio offrono
^iifoftj%roei;iqipHfi^^ alU/0rze^istellet' tuali; quindi tra tutti i giuochi t
meno pregiabiii e i pi^daiinoat aooo i giuochi d'azzardo.: ^ 'Regote di civilt
nel giuoco. iVoti mQSif4Ue mal umore se vi. toccano cat' ibe coorte o se
perdete; giaceb, altvimenli facendo, dareste a divedere che la vostra tranquilK
pu essere turbata da un'inezia, e cte apprezzate WfmhiiaMnlle una pieeola niQneta
. If Nm siate troppo fento nel giocare, sia per non dar prova d'inerzia
intetlettpale, sia per non Se il vostra compagno commette degli ^rrorif
&rreggetelo on gwbo^ iberna fare schiaiNMS^ 6 dar wgM 4t troppo dispidoere
R che violerebbe la prima regola; d' altra parte dovete fiewdarvi di ^fuiatli
%t eonunetlete steas. Se giocate con persone schizzinose, difendet il vostro
diritto seaza riscaldarvi e soprattutto iiM paifo iSniiiKe; #^ Ae^po 'a?^
sposto }e vpstre ragiooi) cedete con beila maniera. Io gico per diletto e per
conforto; chi vuol far quistion vada aila^guerr^ E giuochi ad ammazzare o ad
essr morto. Non moxtrMe ecee$soa ^ili^rwsa fpumdo vincete, s percb Waii^prez
maggiore dell impmtattca eila Msa t dtnot picooiMza di apicito s perch la
vostra allegrezza produce nel perdente im (dispiacere pi sensibiie d^a
perdita,. ed riguardato cornai m
prmo''gmb d'iMuttOk Infetti nissuno ama di perd^e a nissun giuoco, non tanto
per h^resse guanto par amair propria; giaacb dalla perdita risultane idee
umiliamli eeonlrarie aii/opinione abituale die ci3scuno arasi formata in mente
della stia destrazza e della sua fortuna. Vod* taire, bench uomo di spirito, o
perch uomo di . troppo spirito, non poteva tollerare il padre Adam, quando
guasti lo vinceta agli scaccili o al t* ie;lardo. Un principe assiro uccise il
Aglio di ^>o Jbyas alla i:accia, pereb quel giovine era riuscito a ferire un
orso ed pn (ione, contro tsni il pnriiicipe aveva slanciate le sue freccie
inutilmente. Un uomo probo non si permette la minima sperchieria nel giuoco;
egli vuole poter dire io non ho fraudato giammai, senza che la coscienza Io
smenta : egli tem che V abitudioe d' ingannare neHe cose piccole diminuisca la
sua delicatezza nelle grandi. Ogni frode dovrebbe essere punita- clla perdita
una, due o tre partite, secondo la sua impor* tanza, ed a giudico inappellabile
d^gli astanti. La somma giocala deve essere tenuissiha e sempre inferiore alle
finanze del men ricco tra i giuocatori; altrimenti alcuni non giocheranno per
non resbr esposti a gravi perdit, altri giocheranno con grave loro daqoo per
non comparire spilorci: Tono e l'altro caso annuUa il piacere delibi
CONVERSAZIONE e lo deprava. Il prodotto delle vincite debb' essere mpSeguito 4Z
vasutaggio tornirne; QUESTA REGOLA dimti)uisce il dispiacere delle perdite^ e
neutralizza l'avidi del guadagno. Il tempo destinato al giuoco non deve
superare i due terzi del tempo consecFato alla cw^ ireflsasione i e questa non
deve succedere a ^ee 'de' doveri e degli affari di maggiore importanza. . X
Jiton ai deve costringere con importunii ssamo a giocasi, come non ti deve
oatriogere . jaissuno a bere. Non si devono accoppiare mi friwM >er* sos^ie
nemiche o reciprocamente odiose. Egli
quf$ta un probienia tevoita dilGcile per la padrora iiratO TM di casa, e
a scioglierlo beae ci vuole occhio Qao e pratica di aioDdo.. Lieto cos tra ramichevol turbai L' ore dividi delle amene sere, )* E n'abbiao
parte gli eruditi detti, parte ancora
al genial oe dona Breve ommercio di
piacevol gioco, Cui mutua gioia e scarsa
speme avvivi, > Ma sete d'oro non corrompa, o il renda ' Torbido e taciturno, e tal che dopo Al vnto Insieme e al vincitore incresca.
DOVERI NELLA CONVERSAZIONE. ATTENZIONE. Lattenzione ne' crocchi sociali si
divide in doe rami distintisdmi* Il prim^ coDuprenda quatf a^ttnsa sansibiiil
che immagina i bisogni deglastanti, li previene od asseconda; Il secondo
oom|ltettde le affetftudini steHori dimostranti che Taitrui discorso occupa
interamente il nostro anunob* L Supponiamo una signora, che, animata dal-,
raoeenaata sensibilit dirige ufia CONVERSAZIONE, 0d serviaoMMie ^v%ibM^ La
ptontezza era mii ella risponde alle dimande, vi fa supporre che la sua
attenzione sia tutta ooeupata nelle risposte; V ingannate; ella si diiFd6, si
moltiplica, ed presente a tutti i
pensieri degli astanti; non vi S&7 sfogge uno sguardo eh' ella noi vegga;
non {orinate- tto degiderk) ch'elici non conosca} noa pfo^ ferite una proia eh'
ella non ascolti; non v' ha individuo nella conversazioae eh' ella dimentichi
iQ&tti ella vede l Ja un angola ehi wa paria per timidezza, 6 gh dirige con
sorriso di confidenza una dimanda. Ella s'accofge^ che U discorso d;qualcuQ
eomiaeiab ad annoiar la brigala, e gli . cambia cofx bel. garbo il soggetto tra
le mani. Il vosl^ ^vvtirsacio vi stringeeoa afgomenti.iQealDt a segno che siete
vicino succumbere; ella viene in ip(ra soccorro, con una celia. . Vi jsf ugg di
bocca dna parola a cui sh d sinistro senso,? ella spiega la vostra intenzione e
la presenta in beir aspetto. Cadeste per inavvertenza iiv uno sbaglio che pu
divenirvi nocive ? ella vi trae d'imbarazzo colla sua presenza di spirito Uh
Voi non ardite leggere una iatteira che vi viene pre^eotida/netta
ewiversaziaiie; ella dimanda per. voi. il permesso agli astanti, pro^testando
che ne conosce Timportan^a. Voi vorreste .partire e non osate; elja vi et
rimprovero che 4ih 1 'Ferdinando VI re di Spagna, bench di carattere buono jed
amano, era alquanto severo controquelli che facevano uso di tabacco
proy[>ito. tJn gom in sua presenza un grande di Spagna trasse di tasca una
scatola piena della polve proscritta. Il re slanci sopra di lui uno sguardo
minaccioso. L' ambasciatore di Francia ( M.r di Duras ), accortosi della
faccenda, s' avvicin alio Spaludo e gli disse: Ohi ecco la ndaia|iaocbierache V.E.,
per prenderai giuoco di me, mi aveva tolta. Questo felice espediente trasse d^
impaccio il reo 6 disarm il monarca. (NB. I membri del corpo diplomatico non
erano soggelU alla legge della proibizione ). menrichiate i vostri affari
pe'vostri amici, e v'ordina di partire sotto pena della sua disgrazia. Vinse
ella, vero, al giuoco, ma se la
destrezza del suo compagno non avesse corretto i suoi errori, sarebbe rimasta
succumbente. Quest'oggi ella libera
dalla sua emicrania e ne furono medicina i bei motti della scorsa sera.
Osservate con quale compiacenza arresta di quando in quando il suo . sguardo
sopra uu astante, e pare che la sua fisonomia s'animi e s'abbellisca : ne
volete conoscere il motivo? Questi le present l'occasione d'essere utile ad un
infelice. Senza pretendere dominio nella conversazione, sa dirigerla con
destrezza, e quasi direi fa comparire sul palco i personaggi, restando essa tra
le scene. Ella sa far valere ciascuno senz'aria di protezione, perch sa
distribuire le parti secondo V abilit, il genio e i talenti di ciascuno. Voi
avete fatta una bella azione, e non ne parlate per modestia; credete voi
ch'ella non la conosca ? che l'abbia dimenticata? Aspettate che la
conversazione sia piena, ed ella verr, per cos dire, a prendervi per la mano e
vi presenter agli sguardi di tutti in mezzo ai raggi della vostra gloria.
Parecchi scrittori che frequentarono i bordelli, hanno fatto la satira del bel
sesso : essi avevano Nel testo ho abbozzato con lievi tinte il carattere d'una
signora, la cui amara perdita lasci profonda sensazione nelr animo di quelli
che ne ammirarono le vir : parlo della signora Marianna Morigi Rina. ragione :
il primo dovere d' un viaggiatore si d'
essere esatto. A. chi ha conosciuta deile dooae che il flore delia gentilezza
uDivana aHe fi- amabili virt, iocumbe l'obbligo d'esattew eguale. IL Mostrare
che degli altrui discorsi nu ft dete una parola, e che le affezioni risentite
che il parlante tende ad eccitare,
dovere si evidente, che. d' ulteriori schiarimenti non abbisogna dopo
quanto stato detto nel libro primo. Se
npn mostra che il turbi o che il conforti Ci che sente chi ascolta, non dirai '
f O ch'egli sordo o che poco gt'
importi? Con somma attenzon dunque dovrai Ascoltar ehi proponga o chi
risponda,, n Se avrai iuterrogato o se il sarai* .se avversa al tuo genio o pur seconda Sar'
la eosa iM^t di mei visito. Mostrare impressione aspra o gloa)vare la
vitad un uomo, mtre voi tentale di
togliergliela : ignorate vo^ questa
MASSIMA? La menzogna die frutta un bene, vale
pi della verit che produce un danno. Turenne avendo veduto nella sua
armala un olBciale imesto ma povero, fornito. di cattivo cavallo, lo invitta
pranzo, e dopo pranzo gii disse in disparte con speciale bont d'animo: io devo
farvi una preghiera che forse voi troverete un poco ardila; ma spero che non
vorrete ricali ltill alvostro generale, lo sono vecchio ed anemie malaticcio }
i cavalli Uroppo vivaci mi ca^^ianano disagio e pena; voi ne avete' uno sol
quale starei cmodissimo. Se non temessi di domandarvi un sacrifizio troppo
grande, vi pregherei di cedermelo. L' officiale non rispose che con profonda.
riverenza, and ^ pifendero il suo .cavallo e lo condusse nella cudfHriA di
Turenne. ^ Questo generali^ gii sped il giorno appresso uno de* pi belli e
migliori cavalli dell* acq^ta. gfO^re ch'egei si astiene dalle commi ^UHaipai a
iBer di labbro^ no aeeompagnat A desieria d'eseguire^ e che si debbono
chiamai'e r YeiMi igafin in mmzognere
offerte, r fissare sei^ro co' suoi simili
dtmenticare di quante qualit siamo sprovvisti, da quanti difetti
funifflio lur^ervati dai solo azzardo, quanti oggetti, qpante circostanze sulle
debolezze degli uomini influiscano. Ma per e^er buono non siate imprudente } e
ricordatevi che la bont inclina naturalmente a giudicare gli uomini no quali
som ma quali dovrebbero essere; la quale illusione se riesce.pia^ cevole, perch
ci libera dalle spine della difliden^a, spesso di molti, e gravi sbagli fonte.
8. Modestia^. Per Qiodsci inteiAlesi quella, virt, die si astiene dal
prevalersi de' proprii talenti e della pr* pria abilit In modo spiacevole a^
j^ulli con cui viviamo. Ella veramente
una virt ^ gi^h riesce a reprimere la nittrale tendenza che spinge ciascuno ad
esagerare i proprii pregi e farli sentire agli altri. ^ Io non credo ch'uom sia
sotto la luna, Ch'il suo ingegno cambi^^e con PLATONE, Quantui^ue egli non skppia cosa acuna. Perche
a ciascun par esser Salomone,, ui
essenza^si giudica da tanto Che meriti
ogni onor da le persone. Quindi Timmodestia cresce in ragione dell'ign^^ .
ranza, o per dir meglio del falso sapere; perci Digi vi,' la Bruyre dice : //
vanaglorlosOy misto di sciocco e di petulante^ sta tra questi due estremi. Un
giudizio troppo favorevole di noi stessi offende i nostri simili, quali, volendo giudicare liberamente le
nostre azioni, veggono con dispiacere che si assegni a se stesso nella loro
opinione un rango o delle ricompense che essi non ci assegnarono. L'uomo
modesto somiglia a que' fiori che umili steli tolgono all'altrui vista, e che
solo il loro profumo fa conoscere. La modestia d ai talenti, alle virt, alle
abilit quell'incanto che il pudore aggiunge alla bellezza. ' Ippolito, che si pi in l A\ tanti Fra lor che
sanno, e di saper dan mostra, Mentre a te ignaro de' tuoi proprii vanti.
Schietto pudor Tonesta guancfa inostra.
LaseianK), dice GOZZI, il commendarsi da se medesimi a coloro i quali,
temendo di s e delle y> opere loro, tentano di sostenerle coi puntelli, come gli edifizi vecchi e cadenti. Non sia
disgiunta da noi giammai queir onorata modestia
che condimento e grazia di tutte
le virt, e ^> le rende pi care e pregiate. Qual baldanza, vi Lumilt,
differente dalla modestia, una qualit
cha brama mostrarsi agli occtii altrui, perch, mostrandosi, In vece d'
offendere la loro vanit, X adesca \ ella suppone per lo pi in quelli che la
ostentano, un sentimento segreto d'amor proprio od anche d'orgoglio ch'ella si
sforza di reprmiere, desiderando che le si sappia grado della sua vittoria.
prego, sarebbe la nostra se volessimo privar le
genti della facolt di dare il proprio giudizio sopra di noi ? Perch vorremo noi essere
niae-^ stri a tutti coloro i quali ci
ascoltano, e coniandare ad ognuno che a nostro modo favelli ? E se per
avventura V intendessero altrimenti da
quello che andiamo noi vociferando di noi me desimi, che sarebbe allora
? Le nostre voci si rimarrebbero
offuscate nelP immensa furia delle
contrarie, e noi verremmo giudicati senza cervello. Quanto a me, cos penso e tengo per fermo, che far sempre inutile opera colui
il quale a dispetto di mare e di vento
vorr essere d'assai con la sola forza
delle sue ciance. r Giusta gli esposti
principii, l'uso ha introdotto nel conversare socievole certi modi di dire che,
lungi dal dare segno di confidenza eccessiva nel nostro giudizio, lasciano
scorgere dubbio e diflldenz. Franklin ci dice che conserv T abitudine di non
impiegare giammai nelle quistioni controverse le parole certamente,
sicuramente^ indubitatamente^ od altre simili che il dimostrassero irremovibile
nella sua opinione. Io diceva piuttosto, egli soggiunge i fo credo^ io
suppongOy a me pare che la cosa sia cos, per tate a tale ragione: ovvero la
cosa cos, se non m'inganno. Prima di
Franklin, aveva detto Monsignor Della Casa :
Bisogna che tu ti avvezzi ad usare le parole gentili e rao deste, e dolci s, che ninno amaro sapore
abbiano* e in nanzi dirai : Io non seppi dire, che Voi non m' intendete, j e
Pensiamo un poco, se cos , come noi diciamo; pint: tosto che dire: Voi errate, o E' non vero, o
Voi non la Poich gli scopi della conversazione sono d'iVr^struirsi o d'istruire
gli altri, di piacere o di per siiadere,
cosa desiderabile che gli uomini in- telligenti e ben intenzionati non
diminuiscano n^vjl potere che hanno d'essere utili, affettando d'esprimersi in modo positivo'^ presuntuoso
che vi|i9n lascia di spiacere a quelli
che ascoltano,, e non proprio che ad eccitare delle opposizioni' e prevenire gli effetti pe' quali fu concesso
al . uomo Jl.s dono della favella/, tr r
Se volete istruire, ricordatevi che un tono af^, fejrmativo
^fidogmatico, proponendo la vostra -Ili sapete; perciocch cortese amabile usanza lo Incolpare M altrui, eziandio in quello che
t intendi d'incolpaclo;^ anzi derlo. Noi errammo la via : e Noi non ci . ricordammo ieri di cos fare* ^ome che lo smemorato sia
pur colui A solo e non tu : e quello che Restatone disse ai suoi com pagni non istette bene: Foij se le vostre parole moi men' M lono n;
perch non si deve recare ili dubbio la fede al > tmi: anzi, se alcuno U
promise alcuna cosa/e non tela attende,
non ist bene che tu dica: Voi mi mancaste della ) vostra fede; salvo se tu non
fossi costretto da alcuna necessiti, pr salvezza del tuo onore, a cos dire : ma
se n egli ti avr ingannato, dirai : Voi non vi ricordaste di cos fare : e se
egli non se ne ricord, dirai piuttosto : Voi non poteste; o Non vi ritorn a mente; che Voi
dimenUcastc, o Voi non vi curaste
d'attenermi la promessa: perciocch
queste s fatte parole hanno alcuna puntura e alcun ve neno di doglianza e di villania; sicch coloro
che costu mano di spesse volte dire colali
motU, sono ripulaU per sone aspre e
ruvide; e cosi fuggito il loro consorzio
M conie si fugge di rimescolarsi Ira' pruni e tra' triboli. S6ft proposizione ^ sempre causa per cui si cerca di
eontraddpvi'^ e pr non si^ aicoltato 1 con attenzione. Da un altro Iato se,
desiderando d'essere istruito, e di
profittare delle coignizteiii degli
altri ^ to ti esprimete eooie pensona for temente ostinata nei suo modo di
pensare, gli 9 MouNAt modesti e sensibiii che nm amane la H disputa, vi
lasceranno tranquillamente in pos sesso de' vostri errori. Seguenda un metodo
or- y> goglioso, raire volt potete speme, di piaeefs af vostri uditori, di conciliarvi la loro
benevolenza, e di convincer quelli cui
voi eravate vago di a9 aggradire i
vostri pensieri La ragione non lia giammai maggiore impero che quaodo alla si
presenta non come una legge che si deve seguire, ma come un'opinione che pu
meritare d'essere esaminata; perci ne' crocchi di Filadelfia pagavasi
un'ammenda tutte le volte die facciasi uso d'un' espressione decisiva.e
dogmatica. Gli liQmini pii intrepidi' nella loro c^rtsasa 4^rano obbligati
d'impiegare le formole del dubbio, e prendere nel loro linguaggio l'abitudine
della modestia^ la quale, quand'anclie s*|uerestasse alle sete parole, L* abate
Polignae sapava presedtave le ime Idee i^a aria s modesta e gentile, clieil
Pontefice Alessandro VIU gli diceva: Voi sembrate sempre essere del mio parerei
ma alla line de' conti sempre il vostro
che prevale. Luigi XIV, dopo d*avere ascoltato U suddetto abate sulla
iegoziazkme Intrapresa Boma per le
celebri proposiztoid idei clero Oallleano, disse : R!l sono Inlratlenuto con un
nomo, e glovre uomo, U quale mi ha sempre controddetUi c mi e smifte piaciuto,
/ ai* uno xiMa ^ * avrebbe gi il vantaggio di non offendere 1' altrui amor
proj^io, ma che^ per rinfluenza delle i^aaroie MHe idee y m fiiialMefite
etftfindent 4mU6 fltetse opkioai..Ii6 pmone gemili sapendo die ralttni wiit
soffre allorch si vede convinta, sogliono terminare la contesa con una
lepidezza, a fine di mostrare che mii forepo icrtet dall'oppoeisimd, eh0 Ellero
offendere il loro antagoniata,. che non si, vantano 4Mla
vktona.C&a^imazi(me dello stsso argomento. Siccome T ombra sola della
pretensione offende Faltmi amor proprio, perci i titoli di vano, suIUrb,
anrogantef tallita si regalane a tollo^ a torto si dichiarano offensive le
giuste ragioni con cai l'Qinocenza e il nierito rivendicano i loro. diritti.
Costretto non di rado Tuomo grande ad imporre silenzio air orgoglio
soperchialore, a conoscere d di* egli , sbalza nella tua possa e torreggia
dinanzi alla mediocrit impertinente che vorrebbe avvilirlo. a Di modestia Tempo or non , voce d*oner n'appella. Infatti la vera modestia eome la vera bravura, J quale non oltraggia
giammai, ma sa rispingere gli oltraggi y fuorch quelli che. li fa non sia
vile segno da non meritare che
disprezzo. Chi avrebbe potuto tacciare d'arroganza Cicerone, allorch, totnato
dall'esilio, pregiavasi d'avere salvato gli Dei del Campidoglio, il Senato
dalla vendetta di CATILINA, il popolo dal giogo e dalla schiavit ? Non era egli
giusto che mostrasse a'suoi nemici il suo Dome cancellato, i suoi, monumenti
distrutti, la, sua casa demolita, e c6l peso della sua gloria gli opprimesse?
I^aseiando da. banda il caso assai rara di CICERONE CiceronC) e consultando la
giornaliera esperienza, vedremo che ^Uotdi.. l'esternare giusto sprezzo per gUr
aUH e giusta sHtim pcts^ gittstij^ato,
^alr altrui insolenza. Gbe cesa dite di quelH ohe scrivono la propria vita? Il
severo Tacito non ha osato fare rimprovero a parecchi' famosi ingegni dell'
antichit, che le loro gesta pubblicarono, non per ostentazione e Un prelato
cortigiano, il cui merito consisteva ne'suoi avi, ccedevasi disonorato vedendo
in Flechier un confratello, che Dio aveva fatto eIoqu$inte, caritatevole,
virtuoso, ma non gentiluomo : egli era ^sorpreso che Flchier fosse passato
dalla bottega de* snoi paventi affa ^e tescovfle, ed Mie r impertinenza di
dirglielo : Con questo modo di jwmare^ rispose il vescovo di Nmes, temo assai
che se voi foste nolo f ai posto m cui io aono^ rum ne feski disceso far delle
eandU Anche H lareseiall de la Feutde, tanto pi soper cliialore con quelli che
credeva inferiori a s, quanto pi era vile alla Corte, disse al sullodato
Flechier, eh' egli non' era a' suoi ocelli che un meschino borgliigilino di
Nimes, e SQg^nset Gmmdt ehs vostro padre sarebbe 6m sr^ preso nei vedrvi d che
voi siete. Forse men sorpreso che non vi sembra^ rispose il prelato, giacch non
il figlio di mio padre^ ma io^ fui fatto vescovo. Il diritto di difesa giustificava questa
risposta; poich l' alta opinione che U buon vescovo mctetiava di s, oltre d'
essere fondata sul veiO} ten deva a reprimere un ioigjusto 8pcegio arroganza ma
pr quella tonfideasa the .la 'pvobit inspira. Alfieri che ci ha lasciato. la
sua vita confessa candidamente che il parlare e molto pi lo scrivere ^.^i se
sl^esso nasce da molto amor, di se stessa. '^kipo questa ingenua confessione
rautece giustifica * la sua condotta nel modo segunte: '^-Avendo ia oramai
scritto naolto, e troppo pi forse che non avrei dovuto ^ cosa assai nturate che alcuni di quei pochi a
chi non saranno dispiaciute le mie Opere ( e non tra' miei con^, temporanei, tra quelli almeno che vivran dopo
), avranno qualche curiosit di sapere qlial iiano U medica in rrocato^ lo
stampatore in consigliere, ll^canieiioe in arlecchino: raccontano fatti che l'
opinione locale smentisce, citano libri di cui non conoscono il frontispizio,
alterano le date per creare odiosit od affezione, censurano quelli che non li
pagano, vendono le lodi a tre centesimi per jMigina, gindicano ^ af-* lui coir
acume della stupidezza, parlano degH uomini come ne parlerebbe un
Ourangoulangh, ecc. ecc. : speculazione libraria che n d, ne toglie
riputazione, perch nissuno guarentisce n i fatti, n i giudizii, ma che pu far
ridere sinceramente le persne di enno, giacch le persone di senno hanno diritto
di ridere, quando veggono lin' impsta icfAi credulit^ sidV invidia e tuUo
$pitii0 di fmrUio ^ affezioni tanto pi pronte a pagare quanto pi. goffe son le
menzogne die lor $i vendono molto schizzinosa su questo punto: gli uomini, non osando lodarsi in pubblico, si adulano
pi liberamente in segreto, e s credono
in diritto di risarcirsi della loro Onta
modestia col detrarre' alla fama degli
altri. Cos non abbiamo guada-* gnato che
virt apparenti e vizi reali. Eccettuati
i casi di difesa accennati di sopra,' a me pare che il giudizio di Cesarotti
dia in falso; giacch chi vanta i proprii meriti, in vece di far^ parlare gli
altri a suo favore, li fa tacere; In vece di farsi degli ammiratori, si fa
de'nemici; quindi il dignitoso silenzio della modestia sar sempre preferibile:
II merito pi grande il pi modesto. Se
facesse d'uopo confermare questa idea popolare con autorit, sceglierei tra gli
antichi CATONE, il quale, a detta di SALLUSTIO, faceva grandi cose senza
menarne rumore, e avrebbe potuto dire : a Cedo a tutti in parole, a nullo in
fatti. Tra i moderni v' additerei il poeta Despraux, il quale, eccitato da un
incisore a far qualche verso pel suo ritratto : Io non sono s malaccorto,
rispose, da dir bene di me, n s stolto da dirne male. 6. Rispetto ai pregiudizi. I giovani non
conoscendo ancora per esperienza quante passioni vegliano alla conservazione
degli errori, ignorando che tra gli errori v'
una fortissima lega, e tale che scotendone uno, gli altri si risentono e
CQjrrono in difesa: i giovani, dissi, si danno a credere che ogni verit potssa
essere, sRa- presenza di chiunque proclamata, e fanno le maraviglie se pi
ostacoli le si oppongono. Come inafi ha (iNDlnto il sensate Bandi riguardare il
rispetto ai pregiudizi come un legame inventato dai eapriccio e dalla moda? Se
qualcuno, entrato in una moschea zeppa di adoratori di Maometto, grl-> classe
ad altissinia voce che Maometto era un impostorcr credete voi. che farebbe
HK>lti proseliti, e che non verreUe in pezzi dagli astanti? Ma senza anco
voler calcolare i danni cui si espone ehi spaccia una verit imprudente, fa
d'uopo con-f venire che, offendendo i pregiudizi contrarii, non le rende pi
agevole la strada^ ma pi scabrosa. Ella
infatti cosa difficilissima il convincere un' uomo dopo che abbiamo
offeso ilsuo an^or proprio, ' Se il -sole, dice d'Alembert, ^lene ad illuminare
in un istante gli abitanti d'una caverna oscura, e dardeggia impetuosamente i
suoi raggi &m loro occhi non anco disposti e preparati, e quindi gli irrita
soverchiamente, render loro per sempre odioso lo splendore dei giorno, di cui
non conoscono ancora i vantaggi, mentre sentono il dolore che loro cagiona. Se
ai contrario introducesi in questa inverna un debole raggio che per insensibili
gradi vada crescendo, si riuscir a dimostrare il pregio della luce, e gli
abitanti stessi ne branieranno l'aumento. Per la medesima ragione conviene
rattemprare la luce dei vero, ed aspettare che rintelletto a poco a poco si
sciolga dalle false idee che l'ingombrano, divenga gradatamente pi forte. I s'
abitui e s' addomestichi cpl nuovo ospite f^he non conosceva per anco.
Pretendere che tutti gli intelletti ammettano tosto le stesse verit, pretendere che tutti gli stomachi digeriscano
egualmente le stesse vivande. La pulitezza vi fa dunque un dovere di conoscere
il carattere personale e la situazione sociale delle persone che al solito
crocchio concorrono, acci le vostre idee ed affezioni non vadano a dar di cozzo
contro quelle degli astanti, e con reciproco risentimento rimbalzino. F'lo alle
antipatie. Lo sprezzo che merita la vile adulazione ha in-, dotto a fare
distinto elogio della franchezza, e come virt assoluta raccomandarla. La
massima di velare le proprie antipatie, come quella di rispettare i
pregiudizi, stata riguardata qual legame
inventato dal capriccio e dalla moda da pi scrittori. Si dice che dass prova
d'integrit allorch la lingua ed il cuore essendo d'accordo, le parole
rappresentano i sentimenti. Ciascuno per altro s' accorge, o sente almeno
confusamente, che se merita sprezzo un cortigiano che ci protesta stima,
affezione, amicizia, mentre nell'interno dell' animo egli si ride di noi,
merita disprezzo maggiore un cinico, che senza necessit viene a dirci: Io
v'abbomino e vi detesto. Dunque tra la menzognera adulazione e la frani chezza
eccessiva vi debb'essere un mezzo. La necessit di questo mezzo dimostrata da tre ragioni. f i. L'amor
proprio di ciascuno, costantemente avido di farsi degli amici e degli
ammiratori, agevolmente lusingasi di ritrovarne dappertutto, e sente in lui
sorgere e crescere il dispiacere in ragione delle persone da cui si vede
sprezzato. Il dispiacere risultante dallo sprezzo copiosa fonte d'antipatie, animosit, odii, e
perci di gravissimi danni sociali.-Noi c'inganniamo sovente nell'opinione che
concepiamo degli altri, e pi volte siamo costretti a ritrattarla V senza
riuscir sempre a giudicare pi sanamente. Laonde quando alcuno, giusta l'interno
suo sentimento, dice ad un altro, Vi sprezzo,
sempre certo che gli cagiona un dolore, non sempre^ certo se colpisce nel vero, -^y, Ora,
escluso il caso di necessit, fa d'uopo essere 0 crudele pazzo per cagionare ad altri un dolore' che
pp essere ingiusto, e farci un nemico che pu riuscirci funesto. ^i^V'-Alcuni
dicono: Da un lato v' smpre piacre neir
esprimere i sentimenti quali nascono nel nostro animo, mentre si prova pena nel
reprimerli; dall'altro noi non abbiamo bisogno di nessuno*f^i Di questo
raziocinio la prima parte sempre vera,
ma la seconda sempre falsa, finch re^*
stiamo nella societ. Voi non avete bisogno di Pietro, e forse senza danno
presente o futuro potete dirgli : Ti disprezzo; ma la faccenda non va cos con
tutti gli altri uomini. ntrate in una CONVERSAZIONE con quella franchezza
encomiata da alcuni scrittori, e presentandovi successivamente a ciascuno, dite
a questo : Voi pretendete di piacere a tutti, e tutti si ridono di voi; a quello : Voi siete s sciocco che m'eccitate
compassione; a un terzo : Non saprei
dirvi il motivo, ma sento ars avversifte Contro di voi, ecc. Se voi cos
operate^ 'mi par certo che tutti s'alzeranno per cacciarvi' fuori della conversazione
a ceffate; e vi succeder lo stesso in tutte le altr. ^^'o^mii ' La franchezza
non consfete nell' offendere inu^ tilmente l'altrui amor proprio, ma nel
difendere con coraggio i dirtti deWinnanit contro r orgoglio che li calpesta^ e
nel convenire de'prqpri difetti ed emendarsene. ' / ^,iliisidu6m;2 In vece
dunque di dire al giovine : Alza il vlo che copre il tuo animo e mostra a tutti
Podio/ lo sprezzo, la noia, il dispiacre che in te producono le loro debolezze
e i loro difetti; gli dir piuttosto :; Jpl^; Uflf' lato sii pronto a compatire
le loro debolezze, dall'altro non crederti infallibile j ne'juoi giudizi.
L'uomo franco pu conservare. il j suo sentimento senza offendere l'altrui amor
pr =5 prio; non si deve offendere l'altrui amor proprio se non in vista d'un
vantaggio maggiore, come nnr si taglia una gamba se non per salvare la vita. Mi
spiegher meglio con un esempio: ^ Uno de'confratelli di Guettard lo ringraziava
un giorno perch questi gli aveva dato il suo voto 4 allorch quegli fu accettato
membro dell'accadenriia delle scienze, roi non mi dovete nulla, risponde il
botanico : s'io non avessi creduto che era giusto it darvelo ^ non r avreste
avuto ^ giacch io non v' amo. Questa risposta, bench lodata da Condorcet mi
sembra riprensibile, perch gratuitamente offensiva. Per quale motivo cagionare
un disgusto e dire, non v'amo^ a chi viene a protestarvi un sentimento di
riconoscenza.^ Se Guettard. avesse,SW' d(^V Nl^ire tt 'mi^i^ te eoasult te
gisUza e niente altro; non ringraziate ddnqii me^. ina voi stess, giiceb se nra
avessi creduto cto lo meritaste^ ndw ?irfcM vto; sapr il giovine adescarla con
garbo senza compromettere la dignit dell'uomo; ritrover il limite che separa la
dissimulazione dalla simulazione, e idalla vile falsit si terr lungi ugualmente
che ridalla sincerit gratuitamente offensiva. Dapprima, in vece di mostrarsi
stupido e silenzioso alla vista dell'altrui nierito,, il giovine ne sar \
pronto encomiatore, esternando gradi di sti?nu proporzionati alle qualit utili
e lodevoli, associando alla stima gradi di rispetto, se di particolari virt si
tratti e di grandezza d'animo; in tulli i casi egli procurer che il sentimento
rappresentato da' suol atti e dalle sue parole s'avvicini i quello che gli
altri vogliono ritrovare in lui, non dimenticando che quando s tratta di riguardi;
e men male peccar per eccesso che per difetto. Sta dunque attento nel passar
del guado, ^jji?,.K cerca d'evitare li due scogli, Da cui scampano pochi, o
almen di rado. ft ben che in questo mar
la nave sciogliCol rischio a destra ed a sinistra, ancora :^ Salvar ti puoi, se il mio consiglio accogli.
. Va per la via di mezzo, e se pur fuora ^.;vDel relto calle fantasia li mena,
. AH pilo, e non al basso tien la prora.
' d'avvilirsi^ isostrndosi indulgente alle umane de^lez29e, aUor][i nmaa
dmm ne risulta^* EUa^Mft isdegna A tendere agli altri tach d pi di quel,c^e
hanno diritto d'esgere, sapendo ejie nel com* smercia Le aote anima ficoole^
jpqtttfe aidle iaM pretemttoi, speaae^ sospette jti guardando come furto fatto
a se stesse lutto ci (^p c(NMdoiif^ figli aitai > Ungot gooliaf^^ l
tfiiancia in mano per pesare a rigore ci che 4!^oiiq| fat^f^iiidaie o
musare: sg^s^ sotto pr^ testo di non
degradarai, si imlmiio*iiliiv^tlaeif|i .(^io^Q usfmli e inferiori. I Lacedemoni,
che- neri peccavano per eccesso di bassezza, hanno lasciato un beli' esempio
dell' indulgenza che si debba alla folla de' grandi. 41e^s^^o piccolis^iiaio,
qMlido pladava drenare figUo 4i Giove, e JHo egli stess, ^ireeheper Melo
rieooosotaeiDo tutti gU 8ta(l.ella Grecia : in occasione d queste pretensioni i
Lacedemoni fecero il eguente decreto, veramente laconico ~ Poich Alessaneto
vuol essere Dio che lo sia. ' . Attai meao ladolgeiito si moslfl FilosseiMr een
Dioiiigi fttotteo. Questo ttasniio, peidi era vtf laceva de*very, pre* tendeva
al vanto di pela. Ef^li prff^ un giorno Filoss^ne a correggere una sua opera
teatrale; e questi, avendola rappezzata e rifatta 4al primo verso air^Himp, il
re lo condann alla lettere, ^acci- fi Imipamse a rispeltase ia regia pc^la. li
gim sussegniYte^ tra(todi cacGasKe,^K>'amiiiis8 alla sua mensa, e liniio il
pranzo, dopo avergli fettOfaleciDl versi, gli domand il suo parere. Il ponila,
senza rispon iV?^ Raccomander finalmente ai giovani di non imitare la vile e
perfida condotta di coloro che lodano alcuni collo scopo di denigrar altri. Ih
ciascuna carriera alcuni personaggi distinti occupano gli sguardi del pubblico
: cbe cosa fa V invidia per defraudarli ? Suscita loro de'rivali, colma di lode
degli imbecilli che appena hanno il senso comune, e si sforza di ripeterne i
nomi, acciocch il pubblico s'induca ad occuparsi di essi e dimen-,/tichi i
primii -^^Nel corso della giornata si riproducono ad ogni vistante de' casi,
ne' quali alla sola azioiie d'innocente lode si pu ricorrere per conseguire
l'assenso di alcune volont, e diminuire la resistenza di altre; perci ad
esercizio de' giovani soggiungo i seguenti problemi, ciascuno de'quali ammette,
col dere, si rivolse alle guardie e disse loro: Riconducetemi in ctarcere.
^f-^u i Un uomo ^11 pirilo nel case di Fllossene sarebbe uscito d impaccio con
una celia. Infatti la condotta di questo poeta sarebbe ammirabile, se si fosse
trattalo d'una cattiva legge od alli-a operazione daivosa al pubblico; ma
scegliete jl carcere pcrcli un Uranno vuol essere poeta, paizrja. Maggiore imprudenza commise
rarchitelto Apollodoro, il quale, sapendo quanti l' imperatore Adriano avido d lodi, critica un di lui tempio in
modo un po burlesco, osservando cbe se gli Dei e le Dee si fossero alzale in piedi,
si sarebbero rotta la testa nel soffitto. Questo scherzo gli cost lii .vita. 11
quale fatto dice che i coltivatori
dozzinali delle belle arti hanno una vanit atraordinaria, superiore a qualunque
sentimento^ e capace di sacrifico'c la slessa amicizia, mezzo della lode,
soluzioni indefinite nelle varie circostanze sociali. Disarmare la collera.
.Aureliano faceva rimprovero a Zenobia, perch non aveva riconosciuto
glimperatori romani. La principessa lo calma, dicendogli. Io riconosco voi per
imperatore, voi che sapete vncere. Galieno e i suoi pari non mi sembravano
degni di questo nome. Addolcire l'amarezza d'uri rifiuto. ( il gran Cond,
pregato dalle dame di lasciarle uscire da Vezel ch'egli assediava, prevedendo
che Ja loro uscita ritarderebbe la resa della piazza, rispose che non poteva acconsentire
ad una dimanda che del pi bel frutto del suo trionfo lo prive, rebbe.,
Accrescere pregio ad un favore. Luigi XIV nominando al vescovato di Lavaur
Flechier, che predicava alla corte, gli dice: Vi ho fatto aspettare alcun poco
un posto che meritavate da lungo tempo, ma non voleva privarmi cos presto del
piacere d'ascoltarvi. ) ' elare il lato offensivo d'una verit. ( Despraux
interrogato da Luigi XIV sopra alcuni versi da lui composti: Sire, rispose,
nulla impossibile a Vostra Maest : ella
ha voluto fare de' cattivi versi, e vi
riuscita. ) Un soldato francese si faceva chiamare col nome d| Turenne,
celebre maresciallo di Francia: quesU mostr d'esserne ofifso: il soldato
rispose: Generale, io sono invaso dalla gloria denomi: se ne avessi conosciuto
uno pi bello del vostro, l' avrei preso. L'uso della lode ragionevole finch, fondato sul vero o
verisimile, stimolo o ricompensa ai
talenti, all'industria, alla virt. L'uso della lode riprensibile quando o fondasi sul falso, 0 di
gran lunga oltrepassa la misura del merito encomiato, e allora dices adulazioil
Vi sono de'Iodator eterni, i quali non vi danno una lode fuggiasca e dilicata,
ma vi inondano e opprimono d'elogi; e ci per ogni inezia, ad ogni istante, alla
presenza di qualunque persona; cosicch se non rispingete le loro lodi smodate,
acquistate taccia di vanit ; e se le rispingete, essi '. le replicano con
usura, e per cos dire non vi incensano, ma vi danno il turibolo nel naso. Tre
caratteri distinguono l'adulazione dalla lode ragionevole 0 meritata:
L'adulazione cambia i vostri vizi in virt; ^ m||||( Ella vanta in voi delle
qualit che non avete; Ella innalza eccessivamente quelle che avete; .Nel
mentire esperto, Maestro in adulare,
egli senz' onta V Chiama faconda indotta lingua, e bella I Schifosa faccia; un sottil collo e lungo I ))
Agguaglia a quello d'Ercole, che innalza I . Di terra Anteo; magnifica. una
voce Stridula e chioccia qual d'irato
gallo Che alla mogliera sua morde la cresta. L'adulatore adunque un ipocrita che finge &entimeoti c^^ptmru
a qutli ohe cg^ ffi^U' animo; ^ Z m vile
Buffon, perpetao l^ioMM' di eaptf , die trama ai cenni del rccOf e
Ib.ecQ ai detti deUd persgy|;iefiu viziose i % w soroccatore cl)e.)d .menzogne
per fitleoi^rj; vantaggi personali; un
ladro che toglie alla virt r.eiicomio ehe profonde al vizio; un infame che
io^i^^i^te ali' onore non teme il
pubblico disprezzo; L infamia delPadulazione cresce in ragione della pubblieU^
ddta aUe lodi menzognere. Pera colai che sa malnati fogli Famelfto eerifter vende sue lodi, E d'aura popolar Talme rigonfia. Sid labbro a lai le venenate tazze Vota menzogna, e Favvilito incenso Onde frodonne di virt gli altari, La lusinga vnal pria^nde a Itti; Che col prestigio d'un error che piace 19
Cangia il ?izio in virt, traiforma in mmie
T Ignoranza, follia, viltade, e mira
Sorger Tersit emulator d'Achille
E nn Sfida infame in an Traian rivolto. Allorch Filippo di Macedonia
divenne guercio, il cortigiano Clisofo usciva di casa con un empiastro sulF
occbjo, e si traeva dietro una gamba allorch il re zoppicava per una lecita.
Sono arcpochissim quelli che facciano sforzi per acquistare le qualit che loro
mancano allorch vengono accertati che le posseggono; e meno sentono stimolila
salire ad alto grado di gloria se quelli che li circondano dicono loro ad ogni
istante che sono giunti alla cima. Si pu asserir anco che pi personaggi potenti
non divennero tiranni se non perch fu fatto lor credere che tutto era loro
dovuto, e che il loro rango scusava qualunque colpa potessero commettere. Da un
lato essendo utile l'uso moderato e ragionevole della lode, dall' altro non
essendo difficile d'essere tacciati d'adulazione, perci ricordec la regola d
Montaigne, il quale, nel lodare le virt e i pregi reali de' suoi amici,
compiacevasi bens d'esagerare alcun poco, ma limitavasi a cambiare un piede in
un piede e mezzo : secondo Montaigne adunque il rapporto tra il merito e la
lode che possiamo tributargli, non deve oltrepassare il rapporto di uno ad uno
e mezzo. Quindi pria di profondere lodi dobbiamo esaminare le qualit delle
ji^rsone; e se ci accade d'esserci per bont o generosit d'animo ingannati, non
essere restii a ritrattarci. Squadra ben ben Tuom che commendi, ond'onta De' falli altrui non ti rifletta in viso, w
Diam talor nella ragna, e ottien l'indegno M Da noi favor; dunque la man
delusa Sottrai da chi va di sua colpa
onusto. Delicatezza animo. Si' dic0
delicato oa fiim aUovcb al ooniatto ' d'aur un po' pungente s'attrista, e al
raggio meridiano piega ti capo suUo stelo. Pr drantMre quanto dUiaiad r onora dette donne, lo parago;iiaDao
a terso cristallo, i, :A debl canna y
Ch'ogn'aur9 mchina, ogni respiro appanna Si,ah)ai;pa animo dilicat
quello che alle tnioime seai^kKon|,m&raUj^iK^ od a vanjia^o aly 4rui si
risente. \\. pi^Q 4^, essere bont d'animo senza de. Rcatezzas ^ uoma ytino vi
&r tosto il piae^ ^ebcgli domandate : un uomo dilicato far d pi;' egli Vif
risparmier la peqa 41 domandare,, e a^r tenere segreto il beneficio. Vi pu
essere giustim Sj^nza^ delicatezza : un uomo giusto difender con calore i
vostri diritti nel consiglio: un uomo dilicato difender anco le vostre
convenien^, e s' affiretter a .spedirvi la Booi^ del felice enccesso. La
delicatez^ d'animo un misto di speciali
qni^it e'si manifesta coi caratteri di esse, ^esie.qualit sono le seguenti.
Finissima sensibilit. 1 generali Ateniesi a ' Maratona, ecc^itati dall'esempio
d*Ar9tide, cedettero intero a Milziade quel comando che gionialmmte^ed a
vicenda toccava a dascuno* Milziade, acci la vittoria che lusingavasi di conseguire
non fosse cagione di rincrescimento a qualcuno de'ge9erali, spinse la
delicatezza al segno da non dare la faiOtagli^ che giorno ia cui gli
dpparlBomirjeoinandd. iW^^h-T^ Cemdido disinteresse. Nelle cose di.seasibite
vitloree boa hm^wYv^la^fe^ kk^eosa offerta e Ja cosa (zccettata. serve misurare la' delicatez;uhi [wgio ir^ che t^Qto
stero. Giunto > il duca co'suoi nobili, tutti riccar m^te vestiti,;
avendo os^rvato che gli scandi erano oecopati,
die nissano rispondeva alle sue gen* . tilezze, si diresse, senza
mostrare la minima sorp^^. jo II 4iiniQiO turbamento., veysp jl'una delle
estremit della sala che rimaneva vuota, si lev il mantello, lo pieg con bel
garbo, lo pose sul pa- imento e vi si assise sopra, nel che fa imitato dal suo
seguito. Pranz in questa posizione colle vivande cl^e gli vennero polite, dando
segno d^lla . pi frfetta soddis&zione. Finito i pranzo, il iw e i
suoljaobli s' alzarono, presero congedo dalla ^mpagrai nel moda pi grasoso ed
uaeiroao dalia sala colle loro giubbe, lasciando sul pavimento i mantelli che
erano di gran valore. L'imperatore che ^y^Va ammirato b tro condtta, fa
sorpreso da quest^^ul)imo tratto, e sped .upo de' suoi crtigani.jal sappUcare U
dqcft iiA il sao. se^ guito a riprendere i loro mantelli. Andate, a dire al
vostro padrone, rispose il duca, che i ]!>{ormann non usano portar via gli
scanni di cui si servirono a pranzo.
"Questo rifiuto era delicato, nobile, convenevole e fiero nel tempo
stesso.^ r*vi-Gentili sorprese. Il czar Pietro, che viaggiava in Europa per
istruirsi nelle manifatture europee, si ferm alcuni giorni a Parigi, e tra gli
altri stabilimenti visit quello della zecca. Si coniarono molte monete alla sua
presenza: una di queste essendo caduta a'suoi piedi, egli la raccolse e vi vide
da un lato II suo ritratto in busto, dalraltro una faRia appoggiata col piede
sul globo, e questa leggenda : Fires acquirit eundo^ felice alIasione ai viaggi
ed alla gloria di Pietro il Grande.; D( queste monete ne furono presentate a
lui ed 'alla sua comitiva. Il czar non pot ritenersi dal dire : I soli francesi
sono capaci di simili gentilezze (o.;2'!!C -^..rT.'^'' Dopo d'avere adombrati i
quattro principali elementi che caratterizzano la delicatezza dellanimo,
passiamo ad osservarne' qualche combinazione. Lo spirito vivace e la pronta
sensibilit di questa nazione rendono luso delle sorprese gentili men raro che
altrove, anche nelle basse classi sociali. Dopo la battaglia della Marsalte,
vinta da CaUnat, egli pass la notte sotto la sua tenda alla testa delle truppe
Trovavasi egli in mezzo alla gendarmera e dormiva inviluppato nel suo mantello.
I gendarmi, che avevan presi ai nemici 28 stendardi, immaginarono di
circondarlo di quesU trofei: gli altri reggimenti portarono essi pure gli
stendardi conquistali. 11 giorno comparisce: Catinai si sveglia circondato dai
trofei della sua vittoria, e salutato dalie acclamazioni dell' esercito. V%Mm
Wanini diHcata sa mggeHrs de* vtm* sigli senza mortificare V altrui vanit y ad
imitew zione di Livia, la quale gettava, per cos dire, a e^w nella convrsazione
delle fdee trtlK ad Aogost senza che egli s'accorgesse ch'ella aveva pi spirito
di lui. . Non suole offrire alta per rinfacciare penuria^ contento di mostrare
la sua disposizione a chi volesse approfUtqme* Nelle poee d'Ossian^ mentre
Gaulo viene circondato da Svarano, Fingal s'alza ma non si d fretta
d'accorrere; egli non vude rapire a Gaulo l'onore di rimettersi e liberarsi dal
nemico; troppa sollecitudine sarebbe stata un' offesa alfa sua gelosa
delicatzza su* questo pnto. ' Egli sa coprire il soccorso con qualche p7 etesto
plausibite^ e all'idea s mortificante della Kmosn sostituisce quella d'un
credito, d' un compenso, d'un' indennizzazione, d'un onorario. Eccone alcani
esempi: Un sigDoi! per mr 'eampd di benefleare un aVvooat miserabfle, ed
aUonlanare dal suo animo l'idea umiliante del soccorjK), lo consultava $opra
cause immagiaarie, e pagava largamente i consulti. AJCcesUao visitando il suo
amico Ctesibio ammalato, e vista la sua Indigenza, trov modo di cacciargli
destramente sotto II capeuftle U denarb che abbisognavagll. l signor Dubois
all' epoca del terrorismo in Francia, essendo stato destituito dalia sua carica
e rinchiuso in pri^one, il botanico (^ll^ei^t port ciascun mese, e finch dur Uk
detenzione,. alla fl^posa dell' amico detenuto^ la met del proprio onocario,
acclorcb', ella non sospettasse la destituzione del marito, e non iscoigesse
tutto il pericolo cui rimaneva esposto. Facendo de' benefica, egli si guarda
dal rammentarli s perch aspira al piacere delle belle anime, non a quello dei
despoti; s perch sa che la ricordanza de'beneiizi riesce gravosa al beneficato.
CiLstode deW altrui gloria y e quasi dimentico della propria y si trova
infinitamente lontano dal pi vile di tutti i sentimenti, F Invidia Che d'altrui
ben, quasi suo mal, si duole. Allorch Ulisse e Diomede ritornano dal campo
troiano, conducendo i cavalli di Reso e riportando le spoglie di Dolone,
Ulisse, che poteva dividere col suo amico la gloria di questa spedizione, si fa
un dovere di lasciargliela intera : egli racconta minutamente tutto ci che fece
Diomede, e nulla dice di se stesso. Dimenticando ch'egli ha dello spirito, sa
far valere quello degli altri, ed incoraggiare il merito nascente talvolta
timido, si perch non crede che possa essere offuscata la sua gloria, s perch si
regola coll'idea del pubblico vantaggio. Apre r animo a tutti i sentimenti che
ingrana discono la natura umana, e vorrebbe pur chiuderlo a quelli che la
degradano. Egli sarebbe slato buon credente in Grecia ove si divinizzavano gli eroi,
miscredente in Egitto ove si divinizzavano gli animali. Riceve con riconoscenza
gli altrui avvertimenti anch quando offendono il suo amor proprio, e ne
profitta, mentre le anime piccole e grossiere ingrognano e riguardano come
nemici quelli che additano loro i mezzi per divenire raigliori. S#S buisce a
virtt, collo scopo di ravvivarne l'imagioe e promoverne resecozione Ltmgi dal
brigare sotta mano l carica del sm amico i egli
disposto a rinunziare ad una pen^ sione a vantaggio di chi la merita pi
di lui ( Proporziona la riconoscenza non al beneficoy ma air intenzione di chi
V esegu, n crede che cessino i suoi obblighi se
benefattore cKvihe sventurato. Egli
penuaso che la rottura deW amiditAa non Vautorizza a manifestare i
segreti che furono affidati alla sua onoratezza, e non vuole screditare la sua
causa con un tradimento, come fu detto a suo luogo. * Costretto a correggere
qualcuno, egli nn lo fa alla prssenza di estranei, e quando pu ^ il fa a
quattr'occhi; sa anco condire la correzione con lodi. che animano, in vece di
ricorrere a Dopd Ta tn?6n dUa fertem di SoltneU'riainiflt, nid 4657, primi soldati che entrarono nella piazza
avendovi ritrovato una bellissima donna, la condussero al celebre maresciaUo di
Turenne come la parie pi preziosa del bollino. U maresciallo, fingendo di
credere che essi altro scopo non s'avessero proposto che di sottrarla alla
brutalit de' loro compagni, il colm di lodi per si onesta condotta, fece quindi
ricercare il di lei marito, e gli disse alla loro presenza: Voi dovete alla
morigeratezza de' miei soldaU l'onore della vostra sposa. Dugnay Trouin, dopo
una campagna gloriosa nel 1707, ricus una pensione che II ministro voleva
dargli, ma la dimanda e lottenne per Saint-Auban, ^uo aiutante, ciie aveva
perduto una coscia nella steslsa campagna. t
f4i. villanie che avviliscono. Egli procura di scemare la colpa
attribuendone parte alle circostanze; e per eccitare la voglia del
ravvedimento^ ne lascia intravedere la speranza. Egli dice, per esempio : . che
certamente non estinta; in somma Y er
rore indegno di voi. Come mai non vi
cadde in mente che esponevate i vostri
genitori alla w taccia d' avervi istillato cattive massime ? Do vranno essi
cogliere disdoro dove speravano lode ed
onore? I vostri amici che tentano di nascondere il vostro fallo, accertano che
ne sentite w profondo rammarico : Vorrete voi smentirli ? Dovr io accertarli che s' ingannano ? ecc.
Vuomo dilicato^ nelle contese co^nemici sdegna le vie segrete, le quali,
essendo favorevoli alla calunnia e alla frode, sono preferite dalle anime vili
Non abusa della vittoria perch non v' merito neW abusar del potere^ e v' vilt nell'insidtare i cadaveri. li Son frmvde
ncque occuUis^ sed palam et armatum populiim romanum hostes suos vlcisci,
diceva Io stesso Tiberio. Achille, che fu da Omero divinizzato, insulta Ettore
moribondo, e gli protesta che, in vece d onorata sepoltura, Io far pasto de'
cani. Dopo che Achille ha attaccato egli i /V fl sentimento della vendetta
confondendoci coi bruti, egli si sforza sempre di reprimerlo, perch, ^
.ogniqualvolta il pu, vuole distinguersi da essi. Egli tenta quindi di
soggiogare il nemico pi ^ colla generosit che colla /orsa i' pffl '> blandi.
Lo chiama delicatanriente fratello d'Aganadeca, per destar in lui Sentimenti
teneri ed amichevoli coll'imagine d una sorella amala non ij^rjf^^^no da lui
che da Fingal. Mostra che sin dal ^
tempo di quella, egli avea concepita molta pro)) pensione per lui, e gli
rammemora la prova sen/^h sibile che glie ne diede in quella occasione.
Con > ci gli induce Svarano a
vergognarsi di conservar odio e rahcore con una persona che gi;s;3i;:da gran
tempo 1* avea provocato in affetto e in ..p benevolenza. Finalmente mette in
opera un tratto di generosit singolare che doveva espugnare l'a.:;t4.oimo il pi
indomabile. Svarano era vinto : Fingal era padrone della sua vita e della sua
libert. >^ questi si scorda della sua vittoria ? suppone ^,>) (:he
Svarano sia libero come innanzi la battaglia, jfc)/^- propone, per soddisfarlo,
un nuovo cimento personale, come se il passato non dovesse deci-jf^' dere.
Svarano non un nemico vinto, ma un
ospite nobile a cui si desidera di far onore^ A;d tanta generosit Svarano
s'ingentilisce, e la sua V ferocia si va cambiando in grandezza. Svaran, disse
Fnga], nelle mie vene Scorre il tuo
sangue : le famiglie nostre, Sitibonde
d*onor, vaghe di pugne, jj w Pi volle s aCfronlr, ma pi volte anco W^iti n^^l^
cqnv.ersa:;>ioni . 1. Cohcorrenza
superiore alla capacit " . y'^^ : 'del locale, *JL. ' j I Invitare pi persone dl qiiel che possa
compreu dere il locale, invitarle ad
essere soffocate dal ^ (ialore, a restare in piedi con sommo disagio, a i non
i^ssere servite se h Tu sgorgasti valor; l'alta tua voce Quella valea di mille duci e mille. 'Sciogli doman le biancheggianli velCj;'
'Pt^lu^'^w Fratel d* Aganadeca; ella sovente Viene all'anima mia per lei
doglios /J^ Qual sole in sul merggio: io mi rammento. Quelle lagrime lue; vidi
il tuo pianto. Nelle sale di Starno, e la mia spada t^ Ti rispett mentr' io volgeala a tondo Rosseggiante
di sangue, e colmi avea Gli occhi di
pianto, e '1 cor rugga di sdegn^J > Che se pago non sei, scegli e combatti :
\x ' Quell'aringo d'onor, che i padri tuoi > Diero a Tremmor, l'avrai da me:
gioioso (; Vo' che tu parta, e rinomato e chiaro Siccome Sol che al tramontar
sfavilla, n regna in Inghilterra ne' cos detti routs 0 GRANDI CONVERSAZIONI.
Una signora sceglie una giornata in cui terr un rout. Ella spedisce
de'biglietti d'in-;.,.-^vto a pi centinaia di persone, non perch sono suoi
parenti, suoi amici, suoi conoscenti, ma per^, ch le ha vedute, e. perch la
loro presenza acqui ster credito alla
sua assemblea., .un vano Secreto genio femminil che gode > Di un
numero maggior, non sceglie i buoni, Ma tutti accoglie, e popolando il foco.
D'un incomodo stuol, cresce la turba. Minorando li piacer. Pria delle 11 ore
della sera (il clie si chiama il momento dell'alta marea )^ la casa brulica di
persone d'ogni rango e d'ogni sesso. Si pongono \ i tavolini da giuoco in tutti
gli angoli della casay e tanti in ciascuno quanti ifc pu contenere, la-,
sciando appena spazio bastante onde i giocatori possano passare o sedersi. Il
caff, il t, la limo* na circolano negli appartamenti. La confusione la vera essenza d'un rout. Una dama che tiene
queste assemblee non consulta la capacit delle sue sale, ma la lista delle
persone .. di buon tuono. Elia invita sempre pi persone di quel che possa
ricevere; ella si compiace degl'in* convenienti della stanchezza, del rumore,
del calore con tanta soddisfazione, con quanta un attore ' ascolta i gridi e il
fracasso degli spettatori che assistono ad una scenica rappresentazione
destinata a suo beneficio. Gli sbagli de' servi, la perdita di qualche
gioiello, le ripetute esclamazioni buon Diot come fa caldo! sono vicino a svenire!
riescono estremamente piacevoli alla padrona di casa. Non manca nulla alla sua
felicit s'ella viene a sapere \ che v'ha tumulto nella strada, che I servi
d'alcuni Pari si sono battuti^ che de' cocchi si sono spezzai j e che qualcuno
della compagnia stato derubato alla
porta ecc.; giacch tutti questi accidenti romoreggiando per la citt porteranno
il nome di madama da una estremit all'altra. Il giuoco il solo piacere che vi si trovi : delle
perdite considerabili procurano rinomanza ad un rut, e se un giovine erede vi
resta rovinato, la celebrit della casa
sicura per sempre. Talvolta si .danza nei rowte, e il ballo seguito da un^|;,gran cena; ma vi manca
sempre ci che fa la delizia della danza, la grazia e l'allegrezza. Il locale
destinato ad una conversazione semM '
pre difettoso quando i concorrenti, atteso la situazione de' canap, non possono
unirsi in linea ciri ^ colare, o stare a fronte gli uni degli altri. Allorch
restano seduti in linea retta da una sola banda, la conversazione si spezza, e
da generale diviene pa^^; tcolare., il che va soggetto a pi inconvenienti^ come
vede nel seguente paragrafar CONVERSAZIONE PARTICOLARE SOSTITUITA. v.'^T alla
CONVERSAZIONE GENERALE. LA CONVERSAZIONE
gehVat allorch ciascuno defili astant vi contribuisce come attore o
spettatore. LA CONVERSAZIONE particolare
quando gli astanti si dividono in pi crocchi, stranieri per cos dire, j gli uni
agli altrii bench riuniti nella stessa stanza. Supponiamo, a cagione d'esempio,
UNA CONVERSAZIONE DI DODICI PERSONE - facile cosa Io scorgere che se esse
restano unite in un solo crocchio '! ' conseguiranno maggior effetto con minore
sforzo; d quello che se in quattro si dividessero. Infatti nel caso per
intrattenere XII persone ne basta una; nel 2.o per intrattenere XII persone se
ne richieggono tre. !' Nel 1.^caso una celia fa ridere XII persone; I ^ ngl2.
s'arresta nel circolo di quattro. VAllorch LA CONVERSAZIONE generale, un'idea vera ma inesalta annunziata
da un'individuo, viene rettificata da un secondo, commentata da un terzo,
dimostrata da un quarto, ecc., sicch alla fine del discorso si ha per prodotto
una verit lampante. All'opposto separate in IV crocchi questi' contribuenti, e
vedrete che in vece di quella verit penduta comune a XII teste, restano in
ciascuna delle semi-idee, delle nozioni inconcIudenti, delle notizie qui
inesatte, l false, e dalle quali nulla si pu dedurre. Succede NELLA PRODUZIONE
DEL PIACERE NELLE CONVERSAZIONI ci che succede nella produzione delle ricchezze
nellagricoltura o nelle arti. PIETRO possed l'aratro. PAOLO i buoi, GIOVANNI
ra))llit t' arare. Se questi individui s'associano, ^ Taratura $\ leffetliia,
non si effettua se restano di: sgiunti. Allorch dunque qualcuno trae a se due o
tra / astanti, commette una specie di furto verso gli altri, poich li priva del
piacere che produrrebbero in essi le persone spiritose e gioviali ch'egli ' b
rapito. Egli stesso debb'essere riguardato come un disertore od un contribuente
morso. un fatto dimostrato dall'
esperienza, che le scosse sensibili s'accrescono comunicandosi, atteso la forza
sussidiaria che loro presta l'immaginazione degli astanti. Quindi una celia che
fa ridere quattro persone in un grado come quattro, ne fa ridere dodici in un
grado come cinque o sei.. Inoltre, se assistono XII persone al discorso del
parlante, con maggior cura ed attenzione egli svolger le sue idee di quello che
se assistessero quattro solamente. Allorch LA CONVERSAZIONE generale, un fatto qualunque, esposto da chi
parla, va ad agitare XII immaginazioni, nelle quali s trovano associate altri
fatti e diversi in ciascuna. Dunque si deve sperare maggior movimento NELLE
IDEE CHE ALIMENTANO LA CONVERSAZIONE e maggior variet. Se in vece di XII
persone (numero preso per ipotesi), gli astanti fossero di pi, i crocchi a
parte sarebbero meno condannevoli; giacch ammettendo gli accennati vantaggi
della CONVERSAZIONE GENERALE, bisogna anche ammettere che in molti la voglia di
parlare vivissima: e che questa meno
NELLA CONVERSAZIONE GENERALE resta soddisfatta che ne crocchi parziali. D'altra
parte, QUANDO LA CONVERSAZIONE troppo
numerosa, scema in alcuni l'allegrezza, perch scema la confidenza. cosa rara che LA CONVERSAZIONE resti
generale, i allorch in XII concorrenti si trova pi d' una donna; giacch
ciascuna diviene centro particolare, intorno al quale parte deglastanti
naturalmente si unisce. Ho detto cosa
rara, poich non certamente impossibile
che una speciale gentilezza nelle donne si sforzi di prevenire la divisione. V
% Z/parlare motti insieme^ ' V v ' ^ IMa lsto^^ idi tiite : ' ,'Vcr distordf e
gareggianti iiisime Pur, ua senso
accoppiar? Tutti ad un tn^o; VoglioB la
boea aprire' n^n^ i^/^ ^ "
Affastelfano insieme. Quanti argomenti. Ad ua sol puQtot AKri di cuCQe ed. tiri
failli ragiona: Qui i iMe;; L ^si contrasta^ e la quisti^ja si . cribra ' r-^
Con oikkt ttpljcre altertm ' v vf . r" ^ Di s e d no. Di trenta voci
acutaV/f -Stridule,, rauche, reboanti e gravi,; V DIssoiiaQti tra ior odi lin
eiifiise : . Frastuono ingrato di parole
e d'^rK, ' .1 fi. tumulto e di tiMa^^nde J T^ta *; Concava echeggia e
riinbombahd &sorda, L civile
modestia ed il, buon senso i^ v / y> Li ift'iifi ngolo stringono le labbta E
Storditi ai tarano gli wecchl . / f^iimando ii^Iti^fBirJdiio Jnsiemip i Yh9^wf'
d'M^ . gara per superarsi a yie(ida, .tpro^\irii^^^ 4'a8sor49tffe:^gli
^istanti^ > A > ? : * /. Ili alcuni SI uniscono tr _d[i|etti ', 1 . La
sfnania, di int^rrpmp^e glt alt^i^; jlk X'impazkiDza di seiitr Hitnrtii .m
stessi; ' a. La pretensione che gli alJLr uoa siano 4istratti> lontre es^i
li aiuioiaii. Alloreb iiHrfli parlano insieme . ' L Si . stancano i
iK>liuoni f gli iBSofi^ d0' par-! istori'}'- V. \ ^ V t'O'V. \ I &i
annoiano gii astanti con un fraatiMno in* intelligibile; Si costretti a ripetere pi volte la stessa cosa;
Si afferrano male le idee altrui. Si oonsuma tempo e fasica a combattere delie
eliimre. Siccome poi si parla per piacere o istruire, non j)er fajr pompa, 4i
cognizioni quindi allorch Taltrui impazienza ci interrompe, miglior consiglio lasciarle libero il campo,
e tacere, di quello che battere inutilmente gli orecchi di chi non vuole
ascoltarci CO* Limp^iua e la vivacit che domDano mi carattere della Jiazlone
francese r assoggettan al difetU accenaU: mi testo. Cornino^, riportaiado B Trattato
di VERCELLI Vsegnato ft 40 oUobi^ 4495 tra Carlo VILI e gli Ualiani, osserva
come un tratto caratteristico dello spirito francese la suania di paelare, per.
cui molte (rsone parlando insieme ed alzando a vicenda la voce ^ nesana realmen^ inte^. AH* opposto, egli aggiunge,
deglitaliani nessuno parlava, 'ftiorh il duca Lodovico, il quale perci dice ai
francesi : Gii I ad uno ad uno. le memorie dell* Accademia francese hanno
conservato per IradlikHQ no moUirdI If^ miran, R quale,/oireso: pi d'ogni aHeo
dell'aeeennato difetto, disse un giorno seriamente a' suoi confratelli:
Signori, io vi propongo di decretare che non parleranno qui pi di quattro
persone Insieme forse cos riusciremo ad intenderci 1 ! Un francese diceva a
numel, vescovo di SaUsboiy/ oMe il fesi eei^Uisini eea stola cosa' molto
mertosia per cjH'Imglfeaf)^ non potendo essi die difficilmente rinunziare ad un
pezxo di manzo. Al che iiurnet mpo.se : Non
men. meritoria per voi altfi francesi, atteso la legge del silenzio. y
.i^co L.Allegrezza clamorosa. Un grado moderato di sale rende l vivande gradite
a tutti! palati : i gradi' maggiori, 1 quali non riescono piacevoli che a
poeliissimi, estinguono Tappetito negli altri* L'allegrezza moderata nelle
conversazioni passa facilmente d' animo In animo ed accolta con lieta fronte da tutti.
L'allegrezza clamorosa si comunica a pochi, e spesso muore sul labbro di chi
Tolle eccitarla* Del quale fenomeno tre sono le cagioni. 1 . I caratteri freddi
non essendo suscettivi d'aU legrezza clamorosa, s'armano contro di essa e le
oppongono la reazione deirindifferenza. ' L allegrezza clamorosa dipendendo/ da
un ino4o particolare d vedere le cose, alquanto strano, 6 spesso* da ^ccolezza
di spirito, i ^'arett^ ragio* nevoli e sensati non possono approvarla.
L'jiUegrezza moderata pi facilmente che la clamorosa si coniiunica agli
^stariti, perch dista meno dallo stato abituale degli spiriti. Qualunque sieaa
te dause deli' accennale fono* meno, egli
fuori di dtfbbio che se V allegrezza moderata fopienta ta CONVERSAZIONE,
l'allegrezza clamorosa tnde ad estinguerla, e la cosa non pu ^essere
altrimenti; infatti, U Durairte lo scoppio dfille risa smodate ma potendosi
comunicare agli animi i moti d' un aU legrezza piti mite, tutti quelli che non.
parteoi|iane aHe prime, si veggono 'ditfraudaft de' secondi; quindi mentre
alcuni ridono a piena gof, restano gli altri atteggiati a sprezzo o
sbadigliano; essi provano quell'ingrata sensazione che prova chi attento al
dolce suono dell'arpa viene im;rovvisainente assordato dal rumore delle
campane. Dopo lo scoppio di risa smodate succede una seriet agghiacciata, come
dopo un fuoco d'artifizio ci sembra loscurit pi profonda. Un'allegrezza
clamorosa ci balza improvvisamente fuori di strada, e, per cos dire, sopra
un'eminenza, ove non sappiamo d' onde siamo venuti, n dove dobbiamo andare; da
ci poi la seriet, il silenzio, qualche esclamazione, e la difficolt di
riprendere il filo di ameni discorsi. L' allegrezza clamorosa non comunicandosi
agii altri, ed assai pochi essendo capaci di rianimarla, quegli che la eccita
si trova nella necessit di farne tutta la spesa; quindi se vuole restare sulla
scena costretto a rappresentare il
personaggio del, buffone. L' allegrezza moderata, figlia d' una buona
coscienza, animata da un' immaginazione ridente, trova facilmente motivi
d'innocente trastullo e dignitoso sorriso nelle scene morali esposte.
L'allegrezza clamorosa, figlia talvolta dello stravizzo, talvolta d'un
immaginazione irregolare, per lo pi d'una sensibilit ottusa e piccolezza di
spirito, quasi sempre accompagnata dalla sgarbatezza, trova pascolo nella goffa
derisione degli astanti o degli assenti, e nella rappresentazione d'atti
sguaiati, plebei, vHlan. Loquacit eccessiva. LA CONVERSAZIONE COME UNAZIENDA COMMERCIALE; ciascuno dee prvi
il suo caratlo e ciascuno partecipare al prodotto. Luomo che tace sempre IN UNA
CONVERSAZIONE uomo che vuole essere a
parte del prodotto senza essere carattista. Luomo che parla sempre un jearattista che vuole tutti i prodotti
dellazienda. In generale NELLE CONVERSAZIONI ciascuno ama meglio spacciare la
propria mercanzia di quello che acquistare l altrui; e, in vece di formarsi
giusta idea deglaltri, aspira a darla di s stesso. Agitati dalla smania di
parlare, non pochi bramano di comparire sempre alla tribuna, senza volerne mai
discendere. Quindi vi tengono discorso su di tutto, d' un libro nuovo dopo la.
lettura di quattro cinque pagine a
salti, duna nuova macchina dopo d'averne veduto un pezzo, dun quadro dopo
d'averne ammirata l cornice ccCm e decidono e sentenziano senza interruzione,
simili al giudice d'Aristofane, che, chiuso in casa dai parenti vuole almeno
dar sentenza tra due cani. GOZZI fa il seguente carattere dell'imperlerrito
parlatore. SIgpor jS. N. y a penai la algaoria; vostra ente un cct stailo, un
luteo, o un ebfeo a oomlnclaM uara^hmar
mento, eh' ella si scaglia ^ e glielo rompe a mezzo col dire. La
non cos. Io so l' ordine delle cose, e
ve la D iUc lo; e dlie dlie dlie, non la finite pi, tornando Gir
irteoiiTenienti a coi va incontro uu uomo che parla troppo, sono i seguenti:
molte volle da capo, con molle cosette di mezzo, clje sono uno sfinimento, come
sono, per esempio, que'vostri colori
r^ttorici : E dov' era io oca? Ah s. E toeno due passi indietro: e la fu
da rdere, e verbi^eazlai ecceleira, tanto ohe mm lasciate pi tirare il fiato a
poveri drcaslanti. Cos quando avele assassinali e ammazzati primi a uno a uno, eccovi a volar via di l in
qualche cerchio d'amici -o di patenti, clie cagionana de'fatU lorO| e piombate
sopra que povereUi come un uccello di rapina, sbaragUandogli e facendogli andare qua e col per paura della
furia vostra. M' ha dello un certo maestro, che qualche volta andate al suo
collegio, e che, appena entratovi, stornate i discepoli n dallo studio, e i
maestri dall' insegnare, parlando di dot*
tftoe, di scienze-, d'armeggiare, di salire U cavallo, e di tutto quell
che volete e potete, si che nessuno si pu salvare dalla furia vostra. Se un
pover uomo prende U cenza da voi per andare a casa sua, e voi subito
volete accompagnarlo per forza come se
foste lombra di lui, petseguitandoto fino In sali' nsco e sulle scale, e
nette stante ancoia. Se per caso si
narra qualche novella per la citt;i, voi
slte come, ma rondine, ora qua, ora col a
dirla e ridirla a tulli quanti. N giova punto eh' altri vi iaficsL intendere che la sa: perche voi
volete cominciarla a dispetto di ttUU,
aggMtigendevi anche Im proemio. Parli late di predicatori, dlmiinoranenli, di
battaglie, del vostro servo, e delle
fmestre di casa vostra con tanfo tedio di chi
v'ascolta, che, appena avele favellato, Tuno si dimentica tutto, Taibro sbadiglia sonniferando, e c'
chi vi pianta l nel meo Aet
ragionamehto. Siccli se vi trovato con uno
ch*ahliis '4a sedere .a un magistnito, a una predica, a mensa, a una commedia, siete cagione che
slede mezz'ora A dopo il bisogno alla sua faccenda. E credo che piuttosto vi contentereste di morire, che di non
superare il cicalat' mento delle gasze, de' pi^papHii delle rondini, e di
quanto Egli affatica i suoi polmoni.
spesso costrtto a ripetere^ le stesse cose il che cagiona noia agli
altri e svela i limiti del suo pirUo S'espone a dire degli spropositi vc^ndo
parlare di cose che non gli sono familiari^, e dimostra di non saperne alenna,
giacch quelli che sisinno una cosa bene si astengono dal parlare di quelle che
ignorano. Offende quelli che vorrebbero parlare in vece di lui (2>; bestie Gidiio, schiamaizo. Oh |^ puie un eraii peccato a non aver (ante gole quante canne hd
l'organo, da poter cavar fuori le parole da tutte 1 Basta cbe siete i^unto a Il
tale, che non v Imporla pi che ciascheduno si fugga da vqL cpme da un can guasto, e cbe fino i
fanciulli di casa vostra si ridano di
voi: petcliquando la sera il snno comincia ad aggravarli, vi pregano a contar
lo;o qualche i) cosa per dormire pi presto. Saggio e cauto ad un tempo j e
spesse. voHe Timido un poco, lentanijenle sffgno . D di stia decisloa uom che
ben vede, E in brevi detti ognor spiegarsi agogna^ Clii ragiona a proposito, di
rado, S'allarga ragioiUMiKlo ma la folle . SupecUa ) che a scloe&bezza si
cong^mge Si diffonde In loquela ^ e s^gue solo, I. suoi fantasmi ^ e a s paria
e risponde. E alcuni altri tanta ingordigia hanno di parlare, che non lascian
dire altrui. E come noi veggiamo taUolki su
per r aie de contadini X un pollo torre la spLca di becco % atf allvo;
^^osl cavano costoro i EagtonaoieiiU di bocca a colui. che li cominci, e dicono
essi. E sicuramente che eglino fanno venir voglia altrui d'azzuffarsi con esso
loro. Rende glaltri pi severi nel giudicarlo. Impedire la diffusione di idee
migliori delle sue; ? Svela talvolta, per procurare alimento al dscorso, ^11
altrui segreti. Quindi si mostra indegno e si "pfw deirallrui confidenza.
Dimentica spesso la convenienza, non ha riguardo al caratterie delle persone
con cui i^rla, al luogo In cui si trova alla situazione degli animi. Per
concentrare in s vimmargiormente gli altrui sguardi, balza in piedi, molti
gesti facendo colle mani e col capo; e se qualcuno ardisce non di torre in
dubbio la di lui infallibiUt, che verar mente la sarebbe un'impertinenza senzjj
pari, nia perciocch e tu guardi bene, ninna cosa muove Y uomo piuttosto ad ira,
die quando d' improvviso gli guasta la
sua. voglia e il suo piacere, eziandio minimo; siccome (|umd0 i^ avrai aperto la bocca per
isbadii^re, e alcuno !>' t la Cura con' mano, quando tu liai alzato il braccio per trarre fa pietra, e egli l' sliitamente tenut da colui, che V di dietro. Ecco l'origine del pedanlimo:
quegli pedante che, s(M*gendo io .piedi
ed alzando una voce magnale e dura detta
le sue opinioni e pronuncia l& sue sentenze eoi tuono che adopera il
maestro di scuola co' suoi scolari. Pedantfimo si dice anche rus troppo
frequente e inopportune delle cognizioni tecniche pella conversazione
ordiiiarte, e lapresunzione ebe ravvisa in esse importanza eccednte ; quindi i
seni-dtll Geminano ^ppertutlo H lor6 .falso sapere, allegano Platone e S.
Tommteo in eosii ebe ai accertarle bata Tasserzione d'un facchino. Pedantismo
finalmente s'appella un' eccessiva severit ed uu^ndefssa affettazione nella
scelta delie parole e delle frasL solo di fargli qualche obbiezione, esso gli
volta gentilmente le spalle sorridendo tra s dell'altrui dabbenaggine, o gli
risponde alla maniera della Pitia la quale furiosa mostravasi allorch non
sapeva come sottrarsi ad una dimanda importuna. Questi eterni parlatori, per lo
pi teste superficiali, e talvolta prive d senso comune, affettano di sapere ci
che non sanno, d'intendere ci che
superiore alle loro cognizioni, di possedere ci che loro realmente
manca. Si tratta egli d'una notizia? essi la sapevano; d'una scienza? Thanno
studiata; d'un fatto straordinario ? ne sono stati testimoni; d' un giuoco ? i'
hanno insegnato al loro nonno, ecc.: e per voglia di comparire istrutti,
allontanano da essi l'istruzione. Chi ha poco senno e dovra starsi ignoto, Vuol
far tutte le carte in compagnia : In
simile maniera un carro vuoto )' Fa il fracasso pi grande per la via . La
loquacit presuntuosa de' giovani una
conseguenza necessaria. Della vanit generale comune a tutti gluomini. Dell'educazione
particolare, supposta scientifica, e veramente insensata che ne primanni della
loro giovinezza ricevettero. Siccome ciascuno procura di mostrare ricchezza
collo sfoggio degli abiti, cos molti procurano di mostrare spirito collo
sfoggio delle cognizioni. Essi crederebbero d'aver perduto tempo e fatica se
aprisserola bocca senza aver detto qualche cosa spirit,.cT Volendo presentare
tratti ingegnosi e superare laltrui aspettazione^ fanno degli sforzi che
tormentano glastanti, e ad essi fruttano ridicolo. Presumer vanto di sagac,
arguto E senza aver punto di sale in zucca, Imprudente mostrarsi e linguacciuto
v. Rendere eunuco V intelletto e feconda limmaginazione tale era il problema
che si proponevano grinstitutori nello scorso secolo. Un sonettino, una
canzoncina, un po' di latino, uno sche-T* letro cronologico detto storia, un
elenco dei nomi delie citt e de fiumi, chiamato geografa, ecc., in somma parole
e poi parole, e non mai cose, *v,.^. stituivano il capitale intellettuale,
l'immenso fogliame senza frutti che i giovani compravano s caro prezzo.
Abituati ad accettare parole senza' conoscerne IL SIGNIFICATO nelle prime
scuole, accettarono parole IN FILOSOFIA senza corrispondenti idee. Si
pronunciando per es., le parole mistiche di KANT, redetterjo di essersi
innoltrati nella scienza dell'uomo; e cos dite di tanti altri sistemi cui la
sola maga delle parole e Tbitudine di ammetterle r'^ senza esame acquistarono
rinomanza. Quindi LE CONVERSAZIONI brulicarono di cianciarelli, che, essendo
verbosi, credevano d'essere eloquenti, e solleticando l'orecchio, di persuadere
si lusingarono e d' istruire. Ma fatai cosa eli' ch'ove pi abbond)a Un bel parlare, ivi la
specie umana Sia seccatrice almen quaut'
faconda ti dono di parlare con facilit e prontezza cosa pregevolissima, e. non pu essere
Irascui'alo doq da chi PITAGORA, per reprmere ne* giovani I ' eccessrv'^
loquacit, esige da' suoi discepoli un assoluto silenzio ne V primi anni delle
sue lezioni; il che era spingere le cose all' estremo opposto, e spezzare il
ramo per raddrizzarlo. Pi saggia Tao-tca cavalleria diceva a' suoi seguaci:
Siate semjore lultimo a parlare in mezzo agluomini che vi, superano in et e il
primo a battervi alla guerra. Non arrogarti dunque il diritto d'eterno
parlatore, ma Solo i tuoi detti nel
comun discorso Ifitreccia a tempo, e in
un civile e cauto Le tue parole e il tuo
silenzio alterna. Colui che- si finge dotato di cognizioni che non ha, perdi il
diritto dessere creduto neglaffari sociali. Volendo mostrare troppo spirito, si
resta caricati di TUTTO IL PESO DELLA CONVERSAZIONE, e si perd in affetto ci
che si acquista in ammirazione; gidoo ^ ignora che, per convncere l spirilo,
spesso forza sedurre le passioni che gli
fan siepe. Ma questo dono per se stesso ilion
sicuro indizio di profondo pensare. Parecchi buoni spiriti non riescono
a svolgere le loro idee fuorch col mezzo della meditazione; ed stato osservato che i filosofi non sono
quelli che brillano di pi ne' crocchi sociali. Ne' discorsi di ROUSSEAU neppur
lombra scorgevasi di quello stile che ne' suoi scritti si ammira. NICOLE, uno
de' primi scrittori del XVn secolo, stanca quelli che lascoltano. Perci egli
dice del sig. TREVILLE, U quale parla con facilit: Egli mi batte rulla camera :
ma egli non g^cora in fondo deHa^caa eh
io V ho confuso, t 4t&l ch, generalmente parlando, gli uomini non amanq '
quelli che li offuscano. > -^pm > ^Allorch non avete argomento
interessante da proporre, la civill vuole che vi astenate dal parlare, in vece
di mettere alla tortura l'altrui pazienza con puerili e non gradite
scempiaggini. Perci r abate S. PIERRE, il quale non discorre gran fatto NELLA
CONVERSAZIONE, non per sterilit n per disprezzo, ma per tema d'infastidire i
suoi ascoltanti, dice. Quando io scrivo, nissuno obbligato a leggermi. Ma quelli ch'io vorrei
costringere ad ascoltarmi si darebbero la pena d farne almeno le viste, ed io
la risparmio loro per quanto, posso. Inoltre chi vuol parlare di ci che non
intende, al quasi certo rischio si espone di guadagnarsi il titolo d'ignorante.
Quindi l'abate Choisj', il quale non era dotto, ma lontanissimo dal volerlo
comparire, scrivendo ad un suo amico sulle sue CONVERSAZIONI o sul suo silenzio
coi dotti missionarii che nella sua ambascera egli aveva ritrovati a Siam, si
esprime cos.ii^^ Io occupo un posto d' ascoltante nelle loro assemblee, e mi
servo sempre del vostro metodo : una gran modestia e nissun prurto di parlare.
Quando la palla mi viene naturalmente, e ch'io mi sento istrutto a fondo della
cosa di cui si tratta, allora mi lascio v forzare, e parlo piano, modesto
egualmente nei D sono della voce che nelle espressioni. Questo metodo fa un
effetto mirabile, e sovente, quando non apro bocca, si crede ch'io non voglia
parli lare, mentre la vera ragione del mio silenzio si un'ignoranza profonda chegli pur bene di nascondere agli occhi altrui.
tjttl^ ^ Da qiiesta modesta confessione, soggiunge d^A^^. lembert, si raccoglie
che l'abate Choisy non rassomiglia certi ciarlieri, i quali, presi dalla mana
di parlare di quanto ignorano, meriterebbero la risposta che un artista greco
fece nel suo laboratorio ai ridicoli sragionamenti d'un dilettante:,.
Guardatevi dal farvi sentire da' miei scolari. Infatti parlano costoro con
leggerezza tale, che spesso l'uomo pulito si astiene dal far loro un'obbiezione
per tema di vederli ammutolire. I chiacchieroni si fanno tacere col non dar
retta ai loro discorsi, come appunto un suonator di violino ferma i danzatori
cessando di sonare. Co?itimcazione dello stesso argomento. La loquacit eccessiva un difetto che i moralisti sogliono
rimproverare al bel sesso. Quindi essi dicono, che mostrare molto spirito colle
donne non il miglior mezzo per
conciliarsi, il loro animo. Una dama d'alto tono che si era; I, scelto per
amico un uomo di beli' aspetto e di molto spirito, gli disse un giorno che
poteva ritirarsi, perch ella non ama le persone che parlano troppo. . vFin dal
pergamo fu rimproverato alle donne ' l'accennato difetto : un predicatore
parlando avanti I UA consesso d monache nel giorno di Pasqua/ I diede loro ad
intendere che Cristo risuscitato coin ' parve alle donne prima che ai discpoli,
acci la nuova della sua risurrezione pi rapidamente si diffondesse. i 11
suddetto difetta potrebbe essere confermato dall'uso delle donne negre della
riviera. di Qs^m d j tot. le ^uaH essendo applio^tisshne ai labori; glioBO, a
fina ^'^fitace hi maldicdiusa 0 i diseoiti inutili, empirsi la bocca d'acqua
mentre lavorano.. La leqoacit dette, domiet seoondo che io ne giu die, a due
Ani d^lta fimportanzia* orridi^nde. L'uno si
che, essendo $$e. te prime educa-triei
faneiiilll') detona esiereltttfe te fero .tenere^ orecchie con un
cicaleccio continuo, e imprimere b ^ue'db^li cernili oiolte tracce ideali, che
senza,^ questo soccorso- diffleHmente Vi gioirebbero. ' .'1) seeogdq si, . che, essendo esse destipate a Mi^iEnfel^ra
aspra la vita airaomo,. dover* vano essere dotate d'una sensibilit squisita che
a lotti di lui affetti prontamente si
risentisse, e della facolt d' insiniVs^ gqrbo nqf di li allibo, i|jtrattenerlo
oaa sentimentale colloquio ed Heirtariit t pene: tton saprei ben dire se questo
sia il motivo per cui generalmente le donne superbie gli n^minLoella gra^^ia
della voce e del canto. GIOVENALE, come tanti altri poeti dopo di lui v ha
eensurato la loquacit deUe donne letterate ne', segufati^'veirn: . SI tosto, ^
' i> T'assidi a mensa, essa 1^ mensa in scuola^. EcQO ti cangia ^ d sentenze e.-npr|Be, / Loda il cantor d'Enea, s'intenerisce. Per la
pQv.era Elisa ^ i due poeti ' ' Mette al
paraggio; a ima bitaneia appende, In un,
gscio Maron, neir altro mero.
Orammatici, rettord, seolastiei .^ i> Ite a rfporvi : i convittor son
muti PiissuQ fisponde; e chi tentar latria . s ; D'arresUrue la foga? Un avvcatd, y B'altre
donne uno stuol; tal dalla bocca ^'1^pondendo che con monosillabi, lasciavi^no
scor^ '^gere un orgoglio offensivo.. Filippo re di Macedonia avendo scrtto agli
Spartani che avrebbe fatto i le sue vendette se entrava nel loro territorio,
que^ Bti aljro non risposero se non che Se. Gli stessi Spartani scrivevano
lettere molto laconiche, cio H impertinenti; ma dacch furono compiutamente. 'i.
i battuti a Leutre, cominciarono ad allungar loro frasi. Son io, diceva
Epaminopda, che ho inse^ guato loro questa civilt. La taccia d'inurbana data
alla tacilurnil dun^ '' que molto antica, e con ragione /
principalmente i quando son le persone adulte che tacciono; giacch se necessaria la riservatezza per non esporre
pensieri che poscia si vorrebbe invano rivocare, non fa d'upo spingerla al
punto da rendersi muto. Una persona taciturna nella conversazione una persona che vuole entrare in teatro senza
biglietto d'ingresso; una persona che
vuole godere senza contribuire. Una persona taciturna diviene incomoda per pi
ragioni. Ella arresta la comunicazione de'sentimenti, i quali sogliono
acquistar forza diffondendosi. Presenta l'idea d'un censore severo che semr br
accusare gli astanti di frivolezza. Eccita una diffldenza non favorevole alla
giovlalit. Una persona ch parla ci d, per cosi dire, la misura delle sue forze
: le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi gusti, i moli della sua fisonomia, \a
qualit de' suoi gesti la palesano al nostro sguardo : noi sappiamo come fa
d'uopo regolarsi con essa. All'opposto una persona che tace, inspira difUdenza,
perch si diffida di tutto ci che non si conosce. D'altra parte non si sa che
cosa 'possa piacerle o spiacerle: questa incertezza diviene un limite
illegittimo alla facolt d'agire e di parlare, quindi penosa. Finalmente, siccome nel i^commercio V
amor proprio d' un negoziante resta offeso allorch vede rigettate 1^ sue
cambiali, cosi nella conversazione spiace all' amor proprio degli astanti la
vista d'una persona che non corrisponde alla loro allegrezza, e ricusa d'
accomunarsi con essi; perci pi facilmente viene perdonata la frivolezza che la
taciturnit. La taciturnit pu essere prodotta da cinque cause. Mancanza d'idee o
stupidezza. In questo caso certamente miglior consiglio tacere qhe parlare;
giacch parlando si procurerebbe spregio a se stesso e noia agli altri. Le persone
taciturne che appartengono a questa classe sono tollerate "nelle
conversazioni come si tollerano nella societ '^1 bisognosi impotenti : la
pubblica beneficenza gli alimenta. Non potendo CONTRIBUIRE ALLA CONVERSAZIONE,
esse devono rappresentare il personaggio dlia scimmia, cio atteggiarsi a norma
de'seutimenti che si dimostrano dagli altri. Diffidenza eccessiva di se stesso.
Questa qualit si trova talvolta anche nelle persone di carattere amabile, e
proviene da mancanza d' educazione e di pratica: una debolezza che merita Indulgenza, almeno
sul principio, bench faccia torlo alla societ privandola di molte idee utili;
dico almeno sul principio, giacch un po' d'esperienza dandoci la misura delle
altrui forze e delle nostre, questa diffidenza deve sparire se non unita a stupidezza, ii Scarsa scienza molta vanit. Alcuni non osano di contraddire
perch non soffrono d'essere contraddetti; la loro pazienza non che un timido orgoglio; il loro silenzio un mezzo di sicurezza; essi tacciono per non
esporsi alla censura. /4. Stolto orgoglio. L'amor proprio raffinato e tronfio
sdegna di prendere parte alle frivolezze della CONVERSAZIONE, e di comunicare
agli altri i suoi pi che sublimi concetti. Si danno anche uditori disdegnosi
che, per non accordare leggermente la loro ammirazione, ricusano l'approvazione
pi meritata. Malizia. L'orgoglio va spesso unito a cattivo carattere; quindi il
silenzio non di rado effetto della
malizia. Ritornando dalla CONVERSAZIONE, in cui non proferirono una parola,
alcuni passano a rivista tutto ci che vi fu detto, con intenzione di censurare
i discorsi pi indifferenti; osservatori malevoli, il silenzio de quali uno spionaggio sempre pronto ad abusare del
vantaggio che le anime false e fredde sulla franchezza e la veracit agevolmente
ottengono. Fu dimandato a M.r Fontanes 9 celebre matematico, che cosa faceva
nelle CONVERSAZIONI ove slava sovente taciturno: Sto osservando^ diss'egli, la
vanit degli uomini per ferirla all'occasione. Bel mestiere per un filosofo!
Alcuni finalmente non sono taciturni nelle CONVERSAZIONI, ma misteriosi: essi
dicono alcune cose e poscia troncano il discorso con aria d'importanza e
mistero. Questa condotta doppiamente
censurabile; giacch da un lato eccita una curiosit che non resta soddisfatta,
dall'altro fa supporre che crede gli astanti inoapaci di silenzio o capaci di
tradimento. EGOISMO # r ir Se alla loquacit s' unisce legoismo, cio se parliamo
sempre di noi ste&i, denostri gusti, delle cose nostre, in somma di quanto
ci appar.tiene, siamo certi d'annoiari gli astanti oltre misura. difficile di ritrovare un viaggiatore che sia
sobrio nel racconto de'suoi viaggi; un cliente delle sue liti; un*galante delle
sue avventare ecc., . senza aspettare che l'analogia delle idee guidi il
discorso ove essi vogliono, taluni parlano della loro moglie che un'ottima creatura, de'loro figli cJiie hanno
sortita ndole divina, de' loro maestri che sono altrettanti Socrati, de'loro
affari che tutti vanno a maravigliai de' loro nemici che sono il fior de'
birbanti, ecc. : u Di s, de' suoi pernier de' sogni suoi Perpetuo citator, storia e giornale Invasi da questa mana si mostrano spesso i
gipvni poeti, perch lusipgandf^i facilmente d'avere composto sublimi versi,
vogliono recitarli anche ai sordi. inedtartoir acerbo In fuga volge e ignorante 1 dotto;
Se poi ne abbranchi alcunOf il ten, l'uccsMIe* 1 Leggendo ognor;
mignatta, che la cute Non. lascia pria
che ae rilK)cchi ii saague. La stoUem e la vanit giungono talvolta a segno^ che
non potendo far oggetto dell' altrui attenzione te nostre heUe qualit, le
presentiamo i nostri incomodi^ lenostre . debolezze 9 la nostra pusillanimit, e
talora que'raali che, essendo comuni, non meritano speciale riflesso. i' A che lai lezzi, Schizzinoso mortai, e con
qual dritto ' i> Pretender puoi d' esser tu solo esente ) Da la sorte comnn,
come se fossi r> Il figliuolin della gallina bianca, 1 Moi vili polli e di
vii uovo usciti ? Cresee r impertinenza,
se alla voglia di ptflmre sempre di s, si unisce la pretensione di superare in
tutto gli altri. A sentire qualche stolto, i suoi cavalli ilono pi veloci di
quelli d' Achille, i suoi jiervi pi avveduti di Ulisse, il suo cuoco pi sagace
d'Apicio, ecc. Il sole comprimi ed ultimi raggi saluta il suo palazzo; l'aria
non pura fuorch nelle sue campagne; in
nessun gianlino olezzano s soavemente i fiori come nel suo. Chi si move in una
danza con maggior > garbo di lui? Al paragone della beHesza non potrebbe
egli contendere il ponto alle tre Dee? ecc. Quindi ora pretende al sublime
onore di passare prima degli altri ; ora si lagna, perch non pieghi sino a
terra la fronte chi gli fa di cappello ecc. I suoi vanti giungono sempre alla
menzogna quando parla con persone che non lo conescono. ! a E sei miglia lontan
dal suo paese Tal faceva il signor,
barone o conte.Ch'ivi guardava i porci per le spese . f ^ Siccome gli uomini
vogliono pi applausi die istruzione, inclinano pi a censurare che ad
applaudire; perci comparir nelle conversazioni pi di s occupali che degli
altri, voler primeggiare sopra tutti, pretendere di singolarizzarsi a spese
altrui, il pi sicuro mezzo per rendersi
spregevole e ridicolo, /j/vj . La smania di rappresentare un personaggio
distinto nella conversazione e rendersi lo scopo di tutti gli sguardi, il difetto principale degli uomini di spirito
^ i quali perci amano meglio talvolta di conversare con persone di poca levata
cui possono dar legge coloro discorsi, di quello che ritrovarsi in crocchio
coloro simili, da cui temono di .riceverla; cio preferiscono d'essere re in una
cattiva compagnia, alPessere sudditi in una buona. Ma solamente una vanit
puerile pu compiacersi dell'omaggio di quelli ch'ella disprezza. Due donne di
primo rango ti movevano querela^ pretendendo runa suir altra il passo in una
chiesa y e assordavano colle loro dispute i tribunali. Carlo V, per impedire le
cabale .cui poteva dar luogo questa s seria contesa, stim a proposito di
farsene arbitro, e decise che 11 diritto d' andare avanU apparteneva alla pi
stolta delle contendenti. L'abate Testu, dice d'Alembeit, dominava
principalnieDte all' Hlel-Richelieu, ovo era l'oracolo e l'amico intimo ^iqitif
L'amore disordinato di noi stessi tnehdoci fissa avanti lo spirito V idea delle
nostre qualit, V ingrandisce snrisuratamente, come il sol eadente ingrandisce
l'ombra del nostro corpo e la fa comparir gigantesca. Pu essere citato sotto
questo articolo il difetto 4i coloro che la loro arte o professione innalzano '
sopra tutte, e vi mostrano i beni immensi di cui fonte; e vi provano con cento argomjenti, che
se sparissero tutte le altre, essa sola sosterrebbe la, societ cadente e le
darebbe lustro. Da ci nasce una serie indefinita di sgarbi, di>spregi, di
censure alle volte ingiuste, spesso false, sempre mpulit;e. Un buon prete cui
confessavasi Despraux, gU dimand Qual era la sua professione. Io sono poeta,
rispose il penitente. Cattivo mestiere, replic il prete : e poeta in qual
genere ? Poeta satirico. Amora peggio; e contro chifate voi delle satire?
Contro i compositori difxommedie e di romanzC '^^h ! per questo aggiunse il prete,
alla buon' orix; e gli diede fassoluzione immediatamente. In conseguenza
delPaccennata impulitissima pretensione Alcibiade diede uno schiaffo ad un
maestro di rettorica, perch non aveva un esemplare delle poesie d'Omero; ed un
altro adoratore di questo poeta fece voto di . della duchessa di quest nome,
^lceome egli non amava d'essere contraddello, ma molto di essere ammirato,
perci gli andava poco a sangue il commercio degli uomini, pi conlenlo di
brillare in un circolo di donne che talora col suo dir sorprendeva, talora
adescava, secondo che meno o pi gli piacevano., t leggere Ogni giorno mille
versi di esso a riparazione tarli gli venivano iattL \Irritabilit e ruvidezza.
Lo spirito stizMso ii flagello deH^^Nii^t'i
come il carattere dolc ne il
ba)san(M),.Iiiriitbilit rende deeuplo-'il.fientmjeiito.ctolAh supposta offesa:
e spesso ha fonte neir ntima p^sijasiooe di non meritare alcun riguardo. Quindi
le* peiisMe pi ^irtilei)Ui sm' per lo fii4e? teste pi piccole, pi vuote, pi
prive di qualit reati." Gcnvinte dqlla ..kro .BiiUft.> iMiinam amdenl
scopo dell'altrui spre^?o, e si confermano in questa idea ad j^oi/miaima
eerknoma che per ioavverf lnaa veng cdii ss traseurta.^ Uina parole eftig gita
in un momento di calprCi- di vivacit, d'lle^ grezza, viene da ^se esaotlnata
con tutto il rigor, non dico della logica, ma del puntiglio, staccata da quelle
circostanze che se non la giostifican pienain6iite e fragili 4, che il viv.ere
e dimorar con asdofo, ninna altra cosa ,
che impacciarsi fra tanti sottilissimi
vetri; cos temono essi ogni leggier '^ercosis, e cos conviene trattargli e
riguardar* gli : 1 qijali cos si
crucciano, se voi non foste 1* cos pronto ^ fioUeeto a sduladii a visitarli, a riverirli, ed a risponder loro, come un
altro*. farebbe d'un' ingiuria mortale; e se voi non dato loro cos ogni titolo appunto, le querele
aspris sime e le inimicizie mortali nascono di presente. l^oi mi diceste messere^ e non signore. E per
ch non mi dite voi S. ? Io chiamo pur
voi il signor^ tale. Ed anco non ebbi il mio luogo a tamia ! E ieri non vi degnaste
di venire per me a casa, come io venni a
trovar i^voi Valtr* ieri. Questi non sono mdi da tener con un mio pari. Costoro
veramente recano le persone^a tale, che
non chi, li possa patir di vedere, perciocch troppo amano se
medesimi fuor di misura; ed in ci
occupati, poco di spazio avanza loro di
poter amare altrui; senza che gli uomini
richieggono che nelle maniere di w coloro co' quali usano, sia quel piacere che
pu in cotale atto essere; ma il dimorare
con s > fatte persone fastidiose, l'amicizia delle quali s )^ leggiermente,
a guisa di sottilissimo velo, si w squarcia, non usare ma servire, e perci non solo norf
diletta, ma ella spiace sommamente.
Altri a nissuno mai fanno buon viso; e vo-~ lonlieri ad ogni cosa dicono di no; e hh prri
dono in grado n onore n carezze che loro sf >i faccia, a guisa di gente
straniera '^barbara; non sostengono d'essere visitati ed accompagnati;
e non si rallegrano de'motti n delle
piacevolezze; ^ tutte le profert
rifiutano. Messr tale m*im pose dinanzi ch'io vi salutassi per parte sua. Che
ho io a fare dei suoi saluti ? ^ E>l messer cotale mi dimand come voi
stavate.^ Fenga, e s mi cerchi il polso La naturale rozzezza dell' uomo, fa mancanza
d^educazione, una stolta vanit, la piccolezza di spirito, talvolta dei
risentimenti amari, talvolta Fimpossibilit di partecipare ai piaceri sociali,
bastano a spiegare in generale gli accennati difetti. Una causa speciale d'
irritabilit e ruvidezza si era per Taddietro uno stolto orgoglio di famiglia,
per cui alcuni, persuasi d'essere vasi d'oro, e credendo tutti gli altri di
fango, sfuggivano ogni contatto con essi, si mostravano alieni da ogni
confidenza, s'atteggiavano a sprezzo abituale come queir Omberto ALDOBRANDESCHI
a cui Dante ALIGHIERI fa dire, L'antico
sangue e l'opere leggiadre De'miei
maggior mi fro s arrogante, Cbe non
pensando alla comune madre, Ogni uomo
ebbi in dispetto tant*avante, ^ Cb' io ne morii
Finalmente vi una irritabilit e
una ruvidezza che figlia di timori
immaginarii. Un asino sta mangiando il suo fieno; voi gli passate a fianco
senza pensare a lui; egli si volge e vi mostra i denti, temendo cbe vogliate
rapirgli parte del suo pasto o tulio. In
questo stalo d'allarme si trovano non di rado alcuni, percb credono d'avere
sempre qualche nemico a fronte; quindi stanno continuamente sulle ditese,
pronti anche ad assalire chi non ha giammai pensato ad essi. Uno sguardo
incerto, una parola dubbia, un atto che non sanno spiegare, eccita tosto il
loro mal umore; quindi succedono degli sgarbi, parecchie amicizie cessano,
delle nimist sottentrano, e l' allegrezza dalla conversazione sparisce. Contro
i quali difetti . vatgpna i seguenti riflessi. La societ una piazza di commercia, ove 8i d amor per
amore .stima per stima, odio per odio,
sprezzo per sprezzo. Jn.qiesto camliia d'affetti ciascuno procura di non essere
ingannato, e rieiisa } dar pi di quel ctie riQeve. L'orgoglioso vorrebbe
violare queste due lef^i; egli d sprezzo, e vorrebbe ammirazione : egli d poco
o nulla, e vorrebbe motto; quindi s' irrita non rfeevendo !n proporzione delle
sue pretensioni; egli irragionevole come
colui che con pochi centesimi volesse eomprar delle gemme. Il tempo che perdete
in lagnarvi inutilmente, in prepararvi a difese, in mulinare contro chi non
pensa a voi, occupatelo a rendervi stimabile in qualche cosa, e coglierete
rispetto e contentezza > mentre attualmente cogliete sprezzo e
rammarico. ottima cosa la sensibilit
airopinione pubblica, perch stimolo alla
virt e ritegno ai vizi; ma pazzia il far
dipendere la propria felicit dairopinione eventuale di questo o di quello. Brami invan d'esentarti alle punture, Se ff d' A pelle infin Topre Immortali D'un ciabatti Q soggette alle censure.
Pretendere che la nostra condotta ottenga lapprovazione di tutti, nretendere che a tutti piacciano le stesse
vivande, i falsi giudi%i del volgo non tolgono pregio alle nostre azioni, come
le nubi non tolgono pregio alla hice del sole. Chiama in Roma pi gente alla sua
udlenea L'arpa d'aoa Ucisca
cantatrice^ Che la eampafia della
Sapienaa. Laseino omai> le dispute e
i litgi Il Portico e il Liceo, poich' et
MllM Pi di Talete un aarto di
Parigi. *i^ sono delle persone dalle
quali essere lo4a(p sarebbe infamia, e lo sprezzo delle quali segn 4| merito. $iate dunque sensibile air
opinione pubblica^ e sordo alle yoci .p^rtioolari cbe da es^ discordano^
ricercate l'approvazione delle per som assennata 2;iV^2^o5e,^e ridetevL4f)U
dpgli sciocchi e de'yiziosL *t Uq .vi^giatore, dice Boccalini, era importunato
dal rumore delle cicale; egli yolle ucciderle, e s allontan dalla strada; egli
doveva continuare quietatneate il suo viaggio, e le Qical^ sarebbero wprJje 4a
se 9|M8e alla fiue di otto giomL. I lE fo come il villan, che, posto in mez^ '
r i V Al romor delle stridule cicale,
Semai eurare H fimeo strido toro D Segue traa^uUamente il suo
lavoro. III. Se avete qualche difetto
fisico, siate il primo a riderne voi stesso; in questa maniera sfuggirete
airaltrui motteggio : facendo altrimenti, mostran* dovi tenera da questo lato,
ognuno si procurer il piacere di pungervi. Alfieri, costretto a portare la
parrucca nella $ua giovent, allorch trovavasi in collegio, divenne
iminediataBiente lo scherno di tutti i suoi compagni. Da prima, egli dice, io m'era messo a
pigliarne apertamente le parti; ma
vedendo poi ch'io non poteva a nisBua patto
salvar la parrucca mia da qaello sfrenato tor rente che da ogni parte assaltavala, e ch'io
ao dava i rischio di perdere anche con essa me
stesso, tosto mutai di bandiera, e presi il partito pi disinvolto, che era di sparruccarmi da
me prima che mi venisse fatto
quell'affronto, e di palleggiare io
stesso la mia infelice parrucca per D l'aria, facendone ogni titapero. E io
fatti, dopo alcuni giorni, sfogatasi
Tira pubblica in tal guisa, io rimasi
poi la meno perseguitata, e dirci quasi v a pi' risj[lttta parroeca fira le due
o tre altre cb^ ve n'erano in quella
stessa galleria. Allora imparai che
bisognava sempre parere di dare.
spontaneamente quello ebe non si potea impedire d'esserci tolto. ; >^ Benedetto XIV fece
di pi: un cattivo poeta aveva stampata una satira contro di lui: il
Pontc09%^jBsamin, la corresse, la . rimand air autore, accertandolo che cosi corretta
la venderebbe iV. (%esterfi0ld aggiunge:
IVon mostrate iriai il pi piccolo
segno di risentimento se non potete i in qualche maniera soddisfarlo: ma-
sorridete^ sempre quando non potete
punire. Non si po: trebbe viver nel
mondo se non si pocesserana^ scondere o
almeno dissimulare i giusti motivi di
risentimento che incontrano ogni giorno in un'attiva vita e affaccendata. Chi non^
padrone di se stesso in tali occasioni, dovrebbe
lasciare ilmondo e ritirarsi iu qualche romitaggio o de serto. Mostrando m inutile e cupo
risentimento^, LIMQ^EUO, autorizzate
quello di coloro che vi possono. of* 3 fendere, e oh/f voi olCeodigre aoa
potete} porgete 1 loro quel pretesto eoa cui forse desiderano di . Komperla cop
voi e d'iugiuriarvi, mentre un op pqsto coQtegBO li forzerebbe a star
ae'liiniti delia decenza almeno, e
sconcerterebbe o farebbe pa lese la loro otalfgoit V * J ^ii^' In somnia^ sodo
le deboli canne che si lasciano turbare da ogni soffio di vej^o, pentrj^ le
alte gttpr0e rslstoiK) agli aquiioni. Finch dunque si tratta d'ingiurie lievi,
la miglior^ risposta, si il sorxiso del
dispre^ui^o; ma Quando iti tratta d' ingiurie gravi ch offendano l'onorey chi
le soffre le merita; il risentimento in 'questi casK cosi jiusto come giusta^lsi legge che le punisce. ^^l \ i 10.
Curiosit degli affari altrui. > Non pu abbastanza censurarsi, perch
contraria alla confidenza e quindi. all'allegrezza, la smania di eeloro che
vogliono conoscere tutti gli affari altrui^ saperne le pi minute circostanze, e
dei nomi chieggono notzia a de' luoghi, e, per trarvi di bocca qualche cosa di
pi, pria fingono di non avere bea intesot poi vi dimandano schiarimento ad un
dubbiti^ orarvi piantano avanti un sospetto come in* fallibile, e, vedendo che
lo respingete, mostrano di ricieders passando al sospetto opposto, e dalla
nuova vostra negativa o maraviglia fatti accorti si ripiegano aopra se stessi
per ritornare airattacco; e 0 non gran pompa di tolleranza v' invitano ad aprir
V animo, o con improvvisa ed isolata interrrogazione vi sorprendono : e tenendo
gli occhi fissi sopra di voi, cercano di leggervi nel volto V impressione che
fanno i loro discorsi, la quale, pav - ragonata e unita alla vostra risposta,
serve loro di via per giungere al vero. Questa curiosit conduce -i ciarlieri, i
parabolani, gli invidiosi, i tristi per tutte le case, i palchi, i caff, onde
raccogliere e. raccontare i^.^^ > ' it ie vicende ascose: w Degli instabil
amor, le cagion lievi Dei frequenti disgusti, i varii casi Del d gi scorso, le gelose risse, Le
illanguidite e le nascenti fiamme Le forzate costaiize e le sofferte. Con mutua
pace infedelt segrete, Dolci argomenti
a feraminii bisbiglio. Questo prurito d'indagare le faccende altruf tanto pi attivo, quanto pi si manca di idee e
di sentimenti proprii; giacch il nostro animo volendo ^un continuo pascolo, se
non ne trova in se stesso . va per le altrui case a questuarne. v ^ Senbra che anco la vanit concorra a rendere
il pungolo della curiosit pi attivo. Si crede acqui" *i ' ir L'Imperatore
Claudio sarel)be morto di noia se noi) si fosse occupalo ad ascoltare tutte le
cause che si agitavano nel foro, ed a conoscere tutti i segreti, gli accidcnU,
le sventure,i piccoli odii, gli intrighi, i pelegolezzi delle famiglie. Gli
avvocati, cui era nota questa sua debolezza, lo prendevano alle volte per i
piedi e lo trattenevano in tribunale allorch egli voleva partirne. Le dimande
inopportune, le rispostestolte, i riflessi ridicoli di qlieslo preteso giudice
mei \ levano in tale evidenza la sua stupidezza, che un avvocato :,v.',.Starsi
qualche grado di gloria nel poter dire lo^lo io l'ho veduto : infatti gli
stolti e gli scioperati amniirano queste
notzie, e credono uom d'acuto e; perspicace ingegno colui che le spaccia;
mentre tutto : il suo ingegno si riduce a prestare le sue orecchie ai discorsi degli
altrui servi e nio;izi di stalla. >^ Siccome in tutte le classi sociali sta
la realt all'apparenza come la grossezza della rana alla grossezza del bue;
siccome ciascuno si sforza di coprire con color lusinghiero le proprie
debolezze, quindi il curioso che vuole spingere lo sguardo /sotto al velo delle
cose, offende sensibilmente l'altrui amor proprio, e tanto pi, quanto che da un
lato si temono maligni commenti, dall'altro si vede minacciata pubblicit alle
proprie miserie ed ai difetti, sapendosi da ciascuno che il curioso indiscreto e ciarliero. Sarebbe desiderabile
che i ^ curiosi venissero a scoprire nelle loro impulite ricerche ora un'azione
virtuosa che la modestia voleva sottrarre agli altrui sguardi, ora qualche
accidente che offendesse il loro amor proprio, come successe a Catone, il quale
stimolando Cesare a mostrare una littera che questi ricevette in pien senato, e
di cui faceva mistero, Catone, dissi, vide con sua sorpresa una lettera galante
scritta i"di pugno di sua sorella. Allorch s tratta di cose alcun poco
ragguardevoli, il curioso corre pericolo d'assicurarsi Tonoratissimo titolo di
spia. Gozzi dipinge nel modo seguente la comune curiosit de' faUi altrui e i
suoi ridicoli commenti. ( Sar uno nella sua slanza cheto, solitario; penser,
Franklin ci d un metodo, se non per liberarci dai curiosi, almeno per troncarne
Y importunit; 1 .v. Jegc;er, scriver, o
far qualche altra opera onorala : uscir
di casa, ander un poco inlorno a ricrearsi all'aria; saluter due o tre amici, perch pochi pi ne
avr voluti^ sapendo che di rado se ne
trova anche uno che sia vero: e appresso
rientrer come prima a fare i falli suoi. Che
uccellaccio questo ? diranno
alcuni : non possihile che ) un uomo sia
fallo a questo modo. Si comincia ad inter prelare ogni suo atto, ogni parola.
Sapete voi che ha voluto dire quando alz
le spalle ? quello che signific queir oc*, > chala? e quella parola tronca
ch'egli ha proferito? Sicch il pover uomo, senza punto avvedersene, ha dietro
il notaio e Io strologo, e chi nota, chi
indovina, chi fa commenU alla sua lingua, e a quante membra egli ha indosso.
Vo lete voi pi? Tanti sono i sospetU del
fallo suo, che egli avr fatto nell'
opinione d' alcuni quello che non ha fatto mai, o che non avr sognato di fare.
Le cose di questo mondo sono come una matassa di filo; chi non sa trovarne il
capo, la lasci stare, perch s' impiglier sempre
pi. A me pare che quando s' ode a raccontare qualche cosa d'uno, si dotesse prendere questa
matassa, metterla sull'arcolaio, come
fanno le femmine appunto del filo, scio
gliere con accortezza il primo nodo, e preso il bandolo in mano, cominciar a dipanare con diligenza, e,
secondo che si trovano gli intrighi e i viluppi, tentare se col candore
dell'animo e con la verit si possono sciogliere. Se non si H pu, buttisi via la
matassa, ma quasi sempre credo che s potrebbe da chi non corresse troppo in
furia, per vo^ H lont d'ingarbugliare piuttosto che di snodare. Questa u-^ r
ganza quasi comune. Bench la logica
insegni in qual forma s' abbia a fare
per venir in chiaro di certe faccende incredibili o inviluppate, pochi se ne
vagliono, e menasi il n basloie alla cieca, e suo danno a cui tocca. Quando
il capo
principalmente alteralo da sospetti o dal mal volere contro una persona, si pu dire che questa sia
una specie ivi 4Sfl umm tmM e . questo n^do cooste nel precisare il disMMio e
limitame H soggetto in nde^ da 'Weliidero quai^lunque eventuale dimanda.
Allorch questo filosofo ni 1 0 che dove prenderei sapendo quanto erano curiosi
^ kiterrogator gli Americani, usava dire alle persoAe cui dnrigevasi: 11
mionome .Franklm, staoH' patore di professione; io vengo da tale luogo, voglio
andare a tal altro: quale strada devo tenere? Dichiarando impulita l'eccessiva
curiosit, av-^ verto i giovani, che in molti casi la curiosit ; vin; perch
lindifferenza, la non curiinza linsensibilit sono la massima offesa per lamor
proprio x^he vuple occupare gU ititn ili S9 atpsso V ^ conservare le apparenze della modestia. La
pulitezza v' impioiie adunque dt chiedere frequenti aptfeief di mostrarvi
inquieto suH' . altra! aorte ^ d esternar piacere o dolore alle altrui foi tnne
o disgrazie. L'infelice, come stato
detto altrove ^\ sente alleviarsi il peso de' suoi mali allorch gli 4j^e^ al
suo simile; ma q^olte volte temendo d'imv ^tf^unaito, si pasce di cordoglio in
segreto, allora fa d'uopo che una tenera sensibilit gli faccia una dolce
vio^enzaf e "versi il balsamo della eon ^ solazione sulle piaghe del suo
animo: la curiosit de' superiori o degli amici in questi casi diviene imlesto
rugiada. Parimente, ccome II timore dV
equistarsi la taccia di vani, consiglia alcuni a ve* lara le loro fortune ed
onori : qindi la pulitezza^, y d'ubbriache/za, per la cui forzii l' uomo non
vede, n sa pi quello che si dica o faccia, e appena coiX)sce pi s medesimo 4Sr eome. attrai ai m ^ vgoto^ehe
iiigtaM il di* scorso da questa banda, ma con destrezza e tale eanfeaiaQsa di
parole, dm la congratulazione e l'elogio seovri 'adiilaamie si mostrino e di
men^ 20goa. V In oMkia > Ja cnriofiit
ripronslbile qomdo minaccia pubblicit alle altrui debolezze e imperf
zioni; lodevole quando tende . a dare
risalto al merito o porger aoeeors al bisogno. Burrasche delle CONVERSAZIONI i
o dispute. 'I glardiAf de'iilosofi d'Atene si estendevano dalla rive
deirillisso sino a quelle del Cefso. Gli Epicurei s erano stabiliti al centro,
i discepoli di Piatone vrso il Nord, e quelli d^Aristotite al Sud. Non si
videro giammai vicini men turbolenti n man gelosi: un sentiero d* ulivo ^ un
boscbetto di mirto, una siepe di rose separava i sistemi e serviva di limite al
regno dell'opinione. Le conver* sazioni non ono sempre ugualmente paciliche; la
diversit delle idee apre il campo a lotte rumorose accompagnato e seguite da
parecchi inconvenienti. Idea della personalit. Discutere allegare le ragioni e gli argomenti cui due
opposta opinioni si ' 0 sione degenera in disputa al momento che qualche
personalit vi si frammischia. Per personalit non si intndono qui quelle patenti
ingiurie che la buona compagnia interdice, ma quelle che, sebbene meno gravi,
non lasciana d'essere nel tempo stesso pungenti per Taltrui amor proprio, ed
estranee alla cosa. . Due specie di personalit sogliono per lo pi introdursi
nella discussione, e le fanno degenerare in disputa. > Colla 1.3 spede si fa rimprovero air
avversario ch'egli parla per motivi particolari, d'interesse per se stesso,
d'affezione pe'suoi amici o per la sua classe, d'odio contro i suoi nemici,
ecc. Voi
parlate cos perch siete militare; e voi negate perch siete prete, ecc. Ognun vede che queste non sono ragioni; e
quanto facile di farne uso ad uno,
altrettanto riesce spedito all'altro il ribatterle. Colla 2.3 specie s dice
all'avversario ch'egli non conosce la materia di cui si parla; ch'ella suppone
cognizioni superiori alle sue; eh* ella
estranea alla sua professione. Anche questo modo d'argomentare tende
bens a deprimere la persona dell'avversario, ma non scioglie i dubbi eh' egli
proipove. Inoltre, senza essere, per es., giureconsulto, non impossibile d'avere delle idee giuste e nuove
sulla giurisprudenza. Cause delle dispute. Si direbbe che gli uomini inciviliti
amano le dispute, come i selvaggi i combattimenti. Sono cause di dispute: I. //
desiderio di conservare la propria libert. In parit di circostanze ciascuno
preferisce all'ai'. litti^ Jaia 9iMm^ ppunto perah sm ^ jqumdi siamo tanto pi resti! ad
ammettere l'opinione altri, quanto
maggiore 13aria di epmaoido con om ei viene proposta, fiiif sottopond al
nostro giudizio un'idea sotto le forme del dubbio, riesce fi,feibiimt0 a
eonYtnemi. dr ^oello ^ ehi > senza produrre argomenti maggiori, nfH>stra
di vo* ler dogmatizzare e vietarci ogni obbiazioiie L'uoma ai geloso detta sua libert intellettuale,
eoitae la . della ua libert civile e politica. Dopo molti acutissimi argomenti
1 E molte riflessioni pellegrine E belle
cose dtte da^taienti S grandi, la
questione ebbe qul fir v '\l. Che
soglion tutte le quistioni avere v " Cio ^est ciiscun,4el, mo parere . IL
La vanU^^ee^ uaa apecie d'avvilimento^ tst sommettere la propria alF altrui
opinione, percK' lo crede segno 4'iaferiorit intellettuale. Il dispia-, cere d
questa supposta infricirit, sensibile in ttt^ cresce in ragione dell'alta idea
che ci formiam di noi stessi, e pu ( tant'
la. debolezza umana j ) . giungere al plinto da cagionare la morte, come
successe ad un filosofo dell'antichit detto Dodoro. Erano state fatte a questo
sedicente filosofo alcune, obbiezioni, alle quali egli non seppe rispondere :
lo sgraaiato .fu punto da s vivo malincuore e dispetto, perch il suo spilli to
lo aveva tradito, tm spir air istante.
si ver4 die la. vanit cavia di
dispute^ che il silenzio d'uno de' disputanti che resta nella propria opinifma
diviene offensivo;per Taitro. Il silenzio in questo caso sembra provare che si
ha s basso concetto dell'antagonista, che qualunque ragione non basterebbe per
convincerlo; quindi si risparmia la pena di parlare. Costui vede dunque che
mentre egli si sfiata, il nemico sorride, e lo lascia abbaiare come i cani alla
luna; e che quindi egli non ottiene lo scopo che si aveva proposto, cio la
superiorit sul suo avversario. La Mothe aveva detto male d'Omero; il poeta
Gacon pretese di vendicarlo; la Mothe non rispose]: roi non volete dunque
rispondere al mio Omero vendicato'? gli disse il poeta, f'^oi temete la mia
replicai Ebbene, voi non V evltet^ete; io pubblicher un libro che avr per
titolo : Risposta al silenzio di la Mothe. Lo spirito di contraddizione. Alcuni
par che non godano d'altro che d'essere molesti e fastidiosi a guisa di mosche, fanno professione di.. contraddire
dispettosamente ad ognuno senza riguardo.
Pria che tu parli, M Nega quel che vuoi dir, e se consenti . Pur d'aver torto, Non yero^ ei grida^^^" vuol ch'abbi raglotii"/-' E siccome
taluni si mostrano terribili nelle dispute per la forza e capacit de' polmoni,
perci sembra che lo spirito di contraddizione si debba primieramente a stolto
orgoglio attribuire, o sia indistinto bisogno di dominare. Lo fomenta
fors'anche una causa fisica non ben nota, chiamata temperamento, quella causa
per cui il can rosso dell' abate Casti neinilustre adunanza degli animali
parlanti. Di petto Instancabile e di voce
Ringhia; con tutti ognor brontola e sbuffa, Pronto con tutti ad attaccar baruffa. Le
inimiczie sogliono essere una delle primarie ragioni per cui si rigettano le
idee altrui; giacch all'odio sembrano vere e reali vittorie le mortificazioni
alla vanit dell'odiato. Secondo che racconta il Castiglioni, trovandosi due
nemici nel consiglio di Fiorenza, V uno di essi, il quale era di casa Altoviti,
dormiva; l'altro che gli sedeva vicino, e che era di casa Alamanni, per ridere;
toccandolo col cubito, lo risvegli e disse : Non odi tu ci che il tal dice ?
rispondi, ch i signori dimandano del tuo parere. Allor TAltoviti, tutto
sonnacchioso, e senza pensar altro, si lev in piedi e disse : Signori, io dico
tulio il contrario di quello che ha detto T Alamanni. Rispose rAlaiiianni: Oh!
10 non ho detto nulla. Subito disse rAllovit: Di quello che tu dirai ! ! i V. V
imperfezione inerente a qualunque cosa umana apre il campo a rinascenti
dispute. Questa imperfezione risulta : Dagli oggetti che hanno molti lati, e
de'quali ciascuno considera quello che pi gli piace; 2. Dalle persone che non
hanno gli stessi occhi, gli stessi interessi, gli stessi principi!, le stesse
cognizioni, gli slessi gusti. Petrarca parla iV un uomo, il gusto del quale era
si depravato, che non poteva tollerare il dolce canto degl'usil^nuoli, e
gongolava di piacere al crocidar delle rane. Dalie parole che non sono
abbastanza moltiplicate ne abbastanza particolari per essere sempre esatte ^ e
corrispondere ali^ varie modiGcazioni de' sentment!. Quindi tutto ci che si
dice e si scrive essendo SQfi^ettfvo. di variet indefiaila^ non deve recare
maraviglia se a costanti opposizioni va soggetto, ^1ra le eansa delle dApntei e
sotta questo arti* colli fa d'uopo ace^nramia monto di spiegm^ i futti prima
d'esserBi accertati della loro esistenza ^ e .per col si dispala con- taMd
maggioi* calwes quanto che ciascuno parla y ccilne si dice, in aria, e M batte
con strali di nebbia. Nel l>05 corse rumore elio essenilo caduU ideali ad qi
faiciailo df sette anni nella Slesia, gUe.tt era sorlo uno d'drd al poslo
d*tino de'ipollftri eadutt. HorsHus, professore di meileina mellf universit ^i
ffelmaMftd, sf rsse nella storia di questo dente, e pretese ch'egli era in
parte naturale, in parte niracoloso, e. che era stato spedito da Dio a questo
fanciullo^ a fine di consolare i Cristiani afflitti per le vittorie de'Turhi.
t^lguratvt quale consolazione poteva recare al cristiani tm dente d' oro, e
quale rapporto poteva unire un dente e i Turchi. Nello stesso anno, attnch
questo dente noB-manoasse di storici, RuUandtui ne diede una nuova storia con
VMOvI cijmiDelitIt SuaUnni dopo ^ IngloBlerns ^ altro, dpU^ tedesco, scdsse
contrq II sistema esposto da iWlandus^ W quale rispose cpn una pix)fonda
arcihelllssima replica, come ben
naturale di supporre. Un altro dotto d'eguale calibro raccolse tutta ci i^ha
era stato detto sopra questo dente maravtgliosOi e vi aggiunse i! suo parere* A
tante bHe per aitro non mancava se non che la cosa fosse vera, do he II dente
fosse d'oro. Onando un orefice Tebbe esaminato, risult che questo preleso dente
d'oro era umi Incmvementi delle disput/ L'imn araltya elle sopraece&nate
peirsonalit suole inacerbire gli animi nelle discute : Ordiiariamente ricorre
pi spesso aite personalit chi pi scarseggia di ragioni, 3. Nel calore delia
disputa ^li animi perdano di vista rargomento' primitivo^ 'e vanno divagando
fra idee accidentali Tuno all'oriente, Taltro all' occidente, questi in >Ic;
quello al bass ^ Dsicch dopo lungo alternare di s e di no, dopo un'ora di
tempesta, dopo d'ayere perduto la voce e i polmoni, i conteodeati pi cbe pria
trovansi lootn! dalla meta,, ]^fiMii0 di 4U08|ta dUpQsizione d^ loro che la
decisione della disputa temono contraria alle lor viste; quindi s'arrestano
sopra oa parola, contendono sopra una slhfifrtudine, scMainazzano sopra un'idea
accessoria ecc.; il perch .talvolta/a cdlwosa i^ntesa sopra circoif^s^nze ac' cideitali
potr smprirpi la dubbia, fede di lai uno da' coniendentL foglia d'oro
destramente applicata al dente ma s cominci A disputale e aompprre de'libn,
posd^ ^ consult l'oreiice. foMaeeademfeo A Seeliao, me^ibro d' altre accdeoUe,
in vm giOg^Mti |Mdb1kta ael 4821, j^ailmdb deUa pcovinda Lodigiana, dice che
ivi si fabbrica .iV- celebre formaggio deUo parmigiano; nel che ha ragione : ma
il bello si v che ag. SiWgB cbe questo ((nrmaggio si fabhi:ie^ col latte di
asina. Se quaala gcariaso M^ddoM>
oneduto, possiamo aspi^tacci uoa feoiioa di dissertazioni sui nostri
formaggi ffasipati Dal riscaldameato contro le ragioni si passa al
risealdtmeiiio Mnlro Je feraipei; e :i disputanti dimpslrano Negli occhi il
fuoco e sulle labbra il tosco In somma dalla disputa s pass^ alle ingiurie,
gentilissiiue ed edificanti ragipni degli eroi di Omero. Iqfatt^ Giove non
parla mal a .Giunon .senza dirle molti improperi!, e Giunone non risponde che
sullo stesso tonO. Dopo s npbiU esenipip figuratevi come dovevano parlare gli
Dei minori. In forza di questo riscaldamento, o in, mezzo a questa lotta di
vanit, ciascuno a'osti^ia nel pri (i) jF^ra i IraUi caratterisUci.degli awpcaU
iligiil, 1 an'impudeitt. Que ;.Mia gloria non ripongo in ostinarmi,, i . torre,
hai a fai*e con un greppo, e non ti riesce altro se non ch tu medesimo t' induri, e a poco a poco
senza *) avved s' appicca air altro, tanto sei tu ostinato e duro nella tua n
opinione, quanto egli nella sua, e non c' pi verso, che n l'uno n Taltro si creda d'avere il torto.
Nella camera de'comuni d'Inghilterra, chi discute r altrui mozione o risponde
ad un argomento, in vece di 'designarne l'autore col di lui nome individuale,
ricorre a qualcuna delle seguenti circonlocuzioni : l'onorevole membro alla mia
destra o sinistra, il gentiluomo dal cordone bleu, il nobile lord, il mio dotto
amico (parlando d'un avvocato)* ecc., ovvero semplicemente il preopinante. La
ragione di questa regola si che la specifi aOa libert delle opitueit schermo contro le ingiuste accuse. Nei
dibattimenti pplitieii com(9 HeUa^gju^rra^' ciascuna deve. asteneES da que'
mezzi che ragjionevoitnente non yorrcbe Msati opntro di s. ) ? 1 -Ma sQi^rirttutto poid'Memoata^^liegek
tepiiliMr^ alla prudenza. Infatti, voi credete che il vostrb a^jta^aui^
'apfiig^ al. torto^^ oi^. egli ummrk torse resto ad abbracciale l vostra
opinimie* s gliela presentate nella sua nudezza scortata sold dagli argofwoti
elM la dinioetiaadv Mealtn idee, o palpabilmente vere le vostre. La mAt 0
r^ppfovairtmi 'che 4wdrete sut nSMI'iBltM^'^ I me ii^KmM^ cAft ee^Hun^ Urist
faecia ces\ queista me:&2;o gi iicceooato di sopra. Chi ael e. Qqanlo forte
e psseote : e s dicendo, . ' v\ Prende capace coppa, e a lei con questa, ;
Presentandosi innanzi : Ah soflri, o, .madre n SommessameotJ^lgllando a^unse'^,
i $Qnrif iiie'yoH^^Impiinem^EHtftlei 9 N non vuole mtate-fiirta' in generosit.
Quindi glanimi si acquietano. Lo spiritoso Voiture ha punto e nareeiNto un cor
^hHoi quetf vt)lva omingerlo a battersi in duello. La partita non uguale, risponde il poeta. Siete grande io
soa piceola; \voi siete bravo ed io poltrone. Voi volete uccidermi? ebbene,
eccomi morto. gU dissirma il suo nemico facendM Quando i contndenti non la
finiscono, e kt disputa alquanto
loalorom y pnM dvf^ degli astanti d'interromperla con suoni, cantij giuochi^
soniniinistraziani di Jiqwri o ifn|li. V Al suon {piacevole. D'arpe
trniafitr, Mescete, o vergini, Mescete i canti Satira itran. t I. UtilH
della satira urbana. Condannando come inurbane le villanie e le ngiuriC) non
intendo di vietar Tusa savio ed op^ prttino deli' ironfa o idetta a^ttn eh
flUt^ pregiU'* tifiao tElujO volta
giunge a porre sul trono il vero, )ridendo . J'amor pri^Mifo, che non ahbaadana
uomini m aoQ qiiMd^,9m abtoodoiiwo la, vk; ii toi^ temere spra ogni altro male
la dersione, e scuote Jovb d dos89 .r uidolenza, e daUe^ i^j^ cai^ feUe gir
spoglia per non rimanere esposto ai frizzi del ridicolo^: i) che jpes^. non,
ottime la pii l^mpaoti^ Tri 6d ligguerrta >raginir./$e Aristo&iie avelie
dato agli Ateniensi In una concione quegli ani* ma^brameoti. etie died^.loro
.aeU^ cooiniedie, l'avrebbero lagnato a pezzi; laddove in teatro ridevano
smasc^llatamente e di^vaiio eh' egli, aveya vagioiie. Bi^ch i Geniti aTesaerc^
veduto CiaerOQe assalire Tedificio dellldolatra con armi prestategli dalla,
filosofia V. poro iiea. aapavafio lodimi .ad abbandonarnei tempii. Comparve in
mezzo d'essi Ladano, il ^uiQ fece la guerra al gentilesimi. doI .lotteggio, fi
se non ne distrMse gli altari, ne d^ sperse in gran parte gli adoratori. Il buon
senso ha {irseritte. la^ mz^ia cavallefescfae in fspagna, pria che nasces^
d^rvanfes;C m quella nazione non riusc a spogliarsene se non dopo ^'tgii abbe
precutato al ptibbli^, 11 suo ridico* Kssimo Dpn Chisciotte. Tanto , vro ci che
dice Orazio: fPnoa graVf sstenza ottieB
pi spesso II desiato Cne arguta celia .
Si deve adunque riguardare la satira come una apecia d'ammenda censoria che
aerve a corriere quei difetti i quali, senza cessare d'esser molesti e talora
4muk)s alla aociatb non triy^Qsijaei codici, St inosservati dalio stesso
colpevole seoza la caule mmo9lme della satira \ del an^tteg^; dello scherzo. Il suo pungolo viva e
leggiero, vibrato a tempo, pu divenire suppUmento alla le* i mtnvte azioiii'
altrui ^lU&ee severa inquisizione, A fiiie t itywf qualche aeGateBa^
e;.coii wA^ gni >ep]or. adoaibrarla:
Di tutti invidioso dice malQ Snisa rispetto, e pretendi^vii ardito '
. Piovra i costumi altrui far da fiscale
Quindi suUe cose, sulle folle ^ sui pregiudizi, sulle |ti*itensi(^ai d^lj'aiuor
proprio, ' sui vizi in generale evc H 'jmotteggit) pi spesso cadere che .non
suiruomo particolare, ccioecb alpri, vo^ndo eedtar iH .rteOi non apra una piaga
mortale mei4'altrui animo, e non s'esponga all^d^o delle per SOM emeste se la
/SMira d in ialso, . FqItio chet-. tenerlo non debbe chi spargendo false
maldicenze e ingiuste satire, dice d'averle intese da. Pietro a d9 Martino, io
un caff o in un'osteria, enones^ i^ne egli rinventore^ ' SenCilor W raceontar, fti un trombe]^ Preso
una volta da'nemici in campo r Mentre
stava sonando alla veletta: V \\ qiial, per ritrovar riparo o scampo/ Dicea che solamente egli sonava, Ma eoi stio
frro mai non tinse il campq. Gli fu rispo$to allor, ch'ei meritava Maggior iien^ pero; poich sonando^ > Alle
stragi, al. furor gli altri irrita. Dopo (Tavere stabilita la legge generale,
fa d' uqpo aggiungere le ecceziotU, le. qvali per lo piiij dall' e$am delle
ragini w cut fondMli l 4lessa legge^ risultano. y url^nit jno! coBdaQQa ne nel
convenar ab eiale n nella repubblica letteraria i modi satrici pi. 0 .iDeoo
.piccanti, ma veri, contro gi indk^i^, dui t^ seguenti casi e pe' seguenti
motivi: /, 1^ Rispingere m impertinente aggressore ^ jMtiasiiiio Oacier^
entuaiasta della eiMza ^digb' antichi, ascoltando un giorno una dama che non ne
parlava Qon troppo rispetto, e prioiHpdknj^qt del divino Platone, le .disse con
tatta la gentilezza degli eroi d'Omero: Certdment;^ madama non degnasi di
leggete dtro Srittere antic che Petronio (ciascun sa che Petronio rutore prediletta de' dissoluti^;
Perdojiate^, replic ellat f aspetto, per leggerlo \ che voi fie abbiate Jatto
un santo. Chi vorreje dare al {rizao di quella dama ia ttisoiii dimpulito? Un
principe volendo divertirsi a spese d' un suo cortigiano I eli' egli avm
impiegido ip divers amb^^ecie, lo Mendicar la ragione deglattentati duno stolto
o d'un impostore. SOCRATE adoprava LIRONIA
cf. Grice -- colle persone presuntuose, con que' pretesi dotti
universali che, non sapendo nulla, davano ad intendere al popolo di saper
tutto, e pronti mostravansi a rispondere sopra qualunque argomento. Luciano
smascher il celebre Peregrino, il quale profittando della dabbenaggine
popolare, e facendo false predizioni, aveva aperta una bottega d'impostura
nella Grecia e s'era arricchito a danno del senso comune e del pubblico
costume. Mendicare i diritti del giustOy delVonesty .della patria dagli
attentati demalvagi, per falsa opinione potenti o per forza' reale. Chi avrebbe
potuto condannare Cicerone, allorch metteva in evidenza i vizi di Catilina e i
suoi atr tentati cntro la Repubblica? Il giudice che espone un delinquente alla
berlina con un cartello sul . pettOj ove t\ leggono i suoi delitti, senza dubbio un maldicente; ma questa
maldicenza personale necessaria a scorno
del delitto ed a fine;di prevenirlo' rassomigliava ad un barbagianni. Io non,
so bene a obi mi ral^omlgli, rispose il cortigiano : tutto ci cb'io so si , che
ho avuto l'onore di rappresentare molte volte vostra maest. ' Anche nel eguente
madrigale il frizzo giustilcato dal
diritto di difesa: D'un ponte al passo
stretto. Stando sopra d'un carro Tommasetto y hicontrossl In due fraU
zoccolanti -, n Che disser : Villanaccio, Ur avanU. Ed egli: Aspetto che
passiate voi; ^ Non to' mettere 11 carro
innanzi t* buoi . a.. m f-Il pdjdrone che, interrogato sulle qualit d'un servo
licenziato, dietro la sua esperianza lo dchiara ladro, senza fallo un maldicente; rna que* sta
maldicenza o diffamazione utile,
giacche meno male che resti senza
padrone un ladro, di quello che vengano derubati pi innocenti. ChesterOeld non
distinse con precisione i con* fini che la satira, la derisione, la maldicenza
utile e necessaria separano dalla maldicenza inutile 0 ingiusta, nel. seguente
paragrafo. La privata maldicenza non deve giammai es*^ sere accolta e divulgata
volontariamente, perch sebbene la
diffamazione possa al presente ap pagar la malignit e Torgoglio de'nostri
cuori, i> pure la fredda riflessione trarr da s fatta inclinazione
conseguenze sfavorevolissime per noi. In
fatto di maldicenza, come di ruberia, chi la
raccoglie sempre creduto
colpevole quanto il ladro stesso . Distinguete la maldicenza che svela le
altrui innocue debolezze per sola voglia di denigrare, dalla maldicenza che
svela i vizj veri e i delitti reali che possono essere dannosi al prossimo. La
prima ingiusta e riprensibile, la
seconda utile e necessaria. L'uomo cui siete per affidare la direzione della
vostra cassa, un truffatore, xxn
giocatore, un dissoluto: mi farete voi rimprovero se ve ne avvertisco? Qualcuno
vi imputa dei vizi e dei delitti falsi: vi lagnerete voi di me, se gli strappo
dal volto la maschera, e Io dimostro bugiardo ed impostore? giunto in citt un cavaliere d'industria che
co' suoi ingegnosi stratta gemmi scrocca l'altrui denaro: vorrete voi che noR
ne dia avviso a' miei amici, acci la loro jomoaa fede, non cada in laccio? AU^
corte; sevo] amate il gregge, darete la caccia ai lupi; e se gli uoiiiiali.
accennerete loro i cani arrabbiati. Jieyole ^er V uso^ della satira. Tre sono
le fegole che debonsi osservare motteggiatore, acciocch il motteggio riesca
onesto e Jegittiibo, cio non offenda n la giusti^^ ij Yumanity n la
convenienza. Il motteggio ingiusto in
due modi: 1^ quando t>un^e (^ersne esent! dal vizio niputato;' 2^ qMando
cade su difetti che non possono ascri' versi a colpa, come le imperfezioni
fisiche ^ ovvero le sventure accidentali. Lumanit rimane offesa quando il
motteggio nialigno acerbo. D segno d
malignit chi mostrasi avido del male altrui y M si delizici^ e cn^piaep
neirinsuJtare e nel nuocerer^$id segno d'acerbit, qualora il motteggio sproporzionato alla jcolpat .e flagella a
sangue chi ^on merita che un lieve colpo di stafile (I)., (\\ V itoth' SoMe m
rattopprata .^iHn'^Mee delle sue maniere ^ dairameDi abituale de'suoi sguttdi,
dal tiorriso d bonlA sempre pronto a Dc^cere sui suoi labbri, di modo che
4'icoDia cessa d'essere aiuara, e diveniva, per oqs dite, ua agro-dolce eondile
dalle grazia. Cresce or ' t*inK>, or riiRro di ifustt due efemeiilt, secondo
cbe il difeif Tdie Socrate voleva correggere, era amb nodfO. Voltaire dice, che
volendo censurare Cornelio, imiterebbe iioid4> Il Quatoy nellA poomi^edl del
Uakiouuto pet ior^a y .i.Lo u Si Tola la convenienza, quando i motteggi di'
sconvengono al motteggiato o al motteggiatore Ha iveostanza di ioogo e* di
tmf^; qrwto sono sconci o villani, quando si scialacquano senza misara^ e : se
ne fa professione aperta perpetn
L'ingiustzia nel motteggiatore o
maliziosa o ' irriflessiva^ la prima nasce dal bisogno di umiliar PMtrtt
merito ptat inoftlnorsi sulle f^tie deli" ftb^* battuto rivale: la seconda
proviene da un errore d3iiteUetto originalo de rislielftesie di idee^ siste* mi
esclusivi, rigidezza d carattere, tenacit d'opnoni. Da quesi^a causa derida j^e
tal,Y9|ts^ l'aicer* Ut prodotta p*^ii spesso umor eausticei. etrabiUariqi^
JLi|i causticit sovente figlia 4/ bailaalata a' Sganardio'w non previo un
eoDipUmento rispeUoso, e colla protesta d'essere disperalo per essere caj[tr41o
di Cario. Questo inpdo.di^ceosarareiMja debb' esjsere escluso dai croccili.
sociaB , se ma cb0 in vece di porre in m&no al censore uh bastone j fa d*
uopo drgfr un fltigeR di jNMe. Jl}m^ li6)Ia imwnms^h satira appoggiate al falso
va mordendo lievemente i costumi degli assenU, non ta 99vero cepsore
aggrotterai tosto ki eiglia, u tomi icon mano ardita qoeat tenoe piiiBere alla
mediocrit che si consola della pr-! |lra batwzza sfoirmndosi4i4pcimi^V
J'alte^^^ nerito V ma a condiscendenza atteggiato pi che ad a88.ei) .ammirerai
lo spirito di ehi censura, e^ter^ modo dabbii mU'applicaaioQa. Sa poi U piacere
di satireggiale gua4dgi]ia gj[i 9Staim al puntp,,(^e 'aQi;ga qwlcha ;vt.-(:;-
Tewit et6lrti0 nr?atord^^ f'':: Motti protervi, onde a maligno riso V Mover la dorma e la virt schernire ti sar
permesso di. troncare em jdigail V altrui aiscorso, e assumere la difesa degli
assenti; ma, per non scemar fede alle tue parole ^ non devi mostrare
alterazione di spirito; giacch, altrinieriti operando, al piacere di
satireggiare si assoeier, nell'animo .del satrico il, piacere di conturbarti, e
gl} assenti verranno ad essere danneggiati dalla tua stessa apologia. L'
e^peri^jdza dimostra infatti che il calare della difesa rend, tahotta gli
assalitori pi feroci, e allora la conversazione rasso miglia i^ue'aiigrifizi
sbarbar ne' quali immola vansi ijjttime omaiie. ' Lascia dunque qualche
pascerlo .alla malignit, se vuoi ch'ella ti permetta un elo.go; MBt per prosare
la. itiocei^it del, 4iio ttlo,> allorch tu stesso produrrai in mezzo le
azioni di qualcuno, in cui siano difetti frammisti a vir^, userai la dstrzza di
quel pittore che, dovendo ritrarreAntigono guercio, lo pins^ di profile.
Facezie. Un discorso che inaspettotanieiile e contro JTapparanza caoibid il
rimpjTovero in. lode, it male. in .tiene, il lisGMHre iO; sqi^exanza, lo spmzo
iii istinni^ e talora anche ali'oppostcs si chiamai face za La facezia si
divide in due. specie; La l> ^ un hrY raceoitto che fa passare IV nimo tra
alcune d\Tenture, e dopo daverne alimentota la curiortt, ikiisce con iin
sentimento non preveduto. Dionigi il tiranno avendo sapulo che una sua coni-'
me^Ua^ dajui spedita. 4l: concorso in Atene, era^t^ta eorooata^ ne injpti
rlleg)nem. CiH Ateniesi dissesn cbe^ise *avflh aero preveduta' questa
tdaf^t^joti i vsu^hf^eio cronatQ.Dlou^ venti anni prima. in qiieslo caso la
iode copre un vero disprezzo, e mmtesta la Viziosa compiacenza ct^e dovevano
provare que' repubb|i^|AMr la moi>ti d'un tiranno tanto abbminato;
Sorge^^fftiBrmo piaqvolissitna sorpeesa nel vedere etie glateniesi potevano
liberar Siracusa onorando Dioniiii in Atenei Jjl. padre Le 'i'clier, che mentre
era confessurti di Luigi XV, tenne il protocollo debeneticii ecclesiastici,
dice ad uti abate: Yoi altri esitanti agli impieglil sile oost^ amfei' finch
aVet, bisoerio di noi; 'ma qiaida siete saziati^ ci dimenticate. Ah, non temete
nulla, rispose ridendo Tabate: io iK>n vi dimcoUciier giuiumai, giaccli
solip iosa^ In questo cio tt timore si cambia in speranza^ e nel -tempo slesso
i si pres^ta improvvisamenfe ni^ upa brama I
che con somma gelosia suol tenei:s nascosta., i, Eia un semplice detto pronto, rnaspetttoi
opportuno t un vivo ^^apidgiripo che vellica e' punge piaeevoimente. Con
maggiore chiarezza e precisione di ter^ Quni>giusta il suo costume, spiega
la cosa il dottissimo Gberardffil dksemkK. La giocondit delle lacezie par che
nasca ordinariamente da un ing^ gIMMt' ed iroproiovlM 'aecoppiftiBentcr W die
idee disparatCL tra loro e disconv^jiienti. l riso, semjira il prodotto 4i due
sensai&ioni uiike, sorpresa e piacere, eccitate da Jien elitra-, st 0 da
finissime analogie. L'impressione oagionata nel nostro animo da un oggetto
nuovo o inaspettato sidsiiania sorpfesia. La sorpresa maggiore quando T oggetto .coni0 la' eosa
raeectea' eonivira a/ qiiai^ suole
comuneipente succedere. Quindi la aorptesa.
massiin allorch massiio il
contrasto tra il fatto ^pcaditio .eJa-Hft: stifi.jaspettazione* Ci posto: jChie
el jtUo abbia: kmga la sorpresa^ di^
mostrato dai seguenti notissimi fatti: Ridono frt spe&so gli ignoranti che
gli o^-, mini cotti, poich primi nn
conosGndo i rapporti die uniscftpo, ie cas.e, 9, WAggiori sorprese
soggiacciono. 11 saggio appena sorride mentre lo sciocco t'abbandona a^ riso
sgangherato, ^acch il sagg^o . EIcmonti peesla ad uso delle scuole. trava
presto le idee intermedie che imisip>pi^jlor^ liuie' afeiluate. ddto se .col
fi^ kq^if^^^ successo e che sembra smentirlo. ^ r "> a' r^r? II riso
die ecdta .una facezia^ sentila la fush ma yoitai 'moltn pjore alte sead^a, e
posbin diviene millo, perdi le cose note fioii lasciano Ittoga^^liia ijorp. IL
Che a/ riso non basti una sorpresa q^it^*'^ limqu^f ma si riohicgga Vaggimla^i
sensaziaue piacevole, seop^ira rieattare -dat ft^^fuenti ietti: Noi ridiamo
ricordando le nostre passate fi^l^ Qv^j^m^ aUoiaOia annessa jd^a del
.disi^nore, perch questa Vicordanxa d risalta al sen^ limentOc:4^4.;POSti;a
#Utuaj|^e .saggezza e!, quasi dissi, le accresce piregio; t, evi^ rvjV/.
2. Noi ridiamo aH'udire le altrui
goffaggini; il,* cl\e fiorse d^riiui dairamor (HPQpriOr il qmlei gica-f, see
nello scoprire in altii de'difetti de'quali egU ait crede esente. Koi rdiamo
alle sveMure^dei ncNMvl^nemicti. allorch non sono s forti da interessare la
nostra compassione; poich le accennate sventure ad^ scano piacevolmente il
sentimento dell' inimicizia e della vendetta.,i^>>i -^^t^^fi
r/Ji^U\p>y'4,i ^j'^Mip^i 4. I beffardi ridono nello scliernre quest o
quello, giacch il loro orgoglio coglie tanti gradi di piacere, quanti gradi di
depressione ed avvilimento fa subire agli altri co'suoi motteggi. ^fi.p Noi ridiamo nello scoprire somiglianze
tra oggetti che credevamo non ne serbassero alcuna, come rdiamo in generale
sentendo ingegnosi tratti di spirito; perch il facile esercizio della nostra
intelligenza nel rapido passaggio da un' idea dtf un'altra, cui rapporti lontani non erano ben noti e
distinti, per se stesso piacevole,
com' piacevole un moderato passeggio, il
respirare aria nuova, la comparsa d' un lume neiroscurit e simili; 2.0 perch
quella cognizione diviene argomento della sagacit nostra^ la quale ha saputo
cogliere un elemento che, i:esto all'analisi, al comun guardo ascondevasi* V.
"4(^j*, III. j4cci la sorpresa e il piacere cagionino riso, vogliono
essere prodotti da lievi contrasti 0 da finissime analoge; ecco qualche
fatto: 1. Alla vista, per es. d'un bel
quadro, all'udire una bella musica, noi proviamo sorpresa e pia- cere, ma non
rdiamo; dite lo stesso allorch al' vostro occhio s presenta l'arcobaleno od
altro simile grandioso ed innocente fenomeno. "i.^ Vi cagioner sorpresa e
piacere senza farvi ridere la vista d'un animale selvaggio non mai veduto
prima, per es. la grossa scimia chiamata Qurang-outang. Ma se la scimia vi si
presenta con berretto da cardinale in testa, voi non potrete comprimere il
riso: v' qui un' contrasto. Osservate bene che non tutti i contrasti fanno
ridere^ ma solamente i contrasti lievi, e son quelli che escludono la
compassione e l'orrore. Se un uomo millantandosi di poter saltare un fosso vi
cade in mezzo come un animale, voi ridete sgangheratamente; ma se, cadendo si
rompe una gamba od altro, voi non ridete pi; qui il riso compresso dalla compassione. Dire con
Aristotile, che il riso prodotto da una
deformit senza dolore^ ristringere di
troppo, secondo che io ne giudico, il campo del ridicolo; poich spesso noi
ridiamo saporitamente senza che alcuna ombra di deformit al nostro spirito si
appresemi. Infatti ci fa ridere la scoperta di finissima analoga non prima
supposta, l'unione di qualit che sogliono essere disgiunte, la disgiunzione di
qualit che vanno ordinariamente unite insieme. TI rasllf^'lone raccoma come un
dottore vedendo uno che per giusti/.a era frustato intorno alla piazza, e
avendone compassione, perch 'I meschino, hench le spalle leramente gli
sanguinassero, andava cos lentamente, come se avesse passeggiato a piacere per
passar tempo, gli disse. Cammina, poveretto, ed esci presto di questo affanna
Allora il luion uomo, rivolto, guardandolo quasi per maraviglia, stette un poco
senza parlare, poi disse : Quando sarai frustato tu, anderai a modo tuo \ eh'
io adesso voglio andar al mio. Vediamo in questo caso disgiunte due quail che
sogliono essere unite; cio, sotto Fazione delle percosse, non scorgiamo n I
SEGNI DEL DOLORE [cfr. Grice frown], n
lo sforzo a liberarsene. Abbiamo dunque dun lato una forte sorpresa, dallaltro
Fonti 4ija0ezie Le numerose FONTI da cui s^possoikl tram et^cezie, vogliono
esser ridotte a cinque capi generali. Deformit logiche, deformit morali,
deformit fisiche; opposizione artifiziale tra lo stile Grice: THE HOW -- e il soggetto (Grice: THE
WHAT), e somigh'aoze e contrariet lontane o LATENTI (implicit Grice) ed miprovvisamente svelate. Sono
DEFORMITA LOGICHE le deviazioni dal retto raziocinare; e i gradi desse sono
sempre maggiori quanto pi peccano GRICE:
flout, INFRINGE] contra le regole del giusto raziocinio. L'rghpranza quindi
delle 1) pili facili combinazioni, la credulit soverchia, i> la
scimunitaggine sono FONTI sicurissimi dia'qiiali emerge quella deformit logica
che provoca il riso [man is a laughable animal
Grice on Aristotle] senza eccitare n rodjQ nla compassione. Quindi le
parole o prive di senso o storpiate, le interrogazioni, le risposte fuor di
proposito, e le incoerenze, la pertinacia negerrori evidenti, e quella
abitudine che i goffi hanno d dir sempre e credere le cose a rovescio dei logici
detr tand . un sospett di quel padeiit o
non gffrissC} il che fa tacere n denttinoto penoso della compassione o
ituscisae a deoilnare il dplre il che d luogo ad anudirazione scevra d'invdia.
Io non saprei come innesLire sulle azioni e sul discorso di quest'uomo Lidea
della deformit mentre vi veggo cbiarrsslmo un bel contrasto con quanto succede
comunemente. DUn esemplo di ^&r^giooaaieuto logico cagionato a ' bijina d^e
d'irgotglia s vede nel discorsa 'die ALFIERI (vedasi) mette in bocca al suo conte,
allorch costui viene a contrasto eoU'abate, futuro mae^a .de'suo] pgl^
sup'ofiiararto che gli vuol dare. Ora, venendo al sodo, .S. ^ Del salario
parliamo. V do tre scudi; Che tutti in casa far star bene io godo. Ma, signor,
le, par egli? a me TRE SCUDI? S Al cocchier ne da SEI. Che impertinenza? Mancan
forse i maestri anco a DU'scudi? Ch' ella in somma poi vostra scienza? '^r% Chi
siete^D somma voi, che al mi' cocchiere Veniat a contrastar la precedenza? l K
GU nato in casa, e d'un mi'cameriere: i
i Mentre tu sei di padre contadino, e lavorano i tucti r/altrui podere^ H
Compitar, senza intenderlo, il latino. Una zimarra, un mantello n tallare,
i rCn> coUaru^cia sudi-rcelestrino,
Vaglion irse a natura in voi cangiare r. Poche parle: io p^go^ereibeiiissimo: C
. u ' Se a lei non quadra ella padron
d'andare. Atteso una grata sorpresa sono parimente mate)ie di RISO (laughable
animal Grice on Aristotle) le imle^
intelligenze come allorch un discorso vien preso ih UN SENSO OPPOSTO cf. Grice, IRONY -- a quello che gli dato da chi. Jo pronunci; d'onde nasce una contrariet fra la
dimanda How is he getting on at his new
job at the bank, Im out of gas -- e la risposta
He hasnt been to prison yet, theres a garage round the corner --, ed una
sensibilissima divergenza. Per
es., Pietro dimanda a Paolo robbare a
Pietro per pagare a Paolo Dove va? Paolo
risponde jparfii pesci. ij,.i^L.o i.Appartengono a questa tasse t ISu'tle
contengono un certo inganno inaspettato, per cui nasce molestia ad alcuno senza
dolore per e senza grave incomodo. Per DEFORMITA MORALE intendesi quella che
NON E CONSONA ALLUSATA MANIERA CON CUI CONVERSANO GLUOMINI, ma s per che non
turbi o funesti lordine socievole, poich allora questa deformit anda congiunta
colla scelleratezza, e ingenererebbe ODIO
My lips are sealed --, NON RISO. Quindi fanno ridere lincongruenza
decaratteri, perci sembrano piacevolmente assurde alla Youre the cream in my coffee -- le
millanterijs in bocca d'un vile, e LE GRAVI SENTENZE SUL LABBRO DUNA MERETRICE
e simili. Tutti i caratteri e tutte lazioni che hanno l'aria di singolarit cio
che si scostano dalle ricevute costumanze; la discordanza tra i mezzi e il fine
(METIER) prpostosi Grice: conversation
as goal-directed rational discourse -- o le pretensioni maggiori delle forze.
Le passioni gagliarde svegliate da lievi cagioni; talvolta per es., resta
annullato un progetto di matrimonio, di commercio, od altra associazione, per
contesa sui titoli de'contraenti da inserirsi nella carta di CONTRATTO Grice: For a while, I was a
quasi-contractualist, and my pupils suffered my seminars as a result!--; e le
reciproche vanit rimbalzano come rimbalzano e retrocedono due palle elastiche
che, moventisi in opposte direzioni, vengono ad urtarsi in mezzo al bigliardo.
Allorch il cardinale Mazarino, ministro francese, e don Luigi di HarO) ministro
spagnuolo, convennero nellisola deFaggianI (in mezzo alla Bidassoa sul confine
dedue regni), per concertare tra laltre cose il matrimonio d'una S. Gli sforzi
per attribuire aglaltri la colpa, de nostri sbagli.r A scanso di ripetizioni
vedi il passagio. DEFORMITA FISICA si
quella che emerge dalle deformit visibili, corporee, naturali.
Vastissimo campo di ridicolo CYRANO
dALFANO -- si questo, poich infinite
sono laberrazioni che notarsi possono nel regno della natura, e nell'uom
principalmente, che per eccellenza detto
re della natura Grice,
natural/nonnatural -- medesima. Quante mai numerar si possono deformit corporali,
sia nei membri, sia nel portamento, tutte sono GIOCONDISSIMA FONTE DI
RIDICOLO cf. Trump --, perch le deformit
che prendonsi D per oggetto di scherzo non siano indecenti o col dolore
congiunte, poich allora non riso, ma ecciterebbero di leggieri odio O COMPASSIONE. Un uomo urbano per altro non
fa MAI oggetto di scherzo quelle fisiche deformit che non si possono attribuire
a colpa cf. Grice on Strawson on Freedom
and resentment --, come ho gi detto pi volte. Ito Linfante di Spagna, Maria
d'Auslda, con Luigi XIV re di Francia, sono tante le reciproche pretensioni,
sorgeno si gravi difficolt sul cerimoniale e letichetta, che trascoreno due
mesi prima che i ministri possono accordarsi. Un ingegnere mezzo ul)briaco e
barcollante prende a misurare un terreno, e commette: ercoli tali die glastanti
ne fanno le maraviglie. Il buon uomo in vece di rendere giustizia a s stesso,
se la prende col suo strumento, e dice balbetttUdo: Ehi ma il difetto nella mia pertica: ora ella lia otto piedi,
ora non ne ha quattroj e la getta sul fuoco. In questo esempio primeggia la
deformit logica sulla deforniif morale. Ceretti. .j^ xxl i^\.^r Jife ctoi^ v
ti. "'llr, il ridicolo nasce alle volte dal veder trattali con uno stile
lepido e scherzevole glargomenti gravi e severi, il che vellica piacevolmente
la malignit del cuore umano, il quale gode nel veder posti a livello glioggetti
eminenti coi pi comuiif, ed questo il
copioso fonte delle parodie. Talvolta all'incontro s'induce riso col ragionar
doggetti bassi e plebei in un tono grandioso ed elevato cf. Grice, The theory of context --, dal che
vengono essi a ricevere unaria comica e faceta, mentre sotto aspetto di lode
son fatti ridicoli, e LA CRITICA RIESCE TANTO PIU SALSA QUANTO PIU E
DISSIMULATA cf. Grice: Miss X. executed
a series of sounds that closely corresponded to the score of Home, Sweet Home.
--. Senza alcuna specie di discorso si pu eccitare ridicolo con una lode
apparente smentita dal fatto (A fine friend! +> a scoundrel Grice). Batru, che ha motivo di lagnarsi del
duca d'Epernon, fa un libro che ha per titolo, Le grandi imprese del duca
d'Epernon cf. H. P. Grice, Prejudices
and predilections; which, become, The life and opinions of H. P. Grice -- ma
tutti i fogli del libro sono bianchi. tt Debbono essere collocati sotto questo
titolo queCONCETTI DAMBIGUO SIGNIFICATO, onde pu trarsene una grave sentenza ed
una arguta fa) cezia. DAMN BY FAINT PRAISE
He has beautiful handwriting
Grice. Cos a dire d'un uomo liberale, che quello che ha non suo pu divenir salso ove si V torca a biasimo
d'un ladro: e salso riesce cf. Grice on
the philosophy tutor on Socratic midwifery: stranging error at birth -- per D
non dissimil ragione quel motto citato da Tullio CICERONE (vedasi), )i a proposito dun servo
infedele, lui essere il y> solo, per cui mdla vha in casa disuggellato e di
chiuso; il che a lode d'un servo LEALE po irebbe dirsi ugualmente. Se non che s
fatti >p scherzi vengono commendati pi per ingegnosi .?>> che per
festivi, essendo manifesto INDIZIO
DICTUM di Grice -- d'acuto ingegno il tor LA PAROLE IN ALTRA
SIGNIFICAZIONE DA QUELLA IN CHE SOGLIONO ESSER USATE Grice on Humpty Dumpty, Impenetrability.
Ordinariamente questi scherzi riescono insipidi, perch per lo pi dun lato
lasciano scorgere la voglia di scherzare e l'impotenza di riuscire. Dall'altro,
non producono effetto sensibile sull'animo per mancanza d'acume. Tra tutte la
maniere onde si perviene a movere RISO --- Grice on Aristotle: a laughable
animal --, piacevoli senza fine riescono, tanto il torcere contro d'altrui quel
frizzo che a farci ridicoli proferito, a
quel modo che CATULLO (vedasi), interrogato da Filippo perch abbaiasse. Perch
vedo il ladro, risponde; quanto dal concedere argutamente all'avversario ci
stesso con che ti morde, trarne appunto occasione di vituperarlo, siccome usa avvedutamente
L. CELIO (vedasi), al quale essendo da taluno di bassi natali rimproverato che
egli indegno desuoi maggiori: Aff,
ripiglia, che tu se' degno de' tuoi. In questi e simili casi il piacere risulta
da doppia fonte. Primo, dalla depressione d'un impertinente, aggressore, o sia
dalla cessazione d'un dolore; il che, quando succede rapidamente nelle cose
mo-.^ fall, equivale a piacere. Secondo, daglimprovvisi rapporti di somiglianza
tra la pro-posta e la ris-posta. Il ridicolo risultante dalla scoperta improvvisa
di somiglianze o contrariet non comuni, non si Luigi XV dice un giorno al conte
Eric di Sparre, che due volte
ambasciatore in Francia pel re di Svezia: SigfioF di Sparre, provo dispiacere
vivissimo in pensando che voi non siete della mia religione. Un giorno o lallro
io ander in cielo, e non vi trover. Perdonatemi, sire, risponde lambasciatore.
Il mio padrone mha ordinato di seguirvi dappertutto. , f pu assolatamaote
attribuis alia iiialigQil|iiMa, come si dovrebbe, se in queste indagini si
preip (fesse peK gttid la ^ola teoria dAsistotete il che multer meglio
dall'analisi del seguente fiattv. Un contadino, venuto a dolersi pon un podest
perch gli rubatali sto ino^ dopo
d'aerare; parlato della. Sfla povert e dellinganno fattgH dal ladro, per. fine
pj grave la perdita sua, dice. Messere, se voi aveste veduto il lio asioo^,
aiio0r, fiitt riconoscereste quanto io ho ragion di dolermi; ch quandi veva il
suo basto a^osiSiH f iHraa :f sopriam^iM^ *ii8^^i^hevci cagiona qiipste
4i8Cor^^ non n^sce dal vedere depresso TulHo a livello dellasino, ma DVoiedei^x
sorz;aur dosi d'ingrandirne lidea, scappa &ori improvTl^ ^saQiente con un
confronto nuovo, e si Insinga t^^r sowiigliaiwa.tra Basilio e TiilfiQ^r l
tttele cose vi sono certi limiti che non si ebboo oltrepassare, certe
condizioni alle qu^l jEa d'uopo sottomettersi -- largomento trascendentale
debole di H. P. Grice. Altrimenti facendo, si va lungi, dalla meta o METIER, GRICE -- cui si propone di
giungere, non si consegue lo scopo che si vagheggia (Dont bite more than you
can chew Grice). Lo ^opo cui miriamo, i
mezzi che possiamo porre m pera, servond a farci ricondscere quelle condizioni
e quelimiti. Le faczie x) celie che teodono a rendere festiva a brigata, s
possono considerare nella persona che le dice;. i.o Ifelia persona che m l'oggetto;r3. Migli auuiti eh, le aseetbp^i'
Persiona che^ celia . 1^*0 uomo geutila n ride n fa ridere aUa foggin de'pazzi^
degU seioeioliii id^IL iilriichif deglinetti, debuffoni, Fenelon non ischerza
come arlecchino: u Xmsm 4 M8to eaft stanno allinferno). Una vecchia contessa
assai ricca avendo sposato'un marchese malagiato, e nel contratto di
matrimonio. Le celie, allorch il soggetto lo comporta devono richiamare gli
spiriti alla morale. Non si deve cambiare il mezzo in fine (METIER GRICE), cio non conviene consecrare alle
celie quel tempo che dovuto alle cose pi
gravi. Da tale passione pe'combaltimenti di spirito o duelli di mot, leggi e di
celie sono invasi i normanni, che anche nellardore d'un assedio i nemici
sospendeno talvolta lostilit cf. Monty Python, THE HOY GRAIL -- per
abbandonarsi ad una guerra meno dannosa, guerra di motti, di redarguziom,
de'buffonerie. Allorch qualcuno dei due partiti, preso da questa vaghezza, si mostra all'altro
in abito bianco, il che riconosciuto ed
accettato come una sfida di celie. La qual cosa certamente non riprensibile in tempo di guerra, giacche non
distrugge citt guerra di lingue avendogli falla la donazione di luUi i suoi
beni, lemelle, dopo molte infedelt, che il marito volesse disfarsi di lei, e un
giorno sentendosi male, crede e dice d'essere avvelenata. Avvelenata?, risponde
il marchese alla presenza di pi persone. E chi accusate voi di questo delitto?
Voi, replica la dama. Ah, signori, nulla di pi falso, esclama il marito.
Sventralela subito, e toccherete con mano la calunnia. Qui l'acerbit e la
malignit vanno insieme. Si fa rimprovero ad una donna perch acconsente a
sposare un uomo che urta di fronte glusi e le mode del suo tempo, un orUjinale
in una parola. Ma la singolarit di quest'uomo non che un vizio dello spirilo, e nessuno ha
lanimo pi onesto di lui. Quindi la donna che lo conosce, risponde con finezza.
Lacconsento a sposarlo perch spero che sar buon marito per singolarit ed mee male dileggiarsi che iieoidev9; ma 6ao^
vafii di Salisbury rimprovera ai detti popoli quell'eccedente p^issiona aoebe
ia tempo di pace. Kantagqi che si possono trarre dalle /ae^ie. Bench le celie s
riducano a momentanei tratti di spirito^ i^e, ^imiU^alle sciatillc,
jcoin|^ariscooo -e eessano m un utante Don segue pero che di grandi eventi non
possano esser cagione. Infatti, alloich^ei tvatta di coscT mrali, gleffetti
dipendono dalla determinazione della volont. Ora a determinarle la volont i pi
frivoli MOTIVI (Grice/Baker) bastano, s quando mancano MOTIVI (Grice/Baker) pi
gravi, s quandi questi si trovano in opposizione come una seinplice dramma
basta per'&r traboccare la blaacta a mensa i il|Mi||0Q>Mm*vadaDdo ^mm di
perdono/ 'ifM tutto II piatto sopra tjll'liii||lah cabile re. Nouchlrevan, pi
sorpreso che sdegnalo, volle saperi la ragione di siffalta temerit. Prncipe,
gli disse i( paggio, io desidero die te laia morte non rechi niacclia. 1 alia
ofiiii Hplitazioiia; com ve de'moffiirehi, mavoi perdereste quello bel titolo
se l po slertfi sapesse che per lievissima colpa condannaste a morie ano
devostri sudditi; perci ho versalo tu Ito il piatto. Nouchirevan rientrato lo
se stesso vergogp della sua collera, e gli f(?ce grazia. Il Mareles dAndrea
tnristeva press Luvis ministro della guerra in Francia, onde ottenere una
carica^ il ministro die aveva ricevute parecchie lagnanze contro questo
officiale gliela ricusava. S io eoiniociassi a servire so. ben io ci ^he fael,
ri8|Mstf roffieii|le un po^ emmosso; fi che fareste vd ? gli disse fl mli^stro
con un tono risentila Regolerei s bene la mia coikloUa, replic l'officiale, che
non vi trovereste nulla da ridire. Il ministro sorpreso plaeevollafDte da
questa sposia, acl pcNlerl.-tin ii|le cl)e a fondo conosceva
qitelmQlantaiofe che sapea qaaiilk tasse
povero in riim; non potendo pi contnersi a lal iattanze, gii inosse sobi. Grice: Ferrariss Galateo was
so famous that, unlike Vico with his new science, a few philosophers cared to
consider seriously a nuovo Galateo. Antonio
De Ferraris, Antonio De Ferraris. Galateo. Ferraris. Keywords: conversazione,
il Galateo, il nuovo Galateo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H.
P. Grice, “Ferraris e Grice,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferraris:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della supercazzola –
scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Torino). Abstract. Grice:
“I cared for the sceptic for too long – and then I discovered pirotology!” The
fact that in the introduction of expressions for specific prehensions a demand
is imposed on a further theory to define functions mapping such pre-hensions on
to physical situations might well prove fatal to a sceptic about the material
world. How can such a sceptic, who is unsceptical about descriptions of
sense-experience, combine the demand implicit in such descriptions with a
refusal to assent to the existence of the physical situations which, it seems,
the further theory would require in order to be in a position to meet the
demand?Keywords: pirotology. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Torino, Piemonte. Grice: “Ferraris is what the in the Renaissance
used to be called a ‘Renaissance man.’ My favourite of his essays is “La svolta
testuale” – he is into Derrida and Yale, but I’m into Grice and Harvard, and I
still connect!” Si laurea a TORINO sotto VATTIMO (si
veda). Insegna a Macerata, Trieste, Torino al Laboratorio di Ontologia dal Centro Inter-Dipartimentale d’Ontologia.
Studiato a Torino. In ambito teorico, lega il suo nome al rilancio
dell'estetica come teoria della “sensibilità” a un'ontologia sociale intesa
come ontologia dei documenti (documentalità) e a un superamento del post-modernismo
attraverso la proposta di un nuovo realismo. Centro inter-universitario d’Ontologia
Teorica e Applicata. I primi interessi di F. si rivolgono alla filosofia
post-strutturalista (“Differenze”; “Tracce” e “La svolta testuale”). Specificamente
a Derrida, F. dedica: Postille a Derrida, Honoris causa a Derrida Introduzione
a Derrida, Il gusto del segreto e, infine, Derrida. Ritratto a memoria. Lavorando
invece a contatto con Gadamer, si rivolge all'ermeneutica, scrivendo: Aspetti
dell'ermeneutica, Ermeneutica di Proust, Nietzsche e la filosofia, e
soprattutto Storia dell'ermeneutica. F. sviluppa un'articolata critica alla
tradizione heideggeriana e gadameriana (si veda in particolare Cronistoria di
una svolta, postfazione alla conferenza di Heidegger La svolta), che fa valere,
in particolare, l'apporto del post-strutturalismo come contestazione del
retaggio romantico e idealistico che condiziona tale tradizione. La conclusione
di questo percorso critico sfocia nella riconsiderazione del rapporto tra lo
spirito e la lettera e in un ribaltamento della loro contrapposizione
tradizionale. Spesso i filosofi e gl’uomini comuni disprezzano la letterale
norme e i vincoli che sono istituiti attraverso documenti e iscrizioni di vario
genere anteponendole lo spirito il pensiero e la volontà e riconoscendo la
libera creatività del secondo rispetto alla prima. Per F. è la lettera a precedere
e fondare lo spirito. Abbandona il relativismo ermeneutico e la decostruzione
di Derrida per abbracciare una forma di oggettivismo realistico secondo cui l'oggettività
e realtà, considerate dall'ermeneutica radicale come principi di violenza e di
sopraffazione, sono di fatto e proprio in conseguenza della contrapposizione
tra spirito e lettera di cui si è dettola sola tutela nei confronti
dell'arbitrio. Questo principio, valido in ambito morale, ha nel riconoscimento
di una sfera di realtà indipendente dalle interpretazioni il suo fondamento
teorico. Il mondo esterno, riconosciuto come inemendabile, e il rapporto tra
schemi concettuali ed esperienza sensibile (l'estetica, riportata al suo
significato etimologico di “scienza della percezione sensibile”, acquisisce una
rilevanza primaria si vedano, in particolare, Analogon rationis, Estetica (con
altri autori), L'immaginazione, ed Estetica razionale sono temi dominant. Rilegge
Kant attraverso la fisica ingenua del percettologo triestino BOZZI (si veda) (Il
mondo esterno e Goodbye Kant! La “ontologia critica” ferrarisiana riconosce il
mondo della vita quotidiana come largamente impenetrabile rispetto agli schemi
concettuali. Il mancato riconoscimento di questo principio risale alla
confusione tra ontologia (la sfera dell'essere) ed epistemologia (la sfera del
sapere), di cui F. articola una tematizzazione critica fondata sulcarattere di
inemendabilità che è proprio dell'essere rispetto al sapere (si vedano in
particolare: Ontologia e Storia dell'ontologia.La sua riflessione sul
realismo sfocia nell'elaborazione del Manifesto del New Realism. L'esito
naturale dell'ontologia critica è il riconoscimento accanto al mondo
inemendabile di un dominio d’oggetti in cui la filosofia trascendentale
kantiana trova la sua adeguata applicazione: gl’oggetti sociali,
l’intersoggetivo (Dove sei? Ontologia del telefonino, Babbo Natale, Gesù adulto, Sans Papier, La
fidanzata automatic, Il tunnel delle multe. La tesi di fondo è che la
distinzione tra ontologia ed epistemologia, unita al riconoscimento dell'autonomia
ontologica dell’intersoggetivo, della sfera degli oggetti sociali (regolata
dalla legge costitutiva “oggetto = atto iscritto”), consente di correggere la
tesi derridiana secondo cui "nulla esiste al di fuori del testo"
(letteralmente, e a-semanticamente, “non c'è fuori testo”) per teorizzare che
“niente di sociale esiste fuori del testo”. Documentalità. Perché è necessario
lasciar tracce.In seguito la sua si
arricchisce di piccole ma significative metafisiche dei costumi artistici e
scritturalifin anche ultratecnologici con Piangere e ridere davvero e Filosofia
per dame, vere e proprie grammatologies, insomma, ma ri-viste, e robustamente
visionarie, oltre che re-visionate, come del resto tutti gli articoli di
intervento culturale (si cfr. esemplarmente quelli per Alfabeta e
Alfabeta). La svolta realista compiuta da partire dalla formulazione
dell'estetica non come filosofia dell'arte, ma come ontologia della percezione
e dell'esperienza sensibile trova un'ulteriore declinazione nel Manifesto del
nuovo realism. Il Nuovo realismo, i cui principi sono anticipati da Ferraris in
un articolo uscito su Repubblica l'8 agosto
e che avvia un imponente dibattito, è in primo luogo un consuntivo di
alcuni fenomeni storici, culturali, politici (l'analisi del postmoderno sino al
suo deteriorarsi in populismo mediatico). Da queste considerazioni consegue la
messa in chiaro degli esiti prodotti dalle derive del postmoderno nel pensiero
contemporaneo (l'interpretazione dei realismi filosofici e delle “teorie della
verità” che si sviluppano a partire dalla fine del secolo scorso come reazione
a una devianza del rapporto tra individuo e realtà). Da questo scaturisce la
proposta di un antidoto alla degenerazione dell'ideologia postmodernista, alla
prassi degradata e mendace della relazione con il mondo che questa ha indotto.Il
Nuovo Realismo si identifica infatti nell'azione sinergica di tre
parole-chiave, Ontologia, Critica, Illuminismo. Il Nuovo Realismo è stato
oggetto di discussioni e convegni nazionali e internazionali e ha sollecitato
una serie di pubblicazioni che implicano il concetto di realtà come paradigma
anche in ambiti extrafilosofici. In effetti, il dibattito sul nuovo
realismo, per quantità di contributi e media implicati, non ha equivalenti
nella storia culturale recente, tanto da essere stato assunto 'case study' per
analisi di sociologia della comunicazione e linguistica. Il nuovo realismo ha
sollecitato una serie di pubblicazioni che ne discutono le tesi, a cominciare
da Della realtà: fini della filosofia, Milano, Garzanti di Vattimo e
Inattualità del pensiero debole, Udine, Forum, di Rovatti sino a Il senso
dell'esistenza. Per un nuovo realismo ontologico, Roma, Carocci,, di Gabriel,
Bentornata Realtà. Il nuovo realismo in discussione (Caro e F.), Torino,
Einaudi, e a Sociologia e nuovo
realismo, Milano-Udine, Mimesis, di Luca
Martignani (che fa parte della collana “Nuovo Realismo” diretta da F. e De
Caro, che conta numerose pubblicazioni). Al Nuovo Realismo di Ferraris
hanno aderito sia filosofi di formazione analitica, come Caro (cfr. Bentornata
Realtà, a c. di Caro e F.), sia filosofi di formazione continentale, come
Beuchot (Manifesto del realismo analogico, ), Taddio (Verso un nuovo realismo) e
Gabriel (Campi di senso. Un'ontologia neo-realista), che ha raccolto il
sostegno di filosofi come ECO (si veda), Putnam e Searle, e che si incrocia con
altri movimenti realisti sorti in modo indipendente ma rispondendo a esigenze
affini, come il realismo speculativo di Meillassoux e di Harman. Per il nuovo
realismo, il fatto che sia sempre più evidente che la scienza non è
sistematicamente la misura ultima della verità e della realtà non comporta che
si debba dire addio alla realtà, alla verità o alla oggettività, come aveva
concluso molta filosofia del secolo scorso. Significa piuttosto che anche
la filosofia, così come la giurisprudenza, la linguistica o la storia, ha
qualcosa di importante e di vero da dirci a proposito del mondo. In questo
quadro, il nuovo realismo si presenta anzitutto come un realismo negativo: la
resistenza che il mondo esterno oppone ai nostri schemi concettuali non va
considerata come uno scacco, ma come una risorsa, come una prova dell'esistenza
di un mondo solido e indipendente. Se le cose stanno in questi termini, però,
il realismo negativo si trasforma in un realismo positivo (Cfr. F., Realismo
Positivo, Rosenber e Sellier ). Nella sua resistenza la realtà non costituisce
soltanto un limite, ma offre anche delle possibilità e delle risorse, il che
spiega come, nel mondo naturale, forme di vita differenti possano interagire
nello stesso ambiente senza condividere alcuno schema concettuale; e come, nel
mondo sociale, le intenzioni e i comportamenti umani siano resi possibili da
una realtà che è anzitutto data, e che solo in un secondo momento potrà essere
interpretata e, se necessario, trasformata. Esauritasi la stagione del
postmoderno, il nuovo realismo ha intercettato un diffuso bisogno di
rinnovamento in ambiti extradisciplinari come l'architettura, la letteratura,
la pedagogia, la medicina. L'ultima corrente filosofica inaugurata ha
provocato resistenze e critiche da parte dei sostenitori del postmodernismo e
del pensiero debole. Altre saggi: “Differenze. La filosofia dopo lo
strutturalismo” Milano: Multhipla); “Tracce. Nichilismo moderno postmoderno,
Milano: Multhipla); Mimesis, La svolta testuale. Il decostruzionismo in
Derrida, Lyotard, gli “Yale Critics”, Pavia: Cluep); L’ermeneutica (Genova:
Marietti); Proust, Milano: Guerini e associati,
Storia dell'ermeneutica, Milano: Bompiani);Nietzsche (Milano: Bompiani; Cronistoria
di una svolta, in Heidegger, La svolta, Genova: il Melangolo (traduzione e
conclusione, Postille a Derrida, Torino:
Rosenberg et Sellier); La filosofia e lo spirito vivente, Roma: Laterza); Mimica.
Lutto e autobiografia da Agostino a Heidegger, Milano: Bompiani); “Storia della
volontà di potenza, Milano: Bompiani) Analogon rationis, Milano: Pratica
filosofica, 1nterpretazione ed emancipazione.
Milano: Cortina); L'immaginazione, Bologna: il Mulino); Estetica, (con altri autori),
Torino: Pomba); Il gusto del segreto, con Derrida, Bari: Laterza); Estetica
razionale, Milano: Cortina); Honoris causa a Derrida, Torino: Rosenberg e
Sellier); Una Ikea di università, Milano: Cortina); Il mondo esterno, Milano:
Bompiani); L'altra estetica, (con altri autori), Torino: Einaudi); Derrida, Roma:
Laterza); Ontologia, Napoli: Guida); Goodbye Kant!, Milano: Bompiani); “Dove
sei? Ontologia del telefonino, Milano: Bompiani); “Babbo Natale, Gesù adulto.
In cosa crede chi crede?, Milano: Bompiani); Sans papier. Ontologia
dell'attualità, Castelvecchi: Roma); La fidanzata automatica, Milano: Bompiani);
Il tunnel delle multe. Ontologia degl’oggetti quotidiani, Torino: Einaudi); Storia
dell'ontologia, Milano: Bompiani, Una
Ikea di università. Alla prova dei fatti, nuova edizione, Milano: Raffaello
Cortina; “Piangere e ridere davvero. Feuilleton, Genova: Il melangolo);
Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Roma-Bari: Laterza); Ricostruire
la decostruzione. Cinque saggi a partire da Derrida, Milano: Bompiani); Filosofia
per dame, Parma: Guanda); Anima e iPad, Parma: Guanda); Manifesto del nuovo
realismo, Roma-Bari: Laterza, Bentornata
Realtà. Il nuovo realismo in discussione, con Caro, Torino: Einaudi); Lasciar
tracce: documentalità e architettura, Visconti e Capozzi, Milano: Mimesis); Filosofia
Globalizzata, con Caffo, Milano: Mimesis); Realismo Positivo, Torino: Rosenberg
e Sellier); Spettri di Nietzsche, Guanda: Parma); Mobilitazione Totale,
Roma-Bari: Laterza); I modi dell'amicizia, con Varzi, Napoli-Salerno:
Orthothes); Emergenza, Torino: Einaudi); L'imbecillità è una cosa seria,
Bologna: il Mulino); Filosofia teoretica, con Terrone, Bologna: il Mulino, Postverità e altri enigmi, Bologna: il
Mulino); Il denaro e i suoi inganni, con Searle, Torino: Einaudi); Intorno agl’unicorni.
Supercazzole, ornitorinchi, ircocervi, Bologna: il Mulino); Il capitale
documediale. Prolegomeni, in Scienza Nuova. Ontologia della trasformazione
digitale, Torino: Rosenberg e Sellier. Responsabile scientifico di "Pensiero
in movimento", Pearson Libri in collana di quotidiani: Oltre che diverse
curatele e interventi per il "Caffè Filosofico" del settimanale
l'Espresso e la collana "Capire la Filosofia" de la Repubblica si
segnalano: "Felicità. Cos'è
la ricerca della felicità?", Roma, la Repubblica, "Libertà. Quando si è davvero
liberi?", Roma, la Repubblica, "Arte. Perché certe cose sono opere
d'arte?", Roma, la Repubblica, "Male. È possibile vivere senza il
male?", Roma, la Repubblica, "Uguaglianza. C'è qualcuno più uguale
degli altri?", Roma, la Repubblica, "Bellezza. C'è una regola del
bello?", Roma, la Repubblica, s
"Mente. La mente è soltanto il cervello?", Roma, la Repubblica,
"Morale. C'è un solo modo giusto di
vivere?", Roma, la Repubblica, "Potere. Perché si lotta per il
potere?", Roma, la Repubblica, "Pensiero. Che cosa significa
pensare?", Roma, la Repubblica, "Violenza: La violenza è
inevitabile?", Roma, la Repubblica, "Passione: Chi decide, la ragione o la
passione?", Roma, la Repubblica, "Senso: Che cosa ci manca quando diciamo
che la vita non ha senso?", Roma, la Repubblica, "Linguaggio: Si può pensare senza
parole", Roma, la Repubblica, s"Scienza: Che cosa sanno gli
scienziati?", Roma, la Repubblica, v "Filosofia: A cosa servono i
filosofi?", Roma, la Repubblica, ha curato, oltre a partecipare con
singoli interventi, la seconda serie del "Caffè Filosofico" di
Repubblica curandone gli epiloghi. Nel biennio - ha diretto e condotto
tre serie del programma televisivo Zettel Filosofia in movimento in onda su Rai
Scuola. Nel e nel ha continuato tale lavoro nel programma
televisivo "Lo stato dell'arte", in onda su RAI5. Conduce la rubrica
di Rai cultura "Opera aperta", in onda sullo stesso canale. “F.",
in D. Antiseri e S. Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano:
Bompiani, "Maurizio Ferraris", la Repubblica, Per una rassegna completa del dibattito sorto
intorno al "Manifesto del New Realism" si veda Copia archiviata, su
labont. Nuovo Realismo | Il sito ufficiale della rassegna nuovo realismo R. Scarpa, Ilcaso Nuovo Realismo. La lingua
del dibattito filosofico contemporaneo, Milano-Udine, Mimesis, Reperibileonline.
Questi ealtri riferimenti, con resoconti e presentazioni degli incontri, sono
quireperibili: nuovorealismo Si vedano ancora, tra gli altri, Bazzanella, La
filosofia e il suo consumo. Il nuovo New Realism, Trieste, Asterios,; Perché
essere realisti? Una sfida filosofica, Andrea Lavazza e Vittorio Possenti,
Milano-Udine, Mimesis,; L. Somigli (a cura di), Negli archivi e per le strade.
Il ritorno alla realtà nella narrativa di terzo millennio, Roma, Aracne,;
Architettura e realismo, Milano Maggioli,
Il Caffè Filosofico. La filosofia raccontata dai filosofi Lo stato dell`arteIl di RAI Cultura dedicato alla filosofia, in
Il di RAI Cultura dedicato alla
filosofia. “F.", in Antiseri e
Tagliagambe, Filosofi italiani contemporanei, Milano: Bompiani, "Ontologia analitica e ontologie
continentali: F. e i filosofi italiani di impostazione analitica", in
Esposito e Porro, Filosofia contemporanea, Roma: Laterza, dal
Rassegna Stampa Nuovo Realismo, sul sito del Labont: raccolta estesa di
tutti gli interventi a proposito della proposta teorica sul realism. Documentalità
Ontologia Ermeneutica Realismo. Treccani. CTAOCentro Interuniversitario di
Ontologia Teoretica ed Applicata, Laboratorio di Ontologia, su labont. Il
«questionario Proust» a F., su elapsus. F., il Nuovo Realismo, sul RAI Filosofia, su filosofia.rai. Parsons
sociologo Parsons. Sociologo. Parsons produsse una teoria generale per
l'analisi della società chiamata "struttural-funzionalista", nella
quale sono evidenti i richiami a Durkheim, Weber, all'antropologia culturale
nonché all'etnologia. Cerca di combinare "azione sociale" e
"struttura" in un'unica teoria non limitata al solo
funzionalismo. Il suo lavoro ha avuto grande influenza quando la ricerca
era quasi solamente empirica) proponendo una visione delle scienze sociali più
raffinata. Pur essendo un riferimento per sociologi contemporanei importanti
come Habermas e Luhmann, il suo favore si è gradualmente ridotto nel tempo e il
più importante tentativo di far rivivere il pensiero di Parsons, sotto
l'etichetta di "neofunzionalismo", si deve ad Alexander. Parsons
nasce a Colorado Springs. Frequenta l'università ad Amherst, Massachusetts, ed
è orientato allo studio della biologia e alla medicina, ma s’interessa
progressivamente all'economia e alle scienze sociali, anche grazie alle opere
di Durkheim e Weber. Dopo Amherst, Parsons si reca alla London School of
Economics, dove subisce l'influenza dei lavori di economisti quale Laski e
Tawney, gli antropologi culturali Malinowski e Radcliffe-Brown, e i sociologi
Ginsberg e Hobhouse. Grazie ad una borsa di studio in Sociologia ed Economia,
si trasferisce a Heidelberg, dove consegue il dottorato con una tesi
sull'origine del capitalismo in Weber e Sombart. Tornato negli Stati
Uniti Parsons insegna a Harvard. Entra a far parte del Dipartimento di
Sociologia (diretto da Sorokin, con il quale Parsons è in disaccordo) e
successivamente presso il Dipartimento di Relazioni Sociali (diretto dallo
stesso Parsons). Viene eletto presidente dell'American Sociological
Association. Muore a Monaco di Baviera. Lo struttural-funzionalismo
L'approccio di Parsons è definito struttural-funzionalismo, poiché si propone
di individuare la struttura di fondo della società e di comprenderla mostrando
le funzioni assolte dalle sue parti. Si riallaccia al funzionalismo di
Durkheim, il quale riconduce ogni fenomeno alla funzione che esso ha
all'interno dell'insieme di cui è parte, la società. Alcuni hanno proposto per
la sociologia di Parsons il termine "approccio sistemico". Comunque,
in linea di massima, ciò che Parsons si propone di fare è di integrare i due
approcci opposti di Weber e Durkheim; il primo infatti pone l'accento sul ruolo
dell'individuo, il secondo sul ruolo della società. L'azione sociale In
La struttura dell'azione sociale, Parsons afferma che l'azione (o atto) è
l'unità elementare di cui si occupa la sociologia. L'atto richiede i seguenti
elementi: L'attore, colui che compie l'atto; Un fine verso cui è
orientato l'atto; Una situazione di partenza da cui si sviluppano nuove linee
d'azione e in cui vi sono le condizioniambientali, sulle quali l'attore non ha
possibilità di controllo, e i mezzi che invece l'attore controlla e utilizza;
Un orientamento normativo dell'azione, che porta l'attore a preferire certi
mezzi ad altri e certe vie ad altre, tuttavia basandosi sul sistema morale
vigente nella sua società. Si nota come Parsons si sforzasse in questa visione
di contrastare da un lato il comportamentismo, la tendenza cioè a ridurre
l'azione umana a mero meccanismo di risposta a stimoli, togliendo ogni ruolo
alla volontà; dall'altro l'utilitarismo, che spiega tutte le azioni in base a
un interesse eliminando il ruolo dell'orientamento normativo. Le norme
collegano l'individuo alla società di cui è parte, il che in parte riduce il
libero arbitrio umano: l'uomo nel suo comportamento è vincolato da queste norme
sociali (se non le segue è sottoposto a sanzioni), e queste norme sono espressione
dei valori di fondo di una cultura. Mostrando dunque come l'azione individuale
vada ricollegata alla società nel suo insieme - tramite le norme - Parsons ha
già in parte trovato un punto di congiunzione nella dicotomia
individuo/società. Un successivo passo avanti è compiuto con la definizione del
concetto di sistema. Il concetto di sistemaModifica Ne Il sistema sociale
Parsons definisce il sistema come un insieme interrelato di parti che è capace
di autoregolazione e in cui ogni parte svolge una funzione necessaria alla
riproduzione dell'intero sistema. Ogni sistema dev'essere in grado di svolgere
almeno quattro funzioni (secondo il celebre schema AGIL). Parson applicò questo
concetto teorico anche alla famiglia nucleare, nel suo caso quella americana,
per giustificare i ruoli: Adattamento all'ambiente; (Adaptation) il
sottosistema che svolge questa funzione è il sottosistema economico. Nella
famiglia ad occuparsi di questo ruolo era il padre, il quale attraverso il
lavoro (l'economia) manteneva la famiglia, garantendone la sopravvivenza.
Definizione dei propri obiettivi; (Goal attainment) il sottosistema che svolge
questa funzione è il sottosistema politico. Nella famiglia a guidare i vari
membri verso gli obiettivi e scopi precisi era il padre. Integrazione delle
parti componenti; (Integration) il sottosistema che svolge questa funzione è il
sottosistema giuridico e il sottosistema religioso. Nella famiglia, a regolare
i conflitti interni, era il padre. Conservazione della propria organizzazione;
(Latency pattern maintenance) i sottosistemi che svolgono questa funzione sono
il sottosistema della famiglia e il sottosistema della scuola. Nella famiglia,
ad insegnare, promuovere e mantenere i modelli (latenti) di comportamento su
cui, all'epoca, si reggeva la società, era la madre. In realtà nella visione di
Parsons gli individui non sono singole persone ma persone che svolgono dei
ruolispecifici, modelli di comportamento regolati da norme ed orientati
all'espletamento di una funzione: Parsons non tratta dei signori X e Y, ma
dell'insegnante e del meccanico. Il sistema sociale è dunque un sistema di
ruoli. Nell'ambito del proprio ruolo ogni individuo entra in relazione con gli
altri e contribuisce alla riproduzione del sistema nel suo complesso. I ruoli fanno
anche parte delle istituzioni, sottounità del sistema sociale che implicano più
ruoli interagenti tra loro: la scuola, ad esempio (fatta dei ruoli di
insegnante, studente, bidello, ecc.), la famiglia (padre, madre, figli). Lo
stesso argomento in dettaglio: AGIL. Famiglia e socializzazione Si è già detto
che in pratica il congiungimento tra l'individuo e la società avviene tramite
le norme. Ma in che modo le norme diventano parte dell'individuo? Parsons
riprende da Freud il concetto di interiorizzazione (in Freud chiamato
introiezione): ogni individuo impara a seguire certe norme e a vivere in
società attraverso la formazione di un'istanza psichica (il “super-io”) che
riproduce l'autorità inizialmente al di fuori di noi ma che poi noi
interiorizziamo. Questa interiorizzazione delle norme e dei valori avviene nel
corso del processo di socializzazione, che si realizza nell'infanzia grazie
alla famiglia. Il ruolo della famiglia nell'ambito del sistema sociale è quello
di educare i figli e socializzarli. La famiglia in Parsons è nucleare, composta
cioè solo dai due genitori e dai figli, residente in un'abitazione indipendente
mononucleare. All'interno della famiglia avviene una differenziazione di
funzioni e ruoli: la moglie/madre assume il ruolo di casalinga che cura i figli
e la casa; il padre/marito è il bread-winner, colui che porta il pane a casa,
cioè che si procura di che da vivere, e il leader strumentale che si occupa
dell'interazione tra famiglia e società. Questi due ruoli sono complementari,
l'uno non esiste senza l'altro. I figli e le figlie svilupperanno una
personalità che farà propri i valori dei genitori e la differenziazione dei
ruoli tra i due genitori. Variabili strutturali e universali
evolutiviModifica Parsons definisce un insieme di parametri sulla base dei
quali è possibile classificare società e culture diverse: sono le variabili
strutturali (pattern variables). Esse sono scelte binarie di fondo compiute da
una cultura nel corso della sua esistenza: Particolarismo/universalismo.
È la differenza tra il comportamento di un genitore e quello di un giudice. Il
primo è ispirato a criteri particolaristici, che magari avvantaggiano il figlio
ma non un altro individuo. Il secondo è ispirato a criteri universalistici, le
regole che applica valgono per tutti indifferentemente ("la legge è uguale
per tutti"). Diffusione/specificità. Nel primo caso l'azione è orientata a
tener conto di tutti gli aspetti della personalità di chi mi sta davanti, nel
secondo l'azione si basa sul ruolo: quando interagisco con un amico tengo conto
dell'insieme della sua personalità; quando un commesso interagisce con un
cliente tiene conto solo dell'aspetto "cliente" di quell'uomo.
Ascrizione/acquisizione. È l'importanza che una società attribuisce a chi ha
tratti derivatigli dalla nascita quali colore della pelle o famiglia di
provenienza (ascrittivi), oppure per ciò che quell'individuo è stato capace di
realizzare nel corso della sua esistenza (tratti acquisitivi).
Affettività/neutralità affettiva. La differenza tra sistemi d'azione nei quali
vi è una gratificazione affettiva (madre/figlio) o dove le relazioni si basano
sul distacco affettivo (funzionario/cliente). Interessi collettivi/interessi
privati. Il diverso orientamento nell'agire degli individui; il medico è
orientato verso interessi collettivi, l'imprenditore verso interessi privati
(il proprio utile). In Il sistema sociale Parsons afferma che le società
moderne sono caratterizzate da azioni universalistiche e danno importanza ai
tratti acquisitivi; le società tradizionali si basano su azioni particolaristiche
e tratti ascrittivi. Per universali evolutivi, invece, Parsons intende
dei modelli organizzativi che emergono in una società nel corso della sua
storia e che ne permettono l'adattamento all'ambiente ed il suo successo
rispetto a società che ne sono prive. Nel corso dell'evoluzione umana, le
società primitive hanno visto l'affermazione di universali evolutivi quali i
concetti di linguaggio, religione, parentela (incentrata sul tabù
dell'incesto), tecnologia (tecniche che portano l'uomo a controllare la
natura). Nella rivoluzione neolitica diventano universali evolutivi i concetti
di sistema di stratificazione sociale e di organizzazione politica. La società
moderna è caratterizzata da quattro universali evolutivi: la burocrazia, il
mercato, le norme universalistiche, la democrazia. In pratica solo quelle
società che nel corso della loro evoluzione hanno sviluppato questi concetti,
questi universali, hanno raggiunto la maturità, la modernità. Parsons
effettua una classificazione delle società, basandosi sul criterio secondo il
quale la classificazione va redatta riconoscendo che una società è più avanzata
nella misura in cui la sua organizzazione sociale può essere adattabile per
tutti. Questo concetto fa parte delle sue teorie evoluzionistiche e neo evoluzionistiche.
Abbiamo quindi 3 stadi di società: - società primitive: dove la parentela
è l'elemento principale e dove vi sono meno differenze tra gli individui -
società intermedie: dove vi è la scoperta della scrittura come passo
fondamentale e dove è presente più stabilità sociale - società moderne: dove
abbiamo una maggiore autonomia delle persone grazie al diritto universalistico
e dove la cultura ha un ruolo preponderante L'evoluzionismo non è mai
lineare, poiché nell'evoluzione umana c'è molta varietà. Parsons procede quindi
all'analisi specifica delle società seguendo la loro evoluzione: -
Organizzazioni legate al Sacro: società antiche dove è forte l'influenza della
mitologia e della religione e dove vi è uno stato di chiusura mentale che non
dà spazio all'innovazione. - Società tradizionale: l'organizzazione sociale è
divisa per parentela e per gruppi di età mentre l'economia è semplice e si
utilizzano risorse date dalla terra - Società tecnologiche: l'ambiente
tecnologico si frappone tra le persone e natura grazie ai macchinari, vi è una
forte divisione del lavoro e una distinzione tra proprietari e consumatori che
lottano per soddisfare i propri bisogni. Vi è quindi un'alienazione dell'uomo e
una larga diffusione della burocrazia. - Società urbana: dove la città è il
simbolo più evidente e dove le classi sociali assumono un ruolo dominante, esse
sono divise in "élite" ovvero gruppi di persone che grazie alla loro
influenza contribuiscono all'agire storico di una collettività. Abbiamo sei
tipi di élite: tradizionali, tecnocratiche, proprietarie, carismatiche,
ideologiche, simboliche. Ulteriore sviluppo Le teorie di Parsons sono
state sviluppate ulteriormente da Merton, Luhmann e DONATI (si veda). Critiche.
L'opera di Parsons apparve a lungo isolata ed astratta, e come tale fu derisa,
per esempio dai sociologi Pitirim Sorokin e da Mills, che ne indicava
efficacemente anche le implicazioni sociologiche conservatrici. Il
pensiero di Parsons è stato spesso accusato di etnocentrismo per il fatto di
aver assunto le società occidentali come il modello a cui tutte le altre
società dovevano tendere e conformarsi. Egli vedeva infatti il processo di
modernizzazione come un processo unilineare. L'etnocentrismo di Parsons è
presente anche negli studi sulla trasformazione della famiglia, facendo
riferimento soprattutto alla famiglia nordamericana bianca, appartenente al
ceto medio. In questo senso poi le critiche sono venute soprattutto dai
movimenti femministi che non hanno accettato la tendenza di Parsons a
ratificare la subordinazione di fatto della donna a partire dalla tesi di
complementarità dei ruoli dei coniugi. Parsons viene criticato anche da
Merton. Attribuendo a Parsons una valenza sempre positiva all'ordine sociale,
Merton ritiene che quest'ultimo è anche fonte di disordine. Per Parsons tutte
le istituzioni sono funzionali per la società, mentre Merton rileva l'esistenza
di disfunzioni. L'attore di Parsons sarebbe un over-socialized man, cioè
un uomo iper socializzato ai valori, che ha un comportamento del tipo
conformistico e che si comporta come la gente vorrebbe che egli si
comportasse. OpereModifica Ulteriori informazioni Questa sezione
sull'argomento sociologia è solo un abbozzo. Contribuisci a migliorarla secondo
le convenzioni di Wikipedia. Segui i suggerimenti del progetto di riferimento.
Elenco delle principali opere: La struttura dell'azione sociale, Il
sistema sociale, Toward a General Theory of Action (con Shils et alii), Working
Papers in the Theory of Action (con Bales, Shils et alii), Saggi di teoria
sociologica, Famiglia e socializzazione, Structure and Process in Modern
Societies, Sociological Theory and Modern Society, Politics and Social
Structure, Hamilton, Parsons, Bologna, il Mulino, Marinelli, Struttura
dell'ordine e funzione del diritto. Saggio su Parsons, Milano, Angeli,
Prandini, a cura di, Talcott Parsons, Milano, Bruno Mondadori, Gerhardt,
Parsons. An Intellectual Biography, Cambridge, Marra, Parsons. Valori, norme,
comportamento deviante, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Segre,
Parsons: un'introduzione, Roma, Carocci, Bortolini, L'immunità necessaria.
Talcott Parsons e la sociologia della modernità, Roma, Meltemi, Hart (ed.),
Parsons. A Collection of Essays in Honour of Parsons, Chester, Ruolo di genere
Giddens Luhmann Dahrendorf Habermas Touraine A Parsons, Dizionario di
filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Parsons, su sapere.it,
Agostini. Parsons, su
Enciclopedia Britannica, Parsons, su Mathematics Genealogy Project, North
Dakota State University. Opere
di Talcott Parsons, su Open Library, Internet Archive. Portale
Biografie Portale Sociologia Funzionalismo (sociologia) posizione
dominante tra le teorie sociologiche contemporanee Merton sociologo
statunitense. Grice: “There is
a big difference between ‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’ – and then
there’s inter-active, co-active, and shared – intenzionalita condivisa --.
Subject applies to object, so inter-subjective should be used when a neutral
common ground (the object that both subjects perceive) matters. Usually, this
is not the case, since our focus is communication or psi-transfer. However,
‘interpersonal’ is too vague because we never know what a person is. Co-active
and inter-active seem better, alla Parsons. The dyad or interpersonal or
interactional unit, where A orientates his action towards B and reciprocally or
mutually so does B. Co-operation.” Keywords: the ontology of the
intersubjective – inter-soggetivo – a functionalist approach to the
inter-subjective – Grice as an ‘intersubjectivist’ – Grice as a meta-theorist
of the inter-subjective. The inter-subjective conditions for the understanding
of pretty subjective utterances like, “That pillar-box seems red to me.” Collective
intentionality, shared intentionality, and the inter-subjective –
inter-subjective and inter-personal. ‘conversational’ as short for
‘inter-subjective’ and ‘inter-personal’. Grice’s definition of ‘implicature’ as
relying on utterer AND addressee. Grice’s definition of communication as
relying, obviously, on utterer and addressee. Ferraris reccognises the
rhapsodies of Austin needed some systematization, and while Ferraris refers to
Grice, he does so very superficially -- and more. Nome compiuto: Maurizio Ferraris. Ferraris. Keywords:
inter-soggetivo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Ferraris” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Ferrero: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale
arimmetica – scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Abstract. Grice:
“My Oxonian pupils are often mesmerised by the interest the Italian
philosophers place on Crotone, a little nothing in the middle of nothing. But
then we only have Stonehenge that compares!” Keywords: Crotone. Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice:
“Just for having written on the influence of Pythagoras on the Roman world,
Ferrero is highly commendable! Pythagoras is crucial for Plato; and Pythagoras
taught of course at what would be a Roman cives, ‘Croto.’ So it all relates!”
-- Italian philosopher, author of “Pigatorismo nel mondo romano.” La Storia
del Pitagorismo nel mondo romano vide la luce grazie al contributo della
Fondazione Parini-Chirio e della Facoltà di Lettere dell’Torino e rappresenta
ancora oggi uno dei contributi più alti alla Storia della Filosofia Romana. Animato
da uno spirito che potrebbe senza dubbio definirsi per mezzo del sentimento
dell’importanza maggiore, nella storia delle idee dell’Antichità, di coloro che
Aristotele chiamava “i filosofi italiani”, di coloro che hanno fatto fiorire
sulla terra d’Italia uno dei rami più vigorosi del pensiero filosofico
occidentale. Ricco di elementi ed agile nella prosa, il libro è uno dei più
importanti, se non l’unico, contributo che rende ragione della relazione tra
filosofia romana e pitagorica,
rinvenendo l’importanza del pensiero speculativo alla base della cultura romana
classica. Su questa base l’a. arriva a
sostenere l’idea nuova ed originale dell’ideale che l’organizzazione pitagorica
ha, in ogni tempo, proposto alla classe dirigente romana che l’accolto e
realizzato, non dimenticando che il fine della filosofia pitagorica è la
formazione del politico. Il piano
dell’opera è semplice e chiaro. Due parti e cinque capitoli solamente
permettonodi abbracciare una storia che si estende sui secoli storici della
Roma antica, arricchite da un’ampia consultazione delle fonti e da un indice
analitico che ne facilita la consultazione.
Si laurea con Rostagni, a Torino. Insegna a Trieste. Ferrero is not the first to claim Italianita
and Romanita for Pythagoras. After all Pythagoras’s father
was an Etruscan! Numa learned from him! CICERONE corrects here – it’s the
tradition that counts – Livio also notes that a book by Numa was destroyed: by
that time, the republic had an official religion and Pythagorianism was not
part of it! The Cusano thought that the Holy Trinity is Pythagorean. Ficino
claims Plato is Pythagorean via his tutor who was Pythagoras’s tutee – Pico
asks Ficino for advice on these maters. Caparelli thinks it’s all Pythagoreian.
The important bit is politic, and ethnic. Pythagoreanism became popular in the
rest of Europe via Italy, that always showed more of an interest for ancient
history than the Germanic peoples – perhaps because runes do not give so easily
to history! ARISTOSSENO
('Αριστόξενος, Aristoxĕnus) di Taranto. Filosofo peripatetico, scolaro di
Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro. È il più
grande teorico greco di ritmica e di musica. Prima seguace del pitagorismo,
sviluppò poi in seno alla scuola peripatetica la sua tendenza alla ricerca
naturalistica. I suoi Elementi di armonia eccellono per l'esattezza della
ricerca e della elaborazione teoretica, condotta non in base agli astratti
presupposti aritmetici dei pitagorici, ma all'osservazione diretta dei fenomeni
del suono (v. Grecia: musica). Tuttavia, egli continuò ad apprezzare nella
musica l'elemento etico e l'efficacia di educazione spirituale. Col suo
temperamento di studioso di musica è in accordo la sua dottrina dell'anima come
armonia, che già doveva essere stata propugnata dal più antico pitagorismo,
trovandosi pure ricordata e combattuta nel Fedone platonico. Egli si occupò,
del resto, anche di altre questioni (di scienza naturale, psicologia, morale,
politica, aritmetica) e compose narrazioni storiche, che non ci sono peraltro
messe in troppo buona luce dai frammenti rimastici, in cui le notizie su
Socrate e su Platone o sono inattendibili o rivelano troppo pertinace intento
di svalutazione polemica. Pei frammeriti degli 'Αρμονικά vedi le edizioni
moderne di Marquard (con commento e versione tedesca, Berlino), di Westphal (A.
v. Tarent, Melik und Rhytmik des Klassischen Hellenentums, versione e commento,
Lipsia) e di H.S. Macran (The Harmonics of Aristox. ed. with transl., notes,
introd. and index of words, Oxford). Bibl.: von Jan, in
Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswis, che contiene ulteriori
indicazioni bibliografiche, per cui cfr. anche Ueberweg, Grundriss d. Gsch. d.
Philos., Berlino; L. Laloy, A. de Tarente, disciple d'A., et la musique dans
l'antiquité, Parigi 1924. La restituzione della Geometria Pitagorica
Il teorema dei due retti – Il teorema di Pitagora Il Pentalfa – I Poliedri
regolari Il simbolo dell'universo Dimostrazione del "postulato" di
Euclide. PREMESSE. Proclo, capo della Scuola d'Atene, ci ha lasciato un
prezioso commento su Euclide, dal quale commento si traggono le più precise ed
importanti notizie che i moderni posseggano sui risultati conseguiti e le
scoperte fatte in geometria da Pi-tagora e dalla sua scuola. Secondo Proclo Pitagora
trasforma questo studio e ne fece un insegnamento liberale; perché rimonta ai
principi superiori e ricerca i teoremi astrattamente e con l'intelligenza pura;
è a lui che si deve la scoperta degli irrazionali e la costruzione delle figure
del cosmo (poliedri regolari). PROCLO, Com. in
Euclidem, ediz. Teubner: la traduzione su riportata è quella del Tannery TANNERY,
La Géométrie grecque; comment son histoire nous est parvenue et ce que nous en
savons, Gauthier-Villars, Paris). Non è una traduzione alla lettera; e non
per pedanteria, ma per fedeltà al pensiero pitagorico, notiamo che il testo
greco non dice che Pitagora rimonta ai principi superiori della geometria, ma ἄνωθεν
τὰς ἀρχὰς αὐτῆς ἐπισλοπούμενος, che significa: considerando dall'alto i
principi della geometria. Anche Loria (Le scienze esatte nell'antica Grecia),
riporta il passo con una traduzione analoga a quella del Tannery. Proclo ci
attesta inoltre che Eudèmo, il peripatetico, attribuisce ai pitagorici la
scoperta del teorema dei due retti (in un triangolo qualunque la somma degli
angoli è eguale a due retti), ed asserisce che ne davano la dimostrazione che
consiste (fig. 1) nel condurre per uno dei vertici A la parallela al lato
opposto e nell'osservare che, essendo eguali gli an- goli alterni interni
formati da una trasversale con due rette parallele, la somma dei tre angoli del
triangolo è eguale a quella di tre angoli consecutivi formanti un angolo
piatto. Questa, dice Proclo, è la dimostrazione dei pitagorici. b) «Sei
triangoli equilateri riuniti per il vertice riempiono esattamente i quattro
angoli retti, lo stesso tre esa- goni e quattro quadrati. Ogni altro poligono
qualunque di cui si moltiplichi l'angolo darà più o meno di quattro retti;
questa somma non è data esattamente che dai soli Cfr. TANNERY, Le Géométrie
Grecque, PROCLO, ediz. Teubner MIELI riporta il passo nel testo greco in Le
scuole ionica, pythagorica ed eleatica, Firenze 1Eudemo da Rodi, l'eminente
discepolo di Aristotele. poligoni precitati, riuniti secondo i numeri dati. È
un teorema pitagorico. Pitagora scoprì il teorema sul quadrato dell'ipote- nusa
di un triangolo rettangolo. Se si ascoltano coloro che vogliono raccontare la
storia dei vecchi tempi, se ne possono trovare che attribuiscono questo teorema
a Pita- gora, e gli fanno sacrificare un bue dopo la scoperta. Secondo Eudemo
(οἱ περὶ τὸν Εὔδημον) la parabola delle aree, la loro iperbole e la loro
ellisse, sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici». Con questa
nomenclatura, classica dopo Euclide, ed oggi non più usata, Proclo designa i
problemi dell'appli- cazione semplice, dell'applicazione in eccesso e di quel-
la in difetto, ossia attribuisce ai pitagorici la costruzione geometrica,
dell'incognita delle tre equazioni6: ax=b2; x(x+a)=b2; x(a – x)=b2 e) L'impiego
del pentagono stellato, o pentagramma, o pentalfa, come segno di
riconoscimento. f) La costruzione dei poliedri regolari, ed in particola- re
l'inscrizione del dodecaedro (regolare) nella sfera7. 4 PROCLO, ediz. Teubner,
PROCLO, ediz. Teubner Questo teorema è attribuito a Pitagora anche da DIOGENE
LAERZIO, VIII, 12, da PLUTARCO, da VITRUVIO (De Architectura), e da ATENEO. 6
PROCLO, ediz. Teubner PROCLO, ediz. Teubner Per quest'ultimo punto vedi anche
GIAMBLICO – De Vita Pythagorae Queste, insieme a poche altre che avremo
occasio- ne di vedere in seguito, sono le scarse notizie che oggi si possiedono
sulle scoperte geometriche dei pitagorici; le dobbiamo a Proclo che a sua volta
le ha tratte dalla fon- te attendibile di Eudemo. Bisogna però notare che il
Tannery, nel magnifico studio sopra citato, non solo condivide il punto
unanimemente concesso che Proclo non ha conosciuto personalmente nessuna opera
geome- trica anteriore ad Euclide, ma sostiene anche la tesi che Proclo non ha neppure
utilizzato direttamente la storia geometrica composta anteriormente ad Euclide
da Eudemo, quantunque lo citi assai spesso8, e che conosce e cita Eudemo solo
di seconda mano, e precisamente attraverso Gemino, un greco, probabilmente,
nonostante il nome latino. Quanto ad Eudemo, per spiegare l'origine delle
indicazioni passabilmente numerose e circostanziate perve- nuteci per suo mezzo
relative ai lavori della scuola pitagorica, Tannery sostiene che deve essere
esistita un'o- pera di geometria, relativamente considerevole, che Eudemo deve
avere avuto tra le mani, opera composta dopo la morte di Pitagora,
approssimativamente verso la metà del V secolo. È forse l'opera che Giamblico
designa come: la tradizione circa Pitagora. Osserva il Tan- nery10 che, in base
al riassunto storico di Proclo, nel trat- tato di geometria greca di cui si può
sospettare l'esisten- TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr. TANNERY, La
Géom. gr., za, il quadro era già quello che riempiono gli «Elementi» di
Euclide, dal I libro (teorema dei due retti), al 10o (scoperta degli
incommensurabili), al 13o (costruzione dei poliedri regolari). Questo è il
coronamento dell'uno e dell'altro; cioè del riassunto di Proclo e degli
Elementi di Euclide. «Toute la Géométrie élémen- taire
nous apparait ici, comme sortie brusquement de la tête de Pythagore, de même
que Minerve du cerveau de Jupiter. Nulla però sappiamo circa le dimostrazioni
dei teoremi, le risoluzioni dei problemi ed in generale la trattazione delle
questioni riportate da Proclo – Gemino – Eudemo; nulla, all'infuori della
dimostrazione del teorema dei due retti cui a prima vista non manca niente. La
dimostrazione su riportata, ed attribuita da Eudemo ai pitagorici, non coincide
con quella che si trova nel testo di Euclide (prop. 32) ma ne differisce di
poco. Euclide dimostra prima che un angolo esterno di un triangolo è eguale alla
somma dei due interni non adia- centi, basandosi sopra la proposizione 29, a
sua volta basata sul V postulato, o postulato delle parallele o postulato di
Euclide. Il passaggio al teorema sopra la som- ma dei tre angoli di un
triangolo è immediato ed è effet- tuato da Euclide nella proposizione stessa.
Teorema e dimostrazione sono però, come osserva Vacca, anteriori ad Euclide;
perché, come è stato osser- TANNERY, La Géom. gr., VACCA Euclide – Il primo
libro degli elementi, Testo greco, versione italiana e note, Firenze vato da
Heiberg, Aristotele in un passo della Metafisica si riferisce non solo a questo
teore- ma ma a questa stessa dimostrazione di Eudemo. A questo punto dobbiamo
sollevare una questione im- portante dal duplice punto di vista storico e
teorico. La dimostrazione cui si riferisce Aristotele, e che è quella stessa
che Eudemo attribuisce ai pitagorici, si basava anche essa come quella di
Euclide, sopra un postulato equivalente a quello posteriormente ammesso e
formu- lato da Euclide? Proclo si serve nel passo che riporta da Eudemo del
termine di parallela, dice anzi: παράλληλος ἠ, la parallela; fa lo stesso anche
Eudemo, e fanno lo stesso anche i pitagorici di cui parla Eudemo? Ed in tal
caso quale era l'accezione e la definizione, per loro, della parola: parallela?
Ed in relazione a questa questione di ordine storico si presenta l'altra di
ordine teorico: per dimostrare il teorema dei due retti, è necessario basarsi
sopra il famoso postulato di Euclide, o sopra un postulato equivalente?
Possiamo rispondere che il postulato di Euclide non è necessario per poter
dimostrare il teorema dei due retti; non solo, ma anche la dimostrazione cui si
riferisce Aristotele, e che è secondo Eudemo quella stessa dei pita- gorici, si
può fare senza ammettere o premettere il V postulato, o, ciò che è equivalente,
senza ammettere o pre- mettere la unicità della non secante una retta data
passante per un punto assegnato. Se infatti si ammette, per esempio come fa il
Severi, il postulato che: in un piano il luogo dei punti situati da una parte
di una retta ed aventi da questa una data distanza, è ancora una retta, si può
osservare: che tale retta è unica; che per poter dimostrare come questa retta,
cioè l'unica equidistante dalla retta data passan- te per il punto assegnato, è
anche l'unica non secante della retta data, Severi ricorre al postulato di
Archimede, il che prova che il postulato ammesso dal Severi non è equivalente
al postulato di Euclide; che la dimostrazione data dal Severi del teorema
dell'angolo esterno, e del teorema sopra la somma degli angoli di un triangolo
(e che è quella di Euclide), si basa in realtà sopra le sole proprietà della
equidistante (la parallela del Severi), e, sebbene nel testo ne sia preceduta,
non si basa sulla proprietà formulata dal postulato di Euclide. Basta condurre
per il vertice la equidistante dal lato op- posto ed applicare la proprietà
degli angoli alterni interni, ossia basta basarsi sul postulato del Severi e
non su quello di Euclide. SEVERI, Elementi di Geometria, Firenze, È l'edizione
non ridotta. SEVERI, Elem. di Geom.,SEVERI, Elem. di Geom. Vedremo in seguito
come se ne possa fare a meno, occorre però sempre ricorrere ad un postulato.
SEVERI, Elem. di Geom., ISEVERI, Elem. di Geom. Ne segue che la dimostrazione
cui si riferisce Aristotele può benissimo sussistere sulla base di un postulato
come quello del Severi o di un postulato ad esso equiva- lente, e che è
legittimo sollevare la questione di ordine storico sopra esposta. Ma noi la
lasceremo per il mo- mento da parte, perché per quanto riguarda gli antichi
pitagorici essa appare in un certo senso oziosa. Infatti, anche questo unico
dato che sembrava acquisito circa le dimostrazioni dei pitagorici viene a
mancare, essendo certo che gli antichi pitagorici non dimostravano il teo- rema
dei due retti per questa via, ma in altro modo affat- to diverso e d'altronde
anche affatto ignoto. Avverte infatti giustamente Loria. Una sola cosa bisogna
notare a questo proposito, ed è che i pitagorici ai quali si deve la scoperta
di questo teorema non sono per fermo gli stessi che inventarono questo
ragionamento, ché altrimenti non si saprebbe comprendere come Eutocio, in un
passo del commento al 1o libro delle Coniche di Apollonio (Apollonio – ed.
Heiberg, Lipsiae) dica: Similmente gli antichi di- mostrarono il teorema dei
due retti a parte per ogni specie di triangolo, prima per l'equilatero, poi per
l'isoscele e finalmente per lo scaleno, mentre quelli che vennero dopo
dimostrarono il teorema in generale: i tre angoli LORIA, Le scienze esatte
nell'antica Grecia, Hoepli interni di un triangolo sono eguali a due retti».
«E» con- tinua Eutocio, «chi dice questo è Gemino». In conclusione anche questo
dato viene a mancare, e sappiamo solo che la proprietà sopra la somma degli an-
goli interni di un triangolo non era ammessa, ma bensì dimostrata dagli
antichi; e che inoltre tale dimostrazione era suddivisa in tre parti;
particolare importante perché induce a ritenere quasi per certo che la
dimostrazione non dipendeva dalla teoria delle parallele o da quella af- fine
delle rette equidistanti. «Ai pitagorici» scrive ancora il Loria, «era noto il
valore della somma degli angoli di qualunque triangolo rettilineo e sapevano
dimostrare [come?] il relativo teorema; ad essi per universale consenso viene
attribuita la scoperta e la dimostrazione [quale?] della proprietà ca-
ratteristica del triangolo rettangolo». Siamo dunque costretti, tanto per l'uno
quanto per l'altro teorema a fare delle congetture; tenendo presente che per il
primo bisogna escludere la teoria delle paral- lele, e per il secondo bisogna
escludere la dimostrazione contenuta nel testo di Euclide (dipendente anche
essa dal postulato di Euclide), perché Proclo attesta formal- mente che tale
dimostrazione del teorema di Pitagora non è di Pitagora ma di Euclide, dicendo:
«per conto Cfr. MIELI, Le scuole jonica, pythagorica ed eleatica, Firenze; ivi
è riportato il testo greco di Eutocio. Il LORIA riporta tutto il passo nelle
«Scienze esatte. LORIA, Storia delle matematiche, Torino mio ammiro coloro che
per primi investigarono la verità di questo teorema; ma ammiro ancor più
l'autore degli Elementi, perché non solo lo ha assicurato con una di-
mostrazione evidente, ma perché lo ha ridotto ad un teo- rema molto più
generale nel suo sesto libro con stretto ragionamento. Non è noto quale fosse
la dimostrazione data da Pi- tagora al suo teorema; però possiamo affermare, ci
sem- bra, che Pitagora non si serva a tale scopo della proprie- tà enunciata
dal postulato delle rette parallele. Altrimenti gli antichi pitagorici, che per
quanto antichi erano po- steriori a Pitagora, ne avrebbero fatto uso già ed
anche per il teorema dei due retti, mentre sappiamo da Euto- cio-Gemino, che
solo quelli che vennero dopo dettero tale sbrigativa dimostrazione. L'Allman ha
indicato come gli antichi possano essere giunti al teorema dei due retti, che
egli propende ad at- tribuire a Talete. Osserva l'Allman22 che nel caso dei sei
triangoli equilateri congruenti attorno ad un vertice co- mune, essendo la
somma dei sei angoli eguale a quattro retti, ciascuno risulta eguale ad un
terzo di due retti, e quindi i tre angoli di un triangolo hanno per somma due
retti. Questa spiegazione, per quanto ingegnosa, non può essere la buona,
perché presuppone il riconoscimento 21 Il Mieli a pag. 266 dell'opera citata
riporta il testo greco di Proclo. ALLMAN, Greek Geometry from Thales to Euclid,
Dublin, 1necessariamente empirico che sei triangoli equilateri (di cui si
ammette l'esistenza implicitamente e così pure che siano anche equiangoli) si
possano effettivamente di- sporre nella maniera indicata; mentre Proclo afferma
nettamente che questo terzo punto costituiva un teorema pitagorico, il che, a
meno di sofisticare sul senso preciso attribuito alla parola teorema da Proclo,
indica che que- sto era il punto di arrivo e non quello di partenza. Dal caso
del triangolo equilatero l'Allman passa age- volmente al caso del triangolo
rettangolo particolare che se ne ottiene abbassando l'altezza. Nel caso poi del
triangolo rettangolo qualunque, egli completa il rettangolo (di cui si
presuppone così l'esistenza) e dice che: «he (Talete) could easily
(empiricamente?) see that the diagonals are equal and bisect each other». Il
triangolo rettangolo è così decomposto in due triangoli isosceli cogli angoli
alla base eguali, e siccome si sa che i due consecutivi di vertice A hanno per
somma un retto, lo stesso accade per la coppia degli altri due angoli ad essi
rispettivamente eguali, e quindi ne deriva che la somma dei tre angoli di un
triangolo rettangolo qualun- que è eguale a due retti. Di qui il teorema si
estende agevolmente, sebbene Allman si dimentichi di dirlo, al triangolo
isoscele, e da questo ad un triangolo qualunque. Tannery riconosce
esplicitamente che dal teorema dei due retti deriva logicamente la proprietà
relativa alla possibilità di disporre attorno ad un vertice comune i sei
triangoli equilateri, i quattro quadrati ed i tre esagoni; ciò nonostante anche
egli inverte l'ordine dicendo: «È anche molto possibile che sia stato il
riconoscimento empirico della proprietà dei triangoli equilateri riuniti
attorno ad un vertice comune, che abbia condotto alla scoperta della
eguaglianza a due retti della somma degli angoli di ciascuno di questi
triangoli; si sarà passati in seguito, secondo la testimonianza di Gemino,
prima al triangolo isoscele ed infine allo scaleno». Abbiamo ve- duto che,
seguendo la via tracciata dall'Allman, si passa solo invece ad un caso
particolare del triangolo rettan- golo, e che poi occorre fare un nuovo appello
all'empiri- smo per passare al caso del triangolo rettangolo qualun- que,
soltanto dopo si passa finalmente al triangolo iso- scele ed a quello scaleno.
Non pare dunque che il punto di partenza indicato dal Tannery e dall'Allman sia
quello adoperato dagli antichi. Occorre trovarne un altro, che conduca ai
risultati nel- TANNERY, La Géom. gr., l'ordine indicato da Gemino, e che faccia
appello all'in- tuizione in modo più semplice. 4. Quanto al teorema sul
quadrato dell'ipotenusa «tut- to sembra indicare», scrive Tannery, «che se non
l'ha presa in prestito dagli egiziani, questa proposizione fu una delle prime
che egli incontrò, ed affatto il corona- mento delle ricerche», come invece è
nel testo del primo libro di Euclide. Perfettamente d'accordo; ed appunto per
questa ragio- ne la dimostrazione pitagorica del teorema di Pitagora non solo
non può essere la coda e la conseguenza di altri teoremi sull'equivalenza, ma
deve essere indipendente dalla teoria della similitudine, da quella delle
proporzioni, nonché dai postulati di Euclide e di Archimede. D'al- tra parte,
se è noto e certo che gli egiziani conoscevano particolari triangoli rettangoli
aventi per misura dei lati numeri interi, tra questi il triangolo detto appunto
trian- golo egizio, non risulta però affatto che conoscessero il teorema
generale sul quadrato dell'ipotenusa, e se la scoperta di Pitagora si fosse
ridotta ad un semplice pre- levamento si spiegherebbero male gli osanna, i
peana ed i sacrifici agli Dei. Ricercando quale possa essere stata la
dimostrazione, Tannery, dopo avere detto che «i greci introducevano il più
tardi possibile la nozione di similitudine (VI di Euclide)», afferma poco dopo
che Pitagora deve essersi TANNERY, La Géom. gr., TANNERY, La Géom. gr., servito
della similitudine, il cui impiego si dovette in se- guito restringere a causa
della scoperta della incommen- surabilità. Il principio di similitudine si
dimostra impie- gando il postulato delle parallele; «inversamente ammettendolo
a priori se ne potrebbe ricavare il postulato delle parallele. Ora, a parte il
fatto che si tratta di una semplice ipotesi non suffragata da alcun elemento,
biso- gna notare come sia ben vero che ammettendo questo postulato della
similitudine se ne potrebbero ricavare il postulato delle parallele, il teorema
dei due retti, la no- zione e le proprietà dei rettangoli e dei quadrati, la
teo- ria delle proporzioni e la dimostrazione del teorema di Pitagora mediante
i triangoli simili, ma non si spieghe- rebbe allora la preesistenza dell'antica
dimostrazione del teorema dei due retti menzionata da Eutocio-Gemino. Anche
secondo Loria la dimostrazione che presenta il massimo di verisimiglianza è
quella basata sulla similitudine di un triangolo rettangolo coi due che nascono
abbassando la perpendicolare dal vertice dell'angolo retto sull'ipotenusa. Con
una agevole metamorfosi essa diviene quella stessa che leggesi negli elementi
di Euclide. Questa possibilità di ridurre questa dimostra- zione a quella di
Euclide sembra a noi che provi proprio l'opposto, e cioè che la dimostrazione
accennata da Loria e da Tannery, la quale conduce infatti al così detto primo
teorema di Euclide, da cui si trae poi il teorema di TANNERY, La Géom. gr.,
LORIA, Storia delle Matematiche. Pitagora, non sia affatto quella originale;
senza contare che, se così fosse, sotto la denominazione di teorema di Pitagora
dovrebbe trovarsi designato un altro teorema, e precisamente il teorema sopra
il quadrato di un cateto (il primo così detto di Euclide). Molto più felicemente
osserva Allman che sebbene Pitagora possa averlo scoperto come una conseguenza
del teorema sulla proporzionalità dei lati dei triangoli equiangoli, manca
qualsiasi indizio che egli vi sia giunto in tale maniera deduttiva, e dopo
avere ricordato che sappiamo, grazie a Prodo, che Pitagora tenne una via che
non è quella te- nuta da Euclide, riconosce che «la maniera più semplice e
naturale di arrivare al teorema è la seguente come è suggerito da
Bretschneider. Questa è una dimostrazione di cui gli storici moderni ignorano
l'autore; ma si sa però che essa è antica. Per essa occorrono solo le nozioni
di triangolo rettangolo e di quadrato, le proprietà delle rette perpendicolari
e, come vedremo, occorre conoscere il teorema dei due ALLMAN, Greek Geometry BRETSCHNEIDER
Die Geometrie und die Geometer vor Euklides, Leipsig, retti; ed è invece, come vedremo,
indipendente dalla teoria delle parallele. Se non che, continua l'Allman,
l'Hankel nel citare questa dimostrazione da Bretschneider dice che «si può
obiettare che essa non presenta affatto un colorito speci- ficamente greco, ma
ricorda i metodi indiani. Questa ipotesi circa l'origine orientale del teorema
mi sembra ben fondata; io attribuirei pertanto la scoperta agli egiziani, da
cui poi Pitagora lo avrebbe tratto. Indiani od egiziani pare che sia la stessa
cosa, pur di togliere ogni merito a Pitagora! Ad ogni modo, sia pure
derivandolo dall'India, dall'Egitto o dalla civiltà minoi- ca, questa sarebbe,
secondo l'Allman ed il Bretschnei- der, la dimostrazione data da Pitagora; si
vorrà almeno ammettere che, pure inspirandosi alla via suggerita dalla figura,
la dimostrazione logica gli appartenga; altrimenti dove sarebbe il merito che
Proclo e tutta l'antichità han- no riconosciuto in proposito a Pitagora? Del
resto l'apprezzamento sul carattere più o meno indiano od egizia- no della
dimostrazione non ci sembra abbastanza sicuro ed impersonale, ed applicando
codesto criterio è probabile che si dovrebbe assegnare una provenienza orienta-
le anche ad altri teoremi che invece sono sicuramente greci. Noi mostreremo
come una dimostrazione del teorema basata sopra questa figura si ottenga molto
semplice- ALLMAN, Greek Geometry, HANKEL H., Zur Geschichte der Mathematik in
Alterthum und mittel-Alter, Leipsig. mente usufruendo del teorema dei due retti
e delle sue immediate conseguenze. Ed, anticipando, notiamo subi- to che in
tale dimostrazione ci serviremo degli stessi cri- teri di composizione e
decomposizione delle figure di cui Platone fa uso nel Timeo e nel Menone32, e
che in conseguenza tale dimostrazione non soltanto ha colorito greco, ma ha il
colorito pitagorico della dimostrazione del Menone. 32 PLATONE, Timeo,
XX; Menone, Da quanto precede risulta che occorre risolvere questa questione
essenziale e preliminare: Trovare in qual modo gli antichi pitagorici
dimostravano il teorema dei due retti. Noi sappiamo soltanto che essi ne davano
una dimo- strazione che non era quella basata sopra il postulato delle
parallele; e questo porta con una certa sicurezza a concludere che non
ammettevano tale postulato. Questa prova indiretta, per altro, trova conferma
nel fatto che non soltanto il postulato, ma il concetto stesso di rette
parallele, definite almeno con Euclide come ret- te che prolungate all'infinito
non si incontrano mai, doveva apparire particolarmente ripugnante alla
mentalità pitagorica per la quale il finito, il limitato era il compiuto e
perfetto mentre l'infinito, l'illimitato era l'imperfet- to. D'altra parte,
escludendo il V postulato, e facendo uso solamente di quanto precede la 29a
proposizione del libro primo di Euclide, non è possibile, crediamo, di per-
venire allo scopo; e bisogna supporre quindi che gli an- tichi pitagorici
dovevano ammettere qualche altra sem- plice proprietà che permetteva di dimostrare
il teorema. Nulla di strano che ciò avvenisse; dice infatti il Tannery che al
tempo di Pitagora il numero delle verità ammesse come primordiali era, senza
dubbio, molto più consi- derevole; ed il progresso deve essere consistito più
che altro nella riduzione degli assiomi». Abbiamo vedu- to che tra queste
verità primordiali ammesse dagli anti- chi pitagorici il Tannery propende a
ritenere figurasse un postulato della similitudine; ma se questo può servire per
giungere alla dimostrazione del teorema di Pitagora non serve per quello dei
due retti, perché conduce alla dimostrazione ordinaria di questo teorema e non
a quella arcaica, ignota, ma di cui conosciamo la esistenza e la indipendenza
dal postulato di Euclide. Per la stessa ra- gione ed anche per la sua relativa
complessità bisogna escludere che i pitagorici ricorressero ad un postulato
come quello enunciato dal Severi e che abbiamo riporta- to in principio. Queste
considerazioni di carattere razionale permetto- no di escludere che si debba
ricorrere a simili postulati; ma con sole considerazioni razionali non è
sperabile di afferrare quale possa essere il postulato cui ricorrere; possiamo
soltanto aggiungere che deve trattarsi di qual- che proprietà che seguitò
naturalmente a sussistere dopo l'adozione del postulato delle parallele e dopo
l'assetto dato da Euclide alla geometria, ma che disparve in se- guito dal
numero delle proprietà primordiali, divenendo probabilmente una ovvia
conseguenza del nuovo postu- lato. Determinare quale fosse è questione di
inspirazione piuttosto che di ragionamento; diciamo inspirazione e 25 non
capriccio o fantasia, ed aggiungiamo che dovremo sottoporla ad ogni possibile
controllo, esaminare se ar- monizza con la mentalità pitagorica e se consente
uno sviluppo pari allo sviluppo effettivamente raggiunto dai pitagorici e
capace di condurre ai risultati conseguiti da essi, quali Proclo ci ha
tramandati. Ben inteso poi, e lo diciamo esplicitamente a scanso di equivoci e
per precisione, che per necessità e per bre- vità noi presupponiamo ed
ammettiamo accettato o di- mostrato dai pitagorici il contenuto delle prime 28
pro- posizioni di Euclide; ossia quanto precede il postulato delle parallele e
la teoria delle parallele; in quanto che a noi interessa ed occorre indagare come
si possano dimo- strare le proposizioni nelle quali la geometria pitagorica
sappiamo che differiva da quella euclidea. Sostanzial- mente ammettiamo e
supponiamo che i pitagorici (espli- citamente o no) ammettessero: i postulati
di deter- minazione e appartenenza; i postulati relativi alla divisione in
parti della retta e del piano (riferiti se si vuole a rette finite e piani
finiti); i postulati della congruenza o del movimento. E riteniamo dimostrate e
note ai pitagorici le proprie- tà che cogli ordinarii procedimenti se ne
ricavano, e cioè: i criteri ordinari di
eguaglianza dei triangoli; le relazioni tra gli elementi di uno stesso
triangolo; i teoremi sopra i triangoli isosceli, equilateri ed a lati di-
suguali; il teorema dell'angolo esterno (maggiore di ciascuno degli interni non
adiacenti), il teorema sopra un lato e la somma degli altri due. l'unicità
della perpendicolare per un punto ad una retta, la proprietà delle
perpendicolari ad una stessa ret- ta, le proprietà delle perpendicolari e delle
oblique, del- l'asse di un segmento... ossia quanto si ottiene in sostan- za
con gli ordinari postulati e procedimenti e senza il postulato di Euclide.
Adoperando il linguaggio moderno, abbiamo detto che occorre introdurre un nuovo
postulato, ossia ritrovare l'antico postulato, per poter dimostrare il teorema
dei due retti. Ma non sappiamo con quale termine gli antichi designassero le
verità primordiali da cui traevano logi- camente le altre proposizioni della
geometria. La parola postulatum, in cui è trasparente il carattere di esigenza
logica attribuito al concetto così designato, corrisponde al greco αἴτημα ed al
medio latino petitio, ed appare come termine matematico nell'edizione latina di
Euclide del Commandino, e come termine filosofico nella versione latina della
Reth. ad Alexan. del Philelphus. La distinzione in ipotesi, assiomi e postulati
è di Aristotele; ed Euclide, naturalmente, fa uso del termine αἴτημα.
Nell'edificio geometrico logico degli antichi figurava- no necessariamente
delle verità primordiali ammesse senza dimostrazione, ma non è detto che questo
avvenisse per pura necessità logica, per dare al ragionamento il necessario
punto di partenza; né è detto che venissero
scelte e stabilite avendo riguardo unicamente all'intui- zione ed
all'esperienza sensibili ordinarie. Occorre tenere presente che la mentalità
geometrica dei pitagorici era ben diversa dalla mentalità moderna che ha per
ideale una geometria pura, astratta, esistente unicamente nel mondo della
logica. Al contrario, osserva Rostagni, «Religione, morale, politica, scienze
matematiche non rappresentavano per i pitagorici materie separate; o veramente
si individuarono in progresso di tempo ma non cessarono mai di essere
emanazioni e dipendenze della cosmologia... Lo spirito cosmologico, ch'è insito
nella filosofia pitagorica, sta al di sopra di quelle specifica- zioni, e le
domina tutte, indifferentemente. Archita, il pitagorico amico di Platone, in un
frammento riportato da Nicomaco ed in un altro riportato da Porfirio, dice che
la geometria, l'aritmetica, la sferica (l'astronomia sferica), e la musica sono
delle scienze che sembrano sorelle. La geometria non era per essi una
disciplina esclusi- vamente logica, fatta dall'uomo e per l'uomo, indipen-
dente della realtà cosmica, come potrebbe essere il gioco degli scacchi; era la
scienza che ha oggetto di studio il cosmo sotto l'aspetto della posizione e
dell'estensione. L'aritmetica è la scienza del ritmo, ῥυθμός, ἀριθμός, del
numero, del tempo, dell'intervallo; ed Archita distin- ROSTAGNI, Il verbo di
Pitagora, ed. Bocca, Torino Cfr. A. ED. CHAIGNET, Pythagore et la philosophie
pythagoricienne; Paris, gueva inoltre un tempo fisico ed un tempo psichico. Ed
è evidente il nesso che con queste due scienze ancor oggi sorelle avevano le
altre due, la astronomia sferica e la musica. Inoltre occorre ricordare che
questa visione sintetica che legava tra di loro le varie scienze non era
presumibilmente basata sopra la sola intuizione ed esperienza sensibile umana
ordinaria e non aveva per oggetto soltanto la φύσις, la natura, il mondo dell'ἄλλο,
dell'alterazione, del divenire; ma anche l'eterna ed olimpicamente inalterabile
ἐστὼ τῶν πραγμάτον, l'essenza delle cose, l'al di là del περιέχον, della fascia
cosmica, che avvolge il mondo dei quattro elementi e dei dieci corpi celesti.
Dieci secoli dopo Pitagora, Proclo assegna ancora all'intelligibile e non al
sensibile gli oggetti della geometria. Tenuto conto di tutto questo, la verità
primordiale che introduciamo, e che riteniamo ammessa dai pitagorici è la
seguente, che chiameremo: Postulato pitagorico della rotazione: se un piano
ruota rigidamente sopra se stesso in un verso assegnato attorno ad un suo punto
fisso (centro di rotazione) di un angolo (convesso) assegnato, ogni retta
situata nel piano si muove anche essa, e le posizioni iniziale e finale della
retta (orientata), se si incontrano, formano un angolo eguale a quello di cui
ha ruotato il piano. Questa verità primordiale dal punto di vista moderno è
innegabilmente un semplice dato dell'intuizione, dell'osservazione e
dell'esperienza. Quando una ruota gira, un segmento qualunque, giacente e
rigidamente connesso con il piano della ruota, si muove anche esso, e gira
sempre in un verso se la ruota fa altrettanto, e gira più o meno a seconda che
più o meno gira la ruota; e l'intuizione e l'osservazione dicono che la
rotazione del segmento è eguale alla rotazione del raggio vettore. D'altra
parte la capacità di confrontare fra loro gli angoli non poteva fare difetto ai
pitagorici; giacché, secondo Eudemo, il problema, un poco più arduo, di
costruire un angolo eguale ad un angolo assegnato, dato il vertice ed un lato
dell'angolo da costruire, è una invenzione piuttosto di Oinopide da Chio che di
Euclide; ed Oinopide è forse un pitagorico. All'adozione di questo postulato
parte dei moderni obbietterà che esso non prescinde dal movimento; ma occorre
osservare che non si tratta qui di discutere le questioni teoriche del
movimento e della congruenza, si tratta di giudicare se questo postulato possa
essere stato una delle verità primordiali ammesse dai pitagorici, ed il fatto
che esso si basa sul movimento, anzi sulla rotazio- ne, non porta in proposito
nessun pregiudizio. Il movimento, ed in particolare il movimento di rotazione,
si presentava come aspetto saliente e caratteristico della vita cosmica, e
perciò non solo poteva ma doveva pita- goricamente avere la sua funzione anche
nella geometria. La tendenza a fare a meno per quanto è possibile del movimento
è una tendenza di Euclide, e questa sua antipatia ha forse contribuito alla sua
grande innovazio- ne, alla teoria delle rette che prolungate all'infinito non
si incontrano mai. Sono rette di cui nessuno ha mai potuto procurarsi
l'esperienza sensibile e nemmeno quella intelligibile, ma Euclide non era un pitagorico
e gli basta che la definizione delle parallele ed il relativo po- stulato gli
dessero il mezzo necessario per procedere nella sua via. Il postulato
pitagorico della rotazione non coincide, naturalmente, con l'ordinario
postulato della rotazione. Il postulato ordinario della rotazione ci dice che
quan- do un piano ruota intorno ad un suo punto fisso O di un certo angolo α,
tutti i punti di una retta qualunque AB del piano ruotano intorno ad O, in modo
che due raggi vettori qualunque OA, OB vanno rispettiva- mente in OA', OB' tali
che ^AOA' = ̂BOB' = α, e la retta AB va in A'B' ed ogni altro punto C della AB
va in un punto C' di A'B' disposto rispetto ai pûnti A' e B' come C è disposto
rispetto ad Ae B, ed è COC' = α. Ogni punto della AB ruota dunque di α. Il
postulato pi- tagorico della rotazione afferma che inoltre tutta la retta AB,
con tale rotazione, se incontra la A'B', forma con essa l'angolo α. Nel caso di
un raggio vettore OA la so- vrapposizione ad OA' si ottiene con la semplice
rotazio- ne intorno ad un suo punto O, nel caso di una retta qua- lunque AB la
sovrapposizione si ottiene con una rota- zione eguale intorno ad un punto
esterno O, oppure con una rotazione eguale attorno al punto di intersezione (se
esiste) delle AB ed A'B' seguita da una opportuna traslazione. Il postulato
afferma l'eguaglianza di queste due rotazioni; e, se ogni punto della AB ruota
di α, non era naturale affermare che l'insieme di tali punti, ossia la AB,
ruotava anche esso di α? Dal postulato segue poi immediatamente che se la ret-
ta r con due rotazioni consecutive nello stesso senso si
portaprimainr1epoidar1inr2,l'angolo r̂r2 èegua- le alla somma r̂ r 1+ ̂r1 r 2 .
Perciò la proprietà si estende subito al caso dell'angolo concavo e dell'angolo
giro. Nel caso della rotazione di mezzo giro, condotta dal centro di rotazione
la perpendicolare OH alla AB, il raggio vettore OH si porta sul prolungamento
OH', la AB si porta sulla perpendicolare ad OH' per H', ed il postulato
pitagorico ci dice che se essa incontrasse la AB forme- rebbe con essa un
angolo piatto. Ma siccome è noto che due rette perpendicolari in punti diversi
H, H' ad una stessa retta non si incontrano, ci si limita a riconoscere che in
questo caso le posizioni iniziale e finale della ret- ta non si incontrano.
Naturalmente non ne segue affatto che per ogni altra rotazione esse debbano
incontrarsi. Notiamo infine come il postulato si potrebbe anche enunciare sotto
forma diversa. Per esempio: Se il piano ruota sopra se stesso in un certo senso
intorno ad un punto fisso l'angolo formato da una retta qualunque del piano con
la sua posizione finale è costante; oppure: se il piano compie due rotazioni
consecutive nello stesso senso con le quali la r va prima in r1 e poi in r2
allora r̂r2=̂rr1+̂r1r2 . Ma ci sembra che la forma che abbiamo prescelto
aderisca in modo più immediato alla osservazione ed abbia quindi maggiore
probabilità di coincidere con la verità primordiale ammessa dai pitagorici. Con
l'aiuto di questo postulato il teorema dei due retti nel caso del triangolo
equilatero si dimostra imme- diatamente. Naturalmente ciò presuppone che
esistano dei trian- goli equilateri e che si sappia costruire un triangolo
equilatero di lato assegnato. La considerazione del triangolo equilatero doveva
comparire molto presto nella geometria pitagorica, per la corrispondenza che
essi scorgevano tra i primi quattro numeri, ed il punto, la retta (individuata
e limitata da due punti), il piano ed il triangolo individuato da tre, e lo
spazio o il volume indi- viduato da quattro punti. Non è forse un caso se anche
in Euclide la prima proposizione del primo libro ha ap- punto per oggetto il
triangolo equilatero. E giacché se ne presenta l'occasione notiamo che in essa
Euclide am- mette tacitamente ed implicitamente il postulato che se una
circonferenza ha il centro su di un'altra circonferenza ed un punto interno ad
essa, la taglia. Così pure del resto è ammesso tacitamente in Euclide l'altro
caso par- ticolare del postulato di continuità, e cioè che il segmen- to
congiungente due punti situati da parte opposta di una retta è tagliato da
essa. Posto ciò, per dimostrare il nostro teorema basta conoscere il 1o e 2o
criterio di eguaglianza dei triangoli con i loro corollari sul triangolo
isoscele e sul triangolo equilatero, ed applicare il postulato pitagorico della
ro- tazione. Dimostriamo dunque il TEOREMA: La somma degli angoli di un
triangolo equilatero è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo equilatero
(fig. 5), e quindi equiangolo. 34 La bisettrice dell'angolo ̂CAB incontra
il lato opposto in un punto D interno ad esso, e poiché i due punti A e D si
trovano da parte opposta della bisettrice di ^ACB, le due bisettrici si
tagliano in un punto O inter- no al triangolo dato. Gli angoli ̂OAC ,̂OCA sono
eguali perché metà di angoli eguali, e quindi OAC è isoscele ed OA = OC. I
triangoli ACO, BCO sono eguali per il 1o criterio, e perciò OB = OA = OC e
^OBC=^OAC; e perciò OB è bisettrice dell'angolo ^ABC. I tre triangoli isosceli
OAB, OBC, OAC sono quindi eguali (2o o 3o criterio) e gli angoli al vertice
̂AOC,̂COB,̂BOA sono eguali. Facendo ruotare la figura attorno ad O dell'angolo
^COB, ilverticeCvainB,BinA,edAinC,laCBsi porta sul̂la BA e l'angolo da esse
formato, cioè l'angolo esterno CBE è eguale per postulato all'angolo ̂COB.
Proseguendo nella rotazione, con due altre rotazioni eguali, la figura si
sovrappone a se stessa; e la somma dei tre angoli di rotazione, ossia dei tre
angoli esterni del triangolo dato, è eguale ad un angolo giro, ossia a quattro
retti. D'altra parte ogni angolo interno di ABC è supple- mentare dell'angolo
esterno; perciò la loro somma sarà eguale a sei retti meno la somma degli
angoli esterni, ossia a sei retti meno quattro retti: ossia a due retti. c. d.
d. 35 5. La verità del teorema nel primo caso, secondo Eu- tocio e
Gemino, dimostrato dai pitagorici è dunque una conseguenza immediata del
postulato pitagorico della rotazione. Dimostrato il teorema agevolmente in
questo caso particolare, era naturale che gli antichi si chiedes- sero cosa
avveniva in generale, ed era naturale che pri- ma del caso generale essi
studiassero l'altro caso parti- colare del triangolo isoscele. In questo
secondo caso la dimostrazione non è così immediata; occorre premettere
parecchie altre proposi- zioni tutte dimostrabili con una certa facilità e
senza bi- sogno del postulato di Euclide, come del resto si trovano in Euclide
stesso e nei testi moderni. Ad essi rimandia- mo per le dimostrazioni e ci
limitiamo a ricordare queste proprietà, che sono del resto comprese tra quelle
indicate innanzi: La bisettrice dell'angolo al vertice di tal triangolo
isoscele è anche mediana ed altezza. Esistenza, unicità e determinazione del
punto medio di un segmento. Teorema dell'angolo esterno di un triangolo. La
somma di due angoli interni di un triangolo è sempre minore di due retti. Se un
angolo di un triangolo è maggiore od eguale ad un retto gli altri due sono
acuti. Se in un triangolo un lato a è corrispondentemente maggiore eguale o
minore di un secondo lato b, l'angolo ̂A opposto ad a è corrispondentemente
36 maggiore, eguale o minore dell'angolo B̂ opposto a b; e viceversa. Se
un triangolo ha un angolo ottuso o retto, il lato opposto ad esso è il
maggiore. In un triangolo un lato è minore della somma degli altri due. Definizione, esistenza, unicità della
perpendicolare ad una retta per un punto. Teoremi inversi sopra la mediana e
l'altezza del triangolo isoscele. Teoremi sull'asse di un segmento e sulle
bisettrici degli angoli formati da due rette concorrenti. Premesso questo
dimostriamo il TEOREMA: La somma degli angoli interni di un triangolo isoscele
è eguale a due retti. Sia ABC il triangolo isoscele e sia AB = AC e quindi
^ABC=^ACB; sia AH la bisettrice, mediana ed altezza del triangolo isoscele. Si
dimostra come nê l caso precedente che la bisettrice dell'angolo alla base ABC
incontra la AH in un punto O interno, e congiunto O con C dall'eguaglianza (1o
criterio) dei triangoli BAO, CAO segue che OB = OC e perciò ^OBC=^OCB, e perciò
CO è la bisettrice di ^ACB. D'altra parte, essendo BC < AB + AC sarà la metà
BH < AB = AC; e presi allora sui lati BK = CL = BH i punti K ed L risultano
interni rispettivamente ad AB ed AC. Congiunto O con K e con L, i triangoli
OKB, OHB, OHC, OLC risultano eguali per il 1o criterio, e perciò OH = OK = OL,
e le AB, AC rispettivamente perpendi- colari ad OK ed OL. Facciamo adesso
ruotare la figura intorno ad O, in modo che OH ruota in OK, la BC per-
pendicolare ad OH si porta sulla retta BA perpendicolare alla OK in K, e per il
postulato della rotazione l'ango- lo esterno ̂VBA del triangolo dato risulta
eguale all'angolo di rotazione ^HOK. Continuandolarotazionenel- lo stesso verso
OK va su OL, la AB perpendicolare ad OK va su CA perpendicolare ad OL e
l'angolo esterno ^BAT è eguale a ^KOL. Proseguendo la rotazione e portando OL
sopra OH la figura ritorna, dopo un giro completo, sopra se stessa, ed
^ACS=^LOH . La somma dei tre angoli esterni è eguale all'intera ro- tazione di
quattro retti; ed anche questa volta, essendo i tre angoli del triangolo dato
rispettivamente supplemen- tari degli angoli esterni adiacenti, la loro somma
sarà eguale a sei retti meno la somma degli angoli esterni, ossia a sei retti
meno quattro retti, ossia a due retti c. d. d. 6. Passiamo al caso generale.
Occorre solo premettere i seguenti teoremi, che si di- mostrano agevolmente per
assurdo, e che per brevità ci limitiamo ad enunciare. In un triangolo
acutangolo i piedi delle tre altezze sono interni ai lati. b) In un triangolo
ottusangolo o rettangolo il piede dell'altezza relativa al lato maggiore è
interno al lato. Basta questo per dimostrare che: TEOREMA. In un triangolo
qualunque la somma dei tre angoli è eguale a due retti. Sia A il vertice
dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo qualunque ABC. Abbassata
l'altezza AH, il piede H è interno a BC e l'angolo ^BAC è diviso in due parti
dalla AH. Sul prolungamento di AH prendiamo HA' = AH e congiungiamo A con B e
con C. I triangoli rettangoli AHB, A'HB sono eguali per il lo criterio, quindi
BA = BA' e ^BAH=^BA'H; analoga- mente ^CAH=^CA'H. 39 Per il teorema
precedente applicato ai due triangoli isosceli BAA', CAA' si ha: ̂ABA '+ ̂BAA
'+ ̂BA ' A=due retti ed, essendo BH bisettrice del triangolo isoscele BAA', si
ha: Analogamente e sommando ossia ^ACH+^CAA '=un retto, ^ABH+^BAA '=un retto .
^ABH+^ACH+^BA ' A+^CAA '=due retti, ^ABC+^ACB+^BAC=due retti. Il teorema è così
dimostrato in generale. 7. La dimostrazione si è presentata immediata nel pri-
mo caso menzionato da Eutocio-Gemino, e poi ordinata- mente per gli altri due
casi da essi menzionati. Occorre però osservare: 1o che la dimostrazione del
primo caso è, da un punto di vista moderno, superflua, perché il secondo caso
include il primo; 2o che il caso generale si può anche dimostrare direttamente
in modo da includere gli altri due. Per ottenere questa dimostrazione generale
occorre solo premettere due teoremi, che sono i seguenti: TEOREMA: Due
triangoli rettangoli aventi l'ipote- nusa eguale ed un angolo acuto eguale sono
eguali. Sia (fig. 8) ̂A=̂A' = 90°; a=a'; B^=^B'. 40 Se BA = B'A' il
teorema è dimostrato; se fosse invece ad esempio B'A'>BA, preso B'D'=BA, il
triangolo B'D'C' risulta per il 1o criterio eguale al triangolo BAC; quindi
C'D' perpendicolare a B'A', e questo non può ac- cadere perché da C non si può
condurre che una sola perpendicolare alla B'A'. L'altro teorema che occorre
premettere è il seguente. TEOREMA: Due triangoli rettangoli aventi le ipote-
nuse eguali ed un cateto eguali sono eguali. Siano (fig. 9) BAC, B'A'C' i due
triangoli, ^A=^A '=90°, BC=B'C', CA= CA'. Preso A'B''=AB il triangolo
rettangolo C'A'B'' è egua- le a CAB, C'B"=CB=CB', e nel triangolo isoscele
41 B'C'B'' l'altezza è anche mediana, quindi B'A'=A'B''=AB.
Premesso questo si ottiene la seguente dimostrazione generale del teorema fondamentale:
Sia A (fig. 10) il vertice dell'eventuale angolo retto od ottuso del triangolo
ABC; e conduciamo le bisettrici de- gli angoli ^BAC, ^ABC . Si dimostra al
solito che esse si incontrano in un punto O interno al triangolo ABC. Gli
angoli ^ABO, ^BAO metà di angoli convessi sono acuti, dimodoché nel triangolo
OAB l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice O, e perciò in tutti i
casi, abbassando da O la perpendicolare OH ad AB il piede H è̂interno ad AB.
Congiunto O con C l'angolo acuto ACB è diviso in due angoli acuti, dimodoché
anche nei triangoli AOC, BOC l'eventuale angolo non acuto è quello di vertice
O, ed anche in essi i piedi L e K delle perpendicolari abbassate da O sopra AC
e BC sono in tutti i casi rispettivamente interni ad AC e BC. I triangoli rettangoli
OBK, OBH hanno l'ipotenusa eguale ed un angolo acuto eguale; perciò sono
eguali, ed 42 OK=OH. Analogamente sono eguali i triangoli OAH, OAL
e quindi OH=OL. Ma allora i triangoli rettangoli OLC, OKC hanno l'ipotenusa in
comune, il cateto OL=OK, sono quindi eguali e perciò OC è bisettrice di ^ACB.
Si ha dunque che le tre bisettrici degli angoli interni di un triangolo
qualunque si incontrano in un punto interno al triangolo, tale che, abbassando
da esso le perpendicolari ai lati i tre piedi H, L, K sono interni ai tre lati,
e si ha: OH=OK=OL. Non resta adesso che fare ruotare la figura attorno ad O,
portando successivamente OK su OH, OL, OK e la retta BC andrà successivamente
sulla AB, CA, BC; gli angoli esterni del triangolo ABC per il postulato pitago-
rico della rotazione risulteranno rispettivamente eguali ai tre angoli ^KOH,
^HOL, ^LOK; la loro somma sarà quattro retti, e quella degli angoli interni
sarà due retti. 8. Questa dimostrazione rende dunque superflue le due
precedenti; ed in ogni caso la dimostrazione nel caso del triangolo isoscele
include quella del triangolo equilatero. Se ne deve concludere che non è questa
la dimostrazione in tre tappe degli antichi pitagorici, menzionata da Eutocio e
Gemino? Concludere in questo senso equivarrebbe ad attribuire agli antichi la
tendenza e l'abitudine moderna alla gene- ralizzazione, ossia significherebbe
giudicare alla stregua della nostra mentalità. Per obbedire alle nostre norme
avrebbero dovuto rinunziare a dimostrare subito il teorema nel primo e semplice
caso ed attendere (e perché mai?) di avere trovato il modo di dimostrarlo nel
secon- do e nel terzo caso. Non va dimenticato inoltre che essi scoprirono il
teorema; ed è probabile che la scoperta sia avvenuta per il caso del triangolo
equilatero; soltanto dopo ed in conseguenza sarà sorto il dubbio se il teore-
ma valesse in generale, e solo dopo e con ben altra fati- ca saranno giunti a
dimostrarlo negli altri due casi; quin- di il passo di Eutocio si può riferire
non soltanto all'ordi- ne dell'esposizione pitagorica del teorema ma all'ordine
cronologico, storico delle loro scoperte. Perciò, a meno che si riesca a
dedurre ed in modo ab- bastanza semplice il secondo caso dal primo, siamo con-
vinti che le nostre dimostrazioni sono proprio quelle de- gli antichi, e quasi
quasi riteniamo che anche nel terzo caso essi non dedussero la dimostrazione
dal secondo caso, ma preferirono per analogia di dimostrazione ri- correre
ancora al postulato della rotazione. Si tenga presente ad ogni modo quanto scriveva
il Tannery35: «credo inutile insistere sulla difficoltà che sembrano avere
trovato i primi geometri ad elevarsi alle generalizzazioni più semplici»,
citando ad esempio proprio il caso del teorema dei due retti. Comunque siamo
giunti a questo risultato: Abbiamo dimostrato il teorema fondamentale sopra la
somma de- gli angoli di un triangolo senza fare uso del postulato e del
concetto delle rette parallele. È un risultato di una TANNERY, La Géom. gr. certa
importanza se il postulato pitagorico della rotazio- ne non equivale al
postulato di Euclide. 9. Effettivamente il postulato pitagorico della rotazio-
ne non è equivalente al postulato dì Euclide. Ed ecco perché. Abbiamo veduto
che dal postulato pitagorico della ro- tazione se ne deduce il teorema dei due
retti. Viceversa, ammettendo che la somma degli angoli di un triangolo sia una
costante, se ne deduce il nostro postulato. Sia, infatti (fig. 4), O il centro
di rotazione ed S il punto d'incontro della posizione iniziale e finale della
retta r. Prendiamo sulla r un punto A situato rispetto alla r' dalla parte di
O, ed uno B da parte opposta; la r' taglia in un punto T il segmento OB. La
rotazione che porta r in r' porta il punto A in un punto A' e B in un punto B'
ed è ̂AOA '=̂BOB ' l'angolo di rotazione. I triangoli AOB, A'OB' sono eguali,
quindi B^=^B'. I triangoli OTB', STB hanno dunque gli angoli B^ = ^B ',
^OTB'=^STB; e, se ammettiamo che la somma degli angoli di un triangolo
qualunque sia costante, il terzo angolo ̂TSB r̂isulterà eguale al terzo angolo ^B
' OB ; ossia l'angolo rr ' eguale all'angolo di rotazione, come dovevasi
dimostrare. Dunque il postulato pitagorico del- la rotazione e la proposizione
sopra la costanza della somma degli angoli di un triangolo si equivalgono come
postulati. Ammettendo quindi la costanza della somma degli angoli di un
triangolo si potrebbe dedurne il nostro postulato della rotazione, ed
applicandolo al caso del trian- golo equilatero, si troverebbe subito che la
quantità di cui si è ammessa la costanza è eguale a due retti. Girolamo
Saccheri propose, come è noto, la nozione che la somma degli angoli di un
triangolo è eguale a due retti in sostituzione del postulato di Euclide, ed il
Le- gendre ha dimostrato che, se si ammette anche il postu- lato di Archimede,
la proposizione Saccheri equivale ef- fettivamente al postulato di Euclide. Ne
segue immedia- tamente che se oltre al postulato pitagorico della rota- zione
ammettessimo anche quello di Archimede esso equivarrebbe a quello di Euclide.
Se non si ammette altro, esso non equivale al postula- to di Euclide. Infatti
Dehn dimostra che l'ipotesi del Saccheri è compatibile non solo con l'ordinaria
geometria elementare, ma anche con una nuova geometria, necessariamente non
archimedea, dove non vale il V postulato, ed in cui per un punto passano
infinite non secanti rispetto ad una retta data. Math. Ann., B. 53, Die
Legendre'schen Sätze über die Winkelsumme in Dreieck; cfr. BONOLA, Sulla teo-
ria delle parallele e sulle Geometrie non euclidee, in ENRIQUEZ, Questioni
riguardanti le Matematiche elementari. Dehn chiama questa geometria: geometria
semi-euclidea. Lo stesso vale senz'altro per il nostro postulato. Una
volta ammessa la proposizione Saccheri o l'equivalente postulato pitagorico
della rotazione, si può: ammettere il postulato di Archimede, ed allora ne
risulta dimostrato quello di Euclide; e si ottiene l'ordina- ria geometria
euclidea ed archimedea. negare quello di Euclide, e quindi necessaria- mente
anche quello di Archimede; e si ottiene la geome- tria semieuclidea del Dehn.
ignorare completamente i due postulati d’Euclide e d’Archimede e le questioni
relative, e sviluppare una geometria più generale, indipendente dalla loro
accettazione o negazione (e valevole quindi nei due casi), come conseguenza del
teorema dei due retti oramai otte- nuto. Gli antichi pitagorici ignoravano
quasi certamente il postulato di Archimede38, ed avevano ottenuto la dimo-
strazione del teorema dei due retti con un procedimento indipendente dalla
teoria delle parallele. Non introducendo il postulato di Archimede noi veniamo
a trovarci esattamente nella stessa posizione. Se i pitagorici antichi non
hanno fatto uso del concetto di pa- La proposizione 1a del libro X di Euclide
equivale all'assio- ma di Archimede. Da alcuni passi di Archimede, risulta che,
prima ancora, Eudosso aveva fatto uso di questo «lemma»; ed Loria ritiene che
l'origine di questo lemma debba farsi risalire ad Ip- pocrate da Chio (cfr.
LORIA, Le scienze esatte nell'antica Grecia). Comunque gli antichi pitagorici
dovevano ignorare il postulato di Archimede. rallela, deve essere possibile
adesso, dal teorema dei due retti, sempre senza ricorrere al postulato di
Euclide ed a quello di Archimede, dedurre una dopo l'altra tutte le scoperte
attribuite da Proclo ai pitagorici. Se questo ac- cade questa geometria più
generale concorderà o coinci- derà con la geometria della Scuola Italica. 10.
Prima di proseguire vogliamo però esporre una via più rapida per dedurre dal
postulato pitagorico della rotazione il teorema dei due retti. Dal vertice
A dell'angolo retto (fig. 11) di un triango- lo rettangolo qualunque OAS
conduciamo la perpendi- colare AH all'ipotenusa, e sul prolungamento prendiamo
HA'=AH. Sappiamo che H è interno ad OS; congiunto A' con O e con S, i triangoli
rettangoli OHA', SHA' ri- sultano rispettivamente eguali ai due OAH, SHA; e
quindi OA=OA', SA=SA', ^OAH=^OA'H, ̂SAH=̂SA'H ed ̂SA'O=̂SA'H+̂OA'H =
^SAH+^OAH=unretto. Perciò, facendo ruotare intor- no ad O dell'angolo ^AOA', la
AS va sopra la perpen- dicolare in A' ad OA', ossia sulla A'S, e perciò per il
po- stulato della rotazione ^AOA '=^A ' ST . Ne segue che ^AOA ' ed ^ASA ' sono
quadrilatero AOA'S si ha: supplementari, e quindi nel ^SAO + ^AOA ' + ^OA ' S +
^A ' SA = 4 retti . E siccome le altezze SH, OH dei triangoli isosceli SAA',
OAA' bisecano gli angoli al vertice la somma ̂HSA + ̂SAO+ ̂AOH è la metà della
precedente, ossia abbiamo il teorema: In un triangolo rettangolo qualun- que la
somma degli angoli è eguale a due retti. Dal triangolo rettangolo qualunque si passa
a quello isoscele (ed in particolare a quello equilatero), condu- cendo la
bisettrice dell'angolo al vertice che è anche l'altezza; ed essendo oramai
complementari gli angoli acuti di un triangolo rettangolo qualunque, la somma
degli angoli acuti dei due triangoli rettangoli in cui è decomposto il
triangolo isoscele risulta eguale a due retti. Dal caso del triangolo isoscele
si passa a quello generale nel modo già visto. La via tenuta, passando per le
tre tappe menzionate da Gemino, è quella probabilmente tenuta dagli scopritori
della proprietà; oggi, a scoperta fatta, è più speditivo procedere nel modo ora
indicato. Abbiamo avuto bisogno del postulato pitagorico della rotazione per
dimostrare il teorema dei due retti. Da ora in poi, in tutto quanto segue, non
ne avremo più bisogno, perché ci basta il teorema dei due retti ad esso, come
sappiamo, equivalente. E, siccome sappiamo39 che i pitagorici conoscevano il
teorema dei due retti perché lo dimostravano, la restituzione della geometria
pitago- rica procede da ora in poi partendo da questa loro sicura conoscenza,
comunque ottenuta, ma senza il postulato delle parallele. Anche se la via
tenuta per ottenere il teorema dei due retti fosse stata un'altra, sempre però
indi- pendentemente dal postulato di Euclide, ci troveremmo sempre nella
medesima situazione di fronte al problema della restituzione della geometria
pitagorica, come sviluppo e conseguenza del teorema dei due retti. Limiteremo
la nostra indagine a quanto occorre per ottenere i risultati attribuiti da
Proclo ai pitagorici, La testimonianza di Eutocio, pur essendo Eutocio
posteriore anche a Proclo, è attendibile. Dice LORIA (Le scienze esatte) che
Eutocio, di mediocrissimo ingegno, è però assai diligente, accurato e
coscienzioso. È difficile d'altra parte inventare una notizia così precisa e
circostanziata. omettendo spesso le dimostrazioni quando coincidono con quelle
a tutti note. E per prima cosa vediamo come il teorema dei due retti consenta
immediatamente la costruzione e la consi- derazione del quadrato e del
rettangolo e la dimostrazione del teorema di Pitagora. E notiamo come dal
teorema dei due retti discendano subito, tra le altre, le seguenti conseguenze:
Gli angoli acuti di un triangolo rettangolo sono complementari; ed in quello
rettangolo isoscele sono eguali a mezzo retto. L'angolo del triangolo
equilatero è eguale ad un terzo di due retti. L'angolo esterno di un triangolo
qualunque è egua- le alla somma dei due interni non adiacenti. Passando ai
quadrilateri, osserviamo subito che Euclide ne distingue, nelle sue
definizioni, cinque: il qua- drato, il rettangolo, il rombo, il romboide, e
tutti gli al- tri. Essi sono definiti e distinti da Euclide in base alla
eguaglianza dei lati e degli angoli, e la definizione di rette parallele viene subito
dopo; mentre invece nel testo la costruzione del quadrato si basa sulle
parallele e com- pare alla fine del primo libro. Definito il quadrato come un
quadrilatero con tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti, la costruzione
di un quadrato di lato assegnato AB, e quindi la sua esistenza, discendono
invece dal teorema dei due retti e da esso soltanto. Condotto AC eguale e
perpendicolare ad AB, i due angoli alla base del triangolo rettangolo iso-
scele ABC sono eguali a mezzo retto. Conduciamo per B la semiretta
perpendicolare ad AB dalla parte di C, e prendiamô su essa BD = AB = AC; la BC
divide l'ango- lo retto ABC in due parti eguali; A e D stanno da parti opposte
rispetto a CB, e quindi la CB divide l'an- 40 Adoperiamo il termine: semiretta
per brevità di elocuzione; ma il concetto di rette e semirette prolungate
all'infinito non puo, ci sembra, essere condiviso dai pitagorici.
Effettivamente del resto la 2a, 3a e 4a definizione di Euclide si riferiscono
alla linea ed alla retta limitata, cioè al nostro segmento; ed il postulato se-
condo di Euclide ammette solo che la retta, cioè il segmento, si può prolungare
κατὰ τὸ συνεχές. Bisognerebbe dunque dire: da B si conduca dalla parte di C
rispetto a D un segmento perpendico- lare ad AB, e su esso convenientemente
prolungato se occorre, si prenda il segmento BD = AC... La definizione 23a di
Euclide ed il postulato V introducono il concetto di rette infinite. Si tratta
dun- que di un'aggiunta non conforme allo spirito dell'antica geometria e che
male si adatta alle altre definizioni dell'elenco stesso che precede il testo
di Euclide. golo ^ACD. I triangoli ABC, DBC risultano eguali per il 1o
criterio, quindi CD = AC, e ̂DCB=̂ACB, ̂CDB=̂CAB. Il quadrilatero ABCD ha
dunque tutti i lati eguali e tutti gli angoli retti; è dunque, per definizio-
ne, un quadrato. La diagonale BC lo divide in due trian- goli rettangoli
isosceli eguali. Si dimostra facilmente che AD = BC e che le due diagonali si
tagliano nel pun- to medio e sono perpendicolari tra loro. 3. Definizione,
esistenza, costruzione e proprietà del rettangolo. Prendiamo la seguente
definizione: Rettangolo è un quadrilatero con tutti gli angoli retti. Sia ABD
(fig. 13) un triangolo rettangolo qualunque ed A il vertice dell'an- golo
retto. Condotta per B la semiretta perpendicolare ad AB dalla parte di D
rispetto ad AB, e preso su di essa BC = AD, C ed A rimangono da parti opposte
rispetto a BD perché, essendo ̂ABD acuto ed ̂ABC retto la BD divide l'angolo
retto ^ABC. Congiunto C con D, i triangoli ABD, CBD sono eguali per il 1o
criterio, e quindi DC=AB, ^DCB=^DAB=unretto, 53 ^CDB=^ABD; e ̂
siccome sappiamo che ̂ABD è complemento di ADB anche CDB sarà comple- mento di
^ADB, ossia anche il quarto angolo ̂ADC del quadrilatero ABCD è retto; esso è dunque
un rettan- golo. I lati opposti sono eguali ed i loro prolungamenti non si
possono incontrare perché sono perpendicolari ad una stessa retta; si dimostra
facilmente che la diagonale AC è eguale a BD e che esse si tagliano per metà.
Viceversa se ABCD è un rettangolo, si osserva per principiare che i vertici C e
D debbono stare da una stessa parte rispetto ad AB, perché altrimenti la CD sa-
rebbe tagliata in un punto M dalla AB, e dai triangoli rettangoli ADM, CBM
risulterebbe che gli angoli non potrebbero essere retti. Sia dun- ^ADC, ̂DCB
que ABCD un rettangolo; la BD determina i due trian- goli rettangoli ABD, CBD,
ed essendo in entrambi acuti gli angoli adiacenti all'ipotenusa, la BD divide i
due an- goli retti di vertici B e D del rettangolo, e lascia A e C da parti
opposte; inoltre ̂CBD è complemento di ^ABD, e quindi ^CBD=^ADB; similmente
^CDB=^ABD, ed i due triangoli rettangoli ABD, CBD sono eguali, e CD = AB, BC =
AD ecc. Per costruire il rettangolo di lati eguali ad AB ed AD, si prendono a
partire dal vertice A di un angolo retto so- pra i due lati i segmenti AB, AD;
si conduce per B la perpendicolare ad AB, e su di essa dalla parte di D si
prende BC = AD, si unisce C con D ed ABCD è il ret- tangolo richiesto. Il
teorema dei due retti con le conseguenti proprietà del triangolo rettangolo
assicurava dunque immediata- mente ai pitagorici l'effettiva esistenza dei
quadrati e dei rettangoli, ne permetteva la costruzione, e ne dava le proprietà
fondamentali. Per dimostrare adesso la proprietà relativa ai poligoni regolari
congruenti attorno ad un vertice comune, biso- gnerebbe passare alla
considerazione dei poligoni qua- lunque; ma, siccome per dimostrare il teorema
di Pita- gora non abbiamo bisogno di altro, passiamo senz'altro alla
dimostrazione di questo teorema fondamentale. TEOREMA DI PITAGORA. In un
triangolo ret- tangolo qualunque il quadrato costruito sull'ipotenusa è eguale
alla somma dei quadrati costruiti sopra i cateti. Adoperiamo l'antica
espressione: eguale, invece della moderna equivalente, anche perché nella
dimostrazione ci serviremo (come fa Euclide nella sua) della «nozione comune»
di eguaglianza per differenza, e non della no- zione di eguaglianza additiva
che sola conduce al con- cetto di equivalenza (Duhamel) o di equicomposizione
(Severi). Nel caso particolare del triangolo rettangolo isoscele, Platone dà
nel Menone la seguente dimostrazione: pre- PLATONE, Menone. Una traduzione
corretta e completa del passo di Platone trovasi nelle Scienze esatte
nell'antica Grecia di LORIA. Platone conosceva la validità so un quadrato ABCD
e riunitine altri tre eguali congruenti in un vertice come è indicato in figura
si ot- tiene un quadrato quadruplo del dato. Dividendo poi ciascuno di quei
quattro quadrati con la diagonale si ot- tiene un quadrato che è doppio del
quadrato dato, perché composto di quattro triangoli eguali ad ABC, mentre il
quadrato dato lo è di due. Passando al caso generale, tra le settanta ed oltre
di- mostrazioni conosciute, le più semplici sono: 1o quella suggerita dal
Bretschneider, il cui autore è ignoto ai moderni, ma di cui si sa che è antica;
2o quella ideata da Abu'l Hasan Tabit (morto nel 901 d.C.) e di cui ci ha
serbato memoria Anarizio; 3o quella di Baskara posteriore a Tabit. La prima,
sia perché non si sa a chi vada attribuita, sia per la sua del teorema nel caso
del triangolo rettangolo che ha l'ipotenusa doppia del cateto minore; risulta
dal Timeo. Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche.Cfr. G. LORIA, Storia delle
Matematiche.grande semplicità, può darsi benissimo, e noi ne siamo convinti,
che sia quella di Pitagora. Vediamo come questa dimostrazione si possa fare
senza il postulato delle parallele. Supponiamo che nel triangolo rettangolo ABC
sia  l'angolo retto ed AC il cateto maggiore. Sul prolungamento del cateto AC
prendiamo CD = AB e sul prolungamento di AB prendiamo BE = AC. Ne segue AE =
AD. Per C e per D conduciamo dalla parte di B ri- spetto ad AD le semirette
perpendicolari alla AD e pren- diamo su esse DP = CK = AB; e congiungiamo K con
P e con B. I due quadrilateri ABKC, CKPD risultano per costruzione
rispettivamente un rettangolo ed un quadra- to; e precisamente il rettangolo è
eguale al doppio del triangolo rettangolo dato, ed il quadrato ha per lato un
segmento eguale al cateto AB del triangolo dato. Essi sono separati e situati
da parti opposte del lato comune CK, perché le tre semirette AB, CK, DP
perpendicolari ad una stessa retta AD non si incontrano due a due, e siccome C
è compreso tra A e D, la DP e la AB stanno da parti opposte della CK. Essendo
poi retti gli angoli di vertice K del rettangolo e del quadrato la loro somma è
un angolo piatto, e quindi i punti P, K, B risultano alli- neati sopra una
perpendicolare comune alle rette DP, CK, AB. Sui prolungamenti delle DP e CK
dalla parte opposta alla AD prendiamo i segmenti PF = KM = BE = AC, e congiungiamo
M con F e con E. Il quadrilatero PKMF risulta un rettangolo per costruzione ed
anche esso è il doppio del triangolo dato ABC; KMBE risulta un qua- drato che
ha per lato un segmento eguale al cateto AC del triangolo dato; ed anche i tre
punti F, M, E risultano allineati sopra una perpendicolare comune alle tre
rette AB, CK, DP. Si riconosce subito che il quadrilatero AEFD ha tutti gli
angoli retti e tutti i lati eguali e quindi è un quadrato. La terna delle tre
rette AB, CK, DP e la terna delle tre rette AD, BP, EF sono tra loro
perpendicolari, e poiché K è compreso tra C ed M, e tra B e P, CM e BP dividono
il quadrato AEFD in quattro parti. Esso è quindi eguale alla loro somma. Il
quadrato AEFD è dunque eguale alla somma del quadrato costruito sul cateto AB,
del quadrato costruito sul cateto AC, e di quattro triangoli rettangoli eguali
al dato. Prendiamo ora sopra DF ed FE i segmenti DG = FH = AC e congiungiamo C
con G, G con H ed H con B. I triangoli rettangoli ABC, DCG, FGH, EHB risultano
eguali per il 1o criterio e perciò il quadrilatero CGHB ha 58 tutti i
lati eguali. Inoltre siccome le semirette GC e GH stanno da una stessa parte
rispetto alla DF e gli angoli DGC, FGH sono acuti e complementari (perché
^FGH=^DCG ) l'angolo ̂CGH che si ottiene toglien- do dall'angolo piatto i due
angoli ^DGC, ̂FGH risul- ta retto; in modo analogo si dimostrano retti gli
altri an- goli del quadrilatero CGHB, il quale dunque è il quadra- to costruito
sull'ipotenusa BC del triangolo dato. Siccome poi ̂DCG è acuto e ̂DCM retto, il
trian- golo CGD ed il quadrilatero CGFM stanno da parti op- poste rispetto a
CG. CG divide dunque l'intero quadrato in due parti e cioè il triangolo CDG ed
il poligono CGFEA. E poiché ̂CGF è ottuso e ̂CGH retto, il po- ligono
precedente è diviso da GH in due parti e cioè il triangolo GFH ed il poligono
CGHEA; questo a sua vol- ta è diviso dalla HB in due parti e cioè il triangolo
HBE ed il poligono CGHBA, il quale finalmente è diviso dal- la BC nel triangolo
ABC e nel quadrato CGHB. Il quadrato CGHB si ottiene dunque dal quadrato ADFE
togliendone quattro triangoli rettangoli eguali ad ABC. Ma togliendo dal
quadrato ADFE i due rettangoli ABKC, KMFB, ossia quattro triangoli eguali al
dato, si ottiene la somma dei quadrati costruiti sui cateti AB ed AC, e siccome
la seconda nozione euclidea (che si trova però già in Aristotele) dice che
togliendo da cose eguali cose eguali si ottengono cose eguali. Così il quadrato
costruito sull'ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti.
Ammettendo il postulato pitagorico della rotazione ed ignorando i due postulati
d’Euclide e d’Archimede, abbiamo così ottenuto subito i due teoremi
fondamentali della geometria: il teorema dei due retti, e da questo il teorema
di Pitagora. Essi sono validi entrambi tanto nella ordinaria geometria euclidea
ed archimedea quanto nella geometria più generale che ammette il postulato
pitagorico della rotazione e prescinde dai postulati di Euclide e di Archimede.
Il teorema di Pitagora si presenta così come primo teorema nella teoria
dell'equivalenza; precisamente come, secondo il Tannery, avveniva coi
pitagorici. Esso sta alla base di questa teoria e non alla fine. La
dimostrazione che ne abbiamo dato dipende unicamente dal teorema dei due retti,
noto agli antichi pitagorici, e dalle sue conseguenze immediate. Si sa che una
dimostrazio- ne basata sulla figura che abbiamo adoperato esisteva, è antica,
ed il suo autore non è noto agli storici moderni della matematica. Noi non
abbiamo fatto altro che ren- derla indipendente dal postulato di Euclide, di
cui i pitagorici non si servivano per dimostrare il teorema dei due retti e che
diventa perciò superfluo anche per il teorema di Pitagora. Tutto sommato, non
ci sembra affatto improbabile che questa sia proprio la dimostrazione che il
fondatore della «Scuola Italica» scoprì e dette venticinque secoli fa. Con essa
il teorema è valido nel senso di eguaglianza per differenza in una geometria
che ignora od anche che nega i postulati di Euclide e di Archimede. La
dimostrazione del testo d’Euclide prova la validità del teorema di Pitagora
sempre nel senso di eguaglianza per differenza se ed anche se si ammette il
postulato delle parallele e nulla si dice di quello d’Archimede. Le
dimostrazioni moderne ne provano la validità nel senso di eguaglianza addittiva
(Duhamel), equivalenza od equicomposizione (Severi), se ed anche se si ammette
insieme al postulato d’Euclide anche quello d’Archimede. Dalla dimostrazione
che abbiamo dato del teorema di Pitagora si traggono subito, e con la massima
sempli- cità, i tre importanti teoremi espressi con le notazioni moderne dalle
formule: (a+ b)2=a2+ 2ab+ b2 (a–b)2=a2 –2ab+b2 (a+b)(a–b)=a2 –b2 Quanto al
primo basta semplicemente osservare la figura per riconoscere che: TEOREMA: Il
quadrato che ha per lato la somma di due segmenti (AB e BE) è eguale alla somma
del qua- drato (CKPD) costruito sul primo segmento, del qua- drato (BEMK)
costruito sul secondo segmento e di due rettangoli aventi i lati eguali ai
segmenti dati. Nel caso che i due segmenti siano eguali il teorema diventa: il
quadrato che ha il lato doppio del lato di un quadrato dato è quadruplo di
questo44. Premessi i seguenti teoremi: 44 PLATONE, Menone, XVII. 61
am+bm=(a+b)m am–bm=(a–b)m di immediata dimostrazione, dalla figura,
ponendo AE=a, AB=b si ha BE=a – b, e (BE)2 =quad. ED + quad. DK – 2 rett. ABDP
ossia (a – b)2=a2+ b2 –2ab cioè il TEOREMA: Se un segmento è eguale alla
differenza di due segmenti il quadrato costruito su di esso è eguale alla somma
dei quadrati costruiti sui due segmenti di- minuita di due volte il rettangolo
che ha per lati i due segmenti. Ponendo poi AE=a, BE=b e AB=d dalla fig. 15 si
ha: la differenza dei quadrati costruiti su AE e BE è data dallo gnomone
ADFMKB; ossia: e quindi: a2 – b2 – ad + bd=(a+ b)d a 2 – b 2 =( a + b ) ( a – b
) ossia il TEOREMA: La differenza di due quadrati è eguale al rettangolo che ha
per lati la somma e la differenza dei due segmenti. Questo gnomone non è altro
che la squadra dei muratori; e nel caso in cui a sia l'ipotenusa e b un cateto
di un triangolo rettangolo, lo gnomone è eguale al quadrato costruito
sull'altro cateto. I tre teoremi inversi si possono dimostrare facilmente; così
pure il 62 TEOREMA INVERSO DI PITAGORA: Se il quadrato costruito sopra un
lato di un triangolo è eguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri
due, il triangolo è rettangolo ed il primo lato è l'ipotenusa. Usando per
brevità le notazioni moderne supponiamo che tra i lati a, b, c di un triangolo
sussista la relazione: a2=b2+c2. Costruitoiltriangolorettangolodicatetib e c, e
chiamandone a1 l'ipotenusa, si ha per il teorema di Pitagora: a12=b2 +c2, e
supponendo ad esempio a>a1, si ha sottraendo: e quindi: a 2 – a 12 = ( b 2 +
c 2 ) – ( b 2 + c 2 ) (a+ a1)(a – a1)=0 Questo può accadere solo se a=a1; ma
allora i due triangoli sono eguali, e quindi il triangolo dato è rettan- golo,
come volevasi dimostrare. 7. Altri due importanti teoremi che si deducono im-
mediatamente sono i due così detti teoremi di Euclide. 63 TEOREMA:
Il quadrato costruito sopra l'altezza di un triangolo rettangolo è eguale al
rettangolo avente per lati le proiezioni dei cateti sopra l'ipotenusa. Sia AH
(fig. 16) l'altezza del triangolo rettangolo ABC. E siano m, n le proiezioni
CH, HB dei due cateti. Indicando per comodità, rettangoli e quadrati con le no-
tazioni moderne (ma senza introdurre con questo i con- cetti di proporzione e
di misura), dal triangolo rettango- lo ABC si ha: e perciò: D'altra parte
quindi: ma quindi anche: m2+ h2=b2 m2+ h2+ c2=b2+ c2 a=m+ n m2+n2+2mn=a2 b2+
c2=a2 m2+h2+c2=m2+n2+2mn e per la seconda nozione comune: [α] ma e quindi: e
h2+ c2=n2+ 2 mn c2=h2+ n2 h2+ c2=2h2+ n2 2h2+n2=n2+2mn; 2h2=2mn 64 [β]
h2=mn Dimostrato questo teorema, osserviamo che il secon- do membro della [α] è
la somma di due rettangoli aventi la medesima altezza n e le basi n e 2m; esso
è quindi eguale al rettangolo di base n + 2m, ed altezza n, ossia: n2+ 2mn=n(n+
2m)=h2+ c2 n(n+ m)+ nm=h2+ c2 n(n+ m)=c2 na=c2 Si ha dunque il teorema:
TEOREMA: Il quadrato costruito sopra un cateto di un triangolo rettangolo è
uguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa e la proiezione del cateto
sopra l'i- potenusa. Questo è il così detto primo teorema di Euclide.
Ricordiamo che Proclo ci attesta che il teorema non è do- vuto ad Euclide e che
ad Euclide appartiene solo la dimostrazione che si trova nel testo degli
Elementi (Libro). In Euclide la dimostrazione si basa sopra il postu- lato
delle parallele; da essa poi si ottiene il teorema di Pitagora, e dai due
l'altro teorema così detto di Euclide. Da questo teorema segue immediatamente
il seguente corollario. COROLLARIO: Se due triangoli rettangoli sono tra loro
equiangoli ed un cateto di uno di essi è eguale all'i- 65 od anche: e per la
[β] ossia potenusa dell'altro, il quadrato costruito sul cateto del primo
è eguale al rettangolo che ha per lati l'ipotenusa del primo ed il cateto
omologo del secondo. Siano i triangoli rettangoli ABC, A'B'C e sia Ĉ =Ĉ ed AC =
B'C' = b. Si ha allora, abbassando l'altezza AH del primo trian- golo, c. d. d.
b2=(AC)2 –BC·HC=ab' Di questo corollario ci serviremo in seguito. Tra le
conseguenze del teorema di Pitagora ha massima importanza la scoperta delle
grandezze incommen- surabili, che sorge dall'applicazione del teorema ad un
triangolo rettangolo isoscele. Ma ciò non rientra nel nostro tema; così pure
non ci occuperemo dei metodi attribuiti a Pitagora per la formazione dei
triangoli rettangoli aventi per misura dei lati dei numeri interi45. 8. Dallo
studio dei rettangoli dobbiamo ora passare a quello dei quadrilateri e dei
poligoni in generale. Dal TANNERY, La Géom. gr., triangolo rettangolo isoscele
e dal triangolo rettangolo qualunque abbiamo ottenuto quadrato e rettangolo e
le loro proprietà. In modo simile, partendo dal triangolo isoscele e dallo
scaleno, si ottiene il rombo ed il romboide. Rombo, secondo la definizione che
si trova in Euclide, è il quadrilatero equilatero ma non rettangolo (perché in
tal caso si chiama “quadrato” [GRICE, IMPLICATURE: A square is a quadrilatero
rettangolo]. Sia ABD un triangolo isoscele non rettangolo, e dal vertice B
della base BD conduciamo la semiret- ta BC da parte opposta di A rispetto alla
BD, formante con la BD un angolo ^DBC=^ABD, e prendiamo BC = BA. Siccome ̂ABD è
acuto, sarà ̂ABC convesso; e quindi C e D stanno dalla stessa parte rispetto ad
AB, mentre C ed A sono da parti opposte rispetto a BD. Uniamo C con D: i due
triangoli ABD, CBD risulteran- no eguali per il 1o criterio e quindi i quattro
lati del qua- drilatero ABCD sono eguali. Esso è dunque un rombo. Gl’angoli  e
Ĉ sono eguali, e si riconosce subito che anche ^ADC=^ABC; la diagonale BD
biseca gli angoli del rombo; l'asse di BD passa per A e per C; quindi anche
l'altra diagonale biseca gli angoli, è perpendicolare alla prima ed il loro
punto d'intersezione è il loro punto medio. Viceversa se il quadrilatero ABCD è
un rombo, se cioè AB = BC = CD = DA (supponendo i vertici ordinati), osserviamo
prima di tutto che i vertici B e C non possono trovarsi da parti opposte
rispetto ad AD. Supposto infatti che ciò accada, il vertice C non può trovarsi
rispetto alla BD dalla stessa parte di A, perché i due triangoli isosceli ABD,
CBD con la base in comune ed eguali per il 3o criterio coinciderebbero e C
coinciderebbe con A. Ma neppure può accadere che il vertice C stia da parte
opposta di A rispetto a BD e di B rispetto ad AD, perché l'asse della base
comune BD dei due trian- goli isosceli deve passare per A, per C e per il punto
medio di BD, e quindi la semiretta AC sta tutta rispetto ad AD dalla parte di
B. Dunque se un quadrilatero ha i quattro lati eguali due vertici consecutivi
sono situati dalla stessa parte della congiungente gli altri due vertici.
Essendo poi A e C da parti opposte di BD questa diago- nale divide il rombo in
due triangoli isosceli eguali e di- vide per metà i due angoli B^ e ^D del
rombo; l'altra diagonale AC non è che l'asse di BD; le due diagonali si
tagliano dunque internamente, nel loro punto medio, sono perpendicolari tra
loro, e bisecano gli angoli del rombo. La definizione di romboide data dagl’elementi
d’Euclide è la seguente. Romboide è il quadrilatero che ha i lati e gli angoli
opposti eguali tra loro, ma non è né equilatero (ossia rombo), né eteromeco
(ossia un rettan- golo). Euclide chiama poi trapezii tutti gli altri
quadrilateri. Subito dopo compare, in Euclide, la definizione di rette
parallele, e manca invece completamente, sia tra le definizioni, sia nel testo,
la definizione di parallelogrammo; mancanza sensibile anche per il fatto che
sappiamo da Proclo che la locuzione parallelogrammo è una invenzione d’Euclide.
Abbiamo già osservato che la definizione euclidea di rette parallele, che è la
23a ed ultima, come il postulato delle parallele è l'ultimo nell'elenco dei
postulati, non va troppo d'accordo con le definizioni 2a, 3a e 4a per le quali
la retta è sempre finita; ora troviamo che la definizione dei quadrilateri
precede e fa astrazione dal concetto di parallele e che manca in conseguenza la
definizione di parallelogrammo. Si ha l'impressione che l'elenco delle
definizioni a noi giunte insieme al testo di Euclide sia l'antico o più antico,
e che la classificazione dei quadrilateri ivi contenuta sia la classificazione
antica, con appiccicata a guisa di coda la 23a ed ultima definizione, come il
postulato delle parallele è appiccicato in fondo all'elenco degli altri
postulati. Questa classificazione dei quadrilateri è più conforme ad una
geometria come quella che stiamo ricostruendo che non alla geometria euclidea,
basata sul V postulato; PROCLO, ed. Teubner. Cfr. ALLMAN, Greek Geometry, e si
spiega con il fatto che i quattro quadrilateri: quadrato, rettangolo, rombo e
romboide si ottengono operando in modo assolutamente identico sopra il
triangolo rettan- golo isoscele, il triangolo rettangolo qualunque, il
triangolo isoscele e, come vedremo, il triangolo scaleno (non rettangolo).
Anche il romboide, infatti, si ottiene con questo procedimento. Sia, infatti,
ABD un triangolo qua- lunque. Condotta da B la semiretta BC dalla parte oppo-
sta ad A rispetto a BD e formante l'angolo ^DBC=^ADB, e preso su essa BC = AD,
si unisca C con D. Sarà ̂ABC=̂ABD+̂ADB e quindi minore di due retti; la BC sta
dunque insieme a D dalla stessa parte rispetto ad AB. I triangoli DBC ed ABD
sono eguali per il 1o criterio; quindi CD = ̂AB, ^CDB=^ABD; e, poiché la BD divide
l’angolo ABC e quindi anche ^ADC, si ha anche ^ABC=^ADC. Abbiamo dunque
costruito un quadrilatero ABCD coi lati opposti eguali e gli angoli opposti
eguali, ossia un romboide. Unito ora il punto medio M di BD con A e con C, i
triangoli ADM, CBM risultano eguali per il 1o criterio; quindi ̂DMA=̂CMB e
perciò i tre punti A, M, C sono allineati; MA = MC. Le diagonali del romboide
si tagliano dunque per metà. Ognuna delle due diagonali di- vide il romboide in
due triangoli eguali, la somma degli angoli del romboide è conseguentemente
eguale a quat- tro retti (il che vale anche per il rombo), e poiché gli angoli
opposti sono eguali quelli consecutivi sono supple- mentari. Viceversa, se si
escludono dalle nostre considerazioni i poligoni intrecciati e quelli non
convessi, si dimostra che se un quadrilatero ABCD ha i lati opposti eguali esso
è un romboide. Con tale ipotesi gli angoli del qua- drilatero debbono essere
tutti convessi; se fosse infatti ̂DAB un angolo concavo il vertice C dovrebbe
stare rispetto a BD dalla stessa parte di A ed essere esterno al triangolo BDA
e così pure dovrebbe essere A esterno al triangolo BCD, perché, se fosse p.e. A
interno al triangolo DCB, sarebbe, come si può dimostrare, la somma di AD ed AB
minore della somma di CD e CB, mentre con l'ipotesi fatta le due somme devono
essere eguali. Ma se A è esterno a BCD, e C è esterno a ABD, ed A e C stanno da
una stessa parte di BD il quadrilatero ABCD viene intrecciato. Ne segue che il
quadrilatero ABCD ha gli angoli convessi. Essendo DAB convesso il vertice C sta
rispetto a BD da parte opposta di A, perché se stesse dalla stessa parte il
quadrilatero sarebbe intrecciato oppure avrebbe con- cavo l'angolo C^ . Il
quadrilatero ABCD, allora, è diviso dalla diagonale BD in due triangoli eguali
per il 3o criterio, e gli angoli opposti risultano eguali; avendo quindi lati
opposti ed angoli opposti eguali esso è un romboide. Così pure si dimostra che
se un quadrilatero convesso ha gli angoli opposti eguali, esso è un romboide.
Anche in questo caso A e C non possono stare dalla stessa parte rispetto a BD,
perché essendo eguali gli angoli ^A e C^ il vertice C non può stare dentro il
triangolo DAB, né il vertice A dentro il triangolo DCB, e perché se A è ester-
no a DCB e C a DBA, ed A e C stanno dalla stessa parte di BD, il quadrilatero
ABCD risulta intrecciato contro la ipotesi. Stando dunque A e C da parte
opposta di BD la BD divide il quadrilatero in due triangoli, e perciò la somma
dei quattro angoli del quadrilatero viene eguale a quattro retti. Essendo
eguali le coppie di angoli opposti si avrà allora ^CDA+^DAB=due retti; e quindi
̂CDB = due ret- ti meno la somma di ̂BDA e ^DAB. Ma per il teorema dei due
retti questa somma ha per supplemento l'angolo ^ABD, e perciò ^CDB=^ADB.
Analogamente ^DBC=^ADB, e quindi i due triangoli ABD, DBC sono eguali per il
secondo criterio, ed è AB = DC e AD = BC, ed il quadrilatero ABCD è un
romboide. Si vede poi facilmente, riconducendosi al primo caso che se un
quadrilatero ha le diagonali che si tagliano per metà, esso è un romboide47.
10. Abbiamo veduto così, senza neppure parlare di rette parallele, come si
possono definire quadrato, rettangolo, rombo e romboide, e riconoscere le loro
pro- prietà caratteristiche. Si può dimostrare facilmente che il punto d'incontro
delle diagonali nel romboide (e quindi anche negli altri tre quadrilateri) è un
centro di figura, e che le perpendi- colari condotte da esso ai lati opposti
sono per diritto. Facendo ruotare allora la figura intorno a questo punto, nel
caso del quadrato, un lato si porta successivamente sopra gli altri ed ogni
vertice sul consecutivo, e la figura si sovrappone a se stessa con ogni
rotazione di un ango- lo retto; nel caso del rombo la retta di un lato si
sovrap- 47 Non ignoriamo che per soddisfare l'esigenza moderna della
generalizzazione avremmo dovuto trattare subito il caso generale dei romboidi e
dedurne poi le proprietà nei casi particolari del rombo, del rettangolo e del
quadrato. Ma il nostro scopo non è quello di fare una nuova geometria, al
contrario è quello di resti- tuire l'antica geometria pitagorica, quale
verisimilmente e probabilmente era; e riteniamo che per riuscirvi convenga, se
non ne- cessita, rifarsi una mentalitità pitagorica, pre-euclidea, senza ec-
cessivi ossequii per le abitudini e le esigenze moderne. L'ordine cui ci siamo
attenuti è quello della classificazione dei quadrilateri nelle «definizioni di
Euclide», e siamo persuasi che questo ordine risponde all'ordine cronologico di
scoperta ed a quello espositivo della trattazione dei quadrilateri da parte dei
pitagorici. pone successivamente alla retta degli altri lati, e nel caso
del rettangolo e del romboide ciò accade solo per la ro- tazione di mezzo giro.
Il rombo gode dunque della stessa proprietà di cui gode un triangolo qualunque
quando ruota intorno al punto d'incontro delle tre bisettrici, ed il quadrato
si comporta come il triangolo equilatero sovrapponendosi a se stesso quattro
volte in un giro completo come quel- lo tre volte. Se facciamo queste
considerazioni è perché il nome stesso del rombo e quindi anche quello del
romboide ci pare legato ad esse. In greco, infatti, dicono i dizionari, ῥόμβος
(da ῥέμβω) designa ogni corpo di figura circola- re o mosso in giro.
Anticamente era il nome del fuso, e nel funzionamento del fuso le fila tessute
prendevano la forma del rombo. Rimase poi il nome di rombo al rom- bo di bronzo
di cui è menzione nei misteri di Rea, la madre frigia presso i greci, ed uno
scoliaste alle Argonautiche d’Apollonio dice che il rombo è un rocchetto che
vien fatto girare battendolo con delle striscie di latta. Archita pitagorico
parla in un suo frammento di questi rombi magici che si fanno girare nei
misteri. Apollonio, Argonautiche. In OMERO (Iliade) sono chiamati anche
στρόμβοι. Anche Proclo (Teubner) dice che sembra che anche il nome sia venuto
al rombo dal movimento. MIELI (si veda) che riporta il testo greco di Archita
traduce ῥόμβοι in tamburi (MIELI – Le scuole jonica, pythagorica) e lo CHAIGNET
traduce: les toupies magi- Cosicché la classificazione dei quadrilateri che si
trova negli Elementi di Euclide, non solamente è indipendente dal concetto di
parallele, ed ha tutta l'aria di essere pre- euclidea, ma nella terminologia
sembra riconnettersi al postulato della rotazione pitagorica, ed alle proprietà
dei triangoli che vi si riferiscono. La proprietà riscontrata per il triangolo
equilatero e per il quadrato sussiste per ogni poligono convesso equilatero ed
equiangolo, inscritto in una circonferenza. Supposto diviso l'angolo giro, od
una circonferenza, in n parti eguali, e presi a partire dal centro sopra i
raggi n segmenti eguali, riunendone consecutivamente gli estre- mi si ottiene
un poligono regolare, decomposto in n triangoli isosceli eguali tra loro e di
eguale altezza (apo- tema del poligono). Facendo ruotare la figura intorno al
centro di un 1n di angolo giro il poligono si sovrappo- ne a se stesso; e
quindi in un giro completo si sovrappo- ne n volte su se stesso. Per il
postulato della rotazione l'angolo esterno risulta 1n di quattro retti, e
quello interno il suo supplemento. Aumentando n, l'angolo interno va crescendo
e si può calcolarne il valore per n = 5, 6, ... ques. Siamo ora in grado
di occuparci della scoperta pitago- rica dei poligoni regolari congruenti
attorno ad un vertice che riempiono il piano. I poligoni debbono essere almeno
tre, ed occorre che l'angolo del poligono sia contenuto esattamente nell'angolo
giro. Questo accade con il triangolo equilatero il cui angolo è la sesta parte
di quattro retti; con il quadra- to il cui angolo è la quarta parte di quattro
retti, non si verifica con il pentagono regolare, si verifica con l'esa- gono
il cui angolo è un terzo di giro; e non può verificarsi con altri poligoni
regolari perché se il numero dei lati supera il sei l'angolo interno supera il
terzo di giro. Questa scoperta è dunque una conseguenza del teorema dei due
retti; risulta cioè da una dimostrazione, come Proclo ci ha riferito, e non è
affatto un dato empirico che ha servito a dedurre il teoremi dei due retti come
Tannery e Allman vorrebbero, malgrado l'esplicita asserzione di Proclo che
della proprietà dei poligoni regolari congruenti attorno ad un vertice fa un
teorema pitagorico. La divisione della
circonferenza in 2, 3, 4, 6, 8, ... parti eguali ed il problema relativo della
inscrizione in essa dei poligoni regolari di 3, 4, 6, 8, ... lati non presenta
difficoltà per i pitagorici. Occorre appena osservare che dalla riunione di sei
triangoli congruenti attorno ad un vertice comune si ottiene appunto l'esagono
regolare il cui lato risulta eguale al raggio della circonferenza circoscritta.
Più difficile invece si presenta il problema della divisione della
circonferenza in 5, 10 parti eguali e della in- scrizione in essa del pentagono
e del decagono regolari; problema che doveva destare nei pitagorici speciale
interesse perché l'arco sotteso dal lato del decagono stava nell'intera
circonferenza come l'unità nella decade. Essi hanno certamente risolto questo
problema, perché altrimenti non avrebbero potuto costruire l'icosaedro ed il
dodecaedro regolare come invece sappiamo hanno fatto. Vediamo come possono aver
fatto, sempre prescindendo dalla teoria delle parallele, della similitudine,
delle proporzioni e dai due postulati di Euclide ed Archimede. Il problema
dell'applicazione semplice, che Euclide risolve dopo avere dimostrato il
teorema sopra i paralle- logrammi complementari (parapleromi) si può risolvere,
in un caso particolare, anche senza ammettere il postulato delle parallele. Il
problema si può enunciare così: Costruire un rettangolo di base data ed eguale
ad un rettangolo od un quadrato assegnato; problema che corrisponde alla
determinazione della soluzione dell'equazione di primo grado: oppure: ax=bc
ax=b2 Se a > b oppure a > c, il problema è risolubile anche nella nostra
geometria. Sia, per esempio, a > b e sia HBCK il rettangolo dato con HB = b
e BC = c. Preso sopra la BH a partire da B e dalla parte di H il segmento BA =
a, completiamo il rettangolo ABCD. Poiché H è compreso tra A e B, questi punti
restano da parti opposte di HK, e così pure i punti C e D; perciò la HK taglia
in un punto P interno la diagonale AC. Conduciamo infine per P la MN
perpendicolare alle AD, HK, BC. Per l'eguaglianza delle coppie di triangoli
ABC, ADC; PNC, PKC; AHP e AMP, risulta sottraendo che il rettangolo HBNP è
eguale (in estensione) al rettangolo MPKD, ed aggiungendo ad entrambi il
rettango- lo PNCK si ha che il rettangolo MNCD è eguale al rettangolo dato
HBCK. Il segmento CN è dunque l'incognito x dell'equazione. Se invece a è
minore tanto di b che di c, ossia se H è esterno al segmento BA, non si ha più
la certezza che la AC prolungata incontri in un punto P il prolungamento del
lato HK. Tale certezza si ottiene solo con la proposi- zione che costituisce il
postulato di Euclide. Ora vale la pena di notare in proposito che Proclo nel
commento ad Euclide (teorema dello gnomone) dice che i tre problemi
dell'applicazione sono scoperte dovute alla musa dei pitagorici secondo οἷ περὶ
τὸν Εὔδημον, e non dice come in tutti gli altri casi che quan- to afferma è
basato sopra l'autorità d’Eudemo. La testimonianza non è questa volta quella
personale di Eudemo, ed a questa indeterminazione nella testimonianza
corrisponde il fatto che gli antichi pitagorici, senza la teoria delle
parallele, potevano risolvere il problema solo nel caso ora veduto. Esso è del
resto quello che ci interessa, perché per- mette di risolvere le questioni che
ci si presenteranno in seguito. Per risolvere, dopo quello dell'applicazione
semplice (parabola), gli altri due problemi dell'applicazione, dob- biamo
premettere il seguente teorema ed il suo inverso: TEOREMA: Il punto medio
dell'ipotenusa di un triangolo rettangolo è equidistante dai tre vertici, ed
in- versamente se in un triangolo il punto medio di un lato è equidistante dai
tre vertici esso è rettangolo. Sia ABC il triangolo rettangolo (fig. 21), ed A il
verti- ce dell'angolo retto. Conduciamo per A dalla parte di C rispetto ad AB
la semiretta che forma con AB un angolo eguale all'angolo (acuto) ^ABC. Essa è
interna all'an- golo retto ^CAB, sega quindi l'ipotenusa BC in un pun- to O
interno, formando due triangoli isosceli OAB, OAC (il secondo ha gli angoli
alla base complementari di angoli eguali); quindi O, punto medio
dell'ipotenusa, è equidistante dai tre vertici. Viceversa, se nel
triangolo ABC è O il punto medio di BC ed è OA = OB = OC, risulta ^OAC=^OCA;
^OAB=^OBA,, siccome per il teorema dei due retti la 80 somma di questi
quattro angoli è eguale a due retti si avrà: ^OAC+^OAB=unretto. Notiamo che le
due altezze dei triangoli isosceli li suddividono in triangoli rettangoli
eguali e si ha: OM=12AC; ON=12AB 3. Passiamo agli altri due problemi
dell'applicazione. Il problema dell'applicazione in difetto (ellissi) si può
enunciare così: Costruire un rettangolo di area data b2 e tale che la
differenza tra il rettangolo di eguale altezza e base assegnata ed esso sia un
quadrato. Più moderna- mente e più chiaramente: costruire un rettangolo di data
area b2, conoscendo la somma dei lati a. Si tratta cioè di risolvere
l'equazione di secondo gra- do: x (a – x)=b2 Sia ABCD il quadrato di lato AB =
b. Preso sulla AB dalla parte di A il punto O tale che DO sia eguale alla metà
di a, si determinano sulla AB i punti E ed F tali che OE = OD = OF. Per il
teorema precedente il triangolo EDF è rettangolo; e quindi il quadrato co-
struito sull'altezza AD è eguale al rettangolo di lati AF, AE. Costruito il
rettangolo EKGF, con EK = AE, se da esso si toglie il rettangolo AHGF ossia il
quadrato ABCD, la differenza AEKH è appunto un quadrato. Il rettangolo AHGF
risolve dunque il problema, ed è EA la 81 x dell'equazione data. Affinché
il problema ammetta so- luzione reale occorre che sia a>2b. Il problema
dell'applicazione in eccesso (iperbole) si può enunciare così: costruire un
rettangolo di area data b2 e tale che la differenza tra di esso ed il
rettangolo di eguale altezza e base assegnata a sia un quadrato. Il pro- blema
equivale a costruire un rettangolo conoscendone l'area e la differenza dei
lati, ossia corrisponde alla riso- luzione dell'equazione: x(a+ x)=b2 ed
ammette sempre soluzione. Sia ABCD il quadrato di lato b, e prendiamo dalla
parte di B sulla AB il segmento AF'=a. Sia O il punto medio di AF'; e prendiamo
sulla AB i segmenti OE = OD = OF. Il triangolo EDF è rettangolo, ed il qua-
drato dell'altezza ABCD è eguale al rettangolo che ha per lati le proiezioni EA
= EK, ed AF = EF' dei cateti. 82 Se da questo rettangolo si toglie
il rettangolo AHL'F' di eguale altezza e base assegnata AF'= a, si ottiene ap-
punto un quadrato EKHA. Il rettangolo EKL'F' risolve dunque il problema, ed EA
è la x dell'equazione. PROBLEMA. Determinare la parte aurea di un segmento;
ossia dividere un segmento in modo che il quadrato avente per lato la parte
maggiore (parte aurea) sia eguale al rettangolo avente per lati l'intero
segmento e la parte rimanente. Questo problema è un caso particolare del
problema dell'applicazione in eccesso; e precisamente il caso in cui a = b.
Costruiamo il quadrato ABCD sul segmento assegnato AD. Sia O il punto medio di
AD, e prendiamo su AD i segmenti OE = OF = OC. Il triangolo ECF è rettangolo,
quindi il quadrato che ha per lato CD è eguale al rettan- golo EHKD che ha per
lati DK = DF ed ED. 83 Siccome OC e quindi OF è minore di OD + DC,
ri- sulta DF e quindi DK minore di DC; l'altezza del rettan- golo EHDK è dunque
minore del lato AB del quadrato dato mentre la base ED ne è evidentemente
maggiore; perciò la HK divide il quadrato in due parti, e togliendo dal
rettangolo EHKD e dal quadrato ABCD la parte comune AGDK si ha che il quadrato
EHGA è eguale al rettangolo BGKC, che ha per lati il segmento assegnato BC ed
il segmento BG, che è quanto resta del lato AB = BC quando se ne toglie AG,
ossia il lato del quadrato EHGA. Il punto G divide dunque il segmento AB nel
modo richiesto, ossia è AG = EA la parte aurea di AB. Dalla figura risulta che
AD è la parte aurea di ED, mentre la parte rimanente EA è la parte aurea della
parte aurea AD; similmente BG è la parte aurea di AG ecc. L'unicità della parte
aurea di un segmento si dimostra per assurdo. Sia per esempio AS < AG
un'altra soluzio- ne; ossia, con le notazioni moderne: sia: (AS)2 = AB ‧
BS Per l'ipotesi fatta si ha: AG =AS+SG e BG=BS-SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS
‧ SG = (AG)2 ma (AG)2 = AB ‧
BG = AB ‧ BS – AB ‧
SG e quindi (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧ SG = AB ‧
BS – AB ‧ SG e (AS)2 + (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = AB ‧
BS 84 dalla quale, togliendone la prima (SG)2 + 2AS ‧
SG + AB ‧ SG = 0 ossia SG (SG + 2AS + AB) = 0
Questo rettangolo dovrebbe essere nullo; e ciò può accadere solo se SG = 0,
ossia se S coincide con G. 5 TEOREMA: La base di un triangolo isoscele aven- te
l'angolo al vertice eguale alla quinta parte di due ret- ti è la parte aurea
del lato. Un triangolo isoscele VAB che abbia l'ango- lo al vertice di 36° e
quindi quelli alla base di 72°, è diviso dalla bisettrice di uno degli angoli
alla base in due triangoli isosceli CAV, ACB ed i tre segmenti VC, AC, AB
risultano eguali. Il triangolo VAB e il triangolo ACB risultano inoltre
equiangoli tra loro. Abbassando le altezze VH ed AM, e conducendo da H
l'altezza HN del triangolo isoscele AHM, si ha NH=12 BM – 14 BC I triangoli
rettangoli VAH, AHN hanno gli angoli eguali, ed il cateto AH del primo è
l'ipotenusa del se- condo; perciò per un corollario del capitolo precedente si
ha: rett. (VA, NH) = quad. (AH) e quindi: 4 rett. (VA, NH) = 4 quad. (AH) rett.
(VA, 4 NH) = quad. (AB) rett. (VA, BC) = quad. (VC) Dunque VC, ossia AB è la
parte aurea di VB; c.d.d. Si dimostra, per assurdo, il teorema inverso: Se un
triangolo isoscele ha la base che è parte aurea del lato, esso ha l'angolo al
vertice eguale alla quinta parte di due retti. Sia V'A'B' il triangolo dato e
la base A'B' parte aurea del lato V'A'. Costruito il triangolo isoscele VAB con
VA = VB = V'A' e l'angolo al vertice un quinto di due retti, sarà per il
teorema precedente AB parte aurea di VA ossia di V'A'; e per l'unicità della
parte aurea sarà AB = A'B' e quindi i due triangoli eguali c.d.d.50 50 LORIA (Scienze esatte) attribuisce a Pitagora
la costruzione del triangolo isoscele con l'angolo al vertice metà di quello della
base, riportandola alla costruzione della parte aurea; ma per dimostrare che la
base è la parte aurea del lato ricorre alla similitudine dei triangoli VAB, ABC
(fig. 24), e sembra che in- Per costruire un triangolo isoscele con l'angolo al
vertice metà di quello alla base, ossia per costruire un angolo eguale ad un
quinto di due retti od a un decimo dell'angolo giro, basta prendere per lato un
segmento qualunque, e per base la sua parte aurea. Facendo com- piere a tale
triangolo 10 rotazioni attorno al vertice eguali all'angolo al vertice, si
viene a riempire il piano attorno al vertice e si ottiene un decagono regolare.
Viceversa se una circonferenza è divisa in 10 parti eguali, il lato del
decagono regolare inscritto è la parte aurea del raggio. Siamo dunque in grado
di risolvere il PROBLEMA. Dividere una circonferenza in dieci parti eguali.
Uniamo il punto medio C del raggio OA con l'estremo B del raggio perpendicolare
ad OA, e prendia- mo dalla parte di A il segmento CD sulla OA eguale a CB; AD è
la parte aurea del raggio. Essendo AD minore di OA la circonferenza di centro A
e raggio AD taglia in due punti E, P la circonferenza di centro O e raggio OA.
Questo accade, naturalmente, ammettendo tacitamente (come Euclide ha fatto
ancora, due secoli dopo Pitago- ra) il postulato della continuità in un caso
particolare, ammettendo cioè che se un circolo ha il centro A sopra una
circonferenza di centro O e passa per un punto D tenda significare che tale via
fu tenuta anche da Pitagora. Lo svi- luppo che abbiamo mostrato parte, invece,
dal teorema di Pitagora, ed utilizza soltanto conseguenze di questo teorema, in
particolare il corollario ed i problemi dell'applicazione che sappiamo erano
stati risolti dai pitagorici. esterno ed uno interno a tale circonferenza le
due circonferenze si tagliano. Questa proprietà talmente assiomatica che
Euclide non ha sentito il bisogno di postularla, per i pitagorici doveva
costituire un dato di fatto, una verità primordiale. Gli archi AE, AP sono
dunque un decimo della intera circonferenza. Facendo centro successivamente in
E ed in P ecc. con il medesimo raggio si determinano gli altri punti di
divisione, due a due diametralmente opposti es- sendo 10 un numero pari.
Riunendoli successivamente si ottiene il decagono regolare inscritto; riunendo
il primo con il terzo, il terzo con il quinto ecc. si ottiene il pentagono
regolare inscritto. Si vede dunque come partendo dal teorema di Pitagora, e con
i semplici procedi- menti esposti, i pitagorici erano in grado di dividere
la circonferenza in 5 e 10 parti eguali, e di inscrivere in essa il
decagono ed il pentagono regolari. Il pentagono stellato o pentalfa (o
pentagramma) si ottiene pure im- mediatamente conducendo le cinque diagonali
del pentagono; e poiché il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico, la
scoperta della divisione della circonferenza in 10 e 5 parti eguali e la
costruzione del decagono regolare, del pentagono regolare e del pentalfa, vanno
attribuite senz'altro a Pitagora. 7. Le ragioni per le quali il pentalfa fu
prescelto come simbolo dalla nostra Scuola non sono tutte di natura geometrica.
Cosa naturale, data la connessione tra la geometria, le altre scienze e la
cosmologia pitagorica. Ma le proprietà geometriche che legano tra loro il rag-
gio della circonferenza, i lati del pentagono e del deca- gono regolari
inscritti, e quelli del pentalfa e del decago- no stellato o decalfa, sono
tante e così semplici e belle da avere indubbiamente suscitato l'ammirazione
dei pitagorici e da avere contribuito a determinare od a giusti- ficare la
scelta del pentalfa a simbolo della Scuola ed a segno di riconoscimento tra gli
appartenenti all'Ordine. Vediamone ordinatamente una parte. Congiungendo
successivamente i punti di divisione A, B, C,... della circonferenza in 10
parti eguali si ha il decagono regolare ABCDEFGHIL, di cui indi- cheremo il
lato con l10. Esso è la parte aurea del raggio. Congiungendo A con C, C con E
ecc., si ha il pentagono regolare ACEGI di cui indicheremo il lato AC con l5;
congiungendo A con D, D con G ecc., si ha il decagono stellato ADGLCFIBEH
oppure AA'BB'CC'... LL' o decalfa di cui indicheremo il lato con s10;
congiungendo A con E, E con I ecc. si ha il pentalfa AEICG oppure
ANCN1EN2GN3IN4 di cui indicheremo il lato con s5. Congiungendo A con F si
ottiene il diametro, e tiran- do da A le corde AG, AH... degli archi sestuplo
ecc. dell'arco AB si riottengono in ordine inverso i poligoni re- golari già
ottenuti. I poligoni regolari e stellati inscritti nella circonferenza, e che
si ottengono mediante la sua suddivisione in 10 parti eguali, sono quattro e
solo quat- tro. Il pentalfa deve evidentemente il suo nome ai cinque α (A
dell'alfabeto greco) come quello formato dai tratti AE, AG, NN4 della figura.
Il nome è adoperato da Kircher nella sua Aritmetica. Siamo però convinti che
questa è la denominazione originale pitagorica, e che analogamente decalfa è la
denominazione origina- le del decagono stellato. Abbiamo già veduto che
riportando 10 volte successivamente l'arco AB sulla circonferenza si esaurisce
la circonferenza, come la somma di dieci unità esaurisce l'intera decade. E
come gli elementi della geometria: il punto, la linea (retta o segmento
determinato da due punti), la superficie (piano, triangolo determinato da tre
punti), il volume (tetraedro, determinato da quattro pun- ti) riempiono ed
esauriscono lo spazio (tridimensionale), corrispondentemente la somma dei primi
quattro numeri interi dà la decade, relazione pitagorica fondamentale che
dall'unità attraverso la sacra tetractis conduce alla decade. Altrettanto,
naturalmente, succede nella nostra figura dove l'arco AB sommato con il suo
doppio BD, con il triplo DG e con il quadruplo GA dà per somma la intera
circonferenza. 51 Cfr. G. LORIA, Storia delle Matematiche, vol. I, pag. 66.
91 Il quadrilatero ABDG che ha per lati l10, l5, s10, s5 e per
diagonali AD = s10 e BG = 2r, è diviso dalla diago- nale BG in due triangoli
rettangoli, e quindi si ha: l2+s2=4r2 10
5 l2+s2 =4r2 5 10 dalle quali l2+l2+s2+s2=8r2 5 10 5 10 relazione che lega il
raggio della circonferenza ed i lati dei quattro poligoni, che si enuncia con
il TEOREMA: La somma dei quadrati costruiti sopra il lato del decagono
regolare, del pentagono regolare, del pentalfa e decalfa inscritti in una
circonferenza è eguale ad otto volte il quadrato costruito sul raggio. Si riconosce
facilmente che il diametro AOF è perpendicolare al lato EG del pentagono ed al
lato CI del pentalfa, ed essendo l'angolo ̂EOF di 36° ed il trian- golo EOA
isoscele l'angolo ̂EAF risulta di 18° e quindi ̂EAG di 36°. Ne segue il
TEOREMA: La somma dei cinque angoli del pental- fa è eguale a due retti, che si
dimostra facilmente vero per qualunque pentagono intrecciato. I triangoli
isosceli AEG, ANN4 avendo l'angolo al vertice di 36° hanno la base parte aurea
del lato. Dunque il lato del pentagono regolare inscritto è la parte aurea del
lato del pentalfa; ed NN è parte aurea di AN. ̂ ̂1 Essendo DOF di 72° DAO viene
di 36°; simil- mente si riconosce che ̂CAO è di 54° e ̂BAO di 72°; ossia che la
perpendicolare per A al diametro AF e le congiungenti A cogli altri punti di
divisione in 10 parti eguali della circonferenza dividono l'angolo piatto
attorno ad A in 10 parti eguali; ed analogamente per gli altri vertici. Se ne
trae che AN = NC = CN1 = N1E ecc. Il triangolo ECN avendo i due angoli alla
base CN eguali e di 72° è isoscele; perciò EN è eguale al lato l5 del
pentagono, il quadrilatero NEGI è un rombo, le dia- gonali del pentagono
regolare ossia i lati del pentalfa si dividono in parti corrispondenti eguali,
di cui la mag- giore è eguale al lato del pentagono. Nel lato AE del pentalfa,
NE = EG = l5 è la parte aurea di AE, quindi N1E = AN è la parte aurea di EN; ed
NN1 la parte aurea di AN. Naturalmente NN1N2N3N4 è un pentagono rego- lare.
Notiamo infine che l'apotema del pentagono regolare è la metà del lato del
decalfa, come si ottiene dal trian- golo rettangolo ACF. Altre proprietà avremo
occasione di riconoscerle in seguito. Dobbiamo ora stabilire un'altra
importante relazio- ne che si presenta nella costruzione dell'icosaedro, e che
i pitagorici debbono quindi aver conosciuto. Ammettendo che ogni retta passante
per un punto in- terno ad una circonferenza è una secante, si dimostra che la
perpendicolare al raggio nel suo estremo è la tangente in quel punto alla
circonferenza. E siccome sappiamo che il luogo geometrico dei vertici dei
triangoli rettangoli di data ipotenusa è la circonferenza che ha per diametro
l'ipotenusa, si è anche in grado di condurre le tangenti ad una circonferenza
da un punto assegnato. Conduciamo allora da un punto P esterno ad una
circonferenza la tangente PN, il diametro PO ed una secante qualunque PCD. La
mediana del triangolo isoscele OCD è perpendico- lare alla base CD, ed il
rettangolo che ha per lati PD e PC ossia PM + CM e PM – CM è eguale come
sappia- mo alla differenza dei quadrati costruiti su PM e su MC. Si ha: PC · PD
= (PM + MC) (PM – MC)= = (PM)2 – (MC)2 = = (PM)2 + (OM)2 – [(OM)2 + (MC)2]= =
(PO)2 – (OC)2 = (PO)2 – (ON)2 = = (PN)2. Prendiamo allora nella figura sulla AB
a partire da A il segmento AS = OA: i triangoli isosceli OAC, ASO, avendo il
lato eguale e l'angolo al vertice eguale sono eguali, e quindi OS = AC = l3; e
siccome in questi trian- goli l'angolo al vertice supera quello alla base, la
base 94 OS è maggiore del lato OA ed il punto S è esterno alla
circonferenza. Condotta da S la tangente ST, sarà per il teorema ora
dimostrato: (ST)2 = SA · SB e, siccome AB è il lato del decagono regolare, esso
è la parte aurea di AS, ossia: (AB)2 = SA · SB quindi ST = AB = l10 Dal
triangolo rettangolo OST si ha allora: (ST)2 + (OT)2 = (OS)2 ossia la
relazione: [4] l2 +r2=l2 10 5 che si enuncia così: TEOREMA: Il lato del
pentagono inscritto è l'ipote- nusa di un triangolo rettangolo che ha per
cateti il rag- gio ed il lato del decagono regolare inscritto. 9. Nella figura
26 i segmenti OC ed AD si tagliano in un punto V e risulta ^AVO=^DCV=72°. Dai
triangoli isosceli AVO, DCV con l'angolo al ver- tice di 36° si ha VO = VD = DC
= l10, ed AV = OA = r; quindi VD è la parte aurea di AV ossia di r ed AV è la
parte aurea di AD. Il raggio è dunque la parte aurea del lato del decalfa, e si
ha la semplice relazione: [5] r+ l10=s10 95 Da questa relazione e dalle
altre ottenute si deducono geometricamente le seguenti, che scriviamo per
brevità con le solite notazioni: s2 +r2=s2 +l2–l2 =4r2–l2 =s2 10 10510 105 [6]
s2 +r2=s2 e sostituendo nella [1] [7] s2 +r2+l2 =4r2 e s2 +l2 =3r2 1010 1010 e
perciò dalla [3]52 [8] s25+ l25=5r2 Si ha inoltre: r2=(s –l )2=s2 +l2 –2s l
quindi [9] 10 10 10 10 1010 r2=3r2 –2s10l10 e s10l10=r2 (s l )2=s2 +l2 +2s l
=3r2+2r2=5r2 10 10 10 10 10 10 e quindi 10 5 (s10 l10)2=s25+ l52 [10] Prendiamo
adesso il triangolo rettangolo ABC (fig. 28) coi cateti AB = l10 ed AC = r;
l'ipotenusa è BC = l5, e prendendo sui prolungamenti dei cateti BD = r e CF =
l10 si ha AD=AF=s10; CD=s5. Preso AM=s10 +l10,e 52 La relazione s52+ l25=r2 si
trova (cfr. LORIA, Scienze esatte) nel libro di Euclide (che è di Ipsicle), e
così pure l'altra: a5=r+l10 . 2 Ma ciò non prova che fossero sconosciute prima
di lui. Ipsicle, infatti, dimostra anche che l'apotema del triangolo equilatero
è la metà del raggio, proprietà nota certamente molto prima. sulla
perpendicolare alla AM il segmento ML = r anche BL = s5; ed il triangolo CBL
risulta rettangolo, perché CL = AM = s10 + l10. In questo triangolo rettangolo
compaiono gli stessi cinque elementi che comparivano nella formula [3]. Esso ha
per cateti il lato del pentagono regolare inscritto e quello del pentalfa, ha
per altezza il raggio del cerchio circoscritto, e le due proiezioni dei cateti
sull'ipotenusa sono eguali rispettivamente al lato del decagono regola- re
inscritto ed a quello del decalfa; la proiezione del ca- teto minore è parte
aurea dell'altezza e l'altezza è parte aurea della proiezione del cateto
maggiore. Il cateto mi- nore è parte aurea di quello maggiore, e la somma dei
quadrati costruiti sopra i tre lati è eguale a dieci volte il quadrato
costruito sopra l'altezza, ossia sul raggio della circonferenza circoscritta a
quei poligoni regolari. Inoltre, poiché i rettangoli ABKC, BMLK sono divisi per
metà dalle diagonali BC, BL, il triangolo rettangolo CBL è la metà tanto del
rettangolo di lati CB e BL quan- to del rettangolo di lati CA ed AM; si ha
quindi una terza relazione tra quei cinque elementi: l5·s5=r(s10+l10) indicando
con a5 l'apotema del pentagono e con a10 l'a- potema del decagono, aggiungiamo
alle precedenti anche le relazioni:
2a5=s10=r+l10 2a10=s5 Vedremo in
seguito le relazioni che legano questi ele- menti ai vari elementi del
dodecaedro regolare. Il pentalfa era il simbolo del sodalizio pitagorico. Si
disegna, con la punta in alto scrivendo in corrispondenza dei vertici le
lettere componenti la parola ὑγίεια, latino salus, da intendere nel duplice
senso che ha la parola salute in Dante e nei «Fedeli d'Amore», ossia nel senso
di quella salvezza o sopravvivenza privilegiata indicata alla fine dei Versi
d'oro. Questo antico simbolo pitagorico riappare qua e là nella tradizione
esoterica occidentale, designato di solito come la figura di Pitagora. Talora
al centro si trova scritta la lettera G, iniziale di Geometria, come ad esem-
pio nella flaming Star di un noto Ordine Occidentale avente per scopo il
perfezionamento dell'uomo, ossia alla lettera, la teleté dei misteri. Ma non è
ora il caso di fare la storia della sua trasmissione sino a divenire il
fatidico stellone d'ITALIA. Diremo soltanto, che il pentalfa ed IL FASCIO
LITTORIO (tra i quali passa più di un legame) sono i soli importanti simboli
spirituali veramente occidentali. Il resto, buono o cattivo che sia, vien
dall'Oriente. Per vedere in quale modo Pitagora pervenne alla costruzione dei
poliedri regolari ed alla loro inscrizione nella sfera occorrerebbe fare per lo
spazio quel che ab- biamo fatto, in parte, per il piano. Ossia ricostruire la
geometria pitagorica dello spazio senza introdurre i con- cetti di rette
parallele, di rette e piani paralleli, di piani paralleli, e mostrare come si
possa egualmente pervenire ai risultati che Eudemo attraverso Proclo ci
tramanda come conseguiti da Pitagora. Ma per non allungare troppo questo nostro
studio ci limiteremo ad indicare per sommi capi la via da tenere, o una delle
vie da seguire, tralasciando in generale le dimostrazioni che ognuno può
trovare da sé. Perciò, ammettendo che un piano divida lo spazio in due
semispazii, ammettiamo anche il postulato del semi- spazio: Il segmento
congiungente due punti situati da parti opposte rispetto ad un piano è tagliato
in un suo punto dal piano. Può darsi che anche questo caso parti- colare del
postulato di continuità fosse ammesso tacita- mente come una verità
primordiale. Si dimostra poi nel modo ordinario che: Una retta non giacente in
un piano e che abbia con esso un punto comune è divisa da esso in due semi-
rette situate da parti opposte rispetto a quel piano. Se due piani hanno un
punto in comune la loro in- tersezione è una retta passante per quel punto; uno
qualunque dei due piani è diviso dalla comune in- tersezione in due semipiani
situati da parti opposte rispetto all'altro. Se per un punto H di una retta m
si conducono ad essa in piani diversi due perpendicolari a e b, ogni altra
retta del piano ab passante per H è perpendi- colare alla m, e viceversa ogni
perpendicolare alla m per H giace nel piano ab. Il piano ab dicesi per-
pendicolare alla retta m in H; e la retta perpendico- lare m al piano ab in H.
d) Per un punto A appartenente o no ad una retta passa un piano ed uno solo
perpendicolare ad essa. Teorema delle tre normali: Se una retta m è perpen-
dicolare ad un piano α e dal piede H esce nel piano una retta a perpendicolare
ad una retta r di α (passante o no per il piede H), la terza retta r è perpen-
dicolare al piano am delle prime due. f) Due piani che si intersecano dividono
lo spazio in quattro parti (diedri). Seguono le definizioni di die- dro
convesso, piatto e concavo. Sia β un
piano perpendicolare ad una retta a e sia H il suo piede. Conduciamo per a un
piano qualunque α, e sia r la αβ; e conduciamo per H in β la bb'
perpendicolare alla r. Per il teorema delle tre normali la b è perpendicolare
al piano α e quindi ad a; i due angoli ^bHa, ^aHb' risultano retti. Facendo
ruotare il piano ab intorno ad H su se stesso esso rimane perpendicolare alla r
e quando la semiretta b va sulla a e la a sulla b', il semipiano β vasul semipiano
α ed α su β'.I due diedri β̂α e ̂αβ ' si sovrappongono, sono quindi eguali; il
semipiano α biseca dunque il diedro piatto ^βrβ'. Ogni altro semipiano per r è
interno all'uno od al- l'altro dei diedri α̂βe^αβ'; quindi per una retta r del
piano β si può condurre uno ed un solo piano α che bisechi il diedro piatto ^β
r β ' . Il piano α dicesi perpendicolare al piano β; l'angolo ^a H b dicesi
sezione normale di αβ, ed è retto. Se per un punto P di α si conduce la
perpendicolare a' alla r dal piede e la c in β perpendicolare alla r, anche il
piano a'c è perpendicolare alla r; facendo ruotare attorno alla r il semipiano
β va in α ed α in β', la semiretta c va sulla a', e la a' sulla c'; dunque ĉ a
=̂a ' c ' = un retto, e quindi a' risulta p̂erpendi- colare anche a β e la
sezione normale a ' c del ̂^ diedro αβ risulta eguale all'altra ab . h) Retta
perpendicolare ad un piano per un punto. Sia H un punto di un piano β, e si
conduca per H in β una retta b qualunque, e per H il piano α ^ Se poi il punto
dato fosse P esterno al piano β, condotta in β una retta b qualunque e per P il
piano α perpendicolare alla b, esso interseca la b e quindi il piano β secondo
una retta r. Da P in α si conduca la PH' perpendicolare alla r e per il teorema
delle tre normali risulta PH' perpendicolare a β. Per assurdo se ne dimostra
subito la unicità. I piani passanti per una retta perpendicolare ad un piano
sono perpendicolari ad esso. 103 perpendicolare alla b; sia r la αβ. Per H
condu- ciamo nel piano α la perpendicolare a alla r; per il teorema delle tre
normali risulta a perpendicolare a β. La unicità della perpendicolare a β per H
si di- mostra per assurdo. k) Se i piani α e β sono tra loro
perpendicolari, la per- pendicolare PH' alla intersezione abbiamo veduto che è
perpendicolare a β. Viceversa, per l'unicità della perpendicolare ad un piano,
se due piani α e β sono perpendicolari, e da un punto P di α si condu- ce la
perpendicolare a β essa giace in α. l) Sezione normale di un diedro qualunque.
Per due punti A e B (fig. 31) della costola r di un diedro α̂β conduciamonellafacciaαleperpendicolari
a, a' alla r, e nella faccia β le perpendicolari b, b' alla r. Chiameremo
sezioni normali del diedro ̂^^ αβ gli angoli ab, a'b'. Essi sono eguali. Presi
infatti su α AC = BD e su β AE = BF i qua- drilateri ACDB, ABFE sono dei rettangoli
e quindi CD = AB = EF. La r è perpendicolare ai piani ab ed a'b'; quindi il
piano α è perpendicolare ai piani ab ed a'b', la CD che è perpendicolare alla
interse- zione a dei due piani α ed ab risulta perpendicolare al piano ab e
perciò anche alla CE; analogamente risulta perpendicolare alla DF; ed
analogamente la EF risulta perpendicolare alle CE ed FD. Inoltre, essendo CD
perpendicolare al piano ACE, il piano CDE è perpendicolare al piano ACE, e la
EF, per- pendicolare anche essa al piano ACE, giace nel piano CDE; perciò il
quadrilatero CDEF è un qua- drilatero piano cogli angoli retti, ossia è un
rettangolo. I triangoli ACE e BDF risultano quindi eguali per il terzo
criterio, e gli angoli ^CAE e ^DBF 104 sono eguali. Le sezioni normali di
un diedro qua- lunque sono dunque eguali. Se due piani α e β sono
perpendicolari ad un terzo γ la loro intersezione è perpendicolare a γ. Due
piani perpendicolari ad una retta non si incontrano. Definizione di piano
assiale di un segmento. Si dimostra che esso è il luogo geometrico dei pun- ti
equidistanti dagli estremi del segmento. Distanza di un punto da un piano; e
luogo geome- trico dei punti del piano aventi distanza assegnata da un punto
esterno. Corollario: Dato un poligono regolare inscritto in una circonferenza,
un punto qualunque della per- pendicolare al piano del poligono condotta per il
centro è equidistante dai vertici del poligono. q) Piano bisettore di un diedro
e sue proprietà. Per un punto P del piano γ bisettore del diedro α̂ β si
conduca il piano δ perpendicolare allo spigolo r. I tre piani α, β, γ sono
perpendicolari a δ; condotte da P le perpendicolari PH e PK ad α e β esse
giacciono in δ; ed unendo il punto M di inter- sezione della r e di δ con H, P,
K, i triangoli rettangoli PHM, PKM sono eguali per avere l'ipotenusa PM in
comune e gli angoli ^HMP, ^KMP eguali perchéγèbisettoredi α̂β
efacendoruotareat- torno alla r, quando γ va su β, α va su γ ed i due an- goli
si sovrappongono. Viceversa si dimostra che se un punto P interno ad α̂β è equidistante
da α ed a β,esso appartiene al Si dimostra nel solito modo, e si estende
all'angoloide. TEOREMA. La somma delle facce di un triedro è minore di quattro
retti. Si dimostra nel solito modo e si estende all'ango- loide convesso.
Definizione degli angoloidi regolari. Hanno tutte le facce eguali, ed eguali i
diedri for- mati da due facce consecutive. Definizione di poliedro. Il poliedro
si dice regolare quando tutte le facce sono poligoni regolari eguali e gli
angoloidi sono regolari eguali. Possono esistere al massimo cinque poliedri
rego- lari, uno con tre, uno con quattro ed uno con cinpiano γ bisettore del
diedro αβ. Definizione di triedro e di
angoloide convesso. TEOREMA: In un triedro una faccia è minore del- la somma
delle altre due. que facce congruenti in un vertice eguali a dei
triangoli equilateri; uno con tre quadrati congruenti in un vertice, ed uno con
tre pentagoni regolari congruenti in un vertice. Questa possibilità si dimostra
nel solito modo. Costruzione del tetraedro regolare. Dimostrata la possibilità
dell'esistenza dei cinque po- liedri regolari passiamo alla loro effettiva
costruzione. La proprietà del baricentro di un triangolo qualunque si può
riconoscere valida anche nella nostra geometria pitagorica indipendentemente
dal postulato di Euclide; nel caso del triangolo equilatero è poi facilissimo
rico- noscere che il baricentro è anche centro delle due circonferenze
circoscritta ed inscritta e che il raggio della prima è doppio di quello della
seconda. Per il centro H di un triangolo equilatero ABC si condurrà la
perpendicolare h al piano ABC, e siccome AH è minore di AB si determina nel
piano Ah l'intersezione di h con la circonferenza di centro A e rag- gio AB. Si
unisce questo punto D con A, B, C; e si ha DA = DB = DC = AB. Il tetraedro DABC
ha per facce quattro triangoli equilateri eguali; gli angoloidi sono dei
triedri a facce eguali; ed i diedri sono pure eguali, per- ché il ̂diedro di
spigolo AC ha per sezione normale l'an- golo DKB del triangolo isoscele KDB che
ha per lato l'altezza della faccia e per base lo spigolo, ed è quindi lo stesso
per tutti i diedri. Esiste dunque un tetraedro rego- lare di dato spigolo AB.
107 Chiamando l4 lo spigolo, con il teorema di Pitagora si ha: (BK
)2= 34 l24 e quindi (BH )2= 49 · 34 l 24 (BH)2=13 l24 e (DH)2=23 l24 Il centro
della sfera circoscritta sta sulla h che è il luogo dei punti equidistanti da
A, B, C; quindi se D' è l'altro estremo del diametro OD, il piano ADD' è diame-
trale, il triangolo ADD' è rettangolo perché il punto me- dio di DD' è
equidistante dai vertici, AH è l'altezza di questo triangolo rettangolo e
quindi si ha: (AD)2=2r·DH e 32 ·(DH)2=2r·DH; 3(DH)2=4r·DH; 3DH=4r; DH=43r e
OH=13r Ne segue la regola per la Inscrizione del tetraedro regolare nella sfera
di raggio r. 108 Preso OD = r e da parte opposta OH = 13 r si ha in DH
l'altezza. Si conduce una circonferenza di diametro DD' = 2r, e per H la
perpendicolare al diametro; la sua intersezione con la circonferenza sia il
vertice B del tetraedro. Condotto infine il piano passante per HB e
perpendicolare al diametro DD', si descrive in esso la circonferenza di raggio
HB ed in essa si inscrive il triangolo equilatero ABC. Il tetraedro ABCD è il
tetrae- dro regolare inscritto. Esistenza e costruzione dell'esaedro regolare.
Sia ABCD un quadrato. Conduciamo per i vertici le perpendicolari al piano del
quadrato ABCD da una stessa parte del piano, e prendiamo su esse i seg- menti
AE, BF, CH, DG eguali al lato AB. I piani EAB, EAD risultano perpendicolari al
piano α del quadrato ABCD; e le perpendicolari BF e DG al piano ABCD giacciono
rispettivamente nei piani EAB, EAD, dimo- doché ABFE e ADGE sono due quadrati
eguali al dato. Analogamente la CH coincide con la intersezione dei piani FBC e
GDC perpendicolari ad α, e quindi anche FBCH e CDGH sono dei quadrati. Perciò
CH è perpen- dicolare al piano FHG; CD è perpendicolare a CB e CH, quindi anche
al piano BCHF; il piano CDGH è perpen- dicolare al piano BCHF e la GH
perpendicolare all'intersezione CH risulta perpendicolare anche al piano BCHF,
e quindi alla HF. Quindi ̂FHG = un retto. La FH è quindi perpendicolare al
piano CDGH. D'altra parte la DG è perpendicolare al piano HGE, i piani HGD, HGE
sono perpendicolari tra loro e quindi la FH perpendicolare al primo di essi
appartiene al se- condo. Il quadrilatero FHGE è dunque un quadrilatero piano
coi lati tutti eguali ed un angolo retto e perciò è un quadrato. Le sei facce
dell'esaedro ABCDEFGH sono dei quadrati; le tre facce congruenti in ogni
vertice sono dei quadrati ed i diedri son tutti retti; l'esaedro regolare è
costruito. EA ed HC sono perpendicolari ad AC ed EH, e il pia- no EAC è
perpendicolare ad ABCD, la CH pure e per- ciò giace in AEC, quindi EACH è un
quadrilatero piano con gli angoli retti, ossia è un rettangolo, quindi le due diagonali
del cubo CE, AH sono eguali e si tagliano per metà. In simil modo EF e CD
risultano perpendicolari a FC ed ED, EFCD risulta un rettangolo, e la diagonale
FD è eguale alle altre due ed è tagliata per metà dal loro punto medio; lo
stesso per la BG. Le quattro diagonali sono eguali, e si incontrano in un
medesimo punto O 110 che le biseca, quindi O è equidistante da tutti i
vertici ed è centro della sfera circoscritta. Si ha poi (EC)2=(EA)2+(AB)2+(BC)2
e quindi 4R2=3l26 ed l26=34R2. Condotta OM perpendicolare ad EH e quindi alla
fac- cia EFHG, il segmento OM, che è la metà dello spigolo 2 R2 è eguale
all'apotema del cubo, e a6 =3 . D'altra parte si riconosce facilmente che il
quadrato costruito sopra il lato del triangolo equilatero inscritto in una circonferenza
di raggio R è triplo del quadrato del raggio (ossia il lato del triangolo
equilatero è R √ 3 e si ha quindi il TEOREMA. L'apotema del cubo inscritto
nella sfera di raggio R è 13 del lato del triangolo equilatero in- scritto
nella circonferenza di raggio R; e lo spigolo del cubo è i 23 di tale lato
(l6=32 R √3) Dopo ciò per risolvere il problema della inscrizione del cubo nella
sfera di raggio dato, occorre sapere divi- dere un segmento assegnato in n (nel
nostro caso 3) par- ti eguali. Il problema, indipendentemente dalla teoria
delle parallele, è sempre risolubile grazie al seguente LEMMA. Se l'ipotenusa
di un triangolo rettangolo è divisa in n parti eguali e per i punti di
divisione si conducono le perpendicolari ad uno dei cateti esse lo divi- dono
in n parti eguali. Sia ABC un triangolo rettangolo, e sia l'ipotenusa BC divisa
in n (5) parti eguali; per i punti di divi- sione D, E, F, G conduciamo le
perpendicolari ai cateti AC e AB. Si riconosce facilmente che DMAL, ENAK, EPLK
ecc. sono dei rettangoli e che essendo EDM=DMB+DBM è pure EDP=DBM; quindi i
triangoli rettangoli EDP, DBM sono eguali, e EP = DM e perciò AL = LK.
Analogamente LK = KI = HI = HC. Viceversa, per l'unicità del sottomultiplo
di un seg- mento dato, se ipotenusa e cateto sono divisi in un me- desimo
numero di parti eguali, le congiungenti i punti di divisione corrispondenti LD,
KE... risultano perpendicolari al cateto. Vedremo nel capitolo ultimo come si
possa sempre, indipendentemente dalla teoria delle rette parallele, ri- solvere
il problema di dividere un segmento in un numero assegnato di parti eguali.
Frattanto per il caso di n = 5 il problema si risolve così: Preso un segmento
tale che il suo quintuplo sia maggiore del segmento dato (per esempio riportando cinque volte
consecutivamente la quarta parte del segmento assegnato), si descrive sopra di
esso come diametro la circonferenza, e poi con centro in uno degli estremi del
diametro e raggio eguale al segmento assegnato si descrive un'altra
circonferenza; il punto di intersezione delle due circonferenze è vertice di un
triangolo rettangolo che ha per ipotenusa il diame- tro della prima
circonferenza, e conducendo per i punti di divisione del diametro le
perpendicolari al cateto esso viene diviso in cinque parti eguali. In modo
analogo si risolve il problema della divisione di un segmento in tre parti
eguali. Risolviamo adesso il problema della Iscrizione del cubo nella sfera di
raggio R: si costruisce il triangolo equilatero inscritto nella cir- conferenza
di raggio R, e se ne divide il lato in 3 parti eguali. Per un diametro CE della
sfera si conduce un piano, ed in esso si costruisce il triangolo ret- tangolo
di ipotenusa CE e cateto CH=32 del lato del triangolo equilatero costruito. Per
il punto medio O di CE (centro della sfera) si conduce la perpendicolare MN al
cateto EH; OM = ON è l'apotema. Per M e per N si conducono i piani
perpendicolari alla MN, e nel primo di essi si costruisce il quadrato che ha EH
per diagonale. Esso è una faccia del cubo; i simmetrici dei quattro ver- tici
rispetto ad O danno gli altri quattro vertici del cubo. Inscrizione
dell'ottaedro regolare nella sfera di raggio dato. Condotto per il centro della
sfera il piano perpendicolare al diametro EF, sia ABCD un quadrato inscritto
nel cerchio sezione. Unendo gli estremi del diametro EF con A, B, C, D si ha
l'ottaedro regolare inscrit- to. Infatti le otto facce sono dei triangoli
equilateri, gli angoloidi sono eguali ed i diedri pure, essendo angoli al
vertice di triangoli isosceli aventi il lato eguale all'altez- za della faccia
e la base eguale al diametro della sfera. Si dimostra facilmente che l'ottaedro
che ha per verti- ci i centri delle sei facce del cubo è regolare, e che il
tetraedro che ha per vertice un vertice del cubo ed i tre vertici opposti delle
tre facce ivi congruenti è regolare. L'icosaedro regolare. Divisa una
circonferenza di centro V e raggio qualunque in 10 parti eguali si inscriva in
essa il decagono regolare A1B1A2B2A3B3A4B4A5B5 ed i due penta- goni regolari
A1A2A3A4A5 e B1B2B3B4B5. Per i vertici A del primo pentagono si conducano le
perpendicolari al piano α della circonferenza, e si prendano su di esse i
segmenti A1C1 = A2C2 = A3C3 = A4C4 = A5C5 = VA1. Il piano C2A2A3 è
perpendicolare al piano α, quindi la A3C3 giace in esso, il quadrilatero piano
C2A2A3C3 è un rettangolo e C2C3 = A2A3. Analogamente A4C4 giace nel piano
C3A3A4, il quadrilatero piano C3A3A4C4 è un rettangolo e C3C4 = A3A4. E così
proseguendo i lati del pentagono C1C2C3C4C5 risultano tutti eguali a A1A2. Esso
è inoltre un poligono piano. Infatti la C2A2 è per- pendicolare al piano α ed
al piano C1C2C3; il piano C2A2A4 è perpendicolare al piano α e quindi la A4C4
perpendicolare al piano α giace nel piano C2A2A4; quindi C2A2A4C4 è un
rettangolo, e C2C4 è perpendicolare a C2A2 e perciò C4 giace nel piano C1C2C3;
analogamente C5 giace nel piano C2C3C4; quindi il poligono C1C2C3C4- C5 è un
pentagono piano coi lati tutti eguali. Il suo angolo C1 C2 C3 è eguale
all'angolo A1 A 2 A3 perché sono entrambi sezioni normali dello stesso diedro,
analogamente per gli altri angoli; e quindi C1C2C3C4C5 è un pen- tagono
regolare piano eguale ai due pentagoni inscritti nella circonferenza del piano
α. Condotta per il centro V la perpendicolare al piano α, essa giace nel piano
C2A2V, e, preso su essa dalla parte di C2 il segmento VQ = VA2 = A2C2, la C2Q
sta nel piano del pentagono C1C2C3C4C5, ed è QC2 = VA2, e C2A2- VQ è un
quadrato. Analogamente QC1 = VA2, ecc., e quindi Q è il centro della
circonferenza circoscritta al 116 pentagono regolare C1C2C3C4C5 ed eguale
alla circonferenza del piano α. Essendo poi C1A1 perpendicolare ad A1B5 si ha:
(C1 B5)2=(C1 A1)2+ (A1 B5)2 e poiché C1A1 è eguale al raggio della
circonferenza V ed A1B5 è il lato del decagono regolare inscritto in essa, sarà
C1B5 il lato del pentagono regolare, cioè CB5 = B1B5 = C1C5 = ... Analogamente
dai triangoli rettangoli C1A1B1, C5A5- B5... si ottiene C1B1 = B1B5, C5B5 =
B5B4... quindi i trian- goli C1B1C5, C1B5C5 sono equilateri, e così proseguendo
si riconosce che i dieci triangoli C1C2B4, C2B4B2, C2C3- B2, C3B2B3... che si
ottengono unendo ordinatamente i vertici del pentagono C1C2C3C4C5 a quelli del
pentagono B1B2B3B4B5 sono equilateri. Sia O il punto medio di VQ; si vede
subito che esso equidista dai vertici C e dai vertici B. Prendiamo allora sulla
VQ i segmenti OD = CE = OC1 = OB1; confrontan- do con la fig. 23 si riconosce
che i segmenti QD e VE sono la parte aurea di QV ossia del raggio delle due
cir- conferenze di centro V e centro Q. Uniamo D coi vertici del pentagono
C1C2C3C4C5 e E con quelli del pentagono B1B2B3B4B5. Dal triangolo rettangolo
DQC2 risulta: (DC2)2 = (QC2)2 + (QD)2, e quindi anche DC2 è eguale al lato del
pentagono. Analogamente per DC1, DC3, DC4, DC5; quindi anche i triangoli aventi
il vertice in D e per lati opposti i lati del pentagono C1C2C3C4C5 sono equila-
teri. E lo stesso naturalmente per i triangoli di vertice E aventi per lati
opposti i lati del pentagono B1B2B3B4B5. Abbiamo così ottenuto un icosaedro
avente per vertici i punti D ed E ed i dieci vertici dei due pentagoni C1C2C3-
C4C5 e B1B2B3B4B5; esso ha per facce dei triangoli equi- lateri, ed è inscritto
nella sfera di centro O e raggio OD. Poiché O equidista da D, C2, B2 e così
pure C3 equidi- sta dagli stessi punti, i piani assiali degli spigoli C2DC2B2
si tagliano sicuramente, e la loro intersezione OC3 risulta perpendicolare al
piano DC2B2 e lo interse- ca, in un punto F equidistante da D, C2, B2. D'altra
parte i triangoli DC2O, C3C2O hanno OC2 in comune, OD = OC3, DC2 = C2C3 e sono
perciò eguali; l'altezza C2Q del- l'uno è eguale alla C2F dell'altro, ed è F
interno a OC3 ed OF = OQ e FC3 = QD. I triangoli isosceli OC3D, OC3C4 hanno per
lato il rag- gio della sfera circoscritta e per base lo spigolo dell'ico-
saedro quindi sono eguali. E, poiché OQ = OF, anche i triangoli OC Q, OC F
risultano eguali per il primo crite- 3̂4̂ rio, ed essendo OQC3 = un retto anche
OFC4 = un retto; FC4 è dunque perpendicolare ad OC3 e giace quin- di nel piano
DC2B2; ossia C4 sta in questo piano. Analo- gamente si dimostra che anche B3
sta in questo piano; e si ha: FB3 = FC4 = FD = FC2 = FB2. Perciò il pentagono
DC2B2B3C4 è un pentagono piano equilatero inscritto nella circonferenza di
centro F e raggio FD, ossia è un pentagono piano regolare ed è base della
piramide pentagonale regolare di vertice C3. Analogamente si dimostra che ogni
vertice dell'icosaedro è vertice di una piramide pentagonale regolare eguale.
La sezione normale del diedro di spigolo DC3 si ottie- ne congiungendo il suo
punto medio con i punti C2 e C4. Quest'angolo è quindi l'angolo al vertice di
un triangolo isoscele che ha per lato l'altezza della faccia e per base la
diagonale del pentagono di base; quindi la sezione normale è la stessa per ogni
diedro di ogni angoloide dell'icosaedro. L'icosaedro costruito è dunque un
icosaedro regolare. Per costruire l'icosaedro regolare di dato spigolo C1C2 si
può dunque procedere nel modo seguente: si determina il segmento C1C4 di cui
C1C2 è la parte aurea. si determina il centro Q della circonferenza circoscritta
al triangolo isoscele di lato C1C4 e base C1C2, e si descrive la circonferenza
di centro Q e raggio QC1. si inscrive in questa circonferenza il pentagono
regolare C1C2C3C4C5. si conduce per il centro Q la perpendicolare al piano del
pentagono e si prende QV eguale al raggio della circonferenza, e si ha nel
punto medio O di QV il centro della sfera circoscritta ed in OC1 il raggio. si
prendono sul diametro QV i seg- menti OD = OE eguali ad OC1. si conduce per V
il piano perpendicolare al diametro DE. si abbassa dal vertice C1 la
perpendicolare al piano condotto per V, il suo piede A1 appartiene alla
circonferenza di centro V e raggio eguale a VQ. si abbassa da C2 la
perpendicolare a questo piano ed anche il suo piede A2 appartiene alla
circonferenza di centro V. si prende il punto medio B1 dell'arco A1A2 e si
inscrive nella circonferenza di centro V il pentagono regolare che ha questo
punto medio per uno dei suoi vertici, ossia, il pentagono B1B2- B3B4B5. si
unisce D ai punti C1, C2, C3, C4, C5 ed E aipuntiB1,B2,B3,B4,B5;siuniscepoiB1
aC2,C2 aB2 ecc., e si ha l'icosaedro. 6. Inscrizione dell'icosaedro regolare
nella sfera di raggio R. Il triangolo DC2E della fig. è rettangolo in C2 per-
ché i suoi vertici equidistano da O centro della sfera. In esso l'altezza C2Q =
r, raggio del pentagono C1C2C3C4- C5;DQ=l10;C2D=l5;QE=QV+VE=r+l10 =s10,e quindi
C2E = s5; perciò per la [8] (C2D)2 + (C2E1)2 = 5r2 ma per il teorema di
Pitagora si ha: (C2D)2 + (C2E)2 = (DE)2 = 4R2 e perciò 5r2 = 4R2. ossia si ha
il TEOREMA: Il quintuplo del quadrato che ha per lato il lato del pentagono di
base è eguale al quadruplo del quadrato del raggio della sfera circoscritta.
Premesso questo teorema, prendiamo (fig. 36) DE = 2R, e dividiamo DE in cinque
parti eguali. Preso DG eguale ad un quinto di DE, si conduca per G la perpen-
dicolare a DE sino ad incontrare in H la circonferenza di diametro DE. Si ha:
(DH)2 = DE · DG ossia (DH)2=2R·25 R=54 R2 120 DH è dunque eguale al
raggio r della circonferenza circoscritta al pentagono. Si determina allora il
lato del decagono regolare in- scritto nella circonferenza di raggio r, e si
toglie da OD e da OE, in modo da ottenere i segmenti OQ ed OV. Si conducono per
Q e per V i piani perpendicolari al dia- metro DE, e con centri Q e V e raggio r
si descrivono in essi due circonferenze. In queste si inscrivono opportu-
namente i pentagoni regolari di vertici A, di vertici B e di vertici C; ed
unendo il vertice D coi vertici C, il verti- ce E coi vertici B, i cinque
vertici C tra loro consecuti- vamente, i cinque B tra loro ed i vertici C
opportuna- mente ai vertici B si ha l'icosaedro regolare inscritto. Chiamando
con R il raggio della sfera circoscritta, con a l'apotema dell'icosaedro, con
l5 lo spigolo, con r il raggio della circonferenza circoscritta al pentagono di
lato l5, con l10 la parte aurea di r, con s5 e s10 i lati del pentalfa e del
decalfa inscritti in questa circonferenza, con R' il raggio della sfera
tangente agli spigoli dell'ico- saedro nei loro punti medii, con a5 l'apotema
del penta- gono di lato l5 e con a10 l'apotema del decagono di lato l10, si
hanno le seguenti relazioni: 5r2=4R2 2R=r+ 2l10=s10+ l10 e quindi, dal
triangolo rettangolo DC2E si ricava: R '=12 s5⋅a10
121 cioè: il raggio della sfera tangente agli spigoli dell'icosaedro è
eguale alla metà del lato del pentalfa inscritto nella circonferenza di raggio
r, oppure è eguale all'apotema del decagono inscritto in questa circonferenza.
Il raggio della sfera inscritta od apotema a è cateto di un triangolo
rettangolo ON5K6 che ha per ipotenusa R' e per altro cateto la terza parte
dell'altezza della faccia; quindi: 2 2 l52 12 l52 1 2 2 a=R'
–12=4s5–12=12(3s5–l5) e per la [2] e la [6]: a2= 1 (3s2 –4r2+s2 )= 1 (3s2
–r2+s2 )= 125 101210 10 = 1 (4s2 –4r2)= 1 (2s +r)+(2s −r)= 12 10 12 10 10 = 1
(s10+l10+r+r)(s10+s10–r)= 12 = 1 (2R+2r)(s10+l10)=(R+r)·R 12 3 ossia: il
quadrato che ha per lato l'apotema dell'icosae- dro è eguale alla terza parte
del rettangolo che ha per lati il raggio della sfera circoscritta, e questo
raggio R au- mentato del raggio r della circonferenza circoscritta al
pentagono. La relazione si può anche scrivere sotto la forma Rr = 3a2–R2.53 53
Dal triangolo ON5D si ha invece: l2 l2 a2=R2 –(2 5 √3)=R2 – 5 323 Si può
riconoscere infine che il piano diametrale pas- sante per i vertici D, B2, E
sega l'icosaedro secondo un esagono che ha due lati opposti eguali allo spigolo
del- l'icosaedro e gli altri quattro eguali all'altezza della faccia, e si può
dimostrare geometricamente che questo esagono ha la stessa estensione del
rettangolo che ha per lati s10 e R + a5. Tagliando invece l'icosaedro con un
piano diametrale perpendicolare al diametro DE si ottiene per sezione un
decagono regolare che ha il lato eguale alla metà dello spigolo dell'icosaedro
ed è inscritto in una circonferenza di raggio R', da cui risulta che la metà di
l5 è la parte au- rea di R'; che risulta anche dalla formula: R '= 12 s5 . 7.
Costruzione del dodecaedro regolare. e e quindi e Si ha pure: ossia Si ha
inoltre geometricamente dalla figura: l 25= 2R · l 10; s52=2R · s10 123 3a2=3R2
–l25 3 R 2 – l 25 = R r + R 2 2R2=l52+Rr; l52=R(2R–r) s 52 + l 52 = 4 R 2 l2 a2
+(5)=R2 10 2 Consideriamo nella fig. 36 la piramide pentagonale di
vertice C3 e base DC2B2B3C4. I punti medi K1, K2, K3, K4, K5 dei lati della
base sono alla loro volta vertici di un pentagono regolare di centro F che è
base di un'altra piramide di vertice C3 e spigoli C3K1 = C3K2 = C3K3 = C3K4 =
C3K5. I centri N1, N2, N3, N4,N5 delle facce late- rali della prima piramide
stanno sugli spigoli della se- conda e si ha: C N =C N =C N =C N =C N =2C K 3 1
̂3 2 3̂3 3 4 3 5 3 3 1 Siccome K1 C3 K2=K2C3 K3=... i triangoli isosceli
N1C3N2, N2C3N3... sono eguali per il primo criterio e quindi N1N2 = N2N3 = N3N4
= N4N5 = N5N1. Siccome il triangolo C3FK1 è rettangolo in F ed N1K1 è un terzo
dell'ipotenusa, la perpendicolare al cateto C3F condotta da N1 incontra il
cateto C3F in un punto L tale che FL è un terzo di C3F. Lo stesso accade per gli
altri punti N2, N3, N4, N5; e quindi N1N2N3N4N5 è un pentagono piano equilatero
in- scritto nella circonferenza di centro L e raggio LN1; os- sia è un
pentagono piano che ha per vertici i centri delle facce dell'icosaedro
congruenti in C3. Analogamente prendendo i centri delle facce laterali della
piramide di vertice D e base C1C2C3C4C5, essi sono i vertici di un altro
pentagono piano regolare ed eguale al precedente ed avente in comune con esso
il lato N5N1; e prendendo i centri delle facce laterali della piramide di
vertice C4 e base DC3B3B4C5 si ottiene un terzo pentago- 124 no piano
regolare eguale ai precedenti ed avente un lato in comune con il primo ed uno
in comune con il secon- do in modo che il vertice N1 è comune ai tre pentagoni.
Operando in modo consimile con ciascuno dei dodici vertici dell'icosaedro si
ottiene un dodecaedro che ha per facce dei pentagoni regolari eguali a
N1N2N3N4N5, e per angoloidi dei triedri a facce eguali. Il vertice C3 ed il
centro L della base sono equidistanti dai vertici della base N1N2N3N4N5 e
quindi anche il cen- tro O della sfera circoscritta all'icosaedro è
equidistante da tutti i vertici dei pentagoni come N1N2N3N4N5; quindi il
dodecaedro che abbiamo costruito è inscritto nella sfe- ra di raggio ON1. Preso
allora il punto medio M dello spigolo del dode- caedro comune alle facce
̂adiacenti di centri L1 e L2 ed unitolo con essi, l'angolo L1 ML2 è la sezione
normale di tale diedro; ed è angolo al vertice di un triangolo iso- scele che
ha per lati gli apotemi delle facce L1M e L2M e per base il segmento L1L2 che
unisce i centri delle due facce. Ma OL1 ed OL2 sono eguali perché cateti dei
triangoli rettangoli ON1L1, ON1L2 aventi l'ipotenusa ON1 in comune ed i cateti
L1N1, L2N1 eguali; quindi il segmento L1L2 è base di un triangolo isoscele che
ha per lati OL1 = OL2 e l'angolo al vertice in comune con il triangolo isoscele
che ha per lati i raggi OD, OC4 della sfera e per base lo spigolo DC4
dell'icosaedro. Tali elementi restano dunque gli stessi se si prende la sezione
normale di un altro diedro del dodecaedro; quindi questi 125 diedri son
tutti eguali, e possiamo concludere che il dodecaedro costruito è regolare, è
inscritto nella sfera di raggio ON1 ed ha per apotema OL1. Vedremo più oltre la
costruzione del dodecaedro di dato spigolo. 8. Inscrizione del dodecaedro
regolare nella sfera di raggio R. Sia ABCD... UV (fig. 37) un dodecaedro
regolare. In esso si può inscrivere un cubo avente per vertici dei vertici del
dodecaedro e per spigoli delle diagonali delle facce del dodecaedro. Preso
infatti il vertice A, e nelle tre facce congruenti in A i vertici G, C, P; e
presi i quattro vertici U, M, S, K, del dodecaedro ad essi diametralmente
opposti, questi otto punti sono vertici di una figura i cui spigoli sono tutti
eguali alle diagonali delle facce del dodecaedro, os- sia al lato del pentalfa
inscritto nella faccia. Dimostria- mo che i triedri aventi per vertici i
vertici e per spigoli gli spigoli di questa figura ivi concorrenti sono
trirettan- goli; basterà dimostrare che ad esempio il triedo di vertice A è
trirettangolo, e per esempio che AG è perpendi- colare ad AC. Tornando per un
momento alla figura, osserviamo che se dai vertici C ed I del pentagono
regolare ACEGI si abbassano le perpendicolari CP, IQ al lato EG i trian- goli
rettangoli CPE, IQG, avendo l'ipotenusa ed un an- golo acuto eguali sono eguali
e si ha CP = IQ; quindi il quadrilatero PQIC è per costruzione un rettangolo di
base PQ ed altezza CP = QI. Esso si ottiene anche ripor- tando a partire dal
punto medio M di EG i due segmenti MP=MQ=12 CI, ed unendo P con C e Q con I.
Preso allora (fig. 37) il punto medio M' dello spigolo HB del dodecaedro, e
presi M'P'=M'Q'=12 AG=12 CK, i quadrilateri GP'Q'A, KP'Q'C sono dei rettangoli;
e perciò la P'Q' è perpendi- 127 colare alle Q'A e Q'C ed al loro
piano AQ'C, e così pure è perpendicolare alle P'G e P'K ed al loro piano GP'K.
Il piano ABH che passa per P'Q' risulta perpendicolare al piano AQ'C ed al
piano GP'K, e la retta GA di questo piano essendo perpendicolare alla
intersezione AQ', come pure alla GP', è perpendicolare anche al piano AQ'C come
pure al piano GP'K; e quindi è perpendico- lare alla AC ed alla GK. Quindi il
quadrilatero AGKC, che ha tutti i lati eguali ha due angoli retti; e siccome lo
stesso discorso si ripete per la KC e la KC è perpendico- lare al piano Q'CA in
un punto C della sua intersezione AC con il piano GAC ad esso perpendicolare la
CK sta nel piano GAC, e GACK è un quadrato. Analogamente si dimostra che sono
dei quadrati le altre due facce ACMP e AGSP. Operando in simil modo coi triedri
di vertici G, S, P, K, U, M, C, gli spigoli GK, SU, PM, AC si dimostrano
perpendicolari al piano del quadrato AGSP ed eguali tra loro ed al lato AP di
questo quadrato; quindi AGSPCKUM è effettivamente un cubo, inscritto nel do-
decaedro, e tutti e due sono inscritti nella sfera che ha per diametro la
diagonale del cubo. Dalla fig. risulta che i centri di due facce opposte del
dodecaedro come L1 e L3 stanno sul diametro DE e sono equidistanti dal centro O
della sfera circoscritta al dodecaedro; perciò la congiungente i centri di due
facce opposte del dodecaedro è perpendicolare ad esse. Con- giunti dunque nella
fig. 37 i centri O1 ed O2, di due facce opposte la O1O2 passi per il centro O
ed è O1O – O2O l'apotema del dodecaedro. Esso è cateto del triangolo OAO1,
avente per ipotenusa il raggio OA = R e per altro cateto il raggio O1A = r
della circonferenza circoscritta al pentagono AEPQF. Questo raggio non è che
l'altezza del triangolo rettangolo che ha per cateti l5 ed s5 ossia AE ed AP.
Ma AP è lo spigolo del cubo inscritto e sap- piamo che il triplo del quadrato
dello spigolo è eguale al quadrato della diagonale; abbiamo quindi: 3(AP)2=2R2
ossia [14] 3s52=4R2 e siccome il quadrato che ha per lato il lato del triangolo
equilatero inscritto nella circonferenza di raggio R è il triplo del quadrato
del raggio, mentre il quadrato di s5 è i quattro terzi di questo quadrato, ne
segue che il quadrato di s5 è i quattro noni del quadrato del lato del
triangolo equilatero inscritto, e perciò lo spigolo del cubo inscrit- to, che è
anche il lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro, è i due terzi
del lato del triangolo rego- lare inscritto nella circonferenza di raggio R.
Perciò per costruire il dodecaedro regolare inscritto nella sfera di raggio OA
= R si può procedere così. Si inscrive il triangolo equilatero nella
circonferenza di raggio R, e si prende i due terzi del lato. Si ha così lo
spigolo del cubo inscritto ed il lato AP = s5 del pentalfa inscritto nella
faccia. Si determina la parte aurea di questo spigolo e si ha così AE = l5. Si
costruisce il triangolo rettangolo di cateti s5 ed l5; l'altezza di questo
triangolo rettangolo è il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia
del dodecaedro. Si costruisce il triangolo rettangolo di ipotenusa R e cateto
r, l'altro cateto è l'apotema OO1 del dodecaedro. Preso un segmento O1O2 eguale
al doppio dell'apotema si conducono per O1 ed O2 i piani perpendicolari ad
esso, si descrivono in questi piani le circonferenze di raggio r e centri O1 ed
O2 e si inscrivono in esse i pentagoni regolari AEPQF, UVKIL dove U è
simmetrico di A rispetto ad O punto medio di O1O2. I punti A, P, K, U sono
quattro vertici del cubo inscritto. Si conducono per A e per P i piani perpendicolari
ad AP. Nel primo di questi piani si costruisce il quadrato che ha per diagonale
AK e nel secondo il quadrato PSUM che ha per diagonale PU; si hanno così gli
altri quattro vertici del cubo. Nel piano AFG si completa il pentagono regolare
AFGHB, e poi nel piano EAB si completa il pentagono ABCDE, e poi HBCIK ecc. 9.
Relazioni tra gli elementi del dodecaedro ed altra soluzione del problema della
sua inscrizione nella sfera di raggio R. Nella figura i triangoli AVO, CΘO,
DOZ, EVO... sono isosceli con il lato eguale al raggio OA della cir- conferenza
e la base eguale al lato del decagono regola- re inscritto, quindi la
circonferenza di centro O e raggio eguale al lato AB del decagono passa per Θ,
V, Y, Z...; il suo raggio è parte aurea di quello della circonferenza di raggio
OA. I triangoli isosceli CΘY, OCA sono eguali 130 perché hanno il lato
eguale e l'angolo al vertice eguale, quindi il lato ΘY del pentalfa inscritto
nella minore è eguale al lato del pentagono inscritto nella maggiore ed è quindi
parte aurea del lato del pentalfa inscritto nella maggiore: e quindi ΘV lato
del pentagono inscritto nella minore è parte aurea del lato del pentagono
inscritto nel- la maggiore. I triangoli isosceli BCV e OYZ sono eguali perché
hanno il lato eguale e l'angolo al vertice eguale e quindi il lato del decagono
inscritto nella minore è parte aurea del lato del decagono inscritto nella
maggiore; ed il lato del decalfa inscritto nella minore, essendo eguale al
raggio della minore aumentato del lato del decagono inscritto, è eguale al
raggio della maggiore. Viceversa, data la circonferenza di centro O e raggio OV
e descritta la circonferenza concentrica che ha per raggio il lato VZ del
decalfa si ottiene la circonferenza di raggio OC e sussistono le relazioni ora
vedute, ed in particolare il lato del pentagono regolare inscritto nella
maggiore è eguale al lato del pentalfa inscritto nella minore. Consideriamo ora
le facce opposte (fig. 37) AEPQF, KILUV del dodecaedro, e siano O1 ed O2 i
centri delle rispettive circonferenze circoscritte ed r il loro raggio O1A =
O2K. Sappiamo che O1O2 è perpendicolare alle due facce e quindi anche il piano
O1AO2 è perpendicolare a queste due facce; esso coincide con il piano DEN5
della figura 36, passa per il punto K6 di questa figura ed è perpendi- colare
allo spigolo C2C3 perché anche K6Q è perpendi- 131 colare a questo
spigolo, e quindi taglia il piano della faccia C2C3B2 secondo la K6B2
perpendicolare allo spi- golo C2C3, e passa quindi per N4 ossia per il vertice
B della figura 37; e siccome questo piano O1AO2 passa an- che per il vertice U
opposto al vertice A interseca la fac- cia inferiore KILUV secondo la O2U e
quindi lo spigolo KI nel suo punto medio B1; quindi il pentagono O1AB- B1O2 è
un pentagono piano. Analogamente è un penta- gono piano O1O2UTT1; ed il piano
O1OA sega il dode- caedro secondo l'esagono ABB1UTT1. Analogamente è piano il
pentagono O1O2D1DE ed i due pentagoni hanno i lati ordinatamente eguali, gli
angoli di vertice O1 ed O2 retti, gli angoli di vertice B1 e D1 eguali perché
sezioni normali del dodecaedro; e si riconosce facilmente che anche gli angoli
di vertice A e B del primo pentagono sono rispettivamente eguali a quelli di
vertice E e D del secondo. I due pentagoni O1ABB1O2, O1EDD1O2 sono dunque
eguali; perciò conducendo da B e D le perpendi- colari al lato comune O1O2 i
loro piedi coincidono in un punto Θ e ΘB = ΘD. Così pure ΘN, ΘS, ΘG risultano
eguali a ΘB e perpendicolari ad O1O2,; insomma Θ è il centro di una
circonferenza di raggio ΘB situata in un piano perpendicolare a O1O2, nella
quale è inscritto il pentagono piano regolare BDNSG. Analogamente conducendo da
C la perpendicolare Cη ad O1O2 si dimostra che η è centro di una circonferenza
(situata in un piano perpendicolare ad O1O2) nella quale è inscritto il
pentagono piano regolare CMTRH. 132 Siccome AE spigolo del dodecaedro è
parte aurea di AP e quindi di BD, troviamo che il lato del pentagono inscritto
nella circonferenza di raggio r è parte aurea del lato del pentagono inscritto
in quella di centro Θ e rag- gio ΘB; ne segue che il raggio r è parte aurea del
raggio ΘB ossia, che questo raggio è eguale al lato s10 del de- calfa inscritto
nella faccia del dodecaedro. Preso ora su BΘ il segmento Θλ, eguale ad r il
seg- mento Bλ, sarà eguale ad l10, e poiché O1AλΘ è un rettangolo per
costruzione il triangolo ABλ è rettangolo. La sua ipotenusa è l5, il cateto Bλ,
è l10, l'altro cateto è quindi eguale ad r. Il rettangolo O1AλΘ è dunque un
quadrato ed i piani delle due circonferenze di centri O1 e Θ hanno una distanza
eguale ad r. D'altra parte essendo l'apotema O2B1 della faccia eguale alla metà
di BΘ = s10, B1 è il punto medio del segmento O2μ preso eguale a s10, e quindi
BΘO2μ è un rettangolo, e BμB1 è un triangolo rettangolo di cui l'ipotenusa è eguale
ad r+a5, il cateto μB1 è eguale a a5 e quindi. Ma perciò (Bμ)2 =
(r+a5)2–a25=r2+2ra5 r=s10 –l10 ed a5=s10 e siccome 10 10 10 10 10 10 r2=s10
·l10 133 2 (Bμ)2 = r2+s (s –l )=r2+s2 –l s si ottiene quindi ossia (Bμ)2
= s2 10 Bμ = s10 Bμ=O2Θ=BΘ = s10. Quindi anche BμO2Θ è un quadrato; e la
distanza tra il piano dei vertici BDNSG e la faccia inferiore KILUV è eguale ad
s10. Analogamente preso il punto η sopra O1O2 tale che O2η = O1Θ = r esso è il
centro della circonferenza di raggio s10 passante per CMTRH. NeseguecheΘη=ΘO2
–O2η=s10 –r=l10.Dunque la distanza tra i piani dei vertici BDNSG e CMTRH è
eguale a l10, lato del decagono regolare inscritto nella faccia del dodecaedro.
La distanza tra le due facce opposte del dodecaedro AEPQF e KILUV è eguale a
2a; e si ha: [15] 2a=2r+l10=s10+r ed a = 2 r + l 10 = r + s 10 = r + a 5 . 222
Dai triangoli rettangoli AO1η e BΘO1 che hanno per cateti r ed s10 si trae che
le ipotenuse Aη e BO1 sono eguali a s5. Siccome poi r è la parte aurea di s10,
s10 a sua volta è la parte aurea di O1O2; dunque la distanza 2a tra le due
facce opposte del dodecaedro è divisa dai piani degli al- 134
triverticiinduepuntiΘedηtalicheηO1 =O2Θèla parte aurea di 2a, la parte
rimanente O1Θ = O2η è eguale alla parte aurea r di s10 e la parte intermedia è
la parte aurea di r ossia è il lato del decagono inscritto nella fac- cia del
dodecaedro. Riassumendo, le due circonferenze di centri Θ ed η hanno il raggio
eguale al doppio dell'apotema della fac- cia del dodecaedro, hanno dalle due
facce ad esse pros- sime distanza eguale al raggio della faccia e dalle altre
due facce distanza eguale al loro raggio ossia al lato del decalfa inscritto
nella faccia del dodecaedro. Nella figura 28 è disegnata nel suo piano la
sezione ABB1 UTT1 del dodecaedro ed è costituita dall'esagono PFQP'F'Q'. I
punti N e D corrispondono ai centri O1 e O2 delle facce della figura 37. I lati
PF e P'F' sono quelli eguali allo spigolo l5 del dodecaedro. BD e PN sono
eguali al raggio r della fac- cia; O punto medio di ND è il centro della sfera
ed OB = OF = OP è il raggio R della sfera circoscritta, DH è eguale ad s10.
Completando il quadrato ADHF ed il ret- tangolo ADNV, risulta AB eguale ad l10.
Preso sopra PB il punto K tale che PK = s10 sarà BK = r; condotta per K la
perpendicolare a PD essa taglia AV in C e DN in E tali che AC = DE = r e BC =
AK = l5: preso poi KL = BM = s10 i triangoli rettangoli KBL,
KPNsonoegualiequindiKN=BL=s e ̂̂̂̂ 5 PKN=KLB=ACB=AKB quindi i punti A, K, N
sono allineati, e la diagonale AN è divisa da K in due 135 parti, AK
eguale ad l5 e KN eguale a s5, dimodoché AN è eguale a l5 + s5. AD è eguale ad
s10; preso allora il pun- to medio Q di AD sarà DQ l'apotema a5 della faccia ed
OQ il raggio R' della sfera tangente agli spigoli del do- decaedro nei loro punti
medii. E siccome OQ è la metà di AN si ha la semplice relazione: [16] R'=l5+s5
2 Nella figura 28 FN e CD sono eguali ad s5. Dalla fi- gura risulta che il
rettangolo BDNP è eguale alla somma del rettangolo BDHG e del quadrato GHNP e
quindi si ha: 2a·r=r·s +r2=r·s +s ·l =s (r+l )=s2 Dunque [17] 10 10 10 10
10 10 10 2a·r=s2 10 od anche [18] a·r=2a25 Nella figura 28 la diagonale AN, e
gli assi di AD e DN si incontrano nel punto medio di AN ed il rettangolo di
base AQ = a ed altezza a è diviso dalle BP e CE in modo che il rettangolo di
base AB = l10 ed altezza a è eguale in estensione al rettangolo di base AQ = a5
ed al- tezza r. Si ha dunque: [19] a·l10=r·a5 od anche [19'] 2a·l10=r·s10 Dai
triangoli OBD ed OQD della fig. 28 si trae: 136 [20] R2=a2+r2 [21] R 2=a
2+ a25 e da queste od anche dalla figura l2 [22] R2=R2+r2 – a25 R '2+(25 )
L'esagono ABB1UTT1 sezione del dodecaedro è egua- le al rettangolo di lati 2s10
e 2a, diminuito dei rettangoli di lati r ed l10 e a5 ed s10. Si ha dunque: 2
s10 · 2 a – rl10 – a5 s10=4 a5 · 2 a – r (s10 – r) – 2 a52 =
4a5(s10+r)–r·s10+r2–2a25=8a52+4a5r–2a5r+r2–2a52 =
6a25+2a5(s10–l10)+r2=6a52+4a25–s10l10+r2=10a25 Dunque la sezione fatta nel
dodecaedro con il piano passante per i centri di due facce opposte ed il
vertice di una di queste facce è il decuplo del quadrato che ha per lato
l'apotema della faccia. Nell'esagono PFQP'F'Q' le diagonali PP' ed FF' sono
eguali a 2R e siccome si bisecano in O ne segue che PFP'F' è un rettangolo; e
quindi i triangoli isosceli PQ'F' e FQP' che hanno il lato eguale hanno eguali
anche le basi PF' ed FP' e sono eguali. Queste basi sono eguali a 2R'. ̂̂ Gli
angoli Q'PF' e QFP' alla base dei due trian- goli isosceli precedenti sono
eguali; e quindi sono eguali anche gli angoli ̂Q ' PF e ^PFQ ; quindi i triangoli
137 PFQ' e PFQ sono eguali per il primo criterio e perciò le due
diagonali dell'esagono PQ e FQ' sono eguali. Que- st'ultima è ipotenusa del
triangolo FQ'T' e perciò il qua- drato costruito sopra di essa è dato da
9a25+r2 : e se ne possono trovare anche altre espressioni. Dopo avere trovato
l'espressione delle tre diagonali dell'esagono PFQP'F'Q' si può trovare che la
sua area è anche espressa da R'(2l5 +s5) od anche da R'(2R' + l5), che si
possono dimostrare identicamente eguali a 1 0 a 25 . In base alle proprietà che
abbiamo trovato si può dare la seguente soluzione al problema di inscrivere il
dodecaedro regolare nella sfera di raggio dato, soluzione pre- feribile alla
prima e che presumiamo collimi con quella data dai pitagorici. Dato R si
determina come nell'altro procedimento lo spigolo AP del cubo inscritto che è
anche eguale ad s5, lato del pentalfa inscritto nella faccia del dodecaedro. Si
determina la parte aurea di questo spigolo del cubo e si ha in essa lo spigolo
del dodecaedro. L'altezza del triangolo
rettangolo che ha per cateti s5 ed l5 ossia gli spigoli del cubo e del
dodecaedro inscritti è eguale ad r, raggio della circonferenza, circoscritta
alla faccia del dodecaedro. Le proiezioni dei cateti di questo triangolo sono
l10 e s10, ossia il lato del decagono regolare ed il lato del decalfa inscritti
nella circonferenza circoscritta alla faccia. Si prende un segmento Θη = l10
lato del decagono e parte aurea del raggio r, e se ne prendono i prolungamenti
ΘO1 = ηO2 = 138 r. Il punto medio O dei segmenti Θη e O1O2 è il centro
della sfera inscritta, ed i segmenti OO1 = OO2 = a sono eguali all'apotema del
dodecaedro. Per i punti O1, Θ, η, O2 si conducono i piani perpendicolari ad
O1O2; in questi piani si descrivono le circonferenze di centri O1 e O2
eraggiorequelledicentriΘeηeraggios10 =lato del decalfa, e si inscrivono in esse
i pentagoni regolari AEPQF, KILUV, BDNSG, CMTRH in modo che i verti- ci A e B
stiano in uno stesso piano OO1AB ed i vertici I, C in uno stesso piano OO2IC e
che questi due piani for- mino un angolo di 36°. Si hanno così tutti i vertici
del dodecaedro. Si tira AB, ED, PN, QS, FG, IC, LM, UT, VR, KH; e poi si
uniscono successivamente i punti B, C, D, M, N, T, S, R, G, H, B ed il
dodecaedro è co- struito. Il problema di costruire il dodecaedro circoscritto
alla sfera di raggio a, si risolve immediatamente. Basta pren- dere la parte
aurea del diametro 2a, e la parte rimanente è r, la differenza tra 2a ed r è
s10; e la differenza fra s10 ed r è l10; e ora si prosegue come nel caso
precedente. Il problema di costruire il dodecaedro regolare di dato spigolo l5,
si risolve costruendo prima (fig. 23) il seg- mento s5 di cui lo spigolo
assegnato è la parte aurea; poi costruito il triangolo rettangolo di cateti s5
ed l5, la figura fornisce successivamente r, l10, s10, a, a5, R, ed R'.
139 Ipsicle e prima di lui Aristeo54 han dimostrato che i circoli
circoscritti al pentagono del dodecaedro ed alla faccia dell'icosaedro
inscritti nella stessa sfera hanno lo stesso raggio. La dimostrazione si può
fare così: nella fig. 36 si ha: ON5 – R > OL1. Sugli apotemi OL, OL1, OL2
... prendo OL' = OL'1 = OL'2 = ... = R. Questi punti sono vertici
dell'icosaedro inscritto nella sfera di raggio R. Infatti, 1o – L'L'1 = L'L'2 =
L'1L'2 = ... perché basi di triangoli iso- sceli di lato ed angolo al vertice
eguale; 2o – Il triangolo equilatero L'L'1L'2 ha il centro sull'asse ON1
equidistante da essi: questo centro X è il piede delle altezze di vertici L',
L'1, L'2 dei triangoli eguali ON1L, ON1L'1, ON1L'2; 3o – Il triangolo
rettangolo OXL'1 = ON1L1 perché l'ipote- nusa OL'1 = ON1 ed un angolo acuto è
in comune; quin- di XL'1 = L1N1; ma XL'1 è il raggio della circonferenza
circoscritta alla faccia dell'icosaedro, ed L1N1 è il raggio di quella
circoscritta al pentagono del dodecaedro; e quindi la proprietà è dimostrata
geometricamente. LORIA – Le scienze esatte nell'antica Grecia. IL SIMBOLO
DELL'UNIVERSO. In relazione ai poliedri regolari e specialmente al dodecaedro
regolare dobbiamo ora soffermarci alquanto a considerare le tre medie
considerate anche dai pitagorici, ossia la media aritmetica, la media
geometrica e la media armonica. Nicomaco attesta che Pitagora conosceva le tre
proporzioni aritmetica, geometrica ed armonica; e Giamblico attesta che nella
sua scuola si consideravano le tre me- die aritmetica, geometrica ed armonica.
Si ha proporzione aritmetica tra quattro numeri a, b, c, d quando a – b = c –
d; la proporzione è continua se b = c; ed in tal caso b è il medio aritmetico o
la media aritmetica di a e d e si ha: b=a+d . 2 Se si tratta di tre segmenti in
proporzione aritmetica, la definizione è la stessa ed il segmento b semisomma
dei due segmenti a e d è la loro media aritmetica. Cfr. NICOMACO, ed. Teubner;
e JAMBLICHI, Nicomachi Arith. introd., ed. Teubner, pag. 100. Cfr. anche G.
LORIA, Le scienze esatte. Si ha proporzione geometrica tra quattro numeri a, b,
c, d quando a : b = c : d, e per i segmenti quando il ret- tangolo dei medi è
eguale al rettangolo degli estremi. Con questa definizione non vi è bisogno
della teoria del- le parallele e della similitudine, non si considera il rap-
porto di due segmenti e non si sbatte nella questione della incommensurabilità.
Abbiamo veduto inoltre che i pitagorici erano in grado di risolvere il problema
dell'ap- plicazione semplice, ossia di costruire il segmento quar- to
proporzionale dopo tre segmenti assegnati a, b, c, nel caso in cui il primo
segmento era maggiore di uno alme- no degli altri due, sempre s'intende senza
bisogno di pa- rallele. Se b è eguale a c, la proporzione è continua e b è il
medio geometrico tra a e d; la media geometrica di due segmenti è dunque il
lato del quadrato eguale al rettangolo degli altri due; ed abbiamo visto che i
pitagorici erano sempre in grado, come applicazione del teorema di Pitagora, di
costruire tale media geometrica. Quanto alla proporzione armonica e alla media
armo- nica, si dirà che quattro numeri a, b, c, d sono in propor- zione
armonica quando i loro inversi sono in proporzio- ne aritmetica, ossia quando
1a – 1b = 1c – d1 ; e conseguentemente b è medio armonico tra a e d quando
l'in- verso di b è eguale alla media aritmetica degli inversi degli altri due.
Archita in un suo frammento ci ha tramandato le defi- nizioni pitagoriche nel
caso della proporzione continua 142 di tre termini; le definizioni
antiche coincidono con le moderne nel caso della media aritmetica e della
geome- trica, la definizione della media armonica è invece diversa. Riportiamo
il frammento di Archita, inserendo per chiarezza gli esempi numerici. La media
è aritmetica quando i tre termini sono in un rapporto analogo di eccedente,
vale a dire tali che la quantità di cui il primo sorpassa il secondo è precisa-
mente quella di cui il secondo sorpassa il terzo; in que- sta proporzione si
trova che il rapporto dei termini più grandi è più piccolo, ed il rapporto dei
più piccoli è più grande (esempio: 12, 9 e 6 sono in proporzione aritmetica
perché 12 – 9 = 9 – 6. Il rapporto dei termini più grandi cioè il rapporto di
12 e di 9 è uguale a 1+13, il rapporto dei più piccoli, cioè di 9 e di 6 è
eguale 1+ 12, ed 13 è minore di 12 ). Si ha media geometrica, continua Archita,
quando il primo termine sta al secondo come il secondo sta al ter- zo, ed in
questo caso il rapporto dei più grandi è eguale al rapporto dei più piccoli
(esempio: 6 è la media geometrica di 9 e 4 perché 9 : 6 = 6 : 4); il medio
subcontra- rio che noi [Archita] chiamiamo armonico esiste quando [Cfr. DIELS,
Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. Berlin; fr. 2o. Il frammento d’ARCHITA DA
TARANTO (si veda) è riportato nel testo greco dal Mieli a pag. 251 dell'opera
più volte citata. Lo Chaignet (A. Ed. CHAIGNET – Pythagore et la
philosophie pythagoricienne) ne dà la traduzione. 143 il
primo termine passa il secondo di una frazione di se stesso, identica alla
frazione del terzo di cui il secondo passa il terzo; in questa proporzione il
rapporto dei ter- mini più grandi è il più grande ed il rapporto dei più pic-
coli il più piccolo (esempio: 8 è la media aritmetica di 12 e di 6, perché
12=8+13 di 12; ed 8=6+13 di 6; il rapporto di 12 ad 8 è eguale a 1+12,
quellodi8a6èegualea 1+13, e 12 èmag- giore di 13 )». Prima di Archita di
TARANTO (si veda) (o dei pitagorici?) questa proporzione è chiamata ὑπεναντία
tradotto con subcontraria anche da LORIA (si veda), perché secondo la
definizione che abbiamo riportato, in questo caso succede il contrario che nel
primo. Da questa definizione si può trarre con operazioni aritmetiche semplici
la definizione moderna. Difatti se a, b, c, formano proporzione armonica, ciò
significa secondo Archita di TARANTO che a=b+ 1na e b=c+1nc; ;dalle quali si
deduce facilmente: n=a:(a–b)=c:(b–c) a(b–c)=c(a–b); ab–ac=ac–bc; 2ac=ab+bc; 57
Cfr. JAMBLICHI, Nicomachi Arith., ed Teubner, pag. 100; e NICOMACO, ed.
Teubner, pag. 135. 144 e quindi: 2ac=b(a+c); b=2ac ; 1=1(1+1). a+c
b 2 a c Si può anche scrivere: b(a+ c)=a·c 2 Si ha quindi la proporzione
numerica: a : a + c = 2 ac : c 2 a+c che, secondo quanto attesta Nicomaco di
Gerasa, Pitagora trasporta da Babilonia in Grecia. In questa importantissima
proporzione geometrica gli estremi sono due numeri (o grandezze) qualunque, i
medii sono ordinata- mente la loro media aritmetica e la loro media armonica.
Nel caso di segmenti, dalla penultima relazione risulta la presumibile
definizione geometrica della media armo- nica: la media armonica b di due
segmenti a e c è l'altez- za di un rettangolo avente per base la media
aritmetica dei due segmenti ed eguale al rettangolo che ha per lati i due
segmenti, ossia eguale anche al quadrato che ha per lato la media geometrica
dei due segmenti. E poiché la media aritmetica di due segmenti a e c è maggiore
del più piccolo di questi segmenti, ne segue che dati i due segmenti a e c, costruita
geometricamente la loro media aritmetica, per determinare geometrica- mente
anche la media armonica bastava risolvere il pro- blema dell'applicazione
semplice, in questo caso risolu- La testimonianza è di Giamblico, cfr. LORIA,
Le scienze esatte ecc. bile sicuramente (anche senza la teoria delle
parallele); ed abbiamo così trovato anche la relazione geometrica tra le tre
medie. L'esempio di media armonica che abbiamo addotto (8 media armonica tra 12
e 6) fa comprendere il perché Ar- chita od i pitagorici dettero il nome di
armonica alla media sub-contraria. Questi numeri infatti esprimono ri-
spettivamente le lunghezze della prima, terza e quarta (ed ultima) corda del
tetracordo greco (la lira di Orfeo); ossia in termini moderni le lunghezze
rispettive delle corde (che a parità di tensione, di diametro ecc.) danno la
nota fondamentale, la quinta e l'ottava59; e questo tanto nella scala
pitagorica, quanto anche nella scala natu- rale maggiore e minore. Questo
conduce a vedere le relazioni che i pitagorici hanno scoperto (o stabilito) tra
le corde del tetracordo, e così pure dell'ottava (chiamata in greco armonia).
Ce lo dice, in parte, FILOLAO (si veda) in un suo frammento. Dice Filolao:
L'estensione dell'armonia è una QUARTA più una QUINTA [adoperiamo i termini
moderni di quarta e quinta per chiarezza]; la quinta è più forte della quarta
di nove ottavi. Il che significa: presa una corda, e presa la corda che ne dia
il suono primo armonico, ossia la corda che dà l'ottava, ed avute in questo
modo le due corde estreme del tetracordo, l'armonia ossia l'ottava si I termini
di quarta, quinta ed ottava si trovano già in NICOMACO, ed. Teubner. Cfr.
CHAIGNET, Pythagore etc., che riporta il frammento; estende mediante l'aggiunta
di due corde intermedie che sono la nostra quarta e quinta. Si ha così il
tetracordo composto di quattro corde che sono (per noi) ordinata- mente quelle
del do, del fa, del sol e del do superiore (la corda intermedia nel doppio
tetracordo). Considerando le lunghezze di queste corde, invece delle frequenze
od altezze dei suoni emessi come oggi si usa, frequenze che sono le inverse
delle lunghezze, è noto come Pitagora abbia trovato sperimentalmente le
lunghezze di queste corde. Egli trovò che la lunghezza dell'ultima corda era la
metà di quella della prima, e che la lunghezza della seconda, cioè del fa era
semplicemente la media aritmetica delle lunghezze di queste due corde estreme.
Quan- to alla corda del sol, il cui suono dà all'orecchio la sensazione di un
intervallo rispetto al do inferiore eguale Questo tetracordo non è altro che la
lira d’Orfeo, strumento con il quale si accompagnava la recitazione ed anche il
canto. Osserva TACCHINARDI nella sua Acustica musicale (Hoepli), che è notevole
che il tetracordo contiene gli intervalli più caratteristici della voce nella
declamazione. Infatti, INTERROGANDO (cf. Grice, ?p – interrogative mode,
indicative mode, imperative mode), la voce sale di UNA QUARTA; rinforzando,
cresce ancora di un grado; ed infine, concludendo, ridiscende di una quinta.
Occorre anche tener presente che l'ACCENTO dell'indo-europeo è un accento di
altezza. La vocale tonica è caratterizzata, non da un rinforzo della voce, come
in tedesco ed in inglese, ma d’una ELEVAZIONE. Il TONO greco antico consiste in
una ELEVAZIONE DELLA VOCE, la VOCALE TONICA è una VOCALE PIÙ ACUTA delle vocali
atone. L'intervallo è dato da Dionigi di Alicarnasso come un INTERVALLO D’UNA
QUINTA (MEILLET, Aperçu d'une histoire de la langue grecque,
Paris). all'intervallo del do superiore a quello del fa, ha una lunghezza
tale che le quattro lunghezze nel loro ordine formano una proporzione
geometrica. Queste lun- ghezze sono infatti espresse rispettivamente da 1, 34,
23, 12 ; od in numeri interi, prendendo eguale a 12 la lunghezza della prima
corda, sono espresse dai nume- ri 12, 9, 8, 6; ed essendo 9 maggiore di 6 la
lunghezza della corda del sol si poteva sempre determinare con il metodo
dell'applicazione semplice. La lunghezza della terza corda è dunque 8, ossia la
media sub-contraria di 12 e di 6; ed ecco perché Archita dà il nome di armonica
a questa media. In conclusione le quattro corde del tetracordo hanno lunghezze
che si stabiliscono semplicemente così: l'ulti- ma corda è lunga la metà della
prima, la seconda ha per lunghezza la semi-somma delle lunghezze delle corde
estreme; e la terza corda ha per lunghezza la media armonica delle lunghezze
delle corde estreme. Tutte que- ste lunghezze si costruiscono geometricamente.
Se invece delle lunghezze si prendessero le frequenze si trove- rebbe che la
quinta ha per frequenza la media aritmetica delle frequenze delle corde
estreme, e la quarta la media armonica. In molti testi di fisica e di
matematica si trova detto che la media armonica deve il suo nome al fatto che
le tre note dell'ac- cordo maggiore do, mi, sol formano una progressione
armonica in cui la lunghezza della corda del mi è la media armonica delle
lunghezze delle altre due. Quest'affermazione è errata, quantunque Vediamo ora
quali medie aritmetiche, geometriche ed armoniche si presentino considerando
gli elementi dei poliedri regolari. Per il cubo la cosa è immediata. Il cubo ha
12 spigoli, 8 vertici e 6 facce; sono proprio i numeri che danno le lunghezze
della prima, della terza e dell'ultima corda del sia vero che nella scala
naturale la lunghezza della corda del mi sia la media armonica delle lunghezze
del do e del sol. Ma ciò non accade nella scala pitagorica. Nella scala
naturale gli intervalli sono basati sopra la legge dei rapporti semplici, e la
media armonica delle lunghezze 1, 23 del do e del sol è 45 = lunghezza del mi;
come quella del re = 89 è la media armonica di quelle del do e del mi. La scala
pitagorica di Filolao, invece, si impernia sul tetracordo; in esso la lunghezza
della terza corda (sol) è la media armonica delle lunghezze delle corde
estreme; la sua elevazione rispetto alla prima corda è la stessa di quella
dell'ultima corda rispetto alla seconda, ed è la stessa elevazione che nel
greco parlato si verificava secondo Dio- nigi di Alicarnasso per la vocale su
cui cadeva l'accento tonico. E la denominazione di media armonica introdotta da
Archita deriva dalla proprietà della corda del sol nel tetracordo greco, e non
dal- la proprietà del mi nell'accordo maggiore della scala naturale, al- lora
inesistente. Filolao ci dice come venivano stabiliti gli intervalli nella scala
pitagorica. Si prendeva l'intervallo 23 : 34 =89 tra le due corde medie del
tetracordo (sol e fa); e con esso, partendo dal do e dal sol si determinavano
le lunghezze delle altre corde. Si ottenevano cosìlelunghezze:do=1,re= 8, mi=
64, fa= 3, sol= 9 81 4 149 tetracordo. Inoltre 8 è il primo cubo, è
il cubo del primo numero dopo l'unità. Per questa ragione Filolao chiama il
cubo armonia geometrica. I numeri dei suoi elementi presentano la stessa relazione
che presentano le tre cor- de prima, terza e quarta del tetracordo. La stessa
cosa, naturalmente potrebbe dirsi per l'ot- taedro regolare che ha 12 spigoli,
8 facce e 6 vertici. Nell'icosaedro regolare, indicando con R il raggio della
sfera circoscritta, con r quello della circonferenza circoscritta alla base
pentagonale di ogni angoloide e con l10 e s10 i lati del decagono regolare e
del decalfa in 2, la = 16 . Nella scala naturale, invece, la lunghezza del 3 27
mi è 4=64 con una differenza di circa 1 dalla lunghezza 5 80 100 del mi
pitagorico. Nella scala pitagorica, quindi, il mi non è la media armonica tra
il do ed il sol. Ed è invece la terza corda del tetracordo (la quinta della
nostra ottava) che per le sue proprietà suggerisce ad Archita il termine di
media armonica per designare la media aritmetica delle inverse. Così, e
soltanto così, si può comprendere l'importanza che i pitagorici dovevano
attribuire a questa media armonica, che con identica legge matematica si
presenta nella musica, nella lingua, e nel dodecaedro, simbolo dell'universo.
Naturalmente quest'errore si ripresenta nei testi di filosofia. Robin, p.e.,
(ROBIN, La pensée grecque, Paris) prende per le quattro corde della lira la
bassa, la terza, la media e la alta rappresentate (dice lui) dai numeri interi
6, 8, 9, 12; e commette così il doppio errore di sostituire la terza alla
quarta, e di invertire l'ordine delle lunghezze delle corde. Cfr. NICOMACO, ed.
Teubner] essa inscritti, abbiamo trovato che: s10 + l10 = 2R. La media
aritmetica tra s10 e l10 è dunque R, mentre per la [9] la media geometrica è r.
Si può dunque costruire la me- dia armonica; indicandola con M si avrà:
(s10+l10)·M=2s10l10 e sostituendo e siccome si ha: M · R = 45 R 2 ed infine M =
45 R Così pure, considerando il raggio R e la somma R + r dei due raggi,
abbiamo trovato che la loro media geometrica è (R + r) · r = 3a2, dove a indica
l'apotema dell'ico- saedro. E quindi, indicando con M la media armonica si ha:
e poiché si avrà: (2R+r)·M=6a2 2R=s10+l10 2R·M=2r2 r 2 = 45 R 2 2s10·M=6a2;
s10·M=3a2 sfera circoscritta all'icosaedro con il raggio della circon- 151
ossia la media armonica tra la somma del raggio della ferenza
circoscritta al pentagono base ed il raggio della sfera, è l'altezza di un
rettangolo che ha per base il lato del decalfa inscritto in questa
circonferenza ed è eguale al triplo del quadrato che ha per lato l'apotema
dell'icosaedro. Venendo a considerare gli elementi del dodecaedro regolare e
della sua faccia, osserviamo innanzi tutto la presenza di due quaterne: la
prima costituita dalle di- stanze 2a, s10, r, l10 tra i piani di due facce
opposte, tra i piani contenenti gli altri vertici dalle due facce, e tra loro;
la seconda dal lato del pentalfa e dai segmenti de- terminati sopra di esso dai
due lati del pentalfa che lo intersecano, cioè dai segmenti AE = s5, AN1 = EN =
l5, AN = EN1, NN, della fig. 26. In ambedue queste quater- ne di segmenti,
ognuno di essi è la parte aurea di quello che lo precede. Ora, se indichiamo
con a, b, c, d quattro segmenti consecutivi della successione che si ottiene
prendendo come segmento consecutivo di un segmento la sua parte aurea, si ha:
a=b+c b=c+d e quindi a + d = 2b; dunque: il secondo termine della successione è
la media aritmetica degli estremi. Si ha poi: b2=ac; c2=bd bc=(a – c)c=ac –
c2=b2 – c2=(b+ c)(b – c)=ad 152 quindi D'altra parte, indicando con M la
media armonica de- gli estremi a, d, essa è tale che: ad=a+d ·M 2 ossia
sostituendo, che: bc=b·M dunque essa non è altro che il terzo segmento c.
Possia- mo perciò enunciare la proprietà che, se quattro seg- menti sono
segmenti consecutivi di una successione tale che ogni segmento è seguito dalla
sua parte aurea, accade che il secondo segmento ed il terzo sono
rispettivamente la media aritmetica e la media armonica degli estremi.
Esattamente la stessa cosa accade per le lunghezze della seconda e terza corda
del tetracordo rispetto alle lunghezze delle corde estreme. Considerando allora
la quaterna 2a, s10, r, l10 dei segmenti determinati sopra la congiungente i
vertici di due facce opposte del dodecaedro dai piani delle facce e dai piani
contenenti gli altri vertici si ha: 1o – la distanza s10, (ossia il lato del
decalfa inscritto nella faccia) è la parte aurea del doppio dell'apotema ed è
la media aritmetica tra il doppio dell'apotema ed il lato l10 del decagono in-
scritto nella faccia (ossia la distanza tra i piani conte- nenti i vertici
intermedi); 2o – La distanza tra uno di questi piani e la faccia più vicina,
ossia il raggio r della circonferenza circoscritta alla faccia, è la media
armoni- ca tra 2a ed l10. [Analogamente il lato l5 del pentagono regolare in-
scritto è la parte aurea del lato s5 del pentalfa, ed è la media aritmetica tra
il lato del pentalfa ed il lato del pentagono NN1N2N3N4; mentre il lato AN
della punta del pentalfa è la media armonica tra il lato del pentalfa ed il
lato del pentagono NN1N2N3N4. Nel dodecaedro la distanza 2a delle facce
opposte, e nella faccia il lato del pentalfa, sono così suddivisi in modo da
costituire due quaterne di segmenti, tali che i segmenti medii si ottengono
dagli estremi prendendone la media aritmetica e quella armonica, esattamente
come le due corde medie del tetracordo si ottengono da quelle estreme.
Prendendo come segmenti estremi s10 ed r si trova per media aritmetica a [15];
e per la media armonica M si ha: a·M=rs =(s –l )s =s2 –s l 10 10 10 10 10 10 10
e per la [9] a·M=s2 –r2=(s +r)(s –r)=2al 10 10 10 10 ed infine M = 2l10 Così
pure la media aritmetica tra s5 ed l5 è R' [16], e la media armonica è data da
2 (s5 – l5), che equivale a 4 (s5 – R') ed a 4 (R' – l5), ed è il doppio del
lato AN della punta del pentalfa. In queste due quaterne il quarto segmento è
la parte aurea del primo, ed i due segmenti intermedi la media aritmetica e la
media armonica degli estremi. Si ha infine, indicando con M la media armonica
di 2a ed s10: 154 (2a+s )·M=4a·s =2(s +r)·s =2s2 +2s ·r 10 10 10 10 10 10
e per la [17] (2a+s10)·M=4ar+2s10 ·r=2r·(2a+s10) e quindi la media armonica tra
2a ed s10 è eguale al dia- metro della circonferenza circoscritta alla faccia.
L'esistenza di queste medie armoniche, e di queste specie di tetracordi
costituiti dagli elementi del dodecae- dro e della sua faccia non deve esser
sfuggita ai pitago- rici (almeno a quelli posteriori), e specialmente il tetra-
cordo formato dagli elementi 2a, s10, r ed deve avere costituito ai loro occhi
una conferma significativa delle ragioni simboliche che facevano del dodecaedro
regolare il simbolo geometrico dell'universo; diciamo confer- ma in quanto
questa corrispondenza tra il dodecaedro e l'universo si basa sopra altre
ragioni ancora. 3. I cinque poliedri regolari erano chiamati figure co- smiche
perché erano considerati come simboli dei quat- tro elementi e dell'universo.
II dodecaedro era il simbolo dell'universo. Se vogliamo vederne il perché non
vi è che da leggere alcune pagine del Timeo di Platone. Riassumiamo servendoci
della versione dell'Acri64. Ti- meo osserva che ogni specie di corpo ha
profondità ogni profondità deve avere il piano, e un diritto piano è fatto di
triangoli, in altri termini ogni superficie piana poligonale è composta di
triangoli e corrispondentemen- [PLATONE, I dialoghi, volgarizzati da ACRI,
Milano] te ogni poliedro si decompone in tetraedri: dimodoché il piano
corrisponde al numero tre dei vertici determinanti il triangolo ed il quattro
al numero dei vertici che deter- minano il tetraedro. Il due, come è noto,
corrisponde a una retta che è individuata da due punti. Il punto, la retta, il
piano o triangolo ed il tetraedro sono gli elementi della geometria, come i
numeri: uno, due, tre e quattro sono i numeri il cui insieme dà l'intera
decade. Per il fatto che ogni poligono è composto di triangoli, i pitagorici
dicevano che il triangolo è il principio della generazione. I triangoli,
prosegue Timeo, nascono poi da due specie di triangoli, il triangolo rettangolo
isoscele ed il triangolo rettangolo scaleno. Questi vengono posti come
principii del fuoco e degli altri corpi [elementi]; e con essi si compongono i
quattro corpi [i quattro elementi, ossia le superfici dei poliedri simboli dei
quattro elementi]. Siccome di triangoli rettangoli scaleni ve ne sono in-
numerevoli (distinti per la forma), Timeo sceglie quello «bellissimo» avente le
seguenti proprietà: 1o – con due di essi si compone un triangolo equilatero; 2o
– l'ipotenusa doppia del cateto minore; 3o – il quadrato del cate- to maggiore
è triplo di quello del minore. Con sei di questi triangoli si forma un
triangolo equilatero (o vice- 65 Cfr. PROCLO, ed. Teubner. Per altre fonti cfr.
lo CHAIGNET. Quanto si trova entro le parentesi è stato aggiunto da noi per
chiarimento.] versa, preso un triangolo equilatero i diametri della cir-
conferenza circoscritta passanti per i suoi vertici lo de- compongono in sei di
tali triangoli), e con quattro di questi triangoli equilateri si ottiene il
tetraedro regolare, «per mezzo del quale può essere compartita una sfera in
parti simili [di forma] ed eguali [di volume] in numero di ventiquattro». Con
otto di tali triangoli equilateri si ottiene l'ottaedro (composto dunque di 48
di tali triango- li); il terzo corpo, l'icosaedro, ha venti facce triangolari
ed equilatere, e quindi due volte sessanta di tali triangoli elementari. Altri
poliedri regolari con facce triangolari non vi sono. Con il triangolo
rettangolo isoscele si genera il cubo; perché quattro triangoli isosceli
formano un quadrato (od anche, il quadrato è diviso dai diametri passanti per i
vertici in quattro triangoli rettangoli isosceli), e con sei quadrati si forma
il cubo che consta così di ventiquattro triangoli rettangoli isosceli. Rimane
così, dice Timeo, ancora una forma di composizione che è la quinta, di quella
si è giovato Iddio per lo disegno dell'universo. Timeo sembra proprio sicuro
del fatto. Mieli esclude assolutamente che i pitagorici fossero arrivati a
riconoscere la impossibilità dell'esistenza di sei poliedri regolari, e riporta
in nota, non dice se a sostegno di questa sua esclusione ma così pare, la
dimostrazione d’Euclide nel suo testo greco. A noi sembra che i pitagorici
potevano benissimo pervenirvi; ad ogni modo è certo che essi conoscevano i
cinque poliedri che effettivamente esistono. A questo punto Platone fa tacere
Timeo, forse per riserva forse perché nel caso del dodecaedro vi è qual- che
differenza. Ma applicando il medesimo metodo di decomposizione in triangoli
alle facce del dodecaedro, il pentagono con le sue diagonali dà il pentalfa, e
la figura è divisa in trenta triangoli rettangoli dai diametri passan- ti per i
dieci vertici del pentalfa. La superficie del dodecaedro viene perciò
decomposta in 30×12 = 360 triangoli rettangoli, i quali però questa volta non
sono di quelli «bellissimi» cari a Timeo. Ora il numero XII (che compare anche
negli altri poliedri) ha già per conto suo un carattere sacro ed universale. XII è il numero delle divisioni zodiacali e XII
in ROMA è il numero degli Dei consenti, XII è il NUMERO DELLE VERGHE DEL FASCIO
ROMANO, ed un dodecaedro etrusco e molti dodecaedri celtici pervenutici stanno
ad indicare l'importanza del numero XII e del dodecaedro. Il numero CCCLX è poi
il numero delle divisioni dello zodiaco caldeo, ed il numero dei giorni
dell'anno egizio, fatti presumibilmente noti a Pitagora. Per queste ragioni il
dodecaedro si presentava natural- mente come il simbolo dell'universo. Il
silenzio di Platone in proposito ha dato nell'occhio anche a Robin, il quale
dice (ROBIN, La pensée grecque, Paris) che «au sujet du cinquième polyèdre
regulier, le dodécaedre... Platon est très mysterieux. Robin non prospetta
alcuna ragione di tanto mistero. REGHINI, Il fascio littorio, nella rivista
«DOCENS»] La cosa è pienamente confermata da quanto dicono due antichi
scrittori. Alcinoo70 dopo avere spiegato la natura dei primi quattro poliedri,
dice che il quinto ha dodici facce come lo zodiaco ha dodici segni, ed ag-
giunge che ogni faccia è composta di cinque triangoli (con il centro della
faccia per vertice comune) di cui cia- scuno è composto di altri sei. In totale
360 triangoli. Plutarco71, dopo avere constatato che ognuna delle dodi- ci
facce pentagonali del dodecaedro consta di trenta triangoli rettangoli scaleni,
aggiunge che questo mostra che il dodecaedro rappresenta tanto lo zodiaco che
l'an- no poiché si suddivide nel medesimo numero di parti di essi. E come
l'universo contiene in sé e consta dei quattro elementi, fuoco, aria, acqua,
terra, così il dodecaedro, inscritto nella sfera come il cosmo nella fascia (il
περιέχον), contiene i quattro poliedri regolari che li rappresentano. Abbiamo
veduto infatti come si possa in- scrivere in esso e nella sfera l'esaedro
regolare; si può mostrare poi facilmente che l'icosaedro avente per vertici i
centri delle facce del dodecaedro è regolare; così pure si ottiene un ottaedro
regolare prendendone come vertici i centri delle facce del cubo; ed unendo un
vertice del cubo con quelli opposti delle facce ivi congruenti ALCINOO, De
doctrina Platonis, Parigi; Cfr. an- che l'opera di MARTIN – Études sur le Timée
de Platon, Paris, PLUTARCO, Questioni platoniche. Naturalmente si tratta
dell'anno egizio quantunque Plutarco si dimentichi di precisarlo. e questi tre
fra loro si dimostra che si ottiene un tetrae- dro regolare. La tetrade dei
quattro elementi è contenuta nell'uni- verso, il κόσμος, e questo nella fascia,
come i quattro poliedri nel quinto e nella sfera circoscritta. Così la te-
trade dei punti, delle linee rette, dei piani e dei corpi è contenuta nello
spazio e lo costituisce; e quattro punti individuano il poliedro con il minimo
numero di facce ed individuano una sfera; così la somma dei primi quat- tro
numeri interi dà l'unità e totalità della decade (nume- ro che appartiene tanto
ai numeri lineari della serie natu- rale, quanto ai numeri triangolari, quanto
ai numeri pira- midali, e questo indipendentemente dal fatto di assume- re il
dieci come base del sistema di numerazione); così le quattro note del
tetracordo costituiscono l'armonia. Il tetraedro, la tetrade dei quattro
elementi, la tetractis dei quattro numeri, ed il tetracordo sono così
intimamente legati tra loro, ed ai quattro elementi del dodecaedro 2a, s10, r,
l10 di cui ciascuno ha per parte aurea quello che lo segue, e di cui i medii
hanno rispetto agli estremi esattamente la stessa relazione delle corde medie
alle estreme del tetracordo, e che individuano i quattro piani conte- nenti i
vertici del dodecaedro. E si comprende perché il catechismo degli Acusmatici
identifichi l'oracolo di Delfi (l'ombelico del mondo) alla tetractis ed
all'armonia. La parte aurea ha grandissima importanza nella strut- tura del
pentalfa ed in quella del dodecaedro simbolo [ROBIN, La pensée grecque, Paris dell'universo.
Si comprende quindi anche perché la parte aurea abbia tanta importanza
nell'architettura pre-periclea; e molte altre cose vi sarebbero da dire circa
l'in- fluenza ed i rapporti tra la geometria pitagorica, la co- smologia,
l'architettura e le varie arti. La digressione sarebbe però troppo lunga. Ci
limitere- mo ad osservare che in questo modo lo sviluppo della geometria
pitagorica ha per fine (nei due sensi della pa- rola) la inscrizione del
dodecaedro nella sfera ed il riconoscimento delle sue proprietà, come sappiamo
che ac- cadeva effettivamente. Anche Euclide, secondo l'attestazione di
Proclo75, pose per scopo finale dei suoi elementi la costruzione delle figure
platoniche (poliedri regolari); e forse dal tempo di Pitagora a quello di
Euclide questo scopo fina- le si mantenne tradizionalmente lo stesso; ma mentre
in Euclide l'intento era puramente geometrico, in Pitagora invece le proprietà
del dodecaedro mostravano, se non dimostravano, l'esistenza nel cosmo di quella
stessa ar- monia che l'orecchio e l'esperienza scoprivano nelle note del
tetracordo. Questo era, riteniamo, il legame profondo che univa la geometria
alla cosmologia, e forniva la base e l'impul- [CANTOR, Vorlesungen über
Geschichte der Mathematik] Alla considerazione della media armonica si
connette, invece, il canone della statuaria di Polycleto; ROBIN, La pensée
grecque; LORIA, Le scienze esatte ecc.] so anche all'ascesi pitagorica; e si
comprende ora con una certa precisione, e non più vagamente, come Platone
potesse scrivere che «la geometria è un metodo per dirigere l'anima verso
l'essere eterno, una scuola preparatoria per una mente scientifica, capace di
rivolgere le attività dell'anima verso le cose sovrumane», e che «è perfino
impossibile arrivare a una vera fede in Dio se non si conosce la matematica e
l'intimo legame di que- st'ultima con la musica». Per i pitagorici e per
Platone la geometria era dunque una scienza sacra, ossia esote- rica, mentre la
geometria euclidea, spezzando tutti i contatti e divenendo fine a se stessa,
degenerò in una ma- gnifica scienza profana. Di questo particolare legame della
cosmologia con la musica, percepibile nel tetracordo formato dagl’elementi
costitutivi del dodecaedro, non è rimasta traccia, ma in questo caso riteniamo
che l'assenza di ogni traccia materiale non sia casuale, perché questo doveva
costituire uno degli insegnamenti segreti della nostra scuola; ed un indizio
del fatto è fornito dalla subita riserva di Timeo nel dialogo platonico omonimo
appena giunge a parlare del dodecaedro. Così possiamo presumere di avere fatto
un passo abbastanza importante per la restituzione della geometria pitagorica,
non soltanto dal punto di vista moderno di restituzione dell'edificio
geometrico puro, ma dal punto di vista pitagorico inteso a studiare il cosmo
per scoprire LORIA, Le scienze esatte ecc.] le connessioni tra la geometria e
le altre scienze e discipline. Altre cose si potrebbero aggiungere in
proposito, ma anche noi dobbiamo pitagoricamente tener presente: μὴ εἶναι πρὸς
πάντας πάντα ῥητά. Partendo dal teorema dei due retti, e con l'aiuto del
conseguente teorema di Pitagora, ma senza ricorrere alla teoria delle
parallele, della similitudine e della propor- zione, è dunque possibile
pervenire a tutte le scoperte dei pitagorici menzionate da Proclo, con l'unica
restri- zione che il problema dell'applicazione semplice (para- bola) non si
può risolvere in tutti i casi, ma solo in un caso speciale, per quanto
importante e sufficiente a con- sentire il pieno sviluppo della geometria
pitagorica pia- na e solida come la abbiamo potuta restituire sin qui. Ed
abbiamo notato il fatto eloquente che per i problemi del- l'applicazione la
testimonianza addotta da Proclo non è quella autorevole di Eudemo, ma soltanto
quella di co- loro che stavano attorno ad Eudemo. Si obbietterà che questo non
basta a dimostrare con assoluta certezza che effettivamente quella che abbiamo
ricostituito sia tale e quale la geometria pitagorica. Lo sappiamo
perfettamente, ma sappiamo anche che, data la assoluta mancanza di ogni
documento diretto, del quale avremmo del resto dovuto tener conto come elemento
per la restituzione e non come documento di prova, non era possibile fare di
più; e sappiamo che in questa circostanza anche le prove indirette, che abbiamo
raccolto per via, hanno il loro valore a favore della nostra tesi. Nello
sviluppo della geometria pitagorica ci siamo limitati a quanto occorreva per
poter raggiungere i risultati menzionati da Proclo; ma si possono raggiungere
altri risultati ancora; ed una parte di essi li dovremo premettere per trattare
l'importante questione del «postulato» delle parallele. Il problema
dell'applicazione semplice, corrispondente alla risoluzione dell'equazione ax =
bc o ax = b2, si può risolvere nel caso in cui a sia maggiore di b o di c. Nel
caso che ciò non avvenga la certezza dell'esistenza della soluzione si può
avere solo quando si disponga della proprietà postulata da Euclide con il suo V
postu- lato. Una difficoltà analoga si incontra in altre importanti questioni.
Così, dati tre punti di una circonferenza, si dimostra che gli assi delle tre
corde passano per il centro; ma non si può dimostrare in generale che per tre
punti non allineati passa sempre una circonferenza. Ora, di fronte a questo
ostacolo che sbarra la strada all'ulteriore sviluppo della geometria, come
potevano comportarsi i pitagorici? Abbiamo veduto quali ragioni importanti
fanno ritenere che essi non hanno ammesso il postulato delle parallele e
nemmeno il concetto di paral- lele quale è definito da Euclide; ci proponiamo
adesso di mostrare come potevano, egualmente, superare la dif- ficoltà.
Osserviamo anzi tutto come sia noto come, conoscen- do comunque il teorema dei
due retti (proposizione Sac- cheri), si può, ammettendo il postulato di
Archimede, dimostrare con Legendre la unicità della non secante una retta data
passante per un punto assegnato (proprietà equivalente al postulato delle
parallele); e così pure osserviamo come il Severi, ammesso il suo postulato
delle parallele, dimostri, sempre con l'aiuto del postulato d’Archimede, la
unicità della non secante. La cosa è dunque possibile servendosi del postulato
d’Archimede; se non che, non possiamo pensare a ricorrere a questo postulato
perché Archimede è posteriore persino ad Euclide, e non è verosimile che i pitagorici
abbiano ammesso un postulato come quello di Archimede. D'altra parte, è vero
che il postulato d’Archimede basta per permettere di raggiungere il risultato;
ma è anche necessario ricorrere ad esso? E se non è necessario, potevano i
pitagorici, senza di esso ed in modo più sempli- ce, raggiungere il risultato,
dimostrare cioè la unicità della non secante una retta data passante per un
punto assegnato? BONOLA in ENRIQUEZ, Questioni riguardanti etc., SEVERI,
Elementi di Geometria, Firenze. Vedremo di sì, e vedremo come; ma ci è
necessario per far questo premettere ancora altre proposizioni che si deducono
da quelle già viste. TEOREMA: Se due rette a e b sono perpendicolari entrambe
ad una stessa retta AB, ogni altra perpendicolare ad una di esse incontra anche
l'altra ed è ad essa perpendicolare. Siano le due rette a e b perpendicolari
alla AB; e da un punto P della a conduciamo la perpendicolare alla b. Il suo
piede Q è necessariamente distinto da B, perché altrimenti da B uscirebbero due
perpendicolari alla b. E siccome la AB e la PQ perpendicolari in pun- ti
diversi ad una stessa retta non possono incontrarsi, i punti P e Q devono stare
da una stessa parte rispetto ad AB. Unendo A con Q il triangolo ABQ è
rettangolo, e quindi ̂AQB è minore dell'angolo retto ^PQB; la QA divide quindi
in due parti quest'angolo retto, e siccome sappiamo che i due angoli acuti del
triangolo rettangolo sono complementari, i due angoli ̂AQP e ̂QAB risul- ta^no
eguali perché complementari di uno stesso angolo AQB. I due triangoli ABQ, QPA,
avendo inoltre eguali gli angoli ̂AQB e ̂QAP perché entrambi com- plementari
dello stesso angolo ^BAQ, risultano eguali per il secondo criterio; e quindi
l'angolo ̂APQ è retto, c.d.d. D'altra parte essendo unica la perpendicolare per
P alla a essa coincide con la PQ, ossia la perpendicolare PQ alla a incontra la
b ed è ad essa perpendicolare. Osservazione: Un punto qualunque P o Q di una
delle due rette a o b ha dall'altra distanza costante. Infatti, essendo ABPQ un
rettangolo il lato PQ è eguale al lato opposto AB. Perciò due rette
perpendicolari ad una ter- za sono tra loro equidistanti. Viceversa, se un
punto P situato nel piano dalla parte di A rispetto alla b ha dalla b una
distanza PQ = AB, allora diciamo che questo punto P appartiene alla
perpendicolare alla AB condotta per A ossia sta sulla a. Supponiamo infatti che
i due punti A e P situati dalla stessa parte della b abbiano dalla b distanze
eguali tra loro AB, PQ. Il punto P non può naturalmente appartenere alla AB,
altrimenti Q coinciderebbe con B e quindi P con A; allora anche Q e B sono
distinti. Uniamo A con Q; l'angolo ̂AQB del triangolo rettangolo AQB è acuto e
complementare di ^BAQ; la QA divide quindi ^BQP, ed ̂AQB è complemento di ^AQP;
perciò i due triangoli ABQ, QPA hanno AQ in comune, AB = PQ e l'angolo compreso
eguale e sono perciò eguali; l'angolo ̂PAQ è dunque eguale al complemento ̂AQB
di ̂BAQ e perciò l'angolo ̂BAP=̂BAQ+ ̂QAP 168 è eguale ad un retto. Il
punto P sta dunque sulla a perpendicolare alla AB per A. Ne segue che ogni
altra retta passante per a non può essere tale che i suoi punti abbiano
distanza costante dalla b; si ha dunque la unicità della retta equidistante;
cioè il TEOREMA: Per un punto passa una ed una sola ret- ta equidistante da una
retta data. Il problema di condurre per un punto A la retta equi- distante da
una retta data b, si risolve immediatamente. Basta da A abbassare la
perpendicolare alla b; e poi da A la perpendicolare a questa. Abbiamo visto che
tutti i punti della a e soltanto essi hanno dalla b la distanza costante AB.
Questo si esprime con il TEOREMA: Il luogo geometrico dei punti del piano
situati da una stessa parte rispetto ad una retta data ed aventi da essa una
distanza costante assegnata è una retta. Questa proposizione è quella che il
Severi assume come postulato, chiamandolo il postulato delle parallele. Per noi
è un teorema conseguenza del teorema dei due retti e quindi del postulato
pitagorico della rotazione. Queste tre proposizioni sono tali che ognuna di
esse porta per conseguenza le altre due; vedremo infatti tra breve che dalla
proposizione ora stabilita si può dedurre il teorema dei due retti. Osserviamo
finalmente che l'aver dimostrato l'unicità della equidistante da una retta b
passante per un punto 169 assegnato A, non dice affatto che ogni altra
retta passante per A debba secare la b; possiamo soltanto dire che, se vi sono
altre rette passanti per A non secanti la b, esse non sono equidistanti dalla
b: ossia per ora abbiamo dimostrato la unicità della retta equidistante; e
nulla sappiamo della unicità della non secante. 3. Valgono per le rette
equidistanti alcuni teoremi analoghi a quelli valevoli per le rette parallele
di Eucli- de. TEOREMA: Se una retta ne incontra altre due e forma con esse
angoli alterni interni eguali esse sono equidistanti. Siano a e b le due
rette incontrate dalla trasversale AB, e siano gli angoli alterni interni
eguali. Ne segue che gli angoli coniugati interni sono supplementari. Se questi
angoli sono anche eguali, ossia se sono retti, le a e b sono perpendicolari
entrambe alla AB, e per il teorema precedente sono equidistanti. Se i due
angoli sono diseguali ed è per esempio ^DAB>^ABC, sarà ̂DAB un angolo ottuso
ed ̂ABC acuto. Abbassando da A la perpendicolare AH alla b, il piede H è
situato ri- 170 spetto a B dalla parte dell'angolo acuto perché un trian-
golo non può avere più di un angolo retto od ottuso, e, siccome anche l'altro
angolo ̂BAH del triangolo ret- tangolo ABH è acuto, ne segue che la AH divide
l'angolo ottuso ̂BAD in due parti. Si ha per ipotesi: ^ABH+^BAD=2 retti e
quindi: ^ABH+^BAH+^HAD=2 retti ma ^ABH+^BAH=un retto per il teorema dei due
retti: quindi ^HAD=un retto; e le a e b perpendicolari alla AH sono due rette
equidistanti. Lo stesso accade se la AB forma con le a e b an- goli
corrispondenti eguali, angoli alterni esterni eguali ecc. TEOREMA INVERSO: Se
una trasversale seca due rette equidistanti, forma con esse angoli alterni
interni eguali, angoli alterni esterni eguali, ecc. Supponiamo che la AB (fig.
39) tagli le due rette equidistanti a e b. Se fosse perpendicolare ad una di
esse sappiamo che lo sarebbe anche all'altra ed il teore- ma sussisterebbe. Se
non lo ̂è formerà con la a angoli adiacenti diseguali; sia p.e. BAD ottuso.
Condotta da A la perpendicolare comune alle due rette a, b essa divi- de BAD, e
nel triangolo rettangolo BAH l'angolo ̂ABH risulta complementare di ^BAH; e
quindi e ^HBA+^BAH=un retto ̂HBA+ ̂BAH+ ̂HAD=2 retti 171 ̂HBA+ ̂BAD=2
retti I due angoli coniugati interni sono dunque supplementari; e quindi gli
alterni interni sono eguali ecc. Non è però dimostrato che se due rette sono
equidistanti ogni secante della prima deve secare anche la seconda; perciò non
si può ancora risolvere p.e. il problema dell'applicazione semplice nel caso
generale. Diventa ora possibile la dimostrazione del teorema dei due retti
attribuita d’Eudemo ai pitagorici, dimostrazione alla quale si riferisce il
passo della Metafisica d’Aristotele. Condotta per il vertice A di un triangolo
ABC (fig. 1) la equidistante dal lato opposto BC, per l'eguaglianza degli
angoli alterni interni di vertici A e B, ed A e C il teorema si dimostra nel
modo ben noto. Naturalmente questa semplice dimostrazione è per noi un cavallo
di ritorno. Lo era anche per i pitagorici cui Eudemo attribuisce la dimostrazione?
Lo era anche per Aristotele? Se non lo era, ossia se non si basa sopra il
teorema delle rette equidistanti, derivante dal teorema dei due retti, doveva
necessariamente basarsi sopra questa proprietà delle rette equidistanti ammessa
per po- stulato o dedotta da un postulato equivalente; ma rimar- rebbe con ciò
inesplicabile la esistenza dell'antica dimostrazione del teorema dei due retti
menzionata da Eutocio. Comunque questa dimostrazione si basa sopra le proprietà
delle rette equidistanti, e vale quindi sia che si accetti o non si accetti o
non si usi il postulato d’Euclide. La equidistante è una non secante, che a
differenza delle altre eventuali non secanti (o parallele secondo la
definizione di Euclide) gode delle proprietà vedute, e consente perciò la
dimostrazione del teorema dei due retti. I pitagorici antichi, per le ragioni
che abbiamo vedu- to, non ammettevano né il postulato di Euclide né un
postulato sopra le rette equidistanti come quello di SEVERI (si veda). Se, come
crediamo, pervennero al concetto delle rette equidistanti, si fu come
conseguenza del teorema dei due retti da essi dimostrato con la ignota
dimostra- zione in tre tempi, e non viceversa. A meno che non si voglia
supporre che in un certo momento una parte dei pitagorici abbia creduto di
poter prendere come punto di partenza il concetto delle rette equidistanti, e
di trarne la dimostrazione del teorema dei due retti al posto dell'an- tica
dimostrazione. Dopo Euclide, ricorsero al concetto delle rette equidi- stanti
Poseidonio e Gemino con lo scopo di eliminare il postulato di Euclide; ed altri
tentativi furono fatti come è noto in seguito, ma sempre in modo non rigoroso,
perché, come SACCHERI dimostra, l'ammettere che delle rette equidistanti
esistano effettivamente è da con- siderare come un nuovo postulato. Esso è il
postulato del Severi, equivalente alla proposizione SACCHERI, ed al nostro
postulato pitagorico della rotazione. VAILATI, Di un'opera dimenticata di SACCHERI,
in Scritti.] Per noi è un teorema perché è conseguenza del teore- ma dei due
retti, a sua volta conseguenza del postulato della rotazione. Per le ragioni
vedute è certo che gli antichi pitagorici non ammettevano, ma dimostravano, la
proposizione Saccheri, e la dimostravano in un modo che non è verosimile derivi
da un postulato delle rette equidistanti o dal concetto stesso di rette
equidistanti; mentre è per lo meno possibile che la dimostrazione si basasse
sopra un postulato come quello della rotazione. Se ammettevano questo
postulato, non solo ne pote- van dedurre il teorema dei due retti, e quello di
Pitagora, ma anche tutte le scoperte loro attribuite da Proclo-Eudemo, ed
inoltre la teoria delle equidistanti e, di rimando, la dimostrazione del
teorema dei due retti attribuita ad essi da Eudemo.Se una trasversale incontra
due rette equidistanti e da un punto di una di esse si conduce la retta
equidistante dalla trasversale, essa incontra anche l'altra. Sia m la
trasversale delle due rette equidistanti a e b (fig. 40), e sia P il punto
assegnato sopra la a. Congiun- giamo B con P, e prendiamo sulla b il segmento
BQ = AP situato rispetto alla m dalla parte di P. La BP forma con le a e b
angoli alterni interni eguali; quindi i trian- goli APB, QBP vengono eguali per
il 1o criterio; perciò anche ̂APB=̂BPQ e la m e la PQ risultano equidistanti. E
siccome sappiamo che per P passa una sola retta 174 equidistante dalla m,
essa coincide con la PQ; dunque la equidistante dalla m condotta per P punto
della a incon- tra anche la b nel punto Q. Osservazione: il quadrilatero ABQP è
un romboide. Viceversa, se ABPQ è un romboide, siccome una diago- nale fa coi
lati opposti angoli alterni interni eguali, essi sono equidistanti. Dunque nel
romboide e nel rombo i lati opposti sono equidistanti. Questa distanza costante
si chiama altezza del romboide. TEOREMA: Se per il punto medio di un lato di un
triangolo si conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa
incontra il terzo lato nel suo punto medio. Per il punto medio M del lato AB
(fig. 41) del trian- golo ABC conduciamo la retta equidistante dalla BC. Tutti
i punti della BC stanno da una stessa parte rispetto ad essa; i punti A e B
stanno da parte opposta rispetto ad essa, e quindi anche i punti A e C stanno
da parte oppo- sta, e quindi il segmento AC è tagliato in un suo punto N da
questa retta. Completiamo il romboide che ha per 175 lati
consecutivi MN, MB; il lato NP di questo romboide è equidistante dalla AB e
lascia, il punto C e la AB da parti opposte; quindi il vertice P compreso tra B
e C. Siccome PN = BM = AM, ed è ̂MAN=̂PNC perché corrispondenti rispetto alle
equidistanti AB, PN, e ̂AMN=̂NPC per ragione analoga, i triangoli AMN, NPC
risultano eguali e quindi AN = NC, ossia N è il punto medio di AC. Naturalmente
per la stessa ragione P è il punto medio di BC e si ha MN=BP=PC=12BC TEOREMA
INVERSO: La congiungente i punti me- dii di due lati di un triangolo è
equidistante dal terzo lato ed è eguale alla metà di esso. Si dimostra per
assurdo, come conseguenza della unicità della equidistante dalla BC passante
per M, e della unicità del punto medio M. Come conseguenza di questi teoremi se
ne possono dimostrare degli altri sul fascio delle rette equidistanti, sul
trapezio, ecc.; si può risolvere il problema della divi- sione di un segmento
in un numero assegnato di parti eguali; si può dimostrare che le tre mediane di
un trian- golo si incontrano in un unico punto ecc.80 Ci limiteremo al seguente
teorema di cui abbiamo bisogno. TEOREMA: Se sul prolungamento di un lato di un
triangolo si prende un segmento eguale al lato, e per l’estremo del segmento si
conduce la retta equidistante da uno degli altri due lati essa incontra il
prolungamen- to del terzo lato. Sia AMN il triangolo dato; prendiamo sul
prolunga- mento di AM il segmento MB = AM; e sul prolunga- mento di AN il
segmento NC = AN. Uniamo B con C. Per il teorema precedente la MN e la BC sono
equidi- stanti. Dunque la equidistante dalla MN passante per B incontra il
prolungamento della AN nel punto C. Vogliamo ora dimostrare la proprietà,
fondamentale che per un punto assegnato A esterno ad una retta data b si può
condurre una sola retta che non la seca. In modo simile a questo si può
sviluppare la teoria delle rette e dei piani equidistanti e la teoria dei piani
equidistanti. Avremmo potuto premettere questi sviluppi, ottenendo poi con il
loro sussidio molte semplificazioni in varie questioni che abbiamo trattato, ma
con un po' di pazienza si è potuto fare a meno anche di essi. Dal punto A
conduciamo la perpendicolare alla b e sia B il piede; e dal punto A conduciamo
la a perpendicolare alla AB. Sappiamo che la a e la b entrambi perpendicolari
alla AB non si possono incontrare. Si tratta di dimostrare che ogni altra retta
passante per A e distinta dalla a è una secante della b. Supponiamo se è
possibile che ciò non accada. Vi sarà allora, oltre alla a, almeno un'altra
retta m che passa per A e non incontra la b. Il punto A divide la m in due
semirette situate da parti opposte della a; consideriamo la semiretta m che
rispetto alla a è situata dalla parte del punto B, ossia della b, ossia della
striscia di lati a e b. E consideriamo le semirette a e b situate ri- spetto
alla AB dalla stessa parte della semiretta m. La m è una delle semirette di
origine A e comprese nell'angolo ^B A a delle semirette AB ed a, la quale per
ipotesi non incontra la b. Oltre a questa semiretta ve ne possono essere altre
di origine A che non incontrano la semiretta 179 b; anzi ve ne sono di
sicuro e sono tutte le semirette di origine A e comprese nell'angolo m^a,
perché se una di esse p.e. la n incontrasse la b in un punto N, siccome la
semiretta m sarebbe interna all'angolo ̂BAN del trian- golo ABN e lascerebbe
quindi i punti B ed N da parti opposte dovrebbe segare il segmento BN
contrariamente alla ipotesi fatta sulla m. Perciò ogni retta n, interna
all'angolo ^mAa,, è dunque una non secante se la m è una non secante. D'altra
parte, dall'origine A escono sicuramente oltre alla AB delle semirette comprese
in ^B A a e secanti la b. Una di queste è ad esempio quella che forma con la AB
l'angolo di 60° e con la a quello di 30°; preso, infatti, a partire da A su
questa semiretta il segmento AC = 2AB, e congiunto B con C e con il punto medio
M di BC, il triangolo isoscele BAM avendo l'angolo al verti- ce ̂BAM di 60° è
equilatero; quindi il triangolo MBC è isoscele e l'angolo ̂ABC è retto, il che
significa che il punto C della AM sta sulla b, ossia che la AM è una se- cante
della b. Naturalmente tutte le semirette per A in- terne a ̂BAC sono delle
secanti della semiretta b. D'altra parte, le semirette del fascio di centro A
comprese tra la semiretta AB e la semiretta a o sono secanti della semiretta b
oppure sono non secanti della b. Alla classe delle secanti appartiene la AB, la
AC e tutte le se- mirette comprese entro l'angolo ^BAC; e vi apparten- gono
inoltre certamente anche una p^arte delle semirette di origine A ed interne
all'angolo C A a ; basta infatti 180 prendere un punto S qualunque sul
prolungamento del segmento BC dalla parte di C, e la semiretta di origine A,
passante per S, è compresa nell'angolo ^C A a ed è una secante della semiretta
b. Alla classe delle non se- canti appartiene la a di sicuro, la m per ipotesi,
e come abbiamo ve^duto anche tutte le semirette di origine A ed interne ad m A
a . La classe delle semirette di origine A e secanti la se- miretta b
costituisce un insieme ordinabile, perché è in corrispondenza biunivoca con
l'insieme dei punti della semiretta b. Ordinandole effettivamente in corrispon-
denza sarà la AB la prima semiretta secante seguita ordinatamente dalle altre;
e poiché non esiste l'ultimo pun- to della semiretta b così non esiste l'ultima
semiretta di origine A secante della b; ossia dopo una secante qualunque della
b nel fascio ordinato delle semirette di cen- tro A ve ne sono delle altre.
Premesse queste considerazioni, conduciamo dal pun- to C la perpendicolare
comune alle rette a e b. Le semi- rette di origine A che seguono la AB e
precedono la AC sono in corrispondenza biunivoca con punti del segmento BC; le
semirette che seguono la AC analogamente sono in corrispondenza biunivoca con i
punti del seg- mento CD, dimodoché le semirette del fascio di centro A comprese
tra la AB e la a sono in corrispondenza biu- nivoca con i punti della spezzata
ortogonale ABC, estremi compresi. La AB è la prima delle semirette secanti, la
a l'ultima delle non secanti la b. Facciamo a questo punto una osservazione: La
corrispondenza biunivoca tra i punti del segmento BC e le semirette dell'angolo
convesso ̂BAC che proietta il segmento da un punto A fuori della retta BC,
permette di ordinare l'insieme delle semirette dell'angolo ^BAC. Per dedurre
dalla ordinabilità della retta la possibilità di ordinare le semirette di un
fascio, il Severi nota che occorre prima introdurre il postulato delle
parallele, e poi nella corrispondenza escludere dal fascio una delle semirette.
Tale duplice necessità scompare se, invece di ordinare le semirette in
corrispondenza con i punti di una retta, si può ordinare le semirette in
corrispondenza con i punti del perimetro di un rettangolo le cui diagona- li
passino per A, e la corrispondenza è completa, nessuna semiretta esclusa.
Naturalmente per fare questo bisogna conoscere i ret- tangoli indipendentemente
dal postulato delle parallele, cosa che si verifica appunto nello sviluppo di
questa no- stra geometria pitagorica. Stabilita in questo modo la ordinabilità
dell'insieme delle semirette del fascio di centro A comprese tra la AB e la AD,
e stabilito il verso di tale ordine; ed osservato che tali semirette sono
necessariamente secanti o non secanti della semiretta b, che ogni semiretta che
precede una secante è anche essa una secante ed ogni semiretta che segue una
non secante è anche essa una non secante, osserviamo ancora che come non esiste
l'ultima delle se- [SEVERI, Elementi di geometria] mirette secanti la b così da
un punto di vista puramente logico si potrebbe pensare che non esista o possa
non esistere la prima delle semirette non secanti la b; ossia che data una
semiretta qualunque non secante la b se ne possano sempre trovare delle altre
pure non secanti le quali la precedano. L'intuizione però osserva che partendo
dalla posizione iniziale AB, od anche AC, e girando intorno ad A sino ad
arrivare alla posizione finale a, la semiretta che era una secante è divenuta
alla fine una non secante. Se la metamorfosi non si è verificata proprio al
momento finale per la semiretta a, dovrà essersi verificata ad un certo momento
per una posizione intermedia, prima del- la quale la semiretta si era mantenuta
sempre ancora se- cante e dopo la quale si è mantenuta sempre ancora non
secante. Insomma è intuitivamente evidente che esiste una ed una sola semiretta
che è la prima delle non se- canti; e tutto si riduce a mostrare che tale prima
non se- cante non è altro che la a. Da un punto di vista logico si presenta
corrisponden- temente la necessità di ricorrere ad un postulato; ed era
naturale e prevedibile che questo dovesse accadere, al- trimenti il postulato
della rotazione pitagorica (o l'equivalente proposizione Saccheri) sarebbe
stato equivalente al postulato di Euclide; soltanto che non si tratta del postulato
d’Archimede ma di un caso assai più semplice del postulato di continuità.
Bisogna ammettere come postulato la esistenza di una semiretta di separazione
delle due classi di semirette secanti e non secanti la b; verità talmente
evidente all'intuizione da presumere che agli occhi degli antichi dovesse
costituire un dato di fatto, una verità primordiale tanto assiomatica da non
sentire neppure il bisogno di postularla esplicitamente. Invero, se Euclide non
ha sentito il bisogno di postulare il postulato di continuità nei due casi che
abbiamo a suo tempo espressamente notato, sarebbe strano credere o pre- tendere
che ciò sia o debba essere avvenuto in un caso perfettamente analogo, e questo
due secoli prima d’Euclide quando Pitagora per primo faceva della geometria una
scienza liberale. Ammettiamo dunque esplicitamente il postulato che vi è almeno
una semiretta di origine A che separa le semirette di origine A e secanti la b
da quelle non secan- ti la b. Sappiamo che non può essere una secante quindi
sarà necessariamente una non secante. Inoltre si riconosce subito, per assurdo,
la sua unicità. Essa è dunque la pri- ma non secante. Noi intendiamo mostrare
che nessuna semiretta del fascio A distinta dalla a può essere la pri- ma non
secante, dimodoché la a è come sappiamo non secante, ed è la prima e l'unica.
Premettiamo un'osservazione: se per il punto medio H di AB (fig. 42) si conduce
la perpendicolare h ad AB (asse di AB ed equidistante dal- la a e dalla b),
ogni semiretta per A che sega la h sega anche la b. Se infatti la r sega la h
in R, essendo HB eguale ad AH la b equidistante dalla HR sega come sappiamo la
r, perciò una semiretta per A che non seghi la b non può segare neppure la h;
in particolare la prima se- miretta che non sega la b non può segare la h ed è
quindi contenuta nella striscia ah. Dimostriamo adesso il TEOREMA FONDAMENTALE:
Per un punto non appartenente ad una retta data passa una ed una sola retta che
non la seca. Sia A il punto dato e b la retta data. Si con- duce da A la
perpendicolare AB alla retta data, e sia B il piede. Poi da A la semiretta a
perpendicolare alla AB dalla stessa parte della semiretta b e per il punto
medio H di AB la semiretta h perpendicolare ad AB sempre dalla stessa parte
delle a e b. Supponiamo se è possibile che la semiretta r che forma con la
semiretta a un certo angolo δ (con δ ≠ 0) sia una non secante qualunque della b
(eventualmente anche la prima). Allora la prima non secante, ossia la se-
miretta di separazione delle secanti dalle non secanti di cui abbiamo ammessa
l'esistenza, non può seguire la r, e perciò o coincide con la r o precede la r,
ossia la semi- retta di separazione deve formare con la a un angolo ε≥δ dove
per altro è certamente ε < 30°. Sia essa la s. Condotta allora per A la
semiretta che forma con la semiretta a l'angolo 2ε essa sega la b in un punto
C. Conduciamo per B la perpendicolarê alla s e sia H il pie- de. Dovendo essere
acuto l'angolo HAB del triangolo 185 rettangolo AHB, il piede H sta sulla
semiretta s, e l'an- golo ̂ABH = ε. Siccome la BH fa con la BA un angolo ε 30°
e quindi anche minore di 60°, essa incontra certamente la semi- retta a in un
punto D. Ciò risulta anche dal fatto che la s è tutta compresa nella striscia
ha, perché la s non incon- trando la b non incontra neppure la h, quindi B ed H
sono da parti opposte della h, BH incontra la h, e quindi anche la a. Si ha
subito: BD > BA > BH. Preso perciò BK eguale a BA, sarà il punto K com-
preso tra H e D. Facendo ruotare la figura intorno a B dell'angolo ε in modo
che A vada su K, BA va su BK e la a, perpendicolare alla BA in A, va sulla a'
perpendi- colare alla BK in K. La a' e la s, perpendicolari entrambi alla BD
sono equidistanti, e poiché K è compreso tra H e D, D e la s stanno da parti
opposte rispetto alla a', e quindi anche D 186 e A; perciò il
segmento AD è tagliato in un suo punto E dalla a'. Con la rotazione la s va
sulla s' che passa per K e for- ma con a' l'angolo ε penetrando perciò
nell'angolo retto ^EKD ed incontrando il segmento ED in un punto L. La DA forma
con le rette equidistanti a' ed s angoli corrispondenti ^DEK, ̂DAH eguali;
quindi ^DEK=ε, il triangolo LEK è isoscele e perciò l'angolo esterno ^DLK=2ε.
Prendiamo ora sul prolungamento di BC il segmento CP = AL, ed uniamo P con L. I
triangoli ALC, PCL han- no LC in comune, AL = CP e l'angolo compreso eguale
perché la trasversale CL forma con le due rette equidi- stanti a e b angoli
alterni interni eguali; perciò ^ALP=^ACP, e quindi ^PLD=^ACB=2ε. Dunque tanto
la PL come KL formano con la AD un angolo eguale a 2ε; perciò le semirette LK
ed LP coincidono, ossia i tre punti L, K, P sono allineati, ossia la s'
incontra la b. Il triangolo PBK è isoscele avendo gli angoli alla base
complementari di ε, il suo vertice P sta quindi sul- l'asse di BK. Facendo
ruotare tale triangolo intorno a B di E in modo da riportare la base BK su BA,
il suo asse va sulla h, la s' torna sopra la s, ed il punto P della s' va sopra
la h. La s incontra dunque la h in un punto T. Pre- so ora sul prolungamento di
AT un segmento TV = AT il punto V della s appartiene alla b. Dunque la s è una
secante della b. La prima non secante s non può formare con la a un angolo ε≥δ;
ma abbiamo veduto che non può formare con la a neppure un angolo minore di δ;
quindi se esistesse una prima non secante la b distinta dalla a dovrebbe
soddisfare alla condizione di formare con la a un angolo che non dovrebbe esser
né maggiore, né eguale né minore dell'angolo S formato con la a da una non
secante qualunque r. Ne segue che, essendo impos- sibile soddisfare tali
condizioni, tale prima non secante distinta dalla a non esiste; e quindi la a è
una non secan- te della b, è la prima ed è l'unica tra tutte le semirette di
origine A e comprese tra la AB e la a, che non seca la b. Questa dimostrazione
si può facilmente trasformare in modo da fare a meno del movimento di rotazione
at- torno al punto B. Concludiamo che, ammettendo il postulato pitagorico della
rotazione, o l'equivalente teorema dei due retti (proposizione SACCHERI (si
veda)) o l'equivalente postulato di SEVERI (si veda) opra le rette
equidistanti, si può dimostrare il po- stulato di Euclide, sia ricorrendo al
postulato di Archi- mede, sia facendo a meno di ricorrere al postulato di Ar-
chimede, ed ammettendo soltanto la esistenza di quella semiretta di separazione
delle secanti dalle non secanti che alla intuizione degli antichi doveva
apparire indi- scutibile. Dimostrato il postulato d’Euclide si rientra
naturalmente nell'alveo della geometria euclidea non archi- medea; ed il nostro
compito è finito. A noi interessava difatti la restituzione della geome- tria
pitagorica, non in quanto collimava con la geometria euclidea, ma in quanto ne
differiva. Che ne differisse sostanzialmente lo prova la esistenza di quella
arcaica dimostrazione del teorema dei due retti che non poteva essere basata
sopra le proprietà degli angoli alterni inter- ni. Per ottenere questa
dimostrazione abbiamo ricorso alla supposizione che i pitagorici ammettessero
il postu- lato pitagorico della rotazione che abbiamo enunciato, ed abbiamo
veduto che ne segue immediatamente il teo- rema dei due retti nel primo caso
particolare menzionato da Eutocio, poi negli altri casi, ed abbiamo veduto che
di lì si trae senz'altro il teorema di Pitagora, e si può con successivi
sviluppi arrivare a tutte le scoperte attribuite ai Pitagorici. Fatto questo, e
sempre senza introdurre il concetto di parallele e il relativo postulato,
abbiamo po- tuto pervenire alla teoria delle rette equidistanti, la quale consente
da sola la più recente dimostrazione del teorema dei due retti riportata da
Aristotele ed attribuita da Eudemo ai pitagorici. Sappiamo bene quali
obbiezioni si possono sollevare all'adozione del postulato pitagorico della
rotazione, che presuppone il concetto di movimento rigido del piano, e la
capacità di riconoscere l'eguaglianza delle figure per sovrapposizione. Ma
questo è un problema teorico del quale non ci interessiamo; a noi interessa
invece vedere se i pitagorici possono avere adottato esplicitamente o no questo
postulato della rotazione. Come riprova del fatto che essi non ammettevano il
postulato delle parallele, definite come in Euclide, abbiamo addotto la ragione
che per i pitagorici il concetto di infinito si identifica con quello di imperfetto.
Ora, per una ragione analoga, da un punto di vista pitagorico, si potrebbe
obbiettare che essi non potevano accettare o basarsi neppure sopra il concetto
di movimento. Infatti nella serie delle opposizioni pitagoriche, come il
concetto di finito e perfetto si oppone al concetto di infinito ed imperfetto,
così, corrispondentemente, il concetto di immobilità si oppone a quello di
movimento. Questa è per noi una obbiezione assai più seria dell'altra. Seguendo
una pura norma di coerenza schematica, sia il concetto di infinito sia quello
di movimento avrebbero dovuto essere banditi. Ma dobbiamo tenere presenti i
legami che avvincevano le concezioni geometriche dei pitagorici a quelle
cosmologiche; e se nessuno ha mai veduto due rette parallele nel senso anzi
detto, due rette cioè che prolungate indefinitamente non si incontrano mai,
viceversa chiunque vede e sa per esperienza che il movimento è un carattere
essenziale della vita umana ed universale. Gl’astri, ossia gli dei, si movevano
eternamente nelle loro danze celesti. E secondo i pitagorici, il movimento
circolare era quello perfetto, forse non soltanto per la sua regolarità e
semplicità, ma anche per il fatto che il centro e l'asse di rotazione restavano
im- [VERONESE, Appendice agli elementi di geometria, Padova] mobili e partecipi
della perfezione. L'ammettere dunque che una retta del piano situata ad una
qualsiasi distanza finita dal centro di rotazione ruotasse anche essa, era
ammettere quanto sembrava verificarsi nell'universo con la rotazione intorno
alla terra od al fuoco centrale od al sole (Aristarco di Samo), ed ammettere
che l'angolo del raggio vettore iniziale con la sua posizione finale fosse
eguale all'angolo delle posizioni iniziale e finale della retta, era ammettere
un fatto conforme alla intuizione e verificato dalla esperienza nel campo
raggiungibile dalla nostra osservazione. Dice il Veronese83 «che fa veramente
onore ad Euclide di avere fatto senza del movimento dove ha potuto, poiché nei
suoi elementi è chiara la tendenza di evitarlo per quanto gli è stato
possibile. Se dunque Euclide, pur reluttante, fa uso del movimento, prima di
lui se ne do- veva fare uso ancora maggiore, ed abbiamo così una riprova che i
pitagorici ne fanno uso senza tanti scrupoli e che quindi potevano benissimo
anche servirsi di un postulato relativo al movimento di rotazione come quello
che abbiamo enunciato. Con il tempo il punto di vista pitagorico che legava
intimamente tra loro le varie scienze venne tenuto sempre meno presente,
accentuan- dosi la tendenza a fare della geometria una scienza sepa- rata,
puramente logica; ed Euclide, ammettendo il suo postulato, raggiungeva il
doppio scopo di liberarsi sem- pre più dal concetto di movimento e di
procurarsi un 83 G. VERONESE, Appendice agli elementi etc.] mezzo comodo e
rapido per risolvere difficoltà che altri- menti si possono superare solo con
molto maggiore pa- zienza e lavoro. In compenso introdusse il suo postulato che
non ha mai soddisfatto nessuno e che Alembert chiama lo scoglio e lo scandalo
della geometria. Ricapitolando, consideriamo due semirette a e b perpendicolari
da una stessa parte in due punti A e B ad una stessa retta AB. Esse non si
incontrano; e ciò risulta dal solo fatto che da un punto qualunque del piano si
può condurre una sola perpendicolare ad una retta data. In secondo luogo, se si
ammette il postulato pitagorico della rotazione o la proposizione Saccheri, si
ha che queste rette sono anche equidistanti84. In terzo luogo, se si ammette
anche il postulato di Archimede oppure il caso particolare del postulato di
con- 84 In precedenza, supponendo noto che due rette perpendicolari in punti
distinti ad una stessa retta non possono incontrarsi, ne abbiamo dedotto che
una retta r con una rotazione di mezzo giro intorno ad un punto O esterno ad
essa prende una posizione tale che la r ed r' non si incontrano. Questo fatto,
per altro, non è che una conseguenza del postulato pitagorico della rotazione.
Di fatti, con tale rotazione un punto A della r va sul simmetrico A' di A
rispetto ad O; ed A' non appartiene alla r perché altrimenti anche O dovrebbe
appartenere alla r. D'altra parte, se le r ed r' avessero in comune un punto P,
dovrebbero per il postulato pitagorico forma- re un angolo di 180°, ossia
coincidere, e questo non può accadere perché A' della r' non appartiene alla r:
quindi esse non si incon- trano.] tinuità che noi abbiamo adoperato, si ha che
la semiretta a è l'unica semiretta di origine A che non seca la b. Torniamo
dopo ciò ad esaminare la questione della seconda dimostrazione pitagorica del
teorema dei due retti. Secondo Proclo, Eudemo direbbe testualmente così. Sia il
triangolo αβγ e si conduca per α la parallela alla βγ καὶ ἤθω διὰ τοῦ ᾶ τῇ βγ
παράλληλος ἡ. Qui appare il termine parallela e l'articolo determinativo ἡ ne
implica la riconosciuta unicità. Ma, anche ammettendo che Proclo riporta di
peso la dizione usata d’Eudemo, resta a vedere se Eudemo adopera il termine
parallela nella accezione attribuita ad esso dalla posteriore definizione di
Euclide, e resta a vedere se la nozione della unicità di questa retta proveniva
anche in Eudemo dall'accettazione di un postulato come quello ammesso poi d’Euclide.
Aristotele nel passo della Metafisica in cui si riferisce a questa stessa
dimostrazione conduce anche lui per il vertice α la retta che serve alla
dimostrazione, ma non la chiama né parallela, né equidistante, né non secante.
Egli dice semplicemente: εἰ οὖν ἀνῆκτω ἡ παρὰ τὴν πλευράν, ossia: se si conduce
la retta di fianco o di fronte al lato. Anche in questo passo l'articolo ἡ
mostra che tale retta è ritenuta unica, ma anche qui non è definita in nessun
modo e non si sa di dove derivi questa sua unicità. L'etimologia evidente della
parola parallela non dà in proposito nessuna luce. Il termine è adoperato in
astronomia per i paralleli della sfera celeste; ed è usato nel linguaggio
ordinario d’Aristotele, come poi ad esempio da Plutarco nelle vite parallele.
Dal linguaggio ordinario è passato poi al linguaggio geometrico, ma quando e
con quale precisazione non risulta. Aristotele lo usa tre volte nella
Analitica, come termine geometrico, e sentenzia che coloro i quali si sforzano
di descrivere le parallele commettono una petizione di principio. Così come
stanno le cose il passo di’Eudemo e quello del suo maestro Aristotele non
provano affatto che la dimostrazione posteriore dei pitagorici si basasse sopra
una definizione delle parallele e sopra un relativo postu- lato eguali alla
definizione ed al postulato d’Euclide. E non è da escludere che questa retta
fosse la equidistante, e fosse chiamata la parallela, e fosse ritenuta unica
non secante semplicemente per non essere ancora sorto il dubbio che oltre alla
equidistante vi potessero essere anche altre rette non secanti. In tal caso il
dubbio sarebbe sorto dopo, ed Euclide lo avrebbe eliminato d'autorità
introducendo il suo postulato. In tal caso la dimostrazio- ne di Aristotele
sarebbe corretta se quella tal retta con- dotta per il vertice del triangolo si
intende che sia equi- distante, e sarebbe scorretta se concepita come parallela
ne fosse supposta senza base la unicità; mentre invece quella di Eudemo sarebbe
corretta se con il termine di parallela si intende la equidistante (la cui
unicità e le cui proprietà i pitagorici potevano desumere dal teorema dei due
retti) e sarebbe scorretta se designasse una parallela nel senso euclideo e non
si fosse ammesso o dimostrato il postulato di Euclide. Comunque i due passi, d’Aristotele
e d’Eudemo, non provano che i pitagorici posteriori dessero del teorema dei due
retti una dimostrazione identica a quella d’Euclide. Se, come ci sembra, questa
dimostrazione pitagorica posteriore si basava sopra le proprietà delle rette
equidistanti, sia pure chiamandole parallele, anche questa dimostrazione era
indipendente da quel concetto di rette che prolungate all'infinito non si
incontrano mai e da quel postulato di Euclide, che vanno così poco d'accordo
con la concezione pitagorica. Notiamo in fine che nella dimostrazione che
abbiamo dato della unicità della non secante non si presenta la necessità di
prolungare la retta all'infinito e quindi anche essa quadra con la concezione
pitagorica. E notiamo ancora che, anche se non si vuole accordare che la geometria
pitagorica si basasse sopra il nostro postulato pitagorico della rotazione, la
dimostrazione del postulato d’Euclide che abbiamo esposto si può fare
egualmente, se si ammette la proposizione SACCHERI od il postulato del SEVERI.
E siccome i pitagorici conoscevano certamente il teorema dei due retti
indipendentemente dal po- stulato delle parallele, risulta così manifesto che
essi potevano dal teorema dei due retti e senza postulato d’Archimede arrivare
a dimostrare la unicità della non secante. La questione non trascendeva i loro
mezzi, né certamente l'intelligenza di quei così detti primitivi. La
trasformazione del postulato di Euclide in teorema è un risultato secondario di
questo nostro studio. Ed esula dal carattere di questo studio, né ci presumia-
mo da tanto, il giudicare se l'assetto euclideo della geo- metria sia, da un
punto di vista teorico moderno, preferi- bile all'antico assetto che abbiamo
cercato di ricostituire. Naturalmente tutti i postulati sono comodi; e,
tagliando il nodo gordiano delle parallele con la spada del postula- to di
Euclide, le cose si semplificano. Ma dovendo scegliere tra il V postulato ed il
postulato pitagorico della rotazione quale dei due è meno ostico? Quale dei due
è meno restrittivo? L'apprezzamento in queste cose è anche un po' personale, e
noi lasciamo che ognuno scelga secondo i suoi gusti. A noi interessa constatare
che il postulato pitagorico della rotazione consente di dimostrare il teorema
dei due retti e quello di Pitagora indipendentemente dal postula- to e dalla
teoria delle parallele in un modo che ha tutta l'aria di essere l'antico, e
consente da solo di ottenere tutto lo sviluppo della geometria pitagorica; e
non ci consta che sinora si sia trovato un modo, non soltanto più
soddisfacente, ma un modo qualunque, di raggiungere lo stesso risultato. Il
postulato di continuità al quale abbiamo ricorso è servito soltanto per
risolvere l'ultima questione, quella di dimostrare il postulato d’Euclide in
modo non trascendente le possibilità dei pitagorici. Una volta introdotto, come
postulato, il V postulato d’Euclide, la proprietà enunciata dal postulato
pitagorico della rotazione viene a perdere ogni importanza. Non meraviglia
quindi il non trovarne alcuna traccia su- perstite. Sarebbe strano che fosse
accaduto diversamente quando ogni traccia di dimostrazione pitagorica si è
perduta ad eccezione della tarda dimostrazione del teo- rema dei due retti. Se
la nostra ricostruzione corrisponde al vero, la introduzione del postulato d’Euclide
dovette sconvolgere profondamente l'assetto della geometria; ed anche que- sto
è conforme alle notizie che abbiamo in proposito, poiché sappiamo che Euclide
cambiò l'ordine e le dimostrazioni ed in generale alterò tutto l'assetto della
geo- metria, sicché ad esempio il teorema di Pitagora divenne l'ultimo e
ricevette un'altra dimostrazione. Il favore quasi incontrastato di cui hanno
goduto per oltre venti secoli gl’elementi di Euclide, aggiungendosi a queste
condizioni sfavorevoli alla trasmissione della geometria pitagorica, ha portato
alla esaltazione della scuola greco-alessandrina, a tutto scapito della gloria
della scuola italica. Della scuola greca tutto o quasi ci è pervenuto; della
nostra scuola, della scuola che aveva creato dalle fondamenta, nulla si è
salvato. Un destino avverso sembra essersi accanito contro l'opera vasta ed
ardita del grande filosofo. Abbattuto, ad opera della democrazia, il regime
pitagorico in CROTONE Cotrone; disperso l'ordine e la scuola, le scoperte e le
conoscenze vennero combattute, miscono- sciute, derise e dimenticate.
Aristotele, con la sua auto- rità messa poi al servizio di pregiudizi di altra
natura, impede l'accettazione delle teorie cosmologiche pitagoriche,
assicurando per venti secoli il trionfo dell'errata teoria geocentrica; la
filosofia, intesa nel senso etimologico e pitagorico della parola, venne
occultata nel dila- gare delle speculazioni, dei sistemi, delle credenze, del
moralismo e del feticismo; e persino l'opera geometrica, che pur doveva avere
salde basi, si è perduta a tutto beneficio della scuola greca posteriore. Per
quanto arduo il compito, era, dopo venticinque secoli, l'ora di fare qualche
cosa a favore della nostra scuola, riparando per quanto è possibile alla
funesta azione del tempo e delle contingenze. Cercare di restituire l'opera
geometrica della scuola itala è stato per noi non soltanto un importante
argomento di studio, ma è anche un gradito compito di rivendicazione. Nel
terminare, vogliamo esplicitamente dichiarare che siamo perfettamente coscienti
di quanto le nostre modestissime forze siano state inferiori all'impresa ed
all'ardire. Vengano quindi altri, facciano di più e meglio, e saremo i primi a
rallegrarcene. E così pure, ben inteso, sappiamo benissimo quale rapporto
intercede tra noi e Pitagora. Perciò è naturale imputare a noi, e solo a noi,
gli errori e le manchevolezze di queste pagine; ma, se vi sono dei meriti,
preghiamo i lettori di ascriverli, non no- bis, ma all'immortale fondatore
della nostra scuola. Αὑτὸς ἔφα. Unico nostro merito, se mai, è l'avere saputo prendere
direttamente da lui l'inspirazione. ΤΕΛΟΣ. Leonardo Ferrero. Ferrero. Keywords:
implicature arimmetica, pitagorismo romano. Cf. uomo, scuola pitagorica,
filosofia italiana, filosofia italica, il pitagorismo comparato con altri
scuole, aristosseno e pitagora – crotone – crotona – Taranto – metaponto,
aristosseno, prima seguace del pitagorismo, reghini, massoneria, esoterico,
numeri sacri. Cf. Luigi Ferri, L’interpretazione dei filosofi italiani
sull’origine del pitagorismo. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Ferrero” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferretti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo
– scuola di Brusasco – filosofia torinese – scuola di Torino – filosofia
piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Brusasco). Abstract. Grice: “When I lectured at Bielefeld, I had
to be careful with the language. They use Objekt very seriously – much more
seriously than Subjkekt – and they usually ignore the Inter-Subjektiv!” Keywords:
inter-soggetivo. Filosofo italiano. Brusasco, Torino, Piemonte. Grice: “I like
Ferretti, for one, he wrote on intersubjectivity which is a problem for
Husserl: cogitamus; nobody speaks of ‘cogitamus --; one has to distinguish
between my favoured –‘inter-subjectivity’ and ‘alterity’!” – Grice: “Ferretti
has also philosophised on the infinite, which poses a problem to my principle
of conversational helpfulness.” Si
laurea a Milano. Insegna a Milano, Torino, Macerata. Altre opere: Persona
(Milano). Storia della filosofia romana (SEI, Torino), “L’ntersoggettivo
(Macerata); “L’ontologia di Kant” (Rosenberg et Sellier, Torino). Ricerca
Soggetto (filosofia) termine Lingua Segui Modifica (LA) «Noli foras ire,
in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.» («Non uscire da
te stesso, rientra in te: nell'intimo dell'uomo risiede la verità.» (da
La vera religione di Sant'Agostino) Il termine soggetto che deriva dal latino
subiectus(participio passato di subicere, composto da sub, sotto e iacere
gettare, quindi assoggettare) letteralmente significa "quello posto
sotto", "ciò che sta sotto". Nella speculazione filosofica
il termine ha assunto una varietà di significati: un essere, sostrato sostanziale
di qualità che lo configurano particolarmente e accidentalmente; elemento
soggettivo che determina una data sostanza nella sua singolare peculiarità;
termine che, in età moderna, viene riferito alla coscienza individuale e
all'autocoscienza intesa come attività consapevole dell'io. Il ribaltamento di
significato nella storia del concettoModifica In filosofia il concetto di
soggetto ha subito un ribaltamento del suo significato originario. Inizialmente
il termine si riferisce a un concetto di essenzialità immutabile, ad una
"oggettività" ben determinata e certa. Successivamente il significato
si capovolge assumendo il valore di ciò che è apparentemente vero nell'ambito
della soggettività individuale. Il termine latino infatti traduce l'originario
greco ὑποκείμενον(hypokeimenon), che vuol dire appunto "ciò che sta
sotto", ciò che secondo il pensiero antico è nascosto all'interno della
cosa sensibile come suo fondamento ontologico. Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Calogero. La teoria sul pensiero
greco arcaico. Quindi soggetto (ὑποκείμενον/subiectus) è la sostanza (sub
stantia), ciò che di un ente non muta mai, ciò che propriamente e primariamente
è inteso come elemento ineliminabile, costitutivo di ogni cosa per cui lo si
distingue da ciò che è accessorio, contingente, e che Aristotele chiama
"accidente": anzi, è proprio la sostanza che sorregge gli accidenti
rappresentati da quelle qualità sensibili che mutano la loro apparenza nel
tempo e nello spazio. Sempre in Aristotele, poi, il soggetto assume anche
una funzione sul piano logico-linguistico che corrisponde al piano del soggetto
nella sua realtà: il soggetto nel giudizio è il punto di partenza, la base a
cui viene attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato
mutevole. E sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la
materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un
alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa
l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere
separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di
materia e di forma.» Un terzo aspetto particolare del soggetto in
Aristotele è che questi non è soltanto sostanza, il sostrato materiale delle
cose ma poiché ad ogni materia è inevitabilmente connessa una forma, il
soggetto-sostanza è "sinolo" (synolon), unione indissolubile di
materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo
luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il
composto di entrambe». Il ribaltamento soggetto-oggetto inizia con
Cartesioche pure mantiene una realtà sostanziale al pensiero soggettivo che
definisca res cogitans, sostanza pensante. Ma poiché l'attività senziente viene
concepita inizialmente come attributo del soggetto corporeo cui inerisce, «il
termine soggetto è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il
pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e
che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella
stessa realtà si presenta come soggetto ciò che non si può pensare esistente se
non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé
indipendentemente dal suo essere conosciuto.» Nel lessico moderno, allora,
"soggetto" fa coppia con "oggetto": da una parte c'è
qualcuno che pensa, vuole, accetta, respinge, desidera, teme, ecc. (soggetto);
dall'altra, necessariamente, c'è qualcosa che è pensato, voluto, accettato,
respinto, desiderato, temuto, ecc. (oggetto). Soggetto assume una serie di
nuovi significati come "interiorità", "libertà" o anche
"umanità", in quanto contrapposte alla Natura ed alla cieca materia.
Dualismi come libertà/necessità, Spirito/Materia, Uomo/Natura, si possono ricondurre
a quello fondamentale soggetto/oggetto. Questo insieme di significati è
relativamente recente. Oggi si potrebbe meglio parlare di
"autocoscienza" o anche "mente" contrapposta a "realtà
esterna". Gli antichiModifica Nel pensiero antico, almeno tra i
presocratici, l'interiorità come già accennato non viene contrapposta alla
"realtà esterna": uomo e cosmosono concepiti in stretta unità.
Pertanto il primo pensiero greco non tematizza il soggetto. Il primo concetto
filosofico, archè, indica il fondamento della legge naturale e di quella umana.
Eraclito vede un'unica legge, un'armonia generale, operante nella natura e
nella mente umana, il Lògos. Parmenide afferma che lo stesso è pensare ed
essere, ed «è necessario che il dire ed il pensare siano essere. Per Anassagora
il Noùs è l'intelletto che governa il cosmo e che, a livello umano, pensa ed
agisce. In tutti questi casi non si ha una chiara distinzione tra soggetto ed
oggetto. I Sofisti occupano un posto a parte: essi rifiutano in generale
il concetto di realtà, verso la quale ostentano uno scetticismo o un
relativismo che è la loro caratteristica peculiare, per concentrarsi sul mondo
umano. Socrate prosegue con il suo celebre "so di non sapere" al
quale viene riportata l'autocoscienza. La Natura è inconoscibile, ed il compito
proprio del filosofo diventa: conosci te stesso». La ricerca si orienta verso
l'interiorità dove troviamo il concetto universale di bene e male, virtù e
vizio, giusto ed ingiusto, ecc. Con Platone il concetto diventa Idea, da
sempre presente nell'Iperuranio, mondo trascendente eterno e divino. Platone
afferma la separazione tra pensiero (le Idee) e materia (le loro copie
sensibili), ma attribuisce realtà oggettiva solo alle Idee: viene confermata
l'unità tra soggetto ed oggetto, tra pensiero e realtà, ma tale unità viene
sottratta alla sfera propriamente umana. La vita individuale è sede della dòxa,
apparenza ed errore, mentre solo l'anamnesi, ovvero la visione dell'essere
ideale, porta alla Verità. Così la filosofia, dal punto di vista della dòxa, si
presenta come "fuga dal mondo" ed "esercizio di morte".
Aristotele elabora un'ampia teoria sul soggetto, che coincide appunto con
l'upo-kéimenon: è il substrato, il fondamento su cui poggiano le qualità
accidentali (soggetto metafisico); è il soggetto grammaticale, di cui si dicono
i vari predicati (soggetto logico). Aristotele afferma che la sostanza pare che
sia in primo luogo il soggetto di ogni cosa. Alla sostanza competono numerosi
altri aspetti (potenza, atto, materia, forma, entelechia ecc.), a seconda del
contesto; ma tutti questi aspetti o significati afferiscono a quello
fondamentale, che è la sostanza come soggetto. Perciò il soggetto umano, nel
senso moderno, è solo un caso particolare di sostanza e di soggetto. Riassumendo
la posizione greca: con l'eccezione dei Sofisti, si riteneva che nella realtà
del Cosmo l'Uomo e la Natura costituissero una unità o un'armonìa, o un
rapporto di tensione, dove un principio unico (arché) li univa, e dove in ogni
caso la sostanza (ciò che è esterno alla nostra mente) prevale ontologicamente
sul soggetto (la mente). Con il Neoplatonismo la coppia soggetto/oggetto
si presenta a livello cosmico, dove il polo soggettivo della realtà (che si
manifesta ovunque, dall'Uomo al mondo divino) è unito a quello oggettivo
(Essere), ma sono entrambi subordinati al Principio unico o Uno, anzi sono
derivati da esso per emanazione. L'autocoscienza umana, il «so di esistere» non
è che un riflesso, una manifestazione particolare dell'autocoscienza dell'Uno,
che anche Plotino chiama Noùs (Intelletto). Si ha di nuovo la coincidenza tra
soggetto e oggetto e l'"assorbimento" dell'intelletto umano in una
dimensione intellettiva universale. Sulla scorta di Aristotele, nel
Medioevo il soggetto assume un significato oggettivo: il soggetto del discorso,
l'argomento di cui si parla. Questo uso è corrente nel mondo anglosassone
(subject, sinonimo di matter). Nonostante le apparenze, nemmeno Agostino si
oppone al realismo filosofico: il suo protagonista è sì l'anima, l'interiorità;
ma, come per Platone, l'anima vive e pensa grazie all'illuminazionedivina: il
soggetto umano dipende in tutto da una Verità che lo trascende. Col
Cristianesimo si ha comunque ad una nuova concezione di Dio rispetto a quella
greca: non più come entità impersonale, o semplice fondamento oggettivo della
natura, ma come Soggetto vivo e pensante, di cui l'uomo è immagine e
somiglianza. Nella disputa sugli universali, Aquino prende posizione a favore
del realismo, nel contesto tuttavia di un'autocoscienza del soggetto ricondotta
alla trascendenza divina. Su questa strada anche il Rinascimento descrive
variamente l'interiorità come contatto con l'universale che si riflette
nell'umano. Anima mundi (Ficino), Mens insita omnibus (Bruno), Intelletto
(Cusano), sono espressioni e dottrine che esprimono quest'adesione del soggetto
umano alla dimensione cosmica del Soggetto assoluto: l'uomo è un microcosmo che
contiene in sé gli estremi opposti dell'universo, in quanto specchio dell'Uno
dal quale proviene tutta la realtà. La natura partecipa di questa soggettività
universale, essendo tutta viva e animata, non un meccanismo automatizzato ma
abitata da forze e presenze nascoste. Si verificano due processi paralleli: con
Galilei si inaugura la visione scientifico-matematica della Natura; con
Cartesio viene inaugurata la visione moderna del soggetto. Questo duplice
processo costituisce la base del dualismosoggetto/oggetto, e riflette la nuova
consapevolezza da parte dell'uomo europeo del proprio potere sulla Natura. Cartesio
parte dall'evidenza che nella mia mente vi sono molteplici Idee, di varia
natura (il significato cartesiano è differente da quello platonico: esse sono
solo nella mia mente). Io non posso essere sicuro che a queste Idee corrisponda
una realtà esterna al mio pensiero. Nel rapporto tra il mio pensiero e le Idee
spesso l'oggetto (di cui l'idea è la mia rappresentazione mentale) non esiste
materialmente: esso può essere immaginato, inventato, anticipato, ecc. Ma vi è
soprattutto l'errore, ovvero la non-esistenza reale dell'oggetto pensato come
reale. Quindi si può esercitare un costante dubbio circa la esistenza reale
dell'oggetto, ma non si può mai dubitare della presenza delle Idee nella mente
né dell'esistenza dell'io che dubita. Cartesio ha fortemente sbilanciato la
coppia soggetto/oggetto a favore del primo termine. La celebre proposizione del
"Cogito, ergo sum" riassume un lungo ragionamento che si può
esprimere così: Posso dubitare di essere ingannato riguardo qualunque
verità (dubbio iperbolico), ma non posso ingannarmi sul fatto di essere io il
soggetto ingannato; Se sto dubitando e ponendomi queste domande è necessario
che io esista almeno quando me le pongo; Poiché infatti posso liberamente
dubitare di tutto, non posso invece dubitare del mio libero atto del dubitare,
di essere un pensiero che dubita; L'attributo necessario alla mia sostanza è il
pensiero, poiché non sono in grado di concepirmi distinto da esso. Su questa
base Cartesio costruisce un prototipo di quella che si può definire "metafisica
del soggetto", dove l'io individuale diventa la prima sostanza, in ordine
logico, e l'unica che possa costituire il fondamento dell'esistenza di tutte le
altre. Determinante per la successiva elaborazione sul soggetto è il dualismo
res cogitans/res extensa. Il pensiero è contrapposto alla Natura ed alla
materia, che Cartesio identifica con l'estensione spaziale degli oggetti. Dal
dualismo res cogitans/res extensa si svilupperà il meccanicismo come visione
matematica e deterministica della Natura. Dopo Cartesio restano alcuni punti
fermi: L'autocoscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle altre
cose, ma è, per definizione, antecedente ad esse (Kant dirà: a priori) poiché
soltanto nell'autocoscienza si manifesta tutto il resto; Le cose, che il senso
comune vuole esistenti di per sé, esistono anzitutto nella coscienza; la loro
esistenza indipendente come sostanze va invece dimostrata; L'autocoscienza è
perciò il sub-iectum delle altre cose, poiché mi viene data preliminarmente
rispetto ad esse ed è capace di interrogarsi sulla loro esistenza. Anzi, la
sostanza vera diviene la sostanza che si interroga sulla Verità. Con Leibniz
tuttavia si ha una nuova metafisica del soggetto, più complessa del semplice
dualismo cartesiano, basata sulla pluralità delle sostanze, che torna a
riunificare la dimensione del pensiero con quella dell'essere secondo l'ottica
platonico-aristotelica; le idee, vere e proprie realtà pensanti che si
esprimono nel soggetto metafisico (la monade, corrispondente nell'uomo alla sua
mente) hanno di nuovo il ruolo di fondamento della verità. Infatti il giudizio,
nella sua forma logica “S è P”, è vero quando il predicato è già contenuto nel
soggetto, che è la sua causa o, per dirla con Leibniz, la sua ragion
sufficiente. Il soggetto logico S esprime la sostanza reale o monade, che
quindi è la causa della verità, sia in senso logico (come soggetto del
giudizio), che ontologico (come ragion sufficiente del predicato). Se è vero
che «Colombo scoprì l'America» (nel celebre esempio di Leibniz), la ragione di
tale scoperta risiede nel soggetto, cioè in Colombo stesso. Leibniz descrive un
soggetto già simile all'uomo moderno, come individuo indipendente dagli altri
(«la monade non ha porte né finestre»), dotato di una sua energia vitale
(appetitus) e di una libertà e finalità sua propria (l'entelechiaaristotelica),
ma inserendolo entro un quadro organico d'insieme, fondato sul concetto
scolastico di armonia prestabilita. L'empirismo inglese, prima con John
Locke e poi più decisamente con Hume, reagisce a questa sostanzializzazione del
soggetto criticando sia la nozione di sostanza (Locke), che poi quella stessa
di soggetto (Hume). Ma in tal modo l'empirismo perviene allo scetticismo,
all'impossibilità di poggiare la concordanza tra soggetto e predicato su solide
basi: ne va di mezzo la possibilità della conoscenza scientifica. Come in
Cartesio, seppur partendo da una prospettiva opposta, gli empiristi giungono
così a un dualismo, ad una frattura tra la dimensione soggettiva
dell'esperienza, e quella oggettiva della realtà esterna.Questa frattura tra la
realtà e le sue rappresentazioni soggettive derivanti dall'esperienza verrà
radicalizzata da Kant come opposizione tra fenomeno e cosa in sé (vedi
oltre). Concludendo sul pensiero moderno: all'opposto di quello antico,
ora è il soggetto a prevalere sull'oggetto esterno, fino a diventare esso
stesso un'entità metafisica autonoma (Cartesio), generando per reazione la
negazione della sostanza (empirismo). Kant e l'Idealismo Modifica Con
Kant si ha la "rivoluzione copernicana" che mette il soggetto al
centro del sistema della conoscenza, facendo ruotare gli oggetti intorno alle
sue forme a priori (quelle sensibili, cioè spazio e tempo, e le dodici
categorie dell'intelletto). Il soggetto da individuo si fa soggetto
trascendentale o puro: l'Io penso. Le forme a priori, infatti, su cui si fonda
l'oggettività delle conoscenze empiriche, a loro volta poggiano su una forma
universale, che è appunto il soggetto puro. Scrive Kant: «L'Io penso deve poter
accompagnare tutte le mie rappresentazioni, poiché altrimenti in me verrebbe
rappresentato qualcosa che non potrebbe affatto venir pensato. Il pensare
dunque è un atto originario dell'io puro. Scrive ancora Kant. La chiamo
originaria, poiché essa è quella autocoscienza che, col produrre la
rappresentazione "Io penso", non può essere preceduta da nessun'altra
rappresentazione, poiché condizione a priori di tutte le altre
rappresentazioni». Il soggetto empirico, l'io in carne ed ossa, deve la sua
stessa identità (per cui io so di essere io) alla forma preesistente dell'io
penso, che è la medesima per tutti i soggetti empirici. L'Io penso kantiano non
ha però un carattere sostanziale o metafisico come quello cartesiano, poiché è
soltanto una forma, un contenitore: mentre i suoi contenuti sono i pensieri che
i singoli soggetti empirici costruiscono sulla realtà fenomenica, ben distinta
dalla cosa-in-sé; quest'ultima sussiste indipendentemente e al di fuori del
soggetto, ed è pertanto inconoscibile. In questo limite conoscitivo del
soggetto si manifestano il criticismo e l'avversione di Kant per la metafisica
razionalistica. In Kant non abbiamo una metafisica del soggetto vera e propria,
ma piuttosto una visione antropocentrica della Natura, in cui i nessi (logici e
fisici) tra gli oggetti naturali non valgono di per sé, ma solo in relazione ad
un soggetto generale, generico. La Natura è tale in relazione all'Uomo.
Da Kant all'idealismo il passo è breve: è sufficiente rimuovere la cosa-in-sé.
Avremo così un soggetto trascendentale dotato di forma e contenuto, principio
metafisico della realtà, sia di quella del soggetto (libertà, conoscenza) sia
di quella dell'oggetto (Natura, materia). Così in Fichte e Schelling
l'Ioassoluto è l'origine non solo dell'autocoscienza umana ma anche del non-io
o Natura: l'identità di questi due termini è un'unione "immediata",
attingibile solo al di là dell'opera mediatrice della ragione, tramite
intuizione. Veniva perciò ripristinata l'unità indissolubile di soggetto e
oggetto tipica della metafisica neoplatonica. La dialettica
soggetto/oggetto Soggetto e oggetto, pensiero ed essere, vengono unificati
secondo Hegel nel momento in cui la ragioneprende coscienza che l'uno non può
esistere senza l'altro, che un oggetto è tale solo in rapporto a un soggetto, e
viceversa. A differenza di Schelling e delle filosofie precedenti, che pure ben
conoscevano una tale dialettica soggetto/oggetto, nel sistema hegeliano è la
ragione stessa che opera quest'unificazione, via via che ne prende coscienza,
mentre nella metafisica tradizionale si trattava di un'unità già data a priori,
sin dall'inizio, che la ragione si limitava a riconoscere, non a costruire da
sola. Ne consegue in Hegel un'identità composita, non più immediata, dei due
termini contrapposti. Hegel identifica esplicitamente il soggetto con
l'Assoluto, ed infine col divino cristiano, ma diversamente dai suoi
predecessori li congiunge in forma "mediata", generando quindi
nuovamente un dualismo. Secondo Hegel, «che la sostanza sia essenzialmente
Soggetto, ciò è espresso nell'enunciazione dell'Assoluto come Spirito», ma quel
che ancora mancava al soggetto puro era la concretezza dello svolgersi della
vita umana nella dimensione storico-culturale, sociale, politica. Così egli
elabora la nozione di "Spirito" (Geist) come soggetto unico ed
assoluto che però inizialmente non sa di esserlo, per cui tutta la storia umana
consiste in un progressivo prendere coscienza di sé da parte dello Spirito,
proprio attraverso le vicende (politiche, culturali, religiose) degli uomini e
dei popoli. Le diverse figure attraverso cui lo Spirito si autoconosce sono
narrate nella Fenomenologia dello spirito, che è una sorta di storia romanzata
della autocoscienza: essa inizia come semplice io empirico (certezza
sensibile), ma poi attraverso numerosi passaggi dialettici diviene sempre più
universale. Infine Hegel identifica lo Spirito con la stessa filosofia, che è
l'autocoscienza dell'intera umanità e dove forma e contenuto coincidono, grazie
all'opera mediatrice della razionalità; così Hegel si ritiene colui che ha dato
alla Ragione illuministica il suo significato più pieno. Il successivo
"sistema filosofico" dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio, basato sulla "dialettica" e suddiviso in Idea, Natura e
Spirito, descrive le forme, progressivamente più vere e concrete, attraverso
cui la realtà (o Idea, che Hegel definisce classicamente come "i pensieri
di Dio") viene pensata e diviene così contenuto dell'autocoscienza
universale o Spirito. Dallo Spirito hegeliano all'uomo concreto, sociale,
storico, economico, il passo è di nuovo breve. La sinistra hegeliana e
soprattutto Marx traducono l'idealismo in materialismo storico. Se per
l'idealismo il soggetto è l'origine dell'autocoscienza e della Natura, per Marx
il soggetto della storia è la classe sociale, ovvero un'autocoscienza
collettiva costituita dalla sua dimensione economica, dalla sua posizione nel
sistema produttivo. Marx traduce in forma consapevole il dominio dell'uomo sulla
Natura ed infine sulla società, ovvero su sé stesso. I suoi strumenti non sono
più (o non solo) il puro pensiero e la "scienza" newtoniana, ma
piuttosto il lavoro e la tecnica come forme di umanizzazione della Natura. Il
Progresso è il destino inevitabile del soggetto umano e storico. Il soggetto si
lega inestricabilmente alla dimensione della tecnica, cosa non certo priva di
significato. Heidegger rileva lo stretto legame tra l'affermarsi del dominio
filosofico del soggetto e l'affermarsi della tecnica come orizzonte
esistenziale dell'uomo moderno. Il soggetto oggi La filosofia già da un
secolo va annunciando in varie forme la "morte del soggetto". Il
soggetto ha fatto da supporto alla Rivoluzione scientifica e poi
all'Illuminismo ed in generale al periodo storico in cui l'Europa è stata (e si
è messa) al centro del mondo. La rivoluzione copernicana esprime un ottimismo
della ragione che oggi per molti aspetti è entrato in crisi. La filosofia e
l'epistemologia contemporanee hanno in vari modi portato oltre la relazione
soggetto/oggetto quale unico fondamento della conoscenza della
Natura. Secondo Aristotele costituito da una materialità informe,
originaria e primitiva, pura potenza priva di atto. Aristotele,
Metafisica, Aristotele, Enciclopedia
Treccani, Dizionario di filosofia Parmenide, Perì Phýseos (Sulla natura),
Platone, Fedone, Aristotele, Metafisica, Salatiello, L'autocoscienza come
riflessione originaria del soggetto su di sé in san Tommaso d'Aquino,
Pontificia Università Gregoriana, Roma. Ad esempio Paracelso nel suo Liber de
nymphis, sylphis, pygmaeis et salamandris et de caeteris spiritibus parla
apertamente di entità spirituali responsabili di ogni legge e avvenimento di
natura. Piro, Spontaneità e ragion sufficiente. Determinismo e filosofia
dell'azione in Leibniz, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma Homo Laicus:
Berkeley. Kant, Critica della Ragion pura, Hegel, Fenomenologia dello spirito,
introduzione Vedere introduzione alla Scienza della Logica. Boulnois, Généalogies du sujet.
De saint Anselme AOSTA (si veda) à Malebranche, Parigi, Vrin, Alain de Libera,
Naissance du Sujet (Archéologie du Sujet I), Parigi, Vrin, Libera, La quête de
l'identité (Archéologie du Sujet), Parigi, Vrin, Alain de Libera, La double
révolution. L'acte de penser I (Archéologie du
Sujet), Parigi, Vrin. MONDOLFO, La comprensione del soggetto umano nella
cultura antica La Nuova Italia, Milano, Bompiani. Parisoli, Il soggetto e la
sua identità. Mente e norma, Medioevo e Modernità, Palermo, Officina di Studi
Medievali, Salatiello, Il soggetto religioso. Introduzione alla ricerca
fenomenologico-filosofica, Roma, Pontificia Università Gregoriana, Thiel, The
Early Modern Subject. Self-Consciousness and Personal Identity from Descartes
to Hume, New York, Oxford Individuo Oggetto (filosofia) Portale Filosofia:
accedi alle voci che trattano di filosofia
Idealismo corrente filosofica che nega la realtà al di fuori del
pensiero Autocoscienza Appercezione l’atto riflessivo attraverso cui
l’uomo diviene consapevole delle proprie percezioni (coscienza, io) Il
contenuto. While
subjectivity and objectivity are pompous, intersubjectivity seems fine, only
that it can always be replaced by the Italian ‘l’intersoggetivo’. “The
inter-subjective” sounds Butlerian in English! Giovanni Ferretti. Ferretti. Keywords:
‘l’intersoggetivo’, I soggetti, soggetto e oggeto, inter soggetti – la
questione dell’oggetto nell’intersoggetivo – ‘the common ground’ -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco
di H. P. Grice, “Grice e Ferretti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ferri: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Bologna –
filosofia bolognese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Bologna). Abstract. “My Oxford pupil, Strawson, thought that ‘to
karulise’ was to make love! But he couldn’t figure out why pirots would do that
ELATICALLY!” -- Keywords: love. Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Bologna, Emilia. Grice: “I love Ferri; for one, he wrote on Ficino’s
‘dottrina dell’amore,’ which is of course Plato’s – and which I may call the
most complicated philosophical doctrine of love ever conceived!” Insegna a Firenze e Roma. Linceo. Discusse in tre
lettere le “Confessioni di un metafisico” di ROVERE Mamiani ed elabora in tre
memorie le sue concezioni. Pubblica la
“Rivista italiana di filosofia.” La filosofia platonica poggia su due basi:
cioè sulla dottrina dell’idea e sulla dottrina dell'amore. Da esse provengono
le teoria del vero e del bene, l'ordine dialettico e l'ordine morale in ogni
sistema che accolga i principii e il metodo di Platone o della sua
scuola. Ne segue che per conoscere in modo sufficientemente esatto la
dottrina dell’amore di Ficino, non basta di esaminare la sua dottrina delle
idee e dell'intelletto; conviene eziandio studiare i suoi pensieri
sull'amore. Consideriamone adunque con lui la natura, l'oggetto, il fine,
le specie, gli effetti, le attinenze coll'uomo, col mondo e con Dio;
osserviamolo o immaginiamolo, com' egli fa, in se stesso e nei varii ordini
degli enti; seguiamo rapidamente sulle sue traccie la splendore del bello e
l'efficacia dell'amore nell'Antropologia, nella Cosmologia, nella Teologia,
cioè nell'intera enciclopedia filosofica da lui percorsa nel suo Commento al
Simposio platonico. (v. il fascicolo preceden to Conf. La Dottrina dell'amore
secondo Platone, lezione e note, questa
Rivista. Questa esposizione Firenze. Dopo d'allora fu pubblicata da Giovanni.
L'amore generalmente considerato è desiderio del corpo bello, e il bello è una grazia
che risulta da corrispondenza delle parti del corpo o da unità. Questa
corrispondenza delle parti o unità del corpo bello è di tre specie; o è affatto
spirituale e consiste nell'armonia delle virtù interiori dell'animo, o è
percettibile mediante li sensi ed è composto di una forma corporea o di voci.
Dal che segue che il bello, non essendo riferibile se non ai sensi, altra
facoltà e esclusa dal privilegio di conseguir e di goder il bello, e quindi che
l'amore non ha altri strumenti da applicare. Grato è a noi, dice Ficino,
il vero e ottimo costume dell'animo; grata è la speziosa figura del corpo
bello. E perchè queste tre cose, l'animo Università di Palermo un'analisi
accurata del Commento di Ficino sul Simposio platonico. Il lettore la troverà
nelle sue Lezione di Filosofia (Palermo). Di questo Commento che è unito alla
traduzione romana e italiana delle opere di Platone si hanno tre edizioni in
toscano. Due sono del medesimo anno, delle quali una fatta in Venezia senza
nome di stampatore: “Il Commento di Ficino sopra il Convito di Platone e il
esso Convito tradotlo in lingua toscana per BARBARASA da Terni con dedica al
maguifico messer Grimaldi”. Il Convito platonico vi è effettivamente tradotto
in toscano ed unito al Commento. Un'altra è di Firenze, per Neri DORTELATA con
dedica di un Bartoli al Duca Cosimo de' Medici. La terza è pure di Firenze e
dovuta a GIUNTI. Entrambe queste ultime hanno per titolo “Sopra lo Amore ouver
Convito di Platone”. Vi è premessa una dedica di Ficino a Vero, cad Manetti, da
cui risulta che la versione in lingua toscana del Commento edito a Firenze dal
Dortelata e riprodotto dal Giunti è opera propria di Ficino. Le citazioni
fatte in questa esposizione come gli estratti dati nell'appendice sono tolti da
essa. « come a lui accomodate e quasi incorporali di più prezzo « assai
stima che l'altre tre, però è conveniente che egli più avidamente queste
ricerchi, con più ardore abbracci, con più veemenza si maravigli. E questa
grazia di virtù, figura o voce che chiama l'animo a sè e rapisce per mezzo
della ragione, viso e udito, rettamente si chiama il bello (pulchrum, to
kalon). Se si vuole conoscere la vera natura d'amore occorre, secondo Ficino,
formarsi un giusto concetto del suo oggetto. I ragionamenti di Ficino su questo
punto meritano di essere riferiti. Trovandosi il bello nella forma del
corpo bello, è mestieri che il bello sia una essenza comune. Non sarà dunque
corporea, altrimenti non converrebbe agli animi; anzi tanto manca che il bello
possa dirsi corporeo, che il bello da noi ammirato in una ‘forma’ non procede
dalla ‘materia’, ma da un principio diverso ed è esso pure incorporale.
Difatto, il corpo puo perdere il suo bello. Quantunque, la ‘materia’ del corpo
sostanzialmente non cambi, e può conservaro la stessa grandezza o la stessa
piccolezza diventando brutto. La condizione del bello non corrisponde alla
condizione della quantità e dell'estensione. Il bello e le sue vicende non
dipendono punto dalla natura corporea e dai suoi più essenziali
attributi. Nè si dica come fanno alcuni, che il bello è una certa
posizione di tutti i membri del corpo o veramente commisurazione – simmetria --
e proporzione “pro portione” – portio cognate with Greek parao, to divide in
parts --– analogia -- con qualche soavità di colori. [ocr errors]
("). Objectum placitum res piacere Oggetti e piaceri del gusto,
dell'odorato e del tatto relativi alla nutrizione, conservazione e
generazione. Questa opinione non è ammissibile, imperocchè essendo
questa disposizione delle parti solo nell’organismo o cosa o corpo composto, nessuna
cosa semplice sarebbe speciosa. Ma noi veggiamo « i puri colori, i lumi, una
voce, un fulgor d'oro, il candor « dell'argento, la scienza, l'anima, la mente
e Dio, le quali « cose sono semplici, esser belle. (bello naso romano) --. Il
bello pue dunque esser in un composto, ma non s'anifica col composto, può
essere nella pro-porzione, ma non s'identifica con essa. Avviene che stando
ferma la medesima proporzione e misura della membra, un corpo non piace quanto
prima. Certamente oggi nel corpo bello è la figura medesima che l'anno passato
e non la medesima “grazia” – non genera il medisimo gratitudo -- Nessuna
cosa più tardi invecchia che la figura, nesssuna più tosto invecchia che la
grazia. E per questo è manifesto non essere tutt'uno figura e il pulcro. E
ancora spesso veggiamo essere in alcuno più retta disposizione di una parte e
misura che in un altro; l'altro nondimeno non sappiamo per che cagione si
giudica più “formoso” e più ardentemente si ama. E questo ci ammonisce che
dobbiamo stimare la forma bella essere
qualche altra cosa, oltre alla disposizione de' membri. La medesima ragione ci
ammae stra che noi non sospettiamo il pulcro essere soavità di colori: perchè
spesse volte il colore in Socrate è « più chiaro, e in un giovane Alcibidiade è
maggior grazia. E negli uguali di età alcuna volta accade che quello che
supera l'altro di colore è superato di grazia e di bellezza. Il bello non è
dunque nè mistione di figure e colori, nè proporzione di parti, nè materia, nè
quantità, e quantunque apparisca in un corpo bello, non ne risulta come da sua
causa; il bello si conferma ancora considerando le condizioni del suo conoscimento
nell’amante; imperocchè cid che piace, ciò che desta il senso della grazia è la
specie o immagine dell’amato accolta nell'animo; e questa specie è incorporale
poichè è dentro allo spirito; essa è una similitudine di un corpo bello – una
statua --, non il corpo bello stesso, dal suo concorso o forma proviene il
sentimento estetico di piacere e non dalla materia incapace di conferircelo
fintantochè la sua forma non e posta in relazione con noi mediante li sensi. Infinita
è la differenza fra la piccolezza della pupilla e l'ampiezza del cielo, ma in
un punto solo lo spirito ne accoglie l'immagine e l'ammira. Finalmente mentre
l’istinto corporali si acquietano e soddisfano mediante un determinato
conseguimento del loro fine (l’orgasmo mistico), l'amore è insaziabile, e il
suo andamento ci prova che havvi qualche cosa di superiore al corpo bello e al
finito in lui stesso e nel suo oggetto. Difatto in che guisa si genera
l'amore? In che modo commossi dal bello ne ammiriamo lo splendore? Eccolo.
L'animo porta come impresse nel segreto di sua sostanza le ragioni delle cose;
quivi sono le primitive idea del vero, del bello, dell'onesto, dell' utile: quivi
le cause più profonde di nostro desiderio, le norme universali e spontanee che
guidano il giudizio degli incolti, e formano di verità il senno naturale e
istintivo dell' uomo. Se l'immagine di una persona passando nell' animo
concorda con quella figura dell'uomo che l'animo porta in sè stampata come un
sigillo, subito piace, e come bello si ama. Per a qual cosa accade che
alcuni scontrandosi in noi, subito ci piacciono, benchè « noi non sappiamo la
cagione di tale effetto. Perchè l'animo « impedito dal ministerio del corpo,
non riguarda le forme « che sono per natura dentro a lui, ma per la naturale e
« occulta sconvenienza o convenienza, seguita che la forma della cosa
esteriore, con la immagine sua pulsando la forma della cosa medesima, che è
dipinta nell'animo consuona, e da questa occulta offensione, ovpero
allettamento, 'l'animo commosso, la detta cosa ama. Il bello è dunque
corrispondenza di un corpo alle loro idea, e quella eziandio che risplende nel
corpo bello è un certo atlo di vivacità e di grazia che dipende dal loro
influsso. Poichè ordine. modo e specie, cioè distanza commisurata di parti,
debita grandezza di membri, conveniente qualità di linee e di colori concorrono
ad abbellire la figura umana, quando convengono fra loro e nella unità del suo
tipo, quando concordano con le ragioni di ciascuna parto e con quella del
tutto. L'amore osservato in noi è dunque rivolto a un oggetto intelligibile; il
bello che egli ricerca è cosa spirituale; l'idea, la verità, a cui si riferisce
la sua più profonda inclinazione tende a separarlo dal corpo bello, a
innalzarlo sopra gli enti sensibili, a trasportarlo sulle ali della mente fra
gli oggetti divini e immutabili. Ma che cosa è adunque allora l'ainore in sè,
l'amore come principio di tutti gli amori; è egli dunque un Dio, è egli
perfetto e beato, felice, ricco, virtuoso, bastante a se stesso? Ovyero
continuando a rappresentarlo sotto la forma del mito, dobbiamo figurarcelo,
secondo il Convito di Platone, come un “demone”, cioè sotto la specie di
un ente imperfetto, di un genio tramezzante il divino e l'umano, bello e
brutto, ricco e povero, sapiente e ignorante, felice e infelice, nato dalla
povertà e dall’abbondanza il giorno che i celesti celebravano i natali di Venere?
Ficino ammette l'uno e l'altro concetto, ma dà più importanza al primo che al
secondo e quest'ordine è conforme allo spirito generale del suo sistema. Mentre
Platone nel Convito lasciando l'amore nel punto della sfera del finito che
tocca l'infinito, ne fa soltanto un “demone” che aspira alla perfezione, ma che
non giunge a conseguirla, Ficino, unendo il demiurgo del Timeo all'amore del
convito, ravvisa in lui un demone e un dio, e più spesso il secondo che il
primo, anzi egli attribuisce positivamente l'amore all'essere infinito. Il Dio
del Timeo, che non ha invidia, mentre vuole il mondo perchè ne ama l'idea; il
Dio di Filone e per Ficino il vero Dio, il suo Dio è come quello di Aligheri un
amore infinito che spande la bellezza nell' uni verso. Ma prima di
salire con lui alla regione più alta in cui possa recarsi la filosofia
dell'amore, rimaniamo per qualche tempo ancora in terra e rendiamoci conto
della sua vera natura nell'uomo. A malgrado della tendenza mistica che
distingue tutta la dottrina di Ficino ed era profondamente radicata nelle sue abitudini
e nel suo carattere, a malgrado dell'indirizzo spirituale e religioso che in
tutto il suo commento al Convito platonico egli si sforza di dare all' amore, è
per altro ben costretto di confessare che oltre al desiderio della verità e di
quell bello che si attiene alla mente, un'altra inclinazione l'accompagna, un
altro istinto e un altro fine ne determina nell' uomo le fasi e lo svolgimento.
Cosicchè dopo averlo definito semplicemente “desiderio del bello”, corregge con
Platone l’analissi quando si tratta di applicarla all’amante e ammette che è “appetito
– cupido -- di generare nel subbietto bello, per conservare vita perpetua nelle
cose mortali. Questo è il fine del nostro amore, questo è l'amore degli uomini viventi
in terra. Ne segue che egli pure debba con Socrate distinguere i due
influssi di Venere celeste o urania e di Venere volgare (sub-lunary), dividere
fra esse l'attività umana; le nostre aspirazioni e i nostri bisogni; che debba
attribuire all’amore volgare o sub-lunare la tendenza alla generazione e al
godimento materiale, all'amore celestial il desiderio della contemplazione e
dei piacere virtuoso, e che congiungendo questa doppia direzione dell' amore
con la triplice forma della vita sensibile, attiva e contemplativa di cui
l'uomo è capace, egli ravvisi nell'uva delle due Veneri la causa che ci innalza
dalla voluttà al godimento della virtù e della scienza, nell'altra la cagione
che ci abbassa dalla scienza e dalla virtù al piacere materiale; in quella la
forza che ci fa salire per gli ordini della perfezione, in questa l'impulso che
ci fa discendere i gradi della decadenza morale. Ficino svolge con compiacenza
il concetto di questa opposizione e insiste lungamente sulla superiorità
dell'amore celestiale; il sentimento cho lo guida, la qualità del suo
carattere, l'indole stessa della sua filosofia, i fini che egli si propone
scrivendo dell'amore, gliene ne fanno per così dire una legge. E per fermo
nella sua filosofia lo spirito signoreggia talmente che il corpo (soma) bello diventa
una sua creazione, che l'anima dimora nella materia come ospite e
prigioniera, finchè ne abbia infranto per così dire i cancelli e sia tornata
nella regione sopra-celeste (non sub-lunare) fra le anime beate. Immensa è la
catena degli spiriti che Ficino, guidato dalla mistica, stende fra la terra e
il cielo, e come ce ne convinceremo fra poco, l'Angelologia non è meno connessa
presso di lui con la dialettica dell' amore che con quella
dell'intelletto. Inoltre il sentimento religioso e l'onestà della
coscienza lo spinsero a combattere la scostumatezza dei contemporanei, a
portare l'amore verso la meta più alta, a sollevarlo dal fango delle passioni
epicuree. Difatto, sogliono i mortali, quelle cose che generalmente o spesso fanno,
dopo lungo uso, farle bene, e quanto più le frequentano farle meglio. Questo
per la nostra stoltiza falla in amore.
Tutti continuamente amiamo in qualche modo, tutti quasi amiamo *male*, e quanto
più amiamo, tanto peggio amiamo e cid avviene perchè entriamo in questo
faticoso viaggio d'amore, senza conoscer ne il termine e i passi. È dunque
nella cognizione di questo termine che si travaglia la sua filosofia. Trasmessa
da Socrate a Platone essa viene significata da Ficino ai suoi concittadini per
innalzare la loro mente al vero fine della vita. Ed egli è talmente persuaso
della importanza della sua missione che l'insegnamento platonico su questo
soggetto è per lui l'effetto d'un decreto della provvidenza, una vera
rivelazione dello Spirito divino, un mezzo onde l'amore infinito riduce a sè
gli amori erranti dei mortali, e li guida al godimento della bellezza assoluta.
E così in questa coine nelle altro parti della sua filosofia si ritrova
quel miscuglio entusiastico di Platonismo e di Cristianesimo indefinito e largo
che senza dubbio era frutto dei tempi, ma forse più ancora si atteneva al suo
intelletto e a un'indole ondeggiante fra i dogmi alquanto incerti di una erudizione
non sempre ben coordinata e precisa. Ma prima di giudicare la dottrina di
Ficino sull'amore e di additare la causa dei suoi pregi e dei suoi difetti,
facciamo di esporla il più completamente possibile. Arriviamo con lui al
termine della dialettica e prima vediamo che via convien tenere per
conseguirlo. È quella medesimá che Platone insegnò nel Convito sotto il nome di
Diotima, mostrando come l'animo nostro dai vestigii esteriori della bellezza
sparsa nei corpi di una medesima specie, raccolga l'idea di uno bello solo e
limitato, poi come delle bellezze distinte e coordinate delle specie corporee
formi la bellezza più estesa di un solo genere; poscia in che guisa passando
dall'ordine fisico allo spirituale, dalle bellezze visibili alle invisibili,
componga le specie, poi il genere del bello intellettuale e morale sparso nelle
virtù, nelle scienze, nelle facoltà e doti tutte dell'essere spirituale,
fintantochè accorgendosi che i due ordini partecipano a una medesima idea di
perfezione e beltà infinita, sciolta da ogni limitazione, superiore ad ogni
genere e specie, la mente si riposi nell'assoluta unità, e quella ami senza
modo e misura. Tale è finalmente il termine della salita d'amore, tale è la
fonte in cui si appaga la sua sete inestinguibile. « Bi« sogna, dice Ficino,
cercarla altrove che nel fiume della ma« teria, e nei rivoli della quantità,
figura e colori. O miseri « amanti in che luogo vi volgerete voi? Chi fu quello
che [ocr errors][ocr errors] « accese l'ardentissima fiamma nei vostri
cuori? Qui è la « grande opera, qui è la fatica. Io ve lo dirò, ma attendete. La
divina potenza superiormente allo universo, agli « angeli, e agli animi da lei
creati, clementemente infonde, « siccome a suoi figliuoli, quel suo raggio, nel
quale è virtù « feconda a qualunque cosa creare. Questo raggio divino in «
questi, como più propinqui a Dio, dipinge l'ordine di « tutto il mondo, molto
più espressamente che nella materia « mondana. Per la qnal cosa questa pittura
del mondo, la « quale noi veggiamo tutta, negli angeli e negli animi è più «
espressa che innanzi agli occhi. In quella è la figura di « qualunque specie,
del sole, luna, stelle, degli elementi, « pietre, alberi e animali. Queste
pitture si chiamano negli « angeli esemplari e idee, negli animi ragioni e
notizie, nella « materia del mondo immagini e forme. Queste pitture son «
chiare nel mondo, più chiare nell'animo e chiarissime sono « nell'angelo.
Adunque un medesimo volto di Dio riluce in « tre specchi posti per ordine
nell'angelo, nell'animo e nel « corpo mondano. Così Ficino congiunge la sua
dottrina degli enti con quella dell'amore, la sua Angelologia con la sua
Estetica; così egli unisce il suo dogmatismo mistico con le belle osservazioni
e i profondi concetti che ha ricavati da Platone e dalla scuola d’Alessandria;
così egli varia gli aspetti della filosofia dell'amore, non senza dilettare o
abbagliare l'immaginazione e fornire all'animo poetico e religioso un pascolo
dilettevole quantunque non sempre con uguale profitto per la so da
scienza. Di tre simboli si serve principalmente Ficino per espri
mere la relazione della bellezza divina colle bellezze create e la sua diffusione
nel mondo; il lume, lo specchio e il cerchio. Ora seguendo le traccie di
Platone egli ci rappresenta Dio come un sole intelligibile che non diversamente
dal sole sensibile produce un lume universale, crea colle forze fecondate dal
suo calore l'occhio e la facoltà di vedere, suscita e rende visibili nella
materia le forme che l'adornano; ora volgendosi a considerare l'idealità delle
cose mondane e a significarne l'origine, ce la rappresenta come un raggio che
uscito dalla mente divina accende l'intelletto puro degli angeli, vi produce
come in ispecchio gli esemplari degli enti, e di là si ripercuote come in altro
specchio nei corpi, per giungere così riflesso all'animo nostro ed unirsi con
quello che ci viene direttamente da Dio. Ora finalmente ci figura Dio come un
centro posto in mezzo ai quattro cerchi concentrici della mente, dell'anima,
della natura e della materia, ce lo dipinge come una forza infinita che da un
punto solo raggia a tutti i punti delle circonferenze l'essere e la verità, il
bene e la bellezza. Unità assoluta Dio penetra per tutto senza dividersi,
proroca e regola il moto senza muoversi, produce il multiplo e il vario senza
uscire di sua perfetta semplicità. Con un medesimo lume con una medesima
efficacia egli raggia nel cerchio delle menti angeliche le idee o verità, in
quello delle anime le ragioni o pensieri; nel cerchio della natura i semi; in
quello della materia le forme. In questi cerchi sono tre mondi che
mediante la divina virtù passano dal nulla all'essere, dal caos all'ordine,
dall'ordine alla perfezione; i mondi cioè della mente, delle anime e dei corpi.
Ciascuno di essi è creato, attratto e perfezionato da Dio, il quale come
fattore è principio, come perfezionatore è fine, come potenza attrattiva è
mezzo universale degli enti. E il ternario della vita universale, mentre si
manifesta nel ritmo cosmico della creazione, attrazione, e perfeziono delle
cose, si palesa eziandio nella sostanza dei tre mondi della mente, dell'anima e
della materia, e più alto ancora nel triplice attributo di Dio: Bontà, il bello
e Giustizia. La Bontà crea, la Bellezza attrae, la Giustizia consuma l'opera
dell'una e dell'altra. Cosicchè per ultimo tutto procede fontalmente da Dio,
tutto è a Dio rapito e in lui tutto ritorna e consiste per atto terminativo o
perfetto; tutto viene dall'unità e all'unità si riduce; e la causa principale
di questo movimento è la bellezza, l'atto per così dire centrale di questa
circolazione della vita è l'amore, amore perfetto e pieno possessore del bello
in Dio, amore imperfetto e ricettore meno ampio del suo splendore nel mondo e
nell'uomo, nell'angelo, nell'anima e nel corpo. « Con essa (bellezza)
dice Ficino, Dio rapisce a se il mondo « e il mondo è rapito da lui; un certo
continuo attraimento è « tra Dio e il mondo; che da Dio comincia e nel mondo «
trapassa, e finalmente in Dio termina, e come per un « certo cerchio, d'onde si
ripartì, ritorna. Sicchè un cerchio « solo è quel medesimo da Dio nel mondo, e
dal mondo in « Dio, e in tre modi si chiama. In quanto ei comincia in « Dio o
alletta, Bellezza; in quanto ei passa nel mondo o « quel rapisce, Amore; in
quanto, mentre che ei ritorna nello « autore, a lui congiunge l'opera sua,
dilettazione. Lo amore « adunque cominciando dalla bellezza, termina in
dilettazione». Egli è a questa dilettazione o beatitudine che Ficino ci
chiama, facendosi interprete della religione che suol chiamarsi naturale,
del Cristianesimo e del Platonismo; egli ce la promette nella vita
sopramondana; in quell' Iperuranio che Platone da sublime poeta dipinge nel
Fedro, in quel Cielo che il genio d’ALIGHIERI sparge di luce e letizia
crescente di sfera in sfera fino alla bellezza sfolgorante dell'Empireo e alla
maestà del trono divino. Nella sua immaginazione, riscaldata dal misticismo, i
due concetti si fondono, i due cieli si unificano, le due religioni si
mescolano in una essenza comune, e la intuizione poetica guida e signoreggia la
mente del filosofo. Il linguaggio di Dante e di Platone viene successivamente e
promiscuamente sulle sue labbra; poichè ora egli vede l'amor divino menar gli
animi alla mensa dei celesti abbondante di ambrosia e di nettare, ora contempla
l'ordine in cui il medesimo amore dispone per così dire i loro scanni, e la
distribuzione con cui li rende quieti e beati. Ficino ammira la perenne
effusione e letizia di un affetto che sempre si rinnova e si bea nella sua
fonte eterna; congiungendo la terra al cielo, la vita mondana alla celeste,
egli ravvisa nell'amore il vincolo dell'una e dell'altra, una medesima forza
che si svolge e si perfeziona e quasi un medesimo dramma che s'inizia nella
prigione del corpo e si compie in una esistenza pienamente libera e spirituale.
Imperocchè i gradi di quelli che seggono nel convito celeste, dice Ficino,
seguitano i gradi degli amanti; quelli che più eccellentemente Dio amarono, di
più eccellenti vivande quivi si pascono. Ciascuno lo göde sotto un aspetto, e
cioè sotto quel medesimo che più amd e imitd sulla terra; in lui la giustizia,
la fortezza, la temperanza contempla il beato e fruisce secondo la virtù che lo
distinse, secondo il mezzo onde il suo amore si sublimo, e l'idea onde la sua
mente fu più inva ghita. Ma qualunque sia il principio che informa la
beatitudine di ciascun'anima, esso è sempre un aspetto di Dio, e per così dire
uno splendore del suo volto; cosicchè la gerarchia delle idee divine
costituisce i gradi della beatitudine e la medesimezza della divina natura ne
forma l'unità. Ecco ora spiegato l'enigma dell'amore secondo Marsilio
Ficino; nell'ultima parte di questa dottrina voi ravvisate un predominio del
sentimento religioso e dell'intuizione poetica sulla ragione filosofica,
un'abitudine di dogmatizzare che si sostituisce all'atto schietto
dell'osservare e del ragionare, o nondimeno una sintesi di concetti e di rappresentazioni
che formano un tutt'insieme elevato e degno della nostra ponderata
considerazione; sopratutto per le sue attinenze coi fini che Marsilio si
proponeva, colla causa della religione allora cosi decaduta nei costumi e nelle
credenze, e alla quale ogli si consacrava; colla poesia pazionale che mercè
do'suoi commenti si ricongiungera all'Estetica di Platone; finalmente coll'arte
che nella patria di Giotto e del Beato Angelico conseguira, mediante i suoi
lavori, una coscienza più piena della propria idealità, e una spiegazione più
compiuta delle sue inspirazioni. Grau differenza certo è fra Platone c
colui che volle essere suo schietto discepolo, ma non vi riuscì, nè poteva
impedito dal suo proposito di conciliare la dottrina del filosofo Atoniese col
Neoplatonismo degli Alessandrini e l'uno e l'altro col Cristianesimo. Platone
avera bensì additato all'anima umana la bellezza incrcata e perfetta como
termino supremo della sua contemplazione; aveva egli detto veramente che il
corpo è una prigione per essa, e che la sua vita comincia colla morte corporeil;
aveva insegnato como un sublime do [ocr errors] vere la fuga dalle cose
sensibili alle intelligibili, dai fenomeni alle idee, e qualche altro
pronunciato si troverebbe ancora nelle sue opere che divenne pei posteri germe
prolifico di dottrine mistiche ed esclusive. Ma egli aveva pure fatto
dell'amore un demone, e come un mediatore fra l'uomo e Dio, una sintesi dei
contrarii, un misto di perfezione e d'imperfezione; per cui innalzandolo al
cielo non lo separava dalla terra, rendendogli le ali non lo dividera dalle
passioni e dagli istinti che nei suoi miti stupendi sono rappresentati dai
cavalli del cocchio dell'anima e si connettono con le necessità, i fini e le
vicende della vita terrena. Egli definisce 'propriamente l'amore il desiderio
di generare nella bellezza, e dividendo questa generazione in materiale e
spirituale, egli vede soggiacere all'impero e al connubio fecondo dell'amore e
del bello la vita filosofica, religiosa, morale artistica e fisica dell'umanità;
per lui le opere belle e buone provengono tutte dall'idea e dall'amore, e la
unione e fecondità di entrambi si scorgono nella vita dei grandi poeti, dei
fondatori della religione, dei legislatori più sapienti, dei filosofi più
sublimi, come nelle leggi secrete che astringono la vita del mondo al
mantenimento dell'ordine universale e nei moti istintivi che portano gli
animali all'accoppiamento e alla perpetuazione della specie. Così è,
Platone, a malgrado della tendenza profondamente idealistica della sua
filosofia, non separa l'amore dalla realtà, e anzi talvolta lo lascia
cosiffattamente errare fra gli scogli dei costumi e della società greca, che vi
rompe spesso e perde le penne leggiere che debbono volgerlo all' alto e
portarlo dalla terra al cielo. Nella dottrina platonica il carattere
religioso dell'amore si fondava sul razionale, rimaneva dialettico e non
si tramutava in un processo mistico. Sotto la guida dell'intelletto saliva
dall'umano al divino per ricongiunger questo a quello, benchè i due termini non
vi fossero uniti in quella intimità profonda che la trascendenza delle idee
platoniche non poteva ammettere. La separazione originaria dell'intelligibile
dal sensibile vi apriva bensì un adito al misticismo, come un mezzo di supplire
alla insufficienza speculativa della metessi o partecipazione, ma non
l'introduceva se non accessoriamente col mito e la immaginazione, chiamati a
simboleggiare i misteri dell'oltretomba e a rappresentare artisticamente
concetti scientifici sulle attinenze dell'anima col corpo e sulla produzione
del mondo. Ma la dialettica ontologica di Ficino foggiata su quella di Proclo
non poteva mantenersi in questi confini. Presso di lui l'amore sembra non
avere altr'ufficio sulla terra che di indirizzarci al cielo, i suoi ministerii
antropologici, sociali, artistici, scientifici non valere che a rispetto della
sua meta suprema. Era questi mezzi Ficino ne distingue principalmente quattro,
la poesia, la religione, la divinazione o dono profetico e l'amor divino, e,
nel suo modo di vedere, l'opera del sentimento predomina in essi talmente sulla
ragione che dilatando il concetto attribuito dal Socrate platonico nel Fedro a
Stesicoro e applicato nello Jone specialmente alla facoltà poetica, egli chiama
furori gli affetti dai quali dipendono e misura i loro pregi dall'impulso
entusiastico col quale concorrono ad unificar l'animo, toglierlo all'agitazione
e al moto, accostarlo all'immobilità dell'angelo, e finalmente rapirlo in
estasi sopra la moltitudine delle cose mondane fino all'essenza e unità
divina. A conferma del carattere mistico del Commento di FICINO si
aggiunga che nell'orazione quarta detta dal Landino il grazioso mito. In
Platone l'amore collegandosi colle simpatie naturali e colle tendenze ideali
nobilitava gli istinti, stendeva un velo di bontà morale sulla passione,
rendeva gli amanti intenti al reciproco, perfezionamento, desiderosi della
vicendevole felicità, ammiratori di una comune bellezza; di guisa che in forza
della efficacia ideale, dell' amore, un raggio di poesia e di virtù si stendeva
sulle sue condizioni reali, ne purificava le funzioni e i fini, ne connetteva
i' risultamenti col bene dell'individuo e della società. Questo aspetto
stupendo dell'affetto umano in cui risplende il bene pratico e civile, che si
connette con l'eroismo e la gloria, con le virtù operative e feconde, o è stato
trascurato o almeno non ha ricevuto il necessario srolgimento nella dottrina di
Marsilio. Egli ci ammonisce per vero che dobbiamo, amar Dio in tutte le cose, e
tutte le cose in Dio, e che per gịungere a questa purificazione dell'amore ci è
mestieri di contemplare la pura essenza delle cose nella luce dei loro tipi
ideali, che sono il raggio immediato della Verità e Bontà divina. Là noi
troveremo il vero uomo, là vedremo la natura e il fine degli enti, il vero
oggetto di tutti i nostri ufficii. Ma in che modo questi bei precetti possono
essi applicarsi alla vita? Ficino non ce lo dice; Ficino non discende da
quest'altezza. Mentre Platone segue l'amore nelle sue fatiche e nelle sue
ansie, mentre abbracciando con ardore il doppio ordine della degli
Androgini esposto da Aristofane nel Convito platonico è nel commentu di Ficino
trasportato dalla integrità e divisione dell'uomo alla integrità o divisione
delle relazioni della conoscenza o attività psichica col lume sopranaturale e
naturale. Separata. da Dio e aflidata al solo lame ingenito l'anima è come
ridotta alla metà di se stessa, frutto della sua superbia. Essa non ritrova
l'altra sua metà e non si reintegra che ritrovando il lume sopranaturale.
vita attiva e contemplativa lo conduce di grado in grado ad ammirare le
bellezze del mondo ideale per farne penetrare la luce nelle operazioni e nelle
forme del mondo reale, Ficino si contenta d'allontanarlo il più possibile dal
corpo e dai suoi piaceri, di persuaderlo che la vista, l'udito e l'intelletto
sono i soli mezzi di cui possa giovarsi al suo vero scopo. Ottimi intendimenti,
eccellenti consigli, e certamente efficaci sugli animi ben naturati, quando
vadano congiunti a due importanti condizioni, e cioè 1° di non dimezzare la
natura umana dimenticandone gli imperiosi bisogni, gl' istinti e i fini
provvidenziali, e 2o d'aprire all'umana attività una carriera in cui le sue
passioni abbiano sfogo regolandosi colle norme della scienza della virtù. No,
le idee non son fatte soltanto per essere vagheggiate da solitarii ed egoisti
contemplativi, ma eziandio per essere recate all'atto, e sposate per così dire
al mondo con fecondo connubio. L'idealismo non può essere la guida della
umanità senza l'appoggio del realismo; l'uno e l'altro presi isolatamente sono
esclusivi; la loro unione soltanto è vera e feconda. Invano Ficino rapito dalla
idea della bellezza assoluta e vedendola scaturire dall'unità divina, mi
traccia la via d'amare e mi consiglia di cercarne l'oggetto nell'unità degli
enti spirituali, salendo dal corpo (forma) all'anima, dall'anima all'angelo,
dall'angelo a Dio; in questa salita in cui la scienza gli rimprovera di
realizzare l'astratto, separando la mente dall'anima per crear l'angelo, e di
trasportare le tradizioni religiose nelle dottrine filosofiche, il cuore umano
separato dalla realtà gli domanda imperiosamente di far ritorno alle sue vere
condizioni; egli vuol essere innalzato, ma al patto di riportar tosto dalle sue
peregrinazioni celesti, e, per cosi dire dal convito dei beati, [ocr
errors][ocr errors][merged small] quel nettare e quell' ambrosia che spargono
di giustizia e bellezza le relazioni della vita, che pascono lo spirito di
verità ideale per renderlo efficace operatore di beni e di virtù reali. Invano
Ficino conforta i suoi contemporanei a contentarsi, nell'amore, degli atti
della vita contemplativa; inutilmente egli deplora i corrotti costumi di una
società scettica e dimentica del dovere. La baldanza trionfante dei sensi e
della materia resiste alla sua voce come a quella del Savonarola. Lorenzo il
magnifico non si distoglie dal suo epicureismo, e la gioventù fiorentina
concorre avida e frequente a crescere il numero dei suoi imitatori. L'ascetismo
del frate riformatore e il misticismo del sacerdote filosofo sono rimedii
troppo superiori alle abitudini della società contemporanea. Essi sarebbero
insufficienti a ricondurre qualunque altra società a quelle virtù che
rampollando dalle nostre relazioni colla famiglia, colla patria e coll'umanità,
innalzano l'amore pei gradi di una gerarchia disposta dalla natura fra
l'individuo e l'autore del mondo morale. In questo ordine non bene apprezzato
dall'idealismo stesso di Platone, consiste la vera salita d'amore; in queste
sfere egli pud essere ad un tempo divino e umano, religioso e civile; egli pud
diventar sublime senza cessare di essere pratico, prender per guida l'idea
senza perdere di vista la realtà; in esse può spiegarsi la sua forza dal
modesto affetto che nudrisce e veglia la vita infante delle mortali generazioni
fino all'eroismo che rapito dalla bellezza della giustizia sacra e immola se
stesso al trionfo della libertà e del diritto. A questo segno aveva
mestieri di essere condotta Firenze, a questa meta avrebbe dovuto rivolgersi
l'Italia sulla fine del 400, per rifare le proprie convinzioni, per
correggere i suoi costumi, per dare alla forza materiale un
fondamento incrollabile nella forza morale. In questo modo essa avrebbe
dovuto provvedere per tempo a se medesima, e opporre l'usbergo della virtù e
del coraggio allo straniero che sta per immergerle il ferro nel seno. Egli
venne attratto dalla sua bellezza. La trova mal difesa, la vinse e se ne
insignor. Videro i sapienti di quel tempo lo strazio ch'egli ne fa schernendo
la sua debole resistenza, e Ficino è fra essi. Lagrima il pio sacerdote su
tanto male, ricordd agl’uomini i loro trascorsi e i segni del cielo forieri di
punizione; gl'invita a rassegnarsi e a pentirsi. Un altro conforto egli porse a
Firenze afflitta, interponendosi fra essa e Carlo VIII, e con orazione più
informata a carità che a fermezza, si sforza di volgere l'animo di lui a miti e
clementi consigli. Cristiane intenzioni, pietosi ufficii! Ma altri aiuti, altri
difensori richiedevano i tempi, e l'energia di Capponi mostra di che tempra
sono gl’animi da cui dipende la salvezza dei popoli. Il saggio-dialogo di
Ficino sopra l'Amore consta di orazioni che espongono e commentano con
indirizzo neoplatonico, quelle che sono contenute nel convito di Platone.
Ficino stesso narra l'origine e lo scopo del suo lavoro. Platone spira
(secondo la tradizione) in un convito nell'ottantunesimo anno di sua età il giorno
anniversario della sua nascita, cosicchè gli antichi platonici, ogni. anno,
celebrano cotesto giorno in un convito. Abbandonato per mille e dugento
anni da Porfirio in poi il rito solenne, è restaurato con regale apparato per
ordine di MEDICI (si veda) nella villa di Caregri, sotto la direzione di
Bandini che ne è costituito Architriclino. I convitati sono IX, pari cioè
al numero delle muse. VII figuransi le orazioni dette e corrispondono a quelle
che sono contenute nel convito dell’Accademia. Si trassero a sorte le parti da
sostenersi e la sorto presaga dell'intenzione del vero commentatore le
distribui precisamente nel modo più conveniente alle qualità dei personaggi del
nuovo Simposio. Cosicchè le orazioni. La I, di Fedro, retore, tocca a CAVALCANTI (si veda), che per virtù e nobiltà
di animo è chiamato l'eroe del convito;
la II, detta da Pausania, tocca ad Antonio degl’AGLI (si veda), vescovo di
Fiesole, la III d’Erissimaco a SPERANZA, medico a Ficino; la IV, d’Aristofane, a
LANDINO; la V, d’Agatone, a MARSUPPINI, la VI, di Socrate, a BENCI (si veda),
la VII, di Alcibiade, a MARSUPPINI (si veda). Ma il vescovo e il
medico debbono partire per la cura delle anime e dei corpi e commettono le
loro disputazioni a CAVALCANI. FICINO non puo essere più cortese coi suoi
discepoli e amici platonici. In questo banchetto reale la cui fatica ideale e
commemorativa è tutta sua egli si è ecclissato. Anche Nuti e Bandini che
insieme cogli oratori compiono il numero sacro delle nove muse non sono da lui
dimenticati. A Bandini, ordinatore del banchetto, non ha bisogno di attribuire
altra parte che quella assegnatagli da MEDICI. Nuti suppone fatta la lettura
del simposio platonico premessa ai commentarii. Secondo Bandini è Cavalcanti
che persuade Ficino a scrivere il dialogo dell’amore per invogliare i
fiorentini del celeste bello. La versione toscana del commento di Ficino
al convito essendo divenuta ziuttosto rara, e desiderando far conoscere con
qualche particolarità le speculazioni del filosofo fiorentino sull'amore, stimo
opportuno di aggiungere alcuni estratti alle citazioni contenute nel
testo. Definizione della Bellezza e dell' Amore. Il bello è una
certa grazia, la quale massimamente e il più delle volte nasce dalla
corrispondenza di più cose; la quale corrispondenza è di tre ragioni. Il perchè
la grazia che è negli animi è per la corrispondenza di più virtù. Quella che è
nei corpi, nasce per la concordia di più colori e linee. È ancora grazia
grandissima ne' suoni, per la consonanza di più voçi. Adunque di tre ragioni è
la bellezza; cioè degli animi, de' corpi e delle voci. Quella dell'animo con la
mente sola si conosce: quella de' corpi con gli occhi; quella delle voci non
con altro che con gli oreochi si comprende. Considerato adunque che la mente e
il vedere e lo udire son quelle cose, con le quali sole noi possiamo fruiro
essa bellezza; e lo amore di fruire la bellezza desiderio sia; bo. Amore sempre
della mente, occhi è orecchi é contento. Lo appetito che gli altri sensi
seguita, non amore, ma piuttosto libidine o rabbia si chiama. Finalmente
che cosa è un corpo bello? Certamente è un certo atto, vivacità e grazia, che
risplende nel corpo. Questo splendore con discende nella materia, s' ella non è
prima attissimamente preparata. E la preparazione del corpo vivente in tre cose
s'adempie, ordine, modo e specie. L'ordine significa la distanza delle parti, il
modo significa la quantità, la specie significa lincamenti e colori. Perchè in
prima bisogna che ciascuni membri del corpo abbino il sito naturale, e questo è
che li orecchi, li occhi, il naso e. gli altri membri siano ne' luoghi loro, e
che gli orecchi" 'amendoi egualmente sieno discosti dagli occhi. E questa
parità di distanza che s'appartiene all'ordine, ancora non basta, se non vi
s'aggiunge il modo delle parti: il quale attribuisce a qualunque membro la
grandezza debita, attendendo alla proporzione di tutto il corpo. E questo è che
tre nasi posti per lungo adempino la lunghezza d'un volto; e ancora li due
mezzi cerchi delli orecchi insieme congiunti, faccino il cerchio della bocca
aperta: e questo medesimo faccino le ciglia se 1222, me si congiungono. La
lunghezza del naso ragguagli la lunghezza del labbro e similmente dello
orecchio: e i due tondi degli occhi, ragguaglino l' apertura della bocca, otto
capi faccino la lunghezza di tutto il corpo: c similmente le braccia distese
per lato e le gambe distese faccino l' altozza del corpo. Oltre a questo
stimiamo essere necessaria la spezie; acciocchè li “artificiosi” tratti delle
linee e le crespe, e lo splendore degli occhi adornino l'ordine e modo delle
parti. Queste tre cose benchè nella materia siano, nientedimeno parte alcuna
del corpo essere non possono. L'ordine de'membri, non è membro alcuno: perchè
lo ordine è in tatti. i membri, o nessun membro in tutti i membri si ritrova.
Aggiugnesi che lo ordine non è altro che conveniente distanza delle parti; e la
distanza ė o nulla, o vacuo, o un tratto di lince. Ma chi dirà le linee
essere corpo? Conciossinchè manchino di latitudine, e di profondità, necessarie
al corpo. Oltre a questo il modo non è quantità, ma è termine di quantità. I
termini sono superficie, linee, punti, le quali cose non avendo profondità non
si debbono corpi chiamare. Collochiamo ancora la spezio non nella materia, ma
nella gioconda concordia di lumi, ombre e linee. Per questa ragione si mostra
essere il bello dalla materia corporale tanto discosto, che non si comunica a
essa materia, se non è disposta con quelle tre preparazioni incorporali, le
quali abbiamo narrate. Tre mondi pongono (i Platonici): tre ancora saranno i
caos. Prima che tutte le cose è Iddio autore di tutto, il quale noi esso Bene
chiamiamo. Iddio prima crea la mente angelica: dipoi l'anima del mondo come
vuole Platone: ultimamente il corpo dell' Universo. Esso sonimo Iddio non si
chiama mondo, perchè il mondo significa ornamento di molte cose composto: ed
cgli al tutto semplice intendere si debbe. M:: esso Iddio affermiamo essere di
tutti i mondi principio e fine. La mente angelica è il primo mondo fatto da
Dio; il secondo è l'anima dell'universo, il terzo è tutto questo edifizio che
noi veggiamo. Certamente in questi tre mondi, ancora tre caos si considerano.
In principio Iddio creò la sostanza della mente angelica, la quale ancora noi
essenza nominiamo. Questa nel primo momento della sua creazione è senza forme e
tenebrosa: ma perchè ella è nata da Dio, per un certo appetito innato, a Dio
suo principio si rivolge: voltandosi a Dio, dal suo raggio è illustrata, e, per
lo splendor di quel raggio, s'accende l'appetito suo. Acceso tatto a Dio si
accosta; 'accostandosi piglia le forme; imperocchè Iddio che tutto può, nella
mente che a lui si accosta, scolpisce la natura di tutte le cose, che si
creano. In quella adunque spiritalmente si dipingono tutte le cose che in
questo mondo sono. Quivi le spere de' cieli, e degli elementi, quivi le stelle,
quivi la natura de' vapori, le forme delle pietre, de' metalli, delle piante, e
degli animali si generano. Queste spezie di tutte le cose, da divino aiuto, in
quella superna mente concepute, essere le idee non dubitiamo; e quella forma e
idea de' cieli, spesse volte Iddio cielo chiamiamo; e la forma del primo
pianeta Saturno, e del secondo Giove, e similmente si procede ne' pianeti che
seguitano. Ancora quella idea di questo elemento del fuoco si chiama Iddio
Vulcano, quella dell'aria Junone, e dell'acqua Nettuno, e della terra Plutone;
per la qual cosa, tutti gli dei assegnati a certe parti del mondo inferiore,
sono le idee di queste parti in quella superna mente adunate. Ma innanzi che la
mente angelica da Dio perfettamente ricevesse le idee, a lui si accostò; e
prima che a lui si accostasse, era già di accostarsi acceso lo appetito suo; e
prima che il suo appetito si accendesse, aveva il divino raggio ricevuto: e
prima che di tale splendore fosse capace, lo appetito suo naturale a Dio suo
principio già si era rivolto E il suo primo voltamento a Dio è il
nascimento d'amore; la infusione del raggio, il nutrimento d'amore, e lo
incendio che ne seguita, crescimento d'amore si chiama. Lo accostarsi a Dio è
lo impeto d'amore; [ocr errors] la sua formazione è formazione d'amore, e
lo adunamento di tutte le forme e idee i latini chiamano Mondo, e i greci
Cosmo, che ornamento significa. La grazia di questo mondo e di questo ornamento
è la bellezza alla quale subitamente che quello amore fu nato, tirò e condusse
la mente angelica, la quale essendo brutta (caos) per suo mezzo bella divenne.
Però tale è la condizione di amore che egli rapisce le cose alla bellezza, e le
brutte alle belle aggiugne. Amore legame universale. Secondo che
mostrammo, questo desiderio di amplificare la propria perfezione, che in tutti
è infuso, spiega la nascosta e implicata fecondità di ciascuno, mentre che
costringe germinare fuori i semi: e le forze di ciascheduno trae fuori: concepe
i parti, e quasi con chiave apre i concetti e produce in luce. Per la qual
cosii, tutte le parti del mondo, perchè sono opera di uno artefice, e membri di
una medesima macchina, tri se in essere e vivere simili, per una scambievole
caritii insieme si legano. In modo che meritamente si può dire lo Amore nodo
perpetuo, e legaine del mondo, e delle parti sue immobile sostegno, e della
universa macchina primo fondameuto. Bonghi ha intrapreso sino dalla sua
giovinezza il convito. Le implicature di Bonghi non valgono solo per lo sforzo
quasi sempre felice di rendere i pregi mirabili del convito, segnatamente di
quelli che si distinguono maggiormente per la forma arguta, agile e briosa del
conversare, ma ben anco per gli studi profondi che da ellenista consumato e da
pensatore acuto e vigoroso, egli ha compiuti sul testo e sulla dottrina del
grande filosofo, e che in varia maniera e intento diverso di scritti, allargano
la sua pubblicazione alle proporzioni di un commento filologico e filosofico,
nonché di una illustrazione storica della dottrina dell’amore. L'erudizione di
cui Bonghi dispone e a cui non isfugge nulla delle letterature straniere che
risguardi l’Ellenismo in generale e particolarmente la filosofia romana, gli
permette di trattar il soggetto in guisa da abbracciare i risultati delle
ullime ricerche e della critica più recente. La distribuzione di questo volume,
che è il sesto pubblicato, benchè porti la cifra IX e tale debba esser il suo
posto nell'intera versione dei Dialoghi, può dare un'idea del modo di procedere
in questi lavori. BONGHI apre il convito con un messagio ad un ignoto in cui si
discorre con quello spirito arguto e vivace e veramente romano che tutti
riconoscono nel Bonghi, dell'amore che, nonstante un titolo diverso, forma veramente
la sostanza del convito, non senza toccare lo scabroso argomento degli amori
greci e far intendere con delicatezza perchè la dedica di un tal dialogo non potesse
rivolgersi ad un ignore, ma dovesse, per così dire, farsi in petto e rimanere
misteriosa. Non possiamo trattenerci sulla rapida scorsa data da Bonghi in
questa prefazione alla storia della dottrina dell’amore, ovveramente sugli
accenni ch'egli fornisce a chi vorrà intraprenderla. Ci basti rilevarne queto
tratto che, a suo avviso, la dottrina dell'amore assai probabilmente non
sarebbe nata senza la depravazione del bisogno e del sentimento che ha spinto l'animo
di Socrate a sublimare tanto l'amore, quanto nei costumi romani, era divenuto
basso e turpe; congettura suggerita certamente da un fatto storico e dalla sua
connessione con una grande filosofia, ma che può parere soverchia considerando
che la dialettica romana eleva lo spirito dal finito all'infinito per le due
vie unite del pensiero e dell'amore, il cui oggetto comune è l'idea. Non v'ha
dubbio che il vizio dell’amore ‘volgare’ combattuto da Socrate porse
un'occasione e una forma particolare allo svolgimeno e sopratutto alla esposizione
di questa dialettica. Ma essa è talmente connaturata all'intero corpo della
dottrina dell’amore e e penetra del suo influsso talmente la psicologia filosofica,
da permettere di vedere nella salita dell'amore in dio una parte della su’essenza.
Anche senza gli amori cosi detti romani, il sentimento umano avrebbe sempre
offerto nelle sue inevitabili deviazioni qualche altra occasione a questa dottrina. Dopo
la prefazione anzidetta viene nel volume un proemio nei quali si tratta successivamente
del convito di Senofonte, del convito di Platone, del paragone dei due conviti,
della dottrina esposta nel convito di Platone, poi della storia della dottrina
dell’amore affini in Aristotele (amore del amico, amicizia, l’aporia
dell’amicizia), negli Stoici e negli Epicurei, e nel Paganesimo rinascimentale.
Seguono copiose ed erudite note alla prefazione ed al proemio, poi il Convito
platonico e il convito di Senofonte, ugualmente accompagnate da note e
commenti. Con molta acuratezza ed analisi finissima, si espone il soggetto e
l'ordito del convito senofonteo mostrando come bensi l'arte non vi sia
estranea, ma come anche vi si ritragga un fatto realmente avvenuto coi
personaggi che vi presero parte. Senofonte può avere abbellito o modificato in
qualche parte i discorsi che vi furono tenuti, ma egli ne ha, senza dubbio,
riferita la sostanza e conservato il carattere. Callia, Autolico, Antistene,
Socrate e gli altri vi assistettero e vi presero la parola e doveltero farlo in
modo conforme all'indole nota di ciascuno. Inducono tanto più a crederlo il
modo, il soggetto e l'ordine vario dei discorsi di questo Convito. Ciascuno dei
convitati parla di ciò di cui più si tiene, di guisa che se la relazione di
Callia col giovane Autolico porge occasione a discorrere dell'amore, e l'amore
ne diventa tanta parte, ognuno peraltro loda ciò che è più conforme al suo
gusto e gli pare più degno. Il vero scopo del convito senofonteo è di
mostrare uno degli aspetti molteplici della personalità di Socrate e
precisamente di dipingerla quale era in una allegra brigata fra amici che si
ricambiano piacevolmente lo scherzo. E difatto Socrate vi è chiamato ruffiano,
ed egli stesso accetta e si piace di essere chiamato cosi e si tiene del suo
ruffianesimo più che di ogni altra cosa, ma la sua arte di mezzano è altamente
morale e civile. Essa intende a mettere ciascuno in relazione col proprio
spirito, e gl'individui che meritano le sue premure in relazione gli uni cogli
altri in modo da porre concordia di virtù e d'amore fra i cittadini, amicandoli
con sè stessi e rendendoli utili alla patria. Essa è ben più ri-formatrice dei
costumi romane relativi all'amore, e tale appare negli atti e nei discorsi di
Socrate riferiti in questo convito, poichè egli, olre allo insegnare il modo di
volgere al bene intellettuale e civile l'amore pei fanciulli
spiritualizzandolo, per cosi dire, mostra chiaramente di condannarlo nella sua
parte materiale coll'additare la legittima via segnata dalla natura alla
passione amorosa. Il convito di Platone deve essere succeduto al convito del
suo con-discepolo Senofonte. I personaggi non sono i medesimi che quelli del
convito senofonteo. L'ordine dei discorsi non è libero come in quello, nè il
soggetto loro vario e a scelta, ma l'uno e l'altro sono prestabiliti secondo il
disegno di svolgere nei suoi vari aspetti l'argomento filosofico sull’amore; il
quale successivamente da Fedro, da Pausania, da Erissimaco, da Aristofane, da
Agatone e da Socrate -- che riferisce un altro dialogo -- è considerato, descritto
e lodato come un dio e come un sentimento, un simbolo mitico e un fatto fra
l’amante e l’amato, ora come forza cosmica e funzione essenziale della vita
universale, principio della generazione e della perpetuità delle specie, ora
nel mito festevolmente inventato da Aristofane come mezzo di completare la
nostra imperfetta natura mediante l'unione delle facoltà e delle attitudini che
ci mancano e il cui complesso si trova in origine fuso nella unità della
essenza umana primitiva, finalmente come mezzo d'innalzarsi, dietro la scorta
delle idee, dal bello individuale o particolare alla unità di sua specie e di
suo genero. Noi non possiamo riprodurre dalla dotta e particolareggiata
esposizione del Bonghi questi discorsi. Ci limiteremo a riferire i gradi della
scala dialettica segnati, nel discorso Socrate per salire all'ultimo oggetto
dell'amore. La corpo bello è il primo scalino. Ma in questo primo passo è un singolo
corpo bello quello a che muove l'amante. Un secondo gradino consiď ste nel distaccarsi
dal corpo bello singolare, considerando il bello che splende nel singolo corpo.
C’e un genero del corpo bello. Questo fatto ha occasione di montare un terzo
gradino. Questo e la comparazione generale e superior di una multitudine di
corpi belli singolari. Il quarto gradino e l’orgasmo mistico dell’amante altre
il singolare corpo bello iniziale dell’amato. L'azione ch'egli esercita su questa,
intrattenendola con ragionamenti adatti a renderla migliore e ricercandone di
tali, gli è motivo a riconoscere che v'ha un genero del bello, il quale
irraggia del pari (ogni condotta di vita e ogni prescrizione di legge. Questo e
il quinto gradino. Dal quale l'ascensione prossima è alla contemplazione del
bellissimo, ch'è sesto gradino. A questo punto egli ha già contemplate
molte corpi belli; s'è già distaccato da ogni corpo bello singolo; si ha già
liberato da ogni attaccamento particolare; sicchè è già in grado di contemplare
un bello, che su tutte tal bello s' elevi e tutto le raduni, e acquistarne
scienza. Questo è il gradino settimo. Ma v'ha ancora più in su di quea sto, un
bello, in cui ogni molteciplità o differenza si consuma e spira. Dal bello di
cui vi ha scienza, vi s'ascende, (e colla contemplazione di esso si giunge al
sommo della scala. Che natura ha questo bello supremo? Perenne, immutabile, perfetto,
senza principio nè fine, sovrasensia bile inaccessibile a ragionamento o a
scienza, comuni cabile a ogni cosa integro sempre e non accresciuto (nè
scemato mai. Qui è il fine e la beatitudine della vita, qui è la fonte d'ogni
virtù vera. Nella contemplazione di questo bello si a raggiunge la maggiore
intrinsichezza col divino, e si diventa davvero immortali. Prima di giungere a
tanta altezza di pensiero e di esporre il processo dialettico di Socrate e
servendosi del suo metodo, tratteggia un'analisi di psicologia filosofica sull’amore
che s’inizia con la percezione dell’AMANTE del corpo bello dell’AMATO -- in due
modi e cioè in termini concettuale e sotto i colori del mito giungendo col
primo alla definizione o concetto che ‘amore’ e ‘desiderio’ – ma un desiderio
specifico: di generare nel corpo bello. Questo concetto e simbolizzato nel mito
che representa l’amore come partorito dalla povertà unita al Dio Poro (Acquisto)
nel giorno in cui gli dei celebravano il natalizio di Venere. Quindi la natura
dell’amore: demone e non dio. Ma di tramezzante fra l’AMANTE e l’AMATO sempre
povero e ricco insieme, pel bisogno che soddisfatto rinasce e si perpetua nella
vita perenne della specie dell’uomo. Il mito suddetto fa credere a parecchi
interpreti e critici che l’ACCADEMIA quivi, come in altri luoghi, ricorre a
invenzioni poetiche, quasi per nascondere la sua impotenza di arrivare
coll’analissi concettuale la perfezione espositiva delle parti più astruse
delle sue dottrina dell’amore. Ma a BONGHI sembra, e secondo noi con
ragione, che la spiegazione si trovi nel doppio aspetto dell'ingegno
tutt'insieme concettuale e figurative di lui. Questo e per esporre sotto forma
di iniziazione una dottrina esistente ancora allo stato di intuizione e non
sviluppata. Lo spazio ci manca per seguire l'autore nelle vicende dottrinali
subite dal concetto dell'amore nelle scuole sopra enumerate che BONGHI conduce
colla sua solita perizia ed erudizione fino agli ultimi tempi del paganesimo
rinascimentale di FICINO. Altre opere: Il
genio del LIZIO. Discorso, Muse, Firenze, Stato e relazioni della volontà,
della coscienza e della personalità nel sonno, «Il Cimento», Della filosofia e
del metodo di SERBATI Rosmini, Il Cimento, Della filosofia del DIRITTO presso il
LIZIO, «Il Cimento», Estr.: Franco, Torino, Intorno alla filosofia esposta
nelle Confessioni di ROVERE Mamiani e alle dottrine platoniche, Riv. cont.,
Sulle dottrine dell’ACCADEMIA e sulla loro conciliazione colle del LIZIO.
Lettera a ROVERE Mamiani, Riv. cont., Estr.: Torino, Sulle attinenze della
filosofia e sua storia colla libertà e coll'incivilimento. Prolusione a un
corso di storia della filosofia, Niccolai, Firenze, Ciò che possa la filosofia
per l'istituzione civile dei popoli. Discorso per la riapertura del R. Istituto
di Studi Superiore di Firenze, Firenze, Rec. Di SAVIGLIANO (si veda), La
filosofia di Bossuet; di TURBIGLIO (si veda), Storia della filosofia; di CANTONI
(si veda), VICO (si veda), NA, La libertà del pensiero e la filosofia nell’università
italiane, NA, L’epicureismo L’ORTO e l’atomismo. Considerazioni
storico-critiche a proposito di un saggio recente, FSI, IEstr.: Cellini, Firenze,
Le Meditazioni cartesiane rinnovate da ROVERE Mamiani, NA, L'arte della
rinascenza e i suoi recenti critici, NA, Il materialismo e la scienza moderna,
NA, Rec. di Sesto Empirico, Delle istituzioni pirroniane. tradotti da BISSOLATI
(si veda), Imola, Anassagora e la filosofia greca prima di Socrate, Polemica
contro il materialismo, FSI, Rec. di R.
Bobba, La protologia di PINI (si veda), Torino, FSI, VICO (si veda) e la
filosofia della storia [Rec. di CANTONI (si veda), Studi critici e comparativi;
SICILIANI (si veda), Sul rinnovamento della filosofia positiva in Italia; ROVERE
(si veda), Principii di cosmologia (Teorica del progresso), FS, VINCI e la
filosofia dell'Arte. Discorso, Unione tipogr., Torino, Rec. Di FIORENTINO, POMPONAZZI.
Studi storici su la scuola bolognese e padovana con molti documenti inediti,
Firenze, ASI, Estr.: Cellini, Firenze, Niccolò di Cusa e la filosofia della
religione, NA, Le forme del pensiero filosofico o il metodo, FSI, Il senso
comune nella filosofia e sua storia, FSI, Estr.: Bernabei, Roma, Dei giudizi
sintetici a priori nelle dottrine italiane, FSI, Rec. di Kirchmann, La teorica
del sapere, FSI, Filosofia della Religione. Sull’attinenze della religione e
della filosofia e sulla incomprensibilità divina. Lettera a ROVERE, Conte
Mamiani, FSI, Rec. di FIORENTINO, La filosofia della natura e le dottrine di TELESIO
(si veda), Firenze, FSI, Estr.: Paravia, Torino Del principio e concetto di causa
nella scuola di Herbart, FSI, VINCI (si veda) filosofo. Vita e scritti secondo
nuovi documenti, NA, Vinci e l'idea del mondo nella Rinascenza, NA, L'ultimo saggio
di Strauss e i suoi critici, La forma del pensiero filosofico e l'ideale
platonico della filosofia, FSI, Janet, La dottrina dell'amore secondo l’Accademia,
FSI, Estr.: Paravia, Roma, L'evoluzione storica dell'idea dell'anima e i
sistemi filosofici, NA, Importanza della psicologia nella filosofia moderna,
FSI, La coscienza. Studio psicologico e storico, FSI, L’avvenire, Herbart, NA,
Sulle vicende della filosofia in Roma. Discorso, Civelli, Roma, Il metodo
psicologico e lo studio della coscienza, FSI, Cenni biografici su Ferrari, Acc.
Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia di Pomponazzi, secondo
un manoscritto della Biblioteca Angelica di Roma, intitolato: Pomponatius in libros
de anima. Memoria, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, Sulle vicende
della fìlosofia in Roma. Discorso per la inaugurazione degli studi nell’università
di Roma, Annuario Univ. di Roma. Estr.: Civelli, Roma, La questione dell'anima in
Pomponazzi, FSI, Estr.: Opinione, Roma,
“L'io e la coscienza di sé”, (Grice’s “The I”), FSI, L’ORTO -- L’epicureismo, Firenze, NA,I Limiti
dell'idealismo, FSI, L'Idea, FSI, Sulla dottrina psicologica dell'associazione
considerata nelle sue attinenze colla genesi delle cognizioni. Saggio storico
critico, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci, Roma, La psicologia
dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni, Bocca, Roma, Rec. d’ALLIEVO (si
veda), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla
scuola ionica a BRUNO (si veda), Acc. Scienze Torino. Memorie, FSI, “L'assoluto”, FSI, CICERONE (si veda) sui
doveri. Conferenza, FSI, Rec. di CONTI (si veda) e ROSSI (si veda), Esame della
filosofia epicurea dell’ORTO nelle sue fonti e nella storia, Firenze, FSI, L’Accademia
platonica fondata in Firenze dai MEDICI. «Acc. Lincei. Transunti, FSI, Helmholtz
sulla percezione, FSI, Dell’idee e propriamente della loro natura,
classificazione e relazione, FSI, Il
Positivismo e la Metafisica (L'essenza delle cose), Estr.: Salviucci, Roma, ROVERE
Mamiani sulla religione, NA, L'Accademia romana d’Aquino e l'istruzione
filosofica del clero, NA, Sulla recente restaurazione della filosofia
scolastica e tomistica d’AQUINO considerata in ordine ai metodi degli studi ed
all’attinenze dei sistemi colla scienza e colla storia, Acc. Lincei. Transunti»,
Vera, Acc. Lincei. Transunti, Sulla percezione esteriore e sul fenomeno
sensibile, Acc. Lincei. Transunti», Rec. di Documenti intorno a BRUNO (si veda),
a cur. di BERTI (si veda), Roma, FSI, La filosofia d’AQUINO (si veda), FSI, PETRARCA
(si veda) e il suo influsso sulla filosofia del Rinascimento FSI, Estr.:
Salviucci, Roma, FSI, ZANOTTI (si veda),
La filosofia morale di Aristotele. Compendio. Con note e passi scelti
dell'Etica Nicomachea per cura di F. e Zambaldi, Paravia, Torino, Dottrina
aristotelica del bene e sue attinenze colla civiltà greca e italiana, FSI, Spaventa,
«Acc. Lincei. Transunti, Relazione sul concorso al premio reale per LE SCIENZE
FILOSOFICHE, Acc. Lincei. Transunti, Il fenomeno nelle sue relazioni con la
sensazione, la percezione e l'oggetto, FSI, Ficino e la causa della rinascenza
del platonismo nel quattrocento [unita longitudinale della filosofia – la
struttura delle revoluzione filosofiche] FSI, VINCI, NA, Il concetto di
sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza, di causa e di forza. Come
contributo al dinamismo filosofico, Acc. Lincei. Memorie, Acc. Lincei.
Rendiconti, Estr.: Salviucci, Roma, Il platonismo di FICINO (si veda), FSI, La
dottrina dell’amore di FICINO (si veda), Una lezione elementare di psicologia.
Fatti psichici e fatti fisici, FSI, La GIUSTIZIA (cf. Grice) nella repubblica
utopica dell’Accademia. A proposito di recenti pubblicazioni, Storia della
filosofia. Il platonismo di FICINO (si veda). Le idee e la dialettica. La dottrina
dell'AMORE, FSI, Estr.: Salviucci, Roma, Le malattie della memoria e la sostanzialità
dell'anima, FSI, Psicologia. I fatti psichici e i fatti fisici, Ercole, Acc.
Lincei. Rendiconti, Conti, «Acc. Lincei. Rendiconti, Vera, Acc. Lincei.
Rendiconti, “Il concetto di sostanza e sue relazioni coi concetti di essenza,
di causa e di forza. Contributi al dinamismo filosofico. Memoria, Salviucci,
Roma, Di alcuni uffici della filosofia nelle condizioni morali del nostro
tempo, FSI, La psicofisiologia dell’ipnotismo, FSI, Il concetto di persona [cf.
person and personality – Grice’s transubstantiation], FSI, Rec. di CHIAPPELLI
(si veda), Del suicidio nei dialoghi dell’ACCADEMIA, FSI, ROVERE (si veda) Mamiani, Lincei, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Tip. R.
Accademia dei Lincei, Roma, Delle condizioni del sistema filosofico nel nostro
tempo, Acc. Lincei. Rendiconti, ROVERE (si veda) Mamiani, RIF, Il fenomeno
sensibile e la percezione esteriore, ossia i fondamenti del realismo, Acc.
Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Il monismo filosofico, RIF, Rec. di CHIAPPELLI
(si veda), La cultura storica e il rinnovamento della filosofia, RIF, Lettera a
PENNISI (si veda) -Mauro, RIF, Rec. di Levi, BRUNO (si veda) o la Religione del
pensiero. L'uomo, l'Apostolo e il martire, RIF, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec.
Pozzo di MOMBELLO (si veda), L'evoluzione geologica inorganica animale ed
umana, RIF, Le lauree in filosofia, RIF, Dell’idea del vero e sua relazione
coll’idea dell'essere, Acc. Lincei. Rendiconti, Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Salviucci,
Roma, La filosofia politica nel LIZIO, RIF, Rec. di PANIZZA (si veda), La
fisiologia del sistema nervoso e i fatti psichici, Roma, RIF, La definizione
del concetto, RIF, SERBATI (si veda) e il decreto del Sant'Uffizio, Il Convito
dell’ACCADEMIA tradotto da BONGHI (si veda), Roma, RIF, Della idea dell'essere,
Acc. Lincei. Memorie, Estr.: Acc. Lincei, Roma, Berti, Acc. Lincei. Rendiconti,
Benzoni, Acc. Lincei. Rendiconti, La psicologia fisiologica e l'origine dei
fatti psichici, NA, Franchi, NA, La dottrina della cognizione nell’hegelianismo
secondo SPAVENTA (si veda), RIF, La dottrina della conoscenza
nell'Hegelianismo, RIF, Rec. di COLINI (si veda), ROVERE (si veda) Mamiani, JESI
(si veda) RIF, Rec. Di BERTI (si veda), BRUNO (si veda) da Nola, sua vita e sue
dottrine. Nuova edizione riveduta e notabilmente accresciuta, Torino, RIF, Rec.
CREDARO (si veda), Lo scetticismo degl’accademici, Le fonti - la storia esterna
- la dottrina fondamentale, Roma, RIF, Iordani BRUNO (si veda) Nolani Opera
inedita, manu propria scripta, RIF, Sui sistemi unitario e trinitario
dell'essere, RIF, Cenni bibliografici di pubblicazioni filosofiche di TOCCO (si
veda), Acc. Lincei. Rendiconti, - F.
Cicchitti-Suriani, Della dottrina degl’affetti e delle passioni secondo la
filosofia del PORTICO: saggio storico di psicologia morale con prefazione
di F., Aternina, Aquila,Intorno al pitagorismo
de CROTONE in Italia, Acc. Lincei. Rendiconti, Estr.: Roma, Il problema della
coscienza divina in ‘Esperienza e metafisica’ di SPAVENTA (si veda), RIF, Rec.
di LESSONA (si veda), Elementi di Morale Sociale ad uso dei licei e degl’istituti
Tecnici, compilati secondo gl’ultimi programmi, RIF, L'accademia platonica di
Firenze e le sue vicende, NA, Estr.: Roma, Carle, Acc. Lincei. Rendiconti, Della
conoscenza sensitiva, RIF, Alcune considerazioni sull’eclettismo, RIF, Alcune
considerazioni sulle categorie, Acc. Lincei. Rendiconti, Il Teeteto, tradotto da BONGHI (si veda),
Roma NA, La percezione intellettiva e il concetto, Acc. Lincei. Rendiconti, Rec.
di ZUCCANTE (si veda), Saggi filosofici, Renan, Acc. Lincei. Rendiconti, Taine,
Acc. Lincei. Rendiconti, La percezione intellettiva e il concetto, Taine,
RIF, Moleschott, RIF, Il carattere dello spirito italiano nella storia della
filosofia, NA, La psicologia dell'associazione da Hobbes ai nostri giorni,
Bocca, Roma; Estr.: Balbi, Roma; “Il carattere nazionale e il classicismo nell’etica
degl’italiani, NA, Estr.: Forzani, Roma, Rec. di MALTESE (si veda) Socialismo, RIF,
“L'evoluzione filosofica dell'idea dell'anima e i sistemi filosofici” RIF; Cenno
su FERRARI (si veda) e le sue dottrine, in FERRARI (si veda), La mente di G. ROMAGNOSI
(si veda), Milanese, Milano, a cur. di Campa, La Voce, Firenze. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Grice: “Ferri is obsessed with Bonghi’s Convito. The dialogues of love by
Plato are four: Carmide, Licide, Convito, and Fedro. Fedro is subtitled by
Diogenes Laertius as being ‘about eros’ (peri erotes) – but it was translated
as ‘o vero del bello’ – Convito is so obvious about eros that Plato didn’t care.
As for Carmide and Licide, Ferri
dedicates little attention. Keywords: fisiologia dell’amore come desiderio –
psicologia filosofica dell’amore – l’amore e una specie di desiderio – con
relazione alla percezione dell’amante del corpo bello dell’amato --. il convito
di Platone nella traduzione di Bonghi ‘’ “Il convito di platone tradotto da R.
Bonghi” RIF, il dialogo dell’amore di
Platone come sub-genere: “I dialoghi dell’amore di Platone” (Rizzoli): sono
quattro: Convito, Fedro, Liside, Carmide. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Ferri” – The Swimming-Pool Library. Luigi Ferri. Ferri.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fibbia: dal latino morto al latino vivo – filosofia
piemontese – Luigi Speranza (Torino).
Abstract. Grice:
“Strictly, if Julius Caesar is dead, his ‘lingua’, as the Italians call her,
is, too! ‘Viventi’ does not apply to a language only metaphorically!” -- Filosofo
torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano.
Torino, Piemonte. A Torino vede la luce il progetto “Latino Viventi”
(Cavoretto, Torino), di F., nome fittizio dietro il quale non è ancora stato scoperto il vero autore. Grice crede che sia Fibbia, “Italian for
Fibula”. Questa nobile e antica famiglia si tiene derivare da Francesco
figliuolo d'Orlando nato di Castruccio Castracani Sig. di Lucca, e essere
tutt'una con gli Antelminelli Castracani di Lucca discendente da Enrico altro
figliuolo di Castrucci; vi è anche opinione possi derivare da Fiorenza
trovandosi nel 1286. Lado di Benzo Fibbia da Fiorenza, la prima opinione però
viene accreditata assai dall'Alidosi, per esser il più sincero tra gl'altri
scrittori, ponendoli nel ib. 5 dei suoi Anziani, col cognome anche de
Castracani, e fù per Arma due campi, quello di sopra azzurro, nel quale vi è un
mezzo cane bianco simile al Cane degl'Antelminelli, e il campo di sotto
d'argento, con due Fibbie, una rossa e l'altra nera coll'Aquila sopra. e si è
andata avanzando di modo, che di presente è titolata, e gode il grado
Senatorio; Io però trovo in Bologna, come all'archivio in lib diver farum
matricolarum. Bartolomeo LV admittit 2 gradus: Ii populari, in quo sufficit
radicario cum grammatica minim'i; II' litterarii, intelligibil'i tamen ab omni
discipulo de populari gradu ad primi visum.ALPHABETO habet litteras latini. I = Il aut J: fit (fit), iam (jam). - V = U et C = QU: solver
(soluer), locuti (loquuti). MT = MPT: emti (empti). Sono de A shoe F. chou D.
Schuh ante A, O, U indicatur per SH:
shocolate. In omni libro ad schola-&
populi-usum, LV miscet ad litteras
romani litteras cursivi aut crassiori aut etiam capitali. Supersigno et unionis-tractu est minus apti.
Per dissimil'i litteras scribitur: (a vocabulo quod habet simili or-thographiam
cum alio, sed sensum diversi: solum (de solo), solum (adv.). (6 pluri affixo (lector'e vide n. 41). LV
admittit litteras orthographici, id est non pronuntiati, et notat tali litteram per accentum qui
pracurrit: t'eriti, fu'nsi.In scripto ad usum de soli eruditos orthographici
littera non usitatur. LV, quia fundatur supra base de res existenti, adoptat pronuntiandi-modum
plus diffu'nsi. Sic introducit, sine mutatione, isti et
illi vocabulum internationali: bagage, bicyclo, budget'e, &c. Discipulo de
Il gradu pone accentum tonici super vocalem ante ultimi consonantem: câne,
lilio. U in AU, EU, GU, QU
non habet accentum: lâude, nêutri,
lingua, âqua. 3 finales de grammatica M, S, T non mutat
accentus-locum: pâtrem, pâtres, âmat.
Gradu Populari LY, articulo definiti, et
UL, articulo indefiniti, est ambo inva-riabil'i: ly 300 viros de Gedeon; ul
viros. UM est prapositione generali, Tenet locum de ab, ad, de, &c., quando
discipulo hasitat.LV non habet accusativum; UM indicat proprie non-subjectum,
id est attributum aut complementum: um patre filio amat; patre-um filio amat: um Deo essev ly Verbo. UM est
necesse solum quando fit inversione, quia non-subjecto est cognoscibili etiam
per sui locum in phrase (post verbum); filio amat patre; Verbo essev Deo. -A,
-E, -O, -U indicat substantivum in singulare; -AS, -ES, -OS, -US in plurale. Quando diversi finale
non dat sensum diversi (ex. arca, arce, arcu), licet commutar desinentias de
plurisyllaba: die, dies (dia, dias, sicut in H. et P.), sed non ra, ro, ru
(re), nam re est monosyllaba. GENERE,
quando est necesse, indicatur per MASCULO,
FEMINA: equo-masculo, mascul-equo, femina-gallo. -I indicat adjectivum:
boni patre, boni patres, boni matre. Adjectivo potest haber substantivi-formam:
disputar est sterile (sterili re). Ad designar rem minus specificative, additur
ad adjectivum ullo pronomine de sequenti serie: aliquid (aliqui re); aliud
(alii re); • istud (isti re); illud
(illi re); id (re); id-dem, idem (eadem re); nihil (nulli re). Ex.: aliquid boni. -A, -E, -0, -U
scripti per dissimili litteras, indicat ad- verbium: recta, recte, recto (de
recti). COMPARATIONE fit per tam... quam, non minus... quam ; plus, minus... quam; suberlativo per multum,
maxime: plus grandi, mullum grandi. PRONOMINE PERSONALI. Ego, tu,
illo, se; nos, vos, illos, se. Si genere aut numero est notandi: eo, ea, eos, eas. Eo, ea, &c. plus dem
(eodem, eadem, easdem) = I. stesso F. le même A. the same D. derselbe. POSSESSIVO. Mei, tui, sui, nostri, vostri. Sui, sicut
se, designat subjectum: patre venit cum filio sui et cum amico de illo (filio). DEMONSTRATIVO. Isti, illi.
In substantivi-forma: iste, ille. Si genere et numero est notandi: isto, illo;
ista, illa; istos, istas, &c. INTERROGATIVO RELATIVO: Qui. Quid (qui re,
um qui re) est interrogativi. 16° VERBO indicat nec personam, nec numerum.
INFINITIVO: -ar, -er, -ir (= iir): amar, vider, esser, audir.Infinitivo fit
substantivo per anteponer LY: ly loquer est argento, ly tacer, auro. PRESENTE; -at, -et, -it: amat,
videt, audit. ESSER et omni composito de ESSER fit est in prasente: potesser,
potest; abesser, abest. PRETERITO; -av,
-ev, -iv: amav, videv, essev, audiv.
FUTURO I: -abit, -ebit, -ibit: amabit, videbit, audibit (sicut in L. archaici). IMPERATIVO-CONJUNCTIVO:
prasente sine -t: ama, vide, es, audi. Imperativo distinguitur de substantivo
et adjectivo per subjectum quod semper exprimitur: Tu impera quod Petro veni.
CONDITIONALE: infinitivo plus -et: amaret, videret, audiret.
audirat (audierat &c.).
PLUSQUAMPERFECTO: infinitivo plus -at: amarat, viderat, FUTURO II: infinitivo plus -it: amarit,
viderit, audirit (au- diirit, audierit).
PARTICIPIO PRESENTI: -anti, -enti:
amanti, audenti (auder), audienti
(audir). PRETERITI: -ti, -si, -xi.
Discipulo reproduce istud ex vocabulario.
FUTURI:-ti,-si,-xi de
participio prateriti fit
-turi,-suri, -xuri: amaturi, visuri, flexuri; ESSER habet FUTURI. ESSER cum participio futuri de verbo indicat
agendi-inten-tionem aut etiam futurum simplici: Jesu est venturi judicar
vivos et mortuos. 21° GERUNDIVO: -andi, -endi = qui debet fier
-ti: amandi (qui debet fier amati). GERUNDIO compensatur per prapositionem aut
per phrasis-conversionem: desiderio de haber; ille salvat se per natar. Quando diversi finale non dat sensum diversi,
licet commutar verbi - desinentias: ager, agir (sicut F. et I.); morer, morir (sicut H.), sed non auder, audir. Sic FIT =
FIIT = FIAT = FIET; AUDIT = AUDIIT =
AUDIAT = AUDIET. PASSIVO conjugatur per FIER cum participio prateriti. Petro
fit amati. INTERROGATUR per AN: An Paulo venit? Ego non scit an ille venit. On
exprimitur per HOMO aut per NOS: homo dicit, nos dicit. F. homme = homine. Omni numero scribitur per cifras
et pronuntiatur sicut in L.: Anno 1925
(mille novem centum duo decem quinque).
Gradu Secundi. Discipulo lege sequenti regulas, sed quia non existit
gram-matica completi de LV, soli Latinista potest applicar eas. Si textu permanet limpidi, licet
elider ultimi vocalem post L, M, N, R, in substantivo et adjectivo. In omni libro ad populi-usum isti vocale indicatur
cum accentu pracurrenti: sulfur'e, amabil'i. LY usitatur raro, UL et UM
nunquam. UM compensatur in substantivo singulari per -m, quando L. ha-beret
istud; ergo-m in LV. non designat accusativum, sed attributum aut complementum:
patre bibit aquam: disputar est vanum (-o fit -um). Latinista commutat finalem
de plurisyllaba solum ad renovar vocativum latini: tu, o medice, cura te ipsi
(in l' gradu: tu, o medico, &c.). Latinista indicat feminam per desinentia-mutatio-nem
in A, I'NA, I'SSA, RICE: filia (filio): gallina (gallo), ducissa (duce),
oratrice (orator'e). Latinista habet pluri suffixum de adverbio: -am, -um, -iter, -mode: rariter, diversimode.
Adjectivo finienti per -nti generat adverbium finienti per -nter: frequenti,
frequenter. In locum de bone, usitatur bene (internat.). Etiam adjectivo
compensat adver-bium: puer dormivit brevi (per brevi tempore). -Iori designat
comparativum, -issimi superlativum :
grandiori, grandissimi. Latinista conservat etiam aliqui formas
irre-gulari: meliori (plus boni), optimi (multum boni), minori (plus parvi),
majori (plus magni), minimi (multum parvi), maximi (multum magni). Latinista
scribit tu aut te, sicut in L. Latinista variat isti interrogativo-relativum
unici. QUIS est interrogativi sicut
QUID, sed pro persona. QUAi = qui
femina(s), (um)qui res. QUOD = (um)qui re. QUEM = um qui viro. QUAM = um qui femina. QUOS = um qui viros.
QUAS = um qui feminas. In populi-favorem
QUOD et QUAM, jam usitati in I' gradu cum sensu diversi, scribitur per
dissimil'i litteras. Verbo irregulari in L. fit regulari in LV, et verbo
deponenti fit activi: esser, voler, loquer (esse, velle, loqui). Infinitivo fit substantivo etiam per adder -e
ad omni verbum non deponenti; tacere est securum (ly facer est securi re). In
locum de -av, ev, -iv, Latinista ponit
-abat, ebat, -ibat, -avit, -ivit, secundum morem de L. Ipse tamen scribit
ESSEV, VIDEV, &c. Latinista scribit imperativum de FACER, DICER, DUCER:
fac'e, dice, fac'i, dic'i. Participio prasenti de ESSER est ESSENTI aut ENTI
(potenti, &c.). Per usum de
orthographici littera, apparet ad populi-oculos quasi regulari ly participio
prateriti de: mover, mo'vti; terer, t'eriti; et de omni verbo cum infixo:
vincer, vincti (sic distincti de viver, victi); rumper, ru'mpti, &c. Discipulo nota bene Supprimitur SC de multi
verbo in SCER: nascer, nati, 2° Substitutur littera, sicut loquer, locuti;
volver, voluti. Per
consonantis-attractionem G et H fit C et B fit P: leger, lecti; traher, tracti; scriber, scripti;
franger, francti (infixo). 4° Vocale
radicali commutatur, pracipue in derivatione et compositione: sepelir, sepulti;
dejicer, dejecti. D et T fit S, SS et RG fit RS: vider, visi; uter, usi;
mitter, missi; merger, mersi; funder, fu'nsi (infixo); finder, finssi
(infixo). Formas tote irregulari; miscer, mixti; morer, mortui;
pascer, pasti; poner, positi; quarer, quasiti; struer, structi; surger,
sur-recti; urer, usti; viver, victi. 38°
Ad 23°. Latinista addit-ur ad formam activi: amat, amatur (fit amati); amabat,
amabatur (febat amati). Exc. verbo deponenti facti activi in LV: fit
locuti. Ad 25°. F. On exprimitur per isti formam de passivo: di- citur = homo dicit = nos dicit. Parte communi RADICARIO est radicario latini,
minus radices mortui et non necessarii, plus ceteri radices internationali. LV.
recipit denobili avo latini isti et illi elementum quod deficit in vocabulario
internationali, ex : UT, AN. COMPOSITI VOCABULO unit 2 radices:
motor-vehiculo. Cum 1 aut 2 litteras
unienti: aqua-ductu, juris-prudentia. Sic renascit genitivo latini, sed soli
Latinista potest applicar isti regulam.
R de infinitivo supprimitur in compositione: candefacer, cale-facer (de
cander, caler). Ante substantivum, -r fit -ndi: agendi-loco (loco de ager). DERIVANDI-SYSTEMATE est
autonom'i. LV. fabricat vocabulum novi ex radice et affixo. Affixario continet
prafixos et suffixos. PREFIXOS. =
contrarietate, negatione, separatione et tunc scribitur in libros ad
populi-usum per dissimil'i litteras: A, AB, ABS, AN; DE; DI, DIF, DIS; I, IL,
IM, IN, IR; NE: amover, abesser, absenti, anonymi, desperar, diffider,
discreditar, inaquali, nescir. Aliqui de isti prafixos habet 2i sensum, et tunc
scribitur per litteras communi. Sic DE = de supra ad infra: deducer: DI, DIE, DIS = divisione: diverger, diffunder,
disseminar; I, IL, IM, IN, IR = in:
infunder, irradiar. E, EF, EX = non in:
emanar, effunder, exportar. EX cum
substantivo = ante id: exconsul'e.
PRE = ante: pradicer, prafixo.
RE, RED habet 3 sensus: 1º= remotione, et tunc scribitur in libros ad
populi-usum per dissimil'i litteras: remover. 2° = iteratione: reconciliar,
redir. 3° = retro: recalcitrar. In
libros ad populi-usum: re(tro)calcitrar.
SEMI = dimidio: semibarbari. Omni
prepositione usitatur sicut praefixo. CUM fit tunc CO, COL, COM, CON, COR,
COMB; AD fit AF, AP, AR, AT; SUB fit SUP, SUF, SUR, etc. SUFFIXO additur ad
substantivi - et adjectivi - radicem;
verbi-suffixo ad radicem de infinitivo aut ad participium praeteriti. In
libros ad populi-usum, pluri suffixo distinguitur per dissimil'i litteras. 44° A'CEI, OI'DI = analogi, simili ad:
coriacei, conoidi. A'CI, /'Cl = qui
frequenter, facil'i ad: bibaci, pudici.
A'LI, A'RI, ICI (sine accentu), ili = de: vocali, solari, caelici, senili.A'NI, INI= socii, parte de: urbani,
marini. A'RI (A'RI), A'RIO —persona aut
re quae servit ad, qui colligit aut re quae colligitur, qui exercet artem:
auxiliari(i), librario, aquario. I'STA =
persona quae servit ad, qui exercet artem: linguista, artista.
A'TU = functione, dignitate et loco de functione: dominatu, episcopatu.
CUMQUE = homo volit: quicumque, ubicumque. ESCER, ASCER = fier: senescer (fier seni),
veterascer. I'BILI, ILI (sine accentu):
= qui potest fier, quod homo potest:
visibili, facili. IDI (sine
accentu) = qui permanet...nti: calidi (qui permanet calenti).
I'FICAR = facer: nidificar, mellificar. I'FICE = FACTOR: vestifice,
pontifice. IONE, U = actione:
latratione, latratu. ISMO = systemate, schola, religione socialismo, catholicismo.
I'TA, I'TE = origine: levita, granite.
ITAR (sine accentu super I), TAR
post consonantes = fre- quentia:
volitar, clamitar, inspectar. IZAR =
redder: civilizar. I'VI = qui potest,
qui tendit ad: nocivi, nutritivi. MENTO,
MINE (sine accentu super I) = id per quod: vela- mento, velamine. OLI; ULI, I'CULI, U'NCULI = diminutione:
parvuli; spatiolo, monticulo, homunculo.
O'RE = agente: amatore, factore. O'RIO =
loco: scriptorio, oratorio. OSI, OLENTI, ULENTI, BUNDI = cum, pleni de:
aquosi, vinolenti, luculenti, furibundi.
(ITATE, TUTE, TUDINE, TIA = qualitate abstracti: boni- tate, juventute, latitudine, malitia. Quando
adjectivo finit per 2 i, ultimi i fit e: pietate, societate. URA = actus-consequentia:
scriptura. Etsi LV. est autonom'i in
compositione et derivatione, singulo evita neologismos et stude diligenter
vocabularium existenti. Ibi invenitur
quasi semper vocabulo naturali, leviter dissimili de vocabulo compositi aut
derivati secundum regulas nostri. Singulo etiam evita isti et illi vocabulum
naturali male formati. Non liceret
dicer: isti loco est terribili, nam IBILI = qui
potest fier. Scribitur recte: est terrenti. Non licet conservar affixum naturali
dissimil'i de affixo communi, quando alii construction'e est possibile: Joanne
edebat melle de silva (non melle silvestri). Liceret, quando idea non fit obscuri: Isti femina est
loquaci; sui viro, taciturni (dissimil'i litteras admonet ineruditum). -urni = - aci. EXEMPLO.
Luc. 4:16 Textu de 1' linea in LV. populari,
de 2i in LV. litterarii. Jesu iv
in Nazareth, patria sui, ubi acceptarat educatione, et Jesu ivit in Nazareth, patriam sui, ubi
acceptarat educationem, et intrav secundum sui consuetudine in die de sabbato
in synagoga. intravit secundum sui consuetudinem in sabbati-die in synagogam.
Levav se ad leger et libro de Isaia propheta fit dati ad illo. Jesu Levavit se
ad leger et Libro de Isaia propheta datur ad illum. Jesu evolvit libro, et
invenit isti loco de Scriptura: Spiritu de Domino est evolvit librum, et
invenit isti Scriptura-locum: Domini-Spiritu est super me; ob qui re sacrav me
per unctione, delegav me pro evan-super me; ob quod sacravit me per unctionem,
delegavit me pro evan-gelizar pauperos, sanar eo qui habet corde cont'eriti,
annuntiar ad gelizar pauperes, sanar eum qui habet corde contriti, annuntiar ad
captivos liberatione et redder ad cacos ly vider, liberar oppressos, captivos
liberationem et redder ad cacos visum, liberar oppressos, publicar ly anno de
misericordia de Domino et ly die de retributione. publicar annum de
Domini-misericordia et retributionis-diem.
Jesu plicat libro, reddit isto ad ministro et sedet. Omni oculo in Jesu
plicat librum, reddit istum ad ministrum et sedel. Omni oculo in synagoga
spectav eo. Jesu inchoav sic: ‹ Isti Scriptura qui-um vos synagoga spectabat
eum. Jesu inchoavit sic.
Isti Scriptura quam vos audiv fit impleti hodie». Et omnos dav testimonio ad
illo et audivit impletur hodie. Et omni homine dabat testimonium ad illum et stupev ad verbos delectabili qui procedev ex
ore de illo et dicev: stupebat ad pluri delectabili verbum quod procedebat ex
ore de illo et dicebat:« An non isto est filio de Joseph?» Tunc Jesu ad illos:
Forsan. An non iste est filio de Joseph? Tunc
Jesu ad illos: Forsan vos applicabit ad me isti proverbio: Tu, o medico, cura
tu ipsi; tu vos applicabit ad me proverbium isti: Tu, o medice, cura te ipsi;
tu face et hic in patria tui tam mirabili res quam in Capharnaum ». fac'e et
hic in patria tui tam mirabili res quam in Capharnaum » Jesu ad illos: Ego dicit vere ad vos: Homo
non est propheta in patria sui. Jesu ad
illos: Ego dicit vere ad vos: Homo non est propheta in patria sui. Keyword:
latino morto, latino vivente. Fabbia. Fibula. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Fibbia.” – Fibbia.
Luigi Speranza --
Grice e Ficiada: la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Crotone). Abstract. Grice:
“We don’t have philosophers named Ficiada at Oxford!” -- Filosofo italiano. A Pythgorean, cited by Giamblico. Ficiada.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Ficino:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’amore – scuola
di Figline e Incisa Valdarno – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Figline
Valdarno). Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Figline e
Incisa Valdarno, Firenze, Toscana. Grice: If Ficino had JUST commented on Platos
symposium that would be already a magnificient achievement! So Renaissance it taught the Romans and the Italians, and
us, that the dialogue IS the philosophical form per tradition, whatever Cicero
tried! Figlio di Diotifeci d'Agnolo, studia a
Firenze sotto Bernardi, Comandi, Castiglione e Tignosi filosofo lizio autore di De anima e di De
ideis. Conseguenza di questo la SVMMA
PHILOSOPHI, dedicata a Mercati in cui tratta di fisica, di logica, di Dio e di
aliae multae quaestiones. Nella dedica a Mercati, scrive di volerlo introdurre
a quegli studi che devono impegnare la nostra et, secondo la regola del nostro
Platone. Studia Epicuro e LUCREZIO, scrivendo i COMMENTARIOLA IN LVCRETVM, il
De voluptate ad Calisianum, il De virtutibus moralibus e il De IV sectis
philosophorum, dove tratta di questioni morali e dell'anima riportando opinioni
platoniche, aristoteliche, epicuree e stoiche, e l'exercendae memoriae gratia,
come esercitazione mnemonica e senza pretese sistematiche. Scrive vari saggi di
Institutionum ad platonicam disciplinam, tratti da fonti latine e per questo
motivo trascurati per la sentita esigenza di abbeverarsi alla diretta fonte
greca. Sembra che il suo interesse al platonismo induce Pierozzi, preoccupato
di possibili deviazioni del F. verso eresie platoniche, a consigliargli di
studiare l'opera dAQUINO (si veda) a Bologna. Ma la permanenza a Bologna
non documentata e resta certo
l'ininterrotto interesse per la filosofia platonica. Traduce Alcinoo,
Speusippo, i versi attribuiti a Pitagora e l'Assioco attribuito a Senocrate.
Tradotti gli inni di Orfeo, di Omero, di Proclo e la Teogona di Esiodo, riceve
in dono da Cosimo de' Medici un codice platonico e una villa a Careggi, che
divienne sede del circolo dei Platonisti, fondato dallo stesso F. per volere di
Cosimo, con il compito di studiare la filosofia di Platone e dei platonici, al
fine di promuoverne la diffusione. Qui inizia la traduzione dei Libri ermetici,
portati in Italia da da Leonardo da Pistoia. La sua opera di traduzione avr un
notevole influsso nella filosofia rinascimentale. Vede in quella sapienza
antica la presenza di una rivelazione, di una pia philosophia che si attuata nel Cristianesimo ma della quale
l'umanit di tutti i tempi era sempre stata partecipe. Nella dedica a Cosimo,
scrive che Ermete Trismegisto per primo disput con grandissima sapienza della
maest divina, della gerarchia degli spiriti (daemonum ordine) della
trasmigrazione delle anime. Per primo fu chiamato teologo. Lo segu, secondo
teologo, Orfeo, poi Aglaofemo, Pitagora e Filolao, maestro del nostro divino
Platone. Esiste dunque, una concorde e antica tradizione teologica, una priscae
theologiae undique sibi consona secta, che nasce con Ermete e culmina con
Platone. La pia filosofia, antitetica alle correnti di pensiero atee e
materialiste, si propone di sottrarre l'anima dagli inganni dei sensi e della
fantasia per elevarla alla mente; questa percepisce la verit, l'ordine di tutte
le cose, sia esistenti in Dio che emanate da Lui, grazie all'illuminazione
divina, affinch l'uomo, tornato fra i suoi simili, possa renderli partecipi
delle verit rivelategli dalla fonte divina (divino numine revelata). La sua
traduzione latina del Corpus hermeticum, gi tradotto in volgare da Benci, viene
stampata. Inizia la traduzione latina dei dialoghi platonici, e vi aggiunge i
suoi commenti, al Filebo, al Fedro e al Convivio (tradotto anche in italiano),
al Timeo, e al PARMENIDE DI VELIA. Stende l'opera pi importante, i XVIII libri
della Theologia platonica de immortalitate animarum, dedicata a Lorenzo de'
Medici. Compone la Religione, in italiano, di cui dar poi la versione latina
nella De religione. Scrive la Disputatio contra iudicium astrologorum e viene
dato alle stampe il suo Consiglio contro la pestilenza, dopo il flagello
dell'epidemia. Inizia la traduzione delle Enneadi di Plotino e traduce le opere
di Giamblico, Proclo, Prisciano, Porfirio, Sinesio, Teofrasto, Psello, la
Mistica teologia e i Nomi divini dello Pseudo-Dionigi, e i frammenti di
Atenagora. Con questo ampio corpus platonico persegue la sua teorizzazione
della continuit della tradizione teologica da Ermete ai platonici prolungatasi
attraverso Dionigi Areopagita, Agostino, Apuleio, BOEZIO, MACROBIO, e
Bessarione. I tre libri del De vita gli procurano accuse di magia dalle quali
si difende con un'Apologia. Pubblica XII libri di Epistulae che comprendono
anche opuscoli come il De furore divino, la Laus philosophiae, il De raptu
Pauli, le V claves Platonicae sapientiae, il De vita Platonis, i De laudibus
philosophiae, l'Orphica comparatio Solis ad Deum, la Concordia Mosis et Platonis,
gli Apologi de voluptate quattuor. Scrive un Commento a San Paolo. noto come Aristotele concepisca l'essere
umano come sinolo, unit ordinata e indissolubile di materia e forma, di corpo e
anima, cosicch il suo principale commentatore dell'antichit Alessandro di
Afrodisia poteva ben dedurne esplicitamente la mortalit dell'anima
contemporanea a quella del corpo. Al contrario, Platone ha gi distinto le due
sostanze, concedendo all'anima una vita separata e indipendente dal destino del
corpo. A questa concezione aderisce F., che in polemica contro Aristotele
esalta la dottrina platonica, al punto da interpretarla come una forma di
religiosit propedeutica alla fede cristiana. La sua Theologia platonica o De
immortalitate animarum si apre dunque con un Soluamus obsecro caelestes animi
caelestis patriae cupidi, soluamus quamprimum uincula compedum terrenarum ut
alis sublati Platonicis, ac Deo duce, in sedem aetheream liberius peruolemus,
ubi statim nostri generis excellentiam feliciter contemplabimur. Liberiamoci in
fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose
terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio, alla sede celeste
dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro (F., Theologia
Platonica). Per comprendere la sostanza dell'anima necessario comprendere la struttura
dell'universo, composto da cinque livelli gerarchici: Dio; gli angeli; le
anime; le qualit; la materia. Al grado inferiore sta la materia, concepita come
pura quantit. La materia non ha di per s nessuna forza che possa produrre le
forme, diversamente da chi la concepisce come sostanza produttrice di forme,
fonte piuttosto che soggetto delle forme.
la qualit il principio formale che d sostanza alle realt corporee,
grazie a una sostanza incorporea che penetra attraverso i corpi, della quale
sono strumento le qualit corporee. Questa sostanza incorporea nell'uomo si
eleva al rango di anima che genera la vita e il senso della vita anche dal
fango non vivente. Al di sopra delle anime sono gli angeli. Sopra quelli
intelletti che alli corpi s'accostano, cio l'anime ragionevoli, non dubbio che sono assai menti, dal commercio
dei corpi al tutto divise. E se l'intelletto dell'anima mobile e parte interrotto e dubbio,
l'intelletto angelico stabile tutto,
continuo e certissimo. Al di sopra del tutto
Dio, che unit, bont e verit
assoluta, fonte di ogni verit e di ogni vita,
atto e vita assoluta. Dove un continuo atto e una continua vita dura,
quivi un immenso lume d'una
assolutissima intelligenza che luce per
gli uomini perch si riflette in tutte le cose. Attraverso Dio tutte le cose son
fatte, e per Iddio si trova in tutte le cose e tutte le cose si veggono in
lui... Iddio principio, perch da lui
ogni cosa procede; Iddio fine, perch a
lui ogni cosa ritorna, Iddio vita e
intelligenza, perch per lui vivono le anime e le menti intendono. Dio e materia
rappresentano i due estremi della natura, e la funzione dell'anima, che considerata, diversamente da Aristotele e da
Tommaso, realt in s e non solamente forma del corpo, quella di incarnarsi per riunire lo spirito e
la corporeit: Amore sacro e amor profano (Tiziano): eros come mediatore dei
contrary. L'anima tale da cogliere le
cose superiori senza trascurare le inferiori per istinto naturale, sale in alto
e scende in basso. E quando sale, non lascia ci che sta in basso e quando
scende, non abbandona le cose sublimi; infatti, se abbandonasse un estremo,
scivolerebbe verso l'altro e non sarebbe pi la copula del mondo Theologia
Platonica. La "copula mundi"
l'anima razionale che ha sede nella terza essenza, possiede la regione
mediana della natura (obtinet naturae mediam regionem) e tutto connette in
unit. La sua opera unificatrice resa
possibile dall'amore, inteso come movimento circolare attraverso il quale Dio
si disperde nel mondo a causa della sua bont infinita, per poi produrre
nuovamente negli uomini il desiderio di ricongiungersi a Lui. L'amore di cui
parla Ficino l'eros di Platone, che per
l'antico filosofo greco svolgeva appunto la funzione di tramite fra il mondo
sensibile e quello intelligibile, ma Ficino lo intende anche in un senso
cristiano perch, a differenza di quello platonico, l'amore per lui non solo attributo dell'uomo ma anche di Dio. Lo
stesso Platone viene interpretato in una chiave di lettura che oggi definiamo
piuttosto neoplatonica, sebbene F. non faccia distinzione tra platonismo e
neo-platonismo. Per lui esiste una sola filosofia, che consiste nella
riflessione su quelle verit eterne, le Idee, che in quanto tali restano inalterate
nel tempo e trascendono la storia. Congiungendo tutti i campi del reale secondo
una concezione propria peraltro dell'astrologia e della magia, a cui F. rivolge
notevoli interessi in virt dell'unione vitale del mondo da essi presupposta,
filosofia e religione si fondono cos in una visione d'insieme di reciproca
complementarit, sottolineata anche nell'accostamento di termini come pia
philosophia, o teologia platonica. Strumento dell'amore nel suo farsi portavoce
dell'uno il bello. Nel pensiero di F.,
Ges considerato un maestro spirituale
spirito-guida, inviato da Dio per il bene dell'umanit. Cos'altro era Cristo se
non una specie di manuale di etica, cio di filosofia divina, il quale visse
come un inviato dal cielo, essendo lui stesso una divina Idea di virt,
manifestata agli occhi degli uomini. De Christiana religione. Elevando il
cristianesimo a religione suprema, F. asser che l'Incarnazione del Cristo era
avvenuta anche perch Dio si potesse riunire a tutti gli aspetti della
creazione. Pur esercitando un fortissimo impulso al rinnovamento del panorama
filosofico dell'Europa, in cui da diversi paesi si faceva costante richiesta
delle sue opere, dopo la fine del Rinascimento venne commentato sempre meno,
fino ad essere accusato, immeritatamente, di un ritorno al paganesimo. In
Italia, dove riconosciuta la sua
influenza sull'ermetismo cinquecentesco, e in particolare su BRUNO, e VICO a
raccogliere l'eredit platonica di F., di cui lesse l'opera di traduzione, rammaricandosi
del fatto che la filosofia moderna si fosse allontanata da lui, rinchiudendosi
nelle angustie mentali di Cartesio. Sottoposto ad attacchi che giudicarono
retorici e privi di valore i suoi saggi,
stato rivalutato como uno psicologo del profondo e precursore della
psicologia junghiana, per il suo incitamento a leggere e interpretare ogni
affermazione proveniente dai campi pi disparati, sia della scienza che della
teologia, nell'ottica dell'esperienza psicologica dell'anima, la quale viene
vista cio come mediazione e compendio dell'universo. La conoscenza
dell'anima infatti la quintessenza del
neoplatonismo italiano, in cui giacciono sepolte le fantasie mistiche di questo
strano uomo che suonava inni orfici sul liuto, che studiava la magia e componeva
canti astrologici, quest'uomo gobbo, bleso, politicamente timido, senza amore,
malinconico traduttore di Platone, Plotino, Proclo, Esiodo, dei Libri Ermetici,
autore lui stesso di alcuni tra gli scritti pi diffusi e influenti (Commento al
Simposio) e scandalosamente pericolosi (Liber de vita) del suo tempo. La
centralit attribuita da F. all'anima, per la quale, ancora ragazzo, Cosimo de'
Medici lo considerava prescelto alla cura delle anime come suo padre medico lo
era dei corpi, convinse che egli ebbe un impatto paragonabile per estensione ed
intensit solo a quello prodotto oggi dalla psicoanalisi. Notevole ad esempio l'intuizione di F. del potere
psico-somatico nella cura delle malattie, e in quello che la medicina moderna
considera un effetto placebo. Io sono del parere che l'intenzione
dell'immaginazione abbia il suo peso su immagini e medicine, non tanto al
momento della preparazione, quanto in quello dell'applicazione: ad esempio, se
un tale, a quel che si dice, porta indosso un'immagine fatta nei modi debiti, o
certamente, se facendo uso analogo di una medicina, desidera intensamente
soccorso da quella e crede senza ombra di dubbio e spera con incrollabile
fermezza, da questo atteggiamento deriva certo il massimo di incremento
all'aiuto che essa pu dare. De vita. Altre saggi: De Voluptate; De Amore o
Commentarium in Convivium Platonis; De religione et fidei pietate; Theologia
Platonica de immortalitate animarum; Compendium in Timaeum; De triplici vita;
De lumine; In Epistolas commentaria (Venezia) El libro dell'amore De vita
Teologia platonica; Sopra lo amore ovvero Convito di Platone La religione
Epistolarum familiarum, liber I. R. Zerilli, Marsilio Ficino: alla lente
dell'astrologia, Edizioni Capone, Ove non diversamente riportato, le notizie
sulla vita e la dottrina ono tratte da GARIN Storia della filosofia italiana,
I, Einaudi, SAITTA, F. e la filosofia dell'umanesimo, Fiammenghi et Nanni,
Giornale storico della letteratura italiana, Novati, Gorra, Cian, Bertoni,
Calcaterra, Loescher, Squarotti, Storia della civilt letteraria italiana: Umanesimo
e Rinascimento, POMBA, Semprini, I platonici italiani, Athena, La Letteratura
italiana: Storia e testi, Garin, Ricciardi, Torre, Storia dell'Accademia
Platonica di Firenze, Istituto di Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento
in Firenze, Garin, Ermetismo del Rinascimento, Riuniti, Primus de maiestate
Dei, daemonum ordine, animarum mutationibus sapientissime disputavit. Primus
igitur theologiae appellatus est autor. Eum secutus Orpheus, secundas antiquae
theologiae partes obtinuit. Orphei sacris initiatus est Aglaophemo successit in
theologia Pythagoras, quem Philolaus sectatus est, divi Platonis nostri
praeceptor. Cusimano, Storia del pensiero occidentale, Lulu.com,. L'immenso
lavoro di traduzione compiuto da F.
stato documentato in particolare da Kristeller, in Supplementum F.: F.
florentini philosophi platonici Opuscula inedita et dispersa, Firenze, Olschki,
Cfr. anche: Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Istituto di
Studi Superiori Pratici e di Perfezionamento in Firenze, Alessandro di
Afrodisia, L'anima Accattino e Donini, Roma-Bari, Laterza, Parodos. I sentieri
della ragione, Le divine lettere di F., S. Gentile, Edizioni di storia e
letteratura, Sopra lo amore o ver' Convito di Platone, Ottaviano, Gentile,
Trad. in Storia sociale e culturale d'Italia: La cultura filosofica e
scientifica, Ceriotti, Bramante, Ioan Couliano, Eros and the Magic in the
Reinassance, Chicago Press. Il termine "neoplatonismo" stato coniato per indicare le interpretazioni
platoniche che si erano andate via via sovrapponendo a partire dall'et
ellenistica, ma che erano sempre state identificate col pensiero stesso di
Platone, ritenuto quasi un loro capostipite (cfr. Cenni sulla tradizione
platonica). Gentile, Il ritorno di Platone, dei platonici e del "corpus"
ermetico. Filosofia, teologia e astrologia nell'opera di F., in C. Vasoli, Le
filosofie del Rinascimento, Pissavino, Milano, Bruno Mondadori, La prospettiva
storiografica, di Presti, Universit degli Studi di Bologna, Mondin, Storia della
teologia: epoca moderna, Domenicano, Citazione da Grayling, Una storia del
bene. Alla riscoperta di un'etica laica, Storia e civilt, Bari, Dedalo, Vasoli,
Quasi sit deus: studi su F., Cfr. anche Jugegno, BRUNO e l'influenza, in
Rivista critica di storia della filosofia. Hillman, Plotino, F. e VICO,
precursori della psicologia junghiana, J. Hillman13, ivi. Aneddoto
rintracciabile in Coenobium, Coenobium. De vita, Biblioteca dell'Immagine,
Pordenone. F., Commentarius in Convivium Platonis, in Venetia, Farri, De religione,
Firenze, Nicol di Lorenzo, F., De triplici vita, Lugduni, apud Rouillium sub
scuto Veneto, Theologia Platonica De immortalitate animorum, Gilles Gourbin,
apud Gorbinum, Opera omnia, Torino, Bottega dErasmo, F., Opere. Lettere e
carteggi, in Vinegia, appresso Giolito de' Ferrari, F., Opere. Lettere e
carteggi, in Vinegia, appresso Giolito de' Ferrari, De vita libri III, Biondi e
Pisani, Biblioteca dell'Immagine, Pordenone, Scritti sull'astrologia, Faracovi,
Milano, Il neoplatonismo nel Rinascimento, Roma. Il ritorno a Platone, Firenze,
con ficiniana). Albertini, F.. Das Problem der Vermittlung von Denken und Welt
in einer Metaphysik der Einfachheit, Monaco, Cat, Il Rinascimento sulla via di
Damasco. Il ruolo della teologia di Paolo in F. e Cusano, in Bruniana et
Campanelliana, Cat, L'idea di anima stellata nel Quattrocento fiorentino.
Barberino e la teoria psico-astrologica in F., in Bruniana et Campanelliana
Garfagnini, F. e il ritorno di Platone. Studi e documenti, Olschki, Garin,
Storia della filosofia italiana, I, Einaudi, Hankins, Plato in the Italian
Renaissance, Leida, Kristeller, Il pensiero filosofico, Firenze, Kristeller, Il
pensiero filosofico, Le Lettere, Moore, Pianeti interiori. L'astrologia
psicologica, Moretti et Vitali, Panofsky, Il movimento neo-platonico a Firenze
e nell'Italia settentrionale, in Studi di iconologia, Einaudi, Torino), Polcri,
L'etica del perfetto cittadino: la magnificenza a Firenze tra Cosimo de'
Medici, Maffei e F., in "Interpres: rivista di studi quattrocenteschi"
RomaSalerno, Michele Schiavone, Problemi filosofici, Milano, Zerilli, Alla
lente dell'astrologia, Capone, Torino. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.open MLOL, Horizons Unlimited srl. Progetto
Gutenberg. di Marsilio Ficino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von
Ruff. F., in Catholic Encyclopedia, Appleton. Sito della societ ficiniana, su
ficino. F.: dalla cristianizzazione della magia alla "magicizzazione"
del cristianesimo, su aispes.net. Garin, Una sintetica presentazione del
pensiero di F., RAI. Hillman, Plotino, F. e Vico precursori della psicologia
Junghiana, su rivista psicologi analitica. Il mito greco alla corte dei Medici.
IL CONVITE (Barrabasa). Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per
soddisfare la vostra curiosit. L'altro giorno, infatti, venivo in citt da casa
mia, al Falero, quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano in
tono scherzoso. Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un momento? Mi fermo
e l'aspetto. E quello: Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti
dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con
loro al simposio, e cos sapere quali discorsi l si sono fatti sull'amore. Mi ha
gi raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il
figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui,
purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta:
nessuno meglio di te pu riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per cominciare.
Eri presente a quella riunione o no? Si vede bene, rispondo io, che quel tizio
non ti ha raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti
interessa sia avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi. Io credevo cos.
Ma com' possibile, Glaucone? Sono molti anni. Non lo sai? -che Agatone manca da
Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando io frequento Socrate e sto
attento tutti i giorni a quello che dice e che fa. Prima me ne andavo di qua e
di l, credendo di fare chiss che cosa, ed ero invece l'essere pi vuoto che ci
sia, come te adesso, che credi che qualsiasi occupazione sia meglio della
filosofia. Non mi prendere in giro, disse, e dimmi piuttosto quando c' stata
quella riunione. Noi eravamo ancora dei ragazzini, gli rispondo. Fu quando
Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a
quello in cui offr, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua vittoria.
Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha parlato? Socrate stesso? No,
per Zeus, dico io, ma la stessa persona che l'ha raccontato a Fenice, un certo
Aristodemo, del demo Cidateneo, uno mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui
alla riunione: era uno degli ammiratori pi appassionati di Socrate, allora, a
quel che sembra. Io poi non ho certo mancato di chiedere a Socrate su ci che
avevo sentito da Aristodemo. E lui stesso mi ha confermato che il suo racconto
era esatto. E allora racconta, presto. La strada per la citt sembra fatta
apposta per chiacchierare, mentre andiamo. Ed eccoci dunque in cammino,
parlando di queste cose. per questo che
sono cos preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne adesso. Se dunque
questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice di farlo. Del
resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia presenza, provo
la gioia pi grande. Al contrario, quando sento parlare certe persone, e
soprattutto i ricchi, gli uomini d'affari, la gente come voi, allora mi annoio
e ho anche un po' pena per voi, che credete di fare chiss cosa e invece fate
cose che non valgono niente. Da parte vostra, del resto, mi giudicate un
poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi dei poveretti, questo non
lo sapete affatto, e io invece lo so.Amico di Apollodoro: Sei sempre lo stesso,
Apollodoro. Dici sempre male di te e degli altri. Tu hai l'aria di pensare che,
Socrate a parte, tutti gli altri siano dei poveretti, a cominciare da te
stesso. Da dove ti viene il soprannome di Tranquillo, proprio non si sa. Tu non
cambi proprio mai. Ce l'hai sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte
Socrate. Ma carissimo, non evidente?
Questa opinione che ho di me e degli altri non prova forse quanto sia folle,
quanto deliri? Dai, Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a litigare.
Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi si fecero
quella notte? E va bene, ti racconter pi o meno cosa si disse. Ma forse meglio che parta dall'inizio e cerchi di
rifare per voi, a mia volta, il racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi
disse, che usciva dal bagno e si era messo dei sandali, contro le sue
abitudini. Gli domandai, dove andasse, visto che si era fatto cos bello. E lui
mi rispose, Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della sua vittoria
me ne son venuto via, perch mi dava fastidio tutta quella gente. Ma ho
accettato di andar da lui oggi e cos mi son fatto bello. Voglio esser bello per
andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non sei stato
invitato? Io risposi, Ai tuoi ordini. Allora seguimi, mi disse. Per questa
volta faremo una piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene
vanno a cena senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non
solo l'ha modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo.
Rappresenta Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un
guerriero senza coraggio. Ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un
sacrificio ci fa vedere che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza
esser stato invitato. Luomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso.
E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto cos. Allora corro proprio un
bel rischio, ma non per quel che dici tu, Socrate; credo piuttosto di essere,
come in Omero, il pover'uomo che si presenta senza invito dal grand'uomo.
Vedrai tu che mi ci porti quali scuse trovare, perch io non dir certo di non
essere stato invitato, dir che mi hai invitato tu. Due che vanno insieme, mi
rispose, l'uno provvede all'altro. E allora andiamo, che per via penseremo a
cosa dire. E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in cammino. Ma
Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando l'aspettavo,
mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta aperta e mi trovo subito in una situazione un
po' comica. Uno schiavo mi viene incontro dalla casa e mi porta nella sala dove
gli altri avevano gi preso posto, gi pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi
dice. Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi. Se sei venuto per
qualcos'altro, rimanda tutto a pi tardi, perch ieri ho cercato di invitarti ma
non t'ho trovato. E Socrate? non con
te?Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo pi. Non mi era dietro.
Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui ad invitarmi
alla cena. Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'? Era dietro a me sino ad un
istante fa. Dove pu essere finite? Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo,
va ben a vedere dov' Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi
posto su questo divano a fianco d'Erissimaco. E raccontava che mentre un
domestico gli lava i piedi per potersi stendere sul divano, un altro arriva
dicendone una nuova. Questo Socrate di cui parlate s' rintanato nel vestibolo
dei vicini, ed fermo l. Ho avuto un bel
chiamarlo, non voluto venire. Certo
che ben strano, disse Agatone. Ritorna
subito a chiamarlo e non lasciarlo l. Non fate niente, dissi io, lasciatelo l
piuttosto. E' un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa
dove, e di restare l dov'. Verr presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo
tranquillo. E va bene, facciamo cos, disse Agatone, se lo dici tu. Quanto a
noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel che vi
pare, quando non c' nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho mai
fatto nella mia vita. Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri
invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti. E cos,
disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non veniva. Agatone insisteva
tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo fermavo. Alla fine arriv,
diciamo verso la met del pranzo, senza essersi poi fatto troppo aspettare, come
spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da solo sull'ultimo divano, gli
disse subito. Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa apprendere
subito per contatto diretto i tuoi pensieri l nel vestibolo. A qualcosa devono
pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora l. Socrate si siede
e fa. Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero scivolare da chi
ne ha pi a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo accanto, tu ed io.
Come l'acqua che, attraverso un filo di lana, passa dalla coppa pi piena alla
pi vuota. Se cos, voglio subito mettermi
al tuo fianco, perch la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia
coppa. Che per la verit un po' cos,
incerta come un sogno, mentre la tua sapienza
limpida e pu sfavillare ancora di pi, lei che ha brillato con lo
splendore della tua giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a pi di
trentamila greci, che prendo tutti a miei testimony. Che fai, mi prendi in
giro, Socrate?, disse Agatone. Sulla saggezza faremo i conti pi tardi, te ed
io, e prenderemo Dioniso a nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare. E cos,
disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano. Dopo aver cenato, e gli altri
con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti in onore del dio e le
cerimonie d'uso, ci si prepar a bere. Fu Pausania, allora, a prendere la parola
per dire pi o meno cos. Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male?
Io, ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perch ho
bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera. Del resto voi dovreste
essere pi o meno tutti nelle mie condizioni, perch c'eravate anche voi ieri.
Allora, come possiamo fare per bere senza star male? Intervenne Aristofane. Ben
detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io vorrei andarci piano a bere
perch sono di quelli che ieri sera hanno forse un po' esagerato. A queste
parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il figlio di Acumeno. Avete
ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne dici, Agatone, hai ancora la
forza di bere? Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio. A quanto sembra,
disse Erissimaco, proprio una fortuna
per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che voi, i
migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perch noi non ce la faremmo a
starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate.
tanto bravo a bere che a non bere, per lui andr sempre bene, qualunque
cosa decidiamo. E, visto che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran
vino, forse riuscir a non essere sgradito a nessuno dicendovi la verit
sull'ubriachezza. Come medico devo subito dirvi che evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io
non mi sento portato a bere fuori misura, n a consigliare ad un altro di farlo,
soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima. Poi intervenne
Fedro, quello di Mirrinunte. Quanto a me, io ti credo sempre se parli di
medicina, ma oggi ti crederanno tutti, se non sono matti. Queste parole furono
ascoltate e all'unanimit si decise che non si sarebbe passata la serata ad
ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva. E dunque, riprese
Erissimaco, visto che siamo d'accordo che ciascuno beva quanto vuole, senza
nessun obbligo, io proporrei adesso di congedare la nostra giovane flautista
che appena entrata: per stasera suoni da
sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la serata
chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce l'avrei, se
volete ve la dico. Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a
Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo. Parler, per
cominciare, alla maniera della Melanippe di Euripide, perch non son mie queste
parole, che adesso vi dir, ma di Fedro, che
l. Lui mi dice sempre, tutto indignato. Non strano, Erissimaco, che per tutti gli altri
di vi siano inni e peana composti dai poeti e che in onore dellamore, un dio
cos potente, cos grande, non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che
abbia composto il pi piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama.
Scrivono in prosa l'elogio di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo
Prodico. Ma c' di peggio. Non mi
capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva
l'elogio del sale, per la sua utilit? Ed altre cose dello stesso genere, lo
sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si data molta pena di trattare di parecchi
argomenti, ma l'amore, lui non ha trovato ancora nessuno sino ad ora che abbia
avuto il coraggio di onorarlo come merita. Ecco come ci si dimentica di un
grande dio. Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia ragione. Desidero
dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo, facendo qualcosa
che gli sia gradito. Adesso quindi potremmo fare tutti un elogio di questo dio.
Se siete d'accordo, avremmo cos un argomento senza alcun dubbio davvero assai
interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo, cominciando da sinistra
verso destra, fare un elogio dell'amore, il pi bell'elogio di cui siamo capaci.
Fedro parla per primo, perch al primo
posto ed allo stesso tempo il padre di
quest'idea. Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voter contro la tua
proposta. Non sar io ad oppormi, che dichiaro subito di non saper nulla di
nulla, ma dell'amore son proprio esperto. Non Agatone o Pausania, e certo
neppure Aristofane, che trascorre tutto il suo tempo fra Dioniso e Afrodite, n
gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito pi difficile per noi che occupiamo gli ultimi
posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo faranno davvero bene, ne saremo
soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri auguri. che faccia l'elogio
dell'amore. Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di
Socrate. Aristodemo non si ricordava pi esattamente ci che ciascuno disse e io
stesso non ricordo pi bene ci che lui mi raccont. Le cose pi importanti, o quel
che a me sembrato pi degno di essere
ricordato, adesso ve lo riporter nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E cos,
secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro, cominciando il suo discorso pi
o meno in questi termini. E' un gran dio l'amore, un dio che merita tutta
l'ammirazione degli uomini e degli di per diverse ragioni, non ultima la sua
origine. E' annoverato tra i pi antichi di, e questo, aggiunse, un onore. Di questa antichit abbiamo una
prova. Lamore non ha n padre n madre, e nessuno, n in poesia n in prosa, glielo
ha mai attribuito. Esiodo ci dice che innanzitutto vi fu il Caos, e la Terra
dall'ampio seno, sicura sede per tutti i viventi e l'amore. E, in accordo con
Esiodo, anche Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la
Terra e l'amore. Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che di
tutti gli di, lamore fu il primo che la dea partor. Cos c' ampio accordo nel
dire che l'amore uno degli di pi
antichi. Essendo cos antico, per noi la
sorgente dei pi grandi beni. Per me, io lo affermo, non c' pi grande bene nella
giovinezza che avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in
chi si ama. Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli
uomini destinati a vivere nel bene non possono ispirarsi n alla nobilt della
nascita n agli onori n alla ricchezza, n a null'altro: devono ispirarsi
allamore. Ora, mi chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per lazione
cattiva, l'attrazione per lazione bella. Senza questo, nessuna citt, nessun
individuo potranno far mai nulla di grande e di buono. Cos, io lo dichiaro, un
amante, un uomo che ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione
malvagia o a subire per vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa,
soffre certamente se a scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque
altro. Ma soffrir molto di pi se a scoprirlo sar il suo amante, il suo amato.
Ed lo stesso per l'amato. davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene,
che lamato sente la pi grande vergogna, quando sar sorpreso a fare qualcosa di
cui vergognarsi. Se esistesse un mezzo per mettere insieme una citt o un
esercito fatti solo da amanti e dai loro amati, essi si darebbero certamente il
miglior governo che ci sia. Allontanerebbero infatti da loro tutto ci che cattivo e rivaleggerebbero sulla via dell'onore.
E se questi amanti combattessero l'uno di fianco all'altro potrebbero vincere,
per cos dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto un piccolo gruppo,
perch sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un amante innamorato sarebbe
pi intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi sotto gli occhi del suo
amato che sotto gli occhi del resto dell'esercito. Preferirebbe piuttosto
morire cento volte. Quanto ad abbandonare lamato chi si ama, a non aiutarlo in
caso di pericolo, nessuno cos vigliacco
che l'amore non riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli
che per natura hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero lamore viene a
ispirare l'ardore per la battaglia a certi eroi, cos l'amorefa questo dono agli
amanti innamorati, ed essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per
l'altro. Soltanto lamante accetta questo. La figlia di Pelia, Alcesti, ha dato
un esempio chiarissimo di ci che dico. Soltanto essa acconsent a morire per il
suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La sua figura si eleva cos in
alto su di loro per la forza nata dal suo amore da farli apparire estranei al
loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il nome. Avendo agito in
questo modo, il suo gesto sembrato
bellissimo, non solo agli uomini ma anche agli di. Essi concedono davvero a
pochi il privilegio di richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una
volta morti. Ebbene fra tanti eroi, autori delle pi belle azioni, concessero
questo privilegio proprio ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano
tanto ammirato. A tal punto gli di onorano la dedizione e il coraggio al
servizio dell'amore. Al contrario essi mandarono via dall'Ade Orfeo, figlio di
Eagro, senza ottenere nulla. Gli mostrarono soltanto un'immagine della donna
per la quale era venuto, senza concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava
loro debole, perch altri non era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il
coraggio di morire, come Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti
i mezzi di penetrare da vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa
ragione che essi gli hanno inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che
morisse per mano delle donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille, il
figlio di Teti. Lhanno trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati.
Achille infatti, avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso
Ettore, e sarebbe invece tornato a casa finendo i suoi giorni da vecchio se non
lo avesse fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo
amante, vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perch era gi stato
ucciso, ma di seguirlo sulla via della morte. Cos gli di, pieni di ammirazione,
gli hanno tributato onori eccezionali, per aver posto cos in alto il suo
amante. Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di Patroclo.
Achille era pi bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli altri eroi
messi insieme. Era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era quindi assai
pi giovane di Patroclo, come dice Omero. Cos se gli di onorano soprattutto
questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio dell'amore, essi
ammirano, stimano, ricompensano ancor di pi la tenerezza dell'amato per
l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante, infatti, pi vicino al dio dell'amato, perch un dio lo
possiede. Ecco perch gli di hanno onorato Achille, aprendogli la via per le
isole dei beati. Ecco dunque, io lo dichiaro, l'amore tra gli di il pi antico e il pi degno, ha i
maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della virt e della felicit, sia in
vita che nel regno dell'aldil. Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il
discorso di Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene.
Non me ne ha parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si
espresse in questi termini. Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto
quando ci si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'amore. Se dellamore ve
ne fosse uno solo, potrebbe anche andar bene. Ma non cos. Non ce n' uno soltanto, e allora bene prima spiegare di quale amore dobbiamo
tessere l'elogio. Cercher dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo
punto, di precisare innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncer
un elogio che sia degno di questo amore. Tutti sappiamo che non c' Venere senza
amore. Se dunque non vi fosse che una Venere, non vi sarebbe che un solo amore.
Ma Venere duplice, e quindi,
necessariamente, abbiamo due amori. Come negare che esistano due Venere? Una
Venere, senza dubbio la pi antica, non ha madre: figlia di Urano, e la chiamiamo quindi la dea
del cielo, Venere Urania. L'altra Venere, la pi giovane, figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi
la dea popolare, Venere Pandemia. E allora necessariamente l'amore che serve
Venere Pandemia dovr chiamarsi Amore Popolare (o volgare) Pandemio. Quellamore
che serve Venere Urania Amore Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli di. Ma,
detto questo, qual il dominio dei due
amori? E' questo che dobbiamo provare a dire. Ogni azione si caratterizza per
questo, che in s non n bella n brutta.
In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare, non c' nulla di
bello in s. piuttosto il modo in cui si
compie un'azione a dar questo o quel risultato, e cos seguendo la regola del
bello e della rettitudine un'azione con rettitudine diventa bella, al contrario
senza rettitudine lazione diventa brutta. E lo stesso avviene per l'atto o
lazione dellamore (lamore). Non tutto l'amore
bello e degno di elogio: lo
soltanto quello che porta allazione di amare bene, la azione dellamore e
bella. Ora l'amore volgare, compagno di Venere popolare, certo volgare e opera a casaccio: proprio degli uomini da poco. Questi uomo si
innamora di un ragazzo. Poi, lamante ama il corpo bello. Voglie arrivare dritto
al loro scopo. Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il
contrario. Come ovvio, questamore
volgare, delluomo volgare, si unisce alla pi giovane delle due dee, che sin dal
suo concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros,
invece, partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre estranea all'elemento femminile e partecipa
soltanto del maschile; e poi la pi
antica e non conosce alcun impulso brutale. Per questa ragione, luomo che e
ispirato dallamore volgare Eros e attrato dall'elemento maschile. Ama
teneramente il sesso per natura pi forte. E proprio da questa inclinazione ad
innamorarsi di un ragazzo si posse riconoscere quanto e posseduto con purezza
da questamore volgare, perch luomo volgare non ama i giovani prima che abbiano
dato prova d'intelligenza. Ora, questo
impossibile che accada prima che il giovane sia abbastanza grande da
avere la prima barba. E' questa l'et dellefebo in cui bene cominciare a rivolgere ad essi
attenzioni d'amore, per restare poi con loro per tutta la vita, per legare le
proprie esistenze, piuttosto che abusare della credulit di un giovane sciocco,
farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre dietro ad un altro. Ci vorrebbe
una legge che proibisse di amare un ragazzo troppo giovane. Cos non si
sprecherebbero tante cure per un risultato imprevedibile. Non infatti possibile prevedere che cosa ne sar
di un ragazzino, se avr vizi o virt nel corpo efebo. L'uomo che vale si pone
senza dubbio da s, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe anche che chi
coltiva lamore volgare abbia un limite. E proprio quest amante volgare,
infatti, che hanno screditato l'amore e dato a certuni il coraggio di dire
che una vergogna cedere ad un amante.
Chi dice questo, lo fa perch ha davanti agli occhi la mancanza di tatto e di
onest di questamante volgari, mentre nessun gesto al mondo merita d'essere
criticato quando la convenienza e la legge sono rispettate. Ancora di pi. La
regola di condotta, per quel che concerne l'amore, facile da comprendere nelle altre citt, perch
la sua definizione semplice. Nell'Elide,
presso i Beoti, e nelle altre citt in cui gluomini non sono abili nel far
grandi discorsi, la regola ammessa
semplice. un bene cedere
allamante e nessuno dir mai che c' da vergognarsi. Il fine di evitare l'imbarazzo di dover convincere il
giovane con la parola, perch non e gran parlatore. Nella Ionia, al contrario, e
in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene.Sono paesi
dominati dai barbari. Presso i barbari, infatti, a causa dei loro regimi
tirannici, il giudizio comune che ci sia
da vergognarsi a cedere a un amante. Lo stesso giudizio si d per l'amore per
l'esercizio fisico. Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi
intelligenze tra i sudditi, e neppure una grande amicizia saldamente unita,
come in effetti l'amore, pi di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo
hanno fatto esperienza anche i tiranni qui da noi. Lamore di Aristogitone e
l'amicizia di Armodio, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Cos l
dove si ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa
convinzione nata dalla debolezza morale
delluomo: desiderio di dominio presso i capi, vigliaccheria presso i sudditi. L
invece dove la regola ammette in tutta semplicit che cosa buona, essa nata per la pigrizia dell'animo di quelluomo.
Presso di noi la regola molto pi bella
e, come ho detto, non facile da
comprendere. C' da rifletterci, in effetti.
pi bello, si dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e
soprattutto amare il giovane di nascita migliore e di meriti pi alti, anche se
meno belli di altri; di pi, chi
innamorato straordinariamente
incoraggiato da tutti, e nessuno pensa che faccia qualcosa di cui vergognarsi:
il successo il suo onore, lo scacco la sua vergogna. E nei tentativi di conquista
la regola elogia lamante per delle stravaganze che esporrebbero alle critiche
pi severe chiunque osasse comportarsi cos per altri scopi. Supponiamo infatti
che uno voglia ottenere del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una
magistratura, o una qualsiasi funzione importante. Se accetta di fare ci che
fanno lamante per il suo amato - assillarli con preghiere e suppliche,
pronunciare grandi giuramenti, dormire dietro le loro porte, abbassarsi
volontariamente ad ogni sorta di schiavit che nessuno schiavo accetterebbe di
buon grado - ebbene tutto questo gli e impedito sia dai suoi amici che dai suoi
nemici. Lamico gli rimprovera la sua adulazione e la sua bassezza; il nemico lo
fa ragionare e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per
l'innamorato e la nostra regola non le critica affatto. E qualcosa che si sta
ad ammirare. E la cosa pi strana , secondo il detto popolare, che lui solo pu
giurare e ottenere grazia davanti agli di se tradisce i suoi giuramenti.
Dinanzi a Venere, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Cos luomini danno
allinnamorato una libert totale: lo dice la nostra regola. E questo porta a
pensare che la regola nella nostra citt giudichi cose perfette il bello e
l'amore, e l'amicizia che ricompensa lamante. Ma quando d'altra parte un padri
fa sorvegliare da un pedagogho il suo figliolo innamorato, in modo che non
possa parlar d'amore con il suo amante. Quando i giovani della loro et, i loro
amici, li rimproverano per il loro amore. Quando gli adulti non si oppongono a
queste critiche e non le biasimano come fuori luogo. Allora se si considera
tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo di amore goda
presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda
non per nulla semplice, come ho gi detto
all'inizio. In se stessa non n bella n
brutta. E' bella se lazione damar bene rettamente e bella, brutta se lazione damare male sono brutte. E'
cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per un cattivo motivo. cosa bella cedere ad un uomo di valore e per
un bel motivo. Ora chi si comporta male , come prima dicevo, l'amante volgare,
che ama il corpo bello. Non ha costanza, perch l'oggetto del suo amore il corpo bello -- incostante. All'affievolirsi del bello del
corpo che ama, "s'invola e va via", e tradisce senza vergogna alcuna
tante belle parole, tante promesse. Ma luomo chi ama il carattere di una
persona per le sue alte qualit, resta fedele tutta la vita perch il suo amore
riposa su qualcosa di costante. La nostra regola si propone di mettere luomo
alla prova della seriet e dell'onest, perch si ceda aluomo che valgono e si
fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il cedere e il
fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che natura sia l'amante.
Su questo si fonda evidentemente la massima: a cedere subito c' da vergognarsi.
Pi tempo passa, infatti, pi si ha la prova, sembra, della seriet dell'amore.
Una seconda massima, poi, dice che c' da vergognarsi a cedere per denaro o per
averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione
decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le
lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ci ha l'aria
d'essere solido e stabile, e dunque non pu venirne alcuna generosa amicizia.
Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una sola via onesta perch
l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola la seguente. Come tra gli amanti non c' nulla
di umiliante nel far di se stessi degli schiavi consenzienti, secondo quella
forma di schiavit che prima dicevo, e non c' il rischio di essere criticati,
nello stesso modo rimane una sola altra forma di schiavit volontaria che sfugga
a ogni critica: quella che ha la virt come proprio oggetto. La nostra regola
infatti dice questo, che se si accetta di essere al servizio di un altro
pensando di diventare migliori grazie a lui, in la virt, questa servit
liberamente accolta non ha niente di cattivo e non umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola
regola, che riguarda l'amore delluomo verso i ragazzo. Vogliamo che si abbia un
bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le vie dell'amante e
dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa regola, il primo di
rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la giustizia, il secondo
di dare all'uomo che cerca di farlo diventare buono tutte le forme di
assistenza compatibili con la giustizia. Luno potendo contribuire a dare la
virt, l'altro avendo bisogno di progredire nell'educazione, allora in verit
quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa coincidenza
fa s che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti, da escludere. Nel bene, anche se chi
cede completamente vittima della situazione,
non c' alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia vittime o meno,
c' di che vergognarsi. Infatti se c' qualcuno che per arricchirsi ha ceduto a
un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non ottiene nulla, perch il
suo amante si rivela povero, la cosa rimane riprovevole anche se si una vittima. Un simile uomo sembra mostrare
il fondo della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e
questo non affatto bello. Secondo lo
stesso ragionamento, se si cede a qualcuno credendolo pieno di qualit e
pensando di diventare migliori legandosi a questo amante, e se in seguito ci si
trova ingannati scoprendo la sua malvagit, quanto sia povero nella virt, ebbene
chi stato ingannato non ha nulla di cui
vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualit
dell'anima. La virt e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono l'oggetto
della propria passione - e questa la
cosa pi bella che ci sia. Quindi
bellissimo cedere, quando si cede per la virt. Questamore viene da
Venere Urania, ed davvero divino e
prezioso per la citt come per luomo, perch esige dall'amante e dall'amato che
entrambi veglino su se stessi, per essere ricchi di virt. Quanto agli altri,
essi rivelano il legame con l'altra dea, la Venere volgare. Ecco, mio caro
Fedro: io non ho fatto che improvvisare;
questo il mio tributo per lamore. Dopo la pausa di Pausania - uso questo
gioco di parole sullo stile dei maestri della parola - era venuto il turno di
Aristofane. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche
altra ragione, avesse il singhiozzo e non riuscisse a parlare. Chiese allora a
Erissimaco di parlare lui al posto suo. Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il
mio singhiozzo, o che tu parli al mio posto in attesa che mi passi. E va bene,
rispose Erissimaco, far l'uno e l'altro. Parler al tuo posto e tu parlerai al
mio quanto ti sar passato il singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il
respiro il tuo singhiozzo si decider ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi
con dell'acqua. E se non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il
naso e starnutire. Se lo farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo
singhiozzo, se ne andr. A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguir i
tuoi consigli. Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo che dopo un
buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del soggetto
trattato, ed quindi necessario che io
cerchi, da parte mia, di completare il suo discorso. La tua distinzione tra i
due tipi di amore mi sembra eccellente. Ma essa non riguarda soltanto luomini
nei loro rapporti con le persone belle. Riguarda anche i rapporti tra altri
oggetti d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o
delle piante che la terra nutre: in una parola, riguarda tutti gli esseri
viventi. La medicina, la nostra arte, credo mi consenta questa osservazione.
Essa permette di vedere che lamore un
grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su tutto, sia
nell'ordine dell'umano che del divino. Comincer dalla medicina, per fare onore
alla mia arte. La natura dei corpi comporta un duplice amore. Ci che sano nel corpo ben diverso e dissimile da ci che malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il
dissimile ama e desidera il dissimile. L'amore che proprio della parte sana dunque diverso dall'amore che proprio della parte malata. Dunque, proprio
come Pausania diceva che cosa bella
accordare i propri favori agli uomini che se lo meritano ed cosa brutta cedere ai dissoluti, cos quando
si tratta dei corpi stessi favorire ci che vi
di buono e di sano in ciascuno
cosa bella e necessaria, ed
questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna rifiutarsi di favorire ci
che malvagio e malsano, se si vogliono
seguire le regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una
parola, la scienza dei fenomeni d'amore
propri dei corpi, nei loro rapporti con il riempirsi e il vuotarsi, e chi da
questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il cattivo amore, ebbene
questi il miglior medico. Chi sa operare
dei cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi
sa far nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando di troppo; ebbene costui davvero padrone di quest'arte. Senza alcun
dubbio. Il medico deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore
tra gli elementi del corpo che pi si odiano. Ora, gli elementi che pi si odiano
sono quelli contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e
l'umido, e cos via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra
questi elementi che il nostro antico padre Asclepio - a quel che dicono i
nostri poeti, e io lo credo - il
fondatore della nostra arte. La medicina
dunque, come dicevo, tutta quanta governata da questo dio. E questo vale
anche per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto alla musica, non occorre
una grande riflessione per vedere che la
stessa cosa. Senza dubbio questo che
vuol dire Eraclito, bench la sua espressione non sia felice. Egli dichiara
infatti che luno in s discorde con se stesso si accorda, come l'armonia
dell'arco e della lira.Ora, molto
illogico affermare che l'armonia consiste in una opposizione o che essa composta da elementi che si oppongono ancora.
Ma egli voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra
l'acuto e il grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si
realizza grazie alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si
opponessero ancora, non si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia
infatti una consonanza, e una
consonanza una sorta di accordo. Ora,
l'accordo di elementi opposti, se permangono opposti, impossibile, e d'altro canto non pu esserci
armonia tra ci che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce
dal rapido e dal lento, cio da elementi all'inizio opposti che in seguito si
accordano. E come prima la medicina, adesso
la musica che introduce l'accordo tra tutti questi elementi, creando
amore reciproco e accordo. E dunque la musica
essa stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei
fenomeni dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i
fenomeni dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perch
non vi sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e
armonie, sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia
servendosi a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da
altri (in quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa
difficile e si ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora
tornare il discorso di prima: se bisogna cedere, bene farlo con uomini dai costumi ben
regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualit;
l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi
all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro quello di Polimnia, l'Eros Pandemio57, che
bisogna offrire con prudenza a chi viene ad offrirlo a noi, in modo da trarne
piacere senza strafare; come nella
nostra arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona
cucina, per imparare a goderne senza ammalarsi. Cos dunque in musica, in
medicina, in tutto l'ordine delle cose divine e umane, necessario proteggere nella misura del
possibile l'uno e l'altro amore, poich vi si trovano entrambi. Anche l'ordine
delle stagioni dell'anno riempito da
questi due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il
freddo, il secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben
regolato, essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano
l'abbondanza e la sanit agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare
alcun danno58. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura,
rovina ogni cosa ed causa di grandi
disastri. La pestilenza, infatti, ha origine da questi fenomeni e cos le pi
varie malattie che aggrediscono animali e piante: gelo, grandine, i mali delle
piante, provengono dal desiderio senza limiti e misura nelle relazioni reciproche
fra questi fenomeni, governate dall'amore. C' una scienza che tratta nello
stesso tempo del movimento degli astri e delle stagioni dell'anno: si chiama
astronomia. Tutti i sacrifici, poi, e tutto ci che ha a che fare con la
divinazione (cio tutto ci che mette in comunicazione gli di e gli uomini) non
hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empiet
nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal
non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei
rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli di.
Questo il compito assegnato alla
divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli. Ed ancora lei, la divinazione, che permette
l'amicizia tra gli di e gli uomini, perch essa conosce, nell'ordine degli
umani, quei fenomeni d'amore che tendono al rispetto degli di e alla
piet.Questa la molteplice, l'immensa o
piuttosto l'universale potenza che
propria dell'Eros. E' lui ad agire, con moderazione e giustizia, per
produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli di, con la pi grande
potenza: ci procura ogni felicit e ci rende capaci di vivere in societ, di
legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed anche con quegli esseri
a noi superiori, gli di. Anch'io, senza dubbio, ho tralasciato alcune cose nel
mio elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche
punto, spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Per, se ti proponi di
lodare il dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'
andato."Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola. Il
fatto che se n' s andato, ma ho dovuto
proprio applicare il tuo rimedio e starnutire. Non strano che il buon ordine del mio corpo abbia
bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, per, che il
singhiozzo passato appena ho starnutito.
Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci fai ridere prendendomi
in giro un attimo prima di fare il tuo discorso? Cos mi costringi a sorvegliare
bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando puoi
parlare in tutta tranquillit. Aristofane si mise a ridere e disse. Hai ragione
Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi sorvegliare. Nel discorso che far, infatti,
dovr dire non poche cose che faranno un po' ridere - e questo un vantaggio, perch cos la mia Musa si trover
su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso in giro!
Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina, poi te ne vuoi scappare,
non vero? Ma t'avverto, parla piuttosto
come un uomo che deve rendere conto di quel che dice! Sta' tranquillo, per, da
parte mia ti far grazia, ma solo se vorr!"Discorso di Aristofane "A
dir la verit, Erissimaco - disse Aristofane -, ho intenzione di parlare diversamente
da te e da Pausania. Infatti mi sembra che gli uomini non si rendano
assolutamente conto della potenza dell'amore. Se se ne rendessero conto,
certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e dei pi magnifici,
e gli offrirebbero i pi splendidi sacrifici. Non sarebbe affatto come oggi,quando nessuno di questi omaggi gli
viene reso. E invece niente sarebbe pi importante, perch il dio pi amico degli uomini: viene in loro
soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione forse per gli uomini la pi grande felicit.
Dunque cercher di mostrarvi la sua potenza, cos potrete essere maestri a vostra
volta. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie umana e
quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati62, infatti, la nostra
natura non era quella che oggi, ma molto
differente. Allora c'erano tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il
maschio e la femmine. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri
degli altri. Il nome si conservato sino
a noi, ma il genere, quello scomparso.
Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche
sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono pi persone di questo
genere.Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole.Questi
ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso e i fianchi formavano un
insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani, quattro gambe, due volti su un
collo perfettamente rotondo, ai due lati dell'unica testa. Avevano quattro
orecchie, due organi per la generazione, e il resto come potete immaginare. Si
muovevano camminando in posizione eretta, come noi63, nel senso che volevano. E
quando si mettevano a correre, facevano un po' come gli acrobati che gettano in
aria le gambe e fan le capriole: avendo otto arti su cui far leva, avanzavano
rapidamente facendo la ruota. La ragione per cui c'erano tre generi questa, che il maschio aveva la sua origine
dal Sole, la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi
dalla Luna, visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La
loro forma e il loro modo di muoversi era circolare, proprio perch somigliavano
ai loro genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e
vigorosi e il loro orgoglio era immenso. Cos attaccarono gli di e quel che
narra Omero di Efialte e di Oto, riguarda anche gli uomini di quei tempi:
tentarono di dar la scalata al cielo, per combattere gli di.Allora Zeus e gli
altri di si domandarono quale partito prendere. Erano infatti in grave
imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e distruggerne la specie con i
fulmini come avevano fatto con i Giganti, perch questo avrebbe significato
perdere completamente gli onori e le offerte che venivano loro dagli uomini; ma
neppure potevano tollerare oltre la loro arroganza. Dopo aver laboriosamente
riflettuto, Zeus ebbe un'idea. lo credo - disse - che abbiamo un mezzo per far
s che la specie umana sopravviva e allo stesso tempo che rinunci alla propria
arroganza: dobbiamo renderli pi deboli. Adesso - disse - io taglier ciascuno di
essi in due, cos ciascuna delle due parti sar pi debole. Ne avremo anche un
altro vantaggio, che il loro numero sar pi grande. Essi si muoveranno dritti su
due gambe, ma se si mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare
tranquilli, ebbene io li taglier ancora in due, in modo che andranno su una
gamba sola, come nel gioco degli otri. Detto questo, si mise a tagliare gli
uomini in due, come si tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un
uovo con un filo. Quando ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli
il viso e la met del collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini,
avendo sempre sotto gli occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero pi
tranquilli, e gli chiedeva anche di guarire il resto66. Apollo voltava allora
il viso e, raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo
ventre, come si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del
ventre non lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico.
Quanto alle pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto
con uno strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del
cuoio. Lasciava per qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e
dell'ombelico, come ricordo della punizione subita.Quando dunque gli uomini
primitivi furono cos tagliati in due, ciascuna delle due parti desiderava
ricongiungersi all'altra. Si abbracciavano, si stringevano l'un l'altra,
desiderando null'altro che di formare un solo essere. E cos morivano di fame e
d'inazione, perch ciascuna parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando
una delle due met moriva, e l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava
un'altra e le si stringeva addosso - sia che incontrasse l'altra met di genere
femminile, cio quella che noi oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse
una di genere maschile. E cos la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da
piet, ricorse a un nuovo espediente. Spost sul davanti gli organi della
generazione. Fino ad allora infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna,
e generavano e si riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le
cicale. Zeus trasport dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul
davanti, e fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra
loro, l'uomo con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia,
se un uomo avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la
specie si sarebbe cos riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un
maschio, essi avrebbero raggiunto presto la saziet nel loro rapporto, si
sarebbero calmati e sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo cos ai
bisogni della loro esistenza. E cos evidentemente sin da quei tempi lontani in
noi uomini innato il desiderio d'amore
gli uni per gli altri, per riformare l'unit della nostra antica natura, facendo
di due esseri uno solo: cos potr guarire la natura dell'uomo. Dunque ciascuno
di noi una frazione68 dell'essere umano
completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le complementare, perch quell'unico essere stato tagliato in due, come le sogliole69. E'
per questo che ciascuno alla ricerca
continua della sua parte complementare. Stando cos le cose, tutti quei maschi
che derivano da quel composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si
innamorano delle donne, e tra loro ci sono la maggior parte degli adulteri;
nello stesso modo, le donne che si innamorano dei maschi e le adultere
provengono da questa specie; ma le donne che derivano dall'essere completo di
sesso femminile, ebbene queste non si interessano affatto dei maschi: la loro
inclinazione le porta piuttosto verso le altre donne ed da questa specie che derivano le lesbiche. I
maschi, infine, che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i
maschi. Sin da giovani, poich sono una frazione del maschio primitivo, si
innamorano degli uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro
braccia. Si tratta dei migliori tra i bambini e i ragazzi, perch per natura
sono pi virili. Alcuni dicono, certo, che sono degli spudorati, ma falso. Non si tratta infatti per niente di
mancanza di pudore: no, i loro ardore,
la loro virilit, il loro valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed
eccone una prova: una volta cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a
mostrarsi davvero molto bravi nelloccuparsi di politica. Da adulto, ama il
ragazzo. Il matrimonio e la paternit non li interessano affatto - la loro natura; solo che le consuetudini li
costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero ben lieti di passare la
loro vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosi ffatto
desidera un ragazzo e li ama teneramente, perch
attratto sempre dalla specie di cui
parte. Questuomo - ma lo stesso, per la verit, possiamo dire di chiunque
- quando incontrano l'altra met di se stesse da cui sono state separate, allora
sono prese da una straordinaria emozione, colpite dal sentimento di amicizia
che provano, dall'affinit con l'altra persona, se ne innamorano e non sanno pi
vivere senza di lei - per cos dire - nemmeno un istante. E queste persone che
passano la loro vita gli uni accanto agli altri non saprebbero nemmeno dire
cosa desiderano l'uno dall'altro. Non
possibile pensare che si tratti solo delle gioie del far l'amore: non
possiamo immaginare che l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro
felicit e la sola forza che li spinge a vivere fianco a fianco. C'
qualcos'altro: evidentemente la loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa
esprimere, ma che intuisce con immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si
presentasse davanti a loro con i suoi strumenti di lavoro e chiedesse:
"Che cosa volete l'uno dall'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo,
domandasse ancora: Il vostro desiderio non
forse di essere una sola persona, tanto quanto possibile, in modo da non essere costretti a
separarvi n di giorno n di notte? Se questo
il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un solo essere, in
modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come una persona
sola. Anche dopo la vostra morte, laggi nell'Ade, voi non sarete pi due, ma
uno, e la morte sar comune. Ecco: questo
che desiderate? questo che pu rendervi
felici? A queste parole nessuno di loro - noi lo sappiamo - dir di no e nessuno
mostrer di volere qualcos'altro. Ciascuno pensa semplicemente che il dio ha
espresso ci che da lungo tempo senza dubbio desiderava: riunirsi e fondersi con
l'amato. Non pi due, ma un essere solo. La ragione questa, che la nostra natura originaria come lho descritta. Noi formiamo un tutto: il
desiderio di questo tutto e la sua ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho
detto, eravamo una persona sola; ma adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha
separati in due persone, come gli Arcadi lo sono stati dagli Spartani77. Dobbiamo
dunque temere, se non rispettiamo i nostri doveri verso gli di, di essere
ancora una volta dimezzati, e costretti poi a camminare come i personaggi che
si vedono raffigurati nei bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la
linea del naso, ridotti come dadi a met. Ecco perch dobbiamo sempre esortare
gli uomini al rispetto degli di: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma
anche per ottenere le gioie dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e
nostro capo. A lui nessuno resista - perch chi resiste all'amore inviso agli di. Se diverremo amici di questo
dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a scoprire
l'anima nostra met, cosa che adesso capita a ben pochi. E che Erissimaco non insinui,
giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a Pausania e Agatone: loro due
ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono di natura virile. Io per
parlo in generale degli uomini dichiaro che la nostra specie pu essere felice
se segue Eros sino al suo fine, cos che ciascuno incontri l'anima sua met,
recuperando l'integrale natura di un tempo. Se questo stato il pi perfetto, allora per forza nella
situazione in cui ci troviamo oggi la cosa migliore tentare di avvicinarci il pi possibile alla
perfezione: incontrare l'anima a noi pi affine, e innamorarcene. Se dunque
vogliamo elogiare con un inno il dio che ci pu far felici, ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto:
ad Eros, che nella nostra infelicit attuale ci viene in aiuto facendoci
innamorare della persona che ci pi
affine; ad Eros, che per l'avvenire pu aprirci alle pi grandi speranze. Sar lui
che, se seguiremo gli di, ci riporter alla nostra natura d'un tempo: egli
promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicit. Ecco,
Erissimaco, questo il mio discorso in
onore di Eros. T'ho gi pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto.
Dobbiamo ancora ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli
che restano, Agatone e Socrate."Erissimaco, rifer Aristodemo, rispose
cos:"S s, far proprio come dici tu, perch il tuo discorso mi piaciuto molto e anzi, se non sapessi che
Socrate e Agatone sono gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi
che siano a corto di argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho
piena fiducia in loro".E Socrate allora disse. Dici cos perch hai gi fatto
la tua parte, Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il
discorso di Agatone - che ti figuri se non sar bellissimo -, avresti una gran
paura e saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento"."Non
mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi farmi tremare all'idea che
il nostro pubblico sar attentissimo e si aspetta da me un discorso stupendo. Ma
Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di tutte le volte che ti ho
visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre ti rivolgevi ad un gran
pubblico per presentare una tua opera? Non eri per niente emozionato, affatto,e
adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi, che siamo cos
pochi?""Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero, cos
innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon senso
poche persone intelligenti sono pi da temere di una folla
ignorante?""Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone,
rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene,
invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dai loro molta pi importanza che
alla folla. Per non credo affatto che noi siamo saggi. Perch c'eravamo anche
noi tra il pubblico, l tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei saggi
veri, ti vergogneresti,senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far qualcosa
di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?""E' vero",
rispose."Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi di fare
qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?"Fedro a questo punto prese la
parola e disse:"Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importer
proprio nulla se la conversazione prender una piega o l'altra, perch a lui
basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se un bel ragazzo. Ora, a me piace moltissimo
ascoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo proprio occuparci
dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi: i nostri
discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi tornerete a chiacchierare
tra voi". Discorso di Agatone"Hai proprio ragione, Fedro, disse
Agatone, e in effetti niente mi impedisce di rimandare la risposta perch avr
ancora ben l'occasione di chiacchierare con Socrate! C' tempo.Voglio dirvi
subito come intendo condurre il mio discorso, prima di cominciare. Tutti coloro
che hanno gi parlato non hanno per nulla, mi sembra, fatto l'elogio del dio.
Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che gli devono, ma chi egli sia
esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco questo nessuno l'ha detto.
Ora, il solo modo corretto per fare un elogio, qualunque sia l'argomento, quello di spiegare la natura dell'oggetto del
discorso e la natura di ci di cui
responsabile. E cos dobbiamo procedere anche noi nell'elogio dell'Eros:
mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i doni che ci ha fatto.Dichiaro
dunque che tra tutti gli di, esseri felici, Eros - mi sia permesso dirlo senza
risvegliare la loro gelosia - il pi
felice, perch il pi bello e il migliore.
E' il pi bello perch questa la sua
natura. Infatti, mio caro Fedro, il pi
giovane tra gli di. Una grande prova dimostra che quel che dico vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge la
vecchiaia, che rapida, si sa, e ci
sorprende prima di quanto dovrebbe. L'Eros,
chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma sempre in compagnia della giovinezza, le
resta vicino. Ha ragione il vecchio detto: "Il simile cerca il
simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma non trovo giusto dire che
Eros sia pi antico di Cronos e di Giapeto. Io dichiaro, al contrario, che il pi giovane tra gli di, che sempre giovane e che le vecchie lotte tra gli
di di cui parlano Esiodo e Parmenide sono figlie della Necessit, ma non di
Eros, se questi poeti hanno detto il vero. Infatti gli di non si sarebbero
mutilati l'un l'altro, non si sarebbero messi in ceppi n fatto tanta violenza
se l'Eros fosse stato tra loro. Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la
pace, come adesso, nel tempo in cui sugli di l'Eros stende il suo dominio.
Dunque, l'Eros giovane, e non
soltanto giovane ma anche delicato. A
lui mancato un poeta, un Omero, che ne
sapesse far vedere la delicatezza. Omero dice di Ate che essa una dea e allo stesso tempo che delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi.
Dice: "Son delicati i suoi piedi e non sfiorano il suolo, ella avanza
sfiorando le teste degli uomini". Un chiaro indice della sua delicatezza,
ai miei occhi: la dea non posa i piedi sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo
anche noi a proposito dell'Eros lo stesso indizio per affermare che delicato: non cammina infatti sulla terra, n
sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ci che pi tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito
la sua dimora nel cuore e nell'anima degli uomini e degli di. Ma non senza
distinzione in tutte le anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro,
fugge via e va ad abitare in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a
contatto, coi piedi e con tutto il suo essere, con ci che tra tutte le cose
tenere pi tenero, ed quindi assai delicato, necessariamente. Ecco
dunque, l'Eros il pi giovane e il pi
delicato degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilit della sua
forma, perch non potrebbe andare dappertutto n passare inosservato quando
penetra nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della
duttilit della sua natura, ebbene di questo la sua grazia ne d una prova
eclatante, quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perch tra
l'aspetto sgraziato e l'Eros la reciproca ostilit c' da sempre. E che dire
della bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ci che non
fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa,
Eros non si posa: ma l dove i fiori e i profumi abbondano, l si posa, l sceglie
la sua casa. Sulla bellezza del dio basta cos, anche se davvero resta ancora
molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virt. Ecco la pi importante:
Eros non fa n subisce ingiustizia, non fa torto a nessuno, uomo o dio, e non ne
subisce da nessuno, n uomo n dio. La violenza non ha alcuna parte in ci che
subisce, ammesso che subisca qualcosa, perch la violenza non ha presa
sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perch tutti in tutto si
mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di buon grado
sono chiamati giusti dalle leggi, le regine della citt86.E con la giustizia
ecco la pi grande temperanza. La temperanza, si sa, dominare piaceri e desideri. Ora, non c'
piacere pi grande dell'Eros: gli altri piaceri sono pi deboli e possono essere
dominati dall'Eros; dominando piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere
temperante in massimo grado.Quanto al coraggio, Ares stesso non pu lottare
contro Eros. Infatti non Ares che domina
su Eros, ma Eros possiede Ares, se vero
che innamorato di Afrodite, come dicono.
Ora colui che si impadronisce di qualcuno,
pi forte di lui e chi riesce a possedere un altro che pieno di coraggio deve avere ancora pi
coraggio di lui.Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del
coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo
proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poich desidero onorare la mia
arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dir che il dio poeta cos sapiente che rende poeti gli altri,
a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta quando lEros lo possiede, anche se
prima non conosceva le Muse. Questo fatto,
chiaro, deve essere per noi una prova che Eros abilissimo in tutte le arti governate dalle
Muse. Infatti ci che non si ha, o non si sa, non lo si pu certo dare o
insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione degli esseri viventi, di
tutti, chi oser negare che l'Eros possiede una scienza grazie a cui nascono e
crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra parte la pratica delle arti: non sappiamo
forse che l'uomo che ha avuto questo dio come maestro diviene celebre e
illustre mentre quello che Eros non ha nemmeno sfiorato non ha alcun successo?
E certo: il tiro con l'arco, la medicina, la divinazione sono delle abilit che
Apollo deve al desiderio e all'amore che lo guida; cos questo dio pu dirsi
discepolo dell'Eros, come le Muse lo sono per le arti che portano il loro nome,
Efesto per l'arte di forgiare i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine
per il governo degli di e degli uomini. Cos tutti i conflitti tra gli di si
sono appianati all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per il bello, certo,
perch Eros non si lega mai a ci che
brutto. Ma prima di questo, come ho detto all'inizio, ogni specie di
orribili eventi erano accaduti tra gli di, secondo quanto narrano le antiche
storie, perch regnava la Necessit. Quando poi nacque questo dio, dall'amore per
le cose belle nacque ogni bene, per gli di come per gli uomini. Ecco perch, mio
caro Fedro, posso dire che l'Eros pieno
del bello, e bont al pi alto grado ed
quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei pi alti beni. Vorrei dirlo in
versi, questo: Eros il dio che d la pace
agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore. E' lui
a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di tutti i conviti, come il
nostro adesso, il fondatore; nelle
feste, nei cori, nei sacrifici, lui a
farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di
ogni bene, non sa cosa sia la malvagit, propizio ai buoni, esempio ai saggi,
ammirato dagli di, cercato da chi non ha
amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Volutt, le
Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione
verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel
desiderio, nel discorso, egli sempre l,
pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza.
E' l'onore di tutti gli di, di tutti gli uomini; la guida pi bella, la migliore, e ogni uomo
deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui
quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli di e di tutti gli uomini.Ecco
il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta al dio! La lieta
fantasia e la grave seriet vi hanno avuto ciascuna la sua parte94, bilanciate
come meglio stato in mio potere fare.
Quando Agatone ebbe finito di parlare tutti applaudirono perch si era espresso
da par suo, in modo davvero degno del dio Eros. Allora Socrate si volt verso
Erissimaco e gli disse. Erissimaco, figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione?
Non ho parlato in modo profetico prima, quando ho detto che Agatone avrebbe
parlato divinamente e io, dopo, sarei stato in imbarazzo?""Sul primo
punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che
Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo
credo proprio.""E come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco,
- riprese Socrate - dovendo parlare dopo un discorso cos bello, cos seducente!
Non stato tutto perfetto, questo vero; ma nella conclusione chi pu non esser
stato preso dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito
incapace di avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho
anche pensato di sgattaiolare via senza dir nulla. Ma non possibile farlo. Il discorso di Agatone mi ha
ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho quasi
creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa di
Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi diventare
muto95. Ho capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho
promesso di fare anch'io, al mio turno, lelogio di Eros, e quando ho detto di
essere ben esperto delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non
sapere affatto fare un elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si
dovesse dire la verit sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse
fondamentale: che bisognasse scegliere le verit pi belle e disporle nell'ordine
pi elegante. Ero, naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene:
non conoscevo forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho
sentito, il metodo corretto di fare un elogio non questo: bisogna piuttosto attribuire
all'oggetto del proprio discorso le pi grandi e le pi belle qualit - che le
abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro
accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel
che . Ecco perch, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros
ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza
delle sue opere: voi volete cos farlo apparire il pi bello e il pi buono
possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo una bella cosa un elogio simile. Ma io
ignoravo evidentemente questo modo di far le lodi, e siccome lo ignoravo,
promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: ma la lingua promise,
non certo il mio cuore97. Dunque, addio alla mia promessa! Io un elogio cos non
ve lo faccio, non ne sono capace. Per, a condizione di dir solo la verit, se lo
desiderate io accetto di prendere la parola, alla mia maniera e senza
rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perch non ho nessuna
intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c' ancora bisogno di un
discorso di questo genere, che lasci intendere la verit su Eros - ma con le
parole e lo stile che mi verranno al momento.Allora - disse Aristodemo - Fedro
e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di dover fare."Ancora un
momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad
Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il
mio discorso.""Ti lascio fare - disse Fedro -; domanda pure."E
cos - disse Aristodemo - Socrate cominci pressappoco con queste
parole:"Per la verit, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la
via dichiarando che bisognava innanzitutto mostrare qual la natura dell'amore e come agisce: io trovo
questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, per, ti prego; dopo tutto
quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a
questa domanda: nella natura dell'Eros
essere amore di qualche cosa, oppure di niente? Io non ti domando se la sua
natura di essere amore per una madre o
un padre, perch sarebbe comico domandare se l'Eros una forma d'amore che si rivolge a una madre
o a un padre. Ma se, a proposito del padre in quanto padre io domandassi: il
padre padre di qualcuno o no?,tu mi
risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona risposta - che il
padre padre di un figlio, o di una
figlia. Non
vero?""Certo", disse Agatone."E non dirai la stessa
cosa della madre?" - Agatone ne convenne."Rispondi ancora - disse
Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio arrivare. Se io
domandassi: Il fratello, in quanto fratello,
fratello di qualcuno o no?Rispose che lo era."Dunque fratello di un fratello o di una
sorella?" - Agatone fu d'accordo."Prova allora - riprese Socrate - a
far la stessa domanda per l'Eros: Eros
amore di niente o di qualcosa?""Di qualcosa,
evidentemente". "Tieni bene a mente questo carattere dell'Eros,
allora, e dimmi ancora se egli desidera ci che ama". "Lo desidera certamente",
disse."Quando possiede ci che desidera,
allora che l'ama, o quando non lo possiede?""Quando non lo
possiede: probabile che sia cos" -
disse. "Ma pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non una certezza: non dobbiamo forse dire che
desidera ci che non possiede, e che non desidera affatto ci che possiede gi?
Per me, mio caro Agatone, questo
chiarissimo. Tu che ne pensi?""Sono dello stesso avviso",
disse."E fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che grande potr forse desiderare di esser grande?
O di esser forte se forte?""E
impossibile, visto quel che abbiamo detto.""Non potrebbe infatti
mancare di queste qualit, poich ce le ha.""E cos.""Per
supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo
agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona
salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualit e tutte
quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle
ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi,
Agatone, necessario che essi abbiano, al
momento, ciascuna delle qualit che hanno, che le vogliano o meno: com'
possibile desiderare ci che si ha gi? Ma se qualcuno ci dicesse Io sono adesso
in buona salute, e desidero esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo,
desidero possedere quel che gi possiedo, allora noi gli risponderemmo: Tu hai
la ricchezza, la salute, la forza; quel che desideri, di averle ancora in futuro, perch per il
presente, che tu lo voglia o no, le hai gi. Dunque quando dici: io desidero ci
che adesso ho gi, queste parole significano semplicemente: ci che io ho adesso,
desidero averlo anche per l'avvenire. Sei d'accordo, non vero?Agatone - disse Aristodemo - lo
riconobbe, e Socrate prosegu: "Se tutto questo vero, desiderare le cose che non si hanno
ancora, che non si possiedono, non forse
volere per l'avvenire che queste cose ci siano
conservate?""Certo", disse. "Quindi l'uomo che si trova in
questa situazione, e cio chiunque provi un desiderio, desidera ci che non ha
ancora e che non nel presente. E ci che
egli non ha, ci che egli stesso non , quel che gli manca, insomma, ecco
l'oggetto del suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente cos" - disse."Andiamo avanti,
allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo daccordo. Non forse vero, innanzitutto, che l'Eros si
indirizza verso certe cose e, in secondo luogo, che queste cose sono quelle di
cui sente la mancanza?""S", disse. "E adesso, Agatone,
ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui si indirizza
l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: pi o meno, tu ci hai detto, credo,
che gli di hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per la bellezza,
perch non ci pu essere amore verso quel che
brutto. Son pi o meno le tue parole, non
vero?""Certo", disse Agatone."Tu rispondi come si deve,
mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu ci hai detto, l'Eros
dovrebbe amare il bello, non certo la bruttezza, non vero?"Agatone fu d'accordo."Ma non
ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ci di cui si sente la
mancanza e che non si possiede?""S", ammise."L'Eros manca
quindi della bellezza e non la possiede?""Per forza",
disse."Ma come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo
chiami bello?""No di certo.""E allora, se le cose stanno
cos, sei ancora dell'avviso che Eros sia bello? Temo proprio - disse Agatone -
di aver parlato senza sapere quel che dicevo"."Per il tuo discorso
era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le cose buone sono
allo stesso tempo belle, secondo te?""Lo sono, a mio
avviso"."Allora se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono
anche belle, all'Eros deve per forza mancare anche la bont"."Di
sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto
quel che tu dici"."No, carissimo Agatone - disse Socrate -, non me,
ma la verit tu non puoi contraddire: Socrate, lui s che facile contraddirlo. Adesso ti lascer un po'
in pace. Ecco il discorso su Eros che ho ascoltato un giorno da una donna di
Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su tanti altri argomenti. Fu
lei che una volta, prima della peste, fece fare agli Ateniesi quei sacrifici
che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi ha fatto capire molte
cose su Eros. Adesso cercher di fare del mio meglio per riportarvi le sue
parole, partendo da tutto quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati
d'accordo. Come tu stesso hai detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la
natura dell'Eros, i suoi attributi e le sue azioni. Forse la cosa pi semplice seguire nella mia esposizione lo stesso
ordine che segu la straniera nell'esame che mi fece. Io, infatti, le rispondevo
un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo che Eros un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi
dimostrava che ero in errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono
servito discutendo con Agatone: Diotima diceva che Eros non n bello, per usare le mie parole, n buono. E
io le dicevo: Ma come Diotima? Allora Eros
cattivo e brutto?Che dici? Questa
una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ci che non bello debba essere per forza brutto?Ma certo!
"E perch mai? Chi non sapiente deve
per forza essere ignorante? Non ti sei mai accorto che c' una via di mezzo tra
la sapienza e l'ignoranza? E qual ?Avere un'opinione giusta, senza per saperla
giustificare. Questo non vero sapere:
come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che vero quello che penso? Ma non neppure piena ignoranza, perch per caso la
mia opinione potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta quindi, suppongo, simile a quel che dicevo:
sta a met strada tra la piena conoscenza e l'ignoranza103.E' vero, risposi.Dunque
chi non bello non per questo per forza brutto, n chi non buono deve essere cattivo. E cos per l'Eros: poich tu sei d'accordo con me che
non pu essere n buono n bello, non devi per questo credere che sia
necessariamente cattivo e brutto. Eros - cos mi disse Diotima - a met tra questi estremi.Per - ripresi io -
tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente.Dicendo tutti, parli
degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?Io parlo proprio di
tutti.Diotima si mise a ridere. Come possono dire di lui che un dio potente se dicono che non affatto un dio? Ma chi dice questo? dissi
io.Tu per esempio - disse - ed anch'io!Ed io: "Ma cosa dici?E' tutto
semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli di sono
felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli di non n bello n felice? lo non oserei proprio,
risposi. Ma chi felice? non chi possiede cose buone e belle? Certo. Ma tu
hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera
proprio perch gli mancano. vero, ero
d'accordo con te su questo. E allora come pu essere un dio se le cose buone e
belle gli mancano? Sembra impossibile, in effetti. Come vedi - disse -, anche
tu ritieni che Eros non sia un dio. Chi sar dunque Eros? un mortale? No di
certo. E allora? E come negli esempi precedenti, la sua natura a mezza via tra il mortale e l'immortale. Che
vuoi dire, Diotima? E' un dmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una
natura intermedia tra quella dei mortali e quella degli di. Ma qual il suo potere, chiesi. Eros interpreta e
trasmette agli di tutto ci che viene dagli uomini, e agli uomini ci che viene
dagli di: da un lato le preghiere e i sacrifici degli uomini, dall'altro gli
ordini degli di e i loro premi per i sacrifici compiuti; e in quanto a mezza via tra gli uni e gli altri,
contribuisce a superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se
stesso ordinato e unito. Da lui viene l'arte divinatoria, ed anche il sapere
dei sacerdoti sui sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel
che divinazione e magia. Il divino non
si mescola con ci che umano, ma, grazie
ai dmoni, in qualche modo gli di entrano in rapporto con gli uomini, parlano
loro, sia nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose vicino al potere dei dmoni, mentre chi sa
altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta un artigiano
qualsiasi o un operaio. Questi dmoni sono numerosi e d'ogni tipo: uno di
essi Eros. Chi suo padre - domandai - e chi sua madre? E'
una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque
Afrodite, gli di si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era
Poros, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Pena era venuta a mendicare, com'
naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta. Poros
aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un po'
ubriaco, se ne and nel giardino di Zeus e si addorment. Pena, nella sua povert,
ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: cos si sdrai al suo fianco e rest
incinta di Eros. Ecco perch Eros
compagno di Afrodite e suo servitore: concepito durante la festa per la
nascita della dea, Eros per natura
amante della bellezza - e Afrodite
bella.Proprio perch figlio di Poros e di Pena, Eros si trova nella
condizione che dicevo: innanzitutto
sempre povero e non affatto
delicato e bello come si dice di solito, ma al contrario rude, va a piedi nudi, un senza-casa, dorme sempre sulla nuda terra,
sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perch ha la natura della madre
e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo padre, cerca sempre
ci che bello e buono, virile, risoluto, ardente, un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a
tramare inganni; desidera il sapere e sa trovare le strade per arrivare dove
vuole, e cos impiega nella filosofia tutto il tempo della sua vita, un meraviglioso indovino, e ne sa di magie e
di sofismi. E poi, per natura, non n
immortale n mortale. Nella stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e
muore, poi ritorna alla vita grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma
presto tutte le risorse fuggono via: e cos non
mai povero e non mai ricco. Vive
inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si
occupa di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perch tutti lo sono
gi. Chiunque possieda davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche
chi del tutto ignorante non si occupa di
filosofia e non desidera affatto il sapere. E questo proprio quel che non va nell'essere
ignoranti: non si n belli, n buoni, n
intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si desidera qualcosa
se non si sente la sua mancanza. Ma allora chi sono i filosofi, se non sono n i
sapienti n gli ignoranti? E' chiaro chi sono: anche un bambino pu capirlo. Sono
quelli che vivono a met tra sapienza ed ignoranza, ed Eros uno di questi esseri. La scienza, in
effetti, tra le cose pi belle, e quindi
Eros ama la bellezza: quindi necessario
che sia filosofo e, come tutti i filosofi,
in posizione intermedia tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di
questo nella sua origine, perch nato da un padre sapiente e pieno di risorse
e da una madre povera tanto di conoscenze quanto di risorse. Cos, mio caro
Socrate, fatta la natura di questo
dmone. L'idea, per, che tu ti eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla:
da quel che capisco dalle tue parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non
l'amante. Per questa ragione, senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni
bellezza. Infatti l'oggetto dell'amore
sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicit. Ma l'essenza di
chi ama differente: quella che ti ho prima descritto. Io allora
ripresi: E sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa la natura dell'Eros, a cosa pu esser utile a
noi uomini? Adesso cercher di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo
carattere e questa origine: ama il bello, come tu ben sai. Ora, prova a
domandarti: che cos' l'amore per le cose belle? o pi chiaramente: chi ama le
cose belle, le desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che
si prova quando si ama? Noi desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci
appartenga, risposi io. Questa tua risposta - disse - apre un nuovo problema:
che cosa accade all'uomo che possiede le cose belle? Io dichiarai che non ero
affatto capace di rispondere a una domanda simile. E allora - disse lei -
parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti domando: chi ama le
cose buone, le desidera: ma cosa desidera? Che siano sue, risposi. E cosa
accade all'uomo che le possiede? In questo caso posso rispondere pi facilmente
- dissi -: sar felice. In effetti proprio possedere ci che buono fa la felicit delle persone. Cos non
abbiamo pi bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice, perch
parlando della felicit abbiamo gi toccato il fine ultimo del desiderio. E'
vero, dissi."Ma questa volont, questo desiderio, tu pensi sia comune a
tutti gli uomini? Tutti vogliono sempre possedere ci che buono? Dimmi cosa ne pensi, E' cos, questa
volont comune a tutti. Ma allora,
Socrate - riprese -, perch non diciamo che tutti gli uomini amano, se tutti
desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che alcuni
uomini amano ed altri non amano affatto?" Sono stupito anch'io di questo,
risposi. Non devi stupirti, per - disse -. Il fatto che l'amore ha molte forme, ma noi prendiamo
una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se fosse
l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo nomi
diversi. Mi fai un esempio?, chiesi. Certo. Tu sai che la capacit creativa
delle persone pu manifestarsi in molti campi. La creativit entra in gioco tutte
le volte che qualche cosa viene prodotta, perch prima non c'era e poi c'; cos
le opere degli artigiani, in tutti i campi, sono frutto della creativit e gli
uomini che le fanno sono tutti dei creativi, degli artisti." E' vero. Per
- continu - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri
nomi. Tra tutti quelli che svolgono attivit che hanno a che fare con la
creativit, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a quelli
che compongono musica e versi. In realt tutti lo sono. Solo i versi in musica
chiamiamo arte, e soltanto questo il
dominio che riconosciamo agli artisti. E' vero, dissi. Ed lo stesso per l'amore. In generale, ogni
desiderio di ci che buono, che bello,
per tutti "amore possente, Eros ingannevole. Il desiderio umano ha
mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del denaro, o dello
sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono innamorati.
Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per loro usiamo
le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare, innamorati. Sei proprio
convincente, risposi. Molti dicono, per, che amare significa cercare la propria
met. Io non sono d'accordo, perch non c' affatto amore n per la met n per
l'intero, mio buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non buono: le persone accettano di farsi tagliare
anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti possono portare dei
mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ci che gli appartiene, a
meno che non sia convinto che ci che suo
sia buono e ci che gli estraneo sia
cattivo. Gli uomini, infatti, non desiderano altro che il bene. Non la pensi
cos anche tu? Certo, per Zeus, risposi. Allora possiamo dire semplicemente che
gli uomini desiderano ci che buono? S. E
non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ci che buono? Certo che dobbiamo. E non soltanto
possederlo, ma possederlo sempre. Dobbiamo aggiungere anche questo. Quindi -
disse - l'amore il desiderio di
possedere sempre ci che buono? E' cos,
dissi.Se dunque chiaro - disse - che
l'amore questo, dimmi in quale forma, in
quale genere di attivit, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo
di raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo
d'azione si tratta? Me lo sai dire?
Certamente no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei cos pieno
d'ammirazione davanti al tuo sapere e non verrei da te come allievo per
imparare quel che sai. Allora - riprese -, te lo dir io: amare, per il corpo,
significa creare nella bellezza. Bisognerebbe essere degli indovini per capire
cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo sono affatto. Mi esprimer pi
chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacit creative sia nel
corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una certa et, per
natura proviamo il desiderio di generare, ma non si pu generare nulla nella
bruttezza: si pu solo nella bellezza. Nell'unione dell'uomo e della donna c'
qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le creature viventi sono mortali,
ma in loro c' una scintilla d'immortalit:
la fecondit dei sessi, la capacit di generare nuovi esseri viventi. Ma
questo non pu avvenire se non c' armonia: e non c' armonia tra la bruttezza e
tutto ci che divino, perch solo la
bellezza in armonia con gli di. Dunque
nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira e da Ilitia124,
la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di s qualcosa di creativo,
quando si avvicina a ci che bello prova
gioia nel suo cuore, si apre al fascino della bellezza. E' il momento della
generazione: egli crea. Ma quando si avvicina a ci che brutto, allora si chiude in se stesso scuro
in volto e triste, cerca di allontanarsi, e cos non crea affatto, anche se
porta ancora dentro il suo seme fecondo,e ne soffre. Per questo chi sente la
propria creativit pronta alla vita,
fortemente attratto dalla bellezza: soltanto chi possiede la
bellezza libero dalle sofferenze che
ogni atto creativo comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la
bellezza, mio caro Socrate, come tu credi. E cosa allora? Desidera creare e far
nascere nuova vita nella bellezza. Ammettiamolo, dissi. E proprio cos - ripet
-. Ma perch creare nuova vita? Perch per qualsiasi essere mortale l'eternit e
l'immortalit possono consistere solo in questo: nel creare nuova vita. [Ora, il
desiderio d'immortalit accompagna necessariamente quello del bene - lo
sappiamo, ormai - se vero che
l'amore desiderio di possedere per
sempre il bene. E cos da tutto quello che abbiamo detto segue questo, che
l'amore ha come proprio oggetto l'immortalit126.Ecco quello che Diotima mi
insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi chiese: Quale pensi che
sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che strano stato
sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare? Tutti gli
animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano impazziti,
l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il momento di
nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per difenderli: anche i
pi deboli affrontano animali pi forti di loro e sono pronti a sacrificarsi per
amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della fame, pur di sfamare i
figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli uomini si pu pensare che
tutto questo sia il frutto di una riflessione razionale. Ma presso gli animali,
da dove proviene questo amore che li mette in tale stato? Puoi dirmelo?Ancora
una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese: E tu pensi di diventare
un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere questo? Ma ben per quello, Diotima, come ti dico sempre,
che ti sto vicino, perch so di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perch
accade tutto questo e quant'altro riguarda l'amore. Se sei convinto - disse -
che l'oggetto naturale dell'amore quello
sul quale abbiamo pi volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su
questo punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca,
nella misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non
pu farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa s che un nuovo essere
prenda il posto del vecchio. Riflettiamo:quando si dice che ciascun essere
vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane
la sua identit), ebbene questo essere non ha mai in s le stesse cose. Diciamo s
che sempre lo stesso, ma in realt non
cessa mai di rinnovarsi ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa,
il sangue, insomma in tutto il suo corpo. E questo non vero soltanto per il suo corpo, ma anche per
la sua anima: i sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i
dolori, i timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma
tutto in noi nasce e muore. E accadono cose pi strane ancora. Non solo in
generale certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel
campo della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi -, ma ciascuna
conoscenza in particolare subisce la stessa sorte.Infatti noi dobbiamo
esercitarci nello studio proprio perch alcune conoscenze ci sfuggono
continuamente: le dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio,
inversamente, fissando nella memoria ci che vogliamo ricordare, le conserviamo.
E' per questo che sembrano le stesse: in realt le conserviamo rinnovandole. E'
cos che tutti gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se
stessi, come l'essere divino. Sembrano conservare la loro identit perch ci che
invecchia e va via subito sostituito da
qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco in che modo - Socrate - ci che mortale partecipa dell'immortalit, nel suo
corpo e in tutto il resto; limmortale vi partecipa in modo del tutto diverso.
Non meravigliarti dunque se ciascun essere
dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli, perch
questo nella natura dei viventi: al servizio dell'immortalit. Queste parole mi
riempirono di stupore e glielo dissi: Ma come, saggia Diotima, le cose stanno
veramente cos?Ella mi rispose col tono serio di chi insegna: Devi esserne
certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti meraviglierai
senza dubbio della loro assurdit; se rifletti, meditando sulle mie parole, ti
accorgerai di quanto strano lo stato di
coloro che desiderano diventare celebri e acquistare gloria immortale per
l'eternit: sono disposti per questo a correre ogni rischio, pi ancora che per
difendere i loro figli. Sono pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad
affrontare tutti i disagi, a rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti
sarebbe morta per Admeto, che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della
morte, che il vostro re Codro avrebbe affrontato la morte per conservare il
regno ai suoi figli, se essi non avessero creduto di lasciare l'immortale
ricordo del loro valore, che giunto sino
a noi? E' cos, disse. A mio avviso, per
rendere immortale il loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli
uomini fanno quel che fanno, e questo tanto pi se le loro qualit personali sono
alte - perch l'immortalit che essi desiderano.
Allora, disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il
loro modo d'amare tutto nel cercare di
generare dei figli e cos assicurare alla loro persona l'immortalit - questo
essi credono - e la memoria di s e la felicit per tutto il tempo a venire.
Altre persone, per, sono feconde nell'anima: c' infatti una fecondit propria
del nostro spirito che a volte superiore
a quella del corpo. Ecco qual : la forza
creativa della saggezza e delle altre virt in cui il nostro spirito eccelle.
Questa fecondit eccelle nei poeti e in tutte le altre persone che per il loro
mestiere devono usare la creativit. Ma dove la saggezza tocca le vette pi alte
e pi belle nell'ordinamento e
nell'amministrazione della citt attraverso la prudenza e la giustizia. Quando
un uomo fecondo nel suo animo, simile agli di, coltiva sin da giovane il
proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a frutto le
sue capacit, allora cerca in ogni modo la bellezza - perch mai potr essere
creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora verso le cose
belle piuttosto che verso le brutte, proprio perch la sua anima feconda. Se incontra un'anima bella e
generosa e sensibile, allora le d tutto il suo cuore: davanti a lei sapr
trovare le parole giuste per esprimere la sua forza interiore, per esaltare i
doveri e le azioni di un uomo che vale: cos potr guidarla educandola. E secondo
me, attraverso il contatto con la bellezza dell'anima dell'altro, con la sua
costante presenza, potr venire alla luce quanto di meglio portava in s da
tempo: in questo senso la sua anima crea, genera nuova vita. Che sia presente o
assente, il suo pensiero va sempre all'altro che ama e cos nutre ci che nel
rapporto con lui in s ha generato. Tra gli esseri di questa natura si crea cos
una comunione pi intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei
bambini, un affetto pi solido. Sono pi belle, in effetti, ed assicurano meglio
l'immortalit, le creature che nascono dalla loro unione. Chiunque vorr senza
dubbio mettere al mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad
Omero, ad Esiodo e agli altri grandi poeti. Si osserver con invidia quale
discendenza essi hanno lasciato, capace di assicurare loro l'immortalit della
gloria e della memoria, perch anche i figli spirituali di quei grandi sono
immortali. O ancora, se vuoi - disse -, puoi pensare quale eredit Licurgo abbia
lasciato agli Spartani per la salvezza della loro citt e, si pu dire, della
Grecia intera. Per le stesse ragioni voi onorate Solone il padre delle vostre
leggi, e in tutti i paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno
prodotto grandi opere, mettendo a frutto le pi alte capacit del loro spirito.
In onore di quello che queste persone hanno saputo creare si sono gi innalzati
molti templi, mentre questo non mai
accaduto fino ad oggi, per i figli nati dall'amore di un uomo e di una donna.
Ecco, Socrate, le verit sull'amore alle quali tu puoi certamente essere
iniziato. Ma le rivelazioni pi profonde e la loro contemplazione - il fine
ultimo della ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio per
parlartene egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirmi, almeno
finch puoi. Chi inizia il cammino che pu portarlo al fine ultimo, sin da
giovane deve essere attento al bel corpo. In primo luogo, se chi lo dirige sa
indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorer di una sola persona e trover con
lei le parole per i dialoghi pi belli. Poi si accorger che la bellezza
sensibile della persona che ama sorella
della bellezza di tutte le altre persone: se si deve ricercare la bellezza
che propria delle forme sensibili, non
si pu non capire che essa una sola,
identica per tutti. Capito questo, imparer a innamorarsi del bello di tutte le
persone belle e a frenare il suo amore per una sola: dovr imparare a non
valutare molto questa prima forma dell'amore, a giudicarla di minor valore.
Poi, imparer a innamorarsi della bellezza delle anime piuttosto che della
bellezza sensibile: a desiderare una persona per la sua anima bella, anche se
non fisicamente attraente. Con lei
nasceranno discorsi cos belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano.
E giunto a questo punto, potr imparare a riconoscere la bellezza in quel che
fanno gli uomini e nelle leggi: scoprir che essa sempre simile a se stessa, e cos la bellezza
dei corpi gli apparir ben piccola al confronto. Dalle azioni degli uomini, poi,
sar portato allo studio delle scienze, per coglierne la bellezza, gli occhi
fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesser allora di innamorarsi
della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di una sola azione - una
forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncer cos alle limitazioni
che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai verso l'oceano infinito della
bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue parole e i suoi pensieri
saranno pieni del fascino che d l'amore per il sapere. Finch, reso forte e
grande per il cammino compiuto, giunger al punto da fissare i suoi occhi sulla
scienza stessa della bellezza perfetta, di cui adesso ti parler. Sforzati - mi
disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui sei
capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo
contempler le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine;
raggiunger il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparir
il bello nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il fine
di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita n morte145. Essa non si accresce
n diminuisce, n pi o meno bella se vista
da un lato o dall'altro. Essa senza
tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di vista la si osservi. E
tutti comprendono che bella. Il bello
non ha forme definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini
sensibili o delle parole. Non una teoria
astratta. Non uno dei caratteri di
qualcosa di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del
cielo, o non importa di cos'altro. No, essa apparir all'uomo che giunto sino a lei nella sua perfetta natura,
eternamente identica a se stessa per l'unicit della sua forma. Tutte le cose
belle sono belle perch partecipano della sua bellezza, ma esse nascono e
muoiono - divenendo quindi pi o meno belle - senza che questo abbia alcuna
influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino della
bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i
giovani e cos impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta
bellezza: allora potr dire di non essere lontano dalla meta. Cos, da soli o
sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la
bellezza sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo
deve salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte,
poi dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla
pura conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione del bello
in s. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, il momento pi alto nella vita di una persona:
l'attimo in cui si contempla la Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo
confronto sfioriranno le ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno
girare la testa: eppure tu e tanti altri accettereste di non mangiare n bere,
per cos dire, pur di poterli ammirare e poter stare con loro148. Cosa prover
l'anima allora nel fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurit,
del tutto estranea all'imperfezione umana, ai colori, alle vanit sensibili?
Cosa prover il nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicit
della sua forma? Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo
che abbia fissato sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti
dei mezzi che possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse,
che solamente allora, quando vedr la bellezza con gli occhi dello spirito ai
quali essa visibile, quest'uomo potr
esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa immagine149 egli contempla,
infatti, ma la virt pi autentica, in piena verit. Egli coltiva in s la vera
virt e la nutre: non sar forse per questo amato dagli di? non diverr tra gli
uomini immortale? Ecco, Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse
Diotima. Ed riuscita a convincermi, cos
come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per dare alla natura
umana il possesso di ci che bene, non si
trover miglior aiuto dell'Eros. Cos - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare
Eros; io onoro l'amore che in me, io mi
consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare altrettanto. Per quanto in mio potere fare, ora e sempre voglio
esaltare la forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro.
Consideralo, se vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che
vorrai". Questo disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e
Aristofane cercava di dirgli qualcosa perch Socrate di sfuggita aveva fatto una
allusione al suo discorso151, ecco che si sent bussare alla porta dell'atrio, e
un gran vociare di gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto.
"Ragazzi - disse Agatone - andate a vedere, presto. Se uno dei miei amici, invitatelo ad entrare.
Altrimenti dite che abbiamo gi finito di bere e che stiamo andando a
dormire." Un istante pi tardi si sent nell'atrio la voce di Alcibiade, non
pi molto in s per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse
Agatone, voleva essere accompagnato da lui. E cos lo accompagnarono nella sala
e stava in piedi solo perch una flautista e qualcun altro dei suoi compagni lo
sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di
viole, la testa avvolta nei nastri. "Signori - disse - buona sera!
Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con voi? oppure dobbiamo
limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e andar via subito? Siamo
venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non sono potuto venire. Vengo
adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla testa dell'uomo che
- nessuno si offenda - il pi sapiente e
il pi bello: voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perch sono ubriaco!
Ridete, ridete, tanto lo so che vero.
Allora, mi volete rispondere? posso entrare o no? volete o no bere con
me?" Allora tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e
prendere posto in mezzo a loro. Agatone lo chiam, Alcibiade si diresse verso di
lui, aiutato dai suoi compagni, e cominci a togliersi i nastri dalla fronte per
incoronare Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate
e and a sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli
posto. Si sedette dunque in mezzo a loro, abbracci Agatone e gli mise la corona
sulla testa. "Ragazzi - disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade,
che sia terzo in mezzo a noi.""Benissimo - disse Alcibiade -, ma
chi terzo con noi?" Dicendo cos si
volt e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per
Eracle, chi c' qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti par
questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni a
fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo
spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al pi bello della
compagnia!" "Agatone, per favore difendimi tu - dice Socrate -.
Essere in amore per quest'uomo non mi costa certo poco. Dal giorno in cui mi
sono invaghito di lui non ho pi il diritto di guardare un solo bel ragazzo,
nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso, invidioso, mi fa delle scene, me
ne dice di tutti i colori e poco manca che me le dia. Dunque, attenzione, che
non faccia adesso una scenata! Tenta di riconciliarci tu o, se tenta di
picchiarmi, difendimi perch la sua ira e la sua follia d'amore mi fanno una
paura terribile." "No - disse Alcibiade -, impossibile: tra te e me nessuna
riconciliazione. E per quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il
momento, Agatone, passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa,
questa testa meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato
te mentre ho lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti
sempre, e non solamente una volta come te ieri." Dicendo questo prese dei
nastri, incoron Socrate e poi si sdrai. Si mise comodo e disse:"Amici
miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi permesso: bisogna bere, labbiamo convenuto
tra noi! Sar io il re del simposio, finch voi non avrete bevuto a sufficienza.
Allora, Agatone, fammi portare una coppa, una grande, se c'. No, no, non c'
bisogno. Ragazzo dice - portami quel vaso per tenere il vino in fresco."
Ne aveva appena visto uno, che teneva otto cotili153 abbondanti. Lo fece
riempire e bevve per primo. Poi ordin di servire Socrate, dicendo: "Con
Socrate, amici miei, non c' niente da fare: quanto vorr bere berr, e non ci sar
verso di farlo ubriacare."Il servo allora port il vino a Socrate che si
mise a bere, mentre Erissimaco chiedeva:"E poi cosa facciamo, Alcibiade?
Restiamo cos, senza parlare di niente, la coppa in mano, senza cantare niente?
beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco - gli fa
Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti
saluto.""Ti saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa
dobbiamo fare?""Siamo tutti ai tuoi ordini perch un medico, da solo,
vale molti uomini. Obbediremo dunque ai tuoi desideri.""E allora
ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che
ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un
discorso sull'Eros, il pi bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo gi fatto, adesso
tocca a te, perch hai bevuto ed giusto
che anche tu faccia il tuo discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui
far lo stesso con chi sta alla sua destra e cos via.""Ben detto,
Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non pu
dire cose che stanno alla pari con chi
sobrio. E poi c' Socrate: credi forse una sola parola di quel che ha
appena detto? non lo sai che tutto il
contrario? Perch lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio
o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a
menarmi.""Ma che dici!", gli fa Socrate."Per Poseidone -
dice Alcibiade -, inutile che protesti,
perch in tua presenza io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di
te.""E allora fa cos - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di
Socrate."Che dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che
me la prenda con un tipo cos e mi vendichi davanti a voi?""Ma
ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perch mai vuoi fare il mio
elogio? per prendermi in giro?""Voglio solo dire la verit: a te
accettare o meno.""La verit? Benissimo, allora accetto. Anzi ti
chiedo io di dirla." "Presto fatto - dice Alcibiade -. Quando a te,
ti assegno un compito: se dico qualche cosa che non vera, tronca a met le mie parole, se vuoi, e
dimmi che su quella cosa l io mento, perch io volontariamente non racconter
certo delle balle. Per mescoler un po' tutto nel mio discorso, e tu non
meravigliarti, perch tu sei proprio un bel tipo e non certo facile, nello stato in cui sono,
ricordare con ordine proprio tutto. Discorso di Alcibiade: Per fare l'elogio di
Socrate, amici, ricorrer a delle immagini. Sono sicuro che lui penser che
voglia scherzare, e invece sono serissimo, perch voglio dire la verit. Io
dichiaro dunque che Socrate in tutto
simile a quelle statuette dei Sileni che si vedono nelle botteghe degli
scultori, con in mano zampogne e flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'
limmagine di un dio. E aggiungo che ha tutta l'aria di Marsia155, il satiro: eh
s, Socrate, gli somigli proprio, non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto!
Ascoltami bene: non sei forse sempre tracotante? Se lo neghi, io produrr dei
testimoni. Ma, si dir, Socrate forse un
suonatore di flauto? S, e ben pi bravo di Marsia. Lui incantava tutti con quel
che riusciva a fare col flauto, tanto che ancora oggi chi vuol suonare le sue
arie deve imitarlo. Anche le musiche di Olimpo, io dico che erano di Marsia, il
suo maestro. Le sue arie, suonate da un grande artista o da una ragazzina alle
prime armi, sono sempre le sole capaci di incantarci, di farci sentire quanto
bisogno abbiamo degli di: ci vien voglia di essere iniziati ai misteri, perch
quelle musiche sono divine. Tu, Socrate, sei diverso da Marsia solo in questo,
che non hai affatto bisogno di strumenti musicali per ottenere gli stessi
risultati: ti bastano le parole. Una cosa
certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo
discorso non interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per
mediocre che sia - che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini,
donne, ragazzi, siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli
si impadronisce di noi. Quanto a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto
ubriaco, ma bisogna che vi dica - come se fossi sotto giuramento - quale
impressione ho avuto nel passato, ed ho ancora, ad ascoltare i suoi discorsi.
Quando lo sento parlare, il mio cuore si mette a battere pi forte di quello dei
Coribanti158 in delirio e mi emoziono sino alle lacrime: e ne ho vista di gente
provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando Pericle ed altri grandi oratori, mi
accorgevo certo che parlavano bene, ma non provavo niente di simile: la mia
anima non era travolta, non sentiva il peso della schiavit in cui era ridotta.
Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo in un tale stato da farmi sembrare
impossibile vivere la mia vita normale - e questo, Socrate, non dirai che
non vero. E ancora adesso - lo so
benissimo - se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei farne
a meno: proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a
riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo
stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi. Devo quindi fare violenza a me
stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar
via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a
lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io
ho avuto vergogna di me stesso. Socrate
il solo uomo davanti al quale io mi sia vergognato. E questo perch
mi impossibile - ne sono perfettamente
cosciente - andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma
appena mi allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intorno a me161.
Allora mi nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi
vergogno per quel che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che
non vorrei pi vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei
infelicissimo. Cos, io non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco
l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo
satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli
alle statuette a cui l'ho gi paragonato, e come il suo potere sia
straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io,
siccome ho gi cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo: Socrate
ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno, perde la
testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente - questa
almeno l'immagine che vuol dare.
Non questa la maniera di fare di un
Sileno? S certo, perch questa l'immagine
esterna, come quella della statuetta di Sileno. Ma all'interno? Una volta
aperta la statuetta, avete idea della saggezza che nasconde? Amici miei,
sappiatelo: che uno sia bello, a lui non interessa affatto, non se ne accorge
neppure - da non credersi - e lo stesso accade se uno ricco o ha tutto quello che la gente ritiene
invidiabile avere. Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo
niente ai suoi occhi, ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il
sornione, trattando con ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la
statuetta si apre, io non so se avete mai visto che immagini affascinanti
contiene. Io le ho viste, simili agli di, preziose, perfette e belle,
straordinarie: e cos mi son sentito schiavo della sua volont. Ero giovane, e
credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto fosse una
fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente fiero
della mia bellezza e cos speravo che, ricambiando il suo interesse, avrei
potuto aver parte della sua saggezza. Convinto di questo, una volta allontanai
il mio servitore - di solito ce n'era sempre qualcuno quando vedevo Socrate, e
non eravamo mai soli - e cos restai da solo con lui. Devo proprio dirvi tutta
la verit: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se non dico bene correggimi. Eccomi
dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che avrebbe ben presto cominciato a
parlare come si parla fra innamorati, e ne ero felice. Invece non fa
assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo tutto il giorno
insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di ginnastica con me, e
cos ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di concludere qualcosa. Facemmo
ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso facevamo la lotta, ed eravamo
soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non riuscendo a niente con questi
sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio scopo. Non volevo affatto
lasciar perdere, dopo essermi lanciato in questa impresa: dovevo subito vederci
chiaro. Lo invito dunque a cena, come un innamorato che tende una trappola al
suo amato167. Ma non accett subito, anzi ci mise un po' di tempo a convincersi.
La prima volta che venne, volle andar via subito dopo cena. Io, che mi
vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un secondo tentativo: e in
quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione, senza tregua, fino a
notte fonda. Cos quando lui volle andarsene, con la scusa che era tardi lo
convinsi a restare. Era dunque coricato sul letto accanto al mio, l dove
avevamo cenato, e nessun altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato
potrei dirlo davanti a tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste
affatto dire se, come dice il proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la
bocca dell'infanzia?) non ci fosse la verit. Del resto non mi par giusto
lasciare in ombra quel che di meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne
sto facendo l'elogio. E poi io sono come uno morso da una vipera: queste
persone, si dice, non raccontano affatto quel che han passato, se non ad altri
che sono stati anch'essi morsi, perch solo loro possono comprendere, e scusare
tutto ci che si osato fare o dire per
l'angoscia del dolore. E io son stato morso da un dente pi crudele, e in una
parte della persona che aumenta la crudelt: nel cuore, nell'anima (poco importa
il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo morso, che
penetra pi a fondo del dente della vipera168 quando si impadronisce dell'anima
di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di
stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con
Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e
con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza
dionisiaca. Vi chiedo dunque d'ascoltarmi perch certo mi perdonerete per quel
che ho fatto allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che
siete profani, se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte pi
spesse. E allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne
furono andati, io pensai che non dovevo pi giocare d'astuzia con lui, ma dire
francamente il mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi,
Socrate?" "Per nulla", rispose. "Sai cosa penso?"
"Che cosa?" "Penso che tu saresti un amante degno di me, il solo
che lo sia, e vedo che esiti a parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto
di questo: che stupido, io credo, non
cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu avessi bisogno,
la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti,
pi importante ai miei occhi che migliorare il pi possibile me stesso, e
io penso che su questa strada nessuno mi pu aiutare pi di te. Quindi mi
vergognerei dinanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te pi di
quanto mi vergognerei dinanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi
ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio caro Alcibiade,
se quel che dici sul mio conto vero, se
ho davvero il potere di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare.
Tu vedi senza dubbio in me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla
tua. Se l'aver visto questo ti spinge a legarti a me e a scambiare il bello con
il bello, il guadagno che tu pensi di fare alle mie spalle non affatto piccolo. Tu non vuoi pi possedere
l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di scambiare -
non c' dubbio - il bronzo con l'oro. Eh no, mio bell'amico, guarda meglio!
T'illudi sul mio conto: io non sono niente. Lo sguardo della mente comincia
davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e tu sei
ancora molto lontano da quel momento." Al che io rispondo: "Per quel
che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A te,
adesso, decidere ci che meglio per te e
per me." "Hai ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci
chiariremo, e agiremo nella maniera che sembrer migliore ad entrambi, su questo
punto come su tutto il resto." Dopo questo dialogo, io credevo di aver
lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi alzai e, senza permettergli di
reagire, stesi su di lui il mio mantello - era inverno - e mi allungai sotto il
suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia quest'essere veramente
meraviglioso, demonico173, e restai con lui tutta la notte. Adesso non dirai
che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse pi forte: non
degn di uno sguardo la mia bellezza, non se ne cur affatto, fu quasi offensivo
in questo. E dire che credevo di non essere affatto male, miei giudici (s,
giudici della superiorit di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve lo giuro sugli di
e sulle dee - io mi alzai dopo aver dormito a fianco di Socrate senza che nulla
fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o con mio fratello
maggiore. Immaginate il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma
apprezzavo il suo carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo
trovato un essere dotato di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute
introvabili: e cos non potevo prendermela con lui e privarmi della sua
compagnia, n d'altra parte vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene
che era totalmente invulnerabile al denaro, pi di Aiace davanti alle armi. Sul
solo punto in cui credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena
fuggito175. Insomma, completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno
lo stato d'altri, gli giravo vanamente
attorno. Tutto questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi
partecipammo, e prendemmo anche i pasti insieme. Quel che certo,
che resisteva alle fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri.
Quando capitava che le comunicazioni fossero interrotte in qualche punto, e in
guerra succede, e noi restavamo senza mangiare, nessun altro aveva tanta
resistenza alla fame. Al contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva
approfittarne meglio degli altri, in particolare per bere; non che ci fosse
portato, ma se lo si forzava un po', lui poi superava tutti e - cosa assai
strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco. E credo che questa notte stessa
avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo - e nella zona di Potidea gli
inverni sono terribili - Socrate del
tutto straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo,
quanto di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di
uscire e se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o
in pelli di agnello. Socrate se ne usc coperto solo dal mantello che porta
sempre andando a piedi nudi sul ghiaccio con pi tranquillit di quelli che
avevano le scarpe: e cos i soldati lo guardavano di traverso, perch pensavano
li volesse umiliare. E c' dell'altro da dire. "E' straordinario ci che
fece e sopport il forte eroe", laggi in guerra: vale veramente la pena di
sentire la storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal
primo mattino, e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a
capo dei suoi problemi, e cos stava l, in piedi, a riflettere. Era gi
mezzogiorno e gli altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate
era in piedi a riflettere sin dal mattino presto cominci a circolare; finch,
venuta la sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro
letti da campo - era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per
vedere se avrebbe passato la notte in piedi. E cos fece, sino alle prime luci
del mattino. Solo allora se ne and, dopo aver elevato una preghiera al Sole.
Adesso, se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento -
perch anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo
scontro per il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio,
riuscii a salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiut di
abbandonarmi e riusc a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai
generali di assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso
che io mento, e neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali,
considerando la posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai
personalmente insistito pi di loro perch il premio invece andasse a me. Ricordo
un'altra occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando
il nostro esercito a Delio179 fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso
a farmelo incontrare. Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando
insieme a Lachete180, tra le truppe sbandate, quando io capito l per caso, li
vedo e per incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In
quell'occasione ho potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perch
avevo meno da temere, essendo a cavallo. Aveva pi sangue freddo di Lachete - e
quanto! - e dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come
se si trovasse in una strada d'Atene "sicuro di s, gettando occhiate di
fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo vedere
chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se qualcuno
avesse voluto attaccarlo. E cos andava senza mostrare alcuna inquietudine,
insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni, si
comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai
nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti altri aspetti del
carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio, perch sono
veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, per, anche altri uomini
probabilmente meritano gli stessi elogi. C' qualcosa in Socrate, invece, che lo
rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli altri uomini
del passato e del presente. Infatti, volendo, si pu trovare l'immagine di
Achille in Brasida e in altri, Pericle pu ricordare Nestore o Antenore, e
questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a proposito di
tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo
che lui e i suoi discorsi non hanno paragoni n nel passato n oggi, per
quanto si cerchi con attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come
facevo io prima: non ad altri uomini, ma ai Sileni e ai Satiri - che si tratti
di lui o delle sue parole. S, perch c' una cosa che ho dimenticato di
precisare: anche i suoi discorsi sono simili alle statuette dei Sileni che si
aprono. Infatti, se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue
parole possono sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi:
esteriormente ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro
insolente. Parla di asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli,
ed ha sempre l'aria di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa
o poco attento, c' caso che rida dei
suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone il senso, scopri
che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come un dio, e la
folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla virt. Chi lo
ascolta portato verso le cose pi alte;
anzi, meglio, guidato a tenere sempre
davanti gli occhi tutto quel che
necessario per diventare un uomo che vale. Ecco, amici, il mio elogio di
Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho mescolati al racconto di
quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo che ha trattato in questo
modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di Glaucone, con Eutidemo, il
figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la sua aria da innamorato,
con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di lui. Io ti avverto,
Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra esperienza ti sia di
monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo fanciullo non
impara che soffrendo." Quando Alcibiade ebbe parlato cos, l'ilarit fu
generale, anche perch s'era capito ch'era ancora innamorato di Socrate. E cos
Socrate gli disse: "Tu non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade.
Altrimenti non avresti fatto un discorso cos sottile, tutto fatto per
nascondere il tuo vero obiettivo, che
venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa
secondaria, e invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercare di
guastare l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perch sei convinto che io debba
amare solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto
da te, da nessun altro che da te. Ma non t' andata bene: il tuo dramma
satiresco, la tua storia di Sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E
allora, mio caro Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben
attento che nessuno possa mettersi tra me e te." E Agatone di
rimando:"Hai detto proprio la verit, Socrate. E ne ho le prove: si venuto a sdraiare proprio tra te e me, per
separarci. Ma non ci guadagner niente a far cos, perch io torno proprio a
mettermi accanto a te." "Oh, bene, - disse Socrate - ti voglio
proprio vicino! Per Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare
quest'uomo! Pensa sempre come fare per aver l'ultima parola con me. Socrate,
sei proprio straordinario! Ma lascia almeno che Agatone stia tra noi due. E'
impossibile - disse Socrate -. Perch tu hai appena fatto il mio elogio, e io
devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se
Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovr mettersi a fare il mio
elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov', mio
divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perch desidero
proprio cantare le sue lodi. Bravo! - disse Agatone -. Lo vedi tu stesso,
Alcibiade: non proprio possibile che
resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da
Socrate". "Ecco - disse Alcibiade -, finisce sempre cos. Quando c'
Socrate, non c' posto che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di
ragione ha saputo trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone si era
alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso tutta una
banda di gente allegra spunt dalla porta. Qualcuno era uscito e l'avevano
trovata aperta, e cos erano entrati e s'erano uniti alla compagnia. Gran
baccano in tutta la sala: senza pi alcuna regola, si bevve allegramente un
sacco di vino. Allora, mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro
and via. Lui, Aristodemo, fu preso dal sonno e dorm tanto, perch le notti erano
lunghe. Si svegli ch'era giorno e i galli gi cantavano. Alzatosi, vide che gli
altri dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano
ancora svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a
destra. Socrate chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il
resto della conversazione, perch non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava
ancora un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli
altri a riconoscere che un uomo pu riuscire egualmente bene a comporre commedie
e tragedie, e che l'arte del poeta tragico non
diversa da quella del poeta comico. Loro furono costretti a dargli
ragione, ma non proprio che lo
seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad
addormentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addorment anche
Agatone. Allora Socrate, visto che si erano addormentati, si alz e and via.
Aristodemo lo segu, come sempre faceva. Socrate and al Liceo, si lav e pass il
resto della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne and a casa a
riposare. Platone Carmide Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi (patsa@tin.it)
Platone Carmide Platone CARMIDE Arrivammo il giorno prima, di sera,
dall'accampamento di Potidea, e poich tornavo che era passato del tempo, mi
recai pieno di gioia nei consueti luoghi di conversazione. E in particolare
entrai nella palestra di Taurea, dirimpetto al santuario della Regina, e qui
incontrai molte persone, alcune delle quali a me sconosciute, ma la maggior
parte note. E quando mi videro entrare inaspettato, subito da lontano si
diedero a salutarmi, chi da una parte chi dall'altra; Cherefonte invece, da
quella natura bizzarra quale egli era, balzato fuori dal gruppo, correva verso
di me, e afferratami la mano: O Socrate , diceva, come ti sei salvato dalla
battaglia? . Poco prima che noi arrivassimo c'era stata una battaglia a
Potidea, della quale l si era avuta notizia da poco. E io rispondendo: Cos come
mi vedi , dissi. Eppure qui arrivata la
notizia che la battaglia stata molto
dura, disse lui, e che vi sono morte molte persone note. Le notizie riportate
sono esatte, risposi io. Eri presente alla battaglia? chiese lui. C'ero. Allora
siediti qui, disse, e raccontaci, perch non abbiamo saputo ogni cosa in maniera
chiara. E intanto, guidandomi, mi fa sedere accanto a Crizia figlio di
Callescro. Nel sedermi dunque accanto, salutavo Crizia e gli altri, ed esponevo
loro le notizie dal campo, qualsiasi cosa mi venisse chiesta: e mi chiedevano
chi una cosa chi un'altra. Quando per fummo sazi di questi discorsi, io allora,
a mia volta, interrogai loro sulla situazione di qui, sulla filosofia, come
andassero le cose al momento, sui giovani, se ne fossero sorti tra loro che si
distinguessero per saggezza, per bellezza o per entrambe le cose. E Crizia,
fissando lo sguardo verso la porta, perch aveva visto alcuni giovanetti entrare
che si insultavano tra loro e altra folla alle spalle che li seguiva, dei
belli, disse, o Socrate, credo che tu saprai subito: infatti eccoli che per
caso stanno entrando e sono i preannunciatori e gli amanti di colui che ha fama
di essere il pi bello in questo momento, e mi sembra che anche lui sia ormai
prossimo ad entrare. E chi , chiesi io, e di chi figlio? Forse lo conosci anche tu, mi
rispose, ma non era ancora adulto prima che tu partissi; Carmide figlio di
nostro zio Glaucone, mio cugino. Lo conosco, per Zeus!, esclamai. Neppure
allora, quando era ancora un fanciullo, era uno da poco, ma ora, credo,
dovrebbe ormai essere decisamente un giovanetto. Presto saprai, rispose, la sua
et e che tipo egli sia diventato, e mentre stava dicendo queste cose entra
Carmide. Ebbene, per quello che riguarda me, amico mio, non si pu misurare
nulla: infatti io sono semplicemente una cordicella bianca con i belli -
infatti li vedo in qualche modo quasi tutti belli i giovani nel fiore degli
anni -, tuttavia indubbiamente anche allora quello mi parve meraviglioso per la
statura e la bellezza e d'altra parte tutti gli altri, per lo meno mi sembrava,
erano innamorati di lui - a tal punto erano storditi e turbati al suo entrare
-, molti altri innamorati invece lo seguivano tra coloro che erano alle sue
spalle. Il nostro caso, di noi adulti, non destava certo meraviglia, ma io feci
caso in particolare ai fanciulli, e notai come nessuno di loro, neppure il pi
piccolo rivolgesse gli occhi altrove, ma tutti guardavano ammirati lui come se
fosse una statua. E Cherefonte, dopo avermi chiamato: Che te ne pare del
ragazzetto, o Socrate?, disse. Non ha un bel volto? Straordinariamente bello,
risposi io. Ebbene, aggiunse, egli, se volesse spogliarsi, ti sembrer privo di
volto, a tal punto bellissimo di forme.
Furono dunque d'accordo anche gli altri con le parole di Cherefonte; e io: Per
Eracle, dissi, di quale imbattibile persona voi parlate, se soltanto si trova
ad essere in possesso di una piccola cosa in aggiunta. Quale?, chiese Crizia.
Se si trova ad essere ben disposto per natura nell'anima, risposi, e in qualche
modo scontato, o Crizia, che egli sia
tale, dal momento che del vostro casato.
Ma s, rispose, bellissimo e virtuoso
anche in questo. Perch dunque, esclamai, non spogliare di lui proprio questa
cosa ed ammirarla prima dell'aspetto? Dal momento che ha ormai questa et,
desidera certamente dialogare. Senza alcun dubbio, rispose Crizia, sia
perch appunto un filosofo sia, come
pensano gli altri e lui stesso, anche un poeta. Questa bellezza, dissi io, caro
Crizia, voi l'avete, lungo tempo, dalla
vostra consanguineit con Solone. Ma perch non hai chiamato qui il giovane e non
me lo hai presentato? Infatti neppure se per caso fosse stato ancora pi
giovane, sarebbe stato disonorevole parlare con noi davanti a te, tu che sei
insieme suo tutore e cugino. Certo tu hai ragione, disse, chiamiamolo. E
intanto al servo: Ragazzo, disse, chiama Carmide e digli che voglio presentarlo
a un medico per quella mancanza di forze dalla quale poco fa mi diceva di essere
affetto. Rivolgendosi quindi a me, Crizia disse: Poco fa diceva d sentire come
un peso alla testa, quando si alzato di
buon mattino; ebbene, cosa ti impedisce di fingere che conosci un rimedio per
la testa? Nulla, risposi, purch venga. Certo, verr, assicur. E la cosa in
effetti and cos. Infatti venne e suscit gran riso, perch ognuno di noi che
eravamo seduti, nel far posto, spingeva con foga il vicino, per far sedere lui
accanto a s, finch di quelli seduti all'estremit uno lo facemmo alzare, mentre
l'altro lo gettammo a terra di lato. Egli, una volta arrivato, prese posto tra
me e Crizia. A questo punto, mio caro, io mi sentivo confuso e la mia
precedente arditezza, che avevo perch pensavo che gli avrei parlato con molta
scioltezza, era andata distrutta; ma quando, avendo Crizia detto che io ero
colui che conosceva il rimedio, mi fiss con 2 Platone Carmide occhi quali impossibile descrivere e si muoveva a
interrogarmi, e tutti quanti in palestra corsero intorno a noi in cerchio da
ogni parte, allora davvero, o nobile amico, vidi ci che nascondeva il mantello
e mi infiammai e non ero pi in me e pensai che il pi sapiente in cose
d'amore Cidia, il quale disse, parlando
di un fanciullo bello, consigliando qualcun altro, di stare attento, cerbiatto,
di fronte a un leone, a non prendere una parte della preda; mi sembrava infatti
di essere stato catturato io stesso da un simile animale. Tuttavia, quando mi
chiese se conoscessi il rimedio per la testa, risposi a fatica che lo
conoscevo. Qual allora? chiese. E io risposi
che era una certa pianta, ma che, oltre al farmaco, c'era una formula magica; e
se veniva cantata mentre si faceva uso del farmaco, il farmaco faceva guarire
completamente; senza la formula magica la pianta non era di nessuna utilit. E
quello di rimando: Allora trascriver la formula da te. Se mi persuaderai o
anche se non mi persuaderai?, dissi io. Scoppiato a ridere dunque disse: Se ti
persuader, o Socrate. E sia, conclusi; e tu conosci bene il mio nome? Sarei
colpevole, se non lo conoscessi, disse, si fa non poco parlare di te tra i
giovani della mia et, ma io poi mi ricordo che quando ero ancora un fanciullo
eri in compagnia di Crizia qui presente. Ben fatto, dissi io, ti parler cos pi
liberamente della formula magica, di cosa si tratti: poco fa non sapevo in che
modo avrei potuto spiegarti la potenza di questa formula. Infatti, o Carmide,
la sua natura e tale per cui non in
grado di guarire soltanto la testa, ma, come forse hai gi sentito da bravi
medici, quando uno va da loro perch
malato agli occhi, dicono che non
possibile cercare di guarire gli occhi soltanto, ma che sarebbe
necessario guarire insieme anche la testa, se si vuole che sia buona la
condizione degli occhi; e quindi pensare di guarire la testa per se stessa
senza il corpo intero una follia totale.
In base a questo discorso, applicando a tutto il corpo un regime, cercano di
curare e di sanare con il tutto la parte; o forse non ti sei accorto che dicono
questo e che le cose stanno cos? Certo, rispose. E pensi che parlano bene e accetti
questo ragionamento? Assolutamente, rispose. E io, al sentire che approvava,
ripresi coraggio e a poco a poco si risvegli di nuovo in me l'arditezza, mi
ravvivai e dissi: Tale dunque, o Carmide,
anche il caso di questa formula magica. Io l'imparai laggi,
nell'esercito, da uno dei medici traci di Zalmoxis, dei quali si dice che sanno
rendere immortali. Questo Trace diceva che i Greci facevano bene a dire quel
che io dicevo poco fa, ma Zalmoxis, continuava, il nostro re, che un dio, dice che non bisogna cercare d
guarire gli occhi senza la testa n la testa senza il corpo, allo stesso modo il
corpo senza l'anima, ma questa sarebbe anche la causa del fatto che molte
malattie sfuggono ai medici greci, perch trascurano il tutto, di cui
bisognerebbe aver cura; e se il tutto non sta bene, impossibile che la parte stia bene. Disse che
infatti dall'anima muove ogni cosa, sia i beni sia i mali, al corpo e all'uomo
intero, e da qui fluiscono come dalla testa agli occhi: bisogna dunque curare
l'anima in primo luogo e in massimo grado, se vuoi che anche le condizioni
della testa e del resto del corpo siano buone. Disse che l'anima, mio caro, va
curata con certi incantamenti: questi incantamenti sono i bei discorsi; in
seguito a tali discorsi appare nell'anima la assennatezza, per la comparsa e la
presenza della quale ormai pi facile
procurare la salute e alla testa e al resto del corpo. Nell'insegnarmi dunque
il rimedio e gli incantamenti, aggiunse "Che nessuno ti persuada a curare
la propria testa con questo rimedio, nessuno che non abbia prima consentito a
far curare l'anima da te con questa formula magica. E infatti ora",
continu, " diffuso questo errore tra gli uomini: alcuni cercano di essere
medici separatamente dell'una e dell'altra, della assennatezza e della
salute". E mi comand con molta decisione che non dovesse esserci nessuno
cos ricco n nobile n bello, che mi persuadesse a fare diversamente. Io allora -
infatti gli ho prestato un giuramento e devo necessariamente obbedirgli -
obbedir dunque, e a te, se, seguendo gli ordini dello straniero, vorrai
consentire in prima istanza a che l'anima venga incantata dalle formule magiche
del Trace, fornir il rimedio per la testa; altrimenti non sapremmo cosa fare
per te, caro Carmide. Dopo aver ascoltato le mie parole, Crizia disse: Sarebbe
un colpo di fortuna per il giovanetto, o Socrate, il mal di testa, se sar
costretto a diventare migliore anche nel pensiero per via della testa. Ti dico
tuttavia che Carmide ha fama di eccellere tra i giovani della sua et non soltanto
per la bellezza, ma anche per questa stessa cosa per la quale dici di possedere
la formula magica: tu intendi l'assennatezza, o no? Certamente, dissi io.
Dunque sappi bene, continu, che ha fama di essere di gran lunga il pi assennato
di quelli di adesso, e in tutto il resto, per l'et che ha raggiunto, non inferiore a nessuno. E infatti, dissi
io, anche giusto, o Carmide, che tu
emerga tra gli altri per tutte queste cose; perch credo che nessun altro tra
coloro che si trovano qui potrebbe con facilit esibire due famiglie, riunitesi
in una stessa, tra quelle di Atene, che abbiano generato da progenitori simili
una discendenza pi bella e pi nobile rispetto a quelle dalle quali sei nato tu.
Infatti la vostra famiglia paterna, quella di Crizia figlio di Dropide, ci stata tramandata come oggetto di encomio da
parte di Anacreonte, di Solone e di molti altri poeti, poich eccelle per
bellezza, per virt e per tutto ci che
detto felicit; e allo stesso modo poi la famiglia per parte di madre:
infatti rispetto a Pirilampe, tuo zio, nessuno tra gli uomini del continente si
dice avesse la fama di essere pi bello e pi prestante, tutte le volte che si
rec come ambasciatore o presso il Gran Re o presso qualcun altro personaggio
nel continente, ma tutta quanta questa famiglia non fu mai inferiore all'altra.
Nato dunque da siffatti antenati,
naturale che tu fossi il primo in tutto. Per quel che concerne gli
aspetti visibili della bellezza, caro figlio di Glaucone, mi sembra che non sei
inferiore in nulla a nessuno di coloro che sono vissuti prima di te, ma se
davvero tu sei dotato per natura di buone capacit sia per assennatezza sia per
tutto il resto, come afferma costui, beato, caro Carmide, ti ha generato tua
madre, conclusi. La 3 Platone Carmide cosa dunque sta cos. Se davvero c' gi nel
tuo animo, come dice Crizia qui presente, assennatezza, e se sei
sufficientemente assennato, non hai nessun bisogno n degli incantamenti di
Zalmoxis n di Abari l'Iperboreo, ma a questo punto bisognerebbe darti proprio
il rimedio per la testa. Se invece pensi di avere ancora bisogno di queste
formule magiche, bisogna fare l'incantamento prima di somministrare il rimedio.
Dimmi tu dunque, sei d'accordo su questo punto e affermi di partecipare in modo
sufficiente della assennatezza oppure ne avverti la mancanza?. Carmide dunque,
essendo in un primo momento arrossito, apparve ancora pi bello - e difatti la
modestia si addiceva alla sua et - poi con animo non certo vile rispose: disse
infatti che non sarebbe stato pi facile, l sul momento, n approvare n negare ci
che gli veniva chiesto. Se infatti, spieg, non dicessi che sono assennato, non
solo sarebbe strano che uno dica cose simili di se stesso, ma nel contempo
farei passare per bugiardo Crizia qui presente e molti altri ai quali sembro
assennato, in base al suo discorso; se poi dicessi che lo sono e lodassi me
stesso, forse apparirei insopportabile; sicch non so che cosa risponderti. E io
risposi: Mi sembra che tu dica cose ragionevoli, Carmide. E penso, dissi, che
bisognerebbe cercare insieme se tu possieda o non possieda la cosa che ti sto
domandando, affinch tu non sia costretto a dire cio che non vuoi e d'altro
canto io non mi volga alla scienza medica in maniera sconsiderata. Se dunque
ti cosa gradita, voglio fare questa
ricerca con te, altrimenti lasciar perdere. Ma tra tutte la cosa che mi fa pi piacere, disse lui,
quindi proprio per questo, conduci la ricerca nel modo che tu ritieni il
migliore. Ecco allora, dissi io, quale mi sembra il miglior metodo di ricerca
su questo argomento. chiaro infatti che
se tu possiedi l'assennatezza, su questa puoi formulare un qualche
giudizio. d'altra parte necessario,
quando essa presente, se davvero c', che
se ne abbia una qualche sensazione, grazie alla quale potresti avere su questa
una qualche opinione, che cosa sia e di quale natura l'assennatezza; o non la
pensi cos? Certo, lo penso, disse. Ebbene, questa cosa che pensi, dissi, dal
momento che sai parlar greco, potresti senza dubbio dire cosa ti sembra che
sia? Forse, rispose. E allora affinch possiamo congetturare se tu l'hai in te
oppure no, dimmi, continuai, che cosa affermi che sia l'assennatezza secondo la
tua opinione?. Egli in un primo momento esitava e non voleva assolutamente
rispondere, poi per disse che assennatezza a suo parere fare tutto con ordine e con calma, camminare
per le strade e conversare, e tutte le altre azioni allo stesso modo. E penso,
concluse, in una parola che ci che mi chiedi sia una certa calma. forse giusto ci che dici?, dissi. Certo,
Carmide, dicono che le persone calme sono assennate. Vediamo se c' del vero in
quello che dicono. Dimmi: l'assennatezza non
tra le cose belle? Certo, rispose. E qual la cosa pi bella nelle lezioni del maestro:
scrivere le lettere simili in fretta o con calma? In fretta. E nel leggere?
Velocemente o lentamente? Velocemente. E suonare la cetra con velocit e lottare
con ritmo serrato non molto pi da
virtuosi che farlo con tranquillit e lentamente? S. E allora? Nel pugilato e
nel pancrazio non avviene la stessa cosa? Certo. Nella corsa, nel salto e in
tutti gli altri esercizi del corpo i movimenti fatti con prontezza e rapidit
non si addicono al virtuoso, mentre all'inetto quelli fatti a fatica e con
tranquillit? evidente. Dunque ci pare
evidente, dissi io, per quel che concerne il corpo, che non la calma, ma la massima rapidit e prontezza
ad essere la cosa migliore. Non cos?
Certamente. Ma l'assennatezza era una cosa bella? S. Allora per il corpo non la
calma, ma la rapidit sarebbe cosa pi assennata, dal momento che
l'assennatezza una cosa bella. Cos
sembra , rispose. E allora? continuai io.
pi bella la facilit di apprendere o la difficolt di apprendere? La
facilit di apprendere. Ma la facilit di apprendere, chiesi, significa
apprendere rapidamente? E la difficolt di apprendere significa farlo con calma
e lentezza? S. Non pi bello insegnare a
un altro velocemente e con decisione piuttosto che con calma e lentamente? S E
poi? Richiamare alla memoria e ricordare con calma e lentamente pi bello che farlo con decisione e rapidit?
Con decisione e rapidit, rispose. La perspicacia non una certa acutezza dell'animo, e non la
calma? vero. Non forse vero che se si tratta di comprendere ci
che viene detto, sia a scuola di scrittura sia di cetra e in qualsiasi altro
luogo, la cosa pi bella non farlo con la
maggior calma possibile, bens con la maggior rapidit? S. Ma certo, nelle
ricerche dell'anima e quando essa prende delle decisioni, a sembrare degno di
lode non il pi lento nel prendere una
decisione e nel trovare una soluzione, a quanto io credo, ma colui che lo fa
con la massima facilit e rapidit. cos,
disse. E in tutte le cose, aggiunsi io, o Carmide, sia in quelle che riguardano
l'anima sia in quelle che riguardano il corpo, le azioni di velocit e prontezza
non appaiono pi belle rispetto a quelle di lentezza e di calma? possibile, rispose. Dunque l'assennatezza
non una certa calma n la vita assennata calma, in base a questo ragionamento, dal 4
Platone Carmide momento che deve essere bella, se assennata. Delle due infatti o l'una o l'altra:
o mai o assai raramente le azioni calme ci apparvero nella vita pi belle di
quelle rapide e forti. Se dunque, amico mio, le azioni calme, neppure le pi
insignificanti, capita che siano pi belle di quelle decise e rapide, cos
neppure l'assennatezza potrebbe essere l'agire con calma piuttosto che in modo
forte e rapido, n nell'andatura n nell'eloquio n in nessun'altra situazione, n
la vita calma potrebbe essere pi assennata di una vita non tranquilla, dal
momento che nel discorso l'assennatezza
stata da noi posta tra le cose belle, ma belle sono apparse quelle
rapide non meno di quelle tranquille. Mi sembra ben detto, o Socrate, disse. E
allora, ripresi io, di nuovo, ponendo pi attenzione, o Carmide, dopo aver
guardato in te stesso e aver riflettuto su quali effetti la presenza della
assennatezza possa avere su di te, e quale debba essere la sua natura per
produrre tale effetto, dopo aver dunque riflettuto su tutte queste cose, dimmi
con precisione e senza timore, cosa ti sembra che sia?. Ed egli rimase in
attesa e, dopo aver riflettuto in se stesso con atteggiamento decisamente
virile, ebbene, mi sembra, disse, che l'assennatezza faccia vergognare e renda
timido l'uomo, e che l'assennatezza sia ci che di fatto pudore. E sia, dissi io, ma poco fa non
ammettevi che l'assennatezza una cosa
bella? Certamente, disse. E che gli assennati sono anche uomini buoni? S.
Potrebbe allora essere buona una cosa che non rende buoni? No, certo. Non solo dunque una cosa bella, ma anche una cosa
buona. Per lo meno mi sembra. E allora? ripresi io. Non pensi che Omero aveva
ragione quando diceva: "Il pudore non
un buon compagno per l'uomo bisognoso"? S. Dunque, parrebbe, il
pudore non un bene ed un bene.
evidente. L'assennatezza un bene
se davvero rende coloro nei quali sia presente buoni, ma non cattivi. Ma certo,
le cose mi sembra che stiano come tu dici. Dunque assennatezza non potrebbe
essere pudore, se davvero la prima si trova ad essere un bene, mentre il pudore
non un bene pi di quanto sia un male. A
me, o Socrate, sembra, disse, che questo sia detto bene: ma prendi in esame
questa definizione della assennatezza, come ti sembra che sia. Poco fa infatti
mi sono ricordato - una cosa che sentii
gi dire da un tale - che assennatezza consisterebbe nel fare ciascuno le
proprie cose. Considera dunque se pensi che abbia ragione chi dice questa cosa.
E io: Ah furfante, dissi, tu hai sentito da Crizia qui presente questa cosa o
da qualche altro sapiente!. Probabilmente da un altro, disse Crizia, non certo
da me. Ma che differenza fa, o Socrate, disse l'altro, Carmide, da chi l'ho
sentito? Nessuna differenza, dissi io, perch in ogni caso bisogna indagare non
chi disse questa cosa, ma se sia detta bene oppure no. Ora parli bene, disse.
Per Zeus, dissi io, ma se anche troveremo come sta la cosa, mi meraviglierei,
perch somiglia a un enigma. E perch? Perch sicuramente, continuai, le parole
non erano espresse nel senso in cui andava il suo pensiero, quando diceva che
assennatezza "fare le proprie
cose". Oppure tu ritieni che il maestro di scrittura non fa niente quando
scrive o quando legge? Si, certo, lo penso, disse. Dunque tu pensi che il
maestro di scrittura scrive e legge solo il suo proprio nome, o questo
insegnava a voi ragazzi; o forse voi non scrivevate i nomi dei nemici non meno
dei vostri e dei nomi degli amici? Per nulla meno. Forse che vi impicciavate
degli affari altrui e non eravate assennati nel fare questo? Assolutamente no.
E certamente non facevate i vostri propri affari, se davvero scrivere e leggere
sono fare qualcosa. Ma certo lo sono. E infatti il guarire, caro compagno, il
costruire case, il tessere e l'eseguire qualsiasi lavoro di tecnica con
qualsivoglia arte significa sicuramente fare qualcosa. Certo. E allora? dissi
io, pensi forse che una citt sarebbe ben governata da quella legge che impone
di tessere e di lavare ciascuno il proprio mantello, di realizzare le scarpe,
l'ampolla, lo strigile e tutto il resto in base a questo stesso discorso, senza
toccare le cose altrui, ma di lavorare e realizzare ciascuno le proprie? Non lo
penso, disse lui. Tuttavia, replicai, se
governata con assennatezza, dovrebbe essere ben governata. Come no?,
disse. Dunque assennatezza non potrebbe essere il fare cose di tal genere e
fare le proprie cose in questo modo. Non sembra. Parlava dunque per enigmi, a
quel che sembra, cosa che appunto io dicevo poco fa, colui che diceva che fare
le proprie cose assennatezza; altrimenti
era un ingenuo. L'hai sentita dire da uno sciocco dunque questa cosa, o
Carmide? Minimamente, rispose, perch anzi aveva fama di essere molto sapiente.
Soprattutto, a quel che penso, proponeva un enigma perch difficile capire che cosa mai significhi fare
le proprie cose. Forse, disse. E che cosa sarebbe mai, dunque, il fare le
proprie cose? Puoi dirlo? Io non lo so, per Zeus, rispose lui, ma forse nulla
impedisce che neppure colui che lo diceva conoscesse ci che pensava. E mentre
diceva queste cose 5 Platone Carmide sorrideva e guardava a Crizia. Ed era
evidente che gi da tempo Crizia era agitato e desideroso di farsi valere agli
occhi di Carmide e dei presenti: fino a quel momento si era trattenuto, allora
non ne fu pi capace: mi sembra infatti pi che vero, cosa che sospettai, che
Carmide avesse sentito da Crizia questa risposta riguardo all'assennatezza.
Carmide dunque, poich non voleva render conto lui della risposta, ma voleva lo
facesse l'altro, lo provocava e faceva notare che era stato confutato. L'altro
non lo toller, ma mi sembr adirato con lui come un poeta con un attore che
recita male i suoi versi. Per cui lo guard fisso e poi disse: Sicch, Carmide,
pensi che se non sai tu che cosa avesse in mente colui che disse che
l'assennatezza fare le proprie cose,
allora neppure lui lo sa? Ma, eccellente Crizia, dissi io, non affatto una cosa che desta meraviglia, data
la sua et, che ignori questa cosa; invece
naturale che tu la sappia, sia per via della tua et sia per i tuoi
studi. Se dunque ammetti che l'assennatezza
appunto ci che costui dice e accogli questo ragionamento, tanto pi
volentieri io indagherei insieme a te se la definizione vera oppure no. Ebbene lo ammetto senz'altro,
rispose, e lo accetto. E fai bene, dissi io, ammetti anche ci che chiedevo poco
fa: tutti gli artigiani fanno qualcosa? S. E ti sembra che facciano solo le
loro cose o anche quelle degli altri? Anche quelle degli altri. Dunque sono
assennati, pur non facendo solo le loro cose? Infatti, che cosa lo impedisce?
chiese. Niente, per me almeno, replicai io, ma bada che l'impedimento non ci sia
per colui che, avendo ipotizzato che l'assennatezza il fare le proprie cose, dice poi che nulla
impedisce che anche coloro che fanno le cose degli altri siano assennati. Io
infatti, in un certo senso, disse, questo l'ho ammesso, che sono assennati
coloro che fanno le cose degli altri, se ho ammesso che sono assennati coloro
che realizzano le cose degli altri.(24) Dimmi, tu non chiami con la stessa
parola il realizzare e il fare? No davvero, disse, e neppure il lavorare e il
realizzare. Ho imparato infatti da Esiodo, il quale diceva che il lavoro
non affatto vergogna. Pensi dunque che
egli, se usava, per le occupazioni del genere di cui parlavi poco fa, i termini
"lavorare" e "fare", avrebbe detto che non una vergogna per nessuno fare il calzolaio o
il venditore di pesci salati o stare in un bordello? Non bisogna crederlo,
Socrate, ma anche lui, a mio parere, pensava che altro la realizzazione di un'azione, altro la
realizzazione di un lavoro, e che mentre un'opera realizzata a volte motivo di vergogna, quando non accompagnata dal bello, il lavoro invece
non mai motivo di vergogna: infatti
chiamava lavori le cose realizzate in modo bello e utile e le realizzazioni di
tal genere le chiamava lavori e azioni. Bisogna dire che riteneva solo tali
azioni proprie di ciascuno, mentre riteneva estranee tutte quelle dannose;
quindi bisogna pensare che anche Esiodo, come qualsiasi altro uomo di buon
senso, definisce assennato chi si occupa delle sue cose. O Crizia, dissi io,
non appena cominciasti a parlare io capivo, credo, il tuo ragionamento, che
chiami buone le cose proprie e personali e azioni le creazioni di tal genere: e
infatti ho sentito infinite volte Prodico fare delle distinzioni riguardo ai
nomi. Ma io ti concedo di assegnare ogni nome come vuoi; soltanto chiarisci a
cosa di il nome che stai pronunciando. Dunque, ora di daccapo una definizione
pi chiara: l'azione o la realizzazione, o come tu vuoi chiamarla, delle cose
buone, tu dici che questa assennatezza?
S, rispose. Dunque non assennato colui
che compie azioni cattive, bens colui che compie azioni buone? E a te, nobile
Socrate, disse, non sembra cos? Lascia perdere, dissi, non indaghiamo su ci che
penso io, ma su ci che stai dicendo ora tu. Ebbene, disse, io affermo che colui
che realizza cose non buone ma cattive non
assennato, mentre assennato colui
che realizza cose buone ma non cattive: infatti il compimento di cose buone io
te la definisco chiaramente assennatezza. E certo nulla impedisce che tu abbia
forse ragione; tuttavia mi fa meraviglia, dissi io, il fatto che a tuo parere
gli uomini che sono assennati ignorano di essere assennati. Ma non lo penso,
replic. Poco prima non stato detto da te
che nulla vieta che gli artigiani, anche quando fanno le cose degli altri,
siano assennati? stato detto, certo,
disse, ma che vuol dire questo? Niente; ma dimmi se secondo te un medico,
quando guarisce qualcuno, fa qualcosa di utile sia per se stesso sia per colui
che guarisce. S. Colui che agisce cos non fa forse il suo dovere? S. E colui
che fa il suo dovere non assennato? assennato, certo. Non allora necessario che il medico sappia quando
guarisce in modo utile e quando no? E che ogni artigiano sappia quando pu
trarre profitto dal lavoro che sta facendo e quando no? Forse no. A volte,
dissi io, dopo aver agito in modo utile o dannoso, il medico non sa egli stesso
in che modo abbia agito; eppure, se ha operato in modo utile, secondo il tuo
discorso, ha agito in modo assennato. O non
cos che dicevi? S. Dunque, a quel che sembra, se ha operato in modo
utile, agisce assennatamente ed assennato,
ma ignora di se stesso che sia assennato? In realt, o Socrate, ribatt, questo
non potrebbe mai avvenire. Tuttavia se tu pensi, dalle mie precedenti
ammissioni, che inevitabile che ci si
accordi su questo, io preferirei ritirare qualcuna di quelle ammissioni, e non
mi vergognerei di dire che non ho detto cose esatte, piuttosto di ammettere che
un uomo ignori di se stesso che
assennato. Io, per me, infatti, pi o meno affermo che assennatezza proprio questo, conoscere se stessi e sono
d'accordo con colui che ha dedicato a Delfi tale iscrizione. Platone Carmide
Penso infatti che questa iscrizione sia posta in modo da rappresentare un
saluto del dio a chi entra, in luogo del "Salve", perch questa forma
di saluto non giusta, augurare di star
bene, e non bisogna farsi questa esortazione gli uni con gli altri, ma
augurarsi d essere assennati. In qu esto modo dunque il dio rivolge a coloro
che entrano nel santuario un saluto differente da quello che usano gli uomini:
con questo pensiero fece la dedica colui che la offr, a mio parere; e dice, a
colui che di volta in volta entra nel tempio, nient'altro che "Sii
saggio". Certo, parla in una maniera piuttosto enigmatica, come fa un
indovino; e infatti "Conosci te stesso" e "Sii saggio" sono
la stessa cosa, come indica l'iscrizione e come sostengo anch'io, ma forse
qualcuno potrebbe pensarla diversamente, cosa che appunto, a mio avviso, capitato a coloro che in seguito dedicarono
le iscrizioni "Nulla di troppo" e "Garanzia porta
guai".(29) Costoro infatti pensarono che "Conosci te stesso"
fosse un consiglio, ma non un saluto rivolto dal dio a coloro che entrano;
quindi anche loro, per offrire consigli non meno utili, scrissero e dedicarono
queste parole. Il fine per cui io dico tutto questo dunque, o Socrate, il seguente: ti lascio cadere tutto ci che ho
detto prima - in effetti forse su quei punti avevi pi ragione tu in qualcosa,
forse invece avevo pi ragione io, ma nulla di ci che dicevamo era chiaro -; ora
voglio renderti conto di questo, se non ammetti che assennatezza conoscere se stessi. Ebbene, Crizia, dissi,
tu con me ti comporti come se io sostenessi di sapere le cose sulle quali pongo
delle domande e potessi essere d'accordo con te, solo che lo desiderassi; ma
non cos, al contrario, infatti io indago
assieme con te di volta in volta il problema che si presenta, perch io stesso
non so. Dopo aver indagato, dunque, voglio dire se sono d'accordo o se non lo
sono. Suvvia, aspetta finch io non abbia fatto il mio esame. Fai dunque il tuo
esame, disse. Difatti lo sto facendo, replicai io, se infatti assennatezza
fosse conoscere qualcosa, chiaro che
sarebbe una scienza e una scienza di qualcosa o no? Lo di se stessi, rispose. Dunque anche la
medicina, chiesi, scienza della salute?
Certamente. Se allora tu mi chiedessi, continuai "Essendo la medicina
scienza di ci che sano, in cosa per noi utile e che cosa procura?",
risponderei che di non poca utilit,
perch ci procura un bel risultato, la salute, se accetti questa idea. Sono
d'accordo. E se poi tu mi domandassi dell'architettura, che la scienza del costruire, quale risultato a
mio dire produca, risponderei che produce le abitazioni; e allo stesso modo
anche per le altre arti. Bisogna dunque che anche tu risponda a proposito della
assennatezza, dal momento che affermi che essa
conoscenza di se stessi, se ti si chiede: "O Crizia,
l'assennatezza, essendo conoscenza di se stessi, quale bel risultato ci
procura, e degno del suo nome?". Via, rispondi. Ma, Socrate, replic, la
tua ricerca la stai conducendo male: essa infatti non simile alle altre scienze n le altre scienze
si somigliano tra loro. Tu stai invece conducendo la tua ricerca come se esse
fossero simili. Perch, dimmi, continu, quale risultato del calcolo o della
geometria simile alla casa
dell'architettura o al mantello prodotto della tessitura o ad altre opere di
tal genere che in gran numero si potrebbero indicare come prodotti di molte
arti? Ebbene, puoi mostrarmi anche tu qualche prodotto di queste arti che sia
di tal genere? Ma non potrai. E io risposi: Dici il vero; ma posso mostrarti
questo, di cosa sia scienza ciascuna di queste scienze, che si trovi ad essere
distinto dalla scienza stessa. Per esempio, il calcolo la scienza del pari e del dispari, della
quantit, come sia rispetto ai pari e ai dispari e tra i pari e i dispari tra
loro; o no? Certamente, rispose. Il dispari e il pari, non sono diversi
rispetto al calcolo stesso? Come no? E a sua volta la statica arte del pesare il peso pi pesante e il peso
pi leggero; tuttavia il pesante e il leggero sono diversi dalla statica stessa.
Sei d'accordo? S. Di' allora, anche l'assennatezza, di cosa scienza, che si trovi ad essere diverso
dall'assennatezza stessa? Questo il
punto, replic, o Socrate: tu arrivi allo stesso risultato, cercando in che cosa
differisce da tutte le scienze l'assennatezza; ma continui a cercare una certa
qual somiglianza di questa con le altre. La cosa per non sta cos, al contrario,
tutte le altre sono scienze di qualcos'altro, non di se stesse, quella sola
invece scienza delle altre scienze e
anche di se stessa. E queste cose certo non ti sono sfuggite; ma, penso, ci che
poco fa affermavi di non fare, lo stai facendo, perch cerchi di confutare, dopo
aver lasciato andare l'argomento su cui verte il discorso. Quale errore fai,
dissi, a pensare che se ti confuto quanto pi
possibile, lo faccio per qualche altra ragione che non sia appunto
quella per cui esaminerei cosa io stesso stia dicendo, nel timore che, senza
avvedermene, io pensi di sapere, mentre non so. E quindi io, per parte mia,
dichiaro adesso di fare questo: di esaminare il ragionamento soprattutto nel
mio stesso interesse, ma forse anche nell'interesse degli altri amici; o forse
non pensi che sia un bene comune per quasi tutti gli uomini che ognuna delle
cose che esistono diventi evidente nel suo modo di essere? proprio ci che penso anch'io, o Socrate,
rispose. Coraggio, dunque, ripresi, carissimo, rispondendo alla domanda nel
modo in cui ti sembra, lascia perdere se sia Crizia o Socrate colui che viene
confutato; ponendo invece attenzione al ragionamento stesso esamina in che modo
ne verr fuori, se viene confutato. Ebbene, concluse, far cos: le tue parole mi
sembrano misurate. Parla allora, ripresi io, riguardo all'assennatezza cosa
dici? Affermo allora, rispose, che sola tra le altre scienze essa scienza di se stessa e delle altre scienze.
Ma non sarebbe anche scienza dell'ignoranza, chiesi io, se lo anche della scienza? Certamente, rispose. Dunque
soltanto l'assennato conoscer se stesso e sar in grado di esaminare che cosa
egli si d il caso che sappia e 7 Platone Carmide che cosa non sa, e sar capace
allo stesso modo di esaminare anche gli altri, che cosa uno sappia o pensi di
sapere, se davvero sa, e che cosa poi pensi di sapere ma non sa; lui solo pu
farlo, nessun altro. Questo significa dunque essere assennati e l'assennatezza:
conoscere se stessi e sapere cosa si sa e cosa non si sa. Non questo ci che vuoi dire? S, rispose. E
ancora, ripresi, con la terza coppa al salvatore, come all'inizio esaminiamo in
prima istanza se questa cosa sia possibile oppure no - sapere che si sanno e
che non si sanno le cose che si sanno e quelle che non si sanno -; in seconda
istanza, se possibile nel modo pi
assoluto, quale utilit ne potremmo ricavare noi a saperlo. Certo, bisogna fare
un'indagine, disse. Via, Crizia, incalzai, esamina se riguardo a questi
argomenti tu non possa apparire in qualcosa pi pieno d risorse di me, perch io
sono in difficolt; ma devo dirti in cosa sono in difficolt? Certo, rispose.
Tutto questo, dissi io, non sarebbe forse, se davvero come tu dicevi poco fa, una sola scienza, la
quale non scienza di nient'altro se non
di se stessa e delle altre scienze e nello stesso tempo anche della mancanza di
scienza? Certo. Vedi dunque in che modo assurdo, caro compagno, ci accingiamo a
fare questo ragionamento: infatti se esamini questo stesso punto in altri
contesti, ti sembrer, com'io credo, impossibile. Come e in quali contesti? In
questi. Rifletti se a tuo parere esiste una vista che non sia la vista di
quelle cose delle quali ci sono altre viste, ma che sia la vista di se stessa e
delle altre viste e allo stesso modo delle assenze di vista, e, pur essendo una
vista, non veda nessun colore, ma solo se stessa e le altre viste: ti sembra
che possa esistere una vista di tal genere? Per Zeus, no. E un udito che non
oda nessuna voce, ma che senta invece se stesso e gli altri uditi e le assenze
di udito? Neppure questo. Insomma esamina tutte le percezioni, ti sembra che
qualcuna sia percezione delle percezioni e di se stessa, ma che delle cose
delle quali hanno percezione le altre sensazioni, non abbia nessuna percezione?
Non lo penso. Ma ti sembra che esista un desiderio che non sia desiderio di
nessun piacere, ma di se stesso e degli altri desideri? No davvero. Neppure una
volont, com'io credo, che non voglia nessun bene, ma voglia solo se stessa e le
altre volont. No, certo. Potresti affermare che esista un amore tale che si
trovi ad essere amore di nessuna bellezza, ma di se stesso e degli altri amori?
No, rispose. E hai gi osservato una qualche paura che tema se stessa e le altre
paure, ma non tema neppure una sola delle cose terribili? Non l'ho notata,
rispose. Un'opinione che sia opinione di opinioni e di se stessa, ma che sulle
cose sulla quali opinano le altre opinioni non opini? In nessun modo. Ma, a
quel che sembra, affermiamo che esiste una scienza di tal genere che non scienza di nessuna disciplina: non scienza di nulla, ma scienza di se stessa e delle altre scienze?
Lo affermiamo infatti. Non assurdo, se
davvero esiste? Dunque non affermiamo ancora con fermezza che non esiste,
esaminiamo piuttosto ancora se esiste. Dici bene. Vediamo dunque: questa
scienza scienza di qualcosa e ha un
potere tale da esserlo di qualcosa, o no? Certamente. E difatti noi affermiamo
che ci che maggiore ha un potere tale da
essere maggiore di qualcosa? Difatti lo ha. E di qualcosa che minore, se davvero maggiore? Necessariamente. Se dunque
trovassimo qualcosa di maggiore che fosse maggiore delle cose maggiori e di se
stesso, ma che non fosse maggiore di nessuna di quelle cose rispetto alle quali
le altre sono maggiori, certamente gli toccherebbe, se davvero maggiore di se stesso, di essere anche minore
di se stesso; o no? Assolutamente inevitabile, o Socrate, rispose. Ancora, se
qualcosa doppio delle altre cose doppie
e di se stesso, sarebbe dunque il doppio di una met che sia se stesso sia gli altri doppi: e difatti
non c' doppio di altro che della met.
vero. Essendo dunque pi di se stesso, non sar anche meno? Ed essendo pi
pesante pi leggero, ed essendo pi anziano pi giovane e in tutto il resto allo
stesso modo? La cosa che abbia la propria potenza in rapporto a se stessa, non
avr anche quella essenza con la quale era in rapporto la sua potenza? Voglio
dire questo: per esempio l'udito, diciamo, non era udito di altro se non del
suono, o no? S. Se dunque sentir se stesso, sentir se stesso perch provvisto di
suono, altrimenti non si udrebbe. Decisamente inevitabile. E la vista, nobile
uomo, se davvero essa vedr se stessa, deve necessariamente avere essa stessa un
colore, perch una vista non potrebbe mai vedere niente che sia incolore. No,
certo. Vedi dunque, o Crizia, che quante cose abbiamo esposto, alcune ci sono
parse assolutamente impossibili, su altre ci sono forti dubbi che possano avere
su loro stesse il loro stesso potere? Infatti per le grandezze, le quantit e
altre cose di tal genere assolutamente
impossibile; o no? Certamente. L'udito poi e la vista e ancora lo stesso
movimento che possa muovere se stesso e il calore bruciare e tutte le altre 8
Platone Carmide cose del genere in alcuni potrebbero provocare incredulit, in
altri forse no. C' bisogno, mio caro, di un grande uomo che distinguer
adeguatamente, per tutti i casi, se nessuna delle cose esistenti abbia per
natura il suo potere essa su se stessa, ma su altro alcune s e altre no; e s e
poi esistono alcune cose che hanno potere su se stesse, se tra queste c' la
scienza che noi diciamo essere appunto l'assennatezza. Io non mi credo capace
di fare queste distinzioni: perci non posso sostenere fermamente ne se sia
possibile che avvenga questo, che esista una scienza della scienza, n, nel caso
sia precisamente cos, accetto che questa stessa cosa sia l'assennatezza, prima
che io abbia esaminato se, essendo di tale natura, possa esserci utile o no.
Infatti che l'assennatezza sia qualcosa di utile e di buono lo indovino. E tu
dunque, figlio di Callescro - giacch stabilisci che l'assennatezza questo, scienza di una scienza e quindi anche
di una mancanza di scienza - per prima cosa mostra che possibile ci che poco fa io dicevo, in
secondo luogo che oltre ad essere possibile
anche utile; e forse potresti anche soddisfare me, con l'idea che sia
giusta la definizione che di dell'assennatezza. E Crizia, udite queste parole e
avendomi visto in difficolt, come accade a coloro che, nel vedere delle persone
sbadigliare, ne condividono il bisogno, anche lui mi sembr costretto dal mio
essere in difficolt e preso egli stesso dall'imbarazzo. Poich dunque in ogni
occasione si faceva onore, provava vergogna davanti ai presenti, e non voleva
concedermi di non essere capace di distinguere le cose sulle quali io lo avevo
chiamato a fare distinzioni, e non diceva nulla di preciso, cercando di
nascondere l'imbarazzo. E io, per far proseguire il nostro ragionamento, dissi:
Ma se opportuno, o Crizia, ammettiamo
pure ora questo dato, che possibile che
esista una scienza della scienza; esamineremo di nuovo se cos o no. Suvvia, posto che questo sia
assolutamente possibile, in cosa allora
maggiormente possibile sapere quel che uno sa o quale che non sa?
Dicevamo (33) infatti che questo appunto
conoscere se stessi ed essere assennati; o no? Certo, rispose, e in certo qual
modo ne consegue, Socrate; infatti se uno possiede una scienza che conosce se
stessa, sarebbe della stessa natura della cosa che possiede: come per esempio
quando uno ha la velocit, veloce, quando ha la bellezza, bello, e quando ha la conoscenza, uno che conosce; quando per uno abbia una
conoscenza che conosca se stessa, in certo qual modo sar allora egli stesso
conoscitore di se stesso. Non discuto questo, ribattei io, che quando un uomo
possieda una cosa che conosce se stessa, non conoscer egli stesso se stesso, ma
che necessit c' che colui che abbia questa cosa sappia ci che sa e ci che non
sa? Perch queste due cose sono identiche, Socrate. Forse, ribattei, ma ho paura
di essere sempre allo stesso punto, perch non capisco come possa essere lo
stesso il sapere ci che si sa e il sapere ci che non si sa. Come dici?, chiese.
Dico questo, risposi, una scienza che in qualche modo scienza di scienza sar in grado di
distinguere di pi rispetto al dire: di queste cose l'una scienza, mentre l'altra non scienza? No, ma solo questo. Dunque vale lo
stesso per la scienza e per l'ignoranza del sano, e per la scienza e
l'ignoranza del giusto? In nessun modo. Ma l'una, credo, la medicina, l'altra la politica, mentre
quest'altra non nient'altro che scienza.
Come no, infatti. Se dunque uno non aggiunge il sano e il giusto, ma conosce
solo la scienza, dal momento che ha soltanto la scienza di questo, potrebbe
ragionevolmente conoscere, riguardo a se stesso e riguardo agli altri, che sa
una cosa e possiede una scienza, o no? S. Ci che conosce grazie a questa
scienza come lo sapr? Infatti conosce ci che
sano grazie alla medicina, ma non grazie all'assennatezza, ci che armonico grazie alla musica, ma non grazie
all'assennatezza, ci che riguarda le costruzioni grazie all'architettura, ma
non grazie all'assennatezza, e cos via, o no ?
evidente. Ma grazie all'assennatezza, se davvero soltanto scienza delle scienze, come sapr che
conosce ci che sano o ci che riguarda le
costruzioni? In nessun modo. Dunque colui che ignora queste cose non sapr ci
che sa, ma sapr soltanto che sa. Sembra. N l'essere assennati n l'assennatezza
sarebbero dunque questo: sapere le cose che si sanno e le cose che non si
sanno, ma, come sembra, soltanto che si sa e che non si sa. probabile. N costui sar capace di esaminare
se un altro, che va dicendo di conoscere qualcosa, sa ci che dice di sapere o
non lo sa; ma conoscer questo soltanto, a quanto sembra, che possiede una
scienza, di cosa per l'assennatezza non glielo far conoscere. Non pare. Non sar
in grado di distinguere colui che si spaccia per medico ma non lo e chi invece lo realmente, n nessun altro di coloro che sanno
e non sanno. Esaminiamo dunque da qui: se l'assennato, o chiunque altro voglia
riconoscere il vero medico e colui che non lo , non si comporter dunque in
questo modo. Non gli parler certo di medicina- perch il medico, come dicevamo,
non si intende di nient'altro che non sia la salute e la malattia - o no?
S, cos. Di scienza invece non sa nulla,
questa la attribuimmo infatti all'assennatezza soltanto. S. N di medicina sa
nulla il medico, dal momento che la medicina si d il caso che sia appunto una
scienza. vero. Che dunque il medico
possiede una scienza, l'assennato lo comprender; poich tuttavia bisogna
sperimentare quale sia, non esaminer forse di quali cose sia scienza? O
non forse vero che, grazie a questo, di
ogni scienza viene 9 Platone Carmide stabilito non soltanto che sia scienza ma
anche uale scienza sia, grazie cio al fatto che
scienza di qualcosa? Grazie a questo, certo. E la medicina viene
definita diversa dalle altre scienze, per il fatto che scienza del sano e del malato. S. Dunque
colui che voglia indagare sulla medicina non deve forse ricercare all'interno
di quelle situazioni nelle quali la medicina sia presente e certo non in quelle
esterne alla medicina o nelle quali questa non sia contemplata? Certo non in
queste. In ci che sano e in ci che malato dunque colui che fa un'indagine
corretta esaminer il medico, in quanto medico.
naturale. Indagando dunque nelle parole dette e nelle azioni compiute in
questo modo: le parole, per vedere se sono ben dette, le azioni, per vedere se
sono ben fatte? Necessariamente. Senza la medicina potrebbe qualcuno prestare
attenzione all'una o all'altra di queste due cose? No davvero. Nessun altro
potrebbe farlo, com' naturale, tranne un medico, neppure un assennato, perch
dovrebbe essere un medico in aggiunta all'assennatezza. cos. Soprattutto, se l'assennatezza soltanto la scienza della scienza e
dell'ignoranza, non sar in grado di distinguere n un medico che conosce i
princpi della sua arte o colui che non li conosce ma pretende di conoscerli o
pensa di conoscerli, n nessun altro di coloro che conoscono una scienza e
qualsiasi cosa sappiano, a meno che non si tratti di una persona che condivida
la sua arte, come gli altri artigiani.
evidente, disse. Quale vantaggio dunque, dissi, Crizia, potremmo ancora
ricavare da una assennatezza che sia di tal fatta? Se infatti, ipotesi che
facevamo all'inizio, l'assennato sapesse ci che sa e ci che non sa, e sapesse
queste cose di saperle e queste altre di non saperle, e fosse in grado di
esaminare un altro che si trovi in questa stessa situazione, ci sarebbe di
grandissima utilit, diciamo, essere assennati: vivremmo esenti da errore noi
stessi che possediamo l'assennatezza e tutti gli altri quanti fossero governati
da noi. E difatti non ci metteremmo a fare cose che non conosciamo, ma,
cercando persone che sappiano, le affideremmo a loro, n permetteremmo agli
altri, sui quali esercitiamo un comando, di fare nient'altro se non ci che
potrebbero fare bene: e questo sarebbe ci di cui abbiano scienza; e cos, una
casa amministrata dall'assennatezza sarebbe ben amministrata, una citt ben
governata e ogni altra cosa sulla quale eserciti un potere l'assennatezza:
rimosso l'errore, e facendo d'altra parte da guida la correttezza, in ogni
azione necessario che coloro che si
trovano in queste condizioni abbiano buona fortuna e d'altra parte, avendo
buona fortuna, siano felici. Non questo,
dissi, Crizia, che intendevamo a proposito dell'assennatezza, dicendo quale
grande bene sarebbe conoscere ci che si sa e ci che non si sa? Certamente,
rispose: cos. Ora, ripresi io, vedi che
non apparsa in nessun luogo nessuna
scienza di questo tipo. Lo vedo, disse. Non ha forse questo di buono,
continuai, la scienza che ora stiamo cercando, l'assennatezza, il conoscere la
scienza e l'ignoranza: che quando uno la possiede, qualsiasi altra cosa
apprenda, la apprender pi facilmente e tutto gli apparir pi chiaro, dato che,
in aggiunta a ogni cosa che apprenda, avr la visione della scienza, ed esaminer
meglio gli altri sulle cose che egli stesso abbia appreso, mentre gli altri,
conducendo l'esame senza la scienza, lo faranno in maniera pi debole e
mediocre? Sono questi, caro amico, i tipi di vantaggi che otterremo
dall'assennatezza, mentre noi miriamo a qualcosa di pi grande e desideriamo che
questo stesso qualcosa sia maggiore di quanto sia? Forse cos, rispose. Forse, dissi io, forse per noi
non cercammo niente di utile. Faccio questa congettura perch mi appaiono certi
strani fatti riguardo all'assennatezza, se
di tal fatta. Vediamo, dunque, se vuoi: avendo ammesso che possibile conoscere la scienza e ci che
all'inizio ponevamo essere l'assennatezza, cio conoscere ci che si sa e ci che
non si sa, non neghiamolo, ma concediamolo; e dopo aver accettato tutte queste
cose, esaminiamo ancora meglio se, essendo tale, ci porter anche qualche
vantaggio. Infatti non mi sembra, o Crizia, che abbiamo fatto bene ad ammettere
ci che dicevamo poco fa, che l'assennatezza, se fosse tale, sarebbe un gran
bene, facendo da guida all'amministrazione sia della casa sia della citt. Come
mai? domand. Perch, risposi, ammettemmo con facilit che un grande bene per gli uomini se ognuno di
noi facesse le cose che sa, mentre quelle che non sa le affidasse ad altri che
le conoscano. Dunque non facemmo bene ad ammetterlo? No, non mi sembra, risposi
io. Dici cose strane veramente, o Socrate, comment. Per il cane!, (36)
esclamai. Anche a me sembra cos, e avendo rivolto l lo sguardo anche poco fa,
dicevo che mi si mostravano davanti alcune cose strane e che temevo che la
nostra ricerca non fosse esatta. Infatti veramente, se l'assennatezza esattamente tale, non mi sembra per nulla
chiaro quale vantaggio essa ci arrechi. E come mai?, disse lui. Parla, affinch
sappiamo anche noi ci che vuoi dire. Penso, dissi io, di star sragionando;
bisogna tuttavia esaminare l'idea che mi si presentava e non rifiutarla con
leggerezza, se uno si preoccupa almeno un po' di se stesso. Parli bene, disse.
Platone Carmide Ascolta dunque, continuai, il mio sogno, sia esso venuto
attraverso la porta di corno o attraverso quella di avorio. Se infatti
l'assennatezza esercitasse su di noi il massimo potere, essendo quale ora la
definiamo, forse tutto verrebbe fatto in base alle scienze, e nessun nocchiero,
che affermi di essere tale senza esserlo, potrebbe ingannarci, n medico n
stratego n nessun altro che finga di sapere qualcosa che non sa, potrebbe farla
franca; dal momento che le cose stanno cos, potrebbe accaderci qualcos'altro se
non che saremo fisicamente pi sani di ora e ci salveremo nei pericoli, sia in
mare sia in guerra e avremo gli utensili, la veste, tutti i tipi di calzature e
ogni oggetto fabbricato con arte e molte altre cose, dal momento che ci
serviamo di abili artigiani? Se vuoi, ammettiamo che anche la mantica sia la
scienza di ci che deve avvenire e l'assennatezza, che ad essa preposta, tolga di mezzo i
ciarlatani, e invece stabilisca i veri indovini quali profeti del futuro. Che
cos disposto il genere umano potrebbe agire e vivere sapientemente, lo capisco
- infatti l'assennatezza, stando di guardia, non permetterebbe che l'ignoranza,
sopravvenendo, fosse nostra collaboratrice -, ma che agendo sapientemente
avremmo fortuna e saremmo felici, questo invece non siamo ancora in grado di
capirlo chiaramente, caro Crizia. Tuttavia, riprese, non troverai facilmente un
altro fine (38) dell'avere fortuna, se rifiuti l'agire secondo la scienza.
Insegnami allora ancora una piccola cosa, dissi io, secondo la scienza di cosa
intendi? Forse del taglio del cuoio? Per Zeus, no. Allora della lavorazione del
bronzo? Niente affatto. Allora della lana, del legno o di altro materiale del
genere? No davvero. Dunque non rimaniamo fermi al ragionamento secondo cui chi
vive secondo la scienza felice. Infatti
costoro, nonostante che vivano secondo la scienza, tu non ammetti che siano
felici, ma mi sembra che tu limiti l'uomo felice a colui che vive secondo la
scienza di determinate cose. E forse ti riferisci a colui che menzionavo poco
fa, colui che conosce tutto ci che sta per avvenire, l'indovino. Ti riferisci a
lui o a qualcun altro? A lui, rispose, e a un altro. Chi?, domandai. Forse un
uomo del genere, se oltre a conoscere il futuro conoscesse anche tutte le cose
passate e quelle presenti e non ignorasse nulla? Poniamo che un tal uomo
esista. Non potresti infatti, penso, dire che ci sia al mondo qualcuno che vive
con pi scienza di lui. No, certo. Desidero inoltre sapere questo, quale tra le
scienze lo rende felice? O forse tutte nella stessa misura? Nient'affatto nella
stessa misura, rispose. Ma quale pi di tutte? Grazie alla quale, cosa sa tra le
cose presenti, quelle passate e quelle future? Forse quella grazie alla quale
conosce il gioco degli scacchi? Ma quale gioco degli scacchi?, esclam. Allora
quella grazie alla quale conosca il calcolo? Nient'affatto. Allora quella per
cui conosce ci che sano? Piuttosto,
rispose. Ma qual quella scienza alla
quale faccio particolare riferimento, continuai, grazie alla quale, cosa pu
conoscere? Quella per cui conosce il bene e il male. Ah furfante, esclamai, da
tempo mi porti in giro, nascondendomi che non era il vivere secondo scienza a
fare la fortuna e la felicit, n
prerogativa di tutte le altre scienze insieme, ma di una sola, che soltanto quella che tocca il bene e il male.
Perch, Crizia, se toglierai questa scienza dalle altre scienze, forse la
medicina far guarire un po' meno, l'arte del calzolaio far calzare meno scarpe,
la tessitura vestire meno, l'arte del nocchiero impedirmeno di morire in mare e
quella dello stratego in guerra? Non meno, rispose. Ma, caro Crizia, che ognuna
di queste cose avvenga bene e in modo utile ci verr a mancare, se questa
scienza assente. Quel che dici vero. Questa scienza dunque, a quel che
sembra, non l'assennatezza, ma quella la
cui funzione di esserci utile. Infatti
non la scienza delle scienze e delle non
scienze, ma del bene e del male: cosicch, se dunque la scienza utile quest'ultima, l'assennatezza per noi sarebbe
qualcosa di diverso. Perch, chiese, non potrebbe esserci utile? Infatti se
l'assennatezza in modo particolare
scienza delle scienze, presiede anche le altre scienze, e, avendo potere anche
su questa, cio la scienza del bene, dovrebbe esserci utile. Quale fa guarire?,
chiesi. Questa? E non la scienza medica? E le altre opere delle arti le compie
questa e non le altre arti, ciascuna la propria? Non abbiamo invece stabilito
da tempo che essa unicamente scienza
della scienza e della mancanza di scienza e di nient'altro, non cos? Almeno pare. Non sar dunque artefice di
salute? No, certo. La salute era infatti opera di un'altra arte, o no? Si, di
un'altra. N dunque sar artefice di utilit, caro compagno: perch poco fa
attribuimmo a un'altra arte questo compito,
vero? Certo. In che modo sar dunque utile l'assennatezza, se non artefice di nessuna utilit? In nessun modo, o
Socrate, almeno sembra. Vedi dunque, o Crizia, come a ragione tempo fa io
temessi e a buon diritto mi rimproveravo di non aver condotto un'indagine utile
sull'assennatezza? Infatti la cosa che per generale ammissione tra tutte la pi bella non ci sarebbe apparsa
priva di utilit, se io fossi stato di qualche utilit alla realizzazione di una
buona ricerca. Ora siamo invece battuti su tutti i fronti e non siamo in grado
di scoprire per quale delle realt esistenti il legislatore pose questo nome,
l'assennatezza. Eppure abbiamo ammesso molte cose che non conseguivano al
nostro ragionamento. Platone Carmide Infatti ammettemmo che scienza della scienza, nonostante che il
ragionamento non lo permettesse e affermasse che non cos; concedemmo poi a questa scienza di
conoscere anche i compiti delle altre scienze, nonostante che neppure questo
ammettesse il ragionamento, affinch l'assennato potesse diventare per noi uno
che sa di sapere quello che sa e di non sapere quello che non sa. E questo lo
ammettemmo con grande generosit, senza riflettere sul fatto che impossibile che uno possa in qualsiasi modo
sapere cose che non sa assolutamente; la nostra ammissione infatti dice che si
sa ci che non si sa. Eppure, com'io credo, non c' nulla rispetto a cui questo
non potrebbe apparire pi assurdo. Tuttavia la ricerca, che ci ha trovati cos
disponibili e non inflessibili, n on
maggiormente in grado di trovare la verit, anzi tanto l'ha derisa che ci
che noi da tempo, cercando un accordo ed elaborando insieme, stabilimmo essere
l'assennatezza ci appariva manifestamente, con grande insolenza, inutile.
Dunque io, per parte mia, mi indigno meno; ma per te, continuai, o Carmide,
sono molto indignato, se tu, che sei tale per aspetto e oltre a ci molto
assennato nell'animo, non trarrai nessuna utilit da questa assennatezza, n ti
sar di alcuna utilit la sua presenza nella vtia. Ma ancora di pi mi indigno per
la formula magica che imparai dal Trace, (42) se, mentre di nessun valore pratico, ci misi tanto zelo
ad impararla. Ebbene, non credo che le cose stiano cos, ma che io sono un
ricercatore mediocre; perch, penso, l'assennatezza un gran bene e se davvero la possiedi, sei un
uomo beato. Via, guarda se l'hai e non hai nessun bisogno della formula magica,
perch se la possiedi, io ti consiglierei piuttosto di ritenere me un
chiacchierone, incapace di ricercare col ragionamento alcunch, te invece quanto
pi assennato tanto pi felice. E Carmide, Ma per Zeus, disse, io non so n se la
possiedo n se non la possiedo: come potrei sapere ci che neppure voi siete
capaci di trovare cosa mai sia, come tu affermi? Io non sono tuttavia molto
persuaso da te, e per parte mia, o Socrate, credo di avere molto bisogno della
formula magica e per quel che concerne me nulla impedisce che venga incantato
da te tanti giorni finch tu dica che
sufficiente. E sia: tuttavia, o Carmide, disse Crizia, se lo farai,
questa sar per me la prova che sei assennato, nel caso tu ti sottoponga all'incantamento
di Socrate e non ti allontani da lui n molto n poco. Stai sicuro che lo seguir
e non lo lascer, rispose, perch mi comporterei in modo terribile, se non
obbedissi a te, il tutore, e non facessi ci che mi ordini. Ebbene, ribatt
l'altro, io te lo ordino. Lo far, rispose, a partire da questo stesso giorno.
Voi due, intervenni io, che cosa state decidendo di fare? Nulla, rispose
Carmide, abbiamo gi deciso. Allora mi costringerai, esclamai, e non mi
concederai la possibilit di un'inchiesta? Stai sicuro che ti costringer, dal
momento che costui me lo ordina; in considerazione di ci decidi tu cosa farai.
Ma non resta nessuna decisione, dissi io, infatti se tu ti metti a fare
qualsiasi cosa e usi la forza, nessun uomo sar capace di contrastarti. No,
certo, ribatt: non opporti neppure tu. Allora non mi opporr, dissi io. Platone
Carmide 1) la lezione "ecomen"
adottata dall'editore Burnet (altri editori leggono, al singolare, "econ
men"). Colonia corinzia, entrata nella Lega navale delio-attica. Atene le
impose di rinunciare ai suoi legami con la madrepatria Corinto, la quale
annualmente inviava a Potidea un magistrato (epidamiurgo), incaricato di
partecipare al governo della citt. Il rifiuto di Potidea alle richieste
ateniesi costituisce uno dei casus belli che porteranno allo scoppio della
guerra del Peloponneso. L'assedio di Potidea, da parte del contingente ateniese
guidato da Callia, dur dal 432 al 429 a.C. (cfr. Tucidide). Nell'Apologia
Socrate ricorda agli Ateniesi la sua fedelt, da lui dimostrata sul campo a
Potidea, appunto, ad Anfipoli e a Delio. Si tratta evidentemente di un
istruttore, di cui non sappiamo altro. 4) Antica divinit ateniese, nel cui
santuario venivano onorati anche Codro e Neleo. Il santuario si trovava
probabilmente a sud dell'Acropoli. Cherefonte, del demo attico di Sfetto, ricordato come amico di Socrate gi da
Aristofane (Nubes) e da Senofonte (Memorabilia primo 2, 48). Compare come
interlocutore anche nel Gorgia. Esponente politico di parte democratica, viene
esiliato dai Trenta Tiranni, rientra ad Atene, con Trasibulo. Nellanno dei
processo e della morte di Socrate, Cherefonte era gi morto (cfr. Apologia
Socratis). A lui la Pizia diede il famoso responso che indicava in Socrate il
pi saggio degli uomini. La Suida accenna a presunte opere di Cherefonte,
perdute tuttavia gi nell'antichit. Callescro era fratello di Glaucone, nonno
materno di Platone. 7) Carmide era infatti figlio di Glaucone, a sua volta
fratello di Callescro, il padre di Crizia (cfr. la nota precedente). Figlia di
Glaucone era Perictione, madre di Platone. Platone era pertanto nipote di
Carmide, e figlio della cugina di Crizia. Cfr. Sofocle, frammento 330 Radt: su
pietra bianca cordicella bianca. I carpentieri che normalmente usano per le
misurazioni una cordicella rossa considerano la cordicella bianca strumento non
funzionale per la misurazione e pertanto inutilizzabile. Socrate si definisce
dunque "cordicella bianca", giudice non funzionale, per questa sua
tendenza a considerare tutti belli i giovani nel fiore degli anni. Ma Carmide,
come dimostreranno gi le prime battute sul suo arrivo, smanteller completamente
questa convinzione del maestro. 9) La discendenza di Carmide e di Crizia da
Solone passa attraverso Dropide, padre di Crizia il vecchio, che era nonno di
Carmide e del nostro Crizia (cfr. Timaeus 20e). Secondo Diogene Laerzio, e
Proclo, In Platonis Timaeum, Dropide era fratello di Solone. Solone fu arconte
ad Atene (Diogene Laerzio, (Aristotele, Respublica Atheniensium 1Abol i debiti
e liber dalle ipoteche i beni dei debitori, restituendo la libert a coloro che,
insolventi, avevano acceso ipoteche sulla propria persona. Riform il sistema
dei pesi e delle misure e introdusse una moneta pi leggera, con una
svalutazione che favoriva in modo particolare i debitori. Nella vecchia
ripartizione in classi dei cittadini ateniesi aggiunse la classe dei
pentacosiomedimni. Fu scrittore di elegie (5.000 versi, secondo Diogene
Laerzio), poesie giambiche ed epodi. 10) Poeta lirico forse da identificare col
Cidia, accostato da Plutarco nei Moralia a Mimnermo e Archiloco, De facie in
orbe lunae. Il principio qui esposto, della corrispondenza della parte e delle
parti col tutto nell'organismo umano,
alla base della terapia della medicina ippocratica. Nel Corpus
Hippocraticum compreso un trattato (Sul
regime di vita. Divinit dei Traci, identificato da Mnasea (in Fozio, s.v.
"Zalmoxis") con il dio greco Crono. Erodoto racconta che prima di
essere dio fu uomo, schiavo di Pitagora a Samo. Acquistata la libert, torn in
Tracia, dove annunci ai cittadini eminenti che tutti i loro discendenti
sarebbero vissuti in eterno e avrebbero avuto ogni bene. Queste notizie, che
Erodoto ha raccolto tra i Greci dell'Ellesponto, servivano forse a sottolineare
le analogie tra sciamanismo e pitagorismo. Erodoto tuttavia si mostra scettico
e ristabilisce la giusta cronologia, dichiarando che Zalmoxis in realt vissuto prima di Pitagora. Cfr. E.R.
Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Per il senso pi ampio da attribuire al
termine greco "sophrosne" cfr. quanto osservato nella premessa al
dialogo. Anacreonte nacque a Teo, in Asia Minore. Visse alla corte di Policrate
d Samo (tiranno) e, dopo la morte di questi, in Tessaglia e ad Atene. Fu autore
di componimenti in metro elegiaco, giambico e in metri lirici quali
l'anacreontico, il gliconeo, il ferecrateo. Del Crizia antenato del Crizia del
quinto secolo parlano in effetti due versi di Solone (frammento Gentili-
Prato). 18) Pirilampe, figlio di Antifonte, fu amico di Pericle (Plutarco,
Pericles. Era famoso per i suoi allevamenti di pavoni che probabilmente aveva
portato dalla Persia. Viene inoltre ricordato dalle fonti come secondo marito
di Perictione, madre di Platone. Abari
sciamano e taumaturgo, che Erodoto definisce sacerdote di Apollo.
Pindaro (frammento Bowra) lo assegna all'et di Creso. Di lui si raccontava che
viaggiasse senza mai mangiare e che portasse con s una freccia donatagli da
Apollo. Secondo il lessico Suida(s.v.) venne in delegazione ufficiale dal paese
degli 13 Platone Carmide Iperborei ad Atene al tempo della terza Olimpiade. Abari,
come Zalmoxis e Pitagora, un altro
esempio di ponte gettato, nell'immaginario antico, tra Oriente e Occidente.
Combattimento combinato di lotta ("ple"), e pugilato
("pugme"). Gara particolarmente pericolosa, ammetteva praticamente
ogni genere di colpo; era tuttavia proibito mordere ed accecare l'avversario.
Cfr. Platone, Euthydemus) Cfr. Odyssea. Cfr. frammento Diels-Kranz 88B 41a. Che
la definizione sia di Crizia confermato
dalla reazione indispettita che Platone gii attribuisce. Si tratta di una formula
che Platone considerava evidentemente momento essenziale del percorso di
ricerca della definizione ultima di "sophrosne". In Crizia la
definizione doveva avere una valenza specificamente politica e riflettere il
settarismo esclusivista di una concezione di vita che sprofondava le sue radici
nell'antica etica aristocratica (A. Battegazzore, in Sofisti. Testimonianze e
frammenti, volume 4, a cura di M. Untersteiner e A. Battegazzore, Firenze. Lo
strigile era uno strumento impiegato nella palestra per raschiare dal corpo
l'olio e la sabbia. Probabilmente c' qui un riferimento polemico a Ippia di
Elide (cfr. Hippias minor), il quale si faceva sostenitore dell'autarchia e ad
Olimpia esib un anello, un sigillo, uno strigile, un'ampolla, calzari, un
mantello, e perfino una tunica e una cintura di foggia persiana, interamente
realizzati da lui. Ai verbi "pratto" e "poieo" va dato il
diverso significato di 'fare' e di 'realizzare', essendo il primo non
necessariamente collegato con una realizzazione di oggetti che invece implicita nel verbo "poieo",
come anche nel verbo "rgazestai" 'lavorare', che Platone impiega
qualche riga pi in basso (A. Braun, I verbi del fare nel greco, in Studi
italiani di filologia classica. Esiodo, Opera et dies. La formulazione anticipa
uno dei princpi del l'etica attivistica periclea, nel "manifesto"
della democrazia ateniese riportato da Tucidide, 2,40,; cfr. D. Musti, Storia
greca. Linee di sviluppo dall'et micenea all'et romana, Bari-Roma; Idem
Demokratia. Origini di un'idea. Bari-Roma. Prodico d Ceo, sofista contemporaneo
di Socrate, nato probabilmente nel 465 e morto nel 400 a.C., scrisse le
"Orai" (Ore o Stagioni), e un'opera "Sulla natura". Viaggi
in molte citt greche come ambasciatore e spesso ad Atene, dove offriva ai
giovani che seguivano il suo insegnamento la possibilit di optare tra lezioni
da una dracma e lezioni da cinquanta dracme. Le sue ricerche, tra le altre
cose, vertevano sulla definizione dei sinonimi. Cfr. Platone, Hippias maior.
L'iscrizione sull'architrave del santuario di Apollo a Delfi aveva
probabilmente un significato religioso, di ammonimento al visitatore affinch
ricordasse la sua condizione mortale. Cfr. Teognide. Proverbio cui fa
riferimento in un frammento anche il commediografo Cratino. Cfr. Platone, Gorgias)
Espressione proverbiale, usuale nei banchetti. Si invoca questo terzo brindisi
(a Zeus Salvatore), il decisivo, perch decisivo ci si augura che sia il terzo
tentativo di definizione della "sophrosne. Passo di difficile
interpretazione, per cui il tutto suonerebbe: se qualcosa doppio di altri doppi e di se stesso, sarebbe
doppio essendo quindi met sia di se stesso sia degli altri doppi, oppure come
proposto nel testo. Cfr. Dunque soltanto l'assennato conoscer se stesso.
Non a mio parere necessario aggiungere
al testo con il conoscere se stessi, coma propone Diano, n espungere, come
fanno vari filologi, la parte finale della frase il sapere ci che si sa e il
sapere ci che non si sa. Cfr. Platone, Laches 182b-c. 36) Esclamazione che
Socrate usa frequentemente (cfr. per esempio Apologia Socratis Cfr. Omero,
Odyssea libro 19, 560-567: attraverso la porta di corno passano i sogni
veritieri inviati agli uomini dagli di, attraverso la porta di avorio passano
invece i sogni falsi. 38) "Telos" significa 'compimento',
'realizzazione', 'fine'. 39. I "pessoi" erano 'pedine' usate in un
gioco simile alla dama o agli scacchi (cfr. Platone, Leges). I
"pessoi" sono da distinguere dai dadi da gioco, chiamati "cuboi.
Cfr.I tipi di vantaggi che otterremo dall'assennatezza...). L'idea che i nomi
siano stabiliti da un legislatore o da una legge divina ampiamente sviluppata nel Cratilo. E io, al
sentire che approvava, ripresi coraggio. Il termine "ancrisis"
appartiene al lessico giuridico e indica l'istruttoria preliminare. Platone
Liside Edizione a cura di Sanasi Platone Liside Platone LISIDE Percorrevo la
strada esterna alle mura, sotto le mura stesse, dall'Accademia direttamente al
Liceo. Quando fui all'altezza della porticella dove si trovava la fontana di
Panopo, l incontrai Ippotale, figlio di Ieronimo, Ctesippo del demo di Peania e
altri giovani fermi in gruppo insieme a costoro. Ippotale, appena mi vide
avvicinarmi, disse: Socrate, dove vai e da dove vieni? Dall'Accademia vado
direttamente al Liceo, risposi io. Ma vieni qui, direttamente da noi. Perch non
cambi strada? Ne vale la pena~ disse egli. Dove mi inviti e da chi di voi?,
domandai io. Qui, rispose, mostrandomi un recinto davanti al muro e una porta
aperta: qui passiamo il tempo noi e molti altri bei giovani. Cos' questo luogo
e come passate il tempo? una palestra
costruita da poco. Per lo pi passiamo il tempo in discussioni, di cui ti
renderemmo volentieri partecipe, rispose. E fate bene: ma chi insegna qui?,
domandai. Un tuo amico e ammiratore: Micco, rispose. Per Zeus, non certo un uomo da poco, ma un valente sofista,
osservai. Vuoi seguirci per vedere chi c' dentro?, chiese Ippotale. Prima
ascolterei volentieri per quale motivo devo entrare e chi il bello, chiesi a mia volta. Ognuno di noi
la pensa diversamente, Socrate, rispose egli. Per te chi , Ippotale? Dimmelo.
Interrogato su questo arross e io dissi: Ippotale, figlio di Ieronimo, non
dirmi pi se ami qualcuno o no: so che non solo sei innamorato, ma ti sei spinto
molto oltre nell'amore. Nelle altre cose io non valgo e non servo a molto, ma
questo dono ho ricevuto dal dio, la capacit di capire subito chi ama e chi amato. Udendo queste parole egli arross
ancora di pi e Ctesippo disse: bello che
tu arrossisca, Ippotale, ed esiti a dire a Socrate quel nome; ma se egli si
intrattiene anche poco con te, sar sfinito sentendotelo ripetere un numero
infinito di volte. Socrate, egli ha intronato e riempito le nostre orecchie con
il nome di Liside: e se poi beve ci
facile, quando ci svegliamo dal sonno, credere di sentire il nome di
Liside. E quanto dice a parole, anche se terribile, non cos terribile come quando tenta di rovesciare
su di noi poesie e prose. E ci che
ancora pi terribile il fatto che
canti al suo amato con voce incredibile che noi dobbiamo ascoltare e
sopportare. Ora invece, interrogato da te, arrossisce. Liside un giovane, a quanto pare: lo intuisco dal
fatto che sentendone il nome, non lo conosco, osservai. Infatti non lo chiamano
molto con il suo nome ma ancora chiamato
con il nome del padre che molto
conosciuto, perci so bene che non puoi ignorare l'aspetto di quel ragazzo,
poich in grado di farsi notare solo per
questo, disse. Mi si dica di chi figlio,
chiesi. il figlio maggiore di Democrate
del demo di Aissone disse. Bene, Ippotale, che amore nobile e giovane da ogni
punto di vista hai trovato! Su, mostra anche a me ci che mostrerai a costoro,
perch io veda se sai ci che un innamorato deve dire del suo amato di fronte a
lui stesso e agli altri, osservai. Ma Socrate, perch dai peso a come parla
costui?, chiese Ippotale. Neghi di amare il giovane di cui costui parla?,
domandai. No, ma nego di comporre poesie e prose per l'amato, rispose. Non sta
bene, ma farnetica e delira, disse Ctesippo. Io chiesi: Ippotale, non ti chiedo
di ascoltare qualche verso o qualche canto, se ne hai composti per il
giovinetto, ma il tuo pensiero, per vedere in quale modo ti comporti con
l'amato. Te lo dir costui: infatti lo sa bene e se ne ricorda se, come
afferma, rimasto assordato a furia di
ascoltarmi. Per gli di, me ne ricordo bene, poich sono cose ridicole, Socrate.
Infatti esser innamorato e dedicare le proprie attenzioni a un giovane in
particolare senza sapergli dire nulla di ci che anche un bimbo non saprebbe
dirgli, non ridicolo? Ci che la citt
tutta canta di Democrate e di Liside, nonno del ragazzo, e di tutti i suoi
antenati, le loro ricchezze, i loro allevamenti di cavalli, le vittorie
pitiche, istmiche e nemee (6) con quadrighe e cavalli da corsa, questo egli
compone e declama, e cose ancora pi antiche di queste. Ultimamente infatti ci
raccontava in un poema l'ospitalit data a Eracle, cio che un loro antenato
aveva accolto Eracle per la sua parentela con lui, giacch anche lui era nato da
Zeus e dalla figlia del capostipite del demo, racconti, questi e molti altri
simili, che fanno le donne anziane, Socrate. Questo ci che costui, dicendo e cantando, ci
costringe ad ascoltare. Tali furono le parole di Ctesippo. E dopo aver udito
ci, cos dissi: Ridicolo Ippotale, componi e canti un encomio indirizzato a te
prima di aver vinto? Ma non per me,
Socrate, che io compongo e canto, ribatt. Tu credi di no, incalzai. Come stanno
le cose?, chiese. Questi canti sono indirizzati a te pi che a tutti gli altri
perch, se conquisti un tale amato, le tue parole e i tuoi canti saranno per te
un onore e saranno realmente encomi per un vincitore, poich hai conquistato un
tale amato; se invece ti sfugge, quanto pi ampi sono stati i tuoi elogi
dell'amato, tanto pi apparirai ridicolo, privato di una conquista tanto
importante. Dunque, amico, chi sapiente
in amore non loda l'amato prima di averlo conquistato, poich teme il futuro 2
Platone Liside e come andr a finire. Nel contempo i bell, quando qualcuno li
loda e li esalta, si colmano di superbia e di orgoglio. O non credi sia cos ? S
, disse. E pi sono orgogliosi, non sono pi difficili da conquistare? naturale. Come ti sembrerebbe un cacciatore
se, cacciando, spaventasse e rendesse pi difficile da catturare la selvaggina?
Evidentemente un inetto. Ed una grande
rozzezza servirsi di parole e canti non per ammansire ma per inselvatichire:
non cos ? Mi pare di s . Bada allora di
non procurarti tutti questi rimproveri per la tua poesia, Ippotale. Eppure io
credo che tu non ammetteresti che un uomo che danneggi se stesso con la poesia
sia un buon poeta, dal momento che arreca danno a se stesso. No, per Zeus,
perch sarebbe del tutto privo di logica. Ma
per questo, Socrate, che ti consulto, e se puoi, consigliami quali
parole si devono dire o cosa si deve fare per diventare gradito all'amato, cos
mi preg. Non facile dirlo: ma se tu
volessi farlo venire a discutere con me, forse potrei dimostrarti ci che
bisogna dirgli al posto delle parole e dei canti che costoro dicono tu gli
rivolgi, dissi io. Ma non difficile.
Infatti se entri con Ctesippo e ti siedi a discutere, credo che egli si
avviciner a te - d'altronde molto amante
delle discussioni, Socrate, e inoltre, poich si celebra la festa di Ermes, (7)
si sono riuniti nel medesimo luogo i giovinetti e i bambini -, dunque ti si
avviciner. E se ci non si verifica, egli
amico di Ctesippo per via del cugino di costui, Menesseno, (8) di
cui il pi caro amico. Dunque che Ctesippo
lo chiami, se non si avvicina da s, ribatt Ippotale. Bisogna fare cos , dissi.
E nel contempo, preso Ctesippo, entrai nella palestra e gli altri ci seguirono.
Entrati, trovammo l che i bambini avevano terminato i sacrifici, giocavano agli
astragali, (9) poich la cerimonia era quasi finita, ed erano tutti ben vestiti.
Dunque i pi giocavano fuori nel cortile, alcuni in un angolo dello spogliatoio
giocavano a pari e dispari con moltissimi astragali che tiravano fuori da
alcuni cestini; altri invece stavano loro attorno osservandoli. Tra di essi
c'era anche Liside: incoronato, stava in piedi tra i bambini e i giovinetti e
si segnalava per il suo aspetto, degno non solo della sua fama di bel ragazzo,
ma anche di eccellente. E noi ci mettemmo in disparte sedendoci all'angolo
opposto - infatti l c'era tranquillit - e ci mettemmo a discutere tra noi.
Pertanto, voltandosi spesso, Liside ci guardava ed era chiaro che desiderava
avvicinarsi, ma intanto era imbarazzato e non osava avvicinarsi da solo; poi
dal cortile entr Menesseno in una pausa dal gioco e, non appena vide me e
Ctesippo, venne a sedersi vicino a noi. Dunque, vistolo, Liside lo segu e
sedette vicino a lui. Allora anche gli altri si avvicinarono e Ippotale, quando
vide che molti ci stavano intorno, si nascose in piedi dietro di loro, l dove
pensava che Liside non potesse vederlo, temendo di infastidirlo, e rest cos ad
ascoltare. Io allora guardai Menesseno e gli chiesi: Figlio di Demofonte, chi
di voi pi grande d'et? Possiamo
discuterne, rispose. E dunque si dovrebbe discutere anche su chi dei due pi nobile, dissi io. Certo rispose. E allo
stesso modo su chi pi bello, continuai.
Entrambi risero. Io continuavo: Non domander chi di voi due pi ricco perch siete amici. O no? E molto,
dissero. Dunque si dice che le cose degli amici siano comuni, sicch in questo
non sarete differenti, se dite la verit sulla vostra amicizia, dissi.
Assentirono. Dopo questo scambio di battute cercavo di chiedere chi dei due
fosse pi giusto e pi sapiente; quindi nel frattempo giunse uno che fece alzare
Menesseno, dicendo che il maestro di ginnastica lo chiamava: credo che stesse
celebrando un rito. Egli pertanto se ne and e io domandai a Liside: Liside, ti
amano molto tuo padre e tua madre? Certo, rispose. Non vorrebbero dunque che tu
fossi quanto mai felice? E come no? E ti sembra che sia felice un uomo che sia
schiavo e non possa fare ci che desidera? Per Zeus, non mi sembra proprio,
disse. Allora se tuo padre e tua madre ti amano e desiderano che tu sia
felice, chiaro che si danno premura in
ogni modo perch tu sia felice. Come no?, disse. Dunque ti permettono di fare ci
che vuoi senza rimproverarti e impedirti di fare ci che desideri? No per Zeus,
Socrate, mi impediscono moltissime cose. Come dici? Pur volendo che tu sia
felice ti impediscono di fare ci che vuoi? Dimmi questo: se tu desiderassi
salire su uno dei carri di tuo padre prendendo le briglie, quando c' una gara,
non te lo permetterebbero, anzi te lo impedirebbero?, domandai. Per Zeus, no
che non lo permetterebbero, rispose. E a chi lo permetterebbero?, chiesi. C' un
auriga che riceve da mio padre un compenso, fu la sua risposta. Come dici?
Permettono a uno prezzolato di fare quello che vuole con i cavalli pi che a te,
e per giunta lo pagano per questo? E allora?, domand. Ma, credo, affidano a te
di guidare la coppia di muli e, se volessi prendere la frusta per batterli, lo
permetterebbero. E come potrebbero mai permetterlo?, disse. E allora? Nessuno
pu batterli?, obiettai. 3 Platone Liside Pu farlo il mulattiere, disse. uno schiavo o un uomo libero? Uno schiavo,
rispose. A quanto pare tengono dunque in maggior conto uno schiavo rispetto a
te che sei loro figlio, preferiscono affidare pi a lui che a te le loro cose e
gli lasciano fare quel che vuole mentre a te lo impediscono? Dimmi ancora
questo: ti lasciano almeno guidare te stesso o neppure questo ti affidano?
Come, affidarmelo? chiese. Allora qualcuno ti guida? S, il pedagogo,
rispose. forse uno schiavo? E
allora? nostro, disse. strano che, pur essendo libero, tu sia
guidato da uno schiavo. Ma in quali azioni questo pedagogo ti guida?, chiesi.
Senza dubbio conducendomi dal maestro, rispose. E non forse vero che anche i maestri ti comandano?
Certo. Allora tuo padre vuole importi moltissimi padroni e comandanti. E
dunque, quando arrivi a casa da tua madre ella, perch tu sia felice, ti lascia
fare ci che vuoi della lana e del telaio, quando tesse? Non ti impedisce certo
di toccare la spatola, o la spola o qualche altro strumento per la lavorazione
della lana. Ed egli ridendo disse: Per Zeus, Socrate, non solo me lo
impedirebbe, ma mi picchierebbe anche, se li toccassi. Per Eracle, hai forse
fatto un torto a tuo padre o a tua madre? No, per Zeus, rispose. Ma in cambio
di che ti impediscono in modo cos terribile di essere felice e di fare quello
che vuoi e ti fanno crescere per tutto il giorno sempre schiavo di qualcuno e,
in una parola, senza che tu possa fare nulla di ci che desideri? Sicch, a
quanto pare, tu non trai vantaggio alcuno dalle tue ricchezze che sono cos
cospicue, ma tutti le governano pi di te, n tu governi il tuo corpo cos nobile,
ma anche questo lo governa e lo cura un altro. Tu, invece, Liside, non comandi
su nessuno e non fai nulla di ci che desideri. No, perch non ne ho ancora l'et,
Socrate, disse. Figlio di Democrate, non
questo a impedirlo, perch c' almeno una cosa, come credo, che tuo padre
e tua madre ti affidano e non aspettano che tu ne abbia l'et. Infatti quando
vogliono che sia letta loro o scritta per loro qualche lettera, sei tu, credo,
il primo in casa cui commissionano questo compito. O no? Certo, rispose. Dunque
in questo caso tu puoi cominciare a scrivere la lettera che vuoi, e cos pure
capita per la lettura. E se prendi la lira, come credo, n tuo padre n tua madre
ti impediscono di tendere e allentare la corda che vuoi e di toccarla e di
farla vibrare con il plettro. O te lo impediscono? No di certo. Dunque, Liside,
quale mai sarebbe il motivo per cui in questi casi non ti pongono impedimenti
mentre lo fanno nei casi di cui parlavamo poco fa? Credo perch queste cose le
conosco e quelle no, disse. Bene, carissimo: dunque tuo padre non aspetta l'et
per affidarti tutti i suoi beni, ma nel giorno in cui ti considerer pi saggio
di lui, allora ti affider se stesso e quanto possiede, osservai. Lo credo,
disse. E sia: allora? Il tuo vicino non seguir nei tuoi confronti la stessa
regola di tuo padre? Credi che ti affider la propria casa da amministrare
quando ti riterr pi saggio di lui nell'amministrazione di una casa o la diriger
lui stesso?, continuai. Credo che l'affider a me. E allora? Credi che gli
Ateniesi non ti affideranno le proprie cose quando si renderanno conto che sei
abbastanza saggio? S . Per Zeus, e il Gran Re? Preferirebbe affidare al proprio
figlio maggiore, a cui spetta il regno dell'Asia, l'incarico di mettere quello
che vuole nel brodo, mentre la carne cuoce, o a noi se, recatici da lui, gli mostrassimo
di essere pi bravi di suo figlio nella preparazione del cibo? A noi, chiaro, rispose. E a suo figlio non
permetterebbe di fare neppure una piccola aggiunta mentre a noi, anche se
volessimo aggiungere sale a manciate, lo permetterebbe. E come no? E se suo
figlio avesse male agli occhi, glieli lascerebbe toccare, se non lo ritenesse
un medico, o glielo impedirebbe? Glielo impedirebbe. Se invece ritenesse noi
esperti di medicina, anche se volessimo aprirgli gli occhi e cospargerli di
cenere, credo non lo impedirebbe, considerandoci competenti. Dici il vero. E
allora non affiderebbe anche a noi pi che a se stesso e al proprio figlio tutto
il resto in cui noi apparissimo ai suoi occhi pi sapienti di loro?
Necessariamente, Socrate, rispose. Dunque
cos, caro Liside: le cose in cui siamo saggi tutti ce le affidano,
Elleni e barbari, uomini e donne, e in esse faremo ci che vogliamo e nessuno
deliberatamente ce lo impedir, ma in esse saremo liberi, comanderemo sugli
altri, saranno cose nostre e quindi ne trarremo vantaggi. Invece le cose nelle
quali non saremo abili nessuno ce le affider per farne quel che ci pare, ma
tutti ce lo impediranno per quanto possono, non solo gli estranei ma anche
nostro padre, nostra madre e coloro che ci sono ancora pi vicini, e in esse
dipenderemo dagli altri e ci saranno estranee, poich non ne trarremo guadagno
alcuno. Sei d'accordo che la questione stia in questi termini? Sono d'accordo.
Dunque allora saremo amici di qualcuno e qualcuno ci amer in relazione a ci in
cui non potremo essere di utilit alcuna? No di certo, rispose. Dunque ora n tuo
padre ama te, n un altro amer chi
inutile. Cos pare, disse. Se dunque diventi sapiente, ragazzo, tutti ti
saranno amici e intimi - perch sarai utile e buono - altrimenti nessun altro, 4
Platone Liside nemmeno tuo padre, tua madre e i parenti ti saranno amici.
Pertanto, Liside, possibile essere
orgogliosi di s nelle cose in cui non si sa ancora pensare? E come potrebbe
essere?, chiese. E se dunque hai bisogno di un maestro non sai ancora pensare.
Dici il vero. Quindi non puoi essere capace di grandi pensieri, se sei ancora
privo di pensiero. Per Zeus, Socrate, non mi sembra, disse. Io, dopo averlo
ascoltato, mi voltai verso Ippotale e poco manc che non commettessi un grande
errore, poich mi venne da dire: Cos, Ippotale, bisogna parlare all'amato,
umiliandolo e sminuendolo e non, come fai tu, insuperbendolo e blandendolo.
Per, vedendolo in ansia e turbato da ci che si diceva, mi ricotdai che voleva
assistere senza che Liside se ne accorgesse, quindi mi ripresi e mi trattenni
dal rivolgergli la parola. A questo punto ritorn Menesseno e si sedette accanto
a Liside, nel posto da cui si era alzato. Liside allora, in modo molto
fanciullesco e amichevole, di nascosto a Menesseno mi disse a voce bassa:
Socrate, di' anche a Menesseno ci che dicevi a me poco fa. E io risposi: Glielo
dirai tu, Liside, giacch hai prestato molta attenzione. Certo, disse. Dunque
prova a ricordartelo nel modo migliore possibile, per riferirgli tutto per filo
e per segno. Ma se qualcosa ti sfugge, me lo richiederai la prima volta che mi
incontri continuai io. Lo far, Socrate, con molto impegno, sappilo bene. Ma
digli qualcos'altro, perch io possa ascoltare fino a quando non arriva l'ora di
tornare a casa, disse. Bisogna farlo, dal momento che me lo ordini. Ma bada di
venirmi in aiuto, se Menesseno cerca di confutarmi; o non sai che un eristico?, chiesi io. S, per Zeus, e anche
abile: per questo voglio che tu discuta con lui, rispose. Per rendermi
ridicolo?, domandai. No, per Zeus, ma per dargli una lezione, rispose. E come?
Non facile, poich un uomo abile, allievo di Ctesippo. Ma c'
anche lui - non lo vedi? -, Ctesippo, notai. Non preoccuparti di nessuno,
Socrate, ma su, discuti con lui, disse. Bisogna discutere, cos dissi. Dunque,
mentre parlavamo tra noi, Ctesippo chiese: Perch conversate soltanto voi due e
non ci coinvolgete nella discussione? Ma certo, partecipate pure. Costui
infatti non comprende nulla di ci che dico, ma afferma che Menesseno crede di
saperlo e mi ordina di interrogare lui, dissi io. E allora perch non lo
interroghi?, chiese Ctesippo. Io risposi: Lo interrogher. Menesseno, rispondi a
ci che ti chiedo. Fin da ragazzo io desidero una cosa come un altro ne desidera
un'altra; uno desidera avere dei cavalli, un altro dei cani, uno dell'oro, un
altro onori. Io invece non smanio per queste cose, mentre desidero ardentemente
avere degli amici e preferirei avere un buon amico piuttosto che la quaglia e
il gallo pi belli che ci siano e, per Zeus, piuttosto che un cavallo o un cane
- e credo proprio che preferirei di gran lunga avere un amico piuttosto che
l'oro di Dario, anzi piuttosto che Dario stesso - a tal punto amo l'amicizia.
Quindi vedendo voi, te e Liside, sono rimasto colpito e vi considero felici
perch, pur essendo cos giovani, siete in grado di ottenere velocemente e con
facilit questo bene e tu hai trovato molto rapidamente questo amico e lui te. E
dimmi: quando uno ama un altro, chi dei due diventa amico dell'altro, chi ama
di colui che amato o chi amato di colui che ama? O non c' alcuna
differenza? A me pare che non ci sia nessuna differenza, rispose. Come dici?
Dunque se uno solo ama l'altro, diventano entrambi amici uno dell'altro?,
chiesi io. Io la penso cos , rispose. E allora? Non possibile che chi ama non venga ricambiato da
colui che egli ama? possibile. E
allora? dunque possibile che chi ama sia
odiato? Talvolta, ad esempio, gli innamorati credono di subire questo dai loro
amati: infatti, pur amando quanto di pi non potrebbero, alcuni credono di non
essere ricambiati, altri addirittura di essere odiati. Non ti sembra che sia
vero? del tutto vero, rispose. Dunque in
questo caso uno ama e l'altro amato?,
chiesi. S . Chi dei due quindi amico
dell'altro? Chi ama di colui che amato,
sia nel caso in cui sia ricambiato sia in quello in cui sia odiato, o chi amato di colui che ama? O in tal caso nessuno
dei due amico dell'altro, dato che
entrambi non si amano a vicenda? Sembra proprio cos . Dunque ci che pensiamo
ora diverso da quanto pensavamo in
precedenza: allora pensavamo che se uno dei due prova amore, entrambi sono
amici, ora invece pensiamo che nessuno dei due sia amico dell'altro, se non
sono entrambi a provare amore.
probabile, disse. Dunque per chi ama non c' amicizia se non ricambiato. No, pare. Quindi non sono amanti
dei cavalli quelli che non sono amati dai cavalli, n amici delle quaglie, dei
cani o del vino o 5 Platone Liside della ginnastica o della sapienza, se la
sapienza non li ama. O ciascuno ama comunque queste cose che non gli sono
amiche e allora il poeta che disse: "Fortunato chi ha per amici dei
fanciulli e cavalli solidunguli e cani da caccia e un ospite di terra
lontana" mentiva? Non mi sembra, rispose. Ti sembra che il poeta dica il
vero? S . Allora, a quanto pare, ci che
amato amico di ci che lo ama,
Menesseno, sia nel caso in cui ami sia in quello in cui odi; per esempio, anche
tra i bambini piccoli, alcuni non amano ancora, altri gi odiano, quando vengono
puniti dalla madre o dal padre; tuttavia, anche nel caso in cui provino odio,
sono quanto di pi caro i loro genitori hanno. A me pare che sta cos , disse.
Dunque ne consegue da questo ragionamento che amico non chi ama ma chi amato. Sembra. dunque nemico chi odiato e non chi odia. Cos pare. Quindi molti
sono amati dai nemici e odiati dagli amici e sono amici dei nemici e nemici
degli amici, se amico ci che amato e non ci che ama. Eppure, caro
amico, del tutto privo di logica, anzi
credo che sia impossibile essere nemico dell'amico e amico del nemico. Mi
sembra che tu dica la verit, Socrate, disse. Dunque se questo impossibile, ci che ama sarebbe amico di ci
che amato. Cos sembra, disse. E quindi
ci che odia sarebbe nemico di ci che
odiato. Di necessit. Pertanto risulter necessario arrivare alle stesse
conclusioni di prima, cio che spesso si
amici di coloro che non lo sono e spesso addirittura di coloro che sono
nemici, quando si ama senza essere ricambiati o quando si ama chi invece nutre
odio, e che spesso si nemici di coloro
che non lo sono o addirittura di coloro che sono amici, quando si odia chi a
sua volta non odia o addirittura nutre amore.
probabile, disse. Dunque come ci comporteremo se amici non saranno n
quelli che amano n quelli che sono amati n quelli che nel contempo amano e sono
amati? Diremo che oltre a questi casi vi sono ancora persone amiche tra loro?,
domandai. No, per Zeus, Socrate, non
affatto facile risolvere bene la questione, disse. Forse allora non
abbiamo condotto la ricerca in modo del tutto corretto?, chiesi. Non mi pare,
Socrate, disse Liside, e mentre parlava arross, infatti mi sembr che quelle
parole gli fossero sfuggite involontariamente, per la grande attenzione
prestata alla discussione, ed era chiaro che ascoltava con grande interesse.
Dunque io, volendo concedere una tregua a Menesseno e compiaciuto per l'amore
del sapere mostrato da Liside, mi volsi a discutere con lui e dissi: Liside, mi
sembra che tu dica il vero quando affermi che, se avessimo indagato
correttamente, non avremmo mai sbagliato in questo modo. Allora non procediamo
pi per questa via - quello della ricerca mi sembra un percorso difficile -; mi
pare invece che dobbiamo proseguire per la via lungo la quale ci eravamo
avviati esaminando i poeti. Costoro per noi, come padri e guide della sapienza,
dicono cose non da poco quando parlano degli amici, quelli che sono tali: anzi
dicono che il dio stesso li rende amici, avvicinandoli gli uni agli altri.
Dicono all'incirca cos, credo: "il dio conduce sempre il simile verso il
simile" e li fa conoscere. Non hai mai letto questi versi? S , rispose. E
non hai letto gli scritti dei pi sapienti che dicono le stesse cose, cio
che giocoforza che il simile sia sempre
amico del simile? Costoro sono quelli che scrivono sulla natura e sul tutto.
Dici il vero. Dunque dicono bene?, chiesi. Probabilmente, rispose. Continuai:
Probabilmente a met o forse del tutto, ma noi non li capiamo, infatti ci sembra
che il malvagio, quanto pi si avvicina e frequenta il malvagio, tanto pi ne
diventi nemico, poich commette ingiustizia, ed
impossibile che chi commette ingiustizia e chi la subisce siano amici.
Non cos ? S , rispose. In questo modo,
dunque, la met di quel detto non sarebbe vera, se i malvagi sono simili tra
loro. Dici il vero. Ma credo che essi vogliano dire che i buoni sono simili tra
loro e amici, mentre i cattivi, cosa che appunto si dice di loro, non sono mai
simili neppure a se stessi, ma sono incostanti e instabili, e ci che dissimile e diverso da se stesso,
difficilmente potrebbe essere simile o amico di altro. O non ti sembra cos ? S
, disse. Quindi, mi pare, a questo alludono, amico, coloro che affermano che il
simile amico del simile, cio che solo il
buono amico unicamente del buono, mentre
il cattivo non mai veramente amico n del
buono n del cattivo. Sei d'accordo?. Annu . Dunque ormai sappiamo chi sono gli
amici: il ragionamento ci indica che sono i buoni. Mi sembra che sia proprio
cos , disse. Continuai: Anche a me. Eppure qualcosa non mi soddisfa: su, per
Zeus, vediamo in cosa consiste il mio sospetto. Il simile, in quanto
simile, amico del simile, e come
tale utile all'altro che tale? O meglio: una qualunque cosa simile
quale utilit o quale danno comporta a una qualunque cosa a essa simile che
anche questa non possa comportare a se stessa? O cosa potrebbe subire che non
possa subire anche per opera propria? Cose simili come potrebbero amarsi
reciprocamente, se non ricevono alcun vantaggio l'una dall'altra? possibile? Non lo . E ci che non amato, come pu essere amico? In nessun modo.
Allora il simile non amico del simile e
il buono, in quanto buono, non in quanto simile, sarebbe amico del buono?
Forse. 6 Platone Liside E allora? Il buono in quanto buono non sarebbe
sufficiente in quanto tale a se stesso? S . E chi autosufficiente, nella misura della propria
autosufficienza, non ha bisogno di nulla. E come no? E chi non ha bisogno di
nulla, a nulla aspira. Certo che no. E colui che non desidera nulla, neppure
ama. No. E chi non ama non un amico.
Pare di no. Dunque i buoni come saranno fin da principio amici dei buoni, se
quando sono lontani non si desiderano a vicenda - infatti anche quando sono
separati sono autosufficienti - e quando sono vicini non hanno un'utilit
reciproca? Quale stratagemma potrebbe farli apprezzare vicendevolmente?
Nessuno, rispose. E non potrebbero essere amici se non si apprezzano a vicenda.
Dici il vero. Guarda, Liside, dove siamo andati a cozzare. Dunque ci siamo
completamente ingannati? Come?, chiese. Ho gi sentito dire una volta da uno, e
adesso me ne ricordo, che il simile
assai ostile al simile e i buoni ai buoni e chiamava a testimone Esiodo,
dicendo: "il vasaio odia il vasaio, l'aedo odia l'aedo e il mendicante
odia il mendicante". E quanto al resto diceva che giocoforza le cose pi
simili sono piene di invidia, rivalit e ostilit reciproca, mentre quelle pi
dissimili sono le pi propense all'amicizia: infatti il povero costretto a essere amico del ricco, il debole
del forte per averne aiuto, il malato del medico e chiunque non sa cerca e ama
chi sa. E proseguiva nel ragionamento in modo ancora pi convincente, dicendo
che il simile assai lontano dall'essere
amico del simile, anzi sarebbe proprio il contrario, dal momento che l'opposto amico soprattutto del suo opposto, poich ogni
cosa desidera il suo contrario, non il simile. Il secco desidera l'umido, il
freddo il caldo, l'amaro il dolce, l'acuto l'ottuso, il vuoto il pieno, il
pieno il vuoto e cos via, secondo il medesimo rapporto. Il contrario
infatti nutrimento per il contrario,
mentre il simile non trae vantaggio alcuno dal simile. E certo, amico mio,
dicendo questo sembrava un tipo raffinato, tanto bene parlava. Ma a voi come
sembra che parli?, chiesi. Bene, almeno a sentirlo cos , rispose Menesseno.
Dunque dobbiamo dire che il contrario
soprattutto amico di ci che a lui contrario? Certo. Bene: ma non strano, Menesseno? E soddisfatti ci
assaliranno subito questi pozzi di sapienza, gli antilogici, e ci domanderanno
se l'odio non sia quanto di pi contrario rispetto all'amicizia. Cosa risponderemo
loro? Non dobbiamo per forza ammettere che dicono la verit?, chiesi. Per forza.
E dunque, diranno, ci che nemico amico di ci che amico o amico di ci che nemico? N l'una n l'altra cosa rispose. Ci
che giusto di ci che ingiusto, ci che saggio di ci che intemperante, ci che buono di ci che cattivo? Non credo che le cose stiano cos .
Io dissi: E tuttavia se una cosa amica
di un'altra in base alla contrariet,
necessario che anche queste cose siano amiche. Di necessit. Dunque n il
simile amico del simile n il
contrario amico del contrario. Pare di
no. Esaminiamo ancora questo punto: a noi non sfugge pi il fatto che l'amicizia
non veramente nulla di tutto questo,
ma ci che non n buono n cattivo che diventa cos amico del
buono. Come dici?, chiese. Per Zeus, non so, ma veramente ho io stesso le
vertigini per la difficolt del ragionamento e forse, secondo l'antico
proverbio, ci che amico il bello. Il bello assomiglia a qualcosa di
morbido, liscio e lucente e per questo forse ci sfugge e scivola via
facilmente, poich tale. Dico infatti che
il buono bello. Non credi? S . Dico
dunque, divinandolo, che amico del bello e del buono ci che non
n buono n cattivo. Ascolta in rapporto a cosa lo divino. A me sembra che
ci siano come tre categorie: il buono, il cattivo e ci che non n buono n cattivo. E a te? Anche a me, disse.
E che n il buono sia amico del buono n il cattivo del cattivo n il buono del
cattivo, come neppure il ragionamento precedente consente. Resta allora che, se
una cosa amica di un'altra, ci che
non n buono n cattivo sta amico o del
buono o di ci che tale quale esso , cio
n buono n cattivo, perch una cosa non potrebbe essere amica del cattivo. Dici
il vero. N il simile del simile, dicevamo poco fa: non cos ? S . Dunque ci che tale e quale ad esso non sar amico n del buono
n del cattivo. Pare di no. Quindi ne risulta che solo al buono amico unicamente ci che non n buono n cattivo. Pare debba essere cos .
Ragazzi, dissi, ci guida bene ci che si
detto ora? Se vogliamo considerare il corpo sano, esso non ha affatto
bisogno della medicina n di un aiuto, infatti
autosufficiente, sicch nessuno, quando sta bene, amico del medico, considerata la sua buona
salute. O non cos ? S, nessuno. Invece
il malato, credo, lo a causa della
malattia. Platone Liside E come no? Dunque la malattia un male, mentre la medicina cosa utile e buona. S . E il corpo in quanto
corpo non n buono n cattivo. cos . Il corpo costretto dalla malattia ad accettare e amare
la medicina. Cos la penso. Quindi ci che non
n cattivo n buono diviene amico del buono per la presenza di un male? A
quanto pare. Ma chiaro che ci avviene
prima che esso diventi cattivo a causa del male che ha, perch una volta
diventato cattivo non potrebbe desiderare ancora il bene ed esserne amico, dato
che dicevamo che impossibile che il
cattivo sia amico del buono. Infatti
impossibile. Esaminate ci che dico: dico infatti che alcune cose sono
determinate da ci che presente in esse e
altre no: per esempio, se qualcuno volesse spalmare di colore una cosa
qualsiasi, ci che spalmato presente su ci su cui spalmato. Certo. E allora ci su cui spalmato
tale nel colore quale ci che vi si trova sopra? Non capisco, disse.
Pensala cos , dissi: se qualcuno spalmasse di biacca i tuoi capelli che sono
biondi, allora essi sarebbero o apparirebbero bianchi? Lo sembrerebbero,
rispose. Eppure in essi sarebbe presente la bianchezza. S . E tuttavia non
sarebbero pi bianchi, anzi, pur essendo presente in essi la bianchezza, non
sarebbero n bianchi n neri. vero. Ma
quando, amico mio, la vecchiaia porta ad essi questo medesimo colore, allora
diventerebbero come ci che presente in
essi, cio bianchi per la presenza del bianco. E come potrebbe non essere cos ?
Ora dunque questo ti chiedo: se in una cosa ne
presente un'altra, quella che la possiede sar come quella che vi presente o lo sar se quella presente in un certo modo, altrimenti
no? cos, piuttosto, rispose. E dunque ci
che non n cattivo n buono, quando presente un male, talvolta non ancora cattivo, ma lo quando ormai
diventato tale. Certo. Dunque, quando pur essendo presente un male, esso
non ancora cattivo, questa presenza gli
fa desiderare il bene, quando invece lo rende cattivo, lo priva anche del
desiderio e dell'amore per il bene. Infatti non
pi n cattivo n buono, ma cattivo, e il cattivo non amico del buono, dicevamo. No, infatti. Per
questo potremmo dire che anche quelli che sono gi sapienti non amano pi la
sapienza, siano essi di o uomini. N d'altra parte amano la sapienza coloro che
hanno un'ignoranza tale che li rende cattivi: infatti nessuno che sia cattivo e
ignorante ama la sapienza. Restano quelli che hanno questo male, l'ignoranza,
ma non sono ancora diventati privi di senno e ignoranti per opera sua e
ammettono ancora di non sapere ci che non sanno. Perci sono amanti della
sapienza quelli che non sono ancora n buoni n cattivi, in quanto i cattivi non
amano la sapienza n lo fanno i buoni, infatti nei ragionamenti precedenti
ci apparso che n il contrario amico del contrario, n il simile del simile.
O non ricordate? Certo, risposero. Ora dunque, Liside e Menesseno, dissi,
abbiamo trovato fra tutte le cose ci che
amico e ci che non lo . Infatti diciamo che sia che si tratti
dell'anima, sia che si tratti del corpo o di qualunque altra cosa, ci che
non n buono n cattivo amico del bene per la presenza del male.
Entrambi furono assoluta- mente d'accordo e ammisero che fosse cos . Anch'io
ero molto contento, come un cacciatore che
felice di ci che ha cacciato, ma poi, non so come, mi venne lo
stranissimo sospetto che non fossero vere le nostre conclusioni e subito dissi
crucciato: Ahim, Liside e Menesseno, forse
un sogno il fatto che ci siamo arricchiti di conoscenza. Perch?, chiese
Menesseno. Temo, dissi io, che a proposito dell'amicizia siamo incorsi in
ragionamenti come quelli che fanno i ciarlatani. Come?, chiese. Procediamo cos
nel ragionamento, dissi io: chi
amico amico di qualcuno o no? Per
forza, rispose. Dunque lo senza nessuno
scopo e senza nessuna causa o per qualche scopo e per qualche causa? Per
qualche scopo e a causa di qualcosa. E quella cosa in vista della quale
l'amico amico dell'amico, amica anch'essa o non n amica n nemica? Non ti seguo del tutto,
rispose. naturale, dissi, ma forse cos
mi seguirai e, credo, anche io sapr meglio ci che dico. Il malato, dicevamo
poco fa, amico del medico; non cos ? S . E dunque amico del medico a causa della malattia e in
vista della salute da riacquistare? S . E la malattia un male? E come potrebbe non esserlo? E la
salute, chiedevo, un bene o un male o
non nessuna delle due cose? un bene, rispose. 8 Platone Liside Dicevamo
dunque che, a quanto sembra, il corpo che non
n buono n cattivo, a causa della malattia, cio a causa del male, amico della medicina, e la medicina un bene; e la medicina ottiene l'amicizia in
vista della salute, e la salute un bene.
Non cos ? S . E la salute una cosa amica o no? una cosa amica. E la malattia una cosa nemica. Certo. Dunque ci che
non n cattivo n buono, a causa di ci
che cattivo e nemico, amico del bene in vista di ci che buono e amico. Sembra. Dunque ci che amico
amico in vista di ci che amico e
a causa di ci che nemico. Cos pare.
Bene, dissi: dal momento che siamo arrivati a questo, ragazzi, facciamo
attenzione a non ingannarci. Infatti lascio stare il fatto che ci che amico sia diventato amico di ci che amico e che il simile sia amico del simile -
cosa, questa, che abbiamo detto essere impossibile -, tuttavia badiamo a
questo, che non ci inganni ci che ora
stato detto. La medicina, diciamo,
una cosa amica in vista della salute. S . Dunque anche la salute cosa amica? Certo. Se dunque amica, lo
in vista di qualcosa. S. Di una cosa amica, se sar la conseguenza
dell'ammissione precedente. Certo. Dunque anche ci sar cosa a sua volta amica
in vista di una cosa amica? S . Quindi non
necessario che rinunciamo a procedere cos o arriviamo a un principio che
non si riferir pi a un'altra cosa amica, ma giunger a quella che la prima cosa amica in vista della quale
diciamo che anche tutte le altre cose sono amiche? necessario. Questo ci che voglio dire: badiamo al fatto che non
ci ingannino tutte le altre cose che abbiamo detto essere amiche in vista di
quella e che sono come sue immagini e facciamo attenzione che si tratti di
quella prima cosa che veramente amica.
Infatti riflettiamo in questo modo: quando qualcuno tiene qualcosa in grande
considerazione, ad esempio in taluni casi un padre che antepone suo figlio a
tutti gli altri beni, egli che tale da
considerare suo figlio pi importante di tutto, non apprezzer forse molto anche
qualche altra cosa? Per esempio, se si rendesse conto che il figlio ha bevuto
la cicuta, non terrebbe in grande considerazione il vino, se lo ritenesse utile
per salvare il figlio? S, certo. E allora?, domand. Dunque apprezzerebbe anche
il recipiente in cui ci fosse quel vino? Certo. E allora non tiene forse in
maggior considerazione una tazza d'argilla rispetto a suo figlio o tre cotile
di vino pi di suo figlio? O le cose forse stanno cos : tutta la sua attenzione
non rivolta a questi oggetti predisposti
in vista di qualcos'altro, ma a quel fine in vista del quale sono tutti
predisposti. Nonch spesso diciamo di apprezzare molto l'oro e l'ar gento, ma
forse la verit non per niente questa, e
ci che teniamo in grande considerazione
quello che appare come ci in vista del quale si predispongono l'oro e
ogni altro oggetto. Diremo dunque cos ? Certo. E dunque lo stesso ragionamento
non vale anche per ci che amico? Infatti
quando definiamo cose amiche quelle che per noi lo sono in vista di un'altra
cosa amica, ci riferiamo a esse evidentemente con una parola sola; ma probabile che veramente amica sia proprio
quella mta alla quale tendono tutte le cosiddette amicizie. Probabilmente cos , disse. Dunque ci che realmente amico non lo in vista di un'altra cosa? vero. Ci siamo sbarazzati anche di questo
problema: l'amico amico ma non in vista
di una cosa amica. Ma dunque il bene ci
che amico? A me pare di s . Quindi
allora il bene amato a causa del male, e
le cose stanno cos : se delle tre categorie che enumeravamo poco fa, cio il
buono, il cattivo e ci che non n buono n
cattivo ne fossero conservate due, mentre il male si togliesse di mezzo e non
si attaccasse a nulla, n al corpo, n all'anima n alle altre cose che diciamo
non essere in s n cattive n buone, allora il bene non ci sarebbe per niente
utile ma sarebbe diventato inutile? Se infatti nulla ci potesse pi danneggiare,
non avremmo bisogno di alcun aiuto e cos diventerebbe chiaro che accoglievamo e
amavamo il bene a causa del male, pensando che il bene fosse un rimedio al male
e il male una malattia: ma se non c' la malattia, non c' nemmeno bisogno di una
medicina. Dunque il bene cos per sua
natura e a causa del male esso amato da
noi, che siamo a met tra il male e il bene, mentre esso per se stesso non ha
alcuna utilit? Sembra che sia cos , rispose. Dunque quella mta per noi amica,
alla quale tutte le altre sono finalizzate - dicevamo che quelle erano amiche
in vista di un'altra cosa amica - non assomiglia a queste. Infatti queste sono
chiamate amiche in vista di una cosa amica, mentre la vera amicizia sembra
essere per natura tutto il contrario di questo, poich ci parso che ci che amico lo sia a causa di ci che nemico, ma se ci che nemico si allontana, non ci pi amico, a quanto pare. Mi pare di no, in
base a quello che ora si detto, rispose.
Per Zeus!, dissi io. Se il male sparisce, non ci sar n fame n sete n altri mali
simili? O la fame ci sar, se ci sono gli uomini e gli altri esseri viventi, ma
non sar dannosa? E la sete e gli altri desideri ci saranno, ma non saranno
cattivi, Platone Liside poich il male
scomparso? O ridicolo chiedersi
cosa ci sar o non ci sar allora? Infatti chi pu saperlo? Ma questo dunque
sappiamo, che avere fame pu essere ora dannoso, ora utile, o no? Certo. Dunque
avere sete e tutti gli altri desideri di questo genere talvolta possono essere
utili, talvolta dannosi e talvolta n l'uno n l'altro? Certo. Pertanto se i mali
spariscono, perch devono scomparire con essi anche le cose che non sono mali?
Per nessun motive. Dunque se i mali spariscono, ci saranno i desideri che non
sono n buoni n cattivi. Sembra. E dunque possibile che chi desidera e ama non
sia amico di chi desidera e ama? Non mi sembra. Dunque, a quanto pare, ci
saranno alcune cose amiche, anche se i mali spariscono. S . E se il male fosse
causa dell'amicizia, sparito questo, una cosa non potrebbe certo essere amica
di un'altra: infatti, venuta meno la causa, sarebbe impossibile che esistesse
ancora ci di cui questa era la causa. Dici bene. Dunque noi avevamo convenuto
che ci che amico ama qualcosa e a causa
di qualcosa: e allora non avevamo creduto che ci che non n buono n cattivo amasse il bene a causa del
male? vero. Ora, invece, a quanto pare,
sembra essere altra la causa dell'amare e dell'essere amato. A quanto pare.
Dunque realmente, come dicevamo poco fa, il desiderio causa dell'amicizia, e ci che desidera amico di ci che desiderato, quando lo desidera, mentre ci che
prima dicevamo essere amico era una chiacchiera o una sorta di un lungo
elaborato poema? Forse, disse. Tuttavia, dissi, ci che desidera desidera ci di
cui privo, o non cos ? S . E quindi ci che mancante
amico d ci che manca? Cos credo. Ed
privo di ci che gli stato
eventualmente sottratto. E come no? Allora, a quanto pare, l'amore, l'amicizia
e il desiderio lo sono di ci che
proprio, come sembra, Menesseno e Liside. Assentirono. Se voi dunque
siete amici uno dell'altro, per natura siete in un certo qual modo affini l'uno
all'altro. Esattamente, dissero. E se pertanto uno desidera o ama l'altro,
ragazzi miei, non potrebbe mai desiderarlo n amarlo n essergli amico, se non
fosse affine all'oggetto del suo amore o nell'anima o in qualche altra altra
attitudine dell'anima o nei comportamenti o nell'aspetto, dissi io. Certo,
disse Menesseno, mentre Liside taceva. Bene!, dissi: a noi parso che sia necessario amare ci che affine per natura. A quanto pare, disse.
Dunque necessario per l'amante reale e
non fittizio essere ricambiato dal suo amato. Liside e Menesseno assentirono
anche se a stento, mentre Ippotale diventava d tutti i colori per il piacere. E
io, volendo esaminare il ragionamento, dissi: Se ci che affine
differente in qualcosa da ci che
simile, a quanto pare, Liside e Menesseno, potremmo dire dell'amicizia
ci che essa ; se invece simile e affine sono identici, non sar facile
respingere il precedente ragionamento in base al quale il simile inutile al simile in virt della somiglianza:
ma assurdo ammettere che l'inutile sia
amico. Dunque, dissi, dato che siamo come ubriachi per il ragionamento, volete
che diamo per scontato e ammettiamo che l'affine diverso dal simile? Certo. Quindi stabiliremo
che il bene affine a ogni cosa e il
male estraneo a tutto? O che il
male affine al male, il bene al bene e
ci che non n bene n male a ci che
non n bene n male? Risposero che secondo
loro ogni cosa affine a ci che le corrispondente. Dunque, ragazzi, dissi, siamo
caduti d nuovo nei ragionamenti sull'amicizia che prima abbiamo respinto:
infatti l'ingiusto sar amico dell'ingiusto, il cattivo del cattivo non meno che
il buono del buono. Pare di s , rispose. E allora? Diciamo che il buono e
l'affine sono la stessa cosa; non diciamo forse che solo il buono amico del buono? Certo. Ma anche su questo
punto credevamo di poter essere confutati; o non ricordate? Ricordiamo. Dunque
cosa ricaveremo ancora dalla discussione? O
evidente che non ricaveremo nulla? Dunque vi prego, come fanno gli
esperti nei tribunali, di riflettere su tutto ci che si detto. Se infatti n gli amati n gli amanti, n
i simili n i dissimili, n i buoni, n gli affini, n tutte le altre condizioni
che abbiamo enumerato - io infatti non me le ricordo, dato il loro gran numero
- se nulla di ci amico, non so pi cosa
dire. Dopo aver detto queste parole, avevo in mente di coinvolgere nella
discussione qualcun altro dei pi anziani, ma allora, come dmoni, si
avvicinarono i pedagoghi di Menesseno e di Liside con i loro fratelli, li
chiamarono e ordinarono loro di tornare a casa, poich era gi tardi. Dapprima
noi e i presenti cercammo di allontanarli, ma poich non si curavano affatto di
noi, anzi si irritavano nel loro parlare barbaro e nondimeno li chiamavano e ci
pareva che avessero bevuto alla festa di Ermes e quindi fossero difficili da
avvicinare, vinti da essi sciogliemmo la riunione. Tuttavia, mentre essi si
allontanavano, io dissi: Ora, Liside e Menesseno, siamo diventati ridicoli io,
un vecchio, e voi. Infatti costoro andandosene diranno che noi crediamo di 10
Platone Liside essere amici uno dell'altro - mi pongo anch'io tra voi - e non
siamo stati ancora capaci di trovare cos' l'amico. Platone Liside Giardino e
ginnasio a nord di Atene, dove Platone fonda la sua scuola. Ginnasio presso il
tempio di Apollo, a nord-est di Atene. Sembra assai improbabile che sia il
discepolo di Platone nominato da Diogene Laerzio, Ctesippo, che non l'omonimo figlio di Critone, era un discepolo
di Socrate presente alla morte del maestro,
uno degli interlocutori dell'Eutidemo. Di costui nulla si sa. Le Pitiche
erano feste in onore di Apollo, celebrate a Delfi ogni quattro anni; le
Istmiche ricorrevano invece a Corinto ogni due anni ed erano in onore di
Poseidone; le Nemee, infine, si tenevano ogni due anni in onore di Zeus: prima
ebbero come luogo deputato la valle di Nemea, poi Argo. Ermes era il dio
patrono dei ginnasi e delle palestre. il
protagonista dell'omonimo dialogo platonico. Gli astragali sono una sorta di
dadi. Il pedagogo era uno schiavo che aveva il compito di sorvegliare i figli
del padrone. Il re dei Persiani, secondo l'abituale denominazione greca.
L'eristica era la tecnica finalizzata a confutare con ogni mezzo le tesi
avversarie per far prevalere le proprie, anche se per fare questo poteva
raggiungere risultati contraddittori tra loro. Entrambi uccelli addestrati per
il combattimento. Dario, il ricchissimo re dei Persiani tenta l'invasione della
Grecia, ma venne bloccato e sconfitto a Maratona. Si tratta di un frammento di
Solone (Gentili-Prato). Omero, Odyssea Esiodo, Opera et dies Gli antilogici
erano coloro che teorizzavano e praticavano la possibilit di contraddire ogni
argomentazione e ogni ragionamento. La cotila
un'unit di misura che equivale all'incirca a un quarto di litro. Nome
compiuto: Marsilio Ficino. Ficino. Keywords: desire, love, beauty, il bello,
amore, cupido, desiderio, platonismo, walter pater Plathegel e Ariskant, sensibile, percezione,
I platonisti fisiologia dellamore, convito di Platone, amore platonico, amore
socratico, dottrina dellamore, I dialoghi dellamore di Platone: Fedro, Convito
-- --. Refs.: Ficinos Commentaries on Plato, Tatti -- Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Grice e Ficino," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, e Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; osia, Grice e Fidanza: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di Bagnoregio – filosofia viterbiana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bagnoregio). Filosofo viterbiano. Filosofo lazioo. Filosofo
italiano. Bagnoregio, Viterbo, Lazio. Grice: “Italians call Fidanza an
‘anti-dialectician’ but then they have Aquinas, who is an
hypoer-dialectiician!” essential Italian philosopher. Figlio di Giovanni di Fidanza, medico, e di
Rita. Inizia i suoi studi al convento di
San Francesco "vecchio". Si recò a Parigi a studiare nella facoltà
delle Arti. Ddvenne maestro e ottiene la licenza d'insegnare. Francesco predica
agli uccelli. Intervenne nelle
lotte contro l'aristotelismo. Attacca quelli che erano a suo parere gli errori
dell'aristotelismo. Morì a causa di un avvelenamento. è considerato uno dei
filosofi maggiori, che anche grazie a lui si avviò a diventare una vera e
propria scuola di filosofia. Combatté apertamente l'aristotelismo, anche se ne
acquisì alcuni concetti, fondamentali. Inoltre valorizza alcune tesi del platonismo.
La distinzione della filosofia in ‘filosofia naturale’ (res) (fisica,
matematica, meccanica), filosofia razionale (signa, segni) (logica, retorica,
grammatica) e filosofia morale (azione) (politica, monastica, economica)
riflette la distinzione di res, signa ed actiones -- la cui verticalità non è
altro che cammino iniziatico per gradi di perfezione verso l'unione mistica. La
parzialità delle arti è non altro che il rifrangersi della luce con la quale
Dio illumina il mondo. Nel paradiso, Adamo sapeva leggere indirettamente Dio
nel Liber Naturae (nel creato), ma la caduta è stata anche perdita di questa
capacità. Per aiutare l'uomo nel recupero della contemplazione della
somma verità, Dio ha inviato all'uomo il Liber Scripturae, conoscenza
supplementare che unifica ed orienta la conoscenza umana, che altrimenti
smarrirebbe se stessa nell'auto-referenzialità. L’intelletto agente è capace di
comprendere la verità inviata dall'intelletto passivo. Nel “Itinerario della
mente" spiega che la filosofia serve a dare aiuto alla ricerca umana, e
può farlo riportando l'uomo all'anima. La "scala" dei 3 gradi e un
“primo grado” esteriore, è necessario prima considerare il corpo. L’anima ha
anche tre diverse direzioni. La prima direzione si riferisce al corpo, e la
sensibilità o animalita. La seconda direzione dell’anima ha per oggetto lo spirito,
rivolto in sé e a sé. La terza direzione ha per oggetto la “mente” -- che si
eleva spiritualmente sopra di sé. Tre indirizzi che devono disporre l'uomo a
elevarsi a Dio, perché ami Dio con tutto il corpo, l’anima, e la mente. La
sinderesi è la disposizione pratica al bene. Cf. Moore – ‘external world’
– mondo del corpore. Tre modi. Il primo modo e il vestigium (vestigio) o
improntum. Il secondo modo e l’immagine, che si trova solo nell’uomo, l’unica
creatura dotata d'intelletto, in cui risplendono la memoria, l’intelligenza e la
volontà. Il terzo modo e la “similitudine”, che è qualità propria di una buona
persona, una creature giusta, animata di benevolenza e carità. La natura e un
segno sensibile. «Vi dico che, se questi taceranno, grideranno le
pietre.» (Lc). The stones
will shout. The shout of the stone MEANS that thou shalt be benevolent. Una creatura, dunque, e una impronta o vestigio, una immagine, una
similitudine (Per Lombardo, ‘imago e similitude’ is redundant). La pietra
"grida" – la pietra e una impronta – la pietra significa – la pietra
segna che p. Altre saggi: “Breviloquio; Raccolte su dieci precetti; Raccolte
sui sette doni dello Spirito Santo; Raccolte nei Sei Giorni della Creazione, Commentari
in quattro libri delle sentenze del maestro Pietro Lombardo, Il mistero della
Trinità; questione disputata, La perfezione della vita alle sorelle, La
riduzione della arti alla teologia), Il Regno di Dio descritto nelle parabole
evangeliche, La conoscenza di Cristo ed il mistero della Trinità, Le sei ali
dei Serafini, La triplice via, Itinerario della mente verso Dio, La leggenda
maggiore di San Francesco, La leggenda minore di San Francesco, L'Albero della
vita, L'Ufficio della passione del Signore, Questioni sopra la perfezione
evangelica, Soliloquio, Complesso di teologia, La vite mistica. Eletto Ramacci,
F. e il Santo Braccio, Bagnoregio, Associazione Organum, Oggi del convento
restano solo i ruderi. Merlo, Storia di frate Francesco e dell'Ordine dei
Minori, in Francesco d'Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino,
Einaudi, G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni
grado di persone” (Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione di Lorenzo
Gastaldi, arcivescovo di Torino, Cesare Pinzi,Storia della Città di Viterbo, Tip.Camera
dei Deputati, Roma, Pinzi parla dettagliatamente degli interventi di
Bonaventura a Viterbo in occasione del Conclave e dell'amicizia con Gregorio
X. Testi: Bonaventura da Bagnorea
presunto, Meditationes vitae Christi, Venezia, Nicolaus Jenson, Legenda maior,
Milano, Ulrich Scinzenzeler, Opera omnia, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre;
Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Expositiones in Testamentum novum,
Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea,
Sermones de tempore ac de sanctis, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre;
Arnaud, Laurent, Bonaventura da Bagnorea, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe;
Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Opuscula, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre;
Arnaud, Laurent, F., Commentaria in libros sententiarum, Lyon, Borde, Philippe;
Borde, Pierre; Arnaud, Laurent, Commentaria in libros sententiarum, Lyon, Borde, Philippe; Borde, Pierre; Arnaud,
Laurent, Studi Bettoni E., S. Vita e
Pensiero, Milano, Bougerol J.G., Introduzione a F., trad. it. di A. Calufetti,
L.I.E.F., Vicenza, Corvino F., F. francescano e filosofia, Città Nuova, Roma, Cuttini
E., Ritorno a Dio. Filosofia, teologia, etica della “mens” in Fidanza. Rubbettino,
Soveria Mannelli, Maio, Piccolo glossario bonaventuriano. Prima introduzione al
pensiero e al lessico di F., Aracne, Roma, Barbara Faes, da Bagnoregio, Biblioteca
Francescana, Milano, Mathieu V., La Trinità creatrice secondo F. Biblioteca
francescana, Milano. Moretti Costanzi T., San Bonaventura, Armando, Roma, Ramacci
Eletto, F. e il Santo Braccio, Associazione Organum, Bagnoregio, Todisco O., Le
creature e le parole in sant'Agostino e san Bonaventura, Anicia, Roma, Vanni
Rovighi S., Vita e Pensiero, Milano); Raoul Manselli, Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Emiliano Ramacci, Un Inno, Associazione
Organum, Bagnoregio, Emiliano Ramacci. Treccani Enciclopedie, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Bonaventura
da Bagnoregio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. F.
su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.
F. su ALCUIN, Ratisbona. Opere. Audiolibri di F. su LibriVox. F., su
Santi, beati e testimoni, santiebeati. Biografia di San Francesco d'Assisi, su
assisiofm. scritta da F. Itinerario
della mente in Dio, su lamelagrana.net.
Itinerarium mentis in Deum, Peltiero Edente, su documenta catholicaomnia.
eu. F. su dionysiana.wordpress.com.
L'Opera omnia nell'edizione dei padri francescani di Quaracchi Salvador
Miranda. Trinità (cristianesimo) dottrina centrale delle più diffuse Chiese
cristiane Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Santissima Trinità"
rimanda qui. Se stai cercando altri significati, vedi Santissima Trinità
(disambigua). Santissima Trinità Masaccio La Trinità di Masaccio
Dio, uno e trino Attributi Dio Padre, Dio Figlio, Dio
Spirito Santo La Trinità è la dottrina fondamentale e più importante delle
chiese cristiane, quali la cattolica e quelle ortodosse, oltre che delle Chiese
riformate storiche come quella luterana, quella calvinista e quella anglicana.
Tale dottrina non viene comunque presentata in modo univoco. Icona
rappresentante i tre angeli ospitati da Abramo a Mambre, allegoria della
Trinità. Dipinta dal monaco-pittore russo A. Rublëv e conservata a Mosca,
Galleria Tret'jakov. Schema della relazione trinitaria fra Padre, Figlio
e Spirito Santo secondo le chiese cristiane di origine latina come la Chiesa
cattolica. DescrizioneModifica La dottrina si è precisata nell'ambito del
Cristianesimo antico: prima nel credo del primo concilio di Nicea, poi nel
Simbolo niceno-costantinopolitano, dove venne affermato come primo articolo di
fede l'unicità di Dio e, come secondo, la divinità di Gesù Cristo figlio di Dio
e Signore, a seguito, tra le altre, della controversia suscitata dal teologo
Ario, che negava quest'ultima. Il dogma della "trinità" è in
relazione alla natura divina: esso afferma che Dio è uno solo, unica e
assolutamente semplice è la sua "sostanza", ma comune a tre
"persone" (o "ipòstasi") della stessa numerica sostanza
(consustanziali) e distinte. Ciò è stato anche interpretato come se esistessero
tre divinità (politeismo) o come se le tre "persone" fossero solo tre
aspetti di una medesima divinità (per il modalismo semplici energie o modi di
apparire della Divinità). Le tre "persone" (o, secondo il
linguaggiomutuato dalla tradizione greca, "ipòstasi") vengono d'altra
parte tradizionalmente intese come distinte ma della stessa sostanza di
Dio: Dio Padre, creatore del cielo e della terra, Padre trascendente e
celeste del mondo. il Figlio: generato dal Padre prima di tutti i secoli, fatto
uomo come Gesù Cristo nel seno della Vergine Maria, il Redentore del mondo. lo
Spirito Santo che il Padre e il Figlio mandano ai discepoli di Gesù per far
loro comprendere e testimoniare le verità rivelate. Nella dottrina trinitaria
il Dio di Israele Yahwehracchiude tutta la Trinità ed è quindi Padre Figlio e
Spirito Santo. Al mistero della SS. Trinità[Nota 4] è dedicata, nella
Chiesa cattolica, la Solennità della Santissima Trinità, che ricorre ogni anno,
la domenica successiva alla Pentecoste. La dottrina trinitaria è stata
accolta dalla maggior parte dei Protestanti, particolarmente dal
protestantesimo storico (di cui fanno parte fra gli altri il luteranesimo e il
calvinismo). Origine del termine e della nozioneModifica Il termine
"trinità" deriva dal latino trīnĭtas-ātis (a sua volta da trīnus = di
tre, aggettivo distributivo di trēs, tre) e fu utilizzato per la prima volta da
Tertulliano nel II secolo, ad esempio nel suo De pudicitia. Occorre ricordare
che prima di lui già Teofilo di Antiochia (II secolo), apologeta cristiano di
lingua greca, utilizzò nel suo Apologia ad Autolycum il termine analogo greco
di τριας (triás). Se il termine "trinità" non è certamente
antecedente al II secolo, la nozione che rappresenta sembrerebbe invece
apparire già a partire dal Vangelo di Matteo: «πορευθέντες οὖν
μαθητεύσατε πάντα τὰ ἔθνη, βαπτίζοντες αὐτοὺς εἰς τὸ ὄνομα τοῦ πατρὸς καὶ τοῦ υἱοῦ
καὶ τοῦ ἁγίου πνεύματος. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni,
battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»
(Vangelo di Matteo) A tal proposito lo studioso e teologo cattolico Doré nota
come l'espressione al singolare eis to onoma (εἰς τὸ ὄνομα) ovvero "nel
nome" unitamente alle due ricorrenze della congiunzione kai(καὶ),
"e", quindi nel significato di "del Padre 'e' del Figlio 'e'
dello Spirito Santo" evidenzierebbe la presenza di un credo già
trinitario. Allo stesso modo e in tale senso possono essere letti alcuni
altri passi dei Vangeli canonici, ad esempio: βαπτισθεὶς δὲ ὁ Ἰησοῦς εὐθὺς
ἀνέβη ἀπὸ τοῦ ὕδατος καὶ ἰδοὺ ἠνεῴχθησαν οὶ οὐρανοί, καὶ εἶδεν πνεῦμα θεοῦ
καταβαῖνον ὡσεὶ περιστερὰν ἐρχόμενον ἐπ' αὐτόν. Appena battezzato, Gesù uscì
dall'acqua: ed ecco, si aprirono i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio
scendere come una colomba e venire su di lui.» (Vangelo di Matteo καὶ ἀποκριθεὶς
ὁ ἄγγελος εἶπεν αὐτῇ, πνεῦμα ἅγιον ἐπελεύσεται ἐπὶ σέ, καὶ δύναμις ὑψίστου ἐπισκιάσει
σοι· διὸ καὶ τὸ γεννώμενον ἅγιον κληθήσεται, υἱὸς θεοῦ. Le rispose l'angelo:
"Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la
potenza dell'Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio
di Dio» (Vangelo di Luca) e in particolar modo in alcuni passi del
"discorso dopo la cena" riportato nel Vangelo di Giovanni: «πιστεύετέ
μοι ὅτι ἐγὼ ἐν τῷ πατρὶ καὶ ὁ πατὴρ ἐν ἐμοί· εἰ δὲ μή διὰ τὰ ἔργα αὐτὰ
πιστεύετε μοι. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro,
credetelo per le opere stesse.» (Vangelo di Giovanni καγὼ ἐρωτήσω τὸν
πατέρα καὶ ἄλλον παράκλητον δώσει ὑμῖν, ἵνα ᾖ μεθ' ὑμῶν εἰς τὸν αἰῶνα τὸ πνεῦμα
τῆς ἀληθείας, ὃ ὁ κόσμος οὐ δύναται λαβεῖν, ὅτι οὐ θεωρεῖ αὐτὸ οὐδὲ γινώσκει· ὑμεῖς
γινώσκετε αὐτό, ὅτι παρ' ὑμῖν μένει καὶ ἐν ὑμῖν ἔστιν. Io pregherò il Padre ed
egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito
di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce.
Voi lo conoscete, perché egli dimora presso di voi e sarà in voi.»
(Vangelo di Giovanni) «ὁ δὲ παράκλητος τὸ
πνεῦμα τὸ ἅγιον, ὃ πέμψει ὁ πατὴρ ἐν τῷ ὀνόματι μου ἐκεῖνος ὑμᾶς διδάξει πάντα
καὶ ὑπομνήσει ὑμᾶς πάντα ἃ εἶπον ὑμῖν ἐγώ. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo
che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà
tutto ciò che io vi ho detto.» (Vangelo di Giovanni) «εἰ οὐ ποιῶ τὰ ἔργα τοῦ πατρός μου, μὴ
πιστεύετέ μοι· εἰ δὲ ποιῶ, κἂν ἐμοὶ μὴ πιστεύητε τοῖς ἔργοις πιστεύετε, ἵνα γνῶτε
καὶ γινώσκητε ὅτι ἐν ἐμοὶ ὁ πατὴρ κἀγὼ ἐν τῷ πατρί . Se non compio le opere del
Padre mio non credetemi, ma se le compio anche se non volete credere a me
credete almeno alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me e
io nel Padre.» (Vangelo di Giovanni X, 37-38) Doré nota anche qui che se
il termine greco πνεῦμα ("spirito", "soffio") è certamente
neutro esso viene indicato con il pronome relativo al maschile come ad
evidenziarne la personificazione. Lo storico delle religioni italiano
Pier Cesare Borispiega al riguardo. La teologia degli scritti di Giovanni è
diversa negli strumenti concettuali: nel Prologo del Vangelo, per comprendere
la natura e il ruolo della funzione messianica di Gesù, diventa fondamentale la
categoria del Lógos, la parola creatrice che "è con Dio, ed è Dio"
(stessa idea di preesistenza in Colossesi ed Ebrei). Un ruolo importante in
questi sviluppi dottrinali dovette avere, più che la filosofia ellenistica, la
speculazione giudaica del tempo, che attribuiva un grande ruolo a potenze
intermedie tra Dio e l'uomo, prime fra tutte il Lógos e la Sapienza divina,
tendenzialmente ipostatizzate. Il risultato complessivo è l'affermazione della
divinità di Gesù, e dello Spirito, uniti nell'invito finale di Matteo, a
battezzare "nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo".
Una formula trinitaria che presiede all'evoluzione che porterà alle
formulazioni trinitarie e cristologiche dei concili. Al termine il monoteismo
biblico riceve una enunciazione completamente nuova: la sostanza, o natura
unica divina, contiene tre ipostasi o tre persone; la seconda ipostasi unisce
in sé nell'incarnazione due nature, quella divina e quella umana.» (Pier
Cesare Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a
cur. Filoramo) Torino, Einaudi) Allo stesso modo vi sono dei richiami alle tre
figure divine nelle lettere attribuite agli apostoli:«Ἡ χάρις τοῦ κυρίου Ἰησοῦ
[Χριστοῦ] καὶ ἡ ἀγάπη τοῦ θεοῦ καὶ ἡ κοινωνία τοῦ ἁγίου πνεύματος μετὰ πάντων ὑμῶν
La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito
Santo siano con tutti voi» (Seconda lettera ai Corinzi κατὰ πρόγνωσιν θεοῦ
πατρὸς ἐν ἁγιασμῷ πνεύματος εἰς ὑπακοὴν καὶ ῥαντισμὸν αἵματος Ἰησοῦ Χριστοῦ,
χάρις ὑμῖν καὶ εἰρήνη πληθυνθείη. Secondo la prescienza di Dio Padre, mediante
la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere
aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza.» (Prima
lettera di Pietro) Uno studio approfondito sulla presenza della Trinità nel
Nuovo Testamento giunge a questa conclusione: É ora possibile
rispondere alla domanda, "La dottrina delle Trinità è presente nella
Bibbia?" La risposta è che non c'è un'affermazione formale della dottrina,
ma una risposta al problema della Trinità. Almeno tre autori neotestamentari,
Paolo, Giovanni e l'autore della Lettera agli Ebrei sono consapevoli
dell'esistenza di un problema. Paolo e l'autore della Lettera agli Ebrei si
concentrano sulla relazione tra Cristo e Dio, ma Giovanni era conscio del
problema della mutua relazione tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Nonostante
questo anche la teologa cattolica statunitense Catherine Mowry Lacugna ricorda
che sia gli esegeti sia i teologi concordano sul fatto che il Nuovo Testamento
non contenga un'esplicita dottrina della Trinità. Del tutto assente è invece,
sempre per gli esegeti e per i teologi, qualsivoglia riferimento alla dottrina
della Trinità nell'Antico testamento. San Melitone di Sardi affermò che Dio
Padre aveva un corpo umano e divino come quello del Figlio Dio, e un'anima
distinta da quella del Figlio Dio, unita al proprio corpo. Di fatto, si
affermava la consustanzialità del Padre e del Figlio nella duplice natura umana
e divina del corpo e dell'anima. In tale dottrina, la distinzione fra anima e
spirito descritta in 5.23[4] portava a identificare lo Spirito Santo Dio con
l'unico spirito comune alle due anime e ai due corpi di Dio Padre e di Dio
Figlio, in modo tale da unire due persone distinte in anima e corpo in un solo
Dio tripersonale la cui sostanza è Spirito. Lo studioso cattolico
statunitense William J. Hill nota comunque come questo "trinitarismo
elementare" sia presente anche nell'opera di Clemente di Roma (I secolo)
il quale nella Prima lettera di Clemente si richiama espressamente a Dio Padre,
al Figlio, allo Spirito, menzionando tutti e tre insieme. Allo stesso modo
Ignazio di Antiochia nella sua Lettera agli Efesini chiama il cristiano a
incorporarsi nel tempio divino come per diventare uno con Cristo, nello Spirito
fino alla filiazione del Padre. Ciononostante, anche per lo studioso
statunitense, la soluzione trinitaria, per come successivamente verrà proposta,
era ancora ben lontana[Nota 16]. Sviluppo della nozione nei teologi e nei
confronti conciliari del IV e V secolo Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento Cristianesimo non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. Come è possibile affermare che Dio è "uno e
trino"? Secondo la fede cristiana la natura divina è al di là della
conoscenza scientifica, ed è incomprensibile e non conoscibile se non fosse per
quanto è dato sapere attraverso la rivelazione divina. Quindi la dottrina
trinitaria non è una conoscenza, come quella dell'esistenza di Dio, a cui si
potrebbe pervenire attraverso la ragione umana o la speculazione filosofica,
sebbene anch'essa non sia dimostrabile. Tuttavia molti teologi e filosofi
cristiani (cfr. Agostino d'Ippona) hanno scritto innumerevoli trattati per
spiegare la paradossale identità unica e trina di Dio, che è un mistero della
fede, un dogma (cioè una verità irrinunciabile anche se non compiutamente
dimostrabile) in cui ogni cristiano-cattolico è tenuto a credere (dal Concilio
di Nicea) se vuol essere tale. Unicità, Unità e Trinità di Dio Completa
rappresentazione Teo-cristologica Dio è uno solo, e la divinità unica. La
Bibbia ebraicapone questo articolo di fede sopra tutti gli altri, e lo circonda
di numerosi ammonimenti a non abbandonare questo fondamento della fede,
mantenendo la fedeltà al patto che Dio ha fatto con gli ebrei: "Ascolta
Israele, il Signore nostro Dio è uno solo", "tu non avrai altri dei
di fronte a me" e anche "Questo ha detto il Signore re d'Israele e
suo redentore, il Signore delle schiere: io sono il primo e l'ultimo, e oltre a
me non c'è alcun Dio". Ogni formula di fede che non insista sull'unicità
di Dio, o che associ nell'adorazione un altro essere diverso da Dio, oppure che
ritenga che Dio possa venire all'esistenza nel tempo anziché essere Dio
dall'eternità, è contraria alla conoscenza di Dio, secondo la comprensione
trinitaria dell'Antico Testamento. Lo stesso tipo di comprensione è presente
nel Nuovo Testamento: Non c'è altro Dio se non uno. Gli "altri dei"
di cui parla San Paolo non sono affatto dei, ma sostituti di Dio, cioè esseri
mitologici o demoni. Secondo la visione trinitaria, è scorretto dire che
il Padre o il Figlio, in quanto alla divinità, siano due esseri. L'affermazione
centrale e cruciale della fede cristiano-cattolica è che esiste un solo
salvatore, Dio, e la salvezza è manifestata in Gesù Cristo, attraverso lo
Spirito Santo. Lo stesso concetto può essere espresso in quest'altra
forma: Soltanto Dio può salvare Gesù Cristo salva Gesù Cristo è Dio In
parole semplici è possibile esprimere il mistero della Trinità nell'Unità
dicendo che il solo Dio si conosce (nel suo Figlio, Verbo, Pensiero, Sapienza)
e si ama in esso (Spirito Santo, Amore). Il Padre è trascendente e nessun
vivente poté vederlo, attraverso il corpo di uomo di Gesù poté rivelarsi ed
essere visto e creduto dagli uomini. La Trinità e Agostino Lo stesso
argomento in dettaglio: Pensiero di Agostino d'Ippona § Il problema trinitario
e De Trinitate (Agostino d'Ippona). La Coronazione della Vergine, di
Diego Velázquez, Museo del Prado A tale proposito è interessante leggere quanto
scritto da sant'Agostino nel De Trinitate e in altre opere per tentare una
chiarificazione del concetto di unica Sostanza e tre Persone. Nell'uomo,
ragiona Agostino, si può distinguere la sua realtà corporale (esse), la sua
intelligenza (nosse) e la sua volontà (velle). Se Dio ha creato l'uomo a
propria immagine e somiglianza è allora necessario che questi tre aspetti
appartengano anche alla Divinità, anche se in modo perfetto e divino, non
imperfetto e umano: così Dio è Essere (Padre), Verità (Figlio) e Amore (Spirito
Santo). Ecco alcune citazioni bibliche al riguardo: « Dio disse a
Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: Io-Sono mi
ha mandato a voi. Es 3, 14, su laparola.net.)« Gli disse Gesù: "Io
sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (
Gv 14, 6, su laparola.net.) « Dio è amore; chi sta nell'amore dimora
in Dio e Dio dimora in lui. 1Gv 4, 16, su laparola.net. La creazione
dell'universo viene attribuita alla Trinità tutta intera; Dio Padre crea
l'universo per mezzo del Figlio ("il Verbo","la Parola") e
"donando" o "riempiendolo" di Spirito Santo. Il credo
recita infatti: «Per mezzo di lui [il Figlio] tutte le cose sono
state create» (Credo) La fonte di questa interpretazione è in Genesi, al
primo capitolo, Dio crea il mondo attraverso la Parola, espresso con la duplice
formula: "Dio disse..." e "Dio chiamò ...". Questo è
appunto il "Verbo di Dio", ossia nella visione cristiana proprio la
seconda persona della Trinità, ovvero il Cristo. Valga, a titolo di esempio il
racconto della creazione: Primo giorno: « Dio disse: «Sia la
luce!». E la luce fu » ( Genesi 1, 3, su laparola.net.) « e chiamò
la luce giorno e le tenebre notte » ( Genesi 1, 5, su
laparola.net.)Secondo giorno: « Dio disse: «Sia il firmamento in mezzo
alle acque. Genesi 1, 6, su laparola.net.)« Dio chiamò il firmamento cielo.
» (Genesi 1,6, su laparola.net.) e così prosegue nei
"giorni" successivi con lo stesso schema, fino alla creazione
dell'Uomo: « E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza, » ( Genesi 1, 26, su laparola.net.) Anche lo Spirito
Santo, che è la relazione d'amore fra il Dio Padre e il Figlio, terza persona
della Trinità, partecipa alla creazione: « La terra era informe e vuota,
le tenebre coprivano la faccia dell'abisso e lo Spirito Santo aleggiava sulla
superficie delle acque » ( Genesi 1, 2, su laparola.net.)Natura e
ruolo di GesùModifica La Santísima Trinidad, di Cairo, Museo del Prado In
ambito teologico trinitario viene fatta una distinzione fra la Trinità da un
punto di vista "ontologico" (ciò che Dio è) e da un punto di vista
"ergonomico, ciò che Dio fa. Secondo il primo punto di vista le persone
della Trinità sono uguali, mentre non lo sono dall'altro punto di vista, cioè
hanno ruoli e funzioni differenti. L'affermazione "figlio di",
"Padre di" e anche "spirito di" implica una dipendenza,
cioè una subordinazione delle persone. Il trinitarismo ortodosso rifiuta il
"subordinazionismo ontologico", esso afferma che il Padre, essendo la
fonte di tutto, ha una relazione monarchica con il Figlio e lo Spirito. Ireneo
di Lione, il più importante teologo del II secolo, scrive: "Il Padre è
Dio, e il Figlio è Dio, poiché tutto ciò che è nato da Dio è Dio."
Simili affermazioni sono presenti in altri scrittori pre-niceni,[5] cioè prima
dello scoppio della controversia ariana: «vediamo ciò che avviene nel
caso del fuoco, che non è diminuito se serve per accenderne un altro, ma rimane
invariato; e ugualmente ciò che è stato acceso esiste per se stesso, senza
inferiorità rispetto a ciò che è servito per comunicare il fuoco. La Parola di
Sapienza è in sé lo stesso Dio generato dal Padre di tutto. Giustino. Immagine
ripresa anche da scrittori successivi: «Noi non togliamo al Padre la sua
Unicità divina, quando affermiamo che anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio
da Dio, uno da uno; perciò un Dio perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il
Figlio non è meno Dio perché il Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non
è senza nascita, così da privare il Padre della Sua unicità divina, né è
diverso da Dio, ma poiché Egli è nato da Dio.» (Ilario di Poitiers, De
Trinitate) Se Gesù Cristo nel vangelo di Giovanni viene chiamato
l'"unigenito" Figlio di Dio, evidenziando con questa affermazione il
suo essere ontologicamente in Dio, secondo la dottrina ortodossa Gesù è anche
diventato una creatura con l'incarnazione, svolgendo un ruolo
"ministeriale", e in un certo senso subordinato in relazione a Dio,
nei confronti dell'umanità. Viene pertanto chiamato "primogenito" in
altri passi, in riferimento alla creazione e redenzione, ad esempio è detto
"immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione... egli è principio,
primogenito dei risuscitati". La distinzione è ripresa nell'affermazione
che Gesù fa quando dice che dovrà "ascendere al Padre mio e Padre vostro,
Iddio mio e Iddio vostro", distinguendo così fra l'essere figlio di Dio in
senso proprio (caratteristico di Gesù) e in senso figurato (caratteristico
degli uomini). Atanasio di Alessandria sviluppa questa distinzione
commentando il passo evangelico in cui Gesù dichiara di non conoscere il giorno
e l'ora della fine del mondo. Ancora un altro passo che è detto bene, viene
interpretato male dagli ariani: Voglio dire che "Quanto a quel giorno e a
quell'ora, nessuno li conosce, neppure gli angeli, neppure il figlio. Ma essi
ritengono che avendo detto "neppure il figlio", egli, in quanto
ignorante, abbia rivelato di essere creatura. Ma la cosa non sta così, non sia
mai! Come infatti dicendo: "Mi ha creato", lo ha detto in riferimento
all'umanità, così, anche, dicendo: "neppure il Figlio", si è riferito
alla sua umanità. Poiché infatti è diventato uomo, ed è proprio dell'uomo
ignorare, come l'aver fame e il resto (infatti l'uomo non sa se non ascolta e
apprende) egli, in quanto uomo, ha dato a vedere anche l'ignoranza propria
degli uomini per questo motivo: in primo luogo per dimostrare di avere
veramente un corpo umano, poi anche perché, avendo nel corpo l'ignoranza
propria dell'uomo, dopo aver mondato e purificato tutta l'umanità, la
presentasse al Padre perfetta e santa. quando dice: "Io e il Padre siamo
una cosa sola e Chi ha visto me ha visto il Padre e Io nel Padre e il Padre in
me", dimostra la sua eternità e la consustanzialità col Padre. Nel vangelo
di Giovanni i discepoli dicono al Signore: Ora sappiamo che tu sai tutto. Atanasio,
Seconda Lettera a Serapione, trad. M. Simonetti) Origine e sviluppo della
dottrinaModifica La nozione dell'unicità di Dio e di Gesù Cristo come "Dio
da Dio" e consunstanziale al Padre è stata affermata come articolo di fede
al primo concilio di Nicea e sviluppata nei successivi concili ecumenici. Il
termine "trinità" non è utilizzato nel credo niceno, ma il termine è
precedente e rintracciabile già in scrittori ecclesiastici come
Tertulliano. Nel Nuovo Testamento il termine non compare, tuttavia la
cristologia di Giovanni, che presenta Cristo come Logos di Dio, (cioè verbo e
ragione), assieme ad alcune affermazioni di Paolo di Tarso, sono stati
considerate dai Cristiani come le basi per lo sviluppo della dottrina
trinitaria. Per la Chiesa in più punti del Nuovo Testamento si ravviserebbe il
carattere trinitario di Dio, ad esempio quando Gesù dice: "Il Padre ed io
siamo una cosa sola" od ancora nel Prologo del Vangelo di Giovanni: "
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era
Dio." In un saggio sulla divinità di Gesù nel Nuovo Testamento il
biblista Brown ipotizza che Gesù sia chiamato Dio nel Nuovo Testamento, ma lo
sviluppo sarebbe stato graduale e non sarebbe emerso fino a un'epoca tarda
nella tradizione neo-testamentaria: nella fase più antica del
cristianesimo prevale l'eredità dell'Antico Testamento nell'utilizzo del
termine Dio, per cui Dio era un titolo troppo ristretto per essere applicato a
Gesù. Esso si riferisce strettamente al Padre di Gesù, al Dio da lui pregato.
Gradualmente, con lo sviluppo del pensiero cristiano Dio venne compreso in
un'accezione più ampia. Si vide che Dio rivelò così tanto di sé stesso in Gesù
al punto che Dio includeva sia Padre che il Figlio."» (Does the New
Testament call Jesus God?) Il primo teologo cristiano a discutere
sistematicamente la dottrina della Trinità fu forse Prassea (II secolo),[6] la
cui opera ci è nota solo attraverso la confutazione che ne fece Tertulliano nel
suo Adversus Praxean, opera in cui è esposta per la prima volta la formula del
rapporto tra una sola sostanza e tre Persone. Lo sviluppo completo della
dottrina si ebbe in seguito, anche in reazione alle dottrine di Ario che
introdusse le sue interpretazioni subordinazioniste di Gesù come essere
semidivino (vedi arianesimo). Molti termini che si impiegano per
esplicitare questo insegnamento sono stati mutuati dalla filosofia greca e
ulteriormente approfonditi per evitare di esprimere concetti erronei. Tra
questi si possono citare: sostanza, ipostasi e relazione. La Trinità viene così
definita in teologia come tre ipostasi individuali, cioè tre Persone o
sussistenze, che hanno e vivono in un'unica essenza o sostanza comune. Lo
stesso argomento in dettaglio: Ipostasi § Nel cristianesimo. La controversia
ariana Lostesso argomento in dettaglio: Arianesimo e Ario. La causa che portò
alla convocazione del primo concilio di Nicea fu la disputa ariana, che giunse
a una svolta all'inizio del IV secolo d.C. I protagonisti furono tre
teologi-filosofi provenienti da Alessandria d'Egitto. Da una parte c'era Ario,
e dall'altra gli ortodossiAlessandro e Atanasio. Ario affermava che il Figlio
non fosse della stessa essenza, o sostanza, del Padre e che lo Spirito Santo
fosse una persona ma inferiore a entrambi. Parlava di una "triade" o
"Trinità", pur considerandola formata di persone ineguali, delle
quali solo il Padre non era stato creato. D'altra parte Alessandro e
Atanasio sostenevano che le tre persone della Divinità fossero della stessa
sostanza e che pertanto non fossero tre Dei, ma uno solo, sebbene il Padre è il
primo e la causa delle altre due. Ario, "volendo difendere il
monoteismo più rigoroso, secondo cui Dio è trascendente"[8] accusò
Atanasio di reintrodurre il politeismo. In effetti l'arianesimo viene
considerato da molti studiosi moderni[senza fonte] come il ramo più rigoroso
del subordinazionismo cristologico dei primi padri della Chiesa (Giustino,
Ireneo di Lione ecc.) e scrittori cristiani (Origene, Tertulliano ecc.) i quali
ancora non si interrogavano sul rapporto fra le persone della divinità.
Atanasio accusò Ario di reintrodurre il politeismo, dal momento che distingueva
la natura divina delle tre persone. Accanto a Dio, Ario poneva infatti
una creatura "che può essere chiamata dio in modo improprio"[9],
considerato il Figlio di Dio, ma ritenuto da lui semplicemente "la prima creatura
di cui il Padre si era servito per compiere la creazione", incarnatosi in
Gesù, simile ma non uguale a Dio, che avrebbe avuto esistenza dal nulla,
affermando che "generare" e "creare" fossero sinonimi. Gli
ortodossi invece ribadivano l'assoluta unità di Dio, e se il Logos era divino,
(come era affermato nel prologo di Giovanni "il Logos era Dio"), ciò
non comportava una suddivisione o una moltiplicazione di dei, ma Dio era sempre
uno solo. In questo senso il termine "generazione" indicava l'unità
della natura e non andava inteso in senso temporale e umano, con un
"prima" e un "dopo", ma il Figlio era eternamente generato,
cioè era sempre stato insito in Dio. Al tempo opportuno il Verbo si sarebbe
incarnato in Gesù, in un processo di abbassamento e annichilimento, e l'unione
della natura divina e di quella umana nella persona di Gesù diede origine ad
un'altra serie di controversie nei secoli successivi. La controversia
ariana non terminò a Nicea. L'arianesimo ebbe grande fortuna nell'Impero romano
e in certi momenti presso la corte imperiale. Molte tribù germaniche che
invasero l'impero romano professavano un cristianesimo ariano e lo diffusero in
gran parte dell'Europa e dell'Africa settentrionale, dove continuò a prosperare
fino a gran parte del VI secolo, e in alcune zone anche più a lungo. La
Trinità nei primi scritti cristiani Santissima Trinità, di Hendrick van Balen,
Sint-Jacobskerk, Anversa I primi scrittori cristiani così si esprimono al
riguardo: Noi non togliamo al Padre la sua Unicità divina, quando affermiamo che
anche il Figlio è Dio. Poiché egli è Dio da Dio, uno da uno; perciò un Dio
perché Dio è da Se stesso. D'altro lato il Figlio non è meno Dio perché il
Padre è Dio uno. Poiché l'Unigenito Figlio non è senza nascita, così da privare
il Padre della Sua unicità divina, né è diverso da Dio, ma poiché Egli è nato
da Dio. (Ilario di Poitiers De Trinitate. Quando affermo che il Figlio è
distinto dal padre, non mi riferisco a due dèi, ma intendo, per così dire, luce
da luce, la corrente dalla fonte, ed un raggio dal sole. Ippolito di Roma. Il
carattere distintivo della fede in Cristo è questo: il figlio di Dio, ch'è
Logos Dio in principio infatti era il Logos, e il Logos era Dio - che è
sapienza e potenza del Padre Cristo infatti è potenza di Dio e sapienza di Dio
- alla fine dei tempi si è fatto uomo per la nostra salvezza. Infatti Giovanni,
dopo aver detto: In principio era il Logos, poco dopo ha aggiunto e il logos si
fece carne, che è come dire: diventò uomo. E il Signore dice di sé: perché
cercate di uccidere me, un uomo che ha detto la verità? e Paolo, che aveva
appreso da lui, scrive: Un solo Dio, un solo mediatore fra Dio e gli uomini,
Cristo Gesù uomo» (Atanasio di Alessandria, Seconda lettera a Serapione)
Teologia delle Chiese orientali e della Chiesa latina L'interpretazione
trinitaria nella Chiesa latina si differenzia da quella greca. Se entrambe le
Chiese, infatti, riconoscono l'unità delle tre Persone divine nell'unica natura
indivisa, per cui ciascuna di esse è pienamente Dio secondo gli attributi (eternità,
onnipotenza, onniscienza ecc.), ma ciascuna è a sua volta distinta e
inconfondibile rispetto alle altre due, è altresì vero che nasce il problema di
comprendere le relazioni che intercorrono fra di esse. Con il simbolo
niceno-costantinopolitano, approvato nel primo concilio di Costantinopoli, si
afferma che il Figlio è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è spirato
dal Padre. Il Padre è dunque l'unica origine della Trinità. Col Concilio di
Toledo, però, e con i suoi successivi sviluppi, la Chiesa latina, usando una
terminologia diversa, stabiliva unilateralmente che lo Spirito Santo procede
anche dal Figlio (la questione del cosiddetto Filioque), cioè che è la terza
persona. Gli ortodossi rifiutano tuttora tale sviluppo, temendo che essa renda
il Figlio concausa dello Spirito Santo; per questo preferiscono parlare,
secondo la teologia greca, di "spirazione dal Padre attraverso il
Figlio" (proposta da grandi teologi come san Gregorio di Nissa, san
Massimo il Confessore e san Giovanni Damasceno), pur non introducendo questa
specificazione nel Credo. La Chiesa cattolicaritiene valide entrambe le
versioni, infatti le chiese cattoliche orientali utilizzano nella liturgia la
versione priva del Filioque. Anche altri gruppi cristiani hanno rifiutato
il Filioque; in particolare bisogna citare il caso dei vetero-cattolici, che
accettano la validità dei primi sette concili ecumenici, rifiutando le dottrine
cattoliche successive. Invece le Chiese nate dalla riforma hanno generalmente
accettato questo dogma nella versione occidentale (comprensivo, cioè, del
Filioque). Simboli di fedeModifica icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Simbolo di fede. La dottrina della Trinità è espressa in alcuni
Simboli di fede, cioè proposizioni il più possibile chiare e prive di ambiguità
che si riferiscono a punti controversi della dottrina. Ad esempio al primo
concilio di Nicea venne approvato il seguente paragrafo (dal cosiddetto credo
di Nicea) relativo al significato di Figlio di Dio riferito a Gesù
Cristo: «...nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da
Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del
Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create.» Tale
proposizione deriva dal passo del primo capitolo della lettera agli
Ebrei: il Figlio, che Dio ha costituito erede di tutte le cose e per
mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione
della gloria di Dio e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la
potenza della sua parola. Il simbolo atanasiano (detto anche Quicunque
vultdalle parole iniziali) è invece un'esposizione sintetica della dottrina
della Trinità secondo la tradizione latina, probabilmente composto in Gallia
verso la fine del V secolo, ed usato nelle chiese occidentali:
«...veneriamo un unico Dio nella Trinità e la Trinità nell'unità. Senza
confondere le persone e senza separare la sostanza. Una è infatti la persona
del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma
Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna
maestà. Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente
lo Spirito Santo. Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente.
Il Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio. E tuttavia non vi sono
tre Dei, ma un solo Dio. Poiché come la verità cristiana ci obbliga a
confessare che ciascuna persona è singolarmente Dio e Signore, così pure la
religione cattolica ci proibisce di parlare di tre Dei o Signori. E in questa
Trinità non v'è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore: ma
tutte e tre le persone sono l'una all'altra coeterne e coeguali. Il Padre non è
stato fatto da alcuno: né creato, né generato. Il Figlio è dal solo Padre: non
fatto, né creato, ma generato. Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non
fatto, né creato, né generato, ma da essi procedente.il Signore nostro Gesù
Cristo, Figlio di Dio, è Dio e uomo. È Dio, perché generato dalla sostanza del
Padre fin dall'eternità; è uomo, perché nato nel tempo dalla sostanza della
madre. Perfetto Dio, perfetto uomo: sussistente dall'anima razionale e dalla
carne umana. Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre
nell'umanità.» In seguito vennero elaborati altri simboli di fede in cui
si riassumevano le dottrine precedenti e si trattavano altri punti controversi,
ad esempio al XI Sinodo di Toledo venne elaborata un'altra
"confessione" attribuita in passato ad Eusebio di Vercelli, di cui si
riporta solo l'inizio: «Professiamo e crediamo che la santa ed ineffabile
Trinità, il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, secondo la sua natura è un
solo Dio di una sola sostanza, di una sola natura, anche di una sola maestà e
forza. E professiamo che il Padre non (è) generato, non creato, ma ingenerato.
Egli infatti non prende origine da nessuno, egli dal quale ebbe sia il Figlio
la nascita, come lo Spirito Santo il procedere. Egli è dunque la fonte e
l'origine dell'intera divinità.» Posizioni antitrinitarie glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Antitrinitarismo, Gesù nell'ebraismo
e Gesù nell'islam. La dottrina del Dio Uno e Trino non è accettata al di fuori
del cristianesimo, dato che afferma la divinità di Gesù Cristo, che è
caratteristica delle maggiori confessioni di questa religione. Ebraismo ed
Islamrifiutano questo aspetto, e nel Corano in particolare questo punto
dottrinale viene esplicitamente negato. Anche nell'ambito del
cristianesimo vi sono movimenti religiosi e diramazioni anti-trinitarie; fra
queste le più note a partire dall'età moderna e contemporanea sono i testimoni
di Geova, la House of Yahweh, i cristadelfiani, gli antoinisti, i mormoni, la
Chiesa del Regno di Dio, la Chiesa cristiana millenarista, il cristianesimo
scientista, la Chiesa dell'unificazione e le chiese odierne che si rifanno
all'unitarianismo. Ordini e congregazioni della Santissima
TrinitàModifica Numerosi istituti religiosi condividono la devozione alla
Trinità e sono a essa intitolata: l'Ordine della Santissima Trinità, con il
ramo delle monache e le congregazioni delle suore di Madrid, Roma, Valence,
Valencia e delle Montalve; le statunitensi congregazioni dei Missionari Servi e
delle Ancelle Missionarie della Santissima Trinità; le canadesi Domenicane
della Santissima Trinità; le spagnole Giuseppine della Santissima Trinità; le
messicane Serve della Santissima Trinità e dei Poveri e le italiane Adoratrici
della Santissima Trinità. Trinitarian doctrine touches on virtually every aspect of Christian
faith, theology, and piety, including Christology and pneumatology, theological
epistemology (faith, revelation, theological methodology), spirituality and
mystical theology, and ecclesial life (sacraments, community, ethics. La dottrina Trinitaria tocca virtualmente ogni
aspetto della fede cristiana, della teologia e della devozione, comprese la
Cristologia e la pneumatologia, l'epistemologiateologica (fede, rivelazione,
metodologia teologica), la teologia mistica e la spiritualità e la vita
ecclesiale (sacramenti, comunità, etica)» (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of
Religion, vol.14. NY, Macmillan, 2005, pp. 9360 e segg.) ^ «non è esatto dire che i cristiani credono in Dio!
Per lo meno non è esatto rispetto al fatto che essi non si contentano di
affermare l'esistenza di quell'Essere supremo, onnipotente, creatore del cielo
e della terra che gli "uomini chiamano Dio" (Tommaso d'Aquino) e che,
nel vasto mondo e nella storia, anche tanti altri credenti riconoscono. La sola
cosa che, in realtà, si possa dire se si vuole usare un linguaggio preciso, è
che i cristiani credono nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo; o ancora nella
Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che insieme costituiscono
l'unico Dio vivo e vero.» (Joseph Doré. Trinità in Dictionnaire des Religions (a
cur. Poupard). Parigi, Presses universitaires de France.
In italiano: Dizionario delle religioni. Milano, Mondadori, Cfr. ad esempio il Catechismo della Chiesa
Cattolica che riportando l'Expositio symboli (sermo) CCL di Cesario
d'Arlessostiene La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità. Il simbolo
niceno-costantinopolitano rispetto al credo di Nicea, amplia gli aspetti
cristologici e pneumatologici: Gesù Cristo figlio di Dio è GENERATO (cf. Grice
– GENITOR) da sempre dal Padre, è increato, è homoúsioncioè della "stessa
sostanza" del Padre e per mezzo di lui si è realizzata la creazione; egli
è dunque Dio vero da Dio vero, luce da luce. Lo Spirito Santo ha parlato per
mezzo dei profeti, egli è Signore e da lui proviene la vita, procede dal Padre
ed è elemento di culto come il Padre e il Figlio. Cfr., ad esempio, Pier Cesare
Bori. Dio (ebraismo e cristianesimo), in Dizionario delle religioni (a cur. Filoramo)
Torino, Einaudi, Per la Chiesa cattolica
la "trinità" è un mistero della fede ovvero uno dei «misteri nascosti
in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati»
(Concilio Vaticano I, DS; FCC). poreuthentes oun mathēteusate panta ta ethnē
baptizontes autous eis to onoma tou patros kai tou uiou kai tou agiou
pneumatos» ^ «baptistheis de o iēsous euthus anebē apo tou udatos kai idou
ēneōchthēsan oi ouranoi kai eiden pneuma theou katabainon ōsei peristeran
erchomenon ep auton» «kai apokritheis o angelos eipen autē pneuma agion
epeleusetai epi se kai dunamis upsistou episkiasei soi dio kai to gennōmenon
agion klēthēsetai uios theou» ^ «pisteuete moi oti egō en tō patri kai o patēr
en emoi ei de mē dia ta erga auta pisteuete kagō erōtēsō ton patera kai allon
paraklēton dōsei umin ina ē meth umōn eis ton aiōna to pneuma tēs alētheias o o
kosmos ou dunatai labein oti ou theōrei auto oude ginōskei umeis ginōskete auto
oti par umin menei kai en umin estin o de paraklētos to pneuma to agion o
pempsei o patēr en tō onomati mou ekeinos umas didaxei panta kai upomnēsei umas
panta a eipon umin egō» ^ «ei ou poiō ta erga tu patròs mou, pistèuete moi; ei
dè poiō, kan emoì mē pistèuēte tòis ergòis pistèuete, ìna gnōte kai ginōskēte
oti en emoi o patēr kagō en tō patrì. ē charis tou kuriou iēsou [christou] kai
ē agapē tou theou kai ē koinōnia tou agiou pneumatos meta pantōn umōn kata
prognōsin theou patros en agiasmō pneumatos eis upakoēn kai rantismon aimatos
iēsou christou charis umin kai eirēnē plēthuntheiē» Further, exegetes and
theologians agree that the New Testament also does not contain an explicit doctrine
of the Trinity. God the Father is
source of all that is (Pantokrator) and also the father of Jesus Christ;
"Father" is not a title for the first person of the Trinity but a
synonym for God. Inoltre, esegeti e teologi sono d'accordo
che anche il Nuovo Testamento non contiene un'esplicita dottrina della Trinità.
Dio Padre è fonte di tutto ciò che è (Pantokrator) e anche il padre di Gesù
Cristo; "Padre" non è un titolo per la prima persona della Trinità ma
un sinonimo per Dio.» (Catherine Mowry Lacugna. Trinity, in Encyclopedia of Religion, NY,
Macmillan,Exegetes and theologians today are in agreement that the Hebrew Bible
does not contain a doctrine of the Trinity, even though it was customary in
past dogmatic tracts on the Trinity to cite texts like Genesis 1:26, "Let
us make humanity in our image, after our likeness" (see also Gn.; Is.) as
proof of plurality in God. Although the Hebrew Bible depicts God as the father
of Israel and employs personifications of God such as Word (davar), Spirit
(ruah: ), Wisdom (h: okhmah), and Presence (shekhinah), it would go beyond the
intention and spirit of the Old Testament to correlate these notions with later
trinitarian doctrine. Esegeti e teologi
oggi sono d'accordo che la Bibbia ebraicanon contenga la dottrina della
Trinità, anche se era abituale nei trattati dogmatici della Trinità citare
testi come la Genesi, Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza (vedi
anche Gn.; Is.) come prova di pluralità in Dio. Sebbene la bibbia ebraica
descrive Dio come padre di Israele e usi personificazioni di Dio come parola
(davar), spirito (ruah: ), saggezza (h: okhmah) e presenza (shekhinah),
andrebbe oltre le intenzioni e lo spirito del vecchio testamento correlare
queste nozioni con la successiva dottrina trinitaria. Lacugna. Trinity, in
Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan, In the last analysis, the theological
achievement is limited. The trinitarian problem may have been clear: the
relation of the son and, at least nebulously, spirit to the godhead. But a trinitarian
solution is still in the future. The apologists spoke too haltingly of the spirit
-- with a measure of anticipation, one might say too impersonally. In ultima analisi i risultati teologici del II secolo
furono limitati. Il problema Trinitario poteva essere stato chiaro: la
relazione fra il Figlio e (almeno nebulosamente), lo Spirito alla Divinità. Ma
una soluzione Trinitaria era ancora futura. Gli apologisti parlano con troppa
esitazione dello Spirito; con il valore di un'anticipazione, si potrebbe dire
in modo troppo impersonale. Richard e
Hill. Trinity, Holy. The New Catholic Encyclopedia, NY, Gale, O Gente
della Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro
che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria non è altro che un messaggero di
Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno spirito da Lui [proveniente].
Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite “Tre”, smettete! Sarà
meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio? Gloria a Lui! A
Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che è sulla terra.
Allah è sufficiente come garante» (Cor.). RiferimentiModifica ^ Catherine Mowry
Lacugna, "Trinity", in Encyclopedia of Religion, NY, Macmillan,
Trinità in Dictionnaire des Religions, Wainwright, The Trinity in the New
Testament, Londra, SPCK Ts 5.23, su
laparola. net. Bobichon,
"Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les
écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A.
Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura
pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, ^
Roger E. Olson, The Story of Christian Theology: Twenty Centuries of Tradition
et Reform, Downers Grove (IL), InterVarsity
^ Tertulliano, Contro Prassea, ed. critica e trad. italiana di Giuseppe
Scarpat, Torino, S.E.I. "Terzo millennio Cristiano", paragrafo:
"Eresie cristologiche Dizionario Mondadori di Storia Universale" ^
John Henry Newman, Gli Ariani del IV secolo, Milano, Jaca Com’è nata la
dottrina della Trinità? JW.org
Wainwright, The Trinity in the New Testament, Londra, SPCK. Voci correlate Corpus Domini Cristologia Dio
(cristianesimo) Dio (ebraismo) Dio Padre Dio Figlio Diofisismo Figlio dell'uomo
Figlio di Dio Gesù di Nazareth Gesù nel cristianesimo Iconografia della Trinità
Inabitazione trinitaria Pericoresi Prosopon Spirito Santo Solennità della
Santissima Trinità Triade (religione) Trinità (araldica) Unione ipostatica
Verbo (cristianesimo) lemma di dizionario «Trinità» Trinità, su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Rosa e Umberto
Gnoli, TRINITÀ, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, .
Modifica su trinità, su sapere.it, De Agostini. Trinità, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Trinità, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton
Company. Modifica su Wikidata Tuggy, Trinity, in Edward N. Zalta (a cura di),
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Università di Stanford. Baber, The Trinity, su Internet
Encyclopedia of Philosophy.Hunt, The Development of Trinitarian Theology in the
Patristic and Medieval Periods( PDF ), su TRINITY - Nexus of the Mysteries of
Christian Faith, google.it. La Trinità secondo le Sacre Scritture, sito evangelico
pentecostale Portale Gesù: accedi alle voci di che trattano di Gesù. Antitrinitarismo Cristologia studio su chi è e cos'è
Gesù Cristo Dio (cristianesimo) concetto di Dio nel Cristianesimo Contenuti
sticamente l'ascesa a Dio si scandisce in tre tappe (ognuna delle quali a sua
volta divisa in due): il mondo sensibile, vestigium Dei l'anima, in
quanto realtà naturale, imago Dei l'anima, in quanto abitata soprannaturalmente
dal Mistero trinitario, in Cristo, similitudo Dei Il mondo, vestigium Dei la
predica di Francesco agli uccelli nel pensiero di F. vibra la nuova percezione
francescana della natura. L'importanza data alla prima tappa, il mondo
sensibile è ciò che differenzia F. da Agostino, in forza dell'eredità
francescana, che gli consente di recuperare qualcosa della impostazione
aristotelica, più valorizzatrice del livello corporeo. Il mondo può essere
letto come un SEGNO, un simbolo del Trascendente. Tutto parla di Dio, e
permette perciò di risalire a Lui. Non occorre fuggire dalla realtà, ma è nella
realtà, anzitutto materiale, che l'uomo trova la testimonianza del creatore
invisibile. Secondo F. la realtà ci parla di Dio non solo nella unità
della sua natura, ma ne annuncia anche il mistero trinitario. Ad esempio la
conoscenza delle cose corporee è simbolo della processione del figlio dal padre.
Come dalla cosa si stacca una immagine, così dal padre è GENERATO (cf. Grice,
GENITOR) il Figlio, e come l'immagine della cosa si unisce all'organo
sensoriale corporeo, così il verbo si è unito alla carne, facendosi uomo. L'anima
creata, IMAGO dei. Tuttavia è soprattutto nell'anima che il divino si rivela.
Il mondo è solo un *vestigium*, mentre l'anima è *imago* Dei. Tra l'altro
testimonia e parla del mistero trinitario, come già per Agostino, la
tripartizione dell'anima in memoria (che rimanda in particolare al padre),
intelletto (che rimanda al verbo) e volontà (che rimanda allo spirito santo,
come amore del padre e del figlio). L'anima redenta, *similitudo* Dei. Più
di tutto ci dice chi è il divino l'anima in stato di grazia, l'anima abitata da
Cristo. Nessuno più del santo ci mostra il volto di Dio. Non basta perciò uno
spiritualismo generico. L'uomo non è solo corpo e anima. Ma l'anima stessa deve
superarsi, dilatarsi, accettando una misura più grande. L’ospite che ci inabita
e chiede di crescere in noi. Direzione e gradi del cammino si presentano anche
nelle forme di rapporto, tra cui vengono analizzati la realtà nel suo insieme e
l'uomo in particolare: traccia (*vestigium*) del Creatore nel sensibile, sua
immagine (*imago*) trinitariamente sviluppata, nelle facoltà o attività dello spirito
e massima somiglianza possibile (*similitudo*) con lui nello stato della
contemplazione perfezionatrice o unione con lui. Vestigium o speculum, traccia
o specchio come primo grado della contemplazione riflettente del divino indica
la forma di essere e di movimento del mondo sensibile che rinvia il pensiero
alla sua origine. Imago, immagine, come caratterizzazione della mens conduce il
pensiero che si accerta di se stesso al suo archetipo trinitario. Similitudo,
somiglianza, indica lo stato di colui che supera se stesso nel suo massimo
avvicinamento possibile o nella connessione con la meta
dell'ascesa. Itinerarium: per vestigia e in vestigiis: per imaginem - in
imaginem. All'agire della mens come o nella similitudo, corrispondono i
gradi descritti. Un'interpretazione del rapporto tra vestigium e imago
nell'Itinerarium è stata presentata da Hodl: Die Zeichen-Gegenwart Gottes und
das Gott-Ebenbild- Sein des Menschen in des hl. F. Itinerarium mentis in Deum,
in Miscellanea Mediaevalia, Berlin. Sulla differenziazione di
vestigium-imago-similitudo ulteriormente: De scientia Christi q. 4 concl.
Orizzonte neoplatonico di traccia, ἴχνος. Il male stesso ha ancora una traccia
del bene: ἴχνος ἀγαθοῦ, Proclo, In Remp. Essere come traccia dell'uno, in
Plotino, vedi la relazione con la dottrina dell'immagine. Nel contesto
oggettivo e storico di questa dottrina vi è Agostino: il creato, l'ente
molteplice e temporale nel suo insieme è traccia dell'unità e atemporalità
(divina), (unitatis e aeternitatis vestigium: Vera rel. Gen. ad litt. imp.
Anche Eriugena segue questo concetto di traccia, che vede nel sensibile la
traccia o la manifestazione dell'essere divino in sé nascosto, come punto di
partenza della summitas theoriæ: omnis creatura corporalis atque visibilis
sensibusque succumbens extremum divinæ naturæ vestigium non incongrue solet in scripturis
appellari: Periphyseon. Sulla teofania cfr. Beierwaltes, Negati affirmatio;
sull'aspetto della metafisica della luce. Grice: “Bonaventura is generally more liked than
Aquinas at Oxford. More platonic,
less dogmatic sort of type!” – Findanza. Fidanza. Keywords: Lc. 19:38-40
‘grideranno le pietre’ ‘la pietra grida’ – i segni trinitari - primo grado: vestigio o impronta; secondo
grado: immagine; terzo grado: similitudine --. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, "Grice e
Fidanza," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, e Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Figliucci:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giove e Ganimede
– scuola di Siena – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo sienese. Filosofo toscano. Filosofo
italiano. Siena, Toscana. Grice: “Of course I love Figliucci, who doeesn’t? Of course, there is Figliucci
and [Vincenzo] Figliucci, both moralists at Siena; what I love about Figliucci
is that he championed the big ones: Plato’s Fedro – with the charismatic
metaphor of the winged warrior; and then Fedro is an interesting character for
maieutica; and Aristotle’s ethical ‘books,’ which we hope he instilled on
Alexander!” – Studia a Padova. Dopo
aver vissuto le piacevolezze mondane della corte, entrò nel convento domenicano
di Firenze. Altre opere: “Del bello” (Roma); “Ficino” (Venezia); “Le undici
Filippiche di Demostene con una Lettera di Filippo agli Ateniesi. Dichiarate in
lingua Toscana” (Roma, Appresso Vincenzo Valgrisi); “Della Filosofia morale
d'Aristotile” (Roma); “Della Politica, ovvero Scienza civile secondo la
dottrina d'Aristotile, libri VIII scritti in modo di dialogo” (Venezia, Somascho);
“Catechismo, cioè istruzione secondo il decreto del Concilio di Trento”; Treccani
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. FIGLIUCCI, “IL FEDRO O
VERO IL DIALOGO DEL Bello di Platone, tradotto in lìngua toscanà per Felice
Figliucci Sense. IN ROMA Con priuilegio
del Sommo Ponstefice per anni X.IL FEDRO. Ó VERO il D/4iWa id Bello di
Telatone. TRADOTTO in lingua Tofcana» Perfone del Dialogo, SOCRATE, ET FEDRO. O
Fedro mio caro,doue uai tu,ac Soc. donde uieni ^ F E D. Socratc,io uego da cafa
di Lifia figliuolo di Cefalo,flC hora me ne uh un poco à fpafTo fuor della
città: per ciò che buona peza feco à ragionar fedendo, da quefta mattina per
tempo, per fino à hora fon dimorato. Et hora,c(rendo à ciò ftato perfuafo,da
Acumeno tuo amico, fiC mio,fò caminando efTercitio: il qual modo di
efTercitarfi, egli affai più facile, CC molto più gjoueuole giu:sdica, che
laftaticarfi nel correre, come molti fanirsno. SOCR. Certamente Fedro mio, eh*
egli ti configlia bene^ma fecondo il tuo dirc,Lifu dee elTere nella città, è
uero. FED, Ve^sro, fi£ alloggia infieme con Epicrate nella cafa di
Morico,uicino al Tempio di Gioue Olimpiót SOCR. rimali di gratia,clie faceuate
uoi quiui f Inuitouui forfè Lifia al parto delle fuc orationii' FED. Tu lo
fapra!,par clic tu babbi tempo di uenire i(ifieme coumeco^fin che io te l
habbia narrato. SOCR. Che dici tu.^ Hor Don penfi tu, che io proponga à ogni
mia facen <ìa (come di^Te Pindaro) il ragionamento di Li:s fia,fl£iltuo?
FED, Seguitami adunque SOCR. Di pure. FED. Et fappi Socra;^ tc.che quella
difputa, che nacque fra Lifia^a ine.è {lata à punto degna delle tue orecchie.
Per ciò che il parlare,che Ci\ ùilto,(ìx in un cers; to modo tutto intorno alle
cofe d'AMORE; pcr ciò che Lifia haueua fcritto una oratioue doftiG:: fima, fi£ eIegantiflima,
manoDÌn fauore d'uno AMANTE, anzi pier quello era artificiofa.fi: Icggias:
dra,che egli in quella prouaua,che più toftofi dee far ccfa grata à chi non
ama, che à chi ama» SOCR. O huomo certamente digniffuno; uo:s lefTe lddio,che
egli haueffe fcritto,che fi hauefe fe à fave bene più tofto à unpoueio.che à un
ricco, ftàunuecchio, che à un giouane,aà moltialtrijiquali in molte altre cofe
fono mal condotti, come me: per ciò che fe tale fufTe fta^ ta la fua oratione.all'
bora fi poteua degnametc ^nc ce piaccuole.a utile. Non di meno anchora che ella
non fia (lata cefi, egli m'è foptags giunta una fi gran uogliad' udirla, che (e
tu cdis minando te ne andaflj perfino à Mcgara,flC fc (comeècoftume di Hcrodico
) tofto che alle mura della città fiifli giunto.indietro te ne tornaflì,io per
queflo fon difpofto di non ti aK? bandonarmai. FED, Che dici tu Socrate^' Penfi
turche io giouane inefperto poffa hora narrarti, flC ramentarti quelle cofe,chc
Lifia moi te più dotto di quanti Sìcrittori hoggi fi troua:^ no, in molto tempo
à fua commodità compofe/ Sappi,che io fono affai lontano da quello ti uoglio
dire,chc iouorrei più prefto fimil cofa faper fare, che effer d' infinite
riccheze poffeffo? re. SOCR. Fedro cparrebbe.cheip non fi conofcefL, non fai
tu, che tanto à me farebbe il non fapere chi tu fei, quanto lo fcordarmi di me
medefimo.^ Delle quali^ofe neffuna è uera: per ciò che io fo beniflimo,che tu
non udirti una uolta fola quefta Oratione di Lina, ma te U facefli replicare
affai uolte. Et Lifia fo io, che uo lentieri ti ubidiua: ne quefto anchora ti
fu affair ma fattoti al fine dare m mano il libro. doue eri fcritta, confiderafti
ineffo tutte quelle cofe,U quali maggiormente defideraui fapere: il che come
hauedi fatto, fianco di hauere in quel Iugo fi fungamciife fedufo,(i partifti
per andare tene a fpafTo. Et io giiiraréi,che bora tela mefe teui alla memoria,
fé gii non fufTeftata troppo lunga, te neandaui fuor della città^perconi
fiderare date ftefloà quello, che haueui letto» Ma poi che tu ti fei abbatuto ì
un'huomo pazo di udire fimili ragjonamèti,come fono io,toflo che iMiaiucduto,
ti fei oltra modo rallegrato, quafi che tu fufli certo di hauerc uno, che dei
niederimo,che tu,tecori hauefli à rallfgrare,flc fare feft^,flC cofi mi bai
commefTo.che io uenea teco. Quindi pregato da me defiderofiflimo di ud/rti, che
à dir cominciaflj, bai finto ciò efTerti difficile, come fe tu non hauefli
bauto uoglia di raccontarmi quefta cofa: flC io fon certo, che. al fine, quando
alcuno qui non fuffe ftato,che ti haueffe per fe fteflo uoluto udire, tu haueui
tan ta uoglia di dire quello, che haueui udito, che tu cri per sforzare
qualunque fi fuffe. à udirti à fuo mal grado. Et però Fedro mio caro, non tt
fare pregare à mia fòdisfatione di fare queU lo, che eri ogni modo per fare
fenza che alcuno te ne ricercaffe. FED. Sarà adunque me;s gbo dirti quefla
cofa, come jo faprò,purcbc io la dica; per ciò che e mi pare, che tu non fia
per abbandonarmi mai, fin che non Thabbia fentita. <^ Sccr. I o SOCR.
Certamcnfe che tu hai^buon credtere. FED. Cofi adunque faro: ma per dirti il
uero Socrate, io non ho imparate le parole tutte à mente, ma io mi ricordo bene
quafi di tutte le ragioni, flC argomenti: per li quali egli dimcftra un'amante
efferdifTimile da chi no ama, fiC cofirdì fon deliberato nan-artele tutte
ordinatamen:? te. SOC Moftrami di gratia prima quel, che tu hai nella man
fiftiftra fotto il mantello, che à dirti il uero, io dubito che tu non habbia
quel libro proprio: il che fe è uero, pen(à che io ti ftimo afTai; non di meno
fe io poffo udire jLifia, non uoglio ftarc à udir te. Ma che fai tu, che ncn
me' 1 moftrif FED • Deh fta fermo: tu
m'hai leuato d'una grande fperanza o Socrais te, che io haueua di efercitait
hoggi il mio ingc^ gno con teco: ma poi che io non poffo farlo, po niamcd à
federe, per leggere doue più fi piace • SOCR. Aridiamocene, prima che à
leggere. cominciamo, dj U dal fìume Iliffo, ftquiui ci porremo à federe, doue
più ci parrà FED. A tempo mi truouo difcalzo,ma fu non uai mai altrimenti: et però
ci farà ageuole paiTare quefta piccola acqua, ne anchora ci douerà difpiaccre,
tnaflimamente in quefta ftagionc,&à quefta hcra. SOCR. Va uia adunque, ft
in tanto confiderà, doue po(&amo federe » F £ Vedi tu quel Platano cofi
alto SOCR. Si ueggo. FED. Qoiui è una piaceuolc ombra, •fiC un uentolino fcaue.
flC l'herba tenera in ogni parte: fi che pofTjamo porci à federe,© à giacere,
doue più ci piacerà. SOCR. Va Ij^adaquc. FED, Dimmi un pooc Socrate, non fi
dice egli, che già in quefto luogo Borea rapì Oriss fhia,uicinoaI fiume
Iliffoi' SOCR, Col; fi dice» FED. Non ti pare egh, che qui fi uegga una
acquetta grata, pura, fiC chiara, nella quale commodatamcte pofTano le
fanciulle fcher zarci' SOCR. Non é quefto il luogo, ma po co più di fotto,
lontano due ò uero tre ftadi,do:s ue habbiamo trouato il Tempio di Diana, flc
in quel medefimo luogo è un certo altare fatto ad honore di Borea. FED. Io non
fq bene quc ftacofa. Ma dimmi per tua fe Socrate, penfi tu che quefta fauola
fia ftata uera t SOCR. Se -io non penfafli^che fuffc uera, come fanno an^s
chora tutte le perfone fauie non per quefto farei da elTere ftimato fcioccho:
ma non uolendola in tutto negare, potrei fingermi quefta cofa, fiC dire, che il
uento Borea ulcito da quefte pietre ui:s cine à (chcrzare.flC foUazarfi con
Farmacia, fi ina; contro in Onthia, cCla fecegrauemente à terra cadere, della
qual cola ella ne. mori: OC di qui hanno finto, che ella fò rapita da Borea,
non già da qiiefto luogo, ma dallo Ariopago.doue bora fi giudicano le caufe:
per ciò che è /ama affai da quefta diuerfa^che ella non fu rapita da quello^.
ma da quel luogo. Hora io Fedro mio, giudico certamente quelle cofe molto
diletteuoli, ma da huomini troppo curiofi, et folkcjti di quello» che poco
importa, fiC da perfone anzi poco fortunate, che non: le quali fe per altro non
hauefs fimo à chiamare infelici, quefta però farebbe cagione giuftf/Tima^che
eglino tégono cofa neceffarla, che bifogni interpretale la forma de i Centauri,
delle Chimere, flC di molte altre fintioni inutili. Et non folo fi truouano
quefte fi fatte figure, ma à chi fi intrica in fimili cofe.gli pio^ uonoà
doffo.k turbe de i Serpenti, delle Gorgoni,fiC la bugia del cauallo
Pegafo,& di moU te altre forme contrafatte; onde fe alcuno di quefti cofi
diligenti non crederà, che quefte co^ fe fienò flate nel modo, che fi narrano,
ma uorrà Qgni cofa ridurre alla fua allegoria, et al fenfo più, fecondo
lui,conuenienfe,coftui certo bara otio d'auanzo, flf fi fiderà di elTér
ricordato per uia d'una fcientia roza,flc di poco memento» Maio,à dirti il
uero, non ho tempo à cercare (i^ mili ccfe; perche non anchora pc/To ccnofcerc
me fl:e(ro,ri come ci infegna clie dobbiamo fare 1 oracolo Delfico. Et per
qnefto à me pare cofa da ridere, il uoler cercare di fapere le cofe d altri,'
Don conofcendblhcTìora quelle, che à me fi ap35 partengono,flf che fono in me
ftefTo. Per il che laiciate andar quefte cofe.ft crededo paramene» te à quello,
che credono gli altri intorno à qucfto,non perdo il tempo nella cqnfidcrafione
Io ro,malo metto à confiderare me {lefTo. ft^cofi ^ taì'hora fra me dico. Sono
io una beftia più (u^ riofa, flC più rabbiofa,che non fu il gigante det^ to
Tifone,© pure (come è uero ) fono nato ani^ m^ile più placabile, fiC humano,fiC
più femplice; participc per natura della mente diu{na,fiC nato per godere al
fine uno ftafo.ft una forte felicif^s fimar Ma non è egli quefl:o,al quale
ragionado, fiamoarriuati, quello albero, doue tu mimenas ui^ FED, Quefto é d
elfo. SOCR. Cerato che quefto è flato un viaggio degno: per ciò che quefto
Platano hai rami larghifTimi.fiC è molto alto,£(la alteza di qpcllo Agnol
cafto; infieme con l'ombra che fa, è bella oltra modo,' ficpiaceuole: fichoraè
il tempo, nel quale più che mai,fiorifce: per il che il luogo tutto intorbi noe
ripieno di foauiflìmo odore. Oltra ciò, è quefto fonte,che fotlo il Platano la
terra riganjs s ^ do. (io bagna, cliiariflìmo, CC di acqua frefca puc
afrai,comeripaoconofcerenel metterci dren^ to un piede. Et le fanciullesche
quiui fcolpitc j] ueggono &lealfre belle imagini.dimoftra:? no chiaramente,
che il fonte c ftatofagratoak le Ninfe.&ad Acheloo. Non ti accorgi olfra di
quefto, quanto gioconda, écfoanefia Taura^ (che quiui fpjrar fi lente r Oltra
ciò/i ode una moifitu'crine di cicale: ìe quali, fecondo il temrs po cantando,
ne fanno fentiie un concento non fo come fcaue.fiC piaceiiole. ma più dbgni
altra 'Cofa,mj pare degna deffcr lodata quefta tenera herbetta,Iaquale.4
mirarla, pare che ella beni: s griamenteafpetfi, che altri ripofiil capo fopra
4/ lei perriceuerlo.tìcfoftenerlo commodiffima mente. Per il che Fedro mio
caro, fu mi hai me nato hcggi qui, doue io fono come foreftiero, per farmia
ftare più uolenfierijl che hai fatto prudentemente. FED. Chi
ti.fentifre.crede:^ rebbe che tu fufli huomo da pochiTIimo: flC cer:s tamente a
quel. che tu dici, tu pari più prefto un foreftiero.che uno del paefe: talmente
di^ moftn non hauer mai pafTato i noftri confini, ne effer mai ufcito delle
noftre porte, SOCR. Perdonamf Fedro mio da bene,|) ciò che io, coxnc (u
fai^foiamente defidero imparare:& fu bea falche gli alberi, fiele
unie,& li campì, non ttìì pofTono ifegnare cofa alcuna, ma fi bene gli huo
>mini, che habitano la città. Ma tu, fecondo me> hai truouato un modo da
allettarmi all'ufcircì qualche uolta: per ciò che fi come coloro, che à *gli
animali moftrano frondi,ac porgono frutti, li menano doue uogliono: cofi
tii,moftrando5 mi queftolibro,mi menareftiper tuttq il contar no d' Atene, doue
tu uoleffj. Hora poi che fias mo giunti qui, mi pare di pormi à federe: fiC tu
acconciatoti in quel n(iodo,che più commodo ti parrà, comincerai à leggere, F E
D * Odi adunque» • In questo (lato certamente fi trubuano le cofe mie: flC
quefto comc fai,p0:s co fì intefo da me,penfo che m' babbi à gioua:^ re affai.
Hora io uoglio che fappi, che io ftimp, ce giudico, fecoia alcuna io ti
domanderò, dos: uerla da te per quefta cagione impetrare, per ciò che io non
fon prefo del tuo amore • Et che ciò Ca il aero, tu fai che gl'amanti, come
prima han no la lor libidine fatiata,fi pentono de i benefiis cii,che ti hanno
mai fatti: ma quelli, che dall'ai mor legati non fono, non fi pentono per tempo
alcuno, la ragione è quefta, Che eglino fanno li bcneficii per fe fteflì
penfatamente, fiC fecondo che pofTono.fif che le facalfà loro compocifanot et non
fono à ciò sforzati, còme gli amanti. Ob tra cib,gli amanti alle uolte tra fe
ftcflj penfand quanto negligentemente dall'amore impediti J habbino le lor
faccende condotte à fine, ft quaa li beneficii habbino con troppo danno loro à
gli amati fatto.flC quanti affanni,» quante fati^ che habbino fofferto: fif per
quefta cagione mai hanno da gli amati bene alcuno,tengonù per certo non glie
n'effere obligati.mahauera gliene per J'addietro dato degno guiderdone Ma
coloro, che dall'amore non fi truouanoinii ' - gannafi,nonfi lamentano di
effere ftati pccd accorti nelle faccende lóro: non gli duol delle paffate'
fatiche, non fi rammaricano, per cagion deiramato,hauer con li parenti fatte
grauiHime nimicitie,come fpeffe uolte fuol auuenire. Onai k de tolti uia tanti
mali, che à gli amati fòlamenie interuengono, refta folo,che quelli, che non
amano, come fo io. fieno fempre pronti,» para tiffimi à fare tutte quelle cofe,che
penfano potergli arrecare giouamento. Sono molti che dicono,che per quefta
cagione fi douerebbond affai gli amanti appiezare: per ciò che grandif^ fima è
la carità, che uerfo gli amati loro hanno « tutte le bore, flC che fempre
apparecchiati fi truo «ano à ubbidire air amato, ec a fargli cofagri!* fa ce
con le parole, et con le opere, anchora che perqucfto ceruffimi fuffcro, doucre
offendere pgni altra perfona. il qual parere di qui faciU xncnfe fi può
confidcrare non edcr uero.chè Ic^s uafa alle uoltc la beneuolentia da uno,* in
ua^ litro portala, affai più confo de i nuoui amanti 0inno,chc di quelli, che prima
haucuano: fiC che pm,fequefti amanti più frcfchi gli el com mette/fero,
diuentarieno c^udeh/Tjmi inimici de Ipaffati. Etin qual modo pofTjamo noi dirc^
CHE NEGL’AMANTI SIA COSI ARDENTE AMORE, efTenj: do à quella infelicità, et calamità
fottopofii, dals: la quale perfona alcuna quantunque fauia,& acs: corta,
mai potrebbe rimuouerhV Et quefto è, che codoro ccnfeffano per loro fleffi
effere anzi fuor di loro, che non^ft dicono conofcere la loro fcioccheza, a:
pazia,ft non di meno non poa» tjfrfene rifenere,o i;ifliuouerc. Et pero gli
huoismini faui, come potranno approuare, et giudicar hiioai i configli,fiC i
pareri di perfone da tal mancamento macchiate.'' Olfra CIO, fe tu uorrai
fciogliere un'huomo in ogni parte perfetto tra gli amanti, bifognerà che tu
faccia quella fcelfà tra pochi, che pochi fono quelli, che amantifi poffano
dircma fe tu uorrai procacciarti ungami tò.ì)totnpagfio, recòr)(5ofl Mi^ctio
tuo,^acl t^nicofa atto;&accommodato^tra quelli, chè non amano Jo potrai più
fàcilmente fare: pct tiòchc tra molte petfone ti ùd toncefTo fctrglict lo:^ più
debbi fpcrare di bauere un buono ami co tra molti, cHc tra pochi, à trotianc-
Et fe al fi ne tu temi,» fuggi, come debbi fjre,l'in6mf* publica.i8C il biafimo
unuierfale, quale per òrdi ration delle leggi fi può ffTet dato.ti et bifos^
gno ramf n(arti,che gli amanti\li quali per quel la cagione uoriebbono tfTer^
amati ^ per \m quale amanoilogliono poi che al defiderato fint fi ueggono
giunti, gloriarfi, OC uantarfi alla fco3f perta,che eglino non hanno m uano
ncHorol «more confumato il tempo. Ma quelli, che noft tìmano, con ciò fvache
facilmente pofTano taccsi re,a: tenerfi di due quel, che hanno fatto, han^a no
coftume di cercar più toilo quel, che penfa^j no eflérottim.o per loro.fiì per
lamico^che Tefa fer dalla moUitudine, fiC dal nolgo ricordati,^! portati per
bocca. Aggiugnc anchora à que^s fto.che acccrgendofi la plebe, che un'aman: te
fegua un' amatorie afliduaménte in ogni cofa Mclcntierrgli ubbidifca,^<
fimilmente gif compiace a, fubito entra in fofpùlto^ che tr* loro non fu flato,
o nori fia càttiuo defidcdQ^ ma non ha già ardire di bafitnarc le amicitie dr
coloro, che non amano: per ciò che ben fa, che à gli huomini fa di bifogno ben
fpelfo infieme ritroiiarfi.ò uero per cagione di amicitia,ò uera per qualche
lorocommodità. Etfe forfè tu teis fnefTì di quelli, che non amano, fic
penfaffi, che fuffecofa diffìcile, che con quei tali Tamicitia durafTe, anzi
nata qualche guerra, ò nimicitia, du^jitafTe che ne ne fu(Te per uenire danno
deU r uno, ài deir altro: CC (e poi tu, concedendo i un, che non t'ama, quello
che più d'ogni altra Éofa apprezi,ne uenifli per quello non poco ofss fefo,fiC
faccfTì non piccola perdita, facendo cofa grata à chi poco, ò niente ti
appreza, ti dico che per quefta cagione barai maggiormente da te^s mere GL’AMANTI
per ciò che molte cofe fon quel le, che gli offendono, CC fenipre penfano che
ciò the fi fa, per danno loro fia fatto» Et per quefto uietano à gli amanti
loro il conuerfare tra gli aU fri, temendo fempre che quel l'i, che di loro più
ricchi fono, non li fuperino de benefici!, ò uero che gli huomini dotti non li
uincano di fape: re. Et in fomma fe perfona conofcono. che in fc babbi cofa
alcuna di buono, quàto più poffono, fi sforzano da coftui rimuouere gli amici,
flC cofi perfuadendoli, che da fimil pratiche fi guardi^ no. no,à poco à poco
li prfuanó di tutti gli amfciv^ ^ Hora le tu penlerai bene à te, « a
quelJo,chc>i fi conuiene,flC Te farai miglior deliberafione di loro, non fi
appiglierai al parer loro, ma te ne difcofterai quanto potrai. AlT incontro
coloro^ che del tuo amore non fon preri,ma fanno quei le cofe,che ueggonoefTer
conuenienti,& fi fcr^ uono ne i bifogni,folo per operare uirtuofameij
te,(5f efortati à ciò da una mrtù,a: bontà d'ani:? mo, non ti haranno
inuidia,fe ti ucdranno prassticar con altrui, ma piu tofto quelli harani>ojp
odio, che à te non fi uor ranno accoftare,penfando (come è uero ) che coftoro
li fprczino,£Ì gli amici ti giuouino,à; aiutino: flC per qucftp^ molto maggiore
fperanzafi dee hauerc,che da quefta praticane uengano amicitic,che inimù
citie.Aqueftecofe fi può aggiugnere,che la maggior parte de gli aitanti, prima
defiderano pofrcdere,flC godere il corpo dell amato.che hab biano conofciuti li
coftumi fuoi,ò l'altre cofe che debbono in un'amato ritrouarfi. Et di quì
uiene.che fi dubita,fe latiatala uoglia loro,dei bano nella amicitia
perleuerare. Ma traquelli^^ che non amano, li quali efTcndo per T addietro
flati amici, non laceuano quelle fimihcofe in bf neficio dell' amico, per che
eglino fuffero trop:? po afFcttionatl urrfo Ai hì^t cofa ragicneuolc, che l
amieitia fia minore: ima bifogna ben cons; fefEire,chc i beneficii, che
Tannargli facciano, accio che per quel mezo habbiano à efier iicor:s ciati
daqnelli,che dopo loro iierranno,doue gli amanti ad altro, che al prefente, no
attendono. ©Ifra di quefto(credi à nfie)diuenterai affai nusj gliore,fc
afcolterai un che non ti ama, che fe à un amante prederai le orecchie: per ciò
che gli amanti con lodi infinite inalzano oltra modo tutte le cofe,che fu fai,
odici: parte per che te:J tnono,fecendo altrimenti di non ti offendere: parte
per che dallo ardente defiderio loroacce:^ catione! giudicare fi ingannano: per
ciò che la^ more fa, che coloro, che ne i cafi d'amore poco fortunati Ci
ritruouano, fono sforzati à giudicare quelle cofe trjfte.ft infelici, chea gli
altri non darebbono moleflia alcuna ^ Et per il contrario quelli^che hanno
buona fortuna^flf che dtll'as worlofo fi godono, a mal ior grado fonconrx dotti
a lodar quelle co(è, come fauoieuoli.fiC gioconde, che non meritano, ne poffono
fare ftar contento huomo alcuno: ££ però più toflo farebbe di b/fogno di quelli
tali hauer compaf? fione. che fegui tarli. Hora fe tu uorrai credere. alle ter
alle mie parole, io primieramente uoglio effe* tuo amico,ac darti apprcfro,non
per il piac^re^t che di te al prefente potrei haiiere, ma per la utf lifà,che
la mia amicitja per Io auuenire ti potrà dare. Et non farò quefto, legato,
òuinto.ò fog^ gietto all' amore, ma uorrò effer patrone di mcs ftefTo: a non
douerai temere, che io per cagiost ne alcuna, ben che leggiera, habbia fra noi
à (xt nafcerc grauiffime nimicifie,anzi fc pure alle- uolfe mi altererò
alquanto, non lo farò fenza grandiflìma cagione. Et non di menoqnclli er:s rori
che inauuertentemente mi uetran fatti, al fine liconofcerò: ft quelh,nelii
quali uolontariamente incorrerò, mi sforzerò emendare, AC»- fchifare.flCquefli
fono ucri fegni d'unaami^ dtia,che habbia lungamente à durare. Etfe for fé tu
pcnfi,che non pofla truouarfi una ueia^CC ' durabile amfcitia,fe dall'amore non
è cagtona^. fa, debbi confiderare,che per quefta medefinia cagione noi non
appiezeremo gli figliuoli, ne ameremo li padri, ne terremo cari, flC fedeli
co:s, loro.che per buoni ufficii,a: beneficii fattici, d fuffero diuentati
amici, fe da quefto ardore amo rofo non haueflcro hauto principio Potrecs ftr
dirmi. Si dee fempre fare bene à queU li huomini^ che ne hanno più di bifogno;
ft però è cofa conucnientc.non cercar di giouars rcàglihuonnini,chepcr fe
fteflì hanno, mai quelli, che fono più bifognofi: per ciò che co:^ ftoro^fe da
me ne i maggior bifogni loro farani; no aiutati, mi renderanno Tempre infinite
gra:^ tie. Aqueftofi rifpondo che fe ciò fuffe uero, nelle fpefe che
priuatamcte facciamo,fiC ne i do ©eftici conuiti, non haremo à inai tare gli
amis; Ci.ma più torto gli affamati, fiC li mendichi: per che coftoro molto più
apprezeranno un tal bcis,neficio,ti feguiteranno,ti corteggieranno, ti fanno
fefl:a,ti ringratieranno infinitamente, fiC pregherano iddio per te. Onde tu
puoi uedere, che fi conuiene non compiacere à i bifognofi principalmente, ma fi
bene à quelli, che ti pof:^ fono riftorare. Et per quefto non à GL’AMANTI comeà
bifognofi, ma à quelli, che mentano, debbi far piacere: et non debbi fodisfare
à quei lische della tua belleza fi delettano,maà queU lische anchora quando
farai uccchio,ti fono per dare utile: ft non debbi giouare à quelli, i quali
hauendo il defideno loro adempiuto, fcoperta^: mente fe ne uanteranno^ ma a
quelli, che uer:^ gognofi taceranno. Et non debbi far cofa gra^s ta à coloro,
che per ifpafio di breue tempo ti ho BorerAoao.ma a quelli^che tutto il tempo
dell* uifa tua ugualmente ti ameranno: 6C non debb accarezare coloro,! quali,
fpeto l'ardore del loro sfrenato defiderio, cercherano Tempre cagioni di far
nafcere nimicitie^ma quelli,! quali (anchora che la belleza manchi ) Tempre
moftrano la fcrj: meza^flCla conftantialoro. Ricorderatì aduns: que di quelle
cofe, che io ti ho dette, flC penfej: rai che gli amanti fono da i loro amici
riprefi,fiC accufati,per chc.ramoreècofa brutta, OC inde^ gna,ma nenuno
uitupera,ò biafima quelle, che non ama, dicendogli, che egli fi gouerni male,
come fi può dire à gl'amanti. Foife mi domane: derai.fe io fi
uoglioconfegliare.che tu debbia ubidire à tutti quelli, che non tramano. Al che
io ti rifpondo,di nò: perciò che io focerto^chc iimilmentc UN TUO AMANTE con ti
comandereb be.chc tu à un medefimo modo amafli tutti quelli che ti amanorper
ciò che quelli, che han no da hauere gli benefici! da te, non meritano tutti
ugualmete.nc à te farebbe cofa facile coms: piacere à tutti, fe uolefll che uno
non s'accorgef fi dell'altro;&bifogna che di quefto feruirc nonne uenga
danno alcuno, ma fi bene/che r uno a l'altro ne cauì qualche utilità. Hora io
penfo hauer detto à baftanza: fe à te pare, che io ci debbi aggiugnere qualche
coU,Aor.uujgi da,ch^ io ti fodisfarò. Cloe ti pare di quefla Ora fione Socrate
r' Non é ella fiC nelle altre cofe,& nelle parole comporta mirabilmen ter
SOCR. Ella è tanto maravigliosa, che mi ha fatto ft(i:s pire,fif tutto, per tua
cagione Fedro mio, mi (os no fentito commouere, mentre che io guardauj gli
attrae i gefti,chc nel leggere quefta Oratio: ne faceui. Et però penfando che
tu meglio, che io, conofca^flC intenda fimili cofe,ho hautoad ufcir di me per
troppa allegreza infieme con tes: co^ FED. Inqueftomodo mi uuoi burss lare? S O
C R. Adunque parti, che io ti burhf' Non penfi tu,ch'io dica da aero/ FED., Non
certo: Ma dimmi un poco per tua fe^penss fi tn,che altro Greco intorno à fimil
materia po fede dire più cofe,« pia d9ttes* SOCR, Pen fiamonoi.chcfia da effer
lodato uno Scrittore folamente per che gh babbi detto quelle cofe, che fono
ftate necefTarier'òpure diremo, che meriti lode, per che egli babbia tutte le
fue paroledifpcfl:e,£(ordniate chiaramente, numeroiamen te, a elcgantementes'
Se à te pare, che bifogni lodare Lifia per la inuentione, IO per farti piacere,
tei concederò ma io per la mia fciocche^: za,(S(ignorantia,non Tho in luì
conofciuta.pcr ciò che folamente ho attefo alla eloquentia dei pariate: al che
poter perfettamente fare, io non penfo che Ljfia fteffo hc'^bbia penfato d'
efier fla fo bafteuole. Et cerfainenfe à irìeè parfo(fé già '^tu non uolefh
dire il contrario) che egli habbia leph'cato dne,flC tre uolte le medefime
cofe.co^ me fe gli fufTe fnacata copta di faper dire diuerfe cofe fopra una
mcdefima materia.ò uero uoglia^ 'imo dire, che egli no babbi hauto Ibcchio à
quc fto. A me certo, fe tu uuoi,cheio ti dica la mia cpintone,è parfo che egli
habbia uolufo parere •^di faper moftrare elegantemente in ogni modo, *cKe à lui
pareua quella cofa,che fi metteua à dl^ chiarare, dicendola bora in uno,&
hora in un' al tro modo. FED. Socrate tu no dici niente: per ciò che quella
Oratione ha in fe quefto,chc neffuna cofa ha lafciato in dietro di quelle, che
intorno à tal fuggietto accomodar fi poteuano: "onde io giudico, che
neffuno poffa di quefto me defimo più cofe dire.tt phi uerifimili di quelle,
che egli ha dette. SOCR. Quefta cofa non 'fi poffo io hormai più concedere, per
ciò che gì' huomini raui,chc ne tempi paffafi furono, flC le donne, che di
queflo hanno parfato.ficfcritto mi riprenderebbono,* mi arguirebbono con:?
1ra,fe io per la tua fodisfàttionc tei concedeffi ^ FED. Chi fono eglino quefti
huomini, flC qiicftc donne Et douchai tu udite migliori cofc diqueftes' SOCR.
Al prcfente io non me ne ricordo cofi bene, ma fappia cerfo,che io non fo in
che luogo ho letto,flC udito quel, che io ti dico, et potrebbe efTere.che fufTe
ò nelle opere della^èlla Saffo. buero ne libri del fa:5 aio Anacreonte,ò uero
d'altri Scrittori: fiC faps; pi, che non per altra cagione fo ioquefta coniet
4ura,cheper fentirmi pieno d'altri argomenti non forfè peggiori de fuoi,che
intorno à ciò fi potrebbonp addurre, Et per che io conofco be^ ni/Timo la mia
ignoranza, fiC confcfTo che io non fo cofa alcuna, fenon per hauerla ueduta in
aU tri^fiCnonperhauerla imparata da me, hi fogna che io confeffi di hauere
attinte quefte cofe daU le fonti d'altrui à guifa di un uafo: ma per U piia
rQizeza,mi fono fcordato da chi io le habbù.iaiparate,flCinche modo. FED. O
Socrate da bene, tu fai bene à dir cofi.ne uoglio che tu,dica anchor che io
te'l.comanda(ri. dachi,fi(eoa?.me babbi quefte cofe apprefe: ma uaglio benc^
che tu mi moftri (come confeffi di poter fare.).quelle ragioni, che dici, che
fai più efficaci, OC più dì quelle che Lifia intorno a ciò fcriffe.ll che fe
farai, non dicendo le cofe, che diffe Lifu^ ti prometto confegrare in Delfo una
ftatuadcl mcdefimo pefo,chc fci tu j1 che fcgliono fare i none noftri
Magiflrati, come fai» SOCR* Tu mi uuoi Fedro caro un gran bene,& fei uc^^
ramente d'oro,fe tupenfi che io poffa dirti, che Lifia habbia errato, ftche fi
pofTano fcriuerc cofe migliori di quelle, che egli ha fcritto. Io uo glio che
tu fappia,che io non direi, che ciò po:5 tefTe accadere à un uiliflTimo
Scrittore, non che i lui. Ma per dirti anchora quelle cofe,che io fo, non già
per riprendere lui, primieramente parlando folo di quello. che fi appartiene à
quc ftonoftro ragionamento, penfi tu che colui, che uorra prouarc.che fi habbia
più tofto à fare pia:^ cere à chi non ama, che à chi ama.fe prima^nbh
prouerà,chechi non ama,fia fauio,flf pruden:? te,ft l'amante infano, flC fe
quello non loderà, flC queflo non biafimerà (le Squali cofe fenza dù bio
alcuno, ne uengono di neceffità ) poffi nel proceder fuo dir cofa alcuna, che
alle prime fia corrifpondente (Non di meno io giudico, che quefte fimili cofe,
che di neceflìtà ne fegucno, fi habbiano à rimettere nella uolòta de gli Scrit
tori,ficfe non le dicono, gli fi pofTa perdonare: per ciò che di queftj tali
non fi dee lodare la in:^ uentione,man bene la difpofitfone.Ma di quel le
cofe,che neceffanamente non fi concedono, flCcIie difficilmente
firitruouano,non foìo pèfì55 fo io, che fi babbi à lodare la difpofitione niala
muentione anchora. FED. Ti concedo che fu uero quello, che tu dici: per che mi
pare, che tu habbia detto apprcfTo che bene, OC ioanchora intendo non indugiare
k fare quefto.che hai detto: « però ti concedo^che tu prefupponga, che un'
amante fia peggio trattato, che uno che Jima. Hora fe tu nelle altre cofe,che
dirai, mi fass rai fentire p/u dotte ragioni, flC più degne parole che egli nò
fece, ti prometto, che ti farò una ftass tua d'oro nella Olimpia apprcfTo alle
ftatue de gli fucceffori diCipfelo. SOCR. Tu liai Fedro forfè hauto per male,
eh' io habbia ripres: fo un'huomo tantoàtecaro,ma io mi burlaua teco. E penfi
forfè tu, che io fia per pigliare(la:i fciamo andar le baic)un imprefa di
hauere à di^ recofa alcuna più elegantemente di Iui,che.c fauifrimo, C£dottiffimor
FÈD. Tu fei ritornato Socrate mio in un medeftmo, dicendo que fte parole. Tu
hai da dire in ogni modo quel, che tu fai;ft eoe potrai: flcfopra tutto
auuertifct^ che in quefto noftro ragionamento non ci con:» uenga fare quel, che
fanno coloro, che recitano le Comedie.ciÒTè rifponderci troppo fpeiTo T un 1
altro; il che é.fccondo me.mokftjflimo. E non far fi, che io fja sforzato à
dire, come tiJ,pòco fi dicefti. Se ici no fapefli chi fufle Socrate, potrei
dire dj non conofcere anchora me ftefTotperchc certamente fo,che tu hai
defidcrio di fodisfarmi: ma tu uuoi fingere, che quefta cofa ti fia difficii
k,'Et per dirtela, finalmente tu hai da penfare, che tu non Tei per partirti di
qui ^ prima che tu non mi habbi dette tutte quelle cofe,che tu dirs ceui fapere
migliori di quelle, che hai udite: pei! ciò che tu uedi,che nei fiamo foli,(3C
in luogo re moto.fiC regreto,fiC io fon più giouane, (!f più ga gliardo di te.
Si che per quefte cofe tu puoi ìn^ tendere per difcrctione quel, che io uoglia
infes? rire: ne uoler più tofto hauere i ragionare sfor^> zatOjChe di tua
uolontà.. SOCR. Io lo fo mal uolentieri.-perche io conorco,chc io farò degno
delTer beffato, fe io, che fon rozo flC fciòc co al poflibIle,uorrò coptcdere
con uno cofi per fetto Scrittore, flC fe io uorròalla fprouifta difpu tare di
quel mcdefimo,di che eglipenfafamentc ha ragionato. F E D, Sai tu f^gmc la co(a
ua^ Lafcia andar quefte cofe meco: per che io credo quafi hauer trouato una
uia,|) la quale io ti con durrò.flC sforzerò à dir quel, ch'io defidero, Soc.
Non mei dire di gratia. Fed.Come no mei diref anzi Io uoglio dire, io mi
uolterò alli giurameff^ poi che alfro non mi naie. Io ti giuro per qatW iddio
clie tu uuoi, flC anchora,fe ti pare, per quc fto Platano, che fe tu non dici
quel, che tu fai al la fua prefentia,fiC fotto quefta fua ombra, io da qui
innanzi non ti moftrerò.ne ti manifefterò mai più oratìone di perfona alcuna.
SOCR. OfceIerato,chehaitudettor'Ocomc bene hai ritrouato il modo di sforzare
un'huomo defide» rofo di udire orationi,come fono io,à fare queU lo,che ti
fuffe in piacere, FED. Hora fe tu ne fei, come dici,cori defiderofo,che indugi
tu più? S O C R. Io nonindugierò più lunga^ mente, poi che tu4iai fatto un
fimil giuramen:? to: per che come potrei io uiuere.fe io fuffe pri uo di cofi
dolce cibo? FED. Hor dì aduns: que. SOCR, Saituqucl, cheiouogliofa5: re? FED. Che
cofa t' SOCR. Io dirò quel,che io intendo dire, col uolto.fiCcol capo coperto,
per dire più pretto: per che fe io mirafs fi a te, farei impedito dalla
uergogna. FEDi Pur che tu dica, fa quello, che fi piace. SOCR; Hor fu dunque ò
Mufe dolci, il qual cognome ui fi dà perii modo del uóftro cantare, ò uero per la
dolceza della Mufica uoftra, la quale fi dolcemente fuona,fauoritc ui
prego,& aiutate quello mio ragionamento, il quale mi sforzai éitt quefto
huòino da bene: accio che poi che mi harà udito^giudichi anchora molto più pru^
dente il fuo caro amico Lina, che prima cefi uìó gli pareua* T V haicla
fapere,chefik già un fanciullo^anzi pure un giouane di gen:i
tiliflìmoafpetto:coftui haueua molti amanti^ tra li quali un'huomo certamente
allato gli diede ad intendere, che non Tamaua^nc per ciò punto meno de gli
altri il fencua caro, fif gli uo leuabenc.Hora auucnne.che un giorno egli lo
pregò, che al fuo defideno compiacer doucli fe,flC per impetrare quello, che
egli domanda» ' ua,gliprouò che maggiormente fi doueuafare cofa grata à colui,
che non ama, che à COLUI CHE AMA. Et per farglielo intendere, gliCi moflrò con
quefte ragioni » In tutte le còfe fall v^>^^> ciuUo mio à coloro, che
confultar bene,ò difpuf-^'^-^\ tar uorranno,fa di bifogno hauere un folo.qjìj
roedefimo principio, quale è il conofcere,flC insK ^tendere che cofa fu quella,
intorno alla quale fl'^;: o' confulta, ce difputa: altrimenti è neceffario in
tutto errare» E fonomolti,chenonfi accorga:» no di non conofcere, ne fapcre la
fuftantia della cofa, della quale ragionano; fif cofi come fc egli»
nolafapeffero^nel principio della difputaloro ' altrimenti non la dichiarano:
tal chenel lor pioi^ cedere ne feguc,come è hccefTario che inferuerii: ga.che
eglino dicano cofe fuor del loro propos: fito^adagli altri male intefe. Adunque
acciò che ne à me, ne à tc interiienga quei, che in al:: ^rui biaCimiamo,pofcia
che egli è hora differctiìi tra noi, Te fi dee più tofto pigliare Tamicitiadi
colui, che non ama, che di colui, che ama, farà buono che uediamo, che cofa fia
amore, et che forza egli habbia, dandogli qualche difFinifio^ ne, alla quale
l'uno, fif l altro di noi acconfenta» tt cofi dipoi, hauendo fcmpre 1 occhio,
flC ogni. fìoftio argomento drizandoà quella dijffinitio:: ne, confideraremo fé
egli dannoso utile near^ reca. E adunque ccfa manifefta a ciafcuno, CHE L’AMORE
ALTRO NON È, CHE UN CERTO DESIDERIO. Sappiamo anchora che fimilmente queni che
non ainano, hanno queflo defiderio di cofe belle, fiC buone. Per intendere
aduBque in che fia diffe^ rente l'amante da quel, che non ama, tu dei fa:5
pere, che in ogni perfona fono due idee, le quali ci fignoreggiano, ó: doue più
li piacerci uolta^ no Je quali noi fumo à feguitare sforzati ouunis que elle ci
conducono. Vna delle quali infiemc con noi è nata.fiCqucftaè j1 defiderio de i
piacer ri, L altra T-habbiamodopo il nafcimento noftro acquiftata; fiC quella è
quella opinionc,che ne gli ììiiomfni (5el fonimo Wne fi ut je,per fa qn* ic
tanto afìetfuofamc'jntc lò defider/arho. Qaeftft: alle uoltefono in noi fra
loro amiche, alle uoltèi' in difcordia fi truouano, et bora quefla uince^ feor
fupera quella Quando adunque quella opf fìione del fortìmo bene, cÌ>e
difopra hò detto^ dalla ragione guidafa,à qrfel'lo ciie è nero b^nc^; •ci
conduce, uincendo il defideriode i.piacen\ quefto'nTodo di uiirere fi domanda
femperanfiaS ma quando quello sfrenato defiderio, lontano al tutto dalla
ragione, ci fpingc.flf sforza à feguià tare ipiaceri,& amai grado noftro fi
fa di nof ^padrone, quello fuo imperio fi domanda libidi^si w: ài efTcndo h
libidine di moìu fòrti, £(ha^j uendo molte parti, anchorà è nominata in molss
li modi. Et di quelle molte forti di libidine, chfi io dico, quella cbe più
ch'altra T alc'unb fi ritrud ua,dj à colui quel nome,col quale ella é chiais
mata me può à coloro, li quali ella fignoregà già, nome alcun dare bonefto,ò
buono- per chè quel defiderio, che intorno alli cibi uince &Ia ragione, fiC
ogni altra uoglia,fi domanda golo^s fità: 8C colui;che ha in fe quefto alt pigi
ian:^ do il.nome medcfimo, fi chiama golo(o, Anà chora quel deficlcno, che
intorno al bere,d'ù'à no fi impadronifcc^è co(a chiara, flC maiiifefta^donic fi
douerà chiamare, fiC anchora che nome liauerà colui, che da tal noglia fi
lafcerà uincere: àfimilmentc pofTono cfTer chiarina manifefti. ì nomtde gli
altri defiderii congiunti à quefti. Hora io penfo,che quafi fia fcoperto.perqual
ca gionc 10 ti habbia dette quefte cofc, ma uoglio io tacerlo. òuoglio dirlo.''
Io lo dirò pure, per elle più fi intende una cofa à dirla, che à non dirla. Et
pero dicp,che quel defiderio priuo di ragione, il qual fupera,&: uince
quella opinion: ne, che è Tempre al giufto,fiC all' honefto indirirs zata,a ci
rapifce à cercare il piacer della belles: za, quindi col moftrarci quei
diletti, che dalìa bellezadiun corpo fi cauano, pigliando non piccole forze.
fiC rinfrancandofi, ci uincealtutrs to>flC ^^^p^t^aquel defiderio, dico é
detto ^§cù9» ciòèamore,daf 6J/^K?,che uuol dire gagliardia. Parti egli, tedio
mio caro,comc ì me, eh' io habbia détto diuinamente T FED » Certamente ò
Socrate che fuor del tuo folito,ti fei non fo co:5 me più ampiamente allargato.
SOCR. Taci adunque,^ odimi; per ciò che qucfto luogo è certamente diuino,flC
pero non ti marauigliare, fe nel parlare farò dalle Ninfe di quefto luogo
iafpirato à dire cofe diuinc: fif tu puoi hauer co fiofciuto,chequci]o,che
iopocofa,diceua,non fono Tono (late molto difllmili da i uerfi Ditirambi ' che
fogliono dire le facerdoti di Bacco all'horaj^, che dal loro iddio fono ripiene
di diuinità. FED. Tudiciiluero. SOCR. Di que? (le cofe ne fei cagion tu fenza
dubio alcunormk odi quelle cofe, che reftano, accio che io non nji fcordi di
quello, che hora me fouuenuto,al che fo certo io che iddio mi aiuterà, ft no mi
ufciran no di mente. Et pero ritorniamo, feguitando il ragionamcto noftro,al
fanciullo,col quale. diao zi parlaua.Hora fanciullo mio, noi habbiamo detto flC
dichiarato che cofa fia quella, della quacs le noi ragioniamo. Adunque hauendo
feraprc- I occhio à quefto confideriamo.lora quel, che nercftaà dire,flCquefto
è,Chegiouamento,Ó: che danno fia per uenirc per cagion di un aman te,ò di un
che non ami,à colui, che gli ubidirà. E adunque neceffario.chc un' huomo uinto
dal la libidine, Sedato alli piaceri, cerchi femprc con ogni fuo sforzo, che
ramato più che altra cofa,gli babbi da piacere. Sai àhchora che ad uno che é
infermo,gli piacciono, flC gli fon gra^ te tutte quelle cofe, che alla uolontà
fua non repugnano, f5C quelle gli fonomo(efte,fi£ difpia^ ceuoli^che fono di
lui migliori, ò feno migliori, ugualmente buone /£t pero efTendo T amante
\t)fcmo,fìon potrà mai pafifc,clìe uno amato jpaà lui uguale, ò da pia, anzi
cercherà femprc- ^^uanto potrà, fìflo da manco di lui.a più bifors ' ^^nofo. Et
per che tu fai, che un ignorante è d:a^ manco che un dct(o,8C d'un forte
un'timìdo,* 'id'un oratore,© olequente uno inelegante. fi(po^ co atto adire,
d'uno acuto, «uiuo ingegna kinofcmplice,er fcioccho.fe qaefti,»: molti ali. |ri
mancamenti dell' animose per natura conofcè; Ìitfóuar(ì,ò per ufo in un'amato
efTcr nati, ali Thora godeva fi rallegra lamantetS: non gli bi ìftando quello,
fi sforza anchor de gli altii pro^:^ cacciargliene; altrimenti non gli pare
poter ca^ Ilare dell'AMOR fuo piacer alcuno. E adunque- HeccfTario, che un
amante habbia Tempre inui* ^laall'amato et rimoucndolo da ogni amicitia, ite da
ogni efercitio per il quale "pò te (Te diuenà tare eccellente, bifogna che
grandemente glii inuoca; a k non gli nocelle per altro, per quei, fio al meno
gli è dannofc,che lo prfua di queli |a co6, che ne fa prudentflimr. Per cièche
la di iiina fìlofofia è quella.per la quale ueniamo pru^ "déntiffimi'dalla
ì]*tiafc lamanfe e sforzato rfmua ll^rc quanto può ì' amato, temendo Tempre di'
•pon effcre'fprezato da lui, fé pm prudente chft; V?li nQO è.diuentaiTe,.CC in
fomnia fi sforza f?r« ogni cofa,'pèr la qaale egli al fu((o ignorate dh
uenga.&fimaraiiigli folo di quelle parti, che ramante pofTiede. Qriando
adunque farà tale la niato,airhora farà ali amante carilIìmo,ma dans: nofiffimo
a fe ftefTo: fiC cofi puoi uedere,che in torno à quelle cofc,che al fapere fi
appartengo:?. no,è lamicitia con un'amante nocina. Debbia^ mo bora confiderare
in che modo colui, che c sforzato à anteporre il dilefteuole al buono, hab bia
da hauer cura di quel corpo, che egli ama,ca fo che a lui fuffe una tal cura
commefTa. Certas: mente che egli defiderà che quel corpo non fia fchietto, fiC
duro, ma delicato. et molle, non nus:, trito.aauuezo al Sole nelle fatiche, ma
fottò - l'ombra nelle dchcateze. Vorrà che fiaalleuato lontano da futri Ij
pericoli, fatiche, che non habbia mai prouato fudore,» lo farà uiuere con cibi
feminili.ac delicati. Lo auezerà à crnarfi di colorila fàccia,» di stranieri,fiC
nuoui ucftimeti la perfona,» à fimili altre cofe,le quali tutte eù fendo
dishonefte,» brutte à raccontare pia lun gamente,perpafrare ad altro le
lafciercmo an:? dare. Vn corpo adunque fi fattamente allcuato^ nelle guerre,»
in ogni altra pericolofa necefll^ ta,incmicì ficuramente uincono; onde li faci AMICI,»
gl’AMANTI hanno femprc più paura, che à coftui qualche male n5 interuenga^che
ad *ltri: ma qiicftacofa.efTcndo per fc fteffa cliias ra.lapoflTiamolafciarc
andare. Hora habbiama da dire che dannoso che giouamcnto nelle co^ fesche di
fuor uengonojaamicitia.flC laguar^: dia D’UN AMANTE ci arrechi, Qnefto adunque
è chiaro à tutti, flC nnafiime à un amante, che egli ' defidera.che il fuo
amato fia priuato di tutte quelle cofe.che egli pofTjcdeJe quali amiciflì^
lfte»gratiffime,tì:peift:ttiffimegli fono: perciò che egli defidera, che gh fieno
tolti li parenti,, Ce gl’AMICI, penfan do che quelli gli dieno gran df
impedimento à goder la dolceza della ami^ citia dell'amato, Ol tra ciò
penfa,che un fanciul lo ricco dbro.o di qual fi uogli altra cofa,non poffi cofi
facilmente effere prefo d'amore: flC fe pure è prefo.uede che troppo lungamente
in quello amore non può durare. Et pero bifogna che un'amantecomejnuidiofo,fi
dolga della felicità dell' amato, flC fi rallegri della miferia del medefimo,
Defidera anchora,che lungo tempo uiua fenw moglie, fenza figliuoh\OC fenza
cala^ bramando goderfi quel pucere,che quando co:^ (Ifi ritruouano, foIamente
e/fj fentono. Sono ^^n(;hora molti altri mali in quefto amore, ma nel ia
maggior parte di quefti mali, come prima (i comincia i amar qualche fpirita
diuino,mefco5i. la fubifo un certo piacere, come ha fatto à uno adulatore, il
quale è certamente una dannofifljs: ma fiera, fiC una grandifljma calamità: non
di meno la natura ha mefcolato con quefta adulai tione un non foche di piacere
non al tutto da fprezare. Oltra di quefto farà alcuno, che biafi:s mera le
meretrici, come cofa noceuole^fiC altri fimili animali, ò uero fi fatti ftudi,
quali foglio:? no al prefente deiettarci, douc 1 amante non fo^ lamente è
noceuole^ma anchora nel praticarlo c moleftifTimo. Per ciò che tu fai, che il
prouerbio antico è. Che li pari facilmente con li pari s*a^ nifconorper ciò che
la ugualità dei tempo, della età di due(con ciòfiache per lalomiglian za de gli
anni conduca gh huomini à delet tarfi de i medefimi piacerijpartorifce facilmente
1 amicitia.Ma ne gli amanti la età non pure non genera amicitia.ma arreca un
faftidio troppo grande: per che la neceflìtà in ogni cofa à cia^. fcuno è
mole{la,la quale più che ogni altra cofa è in uno amante uerfo T amato,
accompagnata dalla difTomiglianza de gli anni, Et che fia il uc ro,tu fai, che
amando una perfona attempata qualche giouane,mai ne il dì, ne la notte per fc
ftcffo da Uh partir fi uorrebbe,ma è coftretto dal la necefljtà.à; dalla
pafFionc amorofa^tt è fcm^prc dalle carcze de i piaceri allctfato lc quali nel
ucdcre, l'amato gufta, ft pruoua nell' udirlo, ne! toccarlo. fiC in fomma nel
goderlo con qual fi uogli fciitimento: tale che con grandifTimo fuo piacere
fempre fi ftudia compiacergli. Ma r amato da qual forte di piacere, ò da qual
follai zo potrà effer trattenuto, che in ogni modo egli non fu da grandilTima
molcftia oppreiTo. Eflcn do fempre sforzato mirare una feccia d' un huos ino di
tempo, flCbrutto.<5C molte altre cofe.che Don folo à colui fono molcfte.à
chi elle intera ncngono,maanchoraà chi l'ode.tiouatc folo per una certa
neceflità.che ha l'amante di farfi r amato bèneuolo: flC qucfto è l'effer
fempre disf lìgentemcnte guardato quanti pafll faccia, l'udì re ogn' hora
quelle faftidiofe lodi.tt quelle ima portune riprcnfioni, delle quali fempre
gl'aman* ti abbondano, flC con le quali ogni giorno li ma ' Iettano: le quali
cofe accafcandoà uno, che fia padron di fe.fono però intollerabili: ma à uno,
the è fuor di fe,come uno amante, non folo fos no intollerabili.ma anchora per
la troppa licerla tia,chefj pigliano di dire apertamente quel, che- gli' pare,
fono brutttffime. Oltra di quefto men» tre che uno ama, è fempre dannofo.flC
importa* no: ina quando poi ha l'aujor fine.diuenta perI auuenirc contra dj
quello poco fedele, quale.,.con molti giuramenti, flc preghi, et promcflc ^
pena potè condurre. che egli dalla fpeme di pre mioàciòperfuafo.fidifponcflj à
Apportare la moIeftafuaamicitia.Ai fine quandòpur glie concelTo ritornare in
fe.fi rifolucà pigliare un nuouo padrone,ac ubidire ad altro fignore: £C cofi
in uece dell'amore.a: della pazia.feguita lo intcllctto.a la ragione.* la
temperanza; onde ùtto un altro,cerca fempre dall' amato fuggire, <f
afcondcrfi. All'hora l'amato ricordandofi del le cofc die tra loro fi fono
dette flC fatte, de i dati beneficii la mercede domanda, penfando che la mate
habbia feco à ufar le mcdefime parole,chc prima ufaua. Ma l'uno per la ucrgogna
non artifce confe/Tare d'elTer mutato,ne fa tronarc in ' che modo egli
fodis6cci alli giuramenti, A pro:^ mefle,che mentre fotto la crudel fignoria
d'amo refi ffouaua.inconfideratamenfc fece: « teme, «flendo già diuentato
temperato. et nhidictc alli ragione, facendo le medefime cofe che prima.di non
diuétare il medefimo.che dianzi era. £t di qui nafce.che colui. che poco fa.
amaua, bora ua da fuggcndo.ac fchifando l'amato.ft mutatofi di fantafu.fi
allontani da lui.come fe un di coloro |u|fc,a cui il gittato uafo fw cafcato à
contrailo. tome ben fai.clic nel giuoco infcrutène, elici noftri fanciulli
foglion fare. L altro all'incontro è sforzato à feguifare T amante. flC
parendogli pur mal ageuclc cfler lafciato/j uolta al fine alle ma* le parole.
Ne ciò gli accade contra ragione.per ciò che nel principio quefto tale no
fapeuaquan tomai fi conuenifle, ce quanto poco lecito.» honefto fufTe à
un'amante far cofa grata. quale è di neceffità fuor di mente.» quanto ben fatto
fu (Te compiacere à un'huomo dall'amor libero, che fuor di fe non fi ritrouaffe.
Ne tonofccns dofimilmente.che fidandofi di un'amante.G fida d'un huomo fttano inuidiofo,
moleflo, dannofo.a inutile, prima alla roba. «poi ai corpo.ma molto più
noceuole alla fcientia dell'aoimo.della quale nefTuna cofa è certamente. pia
oenerabile a appreffo Dio,» apprelTo gii huomini. Qucfte cofe adunque douiamo
fans ciullo mio confiderare.CC oltra di quefto fi ha da luuertirc.chc
l'aroicitia d' uno amante da bene» uolcntia alcuna non nafce, ma da una certa
aui» diùdi faturfi.comc gli a ffamati: et però ben diffe colui in quelli uet6,
fe^omeillupo l'agnello. Cefi un giouin l' amante ardendo brama. Qiiefte fono ò
Fedro quelle cofc.che io h Uf ua promcffo narrarti: flC però non uoglio pa bora
dire altro, ma farò fine al mio ragionamens: to,anchòra che io penfaua d efTer
folamcff giun toalmezodcl mio parlare, flC ci reflaffe à dire altrettanto di
quelle, che non ama,&piouarc che più torto fi haiièffi ad ubbidire i un
tale: oltra di quefto penfaua hauere i raccontare di quanti beni, flC di quante
utilità uno, che non ama,fia ripieno, F E D, Perche adunque fi reftii' SOCR.
Non hai tu confiderato,chc io non fo più quei uerfi Ditirambi, che dianzi
m'ufciuano di bocca, quantuque il mio ragiona:? meto fin qui fia flato nel
uituperarei* Hoia le io feguitado uolefli lodare quel, che n6ama, quan
tohobiafimato l'amante, che penfi turche io dice/Iìf' Non ti accorgi tu, che io
fono aiutato,, flC ripieno di fpirito dalle Ninfe di quefto iuos^ go,fiCper
tuagratia,fiC per aiuto diurno l'Per la qualcofaio concluderò breuemente,che
tanti beni fono in quello, che non ama, quanti mali ti ho moftrato truouarfi in
un'amante; ft però iion ci bifogna far più lungo ragionamento, ha:? uendo già
dell' uno, fiC deiTaltrò a bailaiiza ra^ gionato. Et pare à me, che la noftra
fauola hab^ bla hauto quel fine, che era conuenientc et pcs " ròpaffando d
fiunic^mi uoglio partire, prima D i i i the fu mi %(orz\ atìirc quatcKc altra
cofa piuvfm portante, FED. Non ti partire anchora So^ crate, prima che il caldo
non fe ne uada:n6 uedi tu,chehoraè à punto il mezo giorno, nel qual tempo è il
caldo grandiflimoi^Et peròafpettani: <Joqui^ 6C ragionando infieme delle
cofe, che habbiamo dette, come prima il caldo farà mcinrs cato, ci partiremo.
SOCR. Certamente Fe^ dro, che nelle tue parole tu (ci diuino,fiC uerais mente
mirabile: flC però io penfo certo^che dcU JeOrationi.qualialtuoìtempo fonoftafe
fatte, nefTuno ne habbia dato più cagione, che tu,flC neiTuno altro à più
Thabbi potuto pcrfuadere.ò aero conletue efoifationii quello conducenrs
|Cloli,ò uero in qualche altro modo sforzandoli. Et certamente m quefto(cauatonc
SimiaTebac no)tu auanzi tutti gli altrirJC bora 'fecondo me) tu folo fei (lato
cagione, che io habbia à dire di nuouo,non fo checofe,che nella mente mi fo^ no
fopraggiunte. Il che facendo tu, pollo dire, che tu mi facci una guerra. FED. Etinche
modo ti fo io guerra flC che cofe fon quefte.chc tu mi uuoi.dire. SOCR. In
quel, che io uo leua paffare il fiume, quel mio fpìnto fohto,chc tu faì,paiuc
che mi faccffe lufato cenno: il che ogni uol tacche mi accade^ nò è uietato
fare quel lo.cJic fogia farpeniaua,Quindi mi paruc udi:^ re una uocejaquafe mi
liietana il partire. prima che io non lùuefTe placato gli dei,cofl:ie fe con^:
fradiIoroIiaueflìconiiiìe(To qualche errore. Io adunque fono fcnza dubio hoggi
indouino, fiC flC fe io non fono cofi de buoni, fono al meno di forte^che forfè
à me farà affai, come battano, anchora le poche lettere a coloro, che male le
hanno apprefe, Lt però Fedro mio, hormai ip chiammente concfco il mio fallo:
per ciò che c,mi pare hauer neiranimo un no fo che, che mi indouini r
erfor,che,^ ho fatto. Et quefta cofa dianzi,mentre che ioragionaua,mi turbò
tnt^ to: per il che io cominciai in un certo modo à temere di non acquiftarmi
gloria apprefFo gli huomini del mcndo^all'hora che io contra gli iddìi
grauemente erraua (fecondo che già dilTe Ibico nella fua opera )flc bora al
fine conofco, come t'ho detto T error mjp. FED, Qnale er^ rorc è quefto/ SOCR,
Ò Fedro.un trillo ragionamento.un tritio ragionamento edro hai hoggi mcfTo in
carapo.fic sforzatomi i ragiona|C ne. FED. In che modqj' SOCR. E (lata cofa
ftoIta.dC empia, della quale che fi può egli più tpfto.a: noccuolc ritrouarcs'
FED. N is cnte.fc tu dici iJ uero. SOCR. Ohimè, non fai tu quel, che fia amore
i Non è egli fi^ gliuolodi Venerei Non penfi tu,che^gli fu uno iddio 1 FED.
Cofi fi tiene per certo. SOCR. Et non di meno Lifia non ha detto.quefto^nc
manco il tuo ragionamento, il quale non io, ma tu hai fatto: per ciò che tu me
T hai à forza canato di bocca, come per incanto, Hora fc [amore è Dio, come e
certamente, ò uero qual che cofa diuina.non può efler cattiuo,& non di meno
noi habbiamo parlato di lui, come fe fuÉ: fe cattiuo. In quefta cofa adunque
habbiamo peccato contra amore. Et certamente quefte no ftre qùeflioni fono moho
fuor di propofito,an^ chora che forfè paiano piaceuoli: le quali non ritenendo
in fe cofa alcuna di fincero,ò di uero, nondi meno fc per cafo faranno
approuate da qualche huomiciuolo di poco fapere, quelli, che le fanno, fe ne
gloriano, come fe fulTero di granrs de importanza. Hcraàme fa di bifcgno per
quefto errore, placare gli iddii: et hai da fapere che a quelli, che nel
ragionare, ò nello fcriuerc errano,è ordinato un certo modo di placare gli
iddii antico, il quale Homeronon feppe cono^ fcert.mafi bene Steficoro: per ciò
che efTendo (lato priuato de gli occhi, per che haueua uituis perata Helena,
conobbe come huomo amico del le Mufe.pfrqual cagione cieco fu/Te diuentafo, il
che non fece Homero; per il che fubito fece quei uerfi,>^Non fu uer quel
parlarne in l'alfe naui Fuggendo, andafle alle troiane mura. Et cofi fatto
un'altro poema di nuouo al conai trario di quello, che prima comporto haueua,fu
bitoglifurendutoil uedere.Ma io in quefto farò più fauio d'ambe due loro, per
ciò che innanzi che male alcuno mi interuenga per il hh fimo, che all'amore ho
dato, mi sforzerò dire il contrario di quello, che tu hai udito r il che
facendo mi uogli fcoprire il capo, flC non uoglio tenerlo per uergogna
afcofo,come ho fatto nel mio primo ragionamento. FED. Tu non mi puoi fare ò
Socrate il maggior piacer di ques fto. SOCR. Telcredo, perchetu tidebbi
ricordare con quanta poca uergogna habbiamo letto quelle cofe.che il libretto
di Lifu contess "^Tieua,fiC quanto anchora fciocchamente io hab^ bia
ragionato di amore. Per che fe qualche huo mo di generofo animo, modello, che
al pre:s fente ama(Te qualche fuo uguale, ò uero per lo addietro l'hauede
amato, ci haueffe fentito dire, che gli amanti fanno per Iteui cagioni nafcerc
grandiiTime nimicitie^flc che fono huomini in^ niàìofi^a noccuolia gli amati,
certo clic egli harebbc pcnfato udire tanti huomini auuezi fo Io,flCalIeuati
dentro alle naui,liquali nonco:s nobbero mai un uero,fiC gentile ancore: CC
unaperfonafauia non ci concederà in modo alcuno, che quelle cofe fieno Licre,
che in biafmio d'sts: more habbiamo ritrouate. FED. Certo che,io crcdo^chc tu
dicail ueio per mia fe. SOCR. Et però temendo, che qualche huomo cofi fat^i lo,
non rhabbia à fapcre, fichauendo anchorz paura d' amore, defidero lauare^fli
nettarela mea tc.ÓL le orecchie noftrc di quello amaro, flC no^, ceuole
ragionamento, cbe habbiamo fatto, con qualche altro più foaue parlare, et al
gufto no:2 ^ftro più giocondo. Lo fo anchora pergiouare à lifia,perfuadèdogli
che cglifubito debbia fcri:^ ucre.che più toftofi habbia da fodisfarc à
unoamante,che à uno che non ama, quando l'amor re è tra li fimili. FED. Sappi
certo, che egli lo farà, per ciò che dipoi che ti barò fenti to lo;:.dare
l'amante, farà necefrario,che io lo sforzi à criuereanch egliii medefimo. SOCR.
So certo, che ti uerrà 6tto fin che durerai dVfferc co mefei alprefente, FED.
Hor dì adunque arditamente. SOCR. Hor fu; douc è egli quel fanciullo, col quale
dianzi ragionaua,ac:s ito clic egh oofi ancìiora cfue^o mio nuouo pire lare,
che fe forfè non infendelTe altro cIa me^ cercarcbbe anch' egli lemerariamente
fare pia:: éere a.chi non Tama, FED. QLieftofaticiulis lohauendotelo finto,tì è
femprcappreflo: gni uolti^che louuoif SOGR. Fa aduns: quc conto fanciullo mio
gentilesche il mio pr^ mo ragionamento Cu flato detto dà Fedro Mirjs
rinefe,figh(ioIo di Pitoclc,ÒC queflo che hora di ro^da Steficoro.figkuolo di
Eufemio,fauomo degno d' eiTere daciaiciino amato.il qual ragio namcnto in
quefto modo cominceifemo. Quel ragionamento non è uero,ìneI ^uale fi è detto,
che per edere l'anì^inte pieno di fiiWc^À quello, che non ama da tal furore
lifae^s ro,fi debba mjggriormente fare cofa grata m pri feotia d^i un'amante, à
chi non ama, che per iì contrario: per ciò che fe fuflè in tutto uero^che il
furoretuifecattiuo,haremo per certo ragioncj» uolmente parlato. Ma io ti uoglio
dife,,ch^mol tì.ac grandiffimi beni ci intcraengonoper mcjs zo del furore,
concefTo certamente folo iptxbt^ neficiodiuino.Etchcfia il uero^ucdiche pri-?
ma quella Sacerdote, che in Delfo predice il futuro, fiC qudla altra apprefTo
Gioae Dodosc nco. fono cefliflimamente ripiène di furóre^non di meno hanno
Tempre date molte, C(gran diflimc commodità i gli huomini di Grecia flC
priuataniente, flf publicamcnte: ma mentre che da tal furore fon libererei
fanno o poco, ouero nefTuno giouamento. Et fc io uoleflì horara^s gionare delle
Sibille, &dituttiquegli altri^chc hanno per uirtù diuina indouinato il
futuro, flC feiotiuolefli dire cjuanfo eglino predicendo molte cofe da
uenirc,habbino giouafo, troppo farei nel mio parlare lungo, ol tra che io direi
co fa chiara à ciafcuno. Non di meno par cofagiu^ (la dimofl:rare,che li noftri
antichi, li quali pos: fcròi nomi alle cofc.uiddero.fif conobbero, che il
furore non era cofa brutta, o uituperofa che fc gli haue(Tero altrimenti
penfato,non harebbo:^ ^ noqucfta arte perfettiflima^con la quale il fu:s turo
fi conofce, chiamata ^àyiKHv » che tanto uuol dire, quanto furore diurno: per
eie che il furore uiene à gli huomini peruolontà diuina, et pero parendo k
coftoro,chc fufle come è quers. fto furore, un gran bene,à quefta fi honcfta
arte uolfero mettere un fi honorato norhe. Ma hogs gi quefti pia moderni
interponendo i quella uoce un poco confideratamentc hanno qn erto furore
chiamato fuy-v7JH«f, che uuot ^ire arte di ifadouinare.d: non furore. Et hai da
fapcrc,chc il modo dello indoufnarc il /ufuro^' che hanno gli huomini priui di
quel furore dis aino,pcr uiadegh uccelh^flf delle conietturc, parendo à
efli,chc procedere da difcorfo huma^ nojl domandarono oÌovohsìkh: ma quelli,
che fon uenuti dipoi, mutando Io piccolo nel Io6)grande,]' hanno con più
honefta uocc chiamato oiqvisihm Et pero quanto è più perfetto,a: più nobile lo
indouinare per uirtù dinina,chc per coieffure,flC per uccelli, tt qiun fo il
nome diuino,chc è /xocvmK?, c più de^ gnocheThumano^cheè fMy^Kug, ftpiuun
opera, che l'altra perfetta, tanto i noftri antichi hanno detto, che il furore,
che uiene dal ciclopc più degno, che la prudentia^flC l'arte humana. Tu debhi
purfapere,che già per riparare alle grandi infirmiti. che ueniuano,flC per
liberarci da qualche auuerfità troppo grande, che alle uolte per gli antichi
errori li popoli minacciai uano,ueniua à una certaforted'huominique^ (lo furore
diuino non fo donde. Et da quellconfigliati,queirimedii ritrouauano,che erano
alla falute loro neceffarii^facendoli quel furore ricorrere alli uoti.&
alli preghi, al raccoman^ darfi à Dio: per quefla uia impetrando mife^ f
icordia/i rendeuano da ogni infirmità.dCpe^ rìccio fahii CT per quel te nripo,*
pcrquc1To,chc haueua da uenifc: K cofi acquiftauano.fiC rice:^ iieuancpfrmczodi
qucfto furore dal' cielo la sflblutione del II errori loro, pur che di furore
de gno,&: buono fuffeflo ripieni. Il terzo furore è quello,che uien? dalie
Mufe, il quale rapifcc.J'i^nima altrui, anchor dafimile forza non più of fefa,a
cefi la fjfiieglia.flC k infpira. Per il che è per uu di cantico facccdo
qualche t^pbile poe fia, ornando con Ufuoi numeri, fiffcriucndouirs finiti ùtti
òc gli antichi, per tal uiainfegnaà colorii, che dopo Ihì uerranno. #Jf quello,
che fenzail furc^l delle Muk ha ardire di accoftarfi pure alla porta delb
poefia,fidajndofi per quaU che fuaingfgnofà arte haiieicà diuentar buoi^
poeta^ti d'jco,che qiicfto tale 4 fine farà tenu:^ to fciocco: a lapoefia di
un'hUdmoda que:s furore hbero, «i^fce finalmente uana, fit, fenza fugo alcuno,
i couipararione d/ quella^ che da un' huorao funofo è ritruouata. Tut:^ quefli,
a molti altri' nobilj/Timi effetti del. furor djuifìo tipofloio raccontare: per
la qual cofà noi non hsbbiamo hoimai più da temersi rè ua furiofo.Ne
aTgomento-^ò neramente ra:?- gioac alQU<w.CJllM da fpau. Gntarc^moftrandoci
clìepiu foflo fi Iiabbfa ad eleggere un'amico prudente, et fano,che uno
incitato, flC furiofo. Ma lafciamo andare quefto.jMoftiimi coIlui,fc può, flC
in quefto uincami, che i' ancore non fia da Dio (lato truouato per utilità
dell' aman^s le.flC dell'amato. Doae io hora per il contrae rìogli
uog!iomoflTare,chequcflo tal furore e flato dato da Dio à gli huomini per una
gran^ difllma (cìicità.LsL qual mia dimoflratione à quelli, chehtigiofi fono,
et che ogni cofa tropss po minutamente uogliono' fapere,tt che ogni cofa
uituperano,fiCà ogni cofa appongofièf. fàà rà forfè incredibile: ma afii faui
farà il con^ frario. Ma prima che à quefto ucnga,ci fa di bifogno, confiderando
bene le operationi,fiC gli affetti dell'anima humana, fiC diuina, troitare la
uerità di quello, che intorno à lei fi può ra^ gionare,flC difputarc. Sari
adunque il princi:? pio di queda mia dimoftratione cofi fatto. OGNI anima c
immortale, per ciò che quella cofa, che fcmpre da fe fi muoue^queU. la douiamo
direefTere immortale: ma quella co^ fa,che altri muouc,tì: da altro è mofra,con
ciò fia che ilfuomoto fia terminato, ha anchora il termine, 6: il fine della
fua uita. Et pe:sr rò folamente quella cofa^ che fe (leda muoue/ per ciò che
mai non fi abbanclona.nonfi rcfta mai di muouere^anzi quella e fonte, ££ principi
pio del moto di tutte le altre cofe.che fi muos: iiono.Ettufai,cheil principio
è fenzanakis: mento alcuno; per ciò che egli è neceffario, che tutte le
cofe^che fi generano, nafchino da un principio, flC quel pnncipio non ha altro
prin^s cipio: per ciò che sci principio nafceffe da qual che altra cofa, non
potrebbe gii nafceredaun principio, cfTendo il principio egli Ma cfTendo il
principio fenza nafcimento.è necffTario che;inchorafia fenza mancamento, o fine
alcuno; per ciò che fe il principio mancaffe,© morilTc^ non potrebbe più ne
egli nafcere da un'altro,, tie un'altro rifufcitare da lui, con ciò fia che fu
neceffario, che tutte le cofe nafchino da un pria cipio. Se adunque il
principio è un moto,chc inuoue fe ftefro,queflo principio non può ne mancarcene
nafcere da un'altro* et fe altrimenti fuffe, farebbe neceffario, che tutto il
cielo man:s caffè, a fi diftruggeffe,flC ogni altra cofa creata» ^oltra di
quello non fi potrebbe mai fapere on^ de quefte cofe nafchino, et da chi fieno
moffe^ Adunque effendo chiaro, che quella cpfa^che fc flefla muoue^è immortale,
non harà da temere di due il falfo.chi affermerà che la fuftantia del l'anima è
cofi fatta;Ia ragione è quefi:a,chc ogiiìi corpo, che ha il nìoto da altri,è
corpo inanima:^ to. Ma quel corpo, che ha il moto in fe ileffo^. et per (e fi
miioue, quello è animato: fimilc» adunque puoi penfare,che fia la natura
dell'ara nima. Et però (e gli è uero.che altra cofa non fi truoui,che in fe
fle/Tafi muoua, fuor che Tanis: ma,di neceflìta ne fegue, che I anima Tia fenzi
principio, fiC immortale. Dell' immortahtà dela l'anima habbiamo detto affai.
Voglio bora u:: gionare della fua ideà;ò aero della fua forma,» ìmagine in
quefta guifa. Se io uolefli narrarti tutte le Tue qnalità, CJ particularità, bifognareb:à
becheio (i\([ì un'huomo diuino, fiC poi farei troppo lungo. Ma può bene
un'huomo motà tale,comcfonio, defcriuere una certa fimilitua dine,flC figura di
quefta anima, flC quella porre dauanti à gli occhi; et à far quefto,fari cofa
pia breue,che à entrare nelle altre diffic ulta, che nel ragionar di lei fi
ritruouano. Et però diremo per bora cofi, Facciamola per quefta uolta fimi^i le
à un carro alato, che habbia il fuo rettore: la qua! figura ci è affai nota,
flf (a intendiamo be:s nifijmo. Hai adunque dafapere.che tutti li cast:Ualh\flC
li rettori de i carri de^li iddii fon buo^ ni,tt nati df buoni •De gli
altri^che non fona fddii, parte fono buoni, et parte non. Primierajf. mente
colui, che dell'anima. della mente norx j ftra tiene il gouerno, raffrena,
guida, flf corrfg:^ geli duecaualli, cbe il carro noftro tirano con. le briglie
in mano.Oltra diquefl:o,un di quefti duecaualliè buono.fiC bello,flC nato di
ftmilfó Taltro è il contrario, et nato di contrarii. Per ii che accade, che
quefta noftra moderatione,flf reggimento di caualli fia di ncceflifà difficile.
Hora mi uoglio sforzare moftrarti breuementc. perqual cagione fia detto
un'animale mortale, 6: uno immortale, Ogni anima ha cura di tuts?: i to il
corpo inanimato, flc difcorre per tutto il cielo bora pigliando una forma, bora
un' aU fra; fiC mentre che ella è anchora perfetta, « riaij tiene le fue ale
intere inalza in alto,fiC gouer:P na air bora tutto il mondo. Ma quella anima,
alla quale fieno per qualche cafo, come ti dirò^ cafcatc le 3lc,rouiDa al bado,
ne mai fi ferma, fin che non fi intoppi in qualche corpo fohdo,clic la ritenga.
Quando poi quella anima ha trouas^ to doue habitare,* ha per fua ftanza prefo
qual che corpo (errenp (il qual corpo fabitp che ha, in fe quefta anima, par
che comincia à muo^^ ucrfi,macpera lapotentia della anima, che lomuoue} muoue)
ali 'bora tatto qucfto fi chiama ani? male: et qucfta anima unita infieme con
un cor po terreno, come ho detto, U un'animale.il quale fi domanda mortale. Ma
il corpo immorj: tale fi conofce non per ragione alcuna per ora' didifcorfo
ritruouafa.ma quel, che fi dices'd fingono gli huomini da fe ftefli; perciò che
quefto corpo non lo habbiamo mai ueduto. ne à baftanza ci è maj flato dato ad
intendere, Ids dio adunque è un certo animale immortale il quale fenzadubioha
ranima.flcfimilmentc il corpo, flCquefte due cole fono liate per natura in
fempiterno infieme congiunte. Ma queflc cofé bifogna dire che fieno, come piace
i Id* dio, a ragionandone, à lui bifogna' riferirfcne. Hora ci rcfta à dire per
qual cagione le ale caa (chino all'anima. Tu ha» da fapere,che la nas tura.ef
il proprio delle ale di quefta anima.é il- leuare il graue in alto uerfo quella
parte del'cics lo, la doue habilano gli iddiU Sappi anchos ra, che di tutte le
cofe.chc in un corpo fi nst truouano, ranima,piu d'ogni altra cofa.della diurna
cognitione è participe. Qiiefta diuinità tengo io che fi pofli dire, che fia
cofa bella.iaa uia, bHona,flC ciò che i tali cofe c fimilc.Da quc* (lo adunque
prindpaimclìfc fc ale dell'anima fono nutrite,* per quefto più che per altro
crc:s fcono,flC mchora per le cofe brutte, flC trifte>ac per le altre à
quelle'contrarie, che di fopra ti ho dette, mancano, fl£ uengono à niente.
Oltra di quefto hai da intendere, che in cielo è un gran Principe^il quale fi
chiama Gioue. Coftui pd^ mo à tutti gli altri, guida con uelocità un fuo carro
alato, ornando, fiC affettando ciafcuna cofa,. ce con fomma diHgentia al tutto
procurandoé Dopo coftui feguita lefercito de gli altri iddiì^ femidei,fiC
fpiriti diuini, diuifo, flC ordinato in undici parti, 6C folamènte nella cafa
de gli iddii f cfta la Dea Vesta. Ma gli altri iddii (dico fola^ mente quelli,
li quali fono poftì nel numero de j dodici ) fe ne uanno ordinatamente, fecondò
che fono difpofti,& ordinati. Et hai da fapere^ che dentro al cielo fono
molti fpettacoli,fiC mol ti uiaggi,difcorrendo Intorno fi fanno diuinifTì^
mi,& beatifTjmi: alli quali i beati iddii femprc ftanno intenti, et ciafcuno
fa quello ufficiosa! quale è fl:ato pofto,CC che gli fi conuiene. fiC cofi ua
feguitando ciafcuno iddio fempre potendo ugualmente, uolendo: per ciò che dal
diuin choro è femprc ogni inuidia, ogni maleuolen tia lontana, Quando poi fe ne
uanno al celeftc cofluifo, ce à guflarc le diuinc uiuande, all'ho:: ra
inalzate, et già in alfo afcendendo caminano per la circunfèrentiade i cieli.
Li carri delli do5 dici iddìi bene accónci, flC aflettati, con le briglie de i
caualli uguali, flf parimente da ogni banda pefando, fàcilmente caminano. Ma
gli altri carri che cofì no fi truouano.à fatica fi poflono muo uere: per
cicche quel caualio trifto è dalli uitii aggrauato,6C cofi uerfo la terra fi
p^^ga, et feco il carro, et il rettore à forza tira.fiC quefto à quelsj li
rettori interuiene,che j1 caualio non buono, hanno troppo ingraflato,fiC
alThora patifcono le anime una fatica eftrema^fic fono in un graridifs fimo
combattimento. Per ciò che quelle anime; che fon chiamate immortali, ciò è
quelle, che no fono dal trifto caualio sforzate, quando allafom miti giunte
fono,allontanatefi dalle altre, fi fer mano nel dorfo del cielo, fiC quiui
pofatc,fono dalla circunferentia attorno rotate: ft quefte fos: no quelle
anime, che ueggono quelle cofe,chc fuor del cielo fono pofte, Et quel diuino
luogo (opra tutti li cieli non è anchorada alcuno dei noftri Poeti flato fin
qui lodato: ne alcuno fi tro uerà,che mai quanta egli menta, lodar lo pofla.
Quefto luogo è fatto in un tal modc(& mi met^: to i dire quefto; per che
parlando della uerità, pofTo tiene hiuctt ardire di dire il acro ) è adun que
fcnza colore, fenza figtira alcuna. non fi può toccare.è una cfTcntia; la quale
fola fi può dire.chc ucramcntc fiaft qucfta effentia fola» mente li Icrue dello
intelletto, guida, flf gouer^ Inadore dell'anima, il quale intelletto femprc
fta in continoua contemplatione del (omwo bello^Etla uera fcientia, flCil
perfetto fapere altro luogo non ha, che quello, che c pofto ins: torno i quefta
effentia ucra,£c nella fuacognfc ttònc. Come adunque il penficro^a: la contems
plationc diuina è poftafolo intornò i un'ina tellettopuro, fiCà una fcicntia
immaculata, cefi il penfiero, flc la contemplatione d'ogni ani^: ' ìna,che
habbia i pigliare che corpo, ò forma fi uoglia (pur che à lei fia conuenientc )
rifguarp dando per qualche tempo in quella efienfia, che io dico, che fola fi
può dire che fia contea!? ta della contemplatione della uerità,di quella fi
nutrifcc,a: di quella fi con tenta, fin che un'aia: tra uolta la circa
nfercntia aggirandola, non la ritorni in quclmedefimo luogo.Et in quefto fuo
aggiramento uede la giuftitia, con tempia la temperanza, fcorgc la fciehtia, K
non uedc (jueftc uirlù come generate/flCpoftein uno,ò^in un'alfrc (Ti comé
potiamo dire ) che fiend quelle. che noi qua giù confiderandaci paio^
nouirtù,ft cofi le chiamiamo, ma uede quella iiera fcientia, che è in colui,
che folamcntcfi può dire che fia.-flCinquefto medefimo mo:s do ucde, flC
contempla tutte le altre uirtù,chc fono uirtù ueranente. Quindi di quefti cibi
nutrita, a fatia. ritornando di nuouo dentro al cielo, fc ne ritorna à cafa,
dalla quale dianzi fi parti: flC dipoi che è ritornata, il Rettore mets: fendo
li cauallr nella ftalla à ripofarc.gli da:per cibo T Ambrofia. (JC gli fa bere
il Nettati:rc,fif quefta è la uità de gli iddii/te altre ani^.-jne poi, alcuna
che dirittamente ha gli iddìi feguitato,6tta che è à lorofimile, fa tanto, che:4inchora
ella inalza il capo del fuo Rettore à ^uedere quel bellifllmo luogo, che
iotihodet^: oefTer fopra li cieli rftcofi ancho ellainfies» me con gli iddii è
dalla circunferentia de i cicjs li aggirata, a portata, ma à T ultimo dalli
cauals: li e trafportata fuor della uia: talmente che à grandiflìma fatica può
mirare quelle cofe, che in quelli Iuoghj,di uentà piene fi ritruouais no*
Alcuna altra anima hora il capo del Ret^ Jore in alto leua^tt hora la abbafTa:
onde daU £ ini Ifcaiialli sforzata, parfe ucde quel bcne,flf parte non. Et le
altre anime tutte ugualmente defiderando ftar di fopra feguitano quefte tutte
ins, fj fiemc confufamente: a non potendo in alto le:: I uarfi,premendofi tra
loro, fono à torno portate: ! fCcalcandofi^ficrunaialtra fpingendo,ft ciafcu i:na
quanto più può di pafTare innanzi sfor7an5; dofi, fanno tra loro grandiffima
contefa:.onde j ne nafce un romore,un. combattimento, una fafica grandiffjma:
nella qual con(éfa,per uitio, ce difetto de i rettori, molte fi azoppano, molte
delle altre rompono le penne delle ale,a al fin tutte dopo un;i lunga, flC gran
fatica, fen za p 0:5 ter pur uedcre quella effentia diuina.che io di:^, co, che
è ueramente,fi partono, flC dopo quefta lor partita fi pafcono folo d'opinione,
non potendo quel fommo bene per altra uia conofcerc: a ciafcuna fi sforza,
quanto può, di poter haue:5 re quefto cibo,defiderando conofcere doue fia il
bel campo della uerità. Per ciò che di quefto prato la natura dell'anima per fe
fteffa ottima, xaua conucniente cibo,Cf di quefto fi nutrifcc la natura delle
ale,con le quali in alto fi leua^ La potentia diuina poi (la qual non può in
al:^ <un modo fallire ) tiene quefta regola, che cia:^ felina animaja quale
mentre che gli iddii ac:$compagnaua.C6mpagnaua,puotc ucdèrc qualche fcintiTIa
del la uerità, quefta tale dico, uuolc che per fin che un'altra uolta non fia
dalla circunferentia aggi^ rata (come ho detto difopra ) fia fuor del perb xólo
di perder le ale, òdi riceuere danno alcu» no:fiC fe Tempre potefle girando
quella uerità uc •dere,non farebbe mai in parte alcuna offefa,Ma fe non
potendogli iddii Seguitare, non fi fuffc potuta condurre i uedere quel fommo
bene,flC per qualche cafo contrario ripiena d' ebliuione, ce di malignità fuffe
dalli uitii al baffo aggraua:^ ta,flC in queftoabbaffarfi.a deprimcrfi rompete
fi le ale, fiC cefi rouinando in terra cafcafre,al2s rhora la diuina legge uieta,che
quefta tale anb ma la prima uolta, che qua giù à forma alcuna -s accoda, fi
uada ad accompagnare con la natus ra di beftia alcuna fenza ragione, ma uuolc,
che •quella anima, che molte cole fa in cielo habbia uedute^uadaà trouare
lageneratione d'un huo tno,che habbia da effer Filofofo,ò uero defiders rofo di
belleza,ò uero Mufico, ò uero d' un huo modato alle ccfe d'AMORE. C^ell'altra,
che non ^quanto la prima habbia ueduto, ma nel fecon:5 do luogo fu pofta,
comanda quefta legge, che difcendainuncorpo, che habbia da effereRc per legge,
fiC ragioneuolmete ò uero in un bua iao dato alle guerre, flC atto ad efferc
Impera^s <lore,ò Capitano Quelle poi, che nel terzo Iuoj: go fi
fruouano.ordjna che fi mettino jn un huomo.chc habbia da efTere gouernatore d'una
Rcpubhca^òuero in uno, che debba difpenfa^ re,ft diftribuire la robba.ft hauer
cura della fajs miglia, ò in uno,chefia dato al guadagno. Quel k.chcpiugiu
tengono il quarto luogo, fe ne uarino in un huov(}o,Ql}€ hsihbìà da durar ùth.ca,òaeroin
uno, che fi habbia daefercitare in^: torno alla Medicina, fif alla cura de i
corpi.Quel Ic,che più di foltonel quinto luogo fon pofte, é s'accoftanoà
coloro, che debbono fare l'arte di indouinarc,òuero di augurare per uia di
facrb jficii,ò d'altri mifteri, Quelle, che la fefta fede tengono,defcendono in
un'huomo,che hab:s bia da diuentare pQeta,ò ucro in uno di coloro, che fono
nati ad imitare altrui. Quelle, che fono le feftime dalle prime, uanno;fn
uno.che habs biada efTere òartefii^e^ò agricoltore. Le ottauc in un
fofifta,òucro in una perfona plebea.flC iiile. Quelle finalmente, che nel nono,
flfultis: mo luogo fi ritruouano.fc ne uanno a diuentare uno, che debbia efTer
tiranno. Et in tutti quefli •fiati di Ulta qualunque giuftamente haràmes».
-fiato i giorni fuoi.dopo la morte harà miglior forte, clic quelli, che
friftamcnte fono uirtuH: flf quelli, che ingiufti fono flafi,uannOÌ pcg:^ |fóré
fl'a(o,che colore), che fono ftafi buòni: pei d'oche non ritoma Tiinimatn quel
medefimo luogo,dcnde prima fi partì. più preflo che ih fpatio di dieci hhirlia
anni.Per ciò che auanti i queftofpatiodifefnponon può racquiflare le àie, fuor
che l'anima di coluj,che uitiendo hà fenzauitio alcuno atfefo alla Filofofia, òuer«5:
mcnfeha amato la helleza^fiC infieme grande^ ifnente defiderafo la fapienfia:
per ciò che quei ftefali arfime/enza dubio alcuno, dipoi che ^treuolte fono
paiTate mille anni (purché efs Icno^ uoglino dopo la prima morte, tre uolte
tornare in quefta uita ) all' bora hauendo rac» quiftate le ale dopo tre milia
anni,al cicl uo^ landò fi partono. MoHé altre aniine, morte che fono, la prima
uolta fono da Iddio gJu^ dicate, a dannate r ttcofi giudicate, altre an^- dando
fh^un'iù'ògo,il qaaTé ne! cèntro dcU la terra è porta per punit»one delle anime
cgitti tiue.quiui patono del fallir loro meritcnoli pe:» he. Altre pòi dal
giudicio dìuino innalzai te, in certo luogo del cielo forio in quel modo
trattate, che fi hannoqnagiu in terra uiucns do meritato: flf poi tra mille
anni qucfte due- forti d'anime, ritornando al mondo fi eleggono una feconda
uita,ec ciafcuna può pigli^rfi queU la forma, che uuole. Quindi uienc, che
l'anima humaha pafTa alla uita d'una beftia^flC dipoi dunabeftiadiuenta di
nuouo huomo,pur che quella anima fia (lata un'altra iiolta in un'huo mo. Per
ciò che quella anima, che non harà mai ucdutaìa uerità, òpoco,b a(rai,non potrà
mai pigliare la humana figura: per che bifogna che quello, che l'huomo mtende,
l'intenda per me:s zo delle fpetie delle cofe,che dauanti gli ii ap:5
prefentano.a quefte fpetie per uia di molte, ÒC uarie cognitioni nella mente
noftra raccolte, fo^ ijoalfine con difcorfo infieme pofte,eCc9m5s prefe. Et
quefta cofa altro non è, che la rimems: branza di quelle cofe,che già Y anima
noftra in C4elouidde,air bora che infieme con iddio era perfetta.-a quando ella
fprezaua quelle cofe,che noi fcioccamente diciamo che fono,riuolta fola:? mente
allcontemplatione di colui, che è uera mente. Per la qual cofa l'anima folo del
Filofoss fo meritamente racquifta le ale.per ciòchequan to p-r un'huomo è
poflibile,fempre con la mera móna fi riflringe,flC fi accofta à quelle
cofe^allc quali accoftandofi,(5f riftrfngendofi iddio, è di^ uino» Colui
adunque, che farà quefta confide^, ratione din'ttamenfe, et ragioneuoImente,flC
cefe cherà fempre di nempirfi la mente di qucfti cofi pcrfet(i,fi£ fanti
mifteri, quefto folo diucnterà perfetto. Et cefi diiiifo dalli ftu di, che
fanno gli altri huomini,flf accoftandofi alla diuinità,è th prcfo,flC morfo dal
uolgo,comc fe egli fufle ufci to di fe. Ma egli ripieno, flC ebbro della contem
plationc di Dio, non fi lafcia cònofcere alla mol titudine. Per quefto adunque
ho fatto io qùc^ fto mio ragionamento, il quale è porto intorno alla quarta
forte di furore-peri! qual furore quan do alle uolte uno di quefti tali nel
uederequa giù qualche belleza, fi ricorda di quella uera, che gii uìde in
cielo,rimettc fubito ralc,fiC cofi rimelTe che V ha, fi sforza,quanto
puo,uolando al cielo inalzarfi. Ma non potendo ciò fare^coje me gli uccelli
po(rono,guarda,flC confiderà pur uerfo il cielo, fprezando qucfte cofe bade
«onde ne è biafimato fiC ne riporta uergogna,dicendo:j gli ciafcuno,che egli è
poco fauio,flC ripieno di furore. Per la qual cofa quefta diuina separatio: ne
dell'anima dal corpo è fopra tutte le altre, che interuehire ne poffano
migliori, Et da ca:^ gioni ottime nata,d: non folo è gioueuole à chi in
tuttolapo(riede,ma à chi qualche poco ne participa. Et coiui,che di quefto
iurore fanto.tt |>uotio è ripiano, con ciò fia clic egli afmrla bel:?
ilcxa.quefìo ueramente fi può dire arhantc. Per ciò che, fi come ho difbpra
detto.ogni anis ma huroana già ha iieduto quelle cofe, che ue^ ramente fono:
per ciò che fe non le haueffe uc jàiite, non farebbe difcefa in quefto animale
hu mano: et non, è f^c^le i tutte le anime ricor:i darfidclfecòfedilàfù.per
uedere quelle/cbc qui fono. Et prima lo poflono mal fare quelle; che per breue
fpatto di tempo fù in ciclo gli fu conceffo uederic: dipoi non è conccfTo
anchora quelle, che nel mondo uenendofono fiate ina felici, ce Ila nno hauto
mala fortuna: di modo che corrotte da alcuni coftumi cattiui.che qui
pjgliano/ifccrdano in tutto di molte cofe (st^ gre,©: buone, nelle quali in
cielo erano gii ammacftrate. Perii che poche anime fi ritruor? uano,che
àbaflan2a delle cofe celefti fi ricors dino. Ma quelle poche quando tal'hora
qua giù- scorgono qualche iomiglianza di quelle cofe che in cielo gii urdderò,
fi ftupifcono, ftquafi cfcono di fe. Et non di meno non fanno don^ de quefto
lor mouimcnto proceda; per ciò che non conofcono in tutto la uerità.ne a
baftanza fe ne ricordano. Ne pct/amonoi fcorgere,menp tKchcqyagiàftiaDoioin
quelle fi^ure, imaa gini,fplrndòrucro alcuno di giuflitia, di tfmp< ranza,
fiC delle altre uirtù,che gl'animi npftji J)<^ norano.flC amano. Ma per
certi inftruirenti,fiC fxìczi imperfetti ofcuri à pena pochiflimi huomini
accoftandofi pure alle imagi ni> di iq^cl le uirtùcelefti,che nel mondo fi
ritruQuano, tifguardanoin qaelle imagini quella forte, di uirtù,che fimile
imagine gli. rapprefej?ta. ali' hora ci era lecitc,<X conceffo uedere una
chi^ riflima^flC pmiflìma belleza, quando con quel beato choro fegiutando noi
quella felice uìGq:» ne, 6: quella fanti/Tjma contemplatione. della quale
dianzi fi ragionai, noi infiemc conGio:^ ut,& ìt aìttc 2nitrìc inficmecon
qualche altro iddio, fecodo che era ordinato, pQtcmo con teni:^ piare la
diuiniti: flC quando à quelli miftcri,fl£ cofc fagre dauamo opera, li quali
potiamo ragio iicuolmentc dire efTer più di tutti gli altri miftc ri fagri,flC
beati, alli quali all'hora noi poteuamq attendere, quando anchora immaculati.
flC nò of fefi da mille mali efauamo,che poi habbianio in quefto modo
prouati.Onde confiderando all'ho ra quelli celeftì fpcttacoli cafti,femplici,durabi
li^tt beafi^poteuamo beniflìmoà tal fanto efcr^l tic fcruirc ftado noiin una
luce pura pun^ttfen M machia alcuaa,Iib^ri,&fciolti da c^uedo^chcWtor
chiamiamo <;orpo,il qiul crbifogna ì torno portarci noftro mal grado,
efTendo à quello le:5 gati,6f in quello rinchmfi à guifa d'oftnchej ce quefte
cofc non fi fanno, feno per uia di mc^: nicria,per che noi ci ueniamo à
ricordare delle cofe padatecdallaqual ricordaza hora io fon fpin to: ce
efortato perii defiderio) che ho di quelle xofe.che già ho altre uolteuedute,
ti ho fàtto queflo ragionamento, Hora la belleza(come ti ho detto ) quando già
erano le anime in cielo,^ Infieme con loro caminando rifplcndeua,fiC di poi,
chequi fumouenuti.rhahbiamo riconos fciuta, per ciò che ella chiariffimamente
rifplen:? de,& fi moftraà quel fenfo dellj noftri,che più •di tutii gli
altri ha in noi forza, flC quefto é il feri fo del uedere: per ciò che quello é
il più acuto di tutti gl'altri noftri fenfi^che permezo del tòVpo fon
cagionati, col qual corpo, flC con li quali fenfi non fi può cognofcere.nc
uedcria fapientia: per ciò che ella farebbe nafcere in noi ìun'ardentiffimp
amore di po(rcderla,fe un qual chcfimulachro, òimagine di ki dauanti à gli
occhi manjfefìamcnte ci fi pofgefTe: fiC il medefi mò potiamo dire di tutte
l'altre cofe,che fono degne de/Tere amate. Non dimenolabellezsi fok ha jpiu
dellaltre haute quella preminentfa^^ che ella più;d- ogni altra ci fi fa
uederc,& piu che ogni altra cofa ad amarla ci muoue. Et però colui, che
dianzi non atteie à quelli fagri miftc;? ri, ch'io ti difli,anzi più tofto e,
dando qua gm^ corrotto da quefte cofe bafle^non cofi preftofi inuoue,fiC leua
ranimo all' amor di quella bels: Ieza,anchor che qui uegga una certa fc^iglian
za di quella, che da quella eterna il nome pi:^ ghando pur belleza fi chiama.
£t per quello nel uederla non l'ha in ueneratione, flC non l'ha nora,maà guifa
d' una beftia.dato folamente al piacere, uorrebbe pure à quella belleza acco:5
ftarfi, flC generare, et produrre figliuoli: fiC cofi importunamente
afTaltandola, non teme punto fargli difpiacere.ne.fi ucrgogna dandofi in prc:?
dai quel fuo difordinato appetito, pafTar gli or^s dini della natura, Ma colui,
che alli detti mifte;^ ri poco fa diede opera, fiC che già in ciclo con^
tempio, molte cofe degne, flC (ante, quando egli uede un uolto ben fatto,ft di
belleza diuina ot^ nato, il quale perfettamente quella diuina, et uc ra belleza
rapprefenta,ò uero quando contems? pia nò pure il uolto, ma qualche altra parte
ben fatta del corpo, primieramente fi empie dihorrs rore,fiC tofto teme di lui,
come fe fufleunacofa (ckfte già dalui pa altri tempi u^duta: quindi più
minutamente rifguarclandolò come Iddio lifaonora.flC fé egli non temefTc di
edere accuiaj«; to per matto, ti dico che egli non altrimenti aUj L’AMATO SUO facrifìcarebbe^chc
farebbe à una fta^r tua di iddio. Et mentre che egli pure il contem
pla/ifentequcU'hprrore. del quale era pieno, in fudore,fl(in ardore conuertire,
dal quale in brcuc tempo tutto fi truoua occupato. Per ciqr che air hora,che
egli per gli occhi beue quclU bcllcia Cubito tutto dentro fi riicalda: dal qual
caldo la natura delle penne della lua anima é co me matfiata,a dipoi che egli è
bene infuocai^ to,fi intcncnkono quelle parti delle ale,clic pullular
doueuano.ac che dalla dureza riftrctte, metano alle penne il poter
gernpogliare. Qjiianp do poi per gli occhi e ben penetrato il nutrìs; nicnto di
queftc alenali' hora il germoghar delle penne, che prima comincia dalla radice
i ingrof (àfC,ìmpetuo{amente per tutta 1 anima moftrarfi (i sterza per ciò che
Tcinima era già tutta dalle pcnne copcita.fif da quelle io alto foftenuta}
tak^^ in quello tempo ci anima tutta in grao dèiiìmo leiuore^tt uonebbe pure
inaizarii: flC non aitranrti che làccino ifanciuUt. quali allW u che pruni
mcttoiìo i depti^t^no da on certo iociOiC iMfitfi, aiiiciué dà un dolore delie
gicQ gfc moleftatì.cofi l anima iicl meffere le penne tutta fi commuoucflffi
riempie in un tempo dj piacere,» di moleftia. Per il che mentre che eia la uede
un giouane bello, beucndo per gli ocs chi quel piacere, «quel defiderio chc da
lu|'t uiene,airhora inaflìata.come ho detto, fi rifcalr da,flC all'hora nó fi
duole. ma fi rallegra cifra mo do. Ma quando poi egli s allontana.flC che
quefcl li meati fi rifeccano.per li quali l'ala uoleua ufcir fuon.allliora andi
fif riftretti.uiefano il gcrmoa gliare delleale: di modo che quefta ala
infieme2i con quello amorofo defiderio, parendogli elTcr dentro rinchiufa,
uolendo pur' "faltar fuori dai (e flcfTa, richiude quei meati.donde ufcìr
po* trcbbe fif fa che di nuouo ne nafce ali anirra nó poco dolore. Et pe^quéfto
è tutta l'anima da ogni banda oii'efa,fiC grandemente dimoiata, mal trattata Ma
ricordandofi poi di nuouo del? la ueduta belleza,in quello fi diletta.» di quel
Io folo fi rallegra. Et cofi da ambe due queftc paffioni infiemc mefcolate.ciò
è da quello sfor* zamento.ec impeto di rimettere le ale. et dalU maraiiiglia
della piacciuta belleza è in un fems po moleftata.Onde piena di
anfietà,<urio(à d/» licnfa flCè daqucftofuror in tal modo condotta, che ne
la notfc può dormire, ne il giorno in lue go alcuno fermarfi, ma quinci, 6f
quindi fi ags gira,fiC fi fbatte,mofra pure dal defidcrio di riue dcre quella
bcUeza, la quale di nuououedcn^ tìo,& beuendoquel defiderioamorofo per gli
occhi, CQmc ti ho detto, all' hora di nuouo apre, et ageuola quelle parti delle
fue penne, che prtp ma erano infieme riftrette.fic chiù fé: fiC cefi àh poiché
ella ha cominciato à rifpirare,fiCriha2: uerfi,à poco à poco fi hbera da quelli
ftimoli'i ft da quelli dolori, dalli quali prùr^a era offef^é Tale che da
quefto foaui/Tjmo piacere 6nto è in quei tempo uinta,che mai per fe da quelli
allet^: tamenti non fi partirebbe, ne altra perfona più appreza,chc l'amato, ma
fi fcorda del padre, CC della madre, de i fratelli, fif di tutti gli amici
fuoirttfe tal' bora (come interuiene ) manda in quefto amoremale.ft confuma il
fuo,non fe ne cura punto. Oltra di quefto fpreza tutte le '.amicitie,flC
dignità, che haueua fuo padre, delle quali gli fi farebbe tra gli altri
gloriato,^ fole fi contenta di feruire^fiC diefler foggietto àogni ''«olontà
dell' amato, pur cbe egli pofTa efferaps: prefTo al fuo fuoco. Per ciò che non
folo honoi^ ra,ficha in ueneratione quefto b^llo, chc tgli ama^ma anchora Io
truoua ottimo medico d' gni fiu grauifTima paflionc. Quefto afFetto adun
qac,2(quefl:o mouimento,b giouane gentile, gìihuomini l'hanno chiamafc ef^SiDC
cioè amore. Et fe io ti dicelTe in che modo quefto amore è chiamato fu in cielo
dalli dei, certamen te,che per cfTer tu giouane, harefli ragione di ridere. Et
che fi^il uero, certi imitatori d' Hos: fnero compofero già due iierfi fopra
quefto amo re.cauati (come penfo ) dalli fecreti.flC mifteri diuini,delliquali
unoèin uenti affai goffo,flC poco elega n te, flC dicono cofi, Chiamano amor
uolatore i mortali. Li dei alato, per che à forza uola., ^ A quefti uerfi in
^arte fi può credere, in parte non: ma fia come (ì uoglia,un tratto quefta^ che
io di fopra ho detta, è la aera cagione damo rc,fiC lo affetto, flC la paffione
de gli amanti; Ci però tutti quelli, che ameranno, h quali già fe^ guitarono
Gioue,po(fono più fauiaméte,fiC più conftanfemente portare il pefodi quello
alato, che io ti ho detto. Ma coloro, che già honoraro^ no MARTE, Ce fu in
cielo infieme con lui andoro^ no intorno, poi che dall' amore allacciati fi
truo^ uano,fe mai penfano di riceuere dall' amato in^ giuria alcuna, facilmente
corrono à far dei ma^ lc,fi£ à uccidere; cefi furiofamente ò fe ftefli, è gTi
amati loro priuano uifa/SimìImfnfc eia fcuno honoraquel roedefimo iddio, col
quale già andò in fchicra: flC quello cerca fcmprc quan to più può, in Ulta fua
di imitare, fin che egli non fi lafda da i uifii corrompere. et in quefto modo
mena i giorni della prima fua uita,t3C cofi fafto a gli amati fuoi^flC à gli
altri Tempre fi mos: ftra, Et però cfaicu nò, fecondo i coltumi fuci.fi elegge
à amare uno, che à lui paia bello. Qujns: di,comc fé quello fufTe il fuo iddio,
fe ne labri^ ca una imagine.fiC quellaorna et fa bella in quel modp,che fe à
quclla,flC non ad altro idolo ha:? uedeà dare honcri,flCà facrificare» Onde
co:5 loro.che di GiòUe furono feguaci,flf che quello honorarono, cercano
d'amare uno. che Simiù mente habbia T animo giouiale: fiC per quefto /
confiderano, prima che l'amino, molto bc5: nc,fe quefto tale è atto per
naturatila FìIoì: fofia, òueramente al regnare, alle quali cofe Gioue inclina.
Et poi che conofcmto(o,fiC ri:^ truouatolo tale, lo amano, fi sforzano con ogni
ftudiodi farlo diuentare fimile al fuo iddio. Et fe forfè eglino non fapeffero
per loro quel, che à gli altri uogliono inregnare, airhora ol:? tra modo fi
sforzano, flC cercano di imparar fem:5 pre qualche co(à per qualunque uia gli è
con:s cef?o: flf coli infiemtf con gli amati à queftrf coli honcfta.flclodeuole
opera fi mettono, (alt che diligentemente ricercando, fif in fc fteffi inue^
ftjgando la natura di quello iddiojl quale ad honorarc fono inclinati tanto
fanno. che al fu: re pur uengono a capo di quefto loro honc;^ ftodcfiderio.
Etnon'c ciòmarauiglia,per ciò che eglino fono dall' angore sforzati à dirizarc
la mente, ftconfiderare con intentione gran^ dilTjnia à quel fuo iddio: di modo
che pur al fine ricordandofene, fono fubito di undiuino fpiiito ripieni: il
quale fpirito fa, che eglino pt^.glino coftumi, fif ftudi tali, che in brcuc
tem^s pofi fanno participi della cognitione di Dio, tanto però, quanto à
un'huomo è lecito. Et per che di tutte quefte cofe fanno che ne è cas: gione
l'amato, ogni giorno più ardentemente nel fuo amore fi accendono. Et fe cclloro
th ceuono quefta diuinità da Giove (come anchoss ra le Sacerdoti di
Baccho,cheda lui di furor fono ripiene ) infondendola tutta ncir animo
dell'amante, in breuefpatio di tempo, quanto poffono. à Gioue lor proprio
iddio, fimilifTimo Io rendono. Tutti quelli poi, che già in cielo feguitarono
Giunone, cercano per amato loro un giouane d'animo regio: ilqual poi che han^
ìfìo frbuato.dfucntano Cmili à *q!iclli\che di fos prati ho detto.fiC uerfo di
quello operano in quel mcdefimo modo» Oltra di quefto, quelli, che honorano
Apollo, ò qualunque altro iddio, ciafcuno il fuo proprio iddio, imitando,
cercano ' tutti un giouanc.che per natura habbi il medcsi fimoanimq^chc loro:
il quale poi che hanno trouato, prima il lor proprio iddio imitando, poi alli
giouani pcrfuadendo,che li medehmo faccino,flC moderandogli in ogni loro
cperatio:? ne, fecondo il lor fine, quanto le forze loro com portano, di
condurlo fi sforzano alla imitatione del proprio loro iddio, fiC alle loro
fimili operai troni «Non portano coftoro alli fuoi giouani ìnis
uidia,òmaleuolentia alcuna, ma con ogniftu^ dio fi sforzano di conformarli alla
loro perfetta Ulta, ùmilmente a quella di quello iddio^ che ambe due
naturalmente honorano. La cura ' adunque, et il fine di quelli, che ueramente
fo5 no amanti (pur che eglino fi conducano à poÉs federe quel,che io ti ho
detto, che defidcrano ) fenza dubio alcuno altra non è, che qucftachc io ti ho
defcritta. Et è quefto fine per cagion del Tamtete per amor furiofo in ultimo
all'amato lodeuole, 2C feliciflìmo.fe quefto amato farifi^ inamente prefo
d'amore, £t per che tu fappu irCome un amafo fi conofce dallamor uinto.te Io;:dirò.
In quefto inodo adunque qualunque ama ^(ofarà d'amor prelo, fi conolceri. Nel
prii ci pio di quefta noftr^. fintione diuidemmo ogni anima in tre parti,
flfdimoftrammo li caualli di;due lorti.ò: cofi ppncmo^fpiDjC due parti dell'ai
fili ma, li Rettore fu poi la terza parte. Quefte me;defime cofe ci fa di
bifogno cònfiderare al pre:? rfente,Già tu fai, che di quelli caualli uno ne è
buono, flc uno trjrto; ma qual.uirtù habbia quel ivjibuon cauallo,fi(qual fia
la malignità del trifto non Thabbiamo ar)chor detto^flf però bora deb biamo
dirlo. Il caual buono è di perfonapiu ^ j.grande,(Sf più ben formato, ben
compofto,flCà »^artei parte tutto ben fatto, con la tefta alta, le narici affai
bene aperte, come quelle dell' Aqui^ 'la, di color bianchifTimo.coJi gli occhi
negri,. defiderofo folamente di honore, fiC ripieno di temperantia,fiC di
uergcgna, et amiciffimo del { aero; non ha bifogno di ftimulc^òdifprone al:»
ccuno^ma folamente fi regge, fl£ guida con l' efor.Catione, et con la ragione.
L'altro poi è torto, uario,CC malifTimo fatto, di una oftinata "oglia, }{b
col collo bado, ha il modaccio fpàanato,^^ fchiaciato di color fuko,cò gl'occhi
brutti,flC di color fanguigno macchiatile garofo^bcftiale, con le orecchie
pelofe OC forde^flf à pena ubedi> fcc alle battiture, fiCalli ftimoli. Oliando
adun^ quc il Rettore uede un uolfo degno defTer ama to.fiC infiamma tutta I
anima del piacere, che ne fente,è fubito da una certa allegreza commofc fo, flC
da certi ftimoli di defiderio. all'hora quel cauallo, che delìi due è al
rettore ubedienfe,co me è fuo coftume, dalla uergogna raffrenato da fe fte/To
indietro fi ritin per non andar' ali amac (oàd doflo. Ma l'altro non fi può far
reftare ne con gli ftimoli.ne con le battiture, anzi auanti fi fcaglia,ft per
forza il cauailo,che è feco con^s giunto, ac il rettore infiemc rcompigIia,flCà/cit
mal grado li tira à uoler fentire il piacere, che da Venere fi caua. Ma quelli
due nel principio no l'ubidifcono,fdegnati che dal rio cauallo à cofc indegne
et ingiufte fieno à forza tratti.finalmefc lìoncefTando quello importuno
diùxcil peg^: g/o, che j può, sforzati purfilafciano portare, flC cofi gli
cedono, et Io contentano di fare quello^ che à lui piace; (ale che in qucfto
modo fi ucn^i gono ad accodare al piaciuto bello, flC uaghegs.giano tutti
infiemc il charo afpetto di quella, Ilqualpoiche ha bene il Rettorconfiderato,
a poco à poco della uera natura di quella bclleza Ti uien ricordando^& cofi
un' altra uolta^come già in del fece, col pènderò riiiede.mà u^clc quella nera
dalla temper^ntia accompagnata, fiC ftabilita nel fermo fondamenfo della
caftjia: però parendogli pur iiedcre quella uera,& diui na t'elfeza,
comincia di lei riucrentcmente à tc^r mere; flc dairhonoiT.che gli porta
uintojn tcx^ ra hufnilmente fi lalcia andare.-fiC facèdo qucfto, c sforzato di
tal forfè tirare le briglie delli due ca ual!(,che bifogna che k forra dieno
dellegropsc pe in ferrala uno di quelli per fe flelfc,ptf ciò che non fa ali'
incontro sforzo alcuno, ft l' altro, che è tiif(o,fiC bestiale,C! na al tatto
contrafua fcogliartì ariojifanandod poi da quella belleza^ iìV dì quelli per la
uergogna,d marauiglia grafi che hahauta,tuttaranifnadi fudor lafcial^a gnatafiC
laltro libero da quel' dolore, di che il tia rar del freno,5C il cafcar in
terra Thaiiea ripieno,i fatica può tr^it il fiato.-ma poi eli e tn fe r itornaK)',
tutto da fdtgno comoffo il Rettore, et il cauallo feco congiunto riprede, che
per paura, fiC da po^ cagine di là fi fieno pattiti, doue egli tirati gl'ha ue i.
Quindi non uolcdo però eglino ritornargli, di nuouo sforzadcglf,pur al fine à
fatica gli con cede, che con preghi da lui impetrino, che per fino all'altro
giorno fi indugi à ntornare!il quale ordinato tempo'uentndo, fingono di non (e
nt ricordare;.ma egli con tutto cicgh el rammcna ta,ftdi nuouo sforzandoli, 2f
gridandoli, flf df nuouo à forza feco tiradoli, pur li conduce à uo Icr dire
all'amato le medefime parole, che hieri gli differo. Ma dipoi che più
appre/Tati fi fono, egli torcendofi.flCabbafTandofi (tendendo la co
da,ftringeil freno, flCcofi furiofamcntc feco li tira. Ma il Rettore. che
l'altra uolta affai mags giormentehaueua lemedefimc forze fofFerto. pur in
altra parìe uoltandofi, molto più forte,. che dianzi, le briglie ritirala: cofi
sforza la dura bocca del triftocaiiallo, flC bagnandoli in que^s fto modo la
brutta linguacce le mafcelle di fan^i gue,lo butta al fuo difpetto di nuouo à
ferra, fiC còfi del fuo errore gli fa patir le pene, il che poi the più uolte
hail trifto cauallo fofFerto,lafcia pur al fine la fua pazia, fif cofi horamai
diuenu:^ to piaceuoIe,ubidifce alla prouidentia del Ret^ tore.flCinfiemecon
lui, quando l'amato bello rifguarda, tutto per la paura trema: di modo che
affai fpeffoauuienc, che egli feguiti le pe:^ date dell'amante con reuerentia,
flC honorc.flC quelle dell'amato con timore. L amato aduns que connfcendo efTer
dall'amante fuo, come fe à iddio fufTc uguale, ubbedito, flCofreruatò,fl£
ucdendo che egli no finge, ma è à ciò fare dalla inore sfor2ato(ac maffime che
ogni perfona ho^ fiorata, per natura pare che fia amica di colui,' che r honora
) al fine fi diTpone hauer la mcdc^ fima uoiontà,che l'amante. Et ben che
pnipai tt dalli amici fuoi,CC da quelli, che infieme feco ftudiauano,flC da gli
altri, forfè per dargli biafis ino,fufli flato ingannato, elTendcgli da quei
tali detto efTercofa brutta, che un giouane appreffo al fuo amante fia ueduto,
fl£ per quefto forfè habbia già l'amante da fe fcacciato,non di me^ no air
ultimo per fpatio di tempo &' la età, fiC r ordine debito delia natura del
fuo amante lo rendono amico: per ciò che non fi trouò mai, che un trifto non
fufTe amico d' un trifto,flC un buono d' un buono. Et però poi che un giouane
comincia à praticare col fuo amante, et afcoU ta i fuoi ragionamenti, airhora
facendo lamanar te ogni giorno più il fuo amore conofcere,sfor:j za ramato à
marauigliarfenc nel confiderare: che fe la beneuolentia de i parenti, flC di
tutti gli altri amici à paragon fi metterà di quella di un' amante ripieno di
furore, a di fpirito diui:? no, farà per certo di pochifTimo,© di nefTuno
momento. Et fe quello huomo di più età, che (ara amante, feguiterà in
queftaguifa per quaU che tempora: fempre « nelle fchuole,ft in fijs miìi altri
luoghi apprefTo all' amato cercherà ri^ frcnaifi,alI*hora il fonte di quel
liquore f quale già Giove, quando dall’AMOR di GANIMEDE è preso, dicono che
chiamò inf]ufroa rDororo)qua le nell amante dall'amato belìo. più abbondanti
temente, che nell'amafo è infufo, parte nelTarJ mante fi uùz^Ct parte di fuor
traboccndo fi fpar ge.flC cofi in quel modo,che fapiamo fare laerc. ^ flC
quella ucce,ché chiamiamo Eccho,qua!e da qualche corpo c)heue, òfòIfdo
percoda/tn quel luogo, donde prjma fi partì, ritorna: cofi quello influffo
amcrcfo ritornando per uia de gli rechi i in quel bello. donde già fi lcuò,p€r
li quah egli hacoftume di penetrare alTanima noftra,di tali) forte
inaffia,& bagna i meati delle penne della anima delTamafo/che facilmente
po/Tono.fiC co minciano à germcgliare: flc cofi T amante lanist model fuo amato
ikmpie d'un corntpondentc ^ amore. Et di qui uiene, che egli ama, ma non fa
certo quel,che egli ami, ne conofce quefta fua paflicne.ne la può, ò (a dire.
Ma;ion altrimenti che fe perlagiiaLdafLU-i d'uno, che hauc/Tegli cechi mal
fàni, fi fei] ti ffe hmiimcnte gli occhi fuoiguafti, cofi non fa.dire ia
cagione di quella Uia infirmiti, ne fi accorge, che egli uede.a ua4 gbeggia fe
ftcfTo nell'amante. come in uno fpec «hia*Oi:ide cientre.che gli ci amante
prcfente^ fcnfc anch' egli mancare il dolore: fic quan dog, poi r ha lontano,
in quel modo, che egli é defi^ dèrato, altrui defidera: flC cofi in fe haiiendo
unt ìmaginfe ucra d' un cortifpon dente amore, non- più amore, ma amicitia la
chiama, flc cofi penfa^ chefia* Defidera adunque quafi quanto Ta mante (hen che
alquanto più moderatamente) uederlo, goder (empre deirefTer con lui,fiC
femprechegli è concelTo» cerca, flcfj sforza di farlo. Per jl che durando
quella pratica tra co:$ ftoro,iI cauallo trifto dell'amante al Rettore riuolto,
domanda per tante fue fatiche un breue, flCinhonefto piacere. Il cauallo
all'incontro del giouane non fa quello,che fi habbia à dire, ma tutto anfio^fiC
nell'amor commoflo,ama raman te tanto,quanto egli é amato.à: fi gode di luti
uer uno ritruouato^che tanto lo ami,£C di qucU io con lui fa fefta,&fi
rallegra. Et ftando iti quefta conuerfatione.è paratiiTimo quanto à lui è
poiTibile à ogni defideno dell' amante fcdif^ fare: ma l'altro cauallo col
Rettore inficroe.dalis la uergogna,à: dalla ragione ammaefiirati/ems pre in fimili
cofe gli tono contrani. Per la qual cofa fe coftoro, fecondo un giuftomodo di
uiuerc, fi: fecondo li ftudi della Filofofia fi empieranno di buom^belii^ft
Unti pcijiien^^.meneranno la uita loro feliciffima, flcbeata^con concordia
grandiffima.di loro fteflì padronf;^K in ogni loro affare modefti. Hauendo
quella parte foggiogata, OC uinta, nella quale fta tutto il ultio dell anima
noftra,a: per il contrario quel là altra libera, alla quale la prudentia,&
la bon^ tà fi appartiene. Et cofi al fine di quefla uita ha^s '^uejidogià le
ale racquifl.ate,ueloci al cielo uo^ landò fe n'anderanno, con ciò fia che
habbino uinto un combattimento delli tre, nelli quali fi fono ri{rouatì,come
hai innanzi udito, quale bc ne fi può dire efTere della maniera, che fon quel
li, che olimpici fi domandano; del quale bene nefTuno più degno può à gli
huomini arrecare l'humana temperantia,ò uero quel diuino furo^ re,chehabbiamo
detto. MafeqMeftì tali fegui^; fcranno nell'amor loro una uita brutta. fiC in
tut lo di Filofofia priua,& non di meno piena d am bitione,gli potrà
auuenire,che li intemperati cauallj asfalteranno le poco auucrtite anime lo^:
ro,nnientre che ò à qualche difordinato defideno fodisfaranno,ò mentre che in
qualche altra ma:: -niera licentiolamente perderanno tempo:& con ^ducendoli
pure à delettarfi di quelli piaceri^ nel liquali gli hanno troaati (ommerfi^lj
sforzerano ri fejguitare qudk forte di follazo^chc è dal uoU go perfettifTimo
giudicato. Tale che poi femprc fi daranno inuol(i,flf occupati nella fantafia fodjsfare
à quel trifto defidcrio. Ma haranno quefta fodisfattione, che cercano di rado:
per ciò che il penfiero deir animo non confente tutto à far qucfto, et però
quefti fimili amici anchora f ben che manco amicitia fia la loro che quella,
che di fopra ho detto) fiC mentre che 1 AMOR loro bolle, fiC poi che egli è
eftinto infieme amrche^ uolmente uiuono; per ciò che tengono per cer^j to di
hauerfi lun 1 altro data una ftabiliffima ks de: flC però giudicano eder cpfa
ingiufta quel^ la fede rompere, flc doue già erano amici, inimiss ci diuenìre.
Finalmente quando poi alla natura cedono, fiC dal mondo fi partono, non hauendo
anchor mefTe le ale, ma folo hauendo cominciai to à mettere le penne, non
riportano poco pre^t.mio del loro amorofo furore. P^r, ciò. che la diui^ na
legge non uuole,che coloro, che già haueua no cominciato à caminare per quel
uiaggio,chc al ciel può condurre,difcendino nelle tenebre fottola terra.Ma
quelli, che qualche lodeuolc uita fanno, mentre che infiemc uiuono amore^
uolmente, ac infieme rimettono le ale.comanda (}ue(U legge che fieno beati: di
queflo ne c folo cagione amoVe. Tante adunquc^fl: fi fatte utilità giouancmio
gentile, dall' amicitia d'u^» fio AMANTE, come da cofa diuina ti faranno dars
t2,Ma la compagnia di coluiche non ama,con:s / giunta folamente con la
temperantia del mons: do,fiC non con la diuina, come è lamicitia d uno amante,
et data in tutto ad atti,ft operationi mortali, fiC uili, genererà nell'animo
del fuo ami co quella licentia di parlare, che pare al uolgo uirtù:fiC farà fi
che dopo la fua morte preftamens: teanderànoue miliaanni intorno allaterra,fiC
fotto aggirandon et errando. Quefta nuoua can zona, ò amatiflimo amore, flc
contraria in tutto à quella, che prima detta haueua. quanto più dottamente, fif
in quel migliore modo, che ho U puto, con paroIe, flC figure poetiche,
pereforta:/ (ione di Fedro in tuo honore ho cantato; per il che perdona à
quelle parole,che prima diffu, Etqqefte cofc afcoltan do, dette da me con gra^s
to ànimo^ benigno, flcfauoreuole mi ti moftra^ fiC non mi priuare per qualche
fdegno dell' arte damare, la quale già m'hai conceffa, ne manco punto fcemar la
uogli.anzi più tofto fammi gra tia,che per Tauuenire io fia per que(la cofa più
apprezato^chc per 1 adictro ftato non fono.oUra eli qucflo fe io.ò Fedro co/à
alcuna foco degna del tue bel nome habbiamo det(o,accofa di ciò lifia.il quale
fu primo autore del noftro ragios namento.acfa.che egli per lo auueiiire più di
fimili cofc non patii: JC riuoltalo alla Filorofia, ' ^ome il fuo fratello
Polemarco.acciò che Fes dro.chcfommamentc io ama, non habbia da tenere bora una
opinione, fic bora un' altra, co* me fino à hoggi ha fatfo,ma più torto nello
ftu dio dell'amore. et della Filofofia meni / giorni della Ulta fua. FED. Io anchora.fe
gh è il •meglio, prego Iddio, che ciò mi conceda. Ma io ti dico benejl uero.
che io flupifco del ragios Bar, che hai fatto, ucdendo di quanto babbiauanzato
quel di piima: tale che io comincio à dubitare.che il parlare di Xifia non mi
babbi à parer ba(ro,«humile.fe forfè un nuouo ragios mmento facendo, à qucfto
tuo lo uorrà aiToes oiigliare, Et uoglio che tu fappi,che pochiffB mi giorni
fono, che un certo noftro cittadino lo uituperò grandemente, folamente per qucs
fto fuo fcriuere.* in tutu la fua accufationc lo chiamaua, per largii ingiuria.
Scrittore d'oratio ili. Tale che per qucfto potrebbe forfe,fe egli c punto
defidcrqib di. hpnore.per lo aiuenire fteocriidircriucrc, SOCR. Fedro que» Ha
tua opinione c degna certamente di rifo, ficfarcftimolto lontano dalla
fàn(afia, et dals la mente di Lifia.fe tu pcnfafli. chc eglifufs fc cofi timido.
Ma forfè che tu credi, che quel fuo accufatore dicefli il nero in tutte
quelleco* fe;checon(raLifiadiflc. FED. Certamente Socrate che à me parue cofi ne
anchora à te è oc culto, che gl'huomini grandi, flC nobili delia no (Ira
Republica temono, fiC fi guardano di coms porre orationi.flC no uogliono.chc
fieno uedutc fcritte,per non moftrarc à quelli, che uerranno, dcÀTcr flati
fofifti.effcndocofa facile lo fcriuerc ttnaOratione. SOCR. A quefto modo ò
Fedro tu non intendi il prouerbio del gombito dolce, ilqual prouerbioc tratto
dal lungo, fiC trifto gombito del Nilo.flC debbi pen fare, che ^, dicendofi
dolce, fia facile, come pare che tu cress da, anchora che il fare Orationi fia
di poca fiti* ca.eiTtndo però di grandi (Ti ma. Et ne folamens te iiò fai
quefta cofa.ma anchora penfo che non ti fia noto.che quelli cittadini. li quali
per pruss dcntia fono eccellenti, attendono grandemente à fcriuerc Orationi.CC
à fare che quelli, che uers ranno,le po/Tino uedere. Etqueftì tali di mo* do
amano quelle perfone, che lodano le compo iitioni loro,che la prima cofa di
quelli fanno mentione.meutione.che hano ufanza dir bene delli fcrifs ti
daltrui.douc 11 truouano. FED. Come dici tu queftoJ'Io non ti intendo a mio
modo •r. SOCR, Non fai tu,chc nel principio d'un libro, che da qualche
huomociuile fia corapo^ fto.fi fa fempre mentione di colui, che l'ha lo^ dato?
FED. Inchcmodof. SOCR La primacofa,che,dicono,cquefta. La opinione
noftra,òuerolanofl:rafcrittura fu appruouafa dal Senato, ò dal popolo, ò da
ambe duerquindi con una certa ambitiofa ricordatone di loro ftef fi, mettono
per ordine tutte quelle parole, che quei tali in fauor loro hanno dette, fempre
dando colui, à cui è il lor parere piaciuto.Dopo quefto dicono quello, che
intendono di fcriucj^ re; fempre faccendo moftra del lor faperc à cos^ loro,
che li lodano, flC quefto lo fanno affai uol^s te: ce non folo nel principio,
ma anchora dipoi che una lunghiffima Orationc haranno detta. Parti egli quefto
altro, che uno fcriuerc Oratici ni? FED. Ccrtamentcnon. SOCR. Ho rafe queftò
dir loro è approuato,fubitOj d' allc:s greza ripieni, fi partono dal
Senato,comc fareb bc un Poeta dal Teatro, fe la fua Comedia fuffe piaciuta. Ma
fe per forte fuffe riprouato,ò rifiu^s Wo^ac il lor configlio non fuffe
ammeffo, ne ri:s pìlfafo dfgfiò di cffere fcritfò con gTi àlfrf /non foJofi
cnvpfono di triftitìaqufi tali, ma li loro amici anchora. FED. Sitrattnftano
certa: in rn te non pòco. SOCR. In queflo mo^ do adunque dimcftrànò,chc eglino
non fanno poco conto di qnefto efercitio di fcriuerc, anzi diapprczirloafTai.
FED. Grandemente cer toloftimano. SOCR. Dimmi un poco, Se qualche grande
Oratore, ò ucro uu Re/i haueCs feacquiftata t^nta facultà,a: tanta fcientia nel
dire, che come Ligurgo, Solonc.o Dario, pote& fe degnamente nella fna città
efTer tenuto Scritii tore perfettifllmo^flC immortale, non gli parria f/Tcre,
mentre che anchor qua giù uinefTe quafl fimile^ò uguale à Iddio / Et quelli,
che dopo luiuengono,conriderandoIeccfe,che egli ha lafciato Tcritto, non hanno
di lui quel medefi^ mocrcderer' FED. CertifTimo. SOCR. Pcnfi tu adunque, che
alcuno (fia pur quanto fi lioglia trillo, ft inuidicfo) Uituperi quefto flu dio
dì fcriuerc? FED. Per quelle core,chc tu hai dette, non par conucniente: per
che eia:» {cuno,pare à me,uituperarcbbc quelle cofe,del le quah egli fi
diletta. SOCR. Etperòque^ fto può efferc à ciafcuno chiaro, che alcuno non c
daelTerc uituperato folamentc per che egli i • fciiua. fcriua. FED. Per che
adunque f SOCR. Ma quello c bene, come io penfo, brutto, par:^ lare, a fcriuere
cofe brutte, ftcattìuc. FED. Quefto è ccrtiflimo. SOCR., Qual farà adun qtie la
ragione dj fciiuerc benc,tt male f Non penfi tu Fedro, che ci facci di bifogno
di firoili cofe domandarne Lifia^ò qualunque altri, che ò nero habbia à qualche
tempo fcritto qualche cofa.ò uerohabbiada fcriueie ò qualche fatto publico d
una citta, ò qualche faccéda priuata, quefto lo facci in uerfi, come Pceia,ò
uero in profa come perfona priuata FED. Mi doman di fe io penfo,chc facci di
bifogno domandare, et cercar di fapere quefla Cofaf' Dimmi un pocd, nó fono
alcuni, che uiucndo ad altri piaceri non, attcdono,che à quelli di domandare K
di uoler da ciafcuno fapere la ragioe delle cofef Et quefti tali come faui, nò
attendono nella loruitaà quel li piaceri,]^ quali di ncceflltà hanno prima quaU
chedifpiacere,altrimeti il piacere no fi potrebbe godere.il quale effetto
interuiene quafi à tutti li piaceri del corpciflfp quello ragioneuolmetc fo no
chiamati piaceri uili H di poco momcio. Soc. Noi habbiamo tepo ÓC cfio aliai,
et ancora mi par ueder,che quefte cicaie,<:he fopr'il Capo noftro,.cantano^com'è
ufan«Joio:ncl caJdo,att^ndar^o à quefta noftra difputa. Se adunque elleno ci
uedefTcro addormentati, come fpeffo molti altri fanno, li quali nel mezo giorno
non difputan:: do, ma più prefto dormendo, fono al fonno per poca anuertenza
loro da quelle allettati, merita^ mente fi potrebbono ridere di noi,confideran2:
do,fl£uedendo che dal fonno uinti fuffimo. Ma fe elleno ci uedranno
difputare,fiC conofce^: tanno, che noi non fiamo flati uinti dà loro(co:5 me
fono alcuni dalle Serene, per il che non pof fono pigliar porto ) forfè che
uolentieri ci donc fanno quel premio, del quale per gratia de gli iddii poffono
à gli huomini fare dono. F E Chedonoèquefto? A me non pare hauerlo mai intefo.
SOCR. Non fi conuiene,che uno huomoftudiofo,flC amico delle Mufe, come fci tu,
non fappi una fimil cqfa. Si narra che quc^: (le cicale inanzi che fuffero le
mufe, crono huo mini: ma nate che furono le Mufe,fiC poi che il canto hebbero
moftrafo,fi dice che ad alcuni di quelli tanto quel canto piacque, che per
cantare non fi curauano di mangiare, ne di bere: £C cofi imprudentemente fi
lafciarono mancare la uita: delti quali nacque la fpetie delle cicale, le quali
hanno dalle Mufe quefta gratia,che non han bi fogno di nutrimento alcuno.ma
mentre che ui iooà uono, foci lO'lOOf IfìOt Sì nono, ftmprc cantando fi
mantengono fcnza mangiare, flC fenza bere, Dipoi finiti i lor gior^ ni, (e ne
uanno à trouar le U iife per dargli no^ titia,fl: informare quali fieno quegli
huoniini^ che qua giù amano più una Mufa,che un'altra» Per il che dimoftrando.
à^.Tcrficore quelli, che ^iu che in altro, ne i canti, flC nelle fefte femprc
fi ritruouano, gliela rendono propitia, OC fauo^ reuole, A Erato poi moftrano
tutti coloro, che ne i càfi amorofi Vitrouandofi, hanno il fuo ftu::
dio&ìmitato,6Chonorato.Et cofi fimilraentc fanno con le altre Mufe,flC gli
mettono in gratia coloro, che più che h altri lamano.Rapportano anchoraà
Calliope, OC à Vrania,che fippreflogli ua,la uita.flC i fitti di coh)ro,che
nella Filofofia fi efercitano;fiC honorano la loro fcientia.Lc qua li oltra
tutte le altre Mufe*hanno cura della cojs - gnitione del cielo, ficfi
efercitano in ragionai menti cofi diuini, come humani con uocifoa^ uiflime* Et
però per molte cagioni dobbiamo dir qualche cofa,ne in modo alcuno habbiamo nel
mezo dì a dormire. FED, Habbiamo à dire per certo. S.O C R. E adunque hormai
tempo di dichiarare quello, di che poco fa ordisi nammo di difputare,ciò è in
che modo un'huo inofcriua,ò parli bene, fiC non bene, £ £ Qocfto c propfo
quello, fopra il qnalf ha da eù: fere il noflro ragionamento. SOCR. Non pcnfi
turche fia neceffario^chc colui, che habx^ fcia da dire qualche cofa/e ne uorrà
ragionare a pieno, fiC bene, habbiapiena^flCuera cognitio:: ne^flCintelIigcntia
di quella coia, della quale pirlaf' FED. Io c Socrate, ho udito dire, che a
uno, che debbi diuentare Oratore, non e nes: ceflario il fapcre quali fieno
quelle cofe che ue^s ramentc fieno giufte, ma debba folamente quel le
conofcerc,che al giudicio del uolgo parran:: no cofi: ne manco debba fapere
quelle cofe^ che ueramente fono buone, « hcnefte,nia quel Ie,chc compaiono.
Perciò che dicono quefti tali, che per uia di quefte cofe non uere^fi può più
facilmente perfuadere.che ccn la uerità, SOCR. Mai òf fdromio,non fi hanno da
iprezare li detti de gli huomini faui,anzi fi deedil/gentemente considerare
quel, che fignifichi:?:iio. Et però à me non pare di iafciar pacare quel le
parole,che hai poco fa dette, FED. Tu parli bene, S o C R. Confideriamo adunque
quefta cola in quefte modo. FED. Cowtf SOCR. Cefi, Se io per cafo fi uolefFi
perfuasi dcre,che tu fuffiper uinceregli tuoi inimici.;quando tu haueffi un
buon cauallo,nc alcuno Ai noi f^ipein che coA Me quefto cauallo,m4'tb
fohtfìtnìt tkpm:chc kù ndtì fai gii come uh tJiaalfo fia fatto, ma che tu penfi,ch'C
egli fià ti*» ànimale domefì/co con gì Wcxhi gridi. FED. v
Sequeftofu/fe/ceftameinte farebbe cofa da rr* <ìere. SOCR, N òn ^t^u cfto
non bafta. Ma quando io con ogni sforzo nìi?ngegfìaffi di pet fuaderti (non
f^pendo nt tu^nfc io àltfC ) chè quello anÌTTidefurti^ un cauàlJo/a per quefto
iò liaue^S compóflÀ nna Òrationeìn lode dell'Afiis no, chiamando quello anrm^lè
càuàilo, afferà mando efTere animale pérfètdfTinìo, utile per ca fa, perle
facccnde/tSc prontiiTimo/fiiore aib battaglia, atto à p citar fome.'fiC à molte
altre cofe tommodiffiiT>o> FED. CJi^^efto fi /che farebì be fuòrd^*
pfopofitóalpònTjble. SOCR. Kon è egli meglio, che un'amico fia ficetó,fit
piaceuò!e,5Cche faccia ridere, che ftrano,ttdi malanimof F '£ O.Cofi par à me.
SOCR. Qnan do adunque un oratore ignorate del male,tt deì bene perfuade i una
città fimilmenre ignoranti non con una oratione compofta in lodxr d'uno Afino,
penfando che fia un Caudillo, ma ragion Dando. flC difputado del male, cr€dedo
che quel lo fia bcnetflC cofi tirando à Tua diiiotionc le opf n oni del uolgo,
metta in quella citta tìn'ufanzà dì far male in cambio dì b'efie,che ricolta
pcnfi tu che un fimile oratore facci della fua (cmtiìUi FED. Non troppo buona.
SOCR. Non confeffihoratu,chc noi habbiamo uitupcrato l'arte dell'orare un. poco
più fcioccamcnte.chc non fi conueniuai' Et fc per cafo ella ci haucfle fentifo,
flf bora fiuoltafTc à noi, «ci dicertr* Seteuoiimpazati Socrate, fiC Fedro mici
cari^ 10 n5 sforzo alcuno à orare, che prima non hab bia cognitione del uero:
ma fé gli huomini fa;? ranno à mio modo,airhora mi imparerano quan do la ueriti
haranno cpnofciufa.fiC io ui pofTo af fermare quefto con uerifà (il che è
certamente gran co(à)che anchor fenza l'aiuto mio, pur che uno fappi render
ragione delle cofe.flC le cono:? fca,harà in fe ogni modo l'arte del perfuadcre
5, Se coftei dicerte cofi,non harebbe ella ragione. FED. Io te'lconfertb^purche
molte ragion ni, che io ho intefo, faccino teftimonio,che il fa per folamente
fia arte; per che è mi pare hauer^ udito certe ragioni, che prouano^che l'arte
del dfre fenza il fapere dicendo d'eflèr l'arte, nò dice 11 uero: per cièche
altro non è, che un' ufo fen za arte. Et Lacone difre,che la uera arte del dire
fenza la uerità trouar non fi può, ne mai fi tro^s uerà. Qtjefte ragioni ò
Socrate fanno hor di bi? fogno, flC però adducendole moftrami un po^
coqucl,checoftoro dicano, flCin qual modot^ SOCR, Soccorrlnmi adunque, ft
ucngano -in mio faiiore tutti gli animali generofi. fiC pcrsx iiiadinoà Fedro,
che fc egli non attenderà alla Filofofia non faperà mai di cofa alcuna à
baftanza ragionare, flC Fedro mi rifponda ogniuolta, che io lo domanderò. FED.
Domandami adunque SOCR. Dimmi un poco,la Ret^ torica non diremo noi, che (la una
arte, che per mezo delle parole alletti gli animi de gli huos mini^ Et queflo
lo fa non folamcnte dauanti al li giudici, flC nelk altre publiche raunate di
huo mini.maanchoraquefta medefima arte difpu^.terà nelli priuati ragionamenti
Mi ciafcunacofa cofi d'importantia,comc non. Per ciò che nien^ te è più
honoreuoie,ò più degno il parlare con arte nelle materie grandi,che fia nelle
piccole* Hai tu mai udito dire quefto.^ FED. Non io certamente,anzi ho
intefo,che quefta arte fola^ mente (ì efercita nelli giudicii,flC nelle
Orationi al populo,ne ho mai udito, che ella fi di^lenda più in la. SOCR • Hai
tu mai intefo ragion tiare della grande arte del dire, che Neftore,fiC VlifTe
efercitauano, mentre che erano à Troia? Hai intefo quella di Palamede 1* FED.
Non io,fe gii tu nò uoleffe dire che Gorgia fuffe Nes ilore,£C Kimilmente che
Trafimaco^ Teodoro fttfléio \Wc. SOCR. forfè che io !o pos»rei dire. Ma Ufciamo
andate ccfloro.fiC rifpon» aiini à quefto, ISe i gindicii gliauuerfani^cb*
liàtaftcìoi «gUno r Non cercheranno feinprc dt cònfradire à tutto quello ^che
dice la parfc confrariac Puoi tu dire,che.faccino altro;' F FED. Quefto
ianno.ft non altro. SOCR. Non contendono, et djfputano fempre cjual fia il giù
ftoi,« qua! fu k) iingiiifto f FED. Cofi è, j^ SOCR. Colui.che faprà fare
quefta cofa con jirtc,i.ion potrà fare anchora che a quelli mede» fin^i pai»
uni cola ficflahora giufta.fthora in;s giufta,.^ fEI>. lo potrà fare per
certa» / SOCR.. Ijtfuwlmeute egli orerà in pu*» l>ljco,potrà fàre,cheaHi
fuoi cittadini le medes fitBCCQf? parranno Upra buone, <SC hora triftc;* FED.,
Cerfaaiente. SOCR. Et quefta nonèsnarauigliofo.perchc noi habbiamo rn*
tefo.ehe.i^aUiBede Eleaf€,eol fuo artificio del dire era fclito far fi che à
chi,!f)..udÀua.pareflero ie noe defw«.<pfe bora fimili.Sf bofa'diuerfe,ho ta
una c.o{a,iibU,ft hor» wp] te-, bora che ogni cq. fafufreiaiwobile.&hora
che i'ufliuerfa fcms: pre fteffe i,n moto, FED. l' ho intefo ans ^' io pei
certQ. SOCR, Adunque quefta jppteftUa, di confradiKiik fiofe d^tte innanzi^.
non folo è porta nélli giud/di, ft nelle pubfi^' che radunate, ma anchora^come
ti ho moflratoj fi truoua in ogni ragionamenfo,che fi fa: per ciò che dò che fi
dice tutto è un'arte, con la qui le ciafcuno potrà fingere, flc dare ad
intendere à ogni perfona, che tutte le cofe fieno fimih'^ac faperi trouare i
nìodi di moftrare quefta cofa,fl(intenderà come habbia a fare, chiare quefte.
fo:*. miglianze. FED. In che modouuoi tu,' che fi facci quefto.^ SOCR. In
quefto* Dimmi un poco,rngannanfi gii huomini in quelle cofe, che fono tra loró
molto differenti, ò in quelle. che fono poco? FED. Inquelle^ che poco fono
diffimili, SOCR, Bene ha( rifpofto. Hora fe tua poco i poco pafferaida un
fimile all' altro, più facilmente potrai inganni naregli auditori,che fe in un
tratto dfalterai FED. Chi dubita di queftof' SOCR. Adunquc bifogna.che
ogniuno,che uorrà ingannare un* altro, facci prima in modo, che no fia
ingannata egli. Et però farà necefrario,'che conofca beijiJ(fi ino le
fomigliaze flf le diffomigllanze delle cofe. FED, Quefto è neceffario, SOCR.
Potrà adunque uno che fia ignorate della uerftà di eia fcuna cofa dar giuditio
della fimilif udine ò gran de^ò piccola di quella cofa eh egli non cooofcc/
FED. Qnéftocimpofribile. SOCR. Et però c cofa chiara, che coloro, che hanno
qual^s che opinione fuor del naturale, ò credono il fal^ fó di qualunche 'cofa,
non per altra cagione fo^ no in quella fantafia, flCin quel falfo parere, che
per qualche finiilitudine,che gif ha ingan^ mti. FED. Cofi interuiene. SOCR.
Potrai tu dire adunque che alcuno, fé farà di quellocheuorriadifputare
ignorante, pofTa con con arte,flC aftutamente à poco à poco rimuoue^ re uno dal
uero,fiC fargli credere il falfo per uia di qualche firnilitudinej'ò crederai,
che quefto tale poffa fardi non cafcarc nell'errore, nel qua^? Ic'cerca gli
altri condurre FED. Certo che io noi crederò mai. SOCR. Et per quefta cagione
qùàlutìque perfona farà ignorante della uerità dolina cofa, et folo
dairopinione fi lafirie* rà guidare, coftui dimoftrerà di hauere un'arte di
dire fciocca.flC più da fare altrui ridere, che buona ad altro, FED. Cefi mi
pare certe. SOCR. V noi tu hora uedere, ft confiderare flC neiroratione di
Ljfia,che hai in mano,& nel feritire il mio ragionamento, douc fi parli
artifi^t. ciofamentc,a: doue fénza arte. FED. Que^i fto uorrei io più che altra
cofa. Per ciò che al prefcnU noi ragioniamo troppo feccamcnte.no potendo
pofendo dimoftrarc ercnopi chiari di quelle co* fc. che diciamo. SOCR. Si.ma
ionogho, che tu fappia.chc la maggior parte delle Orationi fon dette à
cafo.come è manifefto: le quaxs li ci moftrano chiaramente, che un' huomo.chc
appia bene.flc conofca la uerità delle cofe.men tre che egli con parole
fcherza, ec fenza punto penfarci.ragiona.conduce l'audifore à quello, che
uuole. Et io certamente Fedro, penfo che gliiddìi di quello luogo habbiano
hoggi cagio nato in me quefto effetto di perfuaderti.ft forfè potrei anchor
dire.che le cicale interpreti delle Mufe.le quali fopra di noi cantano,mi
habbias no fatto quefta gratia. per che in foma in me nó è arte alcuna di dire.
FED. Sia come tu uuoi. pur che tu mi moftri qucl.che mi hai promelfo. SOCR.
Leggi adunque il proemio dell' Os catione di Lifia. FED. In questo stato certamente
fi truouano le cofe mierflC quefto.come hai poco fa intefo da me, penfo che mi
babbi à gjouarc affai. Hcra io uoglio che fappia.chc io ftimo,a: giudico, fe
cofa alcuna io ti domanderò.doucrs la da te per quefta cagione impetrare: per
ciò che 10 nó fon prefo del tuo amore. Et che ciò fu iluero,tu fai che gli
amanti, come prima han*; 1)0 la !or libidine faflata/i pentono de i benefis
ci.che t'hanno mai fatti. SOCR. Non legge/ pili. Bifogna bora dire in che cofa
coftm erri.flC quel, che dica fenza artt. Nò ti par cofi:' FED. Certamente.
SOCR. Dimmi un poco, non è quefto chiaro à ciafcuno.che in molte cofe ne i
ragionamenti noftri tutti crediamo à un modo, fi(in molte altre non habbiamo il
medefimo ere derei? FED. Ben che mi paia intendere quel, che tu dici, però io
uorrei che lo diceffi più chia ro. SOCR. Quando unofa mentione del fer ro,ò
dell' argento, tutti fubito intendiamo una incdefima cofa. FED. Certo. SOCR.
Inter uiene egli cofi.quado fentiamo il nome del giù fto.ò del buono, nò crede
all' bora ciafcuno dis uerfamente? Et non pure non ci accordiamo con l'opinione
de gli altri.ma anchora fiamo in dubio della noflra. FED. Cofi ua. SOCR. tt
però in molte cofe acconfentiamo tutti à un inedefimo.flC in molte fiamo di
uarie opinioni. FED. Cofi è., SOCR. Doue potiamo noi più facilméte effere
ingannati. « in qual d,i que ftc cofe ha la Rettorica più forza:* FED. E cofa
chiara, che in. quelle. delle quali più dubis(iamo.piu ha forza l'arte del
dire. SOCR, Et per quefto fa di bifognoi colui, che uuolc ini. parare. jwirare,
R atrquiflare la Retorica, prima di uederc quefte cofe tutte ordinatamente, et feparare
Tuss na dair altra, et gli è neccflàrio ccnofcere di quaf forte fieno le cofe
tatte,intorno alle quali fi può. ragionare, ò uero della forte delle dubitò
pero delle certe:fiC fapere doue maggiormete il uolgo poffi elTere
ingannato,fiC doue nà, J^Jf. U. Ccf tamente Socrate che colui, che col penfiero
^ja^ piffe quefta cofa,che tu dici,harel)l>c una bella cognitione. SOCR.
Dipoi io penfo, che quc fto tale debbia fapere la natura diciafcunacofa, acciò
che dj quella quado gh' farà bifognOjpofFa render ragione: fiC uoglioche
ingegnofamente intenda di qual forte, fiC di che genere fia quella cofa,
intorno alla quale fi debba ragionare ò delle dùbie,Q delle certe. FED. Perche
noni SOCR. Diremo noi, che 1 amore fia poftq tra le cofe certe, ò tra le
dubiei' FED.Trale dùbiecertamente. SOC, Penfi tu ch'egli fi conceda.maliche tu
dica di lui quelle cofe, che poco, fa.hai dettecelo è eh egli fia noceuole all'
amato, flC ali amante Et dipoi ch'egli fia il maggior bene chefitruoui:'' FED,
Tu parli bene. SOC, (Ma dimmi un poco anchora quefta cofa, per cheÀdirti il
uerojo non mene ricordo troppo bene Ì>er effer ^ato io nel ragionamcto mioi
occupato a uinto da quella diuinifà,clic fu (af. Ho io nel principio della mia
difpufa difBnifo^chc cofa fia amore? FED. Si hai,flC beniflimo. SOCR quanto tu
dimoftri (dicendo che io fi bene rho diffinito ) che le Ninfe d' Acheloo.flC
Pan figliuolo di Mercurio, fono più ingegnofi al comporre Orationi, che no fu
Lifu,per ciò che quefti mi hanno fatto dire. Non ti pare egli, che iodica il
ueroi' Ma Lifiaanchora nel principio della sua orazione ci sforza ad intendere,
che la more (come egli vuole ) è un non fo che po fto fra le cofe dubbie, flC
incerte; flC cefi accomodando a quefta cofa tutto il feguente fuo ragionamento,
fini la fua Oratione • Vuoi tu, che un'altra uolta leggiamo il fuo principio.''
FED. Come tu uuoi,ben che quel, che tu cerchi, ih efTo non ci fia • SOCR. Leggi,
acciò che io loda. FED. I N Q^V E S T O flato certamente fi truouano le cofe
mie: ft quefto,come hai po:s co fa intefoda me^penfo che mi babbi à gioua^ re
affai. Hora io uoglio, che fappi,che io iiimo, ce giudico, fe cofa alcuna io ti
domanderò, do:s uerla da te per quefta cagione impetrarerper ciò che io non fon
prefo del tuo amore. Et che ciò fu il uero^tu fai che gì' amanti^come prima haa
DO la lor libidine fatiata, fì pentono de i bcnes: fìci, che ti hanno mai fatti.
SOCR. Egli c molto lontano, fecondo me, da quello, che noi cerchiamo r perciò
che egli pare, che fi sforza di ordinare il fuo ragionamento, non cominciando
dal principio, ma dal fine, con un certo modo à contrari0,ac fotto fopra» Et
che fu il ucro,uedi che comincia da quelle cofe,che l'amante rin^j fàccia al l'
amato, dipoi che T ancore è eftinto, "N 5 tifare egli.che 10 habbia detto
il uero FED. Senza dubio che quello, di che egli nel princirs pio ragiona,è.il
fine. SOCR. Che diremo noi delle altre cofer Non ti pare egli, che tutte le
parti di qiiefla Oratione fieno fparfe confufa:? mente Pcnfi tu che quello, ch^
egli nel fecon;? do luogo ha detto della fua Oratione, egli V hab bia congiunto
con la prima parte, conofcendo cheneceffariamentegli bifognaffefàrlor Et fi::
milmentc le altre cofe,che^egIi ha dette, credi tu, che le habbia con
ordinc,flC con modo difpo fte^ Per ciò chea me, che fono dbgp.i cofa igne
rante.pare che tutte le cofe, che da uno fcrittore fono dette, non debbano
cfler dette, flC ordinate fenza cagione. £ t però uedi, fe tu fapefli truo;?
uare qualche cagione nectffaria^per la quale noi potiamo.dirc,che egli fi fia
mcflo à ordinare,flC H ili djTporrc il fuo ragionamento nel moclo,chc hib biamo
ucdiifo. FED, Troppofareblfc ò So crafe,fe io cefi fcttilmente fapeffi dare
giudicio dellifcritti d'altrui SOCR. Io penfopu:^ rechebjTogneri,che al meno tu
dica,a:con5: fe/Tj quefio cbe tutta un'Orationc debbia ciictc come Ufi animale,
fiC debbia bauete il fuo corpo, i\ quale non fia fenza capone non gli manchi:^
no li piedi, ma che gli babb/a ciafcuna fua parJe conuemente,a: coirifpondente
al tutto. FED. Che uuoitu dire per qucfto?' SOCR. Cons: fiderà ti prego, fc
TOratione del tuo amico Ga fatta cofi,c) altrimcnte,truouerai che ella none
punto difterenfe da quello Epigramma Jl^ua^s le alcuni dicono,che fu fatto
(opra il fepolcro diMida Frigio. FED. Che Epigramma è ques fto,ftdicheforte/
SOCR, Odilo,egli di^ ccuacofi, Son fu' 1 fepolcro una Vergìn di Mida/ Fin
ch'andran T acque, et fien le piante ucrdi. Qui dando, ammonirò cialcun che
pafTj, Che nel mefto fepolcro Mida giace. tìora 10 penfo, che per te fteffo
beniffimo co nofca, che non importa qua! parte di quello •ponghi prima^flC qual
dopo. FED. A ques: fto modo ò Socrate^ tu bufimi, fi£ mordi la no^ ftra
Oràtiòìiè SOCR. Lafciamo adunque àhdare.acciòche tu non (i corrucci meco, ben
che in efTa fi potrebberotroirarcmolti efempi, li qaali confidcrati^ci uerrebbe
quefta utilità, che non imitafiTimofinrili modìdi dire. Ma pafe fiamo alle
Orationi di certi altri, le quali certa:^ irierife hanno in fe qualche ccfa
degna d' cfTerc offeruata da coloro, che di quefta arte fono fturs dioG. FED.
Che cofa è quella, che in que:s fte Orafionifj pnoofTeruarer SOCR. Queftc'
Oratfoni erano tra loro contrarie, per c òchc una irfFernnaua,cbe un giouane
aniato fi douefle ac:? coftare alTamante: <3C un'altra à uno, che non
amafTe. FED. Beniflimo certamefc. SOCR: Io penraua, chc tu rifpondeflj con più
uerità,flC che tu diceffi non bcniflimo^ma pazamente,flC furiofamenfe
certifTimo/non di meno quel, che 10 uoglio dire flC che io cercaua,che tu diccffi
nò può efTerc alfritnenti^come fi ixìoftrerò. Nò hab biamo noi detto che
lanDore abro non è, che un certo furerei' Ì FED.Cofl hàbbiam detto. Soc; Horaio
pogo due forti di furore J'una delle qua 11 èda mancamèto humano cagionata, lai
tra prò cede da una diuina alienatone dr menfe^per la quale è l'huomo rapifoflC
leuato d^lla fu a ordina Ila uita. FED. Cofi è per certo. Soc. le parti adunque
di qucfto furor diuino fon quattro, aU le quali anchora quattro iddii fono
propoftjrpcr dò che noi diciamo, che Apollo fia di quella inrs fpiratione
cagione, che à quelli Sacerdoti uiene, che poi indouinano quel, che debbe
efTere nel tempo auuenire, Dionifio della cognitione di quelli mifteri,che fono
più occulti, flC delle co^ fe, che s appartengono al culto diuino. Le Mu fc
della Poefia, Venere, et Amore dell'amorofo furore affai migliore di tutti gli
altri, £C io non fo in che modo,metre che dianzi uolfi con imagi^ fìijflC
fimilitudini moftrar l'effetto d' amore /orfc può cffcre che io habbia detto
qualche uerità,flC forfè anchora ho trapaffati li termini del uero. Et
perqueflo mefcolando cofi quelle cofe,chc hora ho dette, quel mio ragionamento,
il quale non fu al tutto da efler biafimato,tu fai, ch'io or dinai,flC compofi
quella mia fabulofa diceria, flC quafi fcherzando, fiC per giuoco, modeflamentc
lodai il tuo, ce mio Signore Amore, protettore de giouani gentil* et belli,
come fei tu, FED. Qiiefle cofc l'odo molto uolentieri. SOCR. Et però bora da
quella mia Oratione potremmo cauare, fiCfapereinchemodo la noftra difputa
uenifTe dal biafimo,onde la cominciamo, alle iodi* F E Etcomeuuoitu fare
queflof SÒCR, A mccertamchff pare, che fin qui habbiamo parlato per burla. Ma
fe farà alcuno, che artificiofamente conofca la forza delle due forti, flc
delli due modi di difpufare, nelle quali bora fiamo à cafo incorfi,coftui certo
harà fatto un'opera degna. et bella. FED. Che forti, fiC che modi di dire fono
qriefl:i,che tu dkii SOC La prima è qucfta. Che colui, che uuol
dirputare,facendofi nella mVnte un'idea di tutte le cofe,che uuol dire: et hauendo
à quel [a folamente l'occhio, metta infieme tutte le cose,che fono fparfe fif
diuife, acciò che uedendole tutte raccolte, dando poi la uera dìffinitione di
ciafcuna.quello facci chiaro,& manifeftp,intor:3 no al quale fi difputerà:
come al prefente hab:* biamo fatto noi, che habbiamo diffinito che cofa fia
amore, flC ò bene, ò male, che Thabbiamo fatto, hai pure hauuto la noftra
difputa,per quefta cagione una chiareza, flC una concordanza in tutte le
cofe,che dipoi fi fono dette. FED. Le altre forti di direnò modi, quali iiuoi
tu che Heno ò Socrate. SOCR. L altro modo é quc fto. Che come egli ha tutte le
cofe raunatein uno, di nuouo parte per parte, fecondo la natu^ ra loro, le
diuida,flC parta, flf non fpezi,ògua{|ti membro alcuno del fuo ragionamento,
come farhora li cuocKi mài pratichi fogliono farc,rna faccia quel medefimo.che
habbiamo fatto noi ne i ragionamenti pafTati; nelli quali habbiamo tntefo
quella mutati6e,ò alienatione della mtrte generalmente, ac con parola commane,
anchora che fia buona,& cattiua, Ma fi come in un cot^ po quelle membra,
che fono doppie, si chiama? nocol medefimo nome. ma uno é detto dcftro;
raltrofiniftro",ccfi qiicfta forma della aliena:: tione deliamente
noftra,la quale è dall'amor cagionata, è per natura fua in noi una foIa;flC
cefi babbiamo detto nel ragionamento noftro. Et pero quel pripio parlare,che
facemmo, diuij dendola parte finiftra di quella alienatione, ò mouimento della
mente, fiC di nuouo poi pars: fèndola,non fi reftò,fin che egli ritruouò unais
mor finiflro.il quale conofciuto come cofa non conueneuolfe, uìtuperò. L'altro
ragionamene: fo/he dipoi habbiamo fatto, ci con du (Te à co:s nofcere la deftra
parte di qucfto furore, doue un amor ritruouando inquanto al nome fimile al
fJrimo, inquanto à gh effetti diuinojo lodò, et ingrandì con parole, come
cagione di gran^s diffimi noftri beni. FED. Tu dici il uero. Si SÒCR. Io
certamente o Fedro fon molfo. imito di quefle dmifioni, fiC diquefti
raccogli:?* tendere quel, che io ucgl/o più facilmente; Ò[ meglio ne polfa
ragionare. Et fé mai io ueggo alcuno, che fo penfi^ che egh fia atto a confide
fare bene prima quella idea unfueifale,chc io fi ho detto, pei particolarmente
la moltrfudinc delle cofe fecondo la Datura tero di coftai io feguito le.
pedate, ftgli uo dietm mn altrias menti, che fi fuffe diuino: et colcrO;che tal
eoa: fa fono atti à fare, io gli cKiiimo Dialettici, fc io li chiamoo bene,o
male. Iddio lo fa lui.. Ho: ra dimmi tu di grafia in che modo secondo il parer
tuo, ò di Lifia, tu chiamavcfti coftoro. pare à te quefta q^iella'^arte del
dire, che ufb Trafi^ maco,'flC molti altri faui, li quali per il dir lo? ìfo
furono fenzadubio fiut,coiiìeho detto, flC anchora fecero gli altris"
Talmente che q^ielli^ che da loro impaiono, uorrehbero o'fterirgli do:? )i, come
fi fuol fare à grvndifTimi Re FED. t), Certamente che cometudici.qucUi tali
huo* mini fonodiqncllo honore meriteucli, chealli Re darfi uediamo,ma non per
qaeflo fon dotti in quelle cofe, delle quali hoxa tu domandi. Ma à me pare, che
qnefto fìuouo modo di ragiò nare,tt di difputare^che hai truccato, il quale tu
chiami Dialettica Jo chiami cofi r^ioneuob mcntc.manon per qucdo fappiamo
anchora;' ihccofafialaRettorica.ma fi bene la Dialets fica. SOCR. Come dici tu
quefto !" Penfi tu che cofa alcuna bella,ò ben detta pofli efTerc
giudicata, che quefti miei ordini non feguitf, quantunque con arte fi impari i
Hora per ciò che queftofolononbafta non uoglio che noi lafciamo à dietro
quello.che oltra ciò nella Ret torica faccia di bifogno. FED. Molte cofe ò Socrate
fonoftate lafciafe fcritte ne i libri, che dell'arte del dire fono flati
compofti. SOCR. Hai detto beniflimo, Pcnfo aduque.che il proc mio fi debbi dire
la prima parte della Oratione^ Non domandi tu quefte fimili cofe gli orna*
menti iieri di quefta arte. FED. Senza diibs tio. SOCR. Seguita nel fecondo
luogo la fiarrationé.flC infieme il produrre de i teftimos ni, nel terzo
ucngono le conietture.flC nel quar to gli argomenti, cauati da cofe uerifimili.
Et pa re à mecche un gran compofitor d'Orationi.chc fu da Bizantio,ci mettelTe
anchora le pruoue,CC le ragioni, che faceuanoper colui, chcoraua. FED; Tu uuoi
dire Teodoro, che fu fi eccels lente, è ucro;" SOCR. Si certamente. Coftui
anchora trojiò nella accufatione,fiC nella difens fione^i argomèti raddoppiati,
£t per che non faciamo fìoi ricordanza di Euano Parìo? il qùàfc prima à
tuffigli altri frouò le dichiarafioni: flC cifra di quefto fu inucntorc delle
Oratiohi.chc in lode d'altrui fi fanno, fiC non mancano molti che dicano, che
egli per meglio à memoria ntc^ nerlc,tramezaua le fuc Orationi con certe uifua
pcrationi fatte in uerfi. Et di ciò non è da mara^ uigliarfi^per che egli è un
huomo fauio.Lafcia^ mo pur andare Tifia,flC Gorgia, li quali propone gonoil
uerifiHiile al aero, flc con la forza delle Orationi fanno le cofe grandi parer
piccole, flC le piccole grandi, fimilmcnte che le cofe uec:s chic moftrino effcr
nuoue,& le nuouc uecchie, hanno trouato una breuità di parlare moza, ft poi
per il contrario una infinita lunghcza di parole. Le quali cofe gii fentendomi
raccontare Prodico,fe ne rife,a moftromi.chc egli folo ha: ucua trouafo, quali
parole à quella arte (àceffe; ro di bisogno; et mi difTe^chc ella 'non haucua
di bifogno di molte, ne di pochc^ma fi gouer^ naua in quel mezo. FED.
Sauiamentc difTcProdico. SO CR. Non fa di bifogno ricor^s dare Hippia,per che
io penfo,chc con lui s'accordi anchora il noftro hoftc Helienfe. F E Non
bifogna per certo. SOCR, Che dirc^ mo noi della confonante concordanza.che ha
rif rollato Toh? il q irate In qu arte introcìufjs le repllcationi delle parole
Je fent?tie,le com paratìoni Je fi m i li fri di ni, et Tufo de i nomi con.
elegantia in quel n5odo,che egli da Lidmnionc l'apprefTe. FED. Dimmi un poco
Socrate^ li (critti di Protcìgora non erano quafi fimilià Èjuefti.^ SOCR.
f^edro mio, il parlar di Pros rtagora è buono, fif propio,££ nel luo ftilc fi
truo uaJiomoltecofcnurauigliofe.tTia nel niuouerc à pietà, fiC a
milericordia^ccl ricorJfe41i iiecchie za^ò la pouerfà lorafore di Calccdonia fù
cccel:r Jente, et aiicliora ikH' incitare,fl£ mitigare l' ira ^cra
potentifiìnio^fii non altrimenti placaua una.ifato^che fe egli liane/Te
adoperato li incanti: fa anchcra fopia tutti gl'altri nel difendeifri, fif pur
garfi dalle calumnie dateli, et nel darle ad aU tri ogni uolta,che gli
bilognaua. Ip forno al fi:? ne delloratione pare a mecche tutti s accordino
infieme^ma-ino^ti chiamano quello fìne, Repetitione, 5(molti Ju altro modo. F FED.
Voi tU che li fine fu il ridurre nella memoria alli audi:^ toribrtuemente tutte
k cofe^che difopra fono fiate detter SOCR. Q^ieflo uoglio che fia^, Ci fe tu
inforno à ciò fapeifi qualche altra ccfa; dillà,cheiouolentieri ti. afcolfo»
FED. Io certamente non fo fenoa cofe di poco moipens! to,ac non degne d'efTer
rfcordafe. SOCR. le cofe di poca importanza lafciamole andare;' flC pm predo
attendiamo à dichiarare che forza habbia qiiefta arte quando quefta arte fi pot
ficonofccre. F E Grande certamente, fes; condo me, è.la forza della oratoria
apprefTo alla moltitudine, flf al uolgo, SOCR. Grande per certo. Ma confiderà
un poco di gratia,co^ me fo io, come queftì Oratori, uanno con tutu quefta
loroarte.non di meno male in ordine, flC mefchinamente, FED. Dimmi un poco^
quefta cofacome uaf' SOCR. Stammià udì:: te, Se fuffe unoxhe trouando il tuo
amico Lifi:^ inaco,gli djccfli in quefto modo (o uero a fuo padre Acumeno ) Io
ui dico, che io fo beniffi;: 8ìo,flC conofco quelle cofe, che accoftate à nn
corposo uero da un corpo adoperate ufate,fa rò chea mio fenno quel corpo fi
rifcalderà^flC raffredderà.oltra di quefto io fo prouocare il uo mito,fo fare
reuacuatione,fo ordinare lepurga^. tioni,& intedo molte altre cofe funili:
per il che io fo profeffione di Medico, flC dico di poter fare diuetare Medico
ciafcuno che uprrà. Se uno gli parlalTi cofi,che penfi tu che gli rifpondeffero
Ped.Che uuoi tu ch'io dica altro, fenó ch'eglino i'^auefferoà domadareje anco
egli fa à quali per fonc.in che fempi.ft fin quanto queftc tali co* fe.chc egli
dice fapere.fic conofcere/i hauefles ro à operare, fif ordinare. SOCR. Seaduns
quc colui gli rifpondeflé.che egli di qucfto nó (àpe/Tj render ragione. ma che
faccfTc di bifos gno.che colui che hauelTe imparato da lui quel le cofe che egli
fa/apeffe per fe fteflo.fiC potcfle fare il rcfto.fiC conofcefle i tempi, £t le
perfonc, uerfo di chi.fic quando fi haucfTerà à mandare à effetto. Se quefto
tale gli dicelTe cofi.che penfi tu.che eglino gli rifpondelTero.'FED. Cers
tamente che altro non potrebbono dire.fenon che quefto (al'huomo fiifTe fuor di
fe, con ciò fia.che hauendo folamente da qualche libro di Medicina udito una
pocp cofa.ft elfendogli nel leggere uenutoalle mani qualche modo di mes dicare,
et non di meno non intendendo di quel la arte cofa alcuna, penfi per quefto
effere diuen tato Medico. SOCR. Ma che diretti tu.fe fulfe uno, che.andaffe à
dite a Sofocle, flf à Èus ripide.che egli fa i -una piccola cofa fare un lungo
parlamento, ec per il contrario fopra una grande parlar breuemeute.'' Oltra di
quefto che ogni yolta.ehe uuole.fa commouerc gli audis tori à mifericordia; flC
fimilmentc all'ira.che è fua centuria, fa far nafcere horrore ec spauento/ fa
minacciarci fa fare fimili altre còfc, fiCchc fieli' infegnarle egli penia
faper moftrare Tartc, ce la Poefia Tragica. FED. Io penso che costoro similmcnte
si riderebbero di lui, uedendo che egli teneffe per fernìO,che la Tragedia
folas niente fi conteneffe nel far quelle cofc^chc egli dice fapere.CC non
peniaffe^chc la uera Tragedia uuole tutte quefte cofe bene infieme compo fte,a
ordinate, fic uuole hauere tutte le parti tra loro corrifpondenti.flC
conuenicnti alla materia, CCalfubiettodellacofa* SOCR. Etnopea fo io, che per
quefto eglino lo riprendeffero uiU lanefcamentc, ma farebbero come un Mufico,
che fi abbatteffe in un'huomo,che fi pcnfafTe d'efTer Mufico folo per fapere in
che modo le corde fi faccino fonare, hor bafre,hor alte.Que^ fto Mufico, che fi
deffe in coftui,non gli direb^: be con un mal uolto, O pouero \ te, tu impazi (iome
ogn' altro forfè farebbe ) ma come Mu^i fico. h quali fono tutti piaceuoli.cofi
più amo$ reuolmente lo ammonirebbe. O huomo da be^ ne,colui che debba effer
Mufico, bifogna che fappia quelle cofe, che fo io: £C colui, che fa deU la
Mufica quello^che fai tu/i può dire, che non ne fappia cofa alcuna: per ciò che
tu folamente conofci quelle cofe, che dauanti all'armonìa fof^ no nfceffaric^ma
della armonia ne fefignoranfc; FED, Beniflimo, S O C R. Similmcnfe potrebbe
Sofocle dire à colui, che gli fi facciTe incontro, come io ti ho detto, ciò è,
che egli più predo fapcfTe quelle cofe,che uanno innanzi alla Tragedia, che
eghconofceffe, che cofa fuflc Tragedia. Et fimilmente Acunieno Medico po trebbe
dire à quello altro, che egli fapcffe queU le cofe,che uanno innanzi alia
Medicina, ma che la Medicina non la intendere • FED Cofièper certo. SOCR, Ma fe
lo clegans: tifljmo Adraflo,flC Pericle udifTero quelle parole fcelte,
ftartificiofe, quelli parlari mozi, quelle fimilitudini,fi£ quelle altre
cofe,chepocol'arac contauamo, fiC narrandole giudicauamo effer da confiderare^
penfiamo noi, che eglino (come forfè faremo noi ) fi adiraffero con coloro, che
tal cofc infegnando,penfafrero infegnare l'arte ora^ toria,òpure uogliamo dire,
che eglino, come più faui di noi, in quefto modo dicendo ci ris: prendefferoi'O
Socrate, Fedro Je fonoalcu:? tti.che elTendo ignoranti dell' arte della dialettica
non pofrono,ne fanno diffinireche cofafia rettorica, con coftoro non dobbiamo
adirarci, ma più tofto hauergh compaflione, ££ perdos: nargli Et fono aUuni^chc
ftandofi in quella lo ro fgnorantia, mentre ch'eglino folamenfepof^s^^ggono, fiCfanno
gli amniacftramcnfi, che quel lecofe inlegnano, che uanno innanzi all'arte
della Rettorica,fi uantano,fiC gloriano di hauer troua(a,ec di faper
perfettanìente la Rettorica! ce infegnando folamente quelle cofe che fanno, pensano,tt
dicono di infegnare l'arte dell'orai fc perfettamente. Ma poi il modo di
teffeie in^j Cerne, 6f commettere tutte quelle cofe in un cor po,in tal modo,
che à chi rafcoIta,po(rano per:? fuadere, dicono che fa di bifogno,che lo
fcho;s lare fe lo guadagni, fiC per fe ftelTo Timpari^cois me le à ciò non fi
facelle di bifogno il maeftro, FED. Tale certamente, fecondo me, èquellaarte,
che coftoro in cambio di Rettorica infegna no,a: fcriuono; et mi pare, che tu
habbia detto il uero. Ma dirami un poco in che modo,flC per che uia potremmo
noi acquiftare l'arte d'uno Oratore.flCd'unperfuaforeuero SOCR. Egh è cofa
conueniente Fedro, et forfè neceffa^ ria, che fi come in ogni altra cofa,cori
in quefta un'huomochclauuole acquifl:are, fia in ogni parte perfetto. Per ciò
che fe la natura ti incih nera à effere oratore, fc poi ci aggiugnerai la dot
trina,a la efercitatione,diuenterai un'oratore ec celiente, Ma fe una di quelle
due cofe,prarte,ò la natura tì nianclicri.noii farai perfetto. Hora quanto
quefta arte fia grande, non fi puojecod do me, per quella uia fapere,chc
Gorgia.A Tra:s fimaco feguifarono.ma per altra. FED. Per qualef' SOCR, Non
fenza cagione Pericle è flato giudicato il più perfetto Oratore,che mai fufTe FED.
Perches SOCR. Tutte le arti granxij hanno di bifogno della efercitatione nella
Dialettica, et della contemplatione delle cofe celefti,fiC della cognitione
della natura del le cofe: per ciò che quella alfeza^che nella men te noftra fi
uede,flC quella efficace forza di po: tereciafcunaimprefa cominciata condurre à
ne, pare che nafchi in noi per Io ftimolo^chc quefte cofe baffe^fiC terrene ci
danno, il che Pe^^ ride congiunfe con la fottiglieza del fuo inge^ gno: per ciò
che fidatofi nella domefticheza,CC amicitia di AnafCigora ritrouafore di fimili
cofe, n de in tutto alla contemplatione,tt cofi com^ prefe^^ imparò la natura
della mente noflra^flC anchora del mancamento di quella, il quale •Anaffagora
copiofamente dichiarò,flC di quiui ca uò tutto quello, che à lui parue,che fuffe
al prp porito,flC utile per l'arte della Rettorica. FED. Come andò queftacofa SOCR.
'Tu fai, <he il modo di medicafe^flC di orare è quafi il medefimo»
Hiedefimo. FED. Ìnchcmodo SÒCR. In ambe due ijfticftc arti fcifogha diuidcrc la
na tura, ma in una fi parte la naturi del corpo, nek l'altra quella della
anima. Pur che non fole per uia di efercitio^flC di far buona, e moderata ui^
fa.maanchora con Tarte habbia un Medico à dare à un corpo et medicine, ÓCcibi,
di forte che Io faccia fano, ac rcbufto diuentare.Et fimik niente, pur che fi
habbia à metteré in una anà ma la urrtii.flf la perfùafione per ragioni, flC
per giufte,fiC legittime ordinatiorri. FED. Cofi ò Socrate fi dee credere che
fia. SOCR. Uo^ ra penfi tn,chefi pòfll conofcere la natura di djuefta stnitn^t
bafteuolmente, fenza là cognitiòij ne di tutto quefto noftro compofto.il quald
chiamiamo huomor FED. Se fi debba crcs^ dcre a Hippocratc fucceffore di
AfcIepo,non fo lamenfe diremo che non fi pofla conofcere la n* turi! della
a'tìima fenza quella cognittónc,che ta dici,maalnchorache non fi poffa fapcre
queib del corpo. SOCR. Dottamente parlò Hip:^ pocrate. Hòra è bifògria^
eòrifiderare,fe quefta cofa,ché io t'ho detto, fa al propofito della no^
ftradifputa. FED. Faccificome tu uuoi. SOCR. Attendi adunque qitello,che non
iblo Hipjpocrate^i^ia anchora la uera ragione di^cario di qucftainucftfgationc
della na(uta,cli€ IO t'ho detto. Cofi adunque la natura di ciafcurs nacofa fi
ha da confiderare* Principalmentehabbiamo da uederc.fe quella cora,,della quale
noi uorremmo fapere 1 attera: ad altri ifegnarla, èYcn)plice,flC d'una loia
natura, ò pure di molte forti. Dipoi cafo che fia fempUce,fi ha da confi
derare, che natura fia la Tua neiradoperarri, ac nel fare, conìe anchora
nell'effere adcperata, fiC nel patire.Mafequefta cola harà più capi,diui
dendoh* prima tutti;& raccontandoh ordinata^ mente, in ciafcuno habbiamo à
cercare particors larmcnte quella fua natura, et intorno al farc,flC intorno al
patire. FED. Cofi pare, che s'hab bia da fare. SOCR. Et fenza far quefto fasi
fi il procedere di colui, come il caminó d' un cieco. Ma colui, che qualche
cofa tratta con ar^, non fi harà adafTomigliare à un decorò à un Tordo, anzi
bifognerà dire, che qualunque farà, che con arte parli à un altro, prima
cercherà chia ramente moftrarc la natura di colui, al quale parlerà, flC quefto
altro no è che lanima. FED. Senza dubbio. SOCR. Dimmi un poco, Vno che parli ccaarte ad un' altro, non fi
sforss za egli fopra ogni altra cofa perfuadergli tutto ^ fluello,che auolei. FED.
Certamente, SOCR. Et péro c cola chiara.che Trafimaco.Cf qualuns que altro
attende à infegnare la Reftorica, prima donerà con (omnia dilic;entia
defcriuere. ìBC di^ chiarare fe l'anima è per natura Tua una cofi fo^
la^ficfimile tutta afe fl:e(Ta,òuero fe à fimilitu^ dine del corpo, fia di pia
forti. Per ciò che qtian do 10 dico, che fi debba moftrare la natura della
anima, non uogiio intendere altro, che quefto# FED. Cofi douerà fare
certamente. SOCR. Patto che farà quello, bifognerà che egli dimo^: ftri che
potentia fia la fua,fiCuerfo che cofc la polTi ufare,C(à che paffioni ella fia
fottopofta. FED. Certamente. SOCR. Dipoi ha:^ ucndo già diftinte,CC diuife
tutte le forti degli affetti dell'animala de li difcorfi, et ragionai menti
fuoi,gli farà di bifogno raccontare tutte le cagioni, per le quali tali
affretti in lei nafcono, accommodando fempre le cagioni a gli affetti
fuoi,& infegnando le qualità dell'anima, Cf che difcorfi fiano I
fuoi,fiCper che cagione qucfta ftia fcmprcin confideratione,flC in nioto,flC
quel la mal à contemplatione alcuna ne fi leui,flC fem pre fi ftia ferma. FED. Quefta
farebbe una cofa ingegnofiHima. SOC. Et perciò ti dico, che no fi potrìmai
dire, che uno fratti, ò ragioni bene di cofa alcuna, non pur di quefta, di che
t'ho ragio mtòjc alfrimcti procccJèrà.Ma li fcritfbri Ai qut fta arte de i
noftri tepidi quali tu anchora puoi haucre uditi, fono aftuti.flC conofccndo
beniffi^: mo quefta natura deiranima,chc io dico, non di meno ce la afcondono, flC
non ce la uoglionomoftrare. Et io ti dico, che fé eglino non parler
ranno^flCnon fcriueranno feguitando il modo mio, non dirò maliche con arte, ò
bene fcriua no. FED. Qual modo dici tu. SOCR.
Io non ti potrei cofi facilmente dire le parole, che ci uanno,ma in che modo ci
bifognaffe feri ucre,fe l'hauefTemo à fare,te'l dichiareiò in quel miglior
modo, che mi farà poffibile. FED. Dillódì grafia, SOCR. Poi che noi hab:s biamo
ueduto^che la fcientia del dire altro non è, che un tirare à fegP animi, flC un
dikttarfi,bi^ fogna che colui, che debba effere Oratore, cono^j (ca quante
parti habbia quefto animo. Hora quc fte fono affai, flC di molte, flC uarie
qualità, fiC forti,per le quali gli huomini uengono anch' efli diucrfi.ft di
molte qualità. Confiderate quefte cofCiCjpuiamo dire, che fieno tante forti di
Oras: ' tioni,fl(di parlari, di quante forti fono le qua:: liti delle anime noftre.Etperò quelli animi,
che peir le qualità loro fono à qualche lor parti:? «olar dcfiderio
difpofti/fàcilmente con quellimodi di dire fi perfuadono, che alla natura loro
fieno fimili: doue che fe tu in un modo parler rai,a; 1 anime di chi ti ode,
fia altrimenti difpo:? fto,non lo perfuaderai mai. Et però à colui, che harà
bene quefte cofc confiderato,poi che hariueduto,flf conofciuto la natura d'uno,
flC le ope:: re,fif le attioni comprefe farà di bisogno potere in un fubito nel
Tuo ragionamento a{regnare,flC dimoftrare ijuefte Tue attieni, flc dimeftrare
di conofcerle: ft fe altrimenti farà, potrà dire di no Tapere altro che quelle
core,che già dalli maeftri gli furono infegnafe. Ma colui, che può con uc rità
dire,flCconofcecon qual forte di parole fi può ciafcuno huomo perruadere, flC
ingegnofamente auuertifce, che colui, che gli è dauanti,c di quello ingegno,
flc di quella natura, della qua le egli ha dimoftrato,flC fapendo fimilmentc,
che un tale huomo ha bifogno di parole tali^ quale egli è ^per uolerlo condurre
à far quelle co fe,alle quali egli è dalla fua natura inchnato^co^ ftui dico,
che cefi farà ammae (Irato, all' hora po trà u erame n te affermare di
poffedere qneftaarte del dire. Quando aggiugneràà quefte cofe,che
iotihodettedifopra,ilfapere quando fi habs bia à tacere, ce quando à parlare,
quando fi habsj bia à effer breue nel direna quando non^Oltca di qucfto quando
conofccrà, quando fi haràda -uCire una Commiseratione, e qciando una uehe
mcntia di parlare più afpra, quando s'habbia da fare una Amplificaticnc,flC
qtiando in fomma fa, prà in quefto fimil modo uiarc tutte le altre par ti della
Oratione,che fono dalli maeftn (late in:5 degnate: flf prima che tal cofa non
fappia^non potrà in modo alcuno e(Ter detto Oratore. flC co^ lui^al quale una
di quelle cofe.qual fi fia^mans; cheràònel dire,ò nello rcriucrè.òhello infe:?
gnare,flC non di meno affermerà parlare con ar:? tc.airiioraquel tale, che
tenia eller perfuafo fi partirà da lui, fi potrà dire uincitore. Ma forfè qualcuno
di queftì Sciittoridi Rcttorica ci potrebbe direnò Socrate, et Fedro. peniate
uoi che l'arte del dire fi habbiaa imparare in quefto mo do.flC non in altroi'
FED. Socrate à me pare impoffibiìe/he fi pcffi intendere altiimcnti, quantunque
quefta dimodri eflere una opera, et una fatica gianiffima, SOCR. Tu dici il
acro, per ciò che ella è, come tu dici.dilfi:: Cile. bifogna parlando, et ri£arlando
di quefta. cala più uolte,ceicare,tt confiderare fe forfè po teffjmo ntrouare
una uia,che più facilmente, fl£ in più breue tempo iui ci pofc/Ie menare, acciò
che noi noli ^iidiaaio inconfideratamente er;i rando ' ranJo per ufa lunga, d:
difficile, pofendo noi ca minare per una piana, et breue: per il che fé a
qucfta cofa tu mi pcteffi dare qualche aiuto coiji quelle cofe^che hai ò da
Iifia,ò da altri imparai te,uedi di ricordartene, e dichiaramele» F ED. Potrei
forre, per prnnare k mi riufcifle/arquci; che tu dici, ma non in queflo tempo.
SOCR. Vuoi adunque,che io ti racconti un ragionai irento^che io gii non fo
quando, udì intorno a queftacofaf FÉD. Di
gratia. SOCR. E fi dice.che egh ègiufto iddio quello, che uno ha neir animo,
come coloro, che pagano quelli danari alla fiatuii di Lupo, come (ai, FED. Cefi
uoglio che ^cci, SOCR. Dicono ^diin qne coftoro,clie non fa di bilbgno tanfo
con pa role inalzare (e cofe,che un dice, ne con lunga Oratione ingrandirle,
come fare fi fuole: perciò che uogliono quefti tali (come habbiamo det^s to nel
pnijcipio del ncftfo ragionamento che à uno,che habbia da eHere Oratori, non
faccia di bifogno ccncfcere la uerifà delle ccfe giufte, et buone A dicendo
quefto, intendono cofi/dcl le cofe,come de gli hucmini òper naturalo pcf ufo
giudi. Et allegganoquefla ragione à prora uare che non bifognjfapere,che cofa
Ca il gitH &o: per che ueJii gmcUcu h Oiatori nò fogliono hauer cura
dimoftrarc la uerità,ma pia prefto at fendono à pcrfuaderc l'opinioni Io. C£
pero dico. Ilo, che è cofa uerifimile à credere che ia perfuac iìone fola fia
quella, alla quale debba indrizar la mete colui, che con arte uorrà faper dire.
Et che» fii il ucro, dicono cofloro che nefTuna cofa fi ere àttì mai che fia
(lata fatta, fé prima non farà mo ftrato effer cofa probabile fiC
aerifimile,che pcfTì <ffercaccaduta. Ma pure uogliono coftoro,chc -jpiu
tofto fi habbino à addurre le cofe uerifimili neiraccufare.che nel difendere:
flC cofi affermano, che un' Oratore fa poco conto della uerità, et che folo
feguita il uerifimile^flC uogliono che fe quello loro Oratore feruerà in tutte
le fue Ora tioni quefto ordine di moftrare il uerifimile, fi pofli dire, che
egli moftri di faperc l' arte oratoria beniflimo. FED. Socrate tu hai raccon^
fato quelle cofe, che fogliono dire coloro, che fanno profeffione di infegnare
la Rettorica.Et io mi ricordo.che nel ragionamento nostro poco fa toccammo un
poco di quella cosa e quel, che haidetto, foche debba parere cofa troppo grande
à coloro, che in quella arte fi efercitano. Ma io ti fo dire, che tu hai dato
una buona ba^ donata à Tifia. SOCR. Poi che tu mi hai ticordatoTifia^uorrei che
egli mi dice/Te, fe e pcnfa.chcii probabile, flC il ucrifimilc fia alfro;^ che
quello, che pare al uolgo. FED, Che uuoi fu che riaaltrof*. SOCR. Trono olxra
di quefto, fecondo me, Tifia qucfta altra cofabeU la,& degna di lui, et la
fcrifle anchora. Et que:* fto è, che fé per cafo un'huomo debole, ma au^
dace.che hauc/Te battuto, flC fpogiiatouD'huoi^ mo forte, flC timido^fafTe
menato in giudicio,, uiiole TiTia che nefTuno dicoftoro habbia à con fefTare il
uero,ma uuole che il timido dica.chc egli non è (lato battuto folamente
dall'audace, et 1 audace l'ha à negare, moftrare d effer ft^ (0 folo,flC
pigliare quefto argomento. Come uo^ leteuoi,chcio,chefon debole, habbia
aflalita coftni,che è gagliardo. Ma quel timido no coraj fefTerà per quefto la
fua timidità, ma penfando, ritruouando qualche falfità,cercherà di accu^ fare
Tanuerfario, Et cofi fimilmcntc in molte altre cofe accafcono fimili cafi,
nclli quali(dicc^ ua Tifia ) bisogna haucrc quella arte. Non ti p;i re egli
cofi FedroJ' FED, Cosi certo. SOCR. quanto aftutamente dimoftra
TifiadihauejCieritruouata un'arte afcofa,* diffìcile, ò ueroqua^ lunche altro
(ìa (lato, che habbia tenuta quefta Tua opinione, ft habbia nonfe^comc £i
uoglU»! Ma uuoi tu, ch'io dica quefta coiàio od^ JF £ p« ' Chccofaèqucfla.clicfu
uuofdìre^ SOCR. 'Io uoglio parlare un pcco con Tifia.O Tifia ih» «anzi che tu
ueniffi con quefta tua atte, noi tes ncuamo per certo, che quefto probabile,fiC
ucris fimile.nonfipotefii al uolgo per altro iTiodo mostrare che con la fomiglianza
della ucrità.fiC pcnfauamo.che quelle fomiglianie del uero fos lo da colui
potefTero cfTer trouate,chc peifettas niente la uerif a ccnofceffi. Per il che
fé tu cidi'raiintorno àqiicfta arte qualche altra cosa volentieri ti afcol
faremo: ma Te non dirai altro, noi ci ftarenso à quello, che poco fa habbiamo
defcs to.ft^ 9 crederemo. Et questo è che se
uno non conosce bene gli ingegni delli audfe tori.ft fe quelli l'un da
l'ahro non. diftinguerà, a fe non diuiderà le cofe.di che egli ha da pars lare
nelle fue parti fe quindi di tutte un'idea fola facendo, in quel modo non le
comprendes rà auefto tale nó potri mai acqui{lar*e quella ars te del dire. che
può hauere un'huonrto. Etques > fta cofa non la può imparare fenza,un lungo
uu, dio. Nella qua! cofa un' huomo prudente nófo lamentc fi affaticherà per
poter dùe.a orare in modo, che piaccia a gi'huomini, ma anchora ut cherà di
poter djre.a tare quelle cofc chc habs jj^j^jano da e(ftr gxate a Dio. Per
cièche io uoglioche tu fappia Tifia/he quelli Iiuomini, chc fors no flati più
faui di noi, bino detto che un'huo mo fauio non debba follmente penfare di (om^
piacere à tutte le bore à quelli, che feco fono fa un niedefimo fcruitio, ma fi
ha da cercar di ubi dire à buoni Signori. Per il che non ti maraui^: gliarc.fe
io ufoquefta lunghcza di parole, per ciò che gh è neceffario che io fia lungo efTcndo
le cofc,che io tratto, di importanza, il che forfè tu non credi.Etfappi,che (come
fi fuol dire ) che dalle cofe buone ne nafcono le buone, cofi anchor dalle uere
pofTono uenirne le uerifimili. FED. Qyefta cofa pare à me che fia beniffimo
detta. SOCR. Egli è certo difficile, ma egl'è anchora cofa hoaorata,flf degna
lo sforzaifi (em predi aitiuare air acquifto di cofe eccellenti, fl(degnerà
patire tutti quelli difagi,che in tale sforzo ne interuengcno. FED. Tu hai
ragio ne. SOCR, Habbiamo horaà baftanza ra^ gionato della arte j ce del trifto
modo del comrs porre Orationi. FED. A baftanza per certo. SOCR. Ci refla bora à
ragionare intorno alla bclleza dello fcnuere^flC à dire onde nafca labru teza
dell'orare, FED. Quefto ci refla. SOC. Sai tu in che modo ò ragionandolo orando
lì f offa nelle parole piacere a Iddio FED, Non ccrfo^ft tu? Spc. Io ho udito
dire no fo che cog. fc, le quali già furono infegnate dalli noflri anti
chiamala uerità di qucfta cofa la fanno cffi^fif ilo io. Hora fe noi
ritrouaffemo modo di piacer nel parlate a iddio, pefi tu che ci bifognafTe più
haucre cura di quello,che gl'hucmini intorno a ciò fciocamente pcnfanor FED.
Qnefla tua do ìiiada è da ridere. Ma raccontami un poco quellecofe^chc tu dici
hauere udite. SOCR lo ho udito, che là prefTo al Naucrato di Egitto; fu già un
certo iddio de gli antichi. al quale e dedicato quello uccello, che chiamano
Ibin^flC quefto iddio é detto Theute. Quefto dicono, che fu il primo^che
trouòii numerosa la com:? putatione,flf raccpglimento de i numeri, non folo
uogliono che fuffi ritrouatore di quefta co::^ fa, ma anchora della Geometria,
et della Aftrono miarritrouò anchora- fecondo loro, Tufo de i das di.fiCil
mododi fare le forti, flC finalmente fu inuenfore delle lettere. Era in quel
tempo Re di tutto r Egitto Tamo,2C ftaua in quella granr: di/Tima, CL
nobilifTima Città, che chiamano li Greci Thebe di'Egitto; flC queftì popoli
hannp po(]:o nome à Iddio Ammone. A quello Reue nendo Theute, gli moflrb le fue
arti, flf gli diC^ (e.che farebbe flato buono, che egli à poco à pp co le
diftribuifcc à tuffi li popoli dì Egitto. Ma egli domandò a Thcute,che utilità
ciafcuna di quelle arti à gli huomini apportai » Il che di^ chiarandoli
Thcute,Tamo approuaua quello,) che gli pareua ben detto: quello poi, che non
gli piaceua. lo biafimaua. fiC all' hora fi dice che Tamo dichiarò^a moftrò à
Theute intorno à eia fcuna arte molte cofe,flC per una parte^ et per la altra;
le quali fe io tutte uolcffi nan-arti/arei trop po lungo. Ma poi che uennero al
ragionar dcU le lettere^ di/Te Theute, Sappi Re. Che quefta difciphnafaràdiuentar
egli Egitfii più faui^flC di maggior memoria: per ciò che ella è ftata tro:j
uata per rimedio della sapientia^ft della memo: riamai che egli rifpofe,
Aftutiflimo Theute uo:s glio che (àppia,che fono alcuni^che fono atti k ^
fabricare gli inftrumentijchc per una arte fono neceflarii,ac buoni; alcuni
altri faranno poi più pronti à giudicare che dannoso che utile quelli arte
debba an:ecare. Matu,chefci padre delle lettere, forfè perla troppa
bcneuoIcntia, che gli porti, haidimofl:ratodi conofcer poco la forza loro, hauendo
affermato che elle cagionano in noi quello efFetto, del quale niente é
uero,anzi fanno il contrario. Per ciò che T ufo delle lettere facendo che noi
poco ci curiamo di tenere à me moria co(aa!cuna, pàrtoriTcfnciram eli chi fe
impara obliaionc di ciascuna cosa. Et qiìefto ne auuicne,pcr db che confidati
nelli fcritti dal tri,non uogliamo cercare di rauuoUarci troppo ncir animo le
cofe: per il che tu non puoi dire d'haucr troiiato il rimedio della memoria,
tna più tofto d' un rammentarfi delle cofe già fapuis (e.Oltra di quefto à me
pare, che tu più preda infegni alli tuoi scholari una opinioe della Icien ha,
che la uerità: per ciò che hauendo quelli fen za la dottrina del maeftro lette,
flC imparate mol: te cofe parràal uolgo.anchor che fieno ignors ranfi,che non
di meno molte cofe fappiano,oU fra di queflo diueterànno nel praticarli più
mos: lefti,flcfafl; idiofi, ne ciòauuerrà senza cagione: per ciò che efFi non
pofTederanno la ucra fapien tiajfhapiutofto feranno ripieni d' un"
opiniors ne di hauerla. FED. O Socrate, tu con poca fatica fingi, che li
Egittii parlano, ft qualunis que altro più ti piace, pur che ti uenga bene. SOC.
Qaefta non è gran cofa, per che ancora quelli, che ftanno nel Tempio di Giove
Dodoneo, affermano che le prime parole del fufuro indouine, che effi udirtera, ufcirono
d'una Querele: li che à quelli popoli del tempo anti^ co (per CIÒ che eghno non
erano cofi faui.co^ SOC fetc uot del dì d'^hoggi ) baftaua pci fr disfare alla
loro fcioccheza udire ie^.pktrf ^i) k Qucrcie.pur che elle gli diceflero il
uero* Ma (i5 peni! che importi qualche cofa chi fia.ò d'onde lia qucllo, ckc
parlj. Et ciò ti auuiene, pcr >ch^ tu non confideri folo fe qucUo.che parla,
dice il uero,ò non, ma uuoi udire parlare i p^erfone à tuo modo, FED.
Ragion^uolmcntc finii h«ii riprefo fif à me certamente pare, che nelle letiP
tere interaenga quello, che fecondo il tuo dire, diceua Tama; chc à coloro
accadeua.chc U (ape tiano. SOCR. Et pero qualunque perfona penfa fcriuendo
intorno à quefta arte, 6 quelle cofc imparando. che da gli altri di lei fono
itatc fcritte, per queftoche dalli fuoi fcritti fi habs» bla certeza alcuna i
cauare.ò uero per il fuo im^ parare,douer faper cofa ucra.coftui certamente c
fciocco, a: di poco cervello.flc fi può dire, che egli fia in tutto ignorante
dello Oraculo di Gìq ue Ammonio, con ciò fia che egli pensi che le Orationi
fcritte pifi poffuio,che non potrà uno chcdafe fteffo fappia quelle cole, delle
quali Quelle Orationi ragionano. F £ BeùiSì^, tno. SOC. Queftoo Fedro ha la
fcnttura piena di grauità,& dignità, che ella è fimihdl^ ina alla pittura:
per ciò cIk ie^opere della pittUiP ra pare clic fìcno ufue^ma fc tu gli
domanderai qualche cofa, uergognofam ente fi taceranno. Hon altrinienti delle
Orationi potrai dire,fif ti parrà, che elleno intendendo qualche cola, U
polfano anchora dire,ft moftrarc. Ma fe poi for^ (e di laperdefiderofo, gli
domanderai di quaU che fuo detto la cagione femprc ti diranno una cosa, e
^<^»^pre ti lignificheranno il medefimo: <3CogniOratione,comeellaè
feritta una uolta, Tempre. flf in ogni luogo la medéfima lì ritruo^ ua,fiC
moftra le cofe fue à quelli, che fanno, à gh' altri,'alli quali forfè niente
importa, flC non faella,o puo dire à chi bifogni manifeftarfi, 6 àchi
nonb]fogni,2(fe mai gh è ingiulla:^ mente fatto ingiuria,© detto mal di
lei,femprc ha bifogno dell'aiuto di fuo padre, ciò è di chi rha fcritta,per ciò
che ella al.nemico non rcpu? gna,ne à fe fteffa può dare aiuto. FED.Quc Ite
còfc anchora pare à me, che fieno ueriffimc,. SOCR. Ma che dirai tu à quello?
Credi tu, che fi polU uedere un'altra forte di parlare fras: tello di i^ueftof
Et che fi polfa concfcere come quello, che io ti dico,fia legittimo, fiC quello
del quale habbumo ragionato badando, et quanto migliore, flC più potente
nafcai' FED. Che parlare è queltof CC come uuoi tu che fi facciaf^ tu' ' Soc. SOCR.
Qucfto parlare è queIIo,chc fi kwt ncir animo di chi impara per mezo della
fcipnjs tia,flC è migliore, per che quefto può aiutare à fc flefro,fif conofce
co qua] forte di p<rfonc fi bia a parlare., flC con quale à tacere. FED. Xji
uuoi dire il parlare d' un dotto, che fia uiuo,flC che habbia fpirito,deI quale
una Oratione fcri(» ta ragioneuolmente potremo chiamare un fimu^s lacro. SOCR.
Quefto dico fenza dubbio. Ma dimmi anchora quefta altra cofa, Vno agr(^
culflcre che fia fauio^ credi tu che uorrà fpargerc^ ft gettare nel tempo della
ftate quelli femi.chc egli bara più cari.ft delti quali egli afpetta con
defiderioil frutto, ne gli horti d'Adone, cor» ogni ftudio,fiC
diligentia,acciòche perfpatio di otto giorni ne pQ)[fi uedcre i fiorii (comelai^chc
miracolofamenfe in quel terreno ìnteruiene) ò nero dirai, che fe egli pure il
farà, Io farà per pat fac tempo in qualche giorno di fefta.fif per darfi
piacere, fiC no per cauarne utile alcuno^Ma quan do egli farà da uero, ce che
uorrà "attendere alla agricuItura,non li feminerà in quelli horti,ma in
terreni conueneuoli,flC gli parrà hauere affair fc con interuallo di otto meli,
flC non d otto gior ni la fuafementafi maturerà. FED. Certamente Socrate, che
come tu dici, quel tale femi;? fi^^è gfi WrH (!• AcJdftc pft btirla.ft per foU
lazt),^ nel terreno buono da uero. SOCR. t>^jf nfaremo noi, che un^huomo.
ch^ (appia xke toù'fu il giudo, Ce il buono, ft« rhonefl-o, fi^ iiello
fj^argere la fua fementa pia fciocco d u fio-agricultorer FED. In nessuno modo.
SOCR Ef pero egli no femmerà i (noi detti ftudiòfamente con la penna nell'acqua
negra, ^órtmietten doli alle fcritturc,fapendo egli che ft'mai poi portaflero
pericolo alcuno non gli po tra dare aiuto: flC conofcendo anchora^che con
lèfcriuere non fi può moftrare à pieno la ueri:? ti. FED. Certo ch^ il
feminarecome hai dctfe, è fuor di propofifo. SOCR. Certo, ma prahìerà beh
coilui gli horti delle lettere per darfi in quella follazo, fiC per pafTarc il
tempo/ ce in quelli feminerà^ftcofi fcriuerà qualche co Éi^t'Af pofcia che fi
uederà hauerc scritto, terrà qùéli fuoi (catti per mcmoria,&' gli harà
cari, come fe fu (fero tefori atti à fargli fcordaie gli afi^ tìnni/che gli ha
da arrecare la futura uecchieza. Etnonfelopenferà,chcgli habbino à cagioni
rtàrecjUefto in lui ma in tutti coloro che feguis teranno le fue pedate,
ecinfieme fi rallegrerà di tiedere già nati i fuoi teneri frutti: fif mentre
che Ili altri huomini uanno pur altri piaceri fegui» tando. tando, cclebràndo
conuit?,& fimili altri cU;:»*ti% egli lafciate quefte cofe folamcntc
attenderà a ui nere nclli piaceri^ che danno li piaceuolj, e dotti
ragionamenti* FED, Socrate tu mi nioftli un trattenimento molto più degno di
molti altri, cheà me paiono nili, narrandomi quei di co^ lui, che può Tempre
hauer piacere ne i ragionamenti, a disputare della giuftitia, «di quelle altre
cofe, che tu dici. SOCR. Cofièccrtamente Fedro mie caro, ma molto più degno
ftio c quello di quefti tali (fecondo me ) quando alcuno, poi che ha ritrouata
un animala quel locheegh intende infegnarli afta, ufaudo Tarlc della dialettica,
piantala: femina in quella ani; male fue parole con la scienfia: le quali parole
fono bafteuolià giouarà fe ftefre, et à colui, che le pianta: per ciò che non
folamentc portano fc co grandilTinìO frutto, ma anchoia il if me doa^s de nuoui
frutti pedano nalcetc.Onclt^ pafTando poi quefte paroÌe,6: quefte fcientie
<A]ixn hixf:^ mo in un' altro, mantengono qucftft.gtiecic dono immortale:
colui, che Ila in fe tal do:? no, pongono in qdello ftato di beatitudine, che è
^oflibile à un'huomo. FED, Qaxtlh è an^ chora molto più degno, et honoreuole* S
o Hormaio Fedro hauendg noi le cofe^ che Labe L un biamo dette diTopra
conceflc, potiamo beniflirs- ino confiderarc quelle cofe,che^tu fai. FED. Quali.
SOC. Qijelle, che per conofccrlc fin giù habbiamo ragionato, il qual ragionamen
tb non habbianìo per altro fatto, che per poter ^ confxderare il modo di
uitupcrare Lifia tuo in^ quanto all'arte dello fcriuere: non folamcte Liria,ma
anchora tutte quelle Orationi.che con arte.ò fenza arte fi fcriuono. Età me
pare, che già à baftanza habbiamo dichiarato, chi fia colui, cheartificiofofipofli
dire, ficchi quello, che fia priuo d' arte. FED. Cofi pare à me. SOCR. Et però
bisogna di nuouo ricor^ darfi,che alcuno non può perfettamente faperc l'arte
del dire,ò uoglila faperc per perfuaderc Viltrni,òper infegnarla (fi come le
ragioni di fo |)ra ci hanno dichiarato )fc prima non conors fcerà la uerità di
quelle cofe ch' egli dice, òfcri^: uc t ce fe non faprà diffinire tutta la
materia deU la cofa,che tratta: fl£ fatta qùeftà diffinitione,di nuouó diuidere
tutte le parti, tenendo alle co:s fc particolari, ftindiuidue,fl£cofi
contemplanti do,flC confiderando in quefto modo un'anima, alla quale habbia da
perfuadere qual si vogli cosa, ac haucdo quelle cofc ritrouate,che con ogni
forte di ingegni fi accompagnano, flC fono convenienti. 'ucjjJenti.cofi fopra
fu«o ordini^ fi: acconci il fuo parlare, che co un' anima uaria.fi: di diuerle
fantafie.accommodi parole, et modi di dire uas rii.flC di molte forti.flt con
una anima semplice, fi£ di un fol uolere ufi parole femplici.fl£ pure. FED.
Cofifièdetto. SOCR. Chedires mo hora noi di quella queftionc, che di fopra
habbiamo tocco. ciòè fe egli è cofa honefta. ò bratta il comporre Orationi. fi:
in che modo questo studio si possi ragioneuolmente uituperarc, a in che modo
non. Non ti pare egli,che le ragioni dette di fopra ci habbiano dichiarato ques
fto paHb i bastanza. FED. QjaaU ragioni? SOCR. Quefte.che fe Lifia.ò altri. Ccfiachi
uuole ignorante della verità fcyfTe mai.ò ucro fcnue al prefente.ò fcriuerà
cofa alcuna priuatas rmcnte.ò ucro che fi appartenga al publico.cos me
farebbeno certe ordinationi ciuili.ó fimili cofe,flC che coftui penfi.che di
quefti fuoi fcritti fe ne possa cauare una certeza. flC una fermiflima
ftabilità.quefta tal cofa T uno fcrittore fe fi ha da giudicare che fia^brutta.
Dichinlo le perfonc. ò noi dichino. chequefto imparta poco:| ciò che il non sapere,
che cosa sia il vero ne il falso intot no alle cofe giufte.fiC ingiufte, buone,
CCtriftc, (anchora che il uolgo tutto lodoiTe quefta igno.twifia}non può pero
effefc.che confidcrarK^o il uero non fu bruttiflima. FED. Bruftiflima pcrccrfo.
SOCR. Perii contrario poi. colui che penfa che fu neceflàrio qualche uolta per
trattenimento, fif per fcherzo fcriuere^at nó giù <ljca che Oratione alcuna
oin profa.o iq ucrfi mcrti^che fi perdi un gran tempo nel comporta '{come fanno
quelh. che fenza confidcratione al tuna.CC fcnza dottrina, folamentc per daxad
ins tendere una cola.fogliono alle uolte recitare ucr fi)ma terrà per certo.chc
li fcritti,che buoni fi poflono dirc.fieno flaticompofti folo à quelli,
chefanno.ma faprà che nelli ragionamenti, che fi &nno per cagione di
imparare.fif di infegnarc adaltri.fifchc jicrauientc fi fcriuono.fiCimpria:
^tnono nell'animo d' uno.li quali trattano delle cofe gi"uftc, hcnefte. abuone,in
quelli folas mente è ia uera chiareza flC la pcrfettione. A quc ragionamenti
foli tiencche mcntino studio, ttquefti/olifuoi figliuoli legittimi chiama.dt di
queftl ragionamenti primieramente appr/za quello.chc m fe ftefTo efler
conofcc(pur che in fe h ntroui}dipoi tutti quelji,che di quel fuo parto.comc
%lmoli,Cf fratelli,© nel fuo ania wo.ó nell'altrui menti fono nati: fic. tutti
gl'als tri difpreza, a difcaccia, quefto tale, dico, pare 4 me mt telile fia
tale,qualc 3a noi fi potrcì fyé^8drK!*« rare. FED. lo acmi ò S cerate, efièr
conife t:olui,cIic ttì ilici di queflo ne priego Aìhàtas mente Iddio. SOCR. Ma
fia detto aflai^cl r^rte del dire per qaefta uolta^iiauendo noiparr lato più
per{ratteiiimtnto,-clTe per altra cagioine. E t però tu potrarf dire à Lifia,
ciré ncrtlTenfi do andati doue è il fonte delle Ninfe, ideile
Mufe,habi>iaino uditi certi ragion ameti, li cpali hanno comandato, che noi
dtcfatno A à itif (à tutti gli altri
Scrittori d' Orat foni: ol tra dì quefto à Honicro,ò;fe altri è (lato che c
qualche ftuda,CC bada Poefia babbi compofl:o,ó pùre or nata, fiC
niimerofa,ul{irnaoien(e à Solone/fiCi tutti gii altri^che delle ordinationi
tiiiili hanno fcritto,che fe eglino tali cose: onìpofero con faji peucli della
ue<ità,flC col difputarc, pofTono dì: difendere le cofe^cbe eglino hanno
trattato, SOC con ragioni fa^r fi,chc li fcritti dinioftrano c{{ctc dainanco,ft
pia uili delle parole loio,fif dclU noce uiua,fe quefto che io dico, faranno
Farei ine,<he habbiano à pigliare il nome ne da quel le cose,che con la
penna fcrifTero^twa pio prcftat da quello, che doftamete ccnfiderarono. FED.
Etchc cognome lata quefto, <££ in the modelli lo darai tui' SOC il gran
ccgncMM ài piente folo à iddio/ccondo me, fi conufener flC pero à qucfti tali
huomi ni, ch'io tlio difopradc^ fcritti,gli porrci più conucnicntemete il
cogno:: medi Filofofo,ò di qualche altra uoce fimile. FED, Certo che quefto no
fi difconuerrebbc. SOCR. Et pero dimmi un poco, chiamerai tu ragioneuolmcnte
Poeta, ò vero fcritfore d'Os: rationi.òdi leggi colui, che in fé cofa alcuna no
habbia migliore di quelle, che ha fcrittof' Et che lungo tempo rauuollendofi, fiC
aggirandofi il ceruelIo,con una affidua emendafione finalmen te habbia fatto
una compofitionef FED. Che uuoitudircperquefto? SOCR. Voglio di re, chetudica
tutte quefte cofe al tuoLifia. FED. Et tu non farai il medefimo col tua amico.
per che in uero non mi pare da lafciarlo andare. SOCR. Quale amico dici tu F E
Dico Tfocratcgiouanc perfetto. Che dirai tu à coftui Socrate Chi diremo noi,
che egli fia (SOCR. Ifocrate ò Fedro, è anchora giouanetto^ma io non uoglio
lafciarc di dire quek lo,cheioindouinodilui, FED. Che cofa f SOCR. A me pare, che
egli fia di migliore ingegno,chenon dimoftra d'eflcrLifia per li fuoi Sritti,
et oltra di quello di più gencrcfi cofiumi ornato» Per il che io non mi
marauigliarci punto. punto,fccrcfcendoinIuigIi anni, egli diuens tafTc più
eccellente nell’arte del dire, nella qua le hora si esercita di quànti mai à
quella si sono dati: flC credo, che egli non contento di queftc cofe per un
certoinftintodiuino,cheè in lui, fi inalzerà ad imprefe maggiori; per ciò che
io uo glio che fappi,che nel fuo ingegno è (lata daU la natura poftain un'
certo modo la Filofofia, Quefte cofe adunque, che da quefti iddìi hofa^
pute,manife(leròal mio amicilTimo irocrate,& tu dirai al tuo cariffimo
Lifia quelle altre cose. FED. Cofì farò. Ma partiamoci di qui,con ciò fia che
il caldo fu hormai calatto à fatto SOC« InnanziportajrCjò trarre feco, fen6colui,che
fia t» perato, Penfi tu che fi debba domandare altro ò Fedro A me par hauerc con preghi domandato
uclfo,cbefaceuadi fxifognó, F E Pieg afichoia,che quel trcdcfmio conccdinoa me:
pei ciò che tra gli amici cani cola è conh SOCR Partiamoci Adunque. Ricerca Ganimede (mitologia) personaggio della
mitologia greca, figlio di Troo, coppiere degli dei, Ganimede Ganymede eagle
Chiaramonti Inv1376. jpg Ganimede e l’aquila, Nome orig. Γανυμήδης Sesso Maschio
Luogo di nascita Dardania Professione dio dell'amore omosessuale e Principe dei
Troiani Ganimede (in greco antico: Γανυμήδης è un personaggio della mitologia
greca. Fu un principe dei Troiani. Omero lo descrive come il più bello di tutti
i mortali del suo tempo. «La vicenda mitologica di Ganimede servì da
emblema significante per la natura dell'amore tra uomini, un amore
filosoficamente più elevato rispetto a quello rivolto alle donne: la vicenda
dell'aquila divina si assicurò così un posto d'onore tra i riferimenti
artistici al desiderio omoerotico. In una versione del mito viene rapito da
Zeus in forma di aquila divina per poter servire come coppiere sull'Olimpo: la
storia che lo riguarda è stata un modello per il costume sociale della
pederastia greca, visto il rapporto, di natura anche erotica, istituzionalmente
accettato tra un uomo adulto e un ragazzo. La forma latina del nome era
Catamitus, da cui deriva il termine catamite, indicante un giovane che assume
il ruolo di partner sessuale passivo-ricettivo. Genealogia Figlio di Troo e di Calliroe (o di
Acallaride). Le varianti della sua ascendenza sono molte, Marco Tullio
Cicerone scrive che sia figlio di Laomedonte, Tzetzes che sia figlio di Ilo,
per Clemente Alessandrino è figlio di Dardano[9] e secondo Igino suo padre fu
Erittonio oppure Assarco. Non risulta aver avuto spose o progenie.
Mitologia Bassorilievo di epoca romana raffigurante l'aquila, Ganimede che
indossa il suo berretto frigio e una terza figura, forse il padre in lutto Il
tema mitico fondante di Ganimede è costituito dalla sua bellezza, di cui si
invaghirono sia il re di CretaMinosse sia Tantalo ed Eos, come infine il re
degli dei Zeus, così come si racconta nelle varie versioni della stessa
leggenda. Nell'Iliade di Omero, Diomede racconta che il Signore degli
Dei, affascinato dalla sublime beltà rappresentata dal ragazzo, lo volle rapire
nei pressi di Troia in Frigia, offrendo in cambio al padre una coppia di
cavalli divini e un tralcio di vite d'oro: il padre si consola pensando che suo
figlio era ormai divenuto immortale e sarebbe stato d'ora in avanti il coppiere
degli dei, una posizione che era considerata di gran distinzione. Zeus
per sottrarre Ganimede alla vita terrena si sarebbe camuffato da enorme aquila;
sotto tale aspetto si avventò sul giovanetto mentre questi stava pascolando il
suo gregge sulle pendici del monte Ida, nelle vicinanze della città iliaca, se
lo porta quindi sull'Olimpo dove ne fa il suo amato. Per questo motivo nelle
opere d'arte antiche Ganimede è spesso raffigurato accanto a un'aquila, abbracciato
a essa, o in volo su di essa, e, in varie opere d'arte, è quindi raffigurato
con la coppa in mano. Burkert ha trovato un precedente riguardante il mito di
Ganimede in un sigillo in lingua accadicaraffigurante l'eroe-re Etana di Kish
volare verso il cielo a cavalcioni proprio di un'aquila. Da alcuni viene anche
associato con la genesi della sacra bevanda inebriante dell'idromele, la cui
origine tradizionale è proprio la terra di Frigia. Tutti gli dei erano
riempiti di gioia nel vedere il bel giovane in mezzo a loro, con l'eccezione di
Era; la consorte di Zeus considerava difatti Ganimede come un rivale più che
mai pericoloso nell'affetto del marito. Il padre degli Dei ha successivamente
messo Ganimede nel cielo come costellazione dell'Acquariola quale è
strettamente associata con quella dell'Aquila e da cui deriva il segno
zodiacaledell'Acquario. Busto di Ganimede, opera romana d'epoca
imperiale (Parigi, Museo del Louvre) Mito iniziatico Lo stesso argomento in
dettaglio: Pederastia § Origini iniziatiche. La coppia Zeus-Ganimede
costituisce il modello mitico del rapporto omoerotico tra maschio adulto e
giovinetto, relazione colorantesi spesso di un significato iniziatico (vedi la
pederastia cretese) in quanto finalizzata - anche attraverso il legame sessuale
- all'inserimento del giovane nella comunità dei maschi adulti. Questi amori
"paidici" di un adulto amante-erastès che rapiva simbolicamente un
giovinetto passivo-eromenos potevano venir praticati attraverso schemi rituali
imitanti i veri e propri rapporti matrimoniali e dove, in un luogo appartato,
avveniva la sua iniziazione sessuale. Zeus e Ganimede, rappresentando la
perfetta coppia di amanti maschili, sono stati come tali cantati dai poeti. Il
cosiddetto "tema di Ganimede" era adottato durante il simposio a
modello dell'amore efebico: se anche il Signore degli dei fu incapace di
resistere alle grazie di un fanciullo, come avrebbe potuto farlo un mortale e
poter rimanerne immune? Certamente nella mitologia greca si riscontra la grande
voglia di Zeus nel sedurre le Dee, ninfe, ecc.; per questo a volte si considera
il padre degli dei strettamente d'accordo all'eterosessualità. Filosofia. Platone
rappresenta l'aspetto pederastico del mito attribuendo la sua origine a Creta e
ponendo, quindi, il rapimento sull'omonimo monte Ida dell'isola: la sua è una
critica dell'usanza della pederastia cretese che aveva oramai perduto quasi
completamente la sua funzione originaria, accusando quindi i Cretesi di essersi
inventati il mito di Zeus e Ganimede per giustificare i loro
comportamenti. Nel dialogo platonico poi Socrate nega che il bel giovane
possa mai esser stato l'amante carnale del padre degli Dei, proponendone,
invece, un'interpretazione del tutto spirituale: Zeus avrebbe amato l'anima e
la mente o psiche del ragazzo, non certo il suo corpo. Il neoplatonismo
ci offre una rappresentazione mistica del rapimento di Ganimede; esso sta a
significare il rapimento dell'anima a Dio, e in questo senso è stato usato,
anche in opere d'arte funerarie e anche durante il Neoclassicismo, sia
nell'arte figurativa sia in letteratura. Si veda, per un esempio, il Ganymed di
Johann Wolfgang von Goethe. Mazza (attribuzione), Ratto di Ganimede (National
Gallery, Londra) Poesia In poesia
Ganimede divenne un simbolo dell'attrazione e del desiderio omosessuale rivolto
verso la bellezza giovanile dell'adolescenza. La leggenda fu menzionata per la
prima volta da Teognide, poeta del VI secolo a.C., anche se la tradizione
potrebbe essere più antica; di essa parla anche il poeta latino Ovidio nella
sua opera Le metamorfosi, poi Virgilio nell'Eneide all'interno del proemio,
Apuleio e infine anche Nonno di Panopoli nel suo poema epico intitolato
Dionysiaca narrante la vita e le gesta del dio Dioniso. Virgilio ritrae
con pathos la scena del rapimento: il ragazzo che lo accompagna tenta invano di
trattenerlo con i piedi sulla terra, mentre i suoi cani abbaiano inutilmente
contro il cielo. I cani fedeli che continuano a chiamarlo con latrati disperati
anche dopo che il loro padrone è sparito nell'alto dei cieli è un motivo
frequente nelle rappresentazioni visive e vi fa riferimento anche
Stazio. Ma egli non è sempre raffigurato come acquiescente: ne Le
Argonautiche di Apollonio Rodio ad esempio Ganimede risulta essere furibondo
contro Eros per averlo truffato nel gioco d'azzardo con gli astragali, Afrodite
si trova così costretta a rimproverare il figlio di barare come un
principiante. Nell'opera Come vi pare di Shakespeare il personaggio di
Rosalind si traveste da uomo quando deve andare nella foresta di Arden,
scegliendo il nome di Ganimede: ciò ha portato ad approfondire lo studio del
rapporto che si era creato tra Rosalind e sua cugina Celia, il quale andava ben
oltre la semplice amicizia, avendo dei tratti molto simili all'amore, in questo
caso omosessuale. Statuina di Zeus-Aquila e Ganimede di epoca
paleocristiana Astronomia Per il rapporto esistente fra Giove e Ganimede, il
maggiore satellite naturale del pianeta Giove - il pianeta più grande del
sistema solare e per questo chiamato per omologia come la versione latina di
Zeus, ovvero Giove - è stato battezzato appunto Ganimede da Simon Marius. Gli è
inoltre stato dedicato l'asteroide Ganymed. Nelle arti Nella scultura una
delle immagini più famose di Ganimede è il gruppo scultoreo di Leocare (lo
stesso a cui viene attribuito anche l'Apollo del Belvedere) e tanto ammirato da
Plinio il Vecchio: Leocare ha realizzato un'aquila che trattiene con forza
Ganimede; innalza il fanciullo piantandogli gli artigli nella sua veste. Questo
particolare del rapimento tramite l'aquila è stato spesso elogiato anche in
seguito. Stratone di Sardi lo evoca in uno dei suoi epigrammi, così come fa
anche Marco Valerio Marziale. La leggenda di Ganimede ha ispirato anche un
gruppo in terracotta, probabilmente originario di Corinto e oggi conservato nel
Museo Archeologico di Olimpia: questo è uno dei pochi esempi di grande scultura
in terracotta, e una rappresentazione scultorea molto rara della coppia in cui
Zeus si mantiene in forma umana. Nella ceramica il tema di Ganimede si
ripete spesso, di solito raffigurato nei crateri, quei particolari grandi vasi
entro cui venivano mescolati acqua e vino durante i banchetti (o simposi) che
si svolgevano solo tra uomini, in cui gli ospiti gareggiavano in immaginazione
poetica e filosofica per celebrare i meriti dei loro rispettivi eromenos. Tra i
più famosi è incluso il craterea figure rosse che ritrae da un lato Zeus in
pieno esercizio, dall'altro Ganimede mentre sta giocando con un grande cerchio,
il simbolo della sua giovinezza: il ragazzo è completamente nudo, così come
vuole la tradizione antica sportiva di origine in parte pederastica (vedi
nudità atletica). Il ratto di Ganimede, di Sueur Il Rinascimento ha visto
riapparire innumerevoli rappresentazioni di questo mito, con artisti quali
Buonarroti, Cellini ed Allegri tra tutti. In questo periodo è anche uno dei
temi con più forte significato omoerotico, divenendo una sorta di icona gay
ante litteram almeno fino al XIX secolo inoltrato. Quando il
pittore-architetto Baldassarre Peruzziinclude un pannello riguardante il
rapimento di Ganimede in uno dei soffitti di Villa Farnesina a Roma, i lunghi
capelli biondi del ragazzo e l'aspetto effeminato contribuiscono a farlo
rendere identificabile a prima vista: si lascia difatti catturare verso l'alto
senza opporre la minima resistenza. Nel Ratto di Ganimede di Antonio
Allegri detto Il Correggio la sua figura e l'intera scena è più
contestualizzata intimamente. La versione del Ratto di Ganimede di Pieter Paul
Rubens ritrae invece un giovane uomo. Ma quando Rembrandt dipinse il suo Ratto
di Ganimede per un mecenate calvinista olandese, ecco che un'aquila scura porta
in alto un bambino paffuto in stile putto, che strilla e si fa la pipì addosso
per lo spavento. Ratto di Ganimede, di Gabbiani Gli esempi di
Ganimede in Francia sono stati studiati da Worley. L'immagine raffigurata era
invariabilmente quella di un adolescente ingenuo accompagnato da un'aquila,
mentre gli aspetti più omoerotici della leggenda sono stati raramente affrontati:
in realtà, la storia è stata spesso "eterosessualizzata". Inoltre,
l'interpretazione del mito data dal Neoplatonismo, così comune nel Rinascimento
italiano, in cui lo stupro di Ganimede ha rappresentato la salita alla
condizione di perfezione spirituale, sembrava non essere di alcun interesse per
i filosofi e i mitografi dell'Illuminismo. Pierre, Natoire, Guillaume II
Coustou, Julien, Regnault e altri hanno contribuito ad arricchire le immagini
di Ganimede nell'arte francese tra fine XVIII e inizio XIX secolo. La
scultura che ritrae Ganimede e l'aquila di Cubero, eseguita a Parigi, ha
portato all'immediato riconoscimento dell'artista spagnolo come uno degli
scultori più importanti del suo tempo. L'artista danese Thorvaldsen, di
gran lunga il più notevole degli scultori danesi, ha scolpito una scultura
dedicata alla scena di Ganimede e l'aquila. Particolare di una
scultura della seconda metà del II secolo d.C., da un modello tardo ellenistico
a sua volta derivato dall'ambito figurativo greco del IV secolo a.C. Conservato
al Museo archeologico nazionale di Napoli. AltroModifica Nel linguaggio
corrente il nome di Ganimede è passato a indicare un bellimbusto, un damerino o
anche un giovane amante omosessuale. Pittore di Berlino, Ganimede gioca
con il cerchio, tenendo in mano un gallo, dono di corteggiamento di Zeus.
Cratere attico a figure rosse (Parigi, museo del Louvre). Ganimede
e Zeus, e Apollo e Ciparisso, illustrazione di due miti a carattere omosessuale
per le Metamorfosi di Ovidio (Venezia) Illustrazione gli Emblemata
di Andrea Alciati Ganimede rappresenta allegoricamente l'anima che si
"rallegra" in Dio. Raffaello da Montelupo, Giove bacia
Ganimede Ashmolean Museum, Oxford Alberti, Copia rovesciata da originale di
Polidoro da Caravaggio, Giove bacia Ganimede (sec. XVII). La borsa di denaro in
mano al giovane allude alla prostituzione, in spregio al mito pagano.
Il Ganimede di Antonio Canova "Ganimede", di Cubero
Ganimede abbevera l'Aquila divina, di Thorvaldsen Albero genealogico Atlante Pleione
Scamandro Idea Elettra Zeus Teucro Dardano Batea Erittonio Ilo Troo Calliroe
Euridice Ilo Assarco Ieromnene Ganimede Laomedonte Strimo (o "Leukyppe")
Temiste Capi Priamo Ecuba Anchise Afrodite Latino Ettore Paride Creusa Enea Lavinia
Ascanio Silvio Silvius Enea Silvio Bruto di Troia Latino Silvio Alba Atys Capys
Capeto Tiberino Silvio Agrippa Romolo Silvio Aventino Proca Numitore Amulio
Marte Rea Silvia Ersilia Romolo Remo Età regia di Roma She-wolf suckles Romulus
and Remus. jpg Zanotti Il gay, dove si raccnta come è stata inventata
l'identità omosessuale Fazi editore Secondo l'AMHER ("The American
Heritage Dictionary of the English Language, catamite,
Apollodoro, Biblioteca, su theoi Omero, Iliade su theoi Diodoro Siculo,
Biblioteca Historica, su theoi Dionigi
di Alicarnasso, Antichità romane, su penelope. uchicago.edu. Cicerone,
Tusculanae disputationes, Tzetzes a Licofrone Clemente Alessandrino, su
theoi.com. Igino, Fabulae Igino, Fabulae Iliade, Burkert; Burkert fa
purtuttavia notare che non esiste un nesso diretto con l'iconografia.
Veckenstedt. Guidorizzi, Il mito greco Volume primo - Gli dèi Guidorizzi, Il
mito greco Volume primo Gli dèi Platone, Leggi, Platone, Fedro, Platone,
Simposio, Ovidio, Metamorfosi, 10,152. ^ Apuleio, L'asino d'oro, Virgilio, Eneide,
Stazio, Tebaide, Marius/Schlör, Mundus Iovialis, Worley, The Image of Ganymede
in France, The Survival of a Homoerotic Myth, in Art Bulletin, Chisholm (a cura
di), Alvarez, Don José, in Enciclopedia Britannica, Cambridge
"Ganimede" Ferrier Fonti antiche Apollonio Rodio, Le Argonautiche.
Apuleio, L'asino d'oro. Cicerone, De natura deorum. Diodoro Siculo, Bibliotheca
historica. Euripide, Ifigenia in Tauride. Nonno di Panopoli, Dionisiache.
Omero, Iliade. Omerico, Piccola Iliade. Ovidio, Le metamorfosi. Pausania,
Periegesi della Grecia. Pindaro, Olimpiche, Platone, Fedro. Platone, Leggi.
Platone, Simposio. Pseudo-Apollodoro, Biblioteca. Strabone, Geografia.
Teognide, Frammenti. Virgilio, Eneide. AA.VV., Suda. Christian Wilhelm
Allers, Giove rapisce Ganimede Fonti moderne Edmund Veckenstedt, Ganymedes,
Libau, Saslow, Ganymede in the Renaissance: Homosexuality in Art and Society,
New Haven (Connecticut), Yale; Burkert, The Orientalizing Revolution: Near
Eastern Influence on Greek Culture in the Early Archaic Age, Cambridge
(Massachusetts), Harvard; Graves e Elisa Morpurgo, I miti greci, Milano,
Longanesi, Carassiti, Dizionario di mitologia greca e romana, Roma, Newton et Compton,
Cerinotti, Miti greci e di Roma antica, Firenze-Milano, Giunti, Ferrari,
Dizionario di mitologia, Torino, UTET, Keuls, The Reign of the Phallus. Sexual Politics in Ancient
Athens, Berkeley, University of California Press; Sergent, Homosexualité et
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Gély (a cura di), Ganymède ou l'échanson. Rapt, ravissement et ivresse
poétique, Presses Universitaires de Paris; Guidorizzi, Il mito greco, 1 Gli dèi.
Particolare di Zeus accanto a Ganimede,
di Christian Griepenkerl Voci correlate Icona gay Mito di Etana Omoerotismo
Pederastia Re latini Re di Troia Temi LGBT nella mitologia Altri
progettiModifica Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene
immagini o altri file su Ganimede The Androphile Project, The myth of Zeus and
Ganymede. Griffith, Visual arts: Gaymede. "Ganymed" (testo, in
tedesco e italiano). Circa 200 immagini di Ganimede nel Warburg Institute
Iconographic Database Archiviato in Internet Archive. Portale LGBT
Portale Mitologia greca Troo re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Erittonio Leda personaggio della mitologia greca, figlia di Testio e
moglie di Tindaro Laomedonte re di Troia nella mitologia greca, figlio di
Ilo Grice: “While some Englishmen would use euphemysms when subtitling
Phaedrus, “a dialogue on love and beauty”, Figliucci contradicts Diogenes for
whom Phaidros is ‘peri ton erotes’ – and has it as ‘il fedro o vero dialogo del
bello’ – del bello is neuter in Italian (kalon), but also masculine – hence
Figliucci’s reference to Giove and Ganimede. Felice Figliucci. Figliucci. Keywords:
Giove e Ganimede, il bello, bei, kalos, kaloi, kaloskagathos, kalon, eros, to
kalon, to kalos, eros. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Figliucci” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filangieri:
la ragione conversazionale e l’implicatura dello stato di ragione – scuola di
San Sebastiano – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (San
Sebastiano). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. San
Sebastiao al Vesuvio, Napoli, Campania. Grice: The importance of Filangieri is in the concept
of ragione retorica; indeed, on the footsteps of Vico, Filangeri posseduto
della ragione, shows that illuminism is incompatible with the ancien regime! Dei principi di Arianello, figlio di Cesare, principe
di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del duca di Fragnito, nacque in
Villa F., nel Casale di San Sebastiano di Napoli. Nella medesima villa F. muore
Giovan Gaetano F.: il nonno dell'illuminista. Da una delle famiglie pi antiche
della nobilt partenopea. Lo zio arcivescovo
Serafino F.. Riceve un'educazione severa che si svolge privatamente nel
Palazzo Filangieri di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino, e
soprattutto Luca. Si dedica alla filosofia. Si laurea. A seguito della carica
di gentiluomo di camera presso Ferdinando IV, si dedica al progetto della
riforma di giustizia e divenne ufficiale di marina. Il suo illuminismo considerato napoletano in quanto non
assimilato dall'esterno. Si tratta di un illuminismo prodotto nella Napoli. La
citt partenopea si era dimostrata s come uno dei maggiori laboratori di idee
d'Italia, ma in essa allo stesso tempo esistevano sempre i privilegi feudali e
il lusso sfrenato di nobilt, mentre la massa plebea continua a vivere
nell'ignoranza. Si parla a questo proposito di "questione
meridionale" in quanto vi si impediva non solo il progresso, ma si metteva
in discussione anche l'esistenza di una civilt, dato che il tessuto sociale era
ridotto a brandelli. In tale contesto rappresenta la voce riformatrice, la cui
efficacia e tuttavia limitata dalla precoce morte, prima delle vicende
rivoluzionarie. Scrisse un saggio, Morale de' legislatori, nel quale dichiara
di essere favorevole alla pena di morte, mettendo in discussione le tesi di
Beccaria. Afferma infatti che nello stato di natura non lo stato civile -- ciascuno ha il diritto
di togliere la vita a tutti per proteggere la propria ingiustamente
minacciata". Tali temi vengono poi ripresi e trattati ne La scienza della
legislazione. Stampa a Napoli le riflessioni politiche su l'ultima legge del
sovrano. Le riflessioni riguardano la riforma dell'amministrazione della
giustizia. In particolare afferma la necessit, per il magistrato, di motivare
la propria sentenza in base alla legislazione scritta nel regno, permettendo in
questo modo di eliminare gli abusi e i privilegi per il giudice. L'Illuminismo
napoletano di F. emerge in particolar modo in La Scienza della Legislazione.
Analizza le linee sistematiche di una scienza pratica destinata a essere guida
delle riforme legislative e basata sulla *felicit individuale* del cittadino
come premessa *utilitaristica* allo stato buono. Filosofi come d'Alembert e
Montesquieu, con il loro spirito di classici dell'Illuminismo, contribuirono a
influenzare F. Ottenuta la dispensa dal servizio di corte, si trasfer a La
Cava, poco lontano da Napoli. Qui si dedica interamente alla filosofia.
Arrivano le prime condanne da parte dell'Inquisizione, anche se la Chiesa
romana non contesta la legittimit dei provvedimenti assunti dal governo
borbonico sulla scorta delle proposte contenute in La scienza della
legislazione. Divene capitano di fanteria. Consigliere del Supremo Consiglio
delle Finanze e, preso dagli impegni politici, non riusce La Scienza. Si ritira
a Vico Equense. Essendo stato iniziato in massoneria in una loggia napoletana,
ha solenni funerali massonici, ai quali parteciparono delegazioni di tutte le
logge napoletane. A F. e intitolato il carcere minorile di Napoli. A Milano intitolata la piazza antistante il carcere di
San Vittore. Composta da otto libri, La Scienza della legislazione un'opera di alto e innovativo valore in
materia di filosofia. E cos apprezzata per la sobriet della critica e per la
concreta esposizione sul piano giuridico. Espose una FILOSOFIA frutto della
grande cultura napoletana antecedente all'Unit d'Italia, rappresentata in
particolare da VICO (si veda) e GIANNONE (si veda), che interpola con
Montesquieu e Rousseau. Porta alla luce le ingiustizie sociali che affliggevano
Napoli, pervasa dal lusso sfrenato dei privilegi feudali di aristocrazia,
sfruttatori del popolo. Al tempo stesso essa chiede alla corona di farsi
portatrice di una rivoluzione pacifica, una sorta di modello di monarchia
illuminata, secondo i canoni illuministici, da conseguire attraverso una seria
azione riformatrice dattuarsi sugli strumenti giuridici. Importanti
l'affermazione dell'esigenza di attuare una codificazione delle leggi e di una
riforma progressiva dalla procedura penale, la necessit di operare un'equa
ripartizione delle propriet terriere e anche un miglioramento qualitativo
dell'educazione pubblica oltre ad un suo rafforzamento su quella privata. Per
ci che attiene al diritto criminale d un'innovativa definizione di delitto. Una
azione A puo essere contraria alla legge L ma non un delitto. Un agente che
commette A (non delitto) non e un delinquente. Unazione A disgiunta dalla
volont V non imputabile dallo stato
civile. La volont V disgiunta dall'azione A non
punibile dallo stato civile. Un delitto consiste dunque in una azione
che viola la legge L, accompagnata dalla *volont* dellagente delinquente di
violar la legge L. Tratta le principali proposte di riforma, nel campo
politico-economico -- abolizione del privilegio feudale, ecc. --, penale, dei
rapporti tra religione e legislazione, e, in modo particolare, nel campo
educativo. Essa comprende Le regole generali della scienza legislativa, Leggi
politiche ed economiche; Leggi criminali (procedura; delitto e pena), Leggi che
riguardano l'educazione, i costumi Kant
zitte Varrone, mos, ethos -- e l'opinione pubblica), Leggi che riguardano la
religione; Leggi relative alla propriet, rimase abbozzato (ne fu steso soltanto
il sommario), e Leggi sulla famiglia. Tra le varie tesi esposte in questo libro
emerge la considerazione che ha dell'agricoltura. Sotto l'influenza di
GENOVESI, di VERRI e dei fisiocratici, la considera un settore importante del
sistema economico e propose la rimozione di ogni ostacolo giuridico, fiscale ed
economico al suo sviluppo e alla libert del commercio dei suoi prodotti,
sostenendo altres l'imposta unica sul prodotto della terra. Il trattato messa all'Indice dalla Chiesa romana per le
sue idee giacobine. Infatti critica l'atteggiamento di Roma, ritenendo appunto
che questa pesasse sulla societ e si avvalesse di privilegi. Ha messo in campo
proposte -- giustizia sociale e giuridica, uguaglianza, pubblica istruzione,
espropriazione dei beni ecclesiastici donati dai fedeli, ecc. -- miranti al
progresso in senso rivoluzionario attraverso un'azione legislativa fondata
sulla ragione (non la fede) e rivolta ad un altrettanto presunto sviluppo della
realt di Napoli, ma con i metodi tipicamente giacobini basato su coercizione e
sentimento massonico e anti-romano. Stampa altri due saggi, i quali ebbero
grande successo, con elogi entusiastici rivolti all'autore, come quello di
Franklin, il quale avvi una corrispondenza con F. e lo tenne presente per la
stesura della Costituzione. Suscita interesse e discussioni anche grazie
all'attenzione dedicatagli da Constant. Altre opere: Riflessioni politiche su
l'ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell'amministrazione della
giustizia (Napoli); La scienza della legislazione (Napoli); Il mondo nuovo e le
virt civili: l'epistolario (Napoli. Ricca); Discorso genealogico dei Filangieri
estratto dall'istoria del feudo di Lapio (Napoli, Cozzolino); Sebastiano: un
itinerario storico artistico e un ricordo (Poseidon Editore, Napoli); Signore
di Lapio, Rogliano e Arianello, Patrizio Napoletano aggregato al Seggio di
Capuana, decorato con diploma imperiale
di Carlo VI d'Asburgo, col titolo di principe di Arianello. Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei liberi muratori. Brevi biografie di massoni famosi (Roma-Milano,
Erasmo Editore-Mimesis); Buonomo, Quei lumi accesi nel Mezzogiorno, in Avanti!,
BECCHI, PAOLO. De Luca, S. Il Pensiero Politico di F. Un'Analisi Critica. Il
Pensiero Politico; Firenze, Seelmann, Kurt. La proporzionalit fra reato e pena.
Imputazione e prevenzione nella filosofia penale dell'Illuminismo (Mulino);
Trampus, Antonio, Diritti e costituzione (Mulino, D. Valente,"Poliorama
Pittoresco", Conferenza tenuta dal comm. Masucci al Circolo giuridico di
Napoli, n.p.: Napoli, Tip. gazz. Diritto e giurisprudenza, Ruggiero, Un uomo,
una famiglia, un amore nella Napoli del Settecento, Alfredo Guida Editore
Pecora Gaetano, Il pensiero politico. Una analisi critica, Rubbettino Editore,
Ferrone Vincenzo, La societ giusta ed equa. Repubblicanesimo e diritti
dell'uomo, Roma-Bari, Laterza, Cozzolino Bernardo, San Sebastiano: Un
itinerario storico artistico e un ricordo (Edizioni Poseidon, Napoli Giancarlo
Piccolo, Cappella Filangieri. Indagini sulla Parrocchia Immacolata e
Sant'Antonio, Cercola (NA), IeS Edizioni, Cercola F.S. Salfi, Franco Crispini,
Elogio, Cosenza, Pellegrini, "Frontiera d'Europa" (Rivista storica
semestrale, Esi editore Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), intitolato
Studi f. Berti, F., Il repubblicanesimo, Pensiero politico Mongardini, C., Politica
e sociologia, Giuffr, Trampus, A. e Scola, M., Diritti e costituzione. Pensiero
politico. Ascione Gina Carla e Cozzolino Bernardo, Cappella di San Vito Martire
a San Domenico: Il restauro del dipinto della Madonna del Carmelo di Amato,
Pref. S.E. Card. Crescenzio Sepe, San Sebastiano. F. Illuminismo in Italia.
Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Open
MLOL, Horizons Unlimited srl. Il pensiero politico di.Una analisi critica, su
politica magazine. detto, e giustamente,
che Herbart stato il creatore della
pedagogia scientifica, perch alla costruzione empirica delle teorie educative
sostituisce un sistema organi- co di
proposizioni derivanti le une dalle altre, co- me conseguenze da verit
fondamentali e come verit fondamentali da principi, laddove prima era piut-
tosto una raccolta di ammaestramenti per le di- verse contingenze che si
presentavano nella pra- tica educativa, (juasi una raccolta di ricette pe- li)
X. ()RXK\ JA - La Peda^^oo^a secondo Herharth r la sua scuola - liologna,
dagogiche; (i) e perch pone a fondamento del- la nuova scienza educativa la
conoscenza dell'e- ducando e delle leggi del suo sviluppo psichico, oftrendo,
come bene scrive il Romano, i germi preziosissimi e fecondi di ogni ulteriore
svi- luppo della psicologia pedagogica. Ma non si deve dimenticare che, prima
di Herbarth, il nostro F., pur non essendo un pedagogista sistematico, n
preoccupandosi, come il primo, di organizzare un sistema scientifico di
Pedagogia, abbia studiato il fatto del- l'educazione umana come acquisto lento
e graduato della psiche, svolgentesi e sviluppantesi per gradi, sino alla
consapevolezza e libert del volere. Tanto Herbarth quanto F. partono dal
principio lockiano della tabula rasa, che con le masse apperccpicnti del primo,
e la pci'- ce^ione e la inenioria del secondo si svolge in intelligenza
operante; e dall'amoralit del neonato, per via dell'istruzione educativa e
delle casuali contingenze della vita, all'acquisto del carattere morale e della
felicit. Ottimisti entrambi, come tutti i filosofi e pedagogisti del secolo
XVIII, . all'istruzione asse- [CREUARO - Aa/ Genovesi a GALLUPPI y,-^.- poli.]
L'uomo non ha idee innate, nasce nell'igno- ranza di tutto, non n buono n cattivo: le circostanze fortuite, o
deliberate merc l'educazione intenzionale e metodica, lo piegheranno al bene o
al male, lo renderanno colto o incapace di guidarsi nelle vicende della vita.
L'errore acquisito; e poich
l'infanzia l'et della curiosit e della
imperfezione della ragione,
ordinariamente l'epoca di questo fatale acquisto. 11 F. segue la teoria
delle facolt, efificacemente combattuta da Herbart, e dalla psicologia contemporanea,
che vede in essa il massimo grado d'imperfezione della scienza e il sepolcro
della ricerca. Ma, pur affermando che le facolt di scn'irc, di pensare, di
z'olcrc, sono nell'uomo appena nato, non le considera; entit reali,
personificazioni di tante e diverse forze a s e trascendenti, ma semplicemente
attitudini, potenze della mente, che trovano fuori dell'uomo le cause del loro
sviluppo. Queste cause sono le circostanze nelle quali viene a trovarsi l'uomo;
e l'oggetto dell'educazione appunto di
somministrare un concorso di circostanze il pi atto a sviluppare queste facolt,
secondo la destinazio- DANDOLO - Appunti di filosofia - Messina, COLOZZA ne
dell'individuo e gl'interessi della societ della (juale membro. Poich l'anima una talutla rasa, senza pen- sieri e senza
desiderii, come acquister essa le conoscenze e perverr agli atti volontari? La
prima operazione dell'intelletto la
percezione, ossia l'impressione che si fa nell'animo all'occasione di un
oggetto che agisce sui sensi. Come e perch si produce questa impressione,
l'autore non dice, forse perche accoglie le idee critiche di GENOVESI (si
veda), il (juale, come fa vedere GENTILE (si veda), confessa d'ignorare la
natura e l'origine della percezione e delle idee e la natura dell'anima:
conoscenze inaccessibili alla capacit degli uomini. Anche Locke aveva affermato
che noi non possiamo niente sapere di certo n sul corpo n sullo spirito; e,
riducendo alla sensazione (da cui derivano le idee semplici) e alla riflessione
(idee composte) l'origine di tutte le operazioni intellettuali, non indaga,
neanche lui, il come e il perch. Per lo stesso Rousseau, bench egli abbia. LOCkE
- Saggio siiirintendimcito nmano, Citato da Ferrari in Locke Roma FERRARI - LocA-c -] come il nostro F,
intuizione d'una nuova psicologia da porre a fondamento dell'educazione, le
funzioni psicologiche, come scrive lo Stoppoloni, sono sempre quelle immaginate
dagli aristotelici medioevali, tutte belle e formate, incastonate l'una dopo
l'altra, l'una sopra l'altra. F. per riconosce che le facolt intellettMali,
quattro, secondo lui, si annunziano sollecitamente e contemporaneamente, e si
svilup- pano gradatamente. V Non confondiamo l'annunzio delle facolt
intellettuali, col loro sviluppo. Il primo
sollecito e quasi contemporaneo, ma l'ultimo lento e progressivo. Ripudiate le idee
innate, ammesse le facol- t che si svolgono gradatamente, secondo l'et del
bambino e le speciali circostanze in cui questi sar posto, deriva che l'opera
educativa non potr che seguire il processo naturale, offrendo a queste potenze
intellettuali i mezzi per isvolger- si e svilupparsi. Ed ecco la Psicologia in
servigio della Pedagogia. F. ammette dunque quattro facolt, che si annunziano
quasi contemporaneamente, ma progressivamente si sviluppano: percezione,
memoria, immagimizione, raziocinio. \j. percezione l'impressione che si fa nel- [STOPPOLONI-
Rousseau -Roma] l'animo all'occasione di un oggetto che agisce sui sensi. Senza
di essa gli oggetti agirebbero inutilmente sui nostri sensi, e l'anima non ne
acquisterebbe cognizione alcuna. Per mezzo della mciuoria, le cognizioni
accjuistate per via delle percezioni, si conservano, si riproducono, si
riconoscono. Adoperata appena annunziata
sarebbe l'istesso che impedirne lo sviluppo. Bisogna aspettare che sia nel suo
vigore per profittarne, e nel suo vigore non
prima che il bambino abbia nove anni, dopo che la sua intelligenza, per
via dell'istruzione fornita con le percezioni, abbia acquistato vigore. Si
potrebbe domandare a F. come potr essere nel suo vigore una facolt che non sia
stata esercitata; ma ai suoi tempi erano igno- te le leggi dello sviluppo
sincrono delle attivit psichiche, che in Herbart, con la teoria della
imiltilarit dell'interesse e della concentrazione delristrLzione, trovarono il
genio precursore. Avute le immagini e le rappresentazioni de- gli oggetti reali
per mezzo deWa. />ercezione e del- ia memoria, l'uomo le compone e le
combina per mezzo deW immaginazione (terza facolt), la quale, per isvilupparsi
richiede un lungo lavoro intellettuale percettivo e memorativo. L'ultima a
svilupparsi la facolt di ragio- nare, che
combina e compone, non gi le idee degli esseri reali, opera questa
dell'immaginazione, ma le idee di gi generalizzate, cio quelle delle qualit,
delle propriet, dei rapporti di esseri che non hanno cosa alcuna di reale, e
non sono altro che nostri modi di vedere e di pensare, e pure astrazioni. La
divisione lockiana in idee semplici, prodotte dalle sensazioni, e in complesse,
prodotte dalla riflessione, in F. ancora
pi complessa. Tutte le idee semplici sono anche astrat- te; ma alcune si
acquistano immediatamente, per mezzo dei sensi (colore, freddo, caldo) e sono
quindi idee astratte e semplici ma dirette; altre non riconoscono nei sensi la
loro remota origi- ne, e si formano per successive e combinate operazioni
dell'intelletto (idea dell'esistenza, del- l'essere) e sono astratte e semplici
ma indirette. Altre idee, in line, hanno, come le seconde, la loro remota
origine dai sensi, si formano per combinate e successive operazioni
dell'intelletto, ma si rendono quindi di nuovo sensibili coi mezzi immaginati
dall'uomo. Tali, per esempio, in geometria le idee di linea retta, di superhcie
piana, che costituiscono una terza specie di idee: le astratte e semplici ma
indirette e figurate. Queste tre specie di idee semplici si acquistano: le
prime, coU'associare la parola che esprime l'idea (es. rosso) con la sensazione
del colore; le seconde, con operazioni successive dell'intelletto di astrazioni
e di sintesi; le terze, col primo procedimento e col secondo. Altre idee sono
composte, (costituite da idee semplici) (juali: corpo, sostanza, albero,
animale, ecc., che hanno subita una considerevole progressione di operazioni
intellettuali. F. offre un saggio del procedimento mentale per l'actiuisto
dell'idea astratta di ciuercia, albero, vegetale, corpo, sostanza, che una bellissima pagina di psicologia,
giudicata dal NISIO (si veda) il pi bel tratto che abbiamo nella letteratura
filosofica. Stabilito che le facolt intellettuali si svilup- pano
progressivamente, consegue che il savio educatore debba saper con quali esercizi
comin- ciare e dove pervenire; e il periodo educativo sappia dividere in tanti
gradi, quanti sono quel- li dello sviluppo intellettuale. Cos, nella prima et,
quando padroneggiano le sensazioni che ci ventrono dal mondo esterno, devesi
secondare tale disposizione naturale, offrendo per pascolo all'intelligenza
materie di studio che trovino nella percezione sensibile il loro fondamento.
Tali sono, oltre della lettura, della scrittura, dall'aritmetica,
l'osservazione sul- le produzioni e sui fenomeni della natura, il disegno e
l'esercizio diretto dei sensi. L'uso della seconda facolt, la nienioria, as- [Kisio] segnato al quinto anno
d'istruzioni. Di questa facolt non bisogna abusare, perch un pregiudizio considerare la memoria una
macchina le ruote della quale diventano altrettanto pi facili, quanto pi sono
state usate e le di cui molle acquistano maggior vigore, a misura che vengono
con maggior forza e con minore intermissione compresse; ed assurdo il metodo - colt preesistenti
all'attivit psichica, artihziosamente, seguendo l'indirizzo allora comune e
diffuso, conseguenza necessaria, come bene afferma il De Dominicis, della
teoria delle facolt, asse- o-na date et, con nette demarcazioni, per il loro
sviluppo e la loro educazione. Nell'istesso errore caduto Rousseau. Oggi si farebbe compiangere
il pedagogista che vofesse scindere cos l'unit della psiche, e che credesse
incapaci i bambini di ragionamenti e di astrazioni, prima che fossero passati
attraverso all'educazione speciale della percezione e della memoria; poich,
come scrive l' Angiulli, una del- [ (lUl F. vuole pervenire 2\X autonomia men-
tale, che dev'essere il fine ultimo di ogni educazione intellettuale. le
conquiste pi importanti dei moderni studi psicologici consiste nella scoperta
dell'unit di composizione della mente. Le operazioni pi al- te dell'analisi e
della sintesi, della astrazione, del raziocinio, ci chiariscon modi diferenti e
pi complessi di ([uel processo della discriminazione e dell'assimilazione che
si rivela anche nella forma pi bassa dell'esperienza e della sensazione: Anche
tra gli Herbartiani, il Lindner distingue tre gradi o periodi di sviluppo
intellettivo, che sono: i quello ^VC accoglimento (pc'cc- zione)- periodo
dell'infanzia, periodo dell'imparare; 2 (juello del raccogliere ed ordinare -
periodo dell'adoloscenza- periodo dell'imparare; 3 quello dW elaborazione
(apercctio)i) - periodo della giovent - periodo della formazione dei pensieri.
Anche la Pedagogia scientifica ammette dif- ferenze relative alle diverse et
del discente; ep- per vuole che i gradi dello sviluppo psichico si
corrispondano con quelli dello sviluppo fisiologi- co, e distingue l'infanzia
dall'adolescenza; e queste, dalla giovent e dalla maturit: periodo in AXGIULLI
- La Filosofia e la Scuola - Nap>oli, ORESTANO - An^irilli Roma; COLOZZA - Ani^iiili- Diz. di Pedag.
cit; DE DOMlNiCIS, che in - IJnce di Pedagogia. I, formula la legge della
simultaneit della cultura psichica. FORNELLI- La Pedagogia secondo Herbart,
ecc. cui sensazioni e percezioni sono prevalenti, l'impulsivit vince il potere
d'inibizione; e periodo dell'attivit memorativa e immaginativa, dei sentimenti
sociali ed estetici, e via; e appresta va- ria coltura, tendente a rispettare
la legge del tempo educativo, cos formulata da Dominicis. Per, mentre il
sistema di F. e della vecchia Pedagogia empirica delle facolt si e- saurisce in
una serie di educazioni parziali, quello dei pedagogisti contemporanei, pur
riconoscendo delle prevalen^-e nei gradi dello sviluppo, non circoscrive
l'azione educativa, ora alla sola percezione, o alla sola memoria, o alla sola
immagi- nazione; ma, accettando il principio Herbartiano della tmUtilarit deir
interesse, anche nella pi ele- mentare lezione cerca di sviluppare, tanto
l'attivit percettiva, quanto l'appercettiva, e pervenire, dalle pi semplici
impressioni, al sentimento estetico e morale. Come si pi volte accennato, F., tanto
nell'esplicazione del suo si- DOMINICIS - IJ)iee di Pedagogia Per gli stadi
dello sviluppo intellettuale del bambino, V. CESCA - Principii di Pedagogia
Generale; DOMINICIS - Zz;(?(? di Pedagogia - - Antropologia Pedagogica - cit;
VY.^y:l -\.2l Psycologie de t'en/a?ii -Paris, SULLY Etudes sur Venfance
-Vtxx'x's,, igoo; T\\\X - Psicologia deir infanzia - Messina] stema sociologico
e giuridico, (juanto in quello educativo,
ottimista; e assegna all'educazione un potere illimitato, sia perch
parte dal princi- pio della bont originaria della natura umana, come dalla
convinzione che la buona educazione e i buoni costumi tutto possano. ottimista, co- me lo erano stati Leibniz e
Locke, Rousseau e Pestalozzi, e quasi tutti i grandi filosofi antichi e
moderni. Per far vedere i prodigi dell'educazione, F RICORDA I ROMANI, che egli
per non intende imitare quando non rispettano le leggi di natura. Se il fiero
Licurgo, col soccorso dell'educazione, pot formare un popolo di guerrieri
fanatici, insuperabili nella destrezza, nella forza e nel coraggio, per qual
motivo un legislatore pi umano e pi saggio, non potrebbe egli formare un popolo
di cittadini guerrieri, virtuosi e ragionevoli? L'istruzione diminuisce i
tristi effetti della corruzione e si oppone ai progressi del dispoti- smo e
della tirannide: ecco il principio direttivo di F.; ed ecco l'aiuto che
l'educazione porge alle altre parti della legislazione, perch si [DE DOSnKlClS
- Soc/o/ogi a Pedagogica / C.^CK - Aniinowic psicologiche e sociali
dellEducazione -W.Q^s\wai, igo.] raggiunga il fine supremo di essa: la felicit,
col benessere di tutti e la libert. E come la mano dell'uomo ha soggiogato la
natura, creando anche nuove specie di vegetali e di animali, cosi pu
trasformare, merc l'educazione, anche il mondo morale; e, dirigendo il corso
dello spirito umano, distraendolo dalle vane speculazioni, richiamandolo agli
oggetti che interessano la prosperit dei popoli, perpetuare il benessere e la
virti. Dalla suprema importanza del problema educativo, deriva la necessit che
lo Stato, come nel campo degli interessi economici e giuridici esercita il
proprio potere, dirigendo ed integrando l'azione dei singoli, cos in quello
educativo, che offre maggiori difficolt, si sostituisca senz'altro all'opera
della famiglia, per pi rispetti disadatta ad apprestare le occasioni utili e
necessarie per la formazione del cittadino operoso e morale. La teoria
socialista del F. si oppone recisamente alla individualista di Rousseau, e in
parte, di Herbart, il quale per, come bene fanno notare Credaro, Fornelli e
l'istesso Orano, tende al fine etico-sociale, apprestando una somma di
cognizioni che diventano attivit [CREDARO- FORNELLI Op. ORANO - Herbarl
-l^oxn-A., IQ06,] operanti e concorrenti al benessere della col- lettivit. Il
socialismo del Filangieri e l'individualismo dell' Herbart, (che tutt'altra cosa di quello di Locke e di
Rousseau, tendenti a formare, il primo il gcntilnovio; l'altro, riiovid)
divergenti nei mezzi, si congiungono nel fine, che di for- mare l'uomo socievole morale,
(Partendo Rousseau dal principio: tutto ci che
in natura buono e diventa cattivo
nel le mani dell'uomo, perviene alla negazione di qualsiasi azione positiva
dell'educatore sull'educando, cosi che il suo
piuttosto nichilismo pedagogico, che individualismo: n famiglia, n
societ debbono intervenire nell'educazione umana; se mai l'educatore, anzi il
pedagogo, nel significato greco, non deve che SEGUIRE, vigilare attivamente,
mai sostituirsi all'opera educatrice, progressiva della natura, al lavoro
spontaneo dei germi intellettuali e morali latenti nella personalit
dell'educando. Herbart ammette l'opera dell'uomo sull'uomo; e della scuola, per
assoluta necessit, essendo impossibile assegnare un maestro per ogni educando;
ma, potendosi per la prima educazione farne a meno, la famiglia lo sostituisce;
Sulle questioni dell'indirizzo individualista e socialista in Educazione V.
CESCA -Antinomie, STRATIC - Pedagogia socia/e e crede nulla l'ingerenza dello
vStato nella pubblica educazione, perch esso non si prende cura della massa dei
cittadini, che svolgono la loro esistenza senza compiere alcuna importante e
pubblica funzione. Esso bisogna di soldati, agricoltori, operai, impiegati,
professionisti, ecclesiastici. Allo stato importa ci che fanno tutti costoro,
ma non ci che sono, Esso non ha modo di conoscere n di migliorare l'intimo
dell'animo. Cosi Herbert sconosce, ne prevede quale alta funzione educativa lo
Stato potr e dovr, direttamente e indirettamente esercitare; e stabilendo
un'opposizione tra l'opera dello Stato e quella della famiglia, che mal
risponde alla realt delle cose, sconfessa quasi, come scrive il Credaro, l'alto
concetto che informa tutta la sua pedagogia. Il Filangieri copre le lacune,
completa le deticienze del Rousseau e di Herbart, con una visione precisa delle
esigenze della personalit dell'alunno, dei diritti e dei doveri della famio-Ha
e dello Stato, dell'efficacia e della necessit del- [ facile l'obiezione: Se
allo Stato importa ci che fanno i cittadini, deve parimenti, anzi primie-
ramente importargli ci che sono, poich l'uomo agi- sce, opera secondo che .
CREDARO; STRATIC Pedagogia sociale. OV. l'educazione sociale. Per formare un
uomo io preferisco la domestica educazione; per formare un popolo io preferisco
la pubblica. L'allievo del magistrato e della legge non sar mai un lunilio; ma
senza l'educazione del magistrato e della legge, vi sar forse un Emilio, ma non
vi saranno cittadini. [E poich il nostro Autore si propone di formare individui
sociidi, cittadini operanti per il proprio benessere e per quello della
collettivit, educazione famigliare e sociale s'integrano e si armonizzano ed
operano di conserva per la. conformazione psichica e morale del bambino, sino
alla piena consapevolezza degli atti ed all'autonomia. Vero che allo Stato F. assegna un'azione di gran
lunga superiore a quella delia- famiglia; ma bisogna esaminare la questione
senza preconcetti sentimentali o politici per convincersi che, dove le
famiglie, come purtroppo ai nostri giorni, e pi ai tempi dell'Autore, sono in
gran parte, anzi nella (juasi totalit, incapaci ad apprestare ai piccoli una
conveniente educazione, necessario che
la scuola, organo dello stato, si sostituisca a quelle, per la conservazio- ne
del patrimonio di coltura tramandatoci dalle generazioni passate, per la
diffusione della moralit e per la difesa contro i nemici interni ed esterni.
L'Autore enumera i motivi che lo determinano per l'educazione pubblica, fra cui
l'ignoranza e la miseria del popolo, la perdita dei parenti e l'abbandono dei
genitori negli orfani e negli esposti, la mancanza di tempo, le dissipazioni e
i piaceri negl'industriali e nei ricchi, i pregiudi- zi e gli errori diffusi;
l'effetto dell'amor male inteso e della debolezza cos frequente nei genitori;
la cura eccessiva della conservazione fisica, che produce pusillanimit e
debolezza d'animo e che distrugge la confidenza nelle proprie forze; e sopra
tutto la corruzione dei costumi in tutte le classi sociali. Anche Herbart, pur
essendo fautore dell'educazione famigliare, riconosce che in pratica le
condizioni della massima parte delle fa- miglie sono tutt'altro che propizie
per l'esecuzione del programma educativo e riconosce pure che la spinta
dell'emulazione si trova nelle scuole pubbliche; ma crede che le nature
gagliarde non abbiano bisogno dell'impulso dell'emulazione; e per esse, in
difetto dell'educazione famigliare, consiglia gl'istituti privati, dove
l'istruzione pu svolgersi rapidamente e meglio adattarsi all'individualit
dell'alunno, ([CREDARO] Si potrebbe domandare all'I lerbart quali e (juante
sono le nature gagliarde, che non abbiano bisogno della spinta dell'emulazione;
e se non sia in vece nel vero F., il quale
con- vinto che l'educazione sia quasi interamente fondata
sull'imitazione. Tra i vantaggi dell'educazione pubblica, F. d grandissima
importanza al fatto che, solo per mezzo di essa pu formarsi il carattere
nazionale, appunto per effetto dell'imitazione. I fattori dell'educazione sono
la natura, Varie, le circostanze . Cos il nostro pedagogista mostra di avere
una visione precisa della natura del fatto educativo, che involge tre
fondamentali (questioni: eredit psico-fsica, azione dell'ambiente sociale,
azione deliberata del docente sul discente. Lo stesso triplice fattore nel
processo educativo rileva Dominicis: (i) \V Educazione, date dai pi noti
filosofi e pedagogisti antichi e moderni, veda: G. TAURO - Introduzione alla
Pdagogia Generale, Roma] ti, si sia di pi avvicinato al pi completo con- cetto
del fatto dell'educazione; e pi chiaramen- te manifesta il suo acume quando
determina che l'oggetto dell'educazione morale
di sommi- nistrare un concorso di circostanze il pi atto a sviluppare le
facolt di sentire, di pensare, di volere, a seconda della destinazione
dell'individuo e degl'interessi della societ. Confrontando questa definizione
con quelle di DOMINICIS e di CESCA, si osservano delle somiglianze,
specialmente per ci che si riferisce alla coordinazione dei mezzi tendenti a
integrare le esigenze individuali con le sociali. Bisogna anche considerare che
la definizione di F. si riferisce alla sola educazione morale, e perci trascura
gli elementi tendenti a porre in luce altri fattori, che l'Autore va rivelando
quando si occupa particolarmente di istruzione, educazione fisica, ecc. E
importante notare che F., anche per l'educazione morale, vuole lo sviluppo
della facolt di sentire, di pensare, cio Xistritzione, propriamente detta, che
per ci istruzione educativa; cosa che,
per altro, egli fa vedere in tut- ta l'opera, e specialmente dove si occupa
dell'istruzione pubblica. Egli il primo
a porre in rilievo leducazione delle circostanze; e afferma giustamente che un
sol uomo malvagio e stupido, a contatto col fanciullo, pu distruggere il lavoro
di pi anni; e vuole che egli viva in un ambiente di at- tivit e di moralit,
qual' la casa ^\ custode. F. divide l'educazione in fisica, morale, scientifica
(intellettuale): tripartizione respinta daglHerbartiani, i quali escludono dal
campo educativo le leggi dello sviluppo fisico, che assegnano alla medicina e
all'igiene. Ma generalmente adottata, se non per significare tre ordini di
fatti irriducibili, che l'unit psicofisica
ormai dimostrata ed accettata dalla Pedagogia positiva, per comodit di
trattazione, e per porre in rilievo i tre aspetti o momenti del fatto
educativo, inteso nella sua pi larga significazione. L'una di queste tre
educazioni deve prevalere sull'altra, secondo la destinazione sociale del
bambino; perch, mentre per la classe degli ar- tigiani dev'esser prevalente
l'educazione fisica, come quella che pone l'operaio in condizione di affrontare
le fatiche e i disagi del lavoro mate- riale, per la classe dei cittadini che
saranno av- [CESCA; CREDARO; CESCA- Op. Ht. - Gap. I - II; BAIN, La Scienza
de//' Educazione, Torino; MARTIXAZZOLI
Educazione, Dizionario di Pedagogia Martinazzo/i e Credaro- Cit.] -viati
alle professioni, sar mai^o-iormente curata l'educazione scientilica; e
parimenti sar appre- stata una speciale educazione morale, giustificata
dall'ambiente sociale in cui gli educandi verranno a trovarsi. E, a mio avviso,
se vero che l'uomo e fa, in massima parte, ci che le persone con
cui si trova pi spesso a contatto, le proprie occupazioni, le impressioni della
fanciullezza relative all'ambiente famigliare, lo fanno essere e gli fanno
fare, l'educazione uniforme, date le attuali differenze sociali, intellettuali,
morali, non soltanto un'utopia, ma anche
un principio non rispondente alle leggi di evoluzione. Per pervenire
all'uguaglianza ideale degli uomini, dato che ci possa costituire un bene, necessario partire dalle disuguaglianze
attuali, e adattare istituzioni legislative, economiche, educative ai vari
gruppi o classi che costituiscono gli strati sociali. Considerare il figlio del
contadino, dell'operaio, del minatore, suscettibile della stessa educazione da
apprestare al bambino ricco e, in generale, pi sviluppato fisicamente,
intellettualmente, moralmente,
un'illusione, retaggio d'un falso concetto di democrazia. La pedagogia
scientifica, come rispetta l'in- [y. A. 'ilCEFO'RO - Antropologia delle classi
povere, Milano; MONTESSORI - Antropologia Pedagogica - Milano.] dividualit del
bambino, tende alla divisione del- le scolaresche in gruppi, che presentano
varia- zioni fisiopsichiche e morali, in armonia coi principii della psicologia
collettiva. Come bene scrive FERRI (si veda). Ogni maestro che ha qualche
attitudine all' osservazione psicologica, distingue sempre in tre categorie la
sua scolaresca. Quella dei discepoli volenterosi e diligenti, che lavorano per
propria iniziativa e senza bisogno di rigori disciplinari; quella dei discoli
ignoranti e svogliati, nevrastenici o degenerati, dai quali n la dolcezza n i
castighi possono ottenere qualche cosa di buono; quella infine d coloro, che
non sono n troppo volenterosi, n del tutto discoli, e pei quali pu riuscire
veramente efficace una disciplina fondata sulle leggi psicologiche. Cos avviene
delle soldatesche, cos dei prigionieri, cos di ogni associazione d'uomini e cos
anche dell'intera societ. I gruppi d'individui, stretti da relazioni costanti,
che ne fanno altrettanti organismi parziali nell'organismo collettivo della
societ, riproducono in questo la societ stessa, come un frammento di cristallo
riproduce i caratteri mineralogici del cristallo intero. Ed in Nota: Vi tuttavia qualche differenza nelle
manifestazioni dell'attivit di un gruppo di uomini e di tutta una societ. Per
questo io [VSyslK^O - Psicologa Podagogica
MONTESSORI, Antropologia Pedagogica credo che tra la psicologia, che
studia l'indivi- duo, e la sociologia, che studia una societ intera, vi debba
essere un anello di congiunzione in ci che si potrebbe chamdLve psi'co/oo-m
collettiva. I fenomeni propri di certi aggruppamenti d'individui, sono regolati
da leggi analoghe, ma non identiche a quelle della sociologia, e varia- no a
seconda che i gruppi stessi sono una riu- nione accidentale o permanente
d'individui. Cos la psicologia collettiva ha il suo campo d'os- servazione in
tutte le riunioni di uomini, pi o meno avventizie: le vie pubbliche, i mercati,
le borse, gli opifici, i teatri, i comizi, le assemblee, i collegi, le scuole,
le caserme, le prigioni, ecc. La tesi di F. si riassume dunque in questo
concetto: educazione universale, ma non uniforme; pubblica, ma non comune. Egli
fonda questo principio sulla divisione dei cittadini in due grandi classi: in
quella di coloro che servono o potrebbero servire la societ colle loro braccia,
ed in ([uella di coloro che la servono o potrebbero ser- virla con
l'intelletto; a ciascuna di esse intende for- nire una speciale educazione. Il
nostro Autore [Ferri espresse questo concetto geniale nella prima edizione
della sua forte opera. Soa'o/o-ia Cri! ifia/e - Quindi seguirono gli studi
speciali pregevolissimi di:SlGHELE- Lm. folla delinquente -boxino: LE BON - Z,a
Psycologie des foules, Paris; ROSSI, L'animo della folla; Cosenza; 'TlWTlC -
Psicologia Collettiva, Palermo] non propone la ferrea distinzione delle classi
indiane; ma una pratica, utile, necessaria distinzione educativa, che avvii,
senza perturbamenti e spostamenti, allo sviluppo graduale ed armonico, fisico,
intellettuale e morale, delle varie classi di cittadini che speciali
circostanze e attitudini determinano a seguire una via piuttosto che un'altra.
Il F. parte poi dal concetto, forse non errato, che il figlio del contadino, il
quale abbandona la zappa per correre alluniversit o allaccademie, priva la
classe produttiva d'un individuo, per aggiungerlo alla classe sterile, la
quale utile sia meno numerosa che sia
possibile. Lo stato perde un colono per acquistare per lo pi un infelice
architetto, un pessimo pittore o un semidotto, La preparazione del cittadino,
sia che debba attendere a un mestiere o a professione liberale, opera dello stato, per le ragioni gi esposte.
A tal fine in ogni provincia un
magistrato [Su l'ingerenza dello Stato in materia di pubblica istruzione, vedi
l'importante volume di G. M. de FRANCESCO - Rapporti tra to Stato, Comune ed
altri enti locali in materia di Pubblica Istruzione- Athenum. Roma. Posto, tra
i fini dello stato, quello dell'istruzione, si presenta logicamente il problema
se, per il raggiungimento di tale fine, sia necessaria l'azione della pubblica
amministrazione, intesa come una forma di attivit statuale, e precisamen-
supremo, rappresentante del governo, incaricato della pubblica educazione, e in
ogni comune 7ia- j^i^i>-at iifciori e custodi. Poich sarebbe impossibile
fondare tanti colles^i quanti fossero necessari per contenere tutti i fanciulli
della prima classe, dai cinque ai diciotto anni, l'Autore vuole solo per i
fanciulli della seconda classe, gli agiati (plebei o nobili non importa, anzi
tanto meglio per l'educazione sociale) la fondazione di collegi; e aftda i bam-
bini poveri, a gruppi di quindici o meno, ai ai- stodi, scelti dal magistrato
comunale fra gli ar- tigiani pi probi e virtuosi del Comune, i qua- li vengono
istruiti e vigilati dal magistrato comunale. Ciascun custode veglia sui
fanciulli a lui affidati, li dirige, li nutrisce, li veste, secondo le istruzioni
del magistrato comunale; li accompagna alla scuola, che dura due ore e mez- zo,
e li tiene quindi con se per avviarli nell'ap- j)rendimento del suo mestiere.
Il piano di educazione generale, riguardante come quell'attivit concreta e
pratica, con cui lo stato, nei limiti del diritto obbiettivo, persegue i pro-
pri scopi: problema che lo Stato moderno ha risoluto nel senso affermativo non
solo, ma anche in modo cosi ampio, cos comprensivo ed efficace, e, sopratut- to
cos uniforme da fiir arguire l'esistenza
di una legge storica, che ottiene nel secolo nostro il suo esplicamento Lo
Stato i)u dirsi oggi, presso tutte le nazioni civili, il pi grande e poderoso
organo per lo sviluppo della vita intellettuale del popolo. te lo sviluppo
fisico, il morale, l'intellettuale
stabilito dalla legge. Il padre, appena il figliuolo ha compiuto V anni
lo affida al magistrato comunale d'educazione pubblica. F. discute due gravi
questioni, che risolve con fine accorgimento: l'istruzione obbligatoria? come rispettare la vocazione
individuale e il diritto del padre nella scelta del mestiere? L'autore, come
poi i pedagogisti della Rivoluzione, non vuole l'obbligo dell'istruzione; perch inutile obbligare le famiglie quando i
vantaggi sono tali che nessun padre
possibile possa volontariamente rinunziarvi. E' anche mia convinzione
che quando noi sapessimo attuare, con le necessarie difierenze volute dal
tempo, un'organizzazione scolastica rispondente all'ideale del Filangieri,
apprestando ai piccoli il pane e la cultura dello spirito ed avviandoli ai
mestieri, e le famiglie cosi vedessero i vantaggi, anzi la necessit della
scuola, sarebbe superfluo ogni costringimento, Nelle nostre istituzioni
scolastiche si va ora afermando il principio dell'operosit, con la pre-
parazione manuale alle arti ed ai mestieri, prin- cipio fattivo genialmente
intuito da Pestalozzi [SERGI - Come la scuola pu educare - Nuova Antologia i
marzo igio] perch l'istruzione sia educativa. Il movimento, partito dalla
Svezia, si propagato rapidamente negli
Stati civili; ma, in Italia specialmente, la tendenza conservatrice si opposta fortemente alla innovatrice, e l'idea
del- la scuola operativa e fattiva incontra ostacoli in coloro che ne credono
assolto il compito con l'insegnamento e l'educazione morale. Di pedagogisti
anteriori a F., nessuno aveva proposto, come il Nostro, un ordinamento
scolastico che fosse suftciente a se stesso, dando modo di provvedersi
all'avvenire dei fanciulli. Che se Rabelais vuole che Gargantua spacchi le
legna nei giorni piovosi e sappia costrui- re strumenti e figure geometriche;
se il geyitiluoiuo del Montaigne dev'essere esperto nel ca- valcare, nel
danzare, correre, maneggiare le ar- mi, e deve aver muscoli di acciaio; se
quel- PESTALOZZI Come Geltriide istruisce i suoi figli, Milano; SERGI- Ar/ico/o
citato in N. Antologia: ElAh. e DI ROSA - Coordinazione della scuola Popolare
alla Me- dia - Roma, STOPPOLONr - Rabelais; MONTAIGNE - Essais-Tovi\Q premier-
Paris. E' nota la frase del
Montaigne. Ce n'est pas une ame, ce n'est pas un corps qu'on dresse, c'est un
hommc, il n'en faut pas faire deux. Et comme dit Platon, il ne faut pas les exercer l'un
sans l'au- tre, mais les conduire gallement, comme un couple de chevaux
attelez un mesme timon ] lo del
Locke addestrato al lavoro; (i) se Emi-
lio apprende un mestiere; se Pestalozzi vuole l' attivit e la fattivit; sono
tutti ben lon- tani dalla concezione di F.; perch i pedagogisti citati, ed
altri, che attingono nei primi, quali Basedow, Salzmann, Froebel, Herbart
avevano vagheggiato il lavoro, come scrive Dominicis, come mezzo adatto per
temperare il lavoro della mente; come utile esercizio per temperare
l'irrequietezza dell'et giovanile; come atto a rendere utili alle moltitudini
le scuole e a dar loro sembianze democratiche; come mezzo per offrire a tutti,
in certe evenien- ze, modo di vivere esercitando un mestiere; e anche per
rendere sotto alcuni aspetti, attivo e [FERRARI - Zc^/(-> E F.: Due
passioni, l'una piccola, l'altra grande; l'una perniciosa, l'altra utile; l'una
incompatibile colla grandezza dell'animo e l'altra a questa costantemente
associata, procedono entrambe dall'istessa origine. La vanit e l'amor della
glo'ia sono queste due passioni, e il desiderio di distinguersi ne la madre comune. Questo desiderio di di-
stinguersi, indizio ed effetto della sociabilit; que- sto desiderio che si
manifesta nel barbaro e nel civile, nello stolto e nel saggio, nell'empio e
nell'eroe, questo desiderio che si annuncia fin dall'adoloscenza, e che
accompagna l'uomo fino alla tomba; questo desiderio, io dico, produce l'una e
l'altra passione, a seconda che male o
bene maneggiato e diretto. Egli diviene vanit negli uni, amor della (gloria
neofli altri. F. Ammessi i premi, fondati sulla pubblica o- pinione, vuole
siano assegnati con solennit, e che il giudizio sia dato dagli stessi
fanciulli, F. proscrive l'uso del bastone. Non bisogna mai battere i fanciulli,
per nessun motivo, perch non si deve permettere che i mezzi destinati a
risvegliare l'idea della dignit, vengano combinati con quelli che avviliscono e
che degradano. I fanciulli abituati alle pene corporali, perdono la sensibilit
e diventano vili, ipocriti, vendicativi, crudeli. Tanto il magistrato, quanto
il custode, cos nel correggere, come nel punire, dovrebbero serbare quella freddezza
che dipende dalla ragione, e mai abbandonarsi a quel ca- [Per tutto quanto ha
rapporto con la discipli- na scolastica e la formazione del carattere, bench
af- fidi alla religiosit, come la pi parte dei pedagogisti tedeschi, un'azione
preponderante, vedi: FORSTER- Se leo/a
Carattere - Tvdid. it. Torino, dove riferisce il sistema americano e
svizzero del self- governeiimeit e dello school - city - system, che affida ap-
punto d\\di public - opinion l'assegnazione dei premi e delle ricompense. F.
anche: BAIN- C^/>. f/V, il quale scrive. Il principio di Bentham del giur
della scolaresca, bench non riconosciuto formalmente nei metodi moderni, vige
sempre tacitamente. L'opinione della scuola, nel massimo suo d'efficienza, il giudizio riunito del capo e dei membri,
del maestro e della massa; ogni qualunque altro stato di cose guerra, bench anche questa non si possa
evitare. F. lore e a (luei trasporti che indicano passione, Nel piano di
educazione morale tracciato da F., entra poco l'insegnamento reli- gioso, ed
entra in quanto costituisce un omaggio al creatore, al di fuori di qualsiasi
credo religioso, perch i princii)ii di morale non deri- [Da Locke, a Kant, a
Herbart, a F., tutti in ci sono d'accordo, ma in pratica non riesce molto
facile. Sul sistema punitivo scolastico, come sul sociale, non pu certo essere
detta ancora l'ultima parola; necessario
prima determinare con certa precisione glimpulsi, i moventi psicologici e
sociali dell'azione, de- finire le basi della responsabilit, sfrondare la mente
di legislatori e di maestri da molti pregiudizi psicologici, religiosi,
sociali. La questione del libero arbtrio
d'importanza primaria; e F. giustamente scrive. La negazione del libero
arbitrio pu soltanto e deve avere influenza nel sentimento che accompagna
questa reazione difensiva; poich cos nelle punizioni famigliari, come in quelle
scolastiche, come in quelle sociali, chi crede al libero arbitrio reprime gli
autori di un atto sconveniente o dannoso con sentimenti di rancore, o per lo
meno con ci che dicesi risentimento in quanto attribuisce il fatto alla
malvagia volont (anche nei bambini!). Il determinista invece si difende o
reprime per quanto necessario, ma senza
rancore e colla persuasione, togliendo le occasioni al mal fare o distraendo
per vie meno dannose le tendenze individuali. Piuttosto che abbandonare i
bambi- ni o gli scolari alla propria espansivit fisio-psicologica per reprimere
gl'inevitabili eccessi, limitandosi tutt'al pi all'inutile tentativo di prevenirli
con le misure o le imposizioni, vai meglio incanalare la loro attivit per vie
utili, distraendola con occupazioni adatte e sopratutto togliendole
gl'incentivi degli urti e quindi delle .sopraffazioni vano dalle pratiche del
culto. F. affida la cura dell'istruzione religiosa allo stesso magistrato. Se
mi si opporr che questa cura dovrebbe essere affidata ai ministri dell'altare,
piuttosto che al magistrato educatore, io risponder che, siccome niuna re-
ligione proibisce ai padri d'istruire nei loro dommi i figli, molto meno potr
proibirlo al magistrato che dalla pubblica autorit viene scelto per farne le
veci; dir che non si deve mai inutilmen- te moltiplicare il numero degli
istruttori, dir che il magistrato si dee supporre pi istruito nell'arte
d'istruire i fanciulli, di quello che lo pu essere un uomo, che a tutt'altro
oggetto ha rivolte le sue cure, dir finalmente che, finch non si combinino
perfettamente gl'interessi del sacerdozio con quelli della societ e
dell'impero, sempre pericoloso il metterlo
a parte della pubblica educazione. Egli assegna alla religione l'ultimo posto
nel suo piano di educazione morale, e vi spende po- che parole, sperando che il
lettore non lo accu- si per ci di riconoscervi poca importanza. Gli che, si giustifica l'Autore, se non scrivesse
per tutti i paesi, per tutti i popoli, per tutti i tempi; se l'universale e il
perenne non fossero l'og- getto della scienza; o pure se uno fosse il tempio,
una l'ara ed uno il nume; se comune fosse il culto, uniformi i dogmi e la fede
uniforme presso tutti i popoli ed in tutti i tempi, potrebbe entrare in
dettagli che allo stato delle cose
conveniente evitare. La ragione dell'esclusione dell'elemento religioso
in educazione morale va anche ricercata nell'intima convinzione dell'Autore che
la morale al di sopra di (jualunque
religione. Per, nel- la preoccupazione costante di rendere accetto a tutti il
suo piano educativo, egli tempera con certa forma il suo pensiero ardito, e,
questa volta eretico. Ecco perch non accoglie l'idea del Rousseau, che non vuol
si parli di religione ad Emilio, se non quando sar in grado di comprendere la
divinit, senza farne oggetto d'idolatria. Il nostro autore dichiara che non
ammette n contrasta tale teoria; per, pur suggerendo che l'insegnamento
religioso cominci quando i bambini sono ammessi ai discorsi morali, (9-10 anni)
scrive che se non si vogliono fare dei fanciulli tanti idolatri, o almeno tanti
antroponiorfiti, il magistrato non risparmier alcuno dei mezzi atti a comunicar
loro la pi semplice e la pi augusta idea del divino, allontanando dalle sue [F.
ROUSSEAU mile. espressioni tutto ci che potrebbe associarla alle materiali
immagini, alle quali l'uomo purtroppo
inclinato a rappresentarla, Mira del magistrato, nell'educazione del sentimento
religioso, dev'esser di prevenire il fanatismo e le false massime di morale;
perniciose, specialmente nel popolo. Poche preghiere, semplici e brevi, ma
piene di luminosi principii di morale universale. Epper nessuna differenza tra
le istruzioni morali dei fanciulli della prima e della seconda classe. Qualche
difierenza solo nei discorsi morali. Poich i fanciulli della prima classe sono
pi esposti alla vilt, e quelli della seconda all'orgoglio, per la loro diversa
condizione sociale, bisogna fare in modo che tali due opposti sentimenti
scompaiano negli uni e negli altri, espo- [Sulla tendenza antropomorfa del
bambino e su quello che Cesca chiama secondo momento del compito negativo deW
istruzione, cio lo sradicamento della tendenza antropomorfa, vedi lo stesso -
Coltura e Istruzione Anche: SPENCER Principii di Sociologia il curioso brano di
poesia in francese arcaico, narrante come Domeneddio sia andato in Arras, ad
imparare le canzoni del paese, come vi cadde malato e come fa curato da un
trovatore, che lo fece ridere. Si ricordi che tutta la poesia provenzale e la
provenzaleggiante italiana, fino alla scuola del dolce stil novo, soggiace alla
tendenza animistica, con la personificazione del sentimento dell'amore. F..
Art. nendo loro i principii deirumana eguaglianza, del rispetto che si deve
all'uomo; dell'ingiustizia di quello che si cerca nella sola condizione;
dell'insania, dell'orgoglio e della piccolezza della vanit. Nei bambini della
seconda classe bisogna specialmente sviluppare il sentimento dell'umanit e
della compassione. Per divenir compassionevole un fanciullo, bisogna ch'egli
sappia che ci son degli esseri simili a lui, che soffrono ci che egli ha
sofferto, che sentono i dolori ch'egli ha intesi e ch'egli sa di poter sentire.
Bisogna finalmente che la sua immaginazione sia attiva a segno da potergli
presentare e comporre queste dolorose immagini, allorch vede soffrire, e da
trasportarlo, per cos dire, fuori di se medesimo per identificarlo coU'essere
che soffre. E sopratutto bisogna rinvigorire, stringere i vincoli sociali, che
l'inevitabile disuguaglianza delle condizioni tende purtroppo a indebolire; e
promuovere la civilt delle maniere, con l'esempio fornito da tutti coloro che
circondano il bambino. Per i fanciulli della seconda classe il Fi- langieri
consiglia la lettura de Le Vite di Plutarco, seguendo il consiglio di
Montaigne, accolto da Rousseau. F.. MONTAIGNE - i^^^a/V ; ROUSSEAU Evi il e -
Cit. In conclusione, il sistema morale di F. i partendo dal principio
dell'utilit sociale, principio tanto combattuto dal Rousseau, tende a coordinare
gl'interessi dell'individuo con quelli della collettivit, per raggiungere il
fine della diffusione della morale sociale:
l'azione armonica di tutti i cittadini onde raggiungersi il trionfo
della giustizia, con la libert, l'uguaglianza, la fratellanza. Credo inutile
aggiungere che l'educazione morale di F., educazione della scuola e della
vita, essenzialmente laica, umana, tanto
nel contenuto, quanto nella forma. E' questo uno dei meriti grandissimi del
filosofo napoletano, che ha potentemente contribuito a indirizzare le
istituzioni scolastiche verso il tipo ancor tanto contrastato dai fautori della
vecchia filosofia della vita, in opposizione recisa coi fautori della filosofia
della scienza, l'aureo libro del CESCA La filosofia della i///a Messina. L'Autore, sul contrasto da noi
accennato scrive. La perduranza della lotta si deve a parecchie ragioni, non
soltanto intellettuali, ma anche morali e pi specialmente sociali. La
concezione teologica sempre viva, non solo
perch il prodotto dell'eredit di una
lunga serie di secoli e perch soddisfa il bisogno di quiete e la tendenza
misoneistica cotanto diffusa in tutte le classi, ma anche perch legata tenacemente lA principio di autoritc,
e quindi s il riflesso che la base dello
spirito di conservazione del passato nell'ordine economico e nell'ordine
politico. Tutti coloro che temono di perdere qualche cos Ci differenza tra una nazione che nasce, ed una
nazione adulta. ROMOLO e NUMA seppero trovar la moneta onde comprar lopinione
dal popolo nascente, e i loro successori seppero mutarla, allorch si doveva
comprare da un popolo adidto. Ed in fatti ne tempi pi illuminati fu stabilito
tra i Romani che j consoli, i tribuni del EJiano Far. Histor. lift., Plut.
nella vita di Licurgo. Delle regole generali della scienza della legislazione.
Oggetto unico ed universale della Legislazione dedotto dallorigine della societ
civile. Di ci che si comprende sotto il principio generale della tranquillit e
della conservazione e dei risultati che ne derivano. La legislazione, non
altramente che tutte ie altre facolt j deve avere le sue regole, e i suol
errori sono sempre i pi gravi flagelli delle nazioni. Della bont assoluta delle
Leggi. Della bont relativa delle; Leggi. Della decadenza dei Codici.
Deglostacoli che sincontrano nel cambiamento della Legislazione dun popolo, e
dei mezzi per superarli. Della necessita d un censore delle Leggi, e dei doveri
di questa nuova magistratura . Della bont relativa delle Leggi considerata
riguardo agli oggetti che costituiscono questo rapporto. jfij I oggetto di
questo rapporto: la natura del Governo. Proseguimento dell istesso oggetto, su
duna specie di governo che chiamatisi misto. II oggetto del rapporto delle
leggi: il principio che fa agire il cittadino nei diversi Governi. Oggetto del
rapporto delle Leggi -- il genio, e l'indole dei popoli. Oggetto del rapporto
delle Leggi : il clima. Oggetto del rapporto delle Leggi: la fertilit o la
sterilita del terreno, gfo Sesto oggetto del rapporto delle Leggi: la
situazione e lestensione del paese. Oggetto del rapporto delle Leggi: la
religione del paese. Ultimo oggetto del rapporto delle Leggi: la maturit del
popolo. DELLE LEGGE CRIMINALE. Della Procedura. Prima parte della criminale
procedura. Dellaccusa giudiziaria presso gli antichi. Dellaccusa giudiziari
pressoi moderni. Nuovo sistema da tenersi riguardo allaccusa giudizio ria.
informa da farsi nel sistema della procedura inquisitorial.Seconda parte della
procedura criminale. Lintimazione all'accusalo, eia sicurzza della suapersona.
informa da farsi in questa parte della criminale procedura. Delle condanne per
contumacia. Terza parte della criminale procedura. Delle pruove c degli indizj
del delitti. Sulla confessione libera ed estorta. Parallelo tra giudizi del
divino detempi barbari, e la tortura. Principj fondamentali, dal quali dee
dipendere la teora delle pruo've giudiziarie. Della certezza morale. Risultati
de principj che si sono premessi. Canoni di giudicatura che determinar
dovrebbero il criterio legale. parte della criminale procedura. Della
ripartizione delle Mudi, zie ne funzioni, e della shltadd giudict del fatto.
Della viziosa ripartizione della giudiziaria autorit in una gran parte delle
nazoni Eurola m <up. Appendice
allantecedente capo sulla feudalit. Piano della nuova ripartizione da farsi
delle giudiziarie j funzioni per glaffavi criminalii. Divisione dello Stato,
ggs Articolo % Scelta dei presidi. Funzioni di questamagistratura. Durata di
questa Magistraiurae suo salario. Articolofj. Be giudici del fatto. ?oa
Requisiti legali che ricercar si dovrebbero in questi giudici. Funzoni di
questi giu- Numer di questi giudici in ciascheduna provincial? ed in ciaschedun
giudizio. Delie ripulse di questi giudici. De giudici del dritio. Numero di
questi giudici in ciascheduna provincia. Funzioni di questi gidici, Delle
sessioni ordinarie di giustizia. Delle sessioni straordinarie. Magistratura per
ogni comunit. Della criminale procedura. La difesa. Criminale procedura. La
sentenza. Appendici della sentenza che assolve, 05tr cle/7a- riparazione del
danno, e del giudizio di calunnia. Altra appendice della sentenza che assolve,
e della senzensa che sospende il giudizio. Appendice detta sentcnza che
condanna, e corichili- 5one del piano geiiera Ze diri/ornia c'fre si proposta. La scienza distoglierlo dal
provvedersi de Legislazione, del destino.Per Della colorchecker Ix-rite. Grice: There are many
references, but unsystematic, to the Romans, or to Roman Law, -- but not a
systematic chronological thing. Romolo is cited twice, and there are passing
comments on the Twelve Tables and its corrections, how the Romans were
disallowed to sell their own children. Theres a critique to the dislike for the
frugality that the Roman law enjoined. Also a praise for the dittaura there are references to Cicerone but he just as well comments on the Greek
law, and modern law from France and other European countries. His illuminism is
based after all on Montesquieu! But the references to the Roman and the Roman
law have been systematically studied. He refers to an emering nation as Rome
was under Romolo and he makes passing
comments on aristocracy, monarchy, mixed government, republic, and the question
of citizenship how the Romans bestowed
Roman citizenship on habitants of cities other than Rome! Etc. Nome compiuto: Gaetano Filangieri. Filangieri. Keywords: lo stato
secondo ragione, stato naturale stato civile
costume il romano le costume dei romani devere e volonta implicatura deontica passione e ragione illuminismo
anti-clericalism anti-Roman Grice: Catholicism gives a bad name to Roman!
-- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Filangieri,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filippis:
la ragione conversazioanle e l’implicatura conversazionale metafisica – scuola
di Tiriolo—filosofia catanzarese – filosofia calabrese. filosofia italiana –
Luigi Speranza (Tiriolo). Filosofo tiriolese. Filosofo
catanzarese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Tiriolo, Catanzaro,
Calabria. Grice: “Fillippis is an interesting one, for one there is a Palazzo
De Fillippis; for another he was into the philosophy of mathematics; he was executed,
but not for this.” Martire della Repubblica Napoletana. Nato in una
famiglia di piccoli proprietari terrieri, studia al Real Collegio di Catanzaro.
Si reca a Napoli dove e allievo di Genovesi. Ha modo di frequentare gli
ambienti illuministici entrando in contatto fra gli altri Pagano. Proseguì in
seguito gli studi in filosofia a Bologna sotto CANTERZANI. Insegna a Catanzaro.
E fra i principali artefici della repubblica napoletana. Entra nel governo come
ministro degli Interni. Con la caduta della Repubblica, venne messo a morte per
impiccagione in Piazza Mercato. Scrisse importanti opere di filosofia, quali
“Etica”; “Metafisica”, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della
patria, Torino, Bocca); Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana; Croce,
Ceci, Ayala, Giacomo, Napoli, Morano; La Repubblica napoletana” Roma, Newton), Dizionario
biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. L. Carini. Mmatematico, filosofo e
patriota italiano, considerato un martire della Repubblica Napoletana Nato in Calabria in una famiglia di piccoli
proprietari terrieri, fu allievo del Real Collegio gesuita di Catanzaro dove
ricevette una buona istruzione nelle scienze matematiche. Nel 1769 si recò a
Napoli dove fu allievo del grande economista Antonio Genovesi. Nella città
partenopea ebbe modo di frequentare gli ambienti illuministici entrando in
contatto fra gli altri con la poetessa Eleonora Pimentel Fonseca e il giurista
Mario Pagano[senza fonte]. Proseguì in seguito gli studi in matematica e
filosofia presso il collegio Ancarano dell'Università di Bologna, dove fu
discepolo del matematico Sebastiano Canterzani. Ottenne la cattedra di
matematica al Real Collegio di Catanzaro ed ha, fra i suoi discepoli, Poerioː
tuttavia, le cattive condizioni di salute lo spinsero ad abbandonare
l'insegnamento. E fra i principali artefici della Repubblica Napoletanaː
infatti, con la nomina di Ignazio Ciaia alla guida della Repubblica napoletana
in sostituzione di Carlo Lauberg, Vincenzo De Filippis entrò nel governo come
ministro degli Interni, succedendo a Conforti Con la caduta della
Repubblica, venne messo a morte per impiccagione in Piazza Mercato assieme ad
altri sette patrioti. Altri saggi: Conseguito il dottorato, F. ritorna al paese
natale, dove rimase in relazione epistolare con gli studiosi di Napoli e di
Bologna, e scrisse importanti opere di filosofia e matematica, quali il Corso
di etica, gli Scritti FILOSOFICI e METAFISICI,
Statica e dinamica, Scritti di fisica e di meccanica. Appartengono anche a
questo periodo gli scritti Appunti di matematica e meccanica, Meccanica,
Problemi di matematica, meccanica, dinamica Gli scritti di F. sono andati,
tuttavia, dispersi, tranne una relazione sui terremoti inviata al Canterzani.
Ayala, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, Torino,
Bocca, Albo illustrativo della Rivoluzione Napoletana a cura di Croce, Ceci, Ayala, Giacomo, Napoli,
Morano, Rao, La Repubblica napoletana, Roma, Newton, F. De' terremoti della
Calabria Ultra. Baldini, F. in
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Ayala, Vite degl'italiani benemeriti della libertà e della patria,
Torino, Roma, Firenze, Fratelli Bocca, Voci correlate Repubblica Napoletana
(Repubblicani napoletani giustiziati, F. su Open Library, Internet Archive.
Biografia di Vincenzo De Filippis, su web.tiscalinet.it. F., De' Terremoti
della Calabria Ultra, testo elettronico, su web.tiscalinet.it. Illuministi
italiani Portale Biografie Portale Matematica Categorie:
Matematici italiani Filosofi italiani Patrioti italiani Morti a Napoli Illuministi
Persone giustiziate per impiccagionePersonalità della Repubblica Napoletana. Commutators with power
central values on a Lie ideal, Pacific Journal of Mathematics, F., Left
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generalized skew derivations on Lie ideals, Canadian Math. Bulletin, Ali, F.
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in prime rings, Communications in Algebra, Carini, F., G. Scudo, Identities
with product of generalized skew derivations on multilinear polynomials,
Communications Algebra F., Engel-type conditions involving two generalized skew
derivations in prime rings, Communications in Algebra F., Scudo, Subsets with generalized derivations
having nilpotent values on Lie ideals, Communications in Algebra, F., Rather
large subsets and vanishing generalized derivations on multilinear poly-
nomials, Communications in Algebra Carini, F., F. Wei, Annihilating
Co-commutators with Generalized Skew Derivations on Multilinear Polynomials,
Communications Algebra, Yarbil, F., A quadratic differential identity with skew
derivations, Communications Algebra, Carini, F., G. Scudo, Vanishing and
cocentralizing generalized derivations on Lie ideals, Communications Algebra
Albas, F. and Demir, An Engel condition with generalized skew derivations on
multilinear polynomials, Linear Multilinear Algebra F., F. Wei, An Engel
condition with X-Generalized Skew Derivations on Lie ideals, Communications
Algebra Sharma, Dhara, F., Garg, A
result concerning nilpotent values with generalized skew derivations on Lie
ideals, Communications Algebra Filippis, F. Wei, b-generalized skew derivations
on Lie ideals, Mediterr. Journal of Math. Ashraf, F., Pary, Tiwari, Derivations
vanishing on commutator identity involving generalized derivation on
multilinear polynomials in prime rings, Commu- nications Algebra F., Dhara,
Generalized Skew-Derivations and Generalization of Homomorphism Maps in Prime
Rings, Comm. Algebra F., Shujat, Khan, Generalized derivations with nilpotent,
power-central and invertible values in prime and semiprime rings,
Communications in Algebra Dhara, F., Engel conditions of generalized
derivations on left ideals and Lie ideals in prime rings, Comm. Algebra Demir,
Argac, F. A quadratic generalized differential identity on Lie ideals in prime
rings, Linear Multilinear Algebra F., Power-central values and Engel conditions
in prime rings with gen- eralized skew derivations, Mediterranean Journal of
Math. F., Scudo, Wei, b-Generalized Skew Derivations on multilinear polynomials
in prime rings, Proceedings of INdAM Workshop ”Polynomial Identities in
Algebras” Roma, Springer Indam Series. Vincenzo De Filippis. De Filippis.
Filippis. Keywords: implicatura metafisica. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Filippis” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Filippo: la ragione conversazionale e Roma antica -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Medma). Filosofo
italiano. Medma was the Italian colony of Opus. Filippo was a pupil of Platone,
and achieved fame mainly as an astronomer. He is widely thought to have edited
Plato’s Laws and written the appendix to it knon as the Epinomis. He is
sometimes known as Filippo di Mende. His birthplace was Medma, an Italian
colony of Opo. The Epinomis is notable for his treatment of the subject of
daemons. See: Dillon, “The Heirs of Plato: a study of the Old Accademy, Oxford,
Clarendon. Filippo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Filippo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Filisco: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Filisco follows the doctrines of the Garden. Along with his lover,
Alcio, he is expelled from Rome – “or perhaps he just wanted to leave.” –
Cicerone. Filisco. Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filisco,” The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza --
Grice e Filodamo: la ragione conversazionale e la setta di Locri – Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Locri). Filosofo italiano. A Pythagorean cited by Giamblico. Filodamo. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Filodamo,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Filolao:
la ragione conversazionale e Roma -- l’arciere di Taranto – filosofia italiana
– Luigi Speranza – (Crotone) Filosofo
italiano. Italian
philosopher from Crotone in southern Italy, the first Pythagorean to write an
essay. The surviving fragments of it are the earliest primary texts for
Pythagoreanism, but numerous spurious fragments have also been preserved. F.’s essay
begins with a cosmogony and includes astronomical, medical, and psychological
doctrines. F.’s major innovation is to argue that the cosmos and everything in
it is a combination, not just of unlimiteds what is structured and ordered,
e.g. material elements but also of limiters structural and ordering elements,
e.g. shapes. These elements are held together in a harmonia fitting together,
which comes to be in accord with perspicuous mathematical relationships, such
as the whole number ratios that correspond to the harmonic intervals e.g.
octave % phenotext F. 1: 2. F. argues that secure knowledge is possible insofar
as we grasp the number in accordance with which things are put together. F.’s
astronomical system is famous as the first to make the earth a planet. Along
with the sun, moon, fixed stars, five planets, and counter-earth thus making
the perfect number ten, the earth circles the central fire a combination of the
limiter “center” and the unlimited “fire”. P.’s influence is seen in Plato’s
Philebus; he is the primary source for Aristotle’s account of
Pythagoreanism. DELLA DIALETTICA CONSIDERATA NELLE DUE SETTE,
DI CROTONE E DI VELIA. Cousin avverte che la dialettica è lo strumento
della filosofia dell’Accademia, ed ancora che la dialettica dell’accademia
sta tutta nella definizione. Imperocché definire vuol dire ricondurre una
cosa particolare qualunque sotto un ge- nere più o meno esteso. Ma egli
non risaliva alle vere scaturigini della dialettica, le quali si trovano
soltanto nelle due sette d'Italia – di Crotone, con Filolao, e di Velia,
con Parmenide --, secondochè aveva osservato il Reid, attribuendo a
questa scuola la dottrina della definizione, nella quale la Dialettica si
riduce e si assomma. E valga il vero: definire vuol dire porre limiti, e
non si può limitare nessuna cosa senza il concetto del diastema o
dell’ intervallo, eh’ è peculiare della scuola pitagorica. Il limite
suppone qualche cosa di comune, e qualche altra di differente; onde l’una e l’altra
ricerca costituiscono il vero ufficio di LA DIALETTICA, la quale è detta così
da due parole greche ( Ai *— Uyu > ), che significano raccogliere
attraverso, come se si dicesse trovare l’uno per dentro il moltiplice. Da qui
venne che due concetti fondamentali costituissero il perno delle
scuole italiche di Crotone e Velia, il conflitto dei contrari cioè, ed il loro
ac- [La dialectique est l’instrument de la pliilosophie de Platon, et
la dialectique de Platon est loul entière dans la délìnition.Or, definir,
c’est généraliser, c’est à dire ramener à un genre quelconque, plus ou
moins olendo, Ielle ou Ielle cliose parliculière. Cousin Frag. Pini., Platon, I
angue ile la théorie tlesiiléex. Telle est.., la doctrine d’ Aristote sur
la définition, et probablemcnt l’invention de cette doctrine appartieni à l’ècole
pythagoricienne de Crotone (Reid, Analgxe de la log. d’ Ami. coi do. Aristotile ci tramandò nella tavola delle X categorie
gli opposti riluttanti, che sono: il limile e l’ illimitato, l’ impari e il
pari, il destro e il sinistro, il mastino e la femmina, lo stabile e il mobile,
il retto ed il curvo, la luce e le tenebre, il bene ed il male, il
quadrato e il rettangolo. Ei ci avvertì inoltre che da un lato stessero
gli elementi positivi, dall’ altro i negativi. Il numero poi che non era
nè pensiero puro, nè cosa sensibile, ma qualche cosa di mediano tra 1’uno e l’altra,
serviva a stringere il moltiplice con l’uno, ed in questo accordo appunto
consisteva l’armonia. Nella bella architettura del sistema pitagorico si
pos- sono però notare due gravi inconvenienti, che viziano ed
infermano la solidità della base. L’ infinito allogalo tra i concetti
negativi è il primo. In questo modo dibatti al vero e saldo concetto
dell’infinito se ne sostituisce un altro tutto diverso, che n’è appena 1’
ombra, vale a dire quello d’indefinito. Con ciò l’iiifmito si pareggia a
tutti gli altri opposti, che si debbono accordare, e però sup-
pongono un concetto superiore. La compiutezza dell’infinito scompare
totalmente. L’altro vizio, nè meno pregiudizievole del primo è, che
il numero risultando dalla molliplicità delle Monadi, le quali erano
distinte dal diastema o dall’ intervallo, intanto avea consistenza c
realtà, in quanto esso intervallo avea capacità bastevole di discernerlo. Una
volta, però che l’ intervallo era il vuoto ; la realtà del molti-
plice tornava un bel nulla. L’ apeiron ed il renon, l’infinito ed il vuoto
adunque guastavano e magagnavano l’interna orditura del sistema
pitagorico; apparecchiavano nuovi errori da scopi ire e da aggiungeie ai
pensatori susseguenti. Ma vuoisi rendere una giustizia al filosofo di
Samo, Armonia viene da ap^os, che propriamente prima significava un
tegame materiale, commessura, compagine, articolo, e che poi si
volse a significare un accordo qualunque. la quale consiste nel
notare, eh’ egli non aveva confuso la Monade con questo infinito, che
attribuì esclusivamente alla Diade. Plutarco esponendo il sistema di lui,
dice (lj: Dei principi disse la Unità Dio, ed anco il bene, eh’ è di
natura un solo, e lo stesso intelletto : il due infinito, e genio tristo,
d’ intorno al qual due si sta la quantità della materia ». Ora la Diade
in mentre ch’era f inde- finito, veniva detta eziandìo la ripetizione
della Unità, onde forse posteriormente la sua natura si confuse con
quella della Monade. Sesto Empirico difatti espone cosi: Dalla prima unità
nasce 1’ uno: dall' unità, e dallo inter- minato binario, il due; perchè
due volte uno fa due: Ma il binario è veramente la ripetizione della
Monade? No; perchè 1' uno ripetendo sè medesimo dà sempre uno; egli
viene ad inlinitarsi, non a moltiplicarsi. Nella duplicazione ci è un altro
elemento, che non era nell’Uno; ci è la finitezza, e la successione.
Venghiamo all’ intervallo. Aristotile assevera, ch’esso non fosse altro nel
sistema pitagorico che il vuoto, e però una semplice negazione. Codesta sua
chiosa viene impugnala da altri, i quali tengono che la parola vacuo
fosse stata pigliata dai Pitagorici in senso metaforico, dimodoché non
significa un semplice concetto negativo; ma una distinzione reale.
Accenno qui delle osservazioni, che mi sono sforzato di rincalzare in un
lavoro apposito su la storia della nostra filosofia, la quale mi pare che
sia stata più pura nelle sorgive, e che nel corso siasi di poi
rimescolata, e falla torbida. La scuola di VELIA trasse i corollari dei
principi o viziosi o viziati della scuola pitagorica. L'infinito è stato Delle
cose naturali, Adv. Matlicra. Lib A prima quidem unitale, unum : ab uni-
tate autem, et interminato binario, duo. Bis enim unum, duo. Mauro commentando la
Fisica d’Aristotile, osserva così. Aliqui cum Phiiopono pulant
Pjtbagoricos locutos metaphorice, ac nomine vacui inlellcxisse
distinctionem, qua rcs inviccm separantur, ac distinguuntur
». allogato fra i (ermini oppositi della serie alla quale sovrastava
l’Unità, però ragionevolmente Senofane inferì, die 1' Essere non fosse nè
finito nè infinito, il qual concetto vedremo rinnovato ed ampliato in Plotino. Il
diastema era stato chiamato il vacuo, però, ripigliò VELIA (si veda), la moltiplicità
delle cose non è reale; è una vana apparenza, è un nulla. II vero essere
è l’Uno. Imperocché leva dal moltiplice l’intervallo, che discerne
l’uria cosa dall’altra, quel che ti rimarrà, è soltanto l’Uno. Così
la scuola elealica è intimamente e logicamente connessa con la italica ; se non
che ella ne continua la parte negativa, ed in ultimo costrutto riesce
nella sofistica, che rampollò da lei, e che chiuse il periodo della
nostra filosofia sì bene avviata da principio. La filosofia nostra
incominciò con la vera Dialettica, con 1’ armonia, e degenerò nella
medesimezza, che non era più accordo, ma annullamento di un termine in
grazia dell’ altro. Se odi l’Hcgel, cotesto fu vero progresso, egli
Eleati toccarono il colmo della speculazione. Ognuno ha il suo modo
di vedere, o meglio di foggiarsi la storia. Gli Ionici, ei ti dice,
concepirono l’Assoluto sotto una forma naturale; i Pitagorici come numero, che
non è nè pensiero puro nè cosa sensibile, e tramezza tra l’uno e l’altra,
studiandosi di accordarli insieme. I VELINI sceverarono la filosofia
non che dalla forma sensibile degli Ionici, ma eziandio dal numero dei
Pitagorici, e lo considerarono nella sua purezza, affermando che tuttoè
Uno. Per quanto slrana paia colesta medesimezza del pensiero e dell’
Essere, ella è deduzione cavata a martello di logica da Parmenidc. Ei difatti
dice recisamente: Se 1’Essere è uno, il pensiero e la cosa pensata sono
la medesima cosa, o bisognerebbe dire che il pensiero non è. Ma per qual
rati) Il (Xenophane) enseignait que Dicu n’est ni infini ni fini, puisque
l'infini n'est que la uon-existence, ear rimìni est ce qui n’a ni commencement,
ni milieu, ni fin, et que le fini est l’un par rapport à l’autre;
caractère de la nmltiplicité des clioses. Ritter, Hist. de la phil.
ancien. gione l’Essere è uno, ed il nòn-enle è impossibile? Fingiamo
Parmenide che mediti sui principi della scuola pitagorica, e seguitiamone
il processo. Tutte cose si fanno dall’Uno; ma ciò che si fa dall'Uno
è Uno; adunque tutte le cose sono uno. Ma perchè si fanno dall’ Uno ?
Perchè la Monade è 1’ Essere; e dal non-ente non si fa nulla. Se il
non-ente non è, e l’ intervallo dei Pitagorici di CROTONE (si veda) è il
non-ente; esso adunque non è. Ma il tempo e lo spazio si fondano su l’
intervallo; adunque essi nem- meno esistono. Ma il moto è la sintesi del
discreto spaziale e temporaneo ; adunque il movimento non esiste. Ma i
cangiamenti della natura sensibile si fanno per moto, adunque le mutazioni non
esistono, e sono illusorie. Qui si vede una logica intrepida e franca. 11
mondo sen- sibile se n’ è ito, ed il pensiero solo rimane, immedesimato
con 1’ Essere. Il pieno è il pensiero, conchiude infine il rigoroso pensatore
di VELIA (si veda). ( Tò yAf «uà» «ari vowx.) Pitagora avea chiamato il
mondo ordine, Cosmo, facendo trovar luogo a tutto; Parmenide per contra
lo stremò ad una metà. Ma eglino si ponno dire di aver tracciata fin da
tempi remotissimi ogni via di fi- losofare; nè di altre mi pare che se ne
siano aperte, nè che forse se ne possano aprire. Noi con tutta la
nostra ostinata insistenza non siamo usciti di CROTONE CROTONA e di VELIA;
e le lotte che stanno agitando ora l’Italia e la Germania, la filosofia
della creazione e quella della identità, sono rinnovazioni più o meno
profonde di quegli antichi si- stemi. Mi si dirà forse che la Germania
abbia aggiunto dippiù il movimento medesimo del pensiero, e che ne
abbia disegnato 1’ordine ed il processo ; e questo pure voglio vedere se
sia schiettamente originale, o non anzi accattalo d’ altronde. Nel
provarmi a cercare coteste relazioni, io non voglio detrarre nulla alla
profondità dei pensatori odierni, ma lo faccio con l'intendimento di
ren- Pitagora primo di tutti nominò il mondo 1’ Unione di tutte le
cose, rispetto all’ordine che si trova in lui. Plut. Delle cose nat. —
dere a me stesso ragione del cammino che ha percorso il pensiero umano, e
delle orme che passando ha lasciato. Agli uomini mi giova anteporre la
verità. Se la filosofia eleatica aveva nelle sue sottili e speciose
investigazioni raggiunto il concetto della medesimezza, o l’Uno convertito in
Tutto, ella avea trovato il bandolo della scienza, ma non ne avea
dipanato la matassa. « Ritrovare il punto di riunione non è il più gran-
de secreto ; ma sviluppare fuori dello stesso anche il suo contrario,
questo è proprio del più profondo secreto dell’arte. Come il Tutto rampolla
dall’Uno, ecco quello che si sforzò di spiegare la scuola di Alessandria,
che toccò il colmo di sua perfezione in Plotino. L’Infinito negativo
dei CROTONE (si veda), consideralo immobile da VELIA (si veda), piglia
movimento in Plotino. Ed io credo far cosa grata al lettore ponendogliene
sott’ occhio la descrizione che ne fa il famoso Ncoplatonico, allegando
le sue mede- sime parole. E la infinità medesima, ei dice, in che
modo si può trovare colà (nell’ Uno;? Imperocché se ella ha 1’ essere,
già esiste in un ordine determinato di enti: o certo se non sarà
determinata, non vuoisi allogare nel genere degli enti, ma forse parrà da
noverare nell’ordine di quelle cose, che diventano, siccome interviene
altresì nel tempo. Forse ancora se ella si definisce, per cotesto
medesimo ella è infinita ; perocché non il termi- ne, ma l' infinito è
che si determina. Nè v’ è locata nessun’altra cosa mediana tra l'
infinito ed il termine, la quale subisca la natura di termine. Certamente
cotesto infinito sfugge all’idea di termine, ma viene compreso ed attorniato
esteriormente. Sì che nel fuggire non va da un luogo in un altro, chè
luogo alcuno non ha ; ma allorché ei v iene compreso, eccoti allora la
prima volta aver esistenza il luogo. Il perchè non si ha da stimare che
il movimento, che nel parlare si attribuisce Platone nel Piloto cit. nel
Dialogo dello Schelling intitolato il BRUNO (si veda). Trad. della
Florenzi all’ infinità, sia locale, nè che gliene avvenga alcun altro di quelli
che soglionsi nominare. Sicché non mai si muove, nè mai permane. E dove
volete che stia, se cotesto medesimo che si chiama dove, nasce dopo? Pare
però che all’infinità si attribuisca il moto, perchè ella non sta ferma.
Forse che adunque ella sta così come se fosse nel medesimo luogo sospesa
in alto, e che si aggirasse? Od anzi, che là stia levata, e qua pure si agiti
? no, che in nessun modo è così. Imperocché ambedue queste cose
sono giudicate al medesimo luogo, sì perchè s’innalza senza declinare dove
appartiene allo stesso luogo, sì ancora perché declina. Adunque altri
andrà pensando che cosa sia l’infinità? Egli allora per fermo la
penserà, quando avrà separato la specie dalla intelligenza. Adunque che
intenderà allora? Forse intenderà insieme i contrari, e i non contrari:
perocché là intenderà il grande ed il parvo; perché diviene l’ uno e 1’altro;
il permanente ed il mosso, perché queste cose ivi diventano. Ma prima di
diventare, è chiaro eh’ ella non sia determinatamente nessuna delle due,
chè altrimenti tu l'avresti già determinata. Se adunque quella natura è
infinita, e queste cose, come io dico, infinitamente ed indeterminatamente sono
ivi, così certamente vi appariranno. Che se yi ti accosterai più da
vicino, ed adoprerai alcun termine, onde volessi irretirla, tosto
ti sfuggirà, nè vi troverai nulla, chè altrimenti già l’avresti definita.
Ed anzi se t’imbatterai in alcuna, siccome una, incontanente ti si porge
come moltiplice. Se tu dirai: sei moltiplico, mentirai di nuovo; chè dove
ciascuna cosa non è una, nemmanco molte sono tutte. E questa
medesima è la natura dell’infinità, che secondo una immaginazione è movimento;
e sin dove si aggiunge la fantasia è stato. Inoltre cotesto medesimo, perchè tu
non puoi vederla per sé stessa, è un colai movimento, e caso dalla
mente. In quanto poi non può sfuggire, ma viene costretta attorno
esteriormente, tanto che non può preterire i limiti, dee giudicarsi un certo
stato. Di che si pare, che non pure di Jei si possa affermare il
movimento, ma eziandio lo stato. La dottrina di Plotino si riduce adunque
in questi capi: L’ infinito non è un essere in atto. Se fosse tale, sarebbe in
un dato ordine, sarebbe perciò medesimo finito. L’ infìniludine si occulta nel
.termine che finisce qualche cosa. Togli di mezzo tutte le forme, tutt’i
termini, tutl’ i fini, ed avrai l’infinitudine. Quando l'apprendi, ella
svanisce, perchè già l'hai terminata. Ella non appartiene a nessun genere
di opposite. Se avesse un contrario, sarebbe da questo limitata. Ma ella
è o uno, o l’altro degli oppo- sili, in quanto uno di essi nega 1’
altro. Dalle quali cose conseguita che l'Infinito dei Neoplatonici
non è nemmeno l’essere, inteso come qualche cosa di sussistente e di definito,
ma è l’uno considerato come principio dell’ Ente medesimo. Plotino
assegna la ragio- ne di ciò dicendo, che se l’Ente non fosse nell’Uno,
incontanente si dissiperebbe. Per contra l’Uno non si fonda nell'ente, perchè
altrimenti l’uno sarebbe prima di essere uno. Or questo uno diventa Primo
nel produrre il Secondo, o la Ragione, la quale è inferiore al suo
principio, perchè nella serie delle emanazioni pen- savano gl’alessandrini,
che il prodotto di tanto scemasse, di quanto dal principio si discostasse come
lume vaniente per l'aere, che ai più lontani giunge più pallido. In ciò
sta forse uno dei principali divari che corrono tra la triade
alessandrina, e la tricotomia hegelliana, perchè dove in quella la
perfezione si va scemando, e l’essere si va dissipando, in questa al
contrario la smilza e magra natura dell’ Idea si va rimpolpando e
rinsanguinando per via, finché tocca in fine quel colmo di perfezione, in
cui la forma adegua perfettamente il contenuto. Il che mi pare
assai più logico del processo alessandrino, dove Testi) Plotino,
Enneade. Plotino, Enneade sere nè ti si porge molto dovizioso da
principio, nè se ne rifa più che tanto in ultimo. Comunque però dal
seno del Primo erompa la Ragione, egli rimane nondimeno immutato. Ciò perchè la
necessità di cotesta manifestazione non gli è estrinseca. S’egli non può
rimanere solo, è perchè tale è la sua natura, la quale rimane pur sempre
libera. Il Secondo per essere rampollato dal Primo abbiamo visto che gli
deve sottostare; sicché 1’ unità e la semplicità del primo non si
travasa intera nella ragione. Questa però partecipa alla moltiplicità. Ma
v’ha dippiù. In che modo la Ragione rassomiglia al Primo, postochè questo non
sia Ragione? Plotino risponde alla difficoltà osservando, esser proprio
della natura del secondo di rivolgersi verso il primo; però di vederlo,
però di diventar ragione, ancoraché il Primo non sia tale. La Ragione non vede
quindi sè medesima ; e la cosa non dee parere strana, quando si
consideri, come fa FICINO (si veda, eh’ ella opera nel movimento, ed ogni moto
tende verso un altro posto fuori di sè. La ragione rassomiglia al primo
nell’inchiudere il duplice concetto di essere permanente e di moto; sicché
in essa si può distinguere l’energia e la facoltà, o, che torna il
medesimo, la possibilità e l’atto, la materia e la forma. In quanto ella
può diventare, contiene la materia del mondo sovra-sensibile; ed in
quanto è, ne contiene la specie o la forma. Yi ha dunque nel sistema di
Plotino una materia nel mondo sovrasensibile, come nel sensibile, e noi
vedremo che BRUNO (si veda) ha spiritualizzalo ancora la materia sino a questo
segno. La ragione è una perchè guarda al Principio, al Bene ; è
moltiplice perchè è forma delle cose. Nel modo medesimo che
1’ Uno produce la Ragione, FICINO (si veda) sopra il 3." lib. della
V. Enneade di Plotino dice: Cum rationis proprium sii in molu agere, et motus
tendat in aliud, merito ratio communiter circa alia potius, quam circa
seipsam se volutat, ideo non est eius proprium se cognoscere #.
questa alla sua volta liglia e partorisce l’Anima, la quale operosa
com'ò, e resa feconda dalla ragione estrinseca il mondo sensibile. E qui nota
che la ragione da sè non opera nulla, ma contiene soltanto il germe del1’operazione,
il quale diventa pratico nell’ Anima del mondo. Plotino adunque
concepisce cotesti tre termini in un modo che si potrebbe rendere più
chiaro, e quasi sensato, rappresentandocelo così. Nel centro sta
l’Uno, attorno a cui la Ragione descrive quasi un cerchio immobile, ed
attorno a questo cerchio immobile l’Anima del mondo circoscrive un nuovo
cerchio, i! quale movendosi produce i! mondo sensibile. Quest’ultimo
mondo, fattura dell’anima mondiale, è l’opposto dell'Uno; perocché esiste
nello stato di dissipamento, di disterminazione, di esteriorità. Onde la
sua esistenza è apparente, non vera, consistendo la verità in quello che
nelle cose vi ha di più intimo; e la triade delle emanazioni, che si
possono chiamare sovra-sensibili, ha compimento con l’Anima. In questa avviene
la cognizione di sè medesima, perchè il suo movimento è circolare, e però dee
tornare al punto medesimo onde si mosse. Perchèil cielo si muove
rincirculando? domanda Plotino. Perchè imita la mente. Onde si può dire
eh’ egli consideri prima il pensiero in sè stesso, poi lo stesso pensiero
come obbietto ; finalmente l’ identità dell’uno e dell’altro, o la
compenetrazione nella quale sta il pensiero propriamente detto, o il
pensiero riflesso. La nomenclatura medesima, non che la tripartizione Ennead. L’ itléc fondamentale de ce qu’on appelle
philosophie néoplatonicienne ou philosophie d’Alexandrie, était celle du vo’j?
ayant pour objet lui-méme. C’est d’abord la pensée comme Ielle, puis la
pensée cornine objet (vonrov), et enfin 1’idcntité de l'une et de
l’autre: c’cst, selon Hegel, la trinité chrétienne, et cette idée est Tètre en
soi et pour soi. Dieu, T esprit absolu et pur et son action en soi, le
Dieu vivant, actif cn soi, tei est T objet de cette philosophie. WiUm. Hist. de la phil. Alleni. Phil. de Hegel] dello
sviluppamento posto dai Neoplatonici nell' Infinito, ci dà subito a
divedere eh’ eglino abbiano voluto immischiare alle speculazioni greche ed
orientali le tradizioni cristiane intorno al dogma della Trinità. Hegel
medesimo l’ha avvertito, ma il profondo pensatore di Germania non ha osservalo
che la Scuola Neoplatonica aveva non copiato, ma sformato e travisato il
sublime concetto cristiano. Imperocché nella nostra Trinità ci è
gerarchia ed uguaglianza ad un tempo, dove quel continuo digradare delle
emanazioni aggiunto dagli Alessandrini appaia cose dell’ intutto
contrarie. Plotino medesimo non sapea come cavarsi d' impaccio nello
spiegare in qual modo la Ragione potesse rampollare da ciò che non era ragione. Nella
trinità l’Infinito compenetra sé medesi- mo, ma sempre infinitamente,
dove negli Alessandrini tal compenetrazione diventa possibile soltanto a
costo di smettere la propria natura, e di diventare finito e
moltiplice. Nella trinità il principio, o l’no non ha notizia di sé medesimo,
in mentre che secondo i pronunziati cristiani il Padre, conoscendo
sé medesimo, genera il verbo. K molte altre differenze si
potrebbero trovare, per le quali le due Trinità si riscontrano soltanto nel
nome, che gl’Alessandrini accattarono dai Padri della Chiesa; ma nel
fondo rimangono sempre cose onninamente disparate. Di qualche cosa però
la filosofia si era avvantaggiata, riconoscendo un processo nella
Dialettica, per lo quale le esistenze non erano cose morte, ma viventi.
Imperocché nelle relazioni intime dell’Infinito con sé medesimo si trova
il concetto primi- tivo e perfettissimo della Dialettica. L’ altra della
creazione non è, se non una copia finita di quella prima ed interna. Onde
se nella prima l’ Infinito si trova in relazione con sé stesso, considerato
sempre come attuale ; nella seconda egli si trova in relazione, ma
considerato una volta come attuale, ed un’ altra volta come
potenziale. Nella prima però ha luogo un processo estemporaneo.
nella seconda vi ha progresso effettivo, ed acquisto verace. Le due dialettiche
confuse ed immischiate l’una con l’altra dagli Alessandrini, passarono in
retaggio a tutt'i panteisti. Se noi adunque ci siamo fermati a
tratteggiare per sommi capi il loro sistema, come venne fornito da
Plotino, non è stato senza motivo; che da Pitagora a PIOTINO la scienza fece
passi giganteschi, comunque spesso sviandosi dal diritto sentiero. MAMIANI
ROVERE medesimo notò nella leggiadra prefazione al dialogo citato dello
Schelling, che le massime e le tradizioni dei filosofi della Magna Grecia –
VELIA, GIRGENTI, CROTONE, TARANTO, e i libri dei Neoplatonici sono al BRUNO il
semenzajo usuale e continuo onde trasse i germi delle idee di maggior
momento. Nella esposizio- ne che faremo delle dottrine del Nolano cotesto
riscontro si parrà più chiaro. Nome compiuto: Filolao. Keywords:
Crotona, Crotone, Metaponto, Aristoxenus of Tarentum. H. P. Grice, “Pythagoras:
the written and the unwritten doctrines,” Luigi Speranza, “Grice e Filolao” -- “Grice
a Crotone, ovvero, Filolao,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Filone: la ragione conversazionale e il tutore di
Cicerone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Filone happened to be in Athens –
as the head of the Accademy – when Athens was caught up in the war between
Mithridate and the Romans. Filone decides to move to Rome. At Rome he taught CICERONE.
Filone. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo
di Gioco di H. P. Grice. “Grice e Filone,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Filonide: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Abstract: Grice: “Mussolini is said to have proclaimed
that it would have been for the good of the philosophy in Italy if Plato had
not escaped!” -- Filosofo italiano. Pythagorean – cited by Giamblico. Platone
mentions him in his Epistola IX. Filonide.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Plato e Filonide,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fineschi:
la ragione conversaszionale e l’implicatura conversazionale -- eroticologico,
filologico – l’amore – scuola di Siena – filosofia sienese – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo sienese. Filosofo toscano. Filosofo italiano.
Siena, Toscana. Grice: “Fineschi shows how COMPLEX Marx’s theory of cooperation
is!” -- Grice: “I like Fineschi; when at
Harvard I played with ‘cooperation’ I didn’t really know what I was talking
about! Fineschi does! He calls me a Marxist – and that’s why I dubbed my
ontological occam’s razor as ‘ontological marxism’!” Studia a Siena sotto Mazzone con “Marx rivisitato”. Per
il suo dottorato, svoltosi sotto Domanico a Palermo, si occupa del rapporto
Marx-Hegel. Ha vinto la prima edizione del premio David-Rjazanov-Preises. Altre
opere: “Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria
del “capitale”, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici La Città del Sole,
Napoli); “Marx: rivisitazioni e prospettive, Mimesis, Milano (Itinerari
filosofici) “Marx e Hegel. Contributi a una relectura” (Carocci, Roma); “Un
nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico critica”
Carocci editore, Roma). Wikipedia Ricerca Al di là del principio di
piacere saggio di Freud. Al di là del principio di piacere Titolo
originaleJenseits des Lustprinzips Freud Jenseits des Lustprinzips. djvu Freud
1ª ed. Originale GenereSaggio Sottogenere Psicoanalisi Lingua originale tedesco
Al di là del principio di piacere (tedesco: Jenseits des Lustprinzips) è un
saggio di Sigmund Freud pubblicato nel 1920, incentrato sui temi dell'Eros e
del Thanatos, ovvero rispettivamente la "pulsione di vita" e la
"pulsione di morte" (Todestrieb[e]). Giuditta II di
Gustav Klimt, Venezia, Galleria internazionale d'arte moderna.[1] Achille
sorregge Pentesilea dopo averla colpita a morte, una delle leggende fiorite
sull'episodio vuole che l'eroe se ne innamori proprio in questo momento.
Bassorilievo dal tempio di Afrodite a Afrodisia Il dualismo di
EmpedocleModifica Freud formula il conflitto psicologico in termini dualistici
fin dai suoi primi scritti, ma è solo in questo testo che egli presenta un
simile conflitto mediante concetti desunti dal pensiero di Empedocle, il quale
parla d'un dissidio cosmico fra i princìpi o forze di Amore (o Amicizia) e Odio
(o Discordia). GIRGENTI (si veda) si presenta come una figura fra le più
eminenti e singolari della storia della civiltà siciliana. Il nostro interesse
si accentra su quella dottrina di GIRGENTI (si veda) che si avvicina talmente
alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di
affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica
differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira
più modestamente a una validità biologica. I due principi fondamentali di GIRGENTI
(si veda) – philìa (amore, amicizia) e neikos(discordia, odio) – sia per il
nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due
pulsioni originarie Eros e Distruzione.» Il nome di Eros deriva da quello della
divinità greca dell'amore, e tende a creare organizzazioni della realtà sempre
più complesse o armonizzate, [mentre] Thanatos tende a far tornare il vivente a
una forma d'esistenza inorganica. Queste sono pulsioni. Eros rappresenta per
Freud la pulsione alla vita, mentre Thanatos quella della distruzione. Qualora
l'autodistruzione diventasse oggetto di malattia però Thanatos diviene il nome
del conflitto che si crea tra energia negativa (autodistruzione) e positiva (la
rabbia del Thanatos viene utilizzata per distruggere la malattia stessa). Freud
riscontra anche in un altro filosofo, questa volta contemporaneo,
un'anticipazione della sua scoperta: "E ora le pulsioni nelle quali
crediamo si dividono in due gruppi: quelle erotiche, che vogliono convogliare
la sostanza vivente in unità sempre più grandi, e le pulsioni di morte, che si
oppongono a questa tendenza e riconducono ciò che è vivente allo stato
inorganico. Dall'azione congiunta e opposta di entrambe scaturiscono i fenomeni
della vita, ai quali mette fine la morte. Forse scrollerete le spalle: 'Questa
non è scienza della natura, è filosofia, la filosofia di Schopenhauer'. E
perché mai, Signore e Signori, un audace pensatore non dovrebbe aver intuito
ciò che una spassionata, faticosa e dettagliata ricerca è in grado di convalidare?"
Thanatos non compare negli scritti di Freud, ma egli, a quanto riferisce Jones,
l'avrebbe talvolta usato nella conversazione. L'uso nel linguaggio
psicoanalitico è probabilmente dovuto a Federn. Spielrein e Low Su esplicita
influenza di Sabina Nikolaevna Špil'rejn, citata in nota nel libro del 1920,per
Freud Thanatos segnala il desiderio di concludere la sofferenza della vita e
tornare al riposo, alla tomba. Concetto che non deve essere confuso con quello
di destrudo, vale a dire con l'energia della distruzione (che si oppone alla
libido). Thanatos è il principio di costanza,[9] accennato fin dal
capitolo sette de L'interpretazione dei sogni e che adesso, sotto l'influsso
del pensiero di Schopenhauer,[10] diventa identico al principio del Nirvana
proposto da Low: le eccitazioni della mente, del cervello, dell'"apparato
psichico" non vengono più solo sgomberate, tenute costanti al più basso
livello possibile, bensì estinte, eliminate sino al grado zero della realtà
inanimata. Freud sostiene che nella vita psichica esiste davvero una coazione a
ripetere la quale si afferma anche a prescindere dal principio di piacere. Sulla
falsariga del motto errare humanum est, perseverare autem diabolicum, essa
viene definita per quattro volte demoniaca. Vi sono individui che nella loro
vita ripetono sempre, senza correggersi, le medesime reazioni a loro danno, o
che sembrano addirittura perseguitati da un destino inesorabile, mentre un più
attento esame rivela che essi stessi si creano inconsapevolmente con le loro
mani questo destino. In tal caso attribuiamo alla coazione a ripetere un
carattere demoniaco" La coazione a ripetere è riscontrabile anche nella
nevrosi traumatica dei reduci della prima guerra mondialeoppure di chi tende a
rivivere o reinterpretare gli eventi più violenti. Freud collocò la
coazione a ripetere fra i sintomi della nevrosi: si ripete il sintomo nevrotico
invece di ricordare, si ripete per non ricordare, con quello che Freud chiama
«l'eterno ritorno dell'uguale. Per la relazione tra pulsione e coazione a
ripetere, Freud notò che le coazioni tendono come la pulsione a una ripetizione
assoluta e atemporale, mai definitivamente appagata, e che tendono a sparire
quando un fatto viene riportato a conoscenza del paziente. Dalla rimozione di
una pulsione (a muoversi ovvero a ricordare un fatto doloroso o traumatico), la
coazione a ripetere trae l'energia per imporsi sulla volontà cosciente dell'Io.
La coazione a ripetere diventa il punto di partenza della terapia
psicoanalitica. Occorre ricordare per non ripetere gli errori del passato, gli
stessi dubbi e conflitti per tutta la vita, in amore, in amicizia, nel
lavoro. Freud rileva questa coazione anche nelle circostanze più
ordinarie e naturali, persino nel gioco dei bambini come quello con il rocchetto
usato dal suo piccolo nipote di diciotto mesi. Il bimbo, lanciando il rocchetto
lontano da sé, simboleggia la perdita della madre e, ritraendo il rocchetto a
sé, rappresenta il ritorno della madre. Imparerebbe così a padroneggiare
l'assenza materna attraverso un duplice movimento, che è sempre seguito dalla
vocalizzazione di un "oooo..." (ted. fort, «via!»), quando il
rocchetto è lontano, e da un "da" (ted. da, «Eccolo!»), quando il
rocchetto è di nuovo vicino. Dopo l'esposizione d'una serie di ipotesi (in
particolare l'idea che ogni individuo ripete le esperienze traumatiche per
riprendere il controllo e limitarne l'effetto dopo il fatto), Freud considera
l'esistenza di un essenziale desiderio o pulsione di morte, riferendosi al
bisogno intrinseco di morire che ha ogni essere vivente. Gl’organismi, secondo
quest'idea, tendono a tornare a uno stato preorganico, inanimato – ma vogliono
farlo in un modo personale, intimo. In definitiva, «sembrerebbe proprio che il
principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte. A questo
punto sorgono innumerevoli altri quesiti cui non siamo in grado attualmente di
dare una risposta. Dobbiamo aver pazienza e attendere che si presentino nuovi
strumenti e nuove occasioni di ricerca. E dobbiamo esser disposti altresì ad
abbandonare una strada che abbiamo seguito per un certo periodo se essa, a
quanto pare, non porta a nulla di buono. Solo quei credenti che pretendono che
la scienza sostituisca il catechismo a cui hanno rinunciato se la prenderanno
con il ricercatore che sviluppa o addirittura muta le proprie opinioni. Uno
psicoanalista con competenze pure di antropologia filosofica come Sciacchitano
sostiene che «a vera psicoanalisi fu il frutto tardivo dell'attività teoretica
di Freud. Bisogna aspettare la svolta degli anni Venti, con l'invenzione della
pulsione di morte, per parlare di vera e propria psicoanalisi. Essa comincia
con la rinuncia alle pretese e alle finalità mediche della psicoterapia. Il
nuovo modello freudiano individuava nello psichico un nucleo patogeno fisso,
qualcosa che non si scarica mai, ma continua a ripetersi identicamente a se
stesso e insensatamente, cioè fuori da ogni intenzionalità soggettivistica e
contro ogni teleologia vitalistica. Ce n'era abbastanza per far crollare ogni
illusione terapeutica. Parecchi allievi a questo punto abbandonarono il maestro
che toglieva avvenire, come si dice terreno sotto i piedi, alle loro illusioni
umanitarie. Freud non cambia più idea. Ciò significa che il fondatore della
psicoanalisi asserirà la sostanziale inguaribilità' del disagio psichico per lo
stesso arco di tempo, un ventennio, in cui egli precedentemente aveva affermato
l'esatto contrario. Reich, in La funzione dell'orgasmo e Analisi del
carattere, propose una propria ipotesi di confutazione alla teoria della
pulsione di morte. La madre morta, Egon Schiele, Vienna, Leopold Museum.
Nell'arte: Schiele Schiele sa che tutto ciò che vive è anche morto, porta in sé
il suo esistenziale compimento, fin dall'istante del concepimento, come attesta
il funesto dipinto: La madre morta, in cui il grembo appare come un lugubre
mantello, un involucro mortuario che racchiude il Sein zum Tode Essere-per-la-morte
del nascituro, ne circoscrive la parabola esistenziale. (Vozza) Agonia,
Schiele, Monaco di Baviera, Neue Pinakothek. Madre con i due bambini,
Vienna, Österreichische Galerie Belvedere. «Schiele introduce un evento di
grande rilievo nell'iconografia della malinconia e della vanitas, operandone
una trasfigurazione tragica: l'uomo non medita più sulla morte raffigurata in
un teschio posto nel suo studiolo come altro da sé, ma assume sul proprio volto
l'icona funebre, diventa morte incarnata, esibita nel gesto d'esistere, nel
godimento del sesso e nella prostrazione della sofferenza. Nessuna iconoclastìa
sopravvive nel gesto pittorico di Schiele: si pensi all'Agonia [...], sacra
rappresentazione di stupefacente intensità cromatica, allegoria del dolore
immedicabile, emblema di una eterna e impietosa Passione, sublime omaggio a
quell'incomparabile maestro di sofferenza che è stato Grünewald.(Vozza). La
Madre con i due bambini esibisce un volto già visibilmente cadaverico, mentre
un infante osserva sgomento il deliquio orizzontale del fratellino. Nessuno
meglio di Schiele ha saputo render visibile quella che l'analitica esistenziale
ha chiamato Geworfenheit, l'indifeso essere gettati in un mondo ostile. Insieme
a lui soltanto Kokoschka, in seguito Dubuffet e Bacon. Vozza. Quadro che Sabina
Nikolaevna Špil'rejn sceglie come modello rappresentativo del connubio
Eros-Thanatos nel film biografico Prendimi l'anima (Roberto Faenza): Perché
Giuditta uccide Oloferne, estratto dal film su YouTube(vedi screenshot). ^
Sigmund Freud, Al di là del principio di piacere, in Opere di Sigmund Freud, L'Io
e l'Es e altri scritti, Torino, Bollati Boringhieri, Freud, Analisi terminabile
e interminabile, in OSF vol. 11. L'uomo Mosè e la religione monoteistica e
altri scritti Torino, Bollati Boringhieri,
Galimberti, Enciclopedia di psicologia, Garzanti, Torino, Freud Introduzione
alla psicoanalisi, Boringhieri, Jones, Vita e opere di Freud: L'ultima fase,
Milano, Garzanti, Laplanche, Jean-Bertrand Pontalis, a cura di Luciano Mecacci
e Cyhthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, vBari-Roma, Laterza, voce
Thanatos, The language of psycho-analysis, Karnac, su books.google. Freud, Al
di là del principio del piacere,Mugnani, Analisi del testo di Freud: Il
problema economico del masochismo. Pasqua, Al di là del principio di piacere:
sul principio di Piacere e la Coscienza Laplanche, Jean Bertrand Pontalis, op.
cit., voce Principio di piacere. books.google.it. Freud, Laplanche, Pontalis,
op. cit., voce Coazione a ripetere. Google Libri. Freud, Cf. anche Il
perturbante, OSF Freud Introduzione alla psicoanalisi, Boringhieri; Freud, Al
di là del principio di piacere, Torino, Bollati Boringhieri, Sigmund Freud, Al
di là del principio di piacere, Freud, Sciacchitano, Il demone del godimento,
in AA.VV., Godimento e desiderio, aut aut; Vozza, Il senso della fine nell'arte
contemporanea, in L'Apocalisse nella storia, Humanitas Vozza, Vozza, ibidem.
Psicoanalisi Empedocle Eros (filosofia) Eros Il disagio della civiltà Libido
Destrudo Morte Sabina Nikolaevna Špil'rejn Tanato Edizioni e traduzioni di Al
di là del principio di piacere, su Open Library, Internet Archive. Edizioni e
traduzioni di Al di là del principio di piacere, su Progetto
Gutenberg.Laplanche, Pontalis, The language of psycho-analysis, Karnac,
Thanatos, Nirvana Principle, e Compulsion to Repeat, Thesaurus Portale
Letteratura Portale Psicologia Psicoanalisi teoria dell'inconscio e
relativa prassi psicoterapeutica che hanno preso l'avvio dal lavoro di Sigmund
Freud Differimento Resistenza (psicologia) ciò che negli atti e nel
discorso, si oppone all'accesso dei contenuti inconsci alla coscienza Grice: “The problem with erotico-logy is that
eros allows for myth as much as it does for logos!” – Grice: “Philology can
mean love for word as much as word for love, as philosophy can go from love of
wisdom and wisdom of love. If we have eros instead we have erotosophia and erotologia, erotology,
erotosophy – so there!” Grice: “It always irritated me that at Oxford a
philologist was supposed to be a sort of scientist whereas the logist is what
he loves (philein) – it’s a passion – unretrained even – for words!” –
unfettered – loose --. Nome compiuto:
Roberto Fineschi. Fineschi. Keywords: eroticologico, filologico, amore, Grice’s
ontological Marxism, implicatura filologica – Kantotle, Plathegel, eros e
Thanatos. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Fineschi,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fintia: la ragione conversazionale e filosofia
dell’isola -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano.A
Pythagorean. It is said that Dionisio I of Siracusa, at the instigation of
others, condemns F. to death on trumped-up charges, in order to test his moral
strength. Fintia clamly asked for some time to arrange his affairs, and asked
his friend Damon to stand for him while he was gone. Dionisio was amazed when
Damon agreed to the arrangement, and even more amazed when F. duly returned at
the end of the day to accept his punishment. Dionisio asked to join the sect,
but he was turned down. Fintia. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fintia,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fioramonti:
la ragione conversazionale e l’implicature conversazionale economica – scuola
di Roma – filosofia romana – filosofia lazia --filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano.
Roma, Lazio, Italia. Grice: Fioramonti, like Hart, and myself, has
philosophised on human right, legal right, moral right. Frequenta il liceo a Roma, situato nel quartiere di
Tor Bella Monaca. Si laurea a Roma con una tesi in Storia della economia
filosofica, incentrata sul ruolo dei diritti di propriet ed individuali. Studia
Politica comparata a Siena. Insegna a Pretoria, ed direttore del Centro per lo studio
dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo. inoltre membro del Center for Social
Investment dell'Heidelberg, della Hertie School of Governance e dell'Universit
delle Nazioni Unite. Si occupa di economia e integrazione economica europea.
Per il Financial Times, sostiene che il PIL
"non solo uno specchio distorto in cui vedere le nostre economie
sempre pi complesse, ma anche un impedimento a costruire societ migliori".
I suoi articoli sono inoltre apparsi su The New York Times, The Guardian,
Harvard Business Review, Die Presse, Das Parlament, Der Freitag, Mail et
Guardian, Foreign Policy e open democracy.net. Ha una rubrica mensile nel
Business Day. stato co-direttore della
rivista scientifica The Journal of Common Market Studies. inoltre
coautore e co-editore di diversi libri. Oltre ai best seller Gross Domestic
Problem: La politica dietro il numero pi potente del mondo e Il modo in cui i
numeri governano il mondo: l'uso e l'abuso delle statistiche nella politica
globale, pubblica Economia del benessere: successo in un mondo senza crescita,
Presi per il PIL. Tutta la verit sul numero pi potente del mondo e Il mondo
dopo il PIL: economia, politica e relazioni internazionali nell'era
post-crescita. Ha avuto un'esperienza come assistente parlamentare,
collaborando a titolo gratuito con Antonio Di Pietro (IdV) a sviluppare
politiche per i giovani nelle periferie. Viene resa nota la sua candidatura col
Movimento 5 Stelle alle imminenti elezioni politiche di marzo, risultando
eletto alla Camera dei deputati nel collegio uninominale di Roma-Torre Angela
con il 36,65% dei voti. stato nominato
sottosegretario presso il Ministero dellistruzione, dell'universit e della
ricerca nel Governo Conte I. Nominato Dino Giarrusso suo segretario
particolare, affidandogli l'incarico di coordinare la comunicazione del suo
ufficio e curare le relazioni istituzionali. L'onorevole ha inoltre aggiunto di
aver chiesto a Giarrusso di aiutarlo anche ad evadere le segnalazioni inviate
al Ministero sulle presunte irregolarit che si verificano all'interno dei
concorsi universitari. Il Consiglio dei ministri, su proposta di Bussetti, lo
ha nominato vice ministro all'istruzione, universit e ricerca. Proposto come
ministro dell'istruzione, dell'universit e della ricerca nel Governo Conte II,
viene nominato ufficialmente. All'inizio del suo mandato ha istituito un
comitato scientifico di consulenza, composto tra gli altri da Shiva. Nel mese
di ottobre intervenendo ai microfoni della trasmissione radiofonica Un giorno
da pecora ha affermato di "credere in una scuola laica" e di essere
favorevole alla rimozione del crocifisso nelle scuole, per sostituirlo
piuttosto con una mappa del mondo. In seguito, e criticato dalla Conferenza
Episcopale Italiana. Annuncia l'introduzione in Italia, primo Paese al mondo,
dello studio del cambiamento climatico e dello sviluppo sostenibile come
materia scolastica. Dichiara di essere pronto a rassegnare le proprie
dimissioni qualora nella Legge di bilancio non fossero stati trovati fondi per
3 miliardi di euro da destinare all'istruzione. Invia al Presidente del
Consiglio Conte una lettera in cui annuncia le proprie dimissioni e dichiara
che, a proprio avviso, sarebbe opportuno rivedere l'IVA al fine di incassare i
fondi che chiedeva per il proprio ministero. Comunica la propria uscita dal
Movimento 5 Stelle e la propria adesione al Gruppo Misto alla Camera.
Annunciato la fondazione del nuovo partito politico Eco. Eco rappresenta
un'ipotesi, un'idea guidata dalla volont di costituire una entit in
collaborazione tra societ civile e parlamentari, ma la cui concretizzazione in
una nuova realt non ancora certa. Entra
a far parte di Green Italia, insieme all'onorevole Muroni e Schlein,
vicepresidente dell'Emilia Romagna. Dopo che il quotidiano il Giornale ha
pubblicato alcune dichiarazioni fatte nel passato su Twitter da Fioramonti,
ritenute inappropriate per la carica da ministro, diversi partiti (tra cui
Lega, FI e FdI) chiedono le sue dimissioni dal dicastero, annunciando il
deposito in Parlamento di una mozione di sfiducia stata effettivamente depositata? Che ne stato? Il ministro ha quindi dichiarato sui
social che tali opinioni erano state scritte di getto e si quindi scusato. Nello stesso periodo suscita
polemica il fatto che, secondo quanto riportato dalle chat di alcuni genitori,
il ministro avrebbe scelto di iscrivere il figlio alla scuola inglese e di non
fargli fare l'esame di italiano. A seguito di tale notizia, scrive un post sui
social in cui si definisce turbato come padre e cittadino ed annuncia di voler
presentare un esposto al garante della privacy. Altre opere: Diritti umani 50
anni dopo. Aracne); Fuori. Fermento,. Poteri emergenti nell'economia politica e
internazionale. Il caso di India, Brasile e Sudafrica. ETS,. Presi per il PIL.
Tutta la verit sul numero pi potente del mondo. LAsino doro edizioni,. Il mondo
dopo il Pil. Economia e politica nell'era della post-crescita. Edizioni
Ambiente,. Un'economia per stare bene. Dalla pandemia del Coronavirus alla
salute delle persone e dell'ambiente. Chiarelettere. Vincenzo Bisbiglia,
chi il candidato M5S: dalla laurea in
Filosofia alla critica al pil. Con tappa alla Rockefeller foundationIl Fatto
Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano. F., su up. ac. Has GDP become an impediment to a
better society?, su Financial Times. 1World needs a new Bretton Woods with
Africa in the lead, su bdlive.co.za, Business Day. Eligendo: Camera [Scrutini] Collegio uninominale 05
ROMA ZONA TORRE ANGELA (Italia) Camera dei Deputati Ministero dell'Interno, su
Eligendo. F.Q., Governo, nominati 45 tra viceministri e sottosegretari:
Castelli e Garavaglia al Mef. Crimi all'Editoria. Dentro anche SiriIl Fatto
Quotidiano, in Il Fatto Quotidiano, Universit, dietrofront su Giarrusso. F.:
" solo il mio segretario, non un controllore", in Repubblica,
Governo: Galli, Rixi e Fioramonti nominati viceministriTgcom24, in Tgcom 24,
Crocifisso a scuola, la Chiesa contro il ministro F. che vorrebbe toglierlo
dalle classi, su Repubblica, F.: da settembre il clima sar materia di studio a
scuola F.: 3 miliardi per l'istruzione o confermo le mie dimissioni -, su
Orizzonte Scuola, Il ministro dellIstruzione F. ha dato le dimissioni, Corriere
della sera, F. lascia il gruppo M5S: C' diffuso sentimento di delusione, Il
Messaggero, 30 Lex ministro Fioramonti: Un altro governo non un tab. Ora unarea civica progressista, su Il
Manifesto. Bufera su F. per alcuni tweet. Meloni chiede le dimissioni, per Lega
e Pd deve chiarire, su L'HuffPost, Bufera su F. per offese web, ministro si
scusa Politica, su Agenzia ANSA, Chi
Lorenzo Fioramonti, nuovo ministro del MIUR, su theitaliantimes, Governo
Conte II Ministri dell'istruzione, dell'universit e della ricerca della
Repubblica Italiana. Treccani Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Openpolis,
Associazione Openpolis. Radio Radicale. PredecessoreMinistro dell'istruzione,
dell'universit e della ricerca della Repubblica Italiana Successore Ministero
Istruzione. png Marco Bussett, Giuseppe Conte (ad interim)
PredecessoreViceministro dell'istruzione, dell'universit e della ricerca della
Repubblica Italiana Successore Ministero Istruzione. Anna Ascani. Quarterly gross
domestic product Petty came up with a basic concept of GDP to attack landlords
against unfair taxation during warfare between the Dutch and the English.
Davenant developed the method further. The modern concept of GDP was first
developed by Kuznets for a 1934 US Congress report, where he warned against its
use as a measure of welfare (see below under limitations and criticisms).[12]
After the Bretton Woods conference in 1944, GDP became the main tool for
measuring a country's economy.[13] At that time gross national product (GNP)
was the preferred estimate, which differed from GDP in that it measured
production by a country's citizens at home and abroad rather than its 'resident
institutional units' (see OECD definition above). The switch from GNP to GDP in
the US was in 1991, trailing behind most other nations. The role that
measurements of GDP played in World War II was crucial to the subsequent
political acceptance of GDP values as indicators of national development and
progress. A crucial role was played here by the US Department of Commerce under
Milton Gilbert where ideas from Kuznets were embedded into institutions. Wikipedia Ricerca Economico (Aristotele) opera
attribuita ad Aristotele Lingua Segui Modifica Economico Oikonomik Aristotelesarp.jpg Autore
Pseudo-Aristotele 1 ed. originaleGenere trattato Sottogenere economia Lingua
originalegreco antico L'Economico (in greco antico: , Oikonomik; in latino:
Oeconomica) un'opera attribuita ad
Aristotele. La maggior parte degli studiosi moderni lo attribuisce a un allievo
di Aristotele o del suo successore Teofrasto. Struttura Modifica Il libro
I suddiviso in sei capitoli che iniziano
a definire l'economia. Esso, quindi,
un'introduzione che mostra la formazione di base di un'economia, ossia
la famiglia. Il testo inizia affermando che l'economia e la politica
differiscono in due modi principali, ossia nei soggetti con cui trattano e nel
numero di governanti coinvolti. Come un proprietario di una casa, c' solo una
sentenza in un'economia, mentre la politica coinvolge molti sovrani. I
praticanti di entrambe le scienze cercano di sfruttare al meglio ci che hanno
per prosperare. Una famiglia composta da
un uomo e dalle sue propriet e l'agricoltura
la forma pi naturale di buon uso per questa propriet. L'uomo dovrebbe
quindi trovare una moglie, mentre i bambini dovrebbero venire dopo, perch
saranno in grado di prendersi cura della casa man mano che l'uomo invecchia.
Questi sono i capisaldi dell'argomento economico. Il secondo libro si sviluppa
con l'idea che ci sono quattro diversi tipi di economie l'economia reale,
l'economia satrapica, l'economia politica e l'economia personale. Chiunque
intenda partecipare con successo e solidariet a un'economia deve conoscere ogni
caratteristica della parte dell'economia in cui
coinvolto. Tutte le economie hanno un principio in comune
indipendentemente da ci che viene fatto, le spese non possono superare le
entrate. Questa una questione
importante, fondamentale per la nozione di "economia". Il resto del secondo
libro riguarda eventi storici che hanno creato importanti modi in cui le
economie hanno iniziato a funzionare in modo pi efficiente e danno le origini
di alcuni termini ancora in uso all'epoca e l'argomento principale il flusso di denaro attraverso qualsiasi
economia ed eventi particolari. Il terzo libro
noto solo dalle versioni latine dell'originale greco e tratta del
rapporto tra marito e moglie. Il classicista Rose, nella sua classica edizione
dei frammenti aristotelici, ha ipotizzato che questo libro non fosse altro che
il e i indicati nel catalogo di opere di
Aristotele che compaiono nella biografia attribuita a Esichio di Mileto,
tradizionalmente chiamata Vita Menagiana. Aristote, conomique. Testo greco a
cura di B. A. van Groningen e Andr Wartelle, traduzione e note di Wartelle,
Paris, Les Belles Lettres (edizione critica) Aristotele, Opere, vol. 8,
Politica. Trattato sull'Economia, Laurenti, Bari, Laterza. Aristotele
Pseudo-Aristotele. Portale Antica Grecia Portale Filosofia di Valepert
Pseudo-Aristotele autori sconosciuti di diverse opere antiche Parva naturalia
Topici opera di Aristotele L'espressione filosofia dell'economia pu riferirsi
alla branca della filosofia che studia le questioni relative all'economia o, in
alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle proprie fondamenta e
del proprio status di scienza umana.Hands, philosophy and economics, in The New
Palgrave Dictionary of Economics.Portale Filosofia: filosofia di Nima Tayebian
Boulding economista, pacifista e poeta inglese Bradley (filosofo). PARTITO
NAZIONALE FASCISTA. TESTI PER I CORSI Dl PREPARAZIONE POLTICA LECONOMIA
FASCISTA. LA LIBRERIA DELLO STATO.Poltica economica e monetaria. Lagricoltura
italiana e la poltica rurale dei Regime. Industria e artigianato. La poltica
dei lavori pubblici. CONCETTI FONDAMENTALI. Il profondo, sostanziale contrasto
che separa il FASCISMO dal liberalismo si riflette in forma vigorosa e tipica
nel campo economico. In economia difatti lo Stato fascista si oppone nettamente
alio Stato liberale, perch mentre questo non interviene nella vita economica e
si limita generalmente alia funzione di difesa e di istruzione (Stato
carabiniere e pedagogo), quello considera suo compito preciso il regolare e
determinare lo sviluppo materiale e spirituale delia collettivit, negando che
dal libero e incomposto cozzo delle forze individuali possa prendere origine la
forma pi perfetta e pi alta di vita civile. Lo Stato fascista non crede alie
armonie economiche realiz- zantisi con il totale assenteismo di uno Stato
ablico che si limita a prendere atto dei risultati raggiunti dai singoli indi-
vidui; lo Stato fascista Stato etico
appunto perch ha una sua consapevolezza e una sua volont da realizzare. Stato che non si estrania dai problemi
deHeconomia, ma li studia, li incita, li guida, li frena, perch non concepisce
il divorzio fra politica ed economia ma considera che questa discenda da
quella. Gli economisti e i politici che affermarono in maniera recisa e
perentria che lo Stato specialmente
utile quando si astiene da qualsiasi intervento nel campo economico, e sono numerosissimi nel secolo scorso oggi vanno scomparendo. In tutti i paesi lo
stato giganteggia. Soltanto esso pu risolvere le drammatiche contraddizioni dei
capitalismo; soltanto esso pu awiare verso una soluzione quel complesso di fenomeni
materiali e spirituali che si chiamano crisi e che possono essere superati e
vinti entro lo Stato. Questo particolarissimo stato d'animo di fronte al
liberalismo disfatto fu definito dal Duce con la seguente domanda: Che cosa
direbbe dinanzi ai continui, sollecitati, inevitabili interventi dello Stato
nelle vicende economiche, Bentham, secondo il quale lindustria avrebbe dovuto
chiedere allo stato soltanto di essere lasciata in pace, o Humboldt, secondo il
quale lo stato ocioso dove essere considerato il migliore? Ma se anche la
seconda ondata degli economisti liberali
meno estremista delia prima, perch apriva gi la porta agli interventi
dello Stato neireconomia, rimane pur sempre un incolmabile abisso tra Stato
liberale, anche, diremo cos, corretto, meno intransigente di quello concepito un
tempo, e lo Stato fascista. Bisogna ricordare che chi dice liberalismo dice pur
sempre indivduo. CHI DICE FASCISMO DICE STATO. Con questo per LO STATO FASCISTA
non intende di solito ingerirsi direttamente nel fatto economico, ma
sopraintendervi, affinch esso si svolga secondo gli interessi delia
collettivit* da questa concecione
poltica dello Stato che deriva la concezione economica delia corporacione. Lo
Stato fascista che in poltica non
reacionrio ma rivolucionario, in quanto anticipa le solucioni di problemi
comuni a tutti i popoli, in economia dimostra in maniera inequivocabile il suo
carattere morale e storico perch proprio
nella disciplina dei fatti economici che si rivela la maturit di una
collettivit organiccata e si dimostra la capacit creativa di una nuova
dottrina, che, come quella dei Fascismo,
pensiero ed azione. II duce innanci a migliaia di gerarchi convenuti a
Roma per la celebracione dei decennale si domanda. Questa crisi che ci
attenaglia da quattro anni una crisi dei
sistema o nel sistema? Allinizio delia fase risolutiva delia politxca
corporativa del fascismo, il capo risponde a quella grave domanda con un
fondamentale discorso al consiglio nazionale delle corporazioni, nel quale sono
precisati i caratteri particolari delleconomia corporativa. Egli in quella
storica assemblea afferm in maniera recisa che la crisi penetrata cosi profondamente nel sistema da
diventare una crisi dei sistema . Non pi
un trauma, e una malattia costituzionale, Egli disse. Se meditiamo intorno
allaffermazione del capo per com- prendere i motivi storici che 1'hanno
determinata, riconosciamo sbito che una profonda rivoluzione si operata tanto nel sistema di produzione
quanto nelle organizzazioni politi- che che hanno retto sino a pochi anni or
sono i diversi paesi civili. Egli ha definito il capitalismo e ne ha tracciato
la storia che ha vissuto nel secolo scorso: la nascita, il culmine, il declino.
Lanalisi che il duce ne fa in quello storico discorso cosi perfetta che se ne trascrivono qui di
seguito concetti e parole, sostanza e forma. Giunto alia sua pi perfetta
espressione dice il duce il capitalismo un modo di produzione di massa per un consumo
di massa, finanziato in massa attraverso lemissione dei capitale anonimo
nazionale e internazionale. II capitalismo
quindi industriale e non ha avuto nel campo agricolo manife- stazioni di
grande portata. Nella storia dei capitalismo tre periodi si distinguono: il
periodo dellascesa; il periodo delia massima potenza; il per iodo delia
decadenza. II primo periodo coincide con la introduzione dei telaio meccanico e
con 1'apparire delia locomotiva. Sorge la fabbrica. La fabbrica la tipica manife- stazione dei capitalismo
industriale. 1'epoca dei grandi margini
e quindi la legge delia libera concorrenza e la lotta di tutti ir contro tutti
pu giuocare in pieno. il perodo in cui
un grande fervore di attivit pratica awince i popoli e in cui la scienza che
aveva saputo carpire alia natura i suoi gelosi segreti offre aU'uomo mezzi
formidabili di conquista e di dominio. In Inghilterra, in Francia, in America,
si disfrenano concorrenze acerbe e si tentano imprese ardite. In questi 40 anni
vi sono dei caduti e dei morti, ma in questo periodo le crisi sono crisi
cicliche che si ripetono ad intervalli di tempo, non sono n lunghe n
universali. II capitalismo nel periodo
migliore delia sua vita. Ha ancora tale vitalit e tale forza di recupero che pu
superare brillantemente e rapidamente le awersit delia congiuntura economica.
L'attivit imprenditrice trova facilmente le condizioni favorevoli per il suo
sviluppo, poich grandi sono le possibilit dei mercati di consumo mentre
limitate sono ancora le capacit delia produzione. 1'epoca in cui lurbanesimo si sviluppa e si
inizia 1'esodo rurale. Le citt che divengono centro delia produzione
capitalistica si accrescono vertiginosamente. In questo primo periodo dei
capitalismo averte il duce la selezione
veramente operante. Ci sono anche delle guerre, ma sono guerre brevi che
non possono essere paragonate alia guerra mondiale. Esse eccitano anzi, in un
certo senso, 1economia delia Nazione. In America comincia la faticosa e dura
conquista delle sterminate campagne dell'ovest, che ha avuto i suoi rischi ed i
suoi caduti come ogni grande conquista. Mentre si vengono organizzando le formidabili
aziende agricole degli Stati dei sud, le citt deliAtlantico raggiungono un
enorme sviluppo. II ricordato periodo dei capitalismo che dura 40 anni e
potrebbe essere compreso tra 1'apparire delia macchina a xa vapore e il taglio
deiristmo di Suez, certamente tra i pi
dinamici che la storia ricordi. Esso
caratterizzato dallassenza dello Stato nella vita economica. II duce
dice che durante questi XL anni lo Stato si limita ad osservare Esso assente, e i teorici dei liberalismo dicono:
((voi, stato, avete un solo dovere, di far si che la vostra esistenza non sia
nemmeno awertita nel settore delleconomia Meglio governerete, quanto meno vi
occuperete dei problemi di ordine economico. II duce dimostrat che da certo
momento si awertono i primi sintomi delia stanchez^a e delia deviazione dei
mondo capitalistico. La fervida e sana lotta per la vita, la libera
concorrenza, la selezione dei pi forte, non si esplicano pi col primitivo
vigore, con quella energia e anche con queirentusiasmo che si riscontrato nel perodo precedente Lo
documentano i numerosi cartelli, sindacati, consorzh Si inizia Tra dei trust.
Si pu dire che ormai non ci sia settore delia vita economica dei paesi di
Europa e di America dove queste forze che carat- terizsano il capitalismo non
si siano formate La conseguenza di questo stato di cose, che gli economisti
liberali, ossequienti ai dogmi fondamentali dei classici, non awertirono, fu di
una importanza grandssima: la fine delia libera concorrenza. Essa rimase una
parola morta. La capacit di assorbimento dei mercato non corre paralle- lamente
alia crescente capacit produttiva; il saggio desinteresse e dei profitto, cio
il rapporto tra il guadagno ricavato e la quantit di capitale impiegato
neirimpresa, si riduce fortemente. Essendosi ristretti i margini, limpresa
capitalistica trova che anzich lottare
pi conveniente accordarsi, fon- dersi, dividersi i mercati ripartendo i
profitti. La stessa legge delia domanda e deirofferta sulla quale stata costruita la teoria economica dalla
quale dipende il sistema scientifico elaborato dai classici deireconomia, non
pu pi agire con libert nella nuova realt economica che si venuta formando* Attraverso i cartelli e i
trusts si pu agire sulla domanda di merci e specialmente suirofferta che di
queste pu essere fatta in un determinato mercato* Questa economia capitalistica
coalizzata, trustizzata, sempre meno idnea a vivere di vita prpria, cerca di
agire sullo Stato onde ottenere favori leciti o illeciti* Essa chiede anzitutto
la protezione doganale* II liberalismo viene colpito a morte, ma gli economisti
non se ne accorgono: continuano imperterriti la loro costruzione astratta,
avulsa dalla realt economica, come se il mondo eco- nomico da cui avevano pur
tratto gli elementi delia loro costruzione scientifica non li riguardasse pi*
La dottrina economica che aveva esaltata la libert in ogni forma di attivit e
lassenteismo dello Stato, viene ad essere colpita proprio da quelle forze che
erano cresciute nel periodo dei trionfo. Gli Stati Uniti d'America, fra i primi,
elevarono delle barriere doganali quasi insormontabili; essi si giustificarono
con 1'affermazione che le loro industrie sono giovani e hanno bisogno di
protezione e di difesa per poter crescere e prosperare. Come lAmerica, altri
paesi hanno via via elevato barriere sempre pi estese e pi alte: oggi la stessa
Inghilterra, che per tanto tempo aveva predicato e sostenuto il liberalismo
economico, perch torna tanto utile alia sua organizzazione economica, e
aglinteressi dellimpero britannico, abbandona il liberalismo, rinnegando tutto
ci che ormai sembra tradizionale nella sua vita poltica, economica, sociale,
rinnegando una dottrina scientifica della quale si fatta banditrice e tutrice. Ad Ottava varata la costituzione di un'economia chiusa
fra la madre patria e i dominions. Il perodo che il duce define periodo statico
finisce con la guerra. Dopo la guerra, e in conseguenza delia guerra, limpresa
capitalistica si inflaziona. Incomincia la decadenza. Lordine di grandezza
dellimpresa dice il duce passa dal milione al miliardo. Le cosidette
costruzioni verticali, a vederle da lontano, danno lidea dei mostruoso e dei
babelico. Le stesse dimensioni dellimpresa superano la possibilit delluomo.
Prima lo spirito che domina la materia,
ora la matria che piega e soggioga lo
spirito. Quello che fisiologia diventa
patologia, tutto diventa abnorme. II capitalismo giunto al parossismo, non
sapendo pi come giustificare la sua esistenza e trovare i mezzi di vita
indispensabili allazione, non volendo riconoscere la nuova realt delle cose,
crea una utopia: lutopia dei consumi illimitati. Il capo ci dice che lideale
dei supercapitalismo sarebbe la standardizzazione dei genere umano dalla culla
alia bara. Questa esigenza la lgica
conseguenza delle cose, perch soltanto con la standardizzazione dei gusti il
supercapitalismo pensa di poter fare i suoi piani. L f impresa capitalistica
cessa di essere un fatto meramente economico per divenire un fatto
sociale. questo il momento preciso nel quale
limpresa capitalistica, quando si trova in difficolt, si getta nelle braccia
dello Stato. questo il momento storico
in cui nasce e si rende sempre pi necessrio lintervento dello Stato. Lo Stato
ha il dovere di intervenire appunto perch limpresa capitalistica di cui si
discorre non soltanto un # impresa
economica: essa interessa direttamente la collettivit. Lo Stato ha il diritto
di intervenire per evitare che le sane energie delia Nazione si disperdano e
che la sacra forza dei lavoro dei popolo si prodighi in forme che possono
essere nocive alia stessa vita e potenza delia Nazione Ormai il maggior numero
di imprese economiche si vale degli aiuti dello Stato; coloro che ignoravano il
suo intervento lo cercano affannosamente. II duce dice che oggi siamo al punto
in cui se in tutte le Nazioni di Europa lo Stato si addormenta per 24 ore,
basterebbe tale parentesi per determinar e un disastro. Questa la crisi dei sistema capitalistico preso nel
suo significato universale. Quanto alla Nazione italiana, che fonda la prpria
economia prevalentemente sullagricoltura e sullartigianato, sulla piccola e
media industria, la vicenda capitalistica non ha avuto che aspetti e
conseguenze limitatu II supercapitalismo degenerato e pernicioso da noi non
esiste e laddove esso nato, gi moribondo: esiste invece una numerosssima
schiera di piccoli e medi produttori che vivono dei quotidiano lavoro, che
ignorano le awenture dei sedicenti industriali e dei pseudo banchieri; i quali,
sorti in numero impressionante durante e dopo la conflagra^ione europea,
avrebbero preteso di continuare a pescare nel torbido che essi avevano
provocato e che poi tendevano a mantenere. Questi awenturieri, che ebbero
assicurati dallinflazione e dallaumento dei pressi elevati profitti, non
furono, almeno nel nostro Paese, che una sparuta minoranza, la quale stata duramente punita dalle stesse vicende
delFeconomia. LItalia non una nazione
capitalistica nel senso or ora ricordato. Lessenza delleconomia italiana precisamente definita dal duce nei termini
seguent. Lltalia deve rimanere una Nazione ad economia mista, con una forte
agricoltura che la base di tutto, una
piccola o media industria sana, una banca che non faceia delle speculasioni, un
commercio che adempia al suo insostituibile compito che quello di portare rapidamente e razionalmente
le merci al consumatore. Esaminato lo svolgimento attraverso il quale si compiuto il ciclo di vita dei liberalismo
economico e dei supercapitalismo, sepolto ufficialmente con lo storico discorso
dei Duce per lo Stato corporativo; dimostrata fallace la credenza
neiruniversalit dei liberalismo a torto giudicato e ritenuto mtodo storico ed
universale, opportuno soffermarsi sulle
profonde antitesi che differenziano FASCISMO e socialismo. La dottrina fascista
nega quel materialismo storico sul quale si imperniano la concezione poltica e
quella economica dei socialismo. Secondo la dottrina marxiana le vicende delia
societ umana si spiegano soltanto con la lotta d'interessi fra i diversi gruppi
sociali* Sono soltanto i fatti economici che hanno importan^a nella vita
delbuorno; soltanto essi sono capaci di promuovere nuove forme di vita civile,
di determinare aspetti e configurazioni diversi nella societ* Nessun peso hanno
invece i motivi ideali, nessuna importanza la tradizione, il culto delia Patria
e degli Eroi, il desiderio di portare sempre pi in alto i destini della
nazione. In questo senso liberalismo e socialismo tradiscono una comune origine
dottrinale. Tanto che non per mero caso come rileva il duce che il tramonto delFuno coincida col tramonto
dellaltro. Non certo il fascismo, che ha
instaurato nella vita poltica e sociale un senso virile delia realt, che possa
negare limportanza delleconomia, come fattore delia vita dei popoli* Ma il
Fascismo crede ancora e sempre nella santit e nelheroismo, cio in atti nei
quali nessun motivo economico lontano o vicino agisce. La lotta degli
interessi stata ed un agente principale delle trasformazioni
sociali, ma non pu essere concepita come movente esclusivo delbevoluzione delia
societ. La fallacia dei materialismo storico e dei determinismo economico sta
appunto in questa concezione, per cui gli uomini non sarebbero che comparse
nella storia, incapaci di dirigerla o crearla, quasi fantocci in balia dei
flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, che
sarebbero le forze delleconomia. Accettare una simile concezione delia vita
significa annullare qualsiasi forza morale e riconoscere 1'incapacit delluomo a
creare la sua storia. II socialismo che si basa sul materialismo storico e sul
con- cetto delia lotta di classe e che mira attraverso questa a creare forme di
convivenza sociale nelle quali siano alleviate le sofferenze deglumili,
dimostra una singolare ingenuit dottrinale e una paurosa sterilit politica.
Esso vuole raggiungere un ideale, materialistico, massimo benessere per tutti i
componenti la collettivit, credendo che in siffatta maniera si sarebbe ottenuta
la felicit. E la mta era da conquistare attraverso la socializzazione di tutti
i mezzi di produzione, l'annullamento dei diritto di propriet, la
spersonalizzazione di ogni attivit economica, il sacrifcio delia iniziativa
individuale, la negazione di una funzione produttiva al capitale. II difficile
compito delia produzione dei beni eco- nomici sarebbe stato lasciato ad un mastodontico
Stato materialistico, le cui delicate funzioni sarebbero esercitate da un
esercito di burocrati. A questo stato socialista, accentratore e dspota,
padrone di ogni bene economico, si sarebbe dovuti giungere, secondo la profezia
di Marx profezia mancata attraverso un
processo di graduale e continuo accentramento delia produzione industriale e
dei capitale in mano di pochi, a cui sarebbe stato assai facile il toglierlo
per trasferirlo in seno alio Stato e creare cosi, con 1usurpazione, la nuova
realt economica dei socialismo. Le previsioni di Marx non si sono verificate:
fra tutte la caduta dei saggio di interesse e dei profitto, rappresenta il
punto cruciale delia dottrina socialista II saggio d'interesse, che costituisce
la retribuzione che si deve al capi- tale, cio il prezzo che si paga per luso
dei medesimo, un dato di fatto che non
si pu smentire; le recenti esperienze di economia socialista dimostrano che
laddove ufficialmente il saggio d'interesse si nega, si uccide anzitutto ogni
stimolo al risparmio e poi nella realt delia vita economica esso risorge per
infinite vie diverse, e con estrema frequenza assume la vecchia forma dellusura
II socialismo come sistema economico e anche come sistema politico-sociale ha
quindi peccato di ingenuit per non dire di vilt: esso non ha saputo guardare
con occhio sereno e penetrante nella realt dei fatti economici per distinguere
ci che era contingente e relativo a determinate situazioni di tempo e
d'ambiente, da ci che eterno e
connaturato con lo spirito deiruomo Al contrario il fascismo, che ignora le
snervanti logomachie e gloziosi e raffinati ragionamenti intessuti su premesse
metafisiche, e che invece ama losservazione delia realt per costruire su solide
basi non solo la dottrina ma le opere e gli istituti, ha da tempo affermata la
sua fede nella iniziativa privata, come fattore insopprimibile delia produzione
economica. Ma questa iniziativa privata non
libera di svolgersi nelle maniere pi diverse per dominare il campo
economico; si tratta di una iniziativa privata la quale deve essere regolata,
controllata, disciplinata dallo Stato che la ospita e la difende, la tutela e
lincoraggia, non perch essa formi solo la fortuna personale di colui che la
esercita, ma in quanto lo scopo raggiunto coincida con le necessit e le finalit
dello Stato. La dottrina economica dei Fascismo riconosce inoltre una funzione
al capitale, il quale costituisce il frutto dei lavoro deiruomo, risparmiato e
impiegato nei nuovi processi produttivi. In tal modo essa esalta la virt dei risparmio,
come mezzo per aumentare la potenza economica della nazione e quindi per dare
vigore e sostanza allazione poltica. Riconosce la fondamentale funzione delia
propriet privata, la quale non pi intesa
nel senso liberale, di diritto di godere e disporre delle cose nella maniera pi
assoluta, ma e intesa come dovere sociale. II suo esercizio e quindi limitato
da leggi le quali subordinano 1'interesse deliindivduo a quello dello stato. In
ogni caso per lo Stato fascista, pur giungendo anche alia espropriazione, fa si
che non si creino sperequaon a danno d particolar individui, poiche in esso IL
SENSO ROMANO DEL DIRITTO E DELLEQUIT
sempre vigile e operante. Dovere sociale
anche lesercizio dellimpresa, cio 1 esplicazione delliniziativa privata,
II fascismo, pero, se pur rifugge dal concetto esclusivo di impresa statale,
proprio dei socialismo, non ripudia, come fa il liberalismo, la possibilita,
anzi ammette la necessita, che certe imprese che eserciscono pubblici servizi o
che rivestono generalissimi interessi, sieno esercitate dallo stato, Nel campo
dei lavoro, poi, il fascismo stato
rivoluzionario in maniera veramente superba, Esso, che ha sempre intesa la
storia, cio il passato, come base dei presente dal quale si diparte lavenire,
non ha mai sacrificato con leggetezzz e superficialit, per amore di novit,
quello che era il frutto delia tradizione e la conquista delle passate
generazioni, IL FASCISMO ha inserito sul tronco della storia italiana le sue
audaci innovazioni rivoluzionarie. Tra queste, principalissime quelle nel campo
dei lavoro. Durante tutto 1 secolo XIX
la posizione dei lavoratore rispetto allimpresa, in condizioni di soggezione, II lavoratore alla merc dellimprenditore, il quale, avendo
una netta superiorit economica, puo imporre le condizioni e governare il
cosidetto mercato dei lavoro. IL FASCISMO, superando il concetto della lotta di
classe, dimostrando fallaci le dottrine che ad essa si ispirano, anche pone in
evidenza che il connubio tra il liberalismo e il socialismo, proprio dei periodo
storico in cui vi il libero sindacato
degloperai che coca contro il libero sindacato dei datori di lavoro, puo
causare perdite gravissime pella nazione, la quale non ottene da questa forma
di libera concorrenza tra sindacati quel massimo di utilit che le dottrine dei
classici delleconomia pronosticavano. INSERENDO IL SINDACATO NELLO STATO, non
ha attuato una forma di socialismo di stato, come preconizzato dagli osservatori superficiali e
dai nemici irriducibili della nuova idea, ma realizza in maniera giuridica le
vere e giuste aspirazioni dei popolo senza sacrificare limpresa, superando la
lotta di classe, sostituendo al diritto di sciopero e di serrata, il dovere
nazionale dei lavoratori e deglimprenditori. Raggiunge un nuovo sistema di
equilibrio senza cadere in grossolane contraddizioni e senza fare una dolorosa
esperienza piena di inenarrabili sacrifici per le classi operaie, quale fanno
coloro che vuoleno applicati gli schemi marxisti. II lavoro non pi considerato una merce che si vende sul mercato
e il salario non pi un prezzo che si
forma nel contrasto fra merce offerta e merce domandata. IL LAVORO UN DIRITTO e non una concessione. II duce,
infatti, ci dice che in tutte le societ nazionali c' la misria inevitabile; per
quella che deve angustiare il nostro spirito
la misria degli uomini sani e validi che cercano affannosamente e invano
il lavoro. Per questo il Fascismo considera il lavoro come un diritto. E il
Regime ha creato a questo scopo, come vedremo, Istituti nuovi, non per dare
forma ai suoi schemi dottrinali ma per dare risultati positivi, concreti,
tangibili alia sua azione: per far si che il diritto al lavoro dei popolo
italiano non rimanga una mera affermazione dogmatica, ma possa estrinsecarsi
nella nuova realt economica dei nostro Paese. poltica economica e monetaria. LA
POLTICA DEL LAVORO ha le sue tavole fondamentali nella Carta dei Lavoro. Questa
costituisce una dichiarasione poltica di basilare importanza; insorge contro la
concezione liberale che considera il lavoro come merce, e afferma che il lavoro
sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche,
manuali, un dovere sociale. Lo strumento
creato dal fascismo per regolare le condidoni di lavoro il contratto collettivo, nel quale trova la
sua espressione concreta la solidariet dei vari fattori delia produ zione,
mediante la conciliasone degli opposti interessi dei datori di lavoro e dei
lavoratori e la loro subordinazione agli interessi superiori delia produzione.
La solidariet fra tutti i fattori delia produzione, e non soltanto tra
imprenditori e lavoratori delia stessa categoria, proclamata nella dichiarasione 4 a, la quale
assegna al contratto collettivo di lavoro la delicata e difficile funzione di
concretarla La Carta dei Lavoro (dichiarazione 3 a ) afferma che la
organizzazione professionale e sindacale
unica. II solo sindacato legalmente riconosciuto e sottoposto al
controllo dello stato ha il diritto di rappresentare legalmente tutta la
categoria di datori di lavoro e di lavoratori per cui costituito, di tutelarne di fronte alio Stato
o alie altre associazioni professionali glinteressi, di stipulare contratti
collettivi di lavoro obbligatori per tutti gli appartenenti alia categoria, di
imporre loro contributi ed esercitare rispetto ad essi funsioni delegate
d'interesse pubblico. II sindacato ha il compito di tutelare gli interessi
delle categorie, ma nello stesso tempo ha lobbligo di promuovere in tutti i
modi laumento e il perfezionamento delia produzione e la riduzione dei costi;
esso deve anche adoperarsi per il conseguimento dei ini morali dellordinamento
corporativo. Nella Carta dei Lavoro come si reagisce alia concesione dei lavoro
come merce, si introduce il concetto di salario giusto ed equo, che sarebbe il
salario corporativo, in quanto esso deve uniformarsi alie esigenze normali di
vita, alie possibilit delia produzione e al rendimento dei lavoro. Aggettivi e
condizioni, quelli e queste, che equivalgono ad eresie per gli economisti
classici, pei quali non esiste altra giustizia in economia se non quella
stabilita dal ptezzo di equilbrio, determinato dailincontro dellofferta e della
domanda di lavoro. Poich essi hanno
sentenziato il fatto economico un fatto naturale, meccanico e perci non pu
essere n giusto n ingiusto, come una reazione chimica o la caduta di un grave.
La Carta dei Lavoro risolve felicemente il problema delia determinazione dei
salario giusto, cio di un salario che garan- tisca al lavoratore un minimo di
tenore di vita sen2;a che esso incida sul giusto profitto delhimprenditore. E
siccome questa determinazione non
suscettibile di una solucione di carat- tere generale, essa lascia un
grado sufficiente di elasticit, che permette al salario di essere il risultato
di un accordo contrat- tuale convenuto fra sindacati. Le ragioni economiche
sono perci mirabilmente armoni^ate con quelle sociali e politiche; il senso di
alta umanit, cui si ispira il fondamentale documento politico in matria di
lavoro, viene confermato nella dichiara^ione 18 a, la quale assicura al
lavoratore la continuit dei salario anche in seguito al verificarsi di
determinate evenien2;e Nellimpresa a lavoro continuo, il trapasso dellazienda
non risolve il contratto di lavoro e il personale ad essa addetto conserva i
suoi diritti nei confronti dei nuovo titolare. Egual- mente la malattia dei
lavoratore, che non ecceda una deter- minata durata, non risolve il contratto
di lavoro. II richiamo alie armi o il servizio delia M. V. S. N. non causa di licenciamento. Ispirata alia stessa
preoccupazione di tutelare il lavoratore
la dichiaracione 14 a, la quale stabilisce che la retribucione deve
essere corrisposta nella forma pi consentnea alie esigence dei lavoratore e
dell'impresa. Quando la retribucione sia stabilita a cottimo, e la liquidazione
di cottimo sia fatta a periodi superiori alia quindicina, sono dovuti adeguati
acconti quindicinali o settimanali. II lavoro notturno, non compreso in
regolari turni periodici, viene retribuito con una percentuale in pi rispetto al
lavoro diurno. Ma la parte fondamentale relativa alia determinacione dei
salario, merita qualche consideracione. Ancitutto va osservato che le
condicioni di vita, a cui deve uniformarsi il salario, non sono qualche cosa di
astratto e di costante, ma, essendo in stretta relacione con le condicioni
delleconomia nacionale, subiscono continue variacioni col progresso generale di
questa. Per esse non bisogna intendere il minimo necessrio per la vita fisica
dell'individuo, ma un livello sufficiente a consentire 1'elevacione dei
lavoratore. Questa concecione morale delia vita persegue anche finalit di
carattere economico. Le cattive condizioni dei lavoratori non solo riducono la
capacit di consumo dei mercato interno, per il quale gran parte degli
imprenditori producono, ma ne menomano anche il rendimento, ostacolando il
progresso economico e civile. II secondo elemento che bisogna tener presente
nella deter- minacione dei salario dato
dalle possibilit delia producione. Si detto
che la Carta dei Lavoro ha sempre presente il raggiungimento di una finalit di
carattere superiore e cio quella di aumentare la potenza poltica ed economica
delia Nazione. Si comprende, quindi, come sia stata sua preoccupazione costante
quella di far si che il salario venga stabilito in maniera tale da non causare
1'annullamento dei giusto profitto che deve percepire 1'imprenditore, perch in
tal caso si annullerebbe lo spirito d'intrapresa, lo stimolo al risparmio e
quindi si inaridi- rebbero le fonti delia ricchezza, che sono le fonti dei
lavoro. Tale disposizone non deve essere perci interpretata soltanto come
difesa delPimpresa, perch con 1aumento delia potenza economica si creano nuove
fonti di lavoro. anche per questo motivo
che la carta dei lavoro affida la concreta determinazione dei salario ai liberi
accordi contrattuali; essa ha perfettamente inteso che questa matria deve
essere disciplinata seguendo con grande accortezza le contingenze economiche.
Qualora non fosse consentita la indispensabile elasticit, le ricordate
disposizioni si risolverebbero in un danno altrettanto grave per i lavoratori
quanto per gli imprenditori. I ricordati criteri non devono essere mai
dimenticati n dalle associazioni sindacali n dalla magistratura del lavoro.
Lultimo elemento fissato dalla carta dei lavoro per procedere alia
determinazione dei salario il rendimento
dei lavoro. Con questa disposizione la carta del lavoro ha voluto riconoscere
in maniera esplicita che anche tra i lavoratori il concetto di
differenziamento, in relazione alie singole capacit, deve essere tenuto
presente onde evitare di agguagliare i singoli ed eliminare le naturali
diversit nelle attitudini e nella capacit di lavoro. Ci costituisce anche un
vantaggio sociale che non poteva essere trascurato dal fascismo il quale cerca
sopratutto di ottenere che i singoli elevino loro stessi servendo la causa dei
paese. II salario non deve quindi essere necessariamente eguale per tutti gli
operai, n per tutti i generi di lavoro. Esso varia inoltre in relacione al
luogo e al tempo. II comune, pi generale e forse pi antico sistema di retribuzione quello dei salario a tempo, corrisposto in
base al numero di ore o di giorni di lavoro prestato: forma che prescinde dal
rendimento perch fa astrazione dalla quantit di lavoro compiuto. Accanto a
questo vecchio sistema, che alio svantaggio di richiedere una assidua
sorveglianza unisce quello di mancare di sufficiente stimolo, si sono venute
affermando forme di retribuzione che vanno sotto il nome di salario a
incentivo. Questo va esente dai ricordati inconvenienti, ma anzi stimola
Tattivit delboperaio e quindi la produttivit dei lavoro. Questi indiscutibili
vantaggi possono per essere accompa- gnati da svantaggi considerevoli, specie
se considerati dal punto di vista nazionale E consistono appunto nella qualit
pi corrente o ordinaria delia produzione e specialmente nel periodo di uno
sforzo eccessivo dei lavoratore che, se lunga- mente protratto, pu essere
nocivo per la salute deiroperaio. I vantaggi che con questo sistema si
conseguono sono per tanto importanti da renderlo preferibile ogni qual volta
sia opportunamente regolato* Come fa la carta dei lavoro quando si preoccupa
delle conseguenze dei sistema a cottimo nei riguardi dei lavoratori meno
capaci, che non arrivano ad otte- nere un reddito corrispondente alia paga
base. Per la loro tutela la carta dei lavoro dichiara che quando il lavoro sia
retribuito a cottimo le tariffe di cottimo devono essere deter- minate in modo
che alloperaio laborioso, di normale capacit produttiva, sia consentito di
conseguire un guadagno minimo oltre la paga base. Lo scopo dei legislatore
fascista, regolando questa matria dei salario a cottimo nel modo indicato, stato quello di stimolare attraverso di esso,
nel lavoratore, la convenienza ad incrementare la produzione, legandolo alia
rnedesima, assicurando altresi un trattamento che non determini grandi disparit
di retribuzione tra i singoli lavoratori e nello stesso tempo non sia motivo di
logorio fisico delloperaio. Obbligando il lavoratore a una fatica superiore
alie sue medie possibilit, si crea un sistema di lavoro privo dei requisiti
fondamentali dei lavoro fascista, che deve essere gioia creatrice e non grigia
fatica che stanca e non piace. Per questo il fascismo non mai stato molto entusiasta dei sistemi di
paga che hanno avuto tanto furore e cosi estesa applicazione nei Paesi dei
supercapitalismo e specialmente negli Stati Uniti dAmerica. I sistemi basati
sulla cosidetta organizzazione scientifica dei lavoro e che fanno capo al
taylorismo, spesso fiaccano la fibra delloperaio costringendolo ad un lavoro
meccanico monotono e sempre eguale senza variet e diversioni capaci di
sollevare lo spirito dei lavoratore. I vari sistemi Rowan, Halsey e Bedeaux si ispirano tutti in sostanza al concetto di
fissare la paga in relazione al rendimento dei singolo e indipendentemente o
quasi da certi minimi, che diremmo di carattere umanitario. Lo Stato
corporativo, pur stimolando la nobile e generosa gara dei lavoratore non vuole
che questo si trasformi in una parte di macchina; questi razionalissimi
sistemi, frutto esclusivo delia ragione e dei calcolo, che fanno astrazione da
qualsiasi caratteristica individuale, trasformano invece il lavoratore in una
parte delia macchina di cui egli. diventa il servo. II problema non va quindi
impostato da un punto di vista meramente e prettamente economico e materiale,
ma va considerato anche da un punto di vista etico, sociale e poltico, come lo
ha considerato LO STATO CORPORATIVO che non opera guardando solo il presente,
ma con gli occhi e 1anima tesi sopratutto verso 1'awenire. La determinazione
dei salario rappresenta la parte pi importante e delicata dei contratti di
lavoro e va affrontata con animo mondo da qualsiasi preoccupazione partigiana e
demaggica; va affrontata, cio, con spirito fascista, con spirito che armonizza
in una perfetta unit i due maggiori fattori delia produzione: il lavoro e il
capitale. L'idea centrale e fondamentale che caratterizza nel terreno economico
e sociale la Rivoluzione delle Camicie Nere,
la Corporazione. IL CORPORATIVISMO
ESPRESSIONE ESSENZIALE DEL FASCISMO. Che cosa siano le Corporazioni lo
ha definito il Duce nello storico discorso dei novembre XII, al Consiglio
Nazionale delle Corporazioni. Le corporazioni, secondo la definizione datane
dal duce, sono lo strumento che, sotto 1 'egida dello Stato, attua la
disciplina integrale, organica e unitaria delle forze produttive, in vista
dello sviluppo delia ricchezza, delia potenza poltica e dei benessere dei
popolo italiano. IL CORPORATIVISMO
ancora afferma il duce leconomia
disciplinata, e quindi anche controllata, perch non si pu pensare ad una
disciplina che non abbia un controllo: il corporativismo supera il socialismo e
supera il liberalismo, crea una nuova sintesi.
cio la sintesi dei contrastanti interessi di categoria e di gruppo nel
supremo interesse delia societ nazionale. IL CORPORATIVISMO implica quindi
anzitutto una perfetta e completa conoscenza dei vari settori deireconomia
nazionale; delia loro portata economica assoluta e relativa. Implica un indirizzo
di poltica economica conforme a certe finalit sociali che lo Stato ritiene pi
vantaggiose per la collettivit nazionale. Diciamo portata assoluta e relativa
delle diverse attivit economiche delia Nazione, perch non tutte hanno la stessa
importanza per gli interessi che rappresentano o per i fini che lo Stato
fascista persegue. Non mancano, nel campo agricolo come in quello industriale,
modeste attivit in confronto di larghi generali interessi economici. II
liberalismo pu attendere dal cozzo la soluzione che pel solo suo trionfo
ritiene socialmente pi vantaggiosa; il corporativismo no. Deve approfondire
1'importanza relativa di ogni branca dell'attivit economica e con una visione
nazionale, organica quindi e integrale, evtare che limitati interessi, anche se
potenti, deprimano interessi ben pi larghi anche se meno agguerriti o protetti.
Discende da ci che lo Stato corporativo non pu difendere egualmente ogni
settore economico, grande e piccolo. Vi sono settori, attivit, branche che ai
fini nazionali vanno tutelati e difesi, in confronto di altri che non meritano
eguale tutela. Una poltica economica corporativa non pu non fare questa cernita
di interessi in armonia ai fini sociali che intende raggiungere. Questa Tessenza dell'economia corporativa. Vediamoun
po'il suo sviluppo storico. II Duce sin dallanno I, parlando il 2 giugno ai
lavoratori dei Polesine, afferm il concetto fondamentale delia collabora-
zione: La lotta di classe Egli dice
pu essere un episdio nella vita di un popolo; non pu essere sistema
quotidiano, perch significherebbe la distruzione delia ricchezza e quindi la
misria universale. Collaborazione, fra
chi lavora e chi d lavoro, fra chi d le braccia e chi d il cervello tutti gli elementi delia produzione hanno le
loro gerarchie inevitabili e necessarie attraverso a questo prpgramma voi
arriverete al benessere, la Nazione arriva alla prosperit e alla grandeza. Al
Consiglio Nazionale dei sindacati fascisti, il duce rivolge allassemblea il
seguente richiamo. La collaborazione di classe deve essere praticata m due; 1
datori di lavoro non denono approfittare dello stato attuale restaurato dal
fascismo, che ha dato un senso di disciplina alla nazione, per soddisfare i
loro egoismi. Essi devono considerare gloperai come elementi essenziali delia
produzione. Devono fare il loro interesse in quanto coincida con quello della
Nazione e non invece il contrario. Solo in questo modo si puo avere una massa
realmente disciplinata, laboriosa, fiera di contribuire alie fortune delia
Patria, Nello stesso anno, mviando un messaggio al Congresso delle Corporazioni
Sindacali Fasciste, rileva che in molte zone la mtelligente collaborazione di
classe era stata realizzata e la pace era mantenuta. Ci dimostrava che quando
le due parti sanno mettersi sul concreto terreno delia produzione, la colla-
bora2;ione di classe possibile. Il duce,
pubblicando in Gerarchia un articolo su FASCISMO E SINDACALISMO ricorda che il
programma dei Partito afferma clie le Corporazioni vanno promosse secondo due
obiettivi rondamentali: e cio come espressione delia solidariet nazionale e
come mezzo di sviluppo delia produzione. Le Corporazioni non debbono tendere ad
annegare l'individuo nella collettivit, e a livellare arbitrariamente la
capacit e le torze dei singoli, ma debbono anzi valorizzarle e svilupparle. In
questa schematica dichiarazione vi sono i fondamenti delia nuova dottrina
corporativa. Il fascismo, conquistato il potere, si dedica con rara energia a
consolidare le istituzioni, a risolvere gli impellenti problemi posti dalla
vita economica dei Paese, senza per dimenticre lo sviluppo orgnico delia
legislazione corporativa che doveva portare alia legge fondamentale dei 5
febbraio 1934. Da un punto di vista dottrinale, e se si vuole anche storico, lo
sviluppo delia Corporazione contrassegnato
da tre fasi o momenti di importanza fondamentale: la legge sulla disciplina
giuridica dei rapporti collettivi di lavoro; la leggesul Consiglio Nazionale
delle Corporazioni; la legge sulla costituzione e sulle funzioni delle
Corporazioni. II legislatore fascista gi nella legge forni i primi elementi
giuridici dei nuovo istituto delia Corporazione, e si pu anzi affermare che
tutte le disposizioni di quel documento fossero ispirate a questo concetto
fondamentale. 1idea nuova che animava e
giustificava Tordinamento instaurato dalla legge. Secondo la legge ricordata,
1Istituto delia Corporazione aveva anzitutto lo scopo di attuare la completa
collaborazione tra le categorie, collegando le rappresentanze sindacali dei
lavoratori e dei datori di lavoro dei ramo di produzioni per cui la corporazione costituita; di rappresentare in maniera
unitaria gli interessi economici dei proprio settore produttivo di fronte alie
altre categorie. La delicatissima funzione dei collegamento esercitata dallo STATO. La legge prevede,
accanto alia organizzazione sindacale a carattere verticale, una organizzazione
corporativa a carattere orizzontale: la prima serviva per tutelare gli
interessi dei singoli elementi delia produzione, la seconda per la difesa degli
interessi comuni a ogni singolo ramo delia produzione. Gi in questa legge agli
organi corporativi fu attribuita la facolt di emanare norme generali sulle
condizioni di lavor o, di conciliare le controversie collettive tra le
associazioni colle- gate,di promuovere, incoraggiare e sussidiare tutte le iniziative
intese a coordinare e meglio organizzare la produzione, di istituire uffici di
collocamento, di regolare il tirocnio e 1 garzonato con norme obbligatorie. II
secondo passo di carattere fondamentale sulla via che doveva condurre alia
Corporazione fu fatto con la legge sul Consigho Nazionale dlle Corporazioni, la
quale non solo forniva un nuovo strumento giuridico per disciplmare i rapporti
economici collettivi, ma attribuiva nuovi compiti e funzioni alie associazioni
sindacali. Queste estesero il loro campo di attivit dalla disciplina dei
rapporti di lavoro, al regolamento collettivo dei rapporti economici tra le
diverse categorie delia produzione. Ma
con la legge dei 5 febbraio 1934 che si dovevano realiz- sare in maniera
definitiva le Corporazioni. Il capo dice: il sindacalismo non pu essere fine a
se stesso: o si esaurisce nel socialismo poltico, o nella CORPORAZIONE
FASCISTA. solo nella corporazione che si
realizza 1 idea economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro,
tcnica; solo attraverso la corporazione,
cioe attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti ad un solo
fine, che la vitalit dei sindacalismo
assicurata. solo, cioe, con un
aumento delia produzione e quindi delia ricchezza, che il contratto collettivo
pu garantire condizioni sempre migliori alie categorie lavorative. In altri
termini, sindacalismo e corporazione sono indipendenti e si condizionano a
vicenda; senza sindacalismo non
pensabile la corporazione; ma senza corporazione il sindacalismo stesso
viene, dopo le prime fasi, a esaurirsi in unazione di dettaglio, estranea al
processo produttivo; spettatrice non attrice; statica e non dinamica. Parlando
al popolo di Bari il duce dice come 1'obiettivo dei Regime nel campo
economico la realizzazione di una pi alta
GIUSTIZIA SOCIALE per tutto il popolo italiano. La quale cosa significa lavoro
garantito, salario equo, casa decorosa. Significa la possibilit di evolversi e
di migliorarsi incessantemente. Significa CHE (Grice, MEANS THAT) gli operai, i
lavoratori debbono entrare sempre pi intimamente a conoscere il processo
produttivo e a partecipare alia sua necessria disciplina. La fusione di tutte
le energie economiche e spirituali della Patria doveva awenire in maniera
definitiva con la promulgazione delia legge che crea su di un piano orgnico le
Corporazioni. Insediando i Consigli delle Corporazioni, il Capo ne pone in
rilievo il carattere rivoluzionano, perch il suo compito quello di determinare negli istituti, nelle
leggi e nei costumi, le trasformazioni politiche e sociali che sono necessarie
alia vita di un popolo. In quelloccasione il Capo si domandava: occorre ripetere ancora una volta che le
Corporazioni non sono fine a se stesse ma strumenti di determinati scopi? Ormai
questo un dato comune. Quali sono gli
scopi? Airinterno una organizzazione che raccorci con gradua- lit ed
inflessibilit le distanze tra le possibilit massime e quelle minime o nulle
delia vita. ci che io chiamo una pi alta
giustizia sociale. In questo secolo non si pu ammettere la inevitabilit delia
misria materiale, si pu accettare sol- tanto la triste fatalit di quella
fisiolgica. Non pu durare lassurdo delle carestie artificiosamente provocate.
Esse denunciano la clamorosa deficienza dei sistema. II secolo scorso proclamo
luguaglian^a dei cittadini davanti alia legge
ed conquista di portata
formidabile il secolo fascista mantiene,
an2;i consolida, questo principio, ma ve ne aggiunge un altro, non meno
fondamentale: Teguaglianza degli uomini dinan^i al lavoro, inteso come dovere e
come diritto, come gioia crea- trice che deve dilatare e nobilitare Tesisten^a,
non mortificaria o deprimerla. Di fronte alhesterno la corpora^ione ha lo scopo
di aumentare senza sosta la poten^a globale delia na^ione per i fini delia sua
espansione nel mondo Col io novembre delbanno XII la grande macchina creata dal
genio dei Duce doveva mettersi in moto. II Capo ammoniva che non bisogna
attendersi immediati miracolL Anzi i miracoli non bisogna attenderli affatto,
perch il miracolo non appartiene alleconomia. La legge attribuisce alie
Corporadoni funzioni normative in matria economica. Inoltre esse sono chiamate
a dar pareri (compito consultivo) su tutte le questioni che interessano il ramo
di attivit per cui sono costituite, tutte le volte sia richie- sto da organi
competenti, nonch a esercitare la concilia^ione delle controversie collettive
di lavoro. L'attivit delle Corporazioni
incominciata neiranno XIII e molte di esse hanno gi lavorato con
successo. Le ventidue corporazioni istituite dal Capo dei Governo sono elencate
qui di seguito e per ciascuna riportiamo la composizione numrica delle
categorie economiche. Si ricorda che nelle Corporazioni vi sempre rappresentato il Partito, il quale
porta in seno a questo nuovo organismo la continuit dello spirito rivolu^ionario
e la voce delia massa dei consumatori. PRIMO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite
con decreto dei Capo dei Governo) CORPORAZIONE DEI CEREALI i> Produzione dei
cereali 7 datori di lavoro e 7 lavoratori Industria delia trebbiatura Industria
molitoria, risiera, dolciaria e delle paste Panificazione Commercio dei cereali
e degli altri prodotti sopra indica ti Cooperative di consumo 1 rappresentante
Tecnici agricoli Artigianato CORPORAZIONE DELLA ORTO-FLORO-FRUTTICOLTURA
Orto-floro-frutticoltura 6 datori di lavoro e 6 lavoratori Industria delle
conserve amentari vegetali 2 2 Industria dei derivati agrumari e delle essenze
. Commercio dei prodotti orto-floro-frutticoli e loro derivati Tecnici agricoli
1 rappresentante Chimici Cooperative di esportatori orto-floro-frutticoli
CORPORAZIONE VITIVINICOLA Viticoltura 6 datori di lavoro e 6 lavoratori
Industrie enologiche (vini, aceto, liquori) Ogni Corporazione ha tre
rappresentanti dei Partito. Industrie delia birra ed affrni 3 datori di lavoro
e 3 lavoratori Produzione delPalcool di seconda categoria Commercio dei
prodotti sopra eiencati Tecniciagricoli 1 rappresentante Chimici ....i Cantine
sociali CORPORAZIONE OLEARIA Coltura dellolivo e di altre piante da olio 5
datori di lavoro e 5 lavoratori Industria delia spremitura e delia rafinazione
delPolio di oliva Industria delia spremitura e delia raffinasione delPolio di
semi Industria delPolio al solfuro Commercio dei prodotti oleari Tecnici
agricoli 1 rappresentante Chimici CORPORAZIONE DELLE BIETOLE E DELLO ZUCCHERO
Bieticoltura 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Industria dello zucchero
Industria delPalcool di prima categoria Commercio dei prodotti sopra indicati
i Tecnici agricoli 1 rappresentante
Chimici CORPORAZIONE DELLA ZOOTECNIA E DELLA PESCA Praticoltura e allevamento
dei bestiame e delia selvaggina Industria delia pesca marittima e di acque
interne e delia lavorazione dei pesce Industria dei latte per consumo diretto
Industria dei derivati dei latte Industria delle carni insaccate e delle
conserve amentari animali Commercio dei bestiame Commercio dei latte e dei
derivati Tecnici agricoli Mediei veterinari Latterie sociali.Cooperative di
pescatori 8 datori di lavoro e 8 lavoratori i rappresentante CORPORAZIONE DEL
LEGNO Produzione dei legno, industria fore- stale e prima lavorazione dei legno
Fabbricazione dei mobiio e di oggetti vari di arredamento domestico Produzione
degli infissi e dei pavimenti Produzione dei sughero Lavorazioni varie
Commercio dei prodotti sopraelencati Tecnici agricoli e forestali Artisti
Artigianato 2 datori di lavoro agricolo e 2 lavoratori agricoli 2 datori di
lavoro industriale e 2 lavoratori industriali 2 datori di lavoro e 2 lavoratori
i rappresentante CORPORAZIONE DEI PRODOTTI TESSILI Industria dei cotone 3
datori di lavoro e 3 lavoratori Produzione delia lana Industria delia lana
Industria dei seme-bachi Gelsi-bachicoltura Industria delia trattura e delia
torci- tura delia seta 1 datore di lavoro e 1 lavoratore Industria dei rayon
Industria delia tessitura delia seta e dei rayon Coltivazione dei lino e delia
canapa Industria dei lino e delia canapa Industria delia juta Industria delia
tintoria e delia stampa dei tessuti. Industrie tessili varie Commercio dei
cotone, delia lana, delia seta, dei rayon e degli altri prodotti tessili;
commercio al dettaglio dei prodotti stessi Tecnici agricoli 1 rappresentante
Chimici Periti industriali Artisti Artigiani Essiccatoi cooperativi SECONDO
GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite con Decreto dei Capo dei Governo CORPORAZIONE
DELLA METALLURGIA E DELLA MECCANICA Industria siderrgica 3 datori di lavoro e 3
lavoratori Altre industrie metallurgiche Industria delia costruzione di mezzi
di trasporto (automobili, moto- cicli, aeroplani, materiale ferro-tranviario,
costruzioni navali) Industria delia costruzione delle macchine ed apparecchi
per la radio e per la generazione, trasformazione e utilizzazione dellenergia
elettrica Industria delia costruzione di macchine ed apparecchi per uso
industriale e agricolo Industria delle costruzioni e lavorazioni metalliche,
fonderie e impianti Industria delia costruzione di strumenti ottici e di misura
e delia meccanica di precisione e di armi 2 2 Industria dei prodotti di gomma
per uso industriale Industria dei cavi e cordoni isolanti Orai e argentieri
Commercio dei prodotti sopra indicati Ingegneri 1 rappresentante Artigianato
Consorzi agrari cooperativi CORPORAZIONE DELLA CHIMICA Industrie degli acidi
inorganici, degli alcali, dei cloro, dei gas compressi e degli altri prodotti
chimici inorganici 3 datori di lavoro e 3 lavoratori Industria dei prodotti
chimici pellagricoltura Industria degli acidi organici e dei prodotti chimici
organici Industria degli esplosivi Industria dei fosforo e dei fiammiferi
Industria dei materiali plastici Industria dei coloranti sintetici e dei
prodotti sensibili per fotografie Industrie dei colori mineraH, delle vernici,
delle creme e dei lucidi per calzature e pellami Industria saponiera e dei
detersivi in genere, industria stearica e delia glicerina Industria degli
estratti concianti Industria conciaria Industria degli olii essenziali e
sintetici e delle profumerie Industria deglolii minerali Industria delia
distillazione dei carbone e dei catrame; industria delle emulsioni bituminose
Industrie farmaceutiche Commercio dei prodotti delle industrie sopra indicate
Chimici i rappresentante Farmacisti Consorzi agrari cooperativi CORPORAZIONE
DELL'ABBIGLIAMENTO Industria dellabbigliamento (confezioni dabiti, biancheria,
ecc.) Industria delia pellicceria Industria dei cappello Industria delle calzature
e di altri oggetti di pelle per uso personale Industria dei guanti Produzione
di oggetti vari di gomma per uso di abbigliamento Magliici e calzifici
Produzione di pizzi, ricami, nastri, tessuti elastici e passamanerie Industria
dei bottoni Produsioni varie per labbigliamento Ombrellifici Commercio dei
prodotti delle industrie sopra indicate Artigianato Artisti 3 datori di lavoro
e 3 lavoratori 1rappresentante i CORPORAZIONE DELLA CARTA E DELLA STAMPA
Industria delia carta Cartotecnica Industrie poligrafiche ed affini Industrie
editoriali. Industrie editoriali giornalistiche. Commercio dei prodotti delle
industrie sopra elencate Artisti (autori e scrittori, musicisti, belle arti,
giornalisti) Artigianato 2 datori di lavoro e 2 lavoratori 1 di cui uno giornalista
4 rappresentanti i CORPORAZIONE DELLE COSTRUZIONI EDILI Industrie delle
costruzioni (costruzioni edilizie e opere pubbliche) Industria dei laterizi
Industria dei manufatti di cemento* Industria dei cementi, delia calce e dei
gesso Industria dei materiali refrattari Commercio dei materiali da costru-
zione Propriet edilizia Ingegneri Architetti Geometri Periti industriali edili
Artigianato Cooperative edili 4 datori di lavoro e 4 lavoratori 1
rappresentante CORPORAZIONE DELL'ACQUA, DEL GAS E DELLA ELETTRICIT Industria
degli acquedotti 3 datori di lavoro, dei quali un rappresentante delle aziende
municipali e 3 lavoratori, dei quali un rappresentante dei dipendenti delle
aziende municipal Industria dei gas 3 datori di lavoro, dei quali un rappresentante
delle aziende mu- nicipali, e 3 lavoratori dei quali un rappresentante dei
dipendenti delle aziende municipal Industrie elettriche.4 datori di lavoro, dei
quali un rappresentante delle aziende municipalizzate e 4 lavoratori dei quali
un rappresentante dei dipendenti delle aziende municipalizzate Ingegneri 1
rappresentante Consorzi e cooperative CORPORAZIONE DELLE INDUSTRIE ESTRATTIVE
Industria dei mnerali metalici. 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Industria
dello zolfo e delle piriti Industria dei combustibili fossili Industria delle
cave (marmo, granito, pietre ed affini) Lavora^ione dei marmo e delia pietra
Commercio dei prodotti delle industrie sopraelencate Ingegneri minerari 1
rappresentante Periti industriali minerari Artigianato CORPORAZIONE DEL VETRO E
DELLA CERAMICA Industrie delle ceramiche artistiche, porcellane, terraglie
forti, semi- forti, e dolci, grs, abrasivi 4 datori di lavoro e 4 lavoratori
Industrie delle bottiglie Industria dei vetro bianco Industria delle lastre
Industria degli specchi e cristalli Industria dei vetro scientifico (com- preso
quello di ottica) Industria dei vetro artistico e conterie Industria delle
lampade elettriche Commercio dei prodotti delle industrie elencate Artigianato
2 rappresentanti Cooperative Artisti TERZO GRUPPO Dl CORPORAZIONI (Istituite
con Decreto dei Capo dei Governo CORPORAZIONE DELLE PROFESSIONI E DELLE ARTI
Sezione dei Professionisti legali: Awocati e Procuratori 3 rappresentanti (due
per gli awocati e uno per i procuratori) Dottori in economia 1 rappresentante
Notai Patrocinatori legali Periti commerciali Ragionieri Sezione delle
professioni sanitarie: Mediei 3 rappresentanti Farmacisti Veterinari Xnfermiere
diplomate Levatrici Sezione delle professioni tecniche: Ingegneri 2
rappresentanti Architetti Tecnici agricoli 3 (uno per i dottori in agraria e
uno per i periti agrari) Geometri 1 rappresentante Periti industriali Chimici
Sezione delle arti: Autori e scrittori 2 rappresentanti Belle arti Architetti
Giornalisti Musicisti.. Istituti privati di educazione e istruZione Insegnanti
privati Attivit industriali ed artigiane di arte applicata Commercio delParte
antica e moderna i rappresentante i datore di lavoro e 1 lavoratore
delPindustria; 2 artigiani i datore di lavoro e 1 lavoratore i8 CORPORAZIONE
DELLA PREVIDENZA E DEL CREDITO Sezione delle Banche: Il Governatore delia Banca
dTtalia* Il Presidente delPAssociazione tra le Societ Italiane per azioni. II
Presidente dellTstituto di ricostruzione industriale. II Presidente
dellistituto mobiare italiano Istituti di credito ordinrio 2 rappresentanti
Banche di provincia Istituti finanziari Banchieri privati Agenti di cambio
Ditte commissionarie di borsa e cambiavalute Dirigenti di aziende bancarie
Dipendenti delle aziende bancarie Dipendenti da agenti di cambio Sezione degli
Istituti di diritto pubblico: I membri di diritto delia Sezione delle Banche
Casse di Risparmio ordinarie 4 rappresentanti Istituti di credito di diritto
pubblico soggetti alia vigilanza dei Ministero delle Finanze Istituti speciali
di credito agrario i rappresentante Monti di Piet 2 rappresentanti dei quali
uno per i Monti di Piet di I a cat ed uno per quelli di 2 a cat* Istituti di
credito di diritto pubblico 3 rappresentanti Banche popolari cooperative 1
rappresentante Casse rurali 1 Dipendenti
da Banche popolari e da Casse rurali 2 rappresentanti Sezione deile
assicurazioni: II Presidente deiristituto Nazionale delle Assicurazioni, II
Presidente dellTstituto Nazionale Fascista delle Assicurazioni contro gli
Infortuni* II Presidente deiristituto Nazionale Fascista delia Previdenza
Sociale, Imprese private autorizzate allesercizio delle assicurazioni 2
rappresentanti Dirigenti delle imprese di assicura- Dipendenti delle imprese di
assicurazione Agenzie di assicurazione Dipendenti da agenzie di assicurazione
Dipendenti da istituti di assicurazione di diritto pubblico Mutue di
assicurazione CORPORAZIONE DELLE COMUNICAZIONI INTERNE Sezione delle ferrovie,
delle tramvie e delia navigazione interna: Ferrovie e tramvie extra-urbane 3
datori di lavoro e 3 lavoratori Tramvie urbane Funivie, funicolari, ascensori e
ilovie Navigazione interna Sezione dei trasporti automobilistici; Autoservizi
di linea 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Servizi di noleggio .Servizio
taxistico Servizio camionistico Sezione degli ausiliari dei traffico:
Spedizionieri 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Attivit portuali Trasporti
ippici Attivit complementari dei traffico su rotaia e su strada Sezione delle
comunicazioni telefoniche, radiotelefoniche e cablografiche: Comunicazioni
telefoniche, radiotelavoratori tefoniche e cablografiche 2 datori di lavoro e
CORPORAZIONE DEL MARE E DELLARIA Marina da passeggeri 4 datori di lavoro e 4
lavoratori Marina da carico Marina velica Trasporti aerei Cooperative i
rappresentante CORPORAZIONE DELLO SPETTACOLO Imprese di gestione dei teatri e
dei cinematografi 2 datori di lavoro e 2 lavoratori Teatri gestiti da enti
pubblici, imprese liriche (artisti di canto, artisti di prosa, concertisti,
orchestrali, registi e scenotecnici) e di operette, enti di concerti,
capocomici, radio-trasmissioni Industrie affini (scenografia, case di costumi e
di attr ezzi teatrali, edi- zioni fotomeccaniche).i datore di lavoro e i
lavoratore Imprese di produzione cinematogrfica Case di noleggio, di films
Imprese di spettacoli sportivi Editori 2 rappresentanti Musicisti Autori dei
teatro drammatico e dei cinematgrafo 2 rappresentanti II Presidente delia
Societ Italiana Autori ed Editori Il Presidente delPIstituto Nasionale L* U, C.
E. II Presidente delPO* N. D CORPORAZIONE Alberghi e pensioni Uffici ed agensie
di viaggi. Esercizi pubblici in genere (ristoranti, caff, bar) Attivit
artigiane connesse con 1 'ospitalit Stabilimenti idroclimatici e termali Case
private di cura Mediei DELL/OSPITAUT 2 datori di lavoro e 2 lavoratori 1
rappresentante II vigente ordinamento strutturale delle ORGANIZZAZIONI
SINDACALI il frutto di una graduale
evoluzione. Recentemente stato
rivedutoispirandosiacriteri dimaggiore semplicit. Anche le denominazioni sono
State cambiate con una pi precisa indicaZione degli esercenti 1'attivit che
lorganizzazione rappresenta. La struttura organizzativa delle associazioni di
vario grado si presenta nel seguente modo: Associazioni nazionali
giuridicamente riconosciute Confed. Federaz. Sindac. Totale Confederazione
Fascista agricoltori Confederazione Fascista industriali Confederazione
Fascista commer- cianti Confederazione Fascista delle aziende dei credito e
deirassicurazione Confederazione Fascista dei lavoratori deiragricoltura
Confederazione Fascista dei lavoratori dellindustria Confederazione Fascista
dei lavoratori del commercio Confederazione Fascista dei lavoratori dei credito
e deirassicurazione Confederazione Fascista deiprofessionisti e artisti poltica
finanziaria e monetaria lItalia, uscita stremata da una guerra costosissima,
entr in una grave crisi economica e sociale, che ne esauri ancor pi le sue
capacit economiche e quindi ridusse enormemente le entrate di bilancio, mentre
le spese subivano un continuo aumento Ma in pochissimi anni il Governo fascista
riedificava su nuove salde basi la finana, eliminando ogni disavanzo. II piano
delia restaurazione concepito e voluto fermamente dal Duce si basa sopra queste
colonne fondamentali che costituiscono il saldo edifcio delia finanza fascista:
X o Pareggio dei bilancio; 2 o Risanamento delia circolazione monetaria; 3 o
Regola^ione dei debiti di guerra; 4 o Sistema^ione dei debito interno; 5 o
Sistemasione delFasienda ferroviria; 6 o Abolidone dei corso formoso e ritorno
alhoro. L'esercizio finanziario ultimo dellantico regime, segnava un disavanso
di circa 16 miliardi di lire; il successivo 10 riduceva a soli 3 miliardi e
Feserci^io finansiario seguente, il primo interamente gestito dal Fascismo,
vede scendere il disavamjo a solo 418 milioni di lire* Praticamente era il
pareggio. Con lanno finanziario 1924-25 comincia la magnifica serie degli anni
con bilanci attivi che termina soltanto nel 3:930-31 a causa delia contrazione
delle entrate, dovuta alia crisi e alia nuova situa^ione che si Veniva creando
nella economia mondiale A dare, in breve sintesi, un quadro abbastansja
completo dei bilancio dei nostro Paese dopo il 1913-14, possono giovare i dati
raccolti nella tabella sottoriportata: ENTRATE E SPESE EFFETTIVE RISULTANTI DAI
RENDICONTI CONSUNTIVI (in milioni di lire correnti) Esercizio finanziario
Entrate effettive Spcse effettive Avanzi 0 disavanzi. Ci che colpisce il fatto che appena il Regime fascista ha
preso le redini dello Stato le cose sono mutate profondamente. Lordine
neiramministraione, la giustizia degli accertamenti, il rgido controllo delle
spese, la lotta sistemtica contro il triste costume dell'evasione tributaria,
hanno compiuto il prodgio. II primo atino di avano si ha nel 1924-25, di 417
milioni. Soltanto successivamente, quando la crisi mondiale sconVolse
definitivamente 1'organismo economico di tutti i paesi civili, apparve il
disavano, che il Governo fascista ha afffontato con severe misure di economia.
Ma per meglio comprendere la struttura finaniaria dei nostro bilancio, e per
dare una nozione intorno all'ammontare delle principali voei di entrata, bene riportare per 1'undicennio 1922-33, i
dati relativi alie imposte dirette, alie imposte sullo scambio delia ricchea e
sui consumi, ai monopoli di Stato e al lotto: tali dati consentono di cogliere
le varia- ioni subite da queste singole Voei di entrata, nel periodo delia
ricostruione e delia depressione economica mondiale. LE IMPOSTE (in milioni di
lire) Anni Imposte dirette Imposte sullo scambio delia ricchezza Imposte
indiretfe sui consumi Monopoli di Stato Lotto. Sempre nellordine delia poltica
financiaria il Regime ha proweduto ad unificare gli istituti di emissione. In
omaggio al fondamentale principio delia unit storica e poltica dei Paese,
contrario ad ogni residuo regionale, il Governo concentra la facolt di
emissione nella sola BANCA DITALIA, togliendola al Banco di Napoli e al Banco
di Sicilia, che insieme alia prima ancora godevano di questo particolare
privilegio. A questa disposicione legislativa segui 1 'altra che attribuiva
alia Banca dItalia le funcioni di vigilanca su tutte le aciende bancarie che
raccolgono depositi, In tal modo anche lesercicio dei credito veniva
direttamente sorvegliato. poi noto che
le banche di deposito si sono dedicate anche al financiamento di imprese
industriali, compromettendo la loro liquidit e legando strettamente le loro
vicende economiche a quelle delle aciende financiarie. La crisi economica e il
cataclisma financiario, con la caduta delia sterlina, avevano aggravata la
delicata situacione di quegli Istituti. II Governo fascista diede loro lantica
liquidit acquistando in blocco il portafoglio titoli: cio tutte le acioni delle
aciende dagli stessi financiate. Queste banche, che si diedero a volte anche ad
una ingiusti- ficabile speculacione, furono salvate dallo Stato, il quale prov-
vide ad istituire due grandi istituti financiari, prowisti di adeguati mecci e
specialiccati nelle operacioni a medio e a lungo termine: 1'Istituto Mobiliare
Italiano e 1'Istituto per la Ricostrucione IndustrialeQuesti due enti di
diritto pubblico hanno facolt di emettere obbligacioni, ammesse di diritto alie
quotacioni di borsa. In matria fiscale i due istituti godono di trattamento di
favore. La portata di questi prowedimenti, emanati alio scopo di stimolare e
sorreggere Tattivit economica, pu per essere valutata nella sua vera ampiecca
soltanto quando essa venga considerata in armonia a tutte le altre prowidence
che il Governo fascista ha adottato nel campo delia poltica crediticia, in
relacione specialmente al poderoso programma di financiamento e di credito per
le opere di pubblica utilit e per quelle specifiche di miglioramento fondiario
e agrario* Un settore nel quale Tacione dello Stato si esplica in pieno quello monetrio Ovunque la moneta emessa direttamente dallo Stato oppure da
istituti bancari ai quali lo Stato ha concesso tale facolt. Quindi lo Stato in
sostanca arbitro quasi assoluto nel
campo monetrio; da esso dipende Femissione, che deve esser contenuta entro i
limiti implicitamente stabiliti dalle necessit economiche e financiarie di
ciascun paese Strettamente congiunta con la poltica monetaria , per owie
ragioni, quella dei credito. Basta pensare al fatto che lo Stato in maniera
diretta o indiretta determina le variacioni dei saggio dello sconto, per
comprendere quale enorme importanca abbia il suo intervento sia nello stimolare
gli affri, sia nel frenarli. Estremamente delicata Tacione dello Stato in questa diffi- cile
matria; essa non influisce soltanto sulla attivit produt- tiva, ma pu provocare
sperequacioni nel campo distributivo e quindi favorire alcune categorie sociali
col sacrifcio di altre. IL GOVERNO FASCISTA anche in questo settore
delleconomia, come nel pi complesso quadro delia vita economica nacio- nale, ha
armoniccato e coordinato i particolari interessi con una poltica ispirata ai
generali interessi dei Paese. Per questo la sua poltica monetaria ha mirato a
resistere in ogni istante alie pressioni delia speculazione per proteggere,
difendere, tutelare il grande esercito dei risparmiatori, che costituisce il
presidio sicuro delia potensa economica delia Nasione. La recente storia
monetaria dei Fascismo sta a documentare la tenacia dei propositi e delle
direttive seguite. Quando il Fascismo conquisto il potere la situasione monetaria
dei nostro Paese era assai difficile. La nostra lira negli anni delia guerra e
deirimmediato dopoguerra aveva sbito una forte svalutasione come dimostra il
corso delPoro espresso in lire correnti: Valore delia lira carta in lire (oro)
attuali = gr. 0,07919113 di oro fino Rapporto tra lira prebellica e lira
attuale 3,6661135 Anni Corso delloro Anni Corso delloro Negli anni 1921 e 1922
la lira italiana era in balia delia speculazione, che la faceva oscillare nella
maniera pi disordinata; Tinstabilit dei cambio si manifestava anche sul potere
di acquisto delia moneta; i prezai delle merci subivano continue variazioni e
il costo delia vita ne risentiva le conseguense Dopo rawento dei Governo
fascista le forti oscillasioni monetarie dei perodo precedente erano quasi
scomparse anche per effetto delia immediata distensione psicolgica e delia mano
possente che reggeva il timone dello Stato, come dimo- strano i dati seguenti:
Andamento dei corso dei dollaro: 4 trimestre II Governo inizia un'energica
poltica di risanamento finansario: pareggio dei bilancio e riforma tributaria
che elimina il caleidoscopio dei dopoguerra per riportare le fonti principali
delia finana ai tributi fondamentali. Ciononostante nel primo semestre dei 1925
la speculazione internazionale prese di mira la lira italiana e inizi durante
Testate quella grande offensiva a sfondo
antifascista che dur fino alia estate
delPanno successivo: fu nelPestate dei 1926 che la quo- ta^ione dei dollaro
sali a 31,60 e quella delia sterlina a 153,68. II Duce, compresa la grande
importanza poltica ed economica che pote va avere lulteriore svaluta^ione,
pronuncio a Pesaro il 18 agosto delPanno IV un memorabile discorso nel quale
afferm in maniera solenne e decisiva la strenua volont del GOVERNO FASCISTA di
difendere la lira: fu il discorso dei Duce che stronc in maniera definitiva la
speculazione al ribasso che era stata organissata dal capitalismo
interna^ionale. Leffetto psicologico
immenso. Quello poltico ed economico
ancora maggiore: alia fine dello stesso anno, deiranno 1936, il dollaro
scese a 22 lire e la sterlina a 108: un anno dopo il discorso di Pesaro il
dollaro era quotato poco pi di 18 lire e la sterlina 88. IL GOVERNO FASCISTA
aveva vinto. Anche in questo campo, nel quale le forse internazionali si erano
scatenate nella maniera pi insidiosa, lazione decisiva e ferma dei Duce aveva
avuto il soprawento. II Capo aveva detto:
Non infligger mai a questo popolo meraviglioso d'Italia, che da quattro
anni lavora come un eroe e soffre come un santo, Ponta morale e la catstrofe
economica dei fallimento delia lira* II Regime fascista resister con tutte le
sue for^e ai tentativi di jugulazione delle forse finan^iarie awerse, deciso a
stroncarle quando siano individuate alPin- terno* II Regime fascista disposto dal suo Capo alPultimo suo gregrio,
ad imporsi tutti i sacrifici necessari; ma la nostra lira che rappresenta il
simbolo delia Na^ione, il segno delia nostra ricche^a, il frutto delle nostre
fatiche, dei nostri sfor^i, dei nostri sacrifici, dei nostro sangue, va difesa
e sar difesa * E cosi come aveva promesso fu. Nel secondo semestre dellanno
1927 la situazione monetaria risulta completamente cambiata e il Governo
fascista si prepara a compiere la profonda riforma monetaria, effettuata alia
fine dei 1927, con la stabiliz^a^ione delia lira al valore di cambio che essa
aveva raggiunto dopo la strenua lotta combattuta. La lira venne cosi
stabilh;2;ata alia cosidetta quota novanta. Fedele al suo programma il Governo
affronta i rischi e i sacrifici che imponeVa la stabiliz^a^ione a quota 90, pur
di recare vantaggio ai risparmiatori, ai portatori di titoli di Stato e alia
grande massa dei lavoratori che almeno in un primo tempo si sarebbe certamente
aWantaggiata dal minor costo delia vita. Rifiuta la stabilizzazione a quota
120; questa si presen- tava pi facile e comoda, sia per il tesoro, sia per
radattamento al nuovo metro monetrio deireconomia dei Paese, ma avrebbe colpito
duramente i risparmiatori e i laVoratori: cio la Nazione. La stabilizzazione fu
quindi decisa sulla base di 19 lire per dollaro che equivalevano a circa 90 per
la sterlina, con una rivalutazione, rispetto alia media dei 1924, che
raggiungeva quasi il 20 % dei valore. Ed mantenuta con tenacia impensata ed
impensabile. Tanto vero che cadde la sterlina awenimento di portata economica enorme trascinando in breve volgere di tempo la
moneta di tutti i Paesi finanziariamente vassalli dellInghilterra; cadde il
dollaro: non cadde la lira italiana nonostante i furiosi attacchi delia
speculazione doltre Alpe e d'oltre oceano.
Veramente unico nella storia monetaria dei Paesi civili questo fatto:
mentre in tutto il mondo aweniva il tracollo monetrio, lTtalia fascista, in
grazia delia sua economia solida e armonica e delia sua meravigliosa unit
politica, sapeva resistere contro ogni assalto. Subito dopo la caduta delia
sterlina, IL GRAN CONSIGLIO DEL FASCISMO fa una solenne dichiarazione nella
quale, mentre prendeva atto delia continuit della politica monetaria dei
Governo e delle direttive date per mantenerla immutata anche nella eccezionale
situazione internazionale, riaffermava che la stabilit delia valuta era
necessria e conforme ai reali interessi economici delia Nazione. II Gran
Consiglio ricorda che la stabilit delia valuta, basata sulhequilibrio delia
bilancia dei pagamenti e garantita dalla awenuta deflazione delia circolazione,
dalle precostituite riserve e dalhadeguamento dei prezzi delle merci e dei
servizi al livello delia nostra moneta, evitava nuovi dannosi perturbamenti nei
rapporti di distribuzione che avrebbero gravato sul popolo italiano laVoratore
e risparmiatore. Al nuovo valore monetrio furono adeguati salari e prezzi,
attraverso un f a^ione oculata, decisa e precisa che ha costituito in periodo di cosi awersa congiuntura
economica il superbo vaglio delia for^a
unitaria dei Regime e delia salde^a ed efficacia delle organi^a^ioni sindacali
e corporative. In questo campo lopera svolta dal PARTITO FASCISTA stata meravigliosa, ineguagliabile: il popolo
italiano si comportato in maniera
magnifica, sacrificando secondo le norme
dei vivere fascista particolari
interessi di categoria per raggiun- gere i pi alti fini na^ionalh La poltica
economica dei Regime riuscita a
contemperare vantaggi e danni con un cosi alto senso di giusti^ia, che soltanto
un periodo di alta tensione ideale con una massa permeata dalla cosciensa
corporativa poteva consentire di raggiungere. POLTICA commerciale. Gleconomisti
liberali hanno esaltato la funcione dei commercio internazionale come una delle
maggiori conquiste civilh. Nessuno pu disconoscere che le grandi correnti di
traffico hanno distribuito su tutta la superfcie dei globo i prodotti dei Paesi
pi diversi contribuendo ad elevare il tenore di vita dei popoli e portando a
quelli quasi primitivi il frutto delia civilt, Ma nellesaltasione non mancata la solita costruzione astratta e
dogmatica che il tempo va inesorabilmente dissolvendo con le dure lezioni delia
realt. Per dare una precisa idea dellimportanza dei commercio internasionale e
delia funcione che- esso esercita nelleconomia del nostro paese opportuno esaminare il complessivo valore
delle importazioni e delle esportasioni, formanti la cosidetta bilancia dei
commercio internazionale (bilancia commerciale) Valore (in migliaia di lire)
Importazione Esportazione Differenza I dati sopra ricordati dimostrano che il
volume delle importazioni e delle esportasioni si anda to notevolmente contraendo dopo il 1926.
La differenza tra il valore delle merci importate e quello delle merci
esportate supera i 7 miliardi di lire, tanto nelhanno 1926 quanto nel 1928.
Dopo il 1930 e precisamente nel triennio 1931-33 esso si stabilizza intorno a
un miliardo e 400 milioni di lire. La passivit delia bilancia commerciale non
avrebbe una grande importanza qualora la cosidetta bilancia dei pagamenti,
chiamata anche bilancia dei dare e delPavere internazionale, potesse ancora
contare sulle cospicue rimesse degli emigranti, sul foro dei forestieri e sui
noli marittimi. Purtroppo per, date le continue restrizioni che si sono avute
nei rapporti internazionali, e dato che quelle partite non hanno carattere di
stabilit, il debito commerciale va attentamente osservato, poich altrimenti per
colmarlo, in difetto di quelle partite compensative alie quali accennavamo
(rimesse degli emigranti, noli, ecc), non esiste che il trasferimento di oro.
Per dare un quadro preciso dei nostro commercio con Pestero, riportiamo una
serie di dati riguardanti Limportazione e 1'esportazione per le principali
categorie di beni oggetto di scambio internazionale STATISTICA DEL COMMERCIO Dl
IMPORTAZIONE ED ESPORTAZIONE Esporiazione Valore (Lire) Catcgorie Milioni
Animali vivi - carni, brodi, mi- nestre e uova - latte e prodotti dei
caseificio - prodotti delia pesca Coloniali e loro succedanei, zuccheri e prodotti
zuccherati Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati alimentari Ortaggi e
frutta Bevande Sali e tabacchi. Semi e frutti oleosi e loro residui - olii e
grassi animali e vegetali e cereolii mineral i, di resina e di catrame, gomme e
resine - saponi e candele Canapa, lino, juta e altri vegetali ilamentosi,
compreso il cotone - lana, crino e peli - seta e fibre artificiali -
vestimenta, biancheria e altri og- getti cuciti Minerali metallici, ceneri e
scorie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe - altri me- talli comuni e
loro leghe - lavori diversi di metalli comuni Valore (Lire) Categorie Milioni
Macchine e apparecchi - uten- sili e strumenti per arti e me- stieri e per
1'agricoltura - strumenti scientifici e orologi - strumenti musicali Armi e
munizioni Veicoli Pietre, terre e minerali non metallici - laterizi e materiale
cementizio - prodotti delle industrie ceramiche- vetri e cristalli Amianto,
grafite e mica Legni e sughero ~ carta, cartoni e prodotti delle arti grafiche
Paglia ed altre materie da intrec- cio - materie da intaglio e da intarsio
Pelli e pellicce Prodotti chimici inorganici, orga- nici e concimi - generi
medici- nali e prodotti farmaceutici - generi per tinta e per concia - gomma
elas* e guttaperca Pietre preziose, argento, platino e lavori di metalli
preziosi - oro e monete d'oro e d'argento Oggetti di moda, calzature ed effetti
d'uso personale non compresi in altre categorie - mercerie, balocchi e spazsole
Materie vegetali non comprese in altre categorie Materie animali non comprese in
altre categorie. Prodotti diversi Importazione Valore (Lire) Categorie Milioni
Animali vivi - carni, brodi, mi- nestre e uova - latte e prodotti dei
caseificio - prodotti delia pesca Coloniali e loro succedanei, zuc- j cheri e
prodotti zuccherati Cereali, legumi, tuberi e loro de- rivati alimentari
Ortaggi e frutta Bevande Sali e tabacchi Semi e frutti oleosi e loro residui -
oli e grassi animali e vege- tali e cere - olii minerali, di resina e di
catrame, gomme e resine - saponi e candele Canapa, lino, juta e altri yege-
tali filamentosi, compreso il cotone - lana, crino e peli - seta e fibre
artificiali, vestimenta, biancheria e altri oggetti cu- citi Minerali
metallici, ceneri e scorie - ghisa, ferro e acciaio - rame e sue leghe - altri
me- talii comuni e loro leghe - lavori diversi di metalli co- muni Macchine e
apparecchi - utensili e strumenti per arti e mestieri e per ragricoltura -
strumenti scientifici e orologi - strumenti musicaliValore (Lire) Categorie
Milioni Armi e munisioni.Veicoli Pietre, terre e minerali non me- tallici -
laterisi e materiale cementizio - prodotti delle industrie ceramiche - vetri e
cristalli Amianto, grafite e mica * * Legni e sughero - carta, cartoni e
prodotti delle arti grafiche Pagia ed altre materie da intrec- cio - materie da
intaglio e da intarsio Pelli e pellicce. Prodotti chimici inorganici, organici
e concimi - generi medici- nali e prodotti farmaceutici - generi per tinta e
per concia - gomma elast* e guttaperca Pietre preziose, argento, platino e
lavori di metalli preziosi - oro e monete d'oro e d # argento Oggetti di moda,
calzature ed ef- fetti d'uso personale non com- presi in altre categorie -
mercerie, balocchi e spazsole Materie vegetali non comprese in altre categorie
Materie animali non comprese in altre categorie Prodotti diversi opportuno esaminare con attenzione le voei pi
impor- tanti deir importazione e delFesportazione di merci. Un primo rilievo di
fondamentale importanza riguarda il frumento. Mentre nel decennio prebellico 1
importazione era di 13 mi- lioni di quintali circa, dal 1919 al 1927 ha
oscillato dai 21 ai 27 milioni di quintali. II prodigioso risultato delia
battaglia dei grano si manifestato in
pieno nel 1934, quando l'impor- tazione netta di grano raggiunge un milione e
mezzo circa di quintali* Pressoch costante si
mantenuta invece la importazione dei granturco, la quale nelPultimo
sessennio, se si fa astra- 2;ione dal 1 1933, ha oscillato da 6 a 8 milioni di
quintali annui.Le importazioni di carbon fossile, di ferro e di legno, hanno
segnato specialmente nel periodo 1925-30 un grande incremento, nei confronti
dei periodo prebellico. Nellultimo biennio sono diminuite notevolmente. II
migliorato tenore di vita delia popolazione italiana e il conseguente aumento
dei consumo delle carni, ha determinato un incremento nella importazione dei
bestiame vivo e delia carne, rispetto al periodo prebellico. Limportazione di
cotone ferma sulle posizioni
prebelliche. II grande sviluppo che ha avuto 1industria automobilistica e
limpiego sempre crescente dei motore a scoppio nell industria e nei
trasporti stata la causa dei
decuplicarsi deli importazione di benzina* Anche la importazione di lana ha
segnato fortissimi aumenti. Cosi pure quella dei semi oleosi. Questi sono i
caratteri fondamentali che presenta il com- mercio di importazione nel nostro
Paese. La nostra esportazione si pu caratterizzare distinguendo i prodotti
secondo la forma di attivit che li produce Forti 68 contrazioni segnano le
nostre esportazioni di latticini e di canapa. Alte si mantengono le nostre
esportazioni ortofrutticole L'esportazione dei tessuti di cotone si pu
considerare stazionaria* Forte incremento segna invece Tesportazione di tessuti
e filati di lana e dei manufatti di seta e di rayon IL FASCISMO, per sottrarre
il Paese dalla dipendenza estera, specie per certi consumi fondamentali, per
tener viva ed efficiente la corrente esportatrice e anche per conquistare nuovi
mercati onde poter trovare sbocchi adeguati alia crescente produzione agricola
e industriale, ha svolto una complessa attivit economica e politica, ha durato
uno sforzo tenace nonostante i mille ostacoli non sempre giustificati che si
ponevano sul suo cammino. E ci veramente
meraviglioso quando si pensi che tali posizioni sono State mantenute, malgrado
Fimperversare di una crisi che ha sconvolto la economia di tutti i Paesi civiln
Per avere una nozione precisa intorno alia natura ed alia direzione delle
nostre correnti commerciali con Festero biso- gna esaminare la provenienza
delle nostre importazioni e la destinazione delle esportazioni, Sopratutto nella crescente anemia dei traffici, causata
dalle misure di autarchia economica che hanno instaurato tutti i Paesi, dai
contingenti ai divieti ed alie limitazioni valutarie necessrio guardare ai singoli saldi delia
bilancia commerciale, per agire adeguatamente nel sistema delle compensazioni o
degli scambi bilanciati, che il Governo fascista ha effettuato, La nostra
bilancia commerciale notevolmente
passiva con la Jugoslvia e la Romania nel Bacino Danubiano, con la Ger- mania
nelF Europa Centrale, con gli Stati Uniti nelle Americhe, con Tlndia Britannica
in Asia. Ma anche la Rssia, il Brasile, il Canad, la Tunisia, il Belgio, il
Lussemburgo e F frica Meridionale britannica hanno una bilancia commerciale per
noi sfavorevole. Le nostre esportazioni hanno superato le importazioni nel
commercio con l'Egitto, con la Grcia, la Turchia, la Polonia e la
Cecoslovacchia; a noi molto favorevole
stata la bilancia commerciale con la Svizzera, con la Francia e
conllArgentina. L' Italia importa bovini dalla Jugoslvia, dairUngheria e dalla
Romania; carni fresche e congelate dali'frica Meridio nale britannica,
dallArgentina, dal Brasile e dallUruguay. Pollame specialmente dalla Jugoslvia,
uova dalla Jugoslvia, Polonia e Turchia* II frumento viene specialmente dagli
Stati Uniti, dall'Au- stralia, dalla Rssia, dall'Argentina e dal Canad; il
granturco dalla Romania e dallArgentina. II cotone acquistato specialmente dagli Stati Uniti e
in secondo luogo dali'ndia Britannica e dall'Egitto. II ferro proviene dalla
Francia e dallUnione Belga-Lussemburghese; il carbone dalla Gran Bretagna e
dalla Germania, dalla Polonia e dalla Rssia; la benzina dalla Rssia, dalla
Prsia, dalla Romania e dagli Stati Uniti. La lana dall'Australia,
dall'Argentina e dalPAfrica Meridionale Britannica. II legno dalla Jugoslvia,
dall'Australia, dalla Rssia e dagli Stati Uniti. L'osservazione dei fatti
dimostra che collimpero britannico nel suo complesso abbiamo una bilancia
nettamente sfavorevole. D'altro lato la politica doganale iniziata dal detto
impero dopo la conferenza di Ottava tende a contenere 1 'importazione straniera
ad un limite minimo Cosi pure awiene per molti altri Paesi con i quali abbiamo
relazioni commerciali. Cosi dicasi per gli Stati Uniti che hanno chiuso le
porte alia nostra emigrazione ed hanno innalzato barriere doganali
elevatissime. La stessa osservazione delia realt pone spontaneamente le
seguenti domande: proprio indispensabile
acquistare le merci di cui noi abbiamo bisogno dai Paesi che si chiudono
ermeticamente airesportazione dei nostri prodotti? Per migliorare la nostra
bilancia commerciale non possibile agire
sopra queste correnti dei traffico onde renderle a noi pi favorevoli? Anche in
questo campo, e specialmente in questo campo, il tramonto dei liberismo
economico si gi manifestato sotto forme
e aspetti inequivocabili. Le lezioni che ci ha dato la storia economica di
questi ultimi anni, sono al riguardo sug- gestive e definitive. La fine dei
liberismo economico interno seguita
inesorabilmente da quello estero. Pochi Paesi, forse nessun Paese, pu
rinchiudersi in un pi o meno beato isolamento e svolgere tutte le sue attivit
nello mbito dei propri confini. L' Italia poi che non stata certamente favorita dalla natura come
lo sono stati altri Paesi, pu forse meno di quelli chiudersi in unautarchia
economica. Necessita quindi esportare prodotti agricoli e industriali propri
per potere prowedere specialmente le materie indispensabili di cui il nostro
suolo manca. Da ci la poltica delle compensazioni, la quale si armonizza
perfettamente coi postulati dello Stato corporativo. Uno Stato nel quale la
produzione disciplinata e controllata,
nel quale 1iniziativa privata non libera
di svolgersi come vuole e dove vuole, deve anche regolare le correnti dei
traffico, disciplinando anche il commercio internazionale. II Capo, infatti, ha
pi volte affermato che LA POLITICA ECONOMICA estera non pu ancora svolgersi
sulla falsariga di sistemi pi o meno liberistici, eredttati da un mondo
superato. Un'economia corporativa in fatto di scambi internazionali non pu
rimanere schiava delia clausola delia Nazione pi favorita, ultimo feticcio
liberale, riaffermata in teoria in ogni consesso economico internazionale, per
essere sbito dopo negata in pratica, attraverso una serie di limitazioni che la
svuotano di ogni contenuto reale o lannullano addirittura. Questa figlia
legittima dei liberismo non tutti i Paesi lhanno applicata nella sua forma pi
liberale (illimitata, incondizionata, reciproca). Ha avuto i colpi maggiori non
tanto dallinnalzarsi delle barriere doganali, quanto dai divieti di
importazione e dai contingentamenti. Le intese preferenziali, come quella di
Ottava, le limitazioni al commercio delle divise, gli accordi di compensazione,
le hanno recato durissimi colpi. I Paesi che Vennero meno per primi al libero
scambio sono stati proprio quelli che ne avevano meno la ragione, perche
favoriti dalla natura, ricchi di materie prime e di capitali: quelli stessi che
Pavevano allevato e lavevano teorizzato, anche perch si adattava egregiamente
ai loro particolari interessi. D'altra parte, a proposito delia concezione
liberistica nella organiz^azione degli scambi internazionali, deve essere ben
tenuto presente che lo sviluppo industriale va profondamente mutando le
tradizionali correnti di traffico. La distinzione tra Paesi agricoli e
industriali va perdendo gran parte dei motivi sostanziali che la giustificano.
Ogni Paese tende a rendersi pi indipendente anche per ragioni di sicurezza La
scoperta scientifica ed il progresso tcnico spostano continuamente i termini
dei complesso problema: materie prime ritenute un tempo insostituibili, oggi si
sostituiscono; monopoli naturali per certi prodotti, cadono di fronte ad
impensate produzioni sintetiche. La scienza, col suo incessante progresso, ha
contribuito a rendere economicamente possibili processi produttivi in Paesi in
cui pochi anni or sono era follia sperarlh Si assiste veramente ad una profonda
rivoluzione tcnica, economica e sociale. Dato il tradizionale attaccamento alia
clausola delia Nazione pi favorita, il sistema degli scambi bilanciati o scambi
contrattati o scambi compensati, come si dice oggi, non ha trovato in principio
favore. stato osservato che questo
sistema non si poteva attuare, perch il commercio con 1'estero non pu chiudersi
con un pareggio aritmtico, in quanto nei traffici internazionali non si possono
sopprimere le compensazioni indirette;
stato ripetuto che esso avrebbe complicato 1 organizzazione dei traffici
e resa necessria una mastodontica burocrazia; che in certi casi sarebbe stato
inapplicabile. Tali critiche erano specialmente il frutto di una profonda
incomprensione degli scopi e delle finalit cui mirava il sistema degli scambi
bilanciati; nessuno aveva mai pensato che questo potesse essere un sistema
eterno; n che mirasse al pareggio aritmtico: si trattava soltanto di un
accorgimento di politica economica di carattere contingente, che per poteva
recare notevoli benefici al nostro Paese, data la situazione economica
specifica in cui si trova. evidente che
il sistema delle compensazioni non supera il problema dei prezzi: questo
rimane, cosi come il Duce ha posto e nei limiti dei negoziati fra Paesi che
abbiano il reciproco bisogno di esportare. Si pu quindi concludere che,
specialmente nelbattuale momento economico, la cui durata di difficile previsione, acquistano grande
importanza le compensazioni degli scambi, le quali, basandosi sulla nostra
posizione di acquirenti di materie prime, consentano il maggior possibile
collocamento ai nostri prodotti. Nel passato esistevano soltanto dei
commercianti: oggi esiste il commercio italiano, perch il Regime, attraverso la
organi2;a2;ione, ha dato una personalit unitaria ed organica anche a questa
forma insostituibile di attivit economica. II Duce dice che la funcione dei
commercio quella di portare rapidamente
e rasionalmente le merci al consumatore: questo
il suo compito essensiale. II commercio al minuto costituisce gran parte
delia vita dei centri urbani. II commercio alhingrosso, che comprende anche il
commercio di esportasione, d lavoro a migliaia di persone e costituisce una
delle espressioni pi alte delia vita civile.
stato osservato che nel commercio la tcnica diventa vita. In tal senso
il commercio lotta: lotta che comincia
nella piccola bottega familiare e si estende al grande magassino, che si
esplica nella borsa, nella banca e pu dare le armi per formidabili conquiste.
Se Tagricoltura e T industria si risolvono nella produzione di nuovi beni
economici e cio nella trasformazione delia matria, il commercio opera
trasformazioni che awengono nello spazio, perch le merci sono recate dai centri
di produ^ione ai centri di consumo. LITALIA FASCISTA che non ignora nessun
settore deirattivit economica, che fa tesoro delle grandi tradizioni patrie,
che ha il culto dei titoli di nobilt conquistati dal nostro popolo nelle guerre
e nelle ar ti, neir industria e nel commercio, che non dimentica la gloria di
Venezia e quella di Gnova, come di Pisa e di Amali, non poteva non dedicare
anche a questa forma di attivit tutte le cure, contemperandole con le
prowidenze portate alie altre branche di attivit economica dei regime* L/Italia
ha bisogno di espandersi, e quindi deve conqui- stare anche attraverso i
pacifici commerci le grandi vie dei continenti e degli oceani; cosi i
commercianti possono esplia^ o 1 una magnifica opera di penetracione che porti
con le mrc^' scambiate il nome e la potenza d'Italia nei pi lontani Paesap^ o
Vy Le force commerciali d' Italia si sono gi addimostrate alPal- ^ teca dei
compito, anche perch IL GOVERNO FASCISTA sa liberare il commercio da quei
preconcetti ostili che tanto lo hanno demoraliczato e awilito. Risanare, dare
nuova vita alie correnti mercantili, ridare nuova consideracione alla funzione
dei commerciante che non egoistica ed
esosa ma , come quella degli altri produttori, elemento indispensabile delia
organiczacione economica* Di solito quando si discorre di commercio alhingrosso
ci si riferisce alie correnti internacionali* Lo dimostra il fatto che le
statistiche ufficiali di quasi tutti i Paesi comprendono sotto il titolo
ricordato le cifre relative alhesportacione e alhim- portacione* Quei dati
dimenticano completamente le importan- tissime correnti che si muovono alh
interno dei singoli Paesi per alimentarne i mercati II Duce, parlando ai
commercianti il 26 ottobre delhanno X, a Milano, afferm che la funcione dei
commercio insosti- tuibile,
rappresentando essa un fattore storico. Questa affermazione vale tanto per il
commercio alhingrosso come per quello al minuto* II grossista infatti un efficace collaboratore e un
precioso consigliere dei produttore* Esso
in grado di valutare la capacit di consumo dei singoli mercati rispetto
alie diverse merci; esso meglio di ogni altro pu stabilire le attrecsature che
occorrono per distribuire le merci al piccolo consumo. In questo senso la sana
attivit economica svolta dal grande commerciante quanto mai benefica, sia perch esso possiede
una competenca specifica ed integrale dei mercato di quella data merce in un
dato luogo, sia perch esso adempie alia insopprimibile funcione di intermedirio
ed quindi elemento fondamentale
delbeconomia nacionale. Nei riguardi dellECONOMIA CORPORATIVA il commercio alio
ingrosso pu facilitare il raggiungimento rpido ed economico di particolari
forme di disciplina delia producione. II funzionamento dei magaccini ai fini
delia conservacione dei prodotti, specie di quelli di facile deperibilit,
l'organiccacione dei proce- dimenti tecnici per il rpido riassorbimento delle
giacence invendute o invendibili e per il racionale rinnovamento delle partite
di scorta, possono essere affrontati con successo dai commercianti all'
ingrosso organiccati corporativamente. In tal modo il grande commercio adempie
perfettamente ad UNALTA FUNZIONE CORPORATIVA. Ma il sistema attraverso il quale
si effettua la distribucione delle merci comprende centinaia di migliaia di
piccole aciende. per opera dei bottegai
che i prodotti deiragricoltura e delia industria giungono sino alie piu remote
valli montane, ai pi discosti casolari. L' importanza e linfluenza che il
commercio al minuto pu esercitare sulla vita sociale giustifica la vigilanca a
cui esso soggetto, i controlli che su di
esso si esercitano e la disciplina che ad esso si impone; appunto per questa
sua funcione di vivificare ogni piu remota contrada, di consentire che ogni
prodotto sia accessibile in ogni luogo al pi modesto consumatore, il commercio
al minuto appare meritevole di particolare consideracione. Le aciende di
commercio al minuto ammontano a circa 550.000 con 1.500.000 persone addette,
delle quali il 60 % formato da
proprietari, dirigenti e dai loro famigliari, e il 40 % da veri e propri
dipendenti. La maggioranca quindi
formata da imprese a carattere famigliare, neiresercicio delle quali le
donne partecipano in proporcioni noteVolissime. Una nozione pi precisa intorno
alia natura degli eserci commerciali e alia loro importanza si pu avere dalla
tabella sotto riportata: ESERCIZI COMMERCIALI SECONDO IL NUMERO DEGLI ADDETTI
(cifre per ioo esercizi di ogni categoria) Cat ego fie i addetto Da 3 a 5
addetti Da 6 a 10 addetti Okre ii addetti Commercio in grosso: Animali vivi
Generi alimentari Filati, tessuti, ecc. Commercio al minuto: Metalli, macchine,
ecc Generi alimentari . Filati, tessuti, ecc. 59.4 38,2 1,8 0, 6 Mobili,
vetrere, ecc Oggetti d f arte Prodotti chimici Misto Nel nostro Paese il numero
dei negozi al minuto non sembra proporzionato ai bisogni delia distribuzione
dei prodottn II rapporto fra la popolazione servita e il numero dei negozi leggermente inferiore a quello che si
riscontra in altri Paesi* Mentre in Italia il numero dei negozi di uno ogni 75 abitanti, nella Svizzera 11
rapporto sale ad 80, nell* Inghilterra risulta di 77, negli Stati Uniti
d'America di 79, nella Germania di 78* Attraverso questa rete di distribuzione
al consumatore, nella quale troVano la loro fonte di attivit e quindi i loro
mezzi di vita quasi 4 milioni di abitanti, passa il consumo nazionale e
grandissima parte dei denaro necessrio alia produzione. Se incontestabile la utilssima funcione
esercitata da questi piccoli commercianti
da ritenere che il loro numero sia supenore a quello che tecnicamente
sarebbe necessrio ed economicamente utile per la distribuzione dei prodotti. In
molti medi e piccoli centri urbani si sono andati moltiplicando in maniera
eccessiva questi piccoli esercizi; limprenditore pretende di trarre i mtzzi di
vita per Tintera famiglia con un modestssimo capitale e servendo uno sparuto
numero di clienti Questo orientamento che si
accentuato in maniera particolare nel periodo postbellico e durante V
inflasione, favorito anche dall'esodo rurale che allora awenne in maniera
intensa, stato stigmatisZito dal GOVERNO
FASCISTA il quale intende ridurre al necessrio il costo di ogni servisio e
sopprimere gli organismi superflui* Con lo scopo di ridurre il costo delia
distribusione dei beni dalla produ^ione al consumo e di adattare il pi
sollecitamente possibile i prezzi al dettaglio al livello di quelli alhingrosso evitando le conseguenze delia cosidetta
vischiosit, cara agli adoratori del laissez faire, laissez passer lordinamento cor porativo dello Stato
fascista ha agito e agisce incessantemente* Come pure compito importantssimo
dell'aione corpora tiva in fatto di moralizsa^ione dei commercio e di tutela
dei consumatore la difesa dalle
adulterazioni e dalle frodi. L'economialiberale pu anche attendere che il
consumatore o il tempo facciano da loro giusti^ia dei prodotti non genuini:
1ECONOMIA CORPORATIVA no* Non solo, ma nella lotta economica fra pro dotti genuini
e surrogati, fra produ^ioni genuine e sofistica^ioni, fedele al suo principio
deve ispirare Ta^ione all* interesse prevalente col quale coincide quello delia
collettivit nasjionale. Nel discorso pronunciato dal Duce in Campidoglio,
alhAssemblea delle Corpora^ioni, sono stati tracciati gli sviluppi delFeconomia
fascista. L/assedio economico Egli ha
detto ha sollevato una serie numerosa di
problemi, che tutti si riassumono in questa proposi^ione: r autonomia poltica,
cio la possibilit di una poltica estera indipendente, non si pu pi concepire
sen^a una correlativa capacit di autonomia economica. Ecco la lecione che
nessuno di noi dimenticher! Coloro i quali pensano che finito Fassedio si
ritorner alia situasione dei 17 novembre, shngannano. II 18 novembre 1935 ormai una data che segna V inicio di una
nuova fase delia storia italiana* II 18 novembre reca in s qualche cosa di defi
nitivo, vorrei dire di irreparabile* La nuova fase delia storia italiana sar
dominata da questo postulato: real2are nel pi breve termine possibile il
massimo possibile di autonomia nella vita economica delia Na^ione. E passando
allanalisi il Capo ha dato il panorama futuro dellECONOMIA ITALIANA, che pogger
sopra questi caposaldi* Nessuna innova^ione sostansiale nelFeconomia agrcola,
che rimane a base privata, disciplinata e aiutata dallo Stato e armoni%2:ata,
attraverso le Corpora^ioni, colle altre attivit economiche nacionali. Nei
riguardi dei commercio estero ha ribadito la sua fisionomia di funcione diretta
o indiretta dello Stato con carattere duraturo e non contingente; mentre il
commercio interno rimane affidato alliniziativa individuale o di associa^ioni,
come pure la media e la piccola industria. II credito gi porta to, con recenti prowedimenti, sotto
il controllo dello Stato* E cosi pure, senza precipitazioni ma con decisione
fascista, lo sar la grande industria, la quale assume un carattere speciale,
nellorbita dello Stato, con gestione diretta, o indiretta, ovvero con un
efficiente controllo. IL VAGRICOLTura italian E LA POLTICA RURALE DEL REGIME
6-4 CARATTERI DELL'AGRICOLTURA ITALIANA. L ITALIA ha una superfcie territoriale
di 310.107 kmq., costituita per 4 / 3 da montagna e collina e sol tanto per 1 j
s da pianura, Su questa limitata superfcie, in data 21 aprile 1931-XI, viveva
una popolazione di oltre 41 milioni di abitanti, con una densit media di 133
persone per ktnq.; oggi siamo oltre 43 milioni (140 per kmq,). La popolazione
dedita all'agricoltura si aggira sui 20 mi lioni di individui raccolti in 4
milioni di famiglie rurali circa, aventi una media di 5 componenti. noto che le condizioni di fertilit dei suolo
italiano non sono le pi felici. Si
ricordato come esso sia prevalentemente montuoso e collinoso: la pianura
si estende soltanto a 6.446.238 ettari. Ma parte di questa pianura formata da terreni che si trovano in
difficili condizioni per la produzione agrcola, data la pssima distribuzione
delle piogge che li rende eccessiva- mente aridi per potervi esercitare una
ricca agricoltura: ricor- diamo in particolare il Tavoliere di Puglia e i
Campidani di Cagliari e di Oristano in Sardegna. Spessissimo poi la pianura era
malarica per il disordine idraulico conseguente al regime torrentizio dei fiumi
e al disboscamento montano. Nonostante queste infelici condizioni naturali il
popolo ita liano stato costretto ad
adibire alie coltivazioni quasi tutta la superfcie, per la forte densit delia
popolazione su un terri trio naturalmente povero, a limitato e localizzato
sviluppo industriale, in assenza di colonie redditizie. Tanto che solo 18 %
delia superfcie territoriale
improduttiva: il resto a coltura
e la massima percentuale di utilizzazione si ha nei terreni di collina. Anche
laddove ammiriamo un'agricoltura particolarmente intensiva, come nella pianura
padana, questa il risultato di ingenti
opere di miglioramento compiute attraverso i secoli, che con 1acqua o contro
Tacqua, mediante 1irrigazione, il prosciugamento o la colmata, hanno formato
una nuova natura. Altrettanto dicasi delia meravigliosa sistemazione colunai e deiritalia
centrale, meridionale e insulare, che costituisce una costruzione dei lavoro
dei contadino italiano, che spesso ha portato a spalle la terra che doveva
accogliere nel suo grembo e alimentare la pianta. Ma per meglio comprendere la
natura e la portata dei problemi di politica agraria affrontati dal Governo
fascista opportuno approfondire
ulteriormente le condizioni di ambiente nelle quali essa si esplica.
RIPARTIZIONE AGRARIA DEL TERRITORIO Ripartizioni geografiche Seminativi Coliure
I e g no s e specializzate Terreni saldi I) Superfcie improduttiva Superfcie
territoriale Italia settentrionale Italia centrale Italia meridionale Italia
insulare Regno Prati e pascoli permanenti, boschi e castagneti, incolti
produttivi. La superfcie agraria forestale misura 28*519*000 ettari dei quali
oltre 15 milioni sono costituiti dai terreni agrari propriamente detti. Di
questi, 12*835*000 sono rappresentati da seminativi semplici e arborati e
2*232*000 da culture legnose specializzate* I prati e i pascoli permanenti
figurano soltanto con circa 6 milioni di ettari* I boschi compresi i
castagneti, si estendono per 5*561*000 ettari* Gli incolti produttivi,
frequenti special- mente nella dorsale appenninica, raggiungono 1*700*000
ettari. Nel complesso quindi i seminativi dominano le altre qualit di coltura
con il 45 % delia superfcie agraria e forestale* Ad essi seguono i prati e i
pascoli permanenti con il 21/7 %, i boschi con il 7,8 % In questo ambiente si
allevano 7 milioni di bovini, 10 milioni di ovini, 3*300*000 suini, 1*900*000
caprini* I cavalli raggiun gono quasi il milione, gli asini, i muli e i
bardotti raggiungono circa 1*400*000* Si allevano anche circa 15*000 bufali* II
popolo italiano un popolo in mareia* Un
secolo fa entro gli stessi confini dei Regno vivevano circa 21 milioni di
abitanti; oggi abbiamo superato i 43. Nelhultimo de- cennio la popolarione ha
avuto un incremento di circa tre milioni e me^o* Lo Stato fascista, consapevole
dei problemi che una cosi alta densit delia popolarione viene a determi- nare,
si decisamente orientato verso una
poltica rurale* E ci perch la popolarione rurale possiede nel pi alto grado la
virt dei risparmio e la tenacia nei propositi, la probit di vita e il senso
delia continuit, Tamore per la terra e per il lavoro: qualit che invece si
attenuano sempre pi nelle popo- larioni delle grandi citt, dove si cerca di
vivere la vita co- moda , dove si
disfrenano gli egoismi pi acerbi, dove il senso delia solidariet umana
sostanriale e non solo apparente, ha sbito i colpi pi duri. Bisogna ruralizzare
1 'Italia anche se occorrono railiardi e mezzo secolo, ha affermato il Capo.
Poich la ruralit non solo assicura lo sviluppo demogrfico, che costituisce una
delle maggiori espressioni delia potenza di un popolo (i rurali sono i pi
prolifici), ma assicura anche la sanit fisica e morale delia razza, custodisce
i grandi ideali delia vita, si compendia nella famiglia, sente tutta la
bellezza dei lavoro creativo, stimola la virt dei risparmio. Perch la mta
agognata da ogni lavoratore quella di
raggiungere il possesso terriero, trasformandosi da bracciante in colono, da
colono in piccolo affittuario o in piccolo proprietrio/per attaccarsi alia sua
terra che ama e che ha desiderata come aspirazione massima. Perci il Regime
nella sua poltica di ruralizzazione tende a fissare il contadino alia terra,
combattendo il bracciantato anonimo e quasi nmade e stimolando la diffusione
delle forme di colonia e di compartecipazione, nonch incitando, come vedremo,
1'estendersi delia piccola propriet. L/anima delia nostra razza, che ha
storicamente vissuto il passaggio dalla vita agreste a quella dell'urbe e che
ha tratto mirabili espressioni di arte, di vita sociale e religiosa, ben sa
come sull'agricoltura sia costruito 1'intero edifcio delia prosperit sociale.
Cosi il Duce si esprimeva in un discorso pronunciato alia 7 a assemblea
dellIstituto internazionale di agricoltura il 2 maggio 1924. II Capo awertiva
che altre attivit produttive possono essere pi impressionanti nella grandiosit
localiz- zata delle loro manifestazioni, pi facili apportatrici di guadagno, ma
nessuna altrettanto augusta ed essenziale. Poich, infine, tutto potrebbe
immaginarsi ritolto albumanit delle sue superbe espressioni di forza e di
conquista, ma non mai, finch la razza umana esista, non mai 1arte di trarre
dalla terra madre quanto necessrio a
sostenere la vita. pensando alie virt
rurali dei popolo italiano che il Duce, al primo congresso di agricoltura
coloniale di Tripoli, afferma che in Italia sta sorgendo una nuova generazione,
LA GENERAZIONE MODELLATA DAL FASCISMO: poche parole e molti fatti. La tenacia,
la perseveranza, il metodo, tutte le virt alie quali litaliano sembra negato
dovranno diventare domani, e sono gi in parte, virt fondamentali dei carattere
italiano. Per questi motivi fondamentali il Fascismo ha dedicato le sue pi
solerti cure alio sviluppo delPagricoltura. II Capo in moltissime occasioni
ebbe ad esprimere in maniera inequivocabile la sua fede negli sviluppi
dell'agricoltura italiana, base delia economia, baluardo contro lurbanesimo.
Paralleamente alia politica agrcola, il Fascismo sviluppa la politica forestale
e montana, di quelle montagne che
salvaguardano la nostra pi grande pianura e costituiscono la spina dorsale delia
Penisola: la politica dei Regime diretta
a sostenere la popolaione delia montagna ai fini pacifici e a quelli militari.
Tra il mare e le montagne, si stendono valli e piani: la terra nostra,
bellissima, ma angusta, trenta milioni di ettari per 42 milioni di uomini* Un
imperativo assoluto si pone: bisogna dare la massima fecondit ad ogni olla di
terreno* II Fascismo rivendica in pieno il suo carattere contadino* Di qui la
politica rurale dei Regime nei suoi diversi aspetti: il credito agrario, la
bonifica integrale, la elevaione politica e morale delle genti dei campi e dei
villaggi* Solo con il Fascismo i contadini sono entrati di pieno diritto nella
storia della Patria. Volgete gli occhi sullAgro Romano e avrete la testimoniana
delia profonda trasformaione agraria in via di esecuzione. Con questo
inimitabile stile il duce define airAssemblea Quinquennale dei Regime, il io
marzo deiranno VII, i motivi fondamentali che spiegano perch il Regime attui
una pol tica rurale* La nuova poltica agraria inizia in pieno la sua attivit
neiranno 1925. II Duce, negli anni precedenti diede la sua prodigiosa atti vit
a un lavoro di ordinamento, di revisione e di sistema- zione, perch Egli,
anzich precipitarsi sulla macchina statale per frantumarla come ha fatto la
rivolmone russa, ha voluto armoniszare il vecchio col nuovo; cio che di sacro e
di forte sta nel passato, cio che di sacro e di forte ci reca, nel suo
inesauribile grembo, 1'awenire. In tutta lazione poltica del Regime, ma in
particolare in quella rurale, giganteggia il nome di MUSSOLINI (A), grande
anima e grande mente, strappata alla mazione da una tragdia che solo possono
comprendere appieno coloro come ha
scritto il duce che sono continuati. La ricostruzione forestale
d'Italia fu un suo preciso fine; fond e presiedette il Comitato forestale italiano,
organo propulsore delia rinascita silvana* Due grandi cimenti
contraddistinguono la parte centrale delia poltica rurale dei Regime: la
battaglia dei grano, la bonifica integrale Entrambe pensate, volute, guidate
dal Duce. Cominciamo dalla prima. LA BATTAGLIA DEL GRANO latino, non soltanto Capo e con II Duce, purssimo genio
dottiero, ma anche Poeta. Amate il pane cuore delia casa profumo delia mensa
gioia dei focolari Rispettate il pane sudore delia fronte orgoglio dei lavoro
poema di sacrifcio Onorate il pane gloria dei campi fragranza delia terra festa
delia vita Non sciupate il pane ricchezza delia Patria il pi soave dono di Dio
il pi santo prmio alia fatica umana. Rileggendo queste parole di saggez^a e di
amore, nelle quali si trasfonde con un religioso senso delia vita il rispetto
per le cose eterne donateci da Dio, non si pu non provare una profonda
commozione, Esse esprimono lanima con la quale
dichiarata la battaglia dei grano; non si tratta di raggiungere finalit
soltanto economiche, ma di appagare un bisogno ptrio che supera il fatto
economico per divenire integrale fatto poltico, II Capo a Palato Chigi, il 4
luglio delPanno III, inse- diando il Comitato permanente dei grano, affermava
che Pannuncio delia battaglia dei grano aveva avuto una ripercus- sione
profonda in tutto il Paese, Segno certo che rispondeva ad una necessit
universalmente sentita, Egli ricordava le conseguenze finanziarie dello scarso
raccolto dellanno 1924, le quali ammonivano severamente a fare tutto il
possibile per conquistare Pindipendenza per il fondamentale alimento dei popolo
italiano. II Capo stesso fissava le direttive delfasione: I o non strettamente necessrio aumentare la superfcie
coltivata a grano in Italia. Non bisogna togliere il terreno alie altre colture
che possono essere pi redditizie e che comunque sono necessarie al complesso
deireconomia nazionale. da evitare
quindi ogni aumento delia superfcie coltivata a grano. A parere unanime la
cifra di ettari raggiunta con le semine dei 1924 pu bastare; 2 o necessrio invece aumentare il rendimento
annuo di grano per ettaro. L/aumento medio anche modesto d risultati globali
notevolissimi Posti questi capisaldi, il Comitato permanente doveva affrontare:
il problema selettivo dei semi; il problema dei concimi e in genere dei
perfezionamenti tecnici; il problema dei prezai. Per reali2are tutte le
possibilita di miglioramento delle nostre colture granarie bisognava arrivare
alie grandi masse rurali, veramente silen^iose e operanti, al grosso cio
delfeser- cito disseminato nelle campagne italiane. II popolo italiano perfettamente convinto delia santit di questa
battaglia e delia possibilit di vincerla; Egli sentiva che si lottava per la
vera libert cio per la liberazione delia Nazione dalla maggiore servit
economica straniera. Ventisei giorni dopo il duce parlando ai capi delle
organi2;a2;ioni agricole, pronuncia parole fatidiche che oggi sono scolpite nel
cuore di ogni agricoltore d'Italia. Battaglia dei grano significa liberare il
popolo italiano dalla schiavit dei pane straniero. La battaglia delia palude
significa liberare la salute di milioni dtaliani dalle insidie letali delia
malaria e delia misria. II Governo fascista ha ridato al popolo italiano le
essenziali libert che erano compromesse o perdute: quella di lavorare, quella
di possedere, quella di circolare, quella di onorare pubblicamente Dio, quella
di esaltare la vittoria e i sacrifici che ha imposto, quella di aver la
coscien^a di se stessi e dei proprio destino, quella di sentirsi un popolo
forte non gi un semplice satellite delia cupidigia e delia demagogia altrui.
Voi, agricoltori d'Italia, che sapete per la dura espe- riensa dei vostro
lavoro come le legg delbuniverso siano inflessibili, voi siete i pi indicati ad
intendere questo mio discorso. Recate a tutti i pi lontani casolari, a tutti i
vostri camerati disseminati per i campi delia nostra terra adorabile, il mio
saluto e dite loro che, se la mia tenace volont sar sorretta dalla loro
collaborazione, Tagricoltura italiana verr incontro ad un'epoca di grande
splendore. E cosi, infatti, stato. La
battaglia dei grano stata Tindice pi
eloquente delbin- dir2;2;o delia politica agraria dei Regime. Con la battaglia
dei grano si voluto poten^iare tutta 1
'agri- coltura italiana, sospingerla a reali^are il massimo delia produ- zione
ottenibile in tutti i settori* Sia nel campo viticolo come in quello
ortofrutticolo, nelbolivicoltura come nel campo delle colture industriali, sono
State prese una serie di prowidenze intese ad ottenere il miglioramento delle
coltivazioni ed il collocamento dei prodotti. Attraverso lopera vigile e
continua delblstituto Nazionale per lEsportazione nuovi sbocchi sono stati
aperti al commercio estero delia frutta, degli agrumi, degli ortaggi; sono
stati attentamente studiati i centri esteri di consumo; stato disciplinato Tafflusso dei prodotti
ortofrutticoli; sono State imposte agli esportatori norme rigide per garantire
la qualit dei pro- dotti venduti. N Topera di difesa deiragricoltura poteva estraniarsi
dalla tutela dei rurale di fronte airinsidia delia speculazione. Uorgnizzazione
degli ammassi granari, intesi a sottrarre Tagricoltore alia vendita formata dei
frumento nel periodo dei raccolto, ha disciplinato il mercato, costituito una
riserva, evitato che ai contadini, come frutto dela loro fatica, fosse
riservato il pi basso prezzo raggiunto sbito dopo la trebbiatura. II favore
sempre crescente che tale istitusione ha incon- trato presso gli agricoltori
sta a dimostrare la sua efficacia e la radicata fiducia che essi hanno in questa
come in tutte le altre prowidensje dei Regime. Se nel vasto quadro delia
politica economica fascista la battaglia dei grano costituisce un episodio,
esso per tal mente grandioso e
suggestivo, acquista tanta importanza spiri- tuale ed economica, da prestarsi
magnificamente per dare unhdea dei clima nel quale il popolo italiano ha
lavorato in questi ultimi anni. Nel quadriennio 1931-1924, prima cio che il
duce chiama gli agricoltori a raccolta per ini^iare la battaglia, la produzione
granaria oscillava intorno ai 50 milioni di quintali con un rendimento per
ettaro di qL 10,9, cio poco superiore alia media di qh 10,5 segnata nel
quinquennio prebellico 1909-13. II raccolto na^ionale era assolutamente
inadeguato al consumo. Questo era fortemente aumentato per la migliorata
alimentasone dei popolo italiano, il quale aveva sostituito il frumento al
granturco, alie castagne ed agli altri alimenti che, specie nelle zone di
montagna, erano usati largamente. Si doveva quindi ricorrere in misura
crescente ai grani stranieri: Timportazione media che nel decennio 1905-1914
era di 13 milioni, era salita alia cifra di 26 milioni di quintali nel
quadriennio 1921-1924. Considerazioni meramente economiche si univano a quelle
di carattere spirituale. E i risultati non si fecero attendere* Mentre la media
produzione dei quadriennio bellico fu di qL 9,99 per ettaro, eguale a quella
dei quadriennio prebellico, la media produ^ione dei primo quinquennio delia
battaglia dei grano fu di qL 12,5 cio di 2 quintali superiore a quella bellica
e di 2,5 superiore a quella dei primo quadriennio postbellico* Sono oltre 10
inilioni di quintali di aumento assicurati alia produ^ione frumentaria
nasionale, pur con anni, come il 1927 e il 1930, le cui condizioni climatiche
furono assai sfavorevolL La media produzione dei secondo quinquennio delia bat
taglia fu di qL 14,65 per ettro. II progresso si verificato in ogni parte dei Paese:
nelLItalia settentrionale come in quella meridionale e insulare; nelle zone di
collina come in quelle di pianura. Se dalle cifre medie passiamo a considerare
le punte pi elevate, colpiscono le produ^ioni altissime che si sono rag-
giunte, non in ristrette particelle di pochi metri quadrati, ma su ettari di
terreno in pieno campo; produzioni che una volta sembrava follia sperare, e che
sono State ottenute per virt di una tcnica moderna che solo la battaglia dei
grano poteva stimolare* Le punte di qL 40 che un tempo sembravano insupera-
bili sono salite a qL 74 nel 1932, a 82 per ettaro nel 1933* I metodi tecnici
di coltivazione si diffondono: la schiera dei concorrenti alia vittoria dei
grano passata da poche centi- naia a
migliaia. Le produ^ioni medie hanno segnato un continuo aumento come dimostrano
i dati seguenti in quintali per ettaro di super fcie coltivata a grano: Anno
Quintali Anno Quintali Le medie di ql* 15,3 nel 1932, di ql* 16,0 nel 1933 e di
15,3 nel 1935, sono di un'eloquena suggestiva* Si hanno fondatissimi motivi per
ritenere che Tattuale media nazionale di 14-15 quintali per ettaro possa essere
supe- rata nel prossimo awenire, anche se i capricci dei clima potranno
provocare qualche regresso occasionale* Oggi Tltalia in grado di poter produrre tutto il pane che
occorre per i suoi figli: nel 1933 il raccolto
stato di 8r milioni di quintali, nel 1934, annata particolarmente awersa
per fat- tori climatici eccedonali, la produzione riuscita a mante- nersi al livello di 63
milioni di quintali con una media di 12,8 ad ettaro II raccolto dei 1935, di 77
milioni di quintali, dimostra che la produ^ione si ormai stabili^ata intorno a cifre le quali
possono oscillare solo nel campo di varia^ione segnato dalle influente
insopprimibili delle vicende stgional r Ann o Produzione totale in miloni di
quintali La battaglia dei grano, prima che un insieme di prowedimenti economici
e tecnici per Tincremento delia produzione granaria, stata un grido di fede e un segno di volont*
Quando il Duce con il suo intuito infallibile, la proclam, compi anche in
questa contingenza un grande atto rivoluzio- nario, tcnico ed economico Tcnico,
perch reagi contro un # opinione diffusissima, che cio lTtalia non avrebbe mai
potuto produrre tutto il grano occorrente alia sua popolazione* Economico,
perch reagi contro la passiva rassegnazione di una nostra immodificabile
insufficienza granaria e distrusse quel mito liberista per cui si riteneva
preferibile che lTtalia tendesse alia produzione di frutta ed ortaggi da
scambiare col frumento, anzich si perde dietro allTllusione deli'indipendenza
granaria. 11 successo si deve anzitutto a quella grande forza che si chiama
volont umana, che ha armato la tcnica e che il Duce ha trasfuso nello spirito
di tutti gli italiani e nelFazione alacre dei popolo rurale. LA BONIFICA
INTEGRALE. II Capo, il 28 ottobre delhanno VI, inviando un messaggio alie
Camicie Nere di tutta Italia, ricordava: in quest'ora di esultanza e di
propositi, tre fondamentali avvemmenti: la riforma monetaria, la legge sul Gran
Consiglio, la bonifica integrale. Sono tre date fondamentali nella storia dei
Regime che rendono particolarmente significativo 1 anno VI. La riforma
monetaria ha coronato la strenua difesa delia lira, la quale presidiata dalForo
non teme manovre o sorprese. La legge dei Gran Consiglio stabilisce la stabilit
e la durata dello Stato fascista. La bonifica integrale dar terra e pane ai
milioni di italiani che verranno. II Capo ha voluto che Tagricoltura andasse al
primo piano deireconomia italiana perch i popoli che abbandonano a terra sono
condannati alia decadenza; ed mutile, Egli
ammoniva, quando la terra stata abbandonata,
dire che bisogna ritornarvi. La terra
una madre che respinge inesorabilmente i figli che 1'hanno abbandonata.
Bonifica integrale significa graduale trasformazione de a terra a forme di vita
agricola pi intense e civili; significa processo di adattamento delia terra,
che si attua attraverso 1'immobilizzazione di grandi capitali e con
1'esecuzione 1 grandi lavori. In un primo tempo per bonifica si intese
semplicemente il prosciugamento di paludi, per difendere le popolaziom dalla
malaria. Lesiguit dei risultati ottenuti con la semphce eliminazione delle
acque sovrabbondanti, non seguita od mtegrata dalla trasformazione
delhordinamento delia produzione agricola, convinse gli organi responsabih
circa linsufficienza delia sola sistemazione idraulica delle terre. S impose
qum 11integrazione delle opere idrauliche con altre opere volte a dotare di
viabilit, di fabbricati e di piantagioni legnose, le Zone redente, affinch la
popola^ione che ivi gi risiedeva o che vi sarebbe immigrata potesse trovare
adeguate condi^ioni di vita. Tale indirh&o fu anche dovuto al fatto che
Tespe- rien^a insegnava come la malaria fosse non soltanto dovuta alia palude
ma anche alia mancan^a di coltiva^ione.
messa cosi in chiara eviden^a limportanza enorme che ha la
intensificadone delle colture, per higiene dei territori prosciugati. Troppo
spesso prima dei Fascismo era accaduto che le costose opere di prosciugamento e
di canala2;ione compiute dallo Stato non fossero seguite dal necessrio
completamento e dalla valori^^a^ione delle terre da parte dei privati*
L/iniCativa di questi rimaneva torpida e si estraniava quasi da quella statale
mancando il necessrio collegamento; il quale, se deve essere provocato da una
saggia legislasione, deve essere pure frutto di una cosciente volont capace di
imporre, occorrendo, la trasformasione agraria. Questa conce2;ione per non pot
affermarsi in maniera decisa e sicura se non dopo Favvento dei Fascismo che
pose il problema delia bonifica integrale tra quelli fondamentali dello Stato,
riconoscendone limportanza poltica e sociale. II continuo incremento delia
popola^ione che impone il pi alto grado di intensit produttiva e le differenze
di densit demogrfica che si notano fra regione e regione, richiede- vano una
poltica rurale che potenziasse la produzione ed attenuasse i piu stridenti
squilibri demografici. II concetto di bonifica integrale non si esaurisce
quindi in un solo fatto tcnico ed economico, ma ha anche un valore demogrfico
altissimo; la bonifica va congiunta con una poltica mirante a portare la vita
nella terra redenta e a radicarvi huomo rendendolo partecipe alia produsione.
Solo cos si compie una grande rivoluzione terriera e si attua una grande
conquista sociale. II Fascismo quindi non considera la bonifica una semplice
opera di prosciugamento di terre palustri, o anche unopera atta a trasformare
terre mal coltivate o incolte, ma considera la bonifica una iniziativa assai pi
complessa e lungi- mirante, intesa a creare nuove fonti di lavoro e di
ricchezza, nuovi aggregati civili, a restituire alia vita rurale il suo fascino
e la sua sanit, a porre un argine al dilegante urbanesimo. Nel quadro delia
bonifica integrale rientra, perci, il problema importantssimo delia casa
rurale, che il Duce per primo ha visto e sbito impostato. II Capo in occasione
delia premiazione dei concorso nazio- nale dei grano, il 14 ottobre dellanno
VI, affermava che la bonifica integrale dei territrio nazionale un'iniziativa il cui compimento baster da
solo a rendere gloriosa, nei secoli, la Rivoluzione delle Camicie Nere. Questa
iniziativa 1indice di un orientamento
dei Regime fascista che il Duce ha espresso in questa forma: il tempo delia
poltica prevalentemente urbana passato:
ora il tempo di dedicare i miliardi alie
campagne, se si vogliono evitare quei fenomeni di crisi economica e di
decadenza demogrfica che gi angosciano paurosamente altri popoli. Per
raggiungere queste finalit il Governo fascista ha prov- veduto a riordinare,
perfezionare, completare, la legislazione sulla bonifica. Sono stati distinti i
terreni compresi nei comprensori di bonifica propriamente detti, nei quali
bisogna procedere ad una radicale trasformazione delbordinamento delia
produzione agraria, dai terreni che richiedono soltanto migliora- menti
fondiari, onde perfezionare 1 'attuale ordinamento. Mentre per lesecuzione dei
miglioramenti fondiari da compiersi sui terreni che non sono compresi nei
comprensori di bonifica, lo Stato concede contributi per stimolare 1
'iniziativa; nei comprensori di bonifica lo Stato esercita pienamente la sua
attivit pubblica. esso che fissa i
caratteri fondamentali dei nuovo ordinamento produttivo da instaurare nei
terreni bonificati: esso che sostiene
interamente o in gran parte la spesa per Tesecuzione di quelle opere di
carattere pubblico, che sono indispensabili per creare le condizioni ambientali
adatte ad accogliere le nuove forme di agricoltura che si vogliono introdurre.
In questi terreni di bonifica i proprietari sono tenuti, per espressa norma di
legge, ad eseguire tutte quelle opere di carattere privato atte a far si che la
bonifica compiuta si svolga nel senso che lo Stato ha stabilito. I privati
possono giovarsi dellaiuto finanziario statale, sia richiedendo contributi per
1'esecuzione delle opere o concorsi governativi per il pagamento degli
interessi sui mutui contratti per compierle. La legge fondamentale delia
bonifica LA LEGGE MUSSOLINI.
L'applicazione di essa ha esteso i territori di bonifica ad oltre 4 milioni di
ettari, cosi distribuiti per compartimento: SUPERFCIE DEI COMPRENSORI DI BONIFICA
Piemonte Lazio Liguria Abruszo e Molise Lombardia Campania Tre Venezie Puglia
Emilia Lucania Toscana Calabria Marche Sicilia Umbria Sardegna Regno ha.
4.736.983 Anche V irrigazione entrata
nel domnio delia bonifica. Essa costituisce un formidabile tntzzo per aumentare
la capa- cit produttiva dei terreni che, specie nel nostro Paese, soffrono per
Peccessiva siccit. Le pi grandi reali^azioni dei Regime nel campo delia
bonifica sono segnate dalla redensione delPAgro Pontino* Dove una volta regnava
lo spettro delia perniciosa oggi sorridono al sole laziale tre gemme: Littoria,
Sabaudia e Pontinia. Altre seguiranno ad attestare la mareia trionfale delPEra
fascista in cui si rinnovano gli Istituti, si redime la terra, si fondano le
citt. A fianco delle prowiden^e per la battaglia dei grano e per la bonifica
integrale, numerosissime sono le altre prese per tutte le svariate branche
agricole in tredici anni di Regime. Particolari provvedimenti negli anni di
awersa congiun- tura e per stimolare Popera miglioratrice, furono presi in
matria di credito agrario e per sowensioni agli agricoltori dissestati*
INDUSTRIA E ARTIGIANATO. L'INDUSTRIA. LTALIA
stata un paese quasi esclusivamente rurale. Anche nella Valle Padana,
nella prima met dei secolo scorso, le industrie raramente presero largo
sviluppo e mai riuscirono a superare per importanza lagricoltura che assunse
invece, specie nella zona irrigua, un carattere spiccatamente industriale.
Soltanto alia fine dei secolo scorso, specie nellAlta Lombardia, le industrie
acquistarono notevole importanza; tale sviluppo si intensifico nel primo
decennio di questo secolo. Lindustria tessile si afferm per prima battendo
progressivamente Tartigianato e i numerosi telai domestici. Tra il 1880 e il
1890, sorsero i primi grandi stabilimenti di filatura; quindi le prime
installazioni di alti forni a cok e di forni Martin per V industria siderrgica,
cui seguirono le industrie meccaniche. Nellultimo decennio dei secolo scorso si
svilupparono anche numerose medie industrie che costituiscono la parte pi
solida delia industria italiana: fabbriche di vetri, di ceramiche, con- cerie,
fabbriche per la carta e per produzioni alimentari* Nello stesso tempo hanno
vita le prime industrie delia gomma, si diffondono nuove fabbriche per la tessitura
dei lino, delia seta e delia canapa. Allalba dei secolo XX comincia lo sviluppo
delh industria idroelettrica, che doveva raggiungere un alto grado di potenza
nel periodo fascista, e cominciano ad affermarsi cospicue industrie chimiche.
II decennio che precede la conflagrazione europea vede sorgere i primi grandi
zuccherifici e vede molti- plicarsi le fabbriche di cemento per adeguarsi al
crescente bisogno delhedilizia. Nello stesso periodo la industria che si era
localiz^ata nelle provinde settentrionali, comincia ad estendersi anche nelh
Italia centrale e meridionale* Nel trentennio anteriore alia guerra, perci,
lItalia SI TRASFORMA DA PAESE QUASI ESCLUSIVAMENTE AGRICOLO in paese nel quale,
pur restando lagricoltura la base economica, esiste gi un complesso di attivit
industriali che soddisfano in gran parte ai bisogni interni e si accingono
alhesportazione. Durante il periodo bellico Tattivit industriale si molti- plicata, per sostenere lo sforzo
immane a cui era soggetto il Paese; per Y industria crebbe in maniera
disordinata, accen- tuando i vizi di disarmonia che gi esistevano. L' immediato
dopoguerra che va dal 1919 al 1922, caratterizzato da un periodo di crescente
disintegradone delia com- pagine economica dei Paese, non poteva certamente
migliorare la situazione. Anche P industria italiana come ogni altra attivit ha largamente beneficiato dei nuovo clima
poltico, nonch dei nuovi ordinamenti creati dal FASCISMO In questa nuova
atmosfera psicolgica, poltica ed economica, Tindustria italiana si lanci con
fede ed audacia verso nuove conquiste. Lautorit dello Stato non solo da le
garantie indispensabili, ma prowedeva a creare quel complesso di condi^ioni
favorevoli per la ripresa economica, che da tempo mancavano e che sono
necessarie per aiutare, coordinare e completare Fattivit privata* Neir
industria, importan^a capitale ha avuto il nuovo ordine sindacale corporativo,
con la creazione di organi adatti a risol- Vere in sede di collabora^ione i
contrasti inevitabili tra capi tale e lavoro* Numerosi sono i prowedimenti
presi dal Governo fascista per difendere ed aiutare lo sviluppo industriale I
prowedimenti investono tanti settori delPattivit industriale italiana. Citiamo
ad esempio le prowiden^e per Y industria ^olfifera duramente colpita dalla concorrenza
americana; quelle per lindustria marmifera, che ha pure larghi riflessi
sociali. Con particolare riguardo airagricoltura e alie necessit belliche, di
speciali prowidenze hanno goduto le industrie dei prodotti atotati, fondate
sulle superbe inventioni dei nostri tecnici, che hanno consentito di produrre
in Paese, utilizzando Patoto dellaria, i nitrati necessari airagricoltura e
alie industrie di guerra, liberandoci dalla servit straniera. IP industria
delia seta naturale un giorno fiorentissima, nonostante la crescente
concorrenza delia fibra artificiale,
stata ripetutamente sorretta, direttamente e indirettamente attraverso i
premi alia bachicoltura. Di speciali previdente del GOVERNO FASCISTA ha anche
goduto la giovane industria cinematogrfica. II tracollo dei prezei che continuo
con un crescendo pauroso e che mise moltissime industrie in condizioni di
estrema diffi- colt, consigli il Governo ad applicare una disciplina siste
mtica nella produzione, capace di ridurre la disordinata concorrenza che recava
anche pregiudizio al complesso delia economia nazionale* Con disposizioni
legislative dei dicembre 1931 il Ministro delle Corporazioni autorizcato a costituire consorzi obbligatori
fra gli esercenti V industria siderrgica* Successivamente con legge dei giugno
1932, furono stabilite le norme generali per la costituzione ed il
funcionamento dei consorzi tra esercenti uno stesso ramo di attivit, e con la
legge dei gennaio 1933 si diede al Governo il potere eccezionale di sottoporre
ad autoriz^azione i nuovi impianti industriali e gli ampliamenti di impianti
preesistenti* In tal modo la nuova realt corporativa cominciava ad esplicare in
pieno la sua delicata funcione anche nel campo deir industria* Cosicch non
soltanto fu evitato il pericolo di lasciare costituire nelP interno dei Paese
formidabili monopoli di carattere supercapitalistico, ma venne indiriz^ata la
produ- tione industriale verso queirarmonica costituzione a carattere nazicnale
che sollanto lo Stato pu veramente effettuare. II concetto privato di azierda
industriale, viene permeato da un concetto nuovo, il corporativo, nel quale
Pelemento pubblidsta, se non acquista prevalenza assoluta, costituisce
certamente la finalit. Larga applicazione ha avuto la ancidetta legge dei 1933:
il Ministero delle Corporacioni esamina periodicamente le domande presentate e
prowede o meno alia loro approvazione compiendo un lavoro salutare per
lequilibrio delP industria nadonale. Nel campo delia navigadone Topera dei
Governo, in armonia alio spirito legislativo or ora ricordato, stata intesa a promuo- vere e ad agevolare
concentracioni e fusioni, evitando cosi laggravarsi di alcune situadoni di
disagio che si erano venute determinando con la crisi dei noli. Le societ Citra
e Florio sono State fuse nella Tirrenia; La S* Marco, P Annima Industrie
Marittime, la Puglia, la Costiera, la Zaratina e Nautica, si sono fuse
nellAdriatica. Questa, con il suo blocco di 48.000 tonnellate, esercita il
traffico nelhAdriatico e nelPEgeo, mentre la Tirrenia, con le sue 128.000
tonnellate, effettua i suoi servici nel Tirreno e per le Colonie. La Marittima
e la Sitmar si sono fuse nel Lloyd Triestino costituendo un blocco di 210.000
tonnellate destinato ai servici dei Mediterrneo Orientale, dei Mar Nero, delP
ndia e dello Estremo Oriente. II Lloyd Sabaudo e la Navigadone Generale
Italiana si sono fuse nelPItalia, che la
pi potente adenda marittima italiana, formata da un blocco di 360.000
tonnellate adibita ai servici delle Americhe, delP frica e delPAustralia. Gi
discorrendo delia politica financiaria avemmo occasione di ricordare lstituto
per la Ricostruzione Industriale creato dal Governo fascista, dopo avere dato
vita allistituto Mobiliare Italiano. Entrambi questi Istituti hanno avuto una
influenza notevolissima suir industria italiana L* I* M* I* ha lo scopo di
accordare prestiti ad imprese private italiane e di assumere eventualmente
partecipazioni azio- nali* Gli impegni non possono in ogni caso estendersi ad
un perodo superiore ai 10 anni* L* L R* L comprende una sezione che si occupa
delle sov- venzioni e dei crediti alP industria, e una seconda che ha il
compito di liquidare alcune imprese in passato gestite dalPIsti- tuto di
liquidazione. Il governo fascista con la sua poltica industriale ha dato ancora
una volta la dimostrazione dei suo equilbrio, delia sua saggezza e di una
grande tempestivit ed energia Esso non solo non
caduto nel consueto errore di paralizzare Tinizia- tiva privata, ma ne
ha potenziato invece e favorito lo sviluppo in armonia con quella disciplina e
con quello spirito di mutua comprensione e di collaborazione che sanciscono i
basilari principii delia carta del lavoro. Una visione sinttica e nello stesso
tempo precisa delia struttura industriale di cui dotato il nostro Paese si pu avere dal
censimento industriale e commerciale compiuto il 15 ottobre 1927. Da esso
appare chiaramente che in Italia predominano le piccole aziende con un modesto
numero di addetti; su 732*109 aziende ben 692*313 hanno meno di n addetti* In queste
piccole aziende trovano occupazione 1*510*304 persone, cio pi di un terzo di
tutti gli addetti alie industrie censite, che ammontano a 4*005*790* L/esame
analtico fatto in base alie classi di industrie, dimostra che il numero
maggiore di addetti impiegato nelle
industrie tessili le quali, nel nostro Paese, si sono sviluppate in maniera
imponente e sono raggruppate in un numero relativamente piccolo di
stabilimenti. In ordine d' importansa, secondo il numero delle persone
impiegate, segue lindustria dei trasporti e delle comunica- sioni, cui
attendono poco pi di mezzo milione di persone. Le industrie meccaniche e quelle
dei vestirio raggruppano un numero di addetti pressoch uguale: rispettivamente
478.896 e 491.793. Esse differiscono per il numero degli esercizi che risulta
di 80.705 per le industrie meccaniche e di 108.470 per quelle dei vestirio. Le
industrie alimentari ed affini assorbono il lavoro di circa 340,000 addetti; un
numero di poco minore ne occupa Tindu- stria delle costru^ioni; 286.115
persone, distribuite in 103.015 adende, si dedicano alh industria dei
legno. opportuno rilevare che le a^iende
con un numero di addetti superiore al migliaio sono frequenti specialmente nel
gruppo delle industrie tessili e meccaniche, seguono quelle siderurgiche e
metallurgiche e, infine, quelle dei trasporti e delle comunica^ioni, In
complesso Sino a 10 addetti Esercizi Addetti Esercizi Addetti. Industrie
connesse collagricoltura Pesca Miniere e cave Industria dei legno ed affinL
Industrie alimentari ed afini Industria delle pelli, cuoi, ecc. .Industria
delia carta Industrie polgrafiche Industrie siderurgiche e metallurgiche
Industrie meccaniche Lavorazione dei minerali, esclusi i metalli Industria
delle costrusioni. Industrie tessili Industria dei vestirio, ecc Servizi
igienici, sanitari,ecc Industrie chimiche Distribusione di forza mo- trice,
luce, ecc Trasporti e comunicazioni Combinadoni di industrie di diverse classi
Totale L'industria mineraria, esplicantesi specialmente nel settore dei ferro,
dei piombo e dello zinco, delia pirite e dei combusti- bili fossili, ha segnato
un forte incremento nel periodo che corre dal 1925 airinisio delia crisi
economica mondiale Mentre nel 1921 e anche nel biennio 1923-24 la produ- sione
di minerali di ferro oscill intorno a 300*000 tonnellate, negli anni seguenti
ebbe forti incrementi tanto che nel 1930 supero nettamente le 700*000* Anche i
minerali di piombo e zinco, che nel 1922 erano prodotti in una quantit di poco
superiore a 120*000 tonnellate, nel sessennio 1925-30 raggiunsero una
produzione media di oltre 250.000 I combustibili fossili, nel rigoglioso
periodo dellECONOMIA FASCISTA, superano la produzione di un milione di
tonnellate e nel 1929 raggiunsero la cospicua cifra di 1*400*000* La produzione
di piriti di ferro, che nel periodo pre-bellico raggiunse faticosamente le
300*000 tonnellate annue, nel sessennio 1925-30 raggiunse una produzione media
di oltre 600*000 e nel 1930 supero le 700*000 I prodotti delhindustria
metallurgica hanno segnato graduali aumenti nel periodo fascista. I dati
sottoriportati, riferentisi alia ghisa di alto forno, al ferro e alhacciaio, lo
dimostrano chiaramente; Anni Ghisa cTalto forno Ferro e acciaio 1 Anni Ghisa
d'a!to forno Ferro e acciaio in migliaia di tonnellate jn migliaia di
tonnellate 489 1721 rilevante il fatto
che nel biennio 1938-29 si sia superata la produzione di oltre due milioni di
tonnellate di ferro e di acciaio e che la ghisa d'alto forno neiranno 1929
abbia raggiunto la produzione di 670*000 tonnellate* La produzione di
piombo salita, da circa 12*000 tonnellate
prodotte nel 1921, a una produzione media di 20*000 e nel 1932 ha raggiunto la
cospicua cifra di 31*470 tonnellate. Anche la produzione di mercrio, che nel
1921 superava appena le 1000 tonnellate, nel triennio 1927-29 quasi raddoppiata* Forte incremento ha pure
avuto la produzione di zolfo grezzo, la quale mentre nel triennio precedente
Tawento dei Fascismo si era mantenuta assai inferiore alie 300*000 tonnel late,
nel triennio 1931-33, nonostante le difficolt create dalla crisi, supero la
media produzione di 350*000 tonnellate, come dimostrano i dati seguenti: Anni Z
0 1 f 0 in migliaia di tonnellate Speciale importanza hanno i prodotti chimici,
i quali, specie nel campo dei concimi, hanno ricevuto, per Timpulso dato dal
Fascismo airagricoltura, un insperato incremento. Tra questi va ricordato il
perfosfato che, mentre nel perodo prebellico era prodotto in una misura poco
superiore alie 900*000 tonnellate, nel 1925 ha superato il milione e mezzo, di
tonnellate. Importantissima stata pure
la produzione di concimi azotati, segnatamente delia calciocianamide e dei
nitrato di soda, ottenuti con processo sinttico valendosi delbazoto del1'aria.
In virt di ci 1 'agricoltura italiana si pu dire oggi completamente emancipata
dalhimportazione straniera di azotati. La produzione di solfato di rame ha pure
segnato un note- vole aumento. Nel triennio 1926-28 essa ha superato
sensibilmente le 100.000 tonnellate, mentre nel periodo prebellico raggiunse
faticosamente le 50.000. II Governo fascista non manc di stimolare e aiutare 1
attivit di quelle industrie che potevano dare matria prima per attivare il
commercio di esportazione. A tale scopo, come gi abbiamo ricordato, esso aiut
in varie maniere 1industria serica, la quale riusci a raggiungere e a superare,
durante i primi otto anni dei Governo fascista, la produzione media di oltre
5000 tonnellate di seta greggia. Mentre nel biennio 1921-1922 essa risult di
sole 3700, nellanno 1924 e nel 1928 la seta greggia venne prodotta nella misura
di quasi 5600, cifra appena raggiunta nel 1909 e superata nel 1906-1907, quando
1industria delia seta attingeva i vertici dei suo splendore. In molti altri
campi 1 'attivit industriale italiana si
espli- cata con raro vigore; cosi
avvenuto nel campo elettrico e dei gas; ma essa ha raggiunto speciale
importanza specialmente nel campo dello zucchero e anche nella produzione
delhalcool. Anni Zucchero J lcool in migliaia di quintali 2 milioni di quintali
di zucchero prodotti nel 1921 sono stati superati negli anni seguenti; la
produzione di questa importantssima derrata ha segnato, attraverso inevitabili
oscillazioni, una netta tendenza allaumento. La produzione dei gas-luce andata crescendo con ritmo costante: dai 291
milioni di metri cubi prodotti nel 1922 si sono quasi toccati i 2000 milioni
nel 1932. Particolare attenzione merita 1'impulso dato dal GOVERNO FASCISTA
alla produzione dellenergia elettrica, di cui gi si tenne discorso.
Perfezionando ed ampliando i vecchi impianti, costruendone di nuovi e creando
bacini artificiali di grande capacit, il consumo passato da meno di 5.000 milioni di kwh. dei
1922, a 8.450 milioni di kwh. nel 1932 e a circa 10 miliardi di kilowatt-ora
nel 1933. Ovunque si cerca di sostituire il carbone di importazione con energia
elettrica prodotta in Paese: un esempio luminoso offerto dal GOVERNO FASCISTA con Tintensa
elettrificazione delle ferrovie. Fra le industrie tessili ha specialmente
importanza quella dei rayon, che si
sviluppata in modo veramente rigoglioso specialmente negli anni delhera
fascista, come attestano i dati che seguono: Anni Rayon in milioni di kg. I
cantieri navali hanno pure svolto un attivit che caratterizzata da un continuo aumento sino al
1926, anno in cui sono State varate navi per 250.000 tonnellate di stazza
lorda. In seguito, a motivo delia crisi, si
avuta nella produzione navale una sensibile riduzione che va anche vista
come effetto delia forte contrazione dei commercio interna- zionale. Nonostante
gli awenimenti di carattere eccezionale ai quali abbiamo assistito in questi
ultimi anni e che hanno sconvolta 1economia dei mondo, 1' industria italiana
non soltanto ha resistito validamente sulle posizioni conquistate, ma riuscita, specie in alcuni settori, a
conseguire notevoli progressi. L'indice delia produzione industriale italiana,
posto uguale a xoo 1anno 1922, preso come anno di base, in tutti gli anni
successivi non ha mai segnato le depressioni registrate per altri Paesi, bensi
un incremento sensibilssimo anche negli anni di crisi. INDICI DELLA PRODUZIONE
INDUSTRIALE. L'ARTIGIANATO L/incateante fenomeno deirurbanesimo e la
decrescente natalit si sono manifestati in maniera pi acuta laddove pi
intensa Torgani^azione di tipo
industriale, cio laddove le donne sono impiegate nelle fabbriche e nelle
manifatture, dove il mondo capitalistico domina con le sue tragiche contrad-
di^ioni, che soltanto la conce^ione fascista ha saputo affron- tare con un
piano concreto ed umano. Lartigianato, invece, ha un carattere squisitamente
rurale. L/elogio deiritalia agrcola
implicitamente Telogio delle folie artigiane. Per tutto ci il Fascismo,
se riconosce nelhativit industriale un mezzo formidabile di conquista e di
poten^a, se riconosce nella fabbrica e nelPofficina unhndispensabile elemento
di vita per una nazione civile, spiritualmente esalta la funcione del-
Tartigianato, il quale ha risolto, nello stretto mbito delia sua bottega, i
conflitti dei capitalismo* Lartigiano, come il piccolo proprietrio coltivatore
diretto, lavora con gioia; il suo lavoro non
mosso soltanto da egoistiche esigenze economiche, ma anche dal desiderio
di compiere un'opera delia quale nel suo intimo sente tutta la bellezsa* Come
il piccolo proprietrio agogna al possesso terriero e una volta raggiuntolo
cerca ognora di consolidarlo, prodigandosi in opere di miglioramento,
investendo nella terra tutti i suoi risparmi, cosi lartigiano, dopo che si proweduto dei mezzi indispensabili per il suo
lavoro, impiega tutte le for ze produttive delia sua famiglia per potenziare
sempre pi la sua piccola asienda e faria assurgere magari a piccola industria.
II carattere particolare delPartigianato, che si ripercuote nelle
caratteristiche psicologiche di coloro che lo esercitano, ha fatto si che esso
fosse guardato dal FASCISMO con particolare simpatia e comprensione. II nostro
paese poi, che vanta gloriose tradizioni nel campo dell'artigianato e possiede
un ncleo formidabile di piccole e medie botteghe artigiane, sente in maniera
particolare l bisogno di poteriare e sviluppare questa forma di attivit
economica, solidssima fonte di sta- bilit sociale. Per queste ragioni il
problema artigiano non e non puo essere
un problema esclusivamente economico. Gli obbiettivi dei Regime in matria di
poltica artigiana sono volti a migliorare tecnicamente e artisticamente i
prodotti di questa benemerita categoria, per poter superare la concorrera
straniera e conquistare i mercati. Dal punto di vista economico il Governo
fascista, attraverso le cooperative di mestiere e bancarie, ha anticipato
denaro e assistito nei pi diversi modi questi piccoli imprenditori Ha cercato
inoltre di applicare una rigorosa selecione dei prodotti, indviduando i centri
di produzione caratteristici, coltivando attraverso le mostre la conoscera di
queste attivit e il tradizionale buon gusto dei nostro popolo, per stimolare i
singoli e compiere una efficace opera di selesione. Le categorie professionali
rappresentate dalla Federazione fascista autonoma deglartigiani dItalia, la
quale s e prodigata per valorirare sempre pi questa folia di piccoli produttori
sapienti e tenaci, sono numerosissime L'arte dei legno comprende sensa
limitazione di numero intagliatori, laccatori, scultori in legno, lucidatori,
doratori e stipettai. Qualora le imprese non impieghino pi di cinque dipendenti
anche gli ebanisti e corniciai, mobilieri e tornitori sono raccolti nella
Federazione artigiana, la quale comprende anche carpentieri e falegnami,
imballatori e sediai, quando essi siano impiegati in attivit che non occupano
pi di tre dipendenti. La ricordata Federasione rappresenta anche i fornitori di
oggetti d'arte, i battiferro, i ramai e calderai, gli sbalzatori di metalli,
glarrotini e i modellatorh. Le attivit artigiane, varie e multiformi, diverse
per le materie lavorate e per i prodotti ottenuti, dominano completamente larte
dei tessuto e dei ricamo, larte delTorafo, dellargentiere e dellorologiaio*
Speciale importanza hanno anche nel campo delia ceramica artistica, la quale ha
raggiunto, specialmente in alcune zo ne dei nostro Paese, un incontestabile
splendore e vanta antichissime tradizionh. Ricordiamo le industrie cera- miche
umbre, faentine e quelle pesaresi, per citare soltanto le principaln L'arte dei
cuoio e delia cak^tura raccoglie un grande numero di doratori e di sellai, di
pirografi e bulinatori, di sbalzatori e stampatori, calzolai ed astucciai, che
nel complesso raggiungono un numero considerevole di addetti, i quali portano
il tributo precioso di un lavoro paciente alia produzione nazionale Anche i
valigiai e i cinghiai, guantai e pellettieri, pur trovando di solito il loro
impiego in aziende cospicue, vengono per ad accrescere il numero di questa
benemerita categoria di modesti e solidi produttori L'arte delia tessitura e
dei ricamo, alia quale si dedicano con grande perimia le mogli e le figlie dei
nostri salariati, sia nel campo dei merletto e delia trina, sia in quello delia
filatura e tessitura a mano di stoffe e tappeti, raggiunge mTimportanza che,
specialmente in alcuni centri dellItalia settentrionale e delle isole, non pu
essere trascurata. Tra gli artigiani vanno contati anche gli acquafortisti,
xilografi e xenografi, nonch i litografi e i rilegatori di librh Nei modesti
centri il carattere artigiano si pu riscontrare anche nelle piccole tipografie
come nei fabbricanti di timbri in legno e metallo e di oggetti e modelli di
carta e cartone. Affine a questa attivit
quella delia fotografia che nel grandssimo numero dei casi e per la
quasi totalit delia produzione in mano
di valenti artigiani. La lavorazione dei marmo e delia pietra specialmente opera di artigiani. Mosaicisti,
alabastrai e sbozzatori di pietre, luci- datori di marmi e sagomatori,
costituiscono un gruppo notevole di lavoratori che, insieme agli addetti
allarte dei restauro, formano un gruppo importante delia Federazione artigiana.
A questa categoria appartengono anche i parrucchieri, gli addetti allarte
deilarredamento e dei giardino, quelli impiegati nelFarte dei giocattolo e
delia pirotcnica, i vulcanizzatori e gli ombrellai. Particolare posizione
acquista poi quel gruppo di artigiani che si dedicano alie attivit miste
proprie delia vita rurale, i quali, diffusinei pi remoti angoli delle nostre
campagne, portano con la loro genialit di costruttori e con la loro pazienza di
fini esperti riparatori, un contributo che non pu essere trascurato, Ricordiamo
tra questi i falegnami, gli ebanisti, i mec- canici, i fabbri, ecc. Ma sarebbe
troppo lungo dare una com pleta nozione delle svariate funzioni esercitate
dagli artigiani, i quali costituiscono una massa imponente, che fornisce un
lavoro sapiente e prezioso ed esercita una funzione insostitui- bile nella
nostra economia. LA POLTICA dei lavori pubblici GENERALIT A FIANO dei poderoso
programma di bonifica sta un pi esteso programma di lavori pubblici, inteso a
dar lavoro al- Tesuberante mano d'opera e creare un complesso di opere civili,
di cui ritalia meridionale e insulare specialmente difettavano. Con questo
intendimento furono creati i Proweditorati alie opere per il Mezsogiorno e le
Isole e TA^ienda Autonoma Statale delia Strada. L'opera svolta dal GOVERNO
FASCISTA in questi ultimi dodici anni
stata veramente imponente. Nel primo decennio fascista le
amministrazioni sopra ricordate hanno presi impegni di spesa per circa 37
miliardi di lire, dei quali ben 17 miliardi e mezzo sono stati effettivamente
pagati. II programma di lavori pubblici compiuti ha gi avuto, e avr ancor pi
neirawenire, una notevolissima influen^a sul benessere dei Paese; non solo ha
intensificato gli scambi, ha favorito i traffici e ha arrecato immensi vantaggi
airagricol- tura e albindustria, ma ha anche elevato il tenore di vita e ha
contribuito a stabilissare le correnti migratorie. Si tratta di un'enorme
quantit di capitale investito nel suolo ptrio, di immense quantit di lavoro,
che an^ich andare disperse sono State utilmente impiegate in opere di alto
Valore civile ed economico. Per questo la poltica dei lavori pubblici stata anche un mtzzo efficacissimo per
arginare e combat- tere la dilagante disoccupasione. Nei lavori compiuti dagli
ufiici tecnici dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici, dalPAzienda
Autonoma Statale delia Strada e dal Sottosegre- tariato per la Bonifica,
neiranno 1926 si sono impiegati 21,8 milioni di giornate-operaio, 26,7 milioni
nel 1927, 27,3 milioni nel 1928 L'anno 1929 porta un sensibile aumento di
lavori e di giornate operaie impiegate, le quali toccano i 33,5 milioni: queste
raggiungono 41 milioni nel 1930, 39,3 milioni nel 1931, per superare i 42
milioni. Queste cifre per non danno una completa idea delia massa di lavoro
posto in atto dal Governo fascista, perch se nei cantieri delle imprese
appaltatrici di pubbliche costrutioni si ebbe un formidabile aumento nel numero
delle maestrante impiegate, un incremento sensibile si ebbe altresinelle cave,
nelle officine, nelle fornaci, nelle fabbriche che forniscono alie prime
materiale da costrutione e mezzi d'opera* Anche nelle imprese di trasporti
Tindice di attivit segn un fortssimo aumento. Da un punto di vista poltico va
poi posto in particolare rilievo lo sforto compiuto dal Regime per dotare le
citt e le campagne dei Meridionale e delle Isole di tutti quei serviti pubblici
di cui mancavano e che, consentendo forme di vita migliore, sono di stimolo per
lelevazione morale e materiale delle popolazioni. La messa in valore di estesi
territori agricoli dei Mettogiorno, cio di un territrio con particolarissime
caratteristiche demografiche, richiese la regolatione delle correnti dei
lavoratori onde incitare, aiutare, assistere quel proletariato agricolo che
desiderava radicarsi alia terra e formare colonie stabili. Per questo il Duce
cre presso il Ministero dei Lavori Pubblici il comitato permanente per le
migrationi interne, che poi volle alia sua diretta dipendenta presso la
Presidenta dei Consiglio LA VIABILIT ORDINARIA. Con legge stata affidata alFAtienda Autnoma Statale
delia Strada la rete delle strade di grande comuni- catione, chiamata anche
rete delle strade statali. II duce ha voluto creare un organo autonomo, agile,
preparato a compiere rimmensa mole di lavoro che era richiesta per una adeguata
sistemazione dei nostro patrimnio stradale. Egli, che ha sempre avuto un
concetto romano delia strada, ha dedicato ad essa le pi sollecite cure e ha
fornito capitali ingenti per il duraturo assetto ed il miglioramento delia rete
stradale. Le 136 arterie che formano la rete, il cui sviluppo comples-
sivo di 20.622 chilometri, nelhestate
dei 1928 si trovavano in condizioni non certo felici: soltanto 463 chilometri
di strada erano pavimentati in maniera tale da non richiedere alcun ulteriore
lavoro per la loro sistemazione* Rimaneva cio la quasi totalit da rivedere e da
sistemare. Alia fine di ottobre delhanno X erano stati sistemati 8562
chilometri, dei quali 7910 con trattamenti superficiali e 652 con
pavimentazioni permanenti e semi permanenti. Erano inoltre in corso altre
pavimentazioni su oltre 1000 chilometri. II resto delia rete stato per oggetto di opere straordinarie e di
manutenzioni talmente accurate che attualmente tutte le strade si trovano in
ottime condizioni. IL GOVERNO FASCISTA nel campo delia viabilit ordinaria non
si limitato a mantenere o pavimentare le
strade esistenti* Intensa stata pure
Tattivit svolta per completare la rete di grande comunicazione e per arricchire
quella delle strade pro- vinciali e specialmente delle strade comunali, che, in
alcuni compartimenti dei nostro Paese, era inadeguata ai bisogni dei traffico e
specialmente ai crescenti bisogni dellagricoltura* Particolare menzione va
fatta delle autostrade, di cui nel decennio che va dal 1922 al 1932 furono
costruite 436 chilometri, segnando in questo modernissimo campo delle
comunicazioni un primato, che ancor oggi ci
invidiato dai maggiori Stati d'Europa. La rete delle strade di grande
comunicazione stata aumen- tata di ben
525 chilometri di nuova costruzione: ricordiamo il completamento delia grande
artria litoranea tirrenica; la costruzione dei tronchi delia litoranea ionica
situati nelle provinde di Taranto e Matera; il completamento delia litoranea
adriatica con i tre tronchi situati tra S. Salvo in provncia di Chieti e
Serracapriola in provncia di Foggia; i nuovi tronchi costruiti nelle provincie
di Salerno, Potenza e Cosenza, per tacere di altri importanti tronchi costruiti
specialmente nel Meridionale. Se le nuove strade statali si sono rivelate di
notevole portata, di grandssima utilit si sono dimostrate le strade costruite
dalle Provincie e specialmente quelle volute dai Comuni. Bisogna ricordare che
nel decennio fascista sono stati costruiti 1143 chilometri di strade
provinciali e 3844 chilometri di strade comunali. Nelle Calabrie, nella
Lucania, negli Abruzzi e in Sicilia, si
dato grande impulso alia viabilit rurale e a quella che ha servito ad
allacciare i comuni isolati alia strade di grande comunicazione. Anche
neiristria sono State compiute opere cospicue: circa 20 milioni sono stati
dedicati alie costruzioni stradali. Non va poi dimenticata la costruzione di
strade turistiche che servono anche per la comunicazione fra importanti
compartimenti (citiamo ad esempio la Gardesana occidentale e orientale) e
quella di importantissime autostrade quali la Roma-Ostia, la Napoli-Pompei, la
Firenze-Viareggio, la Padova-Venezia e quelle irradiantesi da Milano per
Torino, i laghi e Brescia. Non si pu terminare questa breve e incompleta
rassegna delle opere stradali compiute dal Fascismo, senza ricordare il ponte
che congiunge Venezia con la terraferma, largo 20 metri, lungo 4 chilometri,
costruito in meno di due anni con la spesa di 80 milioni. LE FERROVIE La rete
ferroviria ereditata dai passati regimi, se per molti aspetti si presentava in
felici condizioni, richiedeva per una opera attiva di integrazione e di
completamento onde rendere ancor pi effi- cace il servizio che essa poteva
prestare aireconomia dei Paese* Negli ultimi 12 anni la rete ferroviria
italiana stata miglio- rata e
potenziata: rettiiche e raddoppi di binrio; ricambi e rinforzi di armamento;
ampliamento e ricostruzione delle stazioni, dei magazzini e dei servizi;
rinnovamento dei materiale rotabile. L'esercizio delle ferrovie stato poi riordinato in maniera rapida ed
energica; stato ristabilito un alto
senso di disciplina nel perso- nale ferrovirio, dei quale ne stato aumentato anche il rendimento.
Particolare importanza ha assunto poi la elettrificazione, estesa ad
importantissimi tronchi ferroviari e che si estender ulteriormente per liberare
sempre pi la Nazione dal grave onere delia importazione dei carbon fossile. Nel
campo delle nuove costruzioni ferroviarie bisogna ricordare la direttissima
Roma-Napoli, a doppio binrio, che ha rawicinato notevolmente questa citt alia capitale;
la Cuneo-Ventimiglia, la Sacile-Pinzano, e specialmente la direttissima
Bologna-Firenze, a doppio binrio, con una galle- ria scavata, per oltre 18
chilometri, nelle infide argille appenni- niche, superando difficolt tecniche
giudicate insormontabili e nella cui costruzione perdettero la vita decine
doperai. Nel complesso sono State aperte airesercizio nuove linee ferro viarie
dello Stato e deirindustriaprivata per circa 3000 chilometri. Si pu affermare
che con Topera di completamento dei tronchi compiuta dal Regime, e con la
elettrificazione delle principali linee
di cui recentissima la
Bologna-Roma-Napoli la rete ferroviria
di cui oggi dispone Tltalia
perfettamente adeguata ai bisogni delia sua economia. LE OPERE
MARITTIME. II mare era negletto. II Regime vi ha risospinto gli italiani. La
marina mercantile decadeva: il Regime 1 -ha risollevata. Durante questi anni
sono scesi nel mare colossi potenti. I porti si erano impoveriti: il Regime li
ha attre^ati e vi ha creato le zone franche. II lavoro vi era discontinuo per
via degli scioperi: oggi la disciplina delle maestran^e perfeita. Al mare, fonte di salute e di vita,
il Regime manda ogni anno centinaia di migliaia di figli dei popolo. La
passione degli Italiani per il mare rifiorisce. Vi riconosce un elemento delia
potenza nazionale. Cosi il Duce parlava alhassemblea quinquennale dei Regime.
Le opere compiute documentano con quale tenacia il Governo abbia realiz^ato le
basi per unintensa politica marinara. Le condizioni degli scali marittimi italiani
sono insufficienti. Il Regime ha voluto prowedere rapidamente ad ampliare e
sistemare quelli pi importanti, onde favorire e richiamare il traffico
internasionale, sen^a altresi trascurare i porti minori. Sono stati costruiti
XXVIII chilometri di opere di difesa, ripartite in 82 porti; la superfcie dei
bacini stata aumentata di 680 ettari. La
calate si sono accresciute di 36 chilometri e la superfcie dei terrapieni di
295 ettari. Dalle corrosioni dei mare sono stati difesi circa 17 chilometri di
coste. II Consorcio per il porto di Gnova ha completato il bacino Vittorio
Emanuele III, ha ultimato il i lotto dei bacino Mus- solini, ha costruito un
nuovo bacino di carenaggio largo m. 32, lungo m. 260. II porto di Napoli stato arricchito di un nuovo bacino;
mentre stato sistemato il porto vecchio
A Livorno stato costruito un nuovo porto
interno; a Cagliari un mo lo lungo m* 1655; a Catania le nuove opere eseguite
hanno aumentate le calate di m* 550; a Bari, in seguito alia importan^a che
hanno assunto i traffici con TOriente europeo, fu proweduto ad un grandssimo
lavoro di ampliamento. Grandiosi lavori sono stati dedicati al porto di
Marghera e alio scalo delia stazione marit- tima di Venezia Sono State
rinnovate molte opere d'arte nel porto di Trieste II lavoro compiuto immenso Oggi il nostro Paese gode di scali
marittimi perfettamente adeguati alie necessit dei traffici ed anche pronto ad accogliere ogni futuro
incremento nel commercio interna^ionale. LE ACQUE PUBBLICHE La regolari^a^ione
dei corsi dacqua Topera pubblica per
eccellensa che, in Italia, acquista unhmportan^a di primissimo ordine, data la
sua particolare configurasione oro-idrografica* Durante il decennio, per i
lavori di sistema^ione delia Valle dei Po sono stati impiegati oltre 400
milioni di lire, che hanno permesso di migliorare notevolmente la difesa
idraulica di i milione e 250 mila ettari di uno dei territori pi densamente
popolati e ricchi dei nostro Paese II Magistrato alie acque di Venezia si pure prodigato in un complesso di attivit tra
le quali prendono particolare evidem;a i lavori di sistemazione dei bacino
delbAdige* Negli altri bacini dei Regno sono stati costruiti circa 4000
chilometri di argini completati da 775 chilometri di pennelli e difese
frontali. Nel settore delia navigazione interna, per quanto il nostro Paese non
presenti condizioni favorevoli per la costituzione di una vera e prpria rete di
vie navigabili, il Governo ha voluto rendere pi efficace quella esistente nella
valle padana e nei grandi laghi. La via d'acqua Milano-Venezia, le ferraresi,
la litoranea veneta sono State oggetto dimportanti lavori. Anche il canale da
Pisa a Livomo e il tronco inferiore dei Tevere sono stati notevolmente
migliorati. Nel campo delia utilizzazione delle acque pubbliche, il governo ha
promosso energicamente la costruzione di grandi bacini idroelettrici, da
servire eventualmente anche all' irrigazione. In tal modo 1 'Italia ha cercato
di rimediare alia naturale povert di carbon fossile, sovvenendo ai bisogni dei
trasporti e delle industrie. Nel primo decennio fascista la potenza degli
impianti idroelettrici stata portata da
1,5 milioni di kw. ad oltre 4 milioni; la produzione di energia salita da 4 a 10 miliardi di kw-ora. L'Italia
settentrionale concorre alia produzione idroelettrica con oltre 3 milioni di
kw. di potenza installata negli impianti; esigua la produzione dellItalia centrale e
Meridionale; quasi trascurabile quella delle isole. L'ultimo decennio ha visto
moltiplicarsi nel nostro sistema alpino e appenninico i serbatoi idraulici che
oggi raggiungono il numero di 168, con una capacit di invaso complessiva di
quasi 1300 milioni di metri cubi. Alcuni di questi servono anche per 1
'irrigazione. Tra il centinaio di serbatoi costruiti durante gli ultimi dodici
anmi ricordiamo quello deljMoncenisio, dei Lago di Avio- grande (Varese), di
Ceresole Reale (Aosta), di Montesluga (Sondrio), di Suviano (Bologna), di
Trepido (Cosenza), di Santa Chiara d'Ula (Cagliari), dellAlto Belice (Palermo).
ACQUEDOTTI Da XV secoli Ravenna attende lacqua Si sono ricordati in questi
giorni i nomi venerati, ma lontani, degli imperatori romanL Passavano i secoli,
si susseguivano le gene- razioni, cambiavano i governi, le signorie, le
dominazioni, la realt era sempre lontana dal sogno Solo il FASCISMO puo fare
questo, poich il FASCISMO , sopratutto al presente, il verbo volere Cosi il
duce si pronuncia inaugurando lacquedotto di Ravenna, consacrato alla memoria
dei caduti, Anche in questo campo di civilt, di difesa della razza e del
popolo, di assistensa aglumili, il Regime si
prodigato, aiutando glenti locali con mutui di favore e concorrendo
allesecuzione delle opere stesse con contributi diretti. Oltre allacquedotto di
Ravenna, or ora ricordato, van menzionati: il grande acquedotto dei Monferrato
che d acqua a 81 comuni; lacquedotto Schievenin che serve XX comuni dellalto
agro trevigiano; lacquedotto Istriano che approvigiona tutta la provncia;
lacquedotto Franciosetti per la citt di Torino; quello per la Vai d'Orcia e la
Vai di Chiana, di cui beneficiano 11 comuni; quello di Grosseto; glacquedotti
della Lucania, ecc. Sviluppo notevolissimo ha avuto 1'acquedotto pugliese II
FASCISMO afffonta decisamente il proseguimento di quel colossale acquedotto con
la costruzione dei grande sifone leccese, delle diramazioni dei foggiano e di
altri 1000 chilometri di condotte esterne e interne agli abitati: cosi fornita lacqua ad una popolazione
complessiva di circa un milione di abitanti. La met delia spesa totale
sostenuta dallo STATO ITALIANO per compiere questa opera, che documenta il
grado di civilt di un popolo, stata
erogata dal GOVERNO FASCISTA. Al complesso di opere ricordate, miranti a dare
acqua pura alie popolazioni delle citt italiane e dei comuni rurali, va aggiunta
anche la costruzione di numerose fognature in oltre 300 centri urbani del paese
La breve rassegna che abbiamo fatto sarebbe assai incompleta se non venissero
ricordate altre numerose opere civili ed igieniche compiute dal regime:
ospedali, tubercolosari, cimiteri, lavatoi, costruiti a centinaia, specialmente
nell Italia Meri- dionale e nelle Isole, dove maggiormente difettavano La
Sardegna, che stata particolarmente
trascurata dai governi precedenti, stata
oggetto di un f intensa attivit in questo campo di opere che riguardano il
soddisfacimento dei bisogni fondamentali delia vita U EDILIZIA IL GOVERNO
FASCISTA, accanto alie nuove opere pubbliche miranti a dare nuovo impulso alia
vita economica del paese, ha promosso una serie di opere per risanare,
ampliare, abbellire, le grandi citt seguendo i dettami delia moderna
urbanistica In moltissime citt italiane sono stati sVentrati vecchi quartieri,
creati nuovi rioni, migliorato il rifornimento idrico e lo smaltimento dei
rifiuti I macelli sono stati moderni^ti, centinaia di mercati pubblici sono
stati rinnovati o costruiti di nuovo I servizi di illuminazione sono stati
migliorati. Lo sviluppo dei servizio telefnico costituisce un'altra
fondamentale conquista Parchi e giardini, viali alberati e ville, sono stati
aperti al popolo che lavora Anche in questo campo per motivi di giustizia
distributiva L'Italia meridionale ha avuto le maggiori providenze. Ma stato specialmente nella capitale che la
sistemazione urbanstica ha assunto uno sviluppo dawero imponente. La
costruzione delle vie deli' Impero e dei Trionfi, la sistemazione delle
adiacenze dei Campidoglio e dei Fori Imperiali, ed il compimento delle numerose
opere per dare nuovo assetto alia viabilit cittadina e per fornire al popolo
stadi e giardini, sono opere veramente degne delia Roma Imperiale. A queste Va
aggiunta la costruzione dei nuovi palazzi dei MINISTERO DEI LAVORI PUBBLICI,
della giustizia, delleducazione nazionale, della marina e delle corporazioni,
delia citt universitria e di numerosi altri edifici pubblici necessari per la
vita delia capitale, centro propulsore di tutte le attivit delia Nazione. Anche
nelle varie provincie 1'edilizia dello Stato ha singolare sviluppo. Ricordiamo
i 69 nuovi edifici costruiti per i corpi armati delia Polizia e delia R.
Guardia di Finanza, i 24 nuovi palazzi delle Poste e Telegrafi, i 15 edifici
carcerari, i7 grandiosi gruppi di costruzioni universitarie e altri ancora. Nel
complesso si tratta di costruzioni per un volume di oltre 7 milioni di mc. Un
particolare posto spetta alia edilizia scolastica. Il nostro paese aveva un
numero di scuole insufficiente. Inoltre parte di queste si trovavano in
condizioni statiche e di manutenzione dei tutto inadeguate alle esigenze pi
elementari delia popolazione scolastica.
quindi naturale che il Re gime, che ha sempre avuto a cuore 1avenire
delia razza e la preparazione spirituale e fisica deglitaliani, abbia cercato
con tutti i mezzi a sua disposizione di dare il pi grande impulso a questo
genere di edilizia. Il ministero dei lavori pubblici, la cui competenza oggi si
estende a tutti gledifici scolastici dItalia, ha costruito oltre ii*ooo aule* I
Comuni si sono pure prodigati in questa opera che soddisfa ad uno dei
primordiali bisogni delia vita civile, sistemando vecchi edifici e prowedendo
al risanamento ed alia ricostruzione di quelli che sono igienicamente
inabitabiln LItalia Meridionale anche in questo campo ha goduto di particolari
benefici. Nel settore delle case popolari il Regime ha stanziato 100 milioni a
favore di quei comuni e di quegli istituti autonomi che prendono Tiniziativa
per la loro costruzione. II Regime ha pure proweduto a creare llstituto
Nazionale per le case degli Impiegati dello Stato, a emanare particolari
providenze per la costruzione di alloggi da destinare ai muti- lati e agli
invalidi di guerra* Col concorso finanziario dello Stato sono stati edificati,
a cura dei comuni, di istituti speciali e di cooperative, oltre seimila edifici
con cinquantamila appar- tamenti, dei quali 28*000 di tipo economico e 22*000
di tipo popolare. II governo dando grande impulso alie nuove costruzioni non ha
dimenticato la ricostruzione dei paesi devastati dalla guerra e dai terremoti
Oggi si pu dire che ogni traccia delle devastazioni compiute durante la
conflagrazione europea sia scomparsa. Il regime ha assolto in tal modo il
debito di riconoscenza e di affetto contratto verso quei compartimenti che
furono teatro dei tremendo conflitto, al quale segui la vittoria che il
Fascismo solo ha saputo valorizzare La Calabria e la Sicilia, che purtroppo
sono annoverate fra i paesi pi colpiti dal terremoto, si sono giovate in modo
par- ticolare delle sollecite cure dei governo, il quale autorizz la spesa di
oltre 500 milioni per la costruzione di case di abita- zione nei paesi
distrutti dal terremoto Nella sola citt di Messina vennero edificati circa 1000
alloggi di tipo popola- rissimo e numerose case economiche popolari con circa
4600 appartamenti Nella citt di Reggio Calabria circa iooo alloggi; nella
provncia oltre 5000* Gradatamente sorsero interi rioni di nuove case economiche
e popolari: furono preparati rationali piani regolatori; si edifi- carono
chiese, si initi Fedilitia pubblica. Dopo il trionfale viaggio che il capo del
governo compi in Sicilia, lopera di ricostrutione e notevolmente intensificata.
Oggi Messina e Reggio si possono considerare tra le pi moderne citt dei nostro
paese. Anche i territori delia Marsica, che si distendono nei dintorni
dAvettano, colpiti duramente dal terremoto, sono oggetto di sforzi tecnici e
finantiari cospicui da parte del governo fascista. Infatti quando il fascismo
raggiunse il potere, la situatione della Marsica era quanto mai desolante. Oggi
Avetzano completamente ricostruita e i
centri colpiti hanno ormai rimarginate le loro dolorose ferrite. La fermetta
dei governo fascista e la rationalit dei suoi sistemi di ricostruzione dei
paesi terremotati si dimostra in occasione dei disastro dei Vulture ed anche in
quello delle Marche. Nelle tristi contingente che colpirono queste belle
provincie d'Italia, il governo forni unassistenza pronta, adeguata, ispirata ad
alto senso di umanit. Esso, per, antich cedere aglinvocationi chiedenti il
rapido apprestamento di baracche, che avrebbe portato a ripetere glerrori
tecnici e finanziari in cui si cadde in tempi passati, provide con rara energia
a dirigere lopera di assistenza ai disastrati, mentre squadre di operai
cominciavano ad innaltare le case in muratura per i sentatetto, Anche in questo
settore delia vita nazionale lopera dei Regime
stata intensissima e tra le piu proficue. Il duce ha dato anche a questo
aspetto della vita italiana un nuovo volto alla patria. Lorenzo Fioramonte.
Fioramonte. Keywords: leconomia di Aristotele, economia fascista, Sciacca,
Evola, diritto economico, stato fascista, economia fascista, corporativismo,
ugo spirito. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Fioramonti: l’implicatura,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fiore:
la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale musicale – scuola di Celico – filosofia celicese – filosofia
cosentina – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Celico). Filosofo celicese. Filosofo cosentino. Filosofo
calabrese. Filosofo italiano. Celico, Cosenza, Calabria. Grice: If you are
thinking that Fiore is the source for the Cistercians, you are wrong actually Fiore WAS a Cisctercian until he wasnt
one! Pretty much like St. Johns! -- da Floris, Italian philosopher, the founder
the order of Ciscercian order of San Giovanni in Fiore (vide, Grice, St. Johns
and the Cistercians). He devoted the rest of his life to meditation and the
recording of his prophetic visions. In his major works Liber concordiae Novi ac
Veteri Testamenti,: Expositio in Apocalypsim and Psalterium decem chordarum. Da
Floris illustrates the deep meaning of history as he perceived it in his
visions. History develops in coexisting patterns of twos and threes. The two
testaments represent history as divided in two phases ending in the First and
Second Advent, respectively. History progresses also through stages
corresponding to the Holy Trinity. The age of the Father is that of the law;
the age of the Son is that of grace, ending approximately in 1260; the age of
the Spirit will produce a spiritualized church. Some monastic orders like the
Franciscans and Dominicans saw themselves as already belonging to this final
era of spirituality and interpreted Joachims prophecies as suggesting the
overthrow of the contemporary ecclesiastical institutions. Some of his views
were condemned by the Lateran Council. F.
E lucemi dallato, il calavrese abate F. di spirito profetico dotato (ALIGHIERI
(si veda), Paradiso. Filosofo. Morte Pietrafitta, Beatificazione Nuncupato
Santuario principale Abbazia Florense Manuale F. stato un abate, teologo e filosofo
italiano. venerato come beato da parte
dei florensi e dei gesuiti bollandisti, anche se non c' mai stata una
beatificazione ufficiale da parte della Chiesa cattolica. Le condizioni
economiche della famiglia di F. erano agiate; il padre Mauro, infatti, tabulario o notaio. In passato si ritenuto che la famiglia avesse origini
ebraiche, forse per spiegare l'atteggiamento benevolo di F. nei confronti
dell'Ebraismo. La sua casa natale viene collocata storicamente dove sorge
attualmente la chiesa dell'Assunta, edificata sicuramente sul perimetro della
casa natale dell'abate F.. Riceve le prime nozioni di educazione scolastica a
Cosenza. Ben presto mandato a lavorare
presso l'ufficio del Giustiziere della Calabria. A causa di contrasti insorti
sul posto di lavoro, anda a lavorare presso i Tribunali di Cosenza. In seguito
il padre riusce a fargli ottenere un posto presso la corte normanna a Palermo,
dove lavora prima a diretto contatto con il capo della zecca, poi con i notai
Santoro e Pellegrino e infine presso il Cancelliere di Palermo, arcivescovo
Perche. Entrato in disaccordo anche collarcivescovo, si allontana
definitivamente dalla corte reale di Palermo per compiere un viaggio in
Terrasanta. Glinizi Forse nel corso di questo viaggio matura un profondo
distacco dal mondo materiale per dedicarsi allo studio delle Sacre Scritture.
Al ritorno in patria F. si ritira dapprima in una grotta nei pressi di un
monastero posto sulle falde del monte Etna, poi torn con un suo compagno a
Guarassano, nei pressi di Cosenza. Qui
riconosciuto e costretto ad incontrare il padre, che lo ha dato per
disperso. Al padre confessa di aver smesso di lavorare per il re normanno per
servire il Re dei Re -- cio il Signore Dio nostro. Vive presso l'abbazia di
Santa Maria della Sambucina, da cui si allontana per andare a predicare
dall'altra parte della valle, vivendo nei pressi del guado Gaudianelli del
torrente Surdo, vicino a Rende. Poich al tempo la predicazione di un laico
non ben accetta, F. compe un viaggio
fino a Catanzaro, dove il vescovo locale lo ordina sacerdote. Durante il
tragitto da Rende a Catanzaro si ferma nel monastero di Santa Maria di Corazzo,
dove incontra il monaco Greco che lo pose davanti alla parabola dei talenti,
rimproverandolo di non mettere a frutto le sue doti. Torna a predicare
nuovamente a Rende, con l'abito di sacerdote. Poco tempo dopo vest l'abito monastico,
entrando nel monastero di Santa Maria di Corazzo. Questa abbazia benedettina,
guidata dal beato Colombano, aspirava a seguire la regola cistercense. Secondo
le fonti pi accreditate, Bonasso venne eletto abate di Santa Maria di Corazzo,
ma rinuncia, scappando dapprima nel monastero della Sambucina, poi nel
monastero del legno della croce di Acri. F. non ambiva a diventare abate, ma a
studiare le Sacre Scritture. Gli uomini pi potenti di quel tempo, riunitisi con
lui a Sambucina, lo convinsero ad accettare la carica di abate di quel monastero,
all'epoca poverissimo. A Corazzo l'abate F. comincia a scrivere la prima delle
sue opere, La Genealogia, impiegando come suoi scribi frate Giovanni e frate
Nicola. In qualit di abate compe un viaggio all'abbazia di Casamari. Durante
questo periodo incontra il papa Lucio III, che gli concesse la licentia
scribendi. Con l'aiuto degli scribi Giovanni, Nicola e Luca, inizia gi a
Casamari la stesura delle sue opere principali: la Concordia tra il vecchio e
il nuovo testamento e l' Esposizione dell'Apocalisse. In quello stesso periodo
F. interpreta innanzi al papa una profezia ignota, trovata tra le carte del
defunto cardinale Angers. Da qui scature l'incoraggiamento del pontefice Lucio
III a scrivere le sue opere. Si reca a Verona, dove incontra il papa Urbano
III. Al ritorno si ritira a Pietralata, una localit sconosciuta, abbandonando
definitivamente la guida dell'abbazia di Corazzo. I suoi monaci non tolleravano
il suo girovagare e lo stare sempre distante dall'abbazia e pertanto fanno una
petizione per risolvere la questione presso la curia. A seguito di ci, ottenne
l'affiliazione dell'abbazia di Corazzo all'abbazia di Fossanova e il papa
Clemente III lo prosciolse dai doveri abbaziali, autorizzandolo a continuare a
scrivere. Pietralata e protomonastero di Fiore Vetere Magnifying glass icon
mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Abbazia Florense. A Pietralata,
presumibilmente una contrada nei pressi di Marzi-Rogliano, da lui ribattezzata
Petra Olei, cominciarono a pervenire molti seguaci. Il primo Raniero da Ponza, che in seguito legato apostolico in Francia e Spagna sotto
papa Innocenzo III. Pietralata divenne presto un luogo incapace di ospitare la
moltitudine di gente che accorre a sentire F. Pertanto F. sale in Sila alla
ricerca di un territorio che si puo abitare. Dopo varie perlustrazioni, si
ferma nel luogo oggi denominato Jure Vetere Sottano, nel comune di San Giovanni
in Fiore. A sei mesi di distanza dalla perlustrazione, abbandona Pietralata e
si trasfer con i suoi discepoli in Sila sul luogo prescelto. Pietralata un luogo avvolto nel mistero e ancora oggi
non identificato con sufficienti certezze. Dopo VI mesi dal trasferimento, il
re Guglielmo il Buono muore e gli subentra sul trono normanno Tancredi, gi
conte di Lecce. Sono proprio i funzionari di Tancredi a contestare a F.
l'insediamento in Sila, per cui l'abate dove recarsi a Palermo per discutere
con il re. Dopo un complesso confronto tra i due, durante il quale Tancredi
propose a F. di trasferirsi presso l'abbazia della Matina allora in stato di
grave declino (proposta rifiutata in maniera decisa da F.), gli concesso di restare in Sila, nel luogo
prescelto, facendogli dono di un vasto tenimento posto nelle adiacenze,
aggiungendo CCC pecore e XXX some di grano per il sostentamento della comunit
religiosa. Da qui in avanti comincia a costruire il protomonastero di Fiore
Vetere. Dopo la morte di Tancredi, subentra nel regno Enrico VI, figlio di
Federico Barbarossa, il quale concede a F. un vasto tenimento in Sila e
privilegi sovrani su tutta la Calabria. La Congregazione florense Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Ordine florense e
Florensi. In questo periodo, dopo il diploma concesso da Enrico VI, F. fonda i
monasteri di Bonoligno e Tassitano e acquisce altri monasteri gi italo-greci.
Forte del patrimonio terriero ed ecclesiale acquisito, F. si reca a Roma
ricevendo da papa Celestino III l'approvazione della congregazione florense e
dei suoi istituti. I florensi continuarono a colonizzare il territorio assegnato
e, affinch Fiore venisse articolato secondo lo schema della Tav. XII, misero a
coltura i territori di Bonolegno e di Faradomus, facendosi aiutare molto
probabilmente da gruppi di laici che condividevano il progetto del novus ordo.
Pertanto, con le acque del fiume Garga, attraverso il canale cosiddetto
badiale, fecondarono dapprima Bonolegno e poi Faradomus. Da qui insorsero delle
liti con i monaci greci del monastero dei tre fanciulli, ubicato in prossimit
di Caccuri, che contestarono ai florensi l'occupazione di territori che secondo
loro detenevano da tempi immemorabili. I poveri florensi furono bastonati,
malmenati e gli edifici in costruzione distrutti. Tuttavia l'azione di
costruzione dell'insediamento non si ferma, fintanto che l'abate rimane in
vita. F. muore presso Canale di Pietrafitta e fu seppellito nel monastero
florense di San Martino di Canale. Il suoi resti sono traslati nell'abbazia di
San Giovanni in Fiore quando la grande chiesa era ancora in costruzione.
L'abate Matteo Vitari, successore di Gioacchino, continua l'opera ampliando le
fondazioni florensi; nel periodo del suo abbaziato, l'ordine florense vantava
oltre cento filiazioni, tra abbazie, monasteri e chiese, ognuna dotata di ampi
tenimenti-tenute e possedimenti vari, sparsi in Calabria, Puglia, Campania,
Lazio, Toscana e rendite che provenivano anche dalle lontane terre di
Inghilterra, Galles e Irlanda. I grandi benefattori dell'abate Gioacchino e
dell'Ordine florense La Congregazione florense prima e l'Ordine florense poi
ebbero molti benefattori; fra i tanti vale la pena ricordare: Signore di
Oliveti: diede a F. la possibilit di vivere nel ritiro di Pietralata. Tancredi
il Normanno: concesse a Gioacchino il Locum Floris, il Tenimentum Silae, 300
pecore e 112,5 quintali di grano annui. Enrico VI di Svevia: concesse a
Gioacchino il Tenimentum Floris e tanti privilegi imperiali. Gilberto, vescovo
di Cerenzia: concesse il tenimento Montemarco con la relativa abbazia e
filiazioni dipendenti. Celestino III: riconobbe la Congregazione florense e i
suoi istituti religiosi. Costanza d'Altavilla: ratific a Gioacchino tutti i
beni posseduti dal Monasterio Sancti Johanni de Flore. Umfredo Colino e Simone
de Mamistra, Giustiziere Regio della Calabria: concessero a Gioacchino la
tenuta di Caput Album (capo Arvo). Ugolino, cardinale prete di S. Lorenzo in
Lucina, Legato Apostolico in Sicilia: concesse a Gioacchino la tenuta Albetum
in Caput Gratium (Albeto di Capo Crati). Federico II di Svevia: concesse a
Gioacchino le tenute Caput Album e Caput Gratis. Andrea, arcivescovo di
Cosenza: concesse a Gioacchino la chiesa di San Martino di Jove in Canale
(Pietrafitta). Stefano, vescovo di Tropea, Gattegrima e Simone de Mamistra
(Giustiziere Regio della Calabria), signori di Fiumefreddo: concessero a
Giacchino la chiesa di Santa Domenica, con tutte le sue dipendenze, compreso i
tenimenti Flumen Frigidum e Barbaro. Culto Gioacchino da Fiore con l'aureola,
affresco, cattedrale di Santa Severina I seguaci di F., subito dopo la sua
morte, raccolsero la biografia, le opere e le testimonianze dei miracoli
ottenuti per sua intercessione per proporne la canonizzazione. Questo primo
tentativo probabilmente abort a seguito delle disposizioni del Concilio
Lateranense IV, che dichiara eretiche alcune frasi contro Pietro Lombardo
contenute in un libello accreditato ingiustamente a F.. Tuttavia la seconda
Costituzione Conciliare sull'errore dell'abate Gioacchino dichiar anche:
"Con ci, per, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui
lo stesso Gioacchino stato maestro,
poich ivi l'insegnamento regolare e la
disciplina salutare. Tanto pi che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i
suoi scritti perch fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede
apostolica. Ci egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di
proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella
fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volont di Dio, di
tutti i fedeli" (Cost. 2). ALIGHIERI, nella Divina Commedia, inserisce F.
nel paradiso, tra la schiera dei beati sapienti, corrispondenti agli odierni
dottori della Chiesa, accanto a FIDANZA (si veda), Mauro e AQUINO (si veda). Da
ci si desume il chiaro giudizio di Dante, emesso 110 anni circa dopo la morte
dell'abate calabrese. Un secondo tentativo d'avvio della canonizzazione fu
compiuto dall'abate Pietro del monastero florense, che si rec ad Avignone per
portare al Sommo Pontefice tutta la documentazione relativa alle grazie e ai
miracoli ottenuti tramite l'abate F., sia durante la sua vita sia dopo la sua
morte. risaputo che i cistercensi
venerarono come beato l'abate F., elaborandone perfino l'antifona per il 29
maggio. Si ritiene che ci sia avvenuto quando i florensi furono fatti confluire
nella Congregazione cistercense calabro lucana. I gesuiti bollandisti nel loro
calendario liturgico e nel loro messale avevano incluso l'abate Gioacchino come
beato, fissando per lui nell'anno due festivit celebrative. Il vescovo di
Cosenza, Gennaro Sanfelice, denunci all'Inquisizione i monaci cistercensi di
San Giovanni in Fiore poich tenevano continuamente accesa una lampada
sull'altare vicino al sepolcro dell'abate F.. Tale denuncia caus una serie di
problemi relativi al culto e alle reliquie. All'approssimarsi dell'VIII
centenario della morte dell'abate Gioacchino, il 25 giugno 2001 l'Arcidiocesi
di Cosenza-Bisignano inizi nuovamente l'iter per la canonizzazione. Ad oggi
risulta conclusa la fase diocesana. Postulatore della Causa stato nominato Gabrieli. Opere: Dialogi de
prescientia Dei F., esortato da papa Lucio III, mise per iscritto la sua
originale interpretazione delle Sacre Scritture. Le sue opere principali sono:
Concordia Novi ac Veteris Testamenti Expositio in Apocalypsim Psalterium decem
chordarum A queste vanno aggiunte: Adversus Iudaeos- edizione Adversus Iudeos,
Fonti per la storia d'Italia 95, Roma, Istituto storico italiano per il Medio
Evo Roma, Apocalypsis Nova De Articulis Fidei - edizione De articulis fidei,
Fonti per la storia d'Italia 78, Roma, Tipografia del Senato. De prophetia
ignota De Septem Sigillis Dialogi de Praescientia Dei et de praedestinatione
electorum - edizione Dialogi de prescientia Dei et predestinatione electorum,
Fonti per la storia dell'Italia medievale. Antiquitates, Roma, Istituto storico
italiano per il Medio Evo Roma, Enchiridion super Apocalypsim Epistulae
Inteligentia super calathis ad abbatem Gaufridum Testamentum Universis Christi
fidelibus Exhortatorium Iudeorum Genealogia Liber Figurarum (scoperto da Leone
Tondelli) Poemata duo (Visio admirandae historiae, Hymnus de patria coelesti)
Prefatio in Apocalypsim Professio fidei Quaestio de Maria Magdalena Sermones
Soliloquium Tractatus super quattuor Evangelia - edizione Tractatus super
quatuor evangelia, Fonti per la storia d'Italia, Torino, Bottega d'Erasmo.
Tractatus in expositionem et regulae beati Benedicti Ultimis Tribulationibus
Sono inoltre conosciuti: Testi apocrifi: Liber contra Lombardum Super Hieremiam
Praemissiones e Super Esaiam De oneribus prophetarum Expositio super Sibillas e
Merlino Vaticinia de Summis Pontificibus (di dubbia provenienza) Altri
manoscritti vari, chiamati Opuscoli. Le intuizioni di Gioacchino da Fiore
Secondo Gian Luca Potest nella sua recensione a Refrigerio dei Santi,
Gioacchino da Fiore, "segna comunque una svolta nella coscienza
escatologica medievale, in quanto il
primo a rompere il "tab agostiniano" riguardo ad Apocalisse 20 e ad
avanzare, in modo cauto ma netto l'idea che la ligatio Sathane per annos mille
vada riferita al tempo imminente di pace terrena, situato fra la prossima
venuta dell'Anticristo e le persecuzioni finali di Gog e Magog." Sulla
stessa linea si pone Robert E. Lerner che evidenza come il teorema di
Sant'Agostino, della suddivisione della storia in tre periodi: Ante legem, sub
lege, sub gratia, viene rivisto da Gioacchino che introduce nel dramma il
quarto atto: Itaque tempus ante legem, secundum sub lege, tertium sub
evangelio, quartum sub spiritali intellectu", dimostrando cos la sua
straordinaria originalit interpretativa delle Sacre Scritture. Gioacchino da
Fiore tra le tante ebbe tre interessanti e originali intuizioni. Ha cercato e
provato che esistono diverse forme di concordia tra l'Antico e il Nuovo
Testamento, il primo indissolubilmente legato al periodo del Padre, il secondo
indissolubilmente legato al periodo del Figlio. Da questo concetto, noto come
modello "binario della teologia della storia", data la piena
proporzionalit da lui riscontrata, intuisce la possibilit di "proiettare
con fiducia il corso della storia cristiana oltre l'et apostolica sino al
presente, e da qui verso il futuro." (Lerner) Sulla base di questo sistema
di concordanza tra i due Testamenti, attraverso lo studio accurato delle
Scritture, ritiene di poter scrutare nel futuro, assicurando che i due
Testamenti assicuravano le medesime certezze. Dopo di che passa ad interpretare
l'Apocalisse, l'ultimo libro del Nuovo Testamento, e anche qui ritrova a suo
modo di dire la continuit dell'intera storia della chiesa, passata, presente e
futura. Gioacchino ha sempre sostenuto a chiare lettere di essere un interprete
ispirato della Scrittura, piuttosto che un profeta, egli, infatti, rifugg dal
rappresentare il tempo finale con parole diverse da quelle direttamente tratte
dalla Scrittura. Da questo concetto binario, F. elabora un "modello
ternario", connesso strettamente alla santissima Trinit, dimostrandolo con
alcuni concetti fondamentali attraverso l'analisi teologico-iconografica delle
lettere "ALFA" e "OMEGA". Dallo sviluppo di queste due concezioni
basilari F. approd allo sviluppo dei concetti riferiti alle "tre Et della
Storia terrena", sostenendo che se c'era stato il tempo in cui ha operato
prevalentemente il Padre e il tempo in cui ha operato prevalentemente il
Figlio, allora doveva esserci anche un tempo in cui operer prevalentemente lo
Spirito Santo, che procede da Padre e dal Figlio. La scansione del tempo che
l'abate di Fiore elabora si basa sulle tre epoche fondamentali: Et del Padre:
corrispondente alle narrazioni dell'Antico Testamento, estesa nel tempo che va
da Adamo ad Ozia, re di Giuda; Et del Figlio: rappresentata dal Vangelo e
compresa dall'avvento di Ges; Et dello Spirito Santo: estesa nel tempo che va
dal 1260 fino alla fine del "millennio sabbatico", ovvero quel
periodo in cui l'umanit attraverso una vita vissuta in un clima di purezza e
libert avrebbe goduto di una maggiore grazia. In questa et, una nuova Chiesa
tutta spirituale, tollerante, libera, ecumenica, prende il posto della vecchia
Chiesa dogmatica, gerarchica, troppo materiale. L'et dello Spirito ricomprende
le et precedenti in un regno dove i conflitti sono pacificati, le guerre
eliminate e l'uomo rigenerato dallo svelamento dei misteri e s-secondo alcune
interpretazioni- il ricongiungimento di cristiani ed ebrei, fino ad ora divisi
dalla parziale illuminazione di Antico e Nuovo Testamento. Con tale teorema F.
estende il tempo della storia, proponendo la dilazione del tempo della
salvezza. F. elabora pertanto, prima il modello dell'albero dei due avventi,
poi i tre alberi, quello sviluppato nell'et del Padre, quello sviluppato
nell'et del Figlio e quello che si svilupper nell'et dello Spirito Santo. F.
crede di vivere nella fase finale di una sesta et, cui ne seguir una settima e
ultima, tutta intrastorica, fatta dell'incremento dei doni dello Spirito fino
al compimento del sabato eterno, stagione della pienezza della grazia donata.
Nell'et dello Spirito l'etica non ha pi il carattere punitivo e rigido dell'et
del Padre: il disvelamento una
progressiva apertura verso un Dio benevolente, essenzialmente Amore, in cui si
muove da una Padre dell'Antico Testamento, che
giudice/Dio guerriero/padrone dell'uomo e della natura
severo-vendicativo e misterioso/trascendente, al Figlio che dona la vita per la
salvezza dell'uomo mostrandosi come Amore e Verit, allo Spirito che completa
questa dimensione rivelata. L'inesorabilit della storia, secondo
Gioacchino, data da un ossessionante
computo delle generazioni, che a volte valgono un'estensione di tempo a volte
no. Con questo meccanismo complesso elabora una sorta di "linea del
tempo", che va dalla "Genesi" al "Giudizio
Universale". I due capi segnano i confini estremi della storia della
salvezza che si sviluppa all'interno di questa linea del tempo. Gioacchino si
chiede quanto lunga questa linea del
tempo e a quale punto di questa linea egli si trova, quindi da qui sviluppa una
serie di calcoli e combinazioni teologiche del tutto originali. Lerner sostiene
che "Nella sua visione, ci poteva essere conseguito soltanto con lo studio
il pi approfondito della Scrittura ed egli si sentiva fiducioso che, mediante
nuove strategie di lettura, sarebbe stato in grado di portare alla luce
messaggi predittivi della Scrittura, che sino ad allora erano rimasti
segreti." Tutta la sua attivit ha finito per qualificarlo come un
ambizioso pensatore cristiano, ricercatore irrefrenabile di parallelismi,
allusioni e predizioni. Il filosofo Giraldi sottolinea invece l'aspetto in cui
F. parla di et dello spirito riferendosi esplicitamente ad un ordo spiritualis
monachorum, una sorta di chiesa privilegiata di monaci - spiriti superiori - in
seno alla Chiesa di Cristo, e quindi non una chiesa alternativa. Nel suo
Monasterium delinea una struttura sociale, ovviamente a carattere teologico, ma
dove gli umani trovano la loro collocazione non in base al potere o al denaro o
alla discendenza, ma in base alle loro tendenze, al loro carattere e al loro
stato (persone contemplative, persone attive, persone dedite alla famiglia,
anziani e deboli di salute, studiosi etc) e sotto la pacifica guida di un abate.
Il Monasterium ipotizza una riforma radicale e una ristrutturazione che mette
in crisi l'organizzazione della chiesa che condanna pubblicamente le sue idee e
le sue opere nel concilio Lateranense: per l'affermazione di un disvelamento
progressivo di Dio in tre epoche che mette in crisi l'idea dell'Unit delle Tre
Persone divine, per la teoria di fondo secondo cui la verit non si esaurisce
col cristianesimo, ma occorre un altro evento che ripari la storia, permettendo
agli uomini di godere di un'et di perfezione. Monasterium All'interno dei suoi
ossessionanti calcoli cronosofici e millenaristi F. elabora anche uno schema di
vita religiosa per il tempo futuro, quello dello Spirito, riassunto nella
tavola del Liber Figurarum. Esso descrive una congregazione religiosa,
raggruppata in un insediamento denominato Monasterium, formata da persone con
diversa spiritualit, raggruppate sapientemente in sette oratori[1]: Oratorio
della Santa Madre di Dio e della Santa Gerusalemme: in tale oratorio si trova
l'abate Oratorio di San Giovanni Evangelista: dedicato alla vita contemplativa
Oratorio di San Pietro: dedicato agli anziani o ai deboli di salute, lavori
manuali leggeri Oratorio di San Paolo: dedicato allo studio Oratorio di San
Stefano: dedicato a chi ha inclinazione per la vita attiva Oratorio di San
Giovanni Battista: per sacerdoti e clerici Oratorio del santo patriarca Abramo:
per laici coniugati e le loro famiglie Al Monasterium potevano quindi
partecipare laici coniugati e non, clero secolare e conventuale, monaci
spirituali. Tutti vivono sotto la guida di un unico abate che presiede
l'istituto religioso, disponendo e regolando, per i gruppi e per ognuno, una
sorta di scala d'accesso al Paradiso, da conquistare vivendo nella comunit.
L'insediamento religioso strutturato a
modello di nuova Gerusalemme terrena con schema somigliante alla Gerusalemme
dei cieli. Il Monasterium gioachimita delinea diversi aspetti comportamentali e
sociali che rispettati saranno utili a varcare la porta d'accesso alla vita
eterna. Il passaggio da un oratorio ad un altro si conquista glorificando il
Padre eterno, ognuno per le proprie possibilit e a seconda del grado spirituale
concesso ad ogni singolo individuo da Dio. Il progresso spirituale non precluso a nessuno, per cui tutti possono
aspirare ad accedere al Paradiso. Il modello proposto dal Monasterium
rappresent una rivoluzione per due aspetti: esso affranca ampi strati della
societ sia dalla feudalit ecclesiastica sia da quella "baronale";
esso coinvolgeva tutti i modelli religiosi integrando nel Monasterium perfino i
laici, che al tempo erano ai margini della vita religiosa e della societ
civile. Questo modello monastico fu quindi osteggiato anche all'interno della
chiesa del XIII secolo. Diffusione del pensiero gioachimita Concilio
Lateranense e prime reazioni La complessa e innovativa teologia della storia
gener tensioni, specialmente nella scuola teologica di Parigi, storicamente a
lui avversa. Il Concilio Lateranense IV dichiara ERETICHE alcune frasi contro
Lombardo di un'opera sulla Trinit falsamente attribuita a F. Da questo equivoco
se ne generarono altri, fintantoch lo stesso Papa Innocenzo III con bolla
informa il vescovo di Lucca di non infamare l'abate F., giacch l'Abate considerato dalla Curia Romana un vero
Cattolico (eum virum catholicum reputamus). Con parole dello stesso tenore si
espresse Papa Onorio III con la Bolla con cui d mandato all'arcivescovo di
Cosenza (Luca Campano) di difendere i Monaci Florensi dalle false accuse
rivolte al loro fondatore. Neo Gioachimiti e il Gioachimismo Lo stesso
argomento in dettaglio: Gioachimismo. Nei secoli, il pensiero di F. stato studiato, divulgato e diffuso. Si
possono distinguere due gruppi di studiosi: i gioachiniani e gioachimiti, che
hanno rispettato fedelmente le opere originarie; gli pseudo gioachimiti o
gioachimisti, che hanno recepito solo in parte le tesi proposte, spesso
aggiungendo teoremi teologici estranei al pensiero originario. Tra i pi grandi
sostenitori dell'abate calabrese furono certamente i monaci florensi che ne
seguirono la dottrina e l'esempio, ma egli suscit interesse anche presso alcuni
monaci cistercensi tra i quali: Luca Campano: il primo dei seguaci eloquenti,
egli fu scriba dell'abate nell'abbazia di Casamari, poi abate della Sambucina e
infine Arcivescovo di Cosenza; a lui si ascrive una vita di Gioacchino Raniero
Da Ponza: monaco vissuto a stretto contatto con F., come socio, a Pietralata e
a Fiore; egli fu poi nominato da Papa Innocenzo III legato Apostolico in
Francia meridionale e Spagna e in quelle terre diffuse la teologia di F.,
spargendo in quelle terre diversi semi che germineranno nel corso del secolo
XIII. l'abate Matteo da Fiore de la Tuscia, che fu il suo primo successore e
guid la Congregazione Florense, finch non fu eletto arcivescovo di Cerenzia.
Egli ebbe il merito di far copiare, ricopiare, ovvero duplicare tante volte
tutte le opere di Gioacchino per diffonderle nei principali centri religiosi
della penisola italiana e in tutta Europa. Se le opere di F. sono giunte fino
ai nostri giorni gran merito va all'abate Matteo da Fiore e agli scriba e
amanuensi florensi che si adoperarono in questo immane lavoro di copiatura e
duplicazione. La teologia di F. grazie a questi tre uomini si diffuse
rapidamente, specialmente presso i Francescani spirituali francesi e italiani
in vario modo. Tra questi: Il provenzale Ugo de Digne, Giovanni da Parma,
discepolo di Ugo e Gerardo di Borgo San Donnino, discepolo a sua volta di
Giovanni da Parma, che si fece promotore del concetto relativo al Vangelo Eterno;
scomunicato per eresia, fu condannato al carcere a vita Tra gli altri, si
avvicinarono al pensiero di Gioacchino: Salimbene de Adam da Parma, l'inglese
Ruggero Bacone, la suora dell'ordine delle Umiliate Guglielma la Boema, la
consorella Maifreda da Pirovano e il teologo laico di questo gruppo milanese
Saramita, il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi, che influenza
Giovanni di Rupescissa e Giovanni di Bassigny. il provenzale Raymond Geoffroi,
Ministro generale francescano. Ubertino da Casale, immortalato nelle pagine di
Dante, era insieme a Pietro di Giovanni Olivi in Santa Croce a Firenze, il
pesarese Clareno, riconosciuto fondatore dei Fraticelli della vita povera, e i
seguaci di quest'ultimo, amico di Ubertino da casale. Michele da Cesena e
Jacopone da Todi, l'eclettico spagnolo Arnaldo de Villanova, Francesco
d'Appignano (Francesco della Marchia), Guglielmo di Ockham, Giovanni di
Janduno, Marsilio da Padova, Bernard Dlicieux, Gentile da Foligno, priore
generale degli agostiniani. Berti da Calci. Papa Celestino V, Cola di Rienzo,
il sassone Federico di Brunswick, lo spagnolo Francesc Eiximenis, Nicola di
Buldesdorf, SAVONAROLA (si veda). Certo quest'elenco solo una piccola parte di un numero molto pi
folto di uomini colti che sono stati influenzati dalla sua teologia. Nonostante
molti francescani spirituali abbiano subito condanne e reclusioni come filo
gioachimiti o ritenuti tali, l'influenza di Gioacchino nell'ordine dei
fraticelli d'Assisi rimase viva, sia nella prima fase sia nei periodi
successivi. La prova pi eclatante la
presenza di Gioacchino nell'arte medievale: Nell'apparato scultoreo e
figurativo del Duomo di Assisi, Nella Divina Commedia Gioacchino e le sue idee
vengono citate direttamente o indirettamente diverse volte Paradiso, la
struttura urbanistica che i francescani dettero alle prime fondazioni
americane, quali Puebla de Los Angeles, Veracruz, Los Angeles, ecc. la
struttura compositiva elaborata da Michelangelo Buonarroti nella Cappella
Sistina, secondo lo studio di Pfeiffer S.J. Anche nella Chiesa cattolica
contemporanea, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, diversi osservatori
individuano il fiorire della ecclesia spiritualis di concezione gioachimita.
Secondo l'analisi accurata di Henri-Marie de Lubac, teologo gesuita e poi
cardinale, fra questi protagonisti della storia recente influenzati dal
gioachimismo abbiamo: papa Giovanni XXIII con la sua invocazione a > del
cardinale Giacomo Lercaro e del suo teologo Dossetti, la corrente intellettuale
dominante nel cattolicesimo italiano della seconda met del secolo XX; Silone su
papa Celestino V, figlio degli Abruzzi e di un cattolicesimo popolare
impregnato di gioachimismo; la "teologia della speranza" del gesuita
Michel de Certeau e del protestante Jrgen Moltmann, ispirate dalle concezioni
escatologiche di Bloch. Obama fa di F. un punto di riferimento. Nella stesura
della sua tesi di laurea, lo cita a pi riprese durante la sua campagna
elettorale per le presidenziali, che definisce come "maestro della civilta'
contemporanea" e "ispiratore di un mondo pi giusto", usato non
come citazione generica ma con specifico riferimento al moto "change we
can", per indicare la necessit di un cambiamento radicale della storia,
citando il portabandiera di una societ pi giusta, e pensando all'apertura di
un'epoca straordinaria, in cui lo spirito riusce a cambiare il cuore degli
uomini. Centro Studi F. Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Centro Internazionale di Studi Gioachimiti. Il Centro Internazionale
Studi Gioachimiti cura l'edizione critica delle opere scritte da F., conservate
in diversi codici manoscritti sparsi in diversi luoghi del mondo. Esso opera
attraverso un Comitato Scientifico Internazionale e un Comitato Editoriale
Internazionale e promuove ogni cinque anni un Congresso Internazionale di Studi
a tema, relativo a F. e al F. Gioachimismo. A cadenza annuale stampa la rivista
Florensia che contiene studi connessi a Gioacchino e al Gioachimismo. Causa di
Beatificazione e celebrazioni dell'VIII centenario della morte. Larcivescovo di
Cosenza-Bisignano Giuseppe Agostino ha riaperto il processo di canonizzazione.
Nello stesso anno il Ministero per i Beni e le Attivit Culturali ha istituito
il Comitato per le celebrazioni dell'VIII centenario della morte dell'Abate F.
per promuovere la conoscenza di F. e del suo pensiero. Il programma fu redatto
da Cosimo Damiano Fonseca, Professore di Storia Medioevale all'Universit degli
Studi di Bari, Accademico dei Lincei e direttore del Comitato scientifico del
Centro Studi F. Il comitato che ha agito, ha promosso tre congressi: il primo
itinerante da Roma a San Giovanni in Fiore, passando per Casamari, Fossanova,
Anagni, Cosenza, Luzzi e Pietrafitta, il secondo a Bari, il terzo a Palermo. Il
Comitato per le Celebrazioni ha anche promosso l'edizione della raccolta dei
Codici Gioachimiti F., l'Atlante delle Fondazioni Florensi, un libro sulle
vicende dell'Ordine Florense, un altro relativo ai Vaticini, conservati presso
la biblioteca del duomo di Monreale. F. e il Carattere Meridiano del Movimento
Francescano in Calabria Editor il testo Luca Parisoli Valente "Chiese
conventi confraternite e congreghe di Celico e Minnito" Frama Sud ^
Pasquale Lopetrone, La Domus che dicitur mater omnia, soveria Mannelli,
Rubbettino. Il tempo dell'apocalisse, Lopetrone, San Martino di Giove a Canale
di Pietrafitta-restauri, San Giovanni in Fiore, Pubblisfera, Gioacchino da
Fiore - Manuale di storia della filosofia medievale ^ S. Magister, Riletture.
Su F. non tramonta mai il sole, chiesa.espressonline.it, Filmato audio Giraldi,
Giraldi: dialogo con De Lubac su Gioacchino Da Fiore, su YouTube, H. De Lubac,
Posterit spirituale di Gioacchino da Fiore, II. Da Saint-Simon ai nostri
giorni", Jaca Book, Milano, L'eretico obamita-Il profeta democratico si
ispira a F,, mistico medioevale Con la sua idea (fraintesa) del paradiso in
terra aveva irretito la modernit, su il Foglio, di Mattia Ferraresi USA: DON
BAGET BOZZO, INTERESSANTE CHE OBAMA CITI F.-una finezza culturale che vorrei
capire meglio, di don Gianni Baget Bozzo, a Adnkronos, Roma. Bibliografia:
Gioacchino da Fiore, Sull'Apocalisse, (a cura di Andrea Tagliapietra),
Feltrinelli, Milano, F., Introduzione all'Apocalisse, (prefazione di
Kurt-Victor Selge, traduzione di Gian Luca Potest), Viella, Roma, 1996. F.,
Commento ad una profezia ignota, (a cura di Matthias Kaup, traduzione di Gian
Luca Potest), Viella, Roma. F., Trattato sui quattro vangeli, (a cur. Potest,
traduzione di Letizia Pellegrini), Viella, Roma, 1999. F., Dialoghi sulla
prescienza divina e predestinazione degli eletti, (a cura di Gian Luca Potest),
Viella, Roma. F., Il Salterio a dieci corde, (a cura di Troncarelli), Viella,
Roma, F., Sermoni, (a cura di Valeria de Fraja), Viella, Roma. F., I sette
sigilli/De septem sigillis, (a cura di J.E. Wannenmacher, traduzione di Alfredo
Gatto), con un saggio di Tagliapietra, Mimesis, Milano, Studi Antonio Maria
Adorisio, La leggenda del santo di Fiore / Beati F. abbatis miracula,
Vechiarelli, Manziana, Buonaiuti, Gioacchino da Fiore: i tempi, la vita, il
messaggio, Collezione meridionale, Roma, Carmelo Ciccia, ALIGHIERI (si veda) e
F., in La sonda, Roma; poi incluso nel libro dello stesso autore Impressioni e
commenti, Virgilio, Milano, Carmelo Ciccia, Dante e F., con postfazione di
Ronconi, Pellegrini, Cosenza. Carmelo Ciccia, La santit di F. (Par. XII), in
Allegorie e simboli nel Purgatorio e altri studi su Dante, Pellegrini, Cosenza,
Carmelo Ciccia, Saggi su Dante e altri scrittori: F...., Pellegrini, Cosenza,
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sangiovannese, in (a cura di) C. D. Fonseca, I Luoghi di Gioacchino da Fiore-
Atti del primo Convegno internazionale di studio- Casamari, Fossanova,
Carlopoli-Corazzo, Luzzi-Sambucina, Celico, Pietrafitta- Canale, San Giovanni
in Fiore, Cosenza, Viella, Roma, Pasquale Lopetrone, Il Cristo fotoforo
florense Pubblisfera, F., Pasquale Lopetrone L'effigie dell'abate Gioacchino da
Fiore, in VIVARIUM - Rivista di Scienze Teologiche, Pubblisfera, San Giovanni
in Fiore (Cs) Pasquale Lopetrone, San Martino di Giove a Canale di
Pietrafitta-restauri, Pubblisfera, San Giovanni in Fiore (CS) Pasquale
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bruttius. Civilt dellinterno, Ferrari editore, Rossano, Stella Marega, Un
simbolo nella storia. Il contributo alla riscoperta di F. in Sacrum Imperium,
in Heliopolis. Culture, civilt, politica, Marega, F., in Heliopolis. Culture,
civilt, politica, H. W. Pfeiffer, La Sistina Svelata, Libreria Editrice
Vaticana, Roma, Piccoli, L'Abbazia di Corazzo e Gioacchino da Fiore, Calabria
Edizioni, Lamezia Terme, Piromalli, Gioacchino da Fiore e Dante, Rubbettino,
Soveria Mannelli, Gian Luca Potest, Il Tempo dell'apocalisse - Vita di
Gioacchino da Fiore, Laterza, Bari, Prisco, Nuove scoperte sulle figure, sulle
parole e sulle pietre di Gioacchino da Fiore, Pubblisfera Prosperi, Gioacchino
da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Dimensione Grafica Editrice,
Marjorie Reeves e Warwick Gould, Gioacchino da Fiore e il mito dell'evangelo
eterno nella cultura europea, Viella, Riedl (ed.), A Companion to Joachim of
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teologico della storia in F.; presentazione di Gianfranco Ravasi, postfazione
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Tondelli Antonio Piromalli Gioachimismo Giovanni apostolo ed evangelista
Riforma spirituale medioevale. Treccani.it
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d'Italia Le condizioni politiche . Normanni . Bizantini. " Musulmani.
Svevi ;. I Pontefici. Le condizioni religiose Tradizioni bizantine. MonachiSmo
benedettino . Riforma cisterciense. Gli Ebrei in Calabria. H 4 PLA VITA La
leggenda e la storia. Le fonti canoniche. Luca. Giacomo Greco. La leggenda
ufficiale. Accenni autobiografici. La vocazione monastica. Il monachiSmo del
tempo. La conversione profetica. I cronisti britannici. Le opere. Da Casamari a
F. IL MESSAGGIO La profezia gioachimita. Metodo.La conoscenza biblica.
Linterpretatazione allegorica. Concordie e analogie. Lescatologia di F.
gioachimita e la teologia economica. La Trinit nella storia. Il passato, il
presente, lavvenire. Lavvento del terzo stato. La Chiesa carnale, la societ
spirituale. La scomparsa della Chiesa visibile. La suprema manife stazione
dello Spirito. Chiesa di oggi e Chiesa di, domani. IPOTESI GIOACHIMITE SUGLI
AFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Archivio Storico per
le Province Napoletane, SOCIET NAPOLETANA DI STORIA PATRIA NAPOLI IPOTESI
GIOACHIMITE SUGLAFFRESCHI DI GIOTTO NELLA BASILICA DI S. CHIARA IN NAPOLI Mais
si l'on voit partout des mtaphores que deviendront les faits? Gustave Flaubert,
Bouvard et Pcuchet Una delle pi suggestive ipotesi in ordine alle motivazioni
della costruzione della grandiosa chiesa esterna del monastero di S. Chiara a
Napoli ed al possibile modello della pianta
stata avanzata, nel 1995, da Caroline Bruzelius Secondo questa tesi
Sancia d'Aragona Maiorca, moglie di re Roberto d'Angi, avrebbe fondato la
basilica ed il convento doppio di S. Chiara per ospitarvi i Francescani
spirituali, vale a dire i frati appartenenti ad una frangia rigorista e pauperista
dell'Ordine minoritico, avversata dal Papato e dalla dirigenza dell'Ordine
stesso. I Francescani spirituali si richiamavano, in particolare, anche alle
idee del mistico calabrese F., per sostenere la necessit di una radicale
riforma della Chiesa La basilica di Santa Chiara, dunque, sarebbe stata
consacrata intenzionalmente all'ideale della povert apostolica 3, cos che le
idee degli Spirituali avrebbero costituito, in sostanza, l'unica
giustificazione del progetto e la sola Bruzelius, Queen Sancia ofMallorca and
the convent church ofS.ta Chiara in Naples, in Memoirs of the American Academy
in Rome, 40, 1995, pp. 82ss.; E ad., Le pietre di Napoli. L'architettura
religiosa nell'Italia angioina, 1266-1343, Roma, Viella, 2005, pp. 150-175,
edizione integrata rispetto alla precedente inglese dal titolo The stones of
Naples, Church Building in Angevin Italy, London, Yale, ove le ipotesi avanzate
nel 1995 vengono riprese, ribadite ed articolatamente argomentate. Si
denominavano spirituali appunto perch viri spirituales, e cio eletti destinati
a vivere il terzo stato della storia, quello dello Spirito, cos come teorizzato
da F.. Bruzelius, Le pietre, eh.GAGLIONE chiave di lettura dell'edificio.
Esisterebbe, in particolare, un preciso rapporto tra la semplicissima pianta
rettangolare della basilica napoletana ed una delle figurae del Liber
figurarum, una raccolta di schemi miniati utilizzati sia per l'esplicazione
delle teorie storico- teologiche di Gioacchino che per l'esercizio di pratiche
contemplative e mistiche. La pianta rettangolare della chiesa napoletana
costituirebbe cos, secondo tale tesi, una vera e propria citazione della figura
XVIII del codice del Seminario urbano di Reggio Emi- lia del Liber 4 . L'area
presbiteriale della basilica con il coro dei frati sarebbe stata, anzitutto,
ricalcata sullo spazio simbolico corrispon- dente nella figura al Tertius
status, quello dello Spirito Santo, nel- l'ambito della settima ed ultima Et
della storia del mondo. In questa stessa Et si sarebbe giunti a quella rigenerazione
della Chiesa 5 che era tanto attesa e propagandata dai Francescani spirituali.
L'oratorio delle Clarisse, invece, avrebbe occupato lo spazio riservato, sempre
nel diagramma gioachimita, Poetava aetas, quel- la ormai metastorica iniziata
con la Resurrezione dei morti e carat- terizzata dalla rivelazione della
Gerusalemme celeste e dalla finale visione della Pace. Tale tesi, pur avendo
conseguito un ampio consenso 6, ha susci- tato altres rilievi e critiche
soprattutto con riguardo agli effettivi contenuti del filospiritualismo dei due
sovrani ed alla verosimi- glianza storica della pretesa celebrazione
monumentale, nella basi- Cfr. L. Tondelli, M. Reeves, B. Hirsch-Reich, Il Libro
delle Figure del- l'abate Gioachino da Fiore, Torino, SEI, 1953, voi. II, tav.
XVIIIa. Bruzelius, Le pietre, Cfr. infatti M. Righetti Tosti Croce,
Architettura tra Roma, Napoli e Avignone nel Trecento, in Roma, Napoli,
Avignone. Arte di Curia, Arte di Corte, a cur. Tornei, Torino, SEAT; Musto,
Franciscan Joachimism, at the court of Naples: a new appraisal, in Archi- vimi
Franciscanum Historicum; Freigang, Kathedralen ah Mendikantenkirchen. Zur
politischen Ikonographie der Sakralarchitektur unter Karl L, Karl IL und Robert
dem Weisen, in Medien der Macht: Kunst zur Zeit der Anjous in Italien, Berlin,
Reimer, 2001, pp. 51-52; V.M. Mattano, La Basilica angioina di S. Chiara a
Napoli. Apocalittica ed escatologia, Napoli, La Citt del Sole; C. Bozzoni,
Recensione a C. Bruzelius, Le pietre di Napoli..., in Palladio. Analogamente a
quanto si sarebbe verificato per S. Chiara a Napoli, la simbologia gioachimita
della Figura delle Et del mondo avrebbe anche ispirato, direttamente o
indirettamente, le piante di alcune chiese francescane della Calabria a partire
da S. Francesco a Gerace, e cfr. M. Albano, L'Abbazia florense di S. Maria di
Fontelaureato a Fiumefreddo Bruzio, in Arte Medievale; Span, Insediamenti
Francescani nella Calabria angioina. Il paradigma Gerace, Soveria Mannelli,
Citt Calabria edizioni, 2006, pp. 80ss. IPOTESI GIOACHIMITE SUGLI AFFRESCHI DI
GIOTTO lica napoletana, della teoria della storia elaborata da F. e sostenuta
dagli Spirituali 7 . Comunque, altre conferme della tesi della derivazione
gioachi- mita della pianta della chiesa francescana sono state individuate, pi di
recente, nell'ambito di una importante e preziosa monografia dedicata all'
attivit di Giotto a Napoli 8 . Nel saggio appena menzio- nato, seguendo la
lettura proposta dalla Bruzelius, si sostiene che, conformemente allo schema
della Figura XVIII del Liber, che viene definita tavola di concordanza
(Concordia) fra i secoli e i tempi, con i tre stati e le otto et 9, Giotto e la
sua bottega, riferendosi al Nuovo Testamento, abbiano dipinto alcuni episodi
della Vita di Cristo nelle cappelle della navata sinistra della basilica. In
quelle poste nella navata destra, invece, il Maestro avrebbe realizzato scene
dell'Antico Testamento, ed, in particolare, Storie di Adamo, No, Abramo e
Davide e, forse, anche della Creazione, di Giuseppe, di Mos, di Sansone e di Salomone.
Nelle cappelle di entrambe le navate queste scene sarebbero state articolate in
quattro o, addirit- tura, in sei riquadri per ciascuna cappella 10 . E evidente
che l'interpretazione della Figura del Liber nei ter- mini appena esposti viene
ad essere principalmente addotta quale conferma esterna della notizia, riferita
da Vasari, secondo la quale Giotto, appena giunto a Napoli da Firenze dipinse
in alcune capelle del detto monasterio di S. Chiara molte Storie del- l'Antico
Testamento e Nuovo 11 . Questa stessa notizia
stata in- Per tali critiche si rinvia a M. Gaglione, Qualche ipotesi e
molti dubbi su due fondazioni angioine a Napoli: S. Chiara e S. Croce di
Palazzo, in Campania sacra; Id., Allusioni gioachimite nella basilica angioina
di Santa Chiara a Napoli?, in Studi storici; Id., La basilica ed il monastero
doppio di S. Chiara a Napoli in studi recenti, in Archivio per la Storia delle
Donne, 4, 2007, pp. 127-198. 8 P. Leone de Castris, Giotto a Napoli, Napoli,
Electa, 2006, pp. 125ss., il quale riprende anche osservazioni di Mattano, La
Basilica angioina di S. Chiara a Napoli, cit., pp. 49ss.; pp. 83ss.; pp. HOss.
9 Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., p. 116, fig. 64. Castris, Giotto a
Napoli, L'Edizione Giuntina delle Vite (1568) precisa: Dopo, essendo Giotto
ritornato in Firenze, Ruberto re di Napoli scrisse a Carlo duca di Calavria suo
primogenito, il quale se trovava in Firenze, che per ogni modo gli mandasse
Giotto a Napoli, perci che, avendo finito di fabricare S. Chiara, monasterio di
donne e chiesa reale, voleva che da lui fusse di nobile pittura adornata.
Giotto adunque, sentendosi da un re tanto lodato e famoso chiamar e, and pi che
volentieri a servirlo, e giunto dipinse in alcune capelle del detto monasterio
molte storie del Vecchio Testamento e Nuovo. E le storie de l'Apocalisse ch'e'
fece in una di dette GAGLIONE vece oggetto di ampio dibattito, non essendo
mancato infatti chi, sulla base di varie considerazioni, ha circoscritto
l'intervento di Giotto piuttosto al solo coro delle Clarisse, escludendo che il
Maestro abbia potuto operare anche nelle cappelle della chiesa esterna di S.
Chiara 12 . Infine, sempre nell'ambito della citata monografia, si sostenuto che la derivazione della pianta
della basilica dalla menzio- nata Figura risulterebbe pi che probabile, poich
lo stesso Liber Figurarum sarebbe stato ben conosciuto alla corte angioina.
Infatti, alcuni testimoni dell'opera e, in particolare, i manoscritti Vaticano
Latino 3822 e 4860, risulterebbero di fattura meridionale proprio come il
codice di Oxford, forse miniato nello scriptorum di S. Giovanni in Fiore. In
particolare, le miniature del ms. Vat. Lat. 4860 rinvierebbero alla speciosa
cultura umbro-cavalliniana maturata a Napoli da Lello da Orvieto, Cristoforo
Orimina e dall'anonimo Maestro delle Tempere Francescane. Ad ogni modo, Sancia
e Roberto avrebbero potuto conoscere l'opera an- che in Provenza e nella
Francia meridionale, ove si trovarono in di- capelle furono, per quanto si
dice, invenzione di Dante, come per avventura furono anco quelle tanto lodate
d'Ascesi delle quali si di sopra
abastanza favellato; e se ben Dante in questo tempo era morto, potevano averne
avuto, come spesso avviene fra gl'amici, ragionamento. L'Edizione Torrentiniana
(1550) invece: Fu chiamato a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in
Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle nelle quali molte
storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono, dove ancora in una cappella
sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli, per quanto si dice, da Dante,
fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti, e
cfr. l'edizione digitale sinottica curata del Centro di Ricerche Informatiche
per i Beni Culturali della Scuola Normale Superiore di Pisa, biblio . cribecu .
sns . it/vas ari/consult azione/V as ari/indice. Cfr. Aceto, Pittori e
documenti della Napoli angioina: aggiunte ed espun- zioni, in Prospettiva. Per
l'esame e la discussione delle diverse posizioni: Leone de Castris, Giotto a
Napoli, che, riguardo agli altri dipinti realizzati da Giotto a S. Chiara,
ritiene che nell'area presbiteriale della chiesa, alle spalle dell'altare
maggiore e del coro dei frati ed in corrispondenza della Croce della
Deposizione affrescata dall'altra parte del muro nel coro delle Clarisse,
dovesse invece essere l'Apocalisse ricordata dallo stesso Vasari. Questo grande
affresco era stato probabilmente eseguito nei due riquadri posti ai lati della
quadrifora centrale che si apre nella parete divisoria tra la chiesa esterna e
l'oratorio delle monache. Proprio sulla stessa parete divisoria, dal lato
dell'oratorio, era affrescato appunto il" Compianto sul Cristo morto e le
altre storie cristologiche, tra le quali, verosimilmente, una Resurrezione ed
un Cristo giudice. Infine, tornando alla chiesa esterna, anche il para- petto
delle tribune era affrescato ma con figure di Angeli e di Profeti, mentre le
pareti superiori, probabilmente, non erano dipinte Leone de Castris, Giotto a
Napoli, cit., p. 146, figg. 115-116.verse occasioni ed ove, appunto, i
diagrammi gioachimiti erano certa- mente diffusi. E fin qui l'importante
contributo sulla presenza e sull'attivit di Giotto a Napoli. Partendo dall'
asserita fattura meridionale dei citati codici Va- ticani Latini, fattura che
costituirebbe un indizio della possibile circolazione degli stessi a Napoli e
presso la corte angioina, occorre rilevare che l'origine e la datazione di
questi manoscritti partico- larmente
controversa. Mentre il ms. Vat. Lat. 4860
stato variamente datato tra il secolo XIII e la prima met del secolo
XIV, e lo si altres ritenuto codice di
ambiente benedettino-olivetano pa- dovano opera di un miniatore bolognese, il
ms. Vat. Lat. 3822 stato invece datato
piuttosto concordemente alla fine del secolo XIII, mentre ne dibattuta l'area di produzione: Parigi o
l'area francese^ l'area genericamente italiana, o pi specificamente sici- liana
14 . E necessario ricordare poi che il ms. Vat. Lat. 4860 non contiene la
Figura delle Sette et, dalla quale si pretende sia stata ricavata la pianta di
S. Chiara e sia derivato il soggetto degli affre- schi che sarebbero stati
eseguiti da Giotto nella chiesa esterna 15. La stessa Figura manca poi anche
nel ms. Vat. Lat. 3822 16 . La suppo- Quanto al ms. Vat. Lat. 4860, contenente
estratti da opere diverse di Gioacchino, la datazione al secolo XIII stata sostenuta da Bignami Odier, Hirsch
Reich, Reeves e Daniel, che lo assegnano ad un estensore francescano. La
datazione alla prima met del secolo XIV, invece, stata sostenuta da Kaup, Troncarelli e De
Fraja. In particolare, Wessley e Troncarelli parlano di codice di ambiente
bene- dettino-olivetano padovano opera di un miniatore bolognese. Quanto
all'origine del ms. Vat. Lat. 3822, contenente anch'esso opere varie di
Gioacchino, Troncarelli propende per Parigi o per l'area francese, mentre
Bignami Odier, Hirsch Reich e Reeves propendono genericamente per l'area
italiana, infine, all'area siciliana pensa Patschovsky, e cfr. M. Rainini,
Disegni dei tempi. Il Liber Figurarum e la teologia figurativa di Gioacchino da
Fiore, Roma, Viella, Questo codice, infatti, ai ff. 198r-204v, comprende un
abbozzo del dia- gramma delle Rotae di Ez. 1, e dei diagrammi degli alberi
delle generazioni discen- denti, del drago apocalittico, del misterium
ecclesiae, dei tre cerchi trinitari, della dispositio novi ordinis, degli
alberi-scala rappresentativi dei tre status e, di nuovo, dei cerchi trinitari,
ed accompagnato da cinque fogli vuoti
che avrebbero potuto accogliere almeno altre dieci tavole di diagrammi,
circostanza questa che conferma che l'opera non era stata portata a termine, e
rende improbabile l'eventuale suppo- sizione di un testo incompleto perch
privato, nel corso del tempo, di alcune delle tavole originarie, e cfr.
Rainini, Disegni dei tempi, II codice, infatti, ai ff . 2v-3r, 4v-5r, 7r-8r,
reca i diagrammi delle genera- zioni ascendenti, del draco magnus et rufus, del
tetragrammaton e diverse versioni dei tre cerchi, e cfr. Rainini, Disegni dei
tempi, cit., pp. 272-273. sizione dell'esecuzione delle miniature in ambiente
meridionale non pu inoltre implicare necessariamente anche una diffusione del
Li- ber alla corte angioina. Quanto infine alla possibile conoscenza del-
l'opera da parte dei sovrani nel periodo in cui si trovarono in Fran- cia, si
tratta di una mera ipotesi, non suffragata, allo stato, da alcun indizio o
prova. C' in realt da chiedersi se effettivamente la pi volte citata Figura
XVIII del codice Reggiano del Liber abbia i contenuti con- cordistici che vi
sono stati da ultimo individuati. Occorre anzitutto premettere che per
concordia, nell'ambito delle opere e delle teorie di Gioacchino, deve
intendersi la corri- spondenza simmetrica tra gli avvenimenti narrati
nell'Antico Testa- mento per il popolo di Israele e quelli raccontati e
prefigurati nel Nuovo Testamento... per il nuovo Israele della Chiesa. La
Figura in esame del Liber Figurarum reca, al centro, il gi citato diagramma
rettangolare e, ai margini, un testo fittamente manoscritto. Tale testo, la cui
traduzione pu leggersi in appendice a questa nota, tratto dal libro V della Concordia Novi ac
Veteris Testamenti, opera di F. tradita dal codice Urbinate Latino 8 della
Biblioteca Apostolica Vaticana. Pi precisamente
riportato il passo posto tra la I e la II distinctio, destinato ad
essere illustrato da una Figura esplicativa che manca nel manoscritto Urbinate
Latino, e che viene in genere identificata proprio nella citata tavola XVIII
del Liber Figurarum. Orbene, il libro V della Concordia, dal quale desunto il com- Rainini, Disegni dei tempi.
La pi nota definizione gioachimita della concordia la seguente. Concordiam proprie dicimus
similitudinem eque proportionis novi ac ueteris testamenti, eque dico quo ad
numerum non quo ad dignitatem; cum uidelicet persona et persona, ordo et ordo,
bellum et bellum ex parilitate quidam mutuis se uultibus intuentur, e, cio,
chiamiamo propriamente concordia la somiglianza di equa proporzione di Nuovo e
Antico Testamento, e dico equa per quanto riguarda il numero, non per quanto
riguardo la dignit: come se per una certa parit fossero rivolti l'uno di fronte
all'altro persona e persona, ordine e ordine, guerra e guerra, e cfr. ancora
Id., ivi, p. 20, p. 33, nota. 18 Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle
Figure, tav. XVIILz, tratta dal codice del Liber conservato presso il Seminario
Vescovile di Reggio Emilia, ms. RI = El. Il codice della Concordia precisa: in
hac figura declaratur magnum mysterium pertinens quam nimis ad catholicam
fidem, e, precedentemente, secundum quod ostenditur in presenti figura....
Quale tavola XVIII Tondelli, Reeves ed Hirsch-Reich, pubblicano una variante
semplificata, forse non finita, della stessa Figura, tratta dal codice del
CORPUS CHRISTI (H. P. GRICE) Oxford (ms. 255 A), al f. 5r. Nello stesso codice
tuttavia, al f. 8v, il diagramma ricompare in forma omogenea a quella della
tavola XVIIIa del Fig. 1 - La figura XVIII del Liber figurarum (da Tondelli,
Reeves, Hirsch-Reich). mento marginale alla nostra Figura, tratta delle storie
principali dell'Antico Testamento. Per esse viene proposta una interpreta-
zione fondata sull'esegesi spirituale, la quale, secondo F., avrebbe consentito
anche di preconizzare gli avvenimenti storici futuri. In altre parole, il libro
V un lungo commentario sui libri storici
del Vecchio Testamento 19, ed il suo contenuto
conside- revolmente diverso 20 da quello degli altri Libri della
Concordia. Infatti, piuttosto nei
precedenti libri, dal I al IV, che F. procede effettivamente ad esaminare o a
rinvenire i punti di con- cordanza tra le vicende ed i personaggi narrati
nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Nell'ambito del Liber Figurarum, nello
stesso codice di Reggio Emilia, poi, le figure concordatarie sono altres
contenute piuttosto nelle tavole IX e X, e, soprattutto, nelle tavole III e IV,
da esaminare sinotticamente, ed appunto denominate Con- cordia Veteris
Testamenti et Novi. In particolare, in queste due ultime tavole tracciato un dettagliato raffronto tra i
personaggi e gli episodi dei due Testamenti, ad esempio tra Adamo ed Azarias,
Abramo e Zaccaria, Isacco o Elia e Giovanni Battista, Giacobbe e Cristo e cosi
via. Proprio per quanto appena rilevato la Figura XVIII stata quindi designata come tavola delle Et
del mondo 22, delle Sette et del mondo ovvero delle Sette et 24 . codice di
Reggio Emilia, e cfr. Rainini, Il Liber Figurarum nel manoscritto Oxford,
Corpus Christi College, ms. 255 A (=0), in Id., Disegni dei tempi, cit. 19 A.
Tagliapietra, Opere principali, in G. da Fiore, Sull'Apocalisse, Milano,
Feltrinelli, Daniel, Abbott Joachim of Flore, Liber de Concordia Noui ac
Veteris Testamenti, Philadelphia, The American Philosophical Society, il quale,
appunto, osserva: not only is Book Five longer than the first four Books
together, but its content is considerably different from theirs. Le peculiarit
del libro V rispetto ai precedenti sono precisate dallo stesso Gioacchino:
etenim in hiis quatuor libris parum agitur secundum spiritum, magis secundum
litteram, hoc est secundum concordiam littere et littere, scilicet duorum
testamentorum...oportet nos in hoc quinto libro de quibusdam gestis
sollempnibus que occurrerint spiritualiter agere ut ex multis testimoniis
ostendamus laboriosos rerum fines et post magnos agones et certamina pacem
uictoribus impartiri (ConcordiaTagliapietra, Opere principali Tondelli, Reeves,
Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure, A. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano
(RI), tav. XVIII (Biblioteca del Seminario di Reggio Emilia). Le sette et del
mondo, in L'Et dello Spirito e la fine dei tempi in Gioacchino da Fiore e nel
Gioachimismo medievale, Atti del II congresso internazionale di studi
gioachimiti, S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di Studi F., Rainini,
Il Liber Figurarum, cit., loc. ult. cit. La tavola XVIII del Liber ha infatti,
principalmente, lo scopo di illustrare la teoria escatologica della storia
elaborata da Gioac- chino ed incentrata sul susseguirsi di secula, tempora ed
etates in una prospettiva strettamente trinitaria, che conferisce unitariet
alla storia stessa. Rifacendosi dunque innegabilmente alla divisione settenaria
delle et della storia gi teorizzata dAgostino, F. colloca in modo originale la
settima et, quella cio del raggiungimento della pax vera, della perfecta
iustitia e della plentudo veritatis et libertatis, entro il corso storico, aggiungendo
poi una Octava aetas quale stadio finale ed eterno della storia umana. Perci la
figura XVIII del Liber suddivisa in un
fregio inferiore, rappresentante i sette secula dell'Et del Padre, in un fregio
superiore, che illustra i sette tempora dell'Et del Figlio, e infine in una
parte centrale raffigurante le sette Et del mondo, la settima delle quali,
corrispondente al momento storico in cui vive F. {tempus praesens), sarebbe
sfociata nel Tertius sta- tus dello Spirito Santo, cui, in conclusione, avrebbe
fatto seguito, appunto, Y Octava aetas 26. Ma passiamo a leggere le brevi
iscrizioni che illustrano il dia- gramma rettangolare centrale della Figura
XVIII, riprodotta nella figura 1 posta a corredo di questa stessa nota. Occorre
precisare che il diagramma deve essere esaminato trasversalmente, nel senso del
lato maggiore del rettangolo, da sinistra a destra e dal basso all'alto, mentre
il testo tratto dalla Concordia e trascritto ai margini risulta vergato in
senso perpendicolare al diagramma stesso. Partendo dunque dal basso, rileviamo
nell'ordine, nel fregio inferiore {secula): primum seculum, Adam genera tiones
X, secundum seculum, Noe generationes X, tertium seculum, Abraam generationes
X, quartum seculum, Booz generationes X, quintum seculum, Joiada generationes
X, sextum seculum, ]eremia generationes X, septimum seculum, Zacharia sacerdos,
sabbatum, adventus Spiriti Sane ti, septima etas; initiatio primi stati, primum
status, secundum status, tertium status; Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il
Libro delle Figure, Cfr. Crocco, Liber Figurarum, Ms. Reggiano (RI) GAGLIONE
nel fregio centrale (etates): Adam, Noe, Abraam, Davit, transmigratio
Babilonie, lohannes Baptista, presens tempus; b) all'interno della tromba:
clarificatio Filii, clarificatio Spiriti Sancii; e) Etas prima, etas secunda,
etas tercia, etas quarta, etas quinta, etas sexta, etas septima; nel fregio
superiore (tempora): initium Romanorum, Hysaia propheta; initiatio secundi
stati, primum tempus, Ozias generationes X, secundum tempus, Zorobabel, tertium
tempus, Christus genera- tiones X, quartum tempus, generationes X, quintum
tempus, generationes X, sextum tempus, generationes X, septimum tempus;
all'estremit destra del diagramma, dopo la linea divisoria: etas octava,
resurrectio mortuorum. Come pu agevolmente notarsi, nessuna delle iscrizioni
menziona specificamente l'Antico o il Nuovo Testamento; inoltre, per la maggior
parte, i personaggi citati, e cio Adamo, No, Abramo, Booz, Ioiad, Geremia,
Davide, Ozias, Zorobabele ed Isaia, rien- trano nell'Antico Testamento e
risultano variamente collocati lungo tutto il diagramma, sia in basso che al
centro, oltre che in alto. Solo Zaccaria, Giovanni Battista e Cristo rientrano
nel Nuovo Testa- mento. Tuttavia, mentre Cristo
indicato nel fregio superiore della Figura, che, sovrapponendo la stessa
alla pianta di S. Chiara, corrisponderebbe alla navata sinistra della basilica
guardando l'altare maggiore, Zaccaria, il sacerdote padre del Battista, segnato nel fregio inferiore, dal lato cio
della navata destra della chiesa. Giovanni Battista, infine, indicato nel fregio centrale, nei pressi
della tuba, della tromba apocalittica. Quindi, le iscrizioni appena riportate,
cos come il testo marginale della Concordia, non consentono di affermare che la
Figura XVIII abbia prevalentemente contenuti concordistici, ovvero che la
stessa traduca graficamente concordanze tra personaggi dei due Testamenti, che
risultano infatti variamente posizionati a destra, a sinistra ed al centro del
diagramma. Non vi , dunque, alcun elemento che possa indurre a sostenere,
almeno lette- ralmente, n la concentrazione dei personaggi del Nuovo Testamento
nel fregio superiore, n quella dei personaggi dell'Antico nel fregio inferiore,
cos da poter giustificare la collocazione dei cicli pittorici giotteschi
corrispondenti, rispettivamente, nella navata sinistra e nella navata destra
della basilica di S. Chiara. Potrebbe tuttavia sostenersi che la Figura
gioachimita abbia semplicemente costituito una fonte di ispirazione per la
scelta del soggetto dei cicli pittorici da eseguire sulle pareti delle
cappelle, oltre che per l'adozione della pianta dell'edificio, sicch non ci si
dovrebbe aspettare una corrispondenza letterale tra la tavola XVIII del Liber e
l'edificio concretamente realizzato. In altri termini, la Figura stessa non
avrebbe costituito n un programma decorativo, n un progetto edilizio . Ma a ben
vedere, proprio la mancanza di una tale effettiva corrispondenza,
congiuntamente ai seri dubbi avanzati in ordine alla sua fondatezza storica 28,
rende ancor pi fragile l'ipotesi della matrice gioachimita della chiesa di S.
Chiara a Napoli. Un collegamento tanto evanescente con la Figura non consente
infatti di dimostrare in maniera convincente che la pianta ad aula rettangolare
della chiesa napoletana, invece di derivare dalle analoghe, diffusissime piante
delle chiese degli Ordini mendicanti, discenda proprio dal diagramma
gioachimita. Risulta inoltre eviden- temente impossibile dimostrare che i cicli
pittorici dell'Antico e del Nuovo Testamento, realizzati, secondo il referto
vasariano, nella stessa chiesa esterna, invece di derivare dai numerosi cicli
tipologici inaugurati dagli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in
Vaticano, discendano piuttosto dalle speculazioni concordistiche gioachimite.
Occorre invece chiedersi se, pur abbandonando la discutibile ipotesi della
valenza della Figura XVIII quale modello o fonte di ispirazione, sia
eventualmente sostenibile, in altro modo, una giu- stificazione gioachimita
della scelta del programma decorativo di S. Chiara, incentrato, come si detto, sulle Storie dell'Antico e del Leone
de Castris, ad esempio, osserva che Mattano, nel suo saggio La Basilica
angioina di S. Chiara a Napoli, cit., sovrappone la Figura XVIII del Liber alla
pianta della chiesa al contrario rispetto a quanto ipotizzato dalla Bruzelius,
sicch Vociava etas non viene pi a corrispondere al coro delle Clarisse, bens
all'area del sagrato e del vestibolo della chiesa esterna. Questa lettura stata respinta dallo stesso Leone de Castris,
perch presuppone non una ispirazione ma una volont di corrispondenza piena fra
la pianta ed il diagramma derivante da un improprio uso del diagramma come
progetto. In altre parole, almeno per il programma architettonico, la Figura
gioachimita avrebbe costituito piuttosto una fonte di ispi- razione che un
modello seguito letteralmente dai costruttori, e cfr. Leone de Castris, Giotto
a Napoli, nota Cfr. i saggi indicati alla precedente nota Nuovo Testamento. Non
di rado, infatti, opere di scultura, di pit- tura e di architettura sono state
interpretate proprio facendo riferi- mento ad una possibile matrice
gioachimita. Ad esempio, il mosaico dell' 'Arbor vitae nell'abside della
basilica di S. Clemente a Roma avrebbe in qualche modo anticipato visivamente
l'esegesi gioachimita dell'Apocalisse di San Giovanni e della Concordia 2,
mentre un prezioso codice miniato da una bottega avi- gnonese agli inizi del
secolo XIV avrebbe risentito dell'escatologismo e del concordismo gioachimita.
Influenze delle opere di F. sono state rinvenute altres nella pianta e nella
struttura della stessa abbazia madre dell'Ordine florense a F. 31, nelle
sculture della facciata del Duomo di S. Rufino 32 ad Assisi e negli affreschi
della basilica di S. Francesco 33 nella stessa citt. Questa tesi viene
avanzata, per la verit, in maniera piuttosto vaga da E.R. Daniel, Joachim of
Fiore: Pattems of History in the Apocalypse, in The Apocalypse in the Middle
Ages, cur. Emmerson e McGinn, London, Cornell; per una lettura teologica ortodossa
dei mosaici in questione cfr. invece Barclay Lloyd, A new look at the mosaics
of San Clemente, in Omnia disce: Medieval studies in memory of Boy le, O.P., a
cura di AJ. Duggan, J. Greatrex, B. Bolton, Ashgate, Aldershot. D'altra parte
gli stessi mosaici vengono correntemente datati intorno a quando F. non era
ancora nato o era giovanissimo. Si tratta del codice 55. K. 2 (Rossi)
dell'Accademia Nazionale dei Lincei e Corsiniana di Roma, e cfr. Frugoni,
Manzari, Immagini di San Francesco in uno Speculum humanae salvationis del
Trecento, Padova, Editrici Francescane, Cfr. Cadei, La chiesa figura del mondo,
in Storia e Messaggio in Gioac- chino da Fiore, Atti dell Congresso
internazionale di studi F., S. Giovanni in Fiore, Centro Internazionale di
Studi F., secondo il quale, l'assetto della chiesa abbaziale di S. Giovanni
presenta peculiarit che consentono di parlare di una tipologia gioachimita per
Yicnografia architettonica. Questi suoi connotati specifici, secondo Cadei,
sono derivati dalle tavole XII, XIII e XV del Liher figurarum. Lo stesso Autore
non manca poi di ricordare, a questo proposito, le divergenti opinioni di Leone
Tondelli, secondo il quale la Figura XII ha piuttosto carattere idealistico ed
utopico, non risultando che in nessuno dei monasteri florensi si sia cercato di
realizzare tale modello, e di Edith Pasztor che, invece, vede nel diagramma la
pianta concretissima delle strutture urbanistiche del monastero, e cfr. anche
V. De Fraja, Oltre Cteaux. F. e l'Ordine florense, Roma, Viella, Prosperi,
Gioacchino da Fiore e le sculture del Duomo di Assisi, Spello, Dimensione
Grafica, soprattutto sulla base delle tavole delle Praemissiones di F., tradite
dal codice 15 del monastero benedettino di S. Pietro a Perugia. Prosperi,
Gioacchino da Fiore e Frate Elia. Dalle sculture simboliche del ad Con
particolare riguardo proprio alla basilica di S. Francesco si affermato che il programma iconografico
prescelto per la deco- razione pittorica della chiesa inferiore cos come di
quella superiore, nel 1253, avrebbe dovuto, nelle intenzioni dei committenti,
illu- strare l'inserimento dell'Ordine francescano nella storia del mondo e
della salvezza, storia articolata nelle tre grandi fasi della legge, della
grazia e dello spirito teorizzate da F. e riprese dai Francescani spirituali.
Questi ultimi, infatti, identifica- rono nel proprio il nuovo Ordine monastico
preannunciato da F., individuando in San Francesco Valter Christus, il nuovo
messia, e, nel papa nemico, l'Anticristo. La ricostruzione concordi- stica della
storia operata da Gioacchino da Fiore venne cos comple- tata dai teologi
Francescani spirituali in modo tale che le corrispon- denze tipologiche in
ambito francescano vennero ampliate e intese non in due ma in tre ricorsi
successivi; il Nuovo Testamento adempimento
della promessa dell'Antico, ma , a sua volta, pro- messa che si adempie sulla
terra e nella storia, con l'avvento di Francesco. Tuttavia, la condanna
delYlntroductorius ad Evangelium Aeternum di Gerardo da Borgo San Donnino,
opera che rappresentava la pi compiuta espressione delle teorie dei Francescani
spirituali, comport l'interruzione dell'esecuzione del pro-gramma iconografico
assisiate. Tracce significative di questo originario apparato decorativo sono
state ad ogni modo rinvenute nelle vetrate a contenuto tipologico 36 delle tre
bifore del coro della basilica superiore, realizzate Duomo di Assisi ai primi
dipinti della Basilica di San Francesco, Spello, Dimensione Grafica, Da A.
Cadei, Assisi, S. Francesco: l'architettura e la prima fase della decorazione,
in Roma. Atti della IV settimana di studi di storia dell'arte medievale
dell'Universit di Roma La Sapienza, a cura di A. M. Romanini, Roma, L'Erma di
Bretschneider, Cadei, Assisi, S. Francesco, , in particolare, il Maestro di S.
Francesco, negli affreschi della navata della chiesa inferiore, a seguire il
parallelismo tra le Storie della passione di Cristo (Cristo depone gli abiti ai
piedi della croce, Cristo dall'alto della croce affida Maria a Giovanni,
Discesa dalla croce, Deposizione, Com- pianto, Apparizione di Cristo in Emmaus)
e le Storie di San Francesco {Francesco rinuncia ai beni paterni, Innocenzo III
sogna Francesco sorreggente la Chiesa di Roma, Predica alle creature, Francesco
riceve le stimmate da un serafino, Morte di San Francesco e scoperta delle
stimmate sul suo corpo). Ad esempio, nella finestra I, designata anche come
finestra VII, sono raf- figurati episodi veterotestamentari quali
prefigurazioni dei corrispondenti episodi della Vita pubblica di Ges, con i
seguenti parallelismi: Davide viene a conoscenza della morte di Saul, La
disputa con i dottori nel Tempio; Giacobbe attraversa il Gior- entro il 1250 ad
opera di maestri tedeschi. L'iconografia delle stesse, basata sulle
corrispondenze tipologiche, avrebbe un sguito in due lancette del finestrone
del transetto destro che completano il ciclo dell'abside con le apparizioni
post mortem di Cristo e gli antitipi 01 veterotestamentari delle apparizioni
angeliche. Il complesso delle vetrate del coro e del transetto verrebbe in tal
modo a costituire una serie tipologica triangolare, nella quale le Storie della
vita di Cristo farebbero da perno tra gli antitipi veterotestamentari e le
Storie della Genesi, da un lato, le Storie di San Francesco e di San-
t'Antonio^ dall'altro. Anche gli affreschi del transetto destro della chiesa
sarebbero contrassegnati da una impronta gioachimita. Tra questi, la triade
delle teofanie consistenti nella Maiestas, nelY Ascen- dano, Il battesimo di
Ges; Mos e il Padre Etemo, La Trasfigurazione; La purificazione del tempio, La
cacciata dei mercanti dal tempio; L'ingresso di un re, L'ingresso di Ges in
Gerusalemme; Abramo lava i piedi degli angeli, La lavanda dei piedi agli
Apostoli; Il banchetto del re Assuero, L'ultima Cena; Elia in preghiera sul monte
Oreb, L'Orazione nell'orto di Getsemani; Joab bacia Amasa, Il bacio di Giuda e
la cattura di Cristo. L'interpretazione tipologica comporta l'uso di tipi o
modelli che presentano un'impronta in negativo o antitipo costituita da
un'idea, una persona, o un avveni- mento nell'Antico Testamento che prefigura
un'idea, una persona, o un avveni- mento nel Nuovo Testamento. Un esempio
autorevole d'interpretazione tipologica
offerto dallo stesso Vangelo (Matteo 12, 40): Come infatti Giona rimase
tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, cos il Figlio dell'uomo rester tre
giorni e tre notti nel cuore della terra, ove, l'episodio veterotestamentario
(antitipo) di Giona e della balena prefigura la morte e la resurrezione di
Cristo. Sull'interpreta- zione figurale o tipologica della Sacra Scrittura,
cfr. H. Rondet, Thmes bibliques, xgse augustinienne, in Augustinus magister.
Congrs intemational augustinien, Paris, 21-24 septembre 1954, Paris, Etudes
Augustiniennes; M. Simonetti, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia
dell'esegesi patristica, Roma, Institutum Patristicum Augustinianum, 1985; H.
De Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca; La
terminologia esegetica nell'antichit. Atti del primo seminario di antichit
cristiane, Bari, 25 ottobre 1984, Bari, EdiPuglia, 1987, nonch, pi in generale,
E. Auerbach, Figura, in Id., Studi su Dante, a cura di D. Della Terza, Milano,
Feltrinelli; Dael, Tipologia, estratto dal corso di Storia dell'Arte medioevale
tenuto presso la Pontificia Universit Gregoriana di Roma, unigre.it/
rhetorica%20 biblica/studenti/TBC005/ TIPOLOGIA_- van%20 Dael.doc; Kessler,
Storie sacre e spazi consacrati: la pittura narrativa nelle chiese medievali
tra TV e XII secolo, in L'arte medievale nel contesto: funzioni, iconografia,
tecniche, Milano, Jaca, Cadei, Assisi, S. Francesco, secondo il quale i
medaglioni di San Francesco e di Sant'Antonio attualmente posti nel quadrilobo
nella finestra VII della basilica superiore ai lati del Cristo in gloria,
proverrebbero dalle lancette della quadrifora III posta nel transetto
settentrionale della basilica superiore. sione e nella Trasfigurazione, poste
nelle lunette di volta e nel tratto superiore della vetrata centrale,
rimanderebbe alla Dispositio novi ordinis pertinens ad tercium statum ad instar
superne Jerusalem ed alla Rota in medio rotae, contenute nelle Figurae XII e XV
del Liber Figurarum. I sostenitori di questa tesi ammettono peraltro che tali
sottili richiami e reconditi significati ben difficilmente avrebbero potuto esser
colti dal comune visitatore, e che i principali fruitori sarebbero stati
piuttosto i soli Francescani spirituali. Secondo questa opinione, in
conclusione, la sintesi ed il com- pletamento della teoria gioachimita della
storia, operata dai France- scani spirituali con l'individuazione nell'Ordine
minoritico del novus ordo monastico destinato alla guida della societ, avrebbe
avuto, quale esito iconografico, proprio l'affiancamento degli episodi della
vita di San Francesco alle tradizionali serie tipologiche vetero e
neotestamentarie in una prospettiva rivoluzionaria. Tuttavia, accanto a queste
serie tipologiche che sarebbero state ispirate dalle teorie gioachimite e
spirituali, nella stessa basilica superiore assisiate furono eseguite altre e
ben pi note scene vetero 40 e neotestamentarie, poste ancora una volta in
collegamento con ventotto episodi della Vita di San Francesco 42, bench in una
pro- [Cadei, Assisi, S. Francesco, ricorda infatti che, secondo lo Schne, si
sarebbe trattato di un ciclo iconografico riservato ai soli Francescani
spirituali e che perci era limitato al loro coro non accessibile al pubblico,
circo- stanza questa che ne favor anche la successiva conservazione nonostante
il muta- mento del programma decorativo. II ciclo dell'Antico Testamento,
realizzato sulla parete nord, si compone di sedici episodi e comincia con le
Storie della Creazione nel registro superiore: Crea- zione del mondo, Creazione
di Adamo, Creazione di Eva, Peccato originale, La cacciata dal Paradiso
terrestre, Il lavoro dei progenitori, Il sacrificio di Caino ed Abele, Caino
uccide Abele proseguendo, nel registro inferiore, con episodi della vita dei
quattro patriarchi biblici No, Abramo, Giacobbe e Giuseppe: La costruzione
dell'arca, L'ingresso di No e degli animali nell'arca, Il sacrificio di Isacco,
La visita degli angeli ad Abramo, Isacco benedice Giacobbe, Esa davanti ad
Isacco, Giuseppe calato nel pozzo dai fratelli, Giuseppe si fa riconoscere dai
fratelli in Egitto. II ciclo del Nuovo Testamento, collocato sulla parete sud,
si compone di sedici episodi e comincia con le Storie dell'infanzia di Cristo
nel registro superiore: Annunciazione, Visitazione, Nativit, Adorazione dei
Magi, Presentazione di Ges al tempio, Fuga in Egitto, Disputa nel tempio,
Battesimo di Ges. Nel registro inferiore, invece, sono collocati gli episodi
della Vita pubblica e della Passione di Cristo: Le nozze di Cana, La
resurrezione di Lazzaro, La cattura di Cristo nell'orto, Cristo davanti a
Pilato, La salita al Calvario, La Crocifissione, Il Compianto sul Cristo morto,
Le pie donne al sepolcro. A partire dalla parete destra dal lato dell'altare:
San Francesco riceve l'omag- gio dell'uomo semplice, Il Santo dona Usuo
mantello al povero, Sogno del palazzo colmo spettiva pi moderata, ispirata questa
volta alla Vita ufficiale del Santo, la Legenda maior redatta da San
Bonaventura. Proprio Bo- naventura ed, in seguito, il probabile committente
degli affreschi, il cardinale francescano Matteo d'Acquasparta, si erano
infatti oppo- sti agli Spirituali rigoristi ed alla teoria da loro sostenuta
secondo la quale con l'avvento dell'Et dello Spirito si sarebbe pervenuti ad
uno scardinamento dell'ordine costituito gi sulla terra e nella sto- ria.
L'Autore della Legenda, invece, ribalt proprio la prospettiva di un radicale
mutamento nella storia, sostenendo che i tempi nuovi si sarebbero dispiegati su
di un piano esclusivamente ultraterreno, privo quindi di pericolose ricadute
politiche. Ritornando dunque agli affreschi dell'Antico e del Nuovo Testamento che
Giotto avrebbe eseguiti nella chiesa esterna di S. Chiara, non risultano
notizie, di fonte letteraria o documentaria, dell'esistenza anche di un ciclo
della Vita di San Francesco che avrebbe potuto far pensare ad una consapevole
imitazione del mo- dello assisiate nella versione spirituale o piuttosto in
quella bona- venturiana. D'altra parte, al tempo della esecuzione degli
affreschi nella grande chiesa napoletana erano trascorsi decenni dai movimen-
tati inizi della decorazione della basilica di Assisi, vero e proprio
palinsesto iconografico della storia dell'Ordine. Inoltre, il contrasto tra il
papato e la dirigenza dello stesso Ordine minoritico, da un lato, ed i
dissidenti Spirituali dall'altro era giunto ormai, con papa di armi, Cristo
appare al Santo in S. Damiano, Rinunzia alle vesti, Sogno di Innocenzo III,
Innocenzo III approva la Regola, Il Santo sul carro di fuoco, Frate Leone vede
il trono celeste destinato a San Francesco, Cacciata dei demoni da Arezzo, La
prova del fuoco, L'estasi di San Francesco, Il presepe di Greccio, Miracolo
della fonte, Predica agli uccelli, Morte del signore di Celano, La predica
davanti ad Onorio III, San Francesco appare ai frati riuniti in capitolo ad
Arles, Stimmate, Morte e funerali, San Francesco appare al vescovo di Assisi e
a frate Agostino, Il patrizio Girolamo si accerta delle stimmate, Le Clarisse
di S. Damiano piangono il Santo, Canonizzazione, San Francesco appare a
Gregorio IX, Guarigione del gentiluomo di llerda, Resurrezione della gentil-
donna, Liberazione di Pietro d'Alife. Le posizioni di San Bonaventura vennero
riprese dal cardinale Matteo d'Acquasparta in tre suoi sermoni. Il cardinale,
generale dell'Ordine dal 1287 al 1289, fu probabilmente l'ideatore del
programma iconografico della navata della basilica superiore e contrast
decisamente gli Spirituali guidati da Ubertino da Casale. I ttuli illustranti
gli episodi della Leggenda francescana sono tratti dalla Legenda maior, e cfr.
E. Lunghi, San Francesco ad Assisi, Firenze, Passigli. Per l'ispirazione alla
Legenda major, cfr. G. Ruf, Francesco e Bonaventura. Un'interpretazione
storico-salvifica degli affreschi della navata nella chiesa superiore di San
Francesco in Assisi alla luce della teologia di San Bonaventura, Assisi, Casa
Francescana, e Cadei, Assisi, S. Francesco. Giovanni XXII, ad una persecuzione
sistematica dei secondi, e, come si
visto, al prevalere di posizioni moderate, circostanza que- sta che
sembra deporre contro la possibilit di citazioni iconografi- che eccessivamente
eversive. Infine, l'assoluta impossibilit di ricostruire i contenuti ed i
soggetti delle scene vetero e neotestamentarie eventualmente realiz- zate nella
chiesa esterna di S. Chiara a Napoli non consente neppure di accertare una
eventuale, effettiva influenza sulle stesse di quella pi precisa ed articolata
corrispondenza tra fatti, persone, figure e adempimenti dei due Testamenti,
che, secondo alcuni, sarebbe co- munque derivata proprio dalla diffusione delle
teorie di Gioacchino tradotte poi in immagini La spiegazione della scelta delle
scene dell'Antico e del Nuovo Testamento per la decorazione di S. Chiara, a
questo punto, pu essere piuttosto individuata proprio nella volont di seguire
il tradizionale filone tipologico, significativamente rinvenibile nello stesso
repertorio di Giotto. Il modello pi prestigioso di tale filone era costituito
dalla serie degli affreschi dell'antica basilica di S. Pietro in Vaticano. Le
pareti Nell'antico refettorio dei Frati minori, oggi chiesa esterna del
monastero delle Clarisse, posto l'affresco
della Mensa del Signore, attribuito al Maestro di Giovanni Barrile, la cui
particolare iconografia sarebbe servita a celebrare i valori della povert e
dell'umilt, testimoniando cos il particolare favore dei sovrani angioini per
questi ideali strenuamente propugnati dai Francescani spirituali, favore
ufficializzato dal contorno araldico dell'affresco, e cfr. F. Bologna, I
pittori alla corte angioina di Napoli, Roma, U. Bozzi; Leone de Castris, Giotto
a Napoli. Una lettura pi articolata
stata recentemente suggerita da C. Frugoni, Una solitudine abitata.
Chiara d'Assisi, Roma-Bari, Editori Laterza: nel nostro affresco, Cristo posto su di una montagna circondato dagli
apostoli. In basso, San Pietro distribuisce il pane alla folla in ascolto
attingendo a cesti stracolmi. In primo piano sono inginoc- chiati San
Francesco, con la bisaccia della questua, e Santa Chiara, in orazione. Il
dettaglio della montagna rimanda al Vangelo di Giovanni (6, 3-15), ove al
miracolo della moltiplicazione segue il discorso del Cristo che si presenta
alla folla come il vero pane sceso dal cielo. V Agnus Dei, ripetuto quattro
volte alle estremit, co- stituisce un ulteriore richiamo all'eucaristia.
Sembrerebbe in tal modo prevalere proprio il riferimento eucaristico ricorrente,
peraltro, nella dedicazione ufficiale della chiesa esterna all'Ostia santa,
sicch, i frati riuniti nel refettorio per il frugale pranzo garantito dalla
carit di Dio, nel consumare il cibo del corpo, non avrebbero dimenticato la
necessit di nutrirsi di quello dell'anima, ben pi prezioso del pane. Gli
eventuali, ma labili, accenni spirituali erano, in tal caso, riservati ai soli
frati essendo il refettorio inaccessibile, di regola, ai laici. 45 Cadei,
Assisi, S. Francesco. della navata centrale erano infatti decorate con Storte
dell'Antico e del Nuovo Testamento, eseguite durante il pontificato di papa
Leone I, distrutte nel corso dei lavori di costruzione del nuovo S. Pietro, ma
fortunatamente descritte da Grimaldi e documentate dagli acquerelli di Domenico
Tasselli da Lugo. Le scene dell'Antico Testamento, tratte soprattutto dalla
Genesi e dall'Esodo, erano dipinte sulla parete destra, mentre sulla parete
sinistra si svolgeva un ciclo illustrante la Vita e la Passione di Cristo.
Questi affreschi costituirono: il prototipo fondamentale per le successive
decorazioni con scene vetero e neotestamentarie che da Roma si diffusero in
tutta Italia e in gran parte d'Europa... la prima e pi completa esposizione per
immagini dei principali episodi biblici ed evangelici a livello di pittura
monumentale. Un folto gruppo di affreschi tipologici deriv direttamente da
quelli di S. Pietro, come nel caso delle decorazioni musive dell'atrio della
basi- lica abbaziale cassinense volute da Desiderio, dalle quali derivarono
ulteriormente le storie testamentarie di S. Angelo in Formis, nonch degli
affreschi di S. Pietro a Ferentillo, di S. Maria Immacolata di Ceri, di S.
Giovanni a Porta Latina, di S. Maria in Monte Domi- nico a Marcellina, di S.
Nicola a Castro dei Volsci, della cappella di S. Tommaso nel duomo di Anagni,
dell'Annunziata a Cori, ed anche [Cfr. A. Tomei, La basilica dalla tarda
antichit al secolo XV, in La basilica di San Pietro a Roma, a cura di C.
Pietrangelo Firenze, Cantini, nonch H. Kessler, Caput et speculum omnium
ecclesiarum: old St. Peter s and church deco- ration in medieval Latium, in
Italian church decoration of the Middle Ages and early Renaissance: functions,
forms and regional traditions, a cura di W. Tronzo, Bologna, Nuova Alfa. II
ciclo pittorico veterotestamentario comprende diciotto scene, mentre quello
neotestamentario ne comprende ventinove conteggiando separatamente V Ul- tima
cena e la Lavanda dei piedi, e fu realizzato da tre o quattro pittori. Nulla ha
dunque a che vedere con questi affreschi la presenza nella chiesa di quindici
fratres paupertatis attestata dal Catalogo delle chiese di Roma (Biblioteca
Nazionale di Torino, Cod.), e da alcune lettere di Angelo Clareno del 1313, e
cfr. Angelo Clareno, Opera, I, Epistole, a cura di L. von Auw, Roma, Istituto
Storico Italiano per il Medio Evo. Pi in generale, sostengono un collegamento
tra gli Spirituali napoletani e quelli romani, ed anzi una vera e propria
influenza del filospiritualismo di Sancia sulla politica di Cola di Rienzo: A.
Collins, Greater than Emperor. Cola di Rienzo and the world of Fourteenth Century Rome, Ann Arbor, The
University of Michigan Press.; Musto, Apocalypse in Rome. Cola di Rienzo and thepolitics ofthe new age,
Berkeley, Los Angeles, New York, The University of California] dei restauri
cavalliniani degli affreschi di S. Paolo 48 e del ciclo di Vescovio. Gli stessi
affreschi vetero e neotestamentari della basilica superiore di Assisi derivano
dalle serie tipologiche di S. Pietro. Si tratta certamente di cicli piuttosto
complessi: cos a S. Pietro gli episodi veterotestamentari erano quarantasei, a
S. Paolo trentotto, a Ceri venticinque, e ad Assisi sedici 49 . Questo modello
iconografico fu ripreso ben presto in tutta Europa, come conferma anche una
notizia offertaci da Beda il Venerabile relativamente all'importazione da Roma
all'abbazia di S. Pietro a Wearmouth di tavole dipinte di contenuto tipologico.
Dal dodicesimo secolo in poi i cicli tipologici risultano sempre pi elaborati,
come dimostra la pala d'altare di Klosterneuburg, costituita da placche di
bronzo smaltato champlev, completata da Nicola de Verdun Su questo ciclo cfr.
S. Romano, II cantiere di San Paolo fuori le mura: il contatto con i prototipi,
in Medioevo: i modelli. Atti del convegno internazionale di studi Parma cur.
Quintavalle, Parma-Milano, Universit di Parma-Mondadori Electa, Cfr. Romano, La
morte di Francesco: fonti francescane e storia dell'Ordine nella basilica di S.
Francesco d'Assisi, in Zeitschrift fur Kunstgeschichte, ed E ad., La basilica
di San Francesco ad Assisi. Pittori, botteghe, strategie narrative, Roma,
Viella, Constituto ilio abbate Benedictus monasterio beati Petri apostoli,
consti- tuto et Ceolfrido monasterio beati Pauli, non multo post temporis
spatio quinta vice de Brittannia Romam adcurrens, innumeris sicut semper
aecclesiasticorum donis commodorum locupletatus rediit; magna quidem copia
voluminum sacrorum; sed non minori, sicut et prius, sanctarum imaginum munere
ditatus. Nam et tunc do- minicae historiae picturas quibus totam beatae Dei
genetricis, quam in monasterio maiore fecerat, aecclesiam in gyro coronaret,
adtulit; imagines quoque ad ornandum monasterium aecclesiamque beati Pauli
apostoli de concordia Veteris et Novi Te- stamenti summa ratione conpositas
exibuit; verbi gratia, Isaac Ugna, quibus inmo- laretur portantem, et Dominum
crucem in qua pateretur aeque portantem, proxima super invicem regione, pictura
coniunxit. Item serpenti in heremo a Moyse exaitato, filium hominis in cruce
exaltatum conparavit e cfr. Beda, Vita quinque sanctorum abbatum, IBiblioteca
Augustana (Bibliotbeca latina, Latinitas medievalis) a cur Harsch
(Fachhochschule Augsburg) basata su Venerabilis Baedae Opera Historica, ed.
Plummer, Oxonii, E typographeo Clarendoniano, fh-augsburg.de/~ Harsch/ Chronologia/
Lspost08/ Bede/bed quin.html. In alto nella pala sono poste diverse scene
veterotestamentarie accadute prima della legge {ante legem), al centro sono le
corrispondenti scene neotestamen- tarie (sub gratia), ed in basso le
corrispondenti scene veterotestamentarie sotto la legge (sub lege). Ad esempio:
le scene del Passaggio del Mar Rosso, del Battesimo di Cristo e del mare di
bronzo del tempio vanno considerate in corrispondenza; cos pure l'episodio di
Giuseppe che viene messo nella cisterna, la deposizione di Cristo nel sepolcro
e Giona nel ventre del pesce, e cos via, cfr. H. Buschhausen, The Vennero
redatti, inoltre, veri e proprio manuali proprio allo scopo di indicare al
pittore o allo scultore i collegamenti tipologici tra gli episodi testamentari.
Tra questi si ricorda il Victor in Car- mine 52, opera di un anonimo monaco
cistercense inglese del XII secolo, il quale, pur essendo contrario alla
decorazione figurata delle chiese, riteneva tuttavia ammissibili almeno le
rappresentazioni tipologiche poich potevano fungere da efficaci libri laicorum.
Ma, certamente, la fonte primaria fu costituita dalla Glossa ordinaria di
Walafrido Strabone completata da Niccol di Lira, vera e propria sintesi
dell'esegesi tipologica dei Padri della chiesa. Orbene, proprio i temi
tipologici rientravano certamente anche nel repertorio di Giotto. Oltre alla
discussa partecipazione del Mae- stro all'esecuzione di alcuni episodi
dell'Antico e del Nuovo Testa- mento nella basilica di S. Francesco ad Assisi,
sappiamo, soprat- tutto dalle Vite del Vasari, che Giotto esegu Storie dei due
Testa- menti nella basilica di S. Pietro a Roma, nella cappella palatina del
Castelnuovo 56 a Napoli, e storie del solo Nuovo Testamento nella SS. Annunziata a Gaeta. D'altro
canto, la biografia dello stesso Klosterneuburg Aitar of Nicholas of Verdun:
Art, Theology and Politics, in Journal of the Warburg and Courtauld Institutes,
Victor in Carmine. Ein Handbuch der Typologie Nach der Handschrift des Corpus
Christi College, Cambridge, a cur. Wirth,
Berlin, Mann, Male, Le origini del gotico. L'iconografia medioevale e le sue
fonti, Mi- lano, Jaca, Bellosi, Giotto e la Basilica Superiore di Assisi, in
Giotto. Bilancio critico di sessantanni di studi e ricerche, Firenze, Giunti;
Zanardi, Giotto e Cavallini. La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco,
Milano, Skira; T. De Wisselow, The date of the St. Francis cycle in the upper
Church of S. Francesco at Assisi: the evidence of copies and considerations of
method, in The art of the Franciscan Order in Italy, a cura Cook, Leiden-
Boston, Brill. Scrive infatti Vasari: il papa avendo
vedute queste opere e piacendogli la maniera di Giotto infinitamente, ordin che
facesse intorno intorno a San Pietro Istorie del Testamento Vecchio e Nuovo:
onde cominciando fece Giotto a fresco l'Angelo di sette braccia che sopra l'organo; e molte altre pitture, delle
quali parte sono state da altri restaurate a d nostri e parte nel rifondare le
mura nuove, o state disfatte, e cfr. anche A. Tomei, Giotto a Roma intorno al
primo Giubileo, in La storia dei Giubilei, a cur. Fossi, Roma, BNL, Questi
affreschi furono ed andarono purtroppo distrutti durante il regno di Ferrante
d'Aragona, e cfr. Leone de Castris, Giotto a Napoli, cit., pp. 168ss. 57 Scrive
Vasari: partito Giotto da Napoli per andare a Roma, si ferm a Gaeta, dove gli
fu forza, nella Nunziata, far di pittura alcune storie del Testamento Giotto
lascia davvero poco spazio ai sospetti di spiritualismo I suoi committenti e
protettori erano strettamente legati alla corte pontificia, come quel fra
Mincio da Morrovalle, ministro generale dell'Ordine minoritico, che lo chiam ad
Assisi o il cardinale Jacopo Stefaneschi. Il Maestro, che aveva organizzato in
ma- niera imprenditoriale la propria bottega, non disdegnava inoltre di
prestare danaro e di acquistare terreni per investimento, ben lon- tano da
scrupoli pauperistici 59 . A Giotto, anzi, viene tradizionalmente attribuita la
canzone Molti son que che lodan povertade, che contiene una vera e propria invettiva
contro la povert, ritenuta istigatrice di delinquenza, causa di sovversione
sociale e di ipo- crisia 60 . Ritornando a S. Chiara, in realt, i frammenti di
affresco a contenuto narrativo pi sicuramente riconducibili a Giotto ed alla
sua bottega sono quelli conservati nel coro o oratorio interno delle monache.
Sulla parete che divide appunto l'oratorio dalla chiesa esterna pu osservarsi
ci che resta di un Compianto sul Cristo depo- sto, che lascia ipotizzare, pur
in mancanza di pi precise evidenze, che l'intera parete fosse affrescata con
scene della Vita di Cristo, forse principalmente episodi della Passione,
secondo quanto realiz- zato nei cori di altri monasteri delle Clarisse. In
particolare, nel coro di S. Pietro in Vineis ad Anagni 61, qualche tempo dopo
la canonizza- Nuovo, oggi guaste dal tempo, ma non per in modo che non vi si
veggia benissimo il ritratto d'esso Giotto appresso a un Crucifisso grande
molto bello, per la citazione cfr. la precedente nota 11. Lo ammette lo stesso
Leone de Castris, Giotto a Napoli. Cfr. F. Antal, La pittura fiorentina e Usuo
ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento, Torino, Einaudi. Giotto
affittava telai ai tessitori meno abbienti realizzando profitti del 120%.
Alcuni documenti attestano il suo ruolo di garante di prestiti e, nel 1314,
risulta assistito da ben sei avvocati in atti contro debitori morosi o
insolventi. 60 Tra l'altro il componimento precisa: Di quella povert ch' contro
a voglia/ Non da dubitar ch' tutta ria,/
Che di peccar via, / Facendo ispesso a
giudici far fallo;/ E d'onor donne e damigelle spoglia;/ E fa far furto, forza
e villania; /E ispesso usar bugia/ E ciascun priva di onorato istallo. La
canzone fu estratta dal codice 47 pluteo 90 laurenziano, ragguagliata sul
codice riccardiano e pubblicata da F. Trucchi, Poesie italiane inedite di
dugento autori: dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo,
Prato, Ranieri Guasti. Cfr. M. Rak, Vedere, ricordare, raccontare. Immagine e
racconto in un appa- rato pittorico dottrinale di una comunit femminile
pauperista nel tardo medioevo, in II collegio Principe di Piemonte e la chiesa
di S. Pietro in vineis in Anagni, a cura di M. Rak, Roma, INPDAP, nonch S.
Romano, Gli affreschi di San Pietro in vineis, ibidem, pp. 105ss. e C. Jaggi, Frauenklster
im Sptmittelalter. Die zione di Chiara avvenuta nella cattedrale di quella
citt, ove fu conservata la relativa bolla pontificia, e, comunque, entro il
1263, vennero appunto dipinte le Storie della Passione di Cristo. Questo
notevole ciclo si articola negli episodi dell'Ingresso in Gerusalemme, Ultima
cena e lavanda dei piedi, Cattura e flagellazione di Cristo, Deposizione e
discesa al limbo, Noli me tangere e missione degli Apostoli, Giudizio
universale, che dovevano servire anzitutto come strumento di memoria nei
momenti pi solenni della liturgia. All'atto della recita sottovoce {in secreto)
della preghiera eucaristica {canon missae) nel corso della messa, quelle stesse
scene consentivano alle Clarisse di ripercorrere, anche visivamente, la storia
della redenzione fino alla morte ed alla resurrezione del Salvatore. Le
sofferenze di Cristo, rappresentate in maniera reali- stica e cruenta,
offrivano dunque alle Clarisse occasioni di medita- zione e di riflessione. Gli
episodi della vita del Salvatore, inoltre, erano costantemente richiamati negli
scritti dedicati alle Vite di San Francesco e di Santa Chiara, e per
quest'ultima, gi nella Leggenda redatta da Tommaso da Celano. Perci, gli
affreschi cristologici venivano a costituire, in definitiva, un grandioso
prome- moria non solo della vita del Salvatore, ma appunto anche delle vite
parallele di Chiara e di Francesco, ricostruibili per analogia dalle
osservatrici, e ricordate alle monache anche attraverso le letture edificanti,
i racconti orali e, soprattutto, la predicazione, non occor- rendo
necessariamente la realizzazione di cicli tipologici completi che
comprendessero cio anche le Storie dei due Santi francescani Kirchen der
Klarissen una Dominikannerinnen, Monaco, Michael Imhof, II ciclo della Passione
nel coro delle monache di S. Pietro in vineis prosegue, in realt, con
l'episodio della stimmatizzazione di San Francesco, che riporta visi- vamente
al parallelismo con Cristo. Vi sono rappresentati inginocchiati anche una
badessa attorniata da monache ed un frate accompagnato da frati, in veste di
donatori oranti. Lo stesso ciclo si conclude con un riquadro nel quale sono
dipinti i Santi Aurelia, Scolastica e Benedetto e donatori. Nel coro delle
monache della basilica di S. Chiara ad Assisi, corrispondente all'attuale
cappella di San Giorgio vennero eseguite, invece, oltre che le Storie della
Passione di Cristo, pur nell'ordine anomalo, da sinistra, di Resurrezione,
Deposizione dalla croce, e Deposizione nel sepolcro, anche quelle zW
Incarnazione con lAnnunciazione, la Nativit, e l'Adorazione dei Magi, e cfr. C.
Jaggi, Frauenklster im Sptmittelalter. A Napoli dev'essere infine ricordato il
notevole ed articolato ciclo della Passione affrescato, sulle pareti del coro
delle Clarisse della chiesa di S. Maria Donnaregina vecchia, ispirato alla
Legenda Aurea di Jacopo da Varagine ed alle Meditationes Vitae Cristi dello
pseudo-Bonaventura ed articolato in diciassette scene. In particolare, in tre
registri di cinque scene ciascuno, pi due: Come si cercato di dimostrare, il riferimento alla
esaminata Figura gioachimita quale modello o fonte di ispirazione per la scelta
dei temi iconografici dei cicli pittorici realizzati nella basilica di S.
Chiara risulta, a ben considerare, davvero piuttosto improbabile. Non molti
anni or sono Richard Krautheimer, nei Poscritti ad un suo aureo saggio di
introduzione alla iconografia architettonica, Ultima cena; Comunione degli
Apostoli) Cristo lava i piedi a San Pietro; Orazione di Cristo nell'orto;
Cattura di Cristo con l'episodio del San Pietro che taglia l'orecchio a Malco;
Cristo al cospetto dei sommi sacerdoti Anna e Cai/a, negazione di Pietro,
derisione di Cristo che viene privato dei vestiti per la prima volta,
flagellazione di Cristo; Cristo portato davanti a Pilato per il primo giudizio
e poi davanti ad Erode; Secondo giudizio di Cristo davanti a Pilato e nuova
flagellazione; Cristo privato delle vesti e sua ascesa al Calvario, nuova
spoliazione di Cristo ed innalzamento sulla croce; Crocifissione; Deposizione
dalla croce, lamentazione sul corpo e sepoltura di Cristo; Discesa al Limbo e
resurrezione di Cristo; Le Marie al sepolcro, Noli me tangere, apparizioni di
Cristo alla Vergine ed a Giuseppe d'Arimatea; Apparizioni di Cristo alle due
Marie di ritorno dal sepolcro, a Giacobbe figlio di Alfeo ed a San Pietro;
1Cristo appare quattro volte agli Apostoli sul monte Tabor, poi sul monte degli
Olivi, cena ad Emmaus con l'episodio dell'Incredulit di San Tommaso;
Ascensione; Pentecoste. Tali scene avevano lo scopo di suscitare la compassione
delle mona- che per le ultime vicende di Cristo, illustrando loro l'esempio
delle Vergine Maria, non mancando, poi, di suggerire paralleli con la Vita di
San Francesco, e di offrire, soprattutto nelle rappresentazioni dell'Ultima
Cena, della Comunione degli Apostoli e della Cena di Emmaus, l'occasione di una
contemplazione eucaristica che era loro preclusa dal vivo, durante l'elevazione
dell'ostia nel corso della messa, e cfr., in proposito, A.S. Hoch, The Passion
cycle: images to contemplate and imitate amid Clarissan clausura, in: The
church of Santa Maria Donna Regina: art, iconography and patronage in
fourteenth-century Naples, a cura di Janis Elliott, Aldershot, Ashgate. Per la
traduzione italiana del saggio dal titolo originario Introduction to an
Iconography of Medieval Architecture, comparso sul Journal of Warburg and Cour-
tauld Institutes, si veda R. Krautheimer, Introduzione a un'i- conografia
dell'architettura sacra medievale, in Id., Architettura sacra paleocri- stiana
e medievale, Torino, Bollati Boringhieri, in particolare alle pp. 144ss.,
comprendente i Poscritti. In questo saggio Krautheimer propone le sue
osservazioni sulla copia parziale architettonica che caratterizza l'imitazione,
durante il Medioevo, dei pi prestigiosi edifici sacri non in termini di copia
puntuale e corrispondente (copia totale), ma di copia rielaborata, e cfr. al
riguardo anche G. Bandmann, Early medieval architecture as bearer of mea- ning,
con introduzione di K. Wallis, e postille di H. J. Boker, New York, Columbia,
traduzione inglese del saggio originale in tedesco Mittelal- terliche
Architektur als Bedeutungstrger, Berlin e W. Schenkluhn, Iconografia e
iconologia dell'architettura medievale, in L'arte medievale nel contesto:
funzioni, iconografia, tecniche, Milano, Jaca. Per alcuni rilievi critici sulla
tesi della copia parziale, cfr., comunque, B. Brenk, Originalit e innovazione
nell'arte medievale, in Arti e storia nel Medioevo, a cura Castelnuovo e Sergi,
Torino, Einaudi. GAGLIONE rilevava come spesso l'interpretazione simbolica
delle piante degli edifici medievali fosse avvenuta post factum, e cio dopo
l'effettiva adozione delle forme decisa per altre motivazioni. Molto frequente-
mente, cio, si attribuito al committente
ed all'architetto ci che nell'edificio aveva voluto vedere a posteriori il
teologo medievale, o, altrettanto spesso, solo l'interprete moderno. Gli
importanti studi iconologici di Aby Warburg e, in seguito, di Erwin Panofsky e
di Fritz Saxl hanno contribuito involontariamente anche a scoper- chiare una
specie di vaso di Pandora dal quale sono poi fuoriuscite interpretazioni
simboliche a tutti i costi, per amore o per forza. Invece, l'indagine sui
significati dell'opera architettonica ed, in ge- nere, dell'opera d'arte
dovrebbe essere svolta in modo che quanto
possibile diventi probabile, perch la relazione ipotizzata abbia un
carattere di causalit ben definito, rilevabile da numerosi e dif- ferenti
indizi 64 . Sembra invece che proprio la mancanza di questi numerosi e
differenti indizi non consenta di sostenere n l'ispirazione gioachi- mita degli
affreschi, n la pretesa matrice francescano-spirituale della pianta della
basilica di S. Chiara a Napoli. Gaglione, Krautheimer, Introduzione, cit., p.
146. Traduzione del testo posto ai margini della Figura XVIII del Liber
figurarum, tratto dalla Concordia Novi ac Veteris Testamenti dall'edizione a
cura di Tondelli, Reeves, Hirsch-Reich, Il Libro delle Figure \ cit., voi. II,
tav. XVIIIa. Come illustrato in questa Figura, da Adamo fino a Giovanni
Battista sono trascorsi sei tempi ormai conclusi, durante i quali il Signore ha
compiute le sue opere sotto la legge ed i profeti, e nel settimo tempo si riposato dalle opere del primo stato, infatti
la legge ed i profeti sono perdurati fino a Giovanni Battista. Per tali motivi
occorre attenersi a ci che affermano i Santi Dottori, in ordine al fatto che le
due et, e cio la sesta e la settima, trascorrono insieme, sia perch, compiuti i
sei tempi, le anime dei giusti riposano in Cielo, sia perch al popolo di
Dio stato concesso un tempo sabbatico
durante il quale potesse riposare dalla servit della legge, una volta
acquistata la libert dello Spirito Santo, poich dov' lo Spirito del Signore l la libert. Questa definizione delle sei et
riguarda propriamente la persona del Padre poich, evidentemente, il Padre, per
mostrarsi signore effettivo di tutta la terra, ha preteso dai suoi sudditi
l'assoluta obbedienza dei sei tempi. Com- piutisi questi tempi, in seguito, nel
settimo tempo, il Padre mostra, a coloro che gli hanno obbedito, l'affetto
dell'amore e la libert della grazia nello Spirito Santo, perch lo stesso
Spirito amore, e dove c' l'amore c' la
libert. Proprio per questo, infatti, l'Apostolo dice: dove lo Spirito del Signore l la libert. In conformit a tale generale
definizione, riguardo alle sei et del mondo occorre seguire quello che
affermano i Santi Dottori, e cio che nel sesto giorno feriale rappresentata la sesta et del mondo, nel
sabato significata la settima et, e
nella domenica l'ottava et, e poich il sesto giorno destinato alla fatica, il settimo riservato al riposo. Quel sabato sar dunque
colmo della gioia e della letizia di tutti gli eletti, e ci sia perch
l'esercito dei santi martiri e degli altri giusti sar riunito in Cielo e regner
con Cristo, sia perch al popolo di Dio verr concessa quella tregua sabbatica
perch possa riposarsi dalla fatica della sofferenza che ha sopportato nel corso
dei sei tempi gi quasi compiuti, e perch obbedisca al Signore nella libert
dello Spirito, poich dov' lo Spirito del Signore l la libert. Questa definizione delle sei et
viene comunemente riferita al Padre ed al Figlio, poich Padre e Figlio sono un
unico Dio. Infatti, cos come ciascuno dei due singolarmente considerato vero Dio, altres considerati insieme essi non
sono due dei ma un unico Dio, ed avviene che alcune opere siano maggiormente
somiglianti al Padre ed altre al Figlio, cos che essendo appunto uniti assieme
si manifestano in una forma unica anche se vengono chiamati distintamente con i
loro nomi. Diversa la persona del Padre
come diversa la persona del Figlio,
tuttavia i due insieme considerati non sono due dei ma un unico Dio. E poich
l'unico e lo stesso Spirito Santo procede non da uno solo dei due ma da en-
trambi, chiaro che lo stesso Spirito sia
in comunione con il Padre ed il Figlio dai quali, appunto, procede
all'infinito. Questa definizione dei sei tempi o et concerne pi propriamente la
persona del Figlio, il quale Figlio, certamente, per dimostrarsi maestro
univer- sale ha preteso un'assoluta osservanza della disciplina nel corso delle
sei et. Compiuti questi tempi, a coloro che operano con pazienza, Egli mostra
nel suo Spirito abbondanza d'amore e piena libert di grazia, poich il timore
non compatibile con la carit, e perch la
perfetta carit allontana il timore. In questa Figura viene quindi esposto un
grande mistero riguardante particolar- mente la fede cattolica. Tutte le cose
che Dio ha fatto le ha fatte nella sapienza. La vera sapienza consiste nel
conoscere e nel comprendere il Creatore, ed, in particolare, attraverso le cose
che sono state rese visibili, nel comprendere i sui aspetti invisibili e nel
contemplare Colui che ci ha creati. Dice infatti il Signore nel Vangelo: il
Padre mio opera nello stesso modo nel quale opero anch'io. Perci come se dicesse: mio Padre ha operato cos che
attraverso le opere compiute a sua immagine nel primo stato del tempo, potesse
dimostrare di essere vero Signore e vero Dio, ed anche io opero cose simili in
questo secondo stato, cos che n il Padre potrebbe agire senza di me, n io
stesso potrei operare senza il Padre, e ci per dimostrare di essere identico a
mio Padre, poich egli Dio cos come sono
io stesso Dio, ed Egli stesso
onnipotente cos come io sono onnipotente. E, dunque, le opere del primo
stato attengono specificamente alla persona del Padre, mentre le opere del
secondo stato riguar- dano la persona del Figlio, e, d'altra parte, ad entrambi
possono essere riferite le opere di ciascuno dei due. Il Padre ed il Figlio
sono infatti due persone. Ciascuno di loro
Dio ed al contempo entrambi sono un unico Dio. E cos anche lo Spirito
Santo viene detto Spirito del Padre perch procede dal Padre ed in conformit a
lui. Infatti non siete voi a parlare ma
lo Spirito del Padre vostro che parla in voi. Viene anche definito
Spirito del Figlio perch procede dal Figlio conformemente a lui, secondo quanto
si afferma: Dio ha immesso nei nostri cuori lo Spirito del Figlio che dice:
Abba, Padre!. Ed altrettanto l'Apostolo dice dello Spirito Santo: dove lo Spirito del Signore Ti la libert. La servit riguarda i sei giorni ed
i sei giorni significano i sei tempi, la libert invece concerne il settimo
giorno ovvero il settimo tempo. E proprio per questo il settimo giorno ed il
settimo tempo sono denominati sabato e riposo. Bisogna considerare attentamente
che dopo i sei tempi tribolati del primo stato
stata concessa libert e riposo nello Spirito Santo, e considerare altres
fino a che punto il popolo dei fedeli abbia sopportato la servit ed il giogo
della legge per servire il suo Signore nella libert dello Spirito, poich, come
dice l'Apostolo: non avete ricevuto lo Spirito della servit ancora una volta
nel timore, ma avete ricevuto lo Spirito dell'adozione filiale per il quale possiamo
dire: Abba, Padre!. Perci, poich lo Spirito Santo procede dal Padre ed a questi
spetta il sabato e la libert, era necessario in conformit a ci, che la settima
et iniziasse dal momento in cui Cristo
venuto nel mondo, perch questa et
stata concessa come il sabato per il popolo di Dio. E per tale
ragione stato inviato nello stesso tempo
lo Spirito Santo, perch iniziasse quella et. Allo stesso modo, dopo i sei tempi
faticosi di questo secondo stato che, in conformit a tale spiegazione, iniziato con Ozia, ovvero con Mos, verr
conferita al popolo Cristiano la libert, non vi
dubbio, nello Spirito Santo, affinch si vedano svelate le cose che fino
ad ora risultano ancora oscuramente percepibili solo come di riflesso. E cos
noi stessi procederemo di glorificazione in glorifi- cazione, e dallo Spirito
del Signore verr concessa la pace, nonch il sollievo wmasS dalla croce perch si
possa trovare nel Signore riposo dalle tribolazioni. Ci accadr dopo i sei
faticosi tempi del secondo stato che abbiamo detto essere pertinenti piuttosto
al Figlio, perch lo Spirito Santo dimostri di procedere dal Figlio di Dio. Esso
stesso lo definir Spirito che procede dal Padre, perch solo uno e sempre lo
stesso Spirito procede da entrambi. Per questa ragione la glorificazione della
settima et stata rimandata fino a questi
tempi, poich i tempi travagliati hanno impedito il riposo del sabato che stato concesso solo in parte e non
integralmente, fino a che si compiano i tempi del secondo stato che sono
destinati alla fatica dei cristiani.
dunque per quanto annunziato dal Padre e dal Figlio che crediamo che
ognuno di loro sia vero Dio, e, cio, che il Padre non sia generato da alcuno
come Dio ed altres che il Figlio derivi come Dio da Dio. Poich, in realt, il
Padre ed il Figlio, dai quali procede lo Spirito Santo, non sono simultaneamente
due dei ma un Dio solo, secondo quanto afferma il Figlio nel Vangelo dicendo:
Quando verr lo Spirito Santo che io invier a voi dal Padre, occorrer che si
concludano in altro modo le sette et, in maniera che vengano conteggiate fino a
Cristo cinque et, ed, inoltre, la sesta fino alla definitiva incarcerazione di
Satana, ed, ancora, la settima fino alla resurrezione dei morti. IL SALTERIO A
X CORDE UN'IMMAGINE MUSICALE NELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA MEDIEVALE Questa
ricerca si colloca all'interno del seminario tenutosi a Pavia nel secondo
semestre "Teologia e altri saperi nel Medioevo" e vuole essere un
contributo alia comprensione del difficile rapporto tra teologia e musica in
quest 1 epoca. In particolare verra presa in esame la figura del salterio a
dieci corde come esempio di un punto di contatto tra le discipline. Quello die
tradizionalmente e considerato lo strumento biblico per eccellenza, viene
infatti "preso a prestito" da alcuni ambiti della riflessione
teologica medievale, che attraverso una interpretazione simbolica e allegorica
ne arricchisce l'originaria disposizione. Dopo una introduzione relativa alia
storia dello strumento in epoca biblica e medievale si considereranno nello
specifico il Discorso n. 9 di Agostino, in cui l'autore recupera l'immagme in
un contesto prevalentemente teologico-morale, e si proporra quindi una disamina
del Primo libro del Salterio a dieci corde di F., per mettere in luce la
valenza mistico-escatologica che qui viene attribuita alio strumento. Il filo
conduttore della ricerca consiste dunque nel rintracciare, nell'ambito di una
riflessione che nasce e si sviluppa aH'interno di un contesto dichiaratamente
teologico, ma che trae motivi e sostegno argomentativo dal riferimento
all'immagine di uno strumento musicale, delle possibili influenze, o in qualche
modo degli spostamenti di traiettoria, dovuti all'interazione tra le due
discipline. Una breve storia del salterio a dieci corde. L'interesse
particolare per il salterio a dieci corde ha origine nel testo biblico. Il
Libro dei Salmi indica questo strumento come il piu adatto per accompagnare il
canto dei versi, e sembra essere attribuita alio stesso Davide una certa
abilita nella pratica di tale arte. Se i risultati della moderna esegesi
sembrano concordare nell'attribuire alia figura di Davide un ruolo fondamentale
nel processo di rinnovamento e di consolidamento di una pratica musicale
aH'interno della comunita ebraica 1, risulta ben piu problematica la
collocazione definitiva dello strumento in questione. La piu recente traduzione
del Testo Sacro, in diversi punti, preferisce rendere attraverso la locuzione
piuttosto generica di "strumento a corda" dei termini di poco chiara
comprensione musicologica. Il libro della Genesi, particolarmente ricco di
riferimenti a pratiche e strumenti musicali, identifica nel kinnor lo strumento
nel quale Davide eccelle. Dalla narrazione si evincono delle caratteristiche
che potrebbero awicinare come tipologia di strumento il kinnor e la lira greca
chiamata kithara 2 . D'altro canto, pero, la pratica musicale di tale strumento
prevede l'utilizzo di un plettro per pizzicare le corde, il che sembra essere
in contrasto con la traduzione proposta nella versione dei Settanta: il termine
psalterion rimanda infatti etimologicamente al verbo psallein, che significa
letteralmente "pizzicare con le dita. Nel periodo dei Re la scena musicale
di Israele muta radicalmente: proprio sotto l'impulso di Davide e di Salomone
si sviluppa un'organizzazione e un'istituzionalizzazione delle pratiche
musicali all'interno della comunita. Nasce la figura del musicista di
professione, comincia a distinguersi in modo netto la musica di corte dalla
musica del Tempio, si costituisce una vera e propria accademia come luogo
dell'educazione musicale, e vengono inseriti, accanto a quelli tradizionalmente
usati, nuovi strumenti musicali. Alcuni di questi, come per esempio il nevel,
possono fornire delle utili indicazioni a proposito del nostro strumento. Il
nevel e certamente uno strumento a corda: nella versione dei Settanta il
termine e reso attraverso l'utilizzo di tre parole distinte, una delle quali e
proprio psalterion. La Una tale interpretazione prende le mosse direttamente
dal testo biblico, che in piu punti sembra concordare nell'attribuire a Davide
il ruolo di "poeta" e di "musico": cfr. 1 Sam 16, 16; 18,
10; 2 Sam 1, Per l'argomento del presente capitolo si fara riferimento al testo
di C. Sachs, Storia degli strumenti musicali, Papini, Mondadori, Milano]
trasposizione latina di questo termine tende a far prevalere psalterium in
tutti e tre i casi, tanto che nell'intera Vulgata questo termine occorre
diciassette volte. La traduzione puo far pensare ad uno strumento simile
all'arpa: lo stesso Gerolamo ci informa del fatto che psalterium lignum illud
concavum unde sonus redditur superius habet. Sembra quindi possibile associare
la struttura del nevel a quella dell'arpa verticale angolare, diffusa sia
nell'area greca che in quella fenicia. La questione e pero ulteriormente
complicata da un altro termine che nel libro dei Salmi compare frequentemente
associato a nevel, ed e legato strettamente alia problematica del salterio a
dieci corde: il termine asor. Questa parola letteralmente significa
"dieci". L'esegesi ha piuttosto uniformemente interpretato tale
accostamento come il riferimento ad uno strumento musicale con dieci corde. Piu
recenti studi musicologici hanno invece mostrato che il termine potrebbe essere
piu correttamente inteso non come attributo riferito a nevel, ma come
sostantivo. Come tale rimanderebbe quindi ad uno strumento autonomo, a riguardo
del quale e difficile formulare ipotesi. Potrebbe essere infatti proprio questo
lo strumento a dieci corde da cui ha preso spunto la traduzione greca, come del
resto non sembra possibile escludere la possibility che il salterio a dieci
corde sia stata una "invenzione" dei traduttori greci e latini che
non trova una corrispondenza immediata nelle pratiche musicali ebraiche. La
problematica relativa alia classificazione degli strumenti a corda in epoca medievale
e ancora oggi piuttosto incerta. Sicuramente e attestabile una ampia diffusione
di arpe e cetre, che differivano pero tra loro anche notevolmente per quanto
riguarda la forma, le dimensioni, il numero delle corde e le accordature. Il
salterio e senza dubbio riconducibile alia famiglia delle cetre, e in
particolare ad uno strumento a corde pizzicate provenienti dall'area
meridionale del Vicino Oriente, il qanum. Tale strumento si distingue dal
santir, che costituisce un'altra tipologia di cetra proveniente dall'area
asiatica, la cui pratica musicale prevedeva la percussione delle corde
attraverso l'utilizzo di bastoncini. Sembra interessante sottolineare che la
prima rappresentazione grafica medievale di uno strumento simile al salterio
risale ad un rilievo del 1184 che si trova a Santiago de Compostela, e che
[Dalla lettera di Gerolamo a Dardano. La citazione si trova in C. Sachs, Storia
degli strumenti musicali. Per una disamina della questione in epoca medievale,
oltre al gia citato testo di Sachs, si veda: Giulio Cattin, La monodia nel
medioevo, EDT Edizioni, Torino, 1979; e Alberto Gallo, La polifonia nel
medioevo, EDT, Torino. in generale tali rappresentazioni sono piuttosto rare
prima del '300. Da queste considerazioni si puo dunque concludere che all'epoca
in cui maturano le riflessioni di Agostino e di Gioacchino da Fiore esisteva
uno strumento chiamato salterio. D'altro canto la sua diffusione comincia ad
avere una certa ampiezza solo in una fase piuttosto tarda del medioevo. Bisogna
infine tenere presente sullo sfondo il difficile rapporto in epoca medievale
tra musica liturgica e pratiche strumentali, che rimane un tenia di ampio
dibattito per la storiografia moderna. Questo sembra awalorare l'ipotesi
secondo cui la ripresa deH'immagine dello strumento trae origine da un contesto
esegetico-teologico molto prima che dall'osservazione di una pratica musicale
vera e propria. Il Discorso n.9 di Agostino "Sul salterio a died
corde". Il Discorso di Agostino "Sul salterio a dieci corde"
rappresenta un punto essenziale per la comprensione e la formazione
dell'immagine "teologica" dello strumento in questione. Le attuali
conoscenze del corpus agostiniano non permettono di individuare con certezza ne
la data ne il luogo in cui tale discorso fu tenuto. Il recupero deirimmagine
del salterio si inquadra in questo caso all'interno di un contesto propriamente
teologico-morale: l'obiettivo e quello di delineare un percorso di crescita
morale per il credente basato sull'osservanza dei dieci comandamenti.
L'argomentazione trova quindi la sua forza nel parallelismo che si instaura tra
i dieci precetti divini e le dieci corde del salterio. Il punto di partenza
consiste nell'indicare la necessita di trovare un accordo con l'avversario, che
viene identificato con la parola di Dio, dal momento che comanda cose contrarie
a quelle che fai tu 5 . In un certo senso, quindi, l'avversario sarebbe meglio
identificabile con la nostra disposizione interiore, che ci allontana da un
comportamento moralmente corretto in senso cristiano. Seguire le disposizioni
interiori risulta infatti molto pericoloso nell'ottica agostiniana, in quanto
da un lato si e spinti ad assecondarle poiche procurano un piacere immediato,
dall'altro proprio tale piacere e ricondotto alia sfera del sensibile e rappresenta
quindi una minaccia per la vita ultraterrena. Allora Agostino, Tractatus de
decern chordis; tr. it. P. Bellini, F. Cruciani, V. Tarulli, Trattato sul
salterio a dieci corde; in Agostino, Discorsi; sul vecchio testamento, Citta
Nuova, Roma. perche dovremmo camminare allietati da inutili canti che non ci
porteranno alcun vantaggio, dolci nel presente, amari in futuro? L'emergere di
questo tenia del canto ci permette di riferire lo stesso schema sopra rilevato
alia musica. Sembra delinearsi infatti una concezione ambivalente di tale
disciplina: da un lato, nel suo corretto uso, rappresenta uno strumento di
grande forza ed espressivita interiore, che puo permettere all'uomo di
innalzarsi verso la sfera divina. Dall'altro, se considerata nella sua
dimensione sensibile, puo essere la fonte di un appagamento dell'orecchio che
rappresenta un motivo di corruzione. Va notato che una tale impostazione e
riscontrabile in numerosi passi di Agostino, in primis nel De musica, ed e
un'eredita che l'ipponense riceve da una lunga tradizione filosofica
riconducibile come minimo a Platone 7 . La problematica ha avuto una grande
fortuna nella discussione della prima patristica 8 in relazione alle modalita
della pratica religiosa, e rimane uno sfondo obbligato per la comprensione
della musica cristiana in tutto il Medioevo 9 . Su questo sfondo Agostino
introduce il tema piu propriamente morale, recuperando la figura del salterio:
ecco, porto il salterio, ha dieci corde [...]. Perche e aspro il suono del
salterio di Dio? Cantiamo tutti con il salterio a dieci corde. Vi cantero
quello che dovrete fare. Il decalogo della legge infatti ha dieci comandamenti.
10 L'asprezza attribuita al suono dello strumento non e evidentemente da
ricondurre ad un ambito musicale, quanto da intendere in senso figurato come
metafora della difficolta del cammino da compiere per ottenere la benevolenza
divina. La giustificazione del recupero deirimmagine dello strumento e indicata
nel legame ideale che si instaura tra i dieci comandamenti e le dieci corde. In
relazione a questo tema e da rilevare come Agostino, riprendendo una esegesi
molto diffusa, distingua i primi tre comandamenti, e quindi le prime tre Si
veda il VII libro delle Leggi, e il III libro della Repubblica, per esempio. 8
Un'analisi piu puntuale di tale discussione, interpretata in relazione alia
concezione agostiniana, si trova in: P. Sequeri, Musica e mistica, Libreria
Editrice Vaticana, Citta del Vaticano, 2005, cap. 2, pp. 45-106. 9 Si veda in
particolare l'ampia discussione sul rapporto tra musica cantata e musica
strumentale, e il problema della musica vulgaris in relazione alia musica
liturgica. Una disamina di tali questioni si trova nei testi gia citati di
Giulio Cattin e Alberto Gallo. 10 Agostino, Sul salterio a dieci corde., corde,
che rimandano ai doveri verso Dio, dai successivi sette, che danno disposizioni
relative al comportamento verso i propri simili. Sebbene l'intento primario del
discorso non sia un intento musicale, la metafora istituita tra il percorso
cristiano e la figura del salterio e portata fino in fondo: dal corretto
utilizzo dello strumento, che corrisponde al rispetto disciplinato dei
comandamenti, emerge il canto nuovo, che si contrappone al vecchio proprio come
l'uomo nuovo, che nasce a seguito della venuta di Cristo, si contrappone
all'uomo dell'Antico Testamento. Il canto d'amore che nasce con Cristo prende
il posto del timore, che lega l'osservanza della legge alia paura della
punizione divina. E 1 questo il nocciolo argomentativo del discorso, e il tema
viene ribadito in piu punti. Al capitolo 8 Agostino afferma: Cambiate il
comportamento. Prima amavate il mondo, ora amate Dio. Se lo fate con amore,
cantate il canto nuovo. Se lo fate con timore, ma lo fate, portate si il
salterio, ma ancora non cantate n . Nel capitolo 13, che rappresenta il culmine
del discorso, l'argomentazione viene ribadita attraverso l'utilizzo di una
metafora che le conferisce una grande forza persuasiva. L'osservanza dei
comandamenti deve implicare contemporaneamente un atto di ringraziamento a Dio
per la grazia concessa, e un atto di repulsione e di lotta interiore contro la
passione sensibile. Il credente, quindi, deve comportarsi da un lato come il
suonatore di cetra che innalza le sue lodi a Dio, dall'altro come il gladiatore
che uccide senza compassione le belve nell'arena. Il passo merita di essere
citato testualmente: Negli spettacoli dell'anfiteatro il gladiatore e diverso
da chi suona la cetra. Nello spettacolo di Dio unica e la persona. Tocca le
dieci corde e ucciderai le dieci belve: fai insieme tutte e due le cose. Tocchi
la prima corda, con la quale si comanda di adorare un solo Dio, cade la bestia
della superstizione. Tocchi la seconda corda con la quale non pronunci
erroneamente il nome del Signore tuo Dio, cade la bestia dell'errore delle
nefande eresie che hanno creduto falsamente. Tocchi la terza corda, per cui
qualunque cosa fai la fai per nella speranza del riposo futuro, viene uccisa la
bestia, piu crudele delle altre, dell'attaccamento a questo mondo. Lo stesso
discorso vale per i successivi sette comandamenti, che enunciano i nostri
doveri verso gli uomini, fino a che M, p. 165. 12 Ivi, p. 173. cadute tutte le
bestie ti trovi sicuro e innocente nell'amore di Dio e in mezzo alia societa
umana. Quante bestie uccidi toccando le dieci corde! Molti capi infatti si
nascondono sotto questi vizi capitali. Nelle singole corde non uccidi singole
bestie, ma greggi di bestie. Facendo in questo modo canterai il canto nuovo con
amore, non con timore. Il canto nuovo, dunque, si puo innalzare attraverso
l'osservanza dei comandamenti divini. Si istituisce cosi una contrapposizione
tra l'uomo vecchio dell'Antico Testamento che basa sul timore l'osservanza
della Legge divina, e l'uomo nuovo che nasce con la rivelazione di Cristo che
basa sull'amore verso Dio e verso il prossimo la propria condotta. In questa
contrapposizione e centrale l'elemento del canto: il canto esteriore, che si
fonda sull'appagamento sensibile, rappresenta la pratica musicale dell'uomo
vecchio, mentre il canto interiore, che innalza il nostro animo a Dio, e
proprio dell'uomo nuovo. E' quindi significativo come, attraverso il ricorso
alia musica, Agostino voglia argomentare la pericolosita delle passioni
terrene. Nella sua intrinseca ambivalenza e nella sua sfuggente duplicita,
proprio la musica diventa il modello della fragilita e della corruttibilita
dell'uomo: anche un elemento apparentemente cosi puro e spirituale puo
trasformarsi in una causa di corruzione per colui che non si comporta in
conformita alia parola di Dio. L'ammonimento, che trova il suo motivo e il suo
compimento all'interno di un contesto teologico-morale, risulta certamente
arricchito e reso persuasivo attraverso il ricorso a questa metafora musicale.
Negli ultimi capitoli del discorso Agostino, seguendo uno schema piuttosto
consolidato, traduce l'argomentazione fino a questo punto esposta in un lessico
neotestamentario: il decalogo di Mose puo essere sintetizzato nelle formule
evangeliche ama il prossimo tuo come te stesso 14 e non fare agli altri cio che
non vuoi sia fatto a te 15 . Conseguentemente, l'immagine del canto interiore
ed esteriore viene riformulata attraverso l'espressione siate cristiani, perche
e troppo poco chiamarsi cristiani. 16 E' importante notare come le riflessioni
qui proposte siano presenti, seppur in maniera meno sistematica, nei commenti
di Agostino ai Salmi: nel commento al Salmo 32 compare il paragone tra i dieci
13 Ivi, p. 175. 14 Mt 19, 19; Mc 12, 31; Lc 10, 27. 15 Mt 7, 12; Lc 6, 31. 16
Agostino, Sul salterio a dieci corde. comandamenti e le dieci corde del
salterio, nel commento al Salmo 143 il tema centrale del canto nuovo che nasce
attraverso la carita 17 . Questo particolare e di una certa rilevanza per la
nostra ricerca, dal momento che permette di dare per scontata la conoscenza
delle posizioni agostiniane da parte di Gioacchino da Fiore. E 1 del tutto
implausibile infatti pensare che l'abate cistercense non conoscesse il testo
delle Enarrationes, mentre non sarebbe altrettanto da dare per scontata la
conoscenza del Discorso fin qui considerato. Senza voler in questa sede
risolvere un problema che meriterebbe una piu approfondita indagine
storiografica, si vuole rilevare che la ripresa delle posizioni agostiniane da
parte di F., in questo contesto argomentativo, si riferisce sicuramente ai
passi citati dell 1 Esposizione sui Salmi, mentre sembra trascurare alcuni
elementi che pur assumono una importanza non secondaria nel Discorso. Il
"Salterio a dieci corde" di F.: il contesto storico e il Prologo Lo
Psalterium decern chordarum rappresenta il principale contributo di F. sul tema
della trinita, ed e dunque da inquadrare aH'interno di uno dei dibattiti piu
accesi della discussione teologica del XII secolo. In seguito al confronto, di
vastissima risonanza, che vide contrapposte le figure di Abelardo e di Bernardo
di Clairvaux, la disputa fu ravvivata dalla pubblicazione delle Sententiae di
Pietro Lombardo, tra gli anni 1155-1157. Le tesi contenute in quest'opera
suscitarono aspre [Si veda anche il commento al Salmo 91 dove compare il tema
sintetizzabile nella massima siate cristiani, non ditevi cristiani. Un altro
tema particolarmente ricorrente nelle Enarrationes consiste nella differenza
tra la cetra e il salterio. Nell'interpretazione agostiniana infatti in
relazione alia differente disposizione della cassa di risonanza i due strumenti
rappresentano lo spirito (il salterio, che ha la cassa disposta verso l'alto) e
la carne (la cetra, la cui cassa e invece orientata verso il basso). Il tema
compare in diversi passi: si veda 70 d 2, 11; 80, 5; 97, 5; 150, 6-7.
Particolarmente interessante e la formulazione nel commento al Salmo: c'e una
differenza tra la cetra e il salterio. Gli esperti dicono che il salterio ha
nella parte superiore quel legno concavo su cui sono tese le corde e fa da
cassa di risonanza, mentre la cetra lo ha nella parte inferiore. Il
riconoscimento di un particolare cosi macroscopico non sembra certo necessitare
il riferimento a giudizi "esperti". Si potrebbe pensare, addirittura,
che Agostino non avesse mai visto personalmente gli strumenti in questione.
critiche da parte di diversi opposition 18, tra i quali proprio F..
Quest'ultimo, infatti, prende una posizione decisa contro gli argomenti
sostenuti dall'allievo di Abelardo, fino al punto di vedere condannata la sua
stessa opera nel IV Concilio Lateranense. Il nocciolo della disputa e la
distinzione tra sostanza e persone divine, che risulta comunemente accettata
nelle principali scuole teologiche del XII secolo. F. arriva a sostenere la
follia di una tale impostazione, teorizzando, al contrario, la perfetta
compenetrazione e corrispondenza tra la sostanza e le persone della trinita.
Nella sua ottica, l'unita inscindibile che caratterizza la trinita non puo
prevedere distinzioni di alcuna sorta: e piuttosto il carattere relazionale che
permette di garantire la fusione perfetta tra le tre persone, e alio stesso
tempo il loro riconoscimento singolare, come dimostra chiaramente la figura del
salterio. Distinguendo la sostanza dalle persone della trinita, invece, Lombardo
e come se mettesse tre dieci al posto delle tre persone, e un quarto dieci al
posto della sostanza, come se Dio non fosse trinita, ma una quaternita 19 . La
figura argomentativa che viene posta al centro della critica e quella
tradizionale dei tre rami provenienti dalla stessa radice: la sostanza, secondo
questa metafora, sarebbe distinguibile dalle tre persone divine, proprio come i
rami lo sono dalla radice, dalla quale pure tutti sono generati. Per F., al
contrario, l'immagine a cui si dovrebbe fare ricorso e quella dell'acqua, che
come linfa vitale scorre aH'interno dei rami stessi. Da questi passi si puo
dunque intuire come l'obiettivo polemico principale sia proprio l'autore delle
Sententiae, anche se e da rilevare che il suo nome non viene mai citato
esplicitamente. I nomi che ricorrono in piu punti, invece, sono quelli degli
eretici Sabellio e Ario, le cui eresie consistono nel ridurre, il primo, la
trinita ad una sola persona 20, mentre il secondo nel separare in modo
inconciliabile le tre persone, che vengono distinte per grado dimensionale:
come se al Padre offrisse dieci, al Figlio cinque, alio [Si ricorda ad esempio
Gerhoh di Reichersberg, le cui posizioni ebbero grande influenza sul Papa
Alessandro III, e Giovanni di Cornwall. Per un'analisi piu puntuale del
dibattito si veda G. L. Potesta, J/ tempo dell'Apocalisse. Vita di F., Laterza,
Roma Bari. G., ll salterio a dieci corde, tr. it. di F. Troncarelli, K. V.
Selge, Viella, Roma. Sabellio teorizza infatti la rigorosa unita e indivisibility
di Dio, formato da una sola persona, l'ipostasi, e tre nomi, che descrivono le
diverse forme o attributi propri della sua manifestazione. Il figlio e lo
Spirito Santo sono quindi soltanto "modi" dell'apparire del Padre
scelti in base al proprio volere. Spirito Santo un numero piu piccolo. 21 La
stesura dell'opera si colloca all'interno di una vicenda biografica
particolare, di cui e lo stesso F. ad informarci. Il Prologo dell'opera,
infatti, consiste in un ripensamento a posteriori sulla genesi di questo opuscolo
dedicato alio Spirito Santo, che rappresenta la terza delle sue opere
principali 23 . Il tenia principale su cui si insiste in queste pagine e la
spontaneita e l'immediatezza che hanno caratterizzato l'elaborazione e la
stesura di tale opera. Gli anni in cui questo awiene sono quelli del soggiorno
presso l'abazia di Casamari: anni di grande entusiasmo intellettuale, in cui
F., lontano dagli affari del mondo, o quasi, arriva a sentirsi addirittura un
abitante della citta superiore, celeste di Dio 24 . Si tratta degli anni tra il
1182 e il 1185, in cui gli sforzi intellettuali dell'abate sono rivolti alia
Concordia Novi ac Veteris Testament^ che sara portata a termine solo qualche
tempo piu tardi. E 1 proprio durante la stesura di quest'opera, infatti, che
l'animo di Gioacchino viene scosso da una inaspettata esitazione nella fede
della trinita 25, che impone una riflessione su questo difficile argomento. Il
lavoro sulla Concordia viene quindi interrotto, nell'interesse di una
problematica costitutiva ed imprescindibile per qualsiasi riflessione
teologica. La stessa immediatezza che caratterizza il sorgere del problema si
ritrova nel percorso che porta alia scoperta di una soluzione: pregai [lo
Spirito Santo] che si degnasse di mostrarmi il sacro mistero della Trinita. E
dicendo questo incominciai a cantare i salmi. [...] Ed ecco subito mi si
presento all'animo l'immagine del salterio. F., II salterio a dieci corde. La
tesi fondamentale di Ario consiste nella negazione della consustanzialita tra
il Padre e il Figlio, a partire dall'idea che l'unita di Dio e incompatibile
con la pluralita delle persone divine. Il Figlio, quindi, non ha la stessa
natura del Padre, ma e la sua prima creatura, con la conseguenza che
l'incarnazione e la resurrezione di Cristo non possono essere considerati
eventi divini. il dibattito sull'arianesimo infiammo la disputa teologica del
IV secolo, e si concluse con la condanna delle tesi di Ario durante il Concilio
di Nicea. F., Il salterio a died corde, cit., p. 4. 23 Le altre due opere che
costituiscono il corpus principale gioachimita sono la Concordia Novi ac
Veteris Testamenti e I'Expositio in Apocalypsim. Va qui notato che
l'indicazione del "Salterio a dieci corde" come "terza"
opera e sostenuta conformemente alle istruzioni date dallo stesso F.. Tale
affermazione non e riconducibile a ragioni cronologiche, quanto probabilmente
ad un ripensamento tematico sui propri scritti da parte dell'autore. F., Il
salterio a dieci corde. 10 a dieci corde e racchiuso nella sua forma stessa in
modo chiaro e comprensibile il mistero della trinita 26 . Una vera e propria
illuminazione, che scaturisce dalla grazia divina: un percorso che sembra
orientarsi ben piu sul versante mistico che su quelle- speculativo-razionale.
In questo contesto il tenia del canto riveste un ruolo essenziale, come chiave
di accesso ad un'intima comunicazione con la parola di Dio. Il concetto viene
ribadito in un altro passo del Prologo: quando, con fervore di novizio
cominciai ad amare il canto dei salmi a causa di Dio, molti aspetti della
scrittura divina che prima leggendo non avevo potuto investigare, cominciarono
a dischiudersi a me che cantavo i salmi in silenzio. Il carattere mistico del
canto, che puo innalzare lo spirito verso quei misteri che risultano oscuri alia
lettura razionale, emerge in queste righe con estrema efficacia. Alio stesso
tempo, pero, non si puo trascurare l'elemento del canto silenzioso, che sembra
rimandare invece all'altro versante della concezione platonico-agostiniana: la
valenza corruttrice dell'elemento sensibile. Un canto che viene quindi
ricercato in un grado tale di purezza da poter arrivare addirittura ad
annullare se stesso. L'indicazione di F., in questo punto, non sembra volersi
spingere fino a questa paradossale conclusione, che pur e stata teorizzata da
diversi autori in epoca medievale. Il recupero dell'elemento musicale, come si
vedra, procede piuttosto in conformita all'impianto complessivo dell'opera,
finalizzato ad esaltare le potenzialita figurali e le implicazioni visive della
Sacra pagina. L'idea e di attingere a un repertorio di enti visibili per
accedere ah"invisibile. Si potrebbe dire che l'elemento figurato incarna
ed esplica, in un certo senso, il contenuto di verita degli argomenti teorici
qui proposti. Se da un lato questa incarnazione segna anche il punto di
partenza per un percorso spirituale che, pur procedendo al di fuori del confine
della razionalita logica, puo innalzare alle sfere del divino, dall'altro lato
la coerenza argomentativa non puo essere garantita se non all'interno del
riferimento ad un elemento materiale, esperibile, concretamente attingibile. Il
canto silenzioso non sembra quindi poter arrivare ad eliminare la musicalita
del canto sensibile, quanto piuttosto si caratterizza come la prova tangibile di
un dissidio non ancora risolto, Potesta, II tempo dell'Apocalisse, di
un'ambivalenza strutturale nell'interpretazione della musica, che dovra passare
anche il confine del XII secolo prima di trovare una soluzione. La struttura
dell'opera permette una divisione interna in due parti: la prima comprendente
il libro primo, la seconda il libro secondo e terzo. Tale distinzione interessa
sia il contenuto semantico, sia il periodo di stesura: e lo stesso F. ad
informarci del fatto che il secondo e il terzo libro non li scrissi ne in quel
luogo ne in quell'epoca, ma dopo circa due anni. E 1 un'informazione non
sorprendente alia luce del contenuto, che sembra separato da una linea ben
definita. La differenza consiste nel fatto che, mentre nella prima parte il "salterio"
rappresenta lo strumento musicale fin qui considerato, e la sua ripresa e
relativa alia disputa sulla trinita, lo stesso termine viene usato nella
seconda parte per indicare il libro biblico dei Salmi, a partire dal quale
viene costruita una prospettiva escatologica ed esegetica che si basa sul
numero 150, che corrisponde appunto al totale dei Salmi. Se la prima parte si
contraddistingue, come visto, per il carattere di immediatezza e spontaneita
della riflessione, la seconda appare, invece, certamente piu pensata, piu
costruita, in riferimento ad un ingente e puntuale recupero del testo sacro.
Caratteristiche che la avvicinano certamente piu alia produzione escatologica
di Gioacchino, che non al resto dell'opera. Si potrebbe pensare, come afferma
Potesta, che il materiale che forma questi libri sia il risultato di una serie
di appunti raccolti in circa un decennio di riflessioni sulla Concordia e
sull'Expositio, e che trova una sistemazione definitiva piuttosto tarda. In
ogni caso e evidente che e la prima parte dell'opera ad interessare piu
direttamente il tema della nostra ricerca. Sara questa, dunque, l'oggetto del
prossimo paragrafo. Il "Salterio a dieci corde" di F.: il Libro Primo
Il Primo libro del Salterio a dieci corde parte dall'immagine dello strumento
musicale per indagare la ricchezza dei misteri in essa contenuti. Misteri che
derivano dall'origine divina, per cui niente puo esservi di sterile o vano 30 .
Il riferimento e, ovviamente, in primo luogo al testo biblico, e in particolare
alia figura di Davide, autore dei Salmi, F., Il salterio a dieci corde.di cui
vengono citati alcuni passi che rimandano all'utilizzo del salterio nelle
pratiche liturgiche ebraiche 31 . La struttura del libro risulta divisa in
sette capitoli, o "distinzioni", in cui progressivamente vengono
introdotti nuovi elementi per una comprensione che passa dal piano della
semplice descrizione alio svelamento della prospettiva escatologica contenuta
nella forma dello strumento. La prima distinzione introduce la figura del salterio,
che viene descritto come uno strumento bello di forma, aggraziato per il suono,
soave per la modulazione 32 . Le caratteristiche che compaiono in questo passo
sono notevolmente diverse da quelle che si sono viste prevalere nella
descrizione agostiniana, in cui aspro e il suono dello strumento di Dio 33 . Il
riferimento e il confronto con gli elementi contenuti nelle Enarrationes appare
del resto evidente fin dalle prime righe del capitolo: F. riprende, seppur in
maniera estremamente sintetica, la distinzione tra il salterio e la cetra nella
loro differente funzione spirituale, il paragone tra le dieci corde e i dieci
comandamenti, la differenza tra le prime tre corde e le successive sette. E in
seguito compare il tema dell 1 uomo nuovo che e stato creato a immagine di Dio
34, che nasce dal "canto nuovo" del salterio. Se e facile dunque
riconoscere sullo sfondo la presenza e la conoscenza delle tesi agostiniane,
risulta altrettanto semplice vedere come F. proceda, ben presto, verso l'elaborazione
di un percorso autonomo, che per alcune implicazioni e addirittura contrastante
con le posizioni dell'ipponense. Sal. 80, 3: "Intonate il cantico e
suonate il timpano, il giocondo salterio e la cetra"; Sal. 150, 3:
"Lodatelo col suono della tromba, lodatelo col salterio e la cetra".
32 F., II salterio a dieci corde, Agostino, Sul salterio a dieci corde 34 Ef.
4, 24. 35 La problematica relativa al complesso rapporto tra Agostino e F.
esula dagli obiettivi di questa ricerca. Si vuole d'altra parte richiamare,
almeno in termini generali, lo sfondo entro il quale collocare la discussione.
Potesta indica proprio nel confronto a distanza con l'inquietante ombra di
Agostino un motivo per capire il laborioso ed esitante procedere della ricerca
teologica di F. (Potesta, Il tempo dell'Apocalisse, cit., p. 8). Il termine
centrale del dibattito consiste nel divieto espresso da Agostino di
interpretare l'Apocalisse in chiave millenaristica. Questo rappresenta un
grande scoglio per lo sviluppo complessivo della ricerca dell'abate calabrese,
interessato, in primo luogo, proprio ad un'interpretazione della storia a
partire dall'analisi del testo dell'Apocalisse. In particolare, la chiave di
volta del pensiero gioachimita si basa sull'interpretazione dei versetti del
capitolo 20 come preannuncio di un'epoca terrena di cui e imminente
l'instaurazione. Su questo sfondo diversi sono gli elementi di incompatibilita
tra i due pensatori, che riguardano del resto le opere in cui la [Il punto di
partenza di questo percorso consiste nell 1 inter pretare in primo luogo il
salterio secondo la sua forma esterna, senza fare riferimento alia natura delle
corde, che invece rappresenta il principale motivo di interesse della ripresa
agostiniana. La forma triangolare rimanda alia perfezione e alia natura
inscindibile dell'unita trinitaria: ad ogni vertice puo infatti essere
associato il nome di una delle tre persone, come si puo vedere dalla figura 1
riportata in Appendice. Si puo quindi immediatamente notare come ogni persona
sia costitutivamente messa in relazione alle altre: proprio come il vertice non
puo essere individuato se non come punto di incontro delle rette che provengono
dagli altri due. L'intero spazio delimitato dalla figura si caratterizza quindi
come uno spazio indissolubilmente unitario, in cui ogni elemento non puo che
definirsi nel rapporto con il tutto, ma alio stesso tempo e individuabile in
uno dei tre vertici. In questo complicato rapporto e l'elemento relazionale a
fondare le possibility di comprensione da parte della mente umana: ogni persona
non e pensabile se non come relazione che si instaura con le altre due. ll
concetto di trinita si riferisce, dunque, alia categoria di relazione a
qualcosa; e ugualmente quello di unita: la trinita a evitare il singolare della
parola di persona; l'unita a evitare la divisione nel concetto di sostanza. 36
Sullo sfondo del riferimento polemico alle tesi di Lombardo, risulta evidente
come sia dunque la categoria di relazione ad indirizzare e guidare la mente
neiravvicinamento ad un mistero che per sua essenza rimane inarrivabile per le
nostre facolta razionali. Di fronte a questa presa di coscienza non e piu
concesso cercare di spingersi oltre, quanto piuttosto e da accettare la massima
di Bernardo secondo cui voler investigare cio e orgoglio, crederlo e pieta. Non
resta dunque che un atto di fede di fronte ad un tale mistero, che per sua
natura rimane ineffabile. L'ineffabilita di tale mistero sembra riaprire nella
prospettiva escatologica emerge in modo prevalente, come nel caso dell' Expositio.
L'interesse per l'Agostino musicus e quindi del tutto marginale, nel complesso
del pensiero di F., e viene qui richiamato solo per favorire la comprensione
della particolarita dell'approccio gioachimita nei confronti dello strumento
del salterio. Un tale confronto, del resto, potrebbe fornire qualche
interessante indicazione per una comprensione piu generale del problema. F., II
salterio a died corde. L'utilizzo di questo termine per descrivere Palterita
del mistero trinitario rispetto alia nostra comprensione razionale avvicina
curiosamente la riflessione di F. ad un'area di indagine che ha avuto grande
fortuna nell'eta moderna, riflessione uno spazio per l'elemento propriamente
musicale: tra le arti e tradizionalmente la musica, infatti, proprio a causa
della sua non corrispondenza con un corpo sensibile, della sua costitutiva
impalpability, ad avere il carattere piu sfuggente, apparentemente altro.
Ineffabile, appunto. Di fronte al fallimento delle nostre facolta razionali,
che devono dichiarare la resa, resta quindi all'uomo ancora una possibility per
mantenere aperto uno spiraglio, un punto di contatto con il mistero divino:
l'elemento musicale, attraverso cui esprimere la propria invocazione di lode a
Dio. Il salterio, in queste pagine, cessa di essere interpretato esclusivamente
come una forma geometrica per cominciare ad essere considerato secondo la sua
disposizione originaria di strumento musicale. Ai vertici si puo quindi
collocare il termine "Santo", che ripetuto tre volte rappresenta la
perfezione del canto di lode, mentre nel foro della cassa di risonanza si puo
inscrivere il nome del "Signore Dio degli eserciti", simbolo
dell'onnipotenza divina. E proprio questo foro da un lato rappresenta
l'elemento da cui scaturisce la vibrazione sensibile che rende udibile il
canto, dall' altro il fine stesso verso cui tale canto e rivolto. L'ultimo
passo compiuto da F. in questa prima distinzione consiste nel mettere in
relazione proprio questi due elementi geometrici che contraddistinguono la forma
del salterio: il triangolo e il cerchio. Questa caratteristica permette di
rimarcare la sfuggente natura del mistero trinitario: nei vertici del triangolo
sono infatti distinguibili le persone divine, e d' altro canto il cerchio
simboleggia la loro intima connessione che forma un'unita inscindibile. La
metafora puo essere estesa al fatto che proprio in questa unita, cioe
nell'elemento circolare che rappresenta la cassa armonica da cui fuoriesce il
suono, lo strumento compie la sua funzione. La correttezza dell'argomentazione
e ulteriormente giustificata attraverso il riferimento al versetto di
Apocalisse 1, 8: "lo sono l'alfa e l'omega". L'essere atemporale di
Dio, il suo essere al principio come nella fine, e espresso in questo passo
biblico proprio in relazione alia prima e all'ultima lettera dell'alfabeto
greco, le cui raffigurazioni grafiche consistono in un triangolo e in un
cerchio. Il riferimento al passo biblico conclude gli sforzi di F. in questa
prima distinzione: la perfezione del salterio, attraverso cui si incarna in una
forma compiuta il mistero trinitario, eleva ad una proprio nell'ambito della
riflessione filosofico-musicale: si veda Jankelevitch, La musica e Vineffabile.
Sebbene non si possa attribuire a F., evidentemente, alcuna intenzionalita
nell'utilizzo di questo termine, il confronto tra le prospettive potrebbe
portare ad interessanti conclusioni. prospettiva che permette di abbracciare la
perfezione dell'immagine di Dio nella pienezza dei tempi. Di fronte a questo la
ragione e costretta a fermarsi, e proprio in quel punto deve cominciare il
canto. Nella seconda distinzione F. insiste sull'elemento relazionale come
chiave interpretativa e risolutiva del mistero della trinita. Ricorrendo ancora
una volta aH'immagine del salterio, la prospettiva e delineata attraverso
l'osservazione per cui i tre vertici non possono essere considerati elementi
autonomi, ma relazionali, prodotti dall'unione di due rette secanti. Rette che
rappresentano proprio l'unione di ogni vertice con gli altri due, in modo che nessun
punto potrebbe esistere se non in riferimento agli altri. Lo spazio che
pertiene ad ogni persona, non e pero da intendersi come il singolo punto
isolato, ma come l'angolo avente il suo vertice in quel punto, che come tale e
rappresentato dall'area che sta in mezzo ai lati dell'angolo stesso. Si puo
notare, quindi, che lo spazio di ogni persona coincide con l'intera area del
triangolo. Anzi, ogni area si costituisce in quanto tale, cioe come porzione
delimitata di spazio, proprio attraverso la relazione con le altre due, che le
impediscono di estendersi all'mfinito. La terza distinzione contiene una
discussione prettamente teologica sugli attributi delle tre persone divine, e
riguarda in modo meno diretto il tema della nostra ricerca. Si vuole solo osservare
come anche questa prospettiva permetta a F. di insistere sul concetto di
relazione come elemento centrale per una corretta interpretazione del problema:
la potenza, la sapienza e la carita, caratteristiche che vengono
tradizionalmente attribuite al Padre, al Figlio e alio Spirito Santo, non sono
da concepire come elementi distinti e separabili tra loro, dal momento che
tutta la trinita e perfetta potenza, tutta la trinita e perfetta sapienza,
tutta la trinita e perfetto amore. Conseguentemente non sono maggiori o hanno
di piu le tre persone, di quello che ha ciascuna, e non ha meno una, di quello
che hanno le tre insieme. Nella quarta distinzione si introduce un nuovo
elemento nell'interpretazione del salterio, che consiste nell'osservare che il
vertice superiore non e rappresentato attraverso un singolo punto, ma da un
segmento. Questo esprime la priorita del Padre da cui viene generato il Figlio
e successivamente lo Spirito Santo, che procede da entrambi. L'argomentazione
assume in queste pagine dei tratti piuttosto originali, strutturandosi sulla
base di un parallelismo ricercato tra F., II salterio a died corde. l'argomento
teologico e la nostra modalita di scrittura. Il procedere della scrittura
cristiana da sinistra verso destra starebbe infatti a conferma del fatto che la
creazione ha inizio col Padre, che genera in primo luogo il Figlio (lato e
vertice sinistro), la cui unione produce lo Spirito Santo (inteso come vertice
destro). Al contrario, stando alle Scritture, in epoca ebraica Cristo e stato
concepito attraverso il corpo di Maria per opera dello Spirito Santo Questo
fatto e testimoniato dal procedere della scrittura ebraica da destra verso
sinistra. F., del resto, si rende conto che gli elementi introdotti in queste
pagine potrebbero indurre a pensare a una differenza di grado tra le persone
divine, il che sarebbe assolutamente errato. E 1 necessario, quindi, spingere
la lettura interpretativa ancora piu in la, osservando che il segmento
superiore e tale dal momento che in origine non e soltanto il Padre, ma
l'intera trinita, poiche presso Dio non c'e mutamento, ne l'ombra della
vicissitudine. La forma trapezoidale del salterio indica quindi che, fin dal
principio, erano presenti le tre figure della trinita: e questo l'argomento
della quinta distinzione. Il confronto tra la particolare considerazione del
salterio che viene fatta nella quarta e nella sesta distinzione, permette di
mettere in luce ancora una volta la peculiarity della riflessione di F. che,
basandosi sul recupero di un'immagine "musicale", oscilla tra le due
sponde della rigida argomentazione teologica e dell'emozione mistica
rappresentata dal canto. Il termine "Onnipotente" che compare nel
vertice del Padre viene qui sostituito da "chiediamo": il salterio
torna a essere uno strumento musicale attraverso cui innalzare la nostra
invocazione al divino. Ancora una volta, di fronte all'incertezza della
ragione, che si trova a dover contemplare l'incommensurabile perfezione
dell'eterna esistenza di Dio, sopravvive l'elemento musicale, inteso da un lato
come strumento di comprensione mistica del mistero divino, dall'altro come
ringraziamento per la grazia concessa. Su questo sfondo F. riprende il filo
della riflessione teorica: l'affermazione dell'eterna esistenza della trinita
lascia aperto il problema relativo al suo manifestarsi all'interno del tempo
umano: perche il divino, essendo trino fin dal principio, non si e da subito
rivelato all'uomo nella sua essenza piu autentica? La domanda introduce
all'interno di una prospettiva escatologica, che F. argomenta attraverso una
riflessione sul percorso di maturazione dell'uomo. Dio ha dovuto in un certo
senso aspettare che 41 Mt; Lc ; Gv 42 Gcl, l'uomo fosse in grado di comprendere
la sua rivelazione: per questo a quel popolo ancora rozzo 43 che fu quelle-
dell'Antico Testamento si mostro solo come Padre, perche la sua natura trina
sarebbe stata fraintesa in senso politeista. In seguito solo a qualche spirito
particolarmente elevato, come quello dei profeti, e stato dato di comprendere
il mistero, come dimostra Isaia che in piu punti si rivolge
"apertamente" al Figlio: Signore, chi crede al nostro udito, e il
braccio di Dio a chi e stato rivelato? E salira come un virgulto davanti a lui
e come una radice dalla terra assetata 44 . Solo con l'avanzare della
maturazione dell'uomo, cioe con il popolo cristiano, piu vecchio nell'eta 45,
Dio si e potuto mostrare nella sua reale essenza. A questo schema
apparentemente binario, che si struttura in riferimento alia contrapposizione
Antico-Nuovo Testamento, F. fa seguire un'interpretazione ternaria del tempo
della storia dell'uomo, che viene suddiviso in riferimento alle figure della
trinita. L'argomento viene meglio sviluppato nel libro secondo, in cui
all'epoca del timore e a quella dell'amore, che tradizionalmente corrispondono
al tempo della Legge e quello inaugurato con la venuta di Cristo, F. fa seguire
una terza epoca, che sta per cominciare, sotto il segno dello Spirito Santo.
Proprio questa epoca rappresenta il culmine del disegno divino: come la prima
fu quella del Padre, e la seconda non solo del Figlio, ma del Padre e del
Figlio insieme, cosi la terza sara l'epoca della trinita nella sua unita
perfetta, in cui saranno presenti nello stesso tempo il Padre, il Figlio e lo
Spirito. Di fronte aH'imminenza di questo tempo, che rappresenta il trionfo dei
giusti, l'intento e quello di ammonire coloro che abitano in mezzo a Babilonia,
a fuggire da essa 47 . Il richiamo al secondo libro permette di notare F., II
salterio a died corde. 44 Is 53,1. F., Il salterio a died corde. La compresenza
di questi due modelli escatologici nel pensiero gioachimita e stato fin da
subito una questione centrale tra gli studiosi. Attorno a questo nodo si e
infatti orientato il dibattito ecclesiastico sulla duplice reputazione dell'abate,
che da un lato poteva essere letto come ortodosso (in relazione al modello
binario), dall'altro eterodosso (ponendo l'accento su quello ternario). La
storiografia successiva ha a lungo sottovalutato il problema. Alcuni studiosi
hanno provato ad interpretare il modello binario in relazione alia prospettiva
storica e quello ternario a quella mistica. Si noti che la questione
costituisce un altro elemento di forte distanza tra il pensiero di F. e quello
di Agostino. Per una piu curata riflessione sul tema si veda ancora: Potesta,
Il tempo dell'Apocalisse, cit. F., Il salterio a died corde, cit., p. 172. La
citazione rimanda al versetto di Ap. 18, 4.18 come anche in questo contesto il
limite della comprensione razionale, che si deve arrestare di fronte alia
grandezza del disegno divino, rappresenta l'inizio di un nuovo percorso dove
assolutamente centrale e l'elemento musicale: a noi ormai deve bastare di avere
in questo modo e fin qui contato le corde. [...] E 1 il tempo di dover cantare
e salmodiareTornando alia sesta distinzione, F. procede facendo corrispondere
alia tripartizione della storia tre tipologie di figure umane, distinte tra
loro in riferimento alia propria mansione principale. Al livello piu basso si
collocano i laici, di cui e proprio il lavoro manuale, poi i chierici, che
hanno come compito lo studio e l'insegnamento, e infine i monaci che si
caratterizzano per il canto di lode e la salmodia. E 1 da notare come il
percorso che si delinea attraverso queste tre figure non rappresenta solo il
riconoscimento di una differenziazione sociale tra gli uomini, ma e anche
l'indicazione per una crescita individuale che innalza l'animo verso Dio.
Questi tre stadi sono resi da F. attraverso una similitudine: nello stato di
timore baciamo i piedi, in quello di apprendimento baciamo le mani, nella
salmodia baciamo la bocca. E dunque e buono l'inizio nel bacio dei piedi,
meglio la perseveranza nel bacio della mano, l'ottimo e il compimento nel bacio
della sua bocca. L'elemento della bocca viene in questo contesto recuperato,
sulla scia di un'esegesi molto diffusa, per intendere il mezzo attraverso cui
si dispiega nel mondo la creazione e prende forma il Verbo. Questo rimando
ideale al bacio della bocca sembra quindi voler ribadire come sia proprio
l'elemento sonoro a mettere in comunicazione l'uomo e Dio: da un lato come
canto della salmodia, mansione propria dell'uomo spiritualmente piu elevato,
dall'altro come espressione della potenza creatrice di Dio. Solo nella settima
distinzione F. prende in considerazione direttamente il tema delle dieci corde
dello strumento. Anche in questo F., II salterio a dieci corde. Si vuole
osservare che la lettura qui proposta, che insiste sull'elemento musicale,
permette di attribuire al terzo libro una valenza forse maggiore rispetto a
quella che sembra generalmente assumere. Se l'elemento musicale della salmodia,
che contraddistingue la terza epoca, e l'elemento che permette di oltrepassare
le facolta della ragione, dal momento che l'avvento della pienezza divina
sembra escludere la possibility di una comprensione razionale, le pagine
finali, dal momento che istruiscono sulle modalita del canto, possono essere
interpretate non solo come un semplicissimo libro che si limita a fornire
indicazioni per la recita dei salmi, ma come un ammonimento di F. sul modo di
comportarsi per tutti coloro che vivranno il tempo dello Spirito. F., II
salterio a dieci corde. caso possiamo distinguere un impiego musicale
dell'immagine da uno piu propriamente teologico. Il primo approccio si basa sull'interpretazione
delle corde come elemento produttore di suono. Da qui si osserva che le corde
sono fissate indissolubilmente, alle loro estremita, ai lati che simboleggiano
il Figlio e lo Spirito, mentre la loro vibrazione si propaga verso il vertice
del Padre. Questo a intendere che il nostro canto deve essere innalzato verso
questultimo a partire dal messaggio della rivelazione contenuto nel Vangelo.
D'altra parte, il suono e reso udibile e prende corpo attraverso la cassa
armonica rappresentata dal cerchio, a sottolineare ancora una volta 1'
indissolubility dellessere trinitario. L'interpretazione piu propriamente
teologica delle corde e da collocare nel contesto escatologico in cui si
chiudeva la sesta distinzione. Il loro numero e la loro disposizione
rappresentano i gradi e la gerarchia degli eletti nella citta divina, cosi che
piu il grado si awicina a Dio, piu la corda e breve, dal momento che sono meno
coloro che riescono ad arrivarci. Alio stesso modo ogni grado risuona secondo
una propria nota, in modo che la diversita degli onori adorna meravigliosamente
quella santa e celeste patria, e la moderazione della diversita attraverso
l'unita non lascia nascere il livore. Forse in questa richiamo del suono acuto
delle corde piu vicine a Dio come espressione della difficolta insita nel
percorso per arrivarci si puo vedere un ultimo elemento di ripresa delle
argomentazioni agostiniane, che sembra del resto utile soltanto a rimarcare la
differenza tra le due impostazioni. Piu rilevante sembra invece considerare
come ultimo spunto di questo primo libro il tema dell'armonia musicale che
fornendo delle regole per il bel canto awicina il nostro animo alia sfera
divina. Dio fece questo perche le corde, tra loro distinte, con i diversi suoni
che producono, allietino con la soavita della loro melodia quella santa citta
di Dio, nella quale tutti, gioiosi, hanno la loro dimora. Per tracciare un
bilancio della ricerca condotta, bisogna affermare, in primo luogo, che non
emerge dai testi considerati una tesi "forte" che possa sintetizzare
una presa di posizione chiara. Certamente, nel complesso, le indicazioni piu
interessanti emergono dal testo di F., in cui si nota che una lettura
dell'opera orientata in senso un po 1 piu musicale, potrebbe rappresentare una
prospettiva attraverso cui reinterpretare alcuni passi e metterne in luce
alcune sfumature. La ricerca, in definitiva, si pone quindi come un primo passo
che schiude degli orizzonti per una ricerca che potrebbe essere ampliata in
molte direzioni. Sullo sfondo, in primo luogo, e da rilevare che l'analisi dei
testi considerati si inserisce nella complessa problematica del rapporto tra
Gioacchino e Agostino, che deve trovare nell'ambito teologico e filosofico, ben
prima che in quello musicale, i propri motivi argomentativi. In quest'ottica,
il confronto tra le due prospettive musicali legate aH'immagine del salterio,
proprio perche maturato inevitabilmente sullo sfondo di un riferimento
teologico e morale, permette di mettere in evidenza qualche elemento utile per una
riflessione piu generale. Certamente la considerazione sarebbe da allargare ad
una analisi piu generale della problematica musicale nel pensiero dei due
autori, in particolare, almeno, al De Musica di Agostino. Infine, le
indicazioni che qui abbiamo presentato per via teorica potrebbero trovare
sostegno da una ricerca piu dettagliata delle pratiche musicali diffuse in
ambito monastico nel XII secolo. Si spera, in ogni caso, che la presente
ricerca possa aver fornito qualche elemento per la comprensione di uno
strumento estremamente affascinante e ricco di mistero, come il salterio a
dieci corde. Tavola Illustrativa Prima distinzione: %. i n s .2 Seconda
distinzione. Quarta distinzione: attraverso Gesu Cristo nell'unita dello
Spirito Sesta distinzione: attraverso Gesu-Cristo nell'unita dello
Spirito.AGOSTINO, Tractatus de X chordis. Bellini, Cruciani, Tarulli, Trattato
sul salterio a X corde; in Agostino, Discorsi sul vecchio testamento, Citta
Nuova, Roma]. AGOSTINO, Enarrationes in Psalmos, [tr. it. di T. Mariucci, V.
Tarulli, Esposizione sui salmi; in Agostino, Opera Omnia, voll. 25, 26, 27,
Citta Nuova, Roma 1979]. CATTIN, G., La monodia nel medioevo, EDT Edizioni,
Torino. GALLO, A., La polifonia nel medioevo, EDT Edizioni, Torino. F.,
Psalterium dececm chordarum [tr. it. di F. Troncarelli, K. V. Selge, II
salterio a died corde, Viella, Roma]. POTESTA, G. L., Il tempo dell'Apocalisse.
Vita di F., Laterza, Roma Bari. SACHS, C, The history of musical instruments,
Norton, Papini, Storia degli strumenti musicali, Mondadori, Milano. SEQUERI,
P., Musica e mistica, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano. Gioacchino da
Fiore. Fiore. Keywords: implicatura, Fusaro, implicatura musicale. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fiore: implicature”, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speraza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fiormonte: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale --filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Domenico Fiormonte.
Fiormonte. – filosofo. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice. “Grice e Fiormonte,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza --- GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fiorentino:
la ragione conversazionale e la lingua dei romani – scuola di Sambiase –
filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sambiase). Abstract. Grice: “When I wrote about the longitudinal
continuity of philosophy – pupils learn from tutors – I was thinking of
Fiorentino!” Keywords: storia della filosofia. Filosofo italiano. Sambiase,
Lamerzia Terme, Catanzaro, Calabria. Grice: I like Fiorentino; for one, he influenced
Gentile Fiorentino managed to write two
important tracts: a systematic manuale, of elementi di filosofia with a section
on semantics, communication, and language
his view of the latitudinal history of philosophy and a storia della filosofia, again seen as a
manual, literally handbook! Both
very clear and to the right audience! Figlio di Gennaro, chimico e farmacista,
e da Saveria Sinopoli. Fu educato da Giorgio e Bruno Sinopoli, rispettivamente
zio e fratello di sua madre, entrambi sacerdoti, e venne influenzato dal
pensiero e dagli scritti di Capocasale e Galluppi. Studia filosofia a Nicastro,
sotto Marco e Crecca, insigni filosofi e latinisti. Trascorre il suo tempo
libero nel caff letterario "Cherry Plum", luogo d'lite che attira gli
filosofi. Inizi a farsi conoscere tra i coetanei di Sambiase, costruendosi una
discreta reputazione. Si trasfer a Catanzaro dove intraprese gli studi di
giurisprudenza. Sarebbe probabilmente divenuto un avvocato se la filosofia non
fosse stata la sua innata passione. All'indomani dell'ignominosa resa del
generale Ghio e dei suoi dodicimila soldati borbonici a Soveria Mannelli,
nell'incontrare Garibaldi a Maida, Fiorentino gli si avvicin per congratularsi
del successo ottenuto gridando: Viva l'annessione, vogliamo l'annessione! Dopo
l'Unit d'Italia, venne nominato, con decreto regio, professore di filosofia a
Spoleto. La sua fama di intellettuale e filosofo aveva varcato i confini della
sua natia regione. Si iniziato in Massoneria, nella Loggia Felsinea di Bologna.
Da Spoleto presto passa a Maddaloni, dove approfond sempre pi i suoi studi.
Pubblica Il panteismo di Bruno. Rivedeva molto di s nel carattere e nel
martirio di Bruno. La stessa affinit che, sia pure in chiave politica, ritrova
Gioberti, grande statista. Il saggio su Bruno gli valse la cattedra a Bologna
che era stata di Spaventa. Si occupa della storia della filosofia romana,
contemporaneamente si interess dell'epoca risorgimentale mettendo in risalto
filosofi pocco conosciuti, quale A B C D ed E. Scrosse La filosofia romana;
Pomponazzi; e Scritti varii. Segu l'opera su Telesio data alle stampe in
Firenze. Si trasfer a Napoli e Pisa. A Pisa pubblica Elementi di filosofia e il
Manuale di Storia della Filosofia. Di lui risaltava lo stile incisivo e
spigliato. Fonda il Giornale Napoletano. con le sue prefazione e note, pubblic
"Poesie Liriche edite ed inedite di Tansillo" (Domenico Morano,
Napoli). Altre opere: Volgarizzazione dell'Itinerario della mente a Dio di S.
Bonaventura, dei Libri del Maestro, Dell'immortalit dell'anima e Del libero
arbitrio di Aurelio Agostino, del Proslogio di Anselmo dAosta, Messina, Sul
panteismo di Giordano Bruno (Napoli); Saggio storico sulla filosofia greca
(Firenze); Pomponazzi, studi storici sulla scuola bolognese e padovana del
secolo XVI (Firenze); Telesio, ossia studi storici sull'Idea della Natura nel
Risorgimento [Rinascimento] italiano (Firenze); La filosofia contemporanea in
Italia, Napoli, Scritti vari di letteratura, poesia e critica, Napoli);
Elementi di filosofia, Napoli); Della vita e opere di Grazia, Napoli); Manuale
di storia della filosofia, Napoli); Il Risorgimento filosofico nel
Quattrocento, Napoli, L. Lo Bianco, Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi
Muratori, Erasmo ed., Roma, Galati, Interpretazione dell'opera, in Archivio
storico della filosofia italiana, Oldrini, La cultura filosofica napoletana
dell'Ottocento (Bari); Di Giovanni, A cento anni dalla nascita dell'idealismo
italiano, in Bollettino della Societ Filosofica Italiana, Treccani
Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. openMLOL, Horizons Unlimited srl. Il
contributo italiano alla Filosofia. Istituto dell'Enciclopedia. Formazione del
linguaggio. Il linguaggio e la prerogativa umana. Tra tutti gli animali luomo
solo parla. E poich luomo solo forsia
(li'u^wujqko aito (Vi ntoli ia'ciiz a,
naturale che tra cotesti due fatti |uUli^tJtp si) cercato di trovare un
nesso necessario. Ammessa questa mutua connessione, la domanda che naturalmente
ne deriva, questa. Luomo parla perch
ragiona? O, al rovescio, ragiona perch parla? Teoria K tradizionalistica
sullorigine del linguaggio e sua critica. Le due opposte sentenze hanno trovato
sostenitori. Una scuola detta de tradizionalisti non solo ha ammesso la
necessit della parola per pensare, ma, com inevitabile, riconosce necessaria la
rivelazione divina per la origine del linguaggio umano. Il corollario perfettamente logico. Se luomo non pu
inventar nulla senza pensare, e se, per pensare, c (i) [Principale
rappresentante moderno del tradizionalismo
il francese visconte Bonald). Jrr* ilwlWuii) 6 JL^Xru] di mestieri la
parola, il linguaggio non poteva pi derivare dalluomo. E quindi a lui dove
essere stato rivelato dal divino. Una difficolt molto ovvia non stata per tenuta in conto. Come si fa a
capire il linguaggio, se non opera
nostra, e se al suono esteriore non risponde nellanimo nostro il pensiero
associatovi? Perch il cavallo, il cane, bench odano il suono delle parole, non
ne comprendono il significato! GIOBERTI, che rinfresca il tradizionalismo,
cerca di evitare questo scoglio, distinguendo il pensiero primitivo, intuitivo,
che precede il linguaggio, dal pensiero riflesso, che gli tien dietro e lo
presuppone. Il linguaggio, per GIOBERTI, non
il fattore delle idee, ma listrumento indispensabile, perch esse siano
ripensate. Poich per le idee nellintuito mancano di distinzione, anche lui
dovette sostenere la rivelazione per lorigine del linguaggio umano. Senza
entrare in risposte astruse, noi opponiamo a questa dottrina un fatto molto
comune. Poich lintuito delle idee sempre
presente, e poich il suono del linguaggio colpisce il bambino fin dal suo primo
nascere, perch questi noi comprende subito, n subito parla? Dati i due
co-efficienti, lintuito dellidea e il suono esterno della parola, lintelligenza
dove immantinenti balzar fuora. Ed intanto non
cos, e ci vuole un lavoro lento ed assiduo, prima d intendere il valore
del linguaggio. A (oM^Y^O l*v fatto seguire alla formazione di queste la
formazione del linguaggio, che la
conseguenza. Come lindividuo chiuso in s
ed irrelativo, cos JL^ la sensazione, che vi corrisponde, muta. Il linguaggio comuni chevolezza tra spirito e spirito, e ci
che vha T di comune tra loro , e non pu essere altro, che luniversale. 1***^*
(s) I nomi. Luniversale ha per diversi gradi, e sul primo formarsi non esprime
altro che limi rappresentazione comune a pi individui percepiti. In questo si
fonda limposizione dei nomi che si desume sempre da quella propriet che pi ha
colpito limmaginazione di un [mainili *To; xa8 ocutijv. Metapk.. 1 Ein and dasselbe Diog kana tich desihalb io
dar einen Beziehong It Stoff, io der Andern ala Form, in jener ala Mogli chea,
in diesar ala Wirkliches verhalteo. Zeller. - etere un individuo dove non abbia
luogo punto di materia. In fine non si pu scorgere dove propriamente Aristotile
ponga il sostrato della individualit : non nella forma che, stando alla teorica
della cognizione, dovrebbe essere luniversale; non nella materia, la quale indeterminatissima, e che tanto acquista di
determinatezza, quanto la forma ve ne impronta. Tale per sommi capi il capitale difetto del Lizio. Difetto che
dalla relazione mal definita duniversale e di individuale, di materia e di
forma, si diffonde in tutte le altre teoriche, e le guasta in simil guisa,
producendo un'incertezza ed un viluppo irresolubile. Non dunque da maravigliare se quel sistema diede
occasione a tante controversie di interpreti, perch esso si acconciava ai pi
opposti avviamenti. Tutta la filosofia nel medio evo e nella rinascenza si
diede a risolvere quei problemi in opposte sentenze, credendo sempre di ormare
i passi di Aristotile. N, per vero dire, mancavano fondamenti a questo
conflitto di opinioni. Se non che ogni diversa et ha mutalo aspetto alla
ricerca, pur conservandone integro il fondo. Cos la scolastica considera la
relazione tra universale ed individuo come la pi rilevantr. Di poi, tra
Aquinisti e Scotteti, prevalse la questione dellindividualit, e chi la ripose
nella materia, chi nella forma. Da ultimo nella rinascenza si cerc nell anima e
nelle sue facolt quella partizione e quella incertezza, e si domand quale fosse
il legame che stringe lintelletto con le rimanenti facolt. Le tre questioni
degluniversali, della individualit e dell intelletto o ragione sono diversi
aspetti di una stessa ricerca; e tult'e tre mettono capo in Aristotile, e si
connettono insieme, e si spiegano 1'una con l'altra nel loro storico
sviluppamento, secondoch parmi di vedere, e secondoch mingegner di provare.
Lasciando stare per ora le teorici che sono aliene dal tema dellanima, e
restringendomi a quella che pi da presso vi si riferisce, Aristotile risguarda
il corpo e lanima delluomo sotto lannodamento medesimo di materia e di forma.
Basta leggere il suo saggio dellanima per chiarirsene pienamente. Il corpo fa
le veci di materia o di soggetto. Lanima, per contrario, non pu essere sostanza
se non come forma di un corpo naturale che vita. E per corpo animato -- che ha
vita, Aristotile intende quello che si dice organici. Quindi proviene la sua
definizione di anima, ripetuta in tutto il medio evo, ed in tutto il periodo
del rinascimento, n ancora se n potuto
escogitare una migliore. Anima, Aristotile dice, lentelechia prima di un corpo naturale
animato, che ha vita. Bisogna intendere per tale definizione un corpo organico.
Ora, bench lentelechia avesse, nel linguaggio del Lizio, una determinatezza maggiore
della forma, nondimeno anima pur sempre
la forma del corpo organico, e ad esso annodata con legami non disleghevoli.
Perci ad Aristotile pare oziosa la ricerca se un corpo animato vivo e organico
e anima siano una sola e medesima cosa, nel modo stesso che riesce vano il
voler sapere la differenza che passa tra il suggello e la cera su cui
simpronta. Imperocch se lentelechia si dice propriamente in quanto (Sto boxili
Tiv vreXt^sia nrzprn ata/xtctoj fvotxoZ dw/zsi txoxro; .riaTO Si, axv ri
pyavixv. ori /ztv oo! oix giTiv |vx
xwptsr toG sw/xares. forza motrice e
tinaie, essa per, come osserva Zeller,
sempre tuttuno con la forma. La definizione che ha dunque Aristotile dellanima, quello di forma animata --,o di entelechia inseparabile dal
corpo organico animato con vita. Esi badi, che Aristotile non vuol restringere
in'nessun modo questa sua definizione
graduale, come la di numero, in una serie -- fondamentale, la quale comune a le parti dellanima o le tre anime come, dice Aristotile, la definizione di
figurain geometria applicabile a tutte
le figure, o il concetto di numero al 1, al 2, al 3, e successivo. Ben si
distinguono parecchie specie di anime, i cui gradi Aristotile determina cosi.
Nutrizione, sensibilit, locomozione, intelligenza o ragione -- ordinate in modo
che il grado superiore presuppone linferiore e non puo stare senza di esso. Per
tutte coleste specie dell anima debbono convenire nella definizione comune.
Barili, de SaintHilaire, riconosce questa necessit. Stando aq ueste deduzioni,
la dottrina dAristotile procede fin qui sicura e senza esitazioni. Dove ci moto prodotto per intrinseca energia, ci vita. Dove ci
vita, ci corpo ed anima, cosa
mossa e causa motrice. Il corpo la
potenza e la materia. Lanima lentelechia
e la forma. E come nella metafisica lindividuo (to tide) risulta da una materia
e da una forma, cosi nel caso speciale deglesseri e individui animati o glanimali -il loro compiuto concetto consta
di un corpo organico (il corpo di Sileno di Socrate) e di anima. Ma tutta
questa armonia viene rotta da una dubitazioneche Aristotile propone senza
risolvere. Das gleiche Wesen wird aber auch eia Eodzweck sein, wie ja Qberbaapt
die Form voo der bewegenden und der Endursacbe nicht verscbieden ist. Solerti
non die Form ala bewrgende Kraft wirkt, nennt aie Aristote- le Entelechie, ami
somit definit i er die Seele ala die Entelechie uod naber ala die erste
Entelechie cines nalQrlichen Krpers, welcher die Fahigkeit bat, za leben. Zeller, Zw. Tbeil. La definition
quil a donoe lui-mme au cb. lr de ce livre doit donc ponvoir sappliquer
spcialement chaque espce dime quil a
distiagatte. Ptychologit dAriilole, Paria. Arrivato
allintelligenza, Aristotile tentenna, e si perita di applicare a lei le
determinazioni precedenti dellanima, bench avesse prima detto che quella
COMMUNE DEFINIZIONE graduale -- [di
anima] fosse applicabile a tutti I gradi -- come nel caso dei numeri --
differenti di vita (bios, zoon). Lintelligenza (zoon logikon) pare ad
Aristotele un altro genere di anima (psyche) e vita, e perci separabile nello
stesso modo che leterno si separa dal perituro. Questa scappata (aporia)
d'Aristotile pu riuscire inaspettata a quelli soltanto I quali non hanno
seguito la filosofia del liceo lizio in tutto il suo svolgimento. Chi per ha
posto mente alla irresolutezza dAristotile nellaccordo proposto tra luniversale
e lindividuo, ed ha visto continuare questa perplessit nella concezione della
materia e della forma, nel legame tra il divino ed il mondo, e nella teorica
della cognizione, si accorge anzi che Aristotile non puo fare altrimenti.
Nellanima istessa ci qualche cosa che
tiene pi della materia, e qualcosallro che fa le veci di forma. Il senso e le
facolt inferiori di vita che sembrano un patire, e lintelletto o la ragione --- che sembra attivo verso di
loro. Anzi nellintelletto (come parte terza dellanima) medesimo, Aristotile
discopre questa duplicit, la quale come e rimasa irreconciliata e contrastante nelle
prime categorie dellessere, cos rimane qui negli ultimi svi-- I appara enti
dello spirito. Ci che vha di peculiare nellanima delluomo e la sua vita
(Anthropos zoon logikon) lintelletto.
Perci noi ci fermeremo un poco pi nel mostrare in che modo Aristotile ne avesse
esposto la natura. L intelletto o la
ragione, la terza parte dellanima nella vita delluomo -- primieramente
apparisce legato con le l altre facolt
anima I e anima II -- non solo per la intuizione generale del sistema
aristotelico, che fa ricomprendere ogni forma inferiore o sub-razionale --
nella superiore, ma per lesercizio medesimo della sua attivit, che non potrebbe
recarsi in atto senza il sussidio delle due parti precedenti. Le cose estese
sono ricevute nellanima mediante le sensazioni, le quali sono perci forme delle
cose sensibili. Dopo questa maniera di forma, che richiede la presenza della
materia, ve nha unaltra la quale si assomiglia alla sensazione, se non che non
ha bisogno della materia presente. Da ultimo, la ragione, lintelletto, eh forma
delle forme, esercita verso le sensazioni ed i fantasmi la medesima azione che
i fantasmi hanno esercitato su le sensazioni, e le sensazioni su le cose
sensibili. Cotalch come la sensazione non pu aversi senza la materia, n la
immagine fantastica e. g. centauro
-senza la sensazione di uomo e cavallo
--, cos latto della intelligenza o ragione non
possibile senza il fantasma. Lintelletto o ragione in questa prima
posizione apparisce dunque legato indissolubilmente con tutto il sistema
tripartito delle facolt dellanima nella vita delluomo. N per la sola operazione
la ragopme p intelligenza apparisce legata con lorganismo corporeo, ma per la
sua intrinseca natura. Difatti ella, come intelligenza, non altro che ci per cui lanima ragiona, e
non nessuna cosa in atto prima di
pensare: ella soltanto in potenza. Che
se riannodiamo questa teorica dell intelletto o ragione con l altra dell anima,
si scorger, che come lanima e legata col corpo organico vivo organico animato,
cos l intelletto legato con lanima;
perci qui Aristotile la chiama intelligenza dellanima: r; voC). Ed in ultimo
risultamento avremo il corpo organico come subbietto o materia dellanima, e
questa come subbietto dellintelligenza o ragione. 1x ed Sii roro omtc jit)
Atravpigva; puj&v * od ?uvior r* rs Se capri, ovexyxvj (* yxVTaspta ri
soipstv. * sre fj-nS aro stvat pnv /sride/tta XX n t*vt, ori ^uar pa xaXaptsvoi rn (; (Xsyoi Si vo
wdtetvostroci xeni oivei r, 'l'UXt) o&t* sTiv svspyda tmv ovroiv tepv vosi.
Altre asserzioni dello stesso Aristotile accennano per alla sentenza opposta.
Gi abbiamo visto come per lui lintelligenza o ragione sia un altro genere di
anima, e separabile, in mentre che le due anime dei due gradi inferiori sono
legate con gli organi. A questa testimonianza, che sta *contro* alle cose
precedenti, se ne aggiunge unaltra ugualmente esplicita, dove si sostiene che
il noo o spirito -- venga dal di fuori,
e che solo sia divino. Si possono distruggere la riflessione, lamore, lodio, il
ricordarsi, perch siffatte modificazioni appartengono al soggetto in cui
alberga l intelligenza e che la possiede. Ma lintelligenza o ragione o anima
razionale medesima qualcosa di pi
divino, qualcosa dimpassibile. Che se
dopo tutte queste dichiarazioni, che riguar-dano il principio intellettivo
nelluomo, ricorriamo col pensiero allintelligenza o ragione suprema, come vien
descritta nella metafisica, esegnatamente nel libro dodicesimo, la difficolt da
noi proposta e pi evidente. Prima si dimostra come non ci siano altre sostanze
che quelle che risultano da una materia e da una forma. Poi di forma in forma
si arriva ad una suprema, la quale non
punto implicata nella materia, e che perci si svelle dal sistema
mondano, e non vi rimane legata se non per un filo debolissimo, com la relazione di mosso e di movente. Quella
forma suprema, che doveva accogliere in s tutte le forme inferiori, non potente nemmanco di pensarle. Lintelligenza
divina rimane staccata dal mondo, se non fosse per il bisogno di ricorrere ad
un motore ultimo -- ed immobile. Tale rimane nel sistema delle facolt umane l
intelligenza -- lo stesso difetto che si
riproduce in ciascuna parte. 1 AeiTtirai ?* rv voi! /ivov OpaOev eiwisuvai xai
0eTov ecvat uo'vov. De gener. anim., ctVedi De Anima. Rnan si accorto della discrepanza della dottrina su
lintelletto nel congegno del sistema del lizio, e la dichiara un frammento di
scuole pi antiche, dAnassagora specialmente, che viene citato dallo stesso
Aristotile. Ma colesta spiegazione, oltre allessere poco degna dAristotile, il
quale non ne avrebbe saputo misurare tutta limportanza, contrasta col disegno
generale del sistema. Saldata che avrete questa screpolatur, come farete poi
per tante altre che rimarranno scommesse ed irremediabili? Poniamo ancora che
il legame tra il divino ed il mondo si rimeni a questa medesima dottrina, e che
tutta la Metafisica del lizio sia un episodio, bench un po troppo lunghetto. Si
risalder meglio la rottura tra la materia e la forma? Si spiegher meglio la
teorica della cognizione, sviluppata neglanalitici? E se cotesta magagna
sinsinua in tutte le particolari trattazioni
De Interpretatione LA PAROLE E
SEGNO DUNA AFFEZIONE DELLANIMO --, come si fa a dichiararla un frammento
slegato, ed a cacciarla via dal sistema? Altro, a parer nostro, il dire che il pi spedilo e pi logico
avviamento dAristotile sarebbe stato di continuare nella risoluta opposizione
verso il suo tutore allAccademia, ed altro il negare eh egli in questa polemica
non sia proceduto incerto, parte rifiutando e parte ritenendo. Incauto cercatore,
anche lui, di conciliazioni impossibili. Della prima e pi spiccata contraddizione
nel costruire lindividuo di materia e di forma ho discorso di sopra. Toccher
ora della dottrina della cognizione. La scienza secondo il processo del lizio
piglia le mosse dalla sensazione, e procede, sempre pi sviluppandosi, per molti
gradi, i quali sono variamente descritti, ma che si possono per ridurre,
conforme al1 (Il est vident que toute cette thorie da vo( est eroprunte 4
Anaxagore. Averrhos, etc., psp. lesposizione del Barili, de SantHilaire, ai
seguenti. Sensazione cio, pensiero nella forma volgare, ed in quanto sottosl
alle impressioni sensibili. Scienza (ttLotiw),
intelletto (noo), il quale in
relazione cop glinteUigibili. Riguardo alla sensazione non sincontra difficolt.
La sensazione la forma delle cose
sensibili, che viene accolta da unanima sensitiva. Nel sollevarsi poi dalla
sensazione alla scienza, Aristotile ammette molt sfumature, die talvolta si
confondono, ma che giova descrivere, per far vedere quanto sottile osservatore
egli fosse, e come per lui tutto il processo del pensiero non fosse altro che
un continuo disvilupparsi dalle forme pi materiali per rivestirne altre pi
generali epi pure. Il grado immediato alla sensazione per lui la Sga che lo stesso Saint-Hilaire
traduce per percezione, e potrebbe pure dirsi opinione. Sopra cotesla
percezione, o opinione che dir si voglia, pone la fantasia (pxvmaia.), la quale
pu dirsi un grado di sviluppamene maggiore, staccandosi gi dalloggetto sentito,
pi che non facessero i due gradi precedenti, i quali ne richiedevano sempre
limmediata presenza. La fantasia medesima si riferisce al fantasma (pv touhx)
ed allinamagine (Uwv) ; imperocch essendo la fantasia una specie di tramezzo
fra la sensazione e la scienza, col fantasma si accosta pi allintelletto, con
limmagine invece si accosta pi allobbielto. La scienza e lopinione possono
accoppiarsi in certo qual modo, ed il loro miscuglio d la riflessione (
pvjiJts). La scienza, 1opinione e la riflessione Sega, ppvmatj), sono
dAristotile comprese sotto un termine comune utt^cs, il quale deputato a significare lattivit spontanea
dellanima, doyecch la Stvota discorre da un oggetto in un altro. Per la
determinazione di tatti cotesti gradi del pensiero, vedi Barth. de Tali sono i
primi sviluppameli della scienza; ma ipoich ella consiste nel dimostrare, e nel
far vedere le cose nelle loro cagioni, perci
necessario che si fermi in principi assoluti ed indimostrabili. Il
voOs lintelletto di questi primi
principi, i quali sono i termini della dimostrazione. Se la sensazione (afoots)
dunque il primo inizio della scienza,
lintelletto (vo0) n lultimorisultato.Chi ha tenuto docchio tutto il processo
della cognizione, com descritto da Aristotile, si sar accorto che conforme a
questa dottrina il vovg non pu fermarsi se non nei principi pi remoli dalla
materia, e pi universali. Essendo lapice di ogni astrazione, esso devessere al
polo opposto della sensazione, che si trova congiunta con la materia
immediatamente. Ed intanto il punto di fermata sono i termini, ossia la sostanza. Ora la sostanza, nonch sia luniversalissimo
essere, invece individuale; dunque il
processo della scienza, dopo aver percorso tutte le forme di separazione dalla
materia, ricasca nella sostanza, la quale
dalla materia inseparabile. Lessere e la sostanza sono spesso confusi da
Aristotile, eh quanto dire la pi astratta delle forme, lessere, vi si scambia
con la forma attuosa legata con la materia. La sostanza per lui una volta il neccssa- [Saint-Hilaire,
Logique d'Artote, Deuxme lartie, section XI, -di. 9. Ecco come il
Trendcleraburg prova questo ufficio proprio del ve; aristotelico. No; in primis et ultimis scienti priucipiis
rersatur. Ita Analyt., post. Xiyu yp *sv .pyn'1 Kcuni/inElh. Nicom. st fTSToct
vov siva* Tv xpyrZv. Quteuaui sit xp%rj (neque euim omnis ed noJv rediit)
accuratius defiuitur Elh. JVtc., pit
-/.p vos ri opwv u'J ox sor* /yo;. i. e. quorum sulla est demoustratio
conclusione ffecta. ristot., De Aniti. Commentario. 1 Lide de ltre et
lide de substance se coufoudent souvent aiosi pour Aristote. Bar ih. Saiot-Iliiaire, ioc. cit., cb. 40. rio e
1universale, unaltra volta il puro accidente ; un volta forma, un altra volta
sinolo di materia e di forma. Il noo aristotelico adunque una volta si ferma ai
principi (p^wv), unaltra volta ai termini (pwv), i quali non sono altro che la
sostanza. N in quest una soltanto si restringono le incertezze di quella
dottrina. Il noo allora veramente si conchiude e si assolve, quando si posa in
se stesso. Landare di pensiero in pensiero implica un processo allinfinito, dal
quale Aristolile si mostra sempre alieno. Sforzato adunque dalla stessa
dialettica egli immedesima in questo atto supremo l intelletto el
intelligibile, ed in cotesta medesimezza dellintelletto con se stesso riposta la sua vera assolutezza. Se ci fosse
qualcosa di esterno, alla quale lo spirito dovesse stare sospeso, egli sarebbe
da meno di lei. E fin qui tutto si accorda a maraviglia con la natura dello
spirito, che non pu prendere in prestito d altronde la sua compiutezza, n
posare altrove che in se stesso; ma in che modo si potr conciliare cotesta
affermazione con l altra che fa travagliare il noo intorno ai primi principi?
Ed ecco una nuova irresolutezza, una nuova contraddizione. Lo spirito che una
volta si (Ecco come il medesimo Sant-Hilaire riassumo da parecchi luoghi della
Metafilica la teorica di Aristotile, dove la sostanza apparisco una volta
necessaria, un altra volta come reale, cio come individuale. Non trattando qui
di proposito questa teorica mi astengo dal citaro io stesso i luoghi del testo.
La Science, doue de
ces deux caractres, du gnral et du ncessaire, 'applique donc surtout ce qui est en soi, lasubstance, bien plutt quanx autres
catgorie, qui ne sont que^daccident. La substance, ltre el (osia) est su faste
de la Science: et cesl elle spcialement qne le philousophe doit tudier. De
plus, cest une seule et mnte Science de
recher ber et les principe gnraux de ltre, de la substance, et Ics principe
gnraux de la dmonstration, et du syllogisme qui la coostitne. eh. e. Si
absolutum id est, quod ad nihil nisi ad seipsum rifertur, acquitur sane mentem,
siquidem absoluta est, seipsam cogitare. -- ferma nei principi universali e
nella sostanza; unaltra volta che si conchiude in se medesimo. Certamente questultima conclusione pi accettevole, e pi consentanea alla nozione
deirintellelto espressa precedentemente; ma ci non toglie il fare incerto ed
anche contraddittorio del sistema. Se lintelletto non , se non quando pensa in
atto; esso non pu compirsi, se non nellatto suo proprio. Se glintelligibili non
si differenziano dallatto medesimo che li pensa, come si pu dire, che l
intelletto si fermi nei primi principi, i quali in tal modo dovrebbero avere un
esistenza indipendente? Forse ad ovviare a questi ed a tutti gli altri
inconvenienti finra discorsi, Aristotile ricorse allo spariijmento del noo in
due, per potere pi facilmente altrij buirgli le pi conlradittorie
determinazioni. Il quinto capitolo del terzo dei libri su lanima ospone la
partizione dellintelletto in attivo e passivo. Come nella natura ci la materia, eh lutto in potenza, e poi la causa che la rechi
in atto; cos bisogna che coteste differenze si trovino pure nellanima. In lei
adunque vi un intelletto, che pu tutto
divenire, ed mi altro che pu tutto fare. E come lagente prevale sul paziente,
cosi l intelletto, che tutto fa, fornito
delle migliori prerogative; separato, eh quanto dire non dipendente da nessun
organo, impassibile, e non ha mistura di
sorta; perci immortale ed eterno. Per
contrario l intelletto, che tutto diviene,
capace di patire, e perci
perituro, e senza laiuto dellintelletto attivo non pu nulla pensare. Il
noo attivo cos descritto apparisce essere quanto nell uomo vha di divino ;
anzi, come osserva Zeller, esso non si differenzia punto dallo stesso Dio. E di
ci 1 /.ai !9; bczeichoen. Brentano. Una nuova difficolt ci si affaccia nel
conciliare le due differenze che Aristotile introduce nel Noo, perch il
passivo detto corruttibile, e legato con
la memoria, col desiderio, con tutte le altre facolt inferiori ; e lattivo, per
contrario, immisto, separabile, e perci immortale: ed intanto il primo ed il
secondo appartengono del pari allintelligenza, che n il genere comune. Il LIZIO
nel distinguere il noo in passivo ed in attivo vuole occorrere a due
condizioni, imposte entrambe dal suo sistema. Prima vuole legare il meglio che
si puo lintelletto con le facolt rimanenti. Perci dove introdurre in esso I
FANTASMI per intendere, i desideri per volere. E gluni e glaltri si fondano
sulla sensibilit, e perci sulla materia, sulla possibilit del corpo. Dipoi
vuole far dellintelletto la facoll che pone la scienza, che coglie luniversale
puro, sceverato dogni qualsiasi possibilit, e che perci non ha nessuna mistura
di potenza, o di materia, ed puro atto.
Da qui la distinzione di due intelletti. Uno che attinge ancora alle sorgenti
della materia. Laltro che non vi comunica punto. Perci vedemmo che lintelletto
puro non pu patire, e consiste tutto nellatto; mentre chelintelletto passivo
patisce, ed in certo senso si dee dire che ha della materia, perch ogni
potenza materia, considerata per
rispetto allatto. Hegel cerca di conciliare questa contraddizione, che si possa
cio dare un intelletto che partecipa alla materia, dicendo che la possibilit
nellintelletto non ha nessuna materia, perch, nel pensare, la possibilit ella medesima un essere per s. Per
conciliazione siffatta tien [Die Moj>lichkeit selbst ist aber liier nicht
Materie. Das Versta mi hat nOinlicti keine Mitene, scinderti die Moglickeit
geliort zu seiner Substanz selbst. Denn DAS DENKEN (cf. Frege, Grce on Fregeian
sense) ist vielmrhr dieses, nicht an sicli za sein; and. v egeti seiner
Reiobeit ist seme Wirklickeit nielli das Frcinandersein, scine pi del sistema
proprio dHegel, che di quello del LIZIO. Quindi proviene ancora lincertezza di
determinare in che consiste veramente lintelletto passivo. Trendelemburg opina
ehesso costituito da tutte le facolt
raccolte quasi in un nodo, e considerate come condizioni del pensare. Il quale
pu aver pigliato il nome di passivo sia perch vien recato a perfezione
dallintelletto attivo, sia perch viene occupato dalle cose esterne (Things
CAUSE our sense data Grice). Tale
interpretazione per va incontro a questo inconveniente, di rendere inutile la
distinzione do not multiply intellects
beyond necessity Grice -- che il LIZIO
fa tra sentire, immaginare e pensare. Se il pensare non altro che il sentire [ANIMA SENSITIVA] e
limmaginare annodati insieme, perch distinguerli da quello? Non bisogna
dimenticare mai che dellintelletto in generale il LIZIO fa un altro GENERE di
anima. Pare adunque che nello sviluppo dellintelligenza, medesima bisogna
trovare quei gradi che appartengono al noo passivo, e gli altri che sono propri
del noo attivo. Gi di questo ultimo noi vedemmo che il LIZIO pone la funzione
peculiare talvolta nei primi principi, talaltra nel ripiegarsi sopra di s. I
gradi precedenti della scienza, che del resto appartengono certo
allintelligenza, bisogna che si attribuiscano allintelletto passivo. Tale la necessaria conclusione a cui si perviene a
guardare nel tuttassieme la dottrina del LIZIO, e cosi vedo che interpreta pure
Zeller, che nelle cose del LIZIO Mogliclikeit ber selbst ein Fursichsein.
Hegel, GeschicMe der Philoi. 1 a Qua? a sensu inde ad imagiuationem mentera
anteccssorunt, ad rea parcipiendas menti necessaria, sed ad intelligendas non
suflciunt. Orno es iilas, qua? preccedimi, facultates in nnum quasi nodum
colleetas, natenus ad rea cogitaodas postula nlur, vouv TtuSriTixo v dietas
esse innicamus. Trendclembnrg, De anima, comment. vede molto addentro, ed ha
grande autorit. Lintelletto passivo per lui consiste in quei gradi intermedi
che stanno tra il sollevarsi delle forze rappresentative ed il pensiero
compiuto che quieta in s stesso. In quel processo riflessivo e discorsivo che
il LIZIO stesso contrassegna con la parola ScuvousOca. Guardando ora tutta
insieme la dottrina del noo del LIZIO, essa ci presenta questa contraddizione,
di essere cio considerato come lultimo sviluppo dellattivit pensante nellUOMO
[Grice, HUMAN], e dessere presupposto FUORI delluomo [Grice; PERSON], perfetto,
compiuto in s, separato. per questa
ragione che il noo passivo ci vien mostrato come processo, come discorso, ed il
noo attivo come intuizione; e che il primo
tenuto in minor conto del secondo. Affinch la posizione del LIZIO riuscita precisa e diritta, ei si dove
disfare di quelluniversale separato, ed ambiguo, e tener fermo nel riguardare
lo spirito come processo rigoroso ed ordinato. Ma per fare ci, non bisogna
modificare soltanto la dottrina dellintelletto, s veramente mutare 1andadamento
generale del sistema; cosa che forse non
da pretendere in quei tempi. Il concetto dello spirito come
sviluppo risultato della filosofia
moderna. Un valoroso storiografo tedesco, Prantl, non dubita di presentarci
come genuino sistema del LIZIO quello che per noi piuttosto un desiderio. N al dotto critico
manca ingegno o copia di testi. Ma il suo fare sa troppo di moderno, e perci
diviene subito sospetto. Lintelletto, il noo del LIZIO, per Prantl una immediata unit nella duplicit
della nostra essenza. Dun lato coglie luno trascendente, il divino. Dallaltro i
Zellcr. molli, lindividuo. O, in altri termini,
lunit originaria del senso e della ragione, il principio e la fine,
lalfa e lomega. In un luogo dei morali nicomachei si dice che il senso noo; e su tal dichiarazione il critico
tedesco rif da capo tutta la teorica del LIZIO. Dove glaltri vedeno un altro
genere dANIMA, Prantl scorge unoriginaria medesimezza. Dove glaltri trovano
incertezze, Prantl sicuramente afferma che il noo del LIZIO sviluppo, che muovendo dallimpressioni
sensibili arriva sino alluniversale. Lintelletto, dice Prantl, secondo il modo
di vedere del LIZIO, non una passiva
intuizione, ma unattivit che nel progresso del suo sviluppo va dalla potenza
allatto. un accrescimento dentro s
stesso, Zuwachs in sich selb&lhinein, come dice il critico tedesco
traducendo l iniSoais turo del LIZIO.
Che se lintelletto si dice potenza, esso
una potenza tale che si distingue da tutte laltre non solo perch
comprende glopposti, ma ancora perch si fonda sopra un precedente attuale. La
continuit dello spirito in questo processo si pare a ci, che i primi pensieri
si distinguono appena dalle sensibili impressioni; talch il sapere non qualcosa apparecchiato davanzo, ma nasce la
prima volta come [Der voi; ist fur dia Stale, vvas dea Ange fur den Korper it,
rr ist die anraittelbare Einheit in der Duplicil&t nnseres VVescn, deno er
< rfasst einerseits das trascendente Eioe, Gttlicbe, and andrerseits ist er
cs atich, welcher das Einzelne, Viete ergreift, ja es wird io diesem Sion, d.
li. von einem wabrhaften Antropologismns aus, selbst die Sinneswabrnehraung
aiisdriiklicli voi; gena noi; und, indem so der voi; der geistige Sion fQr dia
beiderseitigen Crtheile ist, sowohl fOr jene, welche ein Ewges und
Crsprnfjliebes aussprerben, als aocb ffir jene, welche anf das Gcbiet des
Vergliiglicheo sich beziehen, a kann er mit Recht der Anfaog und das Eode, das
vahre A und Q, des Apndeiktischeo genannt wcrdon. Getchichle der Logik. ],
tale. 1 Quando il noo si solleva, sopra tutte lopposizioni, al supremo uno, ivi
pensa s stesso, ed il pensiero ed il pensato sidentificano. In tale attivit
egli mostra la sua eternit. Tal per sommi capi la teorica del noo del LIZIO
secondo Prantl: prima, attivit originaria, unit del senso e della ragione. Poi
sviluppo sino al pensare, sviluppo tale che tra limpressioni sensibili ed i
primi gradi del pensiero v appena differenza. Infine processo intimo, ed
indipendente dalla materia, fino ad attingere il pensiero di s stesso, e con
questo l'eternit. Questa esposizione toglie ogni dubbiet ed irresolutezza dal
sistema del LIZIO, e lo fa rigorosamente logico, per, a quel che mi pare, a
scapito della genuinit. Quella unit originaria sa troppo di moderno, e quella
eternit conseguita dal nostro spirito nel colmo del suo sviluppo unintuizione moderna del pari. Ci che mi
sembra schiettamente LIZEOALE il
concetto dello sviluppo applicato allattivit dello spirito. Ma il pensare puro
rimane pur sempre staccato dalla serie preclara come dice Trendelemburg.
Ammettendo difatti la spiegazione di Prantl, il divino del LIZIO sparisce,
perch il noo perfetto e compiuto nello
spirito umano; ed il divino del LIZIO, se bisogna a qualcosa, per cotesta ultima finalit o METIER, alla Grice. Prantl tocca
dellintelletto per arrivare al cominciamento della logica. Per lui lintelletto
si compie nel concetto, cio nel cogliere luniversale, il quale non Prantl, Und indetti dar vo; in dem Denkcn
dieses bchsten Einen aicb se'btt deukt, erreicbt er das Ziel and das Zweck
[GRICE METIER] seiner Actnaliiat: er
denkt das Angich and deukt kiebei steli selbst in einer Tbeilnabme an dem
Gedachten, ao dass Denken und Gedacbtes ideatiseli sind; in solcher TbStigkeit
erweister arine Ewigkeit.) latto medesimo dellintendere; talmente che la logica
sinizia l dove la PSICOLOGIA finisce. Lunit immediata del noo il principio della psicologia. L'unit
immediata del concetto [Fido is shaggy]
il cominciamento della logica. Prantl fa una dotta e profonda
investigazione delle categorie del LIZIO [alla Austin-Grice-Ackrill], delle
quali mi rincresce non poter qui discorrere, tanto pi che nel saggio sulla
filosofia antica io mi trovo, inconsapevolmente, daccordo col professore
tedesco nei risultati di quella ricerca. Qui per non voglio omettere di dire
come Prantl si accorge che lo sviluppo dello spirito si riannoda colla dottrina
delle categorie, dove, oltre alle determinazioni estrinseche della sostanza,
bisogna ammettere un processo geneticoed intimo. Ma cotesto processo per il
quale la sostanza si genera, rimane nel sistema aristotelico ci che direbbesi
una semplice esigenza. Perch la sostanza diventi questa o quest altra essenza,
non apparisce; e cosi non apparisce neppure nello sviluppo dello spirito la
necessit del passaggio duna forma allaltra; perci neppure la necessit del noo,
che, per tal causa, pu dirsi nellinsieme del sistema introdotto da fuora.
Prantl ha un bel chiamare il noo unit immediata, Ansich. Tutte coteste vedute
sono pi profonde come scienza che vere come storia. Lintelletto separato, il
motore immobile della me- [Dass aber Aristotele eine Selbstentwicklung der
Denktlitigkeit voo ciucili erstcr STADIVM aa bis tu einem letztea wesentlicli
erreicbbsreu Zieie nerkennt, sahea wir gleicbfalls scbon obeu; und so ist ihiu
aucb die trsprogliche Conception der Begriffe [cf. Grice, The conception of
concept] aio erstcs Lumittelbares. Voglio riferire questa osservazione di
Prantl eoo le parole eoa cui Iha compendiata il mio amico TOCCO (vedasi). Cosi
intorno allindividuo si raggnippano amendue i processi, nel processo gene4ico,
o nel ytvsoai vltOi lindividualit, la sostanza funziona da predi, ceto, ed il
suo soggetto la materia indeterminata;
uel processo categorica funziona da soggetto, e regge e sostiene tutte le
determinazioni categoriche (Fido IZZ shaggy, FIDO hazz SHAGGINESS]. Delle varie
interpretazioni dell'idea dellACCADEMIA e della categoria del LIZIO, TOCCO (si
veda). C -V- tafisica, resiste ad ogni pi benevola interpretazione. Certo se il
LIZIO vola e puo essere conseguente, pensa come lo fa pensare Prantl e TOCCO.
Passando ora dallintelletto alla libert noi troviamo nella dottrina del LIZIO
le tracce della prima indeterminatezza. Brandis dice che la libert secondo il
LIZIO consiste nella facolt che ha lo spirito di svilupparsi da s e mediante se
stesso secondo la misura della sua originaria disposizione. Ma, domanda con
molla ragionevolezza Zeller, a qual PARTE DELLANIMA debbe appartenere questo
sviluppo? Alla ragione no, perch immobile ed inalterabile. Allanima sensitiva
ed appetitiva nemmanco, perch non sono capaci di svilupparsi con libert, non
potendo trovarsi libert se non dov la ragione. Rimane lintelletto passivo, al
quale, sia detto una volta per sempre, si ricorre dordinario quando si scorge
limpossibilit di dare uno scioglimento risoluto. Ma esso stesso oscillando tra
la ragione e la sensibilit, ha bisogno, al pari della VOLONTA, di uno
schiarimento per vedere in che modo si puo dare una facolt che partecipa di due
altre cosi opposte, come sono il senso e la ragione. Il LIZIO stesso accortosi
della specie di altalena che fanno LA RAGIONE PRATICA (do not multiply reasons
beyond necessity) ed IL DESIDERIO, li rassomiglia a due palle che si rimandano
duno allaltro. Un filosofo francese, Waddington, taglia come Alessandro il
nodo, invece di scioglierlo, dicendo il principio, la causa dellATTO VOLITIVO
vesser lIO Grice, Personal Identity,
Grice on Prichard on willing that the player scores a goal --]; deglaltri atti
essere soltanto partecipe, ma qui il caso esser diverso, e sentirsi assoluto e
sovrano padrone. Grice on FREE fall and
alcohol-FREE. Ma appunto di questo IO (Grice, Personal Identity) noi cerchiamo
invano nel LIZIO Ari- [Zeller. Aristotile, De anim., La Psicologia del LIZIO,
esposta da Waddiogton e Toltala in italiano dalla marchesa Marianna Floreozi
Waddington] stotile, e vogliamo scoprire dove si annida, se nella ragione, o
nella sensibilit, perch la VOLONTA non facolt
originaria, come non lintelletto
passivo, n lintelletto PRATICO. La vera personalit dello spirito da cercare dunque o nella sensibilit, o nella
ragione, almeno secondo i dati della psicologia del LIZIO, non di Prichard! La
scuola ecclettica di Francia ed Oxford
Stout, Prichard, citati da Grice, Intention and Uncertaity -- ha
ripetuto sempre che LA VOLONTA ** lIo [Grice, Personal Identity I shall be fighiting soon], essendoch la
ragione impersonale tre caratteristiche: impersonale, imparziale,
generale formale, concettuale, e applicazionale -- ed i fatti sensibili
traggono origine dal mondo che Moore chiama esteriore. (Grice, Scepticism and
Ordinary Language). Con questa intuizione peculiare del loro sistema, ei si
fanno ad interpretare il LIZIO cf.
Hardie, il tutore di Grice a Christ Church. Se non che LA VOLONTA cf. Grice on Kenny on VOLITING -- per il
filosofo greco non una facolt
originaria, quanto meno perci pu essere la intera PERSONalit dello spirito! La
VOLONTA non di Schopenhauer -- una specie di risultante prodotta dal
connubio della ragione col DESIDERIO la
desirabilita di Grice. Le quali due facolt essendo si opposte, rimane assai
difficile il definire in quale di esse stia la libera determinazione di se
stessa.Quando il LIZIO appaia la ragione speculativa colle facolt
rappresentative, e ne fa lintelletto passivo. Ovvero, quando accoppia la
ragione pratica col desiderio la boulesi
del buletic di Grice --, e ne fa la LIBERA volont cf. Pears, Freedom of the Will, joint seminar
with Grice e Nowell-Smith on Austin on can --, rimane sempre incerto quale dei
due elementi debba prevalere: se la parte sensitiva ed appetitiva debba trarre
dalla sua la ragione the bite --, ed
introdurre in lei la mutabilit ed il patire; ovvero se la ragione,
signoreggiando TEMPERANZA -- il senso e
lappetito, debba far questi partecipi della propria impassibilit ed eternit.
Nella vera conciliazione di cotesti due opposti termini sarebbe stata riposta
LA PERSONA UMANA, se nel LIZIO il loro accoppiamento non fosserimasto un
accostamento esterno, e, come dicono i tedeschi, un Zusmrmensetzung~ [Der Wille
musa demnach cio ans Vernnnft and Bugiarde snsam- mengetetzte Thatigheil saio.
Aber auf welcher Scita io dieser Verbiudong da& eigentliche Wesen dea
WILLENS, die Krafta der FREIEU Selbslbestimmung liegt, ist sclmer za sagea.
Zeller. Esclusa LA VOLONTA, dove si deve dire che alberghi LA PERSONA UMANA?
Talvolta pare che il LIZIO la fa consistere nella propria ragione di ciascuno.
Ma la ragione cf. Grice, Aspects of
reason and reasoning, The Immanuel Kant lectures -- un puro universale, incapace di mutazioni e
di patimenti, eterna ed impassibile. Ed invece LA PERSONA Grice, Personal identity -- il subbietto proprio, e la causa intrinseca
dei suoi mutamenti (I will that my head be scratched Grice
cf. William James, citato da Prichard: I will that the chair moves
towards me. I fail). Talaltra volta pare che il LIZIO attribuisce la personalit
allANIMA [Grice, SOUL], in quanto senziente ed appetitiva. Ma, oltre che
questa, come osserva Zeller, incapace di
produrre movimenti da s, secondoch sostiene lo stesso LIZIO, viene
esplicitamente esclusa, dicendo che non nellanima, ma nelluomo in quanto consta
di CORPO e danima, dee riporsi il subietto dei movimenti sensibili (I will that
my head be scratched I scratch your back
you scratch mine). Il corpo intanto non
cagione del moto, perch esso verso LANIMA come la potenza verso latto. Ecco in quali
difficolt ci siamo imbattuti nel cercare dove consista la personalit umana
secondo i principi del LIZIO. Le quali difficolt, a parer mio, procedono dal
non aver il LIZIO fatto vedere come
Kant Grice, KANT-OTLE -- per qual modo
1universale si determina, per intrinseca energia e per dialettica necessit, nel
PARTICOLARE larguzia della ragione di
Hegel e Fichte --, e diventi individuo; e per qual modo poi lindividuo,
rifacendo nel processo conoscitivo il cammino inverso del processo genetico, si
sollevi dalle determinazioni particolari ed accidentali alluniversale ed
allassoluto al Snark, come dice GREEN a
Oxford! Non gi che siffatto processo
non stato intraveduto dallacume del
LIZIO, ma non stato spiegato con
sufficiente chiarezza, perch le sue dottrine sinformassero tutte secondo quel
processo. Prantl accennando al processo genetico, come intimo, e diverso dal
processo categorico, e trovandone le tracce nella metafisica dAristotele footprints to Plato Grice/Whitehead --, ed in altre sue opere,
mostra come la determinazione delluniversale nel particolare, il CONCRETARSI
della forma in una materia il primo
postulato del LIZIO. E spiegando dipoi come il noo, per assurgere alla
condizione assoluta di pensiero, dove essere fin da principio unit originaria,
individuo ed universale, senso e ragione, affinch possibile tutto lo sviluppo intrinseco dello
spirito, pone in evidenza un SECONDO postulato, non meno del primo
indispensabile. I due postulati che la critica di PRANTL richiede nel sistema
del LIZIO, nella metafisica il primo, nella psicologia il secondo, sono per, lo
ripetiamo, appena intraveduti dal LIZIO, e non pienamente dedotti. Forse il
concetto di sviluppo nello spirito molto
pi evidente che non il processo genetico nella sostanza. Ma ci non toglie tutte
le irresolutezze, ed anche le contraddizioni
I contain multitudes --, che noi abbiamo fatto notare, giovandoci degli
studi di Zeller, il quale colloca il sistema del LIZIO nella sua vera luce,
tanto per rispetto a Platone, come nel suo intrinseco organamento. Dalle cose
premesse apparisce chiaramente quel che debba dirsi dellimmortalit dell'anima
secondo il LIZIO. Pel LIZIO tutto ci che saltera soggetto alla morte. Onde le facolt
sensitive, le appetitive, le rappresentative, e perfino lintelletto passivo
finiscono collorganismo corporeo, da cui dipendono, e con cui sono
indissolubilmente legati. Solo superstite
pel LIZIO lintelletto attivo, il quale, se provato che e da solo la persona umana, basta
ad assicurare l'immortalit cf. Grice on
Shropshire on the immortality of the chickenssoul. Ma l'intelletto attivo il solo elemento universale, una specie della
ragione impersonale della scuola eccletlica, e perci la sua durata non ha nulla
che fare colla durata dellindividuo e della persona. Questo intelletto attivo
superstite, slegato che dal corpo, non
ha n sensazioni, n fantasmi, n memoria, n desideri; e perci neppure volont, n
intelletto passivo; talch non potr avere pi coscienza, n personalit cf. Grice on Parfitt -- che sodo inseparabili
da tutte quelle determinazioni. Che se si pon mente, come il noo attivo per
pensare ha bisogno del passivo, noi potremo dire, che il LIZIO non puo, secondo
i suoi principii, far sopra-vvivere lintelletto attivo alla morte
dellintelletto passivo, e se, non ostante la forza della logica, lo fa, ci ne d
nuova riprova, che per lui non e ben fermo il vero concetto del noo, e che una
volta lo pone come termine supremo dello sviluppo psichico, unaltra volta ne lo
stralcia, attribuendogli una esistenza separata, impassibile ed immortale. Il
LIZIO non pervenuto sino allauto-genesi
dello spirito, perch non si pu creare quel che si suppone esterno non solo, ma
sproporzionalo alle facolt umane. Linfinito pel LIZIO ora consiste nel concetto
dello spirito, ed ora in qualche cosa di esterno. Tolta lipostasi
delluniversale che aveva ammesso Platone per ciascuna! cosa, ei la ritenne per
rispetto al divino, perci il processo dello sviluppamento rimane dimezzato,
imbottendosi in un termine esteriore che gliene impede il proseguimento. Non
ci unidea pre-formata della natura,
perci la natura pu svilupparsi per virt intrinseca; ma; ci lidea del divino sussistente davanzo, perci
lo spirito non pu farsi: egli gi fatto,
e non gli rimane se non dinsinuarsi -- IMPLICARSI EMPIEGARSI -- nel mondo e di svegliarvi il
penisiero. Questa mi pare la posizione del LIZIO. Il LIZIO rimane nellACCADEMIA
per met. CONTI (vedasi) ricorso a cause
esteriori ed accidentali per trovare una spiegazione del sistema del LIZIO, e
perch il primo ai nostri tempi che siasi
dato a scrivere una storia della filosofa in Italia, mette il conto di dare un
saggio del suo modo di criticare i sistemi. Il LIZIO passato dallidealismo platonico alla scienza
delle cose reali e Perch? Ecco la risposta di CONTI (vedasi), dacch la civilt
greca, uscendo dapropri confini, si distende nellAsia con larmi, naturale che alle idealit interiori, tutte di
raccoglimento, succede la scienza delle cose reali. Ma tutto colesto non ci ha
nulla che fare. Prima di ogni cosa non
certo che il LIZIO pensa il suo sistema proprio al tempo che i Greci
passarono in Asia. Ma, poniamo che s, QUAL RELAZIONE CI E FRA UNA SPEDIZIONE A
MANO ARMATA CON UNA POLEMICA SULLE IDEE? CONTI discorre dei vizi, pei quali i
greci venneno specialmente in mala voce, ed eccoti scoverta la causa, perch la
loro filosofia non giunge mai al puro concetto di creazione, pernio della
scienza. Anche qui la causa mi pare troppo lontana dalleffetto, e non veggo in
che modo la corruzione dei costumi greci puo appannare il loro intelletto!
Forse non concepirono tante cose vere e belle con tutte quelle passioni? Forse,
ai tempi in cui fiorisce lACCADEMIA dei Medici a Firenze non dominano vizi
somiglianti? Dai filosofi di quel secolo parmi scorgere che quelle brutture
sono molto in voga, e intanto giungeno al puro concetto della creazione non
solo, ma concepirono perfettamente tutti i dommi cattolici, e li disposarono
alla filosofia. CONTI (si veda) inclina troppo a far la critica filosofica
colla nascita el educazione cristiana, con le rette inclinazioni del cuore, con
il candore dei costumi. Ma tutto ci se prova a favore del suo animo bennato,
non d pari fondamento ad apprezzarne lacume critico [La scienza non si giudica
colla fede di buona condotta del curato. Ma lasciando queste osservazioni
generali, che appartengono al suo criterio storico, voglio notare che nella
teorica dellintelletto del LIZIO, il LIZIO ha frantesi lI In la mente dello
stagirita. Di lui, difatti, dice CONTI che distinge lintelletto agente che fa
intelligibili le cos dal possibile che le concepisce. Il LIZIO invece chiama
intelletto possibile quello che tutto diventa, agente quello die tutto fa, come
si pu vedere nel testo medesimo del dellAnima che ho di sopra allegato. Latto
con cui lintelletto concepisce glintelligibili, egli intelligibili medesimi
sono tuttuno. Non ci sono gi le cose intelligibili distinte dal concetto; onde
se il LIZIO pone veramente questa differenza tra i due intelletti do not multiply them! -- , si contraddetto. Eche CONTI travisa la dottrina
del LIZIO, si pare da ci, che lintelletto possibile pel LIZIO precede lagente,
come la potenza precede lalto, mentre per CONTI avviene il contrario, forse
perch non ha attinto questa distinzione dalla sorgente del LIZIO, ma da qualche
espositore che1avea compreso male. Il peggio poi si che CONTI ha laria di non sospettare eppure
limportanza di questo problema, non meno che di parecchi altri rilevantissimi,
contento a sfiorarli leggermente, quando non li trasanda del tutto! Ah, la
storiografia filosofica italiana e Grice
chi parla dellunita lonitudinale e latitudinale della filosofia che, come la
virtu, e una e unica! Nome compiuto: Francesco Fiorentino. Fiorentino. Keywords:
idealismo, lidea di natura in Telesio, panteismo di Bruno, filosofo maiore,
filosofo minore, Aosta, Agostino, filosofia roma antica, Catone. Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fiorentino,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Fioretti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei pro-ginnasti – filosofia
toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mercatale). Abstract. Grice: “At Oxford, we have the Parson’s
Pleasure—but at Athens, it was all about the GYM, starting of course with
Aristotle and his Lizio!” Keywords: the gym. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Mercatale, Cortona, Arezzo,
Toscana – Grice:: “I like Fioretti; thought-provoking; he says Plato should
never have chosen ‘dialogue’ as a philosophical genre, and he is right; in my
long tutorial life at Oxford I NEVER asked a tutee to write a dialogue for me! If Plato were the standard, that’s what we’d do!” Autore
di “Pro-Ginnasmo” (pro-ginnasio, ginnasio – cf. Deutsche progrymnasium), un'ampia
raccolta di note critiche su autori di varie epoche, dai greci e latini agli
scrittori italiani del XVI secolo, da cui emergono la straordinaria versatilità
e ricchezza interessi dell'autore. Come moralista, scrisse “Osservazioni di creanze
e Esercizi morali. Critico acerrimo di Aristotele ed Ariosto, ed altri autori
classici. È stato anche co-fondatore degl’Apatisti. Ha una vita indisciplinata.
Il conte Giovanni Bardi, il feudatario di Vernio, lo ammonì ad una vita più
contenuta. Ma ha risposto alle minacce con una satira che raggiunse le mani del
conte, che immediatamente ordinò l'arresto di Fioretti. Ma Fioretti accorto
fuggì, e i partigiani del conte trovarono solo un'iscrizione nella casa del
prete che recita: Resurrexit, non est hic.
Infatti, si era rifugiato a Firenze, dove, nel tempo, cambiò
completamente stile di vita. Si dedicò alla filosofia. Rimase nel Palazzo di
Oriuolo e cambia anche il nome diventando Udeno Nisieli, che significa "di
nessuno, ad eccezione di Dio".
Pubblica numerosi saggi. Si dimostra diligente filologo e critico
critico. Il suo capolavoro è la raccolta di poesie “Proginnasmi” (cf. ginnasio,
pro-ginnasio, Deutsche pro-gymnasium), contenente critiche ai poeti romani. E
stato dimenticato dalla letteratura nel tempo, forse perché era eccessivamente
franco. Al suo pseudonimo era solito
aggiungere la qualifica di "accademico apatita", come ad indicare la
mancanza di passione nelle sue considerazioni poetiche. La totale imparzialità
dei suoi giudizi era una condizione essenziale per sentirsi membro di questa
accademia immaginaria, che più tardi, con la generosità di Coltellini, si
concretizzò con l'obiettivo di riunire filosofi con abitudini salutari e
politici impegnati. Lasciò come ela sua
biblioteca e i suoi scritti alla Chiesa di San Basilio. Altre opere: “Polifemo
Briaco” Proginnasmi poetici” (Firenze, appresso Zanobi Pignoni, Firenze, nella
Stamperia di Zanobi Pignoni), definita come "un'opera di grande
erudizione, che pesa i meriti dei grandi scrittori dell'universo, e rivela i
più singolari artifici della Poetica". Esercizi morali, Rimario e
Sillabario, Firenze, per Zanobi Pignoni. Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
Firenze, e anche in Walter Binni, Storia della critica ariostesca, Lucca,
Tiraboschi. Luca, Scheda Biografica su
Centro Ricerche Pratesi, Carmine Jannaco e Martino Capucci, Storia letteraria
d'Italia: Il Seicento. Gian Vittorio
Rossi, Pinacotheca, Colonia, Giulio Negri, Istoria degli scrittori fiorentini”
(Ferrara, per Bernardino Pomatelli); Giovanni Mario Crescimbeni, Comentarij...,
Venezia Giovanni Mario Crescimbeni, L'Istoria della volgar poesia, Venezia;
Giovanni Cinelli Calvoli, Biblioteca volante, II, Venezia, Giusto Fontanini, “Della
eloquenza italiana” (Roma Domenico Moreni,
storico-ragionata della Toscana..., I, Firenze Giovan Battista Corniani,
I secoli della Letteratura italiana dopo il suo Risorgimento Commentario di G. B.
Corniani, S. Ticozzi, II, Milano, Francesco Inghirami, Storia della Toscana,
Biografia, Fiesole, Ciro Trabalza, La critica letteraria, Milano, Umberto
Cosmo, Le polemiche letterarie, la Crusca e Dante, in Con Dante attraverso il
Seicento, Bari, Benedetto Croce, Storia dell'età barocca, Bari, Walter Binni,
Storia della critica ariostesca, Lucca Raffaello Ramat, La critica ariostesca,
Firenze, Franco Croce, La discussione sull'Adone, in La Rassegna della
letteratura italiana, Letteratura italiana (Marzorati), I minori, Milano Carmine
Jannaco, Martino Capucci, Il Seicento, MilanoPio Rajna, Le fonti dell'Orlando furioso,
Firenze, Gianfranco Formichetti, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Anton
Angelo de Cavanis e Marcantonio de Cavanis, “Il giovane istruito nella
cognizione dei libri” Venezia, per Giuseppe Picotti, Girolamo Tiraboschi,
Storia della letteratura italiana, 8,
Roma, per Luigi Perego Salvioni Stampator Vaticano, Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Antonio Belloni, in Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Benedetto
Fioretti, noto anche come Udeno Nisiely e Fracastoro. Mascolinità assieme
di qualità, caratteristiche o ruoli associati a ragazzi o uomini Lingua Segui
Modifica La mascolinità (o il genere maschile) è un insieme di attributi,
comportamenti e ruoli generalmente associati agli uomini. La mascolinità è costruita
socialmente e culturalmente, anche se alcuni comportamenti considerati
maschili, come indica la ricerca, sono biologicamente influenzati. Fino a che
punto la mascolinità sia influenzata biologicamente o socialmente è oggetto di
dibattito. Il genere maschile è distinto dalla definizione del sesso biologico
maschile, poiché sia i maschi che le femmine possono esibire caratteristiche
maschili. Nella mitologia greca Eracle è uno dei massimi simboli di
mascolinità. Gli standard di mascolinità variano a seconda delle diverse
culture e periodi storici. Le caratteristiche tradizionalmente, culturalmente e
socialmente considerate maschili nella società occidentaleincludono virilità,
forza, coraggio, indipendenza, leadership e assertività. Il machismo è una
forma di mascolinità che enfatizza il potere ed è spesso associata a un
disprezzo per le conseguenze e la responsabilità. Il suo opposto può esser
espresso dal termine effeminatezza.Uno dei sinonimi maggiormente usati per
indicare la mascolinità è virilità, dal latino virche significa uomo.
Contesti storici e culturaliModifica L'interpretazione ed il riconoscimento della
mascolinità variano all'interno dei diversi contesti storici e culturali.
Nell'antichità era prevalente prendere a modello l'uomo d'arme; la figura del
dandy, tanto per fare solo un esempio, è stato considerato un ideale di
mascolinità nel XIX secolo, mentre è considerato al limite dell'effeminato per
gli standard moderni. Le norme tradizionali maschili, così come vengono
descritte nel saggio di Levant intitolato "Mascolinità ricostruita"
sono: evitare ogni accenno di femminilità, non mostrare le proprie emozioni,
tenere ben separato il sesso dall'amore, perseguire il successo e raggiungere
uno status sociale più elevato, l'autonomia (il non aver mai bisogno dell'aiuto
di nessuno), la forza fisica e l'aggressività, infine l'omofobia (disprezzo per
il frocio, il finto maschio). Queste norme servono a riprodurre simbolicamente
il ruolo di genere associando gli attributi e le caratteristiche specifiche
creduti appartenere di diritto al genere maschile. Lo studio accademico
della mascolinità ha subito una massiccia espansione d'interesse tra la fine
degli anni '80 e i primi anni '90, con corsi universitari che si occupano della
mascolinità passati da poco più di 30 ad oltre 300 negli Stati Uniti. Questo ha
portato anche a ricerche riguardanti la correlazione tra concetto di
mascolinità e le varie forme possibili di discriminazione sociale, ma anche per
l'uso che del concetto se ne fa in altri campi, come nel modello femminista di
costruzione sociale del genere. Natura ed educazione Competizione
sportiva, scontro fisico e militarismo sono caratteristiche della mascolinità
che appaiono in forme analoghe in quasi tutte le culture del mondo. La misura
in cui l'espressione della propria mascolinità possa esser un fatto di natura o
il risultato di un'educazione (e quindi appartenente all'ampio spettro del
condizionamento sociale) è stato oggetto di molte discussioni. La ricerca
sul genoma umano ha dato importanti informazioni circa lo sviluppo delle
caratteristiche maschili ed il processo di differenziazione sessuale specifico
per il sistema riproduttivo degli esseri umani: il TDF sul cromosoma Y, che è
fondamentale per lo sviluppo sessuale maschile, attiva la proteina chiamata
"Fattore di trascrizione SOX9" la quale aumenta l'ormone
antimulleriano che reprime lo sviluppo femminile nell'embrione. Vi è
ampio dibattito poi su come i bambini sviluppino a partire dalla realtà
corporea una propria identità di genere; chi la considera un fatto di natura
sostiene che la mascolinità è inestricabilmente collegata al corpo umano
maschile, ed in tale visione diventa qualcosa che è legato al sesso maschile
biologico, cioè all'apparato genitale maschile il quale diviene così l'aspetto
fondamentale della mascolinità. Altri invece suggeriscono che, mentre la
mascolinità può essere influenzata da fattori biologici, è anche però
ampiamente costruita culturalmente; la mascolinità non avrebbe quindi una sola
fonte d'origine o creazione, ma sarebbe anche associata a certi condizionamenti
sociali. Un esempio di mascolinità socializzata è quella rappresentata dallo
spuntare della barba, cioè dall'avere peli sul viso: l'adolescente che viene
considerato e trattato da uomo a partire dal momento in cui comincia a
radersi. Mascolinità egemonica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Maschilismo. Esempio di maschio poco più che
adolescente con corpo muscoloso. Nelle culture tradizionali la maniera
principale per gli uomini di acquistare onore e rispetto era quello di arrivare
a mantenere economicamente la propria famiglia assumendone al contempo anche il
comando e la leadership. Connell ha etichettato i tradizionali ruoli e
privilegi maschili col termine di mascolinità egemonica, cioè la norma
maschile, qualcosa a cui tutti gli uomini dovrebbero aspirare e che le donne
invece sono scoraggiate dall'adottare: "Configurazione del genere come
prassi che incarna la risposta accettata al problema della legittimità
patriarcale... che garantisce la posizione dominante degli uomini e la
subordinazione delle donne".Pleck sostiene che una gerarchia di
mascolinità tra gli uomini esiste in gran parte nella dicotomia riferita
all'orientamento sessuale tra maschio eterosessuale e non-maschio omosessuale e
spiega che "la nostra società utilizza la dicotomia etero-omo come simbolo
centrale per tutte le sue classifiche di mascolinità, distinguendo i veri
uomini dotati di virilità da quelli che invece lo sono solo per finta".
Kimmel promuove questo concetto, aggiungendo però anche che il tropo "sei
gay" indica che uno è innanzitutto privo di mascolinità, prima ancora
d'indicare un maschio attratto da persone del proprio stesso sesso. Pleck
conclude sostenendo che per evitare la continuazione dell'oppressione maschile
sopra le donne, sopra gli altri uomini, ma anche sopra se stessi, debbono
essere eliminate una volta per tutte le strutture ed istituzioni patriarcali
dall'auto-consapevolezza maschile. Critiche. Si tratta di un argomento
dibattuto la questione se i concetti di mascolinità seguiti storicamente
debbano ancora continuare ad essere applicati. I ricercatori hanno rilevato un
corrente di critica alla mascolinità, dovuta al rimodellamento dei valori
contemporanei, ai gruppi femministi più attivi che hanno assunto per sé certi
ruoli tradizionali appartenenti alla mascolinità, all'ostilità culturale che la
società d'oggi ha in certi casi posto sui cosiddetti valori maschili, ed infine
anche alla promozione della mascolinità nella donna abbinata ad un pressione
rivolta agli uomini per femminilizzarsi. Le immagini di ragazzi e giovani
uomini presentati nei mass media possono portare alla persistenza di concetti
nocivi alla mascolinità; gli attivisti per i diritti degli uomini sostengono
che i media non prestano una seria attenzione alle questioni relative ai diritti
maschili e che gli uomini vengono spesso dipinti in una luce negativa,
soprattutto nella pubblicità. Jackson scrive che le forme dominanti di
mascolinità possono essere di sfruttamento economico e di oppressione sociale.
Egli afferma che "la forma di oppressione varia dai controlli patriarcali
sui corpi delle donne e dei diritti riproduttivi, attraverso le ideologie di
domesticità, femminilità ed eterosessualità obbligatoria, alle definizioni
sociali del valore del lavoro, le presunte maggiori abilità naturali del
maschio e la remunerazione differenziale del lavoro produttivo e riproduttivo
". Il lavoro meccanico in fabbrica è associato con la
mascolinità tradizionale. Nozione di mascolinità in crisiModifica Un discorso
sulla crisi della mascolinità è emerso negli ultimi decenni, sostenendo
l'ipotesi che il concetto di mascolinità si trovi oggi nella civiltà
occidentale in uno stato di più o meno profonda crisi. La crisi è anche
stata spesso attribuita alle politiche conseguenti al femminismo in risposta
sia al presunto dominio degli uomini sulle donne, sia ai diritti attribuiti
socialmente sulla base del proprio sesso d'appartenenza. Altri vedono il
mercato del lavoro in costante evoluzione come fonte della crisi della
mascolinità, la deindustrializzazione e la sostituzione delle vecchie fabbriche
con nuove tecnologie ha permesso ad un numero sempre maggiore di donne di
entrare in questo mercato competendo alla pari con gli uomini, riducendo al
contempo la necessità e domanda di forza fisica. Tendenze
contemporaneeModifica L'operaio edile, esempio moderno di mascolinità.
Anche se gli stereotipi effettivi siano rimasti relativamente costanti, il
valore collegato alla concetto di mascolinità maschile è in parte cambiato nel
corso degli ultimi decenni, ed è stato sostenuto che la mascolinità è pertanto
un fenomeno instabile e mai raggiunto in modo definitivo. Secondo un
documento presentato all'American Psychological Association: "Invece di
vedere una diminuzione dell'oggettivazione delle donne nella società, si è
recentemente verificato un aumento nell'oggettivazione di entrambi i sessi...
Uomini e donne possono limitare la loro assunzione di cibo nello sforzo di
ottenere quello che considerano un corpo attraente sottile, in casi estremi
portando anche a gravi disturbi alimentari. Sia gli uomini che le donne
più giovani che leggono riviste di fitness e di moda potrebbero essere
psicologicamente danneggiati dalle immagini perfette di fisico femminile e
maschile che vedono: alcune giovani donne e uomini si esercitano eccessivamente
nel tentativo di raggiungere ciò che essi considerano una forma corporea più
attraente, che in casi estremi può portare a disordine dismorfico del corpo
(dismorfofobia) o dismorfismo muscolare (anoressia riversa). Terminologia
I concetti di mascolinità sono variati a seconda del tempo e del luogo e sono
soggetti a costanti cambiamenti, quindi è più appropriato parlare di
mascolinità al plurale che di una singola tipologia di mascolinità. Shehan, Gale Researcher Guide
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Androgino Bromance Bushidō Castro clone Comunità ursina Femminilità Indice di
mascolinità Leather Patriarcato (antropologia) Sessismo Twink (linguaggio gay)
Collegamenti esterniModifica The Men's Bibliography, bibliografia completa
sulla mascolinità. Boyhood Studies, bibliografia sulla mascolinità giovanile.
Practical Manliness, sugli ideali storici della mascolinità applicati agli
uomini moderni. The ManKind
Project of Chicago, supporting men in leading meaningful lives of integrity,
accountability, responsibility, and emotional intelligence NIMH web pages on
men and depression, sulla depressione maschile. Article entitled "Wounded Masculinity: Parsifal
and The Fisher King Wound" Il simbolismo storico che si riferisce alla
mascolinità, di Richard Sanderson M.Ed., B.A. BULL, sulla narrativa maschile.
Art of Manliness, sull'arte mascolina. The Masculinity Conspiracy, critica
mascolina online. Future Masculinity, corso di critica sulla mascolinità.
Portale Antropologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
antropologia Effeminatezza termine Michael Messner (sociologo) sociologo
statunitense Privilegio maschile privilegio sociale degli individui
maschi derivante solamente dal loro sesso. Fioretti. Keywords. Refs.: tipi di ginnasio: pais
ragazzo (12-17 adolescens), 18-20 efebo; +20 neos. Oriuolo, progrinnasio,
ginnasio, tre tipi di ginnasio: paides, 12-14, nuoi, o neoi, 15-18, 18+ efebi
--. Terme – ginnasio e terme – giocchi nudi – nudita atletica – nudita eroica.
Keywords: pro-ginnasmi. Luigi Speranza, “Grice e Fioretti” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Firmiano: la ragione conversazonale e il culto di Giove
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roman priest and
philosopher. Firmiano. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Firmiano,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria,
Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Firmico: la ragione conversazionale e il culto di Giove
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “At Oxford, theology is allowed to be
heard by philosophy pupils – but only within the contect of the Wilde Lectures
on natural theology!” Keywords:
cosmologia. Filosofo italiano. Alcuni scrittori che non si occuparono in modo
particolare di filosofia, mostrarono di interessarsene.Così fece Siciliano,
senatore, vir consularis, che, stancatosi presto dell'avvocatura, si dedica
agli studi. Per le insistenze di Lalliano Mavorzio, che lo accolta molto
amichevolmente quando era governatore della Campania, pubblica, per mantenere
la promessa che aveva fatto in quell'occasione, un’opera di astrologia,
"Mathesis", in otto libri, dedicata al suo protettore, allora
proconsole d’Africa.E il più ampio trattato di quella materia che l’antichità
abbia trasmesso. Il libro I è un’introduzione in cui l'astrologia è difesa
dalle critiche degl'accademici e principalmente di Carneade. F. riconosce
la difficoltà delle predizioni astrologiche, che spiega platonicamente con la
debolezza della natura umana in cui lo spirito è legato al corpo terreno, ma se
esso si libera dai vincoli di questo ed è consapevole della sua origine
celeste, facilmente, con la divina ricerca della mente, consegue risultati
difficili ed ardui. Firmico esalta la grandezza dello spirito, parla
dell'affinità dello spirito con l’anima e l’intelletto delle stelle e accenna
alla teoria della reminiscenza. Fonti di questa filosofia naturale si
considerano Posidonio e CICERONE. Da POSIDONIO, e forse anche da Porfirio,
può derivare altresì la discesa e l’ascesa dell'anima. Considerando i
rapporti fra l’azione del cielo e la volontà dell'uomo, F. afferma che le
stelle sono LA CAUSA delle passioni e dei impulsi malvagi dell'uomo.Lo spirito
dell'uomo, per la sua origine divina, può sottrarsi al potere delle
stelle.Anche queste tesi concordano, oltre che con il Platonismo, con il
PORTICO posidoniano. I libri II-VIII trattano dell’astrologia propriamente
detta. F. esige dai cultori dell'astrologia una condotta morale retta e
pura e vieta loro di occuparsi di ciò che riguarda il principe, perchè, essendo
divino, non è sottoposto alle stelle. In quest'opera, che offre una
testimonianza importante del timore che nell’età dell’autore il potere dei
cieli incute anche alle classi superiori, appaiono influssi stoici, in generale
ma non sempre posidoniani, piuttosto che specificamente neo-platonici e se in
certi punti l’intonazione religiosa e mistica concorda con lo spirito di questa
scuola, si deve anche pensare al carattere generale della filosofia
contemporanea. Nell'insieme, F. non può considerarsi il seguace di alcun
indirizzo determinato. Scrive "il De errore profanarum
religionum", che è una violenta polemica contro il paganesimo di cui
chiede la distruzione dagli principi Costazio e Costante. Filosofo
Italiano. Di lui restano pochissime notizie biografiche, per lo più desumibili
dai suoi testi. Siciliano, secondo la sua stessa testimonianza, Firmico e
senatore e per qualche tempo avvocato, ma abbandona la professione per le
inimicizie che la sua pratica gli procura, sicché la successiva condizione di
otium gli permise di dedicarsi agli studia humanitatis. Pubblica, così, le sue
due opere conservatesi: i Matheseos libri octo e, circa dieci anni dopo, il De
errore profanarum religionum. Matheseos libri octo L'opera, il cui titolo
completo è “De Nativitatibus sive Matheseos libri VIII”, è dedicata al
governatore della Campania, Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano detto
Mavorzio, e costituisce il più vasto trattato di astrologia conservatosi
dall'antichità, frutto di esperienze e studi in campo neoplatonico. Il
primo libro, a differenza degli altri sette di contenuto esclusivamente
tecnico, contiene una vera e propria apologia morale dell'astrologia, scienza
caduta in sospetto ai galilei, ma ampiamente praticata al tempo dell'autore per
influsso della speculazione platonica. I restanti libri espongono diverse
nozioni tecniche relative alla materia, con uno stile spesso compilatorio che
però rende conto della sintesi di una lunga tradizione precedente. F. Materno
afferma che l'influenza degli astri si esercita sulla parte DIVINA dell'anima
umana. Solo un animo puro e libero da ogni peccato può accostarsi
all'astrologia, disciplina che pone in costante contatto col divino. Dimostra
poi l'importanza dell'influsso degli astri nel determinare la vita umana, e la
spiegazione della storia del mondo fin dall'età di Saturno alla luce di tale
principio. Firmico espone i fondamenti dell'astrologia tra cui i segni, i pianeti,
le case, le suddivisioni dello zodiaco (decani e termini), gli aspetti e,
particolarmente importanti per l'astrologia di Materno, gli antiscia, ovvero il
legame tra due segni in base alla loro distanza dai solstizi. Il libro contiene
anche il tema natale di un aristocratico romano che ricopre diverse cariche
importanti, e che è stato identificato con Lolliano Mavorzio, con Publilio
Optaziano Porfirio o, con Ceionio Rufio Albino. Questo libro contiene anche
alcuni avvertimenti per coloro che praticano l'astrologia: che bisogna sempre
dare i propri responsi pubblicamente, e che bisogna rifiutarsi di studiare
l'oroscopo del principe. In epoca romana, infatti, studiare l'oroscopo del
sovrano pontifice massimo costituiva un reato di lesa maestà punibile con la
morte. Il Thema Mundi, contenuto nel Libro III, sezione ii del Matheseos
Libro III presenta il concetto del Thema Mundi, l'oroscopo del mondo, poi
fornisce un elenco delle delineazioni per ciascun pianeta in ciascuna casa.
Tratta delle possibili delineazioni della Luna e dei Lotti della Fortuna e
dello Spirito, della lunghezza della vita, della professione. Tratta delle
delineazioni dei differenti segni in ciascun luogo e di ciascun pianeta. Tratta
degli aspetti, anche di quelli più complicati, e della delineazione delle
stelle fisse e del chronocrator. Tratta della condizione di nascita, della
schiavitù, della malattia, della famiglia, del matrimonio e di temi simili.
Include commenti sulle costellazioni e su gradi speciali. De errore profanarum
religionum L'opera è successiva alla conversione di Materno al Cristianesimo,
avvenuta in circostanze di cui si ignorano causa, luogo e tempo, ma
inequivocabilmente testimoniata dall'opera apologetica De errore profanarum
religionum. Nella tradizione del testo, l'opera è giunta priva delle pagine
iniziali. La parte restante inizia passando in rassegna i culti naturalistici
degli elementi dimostrandone l'assurdità. Considera poi quei culti di origine
orientale che erano allora molto praticati presso i pagani: i misteri di Iside,
Cibele, Mitra, il culto dei Coribanti, di Adone e altri. Sono applicati i
principi di Evemero per dimostrare che tutte queste divinità non sono altro che
uomini innalzati dopo la morte agli onori celesti e dei cui peccati gli uomini
si servono per giustificare i propri. Con alcune fantasiose etimologie -- per
esempio “Serapide” è fatto derivare da Σάρρας παίς, il figlio di Sara, cioè
Isacco -- tenta di spiegare le origini di alcuni di esse a partire dai testi
biblici; o ancora, egli dà notizie delle frasi e delle formule in codice usate
nelle religioni misteriche, avvicinandole alle formule bibliche. La lingua
di F. aspira alla purezza del classicismo ma non si sottrae agli influssi del
suo tempo, abusando spesso di espedienti retorici, enfasi e incursioni nella
lingua poetica. L'uso delle clausole metriche lo ricollega alla tradizione
oratoria di CICERONE. Lo stile dell'opera, in effetti, richiama da vicino
quello degli africani Tertulliano e Arnobio, ricorrendo volentieri alla
derisione e al sarcasmo. Dell'opera colpisce il fanatismo quasi feroce
con cui l'autore esorta gli imperatori Costante I e Costanzo II a perseguitare
senza pietà i seguaci delle fedi fallaci. Non è infatti frequente nella filosofia
trovare un'esplicita richiesta volta a sollecitare l'intervento dello stato
contro i pagani, recuperando in un certo modo il disprezzo che i senatori hanno
ai tempi della Repubblica per l'ellenizzazione della religione e della cultura
romana -- essendo Quinto Fabio Massimo Verrucoso il più conosciuto contro
l'ellenizzazione, mentre i maggiori difensori di questa furono la gens
Cornelia. Ricordiamo a tale proposito che il primo imperatore a mettere fuori
legge tutti i riti non cristiani e a perseguitarli apertamente fu Teodosio I.
In quest'opera si coglie anche quello che dovette essere lo stato d'animo
formatosi in molti nel breve lasso di tempo intercorso tra le persecuzioni
dioclezianee e l'editto di Milano. Seppur F. appaia pienamente inserito nel
filone della letteratura apologetica, la sua voce non giunse isolata al tempo
dell'editto di Tessalonica promulgato da Teodosio I, ma nel corso del medio-evo
rimase senza eco. La sua opera apologetica è considerata di particolare
interesse per la storia delle religioni, riportando particolari di prima mano e
plausibili sui culti misterici praticati in Sicilia in età tardo-antica.
Paradossalmente e, invece, molto considerata la sua opera astrologica, la cui
esaustività e leggibilità migliore rispetto all'opera di Marco Manilio
giovarono alla trasmissione. Matheseos. Siciliae quam incolo et unde oriundus
sum»; Matheseos libri octo, IV, proemio; Marchesi, Disegno storico della
letteratura latina, Milano-Messina; L'opera contiene infatti un riferimento a
un'eclissi anulare di sole. Mommsen. Hermes Brennan, F. The Hellenistic
Astrology, hellenisticastrology. com/astrologers/
firmicus-maternus Neugebauer,
«The Horoscope of Ceionius Rufius Albinus», The American Journal of Philology,
L'unico testimone è un codice del X secolo, il Vaticanus Palatinus; F. L'errore
delle religioni pagane, Introduzione, traduzione e note a cura di E. Sanzi,
Roma 2006. ^ C. Marchesi, Disegno storico della letteratura latina,
Messina-Milano. F., Matheseos edito da Kroll e Skutsch, Stuttgart, Teubner,
Mathesis, Monat, Parigi Les Belles Lettres, Collection des Universités de
France. In difesa dell'astrologia. Matheseos, a cura di Colombi, Udine, Mimesis;
L'errore delle religioni pagane, a cura di Sanzi, Roma, Città Nuova; F. su
Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Niccoli, F.,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica F., su digilib LT, Università degli Studi del Piemonte
Orientale Amedeo Avogadro. Opere di F. su MLOL, Horizons Unlimited Open Library, F.Internet Archive;
F. Catholic Encyclopedia, Robert Appleton. De errore profanarum religionum, Ziegler, Lipsiae, in
aedibus Teubneri Matheseos . Kroll et F. Skutsch, Lipsiae, in aedibus Teubneri Portale
Antica Roma Astrologia Biografie Portale Letteratura
Categorie: Scrittori romani Astrologi romani Scrittori Romani Senatori romani
Scrittori antichi Astrologia ellenistica Scholar and statesman who writes an
attack on religion that borrows heavily from CICERONE. PORTICO. F. writes an
essay on astrology. Nome compiuto: Giulio Firmico Materno. Firmico. Keywords:
cosmologia. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Firmico,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Firmo: la ragione conversazionale e Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma). Abstract. Grice: “Plotino reminds me of myself. He
spent his life criticising other philosophers’s creeds!” Keywords: epagoge. Filosofo
italiano. Friend of Porfirio and a pupil of Plotino and Amelio Gentiliano [si
veda]. He is best known because of the essay “On abstinence,” that Porfirio
dedicated to him, in which the arguments for vegetarianism are set out. F. had
evidently resumed his carnivorous ways at the time the essay was written. Nome compiuto: Firmo Castricio. Firmo. Keywords:
biologia filosofica. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice,
“Grice e Firmo,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fisichella:
all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del
duello – scuola di Catania -- filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: I love Fisichella; for
one, he was a nobleman; for another, he died during Messinas earthquake leaving unfinished quite a few essays he philosophised on both nature and
convention, and the rationalist basis of his theory of contract is Griceian in
nature, even if he fills it with charming Roman detail! Appartenente alla nobile famiglia siciliana dei
Fisichella, fu autore di famose saggi. Fu responsabile della Biblioteca Civica
di Catania. Insegna a Messina. Mor vittima del terremoto di Messina. Altre
opere: Roma e il Mondo (Coco); Pena temporaria, pena perpetua; Il concetto d
obbligazione naturale; Il concetto del divorzio secondo la filosofia di Enrico
VIII (Carmelo de Stefano); Matrimonio, questione di stato la legge di matrimonio. Nominato
"bibliotecario onorario" Federico De Roberto, che scrisse in uno
scrittoio a schiena d'asino ancora conservato molte pagine del suo romanzo I
Vicer. Whoever has
glanced through the pages of any text-book on mercantile law will hardly deny
that contract is the handmaid if not actually the child of trade. Merchants and
bankers must have what soldiers and farmers seldom need, the means of making
and enforcing various agreements with ease and certainty. Thus, turning to the
special case before us, we should expect to find that when Roma was in her
infancy and when her free inhabitants busied themselves chiefly with tillage
and with petty warfare, their rules of sale, loan, suretyship, are few and
clumsy. Villages do not contain lawyers. Even in towns, hucksters do not employ
them. Poverty of contract is in fact a striking feature of the early Roman
jurisprudenze, and can be readily understood in the light of the rule just
stated. The explanation given by Maine in Ancient Law is doubtless true, but
does not seem altogether adequate. Maine points out that the Roman house-hold
consists of many families under the rule of a paternal autocrat. Few freemen
have what we should call legal capacity. Consequently, there arose few
occasions for a contract. This may indeed account for the non-existence of
agency, but not for that of all other contractual forms. For, if the households
had been trading instead of farming corporations, they must necessarily have
been more ichly provided in this respect. The fact that their commerce is
trivial, if it exists at all, alone accounts completely for the insignificance
of the contract in their early law. The origin of the contract as a feature of
social life is therefore simultaneous with the birth of Ttade and requires no
further explanation. It is with the origin and history of its individual forms
that we shall deal. As Roman civilization progresses, we find commerce
extending, and contract growing steadily to be more complex and more flexible.
Before the end of the Roman republic the rudimentary modes of agreement which
suffice for the requirements of a semi-barbarous people have been almost wholly
transformed into the elaborate system of contract preserved for us in the
fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which
statements of reasonable accuracy can be made, and which for convenience we may
call the regal period, we can distinguish three ways of securing the fulfilment
of a promise. The promise could be enforced either by the person interested, or
by the gods, or by the community. When, however, we speak of *enforcement*, we
must not think of what is now called specific performance, a conception unknown
to primitive Roman law. The only kind of enforcement then possible is to make
punishment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method
of redress in a society just emerging from barbarism, is doubtless the most
ancient protection to promises. We find self-help to have been not only the
mode by which the anger of the individual is expressed, but also one of the
authorised means employed by a god il
divino -- or the community to signify displeasure. This rough form of justice
falls within the domain of law in that the law allows it, and even encourages
Romans to punish the delinquent, whenever religion, or custom, has been
violated. But as the Romans grew more civilized and the nation larger,
self-help proves a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly, the
scope of self-help is by degrees narrowed, and, at last, with the introduction
of surer methods, self-help becomes wholly obsolete. Religious law, as
administered by a priest, or representatives of a god, is another powerful
agency for the support of promises. A violation of fides, the sacred bond
formed between the parties to an agreement, is an act of impiety which lays a
burden on the conscience of the delinquent and may even have entailed religious
disabilities. Fides is of the essence of every compact. But there are certain
cases in which its violation is punished with exceptional severity. If an
agreement is solemnly made in the presence a god Roma had three: Giove, Mars, and Quirinus --,
its breach is punishable as an act of gross sacrilege. A third agency for the protection
of a promise is legal. This third agency consists of a penaltiy imposed upon
bad faith by the laws of Rome, the rules of the gens, or the by-laws of the
guild to which the delinquent belongs. What the sanction is in each case we are
left to conjecture. It may be public disgrace, or exclusion from the guild, or
the paying of a fine. And if a promises is strengthened by an appeal to a god,
so might another be by an invocation of the people as witnesses. An agreement,
then, might be of three kinds, correspending to these three kinds of sanction.
An agreement may consist of an entirely formless compact, or a solemn appeal to
a gods, or a solemn appeal to the people. A formless compact is called pactum
in the language of the Twelve Tables. A pactum is merely a distinct
understanding between parties who trust to each other, and in the infancy law,
a pactum must have been the kind of agreement most generally used in the
ordinary business of life. A pactum is doubtless the oldest of all agreements,
since it is almost impossible to conceive of a time when two Romans did not
barter an act and a promise as freely as they bartered goods and without the
accompaniment of any ceremony. A compact of this sort is protected by the
universal respect for fides, and its violation may perhaps have been visited
with penalties by the guild or by the gens. But intensely religious as the
early Romans were, there must have been cases in which conscience was too weak
a barrier against fraud, and when a slight penalty was ineffectual. The fear of
a god has to be reinforced by the fear of the Roman. Self-help is the remedy
which naturally suggests itself. In The Twelve Tables a pactum appears in a
negative shape, as a compact by performing which retaliation or a law-suit may
be avoided. If this compact is broken, the offended party pursues his remedy.
Similarly, where a positive pactum is violated, the injured person must have
had the option of chastising (Gell. XX. 1. 14. Auct. ad Her. ii. 13. 20) the
delinquent. The injured Romans revenge may take the form of personal violence,
seizure of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. A Roman could choose his own mode of punishment. But, if his
adversary proves too strong for him, he doubtless had to go unavenged. If the
broken agreement belonged to either of the other classes, the injured party has
the whole support of the priesthood or the community at his back, and thus is
certain of obtaining satisfaction. It is therefore plain that though formless agreements
contain the germ of a contract, a formless agreement could not produce a law of
Contract. By the very nature of a formless agreement or pactum, it lacks
binding force. The pactums sanction depends on the caprice of individuals,
whereas the essence of a contract is that the breach of an agreement is
punishable in a *particular* way. A further element is needed, and this is
supplied by the invocation of higher powers. At what period the fashion is
introduced of confirming promises by an appeal to a god it would be idle to
guess. Originally, it seems, the plain meaning of such an appeal is alone
considered, and its form is of no importance. Under the influence of custom or
of the priesthood, such an agreement assumes, by degrees, a formal character,
and it is thus that we find them in our earliest authorities. Since Religion
and Law are both at first the monopoly of the priestly order, and since the
religious form of a promise has its counterpart in earlier customs, the
strictly SECULAR forms of an agreement s peculiarly Roman. The religious forms
are evidently the older, and formal contract has therefore had a religious
origin. Fides being a divine thing, the most natural means of confirming a
promise was to place it under divine protection. This may be accomplished in
two ways, by iusiurandum or by sponsio -- each of which is a solemn
declaration, placing the promise or agreement under the guardianship of a gods.
Each of these two forms the iusiurandum
and the sponsio -- has a curious history, and they are the earliest specimens
of a true Contract. A third method, and one peculiar to the Romans, which
naturally suggested itself for the protection of agreements, is to perform the
whole transaction in view of the people. Publicity ensures the fairness of the
agreement, and placed its ex- istence beyond dispute. If the transaction was
essentially a public matter, such as the official sale of public lauds, or the
giving out of public contracts, no formality seems ever to have been required,
so that even a formless agreement a mere
pactum -- is, in that case, binding. The same validity is secured for a private
contract, by having is publicly witnessed, and, the next one is but one
application of this principle. In testamentary law it seems probable that the
public will in a comitiis calatis is also formless, whereas, in private, the
testator may only give effect to his will by formally saying to his
fellow-citizens testimonium, mihi perhibetote. Thus the two elements which
turned a bare agreement into a contract are religion and publicity. The naked
agreement (pactum) need not concern the philosopher, since, its validity as a
contract never receives complete recognition. But it will be the object of the
following consideration to show how the agreement GROWS into a contract by
being invested with a religious or public dignity, and to trace the subsequent
process by which this outward clothing is slowly cast off. Formalism is the
only means by which contract rises to an established position. But when that
position is fully attained we shall find that contract discarding the form, and
returning to the state of the bare agreement from which it springs.
Iusiiurandum is derived by some from louisiurandum, which merely indicates that
Jupiter or Giove the root, Aryan, is
that of dius, as in diuspiter, or dius-pater
is the god by whom Romans swear. To make an oath is to call upon some
god to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he swerves
from it. This appears from the wording of the oath in Livio where Scipione
says: -- Si sciens falio, turn me, luppiter optime maxime, domum familiam
remque meam pessimo leto afficias It
also appears from the oath upon the luppiter lapis given by Polibio and Paolo
Diacono, where a man throws down a flint and says Si sciens folio, turn me Dispiter saliia urbe
arceque bonis eiiciat, uti ego hunc lapidem." A promise accompanied by an
oath is simply a UNI-LATERAL contract under religious sanction. An oath is in
used for the purpose of a contract. Cicerone remarks that the oath is proved by
the language of the XII Tables to have been in former times the most binding
form of promise (Off III. 31. 111). Since an th is morally binding -- Of. Apul.
de deo Socr. 5. = xxii. 53. -- in the time of Cicerone, though it has then no
LEGAL force, Cicerones implicature is that, in earlier times, an oath is
LEGALLY binding also. From Dionisio we know that the altar of Ercole, the Ara
Massima -- is the place at which a solemn compact (a-vvOrJKai) ais made, while
Plauto and Cicerone inform us that such a compacts is solemnised by grasping
the altar and taking the oath. It would seem probable that a gods was consulted
by the taking of an auspice, *before* the oath is made. Cicerone says that,
even in a private affair, a Roman would take no step without asking the advice
of a god. And we may safely conjecture that whenever a god was called upon to
witness a solemn promie, he was first enquired of, so that he might have the
option of refusing his assent by giving an unfavourable auspice. The terms of
the oath were known as concepta uerba and they are strictly construed.
Periurium does not mean mere false swearing. Periurium means the breach of an
oath, the commission of an act at variance with these verba concepta. There is
some dispute as to what are the exact consequences of such a breach. Voigt
thinks that periurium merely entails an excommunication from a religious rite.
Danz is clearly right in maintaining that its consequences are far more serious
-- 1 Dion. 1. 40. 2 piaut. Rud. 5. 2. 49; Cic. Flace. 36. 90. 3; Biv. 1. 16.
28.; Seru. ad Aen. 12. 13. " i.e. sciens fallere; Plin. Paneg.d'i.;
Seneca, Ben. iii. 37. 4. 8; Off. III. 29. 108; lus Nat. in. 229. 8 j{gi. (j_ _
g 149. -- A breach amounts in fact to complete outlawry. Cicerone says that the
sacratae leges of the ancients confirm the validity of an oaths. Now, a sacrata
lex is one which declares the transgressor to be sacer -- i. e., a victim
devoted -- to some particular god, and sacer in the so-called laws of Seruius
Tullius and in The XII Tables is *the* epithet of condemnation applied to the
undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems highly
probable that the breaker of an oath becomes sacer. His punishment, as Cicerone
implicates, is death. The formula of an oath given by Polibio is more
comprehensive than that given by Paolo Diacono, for, in it, the swearer prays
that, if should he transgress, he may forfeit not only the religious but also
the civil rights of his Roman countrymen. The oath-breaker is an utter outcast.
As a gods could not always execute vengeance in person, what the god does is to
withdraw his protection from the offender and leave him to the punishment of
his Roman fellow-men. H. P. Grice adds:
The drawback to this old Roman method of contract, as formulated by Polybius,
is the same as that of the Law of my country, England, which makes hanging the
penalty for a slight theft. The hanging penalty is out of all proportion to the
injury inflicted by a breach of the promise. So awful indeed was it, that no
promise of an ordinary kind could well be given in such a dangerous form, and
consequently the oath was not available for the -- 1 Festus, p. 318, s.u.
sacratae. - Fest. p. 230, s.u. plorare. Seru. ad Aen. 6. 609; Leg. ii. 9. 22. ^ ni. 25. 5 p.
114, s.u. lapideni. ' Liu. v. 11. 16.-- common affairs of daily life. The use of the
oath therefore disappears with the rise of other forms of binding agreement,
the severity of whose remedies is PROPORTIONATE to the right which has been
violated. At the same time, the breaking of an oath comes to be considered as a
merely *moral*, instead of a strictly *legal*, offence. By the end of the
Republic, an oath entails nothing more serious than disgrace dedecus
or disgrice, as I prefer to spell it. In one instance only does the
*legal* force of the oath survives. As late as the days of Justinian, the
service due to a patron by his freedman are still promised under oath. But the
penalty for the neglect of such a service changes with the development of the
law. Before the time of The XII Tables, a former slave who neglects his former
patron, like the patron who injures his former slave, are no doubt sacer. The
former slave is an outlaw fleeing for his life, as we are told by Dionisio. But
in later times the heavy religious penalty disappears, and the iurisiurandi
obligatio is enforced by a special praetorian action: the actio operarum. By
the time of Ulpian, the effects of the iurata operarum promissio seem indeed to
have been identical with those of the operarum stipulatio, though the forms of
the two are still quite distinct. We may now summarise this primitive mode of
contract. The contract was a verbal declaration, on the part of the promisor,
couched in a solemn and carefully -- 138 Dig. 1. 7. = Seru. ad Aen. 6. 609. s
n, iq. * 38 Big. 1. 2 and 7. = of. 33 Dig, 1. 10. -- worded formula, the
concepta uerba, wherein he called upon a god (testari deos), to behold his good
faith and to punish him for a breach of it. The sanction is the withdrawal of
the protection by the god. The delinquent is then exposed to death at the hand
of any man who chooses to slay him. The mode of release, if any, does not
appear. In classical times it was the acceptilatio, but this was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae promissae
and operae iuratae. Now, though the point has been contested by high authority,
it scarcely admits of a doubt that there exists from very early times *another*
form, known as a sponsio, by which an agreements may be made still under
religious sanction. This method, as Danz points out, is originally connected
with a mere oath. The sponsio is derived from a stern and solemn compact made
under an oath to a god. Danz goes perhaps too far when he identifies the two.
Sponsio is, for Danz, just another name for a sworn promise. The stages through
which the sponsio pass tell a different story. The word sponsio is closely
connected with (Tirovhrj, a-rrevSeiv
and, hence, a sponsio is literally, a pouring out of wine, quite
distinct from the convivial Xot^T) or libatio. A different derivation is given
by -- 138 Dig. 1. 7, fr. 3. Plaut. Rud. 5. 2. 52. 5 46 Dig. 4. 13. Danz, Sacr.
Schutz, 5 Featus-p. 329 s.u. spondere. Leist, Greco-It. B. G. p. 464, note o.
-- Varrones and Verriuss from spons, the will, whence, according to Girtanner,
a sponsio was a declaration of the will (I will, not I shall), savours somewhat
too strongly of classical etymology. A pouring out of wine, as Leist shows, is
a constant accompaniment to the conclusion of a sworn compact of alliance
(opKia iriaTo). This sacrificial wine adds force to the oath. The wine is a
symbol of the blood which *would* be spilt if a god *were to be* insulted by a
breach of the oath made during this wine-pouring ceremony. In this then its
original form, a sponsio is nothing more than an accessory piece of ceremonial.
A second stage was brought about by the *omission* of the oath AND the use of
wine-pouring *alone* as the principal ceremony. This made a less important
agreement of a private nature. (An Indian friend of mine tells me that, in the
Indian Kama-Sutra, a sacrifice of wine is customary at betrothals -- and
comparison shows that the marriage ceremonies of the Romans, in connection with
which we find sponsio and sponsalia applied to the betrothal and sponsa to the
bride, are very like those of other Aryan communities. We may therefore clearly
infer that at Rome also there was a time when the pouring out of wine is a part
of the marriage-contract. Thus, the derivation of the sponsio from wine-pouring
receives independent confirmation. In a third and last stage, a sponsio came to
mean -- ^ Lingua Latina VI. 7. 69. Festus, s. u. spotidere. ' Stip. p. 84.
Greco-It. B. G. 60. = Leist, Alt-Ar. I. Civ. p. 443. Gell. IV. 4.
Varro, Lingua Latina vi. 7. 70. Leist, loc. cit. -- nothing more than a promise. It is easy to see
how this came about. At first, the promise takes its name from the explicit
ceremony of wine-pouring which gives to it binding force. In course of time,
this name-giving crucial wine-pouring ceremony is left out, as what H. P. Grice
calls, a taken for granted. The promise alone, provided words of style are
correctly used, retains its old use and its old name. From being a ceremonial
act, sponsio becomes a form of words. Such is the final stage of its
development. The importance attached to the use of the words in the
conversational dyad -- A: Spondesne? -- B: Spondeo. -- in preference to all
others' thus becomes clear. The conversational dyad: A: Spondesne? B: Spondeo.
means: -- A: Do you promise by the sacrifice of wine? B: I do so promise. -- Just as one says, "I
GIVE you my oath," when we do not even *dream* of actually *TAKING* one!
Another peculiarity of sponsio, noticed though not explained by Gaius HI. 93 m. 94 --, is the fact that it is used
in one exceptional case to make a binding agreement between a Romans and a
NON-Roman aliens, scil., at the conclusion of a treaty. Gaius expresses
surprise at this exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure wine
((nrovBal aKprjToi) is one of the early formalities of an international compact
(opKia iria-Ta), it is natural that the expression spo'ndeo survives on such
occasions, even after the oath and the wine-pouring had long vanished. Sponsio
being then a religious act and subsequently a religious formula, its sanctity
is doubtless protected by a pontiff with a suitable penalty. What the penalty
was we cannot hope to know, though clearly they are the forerunners of the penal
sponsio tertiae partis of the later procedure. Varrone informs us that, besides
being used at a betrothal, a sponsio may also be employed in a money (pecunia)
transaction. If pecunia includes *more* than money, we may well suppose that
cattle and other forms of property, which could be designated by number are
capable of being promised in this manner. Indeed it is by no means unlikely
that negotium was at one time the proper form for a loan of money by *weight*,
while sponsio is the proper form for a loan of coined money -- pecunia
numerata. The making of a sponsio for a sum of money is at all events the
distinguishing feature of the actio per sponsionem, and though we cannot now
enter upon the disputed history of that action, its antiquity will hardly be
denied. The account here given of the origin and early history of the sponsio
is so different from the views taken by many excellent authorities that we must
examine their theories in order to see why they appear untenable. One great
class of commentators have held that the sponsio is NOT a primitive
institution, but was introduced at a date subsequeat to The XII Tables. The
adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so early a
period, of a form of contract so convenient and flexible as the sponsio, and
they also attach great weight to the fact that no mention of sponsio occurs in
The XII Tables! While it would doubtless be an anachronism to ascribe to the
early -- 1 Lingua Latina VI. 7. 70. 2 Karsten, Stip. p. 42. sponsio the actionability and breadth of
scope which it had in later times, still it may very well have been sanctioned
by religious law, in ways of which nothing can be known unless the pontifical
Commentaries of Papirius' should some day be discovered! As to the silence of
The XII Tables on this subject, we are told by Pomponius that they were
intended to define and, more importantly, REFORM the law rather than to serve
as a comprehensive code. Therefore they may well have passed over a subject
like sponsio which is regulated by the priest. Or, if The XII Tables did
mention it, their provisions on the subject may have been lost, like the
provisions as to iusiurandun, of which we know only through a casual remark of
Cicerones. The early date here attributed to the sponsio cannot therefore be
disproved by any such negative evidence. Let us see how the case stands with
regard to the question of origin. The theory best known at Oxford, owing to its
support by Maine, is that sponsio is a simplified form of a nexum, in which the
ceremonial falls away and the nuncupatio is left. Maines explanation is so
utterly obsolete that it is not worth refuting, especially since Hunter's
rebuttal of it. One fact which in itself is utterly fatal to such Maines theory
is that the nuncupatio is an assertion requiring no reply or the securing of perlocutionary uptake, in
the words of J. L. Austin -- 1 Dion. III. 3(5. ^ 1 Dig- 2. 2. 4. 3 Off. m. 31.
111. Maine, Anc. Law, p. 326. Hunter, Bovian Law, . " Gai. ii. 24. B. E. 2
-- whereas the *essential* thing about the sponsio is that of a question
coupled with an answer that implicates the co-conversationalists implication in
the matter via uptake cf. betting. Voigt
follows Girtanner in maintaining that spondere signifies "to declare one's
will, as in I will, not I shall -- and
he vaguely ascribes the use of sponsiones in the making of agreements to an
ancient custom existing at Rome as well as, more generally, somewhere in
Latium. Girtanner agrees with the view here expressed that a sponsio was known
prior to The XII Tables, but thinks that before The XII Tables, the sponsio was
neither a contract (strictly true if by contract we mean an agreement
enforceable by action), nor an act in the law, and that its use as a contract
began later as a result of Latin influenced. In another place, Girtanner
expresses the opinion that the introduction of the sponsio as a contract is due
to legislation -- most probably to the Lex Silia. The objections to this view
are, first, that his indeed Varrones --
etymology is wrong, and, second, that the inference drawn as to the original
signification of spondere involves us in rather serious difficulties. An
expression of the will can be made by a formless, as Dummett calls it,
declaration as well as by a formal one. And if a *formless* agreement be a
sponsio, as it must be if a sponsio refers to *any* declaration of the will,
how are we to explain the *formal* or ceremonial importance, attaching to the
use of the particular words in what Grice calls the primeval conversational
dyad: A: Spondesne? B: Spondeo. This
view ignores the religious nature of the sponsio, which I have endeavoured to
establish, and it forgets that a sponsio, being part of the marriage
ceremonial, one of the first subjects -- 1 Bom. EG. 1. p. 42. ' lb. p. 43. 3
lus Nat. 33-4. -- to be regulated by the
laws of Romulus after he married Ercilia (later a goddess, according to Ovid)
is most probably one of the oldest Roman institutions, instituted by Romulus (Its different with Henry VIII marrying Anna
Boleyn --. Again, as Esmarch observes the legislative origin of a sponsio is a
very rash hypothesis. We only know that the Lex Silia introduces an improved
procedure for matters which are already actionable, and has a new formal
contract been created by such a definite act, we should almost certainly have
been informed of this by, say, Cicero! Danz, who also (wrongly) derives
sponsion from spans, the will; takes spondere to mean sua sponte iurare, and
thinks that a sponsio is exactly the same as a iusiurandum, i.e. nothing more
than an oath of any kind! Danzs chief argument for this view is to be found in
Paolo Diacono, who gives con-sponsor = coniurator. But why need we suppose that
Paulus meant more than to give a synonym ? in which case it by no means follows
that spondere = iurare. For such a statement as that we have absolutely no
authority. Moreover, as we saw above, iusiurandum is a *one-sided*
(first-person singular) declaration on the part of the promisor only. How,
then, could the sponsio, consisting, as it does, of a question and its answer,
have sprung from such a source? Especially since the iusiurandum, though no
longer armed with a legal sanction, is still used as late as the days of Plauto
alongside of the sponsio and in complete contrast to it? Girtanner, in his
reply to the "Sacrale Schutz" of Danz, maintains that sponsio has
nothing -- 1 Dion. n. 25. ^ ^. y_ far q. u. R. W. ii. 516. ^ Sacr. Schutz, p.
149. *' Ueber die Sponsio, p. 4 ft. 22 -- to do with an oath, but that it was
is a simple declaration of the individual will, and that stipulatio has its
origin in the respect paid to fides. This view however is even *less* supported
by evidence than Danz's. Arguing again from analogy, Girtanner thinks that, as
the Roman people regulated its affairs by expressing its will publicly in the
comitia, we may conjecture that a Roman individual could validly express his
will in a private affairs -- in other words could make a binding sponsio. But
this, as well as being a wrong analogy, is a misapprehension of a leading
principle of law. For, as we have seen, no agreement resting simply upon the
will of the parties (i.e. pactun) is valid without some outward stamp being
affixed to it, in the shape of approval expressed by a god notably Giove -- or by the people. In more
modem language, we may say that such approval, tacit or explicit, religious or
secular, is the original causa civilis which distinguishes a contractus from,
not a pactum, but a pactio. Now, a popular vote in the comitia bears the stamp
of public approval as plainly as did the nexum. But a sponsio, requiring no
witness, is clearly NOT endorsed by the Roman people. The endorsement which the
sponsio needs in order to become a contractus iuris civilis must have been of a
religious nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originates in a religious ceremonial such as H. P. Grice describes:
Will you, wont you? I shall! To recapitulate the view here given, we conclude
that sponsio is, if it existed, a primordial institution -- 1 See Windsoheid,
K. Y. fiir G. u. R. W. i. 291. -- of the Roman and Latin peoples, which grows
into its later form through three stages. The sponsio is originally a sacrifice
of wine annexed to a solemn compact of alliance or of peace made under an oath
to a gods. It next became a sacrifice used as an appeal to a god in a compacts
not jtnade under oath such as a betrothal. Just as iusiurandum for many
purposes is sufficient without the pouring out of wine, so for other purposes
sponsio came to be sufficient without the oath. Lastly it becomes a rather
empty verbal formula, expressed in language by which the utterer *implicates*
-- to use Grices wording -- the accompaniment of a wine-sacrifice, but at the
making of which no sacrifice is actually performed but deemed to be performed as in the Kantian view that to will is to
act. In this final stage, which continued to the days of Justinian, its form is
a question, put by the promisee, and its AFFIRMATIVE answer, given by the
promisor, each using the verb spondere. A:
Filiam mihi spondesne? B: Spondeo. A: Centum dari spondes? B: Spondeo. Throughout its history this was a form
which Roman citizens alone could use, in which fact we clearly see religious
exclusiveness and a further proof of religious origin. Why they used question
and answer rather than plain statement is a minor point the origin of which no
theory except Grices -- has yet
accounted for (In the beginning was the Dia-Logos.). As Grice following Collingwood in conversando intelligendo notes, the recapitulation by the promisee is
obviously intended to secure the complete understanding by the promisor of the
exact nature of his promise. Its sanction in the early period of which we are
treating is doubtless imposed by the priest, but owing to our almost complete
ignorance of the pontifical law the
popes were none of the narcissists we now know! -- we cannot tell what that
sanction is. Having examined the ways in which an agreement could be made binding
under religious sanction, let us see how binding agreements could be made with
the approval of the *community*, or to use Cicerones favourite phrase, Populus
romanus. There is reason to believe that a secular or communitarian (free from immunity) class
of contracts is less ancient than the religious class, because nexum and
mancipium or municipium were peculiar to the Romans, whereas traces of
iusiurandum and sponsio are found, as Leist dreams, in other Aryan
civilizations. There is no more disputed subject in the whole history of Roman law
than the origin and development of this one contract, termed the nexum. Yet the
facts are simple, and though we cannot be sure that every detail is accurate,
we have enough information to see clearly what the transaction is like as a
whole. We know that, as per the genus-species diaresis the nexum is a negotium per aes et libram, a
weighing of raw copper or other commodity measured by weight in the presence of
witnesses. That the commodity so weighed is a loan' ; and that default in the
re-payment of a loan thus made exposed the borrower to bondage and savage
punishment at the hands of the lender (Hence: Neither a lender nor a borrower
be). We know also that the nexum exists as a loan before The XII Tables, for the
nexum is mentioned in them as something quite different from a municipium, or
manicipium. To assert, as Bechmann does, that since nexum included conveyance
as -- 1 Alt Ar. I. Civ. !" Abt.
pp. 435-443. 2 Gai. III. 173. 3 Mucins in Varro, L. L. 7. 105. " Varro, L.
L. vi. 5. 5 Clark, B. E.
L. 22. -- well as loan
"mancipiuvique " must therefore be an interpolation into the text of
the XII Tables -- is an arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology of
both nexum *and* mancipium shows that they were distinct conceptions. A
mancipium entails the transfer of manus, ownership. Nexum entails the making of
a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent of obligatio in the later
law. It is true that both nexum and mancipium required the use of copper and
scales, to measure in one case the price, in the other the amount of the loan.
But this coincidence by no means proves that the two transactions are
identical. Today, a deed is used both for leases and for conveyances of real
property, yet that would be a strange argument to prove that a lease and a
conveyance are the same thing! Here however we are met by a difficulty. If, as
some hold, and as I have tried to prove, we must regard mancipium as an
institution of prehistoric times distinct from the purely contractual nexum,
how are we to explain the fact that nexum is used by Cicerone as *equivalent*
to mancipium, or as a general term signifying, omne quod per aes et libram
geritur, whether a loan, a will, or a conveyance? Now first we must notice the
fact that nexum had at any rate not always been synonymous with mancipium, for
if it had been so, there could have been no doubt in the minds of -- 1 Kauf, p.
130. ^ Mommsen, Hint. 1. 11. p. 162 n. 3 ad Fam. 7. 30; de Or. 3. 40; Top. 5.
28; Farad. 5. 1. 35.; pro Mur. 2. * Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallua
Aelius in Festus, s.u. nexum ; Manilius in Varro, L. L. 7. 105. 24 -- Scaeuola
and Varrone that a res nexa is the same thing as a res mandpata. This Scaeuola
and Varrone both deny. We must also remember that Mucins Scaeuola was the
Papinian of his day. ManiUus, on the other hand, struck perhaps by the likeness
in form of the obsolete nexum to other still existing iwgotia per aes et Ubram,
seems to have made nexum into a generic term for this whole class of
transactions. In this, he was followed by Gallus Aelius'. The wider meaning
given by them to that which was a technical term at the period of the XII
Tables, apparently became the received opinion
received by them! --, partly for the very reason that nexum no longer
had an actual existence, partly because neon liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in matters
which had nothing to do with the original nexum, viz., in the release of
judgment-debts and of legacies per damnationem. One pecularity mentioned by
Gaius in the release of such a legacy seems altogether fatal to the theory that
manucipium was but a species of the genus nexum. Gaius says that nexi liberatio
could be used only for legacies of things measured by weight. Such things were
the sole objects of the true nexum, whereas res manucipii included land and
cattle. Therefore if manucipium were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipii, but this,
as Gaius shows, is not the case. The view that nexum was the parent gestum per
-- 1 Varro, L. L. vii. 105. ' Festus, p. 165, s. u. nexum. s Gai. III. 173-5.
NEXVM DISTINCT FROM MANCIPIVM-- aes et libram, and that mancipium is the name
given later to one particular form of nexum, is worth examining at some length,
because it is widely accepted, and because it fundamentally affects our opinion
concerning the early history of an important contract. Bechmann thinks it more
reasonable to suppose that nexum *narrowed* from a general to a specific
conception. But it is scarcely conceivable that nexum should have had the vague
generic meaning of quodcumque per aes et libram geritur when it was still a
living mode of contract, and the technical meaning of obligatio per aes et
libram when such a contractual form no longer exists! What seems far more
likely is that nexum has a technical meaning -- until a nexum ceases to be
practiced, subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose meaning or disimplicature, to use Grices wording --
was introduced in the later Republic, partly to denote the binding force of any
contract, partly as a convenient expression for any transaction per aes et
libram. Even in Cicerone we find the nexum used chiefly with a view to elegance
of style, in places where mandpatio would have been a clumsy expression and
where there could be no doubt as to Ciceros meaning. But when he is writing
*history*, Cicero uses nexum in the sense it has, even if he concedes that that
sense is regarded by some as obsolete. 1 See Beohmann, Kauf, i. p. 130 ; Clark,
E. R. L. . 2 lb. p. 131. "
Varro, I. c. Pestus, s.u. nexum. Cf. ''nexu uenditi " in Ulpian, 12 Dig.
6. 26. 7. 5 Cio. de Or.
iii. 40. 159. 6 Har. Eesp. vii. 14; ad Fam. vii. 30. 2; Top. 5. 28. ' As in pro
Mur. 2; Parad. v. 1. 35. 8 de Rep. 2. 34 and cf. Liu. viii. 28. 1. Rejecting
then as untenable the notion that nexum denotes a variety of transactions, let
us see how nexum originates. The most obvious way of lending corn or copper or
any other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower, who would
naturally at the same time specify, by word of mouth, the terms on which he
accepted the loan. In order to make the transaction binding, an obvious
precaution would be to call in witnesses, or if the transaction took place, as it
most likely would, in the market-place, the mere publicity of the loan would be
enough. Thus it was that a nexum is originally made. It was a *formless*
agreement, necessarily accompanied by the act of weighing, and made under
public supervision in Romes market place the present Forum. The nexum deals
only with commodities which may be measured with a scale and a weight, and does
not recognize the distinction between res mancipi and res nee mancipi, a strong argument that nexum and mancipium
are totally distinct affairs. The sanction of the nexum lies in the acts of
violence which the creditor might see fit to commit against the debtor, if
payment is not performed according to the terms of his agreement. Personal
violence is regulated by The XII Tables, in the rules of manus iniectio. Before
that time, it is safe to conjecture that any form of retaliation against the
person or property of the debtor is freely allowed. The fixing of the number of
witnesses at *five* (why five?) which we find also in mancipium, is the only
modification of nexum that we know of prior to -- ' Gai. FUNCTION OF NEXAL
WITNESSES. -- the XII Tables. Bekker suggests that this change is one of the
reforms of Servius Tullius, and that the *five* witnesses, by representing the
*five* classes of the Servian census, personified the whole people the Populus Romaus (the five classes were: the first class, the
second class, the third class, the fourth class, and the fifth class). This is
a mere conjecture by Bekker and
ultimately by Servius Tullius --, but a very plausible one! For we are told, by
Dionysius, that Servius made *fifty* enactments on the subject of contracts and
crimes, and in another passage of the same author, we find an analogous case of
a law which forbade the exposure of a child except with the approval of *five*
witnesses one of each class, although
usually five first-class citizens did! --. But here a question has been raised
as to what the witnesses did, other than just BE there. The correct answer, I
believe, is that given by Bechmann, who maintains that the five witnesses
approved the transaction as a whole, and vouched for its being properly and
fairly performed. Huschke, on the other hand, claims that the function of the
five witnesses is to superintend the weighing of the copper, and that before
the introduction of coined money some such public supervision is necessary in
order to convert the raw copper into a lawful medium of exchange. This view is
part of Huschke's theory, that nexum had two marked peculiarities. A nexum is a
legal act performed under public authority, and it was the recognised mode of
measuring out copper money by weight. The first part of Huschke's theory may be
accepted without reserve. The second part seems quite untenable. We have no
evidence to show that nexum was confined to loans of money or of -- 1 Akt. I.
22 ff. 2 jy_ IS -J jj. 15. * Kauf, I. p. 90. ^ Nex-um, p. 16 ff. -- copper.
Indeed we gather from a passage of Cicerone that corn is the earliest object of
nexum, while Gains states that anything measurable by weight could be dealt
with by nexi solutio. No inference in favour of Huschke's theory can be drawn
from the phrase negotium per aes et lihram, for the phrase obviously dates from
the more recent times when the ceremony had only a formal significance, and
when the aes rauduscidum is merely struck against the scales. If then we reject
the second part of Huschke's theory, and admit, as, we certainly should, that
nexum may deal with any ponderable commodity, it is evident that his whole view
as to the function of the witnesses must collapse also. The reason is obviuous:
the very *idea* of turning copper from a merchandise into a legal tender is
obviously too sophisticated to have ever occurred to the mind of an early
Roman. As Bechmann rightly remarks, the original object of the Roman state in
*making* or minting coin was not to create an authorised medium of exchange,
but simply to warrant the weight and fineness of the medium most generally
used. The view of Huschke is therefore a total anachronism. There is also
another interpretation of nexum radically different from the one here
advocated, and formerly given by some authorities at Oxford (they tell me) but
which has few if any supporters among modern jurists of the H. L. A. Hart school,
as I might call it. This view was founded upon a loosely expressed and usually
casual remark of Varrone the grossest
etymologist Rome knew -- in which nexus is defined as -- 1 Cio. de Leg. Agr.
ii. 30. 83. ^ in. 175. Xauf, i. p. 87. *
See Sell, Soheurl, Niebuhr, Christiansen, Puohta, quoted in Danz, BSm. RG. ii.
25. -- a Roman who gives *himself* into slavery for a debt which he owes (think
indenture by the Irish in New England). The inference drawn from this remark is
that the debtor's body, not the creditor's money, is the object of the nexvm,
and that a debtor who is selling himself by mancipium as a pledge for the
repayment of a loan is said to make a nexum. Such a theory does not however
harmonize with the facts, or indeed, with Roman dignity! The evidence is
entirely opposed to it, for Varrones statement admits of quite a different
implicature! Neither nexum nor Tnan- cipium is ever found practised by a Roman
upon his body! Nor *could* nexum have applied to the debtor's body, for the
idea of treating a debtor like a res mmicipi or like a thing quod pundere
numero C07istat, is absurd. Again, if nexm = mancipium, the conveyance of the
debtor's body as a pledge must take effect as soon as the money is lent,
therefore, by thus becoming nexus, not
nexum the Roman must have been in
mancipio long before a default could occur, which is too strange to be
believed. Furthermore, being in mancipio, the Roman must have been capita
deminutus, which Quintilian expressly states that no nexal debtor ever is!
Clearly then, mancipium was under no circumstances a factor in nexum,. Thus it
would seem that the theory which regards nexum as a loan of raw copper or other
goods measurable by weight, is the one beset with fewest difficulties. Such
goods correspond pretty nearly to what in the later law were called res
fungihiles. -- 1 Varro, L. L. vii. 105 and see page 52. 2 nexum inire, Liu.
vii. 19. 5. " Paul. Diao. p. 70, s. u. deminutus. * Decl. 311. --. The
borrower was not required to return the very same thing, but an equal quantity
of the same kind of thing. And this explains why nexum, the first genuine
contract amongst the Romans, should have received such ample protection. A
tool such as a hammer --, or a beast of
burden such as an ox -- could be lent
with but little risk. Both the hammer and the ox are easily identified. A loan
of *corn* -- or, at a later stage, as Cicerone suggests -- or *copper* -- would
have been attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio might no doubt
have been used for making loans, but they both lacked the great advantage of
accurate measurement, which nexum owes to its public character. It is the
presence of the five witnesses one for
each of the five social classes -- which raised nexum from a formless loan into
a contract of loan. This sketch of the original nexum is all that can be given
with certainty. The *details* of the picture cannot be filled in, unless, as
Grice does, we draw upon our imagination. We do not know what verbal (or
conversational, if two-part) agreement (if any) passed between the borrower and
the lender. It is fairly certain that payment of *interest* on the loan might
be made a part of the contract, and not just because of the Jewish influence!
We cannot even be quite sure whether the scale-holder (libripens) is an
official, or a passer-by, as some have suggested, or a mere assistant. Our
description of the contract may then be briefly recapitulated as follows: The
form of the nexum consists of the weighing out and delivery to the borrower of
goods measurable by weight, in the presence of witnesses -- five in number,
since the time of Seruius Tullius, who found out that by census, five were the
classes of the Roman people), and whose attendance ensures the proper
performance of the ceremony. The total ownership of the particular goods passes
to the borrower, who is bound to return an equal quantity of the same kind of
goods. The specific terms of each contract
e. g. before too long -- were approximately fixed by a verbal agreement
uttered at the time, at the market place. The sanction consists of the violent
measures which the creditor might choose to take against a defaulting debtor.
Before The XII Tables there seems to have been no limit to the creditor's power
of punishment The rope by default, as
Grice puts it. Any violence against the debtor was approved by custom and
justified by the notoriety of the transaction, so that self-help or help me God, in Grices version -- is more
easily exercised and probably more severe in the case of nexum than in that of
any other agreement. The release (neooi solutio) is a ceremony preisely similar
to that of the nexum itself, the amount of the loan being weighed and delivered
to the lender, in presence of witnesses
possibly with the addition of the exchange: Thank you You are very
welcome. We have now examined the three methods by which a binding promise was
made in the earliest period of Roman history. The next question which confronts
us is whether there existed at that time any *other* method. The forms of
contract, besides these three described
the pactum, the sponsio, and the nexum --, which are found existing at
the later period of The XII Tables, are: fiducia, lex mancipi, uadimoniv/m, and
dotis dictio. Did any of these have their origin before this time? Fiducia is
doubtful. Lex mancipi owed its existence to an important provision -- 1 Gai.
III. 174. -- of that code. As to the origin of vadimonium, we cannot fee
certain, but judging from a passage in our ever trusted Gellius we are almost
forced to the conclusion that uadimonium was *also* a creation of The XII
Tables. Specifically, Gellius speaks of " uades et subuades et XXV asses
et taliones...omnisque ilia XII Tabularum antiquitas." We know that
(exactly) XXV asses is the fine imposed by The XII Tables for cutting down a
Romans tree. Therefore, it would seem from the context that uades had also been
introduced by that code. The point cannot be settled, but the XII Tables were
at any rate the first enactments on the subject of which anything is known. The
only contract of which the remote antiquity is beyond dispute is the so-called
dotis diction. Dionysius informs us that, in the earliest times I wasnt there! --, a dowry was given with
daughters on their marriage, and that, if the father could not afford this
expense, his client is bound to contribute. Hence, it is clear not only that
dos existed from very early times, but that custom even in remote antiquity had
fenced it about with strict rules. From Ulpian we know that dos could be
bestowed in three ways: by dotis dictio, by dotis promissio, or, finally, by
dotis datio. The promissio was a promise by stipulation, and the datio was the
transfer by mancipation or tradition of the property constituting the dowry.
These two are then easy to understand, even by the one who was marrying! But
this dotis diction *is* an obscure subject. It is difficult to know whence it
acquired its binding force as a contract, -- 1 xTi. 10. 8. 2 II. 10. 3 Reg. vi.
1. since, in form, it was *unlike* all
other contracts with which we are acquainted. Its antiquity is evidenced not
only by this peculiarity of form, but also by a passage in the Theodosian Code
which speaks of dotis dictio as conforming with the ancient law. An
illustration occurs in Terence where the father says, "Dos, Pamphile, est
decern talenta. Pamphilus, the would-be son-in-law, replies, "Accipio. But
we need not conclude that the transaction is *always* formal, for the Theodosian
Code, in permitting the use of any form, seems rather to be restating the old
law than making a new enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian and by
Gaius is that dotis dictio may be validly used only by the bride, by her father
or cognates on the father's side, or by a debtor of the bride acting with her
authority. Dictio is a significant word, for Ulpian distinguishes between
dictum and promissum. Dictum, Ulpian says, is a mere statement. Promissum a
binding promise. This distinction doubtless applies in the present case, since
dotis dictio and dotis promissio are clearly different. The following theories
seem to be erroneous. Von Meykow holds that dictio is adopted as a form of
promise instead of sponsio for this family affair of dos, in order not to hurt
the feelings of the bride and of her kinsmen by appearing to question their
bona fides. That theory would be a plausible explanation, if dictio could ever
have meant a -- 1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And. 5. 4. 48. ' 3. 13. 4. Reg. VI. 2. ^
Epit. ii. 9. 3. 21 Dig. 1. 19. Diet. d.
Rom. Brautg. p. 5 ff. B. E. 3 -- promise, but from what Ulpian says, this can
hardly be admitted. Bechmann again connects dotis dictio with the ceremony of
sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, Bechmann thinks, is promised
by a sponsio made at the betrothal, so that the peculiar form known as dotis
dictio is originally nothing more than the specification of a dowry already
promised. The dotis dictio would therefore have been at first merely a pactum
adiectam, made actionable in later times while still preserving its ancient
form. The objection to this theory is that it lacks evidence. The only passage
(this sordid play by Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract is in no way connected with the act of
betrothal. Another explanation is given by Czylharz, that dotis diction is a
formal contract. Czyllharzs view is based on the scholia attached to the
passage of Terence, which say of the bridegroom's answer that the bridegroom,
ille nisi diodsset ' accipio ' dos non esset." Czylharz therefore looks
upon the contract as an inverted stipulation. The *offer* of a promise *is*
made by the promisor. When *accepted* by the promisee (via uptake), this offer
becomes a contract. Though such a process is quite in harmony with the notion
of a contract, it would have been a complete anomaly at Rome. We cannot believe
that, if acceptance, or uptake, by the promisee, had been a necessary part of
the dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he has
been so careful to impress -- 1 ESm. Dotalrecht. 2 Abt. p. 103. 2 Z. f. B. G.
vn. 243. -- upon us that the dotis dictio could be made nulla interrogatione
praecedente. Thus the view of Czylharz besides being in itself improbable is
almost entirely unsupported by evidence. The scholiast on Terence need not
*mean* that "accipio" is an indispensable part of the transaction,
but a prop. The would-be son-in-lawy may merely have meant (or implicated) that
the bridegroom (his self) at this juncture might decline the proffered dos if
he so chooses as being too low -- This
interpretation of the would-be son-in-laws implicature is indeed the one borne
out by lulianus and Marcellus, who do give formulae of dotis dictio *without*
any words of acceptance or challenge by the would-be bridgegoom. A satisfactory
solution of the problem seems to have been found by Danz. Danz looks upon dos
as having been due from the father (or generally male ascendant) of the bride
as an officium, pietatis. Danz quotes passages from Cicerone in which he speaks
of refusing to dower a sister or a daughter as a most shameful thing. (Cicerone
had lost his daughter by this time). The source of the obligation lies in this
relationship to the *bride* -- not in any binding effect of the dotis dictio
itself. But in order that the obligation might be actionable its amount had to
be fixed. This is just what the dictio accomplishes. It is an acknowledgment of
the debt which custom decrees that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos is precisely analogous to the debt of
service which a former slave owes as an officium to patron, and which he
acknowledges by the iurata operarum promissio. The dos and the operae were both
officia pietatis, but -- 1 23 Dig. 3. 44. ^ 23 Dig. 3. 59. ' Rom. BG. 1. 163. ^
See 23 Dig. 3. 2. ' piaut. Trin. 3. 2. 63 ; Cic. Quint. 31. 98. .32 -- it
became customary to specify their nature and their quantity. In the one case,
this was done by an oath; in the other, by a simple declaration. In both cases,
the law gives an action to protect an anomalous forms of agreement. What kind
of action may be brought on a dotis dictio is not known. Voigt states it to
have been an actio dictae dotis, for which he even gives the Austinian performative
formula -- but formula and action are alike, alas, purely conjectural. We can
only infer that the dotis dictio was actionable since it constitutes a valid
contract. How or when this comes to pass we cannot tell. An advantage of Danz'
theory is that it explains the capacity of the *three* classes of persons by
whom alone dotis dictio could be performed. The father (or male ascendant) of
the bride is bound to provide a dos under penalty of ignominia. The bride, if
sui iuris, is bound to contribute to the support of the husband's
household house-work, children feeding,
cleaning, education -- for exactly the same reason. A debtor of the bride is
bound to carry out her orders with respect to her assets in his possession.
Supposing her whole fortune to have consisted of a debt due to her, it is
evident that a dotis dictio by the debtor is the only way in which this fortune
could be settled as a dos at all. Thus, the hypothesis that the dos is a debt
morally due from the father of the bride, or from the bride herself, whenever a
marriage takes place, completely explains the curious limitation with -- 1 XII
Taf. II. 123. 2 24 Dig. 3. 1. 3 Cio.
Top. -- regard to the parties who could perform dotis dictio. The nature of the
transaction may then be summarized as follows: its form is an oral declaration
on the part of the bride's father (or male cognates), the bride herself, and a
debtor of the bride, that sets forth the nature and amount of the property
which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in the presence of the
bridegroom. Land as well as moveables could be settled in this manner. No
particular formula is necessary. The bridegroom might, if he liked, express
himself satisfied with the dos so specified. But his acceptance does not seem
to have been an essential feature of the proceeding. Most probably, he did not
have to speak at all just run away! Its
sanction does not appear, though we may be sure that there was *some* action to
compel performance of the promise. This action, whatever it may have been,
could of course be brought by the bride's husband against the maker of the
dotis dictio. In the earliest times, the sanction, is possibly a purely
religious one. Now that we have seen the various ways in which a binding
contract could be made in the earliest period of Roman history, we may consider
briefly the general characteristics of that primitive contractual system. The
first striking point is that all every contract hitherto mentioned is
*unilateral*. The promisor alone is bound, and he is not entitled, in virtue of
the contract, to any counterperformance on the part of the promisee. 1 Gai. Ep.
3. 9. A second point is that the *consent* of the parties is not sufficient to
bind them. Over and above that consent, the agreement between them is required
to bear the stamp of divine or popular approval. Even in dotis dictio, as we
have just seen, a simple declaration uttered by the promisor is invested with
the force of a contract merely because the substance of that declaration is a
transfer of property approved and required by public opinion. We also notice
that that the (Griceian) *intention* of the each contracting party *is*
expressed. However, the utterance employed is not originally of any importance
-- except in the one case of sponsion: Spondesne? Spondeo -- provided the
intention is, as Grice notes, contextually clearly conveyed (cf. his remarks on
contextual cancellation). We must therefore modify the statement so commonly
made that the earliest known Roman contract is couched in a particular form of
words. For how did each of these particular forms originate and acquire the
shape in which we afterwards find it? By having long been used to express an
agreement which is binding though the type of utterance varies, it gradually
obtains a more technical significance. Consequently the formal stage is
definitely *not* the earliest stage of Contract. The most primitive contract of
all is not an agreement clothed with a form, but an agreement clothed with the
approval of the State which includes its
Religion. The causes leading to the enactment of the great Reform Bill known as
The XII Tables are chiefly social. The indefinite state of the law of the Roman
state is the grievance which calls most loudly for a remedy. A contract and a
conveyance is but little respected. The powers of the nexal creditor are sorely
abused, and legal procedure in general is most uncertain. Yet more than all
else the law of torts and crimes need radical reform. So that, though we
possess but few actual fragments of The XII Tables, we have enough to tell us
that very little space is devoted to reforms in the law of contract. This fact
ought not to surprise us, knowing as we do that commerce is still in a very
backward state. We hear nothing of any provision in The XII Tables with respect
to sponsio, but we know, from Cicero, that iusiurandum is recognised and
enforced. Dotis dictio is not mentioned. A new form, the lex mancipi, -- 1 Off.
HI, 31. 111.. -- was created by *one* provision of this code, though its
creation was not apparently intended by the decemvirs, but was rather the
result of some juristic interpretation (or other). Vadimoniitm, a contract, is
either created or considerably modified by the XII Tables, and constitutes the
earliest form of suretyship. As the hard condition of nexal debtors is one of
the evils which leads most directly to the secession of the plebs and to the
consequent enactment of the new code, we should naturally expect to find this
or that law passed for their protection. Accordingly, it is with nexum that the
contractual clauses of the XII Tables are principally concerned. The first
provision as to the contract of the nexum is embodied in the famous words which
Festus transmits to us: CVM nexym FACIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNCVPASSIT
ITA ivs ESTO. This was equivalent to saying that the language used by the party
making a nexum is to be strictly followed in determining what his rights and
liabilities should be. The fact that such a declaratory law is needed discloses
two features of the earlier nexum. The *act* of weighing, not the words which
accompanied that act, is the essence of the original transaction. A scale was
actually used -- and not symbolically as it was in later days. The *terms* of a
nexal loan are liable to be disobeyed; if, for instance, -- Festus, p. 171,
s.u. nuncupata pecunia. -- the debtor had agreed to pay at the end of one year,
it might happen that a harsh creditor would enforce payment at the end of six
months. This shows that people are not feared, as witness, to the same extent
as is a god who presides over usiurandum and sponsio. The fact of the loan is
proved beyond question by the witnesses present,. But there is evidently no
sacred virtue in the utterance which go with the loan, and these are not
therefore binding simply because uttered in the addressees hearing. This defect
is what the XII Tables aims at correcting. The Tables thenceforth place the
*utterance* of a nexum on as strong a footing as the utterance of a sponsio.
Conditions as to the amount of interest payable, the date of maturity of the
loan, the security to be given by the debtor, are all now inserted in the
nuncupatio. And still more important is the fact that the sum or amount of the
loan itself could be verbally announced at the ceremony. If the debtor utters:
"I hereby receive, and am bound to repay, XXV asses," this utterance
is as binding upon him *as if* the XXV asses had been actually weighed out to
him in copper. As long as the corn or copper (money) *is* really weighed in the
scale, nexum continues to be a natural and material method of loan. But when,
by the introduction of coined money it becomes possible to count, instead of
weighing, a given quantity of copper, nexum tends to become an artificial and
symbolical operation. The reason is, obviously, that counting is far more
simple than weighing. When a loan of XXV asses is being made. it became
customary to name this sum in the nuncupatio *without* weighing it at all. The
scale and the witness appear, as before. But the scale is not used. The borrower,
instead of taking XXV asses out of the scale-pan, simply strikes the scale pan
with a piece of copper, so as to conform with the outward semblance of the
transaction. Though the weighing had been dispensed with, yet, by this rule of
The XII Tables, he is as much bound in the sum of XXV asses as though they had
actually been weighed out to him. Hence the important effect of the clause.
Given a proper coinage that clause transformed the loan of money into a datio
imaginana and the release of such a loan into an imaginana solutio. The outward
form of nexum remains the same, but the actual process is greatly simplified.
This change is doubtless not intended when the rule is made by the Decemvirs.
It is the result of a more or less unconscious and probably gradual
development. The genuine weighing and the fictitious weighing doubtless exist
side by side. But it seems fairly certain that the introduction of coined money
is another of the Decemviral reforms. If so, we may assume that the nexum
changed from a ceremony performed with a scale into one performed with copper
and scales -- negotium per aes et libram -- not long after the Decemviral
legislation. Another important provision relating to nexum modified the harsh
remedy hitherto applied by the creditor against the delinquent debtor. -- 1
Mommsen, Som. Munzw. p. 175. -- The words of the XII Tables have been
fortunately preserved by Gellius', and run as follows. AERIS CONFESSI REBVSQVE
IVRE IVDICATIS XXX DIES IVSTI SVNTO. POST DEINDE MANVS INIEGTIO ESTO. IN IVS DVCITO. NI IVDICATVM FACIT AVT QVIS ENDO EO IN
IVRE VINDICIT SECVM DVCITO VINCITO AVT NERVO AVT COMPEDIBVS XV PONDO NE MINORE
AVT SI VOLET MAIORE VINCITO. SI VOLET SVO VIVITO. NI SVO VIVIT QVI EVM VINCTVM
HABEBIT LIBRAS FARRIS ENDO DIES DATO. SI VOLET PLVS DATO. There are two knotty points in
this passage cited by Gellius. What is the exact distinction between an
acknowledged money debt aes confessum --
and a judgment obtained by regular process of Law res iure iudicatae? To what class of delinquents
did the punishment apply? It can hardly be doubted that aes confessum includes
a debt contracted by a nexum, as well as any other kind of debt the existence
of which is not denied by the debtor. E. g.: a debt incurred by formless
agreement or by sponsio may be an instance of aes confessum, provided the
debtor admitted his liability. But in a nexum this liability had already been
admitted solemnly and in front of a witness. To *deny* the existence of a nexal
debt is impossible, even for Descartes! Therefore, aes confessum seems to be a
term quite applicable to a debt contracted by a nexum. The words aeris nexi are
probably not used in the context because aeris confessi has a wider meaning,
and this law -- 1 XX. 1. 43. ^ Ihering, G. d. R. B. i. 156, note. -- is
apparently intended to cover much more than the one case of nexal indebtedness.
The other class of debts here described as res iure iudicatae are no doubt
judgment-debts. Where damages had been judicially awarded to one of the parties
to an action, some means have to be provided of compelling payment from the
other party. The executive in those times was too weak to enforce its
decisions, and self-help, as we have seen, is the usual resource of an
aggrieved Roman. The only way in which the law could assist judgment creditors
is by declaring what extent of retaliation they might lawfully take. And this
brings us to the second question. In what cases is the manus iniectio to be
exercised ? Voigt remarks that The XII Tables never mention manus iniectio as
being a means of punishing default in a case of nexum. Voigt then proceeds to
state that the remedy for nexum was an actio pecuniae nuncupatae. Not only is
this statement purely fanciful, as there is no mention of actio pecimiae
nuncupatae in any of our authorities, but Voigt is surely ignored the evidence
before him. Admitting, as we must, that nexum is included among the cases named
at the beginning of the clause, we can scarcely avoid the further conclusion
long ago reached by Huschke that the rest of the clause, with its XXX days of
grace, manus iniectio, ductio in ius, and all the consequences of disregarding
the iudicatum, is a description of the punishment to which a breach of --1 XII
Taf, I. 169.-- nexum might lead, as well as of that annexed to the other kinds
of aes confessum and to res iure iudicatae. The whole clause is one continuous
statement, and to hold that the latter part of it, beginning at Ni IVDICATVM
FACIT, provides a penalty solely for the case of judgment-debts, seems a very
strained and unnatural interpretation. Why explain iudicatum as referring only
to judgment indebtedness ? Just before it, in the text, we find the direction
IN ivs DVCITO, so that a nexal debtor after manus iniectio evidently had to be
brought into court. The precaution is probably a new restraint upon the
violence of creditors, in order that the justice of their claims and the
propriety of manus iniectio might be judicially determined. But, if a judge had
to pronounce upon the validity of such proceedings, surely his decree might be
described by the term iudicatum, as found in the above passage. It involves a
vicious circle to say that the nature of aes confessum precludes the
possibility of a judicial decision, and that therefore iudicatum can only refer
to a res iure iudicata, that is, a judgment-debt. For in spite of this alleged
distinction, we find here that debtors of aes confessum and judgment-debtors
were treated in exactly the same way! Each of them is at first seized by his
creditor and brought into court. Now why should this have been necessary in the
case of a iudicatus more than in that of a nexus? For a judgment debt seems to
need judicial recognition just as little as a nexal debt. And yet we find that
ductio in ius is prescribed in both cases. The only non-circular way of
explaining the difficulty, is to take iudicatum not as applying to a
judgment-debt but, as being of the essence of a judicial decree. Let the
creditor, the Tables say, bring the debtor into court. Unless the debtor obeys
the decree of the court, or finds meanwhile a champion of his cause in the
court, let the creditor lead him off into private custody, and fetter him. Thus
the ductio in ius, the iudicatum, the domum ductio, and the directions as to
the right kind of fetters and the proper quantity of food, must all have
applied equally to aes confessum, including nexum, and to res iure iudicatae.
This view is confirmed by the passage in which Livio describes the abolition of
the severe penalties of a nexum,. The bill by which this is done ordained, so
Livio tells us, " nequis, nisi qui noxam meruisset, donee poenam lueret,
in convpedibus aut in neruo teneretur
ita nexi soluti, cautumque in posteru/m ne necterentur." This law,
the Lex Poetilia, is evidently passed for the relief of nexi, and relief is
given by abolishing the use of compedes et neruum. Now as this is the very
description of fetters given by the XII Tables in our text, it seems certain
that the language of the Lex Poetilia referred to this clause of the Decemviral
Code. Hence it follows that the punishment provided by this code is nexum,
which is the view already deduced from the words of the XII Tables themselves.
The contrary interpretation, which is there- -- 1 PestuB, p. 376, s.u. uindex.
^ viii. 28. -- fore probably erroneous, has strong supporters in Muirhead and
Voigt. But even though a iudicatum was thus necessary in order to permit the
nexal creditor to lead off his debtor into custody, we may agree with Muirhead
that the preliminary manus iniectio is within the power of the nexal creditor
without any judicial proceedings. The nexum being a public transaction, a debt
thereby contracted is so notorious as to justify summary procedure. Before the
XII Tables, when self-help is subject to no regulations, this summary procedure
could be carried to all lengths in the way of severity and cruelty. But, when
the XII Tables interpo the ductio in ius for the protection of nexal debtors,
no other precaution against injustice was needful, and a preliminary trial
before the manus iniectio would have been so superfluous that we cannot believe
it to have ever been required. The elaborate provisions for the punishment of
debtors do not end with the text which has come down to us and which has been
quoted above. The substance, though not the actual wording, of the remainder of
the law has been preserved by Gellius. As far as our text goes, the proceedings
consist of manus iniectio, the arrest or seizure of the debtor by the creditor;
ductio in ius, the bringing of the debtor into court, that is, before the
praetor or consid ; the iudicatum, a decree of the praetor recognising the
creditor's claim as just and the proceedings as -- ' B. L. p. 158. ^ XII Taf.
i. 629. ' xx. 1. 45-52. -- properly taken. At this stage a vindex may step in
on the debtor's behalf. What was the exact nature of his intervention we cannot
know, but from Festus's definition, he seems to have been a friend of the
debtor, who denies the justice of his arrest and stands up in his defence. By
the XII Tables, this vindex has to be of the same [social] class as the debtor
whom he defendes and if his assertions prove to be false he is liable to a
heavy fine. If, on the other hand, his defence is satisfactory to the Court,
further proceedings are doubtless stayed. But if no satisfaction is given
either by the vindex or by the debtor, the creditor is entitled to lead home
his debtor in bondage -- though not in slavery -- and to bind him with cords or
with shackles of not less than 15 lbs. weight. Meanwhile, the law assumes that
the debtor would prefer to live upon his own resources. This shows that a nexal
debtor is not always a bankrupt, and that it must often have been the *will*,
if not the power, to pay which is wanting in his case. As there exist in those
days no means of attaching a man's property, the only alternative was to attach
his body! If, however, the debtor is really a ruined man and can not afford to
support himself, the law bade the creditor to feed him on the barest diet, by
giving him a pound of corn a day -- or more at the creditor's option. Here our
textual information leaves off and we have to depend on Gellius' account.
Gellius says that this stage of domum duetto and uinctio lasts LX days, and
that during that period a com- -- Gell. XVI. 10. 5. 2 Festus, s. u. uindex. --
promise might be arranged which would stay further proceedings. Meanwhile on
three successive nundinae, or market-days, the debtor had to be brought into
the comitiuni before the praetor, and there the amount of his debt is publicly
proclaimed. This is a second precaution intended to protect the debtor by
giving thorough publicity to the whole affair. At last, on the third
market-day, and at the expiration of the LX days, the full measure of
punishment was meted out to the unfortunate delinquent. He was addictus by the
praetor to his creditor, and thus passed, from temporary detention, into
permanent slavery. The extreme penalty is said by Gellius to have been death,
and the words in which the former is enacted are given by him as follows: Tertiis
nvndinis partis secanto. Si PLVS MINVSVE SECVERVNT SE FRAVDE ESTO. The meaning
of Gelliuss utterance has been much disputed. Attempts have been made to soften
its explicature. On the third market-day, let the creditors cut up and divide
the debtor's body. If any debtor should cut more -- or less -- than his proper
share, let the debtor not suffer on that account." That this is how the
ancients understood the passage, we know from the testimony of Gellius,
Quintilian, and Tertullian. But Gellius and Dio Cassius, though they had no
doubts as to the meaning of the law, both say that -- Gell. XX. . ^ Inst. or.
iii. 6. 64. ^ Apol. 4. B. E. 4 -- this barbarous practice of cutting a debtor
in pieces was *never* carried out. The law is thus what Grice calls a dead
letter. Some commentators, whose views are ably summed up by Muirhead, make the
most of this admission, and hold that the interpretation of the utterance-part,
partis secanto, should be entirely different. They regard the division of the
debtor's body by the creditor as too shocking a practice to have existed at
Rome. Muirhead assumes secare to refer -- as in a later phrase, bonorwm section
-- to the division (sectio) and sale
presumably -- of the debtor's property, not his body. In the event of his
property being insufficient to cover the debt, the debtor is, then -- as
Gellius informs us -- sold into slavery "beyond the Tiber for some reason (what the eyes no longer sees
the heart no longer grieves for). The objections to Muirheads theory have been
well pointed out by Niebuhr. Not only is it opposed to all the ancient
authorities, who knew at least the traditional meaning of the XII Tables as
handed down to them through many generations, but it also conflicts with a well
recognised principle of early Law. That principle was that the goods of a
debtor are not, categorially and categorically, responsible for his debts. His
*body* is to be made to suffer. Hs property cannot be touched. It is by no
means unusual for a nexal debtor to support himself while in bondage. This can
only be explained on the supposition that neither his property nor his earnings
are attachable by the creditor. It is this exemption of property which accounts
for -- > Gell.; Dio Cass.; R. Law, p. 2089. ^ B. G. i. 630. -- the severity
of the nexal penalties. Now, a section (division), and sale, of the debtor's
goods would have been quite inconsistent with the whole system of personal
execution so plainly set before us in the rest of the law. The killing of the
debtor was but a fitting climax to his cruel fate. The inhumanity of the
proceeding is not likely to have been perceived by men who tolerated such
barbarities as the lex talionis and the killing of a son by his paterfamilias.
When our authorities express astonishment at the cruelty of the law, we must
remember that they also lived in a gentler age, in which the powers even of the
paterfamilias are curtailed, and when they confess that they never knew of an
instance in which the law was executed. We may discount their testimony by recollecting
that the nexal penalties of the XII Tables were abolished centuries before they
were even born! Comparative jurisprudence furnishes another argument in favour
of accepting the EXPLICATURE of the utterance-part, "partis secanto."
Kohler has collected from different quarters various instances of customs which
closely correspond with this harsh treatment of the Roman debtor. Unless
therefore we disregard analogy, probability, and the whole of the classical
evidence, we must clearly take utterer of the XII Tables on his EXPLICATURE,
and understand that the creditor could choose between selling his debtor into
slavery "beyond the Tiber," OR putting him to death. In the latter
case, if there were more than one -- ' Shakesp. v. dem Forum der Jurisp. 42 --
creditor, each might cut up the debtors body and each creditor carry off a
piece. There is a third clause of the XII Tables in which nexum. is mentioned,
but it does not alter the form of the contract. As far as we can make out, it
simply declares that certain agents, mysteriously described as, forcti et
sanates, shall have an equal right to the advantages of nexum. There is a
clause in the XII Tables intended to secure what Grice calls truthful
testimony, that most essential safeguard to Tieocum: Qui SE SIEEIT tes- TARIER
LIBRIPENSVE PVERIT NI TESTIMONIVM FATI- ATVR IMPROBVS INTESTABILISQVE ESTO.
That is, whoever had been testis or libripens at the performance of a nexum or
mancipiwm is was to give his testimony as to the fact of the transaction, or as
to its terms, under penalty of permanent disqualification. This passage goes to
show what we also gather from other authorities, that the libripens was a mere
witness and not -- as some have wrongly supposed -- a public official. The
phrase "qui libripens fuerit" IMPLICATES that any citizen might fill
the position. Since we find that the libripens is treated like any other
witness, it seems clear that he could not have been a public personage. We are
now able to understand the meaning of Varrones remark. "Liber qui suas
operas in servitutem pro pecwnia quam debet dat dum solueret nexus
uocatur." This merely means that a man who contracts a nexum, if unable to
repay the -- ^ See Pestus s. u. sanates, Bruns Font. p. 364. 2 Gai. II. 107 ;
Ulp. Eeg. xx. 7. -- loan and therefore subject to an addiction, was obliged to
serve like a slave, and retained the epithet of nexus (cf. Irish indenture
servitude in New England) till the debt was paid (cf. Vanderbilt). On the
whole, then, the legislation of the XII Tables produces intereting results. By
increasing the importance of the *verbal* -- explicatural -- part of the
ceremony, The XII Tables increase the flexibility of the contract, and
eventually change it from a real into a merely symbolical transaction. The
culminating point of the change is reached when the money constituting the loan
is not even weighed out, but merely named in the nuncupatio, with the borrower
languidly striking the scale-pan with a piece of copper. Another interesting
result is that, by fixing certain limits to the violence of the creditor, the
XII Tables soften the hardships endured by the nexal debtor. Though the extreme
penalty of death is allowed, this may not be inflicted till the debtor had had
many opportunities and ample time to clear himself. The formula of the nexum
having now acquired great importance, its wording is soon reduced to a definite
shape running somewhat as follows : " Quod ego tibi M lihras hoc aere
aeneaque libra dedi, eas tu 7nihi ... post annum ... cum semissario foenore. .
.dare damnas esto." -- This is the formula adopted by Huschke and modified
by Rudorff. The utterance part, "damnas esto, appear to be wrongly
rejected by Voigt, who disregards the analogy of the solutio though that seems
our safest guide. The formula of said solutio is given by Gaius as follows,
though Karlowa's reading differs consider- 1 Nexum, p. 49, etc. -- ably from
that of Huschke. Quod ego tihi tot mill'ihus condemmatus sum, me eo nomine a te
solvo liberoque hoc aere aeneaque libra: hanc tibi libram primam postremximque
expendo secunduTn legem publicam. The XII Tables did not, as far as we know,
contain any clauses affecting sponsio or dotis dictio. The existence of those
forms at such an early period has to be inferred from other sources, and there is
reason to assert their great antiquity, which the silence of the XII Tables
cannot disprove. Iusiurandum is known to have been approved by the XII Tables,
but to what extent we cannot tell. We may therefore at once proceed to examine
one of the most important innovations of the decemviral Code, viz., the
contract which despite its ambiguous name is known as the lex mancipi. The lex
mancipi, as the name indicates, is a covenant annexed to the transaction known
as mandpiMm (later as mMndpatio). Let us see first what mancipium is. Ulpian
says that it is the mode of transferring property in res mancipi. Gaius
describes its use shortly as a fictitious sale, "imaginaria
venditio," and states that it is only performed between Roman citizens,
and applied only to res mancipi. Gaius describes the ceremony. The parties meet
in the presence of five witnesses and of a Roman (called libripens), who holds
a pair of scales. The -- 1 Cic. Off. III. 31 and see above, p. 39. ^ Beg. xix.
3. 8 I. 113.> I. 119-20. -- *object* of the transfer Gaius supposes to be a
slave. The alienor remains passive, but the alienee, grasping the slave,
solemnly declares aloud that he owns the slave by right of purchase. The
alienee then strikes the scales with a piece of copper, and hands the piece to
the alienor as a symbol of the price paid. Such is our meagre evidence as to
the nature of mancipium. On this slender foundation of fact a vast amount of
controversial theory has been heaped up. One certainty alone can be deduced
from the evidence, that mancipium was not originally a general mode of
conveyance, as Gaius and Ulpian found it in their day. It beguins by being a
*genuine* sale for cash, in which the price paid by the alienee is weighed in
the scales and handed over to the alienor. The muncupatio, or declaration made
by the alienee, is merely explanatory of his right of ownership. The *grasping*
of the object by the alienee never mind
acceptance of the price by the alienor
is no doubt originally the essential element in the transfer. The
utterance by the alienee probably had at first no more binding effect than the
utterance of the borrower in a nexum. We may be sure that, in such a state of
the law, disputes would often arise as to the terms of the sale. And it was
probably to *prevent* such disputes that The XII Tables made their famous rule:
CVM NExyM FAOIET MANCIPIVMQVE VTI LINGVA NVNGVPASSIT ITA IVS ESTO. The
extraordinary emphasis (not nuncu- passit but lingua mmcupassit) which is here
laid upon the utterance of the ceremony is very striking. Bechmann rightly
argues that it would be wrong to take this rule as referring only to the leges
mandpi, but it seems that it is to the language as ' distinct from the acts
used in the ceremony that the XII Tables meant to give force and validity. The
legal results which followed from seizing the object of sale in the presence of
witnesses, and from weighing out the price to the seller, had long since been
thoroughly well recognised. What The XII Tables now introduced was the
recognition of the utterance which accompanied this outward act. We can hardly
accept the implicature which Bechmann assigns to the utterance. Bechmann notes
the contrast between words and acts which is implied in the phrase lingua
nuncupassit, but he thinks that the object of the rule was to reconcile the
language of the transaction with its real nature. Bechmanns view is based on
the assumption that even before the XII Tables mancipium had changed from a
genuine into a fictitious sale. In other words, Bechmann assumes that, while
the alienee professes to *buy* the object with money weighed in the scales, he
really weighs no money, but hands to the alienor a piece of copper, "quasi
pretii loco." In fact the imaginaria uenditio of classical times is,
according to Bechmann, already in vogue. The purpose of the XII Tables is
therefore to confirm this change, by declaring that the words, and not the acts
of the parties, should henceforth have legal effect. It was as if this law
said. Pay no attention to the acts of the alienee, but listen to grasp his
utterance. He is merely delivering a piece of copper -- 1 Kauf -- but do not
imagine that this is the whole price due. In his declaration, the alienee
states that the price is such and such. Let that be considered the real price
of the object. Let also the outward ceremony be regarded as a mere fiction. All
this appears to be a very far-fetched interpretation of lingua nuTwupassit, and
the assumption on which Bechmann has based it seems unwarranted, for more than
one reason. We do not know that mancipium has already turned into an imaginaria
uenditio. There is not one shred of evidence to prove that such a change had
occurred before the XII Tables. So far indeed from preceding the XII Tables,
the change would seem to have been directly caused by them. Until coin was
introduced, the weighing of the purchase-money was clearly necessary. If, as
there is good reason to believe, coinage is finstituted by the Decemvirs, the
actual weighing must have continued till their time. If, on the other hand, we
suppose that coined money is a much older institution (Cornelius Nepos de uir.
ill. 7. 8. attributes its invention to Servius Tullius), so that the actual
weighing had long been dispensed with, mancipium may still *not* have been an
imaginaria uenditio, because we can imagine no way in which a sale on *credit*
could have been practised before the XII Tables. How could a vendor have
permitted his property to be conveyed to a purchaser for a nominal and
fictitious price, when the mancupatio was as yet devoid of legal force ? After
the uti lingua nuncupassit of the XII Tables, the nuncupatio doubtless
specifies the exact amount of the purchase-money. This the alienor might
lawfully claim. Moreover, before the Decemviral reforms, mancipium transfers
full ownership to the purchaser, and the seller might have clamoured in vain
for his money, unless he had previously taken security by means of vxidvmoniwm
or sponsio. For since a well known provision of the XII Tables was that no
property should pass in things sold till the purchase-money was either paid or
secured, we are bound to infer that, before this, the very reverse was the
case. Property DID pass even when the price had not been paid. Such having been
the early law, how can we hold, as Bechmann does, that the cash payment of the
purchase-money was frequently not required, though the forms of weighing etc.
were carried out in the original manner? He urges that credit, not cash, must
often have been employed, because we cannot reasonably suppose that cash payment
was possible in every case. But the force of his argument is weakened by the
fact that mancipation is only practised to a limited extent. Tradition is the
most ordinary mode of transfer employed in every-day life. And in a solemn
affair such as mancipium, where five witnesses and a scale-holder had to be
summoned before anything could be done, it cannot have been a great hardship
for the purchaser to be obliged to bring his purchase-money and weigh it on the
spot. Instead of credit purchases having been usual before the XII Tables, -- 1
2 Inst. 1. 41., 2 j[^uf, I. p. 160. s ib. p. 1S8. -- it seems likely that the
XII Tables virtually introduced them. For, by enacting that NO property should
pass until the price is paid or secured to the vendor, the Decemvirs make it
possible for the conveyance and the payment of the price to be separately
performed. Mancipium is thus made to resemble in one respect a modern deed. The
vendor who has executed a deed, before receiving the purchase-money, has a
vendor's lien upon the property for the amount of the price still owing to him.
Similarly, the mancipio dans who had not received the full price, retained his
ownership of the property until that full price is paid to him, or security
given for its payment. We may therefore reject Bechmann's idea that the
utterance-part lingua nuncupassit refers principally to the fixing of price in
the muncupatio. That utterance-part simply gives legal force to the solemn
utterance made in the course of mancipium. On the one hand, the utterance-part
binds the seller to abide by the price named, and to deliver the object of sale
in the condition specified by the buyer. On the other hand, the utterance-part
compels the buyer to pay the full price stated in the muncupatio, and to carry
out all such terms of the sale as are therein expressed. In short, every lex
mancipi embodied in the muncupatio becomes henceforth a binding contract. It is
natural to inquire next what kind of agreement might constitute a lex mancipi.
The muncupatio placed by Gaius in the mouth of the purchaser runs thus: "
Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emtus esto hoc
aere aeneaqiie libra.To this might no doubt be annexed various qualifications,
and these were the leges in question. Voigt indeed considers that these leges
might contain every conceivable provision. But Bechmann seems to come nearer to
the truth in stating that no provision conflicting with the original conception
of mancipium as a sale for cash could be inserted in the muncupatio. For
instance, Papinian states that no suspensive condition could be introduced into
the formula of mancipiwm. The reason of this obviously is that suspensive
conditions are inconsistent with the notion of a cash sale. The purchaser could
not take the object as his own and then qualify this proceeding by a condition
rendering the ownership doubtful, A resolutive condition is also out of the
question, for when the mancipium is transferred the ownership and the price is
paid, it would have been absurd to say that the occurrence of some future event
would rescind the sale. The transfer is in theory instantaneous. No future
event may affect it. The following then are a few cases in which the lex
mancipi could or could not be properly used: The creation of an usufruct by
reservation could be thus made', and the formula is given to us by Paulus :
" Emtus mihi esto pretio dedvxito usu- frtijctu*." Property could
thereby be warranted free -- 1 XII Taf. II. 469. ^ y^t. Frag. 329. 3 Vat. Frag.
47. * Vat. Frag. -- from all servitudes by the addition to the nuncupatio of
the words "uti optimus matvimiisque sit^." The means by which the
vendor is punished if the property fails to reach this standard of excellence
are worth examining, though! The contents and description of landed property
might be inserted in the nuncupatio, and if they were so inserted the vendor is
bound to furnish as much as was agreed upon. Failing this, the deceived
purchaser, so Paolo Diacono tells us, could bring against the vendor an actio
de modo agri, which entailed damages in duplum. The accessories of the thing
sold, destined to be passed by the same conveyance, are also doubtless be
mentioned. We might naturally have supposed that the quality of this or that
slave or of this or that specimen of cattle could have been described just as
well as the content of an estate. Cicero says : "Cum ex XII Tabulis satis
erat ea praestari quue essent lingua nuncupata" -- as though descriptions
of all kinds might be given in the nuncupatio. Nevertheless Bechmann has shown
that such is not the case, inasmuch as we find no traces of any action grounded
upon a false description of quality. The only actions which we find to protect
mancipium are the actio auctoritatis and the actio de modo agri. There is no
authority for supposing, as Voigt does, that the actio de modo agri is not a
technical but a loose term used by Paolo Diacono. According to Voigt, there was
an action -- Dig. Sent. Off. iii. 16. 65.
Eauf, I. p. 249. ^ XII Taf. (the name of which has perished) to enforce
all the terms of a nuncupatio of whatever kind. The so-called actio de modo
agri would then have been only a variety of this general action. This theory is
inadmissible. In making his solemn list of the actiones in dztpZwm ^Paolo
Diacono would hardly have used the clumsy phrase actio de modo agri, if there
had been a comprehensive term including that very thing. Consequently, the
general *description* of a specific slave or a specimen of cattle in the
nuncwpatio does not seem to have been in practice allowed. The greater
protection thus afforded to a purchaser of land than to one of other res
mancipi may probably be explained by the fact that land is not, and could not,
be conveyed inter praesentes, whereas a slave or an ox could be brought to the
scene of the mancipiwrn and their purchaser sees exactly what is was buying.
Provisions as to credit and payment by instalment might also be embodied as
leges in the nwncupatio. This has been denied by Bechmann, Keller, and Ihering,
but their reasons seem far from convincing. We may indeed fully admit their
view for the period prior to the XII Tables, since there was then no coinage,
and mancipium was an absolute conveyance of ownership. But once coinage is
introduced, when mancipium is capable of transferring dominium only after
payment of the price, and when the oral part of mancipium receives legal
validity from the XII Tables, the whole situation changes. 1 Sent. I. 19. 1. 2
j^auf, i. p. 42. 3 Imt. 33. > Geist d. R. R., ii. 530. -- If it be said that
credit is inconsistent with the notion of mancipium as an unconditional cash
transac-tion, we may reply that this exceptional lex is clearly authorised by
the XII Tables, since its use is implied in the legislative change above
mentioned. If it be urged that no action can be found to enforce any such lex,
the obvious answer is that no action is needed, inasmuch as the ownership does
not vest in the vendee till the vendor's claims were satisfied. Therefore, if
the vendee never pays at all, the vendor's simple remedy is to recover his
property by a rei uindicatio. Nor is there much force in the argument that
clauses providing for credit would have been out of place in the nuncupatio
because inconsistent with the formula, Hanc rem meam esse aio, mihique emta esto."
On the one hand it is probably a mistake to suppose that this fixed form is
*always* used. The expression, uti lingua nuncupassit, seems to implicate that
the oral part of mancipium and nexum is to be framed so as best to express the
intentions of the parties. The same conclusion may be drawn from the comparison
of the formulae of mancipatio given in Gaius. On the other hand, admitting that
" hanc rem meam esse aio, etc." is a necessary part of the
nuncupatio, it must have been used in mancipations made on credit, which by the
XII Tables could not convey immediate ownership, and the existence of which in
classical times no one denies. We are forced then to conclude either that
"hanc rem meam esse aio" is not the phrase used at a sale on credit,
or else -- 1 2 Inst. 1. 41 and see p. 58. '' i. 119 and ii. 104. -- that it
becomes so far a stereotyped form of words that it could be used NOT only as
conveying its EXPLICATURE, but also as applying to credit transactions which
the Decemviral Code so clearly contemplated. It is indeed inconceivable that if
the price is, as every one admits, specified in the mmcupatio, the terms of
payment should not have been specified also. It is worth while to notice how
the legal conception of mancipium is indirectly altered by the XII Tables. That
very important clause which prevented the transfer of ownership in things sold,
until a full equivalent is furnished by the vendee, had the effect of
separating the two elements of which mancipimn consisted. Delivery of the wares
and receipt of the price are at first simultaneous. Later, they could be
effected singly. Thus mancipium becomes a mere conveyance, and after a while,
as is natural, the notion of sale almost completely disappears, so that
mancipium came to be what it was in Gaius's system, the universal mode of
alienating res mancipi. The lex mancipi, as we have now considered it, is an
integral part of the formula of viancipium which the vendee or alienee solemnly
uttered. Gaius and Ulpian give us no hint that the vendor or alienor plays any
part beyond receiving the price from the other party. But is this really so?
Could the vendee have known how to word his formula if the vendor remains
altogether silent ? We have therefore to enquire what share the vendor took in
framing the -- 1 2 Inst. 1. 41. -- vendor's dicta. 65 leges mancipi, and how
the lex mancipi was enforced against him. The part played by the vendor is
denoted in many passages of the Digest by the word dicere. In others, the word
praedicere, or commemorare expresses the same idea, and we find that the vendor
sometimes made a written and sealed declaration. The object of such dicta was
to describe the property about to be sold and they necessarily preceded the
mancipium, or actual conveyance. They are thus no part of the mancipatory
ceremonial and are quite distinct from the nuncupatio uttered by the vendee,
which explains their not being mentioned by Gaius in his account of mancipatio.
It is to such dicta that Cicerone doubtless alludes', when he says that by the
XII Tables the vendor is bound to furnish only "quae essent lingua
nimcupata" but that in course of time " a iureconsultis etiam
reticentiae poena est constituta." The reticentia here mentioned was
evidently not that of the vendee, but was a concealment by the vendor of some
defect in the object which he wished to sell, and hence this passage is useful
as showing the contrast between nuncupatio and dictum. The former might repeat
the statements contained in the latter, thus turning them into true leges
mancipi, and this explains the fact that lex mancipi (or, in the Digest, lex
uenditionis), is sometimes used in the derived 1 e.g. 21 Big. 1. 33, and 18
Dig. Dig. 1. 21. fr. 1. 19 Dig. 1. 41. *
19 Dig. 1. 13. fr. 6. Dig. 1. 6. fr. 4.
i. 119. = Off. III. 16. 8 19 Dig. 1. 17. fr. 6. B. E. 5, --
interpretation of the vendor's dictum, as well as with the primary meaning or
interpretation or explicature -- of the
vendee's nwncupatio. The leges embodied in the nuncupatio were thus binding on
the vendor, whereas his dictum is at first of no legal importance. But in
course of time the dicta come also to be regulated, and though their terms are
not formal and are never required to be identical with those of the nwncupatio,
yet it is essential that the vendor, in making them, should not *conceal* any
serious defects in the property. The dictum itself produced no obligation. That
could only be created by incorporating the dictum, into the nuncupatio. The
only function of dictum seems to have been to exempt the vendor from responsibility
and from all suspicion of fraud. This is well illustrated by a case to which
Cicero' refers, where Gratidianus the vendor fails to mention, " nominatim
dicere in lege mancipi " (here used in the secondary interpretation), some
defect in a house which he was selling. Cicero remarks that, in his opinion,
Gratidianus is bound to make up to the vendee any loss occasioned by his
silence. Bechmann questions whether the action brought against Gratidianus was
the ocii'o eniti or the actio auotoritatis. But from the way in which Cicero
speaks, it seems almost certain that he had been trying to bring a new breach
of bona fides under the operation of the actio emti, and had not been pleading
in a case of actio auctoritatis, which would scarcely have been open to such
freedom of interpretation. We cannot therefore agree with Bechmann that dicta
not embodied in the nv/ncupatio -- 1 Or. 1. 89. 178. 2 Kauf, i. p. 257. --
could be treated as nuncupata and made the ground for an actio auctoritatis,
though we know that in later times they may be enforced by the actio emti. The
distinction between the formal nuncupata and the informal dicta is never lost
sight of, so far as we can discover from any of our authorities, nor is dictum
ever said to have been actionable until long after the actio emti is
introduced. The matters contained in the dicta of the vendor were descriptions
of fixtures or of property passing with an estate', (of servitudes to which an
estate was subject, or of servitudes enjoyed by the estate. It is noticeable
that these are all mere statements of fact and that they exactly agree with the
definition given by Ulpian, who expressly excludes from dictum the idea of a
binding promise. Thus the distinction between nuncujpatio and dictio may be
contrasted. Nwmupatio belonged only to mancipium,, whereas dictio might appear
in sales of res nee mancipi as well as in mancipatory sales. Nuncupatio is a
solemn and binding formula; dictio was formless and, until the introduction of
the actio emti, not binding. Nuncupatio does not touch upon the quality of the
thing sold, whereas dictio might give, and eventually is bound to give, full
information on this point. We must notice in conclusion what Bechmann -- 1 19
Big. 1. 26. = 21 Big. Cio. Or. I. 39. 179. * 21 Big. 1. 19. 19 Big. -- has pointed out that lex, besides
meaning a condition embodied in a sale or mancipation, signifies also a general
statement of the terms of a sale or hire. This sense occurs in Varrone,
Vitruvio, Cicerone, &c., and should be borne in mind, in order to avoid
confusion and to understand such passages correctly. The methods by which the
true leges nuneitpatae could be enforced are two. Actio de modo agri. Of this
we only know that it aims at recovering double damages from the vendor who inserts
in the nuncupatio a false statement as to the acreage of the land conveyed;
Actio auctoritatis (so called by modern civilians). This was an action to
enforce auctoritas, an obligation created by the XII Tables, whereby the vendor
who had executed a mancipatory conveyance is bound to support the vendee
against all persons evicting him or claiming a paramount title. Auctor
apparently means one who supplies the want of legal power in another, and
thereby assists him to maintain his rights. It is so used in tutela, of the
guardian who gives auctoritas to the legal acts of his ward. In the present
case, auctor means one who makes good another man's claim of title by defending
it. This explains why the obligation of auctoritas varied in duration according
to the nature of the thing sold. Thus, if the thing was a moveable (e.g. an ox,
or a slave) the auctoritas of the vendor lasted I year, since the usucapio of
the vendee made it un- -- 1 Eauf, I. p. 265. 2 . ^ vi. 74. i. 1. 10.
Part. or. 31. 107. ^ Leuel, Z. d. Sav. Stift. E. A. in. 190. s Lenel,
Ed. perp. p. 424. ' Cic. Gaec. 19. 54. necessary after that time. But if the
thing sold was land, usucapion may not, by the XII Tables, take place in less
than II years, and the avctoritas is prolonged accordingly. The penalty for an
unsuccessful assertion of auctoritas was a sum equal to twice the price paid.
This shows that at the date of the XII Tables, as we have seen, mancipium is
still a genuine sale and involved the payment of the full cash price. The same
conclusion is drawn from Paolo Diaconos express statement that unless the
purchase money is received no auctoritas is incurred. This last rule is a
logical (analytical, conceptual) sequence or corollary of the enactment that no
property vested until payment is fully made. It is conceptually impossible that
the vendee should need the protection of an auctor before he himself acquires
title. The question has been much debated however by so-called analytic masters
of jurisprudence, such as H. L. A. Hart
as to whether this liability of a vendor to defend his purchaser's title
arose ipso iure out of the mancipation, or whether it was the product of a
special agreement. The latter view is held by Karlowa, a tuttee of Harts - and
Ihering another one! -- but the weight of
evidence against it seems to be overwhelming. Paolo Diacono expressly states
that warranty of title is given in sales of res nee maiicipi by the stipulatio
duplae, but exists ipso iure in sales by mancipation. Varrone says that if a
slave is not conveyed -- 1 Cio. Top. i. 23. 2 Paul. Sent. ii. 17. 2-3. 3 L.
A. 75. Geist des R. R. m. 540. 5 See Girard, in N. E. H. de D. 1882. (6me Annge) p. 180. 6 Sent. II.
17. 1-3. ^ R. R. -- by mancipation, his purchaser's title should be protected
by means of what Varrone calls a stipulatio smvplae uel duplae. What Varrone is
getting at, via implicature, is that, in a cases of mancipation such a step is
obviously (conceptually) unnecessary. In recommending forms for contracts of
sale, Varrone therefore aptly advises the use of the stipulatio in sales of res
nee mancipi'. Varrone gives no such advice and mentions no stipulatory warranty
in the case of res mancipi, which proves our (and Varrones) point. We find that
there are two ways in which the vendor could escape the liability of
aitctoritas. Either the vendor could refuse to mancipate, or he could have a
merely nominal price inserted in the nuncupatio -- the real price being a
matter of private understanding between him and the vendee -- so that the
penalty for failing to appear as auctor becomes a negligible quantity. This we
actually find in a mancipatio HS nummo uno, of which an inscription is
preserved the terms' where the object in mentioning so small a sum must have
been to minimise the poena dupli in case the purchaser M'as evicted. Both these
expedients to avoid liability are absolutely fatal to the theory of a special
nwncupdtio as the source of auctoritas. In short, from all this evidence we
must conclude that, after the enactment of the XII Tables, mandpium contains an
implied warranty of the vendee's title. The origin of the heavy penalty for failing
to uphold successfully a purchaser's title has also been much debated (what
hasnt?). Bechmann'' attributes its severity to -- 1 R. E. n. 2. 6, and 3. 8.
" Plant. Pers. 4. 3. S7. Bruns,
Font: 251. * Kauf, i. p. 121. -- a desire to punish the vendor who had suffered
his vendee to say "hanc rem meam esse aio," when he KNOWS that such
was NOT the case. This would have been to punish the vendor for reticentia,
which was not done till much later times, as we know from Cicerone. Moreover as
we cannot be sure that the phrase " hanc rem meam esse aio " is
invariably used in mancipium, this view of Bechmann's comes too near to the
theory of the nuncupative origin of auctoritas, not to mention the fact that it
fails to explain why the penalty was duphmi instead of simplum! The best theory
is probably that of Ihering. Ihering sees in the poena dupli a form of the
penalty for furtum nee manifestum. It may be true, as Girard points out, that
the actio auctoritatis is not an actio furti in every respect. The sale of land
to which the seller has no good title lacks the great characteristic of furtum,
that of being committed inuito domino. The real owner of the land may be
entirely ignorant of the transaction! Still it is plain that the conscious
keeping and selling of what one KNOWS to be another man's property is a kind of
theft say, the Brooklyn Bridge --. In
that primitive condition of the law, it was thought unnecessary to impose
different penalties on the bona fide vendor whose trespass was unconscious or,
as Grice prefers, UN-intentional, and on the vendor who is intentionally
fraudulent. This poena dupli can hardly be explained as a poena infttiationis,
for if such, would not Paolo Diacono have been sure to mention it among his
other instances of the latter penalty? -- ^ Geist des R. R. in. 229. ' loc.
eit. p. 216. " Paul. Sent. Auctoritas is supplied by the vendor whenever
any third person, within the statutory period of one or two years, attacks the
ownership of the vendee by a m uindicatio, or by a uindioatio libertatis causa
if the thing sold is a slave, or by any other assertion of paramount title.
Bechmann seems to be right in holding that the warranty of title also extends
to all real servitudes enjoyed by the property, and to any other accessiones
which had been incorporated in the nwncwpatio. To attack the vendee's claim in
that respect is to attack a part of the res mancipata. Hence actio avctoritatis
is the remedy mentioned in connection with the true leges mancipi, and we may
hold, with Bechmann and Girard, that the actio auctoritatis and the actio de
modo agri are the only available methods of punishment for the non-fulfilment
of a lex mancipi. How the vendor is brought into court as aioctor is a question
not easy to answer. But in Cicerone we find an action described as being in
auctorem praesentem, and apparently opening with the formula. Quando in iure te
conspicio, quaero anne fias auctor." The opening words do not lead us to
suppose that the vendor is summoned, but rather that he had casually come into
court. This formula is probably uttered by the judge, in every case of
eviction, before the inauguration of the actio avxytoritatis, in order to give
the defendant an opportunity of answering and so of avoiding the charge. --
loc. cit. p. 203. 3 Gaec. 19. 64 ; Mm: 12. 26.
Cred. p. . 2 2 Dig. 14. 47. Consensual Contracts. Art. 1. Emtio
Venditio. The forms of con- tract hitherto examined have been distinguished
from most of the contracts of modern law in one or more of the following
respects : They were confined to Roman citizens. They were unilateral. They
were capable of imposing obligations only by virtue of some particular
formality. They were available only inter praesentes. The contract which we are
now about to consider was modem in all its aspects: It was open to aliens as
well as to citizens. It was bi-lateral. It rested only upon the consent of the
parties, required no formality, and could be re- solved like any modem contract
into a proposal by one party' which became a contract when accepted by the
other party. 1 Plant. Epid.] It could be made at any distance, provided the
parties clearly understood one another's meaning. How then can the formal
contracts of the older law ever have produced such a modem institution to all
outward appearance as the consensual contract of sale? The elements which make
up the popular conception of sale are usually fourfold ; they consist of: The
agreement by which buyer and seller determine to exchange the wares of the
latter for the money of the former; The transfer of the wares from the seller
to the buyer; The pajrment of the price by the buyer to the seller; The
representation, express or implied, of the seller to the buyer, that his wares
are as good in point of quantity or quality as they are understood to be.
Mandpatio was at first a combination of the second and third elements
above-mentioned. It is a transfer of ownership followed by an immediate payment
of the price. Subsequently, the payment became separated from the trans- fer,
so that mancipatio represented only the second element. The fourth element,
that of warranty, existed to a certain extent in those sales in which the
transfer of property was made by moundpatio, and this fourth element we shall
consider further in a later section. But throughout the early history of Rome
the first element, indispensable wherever a sale of any kind takes place, was
completely unrecognised by the law. The reason is that the preliminary
agreement between buyer and seller was nothing more than a pactum, an agreement
without legal force because usually without form. The parties might always of
course embody their agreement of sale in a sponsio and restipulatio, but in
such a case all that the law would recognise would be the re- ciprocal
sponsiones, not the agreement itself Why, we may ask, was recognition ever
accorded to this preliminary pactum ? In other words, what was the origin of
emtio uenditio, which turned the pactum into a contract? Bekker's plausible
theory' adopted by Muirhead" is that contracts of sale were originally
entered into by means of reciprocal stipulations, and that the actio emti was
but a modification of the actio ex stipulatu founded on those stipulations,
while it borrowed from the actio ex stipulatu its characteristic bonae fidei
clause. But how then did the notion of bona fides arise in the actio ex
stipulatu itself? Bekker seems to have put the cart before the horse, and
Mommsen" holds the far more reasonable view that the actio emti was the
original agency by which bona fides found its way into the law of contract, in
which case the actio ex stipulatu must have been not the prototype but the copy
of the actio emti. The origin of the actio emti was indeed very curious, since
it seems clearly to have been suggested and moulded by the influence of public
law. The sales of public property, which used at first to be 1 Akt. I. 158. ^
Bom. Law, p. 334. 3 Z. der Sav. Stift. R. A. yi. carried out by the consuls and
afterwards by the quaestors, became increasingly frequent as the conquests of
Rome were multiplied, and as the supplies of booty, slaves and conquered lands
becomes more and more plentifiTl. The purchase by the State of materials and
military supplies was also of frequent occurrence, as the wealth of Rome
increased. Now these public emtiones and iiendi- tiones constantly occurring
between private citizens and the State were founded upon agreements neces-
sarily formless. The State could clearly not make a iusiurandum or a sponsio,
but the agreements to which the State was a party (according to the fundamental
principle laid down at the beginning of this inquiry that the sanction of
publicity was as strong as that of religion) were no less binding than the
formal contracts of private law. A public breach of bona fides would have been
notorious and disgraceful. Whenever therefore the State took part in emtio
uenditio, the agreement of sale was thereby invested with peculiar solemnity;
and thus in course of time the pactum uenditionis became so common as an
inviolable contract that the actio emti uenditi was created in order to extend
the force of the public eTTitio uenditio into the realm of private law. As soon
as this action was provided, emtio uenditio became a regular contract, which
was necessarily bilateral because performance of some sort was required from
both parties. An action could thus be brought either by the buyer against a
seller who refused to deliver (actio emti), or by the ^ MommseD, Z. der Sav.
Stift. E. A.] seller against a buyer who failed to pay (actio uenditi). The
history of the words emere uendere is in- structive. We can see that at first
they were not strictly correlative. Vendere or uenumdare meant to sell, not in
the sense of agreeing upon a price, but in the sense of transferring in return
for moneys ; while eniere meant originally to take or to receive, without
reference to the notion of buying''. But neither emere nor uendere was at first
a technical term. Emere subsequently got the specialized sense of purchasing
for money as distinct from permutare, to barter ^, but this particular shade of
meaning seems like the actio to have had a public origin. The old technical
expression for the purchase of goods at public sale was emtio sub hasta or sub
corona, while the object of the sales was to get money for the treasury, and
therefore the consideration was naturally paid by purchasers in coin. These
public uenditioiies thus led to three results: The agreement of sale came to
the front as the element of chief importance, and as a transac- tion possessing
all the validity of a contract. The word emere came to denote the act of,
buying for money, as distinct from permutatio which meant buying in kind. The
uenditio of public law resting wholly upon consent, which was probably
signified by a lifting up of the hand in the act of bidding*, and being
necessarily a transaction bonae fidei, it follows that when emtio ^ Voigt, I.
N. IV. 519. Paul. Diac. s. u. emere. 2 21 Dig. 1. 19. fr. 5. * Cf. the word
manceps. uenditio is made actionable in private law, consent was the only thing
required to make the contract perfectly binding, and that the rules applicable
to it were those, not of iiis strictwm, but of bona fides. The complete
recognition of emMo uenditio is only attained by degrees. The first step in
that direction seems to have been the granting of an exceptio rei uenditae et
traditae to a defendant challenged in the possession of a thing which he had
honestly obtained by purchase and delivery. The second step was the
introduction of the actio Puhliciana, through which a plaintiff, deprived of
the possession of a thing that had been sold and de- livered to him by the
owner or by one whom he honestly believed to be the owner, might recover it by
the fiction of usucapio. These remedies, the exceptio and the actio, were
necessary complements to one another. The former is a defensive, the latter an
offensive weapon, and they both served to protect a bona fide purchaser who had
by fair means obtained possession of an object to which in strict law another
might lay claim. The exceptio rei uenditae et traditae was founded upon an
Edict worded somewhat as follows: SI QVIS ID QVOD VENDIDIT ET TRADIDIT NONDVM
VSVCAPTVM PETET, EXCEPTIONEM DABO; and in the formula of an action by the
seller to recover the thing sold this exceptio would have been introduced
thus:... si non earn rem qua de agitur J.' Agerius 1 Gai. IV. 36. 2 44 j)ig^ I
Voigt, I. N. ACTIO PYBLIOIANA N" Negidio vendidit et tradidit Its effect
was to protect the bona fide purchaser even of a res mancipi against the legal
owner who attempted to set up his dominium ex iure Quiritium. On the other hand
the actio Publiciana in its alternative form, was based on two Edicts worded
somewhat as follows: SI QVIS ID QVOD EI TRADITVM EST EX IVSTA CAVSA A DOMINO ET
NONDVM VSVCAPTVM PETET, IVDICIVM DABO SI QVIS ID QVOD BONA FIDE EMIT ET EI
TRADITVM EST NON A DOMINO ET NONDVM VSV- CAPTVM PETET, IVDICIVM DABO I The
precise wording of these Edicts is much dis- puted, but the question of their
correct emendation is too large to be discussed here. The formula of an actio
Publiciana based on the second Edict is given by Gaius '" and ran as
follows : Si quern hominem A^ Agerius* emit et qui ei tradittis est anno
possedisset, turn si eum hominem de quo agitur eius ex iure Quiri- tium esse
oporteret, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N Negidium A"
Agerio condemnato, s. n.p. a. The usefulness of these actions as a protection
to sale is apparent. They secured the buyer in posses- sion of the object sold
to him until usucapio had ripened such possession into full dominium; but they
were useful only when his possession had been interrupted and he wished to
recover it. On the other hand, the exceptio rei uenditae et traditae pro- 1
Voigt, I. N. IV. 478. 2 Voigt, /. N. IV. 479. 2 IV. 36. BONA FIDE here iDserted
by Voigt, I. N. iv. 483, of. 6 Diri.] tected him till the period of tisucapio
agaiost the former owner; but it was only usefal where his possession had not
been interrupted. The date of the actio Publidana and of this exceptio are not
to be fixed with absolute certainty; but it is quite clear that neither of them
had anything to do with a Praetor Publicius mentioned by Cicero as having
existed about A.v.c. Though there is no mention of either actio or exceptio in
the writers of the Republican period, yet it is clear from some passages of
Plautus that the tradition of res mancipi sold was in his time a transaction
protected by the law, and Voigt has shrewdly argued that both actio and
exceptio must be older than the actio emti, because the latter aimed at securing
delivery (habere licere) which would have been of no use had not delivery
already been protected by legal remedies. Now the Fasti Gapitolini report a
Consul M. Publicius Malleolus, and the conjecture that he was the author of the
actio Publi- dana seems very plausible. The exceptio rei uen- ditae et traditae
was probably somewhat older, for the defensive would naturally precede, not
follow, the offensive remedy. Nor can this exceptio in Voigt 's opinion have
been contemporary with the actio Publidana, because it does not bear the name
of exceptio Publidana, which it otherwise would have borne This argument does not seem to me strong, 1
Cie. Cluent. 45. 126. 2 Cure. 4. 2. 8 ; Fers. 4. 3. 64 ; Epid. 3. 2. 23. ' I.
N. XV. 469. 50 Dig. 17. 11. -- reason
seems rather to have been a practical one
that the existence of an agency of status precluded that of an agency of
contract. Thus we know that householders as a rule had sons or slaves who could
receive promises by stipulation, though they could not bind their paterfamilias
by a disadvantageous contract; and so to a limited extent agency always existed
within the Roman family. It is also obvious that, in an age when men seldom
went on long journeys, the necessity for an agent or fully empowered
representative cannot have been seriously felt. Plautus shows however that
agency was not developed even in his day, when travel had become comparatively
common. In Trimimmus and Mostel- laria, for instance, no prudent friend is
charged with the affairs of the absent father, and consequently the spendthrift
son makes away with his father's goods by lending or selling them as he
pleases. We can however mark the various stages by which the Roman Law
approximated more and more closely to the idea of true agency. 1. The oldest
class of general agents were the tutor es to whom belonged the management
(gestio) of a ward's or woman's affairs, and the curatores of young men and of
the insane. The next oldest kind of general agents are the cognitores, persons
appointed to conduct a particular piece of litigation, and not to be confounded
with the cognitores of praediatura. They were ori- [Pemice, Labeo, i. 489.
" Trin. 1. 2. 129; Most. 1. 1. 74. 3 2 Verr. in. 60. 137 ; Gaee. 14. *
Lex. Malae. 63 ; Cio. Har. Resp.] ginally appointed only in cases of age or
illness and their general authority was limited to the management of the given
suit. Gaius has shown us how they were able to conduct an action by having
their names inserted in the condemnation. Whether they existed or not under the
legis actio procedure is uncertain ; but they probably did, since we know that
they were at first appointed in a formal manner. Subsequently the Edict
extended their powers to the informally appointed procuratores. The action by
which these agents were made responsible to their principals is after Labeo's
time the actio mandati. During the Republic however and before his time the
jurists do not seem to have regarded the relation between cognitor and
principal as a case of mandatum, but simply gave an action corresponding to
each particular case, as for instance an actio depositi if the cognitor failed
to restore a depositwn. Procuratores are persons who in Cicero's day act as the
agents and representatives of persons absent on public business. They often appear
to have been' the freedmen of their respective principals, and their functions
were doubtless modelled on those of the curatores. The connection between
curatores and procuratores is seen in the Digest where pupilli and absent in-
dividuals are often coupled together', while the ' Auot. ad Her. ii; 20. "
Gai. iv. 86. 3 Gai. IV. 83. i. 9. 12. --
erciscundas \ but they might often prefer to continue the consortium, either
because the property was small, or because they wished to carry on an es-
tablished family business. If the latter course was adopted, the tenancy in
common became a partner- ship, embracing in its assets the whole wealth of the
partners ; and it is easy to see how this natural part- nership, if found to be
advantageous, would soon be copied by voluntary associations of strangers. Thus
socius, as we know from CICERONE (si veda), was often used as a synonym of
censors, and there can be no doubt that consortium was the original pattern of
the societas omnium bonorum". That there were some differences between the
rules of consortium and those of societas does not affect the question. For
instance, the gains of the consortes were not brought into the common stock,
but those ot socii were; while the death of a socius dissolved the societas, but
that of a consors did not ^ dissolve the consortium. These points of difference
and others probably arises from the juristic interpretation applied to
societas, when it had once become fairly recognised as a purely commercial
contract. But consortium and societas omnium bonorum have two points in common
which show that they must have been historically connected, In societas omnium,
bonorum there was a complete and immediate transfer of property from the indi-
viduals to the societas'', whereas the obligations of [- Paul. Diao. s. u.
erctum. ^ Brut. i. 2. 3 Leist, Soc. 24 ; Pernioe, Z. der S. Stift. R. A. in.
85. i 17 Dig, 2. 52. * Pernice, Labeo See Pernice, Laieo i. 85-6. ' 17 Dig. 2.]
each remained distinct and were not shared by the others'. Now this is exactly
what would have happened in consortium : the property would have been common,
but the obligation of each consors would have remained peculiiar to himself,
The treatment of socii as brothers' is clearly also a reminiscence of
consortiv/m ; and this conception of fratemitas, being peculiar to the societas
omnium bonorum^, makes its connection with the old con- sortium still more
evident. The fraternal character of this particular societas is responsible for
the existence of a generous rule which subsequently, under the Empire, became
extended so as to apply to the other kinds of societas^ The rule was that no
defendant in an actio pro socio should be condemned to make good any claim
beyond the actual extent of his means ^ This was known as the beneficium
competentiae ; and it gave rise to a qualified formula for the actio pro socio,
as follows: Quod A' Agerius cum N" Negidio societatem omnium bonorum emit,
quidquid 6b earn, rem iV"' Negidium A Agerio dare f. p. oportet ex f. b.
dumtaxat in id quod i\r* Negidius facere potest, quodue dolo malo fecerit
quominus possit, eius index N Negidiwm A" Agerio condemna. s. n. p. a. 2.
Societas negotii uel rei alicuius. This second form of partnership must have
been the most common, since it was presumed to be in- tended whenever the term
societas was alone used '. 1 17 Dig. 2. 3. 2 17 Dig. 2. 63. ' 17 Dig. 2. 63. *
17 Dig. 2. 63. fr. 1. 42 Dig. 1. 16 and 22.
17 Dig. It has also been derived from consortium by Lastig. His theory
is that consortes, or brothers, when they undertake a business in partnership
with one another, often modify their relations by agreement. The special
agreement, he thinks, then becomes the conspicuous feature of the partnership,
and the relations thus established are copied by associations not of consortes
but of strangers. The object of the theory is to explain the correal obligation
of partners. This correality did not however exist at Rome, except in the case
of banking partnerships, where we are told that it is a peculiar rule made by custom,
so that Lastig's theory lacks point. A further objection is that this theory
does not explain, but is absolutely inconsistent with, the existence of the
actio pro socio as an actio famosa. The fraternal relations existing between
consortes may never have suggested such a remedy, for CICERONE (si veda) in his
defence of Quinctius lays great stress on the enormity of the brother's conduct
in having brought such a humiliatiag action against his client. Another
explanation of the actio pro socio is given by Leist". He derives it from
the actio so- cietatis given by the Praetor against freedmen who refused to
share their earnings with their patrons. This societas of the patron must have
been a one- sided privilege, like his right to the freedman's 1 Z. filr ges.
Handelsrecht. xxiv. 409-428. 2 As in 26 Dig. 7. 47. 6. 3 14 Dig. 3. 13. 2 ; 17
Dig. 2. 82. * Auet. ad Her. ii. 13. 19 ; 2 Dig. 14. 9, 5 As Perniee has pointed
out, Labeo i. p. 94. 6 Soc. p. 32. -- services' ; for the freedman could never
have brought an action against his patron, since he was not entitled to any
share in the patron's property. The actio societatis was therefore a penal
remedy available only to the patron, and consequently it cannot pos- sibly have
suggested the bilateral actio pro socio of partners. Nor can the bonae fidei
character of the actio pro socio be explained if we assume such an origin. The
most reasonable view appears to be that which regards the actio pro socio as
the outcome of necessity. The Praetor saw partnerships springing up about him
in the busy life of Rome. He saw that the mutual relations of socii were
unregulated by law, as those of adpromissores had been before the legislation
described above in Chapter v. He found that an actio in factum, based on the
Edict Paxta conuenta, was but an imperfect remedy; and as an addition to the
Edict was then the simplest method of correcting the law, it was most natural
for him to institute an actio pro socio, in which bona fides was made one of
the chief requisites simply because the mutual relations of socii had hitherto
been based upon fides Societas uectigalium uel pMicanorwm. This kind of
societas was a corporation rather than a partnership, and we have proof in Livy
that such corporations existed long before the other kinds of societas came to
be recognised as contracts. These 1 38 Dig. 2. 1. 2 Cie. Quint. 6. ; Q. Rose.
6. 16 ; S. Rose. 40. 116 ; 2 Verr. III.] societates acted as war-contractors^
collectors of taxes, and undertakers of public works'. In one passage in LIVIO
(si veda) they are called redemtores, and we find three societates during the
second Punic War in A.v.c. 539" supplying the State with arms, clothes and
com. It was perhaps the success of these societates publica- norwm" which
iatroduced the conception of commercial and voluntary partnership. But still
they are utterly unlike partnerships', so that their his- tory must have been
quite different from that of the other societates. They were probably derived
from the ancient sodalitates or collegia^, which were per- petual associations,
either religious (e.g. augurium collegia), or administrative {quaestorum
collegia), or for MUTUAL BENEFIT (cf. H. P. Grice), like the guilds of the
Middle Ages (fabrorwm collegia). This theory of their origia is based upon three
points of strong resem- blance which seem to justify us in establishing a close
connection between societas and collegium: Both were regulated by law",
and were established only by State concessions or charters. Both had a
perpetual corporate existence, and were not dissolved by the death of any one
member "- (3) Both were probably of Greek origin. We > Liu. XXXIV. 6 in
a.v.c. 559. ^ Liu. xxvii. 3 (a.v.c. 544).
Liu. XXIV. 18 (A.V.C. 540) ; Cic. 2 Verr. i. 50. 150. XLii. 3 (a.v.c. 581). ' Liu. xxiii. 48-9. "
Liu. xxxix. 44 ; XXV. 3. '3 Dig. 4. 1. 8 Lex rep. of a.v.c. 631, cap. 10 ; Cic.
leg. agr. ii. 8. 21 ; pro domo 20. 51 ; PUnc. 15. 36. 9 GaiuB, 3 Dig. 4. 1 ; 47
Dig. 22. 1. "I Dig. 5. 59 fr. 1 ; 17 Dig. 2. 59 ; Cic. Brut. i. 1. B. E.
12 -- are told that societates publiccmorum existed at Athens', while Gaius^
derives from a law of Solon the rule applying to all collegia, that they might
make whatever bye-laws they pleased, provided these did not conflict with the
public law. These three facts may well lead us to derive this particular form
of societas from the collegium. We know further that the jurists looked upon it
as quite different from the ordinary societas, and that it did not have the
actio pro socio as a remedy'- The president or head of the societas was called
manceps*, or magister if he dealt with third parties ', and the modes of
suretyship which it used in its corporate transactions were praedes and
praedia', another mark perhaps of its semi-public origin. Arist. Bep. Ath. 52.
3 and of. Voigt, I. N. ii. 401. 2 47 Dig. 22. 4. 3 Voigt, Rom. BG. i. 808. * Ps. Asc. in Cio. Diu.
; Paul. Diao. 151 s. u. manceps ; Cio. dam. 10. 25 ; Cic. Plane. 26. 64. '
Paul. Diac. s. u. magisterare ; Cic. Att. v. 5. 3 ; Cio. 2 Verr. 11. 70. 169 ; ib. III. 71. 167. ' Lex
Mai. We have not yet really dis- posed of all the consensual contracts, for we
now come to a class of obligations entered into without formality and by the
mere consent of the parties, but in which that consent is signified in one
particular way, i.e. by the delivery of the object in respect of which the
contract is made. The contracts of this class have therefore been termed REAL
contracts, though they may with equal propriety be called consensual. The
oldest of them all is mutumn, the gratuitous loan of res fungibiles, and it
stands apart from the other contracts of its class in such a marked way, that
its peculiarities can only be understood from its history. It differed from the
other so-called real contracts, im having for its remedy the condictio, an
actio stricti iuris; in being the only one which conveyed ownership in the
objects lent, and did not require them to be returned in specie. Both
peculiarities requfre explanation. The most important function of contract in
early times is the making of money loans, and for this the Romans had devices
peculiarly their own, Tiexum, sponsio, and earpensilatio. But these are
available only to Roman CITIZENS (cf. Grice: OXONIANS), so that the legal
reforms constituting the so-called ius gentium naturally included new methods
of performing this particular transaction. One such innovation was the
modification of sponsio, already described, and the rise of stipulatio in its
various forms : another was the recognition of an agreement followed by a
payment as constituting a valid contract, which might be enforced by the
condictio, like the older sponsio and expensilatio. This innovation is the
contract known as mutum. It doubtless originates in custom, and is crystallised
in the Edict of some reforming prtor. As its object was money, or things
analogous to money in having no individual importance, such as com, seeds,
&c., the object naturally did not have to be returned in, specie by the
borrower. Though the bare agreement to repay was suffi- ciently binding as regards
the principal sum, the payment of interest on the loan could not be pro- vided
for by bare agreement, but had to be clothed in a stipulation. This rule may
have been due to the fact that mutuum was originally a loan firom friend to
friend ; but it rather seems to indicate that bare consensus was at first
somewhat reluctantly tolerated. In Plautus mutuum appears as a gratuitous loan,
generally made between friends^ and in sharp con- [Cure. 1. 1. 67 and 2. 3. 51
; Paeud. D trast to foenus, a loan with interest', which was always entered
into by stipulation. When mutuv/m is used by Plautus to denote a loan on which
interest is payable, we must therefore understand that a special agreement to
that effect had been entered into by stipulation, since mutuum was essentially
gratuitous. From three passages " it is evident that mutuum was
recoverable by action in the time of Plautus* (circ. A. V. c. 570), and it
seems probable that LIVIO (si veda) also uses it in a technical sense. If then
we place the date of the Lex Aebutia as late as A.v.c. 513, and suppose, as
Voigt does ', that mutuum being a iuris gentium contract must have been
subsequent to that law, we shall be led to conclude that mutuum came into use
about the second quarter of the sixth century. This theory as to date is
supported by the fact, which Karsten points out, that mutuum would hardly have
been possible without a uniform legal tender, and that Rome did not appropriate
to herself the exclusive right of coinage till A.v.c. 486. We thus see that the
introduction of mutuum and that of emtio uenditio, i.e. of the first real and
the first consensual contract, took place at about the same time. As regards
its peculiar remedy we know that money lent by mutuum was recoverable by a con-
dictio certae pecujiiae, with the usual sponsio and 1 Asin. Trin. 3. 2. 101 ;
4. 3. 44 ; Bacch. 2. 3. 16. 3 Cure. A.v.c. 560. ^ xxxii. 2. 1. Of A.v.c. 555. 6 I. N. IV. 614. ' Slip.
restipulatio tertiae partis\ It seems, like expensila- tio, to have received
this stringent remedy by means of juristic interpretation, which extended the
meaning and the remedy of pecimia certa credita so as to cover this new form of
loan. Thus we find credere often used by Plautus in the sense of making a miwtvm/m
*. When this final extension had been made iu the meaning of pecunia credita,
we may reconstruct the Edict on that subject as follows : SI CERTVM PETETVR DE PECVNIA QVAM QVIS
CREDIDERIT EXPENSVMVE TVLERIT MVTVOVE DEDERIT NEVE EX IVSTA CAVSA SOLVERIT PROMISERITVE,
DE EO IVDICIVM DABO. The iudicium here referred to was the condictio certae
pecuniae, the formula of which has already been given*. We know that mutuvm,
could be applied to other fungible things besides money, such as wine, oil or
seeds, and in those cases the remedy must have been the condictio triticaria'^.
FoENVS NAVTIGVM {Bdveiov vavTiKov). A con- tract very similar to mviuvm,, which
we know to have existed in the Republican period, since we find it mentioned by
Seruius Sulpicius * and entered into by Cato', was foeniis nauticum, a form of
marine insurance resembling bottomry^. It consisted of a money loan (pecunia
traiecticia) to be paid back by the borrower,
invariably the owner of a ship, Cic. Rose. Com. 4. 13. 2 As in Pers. 1.
1. 37; Merc. 1. 1. 58; Pseud. 1. 5. 91. Voigt, I. N. IV. 616. * p. 104. 12 Dig. 1. 2. 8 22 Dig. 2. 8. ' Plutarch,
Cat. Mai. 21. ' Camazza, Dir. Com. p. 176 ff. only in the event of the ship's
safe return from her voyage. A slave or freedman of the lender apparently went
with the ship to guard against fraud'; but there was no hjrpothecation of the
ship, as in a modem bottomry bond. The contract resembled mutuum in being made
without formality; but its marked peculiarities were: That it was confined to
loans of money, And to loans from insurers to ship-owners, And because of the
great risk it was not a gratuitous loan, but always bore interest at a very
high rate/ It is, however, quite possible that this interest was not originally
allowed as a part of the formless contract, but that it was customary, as Labeo
states ', to stipulate for a severe poena in case the loan was not returned. If
that be so, the stipulatory poena spoken of by Seruius and Labeo must have been
the forerunner in the Republican period of the onerous interest mentioned by
Paulus'' as an inherent part of this contract in his day. The next three real
contracts are not mentioned by Gains, who apparently took his classification
fi-om Seruius Sulpicius, and it therefore seems certain that in the time of
Seruius and during the Republic they were not re- garded as contracts, but as
mere pacta praetoria. Commodatum was the same transaction as mutuum applied to
a different object. In mutuum there was a gratuitous loan of money or other res
fungihilis, 1 Plut. Gat. 1. 0.; 45 Dig. 1. 122 fr. 1. 22 Big. 2. 7. ' 22 Big.
Big.] CONTRACTS OF THE IVS GENTIVM]whereas in commodatum the gratuitous loan
was one of a res nonfungihilis ' Both were originally acts of friendship, as
their gratuitous nature implies. Plautus shows us that in his day the loan of
money was not distinguished from that of other objects, for he uses commodare^
and iitendwm dare^ in speaking of a money loan, as well as in describing
genuine cases of commodatum. We do not, however, discover from Plautus that
commodatum, was actionable in his time, as mmiuwrn clearly was. Vtendmn dare,
we may note, is in his plays a more usual term than commodare. If it be asked
why the condictio was not extended to commodatum as it was to mutwu/m, the
answer is that the latter always gave rise to a liquidated debt, whereas in a
case of commodatum the damages had first to be judicially ascertained, and for
this purpose the condictio was manifestly not available. The earliest mention
of commodatum as an actionable agreement occurs in the writings of Quintus Mucins
Scaevola (ob. A.v.c. 672) quoted by Ulpian" and Gellius. CICERONE (s veda)
significantly omits to mention it in his list of bonae fidei contracts, and the
Lex lulia Municipalis (a.v.c. 709) contains no allusion to it. The peculiar
rules of the agreement seem to have become fixed at an early date. Quintus
Mucins Scaeuola is said to have decided that culpa leuis ^ e.g. a scyphus,
Plaut. Asin. 2. i. 38 or a chlamys, Men. i. i. 94. 2 Asin. 3. 3. 135. Persa, 1. 3. 37. Aul. 1. 2. 18 ; Bvd. Dig.
Bruns, Font. AGE OF COMMODATVM] should be the measure of responsibility
required from the bailee (is cui commodatur), and to have established the rule
as to furtum usus, in cases where the res commodata was improperly used. It
seems therefore probable that the Praetor recognised commodatum at first as a
pactum praetoriwn, and granted for its protection an actio in factum, with the
following formula: Si paret A Agerium N" Negidio rem qua de agitur
commodasse (or utendam dedisse) eamque A" Agerio redditam non esse, quanti
ea res erit, tantam pecuniam N"^ Negidium A" Agerio condemna. s. n.
p. a. The agreement between bailor and bailee pro- bably did not come to be
regarded as a regular contract until after the time of CICERONE (si veda). We
must therefore place the introduction of the actio commodati at least as late
as A.v.c. 710, and by so doing we explain CICERONE (si veda)s silence. Whatever
conclusion we shall arrive at as to depositum must almost necessarily be taken
as applying to commodatum, also. They both had double forms of action in the
time of Gaius neither is mentioned by Cicero, and Scaevola evidently dealt with
them both together. Hence their simultaneous origin seems almost certain. The
actio commodati is said to have been instituted by a prtor pacuuius'', who,
like PLAUTO (si veda), used the words utendum dare instead of com- modare. The
terms of his Edict must therefore have been: 1 IV. 47. 2 13 Dig. CONTRACTS OF
THE IVS GENTIVM. QVOD QVIS VTENDVM DEDISSE DICETVR, DE EO IVDICIVM DABOl The
author of this Edict was formerly supposed by Voigt to be Pacuuius Antistius
Labeo", the father of Labeo the jurist ; but this statement has recently
been withdrawn' on the ground that this Pacuuius, having been a pupil of
Seruius Sulpicius, could not have been Praetor as early as the time of Quintus
Mucius. If however the above theory as to the dates be correct, Voigt's former
view may be sound: Q. Mucius may have been speaking of the actionable pactum,
while Pacuuius may have been the author of the true contract. The aMio com-
modati directa had a formula as follows: Qiiod A' Agerius N" Negidio rem
q. d. a. commodauit (or utendam dedit) quidquid oh earn rem M Negi- dium
A" Agerio dare facere praestare oportet ex fide bona, eius iudex N"
Negidiwm A' Agerio con- demna. s. n. p. a. It was doubtless in this form that
the action on a commodatum was unknown to CICERONE (si veda). He must have been
familiar only with the actio in factvmi, and for that very reason he must have
regarded com/modatwm not as a contract, but as a pactum conuentum. The most
general word denoting the bestowal of a trust by one person upon another was
commendare, and Voigt shows that corrvmendaiumh is the technical term 1 I. N.
III. 969. 2 I. N. B. HG. 1 Dig. 2. 2. 44. Plant. Trin. 4. 3. 76 ; Cio. Fam. ii.
6. 5 ; 16 Diff. 3. 24 ; Cic. Fin. IR. RG. i. App. 5. for a particular kind of
pactum. If the object of commendatio is the performance of some service, the
relation is a case of mandatwm. If its object is the keeping of some article in
safe custody, the relation is described as depositvm. This case clearly shows
how arbitrary is the distinction drawn by the Roman jurists between real
contract and consensual contract. Though starting, as we have seen, from the
same point, mandatum came to be classed as a consensual, and depositv/m as a
real contract. This was simply because the latter dealt, while the former did
not deal, with the possession of a definite res. Depositum distinctly appears
in Plautus as an agreement by which some object is placed in a man's custody
and committed to his care, though deponere is not the word generally used by
Plautus to denote the act of depositing. He prefers the phrase seruandimi dare,
corresponding to utendvmi dare, which we found to be his usual expression for
commodatum. These very words, semandum dare, were also used by Quintus Mucins
Scaevola in discussi Dg depositum, but we cannot ascertain from his language
whether or not the actio depositi was already known to him. He may merely have
been discussing an actionable pactum,. Nor can we infer from any passage of
Plautus the existence of depositum as a contract in his time. He seems CICERO
(si veda) Fin. III. 20. 65. 2 Plant. Merc. Dig. 3. 24 ; Plant. Merc. Bacch.
Merc. 2. 1. 14 ; Cure. 2. 8. 66 ; Bacch. 2. 8. 10. 8 Gell. VI. 15. 2. rather to
represent it, as CICERONE (si veda) does, in the light of a friendly relation
based simply on fides '^-j and in most of the Plautine passages the transaction
is that which was afterwards known as depositum irregulare, i.e. the deposit of
a package containing money either at a banker's ', or with a friend. Some have
thought that there must have been an action in Plautus' time for the protection
of such important trusts, but Demelius points out that the actio furti (to
which Paulus alludes as actio ex catosa depositi) would have afforded ample
protection in most cases; and it would be extremely rash to infer that either
commodatum or d&positwm was actionable in the sixth century of the City. At
first sight it even looks as though depositum, was not protected by any action
in the days of Cicero. The passages in which he mentions it' appear to treat
the restoration of the res deposita rather as a moral than a legal duty.
Similarly where he enumerates the bonae fidei actions, where he mentions the persons
qui bonam fidem praestare debent, and where he describes the indicia de fide
mala'^', he entirely leaves out the actio depositi and does not make the
slightest allusion to depositum. But all this is equally true of commodatum.
And since we have the clearest evidence that com- modatum. was actionable in
the time of Quintus 1 2 Verr. it. 16. 36. Merc. 2. 1. 14. 5 Cure. 2. 3. 66. *
Bacch. Costa, Dir. Priv. p. 320. Z. fur
RG. ii. 224. ' Farad, iii. 1. 21 ; Off. i. 10. 31 ; iii. 25. 95. 8 Off. Top. N.
D. Gai.] Mucius ScaeuolaS we can hardly avoid the con- viction that depositurn
also was actionable in his day by means of an actio in fojctvmi, whereas the
actio depositi was not introduced, as Voigt holds, till the beginning of the
eighth century. This theory of development, already applied to mandatum and
societas, has the advantage, not only of explaining why commodatwm and
depositvmi were not numbered among hoTiae fidei contractus, but also of
accounting for the existence in Gains' day of their double formulae which have
puzzled so many jurists. We may then believe that depositurn was first made
actionable between A.v.c. 650 and 670 as a pactum praetorium, and with the
protection of an actio in factum concepta as given by Gains: Si paret A Agerium
apud N Negidiwm mensam argenteam deposuisse eamque dolo N^ Negidii A"
Agerio redditam nan esse, quanti ea res erit, tantam pecuniam, iudex, N
Negidium A" Agerio condemnato. s. n. p. a. This formula was doubtless the
only one pro- vided for depositumi down to the end of Cicero's career. But
about A.v.c. 710^ juristic interpre- tation began to regard commodatvmi and
depositurn as genuine contracts iuris ciuilis, and thereupon a second formula
was iutroduced into the Edict, with- out disturbing the earlier one, so that
depositurn, like commodatwm, was finally recognised as a contract. Dig. 6. 5.
Earn. EG. See Muirhead's Gaim. Dig. Dig.; Trebatius was trib. pleb. We know
that the Praetor's Edict by which this change was brought about ran somewhat
thus: QVOD NEQVE TVMVLTVS NEQVE INCENDII NEQVE RVINAE NEQVE NAVFRAGII CAVSA
DEPOSITVM SIT IN SIMPLVM, EAEVM AVTEM RERVM QVAB SVPRA COMPREHENSAE SVNT IN
IPSVM IN DVPLVM, IN HEREDEM EIVS QVOD DOLO MALO EACTVM ESSE DICETVR QVI MORTWS
SIT IN SIMPLVM, QVOD IPSIVS IN DVPLVM IVDICIVM DABO'. The penalty of dwplwm
shows that, where the depositwn had been compelled by adverse cir- cumstances,
a violation of the contract was regarded as peculiarly disgraceful and
treacherous. In other cases, where the depositwn was made under ordinary circumstances,
the amount recovered was simplwm, and the new formula must have been that given
by Gaius " as follows : Quod A' Agenus apud N Negidium mensam argenteam,
deposuit qua de re agitur, quidquid oh earn rem JSf Negidium A" Agerio
dare facere oportet ex fide bona, eius index N Negidiv/m A" Agerio
condemnato. s. n. p. a. PiGNVS. The giving and taking of a pledge appears in
Plautus as a means of securing a promise, but seems then to have belonged to
the class of friendly acts which the law does not condescend to enforce. In
Gaptiui for instance, the slave who had been pledged is demanded in a purely
informal way, and in Rudens pignus is a mere token given to prove that the
giver is speaking the truth. Its connection with arrhabo is very close. Each served
to show that an agreement is seriously [Dig.] meant by the parties, or was a
means of securing credit as a substitute for money, and if the agreement was
broken, the pignus or arrhabo was doubtless kept as compensation. This practice
of giving pawns or pledges was probably of great antiquity, but we hear nothing
of it from legal sources, simply because it was an institution founded on mores
alone. It probably applies only to moveables and res nee mancipi\ for res
mancipi could be dealt with by a pactvmi fiduciae annexed to mancipatio. Gaius
derives the word from pugnuTn, because a pledge was handed over to the pledgee.
But the correct derivation is doubtless from the same root as pactum, pepigi,
Pacht, Pfand. Pignus must mean a thing fixed or fastened, and so a security.
And this derivation suits the word in the phrase pignoris capio equally well,
without leading us to suppose that the custom of giving a pledge is in any way
derived from the pignoris capio of the legis actio system. We do not know when
pignus becomes a contract, though it certainly is so before the end of the
Republic. Long before being recognised as such it doubtless enjoys the
protection of an actio in factum, with a formula as follows: Si paret A^
Agerium N Negidio ratem q. d. a. oh pecuniam debitam pignori dedisse, eamque
pecuniam solutam, eoue nomine satisfactum esse, aut per N Negidium stetisse
quominus soluatur, eamque ratem q. d. a. A" Agerio redditam rum esse,
quanti ea res erit, tantam, &c.^ In course Bechmann, Kauf, ii. 416. '' 50
Big. 16. 238. ' ibid. Dernburg, FJr. i. p. 49 ; Beitr. zur vrgl. Sprachforsch.
Lenel] of time the actio pigneraticia was introduced as an alternative remedy,
and Ubbelohde ' has argued that since its place in the edict was between
commodatum and depositum, the Praetor must have introduced the actio
pign&raiicia after the actio com/modati and before the actio depositi ;
which seems a very plausible conjecture. We have no direct evidence of the
existence of an actio pigneraticia earlier than the time of Alfenus Varus, a
jurist of the later Republic. It is not mentioned by CICERONE (si veda). In
short everything points to the origin of the contract of pigrms as
corresponding in age to that of commodatum and depositum. The language of the
edict by which pignus was made a contract has not survived, while the formula
of its actio pigneraticia resembled of course that of the actio depositi, and
need not therefore be given. Though pignus is doubtless a very inadequate
security from the point of view of the pledgor, since it might at any time be
alienated or destroyed, it is the only form which appears to be common in
Plautus, and of fiducia he shows us not a trace. Pignus seems to have been much
used for making wagers, and pignore certare was probably as common as sponsione
certare. The contracts of a kindred nature which seem to have arisen even
sooner than pignus will be discussed in the next chapter. 1 6. der ben.
Bealcont. jjjgr. Costa, Dir. Priv. p. 262. * Bekker, Akt.] We have examined in
a former chapter the early origin of the pactwm fidudae^, a formless agreement
annexed to a solemn conveyance, by which the transferee of the object conveyed
as security agreed to reconvey, as soon as the debt was paid, or whenever a
given condition should arise. As a result of the Edict Pacta conuenta, and
before Cicero's time'', this pactum became en- forceable by the actio fiduciae.
This action was in factum, like the others of its class, and its function was
to award damages, but it could not otherwise compel the actual recon- veyance
of the object. Its formula must have been worded as follows^ : Si paret A
Ageriwm N" Negidio fwndum quo de agitur oh pecuniam debitam fiduciae causa
mancipio dedisse, eamque pecuniam solutam eoue nomine satis- f actum esse, aut
per N' Negidium stetisse quominus solueretur, eumque fwndum redditum non esse,
nego- [Cie. Off. in. 15. 61. 3 Lenel, Ed. Perp. . B. E.] tiumue ita actum non
esse ut inter honos T)ene agier oportet et sine fraudatione, quanti ea res erit
tantwm pecuniam index N Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. The
peculiar clause "ut inter honos bene agier oportet"'^ virtually made
this a bonae fidei action. That fact may perhaps explain vfhyfiduda was never
protected by a formula in ius coTicepta, and hence was never regarded as a true
contract. We have seen that there were two ways in which a tangible security
might be given: the object might be conveyed with a pactum fiduciae, providing
that it should be reconveyed on the fulfilment of a certain condition, or else
the mere detention of the object might be granted on similar terms. In the
former case the pledge or its value could be recovered by the actio fiduciae,
in the latter by the actio pigneraticia whose origin we have just discussed.
But neither fiducia nor pignus is a contract of pledge pure and simple. Each
consists of an agreement plus a delivery of the object. The abstract conception
of mortgage, i.e. pledging by mere agreement, is a distinct advance upon both
these methods. The contract which embodies this form of pledge is known as
hypotheca ; and as its name indicates it was borrowed from the Greeks, from
whom the Romans also took the Lex Rhodia de iactu and the foeitms nauticum.
Precisely the same contract is found in the speeches of Demos- CICERONE (si
veda) Top.] thenes' under the name of v-trodr)Kr\, which could he applied to
moveables or immoveables, and even to articles not yet in existence. The Romans
how- ever regarded hypotheca not as a contract but as a pactum. It is quite
certain that a legal conception so refined as the pactum hypothecae could not
have had a place in the legal system of the XII Tables. There are passages in
Festus and Dionysius in which the words si quid pignoris and eveyypat^eiv have
been supposed to indicate the existence of some such practice at an early
period. But the evidence is much too vague to supply trustworthy data, and we
may confidently assert that mortgage was unknown to the early law. Accordingly,
we find that hy- potheca was introduced and made actionable by slow degrees.
Its popular name was pignus oppo- situm, as distinct from pignus depositum, the
ordinary pignut above described. Its LQtroduction seems to have been one of the
many legal innovations produced by the large immigration of strangers into Rome
after the Second Punic War. These strangers must generally have become tenants
of Roman landlords, since the lack of ius commercii prevented their buying
lands or houses, and in order to secure his rent, the only resource open to the
landlord was to take the household goods of these tenants as security. Such
household goods {inuecta illata) probably constituted in most cases the only
wealth of the foreign immigrant, conse- [Dernburg, Pfdr. s.u. nancitor.
Dernburg, Pfdr.] quently the landlord could not remove them, and the method of
pignus was not available. The ex- pedient which suggested itself was that the
tenant should pledge his goods without removal, by means of a simple agreement.
The relation thus created was the original form of hypotheca and was precisely
analogous to that of a modern chattel mortgage. As the idea was introduced by
foreigners ', it was very natural that this agreement of pledge should have
received a foreign name. Another class to whom the new expedient was applied
were the free agricultural tenants (coloni) whose sole wealth often consisted
of their tools and other agricultural stock^. The necessity of making a pledge
without removal is obvious in their case also. I. It was for the protection of
landlords that a Praetor Saluius introduced the interdictum Salui- anum, which
seems to have been the first legal recognition that hypotheca received. Its
date is not known. Formerly the Praetor Salvius Iulianus, author of the Edictum
perpetuum, was regarded as the inventor of this interdict, but his own language
in the Digest^ contradicts this supposition. The most reasonable theory is that
the interdict origi- nated before the Edict Pacta conuenta (A.v.c.) at about
the end of the sixth century. The fact that Plautus knew hypotheca as a mere
nudum pactum can hardly be doubted. It is true that he not only uses, as
Terence does a little later, 1 Dernburg, Pfdr. Big. 15. 3. 1. 1.S Dig. 7. 22. * Demelius, Z.filr RG. ii.
232. 5 Phorm.] the phrase pignori opponere ' to denote the making of a pledge
by mere agreement; but he also men- tions the Greek technical term eTndi^Krj
and seems to use hypotheca as a metaphor'^. The testimony to be gathered from
these passages does not however prove that hypotheca was actionable'. The
contents of the interdictum Saluianum can- not be given with certainty. We only
know two things about it: that it was a remedy of limited scope, being
available only against the tenant or pledgor, but not against third parties to
whom he had transferred or sold or pledged the goods, and that the interdict is
prohibitory and forbids the pledgor to prevent the landlord from seizing the
objects which had been mortgaged. This first proposition is distinctly stated
by a constitution of Gordian, but flatly contradicted by a passage in the
Digest. The latter authority, however, seems open to strong suspicion and the
fact that the actio Serviana is presumably introduced because the interdictum
Salvianum is inadequate further goes to prove the correctness of Gordian's
constitution. We may be fairly certain that the interdict was prohibitory, like
the interdictum utrvbi, and not restitutory, as Huschke would have it'; since
the weight of authority is in favour of the former 1 Pseud. 1. 1. . * True. 2.
1. i. 3 Costa, Dir. priv. p. 264 ; Dernburg, Pfdr., God. = Dig. Lenel, Z. der
Sav. Stiftung, R. A, iii. 181. 7 Studien] view^ We may therefore accept
KudorfiPs restora- tion of its formula, which runs as follows: Si is homo quo
de agitur est ex his rebus de quibus inter te et conductorem (colonum, &c.
&c.) conuenit, ut quae in eu/m fwndum quo de agitw inducta illata ibi nata
factaue essent ea pignori tibi pro mercede eiusfimdi essent, neque ea merces
tibi soluta eoue nomine satisfactum, est aut per te stat quaminu^s soluatur,
ita quo- minus eum ducas uim fieri ueto. II. The second remedy introduced to
enforce the formless agreement of mortgage was the actio Seruiana, which was
far more efficacious. Its author cannot have been Seruius Sulpicius Rufus, the
Mend of CICERONE (si veda), because he never is prtor urbanus, and the action
must have existed long before his time. The Praetor who devised it was
doubtless one of the many Seruii Sulpicii whose names constantly appear in the
fasti consulares, and its age is probably not much less than that of the
interdictum Saluianum. The action was certainly younger than the interdict, and
an improvement upon it, because the jurists treated the law of mortgage under
the head of interdict', which indicates that this was the form of the original
remedy. We may be sure that the interdict is older than the Edict Pacta
conuenta, for otherwise it would not have been needed. And as soon as pa(Aa
were thus legally recognised, it is safe to say that a more perfect remedy for
hypotheca was sure ' Dernburg, Pfdr. p. 59; Bachofen, Pfdr. p. 13; Keller, Re-
cemion. p. 977 and Eudorff, Pfandkl. p. 210 ; Lenel, Ed. Perp. p. 394. 2
Pfandkl. p. 209. Of. Budorff, Ed. Perp. 282. ' Dernburg, Pfdr.] to be devised.
The probability is then that the actio Seruiana was one of the first products
of the Edict Pacta conuenta, partly because we know that the interdict was an
imperfect remedy, partly because hypotheca was much in vogue at that early
date. Thus we may gather from Plautus' allusions that hypotheca was already in
a well developed state about A.v.c. 570. CATONE (si veda) the Censor also seems
to have alluded to it, and Caec. Statins, as cited by Festus",
unquestionably did so. The curious circumstance that CICERONE (si veda) should
have mentioned it only twice may perhaps be accounted for by the fact that PIGNUS
in its looser sense (in sensu lato) is always a synonym for hypotheca, and as
he mentions it so seldom in its Greek form, we may suppose that hypotheca is
then only just coming into general use. We know that pignus in the narrower
sense (in sensu stricto) is distinguished by Ulpian from hypotheca as sharply
as we distinguish a pawn from a mortgage, but the earlier writers lead us to
infer that the term pignus oppositum, or simply pignus, was originally the
equivalent of hypotheca. The effect of the actio Serviana was probably a mere
enlargement of the scope of the interdictwm Salvianum, giving the landlord a
legal hold upon the inuecta illata of his tenant even in the possession of
third parties. But since the right of thus pledging by agreement was as yet recognised
only as between the colonus or the house-tenant and his landlord, 1 jj. i{.
146. s.u. reluere.Att. n. 17 and Fam. xiii. 56. Dig.] hypotheca was a
transaction still confined to a small class. A final improvement is effected,
perhaps shortly after the one just mentioned, when the prtor grants an action
on. the analogy of the actio Serviana, upon all agreements of pledge of
whatever description. From the creation of this action, known as cuctio quasi
Serviana or hypothecaria, or simply Serviana, dated the introduction of a law
of mortgage applicable to objects of all kinds. The name hypothecaria, which we
find applied only to the last of these three remedies, implies either that this
was the only action available for all forms of hypotheca, or else that the
Greek term was not introduced until the contract had thus become general. The
formula of the CKtio quasi Seruiana or hypo- thecaria was of course in factum
concepta, because the pactum hypothecae never was treated as a contractus iuris
civilis, though it became in reality as binding as any contract. The words are
restored by Lenel as follows, in an action by the mortgagee against a third
party: Si paret inter A Agerium et Ludum Titium, conuenisse ut ea res qua de
agitur A Agerio pignori hypothecaeue esset propter pecuniam debitam, eamque rem
tunc cum conueniebat in bonis D Titiifuisse, eamque pecuniam neque solutam
neque eo nomine satisfactum esse neque per A Agerium, stare quominus soluatur,
nisi eares A" Agerio arbitratu-tuo Inst. Dig. Bachofen, Pfdr. Ed. perp.;
cf. Dernburg, Pfdr.; cf. Budorfl] restituetur, quanti ea res erit, tantam
pecuniam index N'" Negidium A" Agerio condemna. s, n. p. a. No
mortgage can be of much practical use unless it empowers the creditor to sell
the thing pledged, so as to cover his loss. But it is evident that the mere
pledgee or mortgagee could have had no in- herent right to sell or convey what
did not belong to him. This was an advantage possessed by fiduoia, since the
property was fully conveyed and could therefore be disposed of as soon as the
condition was broken. The only way out of the difficulty both in pignus and
hypotheca was to make a condition of sale part of the original agreement. This
was unnecessary under the Empire when the power of sale came to be implied in
every hypotheca, but during the Republic the power had to be explicitly
reserved, or else the vendor was liable for conversion (furtumy. Even Gains
" speaks as though a pactum de uendendo was usual in his time. Labeo
describes a sale eoc pacta convento, but the usual name for the clause of the
agreement containing the power of sale was lex ccmimissoria. When it became
possible to insert such a clause is uncertain, but Demburg seems right in
maintaining that, as the lex commissoria was known to Labeo and to the far more
ancient Greek law, it must certainly have been customary at Rome long before
the end of the Republic. Dig.; Demburg, Pfdr. Dig. = Pfdr. as against Baehofen,
Pfdr.] The custom of committing hypothecae to writing (tabulae), which is
indicated by Gaius', doubtless pre- vailed also in the Republican period, the
object of the writing being simply to facilitate proof. When we translate
hypotheca by the English word mortgage, we must not forget that the latter
denotes technically a conveyance defeasible by con- dition subsequent, closely
resembling ^cZwcia, where- as the former denoted the mere creation of a lien.
On the other hand it is true that our modem mortgage has lost its original
resemblance to fidma, and has now become almost identical with hypotheca.
Praediatvea is a peculiar form of suretyship which the Roman jurists never
treated as a contract, though it doubtless had a very ancient origin. It was
connected with the public emtiones and locationes, and was the regular method
by which contractors or undertakers of public work gave bond to do their work
properly. The transaction resembles the giving of sponsores in private law. The
friends of the contractor who are willing to be his sureties (praedes) appear
before the Praetor or other magistrate, and entered into a verbal contract by
which they bound them- selves with all that they possessed. The magistrate, we
are told, asked each surety " Praesne es?" and the surety answered
"Praes"\ This has every appearance of having been a formal contract
like sponsio, and it is difficult to accept the view of Mommsen ^ who considers
that the publicity of the Dig.Dig. Paul. Diao. s.u. Praes. ' Stadtr. von
Salpema] transaction leads us to infer its formless character. If we follow him
in assuming that praedes and praedia were purely public institutions, how can
we explain the existence of the praedes litis et vindiciarum, who certainly
appears in private suits, and how can we understand those passages in Plautus
and CICERONE (si veda) which clearly refer to praedes and praedia in private
transactions? If then we deny to prdiatura an exclusively public character, we
must class it with sponsio and uadimonium as another formal mode of giving
security. The etymology which explains the word prs as being the adverbial form
of prsto is undoubtedly false. Ihering and Goppert suppose that it comes from
the same root as praedium, and means one who undertakes a liability. But in the
Lex agraria the spelling is praeuides instead of praedes, and this indicates
rather that the true derivation is from prae and uas ', in the sense of "
one who comes forth and binds himself verbally Pott thinks that vas is the
generic term for surety, and that prs is a composite word meaning a surety who
makes good (prstare) what he undertakes. Where the derivation is so uncertain
no safe conclusion may be arrived at, and the origin of the contract must, in
this case as in that of the primitive vadimonium, remain an enigma. Cf. aduersariw, Gai. Plaut. Men.; CICERONE (si veda)
Cio. Att.Eivier, Untersuch. Z.fiir RG. Fas bomfari, or vas from a root meaning, to bind. Dernbur'g,
P/dr.; Eivier, Untersueh. Etym. Forsch. The obligation of the praes was
enforced by compulsory sale, the details of which we unfortunately do not know.
The expression prdes vendere shows approximately how the right was enforced,
but it is uncertain whether this means to sell the property of the surety, or
merely to sell the claim of the State against him K Besides the personal
responsibility thus assumed by the praes, there was another kind of security
known as praedium which the principal might be required to give. If the praedes
furnished by him were not sufficient, praediwm might be required as an
additional safeguard; but we also find that praedes or praedia might be separately
given. The form in which a bond of praedia had to be made was a written
acknowledgment in the Treasury (praediorum apud aerarium subsignatio), and the
only object capable of serving or being pledged as a praedium was landed
property owned by a Roman citizen, and possessing all the qualities of a res
mancipi. Hence the seciirity of praedia could not in many instances have been
available, for the whole of solwm prouinciale and the holdings of ager publicus
in the possession of occupatorii would of course have been excluded. The amount
of Cio. Phil. 11. 31. 78 ; aes Malac. cap. 64-5. 2 Dernburg, Pfdr. i. '
CICERONE (si veda) 2 Verr. i. 54. 142. Goppert, Z.filr EG. iv.. Lex agraria of
a.v.c. 643 ; Lex Put. parieti faciendo, Bruns, Font., aes Malac. cap. . ' ae
Malac. e.g. Lex Acilia repet., and Festus s.u. quadrantal, 8 Cic. Place. 32.
80. praedia which had to be given was entirely in the magistrate's discretion
and to help him in his decision we find that there existed praediorum
cognitores who were probably persons appointed to assess the value of praedia,
and responsible to the State if their information was wrong. As to the nature
of the transaction effected by praediorum subsignatio, there can be no doubt
that the old theory held by Savigny and others is incorrect, and that the State
did not in virtue of svbsignatio become absolute owner of the praedia. Rivier
and Demburg have demonstrated that the State merely acquired a lien, and that
praediorum subsignatio was therefore a species of mortgage. The classical
sources fully support this view, and it is certain that while the property was
subject to this lien its owner still had the right to sell it and to exercise
other rights of ownership. A public sale (venditio prdiorum) follows closely no
doubt upon the default of the debtor, but does not necessarily accompany the
sale of the goods of the praedes (uenditio praedium). At Rome the former sale
was made by the praefecti aerario, and in the Lex Malacitana the duumvirs or
decuriones are empowered to make it. A peculiarity of the sale of praedia was
that the ' Lex agraria, 73-4 ; Bruns, Font.. 2 aes Malac. Savigny Heid.
Jahrsch; Walter, E. G.; Hugo, R. G. 449. *
Pfdr. 1. p. 33. VARRONE (si veda) L. L.; Lex agraria, Dig. 17. 205. ^ Gai. ii. 61 ; CICERONE
(si veda) Cie. Verr. i. 55. 144. 8 cap. 64; Bruns, Font. p. 146. dominiwm
residing in the owner became instantly transferred to the praediaior or
purchaser from the State, without any act on the owner's part. The only advantage
reserved to the dispossessed owner was an exceptional right of recovering his
property from the purchaser by usurec&ptio, i.e. conscious usucapio S one
of the few instances in which it was possible to exercise usucapio otherwise
than with a bona fide colour of title. In this case, as the praedia were always
land, the statutory period of two years was necessary to complete the adverse
possession. The lex praediatoria mentioned in the aes Malacitanum" has
been thought to be a statute of unknown date; but it more probably denotes some
collection of traditional terms used in praediatura and analogous to a lex
uenditionis in a contract of sale. The restoration of praediatoria in Gains is
doubtful, and censoria seems much to be preferred. The operation of praediatura
as a general lien on all the property of the praes is probably recognised in
the Republican period, although Demburg has doubts on this point. Such a lien
is found in the Lex Malacitana in the time of Domitian, but this may have been
an extension to the public aerarium of the general hypotheca belonging to the
Imperial Fiscus. At any rate, there is no evidence that the lien did not exist
in our period; and if it 1 Gai. Boecking, Rom. Priv. Pfdr. irssv. did, we can
readily see that the security of praediatura was superior to that of sponsio.
It is perhaps natural that the subject of praedes and praedia should be
obscure, for the complicated nature of the law of praediatura is attested by
CICERONE (si veda) who states that certain lawyers make it a special study.
Art. 4. AcTiONES ADiECTiciAE. Besides introducing the actio mandati, the
praetor's edict enlarged the scope of agency by instituting several other
important actions. These were the actiones quod iussu, exercitoria, institoria,
tributoria, de peculio and de in rem uerso. In all of them alike the Praetor's
object was to fasten responsibility on some superior with whose consent, or on
whose behalf, contracts had been made by an inferior. They are known as
actiones adiecticiae, because they were considered as supplementing the
ordinary actions which could be brought against the inferior himself As they
made the principal liable on the contracts of a subordinate, it is plain that
they must have been a most useful substitute for the complete law of agency
which the Romans always lacked. The fact that they all had formulae in ius
conceptae points to a late origin, but they all doubtless origi- nated before
the end of the Republic. The actio quod iussu was an action in which a son or
slave, who had made a contract at the bidding of his pater familias, was
treated as a mere conduit pipe, and by which the obligation was directly
imposed on the pater familias who had [Balb. Dig. fr. authorized it. Since
Labeo mentioned the action as though its practice was well developed in his
day, we may fairly suppose that iussus was made actionable in Republican times.
The formula is as follows: Quod iussu N^ Negidii A" Agerius Gaio, cum is
in potestate N'' Negidii esset, togam uendidit qua de re agitur, quidquid oh
earn rem Oaium jUium A Agerio dare facere oportet ex fide hona, eius iudex iV
Negidium patrem A" Agerio condemna. s. n. p. a. Here the express comniand
of the superior was the source of his obligation. The actio exercitoria was an
action in which a ship owner or charterer {exercitor) was held directly
responsible for the contracts of the ship master (magister nauis). Its formula
probably ran as follows: Quod A^ Agerius de Lmio Titio magistro eius nauis quam
N' Negidius exercebat, eius rei causa in quam L' Titius ibi praepositus fuit,
incertum stipulatus est qua de re agitur, quidquid oh earn rem N'^ Negidium
A" Agerio praestare oportet ex fide bona eius N' Negidium A" Agerio
condemna. s. n. p. a.- It was known to Ofilius in the eighth century of the
city*, and was very probably even older than his day. The necessities of trade
were obviously the source from which this particular form of agency sprang,
because in an age of great commercial activity, when even bills of lading were
not yet introduced, it was expedient that the delivery of goods or the [Dig. 4.
1. fr. 9. ^ x4 Big. Baron, Abh. aus dem B. C. P. ii. . Dig. 1. 1. fr. 9. making
of contracts by the master should be equivalent to a direct transaction with
the ship owner himself. The actio institoria no doubt had a like commercial
origin. This was an action by which the person who employed a manager
(institor) in a busiuess from which he drew the profits, was made liable for
the debts and contracts of the manager. This action was known as early as the
days of Seruius Sulpicius^, and its formula closely resem- bled that of the
actio exerdtoria. The difference between these two and the actio quod iussu
con- sisted simply in the fact that the iiissus or autho- rization was special
in the one case, and general in the other two. In the actiones exercitoria and
insti- toria an implied general authority was ascribed to the agent in virtue
of his praepositio^, whereas in the actio quod iussu the agent had only an
express special authority. Thus the magister nauis and the institor were
genuine instances of general agents ; and we find therefore, as we should have
expected, that the acts of the magister and institor only bound the master when
strictly within the scope of their authority'. This is an excellent instance of
the manner in which Mercantile Law has developed the same rules in ancient as
in modem times. The actio tributoria is that by which a master was compelled to
pay over to the creditors of a son or slave trading with his consent whatever
[Dig. fr. Dig.; Oosta, Azioni, Dig. tribui, Dig. B. E. profits he had received
from the business. The formula ran thus : Quod J.' Agerius de L" Titio qui
in potestate N'' Negidii est, cum is sciente N" Negidia merce peculiari
negotiaretur, -infiertum stipulatus est qua de re agitur, quidquid ex ea merce
et quod eo nomine receptum est ob earn rem iV Negidium. Agerio tribuere
oportet, eius dumtaxat in id quod minus dolo malo N Negidii A' Agerius tribuit,
N'^ Negidium A" Agerio condemna. s. n. p. a. This action was mentioned by
Labeo ' and was there- fore probably as old as the other actions of this class.
The knowledge and tacit approval of the superior were here the source of his
obligation. The actiones de peculio and de in rem uerso are proceedings by
which the master is required to make good any obligation contracted by his son
or slave, to the extent of the son's or slave's peculium, or of such gain as
had accrued to himself {in rem uersum) from the contract. Their peculiarity, as
GAIO (si veda) has told us and as a recent writer conclusively shows, was that
they had one formula with an alternative condemnatio, which may be
reconstructed as follows : Quod A' Agerius de Lwdo Titio cum is in potestate JV
Negidii esset, incertmn stipulatus est qua de re agitur, quidquid ob earn rem
Lucius Titius A" Agerio praestare oportet ex fde bona, eius iudex N'^
Negidium A" Agerio, dumtaxat de peculio quod penes N"^ Negidium est,
uel siquid in rem N* Negidii inde versv/m est, condemna. s. n. p. a. This [Dig.
Baron, Dig. . Baron; cf. Lenel, Ed. perp. formula might be so modified that the
actio de peculio and the actio de in rem uerso could be brought either
separately or together. These actions were known to Alfenus Varus^, and it is
safe to say that they were introduced some time before the end of the Republic.
The knowledge or consent of the superior did not here have to be proved. The
difference between the actio tributoria and the actio de peculio was
considerable. By the former the master contributed his profits and then shared
in the distribution as an ordinary creditor. But by the latter he became a
preferred creditor, and deducted from his profits the whole amount owed to him
by the son or slave. The peculium in the latter case was in fact only the
balance remaining after the debts of the son to him had been satisfied.
CoNSTiTVTVM AND Receptvm. To- wards the end of the Republic we find two kinds
of formless contract by which a debt could be created, and both of which seem
to have sprung fi-om the requirements of Roman commerce I. Gonstitutmn. The
chief characteristics of this contract may be gathered from the constitution by
which Justinian ftised together the actio recepticia and the actio pecuni
constitut as well as from allusions in the Digest. It seems to have been a
formless promise of payment at a particular date; depending on the existence of
a prior indebtedness to which the Dig. Ihering, Geist Cod. constitutwm became
accessory; unconditional; enforced by an actio pecuniae constitutae of prtorian
origin which was in some cases perpetua and in others armalis ; and available to
persons of all classes. Constitutwm is discussed by Labeo, and is mentioned by
CICERONE (si veda) in a way which makes it certain that the actio pecuniae
constitutae existed in his day. The action originated in the prtor's edict, and
it was thereby provided with a penal sponsio similar to that of the condictio
certae pecuniae. This leads us to infer that pecwnia constituta was treated by
the Praetor as analogous to pecunia credita; especially as Gains states that
pecwnia credita strictly means only an unconditional obligation to pay money,
while we know from Justinian's constitution that unless constitutvmi was
unconditional no action would lie. But why should the penal sponsio of the
actio pecuniae constitutae have been so much heavier than that of the condictio,
namely dimidiae instead of tertian partis? The reason given by TEOFILO (si
veda) is that constitutum is generally entered into by a debtor in order to
gain time for the payment of a debt already due, and that the prtor institutes
this severe action in order to discourage insolvent debtors from this practice.
Labeo on the contrary says that constitutvm is made actionable in order to
enforce the payment of debts not yet due. Both li Dig. God. Big. Quint. Dig.
Gai. IT. Paraphr. Dig. Labeo and Theophilus are probably right ', but each
takes a one-sided view. The Praetor's aim presu- mably was to enforce the
payment of any debt, due or not due, which the debtor had made a renewed
promise to pay at a particular date. The breach of a repeated promise (for constitutum
always implied a previous promise or indebtedness) was doubtless regarded by
the Praetor as a singularly flagrant breach of faith; and hence he compelled
the defendant to join in a penal sponsio dimidiae partis. This actio per
sponsionem was not however the only remedy for a breach of constitutum. The
Digest shows that the usual form of redress was an actio in factum, which
probably had a formula as follows: Si paret Nwmeriimi Negidium Aulo Agerio X
millia Kal. Ian. se soluturwn constituisse, neque earn pecuniam soluisse, neque
per Agerium stetisse quo- minus solueretur, eamque pecuniam cum constituehatur
debitam fuisse, quanti ea res est, tantam pecuniam, Nunierium Negidium Aulo
Agerio condemna ; and that this actio in factum, existed in Gaius' time as an
alternative remedy seems probable from his language. It is not likely that the
actio in factum arose simultaneously with the other; and of the two Puchta* is
almost certainly right in assigning the earlier date to the actio per
sponsionem, because the custom of sponsione prouocare suggests an ancient
origin. This sponsio, like that of the condictio, is priudicialis, but it also
contained a strongly penal element. Its penal character is [Bruns, Z. f. EG.
Dig. Bruns. Inst. CONTRACTS NOT CLASSIFIED] no doubt the reason why the action
may not be brought against the heir of the constituens, and why it is annalis.
As Bruns shows, the remedy after one year is probably the actio in factum', by
which the plain amount of the constitutum mayalone be recovered. Constitutum
may be employed for the renewal of the promisor's own debt {const, debiti
proprii), as well as of another man's (const, debiti alieni), and this
distinction is early allowed". In the later law it could also be used to
reinforce and render actionable an obligatio naturalis. But this feature
probably did not exist at the origin of the action", for the Praetor could
only have had in mind pecunia eredita, when he inflicted such a heavy penalty.
The effect of constitutwm was simply to reinforce the old obligation by
supplying a more stringent remedy. It never produced novation as stipulatio or
expensilatio would have done. The agreement by which shipmasters, innkeepers
and stablemen {nautae, caupones, stabularii) undertook to take care of the
goods or property of their customers was known as receptum, and was enforced by
means of an actio de recepto as rigorously as the duties of common carriers are
enforced by the Common Law". The edict is expressed as follows: navtae
CAVPONES stabvlarii qvod cvivsqve salvvm fore RECEPERINT NISI RESTITVENT, IN
EOS IVDICIVM DABO; Bruns) Dig. Bruns, Camazza, Dir. Com. and the remedy was an
ordinary actio in factvm, authorising the judge to assess damages for the loss
or non-production of the goods. But the contract which more nearly concerns us
is receptum argentariorum, the nature of which has been a subject of much
controversy. This is a formless promise to pay on behalf of another man, and we
gather from GIUSTINIANO that it is capable of creating an original debt; capable
of being made svb conditione or in diem, and enforced by an actio recepticia,
which is perpetua; while TEOFILO (si veda) tells us that it is confined to
bankers (argentarii). Bruns indeed supposes that receptum was a formal contract
iuris ciuilis, while according to Voigt it is a species of expensilatio devised
by the argentarii. Lenel however proves that receptum argentariorum is
introduced and regulated by the prtor in the same part of the Edict in which he
treats of the recepta nautarum, cauponarum and stabulariorum. This appears from
the fact that in 13 Big. 5. 27 and 28, constituere has evidently been
substituted by Tribonian and his colleagues for recipere. Ulpian treats of
constitutwm in his book on the Edict. But the passage quoted in the Digest is
from his book on the Edict, in which we know that he discussed the clause
Nautae caupon^s statularii. So also POMPONIO (si veda), who discussed recepta
Cod. Z. fur RG. fiSm. EG. Z. der Sav. Stift. Dig. Dig. nautarvm, &c. and
constitutum, is described as mentioning the latter. Gains also is represented
to have dealt with constitutum in the very same book in which he treated of
recepta nautarum. We must conclude, either that all these writers introduced
into their discussion of recepta naviarum &c. the totally irrelevant
subject of constitutum, or that the subject thus introduced was not constitutum
but receptum argentariorum. If the latter conclusion is correct, as we may well
believe that it must be, it follows that receptum, argentariorum was, like the
other recepta, regulated by the Praetorian Edict, and was therefore not a
contract iuris ciuilis. By analogy with the other recepta we may further
conclude that receptum argentariorum was formless, and hence cannot have been a
species of eoopensilatio. The remedy is of course an actio in factum. Recipere
is used by CICERONE in the sense of undertaking a personal guarantee, but with
no clearly technical meaning. Justinian states that the ouctio recepticia was
objectionable on account of its solemnia verba, and Lenel has explained this to
mean that the actio recepticia, being necessarily in factum like those of the
other recepta, had to contain the words "si paret soluturwm recepisse.
n^que soluisse quod solui recepit, of which recipere was a technical term. This
term, being misunderstood by the Greeks, was translated in Justinian's time
Dig.; Vig. = Dig. Phil.; ad Fam. by constitmre. It is almost certain that the
actio recepticia was known before the end of the Republic, since Labeo
evidently discussed it. The function of receptum probably is to provide an
international mode of assigning indebtedness, because transcriptio a persona in
persona/m was not available to peregrins'. The existence of the debt between
the creditor and the original debtor was clearly not affected by the obligation
of the argen- tarius who had made a receptum; and from the passages above cited
Lenel also infers that receptum pro alio was the only known form which the
contract ever took. In short, it seems to have closely resembled the acceptance
of a modem bill of exchange, and it is doubtless made by the argentarius on
behalf of his clients or correspondents. Dig. Lenel, Z. der Sav. Stift.
Carnazza, Dir. Com. We have now traced the development of the Roman Law of
Contract from an early stage of Formalism, in which few agreements were
actionable, and those few provided with imperfect remedies, to the almost
complete maturity to which it had attained by the end of the Republic. Of all
the contracts which we have examined, nexum and vadimonium seem to be the only
two that became obsolete during this period, while the new contracts of
Praetorian origin, such as depositum and constitutum, attain their full growth.
So that the jurists of the empire find little to do besides the work of
interpretation and amplification. The one great improvement, and almost the
only one, which the law of contract undergoes subsequently to our period, is
the introduction of the actiones praescriptis uerbis, by which the scope of
real contract is immensely enlarged. In other respects, the law of the republic
has the credit of having generated that wonderful system of contract which
later ages have scarcely ever failed to copy, and which lies at the root of so
much of English Law. Nome compiuto: Francesco
Fisischella. Fisischella. Keywords: il duello, del contratto giocco come contratto quasi-contractualist Grice - - wrestling as a contract, fencing as
a contract, contract bridge as a contract -- pena temporaria, pena perpetua,
divorzio, matrimonio, stato, legge, devere naturale, obbligazione naturale.
Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fisichella,”
The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fitio: la ragione conversazionale e la setta di Reggio
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Abstract. “I prefer the spelling Fizio!” Keywords:
Crotone. Filosofo italiano. A
Pythagorean, cited by Giamblico.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Flaviano: la ragione conversazionale in attacco d’un domma
-- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Figlio di un canosino, e questore, pretore,
venne accolto nel collegio dei pontefici e nominato consolare della
Sicilia. Forse perchè pagano, soltanto F. consegue il vicariato
d'Africa. F. cadde in disgrazia presso Graziano. La sua ampia erudizione,
pero, arreca a F. il favore di Teodosio, che dopo avergli concesso importanti
uffici a corte, lo nomina praefectus praetorio dell’Italia, dell’Ilirico e
dell’Africa, poi, dopo un periodo di eclissi, ha di nuovo quella prefettura.
Tale ufficio fu conferito a F. per la terza volta d'Eugenio, che lo nomina
console. F. spera di potere abbattere i galilei con la vittoria d'Eugenio. F.
si uccise quando Eugenio e sconfitto da Teodosio che, in considerazione della
sua fama letteraria, ne deplora la morte di F. in Senato. F. gode autorità
soprattutto nella scienza augurale e nell'arte mantica in generale. Macrobio
nei "Saturnali" assegna a F. l’ufficio di interprete della
escatologia nell'Eneide di VIRGILIO. Studioso di filosofia e amico di
Eustazio, F. pubblica un saggio, "De dogmatibus philosophorum." F.
scrive una vita di Apollonio di Tiana. F. compose uno scritto grammaticale,
"De consensu nominum et verborum." F. ottenne fama soprattutto con
una grande opera storica, gl’Annales, dedicata a Teodosio. F. F. Console sine
collega dell'Impero romano Base della statua eretta in onore di F. dal genero
Quinto Fabio Memmio Simmaco. L'iscrizione riporta la carriera di F.. Questura Sicilia
intra palatium Pretura Urbana in Sicilia Vicarius in Africa Consolato Prefetto dell'Italia,
Illirico e Africa Oriente Pontificato max Sicilia. F. Filosofo romano. Collabora
con Eugenio nel tentativo di ricordare la religione romana. Figlio di un certo
Venusto (tradizionalmente identificato con Volusio Venusto), F. e discendente
di una delle più prestigiose famiglie di Roma, e riceve una ottima educazione. E
questore, pretore, pontefice massimo e consolare per la Sicilia, per poi
ritirarsi a vita privata. Il principe Graziano lo nomina però vicario della
diocesi d'Africa. Tene questa carica quando ricevette l'editto contro il
donatismo, che era molto forte in Africa, ma il fatto che Agostino in una
lettera lo scambi per un donatista è un indizio che Flaviano si schierò in
effetti con coloro che avrebbe dovuto perseguitare. Probabilmente per questo
motivo e rimosso dalla carica l'anno seguente. Divenne quaestor intra palatium
(questore nel Palazzo, cioè della corte imperiale), più esattamente quaestor
aulae divi Theodosii, avendo quindi il compito di formulare le leggi per l'imperatore
Teodosio. La sua nomina a Prefetto del pretorio dell'Italia, Illirico e Africa
lo rese uno dei più potenti funzionari dell'impero. Non è da escludere che la
carriera di F., e in particolare il favore che gode presso Teodosio, e dovuta
alla volontà di Teodosio di mantenere buoni rapporti con il partito romano,
forte nei circoli aristocratici e senatoriali, che era ostile alla politica di
tendenze galilee, e di cui Flaviano era uno dei massimi
rappresentanti. Dopo la morte di Valentiniano, Teodosio divenne unico principe.
Il potente magister militum di occidente, Arbogaste, sospettato di essere
coinvolto nella morte di Valentiniano, coagula l'opposizione a Teodosio nella
persona di Flavio Eugenio, eletto augustus col sostegno delle legioni e
dell'aristocrazia senatoriale romana. Eugenio nomina F. proprio prefetto del
pretorio, oltre che console sine college. La politica di Eugenio, in realtà
formulata da Arbogaste e F. in quanto Eugenio e un tentativo di riportare in
auge l'antica religione romana e il complesso di valori ad essa collegata,
entrambi messi in pericolo dall'avanzare dei galilei. La restaurazione del
culto degli antichi dèi, sostenuta da F., a avversata -- è noto un “Carmen
adversus Flavianum” (meglio noto col titolo di Carmen contra paganos) compilato
da un anonimo contro F., che accusa il filosofo di aver praticato i «ridicoli»
Amburbalia, Isia, Megalesia e Floralia. F., infatti, pratica pubblicamente e
ufficialmente una serie di cerimonie che non si celebravano da parecchio tempo.
Inizia con il lustrum o sacrificum amburbale di Roma, che era stato celebrato
l'ultima volta all'epoca di Aureliano, quando l'Urbe, sotto minaccia degli
Alemanni, venne difesa dall'erezione delle Mura aureliane e ancor più
dall'amburbium; l'Isaia prevede una processione funebre di F. e dei suoi
sostenitori, che — con il capo rasato, vestiti lunghi di lana non tinta e con
cinocefali in mano — lamentavano la morte di Osiride. I Megalesia sono celebrati
in nome di Cibele, con il battesimo del sangue dei fedeli e una processione
della statua della dea. Infine venneno i Floralia, che per le danze sfrenate
che li caratterizzavano e ormai considerati indecenti. Anche le preparazioni
militari per lo scontro con l'esercito di Teodosio vennero caratterizzate
dall'antica religione. Il labarum di Costantino I venne sostituito con
l'effigie di Ercole invitto, mentre statue di Giove sono poste sui passi alpini
dai quali sarebbe dovuto passare l'esercito di Teodosio. Il sostegno degli
ambienti eruditi alla filosofia di F. è sottolineato da due fatti. F. è uno
degli interlocutori raffigurati nei “Saturnalia” di Macrobio. D'altro canto
mantenne rapporti strettissimi col suo amico e parente Quinto Aurelio Simmaco,
rapporti proseguiti dopo la fine di F., in quanto il figlio di F. sposa la
figlia di Simmaco. Il tentativo di F. ed Eugenio fallì con la sconfitta e
morte dell'usurpatore nella battaglia del Frigido che decreta il trionfo di
Teodosio I. Dopo la battaglia, imitando un gesto nella tradizione della nobiltà
romana, F. si suicida. Negl’anni seguenti la composizione del senato romano
cambia, e la componente tradizionalista, che fino ad allora aveva formato un
partito da non sottovalutare, divenne irrilevante. Tramonta così la speranza di
portare avanti la politica per la quale F. ha speso la propria vita. I
figli e successori di Teodosio, Onorio e Arcadio, promulgarono una legge con la
quale perdonarono i sostenitori di Eugenio, ma, al contempo, condannarono F. a
una forma ridotta di damnatio memoriae che prevedeva, tra le altre cose, la
revoca del consolato per l'anno precedente. Il provvedimento richiede ai figli
dei condannati di abiurare il culto romano in cambio di quella dei galilei. Questa
abiura permise ai discendenti di F. di ricoprire importanti cariche
nell'amministrazione imperial. Il figlio di F., anch'egli chiamato Nicomaco F.,
divenne prefetto del pretorio d'Italia, Africa e Illirico. Il nipote di F.,
l'influente senatore Appio Nicomaco Dexter, ricoprì ruoli pubblici. È
proprio Dexter che si avvalse del sostegno degli influenti circoli senatoriali
a cui apparteneva per far riabilitare pubblicamente il nonno. Fu innalzata una
statua a F., la cui dedica spiega che F. È stato sempre stimato dall'imperatore
Teodosio, e che il provvedimento di damnatio è da imputare a persone invidiose,
e non agli imperatori. Opere F. fa parte del circolo di Quinto Aurelio
Simmaco, che raccoglieva esponenti di grande cultura dell'aristocrazia e
senatoriale di Roma, a cui apparteneva anche Vettio Agorio Pretestato. A questo
circolo vanno ricondotte la pubblicazione di una nuova edizione degli Ab Urbe
condita libri di Tito Livio e dell'Eneide di VIRGILIO (si veda) . F. scrive
un'opera di storia intitolata Annales, dedicata a Teodosio I. Anche l'autore
anonimo della Epitome de Caesaribus potrebbe appartenere al circolo di F.,
essendosi resa necessaria per l'impossibilità di diffondere gli Annales a
seguito della damnatio memoriae. Avrebbe tradotto, poi, la Vita di
Apollonio di Tiana di Filostrato. CIL. Codex Theodosianus. Agostino d'Ippona,
Epistulae. CIL. Lanciani. Lanciani. Codex Theodosianus, Ambrogio da Milano, De
obitu Theodosii, Codex Vaticanus lat.; Vergilius Vaticanusː Nicomachus
Flavianus vir clarissimus III praefectus urbis emendavi, Emendavi Nicomachus F.
vir clarissimus ter praefectus urbis apud Hennam. Sidonio Apollinare, Lettere,
Honoré, Law in the Crisis of Empire, Oxford, Lanciani, Ancient Rome in the
Light of Recent Discoveries, Houghton, Mifflin, Boston; Treccani -- Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. F., in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia. O'Donnel, "The career of F.", Phoenix; CIL
Predecessore Console romano Successore Imperatore Cesare Flavio Teodosio
Augusto III, Imperatore Cesare Eugenio Augusto, Flavio Abundanzio con
Imperatore Cesare Flavio Arcadio Augusto III Imperatore Cesare Flavio Onorio
Augusto II Flavio Anicio Ermogeniano Olibrio, Flavio Anicio Probino VDM
Grammatici romani VDM Storici romani Portale Antica Roma Portale
Biografie Categorie: Grammatici romani Storici romani Funzionari romani Storici
Romani Consoli imperiali romani Consulares Siciliae NicomachiPrefetti del
pretorio d'ItaliaVicarii Africae. The Motto and the Enigma: Rhetoric and
Knowledge in the Sixth Day of the Decameron Facilis igitur est distinctio
ingenui et inliberalis ioci. Alter est, si tempore fit, ut si
remisso animo, <gravissimo> homine dignus, alter ne libero quidem,
si rerum turpitudo adhibetur aut verborum obscenitas. (Cicero, De
officiis 29.104) T he relationship between rhetoric and
knowledge (a true knowledge) is one of the oldest and most interesting
problems. The modern ste reotype of rhetoric as “deceiving” speech or “empty”
speech reflects an essential division of rhetoric from knowledge that has
had influential adherents within the rhetorical tradition, most notably
Plato.1 The nega tive side of rhetoric appears in a clearer light if we observe
how closely it is linked to philosophy and dialectics, ever since its
origins. A philosophical anecdote attributed to Aristotle’s lost dialogue
On poets exemplifies the negative and destructive side of dialectics.2
The anecdote was also known 1Plato, in his Gorgias, criticized the
sophists because he believed that rhetoric was simply too dangerous,
being based on skill and common opinion (doxa). In the Phaedrus, Plato
set out instead to discover episteme, or ‘truth,’ through dialectical method.
Since Plato’s argument has shaped western philosophy, rhetoric has mainly
been regarded as an evil that has no epistemic status (Kennedy 58ff.).
Aristotle, however, considers rhetoric as the counterpart, the
countermelody (antístrophos), of dialectic insofar as they both have as
their objects the same topoi, or commonplaces, to find arguments, and
defines rhetoric as the faculty of discovering all the available means of
persuasion (Rhetoric 1.1.1354a) (cf. Kennedy 78). In ancient Rome,
rhetoric follows the teaching of Isocrates and is a part of political
science; cf. Cicero, De inventione 1; Murphy 8. The Middle Ages
ultimately inherit the study and practice of the discipline while elaborating
further de velopments. See: Murphy, part two: “Medieval Rhetorical Genres”; C.
Vasoli; Prill. 2Aristotle, Liber de poetis, frag. 8 (= Ps.-Plutarch, Vita
Homeri 3–4). The anecdote is translated into English by Ross (The Works
of Aristotle, vol. 12, p. 76–77) and into Italian by Colli (Sapienza
346–49). For an idea of ancient dialectics and its destructive
potentialities see Colli, La nascita 61.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 17 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org by Giovanni Boccaccio, who
reports it in his commentary on Dante’s Commedia.3 This is the famous
enigma about the legendary death of Homer that was transmitted throughout
the Middle Ages without any sig nificant alteration. A Delphic pronouncement
once warned the poet that he would die on the island of Ios and urged him
to beware of a riddle posed by some young fishermen. As predicted, at an
advanced age, Homer finds himself on Ios by the sea, where he asks some
fishermen what they have caught. They pose him a riddle: “We have what we
did not find; what we did find we left behind.” The fishermen have been
fishing without suc cess, and meanwhile spend some time searching themselves
for lice before meeting Homer. They leave behind the lice they found, but
the undiscov ered vermin are still in their clothes. Unable to solve the riddle posed by the
fishermen, Homer slips in the mud and dies soon afterwards, vexed that
his famous mental powers have failed him.4 The anecdote passed into
3Boccaccio narrates the anecdote, indicating Callimachus as his source: “Della
morte sua, secondo che scrive Calimaco, fu uno strano accidente cagione:
per ciò che, essendo egli in Arcadia ed andando solo su per lo lito del
mare, sentì pescatori, li quali sovra uno scoglio si stavano, forse
tendendo o raconciando loro reti; li quali esso domandò se preso
avessero, intendendo seco medesimo de’ pesci. Costoro risposero che quegli,
che presi aveano, avean perduti, e quegli, che presi non aveano, se ne
portavano. Era stata fortuna in mare e però, non avendo i pescatori potuto
pescare, come loro usanza è, s’erano stati al sole e i vestimenti loro
aveano cerchi e purgati di que’ vermini che in essi nascono: e quegli,
che nel cercar trovati e presi aveano, gli aveano uccisi e quegli, che
presi non aveano, essendosi ne’ vestimenti rimasi, ne portavan seco. Omero,
udita la ri sposta de’ pescatori ed essendogli oscura, mentre al doverla
intendere andava sospeso, per caso percosse in una pietra, per la qual
cosa cadde e fieramente nel cader percosse e di quella percossa il terzo
dì appresso si morì. Alcuni voglion dire che, non potendo in tender la risposta
fattagli da’ pescatori, entrò in tanta maninconia che una febbre il
prese, della quale in pochi dì si morì e poveramente in Arcadia fu sepellito;
onde poi, portando gli Ateniesi le sue ossa in Atene, in quella
onorevolmente il sepellirono” (4.litt.105–07). In a marginal note on f.
227r of the so-called Zibaldone Magliabechiano (Biblioteca Nazionale di
Firenze, BR 50), Boccaccio corrects the false attribution of the anecdote
to Diogenes made by a Venetian Chronographer (cf. Macrì-Leone, esp. 36). In the manuscript
containing Terence’s comedies (Biblioteca Medicea Laurenziana, 38.17, f.
84v), Boccaccio briefly narrates two anecdotes on Homer, one about his birth
and the other about his death caused by the fishermen’s riddle. Cf.
Hauvette; Hecker fig. XI; Hortis 340; Di Benedetto 21. 4See
also Valerius Maximus 9.12 ext. 3 (“Non uulgaris etiam Homeri mortis causa
fertur, qui in Io insula, quia quaestionem a piscatoribus positam soluere
non potuisset, dolore absumptus creditor”) and Ps.-Plutarch, Vita Homeri
14 (1062). The riddle, according to a gloss on Johannes of Hauvilla’s
Architrenius (6.488–95) runs as follows: “Quotquot non cepimus, habemus et
quos cepimus, non habemus.” John of Salisbury talks about this story of
Homer’s death in his Policraticus, 1.141 and 2.111, and gives as its
source http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 18
Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org medieval
tradition, but according to the account of an otherwise unidenti fied Virius
Nicomachus Flavianus (De vestigiis et dogmatibus philosopho rum), reported in
John of Salisbury’s Policraticus, the name of Homer was replaced by that
of Plato, possibly with the intention of giving the anecdote a stronger
philosophical emphasis.5 John of Salisbury, who is considered one of the
authors of the so-called literary and philosophical renaissance of the
twelfth century, insisted on the necessity of unifying dialectics with rhetoric
within the well-established set of artes liberales and emphasized the
importance of linking them to philosophy as a means for the search for
knowledge.6 Because of its well-structured framework and the
rhetorically elabo rated language of the tales and the cornice, Boccaccio’s
Decameron has been studied as a typical expression of the artes
rhetoricae of the four teenth century and, more recently, as a literary work
worthy of interpreta tion according to the modern methods of rhetorical
analysis.7 Yet a reading of the Decameron and, particularly, of the Sixth
Day that emphasizes the epistemological implications of the tales has
never been attempted. This could both give us the possibility of
speculating on the meaning and literary treatment of rhetoric in a
specific medieval fictional context and allow us to understand the
manifold applications of rhetoric in a constructive perspective — as
opposed to the negative side of rhetoric. The Sixth Day of the Decameron
is commonly remembered as the day of the motto, that is, the witty and
rhetorically elaborated answer with which the characters of the stories
escape from potentially dangerous or embarrassing situations. In reading
the various motti of the Sixth Day, we become fully aware of the active
role of the subject who pronounces the motto. Notice the character of
playful judgment of the motto, the combination of dissimilar elements,
the contrast of representation and the sense of absurd involved. These
same characteristics are precisely some of the features of the Witz
studied by Freud from both the rhetorical and psychoanalytical points of
view, and are used as a critical framework to Flavianus’ De vestigiis
philosophorum. According to Webb, John’s original source was
Pseudo-Herodotus’ Vita Homeri, in Homeri Opera, ed. Thomas W. Allen (Oxford:
Clar endon, 1912), 5.184. For Homer’s troubles, see the letter of
pseudo-Cornelius Nepos to Sallust appended to Dares Phrygius (in
Stohlmann). 5Policraticus 1.141, 1 ff. 6Curtius 62–63. See: Branca 29–70; Chiappelli; Sanguineti; Surdich;
De Michelis; Badini Confalonieri; Barilli; Coulter; Forni, “Retorica”;
Forni, Adventures; Klesczewski; Muscetta, “Giovanni Boccaccio”;
Schiaffini, esp. pp. 187–97 and 193–203; Stäuble; Stewart. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
19 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
study analogous jokes in the Novellino.8 Yet, rather than using
psychoanalytical categories, which are certainly applicable to the motto
of the Sixth Day as well as to its oppositional rhetorical elements, I
would like to establish a parallel with a rhetorical feature of ancient
Greek philosophy, the enigma, in order both to describe the formal and
narrative characteristics of the motto and to elicit the philosophical
and epistemological aspects of the Sixth Day. Looking at the
motto’s tales of the Decameron and at the philosophical enigma tradition,
certain symmetries begin to present themselves to our attention. At the
beginning of this essay, I mentioned the famous riddle that provoked
Homer’s death: “We have what we did not find; what we did find we left
behind.” After a day of fishing without success and spending some time
searching themselves for lice, the fishermen leave behind the lice they
had found. Is this just a riddle, an enigma which is meant to put the
reader to a test? Is nothing else involved? According to Eleanor Cook,
the enigma can be considered a form of speech, or a trope.9 The enigma
also takes the literary form of a short tale. According to Giorgio Colli,
moreover, the knowledge that comes from the Delphic oracles or the
prophecies of Dionysus in the form of enigmas is made by the combination
of opposites; namely, the combination of things that conflict with each
other and are not understandable; he clearly shows the connection of the
enigma with Mysteries in pre-Socratic philosophy. The combination of
contradictory elements is indeed the essence of the paradox, which is
also at the origin of the enigma and ancient knowledge.10 Thus, the
enigma of the Ancient World produces knowledge that must be deciphered.
Going back to the Decameron, it is precisely by virtue of a paradox that
Madonna Filippa, although guilty, testifies in her trial and is declared
not guilty (6.7)11; it is a paradox that makes the coals of Friar Cipolla
become a 8Evidently, the contrast of representation, the opposition of
dissimilar elements, is in perfect accordance with the rhetoric de
oppositis and the comic elements of the Decameron (cf. Paolella; Freud).
In his introduction to the Italian translation of Freud’s Der Witz (Il
motto di spirito, 19–20), Francesco Orlando emphasizes the rhetorical as pects
of Freud’s interpretation of jokes and points out the implications of his
thought for a new general rhetoric of the discourse influenced by the
unconscious. 9Cook, “The
Figure of Enigma”; Cook, Enigmas 27–63. 10 Colli, Nascita
56–58. 11 “La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole
rispose: ‘Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito e che egli questa
notte passata mi trovò nelle braccia di Lazza rino, nelle quali io sono, per
buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata, né questo
negherei mai;’ […] ‘Adunque’ seguì
prestamente la donna ‘domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre
di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto,
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 20 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org source of inspiration for
the final motto (6.10); it is by virtue of a paradox that Currado’s
clapping should make the crane’s leg appear in the tale of Chichibio
(6.4).12 But paradox is just an aspect of the same rhetorical
feature involved in the motto. Alan Freedman has found an
opposition/polarity played out in the theme of eloquence between 6.1 and
6.10, and has brilliantly found the source of the first tale of the Sixth
Day in an enigma of the medieval tradi tion.13 The famous tale of Madonna
Oretta (6.1) is not only a mise en abyme of the composition of the entire
collection, or a reflection on the art of narrating, it is also the
literary representation of an enigma. The motifs of this enigma have been
found in works of the oriental tradition such as the Book of Delight by
Yosef ibn Zabara,14 or in Latin and Occitan texts such as the Lai du Trot
and the De amore by Andreas Capellanus in which the same subject is
combined with the myth of the infernal hunt.15 In the tale of Enan in the
Book of Delight, the giant traveling with Zabara pro nounces a sort of
challenge: “I will bring you or you will bring me.” Zabara is then
puzzled, because they are both on horseback. So Enan narrates a story in
order to explain the mysterious sentence. The solution to his mysterious saying is
finally revealed: “this means […] that […] a man nar io che doveva fare o debbo
di quel che gli avanza? debbolo io gittare a’ cani? non è egli molto
meglio servirne un gentile uomo che più che sé m’ama, che lasciarlo perdere
o guastare’?” (6.7.13 and 17).
For a discussion of the tale and its relation to the argumen tative structure
of the discourse, see Giannetto and Morosini. According to Pennington
(905), Madonna Filippa’s motto echoes Matthew 7:6 and plays on the meaning of
the word “sanctum” in order to allude to the female body. 12 Cf. Cipolla’s words: “Vera cosa è che io porto la
penna dell’agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i
carboni co’ quali fu arrostito san Lorenzo in un’altra; le quali son sì
simiglianti l’una all’altra, che spesse volte mi vien presa l’una per l’altra,
e al presente m’è avvenuto: per ciò che, credendomi io qui avere arrecata
la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni.
Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che
volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cas setta de’ carboni ponesse
nelle mie mani ricordandom’io pur testé che la festa di san Lo renzo sia di qui
a due dì. […] voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in
segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà
che non si senta.” (6.10.49–52); and Chichibio’s motto: “Messer sì, ma
voi non gridaste ‘ho, ho!’ a quella d’iersera; ché se così gridato aveste
ella avrebbe così l’altra coscia e l’altro piè fuor mandata, come hanno
fatto queste” (6.4.18). 13 See Freedman. 14 See: Freedman; Picone, esp. pp.
103–04. 15 Cf. Neilson.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 21 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org rates a tale to another while
traveling.”16 In the tale of Madonna Oretta (6.1), a knight, unable to
narrate a story, is silenced by the lady he accom panies in his journey with an
ironic and smart justification: “Messer, questo vostro cavallo ha troppo
duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè”
(6.1.11). The art of narrating and the literary
form is so important that the knight’s incompetence provokes a painful
reaction in the lady while listening to him: “Di che a madonna Oretta,
udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come
se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir
non poté, cono scendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio […]”
(6.1.10). Boccaccio collected in a single sentence (“Madonna Oretta,
quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare
abbiamo, a cavallo, con una delle belle novelle del mondo” [6.1.7]) the
two enigmatic elements of his source, namely the challenge of narrating a
story (“io porterò te o tu porte rai me”) and the solution (“questo vuol dire
[…] che […] viaggiando un viandante racconta una novella o simile
all’altro”), and then forged a mys terious sentence (“Messer, questo vostro
cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di
pormi a piè” [6.1.11]),17 using the same mechanism of condensation and
substitution analyzed by Freud for the joke.18 If Freedman
recognized the source of the first tale, I would like to use the
characteristics of the enigma to explain the formal features and epis
temological functions of the motto in the Sixth Day of the Decameron. Ac cording to Carlo Muscetta,
the idea of the Sixth Day probably came to Boc caccio’s mind from Macrobius’
Saturnalia, which contained a book (the second) entirely devoted to
jokes.19 Luisa Cuomo thinks it came from a group of tales in the
Novellino.20 But its rhetorical features and the veiled significance
hidden in the motto are likely to be taken from a more ancient 16 The
Latin version of the same enigma from the Compilatio singulorum
exemplorum, which reproduces the same narrative materials and could
better suit Madonna Oretta’s motto, is also worth mentioning. The knight
says to the bride: “Abreviate nobis viam.” Then he says: “Portate me
aliquantulum de via ista et ego tantundem portabo vos.” Later, she asked
him: “Nonne dixistis michi quod abreviarem vobis viam illam et quod
portarem vos et vos me portaretis?” Then the bride explains the enigma: “Quando
duo milites equitant et unus narrat aliquod pulchrum exemplum, dicitur
socium portare eum et viam abreviare.” The Latin tale’s text in
Hilka. 17 Freedman 234. 18 Freud 44–58. 19 Muscetta,
Ritratti 245. 20 See Cuomo. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
22 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
atmosphere whose origins are probably to be identified in a primordial
epoch. The motto could be considered a particular form of the ancient
enigma — and not a variant of the riddle21 — that the Middle Ages pre served; thus,
it could also be considered the unifying element of the Sixth Day insofar
as it involves knowledge. Before analyzing the Sixth Day, however, it is
worth considering how Boccaccio could have known of the tradition of the
enigma, both in literary and rhetorical texts. Besides the anecdote on
Homer’s death, Boccaccio certainly knew some of the texts of medieval
literary theory which mention and describe the rhetorical features of the
enigma. Specifically, Matthew of Vendôme’s Ars versificatoria, the
Rhetorica ad Herennium, Priscian’s and Donatus’ grammars, Quintilian’s
Institutio oratoria, and Geoffrey of Vinsauf’s Poetria nova appear among
the books possessed by Boccaccio.22 He may have also reflected on the
nature of the enigma as it is described by Cicero in his De divinatione
(2.131–33), by the Historia Apollonii regis Tyri, which reports ten of
Symphosius’ enigmas (chaps. 42 and 43), by the Gesta romanorum, a
thirteenth-century collection of moral tales inspired by Roman history
and legends that contains another three of Symphosius’ riddles, as well
as by the authors of medieval artes dictaminis. In fact, Ci cero, following
Aristotle, connects the enigma with the metaphor, but warns about its
misuse (De oratore 3.42.167). Moreover, in the De divina tione (2.131–33), he
talks about the obscurity of dreams and their utility in divination,
again mentioning the enigma as an example of incomprehensi ble language.
Donatus mentions it among the seven types of allegory; ac cording to him, an
enigma occurs when an obscure thought is concealed 21 Enigmatists
maintain that there is a difference between enigma and riddle. They
define the ‘riddle’ as a short, humoristic and double-sense text of not
more than 4–6 lines. They define ‘enigma,’ instead, as a short poem
(longer than the riddle, though) whose context has a more important, even
tragic, take. See Bartezzaghi, 50 and 294. In an other work, Bartezzaghi
analyzes the intricacies of language, in the belief that language, like
enigmas or enigmatic games, is a tool for saying, but also for not saying; to
explain, but also to deceive. Most of our modern puzzles have a noble
origin that stems from the time when the wisdom of myths reigned, and
although today they are largely devoid of their arcane mysteries, they
still contain an echo of those antique devices. See Bar tezzaghi,
Incontri. 22 Branca discusses at length Boccaccio’s rhetorical readings
(117ff.). For the Rhetorica ad Herennium, see Mazza, esp. 22, 32, 33, 35
and 66. For Priscian and Donatus, see Mazza 31 and 36. For Quintilian’s
Institutio oratoria, see Mazza 50. For Geoffrey of Vinsauf’s Poetria
nova, see Mazza 16 and 61. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
23 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
within an expression because of certain resemblances.23 Matthew of Ven dôme
mentions the figure of the enigma in his Ars versificatoria (3.18–44) as
one of the thirteen rhetorical tropes.24 According to Gervasius of
Melkley’s Ars poetica, the enigma is a kind of transsumptio orationis, a
trope that involves the transformation of a phrase from its conventional
meaning; in particular, the enigma is defined as “any obscure statement
which tries the cleverness of the one guessing.”25 Boccaccio’s
prose often features the characteristics of the language typi cal of the
enigmatists. Boccaccio’s ability to forge acrostics is shown in his
Amorosa visione (see the indication of the proemial sonnet). Boccaccio
could have been in contact with the riddle tradition in many ways,
through the classical and medieval tradition.26 However, besides the
cryptic aspect of the Sixth Day’s motti, each of which has its own
transposed meaning, a clear and conclusive instance of the discourse
comparable to the riddle is evident in Friar Cipolla’s speech that
exemplary concludes the Day. His
imaginative vein enigmatizes superfluous or even elementary information:
“arrivai in quelle sante terre dove l’anno di state vi vale il pan freddo qua
tro denari e il caldo v’è per niente” (6.10.43).27 What do the “sante
terre” stand for? Even the canzoni
at the end of each Day of the Decameron can be seen as poetic instances
of the language of riddles. A clear example could be found at the very
beginning of the first ballad, in which the reader is undoubtedly
challenged to understand the real identity of the Io and the nature of
quel ben: Io son sì vaga della mia bellezza, che d’altro amor
giammai non curerò, né credo aver vaghezza. Io veggio in quella, ogn’ora ch’io mi specchio,
quel ben che fa contento lo ’ntelletto, né accidente nuovo o
pensier vecchio mi può privar di si caro diletto. 23 See Purcell 27 and
156. 24 See Purcell 65. 25 Gervasius of Melkley, Ars poetica,
quoted by Purcell (110–11). 26 Vergil’s Third Eclogue (vv. 104–07) contains
a famous pair of riddles, at least one of which has never been
satisfactorily solved (cf. La Penna I:152 ff. and 168 ff). Ovid has a few
riddles in Fasti 3.339–42, and 4.663–72. There is a brief discussion of the
riddle in Aulus Gellius’ Noctes atticae 12.6.1–3 and still other enigmas
can be found in Petronius’ Cena Trimalchionis (56.7–9, and 58.7ff.). For
an overview of the riddle tradition in classical and medieval Latin
literature, see Polara. 27 Rossi 228–29, emphasizes the enigmatic usage
of Frate Cipolla’s language. Cf. also Pa lumbo, esp. 15.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 24 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org Besides the correspondence
of the mirror theme, the analogies with the po etic style of Symphosius’
enigmas are astounding, and not just for the typi cal first-person mode of
speaking: LXIX. SPECULUM
Nulla mihi certa est, nulla est peregrina figura. Fulgor inest
intus radianti luci coruscus, qui nihil ostendit, nisi si quid viderit
ante. No fixed form is
mine, yet none is stranger to me. My brightness lies within sparkling
with radiant light, which shows nothing except what it has seen
before.28 We do not know if Boccaccio knew Symphosius’ text, yet the
similarities with its enigmatic language, its ability to convey both an
apparent and a real meaning, as well as the wide diffusion of Symphosius’
riddles in the European literary tradition could advocate, if not for a
direct and specific knowledge, at least for a certain acquaintance.29
Moreover, the literary framework that introduces the enigmas in
Symphosius’ collection not only 28 Trans. by Ohl. 29 The
ability to convey both apparent and real meanings of Symphosius’ riddles
is emphasized by Bergamin, in her edition of Symphosius, Aenigmata,
xxx–xxxi. Sympho sius was the founder of a genre destined to have a long life
and extensive circulation in Europe. He is a late antique writer about
whom nothing is known, not even the century in which he wrote: dates as
early as the second century AD and as late as the 6th have been proposed.
Since the author’s identity is uncertain, Symphosius’ enigmas have been
also attributed to Lactantius (Boccaccio knew Lactantius’ Divinarum
Institutionum Libri VII; see Mazza 32). Symphosius’ riddles survive in
the collection known as the Latin Anthology. Each of the hundred riddles
is a triplet of dactylic hexameters. Sym phosius claims he made them up from
the riddles he heard at a drinking party during the Saturnalia. He is also
the founder of a genre destined to have great success in the seventh and
eighth century England. Aldhelm’s Aenigmata (one hundred verse riddles in
Latin) show the influence of Symphosius. His work reflects and foreshadows
the popularity of the riddle in Old English. Aldhelm’s style shows the
‘Hisperic’ tendency towards rare — even bizarre — words. Hwaetberht was
the author of a collection of sixty riddles, known as the Enigmata
Eusebii, written under the pen-name of Eusebius. These were written as a
supplement to forty riddles written earlier by Tatwine, arch bishop of
Canterbury. According to Bede’s commentary, Tatwine was a man notable for
his prudence, devotion and learning, qualities that were displayed in the two
surviving manuscripts of his riddles and four of his Grammar. His riddles
deal with such diverse topics as philosophy and charity, the five senses
and the alphabet, and a book and a pen. The riddles are formed in
acrostics. The text of Aldhelm comes from Ehwald’s ed. Ald helm’s enigmas have
also recently been edited along with the other Old English enigmas in
Variae collectiones aenigmatum Merovingicae aetatis, CCSL 133 and 133A. See
also Polara. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
25 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
refers to the Saturnalia tradition that Boccaccio certainly knew through
other texts such as Macrobius’ Saturnalia (the second book actually
begins with a collection of bons mots) and Martial’s Epigrams (which, inci
dentally, were also characterized by their biting and often scathing sense
of wit30); both works, most strikingly, recall similar features in
the Decameron’s cornice. Like the storytellers of the Decameron, the
imagined characters of Symphosius pass their time telling enigmas each
one in turn after the banquet, and a witty spirit of one-upmanship is
involved in trying to solve them: [Haec quoque Symphosius de
carmine lusit inepto. Sic tu, Sexte, do ces; sic te deliro magistro.] Annua
Saturni dum tempora festa redirent perpetuo semper nobis sollemnia ludo,
post epulas laetas, post dulcia pocula mensae, deliras inter vetulas
puerosque loquaces, cum strepe ret late madidae facundia linguae, tum verbosa
cohors studio sermo nis inepti nescio quas passim magno de nomine nugas est
mediata diu; sed frivola multa locuta est. Nec mediocre fuit; magni certaminis instar,
ponere diverse vel solvere quaeque vicissim. Ast ego, ne solus foede
tacuisse viderer, qui nihil adtuleram mecum quod dicere pos sem, hos versus
feci subito de carmine vocis. Insanos inter sanum non esse necesse est.
Da veniam, lector, quod non sapit ebria Musa. [These bits, too, of trifling
verse Symphosius has done in sport. So you, Sextus, teach; so with you as
an exemplar I proceed in my folly.] While Saturn’s festive season was
making its yearly return, always for me a holiday on unbroken fun, after
joyous banquets and the dinner’s dulcet draughts, when amid doting old
women and prattling children there clamored far and wide the eloquence of
intoxicated tongues, then the wordy gathering in their fondness for
verbal quip mulled over long at random some trifles with grand titles;
but foolish were the many jests they made. No small matter was it, but
like a great contest, to set or solve in various ways each one in turn.
But I, who had brought along with me nothing that I could proffer, lest I
seem to be the only one to have kept silence in disgrace, made these
verses from their off-hand conundrums. One must not be wise amid the
otherwise. Pardon, reader, the indiscre tions of a tipsy Muse. The
banquet is the privileged context in which the challenge, the philo sophical
contest and the enigma join together. Furthermore, the Middle Ages
developed allegorical aspects of the language that were already oper 30
Martial, Epigrams, books 13 and 14. See Citroni, “Marziale” and Poesia e
lettori 440. On Boccaccio’s discovery of Martial, see Billanovich 263–64.
Boccaccio held and glossed a manuscript of Martial’s Epigrams: see Mazza
49 and Petoletti. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 26
Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org ating in
Symphosius’ enigmas.31 The concept of art as integumentum veri, fabulosa
narratio veritatis, was certainly familiar to Boccaccio.32 If Cicero developed
the concept of allegory as the veiled language connected to the enigma,33
and later on, as we have seen before, the enigma was classified as one of
the species of allegory, the patristic tradition played a great part in
developing an attitude toward the Bible not only as a sacred text, but
also as an obscure one, whose understanding requires particular knowledge
and wisdom.34 Augustine, especially, maintains that one cannot understand
the famous Epistle to the Corinthians (I Cor. 13.12: videmus nunc per speculum
in aenigmate) without also knowing the rhetorical doctrine of the
enigma.35 Thus, if the enigma can become the privileged rhetorical figure
through which to read the Bible, the idea of conveying hidden meanings
through the power of language could similarly have in fluenced the definition
of the motto in the Decameron. The motto is not simply a type of
metaphor, as both Freedman and Bo setti assume,36 for the metaphor is a
rhetorical figure based on a relation of similarity. The metaphor is a
rhetorical trope that describes something as being or equal to something
else in some way, whereas the motto, like the enigma, is a combination of
different and irreconcilable elements and, most important, cannot exist
outside a well-defined context that provides an explanation.37 Reading
Oretta’s motto (“Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per
che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè” [6.1.11]), one wonders
how trotting can be related to narration. We defi nitely need an explanation
that goes beyond common knowledge. Here, it is useful to recall
Aristotle’s definition of the contradictory nature of the enigma and the
impossibility of connecting it “directly” to the metaphor: “For the
essence of a riddle [i.e. enigma] is to express true facts under im 31 Like the
Decameron’s one hundred tales, Symphosius’ Aenigmata include one hundred
riddles which, according to medieval numerological interpretation, could
symbolize eternity or perfection (Bergamin, Aenigmata xxxvii). Moreover,
Relihan suggests add ing to the so-called Symposion-Literatur (Martin 1931)
even the Cena Cypriani, a me dieval banquet full of allusions to the
Bible. 32 See his poetic theory in Genealogie 13–14 and the Trattatello
in laude di Dante. 33 De oratore 3.42.166–67, Letter to Atticus 2.20.3,
Orator 27–94, mentioned by Cook, Enigmas 34–35. Even Quintilian, Inst.
8.6.52, links the enigma to allegory. 34 Just to mention a few instances,
cf. Augustine, De trinitate 15.9ff., Hugh of St. Victor, Didascalicon
6.3ff., Aquinas, Summa theologiae 1.q.1a.9, and Quodlibetales (7.a.15 16),
Dante, Convivio 2.1. See also Branca 344n. 35 Cf. Bergamin, Aenigmata,
xxxi; Cook, Enigmas 352 and 362. 36 Bosetti esp. 148. Freedman 226–27,
234. 37 See also Cook, “The Figure of Enigma” passim. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
27 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
possible combinations. Now this cannot
be done by any arrangement of ordinary words, but by the use of metaphor
it can. Such is the riddle: ‘A man I saw who on another man had glued the
bronze by aid of fire,’ and others of the same kind” (Poetics, 1458a.26–30).38
The elements involved in the enigma can exist in a relation of
similarity, but since this similarity combines dissimilar elements and is
not understood, it has to be ex plained; moreover, the supposed metaphor may
well be confused with metonymy, as there can be a transposition between
an object and an idea, as in the first tale of the Sixth Day where the
object “horse” is primarily aligned with the concept of “to ride,” and
only secondarily with the concept of “to recount.” Rather than
making a list of all the witticisms of the Sixth Day — which are,
incidentally, notorious — let us look at the contextual features that
they share with the enigma. First of all, the tales of the motto typically in
volve a challenge between two wise men and display the same agonistic
features of the ancient philosophical contests.39 In this respect, it is
interesting to consider an anecdote about Calchas reported by Hesiod: the
soothsayer Calchas arrived in Claro where he found the wise Mopsus. After
having challenged Mopsus with an enigma, Calchas died for the shame of
his defeat: “I am filled with wonder at the quantity of figs this wild
fig-tree bears though it is so small. Can you tell their number?” And
Mopsus answered: “Ten thousand is their number, and their measure is a
bushel: one fig is left over, which you would not be able to put into the
measure.” So said he; and they found the reckoning of the measure true.
Then did the end of death shroud Calchas.40 Likewise in the
Decameron, Guido Cavalcanti’s tale (6.9) can be consid ered the best example of
agonism in a philosophical contest.41 Sir Betto Brunelleschi and his
fellows challenge Guido Cavalcanti: (“Andiamo a dar gli briga;” and “quando tu
avrai trovato che Idio non sia, che avrai fatto?” 38 The solution is ‘the
blood-sucker.’ Cf. Colli, Sapienza, fr. 7, A, 26 (357). 39 See Levine.
Richard Martin (108–28) has recently defined as “agonistic” the nature of
wisdom which is characteristic of the Seven Sages of the archaic period.
40 The Melampodia 1.267. Cf. also Colli, Sapienza, 7, A, 1 (341). 41 As
Burkhardt emphasized, the culture of Renaissance Florence was an agonistic
one. Similarly, by analyzing practical jokes in their historical and
cultural context in early modern Italy, Peter Burke (66) defines the
beffa as an expression of a “culture of trick ery,” as an appropriate form of
joking in a competitive society such as the Florentine. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf
28 Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org
(6.9.11).42 The wise Guido is also defined as a great philosopher: “egli fu
un de’ miglior loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale”
(6.9.8). In the sixth tale, Michele Scalza provokes a discussion among
his fellows and accepts their challenge, whose prize is a dinner, of
showing how the Ba ronci are the most gentle and noblest family of Florence:
“Ora avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si
cominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero li più gentili
uomini di Firenze e i più an tichi” (6.6.5). Sir Forese da Rabatta, described
as “di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno
armario di ragione civile fu re putato” (6.5.4), disputes with Giotto — himself
described in equally lofty terms as “una delle luci della fiorentina
gloria” (6.5.6) — and “bites” him with a motto in which he observes that
Giotto’s haggard appearance was not suited to his greatness as an artist.
Chichibio, who
got in trouble for stealing a thigh from the crane he later cooked for
his master, accepts the paradoxical challenge of demonstrating to Currado
Gianfigliazzi that all cranes have one leg: “‘Come diavol non hanno che
una coscia e una gamba? Non
vid’io mai più gru che questa?’ Chichibio seguitò: ‘Egli è, messer,
com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi’”
(6.4.11–12). The baker Cisti undertakes a courtesy contest with Messer
Geri Spina displaying his magnificent wine and then, with a quick re sponse,
succeeding to gain the respect of the Florentine noble (“Messer Geri ebbe
il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendé che a ciò cre dette si
convenissero, e sempre poi per da molto l’ebbe e per amico” [6.2.30]). Monna Nonna de’ Pulci with a
quick response gains the victory over the bishop of Florence who had
rudely provoked her (“Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere?” […] “Messere, e’ forse non
vincerebbe me; ma vorrei buona moneta” [6.3.9–10]). By Boccaccio’s time, most of
the ancient significance of the enigma seems to have still been
preserved, especially its mythical atmosphere and the direct connection
with philosophy. The link between the motto and the enigma is solidified
in the hints Boccaccio makes about his protagonists’ wisdom — that of
Guido Cavalcanti in particular among the nobles, but also that of Cisti
and Forese among the humble. The connection with the sphere of philosophy
is confirmed by the relation of the Decameron with a certain novelistic
and exemplary tradition like that of the Latin Compilatio singulorum
exemplorum, a vast repertoire of materials for sermons that 42 The
epistemological implications and the power of eloquence of this novella are
well exposed by Durling. He particularly calls attention to the meaning
of “dare briga” whose original sense was closer to quarrel or fight
(273–304). http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 29
Heliotropia 10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org could
have been one of the sources of Boccaccio’s 6.1, or the Judeo-Span ish tale of
Zabara.43 The motto tales in the Decameron are not simply a contest about
knowledge as in the ancient enigma tradition; rather, they here take on
the literary form of a witty challenge to be performed in order to obtain
practical knowledge for ordinary life. On the level of literary form,
however, the link between the agonistic attitudes of the pre-Socratic
enigma and the witty contest of Florentine popular life still remained
strong, while the connection between agonism and dialectics ultimately
ends up in the realm of morality. It is worth recalling the words of
Giorgio Colli on the development of wisdom: “Dialectic is born on the
ground of agonism. When the religious background has faded and the
cognitive im pulse no longer needs to be stimulated by a challenge of the god
[Apollo], when a contest for knowledge among men no longer requires that
they be diviners, here appears an agonism that is only human.”44 The main
fea ture, or function, of Boccaccio’s characters in the Sixth Day — be they
male or female — is that of manifesting oneself through eloquence, and
there fore through intelligence. The challenge of wise men ending with
the motto requires a certain intellectual equality of the two contenders,
and it therefore differs from the characteristics of the beffa, in which
the mocked person (the beffato) is humiliated for his/her
stupidity.45 It is worth noting a similar agonistic attitude in
tales other than those of the Sixth Day. In Decameron 1.3, Saladin summons Melchisedech, wel
comes him, and addresses him with these words: “Valente uomo, io ho da
più persone inteso che tu se’ savissimo e nelle cose di Dio senti molto
avanti; e per ciò io saprei volentieri da te quale delle tre leggi tu reputi
la verace, o la giudaica o la saracina o la cristiana” (1.3.8). Saladin’s words hide a
sort of riddle, or even a challenge that bears traces of the archaic
function of the riddle as a ritualized contest, whereby knowledge of the
origin of things and of the order of the world could be attained.46 Equally
43 Freedman 231–32. 44
“La dialettica nasce sul terreno dell’agonismo. Quando lo sfondo religioso si è
allonta nato e l’impulso conoscitivo non ha più bisogno di essere stimolato da
una sfida del dio, quando una gara per la conoscenza fra uomini non richiede
più che essi siano divina tori, ecco apparire un agonismo soltanto umano”
(Colli, La nascita, 75). 45 Cf. Fontes-Baratto 35 and Van der Voort 212. 46 Cf. Huizinga
108–09, 113: “The riddle is a sacred thing full of secret power, hence a
dangerous thing. In its mythological or ritual context it is nearly always what
German philologists know as the Halsrätsel or “capital riddle,” which you
either solve or forfeit your head. The player’s life is at stake. A
corollary of this is that it is accounted the high est wisdom to put a riddle
nobody can answer. […] Gradual transitions lead from the
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 30 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org traditional is the
suddenness with which the solution comes to Melchise dech’s mind: “aguzzato lo
’ngegno, gli venne prestamente avanti quello che dir dovesse” (1.3.9).47
The solution to Saladin’s riddle is notorious, and consists of telling
the story of the three rings. Danger and violence are also involved in this
fight for knowledge. If the ancient wise man of the pre-Socratic
tradition risks dying if he is unable to solve the enigma, likewise, the
Sixth Day of the Decameron represents dangerous situations that befall
the protagonists of the tales. Chichibio,
for instance, runs a substantial risk in having taken a leg from his
lord’s crane (Currado tells him: “e io il voglio veder domattina e sarò
contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà,
che io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai,
sempre che tu ci viverai, del nome mio” [6.4.13]). With his own words, Chichibio
puts himself into a dangerously escalating situation, one from which he
will eventually escape only by uttering a witty remark.48 Madonna Filippa
risks dying on the gal lows unless she manages to escape with a quick and
clever remark that arouses the mayor’s and the people’s generosity. Friar
Cipolla could be lynched by the mob of Certaldo if the people discovered
the falsity of his relic. The
Florentine brigade that puts Guido to a test approaches him with a
playful assault: “e spronati i cavalli a guisa d’uno assalto sollazzevole
gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra” (6.9.11). In addition to
resulting from a dangerous situation, violence is contained in the nature
of the motto itself and in the way it operates against the person who is
tar geted. The action of the motto is always
compared to a bite: “i voglio ricor dare essere la natura de’ motti cotale, che
essi come la pecora morde deono così mordere l’uditore, e non come ’l
cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto
ma villania” (6.3.3, emphasis mine). This violent reaction can even be
perceived indirectly when it pro vokes a sort of psychosomatic reaction in a
character, as with Oretta’s reaction to the bad tale narrated by the
knight: “Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore
e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare”
(6.1.10). sacred
riddle-contest concerning the origin of things to the catch-question contest,
with honor, possessions, or dear life at stake, and finally to the
philosophical and theological disputation”; see also Masciandaro
26–27. 47 Cf. Huizinga 110: “The answer to an enigmatic question is not
found by reflection or logical reasoning. It comes quite literally as a
sudden solution — a loosening of the tie by which the questioner holds
you bound.” 48 Getto (149) compares the action of Chichibio’s tale with a
gamble in which the charac ter eventually wins, albeit in the last game.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 31 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org From his attentive reading
of the introduction to the Sixth Day, Cok Van der Voort infers a thematic
bipartition that divides the Day’s narrative model into two variants: the
“provocation” and the “threat” (cf. “voglio
che domane, con l’aiuto di Dio, infra questi termini si ragioni, cioè di
chi, con alcuno leggiadro motto tentato, si riscosse, o con pronta
risposta o avve dimento fuggì perdita, pericolo o scorno” [5.concl.3]).49 And
in fact, the use of the motto appears in two variants, either a
provocation or a threat. But a perfect parodic prologue to the Sixth Day (as well as to the
first enigma of the Day) is the quarrel between Tindaro and Licisca
which summarizes all the themes involved in the motto, such as knowledge
and the violence of sex. At the rising of the sun, just when the lieta
brigata is discussing the beauty of the narrated tales and is preparing
to reconvene, we suddenly hear “un gran romore”: here are Tindaro and
Licisca quarrel ling over somewhat spicy matters. When asked about the reasons for the dispute,
Licisca answers: “Madonna, costui mi vuol far conoscere la moglie di
Sicofante; e né più né meno, come se io con lei usata non fossi, mi vuol
dare a vedere che la notte prima che Sicofante giacque con lei, messer
Mazza entrasse in Monte Nero per forza e con ispargimento di sangue; e io
dico che non è vero, anzi v’entrò paceficamente e con gran piacere di
quei d’entro” (6.intr.8, emphasis mine). A supposed sexual defloration ob viously hides behind
the metaphorical and obscene language, but the way in which places and
characters are expressed in this context takes the for mal appearance of the
impossible and paradoxical discourse that requires a special
context-bound acumen to be understood. The
enigma sets itself as a challenge, albeit low and vulgar, between the two
contenders, and re sults in the merry brigade’s comprehension of the motto
(“Mentre la Lici sca parlava, facevan le donne sì gran risa, che tutti i denti
si sarebbero loro potuti trarre” [6.intro.11]) and with Dioneo’s
conferral of the victory to Li cisca (“Madonna, la sentenzia è data senza
udirne altro; e dico che la Lici sca ha ragione, e credo che così sia com’ella
dice; e Tindaro è una bestia” [6.intro.13]), who in turn puts the shame
of defeat on Tindaro (“Ben lo di ceva io; vatti con Dio; credi tu saper più di
me tu, che non hai ancora ra sciutti gli occhi?” [6.intro.14, emphasis mine]). This brief
introductory narration, therefore, is not an alien or out-of-place
element of the Day, as some critics maintain, but is a perfect parodic
mise en abîme of what the motto will be in its literary form in the
narration of the tales. Not surpris ingly, the significance the motto attaches
to knowledge is already high 49 Van der Voort 213.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 32 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org lighted by the words
pronounced by Licisca that ambiguously refer to “knowledge” and “sight”
(conoscere, vedere). Giorgio Colli reviews the terms that identify the
enigma: the Greek sources sometimes use the term próblema, which means
“obstacle,” or something that is projected forward.50 As a matter of
fact, the enigma is an obstacle, a test Dionysus sets up and the
philosopher has to overcome. In deed, a test, or obstacle, is the subject of
the Sixth Day, since all the char acters have to overcome a difficult situation
using their wit. The charac teristic of the enigma as a hostile intrusion of
the divine in the human sphere — in other terms, the god’s challenge — is
possibly reflected in the role played by the Goddess Fortune in creating
obstacles in the Decameron. It is Fortune that plays a fundamental role
in this Day, since it is the force that sets a series of obstacles. It gives, for instance, an ugly ap pearance to
exceptional figures such as Giotto, or attributes a low social rank to gracious
souls such as Cisti (“Belle donne, io non so da me mede sima vedere che più in
questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil
corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d’anima nobile vil
mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti an cora abbiamo potuto
vedere avvenire; il qual Cisti, d’altissimo animo for nito, la fortuna fece
fornaio” [6.2.3]). Moreover, in the
ancient and medie val Aristotelian traditions, the term próblema indicates the
formulation of a query, precisely the dialectic query that starts a
discussion.51 Likewise, in the tales of the motto, the first question a
character asks to another may be the opening question of a dialectic
contest, a provocation or a challenge. Luisa Cuomo has emphasized the
elements of a typical dialectic contro versy in the tale about the nobility of
the Baronci family (6.6); here, the two opposite assertions the
contenders bring forward have the same prob ability of being true, but a
syllogism is finally needed to demonstrate the thesis: namely, that the
Baronci, insofar as they are the most ancient among all the families, are
also the noblest.52 But the entire discussion is also charged with a
parodic connotation consisting of the “gap between the seriousness of the
correct terminology of the scholastic deductive pro cesses and the comic of
both the parody of the basic arguments and the expressive language loaded
with emotional connotations,” which leads to 50 Colli, La nascita
78. 51 The same term próblema is also used in the Vulgate and Septuagint
versions of the Bi ble (Cook, “The Figure of Enigma” 366). 52 Cuomo 252
ff. http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 33 Heliotropia
10.1-2 (2013) http://www.heliotropia.org the direct
consequence that the friends of Scalza will laugh at the motto, thus
recognizing its validity and parodic meaning.53 The formulation of the
enigma is as contradictory as the formulation of the dialectic question,
which presents two alternative terms. The knowledge produced by the
understanding of the motto is as ambiguous, indirect and oblique as the
knowledge provided by Dionysus through his enigmas or the nature of
Apollo mediated by his singer Orpheus among men.54 The message
transmitted by the motto is not immediately under standable — who among us did
not stop and reread the motto pronounced by Forese and addressed to
Giotto? “Giotto, a che ora venendo di qua
allo ’ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t’avesse, credi tu
che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu
se’?” (6.5.14).
The motto is a device that hides knowledge by virtue of its rhetorical
form and needs to be explained by someone else in the narrative. The
wisdom that the wise Cavalcanti communicates with his motto needs to be
ex plained by Betto to his companions. Traditionally, in order to be
solved, the enigma needs a narrative to ac company it, or at least an
explanation whose didactic function has typically been present since
antiquity. (From this point of view, although we may laugh a lot, it
seems that the Sixth is the most serious Day of the Decameron.) The
knowledge of the mocker is not the same as that of the mocked person. The
latter has to undergo a gnoseological transformation in order to
understand the wit and to reach the same level of knowledge. (Sometimes,
though, the mocked fails to increase his knowledge if he does not
understand the motto; then, an explanation is provided by adding a
parodic value to the narrative.) Furthermore, it is possible to interpret
the function of the motto as a peculiar literary form of recognition that
leads the characters of the tales to a shift from ignorance to knowledge.
There fore, Boccaccio seems to portray an ideal situation in which the character,
as a man, gains new knowledge through a transformation (which some times ends
with a laugh). In particular, let us focus on the figure of the defeated,
and see how both the comprehension of the motto and the decla ration of the
defeat work in each tale of the Sixth Day (all emphasis added): The
anonymous knight. “Il cavaliere, il qual per avventura era
molto mi gliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa
e in 53 Cuomo 255 (translation mine). 54 Colli, Sapienza 37.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 34 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org gabbo preso, mise mano in
altre novelle, e quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita
lasciò stare” (6.1.12); Geri Spina. “Il che rapportando il famigliare a
messer Geri, subito gli oc chi gli s’apersero dello ’ntelletto” (6.2.26);
Antonio d’Orso and Dego della Ratta. “La qual parola udita il maliscalco
e ’l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l’uno siccome facitore della
di sonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l’altro sì come ricevi
tore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l’un l’altro, vergo gnosi
e taciti se n’andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa”
(6.3.11); Forese da Rabatta. “Il che messer Forese udendo, il suo error
riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate
vendute” (6.5.16); The citizens of Prato. “Eran quivi a così fatta
essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi
concorsi, li quali, udendo così piace vol risposta, subitamente, dopo molte
risa, quasi ad una voce tutti grida rono la donna aver ragione e dir bene”
(6.7.18); Betto Brunelleschi and his companions. “Allora ciascuno intese
quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi nè mai più gli diedero
briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere”
(6.9.15); Giovanni del Bragoniera and Biagio Pizzini. “Li quali stati
alla sua pre dica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi
fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti
smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la
maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso
gli renderono la sua penna; la quale l’anno seguente gli valse non meno
che quel giorno gli fosser valuti i carboni” (6.10.55). The transformation can also
be simply ideal, as when an obtuse person is not able to understand the
motto: Cesca. “Ma
ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone,
non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero motto di
Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l’altre. E così
nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta” (6.8.10). Otherwise, the transformation
can be parodic, as when the defeated un derstands the burlesque sense of the
motto and laughs at it as in the tale of Chichibio or Scalza:
Currado Gianfigliazzi. “Chichibio, tu
hai ragione, ben lo dovea fare” (6.4.19). Michele Scalza’s
companions. “Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che
aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il piacevole
argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e af
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 35 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org fermare che lo Scalza aveva
la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci
erano i più gentili uomini e i più antichi che fos sero, non che in Firenze, ma
nel mondo o in maremma” (6.6.16). Even at the level of discourse, a metamorphosis takes
place. The tale of Friar Cipolla can be considered as a key example.
Cipolla is aware of a re ality which is not the same as that of the certaldesi:
his speech is so clever, his rhetoric so refined, that he can make everybody
believe that he has taken a trip to the Holy Land, while his fantastic
account is merely about a tour in the streets of Florence. The speech
that he pronounces is made with signifiers with a double signified, words
that are able to change real ity55 and create a metamorphic discourse that is
not only able to increase the level of understanding but also to
transform reality itself within the tale. Friar Cipolla eventually
manages to escape from the risk of a possible lynching and retains his
credibility in the eyes of the certaldesi by means of the fantastic
reality he succeeded in creating with his oratory.56 As argued above, the
enigma is also a short tale, as the Greek etymol ogy indicates (from “ainos” =
tale/story),57 and was considered as such in the pre-Socratic era.58 The
meaning of the motto is not always recogniza ble and valid in itself; rather,
it depends on the function it performs within a defined narrative
situation.59 For instance, Nonna de’ Pulci’s motto is not witty in itself
but becomes witty in a particular narrative context; specifi cally, the urban
context of fourteenth-century Florence. In addition, in or der to clarify
better the contextual nature of the motto, we find that the link between
enigma and motto becomes apparent, both in antiquity and in the Florence
of the Decameron, within a historical context that is not pure theatrical
backdrop.60 Characters such as Giotto and Guido Caval canti are historical
Florentine figures but are represented as legendary by virtue of their
instinctive cleverness. The anecdotes of the Sixth Day take 55 Cf.
Bosetti 157. 56 The issue of a type of narration which leads to the
transformation/metamorphosis of a character appears from the very
beginning of Boccaccio’s literary production: for exam ple, see the
transformation of Ameto and his cathartic bath in the Commedia delle
ninfe fiorentine, which represents the evolution of humanity from a
primordial condition characterized by the power of senses, to a moral and
intellectual consciousness medi ated by virtues and love. The topos of the
brigata and the transformation of the charac ter is also present in the
Filocolo. 57 Cook, “The Figure of Enigma” 355. 58 Colli, Sapienza
36. 59 Van der Voort 211. 60 Cf. De’ Negri.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 36 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org the form of historical
memorabilia. The city of Florence is represented in the background as the
proper context of a primordial society whose char acters are depicted with the
same stylized actions of the philosophers of Ancient Greece. Boccaccio’s
characters are historical but they are still rep resented as ideal figures.
(Boccaccio collects his stories from the repertory of collective memory,
just as Plato, Aristotle and the authors of the age of philosophy
collected the riddles and the Eleusinian oracles in their works.) The
“contextual” nature of the motto is evident not only from the simple
observation that some historical Florentine characters appear in short an
ecdotes, but also for the motivations presented and repeated several
times by the author regarding narrative poetics. Getto rightly points out
these aspects of Boccaccio’s poetics: the tales are given birth from a
“happy memory impulse,” which the author then makes explicit, through
the words of Fiammetta, in the exhibition of his poetics, which is that
of a dis course attentive to historical truth, or at least to verisimilitude.61
But above all, what does matter is Boccaccio’s direct intervention in the
First Day, in which he says he is almost forced to write about the
plague.62 Thus, here, Florence appears as the mythical setting of witty
people, historical char acters represented in an evanescent historicity that
loads the verisimili tude of the story with a universal and idealized
atmosphere that inevitably emphasizes wisdom. Overall, the exaltation of intelligence in the motto
is the expression of the bourgeois mercantile society in which the value
of wit prevails and those who do not have it are doomed to
exclusion.63 61 “[S]e io dalla verità del fatto mi fossi scostare voluta
o volessi, avrei ben saputo e saprei sotto altri nomi comporla e
raccontarla [scil. la novella]; ma per ciò che il partirsi dalla verità
delle cose state nel novellare è gran diminuire di diletto negli ’ntendenti, in
pro pia forma, dalla ragion di sopra detta aiutata, la vi dirò” (9.5.5).
62 “E nel vero, se io potuto avessi onestamente per altra parte menarvi a
quello che io desidero che per così aspro sentiero come fia questo, io
l’avrei volentier fatto: ma ciò che, qual fosse la cagione per che le
cose che appresso si leggeranno avvenissero, non si poteva senza questa
ramemorazion dimostrare, quasi da necessità constretto a scriverle mi conduco”
(1.intr.7). 63 Thus Getto concludes his introductory remarks: “È sempre
quel principio genetico dell’obbedienza ad un invito del fatto storico,
ad un richiamo dell’accadimento reale, as sai caro (e rivelatore) per il gusto
del nostro artista, che qui agisce. Il Boccaccio si tro verà costantemente a
legare le sue novelle ad eventi e cose di una verità consacrata dalla
storia ufficiale o dalla sua storia personale, a scoprire addentellati con
nomi, luoghi, vi cende concrete, storicamente determinabili” (Getto 10). The opening of Getto’s
first chapter is meaningful for the perspective he employs, insofar as it
makes us understand his attention for Boccaccio’s discourse and usage of
connotation: “Al critico del Boccac cio che con occhio attento sappia scrutare
in trasparenza la pagina, non mancherà certo
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 37 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org The motto, as the enigma,
is a formal device for the search for wisdom and knowledge. Once again,
we must recall Getto’s observations on the Decameron’s Introduction, for
his remarks are in perfect harmony, at the level of discourse, with the
search for knowledge. Getto found in the words of the Introduction a “layering”
of “three expressive moments” that pro duce the narrative and the form of the
work: from the pleasure of memory as the engine of narrative, to the
pleasure of communication in the context of the refined conversation of
the merry and idle brigade, and finally to the “lyrical emotion” of the
“life wisdom joyfully reached by the young bri gade.”64 This last moment links
the reasons of the entire collection to the author’s desire to provide
through his tales an ideal model of life, a stand ard of perfect living. This
model is constructed by getting through the “sin of Fortune,”65 after a
“passionate contemplation of the limitations and obstacles that life
(nature and fortune) places before men, and the men who face those same
limits and obstacles.” Moreover, this model of life is achieved in
accordance with a perfectly secular ideal of the world and within the
scope of a very precise social reality.66 Alan Freedman does not
emphasize at all these important ideal as pects; he believes that “Boccaccio
instead feels the need to eliminate the enigmatic element prior to using
his narrative materials in a book that, de spite the wide variety of sources,
character and tone of any single tale, re veals a consistently strong
structural unit insofar as a coherent and con di rendersi sensibile la presenza,
fin dal Proemio del Decameron, di un tipico nucleo espressivo in cui la
parola acquista un tale valore allusivo da costituire come una rivela zione
emblematica, quasi una filigrana pallida e pur evidente, del ritmo fantastico
che governa l’intera partitura dell’opera”. It is worth noticing that
Getto was writing in the 1950s, a period in which critics and
semioticians put a lot of emphasis on the connota tive aspects of literary
production. See, for instance, Barthes’ Le degré zéro, which is almost
contemporary to Getto’s Vita di forme e forme di vita. Before Getto, Vittore Branca writes on the
importance of historical and contextual references for Boccaccio in order
to create “un linguaggio storicamente allusivo” whose repetitive “motivi
costitu zionali” make them “costanti, o meglio condizioni del suo narrare”
(Branca 226). 64 Getto 12. 65 Cf. Proemio.13: “Adunque, acciò che
in parte per me s’ammendi il peccato della for tuna, la quale dove meno era di
forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di
sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all’altre
è assai l’ago e ‘l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento
novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate
in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel
pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette
dalle predette donne cantate al lor diletto.” 66 Getto 11–12.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 38 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org sistent fiction.” Moreover,
Freedman states that Boccaccio wants “to reject any obviously didactic-problematic
suggestion” and that in the Decameron in general, as well as for instance
in 10.5, “the center of the work’s interest is moved from the
intellectual paradox to the narrative and its charac ters.”67 In essence,
Freedman maintains that Boccaccio has transformed the enigma in 6.1 into
a new metaphorical coinage. Guido
Cavalcanti is eminently wise and is described so in the Florentine
context (“un de’ mi gliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo
naturale” [6.9.8]). What Getto
calls “the art of living” is nothing but a search for wisdom expressed in
the literary form of the challenge, of the enigma, of the motto set
within Florentine civilization. Although knowledge may result in a
violent and competitive act, it also involves a productive moment:
knowledge is the virtue of intelligent minds (but just a few have it) and
can also be trans mitted and taught, as long as we are willing to learn. Cisti gives to Messer Geri a lesson on courtesy
and on how to live one’s own life, and Messer Geri is gracious and humble
enough to accept the lesson: “Il che rappor tando il famigliare a messer Geri,
subito gli occhi gli s’apersero dello ’ntel letto e disse al famigliare: –
Lasciami vedere che fiasco tu vi porti; – e ve dutol disse: – Cisti dice vero;
– e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole” (6.2.26,
emphasis added). Not surprisingly,
the comprehen sion of the motto is here associated with sight, as sight was
linked to the ancient knowledge of Dionysus and Apollo; moreover, the
vision of the future was the primitive feature of the knowledge of the
truth.68 The central theme of the Sixth Day is not merely represented by
a ver bal challenge, and intelligently varied in its own parodic aspects, but
is also manifested in a peculiar form of narrative; namely, the form of
dis course that Boccaccio calls motto. The characteristics and formal
features of the motto show how this metaphorical device can be considered
not only a structuring feature of Boccaccio’s discourse, but also a
“veil,” a po etic strategy that is able both to conceal and to reveal
philosophical knowledge. If we consider the first tale of the Sixth Day
(Madonna Oretta’s tale) as a one whose primary purpose is to guide the
reader to an under standing of the whole day by means of an enigma, it is then
possible to read the entire Sixth Day of the Decameron as a series of
literary enigmas in the form of the motto. Furthermore, it is possible to
interpret the func tion of the motto as a peculiar literary form of recognition
that leads the characters to a shift from ignorance to knowledge. The
motto, indeed, has 67 Freedman 234. 68 Colli, Sapienza 20.
http://www.heliotropia.org/10/andrei.pdf 39 Heliotropia 10.1-2
(2013) http://www.heliotropia.org the same formal features
and contextual characteristics of the ancient enigma with which
pre-Socratic philosophers exercised their own search for knowledge. At
the time the Decameron, the oppositional elements characterizing the
ancient problémata were still practiced in dialectic controversies and
still preserved all their primordial vividness while providing Boccaccio with
a completely renewed narrative form as opposed to that of the Novellino.
Even the archetypical and tragic atmosphere that surrounded the accounts
of ancient enigmas — particularly the mortal danger of defeat in the
dialectical challenge between two wise men — stands in the characters’
historical background. Yet, this same potentially threatening atmosphere
in the Sixth Day is either exorcised by the comedic by granting the
reader the pleasure of understanding a witty remark, or it is subverted and
transformed by parody. FILIPPO ANDREI Works Cited UNIVERSITY
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DE DOGMATIBVS PHILOSOPHVM. Nome compiuto: Virio Nicomaco Flaviano. Flaviano. Refs.:
Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Flaviano,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Flavio: la ragione conversazionale e l’orto romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract. Grice:
“Part of my emphasis on methodology in philosophy was due to my encounter with
rather free minds who use key terms so sloppily that I felt like building a
whole theory of communication just to refute them!” Grice: “Usually,
philosophers use ‘sophisma’; I prefer ‘philosopher’s paradox’! – Or ‘dicta’. Keywords:
sofisma, filosofisma. Filosofo italiano. A sophist, the Garden, and friend of
Plutarco. Keywords: Orto. Nome compiuto: Tito
Flavio Alessandro. Flavio. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Flavio,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!;
ossia, Grice e Floridi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’informare – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia
laziale -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract.
Grice: “My view of information is complex. In the binary mode-operators,
indicative and imperative, both involve INFORMATION, or rather ‘content’ or
psi-transfer. Strictly, ‘information’should be restrited to ‘true’
psi-transfer. Or as I prefer to say, allegedly FALSE ‘information’ is not an
inferior kind of information. It is just not information!” Keywords:
informazione. Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“’To inform’ was first used by some Roman! It surely ain’t Grecian!” -- Eessential
Italian philosopher. He has explored aspects of Grice’s use of the expression
‘inform,’ ‘mis-inform,’ in terms of ‘factivity.’ Insegna a 'Ferrara. Conosciuto
per il suo lavoro in due aree di ricerca filosofica: la filosofia
dell'informazione e l'etica informatica. Si laurea a a Roma.
Insegna a Bari e Ferrara. Conosciuto per i suoi studi sulla tradizione scettica
(scetticismo), ma principalmente per il suo lavoro di fondazione della
filosofia dell'informazione e dell'etica informatica, due campi che ha contribuito
a costituire. Fondatore un gruppo di ricerca interdipartimentale sulla filosofia
dell'informazione. Durante la laurea a Roma, studiato da classicista e da
storico della filosofia. Si è interessato di filosofia della logica ed
epistemologia. Si è quindi occupato di diversi argomenti filosofici
tradizionali, alla ricerca di una nuova metodologia, con l'obiettivo di
riuscire ad avvicinarsi ai problemi contemporanei in una prospettiva che fosse
efficace dal punto di vista euristico e potesse allo stesso tempo anche
costituire un arricchimento intellettuale nell'affrontare le questioni
filosofiche dei nostri giorni. Molto presto, inizia a distanziarsi da quello
che Grice chiama la filosofia analitica “classica”. Secondo Floridi, il
movimento analitico ha perso la sua spinta iniziale ed era ormai un paradigma
sempre più debole, scolasticizzato – “specialmente ad Oxford!” --. Per questo
motivo, ha concentrato i suoi interessi su una nuova fondazione dell'epistemologia.
Anda alla ricerca di un concetto di "conoscenza” “indipendente-dal-soggetto",
vicino a ciò che oggi definisce informazione semantica. è necessario
sviluppare una filosofia costruzionista, all'interno della quale il design, la
creazione di modelli e le implementazioni sostituiscano analisi frivole e esami
cavillosi (e.g. sull’uso di ‘informare,’ ‘disinformare,’ ecc.) In questo modo,
la filosofia ha la speranza di non chiudersi in un angolo sempre più angusto,
fatto di ricerche griceiane auto-sufficienti e che interessano solo a sé
stesse, e di riacquistare un punto di vista più ampio sui problemi che sono
realmente determinanti nella vita umana fuori di Oxford! Così, lentamente, è
giunto a prendere in considerazione la filosofia dell'informazione, una nuova
area di ricerca emersa dalla svolta computazionale, avvicinandola da due
prospettive, quella puramente teorica della semantica, pragmatica, sintassi,
semiotica, logica e dell'epistemologia, e quella più tecnica dell'informatica,
in particolare dell'etica, della teoria dell'informazione di Shannon -- e della
humanities computing. Il filosofo ha bisogno di acquisire conoscenze di
IT necessarie per fare uso del computer in maniera efficace. Anche il filosofo
posse essere interessato ad acquisire le conoscenze di sfondo indispensabili
per la comprensione critica dell’era digitale e dunque iniziare a lavorare
sulla branca della filosofia che si va formando, proprio la Filosofia
dell'informazione, che si augura un giorno possa diventare parte integrante
della cosiddetta “philosophia prima,” o prote philosophia della sua fase
romana!. Da allora, Philosophy of Computing and Information è diventata il suo
maggiore interesse di ricerca. In PI, sostiene che ci sia bisogno di un
concetto più ampio di elaborazione e di “flusso” causale dell'informazione –
alla Dretske -- che includa la computazione, ma non solo. Questa prospettiva
fornisce una cornice teorica molto efficace all'interno della quale inserire e
dare significato alle differenti linee di ricerca. Il secondo vantaggio è la
prospettiva diacronica, che permette di inquadrare lo sviluppo della filosofia
nel tempo. PI fornisce infatti un punto di vista molto più ampio e profondo su
ciò che la filosofia avrebbe cercato di fatto di realizzare nel corso dei
secoli. Altre opere: “Infosfera Filosofia e Etica dell'informazione” (Torino:
Giappichelli Editore); “La quarta rivoluzione, Milano: Cortina); “Pensare
l'infosfera” (Milano: Cortina); “Il verde e il blu” (Milano: Cortina, OII: digital
ethics lab. oii.ox.ac.uk,// digital ethicslab. oIEG philosophy of information.net/
pdf/auto.pdf the newatlantis.com/ publications/
why-information-matters Onlife open MLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di F., Oxford Institute, su oii.ox.ac.uk. Home
page e articoli online, su philosophy of information. net. Intervista e lezione
durante l'IoE talks (Internet of Everything Roma ) La lecture su
"Intelligenza artificiale, dobbiamo preoccuparci?" presso il Centro
Nexa del Politecnico di Torino Biografia e intervista su Rai Media Mente, su
media mente rai. Biografia e intervista per l'American Philosophical Association,
Cervelli in Fuga, Roma, Accenti. Ricerca
Informazione ciò che porta conoscenza Nota disambigua. svg Disambiguazione. Se
stai cercando il quotidiano, vedi Informazione (quotidiano). L'informazione è
l'insieme di dati, correlati tra loro, con cui un'idea (o un fatto) prende
forma ed è comunicata. I dati oggetto della stessa possono essere raccolti in
un archivio o in un'infrastruttura dedicata alla sua gestione, come nel caso di
un sistema informativo. Essa è oggetto di studio e applicazione in vari settori
della conoscenza e dell'agire umano. Lista delle vittorie di
Rimush, Re di Akkad, sopra Abalgamash, re di Marhashi e sopra le città elamite.
Tavoletta d'argilla, copia di un'iscrizione monumentale, circa 2270 a.C. (si
veda Stele di Manishtushu) Ad esempio in campo tecnico è oggetto di studio
dell'ingegneria dell'informazione, sul fronte delle scienze sociali è oggetto
d'indagine delle scienze della comunicazione e in generale della sociologia,
con particolare riguardo agli aspetti legati alla diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa nell'attuale società dell'informazione (o era
dell'informazione). Etimologia La parola deriva dal latino informare, nel
significato di "dare forma alla mente", "disciplinare",
"istruire", "insegnare". In latino la parola viene usata
per indicare un concetto o un'idea, ma non è chiaro se questa parola possa
avere influenzato lo sviluppo della parola informazione. Inoltre la parola
greca corrispondente è μορφή (da cui il latino forma per metatesi, oppure εἶδος
(da cui il latino idea), cioè idea, concetto" o forma, immagine. La
seconda parola è notoriamente usata tecnicamente in ambito filosofico dall’ACCADEMIA
e del LIZIO per indicare l'identità ideale o essenza di qualcosa (vedi Teoria
delle forme). Eidos si può anche associare a pensiero, asserzione o concetto. Evoluzione
concettual Col progredire delle conoscenze umane il concetto di informazione si
è evoluto divenendo via via più vasto e differenziato: informazione è in
generale qualunque notizia o racconto, inoltre qualunque comunicazionescritta o
orale contiene informazione. I dati in un archivio sono informazioni, ma anche
la configurazione degli atomi di un gas può venire considerata informazione.
L'informazione può essere quindi misurata come le altre entità fisiche ed è
sempre esistita, anche se la sua importanza è stata riconosciuta solo nel XX
secolo. Per esempio, la fondamentale scoperta della doppia elica del DNA
da parte di Watson e Crick ha posto le basi biologiche per la comprensione
della struttura degli esseri viventi da un punto di vista informativo. La
doppia elica è costituita da due filamenti accoppiati e avvolti su se stessi, a
formare una struttura elicoidale tridimensionale. Ciascun filamento può essere
ricondotto a una sequenza di acidi nucleici (adenina, citosina, guanina,
timina). Per rappresentarlo, si usa un alfabeto finito come nei calcolatori,
quaternario invece che binario, dove le lettere sono scelte tra A, C, G e T, le
iniziali delle quattro componenti fondamentali. Il DNArappresenta quindi il
contenuto informativo delle funzionalità e della struttura degli esseri
viventi. Descrizione In generale
un'informazione ha valore in quanto potenzialmente utile al fruitore per i suoi
molteplici scopi: nell'informazione, infatti, è spesso contenuta conoscenza o
esperienza di fatti reali vissuti da altri soggetti e che possono risultare
utili senza dover necessariamente attendere di sperimentare ognuno ogni
determinata situazione. Sotto questo punto di vista il concetto utile di
informazione e la parallela necessità di comunicare o scambiare informazione
tra individui nasce, nella storia dell'umanità, con l'elaborazione del
linguaggio da parte della menteumana e si sviluppa con la successiva invenzione
della scrittura come mezzo per tramandare l'informazione ai posteri. Secondo
quest'ottica la storia e l'evoluzione della società umana sono frutto
dell'accumulazione di conoscenza sotto forma di informazione. Nell'informazione
ad esempio è contenuto know howutile per eseguire una determinata attività o
compito, cosa che la rende ad esempio una risorsa strategica in ambito
economico dell'economia aziendale. L'informazione e la sua elaborazione
attraverso i computer hanno avuto certamente un impatto notevole nella nostra
attuale vita quotidiana. L'importanza è testimoniata, ad esempio, dai sistemi
di protezione escogitati mediante la crittografia e dal valore commerciale della
borsa tecnologica. L'uso appropriato dell'informazione pone anche problemi
etici di rilievo, come nel caso della riservatezzariguardo alle informazioni
cliniche che potrebbero altrimenti avvantaggiare le compagnie di assicurazioni
mediche e danneggiare i pazienti. L'importanza e la diffusione
dell'informazione nella società moderna è tale che a questa spesso ci si
riferisce come la Società dell'Informazione. Nei vari contesti Altre
definizioni provengono dall'informatica e dalla telematica: Nel modello
di Shannon e Weaver, l'informazione è considerata parte integrante del processo
comunicativo; La teoria dell'informazione ha come scopo quello di fornire
metodi per comprimere al massimo l'informazione prodotta da una sorgente
eliminando tutta la ridondanza; Nella teoria delle basi di dati (ad esempio nel
modello relazionale, ma non solo), un'informazione è una relazione tra due
dati. Fondamentale da questo punto di vista è la distinzione tra il dato (un
numero, una data, una parola...) e il significato che si può dare a tale dato,
mettendolo in relazione con uno o più dati o rappresentazioni di concetti. In
un computer quindi, le informazioni sono numerabili, e a seconda del sistema di
interpretazione e della rappresentazione possiamo distinguere tra informazioni
esplicite, relativamente facili da quantificare (come la data di nascita del
signor Rossi) e informazioni dedotte, il cui numero dipende dalle capacità di
calcolo delle informazioni fornite al sistema (ad esempio l'età del signor
Rossi, ottenibile mediante sottrazione della data odierna e la data di
nascita). È questo un esempio di informazione dedotta esatta, ma ci sono anche
metodi per dedurre delle informazioni che non sono certe: ad esempio un
servizio di rete sociale può stabilire con una certa precisione che due persone
che hanno frequentato la stessa scuola si conoscono o hanno conoscenze in
comune, ma non può dare la certezza matematica di ciò. InformaticaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Tipo di dato. I
computer, nati come semplici calcolatori, sono diventati col tempo dei potenti
strumenti per memorizzare, elaborare, trovare e trasmettere informazioni. La
diffusione di Internet come rete globale ha d'altro canto messo a disposizione
una mole di informazioni mai prima d'ora a disposizione dell'umanità. Alla base
di ogni informazione in un computer c'è il concetto di dato: sebbene
all'interno del calcolatore elettronico tutti i dati siano digitali, cioè
memorizzati come semplici numeri, dal punto di vista umano, invece, si può
attribuire un significato anche ai numeri. Per questo motivo, nei linguaggi di
programmazione, spesso esistono alcuni formati specifici per indicare in modo
esplicito quale significato dare ai dati. Fermandosi ai tipi di base abbiamo
essenzialmente numeri, caratteri e stringhe (successioni finite di caratteri).
Tali dati devono essere messi in relazione tra di loro per avere un
significato; se invece le relazioni valide possibili sono più di una, si può
generare ambiguità.[non chiaro] Matematica e logica Modifica Ad esempio,
1492 è un numero che da solo non significa niente: potrebbe essere una quantità
di mele (se correlato mediante la relazione di quantità con l'oggetto mela), il
costo di un anello o l'anno in cui Colombo si imbarca e scoprì l'America. La
parola "calcio" può essere uno sport, un elemento chimico o un colpo
dato col piede. In genere le basi di dati che contengono informazioni relative
ad un determinato campo del sapere non risentono molto del problema dell'ambiguità:
in una base dati di chimica la parola calcio indicherà certamente l'elemento
chimico. Nelle basi di dati relazionali, sistemi di tabelle e relazioni
permettono di organizzare i dati per poter ottenere delle informazioni senza
ambiguità: se la tabella "elementi_chimici" contiene la parola
calcio, questo sarà senza dubbio l'elemento chimico. La semplice immissione del
dato nella tabella "elementi_chimici" ha implicitamente classificato
la parola "calcio", conferendole un significato, dato dalla scelta
della tabella in cui inserire un dato (la scelta della tabella rappresenta il
trasferimento di conoscenza da una persona alla base dati). Inoltre, le basi di
dati relazionali permettono la creazione di relazioni tra dati di diverse
tabelle. Oltre alle relazioni esplicite, ci possono essere delle
relazioni dedotte. Supponiamo di avere la tabella "figlio_di": se
abbiamo che Antonio è figlio di Luigi (informazione 1), e che Luigi è figlio di
Nicola (informazione 2), allora possiamo dedurre che Nicola è il nonno di Antonio
(informazione 3). È quindi possibile formalizzare la relazione e inserirla
nella base di dati, ottenendo la tabella nonno_di senza dover immettere altri
dati: se A è figlio di B e B è figlio di C, allora C è nonno di A oppure,
ogni volta che si ha bisogno di conoscere eventuali nipoti/nonni di qualcuno,
analizzare la relazione figlio_di. E le informazioni possono essere maggiori:
analizzando il sesso di B, si potrà sapere se C è nonno paterno o
materno. Le basi di conoscenza pensate per la deduzione sono più
elastiche delle tradizionali basi di dati relazionali. Un esempio sono le
ontologie. Analisi particolarmente ricercate per il loro valore economico
ai fini commerciali sono quelle che analizzano grandi flussi di informazioni
per scoprire tendenze che permettono dedurre delle informazioni che hanno una
buona probabilità di essere vere riguardo utenti singoli o categorie di utenti.
Supponendo che Antonio abbia sempre acquistato in internet dei libri di
fantascienza, allora la pubblicità che gli si mostrerà potrà mostrare dei libri
di fantascienza o simili, che molto probabilmente lo interesseranno. Questi
tipi di analisi possono fornire informazioni talvolta sorprendenti: una catena
di supermercati in un paese anglosassone avrebbe scoperto, analizzando gli
scontrini, qualcosa altrimenti difficilmente immaginabile: le persone che
acquistavano pannolini spesso compravano più birra delle altre, per cui
mettendo la birra più costosa non lontano dai pannolini, poteva incrementarne
le vendite. Infatti le persone che avevano figli piccoli passavano più serate
in casa a guardare la TV bevendo birra, non potendo andare nei locali con gli
amici. L'esempio dell'associazione tra pannolini e birra è usato spesso nei
corsi universitari di data mining; tuttavia c'è da precisare che non è chiaro
quale sia la catena di supermercati in questione, e l'esempio, seppur valido a
scopi didattici, potrebbe essere inventato. Aspetti tecniciModifica
L'informazione è generalmente associata a segnali, trasmissibili da un sistema
di telecomunicazioni e memorizzabili su supporti di memorizzazione. La
misurazione Secondo la Teoria dell'Informazione in una comunicazione, che
avviene attraverso un dato alfabeto di simboli, l'informazione viene associata
a ciascun simbolo trasmesso e viene definita come la riduzione di incertezza
che si poteva avere a priori sul simbolo trasmesso. In particolare, la
quantità di informazione collegata a un simbolo è definita come
{\displaystyle I=-\log _{2}P_{i}} dove P_{i} è la probabilità di
trasmissione di quel simbolo. La quantità di informazione associata a un
simbolo è misurata in bit. La quantità di informazione così definita è una
variabile aleatoria discreta, il cui valor medio, tipicamente riferito alla
sorgente di simboli, è detto entropia della sorgente, misurata in bit/simbolo.
La velocità di informazione di una sorgente, che non coincide con la frequenza
di emissione dei simboli, dato che non è detto che ogni simbolo trasporti un
bit di informazione "utile", è il prodotto dell'entropia dei simboli
emessi dalla sorgente per la frequenza di emissione di tali simboli (velocità
di segnalazione). Quanto sopra può essere generalizzato considerando che non è
assolutamente obbligatorio che ogni simbolo sia codificato in maniera binaria
(anche se questo è ciò che accade più spesso). Quindi l'informazione collegata
a un simbolo codificato in base a è per definizione pari a
{\displaystyle I_{a}=-\log _{a}P_{i}} con P_{i} pari alla
probabilità di trasmissione associata a quel simbolo. L'entropia della sorgente
è per definizione pari alla sommatoria, estesa a tutti i simboli della
sorgente, dei prodotti tra la probabilità di ciascun simbolo e il suo contenuto
informativo. Nei casi particolari in cui a sia 10 l'entropia della sorgente è
misurata in hartley, se invece a è pari al Numero di Eulero e si misura in nat.
Dalla formula si evince che se la probabilità Pi di trasmettere il simbolo è
pari a uno, la quantità di informazione associata è nulla; viceversa se nel
caso limite ideale di Pi=0 la quantità di informazione sarebbe infinita. Ciò
vuol dire in sostanza che tanto più un simbolo è probabile tanto meno
informazione esso trasporta e viceversa: un segnale costante o uguale a se
stesso non porta con sé alcuna nuova informazione essendo sempre il medesimo:
si dice allora che l'informazione viaggia sotto forma di Innovazione. I segnali
che trasportano informazione non sono dunque segnali deterministici, ma
processi stocastici. Nella teoria dei segnali e della trasmissione questa
informazione affidata a processi aleatori è la modulante (in ampiezza, fase o
frequenza) di portantifisiche tipicamente sinusoidali che traslano poi in banda
il segnale informativo. La codifica dell'informazione consiste nel trasformare
un'informazione generica in un'informazione comprensibile da un dispositivo o
che sia adatta alla successiva elaborazione. Il primo problema da affrontare
nei processi di elaborazione dell'informazione è la rappresentazione
dell'informazione. L'informazione consiste nella ricezione di un messaggio tra
un insieme di possibili messaggi. La definizione esatta è che l'informazione si
rappresenta usando un numero finito di simboli affidabili e facilmente
distinguibili. All'interno delle apparecchiature digitali l'informazione
è rappresentata mediante livelli di tensione o mediante magnetizzazione di
dispositivi appropriati. Le esigenze di affidabilità impongono che tali
simboli, per una maggiore efficienza, siano due o al massimo tre: nel primo
caso si hanno solo 0 e 1, corrispondenti a 2 livelli di tensione (standard TTL:
0/5 V; standard RS-232: +12/-12 V) che vanno a formare la numerazione binaria;
nel secondo caso si può avere un terzo stadio, indicato come HiZ (alta
impedenza), che rappresenta un livello indeterminato, causato ad esempio dal
filo scollegato. La portata dei flussi Il concetto di informazione
trasportato su un canale di comunicazione può essere messo in analogia con
quello della portata in idrodinamica, mentre la velocità del flusso rappresenta
la velocità di propagazione del segnale che trasporta l'informazione sulla
linea. Al riguardo ogni linea di trasmissione o mezzo trasmissivo ha un suo
quantitativo massimo di informazione trasportabile, espresso dalla velocità di
trasmissione della linea stessa secondo il Teorema di Shannon. Il
rapporto con la privacy Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Privacy. Il settore dell'informazione è un settore interessato da
una continua evoluzione e da una rilevante importanza sociale. Basta pensare
alla quantità e qualità delle informazioni sotto forma di dati personali,
abitudini e consumi dei clienti, che posseggono le aziende. La tutela dei dati
personali risulta essere argomento di controversia, tra quelli che vorrebbero
un libero scambio delle informazioni e quelli che vorrebbero delle limitazioni
attraverso la tutela e il controllo. Oltre alla tutela dei dati personali e
sensibili di clienti, fornitori e dipendenti, le aziende hanno la necessità di
tutelare la proprietà intellettuale, i brevetti e il know-how interno, in
generale le informazioni confidenziali (materia che non ha nulla a che vedere
con la privacy). Vigini, Glossario di biblioteconomia e scienza
dell'informazione, Bibliografica, Milano Il termine indica originariamente
"ciò che appare alla vista", derivando dalla radice indoeuropea
*weid-/wid-/woid-, "vedere" (confronta il latino video). Esso venne
però ad assumere in seguito una grande molteplicità di significati (per
esempio, in Isocrate esso indica il "modello teorico" di
un'orazione). BibliografiaModifica Hans Christian von Baeyer, Informazione. Il
nuovo linguaggio della scienza, Dedalo, Teti, Il potere delle informazioni.
Comunicazione globale, Cyberspazio, Intelligence della conoscenza, Il Sole 24
Ore, Aspray, The Scientific Conceptualization of Information: A survey, Annals
of History of Computing, Voci correlate Asimmetria informativa Archivio
Conoscenza Dati Disinformazione Diritto all'informazione Informazione
classificata Infodemiologia Memoria Mezzi di comunicazione Pluralismo Privacy
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on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Information Helps Us Understand The Fabric Of Reality
Order and Disorder, Al-Khalili, Spark. Portale
Diritto Portale Informatica Portale Psicologia
Portale Scienza e tecnica Teoria dell'informazione Autoinformazione Primo
teorema di Shannon Wikipedia Il contenuto. Nome compiuto: Luciano Floridi. Floridi. Keywords: informare,
Dretske, knowing, causing, cervello in fuga; modal disimplicature, “I’m telling
you”, “for your information” submodes of the indicative mode, ‘exhibitive’ and
‘protreptic’ -- influence, inform. Conversation
as rational cooperation – ‘false’ “information” no information!” -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, "Informazione ed implicatura: Grice e Floridi," per Il Club
Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fonnesu:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’inter-soggetivo
– scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano).
Abstract. Grice:
“I never took ‘inter-subjective’ too seriously, but the Italians ALWAYS do!” Keywords: intersoggetivo. Filosofo milanese. Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Fonnesu; especially, on
inter-subjectivity: “I cooperate with you; you cooperate with me” – or rather,
“I co-operate with thee; thou cooperates with me! We cooperate!” -- Luca Fonnesu (Milano),
filosofo. Professore di filosofia a Pavia.
Fonnesu si è laureato in Filosofia a Firenze con Cesa, dove ha poi conseguito
il titolo di dottore di ricerca in Filosofia. Prima di conseguire la laurea, borsista della
Fondazione Robert E. Schmidt di Heidelberg. Borsista del Deutscher Akademischer
Austauschdienst svolgendo la sua attività di ricerca presso il Leibniz Archiv
di Hannover. Borsista ‘post-doc' a Firenze. Ricercatore a Pisa. Insegna a
Pavia. È inoltre socio dell'Associazione di cultura e politica "il
Mulino", membro della Leibniz-Gesellschaft, della Fichte-Gesellschaft,
della Società italiana di studi kantiani, della Hegel-Vereinigung, della
Società italiana di filosofia analitica e del Comitato editoriale di
"Studi settecenteschi". Il professor Fonnesu è inoltre il
coordinatore del Corso di dottorato di ricerca in Filosofia a Pavia, fa parte
del Consiglio scientifico di Verifiche e del Comitato direttivo della
"Rivista di filosofia". Temi di ricerca I principali temi di
ricerca dell'attività accademica del professor Fonnesu possono essere
sostanzialmente ricondotti alla filosofia morale e alla filosofia classica
tedesca. Per quanto concerne la filosofia classica tedesca tra Kant e Hegel si
è concentrato sulle strutture concettuali, le fonti e la ricezione nella
tradizione filosofica approfondendo inoltre la presenza dell'etica kantiana nel
dibattito contemporaneo. Ha poi studiato il dibattito sulla teodicea nella
tradizione filosofica, l'illuminismo europeo, la tradizione analitica e le
altre tradizioni nell'etica contemporanea. In quest'ultimo ambito ha sviluppato
in modo particolare la tematica del libero arbitrio e della responsabilità
nella filosofia moderna e contemporanea. è un esperto di storia dell'etica.
Altre opere: “Antropologia e idealismo. La destinazione dell'uomo nell'etica di
Fichte” (Roma-Bari, Laterza); “Dovere, Scandicci, La Nuova Italia); “Storia
dell'etica: da Kant alla filosofia analitica” (Roma, Carocci); “Per una
moralità concreta: studi sulla filosofia classica tedesca” (Bologna, Il
Mulino); “Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i principi della
dottrina della scienza” (Roma-Bari, Laterza); “Diritto naturale e filosofia
classica tedesca” (Pisa, Pacini); “La verità. Scienza, filosofia, società”
(Bologna, Il Mulino); “Etica e mondo in
Kant” (Bologna, il Mulino); “Le ragioni della filosofia” (Firenze, Le Monnier);
“Diritto, lavoro e "Stände": il modello di società di Fichte, in
"Materiali per una storia della cultura giuridica", Rousseau e la
filosofia come "médecine du monde". A proposito di un saggio recente,
in "Intersezioni", Ragione pratica e “ragione empirica” in Kant, in
"Annali filosofia, Firenze", “Weber e l'etica” ("Iride"); Le
edizioni kantiane e la riflessione "Sul senso interno", "Studi
kantiani”; “Sullo stato degli studi fichtiani” (“Cultura e scuola"); “La
società concreta: considerazioni su Fichte e Hegel” ("Daimon. Revista de
filosofia", Murcia); “Sul pensiero di Luporini, in "Giornale critico
della filosofia italiana"); “Kant, Leibniz e la "Aufklärung":
ottimismo e teo-dicea, in Kant e la filosofia della religione (N. Pirillo,
Brescia, Morcelliana); “L'ideale dell'estinzione dello Stato in Fichte” ("Rivista
di storia della filosofia"); “Sul concetto di felicità in Hegel” in Fede e
sapere. Hegel, Oliva e Cantillo (Milano, Guerini); “Metamorfosi della libertà
nel ‘Sistema di Etica' di Fichte” (“Giornale critico della filosofia
italiana”); “Sui doveri verso se stessi”; “A partire da Kant”; “La libertà e la
sua realizzazione nella filosofia di Fichte, in G. Duso G. Rametta, La libertà
nella filosofia classica tedesca. Politica e filosofia tra Kant, Fichte,
Schelling e Hegel” (Milano, Angeli); “Sulla 'seconda natura' in Fichte”, in R.
Bonito Oliva G. Cantillo Natura e cultura, Napoli, Guida); “Preti e le
tradizioni etiche, in Parrini L. M. Scarantino, “Preti” (Milano, Guerini); “Errori
dell'ontologia. Percorsi della meta-etica tra Russell e Mackie”; in Ceri e Magni,
Le ragioni dell'etica, Pisa, ETS, Rousseau tra filosofia e botanica. Una nota,
in M. Ferrari, I bambini di una volta. Problemi di metodo. Studi per Egle
Becchi, Milano, Franco Angeli, Presentazione, in Hare, Scegliere un'etica,
Bologna, il Mulino, Presentazione, in Foot, La natura del bene, Bologna, il
Mulino, Sulla morale kantiana, in C. La Rocca, Leggere Kant. Dimensioni della filosofia
critica” (Pisa, ETS); Presentazione, in Foot, Virtù e vizi, Bologna, il Mulino,
Etica e concezione etica del mondo in Albert Schweitzer, Humanitas, Punto di
vista morale e moralità, in “Il ponte”, Luporini, Moneti). Comandi e consigli
nella filosofia pratica moderna, in Bacin, Etiche antiche, etiche moderne. Temi
in discussione, Bologna, Il Mulino); “Frankfurt, in “Rivista di filosofia”, Etica,
in L'universo kantiano, S. Besoli, Rocca e Martinelli (Macerata, Quodlibet);
“Kant e l'etica analitica” in Continenti filosofici. La filosofia analitica e
le altre tradizioni, Caro e Poggi (Roma, Carocci); Fichte critico di Kant: moralità
e religione nel ‘Saggio di una critica di ogni rivelazione', in Critica della
ragione e forme dell'esperienza, Amoroso, Ferrarin e Rocca (Pisa, ETS); “La
felicità e il suo tramonto: dall'illuminismo all'idealismo, in “Filosofia
politica”, Libertà e responsabilità: dall'utilitarismo classico al dibattito contemporaneo,
in Caro, Mori, Spinelli, Il libero arbitrio, Roma, Carocci; “Genealogie della
responsabilità, in Quando siamo responsabili? Neuroscienze, etica e diritto,
Caro, Lavazza e Sartori, Torino, Codice. Intersoggettività è un concetto
utilizzato in filosofia e in psicologia con cui si intende genericamente la
condivisione di stati soggettivi da parte di due o più persone. La parola è
utilizzata con tre significati:
l'accezione più debole si riferisce all'"accordo", ovvero c'è
intersoggettività quando più persone concordano sui significati e sulla
definizione di una situazione. viene altrimenti utilizzata per riferirsi al
"senso comune", le concezioni condivise costruite dalle persone nelle
loro interazioni reciproche ed utilizzate come risorsa quotidiana per
interpretare i significati degli elementi della vita sociale e culturale. Se le
persone condividono il "senso comune" significa che utilizzano una
definizione ed interpretazione condivisa della situazione. infine, il termine
viene utilizzato per riferirsi alle divergenze di significato condivise (o
parzialmente condivise). Le auto-presentazioni, le menzogne, gli scherzi, e l’emozioni
sociali" ad esempio richiedono un'incompleta definizione della situazione,
con parziali divergenze nelle condivisioni dei significati. Chi sta mentendo è
impegnato in un atto intersoggettivo perché lavora con due diverse definizioni
della situazione. L'intersoggettività intesa come nuova modalità relazionale
auspicabile tra uomo e donna ha mosso l'elaborazione non solo politica ma anche
e soprattutto filosofica e persino teologica di alcuni esponenti di spicco del
movimento femminista. Nella filosofia, l'intersoggettività è un argomento
importante nelle tradizioni analitiche e continentali. L'intersoggettività è
considerata cruciale non solo a livello relazionale ma anche a livello
epistemologico e persino metafisico. Ad esempio, l'intersoggettività è
postulata come avente un ruolo nello stabilire la verità delle proposizioni e
nel costituire la cosiddetta obiettività degli oggetti. Una preoccupazione centrale negli studi sulla
coscienza è il cosiddetto problema delle altre menti, che si chiede come
possiamo giustificare la nostra convinzione che le persone hanno menti molto
simili alle nostre e prevedere gli stati mentali e il comportamento degli
altri, come la nostra esperienza dimostra. Le teorie filosofiche contemporanee
dell'intersoggettività devono perciò affrontare il problema delle altre menti. Nel
dibattito tra individualismo cognitivo e universalismo cognitivo, alcuni
aspetti del pensiero non sono né esclusivamente personali né pienamente
universali. I sostenitori della sociologia cognitiva sostengono
l'intersoggettività: una prospettiva intermedia della cognizione sociale che
fornisce una visione equilibrata tra le visioni personali e universali della
nostra cognizione sociale. Questo approccio suggerisce che, anziché essere
pensatori individuali o universali, gli esseri umani si iscrivono a
"comunità di pensiero", comunità di differenti credenze. Esempi di
comunità di pensiero includono chiese, professioni, credenze scientifiche,
generazioni, nazioni e movimenti politici. Questa prospettiva spiega perché
ogni individuo la pensa diversamente dall'altro (individualismo): la persona A
può scegliere di aderire alle date di scadenza degl’alimenti, ma la persona B
può credere che le date di scadenza siano solo linee guida ed è comunque sicuro
mangiare il cibo dopo la data di scadenza. Ma non tutti gl’esseri umani la
pensano allo stesso modo (universalismo).
L'intersoggettività sostiene che ogni comunità di pensiero condivide
esperienze sociali diverse dalle esperienze sociali di altre comunità di
pensiero, creando credenze diverse tra le persone che si iscrivono a comunità
di pensiero diverse. Queste esperienze trascendono la nostra soggettività, il
che spiega perché possano essere condivise da tutta la comunità di pensiero. I
fautori dell'intersoggettività sostengono l'opinione secondo cui le credenze
individuali sono spesso il risultato di credenze della comunità di pensiero,
non solo di esperienze personali o credenze umane universali e oggettive. Le
credenze sono ripensate in termini di standard, che sono stabiliti dalle
comunità di pensiero. Husserl, il fondatore della fenomenologia, riconobbe
l'importanza dell'intersoggettività e scrisse ampiamente sull'argomento. Il suo
testo più noto sull'intersoggettività sono le Meditazioni cartesiane. Sebbene
la fenomenologia di Husserl sia spesso accusata di solipsismo metodologico,
nella quinta meditazione cartesiana, Husserl tenta di affrontare il problema
dell'intersoggettività e propone la sua teoria dell'intersoggettività
trascendentale e monadologica. L'allieva di Husserl Stein estese le basi
dell'intersoggettività nell'empatia nella sua tesi di dottorato, Zum Problem
der Einfühlung. L'intersoggettività aiuta anche a costituire l'oggettività:
nell'esperienza del mondo disponibile non solo per se stessi, ma anche per
l'altro, c'è un ponte tra il personale e il condiviso, il sé e gli altri. In psicologiaModifica Le discussioni e le
teorie dell'intersoggettività sono preminenti nella psicologia contemporanea,
nella teoria della mente e negli studi sulla coscienza. Tre principali teorie
contemporanee sull'intersoggettività sono la teoria della teoria, la teoria
della simulazione e la teoria dell'interazione. Spaulding, dell'Oklahoma,
scrive; "I sostenitori della teoria della teoria sostengono che spieghiamo
e prevediamo il comportamento impiegando teorie psicologiche istintive su come
gli stati mentali influenzano il comportamento. Con le nostre teorie
psicologiche intuitive, deduciamo dal comportamento di un soggetto quali sono
probabilmente i suoi stati mentali. E da queste inferenze, più il principio
psicologico che collega gli stati mentali al comportamento, prevediamo il comportamento
altrui. I sostenitori della teoria della
simulazione, d'altra parte, affermano che spieghiamo e prevediamo il
comportamento degli altri usando le nostre menti come modello e
"mettendoci nei panni degli altri", cioè immaginando quali sarebbero
i nostri stati mentali e come ci comporteremmo se fossimo nella situazione
dell'altro. Più specificamente, simuliamo quali stati mentali dell'altro
avrebbero potuto causare il comportamento osservato, quindi usiamo gli stati
mentali simulati, fingiamo le credenze e fingiamo i desideri come input,
eseguendoli attraverso il nostro meccanismo decisionale. Quindi prendiamo la
conclusione risultante e la attribuiamo all'altra persona[6]. Recentemente,
autori come Vittorio Gallese hanno proposto una teoria della simulazione
incarnata che si basa sulla ricerca neuroscientifica sui neuroni specchio e
sulla ricerca fenomenologica. Spaulding osserva che questo dibattito ha
sofferto di stagnazione negli ultimi anni, con progressi limitati
all'articolazione di varie teorie sulla "simulazione ibrida". Per
risolvere questo vicolo cieco, autori come Shaun Gallagher hanno avanzato la
teoria dell'interazione. Gallagher scrive che un "... importante
cambiamento sta avvenendo nella ricerca sulla cognizione sociale, lontano da un
focus sulla mente individuale e verso ... aspetti partecipativi della
comprensione sociale. La teoria dell'interazione è proposta per porre l'accento
su una svolta interattiva nelle spiegazioni dell'intersoggettività. Gallagher
definisce un'interazione come due o più agenti autonomi impegnati in un
comportamento co-regolato. Ad esempio, quando si porta a spasso un cane, il
comportamento del proprietario è regolato dal cane che si ferma e che annusa, e
il comportamento del cane è regolato dai comandi del proprietario. Quindi,
portare a spasso il cane è un esempio di un processo interattivo. Per
Gallagher, l'interazione e la percezione diretta costituiscono ciò che
definisce l'intersoggettività "primaria (o di base). Gli studi sul dialogo e sul dialogismo
rivelano come il linguaggio sia profondamente intersoggettivo. Quando parliamo,
ci rivolgiamo sempre ai nostri interlocutori, prendendo la loro prospettiva e
orientandoci a ciò che pensiamo che pensino. All'interno di questa tradizione
di ricerca, è stato sostenuto che la struttura dei singoli segni o simboli, la
base del linguaggio, è intersoggettiva e che il processo psicologico di
autoriflessione implica l'intersoggettività. Una ricerca sui neuroni specchio
fornisce prove delle basi profondamente intersoggettive della psicologia umana
e probabilmente gran parte della letteratura sull'empatia e la teoria della
mente si riferisce direttamente al concetto di intersoggettività. Intersoggettività e sviluppo infantile Trevarthen
applica l'intersoggettività allo sviluppo culturale molto rapido dei neonati.
La ricerca suggerisce che come bambini, gli esseri umani sono biologicamente
collegati a "coordinare le loro azioni con gli altri. Questa capacità di
coordinarsi e sincronizzarsi con gli altri facilita l'apprendimento cognitivo
ed emotivo attraverso l'interazione sociale. Inoltre, la relazione più
socialmente produttiva tra bambini e adulti è bidirezionale, in cui entrambe le
parti definiscono attivamente una cultura condivisa. L'aspetto bidirezionale
consente alle parti attive di organizzare la relazione nel modo che ritengono
opportuno: ciò che considerano importante riceve più attenzione. L'accento è
posto sull'idea che i bambini siano attivamente coinvolti nel modo in cui
apprendono, usando l'intersoggettività.
Intersoggettività e psicoanalisiModifica Oltre che nelle scuole di
psicoterapia dove trova applicazione la teoria delle interrelazioni tra
terapeuta-paziente, anche in ambito psicoanalitico, con questo termine si
intende il modello relazionale che fa da parametro nel procedere della
relazione tra analista e analizzato.
Dalla teoria alla prassi intersoggettiva Quella psicoanalisi che si
attiene più allo "spirito" del suo fondatore Freud piuttosto che alla
sua "lettera", considera sé stessa come un metodo per la
trasformazione della realtà piuttosto che come un sistema di interpretazione
della realtà. In questo modo la psicoanalisi sembra inglobare nel suo manifesto
programmatico, almeno nei fatti, e sia pur indicando un'altra metodologia di
prassi, la famosa frase di Marx ed Engels ad Hegel innanzitutto e a tutto il
pensiero filosofico: "I filosofi hanno interpretato il mondo in maniera
diversa ma si tratta invece di trasformarlo. Valori morali e valori relazionali
Conseguentemente la psicoanalisi si pone al di sopra di ogni moralismo, al di
là del bene e del male convenzionali e considera invece il modello relazionale
intersoggettivo come valore supremo poiché in esso coincidono e la terapia e la
conoscenza. Psicoterapia e psicoanalisi:
guarigione o intersoggettività? Lo stesso Freud ammise che la psicoanalisi, pur
essendo nata come medicina ovvero terapia per curare disturbi nervosi, psichici
o mentali, ben presto si rivelò un metodo di conoscenza rispetto al quale la
cosiddetta guarigione del paziente passava in secondo piano: il paziente
aumenta principalmente la conoscenza di sé stesso, simultaneamente anche guarisce
ma la guarigione dal punto di vista dell'analisi in sé è un epifenomeno. Da
questo punto di vista c'è un parallelismo tra Freud e Colombo. Così come
quest'ultimo, partito con l'intenzione di arrivare alle Indie divenne
inaspettatamente lo scopritore dell'America, ugualmente Freud dopo aver
iniziato il suo cammino con intenti semplicemente curativi divenne anch'egli
scopritore di una nuova via di conoscenza.
Il male: motore della psicoanalisi verso l'intersoggettività Se la
psicoanalisi è una via di conoscenza, il male del paziente può essere
considerato una "vocazione" in quanto è proprio la chiamata
dell'essere a sapere di sé. Se non ci fosse questo male, non ci sarebbe ciò che
incalza alla conoscenza di sé. La psicoanalisi ha la pretesa di dissolvere il male
trovandone il senso, che è ben altro e ben più radicale che esorcizzare il male
come fanno la psicofarmacologia e altre tecniche psicoterapeutiche. La
psicoanalisi non tratta il male in sé ma il senso del male, la sua direzione; e
nel trovare tramite il suo metodo questo senso nascosto ne permette la
realizzazione e, nel realizzarlo, elimina il male alla radice e non nella sua
semplice sintomatologia che altrimenti potrebbe riapparire sotto altre vesti.
Questo ottiene superando quel senso che chiedeva al soggetto, che lo pativa
dolorosamente, di essere realizzato. Il male ritornerà ma non sarà più una
ripetizione, la coazione a ripetere infatti quale memoria storica di ciò che è
stato non si può chiamare vera vita e il dolore psichico che magari anche si
somatizza denuncia proprio questo. In questo significato la psicoanalisi intesa
come "autorealizzazione dell'inconscio" trova una sua definizione da
parte dell'altro pioniere della psicoanalisi delle origini: Carl Gustav Jung,
che trattava la sua intera esistenza nello stesso modo in cui considerava la
psicoanalisi: un'autorealizzazione dell'inconscio. Infatti da quanto detto
finora chiunque intuisce che quello dello psicoanalista non può essere
semplicemente un mestiere nel senso tradizionale del termine che si dà alla
parola mestiere ma semmai uno stile di vita, un vero e proprio atteggiamento
esistenziale perennemente teso a scalzare la forte resistenza alla trasparenza
dell'opacità interiore che quindi coincide con una sorta di atteggiamento
alchemico coincidente con l'azione di disvelamento del misterium coniunctionis.
Atteggiamento questo che coincide con l'intersoggettività la quale per
dispiegarsi necessita per la sua realizzazione di una sorta di rivoluzione
copernicana al livello del sistema psichico tendente a spodestare l'Ego come ha
fatto Copernico con la Terra, ed in un certo senso con l'Antropos, da centro
narcisistico del sistema psichico per sostituirlo con il Sé che è l'identità
solo relazionale e che comprende l'uno e l'altro della relazione come un'unità
processuale indivisibile, mentre l'Ego per sua natura non può che
necessariamente essere vincolato a un'identità storica e per ciò continuamente
minacciata nella sua coerenza da ciò ch'egli costituisce sostanzialmente come
altro da sé, paventando la rottura del vissuto di continuità. Psicoanalisi e relazione La psicoanalisi,
operando al di là di ogni moralismo convenzionale al progressivo divenire
conscio dell'inconscio, opera alla progressiva trasformazione del modello
relazionale interdipendente, (dove i due sono calati con le loro reciproche
dipendenze in un gioco delle parti per così dire inconsapevole) nel modello
relazionale intersoggettivo dove la coppia analista-analizzato è in una
relazione all'interno della quale non si danno altri bisogni che quelli propri
del processo di soggettivazione: il bisogno della presenza dell'altro e quello
di essere con l'altro in libertà.
L'esoterismo dell'intersoggetività Esistono discipline come la psicoanalisi
che non si possono giudicare dall'esterno come per esempio la comunità
scientifica richiede di fare nelle scienze esatte con i suoi metodi statistici.
Da qui l'atteggiamento apparentemente altero di molti sostenitori della
psicoanalisi, ritenuti da altri per questo saccenti, a partire da Freud che
liquidava con una battuta gran parte delle critiche alla psicoanalisi dicendo
semplicemente che chi non ha sperimentato una analisi in prima persona non può
nemmeno sapere di cosa si sta parlando.
Questo vale anche e soprattutto per l'intersoggettività la cui
teorizzazione scaturisce proprio dalla psicoanalisi, intersoggettività che
oltre ad essere una nuova modalità di relazionarsi, è anche una nuova logica
nella quale tutto viene trattato come un processo unitario senza alcuna
separazione tra i momenti di tale processo e nella quale ogni momento del
processo è anche tutto il processo pur essendo solo uno dei momenti che lo
compongono, momento del processo che contiene in sé i movimenti già superati e
quelli ancora non in essere. Freud
stesso, sin dagli esordi del metodo psicoanalitico metteva in atto questa
logica rinunciando alle resistenze della sua ragione, frammentante il reale
movimento quale dinamica dell'essere, si poneva in ascolto dell'inconscio che
parlava attraverso i balbettii dei suoi pazienti, ovvero attraverso il loro
transfert e quindi anche del suo proprio controtransfert anche se Freud
possedeva qualche strumento in più del suo paziente, strumento che gli
permetteva così di non agire il controtransfertper non riprodurre una relazione
normale cioè interdipendente, ma realizzare un'esperienza relazionale nuova e
quindi conoscitiva più ancora che terapeutica: in una parola, una relazione
intersoggettiva. Nella sua pratica
clinica Freud usa già allora una logica intersoggettiva anche se, legato come
era per la sua formazione accademica alla scienza ufficiale, non la teorizzava.
Solo dopo molto tempo la psicoanalisi passò da una teoria pulsionale di
impronta positivisticaa una teoria veramente relazionale. In un certo senso quindi la psicoanalisi e la
sua logica che la guida nel processo psicoanalitico, l'intersoggettività, le
apparentano entrambe alle tradizioni dell'esoterismo anche se solo per un suo
corretto intendimento che vada al di là delle vulgate da rotocalco. Questo è un
dato di fatto anche se la psicoanalisi e la nuova logica intersoggettiva non si
sono mai trincerate dietro sette o congreghe iniziatiche come altre vie di
conoscenza hanno invece fatto anche se giustificate dal timore di essere
fraintese. La psicoanalisi al contrario fin dall'inizio è stata un movimento di
pensiero di chiara indole essoterica. La
fine dei ruoli e la fine del vecchio mondo All'interno del modello relazionale
intersoggettivo che fa da parametro al procedere della relazione
psicoanalitica, non vige alcuna divisione di ruoli quali quelli di:
maschile-femminile, attivo-passivo, conoscente-conosciuto, tra chi interpreta e
chi è interpretato, tra chi dà e chi riceve, in una parola tra soggetto e
oggetto. Questo è possibile grazie al fatto che i due della relazione
psicoanalitica facendo leva sulla loro capacità riflessiva prendono distanza
via via sempre più da sé stessi e dalla situazione contingente nella quale sono
entrambi calati e si progettano nel tempo nella libertà. In questa maniera eros e logos cessano la
loro contrapposizione secolare e anzi si fanno alleati uno dell'altro. Infatti
gli "equivoci" che si danno all'interno della relazione costituita
dalla coppia analista-analizzato e che nel gergo proprio di questa disciplina
prendono il nome di transfert e di controtransfert, in ultima analisi vengono a
coincidere con la stessa modalità relazionale interdipendente la cui critica
radicale non è stata ancora condotta sino in fondo, prova ne sia che nel
modello relazionale intersoggettivo non si danno più equivoci non avendo più i
due partner della relazione intersoggettiva altra aspettativa che quella del
dirsi dell'altro nella libertà. E invece
sono proprio questi equivoci ciò che costituiscono l'inconscio quali sintomi
dell'interdipendenza stessa. Ciò si spiega abbastanza facilmente se si pone
attenzione al fatto che mentre il modello intersoggettivo è quello di una
relazione in cui l'unica aspettativa che l'uno ha verso l'altro è solo quella
che l'altro ci sia ma in libertà. Non è così nell'interdipendenza, ed è proprio
questa diversa aspettativa che fonda e struttura l'inconscio e tutti i sintomi
dell'inconscio: transfert e controtransfert. Il principio di intersoggettività
fa del metodo psicoanalitico, quale metodo di trasformazione delle realtà
relazionali, quanto di più seriamente critico vi possa essere dell'ordine
relazionale strutturato sulla divisione dei ruoli. Intersoggettività e femminismoModifica Per
quanto attiene ai rapporti tra la prospettiva aperta dall'intersoggettività e
quelle del "movimento di liberazione della donna" ormai più
brevemente chiamato femminismo, si possono trovare dei paralleli non tanto
nelle posizioni sindacaliste o corporativequanto nelle posizioni più esplicitamente
filosofiche come quelle espresse da Stephens, da Simone de Beauvoir o da altri
ancor più recenti esponenti che invece presero le mosse proprio dalla
psicoanalisi sia pure Lacaniana e filtrata da una donna Luce Irigarayespulsa
immediatamente da Lacan stesso, dato il modo irriverente con cui tratta il
maestro. Importate in Italia le idee eretiche della psicoanalista lacaniana, a
Milano per opera dei filosofi Muraro e Cavarero si è costituita una vera e
propria comunità filosofica intitolata alla maestra di Socrate, la filosofa
Diotima tanto elogiata da Socrate stesso. Comunità filosofica femminile che è
all'origine di una corrente filosofica abbastanza recente denominata filosofia
della differenza e che ha ormai esponenti a livello internazionale. Resta il fatto comunque che almeno al momento
attuale la tematica dell'intersoggettività è stata trattata e approfondita in
maniera veramente esplicita proprio dalla scienza psicoanalitica. brunel.ac.uk/~hsstcfs/
glossary.htm Hyslop Other Minds, The Stanford Encyclopedia of Philosophy, Zalta
plato.stanford.e/archives / other-minds Zerubavel, Social Mindscapes: An
Invitation to Cognitive Sociology, Harvard Husserl, Cartesian Meditations,
Klumer. Tr. by Cairns. Spaulding,
Introduction to debates on Social Cognition, in Phenomenology and the Cognitive
Sciences, Spaulding, Introduction to debates on Social Cognition. Phenomenology
and the Cognitive Sciences. Gallese et Sinigaglia, What is so special about
embodied simulation. Trends in Cognitive Sciences. Jaeger, Paulo, et Gallagher,
Can social interaction constitute social cognition? Trends in Cognitive
Sciences. Linell, Rethinking language, mind and world dialogically. Charlotte,
NC: Information Age Publishing Gillespie, The intersubjective nature of
symbols. In Brady Wagoner, Symbolic transformations. London: Routledge
Gillespie, The social basis of self-reflection. In Valsiner and Rosa, The
Cambridge handbook of sociocultural psychology. Cambridge Rizzolatti et Arbib. Language within our
grasp. Trends in neurosciences, su psych. uw; Stone, Underwood e Hotchkiss, The
Relational Habitus: Intersubjective Processes in Learning Settings, su
karger.com. Marx, Engels: Miseria della filosofia, Tale questione sui rapporti
tra la tematica dell'intersoggettività e il movimento femminista sono stati
trattati anche in L'ultimo tratto di percorso del pensiero Uno - Escursioni
nella filosofia di Montefoschi dal titolo "Il risveglio del soggetto
femminile Husserl, Sulla fenomenologia dell'intersoggettività; Zur
Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) Husserl, Per la
fenomenologia dell'intersoggettività; (Zur Phänomenologie der
Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass) E. Husserl, Per la fenomenologia
dell'intersoggettività Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem
Nachlass) Scheler, Essenza e forme della simpatia, Angeli, Milano; Buber, Il
principio dialogico, Atwood e Storolow, I contesti dell'essere. Le basi
intersoggettive della vita psichica, Benjamin, L'ombra dell'altro.
Intersoggettività e genere in psicoanalisi; Montefoschi, L'uno e l'altro.
Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico; Montefoschi,
La glorificazione del vivente nell'intersoggettività tra l'uno e l'altro; Davidson,
Soggettività, intersoggettività, oggettività Psicoanalisi intersoggettiva
intersoggettività, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia. Intersoggettività,
su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica Portale Filosofia Portale
Psicologia Internet ArchiveBot
Psicoanalisi intersoggettiva Glossario di psicologia analitica lista di
un progetto Psicoanalisi relazionale. Nome compiuto: Luca Fonnesu. Fonnesu. Keywords:
inter-soggetivo, free will, Kant, freedom, free, practical reason, the good,
meta-ethics, Mackie, Hare, Fichte, Hegel, happiness eudaemonia in Aristotle,
Kant, and Hegel, Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice
e Fonnesu” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fornero:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del confilosofare – scuola
di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Vigone). Abstract. Grice: “At long last an Italian philosopher
who UNDERSTANDS me, never mind having heard from me!” Keywords:
Grice. Filosofo vigoese. Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Vigone, Torino, Piemonte. Grice: “I like Fornero; he
surely understands the longitudinal unity of philosophy; ‘filosofare is
con-filosofare,’ I love that: philosophy as philosophy of conversation –
witness Socrates and Alcebiades.” Si è
occupato di ambiti disciplinari diversi, che vanno dalla storia della filosofia
alla bioetica, dalla laicità al diritto. Ha compiuto studi filosofici a
Torino. Si laurea con una tesi sull'esistenzialismo italiano. Dopo aver
insegnato per alcuni anni, in seguito ha svolto un'attività di libero
scrittore, curando, su incarico di Abbagnano, una serie di aggiornamenti della
sua celebre storia della di filosofia. In un secondo momento a conferma del
fatto che egli non è soltanto uno storico della filosofia, bensì un filosofo
dai molteplici interessi si è dedicato allo studio della bio-etica, della
laicità e del diritto, con saggi che hanno suscitato ampi dibattiti e che
costituiscono dei contributi importanti su queste tematiche. Abbagnano aveva
pubblicato un Compendio di storia della filosofia per i licei che, dopo un
periodo di notevole diffusione, alla fine degli anni settanta era quasi sparito
dalla scuola. Da ciò la necessità di una profonda revisione dell'opera, che decise
di affidare a F.. Nasce così l'Abbagnano-F., che, anche grazie ai continui
aggiornamenti e ampliamenti, è tuttora il manuale di filosofia più diffuso. Fra
le sue numerose edizioni e versioni ricordiamo: “Filosofi e filosofie nella
storia”; “Protagonisti e testi della filosofia”; “Itinerari della filosofia”;
“La filosofia”; “La ricerca del pensiero”; “Percorsi di filosofia”; “L'ideale e
il reale”; “Con-Filosofare” e “I nodi del pensiero.” In questi lavori segue e
sviluppa in modo creativo l'impostazione metodologica di Abbagnano, mirando a
un modo di fare storia della filosofia che si qualifica per un'informazione
accurata, una profonda empatia con le tematiche trattate e l'astensione da
valutazioni ideologiche e di parte. Ha inoltre condiretto alcune collane di
destinazione liceale e universitaria: “i Sentieri della filosofia” e i Sentieri
della pedagogia di Paravia e, “I fili del pensiero” di Mondadori. Fra le grandi
storie della filosofia quella pubblicata da Abbagnano presso la Pombail
cosiddetto Abbagnano grande, uscito in prima edizione costituisce un'opera di
riferimento fondamentale, che è stata universalmente apprezzata. Dopo la morte
di Abbagnano, è uscito, sempre presso Pomba, un quarto volume di questa storia,
dedicato al pensiero contemporaneo. Anche in questo caso, era stato lo stesso
Abbagnano a incaricare F. di proseguire il suo lavoro, che si interrompeva con
l'esistenzialismo e presentava solo un ultimo, sintetico capitolo su alcuni
degli sviluppi più recenti. In questo nuovo volume, F. punta a una
ricostruzione chiara e scientifica al tempo stesso. Una ricostruzione che,
basandosi su una conoscenza diretta (o "di prima mano") degli autori
trattati, si caratterizza per obiettività e rispetto delle posizioni di cui dà
conto, evitando valutazioni teoretiche che non spettano allo storico. Al pari
del suo maestro, F. insiste sull'autonomia della filosofia, che non si può
dissolvere nelle scienze umane, nella politica o in altre discipline. Ma gli impetuosi
sviluppi della filosofia novecente non erano esauriti in quel volume. Di
conseguenza, pubblica un secondo tomo del volume quarto della Storia della
filosofia. Con questo contributo l'opera si configura finalmente come una
trattazione esauriente dell'intera storia della filosofia dell’Europa
occidentale. Abbagnano pubblica presso la Pomba la prima edizione del
Dizionario di filosofia, un vastissimo elenco di lemmi tematici affrontati con
grande attenzione allo sviluppo concettuale e con straordinaria capacità di
sintesi. Ne curava una riedizione ampliata. Il Dizionario restaun punto fermo
della storiografia filosofica, ma iniziava ormai a mostrare dei limiti
cronologici. Così, ha provveduto, co-adiuvato da un gruppo di specialisti
da lui coordinato e diretto, a redigerne una nuova edizione.
L'impostazione di fondo voluta da Abbagnano è conservata, cosicché vengono
escluse le voci biografiche a favore dei lemmi concettuali. Sono centinaia le
voci aggiornate, mantenendo la separazione fra il contributo originale di
Abbagnano e l'aggiornamento, e le nuove voci inserite. L'opera continua così a
proporsi come uno dei più ampi strumenti di consultazione. Pubblica presso
Mondadori Le filosofie del Novecento, una delle più ampie e sistematiche
ricostruzioni storiche del pensiero contemporaneo. L'opera muove dal
pensiero nietzschiano inteso come crocevia della modernità e presenta una serie
di capitoli che danno conto, seguendo un'organizzazione tematica, di tutti i
principali autori e filoni della riflessione filosofica contemporanea: dalle
grandi correnti del primo Novecento (neo-positivismo, positivism logico,
neo-empirismo, filosofia analitica, filosofia analitica del linguaggio
ordinario, neocriticismo, spiritualismo, neoidealismo, pragmatismo), al
marxismo e all'esistenzialismo in tutte le loro declinazioni, per giungere alle
più recenti formulazioni dello strutturalismo, del postmodernismo, dell'epistemologia,
della teologia, dell'ermeneutica e delle teorie politiche ed etiche. Forte
degli studi storiografici ormai accumulati e sempre in linea con i sopraccitati
presupposti metodologici, pubblica, presso Mondadori, “Bioetica cattolica e
bioetica laica”. Si concentra sulle posizioni della bioetica cattolica
ufficiale e su quelle della bioetica laica. Attraverso uno studio analitico e
puntiglioso dei testi e a un metodo improntato a una sostanziale imparzialità, giunge
a definire alcuni punti nodali che a suo avviso oppongono strutturalmente la
bio-etica cattolica e quella laica (sebbene non manchino posizioni intermedie e
alternative). Punti che si sintetizzano nella tesi cattolica della
indisponibilità della vita e nella tesi laica della disponibilità della
vita. Da un punto di vista contenutistico Fevita di prendere posizione a
favore dell'uno o dell'altro modello. Tuttavia, il suo contributo produce una
notevole chiarificazione delle posizioni in campo e ha il merito di porre
empateticamente sotto gli occhi del lettore le strutture teoriche e concettuali
che stanno alla base dei due "paradigmi"merito che gli è stato
riconosciuto da Vattimo, che ha parlato di «rispettosa capacità di ascolto», e
da Possenti, che parla di «giustizia intellettuale nel descrivere le varie
posizioni in gioco. Questo saggio ha originato un ampio dibattito, sia
negli studi specialistici, sia nel mondo dell'informazione (come testimoniano
le recensioni e i numerosi interventi apparsi sui quotidiani). Dibattito
continuato sia in “Laicità debole e laicità forte” sia in “Laici e cattolici in
bioetica: storia e teoria di un confront”. Quest'ultimo saggio completa il
trittico. In esso si dà conto della nuova fase del dibattito sui concetti di
bio-etica cattolica e laica e si offre una serie di chiarificazioni e
ampliamenti storico-concettuali, fra cui spicca l'approfondimento della nozione
di "paradigma" che, partendo da Kuhn ma andando al di là di Kuhn,
applica in modo originale alla bioetica. Fra le novità del volume vi è l’ammissione,
da parte di alcuni autorevoli studiosi cattolici, dell'esistenza di una
diversità paradigmatica fra la bioetica di matrice cattolica e la bio-etica di
matrice laica. Diversità di cui si auspica da molte parti il superamento con
una serie di ipotesi ampiamente documentate nel saggio -, ma che di fatto
esiste e condiziona, sia sul piano teorico sia sul piano pratico, la vita
odierna. Gli studi sulla bioetica hanno trovato una continuazione e uno
sviluppo nel lavoro di Luca Lo Sapio Bioetica cattolica e bioetica laica
nell'era di papa Francesco. Che cosa è cambiato? (Pomba, Milano ) in cui
l'autore affronta il tema delle ripercussioni bio-etiche del pontificato di
Bergoglio, mettendone in luce i tratti di novità e continuità rispetto al
passato. Il saggio è preceduto da un saggio di Fornero, in cui offre una
sintesi aggiornata delle sue idee circa i paradigmi della bio-morale cattolica
e laica. Alcune delle questioni poste in Bioetica cattolica e bioetica
laica toccano il generale argomento della laicità. Tant'è che Laicità debole e
laicità forte prosegue l'analisi in questa direzione, oltrepassando l'ambito
limitato della bio-etica, pur continuando a usarlo come campo esemplare di
indagine. Ragionando in termini teorici e non solo storici, elabora una
prospettiva filosofica sulla laicità che muove dalla distinzione analitica fra
due diverse accezioni del concetto di "laicità": una larga e una
ristretta. Distinzione che ritiene indispensabile per fare ordine e chiarezza
intorno al concetto in questione e per giustificare, senza i consueti
riduzionismi, i diversi modi con cui ci si può definire "laico” (English:
lay). In senso largo la laicità allude a una serie di atteggiamenti metodici
(autonomia discorsiva, libero confronto delle idee, pluralismo, ecc.) che, in
virtù del loro carattere procedurale, possono essere fatti propri da chiunque,
a prescindere dal fatto di essere credenti o meno (tant'è che oggi, nell'ambito
di questa accezione di “laico”, si parla comunemente di "laico
credente" e di "laico non credenti"). In senso stretto, il
‘laico’ allude invece a quella determinata visione del mondo che è propria di
coloro che non si limitano a seguire i sopraccitati criteri metodici, ma che
pensano e vivono a prescindere da Dio e dall'adesione a un determinato credo
religioso (tant'è, che oggi, nell'ambito di questa accezione del laico, si
parla comunemente di credenti e laici o, in Italia, di cattolici e
laici). Per denominare l'accezione larga, usa l'espressione "laico
debole", mentre per denominare l'accezione ristretta adopera l'espressione
"laico forte", avvertendo che in questo contesto “debole” e “forte” non
hanno il significato ordinario e valutativo di "meno consistente" o
"più consistente", ma un significato tecnico e descrittivo, allusivo
di un minore o maggiore grado di radicalità. In altri termini, il laico in
senso largo è denominata "debole" poiché possiede una valenza
essenzialmente formale o *metodologica*, mentre il laico in senso stretto è
denominato "forte" poiché possiede una valenza di tipo materiale o *sostanziale*
(in quanto allusiva della visione del mondo propria di un non credente).
L'originalità consiste quindi nel ritenere legittimi entrambi i significati
(teorici e storici) del concetto di "laico" e nell'aver insistito più
di ogni altro studioso in Italia sul fatto che non si deve
"censurare" l'accezione ristretta o “forte” del concetto (cf. Grice
on ‘weak’ and ‘strong’ – the ‘strong’ theorist, the weak theorist). Insistenza
che non gli impedisce di evidenziare come il laico proprio dello Stato italiano
pluralista e democratico coincida con il laico debole o largo, ossia con quella
capace di ospitare in sé tutte le visioni del mondo, sia quelle di matrice
religiosa sia quelle di matrice agnostica o atea. -- è vivamente persuaso
del valore e della necessità della filosofia. Da ciò il suo costante impegno ad
argomentare con chiarezza questa tesi, mediante una proposta la cui peculiarità
consiste nel ritenere che, prima di chiedersi (come si fa solitamente) se la
filosofia sia utile o meno, bisogna chiedersi se da essa si possa prescindere o
meno, ossia se sia davvero possibile, per l'uomo, vivere senza filosofare. Su
questo punto non ha dubbi: la filosofia è un'esigenza che sgorga dalla vita
stessa e dalle sue ineludibili domande, al punto che l'uomo, come non può fare
a meno di respirare e pensare, così non può fare a meno di fare filosofia.
Queste considerazioni vengono più organicamente sviluppate in Utilità della
filosofia. Tra filosofia e diritto: indisponibilità e disponibilità della vita.
è uscito per i tipi di Pomba un nuovo volume, forse il più importante della sua
produzione saggistica dal titolo Indisponibilità e disponibilità della vita:
una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia
volontaria. Si tratta di una vasta indagine filosofico giuridica che approfondisce con chiarezza una delle
dicotomie fondamentali della cultura contemporanea, quella tra indisponibilità
e disponibilità della propria vita. E ciò non solo sul piano
storico-descrittivo (nel cui ambito offre comunque una documentazione amplissima
che va dalla filosofia alla bioetica, dal diritto alla giurisprudenza italiana)
ma anche e soprattutto su quello teorico-propositivo. Esaminando a vario
titolo questo binomio e mostrandone le rilevanti concretizzazioni giuridiche e
penalistiche, l'opera approfondisce il tema del "diritto di morire",
che viene definito come il diritto di congedarsi volontariamente dalla propria
vita e studiato nelle sue tipologie più note (suicidio, rifiuto delle cure e
morte assistita). Nella parte centrale del saggio si mette organicamente a
fuoco il nesso fra il diritto di vivere e il diritto di morire, inteso,
quest'ultimo, come il versante negativo del diritto di vivere. Su questa
base,perviene a prendere apertamente posizione a favore della morte
medicalmente assistita, che viene originalmente configurata come un nuovo e
peculiare diritto di libertà giuridicamente articolato. Insiste sull’inaggirabilità
della filosofia anche in ambito giuridico, soprattutto in rapporto alle
complesse e cruciali questioni del fine vita. La filosofia contemporanea,
Pomba, Torino, Storia della filosofia, La filosofia contemporanea, Pomba,
Torino, Dizionario di filosofia, Pomba, Torino, Le filosofie del Novecento, B.
Mondadori, Milano, Opere su bioetica, laicità e diritto Bioetica cattolica e
bioetica laica, B. Mondadori, Milano, Laicità debole e laicità forte, B.
Mondadori, Milano, Laici e cattolici in bioetica: storia e teoria di un
confronto (in collaborazione con M. Mori), Le Lettere, Firenze Indisponibilità e disponibilità della vita:
una difesa filosofico giuridica del suicidio assistito e dell'eutanasia
volontaria, Pomba, Torino. Articoli e interventi su bioetica e laicità Un passo
in avanti. Risposte a Mordacci e Corbellini, in Vale ancora la contrapposizione
tra bioetica cattolica e bioetica laica?, «Politeia», Due significati
irrinunciabili di laicità, in La laicità
vista dai laici, E. D'Orazio, EgeaUniversità Bocconi Editori, Milano, Etsi non
daretur, laicità e bioetica da Scarpelli a Lecaldano, in Eugenio Lecaldano.
L'etica, la storia della filosofia e l'impegno civileDonatelli e M. Mori, Le
Lettere, Firenze, Bioetica, laicità e bioetica laica", in Diritto,
Bioetica e Laicità. Commenti a Bioetica tra "morali" e diritto
diBorsellino, «Politeia», Non esiste solo la bioetica cattolica. Nota sui
rapporti fra i valdesi e la bioetica, Bioetica. Rivista interdisciplinare», Il
maggior bio-eticista cattolico. Considerazioni sul paradigma bioetico di
Sgreccia e sulle sue peculiarità e differenze rispetto ad altri modelli
bioetici di matrice cattolica, in Vita, ragione, dialogo. Scritti in onore di
Sgreccia, Cantagalli, Siena, Risposte ai critici, in Il dibattito su bioetica
laica e bioetica cattolica. Commenti a Laici e cattolici in bioetica di F. e
Mori, Politeia, Scarpelli e il tema della laicità, in L’eredità di Scarpelli BorsellinoS.
Salardi M. Saporiti, Giappichelli, Torino, Voce Laicità, in Enciclopedia di
bioetica e scienza giuridica, diretta da Sgreccia Tarantino, Scientifiche
Italiane, Napoli, Bioetica cattolica e bioetica laica: tra passato e presente,
in L. Lo Sapio, Bioetica cattolica e bioetica laica nell'era di papa Francesco.
Che cosa è cambiato?, con un saggio di F., POMBA, Milano, Magistero bioetico
cattolico e bioetica laico-secolare: tra passato e futuro, in Bioetica tra passato e futuro. Da van Potter
alla società; LargheroM. Lombardi Ricci, Effatà, Cantalupa (TO), Manuali
Filosofi e filosofie nella storia, Paravia, Torino, Protagonisti e testi della
filosofia, Paravia, Torino, Itinerari di filosofia, Paravia, Torino; La filosofia,
Paravia, Torino, La ricerca del pensiero, Paravia, Torino Percorsi della filosofia, Paravia,
Torino L'ideale e il reale, Paravia,
Torino Con-Filosofare, Paravia,
Torino I nodi del pensiero, Paravia,
Torino. La Stampa, Avvenire, Filosofia, bioetica, laicità e diritto. Sito
ufficiale, su giovannifornero.net. Giovanni Fornero. Sito web italiano per la
filosofia, su swif.uniba. Con l'espressione filosofia analitica ci si riferisce
ad una corrente filosofica sviluppatasi, per effetto soprattutto del lavoro di
Frege, Russell, Moore, dei vari esponenti del circolo di Vienna e di
Wittgenstein. Per estensione, ci si riferisce a tutta la successiva tradizione
filosofica influenzata da questi autori, prevalente nel mondo anglofono (Regno
Unito, Stati Uniti, Canada, Australia), ma attiva anche in molti altri
paesi. Origini AFrege ed altri portarono ad un notevole avanzamento nel
campo della logica. L'idea fondamentale del movimento del circolo di Vienna era
di applicare questo nuovo metodo logico, detto positivismo logico, ai
tradizionali problemi filosofici. I risultati di questo metodo sono controversi,
tuttavia è innegabile che tale tentativo abbia portato importanti ripercussioni
e sviluppi in una serie di campi, quali ad esempio l'informatica e lo studio
del linguaggio nei suoi vari aspetti: sintassi, semantica, pragmatica.
Tra gli altri assunti del positivismo logico si possono ricordare la concezione
della filosofia come uno strumento d'indagine che possa emendare il linguaggio
dalle sue ambiguità, dalle sue intrinseche contraddizioni e perplessità,
proponendosi come un metodo teso a disvelare l'origine di alcuni problemi
"filosofici" da un utilizzo idiosincratico delle forme
linguistiche. La filosofia analitica dopo gli iniziModifica Se il
positivismo logico aveva tratto ispirazione dalle tesi sostenute da Wittgenstein
nel suo Tractatus, è possibile legare lo sviluppo della filosofia analitica
alle revisioni e agli sviluppi cui Wittgenstein stesso sottopose la propria
prima filosofia, suggestioni raccolte ed elaborate in seguito da altri
pensatori. La filosofia del tardo Wittgenstein non adotta i medesimi strumenti
dei neopositivisti – l'analisi logica ed il metodo scientifico – ma piuttosto
si concentra sugli scopi e i diversi contesti reali di utilizzo del
linguaggio. La filosofia analitica delle origini e il positivismo logico
condividevano un generale atteggiamento anti-metafisico, centrato per il
secondo sul principio di verificazione. I filosofi Popper con il suo
falsificazionismo, e Moore in un articolo, considerarono il principio
verificazionista ideato dai neopositivisti come esso stesso una teoria
metafisica, ovvero un assunto passibile delle medesime critiche che il circolo
di Vienna rivolgeva alla quasi totalità delle filosofie classiche. Sul piano
dell'analisi del linguaggio quindi, la filosofia analitica sposterà la propria
ricerca principalmente sugli aspetti propri di ogni forma di asserzione
linguistica – rinunciando quindi al progetto neopositivista di costruire un
linguaggio formalizzato su basi puramente logiche – e concentrando l'attenzione
sull'uso reale del linguaggio, così come viene suggerito dal Wittgenstein della
teoria dei giochi linguistici. Il metodo Ciò che contraddistingue la
filosofia analitica non è un insieme di tesi ma piuttosto un metodo, o uno
stile, filosofico. In particolare, possiamo individuare quattro elementi
caratterizzanti. Il primo è il valore dell'argomentazione. Quando si presenta
una tesi si deve sostenerla attraverso un argomento, si devono rendere
esplicite le ragioni a favore (ed eventualmente contro) ciò che si afferma.
Affinché tesi ed argomenti possano essere valutati è fondamentale usare la
massima chiarezza possibile, ad esempio dando delle definizioni di tutti i
termini non di uso comune. Il secondo è l'utilizzo di tecniche di logica
formale nell'esposizione della teoria. Ad esempio, il linguaggio modale (della
possibilità e della necessità) viene analizzato attraverso la semantica dei
mondi possibili sviluppata, fra gli altri, da Barcan e Kripke. Il terzo
elemento è il rispetto per i risultati delle scienze naturali. Non tutti
i filosofi analitici lavorano su problemi che sono vicini a quelli trattati
dalle scienze naturali, benché molti lo facciano. Ma è generalmente accettato
che non è lecito per un filosofo contraddire risultati ampiamente accettati
nelle scienze naturali, a meno di non fornire in effetti un argomento di valore
scientifico a sostegno del proprio rifiuto. Infine, viene spesso messo in
rilievo il valore del senso comune. A parità di altre condizioni, una teoria
filosofica che preserva le verità del senso comune (ad esempio che esistono
oggetti materiali, esistono persone, etc) è migliore di una che le
contraddice.[senza fonte] Il rapporto con la filosofia continentale La
filosofia analitica è talvolta contrapposta alla filosofia continentale,
termine con cui ci si riferisce a movimenti come l'idealismo tedesco, il
Marxismo, la psicoanalisi, l'esistenzialismo, la fenomenologia, l'ermeneutica
ed il Post-strutturalismo. Ad ogni modo, non mancano i tentativi di sintesi tra
le due impostazioni filosofiche (ad esempio quelli di Hilary Putnam e Richard
Rorty). Breve storia della filosofia analitica Moore e la Common-Sense
Philosophy, filosofia del senso comune. Rifiuto dell'idealismo post-hegeliano
britannico. Bertrand Russell: Analisi logica, atomismo logico. Primo Wittgenstein:
Tractatus. logica formale. Filosofia del linguaggio ideale. Positivismo logico
ed empirismo logico. circolo di Vienna. Carnap. Verificazionismo. Distinzione
Analitico-Sintetico. Rifiuto della metafisica, etica ed estetica. Emotivismo. SCUOLA
di Oxford. Ryle, AUSTIN. secondo Wittgenstein. Filosofia del linguaggio comune.
Tarde pubblicazioni di Wittgenstein. filosofia linguistica Pragmatismo
americano. Emigrazione di logici e scienziati dall'Europa verso gli Stati
Uniti. Filosofia della scienza. Comportamentismo. Quine. Filosofia del
linguaggio. Semantica del linguaggio naturale. Davidson. Oxford negl’anni
settanta. Strawson, Dummett, McDowell, Evans. Revival della Filosofia politica:
Rawls, Nozick, Dworkin, Williams. Filosofia della mente, scienze cognitive. Turing.
Churchland. Neopragmatismo: Rorty, Putnam. Preston. Voci correlate Filosofia
continentale Società Italiana di Filosofia Analitica Collegamenti esterni filosofia
analitica, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
Filosofia analitica / Filosofia analitica (altra versione), su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Preston, Analytic Philosophy, in The
Internet Encyclopedia of Philosophy, Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di Filosofia PAGINE CORRELATE Carnap filosofo
tedesco Positivismo logico movimento filosofico-scientifico Note
sulla logica testo del filosofo Ludwig Wittgenstein. Nome compiuto:
Giovanni Fornero. Fornero.Keywords. confilosofare, “Che cosa e la filosofia
analitica? Ryle, Wisdom, Strawson, Austin, Grice.” Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Fornero” – The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Formaggio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’arte come
comunicazione – filosofia della tecnica artistica – scuola di Milano –
filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Grice: “It’s odd, but when I coined non-natural
meaning, I was thinking ARTIFICIAL signs!” Abstract: naturale-artifiziale. Filosofo milanese. Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Formaggio; for one, he philosophised on
aesthetics – estetica filosofica, he calls it – along phenomenological lines –
on the other, he took very seriously the idea of Latin ‘ars’ – and concludes
that an ‘artificium’ is meant as ‘communicative’.” Inizia a lavorare in fabbrica quando trova impiego
alla Brown Boveri di Milano. Ben presto però la sua indole portata allo studio,
supportata da una vivace intelligenza, lo spronò a iscriversi alle scuole
serali. Quest'esperienza, che accomuna lo studio al lavoro, dura ma anche
formativa (nel frattempo aveva cambiato lavoro, passando all’orologerie Binda
per avere più tempo libero da dedicare allo studio), acuì sempre più la sua
sensibilità verso i problemi sociali, che costituiranno in seguito, anche
quando diventerà professore a Milano e Pavia, il soggetto prevalente del suo
percorso culturale, sia filosofico che umano. Venne trasferito a Motta
Visconti. Pur insegnando, proseguì gli studi a Milano, dove si laurea, relatore
Banfi, con “L’arte come comunicazione. Fenomenologia dell'arte” o “rapporto tra
arte e tecnica nelle estetiche europee contemporanee, avveniristica per quei
tempi, incentrata com'era sul tema della “tecnica” artistica. Nei primi anni del dopoguerra, dopo aver
partecipato attivamente alla lotta partigiana, entra a far parte dell'Università
Statale di Milano come assistente alla cattedra di Estetica. Collabora anche
alla rivista Studi filosofici e pubblica alcuni saggi, come “Fenomenologia
della tecnica artistica”, riprendendo e ampliando la sua tesi di laurea. In
virtù di questo saggio, si aggiudica l'incarico alla cattedra di Estetica di
Pavia. Si trasferì in Veneto, dopo aver vinto il concorso a cattedra a Padova,
in un periodo molto difficile per tutto il mondo accademico italiano e in modo
particolare per quello di Padova a causa delle forti tensioni causate dalla
rivolta studentesca prima, e dal nascente terrorismo armato poi, assumendo
dapprima l'incarico di preside della Facoltà di Magistero e poi quella di
pro-rettore. Ricoprì la cattedra a Milano, della quale fu poi professore
emerito. Gli allievi pubblicarono un libro in suo onore Il canto di Seikilos.
Scritti per Dino Formaggio. Gli fu conferito il premio Lion d'Or
International nell'arena romana di Nîmes
per le pubblicazioni di filosofia e il suo impegno civile. A Teolo, comune
della provincia di Padova, gli è stato dedicato il Museo di arte contemporanea,
la cui nascita è stata resa possibile da alcune donazioni all'ente effettuate
grazie al suo interessamento, e la cui collezione comprende opere di autori del
XIX e Professore quali Lanaro, Sassu, Rosso e Birolli. Il fondo librario
F. è stato donato dagli eredi alla biblioteca di filosofia di Milano ed è
costituito dalla consistente biblioteca filosofica di studio oltre 2200 volumi.
Il fondo è stato recentemente catalogato ed è ora disponibile alla
consultazione e in parte, al prestito. Tutti i volumi sono stati associati al
possessore, riportano lo stato della copia e segnalano la presenza di note,
commenti, dediche, firme autografe. Sono in fase di catalogazione i periodici.
Potete trovare le notizie bibliografiche di tutti i testi della ricca
biblioteca nel Catalogo di Ateneo. Altre opere: “Fenomenologia della tecnica
artistica” (tecnica tecnica arte artistico); Piero della Francesca; Il Barocco
in Italia; L'idea di artisticità – arte artistico artisticita – tecnica
tecnicista, tecnicisticita; Arte; La morte dell'arte e dell'estetica; Gogh in
cammino; I giorni dell'arte; Problemi di estetica; “Separatezza e dominio; Filosofi
dell'arte del Novecento; Il canto di Seikilos. Scritti per F., Guerini, Milano.
Panza, Padre dell'Estetica Fenomenologica italiana, in Corriere della Sera, Museo
di Arte Contemporanea "Dino Formaggio" di Teolo, Introduzione al
Museo, su//comune.teolo.pd. Scuola di Milano Museo di arte contemporanea F. "Arte ed Emozioni"Intervista a F.,
su emsf.rai. 3 Museo d'arte contemporanea F., su turismopadova. "Filosofo
dell'arte e maestro di vita" di Vladimiro Elvieri, Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani Franzini, Ricordo, Daturi, "Il
perché e il come dell'arte: l'estetica di F.", sito della mostra
bibliografico-documentaria Milano. Nazione comunità di individui che
condividono alcune caratteristiche comuni quali la lingua, il luogo geografico,
la storia ed un governo. Il termine nazione (dal latino natio, in
italiano«nascita») si riferisce ad una comunità di individui che condividono
alcune caratteristiche come il luogo geografico, la cultura (cioè la lingua, la
religione, la storia e le tradizioni), l'etnia ed, eventualmente, un governo.
Un'altra definizione considera la nazione come uno "stato sovrano"
che può far riferimento a un popolo, a un'etnia, a una tribù con una
discendenza, una lingua e magari una storia in comune. Una differente
corrente di pensiero, che fa riferimento all'idea di nazione in quanto realtà
oggettiva e legata a pensatori riconducibili a diverse espressioni
politico-culturali, include tra le caratteristiche necessarie di una nazione il
concetto di sangue (Herder) o di consanguineità (Meinecke). Un'altra
definizione vede la nazione come una «comunità di individui di una o più
nazionalità con un suo proprio territorio e governo» o anche «una tribù o una
federazione di tribù (come quella degli indiani nordamericani). È appoggiandosi
a tali nozioni che si è sviluppato il concetto di micro-nazione. Alcuni
autori, come Habermas, considerando obsoleta la nozione tradizionale di
nazione, si riferiscono a essa come a un libero contratto sociale tra popoli
che si riconoscono in una costituzione comune. Tale concetto, in questo caso,
si estende anche a quello di patria e il patriottismo nazionale verrebbe così
rimpiazzato dal patriottismo costituzionale. o grazie al concetto di gruppo di
appartenenza. La nazione è tale dal punto di vista politico. Ciò prevede un
profondo senso del noi, pace e ordine al suo interno, una serie di simboli e
miti comuni, la garanzia di protezione e la consapevolezza della durevolezza
nel tempo della nazione rispetto ai singoli individui. Caratteristiche Il
senso del noi si sviluppa nella popolazione spesso grazie al confronto con il
gruppo esterno, che alle volte assume la forma di un odiato nemico. Un esempio
può trovarsi nella storica rivalità tra nazione francese e nazione tedesca:
entrambe hanno caratterizzato la loro identità nell'ostilità rispetto al
vicino. Una nazione può essere rappresentata da uno stato, che garantisce un
ordinamento giuridico e ne afferma la sovranità. In tal caso si parla di stato-nazione.
Oltre gli stati esistenti, alcuni partiti politici e associazioni rivendicano
di appartenere a nazioni senza stato e, per quanto riguarda l'Europa
occidentale, si riuniscono nella conferenza delle nazioni senza stato d'Europa
occidentale (CONSEU). L'organizzazione che raccoglie nazioni e popoli non
rappresentati di tutto il mondo è l'organizzazione delle nazioni e dei popoli
non rappresentati (UNPO). Renan definisce nazione come l'anima e il
principio spirituale di un popolo, che gode di una ricca eredità di ricordi e
del consenso attuale. Ne consegue che la nazione esiste finché trova posto
nella mente e nel cuore delle persone che la compongono. L'idea di
nazione matura nel tempo. Giustificazione storica della nazione è fornita
da opere letterarie, da poesie e da canti, composti anche in un passato molto
lontano ma che vengono rapportati al presente; classica giustificazione della
nazione tedesca è riscontrabile nella Germania di TACITO (si veda), in cui i
popoli abitanti nel cuore dell'Europa vengono esaltati come valorosi, leali e
incorrotti: è probabile che TACITO (si veda) abbia voluto in questo modo fare
una critica della società romana, dando comunque materiale ai tedeschi per
legittimare la propria superiorità. Nell'uso quotidiano erroneamente i
termini come nazione, stato e paese vengono usati spesso come sinonimi per
indicare un territorio controllato da un singolo governo, o gli abitanti di
quel territorio o il governo stesso; in altre parole lo Stato. In senso
stretto tuttavia, nazione indica le persone, mentre paese indica il territorio
e stato la legittima istituzione amministrativa. Per aumentare la confusione, i
termini nazionale e internazionale si applicano agli Stati. Nonostante al
giorno d'oggi molte nazioni coincidano con uno Stato, le cose non sono sempre
andate così in passato e ancora oggi esistono nazioni senza Stato e viceversa
ci sono degli stati formati da più nazioni. Vi sono anche stati senza nazione. Occorre
infine ricordare che con il termine nazioni in passato si intendeno anche
associazioni di mercanti aventi la stessa nazionalità e residenti in uno Stato
estero per motivi di commercio verso il cui governo erano rappresentati da
propri consoli (diversi dalle rappresentanze statali presso altri stati).
Il concetto di nazione nella storia Antichità e testi sacriModifica L'archetipo
della nazione d'IsraeleModifica La Bibbia descrive il concetto di nazione
(nationes o gentes) come "una delle grandi divisioni naturali della specie
umana uscita dalle mani di Dio creatore, espressione della diversità visibile
della società umanasulla terra". Le nazioni sono il risultato della
divisione dell'umanità in schiatte, stirpi e popoli, come il fruttodel
superamento dell'unità originaria del genere umano. La Genesi racconta
del passaggio da un primitivo universalismo a una dispersione dei popoli,
causata forse nel tempo attraverso la discendenza dei figli di Noè,
sopravvissuti con lui al Diluvio universale, o repentinamente dall'edificazione
della torre di Babele. L’Apocalisse di San Giovanni pronostica un ripristino
dell'antico universalismo, secondo un piano di salvezza che riguarderà tutte le
nazioni e non soltanto il popolo d'Israele. Di preferenza, nelle Sacre
scritture il termine nazione ricorre per indicare i nemici pagani del popolo
eletto, quelle nazioni, cioè, che non riconoscono Dio e la sua potenza. Il
popolo di Dio deve lottare e combattere le nazioni per difendersi dalla
sottomissione e dall'errore. Tutto ciò riconduce a un sentimento di
nazionalismo. La nazione di Israele nasce come "lega sacra" tra
le varie tribù ebraiche, su una base al tempo stesso etnica e religiosa. Sarà
questa unione culturale (variabile culturale) a tenere unito il popolo di Dio,
anche in assenza di una forma politica stabile. Grecia Possiamo tradurre
in greco il termine nazione con "ethnos", sebbene questa voce abbia
assunto un elevato numero di connotazioni: popolo (greco o barbaro), forme
politiche associative non riconducibili alle polis, ma anche un popolo o una
comunità etnica con un proprio statuto politico-giuridico e un'autonoma
struttura costituzionale. Il termine ethnos indica non tanto una popolazione
dispersa su un territorio esteso, che vive in villaggi e unita da legami
politici deboli e intermittenti, quanto un insieme, etnicamente omogeneo, di
comunità politiche locali, con un'identità politica fondata essenzialmente
sull'elemento territoriale. Il termine genos indica la comune discendenza, la
provenienza da uno stesso ceppo, i vincoli di sangue, ma generalmente non
esprime vincoli di appartenenza politica. I differenti popoli che formano
la nazione (ethnos) ellenica sono accomunati su vincoli di sangue (variabile
naturale) più che da legami di tipo culturale o politico territoriale.
L'evento che più di ogni altro ha unito i greci in un sentimento unitario, sono
state le guerre persiane. Socrate distingue la rivalità interna e la definisce
discordia, dalla minaccia di altri popoli, che chiama guerra. La superiorità
culturale e politica dei greci rispetto ai barbari favorisce un sentimento di
unione non solo di sangue, ma anche politica e culturale, che si perpetuerà
oltre la contingenza persiana, anche se non si raggiungerà mai la realizzazione
di una nazione in senso proprio, libera da conflitti interni e rivolta a un
espansionismo esterno. RomaModifica È nel mondo romano che il termine
nazione fa la sua comparsa per la prima volta e viene utilizzato con sfumature
diverse. Nel suo significato immediato la natio richiama la nascita e
l'origine, la comunità di diritto alla quale si appartiene per vincolo di
sangue, secondo uno degli usi restrittivi che già si trova nella tradizione
biblica. Nell'uso romano la natio è anche la terra nella quale si è nati, il
luogo d'origine, di appartenenza o di provenienza. Generalmente natio viene
utilizzato per indicare le popolazioni straniere, alleate o sottomesse a Roma.
Altre volte indica popolazioni ostili alla res pubblica, o popolazioni barbare
e arretrate. A differenza di GENS, che indica una stirpe intera (ad
esempio la gens germanica, GENS ITALA), natio indica le singole tribù. Il
termine natio ha assunto dunque valenze e connotazioni diverse, che indicavano
l'esistenza di vincoli di appartenenza politica basati sul sangue,
sull'affiliazione tribale e sui legami territoriali, ma non la presenza di un
ordine politico complesso e articolato, di un livello di civiltà lontanamente
paragonabile a quello romano. Questo spiega perché, per indicare Roma, il
sostantivo natio venga sostituito da civitas, patria, res pubblica,
Urbs. Il Medioevo è un periodo di mezzo fra il mitodell'universalismo
(realizzato antecedentemente sotto forma di impero) e il particolarismo nazionale
che si realizzerà nei secoli a venire. È un periodo importante, che pone le
basi per i successivi mutamenti storici e sociali. Tra l'età tardoromana e
l'inizio dell'Alto medioevo vanno ricercati i fattori e gli elementi dalla cui
combinazione scaturirà in seguito la maggior parte delle nazioni storiche che
ancora oggi compongono la carta politica dell'Europa. Il Medioevo è il
periodo d'elezione per studiare la formazione di buona parte degli stati
europei. Le nationes universitarie Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Nationes, Peregrinatio academica, Clerici
vagantes e Authentica Habita. Le nationes universitarie, sorte nelle Università
medievali d'Europa, sono una delle espressioni storicamente più significative
del compromesso tra universalismo e particolarismo. Gli scholares vagantes si
muovono da tutta Europa per apprendere nelle diverse città europee gl’insegnamenti
impartiti da magistri a loro volta provenienti da ogni
paese. Particolarismo dettato dalla loro provenienza territoriale. Universalismo
caratterizzato dal sapere (universale appunto). Al tempo stesso, le
corporazioni e associazioni cui davano vita nelle città che li ospitavano per
difendersi reciprocamente dalle pressioni dei poteri locali, tendono a
strutturarsi in funzione della loro differente provenienza geografica, sulla
base dunque della terra d'origine, della lingua materna e della diversità di
costumi. "L'università divenne il centro e il punto di partenza
dell'organizzazione nazionale. Le nationes mercantili e conciliari. Più
rilevante è stata la funzione svolta dalle nationes mercantili. Si tratta di
comunità forestiere composte da commercianti e operatori economici stabilmente
insediate all'estero. Similitudini con le nationes universitarie:
Nascita spontanea, volontaria e limitata nel tempo; Garantire assistenza e
tutelare gli interessi professionali; L'aggregazione avviene in base a criteri
linguistico-territoriali; In generale, le nationes mercantili hanno avuto un
ruolo più spiccatamente politico-rappresentativo: non si sono limitate alla
salvaguardia dei privilegi e delle concessioni ottenuti dal potere locale o al
perseguimento di comuni obiettivi materiali, ma hanno anche perseguito lo
sviluppo delle relazioni economiche e politico-diplomatiche tra paesi e la
definizione di modelli socioculturali e d'identità politico-territoriali. Si
può dunque dire che hanno storicamente contribuito alla costruzione della
futura Europa delle nazioni. Agli interessi dei commercianti si affianca
la solidarietà patriottica, l'affinità culturale e religiosa, una lingua comune
e un comune sentimento riferiti a una città/regione/nazione. Il principio
qui stabilito, se da un lato dimostra come in questa fase storica
l'appartenenza (o identità) nazionale sia ancora priva di rilevanti
connotazioni politiche, dall'altro conferma come i valori etnolinguistici che
sono alla base di quella che potremmo definire l'idea di nazione culturale
fossero già pienamente attivi nella mente delle classi dirigenti e dei ceti
intellettuali dell'epoca. Dalla Riforma alla Rivoluzione A partire dal
'500 fenomeni come l'accentramento del potere politico nelle mani dei sovrani,
l'affinamento letterario delle lingue vernacolari, il radicamento su base
territoriale delle chiese riformate producono, su gran parte del territorio
europeo, il progressivo consolidarsi del sentimento collettivo e della
coscienza unitaria di sempre più vaste comunità umane, che cominciano ad
assumere una fisionomia e un'identità nazionale. MACHIAVELLI (si veda): Il
termine nazione assume un significato generale ed estensivo poiché si riferisce
a collettività straniere, a popolazioni e a paesi oppure può richiamare una o
più comunità con la loro particolare fisionomia storica e culturale. Nazione
indica dunque differenze linguistiche e territoriali, diversità culturali, ma
anche la continuità storica che caratterizza la vita di un popolo rendendolo
specifico e differente dagli altri. GUICCIARDINI (si veda): Oltre agli usi
scontati (luogo di nascita, paese di appartenenza, popolazioni barbare
straniere), nazione indica anche una comunità etnico-territoriale distinta dal
punto di vista della cultura. Gli svizzeri si alleano col ducato di Milano per
respingere i Francesi. Nascita delle chiese nazionali (cuius regio, eius
religio). Distacco teologico ma anche politico e linguistico rafforza il senso
di appartenenza. In questa fase è possibile individuare una profondità
storica: il termine nazione non indica soltanto coloro che su un dato
territorio condividono la stessa lingua, gli stessi costumi e la stessa
religione, ma un insieme di caratteri e di legami che rimanda ad un passato
percepito come unico e peculiare, con una sua forza vincolante. Per il
periodo storico compreso tra Rinascimento e Rivoluzione francese possiamo
distinguere tre modelli o varianti del concetto di nazione: Nazione
statale: la nazione si forma sotto la spinta dello Stato. La crescita del
sentimento nazionale è proporzionata alla crescita dello Stato (territoriale).
Es. Inghilterra; Nazione culturale: sviluppata in quegli stati in cui il
modello politico statuale si è sviluppato con maggiore ritardo (Germania, ITALIA).
La nazione coincide in questo caso con una comunità popolare basata sulla
cultura, sulla lingua e sulle tradizioni storiche. Nazione politica sovrana. La
nazione costituisce un'unione volontaria di cittadini che si pone, al posto
dell'antico sovrano, come fondamento esclusivo dello Stato. Da qui si sviluppa
una sovranità politica. Es. Francia rivoluzionaria. La nazione culturale. Fonda
la sua coesione sulla lingua, sulla cultura e sulla tradizione (Herder), non
sull'astratta rigidità di un'obbligazione politica (Kulturnation). Secondo
Herder nella vita di una nazione, l'unità di cultura e di lingua viene prima
dell'unità politica, dello Stato e della costituzione. I vincoli culturali sono
più stabili e duraturi di quelli istituzionali. Esempi di nazione culturale
(Germania, Italia). Herder teorizza la nazione come un fattore di progresso
civile e morale, nonché come un tramite fra l'individuo e l'umanità.
Realizzando sé stesso all'interno di una realtà sociale culturalmente omogenea
e spiritualmente coesa, l'uomo può più facilmente attingere alla dimensione
dell'universalità e realizzare la sua natura sociale (visione
universalistica). La nazione politica - Visione romantica di Rousseau Pone
al centro la volontà degli individui che vi fanno parte (volontà di costituire
una nazione), piuttosto che la natura e la storia, come fattore fondante della
nazione politicamente intesa. Richiamo al sentimento piuttosto che alla ragione
(Rousseau). R. sottolinea l'importanza che le istituzioni, la volontà politica
e un agire sociale collettivo sorretto dalla passione comune e dalla
consapevolezza di sé e della propria identità rivestono nel salvaguardare e
rafforzare il sentimento di appartenenza nazionale di qualunque identità
politica. A proposito delle diversità dei popoli Rousseau afferma che sono le
forme di governo, i sistemi di legislazione e le leggi che devono adattarsi
allo spirito dei popoli e al loro carattere. Per Sieyès il terzo Stato
rappresenta la nazione intesa proprio come un organo assoluto senza il quale lo
Stato non esisterebbe. Gli ordini privilegiati sono qualcosa di esterno alla
nazione. Minoranza infima e inutile. Ciò che lega una nazione non è dunque la
comune origine storica, la lingua, i costumi o il territorio, ma la volontà
degli individui, tutti ugualmente liberi. Volontà non alimentata da retaggi
storici ma da sé stessa. Ottocento In seguito al periodo rivoluzionario,
il campo semantico del termine nazione si allarga notevolmente: da semplice
realtà collettiva caratterizzata da usi e costumi a soggetto originario
dell'organizzazione della società, la comunità fondamentale che legittima le
istituzioni che organizzano la vita collettiva. Associazione con altri
termini: popolo, patria, libertà, cittadinanza, Stato, volontà,
sovranità. Aspetto terminologico Il concetto di nazione diventa globale e
inclusivo in corrispondenza della nascita degli stati-nazione. Indica quindi la
totalità degli abitanti di un paese, si avvicina al concetto di cittadinanza e
spesso si rivela indipendentemente da componenti culturali o etniche. Dunque
nazione coincide sempre più con "insieme dei cittadini" o
"popolo", il quale assume la valenza di un soggetto politico unitario
composto da uguali. Al contempo la nazione si compenetra alla patria. Nasce il
nazionalismo. Aspetto relativo al contesto in cui si impone la nazione Mutamenti
legati alla rivoluzione industriale (sviluppi trasporti, comunicazioni di
massa, urbanizzazione). La nazione rimane un punto di riferimento per i
cittadini innanzi ai mutamenti sociali. Attivismo politico di nuovi ceti
e gruppi sociali di matrice borghese. Dunque nazione come fattore di
integrazione socioculturale innanzi alla disgregazione delle rivoluzione
industriale. La nazione ha bisogno di basi storiche e culturali su cui
radicarsi: costruzioni più o meno spontanee da parte di poeti, storici,
scrittori, filosofi, linguisti e filologi (intellettuali). Nazionalizzazione
(attribuire un significato nazionale) dei miti del passato. Dunque dare radici
storiche a qualcosa di già esistente. Alcuni approcci alla nazione
elaborati Lo stesso argomento in dettaglio: Nazionalità. La nazione romantica Visione
illuministica: nazione come realtà nella quale si riconoscono gli esseri
illuminati e i popoli i cui costumi siano stati segnati dalla logica del
progresso storico. Visione romantica: nazione come sfera di appartenenza
particolaristica ma non esclusiva. La nazione non può fare a meno di entrare in
rapporto con la cultura e lo spirito delle altre nazioni e degli altri popoli,
insieme con i quali essa costituisce un più vasto organismo vivente. I popoli
possono vivere in armonia mantenendo la propria individualità. Passaggio
dallo spirito cosmopolitico settecentesco al nazionalismo ottocentesco. Fichte:
solo la nazione tedesca (grazie alla sua superiorità linguistica e culturale,
ecc.) può fare da guida politico-spirituale a beneficio dell'intero genere
umano. Realizzare il cosmopolitismo partendo dal nazionalismo. La Germania è
superiore: dunque è l'unica in grado di generare quell'universalità. La
superiorità linguistica della nazione tedesca, secondo Fichte, è legata alla
capacità dell'Urvolk ("popolo originario") di mantenere e
salvaguardare la propria lingua originaria ("Ursprache") da influssi
stranieri, restando stanziati sul territorio d'appartenenza, a differenza di
altri ceppi germanici che, migrando, hanno favorito il modificarsi non solo
delle proprie abitudini comportamentali, ma anche della propria lingua. Dunque,
il popolo tedesco è l'unico popolo, il popolo non corrotto dal progresso e
dalle regole. Nazione, libertà, umanità Le differenze fra nazione
culturale e politica non sono così individuabili da un punto di vista
dell'analisi pratica (sangue e volontà si mescolano). La nazione
italiana: non è qualcosa da costruire ex novo, ma è una comunità naturale che
deve essere risvegliata dandole uno Stato e un assetto politico unitario. Per
gli autori italiani, il termine nazione è unito alla libertà, alla politica e
allo Stato. Al contrario degli intellettuali tedeschi come Herder, quelli
italiani pensano che le variabili culturali siano solo un punto di partenza per
giungere a una nazione in senso politico, libera e sovrana, dotata di
istituzioni e di un governo che ne rispecchi la specificità. Mancini: le
nazioni costituiscono una dimensione naturale e necessaria della storia umana,
la cui vitalità storica dipende tuttavia dalla loro libertà e indipendenza, dal
fatto cioè di essere non un mero aggregato di fattori naturali e storici
(territorio, lingua, ecc.), bensì un corpo politico e di possedere un governo,
una volontà giuridica e leggi proprie. Senza lo Stato la nazione rischia di
restare un corpo inanimato. MAZZINI (si veda) vede nella nazione la base
politica della sovranità popolare e dello stato democratico: "Per nazione
noi intendiamo l'universalità de' cittadini parlanti la stessa favella,
associati, con eguaglianza di diritti politici, all'intento comune di
sviluppare e perfezionare progressivamente le forze sociali e l'attività di
quelle forze." Differenza fra MAZZINI (si veda) e Sieyès. Per Sieyès il soggetto storico che
fa nascere la nazione attraverso la volontà sono i cittadini (liberi e uguali),
per MAZZINI (si veda) è invece il POPOLO, inteso unitariamente come titolare di
diritti e doveri che trascendono quelli dei singoli individui, popolo come
espressione di una nuova epoca storica. Funzione pedagogica della nazione: essa
educa l'uomo al sacrificio, al dovere e all'etica in funzione della
comunità. Marxismo e questione nazionale Marx vede la nazione come un
progetto della classe borghese, la quale, proponendosi come classe dominante,
conquista il controllo dello Stato, dei suoi apparati legali e produttivi, a
scapito dei vecchi ceti feudali e aristocratici. La nazione non costituisce
dunque una totalità omogenea. I proletari vi sono esclusi. In quanto prodotto
borghese, la nazione è strettamente connessa alle dinamiche del sistema
capitalistico e come tale questa verrà meno con il superamento del capitalismo.
La nazione è dunque una realtà storico-politica contingente. Chabod,
L'idea di Nazione Bari Il World Book Dictionary definisce la nazione come “la
popolazione che occupa uno stesso luogo geografico, unita sotto lo stesso
governo, e parlante usualmente la stessa lingua” ^ LA STORIA, Mondadori,
Webster's New Encyclopedic Dictionary (trad en-WP). ^ Il termine patriottismo
costituzionale, coniato dal politologo e giornalista conservatore tedesco Sternberger
fu completamente reinterpretato dal filosofo tedesco Habermas. Intervista con
Mayos, presidente Circolo di Barcellona di studi della nazione. Internet
Archive. Rokkan, Territori, Nazioni, Partiti: verso un modello geopolitico
dello sviluppo europeo, in "Rivista Italiana di Scienza Politica Chabod,
L'idea di Nazione, Bari, Laterza; Rokkan, Territori, nazioni, partiti, in
"Rivista italiana di Scienza politica Stato, nazione e democrazia in
Europa, a cura di Peter Flora, Il Mulino, Bologna 2002 Anthony D. Smith, Le
origini etniche delle nazioni, Bologna, Il Mulino, La nazione. Storia di
un'idea, Rubbettino, Soveria Mannelli Reinhard, Storia del potere politico in
Europa, Il Mulino, Bologna Grilli di Cortona, Stati, nazioni e nazionalismi in
Europa, Il Mulino, Bologna 2003 Alessandro Campi, Nazione, Bologna, Il Mulino,
Muller, Constitutional Patriotism, Princeton Unità nazionale Patria Popolo
Stato Esilio Patriottismo Nazionalismo Mito-motore Etnocentrismo Etnogenesi
Comunità immaginate Comunitarismo Pulizia etnica Razza Discendenza Xenofobia
Micronazione Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni
sulla nazione Wikizionario contiene il lemma di dizionario nazione Smith,
Nazione, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, nazione, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, nazione, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana; Nazione, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera
Nazione, in Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto dell'Enciclopedia; Portale
Antropologia Portale Geografia Portale Politica Popolo
insieme delle persone fisiche che sono in rapporto di cittadinanza con uno
Stato Nazionalità appartenenza di un individuo a una determinata
nazione Cosmopolitismo atteggiamento di chi si considera cittadino del
mondo. Nome compiuto: Dino Formaggio. Formaggio. Keywords: arte naturale,
l’arte come comunicazione, fenomenologia della tecnica artistica, natura, arte,
artistico, tecnica, l’arte come comunicazione, segno della natura, segno
dell’arte, segno naturale, segno artificiale – artificiale – segno di natura,
segno di arte, ‘phuseos’ ‘theseos’ – per natura, per positione -- la natura, la nazione -- Refs.: Luigi
Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Formaggio,” The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Burali-Forti: la ragne conversazionale
e il paradosso, ragione conversazionale ed implicatura conversazionale – scuola
d’Arezzo – filosofia aretina – filosofia toscana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Arezzo). Abstract. Grice: “It’s funny, but at Oxford, we call
logicians blue-collared crew – and it’s notable too that logicias seldom teach
at Bologna faculty of philosophy, but places like Torino and such!” Keywords: System G-hp. Filosofo
aretino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Arezzo, Toscana. (Arezzo -- Torino). Filosofo, matematico e
logico italiano. Figlio del pittore e compositore F. F. nasce da Cosimo. Studia
a Pisa con DINI (si veda) e BETTI (si veda), laureandosi. Professore a Torino
dove frequente il “gruppo di gioco” di Peano. Collaboratore di Peano nella
stesura del celebre “Formulario matematico”, ne continua l'opera nel settore
della logica, con la pubblicazione di “Logica matematica” – “a blue-collared
practitioner, I’d say, had his father not been the celebrated composer!” --
Famoso è il paradosso che porta il suo nome e che riguarda l'INESISTENZA
dell'insieme di tutti i numeri ordinali. Docente di geometria analitica e
proiettiva a Torino. Conduce ricerche sul calcolo vettoriale e la geometria
differenziale (con Boggio, Burgatti e Marcolongo), l'astronomia, e la
balistica. Con Marcolongo, in
particolare, sviluppa il calcolo differenziale assoluto senza coordinate, in
opposizione al calcolo tensoriale sviluppato da Civita e Curbastro. Con Boggio applica tale calcolo alla
relatività generale, fornendone una prima formulazione invariante. Muore nell’Ospedale Mauriziano di Torino,
affetto da carcinoma dello stomaco. Altre saggi: Logica matematica, Milano:
Hoepli, Introduction à la géométrie différentielle, suivant la méthode de
Grassmann, Parigi, Gauthier-Villars, Corso di geometria analitico-proiettiva
per gl’allievi della R. Accademia Militare, Torino, Petrini di G. Gallizio, e Marcolongo, Analyse
vectorielle generale: Applications à la mécanique et à la physique (Parigi:
Gauthier-Villars, Burali-F., Cesare e Boggio, Tommaso, Meccanica razionale
(Torino-Genova: S. Lattes et c.) Burali-F., Cesare, Geometria descrittiva
(Torino-Genova: S. Lattes et c. Fu Segretario Capo dell’Amministrazione
Provinciale di Arezzo e cavaliere della Corona d’Italia. Mille anni di scienza
in Italia, Museo Galileo - Istituto e Museo di Storia della Scienza, Voci
correlate Paradosso di F. Formulario mathematico Boggio Burgatti Marcolongo F. su Treccani.it – Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Burali-F., Césare, su sapere.it,
De Agostini. Wikidata Burali-F., in Enciclopedia della Matematica, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Agazzi, F., Cesare, in Dizionario biografico degli
italiani, vol. 15, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F., su MacTutor,
University of St Andrews, Scotland. F., su Mathematics Genealogy Project, North
Dakota State University. Modifica su Wikidata Opere di Cesare Burali-Forti, su
MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata Biografia dovuta a Francesco
Tricomi nel sito della SISM Biografia curata da Roero in Torinoscienza.Portale
Biografie Portale Fisica Portale Matematica Categorie: Matematici
italiani Matematici italiani Logici italiani Nati ad ArezzoMorti a Torino
[altre] MANUALI H0EPL1 ly r v (0 1 logica MATEMATICA F. I’rofoaoiu u t'Ilit H.
Acauloniia Militari- ili Torino. ULRICO IIOEPLI UDITORE - LIBRAIO DELLA I1EAL
CASA MILANO, Torino proprietà letteraria Vikcemio Bona, Tip. dello LL. MM. e
dei RR. Principi- prefazione Ea si recto eonslilnfa fnerinl S= : SE;I3f5p u
Ttoi%r Mio * wu comu - f„™„ 4 Q at2teHoa^osecJ a st.-ca, stadia „ formo di
ragionamento proprie del lingua»»,-,, comune, „ dei ^ di questa si serper
enunciare le sue leo'e’ì r o / studi» lo fo,., gg . La lo 9 lra '"«temati,
-a, . ‘, kìWC f Ii ragionamento proprie delle :™;:: !t‘ livp : in «„ ^ manca. e
da questa copia i simboli dei quali si serve por enunciare le sue le^i ' Mentre
i termini del linguaggio comune as- sumono spesso diverso significato o valore
a se- conda del posto che occupano nel periodo, a causa Iodio frequenti
eccezioni a cui sono soggetto le goj^auimatical], i simboli della logica ma-
to, natica “»«ano ovunque il mcdesifS leg», allo" T" d ° ™ WWMi rru
Total- m ente in simboli la teoria dei numeri interi. Questo lavoro fu seguito
da altri numerosi, per opera di diverso persone. Oggi il formulario che va
pubblicando la Rivista ili matematica si pro- varie della Logica matematica, ed
è lo sviluppo di un corso di letture scientifiche da me fatte nel corrente anno
scolastico presso l’Università di Torino. I segni dei quali ho fatto uso sono
quelli adottati per il Formulario, ora citato, e i numerosi esempi sono stati
scelti nel campo della matematica elementare, per rendere possibile la lettura
di questo libro, anche a chi non possiede nozioni di matematica superiore.
Torino, marzo 189pone di t rattare to talmen te in_ s i mboli le n arti della
matematica . *ìl "presente manuale”lontiene gli elementi J»» ■♦♦■ -♦♦- -4^
•■ S5S555SS ZNTozioni generali. fl»« H«
v . ay»p-> Lo •- U> «U*V«4«s# - afi**rn+4.i r- t_ i«muvtA m. Ciotte, ~ h
scriveremo il segno e, nuziale «ella parola tcrri, al posto >«^wi dell
’aflermazioiie è un . Scrivendo, p. es., Dante e poeta, esprimiamo, Dante è un
poeta, e indichiamo una prono - ‘ sizione . grammaticalmente semplice, della
quale Dante è il soggetto ( nome proprio ) e poeta fe l’attributo ( nome comune,
nome di una classe). t ; t [£ *** In matematica occorre spesso far uso delle
classi “ Nu- meri interi “ Razionali „ “ Numeri reali „ Scri- veremo : N al
posto di numero intero positivo (lo zero escluso). R „ razionale positivo ( ).
Q „ numero reale positivo ( ). q „ numero reale positivo, o negativo, o nullo.
Np „ numero primo. N 0, Rii, Qo, per indicare le classi N, R, Q, agli indi-
vidui delle quali si unisca lo zero. C-.oAi.t Fosti 1 2 Capitolo l V N.r, ove x
è un numero intero, per indicare, multiplo di x; cioè indichiamo con Na- la
classe i cui individui sono l.r, 2x, Sx ... prodotti per x degli individui di
N. r Con i segni ora introdott i e il segno e. scriviamo sotto F0V,( la forma
simbolica seguente le prop . 2 e N ; 3/4eR; ireQol£SÌ, e x (*-f- 1) i (r-J- 2)
«N 6 ò la tesi; il segno 3 e il segno di deduzione. Nella (1), abbiamo fatto
precedere e seguire il 3 da un punto per separare i tre segni x e N, 3, x (x
-f- 1) (a; + 2) e N 6 . In generale se a, b sono prop. con 036, che si legge “
da a si deduce b esprimiamo che “ se fc vera a al- lora b è vera „ 0 anche “ b
è conseguenza di a * * # Indicheremo con ab, abc f raffennazione^imuU^nea delle
prop. a e b; a, b e c; '^"Vcmló^Tes^ affermare che 3 e 7 sono numeri primi
scriviamo 3 e Np, 7 e Np e separiamo con un p ugto le due prop. semplici 3 e
Np, 7 s Np. Analogamente scrivendo, 11 e Np . lSe Np . 17 e Np af- fermiamo
simultaneamente che 11 . 1S, 17 sono numeri .£ primi. Volendo affermare
simultaneamente che x, ij, z, sono individui di una classe u, scriveremo
x, t' e Q . 3 . log (xy) = Ioga; -f- l
ogy *• y £ q • D ■ (** + + y 8 ) (* - y) = *» - 2,3 che esprimono note
proposizioni di algebra. - *4. * !"* • 11 ^ a. *' y, z e N . * txy maggiore della loro media geometrica, 1 ~
y, 2, u e Q . ar/«, y . x — y e Nz : o :
rest (x, z) = rest (y, z) “ Se la differenza dei numeri x e y è multipla di z,
al- lora dividendo x e y per s si ottengono resti eguali La traduzione
letterale dei simboli può farla il lettore per esercizio. fiCapitolo I Quando
per 1 |l prop. a 0 b 'e vera l’attenuazione siinub tanea a 0 b . b o a, diremo
che aj è equivalente _g \b e scrive- remo a — b. Restando sottintesa l’ipotesi
tv,y, z « N . x> ;/, abbiamo che se x — y è un multiplo di z, allora rest
(x, z)=rest(j/,z): o viceversa; se rest (x, z) — rest (y, z) allora x — y è un
multiplo di z. Sono vere cioè le due prop. x — !/ e Nz . 0 . rest (a:, z) =
rest («/, z) rest ( x, z) = rest (y, z) . 0 . x — y e Nz Possiamo quindi
affermare che la prop. x — y e Nz è equivalente alla prop. rest (x, z) = rest
(y, z). Rimettendo l’ipotesi soppressa, abbiamo la prop. a:, I/, z e N . .T
> S' : o : a: — y € Nz . = . rest’.(», z) = rest (y, z) che può leggersi
" Se x, y, z sono numeri ere maggiore di y, allora avremo che; dire che x
— y è un multiplo di z equivale a dire che, rest (x, z) — rest (y,z) „.
Analogamente abbiamo x, yeN :Q:x 0 : Q : x = 0 . u . y ' == 0 e leggiamo “ Se
x, y sono numeri reali e xy — 0, allora avremo clic x è eguale a zero, o y c
uguale a zero,. x, y £ N . z e Np . xy e Ns : o : a: e Nz . u . y e Nz “ Se il
prodotto dei numeri x e y è multiplo del nu- mero primo z, allora, o x è un
multiplo di z o y ò un multiplo di j „ o in altri termini “ Se un numero primo
divide un prodotto, divide uno almeno dei fattori „. Scriveremo il segno - al
posto della parola non. Se a \OYl b una prop. con - a indichiamo la sua
negazione. Così per -(rtN) si legge “ non è vero che x è un numero intero *. In
luogo del segno - (x e «), se u b una classe, scriviamo x- ai e leggiamo “ x
non ò un « „. Nozioni generali 9 *' » .o~ — ~t » '-r ' * z\&. „). -(* V» e
leggeremo ‘ * non è eguale ad y,, * non c .g giore di ‘ * non e minore di y
a^yèN.ai-eNyiO: rest (*, y) e N ■ Se .r non è un multiplo di » 11 r68t ° llÌ *
per y è un numero X « N . y e Np . ir - e Ny : 0 = D (*, y) =f= 1 « Ogni numero
primo, c primo con tutti numeri che non sono suoi multipli c e N . y e Np . x -
« Ny : 0 : 1 1 € - Se il numero * non e un multiplo del numero primo y, allora
a?" 1 -! e nn multiplo di y • n • x - = y : = :x>y • u • * ' J - X ' " VT-, . T nale ad, equivale a
dire cd ie^ p x non e minore di y Dei sc^ni che abbiamo finora introdotti parte
come i ItÌT r O a N P, quot, rest, D, m, appartengono segni N, No, R, Q> q-.
^ alla matematica. Gli insieme ai segni r> » ’ ’ ” > — insieme ai segni
-h » • _ ’ tengono a ll a logica. altri segni e 0, ^", Pi i x *> 4 h n
maT» ■'rfcj.i -1 — ■■ Per mezzo di
quest’ultimi e dei segni propri di una Oc- terminata scienza, possiamo
esprimere tutte le pjaaffiìi: della scienza smessa. In ciò che precede abbiamo
dato qualche esempio cU prop. d’aritmetica e algebra, espresso mediante gli
indicati segni di logica, ma non ci siamo occupati delle leggi alle quali
questi segni soddis- fano. Faremo lo studio di queste leggi nei capitoli se-
guenti, adoperando il poco materiale introdotto fin qui per portare degli
esempi che aiutino il lettore a inten- dere i cone.etti astratti della logica.
Le proposizioni primitive. Le lettere a,b,c, indicano proposizioni qualunque.
Scriviamo il segno £ al posto della frase si deduce, e scrivendo 036 leggiamo
da a si deduce b. Esprimiamo con queste parole ciò che si esprime anche con le
frasi “ b ò conseguenza di a », “ se a fe vera allora anche b b vera „.
Indichiamo con abc ... l ' affermazione simultanea delle '*■ prop. a, b, c, ...
Il segno ab si legge a e b, o anche, è vera a ed fe vera b. Scrivendo abc
indichiamo latlermazione simultanea di ah e di r, scrivendo a(bv) indichiamo
l’affermazione simul- tanea di a e bc. Ammettiamo che iiqIi c ab sono
proposizioni. Si hanno le proposizioni P,.. 1- S,2. «0 aa l 3. ab 0 a I 4. ab 0
ba 1 5. abc 0 a(bc). xipjLjxxt***. a- 5 aa 12 ^«,w ^®*i£->a Le prop. 1-3 si
leggono u v (la a si deduce a ‘ da a si deduce a ed « „ ‘ da « e 6 si deduce a
„. Esprimiamo così che si nassa da un sistema di prop. ad un’altra che ne è
conseguenza, r epetendo il sistema (prop. 1), o ripe- tendolo p iu volte (pr
op. 2) o sopprimendo qualche prop. del sistema (prop. 3). Le prop. 4, 5 si
leggono “ da a e h si deduce b ed a „ “ da ab e c si deduce a e he „. Esprimiamo
così che in un sistema di due prop. si puh cambiare l’ordine, e in un sistema
di tre prop. si può cambiare il modo d’ag- gruwpamenti o. Proprietà, che sono,
come vedremo, conse- guenze di queste si adoperano p. es. in algebra, quando da
un sistema di equazioni passiamo ad un sistema equi- valente o semplicemente conseguenza
del primo. t fW'r P » Vp7-rk) itone V 1 * 4 * . Al voìnplesso di segni « 0 b
daremo il nome deduzione, e diremo che a è il primo membro o l’ipotesi, e b il
se- * * -J)Oc è l’ipotesi e d la tesi della dedu- zione. Una deduzione, come la
precedente, può contenere due 1 Il Raziocinio 13 w o più segni 3. Quello fra i
segni 3 che separa l’ipotesi dalla tesi sarà preceduto e seguito, o solo
preceduto 0 solo seguito, dal gruppo di punti che contiene il massimo numero di
punti. Così p. es., col complesso di segni, à .b:Q:c.-.dQe::0:: f:o:g.h !
indichiamo la deduzione che ha per ipotesi il prodotto della prop. ab 3 c, per
la prop. il 3 e, e per tesi la prop. fogli- Pp Abbiam o ancora le proposizioni
6. 0.036:3:6. 7. a 3 li . 3 . a\ 3 b\. 8. « 3 6 . 6 3 c : 3 : « O lUytW 9. b .
3 . a 3 ab. La prop. 6 si legge ‘ Se è vera o, e da o si deduce 6, allora
avremo che b è vera È questa, in sostanza, la traduzione in simboli, di uno dei
modi con i quali si è detto che si può leggere il segno a 3 b. La prop. 7
esprime che si possono moltiplicare i due membri di una deduzione per una
stessa proposizione. La prop. 8 esprim e la forma di jn^ionaujento nota sotto,,
il nome sillogismo. Rappresenta un modo di eiiiumazionq della prop. h,
TrefrafFermazione simultaiiea delle deduzioni 036, &3»— I. a o et . b g c .
c 3 d : g : a Q d • ' [(o) . Pp8 : 0 : PI] (fl).
«Q&-&0c.c0 d.. 7 . a 3 b . c : 0 : a 3 cb [Hp . P6 : 3 : a 3 bc . bcj
cb . PI : Q : Ts] 8. (i 0 i . 0 . oc 0 cb [Hp . Pp 7 : 0 : ac 0 bc . bc y cb .
PI : o : Ts] 9 . a 3 b . 3 . cu Q cb [Hp . P8 : 0 : c« 0 oc . oc 3 cb . PI : 3
: Ts] 10. 0.3.03 ba [Hp . Pp 9 : 3 : o 3 ab . ab 3 ba . PI : 3 : Ts] 22
Capitolo II \ 1 . aob.Q.aoah [Hp . Pp7 : 3 : a 3 no . nn 3 aò . PI : 3 : 1 sj
12. ao&.aOc:0:«0&« ' -,, [Hp:D:«D^»-«D«:0 :0 0«*- o6 p 6 0 Ppl j ^DM 0
*)P„ 4 | [(•?*■, 'T) p » s [P 14 . P 15 : 0 : P [Ppl : 0 : P 2° fi 16
(5.®)pi6:0:P21 21. a=b: = :b — a \ \a,bl u*,:u- La P16 esprime che ‘ se a e
equivalente a b, allc^ anche 5 è equivalente ad « .. Esprimiamo ciò ne F/ gu
aggio comune dicendo ‘ « e b sono equivalenti ^ o anche dicendo che la
relazione espressa dal segno Le P 17, 18 esprimono che dall’affermazione a t
tqui e che “ da h si deduce a „. • . n La P20 esprime che ‘ Ogni jirop^cja
uivalente a,-— stessa, . Questo c il principio d’identit à. La P 21 espr ime l
In nroD a = b ò equivalente alla prop. b a. P22, y
rap'presentajia-an_piQiiediment2_di_eliminaai o ne | ai LaP
2?e!pn°mnL^Ltfqufvllentì le prop. che si ottengono Pana dall’altra, facendo
entrare un fattore nel- l’Hp o facendo uscire un fattore dall p. Sappiamo, p.
e., che sono vere le prop. (1) *,!,€N.D(:r,j/) = l : 0 : m(.r,j/) = ^ (2 ) x, u
eN.mi (r, y) = xy: 0 ■ D (*, y) — 1 Facendo nelle (1), (2), uscire un fattore
dall’Hp si ha (1) ' x, ;/ £ N : 0 : D (z, !/) = 1 ■ 0 ■ “, a = b. La Pili sarà
dunque dimostrata vera, quando avremo provato che essa è vera per prop. delle
forme ora indicate. Ciò facciamo con le formali seguenti Il Raziocinio 31 * * *
24. a = a . 0 . ab = ab [Hp : 0 : 0 « . a □ a : o : ab 3 ab . « 3 a : 3 ab 0 ab
. ab Q ab ■ 0 : Ts] 25. V = * . 0 . ab' = ab 26. a = a ■ b' = b:Q : ab' = ab
[Hp : 0 : ab' = ab',b' = b : 3 : a b' = = ab' .ab'-- = ab . P22 : o : Ts] (a)’.
a' = a o'oi: 0 :oofi [Hp : 0 : a 0 a . a 0 b . Pi : 0 :Ts] (a). a = a = 3: a
05. 3 - aQò [(a 1 • PII : 3 :(«)] ( 6 )'. a = a • « 3 b : o : a' 3 b [Hp : 3 :
a 0 0 . a 3 b . PI : 3 : Ts] (P). a! = a : 3 : 0 0 b . 3 . a 3 b [0)' . PII : 0
: (P)J 27. a = a : ■ 0 :a’’jb.=.a 0 b [(«) • 0 ) : 3 : P27] 28. V = b: 0 : a Q
b' . = . n 0 b 29. a = a . b' = b : 3 : a 3 6 ' . = . 03 * [Hp . '■ 0 a. 3 li .
= . a Q b':b' = b .-. 3 .-. a 3*’. = • « 3 b : a 3 b . = . a 0 b . P22
: 0 :Ts] 30. d = a : 3 : a — b . = . a = b 31. b' = = b: 3 : a = b' . = . a = b
32. a : = a . b' — b : □ : a! = b' . = . a = b Le P24, 25, 26
dimostrano in tutti i casi possibili la Pili quando A è della forma ab. Si può
notare che le P24, 25 possono esser considerate come conseguenze della P26 e
dpl Principi» d’identità „ - [„. P27-32 dimostrano la Pili quando A c della
forma aQb e a — b. Nelle P3Ò-82 non sono state scritte le dimostrazioni perchè
analoghe 32 Capitolo II alle dimostrazioni delle P27-29. Le prop. fa), (a),
egazioni_alfermano, l Pr ° P ' ' a 3 ' * 81 chiama la contraria della prop. a 3
A Il Raziocinio 35 La prop. - b 3 - « è dunque la contraria dell’inversa, (b 3
a), della prop. « 3 b. La Ppll esprime che : si può di ogni deduzione formare
la contraria dell'inversa. * * # Per mezzo della Ppll possiamo, p. es., dalla
prop. “ Ogni numero primo è primo con tutti i numeri che non sono suoi multipli
„, passare alla prop. “ Se un nu- mero primo non è primo con un numero, allora
questo è un multiplo del numero primo „. In simboli le due prop. ora enunciate
divengono m; per indicare ciò scriviamo - (a 0 A). Analoga- mente a - A indica
il prodotto di a per - A, e - « - A il prodotto di - a per - A. (DefJ (Defj 33.
a - A = - (- a - b) 34. a - = A : = : - ( a = A) ( a ). -Ao-o.q.ooA [Hp.Ppll 13
: -(-«)□-(- A) . PplO . Pili ; 3 : Xs] /35. a Ob. = .-b D -a [Ppll.(a): 0 :P35]
i 36. a = A . = . - a = - A [o = A: = :a 3 A.A 0 a.PlII.P35 : = --Ao-n * 0 3 -
A : ~:-A=-a: = : - a = -A] j37. - (aA) = - « u - A [( a“ ~b) P 33 • P P 10 • P
IH : 3 : P37] '38. - (a n b) = - a - b [P33 . PplO . P36 : 3 : P38] Il
Raziocinio 37 Le P33, 34 danno, in simboli, le definizioni dei segni « u b, a -
= b, che erano già state indicate in parole. La P35 esprime che Ogni deduzione
è equivalente alla contraria della sua inversa. La P36 esprime che Se due prop.
sono equivalenti, sono equivalenti anche le loro negazioni La P37 esprime che
La negazione di un prodotto è equivalente alla somma delle negazioni dei
fattori. La P38 esprime che La negazione di una somma è equivalente al pro-
dotto delle negazioni dei termini. 11 complesso di proprietà indicate da PplO,
P35, 36, 37, 38 lo indicheremo col segno V. • ' * * * La dimostrazione della
P36 comparisce sotto la l'orina di una catena di equivalenze che ha per estremi
i membri della equivalenza che si vuol dimostrare, e si legge La prop. ab fe
equivalente ad « 0 ft . 6 0 « ; questa per il prin- cipio di sostituzione
(Pili) e per la P35 è equivalente a - b o - « . - a o - b; questa (per del'.) è
equivalente * . * * • Proponiamoci di dimostrare applicando i metodi pre-
ludenti che ‘ Se il prodotto di due numeri reali è zero, allora e zero almeno
uno dei fattori Capitolo II 39 (1) x, f/€q.a;i/ = 0:O:aj = 0.u.y = 0 Dalla
teoria dei numeri reali si deduce facilmente la prop. x, yeq:a- = 0.y- = 0.\ 0
xy- = 0 Facendo uscire dall’ipotesi il fattore x - = 0 . y - *= 0, si ha x, V
e che si legge “ Se, dal non esser vero
che da c si deduce b, si deduce a ; allora avremo che da c si deduce «oh,. § 9
. — Composizione c scomposizione. (o). a 3 bc . o . a 3 b [Hp . Ppl
. PIV : 3-.a3bc.bc3b. Pp8 : 0 : Ts] 0 ). « 3 bc . 3 . a 3 c (T). I 40 . VII} '
( 40 . a 0 he : 0 ; « □ h . a 0 c [(a) . ((?) . P 12 : 0 : P (?)] a 3 b . a 3 c
: = : a 3 bc [P 12 . (t) : 0 : P 40 ] a 3 c . b 3 c : — : a b 3 c [P 40 3 - e 0
- 0 . - c 0 - 6 : = : - c p - a - b . PV P 40 ’J La P 40 contiene la P 12 come
caso particolare. Le P 40, 40 ’ esprimono che Il prodotto logico di due (o più)
deduzioni aventi la medesima Hp, è equiva- lente alla deduzione che ha la
stessa Hp e per Ts il prodotto delle tesi delle deduzioni date. Il prodotto
logico di due (o più) deduzioni aventi la medesima Ts, è equiva- lente alla
deduzione che ha la stessa Ts e per Hp la somma delle ipotesi delle deduzioni
date. Quando dalla forma 113 b . 030 o 03 e . h 3 c si passa alla forma «3 bc,
o avi gc diremo che si compongono le 42 Capitolo II ZmZZ ti?""™
iZZSZT ™ " “«• ■“«“» ' ^ «,yeN.ar = y: r );a ._ y *,yeN.a:y facendo uscire il fattore x, y e
N dall’Un „,•, prima la P40, poi la P40’ si ha Rimando *.y«N.-. 0 /.*= y . u .*
y e facendo entrare un fattore nell’Hp si ha *,ym-.x=y.v.x I . (te u Ììc u u (fg Il Raziocinio 45 e
questa catena di equivalenza si è ottenuta applicando la PIIl Tìa P43. Le
medesime osservazioni valgono per il prodotto di due o più fattori, al quale si
aggiunge una prop. Còsi, p. e., abbiamo (abcd) u e = (a >j e) (Ju e) (c u e)
(d u e) In generale esprimiamo le coso precedenti dicendo Il prodotto logico
gode della proprietà diatriba - tiva rispetto alla somma logica. La somma
logica gode della proprietà distribu- tiva rispetto al prodotto logico.
Indichiamo il complesso di proprietà ora esaminato col segno Vili. Vedremo nel
§ seguente delle applicazioni del me- todo Vili. § 11 . — Legge di
semplificazione. 44. a = aa li ... - a) = aAc u aA uAc co Ora si ha che abe 3 ab, (Pp 3), e quindi
la (2) per la P46’ si trasforma nella (1). Sia stata dimostrata la prop. “ Se
un numero primo divide un prodotto di due fattori, allora esso divide uno
almeno dei due fattori „, che in simboli si scrive (1) x e Np . y, 2 £ N . yz t
Na: : 3 : xj e N.r . u . z e Nx e proponiamoci di dedurre da questa la prop.
(2) x, ij, z e Np . yz € Nx : 3 : y — x . u . z =,-r che si legge “ Se un
numero primo divide un prodotto di fattori primi, allora esso è eguale ad uno
almeno dei fattori del prodotto 48 Capitole II Moltiplicando i due membri della
(1) per la proposi- zione x, xeNp, e usando le l’ Vili, IX si ottiene x e Np .
( y, z e N . z e Np) . yz e Nx .'. 3 x, i', z e Np . 1 / e Nx : u : x, y, z e
Np . z e Nx Ora è vera la prop. »/, ze Np . 3 . y, e e N, e quindi sem-
plificando l’Mp si ha (P. 46). (3) r, y, zeNp . jrxeN.r 3 x,y,ze Np . y e Nx :
u : x,y,zt Np . z e N.r Così l’Hp si è ridotta àll’Hp della (3). Resta da
trasfor- mare la Ts. Moltiplicando il primo termino della Ts per x, ;/eNp e il
secondo per x, z e Np (P. 44), e ricordando la proprietà distributiva, la Ts
della (3) è equivalente alla prop. (4) x, y, z € Np . (x, y « Np . y e Nx : u :
x, 2 e Np . z e Nx) Ora dalla teoria dei numeri primi sappiamo che x, y e Np .
y e Nx : = : x, y e Np . y = x x, z e Np . z e Nx : = : x, z e Np . y = z\
quindi la (4) equivale a x, y, a e Np . (x, y e Np . y = x : u : x, z e Np . z
=x) che per le proprietà Vili, IX si trasforma facilmente nella prop. x, y, z e
Np . {y = x . u . z = x) La (3) diviene dunque x, y, z e Np . yz e Nx : 3 : x,
y, z e Np . (y = x. u,z=x) Scomponendo questa deduzione che ha per Ts il pro-
dotto di due fattori, delle due prop. che si ottengono è Il Raziocinio 49
identica alla (2) quella che ha per Ts la prop. y = x .'J .z — x. § 12. —
L’assordo. (a). « - a 3 b - b * [Pp3:0: a(b v - b) Q a . PII :D:o.D.fiu- 6 ga .
PV : g : « • D • - « 0 b - b . PII : o : P(a)] 47. a- a = b-b [(a).(^) ( «):D
:p 47] 48. A = o-o . (Def) 48'. - A = t u ~ o » %49.AD» [Pp3 : D : o - a d a .
T48 : j : P49] 49’. o D - A 1 • j 50. « A = A [P49 . PIX : D : P50] 5Ó\ au - a
= - A 51. o - A = « [ P49' . PIX : D : P51J 51'. « (W. o D 5 . D . a - 6 = A [Hp : D : a - 6 D 6
- 6 . P48, 52 : D : 0)] 1 (T). a -b = A • D . a D b 1 [Hp . Pòi'
0 : (a - b) u b = b . TVIII . P48’, 51 : I 9:ouJ = 6 . P IX : D : TsJ [ 53. a 3
b . = . a -b = A [(3) . (Y) : D : P53J | 54, o u 6 = A : = : o = A • b = A [P52
.-. D
.• . a u b = A : = : « ^ i D A • P VII : = : a 3 A • * A • P52.: = : a = A • *
= A] Bur ali- Forti 4 50 Capitolo II La P 47 esprime che è costante il prodotto
logico di una prop. per la sua negazione. Tale prodotto logico lo indichiamo
(P48) col segno A. che leggeremo assurdo. (A è l'iniziale, rovesciata della
parola vero). Ciò corrisponde alla frase del linguaggio comune. “ È assurda
l'afferma- zione simultanea di una prop. e della sua negazione „. Il segno - A
può anche leggersi vero. Le P. 49, 49' espri- mono quindi che dall’assurdo puh
dedursi qualunque prop. e che da una prop. vera si deduce il vero. * * *
Essendo a ed li individui di una classe e a il segno che indica un’o’perazione,
diremo che h ò l’assoluto del- l’operazione a quando, qualunque sia a, a a h è
eguale ad h; diremo invece che h è il modulo dell’operazione a quando,
qualunque sia «, a ah e eguale ad a. Così, p. es., zero è l’assoluto del
prodotto e 00 l’assoluto della somma per i numeri reali; uno è il modulo del
prodotto per i numeri reali diversi da zero e 0 ò il modulo della somma per i
numeri reali. * • * * Le P 50, 50’, 51, 51' provano che La prop. a è l’assoluto
La prop. - \ e l’assoluto del prodotto logico. della somma logica. La prop. - a
è il modulo La prop. a è il modulo del prodotto logico. della somma logica. La
P 52 esprime che “ dire che da o si deduce as- surdo, equivale a dire che a è
equivalente ad assurdo La P 53 esprime che la deduzione • a 0 b fe equivalente
alla prop. « - 5 = A- i Il Raziocinio 51 Indicheremo il complesso di proprietà
logiche espresse dalle prop. 50-54 col segno X. * * * Valendoci dei metodi
precedenti dimostriamo che “ Se un numero è multiplo di altri due è multiplo
del minimo multiplo di questi In simboli (Cap. I) (1) y, z c N . x e Ni/ . x €
Nz : 0 : x e N (m(i/, z)). Se, restando l’Hp della (1), ammettiamo che x non
sia multiplo di m(y, z), allora con semplici deduzioni si trova che rest(r,
m(y, z)) è un multiplo di m(y, z); e quindi è o eguale o maggiore (cioè non
minore) di m(y, z); si ha cioè la prop. (2)
y.zeN.zeNy.zeNn.z-e N(m(t/, z)) : 0 : rest (*, m(y,z))- 1 si ha (4) se, y e N . A*, », r 0 /. r = 1 : “
: r = 1 . r > 1 : v:r=l .r 1 .r 1 e quindi che r e N . r = 1 . r > 1 : =
: A e facendo osser- vazione analoga per gli altri due termini della Ts, la (4)
diviene (5) se, y e N . A*, y, r : Q : *■ == 1 La prop. (1) fe così dimostrata,
poiché abbiamo provato, (3), che esiste almeno un numero r tale che xy = D (x,
y) X m (se, y) X r e di più che questo numero, (5), è eguale ad uno e quindi
che xy = D (x, y) X m (x, y) 54 Capitolo li § 13. — Trasporto dei termini e dei
fattori da mi membro ad un altro di una deduzione. i 57. 57'. 58'. ah 3 c . = .
a 3 c u - b [a 6 0 c . PX : = : ab - c = A . PV : = : 8 -(cu-J) = i. PX : = :»
3 cu-i] aQbuc. — .a-cjb [P57.PV : o : P57] abQc.=.a-cQ-b ] [ab [} c . P57 : = .
a o c u - h . P57' : = : a - e 3 - 5] ag!iuc. = .- iig-fluc Le P5jT, Sf
dimostrano che Si può nell’ipotesi sop- primere un fattore e as- segnare la
negazione di tale fattore come termine alla tesi. Si può nella tesi sop-
primere un termine e as- segnare la negazione di tale termine come fattore
all’ipotesi. Le P58, 58' sono immediate conseguenze delle due precedenti. * * *
Dimostrata, p. es., la prop. (1) x, ij e N : o : x — y . u . x > . u . x y.
«.* y . x - y e queste si potevano
direttamente ottenere dalla ( 1 ). ♦ * * Dalla prop. già citata (§ 11) y,
xeN.xeNp.yseNxiQiyENx.'j.zeNx si ottiene per la P 58 e la P V. (2) y,
zEN.xeNp.y-eNx.z-eNx^oiyz - e Nx Osservando ora che dalla teoria dei numeri
primi si ha che y £ N . x e Np . y - £ Nx : = : y e N . x E Np . D (x, y) = l
(“ ogni numero primo è primo con tutti i numeri che non sono suoi multipli „),
e moltiplicando l'Hp della ( 2 ) per i fattori, che già vi sono, y, z e N, xe
Np, x e Np, si ha y,zE N . xeNp . D(x, y)= 1 . D(x, z) = 1 : □ : y z - e Nx.
Moltiplicando i membri di questi per y, zeN.xeNp, si ha y, z e N . x e Np . D
(x, y) — 1 . D (x, z) = 1 : 3 : y, z e N . x e Np . D(x, y z) = 1 Scomponendo
(PVII) in un prodotto di tre 0 due dedu- zioni e tenendo conto di quella che ha
por Ts, I)(x, y, z) = 1 5fi Capitolo II si ha (3) y, z e N . x e Np . D(z, y) =
1 • *)= 1 : 0 : D (a;, y z) = 1 che esprime la nota proprietà ‘ Se un numero
primo è primo con i fattori di un prodotto, allora fe primo col prodotto # *
Dimostrate per i numeri reali, p. es., positivi (Q), le prop. (
1 ) x,y,zeQ.x = y .O.x + z = 'J + z (!') ez = yz ( 2 ) .... x>y. 0 .® + 2 >y + 2 ( 2 ') .
xz > yz e dimostrate pure le prop. fondamentali relative ai segni =,>,
y.x-y-. = -x- = y -x-y si possono dimostrare, facendo uso dei metodi di ragio-
namento che già conosciamo, le inverse delle prop. (, ), (1 ) (2) (2 )* Abbiamo
dalla prop. (2), cambiando * in y e y m *, la prop. *,i/zeQ.*
y ■ u • x .!/ ■ u • * y-°-* y allora x
- y. Nella prop. y, « e N . a; e Np . y
z « N* : □ : j/ € Nar . u . « e Na: ponendo il segno o al posto di u
si ottiene una prop. falsa, poiché, p. es., i numeri 6, 9 hanno un prodotto
multiplo del numero primo 3 e sono entrambi multipli di tre. . In generale al
segno o, nella Ts, non preceduta da segno -, di una prop., si può sempre
sostituire il segno u, Il Raziocinio ma al segno u non sempre si pub sostituire
il segno o, nel primo caso la sostituzione estende o restringe il senso della
prop. Il segno o 'e un segno d’operazione che chiamasi dts- giunzione compieta.
**# Per il segno o valgono le formule seguenti che il let- tore pub dimostrare
per esercizio. 60. a o6 = (ac6)(-ou-6) 61. - (a o h) = (- « o b) =(»»- b) 62. a
o b . 0 . a b 63. ab-A.O-a ul) = aob 64.
a o a = A 65. a o - a = - A 66. ao A = « 67. no-A=-" 68. a oh — boa 69. a
o b o c = « o (A o c) § 15 . Osservnzioni. 1 metodi di raziocinio espressi
dalle Pp (la Pp 10 ec- cettuata) sono contenuti nei metodi generali I-XI esa-
minati nei §§ precedenti, quando si ammetta di poter affermare la Ts di una
deduzione vera avente per Hp una prop. vera (il che equivale alla Pp6).
Ricordando infatti la formula «-*. 0 .«D*,laPpl* conseguenza de a p, a = (,
(II) ; la Pp2 della prop. a = aa (IX) ; la Pp3 della 60 Capitolo II prop. ab 0
ah e della P VII, poiché per mezzo di questa da aio ai si hanno le due prop. ab
Q a, ab^b; le Pp4,5 sono conseguenze della proprietà commutative e associa-
tiva del prodotto (Vili); la Pp6 del metodo II poiché ab- biamo ao*.0-«O fc: 0
:a 0 6 - a: 0 6 > ''A et O u al« pi'OP- essendo vera l’Hp è vera la tesi
che, / meno dell’ordine dei fattori nell’Hp coincide con la Pr/5 ; la Pp7 si
ottiene col metodo VI poiché si ha a o 6 . c/fì* c : 0 : ac o l>c, e ridu-
cendo l’Hp col metodo IV si ha la Pp7 ; la Pp8 è con- tenuta nel metodo I; la
Pp9 si ottiene dalla PII, poiché si ha ha o ab : o : * • 0 ■ « D ab che lia P
er una prop. vera e per Ts la Pp9; la Ppll conseguenza della prop. o3 6=.-* 3
-a (V). La Pp 10 é già stata compresa nel metodo V. * * * Riuniamo per comodo
del lettore i metodi di ragiona- mento I - XI ottenuti nei paragrafi
precedenti. I,. Affermazione della tesi di una proposizione che ha per ipotesi
una proposizione vera. a . a 0 b : g : b [Pp6] 1. Sillogismo e Polisillogismo.
#o&.S-oe:o:«0 a *jb ==s a ~ b) - {ab) = - a
6) = ~ a-b (Pp) (Def) VI. Prodotto e somma membro a membro delle
deduzioni. a . 0 b . c 3 à : 0 = ac 0 U VII. Composizione e scomposizione. a 0
b . a 0 c : — :aObc a D o . b 0 c : = : « u b 0 c 62 Capitolo II Vili.
Proprietà commutativa, associativa e distributiva del prodotto e della somma.
ab = ba abc = a {bc) (a^b) c = ac u bc ma. aub — bua du{uc = ou(6ue) (ab) uc =
(suc)(ln j c) IX. Semplificazione. Far- 5o wt ni A. x. t/ TW - /n Off l! li J a
= a v a a = b • D.o== abi'-*fi‘ a = b -0 . a — a u© b oSa. J «0&. — . a =
ab a 0 6 . = .b — au b . X. L’ assurdo. A = a-a (Def) - a = a >j - a n A=f A
A = - A a- A — a auA = a a 0 A • = . a = A ag b . = . a - b = A aub = A: = :a =
\.b = A XI. Trasporto dei fattori e dei termini. ab 3 e . = . a o c -f- J = o esprime una condizione che deve
essere verificati fra . 0, (T) (i? P (ir SentatÌ le „, oni f”™' ffwTLT*"
?*•*"*•» »™«i,e.“ 'a (1) è falsa qualunque siano i numeri reali * e „ ;
vera per speciali valori immaginari di * e * *’ * t Se eoa i, indichinolo prop.
contenenti non lettera • „» gruppo d, lettere . „ £!£* 64 Capitolo UT cane
proposizioni condizionali tra gli elementi del gruppo rr, e solamente tra
questi, scrivendo ( 2 ) Oi . 0* • 1 riire che “ Qualunque sieno gli x che sod-
22? alla condizione «„ soddisfano anche alla condi- zmne b x ■ si deduce
qualunque sia x „, . *.TttSC2S*. ia .i.*«i»“ *i '* x . a tutte le lettere
variabili che compariscono nell Hp „f.lH Ts della proposizione enunciata.
"1 conveniente ì «11'Hr delia «m i" op ' “H “Lvr «a. «. -w. “»»
">?“ « c una classe determinata e costante, tamente indicata la natura
degli enti *, dei quali (2) afferma una proprietà. Così, p. e., la prop. x-=i
/.□•(»+ x y la classe a cui appartengono gli individu J hanno quindi
significato preciso i segni ■ V -, x. Resta tutto determinato scrivendo *, y e
Q .*- = !/ : 0 : (* + ^ ^ X !/ poi* i segni indienti !»»»• W* 1 »
*"*" ‘TVlrtólr»)™' ebiamnno y
. y > 3 : Ox, tlS :x > z scri- viamo .r, y/, z e q . x > y . y > z
: 0 : x > z Volendo, p. es., esprimere che il trinomio .r 2 — px- 4- 7 è,
qualunque sia il razionale r, il quadrato di un razio- nale, scriviamo (4) a; e
R . . (ìe 2 — /ja: 7) e R 2 Qui l'indice x al sogno 3 non può essere soppresso,
perchè la deduzione non si fa rispetto alle lettere p, 7 contenute nolla Ts. La
(4) è quindi una prop. categorica rispetto ad z e condizionale rispetto a p e
7. Ora sappiamo dall'algebra, che se p, 7 sono razionali e p ì / 4 è eguale a
7, la prop. condizionale (4) in y> e 7 è soddisfatta. Si ha cioè che quando
la prop. condizionale Hurai.i Fon ri 5 (3f> Capitolo III in p e q (5) p, q e
R . p*/i = q è vera, è vera anche la prop. condizionale (4). Con le prop.
condizionali (4), (5) possiamo quindi for- mare la prop. categorica ( 6 )
p, m e non più (t m . O m . b m, poiché
a m, b m, sono prop. catego- riche. Converremo, cioè, di sopprimere sempre
l’indice in al segno o quando Ilp e Ts sono prop. categoriche. Se la prop.
categorica a x . 0 • i* è vera, cioè se la de- duzione è stata fatta con le
regole espresse dalle Pp o da quelle che ne sono conseguenza, allora è vera la
prop. "m • 0 • ottenuta dalla precedente ponendo al posto di .r un ente
speciale m. Se nella prop. (7) «N.z x). Analogamente j P*,itP*,y.x indicano
proposizioni condizionali rispettò' a xey, e rispetto a x,yez Abbiamo già
indicato che si può far uso indifferente- mente dei segni p*.Q x . x . . j., :
Ix-Dx-Px- 11 seguo =x si legge “ equivale, qualunque sia x, ad „. f (Del) (DefJ
[P2 . D . P3J 7. a, b, c, de K.q 1 . a 3 b : = : x e a . . ;c e b 2. a = b : =
: a o b . b q a 3. a = b: = :xta. = x.xeb a = a 1 a = b .,b = a a = b . b = e :
□ : a = c ) a = b.c = d:0-aoc. = .bOd. - 8 . « D b . b o C : 0 : a o e L [PI •
PI r D : P7J ' x ea .a Qb: $ : xeb [PI'.’. 0 a □ b : q : x e a . 3 . x e b .
PII aQb.xea:Q:xeb. P Vili, III = .’. P9] [Pili . PI, 2 : 0 :P4, 5, G] 9. Scriviamo
a, b, c e K in luògo deU’affermazione si- multanea «eK.fteK.ceK... e leggiamo
a, b, c, ... sono classi. L’ipotesi a, b, c, de K che precede le TI -9 si
sottintende debba esser distribuita a ciascuna delle Pl-9, (PII) 0, il che
equivale, (PV1I) che dall’ipotesi a, b, c,
Quando » è un individuo (o è considerato come tale), di una class e (la
classe b); scriviamo 1 r Q /> ninnilo a (e b) è una classe . Così, p. es.,
scriviamo 2 6 N e non 2 Q N ; se u è una retta e b un piano che passa per a,
scriviamo a Q t), se a e b sono con- siderati come classi di punti; scriviamo
invece « e 6 se il piano c considerato come classe di rette. La differenza
essenziale tra i segni 6 e Q sta in questo ; che, mentre dalle atterro azioni
simultanee a g t . è 3 c, atb.bQc, si puh dedurre (P8, 9) che «oc o «ec, dal;
l' affermazione simultanea «e&.àec nulla si deduce, _esi_ sendo b
considerato prima come classe, poi come individuo di una classe. Così, p. es.,
nulla si deduce daH’afferma- zione simultanea delle prop. 5 e Np, Np e [Classe
conte- nente infiniti individui]. §3. Segui .re, (a-,//) e, « e K . p x, f/x €
P . o 1. a = re(p*): = :rea. = x..px (l’oO 2. .re (,r e a) — a [PI • 0 ■ P2] 3.
.re (re ( p x )) .=*.px 4. px. 0 . 'jx : = : re (/)*) o re ( 7)) indica la prop. x e N . x > 7. La P4
si legge “ Dire che da p x si deduce, qualunque sia x, q x, equivale a dire che
ogni x che soddisfa alla condizione px è uno degli,r che soddisfa alla
condizione q x .. Ciò, insieme all’osservazione fatta nel § precedente,
giustifica l’uso del segno o nei duo significati, si deduce ed l contenuto,
potendosi dall' mi significato passare al- l’altro con l’aggiunta del segno xe
o xe. _ * «• * « e K s . p T, s, qx, n e P . 0 5. a = (,r, y) e
(p T, ») : = : (x, y) 6». = »,,. p r, „ (De 1') ' 6- ( x x, 1 /)) . = X, y . Px, y px, y ■
3 ■ qx, y : = : (x, ;/) € (p x, „) 0 (x, y) e (q x, y ) Le Classi Tò Scriveremo
K a, K„ K 4 al posto delle frasi classe di copine, classe di terne, classe di
gruppi di quattro eie- menti, Essendo x, y due enti qualunque, la loro coppia.
Indichiamo coppie z ioni te, !/), («/, *)• Le coppie di numeri interi x, y
dotto è eguale a 18 sono con ( x, y) indichiamo diverse con le nota- tali che
il loro pro- li, 18) ; (2, 9) ; (3, 6) ; (6, 3) ; (9, 2) ; (18, 1) Indichiamo
la classe che ha per individui queste coppie (classe di coppie di numeri
interi) con la notazione (i) (.r, 6 . =
. «e (r («.«.*£ i) « (Def) 2 . ab = a nb > 3. r e (o&) : =* : r e « . r
e 6 3’. r e (a u 6) : =* : x e a . «-> . x e 6 4. .té (p 3 . g,) : = : .re
(p*) n .re (g*) 4’. re (p* u q x ) : = : re (p a ) u re (g x ) 5 . a = b . c
= c) Le Classi 77 ■ 9. a — aa 9'. a =
aua 10. a = b . 3 . a = ab 10'. a=b.Q.a = avb 11. aQb. = .a = anb 11'. «oJ. =
.J=«uJ 12 . trjb.cQdiQiacQbd 12 '. aob.cQd:Q:a^cQbu(i 13. a o bc : = : a y b .
a 3 c 13. «uigc: = :«3cJ3c Con anb indichiamo la massima classe contenuta in a
e in b (PI); con aub la minima classe che contiene a e b (2). Il segno n si
legge e, e il segno u si legge o. Chiameremo anb il prodotto logico di «per b,
e « uh la somma logica di a con b. Scriveremo (P2), ab in luogo di anb quando
ciò, per altre convenzioni, non possa dar luogo ad equivoci. Così p. e., se x,
y x, y' sono numeri reali, per indicare i nu- meri comuni ai due intervalli x
““ y t x — y scriveremo (x~ y) n(x' — y) e non (x — g) {x ~ y) potendo questo
in- dicare (§ 3) la classe i cui individui sono prodotti di un numero di x — y
con un numero di x ~ y . Le P3, 3', 4, 4' che esprimono la proprietà
distributiva del segno x e rispetto al prodotto delle classi, e del segno xe.
rispetto al prodotto delle proposizioni, giustificano il doppio uso dei segni n
ed u per le prop. e per le classi. Le Po, 5 esprimono il principio della
sostituzione (PIU). Le P6-8, 6-8 esprimono che la somma e il prodotto delle
classi godono della proprietà commutativa, asso- ciativa e distributiva, come
per le prop. (PVITT). 7g Capitolo III Le P9-10, 9’-10' danno per le classi la
legge, di sempli- ficazione (PIX). Le P12, 12', 13, 18’ corrispondono alle P
Vili, IX. * * * Facendo uso della proprietà distributiva del segno xe rispetto
al prodotto e alla somma delle prop., le defini- zioni date nel § precedente
per le classi N 0, n, ... pren- dono le forme più semplici seguenti N 0 =
Nvxt(z = 0| n = N u — N ossè(x=0) n = N„u — N t = Ru — R u are (.r = 0) q =
Qu-Qvw(r = 0) n eN . o .Z» =Nn £é (x^ti) m, » e N . m ») = » + Q n e q . Q . q n (x ■xt P : 'J 1. x
- e a . = x ■ - (x e a) 2. - « = .re (x - £ a) 3. x e (- a) . = i . x - e a 8|.
- (xe (p z ì) — xe (-pi) 4. - (- a) = a 5. aQb. = .- b^)-ii 0. a = b. = .- a=-b
7. - (ab) — - rt u - b T. - (il U b) = - a - b 8. ab 3 c : = : a 3 c v . b 8’.
a 3 et vj c . = . « - c 3 b (Def) (Dei) [P1,2. 0 .P3] 30 Capitolo Ul 9 . ab 0 e
: = : « - c 0 “ h 9* • a 0 b u c . === • — £ 0 b ^ ~ a 10 . a-a = b-b 10'. au-
a = b^-b 11 . areta - a) . = * • A 11’. a;6(au-a). = * ■ - A Scriviamo (PI) »
sogno *-««■ f* ” “W '*"£* „„,, in luogo .lolla n.gau.o». dell. prop- » •
P- 08., acri via ino 1/2 -£»• B0 "° T Suite' cose *che non sono numeri
interi. Po- =«.ici.. »«• «'«*»'”- „ „ altee questioni .li in.portun.a .n.n.ma,
sarò otite L ln classe - a ad un’altra classe 6 per mezzo del . ‘ p - es con
R"-N indichiamo, la classe refliònaH ci!: £ sono numeri interi; con numeri interi maggiori di 1 che ;In in.
prodótti d! due «umori «aggi.,, di uno. S, puf porre Np=(H-N)r,-[(l + N) X (1+
NI] La P3 esprime che ‘ dire che ar è un - a equivale a dire che ar non è un
a,. • . ijne che Le P5-7, 7’ corrispondono alle 1 ' • l* 1 . Dire che ogni « 'e
un b, equivale a dire ohe ogni - e -a . Le P7, 7’ esprimono che la negazione h
iu il dotto (ó di una somma) h la sommato il prodotto u e negazioni dei fattori
(o dei termini) Lo PIO, 10', 11, 11' corrispondono alle 1 X- • Le Classi SI Per
mezzo del segno - la definizione di Z„ e Z(m, ni può esser data sotto questa
forma « e N . o . Z„ = Nn-(« + N) ni, n e N . m 2 >,5 ' : 0 : « = (a - 6) (6
* W : 3 : Ts] Pii prop. A (assurdo) e condizionale rispetto a qua- lunque
lettera, quindi x£ (A) rappresenta una classe, che conveniamo (PI) di indicare
ancora col segno A cheleggeremo nulla. Il segno - A può leggersi tutto. Le prop.
2, 2’ esprimono che il prodotto della classe o per la Le Classi 83 classe -a è
il nulla, e la somma (li a con -o il tutto, o la classe totale. Il segno a — A
può leggersi “ la classe a è nulla, e il segno a-— A “ la classe a non 'e nulla
Le P3, 4 esprimono che “ Se una classe a è nulla, allora è assurdo ammettere
che r sia un a,. “ Se la classe a non è nulla non è assurdo ammettere che x sia
un a „. In altri ter- mini “ Dicendo, a è nulla, esprinìiamo che non esistono
individui che appartengano ad a, o che a non contiene individui „, “ Dicendo, a
non è nulla, esprimiamo che esistono individui che appartengono ad «, o che a
con- tiene individui Cosi p. es., abbiamo Np n (N s -j- N a ) n (N4 — 1) = A
NMN s + N j )- = A cioè “ Non esistono numeri primi somme di due quadrati e
della forma 4x — 1 „, “ Esistono numeri quadrati che sono somme di due quadrati
„. Le P5, 5', 6, 6' esprimono che “ il nulla è l’assoluto del prodotto e il
modulo della somma; il tutto è l’assoluto della somma e il modulo del prodotto
Le P7-9, 7’8' corrispondono alle PX. Le P 10-12 sono vere anche quando a,b,c
sono prop. ; la PIO si ottiene dalla P9 prendendo le negazioni dei suoi due
membri; la PII è immediata conseguenza dalla P5; la P12 è la contraria
dell’inversa della PII. Facilmente si ottengono le duali delle P10-12 che però
nou hanno importanza pratica. La P13 esprime “ Se la classe ab non contiene
indi- vidui, allora il prodótto di a uh per - b e eguale ad a Questa prop. ha
molta importanza in matematica. Posto p. es. q = Qu — Qu.r((it = 0) «4 Capitolo
III abbiamo per la P13 Qu-Q = qna:e(a:- = 0) Q u x 6 (* = 0) = q « - ( — Q) —
Qux€(a: = 0) = q n - Q Q = qn -( — Q) n x e (x - = 0) — Q = q n _ Q n x e (x -
— 0) x e (x = 0) = q ri - Q n - ( — Q) poiché il prodotto di due qualunque
delle classi Q, Qt xe(x = OI é eguale a nulla. Per mezzo del segno A>
esprimiamo con „-&=A, la frase: Ogni a è un 6 ab=A., „ Nessun a fe un b (e
anche, nessun b è un n) a ì/. = ^, Qualche afe un b ( „ qualche 6 fe un a) a
-b-=A, » Qualche afe un-Z>(, * -6'euna). Ordinariamente i logici
rappresentano queste frasi, oi- dinatamente, con le vocali a, e, i, o, e
rappresentano le varie forme di sillogismo con parole, come Barbara, Ferio,
Daraptl, prendendo le vocali che compariscono in tali parole, ordinatamente,
come premessa maggiore, premessa minore e conseguenza del sillogismo. La forma
in Barbara e dunque a-b~\.b-c A-O- a -c = A che per la P8 diviene, a 3 b . b Q
c : 0 : « 0 r, che e la forma già da noi considerata per il sillogismo. La
forma in Ferio fe aà - = A ■ = A : D : « - c - = A, che per la P58 del § 13 del
Cap. II e la P8 diviene, a^c. c ’.) - b : q ■ o [) - b e questa coincide con
Pordinaria foima Le Classi 85 ili sillogismo. La forma in Darapti è, a 0 et •
et 0 c '■ D : ac - = A, ohe è falsa e (leve esser posta sotto la forma, a o b .
b o c . a - = A : 0 : ac - = A. che col sillogismo ha più niente a che fare.
Chiamando sillogismo la forma di ragionamento espressa dalla formula a o b . b
3 c : 3 : a q c è chiaro che la forma Ferio dipende dal sillogismo e da altre
forme di ragio- namento (PXI). La forma Darapti è poi falsa. Essa, insieme ad
altre, è chiamata dai logici forma indebolita. * * * Dalle P3, 4 abbiamo modo
di esprimere in simboli le frasi * Esiste almeno un x il quale », “ Non esiste
un x il quale », delle quali si fa molto uso in mate- matica. Se x, y sono
numeri reali positivi, e * y, contiene individui; porre cioè Sn»£ ( nx ~> y)
- = A e si ha la prop. (1) x, y e Q . x
y) - = A Non volendo far uso della classe si ha (P 4) (2) x, y e Q .
x y : - =n : A che si può leggere “ Se
x, y sono numeri reali e x y, non è qualunque sia n assurdo », ed esprimiamo
.86 Capitolo III che, stando le ipotesi fatte, “ esiste almeno un numero
intero* ti tale che tix y »• Analogamente si lia: (3) x,y e N . D (X, 1 ') = 1
: 0 ■■ N « «e (x* — 1 e Nj,) 6. «6 = A • 0 • a u 6 ~ a 0 6 7. «o« = A 8. « o -
a = - A 9. a o A = a 10. « ° - A = " 8 11. aob = boa 12. aoboc = a°(boc)
Con a o 6 indichiamo (PI) gli individui a- i quali sono tali che * è un a e x
non è un 6, o a; non e un « e,r b un 6. 11 segno o si legge ancora soddisfa alla condizione (2) che posta sotto
la forma (2) esprime ‘ qualunque sieno i numeri reali x, y, allora r 1 + + 1
non e eguale a zero Per la prop. condizionale .r e N . z > 1 c soddisfatta
la condizione (3), poiché si ha sempre a- e N . o r . * > 1- Se nella prop.
a* 0, b x non e indicato in qualche modo a qual classe costante u appartengono
gli x, allora la prop. «x Ox bx può esser ritenuta come condizionale, poiché
può esser vera per certi valori di x, lalsa per certi altri. Così p. e. la
prop. (1) x + z = y + 2 • 0*, v, i • * = y è vera quando x, y, z sono numeri
reali, è falsa quando se, y, z sono individui di una classe di grandezze per le
quali la differenza di due individui della classe non è un unico individuo
della classe. In luogo della (1), scriveremo (2) x + z = y+z. 0 .x = y,
lasciando quindi al segno 0 gli indici (espliciti o sottin- tesi) solo quando
la prop. b categorica. Per la forma (2) si ha, p. e., (3) x,y,«eq:D,, !(, l :a:
+ « = y + 2-0- :r= =!/ che corrisponde, come vedremo, all’ordinaria forma y, z
e q . x + z = V + « : 0*. v, « : x ~ V- Se nella Ts della (3) si ponesse la
(1), si avrebbe una 00 Capitolo III prop. 'con l’Hp condizionale e la Ts delle
forma assegnata alle prop. categoriche, quindi una prop. di forma attual- mente
priva di significato. Ammettiamo che la prop.
j' . - = s A A questa per la PX1 del Gap. 11 si può dare la forma (2)
x y . - A : “ : - (x, 1/ e Q) l Le (1),
(2) sono equivalenti, ma nella (2) l’ipotesi re- lativa alla natura degli x, tj
è espressa sotto una forma troppo diversa dall’ordinaria. Noi faremo uso, in
generale, della forma (1). Di tutte le precedenti convenzioni ci varremo per
sta- bilire le leggi alle quali soddisfano gli indici al segno 3 e quindi al
segno =. Le Ppl-11, ammesse nel Cap. II sono vere quando a, b, r. sono prop.
categoriche e quindi della forma gene- rale p x q x . Tra queste le prop. [1J
«□« [2J a 3 ita (PpD (Pp2) Le Classi 91 [ 3 ] ab 3 a (Pp 3 ) [ 4 ] ubo ba (Pp 4
) [ 5 ] abc 0 a (bc) (Pp 5 ) [63 - (- a) = a (PplO) O a 0 . vere quando a, b, c
sono classi e il segno 3 si legge è contenuto. Ora sappiamo (§ 3 ) che dalla
prop. catego- rica a* Ox b x si passa alla relazione tra classi xe{ st, - Ox, :
6>y v c *> e, *• In questa ponendo al jiosto di y una costante »i, e 92
Capitolo III sopprimendo, in conseguenza, l’indice », e ponendo poi y al posto
di z, abbiamo [7J' a, 0* 6* • 0 • a * °*> y 0*. y,h Cr > 9 che
corrisponde esattamente alla [7] nella qnnle a,b,o sieno classi. Per la [8]
(sillogismo), abbiamo le due forme [8], a*, y Ot K y-br,y 0* «*. » : 0» : B **
» 3* * • 9 [8]j «*,, 0, fcr, V • 6*, » Or, y Cr, y : 0, : «X, y Or fx, y
ponendo nella [8]„ o [8], una costante m al posto di y, si ha [g]' a, o* bx .
bx Ox c * : 0 : "x Or Cx cbe corrisponde alla [8] nella quale a,b,c sono
classi. Analogamente abbiamo per la [9], [9], Or, y 0* b *.y Oy • " hx
> » 0* ' «r. » dalla quale per y costante si ba [9]' o* 0„6x.0.-6x0,-«r. Le
proposizioni [10] a . a 0 6 : 0 : 6 [ 11 ] ft-D-oDoi (Pp6) (Pp9) sono prive di
significato, comunque si legga il segno 0. nuando u. b sono classi.
Consideriamo i casi seguenti quando a,b sono prop. condizionali. Le Classi 03
Per la prop. [10], abbiamo [10], a x . ax Ox l >x ' Dx ' òr. Ricordando ora
che la prop. condizionale a x si può sempre porre sotto la forma x € ti, ove a
è una classe, poiché «x = x e (.re («*)), la [10], prende la forma * e u : x «
« . Ox • * e » .'. xtv, o anche [10],' x e u . uO v : o : x £ v che è la forma
di sillogismo già dimostrata nel § 2 (Cap. Ili, P9). Per la prop. [11] abbiamo
[1 l]i . Oi, . Ox, v Ox ff x, $ by che per y o x costante prende le due forme
[1 1], é.r . 3 r . (h 1) «x bi [11]," b.O-(hD x a r b. # * * Ecco alcune
conseguenze delle precedenti proposizioni. Consideriamo p. e., la PO del § 3,
Cap. 11. Ponendo al posto delle a, b, c delle prop. condizionali, può il
lettore ripetere facilmente le dimostrazioni delle prop. (a)-(e), e quindi
della PO che diviene : (1) a x, y bx, y * Cy : D,y : ax, y Or bx, y r y che per,/
costante da (2) ax 0, bx . c : o : ax O* bx c 94 Capitolo III c quest’ultima
esprime che “ Si pub moltiplicare la Tb ili una prop. per una prop. categorica
vera Ripetendo la dimostrazione data al § 4, Cap. Il per le prop. II, II,,
abitiamo la prop. (1) ttx . Ox • v 0 y c r,,j : = : rt x b x, y Q r y r Xi v
ehe dà 1 importante regola di fare entrare o uscire un fattore dall’Hp, quando
il segno D ha degli indici. Ponendo nella (1) al posto di y una costante,
abbiamo w n * ■ Di • bx o ex : = a x b x O x c x c di questa prop. abbiamo
sempre fatto uso negli esempi contenuti in questo libro, poiché quando, p. e.,
dalla prop. x,y,iN .x = y:Q:x->y .x -
„ * = y : o : * - > y . x - x O x ex : = : ab x c x . ■ Di questa
forma abbiamo fatto uso, p. e., per dimo- strare la P9, § 2, Cap. III. Si
osservi che tale prop. è identica alla flO], di questo §, e la [10],’ è
evidentemente conseguenza della (1), della quale ci siamo serviti per
dimostrare la P9 del § 2. La Classi !)5 * * * Ammesso in generale che la prop.
categorica «* Or 6* debba contenere l’ipotesi relativa alla natura degli .-e, e
che tale ipotesi, (x e «), debba esser contenuta nella Hp della prop. 0*0*6*,
possiamo ammettere che la Ts di una prop. categorica non possa contenere più
lettere in- determinate della Hp. L’Hp pub però contenere più lettere della Ts
come p. e. nella prop. (a) x, ;/, z e q . x > y . y > z : Ox, % » : *
> »■ Si possono cioè avere prop. categoriche della forma ttx, y 0 x, y 6*.
Queste possono esser ridotte alla forma normale jp* 0* '/*, mediante la formula
( 1 ) Ox, y Qx, y 6* : — ; o*. y “ === y A • Ox • 6* che si dimostra com la
catena di equivalenze I f Cr, y 0. r, y bx • ~~ : Ox, y “ 6* — x, y A • == • “
6x Ox, y Ox, y A • I " b x . Ox * Sr, v Oy A • • " 6* . Ox • Ox, y —
y A • — ■' Oa, v - = y A • Ox • 6x] Così la (a), prende la forma .r, s € q : //
e q . .r > y . 1/ > a . - =y A : Ox, * : •* > 3 che si legge ‘ Se x, z
sono numeri reali, ed esiste un numero reale y tale che x > y e y > z,
allora avremo che x !> z „. Abbiamo, p. e., dimostrato nel § 12,Cap. Il
(pag. 5*2), che (P) x, y e N : 0 : r £ N . xy = D (x, y) X m ( x, y) x »• . -
=, A (T) a-, i/, rtN.xj = l)(r,j()xm(*,y)X(':0:r=l. 9(5 Capitolo III Dalla (T)
si deduce facilmente la prop. (Y)’ x, y, ;• e N . xy = D (x, tj ) X m (x, y) X
r : 3 : xy = I) (x, ;/) X m (x, e) Facendo per questa uso della (1) si ha
(T)" x, y e N : r e N . x, y = D (x, y) X in (x, //) X »• - =r .’. 3 xy =
D (x, y) X m (x, y) Moltiplicando i due membri della ((3) per x, y e N e
prendendo la prop. così ottenuta e la {f)" come premesse di un sillogismo
si ha come conseguenza, (b) x, = a [ (a)
. " j a . 3 ; P4 | a = b.b = c: D :a = c 1^**0^*) [P2 . P4 : 3 : P 5 ] 1 a
= x f. (x = a) xeia = xe(ia) x € 1 a . = . * = a (Def) (Defi 3? eia. . x e ~ 1
a . = . x — = a Se a, i sono individui di una classe u, esprimiamo che a e
eguale a * scrivendo, a = b. Se la classe « che con- Applicazioni 99 sideriamo
non pub esser definita ricorrendo ad altre classi note, allora definiamo la
relazione espressa dal segno = mediante le proprietà espresse dalle Pl-3. La PI
esprime che “ ogni cosa è eguale a se stessa », la P2 che “ Se due cose sono
eguali ad una stessa cosà’,*’ allora la prima b eguale alla seconda », la P3
che “ Se una cosa x pub esser detta eguale ad un individuo a di u, allora x è
un « ». Quando definiamo p. e. la classe N non ricorrendo ad altre classi note
(Vedi § 6), ammettiamo che per l’egua- glianza sieno soddisfatte le proprietà
espresse dalle Pl-3. Definendo ogni razionale come funzione m/n di una coppia
(w, n) di numeri interi, allora possiamo chiamare eguali i razionali m/n, m’/n,
quando mn—nm. Per l’egua- glianza così definita sono vere le Pl-3 (§ 7). Le
proprietà del segno = espresse dalle PI, 4, 5 pren- dono, rispettivamente, i
nomi, riflessiva, simmetrica, tran- sitiva. La P5 Esprime che il principio
della sostituzione e vero per l'eguaglianza definita - dalle Pl-3. * •* * (? )
Il segno i, iniziale«della parola taoe, pub leggersi isos. Se a e un individuo
di u, con la indichiamo (P7) la classe degli x che sono eguali ad a. Quindi
(P8, 9) xei a indica la medesima cosa del segno x = a. Il segno = resta così
decomposto nei - due segni e, i. Se u, v sono classi e la classe « n v contiene
il solo indi- viduo a, scriviamo uv = la e non uv = a, poiché sotto questa
forma si avrebbe, xe(uv)=x(a, e xea non ha ricevuto significato, non essendo a
una classe. Così, p. e., scriveremo Z 3 = 1 1 u 1 2 u 1 3 100 Capitolo IV e non
Z-, 1 u 2 u 3. Per le classi r, q. (pag. 78), possiamo scrivere più
semplicemente r = R u — R uiO q = Qu— QuiO cioè, p.es. “ q è la classe degli
individui che sono, o numeri reali positivi, o numeri reali negativi, o sono
eguali a zero Abbiamo p. es. Np = (1 + N) n .r e )(«/, z) E (j /,2 e N . yz =
a:) = t (1, r) u i fa 1) j “ Np è eguale alla classe dei numeri x tali, che le
coppie di numeri «/, z il cui prodotto è x sono eguali ad ( 1, :r) o eguali ad
(x, 1) § 2. — Numero degli individui di una classe. Sia n un numero intero
maggiore di 1, e S„ indichi la somma degli individui della classe Z„ (cioè la
somma dei primi « numeri). Volendo dimostrare che (1) Sn n[n -j— 1)/2 possiamo
procedere nel modo seguente: (a). Per « = 2 si ha dalla (1), S 2 = 3, cioè S a
= l+2. Dunque la (1) è vera quando u = 2. (P). Supposto che la (1) sia vera per
il numero « mag- giore di 1, abbiamo che S«+i = «(» + l)/2 +(« + 1) = («-{-
1)(« + 2)/2. Dunque, la (1) ammessa vera per un nu- mero n maggiore, di 1 >
vera per il numero n - f-1. Applicazioni 101 Da (a) si ha che la (1) fe vera
per n = 2; da questa e da (P) si ha che ò vera per » = 3 ; da questa e da (P)
che b vera per n — 4 e così di seguito. Volendo dimostrare che la (1) è vera,
p. es., per « = 25.843 occorre fare 25.841 deduzioni analoghe alla precedente,
e la (1) sarà così provata vera per tutti i nu- meri compresi fra 2 e 25843,
gli estremi compresi; ma non potremo affermare ancora che essa è vera per i nu-
meri maggiori di 25843, cioè non potremo affermare che la (1) è vera qualunque
sia il numero intero n maggiore di 1. Si ammette che la (1) sia dimostrata vera
dai ragiona.- menti (a) e (p), e diciamo che, per la dimostrazione, si 'e fatto
uso del principio d’induzione completa, che possiamo enunciare in generale così
: ((Imu a. r**tn*v> . Se una proprietà è vera per un numero intero a, e
questa proprietà ammessa vera per un numero b eguale o maggiore di a, si può
dimostrare che ò vera anche per b -f 1, allora avremo che la proprietà con-
siderata è vera per tutti i numeri interi eguali o mag- giori di a. l’er
tradurre in simboli la prop. precedente, osserviamo che ogni proprietà dei
numeri e espressa da una classe di numeri. Per l’esempio precedente la classe
da considerare o (2) (1 N) « x e (Sar = x [x + l)/2) “ Numeri interi * maggiori
di 1 i quali sono tali che la somma dei primi x numeri interi, (Si), è eguale
ad 102 Capitolo IV a-(a;+ l)/2 La prop. (1) resta dimostrata quando si n provi
che la classe (2) è eguale ad 1 -(- N. Infatti ponendo nella (1) l’Hp, essa
diviene x e (1 -f N) . 0 . Sx = x (x 4- 1)/2 alla quale può darsi la forma
(pag. 71, P4) (1 +N)0.re(Si=a;(a;-f-l)/2) questa per la legge di
semplificazione diviene 1 + N = (1 + N) n x e (S* = x(x-\- l)/2) Indicheremo
con K‘N, K‘R, K‘q,, o anche semplice- mente con KN, KR, Kq,, le frasi “ classe
di numeri in- teri positivi “ classe di razionali positivi,, “ classe di numeri
reali „ 11 principio d’induzione, in un caso particolare, c espresso in simboli
dalla prop. (3) u e K‘N . 1 e « . « 1 □ « : a : N f) « “ Se « ò una classe di
numeri, 1 è un individuo di », e ogni individuo di u aumentato di 1 appartiene
ad », al- lora avremo che ogni numero intero è contenuto in u Essendo, per
ipotesi, » una edasse di numeri, si ha che » 0 N ; moltiplicando allora la (3)
membro a membro con la deduzione »6K‘N.3.«3N, (PVI), e riducendo nel- l’Hp,
(PIX), si ha 00) (b) . Hp .PI : 3 : «* =
A • 3 • num iieio Hp . (y) . (b) . P Vili, X : 3 : P5] num u, num v e N 0 : 3
.'. 6 . uv= A • 3 . num (n u«) = num« -|- num» 7. uti- = A . 3 . . . . " ““ “ E ““do dun,n. » un numero
int.ro, »» ««*“» Applicazioni IH la classe delle ‘ corrispondenze tra i numeri
1, 2, ... « e i numeri reali „, indichiamo cioè tutte le successioni di n
numeri reali. Se fi qfZ,„ f rappresenta una determinata successione di numeri
reali, i cui individui fi, / 2, ... fn, sono disposti in un determinato ordine,
e non deve con- fondersi tale successione ordinata con la classe f Z„, (P2),
contenente gli individui fi, fi, -fn, indipendente dall’or- dine nel quale si
considerano i suoi individui. Se /■ e q f Z „, scriveremo anche A, fa,— fn * n
luogo di fi, f2.... fn, ritornando così all'ordinaria notazione della quale si
la uso in matematica per indicare « numeri a,, a 2,...a„, disposti in un
determinato ordine. Analogamente con q f N indichiamo successione di infi- niti
numeri reali, cioè serie di numeri reali; con QfN serie di numeri reali
positivi, ecc... Volendo, p. e., indicare “ successione di n numeri di- stinti,„
cio'e, due qualunque dei quali non sono eguali, scriveremo (q f Z„) Sim, poiché
per la corrispondenza Sim, ad individui distinti di Z„, corrispondono individui
di- stinti di q. Dalle cose precedenti risulta che la successione di n
individui di una classe, e quindi il concetto d'ordine, viene definita per
mezzo della classe Z„ e del concetto di corrispondenza come è definito dalla
PI. # * * Possiamo, p. e., con i segni ora introdotti scrivere in simboli la
prop. * La somma di un numero finito di nu- meri reali è un numero reale „.
Abbiamo „el+N./-£qfZ„: 0 :fl+r2 + - + f'‘ 6f l Analogamente per il prodotto.
112 Capitolo IV “ Sommando membro a membro un numero finito di eguaglianze tra
numeri reali, si ottiene una nuova egua- glianza », € i + n . f, f « q f z. :
>• € z » ■ f [ = 0 " che si legge ‘ Se » è un numero maggiore di 1, f,f
sono due Accessioni di * numeri reali, e qualunque «.In- dividuo r di Z. si ha
che fr = f r, allora avremo che ...,. 11 polisUlogismo, si scrive in simboli n
e 2 + N . fi P f Z„ : r € Z„ _ i . Or ■ fr 0 f(>‘ + 1) • • 0 ■ • f i o /■»*
che si legge ‘ Se nè un numero maggiore di 2,fe una di » propoli», «e * »“ la
prima eccettuata, è conseguenza della precedente, lora avremo che ... „•
Analogamente si ha „e2 + N./, ePfZ.:-0", . n o f2 fi ... fn ■ = = H 0 f‘ 2
■ f X 3 ^ 3 -/ 1 f f, JfJ'Jn- udì » --r^r- ch s2 m S°^^P-‘riv.bbdPo--.i P ..«
di "‘".dotti . dei,Vin, Unione m.t.nmtica .i poò definir. il prodotto
logie, „ " di,,om.ro finito di M . * P"*-, L iot. .fi. «.» -i
i"t«»de P« P"*«*> '°ei) 6. fe (6 f o) sim . * e a . y e b : o : fx
— y . = . x = fy 7 o . fi (a f b) sim 8 o :/■«. = b. Jb = a 9 o . f e (a f b)
Sim 10. /'€ (bt a) Sim . 0 ■ f* «) sim 11. rama € N : 0 :f.t (a f a) Sim . = .
f € (af a) sim Il segno f si legge, f inverna dì. Stabiliamo con la l’I, di
indicare con f y la classe degli individui x di a i quali sono tali che fx = y.
Definendo la funzione seno come una corrispondenza tra i numeri reali q e i
numeri reali dell’intervallo 1 H ( — 1), allora seny, (seno inverso di y —
comunemente arco che ha per seno y), indica la classe dei numeri x tali che y —
sen x. Se y è, come si b sup- posto, un numero dell'intervallo 1 H ( — 1),
allora la classe sen y non fe nulla e il numero dei suoi individui "e
infi- nito. Se definiamo sen come un q f q e prendiamo y co- munque nella
classe q, allora sen ;/ pub esser nulla se non Capitolo IV ilò si co nsidera la
classe dei numeri immaginari. La classe tangy non è nulla qualunque sia il
numero reale y. La P2 esprime che se f è una corrispondenza qualunque degli a
nei b, x è un « e y è un b, allora dalla relazione fx = il possiamo sempre
passare alla relazione xtfy e viceversa. Così, p. e., dalla relazione sen tt/6
= 1/2 pas- siamo alla relazione ir/Gesenl/2 (vr/6 b uno degli archi che hanno
per seno 1/2) e non si pub scrivere it/ 6 = sen 1/2, poiché si ha, come è noto,
sen 1/2 = !2 n ir-)-ir/6{ u )(2n — 1 )ti — n/6(. La P3 esprime ohe se f è una
corrispondenza simile degli a nei b e y è un b, allora il numero degli
individui della classe f y o b eguale ad 1 o b eguale a zero: il che equivale a
dire (§ 2) che o tutti gli individui di f y sono eguali tra loro, o la classe
fy b nulla. Se consideriamo la funzione tang come una corrispondenza simile tra
le classi 0 1- tt/ 2, q, abbiamo che tang 1 = tt/ 4 e tang( — 1) ==A- Se
definiamo invece la funzione tang come una corrispondenza tra (— tt/2) (tt/ 2)
e q allora tang//, qua- lunque sia il numero reale y, non b nulla e contiene un
solo individuo. La P4 esprime che se f b una corrispondenza Simile degli a nei
h, x b un a e y h un b, allora si può passare dalla relazione fx = y alla
relazione x = f y e viceversa. Così per la funzione tang definita come sopra si
passa da tang n/4 = 1 a ir/4 = tang 1. Se x, y sono numeri reali e x b positivo
dalla relazione log a? = j/ si passa alla relazione x = log y e viceversa. Si
confronti la P2 con la P4, Applicazioni 117 Con la P5 definiamo una nuova
classe di corrispon- denze simili. Indichiamo queste col segno sim. Diciamo che
f è una corrispondenza simile degli a nei b, quando f é una corrispondenza
Simile degli a nei b, e qualunque sia l’y appartenente a b la classe degli
eguali ad Jy con- tiene un solo individuo, o, il che equivale per le cose
precedenti, non e nulla (P3). Cosi, p. e., mentre sen è una corrispondenza
Simile tra Ohtt/ 2 e q, non è una corrispondenza simile tra le medesime classi,
poiché esistono degli y in q tali che la classe f y non contiene individui. La
funzione log è una corrispondenza Simile e simile tra Q e q, poiché non esiste
un q che non sia log di un Q e di uno solo. Non avrebbe, p. e., senso la
notazione (q f Z„) sim ove n è un numero intero, mentre come é noto (qfZ„)Sim
indica le successioni di n numeri reali diversi tra loro. La P6 esprime che
anche per le corrispondenze simili si passa dalla relazione fx = y alla
relazione x = fy e viceversa. La I 7 esprime che se f é una corrispondenza
simile degli a nei b, f é una corrispondenza pure simile dei b negli a. Da
questa proprietà risulta, p. e., che le ordinarie cor- ìispondenze tra i lati
dei poligoni simili sono corrispon- denze simili; sono pure corrispondenze
simili le ordi- narie proiettività e le corrispondenze Cremoniane, quando dai
punti dei due spazi si escludano i punti fonda- mentali. 118 Capitolo IV La P9
esprime che ogni corrispondenza simile è Simile; la proprietà inversa non è
vera; e se f è una corrispon- denza Simile degli a nei b, allora, (PIO), f'e
una corrispon- denza simile tra a e fa. La PII esprime che se il numero degli a
è finito al- lora si può al segno Sim sostituire il segno sim e vice- versa in
ogni corrispondenza degli « in se stessi. Così, p. es., per indicare la classe
delle permutazioni dei primi ji numeri si può scrivere indifferentemente (Z„ f
Z„) Sim o (Z„ f Za) sim. * • * * Il segno x e posto dinanzi ad una classe
produce una prop., e posto dinanzi a classi non eguali produce prop. non
equivalenti. Dunque .re è un segno di corrispon- denza Simile tra K e P. Se a è
una classe e indichiamo con p . i la prop. reo, abbiamo x e a — p x e quindi
per la P4 possiamo passare da questa relazione alla rela- zione a = xe(px) e
viceversa. Il segno re introdotto nel § 3, Cap. Ili, soddisfa dunque alle leggi
del segno d’in- versione ora introdotto. * * * 11 segno num posto dinanzi ad
una classe produce uit individuo della classe NvjiOu ICO (§2, Pò), ma a classi
non eguali possono corrispondere individui eguali di NuiOu iOO. Il segno num 'e
dunque il segno di una corrispondenza tra K e NuiOuiOO, che non appartiene alle
corri- spondenze Simili o simili. Se dunque a h una classe e Applicazioni 119 n
e (N u, 0 v. iOO), dalla relazione numa = n si passa, (P2), alla relazione «e
num» e viceversa. Se, dunque » e ( N U I 0 ^ lOO) il segno K n num» indica il
complesso delle classi a tali che. numci = «. In simboli « e (N cuO ulOO) . 0 ■
Kci num » = K n a€ (numa = n) Si ha, p. e., che NpeR-numOO ‘ Np è una classe
che ha un numero infinito di individui 6 KN r ‘ n "“ - Z a è una classe di
numeri interi che ha otto indi- vidui Ordinariamente si dice che ‘ Fare le
combinazioni di,,, lettere ad « a », significa formare tutti i gruppi poss- ali
con » delle m lettere, per modo che un gruppo di - ferisca da ogni altro per
qualche lettera Le m lettere possono esser considerate come individui di una
classe s. 1 gruppi di lettere che possono^oma.si,ono classi formate con
individui di s, cioè sono K ». Ogn individuo della classe K‘« deve contenere n
individui, «oc deve appartenere alla classe num». Con (Ks)nnmn», o anche
(Ks)numn (sopprimendo cioè il segno nj.iin- ramo dunque le combinazioni » ed »
deghmdividui di s poiché le classi che compongono (Ks) num» sono indipendenti
dall’ordine nel quale si considerano i loro 1 "Nelk* dispostzio»* un
gruppo differisce da ogni altro o per qualche lettera o per l’ordine delle
lettere. Quindi ogni disposizione degli », » ad » è una successione 120
Capitolo IV individui (necessariamente distinti), e quindi le disposi- zioni di
s, n ad n è indicata da (sfZ„)Sim (pag. 111). Analogamente con (sfZJ indichiamo
le permutazioni degli m individui di s. Così, p. e., K‘ Z|j num 8 indica le combinazioni 8 ad 8 dei primi
12 numeri interi: (Z, :,f Z G ) Sim le disposizioni G a 6 dei primi 15 numeri :
Z 3U f Z M le permutazioni dei primi 30 numeri interi. Abbiamo le note formule
m, w € N . »» > » . s e K n num m : 3 :, mi (mi — 1) (m— »+l)__ num i (Ks)
num n { = 12 “ Un num j (s f ZJ Sim j = m (hi — 1 ) (ni — « -f- 1) = num j (s f
Z m ) Sim (=1.2.3 m — m ! mi ! — »») ! n ! mi ! (mi — n) ! § 5. — Le
definizioni di prima e seconda specie. H «•gnu» wOYwÀ'afcl* n « •ffinreomsc Un
segno, o un complesso di segni x. si definisce, quando ad esso si attribuisce
il medesimo significato di un com- plesso di segni già noto a . Se x ed a non
contengono lettere indeterminate, al- lora la definizione si presenta sotto la
forma simbolica (t) x =i>tf a ove il segno =o«r si legge “ eguale per
definizione,, o “ identico „. Applicazioni 121 In luogo della (1) si scrive
anche ( 1 )’ x = a (Del) sopprimendo l’indice Def al segno = e ponendo l'indi-
cazione Def a destra della relazione x = tt. Se ;r ed « contengono lettere
indeterminate, allora la definizione si presenta sotto la forma simbolica 2)
h.Q.x = a (Def) ove U contiene le lettere indeterminate di * ed a e il segno
(Def) si scrive a destra della prop. che definisce il segno x. Nella (2) il
nome del segno = varia col variare degli enti x ed a, secondo, cioè, che x, a
sono o prop., o classi, o individui di una classe. Souo della forma (1), p. e.,
le definizioni seguenti q= Q . . — Q.u.iO Np = (l + N)n -[(1-f N)X(1 + N)]
Sfera = Luogo dei punti equidistanti da un punto. Triangolo isoscele =
triangolo, che ha due lati eguali. Sono ancora della forma (2) le definizioni
seguenti a, b e N : o : a è primo con b . = . D («, b) = 1 m, n € N . m = » . *
e K n num m : 3 : Combinazioni degli s, n ad » . = . (K.s) num n . . . : 3 :
Disposizioni degli s, « ad «. = . (s f Z„) Sim 122 Essendo u una classe di
numeri reali si voglia, p. e., definire il massimo e il minimo della classe. Le
parole massimo e minimo hanno nel linguaggio comune un significato preciso, e
dicendo, p. e., massimo degli u si intende,1 più grande degli u. In questo caso
noi conserveremo alle parole, massimo, minimo, il significato che esse hanno
nel linguaggio comune, e quindi piu che definii > ■ parole, esprimeremo il
loro significato per mezzo de’segni =,>, " A libiamo p. e. a = max N .
■=■ . A ' 1 min N = 1 n = max q . . a =
min q : = : A Applicazioni Come definizione della forma, abbiamo ancora, p. e..
rt, b eN . 0 • quot(a, b) = max (N 0 x t
(bx a/N n 6/N j (Def) che si legge “ D
(a, b), indica il massimo dei numeri interi che sono divisori di a e di b „,
poiché, il segno, p. es.,,,/N indica in generale divisore di a, (pag. B6). Con
tale definizione, diamo significato al segno D (a, b), solo quando 12 (
Capitolo IV tendiamo fere; JV^uTegne D. assumiamo la del. (1), dei numen interi
e Pe* ^ 1 a i razio- del massimo di- visore dei numeri razionali. SSS» Ss -U- *
— +• — (2) «,M* N:o:c = «-^ = - c + 6 - a . • w«> « con r = « — 6 indichiamo
che o e la somma t\ 'Sf SLà poi MI. P'»P~>“ f nu r,ri W che « - » »»» P«» —
» ****** ** N quando u b
a,6«N.o>6.0-« - 6eN e quindi giungeremo .^“d^ defin™»® ^ renza tra due
numeri 8Ug . ))er somma numero che — t. « «*, J eriin.ri. 11 ”T"s;X':«”
*X1» a... % forse di quella che pieceue,, .d imo r e dal mi- ■“ - »-. r . e, Sm
— “ '* ‘T Z “ niscc l’apparente definizione fe un creolo vmooo. Applicazioni
125 Anche in questo caso potremo estendere ai numeri reali, (agli immaginari),
il significato del segno a — h (esteso che sia già a questi il significato del
segno -f ). Se, p. es., poniamo (3) a, b, c € (q - N) : 3 : c = a — b = e -f- b
= a (Def) allora sommando membro a membro questa prop. con la (2), e
semplificando con le note regole, si ha la prop. ( 4 ) a, b, c € q : 3 : e = a
b = c + b = a che è un teorema conseguenza delle definizioni (2) e (3). Si
osservi che nella Hp della (3) non si sarebbe potuto porre a, beq. poiché Noq e
quando a. òeN. il segno a — b ha già ricevuto un significato preciso. Data la
def. (2) niente impedisce di prendere la (3) in modo che non ne risulti la (4),
in modo cioè che il segno — non soddisfi per gli N e per i q alle medesime
proprietà. Come, p. es.. se si ponesse a. I>, c e (q - N) : 3 : c = a — h =
c -f- 2 b = a cioè si indica con c — a h che c sommato col doppio di b dà per
somma il numero a. Con ciò però si contravverrebbe alla regola, tanto utile,
della conservazione delle proprietà dei segni, 0 legge formale. In generale
dunque la definizione della seconda specie h . 3 . #•= a e relativa
agl’individui di una classe w. Essa può poi essere estesa agl’individui della
classe v che contiene u. della seconda specie. In certi mi 1» definizione M.
ctTi’sn «*» ■>»“»”» : 6 - ”• J,o reale. • » «» ””»» '* lero ; (1) ( 2 ) a e
q . »» e N . 0 • ° q _(,•»+ 1 =• a m X « Ponenilo nella (2), »-> “ ta ’’ _
“‘ X J ' *■ — “*b « ■ '* “ del “ n “ lt0
a Applicazioni conseguenza di quello di induzione e di numero intero, in luogo
del solo principio di induzione. Definita la potenza intera positiva, possiamo
definn e la potenza intera negativa, nel modo seguente: (4) « £
(q-iO).».e-N.O.« m = l/“~ m e questa def. b ancora della seconda specie. Qui la
legge formale, per il segno « J verificata per le prop. che sono, p. es„
conseguenze delle prop. (1), («• Abbiamo, p. es. ( 5 ) a e q . m, n e N . 0 . a
m X a" = a T e dalla (4) (5) ' « e (q - i0) . i», » € - N • D • «” X «° *
“ m + " Sommando membro a membro le (5), (5) e ì moni, nulo che „ N u — N
= n-iO abbiamo (6) « e (q * >0) • *»> « e (n - 1 0) . D . f* m X «"
— 4 1,, mnilo analogo si definisce la somma di due numeri quando si ammetta
abbia significato la ftgge_M£. ',sivò di a. (vedi § fi), ove a ~e numero
mtero^Po- niamo, scrivendo sue al posto di successivo, (7) «eN.O.«+l = suc( *
(g) », 6 6 N . 0. « + (6 + 1) ==( de n a (7), un si- co* membro b. perb ré iw.
se" JtcvJc»- Non tutte le definizioni possono esser ridotte ad una delle
forme considerate nel § precedente. Ciò avviene tutte le volte che le idèe
indicate dal segno .r non pos- / f sono esser espresse mediant e altre idee più
semplici, cioè, tutte le volte che il concettò indicato dal segno x è un 'M ’/■
concetto primitivo. Non abbiamo, p. e., definiti i segni o, n, - per le
prop.^t^L- come non si è definita la proposizione; in matematica, p. e. non si
definisce il numero intero, il punto, la retta, il moto Dcgli_enti non definiti
x che si introducono in una scienziijii^ammettono^corrmjnmitW^^e^^^ro^rie^,
dalle quali possonT^ìcdureMogicamente^ìe^ntrtnSi puTi dire così che il segno x
si è tle/inito in se stesso, mentre con le forme considerate nel § precedente è
definito fuori d i se. stesso. Chiameremo definizione di terz a specie, ogni
definizione di un ente in se stesso. Logicamente, tale forma di definizione
dovrebbe essere. esposta per la prima, non avendosi esempi di enti x che si
possano definire mediante definizioni di prima o se- conda specie, senza che,
con definizioni di terza specie, si sieno ottenuti altri eliti. L’ordine da noi
scelto è giu- stificato dal fatto che la forma espositiva c più semplice per le
definizioni di 1“ e 2* specie che per quelle di terza. Bini a t,i- Forti 9 130
Abbiamo già accennato che la definizione di un ente x in se stesso, si da
assegnando all’ente x un sistema a di •> Cz proprietà dalle quali tutte le
altre proprietà dell’ente x possano logicamente esser dedotte. S e il sistema
di proprietà a si vuole scegliere in modo che ognuna delle proprietà del
sistema è la più semplice possibile, allora è evidente che occorre un’analisi
accurata del complesso delle proprietà dell'elite x, e delle mutue dipendenze
logiche di tali proprietà. Dopo una simile analisi, accurata, minuziosa, e faticosa
a farsi, può essere fissato il sistema g, e, la teoria dell’ente x può essere
svolta partendo dalle proprietà del sistema a, e certo sotto una forma facile e
rigorosa. E evidente quale sia cosi l’importanza della definizione di terza
specie anche nel campo elementare. Epprure, sebbene la definizione di un ente
in se stesso è da molto tempo nota e adoperata dai filosofi, essa b quasi
affatto ignorata nel campo elementare, come ce ne fanno fede anche i più
recenti saggi, ove si ripetono costantemente quei non sensi ai quali si dà il
nome di, definizione di grandezza, di numero intero, di numero irrazionale. Può
il lettore nei volumi della u Rivista di maternatica leggere quanto b stato
scritto contro i volgari non sensi contenuti in gran parte dei saggidi matematica
elementare. Noi ci limiteremo ad analizzare cib che riguarda la teoria de i
numeri interi, con lo scopo di giungere alla definizione dell’ente N in se
stesso, e dare un esempio dell’analisi che occorre fare, per definire un ente
con una definizione di 8* specie. Applicazioni _ 'WfìT VI iv^sì (t *!* c — /naU,
Me-diante definizioni di 1“ o 2* specie, facendo uso dei primi “ termini, come,
per es., congruente modulo, residui qua- dr alici. Possiamo dunque ridurre
l’analisi dei termini, ai primi, cioè a quelli propri delle più elementari
proprietà dei numeri interi. Alcuni di questi termini come, numero primo,
massimo sono definiti, per «ih", 6. = .oeb + N . . . : 3 : a a. Dire che il numero a è maggiore del numero
b equivale a. dire che a b la somma di b con un numero „, o, sotto una forma
più simile a quella del linguaggio comune. Diciamo che il numero o è maggiore
del numero 6, quando a è la somma di b non un numero. In modo analogo si legge
la definizione del segno "C, o, meglio, della relazione ac:0:o = et — c. =
.a-\-c = b L' ordinaria definizione di differenza “ Differenza di due numeri
non eguali b eiò che si ottiene TOGLIENDO dal maggiore il minore, NON HA SENSO,
se non è definito il significato della parola TOGLIERE, e ciò nei saggi oidi-
nari non si fa. ft c e N (2),, parte delle 'piali si ottengono dalle Pp
precedenti, parte no. a, b, c € N . 0 : a X 1 = a (Def) rtX(i-f-l) = axb-{-b\
aXb e N « = i.3.«xt = JXc So a x * = 6 X a a X (b X c) = (« X b) X c («■f(i)Xc
= ttXc-f/lXc ‘a È p. e., conseguenza delle Pp precedenti la prop. «, ò e N : 0
: a = b .u . a> b .v . a 6 .a - b, a
b.a-*» t P® di una operazione, poniamo = qu, v Applicazioni 141 ove k u, x>
e ancora l’ipotesi relativa alle cose u, r, e q«,v ò una funzione di w e »,
avente già significato noto e che noi poniamo identica al risultato
dell’operazione a eseguita con degl’enti noti u, »,... risulta, con una
definizione di prima specie, definita, ponendo H = x£ (n e M . x =, n), cioè
come un ente che si ottiene astraendo da m, da n e dalla coppia (m, »).
Indichiamo per ora, seguendo Euclide almeno per 1 termini, con R‘ la frase
ragione di, o rapporto di, e con R‘ «) la frase ‘ ragione di m ad n,, o "
rapporto di m ad n li segno R‘ (m, n) equivale, come vedremo, all'ordinario
segno m/n. ., Scrivendo R, come si è già fatto, al posto di razionale,
definiamo la classe R, ponendo. (1) R = a:e ) m, iisN.z = R‘ ("h n ) ■ ™,
n A ( cioè “ Indichiamo col segno R il complesso di quegli enti a; tali, che
per ognuno di essi esistono almeno due numeri interi m, n tali che z è identico
alla funzione R, della coppia (m, n) La funzione R‘ non è definita, solo con la
(1) ammet- tiamo che essa ad ogni coppia di N faccia corrisposti ere un ente,
astrazione della nostra mente, che appartiene alla classe R; ammettiamo cioè
che R‘ e (Rf (N, N)) « r‘ ò U n segno di funzione che fa corrispondere ad ogni
coppia di N un R ». .,, Essendo in, ni, n, n due numeri interi, quando e che
-li enti R‘ (»,»), R‘(m',«') sono eguali i E prima di tutto, ha attualmente
significato il termine eguali. La coppia (m, n), b eguale alla coppia Un, n)
quando m — e n = li, ma non essendo stata definita la funzione Applicazioni 143
R‘ non ha ancora senso la scrittura R‘ ( m, ») = R‘ (ni, ti). Noi diamo
significato alla relazione precedente, ponendo, secondo Stolz, Vorlesungen
iiber allgemeine Arithmetik – cf. H. P. Grice, “AUSTIN ON FREGE’S SYMBOLO” --,
m,n,m',n e N : 3 : R‘ (ni, n) = R‘ (ni, n ) . = . tn X »' = n X m ovvero,
ponendo come si fa ordinariamente il segno m/n al posto del segno R‘ (m, m),
mi, », ni, »’ e N : g : min — ni/n' : = : mn = uni. Diciamo cioè che * Il
razionale mjn è eguale al razionale m'iti, quando il numero mti è eguale al
numero tini. Dalla teoria dei numeri interi e dalla precedente definizione si
deduce, facilmente, che la relazione a = b, ove a, b e R, è riflessiva
simmetrica e transitiva, che cioè si ha a, b, ce R . 3 : • f l-W WltT 1 ' (*- |
4>AAk.|t Vwfi a = a a = b . = . b = a a — b.b = c. 3 .a = b come la
relazione analoga per gl’enti di una classe qualunque. Definita la relazione
espressa dal segno “=”, occorre ancora definire le operazioni indicate dai
segni -f-, x,... Ciò nei saggi ordinari raramente si fa, mentre si pretende
dimostrare, p. es., che, 3/7 -\- 111 = 4/7, non avendo ancora ricevuto
significato il complesso di segni 3/7 -f- 1 / 7. Per le operazioni indicate dai
segni -f-, x, porremo, 1 seguendo ancora Stolz, m, », m, »' e N . 0 . min + m'/«
= (*» »' + » »»')/(» »') 3 . (»»/») X (»'/«')=(»» m')l(nn) che non hanno
bisogno di spiegazioni. Le definizioni ora date sono di seconda specie e la
def. di R di prima specie. I numeri reali, p. e., si ottengono in modo analogo
considerando l’ente astratto limile superiore di una classe di razionali.
Scrivendo 1' al posto di ‘ limite superiore „ abbiamo, u, v e K‘R : : 0 : : l'«
= 1'» R : 0* : „ n (* + R) - = A • = • » n [x R) - = A • Se u V sono classi ili
razionali, allora: dire che il limite superiore degli « è uguale al limite
superiore dei », equivale a dire che, qualunque sia il razionale se esistono in
« individui maggiore di x, allora esistono in » individui maggiore di ir e
viceversa. In altri termini, diciamo che ‘ l’u = r», quando ogni numero r minore
di qualche « e pure minore di qualche » e viceversa, Alla definizione
precedente può anche darsi la forma J. I u, v e K‘R :: 0 : : 1» = 1 * = a - e R
: 0* : «n(a:4-R) = A. = -® r '( a: + R ) = A che esprime; “ l'u = l’t>,
quando ogni numero a maggiore di ogni u è maggiore di ogni »e viceversa.
Applicazioni spèndere imte' astrazione della nostra «^.djeno. trsiL g r:te :m e
r r . ^ — >. La classe Q, resta definita ponendo, Q=^)aeB.ueK‘R.«n(«+B)=A-*=
1 ' M --= = A '« I . = .'P» = ). Le relazioni espresse dai termini,
perpendicolare, primo con, è un divisore, è un multiplo, non sono riflessive,
simmetriche e transitive. Per mezzo di esse nessun ente astratto si ottiene.
CtiKto- Azi Louufc (t (a -f- b) -|- c. Volendo provare che tali proposizioni
sono indipendenti, che cioè, una di esse non è CONSEGUENZA dell’altre, basta
provare che per valori speciali degli elementi indeterminati che compariscono
nelle prop. (1), (2), (3), una qualunque delle tre proposizioni è falsa, mentre
le altre due sono vere. Gli elementi indeterminati che compariscano nelle
proposizioni (1), (2), (3) sono rappresentati dai segni G, =, +•. Riguardo a
tali segni le proposizioni (1), 2), (3) sono considerate come CONDIZIONALI
della forma ih 0 Ih. Abbiamo. (a) Se G e la classe dei numeri reali, chiamiamo
eguali due numeri aventi modulo eguale (lo stesso valore assoluto), e il segno
-j- ha l’ordinario significato; alida, la proposizione (1) è falsa, poiché, p.
e., si ha che 7 = — 7 e 7-j-5- = _7 + 5, e le proposizioni (2), (3) sono vere; cioè
la proposizione (1) è indipendente dalle proposizioni (2), (3), e si ha - (1) .
(2) . (3) : - = : A (fi) Se G è la classe dei quaternioni, “=” ha l’ordinario
significato e è il segno del prodotto secondo Hamilton. Allora, le proposizioni
(1), (3) sono vere e la proposizione (2) è falsa, cioè (1) . - (2) . (3) : - =
: A (f). Se G è la classe dei punti, chiamiamo eguali due punti coincidenti, ed
essendo a, h due punti indichiamo con “a + h” il punto medio del segmento che
ha a e Zi per estremi. Allora, le proposizioni (1), (2) sono vere e la
proposizione(3) è falsa, cioè (1) . (2) . - (3) : - = : A. Da (a), (P), (y) SI
DEDUCE che le proposizioni (1), (2), (3) sono indipendenti, cioè che non è
possibile dedurre una di esse dalle rimanenti. Applicazioni # #. Se il sistema
a di postulati che si considera contiene, tj (n e 1 + N), prop., si sarà
dimostrato che fe irreduttibile, quando si sono trovate n classi di enti .t,
per ognuna delle quali è falsa una delle proposizioni di a e vere le rimanenti.
Ora ciò presenta spesso serie difficoltà, e fra i sistemi di postulati
attualmente noti, solo quello per gli N, può dirsi assolutamente irreduttibile.
Sieno U„ V», W x delle proposizioni contenenti il gruppo di lettere variabili x
: diremo che “ W :, ò CONSEQUENZA NECESSARIA della proposizione. V* nel gruppo
U x, V., quando, “ W x e CONSEQUENZA di U x e V x, e W x è indipendente da U x
„ ; cioè quando U x V* . Ox • W x : U x - W x . - = * . A. Riprendendo il
precedente esempio delle grandezze è facile dimostrare che la proposizione (4)
n e 1 -1- N . fi G f Z„ .g e (Z„ f Z») sim : 0 : fl+f2+... + fn=f(gl) + -fk»h
che esprime in generale la proprietà commutativa della somma, si dimostra
facendo uso delle proposizione (1), (^), (•!)•. Si ha cioè che (1) . (2) . (3)
: o : (4). Se ora 6 e la classe dei punti, chiamiamo eguali due punti
coincidenti, e “a + b” indica il punto medio del segmento che ha i punti a, b
per estremi, allora le proposizioni (1), (2) sono vere, e la proposizione (4) h
falsa in generale (per n > 2). Quindi (1) ■ (2) . - (4) : - = : A cioè “ la
proposizione (4) l> CONSEQUENZA NECESSARIA della proposizione (3) nel gruppo
(1), (2), (3),, o in altri termini “ la proprietà generale commutativa della
somma – H. P. Grice on J. O. Urmson: He took off his shoes and went to bed” --
è CONSEQUENZA NECESSARIA della proprietà associativa. In luogo di ‘ 3 e Np, 7 e
Np „ si ponga “ 3 e Np . 7 e Np In luogo di “ 12 „ si ponga “ 13 „. In luogo di
“ Quando per le... „ si ponga “ Quando per la „. In luogo di “ cioè, si ponga “
ove „. In luogo della prop. (6) si ponga Q=xe(x£(l.u.xe — Q . u . a: = 0). Nome
compiuto: Cesare Burali-Forti. Forti. Keywords: Formalisti, neotradizionalisti,
sistema Ghp, Peano, comibinatoria. Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Forti,” The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Forti –
la scuola d’Arezzo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Arezzo). Filosofo
italiano. Arezzo. M. Arezzo. Filosofo, compositore e pittore italiano, padre
del matematico Forti. Figlio di una ricca famiglia di possidenti aretini.
Nasce di Giova Batista F. e Paolina BURALI. Si laurea in giurisprudenza a Siena
e, secondo le cronache coeve, rifiutò grandi incarichi pur di rimanere nella
natia Arezzo. Rimase tutta la vita impiegato della pubblica amministrazione
aretina (era sottosegretario della prefettura) e rettore della Fraternita dei
Laici. I concittadini lo descrissero come uomo pio, ma grande sostenitore della
laicità dello stato nonché fervente patriota durante il Risorgimento. Si
dilettò di pittura, soprattutto di ritrattistica[7], e si dedicò ampiamente
alla musica anche se sempre a livello dilettantesco. Musica Preludio alternativo dell'opera
Esther, autografo alla Biblioteca Città di Arezzo Scrisse dodici opere serie,
tre scherzi melodrammatici, una farsa, una messa di requiem, ben 50 messe con
orchestra, 10 per coro a cappella, 2 sinfonie, un quartetto, un concerto per
pianoforte, varia musica da camera (soprattutto per fiati e archi), canzoni,
pezzi corali, opere sacre non liturgiche, inni patriottici, e musiche di scena
per numerosi drammi amatoriali. Collaborò con tutte le realtà musicali,
professionali e non, di Arezzo, ed ebbe un rapporto speciale con le società
filodrammatiche, per le quali amava scrivere spettacoli musicali comici. I suoi
lavori teatrali, salutati da un grande successo locale, hanno una felice verve
melodica e quelli sacri dimostrano un non comune talento armonico, che gli
valse il diploma ad honorem dell'Istituto musicale di Firenze (due anni dopo
l'istituto lo volle anche assumere come insegnante). Arezzo lo amò per le sue
trame scacciapensieri, il suo anti-wagnerismo (mentre imperversava la dicotomia
Verdi-Wagner, dagli anni '80 dell'800, F. fu un grande peroratore delle cause
verdiane), e la sua calda cantabilità italiana (derivata dall'imitazione di
stilemi di Mercadante, Donizetti, Bellini e l'adorato Verdi, e importante nel
pensiero nazionalistico susseguente l'Unità), benché siano evidenti anche
esperimenti tragici (spesso in opere non gratificate da successo, per esempio
Marchesella), e anche qualche modello straniero (è provato che rimase
affascinato dal Faust di Gounod). Fu un fervente protagonista degli eventi
musicali aretini ottocenteschi: le onoranze per Bartolomeo Cristofori, e,
soprattutto, l'inaugurazione del monumento a Guido Monaco. Organizzò e gestì in
prima persona questi eventi, componendo musiche, arrangiando quelle di altri
(per l'evento su Cristofori rielaborò le ouvertures di Betly di Donizetti e di
Semiramide di Rossini per sette pianoforti a 28 mani), e partecipando come maestro
del coro (fu maestro sostituto della compagine corale durante l'esecuzione del
Mefistofele di Boito diretto da Mancinelli al Teatro Petrarca). Fantasia per
clarinetto in si bemolle e pianoforte, autografo alla Fraternita dei Laici di
Arezzo Fonti Autografi Data la natura dilettantesca della sua attività
musicale, raramente Burali-F. si è affidato a copisti per la redazione di parti
e spartiti, per cui spesso sono di sua mano tutti i manoscritti musicali che
possediamo, non solo le partiture complete. Una vasta raccolta di autografi
conservata principalmente in tre istituzioni aretine: la Fraternita dei Laici,
la Biblioteca Città di Arezzo, e la Donazione Sparapani all'Archivio storico
comunale. Fraternita dei Laici Burali-F. fu rettore della Fraternita,
alla quale è rimasto l'intero suo archivio, comprese carte amministrative e
lettere. È qui che è conservato il maggior numero di suoi autografi. Biblioteca
Città di Arezzo La Biblioteca nacque per intercessione della stessa Fraternità,
che vi trasferì una parte delle sue collezioni. I libri appartenuti a F.
(riguardanti il diritto e la pittura) e a suo figlio Cesare (matematico)
vennero accolti dalla nuova istituzione e tra essi anche alcuni libretti dei
lavori teatrali di Burali-Forti stampati ad Arezzo (di Marchesella, Una testa
di gesso, Tutti dicono così e Carmela) ed autografi: la partitura completa e
due spartiti canto e pianoforte dell'Esther, le parti per oboe della Carmela,
la parte di armonium di due scene del finale II di Marchesella, le partiture di
6 messe (due complete anche di parti), due Tantum ergo completi in partitura e
parti, un Requiem nella riduzione per canto e pianoforte, un De Profundis in
riduzione per voci e organo e orchestrato per piccola orchestra (in una
partitura completa di parti), un Quemadmodum completo in partitura e parti, e
un Credo in partitura vocale con parti (per le voci, gli archi, l'oboe e i
timpani). Donazione Sparapani Nella donazione che Vasco Sparapani donò al
comune di Arezzo, contenente la collezione musicale della Società Filarmonica
Aretina, e oggi conservata nell'Archivio storico comunale, si trovano tracce
dei lavori che Burali-Forti scrisse per le associazioni filodrammatiche e per
altri eventi cittadini (la Società Filarmonica fu per molto tempo una sorta di
orchestra cittadina di Arezzo, e accompagnava gli spettacoli filodrammatici
come le celebrazioni civiche), oltre che alcuni pezzi cameristici dedicate ai
suonatori della Società. Vi si trovano la partitura e le parti per la farsa I
due metastasiani, le parti delle musiche di scena per la commedia I campanili,
una partitura dello spettacolo Testa di gesso[29], una sinfonia per orchestra e
pianoforte, una messa, due quartetti con clarinetto (uno per clarinetto in si
bemolle, due violini e violoncello, l'altro per lo stesso clarinetto e flauto,
violoncello e pianoforte), un inno per i caduti nelle battaglie per
l'indipendenza italiana, e una Preghiera della sera per quintetto d'archi,
armonium e pianoforte, dedicata alla banda cittadina «Guido Monaco»
(istituzione diversa rispetto alla Società Filarmonica) e datata Teatro
Petrarca. Oltre alle musiche, la donazione conserva alcune edizioni di libretti
(di Testa di gesso e di Tutti dicono così), e le lettere che Burali-Forti
scrisse alla Società Filarmonica riguardo alla produzione dell'opera Carmela. Istituzioni
private e autografi perduti La mancanza di studi specifici non ci permette di
valutare quanti autografi di Burali-Forti siano finiti in biblioteche private,
o in collezioni musicali non specializzate, e quanti siano da ritenersi
definitivamente perduti. Claudio Santori segnala presso privati gli spartiti
canto e pianoforte di Testa di gesso[40] e Carmela, e considera perduti gli
autografi di Luisa (Santori nega l'autografia della partitura incompleta, dello
spartito e delle parti presenti alla Fraternita dei Laici), di L'erede, di Il
piatto azzurro (nonostante vi sia una partitura per piccola orchestra
corrispondente a quel titolo nella Fraternita dei Laici), di L'essere sta nel
parere, e di Mignoné-Fanfan. Si presume che l'archivio della banda «Guido
Monaco» possa conservare copie manoscritte di suoi lavori, così come la
collezione musicale del Liceo Linguistico-Scientifico «Francesco Redi», ma lo
stato degli studi non consente di verificare queste ipotesi. Edizioni a
stampa F. riuscì a pubblicare alcuni pezzi: Un Pensiero elegiaco con
l'editore Genesio Venturini di Firenze: di questo pezzo non ci sono pervenuti
gli autografi il bozzetto Nozze campestri per pianoforte a quattro mani con
Giudici et Strada di Torino: neanche di questo lavoro ci sono pervenuti gli
autografi Una miscellanea di sue rielaborazioni per clarinetto in si bemolle e
pianoforte edita da Giovanni Canti a Milano comprendente: la fantasia Le veglie
di famiglia, compatibile con una fantasia per il medesimo organico alla
Fraternita con data 1886[21] una sui temi del Buondelmonte di Giovanni Pacini,
di cui non c'è traccia tra gli autografi pervenuteci una su quelli di Marin
Faliero di Gaetano Donizetti, di cui non c'è traccia tra gli autografi
pervenuteci una su quelli della Vestale di Saverio Mercadante, di cui non c'è
traccia tra gli autografi pervenuteci la trascrizione dello stornello Tippiti,
tuppete, tappete di Mercadante, il cui autografo è presente alla Fraternita.
Lista delle opere teatrali TitoloData e luogo di rappresentazione (se
noto)LibrettistaNote di conservazioneEdizione del libretto (se esistente)
Esther (non fu mai rappresentata) F. e Bandi (non si sa in che misura Bandi
abbia partecipato al libretto: nei frontespizi degli autografi il suo nome è
ancora leggibile ma è stato eraso)Partitura autografa, riduzione canto e
pianoforte autografa, parti parzialmente autografe alla Biblioteca Città di
Arezzo. Una partitura autografa incompleta è anche alla Fraternita dei Laici Imilda
(non risulta sia stata rappresentata) F., basata su una novella di Cesare
BalboAutografi (di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei
Laici[21]Piccarda Donati1874, Teatro PetrarcaBurali-FortiAutografi (di
partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Arezzo,
Bellotti (una copia risulta alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia) Marchesella
Burali-F., dai Rerum Italicarum Scriptores di Ludovico Antonio Muratori Autografi
(di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici. Le parti
di armonium di un paio di scene del finale II (forse autografe) sono alla
Biblioteca Città di Arezzo Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città
di Arezzo) I Cilni Burali-FortiAutografi(di partitura, canto e pianoforte e
parti) alla Fraternita dei LaiciMontanini e Salimbeni Burali-F. Autografi (di
partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Testa di gesso
Burali-FortiSantori considera l'autografo integrale perduto, ma segnala
l'esistenza dell'autografo della riduzione canto e pianoforte in una biblioteca
privata. Partitura e parti manoscritte si trovano nella Donazione Sparapani,
che potrebbe però riferirsi alla data d'archiviazione Arezzo, Bellotti (una
copia è alla Biblioteca Città di Arezzo, due sono nella Donazione Sparapani, e
una alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia[50]) La strage dei Tondinelli Burali-FortiAutografi
(di partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Carmela,
Teatro PetrarcaBurali-Forti, da un lavoro di Edmondo De AmicisAutografi (di
partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici. Alcune parti
manoscritte, parzialmente autografe, sono alla Biblioteca Città di Arezzo. Santori
indica che la riduzione canto e pianoforte autografa è in una biblioteca
privata. Un carteggio relativo alla gestazione dell'opera è nella Donazione
Sparapani Arezzo, Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo) Luisa
(non fu rappresentata) Burali-F. Una partitura incompleta, e spartiti canto e
pianoforte di alcune scene sono alla Fraternita dei Laici: Santori non li
considera autografi L'Erede Burali-FortiAutografo perdutoIl piatto azzurro Pilade
Cavallini, da una fiaba cineseSantori considera l'opera perduta, ma alla
Fraternita dei Laici c'è una partitura «per piccola orchestra» corrispondente a
quel titolo La sposa del DiavoloPilade CavalliniAutografi (di partitura, canto
e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici L'essere sta nel
parere188Burali-FortiAutografo perdutoTutti dicon così Burali-F. Autografi (di
partitura, canto e pianoforte e parti) alla Fraternita dei Laici Arezzo,
Bellotti (una copia è alla Biblioteca Città di Arezzo, un'altra nella Donazione
Sparapani) Mignoné-Fanfan non firmatoAutografo perdutoDiscografia Nel 2019, il
flautista Roberto Fabbriciani ha inciso 4 pezzi di Burali-F. per l'etichetta
Holly Classic. Santori Santori Necrologio di Burali-Forti redatto da Angelico
Failli in «La provincia di Arezzo Santori, Santori, Un compositore aretino
dell'Ottocento: Cosimo F., in «Archivi e Memorie dell'Accademia Petrarca,
Arezzo, Palmini, Bio di Burali-Forti, su Fraternita dei laici. Alessia
Massaini, Le notevoli doti artistiche di Cosimo Burali-Forti: disegnatore,
pittore e scenografo, in «Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti. Bollettino
d'informazione», Arezzo, Armandi, Fondo Burali-F. della Biblioteca, su
CeDoMus. Santori, Armandi Santori Santori, Santori, Santori Santori Armandi,
Santori Santori. Sull'inaugurazione del monumento a Guido Monaco vedi anche
Bianca Maria Antolini, La musica in Toscana nell'Ottocento, in Paradiso.
Fondo Burali-F. della Fraternita, su CeDoMus. ^ Scheda del fondo Burali-Forti,
su Fraternita dei Laici. Scheda della Donazione Sparapani, su CeDoMus.
Fondo della Società Filarmonica Aretina, su CeDoMus. Rinnovati, La donazione
del fondo musicale della Famiglia Sparapani all’Archivio storico del Comune di
Arezzo, pubblicato sul sito del CeDoMus anche in versione pdf ^ Articolo sulla
donazione, su CaMu Arezzo. ^ Donazione Sparapani, documento Donazione
Sparapani, documento Donazione Sparapani, documenti Donazione Sparapani,
documento. ^ Donazione Sparapani, documento. ^ Donazione Sparapani, documento
Donazione Sparapani, documento. ^ Donazione Sparapani, documento Armandi Donazione
Sparapani, documento 674. Donazione Sparapani, documenti. Donazione
Sparapani, documento Donazione Sparapani, Santori Santori, Armandi Scheda
dell'edizione, su SBN. ^ Scheda dell'edizione, su SBN Scheda dell'edizione, su
SBN Santori Santori, Scheda dell'edizione, su SBN. ^ Scheda dell'edizione, su
SBN. Scheda del libretto, su SBN. ^ Santori Santori Santori Pagina di
Discografia, su Sito Ufficiale di Fabbriciani. Bibliografia Claudio Santori, Un
compositore aretino dell'Ottocento: Cosimo Burali-Forti, in «Archivi e Memorie
dell'Accademia Petrarca, Arezzo, Palmini, Bardazzi e Alessandra Lombardi (cur.),
Società Filarmonica Aretina Inventario degli archivi della Società Filarmonica
Aretina, Società Filodrammatica dei Risorti di Arezzo, Società Filarmonico
Drammatica Aretina ovvero della Provincia di Arezzo poi Società Filodrammatica
«T. Sgricci», Dopolavoro Filarmonico-Drammatico «T. Sgricci», Società
Filarmonico Drammatica «T. Sgricci», Società Filarmonica Aretina, Orchestra
Stabile Aretina, Arezzo, Comune di Arezzo/Archivio Storico. Vedi pdf,
consultabile sul Sito dell'Archivio Storico di Arezzo. Alessia Massaini, Le
notevoli doti artistiche di Cosimo Burali-F.: disegnatore, pittore e
scenografo, in «Brigata Aretina degli Amici dei Monumenti. Bollettino
d'informazione Arezzo, sn, Luigi e Lorenzo Armandi, Musicisti e musicanti,
bandieri e cantanti nella città di Guido Monaco. L'attività
filarmonico-bandistica, Arezzo, Letizia, Santori, Cinque secoli di musica ad
Arezzo, Arezzo, Helicon Claudio Paradiso (cur.), Teodulo Mabellini. Maestro
dell'Ottocento musicale fiorentino, Roma, Società Editrice di Musicologia. Centro
Documentazione Musicale della Toscana V · D · M Compositori e fondi musicali
toscani Portale Biografie Portale Musica classica
Portale Toscana Categorie: Compositori italiani Pittori italiani Nati ad
ArezzoMorti ad Arezzo[altre]. Nome compiuto: Cosimo Burali-Forti. Forti.
Keywords: Sistema G-hp. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Forti,” The Swimming-Pool Library, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fracastoro:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’anima – scuola
di Verone – filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Verona). Abstract. Gricre: “I use ‘soul’ rarely, but then I
went to Clifton so psyche sounds more natural to me!” Keywords: soul. Filosofo
veronese. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Verona, Veneto. Grice: “I love
Fracastoro; for one, I love a physician, since I came to know quite a few – at
Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro; he philosophised on mainly three topics:
the ‘soul’ – in a philosophical dialogue entitled after him, Fracastoro; on
poetics, in a dialogue which he named after his poet friend Navagero; and
third, on ‘intellezione,’ in a dialogue which he named after another friend,
one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact that Gerolamo, or Girolamo, is still
at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato
uno dei più grandi filosofi di tutti i tempi. Insegna logica a Padova. Fu
archiatra di Paolo III, al quale dedica “Homocentrica”. A lui è dedicato il
cratere F. presente sulla Luna. Fondatori della patologia (teoria del patire). È
il primo ad ipotizzare e verificare che una infezione e dovuta a un germe
portatore di una malattia, con la capacità di moltiplicarsi nel corpo dell’organismo
e di contagiare altri attraverso la respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide,
ossia sul “mal francese,” sotto forma di poemetto in esametri e il trattato
"Sul contagio e sulle malattie contagiose.” Il trattato è all'origine
della patologia, o teoria del patire. Fu il primo a scoprire che le code
cometarie si presentano sempre lungo la direzione del Sole, ma in verso opposto
ad esso. Descrisse uno strumento in funzione astronomica, poi realizzato da
Galilei: il cannocchiale. Scrive III dialoghi filosofici: Naugerius sive de
Poetica (dialogo di estetica), Turrius sive de Intellectione e l'incompiuto
Fracastorius sive de Anima. F., con il
nome di Giroldano, viene incontrato da Dago, personaggio di un fumetto
argentino creato da Robin Wood e Alberto Salinas, in una delle sue avventure,
per la precisione nel n. 10 anno XIV del mensile, proprio mentre Girolamo
interroga una prostituta in cerca di informazioni per il suo poema sulla
sifilide. Una leggenda sul Fracastoro fa
parte della storia popolare veronese. Una sua statua è posta su un arco alla
fine di via Fogge, che da nord si innesta in Piazza dei Signori (comunemente
detta anche Piazza Dante). La statua rappresenta la sua figura intera con in
mano il mondo, che il popolo del tempo ha ribattezzato la bala de F., dove bala
è il termine dialettale che indica palla. In quella strada vi era il passaggio
per il vecchio tribunale da parte di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i
palazzi del potere di quel tempo. La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla
testa del primo galantuomo che passerà sotto. Finora non è mai successo. Il
popolo di Verona usa questa storia per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico
Peruzzi, Dizionario Biografico degli Italiani, Ettore Bonora, Il
"Naugerius" del F., Milano,Garzanti, Storia della Letteratura
italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e la Scuola Veneta nello sviluppo e nel
progresso delle Scienze geologiche. Mem. R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal
Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di carattere geologico di Valleri
senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia da Valleri ad oggi”, Simposio
nel III Centenario della nascita di Valleri, Univ. Studi Padova e Acc. Patavina
Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del
progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze, F., Patavii, excudebat Josephus
Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica, Venetiis, Sifilide
Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, F., Girolamo», in Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vita
condizione propria della materia vivente Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Vita
(disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche degli esseri viventi
che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il metabolismo, la
riproduzione e l'evoluzione. Alberi in una foresta (Muir Woods National
Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia la vita,
ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema complesso che
è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una «forza vitale» è
stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto contrapporsi i
sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo dall'altro, circa
l'esistenza di un principio metafisico in grado di organizzare e strutturare la
materia inanimata. La comunità scientifica non concorda ancora su una
definizione di vita universalmente accettata, evitando ad esempio di
qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o viroidi.
Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni essere vivente ha
un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce, adattandosi all'ambiente
mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica la vita perché qualunque
caratteristica che hanno i viventi può essere ritrovata in altre situazioni non
considerate viventi, ad esempio alcuni virus software che hanno un ciclo vitale
e di riproduzione nel loro ambiente informatico ma non sono vivi, o alcuni
cristalli che crescono e si riproducono, e molti altri esempi. Una più basica
serie di caratteristiche della Vita sono state avanzate, come ad esempio un
sistema composto da molecole omochirali che si mantiene in omeostasi e capace
di reazioni autocatalitiche (Tour). Le forme di vita che sono o sono
state presenti sulla Terra vengono classificate in animali, cromisti, piante,
funghi, protisti, archaea e batteri. Definizione Mayr Riguardo alla definizione
di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra scienziati e tra filosofi. Secondo
il biologo Mayr sarebbe sufficiente individuare le caratteristiche fondamentali
della vita da un punto di vista materiale: «Il definire la natura
dell'entità chiamata vita è stato uno dei maggiori obiettivi della biologia. La
questione è che vita suggerisce qualcosa come una sostanza o forza, e per
secoli filosofi e biologi hanno provato ad identificare questa sostanza o forza
vitale senza alcun risultato. In realtà, il termine vita, è puramente la
reificazione del processo vitale. Non esiste come realtà indipendente»
(Mayr) Il biologo Driesch sosteneva invece che la vita non potesse essere
compresa con gli strumenti delle scienze meccaniche, come la fisica, le quali
si occupano esclusivamente dei fenomeni non biologici, ragion per cui la
biologia andrebbe separata da queste discipline:[5] «La vita non è [...]
una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è
un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e
la biologia è una scienza indipendente.» (Hans Driesch, The science and
philosophy of the organism, trad. ingl., Londra) Uno studio approfondito in
merito è stato fatto dal fisico Erwin Schrödinger. Nella sua dissertazione
Schrödinger nota per prima cosa la contrapposizione tra la tendenza dei sistemi
microscopici a comportarsi in maniera "disordinata", e la capacità
dei sistemi viventi di conservare e trasmettere grandi quantità di informazione
utilizzando un piccolo numero di molecole, come dimostrato da Mendel, che
richiede necessariamente una struttura ordinata. In natura una disposizione
molecolare ordinata si trova nei cristalli, ma queste formazioni ripetono
sempre la stessa struttura, e sono quindi inadatte a contenere grandi quantità
di informazione. Schrödinger postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può
mantenere l'informazione è una molecola di un "cristallo aperiodico"
cioè una molecola di grandi dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace
quindi di sufficiente stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere
informazioni. In seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del
DNA da parte di Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio
quel cristallo aperiodico teorizzato da Schrödinger. Seguendo questo
ragionamento Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni
fisici seguono il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi
vanno incontro ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato
energetico più basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo
apparentemente non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in
uno stato ad alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è
stazionario, perché i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino
alla morte. Questo, secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi
contrastano l'aumento di entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè
aumentando a loro favore l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli
organismi viventi devono essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per
ricompensare l'energia che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio
stazionario. Questo è ciò che in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di
metabolismo e omeostasi. Secondo Mayr, è un'entità viva, quindi con
peculiarità che la distinguono dalle entità non viventi, l'organismo vivente,
soggetto alle leggi naturali, le stesse che controllano il resto del mondo
fisico. Ma ogni organismo vivente e le sue parti viene controllato anche da una
seconda fonte di causalità, i programmi genetici. L'assenza o la presenza di
programmi genetici indica il confine netto tra l'inanimato e il mondo
vivente. Unendo il concetto del disequilibrio con quello della
riproduzione (cioè della trasmissione ordinata delle informazioni), come
espressi da Schrödinger, si ottiene quello che può essere definito
vivente: un sistema termodinamico aperto, in grado di mantenersi
autonomamente in uno stato energetico di disequilibrio stazionario e in grado
di dirigere una serie di reazioni chimiche verso la sintesi di sé stesso. Questa
definizione è largamente accettata nell'ambito della biologia, nonostante ci
sia ancora dibattito in merito. Basandosi su questa definizione un virus non
sarebbe un organismo vivente, perché può arrivare a riprodursi ma non può farlo
autonomamente, in quanto si deve appoggiare al metabolismo di una cellula
ospite, così come non sono esseri viventi le semplici molecole autoreplicanti,
in quanto sottoposte all'entropia come tutti i sistemi non viventi. La
ricerca sui Grandi virus nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in particolare la
scoperte dei mimivirus, quindi l'eventualità che costituiscano anello di
congiunzione tra i virus, definiti qui non viventi, e i più semplici viventi
comunemente accettati, ha contribuito ad estendere il dibattito e a rendere più
sfumata la linea di confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi minoritarie,
suggeriscono che i domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano originare da
tre differenti ceppi virali e i plasmidi possono essere visti come forme di
transizione tra virus a DNA e cromosomi cellulari. Oltre la definizione di
Schrödinger, vari studiosi hanno proposto diverse caratteristiche che nel loro
insieme dovrebbero essere considerate sinonimo di vita: Omeostasi: regolazione
dell'ambiente interno al fine di mantenerlo costante anche a fronte di cambiamenti
dell'ambiente esterno. Metabolismo: conversione di materiali chimici in energia
da sfruttare, trasformazione di diverse forme di energia e sfruttamento
dell'energia per il funzionamento dell'organismo o per la produzione di suoi
componenti. Crescita: mantenimento di un tasso di anabolismopiù alto del
catabolismo, sfruttando energia e materiali per la biosintesi e non solo
accumulando. Interazione con l'ambiente: risposta appropriata agli stimoli
provenienti dall'esterno. Riproduzione: l'abilità di produrre nuovi esseri
simili a sé stesso. Adattamento: applicato lungo le generazioni costituisce il
fondamento dell'evoluzione. Queste caratteristiche sono, per la loro
peculiarità, comunque passibili di critiche e di parzialità. Un ibrido non
riproducentesi non può considerarsi come non vivo, così pure un organismo che
ne abbia perduto la capacità nel corso del tempo. Parimenti un'ipotetica
situazione che obblighi la dipendenza da strutture estranee per mantenere
l'omeostasi, un organismo strutturalmente non in grado di adattarsi
ulteriormente all'ambiente e altre singole deficienze, difficilmente, se prese
singolarmente, possono far escludere di avere a che fare con un vivente.
Organismi viventi Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in
dettaglio: Organismo vivente. La vita è caratteristica degli organismi viventi.
In generale la vita si considera una proprietà emergentedegli esseri viventi.
Questo significa che si tratta di una caratteristica posseduta dal sistema, ma
non posseduta dai suoi singoli componenti. Un organismo vivente, quindi, è
vivo, mentre non sono vive le sue singole parti. Condizioni necessarie alla
vitaModifica L'esistenza della vita, così come la conosciamo,necessita di
particolari condizioni ambientali. I primi organismi comparsi sulla Terra si
sono per necessità sviluppati in base alle condizioni preesistenti, ma in seguito
a volte sono stati gli organismi stessi a modificare l'ambiente, a vantaggio
proprio o di altri organismi. È il caso della produzione di ossigeno da parte dei
cianobatteri, che ha modificato profondamente l'atmosfera terrestre causando
un'estinzione di massa (detta catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la
colonizzazione dell'ambiente terrestre. Inoltre col tempo si sono determinate
sempre più interazioni complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella
maggior parte degli ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie
alla presenza di altri organismi che creano le condizioni necessarie (spesso si
tratta di microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che
trasformano l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per
le piante). Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di
determinati limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura,
umidità, radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è
possibile solo per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste
condizioni, che sono diverse per ogni specie, sono definite range di
tolleranza. Per esempio una cellula batterica ad una temperatura troppo alta
subirà la denaturazione delle sue proteine, mentre ad una temperatura troppo
bassa subirà il congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà.
Anche le caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH,
concentrazioni estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione
tossiche, eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo
sviluppo della vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito
enormemente all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo
della vita, nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente
"estremo" è comunque relativa e diversa per ogni organismo. Determinate
esigenze sono comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è
necessario che si disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio
energetico del sistema (vedi sopra). La maggior parte degli organismi autotrofi
sfrutta l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo
i nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante,
alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari
sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono
chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica
dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo
stesso, di una sua parte o dei suoi scarti. È necessario inoltre affinché
ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè
carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche
CHNOPS. Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica
dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti
organici di cui si nutrono. Tutte le forme di vita conosciute, infine,
necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato
adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a
lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.
Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita
conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su
altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente
diverse. Per esempio è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio,
Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie
molecole con l'arsenico, che proprio per la sua similitudine col fosforo e per
la sua tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la
maggior parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano
come ossidante nella respirazione, al pari di numerosi composti utilizzati a
tale scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in
dubbio, e sono in corso verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della
scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio
anziché del carbonio. Origine della vita Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita.
Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie
alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso
lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come
dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono
originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle
macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione,
sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA,
quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle. A partire dalle
protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li
conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un
ramificato processo di evoluzione della vita. Vita extraterrestr glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre.
Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta
"extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia,
a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo
non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra
scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a
quelle terrestri è molto acceso. Nella cultura umanisticaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita
(filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni
scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni
dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia. Nella
cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle
emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti,
letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e
presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato
vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o
il nichilismo. Diritto e questioni etiche sulla vita umana Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la
vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto.
Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia
della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come
la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la
maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo
affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose,
da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi
depressive. A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le
seguenti riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary, travolta
dalle devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da
che dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi
delle cose alle quali essa si appoggiava? Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio
di noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto. Vita
sintetica Dalla ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto
di vita si è sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che
utilizza conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia
evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in
maniera artificiale in laboratorio. NASA Life's Working Definition: Does It Work?, su nasa.gov.Biase,
I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Five Kingdom
Classification System, su ruf.rice Mayr, What is tha meaning of
"life" The nature of life, Cleland, University of Colorado, Cambridge
University press, Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, Engelmann, Ed.
originale: Philosophie des Organischen, Engelmann, Leipzig Schrödinger, What is
Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge. Che cos´è la vita?: la
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Astrobiology Magazine - earth science - evolution distribution Origin of life
universe - life beyond, su astrobio.net. Cos'è la vita?, su torinoscienza.it,
Torino scienza Forterre, Three RNA cells for ribosomal lineages and three DNA
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arsenate-respiring bacterium isolated from an Australian gold mine, in Int J
Syst Evol Microbiol, Vita all'arsenico? Probabilmente
no, su Le Scienze, Reaves, Rabinowitz, Kruglyak, Redfield, Absence of arsenate
in DNA from arsenate-grown GFAJ-1 cells, Flaubert, Madame Bovary, BUR, Voci
correlate Biologia Evoluzione Biodiversità Morte AWikizionario contiene il
lemma di dizionario «vita» vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. vita, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it.
La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Biologia scienza che studia la vita Organismo vivente entità dotata di
vita Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto Vita (filosofia). Il
concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico.
Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la
condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una
struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e
trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia
la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente
della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico
termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma
"vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana
e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica,
quella spirituale. Pensiero antico Nel pensiero greco antico vengono usati
invece tre termini a seconda del loro specifico significato: ζωή: il
principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente,
all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario
la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il
singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere; βίος: indica le
condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è
in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in
cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la
vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa
appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante; ψυχή: nella
lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di anima-respiro, il
soffio" vitale: ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν
ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν. Chi ama la sua
vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita
eterna» Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come
vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio
introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di
Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla
armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine
di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei σπέρματα. Tutti questi sono
elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come
nel Timeo di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di
anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee
pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la
cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal demiurgo, che
lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria,
acqua. Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo
nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie
alla Provvidenza divina. Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima,
ἐντελέχεια, sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo
causa e principio del corpo vivente. Con Aristotele il primato della forma
sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός al βίος
πρακτικός, al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno
i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica,
che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella pratica
cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine di
cambiare la realtà: è giusto anche chiamare la filosofia scienza della verità.
Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica l'opera,
poiché i filosofi pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le cose, non
studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed ora. La
visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che nella sua
dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche cosmica,
stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle diverse
dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e quello
materiale delle realtà empiriche. Il pensiero cristiano e
medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita
umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è
rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si
consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a
chi crede in lui. Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si
mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in
aeternum. Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore,
vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. La filosofia
medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός
per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere
alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita
biologica adattando la sua definizione dell'anima come l'atto puro di un corpo
che ha la vita in potenza alla teoria dell'immortalità dell'anima:
Filosofia moderna La vita viene concepita come appartenente a un essere vivente
che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò
che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si
cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che
definendo la monade la riferisce al principio aristotelico dell’ἐντελέχεια intesa
come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi
proprie, passando dalla potenza all'atto. Queste concezioni vengono superate
dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei
filosofi rinascimentali FICINO (si veda) e PICO (si veda). I pensatori
dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato
dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane,
concepiscono la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della
natura sviluppata da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole
contrastare sia la teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di
incomprensibile sia quella romantica che contrappone l'energia della vita al
freddo sapere, riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico
dell'Idea (tesi) che si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla
sintesi dell'Idea che torna su se stessa colma di realtà. Si costituisce
la Lebensphilosophie, la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di
Lukács La distruzione della ragione, si esprime in una varietà di autori che
elaborano una dottrina variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia
vita-ragione. Così Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Klages, e specialmente
Unamuno, Gasset, Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo,
di Arthur Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a
qualcosa di immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una
«vitalizzazione della ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo,
all'amoralismo: La ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della
ragione; qualora essa conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la
negazione della vita. Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la
ragione. Su queste basi speculative la filosofia francese con Deleuze ha
sviluppato una filosofia della vita che in questo autore, attingendo agli studi
storico-epistemologici di Canguilhem, porta alla fondazione di una visione immanentistica
della vita che ha come fulcro il concetto di differenza-ripetizione tutte
le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso
un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione. Sulla
scia del pensiero di Nietzsche, la differenza è concepita come affermazione
pura, come atto creativo e l'identità come un che di selettivo, che torna solo
per affermare la differenza. Attingendo alla filosofia della vita Foucault
avanza la teoria del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la
rete di poteri gestisce la gestione del corpo umano nella società
dell'economia e finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la
gestione del corpo umano come specie, base dei processi biologici da
controllare per una biopoliticadelle popolazioni. Ove non indicato
diversamente, le informazioni contenute nel testo della voce hanno come fonte:
Dizionario di filosofia Treccani alla voce corrispondente Possenti, La
questione della vita Internet Archive. Heidegger, Concetti fondamentali della
filosofia aristotelica, Milano, Adelphi, Possenti, Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The
Origins of European Thought, Cambridge, N. T. Gv. Platone, Timeo,
Aristotele, De anima, Aristotele, II libro della Metafisica, Gv.
Lunardi, Attualità di Unamuno, Padova : Liviana Deleuze, Differenza e
ripetizione, Il Mulino; Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Voci
correlate Modifica Esistenza Naturalismo (filosofia) Filosofia della natura
Vitalismo Portale Filosofia: Psiche termine della psicologia
Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita Panpsichismo
teoria Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita. Il vitalismo è
una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente come forza
vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto biologico
materiale. Raffigurazione di Venere, principio della vita e della
fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che i
fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non siano
riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è una
netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra ha
avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800
milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei. Il vitalismo
può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come l'esaltazione
della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la ricerca del
godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di quella volontà
di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno imporre il
proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un mondo che
Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto. In una tale ottica
l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la
conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare
la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A
differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude
molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano
va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica
della vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti
più truci e sofferenti. StoriaModifica Bambino nel grembo materno
disegnato da Vinci. Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come
sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta
di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia
rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo,
sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli
organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato
da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale
Anima del mondo. Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo
vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il
meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel
vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al
noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico:
questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del
determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che
pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti. Dopo aver
trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo
riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro
il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica,
come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti
che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una
continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente
semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da
nient'altro. Tentativi di spiegazione in laboratorio Wer will was Lebendiges
erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er
die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's
die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie. Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca
sempre innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti
inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il
nome di encheiresin naturae. Si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede. Mefistofele
rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe. Figure di
omuncoli disegnate da Vallisnieri, ritenuti i semi in grado di operare la
generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi
tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile
scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della
concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno
plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria
genetica sono stati i seguenti: il chimico tedesco Wöhler, in
collaborazione con Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi
dell'urea. Viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Buchner
dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive
ma solo con loro estratti. Stanley cristallizza il primo virus, il virus del
mosaico del tabacco. Urey prepara i primi composti organici deuterati. Miller
ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di
procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto
dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a
rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita,
senza che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione,
tali procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in
natura. Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la
storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e
coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare
maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza,
passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza
sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che
potrebbe essere in grado di spiegarle. Il biologo e filosofo Driesch ricorse al
termine del LIZIO entelechia per designare questa forza vitale in grado di
strutturare la materia organica secondo leggi immateriali. Il desiderio di
costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece
soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il
romanzo Frankenstein di Wollstonecraft. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, cit. in bibliografia. Dettaglio dal codice Windsor sugli studi
sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi
alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di
grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che
impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo). Leibniz, Monadologia, Schelling,
BRUNO (si veda), ovvero il principio divino e naturale delle cose, dove egli
recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo». Macchiaroli, Leopardi, Napoli, Biblioteca
Nazionale, Bergson, L'Evolution créatrice. Espressione composta da un termine
greco all'accusativo, encheiresin, ed uno latino, che significa letteralmente
«manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indica
l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo
vivente (Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings, a cur. McClatchy, Princeton). ^ Chardin,
L'avvenire dell'uomo, Il Saggiatore, Milano; Dizionario di filosofia Treccani.
BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, Vinci editore, Hvidberg-hansen, The Spirit
of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, Amico, Medicina e metafisica,
Nuovi Autori, Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e
confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, Canguilhem, La
conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino; Scott Lash,
Life (Vitalism), Theory, Culture and Society. Voci correlate Modifica Animismo
Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Bergson Collegamenti esterni vitalismo,
in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vitalìsmo, su
sapere.it, De Agostini. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano Chardin gesuita,
filosofo e paleontologo francese Pensiero di Teilhard de Chardin
Dannunzianes l'anima. L' ultimo libretto del nostro filosofo, che
dal suo stesso nome ci pervenne intitolato Fracastorius sive de Anima,
dovrebbe essere quasi la sintesi de' precedenti ragionamenti da lui
tenuti intorno all'intellezione. Ed invero fu a suo luogo notato
come intendimento del nostro Autore era di risalire daile estrinsecazioni
del pensiero alla sua stessa sorgente, e dalle facoltà dell'anima,
prima fra le quali la intellettiva, e dagli atti loro, alla stessa
propria natura dell'anima razionale. Cammino inverso a quello che si era
tenuto e si tiene comunemente nelle scuole, dove, da definizioni astratte
dell'anima. come dall' entelecheia d'Aristotele, si fa discendere e si
credeva di potere spiegare i singoli fenomeni. Ma appunto perciò abbiamo
annoverato F. fra i primi filosofi del rinascimento, avendo egli
avuto chiara coscienza della necessità di procedere a posteriori anche
ne' più ardui problemi della filosofia, della quale in tal guisa
preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro dell' Anima adunque si
dovevano raccogliere i supremi sforzi dell'acume filosofico di F., e
tuttavia per talune ragioni che or verremo esponendo, questo libretto rimane
inferiore all' aspettazione del lettore, e forse al concetto stesso
che aveva guidato l'autore nel comporlo. In primo luogo il dialogo è
rimasto incompiuto perchè l’autore, che da tanti anni vi medita sopra, è
prevenuto dalla morte. E per quanto si possa credere che in confronto dell’ampio
svolgimento dato al libro dell' Intellezione questo sull' Anima avrebbe dovuto
avere un corrispondente e proporzionato sviluppo, in ragione della
più alta gravità e difficoltà della materia, è tuttavia un libretto di
non molte pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova impresso
nella raccolta delle opere Fracastoriane. In secondo luogo la dottrina
dell'anima è in questo dialogo trattata limitatamente, e quasi
esclusivamente rispetto alla controversia dell' immortalità. E' ben vero
che F. cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad afferrare la quiddità dell'
anima, però assai brevemente, e di leggieri si scorge che non è
questo, almeno in tal luogo, il fine principale a cui mira. Notissima è
la contesa suscitata a quel tempo dal POMPONAZZI intorno alla immortalità,
da lui filosoficamente negata, cristianamente creduta, non diremmo tanto per
la consapevolezza del pericolo, quanto per quello strano contrasto
che accompagna le più ardite ribellioni di uomini usciti allora dal
dominio della teologia. Il che tuttavia non tolse che al Pomponazzi
stesso da taluno si facesse intendere eh' egli, ammessa per buona la sua
credenza come cristiano,, poteva essere arso soltanto come filosofo.
La dottrina del maestro ebbe contradditori fra i suoi stessi discepoli. Primo
fra questi il Contarini, uomo di chiesa, la confutò, dicendola
sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe che F., uomo religioso, e
medico del Concilio di Trento, avesse a difenderla. Ciò non ostcante
è errata l'opinione di coloro i quali credettero, come riferisce pure
l'anonimo scrittore della vita di F., che questi componesse il suo dialogo adversus
insana non minufi quam impia Pomponatii praeceptoris placita. Queste
parole ci fanno sentire r acrimonia dell' animo nei contradditori
del Pomponazzi, ma tale non è verso di lui l'animo di F., il quale
si sforza bensì di confermare l'immortalità, ma senza parola di ran- core
contro di alcuno, anzi senza mai nominare il Pomponazzi, e senza quasi
mostrar di cono- scere le obiezioni da esso addotte. Il dialogo poi
fu pubblicato soltanto molti anni dopo la morte del filosofo mantovano,
onde anche per questo rimane del tutto escluso che 1' opera
fracastoriana potesse avere un fine personale e polemico. Con tutto ciò
egli è certo che il fine apologetico della difesa del dogma la vince,
nel nostro autore, sulla discussione schiettamente filosofica; e l'aver
egli ristretto un argomento sì vasto pressoché a questa sola questione,
toglie oggi naturalmente al dialogo originalità ed efficacia. In
terzo luogo, ed è logica e necessaria conseguenza di quanto finora si è
osservato, la forma stessa del dialogo diviene piuttosto letterapia che
filosofica e si abbandona a poetiche concezioni, invece di conservarsi
strettamente raziocinativa e dialettica, quale appariva nel dialogo
dell’intellezione.Sente il nostro autore che la quistione dell'
immortalità sfugge propriamente all'indagine della ragione, ond' egli vi
sostituisce la poesia e il sentimento, per quanto siano questi pure lati
assai ragguar- devoli dell' animo e del pensiero umano. Nondimeno quello
che nel caso nostro più importa notare, si è che ciò facendo F. non
pretende ancora assoggettare la ragione al dogma, siccome era avvenuto
per tutto il medio evo, ma francamente riconosce che in quistioni
di tal natura non si può procedere col rigore del ragionamento
filosofico, in guisa che non s'abbia ad accettare se non quello che sia
stato rigoro- samente dimostrato, come volevano le antiche scuole
degli stoici e dei peripatetici: Deinde et duritiem severitatemque illam vel
stoicam vel etiam peripateticam exuamus, ut nihil velimus admittere
nisi quod iis rationihus assertum comprohatumque fuerit quas comprobativas
consuevimus appellare. In omnibus enim illas expetere iniustum profecto est. Queste
parole ci sembrano per vero molto notevoli. Se le prendiamo alla lettera,
in esse F. ci apparisce, come FILOSOFO, inferiore a sè stesso, e
verrà il Descartes a ristabilire come legge essenziale del metodo quel
medesimo rigore dimostrativo che stoici e peripapetici avevano
voluto. Tuttavia conviene ben rilevare come anche in cotesto il nostro
Autore, pur soste- nendo una tesi opposta a quella del Pomponazzi, sa ben
distinguere, come questi aveva insegnato a fare, ciò che può esser
soggetto di razionali dimostrazioni, e ciò che, non potendo
esserlo, va piuttosto confidato al sentimento ed alla fede. Non v' è più
qui la formula medioevale intellectus quaerens fidem; e nemmeno Taltra «
/ides quaerens intellectum, ed in cotesta distinzione che assegna un campo
separato alla filosofia e alla fede, pur entrambe necessarie a soddisfare
un'imperiosa esigenza psicologica, tutti sanno che fu il principio di un
salutare rinnovamento oltreché scientifico, altresì morale e
civile. Del rimanente non è a dimenticare che al tempo di F. quasi
tutte le speculazioni e discussioni che si fanno intorno all' anima,
aggiravansi principalmente intorno all'immortalità. Ogni secolo discute
quei problemi che più lo interessano, e non è a meravigliarsi che in un' epoca
in cui ridestavansi i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole
filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme letterarie ed artistiche
dell' antica civiltà greca e romana, si cercasse con ansia profonda
in quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei filosofi,
la conferma o la liberazione da quei dogmi che per secoli avevano
occupato le menti di ognuno. Così avviene che di tutta la
psicologia di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia
natura del Noo, da cui sembrava potersi conchiudere, rispetto all'anima, ora
che ella è, ora che non è mortale, era stata fra le altre parti
della sua dottrina la più dibattuta da commentatori e filosofi; è i nomi stessi
di aristotelismo e di platonismo si prendeno ormai come insegne di guerra,
secondochè si mirava ad oppugnare o a difendere i dogmi del LIZIO. Indi
le guerre tra aristotelici ed antiaristotelici; e tra gli
aristotelici stessi gli uni si sforzavano ancora di tirare le dottrine del
maestro, come avea fatto la scolastica, a razionale dimostrazione di
rispettate credenze, gli altri invece francamente vi si ribellavano, ma
tutti facevano segno de' loro studi più assidui quei luoghi d'Aristotele
che più da presso si riferivano alle supreme quistioni del loro tempo. Ed
ecco perchè anche la psicologia del POMPONAZZI si svolge
principalissimamente intorno all'immortalità, come pure intorno alla stessa
quistione si agitano, pressoché esclusivamente, tutti i suoi
contraddittori o sostenitori, come NIFO (si veda), CONTARINI (si veda), F.,
ACHILLINI, PORZIO, ZABARELLA, infìno a CREMONINI e a CESALPINO; e in
generale tutti coloro che più o meno partecipando al moto impresso da
Pomponazzi, svolsero o rifecero, sulle tracce d' Aristotele, la
psicologia del rinascimento. Premesse le quali cose, veniamo ora a
più particolareggiato esame di questo dialogo di F. Sono i medesimi
personaggi che avevano si dottamente ragionato dell'intellezione, i
quali ora prendono parte alia nuova discussione intorno all' anima, ed
incomincia a parlare F., protagonista del dialogo. Pel cui svolgimento, quasi
dramma intellettivo, l'autore non IS manca in prima di tratteggiare la
mirabile scena naturale ove egli e i su oi compagni si trovano, al
cospetto di tante bellezze naturali di acque, di monti, di luoghi
boscosi; e tutto ciò risuscita in loro l' immagine degli antichi filosofi
greci, che contemplando la viva natura s'ispirano alle sublimi loro
speculazioni. Talché pieno dei ricordi e delle idee greche, F. che sin dal
principio cita Teofrasto per la somiglianza del luogo ove egli ed i suol
amici erano radunati con altro luogo da quello de- scritto
nell'Arcadia, così soggiunge. De anima nostra cum sinais haUturi sermonem in
qiiam videtur musica latentem nescio quam vim et consensum habere,
apte quidem fiet si aliquantis per nunc ecccitetur in noUs. Ed alcuni
carmi cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal suono della
cetra, danno l’ispirazione e l'intonazione del dialogo. Perocché in tali
versi si canta del felice giovine che rapito da Giove e dato per
compagno ad Ebe, cambia la terrena dimora con l’eterna giovinezza dell'
Olimpo. Questo congiungere insieme la poesia e la filosofia (pur
tenuto fermo quanto sopra abbiam detto sulle diverse e talora opposte
ragioni della scienza e dell ' arte ) è uno dei fenomeni a mio giudizio più
ragguardevoli che si manifestano in taluni dei più grandi inge- gni
dei Rinascimento, compreso BRUNO (si veda) stesso che sì altamente e
filosoficamente poetava. In vero r Italia era allora tutto un popolo di
artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente ispiratori e maestri i
filosofi. Tal fenomeno merita un più lungo studio, che qui non è il luogo
nemmen di accennare, perchè troppo ci allontanerebbe dal nostro fine
principale; però piacemi almeno di riferire un saggio della poesia
filosofica di F., osservando che se allora ì' arte e l' ispirazione del
sentimento tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche, ben
potremmo augurarci che oggi all'inverso, di tanto mutati i tempi, la
filosofia e la scienza valessero a dar vita ad un' arte e ad una
poesia nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen- tare la
decadenza della poesia e dell'arte. Eceo ora la poetica finzione di F. Ne
timeas, Troiane fiier, quod in ardua tantum Tolleris a terra: quod rostro
atque unguihus uncis Te complexa ferox volncris per inania
portai. Audisti ne unquam sublimis nomen Olympi? Audisti ne Jovis,
tonitru, qui fulmina torquet? nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter
est, qui Haud praeda captus, diari sed amore nepotis In summum
amplexu innocuo te portai Oìympum. Astra ubi tot spedare soìes, uhi
pulcher oUt Sol Oitusque occasusque siios, ubi candida noctes
Currit Luna nitens, auroram Lucifer anteit. Hic ego te in numero superum
domibusque Deorum, Ver ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas
Aeterna et semper viridis floreìisriiie iuventa, Consistam, aequalemque
annis pubcntibus ITeben Officioque dabo comitem. Pone metum, dilecte
Jovi, melioraque longe Frospiciens, charam pucr obliviscere
Troiani; Neve Deim te iam et divorum regna petentem lilla canum,
aut Idae nemorosae cum sequatur. Tale dunque è la poetica introduzione
al trattato dell' anima. Ma l' autore entra subito in materia, e
ricerca intorno all'anima due cose -- quale ella sia qualis nam sit, cioè s'
ella sia eterna ed immortale o no; e che cosa sia « quid sit, »
cioè la stessa sua natura. Con rapida analisi egli raccoglie tutti gli
elementi che la riflessione filosofica scorge nel concetto che
tutti possiedono dell' anima, intesa come principio della vita, e che da
Aristotele erano stati cosi ampiamente dibattuti e ventilati. Percorre
tutti i gradi della vita, e non si ferma all' antica distinzione delle
specie di anime che corrispondono alle celebri facoltà aristoteliche di
nutrizione, sensibilità, locomozione, intelligenza, pur fra loro concatenate
in modo che non sia possibile la funzione superiore se non siano
state prima attuate le funzioni inferiori; ma sviluppa inoltre il principio
stesso della vita, separandolo, più distintamente forse che non
avesse fatto lo stesso Aristotele, dalle varie operazioni, procedenti da
altre cause, che concorrono a manifestarlo. In ciò la sua esperienza di
medico e 1’erudizione eh' egli possede delle dottrine vitalistiche e
animistiche emesse da fisici e medici insigni, come Andronico e Galeno,
ch'egli ricorda, lo pongono in grado di meglio determinare il principio
stesso della vita, procedendo per eliminazione di tutto quanto
apparisca insufficiente a spiegare una forza o potenza di tanto mirabile
efficacia. Così egli esclude che bastino a dar ragione della vita
la naturai complessione delle parti d'un corpo organico, considerando
quelle piuttosto come strumenti indispensabili che come vera ed intima
causa; esclude quella temperatura o mescolanza di umori e queir armonia o
consenso delle membra su cui pur tanto si erano fermati gli antichi,
scorgendo in tutto ciò piuttosto un rapporto da cosa a cosa, che un principio
unico ed attivo delle operazioni esclude infine quegli Spiriti che
eia altri fiiron cliiamati vitali, o il calor naturale, parendogli questi
cosa ben differente da ciò che è propriamente forza vivente e pensante.
Ma allora che cosa è 1'anima, come principio della vita, sia vegetativa,
sia sensitiva sia intellettiva? E qui F. torna esattamente ad Aristotele,
la cui celebre definizione dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio
evo, ed in tutto il periodo del rinascimento, nè ancora, al dire di
FIORENTINO (si veda), se n' è potuta escogitare una migliore (Pomponazzi). A dir vero, quella stessa
definizione aristotelica, essere cioè l’anima l’entelechia prima di
un corpo fisico, organico, che ha la vita in potenza, non era forse
la più persuasiva, a cagione dell' oscurità di queir entelecheia che ha dato
luogo a tante discussioni e interpretazioni ; tuttavia il
Fracastoro si adopera per illustrarla, e la esplica coi concetti di forma
sostanziale e di atto motore, e poi di forza organizzatrice; dei quali i
primi due erano il risultato delle teorie aristoteliche, il terzo dovea essere
il punto di partenza delle nuove speculazioni che si vennero
svolgendo per tutta la filosofia moderna, dallo spirito puro cartesiano
sino alla monade leibniziana. Aristoteles quidem volens animae naturam et
rationem eocplicare entelechiam vocavit, quam alii agitationem continuam,
alii actum transtulere est ennn anima propria forma corporis
organici, naturalis, viventis sed QUATENUS INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN
TOTUM prìmuin enim tum esse dat, tum conservationem continuam; per
ipsam deinde fiunt attractiones similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates
in virtute illius alterant, miscent, collocante formant, figttrant et
tandem progressiones animalium, generationes semìnum, et demum
similium organizationes : quae omnia fiunt in virtute animae et formae
per eam vim quam a mundi anima ed a Beo certam et nunquam errantem
recepit. Non si poteva concepire in una forma più elevata e universale
questa forza effettrice della vita, qualunque essa siasi (dacché la sua
essenza ci sfugge, come ci sfuggono tutte le ultime ragioni delle
cose); ne la dottrina di Aristotele poteva avere un più chiaro e sincero
interprete. Ancora è da notare come F., da buon naturalista eh'
egli era, presente qui l' unità della vita nell' universo, ma riferendo 1’anima
dell' uomo all' anima del mondo ed a
Dio, non conclude in favore di un assoluto panteismo, ideale o materiale,
eh' era pure stato il retaggio di alcune scuole antiche, ne partecipa a
quelle fantastiche animazioni che si riscontrano, come altrove
notammo, in alcuni filosofi del rinascimento; bensì la stessa sua sobrietà e
temperanza che anche altrove abbiamo avuto occasione di porre in rilievo
lo trattiene dal trascendere ad affermare quanto non fosse il semplice
bisogno di concepire la natura come un tutto organizzato e vivente.
Il quale bisogno fu pure altamente sentito in tutto il rinascimento. Ma
se si con- fronti questa semplicità e diremmo quasi buon senso di
F., con le stravaganze che intorno all'anima del mondo ebbe
dichiarato Agrippa nei libri De Occulta Philosophia; con le cose astruse e
sottili che sì leggono nella Pampsychia del Patrizzi, nel De SuUitilite; CARDANO
(si veda, nel Messaggero di TASSO (si veda); e in fine con le idee
trascendenti enunciate nei libri De Causa
e nella Cena delle Ceneri del BRUNO (si veda) e nel De sensu rerum
et Magia di CAMPANELLA (si veda), si vedrà quanto l'azione moderatrice di
F. fosse opportuna per volgere senza scosse la filosofia del suo tempo
dal formalismo d'Aristotele al naturalismo de'nuovi tempi. Però la
definizione aristotelica dell'anima abbracciata di F. non risolve una difficoltà,
anzi una contraddizione sostanziale che qui sorge improvvisa. L'anima,
essendo per Aristotele forma sostanziale del corpo è indisgiungibile
da questo, come egli ebbe risolutamente affermato in più luoghi, e
segnatamente in quello notissimo del De Anima. Ne perciò Aristotele ebbe
anco il pensiero di voler indagare la possibilità di un' esistenza
separata dell' anima. In tutto il suo sistema materia e forma
costituiscono nella realtà una sola cosa, entrambe sono egualmente
necessarie ed inse- parabili, essendo la materia la potenza della
forma, e la forma atto della materia, talché dove è materia è forma, e
dove è forma è altresì materia. Tuttavia questa unione e
compattezza della materia e della forma, che costituisce uno dei
cardini del sistema aristotelico, vien rotta allorché dalla realtà
applicata al conoscimento, deve la teorica d' Aristotele adattarsi a
spiegare il modo con cui si effettua in noi la cognizione, mediante
la stessa materia e la stessa forma. Invero la materia, secondo la teoria
ereditata dall’ACCADEMIA, e che non pertanto torna meno sostenibile nel
sistema aristotelico, è indefinita 0 indeterminatissima, perciò ella è
inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato nella metafisica. La
cognizione invece è data dalla forma; vi è però in questo una intrinseca
difiìcoltà, perchè la forma educendosi dalla potenza della materia, parrebbe
che la inconoscibilità di questa dovesse rendere meno accettevole
la conoscibilità di questa. La difficoltà si aggrava quando la materia e la
forma si considerino in quei due termini estremi di tutta la nostra
conoscenza che sono l' individuo e r universale. Questi due termini
rimangono inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e dì qua la
prima sorgente di tutte le opposte direzioni date alle varie parti della
sua dottrina, alle quali questo primo principio, per la stessa
compattezza del sistema, generalmente si distende. Invero l' individuo è
sensibile, l’universale è intelligibile, secondo la teorica
fondamentale d'Aristotele che pure altrove abbiamo richiamata ; intanto
l'individuo che dovrebbe partecipare della inconoscibilità della materia,
è tuttavia per lui il sinolo di una materia e di una forma, ma
partecipa di più della inconoscibilità della materia a cui è più vicino;
l'universale invece nella sua massima forma rimane assoluta conoscenza,
ossia pura forma, senza mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li
tal guisa si viene a separare per la prima volta la materia dalla
forma, dappoiché è manifesto che mentre tutte le altre forme^ eccetto la
massima si compenetrano nella materia, rispetto alla nostra conoscenza si
ammette una forma pura che viene ad essere per così dire divorziata
dalla materia. E' questa veramente una contraddizione del sistema del
LIZIO, la quale chi ben consideri non va attribuita a difetto del genio
smisurato di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime
ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte le analisi più profonde del
pensiero metafisico, e che avrebbe dato luogo più tardi alla negazione
del principio di causa per parte dell'Hume, e al riconoscimento di quelle
intrinseche antinomie le quali dovevano essere messe in evidenza dall'
acutissima mente del Kant nella critica della ragion pura. Ora questa
stessa cotraddizione trasportata per necessaria conseguenza di sistema nella
investigazione della natura dell'anima, dà luogo alla strana ambiguità del
LIZIO intorno alla immortalità ed alle controversie infinite che ne
derivarono. Perocché mentre dalla definizione sopra riferita dell'anima
dovea dedursi che questa non essendo disgiungibile dal corpo non potesse
avere una esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi e perire,
clie dir si voglia, al morire o disfarsi del corpo, ecco invece che vien
dicliiarata ad un tratto capace di separata esistenza, e perciò
immortale. Ciò è chiaramente detto dal LIZIO in altro luogo pur celeberrimo del
IT. libro De Anima ove è detto che
/' intelletto e la potenza pensante senibra essere un altro genere
di aniìna e questa sola potersi dare che sia separata, come l’eterno dal
perituro. Adunque, stando alla antecedente definizione dell' anima
(che pare dovea comprendere tutti i generi di anime) anche l'intellettiva
avrebbe dovuto concludersi mortale; ma giunto a questo il LIZIO si
arresta, e ripigliando il cammino dalla teorica della conoscenza e dalla
forma pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può concepire
separata dalla materia, conclude che si può dare, èvSéxexat, anche
un'intelligenza separata, e perciò immortale. Questa conclusione sembra
tanto più inaspettata inquantochè egli aveva fatto scaturire 1' anima
intellettiva dalle potenze inferiori; allo stesso modo che tutte le
forme erano implicate nella materia; e tuttavia non ostante l'antinomia
delle parti, egli è in fondo coerente all' insieme del suo sistema,
perchè l'intelletto che si dice ora separato vien fuori in forza di quel
medesimo ragionamento che, nel processo conoscitivo dall' individuo
all'universale, gli avea fatto concepire la possibilità di una forma pura
separata da ogni materia che spiegasse 1' universale. Tale per sommi
capi è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sforzati di ridurre alla
suprema possibile chiarezza traendola fuori dal viluppo delle ragioni
opposte, specialmente de' commentatori, e mostrandola come un prodotto
logico del suo sistema. Nè bisogna dimenticare inoltre che in tutta
cotesta controversia Aristotele stesso non è abbastanza esplicito, e
ciò diede luogo ai commenti infiniti degli espositori. IL LIZIO ha
dunque un bel dibattersi fra queste due opposte conclusioni. Il problema è
insolubile. Invero tanto potevano aver ragione coloro che avrebbero
voluto sforzare Aristotele ad esser logico fino in fondo, traendo dall'
inseparabilità dell' anima dal corpo la prova della mortalità della
medesima, tanto coloro che dalla forma e dall' intelletto separato
concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota nella storia che mentre i
Dottori delle scuole stavano per questa sentenza, quasi tutti i
commentatori non scolastici, e Alessandristi e Averroisti, conchiudevano per la
prima opinione, anche prescindendo dalla dottrina dell'intelletto separato
come contraria alla definizione generale dell' anima. Il vero si è che
cotesti erano soltanto ragionamenti a priori nè la natura dell'argomento
ammetteva la possibilità di quella esperienza che ormai da tante parti, e
da F. stesso, si contrapponeva alle astratte speculazioni. Bisognava
dunque contentarsi di queste o abbandonare la controversia.
Tuttavia notammo già che il problema s' impone, alla umana
coscienza e non è di quelli che specialmente in un tempo in cui sì gran parte
dell'edificio morale e civile e religioso riposava su di esso,
avrebbero potuto evitarsi. Se il sistema del LIZIO è impotente a risolvere un
siffatto problema bisognava sciogliersi dal sistema, ed allora a
che affidarsi? La quistione, come altrove notammo, era stata ben
posta da POMPONAZZI, la cui dottrina ci piace qui riassumere con le
cospicue parole del Ferri nella altre volte citata sua Opera. Se
volete, dice essa, una dimostrazione dell' immortalità, la filosofia non
ve la dà, nè ve la può dare ; ammessa invece la verità rivelata, la
religione ve la fornisce, domane! alela ad essa. Ora, F. come si
comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace giudizioso del suo Maestro,
perchè è ben vero che egli difende l’immortalità la quale POMPONAZZI
fllosoflcamente impugna, ma sentendo r insufiScenza de' ragionamenti
filosofici, francamente ricorre a quella religione stessa che pure POMPONAZZI
(si veda) addita. Infatti, oltre a quanto fu già rilevato in principio,
ch'egli non prometteva dimostrazioni filosoficamente rigorose; qui, dopo
percorse e ripetute le ragi oni d'Aristotele secondo la interpretazione
scolastica, assai modestamente e quasi dubitativamente conchiude
esser là tutto quella che sembravagli potersi addurre in favore della sua
tesi: atque haec quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu ediici
posse videntur. Di più confessa ancora
per bocca del suo interlocutore, che non poche cose potrebbero tuttavia
revocarsi in dubbio. Non panca certe sunt quae si contentiosi esse
velimus possint adirne in diihium verti. Ond' egli da questo punto
abbandona addirittura il campo della filosofia per entrare in quello
della teologia, e quando viene a parlare, pur tentando di risolvere
quei dubbi, di Dio e dei fini della creazione, così dell' uomo, come
di questa meravigliosa macchina mondana; e di poi della beatitudine degli
angeli, della generazione del Cristo, della vita e dello spirito dei
santiegli manifestamente non parla più come filosofo ma soltanto
secondo religione, e non fa nè può far altro che ripetere le
argomentazioni dei teologanti; nelle quali, come è giusto, noi
incompetenti non lo seguiremo. Non di meno l' interpretazione che
Fracastoro dà alle dottrine del LIZIO, ci porge argomento di esaminare
alcun' altra cosa che non è senza importanza per rispetto alla
storia della filosofia e in particolare dell'Aristotelismo nel
rinascimento. L'ENTELECHEIA del LIZIO, oltre alle altre discussioni,
aveva dato luogo a dubbi intorno all'unità dell'anima e del corpo umano
; perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto e la forma del corpo
organico, naturale, vivente, secondo le parole del LIZIO, essendo cotesto
corpo organico non vera unità, riunione di più membra tanto diverse
quanto sono le ossa dai muscoli, dai nervi, dalle vene, e così di
seguito, come può l'anima essere una forma unica applicandosi a forme
tanto diverse? E qui l'acume de'commentatori del LIZIO si era assai
ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima, incolume, e quale è attestata
dalla coscienza, dalla molteplice varietà delle forme corporee di
cui doveva essere l'atto e la vita. Gli uni avean detto che l'
unità dell' anima dee intendersi soltanto w genere, pur differendo le
membra nelle specie; come più animali, ad esempio r uomo, il
cavallo, il bue, costituiscono un ge- nere unico, differenti ssimi
rimanendo nella specie : dove ognun vede che, se così fosse, l'unità
dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un concetto mentale; ma
realmente nient' altro sarebbe che un' astrazione eduna chimera.
Altri poi dicevano che in ogni corpo organico vi è sempre una parte
che è principale rispetto alle altre, anzi queste son fatte per quella e
governate da quella, onde 1' anima non è necessario che si intenda esser
una rispetto a tutte le parti del corpo, ma soltanto rispetto a quella
che è la principale, e così 1' anima è unico atto od unica forma di
un' unica organica potenza, la quale ha virtù di dare la vita al tutto.
Questa risoluzione sembra a F. più vicina alla verità del nesso
fisiologico che è fra le membrane Clelia loro subordinazione: tuttavia non
lo ai) paga compiutamente e ci sembra notevole ii principio che
egli ora introduce per definire la controversia. Anche le parti
principali, die' egli con profonda dottrina e con acuto spirito di
osservazione, sono parecchie, onde 1' unità non può risultare dal solo
fatto che una di esse è la principale. Ma da che cosa risulterà
dunque? Balla loro continuità, egli rlice, perchè ogni xmità non sì
può altrimenti intendere che come continuità. Principale» siquidem partes,
quamquam plures sint, fiuntper continuationem unum: OMNE ENIM
CONTINUUM EST UNUM. Questo principio
ci pare notevole perchè fa presentire V analisi profonda che del
concetto di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo
Spencer, il quale ne'primi principi sviluppando il concetto che è già cosi
chiaro nel F., dimostra che (.gni unità è continuità di parti, perchè
1'assolutamente uno è impensabile. E se F. ha sostituito alla continuità
delle parti del corpo organico la continuità degli stati di coscienza (e ognun
sente il nesso . logico che dovea condurre da quella a questa) avrebbe
posto una delle pietre angolari della psicologia moderna. La quale,
come ognun sa, si è costituito per proprio oggetto appunto r esame
della successione di quegli stati, di cui il processo cerebrale e le
parti organiche sono la causa occasionale, mentre la coscienza n'è il legame
indispensabile; e dall'analisi descrittiva di tali stati di coscienza,
dal più semplice al più complesso, fa scaturire quella grande unità
che è la nota più caratteristica nella natura e nella vita dello
spirito. Altro punto importante della psicologia fra- eastoriana ci
sembra quello ove, pur mantenendo assoluta la diversità dell'intelletto
dalla materia, riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimostrare come l'
incorruttibilità del primo non dee intendersi altrimenti che quale
conservazione di una energia sostanziale, allo stesso titolo per
cmì si ammette indistruttibile ed eterna la materia. Nulla si crea e nulla si
distrugge, è il principio antico, cui ritorna F., dopo le negazioni alle
quali per il falso concetto dell'atto creativo erano venute la scolastica
e la teologia medioevale. Ma tale principio rimesso in Qnore anche da
altri filosofi e scienziati del rinascimento, manifestamente segna un
grande progresso, e già accenna a quella legge univer- sale e
feconda della conservazione e trasforma- zione dell' energia, che tanta
importanza ha assunto nell'indirizzo e nelle scoperte della scienza
moderna. Non diremo che nelle dottrine di F. si giunga sino a questo, e
che ciò possa avere virtù risolutiva rispetto alla quistione dell'
immortalità; nondimeno ci par nuovo, bello e fllosoflco il pensiero da
cui egli è guidato, e ci piace rilevarlo. Procul dubio, die' egli,
idem de intellectu dicendum erit quod de materia, et utrumque
incorruptibile et aeternum esse. E
ripete poco stante. Quare et incorruptibilem ponere intellectum debemus,
et parem habere cum materia conditionem. Ed infine ci pare manifesto
che rispetto alla tesi ultima che F. voleva sostenere, vale a dire l’immortalità,
egli abbia inteso come non dall' astrazione o separazione
dell'intelletto dalla materia, (su cui si fondavano quasi tutti gli altri
aristotelici sostenitori dell'immortalità stessa) ma dal loro accomunamento
era lecito dedurre quanto di più filosofico si poteva dire suir
argomento. Onde anche in ciò F. da prova così di grande acume d'ingegno come di
retto criterio filosofico; ed è forse questo il solo punto in cui egli,
contrapponendosi alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,
perocché se non riesce a dare una dimostrazione della immortalità, che
egli stesso abbastanza esplicitamente ha confessato la filosofia non
pòter dare; toglie almeno quella rude contraddizione che non avea dubitato di
accogliere Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristianamente quello che
filosoficamente avea negato. Questa massima strana, è tanto
inconcepibile, che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi
stimò non sincero Pomponazzi come cristiano, ad esempio il Brucker, il
quale scriveva che ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-
quio onde fa mostra POMPONAZZI (si veda) verso la religione cristiana;
mentre altri invece, come Bitter, stima Pomponazzi non sincero o
almeno non coerente o non convinto come filosofo. Tale incoerenza non
sarebbe stata pos- sibile a F., la cui temperanza e il retto
criterio filosofico aveano fatto scorgere il giusto punto fin dove
filosofia e religione sarebbero andate d'accordo, e al di là del
quale alla religione, non alla filosofia, sarebbe stato lecito
procedere sola. Sola ma non avversa; perchè quello che la filosofia
avesse dimostrato assurdo, ninna religione potrebbe mai dare
a credere, e ciò che si stima verità religiosa (leve non poter esser
dimostrato falso in filosofia. Ecco perchè BONAIUTI (si veda) Galilei,
impigliato egli pure in quistioni religiose, doveva affermare più
tardi che « due verità non possono mai contrariarsi ; intendendo per tali
la verità filosofica e la religiosa ; e fii pure BONAIUTI (si veda) Galilei
quegli che riuscì a rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scienza
la sua autonomia contro le antiche invasioni religiose e teologiche. F.
adunque, seguace del Pomponazzi nello sceverare il criterio filosofico
dal religioso, è più logico e più accorto di lui nel non mettere in
contraddizione F uno coir altro, ma piuttosto nel segnare il
confine d’ambedue. E poiché in filosofia come in religione e in morale e
in politica, tutte le quistioni più gravi sono principalmente qui-
stioni dì confini, così ci pare notevole che F. Ha colto precisamente
quei punto, in cui trovandosi la religione non contraddetta dalla
filosofia, e offrendo questa ben largo campo ad altre ricerche, potevasi
attendere ben altro sviluppo da un concetto alta- mente filosofico, quale
era quello dell' energia sostanziale e della forza, il quale sviluppo
si ebbe di fatto in tutta la filosofia posteriore fino a Spinoza e
a Kant ed a Hegel. Senza caddentrarci più oltre in questo speciale
iirgomento, che eccederebbe i limiti del nostro studio ed il nostro
bisogno, stimiamo opportuno confortare la nostra opinione con le belle
parole del Ferri, da lui poste come conclusione del suo sapiente
esame intorno alle dottrine psicologiche del Pomponazzi, e che a noi pare
convengano pienamente anche a quelle du F. Accomunati nella energia,
manifestazione della forza, r anima e il corpo, l' interno e 1'
esterno non sono più estranei 1' uno all' altro. Intesa secondo
questo rapporto la materia, può essere sede e condizione perpetua della
vita e dello spirito senza contraddizione, e 1' anima umana può
aspirare all' immortalità senza che il fenomeno sensibile, falsamente
trasformato in cosa sostanziale ed esistente per sè, opponga a questa
aspirazione un ostacolo insuperabile. La Psicologia di Pomponazzi.
Molte altre cose avremmo ad aggiungere intorno a questo Dialogo di F. se
volessimo per disteso riferirne tutto il contenuto; ma avvertimmo già che
nell' esame degli autori ed in argonìento come quello che stiamo
trat- tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine, e in quella
parte soltanto che, vivificata da studi posteriori, poteva esser cagione
di nuovi avvia- menti, e render ragione dei progressi ulte- riori
della scienza. Tutto il resto può essere abbandonato all' oblio. In F.,
se non ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza, per quanto si è
detto fin qui, la somma delle sue dottrine sull’anima. L'intelletto
umano, come complesso di tutta quella varietà di operazioni che sono state
da lui dichiarate nel dialogo precedente, è qui raccolto e
sintetizzato, per così dire, in un'entità separata, che ha qualche
cosa di divino, perchè fornita di quella virtù di pensare che è la
suprema manifestazione della vita e dell'ordine dell'universo. Talché in
certo modo tutto è intelletto e tutto si compendia neir intelletto: intellectus
omnia quodammodo fieri potest Si igitur omnia fieri dehet intelledus,
et in potentia esse ad omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum
necesse est. Tale intelletto separato, che è come l' essenza stessa dell'
anima umana a cui è peculiare, a differenza delle anime belluine o
semplicemente vegetative che ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima
umana sia dotata delle virtù che a quello som proprie, onde L’ANIMA, come
l'intelletto, può essere concepita qual forma separata dal corpo, ed
essere pertanto una, non ostante la moltiplicità delle sue
funzioni, ed immortale non ostante il suo legame col corpo corruttibile.
Belle sono inoltre le parole e le imagini che in F. qua e là
ricorrono per armonizzare in un tutto questi elementi discrepanti che
convergono a spiegare r intelletto e l’anima umana; e quando, ad
esempio, esamina, secondo un paragone allora divulgato, se l’animo si
congiunga col corpo come il nocchiero colla sua nave. Ovvero se sia
tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto r esser nostro: utrum
ille assistat nohis, quemadmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis nostri
sit ita pars, ut esse illud, quod quisque hahet ab ilio detur. Quando discute
in che modo possano stare insieme e formare un tutto solo, un atto o forma
indi- visibile quale è l'intelletto, e una materia divisibile quale è il
corpo: quiomodo unum fieri posse ex indivisibili actii et divisibili
materia verso Quando ricerca con grande sottigliezza il moto proprio
dell'anima, e se questo a lei sia sostanziale o accidentale
secondo le distinzioni aristoteliche, collegando il moto di essa e di
tutte le cose, coll’immagine della catena omerica che tutto abiuracela e
stringe al primo motore. In tutto ciò, dico, il nostro autore dà
prova di grande vigore speculativo, e se non tutte nuove sono le
cose ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente analizzatrice
e ricostruttrice, tale da poter stare al confronto cogl' ingegni più
acuti e coi filosofi metafisici più profondi del rinascimento. Da ultimo
singolarmente importante dovea essere quella parte del suo dialogo in cui
dalle altezze sin qui contemplate dell' anima e dell'intelletto umano,
partecipazione dell’intelligenza divina, e attività originata dal primo
motore, egli intende discendere a dimostrare il naturai principio di tutte
le cose, la loro produzione, origine e perfezione. Ancorcliè involto nel
preconcetto antropomorfico che pone l'uomo quasi centro di tutte le cose
cuius grafia, egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere non può
disconoscersi che con mirabile sintesi filosofica egli si prova a
riannoda- re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni
naturali, e descrive la formazione delle cose. Argomento bellissimo che tentò
sempre l’intelligenza e la fantasia de'più grandi naturalisti e
filosofi. Certo, non abbracceremmo oggi le idee di F. su tutte le
formazioni naturali; ma, quello che è per noi più importante a notare,
qui di nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge in lui lo
scienziato. Invero F. intraprende a descrivere la formazione del
sistema celeste, il numero e la distribuzione delle sfere, il soffio
divino che animò il tutto, e poi man mano le generazioni e le varietà
delle piante degli animali, e da ultimo degli uomini, per mezzo degli
elementi naturali, quali il caldo il freddo, le attrazioni e ripulsioni
delle cose. In tutto ciò F., per quanto pare a noi, non ragiona come
que’filosofi che avevano più volte architettato a priori, e secondo certe
loro idee preconcette, il sistema della natura, ma sebbene non
alieno egli pure dalle tradizioni bibliche, fa chiaramente sentire che l’ordine
dell’universo da lui intuito è semplicemente il risultato delle
cognizioni eh' egli mercè F esperienza e con lo studio e l’osservazione
di tutta la sua vita, si era formato in astronomia, in matematica,
in fisica; ed egli in ciò procede come filosofo. Dalle quali cose si ha
ancora una volta confermato come nel rinascimento la parte vitale
delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella eh' ebbe a sostegno
lo studio (lei fatti sperimentati nella natura, dai quali soltanto gl’ingegni
più illuminati credevano oramai esser possibile tentar di spiegare il
passaggio dalla materia informe alle più alte manifestazioni della vita e
dello spirito. Problema immenso, tanto alto e tanto complesso clie nemmeno
ai dì nostri si può dire di esser vicini al suo scioglimento; non
pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento, dimostrato qual dovesse
essere la via vera per incamminarvisi, questo è dovuto a coloro
che vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma questa parte del
Dialogo del F., che promette essere la sintesi sublime delle
sue cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno alla natura,
all'intelletto ed all’anima, non può se non accendere in noi un desiderio
il quale non può essere soddisfatto, percliè a questo punto il dialogo
stesso è rimasto tronco e interrotto per la morte dell' autore. Girolamo
Fracastoro.Fracastoro. Keywords: dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di
Fracastoro. Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e
Fracastoro” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Francesco:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei corpi – la scuola
di Diano Marina – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Marina). Abstract. Grice: “If there is an Italian philosopher who
mirrors my conception of vacuous names and referring, that’s Francesco!” Keywords:
vacuous name, referring, dossier. Filosofo dianese. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Diano Marina, Imperia, Liguria. Grice: “I like Francesco; for one, he
philosoophised, like I do, on “I” and “We” – ‘first person’, ‘personal
identity,’ and so on!” Insegna a Milano
e Pavia. Collabora alla pagina culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente
della società italiana di filosofia analitica e presidente della European
Society for Analytic Philosophy. Altre opere: “La mente” (Mondadori, Milano.
Che fine ha fatto l'io?” (San Raffaele, Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La
coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io e i suoi sé: identità della persona e smente”
(Cortina, Milano); “La mente” (Nuova Italia, Roma); “Il realismo analitico” (Guerini,
Milano); “Russell” (Laterza, RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di
un oggetto: senso e riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento”
(Edizioni Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia. Corpo (filosofia)
concetto filosofico. Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del
linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e
percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche,
meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono
state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della
filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra
anima e corpo. Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due
concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla
interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di
natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa
ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima. L'anima,
infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed
eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale. Al
pensiero platonico si connettono sia la patristica sia la prima fase della scolastica.
La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in Aristotele che
sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono elementi
separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come
potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la
realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è
la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice
strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se
stesso il principio del movimento e della quiete. Filosofia medioevale Il corpo
inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e
nella scolastica: per Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue
attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la
forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6]. Questa
concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa,
nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma
corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che
atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso. La
filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto
all'anima finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il
primo res extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans,
sostanza pensante e non estesa. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso causale:
il corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina che si
muove da sé).» La separazione del corpo dall'anima diede origine a dottrine
dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del rapporto
tra eventi incorporei e corporei. Tra le concezioni dualistiche la prima
è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto scambio di
azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti corporei e
incorporei fin quasi ad annullarla. In opposizione a questo dualismo per
le dottrine dell'occasionalismo di Malebranche e di Arnold Geulincx l'anima e
il corpo sono unite dalla esistenza di Dio. Nell'ambito del monismo va
inserita la soluzione di Leibniz che vide un parallelismo tra eventi corporei e
incorporei connessi non da un rapporto causale ma da un regolare e continuo
legame per cui ad ogni evento materiale ne corrisponde uno immateriale secondo
un'"armonia prestabilita" tale per cui «i corpi agiscono come se, per
impossibile, non esistessero anime; le anime agiscono come se non esistessero i
corpi; ed entrambi agiscono come se le une influissero sugli altri. Tra monismo
e pluralismo si colloca la filosofia di Spinoza che concepisce «la mente e il
corpo come un solo identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo
del pensiero, ora sotto quello dell'estensione. Nell'unica sostanza divina
infatti coincidono corpo e anima ossia i due attributi dell'estensione e del
pensiero che mantengono però la loro diversità in quanto coincidenti solo in
Dio. Un rigoroso monismo caratterizza invece la filosofia illuministica
con le teorie materialiste dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e
Paul Henri Thiry d'Holbach secondo le quali le attività mentali dell'uomo
dipendono meccanicamente dal corpo. Collegato al materialismo
settecentesco è in parte la filosofia di Karl Marx secondo il quale i pensieri
e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai suoi comportamenti corporei.
Intendendo il materialismo in senso diverso da quello marxiano, Friedrich
Nietzsche imposta una dottrina esaltante la corporeità in contrapposizione alla
metafisica idealistica La concezione monistica che intende il corpo in senso
idealistico annovera: George Berkeley che vede il corpo e ogni realtà materiale
come una produzione mentale poiché solo la mente e le sue percezioni sono
reali; Schopenhauer, per cui il corpo è nella sua essenza "volontà di
vivere" e gli oggetti materiali semplici oggettivazioni della volontà; Bergson
che considera il corpo un semplice strumento dell'azione pratica di una
coscienza spirituale. Filosofia contemporanea Da Schopenhauer e Bergson
derivano le concezioni del corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo:
per Edmund Husserl attraverso una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il
corpo viene isolato come esperienza vivente. Concezione condivisa secondo
diversi modi da Sartre e Merleau-Ponty. Platone, Fedone Origene, De principiis Scoto
Eriugena, De divisione naturae, Aristotele LIZIO, L'anima, AQUINO, Summa
Theologiae, Summa Theologiae, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla
terra e beatitudine del Cielo. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Cartesio, Le
passioni dell'anima, Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione,
Leibniz, Monadologia, Spinoza, Ethica, Marx, Ideologia tedesca Nietzsche, Così
parlò Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» Berkeley, Trattato sui principi
della conoscenza umana, Schopenhauer, Mondo, Bergson, Materia e memoria,
Husserl, Meditazioni cartesiane, Sartre, L'essere e il nulla, Merleau-Ponty,
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“Phenomenal Consciousness and Self-awareness. A Phenomenological Critique of
Representational Theory”, Journal of Consciousness Studies. Of those who
are approximately my contemporaries, Professor W. V. Quine is one of the
very few to whom I feel I owe the deepest of professional debts, the debt which
is owed to someone from whom one has learned something very important about how
philosophy should be done, and who has, in consequence, helped to shape one's
own mode of thinking. I hope that he will not think it inappropriate that
my offering on this occasion should take the form not of a direct discussion of
some part of Word and Object, but rather of an attempt to explore an
alternative to one of his central positions, namely his advocacy of the idea of
the general eliminability of singular terms, including names. I hope, also,
that he will not be too shocked by my temerity in venturing into areas where my
lack of expertise in formal logic is only too likely to be exposed. I have done
my best to protect myself by consulting those who are in a position to advise
me; they have suggested ideas for me to work on and have corrected some of my
mistakes, but it would be too much to hope that none remain." I. THE
PROBLEM It seems to me that there are certain quite natural inclinations
which have an obvious bearing on the construction of a predicate calculus. They
are as follows: (I) To admit individual constants; that is to admit names
or their representations. To allow that sometimes a
name, like "Pegasus", is not the name of any existent object; names
are sometimes 'vacuous. In the light of (2), to allow
individual constants to lack designata, so that sentences about Pegasus may be
represented in the system. To regard Fa and ~ Fa as
'strong' contradictories; to suppose, that is, that one must be true and the
other false in any conceivable state of the world. To hold that, if
Pegasus does not exist, then "Pegasus does not fly" (or "It is
not the case that Pegasus flies") will be true, while "Pegasus
flies" will be false. To allow the inference rules
U.I. and E.G. to hold generally, without special restriction, with respect to
formulae containing individual constants. To admit the law
of identity ((Vx) x=*) as a theorem. To suppose that, if is
derivable from , then any statement represented by $ entails a corresponding
statement represented by f. It is obviously difficult to accommodate all of
these inclinations. Given [by (7)] (x)x=x we can,
given given derive first a =a by U.I. and then (3x)x=a by E.G. It is natural to
take (3x)x=a as a representation of 'a exists'. So given (2) and (3), a
representation of a false existential statement ("Pegasus exists') will be
a theorem. Given (6), we may derive, by E.G., Sx) ~ Ex from ~ Fa.
Given (3), this seemingly licenses an inference from "Pegasus does not
fly" to "Something does not fly". But such an inference seems
illegitimate if, by (5), "Pegasus does not fly" is true if Pegasus
does not exist (as (2) allows). One should not be able, it seems, to assert
that something does not fly on the basis of the truth of a statement to the
effect that a certain admittedly non-existent object does not fly. To
meet such difficulties as these, various manoeuvres are available, which
include the following: To insist that a
grammatically proper name N is only admissible as a substituend for an
individual constant (is only classifiable as a name, in a certain appropriate
sense of 'name') if N has a bearer. So "Pegasus" is eliminated as a
substituend, and inclination (3) is rejected. To say that a
statement of the form Fa, and again one of the form ~ Fa, presupposes the
existence of an object named by a, and lacks a truth-value if there is no such
object. [Inclinations (4) and (5) are rejected.] To exclude
individual constants from the system, treating ordinary names as being
reducible to definite descriptions. [Inclination (I) is rejected.] To hold that "Pegasus" does have a bearer, a bearer which has
being though it does not exist, and to regard (3.x) Fx as entailing not
theexistence but only the being of something which is F. [Inclination (2) is
rejected.] To allow U.I. and E.G. only in conjunction with an
additional premise, such as Ela, which represents a statement to the effect
that a exists. [Inclination (6) is rejected.] To admit
individual constants, to allow them to lack designata, and to retain normal
U.I. and E.G.; but hold that inferences made in natural discourse in accordance
with the inference-licences provided by the system are made subject to the
'marginal' (extra-systematic) assumption that all names which occur in the
expression of such inferences have bearers. This amounts, I think, to the
substitution of the concept of *entailing subject to assumption A' for the
simple concept of entailment in one's account of the logical relation between
the premises and the conclusions of such inferences. [Inclination (8) is
rejected.] I do not, in this paper, intend to discuss the merits or
demerits of any of the proposals which I have just listed. Instead, I wish to
investigate the possibility of adhering to all of the inclinations mentioned at
the outset; of, after all, at least in a certain sense keeping everything. I
should emphasize that I do not regard myself as committed to the suggestion
which I shall endeavour to develop; my purpose is exploratory. II. SYSTEM
Q: OBJECTIVES The suggestion with which I am concerned will involve the
presentation and discussion of a first-order predicate calculus (which I shall
call Q), the construction of which is based on a desire to achieve two
goals: (i) to distinguish two readings of the sentence "Pegasus does
not fly" (and of other sentences containing the name "Pegasus"
which do not explicitly involve any negation-device), and to provide a formal
representation of these readings. The projected readings of "Pegasus does
not fly" (S,) are such that on one of them an utterance of S, cannot be
true, given that Pegasus does not exist and never has existed, while on the
other an utterance of S, will be true just because Pegasus does not exist. ii)
to allow the unqualified validity, on either reading, of a step from the
assertion of S, to the assertion (suitably interpreted) of "Something
[viz., Pegasus] does not fly" (S2).More fully, Q is designed to have the
following properties. U.I. and E.G. will hold
without restriction with respect to any formula & containing an individual
constant « [Ф(c)]; no additional premise is to be required, and the
steps licensed by U.I. and E.G. will not be subject to a marginal assumption or
pretence that names occurring in such steps have bearers. For some (a), $
will be true on interpretations of Q which assign no designatum to a, and some
such (a) will be theorems of Q. It will be possible, with
respect to any @ (a), to decide on formal grounds whether or not its truth
requires that a should have a designatun. It will be
possible to find, in Q, a representation of sentences such as "Pegasus
exists". There will be an extension of Q in which identity is
represented. III. SCOPE The double interpretation of S, may be informally
clarified as follows: if S, is taken to say that Pegasus has the property of
being something which does not fly, then S, is false (since it cannot be true
that a nonexistent object has a property); but if S, is taken to deny that
Pegasus has the property of being something which flies, then S, is true (for
the reason given in explaining why, on the first interpretation, $, is false).
It seems to be natural to regard this distinction as a distinction between
differing possible scopes of the name "Pegasus". In the case of
connec-tives, scope-differences mirror the order in which the connectives are
introduced in the building up of a formula [the application of formation rules;
and the difference between the two interpretations of S, can be represented as
the difference between regarding S, as being (i) the result of substituting
"Pegasus" for "x" in "x does not fly" (negation
having already been introduced), or ii) the result of denying the result of
substituting "Pegasus" for "x" in "x flies" (the
name being introduced before negation)J. To deal with this distinction,
and to preserve the unrestricted application of U.I. and E.G., Q incorporates
the following features: (1) Normal parentheses are replaced by numerical
subscripts which are appended to logical constants and to quantifiers, and
which indicatescope-precedence (the higher the subscript, the larger the
scope). Subscripts are attached also to individual constants and to bound
variables as scope-indicators. For convenience subscripts are also attached to
predicate-constants and to propositional letters. There will be a distinction
between (a) and (b) ~, F,a,. (a) will represent
the reading of S, in which S, is false if Pegasus does not exist; in (a)
"a" has maximal scope. In (b) "a" has minimal scope, and
the non-existence of a will be a sufficient condition for the truth of
(b). So (b) may be taken to represent the second reading of S,. To give
further illustration of the working of the subscript notation, in the formula
Faz→, Gava H,bs 'v' takes precedence over*→*, and while the scope of each
occurrence of "a" is the atomic sub-formula containing that
occurrence, the scope of "b" is the whole formula. (2) The
effect of extending scope-indicators to individual constants is to provide for
a new formational operation, viz., the substitution of an individual constant
for a free variable. The formation rules ensure that quantification takes place
only after this new operation has been per-formed; bound variables will then
retain the subscripts attaching to the individual constants which
quantification eliminates. The following formational stages will be, for
example, involved in the building of a simple quantificational formula:
There will be, then, a distinction between 3x4 ~ 2 Fixa, and (a) will, in
Q, be derivable from ~, F,a,, but not from ~ , F,az; (b) will be derivable
directly (by E.G.) only from ~, Faz, though it will bederivable indirectly from
~, Fag. This distinction will be further dis-cussed. (3) Though it was
not essential to do so, I have in fact adapted a feature of the system set out
in Mates' Elementary Logic; free variables do not occur in derivations, and
U.I. always involves the replacement of one or more subscripted occurrences of
a bound variable by one or more correspondingly subscripted occurrences of an
individual constant. Indeed, such expressions as Fix and G,xzV, are not
formulae of Q (though to refer to them I shall define the expression
"segment"). F,x and G,xy are formulae, but the sole function of free
variables is to allow the introduction of an individual constant at different
formational stages. Faz→, G,agV 4 H, is admitted as a formula so that one
may obtain from it a formula giving maximal scope to "b", viz., the
formula (4) Closed formulae of a predicate calculus may be looked upon in
two different ways. The symbols of the system may be thought of as lexical
items in an artificial language. Actual lexical entries (lexical rules) are
provided only for the logical constants and quantifiers; on this view an atomic
formula in a normal calculus, for example Fa, will be a categorical
subject-predicate sentence in that language. Alternatively, formulae may be
thought of as structures underlying, and exemplified by, sentences in a
language (or in languages) the actual lexical items of which are left
unidentified. On this view the formula Fav Gb will be a structure exemplified
by a sub-class of the sentences which exemplify the structure Fa. The method of
subscripting adopted in Q reflects the first of these approaches; in an atomic
formula the subscripts on individual constants are always higher than that on
the predicate-constant, in consonance with the fact that affirmative
categorical subject-predicate sentences, like "Socrates is wise" or
"Bellerophon rode Pegasus", imply the non-vacuousness of the names
which they contain. Had I adopted the second approach, I should have had to
allow not only F,az, etc., but also Fa,, etc., as formulae; I should have had
to provide atomic formulae which would have substitution instances, e.g., F,a,→
G,b, in which the scope of the individual constants does not embrace the whole
formula. The second approach, however, could be accommodated with
appropriate changes.(5) The significance of numerical subscripts is purely
ordinal; so, for example, ~ Fa, and ~17 Fa, will be equivalent. More generally,
any pair of "isomorphs" will be equivalent, and Q contains a rule
providing for the interderivability of isomorphs. and & will be isomorphs
iff (1) subscripts apart, @ and ( are identical, and (2) relations of magnitude
(=, <,>) holding between any pair of subscripts in @ are preserved
between the corresponding pair of subscripts in & [the subscripts in &
mirror those in @ in respect of relative magnitudes]. Professor C. D.
Parsons has suggested to me a notation in which I would avoid the necessity for
such a rule, and has provided me with an axiom-set for a system embodying it
which appears to be equivalent to Q (Mr. George Myro has made a similar
proposal). The idea is to adopt the notation employed in Principia Mathematica
for indicating the scope of definite descriptions. Instead of subscripts,
normal parentheses are retained and the scope of an individual constant or
bound variable is indicated by an occurrence of the constant or variable in
square brackets, followed by parentheses which mark the scope boundaries. So
the distinction between ~, F,a, and ~, Fa, is replaced by the distinction
between ~[a] (Fa) and [a] (~Fa); and the distinction between Jxy~,F,x2 and
3xa~,F,x, is replaced by the distinction between (x) (~ [x] (Ex)) and
(3x) ([x] (~ Fx)). Parson's notation may well be found more perspicuous than mine,
and it may be that I should have adopted it for the purposes of this paper,
though I must confess to liking the obviousness of the link between subscripts
and formation-rules. The notion of scope may now be precisely defined for
Q. If y be a logical constant or quantifier occurring in
a closed formula , the scope of an occurrence of y is the largest formula in @
which (a) contains the occurrence of n, (b) does not contain an occurrence a
logical constant or quantifier bearing a higher subscript than that which
attaches to the occurrence of „. If , be a term (individual
constant or bound variable), the scope of , is the largest segment of @ which
(a) contains the occurrence of n, (b) does not contain an occurrence of a
logical constant bearing a higher subscript than that which attaches to the
occurrence of n. (3) A segment is a sequence of symbols which is either
(a) a formula or (b) the result of substituting subscript-preserving
occurrences ofvariables for one or more occurrences of individual constants in
a formula. We may now define the important related notion of
"dominance". A term 0 dominates a segment @ ift @ falls within the
scope of at least one of the occurrences, in , of 0. In other words, 0
dominates @ if at least one occurrence of 0 in @ bears a subscript higher than
that attaching to any logical constant in @. Dominance is intimately connected
with existential commitment, as will be explained. IV. NATURAL DEDUCTION
SYSTEM Q A. Glossary If "n" denotes a
symbol of Q, "y." denotes the result of attaching, to that symbol, a
subscript denoting n. "Ф(c, a)"= a formula @ containing occurrences of an individual
constant a, each such occurrence being either an occurrence of aj, or of..., or
of o'. [Similarly, if desired, for "$(ap,...w,)", where "o"
('omega') denotes a variable.] "Ф" ="a formula, the highest subscript within which denotes
n". If 0, and 0, are terms (individual constants or bound
variables). *(02/0,) -the result of replacing each occurrence of 0, in d by an
occurrence of 0z, while preserving subscripts at substitution-points'. •
[The upper symbol indicates the substituend.] B. Provisional Set of Rules
for Q 1. Symbols (a) Predicate-constants (*F",
"fl" ,... "G .) (b) Individual constants
("a", 'a'* '.... "b" .( ... (c) Variables
(*x", ... "y"...). (d) Logical constants
("~" , "&", "v", "→").
(e) Quantification-symbols (V, 9"). [A quantification-symbol followed by a
subscripted variable is a quantifier.] Numerical
subscripts (denoting natural numbers). Propositional letters
(*p", "q",....). 2. Formulae A subscripted
n-ary predicate constant followed by n unsubscripted variables; a subscripted
propositional letter. If i is a formula, $(*,+m/∞)
is a formula. If is a formula, Vo+Ф(∞/«) is a formula. [NB: Substitutions are to preserve subscripts.] If m is a formula, 3c, +Ф (∞/x) is a formula. [NB:
Substitutions are to preserve subscripts.] If » is a
formula, ~+m is a formula. If i-m and to-n are formulae,
ф 8,4, ф. 4, ф→, 4 are for- mulae. is a formula only if it can
be shown, by application of (1)-(6), that p is a formula. 3.
Inference-Rules (1) [Ass] Any formula may be assumed at any point.
....中トリャー」&』~コース♥ローキーは。then ,... ф*+~+ ф'. 「「ゆく。♥[m-n (6 [v+]
etnml)-*-nYa 0 (7) [v -] 1f(1) 4[-m)»Ф (2) Хра- 17+ ф₴ ・がトら、 (3) ф° then (4) ф' (8) [→ +, CP] If Ф(п-и]- 41 -…・・ロートスin-ns then o (10) [V+] If v* ,... w*F then v'.... v*+V@n+m $
(w/∞), provided that a does not occur in ' (I1) [V-]V,Ф+ф(x∞), provided that Vo, is the scope of Va. (*+) +30,+mV, where v is like except that, if a occurs in ф, at least one such occurrence is replaced in & by an occurrence of
. (В-)Зо„Ф, x'... x*Hy if (a/0), x'... x*H/, provided that 3c,ф is the scope of 3o, that a does not
occur in any of , x',.... x*, v. [NB. All substitutions referred to in
(10)-(13) will preserve sub-scripts.] Rules (I) (13) are not peculiar to
Q, except insofar as they provide for the use of numerical subscripts as
substitutes for parentheses. The role of term-subscripts has so far been
ignored. The following three rules do not ignore the role of term-subscripts,
and are special to Q. (14) [Dom +]If(1) a dominates , (2)
p,x,Rtw(a)0), then (3) ф, x). x'+* ((2, +m/c,),... (Фк+п/ок)) [m. п> 0]. [NB. v, thus altered, must remain a formula; for example,
a must not acquire a subscript already attaching to a symbol other than
x.] (14) provides for the raising of subscripts on a in 4, including the
case in which initially non-dominant a comes to dominate f. [A subscript
on an occurrence of a may always be lowered.] (16) [Iso] If @ and y are
isomorphs, @+v. V. EXISTENCE A. Closed Formulae Containing an
Individual Constant & (i) If a dominates @ then, for any
interpretation Z, @ will be true on Z only if a is non-vacuous (only if
Ta+exists? is true, where '+' is a concatenation-symbol). If a does not
dominate , it may still be the case that @ is true only if a is non-vacuous
(for example if @="~, ~3 F,az" or ="FazV, G,az", though not
if ="F,a→,G,az"). Whether or not it is the case will be
formally decidable. Let us abbreviate " is true only if a is
non-vacuous" as "ф is E-committal for
&". The conditions in which ф is E-committal for a can be
specified recursively: (1) If a dominates , is E-committal for
a. (2) If =~,~=-mV, and is E-committal for a, then @ is E-committal
for a. (3) If =v&,x, and either or x is E-committal for a, then
$ is E-committal for a. (4) If =v.x, and both y and & are E-committal
for a, then ф is E-committal for a. (5) If =→x, and
both ~_* and z are E-committal for a, then ф is E-committal for a [in being greater than the number denoted by any
non-term-subscript in 4]. (6) If =Vo, or 3o,v, and (B/∞) is
E-committal for x, then ф is E-committal for a.
(ii) Since Fja, → ,F,a, is true whether or not "a" is vacuous, the
truth of F,a,→, Fa, (in which "a" has become dominant) requires only
that a exists, and so the latter formula may be taken as one representation
of "a exists". More generally, if (for some n) a is the only
individual constant in » (x) and =→n-m then @ may be taken as a representation
of Ta + exists? B. 3-quantified Formulae An 3-quantified formula
3o,ф will represent a claim that there exists an object
which satisfied the condition specified in ¢ iff (a/∞) is E-com-mittal for o.
To illustrate this point, compare (i) 3x4~, Fix, and (ii) ヨxュ~3Fix2. Since ~, Fa, is
E-committal for "a" (is true only if a exists) while ~, F,a, is
not E-committal for "a", (i) can, and ii) cannot, be read as a claim
that there exists something which is not F. The idea which lies behind the
treatment of quantification in Q is that while i) and ii) may be taken as
representing different senses or different interpretations of
"something is not F" or of "there is something which is not
F", these locutions must be distinguished from "there exists
something which is not F"', which is represented only by (i). The degree
of appeal which Q will have, as a model for natural discourse, will depend on
one's willingness to distinguish, for example, "There is
something such that it is not the case that it flies" from "There is something such that it is something which does not
fly", and to hold that (a) is justified by its being false that Pegasus
flies, while (b) can be justified only by its being true of some actual object
that it does not fly. This distinction will be further discussed in the next
section. Immediately, however, it must be made clear that to accept Q as
a model for natural discourse is not to accept a Meinongian viewpoint; it is
not to subscribe to the idea of a duality, or plurality, of 'modes of being'.
Acceptance of Q as a model might be expected to lead one to hold that while
some sentences of the form "Bertrand Russell _" will be interpretable
in such a way as i) to be true, and (ii) to entail not merely "there is
something which _ " but also "there exists something
which __", sentences of the form "Pegasus _ " will, if
interpreted so as to be true, entail only "there is something which
_ -". But from this it would be quite illegitimate to conclude
that while Bertrand Russell both exists and is (or has being), Pegasus merely
is (or has being). "Exists" has a licensed occurrence both in the
form of expression "there exists something which " and in the form of
expression "a exists"; "is" has a licensed occurrence in
the form of expression "there is something which ___", but not in the
form "a is". Q creates no ontological jungle. VI. OBJECTION
CONSIDERED It would not be surprising if the combination of the
admissibility, according to the natural interpretation of Q, of appropriate
readings of the inference-patterns a does not exist a is not
F and (2) a is (not) F something is (not) F have to be
regarded as Q's most counter-intuitive feature. Consider the following
dialogue between A and B at a cocktail party: Al) Is Marmaduke Bloggs
here tonight? B(1) Marmaduke Bloggs? A(2) You know, the Merseyside
stock-broker who last month climbed Mt. Everest on hands and knees.
B(2) Oh! Well no, he isn't here. A(3) How do you know he isn't
here? B(3) That Marmaduke Bloggs doesn't exist; he was invented by
the journalists. A(4) So someone isn't at this party. B(4)
Didn't you hear me say that Marmaduke Bloggs does not exist? A(5) I heard
you quite distinctly; are you under the impression that you heard me say that
there exists a person who isn't at this party? B, in his remarks (3) and
(4), seemingly accepts not only inference-pattern (I) but also
inference-pattern (2). The ludicrous aspects of this dialogue need to be
accounted for. The obvious explanation is, of course, that the step on which B
relies is at best dubious, while the step which A adds to it is patently
illegitimate; if we accept pattern (I) we should not also accept pattern (2).
But there is another possible explanation, namely that (i given (P)
"a does not exist and so a is not F" the putative conclusion from
(P), "Something is not F" (C), is strictly speaking (on one reading)
true, but il) given that (P) is true there will be something wrong, odd,
or misleading about saying or asserting (C). In relation to this
alternative explanation, there are two cases to con- (a) that in which
the utterer of (C) knows or thinks that a does not exist, and advances
(C) on the strength of this knowledge or belief; but the non-existence of a is
not public knowledge, at least so far as the speaker's audience is
concerned; (b) that which differs from (a) in that all parties to the
talk-exchange are aware, or think, that a does not exist. Case (a) will not,
perhaps, present too great difficulties; if there is a sense of "Something
is not F" such that for this to be true some real thing must fail to be F,
the knowledge that in this sense something is not F will be much more useful
than the knowledge that something is not F in the other (weaker) sense; and
ceteris paribus one would suppose the more useful sense of (C) to be the more
popular, and so, in the absence of counter-indications, to be the one employed
by someone who utters (C). Which being the case, to utter (C) on the
strength of the non-existence of a will be misleading. Case (b) is less
easy for the alternative explanation to handle, and my dialogue was designed to
be an example of case (b). There is a general consideration to be borne in
mind, namely that it will be very unplausible to hold both that there exists a
particular interpretation or sense of an expression E, and that to use E in
this sense or interpretation is always to do something which is
conversationally objectionable. So the alternative explanation will have (l) to
say why such a case (b) example as that provided by the dialogue is
conversationally objectionable, (2) to offer some examples, which should
presumably be case (b) examples, in which the utterance of (C), bearing the
putative weaker interpretation would be conversationally innocuous. These tasks
might be attempted as follows. (I) To say "Something is (not)
such-and-such" might be expected to have one or other of two
conversational purposes; either to show that it is possible (not) to be
such-and-such, countering (perhaps in anticipation) the thesis that nothing is
even (not) such-and-such, or to provide a prelude to the specification (perhaps
after a query) of an item which is (not) such-and-such. A's remark (4) "So
someone is not at this party" cannot have either of these purposes. First,
M.B. has already been agreed by A and B not to exist, and so cannot provide a
counter-example to any envisaged thesis that every member of a certain set
(c.g. leading local business men) is at the party. M.B., being non-existent, is
not a member of any set. Second, it is clear that A's remark (4) was advanced
on the strength of the belief that M.B. does not exist; so whatever
specification is relevant has already been given. (2) The following
example might provide a conversationally innocuous use of (C) bearing the
weaker interpretation. The cocktail party is a special one given by the
Merseyside Geographical Society for its members in honour of M.B., who was at
the last meeting elected a member as a recognition of his reputed exploit. A
and B have been, before the party, discussing those who are expected to attend
it; C has been listening, and is in the know about M.B. C Well, someone
won't be at this party A, B Who? C Marmaduke Bloggs A, B But
it's in his honour C That's as may be, but he doesn't exist; he was
invented by the journalists. Here C makes his initial remark
(bearing putative weak interpretation), intending to cite M.B. in specification
and to disclose his non-existence. It should be made clear that I am not
trying to prove the existence or admissibility of a weaker interpretation for
(C); I am merely trying to show that the prima facie case for it is strong
enough to make investigation worth-while; if the matter is worth investigation,
then the formulation of Q is one direction in which such investigation should
proceed, in order to see whether a systematic formal representation of such a
reading of "Something is (not) F" can be constructed. As a
further consideration in favour of the acceptability of the weaker
interpretation of "Something is (not) F", let me present the
following "slide": To say "M.B. is at this
party" would be to say something which is not true. To say "It
is not true that M.B. is at this party" would be to say something which is
true. To say "M.B. is not at this party" would be
to say something which is true. M.B. is not at this party. M.B. can be truly said not to be at this party. Someone (viz.
M.B.) can be truly said not to be at this party. Someone is not at
this party (viz. M.B.).It seems to me plausible to suppose that remark (I)
could have been uttered with truth and propriety, though with some inelegance,
by B in the circumstances of the first dialogue. It also seems to me that there
is sufficient difficulty in drawing a line before any one of remarks (2) to
(7), and claiming that to make that remark would be to make an illegitimate
transition from its legitimate predecessor, for it to be worth considering
whether one should not, given the non-existence of M.B., accept all seven as
being (strictly speaking) true. Slides are dangerous instruments of proof, but
it may be legitimate to use them to back up a theoretical proposal. VIL.
IDENTITY So far as I can see, there will be no difficulty in formulating
a system Q', as an extension of Q which includes an identity theory. In a
classical second-order predicate calculus one would expect to find that the
formula (VF) (Fa→Fb) (or the formula (VF) (Fa-›Fb)) is a definitional
sub-stituend for, or at least is equivalent to, the formula a =b. Now in Q the
sequence Fa→Fb will be incomplete, since subscripts are lacking, and there will
be two significantly different ways of introducing subscripts, (i F,as→2F,be
and (ii) Faz→, F,b,. In (i "a" and "b" are dominant,
and the existence of a and of b is implied; in ii) this is not the case. This
difference of subscripting will reappear within a second-order predicate
calculus which is an extension of Q; we shall find both (i) (a) VF,F,a,→, F,b,
and (ii) (a) VE,F,a2→4 F,b,. If we introduce the symbol * into Q, we
shall also find iii) VF, F,a,,F,ba and (iv) VF,F,a,**F,b,. We may now ask
whether we want to link the identity of a and b with the truth of (iii) or with
the truth of (iv), or with both. If identity is linked with (iii) then any
affirmative identity-formula involving a vacuous individual constant will be
false; if identity is linked with (iv) any affirmative identity formula
involving two vacuous individual constants will be true. A natural
course in this situation seems to be to admit to Q' two types of identity
formula, one linked with (iii) and one with (iv), particularly if one is
willing to allow two interpretations of (for example) the sentence
"Pegasus is identical with Pegasus", on one of which the sentence is
false because Pegasus does not exist, and on the other of which the sentence is
true because Pegasus does not exist (just as "Pegasus is identical
withBellerophon" will be true because neither Pegasus nor Bellerophon
exist). We cannot mark this distinction in Q simply by introducing two
different identity-signs, and distinguishing between (say) a,=,b, and a,=, b3.
Since in both these formulae "a" and "b" are dominant, the
formulae will be true only if a and b exist. Just as the difference between
(iii) and (iv) lies in whether "a" and "b" are dominant or
non-dominant, so must the difference between the two classes of identity
formulae which we are endeavouring to express in Q'. So Q' must contain both
such formulae as az=,b, (strong' identity formulae) and such formulae as aj=,b2
('weak' identity formulae). To allow individual constants to be non-dominant in
a formula which is not molecular will be a temporary departure from the practice
so far adopted in Q; but in view of the possibility of eventually defining
"=" in a second-order calculus which is an extension of Q one may
perhaps regard this departure as justified. Q' then might add to Q one new symbol, "="; two new formation rules;
(1) ' =,? is a formula, (2) If aj+ =, Bj+, is a formula,
&,+ =-Bj+, is a formula, where m> j+k and m> j+ 1. (c) two new
inference-rules (I) (2) A-Vo,+,C0,-,-,0,-, [a weak identity
law], a, - Be. ф+ф(Ba). [There is substitutivity both on strong and on weak identity.]
I hope that these additions would be adequate, though I have not taken steps to
assure myself that they are. I might add that to develop a representation of an
interesting weak notion of identity, one such that Pegasus will be identical
with Pegasus but not with Bellerophon, I think that one would need a system
within which such psychological notions as "it is believed that" were
represented. VIII. SEMANTICS FOR Q The task of providing a
semantics for Q might, I think, be discharged inmore than one way; the
procedure which I shall suggest will, I hope, continue the following features:
(a) it will be reasonably intuitive, (b) it will not contravene the
philosophical ideas underlying the construction of Q by, for example, invoking
imaginary or non-real entities, (c) it will offer reasonable prospects for the
provision of proofs of the soundness and completeness of Q (though I must defer
the discussion of these prospects to another occasion). A.
Interpretation The provision of an interpretation Z for Q will involve
the following steps: The specification of a
non-empty domain D, within which two sub-domains are to be distinguished: the
special sub-domain (which may be empty), the elements of which will be each
unit set in D whose element is also in D; and the residual sub-domain, consisting
of all elements of D which do not belong to the special sub-domain. The assignment of each propositional letter either to 1 or to 0. The assignment of each -ary predicate constant y to a set (the E-set of
y) of ordered n-tuples, each of which has, as its elements, elements of D. An
E-set may be empty. The assignment of each
individual constant a to a single clement of D (the correlatum of a). If the
correlatum of a belongs to the special sub-domain, it will be a unit-set whose
element is also in D, and that element will be the designatum of a. If the correlatum
of a is not in the special sub-domain, then & will have no designatum. [I
have in mind a special case of the fulfilment of step (4), in which every
individual constant has as its correlatum either an element of the special
sub-domain or the null-set. Such a method of assignment seems particularly
intuitive.] If an individual constant a is, in Z, assigned to a correlatum
belonging to the special sub-domain, I shall say that the assignment of a is
efficient. If, in Z, all individual constants are efficiently assigned, I shall
say that Z is an efficient interpretation of Q It will be noted that, as
I envisage them, interpretations of Q will be of a non-standard type, in that a
distinction is made between the correlation of an individual constant and its
description. All individual constants are given correlata, but only those which
on a given interpretation are non-vacuous have, on that interpretation,
designata. Interpretations of this kind may be called Q-type interpretations.I
shall use the expressions "Corr (1)" and "Corr (O)" as
abbreviations, respectively, for "correlated with 1" and
"correlated with 0" *. By "atomic formula" I
shall mean a formula consisting of a subscripted n-ary predicate constant
followed by a subscripted individual constant. I shall, initially, in
defining "Corr(1) on Z" ignore quantificational formulae. If ф is atomic, @ is CorrI) on Z iff i) each individual
constant in has in Z a designatum (i.e. its correlatum is a unit set in D whose
element is also in D), and ii) the designata of the individual constants in ,
taken in the order in which the individual constants which designate them occur
in , form an ordered n-tuple which is in the E-set assigned in Z to the
predicate constant in ф. If no individual
constant dominates , is Corr(1) on Z ifl (i If =~,V, y is Corr(0) on Z;
(ii) If =v&,x. v and z are each Corr(1) on Z; (ili) If ф=wv. X, either or y is Corr(1) on Z; (iv) If =/→,x, either
is Corr(0) on Z or x is Corr(1) on Z. If (x) is a
closed formula in which & is non-dominant, and if is like « except that
& dominates $, then is Corr(1) on Z iff i) v is Corr(1) on Z and (ii) a is
efficiently assigned in Z. If a closed formula is not
Corr(1) on Z, then it is Corr(0) on Z. To provide for quantificational
formulae, some further notions are required. An interpretation
Z' is an i.c.-variant of Z iff Z' differs from Z (if at all) only in that, for
at least one individual constant a, the correlatum of a in Z' is different from
the correlatum of a in Z. Z' is an
efficiency-preserving i.c.-variant of Z iff Z' is an i.c.-variant of Z and, for
any a, if a is efficiently assigned in Z a is also efficiently assigned in Z'. Z' is an efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z iff Z' is an
i.c.-variant of Z and the number of individual constants efficiently assigned
in Z' is not less than the number efficiently assigned in Z.' Let us approach
the treatment of quantificational formulae by considering the 3-quantifier.
Suppose that, closely following Mates's procedure in Elementary Logic, we
stipulate that Jw,ф is CorrI) on Z iff $ (a'/∞)is Corr (1) on at least
one i.c.-variant of Z, where a is the first individual constant in Q. (We
assume that the individual constants of Q can be ordered, and that some
principle of ordering has been selected). In other words, 3w,ф will be Corr(I) on Z iff, without altering the assignment in Z of any
predicate constant, there is some way of assigning &' so that ф (a/∞) is Corr(l) on that assignment. Let us also suppose that we shall
define validity in Q by stipulating that @ is valid in Q iff, for any
interpretation Z, ф is Corr(1) on Z. We are now faced with a
problem. Consider the "weak existential" formula 3x2~, F,x,. If we
proceed as we have just suggested, we shall be forced to admit this formula as
valid; if "a" is the first individual constant in Q, we have only to
provide a non-efficient assignment for "a" to ensure that on
that assignment ~, Fa, is Corr(1); for any interpretation Z, some i.c.-variant
of Z will provide such an assignment for "a", and so 3x4~3 F,x2 will
be CorrI) on Z. But do we want to have to admit this formula as valid? First,
if it is valid then I am reasonably sure that Q, as it stands, is incomplete,
for I see no way in which this formula can be proved. Second, if in so far as
we are inclined to regard the natural language counterparts of valid formulae
as expressing conceptual truths, we shall have to say that e.g. "Someone
won't be at this party", if given the 'weak' interpretation which it was
supposed to bear in the conversations imagined in Section VI, will express a
conceptual truth; while my argument in that section does not demand that the
sentence in question express an exciting truth, I am not sure that I welcome
quite the degree of triviality which is now threatened. It is possible,
however, to avoid the admission of 3x,~,F,x2 as a valid formula by adopting a
slightly different semantical rule for the 3-quantifier. We stipulate
that 3o,$ is Corr(I) on Z iff @ (c'/co) is Corr(I) on at least one
efficiency-preserving i.c.-variant of Z. Some interpretations of Q will be
efficient interpretations, in which "a" will be efficiently assigned;
and in any efficiency-preserving i.c.-variant of such an interpretation
"a" will remain efficiently assigned; moreover among these efficient
interpretations there will be some in which the E-set assigned to
"F" contains (to speak with a slight looseness) the member of each
unit-set belonging to the special sub-domain. For any efficient interpretation
in which "p" is thus assigned, F,a, will be Corr(1), and ~ , F,a,
will be Corr(0), on all efficiency-preserving i.c. -variants.So 3x4~gF,xz will
not be Corr(1) on all interpretations, i.e. will not be valid. A similar
result may be achieved by using the notion of an efficiency-quota-preserving
i.c.-variant instead of that of an efficiency-preserving i.c.-variant; and the
use of the former notion must be preferred for the following reason.
Suppose that we use the latter notion; (ii) (iii) that
"a?" is non-efficiently assigned in Z; that "a" is
the first individual constant, and is efficiently assigned in Z;
(iv) that "F" includes in its extension the member of each
unit-set in the special sub-domain. Then ~, Faz is Corr(1) on Z, and so
(by E.G.) 3x2~, Fix, is Corr(1) on Z. But "a" is efficiently assigned
in Z, so ~g F,a, is Corr(0) on every efficiency-preserving i.c.-variant of Z
(since "F" includes in its extension every designable object). So x~,
F,*z is Corr(0) on Z. This contradiction is avoided if we use the notion
of efficiency-quota-preserving i.c.-variant, since such a variant of Z may
provide a non-efficient assignment for an individual constant which is
efficiently assigned in Z itself; and so 3xz~, F,x, may be Corr(I) on Z even
though "a" is efficiently assigned in Z. So I add to the
definition of "Cort(I) on Z", the following clauses: (5) If
=Vo,k, is CorrI) on Z, iff V(a'/a) is Corr(1) on every
efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z. (6) If ф =3o,/, is Corr(1) on Z iff y (x'/c) is Corr(1) on at least one
efficiency-quota-preserving i.c.-variant of Z. [In each clause, "a
is to be taken as denoting the first individual constant in Q.] Validity
may be defined as follows: ф is valid in Q iff, for any
interpretation Z, ф is Corr(1) on Z. Finally, we may, if we like,
say that p is true on Z iff p is CorrI) on Z. IX. NAMES AND
DESCRIPTIONS It might be objected that, in setting up Q in such a way as
to allow for the representation of vacuous names, I have ensured the
abandonment, at least in spirit, of one of the desiderata which I have had in
mind; for(it might be suggested) if Q is extended so as to include a Theory of
Descriptions, its individual constants will be seen to be indistinguishable,
both syntactically and semantically, from unanalysed definite descrip-tions;
they will be related to representations of descriptions in very much the same
way as propositional letters are related to formulae, having lost the feature
which is needed to distinguish them from representations of descriptions,
namely that of being interpretable only by the assignment of a
designatum. I do not propose to prolong this paper by including the
actual presentation of an extension of Q which includes the representation of
descrip-tions, but I hope to be able to say enough about how I envisage such an
extension to make it clear that there will be a formal difference between the
individual constants of Q and definite descriptions. It is a familiar fact that
there are at least two ways in which a notation for representing definite
descriptions may be developed within a classical system; one may represent
"The haberdasher of Mr. Spurgeon is bald" either by (1) G(1x. Ex) or
by (2) (9x. Fx) Gx; one may, that is, treat "ix. Fx" either as a term
or as being analogous to a (restricted) quantifier. The first method does not
allow for the representation of scope-differences, so a general decision will
have to be taken with regard to the scope of definite de-scriptions, for
example that they are to have maximal scope. The second method does provide for
scope-distinctions; there will be a distinction between, for example, (ix. Fx)
~ Gx and ~(1x. Fx) Gx. The apparatus of Q, however, will allow us, if we wish,
to combine the first method, that of representing definite descriptions by
terms, with the representation of differences of scope; we can, if we like,
distinguish between c.g., ~,G,ax,F,x, and ~,G,1xgF,xz, and ensure that from the
first formula we may, and from the second we may not, derive E!, 1x, F,*2. We
might, alternatively, treat descriptions as syntactically analogous to
restricted quantifiers, if we so desire. Let us assume (arbitrarily) that the
first method is adopted, the scope-boundaries of a descriptive term being, in
each direction, the first operator with a higher subscript than that borne by
the iota-operator or the first sentential boundary, whichever is nearer.
Let us further assume (perhaps no less arbitrarily) that the iota-operator is
introduced as a defined expression, so that such a formula as nitional
substitution for the right-hand side of the formulaG, xgF,x2→4G,x,F,x2,
together with applications of the rules for subscript-adjustment. Now, as
I envisage the appropriate extension of Q, the formal difference between
individual constants and descriptive terms will lie in there being a legitimate
step (by E. G.) from a formula containing a non-dominant individual constant to
the related "weak' existential form, e.g.. from ~, Faz to 3x4~, F,x2,
while there will, for example, be no analogous step from ~ G, 1x, Fxz to 3x4~,
G,x2. Such a distinction between individual constants and descriptive terms
seems to me to have, at least prima facie, a basis in intuition; I have at
least some inclination to say that, if Mr. Spurgeon has no haberdasher, then it
would be true (though no doubt conversationally odd) to say "It is not the
case that Mr. Spurgeon's haberdasher is bald" (S), even though no one has
even suggested or imagined that Mr. Spurgeon has a haberdasher; even though,
that is, there is no answer to the question who Mr. Spurgeon's haberdasher is
or has been supposed to be, or to the question whom the speaker means by the
phrase "Mr. Spurgeon's haberdasher." If that inclination is
admissible, then it will naturally be accompanied by a reluctance to allow a
step from S to "Someone is not bald" (S,) even when S, is given its
'weak' interpretation. I have, however, already suggested that an utterance of
the sentence "It is not the case that Mr. Spurgeon is bald" (S') is
not assessable for truth or falsity unless something can be said about who Mr.
Spurgeon is or is supposed to be; in which case the step from S' to S, (weakly
interpreted) seems less un-justifiable. I can, nevertheless, conceive of
this argument's failing to produce conviction. The following reply might be
made: "If one is given the truth of S, on the basis of there being no one
who is haberdasher to Mr. Spur-geon, all one has to do is first to introduce a
name, say 'Bill', laying down that 'Bill' is to designate whoever is
haberdasher to Mr. Spurgeon, then to state (truly) that it is not the case that
Bill is bald (since there is no such person), and finally to draw the
conclusion (now legitimate) that someone is not bald (on the 'weak' reading of
that sentence). If only a stroke of the pen, so to speak, is required to
legitimize the step from S to S, (weakly interpreted), why not legitimize the
step directly, in which case the formal distinction in Q" between
individual constants and descriptive terms must either disappear or else become
wholly arbitrary?"A full treatment of this reply would, I suspect, be
possible only within the framework of a discussion of reference too elaborate
for the present occasion; I can hope only to give an indication of one of the
directions in which I should have some inclination to proceed. It has been
observed? that a distinction may be drawn between at least two ways in which
descriptive phrases may be employed. (I) A group of men is discussing the
situation arising from the death of a business acquaintance, of whose private
life they know nothing, except that (as they think) he lived extravagantly,
with a household staff which included a butler. One of them says "Well,
Jones' butler will be seeking a new position". (2) Earlier, another
group has just attended a party at Jones' house, at which their hats and coats
were looked after by a dignified individual in dark clothes and a wing-collar,
a portly man with protruding ears, whom they heard Jones addressing as
"Old Boy", and who at one point was discussing with an old lady the
cultivation of vegetable marrows. One of the group says "Jones'
butler got the hats and coats mixed up". i The speaker in example (1)
could, without impropriety, have inserted after the descriptive phrase
"Jones' butler" the clause "whoever he may be". It would
require special circumstances to make a corresponding insertion appropriate in
the case of example (2). On the other hand we may say, with respect to example
(2), that some particular individual has been 'described as', 'referred to as',
or 'called' Jones' butler by the speaker; furthermore, any one who was in a
position to point out that Jones has no butler, and that the man with the
protruding ears was Jones gardener, or someone hired for the occasion, would
also be in a position to claim that the speaker had misdescribed that
individual as Jones' butler. No such comments are in place with respect to example
(I). (ii) A schematic generalized account of the difference of type between
examples (I) and (2) might proceed along the following lines. Let us say that X
has a dossier for a definite description & if there is a set of definite
descriptions which includes &, all the members of which X supposes (in one
or other of the possible sense of 'suppose") to be satisfied by one and
the same item. In a type (2) case, unlike a type (I) case, the speaker intends
the hearer to think (via the recognition that he is so intended) (a) that the
speaker has a dossier for the definite description & which he has used, and
(b) that the speaker has selected from this dossier at least partlyin the hope
that the hearer has a dossier for & which 'overlaps' the speaker's dossier
for & (that is, shares a substantial, or in some way specially favoured,
subset with the speaker's dossier). In so far as the speaker expects the hearer
to recognize this intention, he must expect the hearer to think that in certain
circumstances the speaker will be prepared to replace the remark which he has
made (which contains 8) by a further remark in which some element in the
speaker's dossier for & is substituted for d. The standard circumstances in
which it is to be supposed that the speaker would make such a replacement will
be (a) if the speaker comes to think that the hearer either has no dossier for
&, or has one which does not overlap the speaker's dossier for & (i.e.,
if the hearer appears not to have identified the item which the speaker means or
is talking about), (b) if the speaker comes to think that & is a misfit in
the speaker's dossier for , i.e., that & is not, after all, satisfied by
the same item as that which satisfies the majority of, or each member of a
specially favoured subset of, the descriptions in the dossier. In example (2)
the speaker might come to think that Jones has no butler, or that though he
has, it is not the butler who is the portly man with the protruding ears, etc.,
and whom the speaker thinks to have mixed up the hats and coats. (iii) If in a
type (2) case the speaker has used a descriptive phrase (e.g.,
"Jones' butler") which in fact has no application, then what the
speaker has said will, strictly speaking, be false; the truth-conditions for a
type (2) statement, no less than for a type (I) statement, can be thought of as
being given by a Russellian account of definite descriptions (with suitable
provision for unexpressed restrictions, to cover cases in which, example,
someone uses the phrase "the table" meaning thereby "the table
in this room"). But though what, in such a case, a speaker has said may be
false, what he meant may be true (for example, that a certain particular
individual [who is in fact Jones' gardener] mixed up the hats and coats).
Let us introduce two auxiliary devices, italics and small capital let-ters, to
indicate to which of the two specified modes of employment a reported use of a
descriptive phrase is to be assigned. If I write "S said 'The Fis
G'," I shall indicate that S was using "the F" in a type
(1), non-identificatory way, whereas if I write "S said "THE F is
G",' I shall indicate that S was using "the F" in a type (2),
identificatory way. It is important to bear in mind that I am not
suggesting that the differencebetween these devices represents a difference in
the meaning or sense which a descriptive phrase may have on different
occasions; on the con-trary, I am suggesting that descriptive phrases have no
relevant systematic duplicity of meaning; their meaning is given by a
Russellian account. We may now turn to names. In my type (1) example, it
might be that in view of the prospect of repeated conversational occurrences of
the expression "Jones' butler," one of the group would find it
convenient to say "Let us call Jones' butler 'Bill'." Using the
proposed supplementa-tion, I can represent him as having remarked "Let us
call Jones' butler 'Bill'." Any subsequent remark containing
"Bill" will have the same truth-value as would have a corresponding
remark in which "Jones' butler" replaces "Bill". If Jones
has no butler, and if in consequence it is false that Jones' butler will be
seeking a new position, then it will be false that Bill will be seeking a new
position. In the type (2) example, also, one of the group might have
found it convenient to say "Let us call Jones' butler 'Bill'," and
his intentions might have been such as to make it a correct representation of
his remark for me to write that he said "Let us call JONES' BUTLER
'Bill'." If his remark is correctly thus represented, then it will nor be
true that, in all conceivable circumstances, a subsequent remark containing
"Bill" will have the same truth-value as would have a corresponding
remark in which "Bill" is replaced by "Jones's butler". For
the person whom the speaker proposes to call "Bill" will be the
person whom he meant when he said "Let us call JONES'S BUTLER
'Bill'," viz., the person who looked after the hats and coats, who was
addressed by Jones as "Old Boy", and so on; and if this person turns
out to have been Jones's gardener and not Jones's butler, then it may be true
that Bill mixed up the hats and coats and false that Jones's butler mixed up
the hats and coats. Remarks of the form "Bill is such-and-such" will
be inflexibly tied, as regards truth-value, not to possible remarks of the form
"Jones's butler is such-and-such", but to possible remarks of the
form "The person whom X meant when he said 'Let us call Jones's
butler "Bill"' is such-and-such". It is important to note
that, for a definite description used in the explanation of a name to be
employed in an identificatory way, it is not required that the item which the
explainer means (is referring to) when he uses the description should actually
exist. A person may establish or explain a use for a name & by saying
"Let us call THE F &" or "THE F iscalled &" even
though every definite description in his dossier for "the F" is
vacuous; he may mistakenly think, or merely deceitfully intend his hearer to
think, that the elements in the dossier are non-vacuous and are satisfied by a
single item; and in secondary or 'parasitic' types of case, as in the narration
of or commentary upon fiction, that this is so may be something which the
speaker non-deceitfully pretends or feigns. So names introduced or
explained in this way may be vacuous. I may now propound the following
argument in answer to the objection that any distinction in Q between
individual constants and descriptive terms will be arbitrary. (1) For a
given definite description 6, the difference between a type and type (2) employment is not to be construed as the employment of o in
one rather than another of two systematically different senses of . A name a may be introduced either so as to be inflexibly tied, as
regards the truth-value of utterances containing it, to a given definite
description ô, or so as to be not so tied (6 being univocally employed); so the
difference between the two ways of introducing a may reasonably be regarded as
involving a difference of sense or meaning for a; a sense in which a may be
said to be equivalent to a definite description and a sense in which it may
not. It is, then, not arbitrary so to design Q that its
individual constants are to be regarded as representing, among other linguistic
items, names used with one of their possible kinds of meaning, namely that in
which a name is not equivalent to a definite description. X. CONCLUDING
REMARKS I do not propose to attempt the important task of extending Q so
as to include the representation of psychological verb-phrases, but I should
like to point out a notational advantage which any such extension could be
counted on to possess. There are clearly at least two possible readings of such
a sentence as "John wants someone to marry him", one in which it
might be paraphrased by "John wants someone or other to marry him"
and another in which it might be paraphrased by "John wants a particular
person to marry him" or by "There is someone whom John wants to marry
him". Symbolizing "a wants that p" by Wap, and using the
apparatus of classical predicate logic, we might hope to represent reading
(1)by W°(3x) (Fxa) and reading (2) by (x) (WªFxa). But suppose that John wants
Martha to marry him, having been deceived into thinking that his friend William
has a highly delectable sister called Martha, though in fact William is an only
child. In these circumstances one is inclined to say that "John wants
someone to marry him" is true on reading (2), but we cannot now represent
reading (2) by (3x) (WªFxa), since Martha does not exist. The apparatus
of Q should provide us with distinct representations for two familiar readings
of "John wants Martha to marry him" , VIZ., (a) Wy F,ba,
and (b) W9*F,b,a,. Given that Martha does not exist only (b) can be true.
We should have available to us also three distinct 3-quantificational forms
(together with their isomorphs): (i) W93x,F,xzas; (ii)
(iii) Since in (iii) "x" does not dominate the segment
following the 3-quantifier, (iii) does not have existential force, and is
suitable therefore for representing "John wants a particular person to
marry him" if we have to allow for the possibility that the particular
person does not actually exist. [ and (ili) will be derivable from each of (a)
and (b): (ii) will be derivable only from (a).] I have in this paper
developed as strong a case as I can in support of the method of treatment of
vacuous names which I have been expounding. Whether in the end I should
wish to espouse it would depend on the outcome of further work on the notion of
reference. REFERENCES 1 Iam particularly indebted to Charles
Parsons and George Boolos for some extremely helpful correspondence, to George
Myro for countless illuminating suggestions and criticisms, and to Benson Mates
for assistance provided both by word of mouth and via his book Elementary
Logic, on which I have drawn a good deal. • I owe the idea of this type
of variant to George Myro, whose invaluable help was essential to the writing
of this section. 9 c.g. by K. S. Donnellan, 'Reference and Definite
Descriptions', Philosophical Review 75 (1966) 281-304; as may perhaps be
seen from what follows, I am not sure that L am wholly sympathetic towards the
conclusions which he draws from the existence of the distinction. h. P. Grice. Nome
compiuto: Michele di Francesco. Francesco. Keywords: corpi, unicorno,
unicornis, adj. later noun, nome sostantivo, nome aggetivo, nome proprio, nome
commune – unicorn – Meinong, Grice, “Vacuous Names”, vacuous descriptions, vacuous
description – identificatoria e non-identificatoria -- Priest, Read, persona,
an Etruscan concept, the grammar of ‘referring’ – the grammar of ‘senso’, the
grammar of ‘significato’ -- Refs.: Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “Grice e Francesco” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza,
Liguria.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franchini:
l’arguzia della ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età
degl’eroi – prespettico, spettico, prospettico -- la gloria d’Enea– la scuola
di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Abstract: “At Oxford we say
that Greek was the most plastic of languages, until the Turk got over! But
Italian can be pretty plastic too: witness spettico, prospettico, prespettico –
which would sound pompous in the lips of anyone but me!” -- Keywords: spettico,
prospettico, prespettico. Filosofo italiano. Grice: “I like Franchini; for one,
he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for another, he wrote on ‘historical
reason’: I collect reasons, pure reason, practical reason, communicative
reason, historical reason…” Figlio
di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le armi. Vive una drammatica
esperienza bellica che lascia un segno per la vita. Studia all’istituto italiano
di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove tenne in seguito conferenze e
lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la Hegel-Internationale Vereinigung,
è stato socio dell’accademie napoletane nella Società nazionale di Scienze,
Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di Milano. Intensa è la sua attività di
pubblicista e di scrittore. Collabora nell’immediato dopoguerra a giornali come
“La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”, e in seguito al “Mattino” di Napoli, al
“Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si
veda), contribuì assiduamente alla rivista di studi crociani. Dirige la nuova
serie filosofica della rivista “Criterio”, fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si
veda). Frequenta la casa di Croce, scoprendone via via la lezione di alta
umanità e di profondo significato etico-politico. Une alla vocazione filosofica
la militanza politica in nome dei valori della liberal-democrazia. Partecipa
attivamente a “Nord e Sud” di Compagna e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera.
Cultore delle arti visive, di cinema e di teatro, di musica e di poesia, si
cimenta tra l’altro nella scrittura di Aforismi, antologizzati nel volume degli
“Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta nel preziose “Note biografiche di
Croce”, raccolte dalla viva voce del filosofo, che sono oggetto di alcune
trasmissioni radio-foniche. La sua vasta biblioteca è a Napoli. Il nocciolo
della sua filosofia sta nel tema del giudizio, storico, politico, prospettico.
Alla lezione di Croce, che considera un classico della storia delle idee, si e
costantemente ispirato, riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di
aver calato il pensiero nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello
storicismo” distingue, in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda),
lo storicismo di matrice vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco,
prevalentemente filologico, nella convinzione peraltro che la filosofia dello spirito
non è una pura e semplice ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo
logico della filosofia di Croce individuando, nel nesso delle categorie
conoscitive (teoretica, aletica) e pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or
‘aequi-vocalita’ della dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a
confrontarsi con le correnti della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo
e la filosofia analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo
scacco definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale
(il pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una
esaustiva storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai
contemporanei (Le origini della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando
infine alla forma moderna della filosofia nel passaggio dalla metafisica
teologica alla metodologia della storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è*
la logica della filosofia, distinta dalla scienza. Alla tradizione del
criticismo kantiano collega il concetto di giudizio, in special modo nella
forma della riflessione estetico-teleologica della terza Critica. Gli si
aprirono nel frattempo squarci significativi sul fattore esistenziale e storico
del non essere ancora (il potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad
analizare il concetto di progresso tra la crisi del ideale dell’illuminismo e
la dimensione etico-politica del giudizio prospettico – il pre-spettico, lo
spettico, il prospettico -- tra passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in
qualche modo pre-vedibile nella prospettiva individuale di chi è chiamato ad
agire in una situazione in sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia,
l’oracolo, le prassi scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono
forme di pre-visioni utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione).
Proclama il diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della
ragione contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione
dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia
e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza
della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma
poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto
critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità.
Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti
ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la
classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre
opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo”
(Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il
circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica --
La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini,
Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia,
Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini,
Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia
in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della
filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia
minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini,
Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A.
Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle
crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della
filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia
dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una
filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere,
Gily,Melillo, presentazione di Cotroneo,
Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando
Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere
e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su
treccani. quartotempoblog, Biografia di
Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione,
Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La
Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura,
Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le
Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G.
Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il
valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione,
Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere,
Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il
giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo
e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni
in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università
“L’Orientale” di Napoli. Una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini a cura di Renata Viti Cavaliere Nota
introduttiva Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di
colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di
copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto
tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge a mo’
di postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. +
1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla palese intenzione del mio
maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della
difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito epistolare,
preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli
studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui
si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse -
nella scelta operata- il filo “logico” di uno scambio epistolare
intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3, riguardante pensieri
e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo
non poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente
suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al
carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state
già edite, le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero
all’interno del sag gio in memoriam, scritto nel ‘69 nel decimo
anniversario della morte dello studioso 1 Un sentito ringraziamento
ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali
dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via
Michetti, ma per lo più le lettere sono indirizzate a «Il Giornale» in
via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a
Napoli. 3 Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere
di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa
Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino,
costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una
magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959, Franchini
si era trovato ad intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo Antoni a
distanza di appena un mese: nel mese di luglio aveva recensito il
volume La restaurazione del diritto di natura, edito con Neri
Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo Le leggi di
Antigone, e nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di
poche ore, con sincero rammarico, In morte di Antoni. Amico
della verità 5, un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del
grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale.
Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel
tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da
entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono
di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del
filosofo sino alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi
aspetti l’ incipit della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo
con vivo interesse la Sua attività di studioso, se si considera l’età di
F.. E’ pur vero però ch’egli puo già vantare una significativa
produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di
esordio, e che i primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi
su quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio
come «Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e
Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di
Antoni Considerazioni su Il saggio dal titolo Antoni, lo
storicismo e la dialettica è nel volume F.,
Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Napoli, Giannini. È
già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in
onore di Attisani, Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un
legato non agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute
risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note
autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai
funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo. Cfr. R. F., Autobiografia
minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di
Pagano, Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è
di formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di
documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista
«Ethos») l’atto d’inizio di un dialogo filosofico che anda via via
intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle
lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello
studioso avendo anche chiaro il ricordo di quell’articolo di due anni
addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con riferimento ai
precedenti volumi Dallo storicismo alla sociologia e La lotta contro la ragione. In
realtà F. da allora in poi, e in più d’una occasione, ebbe
sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di
consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti
d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo Hegel
di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo
riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere
intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade
della Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si
limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi,
ma suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo
nel divenire, come la prova evidente dell’uscita dalla immobilità
tautologica della vecchia identit à senza vita. In altre parole egli non
mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento” della dialettica
operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché
l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella
realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non
per caso, nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al
problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio
insuperabile, anche negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e
all’irrazionalismo romantico si può dire che Hegel abbia redatto la
magna charta della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un
segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si arrovellava
sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire
vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F.
Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini. Il
ricordo di Ruggiero: lo studioso e l’uomo sta nel
volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica, Napoli,
Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la
metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto
sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da
una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché
in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo
di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il
tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce,
nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva
scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel
e sul tema della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre,
peraltro, lo arricchiva ulteriormente dall’interno. Nella recensione
all’ultimo libro di Croce Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni,
attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di
un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al
tempo stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un
biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica
dei distinti, e a F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se
stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica hegeliana
della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata
a Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il
filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si
sentì mai di seguirlo: vale a Cfr. F., Il razionalismo
hegeliano, in Id., Dalla filosofia della storia alla RAGIONE
STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è
accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il Saggio sullo
Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a
tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli scritti
di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico
del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di Negri. Semmai è stato
Antoni a sottolineare l’aporia intellettualistica nella hegeliana
formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non rispondendo
direttamente alla questione posta d’Antoni, aveva voluto infine includere
l’opposizione nella logica dei distinti in modo che non si perde di vista
la drammaticità dell’atto generativo del prodursi del reale nel suo
significato logico-spirituale dire ad una sorta di primato della vitalità nel
suo dialettico rapporto con la vita morale. Come si legge nelle lettere,
l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici,
particolarmente interessanti. Direi che tre possono essere considerate le
questioni più significative, che di necessità coinvolgono filosoficamente
il lettore al di là dell’apparenza di alcune diatribe contingenti. In
primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del saggio
di Antoni Commento a Croce, coevo al Congresso di filosofia che si svolse
a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni) sul tema della
“conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è la
vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò
l’Antoni, e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro
(che per ovvi motivi torna in queste lettere), intorno al significato
dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane. Gustosa,
infine, l’osservazione ironica di Antoni a proposito del libro di S
prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non possiamo non
dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna spesso a
discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la strana
insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che
l’avrebbero, secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di
Franchini al Commento a Croce uscì dunque sulla Nuova Antologia.
Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione, come
ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno
del puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da
Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì
negl’Atti dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce
dichiarò poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di
aver potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,
L’illusione della dialettica . Profilo di Antoni, Roma,
Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,
Antoni interprete di Hegel, in «Filosofia, con particolare riferimento al
volume postumo di Antoni, Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis, F.,
La conoscenza storica, in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V,
Napoli (rist. in Metafisica e Storia, Napoli, Giannini, da cui si
cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di
una sorta di nebbia, attraverso l’illustrazione che ne aveva fatta
il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il Commento a Croce
nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al
cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una questione di
politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il
significato di un “riscatto” del valore filosofico dello storicismo
crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso,
problematicistiche, di coloro cioè che comunque presuppongono un
assoluto, sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in
grado di contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili
alle inquietudini dello spirito liberale anche nell’organizzazione degli
studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata
“politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del
riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca
storiografica, che appunto Antoni – così scrive F. - ha
spinto alle estreme conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica
della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il Commento a
Croce fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza
filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo
della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo
in piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro
le usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi
eccessiva ma correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo,
anche memore degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della
Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è
d’accordo, come si sa, pur tuttavia mai egli nega il carattere
solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti
emerge in alcuni tratti delle lettere a F.. Il Congresso affianca al tema
della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da
Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli
schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si
veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci
(si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si
veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle
accese discussioni sino alla fine dei lavori. Antoni fu l ieto d’aver
partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione morale e
politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana
sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove
le idee “confessionali” tornavano per lo più a compattarsi in vista
di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante:
aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica sui
generis, alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo,
Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un confronto con le
altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al
solito pregiudizio che tendeva a stanziare gli studi crociani nel
Sud dell’Italia, era stato p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura
delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per
eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F.
non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare i limiti di
presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della
conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di
non considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di
trascurare cioè il ruolo dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole
rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si
trasmette storicamente alle generazioni future in nome di una tradizione
critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo è creare la
propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla
coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e
responsabile, potrebbe essere mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è
lo storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F.
tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del
saggio su Croce, di quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un
eccesso di pudore la nuova filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca
del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali
nel libro di Antoni, profondi e utili quelli sull’individuo nella Storia
e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello In
particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione
dell’individuo in Croce e Antoni. Croce, La storia come
pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione
è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si
veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si
veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva,
secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur
nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo
presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto
nella forma conoscitiva del giudizio storico. Croce restaura così
– secondo Antoni - il principio d’identità,
rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile
nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’
uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema, scrive Antoni, è quello di
un’unica categoria reale e attiva, che è l’Io, di cui le categorie
sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può
essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che
la conoscenza d’una situazione storica non fosse già guida ta da una
volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero
suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal
proposito: Antoni, platonicamente, indicava nell’Idea del Bene l’idea
-guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel tempo in
quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”. Profonda
fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo
“Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i
direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno
dichiaratamente suoi amici. Nella recensione non si sottolineavano, com’è
pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica
discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile
in partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di
carattere teorico. E difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del
crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di
assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della
Storia) di aver discettato di problemi morali e F. cita da Antoni,
Commento a Croce, Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni,
Commento a Croce, in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della
rivista fondata da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici
in maniera distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva
attratto e animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal
recensore nei riguardi di Croce venivano prima denunciate in nome di un
crocianesimo fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e
poi segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: “
ma quale crocianesimo è questo? ” se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del Ruggiero e al civismo mazziniano d’OMODEO (si
veda), entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e
sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso
nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del
movimento democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con
Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si
videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da
Croce, il quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui
superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono
probabilmente più del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente
scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una
curiosa ironia della sorte sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a
distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito del settore
filosofico sulla disciplina della Filosofia della storia, tanto avversata da
Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel
’54 a cambiare titolarità (adempiendo ad un impegno preso col filosofo),
chiamato infine sulla cattedra di A Fiore è stato dedicato un intero
fascicolo della «Rivista Pugliese» di Bari, comprensivo del carteggio con
Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura
tedesca a Padova politici in maniera
distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto e
animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi
di Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo
fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi
segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: ma
quale crocianesimo è questo? se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla
passione democratica del De Ruggiero e al civismo mazziniano dell’Omodeo,
entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era andato da amico e sodale ad
accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città
pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento
democratico meridionale con De Martino, Dorso, in continuità con Salvemini,
Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro
rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il
quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui superiore,
dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente più
del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione
che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una curiosa ironia della sorte
sia Antoni che F. hanno ricoperto, a distanza di un decennio, incarichi
universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina della filosofia
della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà
burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare titolarità
(adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine sulla cattedra
di A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della «Rivista Pugliese»
di Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni
aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della
filosofia moderna e contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne
l’incarico didattico nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la
libera docenza, inaugurando il corso con una prolusione sulla
Filosofia della storia, materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non
riuscì a recarsi a Napoli per assistervi, ma poté leggerne il testo su
«Criterio» con sincero compiacimento F. traccia in quell’occasione il profilo
storico della questione, dai pensatori cristiani fino a Hegel, a Spengler e
Toynbee, difendendo l’insegnabilità di una disciplina che mira a
conoscere un secolare bisogno dell’animo umano»rivolto a dare un senso generale
alle epoche storiche. S’intende che la filosofia della storia, in quanto
caso particolare della metafisica, anda svecchiata e in un certo senso
riformulata attraverso la metodologia storica non disgiunta dalle sempre
essenziali ricerche di storia della storiografia. Egli si appellava alla
tradizione “locale” ma europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa
però il nome di Labriola, ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso
Ferrero e alla oramai lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della
storia in un celebre discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La
prolusione di F. si chiudeva con un omaggio «al primo docente ufficiale
che di questa materia l’Italia abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni.
La recensione al libro di Sprigge merita qualche nota in margine, anche a
difesa dell’interprete inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo
l’icastica osservazione di Antoni che gli attribuisce una lettura del
rapporto di Croce col cristianesimo sulla base di mere considerazioni
politicistiche. Franchini cercò allora La Prolusione uscì in due puntate
su «Criterio», la rivista diretta a Firenze da Ragghianti. «Criterio» fu poi
ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e da lui diretta Il discorso in
Senato non conteneva, contrariamente a quanto talvolta si è lasciato intendere,
alcun riferimento a Ferrero (per il quale si veda invece la nota di Croce
in Conversazioni critiche, serie I, Bari, Laterza. Il testo del discorso
in Senato si può leggere in Discorsi parlamentari, con un saggio di
M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su Croce e Ferrero si veda la nota di
F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani. Sulla riconciliazione di Croce e
Ferrero, in nome di un comune sentire negli anni bui del fascismo, rimando a A.
Parente, Croce per lumi sparsi, Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è
poi ristampata in F., Metafisica e Storia, di dipanare la
controversa materia, riconoscendo allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione
del luogo comune per il quale si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito
conservatori. In effetti Croce aveva mostrato sempre “comprensione” per
la Chiesa cattolica, ciò non pertanto lo scritto, che pure piacque molto
per evidenti ragioni a taluni cattolici, fu una risposta alla sfida dei
fatti sulla base di principi teorici che in ogni modo ispirarono il filosofo,
il cui sguardo per necessità mirava ad assumere connotati universali
“oltre” la mera contingenza delle circostanze politiche. E tuttavia il
contenuto di quel testo è sempre “presente” nel suo significato
inequivocabile. La figura di Gesù, al centro del cristianesimo, ha
rappresentato un messaggio ancora fermamente iscritto nel cuore della modernità
e dentro la storia del mondo contemporaneo, sia per gli appartenenti ad una
chiesa sia per i laici credenti e non credenti. Non in poco conto
pertanto dev’essere tenuto il plurale espresso in quel “noi” (
Perché [noi] non possiamo non dirci cristiani ), che difatti
esclude il discorso in prima persona, ed esclude che si tratti della
confessione di un sentimento segreto. Parimenti estranee all’argomento
crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto fuori luogo in un
contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di carattere
teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo, ma un
processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato profondamente
le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende una sorta di
evento straordinario, non però diversamente, in chiave ontologica, dal
miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che noi tutti siamo. Le
lettere, fatt esi più rare, raccontano di vicende accademiche e di fatti
quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano Antoni già da
qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli, scomparso
tragicamente. Nella Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato dello
Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero La recensione al
saggio di Sprigge, Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi)
apparve su Criterio con il titolo Un profilo del Croce, ed è ristampata
nel volume L’oggetto della filosofia, Napoli, Giannini, La
commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola Normale Superiore è
nel volume di Antoni, Gratitudine,
Milano-Napoli, Ricciardi, Caro F., ho letto la recensione, che Le restituisco.
Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo libro sia stato recensito dalla
«Historische Zeitschrift», che resta tuttora la migliore rivista tedesca di
studi storici. È un onore per Lei. In quanto alla recensione stessa, essa ha il
consueto carattere informativo delle recensioni tedesche, nelle quali di rado
si prende posizione. Naturalmente noi, abituati allo stile delle recensioni
crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta acriticità. Ignoro chi sia questo
Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni Ha visto il mio Tramonto
delle ideologie sul «Mondo»? Roma Mio caro F., Si tratta della
recensione di Funke al saggio di F. Esperienza dello storicismo, in
«Historische Zeitschrift», Antoni aveva
scritto sul «Mondo» un lungo e denso articolo sul volume di F., che si può
leggere nella raccolta Il tempo e le idee, a cura di M. Biscione,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, Vedi «Il Mondo», in Il
Tempo e le idee, cpartecipe, in spirito di amicizia e di stima per un uomo
schivo e assai colto, conversatore brillante che sapeva «passare dalla musica
classica al romanzo francese, dalla pittura alla fisica nucleare». Giunto alla
filosofia da studi scientifici, di matematica e di medicina, Scaravelli si era
infatti misurato con i grandi della tradizione filosofica specie su temi di
logica pura per certi versi, ma in virtù dell’intento di far pre
valere il capire sull’esistere. A Croce e Gentile dedica con acume le sue
fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio, Kant, Heidegger,
Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere un suo problema
teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di Scaravelli era
quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire o capire come
la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché pur
muovendo dal principio d’identità indispensabile per la comprensione dei
significati, Scaravelli dovette infine arrendersi alla sua dissolvenza
aprendosi piuttosto al giudizio delle forme concrete dell’esistere
storico. Si trattava del problema della creazione del mondo, concludeva
Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali analisi contenute
nella Critica del capire, ch’ebbero il merito di rompere il
silenzio con cui il libro fu accolto, nonostante il parere molto positivo
espresso dallo stesso Croce. Manca, infine, il tempo per discutere
tra amici intorno all’ultimo libro di Antoni La restaurazione
del diritto di natura . F. ne aveva parlato nel numero di luglio del «Mondo»,
accogliendo senza riserve la proposta, in apparenza assai poco
storicistica, di un “ritorno” al principio dell’etica universalmente umana, la
sola capace però «di evitare le pericolose conseguenze del predominio
della tecnica e della civiltà di massa». Egli ebbe forse bene a mente le parole
adoperate da Antoni in una lettera di qualche anno prima: alla base del
giudizio storico e dell’azione morale e politica sta la luce di un
concetto universale dello spirito umano che tuttavia, proprio nella forma di un
umanesimo rinnovato, non contrasta affatto con la visione Si veda la
lunga recensione di Antoni a Scaravelli, Critica del capire, Giornale
critico della filosofia italiana, Vedi lettera, più avanti riportata storicistica
e dialettica della vita con tutte le sue imprevedibili e particolarissime
circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo che seguo con vivo interesse la Sua
attività di studioso. Così ho letto la Sua bella recensione del libro del
Ciardo e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda), comparso sullo «Spettatore. Ho
ricevuto oggi la sua memoria su Storicismo e relativismo, che
ho letto subito. Penso che il suo esame del rapporto e la differenza tra
“storicismo” e “istorismo” ossia relativismo storicistico sia molto opportuno
oltre che acuto. Ella mi muove un lieve appunto: quello di aver
attribuito al Troeltsch il merito di aver introdotto nell’uso comune il
termine di “storicismo”. Mi sembra però di aver detto una verità
incontestabile: anche se al termine il Troeltsch continuava a dare un
significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso del termine stesso
nel dominio della storiografia e della riflessione sui metodi della
storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno, di problemi,
crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a Roma, sarò assai
lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali saluti La
recensione al libro di Ciardo, Le quattro epoche dello storicismo,
era uscita in «La parola del passato»,
(rist. nel volume F., Esperienza dello storicismo, Napoli,
Giannini, Si tratta dell’articolo La “metodologia dell’azione” di
A. Gramsci, uscito in Lo Spettatore italiano La rivista si pubblica a Roma per
iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del filosofo, e del marito Raimondo
Craveri. Cfr. R. Franchini, Storicismo e relativismo, in «Atti»
dell’Accademia Pontaniana (rist. in Esperienza dello storicismo) Roma,
Caro F., di ritorno da Bari, dove sono stato a tenere una conferenza agli
“Amici della cultura”, trovo la sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a
rilasciarle il “certificato” che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo
Antoni Roma, È da qualche anno che seguo con molta attenzione gli scritti che F.
va pubblicando nelle riviste. Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un
contributo di chiarificazione e di critica assai notevole nel campo degli studi
storico- filosofici: Tutti, poi, indistintamente sono la testimonianza d’un
ingegno assai vivace, fine, sensibile ai più urgenti problemi della
filosofia e della vita. Oltre a rivelare una preparazione culturale
assai ricca e sostanziosa, essi indicano anche un raro senso di umanità.
Tra i giovani dell’ultima generazione il Franchini è certamente uno dei
più promettenti. Per le sue doti intellettuali e morali ritengo anche che
possa 32 Segue la lusinghiera lettera di presentazione di
Antoni sull’operosità di F., i l quale di lì a poco entra a far parte del corpo
docente del liceo classico della scuola militare napoletana essere un magnifico
insegnante, tale da mantenere alto il prestigio di cui ha sempre goduto
il collegio della Nunziatella. Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto
con grande interesse il Suo saggio 33 e soprattutto la parte che mi
riguarda. Ella ha afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche
per averne messo in rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le
conseguenze, che io non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi
che c’erano. In effetti Le confesso che ho i miei dubbi intorno ad una
“dialettica” dei distinti. Di questo dubbio Lei trova traccia del resto
nella recensione che feci allo “Hegel” di Ruggiero. In ogni caso
sono assai lieto della penetrante attenzione che Ella dedica ai miei scritti.
Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., Il saggio è: Morte e
resurrezione della dialettica da Hegel a Croce, in «Letterature moderne (rist.
in Esperienza dello storicismo, cit.) il Suo articolo mi ha
fatto, com’è naturale, un immenso piacere. Attribuirmi il merito di aver
provocato in Croce il bisogno di riesaminare la questione della dialettica è,
non occorre dirlo, rendermi il massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne
dice? Vorrei sapere se approva il Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo
Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio per la Sua lettera e per le
notizie che mi dà. Come Ella può comprendere, la questione, da Lei sollevata
nel Suo articolo, ha per me una grande importanza. Le dirò come io veda
la cosa. Quando pubblicai il mio saggio sulla Dialettica di Hegel, in cui
ne denunciavo il carattere intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle
mie “Considerazioni, Croce ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo
articolo in proposito, ma non si propose il problema. Sono tempi in cui
Croce, tutto preso dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio di
ritornare sulle sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita
l’interesse di RUGGIERO (si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”,
ma senza prender posizione. Per quanto riguarda questa mia prima
osservazione, penso che Croce abbia ragione nel negare che la sua revisione sia
stata provocata da me. 34 Il riferimento è al saggio:
La crudele dialettica, uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di
Franchini che uscirono nella rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel
volume Pensieri sul “Mondo”, a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo,
con una Presentazione di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica
di Hegel, Poesia e verità; rist. in Id., Considerazioni su Hegel e
Marx, Napoli. Si ricorda che F. recensì le Considerazioni nella
rivista Ethos. Ma io giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta
distinzione tra la hegeliana dialettica della contraddizione e la crociana
dialettica dell’opposizione. Essa si connetteva alla mia prece dente
attribuzione a Croce della restaurazione
del principio d’identità. Ero molto incerto se comunicare o no a Croce
questa mia osservazione, che avevo svolto nel corso universitario di
quell’anno. Mi rendevo conto, cioè, che essa avrebbe provocato un grave
turbamento ed un bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei
confronti di Hegel e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi
amici. Tra costoro Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e
psicologica e per la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase
dal farlo, dicendo che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso
vegliardo e non costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la
cosa mi tormentava, dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la
sua propria gloria e mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto
della propria originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu
ripreso dalla grave malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi.
Croce mi rispose con una lettera che era un’accettazione di massima, ma
contenuta in termini un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare
per suo conto l’intera questione. E infatti poco dopo cominciarono a
uscire i suoi nuovi scritti intorno alla vitalità e al suo carattere
dialettico, e in genere intorno a Hegel e alla origine della dialettica
hegeliana. Il punto di partenza di questi scritti, però, è fornito dal momento
della vitalità, al quale Croce riporta tutta la dialettica: sia la teoria
hegeliana per sé stessa, sia la dialettica della vita e dello spirito in sé. In
questo modo Croce andava, in certo senso, più in là della mia
osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra direzione. Le dirò che,
invece, per mio conto ho proseguito in direzione ben diversa. Nel
corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera questione, che mi ha portato
a risultati che contrastano con le tesi recentissime espresse da
Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo stimolato dalla mia seconda
osservazione, a riproporsi lo studio della natura della dialettica, è stato
condotto alle sue nuove idee dal senso più accentuato dell’importanza
della vitalità. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro
F., La ringrazio di aver pensato a me in questi giorni. Come sempre succede,
nei primi momenti dopo la scomparsa di persona cara, non ci si rende conto del
tutto della perdita. Il senso di vuoto viene dopo. Così accadrà per noi tutti:
ma dovremmo anche cercare di restare uniti. Il Suo articolo comparso nel
«Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il fondo del «Times»: non potrebbe
spedirmelo in prestito? Glielo restituirei subito. Arrivederci tra breve Suo
Carlo Antoni Roma, F., Croce, Il Mondo Caro F., ho ancora sul mio
tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio ritorno dalle vacanze. Vorrei che
Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di modo che io possa eventualmente
intervenire presso i commissari. Ho letto con piacere i Suoi due articoli:
quello su Mann 37 e quello sul libro del Sainati 38 . Sulla personalità
di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui con Croce, l’ultima volta
che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo, quando dicevo che dagli
scritti di Mann veniva su un certo lezzo di frollo, se non addirittura di
marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni Roma, 11 aprile 1954 Caro F.,
con l’editore Pozza, che era qui in questi giorni, ho esaminato la questione
della traduzione d’una scelta di lettere di Hegel I due volumi della nuova
edizione Su Mann è uscito il saggio Nobiltà dello
spirito sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di Trieste». Di Sainati
si parlava a lungo nell’articolo Studi crociani, apparso su Il Mondo. Il
progetto di curatela dell’epistolario hegeliano presenta più d’una difficoltà.
La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe dovuto far fede, assai più
dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al momento incompleta.
L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da integrare eventualmente
con le lettere ritenute significative, si mostrò impraticabile. F.
avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di una scelta di lettere e
della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece nulla,
nonostante la buona disposizione di Pozza e l’interessamento di
Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri due
volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei diritti di
traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner sarebbero
esose. Da un rapido confronto con la vecchia edizione curata dal figlio,
ho tratto l’impressione che la nuova non rechi molto di nuovo. In ogni
caso, se ci si volesse attenere a quest’ultima, si dovrebbe attendere
l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando si attuerà. Con Pozza
sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci alla prima
edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche nuova lettera
molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il diritto di
traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di scelta. Non
le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della traduzione mi è
apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro F., grazie
per le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice cambiamento del
titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che avevo assunto
con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò di fare
cambiare quel titolo di “filosofia della storia”, che proprio non
gli andava giù . Gli spiegai
allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia
della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con
l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola sociologia è screditata
per la sua volgare origine positivistica, quella di filosofia della
storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si
deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la
procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche
allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla
Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!
L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo
in cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con
cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F., bellissima la Sua
recensione, per cui Le sono molto grato
Mi dispiace soltanto che essa compaia nella Nuova Antologia, dove sarà
letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che
scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto
ricordare come spesso mi sia toccato di sentire che quella filosofia non è
interessante, perché non è problematica. Mi è piaciuto anche il modo,
assai fine, con cui Ella sa definire la mia posizione verso le dottrine del
Maestro. Antoni, in Carteggio Croce-Antoni, a cura di Musté,
introduzione di Sasso, Bologna, Mulino,
Antoni e chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. La recensione al libro di Antoni Commento a
Croce uscì con questo titolo sulla rivista Nuova Antologia. Ottimo
pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer, anche dal punto di vista
giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la
presentazione delle domande di libera docenza. Mi reco a Firenze per
incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30.
Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una bronchite con i
fiocchi – si direbbe ch e quest’anno sono iettato
– mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando
potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a
Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad
essere presente. Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato,
a quanto mi consta, ROVERE (si veda), poi a Roma LABRIOLA (si veda) tenne
tale insegnamento per incarico, con Antoni si rifere al saggio dal
titolo Una storia del progresso uscito su Il Giornale (rist.
in F., L’oggetto della filosofia, cit.). Antoni si era
prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia
nell’elenco delle libere docenze. F. sostenne gli esami di abilitazione
alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i
commissari Battaglia, Attisani e
Falco. F. inaugura il suo corso di filosofia della storia a Napoli
con una prolusione dal titolo La Filosofia della
storia, il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio» diretta da Ragghianti,
in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel
volume Metafisica e Storia, molto successo. Nella mia prolusione tenni ad
accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la
cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro
Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso, che
valse a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di
allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F., Ella può ben immaginare con quanto
piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha
confortato confermando l’utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma
anche la parte che più propriamente riguarda il mio “Commento” mi è stata
di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’
attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto, come Lei, è di grande
aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio,
dunque, con molto affetto La Prolusione dal titolo La dottrina
dialettica della storia è nel volume postumo Storicismo e antistoricismo,
a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella
Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani. Antoni si
rifere al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta,
Sul disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della
storia presso la Università di Roma”, che ora è possibile leggere nel
volume Benedetto Croce. Discorsi parlamentari, con un saggio di
Maggi, La memoria accademica di cui si parla riguardava l’ampio resoconto
critico che Franchini scrisse intorno al Congresso di Filosofia che si è
tenuto a Napoli, dove Antoni è stato invitato a tenere la relazione
introduttiva sul tema della conoscenza storica. Aliotta sul «Giornale
d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione di storicismo crociano. La
memoria di F., dal titolo La conoscenza storica, uscì negli Atti dell’Accademia
Pontaniana, (rist. in Metafisica e Storia Roma Mio caro F., la Sua
osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio
amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente.
Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non
penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto
che noi pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto
universale dell’uomo o dello spirito umano, che è il medesimo che orienta
la nostra azione morale e politica. Questo concetto, in quanto principio
dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è vera, anzi è la verità che
abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per
questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria
e coscienza della categoria, anche se la prima appare eterna e l’altra
storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma si va rendendo
sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce nelle parti
storiche dei suoi trattati. Ha fatto bene ad accettare l’invito al
“Simposio” laterziano. Sono curioso di sapere quali sono gli altri
invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la buona
causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese. Tuttavia
la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per la Sua
lettera di consenso al mio articolo sul socialismo. È una conferenza, che
tenni a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in Svizzera.
Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era utile farla
conoscere, anche in relazione alla situazione dei radicali. In effetti mi
sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone ha sentito
il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si sarà
accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire incontro
alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal -socialismo
calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo un carattere
etico-politico, si possa dargli anche un nuovo carattere positivo,
liberatore, sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni amici mi
hanno fatto osservare c he da alcune settimane era piuttosto moderato.
Poiché le critiche, che io Le esposi nella nostra conversazione per
strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non è
presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo
senso. Va benissimo per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una
sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo
non dirci cristiani, che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista, perché
prevedeva l’alleanza con la Dem. Cristiana!) Suo Antoni Roma, Le
convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un
liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui
esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli
intellettuali del «Mondo». La recensione di F. alla traduzione italiana
del saggio di Sprigge,
Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi) usce
su Criterio con il titolo Un profilo del Croce (rist. nel volume
L’oggetto della filosofia Caro F., l’infiammazione agli occhi, che
mi aveva impedito di venire a Napoli e che sembrava scomparsa, mi dà
nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi. Penso che Ella dovrebbe
scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei
tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso Mattioli,
affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo nessuna fiducia
nella utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato,
anche se difatti, errori, inconvenienti non sono mancati. In complesso,
mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno profittato
alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia della ragione
hanno operato in senso negativo, parecchi bravi
hanno avuto modo di studiare e lavorare. In quanto all’indirizzo
“storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al nome, ma al preciso
pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F.,
purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia gita a Napoli: non sono
ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da una ennesima ricaduta.
Non [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F. Dieci
anni nell’anniversario della fondazione dell’Istituto Italiano di
Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in Napoli ho
ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera gli affettuosi
auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua prolusione in
Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per la
“Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei
dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito,
medaglia di bronzo e croce di guerra; LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE;
professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma; assistente
dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero docente di Storia della
filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del
Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario dell’IRCE; chiamato
alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la
filosofia; socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc.
Peloritana, socio della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische
Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio
ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli
su proposta di Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie
biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni.
Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F., sono lieto per
la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che, mi
auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua
prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando
cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di
Tommaso Fiore al mio Commento. E dire che costui, appena letto il
libro, mi scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la
mia sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera
piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato
Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o
di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous contemple». Ottimo
il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella
attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia
disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione
di Fiore al Commento a Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte»,
Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte,
fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con
Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge.
Si tratta del libro di Antoni Lo storicismo,
pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute
nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana;
la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non
Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano
liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva
onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser costretto ad abbandonare una
continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in
cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione
al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente
consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul
«Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni
di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono d’accordo con Lei anche per
quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali la qualità non
corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura
– sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho avuto
la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione
di detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a
Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a
intervenirvi con una conferenza. Cercherò d’istruirli. Con
affettuosi saluti Suo recensione di Franchini dal titolo Una storia
dello storicismo uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno del ’57
(rist. in Metafisica e Storia, cit.). Il Giornale, quotidiano
liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e
Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e
interessamento dello stesso Croce. 61 Il libro di Franchini in
uscita era Metafisica e Storia, edito poi presso l’editore Giannini
di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla
Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli
altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di esprimere loro la mia
più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non
accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica:
non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La
prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra
breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa
intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso una certa
malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione.
In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a
lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando: ciò che
non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma,
Caro F., La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo,
che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il
trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti.
Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà
sempre rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da
un comitato, che conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre
consenzienti. A mio avviso il difetto sta nell’assurdo di un congresso
filosofico, dove i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano
necessariamente in ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese
vi inviano schiere compatte e disciplinate. Ho pure qualche riserva da
fare sulle parole dell’amico Calogero, che hanno un significato che non
condivido: dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a
mero dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il
dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con
cordialità Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla
nobile solitudine tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni.
Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora
strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in
effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p
iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me
ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo passare
ad una critica e soprattutto non potevo affrontare per mio conto l’intera
questione. Il problema di Scaravelli era quello di dedurre il molteplice
dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre genera i suoi
figli. Era, insomma, il problema della creazione del mondo. Se vogliamo,
era anche il problema di derivare l’estetica dalla logica, l’individuale
esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per lui il
problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile. Ma Ella
vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto,
avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo
Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli
nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso
tragicamente nella primavera di quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa
della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai
suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo
anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me
è una perdita dolorosissima. Caro F., eccellente il suo articolo su Weber. Ella
ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano
nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi
avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che
pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a Dilthey, contro CROCE
(si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo
insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa
sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza
alla Nunziatella possa essere d’ostacolo ad un alleggerimento dei suoi
incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto
il suo Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per
leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a
Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita
splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo
di F. su Weber e il “regresso” è uscito su Il Mondo. Si
tratta del volume: I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di F.,
Bari, Laterza. Not to be
confused with F., author of ‘I gladiatori. genza di far rientrare nella teoria del giudizio
storico, insieme alla dimensione del passato e del presente, anche quella del
futuro. Ma ciò poteva avvenire, proprio grazie alla ormai matura acquisizione
di quello che potremmo definire l'asse portante dello storicismo prospettico di
Franchi-ni: la concezione della storia come "realtà incompiuta". La
storia non è mai riducibile alla storicità del dato, né è racchiudibile
soltanto nell'oggetto della storiografia. Questo aspetto è solo una parte della
verità, ma certamente non la esaurisce. Aveva ragione Croce, quando, osserva
Franchini, sosteneva che il giudizio storico fosse da intendere come sintesi di
intuizione e concetto. Ma ciò che Croce non aveva debitamente messo in luce è
il fatto che «il giudizio storico, proprio perché guarda agli eventi in
pro-spettiva, cioè frontalmente, anche se la fronte è assai distanziata,
finisca col capovolgere in senso metodologico e scientifico la corrente
concezione della storia come mero accadimento, come ciò che è "superato"
perché, ormai, è "alle nostre spalle". La storia non è mai alle
nostre spalle, al contrario essa ci sta dinanzi e siamo noi come storici a
rettificarne continuamente la prospettiva, cioè la distanza non solo
cronologica ma ideale e politica, da quelli che comunemente si chiamano i
nostri tempi ([...]. Il giudizio storico, insomma, solo per una vecchia
illusione ottica, di ottica sto- riografica, sembra cercare il passato
[...], mentre in realtà esso lo afferra e sospinge dinanzi a noi, lo proietta
verso ciò che non è ancora, verso il futuro»!1. Stanno qui le premesse - come
fondatamente osserva ancora Cotroneo - di quella autonoma ed originale
svolta della riflessione di Franchini verso una teoria del "giudizio
storico-prospettico" che si richiamava esplicitamente al giudizio
riflettente kantiano e che, dunque, entrava in consapevole rotta di collisione
verso i principi logici tradizionali 2 e verso le forme assolute del sapere.
Insomma lo storicismo come "principio logico" aveva ormai abbandonato
ogni residuo tratto che potesse accomunarlo allo storicismo idealistico. Ciò in
cui Franchini finiva coll'imbattersi - e che da lui veniva originalmente
ripensato - è quell'universale senza concetto di cui parlava - come ricorda
Cotroneo - Kant nella Critica del giudizio, ma è anche, mi sentirei di
aggiungere, quel giudizio senza riflessione di cui parlava Vico nella Scienza
nuova. Insomma è quel giudizio adeguato ad una visione aperta e non
prescrittiva della storia e che si affida ad una razionalità flessibile che
nasce nella storia e con la storia continuamente si trasforma. "
Cfr. R. FRANCHINI, Teoria della previsione, cit., pp. 30-31. 12 Su ciò
resta fondamentale tutta l'argomentazione svolta in R. FRANCHINI, Eutanasia dei
principii logici, Napoli. Nome compiuto: Raffaello Franchini. Franchini. Keywords:
I gladiatori. vitale, avvenire, divenire, storia, historismus, historicismus,
mecanismus, mechanismus, mechanicismus, ragione storica, spirito, dialettica,
opposti, l’opposto, il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica
come metodo della filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spettico,
giudizio, l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica,
historimus philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “Grice e Franchini” – The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franci:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’ostrogoti – la scuola
di Ferara – filosofia ferraese – filosofia emiliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Ferrara). Abstract: Grice: “In Italy,
I’m described as Goth – since I speak the Gothick language!” Abstract: goth. Filosofo
ferrarese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice:
“I like Franci; for one, he philosophises and calls his thing ‘studi
linguistici,’ for another, he teaches in a varsity older than mine!” Insegna a Bologna. i suoi interessi si sono
concentrati principalmente sullo studio delle molteplici manifestazioni della
spiritualità. Dopo essersi laureato a Bologna con Heilmann, ha poi compiuto
studi di perfezionamento a Roma sotto la supervisione di Tucci. Direttore del
Dipartimento di Studi Linguistici, presidente dell'Accademia delle Scienze e
direttore della Biblioteca di Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato
inoltre Accademico effettivo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di
Bologna; Socio ordinario dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo
Oriente, Roma; Membro dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio
Onorario e membro del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India;
Consigliere dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del
Centro di Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro
del Comitato Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar
Cabral»; Membro del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture
afro-asiatiche nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi
orientali». Ha inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni
sessanta e di Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia
dell'India Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e
dell'Asia Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente
all'India classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti)
e dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di
approfondirne anche gli aspetti moderni e contemporanei: il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi;
problematiche relative alla questione linguistica, con particolare attenzione
alle letterature in bengali e in inglese; studi sul pensiero classico
nell'India d'oggi e i pensatori moderni in generale come Aurobindo. Altre
opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di Sankara: contributo allo studio del
Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi delle questioni linguistiche
indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze della filosofia comparata”
(Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi indologici, Bologna, La Bhakti:
l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi sul pensiero indiano, Bologna, Piero
Martinetti e "Il sistema Sankhya", Contributi alla storia
dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci, Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo,
umanista, Bologna, La benedizione di Babele: contributi alla storia degli studi
orientali e linguistici, e delle presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo,
Bologna, Il Mulino, Induismo, prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di
Andrea Pistolesi, Milano, Touring Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il
Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino, Filosofia indiana Induismo, Treccani
L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti antico popolo germanico. Gl’ostrogoti
(in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono il ramo orientale dei goti, una tribù
germanica che influenza gl’eventi politici dell’impero romano.
Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare
Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore
Romano d'Occidente, e si insediarono in Italia. Sono poi sconfitti dai
Bizantini. Identità con i Grutungi. Fibula ostrogota a forma di
aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi, viene citata per la prima volta
all'interno della biografia dell'imperatore CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a
Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta Historia Augusta. Essi sono
ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e devastarono allora l'impero
(all'interno della biografia gl’ostrogoti sono citati insieme con i grutungi, i
tervingi e i visigoti. Secondo Wolfram le fonti primarie parlano di
Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai mischiare le coppie. I quattro
nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre rispettando le coppie, come
in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram e Burns concludono che il
termine "grutungi" è un identificativo geografico usato dai tervingi
per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[ Questa terminologia spare
dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione unnica. A suo supporto,
Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a nord del Danubio chiamati
grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che questo popolo sono i tervingi
rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo questa concezione grutungi ed ostrogoti
sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i grutungi sono gl’ostrogoti è anche il
parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti da Teodorico il Grande a
Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico. Questa interpretazione,
nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è universalmente condivisa. La
nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in disuso. In generale, la
terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri scomparve gradatamente dopo
l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather ritiene invece che
l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi è errata. Secondo
Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal in Pannonia, ex
sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi che si
stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non sono
lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto Teodorico
il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti superstiti
dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti nasceno
dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di
Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati
nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva
da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque
di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori
dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar
(secondo la Gutasaga) Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero
Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul
Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite
degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf
Oduulf Ansila Edilf Vultuuf Hermanaric,
re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund
Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric =
Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda) Atalarico
Matasunta = Vitige; Germano
Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric Germano Stor; Posizionamento
degli Ostrogoti in Sarmazia. Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo
le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland
e la regione di Götaland. Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque
appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della
stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi
saccheggiarono alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la
Mesia. La prima menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore
Claudio II li riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a
fermare l'avanzata degli Ostrogoti. Nelle prime fasi della loro
migrazione dalla Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un
regno a nord del Mar Nero (Cultura di Černjachov). Ma ricominciarono le
scorrerie e conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord
Africa si trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione. Dopo
queste vittorie assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar
Baltico, e alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro
Magno, perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino
al mar Baltico. Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li
avevano scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar
Nero, gl’ostrogoti chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai
confini dell'Impero, precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta
di accogliere le popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare
il proprio esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti
si stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le
invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti
entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il
popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio,
in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il
collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati
dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il
regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota
annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale
Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a
Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto
e Teodorico il Grande. Teodorico sconfigge Odoacre (Antica
pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro
Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e
non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari:
eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un
tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti.
Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui
imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari.
L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in
modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del
suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al
padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo
conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne
devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con
Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico
venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo
Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la
Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico,
invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli
Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo
Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale
autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da
Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con
Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia
centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere
l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in
aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro
anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a
rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a
Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i
patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e
ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece
giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava
tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il
trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in
Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna
Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo
di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di
viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è
caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali
violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione
latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati
con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per
consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio
Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino
all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla
susseguente guerra goto-bizantina. La caduta Magnifying glass icon
mgx2.svg Guerra gotica. Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni
germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia
e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30
agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di
Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come
reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che
condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto
riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali
divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica
sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro
patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno
ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.
Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al
ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo
spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio
e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una
vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta,
che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia.
Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa
uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus
belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare
la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a
reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo
regno all'impero, avrebbero evitato la guerra. Il generale incaricato di
dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto
con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra
comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista
velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a
Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato
chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a
rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare
Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare
Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che
Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti
che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti. Ritratto di
Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i
Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto.
Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare
Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di
diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla
caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove
già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato,
richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere
Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica
agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano
in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori,
riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e
conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese.
Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di
conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma
guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di
Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La
sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni
ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta
disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino
e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni,
spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle
ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però
ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin,
non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del
comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete
sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime
sacche di resistenza. La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i
territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò
tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila
a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina,
scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati
come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi
rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti
vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai
Longobardi. CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan
Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno,
l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di
Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici
dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici
monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di
Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono
uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra
elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero
preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da
300 tonnellate. Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti
durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più
vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex
Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso
incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister
officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le
stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle
sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il
proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti
del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua
posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un
epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza
della diplomazia gotica del tempo. Fibbia di cintura ostrogota da
Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra
importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia
aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più
famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava
imprigionato con l'accusa di tradimento. Re ostrogoti Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia
degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige
Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti,
Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta
- Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns,
A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The
Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV.,
Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il
fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi
storici, Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia. Torino: Einaudi Bury Bury
History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico
Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e
affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda,
"Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti
Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De
origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione
di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae
("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus,
Excerpta, Par. II Fonti
secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the
Roman Empire Internet Archive. Burns, A History of the Ostrogoths, Boomington,
Bury, History of the Later Roman Empire Macmillan Heather, The Goths, Oxford,
Blackwell Publishers, Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno, Amory, People
and Identity in Ostrogothic Italy, Cambridge Azzara, L'Italia dei barbari,
Bologna, il Mulino, Bordone; Sergi, Il medio evo, Torino, Einaudi I Goti. Catalogo della mostra, Milano, Electa, Pepe, Il Medio
Evo barbarico d'Italia. Torino, Giulio Einaudi, Tabacco, La Storia politica e
sociale, dal tramonto dell'Impero romano alle prime formazioni di Stati
regionali, in: Storia d'Italia, vol. I, Torino, Einaudi, Tamassia, Storia del
regno dei Goti e dei Longobardi in Italia, Heather, La caduta dell'Impero
romano, Milano, Garzanti. Fonti su Teodorico, Teoderico il grande e i Goti
d'Italia. Atti del XIII Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo
(Milano Spoleto, CISAM, Garollo, Teoderico re dei Goti e degl'Italiani,
Firenze, Tip. Gazzetta d'Italia. Ensslin, Theoderich der Grosse, München,
Bruckmann Lamma, Teoderico, Brescia, La Scuola Editrice, Moorhead, Theoderic in
Italy, Oxford, Oxford Amory, People and identity in Ostrogothic Italy,
Cambridge, Giovanditto, Teodorico e i suoi goti in Italia, Jaca Book, Milano; Saitta,
La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e
recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider Goti
Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi
Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Ostrogoti, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica; Ostrogoti, in Catholic
Encyclopedia, Appleton Portale Antica Roma Portale Medioevo Regno
ostrogoto regno ostrogoto in Italia; Tervingi Grutungi. Nome compiuto: Giorgio
Reato Franci. Franci. Keywords:
i ostrogoti, Staal, Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical
culture” “The Western-European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Franci” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Francia:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei centauri – la scuola
di Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Abstract. Grice: “For my use of
‘objective’—not as in ‘conversational objective’ – I recommend my first Carus
Lecture!” Keywords:
oggetivo-suggetivo. Filosofo fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Fireze,
Toscana. Grice:
“Francia is a good one; for one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.””
Grice: “Italians use rifiute and confute – as we do!” – Grice: “Ryle used to
say, to provoke Popper, that ‘to refute’ is pretentious, when “to deny” does!” Figlio del generale e geografo Orazio e di Gina
Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea Firenze con Carrara, di cui diviene.
Insegna a Firenze. Al contempo, svolse attività di ricerca all'Istituto Nazionale
d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco Ronchi. Lavora presso il centro di
ricerca ottica della Ducati di Bologna fino a quando divennne professore
straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze, quindi ordinario della
stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica (Arcetri), dopo anni di
ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze, come ordinario di
ottica su una cattedra appositamente creata per lui. Contemporaneamente,
collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR di Firenze, fondato
da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca sulle onde
elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che l'Istituto di
Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.
Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International
Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della
scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di
musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali,
occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio
nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato
dantista. È padre dell'architetto Cristiano F.. Si occupa
variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di
meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di
epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da
ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di
super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico
alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza
delle onde evanescenti (evanescent waves). I suoi contributi più recenti
hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia
della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica
e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in
italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman.
Altre opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde
elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino);
“Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di
Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto
di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed
il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi,
Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di
oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola
Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica,
Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati
Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica”
(Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari); Fisica per il licei” (La Nuova Italia,
Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università
degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere”
(Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la
visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento,
invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla
scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni
di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma);
“Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita
di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della
scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC,
Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela
Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci
si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo
scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società
Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./ Elenco dei Professori di Firenze Archiviato, Florence, Italian
Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo,
Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,
E. Castellani, "Nodi d'invarianti:
l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze, E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia,
Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine
secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti, In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana
di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale
Teatro greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici
greci Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira
latina Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione
Mistero Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia
umanistica Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro
elisabettiano Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma
romantico Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale
Teorici del teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza
Storia del mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro
Teatro dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte
da alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni
sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il
lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche
tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori. Etimologia Il
termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua
pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori
consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza,
elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di
Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni
narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le
caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono
di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio
logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi,
concatenazione, scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una
successione di eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile
ed effimera traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza
alcun significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi
volutamente senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il
sorriso nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i
personaggi. Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che
potrebbe avere come "padre" letterario Jarry) vanno ricordati
Beckett, Tardieu, Ionesco, Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione
ha avuto come protagonisti Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore
di Le serve, era stato inizialmente inserito da Esslin nel gruppo
originario. Fra gl’autori italiani, è spesso accostato al teatro
dell'assurdo CAMPANILE (si veda), indicandolo come un precursore. Esslin, The
Theatre of the Absurd, Garden City, Doubleday et Company, Assurdo
Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Voce Teatro dell'assurdo nel
Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro Portale Letteratura
Portale Teatro Esistenzialismo corrente di pensiero Ionesco
scrittore e drammaturgo francese Camus
et la Parole manquante Langue Suivre Camus et la Parole manquante est un essai
de Costes consacré à Camus et publié. Le cheminement intellectuel de l'écrivain est
étudié sous un angle psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de
l'absurde, le cycle de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et
la Parole manquante Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude
psychanalytique modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg
Cadre conceptuel Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un
des écrivains français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le monde.
C'est à dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son
ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient
toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes
fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des
textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique
de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre
compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne.
Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain
comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire :
pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est
certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part,
il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la
naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère,
douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de
la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence
parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des
substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez
Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes
appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son
instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui
viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de
l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier. Son amour du théâtre en
découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était
exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires.
Cycle de l'absurdeModifier Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais
été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier
roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison
avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais
Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant:
Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme
l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son
père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault,
cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son
silence. L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les
difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte
de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque
sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger. L’ambivalence de
Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté
négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier
recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit »
qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde
absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le
suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari
pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe
de Sisyphe. Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la
pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les
silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie
du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage
rejoigne la grandeur minérale d’un paysage. C’est la bonne mère Nature
qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent
question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du
mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde.
Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de
la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la
forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie
grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence
maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour
avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui
renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du
langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la
révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile,
laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner
son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la «
restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son
objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est
le thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4
personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est
le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus)
assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de
sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de
L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie
insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose
au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle
du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va
engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon
Alain Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne
». Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le
Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre
du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se
rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour
contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est
pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une
problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme
révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de
Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier
dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été
mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche
de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème
de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien
et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au
moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte.
Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au
rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier
dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon
Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique,
La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et
d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de
lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le
Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin
de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le
Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans
le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en
état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le
père pour lui). On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à
Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste
marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de
mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a
les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme
côté pile et face rongée de l’autre côté. La dépression latente,
l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte
l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne
parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se
réfugier dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de
l’utérus, régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version
plus optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense
toile mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui
dépérit et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son
élément, la réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques
années, échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il
emprunte aux auteurs qu’il adapte. La seule nouvelle de L'Exil et le
Royaume qui soit plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre
qui pousse. Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le
héros d’Arrast va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le
coq. Selon Alain Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion
avec le coq que d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa
pierre) et clore son travail de deuil. Dans La Chute, son héros Clamence
va s’infliger un châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à
ce cri, ce corps qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il
s’installe dans cette ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil
de la Méditerranée, dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse »,
comme Jonas va s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin
le monde entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur
», se réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années
cinquante sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction
théâtrale. Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de
Marcel Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui
mobilise une partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout
l’omnipotence des images du père, retour au théâtre, retour aux grandes
admirations adolescentes, retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est
en janvier, la première des possédés qui lui a coûté tant de temps et
d’efforts, en novembre il commence à écrire Le premier homme, double quête de
la mère et du père où Camus avait retrouvé sa créativité à travers la
sublimation par l’écriture. Références psychanalytiques Camus aborde
plusieurs concepts psychanalytiques dans son œuvre: Surmoi: phase
postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa source dans
l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le représentant
psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une situation
entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la scène
primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus dans
une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des
mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et
symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement,
la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire:
Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir
après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de
Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image
fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une
relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale:
l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le
père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger
puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec
eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume.
Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière
et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des
angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre
Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du
réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un
objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du
travails’intitule La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir
les nouvelles La Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie
n’est-elle pas toujours “malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour
tout dire, surdité » commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les
Prisons. Morvan Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en
Tarrou, voire en Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se
rassemble. Carnets. Costes résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un
homme, le Renégat courant de père en père, les muets réduits (eux aussi) au
silence par leur patron, Daru dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de
la loi, d’Arrast, Jonas et Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi,
tous sont torturés par une problématique dont la plaque tournante est l’imago
paternelle Nouvelle intégrée au recueil L'Été. Cette disparition prématurée
oblige Camus à prendre la direction du festival d’Angers. Camus recherchera la
tombe de son père avant d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc.
Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation, phase paranoïque et scène primitive,
Revue française de psychanalyse, Camus et la Parole manquante. Pichon-Rivière
et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus, Revue française de psychanalyse; Durand,
Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé, Camus, Universitaires, Simon, Présence de
Camus, Nizet, Grenier, Les Îles, Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer /
Fayard, Ginestier, Pour connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus,
coll. La Plume du temps, éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études
camusiennes Culpabilité (psychanalyse) icône décorative Portail de la
littérature française Le Mythe de Sisyphe ouvrage d'Albert Camus Cycle de
l'absurde La Mort heureuse livre de Camus. The title which I have chosen for these lectures
embodies, as I am sure you will have noticed, an ambiguity of a familiar type,
an act-object ambiguity. The title-phrase [The Conception of Value] might refer
to the item, whatever it may be, which one conceives, or conceives of, when one
entertains the notion of value; again, it might refer to the act, operation, or
undertaking in which the entertainment of that notion consists, and of which
the conception (or concept) of value, in the first sense, is the distinctive
object. My introduction of this
ambiguity was not accidental: for the precise nature of the connection between,
on the one hand, the kind of thinking or mental state which is found, at least
in primary instances, when we make attributions of value, and, on the other,
the kind of item (if any) which serves as the characteristic object of such
thinking is a matter which I regard as quite central to a proper study of the
notion of value; my concern with it, moreover, is not an idiosyncracy, but has been
shared by very many of the philosophers who, throughout the ages, have devoted
themselves to this topic. Indeed a full understanding of the relationship
between this or that fundamental form of thinking and the item, or class of
items, which is, or at least might claim to be, a counterpart in extra-mental
reality of that form of thinking seems to me a characteristic end of
metaphysical enquiry. So it will not, perhaps, surprise you when I suggest,
first that one should be ready to payattention not merely to the special
(peculiar) character of the central questions about value but also to their
general character, that is, to their place on the map of philosophical studies
and their connection with other questions which are also represented in that
map; and second that we should be ready, or even eager, if we can, to provide
any answers which may initially find favour in our eyes with a suitable
metaphysical backing. To do this might be a way, and might even be the only
way, to remove the bafflement of certain people (of whom I know several) who
are extremely able and highly sophisticated philosophers, particularly in the
region of metaphysics, but who say, nevertheless, that they 'really just don't understand ethics'. I
suspect that what they are lacking is not (of course) any competence in
practical decision-making, but rather a clear picture (if one can be found) of
the nature of ethical theorizing and of its proper place in the taxonomy of the
enquiries which make up philosophy. To
decide whether and to what extent the kind of global approach which I have in
mind would be appropriate in a treatment of fundamental problems about the
nature of value, it is obviously desirable to have a reasonably well-defined
identification of those problems. To judge from the philosophical literature,
prominent among such issues are questions about the objectivity of value (or of
values) and questions about the possibility of defending or rebutting
scepticism about value (or values); and no sooner has so much been said than it
becomes evident that methodological uncertainties arise at the very outset of
our investigations. For it is far from clear whether the two sets of questions
to which I have just alluded are identical with one another or distinct; are
questions about objectivity the same as, or different from, questions about the
possible range of scepticism? And if the questions are the same, which way do
the identities run? Is the case for scepticism to be equated with the case for
objectivity, or with the case against objectivity?I myself, in these lectures,
plan to pursue my investigation of the conception of value by addressing
myself, in the first instance, to questions about objectivity in this region
and to the relation of such questions to questions about scepticism. And since
my own pre-reflective leanings are in the direction of some form or other of
objectivism, I shall, with at least a faint hope of determining whether these
leanings are defensible and (indeed) whether they are coherently expressible,
begin (but I hope not end) by considering the ideas of two recent
anti-objectivists. Today it is the turn of the late J. L. Mackie;' tomorrow I
shall turn to Philippa Foot.? 'There are
no objective values' says Mackie (p. 15). Let us try to outline the steps which
he takes in order to elucidate and defend this 'bald statement' (as he calls
it) of his central thesis concerning the status of Ethics. First of all, he
makes it clear that in denying objectivity to values he is not just talking
about moral goodness, or moral value (in the strictest sense of that phrase),
but it referring to a considerable range of items which could be called
"values"; to items which could be 'more loosely called moral values
or disvalues, like 'rightness and wrongness, duty, obliga-tion, an action being
rotten and contemptible, and so on'; also to an unspecified range of non-moral
values, 'notably aesthetic ones, beauty and various kinds of artistic
merit. He suggests that, so far as objectivity
is concerned, 'much the same considerations apply to aesthetic and to moral
values, and there would be at least some initial implausibility in a view which
gave the one a different status from the other'. I find myself in some
uncertainty at this point about the extent of the range of values with the
status of ' U. L. Mackie, Ethics:
Inventing Right and Wrong (Harmondsworth, Middlesex, and New York: Penguin
Books, 1977), esp. ch. 1. All the quotations from this book were taken without
change, with one exception: when quoting from Mackie's p. 17 (p. 31 below),
Grice underlined 'not'.) 2 [Especially
'Morality as a System of Hypothetical Imperatives' in Philippa Foot, Virtues
and Vices and Other Essays in Moral Philosoph:
Berkeley and Los Angeles: University of California Press, 1978).which
Mackie is concerned, and perhaps partly in consequence of this uncertainty I am
not sure whether his suggestion is that, so far as relates to objectivity, it
is implausible not to assign the same status to moral and to aesthetic values,
or whether it is the seemingly much stronger suggestion that, so far as relates
to objectivity, plausibility calls for the assignment of the same status to all
values. I shall return to this question.
Mackie envisages three very different reactions to his initial 'bald
statement': that of those who see it as false, pernicious, and a threat to
morality; that of those who see it as a trivial truth hardly worth mentioning
or arguing for; and finally that of those who regard it as meaningless or
empty', as raising no real issue. Before going further into his elaboration and
defence of his anti-objectivist thesis, I shall find it convenient to touch
briefly on his treatment of the last of these reactions. Mackie (pp. 21-2)
associates this reaction with R. M. Hare, who claimed not to understand what is
meant by "the objectivity of values" and not to have met anyone who
does. Hare's position is (or was) that there is a perfectly familiar activity
or state called "thinking that some act is wrong" to which
subjectivists and objectivists are both alluding, though the subjectivist calls
this state "an attitude of disapproval" while the objectivist calls
it "a moral intuition"; these are just different names for the same
kind of thing and neither can be shown to be preferable to the other. As I
understand Mackie's understanding of Hare, this stand-off is ensured by the
fact that the subjectivist has at his disposal a counterpart move within his
own theory for every move which the objectivist may try to make in order to provide
a distinguishing, and justifying, mark for his view of values as objective. The
objectivist, for example, may urge that if one person declares eating meat to
be wrong and another declares it to be not wrong, they are, both in reality and
on his theory, contradicting each other: to which the subjectivist may retort
that though on some subjectivist accountsthey cannot, perhaps, be said to be
contradicting each other, they can be said to be negating (or disagreeing with)
one another: if, for example, one (A) is expressing or reporting the presence
of disapproval of meat-eating in himself (A), and the other (B) its absence in
himself (B), this would be a case of disagreement or negation; and who is to
say that contradiction rather than "negation" is what the facts demand?
Again, suppose the objectivist claims, with respect to the persons A and B, one
of whom thinks meat-eating wrong and the other of whom thinks it not wrong,
that he alone (not the subjectivist) is in a position to assert (as we should
wish to be able to assert) that one of them has to be wrong; Hare's
subjectivist, it seems, replies as follows:
Someone (x) thinks that A
judges wrongly that meat-eating is wrong = x disapproves A's judgement that
meat-eating is wrong = x disapproves A's disapproval of meat-eating = x
non-disapproves meat-eating (→3 Someone x thinks that B judges wrongly that
meat-eating is not wrong = x disapproves B's judgement that meat-eating is not
wrong = x disapproves B's non-disapproval of meat-eating = x disapproves of
meat-eating (→) Any person x must either
disapprove or non-disapprove of meat-eating [disapproval might be either
present or absent in him]. So, 3 [The arrow appears to be Grice's shorthand way
of saying that Hare's subjectivist could hold all the above assertions to have
the same force, or that some are successively weaker than their predecessors.
No matter what the subjectivist holds on this point, the move from (1), (2),
(3), to (4) is invalid.] * [Grice took
full advantage of the convention of parentheses and apparently used square
brackets for his more important parenthetical remarks.]4. Any person x must
judge that either A or B judges wrongly.
Hare adds the following further consideration (quoted by Mackie): Think of one world into whose fabric values
are objectively built, and think of another in which those values have been
annihilated. And remember that in both worlds the people ir hem go on being
concerned about the same things—there is no difference in the 'subjective'
concern which people have for things, only in their 'objective' value. Now I
ask 'what is the difference between the states of affairs in these two
worlds?" Can any answer be given except 'None whatever'? Mackie seems to me not to handle very well this
attempt at the dissolution of debates about objectivity. He concentrates on the
final invocation of the indistinguishability of the two worlds, the one with
and the one without objective values; and he makes three points against Hare.
His first comment is that Hare's appeal to the two allegedly indistinguishable
worlds does not prove what Hare wants it to prove; all that it does is to
underline the point (made by Mackie himself) that it is necessary to
distinguish between first-order and second-order ethics, and that the
judgements or other deliverances which fall within first-order ethics may be
maintained quite independently of any judgement for or against the objectivity
of values, which will fall within second-order ethics; it does not show, as
Hare would like it to, the emptiness or undecidability of such questions about
objectivity. That such questions are not empty is, according to Mackie,
indicated by his two further comments; first, that were beliefs in the
objectivity of values admissible, they would provide us with a justificatory
backing for our valuations, which we shall otherwise be without; and second,
that were the world stocked with objective values, we would have available to
us a seemingly simple way of acquiring or changing our directions of concern;
one could simply let the realities of the realm of values influence one's
attitudes, by 'lettingone's thinking be controlled by how things were'. Hare's
failure to allow for such considerations as these is laid by Mackie at the door
of Hare's "positivism", which is comparable with that of a Berkeleian
who insists that appearances might be just as they are whether or not a
material world lies behind them (or under them). I am unimpressed. Mackie's first point relies
crucially on a deployment of a distinction between first- and second-order
ethics which is a central part of this theoretical armament, but whose nature
and range of legitimate employment I find exceedingly obscure. I shall postpone
further comment until I return to this element in Mackie's apparatus. As for
Mackie's other points, "positivism" is, I agree, a bad word, and
accusatory applications of it are good for an unreflective giggle. But I
suspect that many would regard an unverifiable backing for the propriety of our
concerns as being little better than no backing at all. And while it might be held that objective
values, should they exist, might exercise an influence on our subjective
states, it is by no means clear to me that this is an idea which an objectivist
would, or even should, regard with favour. Mackie seems to me, moreover, to
have missed the real weakness in Hare's argument (at least, as presented by
Mackie). The execution of the second stage of Hare's "duplication procedure' relies
essentially, but not quite explicitly, on the idea that with regard to any particular "content" , anyone must either
disapprove @ or not disapprove . This is indeed, as Hare says, a tautology, but
unfortunately it does not entail the premiss which he needs so that his
argument will go through; that premiss is that for any @, anyone either has an
attitude of disapproval with respect to @ or an attitude of non- disapproval with respect to . This is not a
tautology, since absence of disapproval only amounts to an attitude of
non-disapproval if some further condition is also fulfilled, e.g. that the
person concerned has considered the matter.The upshot of this discussion is
that I am prepared to concede that Mackie is right, though not for the right
reasons, when he claims that Hare's attempt to establish that there is no real
issue between objectivists and their opponents fails. To make this concession,
however, is to condemn only Hare's attempt to show that there is no real issue;
I remain perfectly free, should further argument point that way, to revive a
"dissolutionist" position in a new or modified form. I turn now to
the task of trying to identify more precisely the thesis about which
objectivists and anti-objectivists are to be supposed to disagree; and I shall
start by trying to get clear about what Mackie regards as the thesis which, as
an anti-objectivist, he is concerned to maintain. First of all, it is an
important part of Mackie's position to uphold the existence of a distinction
between first-order and second-order topics (questions, ethical judgements) and
to claim that, though both first-order and second-order questions may fall
within the province of ethics, his anti-objectivist thesis, like all questions
about the status of ethics, is of a second-order rather than a first-order
kind. First-order ethical judgements are said to include both such items as
evaluative comments about particular actions, and also broad general
principles, like the principle that everyone should strive for the general
happiness or that everyone should look after himself. By contrast, 'a second-order
statement would say what is going on when someone makes a first-order
statement, in particular whether such a statement expresses a discovery or a
decision, or it may make some point about how we think and reason about moral
matters, or put forward a view about the meanings of various ethical terms' (p.
9). Mackie holds there to be a
considerable measure of independence between the two realms (first-order and
second-order); in particular, "moral scepticism" may belong to either
of the two realms and 'one could be a second-order moral sceptic without being
a first-order one, or again the other way round. A man could hold
strongmoral views, and indeed ones whose
content was thoroughly conventional, while believing that they were simply
attitudes and policies with regard to conduct that he and other people held.
Conversely, a man could reject all established morality while believing it to
be an objective truth that it was evil and corrupt' (p. 16). A second salient feature of Mackie's version
of anti-objectivism (or moral scepticism) is that it is a negative thesis. 'It
says that there do not exist entities or relations of a certain kind, objective
values or requirements, which many people have believed to exist' (p. 17). On
some views which have been called objectivist, an objectivist position, despite
its positive guise, would turn out to be intelligible only as the denial of
some position which would bear the label of "subjectivist" , e.g. as
the denial of the contention that value
statements are reducible to, or really amount to, the expression of certain
attitudes like approval or disapproval.
On such an interpretation, of the pair of terms, "objectivism" and "subjectivism" (or "non-
objectivism", if you like), it would be the latter term which would
be, perhaps despite a negative garb, what used to be called in Oxford (with
typical artless sexism) the "trouser-word". But, for Mackie,
"objectivist" is not a crypto-negative term. A third salient feature
is closely related to the foregoing; the assertion or denial of objectivism is
not, like some second-order ethical theses, a semantic thesis (about the
meaning of value terms or the character of value concepts), nor is it a logical
thesis (e.g. about the structure of certain types of argument), but it is an
ontological thesis; it asserts (or denies) the existence of certain items in
the world of reality. Fourth and last, since Mackie's moral scepticism is
proclaimed by him not to be a thesis about the meaning of what moral judgements
or value statements assert, but rather about the non-presence of certain items
in the real world, it seems to be open to him to hold that the real existence
of values is implied by, or claimed in, what ordinary people think and say, but
is nevertheless notin fact a feature of the world, with the result that the
valuations spoken or thought by ordinary people are systematically and
comprehensively false. This is in fact Mackie's position; his view is what he
calls an "error-view": 'I conclude, then, that ordinary moral
judgements include a claim to objectivity, an assumption that there are
objective values in just the sense in which I am concerned to deny this' (p.
35). He compares his position with regard to values with that adopted by Boyle
and Locke with regard to colours. The suggestion is (I take it) that Boyle and
Locke regarded it as a false, vulgar belief that things in the real world
possess such qualities as colour; real things do indeed possess certain
dispositions to give us sensations of colour, and also possess certain primary
qualities (of shape, size, etc.) which are the foundations of these
dispositions. But neither of these types of item, which provide explanations
for our sensations of colour, is to be identified with particular colours, or
colour; indeed, nothing is to be identified with a particular colour. And the
situation with values is analogous. This
leaves us with two questions calling for answers: (1) Why does Mackie hold that claims to
objectivity are incorporated in ordinary value judgements? (2) Why does he hold
that these claims are false? With regard to the first question, one should
perhaps first produce a bit of preliminary nit-picking. Mackie himself wants to
hold that a claim to objectivity is incorporated in the ordinary value
judgement; such a claim is therefore presumably part of the meaning of such
value judgements (or the sentences in which they are expressed); and it does
not seem to be, or to be regarded by Mackie as being, a platitude that such a
claim is included. Mackie cannot therefore consistently assert that his
anti-objectivism is not a thesis about the meaning of value averrals; the most
he can claim is that though it contains a thesis about meaning, it is not
restricted to a thesis about meaning. More importantly, his view that a claim
to objectivity is incorporated in anordinary value judgement seems to rest,
perhaps somewhat insecurely, on his suggestion (pp. 32-4) that there are two
leading alternatives to the supposition that it is the function of ordinary
value judgements to introduce objective values into discourse about conduct and
action: non-cognitivism, which (broadly speaking) characterizes value averrals
not as statements but rather as expressions of feelings, wishes, decisions, or
attitudes; and naturalism, which treats them as making statements about
features which are objects of actual or possible desires. Both analyses leave
out, and are thought by the ordinary user of moral language to leave out, in
one way or another 'the apparent authority of ethics'. The ordinary man's
discomfort is relieved only if he is allowed to raise such questions as
'whether this course of action would be wrong in itself. Something like this is
the everyday objectivist concept of which talk about non-natural qualities is a
philosopher's reconstruction' (p. 34).
Mackie has two arguments, or bundles of argument, on which he relies to
support his thesis that the objectivist elements, which according to him are
embedded in ordinary value judgements, and in consequence the value judgements
which embed them, are false. He calls these arguments the argument from
relativity and the argument from queerness, and considers the second more
important than the first. The premiss of the argument from relativity is the
familiar range of differences between moral codes from one society to another,
from one period to another, and from one group or class to another within a
complex community. That there exist these divergences is, according to Mackie,
just a fact of anthropology which does not directly support any ethical
conclusion, either first-order or second-order. But it may provide indirect
support for such conclusions; Mackie suggests that it is more plausible to
suppose that moral beliefs reflect ways of life than the other way around:
people (in general) approve of monogamy because they live monogamously, rather
thanlive monogamously because they approve of monogamy. This makes it easier to explain the
divergences actually found as being the product of different ways of life than
as being in one way or another distorted perceptions of objective values. The
counter-suggestion that it is open to the objectivist to regard the divergent
beliefs as derivative, as the outcome of the operation of a single set of
agreed-upon, very general principles on diverse circumstantial assumptions, is
dismissed on the grounds that often the divergent beliefs do not seem to be
arrived at by derivation from general principles, but seem rather to arise
from 'moral sense' or 'intuition'. The second argument, the 'argument from
queerness' consists in an elaboration, along not wholly unfamiliar lines, of
the contention that the objectivist, in order to sustain his position, is
committed to 'postulating value-entities and value-features of quite a
different order from anything with which we are acquainted' and also to
attributing to ourselves, in order to render these entities and features
accessible to knowledge, a special faculty of moral intuition, a faculty
utterly different from our ordinary ways of knowing anything else. In this
connection he focuses particularly on the so-called relation of supervenience,
which has to be invoked in order to account for the connection of non-natural
features with natural features, and the dependence of non-natural features upon
natural features. The presence of super-venience in particular cases involves
the application of a special sort of "because"; 'but just what in the
world is signified by this "because"?' Before I try to estimate the merits and
demerits of Mackie's position and of the arguments by which he seeks to support
it, there seem to me to be two directions of enquiry which are important in
themselves, and which could be conveniently attended to at this point,
particularly as consideration of them might help to give shape to an evaluation
of Mackie. First of all, there are (as Mackieobserves) several different
possible interpretations of the notion of objectivity, most of them mentioned
by him at least in passing, but not all of them ideas which he is concerned to
develop or apply. I think it might be useful to enquire what kind or degree of
unity, if any, exists between these different readings of the notion of
objectivity. Second, I find myself in
considerable uncertainty about the connection or lack of connection between
attributions (or denials) of objectivity and the adoption (or rejection) of
scepticism in one or other of its forms. Does scepticism reside in the camp of
the non-objectivist (e.g. Mackie) or in that of the objectivist, or (perhaps)
sometimes in one and sometimes in the other?
As regards the notion of objectivity, we have first the interpretation
which seems to be the one singled out by Mackie, according to which to ascribe
objectivity to a class or category of items is to assert their membership in
the company of things which make up reality, their presence in the furniture of
the world. We might call this sort of objectivity, metaphysical objectivity,
and it is the kind of objectivity most commonly supposed to be claimed by
realists for whatever it may be that they are realists about. A main trouble with this kind of objectivity
is the difficulty in seeing what it is that the objectivist could be claiming;
whether, for example, in attributing objectivity to numbers or to material
things he is doing anything more than shouting and banging the table as he says
'numbers exist' or 'material things are real' If the proposition that numbers
exist is a consequence of the proposition that there is a number between three
and five, what is the objectivist asserting that anyone would care to deny?
That numbers (or values) do not just exist, they really exist? And what does that mean? To escape this
quandary, it is not uncommon to take the course which Mackie rejects, namely,
to understand 'values (or numbers) are objective' as really negative in
character, as a denial of the suggestion that values (or numbers) are
reducible, by means of one oranother of the possible varieties of reduction, to
members of some class of items which are not values (or numbers), to (for
example) natural features which find favour, or to classes. Or, maybe, not any
and every form of reducibility would be incompatible with objectivity, but only
the kind of reducibility whose direction is to states of mind, attitudes, or
appearances, to subjective items like approvals or seeming valuable. An
objectivist would now be a resister, an "anti-dissolutionist", one
who seeks to block certain moves to reach a theoretical simplification or
economy with regard to the constituents of the world. The objectivist's prime
opponent may however be a dissolu-tionist not in this commodious sense, but in
a different and perhaps even more commodious sense. This opponent may be one
who seeks not to dissolve the target notion (value, number, material thing, or
whatever) into some one or more different and favoured items or categories of
item, but rather, in one or other of a multitude of diverse ways, to dissolve
the target notion altogether, to dissolve it into nothing; he may be a
nihilistic dissolutionist. He may suggest that belief in the application of the
target notion is a mistake, one which characteristically or inevitably grips
the unschooled mind; or that such beliefs can claim only some relativized
version of truth (like truth relative to a set of assumptions, or to a set of
standards), not absolute truth. Mackie himself allows to some value
judgements 'truth relative to
standards', even though by implication he seems to deny to them
"absolute" truth [whatever the ordinary man may think]. Again, the
anti-objectivists may wish to suggest not that attributions of the target
notion are mistakes but rather that they are inventions, or perhaps myths (that
is to say, inventions which are backed by practical motivation, perhaps derived
from the utility of such inventions towards the organization of some body of
material; in the case of values (perhaps) the body of material might be rules
or principles of conduct). As myths (or as the stuff of which myths are made)
they might havefictive reality, or be "as if" real, without possessing
reality proper. Or again, the target notion might be held by the
anti-objectivist to be a construct (or a construction: though possessing (or belonging to) reality,
values might be held to lack (or fail to inhabit) primary or original reality;
they would belong to an extension of reality provided by us. By contrast, an
objectivist about values would attribute to them primary or original reality.
[I should say at this point that in my view such ideas as are now being raised,
that is, distinctions between "as if" or fictive entities, real but
constructed entities, and primary or original reality, are among the most
important and also the most difficult problems of metaphysics. The obscurity in
this area is evidenced by the fact that constructed (non-original) reality
might be conceived by some as possessing objectivity and by others as failing
to possess objectivity; for some, deficiency in objectivity precludes truth (at
least unqualified truth); for others, value claims might be true (in some
cases) even though values (as constructed items) lack objectivity.] It might seem that the wheel, in turning, has
now reached the point from which its turning began; for the notion of primitive
(unconstructed) reality might be regarded as the same notion as the hazy notion
of "out-thereness" or of "being really real" which typified
the metaphysical objectivist. It might also seem that the new 'interpretation' of objectivity is scarcely
if at all less hazy than the earlier one. In an attempt to dispel the mists a
little, one might offer the notion of causal efficacy as an index of
metaphysical objectivity. Items might be accorded the ribbon of metaphysical
objectivity just in case they were capable of acting upon other items, and
attributes or features might be regarded as objective just in so far as they
were attributes or features in virtue of the possession of which one item would
causally influence another, in so far as they helped to explain or account for
the operation of such causal influences. A special case of the fulfilment
ofthis condition for objectivity would, in my view, be the capacity, possessed
by some objects and some of their attributes, for being perceived, or
exercising causal influence on a percipient qua percipient. Now the idea of
connecting objectivity with causal efficacy seems to me one which has
considerable intuitive appeal, indeed much the same kind of appeal as that
which may have sustained Dr Johnson in his violent and protracted, though
vicarious, assault on Bishop Berkeley. The adequacy, however, of this criterion
of objectivity would be seriously, if not fatally, impaired should it turn out
that the distinction between what is primitive and what is constructed applies
within the scope of causal efficacy—if, that is to say, causal efficacy itself
were to be sometimes primitive and sometimes constructed. It is my suspicion
that this would indeed turn out to be the case. There would then, perhaps, be
no quick recognition-test for objectivity; there would be no substitute for
getting down to work and building the theory or system within which the target
notion would have to be represented, and seeing whether it, or its
representation, does or does not occupy in that theory an appropriate position
which will qualify it as objective. On
the approach just considered, then, decisions about the objectivity of a given
notion would involve the examination and, if necessary, a partial construction
of a theory or system in which that notion (or a counterpart thereof) appears,
to see whether within such a system the notion in question (or its counterpart)
satisfies a certain condition. The operation of such a decision-procedure would
be torpedoed if the requisite theory or system could not be constructed, if the
target concept were not theory-amenable. The merits of an allegation that a
given notion was not theory-amenable might depend a good deal on what kind of a
theory or system was deemed to be appropriate; it would be improper (taking
heed of Aristotle) to expect a moralist to furnish a system which allowed for
the kind of demonstration appropriate to mathematics.But one kind of
anti-objectivist (who might also be a sceptic) might claim that for some
notions no kind of systematization was available; in this sense, perhaps,
values might not be objective. It may be (as I think my colleague Hans Sluga
has argued) that Wittgenstein was both sceptical and anti-objectivist with
regard to sensa-tions. In this sense of objectivist, an objectivist would only
have to believe in theory-amenability; he would not have to believe in the
satisfaction, by his target notion, of any further condition within the
appropriate systematization. One further
interpretation of objectivity noted by Mackie is one which I shall not pursue
today. It connects objectivity with (so-called) categorical imperatives as
distinct from hypothetical imperatives, and with the (alleged) automatic
reason-giving force of some valuations.
Since this idea is closely related to Miss Foot's theories, I shall
defer consideration of it. I have listed
a number of different versions of the idea of objectivity, and have tried to do
so in a way which exhibits connections between them, so that the different
versions look somewhat tidier than a mere heap. But many of the connections
seem to me fairly loose [*such-and-such a notion might be taken as an
interpretation of so-and-so'], and I see little reason to suppose many tight,
logical connections between one and another version of objec-tivity. So much for the panoply of possible
interpretations of the notion of objectivity. I turn now to the second of the
general directions of enquiry with regard to which I expressed a desire for
enlightenment. How is objectivity related to scepticism? Speaking generally, I
would incline towards the idea that scepticism consists in doubting or denying
something which either is a received opinion, or else, at least on the face of
it, to some degree deserves to be a received opinion. In the present context we
are of course concerned only with philosophical scepticism; and, without any
claim to originality, I would suggest that philosophicalsceptics
characteristically call in question some highly general class of entity,
attribute, or kind of proposition; what they question are categories, or what,
if we took ordinary language as our guide, would be categories. To adduce more
seeming platitudes, the objectivist is, compared with the anti-objectivist, a
metaphysical infla-tionist; there are more things in his heaven and earth than
an anti-objectivist Horatio would allow himself to dream of. And so, it is
standardly thought, it is Horatio who is the sceptic and the objectivist who is
the target of scepticism; and (often Horatio remedies his own initial
scepticism by 'reducing' the suspect
items to their appearances or semblances: he takes the phenomenalist cure. But
here the issue becomes more complex than is ordinarily supposed: for there are
to my mind not less than two forms of scepticism, which I will call
"Whether?" scepticism and
"Why?" scepticism. It may be true that the run-of-the-mill
objectivist, on account of his inflationary tendencies, provokes
"Whether?" scepticism, and that the sceptic who seeks to remedy his
own initial scepticism by taking a dose of phenomenalism is not himself open to
"Whether?" scepticism. But it may also be true that the phenomenalist
is a proper target for "Why?" scepticism; for he, has left himself
with no way of explaining the phenomena into which he has dissolved the
entities or attributes dear to the objectivist. And it may be that the objectivist,
if only his favoured entities or attributes were admissible and accessible to
knowledge, would be in a position to explain the phenomena; and, further, that
this capability would be unaffected by the question whether the phenomena are
related to possible states of the world (like sensible appearances) or to
possible action (like approvals). If only he could be allowed to start, the
objectivist could (under one or another interpretation) 'explain' in the one
area why it seems that so and so is the case, and in the other why do so and so
(eg. why pay debts). The foregoing
message, that both the true-blue, con-servative, and inflationary objectivist
and the red, radical, and deflationary phenomenalist or subjectivist run into a
pack of sceptical trouble, of one kind or another, and that more delicate and
refined footwork is needed seems to me to be the front-page news in the work of
Kant. It also seems to me that Mackie, by being wedded to if not rooted in the
apparatus of empiricism, has cut himself off from this lesson. Which is a
pity. However, I must move to somewhat
less impressionistic comments on Mackie's position. These comments will fall
under three heads: The alleged commitment of
'vulgar valuers', in their valuations, to claims to objectivity. The separation of value
judgements into orders, with the assignment to the second order of questions or
claims about the status of ethics; and the remedi-ability of an apparent
incoherence in Mackie. The alleged falsity of claims of objectivity. I should say at once that
though I think that the considerations which I am about to mention show that
something has gone wrong (perhaps that more than one thing has gone wrong) in
Mackie's account, the issues raised are so intricate, and so much bound up with
(so far as I know) unsolved problems in metaphysics and semantics, that I
simply do not know what prospects there might be for refurbishing Mackie's
position. 1. It seems to me to be by no
means as easy as Mackie seems to think to establish that the 'vulgar valuer',
in his valuations, is committed to the objectivity of value(s). It is not even
clear to me what kind of fact would be needed to establish such a commitment.
Perhaps if the vulgar valuer, when making a valuation, (say) that stealing is
wrong, were to say to himself "and by "wrong" I mean objectively
wrong', that would be sufficient (at least if he added a specification of the
meaning of "objective"). But nobody, not even Mackie would suppose
the vulgar valuer to dothat. Mackie relies, in fact, on the alleged repugnance
to the valuer of the two main rivals to an objectivist thesis about value. But
even if this were sufficient to show that the vulgar valuer believes in an
objectivist thesis about value, it would not be sufficient to show that an
objectivist interpretation is built into what he means when he judges that
stealing is wrong. There are other ways of arguing that a speaker is committed
to an interpretation, for example, that he has it subconsciously (or
unconsciously) in mind, or that what he says is only defensible on that
interpretation. But the first direction seems not to be plausible in the
present context, and Mackie is debarred from the second by the fact that he
holds that what the vulgar valuer says or thinks is not defensible anyway. To illustrate the fiendish difficulties which
may arise in this region, I shall give, in relation to the valuation that
stealing is wrong, four different interpretative supposi-tions-each of which would,
I think, have some degree of philosophical appeal-and I shall add in each case
an estimate of the impact of the supposition on the assignment of truth value
to the valuation. There is a feature W which is
objective but provably vacuous of application; a vulgar valuer, when he uses
"wrong", is ascribing W. Conclusion: vulgar valuation 'stealing is
wrong' invariably false. A vulgar valuer thinks (wrongly) that there is a
particular feature W which is objective, and when he uses "wrong" he
intends to ascribe this feature, even though in fact there is no such feature.
Conclusion: obscure, with choice lying between false, neither true nor false
but a miscue, and meaningless (non-significant). A vulgar valuer is uncommitted
about what feature "wrong" signifies; he is ascribing whatever
feature it should in the end turn out to be that "wrong" signifies.
Conclusion: assignment of truth value must await the researches of the semantic
analyst.(d) A vulgar valuer is uncommitted about what feature "wrong"
signifies; truth value is assigned in advance of analysis by vulgar methods,
and such assignment limits the freedom of the semantic analyst. Conclusion:
truth value assigned (as stated) by vulgar methods. 2. The idea, to which Mackie subscribes, of
separating valuations into orders as a step towards the elucidation of an
intuitive distinction between "substantive" and "formal"
questions and theses in ethics plainly has considerable appeal; it seems by no
means unpromising to regard
"substantive" theses about values as being first-order valuations
(statements), and to regard "formal" theses in ethics, like theses
about the logic of value, or the meaning of value terms, as being a sub-class
of second-order theses, and to regard theses about the status of ethics as also
falling within this subclass—to treat them, that is to say, as theses about
first-order valuations. [Such second-order theses, of course, though
necessarily about valuations, may or again may not themselves be valuations.]
But Mackie's deployment of this idea plainly runs into trouble. For according
to Mackie, vulgar valuations incorporate or entail claims to objectivity;
claims to objectivity, according to him, since they fall within, or imply
theses belonging to, the class of claims about the status of ethics, are
second-order claims; and so, since (presumably) what incorporates or entails a
second-order thesis is itself a thesis of not lower than second-order, vulgar
valuations are of at least second-order. But vulgar valuations, as paradigmatic
examples of substantive value theses, cannot but belong to the first order,
which is absurd. Now I can suggest an explanation for the appearance on the
scene of this incoherence. As I mentioned earlier, among the possible versions
of the notion of objectivity are what I called a positive version and a
negative version. The positive version, that to attribute objectivity to some
item is to proclaim that itemto 'belong to the furniture of the world', is
firmly declared by Mackie to be his version; and it is, as I have remarked,
obscure enough for it to be possible (who knows?) for attributions of
objectivity to belong to the first order. The negative version, that to
attribute objectivity to something is to deny that statements about that thing
are in this or that way eliminable or "reducible", , is plainly of second (or higher) order; and despite his forthright
assurances, Mackie may have wobbled between these two versions. But to explain is neither to justify nor to
remedy: and I have the uneasy feeling that Mackie's troubles have a deeper source
than unclarities about application of the notion of order. His
"error-view" about value has an Epimenidean ring; it looks a bit as
if he may be supposing vulgar valuations to say of themselves that the value
which they attribute to some item or items is objective; and I feel that it may
be that such self-reference, though less dramatic, is no less vitiating than
would be saying of themselves that they are false. It is true that Mackie
regards vulgar valuations as being, in fact, comprehensively false; but it is
evident that he expects and wants that falsity to spring from the general
inapplicability of the attribute being ascribed by such valuations to
themselves, not from a special illegitimacy attending a valuation's ascription
of the attribute to itself. 3. I find
myself quite unconvinced (indeed unmoved) by the arguments which Mackie offers
to support his claim that values are not objective or (should one rather say?)
that there are no objective values. The first argument from relativity he
regards as of lesser importance than, and indeed as ultimately having to appeal
to, the second argument, the argument from queerness. This argument (so it
seems to me) seeks to make mileage out of two bits of queerness: first, the
queerness of the supposition that there are certain "non-natural"
value-properties which are in some mysterious way "supervenient upon"
more familiar natural features; and second, the queerness of the supposi-tion
that the recognition of the presence of these non-natural properties motivates
us, or can motivate us, without assistance from any desire or interest which we
happen to have. What strikes me as queer is that the queernesses referred to by
Mackie are not darkly concealed skeletons in objectivist closets which are
cunningly dragged to light by him; they are, rather, conditions proclaimed by
objectivists as ones which must be accommodated if we are to have a
satisfactory theoretical account of conduct, or of other items qua things to
which value may be properly attributed. So while these queernesses can be used
to specify tasks which an objectivist could be called upon, and very likely
would call on himself, to perform, and while it is not in advance certain that
these tasks can be successfully performed, they cannot be used as bricks to
bombard an objectivist with even before he has started to try to fulfil those
tasks. It is perhaps as if someone were to say, 'I seriously doubt whether
arithmetic is possible; for if it were possible it would have to be about
numbers, and numbers would be very queer things indeed, quite inaccessible to
any observation'; or even as if someone were to say, 'I don't see how there can
be such a thing as matrimony; if there were, people would have to be bound to
one another in marriage, and everything we see in real life and on the
cinema-screen goes to suggest that the only way that people can be bound to one
another is with ropes. Nome compiuto: Giuliano Toraldo di Francia. Francia. Keywords:
i centauri, ex absurdo; scientific realism, philosophy of physics, foundations
of physics; geometry and arithmetics as the methods in physics; observation and
perception, ‘what the eye no longer sees’ – ‘we see with our eyes”; Eddington’s
two tables – teoria relativistica, theory of relativity – theory of the
absolute, particella, relativita, assoluto/relativo – relative-assoluto –
Galilei BONAIUTO – H. P. Grice’s discussion of the ‘relative-absolute’
distinction vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no absolute values’) as cited by
colonial philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing right and wrong’ ‘absolute
value’ ‘relative value’, Lemarchand, theatre, not Esslin. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francia” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Franzini:
la ragione conversazionae e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola
di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Milano). Abstract. Grice: “If there is
a word that Italian philosophers love, that is ‘espressione. I guess the most
technical I get about this is in my Method in Philosophical Psychology. Let me
abbreviate "x judges that x judges that p" by "x judges that
p", and "x judges that x judges that x judges that p" by "x
judges? that p". Let us suppose that we make the not implausible
assumption that there will be no way of finding non-linguistic manifestational
behaviour which distinguishes judging? that p from judging that p. There
will now be two options: we may suppose that "judge that p" is an inadmissible
locution, which one has no basis for applying; or we may suppose that "x
judges' that p" and "x judges? that p" are manifestationally
equivalent, just because there can be no distinguishing behavioural
manifestation. The second option is preferable, if (a) we want to allow
for the construction of a (possibly later) type, a talking pirot, which can
express that it judges? that p; and (b) to maintain as a general (though
probably derivative) law that ceteris paribus if x expresses that then x judges
that ф.Keywords: espressione. Filosofo milanese. Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for
one, he philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey
[Warnock] and I philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio.
Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della
filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi
cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things
together, so that the recipient compares them!); “immagine”; “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla
scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista
quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e
ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo
statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore
volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale
dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla
definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di
una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico –
rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano,
Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di
Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex
positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo”
(Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos
(Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le
leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi,
morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La
Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni
dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa
(Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo”
(Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori);
“Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e
disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura,
fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a
Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano,
Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli
enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto,
Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano,
Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier);
“L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il
creditum: sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma
create dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw
to things to be compared, say an Italian flag, and the love of country); Simbolo: figura, materia, e
forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il
Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La
rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione
all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura”
(Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano,
Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e
Associati, pre-moderno, Moderno e
postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il
benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di
Occam MicroMega Estetica, filosofia,
vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il
rettore su unimi, contiene l'articolo Il
nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città
Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove
vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo,
e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là
seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno
mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice,
tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene,
amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da
Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE:
E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i
suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino.
SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire
come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni
negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza
dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo
intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel
giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche
questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna
compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto
che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto
che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di
voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora
ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino
a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non
rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da
profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più
bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo
agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE:
Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è
vera né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di
Lisia, non l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha
pregato di ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però
neppure questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i
passi che più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin
dal mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo,
corpo d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse
troppo lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi
poi in uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo
si è rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha
invitato ad accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di
declamarlo, si è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine
avrebbe parlato anche a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu
dunque, Fedro, pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto.
FEDRO: Per me, veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come
sono capace, poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima
che abbia parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO:
Allora farò così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola
per parola: ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti
con i quali lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella
di chi non ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE:
Prima però, carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello;
ho l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente
che io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente
intenzione di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo!
FEDRO: Smettila! Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di
esercitarmi. Ma dove vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e
andiamo lungo l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo.
FEDRO: A quanto pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo
sei sempre. Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi
nell'acqua, e non spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE:
Fa' da guida dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi
quell'altissimo platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza
moderata ed erba su cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi
pure guidarmici. FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte
dell'Ilisso, che a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si
dice. FEDRO: Proprio da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e
limpide, adatte alle fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o
tre stadi più in giù, dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra:
appunto là c'è un altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho
mai fatto caso. Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo
racconto sia vero? SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non
sarei una persona strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un
soffio di Borea la spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed
essendo morta così si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure
dall'Areopago, poiché c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da
qui). Io però, Fedro, considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di
un uomo fin troppo valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro
perché dopo questo gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e
poi della Chimera; quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e
Pegasi e un gran numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e
portentosa. E se uno, non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri
al verosimile, dato che fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto
tempo libero. Ma io non ho proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico,
è il seguente. Non sono ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di
conoscere me stesso; quindi mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono
estranee quando ignoro ancora questo. Perciò mando tanti saluti a queste
storie, standomene di quanto comunemente si crede riguardo a esse, come ho
detto poco fa, ed esamino non queste cose ma me stesso, per vedere se per caso
non sia una bestia più intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un
essere più mite e più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e
priva di vanità fumosa. Ma cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero
a cui volevi guidarci? FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo
per sostare! Questo platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è
bellissimo con la sua ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il
luogo assai profumato. Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di
acqua molto fresca, come si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle
e dalle statue sembra essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E
se vuoi ancora, com'è amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una
melodiosa eco estiva risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di
tutte è l'erba, poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per
distendersi e appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a
un forestiero in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una
persona davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto
da una guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre
confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami,
carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono
insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia
trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli
animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto,
così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi
porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì
l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se sorgesse
un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad entrambi, mentre
in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato via ciò che più
di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere coloro che 3
Platone Fedro amano: molte sono le cose che li affliggono, e credono che
tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli amati anche dalla
compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di sostanze li
superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in intelligenza;
in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che possiedono un
qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti queste persone, ti
riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai più assennato di
loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è trovato a essere nella
condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue doti ciò che chiedeva, non
sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi odierebbe coloro che rifiutano
la tua compagnia, pensando che da costoro sei disprezzato, ma trai beneficio da
chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più speranza che dalla cosa nasca tra
loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per di più molti degli amanti hanno
desiderio del corpo prima di aver conosciuto il carattere e aver avuto
esperienza delle altre qualità individue dell'amato, così che non è loro chiaro
se vorranno ancora essere amici quando la loro passione sarà finita; per quanto
riguarda invece coloro che non amano, dal momento che erano tra loro amici
anche prima di fare questo, non è verosimile che la loro amicizia risulti
sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso rimane come ricordo di ciò che
sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare migliore dando retta a me
piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le azioni dell'amato anche
al di là di quanto è bene, da un lato per timore di diventare odiosi,
dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per via del loro
desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non hanno fortuna
fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre spinge coloro
che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di piacere, tanto che
agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se dai retta a me, innanzitutto
starò assieme a te prendendomi cura non solo del piacere presente, ma anche
dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone di me stesso, senza
suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma irritandomi poco e non
all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe involontarie e cercando di
distogliere da quelle volontarie: queste sono prove di un'amicizia che durerà a
lungo. Se invece ti sei messo in mente che non possa esistere amicizia salda se
non si ama, conviene pensare che non potremmo tenere in gran conto né i figli
né i genitori, e non potremmo neanche acquistarci amici fidati, poiché i
vincoli con essi ci sono venuti non da una tale passione, ma da altri rapporti.
Inoltre, se si deve compiacere più di tutti chi ne ha bisogno, anche nelle
altre cì rcostanze conviene fare benefici non ai migliori, ma ai più indigenti,
poiché, liberati da grandissimi mali, serberanno la massima gratitudine ai loro
benefattori. E allora anche nelle feste private è il caso di invitare non gli amici
ma chi chiede l'elemosina e ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro
ameranno i loro benefattori, li seguiranno, verranno alla loro porta,
proveranno grandissima gioia, serberanno non poca gratitudine e augureranno
loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere non chi è molto bisognoso, ma chi
soprattutto è in grado di rendere il favore; non solo chi chiede, ma chi è
degno della cosa; non quanti godranno del fiore della tua giovinezza, ma coloro
che anche quando sarai diventato vecchio ti faranno partecipe dei loro beni;
non coloro che, ottenuto ciò che desideravano, se ne vanteranno con gli altri,
ma coloro che per pudore ne taceranno con tutti; non coloro che hanno cura di
te per poco tempo, ma coloro che ti saranno amici allo stesso modo per tutta la
vita; non coloro che, cessato il desiderio, cercheranno il pretesto per
un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della loro virtù quando la tua
bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto ti ho detto e considera
questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono convinti che questa
pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai rimproverato a coloro
che non amano di provvedere male ai propri affari per questo motivo. Forse ora
mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli che non amano. Ebbene, io
credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo atteggiamento con tutti
quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la cosa è degna di
un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe possibile tenerlo nascosto
allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da ciò non venga alcun danno,
ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è stato detto sia sufficiente:
se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia stata tralasciata, interroga.
FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non è stato pronunciato in maniera
straordinaria, in particolare per la scelta dei vocaboli? SOCRATE: In maniera
davvero divina, amico, al punto che ne sono rimasto colpito! E questa
impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro, guardando te, perché mi sembrava
che esultassi per il discorso intanto che lo leggevi. E dato che credo che in
queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo, e nel seguirti ho partecipato al
tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma dai! Ti pare il caso di
scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e che non abbia fatto sul
serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi veramente, per Zeus protettore
degli amici: credi che ci sia un altro tra i Greci in grado di parlare sullo
stesso argomento in modo più grande e copioso di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna
che il discorso sia lodato da me e da te anche sotto questo aspetto, ossia
perché il suo autore ha detto ciò che bisognava dire, e non solo perché ha
tornito ciascun termine in modo chiaro, forbito e puntuale? Se proprio bisogna,
devo convenirne per amor tuo, dal momento che mi è sfuggito a causa della mia
nullità. Infatti ho posto mente soltanto all'aspetto retorico del discorso;
quanto all'altro, credevo che neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno
che tu, Fedro, non abbia un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due
o tre volte gli stessi concetti, come se non avesse a disposizione grandi
risorse per dire molte cose sullo stesso argomento, o forse come se non gliene
importasse nulla; e mi sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava
com'era bravo, dicendo le stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a
parlarne in tutti e due i casi nella maniera migliore. 4 Platone
Fedro FEDRO: Ti sbagli, Socrate: precisamente in questo consiste il
discorso. Infatti non ha tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in
argomento, tanto che nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio
rispetto a quelle dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e
donne antichi e sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi
confuteranno, se per farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E
dove hai ascoltato cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so
dirlo; ma è chiaro che le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio
Anacreonte o da qualche scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare
ciò? In qualche modo, divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di
poter dire cose diverse dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito
da me niente di tutto ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta,
credo, che da qualche altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto
come un vaso. Ma per indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho
udite. FEDRO: Ma hai detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo
ordino devi riferirmi da chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente
il tuo proposito. Hai promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non
meno diffusa rispetto a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste
ultime; quanto a me, io ti prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi
una statua d'oro a grandezza naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE:
Sei carissimo e veramente d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha
sbagliato tutto e che è possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò,
credo, non potrebbe capitare neanche allo scrittore più scarso. Tanto per
incominciare, riguardo all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo
che bisogna compiacere coloro che non amano piuttosto che coloro che amano,
abbia ancora altro da dire quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza
degli uni e biasimare la dissennatezza degli altri, il che appunto è
necessario? Ma credo che si debbano concedere e perdonare simili argomenti a
chi ne parla; e di tali argomenti è da lodare non l'invenzione, ma la
disposizione, mentre degli argomenti non necessari e difficili da trovare è da
lodare, oltre alla disposizione, anche l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò
che dici: mi sembri aver parlato in modo opportuno. Pertanto farò anch'io così:
ti concederò di stabilire come principio che chi ama è più ammalato di chi non
ama, e quanto al resto, se avrai detto altre cose in maggior quantità e di maggior
pregio di queste, ergiti pure come statua lavorata a martello a Olimpia, presso
l'offerta votiva dei Cipselidi! SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché
io, scherzando con te, ho attaccato il tuo amato, e credi che io proverò
veramente a dire qualcosa di diverso e di più vario a confronto dell'abilità di
lui? FEDRO: A questo proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale
presa.(20) Ora tu devi parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da
non essere obbligati a fare quella cosa volgare da commedianti che si
rimbeccano a vicenda, e non volermi costringere a tirar fuori quella frase:
«Socrate, se io non conosco Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o
quell'altra: «Desiderava dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non
ce ne andremo di qui prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel
petto. Siamo noi due soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più
giovane. Da tutto ciò, dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non
parlare a forza piuttosto che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi
coprirò di ridicolo improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da
profano che sono a confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la
questione? Smettila di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa
che, se te la dico, ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela!
FEDRO: No, invece te la dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti
giuro... ma su chi, su quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti
giuro che se non pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano,
non ti mostrerò e non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno.
SOCRATE: Ahi, birbante! Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo
amante dei discorsi a fare ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti
giri? SOCRATE: Niente più indugi, dal momento che hai proferito questo
giuramento. Come potrei astenermi da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla!
SOCRATE: Sai dunque come farò? FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo
essermi coperto il capo, per svolgere il discorso il più velocemente possibile
e non trovarmi in imbarazzo per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO:
Purché tu parli; quanto al resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla
voce melodiosa, vuoi per l'aspetto del canto vuoi perché siete state così
chiamate dalla stirpe dei Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me
il racconto che questo bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo
compagno, che già prima gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di
più. C'era una volta un fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui
molti erano innamorati. Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato
meno degli altri aveva convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno,
saggiandolo, cercava di persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere
chi non ama piuttosto che chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto,
fanciulfo, uno solo è l'inizio per chi deve prendere decisioni nel modo giusto:
bisogna sapere su cosa verte la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai
più sfugge che non conoscono l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro
cosa. Perciò, nella convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio
della ricerca e proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si
accordano né con se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò
che rimproveriamo agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se
si debba entrare in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama,
stabiliamo di comune accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza
abbia; poi, tenendo presente questa definizione e facendovi riferimento,
esaminiamo se esso apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia
appunto un desiderio, è chiaro a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri
le cose belle, lo sappiamo. Da che cosa allora distingueremo chi ama e chi non
ama? Occorre poi tenere presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi
che ci governano e ci guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno,
innato, è il desiderio dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira
al sommo bene. Talvolta questi due princì pi dentro di noi si trovano
d'accordo, talvolta invece sono in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta
l'altro. Pertanto, quando l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e
prevale, la sua vittoria ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio
trascina fuori di ragione verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene
chiamato dissolutezza. La dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di
molte membra e molte parti; e quella che tra queste forme si distingue
conferisce a chi la possiede il soprannome derivato da essa, che non è né bello
né meritevole da acquistarsi. Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla
ragione del bene migliore e sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà
sì che chi lo possiede venga chiamato con lo stesso nome; quello che
tiranneggia nell'ubriachezza e conduce in tale stato chi lo possiede, è chiaro
quale epiteto gli toccherà; così, anche per gli altri nomi fratelli di questi
che designano desideri fratelli, a seconda di quello che via via signoreggia, è
ben evidente come conviene chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato
fatto tutto il discorso precedente ormai è pressoché manifesto, ma è
assolutamente più chiaro una volta detto che se non viene detto; ebbene, il
desiderio irrazionale che ha il sopravvento sull'opinione incline a ciò che è
retto, una volta che, tratto verso il piacere della bellezza e corroborato
vigorosamente dai desideri a esso congiunti della bellezza fisica, ha prevalso
nel suo trasporto prendendo nome dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma
caro Fedro, non sembra anche a te, come a me, che mi trovi in uno stato divino?
FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha preso una certa facilità di parola,
contrariamente al solito! SOCRATE: Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo
sembra veramente divino, percio non meravigliarti se nel prosieguo del discorso
sarò spesso invasato dalle Ninfe: le parole che proferisco adesso non sono
lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la
causa. Ma ascolta il resto, poiché forse quello che mi viene alla mente
potrebbe andarsene via. A questo provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare
col nostro discorso al fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui
bisogna prendere decisioni, è stato detto e definito; ora, tenendo presente
questo, dobbiamo dire il resto, ossia quale vantaggio o quale danno
presumibilmente verrà da uno che ama e da uno che non ama a chi concede i suoi
favori. Per chi è soggetto al desiderio ed è schiavo del piacere è inevitabile
rendere l'amato il più possibile gradito a sé; ma per chi è malato tutto ciò
che non oppone resistenza è piacevole, mentre tutto ciò che è più forte o pari
a lui è odioso. Così un amante non sopporterà di buon grado un amato superiore
o pari a lui, ma vuole sempre renderlo inferiore e più debole: e inferiore è
l'ignorante rispetto al saggio, il vile rispetto al coraggioso, chi non sa
parlare rispetto a chi ha abilità oratorie, chi è tardo di mente rispetto a chi
è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se nell'animo dell'amato nascono o ci
sono per natura tanti difetti, o anche di più, l'amante ne goda e ne procuri
altri, piuttosto che essere privato del piacere del momento. Ed è altresì
inevitabile che sia geloso e causa di grande danno, poiché distoglie l'amato da
molte altre compagnie vantaggiose grazie alle quali diverrebbe veramente uomo, danno
che diventa grandissimo quando lo allontana da quella compagnia grazie alla
quale diventerebbe una persona molto assennata. Essa è la divina filosofia, da
cui inevitabilmente l'amante tiene lontano l'amato per paura di essere
disprezzato, così come ricorrerà alle altre macchinazioni per fare in modo che
sia ignorante di tutto e guardi solo al suo amante; e in questa condizione
l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per lui, ma del massimo danno per
se stesso. Quindi, per quanto riguarda l'intelletto, l'uomo che prova amore non
è in nessun modo utile come guida e come compagno. Poi si deve considerare la
costituzione del corpo, e quale cura ne avrà colui che ne diventerà padrone,
dato che si trova costretto a inseguire il piacere anziché il bene. Lo si vedrà
seguire una persona molle e non vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole
ma nella fitta ombra, inesperta di fatiche virili e di secchi sudori, esperta
invece di una vita delicata ed effeminata, ornata di colori e abbellimenti
altrui per mancanza dei propri, intenta a tutte quelle attività conseguenti a
ciò, che sono evidenti e non meritano ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un
punto essenziale, e poi passiamo ad altro: per un corpo del genere, in guerra
come in tutte le altre occupazioni importanti, i nemici prendono coraggio, gli
amici e gli stessi amanti provano timore. Perciò questo punto è da lasciar
perdere, dato che è evidente, e bisogna passare invece a quello successivo,
cioè quale vantaggio o quale danno arrecherà ai nostri beni la compagnia e la
protezione di chi ama. è chiaro a chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli
si augurerebbe più d'ogni altra cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari,
più preziosi e più divini; accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre,
parenti e amici, ritenendoli causa d'impedimento e biasimo della dolcissima
compagnia che ha con lui. E se possiede sostanze in oro o altri beni, egli
penserà che non sia facile da conquistare né, una volta conquistato,
trattabile; ne consegue inevitabilmente che l'amante provi gelosia se l'oggetto
del suo amore possiede delle sostanze, e gioisca se le perde. Inoltre l'amante
si augurerà che l'amato sia senza moglie, senza figli e senza casa il più a
lungo possibile, poiché brama di cogliere il più a lungo possibile il frutto
della 6 Platone Fedro sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma
un dio ha mescolato alla maggior parte di essi un piacere momentaneo; per
esempio all'adulatore, bestia terribile e fonte di grande danno, la natura ha
comunque mescolato un piacere non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare
come rovinosa un'etera o molte altre creature e attività del genere, che almeno
per un giorno possono essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato
la compagnia quotidiana dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di
tutte più spiacevole. Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si
diletta del coetaneo (credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli
stessi piaceri e procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche
il loro stare insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è
pesante per chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto
che, oltre alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando
uno più vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di
giorno né di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo
conduce a destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere,
ascoltare, toccare l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi
strettamente e con piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri
darà all'amato per evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di
tempo, arrivi al colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e
non più in fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole,
per non parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con
esse; quando dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi
e sentirà elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili
se l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e
indulge a una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è
innamorato e dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà
inaffidabile per il tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a
malapena, con molte promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in
virtù della speranza di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso
da sopportare. E allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé
ha cambiato padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto
di amore e follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto.
Questi, ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare
ancora con la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi
allora; quello per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un
altro, né sa come mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la
dissennata signoria precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la
temperanza, per non ridiventare simile a quello che era prima, se non
addirittura lo stesso di prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un
fuggiasco, e poiché l'amante di prima ora è di necessita reo di frode,
invertite le parti, muta il suo stato e si dà alla fuga.(25) L'altro è
costretto a inseguire tra lo sdegno e le imprecazioni, poiché non ha capito
tutto fin dal principio, cioè che non avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e
di necessità è privo di senno, ma ben più chi non ama ed è assennato;
altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una persona infida, difficile di
carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le proprie ricchezze, dannosa per
la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più assoluto per l'educazione
dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai ci sarà cosa di maggior
valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto, ragazzo, bisogna intendere
bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante non nasce assieme alla
benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi; come i lupi amano gli
agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo è quanto, Fedro. Non
mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il discorso. FEDRO: Eppure
io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali parole per chi non
ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e indicando quanti beni ne
derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non ti sei accorto, beato,
che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi, proprio mentre muovo
questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa credi che farò? Non lo
sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle quali tu mi hai gettato
deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico che quanti sono i mali
che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad essi opposti, che si
trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo discorso? Di entrambi si è
detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che gli spetta; e io,
attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere costretto da te
a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima che sia passata
la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che viene chiamata
immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto; non appena farà
più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei divino, Fedro, e
semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi prodotti durante
la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché li pronunci di
persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli (faccio
eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran lunga). E
ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso. FEDRO: Allora
non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso? SOCRATE: Quando
stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato quel segno divino
che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da ciò che sto per
fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che non mi permette di
andare via prima d'essermi purificato, come se avessi commesso qualche colpa
verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la verità non molto bravo, ma,
come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me stesso; perciò comprendo
chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima, caro amico, ha un che di
divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre pronunciavo il discorso,
e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che «commesso un fallo» nei
confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli umani». Ma ora mi sono reso
conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? Platone Fedro SOCRATE:
Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai portato, come quello che
poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE: è sciocco e sotto un
certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più terribile di questo?
FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non credi che Eros sia
figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così almeno si dice.
SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è stato pronunciato
tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come appunto è, un dio o un
che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i due discorsi pronunciati
ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in questo dunque hanno
commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro semplicità è proprio
graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si danno delle arie come
se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli troveranno fama presso
di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di purificarmi; per coloro
che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è un antico rito purificatorio,
che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui infatti, privato della vista
per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa come Omero, ma da amante alle
Muse quale era la capì e subito compose questi versi: Questo discorso non è
veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte, non arrivasti alla troiana
Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme chiamato Palinodia gli tornò
immediatamente la vista. Io pertanto sarò più saggio di loro almeno sotto
questo aspetto: prima di incorrere in un male per aver diffamato Eros tenterò
di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo scoperto e non velato come
allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto dirmi cose più dolci di
queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu intendi con quale impudenza
siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e quello ricavato dal libro. Se
un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse innamorato di uno come lui o
lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre diciamo che gli amanti
sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono gelosi e dannosi nei
confronti dei loro amati, non credi che avrebbe l'impressione di ascoltare
persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno mai visto un amore libero,
e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui rimproveri che muoviamo ad Eros?
FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE: Io dunque, per vergogna nei suoi
confronti e per timore dello stesso Eros, desidero sciacquarmi dalla salsedine
che impregna il mio udito con un discorso d'acqua dolce; e consiglio anche a
Lisia di scrivere il più in fretta possibile che, a parità di condizioni,
conviene compiacere più un amante che chi non ama. FEDRO: Ma sappi bene che
sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio dell'amante, sarà inevitabile che
Lisia venga costretto da me a scrivere un altro discorso sullo stesso
argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai quello che sei. FEDRO: Fatti
coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il ragazzo a cui parlavo? Faccia in
modo di ascoltare anche questo discorso e non conceda con troppa fretta i suoi
favori a chi non ama per non aver udito le mie parole. FEDRO: Questo ragazzo è
accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu voglia. SOCRATE: Allora, mio bel
ragazzo, tieni presente che il discorso di prima era di Fedro figlio di
Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che mi accingo a dire è di
Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque parlare così : «Non è
veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza di un amante si deve
piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è in preda a
"mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda a mania
fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più grandi ci
vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la profetessa
di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da mania,
procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati, mentre
quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della Sibilla
(30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata da un
dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte persone
verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita certamente
di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi coloro che
coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o riprovevole;
altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più bella, con la
quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto
più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera
dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la
testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece dimostrare
il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra più grande
felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i valent'uomini, ma lo
sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna intendere la verità riguardo
alla natura dell'anima divina e umana, considerando le sue condizioni e le sue
opere. L'inizio della dimostrazione è il seguente. Ogni anima è immortale.
Infatti ciò che sempre si muove è immortale, mentre ciò che muove altro e da
altro è mosso termina la sua vita quando termina il suo movimento. Soltanto ciò
che muove se stesso, dal momento che non lascia se stesso, non cessa mai di
muoversi, ma è fonte e principio di movimento anche per tutte le altre cose
dotate di movimento. Il principio però non è generato. Infatti è necessario che
tutto ciò che nasce si generi da un principio, ma quest'ultimo non abbia
origine da qualcosa, poiché se un principio nascesse da qualcosa non sarebbe
più un principio. E poiché non è generato, è necessario che sia anche
incorrotto; infatti, se un principio perisce, né esso nascerà da qualcosa né
altra cosa da esso, dato che ogni cosa deve nascere da un principio. Così
principio di movimento è ciò che muove se stesso. Esso non può né perire né
nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la terra, riuniti in corpo unico,
resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da cui ricevere di nuovo nascita
e movimento. Una volta stabilito che ciò che si muove da sé è immortale, non si
proverà vergogna a dire che proprio questa è l'essenza e la definizione
dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in movimento proviene
dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà proviene dall'interno,
cioè da se stesso, è animato, poiché la natura dell'anima è questa; ma se è
così, ovvero se ciò che muove se stesso non può essere altro che l'anima, di
necessità l'anima sarà ingenerata e immortale. Sulla sua immortalità si è detto
a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire quanto segue. Spiegare quale sia,
sarebbe proprio di un'esposizione divina sotto ogni aspetto e lunga, dire
invece a che cosa assomigli, è proprio di un'esposizione umana e più breve;
parliamone dunque in questa maniera. Si immagini l'anima simile a una forza
costituita per sua natura da una biga alata e da un auriga.(32) I cavalli e gli
aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati da buoni, quelli degli altri sono
misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi guida un carro a due, poi dei due
cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli d'ugual specie, l'altro è
contrario e nato da stirpe contraria; perciò la guida, per quanto ci riguarda,
è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna cercare di definire in che
senso il vivente è stato chiamato mortale e immortale. Ogni anima si prende
cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto il cielo ora in una forma, ora
nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in alto e governa tutto il mondo,
se invece ha perduto le ali viene trascinata giù finché non s'aggrappa a
qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e assume un corpo terreno, che
per la forza derivata da essa sembra muoversi da sé. Questo insieme, composto
di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il soprannome di mortale.
Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato con un solo discorso
razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera adeguata ci figuriamo un
dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima e di un corpo
eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica così come piace
al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle ali, per la
quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa. La potenza
dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante, sollevandolo
dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del divino più di tutte
le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente, buono, e tutto ciò che
è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e accresciuta in sommo
grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è brutto, cattivo e
contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo, procede per primo
alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si prende cura; lo
segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici schiere. La sola Estia
resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi, quelli che in numero di
dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la propria schiera secondo
l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e i percorsi entro il
cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente felici, adempiendo
ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi sempre lo vuole e lo
può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando poi vanno a banchetto
per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità della volta celeste,
dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da guidare, procedono
facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo che partecipa del
male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso l'auriga che non
l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la prova suprema.
Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte alla sommità,
procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui rotazione le
trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta fuori del cielo.
Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in modo degno il
luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti avere il
coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità): l'essere che
realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può essere contemplato
solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale verte il genere
della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la mente di un dio è
nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella di ogni anima cui
preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo un certo tempo
l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché la rotazione
ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel giro che essa compie
vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la scienza, 9 Platone
Fedro non quella cui è connesso il divenire, e neppure quella che in
certo modo è altra perché si fonda su altre cose da quelle che ora noi
chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che è realmente essere;
e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri che realmente sono
e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del cielo e fa ritorno
alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i cavalli alla
mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere del nettare.
Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una, seguendo nel
migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il capo dell'auriga
verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua rotazione, ma
essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora solleva il
capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a forza
riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che aspirano
tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono sommerse e
trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e cercando di
arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una lotta condita
del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli aurighi molte anime
restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne; tutte, data la
grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la contemplazione dell'essere
e una volta tornate indietro si nutrono del cibo dell'opinione. La ragione per
cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è sita la pianura della verità è
questa: il cibo adatto alla parte migliore dell'anima viene dal prato che si
trova là, e di esso si nutre la natura dell'ala con cui l'anima si solleva in
volo. Questa è la legge di Adrastea.(35) L'anima che, divenuta seguace del dio,
abbia visto qualcuna delle verità, non subisce danno fino al giro successivo, e
se riesce a fare ciò ogni volta, resta intatta per sempre; qualora invece, non
riuscendo a tenere dietro al dio, non abbia visto, e per qualche accidente,
riempitasi di oblio e di ignavia, sia appesantita e a causa del suo peso perda
le ali e cada sulla terra, allora è legge che essa non si trapianti in alcuna
natura animale nella prima generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior
numero di esseri si trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare
filosofo o amante del bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima
che viene per seconda si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un
uomo atto alla guerra e al comando, quella che viene per terza in un uomo atto
ad amministrare lo Stato o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che
sarà amante delle fatiche o degli esercizi ginnici o esperto nella cura del
corpo, la quinta è destinata ad avere la vita di un indovino o di un iniziatore
ai misteri. Alla sesta sarà confacente la vita di un poeta o di qualcun altro
di coloro che si occupano dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano
o di un contadino, all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del
popolo, alla nona quella di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la
vita secondo giustizia partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto
contro giustizia, di una peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo
donde è venuta per diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo
periodo di tempo, tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza
inganno o ha amato i fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro
di mille anni, se hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita,
rimettono in questo modo le ali e al compiere dei tremila anni tornano
indietro. Quanto alle altre, quando giungono al termine della prima vita tocca
loro un giudizio, e dopo essere state giudicate le une vanno nei luoghi di
espiazione sotto terra a scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla
Giustizia in un luogo del cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente
alla vita che vissero in forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre,
giunte al sorteggio e alla scelta della seconda vita, scelgono quella che
ciascuna vuole: qui un'anima umana può anche finire in una vita animale, e chi
una volta era stato uomo può ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non
ha mai visto la verità non giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve
comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una
molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la
reminiscenza delle cose che un tempo la nostra anima vide nel suo procedere
assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il
capo verso ciò che realmente è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo
mette le ali, poiché grazie al ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è
sempre rivolta alle entità in virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo
che si avvale rettamente di tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a
misteri perfetti, diventa lui solo realmente perfetto; dato però che si
distacca dalle occupazioni degli uomini e si fa accosto al divino, è ripreso
dai più come se delirasse, ma sfugge ai più che è invasato da un dio. Questo
dunque è il punto d'arrivo di tutto il discorso sulla quarta forma di mania,
quella per cui uno, al vedere la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera
bellezza mette nuove ali e desidera levarsi in volo, ma non essendone capace
guarda in alto come un uccello, senza curarsi di ciò che sta in basso, e così
subisce l'accusa di trovarsi in istato di mania: di tutte le ispirazioni divine
questa, per chi la possiede e ha comunanza con essa, è la migliore e deriva
dalle cose migliori, e chi ama le persone belle e partecipa di tale mania è
chiamato amante. Infatti, come si è detto, ogni anima d'uomo per natura ha
contemplato gli esseri, altrimenti non si sarebbe incarnata in un tale vivente.
Ma ricordarsi di quegli esseri procedendo dalle cose di quaggiù non è alla
portata di ogni anima, né di quelle che allora videro gli esseri di lassù per breve
tempo, né di quelle che, cadute qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto
che, volte da cattive compagnie all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che
videro allora. Ne restano poche nelle quali il ricordo si conserva in misura
sufficiente: queste, qualora vedano una copia degli esseri di lassù, restano
sbigottite e non sono più in sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché
non ne hanno percezione sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e
di tutte le altre cose che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno
nelle copie di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini,
contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello
riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore,
quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio,
godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a
quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in
perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano
attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica
visioni perfette, semplici, immutabili e 10 Platone Fedro beate in
una luce pura, poiché eravamo purì e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo
corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica.
Queste parole siano un omaggio al ricordo, in virtù del quale, per il desiderio
delle cose d'allora, ora si è parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza,
come si è detto, essa brillava tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati
qui sulla terra, l'abbiamo colta con la più vivida delle nostre sensazioni, in
quanto risplende nel modo più vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta
delle sensazioni che riceviamo attraverso il corpo, ma essa non ci permette di
vedere la saggezza (poiché susciterebbe terribili amori, se giungendo alla
nostra vista le offrisse un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà
degne d'amore. Ora invece soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò
che più di tutto è manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o
è corrotto, non si innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza
in sé, quando contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza
quando guarda ad essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a
montare e a generare figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza
non ha timore né vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è
iniziato di recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un
volto d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma
ideale di corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle
paure di allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il flusso
della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera. Una volta
che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde l'ala
germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le impedivano
di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo dell'ala si
gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma dell'anima; un tempo
infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta quanta e trabocca, e
la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel momento in cui essi
spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la prova anche l'anima di
chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano ribolle e prova un senso
di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima, mirando la bellezza del
fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e fluiscono (e che appunto
per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne viene irrigata e scaldata,
si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece ne è separata e inaridisce,
le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si disseccano e si serrano,
impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso dentro assieme al flusso
d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei condotti, ciascun germoglio nel
proprio, tanto che l'anima, pungolata tutt'intorno, è presa da assillo e
dolore, e tornandole il ricordo della bellezza si allieta. In seguito alla
mescolanza di entrambe le cose, l'anima è turbata per la stranezza di ciò che
prova e trovandosi senza via d'uscita comincia a smaniare; ed essendo in stato
di mania non può né dormire di notte né di giorno restare ferma dov'è, ma corre
in preda al desiderio dove crede di poter vedere colui che possiede la
bellezza: e una volta che l'ha visto e si è imbevuta del flusso d'amore, libera
i condotti che allora si erano ostruiti, riprende fiato e cessa di avere
pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento presente, il frutto di questo
dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di sua volontà e non tiene in
conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di madri, fratelli e di tutti
i compagni, e non gli importa nulla se le sue sostanze vanno in rovina perché
non se ne cura, anzi disprezza tutte le consuetudini e le convenienze di cui si
ornava prima d'allora ed è disposta a servire l'amato e a giacere con lui
ovunque gli sia concesso di stare il più vicino possibile al suo desiderio;
infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in colui che possiede la bellezza
l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A questa passione cui si rivolge
il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini danno il nome di eros, gli dèi
invece la chiamano in un modo che a sentirlo, data la tua giovane età, ti
metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi citano due versi, credo presi
da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali è piuttosto insolente e non
del tutto corretto come metro; essi suonano così : I mortali lo chiamano Eros
alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere l'ali.(37) A questi versi si può
credere oppure non credere; non di meno la causa e la sensazione di chi ama è
proprio questa. Ora, se chi è stato colto da Eros era uno dei seguaci di Zeus,
riesce a sopportare con più fermezza il peso del dio che trae il nome dalle
ali; quelli che erano al servizio di Ares e giravano il cielo assieme a lui,
quando sono presi da Eros e pensano di subire qualche torto dall'amato, sono
sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il proprio amore. Così ciascuno
conduce la sua vita in base al dio del cui coro era seguace, onorandolo e
imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta incorrotto e vive la prima
esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e ha relazione con gli amati
e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra i belli il suo Eros secondo
il proprio carattere, e come fosse un dio gli edifica una specie di statua e
l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I seguaci di Zeus cercano il loro
amato in chi ha l'anima conforme al loro dio:(38) pertanto guardano se per
natura sia filosofo e atto al comando, e quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati,
fanno di tutto affinché sia effettivamente tale. E se prima non si erano
impegnati in un'occupazione del genere, da quel momento vi mettono mano e
imparano da dove è loro possibile, continuando poi anche da soli, e seguendo le
tracce riescono a trovare per loro conto la natura del proprio dio, perché sono
stati intensamente costretti a volgere lo sguardo verso di lui; e quando
entrano in contatto con lui sono presi da invasamento e tramite il ricordo ne
assumono le abitudini e le occupazioni, per quanto è possibile a un uomo
partecipare della natura di un dio. E poiché ne attribuiscono la causa
all'amato, lo tengono ancora più caro, e sebbene attingano da Zeus come le
Baccanti,(39) riversando ciò che attingono nell'anima dell'amato lo rendono il
più possibile simile al loro dio. Coloro che invece erano al seguito di Era
cercano un'anima regale, e trovatala fanno per lei esattamente le stesse cose.
Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno degli altri dèi, procedendo secondo
il loro dio, bramano che il proprio fanciullo abbia un'uguale natura, e una
volta che se lo sono procurato imitano essi stessi il dio e con la persuasione
e 11 Platone Fedro l'ammaestramento portano l'amato ad assumere
l'attività e la forma di quello, ciascuno per quanto può; e lo fanno senza
comportarsi nei confronti dell'amato con gelosia o con rozza malevolenza, ma
cercando di indurlo alla somiglianza più completa possibile con se stessi e con
il dio che onorano. Dunque l'ardore e l'iniziazione di coloro che veramente
amano, se ottengono ciò che desiderano nel modo che dico, diventano così belle
e felici per chi è amato, qualora venga conquistato dall'amico che si trova in
stato di mania per amore; e chi è conquistato cede all'amore in questo modo.
Come all'inizio dì questa narrazione in forma di mito abbiamo diviso ciascuna
anima in tre parti, due con forma di cavallo, la terza con forma di auriga,
questa distinzione resti per noi un punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli
diciamo che è buono, l'altro no: quale sia però la virtù di quello buono e il
vizio di quello cattivo, non l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque,
quello tra i due che si trova nella disposizione migliore è di forma eretta e
ben strutturata, di collo alto e narici adunche, bianco a vedersi, con gli
occhi neri, amante dell'onore unito a temperanza e pudore e compagno della fama
veritiera, non ha bisogno di frusta e si lascia guidare solo con lo stimolo e
la parola; l'altro invece è storto, grosso, mal conformato, di collo massiccio
e corto, col naso schiacciato, il pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di
sangue, compagno di tracotanza e vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede
a fatica alla frusta e agli speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la
visione amorosa, prende calore in tutta l'anima per la sensazione che prova ed
è ricolmo di solletico e dei pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce
docilmente all'auriga, tenuto a freno, allora come sempre, dal pudore, si
trattiene dal balzare addosso all'amato; l'altro invece non cura più né i
pungoli dell'auriga né la frusta, ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con
violenza, e procurando ogni sorta di molestie al compagno di giogo e all'auriga
li costringe a dirigersi verso l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri
d'amore. All'inizio essi si oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti
ad azioni terribili e inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al
male, si lasciano trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare
quanto viene loro ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione
folgorante dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla
natura della bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo
assieme alla temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che
le porta cade supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le
redini così forte che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno,
spontaneamente perché non recalcitra, quello protervo decisamente contro
voglia. Ritiratisi più lontano, l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta
l'anima di sudore, l'altro, cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla
caduta, a fatica riprende fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare,
coprendo di male parole l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e
debolezza hanno abbandonato il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di
nuovo ad avanzare contro la loro volontà a stento cede alle loro preghiere di
rimandare a un'altra volta. Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi
fingono di non ricordarsene, lo rammenta a loro con la forza, nitrendo e
trascinandoli con sé, e li obbliga ad accostarsi di nuovo all'amato per fare i
medesimi discorsi; e quando sono vicini tende la testa in avanti e rizza la
coda, mordendo il freno, e li trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora
più intensamente la stessa impressione di prima, come respinto dalla fune al
cancello di partenza, tira indietro ancora più forte il morso dai denti del
cavallo protervo, insanguina la lingua maldicente e le mascelle e piegandogli a
terra le gambe e le cosce lo dà in preda ai dolori. Quando poi il cavallo
malvagio, subendo la medesima cosa più volte, desiste dalla sua tracotanza,
umiliato segue ormai il proposito dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo,
muore dalla paura; di conseguenza accade che a questo punto l'anima dell'amante
segua l'amato con pudicizia e timore. Poiché dunque l'amato, come un essere
pari agli dèi, è oggetto di ogni venerazione da parte dell'amante che non
simula, ma prova veramente questo sentimento, ed è egli stesso per natura amico
di chi lo venera, se anche in precedenza fosse stato ingannato dalle persone
che frequentava o da altre, le quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a
chi ama, e per questo motivo avesse respinto l'amante, ora, col passare del
tempo, l'età e la necessità lo inducono ad ammetterlo alla sua compagnia;
infatti non accade mai che un malvagio sia amico di un malvagio, né che un
buono non sia amico di un buono. E dopo averlo ammesso presso di sé e avere
accettato di parlare con lui e stare in sua compagnia, la benevolenza
dell'amante, manifestandosi da vicino, colpisce l'amato, il quale si avvede che
tutti gli altri amici e parenti non offrono neppure una parte di amicizia a
confronto dell'amico ispirato da un dio. Quando poi questi continua a fare ciò
nel tempo e si accompagna all'amato incontrandolo nei ginnasi e negli altri
luoghi di ritrovo, allora la fonte di quei flusso che Zeus, innamorato di
Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore, scorrendo in abbondanza verso l'amante
dapprima penetra in lui, poi, quando ne è ricolmo, scorre fuori; e come un
soffio di vento o un'eco, rimbalzando da corpi lisci e solidi, ritornano là
dov'erano partiti, così il flusso della bellezza ritorna al bel fanciullo
attraverso gli occhi, e di qui per sua natura arriva all'anima. Quando vi è
giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i condotti delle ali e comincia a
farle crescere, e così riempie d'amore anche l'anima dell'amato. Pertanto egli
ama, ma non sa che cosa; e neppure è a conoscenza di cosa prova né è in grado
di dirlo, ma come chi ha contratto una malattia agli occhi da un altro non è in
grado di spiegarne la causa, così egli non si accorge di vedere se stesso
nell'amante come in uno specchio. E in presenza di questi, il suo dolore cessa
esattamente come a lui, se invece è assente allo stesso modo di lui desidera ed
è desiderato, perché reca in sé una sembianza d'amore che dell'amore è
sostituto: però non lo chiama e non lo crede amore, bensì amicizia. Più o meno
come l'amante, ma in misura più debole, desidera vederlo, toccarlo, baciarlo,
giacere con lui; e com'è naturale, in seguito non tarda a fare cio. Quando
dunque giacciono insieme, il cavallo sfrenato dell'amante ha di che dire
all'auriga, e pretende di trarre un piccolo guadagno in cambio di tante
fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da dire, ma, gonfio di desiderio
e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante, manifestandogli affetto per la sua
grande benevolenza. Così, nel momento in cui si congiungono, non è più tale da
rifiutare di compiacere da parte sua l'amante, se viene pregato di soddisfare;
ma il compagno di giogo assieme all'auriga 12 Platone Fedro si
oppone a ciò, obbedendo al pudore e alla ragione. Se dunque prevalgono le parti
migliori dell'animo, quelle che guidano a un'esistenza ordinata e alla
filosofia, essi trascorrono la vita di quaggiù in modo beato e concorde, poiché
sono padroni di sé e ben regolati, avendo sottomesso ciò in cui nasce il male
dell'anima e liberato ciò in cui nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e
leggeri, hanno vinto una delle tre gare veramente olimpiche, di cui né la
temperanza umana né la mania divina possono fornire all'uomo un bene più
grande.(41) Se invece seguono un genere di vita piuttosto grossolano e privo di
filosofia, ma ambizioso, forse, in stato di ubriachezza o in qualche altro
momento di negligenza, i loro due compagni di giogo sfrenati, cogliendo le
anime alla sprovvista e portandole nella stessa direzione, possono compiere la scelta
che tanti considerano la più beata e mandarla ad effetto; e una volta che
l'hanno mandata ad effetto, se ne avvalgono anche in futuro, ma raramente,
poiché fanno cose che non sono approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono
in amicizia reciproca, ma meno di quelli, sia durante l'amore sia quando ne
sono usciti, credendo di essersi dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più
grandi pegni, che non è lecito sciogliere perché ciò condurrebbe
all'inimicizia. Al termine della vita escono dal corpo senz'ali, ma col
desiderio di metterle, cosicché riportano un premio non piccolo della loro
mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali hanno già iniziato il
cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella tenebra e camminino
sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e felice compiendo il
viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati rimettano le ali assieme
per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così divini, o fanciullo, ti
darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la compagnia di chi non ama,
mescolata con temperanza mortale, capace di amministrare cose mortali e misere,
dopo aver generato nell'anima amata una bassezza lodata dal volgo come virtù,
la farà girare priva di senno attorno alla terra e sotto terra per novemila
anni. Questa, caro Eros, per le nostre facoltà, è la più bella e virtuosa
palinodia che abbiamo potuto offrirti in dono e in espiazione, costretta a
causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al resto, anche con alcune parole
poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose di prima e serba gratitudine per
queste, e, benevolo e propizio, non togliermi e non storpiarmì per la collera
l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi di essere in onore tra i bei
fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso precedente io e Fedro abbiamo
detto qualcosa che a te suona stonata, attribuiscine la colpa a Lisia, che del
discorso è padre, e fallo desistere da simili prolusioni, volgendolo alla
filosofia come si è volto suo fratello Polemarco,(42) affinché anche questo suo
amante non sia nel dubbio come ora, ma dedichi senz'altro la sua vita ad Eros
in compagnia di discorsi filosofici. FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera,
Socrate: se questo è meglio per noi, che avvenga. Da un pezzo ho ammirato il
tuo discorso per quanto l'hai reso più bello del precedente; quindi temo che
Lisia mi appaia misero, quand'anche voglia opporre ad esso un altro discorso.
Recentemente infatti, mirabile amico, un politico lo biasimava criticandolo
proprio per questo, e in tutta la sua critica lo chiamava logografo;(43) perciò
forse si tratterrà per ambizione dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo,
la tua opinione è ridicola, e quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi
che si spaventi così al minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava
dicesse quello che ha detto proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva,
Socrate; del resto sei anche tu conscio che coloro che nelle città hanno il
massimo potere e la massima reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare
propri scritti, temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati
sofisti. SOCRATE: Ti sei scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome
dalla lunga ansa del Nilo (44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di
governo piu assennati amano tantissimo comporre discorsi e lasciare propri
scritti, almeno quelli che, quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto
chi li loda da aggiungere in testa per primi i nomi di quelli che li devono
lodare in ogni singola occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco.
SOCRATE: Non capisci che all'inizio del discorso di un uomo politico per primo
viene scritto il nome di chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha
deciso», dice più o meno, ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora
«il tale e il tal altro ha detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande
reverenza e si fa l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la
sua abilità, talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che
una cosa del genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare
proprio. SOCRATE: Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto
lieto; se invece viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere
degno di scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto!
SOCRATE: è chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano.
FEDRO: Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di
raggiungere la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un
logografo immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli
dèi mentre ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa,
contemplando i suoi scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno
di costoro, chiunque sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi
proprio perché scrive discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO: Non è
verosimile, da ciò che dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il
proprio desiderio. SOCRATE: Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé
lo scrivere discorsi. FEDRO: Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe
questo, il pronunciarli e scriverli in modo non bello, ma riprovevole e
disonesto. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene
e quale il modo contrario? Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo
proposito Lisia e chiunque altro abbia mai composto o comporrà uno scritto sia
pubblico sia privato, in versi come un poeta o non in versi come un prosatore?
FEDRO: Chiedi se ne abbiamo bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire,
vivrebbe, se non per i piaceri di questo tipo? Non certo per quelli per cui
bisogna prima soffrire, altrimenti non si prova godimento, come sono quasi
tutti i piaceri del corpo, che per questo motivo sono stati giustamente
chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che
in questa calura soffocante le cicale, cantando sopra la nostra testa e
discorrendo tra loro, guardino anche noi. Se dunque vedessero che anche noi
due, come fanno i più a mezzogiorno, non discorriamo, ma sonnecchiamo e ci
lasciamo incantare da loro per pigrizia della mente, giustamente ci
deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da loro per dormire in
questo luogo di sosta come delle pecore che passano il pomeriggio presso la
fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto a loro come alle
Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci daranno quel
dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini. FEDRO: E qual è
questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito. SOCRATE: Non si
addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai sentito parlare.(46)
Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli vissuti prima che
nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il canto, alcuni di
loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono più di
cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe origine
la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non aver
bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci
siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non
lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo
bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il
vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro
Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la
necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto
alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico, abbiamo
forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto? Essa
forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non costringo
nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio consiglio
vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa dunque è
la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce le cose
come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte». FEDRO: E non
dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi che si
presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra di
udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno?
Non fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio
questo. SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE:
Allora, chi opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle
stesse persone ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no?
SOCRATE: E in un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora
buone, ora, al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che
il Palamede di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli
ascoltatori le stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in
movimento? FEDRO: Ma certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova
solo nei tribunali e nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che
si dice ci sarebbe questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno
sarà capace di rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili
e per quanto è possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa
cosa e lo nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se
cerchiamo in questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica
di più nelle cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di
pOco? FEDRO: In quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che
non ti accorga di essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che
se ti sposti a grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione
di ingannare un altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con
precisione la somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è
necessario. SOCRATE: Ma se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado
di discernere la somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con
le altre cose? FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno
opinioni contrarie alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa
impressione si insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così
. SOCRATE: è possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco
la realtà di un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da
ciò che è al suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione
di cosa sia ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque,
amico, colui che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci
offrirà un'arte dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare
di sì . 15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso
di Lisia che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che
definiamo prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa,
poiché ora noi parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati.
SOCRATE: E per un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due
discorsi che recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le
parole, possa condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne
attribuisco la causa agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle
Muse, che cantano sopra la nostra testa, possono averci ispirato questo dono,
poiché io non sono certo partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia
come dici tu. Solo spiega ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del
discorso di Lisia. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito
che ritengo sia per noi utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non
poter ottenere ciò che chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli
innamorati si pentono...» SOCRATE: Fermati. Bisogna dire in che cosa costui
sbaglia e opera senz'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse
evidente per chiunque almeno questo, che siamo d'accordo su alcune di queste
cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di capire il tuo pensiero, ma
esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando uno dice la parola
"ferro" o "argento", non intendiamo forse tutti la stessa
cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei termini "giusto"
e "bene"? Non siamo portati chi in una direzione, chi in un'altra, e
siamo in conflitto gli uni con gli altri e persino con noi stessi? FEDRO:
Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su alcune cose, su altre no. FEDRO:
è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo più facilmente ingannabili e la
retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in cui vaghiamo nell'incertezza, è
evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a praticare la retorica deve innanzitutto
aver distinto con metodo queste cose e aver colto un carattere peculiare di
entrambe le forme, quella in cui è inevitabile che la gente vaghi
nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse colto questo,
Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre credo che,
nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma debba
percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui intende
parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe
dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi
che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non
ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e
in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso
seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso.
Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio
lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia
utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere
ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si
pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...».
SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette
mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e
prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso
di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto
così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che
secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è
questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine
bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi
verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi
passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è
alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu
ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere,
così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali
gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e
passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per
chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa
alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve
compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE:
Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto
questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì
. SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane,
l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO:
Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a
quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella
iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros,
e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come,
rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un
che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso
non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con
parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo
signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un
discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in
esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode.
FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato
fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due
procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte
la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose
disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo
d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di
volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una
volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è
appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e
coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE:
Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle
loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla maniera
di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano la
dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo unico
hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e sinistra, così
i due discorsi hanno considerato anche la componente della follia come un'idea
per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando la parte di sinistra,
e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver trovato in queste
divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a buon diritto
biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra della
mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è divino, e
dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri più grandi
beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di questi
procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in grado
di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua natura
capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue orme
come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò, lo sa
un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li chiamo
dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui si è
discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte dei
discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a
parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni
come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi
procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze dell'arte,
non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una narrazione seguita
da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le verosimiglianze. Poi
vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che dica l'eccellente
uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il valente Teodoro?
SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno fatte una
confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il bellissimo
Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi indiretti; alcuni
sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in poesia per
esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo riposare
Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere in conto più
del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che è piccolo e
piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario nuovo ciò che
è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità infinite su
ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me queste cose,
scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi di cui l'arte
abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto sagge, o
Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite eleo
voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi
alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui Licimnio
gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le opere di
Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE: Una certa
Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto ai
discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra
tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di
riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati?
SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia
proprio un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini
insegnano e presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia
detto il vero; ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è
veramente esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un
perfetto campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario,
che sia come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai
un retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di
una di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò,
non mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e
Trasimaco. FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo,
che Pericle sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica.
FEDRO: Perché? SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di
discorsi celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa
capacità di condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da
qui. E Pericle, oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche
questo: imbattutosi, credo, in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di
discorsi celesti e giunse alla natura dell'intelletto e della ragione,
argomenti intorno ai quali Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò
quello che era utile per l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò?
SOCRATE: Il modo di procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica.
FEDRO: E come? SOCRATE: In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella
del corpo, nell'altra quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo
empirico, ma con arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli
medicine e nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la
virtù offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è
verosimile che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile
comprendere la natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la
natura dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è
degli Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere
la natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare
il discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece persegue
con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un sordo, ma
è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con arte,
dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i suoi
discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare! SOCRATE: Pertanto,
caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o
scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi
scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur conoscendo
molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che parlino e
scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo che
scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le espressioni
appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio dirti come
bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque. SOCRATE:
Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole essere
esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima. Esse sono
tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono di un
certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano così
divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna di
tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano
facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti,
mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da
persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in
adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e
di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le
sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che
ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato
quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di
accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di
quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e
poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera
prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in
possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui
bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere
l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e
di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata
in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste
cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi
non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e
Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è
detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure
sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna
rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare
una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere
inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta
e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o
da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così,
per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi
dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano
di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è
giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu.
SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in
alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche
all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella
retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e
buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non
importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo
ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi
intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti,
a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli
verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve
seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è
appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte.
FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a
vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in
precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di
enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai
studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se
per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E
che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza
e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha
percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro,
viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile
deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi
deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente
argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani
addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma
cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione
all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o
meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè,
sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta,
Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il
nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo:
«O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire
che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco
fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le
somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo
ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè
che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in
grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in
un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a
un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad
essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con
gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa
in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi dèi del luogo, al
quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.
Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi
il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto
l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore
che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth,
recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse
agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse,
e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare
bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta,
furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su
ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla
scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più
sapienti e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco
della memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth,
c'è chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio
sono destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della
scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale.
Questa scoperta infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà
nell'anima di coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della
scrittura ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di
dentro e da se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma
del richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli
l'apparenza, non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza
insegnamento, crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le
ignorano, e la loro compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di
opinione anziché sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi
egizi e di qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro,
hanno asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona
venivano da una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti
come voi giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una
roccia, purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che
parla e da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno
così o diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
21 Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto
quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e
non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato
ingiustamente ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di
difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue
parole sono giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro
discorso, fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua
natura migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come,
secondo te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno
pianterebbe seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a
cuore e da cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in
otto giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E
riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte
dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha
seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul
serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo
dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno
senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE:
Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la
canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci
di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile.
SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di
scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla
memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per
chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando
gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i
divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi
passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello
quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa
divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di
cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose
diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica,
prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da
conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha
piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano
nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza
immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per
un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo
d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO:
Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a
questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i
discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte.
Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta come
abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a ciascun
argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa in se
stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue specie
fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver scrutato a
fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie adatta a
ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo procedimento,
offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena armonia,
discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto è
conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per insegnare
né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha chiaramente
indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE: Riguardo poi alla
questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere discorsi, e quando un
rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha forse chiarito ciò che
abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto? SOCRATE: Che se Lisia o
altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse privato o pubblico,
proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella convinzione che in ciò vi
sia una grande solidità e chiarezza, allora il biasimo ricade su chi scrive,
che lo si dica o meno: poiché il non distinguere realtà e sogno in ciò che è
giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero evitare di essere riprovevole,
quand'anche tutta la gente lo apprezzasse. FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece
ritiene che nel discorso scritto su qualsiasi argomento vi sia necessariamente
molto gioco e che nessun discorso con pregio di grande serietà sia mai stato
scritto né in versi né in prosa (e neanche pronunciato, come i discorsi dei
rapsodi che sono recitati senza essere sottoposti a vaglio e non mirano a
insegnare, ma a persuadere), 22 Platone Fedro ma che i migliori di
essi siano realmente un mezzo per aiutare la memoria di chi già conosce
l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul giusto, sul bello e sul bene,
pronunciati come insegnamento allo scopo di far apprendere e scritti realmente
nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e pregio di serietà; e inoltre è
convinto che discorsi tali debbano essere detti suoi come se fossero figli
legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel caso si trovi che lo
possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo, sono nati allo
stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e ai rimanenti
manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che sia tale
quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi auguro in
tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda i
discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che
noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato
dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga
discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in
terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi
con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è
il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e
quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è
stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di
costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO:
Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra
che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece
filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente.
FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di
maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù
per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a
buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non
bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui?
FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo?
SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo
di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore
a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più
nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere
dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se
fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo
non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi;
giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di
filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio
amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma
andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene
rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come
no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di
diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò
che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro
quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar
via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in
giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono
comuni. SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro.
Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui
restano orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito
nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della
Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la
Repubblica. Noto medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico;
Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese
che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti
comici. 4) Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di
Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita
"salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati
da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il
dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord,
rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi
il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una
ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente
'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale
della città, formato dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri
mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una
nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste,
una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri
marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre
Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu
uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di
Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera.
Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi.
Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che
emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo
scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820
seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo
portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in
italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio
di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo
"atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel
dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da
mantenere nella traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei
boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione.
Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei
fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa
poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice
di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove
libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi
frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto
secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende
che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento
Snell-Maehler (citato anche in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra
ligús, dalla voce melodiosa, e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo
gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i
Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra
"èros" e "róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale
associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui
il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non
ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con
un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori,
divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che
risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora
significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima
pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone.
Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui
restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel
sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena
di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia
(la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la
vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu
ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa,
rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del
discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli
aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro A Delfi, in Beozia, c'era il più
famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua
sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus.
Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di
cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma,
in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta
derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero
l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco
paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è
importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da
Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e
non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la
ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco
soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero
rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e
l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima
concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno
parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto
che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale
struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile
pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque
all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un
equilibrio. Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva
identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica
tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici
schiere sono probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il
cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera
dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile,
esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile',
in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica impersonifica
invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la
teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il
mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della
vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno
contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad
esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano.
Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine "imeros"
('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto derivare da i-,
radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice di
"méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé"
('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la
tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i
poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è
un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente
coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli
uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di
aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco
linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né
la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a
costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta
mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del
mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare,
allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare
l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle
persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei
processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o
l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la
professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su
commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica,
significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile.
Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il
legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi,
Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che
prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo,
re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che
segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro Omero, Iliade) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. I "figli" di Fedro
sono i discorsi che ha indotto gli altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio
dei guerrieri greci a Ilio, era famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile,
e soprattutto astuto parlatore era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe
che smascherò un tentativo di Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia,
era fornito di capacità oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480
a.C. e morto vecchissimo dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti
della sofistica; a lui è dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue
numerose opere restano pochi ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco
di Calcedonia, vissuto nel quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della
Repubblica, dove difende in modo combattivo la sua idea della giustizia come
diritto del più forte. Teodoro di Bisanzio, attivo nella seconda metà del
quinto secolo a.C., scrisse un trattato di retorica) Allusione ironica a Zenone
di VELIA (si veda) e ai paradossi con i quali cercava di confutare
dialetticamente i concetti di molteplicità e movimento; famosi sono i paradossi
della freccia e di Achille e la tartaruga) Mida era il leggendario re della
Frigia che per avidità di ricchezze chiese e ottenne da Dioniso di poter
trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché anche tutto ciò che voleva
mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di liberarlo da questo dono
funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di Lindo, uno dei sette
saggi. Poeta e sofista contemporaneo di
Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si veda) e iniziatore, assieme a
Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico di Ceo, uno dei più importanti
esponenti della sofistica, discepolo di Protagora e maestro di Socrate. Ippia
di Elide, il celebre sofista da cui prendono il titolo due dialoghi di Platone.
Polo di Agrigento e Licimnio di Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno
dei protagonisti del Gorgia di LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si
allude probabilmente a opere di retorica dei due sofisti, come poco sotto a
proposito di Protagora. Protagora di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo
Platonico, visse ad Atene nell'età periclea. Considerato il principale
esponente della sofistica, è ricordato soprattutto per il suo agnosticismo
religioso, che gli valse una condanna per empietà, e il suo relativismo,
sintetizzato nella massima l'uomo è misura di tutte le cose. Nulla ci rimane delle
sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo che guidò la spedizione dei sette
contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle Supplici come abile oratore;
l'epiteto voce di miele gli è già riferito da Tirteo (frammento, Gentili-Prato).
Adrasto è qui usato come eteronimo di un personaggio contemporaneo, forse un
sofista. Anche Pericle, lo statista ateniese del quinto secolo che radicalizzò
il processo democratico della polis portandola al massimo splendore, è qui
ricordato, con un tocco d'ironia, per le sue capacità oratorie. Anassagora di
Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per molti anni ad Atene, dove ebbe come
discepoli Pericle e lo stesso Socrate. Punto cardinale del suo pensiero è
l'esistenza di un principio razionale che dà ordine al mondo, da lui chiamato
"nous" ('intelletto'). Ippocrate di Cos, vissuto tra il quinto e il
quarto secolo a.C., fu il fondatore della medicina antica; l'epiteto di
Asclepiade deriva da Asclepio, dio della medicina. Di lui e dei suoi discepoli
resta un considerevole numero di scritti riuniti nel cosiddetto corpus
Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di un emporio commerciale greco.
Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione, che i Greci identificavano
con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era scriba nel tribunale dei
morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura un valore puramente
"ipomnematico", ovvero la considera un mero supporto alla memoria, e
non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero sapere resta per lui affidata
all'oralità dialettica. «La regione
superiore» è l'alto corso del Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene
considerato un eteronimo dello stesso Ammone, una delle principali divinità
egizie, venerata da una potente casta sacerdotale e identificata dai Greci con
Zeus; poco sotto infatti, la risposta da lui data a Theuth è chiamata
«vaticinio di Ammone». I giardini d’Adone
sono recipienti in cui d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto
giorni e subito morivano; il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il
bellissimo giovane amato d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura,
ovvero i discorsi scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché
i veri discorsi latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione
poetica di autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in
competizione con l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è
fautore di un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di
Macedonia, in vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes,
era la principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da
intendersi in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Nome compiuto:
Elio Franzini. Franzini. Keywords: espressione, Sibley, Strawson, ‘Bounds of
Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico, estetico, natura,
bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore, bello, comunicazione,
rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franzini” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Frinico: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited
by Giamblico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frinico.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frixione: la ragione conversazionale e
l’implicatura metrica di Lucrezio – la scuola di Genova – filosofia genovese –
filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Abstract. Grice: “Some like Ovid, but Lucrezio’s MY
man!” -- Keywords: Lucrezio. Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Genova, Liguria. Grice: “The Grecians were pretty clear – and Cicero
followed suit – surely if I say ‘He made it,’ there is no implicature that he
is a poet, even if ‘poeien’ is strictly, ‘make’!” -- Grice: “Poetry is a good
place to apply the idea of implicature, as in Donne – Nowell-Smith’s favourite
obscure poet, and Blake – mine!” Insegna
a Salerno, Milano, e Genova. I suoi interessi di ricerca includono il
linguaggio. Le sue ricerche riguardano il ruolo delle forme di ragionamento non
monotòno nell'ambito e il rapporto tra l’illusione del perceptum ed il ragionar
invalido. Si è anche occupato di modelli di rappresentazione. È noto anche per
la sua attività di poeta d'avanguardia, segnalata, tra gli altri, da Sanguineti,
e per aver fondato e fatto parte del “Gruppo ‘93”. Altre opere: “Il
Significato” Angeli); “La Funzione e la computabilità” (Carocci); “Come Ragioniamo,
Laterza Editore, Lista delle pubblicazioni da DBLP Computer Science Bibliography,
Universität Trier; Diottrie, Piero Manni, Ologrammi, Editrice Zona, Insegnamenti
Scuola di Scienze Umanistiche, Genova. Guida dello Studente, Corso di laurea in
filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Governing Boards of
the Italian Association of Cognitive Sciences. A Cognitive Architecture for
Artificial Vision., in Artificial Intelligence, Elsevier. Prisco, Sanguineti. La
letteratura è un gioco che può ancora scandalizzare, Il Sole 24 Ore, Petrella,
GRUPPO 93. L'antologia poetica Petrella, Zona, F. scheda nel sito Genova,
Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Come ragioniamo recensione di
Dario Scognamiglio, ReF Recensioni Filosofiche. It cannot be denied that the
poem of LUCREZIO fails to awaken any marked interest until long after its
publication. The almost unbroken silence of his contemporaries regarding
him is significant of the com- parative indifference with which his
production was received. The reasons for this neglect are various and not
far to seek. In the first place the moment was inopportune for the
appearance of such a work. It is composed in that hapless time when the
rule of the oligarchy is overthrown and that of GIULIO (si veda) CESARE
had not yet been established, in the sultry years during which the
outbreak of the civil war is awaited with long and painful suspense. The poet
betrays his solicitude for the welfare of his country at this crisis in the
introduction of his work, in which he invokes the aid of Venus in
persuading Mars to command peace. Efficc
ut inter ea f era moenera militiai Per maria ac terras omnis sopita
quiescani. He acknowledges
that his attention is diverted from literary labours by the exigencies of
the Roman state. Nam neque nos agere hoc patriai tempore
iniquo Possumus aequo animo nee Memmi clara propago Talibiis in
rebus comrnuni desse saluti. Munro believes these lines
were written when Caesar as consul had formed his coalition with Pompey
and when there was almost a reign of terror. The reflection of a state
of 1 Monimseii, Hist. Rome, M. 41-43- ^Muiim. Luiictiiis.
tumult and peril is equally obvious in the opening verses of the second
book, where the security of the contemplative life is contrasted with the
turbulence of a political and military career.' Particularly signifi-
cant are the lines : Si non forte tuas legiones per loca campi
Fervere cum videas belli simulacra cientis, Subsidiis magnis et ecum vi
constabilitas, Ornatasque armis statuas pariierque animatas, His
tibi turn rebus timefactae religiones Effugiunt animo pavide ; mortisque
timores Turn vacuum pectus lincunt curaque solutum, Fervere cum
videas classem lateque vagari} It can readily be appreciated that a period
of such fermentation and alarm would afford opportunity for philosophic
study to those alone who were able to retire from political excitements
to private leisure and quiet. Moreover the very characteristics of the
Epicurean philosophy would recommend it chiefly to persons of this
description. Participation in public life was distinctly discouraged by
the school of Epicurus, who regarded the realm of politics as a world of
tumult and trouble, wherein happiness — the chief end of life — was
almost, if not quite, impossible. They counselled entering the arena of
public affairs only as an occasional and disagreeable necessity, or as a
possible means of allaying the discontent of those to whom the quiet of a
private life was not wholly satisfactory.' Such instruction, though
phrased in the noble hexameters of a Lucretius, was scarcely calculated
to enjoy immediate popularity in the stirring epoch of a fast hurrying
revolution. Sellar, Rommi Pods of the Republic. Caesar after his consulship
remained with his army for three months l)efore Rome, and was bitterly
attacked by Memmius. Does Lucretius here alhide to Caesar? " Munro,
Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics. In consequence of his mode of thought
and writing lieing so averse to his own time and directed to a better
future, the poet received little attention in his own age.Teuflfel, Hist.
Rom. Lit. L’ORTO ROMANO arose in a state of society and under
circumstances widely different from the social ar.d political condition
of the last phase ol the Roman Republic. Sellar. Roman Poets of the
Republic. A somewhat ingenious, but unsuccessful, attempt has been made
to account for the indifference with which Lucretius was treated on
the ground of his assault Upon the doctrine of the future life. It
has been suggested that as the enmity of the Christian writers was
early called down upon his head for this cause, he was likewise whelmed under
a conspiracy of silence on the part of his Roman contempo- raries and
successors " for the same reason. But so general was the skepticism
of his age on this question, that it is scarcely credible that the
publication of his views could have seriously scandalized the cultured classes
who read his lines. The same judgment will hold true with reference to
the entire attitude of Lucretius toward the tra- ditional religion. It is
a sufficient answer to the theory that his infidelity created antipathy toward
him to record the fact that Julius Caesar, than whom no more pronounced
free-thinker lived in his day, was, despite his skepticism, pontifex
maxi'mus of the Roman common-wealth, and did not hesitate to declare in the
presence of the Senate that the immortality of the soul was a vain
delusion. That he represented in these heretical opinions the position of many
of the fore- most persons of the period is the testimony of contemporary
literature. Shall we not find the better reason for the apparent neglect
of Lucretius in the era immediately following the issue of his poem
in the fact that there was no public at this juncture for the study
of Greek philosophy clothed in the Latin language? CICERONE, who devoted
himself with the zeal of a patriot to the creation of a philosophical
literature in his native tongue, complains of the scant courtesy paid to
his efforts. Xon eram nescius. Brute, cum, quae summis ingeniis exquisitaque
doctrina philosophi Graecn sermone tractavisseni, ea Latinis Uteris
mandaremus, fore ut hie noster labor in varias reprehensiones incur reret. Nam
qiiibusdam, et Us quidem non admodum indoctis, totum hoc displicet,
philosophari. Quidam autem non tam id reprehendunt, si remissius agatur,
sed tantum studium tamque muUam operant ponendam in eo non arbitrabantur.
Erunt etiam, et ii quidem eruditi Graecis Utter is, contemnentes Latinas,
qui se dicant in Graecis legendis operant maUe consumer e. Postremo
aliquosfuturos suspicor, qui me ad aUas Utter as vocent, [This is the
view advanced by R. T. Tyn-il of the University of Dublin. See his LiiUn
Poc'try (Houjrhton, Mifflin et Co., N. Y.). Merivale. History of the
Romans. hoc scribendi, etsi sit elegans, personae iamen et digtiiiatis
esse negent. Yet this work, as he explains in his De Divinatione,' was
undertaken with the commendable purpose of benefitting his countrymen. He
anticipated with delight the advantages which would accrue to them when
his researches were complete. Magnificum illud etiam Romanisque hominibus
gloriosum, ut Graecis de philosophia litteris no?i egeant. And later he
reaped his re- ward in an awakened interest in the subjects of his
studious inquiries. But he was compelled in the beginning to cultivate a
sentiment in behalf of those investigations. Lucretius addressed himself
to an unsympathetic public, and was likewise required to wait for
applause until a more appreciative generation rose up to do him honour. Yet
it must not be supposed that The Garden exercised a feeble influence over
the thought of cultivated Romans in this period of their history. The
very theme which engaged the genius of Lucretius had also employed the
energies of predecessors and contemporaries. Among attempts of this
character were the “De Rerum Natura” of Egnatius, which appeared somewhat
earlier than the work of Lucretius; the “Empedoclea” of Sallustius
mentioned by Cicero in the much discussed passage relating to Lucretius; and a
metrical production en-titled “De Rerum Natura” by Varro. Commentaries on the
principles of The Garden had also been extant for some time. Chief
among the authors of such compositions was Amafinius who preceded
Lucretius by nearly a century. Our knowledge of him is mainly derived
from Cicero, who says: “C Amafijiius exstitit dicens cuius libris editis
commota multitudo contulit se ad eain potissimum disciplinam.” Rabirius is also
mentioned by the same author as belonging to that class of writers, Qui
nulla arte adhibita de rebus ante oculos positis vol- Dc Finilnts, I,
i. ^ Quaercnti mihi vmltumquc d diu cogitanti, quanotii re possem
prodesse qtiam plurimus, ne quando intervdtterem considere reipubiicae, nulla
niaior occurrebat quam si optimaruni artiwn vias traderevi vicis civibus;
quod conpluribus iam libris me arbitror conseciiturn. Quod enim munus rei
publicac adferrc mains nieliusve pos- s tonus, quam si docemus at que
erudimus iuveiitutem^ his praesertim in or i bus at que iemporibus,
qtdbus ita prolapsa est, etc. De Divinatione. Sellar, Roman Poets of the
Republic, Acad. “-gari sermone
disputant.” Rabirius indulges in a popular treatment of philosophy and
covers much the same ground as Amafinius. Another contributor to the
literature of Epicureanism whom Cicero records in no complimentary way is
Catius — “Catius insuber, Epicureus, quinuper est vioriuus, quae ille
Gargettius et iam ante Democritus ctSuXa, hie spectra nominat.” The
interest in The Garden among the Romans of the time of Lucretius is
further apparent in the prominence which certain teachers of The Garden attained.
Conspicuous among them is Zeno the Sidonian, whose lectures Cicero in
company with Atticus had attended, and whom he calls the prince of Epicureans
in his “De Natura Deorum”, and whose instruction is doubtless liberally
embodied in Cicero's discussions of the system of The Garden. Contemporary
with Zenone is Fedro, who had achieved distinction in Rome, where Cicero
studied under his direction. Somewhat later Filodemo of Gadara appeared
in Rome, and is mentioned by Cicerone as a learned and amiable man. The
considerable body of writings bearing his name found in the Volumina
Herculanensia indicates his position among the philosophers of his day. Scyro, a
follower of Fedro, said to have been the teacher of Virgilio. Patrone, the
successor of Fedro, and Pompilius Andronicus, “who gave up everything for the
tenets of The Garden, are eminent also at this period. Partly as a result
of the activity of these philosophers, and partly on account of the
prevailing anxiety to arrive at some satisfactory scheme of life, the number of
The Gardeners steadily increased at this time, and included not a few
illustrious names. Disp. Ad Fam.. Cf. Diogenes Laertius. Rilter et
Preller, Hist. Phil. Graec. d Fam., De Fin., Ritter et Preller, Hist. Phil. Graec. Ad. Fam., Ad. Fam., Ad
Attic, Zeller. Stoics. Fpicnreans and Sceptics, p. 414, i. These are known
to us chiefly through the writings of Cicero/ who mentions T. Albutius,
Velleius, C. Cassius, the well-known conspirator against Caesar, who may
himself be classed among those who had lost confidence in the gods/ C.
Vibius Pansa, Galbus, L. Piso, the patron of Philodemus, and L. Manlius
Torquatus. Other notable personages are apparently regarded as “Gardeners”
by Cicero, but grave doubts have been expressed concerning their real
attitude toward the school. It is barely possible that Atticus may justly
be denominated a “Gardener”, for he calls the Gardeners nostri familiars and
condiscipuli. But his eclectic spirit would seem to forbid his
classification with any single system, and Zeller feels that neither he nor Asclepiades of
Bithynia, a contemporary of Lucretius, who resided at Rome and was
associated with The Gardeners, can be regarded as genuine Gardeners.
The discussions of the The Gardeners in De Natura Deorwn, De
Finibus and other works of Cicero evince the profound interest he had in
the school, though his general attitude was one of unfriendliness. What reason,
then, we may ask, can be given for his almost uninterrupted silence
concerning Lucretius? The only reference we have to the poet in all
Cicero's voluminous compositions occurs in a letter to his brother
Quintus, four months after the death of Lucretius, in which he says, “Lucretii
poemata, ut scribis ita sunt: viultis lunmiibus ingenii, viultae etiam
artis; sed cum veneris virum te putabo, si Sallustii Empedoclea legeris,
hominem non putabo.” Cicero certainly implicates that both Marcus and
Quintus had read the poem, and many scholars accept the statement of
Jerome in his additions to the Eusebian chronicle — quos Cicero emendavit
— as applying to Marcus. But if he was closely enough identified with the
work of Lucretius to edit his manuscript, why in those writings wherein
ample opportunity was afforded, did not Cicero mention his labours in the field
of philosophy? Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, Merivale, Hist.
Rom., De Fin., Legg., Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 415. ^Ad
Quintton Munro, who discusses this question with his usual lucidity,
inclines to the opinion that Jerome, following Suetonius, has indicated Cicero
as the [This is a particularly pertinent inquiry in view of the fact that
he does speak of Amafinius, Rabirius and Catius, as we have already
observed, and that he devoted so much attention to the discussion of
Epicurean principles. Munro answers this question by declaring that it
was ot Cicero's custom to quote from contemporaries, numerous as
his citations are from the older poets and himself. That had he
written on poetry as he did of philosophy and oratory, Lucretius would
have undoubtedly occupied a prominent place in the work, and that
more than once in his philosophical discussions Cicero unquestionably
refers to Lucretius. Munro is not alone in contending that the literary relations
between Lucretius and Cicero were more or less intimate. Other critics
have traced to Cicero's “Aratea” important lines in LUCREZIO (si veda),
while many passages in CICERONE (si veda) closely resemble utterances of
the poet. Martha quotes several remarkable parallels between “De Finibus” and
various lines in LUCREZIO. But it is argued on the other hand no less
vigorously that didactic resemblances prove nothing, except that LUCREZIO and CICERONE
wrought from like sources their several Latinizations of
philosophy. And herein there is suggested a possible explanation of CICERONE’s
apparent indifference to the poet, whether he did him the favour of editing his
verse or not. Cicero had made an earnest study of philosophy long before the
poem of LUCREZIO had been introduced to his notice. He had resorted to
original authorities for information concerning L’ORTO ROMANO. Zeno the
Sidonian and Philodemus of Gadara, as already noted, had supplied him
with much material. Everywhere in his philosophical works there is
evidence that he regarded himself a sort of pioneer in this peculiar field of
investigation. -- editor of Lucretius, and that this was the real
fact. Sellar, Roman Poets of the Republic, though suspending judgment
does not deny the probability that Cicerone performs this favor for
Lucretius. Teuffel, Hist. Rom. Lit., while expressing doubt concerning the
evidence of Cicerone’s connection with the poem, declares that at any
rate his "part was not very important, and it might almost seem that
he was afraid of publishing a work of this kind." Sihler presents an
argument of great force against the probability of Cicero's editorship. See
Art. Lucretius and CICERONE. Transactions American Philological Association. Munro;
Martha, La: L^oeme de LUCREZIO, quoted in Lee's Lucretius -- and therefore
deserving of the pre-eminence therein. He doubtless placed no importance
upon any Latin writings beside his own which treated of this philosophy.
Indeed the references which Cicero makes to philosophers engaged in an
undertaking similar to his own are in no instance flattering. And
Lucretius would only be esteemed by him a competitor in the same
department of inquiry, who wrote in Latin verse instead of Latin
prose. Keeping these facts in mind the comparative silence of Cicero
regarding Lucretius does not seem wholly incompatible with the theory of
his editorship. He was himself an expositor of Epicurus — and that too of
the hostile kind. Cicerone popularized the doctrines of The Garden in the bad
sense of the word," and had thrown "a ludicrous colour over
many things which disappear when they are more seriously regarded. Yet
his opposition to the tenets of Epicurus would not preclude him from
friendly association with many who professed them, and if asked to lend
his name to the publication of Lucretius' verses, there could be no reason
for withholding it. But if his antagonism to L’ORTO ROMANO would lead him
to speak against the doctrines of the poem, his admiration for the
literary excellences of the work, as exhibited in his willingness to
stand sponsor for its issue, would deter him from adverse criticism.
Silence in such a case is the best evidence of friendship. Mommsen remarks
that LUCREZIO although his poetical vigor as well as his art was admired
by his cultivated contemporaries, yet remained — of late growth as he was
— a master without scholars. But with increasing knowledge in what is best in The
Garden and a finer taste to appreciate the moral and literary virtues of
Lucrezio, subsequent generations gave ample recognition to the poet. ORAZIO
(si veda) and VIRGILIO (si veda) were greatly influenced by him, particularly
the latter, who is supposed to refer to Lucrezio in the famous lines, “Felix
qui potuii rerum cognoscere causas atque metus omnes et inexorabile
fatum. Subiecit pedihus strepitumque Achernntis avari. Lanjje, History of
Materialism. Hist. Rome, Georgica. OVIDIO (si veda) pronounced words of high
eulogy upon him. Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucre tt Exitio
terras cum dabit una dies. The persistency of The Garden despite persecution
and opposition demonstrates its marvelous vitality and the almost deathless
influence of the personality of Epicurus, whose single mind projected its
grasp upon human thought throughout the whole existence of the
sect. And not the least important agent in affecting this result, because
of his almost idolatrous devotion to his master and the persuasive
charm of his lines, was the poet LUCREZIO. Nome compiuto: Marcello Frixione. Keywords: l’implicatura
metrica di Lucrezio, poetry, Ezra Pound, Alighieri, “speranza, tela” – Tesauro
– Folco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frixione” – The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Frontida: la ragione conversazionale e la diaspora di
Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited
by Giamblico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontida”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontino:
la ragione conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza. (Roma). Abstract: Roman philosophy.
Keywords: setta dei Scipioni. Filosofo italiano. Catalogued by it.wiki under
“filosofi romani”and ‘scrittori romani’ – vide Marc’Aurelio Antonino. “Of the size to fit a
gentleman’s pocket.” Sesto Giulio Frontino. Sesto Giulio Frontino Console dell'Impero romano
Ritratto a medaglione di Frontino nel frontespizio dell'edizione bipontina
delle sue opere Nome originale Sextus Iulius Frontinus. Preturaurbanus.
Consolato suffectus ordinarius. Legatus Augusti pro praetore della Britannia. Filosofo
italiano. Politico, funzionario e scrittore romano. Nasce nella Gallia
Narbonense. Il suo cursus honorum è caratteristico di un esponente preminente
dell'oligarchia senatoria, e ciò confermea una sua parentela con il cavaliere
Aulo Giulio F., il quale sposa Cornelia Africana, l'unica figlia di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda). È certo che è prætor urbanus e console suffectus.
Inviato in Britannia come governatore. In tali vesti sottomise Siluri e Ordovici,
popolazioni celtiche che risiedevano nei territori dell'attuale Galles,
fondando la fortezza legionaria di Deva Victrix. Divenne curator aquarum,
sovrintendente agli acquedotti di Roma, sotto Nerva. Console suffectus e
ordinarius. Muore durante il principato di Traiano, dato che in quegli anni PLINIO
(si veda) il giovane gli succede alla morte nella carica di augure. Plinio
define F. uomo preclaro, e rifere che desidera che non gl’è dedicato in morte
alcun monumento, quale inutile spesa, poiché soltanto ai nostri meriti è
affidata la nostra memoria. Gli Strategemata sono commentari di una sua opera
perduta, il “De re militari”, e consistono in libri di stratagemmi militari. Il
libro primo tratta della preparazione al combattimento e le varie operazioni. Il
libro secondo tratta del combattimento vero e proprio. Il libro terzo tratta
dell'assedio di città. Il libro quarto espone detti e fatti di celebri
generali. Per le differenze di stile e di contenuti, e per le frequenti
ripetizioni di cose già scritte nei libri precedenti, si sospetta che questo
quarto libro non sia opera di F.. Il De aquaeductu urbis Romae è un trattato
sugli acquedotti ed è l'opera più importante di F., una buona e concreta
trattazione, svolta in due libri, dei problemi di approvvigionamento idrico a
Roma. F. è curatore delle acque, cioè il responsabile degli acquedotti e dei
servizi connessi, e il trattato riflette la serietà e lo scrupolo del suo
impegno. L'opera contiene notizie storiche, tecniche,
amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti
all'epoca, visti come elemento di grandezza dell'impero romano e paragonati,
per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche
greche. L'opera si è conservata nel codice Cassinensis di mano di Pietro
Diacono, ritrovato nell'abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini. Restano
solo estratti di un suo trattato di agrimensura (la disciplina che ha per
oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione
della superficie agraria di un terreno, chiamata a Roma gromatica, da groma, lo
strumento usato per le misurazioni del terreno), scritto durante il principato
di Domiziano, in un periodo in cui F. abbandona momentaneamente la carriera
politica per dedicarsi principalmente all'attività letteraria. F. è pochissimo
studiato nelle scuole a causa del suo linguaggio semplice, della compilazione
non sempre precisa e per lo stile fin troppo generico. Tuttavia, la sua opera
(scritta per fini pratici e, forse, personali) è importante perché ha dato agli
storici ottime indicazioni per quanto concerne i lavori legati alle opere
idriche che si realizzavano nell'Impero Romano. Edizioni: Astutie militari
di F. huomo consolare, di tutti li famosi et eccellenti capitani romani, greci,
barbari, et hesterni, traduzione di Luci, Venezia, per Giovan' Antonio di
Nicolini da Sabio. Gl’acquedotti di Roma, da Commentario di F. - Degli
Acquedotti della Città di Roma - con note e figure, illustrato da Baldassarre
Orsini, Perugia, Stamperia camerale di Carlo Baduel. Gli Stratagemmi,
traduzione di Roberto Ponzio Vaglia, Milano, Sonzogno. M.-P. Arnaud-Lindet,
Histoire et politique à Rome. Fantham, The Emperor's Daughter, Tacito, Historiae, Frere, Britannia: A
History of Roman Britain, Epistularum libri, IV, 8, Ad Arriano. Epistularum libri, A Traiano. Marchesi, Storia della
letteratura latina, Questa opera fu poi utilizzata da Agenio Urbico come base
per il suo De controversiis. Marchesi,
Storia della letteratura latina, Milano-Messina, Giuseppe Principato, Sheppard
S. Frere, Britannia: A History of Roman Britain, London, Routledge,
Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome, Paris, Éditions Bréal, Fantham,
Julia Augusti. The Emperor's Daughter, London, Routledge, F. Treccani, Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galdi, F. in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere.it, De Agostini. F. Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di F., su PHI Latin Texts,
Packard Humanities Institute. Opere di F.
F. (altra versione) F. (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Opere di F., su Open Library, Internet Archive. Opere di F., su Progetto
Gutenberg. Audiolibri di Fr., su LibriVox. F.: testi integrali del De aquis e
degli Strategemata in latino ed inglese in Lacus Curtius Opere minori: F.
de coloniis libellus, ex commentario Claudi Caesaris subsequitur, in Rei
agrariae auctores legesque variae, Amstelredami, apud Joannen Janssonium à
Waesberge, F. de qualitatibus agrorum, in Gromatici veteres ex recensione
Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis
Georgii Reimeri, F. de controversiis agrorum, in Gromatici veteres ex
recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini,
impensis Georgii Reimeri, PredecessoreFasti consulares Successore Imperatore
Cesare Vespasiano Augusto IV e Tito Cesare Vespasiano II con Imperatore Cesare
Vespasiano Augusto V e Tito Cesare Vespasiano IIII Gneo Domizio Afro Tizio
Marcello Curvio Tullo II e NN con Lucio Giulio Urso II e NNII Aulo Cornelio
Palma Frontoniano I e Quinto Sosio Senecione I con Imperatore Cesare Nerva
Traiano Augusto III Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto IV e Quinto
Articuleio PIII Predecessore Governatori romani della Britannia Successore
Quinto Petillio Ceriale Gneo Giulio Agricola. Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Ingegneria Portale
Letteratura CILCategorie: Politici romani del I secolo Funzionari romani Scrittori
romani Scrittori del I secolo Governatori romani dell'Asia Governatori romani
della Britannia Consoli imperiali roman iIngegneri romani Iulii Governatori
romani della Germania inferiore Auguri. Keywords: implicatura. Nome compiuto: Sesto
Giulio Frontino. Frontino. Refs.: Speranza, “Grice e Frontino.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Frontone: la ragione conversazionale e il portico romano
– il filosofo dell’epigramma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract: Grice: “For that matter, I was mentioned by
Gustav Bergmann: he called me a futilitarian, but, in his typical manner, not
in my face!” Keywords: Marziale. Filosofo
italiano. Porch. Mentioned by Marziale in one of his epigrams. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice Frontone.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Frontone: il portico romano: la ragione conversazionale
a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. “I disregard statues, for which they call me
an iconoclast – I especially dislike the martyrs’ memorial, which I see every
day!” Keywords: iconoclasm. Filosofo italiano. Porch. Famous enough to have a
statue erected in his honour. Nome
compiuto: Domizio Frontone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontone.”
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frontone:
la ragione conversazionale del tutore e il suo allievo -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza
(Roma). Abstract. Grice:
“I’ve always admired the Oxonian tutorial system: my tutor was Hardie, except
for ONE term – especially noted by his report to Hardie about my ‘obstinacy to
the point of perversity’. Hardie liked that! My pupils were many and varied:
Flew was perhaps the best – Strawson came second – also got a second in his PPE
– but we shared the blame with the OTHER philosophy tutor at St. John’s: good
old Mabb!” Keywords: the tutorial system. Vide Antonino. Of a size to fit a
gentleman’s pocket. Console imperiale
romano. Muore a Roma Gens Cornelia Consolato. Filosofo italiano. Scrittore e
oratore romano, precettore d’ANTONINO (si veda) e Lucio Vero. Mai ritrova in un
palinsesto nel monastero di Bobbio la corrispondenza tra i due principi e il
precettore. Di lui restano pochi frammenti e lettere, e nessun ritratto,
tuttavia all'epoca era considerato un grande esperto di retorica latina, in
grado di rivaleggiare con la seconda sofistica, nonché il più importante
avvocato romano del periodo antonino. Per i contemporanei F. era addirittura
quasi un "secondo Cicerone", una fama che tuttavia è andata perduta
nei secoli. Anche se probabilmente era discendente di immigrati italici, che
avevano sempre formato una minoranza rilevante della popolazione della capitale
numidica, ama definire se stesso un libico, dei nomadi libici. Venne a Roma
durante il principato d’ADRIANO (si veda), e subito guadagna fama di avvocato
ed oratore, inferiore solo a CICERONE (si veda). Guadagna una grande fortuna,
costruì magnifici edifici e compra i famosi giardini di MECENATE (si veda).
Antonino Pio, avendo avuto notizia della sua fama, lo scelge come tutore dei
figli adottivi ANTONINO (si veda) e VERO (si veda). Tale è la sua fama di
insegnante-retore che quando muore ANTONINO (si veda) fa erigere una statua in
sua memoria. E consul suffectus sotto Antonino Pio, ma rifiuta l'incarico
di proconsole in Asia, adducendo come motivazione il cattivo stato di salute. È
colpito dalla perdita di tutti i suoi figli tranne una figlia. Il suo
talento come oratore e retore è notevolmente ammirato dai suoi contemporanei.
Alcuni di questi in seguito sono considerati membri di una scuola, denominata
da lui “dei Frontoniani” – cfr. “the Griceians”. Il suo obiettivo
nell'insegnamento è inculcare l'uso esatto del latino al posto degl’artifici di
autori come Seneca e consiglia l'uso di "parole poco usate ed
inattese", da trovare con la lettura diligente degli autori
pre-ciceroniani. F. critica Cicerone per la disattenzione a questo
perfezionamento, pur ammirando senza riserva le sue lettere. Le uniche
opere attribuite erroneamente a F. sono due trattati grammaticali, “De nominum
verborumque differentiised “Exempla elocutionum” -- quest'ultimo lavoro è opera
di Arusiano Messio (si veda). Mai scopre nella Biblioteca Ambrosiana, a Milano,
un palinsesto manoscritto, su cui originariamente sono state scritte le lettere
di F. ai suoi allievi imperiali e le loro risposte. Mai scopre anche altri
fogli degli stessi manoscritti al Vaticano. Questi palinsesti sono appartenuti
alla famosa Abbazia di San Colombano a Bobbio, ed sono stati usati per
scriverci gl’atti del primo Concilio di Calcedonia. Appena disponibile il
palinsesto Ambrosiano, sono pubblicate a Roma, assieme agl’altri frammenti del
palinsesto. I testi vaticani sono pubblicati assieme al “Gratiarum actio pro
Carthaginiensibus,” proveniente da un altro manoscritto Vaticano. Bischoff
identifica un terzo manoscritto, di un solo foglio, che contiene frammenti di
corrispondenza tra F. con VERO (si veda), in parte corrispondenti al palinsesto
di Milano. Tuttavia il manoscritto empubblicato da Dom Tassin, che suppone che
potesse essere un lavoro di Frontone. Ritratto d’ANTONINO (si
veda), Musei Capitolini La scoperta di questi frammenti deluse gli eruditi
romantici perché non corrispondevano alla grande fama dell'autore. Oggi, sono
osservati con maggior benevolenza. Le lettere, raccolte ora in un Epistolario, rappresentano
la corrispondenza con Antonino Pio, ANTONINO (si veda), e Lucio VERO (si veda),
in cui il carattere degl’allievi di F. appare in una luce molto favorevole -- particolarmente
grazie all'affetto che entrambi sembrano mantenere per il loro maestro --- unitamente
a missive agli amici, principalmente lettere di raccomandazione. La collezione
contiene inoltre trattati sull'eloquenza, alcuni frammenti storici e inezie
letterarie come l'elogio del fumo e della polvere, della negligenza e una
dissertazione su Arione. L'editio princeps è quella di Mai, mentre
l'edizione standard è quella della Teubner, a cura di M. van den Hout
(Leipzig). Castelli pubblica i testi greci contenuti nell'Epistolario, con commento,
fondandosi, a differenza dell'edizione di Hout, su una collazione diretta del
manoscritto. La Loeb Classical Library ha stampato un'edizione in due volumi
delle lettere di Frontone. Il testo è ora obsoleto[senza fonte]. Van den Hout
pubblicato un completo commento (Leiden). In Italia la Utet ha pubblicato il
testo a cura di Portalupi. Nei frammenti scoperti in
"palinsesto" da Mai nritroviamo parte dell'Epistolario di F. Da
queste porzioni di testo conservate si reca la teorizzazione della Elocutio
novella, ossia il nuovo modo che Frontone proponeva per approcciarsi all'arte
retorica. L'autore sembra molto attento all'uso del latino, una lingua che egli
auspica di rinnovare tramite l'uso della terminologia arcaica poiché essa
soltanto conteneva il significato "genuino" delle espressioni. Per
scegliere le parole adatte al contesto è comunque richiesta competentia, cioè
uno studio approfondito del discorso, poiché la retorica è un'arte che non
permette errori, come afferma lo stesso retore. L'inesperienza può essere ben
visibile quando la sistemazione dell'orazione non è consona. Nelle
Epistole è anche rintracciabile una sorta di elenco di grandi autori, degli
exempla da seguire. Tra questi si possono individuare CATONE (si veda), SALLUSTIO
(si veda) e CICERONE (si veda). Curiose le osservazioni su quest'ultimo, Frontone
pur ammettendo la fluenza dello stile ciceroniano, lo definisce come un autore
che "sorprende poco" nella sua ricerca lessicale, basandosi
unicamente sul suo innato talento di oratore. La retorica dove sorprendere l’ascoltatore
attraverso l'"inatteso", l'interlocutore rimanendo allibito da tanta
maestria ammetteva, se pur non apertamente, il suo "surclassamento".
La nuova arte oratoria dunque era rivolta ad un pubblico dotto capace di
intendere i riferimenti letterari e arcaici del retore che la
pratica. Essendo insegnante di retorica di Antonino, nell'epistola
intitolata Ad Marcum Caesarem troviamo l'importanza dell'elocutio per il
principe. Innanziututto, esordisce Frontone, è di basilare importanza il
rapporto con il destinatario. La voce del principe e"tromba", non
"flauto". Con questa sottile metafore, Frontone ci fa comprendere che
il principe deve dare gl’ordini alla sua gente, come la tromba fa per
l'esercito, sottolineando il valore allocutorio del discorso imperiale. Il
flauto, per contrappunto, è uno strumento troppo flebile e delicato. Il
discorso di un principe non può essere vellutato. Si rischierebbe di perdere,
agli occhi del popolo e del Senato (che devono essere trattati allo stesso
modo), l'autorevolezza e l'attenzione che sono dovute ad un uomo così
importante. Perelli, Storia della letteratura Latina. A. Birley, Marcus
Aurelius. Molti critici hanno avuto dubbi su questa ammirazione dei
contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche. Niebuhr, lo
descrisse come "frivolo", Naber lo trovò "disprezzabile",
cfr. Champlin. Altri lo hanno definito come "pedante e noioso",
scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone o
l'introspezione di un Plinio, cfr. Mellor, commentando Champlin. Una ricerca
prosopografica ha riabilitato la sua reputazione, anche se non in maniera
considerevole, cfr., ad esempio, sempre Mellor su Champlin. Birley, The African
Emperor. Questa esposizione sulla riscoperta di F. è basata su Reynolds, Texts
and Transmission: A Survey of the Latin Classics, Clarendon. F., Epistolario,
testo latino. Carla Castelli, Il Greco di F.: testo critico e traduzione,
studio linguistico, stilistico e retorico, storia editoriale, The
correspondence of F.. Edited and
translated by Haines. Fonti antiche PIR2 Internet Archive. F., Epistolario, QUI
il testo latino. M. Cornelii Frontonis opera inedita cum epistulis item
ineditis Antonini Pii, M. Aurelii, L. Veri et Appiani nec non aliorum veterum
fragmentis invenit et commentario praevio notisque illustravit Angelus Maius,
Mediolani, Regiis typis [ristampa in Francoforte: The correspondence of F. With
ANTONINO (si veda), VERO (si veda), Anoninus Pius, and various friends edited
by Haines, F. S. A., London, Heinemann. F.,
Opere, a cur. Portalupi, trad. italiana a fronte, Collana Classici latini,
Torino, UTET, Carla Castelli, Il greco
di F.. Testo critico e traduzione. Studio linguistico, stilistico e retorico.
Storia editoriale, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Storiografia moderna
Quignard, in Rhétorique Spéculative Considera F. come l'origine di una corrente
anti-filosofica, litteraria. F. su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Funaioli, F. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, F. su sapere. De Agostini. F., su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Marco Cornelio Frontone, su Musisque
Deoque. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di
F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet
Archive. F.: Epistulae VDM Marco Aurelio Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Retori
romani Scrittori Romani Nati Morti a Roma Cornelii Scrittori africani di lingua
latina F. A statesman and the philosophy tutor of Antonino. He seems to have had no
particular philosophical allegiance, and indeed entertained, like Grice, who
tutored Strawson, something of a distrust of philosophy in general. He makes a
speech attacking Christians that was borrowed by MINUCIO (si veda) Felice (si
veda) for a work of his own. Nome compiuto: Marco Cornelio Frontone. Frontone. Keywords:
“My pupil was Strawson; Frontone’s pupil was a Roman emperor!” Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frontone”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Frosini:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del gattopardo – scuola
di Catania – scuola di Girgenti – filosofia siciliana filosofia italiana –
Luigi Speranza (Catania). Abstract. Grice: “When I
approached the aporia of ‘dike’ in Republic, I was playing a philosophisma;
when Frossini philosophised on the change of an ethical and legal order, he
ain’t!” Keywords: fascismo. Filosofo catanese. Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I like Frosini; only in Italy a professor of
jurisprudence – the Italian H. L. A. Hart – would care to provide a theatrical
‘reduction’ of a Sicilian ‘romanzo’! Genial
– He has also written on Risorgimento families!” Il progresso tecnologico è la
nuova democrazia di massa (F. in'intervista alla trasmissione RAI
Mediamente ). Considerato il padre dell'informatica in Italia, si devono a lui
le prime riflessioni generali sulle implicazioni esistenti tra diritto,
tecnologie e attività giudiziarie. Laureatosi a PISA in FILOSOFIA, studia
a Catania. La lettera e lo spirito della legge non è il suo ultimo libro. Nel
1997 pubblica La democrazia nel XXI secolo, un vigoroso pamphlet nel quale
viene valorizzata la libertà dell'individuo nella nuova democrazia di massa,
caratterizzata dal circuito sempre più vasto e più rapido delle informazioni e
della globalizzazione degli interessi politici ed econo- sentato poi a Roma nell'ottobre del 2000. Fu
quasi un simbolico ritorno alla sua terra di Sicilia. Questo lavoro
"stravagante", altri ce ne sono, dimostra e conferma che mio padre fu
un eclettico. Era una critica che gli veniva mossa; e invero non ne capisco il
perché se intesa in senso negativo, perché al contrario eclettico vuol dire
avere molteplicità di interessi. Ciò che conta è che tali interessi vengano
coltivati, studiati e acquisiti bene: in tal maniera la ecletticità è un
fattore positivo come è naturale che sia in tutte le integrazioni e addizioni
di saperi. Verrebbe anzi da dire che il suo cd. eclettismo è paragonabile a
quello in archi-tettura, che definisce lo stile nato dalla mescolanza dei
migliori stilemi ripresi da diversi movimenti architettonici, storici e anche
esoticis. Il suo eclettismo siè manifestato nella capacità di sapere spaziare
in molti campi del sapere, attraverso una notevole messe di pubblicazioni non
solo giuridiche ma storiche, filosofiche, sociologiche e anche lettera-rie,
oltre a una intensa attività come opinionista di diversi quotidiani 39. Come è stato scritto: «Dagli amici e dagli
allievi Vittorio Frosini sarà sempre ricordato come Maestro di filosofia e di
diritto e, ancor di più, come l'umanista che, immergendosi nel flusso della
vita, seppe com-prendere e amare ogni manifestazione di intelligenza e di
sensibilità» G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il
Gattopardo, riduzione teatrale di Vittorio Frosini, Roma, Bulzoni, 2000;
l'amore per la Sicilia, sempre vivo e mai interrotto, lo manifestò anche con un
libretto: V. FroSiNI, Ideario siciliano, Palermo, Sellerio, 1988. Valorizzano
l'eclettismo di mio padre, ritenendolo senz'altro un merito che lo aiu-tò, tra
l'altro, a essere precursore in diversi campi, E. PATTARO, La filosofia del
diritto di fronte all'informatica giuridica, in A. JELLAMO, F. RICCOBONO (a
cura di), In ricordo di Vittorio Frosini, cit., 25 ss., e A. Punzi, La
tolleranza dell'eclettico. Vittorio Frosini sui lumi e le ombre (del pensiero
risorgimentale come di quello cristiano), in Riv. int. fil dir., n. 1-2/2019,
121 ss. Per
una conferma, v. la raccolta: R. RUSSANO (a cura di), Vittorio Frosini
Bibliografia degli scritti, Milano, Giuffrè, 1994. Fu collaboratore de La
Sicilia, poi del Corriere della sera (sotto la direzione di Giovanni
Spadolini), del Il Giornale nuovo (sotto la direzione di Indro Montanelli) e
del Il Tempo (sotto la direzione di Gianni Letta). F. RIcCOBONo, Vittorio Frosini, in Riv.
int. fil. dir., n. 4/2001, 534. Dopo la laurea pisana e quella catanese,
continua il peregrinag-gio per la formazione accademica: nel 1950, va a
specializzarsi, come Ph.D., in Political Science e Jurisprudence all'Università
di Oxford, a seguito della vittoria di una borsa di studio del British Council,
ottenuta insieme ai giovani "virgulti" Serio Galeotti e Pietro
Rescigno. Da allora, con entrambi, si
salderà una forte e sincera amicizia di tutta una vita. Ospite del Magdalen
College di Oxford, lavora a una tesi sull'obbligazione politica, sotto la guida
di John Mabbot, e frequenta Herber Hart, allora Lecturer in Philosophy 1 Si
lega anche a Salvador de Madariaga, l'esule politico spagnolo e docente di
letteratura spagnola a Oxford e ad Alessandro Passerin d'Entréves, il filosofo
della politica torinese in quel periodo professore di Italian Studies".
Gli anni oxo-niensi gli rimarranno sempre nel cuore e spesso amava rievocarli
con storie e aneddoti. Non mancava mai alla cena annuale degli ex allievi del
College (indossando rigorosamente la cravatta del College) e divenne socio
dello esclusivo Oxford and Cambridge Club, nella cui foresteria, con sede a
Pall Mall, alloggiava ogni qualvolta andava a Londra. Nel 1952 torna in Italia e inizia la
collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio Un mondo al quale rimarrà sempre
legato nei ricordi e nella condivisione degli ideali liberaldemocratici13. Alle
«care ombre» di Mario Pannunzio, Carlo Antoni, Vitaliano Brancati, Nicolò
Carandini, Nicola Chiaromonte, Vittorio de Caprariis, dedicherà, «in segno di
grata memoria», un suo libro 14.10 Il lavoro di tesi, anticipato in vari
articoli, verrà pubblicato, ulteriormente svilup-pato, diversi anni dopo come
libro: V. FRoSINI, La ragione dello Stato. Studi sul pensiero politi- primo lito pubbicato in fala: 1LA. Mart,
Contributi al analist de Airto, a Cara dai Fro-
sini, Milano, Giuffrè, 1964. V.
FROSINI, Potrait of Salvador de Madariaga, in BRUGMANS ET NADAL (a cura di),
Liber Amicorum Salvador de Madariaga, Bruges, De Tempel, 1966, 97 ss.; V.
FROSINI, Alessandro Passerin d'Entréves,
in Riv. int. fil dir., n. 2/1986 (ora in IdEM, La coscienza giuridica. Una
cospicua serie di articoli apparsi su quel giornale, vennero raccolti in IDEM,
"Il Mondo" e l'eredità del Risorgimento, pres. di E. Sciacca,
Acireale, ed. Bonanno, 198%. 1 Sul
punto, E. ScIAccA, Vittorio Frosini scrittore politico, in Aa. Vv., Liber Amicorum
in onore di Vittorio Frosini, vol. I, cit., 1 ss. e A. JeLLamo, Vittorio
Frosini e la tradizione liberale, in Ri
int. do n io 019, Valga altresi quale
testimonianzo i daglione" Mar
nelli, Rubbettino, F., Costituzione e società civile, Milano, Comunità,
1975 (II ed., 1977).Studia la regolamentazione dell'informatica. Ha presieduto
l'associazione utaliana di Diritto dell'Informatica e di Giuritecnica e
l'Istituto di Teoria dell'interpretazione e di informatica giuridica presso la
Facoltà di Giurisprudenza dell'Roma "La Sapienza". Teorico di un
umanesimo tecnologico attento ai diritti civili, ha avviato una ricostruzione
sistematica dei problemi dell'informatica consapevole delle diverse
implicazioni economiche e sociali della regolamentazione giuridica. Nel
confronto costante tra diritto e tecnologie, il progresso produce una
evoluzione sociale continua che si riflette nel campo giuridico ed economico
come nei miglioramenti qualitativi dei diversi rapporti con le istituzioni,
favorendo un continuo e immediato confronto fra amministratori e amministrati
entro un rapporto diretto a carattere orizzontale, mentre prima era a carattere
verticale e così il cittadino diventa veramente attore della vita civile e non
più suddito. Di qui il profilarsi di una nuova democrazia di massa in cui si
realizza con apparente paradosso una nuova forma di libertà individuale, un
accrescimento della socialità umana che si è allargata sull'ampio orizzonte del
nuovo circuito delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell'energia
intellettuale ed operativa del singolo vivente nella comunità». L'opera
centrale di F., Professore ed emerito di filosofia del diritto e di informatica
giuridica è indubbiamente La struttura del diritto. Il saggio ha immediati
riconoscimenti e una notevole fortuna in Italia dove ha sei riedizioni
pressoché inalterate. Quale suo autore riceve un premio dai lincei dalle mani
del Presidente della Repubblica Italiana, Segni. F. è peraltro autore di
saggi fondamentali sul rapporto tra tecnologia e diritto quali: “Cibernetica:
diritto e società”; “Informatica, diritto e società” (Milano); “Giuffrè (si
veda) Il giurista e le tecnologie dell'informazione” (Roma, Bulzoni); “La democrazia)”
(Roma, Ideazione;, Macerata, Liberilibri); “La lettera e lo spirito della
legge” (Milano): Giuffrè Teoria e tecnica dei diritti umani” (Napoli, Edizioni
scientifiche Italiane; “Fondamentali sono anche i suoi scritti sulla rivista Informatica
e Diritto: “L'automazione elettronica nella giurisprudenza e nell'Amministrazione
Pubblica”; “La giuritecnica: problemi e proposte”; “Giustizia e informatica”; “La
protezione della riservatezza nella società informatica”; “L'esperienza OCSE
nel potenziamento degli scambi tecnologici connessi alla gestione delle
informazioni”; “L'informatica nella società contemporanea; “Riflessioni sui
contratti d'informatica”; “Il giurista nella società dell'informazione Riconoscimenti
A F. sono dedicati: il premio nazionale di informatica giuridica
"Vittorio Frosini" della rivista Il diritto dell'informazione e
dell'informatica; la collezione di strumenti di calcolo e di elaborazione
automatica dei dati, utilizzati presso l'Istituto di Teoria
dell'Interpretazione e di Informatica Giuridica dell'Università "La Sapienza"
di Roma. MediaMente: "Il progresso tecnologico e la nuova democrazia di
massa, su mediamente. rai. Net freedoms: i diritti di libertà in rete Dibattito
sul diritto dell'informazione e dell'informatica | RadioRadicale Cfr. F. in una lucida testimonianza su
Università, Normale e COLLEGIO MUSSOLINI, Cubeddu e Cavera. Cassese, F. e lo spirito della legge, Il Sole;
F., La democrazia, Macerata, Liberi libri,.
Fondazione Calamandrei, Russano, degli scritti, Milano, A. Giuffrè, F.,
su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. La
morfogenesi dell’ordinamento giuridico in F., L’IRCOCERVO, metodologia
giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato" Genesi
filosofica e struttura giuridica della Società dell'informazione, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, su edizioniesi. Il Gattopardo TEATRO STABILE,
ROMA Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto
dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa - è ora anche uno spettacolo
teatrale. L'inedita trasposizione scenica si deve al regista Gianni Giaconia,
dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla
più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una
riduzione del romanzo da adattare alle scene. COMUNICATO STAMPA di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio
Frosini regia di Gianni Giaconia musiche di
Giannini scene di Luca Arcuri Il Gattopardo - forse il film
più popolare di Visconti, tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di
Lampedusa si deve al regista Giaconia, direttore artistico della sala di piazza
Nerazzini, a un passo dalla più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il
proposito di compiere una riduzione del romanzo da adattare alle scene, sua la
scelta di approntare una singolare versione multimediale della celebre opera
servendosi del testo messo a punto da V., uscito in volume presso Bulzoni
editore, e di inserti cinematografici appositamente confezionati per
l'occasione. Nei centoventiminuti di questa originale edizione del
Gattopardo riletto da Giaconia gli inserimenti segneranno - non senza una certa
attitudine sperimentale e trasgressiva - alcuni passaggi della storia del
principe Salina, da Tomasi di Lampedusa mirabilmente ritratta nel doloroso
passaggio, sulla scia dell'impresa garibaldina, dalla Sicilia dei Borboni a
quella dei Sabaudi, amaro volgere di un mondo che si vede scosso e abbattuto da
nuovi fremiti, dove però resta valida la massima "se vogliamo che tutto
rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". In scena, impegnati
a sostenere le parti che nella memoria di ognuno di noi hanno ancora i volti e
i modi di Burt Lancaster, Claudia Cardinale o Alain Delon (per limitarsi ai
soli protagonisti principali), sono circa trenta attori, tra cui Giorgio
Berini, Sergio Silvestro e EZimei, nei ruoli - rispettivamente - del principe,
di suo nipote Tancredi e d’Angelica. Siciliano di origine,
Giaconìa si puo' considerare romano d'adozione. E' infatti che risiede nella
capitale, dove - con il nome d'arte di Monti - ha iniziato la sua carriera
d'attore proseguita tra palcoscenici e set per quasi tre decenni ininterrotti.
In teatro, è stato diretto tra gli altri da Vasilicò, Fantoni, Sbragia,
Vannucchi, Garrani e ha lavorato a fianco di Giorgi, Tedeschi, Randone. Tra le
sue interpretazioni e partecipazioni cinematografiche e televisive, ricordiamo
i film "Corre l'anno di grazia 1870" di Giannetti (con Mastroianni e
Magnani) e "Ligabue" di Salvatore Nocita (con Bucci, 1978), oltre a
varie pellicole con Maurizio Merli dirette da Marino Girolami (tra cui
"Italia a mano armata" nel 1976), e soprattutto a
"Fontamara" di Carlo Lizzani (con Michele Placido) dove
Giaconia-Monti è Scarpone. Ha esperienza di doppiaggio e di regia
televisiva (per fiction trasmesse da televisioni locali siciliane). Dirige
il Teatro Stabile di Santa Francesca Romana, per il cui palcoscenico ha
già siglato, tra le altre, le regie di "Processo a Gesù" di
Fabbri, "Vita di Galileo" di Brecht, "La tempesta" di
Shakespeare, realizzando spettacoli multimediali. La trasposizione
in linguaggio scenico di un testo narrativo - scrive Vittorio Frosini autore
della riduzione teatrale de "Il Gattopardo" - obbliga ad esercitare
sul testo originario un rifacimento, che è quasi una operazione di chirurgia
estetica; anzi, si tratta di una metamorfosi da un linguaggio scritto in un
linguaggio parlato e gestito, da una continuità discorsiva ad una
serialità episodica. Nel procedere a questa manipolazione intellettuale
ho dovuto affrontare il problema di una scelta tematica dei motivi presenti
nell'opera romanzesca: ho dato perciò risalto ad alcuni di essi. Tale è il
confronto fra la coscienza del principe e l'idea della morte, che viene
anteposto agli altri momenti della vicenda; tale è il rapporto fra la
condizione storica dei personaggi e l'irruzione dell'impresa garibaldina. Si
tratta dunque di una libera sceneggiatura del romanzo, di una interpretazione
di esso, e cioè di una lettura partecipe. Vittorio Frosini è
professore emerito dell'università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato
filosofia del diritto, sociologia giuridica e teoria dell'interpretazione. E'
stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e Visiting
Professor nelle università di Tokyo e di Harvard, ed è accademico della
Real Academia di Spagna. E' autore di molti studi di carattere giuridico,
pubblicati anche in diverse lingue straniere, e di numerosi saggi di carattere
storico e letterario, dedicati in parte alla Sicilia; Teatro Stabile S.
Francesca Romana, Piazza Nerazzini, Roma Informazioni e
prenotazioni: Biglietti: intero -
ridotto Stagione del Teatro Stabile S. Francesca Romana: Il
Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini
regia di Gianni Giaconia Goffredo Tofani (produzione da definire)
Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'uomo, la bestia e la
virtù di Luigi Pirandello regia di G. Cirillo Goffredo Tofani
(produzione da definire) Compagnia I Bankarettisti Non ti pago di Eduardo
De Filippo regia di Gennaro Sommella Compagnia I Buattari 'O
scarfalietto di E. Scarpetta regia di Paolo Savini Compagnia
Corricorri Vin santo di Roberto Giacomozzi regia di Roberto Giacomozzi
Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'importanza di chiamarsi
Ernesto di Oscar Wilde regia di Gaetano Cicoira Compagnia
Associazione Agitati Prima dell'Uso (una commedia da definire di E. Scarpetta)
regia di Gaetano Cicoira STAMPA PERMANENT LINK TEATRO STABILE IN
ARCHIVIO WORDSTAR(S) Il Gattopardo romanzo
scritto da Tomasi di Lampedusa Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – Se stai cercando il film diretto da Luchino Visconti, vedi Il
Gattopardo (film). «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la
repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga com'è,
bisogna che tutto cambi» (Tancredi Falconeri, nipote di don Fabrizio
Corbera, Principe di Salina) Il Gattopardo Incipit Gattopardo.jpg L'incipit
manoscritto del Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa 1ª ed. Originale 1958
Genere romanzo Sottogenere storico Lingua originale italiano Ambientazione Sicilia,
Risorgimento italiano Protagonisti Fabrizio Corbera Il Gattopardo è un romanzo
di Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita e nella
società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso del regime
borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla spedizione
dei Mille di Garibaldi. Dopo i rifiuti delle principali case editrici italiane
(Mondadori, Einaudi, Longanesi), l'opera fu pubblicata postuma da Feltrinelli
nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore, vincendo il Premio Strega, e
diventando uno dei best-seller del secondo dopoguerra; è considerato uno tra i
più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale. Il
romanzo fu adattato nell'omonimo film, diretto da Visconti e interpretato da Lancaster,
Cardinale e Delon. Tema e storia editoriale L'autore contempla da lungo tempo l'idea di
scrivere un romanzo storico basato sulle vicende della sua famiglia, gli
aristocratici Tomasi di Lampedusa, in particolare sul bisnonno, il principe
Giulio Fabrizio Tomasi, nell'opera il principe Fabrizio CORBERA Salina, vissuto
durante il Risorgimento, noto per aver realizzato un osservatorio astronomico
per le sue ricerche. Dopo che il Palazzo Lampedusa è gravemente lesionato dai
bombardamenti dalle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale e
saccheggiato, l'autore scivola in una lunga depressione. Stemma di
famiglia dei Tomasi. È scritto fino l'anno della morte dell'autore, un erudito
appassionato di letteratura, ma del tutto sconosciuto ai circuiti letterari
italiani. Il manoscritto venne inviato alle case editrici con una lettera di
accompagnamento scritta di pugno dal cugino di Tomasi, Piccolo. La spedizione
della prima copia (una versione ancora parziale) avvienne da Villa Piccolo,
indirizzata al conte Federico Federici della Mondadori. Piccolo stesso cerca di
avere notizie circa l'esito della lettura del manoscritto da parte di
Mondadori, inviando una lettera a Reale, per sincerarsi se la lettura avesse
sortito l'esito sperato. Tuttavia, gl’editori Mondadori ed Einaudi rifiutarono.
Infatti, il testo, pur privo di alcuni capitoli, è dato in lettura prima al
conte Federici per Mondadori, poi a Vittorini, allora consulente letterario per
Mondadori e curatore della collana I gettoni per l'Einaudi, il quale lo boccia
per entrambe le case editrici rimandandolo all'autore, e accompagnando il
rifiuto con una lettera di motivazione. L'opinione negativa di Vittorini, un
clamoroso errore di valutazione, è da lui ribadita anche successivamente,
quando il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale.
L'avventurosa pubblicazione avviene solo dopo la morte dell'autore. L'ingegner GARGIA,
paziente della baronessa Alexandra Wolff Stomersee, la moglie psicoanalista di
Tomasi, si offre di consegnare una copia a una sua conoscente, Elena Croce. La
figlia di CROCE (si veda) lo segnala a Bassani, da poco divenuto direttore
della collana di narrativa I Contemporanei pella Feltrinelli, e che sollecita
gli amici letterati a segnalargli interessanti inediti. Bassani riceve dalla
Croce il manoscritto incompleto, ne comprese immediatamente l'enorme valore, e
vuola a Palermo per recuperare e ricomporre il testo nella sua interezza. Decide
subito di pubblicare il romanzo, che usce curato da Bassani. Quando riceve il
premio Strega, la tiratura aveva raggiunto in solo otto mesi le 250 000 copie,
divenendo il primo best seller italiano con oltre centomila copie vendute. La
forza e l'importanza che ha il romanzo è testimoniato anche dalla battuta che
Filippo nella commedia Sabato, Domenica e Lunedì fa dire a Memè, la zia colta
di casa Priore, la quale ammonendo i parenti troppo affaccendati nelle
questioni quotidiane esce di scena ammonendoli al grido di "Compratevi il
Gattopardo!". Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di
famiglia dei principi di Lampedusa, rappresentato dal FELIS LEPTAILVRVS serval,
una belva felina diffusa nelle coste settentrionali dell'Africa, proprio di
fronte a Lampedusa. Nelle parole dell'autore l'animale ha un'accezione positiva.
Noi fummo i gattopardi, i leoni. Quelli che ci sostituiranno sono gli
sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore
continueremo a crederci il sale della terra. Tuttavia, proprio sull'onda del
successo planetario del romanzo, sarebbe invalso invece un significato
negativo, facendo dell'aggettivo "gattopardesco" l'emblema del trasformismo
delle classi dirigenti italiane. A ben vedere, è anche vero che è Tomasi stesso
con le sue fiere parole a legare la parola a un SIGNIFICATO AMBIGUO, quando
prevede un destino di rassegnazione e di solo illusorio orgoglio per
l'Italia. Dal romanzo venne tratta un'opera musicale di Musco, con
libretto di Squarzina. Trama Il racconto inizia con la recita del rosario
in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il
gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore
distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di
pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della
progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in
Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un
nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango,
guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi.
L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare
la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei
garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna),
cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli
eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un
sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la
raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui. Il principe
trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di
Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma
intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli
aristocratici Salina, mercé la figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non
tarderà a soccombere; non essendo una nobile, Angelica non avrà immediatamente
il consenso di don Fabrizio, ma grazie alla sua travolgente e incantevole
bellezza riesce a convincere casa Salina e a sposare Tancredi. Inoltre Calogero
Sedara, il padre di Angelica, fornisce alla figlia nel contratto matrimoniale
tutto quello che possiede. Arriva il momento di votare l'annessione della
Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un
parere sul voto, il principe risponde suo malgrado in maniera affermativa; alla
fine, il plebiscito per il sì sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina
un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di
offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta
garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da
vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al
giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari,
in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Caserta, dove
si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel
1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti
di don Fabrizio. Il significato dell'operaModifica L'autore compie
all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale.
Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo
presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco
("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi")[7].
Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il
principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo
spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti
avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo
siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro
l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così, il presunto miglioramento
apportato dal nuovo Regno d'Italia appare al principe di Salina come un
ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del
siciliano stesso. Il dialogo con Chevalley manoscritto Egli infatti
vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità
vera di modificare sé stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In
questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di
resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I
Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei
secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia,
annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente
quello di "fare". il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). GARIBALDI
(si veda) è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il
vostro GARIBALDI (si veda) ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state
fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della
vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento ho i miei forti
dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi
avvenimenti si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno
portato ad una mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (... questo
paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza
dannata; [...] questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta
gradi; questa nostra estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la
quale si lotta con minor successo. Classificazione come romanzo storico La
vicenda descritta nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di
un romanzo storico. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente una
tradizione narrativa siciliana: la novella Libertà di Verga, I Viceré di
Roberto, I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda) ispirata al fallimento
risorgimentale, drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove sono vive
speranze di un profondo rinnovamento. Ma mentre Roberto, che fra i tre citati
è, per questa tematica, il più significativo, indaga le motivazioni del
fallimento con una complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco,
Tomasi di Lampedusa presenta la vicenda risorgimentale attraverso il MACHIAVELLISMO
della classe dirigente, che alla fine si mette al servizio dei GARIBALDINI e
dei piemontesi, convinta che sia il modo migliore perché tutto resti com'è.
Questa rappresentazione per la prospettiva da cui è descritta è parziale. Restano
fuori dal romanzo molti eventi significativi. Solo per fare un esempio, la
rivolta dei contadini di Bronte, che provoca 16 morti prima di essere stroncata
nel sangue da BIXIO (si veda) che fa condannare a morte 5 dei responsabili -- oggetto
invece della novella di Verga. Da questo punto di vista quindi le
mancanze de Il Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono
evidenti. Osserva Alicata. Una cosa è cercare di comprendere come e perché si
afferma nel processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica,
cioè la direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è
credere, o far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro
condotta dai furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi --
coloro che si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto
il sole di Sicilia ma sotto il sole tout court. Pertanto è dubbio se il valore
de Il Gattopardovada ricercato al di fuori della prospettiva del romanzo
storico. La faccenda appare più complicata di come puo apparire ai primi
lettori dell'opera, se il principe stesso nega di aver voluto scrivere un
romanzo storico (semmai un testo intessuto di memoria e di memorie), nella
seconda edizione de Il romanzo storico, invece Lukács riconduce Il Gattopardo
al canone proprio del genere. Di recente Spinazzola, in un importante saggio,
Il romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di Roberto,
I vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda), e il romanzo di Tomasi di
Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla
storia. Non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica
dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di MANZONI
(si veda) e NIEVO (si veda)), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli
uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e
che la macchina del mondo non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il
romanzo anti-storico è il deposito di questa concezione non trionfalistica
della storia, nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e
nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. Malgrado la posizione nuova di
Spinazzola, che rilegge in modo intelligente la questione, il problema resta
aperto, e la critica non ha ancora trovato una soluzione condivisa su questo
tema. È un romanzo uscito dalla tradizione narrativa, della quale si
avverte almeno la presenza di Stendhal. Ma nel senso della solitudine e della
morte che pervade il protagonista si rivela anche l'influenza determinante
dell'esperienza decadente. Un altro elemento di differenza con altri romanzi
storici è il suo essere una trasposizione in un racconto di fantasia di vicende
familiari che in parte sono realmente avvenute e sono state tramandate
attraverso la bocca dei parenti di Tomasi di Lampedusa. A differenza di romanzi
storici come ad esempio I promessi sposi, nel quale nessun dettaglio storico
era specificato che non fosse già presente nelle fonti scritte consultate da MANZONI
(si veda), Il Gattopardo rappresenta esso stesso una testimonianza storica
(seppur offuscata dal tempo e dalla tradizione orale) di come una parte della
nobiltà vive quel determinato periodo di transizione. Sterilità e morte
Il modulo narrativo si discosta molto dai canoni del romanzo storico. Il
romanzo è suddiviso in blocchi, con una sequenza di episodi che, pur facendo
capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria
autonomia. Inoltre, il fallimento risorgimentale descritto non è un esempio di
uno scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma sembra quello di
una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al
fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o GARIBALDI (si veda), possono solo
illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto
suo, in un'altra vallata. La negazione della storia e la sterilità
dell'agire umano sono alcuni dei motivi più ricorrenti e significativi del Gattopardo.
In questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle magnifiche sorti
e progressive, il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica
commedia e Marx un ebreuccio tedesco, di cui al protagonista sfugge il nome, e
la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di
storia, resta una categoria astratta, un'immutabile ed eterna metafisica
sicilianità. Nella descrizione del fallimento risorgimentale, secondo alcuni,
si può intravedere un'altra riconferma della legge e degli uomini: il
fallimento esistenziale che, negli anni in cui scrive, Tomasi di Lampedusa puo
constatare. Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della
decadenza e della morte (che richiamano Proust e Mann) esemplificato nella
morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi – dei leopardi -- che sarà
sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei scialle ed iene, dei
Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il
capitolo della morte di don Fabrizio (secondo alcuni critici il punto più alto
del romanzo), la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle
loro cose. Si può dire che fra la tradizione del romanzo storico, siciliana ed
europea, di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il decadentismo con le sue
stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte. L’opera di
Tomasi di Lampedusa inoltre cade in un momento di ripiegamento dei recenti
ideali della società italiana e di quella letteratura che si è sforzata di dare
voce artistica a quegli ideali. Il manoscritto Le fotocopie dei
manoscritti originali si trovano presso il Museo del Gattopardo a Santa
Margherita di Belice (AG), mentre gli originali sono custoditi dall'erede
Gioacchino Lanza Tomasi presso il Palazzo Lanza Tomasi a Palermo, ultima dimora
dello scrittore. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. Samonà Gioacchino
Lanza Tomasi, «Le avventure del Gattopardo», ilsole24ore.com Gilmour, L'ultimo
gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano;
Bragaglia Cristina, Il Piacere del Racconto, La Nuova Italia, 1993. ^ Tullio De
Mauro, «Gattopardo non gattopardesco», 2ilsole24ore GATTOPARDISMO in
Vocabolario – Treccani Giudice, Bruni,
Problemi e scrittori della letteratura italiana, d. Paravia, Torino. Edizioni Il Gattopardo, Prefazione e cura di Bassani,
Collana Biblioteca di Letteratura, Milano, Feltrinelli Editore, Il Gattopardo,
Collana Universale Economica n.416, Milano, Feltrinelli. Il Gattopardo,
antologia a cura di Riccardo Marchese, Collana Primo scaffale n.16, Firenze, La
Nuova Italia. Il Gattopardo e i Racconti, Edizione conforme al manoscritto del
1957, Collana Gli Astri, Milano, Feltrinelli, dicembre 1969. Il Gattopardo,
Nota introduttiva di Maria Bellonci, Milano, Club degli Editori, Il Gattopardo,
Collana I Narratori, Milano, Feltrinelli, novembre 1974. Il Gattopardo, a cura
di Barbieri, Collana Narrativa scuola, Torino, Loescher Editore, 1979. Il
Gattopardo, Nuova edizione riveduta con testi d'Autore in Appendice, a cura di
Gioacchino Lanza Tomasi, Collana Le Comete, Milano, Feltrinelli, giCollana
Universale Economica, Feltrinelli, CVI ed.; Collana Grandi Letture,
Feltrinelli, Il Gattopardo, Prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Collezione
Premio Strega, Torino, UTET - Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, Il
Gattopardo letto da Toni Servillo, edizione integrale in audiolibro, Emons; Anile,
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romanzo di "destra" in un successo di "sinistra", Genova,
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fulvo, Palermo, Sellerio editore, 2012. F. Orlando, L'intimità e la storia.
Lettura delGattopardo, Torino, Einaudi, 1998. Alberto Samonà, Giuseppe Tomasi
di Lampedusa a Villa Piccolo: la dimora dell’immenso parla una lingua antica,
in Maria Antonietta Ferraloro, Dora Marchese, Fulvia Toscano (a cura di),
Itinerari Siciliani - Topografie dell’anima sulle tracce di Tomasi di
Lampedusa, Roma, Historica edizioni, Samonà, "Il Gattopardo", i
"Racconti", Lampedusa, Firenze, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata,
Palermo, Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa: il Gattopardo segreto, 2008.
Luca Alvino, Il paradigma del rosario nel Gattopardo, su Nuovi Argomenti, 2021.
Voci correlateModifica La Sicilia del Gattopardo Il Gattopardo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Edizioni e traduzioni di Il
Gattopardo, su Open Library, Internet Archive. Il Gattopardo, su Goodreads.
Modifica su Wikidata Riduzione radiofonica de "Il Gattopardo" (dal
programma Ad alta voce di Rai Radio 3) Audiolettura del dialogo tra Don
Fabrizio e Chevalley, su elapsus.it. Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Opera su
Italialibri.net, su italialibri.net. Audiolibro letto da Pietro Biondi Portale
Letteratura Portale Risorgimento Ultima modifica 6 giorni fa di
Marcel Bergeret PAGINE CORRELATE Il Gattopardo (film) film diretto da
Visconti Giuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italianoIl Gattopardo
(film) film diretto da Visconti Lingua Segui Modifica Il Gattopardo Fotogramma
ballo Il Gattopardo.png Cardinale eLancaster nella celebre scena simbolo del
ballo finale Paese di produzione Italia, Francia Durata187 min 205 min ca.
(versione estesa) Rapporto2,21:1 (stampa 70 mm) 2,35:1 (stampa 35 mm) 2,25:1
(negativo) Generestorico, drammatico Regia Visconti Soggetto Giuseppe Tomasi di
Lampedusa (romanzo) Sceneggiatura Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa
Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino Visconti
ProduttoreGoffredo Lombardo Produttore esecutivoPietro Notarianni Casa di
produzioneTitanus, S.N. Pathé Cinéma, S.G.C. Distribuzionein italianoTitanus
Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Mario Serandrei MusicheNino Rota
ScenografiaMario Garbuglia CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas Interpreti
e personaggi Burt Lancaster: don Fabrizio Corbera, principe di Salina Delon:
Tancredi Falconeri Claudia Cardinale: Angelica Sedara/Donna Bastiana Paolo
Stoppa: don Calogero Sedara Rina Morelli: principessa Maria Stella di Salina
Lucilla Morlacchi: Concetta Romolo Valli: padre Pirrone Terence Hill: conte
Cavriaghi Pierre Clémenti: Francesco Paolo di Salina Serge Reggiani: don Ciccio
Tumeo Maurizio Merli: Fulco, un amico di Tancredi Giuliano Gemma: generale di
Garibaldi Ida Galli: Carolina Ottavia Piccolo: Caterina Carlo Valenzano: Paolo
Brook Fuller: principe Ivo Garrani: colonnello Pallavicino Anna Maria Bottini:
Mademoiselle Dombreuil, governante Lola Braccini: donna Margherita Marino Masè:
tutore Howard Nelson Rubien: don Diego Tina Lattanzi: cuoca Ernesto Almirante:
generale Marcella Rovena: contadina Rina De Liguoro: principessa di Presicce
Valerio Ruggeri: colonnello Giovanni Melisenda: don Onofrio Rotolo Vittorio
Duse: colonnello Vanni Materassi: sergente Olimpia Cavalli: Mariannina Winni
Riva: cameriera Stelvio Rosi: sergente Leslie French: cavaliere Chevalley Gino
Santercole: uomo di Donnafugata Lou Castel: generale Michela Roc: contadina
Pino Caruso: giovane patriota Tuccio Musumeci: giovane patriota Doppiatori
originali Corrado Gaipa: don Fabrizio Corbera Solvejg D'Assunta: Angelica
Sedara/Donna Bastiana Carlo Sabatini: Tancredi di Falconeri Franco Fabrizi:
conte Cavriaghi Lando Buzzanca: don Ciccio Tumeo Pino Colizzi: Francesco Paolo
di Salina Gianni Bonagura: generale di Garibaldi Isa Bellini: Mademoiselle
Dombreuil, governante Ferruccio De Ceresa: cavaliere Chevalley Il Gattopardo è
un film diretto da Visconti. Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la figura del protagonista del film, il
Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe
Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella
finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua
famiglia in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo
agrigentino di Donnafugata, ossia Ciminna Palma di Montechiaro e Santa
Margherita di Belice in provincia di Agrigento). Il film ha vinto Palma
d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. Trama Nel maggio 1860, dopo
lo sbarco a Marsala di GARIBALDI (si veda) in Sicilia, Don Fabrizio CORBERA
assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. La classe
dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità. Infatti
gl’amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa
approfittano della nuova situazione politica. Don Fabrizio di
Salina in una scena del film. Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di
antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur
combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gl’eventi a proprio
vantaggio e cita la famosa frase. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna
che tutto cambi. Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la
capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia
all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza
sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: E dopo sarà
diverso, ma peggiore. Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la
famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo
sindaco del paese Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito,
che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in
precedenza manifesta qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del
principe, s'innamora di ANGELICA, figlia di Sedara, che infine sposa,
sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio. Episodio significativo
è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley
di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a SENATORE del nuovo Regno
d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo
siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase. In Sicilia non importa
far male o bene. Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente
quello di fare. Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante
aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne avrà la
conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a meditare
sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della sua
vita. Produzione Modifica Difficoltà produttive Il produttore Lombardo,
patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, quando Il Gattopardo sta riscuotendo un grande successo editoriale.
La regia venne affidata inizialmente a Soldati e poi a Giannini, che però
vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla realizzazione
della pellicola e sostituiti con Visconti. Giannini scrive addirittura una
bozza di sceneggiatura che approfonde le vicende risorgimentali, allontanandosi
però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e mettendo in secondo piano la STORIA
D’AMORE tra Tancredi e Angelica. Per queste ragioni, Lombardo, con la
mediazione di Visconti, incarica Amico, Campanile, Medioli e Franciosa di
scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di Giannini, che rimane
molto offeso dal comportamento del produttore e per questo si ritira per sempre
dal mondo del cinema. Al cinema Barberini di Roma, il film usce in
anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici intensi mesi,
iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe luogo lunedì 14
maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo scenografo Mario
Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza Tomasi, aveva
effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a dissipare le
preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso Lombardo raccontò in
un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a Visconti di contenere i
costi che crescevano sempre di più, ricevette questa risposta dal regista:
"Lombardo, io questo film lo posso fare solo così. Se lei vuole, mi può
sostituire". L'investimento richiesto da questo colossal italiano si
rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla Titanus allorché ne
aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato accordo di
co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel ruolo di
protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti (che
avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence Olivier
o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov), e forse dello stesso attore,[5] permise
un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th Century
Fox. Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e da
questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione
dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica. Riprese Per
quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli eventi sia oscurata e
marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del protagonista-regista, un
grande impegno fu posto nella ricostruzione degli scontri tra garibaldini ed
esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti (piazza San Giovanni
Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno, piazza della
Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le saracinesche sostituite
da persiane e tende, pali e fili della luce eliminati".Tutto questo per
iniziativa di Visconti, poiché il produttore Lombardo si era raccomandato che
non vi fossero scene di combattimento. Villa Boscogrande Si rese
inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24 giorni, della villa Boscogrande,
nei pressi della città, che sostituì, per le scene iniziali del film, il
palazzo dei Salina, le cui condizioni ne sconsigliavano l'utilizzo. Anche
per le scene girate nella residenza estiva dei Salina, Castello di Donnafugata,
che nel romanzo sostituiva Palma di Montechiaro, si scelse un sito alternativo,
Ciminna. "Visconti s'infatuò per la Chiesa Madre e il paesaggio
circostante. L'edificio a tre navate presentava uno splendido pavimento in
maiolica. L'abside decorata con stucchi rappresentanti apostoli e angeli di
Scipione Li Volsi era inoltre provvista di scranni lignei del 1619 intagliati
con motivi grotteschi, particolarmente adatti ad accogliere i principi nella
scena del Te Deum. Il soffitto originale della chiesa, in parte danneggiato
durante le riprese è stato poi rimosso e oggi non è più in sito. Inoltre
la situazione topografica della piazzetta di Ciminna sembrava ottimale, mancava
solo il palazzo del principe. Ma in 45 giorni la facciata disegnata da Marvuglia
fu innalzata davanti agli edifici a fianco della chiesa. L'intera
pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando l'asfalto e rimpiazzandolo
con ciottoli e lastre". Gran parte delle riprese ambientate all'interno
della residenza furono girate a Palazzo Chigidi Ariccia. Infine, varie scene
sono state girate internamente ad alcune sale del palazzo Manganelli a
Catania. Gli interni di Palazzo Valguarnera-Gangi Il balloModifica
Ottimo era invece lo stato di manutenzione di palazzo Valguarnera-Gangi, a
Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale, la cui coreografia venne
affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema da affrontare era
l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono generosamente all'opera
gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con mobili, arazzi,
suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e altre opere
artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato finale valse
uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia. Un altro Nastro
d'argento andò alla fotografia a colori di Rotunno (che lo aveva vinto anche
l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in particolare,
l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva ridurre al
minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di candele, che
costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano essere riaccese
all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente sostituite; inoltre non
di rado la cera fusa colava addosso alle persone presenti in scena. La
preparazione del set, la necessità di vestire centinaia di comparse richiesero
per queste scene turni estenuanti. La scena del ballo (oltre 44 minuti) a
Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua durata e
opulenza. Distribuzione Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni.
Accoglienza Il film registra un ottimo successo al botteghino in Italia,
risultando campione d'incassi assoluto nella stagione con un ricavato di
2.323.000.000 di lire dell'epoca; detiene a oggi il nono posto nella classifica
dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti. Tuttavia
il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare
nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della
Titanus. Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della
critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato
montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di
quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva. Lo stesso Lancaster
s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana,
illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro. Il
film è osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato
Visconti) che non vede di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto
espressione di un'ideologia reazionaria e politicamente conservatore. Per
questo motivo il regista monta una versione alternativa per la critica
cinematografica della sinistra di area comunista, che include alcune scene del
tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede
marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina, poi
tagliate nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non
basta a risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che
bollarono il film di anti-storicismo. Con il passare degli anni, il film è stato
rivalutato in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito
aggregatore Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali
positive, con un consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il
gattopardopresenta battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si
candida per la più bella sequenza trasposta in cinema". Su Metacritic ha
invece un punteggio di 100 basato su 12 recensioni. Scorsese lo ha inserito
nella lista dei suoi dodici film preferiti di tutti i tempi. Il film è stato
inoltre selezionato tra i 100 film italiani da salvare. Riconoscimenti Festival
di Cannes 1963 Palma d'oro a Visconti David di Donatello 1963 Miglior
produttore a Goffredo Lombardo Premio Feltrinelli 1963 Premio per le arti -
Regia cinematografica National Board of Review Awards Migliori film stranieri
Golden Globe Candidato per il Miglior attore debuttante ad Alain Delon Premi
Oscar Candidato per i Migliori costumi a Piero Tosi Nastri d'argento 1964
Migliore fotografia a coloria Giuseppe Rotunno Migliore scenografia a Mario
Garbuglia Migliori costumi a Piero Tosi Candidato Regista del miglior film a
Luchino Visconti Candidato Migliore sceneggiatura a Suso Cecchi D'Amico,
Luchino Visconti, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed Enrico Medioli
Candidato per la Migliore attrice non protagonistaa Rina Morelli Candidato per
il Migliore attore non protagonistaa Romolo Valli CommentoModifica Il
Gattopardo rappresenta nel percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale
momento di svolta in cui l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante
comunista si attenua in un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese,
in una ricerca del mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di
ambientazione storica. Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa
Margherita di Belìce dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta,
col suo giardino, nel romanzo. Il regista stesso, a proposito del film, indicò
come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don
Gesualdo di Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust. Sotto il profilo
della critica, è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in
termini puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi,
sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come regia:
l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la reiterazione,
l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e comprimari, la
funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e degli oggetti, la
scenografia. La rivoluzione mancata Il principe di Salina Fabrizio
Corbera interpretato da Burt Lancaster. La pubblicazione del romanzo di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra italiana
un dibattito sul Risorgimento come rivoluzione senza rivoluzione, a partire
dalla definizione utilizzata da GRAMSCI (si veda) nei suoi Quaderni del
carcere. A chi accusa il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si oppone
un gruppo d’intellettuali che ne apprezza la lucidità nell'analizzarne la
natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed
emergente classe borghese. Visconti, che affronta la questione risorgimentale
in Senso e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non
esita ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da
Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del romanzo.
Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo di
CORBERA, Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in
un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del
personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza. Lo
sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Lancaster, per il quale
questa esperienza di doppio del regista varrà una profonda trasformazione
interiore, anche sul piano personale. È qui che si può cogliere la cesura
rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui
nella sua opera nessuna forza positiva della storia...si profila come
alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia. È
determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti
assegna, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata -- da
solo occupa circa un terzo del film -- sia per la collocazione (ponendolo come
evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre, sino a comprendere
la morte del principe e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo.
In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo
e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di
Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di LEONI E
GATTOPARDI, sostituiti da SCIACALLI EDIENE. I sontuosi ambienti, vestigia di un
glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti
all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi,
meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani).
Così lo scaltro don Calogero Sedara (Stoppa), rappresentante di una nuova
borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza
dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per
portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse. Ma è
soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote
Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte,
a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori,
che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo
mondo. Awards, su festival-cannes.fr. Il Gattopardo di Giannini che non vide
mai la luce, in la Repubblica, Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su
osservatoreromano. Boschi, La valigia dei sogni, LA7, Caterina D'Amico, La
bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero,
Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di
due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a
coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Aldrich e Il Gattopardo di Visconti".
Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema
italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Caterina D'Amico, op.cit.
^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a
colori e quella in bianco/nero ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto
per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi
tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties
varie". Ibid. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle
otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del
mattino, talora alle sei". Ibid ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior
incasso, su hitparadeitalia.it. I 50 film più visti al cinema in Italia dal
1950 ad oggi, su movieplayer.it Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di
Visconti, in la Repubblica, Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri E il Pci
cercò di levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, Torna in sala «Il
Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in
Corriere della Sera, Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La
Stampa, Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Fandango Media,Il Gattopardo, su
Metacritic, Red Ventures. Scorsese’s 12 favorite films, su miramax. Rete degli
Spettatori ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29 ^ Piero Spila,
Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e
nero" Antonello Trombadori (a cura
di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, Giusti, La transizione di
Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Gosetti, Il Gattopardo, Milano,
Luciano De Giusti, op.cit. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley
Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, Antonio La Torre
Giordano, Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini ASCinema -
Archivio Siciliano del Cinema, prologo di Goffredo Fofi, prefazione di Nino
Genovese, Caltanissetta, Edizioni Lussografica,
Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Visconti, collana Dal
soggetto al film, Cappelli editore, Bologna (Alberto Anile, Maria Gabriella
Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di
"destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore,
Genova. Il Gattopardo, su CineDataBase, Rivista del cinematografo. Modifica su
Wikidata Il Gattopardo, su MYmovies.it, Mo-Net Srl. Modifica su Wikidata Il
Gattopardo, su ANICA, Archivio del cinema italiano Il Gattopardo, su Internet
Movie Database, IMDb.com. Il Gattopardo, su AllMovie, All Media Network Il
Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Il Gattopardo, su FilmAffinity.
Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Il Gattopardo, su TV.com, Red Ventures
Il Gattopardo, su AFI Catalog of Feature Films, American Film Institute. Portale
Cinema Portale Risorgimento Tancredi Falconeri Il Gattopardo
romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa Principe Fabrizio
SalinaGiuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano Lingua Segui Giuseppe
Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa.jpg Giuseppe Tomasi di Lampedusa in una
fotografia d'epoca Principe di Lampedusa Stemma In carica Altri titoli Duca di
Palma Barone della Torretta Barone di Montechiaro Grande di Spagna Nascita Palermo,
Morte Roma SepolturaCimitero dei Cappuccini, Palermo DinastiaTomasi di
Lampedusa Padre Giulio Maria Tomasi Madre Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò
Consorte Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee Religione Cattolicesimo. Se
vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. -- Tancredi
Falconeri, nipote materno di Don Fabrizio CORBERA, Principe di Salina, Duca di
Querceta, Marchese di Donnafugata, ne "Il Gattopardo") Premio
Strega Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo – Roma) è stato un nobile e
scrittore italiano. Letterato di complessa personalità e autore del noto
romanzo Il Gattopardo, è un personaggio taciturno e solitario e trascorse gran
parte del suo tempo nella lettura. Ricordando la propria infanzia scrisse: ero
un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva di più stare con le cose che
con le persone. BiografiaModifica InfanziaModifica Don Giuseppe Tomasi,
11º principe di Lampedusa, 12º duca di Palma, barone di Montechiaro, barone
della Torretta, Grande di Spagna di prima Classe (titoli acquisiti alla morte
del padre), nacque a Palermo, figlio di Giulio Maria Tomasi e di Beatrice
Mastrogiovanni Tasca di Cutò. Rimase figlio unico dopo la morte della sorella
maggiore Stefania, avvenuta a causa di una difterite. Fu molto legato alla
madre, donna dalla forte personalità, che ebbe grande influenza sul futuro
scrittore. Non lo stesso avvenne col padre, un uomo dal carattere freddo
e distaccato. Da bambino studiò nella sua grande casa a Palermo con l'ausilio
di una maestra privata, della madre (che gli insegnò il francese) e della
nonna, che gli leggeva i romanzi di Emilio Salgari. Nel piccolo teatro della
residenza di Santa Margherita Belice, ereditata dai Cutò e molto amata da sua
madre, dove passava lunghi periodi di vacanza, talora anche in inverno,
assistette per la prima volta a una rappresentazione dell'Amleto, recitato da
una compagnia di girovaghi. Il casato dei Tomasi di Lampedusa è una
diramazione della famiglia Tomasi da cui discendono anche i Leopardi di
Recanati e che la tradizione indica di origini bizantine. Caratterizzata da
grande fervore religioso, non condiviso dallo scrittore, la famiglia vanta
nell'albero genealogico un santo, san Giuseppe Maria Tomasi, e una venerabile,
Isabella Tomasi. In epoca recente lo zio Pietro Tomasi della Torretta fu
Ministro degli esteri e presidente del Senato. Sotto le armi a Caporetto,
Tomasi di Lampedusa FREQUENTA IL LICEO CLASSICO A ROMA e in seguito a Palermo.
Sempre a Roma, s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Viene chiamato alle
armi, partecipa alla guerra come ufficiale d'artiglieria e nella disfatta di
Caporetto è catturato dagl’austriaci, che lo imprigionarono in Ungheria.
Riuscito a fuggire, torna a piedi in Italia. Dopo le sue dimissioni dal
Regio Esercito con il grado di tenente, ritorna nella sua casa in Sicilia,
alternando al riposo qualche viaggio, sempre in compagnia della madre, che non
lo abbandona mai, e svolgendo studi sulle letterature straniere. Insieme al
cugino Piccolo, si reca a Genova, dove si trattenne collaborando alla rivista
letteraria Le opere e i giorni. Il matrimonio con Licy von
Wolff-Stomersee, A Riga sposa in una chiesa ortodossa la studiosa di
psicanalisi Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee, detta Licy, figlia del
barone tedesco del Baltico Boris von Wolff-Stomersee e della cantante italiana
Alice Barbi, la quale aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Tomasi,
marchese della Torretta, zio di Giuseppe. Andano a vivere con la madre di lui a
Palermo. Ben presto l'incompatibilità di carattere tra le due donne fa tornare
Licy in Lettonia. Muore Giulio Tomasi, e così Giuseppe eredita il titolo. Venne
richiamato alle armi, ma, essendo a capo dell'azienda agricola ereditata, è
presto congedato. Si rifugia così con la madre a Villa Piccolo (Capo
d'Orlando), dove poi li raggiunse Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra. È
nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi
presidente regionale. La madre, che è da poco tornata a Palermo, muore. Inizia
a frequentare un gruppo d’intellettuali, dei quali fanno parte Orlando e
Mazzarino. Con quest'ultimo instaura un buon rapporto affettivo, tanto da
adottarlo. Da quel momento in poi Mazzarino è ribattezzato Tomasi.
L'incontro con Montale e Bellonci
Statua a grandezza naturale dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa
situata in piazza Matteotti a Santa Margherita Belice Tomasi di Lampedusa è spesso
ospite presso il cugino Piccolo, col quale si reca a San Pellegrino Terme per
assistere a un convegno letterario, cui il parente poeta è stato invitato per
ritirare il primo premio di un concorso letterario. Lì conobbe Montale e Bellonci.
Si dice che è al ritorno da quel viaggio che inizia a scrivere Il
Gattopardo. All'inizio il manoscritto del Gattopardo non è preso in
considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi, alle quali è inviato in
lettura, e i rifiuti riempirono Tomasi di Lampedusa di amarezza. Il manoscritto
è giudicato negativamente da Vittorini, influente lettore per Mondadori e
curatore della celebre collana "I gettoni" per l'editore Einaudi, che
non s'accorse di aver letto un capolavoro della letteratura italiana e
mondiale. Vittorini successivamente rifiuta la pubblicazione de Il dottor
Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass. La morte e il
successo postumo Francobollo per il cinquantenario della morte. Gl’è diagnosticato
un tumore ai polmoni. Muore, non prima di aver adottato come erede l'allievo e
lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. Il romanzo è pubblicato POSTUMO quando
Elena Croce lo invia a Bassani, che lo fa pubblicare presso la casa editrice
Feltrinelli. Il romanzo vince il Premio Strega. Curiosamente, anche Giuseppe
Tomasi di Lampedusa muore lontano da casa come il suo antenato protagonista de
Il Gattopardo, a Roma, nella casa della cognata in via San Martino della
Battaglia n. 2, dove è andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si
rivelarono inefficaci. La salma è tumulata nella tomba di famiglia al Cimitero
dei Cappuccini di Palermo. Non avendo eredi, i titoli nobiliari (duca di
Palma, principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e
Grande di Spagna di prima Classe) andano allo zio paterno Pietro Tomasi della
Torretta, che muore senza lasciare discendenti diretti, ma solo collaterali.
Gli succedette il cugino Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa,
suo congiunto maschio più prossimo, che eredita con due cugine figlie di Chiara
anche parte dei beni. Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni
Giulio, VIII Pr. di Lampedusa Giuseppe Tomasi, III, VII Pr. di Lampedusa
Carolina Wochinger e Greco Giuseppe, IX Pr. di Lampedusa Maria Stella Guccia e
Vetrano Giovan Battista Guccia e Bonomolo VetranoGiulio, X Pr. Lampedusa
Salvatore Papè e Gravina Pietro Papè e BolognaIppolita Gravina MassaStefania
Papè e Vanni Vittoria Vanni e FilangieriFrancesco Vanni e InvegesRosalia
Filangieri Giuseppe, XI Pr. di Lampedusa Lucio Mastrogiovanni Tasca e Nicolosi
Paolo Mastrogiovanni TascaRosa NicolosiLucio Mastrogiovanni Tasca e Lanza
Beatrice Lanza Branciforte Giuseppe Lanza Branciforte StefaniaBrancifortee
Branciforte Beatrice Mastrogiovanni Tasca e Filangieri Alessandro IV Filangieri
e Pignatelli Niccolò Filangieri Margherita Pignatelli Aragona Cortes Giovanna
Nicoletta Filangieri e Merlo Teresa Merlo Clerici Francesco MerloGiovanna
ClericiFilm biografici Giuseppe Tomasi in età giovanile La macchina per
scrivere di Tomasi (Museo del Risorgimento, Santa Margherita Belice) La
tomba nel Cimitero dei Cappuccini (Palermo) La storia dell'ultimo periodo della
sua vita e della stesura de Il Gattopardo è raccontata nel film del di Andò, Il
manoscritto del Principe. Gregoretti gira il documentario La Sicilia del
Gattopardo in cui ricostruisce la vita e i luoghi di ispirazione del romanzo.
In occasione della quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è
stato proiettato il Docufilm Die Geburt des Leoparden (La nascita del
Gattopardo), regia di Falorni. Un viaggio alla scoperta della vita dell'ultimo
principe di Lampedusa raccontato dalle voci e dalle testimonianze delle persone
care[6]. DedicheModifica Nel 2011 Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus.
Gli è stato dedicato un asteroide, il Lampedusa. A Santa Margherita di Belice è
stato allestito presso il Palazzo del Gattopardo, ex proprietà dei Lampedusa il
Museo del Gattopardo. Nasce a Santa Margherita di Belice il parco letterario
Giuseppe Tomasi di Lampedusa che dà il via al Premio letterario internazionale
Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Viene fondata nel comune di Palma di Montechiaro
l'istituzione comunale Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con direttore scientifico
Gioacchino Lanza Tomasi. OpereModifica Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, I
ed. novembre 1958; nuova edizione riveduta sul manoscritto a cura di Gioacchino
Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli. Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani,
Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n. 26, Milano, Feltrinelli;
edizione riveduta a cura di Nicoletta Polo, prefazione di Gioacchino Lanza
Tomasi, Milano, Feltrinelli; Nuova ed. rivista e accresciuta, Collezione Le
Comete, Feltrinelli; Collana UE, Feltrinelli Lezioni su Stendhal, Palermo,
Sellerio. Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Collana I Fatti e le
Idee, Milano, Feltrinelli, Il mito, la gloria, a cura di Marcello Staglieno,
Roma, Shakespeare et Company, Letteratura inglese, Dalle origini al Settecento;
II: L'Ottocento e il Novecento, a cura di Nicoletta Polo, postfazione di
Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori. Opere, introduzione e premessa di
Gioacchino Lanza Tomasi, a cura di Nicoletta Polo, Collana I Meridiani, Milano,
Mondadori; Nuova edizione aumentata, Collana I Meridiani, Mondadori, Licy e il
Gattopardo. Lettere d'amore, a cura di Sabino Caronia, Roma, Edizioni
associate, Viaggio in Europa. Epistolario, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e
Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, La sirena, Milano, Feltrinelli [con
cd audio contenente una registrazione a voce dell'autore]. Ah! Mussolini!,
Postfazione di Gioachino Lanza Tomasi, Milano, De Piante I racconti, 5ª ediz.,
Milano Gilmour, L'Ultimo gattopardo ^ Indro Montanelli, La stanza di
Montanelli. Elio Vittorini fascista? Lo eravamo tutti, Corriere della Sera,
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega. Morire, come ogni altra cosa, è
un'arte». Due scomparse indecenti e una morte ambiziosa, su elapsus. Tomasi di
Lampedusa e il Gattopardo, genesi di un capolavoro in DVD, sul sito Luce
Cinecittà, Museo del GATTOPARDO LEOPARDO LEOPARDI, su comune. Santa margherita di
belice. ag.i Anile - Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, Genova,
Le Mani, Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo, Bertolucci, Il
Principe dimenticato, Sarzana, Carpena, Salvatore Calleri, La zampata del
Gattopardo. I luoghi dell'anima: solitudine e ricerca interiore in Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, a cura dell'Istituto di Pubblicismo, Scialpi, Roma
(Calleri) Ciccia, Tomasi di Lampedusa in Profili di letterati siciliani dei
secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, Arnaldo Di
Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura e La «sublime normalità dei
cieli»: considerazioni sulla parte prima del «Gattopardo», in Poesia e critica
del Novecento, Liguori, Napoli, Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana,
in O&L. I nomi da Dante ai contemporanei, a cura di B. Porcelli e B.
Bremer, Baroni, Viareggio, Benedetto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «La
Sirena», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana, vol. IV (Il
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Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, Basilio
Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, Moretti et Vitali,. Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo. I
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New York, Farrar, Straus and Giroux, Ferraloro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa -
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Gattopardo Tomasi di Lampedusa (famiglia) Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Modifica su Bibliografia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Internet
Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su
Goodreads. Bibliografia italiana di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Catalogo
Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, su Internet Movie Database, IMDb Parco letterario Tomasi di
Lampedusa, su parcotomasi.it. Portale Biografie Portale Letteratura
Tomasi musicologo italiano Il GATTOPARDO – IL LEOPARDO e I LEOPARDI
romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa (famiglia)
famiglia aristocratica italianaTomasi di Lampedusa (famiglia) famiglia
aristocratica italiana Lingua Segui Modifica Tomasi di Lampedusa Coat of arms
of the Family of Tomasi.svg spes mea in deo est D'azzurro al leopardo d'oro,
illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito. Stato Bandiera
del Regno di Sicilia 4.svg Regno di Sicilia Flag of the Kingdom of the Two
Sicilies svg Regno delle Due Sicilie Flag of Italy crowned.svg Regno d'Italia
Italia Italia Casata di derivazioneTomasi TitoliCroix pattée.svg Principe di
Lampedusa Croix pattée.svg Duca di Palma Croix pattée.svg Barone di Montechiaro
Croix pattée.svg Barone di Falconeri Croix pattée.svg Barone della Torretta
Croix pattée.svg Grande di Spagna FondatoreMario Tomasi Data di fondazioneXVI
secolo Etniaitaliana I Tomasi di Lampedusa sono una famiglia storica siciliana,
diramatasi dai Tomasi, che deve la propria notorietà in particolare al suo
esponente Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al successo editoriale da questi
ottenuto, postumo, con la pubblicazione del romanzo IL GATTOPARDO (LEOPARDO E
LEOPARDI). Stemma dei Tomasi di Lampedusa StoriaModifica Origini: studi e
leggende Il castello di Palma di Montechiaro Le prime notizie storiche
sui Tomasi risalgono al VII secolo, mentre, per quanto concerne i secoli
precedenti, sono state prospettate ipotesi diverse. Secondo la tradizione è
originaria di Bisanzio. Alcuni studiosi (Sansovino, Villabianca, Palizzolo
Gravina) sostengono che LA FAMIGLIA DE’LEOPARDI DA ROMA SI TRASFERE A
COSTANTINOPOLI AL SEGUITO DELL’IMPERATORE COSTANTINO. Filadelfo Mugnos afferma
che la famiglia discende da Leopardo, figlio di CRISPO, PRIMOGENITO dell'imperatore
Costantino. Archibald Colquhoun ritiene che il capostipite dei Tomasi è Thomaso
il Leopardo, figlio dell'imperatore TITO (si veda) e della regina Berenice. Vitello,
autore che ha approfondito gli studi sulla famiglia, fa discendere i Tomasi da
Irene, figlia dell'imperatore bizantino TIBERIO (si veda), che sposa Thomaso
detto il Leopardo, principe dell'Impero e comandante della guardia imperiale. Come
segnala Buonassisi, è condivisa l'opinione che individua in due fratelli
gemelli, Artemio e Giustino, gli artefici del ritorno in Italia dei
Leopardi-Tomasi. La discendenza dai due gemelli, approdati ad Ancona e
provenienti da Bisanzio, è stata confermata da Vitello, studioso della
genealogia della famiglia Tomasi di Lampedusa, e ribadita da quanti, dopo la
pubblicazione degli scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si sono
interessati alla sua ascendenza. TEMENDO PER LA LORA VITA a causa delle lotte
al vertice dell'Impero, LASCIANO COSTANTINOPOLI dopo la morte dell'imperatore
Eracleo, stabilendosi ad Ancona. Dal ramo rimasto nelle Marche discenderebbero
i Leopardi nei rami di Recanati, come pure sostene Monaldo padre di Giacomo LEOPARDI
(si veda), e di Amatrice, da cui discende la schiatta, tuttora esistente anche
in linea femminile [ de Sanctis di Castelbasso e Rosati di Monteprandone de
Filippis Delfico] di Pier Silvestro Leopardi. Titoli nobiliari In Sicilia
non vige la legge salica ed i titoli nobiliari si trasmettevano anche in linea
femminile. In forza delle norme dettate nel Liber Augustalis (III, 27 “de la
successione de li nobili in li feudi") e nei capitula "de successione
feudalium", "de alienatione feudorum","de successione
feudorum" e della prammatica i titoli venivano trasmessi al collaterale
maschio vivente più prossimo e più anziano e, in mancanza di maschi, alla
femmina più prossima privilegiando le nubili. Il primo titolo nobiliare dei
Tomasi di Sicilia, la baronia di Montechiaro, fu acquisito per via materna
come, in epoche successive, anche le baronie di Franconeri e della
Torretta. LetteraturaModifica Il casato dei Tomasi di Lampedusa, ramo
staccatosi dai Tomasi di Capua, trasferitosi da Siena nel Regno di Napoli al
seguito di Alfonso V d'Aragona è stato immortalato nel romanzo Il Gattopardo
scritto dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il successo dell'opera
ha determinato il diffondersi di due neologismi: il sostantivo
"gattopardismo" e l'aggettivo "gattopardesco.” Stemma L'arma dei
Tomasi (Palazzo ducale, Palma di Montechiaro) BlasonaturaModifica D'azzurro al
leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde
cucito.[12] MottoModifica spes mea in deo est GenealogiaModifica
Baroni di Montechiaro e duchi di PalmaModifica Il capostipite dei Tomasi
siciliani, Mario, capitano d'armi, si trasferì dalla Campania in Sicilia, a
Licata[13], dove sposò Francesca Caro baronessa di Montechiaro. Mario Tomasi e
Francesca Caro ebbero due gemelli, Ferdinando e Mario, governatore del Castello
di Licata e capitano dell'Inquisizione. Ferdinando (1597-1615), barone di
Montechiaro[14], appena sedicenne sposò Isabella La Restia; i coniugi ebbero
due gemelli, Carlo e Giulio, rimasti orfani del padre a nove mesi; quando i
gemelli avevano diciassette anni morì anche la madre e lo zio Mario li chiamò
presso di sé a Licata dove restarono circa sei anni. Carlo venne nominato
duca di Palma (il duca è l'artefice della fondazione del paese oggi denominato
Palma di Montechiaro) ma cede baronia e ducato al fratello e prese gli ordini
diventando uno dei chierici regolari teatini studioso di teologia. Scrisse
numerose opere in latino e italiano, cinquantuno delle quali pubblicate. Dopo
la sua morte, essendogli stati attribuiti diversi miracoli, venne avviato un
processo di beatificazione e fu proclamato Servo di Dio. La famiglia annovera
anche tre cardinali nel periodo bizantino (Fabio, durante il papato di Gregorio
III, Vibiano durante quello di Alessandro II e Pietro durante il Patriarcato di
Gerusalemme di Sergio III). Duca SantoModifica La venerabile Maria
Crocifissa (Isabella Tomasi), Giulio I, duca di Palma e barone di Montechiaro
venne nominato principe di Lampedusa, sposò Rosalia Traina, baronessa di
Falconeri, dalla quale ebbe otto figli: Francesca, suor Maria Serafica,
badessa del monastero di Palma; Isabella, suor Maria Crocifissa, beata (nel
romanzo è ricordata come "Beata Corbera"); Ferdinando, che morì a tre
mesi; Antonia, suor Maria Maddalena; Giuseppe I, cioè San Giuseppe Maria
Tomasi; Rosaria; Ferdinando; Alipia, suor Maria Lanceata. I coniugi impartirono
ai figli una rigida educazione religiosa; tutti, fatta eccezione per
Ferdinando, si indirizzarono alla carriera ecclesiastica. Tale fervore
religioso si perpetuò anche nei secoli successivi, tanto che i Tomasi
rischiarono spesso l'estinzione. Isabella, che visse come Suor Maria
Crocifissa, entrò nel monastero, per lei e le sorelle fondato dal padre, il
giorno dell'inaugurazione e con lei entrarono Francesca e Antonia: Isabella
aveva quattordici anni, Francesca quindici ed Antonia undici. Anche la madre
Rosalia entrò in convento di clausura come oblata insieme alla figlia
diciottenne Alipia (l'unica che avendo solo sei anni quando vi entrarono le
sorelle non le aveva seguite); fu costretta, per amministrare i vassalli, ad
uscire dalla clausura quando il nipote Giulio II restò orfano. Giulio I
dedicò l'intera sua vita alla beneficenza e ad opere pie con tale assiduità ed
impegno da essere definito il Duca Santo; costruì numerose chiese, un asilo per
le orfanelle, un ospedale, un reclusorio per meretrici pentite, istituì un
Monte di Pietà per contrastare gli usurai, avviò bonifiche e si dedicò a
numerose opere sociali ed umanitarie. Il terzo principe di Lampedusa fu
Ferdinando I, al quale spettarono i titoli nobiliari del padre, in quanto prima
di lui erano nati solo due maschi, Ferdinando morto a tre mesi e Giuseppe I
che, rinunciando ai suoi diritti dinastici, si era indirizzato alla carriera
ecclesiastica. Tutte e quattro le figlie vollero entrare come suore di clausura
nel Monastero Benedettino. Il fervore religioso di Giulio I e dei suoi
congiunti era tale che a Palma l'intera famiglia era nota come "una razza
di Santi"; è ancora conosciuta a Palma una deliziosa nenia "Il
testamento del Duca di Palma. Come il fratello Carlo alla sua morte Giulio I
venne proclamato Servo di Dio. l Principi di Lampedusa, duchi di Palma,
baroni di Montechiaro e FalconeriModifica Ferdinando I morì a soli ventun anni,
l'anno successivo alla nascita del figlio Giulio II, nato dal matrimonio con
Melchiorra Naselli e Carlo. Anche Giulio II, morì giovane, a ventisette anni;
dalla moglie Anna Maria Fiorito e Tagliavia, ebbe due figli maschi Antonino
morto in tenera età e Ferdinando II, che visse quasi ottant'anni, sposò Rosalia
Valguarnera e Branciforte e, rimasto vedovo, Giovanna Valguarnera e La Grua.
Giulio II restò sino all'età di sette anni nel monastero che ospitava la nonna
Rosalia (suor Seppellita) e le zie; compiuti i sette anni assunse l'onere della
sua educazione il nonno materno Luigi, principe d'Aragona. Nonostante sia morto
giovane riuscì a fondare l'Istituto delle Scuole Pie, affidato ai Padri
Scolopi. Fu allievo dell'Istituto, la cui sede è oggi occupata dal comune di
Palermo. Ferdinando II ebbe dieci figli, otto maschi e due femmine, Maria,
suor Maria Crocifissa monaca del monastero di Palma e ANNA MARIA che sposò
Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I figli maschi fatta eccezione
per il primogenito Giuseppe II e per Gaetano morto in tenerissima età, si
diedero alla carriera ecclesiastica o a quella militare: Giulio, Abate di Santa
Maria di Roccamadore e Prelato domestico di Clemente XIV, Salvatore prete
dell'Olivella, Carlo, gentiluomo di camera del duca di Savoia e capitano
dell'esercito sardo, Gioacchino esente guardie del corpo, Elia, capitano di
artiglieria, Pietro, cavaliere di Malta. Ferdinando II potenziò il patrimonio
della famiglia e la istituzione dell'Accademia dei Pescatori Oretei con
finalità letterarie, il terzo seminario dei Nobili retto dai padri Scolopi, e
l'assunzione di rilevanti ruoli politici. Fu nominato da Carlo VI grande di
Spagna, fu presidente dell'arciconfraternita della Redenzione dei Cattivi,
capitano di Giustizia di Palermo, pretore di Palermo, deputato del Regno,
Vicario generale del Regno, maestro razionale di cappa corta del Regio
Patrimonio. Giuseppe II sposò Antonia Roano e Pollastra dalla quale ebbe tre
figli Francesco morto in tenera età, Rosalia, moglie di Gioacchino Burgio del
Vio, Duca di Villafiorita e Giulio III. Giuseppe II, cavaliere di Malta, fu governatore
della Compagnia della Pace, ambasciatore del Senato di Palermo presso Carlo
III, governatore del Monte di Pietà, capitano di Giustizia di Palermo, deputato
del Regno, presidente dell'Arciconfraternita per la Redenzione dei Cattivi,
Intendente Generale degli eserciti. Il figlio Giulio III sposò Maria
Caterina Romano Colonna figlia del duca di Reitano, con la quale ebbe tre figli
Baldassarre cavaliere di Malta, Antonia moglie di Francesco Arduino Ruffo
marchese di Roccalumera e Giuseppe III. Giulio III è governatore della Pace,
senatore di Palermo, rettore dell'Ospedale Grande, deputato del Regno, pretore
di Palermo, governatore del Monte di Pietà, cavaliere di San Giacomo.
Giuseppe III si sposa due volte. La prima moglie, Angela Filangeri e la Farina
figlia del principe di Cutò muore di parto insieme al nascituro. Dalla seconda
moglie Carolina WOCHINGHER ha due femmine Caterina che sposa Giuseppe
Valguarnera e Ruffo, principe di Niscemi e duca dell'Arenella e Antonia che
sposò Francesco Caravita principe di Sirignano. L’UNICO MASCHIO, Giulio IV
CORBERA, è il protagonista del romanzo IL GATTOPARDO. Giuseppe III dovette
affrontare una situazione disastrosa sotto il profilo economico. La moglie
Carolina, rimasta vedova, è costretta ad affrontare numerose vertenze
giudiziarie e a varare un progetto di contenimento delle spese. IL
GATTOPARDO e i suoi discendentiModifica Giulio Fabrizio Maria Tomasi Caro
Traina IV, pari di Sicilia, principe di Lampedusa, duca di Palma, barone di
Montechiaro e Falconeri, sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del
marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia, fondatore
del Circolo Matematico di Palermo. Diedero alla luce dodici figli, sette
femmine e cinque maschi. È il principe di Salina, protagonista del romanzo del
bisnipote. Giuseppe Tomasi di Lampedusa Salvatore, decimo figlio,
morì giovane, come la sesta, Caterina e la dodicesima, Maria Rosa. Linea
maschile Giuseppe, primogenito del GATTOPARDO, sposa Stefania Papè e Vanni,
dalla quale ebbe cinque figli maschi: Giulio, Pietro, Francesco, Ferdinando e
Giovanni. Francesco ebbe un figlio, Giuseppe, morto ventenne. Si sposarono, ma
non ebbero figli, Pietro, Ferdinando e Giovanni, mentre il primogenito Giulio V
ebbe, oltre all'autore del romanzo, una femmina, Stefania. Giuseppe, lo
scrittore, principe, duca e barone, sposò Alexandra Wolff Stomersee, figlia di
un nobile baltico e dell'italiana Alice Barbi, che in seconde nozze aveva
sposato Pietro Tomasi della Torretta, zio di Giuseppe. Alla morte dell'autore
del romanzo, lo zio Pietro, il parente maschio più prossimo, eredita i titoli
di principe di Lampedusa, duca di Palma e barone di Montechiaro e Falconeri.
Come secondogenito è già barone della Torretta, conosciuto però come marchese
(di cortesia secondo gli autori), titolo che usa ufficialmente nella carriera
diplomatica. Pietro è Ministro degli Esteri, Senatore del Regno, ultimo
presidente del Senato del Regno e presidente del primo Senato della repubblica.
Con Pietro Tomasi Della Torretta si estinse la linea maschile. Linea
femminile Pietro muore a Roma, nominando eredi di quanto possede a
Ginevra le figlie della defunta moglie, una delle quali, Alexandra Wolff
Stomersee, sposa Giuseppe, il nipote scrittore. I suoi beni residui, tra i
quali un lussuoso appartamento a Roma, andarono agli eredi legittimi, suoi
cugini di primo grado: Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa,
che sposa Garofalo, e le sorelle Giovanna e Maria Carolina Crescimanno, figlie
di Chiara Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato Francesco Paolo Crescimanno di
Capodarso. Fra i diversi discendenti in linea femminile rimasti in
Sicilia, vi era Isabella Crescimanno di Capodarso, la quale scrisse Memorie,
libro in cui venivano raccontati aneddoti della famiglia. Rimangono il fratello
Cesare Crescimanno e i figli di lui Mario e Maria Laura, entrambi con figli ed
altri discendenti. Il secondogenito di Giulio Fabrizio Tomasi e di Maria
Stella Guccia, Giovanni, barone di Montechiaro, (Palermo - Baden Baden) sposò
la cugina prima Carolina Guccia, Il figlio Giuseppe sposò Rosa Agliata; portava il titolo di
conte di Celona ed aveva un grande biglietto da visita in cui dichiarava di
essere il solo ed unico cugino in secondo grado di Pietro Tomasi della
Torretta, senatore del Regno. Dal matrimonio nacquero quattro figli, due maschi
e due femmine. Tre non ebbero discendenti; soltanto Carolina ebbe un figlio dal
marito Giuseppe Lo Piccolo Palermo. Carolina era vivente quando Pietro Tomasi della
Torretta morì, Era la parente più prossima in via femminile, poiché suo padre
Giovanni era il secondogenito di Giulio Fabrizio. Da questo matrimonio fra
Maria Giovanni Tomasi e Guccia e la cugina Carolina Guccia nacquero una figlia
Maria Stella e un maschio Giuseppe che sposo Rosa Agliata ed ebbe due figli
maschi e due femmine. Erano molto poveri ed i maschi morirono di tisi lavorando
nelle miniere di Montegrande, una figlia era monaca e sua sorella Carolina
Guccia e Marasà sposò l'avv. Giuseppe Lo Piccolo. Quando Pietro Tomasi della
Torretta muore questo divenne il parente più prossimo in linea femminile. Ha
fatto cognonomizzare Tomasi ed ha invertito il cognome in Tomasi Lo Piccolo. È
seguito dai discendenti di Antonia Tomasi e Guccia la figlia più anziana di
Giulio Fabrizio, che andò sposa a Garofalo. I discendenti per via femminile di
questo matrimonio sono i Di Rella Tomasi di Lampedusa. Anche loro hanno fatto
cognonomizzare il cognome Tomasi di Lampedusa e sono discendenti di Garofalo,
l'unico cugino maschio di primo grado vivente alla morte di Pietro Tomasi della
Torretta. Nessuno dei discendenti viventi avrebbe comunque avuto diritto
- anche se la repubblica non avesse abolito i titoli nobiliari - al
riconoscimento dei titoli in capo a Pietro (principe di Lampedusa, duca di
Palma e barone della Torretta), poiché, dopo l'Unità d'Italia ed il
riconoscimento negli anni venti dei titoli borbonici, poiché ad essi era stata
estesa la legge salica, che escludeva le donne dalle linee dinastiche.
Secondo il diritto borbonico, invece, come si evince dall'esame dei Capitula
Regni Siciliae, il capo della dinastia sarebbe diventato Giuseppe Lo Piccolo
Tomasi, il parente maschio più prossimo in linea femminile. Quando Giuseppe
Garofalo morì, era vivente il figlio della sua unica figlia Maria, coniugata Di
Rella, quindi Aurelio Di Rella Tomasi ed i suo successori sarebbero i
successori secondo il diritto borbonico. In verità sono preceduti da Giuseppe
Lo Piccolo Tomasi, che non ha discendenti. Aurelio Di Rella Tomasi
di Lampedusa, avvocato, cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia e
componente della Consulta dei Senatori del Regno, ha tre figli, due dei quali
maschi, che si trovano immediatamente dopo di lui nella linea dinastica
femminile. Garofalo ha due sorelle: Marietta, che rimase nubile, e
Giulia, coniugata con Pietro Trombetta, che ebbe cinque figli (tre maschi e due
femmine). Uno dei maschi, Giovanni Trombetta, avvocato, fu vice comandante
militare della Resistenza ai nazisti in Liguria e. in onore della famiglia
materna, assunse il nome di battaglia di "Colonnello Tomasi".
La regolamentazione dei titoli araldici vigente nel Regno d'Italia. Consulta
araldica, Libro d'Oro Con la soppressione degli ordinamenti feudali,
negli Stati dove le distinzioni nobiliari sopravvissero vennero costituite
speciali commissioni consultive per l'esame di questioni araldiche. Si ebbero
così il tribunale araldico in Lombardia, la commissione araldica a Venezia e
Parma, la congregazione araldica capitolina a Roma ecc.. Analogamente a quanto
era avvenuto negli stati preunitari, anche nello stato italiano venne
istituito, con il Regio Decreto 313 del 10 ottobre 1869, un organo collegiale,
denominato Consulta araldica. Con il Regio Decreto venne istituito il LIBRO
D’ORO della nobiltà italiana. Questo registro ha man mano raccolto le
concessioni di giustizia o di grazia approvate dalla consulta araldica.
L'estratto del Libro d'oro fac fede del loro riconoscimento da parte del Regno
d'Italia. Le successioni sono regolamentate secondo la legge vigente nel
Regno di Sardegna, ed è quindi ammessa soltanto la SUCCESSIONE PER VIA MASCHILE
secondo le norme della legge salica: maschi primogeniti. La consulta fu
varie volte mutata nella composizione e nelle attribuzioni fino al Regio
Decreto. La consulta esamina tanto le pratiche di giustizia che quelle di
grazia. Le prime sono le successioni che segueno i principi della legge salica,
le seconde quelle successioni che hanno bisogno di una sanatoria concessa con
decreto reale: successioni per via femminile, in favore di membri della
famiglia diversi dai maschi primogeniti. Queste successioni per grazia avevano
il carattere di una rinnovazione. I titoli venivano concessi sul cognome ed
erano soggetti alla legge salica nella ulteriore trasmissione. Vennero di fatto
privilegiate le successioni che sanavano contenziosi all'interno delle grandi
famiglie e assistita la loro sopravvivenza. I criteri erano piuttosto
restrittivi, anche se il Regno d'Italia conservò spesso le regole presenti al
momento della loro concessione, per cui i titoli austriaci erano riconosciuti a
tutti i componenti maschili del casato. Il Libro d'oro stabilisce anche una
imposta di concessione per l'iscrizione ed in assenza di questa vari titoli
rimasero esclusi dall'inclusione per motivi fiscali. Era questo il caso di
famiglie che avevano molti titoli e non corrisposero la tassa per tutti quelli
che potevano rivendicare. Queste situazioni rimasero insanabili, in quanto
Umberto II non ritenne di dover sanare situazioni fiscali in vigore nel Regno
d'Italia. La trasformazione in REPUBBLICA italiana e la successiva costituzione
abolisceno qualsiasi titolo nobiliare. La XIV disposizione transitoria e finale
demanda a una legge ordinaria le modalità di soppressione della consulta
araldica. Per molti anni non sopraggiunse alcun atto al proposito e perciò si
presume che l'organismo persistes formalmente, pur non avendo più titolo né
scopo. Infatti la sentenza della corte costituzionale dichiara ILLEGITTIMA
qualsiasi legislazione araldico-nobiliare italiana. Ancora la consulta sentenzia
che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più
ampiamente, non conservano alcuna rilevanza. Il D. L. (convertito in legge) e
il Decreto legislativo abrogarono espressamente, rispettivamente, il R. D. e il
R. D., che regolano i titoli nobiliari, e la consulta araldica. Dopo tali atti
abrogativi, dunque, non esiste più alcuna norma giuridica relativa alla consulta
araldica e detta consulta è soppressa a tutti gli effetti. La consulta
araldica dopo la proclamazione della Repubblica La decisione di
abbandonare l'Italia da parte di Umberto II non determina una rinuncia totale
alle sue prerogative. Umberto ritenne di mantenere in vita la fons honorum
spettante a casa Savoia. Umberto II rilascia numerosi titoli nobiliari,
attenendosi alle prassi in essere ai tempi del Regno. Sono sanate molte
vertenze e il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana continua ad essere stampato
come documento di una associazione privata. Questa si struttura in associazioni
regionali e in una giunta centrale. Molti titoli sono anche assegnati a vari
sostenitori della monarchia ed alla borghesia imprenditoriale, in particolare
nel settore dell'edilizia. All'interno di questa prassi, Tomasi, avendo
richiesto alla corte di appello di Palermo di adottare il suo cugino in secondo
grado Gioacchino Lanza di Mazzarino e di Assaro, si presentava assieme ai
genitori dell'adottando Fabrizio Lanza di Assaro e Conchita Ramirez di
Villarrutia in tribunale e veniva registrato l'assenso all'adozione. Alla
registrazione del decreto da parte della Corte di Appello, Tomasi di Lampedusa
scrive a Lucifero, Ministro della Real
Casa, del suo desiderio di trasmettere i titoli della famiglia al figlio
adottivo, in assenza di una discendenza maschile. La lettera reca anche
l'adesione e l'appoggio di Tomasi della Torretta. Successivamente Fabrizio
Lanza di Assaro si reca a Villa Italia a Cascais ed Umberto II comunica per
iscritto a Lucifero la sua adesione alla proposta di trasmettere il titolo di
duca di Palma sul cognome all'adottando. I restanti titoli della famiglia
Tomasi, secondo il regolamento araldico del Regno d'Italia, tornano alla
Corona. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, (anche
centrale/mango online: vanta discendere dalla famiglia dei LEO-PARDI
(GATTO-PARDI) di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin cambiando il
cognome in quello di Tomasi.Tommasi di Vignano, Notizie storiche e genealogiche
sulla nobile famiglia Tommasi: Tommasi e Tomasi, rami di Siena, di Capua e di
Sicilia V. Palizzolo Gravina segnala quanto segue: sull'origine della famiglia
Tomasi dal Villabianca appoggiato al Sansovino rileviamo essere l'antica de’
LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Roma, è passata con Costantino imperatore in
Costantinopoli, ove è grande e potente sino al tempo di Eracleo imperatore, per
la cui morte ella passa in Italia, fermandosi in Ancona. La si dice Tomasi dal
greco trauma, che vuol dire mirabile, però che si sa i due gemelli Artemio e
Giuliano aver mostrato un ingegno meraviglioso. Tutti gl’altr’autori concordano
nel ritenere che uno dei due gemelli si chiamasse Giustino e non Giuliano
Mugnos, al riguardo precisa: «Tuttavia non lascio di dire che Artemio e
Giustino fratelli gemelli, ovvero nati ambedue da un parto, cavalieri
nobilissimi costantinopoliani dell'antichissima famiglia LEO-PARDI
(GATTO-PARDI) originata da LEO-PARDO (GATTO-BARDO) o da Licino LEO-PARDO
(GATTO-PARDO) figlio di Crispo primogenito dell'imperatore Costantino il grande
Colquhoun, A dilemma of Princes, Go, Vitello, I gattopardi di Donnafugata,
Capostipite della gens Thomasa-LEO-PARDI (GATTO-PARDI) è il generale Thomaso
detto il LEO-PARDO (GATTO-PARDO), principe dell'Impero Bizantino e comandante
della guardia imperiale. É lui a sposare Irene, figlia dell'imperatore TIBERIO
(si veda). Tuttavia Gilmour, biografo inglese dell'Autore del libro, ritiene
prive di prova le tesi di Vitello e fantasiose tutte le ricostruzioni
dell'albero genealogico anteriori al ritorno in Italia della famiglia (Gilmour,
L'ultimo Gattopardo, Feltrinelli, Milano Buonassisi, scrive: Tutti si accordano
in dire, che ella sia greca di origine, e della città di Costantinopoli non
essendo però si chiaro, se ella già di antico è passata in essa al tempo di
Costantino, o è passata di poi. Venne ella primieramente in Ancona in due
fratelli Artemio e Giustino, nati di un parto, e tanto simiglianti nelle
fattezze che è una meraviglia (trauma) il vederli: onde anche si vuole che a
cagione di questa stupenda simiglianza venissero chiamati i tomasii, perché di
prima Leopardi dice si, spiegando l'insegna d’un LEO-PARDO (GATTO-PARDO), scrive
Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sellerio della comune origine era
convinto il padre del poeta che fu in corrispondenza con il padre
dell'astronomo; nella Istoria gentilizia di casa Leopardi di Recanati il conte
Monaldo sostenne appunto la discendenza dei Leopardi dai Thomasi
bizantini" ^ . I Capitula qui citati ed altri relativi al tema della
successione dei feudi sono reperibili nei Capitula Regni Siciliae dei quali è
stata pubblicata una ristampa anastatica dall'editore Rubbettino Gigli, Diario
Sanese, Siena Il VI volume del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore
Battaglia edito dall'UTET non riporta le due voci che compaiono invece al
supplemento. I due termini non risultano riportati neppure nell'edizione del
Vocabolario illustrato della lingua italiana, di Devoto-Oli, editrice Selezione
dal Reader's Digest. Entrambi i vocaboli sono invece riportati nel Dizionario
essenziale della lingua italiana di Sabatini-Coletti pubblicato dalla casa
editrice Sansoni Compare solo il termine “gattopardismo” ne Il grande
italiano-vocabolario della lingua italiana di Gabrielli, edito da Hoepli. Nel
linguaggio aulico, ha ingresso soltanto di recente (Mimmo Muolo, LA REGOLA
D’ORO, Avvenire, in ordine alle resistenze nella Curia: "il Papa ne ha
evidenziate di tre tipi: aperte in quanto derivanti dal dialogo sincero,
nascoste o GATTOPARDESCHE, e malevole, queste ultime ispirate dal demonio. Mango
di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber anche centrale/mango vanta
discendere dalla famiglia dei LEOPARDI di Costantinopoli che si vuole passata
in Ancona cambiando il cognome in quello di Tomasi. Francesco Gaetani marchese
di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo Mario di Tomasi che da Capua passa
in Sicilia, con il viceré Colonna, ed è capitan d'armi nella Licata,
rispondendo in quei tempi un tal uffizio al grado di vicario generale regio
d'oggidì Marchese di Villabianca, è quella baronia recata in dote da Francesca
di Caro e Celestre, primogenita figlia di Ferdinando ultimo barone di essa a
Mario di Tomasi" Tutti gli scritti di Tomasi sono enumerati e
sinteticamente descritti nella seconda parte dell'opera di Vezzosi I scrittori
de' chierici regolari detti Teatini, Roma Bonifacio Bagatta Vita del venerabile
Servo di Dio D. Carlo de' Tomasi e Caro della Congregazione de' chierici
regolari Roma Cabibbo - M. Modica, oraccontano che la beata Isabella usa
flagellarsi a sangue sin dalla più tenera età. Secondo Gilmour, a Capua su otto
figli sei si fecero sacerdoti o monache
da Volker, LE GRANDI FAMIGLIE ITALIANE, LE ÉLITE CHE FANNO CONDIZIONATO
LA STORIA D’ITALIA di Horst Reimann Tomasi di Lampedusa, Neri Pozza Volker,
Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell 'insigne Servo di Dio D. Giulio
Tomasii e Caro, duca di Palma, Prencipe di Lampedusa, barone di Monte Chiaro e
cavaliere di San Giacomo, Roma, Bongiorno, Curbera, Giovanni Battista Guccia,
Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg Gian
Evangelista Blasi, Opuscoli di autori siciliani alla grandezza di Tomasi, Caro,
Traina e Naselli, Palermo. Bonifacio Bagatta, Vita del venerabile servo di Dio
D. Carlo De' Tomasi della Congregatione De' Chierici Regolari, Roma Domenico
Bernino, Vita del venerabile cardinale D. Giuseppe Maria Tomasi de' Chierici
regolari, Roma. Buonassisi, Sulla condizione civile ed economica della città di
Siena, Moschini, Cabibbo, Modica, La Santa dei Tomasi, storia di Suor Maria
Crocifissa, Einaudi, Torino. Caravita di Sirignano, Memorie di un uomo inutile,
Mondadori. Isabella Crescimanno Tomasi, Memorie, fondazione Piccolo di
Calanovella. Giovanni Battista di Crollalanza, Dizionario storico blasonico
delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, rist. an., Forni,
Sala Bolognese. Gigli, Diario Sanese, Siena, Gilmour, L'ultimo Gattopardo,
Feltrinelli, Leptailurus serval, internet. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di
Sicilia, Reber. Mattoni, Sul sentiero della pazienza, vita di San Tomasi,
cardinale di santa Romana Chiesa, Vicenza. Filadelfo Mugnos, Teatro genologico
delle famiglie del Regno di Sicilia, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Vincenzo
Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Visconti et Huber, Volker Reinhardt,
Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno condizionato la storia
d'Italia, Neri Pozza, Savoia, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Tosi, L 'eredità
morale del Gattopardo, Salerno, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata,
Flaccovio, Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo segreto,
Sellerio. Nunzio Zago, Tomasi, Palermo, San Giuseppe Maria Tomasi Pietro Tomasi
Della Torretta Tomasi di Lampedusa Palazzo Lampedusa Villa Lampedusa Palma di
Montechiaro Castello di Montechiaro (Palma di Montechiaro) Tomasi (famiglia)
Portale Sicilia Portale Storia di famiglia; Pietro Tomasi della
Torretta diplomatico e politico italiano Tomasi di Lampedusa scrittore
italiano Tomasi nobile italiano CORBERA protagonista del romanzo Il
Gattopardo Lingua Segui Modifica Don Fabrizio Corbera, principe di Salina Il
gattopardo salina01.jpg Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato
da Lancaster nel film Il gattopardo.
Universo Il Gattopardo Lingua orig. Italiano Soprannome Il Gattopardo Autore Tomasi.
Interpretato da Lancaster Voce orig. Gaipa Sesso Maschio Etnia Italiana
Professione nobile Don Fabrizio CORBERA, principe di Salina, duca di Querceta,
marchese di Donnafugata, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo di Tomasi
di Lampedusa e dell'omonima trasposizione cinematografica di Visconti. Il
personaggio La figura di don Fabrizio, in parte autobiografica e in parte
ispirata al personaggio storico di Tomasi, rappresenta la disillusione e
l'impotenza di un'intera classe sociale di fronte ai cambiamenti della
storia. CORBERA è la figura di un uomo che seppure dotato di una forza
epica e di una statura intellettuale superiore a quella dei suoi pari, non
riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, cui guarda con
scetticismo e altera lucidità. Emblematico è il suo RIFIUTO ad accettare la
carica di SENATORE del neo-regno SABAUDO, non certo perché mosso da lealismo
borbonico, ma per una sostanziale incapacità intellettuale, che lo scrittore
chiama rigidità morale, ad assumersi la responsabilità politica di un
cambiamento di cui, in fondo, non si sente partecipe. Il personaggio
storico. Nella storia il personaggio di don Fabrizio è ricalcato su quello
realmente esistito di Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore italiano.
Il personaggio tra realtà e finzione Sarebbe sbagliato credere che la figura di
Salina sia quello di un personaggio reale: di Tomasi, oltre al nome, alla
statura, al colore biondastro dei capelli e alla passione dilettantesca per
l'astronomia, ha ben poco. Lo stesso Tomasi di Lampedusa se ne è accorto,
e nella ormai celebre lettera a Merlo dichiara che il personaggio del romanzo
dove apparire molto più intelligente di quanto non lo sia stato nella realtà.
In effetti Tomasi, bisnonno dello scrittore, come Salina, non prende mai parte
alla vita politica del suo tempo e con la sua morte, avvenuta senza aver mai
fatto testamento, inizia la lunga vicenda giudiziaria fra i suoi eredi che
porta al totale disfacimento del patrimonio dei Lampedusa. Anche la
passione per l'astronomia, che nel romanzo diventa un elemento epico,
effettivamente si traduce nel ripiegamento in un interesse puramente personale
e dilettantistico di un aristocratico siciliano. Conosciamo anche il catalogo
delle sue osservazioni astronomiche, ma nulla fa intravedere la possibilità di
una reale scoperta di corpi celesti. Insomma, sulla figura di Tomasi pesa
un giudizio critico sostanzialmente negativo che nemmeno le sue doti in campo
matematico-astronomico son riuscite a cancellare: il Salina de Il Gattopardo è
invece un personaggio puramente letterario, che in certe sfumature psicologiche
deve assomigliare molto di più al suo autore che non al modello
storico. Scrive in proposito Citati. Con una leggera vanità, Lampedusa
immagina di assomigliargli. Non gli assomiglia affatto. Salina è soltanto un
sogno o una remota proiezione di eleganza e di grandezza inattingibili.
Lampedusa non a la sua autorità, prepotenza, crudeltà, orgoglio di classe. Non ha
la pelle bianca, i capelli biondi, né la mitomania. Non conosce il suo ardore
carnale, l'allegra felicità fisica, il dono di afferrare e possedere la vita.
Non condivide il suo spirito mondano, portato anche nelle esperienze
spirituali. Solo qualche volta l'antenato avidissimo e il discendente passivo
si incontrano e si abbracciano nello stesso sentimento. Quando Salina rivela il
proprio desiderio di contemplazione, l'indifferente bontà, e la sconfitta. Quello
che appare un trittico di personaggi, il Tomasi storico, il Salina del romanzo
e l'autore stesso, è in realtà un unico quadro la cui chiave di lettura è per
l'appunto l'autobiografismo. Tomasi di Lampedusa, come il suo avo, vive
un'epoca di transizione. L'uno si rifugia nella scrittura, l'altro
nell'astronomia. Entrambi, rifiutano di partecipare alla vita politica del
tempo. E va qui ricordato che Tomasi rifiuta dopo una prima adesione, la
carica di presidente regionale della C.R.I., proprio durante l'ultimo periodo
bellico. Questa è la sua unica esperienza politica, insieme alla giovanile
partecipazione alla grande guerra. Eppure lo scrittore Lampedusa,
attraverso il suo romanzo, che a distanza d’anni dalla sua uscita continua ad
essere uno dei capolavori della narrativa italiana, come è stato giustamente
ribadito da Orlando, eterna un'epoca e il disfacimento totale di un'intera
classe sociale attraverso il suo autobiografismo, che non scade mai nel
memorialismo grazie al fatto che i suoi personaggi, come per l'appunto Salina,
non sono mai abbastanza realistici, senza per questo essere meno veri, per
irretire il racconto in uno schema narrativo di stampo verista, simbolista o
ancor meno decadentista. Il gattopardo è un'opera moderna, senza per
questo essere un romanzo epocale. Forse in ritardo rispetto a certi modelli
europei, cui comunque l'autore si rifà, il gattopardo è quanto di più
squisitamente SICILIANO si possa immaginare. Anche l'ANTI-ITALIANISMO di
Lampedusa che si traduce nel rifiuto del melodramma, diventa un modo per
affermare l'IDENTITÀ INSULARE dell'autore. Il cane Bendicò è la chiave del
Gattopardo, su Repubblica Salina principe e gigante, su Repubblica; Tomasi, G.
Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Palermo, Sellerio, Tomasi, I
luoghi del gattopardo, Palermo, Sellerio, Orlando, Ricordo di Lampedusa,
Torino, Bollati Boringhieri, Principe Fabrizio Salina, su Internet Movie
Database, IMDb.com. Portale Letteratura: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di letteratura UIl Gattopardo romanzo scritto da
Giuseppe Tomasi di Lampedusa Villa Lampedusa Tomasi nobile italiano
Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento nobili
italiani è solo un abbozzo. Tomasi (Palermo – Firenze) è stato un nobile
italiano. Giulio Fabrizio Maria Tomasi, appartenente alla famiglia Tomasi
di Lampedusa, è bisnonno di Tomasi di Lampedusa nonché la figura storica a cui
lo scrittore si ispira per il personaggio di Principe Fabrizio Salina,
protagonista del romanzo Il Gattopardo. Di lui sappiamo relativamente
poco e la sua figura storica è ricostruibile principalmente da quanto riferito
dallo stesso scrittore e da quanto rimane della sua biblioteca, oggi in parte
conservata a Palermo, presso l'archivio privato della famiglia Lanza
Tomasi. Tomasi nasce a Palermo, erede di quella che è un'importante
famiglia dell'aristocrazia siciliana. dal padre, Tomasi e Colonna, eredita il
titolo di Principe di Lampedusa e di Duca di Palma. È anche Grande di Spagna e
sedette fra i Pari del Regno di Sicilia. Dalla madre, Wochinger, di origini
tedesche, eredita invece una certa attitudine teutonica al rigore intellettuale
e allo scientismo illuminista. Sposa Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del
marchese di Ganzaria e zia del matematico Guccia, fondatore del Circolo
Matematico di Palermo. Personaggio difficilmente catalogabile, Tomasi è
certamente un aristocratico dotato di una cultura e di una curiosità
intellettuale superiori alla media, come dimostra la sua ricca biblioteca, dove
troviamo testi di astronomia, matematica, geometria, meccanica e fisica, fra i
quali preziosi esemplari della Meccanica Analitica di Lagrange e uno dei
primissimi volumi stampati del celebre Kosmos di Alexander von Humboldt.
Totalmente autodidatta, Tomasi è un astronomo dilettante, ma che riusce ad
ottenere sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie private"
(Il Gattopardo) come ne ha a ricordare il pronipote scrittore. Sappiamo che crea
un proprio osservatorio astronomico, in una sua villa nella Piana dei Colli, a
nord di Palermo: conosciuta come Villa Lampedusa, per questa innovazione era
all'epoca nota soprattutto come "Osservatorio ai Colli del Principe di
Lampedusa". Alla sua morte, avvenuta a Firenze, l'Osservatorio ai Colli è
frazionato fra gl’eredi e la strumentazione astronomica venduta. Bongiorno, Curbera, Guccia,
Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg. Il Gattopardo tra gli astri. Portale Astronomia
Portale Biografie Portale Letteratura Principe Fabrizio
Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo Tomasi di Lampedusa
(famiglia) famiglia aristocratica italiana Villa Lampedusa Villa
Lampedusa Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione
sull'argomento ville d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle presenti
sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti ville
della Sicilia e architetture di Palermo è solo un abbozzo. Contribuisci a
migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Villa Lampedusa Localizzazione
Stato Italia Italia Regione Sicilia Località Palermo Coordinate 38°09′45.72″N
13°19′44.04″E Informazioni generali Condizioni In uso Villa Lampedusa è una
villa che si trova a Palermo, costruita come residenza suburbana all'epoca di
Ferdinando IV di Borbone, che aveva una residenza estiva, la cosiddetta Casina
Cinese, nei pressi della quale la nobiltà siciliana costruiva le proprie ville
di campagna. All'inizio del XVIII secolo venne fatta edificare da don Isidoro
Terrasi vennero effettuati alcuni lavori di ristrutturazione su progetto di
Giovanni Del Frago, architetto. Degne di note le decorazione eseguite da
Gaspare Fumagalli. La villa appartenne poi ai Principi Alliata di Villafranca
ed infine ai Tomasi di Lampedusa. All'epoca del romanzo Il Gattopardo era
più noto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa"
dall'attività prediletta dell'allora proprietario, Giulio Fabrizio Tomasi,
bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e figura storica a cui lo scrittore si
ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo
Il Gattopardo. Appariva come una costruzione a due piani, alle spalle del corpo
principale della villa; il primo piano costituiva probabilmente lo studio,
mentre il secondo, con la copertura a cupola, la specola vera e propria. Alcuni
degli strumenti in uso del principe sono oggi conservati presso il Museo
dell'Osservatorio astronomico di Palermo. Fra questi i più rilevanti sono il
telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours et Secretan e
il telescopio altazimutale di Worthington. Alla sua morte, avvenuta nel 1885,
l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione
astronomica venduta. Oggi all'interno della proprietà, sono ospitate
delle attività commerciali. All'interno del Baglio della foresteria di
Villa Lampedusa si trova una struttura alberghiera Villa Lampedusa Hotel et Residence
gestita dal Gruppo Guccione. Nelle Antiche Scuderie invece, oggi viene
svolta un'attività di ristorazione dai fratelli Cottone, con il loro Ristorante
Pizzerie La Braciera in Villa. L'Attività astronomica di Giulio Fabrizio
Tomasi, Principe di Lampedusa Indice Strumenti Villa Lampedusa – Hotel and
Residence, su hotel villa lampedusa. Villa Lampedusa, su La Braciera.
Collegamenti esterniModifica scheda su un sito del turismo a Palermo, su
palermoweb.com. storia della proprietà attuale, su hotelvillalampedusa.it.
informazioni sul restauro, su mobilitapalermo.org. Portale
Architettura Portale Palermo Principe Fabrizio Salina protagonista
del romanzo Il Gattopardo Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Palazzo
Lanza Tomasi Lingua Segui Modifica Palazzo Lanza Tomasi Palermo jpg Facciata
Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo
IndirizzoKalsa, Mura delle Cattive Coordinate 38°07′04.5″N 13°22′18.52″E
Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXVII secolo Usoprivato Il
Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa è un edificio patrizio del XVII secolo,
ubicato sulle Mura delle Cattive e affacciato sul Foro Italico, lungomare di
Palermo. Panoramica. StoriaModifica Epoca spagnolaModifica L'edificio -
altrimenti definito Palazzo Lampedusa alla Marina, con accesso in via Butera -
sorge nel quartiere Kalsa, la cittadella eletta degli Emiri, adiacente
all'Hotel Trinacria. L'attuale costruzione fu edificata alla fine del Seicento
sui bastioni spagnoli, fortificazioni erette a difesa degli attacchi e delle
incursioni perpetrati da ciurme pirata o corsare, nel contesto storico in cui
imperava il bisogno primario di assicurarsi la supremazia navale nel
Mediterraneo. Dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, Carlo V d'Asburgo
predispose la costruzione di nuovi bastioni per la difesa della città. Dopo il
transito dell'imperatore in molte località dell'isola, i viceré di Sicilia
Ferrante I Gonzaga prima, e Vega poi, gestirono imponenti cantieri di
fortificazioni alla moderna. La Marina era protetta a nord dal Forte di
Castellamare, a sud dal bastione di Vega, e fra i due fu eretto il bastione del
Tuono. In prossimità delle mura la zona era densamente militarizzata e soltanto
nella seconda metà del Seicento si cominciarono ad edificare i palazzi a
ridosso delle mura. Il bastione del Tuono fu demolito, quello di Vega sul
finire del secolo. I primi edifici furono il palazzo Branciforte di
Butera e la chiesa di San Mattia Apostolo con l'aggregato noviziato dei
Crociferi. I Branciforte furono i proprietari dell'intera cortina muraria da
Porta Felice al bastione del Tuono. Gli edifici a ridosso del bastione furono
ceduti ai Gravina e da questi affittati ai Padri Teatini che li adibirono a
Collegio Imperiale per l'educazione dei nobili. Il Collegio fu chiuso nel 1768
e il palazzo fu acquistato d’Amato, principe di Galati. Questi intervenne
unificando in un unico prospetto di stile vanvitelliano la facciata sul mare,
formata da dieci finestre con terrazza. Epoca unitaria Il principe Giulio
Fabrizio Tomasi di Lampedusa, astronomo dilettante, lo acquistò con
l'indennizzo versatogli dalla corona per l'espropriazione dell'isola di
Lampedusa. Gl’armatori De Pace acquistarono metà del palazzo e lo
trasformarono secondo il gusto del tempo, realizzando il grande scalone
d'ingresso e il parquet a doghe di ciliegio e noce per la Sala da ballo. Il
manufatto marmoreo, come tanti altri elementi d'arredo, proviene dal convento
delle Stimmate, abbattuto in seguito alla costruzione del Teatro Massimo
Vittorio Emanuele. Epoca contemporanea Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dopo
la perdita del palazzo di famiglia nei bombardamenti, ricomprò la proprietà dai
De Pace e vi risiederà fino alla morte. Oggi è residenza del musicologo
Tomasi e della consorte duchessa Nicoletta Polo Lanza Tomasi. Il figlio
adottivo dello scrittore ha riunificato l'intera proprietà e compiuto un
completo restauro dell'edificio. L'ultimo piano è sede della struttura
ricettiva Butera 28 Apartments. Stile Prospetto verso la marina con
dodici finestre e terrazza, quest'ultima un vero e proprio giardino pensile con
fonte, ricco di essenze mediterranee e subtropicali. La costruzione
presenta quattro livelli, di cui tre elevazioni oltre il pianoterra su via
Butera. Il solo piano nobile sul fronte mare. Piano nobile del palazzo
costituisce in gran parte la casa museo dello scrittore: Biblioteca storica di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Nell'ambiente sono presenti due grandi bocce di
Caltagirone del primo Settecento, sulla parete sopra il caminetto, un San
Girolamo, opera di Jacopo Palma il Giovane. Sala da ballo, ambiente in cui sono
esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo,
quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che con compare
nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti della Lezioni di
Letteratura Francese e Inglese e dei Racconti, una prima stesura de La Sirena.
Nella sala è presente un piccolo quadro di Domenico Provenzani raffigurante la
famiglia del "Duca Santo" Giulio Tomasi di Lampedusa. Scalone
monumentale in marmo. Tra gli ambienti che raccorda si trovano: Sala delle
Conferenze: ambiente con soffitto affrescato ed una splendida collezione di
ventagli francesi del Settecento; Sala del Mediterraneo, l'ambiente ospita una
collezione di carte nautiche redatte dalla Marina Inglese nel 1870, di
proprietà del nonno di Gioacchino Lanza Tomasi; Museo della famiglia Tomasi di
Lampedusa; Sale di ingresso e un secondo scalone. Opere I restanti arredi del
piano nobile provengono da Palazzo Lanza di Mazzarino. Tra questi uno tavolo in
marmo intagliato della metà del Cinquecento, originariamente nella Villa
Palagonia, due rari cassettoni siciliani in ebano e avorio del primo
Settecento, due lampadari a gabbia di Murano modello Rezzonico e uno centrale
di epoca Luigi XVI. Quadri di Pietro Novelli, Antonio Catalano, Federico
Barocci. Opere moderne come bozzetti di Robert Wilson (regista), Arnaldo
Pomodoro e Mimmo Paladino, oltre a due ritratti a penna di Pablo Picasso,
raffiguranti la marchesa Anita, nonna di Gioacchino. Palermo Gaspare
Palermo, Gaspare Palermo Gaspare Palermo Blasi, "Storia del regno di
Sicilia", Volume III, Palermo, Stamperia Orotea, Arredamento proveniente
dal distrutto Palazzo Lampedusa e dal Palazzo Filangeri di Cutò di Santa
Margherita di Belice, la residenza estiva dei Filangeri di Cutò, la famiglia
materna dello scrittore, distrutta dal terremoto della valle del Belice. Palermo,
"Guida istruttiva per potersi conoscere ... tutte le magnificenze della
Città di Palermo, Palermo, Reale Stamperia, . Gaspare Palermo, "Guida
istruttiva per potersi conoscere tutte le magnificenze della Città di
Palermo", Palermo, Reale Stamperia. Alcuni riferimenti al presente non
sono più esistenti oppure risultano modificati o ricostruiti con tecniche
moderne. A Palermo: Bar pasticceria Mazzara; Caffè Caflish;
Pasticceria del Massimo; Casa del critico musicale Bebbuzzo Sgadari di Lo
Monaco, in corso Scinà; Palazzo Lampedusa, distrutto nel bombardamento aereo,
oggi parzialmente ricostruito da privati con la primitiva denominazione di Casa
Lampedusa; Tomba di Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel cimitero dei Cappuccini.
Per la trasposizione cinematografica de Il Gattopardo: Palazzo
Valguarnera Gangi, Quartiere Kalsa; Villa Boscogrande. Santa Margherita
Belice: Palazzo Filangeri di Cutò o Palazzo Gattopardo: è un edificio
danneggiato dal terremoto. Nelle immediate adiacenze è ubicato il Parco del
Gattopardo. Palma di Montechiaro: Chiesa di Maria Santissima del Rosario:
la chiesa madre citata più volte, in particolare all'arrivo della famiglia
Salina a Donnafugata. Monastero delle Benedettine. Alcuni luoghi cari
ispirarono Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle ambientazioni e nella stesura del
manoscritto. Bagheria, con Palazzo Cutò; Capo d'Orlando, con Villa
Piccolo; Ficarra con Casa Gullà, presso l'abitazione esiste tuttora una lapide
a ricordo, ove tra i tanti angoli suggestivi e scene di vita ficarrese trovò
fonte di ispirazione nella creazione del romanzo Il Gattopardo, in particolare
del personaggio del "campiere". Palazzo Lanza Tomasi
Portale Architettura Portale Arte Portale Palermo
Palazzo Mirto palazzo storico di Palermo Giuseppe Tomasi di Lampedusa
scrittore italiano. Nome compiuto: Vittorio Frosini. Frosini. Keywords:
gattopardo, interpretazioni filosofiche del gattopardo, Gramsci, riduzione
teatrale, Visconti, la rivoluzione perduta, l’ordine morale, l’ordine legale,
Hart, diritto naturale, diritto artificiale, filosofia del diritto, fascismo,
risorgimento. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Frosini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fundano: la ragione conversazionale e il nome del
filosofo -- Roma – filosofia italiana
(Roma). Abstract. Grice:
“It seems that, snobs as they are, the Portico was more popular at Rome than it
had been at Athens!” Keywords: portico.Filosofo italiano. Grice: “The problem
with Old Roman Philosophers is their name. Consider Fundano. His gens was that
which have him as a “Minicio” – when it comes to my dictionary, Italians
hesitate. They don’t min listing him as ‘Minicio Fundano’ – but at Oxford we
consider that as vulgar. A name is something you can use to CALL someone – So
you have to decide: Fundano, or Minicio? Since there were more Minicios than
there were Fundanuses, it is perhaps wiser to list him under the F – as in ‘who
gives a F?’ -- A friend of Plutarco and Plinio minore – Plinio minore describes
him as a philosopher who dedicated himself to study from an early age. It seems
likely that he followed the doctrine of the Porch. Nome compiuto: Gaio Minicio Fundano. Fundano. Keywords:
portico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fundano.”
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Furio: la ragione conversazionale e il portico romano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “”That’s Porch!”, I would tell my
Oxford pupil, Strawson. He never read the classics – so the idea of labelling a
philosophy after the BUILDING where its adherents gathered was new and pathetic
to him!” -- Keywords: portico. Filosofo italiano. Scholar and statesman.
Probably followed the sect of the Porch. Nome
compiuto: Lucio Furio Filo. Keywords: portico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Furio”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fusaro:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’idealismo e la prassi
– la scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontesee -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice:
“I like Fusaro – he philosophised on a critique of conversational reason!” Diplomato
al liceo Alfieri di Torino, si laurea con “Marx” a Torino. Studia a Milano.
Insegna Gramsci. Insegna a Milano. Cura
“La ragion populista” su Casa Pound. Membro del Risorgimento Meridionale per
l'Italia. Fonda Vox Italia. Si considera
allievo di Hegel e Marx. Tra gli italiani predilige Gramsci e Gentile. Tra i
moderni cita Spinoza, Fichte e Heidegger, con un'attenzione costante per le
origini romani della filosofia. Si occupa inoltre di storia della filosofia.
Tra gli filosofi studiati ci sono Koselleck, Blumenberg, oltre ai già citati
Marx, Hegel, Gramsci, Gentile, Spinoza e Fichte. Tratta Marx nell'ottica dell'idealismo, accostando
alla critica del sistema capitalistico elementi dalla tradizione del
comunitarismo e del sovranismo. Segue le orme di Preve. Altre opere: “Speranza:
un saggio filosofico” (Il Prato); “La farmacia di Epicuro: la filosofia come
terapia” (Il Prato). “L’atomismo di Lucrezio: alle radici del materialismo” (Il
Prato); “La schiavitù salariata” (Il Prato); “Bentornato Marx! Rinascita di un
pensiero rivoluzionario” – cfr. “Bentornato Grice! Rinascita della prammatica”
(Bompiani); “Essere senza tempo: il concetto filosofico d’accelerazione”
(Bompiani); “Minima mercatalia: il capitalismo” (Bompiani); “L'orizzonte in
movimento. Modernità e futuro in Koselleck, Il Mulino); Coraggio, Cortina); “Idealismo
e prassi in Gentile” (Il Melangolo); “Rivolta, dissidenza, scissione” (Barney);
“Il futuro è nostro: filosofia dell'azione” (Bompiani); “Stato commerciale
chiuso” (Il Melangolo); “Essere-nel-mondo e passione” (Feltrinelli); “Europa e
capitalismo. Per riaprire il futuro” (Mimesis); “Peccato nei Grundzüge” (Il
Melangolo); “Altrimenti: il dissenso conversazionale” Einaudi, “Coscienza del
precariato” Bompiani “L’ordine dell’amore” (Rizzoli); Processo alla Rivoluzione
(Il Ponte Vecchio); “Marx idealista: una lettura eretica del materialismo storico”
Mimesis); “La notte del mondo: arte e technica in Heidegger” tecnocapitalismo, POMBA,
Glebalizzazione. La lotta di classe al tempo del populismo” (Rizzoli); “Il
naturalismo di Lucrezio” (Bompiani, Marx); “Il Lavoro salariato e capitale,
Bompiani, Marx, Forme di produzione pre-capitalistiche, Bompiani, Marx Friedrich Engels, Manifesto e princìpi
del comunismo, Bompiani, Marx Friedrich Engels, Ideologia” Bompiani, Fichte, “Missione
del dotto, Bompiani); “L’epicureismo romano – piacere” AlboVersorio, ESE, su
uniese. Arriva al Teatro GiordanoFoggia ZON, in Foggia ZON Curriculum Harvard, Department
of Romance Languages, Rai Filosofia, Diego Fusaro presenta Filosofico.net, su
Il di RAI Cultura dedicato alla
filosofia. Diego Fusaro, Il Fatto Quotidiano, su Il Fatto Quotidiano. F., L'Interesse
Nazionale, su diegofusaro.com. Passa dal
marxismo 2.0 alla rivista più vicina ai cattolici conservatori di CL, in
Giornalettismo, Chiude Tempi, licenziamento immediato per redazione e
dipendenti, in L’Huffington Post, La conversione del filosofo comunista:
scriverà per la rivista di estrema destra, su libero quotidiano, Author at
Radio Radio, su Radio Radio. Perché le turbo-stupidaggini di F. non fanno
ridere ma sono pericolose, su The Vision, Gioia Tauro risultati elezioni comunali,
su corriere. Foligno, ecco l’eventuale giunta M5s: Assessore in pectore alla
cultura, su umbria Comunali Area ITALIA Regione UMBRIA Provincia PERUGIA Comune
FOLIGNO, elezionistorico, "Valori
di destra, idee di sinistra". Fusaro a bomba: nuovo movimento
ultra-sovranista, è l'anti-Salvini?, su libero quotidiano. Il filosofo che
difende il governo del cambiamento. E sogna la guerra tra popolo ed élite, in Tiscali
Notizie, Fusaro, Il capitale: un trionfo dell'idealismo tedesco, Consorzio
Festival filosofia, Il filosofo populista Panorama, in Panorama, In memoria di Preve. Anti-europeismo Euro-scetticismo,
Meridionalismo, protezionismo, questione meridionale Revisionismo del marxismo,
revisionismo del Risorgimento, socialismo nazionale, teoria del ferro di
cavallo, sovranismo diegofusaro.com.
YouTube. openMLOL, HorizonsRadio Radicale. Filosofico.net La filosofia e i suoi eroi.
Democrito comunitario democratico, in “Giornale Critico di Storia delle
Idee”. Maturità negata. Precarizzazione e de-eticizzazione del mondo della
vita, in “Giornale Critico di Storia delle Idee”. The Role of Aesthetics in
Fichte’s Science of Knowledge, in “Polish Journal of Philosophy”, Fichte e la
compiuta peccaminosità. Filosofia della
storia e critica del presente nei “Grundzüge”, Il Nuovo Melangolo, Genova. F. Fichte and GENTILE (si
veda). Notes about the relationship between Transcendental Idealism and Actual
Idealism. ÁGORA FILOSÓFICA, F.. On Language and “Aufforderung” in Fichte. A Few
Historiographical Notes. INFORMACIÓN
FILOSÓFICA, F. Dogmatismo e idealismo nello “Stato commerciale chiuso di
Fichte”. POLITICA et SOCIETÀ; F. Fichte e la Rivoluzione francese. Note intorno
a un dibattito storiografico. RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, F. Heidegger
lettore di Marx. La metafisica marxiana come verità dell’idealismo. STUDI
FILOSOFICI, F. Lineare Zeitauffassung. Temporalità e critica del dogmatismo nei
Discorsi alla nazione tedesca di Fichte . LA CULTURA; F. Il “Sistema della
Libertà”. La Filosofia Pratica di Fichte e la Lettura di Husserl. REVISTA
PORTUGUESA DE FILOSOFIA, F. Fichte, Marx e l’ontologia della prassi. TEORIA, F.
Ripensare l’Europa a partire da Edmund Husserl. In: vacchelli G e Patrizia G. Liberare
l’Europa. Tra pensiero critico e nuove visioni. MILANO: Mimesis; F. Riprendersi
il futuro. Utopia, storia e possibilità. RINGIOVANIRE IL MONDO. UTOPIA E
NOSTALGIA DEL FUTURO, Saonara: Il Prato; F. Karl Marx. La verità come
“questione pratica”. Filosofia, verità e politica. Questioni classiche, ROMA:
Carocci, F. GRAMSCI (si veda), MILANO: Feltrinelli, F., Tagliapietra A (a cura
di) RINGIOVANIRE IL MONDO. UTOPIA E NOSTALGIA DEL FUTURO. SAONARA: Il Prato, F.
The Concept of ‘commercial anarchy’ in Fichte’s ‘The Closed Commercial State’.
SERBIAN POLITICAL THOUGHT; F. L’Unione Europea tra rivoluzione passiva e
questione meridionale. Note a partire da Gramsci. PHENOMENOLOGY AND MIND, F.
Dialettica storica e senso della possibilità. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE
IDEE, F. Il concetto di temporalità storica in Reinhart Koselleck.
STORIOGRAFIA, F. Della critica conservatrice. Nuove forme di connivenza con
l’insensatezza. LA SOCIETÀ DEGL’INDIVIDUI, F. Particolarismo e universalismo
nei “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte. FILOSOFIA POLITICA; F. NOTES ON THE “END OF HISTORY”
RE-THINKING THE PRESENT AS HISTORICITY. FACTA
UNIVERSITATIS. SERIES: PHILOSOPHY, SOCIOLOGY, PSYCHOLOGY AND HISTORY; F.
Apraxia ed eclissi del lavoro nel capitalismo assoluto. PARADIGMI, F. Il
principio trasparenza: le «Confessioni» di Rousseau e i paradossi della
sincerità. INTERSEZIONI; F. Idealismo pratico? Note sulla prima delle “Tesi su
Feuerbach” di Marx . GIORNALE DI METAFISICA; F. La costellazione
dell’humanitas. Mercato, cittadinanza, comunità, libertà. Civitas Augescens.
Includere e comparare nell’Europa di oggi, FIRENZE: Olschki, F. Pensare la
dissidenza nel tempo del conformismo globale. In: Fusaro D, Caputo S, Vitelli
L. Pensiero in rivolta. Dissidenza e spirito di scissione, Barbera, F. Storia e
ideologia. L’odierna malattia antistorica. TEORIE DEL PENSIERO STORICO, MILANO:
Unicopli; F. Il “sistema della libertà” di Fichte. La dottrina della scienza
come ontologia della prassi. Libero arbitrio. Teorie e prassi della libertà,
NAPOLI: Liguori, F. Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione. MILANO:
Bompiani, F. Fichte e l’anarchia del commercio. Genesi e sviluppo del concetto
di “Stato commerciale chiuso”. GENOVA: Il Nuovo Melangolo, F. Fichte, “Missione
del dotto”. Milano: Bompiani; F. Fichte e l’alienazione dell’Io. GIORNALE
CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, F. La compiuta peccaminosità. La critica della
società capitalistica nei «Grundzüge» di Fichte. FILOSOFIA POLITICA; FUSARO D.
(2013). GRANDEZZE E LIMITI DI LESZEK NOWAK. Scienza, marxismo e metafisica.
Leszek Nowak e la Scuola Metodologica di Poznan, Villasanta: Limina Mentis; F.
Spettri della filosofia. Note sul rapporto tra Marx e Stirner. RIVISTA DI
STORIA DELLA FILOSOFIA; F. Idealismo e prassi. Fichte, Marx e GENTILE (si veda).
GENOVA: Il Nuovo Melangolo, F. Come un solo corpo. Spinoza e l’ontologia
dell’essere sociale. LA RAGIONE DELLA PAROLA RELIGIONE, ERMENEUTICA E
LINGUAGGIO IN BARUCH SPINOZA, SAONARA: Il Prato; F. Aporie e limiti della
Begriffsgeschichte di Reinhart Koselleck. LA CULTURA, F. Il piacere di vivere.
Di Epicuro., MILANO: Alboversorio, F. Il tempo dei concetti. La riflessione
filosofica di Koselleck. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, F. La logica
ideologica Vecchie e nuove legittimazioni del potere. LA SOCIETÀ DEGL’INDIVIDUI,
F. L’orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Reinhart Koselleck. BOLOGNA:
Il Mulino, F. Per una filosofia del riconoscimento: a partire da Fichte. In: V.
Cordero. LA LIBERTÀ COME RICONOSCIMENTO: TAYLOR INTERPRETE DI HEGEL, SAONARA:
Il Prato; F. Il paradosso di Democrito: inconciliabilità dell’etica con la
fisica? Solaro. Il mistero di Democrito. ROMA: Aracne, F. SENSIBILMENTE
SOVRASENSIBILE. L’IDEOLOGIA DEL CAPITALE UMANO. IL LAVORO PERDUTO E RITROVATO,
Udine – Milano: EDIZIONI MIMESIS, F. Il progresso non garantito nella filosofia
della storia di Kant. Storia, rivoluzione e tradizione. Studi in onore di Paolo
Pastori; FIRENZE: Edizioni del Poligrafico Fiorentino, F. Stato nazionale ed
egemonia del politico sull’economico. Leadership futura, Milano: Associazione
Centro Studi BE, F. Ein Triumph der deutschen Wissenschaft: Marx idealista.
Leggere Marx oggi, SOVERIA MANNELLI: Rubbettino, F. Coraggio. MILANO: Cortina, F.
Apocalissi e metafisica dell’illimitatezza. In: A. Vergani. Apocalissi del
capitalismo : considerazioni inattuali sul destino del mondo contemporaneo,
SAONARA: Il Prato, F. Minima mercatalia. Filosofia e capitalismo. MILANO:
Bompiani, F. Il realismo, fase suprema del postmodernismo? Note su “New
Realism”, postmodernità e idealismo. KOINÉ; F. Senza inizio né fine. Monoteismo
del mercato e metafisica dell’illimitatezza. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE
IDEE, F. Prolegomena to any future philosophy of history that will be able to
present itself as a science. STORIA DELLA STORIOGRAFIA, F. La disobbedienza
ragionata. Critica illuministica e stato assoluto in Koselleck e Foucault .
FILOSOFIA POLITICA; F. Come si fa la storia dei concetti? La proposta di
Brunner, tra storiografia e ideologia politica . HISTORIA MAGISTRA F. I
“Geschichtliche Grundbegriffe” di Brunner, Conze e Koselleck. Acquisizioni e
novità teoriche. . RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA; F.. L’aporia dello Stato
in Fichte. L’egemonia della politica sull’economia come reazione all’epoca
della compiuta peccaminosità. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, F.
Ideologia tedesca. MILANO: Bompiani, F. Metafisica e reazione al disincanto
postmoderno. In: A. Cusimano. Per una rifondazione della Metafisica. Critica
della ragion postmoderna, SAONARA: Il Prato F. Quale comune? Per una critica
del marxismo deleuziano di Toni Negri. KOINÉ F. Modernità come supremazia
dell’utile economico. GIORNALE CRITICO DI STORIA DELLE IDEE, Nietzsche tra
eterno ritorno e tensione verso il futuro. Le aporie nella concezione
nietzscheana del tempo. La passione della conoscenza. Studi in onore di
Giametta, LECCE: Pansa Multimedia F. Salario, prezzo e profitto. MILANO:
Bompiani, F. Essere senza tempo. Accelerazione della storia e della vita.
MILANO: Bompiani, F. Tagliapietra. Il dono del filosofo. Sul gesto originario
della filosofia. AGALMA, F. Bibliografia di Così parla Zarathustra. MILANO:
Bompiani, F. Bentornato Marx! Rinascita di un pensiero rivoluzionarioBompiani, F.
Ancora una filosofia della storia? Grecchi. Occidente: radici, essenza, futuro,
SAONARA: Il Prato, F. Marx e l’infuturamento della filosofia della storia di
Hegel. In: R. Mordacci. Prospettive di filosofia della storia, Milano: Bruno
Mondadori, F. La gabbia d’acciaio: Weber e il capitalismo come destino. KOINÉ F.
Reinhart Koselleck nel dibattito storiografico e filosofico. TEORIA POLITICA; F.
Forme di produzione precapitalistiche. MILANO: Bompiani, F. Manifesto e
princìpi del comunismo. MILANO: Bompiani, F. Perché non può essere noioso lo studio
di ciò che nasce dalla meraviglia. È veramente noiosa la storia della filosofia
antica?, SAONARA: Il Prato, F. Lavoro salariato e capitale. MILANO: Bompiani,
F. La filosofia della storia di Herder: una prospettiva greco-centrica?. ARCHÉ,
F. Presentazione, in C. Preve, Un’approssimazione al pensiero di Karl Marx. In:
C. Preve. UN’APPROSSIMAZIONE AL PENSIERO DI KARL MARX TRA MATERIALISMO E
IDEALISMO. F. Saggio introduttivo. In: Luciano di Samosata. Tutti gli scritti,
MILANO: Bompiani, F. Marx e l’atomismo greco: alle radici del materialismo
storico. SAONARA: Il Prato, F. Karl Marx e la schiavitù salariata: uno studio
sul lato cattivo della storia. SAONARA: Il Prato, F. Bibliografia di Luciano di
Samosata, Tutti gli scritti. MILANO: Bompiani, F. Per una teoria del’arte in
Marx. KOINÉ F. Sulla questione ebraica. MILANO: Bompiani F. DEMOCRITEA COLLEGIT
EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA. In: S. Luria. DEMOCRITEA COLLEGIT
EMENDAVIT INTERPRETATUS EST SALOMO LURIA, MILANO: Bompiani, F. La farmacia di
Epicuro. La filosofia come terapia dell’anima. SAONARA: Il Prato, F. I
Presocratici. In: Diels-Kranz. I presocratici : prima traduzione integrale con
testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti nella raccolta di
Hermann Diels e Walther Kranz, MILANO: Bompiani, F. Filosofia e speranza. Bloch
e Löwith interpreti di Marx. SAONARA: Il Prato, F. Montaigne euretes del
moderno. In: Michel de Montaigne. Apologia di Raymond Sebond. p. 5-73, MILANO:
Bompiani, F. . Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella
di Epicuro. MILANO: Bompiani, glebalizazzione. Diego Fusaro. Fusaro. Keywords: idealism
e prassi, Lucrezio, italianita, romanita, Gramsci, Gentile, arte, technica,
filosofia della storia, peccato, italiano, italianita, evola, filosofia in eta
antica, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fusaro:
l’implicatura” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Fuschi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale eretica – la scuola
di Cesena – filosofia cesenese – filosofia emiliana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Cesena). Keywords: “One of my pupils at Oxford said the wanted
to specialize in Italian philosophy. ‘Stick to the heretics!’ I advised!” Abstract:
iconoclast, eretico. Grice: “I see my philosophy as a simplifying iconoclasm,
on the whole!” Filosofo cenese. Filosofo emiliano. Filosofo
italiano. Cesena, Emilia Romagna. – Grice:
“I like Fuschi, and so does Eco, Rota, and Carlini! Fuschi opposes Aquina’s
truths and turns them into mistakes – since they involve things about the past
– where the apostles kept property – it’s all pretty unverifiable, -- still
Fuschi was thoroughly heretic!” – Grice: “Fuschi is the Italians’ Ockham!” -- Michele da Cesena Affresco di Andrea di
Buonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli di Firenze. Al centro c'è papa Innocenzo VI; in primo piano, tre
ecclesiastici che discutono: Guglielmo da Ockham, Michele da Cesena e
l'arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli. Rispettivamente alla destra e alla
sinistra del papa vi sono Egidio Albornoz e Carlo IV di Lussemburgo. Di grande
rilievo nelle vicende politiche ed ecclesiastiche, noto soprattutto per essere
stato ministro generale dell'Ordine francescano. Dopo avere studiato a
Parigi, venne eletto alla più alta carica dell'Ordine francescano durante il
capitolo generale tenuto a Napoli. Durante quel capitolo vennero anche
approvate le rinnovate Costituzioni dell'Ordine, note (per essere state +preparate
da un gruppo di frati ad Assisi) come Constitutiones Assisienses. Si
distinse subito per una decisa persecuzione nei confronti degli “spirituali,
sostenitori dell'assoluta povertà di Gesù Cristo e della necessità di una
altrettanto rigorosa povertà dell'ordine francescano. In questa opera di
repressione, e appoggiato da Giovanni XXII. Con le lettere bollate Sancta
Romana e Gloriosam Ecclesiam Giovanni XXII riprova e scomunicava tutti gli
spirituali. Si voleva così chiudere il caso della frattura tra gli spirituali e
il resto dell'Ordine francescano (la cosiddetta "comunità"),
sospingendo i primi nell’eresia e nella marginalità. Incalzati dalla
persecuzione, Ubertino da Casale e Angelo Clareno, i maggiori esponenti della
corrente spirituale, dovettero lasciare l'Ordine. A Marsiglia, per la prima
volta erano stati bruciati sul rogo quattro spirituali. Tuttavia, anche i
rapporti tra Michele e Giovanni XXII si deteriorarono. Il papa, infatti, aveva
riaperto il dibattito a proposito della povertà di Cristo, e finì per abolire
(con la lettera bollata Inter nonnullos) la "finzione" giuridica, in
vigore fin dal tempo di Niccolò III (regolamentata con lettera bollata Exiit
qui seminat), secondo la quale i francescani non possedevano nulla né come
singoli, né come conventi, né come Ordine, ma era la Santa Sede a detenere la
proprietà di tutti i loro beni che poi venivano gestiti per mezzo di
procuratori. Durante il capitolo di Perugia i Francescani difesero le loro tesi
sulla povertà di Cristo e degli Apostoli, come singoli e in comune. Il
manifesto francescano di Perugia (più precisamente, due lettere encicliche
scritte dal Capitolo e indirizzate a tutti i frati) venne però condannato dal
papa. Ormai lo scontro tra Fuschi e Giovanni XXII era irreversibile. Il
ministro generale venne convocato dal papa ad Avignone e sospeso dalla sua
carica. Venne confermato dai Francescani alla carica di ministro generale nel
capitolo di Bologna. Giovanni XXII gli impose una residenza forzata ad
Avignone, ma fuggì con un piccolo gruppo di frati, tra i quali Occam e Bonagrazia
da Bergamo. I fuggitivi si imbarcarono nel porto di Aigues-Mortes e raggiunsero
a Pisa il campo di Ludovico il aro, candidato al trono del Sacro Romano
Impero. Il papa depose Fuschi dal suo ruolo di ministro generale con la
lettera bollata Cum Michaël de Caesena. Con la lettera bollata Dudum ad nostri,
Fuschi, Occam, e venivano scomunicati. Tale condanna venne rinnovata con la
lettera bollata Quia vir reprobus Michaël de Caesena. Durante il capitolo
generale convocato a Parigi venne eletto ministro generale Oddone. Una parte comunque
minoritaria dell'ordine francescano rimase fedele a Fuschi, rifiutando di
riconoscere l'autorità d’Oddone e del papa stesso, ritenuto eretico e quindi
ipso facto decaduto (nel suo scontro con il papa per la successione al trono imperiale,
Ludovico il aro face eleggere papa Rainalducci da Corbara con il nome di
Niccolò V. Esponente, con Occam e Marsilio da Padova, del gruppo di
intellettuali schierati sul fronte ghibellino e protetti da Ludovico il aro,
Fuschi visse alla corte. Nomina Occam suo successore e vicario, affidandogli il
sigillo dell'Ordine che era ancora in suo possesso. M. Niccoli nella
Enciclopedia Italiana, C. Dolcini nel Dizionario Biografico degli Italiani
riporta. L’ultimo appello di M. fu pubblicato a Monaco e non si hanno notizie
su di lui. Altre opere: “Appellatio monacensis, Armando Carlini, Fra Michelino
e la sua eresia, prefazione di Renato Serra, Bologna, Nicola Zanichelli, Cattività
avignonese Disputa sulla povertà apostolica, “Il nome della rosa”; Ordine
francescano Riforma spirituale medioevale. Treccani Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Michele da Cesena e michelisti, -- michelismo e tomismo -- la voce nel
Dizionario del pensiero cristiano alternativo, sito Eresie Medioevo ereticale:
la disputa sulla povertà, su mondi medievali. net. Predecessore Ministro
generale dell'Ordine dei Frati MinoriSuccessoreFrancescocoa.png Bonini Odonis Francescanesimo Disputa sulla
povertà apostolica Filosofia. L'eresia è una dottrina considerata come
deviante dall'ortodossia religiosa alla cui tradizione si collega, come
storicamente quella cattolica. Il termine viene utilizzato anche FUORI
DALL’AMBITO RELIGIOSO, in senso figurato, per indicare un'opinione o una
dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo
con quelle generalmente accettate come autorevoli. BUNAIUTI (si veda) Galilei
condannato per eresia. Etimologia, origine e sviluppi del termine. Goya: Il
tribunale dell'Inquisizione "Eresia" deriva dal greco αἵρεσις,
haìresis derivato a sua volta dal verbo αἱρέω (hairèō, "afferrare",
"prendere" ma anche "scegliere" o "eleggere"). In
tale ambito indica anche delle scuole come quella dei pitagorici di CROTONE o
quella del PORTICO ROMANO. In ambito cristiano, il termine "eresia",
assente nei vangeli canonici, compare negli Atti degli apostoli(, in origine
dunque eretico, era colui che sceglieva, colui che era in grado di valutare più
opzioni prima di, cfr. Atti) per indicare varie scuole (o sette) come quelle
dei Sadducei, Cristiani e Farisei. Sia in greco antico sia in ebraico
ellenizzato questo termine non possedeva, originariamente, alcuna
caratteristica denigratoria. Con le Lettere del Nuovo Testamento tale
neutralità del termine viene meno: in Corinzi, Galati, Pietro, haìresis inizia
ad assumere dei connotati dispregiativi e ad indicare la
"separazione", la "divisione" e la rispettiva condanna. Secondo
Schlier lo sviluppo in negativo di hairesis procede con l'analogo sviluppo del
termine ekklesia. Haìresis ed ekklesia divengono due opposti. Secondo Boulluec,
è Giustino il primo apologeta ad utilizzare sistematicamente il termine
"eresia" per combattere le correnti cristiane considerate devianti. In
ambito ebraico si evidenzia un processo analogo. In corrispondenza con
l'emergere dell'ebraismo rabbinico ortodosso il termine ebraico min -- (מִין,
pl. מִינִים, minim; corrispettivo del greco haìresis -- assume dei connotati
dispregiativi e viene utilizzato per indicare sia i cristiani che gli
gnostici. Il termine d’un significato neutro assume in un secondo momento
un valore negativo e passa ad indicare una dottrina o un'affermazione contraria
ai dogmi e ai princìpi di una determinata religione, sovente oggetto di
condanna o scomunica da parte dei rappresentanti della stessa. Nel caso della
Chiesa cattolica, ad esempio, sono previsti appositi sinodi per stabilire quali
siano le deviazioni dall'ortodossia e la Congregazione per la Dottrina della
Fede (erede della Congregazione della sacra romana e universale Inquisizione)
per individuare coloro che vengono considerati "colpevoli di eresia"
(ovvero gli eretici). Fuori dall'ambito religioso il termine viene
utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina
filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle
generalmente accettate come autorevoli. Eretico è dunque chi proclama con
forza una propria scelta definitiva: "eresia" può pertanto equivalere
ad una scelta sia di credo sia di appartenenza tra fazionireligiose
contrapposte. Un'altra possibile interpretazione, legata al significato di
"scelta", richiama il fatto che l'eretico è colui che
"sceglie", cioè accetta, solo una parte della dottrina
"ortodossa", rimanendo in disaccordo su altre parti. Nel registro
informale, il termine viene però usato per indicare un'opinione gravemente
errata o comunque discordante dalla tesi più accreditata riguardo ad un certo
argomento. In origine il termine, utilizzato da scrittori ellenistici,
indicava una fazione o una setta religiosa, senza connotazioni negative. Già
nel Nuovo Testamento il termine assume un significato negativo e in questo
senso venne utilizzato da padri della Chiesa e scrittori ecclesiastici. Ad
esempio il termine venne ampiamente impiegato da Ireneo nel suo trattato Contra
haeresis(Contro le eresie) per contrastare i suoi oppositori nella Chiesa. Egli
descrisse le sue posizioni come ortodosse (dal greco ortho- "retta" e
doxa "opinione") in contrapposizione con quelle "eretiche"
dei suoi avversari. Ovviamente, nell'accezione negativa, il termine
eresia può essere visto come reciproco: pochi sarebbero disposti a definire le
proprie credenze come eretiche, ma piuttosto a presentarle come
l'interpretazione corretta di una determinata dottrina, e quindi come la
visione ortodossa giudicata eretica da altri. Ciò che costituisce eresia è un
giudizio dato in funzione dei propri valori; si tratta dell'espressione di un
punto di vista relativo ad una consolidata struttura di credenze. Per esempio,
i cattolici vedevano nel protestantesimoun'eresia mentre i non cattolici
consideravano il cattolicesimo stesso come la grande apostasia.
Nell'ambito del cristianesimo si tende a fare una distinzione fra eresia e
scisma: quest'ultimo comporta un distacco dalla chiesa ortodossa, considerata
conforme alle regole date, senza "perversioni nel dogma" (secondo la
definizione di Girolamo), anche se, secondo alcuni teologi cattolici, lo scisma
inveterato finisce per assumere anche caratteristiche dottrinali.
CattolicesimoModifica Sassetta: Rogo di un eretico «Sotto il profilo
giuridico-ecclesiastico, eretico è definito colui che, dopo il battesimo, e
conservando il nome di Cristiano, ostinatamente si rifiuta o pone in dubbio una
delle verità che nella fede divina e cattolica si devono credere» (Karl
Rahner, Che cos'è l'eresia?, Brescia, Paideia) Varie opere dell'apologeta e
scrittore cristiano Tertulliano sono dirette contro gli eretici e le rispettive
eresie: Marcione, Valentino, Prassea. Il Padre della Chiesa Agostino
d'Ippona rivolse la sua polemica principalmente contro i manichei, i donatistie
i pelagiani. In un decreto successivo alla vittoria su Licinio e al
Concilio di Nicea I, Costantino condannò le dottrine degli eretici (Novaziani,
Valentiniani, Marcioniti, Paulianisti e Catafrigi). Pascal in Pensieri si
sofferma più volte sul tema delle eresie. Nel frammento scrive: Dunque
esiste un gran numero di verità, sia di fede che di morale, che sembrano
incompatibili e che sussistono tutte in un ordine meraviglioso. La sorgente di
tutte le eresie è l'esclusione di alcune di queste verità, e la sorgente di
tutte le obiezioni che ci fanno gli eretici è l'ignoranza di alcune delle
nostre verità. E di solito accade che non potendo concepire il rapporto tra due
verità opposte e credendo che l'accettazione di una comporti l'esclusione
dell'altra, essi si attaccano all'una ed escludono l'altra, e pensano che noi
facciamo il contrario. Chesterton così definisce l'eresia e l'eretico:
«L'eretico (che è anche sempre fanatico) non è colui che ama troppo la verità;
nessuno può amare troppo la verità. Eretico è colui che ama la propria verità
più della verità stessa. Preferisce, alla verità intera scoperta dell'umanità,
la mezza verità che ha scoperto lui stesso. Non gli piace veder finire il suo
piccolo, prezioso paradosso, che si regge solo coll'appoggio di una ventina di
truismi, nel mucchio della sapienza di tutto il mondo (Chesterton, L'Uomo
Comune - La Nonna del Drago ed altre serissime storie) «L'eresia è quella
verità che trascura le altre verità. Solo la Chiesa cattolica è il luogo dove
tutte le verità si danno appuntamento e riescono a convivere, pur se sempre
minacciate di squilibrio (Chesterton, Perché sono cattolico -
Moro) Un'eresia è sempre una mezza verità trasformata in un'intera falsità.
Chesterton, America) Un esempio di verità che trascura le altre verità ci
è dato dalle tentazioni di Gesù descritte nei vangeli sinottici. Vincenzo di
Lerino, nel suo Commonitorium, scrive che gli eretici usano le Scritture allo
stesso modo di Satana, quando per tentare Gesù. Lo condusse a Gerusalemme, lo
pose sul punto più alto del tempio e gli disse: "Se tu sei Figlio di Dio,
gettati giù di qui; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo
riguardo affinché essi ti custodiscano; e anche: Essi ti porteranno
sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra".
Gesù gli rispose: "È stato detto: Non metterai alla prova il Signore Dio
tuo"». Il Medioevo Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Movimenti ereticali medievali. I moti di contestazione
nei confronti della Chiesa, divampati nella prima metà del XII secolo, come
quello dei patarini e quello degli arnaldisti, avevano dato l'indicazione della
necessità di una riforma religiosa. Il movimento dei catari, che affiorò
contemporaneamente in diversi punti d'Europa, ambiva alla creazione di una
nuova Chiesa. Contro di loro papa Innocenzo III bandì una crociata di
sterminio. La caduta dell'ultima roccaforte di Montségur, nel sud della
Francia, con il conseguente rogo di circa duecento catari, determina la fine
del catarismo. AQUINO (si veda) nella Somma Teologica definie l'eresia una
forma d'infedeltà che corrompe la dottrina e porta turbamento nelle anime dei
fedeli. AQUINO (si veda), inoltre, e poi di conseguenza nell'ambito del
cattolicesimo, si pongono alcune distinzioni fra i diversi GRADI dell'eresia.
Quando si tratta dell'opposizione diretta e immediata ad un dogma
esplicitamente proposto dalla Chiesa si parla di DOTTRINA eretica, mentre
quando ci si oppone a una conclusione teologica o ad altri elementi derivati di
una verità RIVELATA o ad una dottrina definibile, ma non ancora definita, si
parla di proposizioni erronee, o che sanno di eresia, o prossime
all'eresia. Da notare che nella tradizione lessicografica italiana, il
lemma "eresia" indica prevalentemente quelle dottrine contrarie ai
dogmi della Chiesa cattolica. Così l'edizione di Mauro: dottrina o affermazione
contraria ai dogmi e ai principi della Chiesa cattolica. Così anche l'edizione
du Devoto-Oli: dottrina che si oppone direttamente e contraddittoriamente a una
verità rivelata e proposta come tale dalla Chiesa cattolica. Così il
vocabolario online della Treccani: dottrina che si oppone a una verità rivelata
e proposta come tale dalla Chiesa cattolica e, per estensione, alla teologia di
qualsiasi chiesa o sistema religioso, considerati come ortodossi. Nell'edizione
del Grande Dizionario Italiano della Hoepli: Nel cristianesimo, dottrina,
palesemente dichiarata e sostenuta, che si oppone alla verità RIVELATA da Dio e
affermata come tale dal linguaggio della Chiesa, Insieme di interpretazioni
personali, contrastanti con la tradizione, che possono svilupparsi nell'ambito
di una religione basata su un sistema di dogmi ufficialmente riconosciuti.
Tuttavia nel Vocabolario della Lingua italiana Zingarelli, nella prima definizione
di questo lemma, esso acquisisce un significato ben più ampio, Nelle religioni
fondate su una dogmatica universalmente o ufficialmente riconosciuta, dottrina
basata su interpretazioni personali in contrasto con la tradizione, Schlier
Schlier Boulluec Epistola ad Titum, Patrologia Latina Agostino, Contra
Cresconium, Pascal, Pensieri e altri scritti, Milano, Mondadori Frammento
secondo la numerazione Brunschvicg, secondo la numerazione Lafuma, da Pascal,
Pensieri e altri scritti, Mondadori, Milano; Pensées sur la religion et sur
quelques autres sujets su ub.uni-freiburg Pascal, Pensieri e altri scritti,
Milano, Mondadori Aforismi sulla verità e sulle virtù raccolti e commentati da
Paolo Gulisano, su chesterton.it. ^ Messori con Brambilla, Qualche ragione per
credere, Edizioni Ares; Chesterton, Summa Chestertheologica, Guerrino Leardini
et Centro Missionario Francescano Società Chestertoniana Italiana; Vincentius
of Lerins, XXVI, in The Commonitorium of Vincentius of Lerins, Cambridge;
«Heretics use Scripture in the same way as Satan did in the Temptation of our
Lord, and they lure the incautious to join them by claiming special grace and
privileges for their followers.San Lorenzo da Brindisi, Lutero - Volume
secondo, Siena, Ezio Cantagalli; Insegna il medesimo Lirinense che gli eretici,
nel portare le testimonianze della Divina Scrittura, imitano il demonio, che
messo il Signore sopra la più alta guglia del tempio, gli disse: «Se tu sei il
Figlio di Dio, buttati giù: poichè sta scritto che Dio ha comandato ai suoi
Angeli ecc.. Luca su bibbiaedu Bueno, Le eresie medievali, Ediesse; Cantimori, ERETICI
ITALIANI del cinquecento - Ricerche storiche, Sansoni Editore Nuova, Firenze;
Cantù, Gli eretici d'Italia. Discorsi storici, Torino, Unione; Fornari, Frati,
antipapi ed eretici parmensi protagonisti delle lotte religiose medievali,
Silva Editore. Garofani, Le eresie medievali, Roma, Carocci. Alain Le Boulluec,
La notion d'hérésie dans la littérature grecque: De Justin à Irénée: Clément
d'Alexandrie et Origène, Parigi, Etudes Augustiniennes; Boulluec, Ellenismo e
cristianesimo, in Il sapere greco, II, Torino, Einaudi. Merlo, Eretici ed
Eresie medievali, Bologna, Mulino; Nelli, La vie quotidienne des Cathares du
Languedoc, Paris, Hachette; Orletti, Piccola storia delle eresie, Quodlibet,
Perrotta, Hairéseis. Gruppi, movimenti e fazioni del giudaismo antico e del
cristianesimo da Filone Alessandrino a Egesippo, Bologna, EDB; Rinaldi, le
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cura di), La cena segreta: trattati e rituali catari, Adelphi. Valdesi; Papini,
Valdo di Lione e i poveri nello spirito. il primo secolo del movimento valdese;
edizioni Claudiana, Tourn, I Valdesi, la singolare vicenda di un popolo chiesa,
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Raniero Orioli, Fra Dolcino: nascita, vita e morte di un'eresia medievale,
Milano, Jaca; Begardi Dottrine cristologiche dei primi secoli Inquisizione
Letture e interpretazioni della Bibbia Martiri di Guernsey Movimenti ereticali
medievali Persone giustiziate per eresia Storia del Cristianesimo Successione
apostolica eresia, su Treccani Istituto dell'Enciclopedia. Luca, ERESIA, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, eresia, in
Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Eresia, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Eresia, in Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton; "Dizionario di eresie, eretici, dissidenti
religiosi", su eresie Portale Cristianesimo Portale
Religione Portale Sociologia Portale Storia Movimenti
ereticali medievali Scisma divisione causata da una discordia fra gli individui
di una stessa comunità (come un'organizzazione, movimento o credo
religioso) Catarismo movimento eretico, separato dal Cattolicesimo
durante il medioevo europeo; professava un assoluto ripudio della materia in
ogni sua forma. Nome compiuto: Michele Fuschi. Fuschi. Keywords: “Occam excommunicated” -- Modified Occam’s Razor”,
“Cristo e povero” -- italiani eretici, tomismo, michelismo, eresia filosofica –
eretico – Occam scommunicato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Fuschi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza – GRICE
ITALO!; ossia, Grice e Fusco: la ragione conversazionale e il portico romano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Abstract. Grice: “When Italians speak of The Portico,
I think they mean something, as when they speak of ‘L’Orto’ they mean
‘pleasure’ or eudaemonismo. ‘Portico’ and ‘Orto’ are hardly philosophical terms!”
Keywords: portico. Filosofo italiano. A friend of ORAZIO (vedasi) and probably
a follower of the sect of the Porch. Nome compiuto: Aristio Fusco. Keywords: portico. Luigi Speranza,
“Grice e Fursco”.


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